Gai-Jin [PDF]


177 87 4MB

Italian Pages 1273 Year 1995

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Gai-Jin [PDF]

  • 0 0 0
  • Gefällt Ihnen dieses papier und der download? Sie können Ihre eigene PDF-Datei in wenigen Minuten kostenlos online veröffentlichen! Anmelden
Datei wird geladen, bitte warten...
Zitiervorschau

James Clavell

Gai-Jin Titolo originale Gai-Jin 1995 Traduzione di Katia Bagnoli

Prologo †

Yokohama , 14 settembre 1862 In preda al panico, la ragazza galoppava verso la costa, a mezzo miglio di distanza, lungo tortuosi sentieri che attraversavano acquitrini e risaie. Il sole stava tramontando. Cavalcava all'amazzone, ma benché esperta riusciva a stento a reggersi in sella. Nella corsa aveva perduto il cappello e il suo abito verde era coperto di sangue e lacerato dai rovi. I capelli fulvi e chiari ondeggiavano al vento. Frustò il pony per farlo galoppare più in fretta. Ormai riusciva a vedere le casupole del villaggio di pescatori di Yokohama che si affollavano vicino all'alta recinzione e ai canali che delimitavano l'Insediamento Straniero. Quando vide i campanili delle due chiese capì che nella baia, oltre la recinzione, c'erano i mercanti inglesi, francesi, americani e russi nonché una dozzina di navi da guerra. Più in fretta. Lungo stretti ponti di legno, su dighe e canali d'irrigazione che intersecavano acquitrini e risaie. Il suo pony era coperto di sudore e stanco per la profonda ferita che gli avevano inferto in una spalla. Scartò. Fu un momento terribile, ma la ragazza si riprese e lo lanciò di nuovo lungo il sentiero che portava fino al ponte sul canale che circondava l'abitato, e al cancello principale e oltre il corpo di guardia dei samurai e la Dogana giapponese. I samurai di sentinella tentarono di fermarla, ma la ragazza li caricò e riuscì a imboccare l'ampio lungomare dell'Insediamento. La ragazza tirò le redini, ansimando. “Au secoun... à l'aide, aiuto!” gridò senza sosta, e i pochi uomini sulla strada, soprattutto commercianti inglesi e soldati in libera uscita, marinai e qualche raro servo cinese, alzarono gli occhi guardandola stupefatti. “Dio onnipotente, guarda li! E' la ragazza francese...” “Cosa succede? Cristo, guarda i suoi vestiti...” “Accidenti, è lei, quella bella, Angel nonsocosa, arrivata un paio di settimane fa...”

“E' vero, Angélique... Angélique Bisciò o Risciò, un nome francese del genere... Mio Dio, guarda quanto sangue!” Cominciarono tutti a convergere verso di lei a eccezione dei cinesi che, resi saggi da millenni di guai nati dal nulla, erano scomparsi. Alcuni volti apparvero alle finestre. “Charlie, vai a chiamare sir William. Di corsa!” “Cristo onnipotente, guarda il pony, quel povero diavolo morirà dissanguato, rintraccia il veterinario” gridò un mercante corpulento. “E tu, soldato, trova subito il generale e il francese, la ragazza è di sua competenza... Oh, per l'amor di Dio, voglio dire il ministro francese, svelto!” Indicò con un gesto impaziente una casa a un solo piano sulla quale sventolava la bandiera francese. “Svelto!” Il soldato corse via mentre il mercante arrancava verso la ragazza con tutta la velocità che le gambe gli permettevano. Come tutti i mercanti indossava il cappello a cilindro, la finanziera, pantaloni aderenti e stivali, e sotto il sole sudava copiosamente. “Ma cos'è mai accaduto, signorina Angélique?” chiese prendendo le briglie dalle mani della ragazza. La sporcizia e il sangue che le ricoprivano il volto, i suoi abiti e i capelli in disordine lo lasciarono atterrito. “Siete ferita?” “Moi, non... No, credo di no, ma siamo stati attaccati... i giapponesi ci hanno attaccato.” Ancora in preda al terrore, Angélique si scostò i capelli dal viso. Con un gesto veloce indicò l'entroterra verso occidente dove all'orizzonte s'intravedeva vagamente il monte Fuji. “Laggiù, svelto, hanno bisogno... hanno bisogno di aiuto!” Gli astanti sbalorditi cominciarono a rumoreggiare riferendo ai vicini le poche notizie di cui venivano a conoscenza e domandando: Chi? Chi è stato attaccato? Sono francesi o inglesi? Un attacco? Ma dove? Un'altra volta i bastardi con le due spade! Ma dov'è successo... Le domande si sovrapponevano le une alle altre senza lasciare alla ragazza il tempo di rispondere. Ma probabilmente non sarebbe stata in grado di spiegarsi in modo coerente, perchè aveva il respiro corto e tutti quegli uomini che le si stringevano intorno la soffocavano. Altri arrivarono infilandosi in fretta giacche e cappelli, molti già armati di pistole e moschetti, alcuni con l'ultimo modello di fucile americano a retrocarica. Uno scozzese barbuto dalle larghe spalle scese di corsa i gradini di un imponente edificio a due piani sul cui portone spiccava un'insegna con la

scritta “Struan and Company” e si aprì un varco nella calca fino alla ragazza. “Calmi, per l'amor di Dio!” gridò, e nell'improvviso silenzio che seguì si rivolse a lei: “Svelta, raccontateci quello che è successo. Dov'è il giovane Struan?”. “Oh Jamie, ie... io... io ...” La ragazza fece uno sforzo disperato per restare in sé, disorientata. “Oh, Mon Dieu!” L'uomo la incoraggiò con un colpetto su una spalla come se fosse stata una bambina, per tranquillizzarla, vezzeggiandola come facevano tutti. “Non abbiate paura, adesso siete al sicuro. Con calma. Lasciatela respirare, per l'amor di Dio!” A trentanove anni Jamie McFay era il direttore generale della filiale giapponese della Struan. “Raccontateci per bene quello che è accaduto.” Angélique si asciugò le lacrime. “Noi... noi siamo stati attaccati dai samurai” disse con un filo di voce, “Eravamo... eravamo sulla grande strada ...” Indicò un'altra volta l'entroterra, “laggiù.” “La Tokaidò?” “Si, credo che si chiami così, Tokaidò ...” Quella grande strada costiera a pedaggio, a poco più di un miglio a ovest dell'Insediamento, collegava Edo, la capitale proibita dello shògun venti miglia a nord, al resto del Giappone vietato agli stranieri. “Noi... noi stavamo cavalcando...” Si arrestò, ma poi le parole sgorgarono tutte insieme: “Il signor Canterbury e Phillip Tyrer e Malcolm... Il signor Struan... e io, stavamo cavalcando lungo la strada e poi ci siamo fermati per lasciarli passare quando noi... poi due di loro ci hanno assaliti, hanno ferito monsieur, il signor Canterbury, hanno caricato Malcolm... Il signor... che aveva già impugnato la pistola e anche Phillip che mi ha gridato di scappare, di venire a cercare aiuto”. Gli uomini stavano già montando sulle loro cavalcature e afferrando i fucili. Si sentivano grida aspre: “Qualcuno chiami l'esercito ...” “I samurai hanno beccato John Canterbury, Struan e quel giovanotto, Tyrer, li hanno massacrati sulla Tokaidò.” “Cristo, la francese dice che i samurai hanno ammazzato i nostri ragazzi!” “Dov'è accaduto?” gridò Jamie McFay sovrastando il frastuono generale e cercando di controllare la sua disperata impazienza. “Potete descrivermi il luogo dove è accaduto, dove eravate esattamente?” “Lungo la strada, prima di Kana... Kana qualcosa.” “Kanagawa?” Si riferiva a una piccola stazione di cambio e al villaggio di pescatori sulla

Tokaidò, un miglio al di là della baia e a circa tre miglia dalla strada costiera. “Oui... si. Kanagawa! Svelti!” Dalle scuderie degli Struan vennero portati fuori i cavalli già sellati e pronti a partire. Jamie si mise un fucile a tracolla. “Non abbiate paura, li troveremo presto. Ma il signor Struan? Avete visto se si è messo in salvo... se è stato ferito?” “Non ... Non ho visto niente, solo all'inizio, il povero signor Canterbury, lui ... cavalcavo accanto a lui quando lo hanno ...” Sgorgarono le lacrime. “Non mi sono girata a guardare, ho obbedito senza... e sono venuta a cercare aiuto.” Si chiamava Angélique Richaud. Aveva diciott'anni appena. E quella era la prima volta che varcava la recinzione dell'Insediamento. McFay balzò sul suo pony e scomparve. Dio onnipotente, pensò con angoscia, non abbiamo avuto nessun guaio per più di un anno, in caso contrario non li avremmo mai lasciati andare. E' colpa mia, Malcolm è l'erede e la colpa è mia! In nome di Dio, che cosa diavolo è successo?

Samurai 1850

Capitolo 1 † McFay e la sua scorta, una dozzina di mercanti e un ufficiale dei dragoni con tre lancieri non dovettero faticare per trovare John Canterbury sul ciglio della Tokaidò. Riconoscerlo invece fu tutt'altro che facile. Era stato decapitato, e brandelli delle sue membra erano sparsi ovunque. Feroci tagli tracciavano disegni complicati su tutto il suo corpo; una sola di quelle ferite sarebbe bastata a ucciderlo. Di Tyrer e Struan e della colonna di samurai nessuna traccia. “Jamie, gli altri due saranno stati rapiti?” domandò dubbioso l'americano. “Non lo so, Dmitri.” McFay cercò di raccogliere le idee. “Qualcuno dovrebbe tornare indietro a raccontare tutto a sir William e a... procurarsi un sudario o una bara.” Pallido in volto scrutò i viandanti lungo la strada che a loro volta, pur osservando con estrema attenzione, evitavano con cura di guardare nella sua direzione. La strada sterrata, ben tenuta, era percorsa da file disciplinate di viaggiatori che andavano e venivano da Edo, la città che un giorno si sarebbe chiamata Tokyo. Uomini, donne e bambini di tutte le età, ricchi e poveri, quasi tutti giapponesi con l'eccezione di qualche raro cinese dal vestito lungo. Gli uomini costituivano la maggioranza, e tutti indossavano kimono di varie fogge e qualità, e cappelli di stoffa o di paglia d'ogni tipo. Mercanti, portatori seminudi, monaci buddisti vestiti d'arancione, contadini diretti o di ritorno dal mercato, indovini itineranti, scrivani, insegnanti e poeti. Portantine e palanchini d'ogni tipo che trasportavano passeggeri o merci erano sostenuti da due, quattro, sei o persino otto portatori. I pochi samurai impettiti fissavano il passaggio degli stranieri con aria minacciosa. “Loro sanno chi è stato, lo sanno tutti, dal primo all'ultimo” disse McFay. “Certo. Matyryevits!” Dmitri Syborodin, l'americano, un uomo robusto di trentotto anni con i capelli castani, vestito rozzamente e amico di Canterbury, fremeva. “Sarebbe maledettamente facile costringere uno di loro a parlare.” Avevano notato che una dozzina di samurai fermi in un gruppo poco lontano li stava osservando. Molti di loro erano armati di archi e frecce.

Tutti gli occidentali conoscevano l'abilità d'arcieri dei samurai. “Non è così facile, Dmitri” rispose McFay. Pallidar, il giovane ufficiale dei dragoni, disse con animazione: “Aver a che fare con loro è molto facile, signor McFay, ma agire senza autorizzazione è sbagliato... a meno che non ci attacchino, è ovvio. Comunque adesso siete piuttosto ai sicuro”. Settry Pallidar ordinò a uno dei suoi dragoni di arrivare a un distaccamento del campo con una bara. L'americano sembrò irritato dal suo tono imperioso. “Sarebbe meglio se facesse cercar e qui intorno. Quando i miei uomini arriveranno collaboreranno con i suoi. La cosa più probabile è che gli altri due siano feriti e nascosti da qualche parte.” McFay rabbrividì e mosse un passo verso il cadavere. “O ridotti così?” “E' possibile, ma continuiamo a sperare in bene. Voi tre andate da quella parte, tutti voi sparpagliatevi di là, e...” “Ehi, Jamie” lo interruppe Dmitri che odiava gli ufficiali, le uniformi e i soldati, soprattutto se britannici. “E se tu e io ce ne andassimo a Kanagawa... magari alla nostra legazione sanno qualcosa.” Pallidar colse l'ostilità dell'americano ma la ignorò, consapevole del suo eccellente stato di servizio. Dmitri era di origine cosacca, un ex ufficiale di cavalleria dell'esercito degli Stati Uniti d'America il cui nonno aveva perso la vita combattendo contro gli inglesi nella Guerra Civile del 1812. “Kanagawa è una buona idea, signor McFay” disse. “Devono sicuramente sapere quale grande processione di samurai è passata di qua e prima troviamo il colpevole tanto meglio sarà. L'attacco dev'essere stato ordinato da uno dei loro re o principi. Questa volta possiamo inchiodare il bastardo e che Dio l'aiuti.” “Dio maledica tutti i bastardi” ribatté Dmitri senza mezze misure. Ancora una volta il capitano, nella sua splendente uniforme, ignorò la provocazione. Tuttavia decise di non lasciar cadere l'argomento. “Avete ragione, signor Syborodin” rispose con disinvoltura, “e chiunque volesse chiamare bastardo me farebbe meglio a procurarsi in fretta un secondo, una pistola o una spada, un sudario e un becchino. Signor McFay, avrete tempo in abbondanza prima del tramonto. Io resterò qui in attesa dell'arrivo dei miei uomini, poi ci uniremo alla ricerca. Se a Kanagawa scoprite qualcosa mandateci un messaggio.” Il capitano Pallidar aveva ventiquattro anni e adorava il suo reggimento.

Guardò il gruppo eterogeneo dei mercanti con malcelato disprezzo. “Suggerisco che tutti voi... signori... cominciate le vostre ricerche in gruppetti divisi ma senza mai perdervi di vista. Brown, tu vai con il primo gruppo e cerca tra quei boschetti. Sergente, voi siete il responsabile della spedizione.” “Signorsì. Avanti, voi.” McFay si sfilò la giacca e ricoprì quel che restava del corpo di Canterbury, poi rimontò sul suo pony e in compagnia dell'amico americano si affrettò verso nord in direzione di Kanagawa. Alcune ore prima i tre uomini e Angélique avevano varcato il cancello principale superando la Dogana e, salutate con disinvoltura le guardie che avevano fatto un negligente inchino di risposta, si erano addentrati al trotto nella terraferma lungo sentieri serpeggianti che conducevano alla Tokaidò. Erano tutti cavalieri esperti e montavano agili animali. In onore di Angélique indossavano i loro abiti e cilindri migliori ed erano invidiati da tutti gli uomini dell'insediamento: centodiciassette europei residenti tra diplomatici, mercanti, macellai, negozianti, fabbri, maestri d'ascia, armatori, avventurieri, giocatori, molti perdigiorno mantenuti in Asia dalle famiglie che li preferivano lontani. Soprattutto inglesi, con alcuni contabili eurasiatici o cinesi, qualche americano, pochi francesi, olandesi, tedeschi, russi, australiani e un solo svizzero, e tre donne soltanto, tutte signore in età, due inglesi mogli di mercanti e una madame della Città Ubriaca come veniva chiamato il quartiere popolare. Nessun bambino. Circa cinquanta o sessanta servi cinesi. John Canterbury, un mercante inglese di bell'aspetto con il volto coperto di rughe, faceva loro da guida. Lo scopo dell'escursione era di mostrare a Phillip Tyrer il percorso via terra che conduceva a Kanagawa dove, di tanto in tanto, avevano luogo gli incontri con gli ufficiali giapponesi, entro i confini della zona concessa all'Insediamento. Tyrer era un giovanotto di ventun anni arrivato il giorno prima da Londra via Pechino e Shanghai per assumere l'incarico di studente interprete presso la legazione britannica. Quel mattino, sentendo gli altri due parlare della gita al circolo, Malcolm Struan aveva detto: “Posso essere dei vostri, signor Canterbury, signor Tyrer? E' un giorno perfetto per ammirare il panorama, e mi piacerebbe chiedere alla signorina Richaud di unirsi a noi... Non ha ancora visto granché della campagna”. “Ne saremmo onorati, signor Struan.” Canterbury aveva ringraziato la sua buona stella.

“Siete entrambi benvenuti. E' una buona passeggiata anche se non c'è granché da vedere per una signora.” “Come?” aveva chiesto Tyrer. “Kanagawa è sempre stato un villaggio indaffarato, una stazione di cambio per viaggiatori in arrivo o in partenza da Edo attivo da molti secoli, dicono. E' ben fornito di Case da Tè, come chiamano i bordelli qui. Alcuni di loro meritano una visita, anche se non sempre noi occidentali siamo benvenuti come dal nostro Yoshiwara di là dell'acquitrino.” “Postriboli?” Gli altri due avevano riso dell'aria perplessa di Tyrer. “Esattamente, signor Tyrer” era stata la risposta di Canterbury. “Ma non assomigliano ai tuguri e ai lupanari di Londra o di qualsiasi altro posto il mondo, sono posti molto speciali. Lo scoprirete presto; anche se qui è tradizione avere la propria amante, se ci si può permettere di mantenerla. “Io non ne sarò mai in grado.” Canterbury aveva riso. “Non è detto. Grazie a Dio il tasso di cambio ci favorisce, oh, parola mia! Quel vecchio yankee di Townsend Harris era un accorto bastardo.” Si era illuminato al pensiero. Harris era stato il primo console generale americano nominato due anni dopo l'apertura del Giappone al mondo esterno, voluta e imposta dal Commodoro Perry nel '53 e poi nel '56 con le sue quattro Navi Nere, le prime navi a vapore viste in acque giapponesi. Quattro anni prima, dopo anni di negoziati, Harris aveva ottenuto un trattato, poi ratificato anche dalle maggiori potenze mondiali, che garantiva l'accesso ad alcuni porti. Il trattato stabiliva inoltre un tasso di cambio molto favorevole tra il mex d'argento, il dollaro d'argento messicano, moneta universale di scambio in Asia, e l'oban d'oro giapponese, cosicché se si cambiavano mex per oban e si ricambiavano poi questi ultimi in mex si riusciva a raddoppiare o triplicare il proprio guadagno. “Facciamo uno spuntino veloce e poi partiamo” aveva proposto Canterbury. “E saremo di ritorno per la cena, signor Struan.” “Eccellente. Forse voi due vorrete unirvi a me nella sala da pranzo della compagnia? Offro un piccolo ricevimento in onore di mademoiselle Richaud.” “Grazie davvero. Ne deduco che il tai-pan sta meglio?” “Si, molto meglio, mio padre si è ripreso bene.” Non è quello che abbiamo saputo dalla posta arrivata ieri, aveva pensato John Canterbury. Era preoccupato perchè ciò che toccava la Nobil Casa, così la Struan and Company veniva chiamata in tutto il mondo si rifletteva su tutti loro. Secondo le voci il tuo vecchio ha avuto un altro colpo. Joss, destino.

Non fa niente. A uno come me non capita spesso di poter chiacchierare con il futuro taipan o con un angelo come quella ragazza. Sarà una giornata speciale. Una volta in viaggio era diventato persino più affabile. “Oh, signor Struan, vi... vi fermerete a lungo qui da noi?” “Più o meno per un'altra settimana, poi me ne torno a Hong Kong.” Struan era il più alto e il più aitante dei tre. Ma gli occhi d'un azzurro pallido e i lunghi capelli castanorossiccio fermati in una coda di cavallo contribuivano a dargli un'aria vecchia per i suoi vent'anni. “Non c'è nessun motivo perchè io mi fermi, siamo in ottime mani con Jamie McFay, ha fatto un ottimo lavoro per noi, aprendo il Giappone.” “E' un gentiluomo, signor Struan, su questo non c'è dubbio. Il migliore. La signora partirà con lei?” “Ah, la signorina Richaud. In effetti credo che farà ritorno con me... anzi lo spero. Suo padre mi ha chiesto di prendermi cura di lei, anche se, mentre si trova qui, è sotto la tutela del ministro francese” rispose con leggerezza fingendo di non notare il bagliore improvviso negli occhi dell'altro o che Tyrer fosse immerso in una fitta conversazione in francese, lingua che lui invece parlava con molta approssimazione, con Angélique, già stregato dal suo fascino. Non condannare Canterbury né nessun altro, pensò divertito tra sé, poi si slanciò in avanti per far spazio agli altri quando la strada si strinse a imbuto. Il terreno era punteggiato da boschetti di bambú e macchie d'alberi che si tingevano già dei colori dell'autunno. C'erano molte anatre e varia selvaggina in volo sulle risaie coltivate intensamente su terra bonificata. Sentieri stretti e rigagnoli ovunque; la puzza dello sterco umano, il solo fertilizzante usato in Giappone, onnipresente. Benché una fresca brezza marina ripulisse l'aria anche dei residui dell'umidità estiva allontanando zanzare, mosche e altri insetti, Tyrer e la ragazza si tenevano un fazzoletto imbevuto di colonia premuto sul naso. Le colline lontane coperte di fitte foreste sembravano un broccato rosso, oro e marrone: betulle, larici scarlatti e gialli, aceri, rododendri selvatici, cedri e pini. “E' bellissimo laggiù, non credete, monsieur Tyrer? E' un peccato che non si possa vedere meglio il monte Fuji.” “Oui, demain, il est là! Mais mon Dieu, mademoiselle, quelle senteur. Che puzza, ripeté Tyrer allegramente nel suo ottimo francese, indispensabile per ogni diplomatico. Con indifferenza Canterbury si accostò ad Angélique separandola dal

giovanotto. “Vi sentite bene, mademoiselle?” “Oh, si, grazie, ma non mi dispiacerebbe galoppare. Sono così felice di essere uscita dall'Insediamento.” Era arrivata due settimane prima con Malcolm Struan sul vapore bimestrale della Struan e da allora era stata sempre sottoposta a una rigida sorveglianza. E giustamente, stava pensando Canterbury, perchè a Yokohama circolavano molti relitti umani e molti balordi, e a essere onesti di tanto in tanto capitava a curiosare anche un pirata. “Quando torniamo se volete potremo fare un giro della pista.” “Oh, sarebbe fantastico, grazie.” “Parlate un inglese perfetto, signorina Angélique, e il vostro accento è adorabile. Avete frequentato le scuole in Inghilterra?” “Là, signor Canterbury, voi esagerate” rise lei, e un'ondata di calore assalì il mercante, stimolato dalla purezza della sua pelle e dalla sua bellezza. “Non sono mai stata neppure un giorno nel vostro paese. Mio fratello e io siamo stati allevati da zia Emma e zio Michel; la zia è inglese e si è sempre rifiutata di imparare il francese. Per me è stata più una madre che una zia.” Un'ombra attraversò il suo volto. “Mia madre morì dando alla luce mio fratello e mio padre parti per l'Asia. “Oh, mi dispiace.” “E' stato molto tempo fa, monsieur, e quando penso alla mia cara zia la chiamo mamma.” Il suo pony diede uno strattone alle redini e lei corresse d'istinto la direzione. “Sono stata molto fortunata.” “Questa è la vostra prima visita in Asia?” In realtà Canterbury conosceva già la risposta ed era al corrente di molte altre cose sul suo conto, ma non smetteva di rivolgerle domande solo per il piacere di sentirla parlare. “Si, è la mia prima visita.” Ancora una volta il suo sorriso lo infiammò. “Mio padre commercia per la Cina nella vostra colonia di Hong Kong e io sono venuta a trovarlo per la stagione. Mio padre e monsieur Seratard, che gentilmente ha organizzato questo mio viaggio, sono amici. Forse lei conosce mio padre, Guy Richaud della Richaud Frerès?” “Ma naturalmente, un gentiluomo”, rispose Canterbury con garbo pur non avendo mai incontrato il padre della ragazza. Sul suo conto sapeva soltanto ciò che si diceva in giro: che era un donnaiolo, un francese senza arte né parte che da qualche anno abitava a Hong Kong dove sbarcava a stento il lunario.

“Siamo tutti onorati della vostra visita. Forse posso offrire una cena in vostro onore al club?” “Grazie, lo chiederò al mio ospite, monsieur Seratard.” Angélique notò Struan che da lontano si girava a guardarla e gli fece un allegro cenno di saluto. “Il signor Struan è stato così gentile da scortarmi fin qui.” “Davvero?” Canterbury era perfettamente al corrente anche di questo e si fermò a riflettere sul conto della ragazza, sulla possibilità di catturare e conservare e permettersi un simile tesoro, nonché sul brillante e giovane Struan che aveva tutte le carte in regola per riuscire nell'impresa, sulle voci che correvano circa la lotta per il dominio tra la Struan e la sua rivale più agguerrita, Brock and Sons, una rivalità che si era riaccesa in tempi recenti per qualcosa che aveva a che fare con la guerra civile americana cominciata l'anno prima. I guadagni saranno enormi, niente è propizio agli affari quanto una guerra, e i due contendenti si stanno già sbranando come lupi. Il Sud sarà un osso duro per l'Unione... “Angélique, guarda!” Struan fermò la sua cavalcatura e indicò oltre il dosso a un centinaio di metri la strada principale. Si avvicinarono tutti. “Non avrei mai immaginato che la Tokaida fosse così grande e tanto affollata” disse Philip Tyrer. Fatta eccezione per pochi pony, i viaggiatori procedevano a piedi. “Ma... ma dove sono i carri, i carretti, le carriole? E soprattutto” esclamò la ragazza, “dove sono i mendicanti?” Struan rise. “La risposta è facile, Angélique. Sono proibiti, come quasi tutto in questo paese. Nessun mezzo di trasporto su ruote è autorizzato in Giappone. Ordini dello shògun. Nessuno!” “Ma perché?” “E' un modo molto economico e sicuro per tenere la popolazione sotto controllo, non ti sembra?” “Certamente” rispose Canterbury con una risata sardonica. Poi si avviò verso la strada. “E a questo bisogna aggiungere che qui ogni Tom, Dick o Mary, ricco o povero non importa, deve portar con sé i documenti per il viaggio, veri e propri lasciapassare, anche se vuole soltanto uscire dal villaggio, e la stessa regola vale per principi e poveri. E guardate i samurai... sono i soli a poter portare armi.” “Ma senza diligenze e ferrovie come può funzionare il paese?”

Tyrer non capiva. “Funziona alla giapponese” ribattè Canterbury. “Non dimenticate mai che qui c'è un modo solo di fare le cose. Uno solo. Il loro. I giapponesi non sono come gli altri, e certo non come i cinesi, giusto signor Struan?” “In effetti sono diversi.” “Niente ruote da nessuna parte, signorina. Perciò tutto, tutte le merci, il cibo, il pesce, la carne, il materiale per le costruzioni, ogni sacco di riso, ogni bastoncino di legno, balla di cotone, scatola di tè, barilotto di polvere da sparo, e ogni uomo, donna o bambino che se lo possa permettere, deve essere trasportato sulla schiena di qualcuno oppure andare via acqua, cioè via mare perchè qui non hanno nessun fiume navigabile, dicono, ma soltanto migliaia di ruscelli.” “Ma nell'Insediamento? Nell'Insediamento i mezzi su ruote sono consentiti, signor Canterbury.” “Si, sicuramente, signorina, abbiamo tutte le ruote che vogliamo, anche se la loro polizia ha piantato grane a non finire... mi scusi, signorina” aggiunse in fretta con un leggero imbarazzo, “non siamo abituati alle signore da queste parti. Come vi stavo dicendo, la polizia giapponese, che si chiama Bakufu ed è un pò come il nostro servizio civile, si è opposta per anni, fino a quando il nostro ministro gli ha detto di andare a farsi... cioè, di dimenticarselo, perchè il nostro Insediamento era il nostro Insediamento! In quanto ai mendicanti quelli sono effettivamente proibiti.” Angélique scosse il capo e le piume del suo cappello danzarono allegramente. “Mi sembra impossibile. Parigi è... Parigi ne è piena, come il resto dell'Europa, è impossibile arginare i mendicanti. Mon Dieu, Malcolm, e Hong Kong?” “Hong Kong è peggio di tutte le altre città” rispose Malcolm Struan con un sorriso. “Ma come fanno a proibire i mendicanti, a vietargli di chiedere l'elemosina?” chiese Tyrer perplesso. “Ovviamente mademoiselle Angélique ha ragione. Tutta l'Europa brulica di mendicanti. Londra, che è la città più ricca del mondo, ne è invasa.” Canterbury sorrise in modo strano. “Non ci sono mendicanti perchè l'onnipotente padrone, lo shògun, re di ogni cosa, dice che non ci devono essere. La sua parola è legge. I samurai sono autorizzati ad affilare le loro lame su qualsiasi mendicante in qualsiasi momento... e su tutti i poveri diavoli... pardon... in verità su chiunque non sia a sua volta samurai. Se qualcuno viene sorpreso a mendicare e quindi a infrangere la legge, si prende subito un pò di botte e poi finisce in prigione,

e una volta in prigione l'unica via d'uscita è la morte. Anche questa è la legge. “Esiste solo la pena capitale?” La ragazza era sbalordita. “Temo di sì. Perciò i giapponesi sono inclini a rispettare le leggi.” Ancora una volta Canterbury rise sardonico girandosi a guardare la strada tortuosa che si arrestava bruscamente a mezzo miglio di distanza a causa di un ampio corso d'acqua che doveva essere guadato a piedi o sulle spalle di un servo. Sulla riva più lontana c'era la barriera. Guadato il corso d'acqua, si erano inchinati e avevano mostrato i loro lasciapassare alle onnipresenti guardie samurai. Dannati bastardi, pensò con odio il mercante. Tuttavia apprezzava non poco la ricchezza che stava accumulando con i suoi commerci e la bella Akiko, da un anno sua amante fissa. Ah si, bella mia, sei la migliore, la più speciale, la più dolce di tutta Yoshiwara. “Guardate.” Sulla Tokaidò gruppi di passanti si erano fermati per indicare a bocca aperta gli stranieri, e le loro, voci si levavano sul brusio inarrestabile del traffico. Sul volto di molti erano dipinti l'odio e la paura. “Non badi a quella gente, signorina, per loro siamo soltanto strani, tutto qui, sono ignoranti. Probabilmente siete la prima donna civilizzata che abbiano mai visto in vita loro.” Canterbury aveva indicato un punto a nord. “Edo è in quella direzione, a circa venti miglia. Naturalmente per noi è territorio vietato.” “Eccetto che per le delegazioni ufficiali” era stata la precisazione di Tyrer. “Esatto, con un permesso che sir William, non ha mai ottenuto da quando io sono qui, e sono stato uno dei primi ad arrivare. Dicono che Edo sia grande due volte Londra, signorina, e che sia abitata da più di un milione di persone, tutte ricche come nababbi, e che il castello dello shògun sia il più grande del mondo.” “Ma non potrebbero essere tutte menzogne, signor Canterbury?” Era stato ancora una volta Tyrer a parlare. Il mercante s'illuminò. “Sono degli straordinari bugiardi, questa è la verità signor Tyrer, il popolo più bugiardo che sia mai esistito, riescono a far sembrare i cinesi puri come l'arcangelo Gabriele. Non invidio il vostro incarico di interprete perchè è chiaro come il sole che quello che dicono non corrisponde mai a quello che pensano!” Solitamente Canterbury non era così loquace, ma quel giorno era

determinato a non perdere l'occasione di far colpo su Angélique e Struan con la sua erudizione. Tutte quelle chiacchiere però gli avevano procurato una grande sete. “Non potremmo ottenere un permesso per andare, Malcolm?” stava dicendo Angélique, “a vedere questa Edo?” “Ne dubito. Perché non lo chiediamo a monsieur Seratar?” “Lo farò.” Non le era sfuggito il fatto che Malcolm avesse pronunciato il nome correttamente lasciando cadere la 'd' come lei gli aveva insegnato. Bene, si disse, gli occhi di nuovo fissi sulla Tokaidò. “Dove finisce, la strada?” Fu Canterbury a rispondere dopo una strana pausa: “Non lo sappiamo. Tutto il paese è un mistero, ed è chiaro che i giapponesi vogliono che resti tale, ed è chiaro anche che noi non gli piacciamo, che nessuno di noi piace a questa gente. Ci chiamano gai-jin, che vuol dire stranieri, oppure i-jin, “diversi”, non ho capito bene quale sia la differenza, però so che gai-jin non è gentile”. E con una risata aggiunse: “Comunque non gli piacciamo. E in effetti siamo diversi... o sono diversi loro”. Accese un sigaro. “Dopotutto hanno tenuto il Giappone chiuso più strettamente del c... di un passero per due secoli e mezzo, fino a quando, nove anni fa, quella vecchia costoletta di montone di Perry l'ha fatto aprire per forza. Il suo tono era ammirato. “Si dice che la Tokaidò finisca in una grande città, una specie di città sacra chiamata Keeotoh, dove vive il loro sommo sacerdote che chiamano Mikado. E' una città così speciale e così sacra che nessuno vi può entrare eccetto pochi giapponesi speciali, dicono.” “I diplomatici possono viaggiare nell'interno” ribatté Tyrer con durezza. “Il trattato lo consente, signor Canterbury.” Il mercante si era tolto il cilindro di castoro di cui andava inspiegabilmente fiero, e dopo essersi asciugato un sopracciglio aveva deciso che non avrebbe consentito a quel giovanotto di rovinare il suo buonumore. Sfacciato giovane bastardo con quella tua vocetta altezzosa, potrei spezzarti in due senza nemmeno scoreggiare. “Dipende da come si interpreta il trattato, e se volete tenervi la testa attaccata al collo, io non vi consiglierei di uscire dalla zona franca che è stata pattuita, cioè poche miglia a nord e a sud verso l'interno, indipendentemente da quello che dice il trattato... o comunque non vi consiglierei di farlo senza un paio di reggimenti.” Malgrado la sua volontà non riusciva a distogliere gli occhi dal seno procace della ragazza sotto la giacca verde e aderente.

“Siamo inchiodati qui. Ma non è troppo male. Lo stesso vale per il nostro Insediamento a Nagasaki, duecento leghe a ovest.” “Leghe? Non capisco.” Angélique cercava di nascondere il divertimento e il piacere che le procurava tutta quella eccitazione. “Cosa significa?” Dandosi importanza Tyrer spiegò: “Una lega equivale circa a tre miglia, mademoiselle”. Tyrer era un giovanotto alto e snello da poco lontano dall'università ed era completamente stregato dagli occhi azzurri e dall'eleganza parigina della ragazza. “Cosa... ehm... cosa stavate dicendo, signor Canterbury?” Il mercante non riusciva a distogliere l'attenzione dal seno di Angélique. “Soltanto che non andrà molto meglio quando verranno aperti gli altri porti. Presto, anzi prestissimo, dovremo sfondare anche quelli se vogliamo concludere dei veri affari, in un modo o nell'altro.” Tyrer l'aveva guardato con severità. “State parlando di guerra?” “Perché no? A cosa servono altrimenti le flotte? E gli eserciti? In India funzionano benissimo, anche in Cina, ovunque. Noi siamo l'Impero britannico, il più grande e il più potente mai esistito sulla terra. Siamo qui per commerciare e intanto possiamo dare a questa gente giuste leggi e ordine e una giusta civiltà.” Canterbury era irritato dall'Animosità che indovinava nei viaggiatori lungo la strada. “Brutta gente, non è vero, signorina?” “Mon Dieu, vorrei che non ci fissassero così. “Ho paura che vi ci dovrete abituare. E così dappertutto. Come dice il signor Struan, Hong Kong è la peggiore. Ma ciononostante, signor Struan” riprese con un improvviso torto di stima, “non mi preoccupa dirvi che ciò di cui abbiamo bisogno qui è un'isola nostra, una nostra colonia, non un marcio e maleodorante miglio di putrida costa indifendibile, che sarebbe esposta ad attacchi e rappresaglie in qualsiasi momento, se non avessimo una flotta! Dovremmo prenderci un'isola proprio come vostro nonno prese Hong Kong, che Dio lo benedica!” “Forse l'avremo” rispose Malcolm Struan in tono sicuro, intenerito dal ricordo del suo celebre antenato, il tai-pan Dirk Struan, fondatore della compagnia e padre fondatore della colonia circa vent'anni prima, nel'41. Sovrappensiero, Canterbury estrasse la fiaschetta dalla tasca, ne trangugiò un buon sorso e prima di riporla si ripulì la bocca col dorso della mano. “Andiamo avanti. E' meglio che guidi io, in fila indiana se necessario, e lasciamo perdere i giapponesi!

Signor Struan, forse voi volete procedere accanto alla giovane signora e voi, signor Tyrer, voi potreste chiudere la fila.” Soddisfatto di sé, riparti imponendo al suo pony un trotto vivace. Mentre Angélique si avvicinava, gli occhi di Struan si erano stretti in un sorriso. Se ne era apertamente innamorato fin dal primo momento in cui l'aveva vista, a Hong Kong, quattro mesi prima, proprio il giorno in cui con la sua bellezza era arrivata a travolgere l'isola come un ciclone. Capelli chiari, carnagione perfetta, profondi occhi azzurri e nasino all'insù in un volto ovale che non era semplicemente grazioso ma aveva una bellezza strana, da mozzare il fiato. Molto parigina. La sua innocenza e la sua giovinezza erano intrise di una sensualità impercettibile e intensa, anche se inconsapevole, che implorava d'essere placata. E tutto ciò in un mondo popolato di uomini soli privi d'ogni concreta speranza di trovare in Asia una moglie adatta, e comunque, anche nella migliore delle ipotesi, certamente non dotata di una bellezza pari a quella di Angélique. Molti di quegli uomini erano ricchi, in alcuni casi erano veri e propri principi del commercio. “Non fare attenzione agli indigeni, Angélique” sussurrò, “li metti in soggezione.” La ragazza sorrise chinando il capo come una regina. “Merci monsieur, vous étes très aimable. “ Oltre a essere molto contento, Struan, a quel punto si sentiva anche molto sicuro di sé. Il destino, Joss, Dio, ci ha fatto incontrare. L'inebriava immaginare il momento in cui avrebbe chiesto al padre di lei di concedergli la sua mano. Perché non a Natale? Natale sarà il momento perfetto. Ci sposeremo in primavera e vivremo nella Grande Casa sul Picco di Hong Kong. Sono sicuro che mamma e papà la adorano già. Mio Dio, spero davvero che papà stia meglio. Sì, daremo un grande ricevimento per Natale. Badando a non interferire con il traffico locale, procedettero speditamente. Ma anche se cercavano di passare inosservati la loro inattesa presenza creava inevitabili ingorghi di traffico, perchè la maggior parte degli increduli giapponesi non aveva mai visto gente di quelle dimensioni e forma e colori, soprattutto la ragazza, né aveva idea di cosa fossero quei cilindri e quelle

finanziere, i pantaloni a tubo e gli stivali da cavallerizzi, e gli stivaletti di Angélique e il suo abito da amazzone con il cilindro ornato da una piuma impertinente, e il modo in cui cavalcava. Canterbury e Struan guardavano con attenzione avanti mentre nuovi arrivati li sorpassavano, li circondavano, pur lasciando sempre un pò di spazio perchè potessero avanzare. Nessuno di loro avvertiva o sospettava alcun pericolo. Angélique procedeva in mezzo al gruppo e fingeva di ignorare le risate e le occhiate e la mano che occasionalmente cercava di toccarla, esterrefatta dal modo in cui molti giapponesi portavano con disinvoltura il kimono arrotolato fino a esporre il perizoma e molte parti del corpo: “mia carissima Colette, non ci crederai mai” pensò continuando la lettera che avrebbe finito di scrivere quella sera alla sua migliore amica di Parigi, “ma nella stragrande maggioranza le legioni di facchini sulla pubblica strada indossano soltanto minuscoli perizoma che non nascondono quasi niente davanti e diventano un cordoncino tra le natiche! Ti giuro che è vero e ti posso anche dire che molti degli indigeni sono piuttosto pelosi anche se quasi tutti hanno delle parti intime piccole. Mi chiedo se Malcolm....”. Si sentì arrossire. “Ma la capitale, Phillip” chiese per fare conversazione, “è davvero proibita?” “Secondo il trattato no.” Tyrer era enormemente compiaciuto. Dopo pochi minuti lei aveva già dimenticato il monsieur per passare al suo nome di battesimo. “Secondo gli accordi del trattato tutte le legazioni avrebbero dovuto trovarsi a Edo, la capitale. Mi hanno raccontato però che Edo è stata evacuata l'anno scorso perchè abbiamo subito un attacco. E più sicuro restare a Yokohama, al riparo dei cannoni della flotta.” “Attacco? Quale attacco?” “Oh, alcuni pazzi chiamati ronin, sono delle specie di fuorilegge, degli assassini, una dozzina di loro hanno attaccato la legazione nel cuore della notte. La Legazione britannica! Potete immaginare il malanimo. Quei demoni uccisero un sergente e una sentinella...”. Tacque quando Canterbury fermò il suo pony per indicare qualcosa con il frustino. “Guardate là!” Si fermarono tutti e tre accanto a lui. Adesso riuscivano a vedere gli stendardi alti e sottili sorretti da file di

samurai che marciavano lungo una curva a poche centinaia di metri dal punto in cui si trovavano. I viaggiatori si affrettavano in ogni direzione, gettando fascine e mercanzie e appoggiando in gran fretta i palanchini al suolo nel tentativo di allontanarsi il più possibile dalla traiettoria dei samurai. I pochi cavalieri smontarono in fretta dalle loro cavalcature e poi tutti, indistintamente, si inginocchiarono sui due lati della strada chinando il capo fino a terra. Uomini, donne e bambini assunsero un'immobilità perfetta. Solo i pochi samurai presenti rimasero in piedi e mentre il corteo passava si prostrarono con deferenza. “Di chi si tratta, Phillip?” aveva chiesto Angélique elettrizzata. “Potete leggere i loro ideogrammi?” “No, mi dispiace, non ancora, mademoiselle. Dicono che ci vogliano anni per leggere e scrivere nella loro lingua.” La felicità di Tyrer era svanita al pensiero di tutto il lavoro che l'aspettava. “Potrebbe trattarsi dello shògun?” Canterbury rise. “E' escluso. Se si trattasse di lui tutta la zona sarebbe isolata. Dicono che abbia perlomeno centomila samurai al suo servizio. Comunque dev'essere qualcuno di importante, un re.” “Che cosa dobbiamo fare quando passano?” “Li saluteremo come si salutano i reali” aveva risposto Struan. “Ci toglieremo i cappelli e ci inchineremo tre volte. E tu cosa farai?” “Io, chèri?” Angélique sorrise trovandolo molto attraente. Ricordava ciò che il padre le aveva detto prima che partisse per Yokohama: “Incoraggia questo Malcolm Struan, ma su cauta, cipollina mia. Io l'ho già fatto, anche se con discrezione. Sarebbe un magnifico marito per te, per questo ho acconsentito alla tua visita a Yokohama senza chaperon, se lui ti scorta in una delle sue navi. Tra tre giorni avrai diciotto anni, è ora che ti sposi. So che lui ne ha soltanto venti, è un pò troppo giovane per te, ma è intelligente, e quel che più conta è il primogenito e tra un anno o poco più erediterà la Nobil Casa... si dice che suo padre, Culum, il tai-pan, sia molto più ammalato di quanto la compagnia voglia ammettere pubblicamente”. “Ma è inglese” aveva risposto lei pensierosa. “Tu li detesti, papà, e dici sempre che dovrei odiarli anch'io. Li detesti, non è così?” “Sì, cipollina mia, ma non pubblicamente. L'Inghilterra è il paese più ricco e più potente del mondo. In Asia sono i padroni, e la Struan è la Nobil Casa, mentre la Richaud Frères è soltanto una piccola società. Ne trarremmo benefici immensi se potessimo ottenere la loro concessione per la Francia.

Prova a suggerirglielo.” “Oh, non potrei papà, sarebbe come... non posso, papà.” “Adesso non sei più una bambina, cucciolo mio. Sei una donna. Usa l'astuzia e sarà lui a suggerirtelo. Il nostro futuro dipende da te. Entro breve Malcolm Struan diventerà tai-pan. E tu, tu potresti essere al suo fianco...” Certo, mi piacerebbe un marito così, pensò in quel momento. Quanto è saggio papà! Com'è magnifico essere francesi e quindi superiori. E' facile trovare carino e persino amare questo Malcolm con quegli occhi strani e quell'espressione giovane e vecchia insieme. Oh, spero sul serio che chieda la mia mano. Con un sospiro tornò a dedicare la sua attenzione al momento presente. “Chinerò il capo come facciamo al Bois per Sua Maestà, l'imperatore Luigi Napoleone. Cosa c'è, Phillip?” “Forse faremmo meglio a tornare indietro” rispose Tyrer a disagio. “Dicono che si innervosiscono se ci avviciniamo troppo ai loro principi.” “Stupidaggini.” Canterbury era sicuro di sé. “Non c'è pericolo, non si è mai verificato un attacco del popolino, qua non siamo in India né in Africa né in Cina. Come ho già detto i giapponesi sono decisamente succubi delle loro leggi. Siamo entro i limiti del trattato e faremo come facciamo sempre, cioè li lasceremo passare alzando il cappello cortesemente come faremmo davanti a qualsiasi potente, e poi proseguiremo. Siete armato, signor Struan?” “Naturalmente.” “Io no” disse Angélique in tono petulante mentre osservava gli stendardi che si trovavano ormai a meno di cento metri da loro. “Penso che anche le donne dovrebbero portare le pistole, se le portano gli uomini.” Erano tutti sbalorditi. “Dio non voglia. E voi Tyrer?” Un pò a disagio, Tyrer mostrò a Canterbury il suo piccolo Derringer. “Un regalo di addio di mio padre. Ma non l'ho mai usato.” “Non ce ne sarà bisogno, l'unica cosa da cui ci si deve guardare sono i samurai solitari, quelli che girano soli o in coppia, i fanatici nemici degli stranieri. E dai ronin. “ Poi senza riflettere Canterbury aggiunse: “Comunque non c'è niente di cui preoccuparsi, non abbiamo problemi da più di un anno”. “Problemi? Che tipo di problemi?”

“Niente, niente” rispose Canterbury cercando di mascherare la gaffe per non preoccuparla. “Qualche attacco da parte di pochi fanatici, uno o due, niente di importante.” Angélique era corrucciata. “Ma monsieur, Tyrer ha detto che c'è stato un attacco di massa alla Legazione britannica e che alcuni soldati sono stati uccisi. Questo non lo chiamate importante?” “Sì, quello sì.” Canterbury sorrise debolmente a Tyrer che lesse subito il messaggio: stupido idiota che vai a raccontare a una donna cose di questo genere! “Ma si trattava di una banda isolata di tagliagole. La burocrazia dello shògunato ha giurato che li prenderanno e li puniranno.” Aveva parlato con convinzione ma non poteva non chiedersi di quanta parte della verità Struan e Tyrer fossero veramente al corrente: cinque uomini assassinati sulle strade di Yokohama durante il primo anno, l'anno dopo due russi, un ufficiale e un marinaio di una nave da guerra modello portoghese fatti a pezzi, sempre a Yokohama. Alcuni mesi dopo due commercianti olandesi. Poi il giovane interprete della Legazione britannica di Kanagawa pugnalato alle spalle e morto dissanguato. Heusken, il segretario della Missione americana, massacrato mentre rientrava da una cena ufficiale alla Legazione prussiana. E nell'ultimo anno un soldato britannico e un sergente con la gola tagliata davanti alla camera da letto del console generale! Ognuno di questi omicidi è stato premeditato e non provocato, pensò, architettato e commesso da un samurai con due spade. Non erano mai stati commessi come reazione a un'offesa subita e, quel che era peggio, mai nessuno di quei bastardi era stato catturato e punito dall'onnipotente Bakufu dello shògun malgrado tutte le urla dei capi delle legazioni e tutte le promesse giapponesi. I nostri capi sono un maledetto mucchio di stupidi perdigiorno! Se ordinassero alla flotta di distruggere Edo allora si che il terrore avrebbe fine, e noi potremmo finalmente dormire al sicuro nei nostri letti senza sentinelle e camminare lungo le nostre strade, qualsiasi strada, senza paura per la presenza di un samurai nei pressi. I diplomatici sono soltanto leccapiedi e questo giovane cicisbeo ne è un perfetto esempio. Guardò gli stendardi cercando di decifrarne gli ideogrammi. I viaggiatori prostrati si alzavano quando il corteo era passato e riprendevano il cammino. Quelli che procedevano nello stesso senso della colonna si mantenevano a

una ragionevole distanza. Loro quattro cominciavano a sentirsi a disagio così in sella, molto più alti delle due file di persone inginocchiate sulla strada, le teste affondate nella polvere, i posteriori all'aria. I tre uomini cercavano di non prestare attenzione alle nudità dei giapponesi. Erano imbarazzati dalla presenza di Angélique la quale, a sua volta, si sentiva a disagio. Le file di samurai con gli stendardi si avvicinavano inesorabilmente. Il corteo era composto di due colonne formate da circa cento uomini; seguivano altre bandiere e altre fila di uomini che circondavano un palanchino laccato di nero sorretto da otto uomini sudati. Seguivano altri stendardi e altri samurai, dietro ai quali arrancavano i pony carichi di bagagli e una variegata folla di portatori sovraccarichi. Tutti i samurai indossavano un kimono grigio con un'insegna, tre peonie intrecciate, la stessa che c'era anche sugli stendardi, e portavano cappelli di paglia legati sotto il mento. Alla cintura due spade, una corta e una lunga. Qualcuno era armato di arco e frecce, o di moschetti ad avancarica. Alcuni samurai indossavano vesti più ricche di altri. Anche gli ultimi ormai stavano sfilando davanti ai quattro che sempre più sbalorditi vedevano cosa c'era dipinto sui volti di quegli uomini, dentro tutti quegli occhi fissi su di loro. Fu Struan il primo a rompere l'incantesimo. “Penso che faremmo meglio ad allontanarci...” Ma prima che potessero muoversi un giovane samurai ben piantato ruppe le fila e si precipitò verso di loro, seguito a pochi passi da un compagno, frapponendosi tra loro e il palanchino che si avvicinava. Soffocando per la rabbia, il primo samurai scagliò al suolo lo stendardo e imprecò contro gli stranieri perchè se ne andassero. La sua rabbia subitanea e fiammeggiante ottenne l'effetto di paralizzarli. Le due colonne del corteo sbandarono per un attimo per poi riprendere la cadenza della marcia e continuare a sfilare. La gente prostrata in ginocchio non si mosse. Regnava un silenzio pesante e gravido di minaccia, rotto soltanto dal suono dei piedi in marcia. Il samurai urlò altre invettive. Canterbury, che era il più vicino, nauseato dalla paura cominciò a girare la sua cavalcatura. Ma la manovra inavvertitamente lo diresse verso il palanchino anziché nell'altra direzione. Fulmineo, il samurai sguainò la sua spada feroce e il grido di “sonno-joi” si lanciò contro il mercante nell'istante stesso in cui l'altro samurai si lanciava

verso Struan. Il colpo staccò il braccio di Canterbury proprio sopra il bicipite entrandogli nel fianco. Il mercante guardò incredulo il moncherino mentre il sangue schizzava su Angélique. La spada si abbatté su di lui con un secondo brutale fendente. Struan intanto si affannava senza successo a estrarre il suo revolver, mentre l'altro samurai lo assaliva con la lame alzata. Più per fortuna che per abilità riuscì a schivare un colpo che lo ferì solo di striscio sulla gamba sinistra affondando nella spalle del suo pony. Con un nitrito tremendo l'animale cercò di retrocedere scaraventando a terra il samurai. Presa finalmente la mira, Struan tirò il grilletto della piccole colt, ma il pony continuava a retrocedere e il proiettile finì nell'aria senza colpire nessuno. In preda al panico, Struan cercava di tenere l'animale fermo e di mirare ancora senza rendersi conto che ora il primo samurai lo stava attaccando sul fianco non protetto. “Attentooo!” gridò Tyrer ritornato improvvisamente in sé. Era accaduto tutto talmente in fretta che gli sembrava di aver soltanto immaginato l'orrore: Canterbury agonizzante al suolo, il suo pony in fuga, la ragazza impietrita in sella, Struan che puntava la pistola per la seconda volta e la spada crudele che calava sul suo lato scoperto. Vide Struan reagire all'avvertimento, il pony terrorizzato scartare e il colpo mortale deviato in qualche modo dal pomo o dalla briglia mentre la lama lo colpiva al fianco. Vacillando sulla sella, Struan gridò di dolore. Quell'urlo sortì l'effetto di galvanizzare Tyrer. Spronando la sua cavalcatura si lanciò contro l'attaccante di Struan. Con un balzo l'uomo si mise in salvo e vedendo la ragazza si precipitò verso di lei brandendo la spada. Tyrer fermò il suo pony terrorizzato e vide Angélique fissare il samurai in preda a un orrore che le impediva di muoversi. “Via di qui, cercate aiuto!” le gridò, poi tornò a caricare il samurai che, dopo essere sfuggito un'altra volta all'assalto, lo fronteggiò con la spada in posizione di attacco. Il tempo sembrò rallentare la sua corsa. Phillip Tyrer sapeva di essere spacciato. Tuttavia ciò non aveva alcuna importanza, perchè Angélique stava già galoppando lontano. Aveva completamente dimenticato il suo Derringer. Non c'era via di scampo, né tempo per fuggire. Per una frazione di secondo il giovane samurai esitò esultando nel trionfo

della violenza, poi balzò in avanti. Impotente, Tyrer cercò di schivare l'attacco. Poi un'esplosione, il proiettile colpì l'uomo proteso e la spada mancò l'obiettivo ferendo un braccio di Tyrer in modo solo superficiale. Tyrer non riusciva a credere d'essere ancora vivo, poi vide Struan barcollare mentre il sangue gli sgorgava dalla ferita nel fianco. Cercava di puntare la pistola sull'altro samurai mentre il suo pony si contorceva e saltava. Struan sparò, ma la pistola era troppo vicina all'orecchio dell'animale, e il colpo lo fece imbizzarrire lanciandolo al gran galoppo mentre Struan si manteneva in sella a stento. Immediatamente il samurai si scagliò contro Tyrer che vedendo una via di scampo spronò il suo pony allontanandosi dalla strada verso settentrione, all'inseguimento di Struan. “Sonno-joììì!” gridò il samurai furente, guardandoli darsi alla fuga. John Canterbury si contorceva gemendo sulla strada accanto ad alcuni viaggiatori pietrificati, chini nella polvere senza fiatare. Dopo aver allontanato con un calcio rabbioso il cilindro di Canterbury il giovane samurai lo decapitò con un colpo secco. Poi con grande cura ripulì la spada sulla finanziera del mercante e la ripose nel fodero. E nel frattempo il corteo continuava a sfilare come se tutto fosse normale, come se niente fosse accaduto, gli occhi che vedevano ogni cosa e non vedevano niente. Nessuno dei viaggiatori girò la testa. L'altro giovane samurai, seduto a gambe incrociate sul ciglio della strada, era intento ad arrestare con il kimono arrotolato l'emorragia della spalla. La spada ancora insanguinata giaceva sul suo grembo. Il suo compagno gli si avvicinò e l'aiutò a rialzarsi. Ripulì per lui la spada sul kimono della persona inginocchiata più vicina, un'anziana donna che rabbrividì in preda al terrore senza alzare la testa dalla polvere. I due samurai erano giovani e molto robusti. Dopo essersi scambiati un sorriso esaminarono la ferita. Il proiettile si era infilato nel muscolo della parte superiore del braccio. L'osso non era stato sfiorato. Shorin, il più anziano dei due, disse: “La ferita è pulita, Ori”. “Avremmo dovuto ucciderli tutti. “Karma.” In quell'istante il gruppo più nutrito di samurai e il palanchino sorretto dagli otto terrorizzati portatori cominciò a sfilare, e tutti si comportarono come se i due uomini fermi sul ciglio della strada e il cadavere non

esistessero. I due giovani tuttavia si inchinarono con grande deferenza. La minuscola finestrella del palanchino si aprì per richiudersi subito.

Capitolo 2 † “Ecco, signor Struan, bevete questo” disse il dottore con gentilezza troneggiando con la sua mole imponente sul piccolo letto da campo. Nella sala operatoria della Legazione britannica di Kanagawa il dottore era riuscito ad arrestare l'emorragia quasi del tutto. Tyrer, arrivato con Struan da poco più di mezz'ora, era accasciato su una sedia accanto alla finestra. “Vi farà sentire meglio.” “Che cos'è?” “Un filtro magico... in gran parte laudano, una tintura di oppio e morfina di mia invenzione. Farà smettere il dolore. Devo ricucirvi un pò, ma non c'è niente di cui preoccuparsi, userò l'etere e vi addormenterete in un bel sonno profondo.” Struan fu percorso da un brivido di paura. L'impiego a uso chirurgico dell'etere era un'innovazione recente, molto decantata ma ancora in via sperimentale. “Io non, io non sono mai stato, mai stato operato e io non... credo ...” “Non temete. Nelle mani giuste gli anestetici sono perfettamente sicuri.” Il dottor George Babcott aveva ventott'anni, superava il metro e novanta e di corporatura proporzionata all'altezza. “Negli ultimi anni ho usato molto spesso etere e cloroformio con ottimi risultati. Credetemi, non sentirete niente, è una manna piovuta dal cielo per chi deve subire un intervento.” “E' proprio così, signor Struan” Tyrer cercava di rendersi utile pur non nutrendo troppe illusioni sui risultati. Il suo braccio era già stato spennellato di tintura di iodio, ricucito, bendato e ingessato, e lui ringraziava la sorte di non aver riportato dallo scontro con i samurai che una ferita superficiale. “C'era un ragazzo all'università che mi ha raccontato di esser stato operato d'appendicite con il cloroformio e di non aver sentito niente.” Avrebbe voluto essere rassicurante, ma l'idea di un intervento chirurgico, e della cancrena che troppo spesso ne seguiva, spaventava anche lui. “Non dimenticate, signor Struan” stava dicendo Babcott per mascherare la preoccupazione, “che sono ormai quindici anni da quando il dottor Simpson usò per la prima volta il cloroformio in chirurgia, e da allora abbiamo imparato molte cose. Io ho studiato con lui alla Royal Infirmary per un anno prima di andare in Crimea.”

Quel ricordo lo rattristò. “Ho imparato molto anche in Crimea. Comunque quella guerra è finita perciò non temete, se siete fortunato il buon laudano vi procurerà anche qualche sogno erotico.” “E se non avrà fortuna?” “Ne avrete. Ne avete avuta entrambi.” Struan si sforzò di sorridere malgrado il dolore. “Siamo stati fortunati a trovarvi qui, e così in fretta, questo è certo.” Provando un'istintiva fiducia per Babcott bevve il liquido incolore e si lasciò ricadere sul letto quasi svenendo per il dolore. “Adesso lasciamolo riposare un momento” disse Babcott. “Voi dovete venire con me, signor Tyrer, abbiamo qualcosa da sbrigare.” “Certo dottore. Struan, avete bisogno di qualcosa, posso fare qualcosa per voi?” “No... no, grazie. No, anzi, non c'è bisogno che voi restiate ad aspettarmi.” “Non dite sciocchezze, certo che aspetterò.” Nervosamente Tyrer seguì il dottore e richiuse la porta alle sue spalle. “Se la caverà?” “Non lo so. Per nostra fortuna le lame dei samurai in genere sono pulite e tagliano come bisturi. Scusate un istante, ma sono l'unico ufficiale della Legazione, oggi pomeriggio, e visto che per il momento abbiamo fatto tutto il possibile dal punto di vista medico, è meglio che mi dedichi al ruolo di rappresentante di Sua Maestà britannica.” Babcott faceva le veci di sir William. Mandò la lancia della Legazione a Yokohama, dall'altra parte della baia, a dare l'allarme. Spedì un servo cinese a chiamare il governatore locale, un altro a scoprire quale daimyo o principe avesse attraversato Kanagawa un paio di ore prima, mise un drappello di sei uomini di guardia e infine versò a Tyrer una dose abbondante di whisky. “Bevete, è medicinale. Avete detto che gli assassini vi hanno gridato qualcosa?” “Si, era... suonava come... “sono... sono, gi”.” “Non mi dice niente. Mettetevi a vostro agio, tornerò tra un momento. Mi devo preparare” disse, e uscì. La ferita nel braccio con i sette punti di sutura doleva. Benché Babcott l'avesse ricucito con perizia Tyrer aveva faticato a non gridare. Tuttavia c'era riuscito, e ciò lo rendeva felice. Quello che lo spaventava erano le ondate di paura che a tratti lo assalivano e gli facevano provare il desiderio di cominciare a correre per non fermarsi più. “Sei un vigliacco” si disse, e quelli scoperta lo annichilì.

Anche in quella stanza aleggiava lo stesso odore intenso che aveva sentito nella sale operatoria, ed era un odore che gli dava la nausea. Andò alla finestra a respirare profondamente, cercando, ma senza successo, di schiarirsi le idee, poi, sconfitto, sorseggiò un pò di whisky. Il sapore gli sembrò come sempre aspro e sgradevole. Fissò il liquido nel bicchiere e vide il riflesso di brutte immagini. Orrende. Rabbrividì. Si costrinse nuovamente a fissare il liquore. Era bruno dorato, e il suo odore gli ricordò la casa natale a Londra, il padre che dopo cena sedeva di fronte al camino con il suo bicchierino mentre la madre lavorava a maglia, i due domestici sparecchiavano e tutto intorno ora caldo e confortevole e sicuro. Quel ricordo gliene suggerì un altro, quello di Garroway's, il suo bar preferito sulla Cornhill, caldo e brulicante d'umanità e soprattutto sicuro, e poi l'università, eccitante e amichevole ma sicura. Quanta sicurezza! Era al sicuro la sua, vita in quel momento? Il panico lo assalì di nuovo. Gesù, che ci faccio qui? Durante la fuga, a poche centinaia di metri dalla Tokaidò il pony ferito di Struan scartò bruscamente quando il muscolo reciso della spalla cedette del tutto, e Struan finì a terra in una pericolosa caduta che aggravò ulteriormente le sue condizioni. Debole e spaventato a sua volta, Tyrer l'aiutò con grande difficoltà a risalire sul suo pony e a stento riuscì a mantenerlo in sella poiché lo scozzese era molto più robusto di lui. Non riusciva a distogliere l'attenzione dal corteo in lontananza, aspettandosi di vedere da un momento all'altro un samurai a cavallo lanciato al loro inseguimento. “Ce la fate a reggervi?” “Si, credo di sì” La voce di Struan era molto debole perchè la ferita gli procurava enormi sofferenze. “Angélique è riuscita a scappare?” “Sì, sì... si è messa in salvo. Quei diavoli hanno ucciso Canterbury.” “Ho visto. E voi... siete ferito?” “No, niente di serio. Non mi sembra. Solo un graffio nel braccio.” Tyrer lacerò la manica della giacca imprecando per il dolore. La ferita era un taglio netto nel muscolo dell'avambraccio. Ripulì il sangue con un fazzoletto che poi usò come benda. “Né vene né arterie recise. Ma perchè ci hanno attaccato? Perché? Non stavamo facendo niente di male.”

“Io ... io non mi posso girare. Quel bastardo mi ha preso in un fianco... che ... che aspetto ha?” Con grande attenzione Tyrer lacerò la giacca di Struan. La lunghezza e la profondità della ferita, che la caduta aveva peggiorato, lo lasciarono atterrito. Il sangue usciva a fiotti, in quantità spaventosa. “Non ha un bell'aspetto. Dobbiamo trovare subito un dottore.” “E' ... è meglio... meglio fare il giro per Yokohama.” “Sì, suppongo di si.” Mentre sorreggeva Struan il giovane Tyrer cercò di raccogliere le idee. La gente che sulla Tokaidò li additava ai curiosi non faceva che accrescere la sua ansia. Kanagawa era vicina, ne poteva già vedere i templi. “Uno di quelli dev'essere il nostro” mormorò sentendo un cattivo sapore in bocca. Quando vide che le sue mani erano coperte di sangue ebbe un tuffo al cuore per lo spavento, e subito dopo ne ebbe un altro per il grande sollievo che gli procurò scoprire che si trattava del sangue di Struan. “Proseguiamo.” “Cosa... cosa avete detto?” “Proseguiamo per Kanagawa, è vicina, e la strada è facile. Vedo già alcuni templi, uno deve essere il nostro. Dovrebbe esserci una bandiera.” Secondo la tradizione giapponese le legazioni erano ospitate nei templi buddisti. Soltanto templi e monasteri avevano un numero di stanze sufficienti e edifici adatti ad accogliere gruppi numerosi di persone, così la Bakufu aveva deciso di alloggiarvele fino a quando non fossero state costruite delle residenze private. “Ce la fate, signor Struan? Io mi occupo del pony.” “Sì” Struan guardò la sua cavalcatura contorcersi disperatamente e cercare di correre ancora, ma con una zampa inutilizzabile non poteva andare lontano. Era coperta di sangue. Si fermò all'improvviso, rabbrividendo. “Mettete fine alle sue sofferenze e poi ripartiamo.” Tyrer non aveva mai sparato a un cavallo. Si asciugò il sudore dai palmi delle mani. Il Derringer aveva due canne ed era caricato con due cartucce di bronzo nuovo modello. Il pony si mosse ma non riuscì ad allontanarsi. Tyrer gli accarezzò il muso con gentilezza, gli appoggiò la canna dell'arma all'orecchio e tirò il grilletto.

L'immediatezza della morte lo sorprese. E lo sorprese anche il rumore dello sparo. Ripose l'arma in una tasca. Si asciugò un'altra volta il sudore dalle mani. Si sentiva completamente immerso in un sogno. “Faremo meglio a stare lontani dalla strada, signor Struan, meglio stare qui, al sicuro.” Impiegarono molto più tempo di quanto Tyrer avesse previsto a causa dei canali d'irrigazione e dei corsi d'acqua da guadare. Per ben due volte Struan sembrò sul punto di perdere coscienza, e Tyrer riuscì a stento a impedirgli di cadere. I contadini nelle risaie fingevano di non vederli oppure li fissavano malamente e poi tornavano al loro lavoro. Tyrer si limitò a maledirli e ad andare avanti. Nel prime tempio c'erano soltanto pochi monaci buddisti spaventati, con i crani rasati e gli abiti arancioni, che si precipitarono nelle loro stanze più interne nel momento stesso in cui li avvistarono. Nel cortile tuttavia c'era una fontanella, e Tyrer vi bevette dell'acqua fresca con gratitudine. Poi riempì la tazza e la porse a Struan che l'accettò portandosela alle labbra senza nemmeno vederla, tanto soffriva. “Grazie... quanta strada ancora?” “Non molta” mentì Tyrer. Non sapeva neppure quale direzione prendere ma era determinato a essere coraggioso. “Siamo quasi arrivati.” Qui il sentiero si biforcava, da una parte proseguiva verso la costa in direzione di un tempio che si ergeva al di sopra del villaggio, dall'altra si dirigeva verso la città e un altro tempio. Seguendo l'istinto Tyrer scelse il sentiero verso la costa. La stradina tortuosa per un tratto tornava su, se stessa e poi si dirigeva di nuovo a oriente; nell'intrico di vicoli non si vedeva anima viva ma sembrava che centinaia d'occhi spiassero da ogni anfratto. Quando vide il cancello principale del tempio e la bandiere britannica e il soldato con l'uniforme rossa, Tyrer fu sul punto di scoppiare in lacrime per il sollievo e la felicità. Finalmente qualcuno li vide e un soldato corse ad aiutarli mentre un altro militare si precipitava a chiamare il sergente della guardia. E in un batter d'occhio il dottor Babcott era accanto a loro. “Dio onnipotente, che cosa accidenti è successo?” Raccontare era stato facile, c'era così poco da dire.

“Avete mai assistito a un intervento chirurgico?” “No, dottore.” Babcott sorrise. L'espressione del volto e le sue maniere erano gioviali mentre con abili mani spogliava il semincosciente Malcolm Struan come fosse un bambino. “Bene, tra poco vi assisterete, e non sarà un'esperienza inutile. Ho bisogno di aiuto e oggi qui non c'è nessuno che possa darmelo. Per l'ora di cena sarete di ritorno a Yokohama.” “Io ci... ci proverò.” “Probabilmente vi sentirete male, soprattutto per via dell'odore, ma non ve ne dovete preoccupare. Se dovete vomitare fatelo nel bacile, e non sul paziente.” Babcott lo valutò con un'occhiata: si chiese se quel giovane gli sarebbe stato di qualche aiuto, riconoscendo il Suo terrore represso, e poi tornò a dedicarsi al lavoro. “Prima gli daremo l'etere, dopo cominceremo. Avete detto che siete stato a Pechino?” “Si signore. Per quattro mesi. Sono arrivato in Giappone qualche giorno fa via Shanghai.” Tyrer era contento di poter conversare. Parlare distoglieva i suoi pensieri da quelle immagini tremende. “Il Foreign Office riteneva che un breve periodo a Pechino dedicato all'apprendimento dei caratteri cinesi ci sarebbe stato d'aiuto con il giapponese.” “Una perdita di tempo. Per parlare il giapponese, per leggerlo e scriverlo correttamente il cinese non serve, non serve a niente.” Sistemò in una posizione più comoda il giovane inerte. “Quante parole di giapponese conoscete?” L'infelicità di Tyrer aumentò. “Praticamente nessuna, signore. Ho imparato davvero poche parole. Ci hanno detto che a Pechino avremmo trovato grammatiche giapponesi e libri, invece non c'era niente.” Malgrado fosse molto preoccupato per l'intervento che l'aspettava Babcott si fermò per un momento e rise. “Le grammatiche sono rare come coglioni di drago e, che io sappia, non esiste altro dizionario di giapponese al di fuori di quello redatto da padre Alvito nel 1601, ed è in portoghese. Non c'è nessun altro dizionario di cui io abbia mai sentito parlare oltre a quello a cui il reverendo Priny sta lavorando da anni.” Sfilò a Struan la camicia di seta bianca intrisa di sangue. “Parlate olandese?” “Poche parole anche di olandese. Tutti gli studenti interpreti diretti in

Giappone dovrebbero frequentare un corso di sei mesi ma il Foreign Office ci ha spediti qui col primo vapore disponibile. Come mai è proprio l'olandese la lingua ufficiale usata dalla burocrazia giapponese?” “Non è la lingua ufficiale della burocrazia. Al Foreign Office, si sbagliano su questa come su molte altre cose. Tuttavia è l'unica lingua europea che alcuni uomini della Bakufu parlano... Adesso io tengo Struan leggermente sollevato e voi gli sfilate gli stivali e i pantaloni, ma fate attenzione.” Tyrer obbedì, usando goffamente la mano sana, la sinistra. Struan era ormai nudo sul tavolo operatorio. Dietro di lui c'erano gli strumenti chirurgici, gli unguenti e le bottiglie. Babcott indossò un pesante grembiule di stoffa impermeabile. Quando si voltò Tyrer pensò che sembrava un macellaio. Lo stomaco gli si capovolse e arrivò al catino appena in tempo. Babcott sospirò. Quante centinaia di volte ho vomitato l'anima e forse anche qualcosa di più? Ma ho bisogno del suo aiuto e perciò oggi questo bambino diventerà grande. “Venite qui, dobbiamo procedere in fretta.” “Non posso, io davvero non posso ...” Il dottore fece la voce grossa. “Voi venite qui subito ad aiutarmi per bene altrimenti Struan morirà, ma prima che lui muoia io vi strapperò personalmente il cuore dal petto!” Tyrer si avvicinò barcollando. “Non qua, per l'amor di Dio, dall'altra parte! Tenetegli ferme le mani!” Al tocco di Tyrer, Struan aprì gli occhi per un istante ma ripiombò subito nel suo incubo emettendo suoni sconclusionati. “Sono io” mormorò Tyrer a corto di idee. Babcott versò su uno spesso tampone di cotone del liquido giallastro e oleoso da una piccola bottiglia senza etichetta. “Tenetelo saldamente” gli ordinò quando premette il tampone sul naso e la bocca di Struan. La reazione di Struan fu immediata: sentendosi soffocare si aggrappò al tampone e con una forza inaspettata riuscì quasi ad allontanarlo dal volto. “Per amor del cielo, tenetelo” ripeté Babcott. Ancora una volta Tyrer strinse i polsi di Struan dimenticando il braccio ferito e pur soffrendo riuscì a tenere fermo lo scozzese. L'etere nauseava anche lui. Struan lottò ancora scuotendo il capo contro la sensazione terribile di precipitare in un pozzo senza fondo. Poi gradualmente le forze lo abbandonarono. “Eccellente” disse Babcott.

“E' straordinaria la forza che qualche volta i malati riescono a raccogliere per lottare.” Mise Struan prono sul tavolo e gli sistemò la testa in una posizione confortevole. Quella posizione rivelava l'intera ferita: la spada giapponese aveva aperto un taglio che cominciava sul dorso e girava intorno alla cassa toracica per finire a pochi centimetri dall'ombelico. “Non perdetelo d'occhio nemmeno un minuto e ditemi se si muove. Quando ve lo dirò gli darete altro etere ...” Ma Tyrer era già al catino. “Svelto!” Babcott non lo aspettò e lasciò che le sue mani avvezze a operare in condizioni persino più disagevoli cominciassero a muoversi seguendo l'istinto e l'esperienza. La Crimea con le sue decine di migliaia di soldati morenti a causa del colera, della dissenteria e soprattutto del vaiolo, e tutti i feriti, le grida notte e giorno, e poi, nottetempo la Signora della Lampada che portava ordine nel caos degli ospedali militari. L'infermiera Florence Nightingale che organizzava, consolava, minacciava, pretendeva, implorava ma in un modo o nell'altro riusciva sempre a imporre le sue idee nuove e a ottenere la pulizia dove prima regnava la sporcizia, a eliminare le morti disperate e inutili e a trovare anche il tempo per visitare i malati e i bisognosi a ogni ora della notte con la lampada a olio o la candela tenuta alta per illuminare il suo passaggio di letto in letto. “Non so come facesse” mormorò Babcott. “Prego, signore?” Il medico alzò gli occhi per un istante e vide Tyrer che lo fissava pallido in volto. Si era quasi dimenticato di lui. “Stavo pensando alla Signora della Lampada” disse per calmare i nervi senza però mai distogliere l'attenzione dai muscoli recisi e dalle vene danneggiate. “Florence Nightingale arrivò in Crimea con trentotto infermiere e in soli quattro mesi ridusse la percentuale di mortalità da 40 su 100 a circa 2... su 100.” Come tutti gli inglesi anche Tyrer conosceva queste cifre, ed era orgoglioso del fatto che fosse stata proprio lei a fondare la professione infermieristica. “Com'era, personalmente?” “Tremenda, se non si teneva tutto pulito e come lo voleva lei. Oppure una santa nel senso più cristiano del termine. Era nata a Firenze, da dove le veniva il nome, ma era inglese dalla testa ai piedi.” “Sì.” Tyrer percepì la commozione del dottore. “Eccezionale. Davvero eccezionale. Voi l'avete conosciuta bene?” Gli occhi di Babcott non si staccarono dalla ferita né le sue dita esperte

smisero di cercare la parte recisa dell'intestino. Quando, come aveva paventato, la trovò imprecò senza rendersene conto. Con delicatezza cominciò a cercare l'altra estremità. Il cattivo odore aumentava. “Stavate parlando dell'olandese. Sapete perchè alcuni giapponesi lo parlano?” Con un grande sforzo Tyrer distolse lo sguardo dalle dita del medico è cercò di otturare le narici. Violenti spasmi gli contraevano lo stomaco. “No, signore.” Struan si mosse. Babcott disse: “Dategli altro etere... così, non premete con troppa forza... Bene. Ben fatto. Come vi sentite?”. “Un disastro.” “Non importa.” Le mani del dottore ricominciarono a muoversi. Poi si fermarono, con delicatezza estrassero l'altra estremità dell'intestino. “Lavatevi le mani e datemi l'ago già infilato, là, sul tavolo.” Tyrer obbedì. “Bene. Grazie.” Babcott cominciò a ricucire con grande accuratezza. “Non ci sono lesioni al fegato, un piccolo trauma ma nessuna ferita. Anche i reni sono a posto. Ichiban... in giapponese significa bene. Ho alcuni pazienti giapponesi che ripagano i miei servigi insegnandomi qualche parola e qualche frase. Vi aiuterò con la lingua, se volete.” “Io... Sarebbe magnifico... ichiban. Mi dispiace di essere tanto inetto.” “Niente affatto. Detesto lavorare da solo... io, be', mi viene paura. E' buffo ma succede così.” Per un istante le sue dita sembrarono riempire l'intera stanza. Tyrer guardò il volto di Struan. Soltanto un'ora prima era il volto di un giovane sano e forte, e ora era diafano, teso e tetro, e gli occhi sotto le palpebre chiuse si muovevano convulsamente. E' strano, pensò, sembra così nudo. Due giorni fa non l'avevo nemmeno sentito nominare e adesso siamo uniti da questa esperienza, adesso la vita è diversa e sarà diversa per tutti e due, che ci piaccia o no, e so che lui è coraggioso mentre io sono un codardo. “Ah, mi avete chiesto dell'olandese” riprese Babcott quasi inconsapevolmente, senza sentire quello che diceva, tutto concentrato sul lavoro di ricucitura. “Fin dal 1640 l'unico contatto dei giapponesi con il mondo esterno, fatta eccezione per la Cina, ha riguardato gli olandesi. A tutti gli altri era vietato approdare in Giappone, soprattutto agli spagnoli e ai portoghesi. Ai giapponesi non piacciono i cattolici perchè nel XVII secolo questi si erano

intromessi nelle loro questioni politiche. Ci fu persino un tempo in cui sembrava che il Giappone fosse in procinto di convertirsi al cattolicesimo, o perlomeno così dice la leggenda. Ne avete mai sentito parlare?” “No, signore.” “Dunque gli olandesi venivano tollerati perchè non avevano mai cercato di portare qui i loro missionari e volevano soltanto commerciare.” Per un attimo smise di parlare ma le sue dita continuarono a dare precisi punti di sutura. “Così, a qualche olandese, ma soltanto uomini, nessuna donna comparve mai da queste parti, fu concesso di fermarsi, seppure a condizioni molto severe. Vennero confinati su un'isoletta strappata al mare, Deshima, tre acri di terra nel porto di Nagasaki. Gli olandesi obbedirono a tutte le leggi imposte dai giapponesi e s'inchinarono senza discutere. Nel frattempo diventarono molto ricchi. Portarono in Giappone dei libri, quando ne ebbero la possibilità, commerciarono, quando gli fu consentito, e svolsero tutto il commercio con la Cina essenziale al Giappone: sete e argento in cambio d'oro, carta, lacca, bastoncini... sapete di cosa sto parlando?” “Sì, signore. Ho trascorso tre mesi a Pechino.” “Oh si, scusatemi, l'avevo dimenticato. Non importa. Secondo i resoconti olandesi del XVII secolo il primo shògun Toranaga, come dire il loro imperatore, decise che l'influenza delle nazioni straniere era contraria agli interessi del Giappone, vietò qualsiasi rapporto con il resto del mondo e decretò che il suo popolo non costruisse mai imbarcazioni adatte ad affrontare l'oceano e che non lasciasse mai il paese; chiunque ne avesse varcato i confini non vi avrebbe più fatto ritorno e, qualora avesse osato contravvenire ai suoi ordini, sarebbe stato ucciso all'istante. Questa legge vige tuttora.” Le sue dita si fermarono per un istante quando il filo sottile si spezzò. Imprecò. “Datemi l'altro ago. Non riesco a fare un lavoro decente anche se la seta è buona. Nel frattempo cercate d'infilare questo ma lavatevi le mani prima e dopo. Grazie.” Grato d'avere un compito da svolgere Tyrer vi si dedicò con zelo, ma scoprì presto che le sue dita erano incapaci. Le tempie cominciarono e pulsare e la nausea lo assalì di nuovo. “Stavate dicendo degli olandesi?” “Ah si. Dunque, con grande cautela olandesi e giapponesi cominciarono a scambiarsi informazioni, sebbene ufficialmente agli olandesi fosse proibito imparare la lingua giapponese. Circa dieci anni fa la Bakufu aprì una scuola di olandese ...” All'improvviso sentirono dei passi che si avvicinavano di corsa. Qualche rapido colpo alla porta.

Un accaldato sergente dei granatieri spalancò la porta senza aspettare d'essere invitato a entrare. Sapeva di non dovere entrare mai nella sala operatoria quando c'era un intervento in corso. “Scusate se v'interrompo signore, ma ci sono quattro schifosi gialli che stanno venendo qua. Sembra una delegazione. Sono tutti samurai.” Il dottore non interruppe il suo lavoro. “Lim è con loro?” “Sissignore.” “Scortateli nella sala d'aspetto e dite a Lim di occuparsene. Arriverò appena possibile.” “Sissignore.” Dopo aver gettato un'altra occhiata stupefatta al tavolo operatorio il sergente scomparve. Il dottore portò a termine un altro punto, lo fermò, tagliò il filo, tamponò la ferita e ricominciò. “Lim è uno dei nostri assistenti cinesi. Sono i nostri cinesi a fare quasi tutto il lavoro della Legazione... ma non parlano il giapponese e non sono particolarmente fidati.” “Noi... Era la stessa cosa... Avevamo la stessa situazione a Pechino, signore. Dei tremendi bugiardi.” “I giapponesi sono persino peggio, anche se in un certo senso non è vero nemmeno questo. Non sono bugiardi, è soltanto che la verità è relativa e soggetta ai capricci di chi parla. E' molto importante che impariate il giapponese quanto prima. Qui non abbiamo nemmeno un interprete, non uno di noi.” Tyrer lo guardò a bocca aperta. “Nemmeno uno?” “Nemmeno uno. Il sacerdote inglese se la cava ma non possiamo ricorrere a lui perchè i giapponesi detestano missionari e preti. In tutto l'Insediamento ci sono soltanto tre persone che parlano l'olandese; uno viene dall'Olanda, uno dalla Svizzera ed è il nostro interprete, e poi c'è un mercante di Cape Colony. Nessun inglese. Nell'Insediamento parliamo una sorta di lingua franca bastarda, il pidgin, il gergo di Hong Kong, Singapore e di tutti gli altri porti del trattato cinese, e usiamo i compradores come intermediari negli affari.” “A Pechino era lo stesso.” Babcott avvertì in Tyrer l'irritazione e soprattutto il pericolo che vi si nascondeva. Alzando gli occhi capì che il giovane era sul punto di crollare, pronto a vomitare ancora da un momento all'altro. “Vi state comportando bene” disse in tono incoraggiante, poi si raddrizzò per alleggerire la tensione nella schiena mentre il sudore gli scendeva copioso dalla fronte.

Tornò a chinarsi e con grande attenzione sistemò l'intestino ricucito nella cavità e in fretta si occupò di un'altra lacerazione lavorando verso l'esterno. “Vi è piaciuta Pechino?”, chiese per costringere Tyrer a parlare, senza che in realtà gli importasse niente delle sue opinioni. Meglio le chiacchiere di un crollo nervoso, pensava. Non posso occuparmi di lui fino a quando questo povero diavolo non è richiuso. “Io non ci sono mai stato. Vi è piaciuta?” “Io, be'... sì, sì, molto.” Tyrer cercava di mantenersi lucido malgrado la tremenda emicrania che lo torturava. “I manciù attualmente sono piuttosto sottomessi, perciò potevamo andare liberamente ovunque.” I manciù, una tribù nomade proveniente dalle steppe della Manciuria, aveva conquistato la Cina nel 1644 e ora la governava con il nome di dinastia Qing. “Potevamo andare in giro senza... senza nessun problema... I cinesi erano... non erano troppo cordiali ma ...” La pesantezza dell'aria e l'odore divennero insopportabili. Uno spasimo lo assalì e si sentì male un'altra volta e poi, ancora in preda alla nausea, tornò al suo posto. “Mi dispiace.” “Che cosa stavate dicendo dei manciù?” All'improvviso Tyrer provò il desiderio di gridare che non gli importava niente dei manciù né di Pechino né di nient'altro. Avrebbe voluto scappare da quell'odore e dalla sua inettitudine. “Al diavolo ...” “Parlatemi! Continuate a parlare!” “Ci, ci dicevano che... che di solito è gente arrogante e cattiva ovvio che i cinesi li odiano a morte.” La voce di Tyrer era calma, ma più si concentrava più impellente diventava il suo bisogno di fuga. In tono esitante continuò: “E... sembra che fossero tutti terrorizzati all'idea che la rivolta dei Taiping si diffondesse da Nanchino e travolgesse Pechino e che quella diventasse la fine di ...”. Si fermò per ascoltare con attenzione. Aveva un sapore terribile in bocca e la testa gli scoppiava. “Che cosa succede?” “Credo... credo di aver sentito qualcuno gridare.” Babcott si mise in ascolto ma non sentì niente. “Continuate coi manciù.” “Be', la, ehm... la ribellione dei Taiping. Si dice che più di dieci milioni di contadini siano stati assassinati o uccisi dalle carestie in questi ultimi anni. Ma a Pechino tutto è tranquillo: ovviamente l'incendio e il saccheggio del

Palazzo d'Estate da parte dei soldati inglesi e francesi due anni fa, la rappresaglia ordinata da Lord Elgin, ha insegnato ai manciù una lezione che non dimenticheranno in fretta. Non uccideranno più un inglese senza riflettere. Non è quello che sir William ordinerà anche qui? Un'azione di rappresaglia?” “Se sapessimo contro chi condurla avremmo già cominciato. Ma contro chi? Non possiamo cannoneggiare Edo a causa di qualche assassino senza nome ...” Delle voci concitate lo interruppero, era il sergente English alle prese con gutturali suoni di giapponesi. Poi la porta fu spalancata da un samurai. Dietro di lui altri due stavano minacciando il sergente con le spade già quasi sguainate mentre due granatieri li tenevano sottotiro dal corridoio. Il quarto samurai, il più anziano del gruppo, entrò nella sala operatoria. Tyrer indietreggiò contro il muro paralizzato, rivivendo i terribili istanti della morte di Canterbury. “Kinjiru!” ruggì Babcott. Nessuno si mosse. Per un attimo il samurai più anziano, furente, sembrò sul punto di sguainare la spada e attaccare. Poi Babcott girò su se stesso e li affrontò con un bisturi stretto nell'enorme pugno, le mani e il grembiule insanguinati, gigantesco e minaccioso. “Kinjiru!” gridò per la seconda volta. Poi indicò la porta con il bisturi. “Fuori di qui! Dete. Dete... dozo ...” Fissò gli uomini per qualche istante con occhi fiammeggianti. Quindi voltò le spalle agli intrusi e tornò a dedicarsi alla ferita di Struan, a ricucirla e a tamponarla. “Sergente, accompagnateli nella sala d'attesa... con garbo!” “Sissignore.” A gesti il sergente indicò la strada ai samurai che discutevano con rabbia tra loro. “Dozo” borbottò. “Avanti, schifosi nani bastardi.” Fece altri cenni. Il samurai più anziano partì con un gesto altezzoso. Immediatamente gli altri tre si inchinarono e lo seguirono. Con un gesto goffo Babcott si asciugò una goccia di sudore dal mento con il dorso della mano e poi riprese a lavorare. La testa, il collo e la schiena gli dolevano. “Kinjiru significa vietato” spiegò costringendosi a parlare in tono tranquillo. In realtà il suo cuore batteva all'impazzata come sempre gli accadeva quando si trovava disarmato in presenza di un samurai con la spada più o meno sguainata. Troppe volte era stato chiamato capezzale di vittime di quelle spade. I feriti erano più spesso giapponesi, perchè a Yokohama, a Kanagawa e nei

villaggi dei dintorni scontri e faide tra samurai erano abituali. “Dozo significa per favore, dete, andatevene. Con i giapponesi usare sempre per favore e grazie è fondamentale. Grazie si dice domo. Bisogna dire per favore anche quando si urla.” Guardò il tremante Tyrer ancora appoggiato alla parete. “In quell'armadio c'è del whisky.” “Io sto... sto bene ...” “Non state affatto bene, siete ancora in preda allo shock. Servitevi una buona dose di whisky. Sorseggiatelo. Tra poco avrò finito e vi darà qualcosa per fermare la nausea. Non vi dovete preoccupare! Capito? ...” Tyrer annuì. Cominciò a piangere a dirotto senza riuscire a fermarsi. Persino camminare gli risultava difficile. “Che cosa... che cosa... mi sta succedendo?” balbettò. “E' soltanto lo shock, non ve ne preoccupate. Passerà. Succede in guerra, e qui siamo in guerra. Ho quasi finito. Poi ci occuperemo di quei bastardi.” “E come... come farete?” “Non lo so.” Una certa durezza trasparì nella voce del dottore mentre ripuliva per l'ennesima volta la ferita con un quadrato di cotone preso da una pila che si stava assottigliando in fretta. E c'erano ancora molti punti di sutura da dare. “Farò come al solito, suppongo, agiterò le mani e dirò loro che il nostro ministro gli farà vedere i sorci verdi e cercherò di scoprire chi vi ha attaccato. Di certo negheranno qualsiasi conoscenza del fatto, il che probabilmente è vero, sembra che non sappiano mai niente di niente. Sono diversi da tutti gli altri popoli che ho conosciuto. Non so se si tratti di pura e semplice stupidità o di un'intelligenza e una segretezza che raggiungono i vertici del genio. A quanto pare noi non siamo in grado di penetrare nel loro tessuto sociale né lo sono i nostri cinesi, non abbiamo alleati nelle loro fila, non sembriamo capaci di corrompere uno di loro per aiutarci, non riusciamo nemmeno a comunicare con loro direttamente. Il senso di impotenza di noi tutti è enorme.” “Vi sentite meglio?” Tyrer si era versato del whisky. Prima aveva asciugato le lacrime pieno di vergogna, si era sciacquato la bocca e versato dell'acqua sulla testa. “Non esattamente... comunque grazie. Me la cavo. E Struan?” Dopo una pausa Babcott disse: “Non so. Non lo si sa mai veramente”. Il suo cuore sobbalzò al suono di altri passi che si avvicinavano. Tyrer sbiancò.

Un colpo e la porta si spalancò. “Cristo Santo” esclamò Jamie McFay fissando la sua attenzione sul tavolo operatorio coperto di sangue e soprattutto sull'enorme ferita nel fianco di Struan. “Se la caverà?” “Ciao, Jamie” disse Babcott. “Hai sentito dei ...” “Si, siamo appena arrivati dalla Tokaidò seguendo le tracce del signor Struan. C'è fuori Dmitri. Voi state bene, signor Tyrer? Quei bastardi hanno fatto il povero vecchio Canterbury in dodici pezzi da lasciare in pasto agli avvoltoi!” Tyrer fu davanti al bacile con un balzo. McFay guardò la scena dalla soglia con un grande senso di disagio. “Per l'amor di Dio, George, se la caverà?” “Non lo so!” sbottò Babcott irritato, mentre l'eterna sensazione di impotenza e ignoranza si trasformava in rabbia davanti all'incapacità di capire perchè alcuni pazienti vivessero e altri, con ferite meno gravi, non ce la facessero; perchè alcune ferite incancrenissero e altre guarissero. “Ha perduto litri di sangue, gli ho ricucito un intestino reciso, tre lacerazioni, ci sono ancora tre vene e due muscoli da sistemare e la ferita da richiudere e Dio solo sa quanto sudiciume è entrato a infettarla, se è da questo che ha origine la cancrena. Non lo so! Non so niente di niente! Adesso esci di qui e vai ad affrontare quei quattro bastardi della Bakufu e cerca di scoprire, per Dio, chi ha combinato questo macello.” “Si, certamente, mi dispiace, George” rispose MacFay fuori di sé per la preoccupazione e stupito di trovare l'imperturbabile Babcott tanto arrabbiato. Aggiunse in fretta: “Ci proveremo, c'è anche Dmitri, ma sappiamo già chi è stato, siamo stati informati da un negoziante cinese del villaggio. E' molto strano, tutti i samurai venivano da Satsuma e...”. “E dove diavolo è?” “Secondo il cinese è un feudo poco lontano da Nagasaki, nell'isola meridionale, a sei o settecento miglia da qui e...” “Che cosa diavolo stavano facendo da queste parti, per Dio?” “Il cinese non lo sapeva, ma ci ha assicurato che si sarebbero fermati a dormire a Hodogaya. E' un posto di cambio sulla Tokaidò, Phillip, a meno di dieci miglia da qui, e sembra che con loro ci fosse il re in persona.”

Capitolo 3 † Sanjiro, signore di Satsuma, dagli occhi simili a due crudeli fenditure, era un uomo barbuto e ben piantato di quarantadue anni. Lama impareggiabile, si liberò del mantello azzurro di seta pregiata e interrogò con gli occhi il suo consigliere più fidato. “L'attacco è stato una buona o una cattiva idea?” “Una buona idea, sire” rispose a bassa voce Katsumata. Sapeva che le spie potevano nascondersi ovunque. I due uomini inginocchiati uno di fronte all'altro erano soli nella stanza più confortevole di una locanda di Hodogaya, villaggio e posto di cambio lungo la Tokaidò a sole due miglia dall'Insediamento. “Perché?” Per sei secoli gli avi di Sanjiro avevano governato su Satsuma proteggendone gelosamente l'indipendenza, e Satsuma era uno dei due feudi più ricchi e potenti del Giappone. L'altro era a feudo dei Toranaga, loro acerrimi nemici. “Perché creerà problemi tra lo shògunato e i gai-jin” rispose Katsumata. Katsumata era un uomo snello e duro come l'acciaio, apprezzato maestro di spada e il più celebre di tutti i sensei gli insegnanti di arti marziali, della provincia di Satsuma. “Più quei cani si mettono in conflitto tra loro e prima si dichiareranno guerra, e quanto prima avverrà lo scontro tanto meglio sarà per noi perchè contribuirà a far cadere i Toranaga e le loro marionette consentendovi di fondare un nuovo shògunato, di installare un nuovo shògun e nuovi ufficiali, nonché di dare a Satsuma il ruolo che gli spetta e a voi il diritto di diventare uno dei nuovi roju.” Roju era un altro nome con cui veniva chiamato il Consiglio dei Cinque Anziani che regnava in nome dello shògun. Uno dei roju? Perché soltanto un roju, pensò Sanjiro. Perché non primo ministro? Perché non shògun... Ho il lignaggio necessario. Due secoli e mezzo di dominio Toranaga sono stati più che sufficienti. Nobusada, il quattordicesimo shògun, sarà anche l'ultimo della sua stirpe, sulla testa di mio padre sarà l'ultimo! Lo shògunato a cui si riferiva Sanjiro era stato fondato dal condottiero Toranaga nel 1603. Dopo la vittoria ottenuta nella battaglia di Sekigahara, le legioni di Toranaga tagliarono quarantamila teste nemiche e, in seguito, il grande condottiero fu in grado di eliminare completamente l'opposizione riuscendo per la prima

volta nella storia del Giappone nell'impresa di sottomettere l'intero paese, la Terra degli Dei, come lo chiamavano i suoi abitanti, e di unificarlo sotto un unico dominio. Questo astuto generale e brillante amministratore che ormai esercitava un potere temporale assoluto, accettò di buon grado il titolo di shògun, il più alto grado che un mortale potesse ottenere da un imperatore privo di poteri effettivi, e divenne legalmente il dittatore del paese. Ben presto rese la carica ereditaria e decretò che per il futuro tutte le questioni temporali sarebbero state di competenza esclusiva dello shògun e tutte le questioni spirituali di competenza dell'imperatore. Durante gli ultimi otto secoli gli imperatori che si erano succeduti sul trono del Figlio del Cielo avevano vissuto segregati con la corte dietro le mura del palazzo imperiale di Kyòto. Soltanto una volta all'anno l'imperatore varcava quelle mura per visitare il sacro tempio di Ise, ma anche in quell'occasione veniva celato agli sguardi del popolo e il suo volto non veniva mai mostrato in pubblico. Persino all'interno delle mura che lo isolavano, la sua persona era nascosta a tutti, eccetto i familiari più stretti, da ufficiali zelanti che occupavano quell'incarico per diritto ereditario, e da antichi protocolli mistici. Il generale che esercitava il controllo reale delle Porte del palazzo e decideva chi vi entrava e usciva, aveva de facto anche il controllo dell'imperatore e della sua attenzione, e perciò della sua influenza e del suo potere. E benché tutti i giapponesi credessero ciecamente nella natura divina dell'imperatore, e lo venerassero quale Figlio del Cielo discendente del sole in linea diretta dall'alba dei tempi, la tradizione voleva che né il Celeste né i membri della sua corte disponessero di armi. Inoltre nel palazzo di Kyòto nessuno godeva di altra rendita al di fuori di quella garantita dal generale incaricato del controllo delle Porte, che aveva anche il diritto di stabilirne annualmente l'ammontare. Per decenni gli shògun Toranaga regnarono incontrastati esercitando sull'intero paese un controllo saggio e spietato insieme. I discendenti del primo shògun tuttavia si rivelarono più deboli, e lasciarono che ufficiali di rango inferiore usurpassero strati sempre più grandi di potere trasformando gradualmente in mandati ereditari anche i propri incarichi. Lo shògun restò ufficialmente il capo, ma nel corso dell'ultimo secolo divenne poco più di un fantoccio, sempre scelto tra i discendenti di Toranaga che godevano inoltre del diritto di far parte del Consiglio degli Anziani. L'attuale shògun, Nobusada, era stato prescelto quattro anni prima all'età di dodici anni. Ma non ne passerà ancora molti su questa terra, si ripromise Sanjiro prima di tornare a concentrarsi sul problema che lo angustiava in quel momento.

“Katsumata, anche se meritate, queste uccisioni potrebbero risultare troppo provocatorie per i gai-jin, e ciò sarebbe nocivo per Satsuma.” “Non vi vedo niente di pericoloso, sire. L'imperatore vuole l'espulsione dei gai-jin, come la vogliono quasi tutti i daimyo. Il fatto che i due samurai siano satsuma non dispiacerà all'imperatore. Non dimenticate che la vostra missione a Edo è stata coronata da grande successo.” Attraverso alcuni intermediari alla corte imperiale di Kyòto, tre mesi prima Sanjiro era riuscito a persuadere l'imperatore Komei a firmare personalmente alcune “richieste” da lui stesso suggerite, e a concedere che un messaggero imperiale consegnasse formalmente a Edo il rotolo che ne assicurava l'accettazione. Era difficile rifiutare una “richiesta” dell'imperatore. Negli ultimi due mesi Sanjiro aveva condotto intensi negoziati e vincendo la titubanza degli anziani e degli ufficiali della Bakufu era riuscito a ottenere il loro consenso scritto ad alcune riforme che avrebbero sortito l'effetto di indebolire l'intero shògunato. La cosa più importante era che avesse ormai il loro consenso formale a cancellare gli odiati trattati firmati contro la volontà dell'imperatore e poter così espellere i detestati gai-jin e richiudere il paese facendo tornare la situazione com'era prima del malaugurato arrivo di Perry. “Nel frattempo che ne facciamo di quei due folli che hanno ucciso senza averne ricevuto l'ordine?” chiese Sanjiro. “Ogni atto che imbarazzi la Bakufu è di aiuto a voi.” “Concordo con te che i due sono stati provocati dai gai-jin. Quei vermi non avevano il diritto di trovarsi così vicini alla mia persona. Il mio stendardo e la bandiera imperiale in prima fila lo proibivano.” “Dunque lasciate che i gai-jin paghino le conseguenze del loro atto: si sono aperti la strada con la forza sulle nostre coste e contro i nostri desideri e hanno preso possesso di Yokohama. Con gli uomini di cui disponiamo e un attacco a sorpresa potremmo nottetempo radere al suolo l'Insediamento e bruciare tutti i villaggi circostanti. Potremmo agire questa notte stessa e risolvere il problema per sempre.” “Si, un attacco improvviso a Yokohama funzionerebbe, ma contro le loro flotte non possiamo niente; non disponiamo di mezzi sufficienti per annientare le loro navi e i loro cannoni.” “Infatti, sire, e inoltre i gai-jin scatenerebbero immediatamente una rappresaglia. La loro flotta bombarderebbe Edo e la distruggerebbe.” “Sono d'accordo, e quanto prima ciò avverrà tanto meglio sarà per noi. Tuttavia la distruzione di Edo non significherebbe ancora la fine dello shògunato, e dopo Edo verrebbero a cercare me, attaccherebbero la mia capitale. Non posso correre il rischio di veder distruggere Kagoshima.” “Credo che potrebbero accontentarsi di Edo, sire. Se la loro base venisse

bruciata sarebbero costretti a tornarsene a bordo delle navi e far vela verso Hong Kong. Se decidessero di tornare, in futuro, dovrebbero farlo con ingenti forze e, quel che è peggio, sarebbero costretti a utilizzare anche ingenti forze terrestri per proteggere le loro basi.” “Hanno umiliato la Cina. La loro macchina da guerra è invincibile.” “Questa non è la Cina, e noi non siamo i falsi e vili cinesi che si lasciano dissanguare e spaventare a morte da questi avvoltoi. Dicono di voler soltanto commerciare. Bene, anche voi volete commerciare per avere cannoni, navi e fucili.” Katsumata sorrise e in tono lieve aggiunse: “Suggerisco di bruciare e distruggere Yokohama fingendo che l'attacco sia stato ordinato dalla Bakufu, cioè dallo shògun. E quando i gai-jin torneranno il Giappone accetterà, pur con riluttanza, di pagare una modesta indennità e in cambio i gai-jin saranno felici di strappare i loro vergognosi trattati e di accettare tutte le condizioni per il commercio che ci piacerà imporre”. “Ci attaccheranno a Kagoshima” ripeté Sanjiro. “Non saremo in grado di respingerli.” “La nostra baia non è aperta come quella di Edo e attaccarci è difficile; inoltre abbiamo batterie nascoste su spiagge segrete, cannoni olandesi di cui i gai-jin non sono a conoscenza, e ogni mese uomini nuovi si uniscono a noi. Un attacco a Kagoshima da parte dei gai-jin sortirebbe l'effetto di riunire tutti i daimyo, tutti i samurai e l'intero paese in un esercito invincibile sotto la vostra bandiera. Gli eserciti dei gai-jin non possono vincere sulla terraferma. Inoltre questa è la Terra degli Dei, e gli dei verranno in nostro aiuto” concluse Katsumata con fervore. Non credeva a una sola delle sue parole ma sapeva cosa dire quando voleva manipolare Sanjiro. In fondo lo faceva da anni. “Un vento divino, un vento kamikaze distrusse le armate del mongolo Kublai Khan seicento anni fa. Perché lo stesso vento non dovrebbe soffiare ancora?” “E vero” rispose Sanjiro, “allora gli dei ci salvarono. Ma i gai-jin sono i gai-jin, gente spregevole, chi sa quali trucchi sarebbero capaci di inventare? E' folle provocare un attacco dal mare fino a quando non avremo navi da guerra per contrastarlo. Comunque hai ragione, gli dei sono dalla nostra parte e ci proteggeranno.” Katsumata rise tra sé e sé. Non ci sono dei, non esiste nessun Dio, né paradiso e vita dopo la morte. Credere il contrario è da stupidi. Solo i gai-jin coi loro stupidi dogmi credono a cose simili. Io credo soltanto a ciò che il grande dittatore generale Nakamura scrisse nella sua poesia di morte: Dal nulla al nulla, il castello di Osaka e tutte le mie gesta non sono che un sogno nel sogno.

“Le sorti dell'Insediamento dipendono interamente da noi” riprese. “Quei due giovani che aspettano di essere giudicati ce ne hanno indicato la via. Vi prego di imboccarla.” Dopo un attimo di esitazione parlò ancora, ma questa volta in tono molto basso. “Sire, dicono che segretamente essi siano shishi.” Gli occhi di Sanjiro si socchiusero in due strette fessure. Gli shishi, gli uomini dello spirito, così detti a causa del loro ardimento e delle loro gesta coraggiose, erano giovani rivoluzionari, l'avanguardia della rivolta contro lo shògunato. Erano un fenomeno recente nel paese e si riteneva che non fossero più di centocinquanta. Per lo shògun e per quasi tutti i daimyo erano soltanto terroristi e folli che andavano isolati. Per la maggior parte dei samurai, e soprattutto per la truppa, gli shishi erano lealisti che combattevano la giusta ed estenuante battaglia per restituire il potere all'imperatore a cui, così almeno credevano con fervore, esso era stato usurpato dal condottiero Toranaga duecentocinquant'anni prima. Per la gente comune, i contadini e i mercanti, e soprattutto per il Mondo Fluttuante delle geishe e delle case di piacere, gli shishi erano gli eroi delle leggende, argomento di canti, motivo di lacrime, oggetto d'adorazione. Gli shishi erano tutti samurai, giovani idealisti originari perlopiù dei feudi di Satsuma, Choshu e Tosa. In alcuni casi fanatici xenofobi, erano quasi tutti ronin, cioè uomini dell'onda, perchè come le onde erano liberi. Samurai senza padrone o scacciati dal loro signore per una disobbedienza o un crimine, erano uomini fuggiti dalla loro provincia per evitare una punizione, oppure partiti volontari per diffondere la nuova scellerata eresia che asseriva l'esistenza di un dovere più alto di quello di servire il signore, o la famiglia: il dovere verso l'imperatore regnante. Alcuni anni prima il movimento shishi era diventato più numeroso e si era strutturato in piccole cellule segrete impegnate nella riscoperta del bashido, le antiche pratiche samurai di autodisciplina, dovere, onore, morte, abilità nel maneggiare la spada e in altre attività marziali, arti in gran parte dimenticate e praticate solo da pochi sensei che ne avevano ma tenuto in vita la tradizione. Sotto il rigido dominio dei Toranaga che proibiva ogni attività guerresca, nel corso degli ultimi due secoli e mezzo il Giappone aveva vissuto in pace, dimentico delle tradizioni marziali consolidatesi nei lunghi secoli che avevano visto il paese dilaniato da una guerra civile pressoché ininterrotta. Cautamente gli shishi cominciarono a incontrarsi, a discutere, a fare piani.

Le scuole di spada divennero centri di scontento. Tra i frequentatori comparvero zeloti ed estremisti non sempre animati da nobili intenzioni. Ma un filo comune legava tutti, la fanatica opposizione allo shògunato e l'odio per l'apertura dei porti giapponesi agli stranieri e ai loro commerci. Per questo motivo negli ultimi quattro anni gli shishi avevano attaccato i gai-jin dando inizio a una rivolta senza precedenti contro lo shògun Nobusada, il potentissimo Consiglio degli Anziani e la Bakufu che eseguiva fedelmente gli ordini dello shògun regolando ogni aspetto della vita del paese. Avevano inventato lo slogan sonno-joi: onorare l'imperatore ed espellere i barbari, e avevano giurato di sbarazzarsi di chiunque ostacolasse il loro cammino. “Anche se sono shishi” ribatté Sanjiro irritato, “non posso permettere che una simile disobbedienza pubblica resti impunita, anche se devo riconoscere che quei gai-jin avrebbero dovuto scendere da cavallo e inginocchiarsi come vuole la consuetudine, e comportarsi da persone civili. Sì, riconosco che sono stati loro a provocare i miei uomini. Ma ciò non scusa quei due.” “Sono d'accordo, sire.” “Allora dimmi che cosa mi consigli di fare” esclamò con irritazione il signore di Satsuma. “Se sono shishi come tu dici e io li condanno oppure ordino loro di fare seppuku, verrà assassinato entro la fine del mese indipendentemente dal numero di guardie che cercheranno di proteggermi. Non negarlo perchè lo so con sicurezza. E' irritante che pur essendo dei comuni goshi questi uomini dispongano di un potere così grande.” “Forse la loro forza è proprio questa, sire” rispose Katsumata. I goshi erano la truppa dell'esercito, samurai venuti dalle campagne, senza un soldo, non dissimili dai soldati contadini del passato, uomini privi di qualsiasi speranza d'ottenere un'educazione, e perciò condannati a non poter mai migliorare la propria condizione, a non essere mai ascoltati neppure dagli ufficiali di basso rango, tantomeno dai daimyo. “Essi non hanno che le loro vite da perdere.” “Se qualcuno ha una lamentela io l'ascolto, è naturale che lo faccia. Gli uomini speciali ricevono un'educazione speciale, in alcuni casi.” “Perché non consentire loro, di guidare l'attacco contro i gai-jin?” “E se non vi fosse alcun attacco? Non posso consegnarli alla Bakufu, è impensabile. Né tantomeno ai gai-jin!” “La maggior parte degli shishi sono soltanto giovani idealisti senza cervello né organizzazione. Alcuni sono piantagrane e fuorilegge di cui, da queste parti, non c'è alcun bisogno.

Ciononostante, se impiegato opportunamente, qualcuno di loro potrebbe essere utile. Una spia mi ha detto che il più anziano, Shorin, faceva parte del gruppo che assassinò il primo ministro Li.” “So ka!” Era accaduto quattro anni prima. Il primo ministro Li, principale responsabile delle manovre che avevano portato il giovane Nobusada sul trono dello shògun, non soltanto si era adoperato per combinare un deprecabile matrimonio, osteggiato da tutti, tra il ragazzo e la sorellastra dodicenne dell'imperatore, ma aveva peggiorato ulteriormente la situazione negoziando e firmando il famigerato Trattato. La sua dipartita non aveva suscitato rimpianti, soprattutto in Sanjiro. “Mandali a chiamare.” Nella sala delle udienze una cameriera stava versando il tè a Sanjiro. Katsumata sedeva accanto a lui. Intorno vi erano dieci delle sue guardie personali. Tutti erano armati a eccezione dei due giovani inginocchiati davanti a Sanjiro. Le loro spade giacevano sul tatami, a portata di mano. Benché avessero i nervi tesi fino allo spasimo riuscivano a non tradire alcuna emozione. La cameriera s'inchinò e si allontanò impaurita. Sanjiro non l'aveva neppure notata. Sollevò dal vassoio la piccola tazza di porcellana d'eccellente fattura e sorseggiò il tè. Il sapore del tè gli piaceva, ed era molto contento d'essere nato dalla parte di chi viene servito e temuto. Finse di studiare la tazza, di ammirarne il disegno mentre la sua attenzione in realtà era dedicata ai due giovani che impassibili aspettavano d'essere giudicati. Sanjiro sapeva sul loro conto quello che gli aveva detto Katsumata: erano entrambi goshi, soldati semplici com'erano stati i loro padri. Ricevevano la paga annuale di un koku, una misura di riso, circa cinque stai, considerato sufficiente a sfamare un'intera famiglia per un anno. Entrambi venivano da villaggi nei pressi di Kagoshima. Uno aveva diciannove anni e l'altro, quello che era stato ferito e ora aveva un braccio fasciato, diciassette. Entrambi avevano frequentato la scuola per samurai di Kagoshima che Sanjiro aveva voluto vent'anni prima per dare ai giovani dalle attitudini particolari un addestramento superiore, compreso persino lo studio di alcuni scelti manuali olandesi. I due si erano rivelati ottimi studenti, non erano sposati e dedicavano il loro tempo libero all'apprendimento, e al perfezionamento dell'arte della spada. Entrambi un giorno o l'altro avrebbero ricevuto una promozione. E

maggiore si chiamava Shorin Anato, il più giovane Ori Ryoma. Il silenzio divenne più pesante. All'improvviso Sanjiro si rivolse a Katsumata come se i due non esistessero: “Se qualcuno dei miei uomini, per quanto valoroso, per quanto provocato, dovesse commettere per una ragione o un'altra un'azione violenta da me non autorizzata e in seguito si lasciasse catturare, dovrei certamente punirlo con severità”. “Si, sire.” Vide il bagliore negli occhi del consigliere. “Disobbedire è da stupidi. Se gli uomini in questione volessero restare in vita la loro unica possibilità sarebbe quella di fuggire e diventare ronin perdendo la paga. Uno spreco, nel caso di uomini valorosi.” Poi esaminò i due giovani con attenzione. Scoprì con grande sorpresa che non c'era niente da leggere sui loro volti, soltanto la stessa grave impassibilità. Divenne ancora più circospetto. “Avete ragione, sire. Come sempre” disse Katsumata. “Potrebbe tuttavia darsi il caso che questi uomini, se fossero uomini speciali, uomini d'onore, sapendo di aver disturbato la vostra armonia e di doversi perciò aspettare una severa punizione... potrebbe darsi che questi uomini speciali riescano a proteggere i vostri interessi anche come ronin, forse anche qualcosa di più dei vostri interessi.” “Uomini simili non esistono” ribatté Sanjiro lieto che il consigliere condividesse il suo punto di vista. Volse lo sguardo crudele sui due giovani. “Non è vero?” I due samurai cercarono di non abbassare gli occhi ma furono sopraffatti. Fu Shorin, il maggiore, a dire in un sussurro: “Esistono, esistono simili uomini, sire”. Il silenzio divenne ancora più opprimente mentre Sanjiro aspettava che anche l'altro si dichiarasse. Infine il giovane Ori annuì in modo impercettibile, appoggiò entrambe le mani sul tatami e si prostrò. “Si, signore, sono d'accordo.” Sanjiro era soddisfatto d'aver guadagnato i servigi gratuiti di due spie tra le fila dei ribelli, spie di cui Katsumata avrebbe dovuto rispondere. “Se esistessero, uomini simili sarebbero utili.” Il suo tono era secco e definitivo. “Katsumata, scrivi immediatamente una lettera alla Bakufu per informarli che due goshi chiamati ...” riflettè per un istante senza prestare attenzione ai rumori nella stanza, “metti due nomi a caso... oggi sono usciti dai ranghi e hanno ucciso dei gai-jin a causa dell'atteggiamento provocatorio e insolente

di questi ultimi in quanto erano armati di pistole puntate minacciosamente contro il mio palanchino. I due uomini sono riusciti a fuggire prima d'essere catturati e puniti.” Tornò a guardare i due samurai. “In quanto a voi, tornate al primo turno di sentinella per la sentenza.” Katsumata disse: “Sire, posso suggerirvi d'aggiungere nella lettera che sono stati scacciati, dichiarati ronin e privati della paga? E che una taglia è offerta per le loro teste?”. “Due koku. Quando torneremo a Satsuma farete affiggere l'offerta della taglia nei loro villaggi.” Lanciata un'ultima occhiata a Shorin e Ori, Sanjiro li congedò con un cenno della mano. I due s'inchinarono profondamente e uscirono. Sanjiro notò con piacere che i loro kimono erano intrisi di sudore benché il pomeriggio fosse fresco. “Katsumata, quanto a Yokohama” disse a bassa voce quando fu di nuovo solo col suo consigliere, “manda qualcuna delle tue spie migliori a vedere cosa sta succedendo laggiù. Ordinagli di tornare prima di notte e ordina a tutti i samurai di prepararsi per la battaglia.” “Si, sire.” Katsumata tenne per sé un sorriso di soddisfazione. Lasciato Sanjiro e superate le guardie del corpo, Katsumata raggiunse i due giovani. “Seguitemi.” Li condusse attraverso il labirinto dei giardini fino a una porta secondaria incustodita. “Andate immediatamente a Kanagawa, alla Locanda dei Fiori di Mezzanotte. E' una casa sicura dove troverete altri compagni. Svelti!” “Ma, sensei” obiettò Ori. “Prima dobbiamo procurarci altre spade e corazze e denaro e ...” “Silenzio!” Irato, Katsumata estrasse da una manica del kimono una piccola borsa con alcune monete che diede a Ori. “Prendete questa e restituitemi il contenuto raddoppiato per la vostra insolenza. Al tramonto ordinerò agli uomini di darvi la caccia con la consegna di uccidervi se vi trovano nel raggio di un ri da qui.” Un ri equivaleva a circa una lega, più o meno tre miglia. “Si, sensei, mi scuso d'essere stato così sgarbato.” “Le tue scuse non sono accettate. Siete due stupidi. Avreste dovuto uccidere tutti e quattro i barbari. Non soltanto uno, e soprattutto uccidere la ragazza perchè questo avrebbe fatto diventar matti di rabbia i gai-jin! Quante volte ve l'ho detto? Non sono civilizzati come noi, e vedono il mondo, la religione e le donne in modo diverso! Siete due inetti! Due stupidi! Avete dato inizio a un buon attacco per poi mancare di portarlo

a fondo implacabilmente senza riguardo per le vostre vite. Avete esitato! Perciò avete perso! Stupidi” ripeté. “Avete dimenticato tutto quello che vi ho insegnato.” Colpì Shorin con un violento manrovescio. Immediatamente Shorin s'inchinò, mormorò un'umile scusa per aver causato al sensei la perdita di wa, l'armonia interiore, e tenne la testa bassa cercando disperatamente di contenere il dolore. Ori aspettava irrigidito il secondo colpo che gli avrebbe lasciato un livido bruciante. Anch'egli chiese scusa umilmente e tenne chino il capo dolorante, preoccupato di quello che sarebbe seguito. Un giorno un loro compagno, il miglior allievo di spada della scuola, aveva risposto sgarbatamente a Katsumata durante una dimostrazione. Senza una parola Katsumata aveva riposto la sua spada e l'aveva aggredito a mani nude disarmandolo, umiliandolo e spezzandogli entrambe le braccia. Poi l'aveva espulso e rispedito al suo villaggio senza appello. “Vi prego di scusarmi, sensei” ripeté Shorin con fervore. “Andate alla Locanda dei Fiori di Mezzanotte. Quando riceverete un mio messaggio obbedirete immediatamente a qualsiasi richiesta perchè non avrete un'altra possibilità! Immediatamente, capito?” “Sì, sì, sensei, vi prego di scusarmi” mormorarono all'unisono i due, e afferrate le estremità del kimono corsero via, grati di potersi mettere al riparo dalle sue mani feroci. Ai loro occhi il vecchio maestro d'armi era assai più temibile di Sanjiro. Katsumata era stato il loro maestro per anni sia nell'arte della guerra sia, in segreto, nell'arte della strategia, nello studio e nell'analisi della storia: passato, presente e futuro, degli errori della Bakufu e dei Toranaga, del cambiamento che doveva verificarsi nel paese e delle tecniche che l'avrebbero accelerato. Katsumata era uno dei pochi shishi clandestini a essere anche un hatomoto, un onorato ufficiale ascoltato dal suo signore, un samurai con una paga personale di mille koku all'anno. “Eh, essere così ricchi” aveva sussurrato Shorin a Ori il giorno in cui l'avevano scoperto. “I soldi non sono niente, niente. Il sensei dice che quando hai il potere non hai bisogno di soldi.” “Sono d'accordo, ma pensa alla tua famiglia, a tuo padre, al mio, e al nonno, potrebbero comprare un pò di terra e non dovrebbero più lavorare i campi degli altri, né sfiancarsi dall'alba al tramonto per guadagnare qualcosa in più.” “Hai ragione.” Poi Shorin aveva riso.

“Non c'è bisogno di preoccuparsi, noi non arriveremo mai a guadagnare nemmeno cento koku, e se ci capitasse andremmo a spenderceli in ragazze e sakè e diventeremmo soltanto daimyo del Mondo Fluttuante. Mille koku sono tutti i soldi del mondo!” “No, non è così. Non ti dimenticare quello che ci ha detto il sensei.” Un giorno, durante una delle sessioni segrete del gruppo di accoliti, Katsumata aveva spiegato: “L'appannaggio di Satsuma ammonta a settecentocinquantamila koku e appartiene al nostro signore, il daimyo, e viene spartito secondo il suo giudizio. Questa è un'altra delle tradizioni che verranno modificate dalla nuova amministrazione. Quando il grande cambiamento sarà avvenuto l'appannaggio di un feudo sarà stabilito da un Consiglio di stato composto da samurai saggi di qualsiasi rango, alto o basso, di qualsiasi età purché dotati della necessaria saggezza e purché si siano dimostrati uomini d'onore. Lo stesso varrà per tutti i feudi, e il paese sarà governato da un Consiglio supremo di stato a Edo o a Kyòto, anch'esso composto da samurai d'onore, sotto la guida del Figlio del Cielo”. “Sensei, avete detto qualsiasi samurai? Posso chiedere se ciò significa anche i Toranaga?” chiese Ori. “Qualsiasi samurai, senza eccezione, purché l'uomo sia un prode.” “Sensei, per favore, a proposito dei Toranaga. Si conosce a quanto ammonta la loro reale ricchezza, quanta terra controllino veramente?” “Dopo la battaglia di Sekigahara Toranaga s'impossessò delle terre dei suoi nemici morti acquisendo una rendita annuale di circa cinque milioni di koku, più o meno un terzo di tutta la ricchezza del Giappone, per sé e per la sua famiglia. Per l'eternità.” Nello sbalordito silenzio che segui Ori parlò esprimendo il pensiero di tutti: “Con una simile ricchezza, noi, noi potremmo avere la più grande marina del mondo, con tutti gli uomini e i cannoni e i fucili necessari, potremmo avere le legioni migliori equipaggiate con le armi migliori, potremmo scacciare tutti i gai-jin!”. “Potremmo persino far loro la guerra e estendere i nostri confini” aggiunse a bassa voce Katsumata, “e lavare l'onta subita.” Tutti avevano capito che stava parlando del tairò, il generale Nakamura, il predecessore di Toranaga e grande feudatario, il grande contadino generale che aveva avuto il dominio delle Porte. In segno di gratitudine per i suoi servigi l'imperatore l'aveva insignito del massimo titolo a cui un uomo di umili origini potesse aspirare, quello di tairò, dittatore. Ma Nakamura invece aspirava ossessivamente a occupare la carica di

shògun, carica che non avrebbe mai potuto ottenere. Dopo aver sottomesso il paese, soprattutto per aver persuaso il nemico Toranaga a giurare eterna alleanza a lui e a suo figlio, aveva riunito un'enorme armata e dato inizio a una vasta campagna contro il Chosen, o Corea, come a volte era chiamato. Voleva portare in quel paese la luce del Giappone e usarlo come trampolino di lancio verso il Trono del Drago cinese. Ma i suoi eserciti avevano avuto la peggio e ben presto si erano dovuti ritirare con ignominia. Secoli prima i giapponesi avevano fallito altri due tentativi di invadere il Regno di Mezzo subendo sempre pesanti disfatte. “Tali macchie devono essere lavate, come l'onta subita dai Figli del Cielo a opera dei Toranaga usurpatori. Alla morte di Nakamura infatti i Toranaga ne avevano usurpato il potere; si erano resi responsabili dell'uccisione di sua moglie e di suo figlio, della distruzione del castello di Osaka, e da allora saccheggiavano l'eredità del Figlio del Cielo impunemente! Sonno-joi!” “Sonno-joi” gli fecero eco con fervore i suoi seguaci. Al crepuscolo i due giovani erano stanchi, sfiancati dalla lunga corsa. Ma poiché nessuno dei due voleva ammettere per primo la stanchezza, proseguirono fino al limitare della foresta. Davanti a loro adesso si stendevano le risaie ai lati di quel tratto della Tokaidò che entro breve li avrebbe condotti verso la periferia di Kanagawa e la Barriera. La spiaggia si trovava alla loro destra. “Ferm... fermiamoci un momento” disse Ori. Il braccio ferito lo faceva soffrire, la testa era dolorante, e il petto gli doleva per la corsa anche se cercava di non darlo in alcun modo a vedere. “Va bene.” Benché non meno ansante ed esausto di Ori, Shorin volle deridere l'amico. “Sei debole come una vecchietta.” Scelse una zolla di terreno asciutto e vi si sedette con gratitudine. Cominciò a guardarsi intorno con grande attenzione cercando di ritrovare un ritmo di respirazione normale. La Tokaidò era quasi deserta perchè la Bakufu vietava i viaggi notturni e chi veniva sorpreso per strada senza autorizzazione era sottoposto a severi interrogatori e pesanti punizioni. Alcuni portatori e gli ultimi viaggiatori si affrettavano verso la Barriera di Kanagawa, mentre tutti gli altri già si godevano un bagno ristoratore o le baldorie nelle locande dove avevano scelto di trascorrere la notte. Le locande abbondavano in tutta la zona; le Barriere chiudevano al calar della

sera e venivano riaperte all'alba, ed erano sempre presidiate da samurai. Oltre la baia Shorin vedeva le luci delle lampade a olio lungo la passeggiata e in alcune case dell'Insediamento e sulle navi all'ancora. Una bella mezza luna ancora vicina all'orizzonte stava salendo in cielo. “Come va il braccio, Ori?” “Bene, Shorin. Siamo a più di un ri da Hodagaya.” “Sì, ma fino a quando non saremo alla locanda non mi sentirò al sicuro.” Shorin si massaggiò il collo per alleviare il dolore ai muscoli e il mal di testa. Il manrovescio di Katsumata l'aveva intontito. “Quando eravamo davanti al nobile Sanjiro ho pensato che fosse arrivata la fine. Ho pensato che ci avrebbe condannato.” “Anch'io.” Ori si sentiva male; il braccio era dolorante, ansimava e aveva le guance in fiamme. Con la mano sana scacciò distrattamente uno stormo di insetti notturni. “Se... ero pronto a impugnare la mia spada e a farlo a pezzi, prima di essere ucciso.” “Anch'io, ma il sensei ci teneva d'occhio e avrebbe fatto fuori tutti e due prima che potessimo muovere un dito.” “Si, hai ragione anche in questo.” Il più giovane rabbrividì. “ Il suo colpo mi ha quasi staccato la testa. Che forza incredibile! Sono contento che stia dalla nostra parte. E' stato lui a salvarci, ha imposto al nobile Sanjiro la sua volontà.” Ori era diventato improvvisamente serio. “Shorin, mentre stavo aspettando... io... per darmi coraggio ho composto la mia poesia di morte.” Anche Shorin divenne serio. “Posso sentirla?” “Sì. Sonno-joi al tramonto, Niente è perduto. Nel nulla Io balzo.” Shorin rifletté sulla poesia, assaporandone l'equilibrio e il significato più profondo. Poi con solennità disse: “E' saggio per un samurai aver composto una poesia di morte. Io non ci sono ancora riuscito ma dovrei farlo perchè, dopo, la vita che viene è regalata”. Mosse la testa da sinistra a destra facendo scrocchiare i legamenti e si sentì meglio. “Sai, Ori, il sensei aveva ragione, abbiamo esitato, è per questo che abbiamo perduto.” “Io ho esitato, in questo ha ragione, perchè avrei potuto uccidere la ragazza senza problemi ma sono rimasto paralizzato per un momento. Non avevo mai... quei vestiti esotici, il volto come uno strano fiore con quel naso enorme come un'orchidea mostruosa con due grandi macchie azzurre

e incoronata dagli stami gialli... quegli occhi incredibili. Occhi da gatto siamese, e sotto quel ridicolo cappello... era così ripugnante e insieme così... così attraente.” Ori rise con nervosismo. “Ero stregato. E' sicuramente una kami venuta dalle regioni oscure.” “Strappale i vestiti e vedrai che anche lei è fatta di carne e ossa... in quanto al fatto che sia anche attraente io... io non saprei.” “Io ho pensato anche a quello, mi sono chiesto come sarebbe stato farlo con lei.” Ori osservò per un istante la luna. “Se dormissi con lei penso che... che diventerei come il ragno con la sua femmina.” “Vuoi dire che dopo lei ti ucciderebbe?” “Si, se dormissi con lei, che la prendessi con la forza o no, quella donna mi ucciderebbe.” Ori mosse l'aria per scacciare gli insetti che erano diventati fastidiosi. “Non ho mai visto una donna simile... nemmeno tu. L'hai notata, vero?” “No, tutto è successo così in fretta e io stavo cercando di ammazzare quello brutto e grosso con la pistola quando lei è scappata.” Ori fissò le fioche luci di Yokohama. “Mi chiedo come si chiami, cosa abbia fatto quando è tornata laggiù. Non ho mai visto niente di... era così brutta e insieme così... “ Shorin si preoccupò di quella fissazione dell'amico. Generalmente Ori non prestava alcuna attenzione alle donne, si limitava a usarle quando ne aveva necessità, a farsi intrattenere, a farsi servire. Eccezion fatta per l'adorata sorella non si era mai soffermato a parlare di una donna. “Karma.” “Si, karma.” Ori sistemò la fasciatura intorno al braccio e il dolore pulsante aumentò. Uscì del sangue. “Però non so se abbiamo perso. Dobbiamo aspettare, dobbiamo avere pazienza e stare a vedere quello che succederà. Abbiamo sempre progettato di attaccare i gai-jin alla prima opportunità... in fondo ho fatto bene ad attaccarli in quel momento.” Shorin si alzò. “Sono stufo di discorsi seri, di kami e di morte. Conosceremo la morte anche troppo presto. Il sensei ci ha concesso di vivere per sonno-joi. Dal niente al nulla, ma adesso abbiamo un'altra notte da goderci. Un bagno, sakè, da mangiare, poi una vera signora della notte, succulenta e profumata e morbida,” Ridacchiò. “Un fiorellino, non un'orchidea, con un bel naso e gli occhi fatti bene.

Andiamo ...” All'improvviso smise di parlare. Da oriente, in direzione di Yokohama, arrivò l'eco di un cannone. Poi un razzo segnaletico squarciò l'oscurità. “Che cos'era?” “Non lo so.” Davanti a loro vedevano soltanto le luci della prima barriera. “E meglio attraversare le risaie, così possiamo aggirare le guardie.” “Si. Meglio attraversare la strada qui e poi avvicinarsi alla spiaggia. Non aspettano nessuno da quel lato, e riusciremo a evitare le pattuglie. Poi la locanda è vicina.” Attraversarono di corsa la strada procedendo acquattati al suolo, poi saltarono su un sentiero che attraversava le risaie dov'erano state sistemate da poco le piantine invernali. All'improvviso si fermarono perchè dalla Tokaidò giungeva il suono degli zoccoli e dei finimenti di alcuni cavalli. Si nascosero, aspettarono e restarono a guardare a bocca aperta quello che succedeva. Dieci dragoni in uniforme, armati di carabine e guidati da un ufficiale sbucarono dalla curva. I samurai alla barriera videro gli inglesi e intimarono un altolà. Altri samurai arrivarono di corsa a dare man forte e ben presto dietro l'ufficiale vi furono venti uomini. “Che cosa facciamo, Ori?” sussurrò Shorin. “Aspettiamo.” Guardarono il samurai anziano alzare un braccio. “Alt!” gridò. Anziché inchinarsi piegò il capo come se avesse di fronte un sottoposto. “Siete autorizzati a viaggiare di notte? Se siete autorizzati vi prego di consegnarmi i documenti.” Ori si infuriò vedendo con quanta insolenza il gai-jin, senza smontare da cavallo né inchinarsi come avrebbe dovuto, si limitasse a fermarsi a dieci passi dalla barriera gridando qualcosa nella sua strana lingua e ingiungendo con un cenno imperioso ai samurai di alzare le sbarre. “Come osate? Andatevene!” disse furente il samurai sorpreso da quell'atteggiamento insolente e facendo cenno agli stranieri di allontanarsi. L'ufficiale inglese latrò un ordine e immediatamente i suoi uomini impugnarono le carabine e le puntarono contro i samurai poi, obbedendo a un altro ordine, spararono una raffica di colpi in aria. Ricaricarono immediatamente e puntarono sulle guardie mentre l'eco degli spari non era ancora del tutto svanito lasciando il paesaggio avviluppato in un silenzio sinistro. Shorin e Ori trattennero il respiro. Conoscevano soltanto i fucili ad avancarica. “Quelli sono fucili a retrocarica con nuove cartucce” sussurrò Shorin eccitato.

Nessuno di loro aveva mai visto quella recente invenzione, ne avevano soltanto sentito parlare. I samurai alla barriera non erano meno sbalorditi. “Ehi, hai visto come si ricaricano in fretta? Ho sentito dire che un soldato può sparare dieci colpi nel tempo in cui carichi il fucile ad avancarica.” “Ma hai visto che disciplina, Shorin, e anche i cavalli, non si sono mossi!” L'ufficiale fece un altro brusco cenno per intimare l'apertura della barriera, con la chiara minaccia che se non gli avessero ubbidito in fretta sarebbero stati tutti ammazzati. “Fateli passare” disse il samurai anziano. L'ufficiale dei dragoni passò con atteggiamento carico di disprezzo, non mostrando alcuna paura, e i suoi uomini lo seguirono cupi, con i fucili spianati. Nessuno fece mostra di essersi accorto delle guardie e nessuno rispose ai loro cortesi inchini. “Farò subito rapporto e dovrete presentare le vostre scuse!” gridò il samurai cercando di controllare la rabbia che gli provocava l'atteggiamento sprezzante degli inglesi. Passato l'ultimo soldato le sbarre vennero riabbassate e Ori mormorò indignato: “Che modi volgari! Ma contro simili fucili cosa potremmo fare?”. “Avrebbe dovuto attaccarli e ucciderli e poi morire. Io non potrei comportarmi come quel codardo... io avrei attaccato e sarei morto” rispose Shorin con le ginocchia tremanti. “Sì. Penso che...” Ori si interruppe e la sua furia cedette il posto a un'idea improvvisa. “Vieni” sussurrò. “Andiamo a vedere dove vanno... forse riusciremo a rubare qualcuno di quei fucili.”

Capitolo 4 † La barcaccia della Royal Navy sbucò dal crepuscolo diretta verso la banchina di Kanagawa. Era una nave robusta di legno e pietra, diversa dalle imbarcazioni che punteggiavano la costa, e recava una baldanzosa insegna con scritto in inglese e in giapponese: Proprietà della Legazione britannica Kanagawa Vietato l'accesso I trasgressori saranno puniti I marinai remavano di buona lena e i soldati erano armati. Una sottile linea scarlatta accendeva ancora l'orizzonte a occidente; c'era maretta, e la luna si stava alzando in cielo sbucando in mezzo alle nuvole sospinte da una forte brezza. Sul molo aspettava un granatiere della Legazione; accanto a lui un cinese con la faccia rotonda che indossava una lunga tunica a collo alto reggeva una lampada a olio appesa a un bastone. “Re-mi!” ordinò il nostromo. Immediatamente tutti i remi vennero imbarcati e il marinaio di prua saltò sul molo per attraccare; i soldati scesero in fila per uno, si schierarono in posizione difensiva con le armi in pugno sotto lo sguardo attento del sergente. A poppa c'erano ancora un ufficiale della marina, e Angélique Richaud. L'ufficiale aiutò la ragazza a scendere a terra. “Buonasera signore. Signora” salutò il granatiere sull'attenti. “Vi presento Lun, un assistente della Legazione.” Lun guardò la ragazza con aria sciocca. “Buonasera, siete arrivati svelti svelti, heya? La signorina viene anche lei, si?” Elegante nell'abito di seta azzurra intonato al cappellino e allo scialle su cui risaltavano i capelli chiari, Angélique era in preda a una grande inquietudine. “Il signor Struan... come sta?” Con gentilezza il soldato rispose: “Non so, signorina. Il dottor Babcott è il migliore in queste acque, dunque il poveretto si rimetterà in sesto, se questa è la volontà di Dio. Sarà proprio contento di vedervi... ha chiesto di voi. Non vi aspettavamo fino a domani mattina”. “E il signor Tyrer?”

“Sta bene, signorina, ha riportato soltanto una ferita superficiale. Ora faremmo meglio ad andare.” “Quanto siamo distanti?” Fu Lun a rispondere, infastidito: “Si, no lontano, se partiamo arriviamo”. Alzò la lampada e si incamminò nella notte borbottando fitto tra sé in cantonese. Insolente bastardo, pensò l'ufficiale. Era un giovane aitante il tenente della marina, e si chiamava John Marlowe. Tutto il gruppo si incamminò dietro il cinese. I soldati formavano la retroguardia, preceduti dalle guide. “Vi sentite bene, signorina Angélique?” domandò Marlowe. “Sì, grazie” rispose la ragazza stringendosi nello scialle e avanzando con cautela. “Che puzza tremenda!” “Ho paura che sia lo sterco che usano come concime, e la bassa marea.” Marlowe aveva ventott'anni, i capelli color sabbia e gli occhi grigio azzurri, ed era il capitano della Pearl, una fregata a vapore con ventun cannoni della Marina di Sua Maestà britannica. In quei giorni tuttavia prestava eccezionalmente servizio come tenente di bandiera dell'ammiraglio Ketterer. “Dovete vomitare?” “No, no, sto bene.” Lun li precedeva di qualche passo illuminando il cammino attraverso le viuzze deserte del villaggio. Quasi tutta Kanagawa dormiva, ma ogni tanto giungevano le risate sguaiate e ubriache di uomini e donne intenti a divertirsi dietro alte recinzioni punteggiate qui e là da piccole porte sbarrate decorate da insegne in giapponese. “Sono locande quelle, alberghi?” chiese Angélique. “Direi di si” rispose Marlowe con delicatezza. Lun ridacchiò tra sé a quello scambio di battute. Il suo inglese, appreso in una scuola missionaria di Hong Kong, era buono, ma ubbidendo alle istruzioni ricevute aveva sempre finto di non capirlo e parlava soltanto pidgin. Fingere di essere stupidi era il sistema migliore per venire a conoscenza di molti segreti ai quali i suoi superiori della tong e soprattutto il loro capo, l'onorevole Chen, Gordon Chen, compratore della Struan, attribuivano grande valore. Un compratore, quasi sempre un eurasiatico di buona famiglia, era l'indispensabile intermediario tra commercianti europei e cinesi perchè parlava correntemente sia l'inglese sia i dialetti cinesi, e nelle sue mani si fermava almeno il dieci per cento di ogni transazione.

Ah, altezzosa signorinella che si nutre di desiderio represso, pensò Lun divertito, mi chiedo quale di questi maleodoranti Occhi in fuori sarà il primo a farti aprire le gambe e a entrare nella tua altrettanto maleodorante Porta di Giada. Lun era al corrente di molte cose sul conto della ragazza. Sei così immacolata come pretendi di essere oppure il nipote del demone Struan Occhiverdi ha già goduto del Tempo delle Nubi e della Pioggia? Lo saprò presto, per tutti gli dei maggiori e minori, perchè la tua cameriera è la figlia della terza cugina di mia sorella. So già che i tuoi peli dovrebbero essere strappati e che sono chiari come i capelli e che sono troppo folti per i gusti di una persona civilizzata, ma andranno benissimo per un barbaro. Puah! Scommetto che questo attacco e l'omicidio finiranno per creare molti guai sia ai diavoli stranieri che ai mangiamerda di queste isole. Magnifico! Che possano tutti annegare nel loro sterco! E' interessante il fatto che il nipote del demone Occhiverdi sia stato gravemente ferito, non smentendo così la cattiva sorte che accompagna tutti i maschi della sua famiglia; interessante che la notizia sia già segretamente in volo per Hong Kong con il corriere più veloce. Che uomo saggio sono! Ma sono nato nel Regno di Mezzo, in fondo, e quindi sono superiore. Ma il cattivo vento di qualcuno può essere benevolo per un altro. Queste notizie avranno sicuramente l'effetto di far cadere di molto il prezzo delle azioni della Nobil Casa. Con qualche informazione ottenuta per tempo io e i miei amici potremmo ricavarne grandi profitti. Punterò alle corse di Happy Valley il dieci per cento del mio guadagno sul prossimo cavallo che avrà il numero quattordici, che è la data di oggi, secondo il calendario dei barbari. “Hooo!” gridò indicando un punto davanti a sé. Le torrette centrali del tempio, sbucavano sopra i vicoli e i sentieri tra le case minuscole simili a cellette di un alveare. Due granatieri erano di sentinella con un sergente ai cancelli del tempio, ben illuminati dalle lampade a olio. Dietro di loro troneggiava Babcott. “Salve Marlowe” disse il medico con un sorriso. “Vedervi è un piacere inaspettato. Buonasera, mademoiselle. Che cosa...”

“Scusate, dottore” lo interruppe Angélique fissando sbalordita quel gigantesco inglese, “ma Malcolm, il signor Struan, abbiamo sentito dire che è stato ferito gravemente.” “Una ferita piuttosto brutta, si, ma l'ho ricucito per bene e ora dorme come un sasso” rispose in tono disinvolto Babcott. “Gli ho dato un sedativo, potrò accompagnarvi da lui tra poco. Che cosa succede, Marlowe, perché...” “E Phillip Tyrer?” lo interruppe un'altra volta Angélique. “Anche lui... anche lui è stato gravemente ferito?” “Solo una ferita superficiale, mademoiselle, ma non c'è niente che voi possiate fare in questo momento perchè sono entrambi sotto l'effetto dei sedativi. Perché la marina, Marlowe?” “L'ammiraglio ha ritenuto che fosse meglio farvi avere un pò di protezione in più... in caso di evacuazione.” Babcott fischiò. “Dite sul serio?” “Proprio in questo momento c'è in corso una riunione. L'ammiraglio, il generale, Sir William, insieme ai rappresentanti di Francia, Germania, Russia e America e alla... ehm... alla fratellanza dei mercanti.” Poi aggiunse: “Suppongo che sarà una riunione piuttosto calda”. Si rivolse al sergente della marina. “Controlli la Legazione, sergente Crimp, verrò a ispezionare gli alloggi più tardi.” E rivolto al sergente dei granatieri aggiunse: “Date per cortesia al sergente Crimp tutto l'aiuto di cui ha bisogno per alloggiare i suoi uomini eccetera eccetera. Come vi chiamate, sergente?”. “Towery, signore.” “Grazie, sergente Towery.” “Volete venire con me a prendere una tazza di tè?” chiese Babcott. “Grazie, no” rispose Angélique in tono secco. Avrebbe voluto essere più gentile, ma era molto impaziente di vedere i suoi due compagni e inoltre quell'abitudine tutta inglese di versare il tè a ogni pie sospinto approfittando di ogni occasione per offrirlo la lasciava alquanto perplessa. “Mi piacerebbe vedere il signor Struan e il signor Tyrer.” “Certamente, subito.” Il dottore aveva capito che la ragazza era prossima a una crisi di pianto e che aveva un gran bisogno di una buona tazza di tè, magari corretta con un goccio di brandy, nonché di un sedativo e di una bella dormita. “Il giovane Phillip ha avuto un bello shock, temo... dev'essere stata un'esperienza spaventosa!” “Ma sta bene?” “Si, piuttosto bene, direi” ripeté con pazienza.

“Venite, venite a vedere voi stessa.” La stava conducendo attraverso il cortile quando un rumore di zoccoli e finimenti li fermò. Restarono a guardare sorpresi la pattuglia di dragoni. “Buon Dio, ma è Pallidar” esclamò Marlowe. “Che cosa sta facendo qua?” L'ufficiale rispose al saluto di marinai e granatieri e smontò da cavallo. Non aveva ancora notato Marlowe, tantomeno Babcott e Angélique. “Quei maledetti bastardi hanno cercato di sbarrarci la loro fottutissima strada, per Dio!” esordì. “Fortunatamente i figli di puttana hanno cambiato la loro stupida stramaledetta idea altrimenti adesso sarebbero concime per le margherite e...” Vide Angélique e ammutolì restando a bocca aperta. “Gesù Cristo! Oh, dico, io... Mi dispiace moltissimo, mademoiselle... ehm ... non mi ero reso conto che ci fossero delle signore... ehm, salve John ... Dottore.” Fu Marlowe a rispondere. “Salve Settry. Mademoiselle Angélique, vorrei presentarvi il volgare capitano dell'Ottavo Dragoni di Sua Maestà Settry Pallidar. Capitano, questa è la signorina Angélique Richaud.” Lei annuì freddamente e Pallidar s'inchinò con rigidità. “Sono... ehm... sono terribilmente dispiaciuto mademoiselle. Dottore, sono stato mandato qui a proteggere la Legazione in caso di evacuazione.” “L'ammiraglio ha già inviato noi allo stesso scopo” ribatté Marlowe irritato. “La marina.” “Puoi rimandarli indietro adesso che siamo arrivati.” “Vai... suggerisco che tu chieda nuovi ordini. Domani. Nel frattempo siccome sono l'ufficiale superiore prendo il comando. Dottore, se volete condurre la signora dal signor Struan ...” Babcott aveva osservato i due giovanotti misurarsi come due galli pronti a combattere. Si comportavano tra loro in modo amichevole ma dietro si nascondeva un'inimicizia mortale. Questi due giovani tori un giorno o l'altro si prenderanno a cornate, e Dio non voglia che l'oggetto della contesa sia una donna. “A più tardi.” Si allontanò prendendo sottobraccio Angélique. I due giovani li guardarono per qualche istante, poi Pallidar serrò la mascella. “Questa non è la coperta di una nave” sibilò, “è un lavoro per l'esercito, per Dio!” “Balle.” “Tu non hai né l'esperienza né il cervello necessari. Perché diavolo hai

portato qui una donna quando Dio solo sa cosa succederà?” “Perché il signor Struan è un uomo influente e ha chiesto di vederla, e perchè il dottore ritiene che la ragazza possa essere una buona medicina, e inoltre lei ha convinto l'ammiraglio, beninteso contro il mio parere, a darle il permesso di partire subito. E lui mi ha ordinato di scortarla qui e riportarla indietro sana e salva. Sergente Towery!” “Sissignore!” “Prendo il comando della situazione fino a nuovo ordine... mostra gli alloggi ai dragoni e offrì la nostra ospitalità. Puoi occuparti dei cavalli? C'è spazio per tutti?” “Sissignore, lo spazio abbonda. E' il rancio che lascia a desiderare.” “E' mai stato decente in questo buco dimenticato da Dio?” Marlowe gli fece cenno di avvicinarsi. “Passa parola” disse in tono minaccioso. “Niente risse, e se ne scoppia una ogni bastardo coinvolto si becca cento frustate... di chiunque si tratti!” Il bar del circolo di Yokohama, la sala più grande dell'Insediamento e quindi luogo deputato alle riunioni, era in pieno tumulto. L'affollava la popolazione dell'Insediamento al gran completo, fatta eccezione per quelli così ubriachi da non potersi reggere in piedi e i malati gravi, e vi risuonava una vera e propria babele di lingue. Molti dei presenti erano armati, alcuni agitavano il pugno coprendo di insulti un gruppetto di uomini ben vestiti i quali, seduti al tavolo sulla pedana sopraelevata all'estremità della sala, gridavano a loro volta. L'ammiraglio e il generale, alle spalle del gruppo, sembravano sul punto di avere un colpo apoplettico. “Dillo ancora, e per Dio ci vediamo fuori...” “All'inferno ci vai tu, bastardo...” “E' la guerra, Wullem deve...” “Deve tirare fuori l'esercito e la marina e bombardare Edo...” “Radere al suolo quella capitale di m...” “Canterbury dev'essere vendicato, Wullum deve ...” “Giusto, Willum è responsabile, John era mio amico...” “State tutti a sentire ...” Uno degli uomini seduti cominciò a battere il martelletto sul tavolo per chiedere silenzio, ma ottenne soltanto l'effetto di aizzare la folla: mercanti, affaristi, albergatori, giocatori d'azzardo, allevatori di cavalli, macellai, fantini, marinai, usurai e tutta la feccia del porto. Cappelli a cilindro, panciotti colorati, vestiti di lana e biancheria a vista, stivali di pelle, ricchi e poveri. L'aria era calda, stantia, fumosa e pesante dell'odore di corpi non lavati, di

birra vecchia, whisky, gin, rum e vino rovesciato. “Zitti, per l'amor di Dio, lasciate parlare Wullum...” L'uomo con il martelletto gridò: “Mi chiamo William, William... non Wullum o Willum o Willam! William Aylesbury, quante volte devo dirvelo? William!” “Giusto, lasciate parlare Willum, per l'amor di Dio!” Sir William Aylesbury, l'uomo con il martelletto sospirò. Era il ministro inglese in Giappone, nonché il membro più anziano del corpo diplomatico. Gli altri uomini presenti rappresentavano la Francia, la Russia, la Prussia e l'America. Perse la calma e fece un cenno a un giovane ufficiale in piedi dietro a un tavolo. Senza tergiversare, perchè evidentemente l'avevano già concertato, l'ufficiale estrasse un revolver e sparò un colpo in aria. Nel silenzio che seguì si sentì l'intonaco cadere dal soffitto. “Grazie. E ora” cominciò Sir William in tono sarcastico, “se questi gentiluomini staranno tranquilli per un attimo potremo procedere.” Era un uomo alto e robusto di circa cinquant'anni con un volto allungato e grandi orecchie a sventola. “Vi ripeto che siccome tutti voi subirete le conseguenze di quello che i miei colleghi e io stiamo per decidere, desideriamo discutere in pubblico le modalità di risposta all'incidente. Ma se voi non volete ascoltare un'opinione ragionevole, noi affronteremo la discussione in privato, e una volta deciso quello che succederà, verremo gentilmente a informarvene.” Il discorsetto fu accolto da qualche borbottio risentito ma non ci fu alcun segno di aperta ostilità. “Bene. Cosa stavate dicendo, signor McFay?” Jamie McFay si trovava in una delle prime file accanto a Dmitri, perchè in quanto capo della Struan, la più grande impresa commerciale dell'Asia, era il portavoce di quella categoria di mercanti i cui maggiori esponenti disponevano di flotte private costituite da velieri e legni mercantili. “Ecco... sappiamo che gli uomini di Satsuma pernottano a Hodogaya, pochi chilometri a settentrione, insieme al loro re” spiegò. “Si chiama Sajirro, o qualcosa del genere, e ritengo che noi dovremmo...” Qualcuno gridò: “Propongo di circondare quei bastardi questa notte stessa e di catturarli tutti!” Scrosciò un applauso che andò esaurendosi tra qualche imprecazione soffocata e qualche: “Per l'amor di Dio, andiamo avanti...”. “Vi prego di procedere, signor McFay” esclamò debolmente sir William. “Come negli altri casi l'attacco non è stato provocato; John Canterbury è stato vilmente massacrato e Dio solo sa quando Malcolm Struan potrà tornare a una vita normale.

Tuttavia questa è la prima volta che ci si presenta l'opportunità di identificare gli assassini, o perlomeno di farli identificare dal loro re che certamente dispone anche del potere di catturarli e consegnarceli, nonché di pagare i danni...” Altri applausi. “Si trovano poco lontano da qui, e con le truppe di cui disponiamo non dovrebbe essere difficile circondarli.” Grida di giubilo e richieste di vendetta. Henri Bonaparte Seratard, il ministro francese in Giappone, disse ad alta voce: “Potrei conoscere l'opinione di monsieur il generale e monsieur l'ammiraglio?”. La risposta dell'ammiraglio non si fece attendere: “Io dispongo di cinquecento marinai ...”. In tono cortese ma fermo il generale Thomas Ogilvy lo interruppe: “La faccenda richiede un'operazione terrestre, mio caro ammiraglio. Signor Ceraturd...”. Il generale, un uomo di cinquant'anni dal volto paonazzo e i capelli grigi, storpiò il nome del francese di proposito e utilizzò il “signor” per sottolineare lo sgarbo, “noi disponiamo d'un migliaio di soldati britannici, di due unità di cavalleria, di tre batterie di cannoni e artiglieria varia della più moderna e possiamo convocare altri otto o novemila fanti britannici e indiani di sostegno nel giro di due mesi facendoli arrivare dal nostro bastione di Hong Kong”. Giocherellò con una delle sue mostrine dorate. “Non sussiste alcun possibile ostacolo che le forze di Sua Maestà al mio comando non possano superare senza indugi.” “Ne convengo” ribatté l'ammiraglio fra l'approvazione generale. Quando le voci e gli applausi tacquero, Seratard chiese in un sussurro: “State sostenendo una dichiarazione di guerra?”. “Niente del genere, signore” rispose il generale contraccambiando tutta la disapprovazione che il francese aveva per lui. “Ritengo soltanto che possiamo fare ciò che è necessario, quando è necessario e se è necessario. A mio parere questo “incidente” è un problema che dovrebbe essere dibattuto e risolto dai rappresentanti di Sua Maestà britannica insieme all'ammiraglio e a me, con discrezione e lontani da questo sconveniente dibattito pubblico.” Qualcuno lanciò grida di approvazione, qualcuno protestò e qualcun altro non si trattenne dal dire: “Sono il nostro argento e le nostre tasse che vi mantengono tutti quanti, fannulloni; abbiamo anche noi il diritto di dire quello che pensiamo. Mai sentito nominare il Parlamento, per Dio?”. “Una suddita francese è stata coinvolta” precisò Seratard con impeto sovrastando il baccano, “perciò l'onore della Francia è in gioco.” Seguirono

fischi e lazzi sul conto della ragazza. Sir William ricorse un'altra volta al martelletto dando l'opportunità al ministro americano, Isiah Adamson, di commentare freddamente: “L'idea di entrare in guerra per l'incidente in questione è priva di senso, e l'ipotesi di circondare e attaccare un re nel suo stato sovrano è una totale pazzia nonché un tipico esempio di imperialismo arrogante e guerrafondaio! La prima cosa da fare è informare la Bakufu e chiedere dunque a loro di ...”. Sir William lo interruppe irritato. “Il dottor Babcott li ha già informati a Kanagawa, loro hanno già negato qualsiasi conoscenza dell'incidente ed è molto probabile che in futuro continueranno a mantenere lo stesso atteggiamento. Un suddito britannico è stato brutalmente assassinato, un altro gravemente ferito, la nostra deliziosa e giovane ospite straniera spaventata a morte e tutte queste gesta, devo sottolineare come già ha fatto il signor McFay con tanto giusto puntiglio, sono state commesse per la prima volta da criminali identificabili. Il governo di Sua Maestà non lascerà tale offesa impunita...” Per un istante fu zittito dalle grida tumultuose di consenso, poi riuscì ad aggiungere: “L'unica cosa da decidere qui è la severità della punizione, il modo in cui procedere e quando procedere. Signor Adamson, cosa ne pensate?”. “Poiché il mio paese non è coinvolto non ho richieste formali da avanzare” rispose l'americano. “Conte Zergeyev?” “Il mio parere formale” rispose il russo, è di precipitarsi su Hodogaya, raderla al suolo e fare a pezzi tutti i satsuma.” Il conte Zergeyev era un giovane uomo di trent'anni, forte, aristocratico e barbuto, capo della missione giapponese dello Zar Alessandro II. “Forza, impatto, ferocia e immediatezza sono le uniche qualità diplomatiche che i giapponesi possono capire. La mia nave sarà onorata di guidare l'attacco.” Seguì uno strano silenzio. Ero sicuro della tua risposta, pensò sir William. E non sono così sicuro che tu abbia torto. Ah Russia, splendida straordinaria Russia, quanto mi addolora la nostra inimicizia! Mai mi sono tanto divertito come a San Pietroburgo! Comunque non vi espanderete in queste acque, abbiamo fermato la vostra invasione delle isole Tsushima l'anno scorso e quest'anno vi impediremo di rubare Sakhalin. “Vi ringrazio, mio caro conte. Herr von Heimrich?” Il prussiano era più anziano del russo, e meno aitante. “Non ho opinioni personali sull'argomento Herr Console generale, ma ritengo di poter dichiarare ufficialmente che il mio governo considera questa questione di vostra esclusiva competenza e di nessun interesse per le

altre parti coinvolte.” Seratard arrossì. “Non ritengo che ...” “Signori, vi ringrazio per avermi fornito le vostre opinioni” disse Sir William ponendo fine a un'ostilità che si sarebbe potuta trasformare in una rissa. I dispacci inviati dal Foreign Office di Londra erano arrivati il giorno prima con la notizia che la Gran Bretagna era sul punto di essere coinvolta in un'altra interminabile guerra in Europa. Questa volta i due fronti opposti vedevano schierati la belligerante e orgogliosa Francia contro la belligerante, orgogliosa ed espansionista Prussia. E la Gran Bretagna ancora non sapeva da quale parte si sarebbe schierata. Io sia dannato se capisco perchè mai questi maledetti stranieri non sono capaci di comportarsi con un pò di civiltà. “Poiché sono presenti qui tutte le persone degne di nota, opportunità che si verifica oggi per la prima volta, prima di arrivare alla decisione credo sia necessario articolare i termini del problema: noi siamo vincolati da trattati stipulati legalmente con il Giappone; siamo qui per commerciare, non per conquistare dei territori; dobbiamo trattare con i loro burocrati, gli uomini della Bakufu, che non sono altro che spugne che un giorno si gonfiano fingendo onnipotenza e il giorno dopo sono del tutto inermi nei confronti del re; non siamo mai riusciti a raggiungere il vero potere, il tai-pan, o shògun, come lo chiamano qui, non sappiamo nemmeno se una simile persona esista veramente.” “Deve esistere” ribatté von Heimrich, “perchè il nostro illustre compatriota, il viaggiatore e medico dottor Engelbert Kaempfer che abitò a Deshima dal 1690 al 1693 fingendosi olandese, scrisse d'averlo incontrato a Edo in occasione del pellegrinaggio annuale.” “Ciò non prova che ne esista uno anche oggigiorno” ribatté Seratard caustico. “Tuttavia ritengo anch'io che uno shògun esista e la Francia è favorevole a un contatto diretto.” “Idea meritoria, monsieur.” Sir William era diventato paonazzo. “E come pensa di ottenerlo?” “Si manda la flotta contro Edo” s'intromise il russo, “chiedendo un'udienza immediata e minacciandoli, qualora non la volessero concedere, di distruggere la città. Se io disponessi di una flotta come la vostra innanzitutto raderei al suolo la città e poi domanderei udienza. Meglio ancora: ordinerei a questo indigeno tai-panshògun di venire a rapporto sulla mia nave ammiraglia domani all'alba e lo farei impiccare.” Grida di entusiasmo accolsero la sua affermazione. Sir William disse: “Questo sarebbe certamente un modo sbrigativo di risolvere la faccenda, ma ritengo che il governo di Sua Maestà preferirebbe

una soluzione più diplomatica. Inoltre noi siamo quasi completamente all'oscuro di ciò che succede nel paese, e a questo proposito sarei grato a tutti i mercanti che volessero aiutarci a ottenere informazioni utili. Signor McFay, a nome di tutti i mercanti: voi dovreste essere bene informato, ne sapete qualcosa?”. McFay rispose con cautela. “In effetti alcuni giorni or sono uno dei nostri fornitori giapponesi di seta ha raccontato al nostro compratore cinese che alcuni dei regni, lui ha usato la parola “feudi” e chiamato i re “daimyo”, erano in rivolta contro la Bakufu, in particolare il feudo di Satsuma e di altre zone come Tosa e Choshu.” Sir William notò l'interesse immediato degli altri diplomatici e si domandò se fosse stato saggio interrogare McFay in pubblico. “Dove sono questi regni?” “Satsuma è vicino a Nagasaki, nell'isola meridionale Kyúshú” rispose Adamson, “ma Choshu e Tosa dove sono?” “Be'... ecco, vostro onore” gridò un marinaio americano con un gradevole accento irlandese. “Tosa fa parte di Shikoku, che sarebbe la grande isola nel mare interno. Choshu è più lontano, a occidente, sull'isola principale, signor Adamson, oltre lo stretto. Lo abbiamo attraversato molte volte, in quel punto non è più grande di un miglio. Come stavo dicendo, Choshu è il regno oltre il punto più stretto, neanche un miglio. E' la rotta più veloce e sicura da Hong Kong e Shanghai. Lo stretto Shimonoseki, lo chiama la gente del posto, e una volta abbiamo cercato di comprare pesce e acqua in città ma non siamo stati ben accolti.” Altri confermarono di aver attraversato lo stretto senza sapere che appartenesse al feudo di Choshu. Sir William disse: “Come vi chiamate, marinaio?”. “Paddy O'Flaherty, nostromo della baleniera americana Albatross di Seattle, vostro onore.” “Vi ringrazio” rispose sir William ripromettendosi di mandare a chiamare O'Flaherty e scoprire di più su quella zona e, nel caso non esistessero carte nautiche, di ordinare subito alla Marina di disegnarle. “Continuate, signor McFay. In rivolta, ci stavate dicendo.” “Si, signore. Questo commerciante di seta sulla cui affidabilità non sono in grado di garantire dice che c'è una sorta di lotta per il potere contro il taipan che lui chiama shògun e che la Bakufu e alcuni re, i daimyo, chiamano Toranaga.” Sir William notò che il russo socchiudeva le palpebre imprimendo sul suo volto tratti ancora più asiatici. “Ebbene, mio caro conte?” “Nulla, Sir William. Ma non è questo il nome del sovrano menzionato da

Kaempfer?” “Lo è, lo è senz'altro.” Mi domando perchè tu non mi abbia mai detto di aver letto quei rari ma illuminanti diari scritti in tedesco, lingua che ufficialmente non conosci, pensò, diari che forse sono stati tradotti in russo. “Forse “toranaga” nella loro lingua significa sovrano. Vi prego di continuare, signor McFay.” “Questo è quanto il giapponese ha raccontato al mio compratore, ma mi incaricherò di scoprirne di più. Tornando a noi ...” riprese con cortesia ma anche con grande fermezza, “sistemiamo il re satsuma a Hodogaya questa notte oppure no?” Soltanto il fumo delle sigarette e dei sigari mosse il silenzio. “Qualcuno può dire ancora qualcosa... su questa presunta rivolta?” Norbert Greyforth, capo della Brock and Sons, la principale rivale della Struan, disse: “Alcune voci sono giunte anche a noi. Ma pensavo che la cosa riguardasse il loro sommo sacerdote, quel “mikado” che dovrebbe vivere a Kyòto, una città vicino a Osaka. Svolgerò anch'io qualche indagine. Nel frattempo, per quanto riguarda stanotte, voto la proposta di McFay perchè prima sistemeremo questi infami e prima avremo ristabilito la pace”. Greyforth detestava McFay. Quando gli applausi si spensero sir William parlò con la gravità di un giudice che emetta la sentenza. “Questo è quanto accadrà, innanzitutto stanotte non ci sarà alcun attacco e ...” Nella sala si levarono urla di: “Dimettiti, lo faremo noi per Dio, avanti, catturiamo quei bastardi ...”. “Non possiamo, non senza l'esercito ...” “Buoni, ascoltate, per Dio!” gridò sir William. “Se qualcuno è così stupido da attaccare Hodogaya stanotte dovrà rispondere alle nostre leggi oltre che a quelle giapponesi. VE LO VIETO! Domani domanderò formalmente, PRETENDERO', che la Bakufu e lo shògun porgano immediatamente le loro scuse formali, che ci consegnino immediatamente i due colpevoli affinché vengano giudicati e impiccati e che paghino immediatamente un indennizzo di centomila sterline oppure si preparino ad accettare le conseguenze del loro rifiuto.” Qualcuno applaudì ma la maggior parte si astenne, e la riunione terminò al bar. Si ubriacarono quasi tutti con il risultato di accendere ulteriormente gli animi. McFay e Dmitri riuscirono a superare la calca e a uscire all'aria aperta. “Mio Dio, così va meglio.” McFay si tolse il cappello e si asciugò la fronte.

“Posso dirti una parola, McFay?” Voltandosi McFay vide Greyforth. “Certamente.” “In privato, se non ti dispiace.” Pur infastidito, McFay accettò di incamminarsi con il rivale verso la passeggiata semideserta, lungo il mare e i moli e lontano da Dmitri che lavorava per Cooper Tillman, una compagnia americana. “Ebbene?” domandò. Norbert Greyforth entrò subito in argomento. “E Hodogaya? Voi avete due navi e noi tre e insieme disponiamo di un buon numero di attaccabrighe. La maggior parte degli uomini della flotta mercantile si unirà a noi, abbiamo armi a sufficienza e potremmo persino portarci un paio di cannoni, John Canterbury era un amico, il vecchio lo stimava e io vorrei vendicarlo. Che cosa ne pensi?” “Se Hodogaya fosse un porto non avrei esitazioni, ma non possiamo invadere la terra ferma. Questa non è la Cina.” “Hai paura di quelle mezze cartucce?” “Non ho paura di nessuno” rispose McFay misurando le parole. “Non possiamo organizzare un attacco senza truppe regolari e sperare nel successo dell'impresa Norbert, è escluso. Eppure io voglio la vendetta più di chiunque altro.” Greyforth si accertò che nessuno li stesse ascoltando. “Poiché hai introdotto l'argomento, e non mi capita spesso di parlare con te, volevo informarti che abbiamo sentito dire che presto qui scoppieranno dei grossi guai.” “La rivolta?” “Si. Guai molto grossi per noi. Ci sono già segnali d'ogni tipo. I nostri fornitori di seta da un paio di mesi si stanno comportando in modo sospetto. Alzano il prezzo del carico grezzo, tardano con le consegne, pagano in ritardo e chiedono continuamente credito. Scommetto che si sono comportati nello stesso modo anche i vostri.” “Si.” Succedeva di rado che i due uomini discutessero d'affari. “Non ne so molto di più ma è chiaro che i segnali sono gli stessi che in America hanno annunciato la guerra civile. Se qui succede la stessa cosa siamo fottuti per bene. Senza la flotta e le truppe siamo fregati e possono spazzarci via.” “Che cosa proponi?” “Di aspettare e vedere che cosa succede. E' chiaro che con il piano di zia Willie non andremo lontano. Il russo aveva ragione circa il da farsi. Nel frattempo...” Greyforth fece un cenno verso il mare dove due dei loro bastimenti erano

alla fonda. I velieri erano ancora il mezzo più veloce per tornare in Inghilterra, più veloci dei piroscafi a ruote o a elica. “Noi teniamo i libri mastri e il denaro contante a bordo, abbiamo incrementato le scorte di munizioni, piombo e shrapnel e fatto un'ordinazione per due dei nuovissimi fucili americani a ripetizione con dieci canne che arriveranno appena pronti.” McFay rise. “Al diavolo... anche noi li abbiamo ordinati.” “L'abbiamo saputo, è proprio per questo che ho fatto un ordine doppio del vostro.” “Chi te l'ha detto, eh? Chi è la spia?” “Un uccellino me l'ha detto” rispose Greyforth. “Stai a sentire. Sappiamo tutti che queste invenzioni insieme a quella delle cartucce metalliche hanno cambiato la guerra e ne abbiamo già avuto una prova nelle battaglie di Bull Run e di Fredericksburg.” “Impressionante, sì. Dmitri mi ha raccontato; mi ha detto che il Sud ha perso quattromila uomini in un solo pomeriggio. Terribile. Cosa dicevi?” “Entrambi potremmo vendere ai giapponesi casse su casse di queste armi. Ma la mia idea sarebbe di concordare tra noi di non venderle, e di fare in modo che nessun altro bastardo le importi o le contrabbandi. Vendere ai giapponesi navi a vapore e vecchi cannoni è una cosa, ma vendere fucili a ripetizione e mitragliatrici è un altro paio di maniche. Non sei d'accordo?” L'offerta sorprese e insospettì McFay. Era certo che Norbert non avrebbe mai mantenuto fede all'impegno che proponeva ma strinse ugualmente la mano che gli veniva offerta. “D'accordo.” “Bene. Quali sono le ultime notizie sul giovane Struan?” “Un'ora fa non era in buono stato.” “Morirà?” “No, il dottore mi ha assicurato di no.” Un sorriso freddo. “Che cosa diavolo ne sanno i dottori? Ma se morisse, la Nobil Casa potrebbe esserne distrutta.” “Niente potrà mai distruggere la Nobil Casa. Dirk Struan ha sistemato le cose in modo che non succeda.” “Non esserne così sicuro. Dirk è morto da più di vent'anni, suo figlio Culum sta per raggiungerlo e se Malcolm muore chi prenderà il suo posto? Certo non il secondogenito che ha soltanto dieci anni.” Nel suo sguardo scintillò una strana luce. “Il vecchio Brock ha settantatré anni ma è forte e intelligente come sempre.” “Ma noi restiamo sempre la Nobil Casa e Culum è ancora il tai-pan” ribatté McFay, e felice di poter fare una battuta aggiunse: “il vecchio Brock non è

ancora diventato socio del circolo di Happy Valley e non lo diventerà mai”. “Otterremo presto questo e altro ancora. Culum Struan non controllerà il voto del circolo ancora per molto, e se il figlio ed erede muore, contando i nostri amici avremo il numero necessario di voti.” “Non succederà mai.” Greyforth s'irrigidì. “Magari il vecchio Brock ci onorerà presto di una visita in compagnia di sir Morgan.” “Morgan è a Hong Kong?” McFay cercò di non sembrare troppo stupito. Sir Morgan Brock era il figlio maggiore del vecchio Brock e dirigeva con grande successo l'ufficio londinese. Per quanto ne sapeva Jamie, Morgan non era mai stato in Asia. Se è comparso all'improvviso a Hong Kong, a quale nuova diavoleria sono intenti quei due? si chiese provando un certo senso di disagio. Morgan era specializzato nel finanziare le operazioni di altri mercanti e aveva abilmente allungato i tentacoli della Brock in tutta l'Europa, in Russia e in Nordamerica cercando sempre di intralciare i commerci della Struan e di rubarle i clienti. Dall'inizio della guerra civile McFay e gli altri direttori della Struan avevano ricevuto preoccupanti rapporti sulle loro perdite nei vasti mercati americani sia al Nord che al Sud dove Culum Struan aveva investito molto. “Se il vecchio Brock e suo figlio ci allieteranno con la loro presenza senza dubbio avremo l'onore di offrir loro la cena.” Greyforth rise divertito. “Dubito che ne avranno il tempo. Forse dopo aver ispezionato i vostri libri, quando ci saremo impossessati di voi.” “Non ci riuscirete mai. Se otterrò altre informazioni sulla rivolta ve le comunicherò, e ti prego di fare lo stesso. Per ora buonanotte.” Con esagerata cortesia McFay alzò il cappello e si allontanò. Greyforth rise tra sé felice dei semi che aveva piantato. Il vecchio sarà lieto di raccoglierne i frutti personalmente, pensò, e di strapparne anche la radice. Il dottor Babcott percorse stancamente il corridoio semibuio della Legazione di Kanagawa. Portava una piccola lampada a olio e sopra il pigiama di lana indossava una vestaglia. Al pianterreno da qualche punto imprecisato un pendolo battè due colpi. Distrattamente estrasse dalla tasca l'orologio, sbadigliò, poi bussò a una porta. “Signorina Angélique?” Dopo un momento la voce assonnata della ragazza si fece sentire.

“Sì?” “Volevate sapere quando si svegliava il signor Struan?” “Oh, grazie.” Passò un altro momento e la porta si aprì. I capelli un pò scompigliati e gli occhi assonnati, la ragazza indossava una vestaglia sulla camicia da notte. “Come sta?” “Ancora un pò stordito” rispose Babcott precedendola lungo il corridoio e le scale fino alla zona della sala operatoria e l'infermeria. “La temperatura è alta e il battito cardiaco irregolare, ma ovviamente questo è normale. Gli ho dato un antidolorifico. Nel complesso è un uomo giovane e forte e tutto dovrebbe andare bene.” Angélique rimase scioccata dal pallore di Malcolm e la puzza che aleggiava nell'aria la disgustò. Non era mai stata prima in una sala operatoria o nella camera di un malato grave. Non possedeva altra conoscenza diretta della malattia oltre a quella letta sui giornali e le riviste parigine che dedicavano articoli alle epidemie e ai virus assassini: morbillo, vaiolo, tifo, colera, polmonite, meningite, tosse asinina, scarlattina, febbre puerperale e altre malattie che di tanto in tanto si abbattevano su Parigi, Lione e altre città. Sfiorò tremante la fronte di Malcolm, scostandogli i capelli madidi di sudore, ma l'odore che aleggiava intorno al letto la spinse a precipitarsi fuori. Nella stanza accanto Tyrer dormiva placidamente. Con grande sollievo, Angélique scoprì che non vi era cattivo odore. Notò che diversamente dal volto di Malcolm quello di Tyrer sembrava disteso. “Phillip mi ha salvato la vita, dottore” aveva raccontato Angélique a Babcott. “Dopo che il signor... Il signor Canterbury... io ero... ero paralizzata e Phillip, lui si è messo col suo cavallo davanti all'assassino per darmi il tempo di fuggire. Io ero, non posso descrivervi l'orrore. “Com'era l'uomo? Potreste riconoscerlo?” “Non so, era un indigeno come gli altri, giovane, ma non saprei, è difficile capire la loro età e poi era... era il primo che vedevo. Aveva un kimono con una spada corta infilata nella cintura e quella grande sguainata e tutta insanguinata pronta a...” Gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Babcott l'aveva calmata e dopo averla condotta nella sua stanza le aveva portato una tazza di tè al laudano promettendole che al risveglio di Struan l'avrebbe chiamata. E adesso è sveglio, pensò lei sentendo i piedi pesanti come il piombo e una grande nausea, la testa dolorante e popolata di spaventose immagini. Come vorrei non essere venuta qui, Henry Seratard me l'aveva detto di

aspettare fino a domani, e anche il capitano Marlowe era contrario, tutti, perchè mai ho implorato l'ammiraglio con tanto ardore? Non so, siamo soltanto amici noi due, non siamo innamorati né fidanzati né... O forse comincio ad amarlo? o ciò che mi spinge è una bravata, una finzione perchè tutta questa orrenda giornata assomiglia a un melodramma di Dumas, e l'incubo lungo la strada non era reale, non è reale l'Insediamento in fiamme, non è reale il messaggio di Malcolm che arriva al tramonto: “per favore vieni a farmi visita appena puoi” scritto dal dottore per lui, e io stessa non sono reale ma sto recitando la parte dell'eroina... Babcott si fermò. “Eccoci arrivati. Lo troverete piuttosto debole, mademoiselle. Entrerà con voi per accertarmi che tutto sia a posto e poi vi lascerò soli per un paio di minuti. Può darsi che perda i sensi a causa della droga ma non preoccupatevene, e se avete bisogno di me sarò qui accanto, nella sala operatoria. Non affaticate né lui né voi stessa e non pensate a niente, ricordate che anche voi avete avuto una giornata difficile.” Angélique si fece forza, si stampò un bel sorriso sul volto e seguì il dottore. “Ciao Malcolm, mon cher!” “Ciao.” Struan era molto pallido e sembrava invecchiato, ma i suoi occhi erano limpidi. Il dottore chiacchierò piacevolmente senza perderlo di vista un solo istante, gli sentì il polso, gli posò una mano sulla fronte e dopo aver annuito tra sé dichiarò che il paziente si stava comportando bene e se ne andò. “Come sei bella” disse Struan con la voce ormai ridotta a un filo. Si sentiva molto strano, in parte sospeso nel vuoto e in parte inchiodato al giaciglio di paglia intriso di sudore. Angélique si avvicinò. L'odore persisteva anche se non più forte come qualche ora prima, e cercò di fingere di non sentirlo. “Come stai? Mi dispiace tanto che tu sia stato ferito.” “Joss” rispose lui utilizzando la parola cinese per destino, fortuna, il volere degli dei. “Sei così bella.” “Ah, chéri, come vorrei che tutto ciò non fosse mai accaduto, che tu non avessi mai chiesto di venire a fare una passeggiata, che mai mi fosse venuto in mente di venire a vedere il Giappone.” “Joss. Oggi è... è il giorno dopo, vero?” “Si, l'attacco è stato ieri pomeriggio.” Sembrava che per il cervello di Malcolm fosse difficile tradurre le parole della ragazza in una forma comprensibile, e comporre parole e pronunciarle gli era impossibile.

Angélique si sentiva giunta al limite della resistenza. “Ieri? Una vita. Hai visto Philip?” “Sì, sì, l'ho visto prima ma dormiva. Lo rivedrò appena uscirò di qui, chéri. In effetti dovrei andare adesso, il dottore dice che non ti devo stancare.” “No, non ancora, te ne prego. Ascolta, Angélique, non so quando potrò, quando potrò viaggiare, perciò...” Chiuse gli occhi per un istante resistendo a una fitta di dolore che lo lasciò spossato. Quando riuscì a metterla di nuovo a fuoco lesse sul suo volto la paura e la fraintese. “Non preoccuparti, McFay provvederà a farti scor... scortare a Hong Kong, perciò ti prego di non preoccuparti.” “Grazie, Malcolm, penso che dovrei tornare, si, tornerò domani o dopodomani.” Notò il suo disappunto e subito aggiunse: “ovviamente anche tu starai meglio e potremo partire insieme e... ah si, Henri Seratard ti manda i suoi auguri...”. Smise di parlare allibita quando una fitta di dolore più intenso assalì Malcolm deformandogli il viso in una smorfia mentre cercava invano di resistergli e le sue viscere lottavano per eliminare il veleno dell'etere che sembrava permeare ogni poro della sua pelle e ogni cellula del suo corpo. Inutile: stomaco e ventre erano già stati ripetutamente svuotati, e a ogni spasmo la ferita sembrava lacerarsi e a ogni colpo di tosse lo strappo era più violento e l'unico risultato di tanta sofferenza era qualche goccia d'un liquido putrido. In preda al panico, Angélique si precipitò verso la porta per andare a chiamare il dottore. Si fermò ad armeggiare con la maniglia. “Va tutto bene Ange... Angélique” disse la voce che ormai non riconosceva più. “Resta un... momento ancora.” Malcolm vide l'orrore sul volto di Angélique e ancora una volta fraintese interpretandolo come inquietudine, profonda comprensione e amore. Non ebbe più paura e si lasciò ricadere all'indietro sul giaciglio per riacquistare le forze. “Mia cara, avevo sperato, avevo sperato tanto... ma tu sai che ti ho amato fin dal primo momento.” Lo spasmo gli aveva risucchiato tutte le forze ma la sicurezza di avere visto in lei proprio quello per cui aveva pregato gli dava una grande pace. “A quanto... a quanto pare non sono in grado di ragionare bene, ma volevo... vederti per dirti... Angélique, l'operazione e la medicina mi hanno terrorizzato, ho avuto paura di morire, di non risvegliarmi e di non vederti

mai più. Non ho mai avuto tanta paura, mai.” “Ne avrei avuta anch'io... oh, Malcolm, tutto questo è così atroce.” Aveva i sudori freddi, la testa le doleva e temeva di sentirsi male da un momento all'altro. “Il dottore mi ha assicurato... ha detto a tutti che presto starai bene!” “Adesso che so che mi ami non importa più, se morirò sarà destino e nella mia famiglia sappiamo che noi... noi non possiamo sfuggire al destino. Ma tu sei la mia buona stella, l'ho saputo fin dal primo momento. Ci sposeremo...” Le parole gli morirono in gola. Gli ronzavano le orecchie e aveva gli occhi velati, le palpebre erano tremanti sotto l'effetto della droga e scivolava in quella sorta di inferno dove il dolore viene trasformato in assenza di dolore. “Ci sposeremo in primavera...” “Malcolm, ascolta” aggiunse lei in fretta, “Tu non morirai e io... alors, devo essere onestà con te.” Poi le parole uscirono incontrollate. “Non voglio ancora sposarmi, non sono sicura di amarti, non sono sicura, dovrai avere pazienza, e comunque, che ti ami o no, penso che non potrò mai vivere in questo orribile posto né a Hong Kong, anzi so che non posso, non voglio, non posso, so che ne morirei, il pensiero di vivere in Asia mi fa orrore, la puzza, e questa orribile gente. Torno a Parigi appena posso, al luogo a cui appartengo e non tornerò mai, mai, mai.” Ma Malcolm non aveva sentito una sola parola. Sognava e mormorava senza vederla: ”... molti bambini, tu e io... sono così felice che tu mi ami... sono stregato, adesso... ho pregato tanto e potremo vivere per sempre nella Grande Casa sul Picco. Il tuo amore ha scacciato la paura, la paura della morte, l'eterna paura della morte sempre così vicina, i gemelli, Mary, la mia povera sorellina morta in così tenera età, mio fratello, mio padre quasi morto... Il nonno un'altra morte violenta ma ora... ora... tutto cambia... sposarsi in primavera. Sì?”. Aprì gli occhi. Per un istante la distinse chiaramente, e scorgendo il suo volto teso dal disgusto, le mani contratte, avrebbe voluto urlare: Che cosa c'è, per l'amor di Dio, questa è soltanto la camera di un malato. Certo le lenzuola sono intrise di sudore e un pò sporche di urina e feci e tutto puzza ma è perchè mi hanno tagliato, per l'amor del cielo, sono stato aperto e ricucito ma starò di nuovo bene... Tuttavia, nessuna di queste parole uscì dalla sua bocca e vide Angélique spalancare la porta e correre via. Ma ciò faceva soltanto parte dell'incubo, mentre i sogni belli si avvicinavano. Il rumore della porta che si richiudeva sui cardini echeggiò senza fine: di nuovo bene, di nuovo bene, di nuovo bene.

Appoggiata contro il cancello del giardino, Angélique annaspava in cerca dell'aria fresca notturna cercando di riprendere il controllo. Madre di Dio, dammi la forza e dai a quell'uomo un pò di pace e aiutami ad andarmene presto di qui. Babcott le si avvicinò. “Sta bene, non vi dovete preoccupare. Ecco, bevete” le disse con comprensione porgendole la bevanda a base di laudano. “Vi tranquillizzerà e vi aiuterà a dormire.” Angélique obbedì. Il liquido era insapore. “Sta dormendo tranquillo. Venite. Anche per voi è giunta l'ora di andare a letto.” L'aiutò a salire le scale e la riaccompagnò alla sua stanza. Davanti alla porta esitò: “Dormirete bene, ne sono sicuro”. “Ho paura per lui, molta paura.” “Non dovete. Domattina starà meglio, vedrete.” “Vi ringrazio, ora sto bene. Lui... io credo che Malcolm pensi d'essere in fin di vita. E' così?” “Certo che no, è un giovanotto robusto e sono sicuro che si rimetterà in un battibaleno.” Babcott ripeteva il luogo comune già detto centinaia di volte sapendo di mentire. Non lo so, non lo si può mai sapere, ebbe stato più vicino alla verità, adesso è nelle mani di Dio. Senza volerlo rabbrividì. “Buonanotte. E non temete.” “Grazie.” Angélique chiuse la porta con il chiavistello e andò alla finestra per aprire i pesanti battenti. La stanchezza l'avvolse. L'aria della sera era tiepida e dolce. La luna brillava alta nel cielo. Si sfilò la vestaglia asciugandosi debolmente il sudore e desiderando soltanto dormire. La camicia da notte era umida e le si era incollata alla pelle; avrebbe voluto cambiarla ma non ne aveva un'altra con sé. Sotto le sue finestre il grande giardino era popolato di mille ombre, c'erano alcuni alberi e un ponticello che attraversava un piccolo corso d'acqua. La brezza accarezzava le fronde più alte degli alberi. Nel chiaro di luna le ombre erano fitte. E di tanto in tanto qualcuna si muoveva.

Capitolo 5 † I due giovani videro Angélique non appena comparve sul cancello del giardino a quaranta metri di distanza. Avevano scelto con cura il luogo dell'agguato per poter controllare l'intero giardino e il cancello principale, il capanno delle guardie e le due sentinelle. All'improvviso si immersero più profondamente nell'oscurità del fogliame sbalorditi di vedere la ragazza della Tokaidò con le guance rigate di lacrime. “Che cosa sta succedendo...” sussurrò Shorin. Tacque. Una pattuglia composta da un sergente e due soldati, la prima a entrare nella loro trappola, superò l'angolo più lontano del territorio della Legazione avvicinandosi lungo il sentiero che costeggiava le mura. I due divennero statue; erano interamente ricoperti da indumenti che li fasciavano come una seconda pelle lasciando liberi soltanto gli occhi e rendendoli invisibili. La pattuglia passò a un metro e mezzo; i due shishi avrebbero potuto attaccarla e averne ragione. Shorin, il cacciatore, il combattente e capo in battaglia, aveva scelto il nascondiglio ma Ori, cui toccavano invece le decisioni e i piani, aveva deciso che avrebbero attaccato soltanto pattuglie composte da una o al massimo due persone, a meno che non vi fosse un'emergenza o qualcuno non cercasse di impedir loro di entrare nell'armeria. “Questa volta dobbiamo agire in silenzio” aveva detto “ed essere pazienti.” “Perchè?” “Questa è la loro Legazione e in base alla loro legge significa che siamo nella loro terra, sul loro territorio che è sorvegliato da veri soldati, perciò stiamo invadendo il suolo di un altro stato. Se la nostra missione riesce li avremo spaventati ben bene. Se ci prendono avremo fallito.” Dal nascondiglio osservarono i soldati allontanarsi apprezzando il modo silenzioso e attento con cui si muovevano. A disagio, Ori sussurrò: “Non ne abbiamo mai visti di questo genere... soldati così ben addestrati e disciplinati. In battaglia potremmo trovarci in difficoltà davanti a un grande schieramento di uomini come questi armati di fucili”. Shorin disse: “Vinceremo sempre noi, in un modo o nell'altro presto avremo i fucili e comunque il bushido e il nostro coraggio li schiaccerebbero. Possiamo sconfiggerli senza problemi”. Parlava con grande sicurezza. “Avremmo dovuto uccidere quei soldati e prendere le loro armi.”

Io invece sono contento che non l'abbiamo fatto, pensò Ori con profonda inquietudine. Il braccio gli faceva molto male e benché cercasse di simulare indifferenza sapeva che non avrebbe potuto sostenere a lungo un duello con la spada. “Se non fossimo stati vestiti così ci avrebbero visti.” Tornò a guardare la ragazza. “Avremmo, potuto ucciderli tutti e tre senza problemi, e impossessarci delle loro carabine e saltare dall'altra parte del muro.” “Questi sono uomini ben addestrati, Shorin, non ottusi mercanti.” Ori cercò come sempre di non avere un tono irritato per non offendere il suo amico né urtare il suo amor proprio. Avevano bisogno l'uno delle doti dell'altro, non aveva dimenticato che era stato Shorin a deviare il proiettile che sulla Tokaidò l'avrebbe ucciso. “Abbiamo tempo in abbondanza. Mancano ancora almeno due candele prima dell'alba.” Più o meno quattro ore. Indicò il cancello. “E comunque lei avrebbe dato l'allarme.” Shorin trattenne il respiro maledicendosi. “Che stupido! Che stupido sono... un'altra volta. Mi dispiace molto.” Ori guardò Angélique con attenzione: Che cosa c'è in quella donna che mi rende tanto nervoso, che mi affascina? si chiese. Poi videro comparire il gigante. Dalle informazioni raccolte alla locanda capirono che si trattava del famoso medico inglese capace di compiere miracoli per chiunque glielo chiedesse, indipendentemente dalla razza. Ori avrebbe pagato parecchio per sapere cosa stesse dicendo alla ragazza. La vide asciugarsi le lacrime, bere obbediente ciò che lui le porgeva e lasciarsi poi condurre all'interno. Ori mormorò: “E strano, il gigante e la donna”. Shorin gli lanciò un'occhiata perplessa. Quello che avvertiva lo rendeva nervoso, inoltre era ancora furente con se stesso per aver dimenticato l'esistenza della ragazza quando la pattuglia gli era passata accanto. Di Ori vedeva soltanto gli occhi che brillavano nell'oscurità e non riusciva a decifrarne lo sguardo. “Andiamo all'armeria” sussurrò con impazienza “oppure attacchiamo la prossima pattuglia, Ori.” “Aspetta!” Facendo molta attenzione a non compiere un movimento brusco che l'altro potesse notare Ori sollevò una mano guantata di nero più per alleviare il dolore nel braccio che per asciugarsi il sudore come cercava di far credere. “Katsumata ci ha raccomandato di avere pazienza e questa sera Hiraga ha

consigliato la stessa cosa.” Qualche ora prima, quand'erano arrivati alla Locanda dei Fiori di Mezzanotte vi avevano trovato Hiraga. Erano stati molto felici di vederlo perchè oltre a essere un amico, Hiraga era anche un rispettato capo degli shishi di Choshu. Le notizie del loro attacco ai quattro stranieri erano già arrivate anche alla locanda. “Siete stati di un tempismo perfetto, anche se non lo potevate sapere” disse Hiraga. Era un bel giovane di ventidue anni, straordinariamente alto per un giapponese. “Sarà come punzecchiare con un bastone il nido del calabrone di Yokohama. Adesso i gai-jin reagiranno e dovranno andare contro la Bakufu che non può e non vuole fare niente per assecondare le loro richieste. Se soltanto lanciassero una rappresaglia contro Edo! Se lo facessero e la distruggessero, quello sarebbe per noi il segnale della conquista delle Porte del palazzo! Con l'imperatore libero tutti i daimyo si ribellerebbero contro lo shògunato distruggendolo insieme a tutti i Toranaga. Sonno-joi!” Brindarono a sonno-joi e a Katsumata che aveva salvato loro la vita e insegnato quasi tutto quello che sapevano e aveva servito sonno-joi in segreto e con saggezza. Ori confidò a Hiraga il piano per rubare le armi. “E' una buona idea, Ori, e realizzabile” disse Hiraga pensieroso, “se sarete pazienti e aspetterete il momento giusto. Quelle armi potrebbero essere di grande utilità in alcune operazioni. Personalmente i fucili mi disgustano, preferisco garrotta, spada o pugnale perchè sono più sicuri, più silenziosi e molto più efficaci, chiunque sia la vittima, daimyo o barbaro. Posso aiutarvi. Posso disegnarvi una piantina e procurarvi dei vestiti da ninja.” Ori e Shorin si entusiasmarono. “Puoi procurarceli davvero?” “Certamente.” I ninja erano degli esperti assassini di una tong segretissima che agivano quasi esclusivamente di notte indossando speciali indumenti, neri che avevano contribuito ad alimentare la leggenda della loro invisibilità. “Una volta siamo stati sul punto di appiccare il fuoco all'edificio della Legazione.” Hiraga rise e vuotò un'altra bottiglietta di sakè, il liquore caldo che gli rendeva la lingua più sciolta del normale. “Poi abbiamo deciso di non farlo, che sarebbe stato molto più utile tenerlo sotto osservazione. Ci siamo andati spesso vestiti da giardinieri o di notte come ninja, è sorprendente quello che si può imparare anche con poco inglese.” “Hiraga-san, non sapevamo che parlassi inglese” disse Ori sbalordito dalla

scoperta. “Dove l'hai imparato?” “Da chi altri puoi imparare le cose dei gai-jin se non dai gai-jin stessi? Era un olandese di Deshima, un linguista che parlava giapponese, olandese e inglese. Mio nonno chiese al nostro daimyo l'autorizzazione per far venire quell'uomo da noi a Shimonoseki, a nostre spese, a insegnare l'olandese e l'inglese per un anno in via sperimentale. In cambio gli permisero di commerciare. Grazie” disse Hiraga quando Ori gli riempi la tazza. I gai-jin sono tutti così ingenui, e venerano il denaro in modo straordinario. Siamo arrivati al sesto anno dell'esperimento, e l'olandese commercia ancora soltanto nei prodotti che fanno comodo a noi, e quando vogliamo noi: fucili, cannoni, munizioni, proiettili e alcuni libri. “ “Come sta il tuo onorabile nonno?” “In ottima salute. Grazie dell'interessamento.” Hiraga s'inchinò e i due gli risposero con un inchino ancora più profondo. Che cosa meravigliosa avere un nonno simile, pensava Ori, una vera protezione per tutta la stirpe, non come noi che dobbiamo lottare per la sopravvivenza quotidiana, e abbiamo sempre fame e facciamo una disperata fatica a pagare le tasse. Cosa penseranno di me mio padre e mio nonno adesso che sono diventato un ronin, e la mia paga di un koku, così necessaria alla famiglia, è stata sospesa? “Sarei onorato d'incontrarlo” disse. “Il nostro shoya non è come lui.” Il nonno di Hiraga, un importante agricoltore con molti contadini al suo servizio che abitava nei pressi di Shimonoseki, era stato per molti anni un segreto sostenitore del sonno-joi ed era uno shoya. Lo shoya, capo di un villaggio o di un gruppo di villaggi per nomina o diritto ereditario, era un uomo dotato di grande influenza e poteri legali nonché l'unico autorizzato a stabilire l'ammontare delle tasse e a riscuoterle, ed era al tempo stesso anche l'unico intermediario e garante dei contadini e degli agricoltori contro le iniquità dei samurai feudatario al cui feudo appartenevano i villaggi. Per legge tutti gli agricoltori e in alcuni casi anche i contadini possedevano e lavoravano la terra ma non la potevano abbandonare. I samurai possedevano tutti i prodotti che dalla terra venivano ricavati ma la legge proibiva loro di possederla, e inoltre avevano il diritto di portare armi. Perciò gli uni dipendevano dagli altri, e la spirale di sospetto e sfiducia non aveva mai fine; l'equilibrio tra quanto riso o altri prodotti della terra dovessero essere restituiti annualmente per le tasse e quanto invece potesse essere trattenuto era sempre frutto di un delicato compromesso.

Lo shoya doveva mantenere quest'equilibrio. L'opinione degli shoya più autorevoli a volte veniva richiesta anche dal feudatario o persino dallo stesso daimyo. Il nonno di Hiraga era uno di questi shoya. Alcuni anni prima aveva acquisito lo status di samurai goshi per se stesso e per i suoi discendenti approfittando di una delle periodiche offerte del daimyo. Tutti i daimyo, quando si trovavano troppo oberati dai debiti, ricorrevano alla vendita del titolo di samurai a qualche degno supplicante. Hiraga rise, il liquore gli aveva dato alla testa. “Dopo essere stato scelto per questa scuola dell'olandese ho rimpianto molte volte l'onore perchè l'inglese è una lingua stupida e difficile.” “In quanti frequentavate la scuola?” chiese Ori. Nonostante i fumi del sakè scattò il campanello d'allarme, e Hiraga si rese conto che stava fornendo troppe informazioni riservate. Quanti studenti frequentassero la scuola di Choshu era affare segreto di Choshu, e benché apprezzasse e ammirasse Shorin e Ori, non poteva dimenticare che essi erano satsuma, dunque stranieri, non sempre alleati e spesso nemici, e comunque sempre nemici potenziali. “Solo in tre per imparare l'inglese” rispose a bassa voce come se confidasse un importante segreto. Il numero esatto era trenta. Sempre all'erta aggiunse: “Ascoltate, adesso che siete ronin come me e quasi tutti i miei compagni, dobbiamo lavorare insieme. Sto preparando un piano per un'azione che avrà luogo tra tre giorni e alla quale potreste prendere parte.” “Ti ringraziamo, ma dobbiamo aspettare gli ordini di Katsumata. “Ma certo, è il vostro capo.” Hiraga aggiunse pensieroso: “Tuttavia, Ori, non dimenticare che sei un ronin, e che sarai un ronin fino alla vittoria, non dimenticare che noi siamo l'avanguardia di sonno-joi, siamo coloro che agiscono, mentre Katsumata non rischia niente. Noi dobbiamo, dobbiamo assolutamente dimenticare che io sono choshu e voi due satsuma. Dobbiamo aiutarci l'un l'altro. Far seguire all'attacco sulla Tokaidò il furto di fucili è un'ottima idea. Uccidete un paio di guardie dentro la Legazione se vi riesce, sarà una bella provocazione! Se vi riuscisse di farlo in silenzio senza lasciare tracce sarebbe meglio. Qualsiasi cosa per provocarli”. Grazie alle informazioni ottenute da Hiraga, infiltrarsi nel tempio, contare i dragoni e trovare un nascondiglio adatto non era stato difficile.

Poi erano inaspettatamente comparsi la ragazza e il gigante che si erano ritirati dopo poco lasciandoli a fissare ipnotizzati il cancello del giardino. “Ori che cosa facciamo adesso?” chiese teso Shorin. “Ci atteniamo al piano.” I minuti trascorsero nell'ansia. Quando le imposte del primo piano si aprirono e videro Angélique alla finestra entrambi capirono che nel loro futuro era entrato un nuovo elemento. Si stava ravviando distrattamente i capelli con una spazzola dal manico d'argento. Le parole di Shorin suonarono gutturali: “Non sembra così brutto alla luce della luna, ma con quel seno mi stupisco che riesca a stare in equilibrio!”. Ori non rispose ma continuò a tenere gli occhi fissi su Angélique. All'improvviso lei esitò e guardò verso il basso, proprio nella loro direzione. Benché non vi fosse alcuna possibilità che li avesse visti o sentiti, entrambi ebbero l'impressione che il loro cuore si fermasse. Aspettarono con il respiro affannoso. Un altro sbadiglio. Riprese i spazzolare i capelli, poi appoggiò la spazzola sul davanzale e sembrò così vicina che Ori credette di poter allungare una mano e toccarla. La luce nella stanza gli permetteva di vedere i delicati ricami sulla camicia da notte, i capezzoli sotto la stoffa, e l'espressione inquieta che aveva già avuto occasione di osservare il giorno prima. Era passato soltanto un giorno? Era stata proprio quell'espressione a fermare il colpo di spada fatale. Un'ultima strana occhiata alla luna, un altro sbadiglio e poi Angélique chiuse le imposte. Ma non le sbarrò. Shorin ruppe il silenzio dando voce ai pensieri di entrambi. “Arrampicarsi non sarebbe difficile.” “Si, ma siamo venuti qui per i fucili e per creare scompiglio. Noi...” Ori s'interruppe mentre la sua mente scivolava nell'attrazione improvvisa di un nuovo e magnifico diversivo, un'altra possibilità persino più grandiosa della prima. “Shorin” sussurrò, “se tu le impedissi di gridare, se tu la violentassi senza ucciderla, lasciandola svenuta ma in grado di raccontare l'accaduto dopo qualche ora, lasciandole un segno che ci colleghi alla Tokaidò, poi potremmo uccidere insieme uno o due soldati e sparire, con o senza i fucili... non sarebbe sufficiente aver fatto tutto ciò dentro la loro Legazione per farli impazzire di rabbia?” Shorin si lasciò sfuggire un fischio di ammirazione soffocato. “Sì, sì, basterebbe, ma sarebbe meglio tagliarle la gola e scrivere Tokaidò con il suo sangue. Va' tu, io sto a guardarti le spalle.”

E quando Ori lo guardò con incertezza aggiunse: “Katsumata ha detto che abbiamo fatto male a esitare. L'ultima volta hai esitato. Perché ripetere l'errore?”. Decisero in una frazione di secondo; Ori stava già correndo verso l'edificio, un'ombra tra le tante. Cominciò ad arrampicarsi. Fuori dal capanno delle guardie uno dei soldati disse a bassa voce: “Non girarti Charlie, ma penso di aver visto qualcuno correre verso la casa”. “Cristo, cerchiamo il sergente, attento.” Il soldato finse di stiracchiarsi ed entrò silenzioso nel capanno. Senza perdere tempo svegliò il sergente Towery e gli raccontò quello che aveva visto o meglio, che pensava di aver visto. “Che aspetto aveva quel delinquente?” “Ho soltanto notato un movimento, sergente, o almeno mi sembra, non ne sono sicuro, poteva trattarsi di un'ombra.” “D'accordo, andiamo a dare un'occhiata.” Il sergente Towery svegliò il caporale e un altro soldato e li mandò a sostituire le sentinelle, che l'avrebbero accompagnato in giardino. “Era più o meno là, sergente.” Shorin li vide arrivare. Non poteva fare più niente per mettere in guardia Ori ormai sotto la finestra, ma abbastanza ben mimetizzato dagli indumenti e dalle ombre. Lo osservò raggiungere il davanzale, aprire uno dei due battenti delle imposte e svanire all'interno. Vide che la finestra veniva lentamente richiusa. Calma, pensò, e tornò a occuparsi dell'immediato. Fermo in mezzo al sentiero il sergente Towery stava illuminando i cespugli e la facciata del palazzo. Molte delle imposte erano aperte e sentirne una scricchiolare al vento non lo preoccupò. Il cancello del giardino era chiuso. Infine disse: “Charlie, tu vai da quella parte”. Indicò un punto a pochi passi dal nascondiglio di Shorin. “Nogger, tu vai dall'altra parte. Scovateli se sono nascosti qui! Tenete gli occhi aperti. Baionette pronte!” I soldati obbedirono. Shorin sguainò la spada annerita per l'incursione notturna e si preparò in posizione d'attacco, la gola stretta. Scivolato nella stanza Ori controllò l'unica porta esistente e vide che era sbarrata. La ragazza dormiva profondamente.

Sguainò il tanto, un'arma corta quanto un pugnale, e si diresse verso il letto. Vedeva per la prima volta un letto a quattro colonne e gli sembrò un oggetto molto strano, alto e pesante, con colonne, tende, lenzuola. Per un secondo si chiese che impressione gli avrebbe fatto dormire tanto lontano dalla terra; era così diverso dal letto giapponese fatto di futon, dei materassi di paglia leggeri stesi la notte e arrotolati per essere riposti in un angolo durante il giorno. Il suo cuore batteva all'impazzata ma cercò di non ansimare perchè non voleva svegliarla. Ignorava che fosse sotto l'effetto di una droga forte. Lampade e candele erano spente ma la luce della luna che filtrava dalle imposte gli permetteva di vedere i lunghi capelli chiari della ragazza sciolti sulle spalle e le curve del seno e dei fianchi sotto il lenzuolo. Il profumo che aleggiava intorno a lei lo stordiva. Poi sentì lo scatto delle baionette che venivano innestate e voci soffocate dal giardino. Per un istante restò pietrificato. D'impulso tese il pugnale per ucciderla. Angélique rimase immobile. Continuava a respirare regolarmente. Ori esitò, poi si avvicinò silenzioso alla finestra e guardò fuori. Vide i soldati. Mi hanno visto? Hanno notato Shorin? Era in preda al panico. Se mi hanno visto sono in trappola, ma non importa perchè posso portare a termine il compito per cui sono venuto... e poi magari se ne vanno. Ho due vie d'uscita, la porta e la finestra. Pazienza, raccomanda sempre Katsumata. Usa il cervello, aspetta con calma, poi colpisci senza esitare e scappa quando arriva il momento, e prima o dopo il momento arriva sempre. La sorpresa è la tua arma migliore. Sentì una morsa allo stomaco. Uno dei soldati si stava dirigendo verso il loro nascondiglio. Dalla stanza non riusciva a distinguere Shorin tra le fronde. Attese col fiato sospeso di vedere quello che sarebbe accaduto; c'era pur sempre la possibilità che Shorin riuscisse a farli fuori. Qualsiasi cosa succeda, lei morirà. Shorin guardò i soldati avvicinarsi cercando disperatamente di immaginare una via di fuga da quella trappola e maledicendo Ori. Devono averlo visto! Se io ammazzo questo cane non ho nessuna possibilità di arrivare agli altri due prima che mi sparino. E non posso arrivare al muro senza essere visto. E' stato stupido da parte di Ori modificare il piano, certo che l'hanno visto,

gliel'avevo detto che quella donna portava guai... avrebbe dovuto ammazzarla sulla strada... forse questo barbaro sbaglierà il colpo e mi darà abbastanza tempo per correre fino al muro. La luce della luna scintillò sulla lunga baionetta mentre il soldato l'affondava con calma tra le foglie spostando qui e là i rami dei cespugli per vedere meglio. Si faceva sempre più vicino. Due metri, un metro e mezzo, un metro, cinquanta centimetri... Shorin restò immobile, la maschera sul volto gli nascondeva anche gli occhi. Trattenne il respiro. Il soldato gli passò accanto, lo superò, si fermò e dopo pochi passi riaffondò la baionetta nel fogliame, poi riprese il cammino e Shorin ricominciò a respirare. Sentiva il sudore scorrergli lungo la schiena: sapeva di essere salvo, ormai, e che dopo qualche attimo sarebbe stato al sicuro dall'altra parte del muro. Dal punto in cui si trovava, il sergente Towery poteva vedere entrambi i soldati. Impugnava un fucile carico e si chiedeva se dare l'allarme o aspettare ancora. Era una bella notte con una brezza leggera e una luna luminosa. Facile immaginare che le ombre fossero dei nemici in quel dannato posto, pensò. Cristo, come vorrei essere nella mia vecchia Londra. “'Sera, sergente Towery, che succede?” “Buonasera signore.” Towery salutò. Era l'ufficiale dei Dragoni, Pallidar. Raccontò quello che sapeva. “Può darsi che fosse un'ombra, ma meglio controllare.” “Procuriamoci altri uomini e accertiamocene.” In quel momento il giovane soldato vicino al nascondiglio di Shorin si girò su se stesso puntando l'arma. “Sergente!” gridò eccitato e spaventato. “Il bastardo è qui!” Shorin si era già lanciato all'attacco brandendo la spada assassina, ma il soldato, addestrato, ebbe la meglio e la baionetta tenne Shorin a bada mentre gli altri si avvicinavano. Pallidar impugnò il revolver. Ancora una volta Shorin cercò di attaccare ma fu bloccato dalla punta della baionetta. Poi fuggì con uno scarto laterale correndo verso il muro attraverso il fogliame. Il giovane soldato lo rincorse. “Attentooo!” gridò Towery quando vide il giovane lanciarsi nel sottobosco. Ma il soldato ignorò l'avvertimento e morì con il tanto affondato nel petto. Shorin lo estrasse subito dal corpo dell'inglese ormai certo di non avere via di scampo.

Già sentiva gli altri addosso. “Nainu Amida Butsu” nel nome del Budda Amida, ansimò nella paura raccomandando lo spirito a Budda, gridò “Sonno-joi!” non per avvisare Ori ma per affermare se stesso al mondo per l'ultima volta. Poi con forza disperata si affondò il pugnale nella gola. Ori aveva visto tutta la scena ma non l'epilogo. Al grido del soldato si era precipitato verso il letto, certo che Angélique si fosse svegliata di soprassalto. Invece lei non si era mossa, e il ritmo calmo del suo respiro non era cambiato. Ori restò a guardarla sbalordito con le ginocchia tremanti aspettandosi di vederla almeno aprire gli occhi, immaginandosi un tranello. Voleva che lei lo vedesse e vedesse il suo pugnale, prima di usarlo. Poi sentì il grido sonno-joi e capì che Shorin era andato fino in fondo. Altri rumori seguirono. Angélique continuava a restare immobile. Ori digrignò i denti, il respiro soffocato. Non potendo più sopportare quella tensione le diede un brusco scossone col braccio ferito. Ignorando il dolore le appoggiò con l'altra mano il pugnale alla gola preparandosi a soffocare il suo grido. Angélique continuava a restare immobile. A Ori sembrava un sogno: si guardò scuoterla ancora senza risultato, poi all'improvviso ricordò che il dottore le aveva dato qualcosa da bere e pensò: Ha preso una di quelle droghe, le nuove droghe occidentali di cui ci ha parlato Hiraga, e trattenne il fiato cercando di assimilare la nuova scoperta. Per accertarsene la scosse un'altra volta ma lei si limitò a mormorare qualcosa e ad appoggiare una guancia sul cuscino. Tornò alla finestra. Alcuni uomini stavano portando il corpo del soldato fuori dagli arbusti. Poi li vide trascinare Shorin per un piede come fosse la carcassa di un animale. Adesso i due corpi erano adagiati uno accanto all'altro sulla terra, stranamente simili nella morte. Altri uomini arrivarono e sentì qualcuno gridare dalle finestre. Un ufficiale si fermò accanto al corpo di Shorin e gli sfilò la maschera che copriva il volto. Gli occhi di Shorin erano ancora aperti, i tratti del volto distorti, l'impugnatura del tanto sporgeva dal collo. Altre voci e altri uomini sopraggiunsero. Movimenti dentro la casa e nel corridoio. La tensione di Ori aumentò ancora. Per la decima volta si accertò che il chiavistello fosse al suo posto e che la

porta non potesse essere aperta dall'esterno poi si nascose dietro la tenda del baldacchino in un punto da cui poteva uccidere la ragazza con un solo gesto. Sentì dei passi. Qualcuno bussò alla porta. Bagliori di luce di una lampada a olio o di una candela. Colpi più forti e voci concitate. Preparò il pugnale. “Mademoiselle, state bene?” Era Babcott. “Mademoiselle!” gridò Marlowe. “Aprite la porta!” Altri colpi, ancora più forti. “E il sonnifero che le ho dato. Era molto agitata e aveva bisogno di sonno. Dubito che riusciremo a svegliarla.” “Se non si sveglia dovrò abbattere la porta per controllare. Ha le imposte aperte, per Dio!” Altri pesanti colpi sulla porta. Angélique socchiuse gli occhi. “Que se passet il? Che cosa c'è?” borbottò semiaddormentata. “State bene? Tout va bien?” “Bien? Moi? Bien sur, pourquoi? Quarrivet il?” “Aprite la porta un istante. Ouvrez la porte, s'il vous plait, c'est moi, il capitano Marlowe.” Disorientata, Angélique si mise seduta sul letto. Incapace di credere ai propri occhi, Ori osservò se stesso consentirle di scivolare giù dal letto e barcollare fino alla porta. Le ci volle qualche tempo per scostare il chiavistello e socchiudere il battente a cui si tenne aggrappata per non perdere l'equilibrio. Babcott, Marlowe e un soldato reggevano delle candele le cui fiamme oscillavano nella corrente d'aria del corridoio. La guardarono con occhi sbarrati, la sua camicia da notte era molto francese, molto sottile e trasparente. “Noi ... ehm ... noi volevamo solo sapere se stavate bene, mademoiselle. Noi ... ehm ... noi abbiamo catturato un uomo in giardino” spiegò Babcott precipitosamente, “niente di preoccupante.” Era molto probabile che Angélique non capisse nemmeno quello che le stava dicendo. Marlowe si impose di distogliere lo sguardo dal corpo della ragazza e gettò un'occhiata nella stanza. “Excusez moi mademoiselle, s'il vous plait” disse imbarazzato ma con accento passabile, e la superò per l'ispezione. Niente sotto il letto eccetto un vaso da notte. Le tende dietro il letto da questa parte non nascondevano niente... Cristo che donna! Non c'erano altri nascondigli possibili, niente porte né armadi.

Le imposte scricchiolarono nel vento. Le spalancò. “Pallidar! Nient'altro laggiù?” “No” gridò Pallidar di rimando. “Nessuna traccia di altri giapponesi. E' probabile che fosse solo e che il soldato l'abbia visto mentre gironzolava qui intorno. Comunque controllate tutte le stanze da questa parte!” Marlowe annuì imprecando tra sé e borbottò: “Cosa diavolo credi che stia facendo?”. Dietro di lui le tende del letto si mossero nella brezza leggera scoprendo i piedi di Ori calzati nelle tabi nere, le scarpe calze giapponesi. La candela di Marlowe sgocciolò e si spense, e quando ebbe risistemato la sbarra delle finestre si girò senza notare le tabi nell'ombra scura accanto al letto. Vide solo la silhouette di Angélique in piedi semiaddormentata, sulla soglia illuminata dalle candele. Poteva vedere ogni centimetro del suo corpo ed era una visione mozzafiato. “Tutto a posto” disse ancora più imbarazzato di prima per aver goduto della sua bellezza mentre lei non si poteva sottrarre. Uscì con passo svelto. “Chiudete la porta per favore e... ehm... dormite bene” disse con il solo desiderio di fermarsi in quella stanza. Sempre più disorientata Angélique richiuse la porta mormorando qualcosa. Gli uomini nel corridoio aspettarono fino a quando non sentirono il rumore del chiavistello che entrava nella sua guida. Babcott commentò: “Secondo me domani non si ricorderà nemmeno di aver aperto la porta”. Il soldato si asciugò il sudore, vide che Marlowe lo stava osservando e non poté trattenere una smorfia di derisione. “Cosa ti fa tanto ridere?” gli chiese Marlowe pur conoscendo la risposta. “Io, signore? Niente, signore” rispose subito il giovane cancellando il sorriso e sostituendolo con un'aria innocente. Gli ufficiali sono tutti uguali, pensò stancamente. Marlowe è come tutti noi, aveva gli occhi fuori dalle orbite e quasi se la mangiava coi riccioli e tutto, compreso quello che c'era sotto e i più bei respingenti che avessi mai sperato di vedere! I ragazzi non ci crederanno quando glieli descriverò. “Sissignore, sicuro signore” disse con aria virtuosa appena Marlowe gli chiese di non raccontare niente di ciò che avevano visto. “Giusto signore, niente signore, non una parola da me, signore” lo rassicurò seguendolo nella stanza accanto ma lasciando i suoi pensieri con lei.

Appoggiata alla porta, Angélique cercò di raccapezzarsi sull'accaduto ma trovava molte difficoltà. Un uomo nel giardino, quale giardino poi, ma Malcolm era nel giardino della Grande Casa, no è al pianterreno ferito, no, quello è un sogno, mi ha detto qualcosa a proposito di vivere nella Grande Casa e sposarsi... Malcolm era... era lui che mi toccava, no, mi ha detto che sarebbe morto. Che sciocco, il dottore dice che sta bene, tutti dicono bene, ma bene perchè? Perché non benissimo, eccellente o come dev'essere? Perché? Rinunciò a capire, era troppo assonnata per districarsi tra tutti quei pensieri. La luna brillava tra le listerelle delle imposte, e barcollando Angélique arrivò fino al letto dove si lasciò felicemente cadere sul soffice materasso. Con un lungo sospiro di soddisfazione si coprì con un lenzuolo e si girò su un fianco. Dopo pochi secondi dormiva di nuovo profondamente. Silenzioso Ori scivolò fuori dal nascondiglio. Non poteva credere d'essere ancora vivo. Benché fosse rimasto immobile schiacciato contro il muro insieme alle sue spade, qualsiasi ispezione accurata l'avrebbe scoperto. Vide che la porta era di nuovo sbarrata, le imposte chiuse, la ragazza addormentata con un respiro pesante e regolare, un braccio sotto il cuscino e l'altro abbandonato sul lenzuolo. Bene. Lei può aspettare, pensò. Innanzitutto, come esco da questa trappola? Dalla finestra o dalla porta? Non riuscendo a vedere dalle fessure spostò la sbarra e socchiuse delicatamente i due battenti. Nel giardino si aggiravano ancora i soldati. Mancavano almeno tre ore all'alba. Le nubi si stavano accumulando intorno alla luna. Il corpo di Shorin giaceva scomposto sul sentiero come si trattasse di un animale. Per un istante fu sorpreso di vedere che non era stato decapitato, poi ricordò che non era consuetudine dei gai-jin prendere le teste come trofeo o per contare i nemici abbattuti. Difficile scappare da quella parte senza essere visto. Se non allentano la vigilanza dovrò aprire la porta e provare dall'interno. Questo significa lasciare la porta aperta. Meglio dalla finestra. Scrutò con attenzione e vide un piccolo cornicione che correva lungo l'intero edificio poco sotto le finestre; la stanza di Angélique faceva angolo. L'eccitazione crebbe. Ben presto le nubi copriranno la luna. Scapperò allora. Scapperò!

Sonno-joi! Adesso occupiamoci di lei. Senza far rumore richiuse le imposte lasciando uno spiraglio e tornò verso il letto. La lunga spada, la katana, era ancora nel fodero. La depose sul copriletto di seta bianca gualcito. Bianco, pensò. Lenzuola bianche, carne bianca, bianco è il colore della morte. Adatto. Perfetto per scriverci sopra. Cosa avrebbe scritto? Il suo nome? Con calma scostò il lenzuolo dal corpo di Angélique. La camicia da notte era al di là della sua immaginazione, un oggetto completamente nuovo, disegnato per nascondere tutto e niente. I fianchi e il petto erano così grandi paragonati a quelli delle poche donne con cui aveva condiviso il letto, e le gambe lunghe e diritte non avevano l'elegante curva delle giapponesi sempre sedute sulle ginocchia. Ancora una volta il suo profumo. Mentre la esaminava si sentì risvegliare. Con le altre era stato diverso. Minima eccitazione, molti convenevoli e grande professionalità. Accoppiamenti consumati in fretta e spesso tra i fumi del sakè per nascondere l'età delle donne. Adesso c'era tutto il tempo che voleva. Lei era giovane e lontana dal suo mondo. L'eccitazione aumentò, divenne quasi dolorosa. Il vento faceva scricchiolare le imposte ma da li non poteva venire alcun pericolo, né dalla casa. Tutto era tranquillo. Angélique era sdraiata su un fianco. Un'abile e delicata spintarella, un'altra, e ubbidiente lei fu supina, il capo reclinato comodamente, i capelli come una cascata. Un sospiro profondo nell'abbraccio del materasso. Una piccola croce d'oro al collo. Ori si chinò e appoggiò la punta del pugnale affilato sotto il pizzo delicato dello scollo, lo sollevò leggermente e premette tutta la lunghezza della lama contro il tessuto teso. La stoffa si lacerò ricadendo sui lati. Ori non aveva mai visto una donna così svelata. Né così abbandonata. Mai si era sentito tanto eccitato. La piccola croce brillò. Nel sonno Angélique mosse una mano e se l'appoggiò tra le gambe con un gesto tranquillo. Ori le spostò la mano, poi le sollevò una caviglia per divaricarle le gambe. Con delicatezza.

Capitolo 6 † Angélique si svegliò poco prima dell'alba. Ma non del tutto. Era ancora sotto l'effetto della droga, sotto l'effetto dei sogni, di strani sogni violenti, erotici e dolorosi, sensuali e spaventosi, mai vissuti prima con tanta intensità. Il cielo rosso a oriente occhieggiava dalle imposte, e le nuvole avevano forme suggestive e inquietanti che sembravano intonarsi al suo stato d'animo. Si sporse per vederle meglio e sentì un leggero dolore ai lombi. Non vi prestò attenzione e lasciò vagare invece lo sguardo sui disegni nel cielo permettendo alla mente di scivolare ancora in quei sogni irresistibili. Nel dormiveglia si rese conto d'essere nuda. Si strinse la camicia da notte intorno al corpo con un gesto languido e si coprì col lenzuolo. Si addormentò. Ori, appena uscito dalle coltri calde, era in piedi accanto al letto. I suoi abiti da ninja giacevano sul pavimento insieme al perizoma. Guardò Angélique per l'ultima volta. Che tristezza, pensò, gli addii sono così tristi. Poi prese il pugnale dal pavimento. Al pianterreno Phillip Tyrer aprì gli occhi in un ambiente poco familiare e gli ci volle qualche momento per rendersi conto che si trovava nel tempio di Kanagawa, che il giorno prima era stato terribile, l'operazione orrenda e il ruolo da lui svolto decisamente deprecabile. “Babcott ha detto che ero in stato di shock” mormorò tra sé con la bocca arida. “Basterà questo a scusarmi?” Il vento muoveva le imposte accostate della finestra. Poteva vedere la luce dell'alba. “Rosso di mattina...” ci sarà un temporale? si chiese, poi sedette sulla branda da campo e controllò la fasciatura al braccio. Era pulita: nessuna macchia di sangue fresco. Provò un grande sollievo. A parte il mal di testa e qualche graffio superficiale si sentiva di nuovo tutt'intero. “Oddio, come vorrei essermi comportato meglio.” Fece uno sforzo per ricordare la fase post operatoria ma i ricordi erano confusi.

So di aver pianto, ma non mi sembrava nemmeno di piangere, le lacrime scorrevano da sole. Con un grande sforzo respinse quei pensieri tetri. Scese dal letto e spalancò le finestre con la piacevole sensazione d'essere ben saldo sulle gambe e piuttosto affamato. Si spruzzò sul viso dell'acqua contenuta in una brocca accanto alla finestra e dopo essersi sciacquato la bocca sputò sulle foglie del giardino. Si sentiva un pò meglio. Il giardino era deserto e nell'aria aleggiava l'odore della vegetazione marcescente e della bassa marea. Dal punto in cui si trovava riusciva a vedere una parte delle mura del tempio e poco più. Attraverso una piccola radura tra gli alberi intravvide un angolo del capanno delle sentinelle. A quel punto notò di essere stato messo a dormire con la camicia e i mutandoni di lana. Il soprabito lacero e macchiato di sangue era stato gettato insieme ai pantaloni su una sedia e gli stivali inzaccherati di fango erano poco lontani. Poco male per il vestito rovinato, si disse, sono fortunato a essere vivo. Cominciò a vestirsi. E Struan? E Babcott... Presto dovrò affrontarlo. Non poteva radersi perchè nessuno aveva pensato di lasciare un rasoio, non c'era nemmeno un pettine. Poco male anche per questo. Si infilò gli stivali. Sentiva gli uccellini cantare in giardino, qualcuno che si muoveva, alcune grida lontane, forse in giapponese, e cani che abbaiavano. Ma nessun suono di città normale, di città inglese. Nessun grido mattutino come “caldi appena sfornati...” o “fresche di giornata...”, “ostriche di Colchester pescate stamattina buon prezzo alla dozzina” “l'ultimo capitolo dell'ultimissimo romanzo del signor Dickens, un penny, soltanto un penny” oppure ancora “il “Times”, il “Times”, tutto sullo scandalo Disraeli, leggete i particolari...” Verrò licenziato? L'ipotesi di dover tornare a casa coperto d'ignominia, a raccontare della magra figura, del fallimento, d'essere licenziato ed espulso per sempre dall'illustre Foreign Office di Sua Maestà britannica, rappresentante del più grande Impero mai visto sulla terra. Che cosa penserà di me Sir William? E' lei che cosa penserà? Angélique? Grazie a Dio è in salvo a Yokohama... mi rivolgerà ancora la parola quando saprà? Oddio, che cosa devo fare?

Anche Malcolm Struan era sveglio. Alcuni momenti prima aveva reagito a una sensazione di pericolo, un rumore dall'esterno che l'aveva svegliato. Gli sembrava di essere sveglio da ore. Giacque immobile sul lettino da campo, consapevole della giornata e dell'intervento e di essere stato gravemente ferito e di avere molte possibilità di morire. Ogni respiro gli procurava un dolore acuto e violento. Anche il minimo gesto lo faceva soffrire. Ma non penserò al dolore, penserò soltanto ad Angélique e al fatto che mi ama e... e quei brutti sogni? I sogni in cui lei mi odiava e scappava lontano? Odio sognare e perdere il controllo della situazione, odio quest'immobilità. Io sono sempre stato forte, e cresciuto all'ombra del mio eroe, il grande Dirk Struan, demone con gli Occhiverdi. Oh, quanto mi piacerebbe avere gli occhi verdi ed essere forte come lui. E' il mio modello e io sarà bravo come lui, lo prometto. Tyler Brock ci sta alle costole come al solito. E' il nostro peggior nemico. Papà e mamma cercano di tenermi all'oscuro di tutto ma ovviamente ho sentito delle voci e sono al corrente di più cose di quanto non credano. La vecchia Ah Tok, che mi è stata più madre di mia madre non mi ha forse accudito fin da quando avevo due anni insegnandomi il cantonese e a muovere i miei primi passi nella vita e procurandomi persino la mia prima ragazza?, mi riporta tutti i pettegolezzi mentre lo zio Gordon Chen si preoccupa di mettermi al corrente dei fatti. La Nobil Casa vacilla. Non importa, affronteremo i Brock, li affronterò. E' questo ciò per cui sono stato educato e per cui ho lavorato tutta la vita. Scostò la coperta e cercò di alzarsi ma un dolore insopportabile lo fermò. Provò un'altra volta, niente. Non importa, si disse debolmente. Non c'è niente di cui preoccuparsi, mi alzerò più tardi. “Ancora uova, Settry?” chiese Marlowe. Alto quanto l'ufficiale dei dragoni, il tenente era tuttavia più snello ed elegante d'aspetto. Erano due giovani aristocratici, figli di alti ufficiali ancora in servizio, ed entrambi avevano già il volto segnato dalla vita, soprattutto Marlowe. “No, grazie” rispose Settry Pallidar. “Due è il mio massimo. Devo confessare che la cucina mi sembra infame. Ho detto ai miei domestici che mi piacciono le uova ben cotte e non mollicce, ma quelli hanno la sabbia nel cervello. In effetti che io sia dannato se riesco

a mangiare le uova quando non sono su una fetta di buon pane inglese tostato. Non hanno lo stesso sapore. Che cosa credi che succederà per Canterbury?” Marlowe esitò. Erano nella sala da pranzo della Legazione, seduti al grande tavolo di quercia che poteva accogliere fino a venti persone fatto venire appositamente dall'Inghilterra. La camera d'angolo era spaziosa e piacevole con le finestre affacciate sul giardino e sull'alba. Tre domestici cinesi in livrea servivano la colazione ai due ufficiali. La tavola era stata apparecchiata per una mezza dozzina di persone con uova fritte e pancetta tenute in caldo su vassoi d'argento, pollo arrosto, prosciutto freddo e sformato di funghi, una portata di manzo quasi rancido, delle gallette e una torta di mele rinsecchita. Birra chiara e scura e tè. “Il ministro dovrebbe chiedere una riparazione immediata e farsi consegnare gli assassini, e se i giapponesi tardano a eseguire gli ordini dovrebbe lanciare la flotta contro Edo.” “Meglio attaccare in forze da terra abbiamo truppe a sufficienza e occupare la capitale, deporre il loro re... Come si chiama? Ah si, shògun, e nominare un sovrano indigeno di nostra fiducia e trasformare il Giappone in un protettorato. Meglio ancora sarebbe per loro se il paese diventasse parte dell'impero.” Pallidar era molto stanco perchè era stato sveglio quasi tutta la notte. Aveva l'uniforme in disordine ma si era ripulito e sbarbato. Chiamò un cameriere. “Del tè, per favore.” Il giovane cinese vestito di tutto punto aveva capito perfettamente, tuttavia lo guardò con aria sbigottita per il solo piacere di far divertire i compagni. “Heya padrone? Tè-ah? Volere tè-ah? Cha? Tècha heya?” “Oh non fa niente, per l'amor di Dio!” Esausto, Pallidar si alzò e andò a versarsi il tè mentre tutti i servi se la ridevano in segreto per la figuraccia dell'insolente demone straniero. Poi tornarono ad ascoltare con attenzione tutto quello che si dicevano i due inglesi. “E una questione di potenza militare, vecchio mio, e francamente ti dico che il generale sarà molto dispiaciuto d'aver perso un granatiere per colpa di un assassino sifilitico vestito come Ali Babà. Vorrà vendetta, come tutti noi del resto, per Dio.” “Non so se uno sbarco sarebbe auspicabile... La marina può sicuramente aprirvi la strada, ma non abbiamo idea di quanti siano i samurai a Edo e non sappiamo nemmeno di quali e quante armi dispongano.”

“Per carità, qualsiasi cosa siano o quanti siano potremo pur sempre affrontarli e batterli, in fondo sono soltanto un mucchio di selvaggi. Non c'è dubbio. Come è successo in Cina. A proposito... non capisco perchè non annettiamo la Cina e la facciamo finita anche con loro.” I servitori, che non avevano perso una sillaba di quello scambio d'opinioni, giurarono che il giorno in cui il Regno Celeste avesse posseduto fucili e navi per affrontare i barbari avrebbero fatto mangiar la polvere a quei nasoni impartendogli una lezione che non sarebbe stata dimenticata per almeno mille generazioni. Tutti i domestici erano stati scelti personalmente dall'illustre Chen, Gordon Chen della Nobil Casa, il compratore “Volere un pezzetto di uovo buono, signore?” chiese il più coraggioso dei tre con un sorriso tutto denti. E spinse sotto il naso di Pallidar alcune uova con l'albume semicrudo. “Molto buono buonissimo.” Pallidar allontanò il vassoio con disgusto. “No grazie. Senti, Marlowe, pensavo...” s'interruppe quando la porta s'aprì per lasciar entrare Tyrer. “Oh, buongiorno, voi dovete essere Phillip Tyrer della Legazione.” Si presentò, presentò Marlowe e continuò vivace: “Sono molto dispiaciuto per la brutta avventura di ieri ma sono anche orgoglioso di stringervi la mano. Il signor Struan e la signorina Richaud hanno raccontato a Babcott che se non fosse stato per voi sarebbero morti entrambi”. “Hanno detto questo? Oh!” Tyrer stentava a credere alle proprie orecchie. “E' successo così, così in fretta. Tutto andava bene e un minuto dopo stavamo correndo per salvarci la vita. Ero spaventato a morte.” Ora che l'aveva detto si sentiva meglio. Si sentì ancora meglio quando i due liquidarono la sua frase come segno di grande modestia e invitandolo a prendere posto a tavola ordinarono ai servi di portargli del cibo. Marlowe disse: “Questa notte, quando sono venuto a ispezionare da voi dormivate profondamente. Babcott deve avervi dato un sedativo. Immagino che non abbiate ancora sentito parlare del nostro assassino”. A Tyrer si torse lo stomaco: “Assassino?”. Lo misero al corrente dei particolari e gli raccontarono anche di Angélique. “Angélique è qui?” “Sì, ed è una signorina coraggiosa.” Marlowe si soffermò a pensare alla ragazza. Non aveva una vera innamorata a casa né altrove, soltanto qualche cugina e per la prima volta si sentì felice d'essere uno scapolo libero. Poteva darsi che Angélique si fermasse e poi... poi avrebbero visto. Il suo eccitamento crebbe.

Un anno prima, poco prima di partire dalla città natale di Plymouth, suo padre, il capitano Richard Marlowe della Reale Marina Britannica, gli aveva detto: “Hai ventisette anni, ragazzo mio, ormai comandi la tua nave, una bagnarola ma pur sempre una nave, sei il mio primogenito ed è tempo che ti sposi. Quando tornerai da questa crociera in Estremo Oriente avrai passato i trent'anni e con un pò di fortuna io sarò diventato viceammiraglio e... be', potrò darti qualche ghinea in più, ma per amor del cielo non dirlo a tua madre né ai tuoi fratelli. E' ora che tu metta la testa a partito! Cosa ne diresti della cugina Delphi? Suo padre è dei nostri, anche se è nell'esercito indiano”. Aveva promesso che al suo ritorno avrebbe scelto. Ma adesso forse non si sarebbe più dovuto accontentare della seconda o terza o quarta scelta. “La signorina Angélique ha dato l'allarme nell'Insediamento e poi ha insistito per venire qui. Struan aveva chiesto di vederla con urgenza; non sembra in gran forma, anzi, ha proprio una brutta ferita, così gliel'ho portata. E' una vera signora.” “Sì.” Uno strano silenzio scese su tutti e tre e a ciascuno sembrò di riuscire a leggere i pensieri dell'altro. Fu Phillip Tyrer a parlare per primo. “Perché mai un assassino è venuto qui?” I due ufficiali si rendevano conto che l'argomento innervosiva Tyrer. “Per combinare qualche altra diavoleria, suppongo” rispose Panidar. “Niente di cui preoccuparsi, comunque, perchè l'abbiamo preso, quel bastardo. Avete visto il signor Struan stamattina?” “Mi sono affacciato nella sua stanza ma dormiva, spero che guarisca presto. L'operazione è stata lunga e complessa e...” Tyrer smise di parlare quando dall'esterno giunsero i suoni di un alterco. Pallidar li precedette alla finestra. Il sergente Towery stava gridando rivolto a un giapponese seminudo che si trovava all'altra estremità del giardino e gesticolava. “Ehi tu, vieni qua!” L'uomo, in apparenza un giardiniere, aveva un fisico robusto e sembrava giovane visto da quella distanza. Indossava soltanto un perizoma e su una spalla teneva un fascio di rametti avvolti in un cencio nero, che continuava a raccogliere chinandosi goffamente. Per un istante il giardiniere fissò il sergente, poi cominciò a inchinarsi in modo servile. “Mio Dio, questi infami non hanno nessuna vergogna” commentò Pallidar disgustato.

“Nemmeno i cinesi e gli indiani si vestono in questo modo. Gli si possono vedere le parti intime.” “Mi hanno detto che qualcuno di loro si veste così anche in inverno” disse Marlowe, “sembra che non soffrano il freddo.” Towery continuava a gridare e a fare cenni. L'uomo non smetteva di inchinarsi e annuire con vigore, ma anziché andare verso il sergente si comportò come se ne avesse frainteso l'ordine e con un mezzo inchino si affrettò verso l'estremità dell'edificio. Passando davanti alla loro finestra li guardò per un istante, si prostrò una volta ancora in una riverenza servile e sparì affrettandosi verso gli appartamenti della servitù, seminascosto dagli arbusti che aveva raccolto. “Strano” fu il commento di Marlowe. “Che cosa?” “Niente, solo che tutti quegli inchini e quella goffaggine sembravano fasulli.” Marlowe si voltò e vide il volto di Tyrer: sembrava diventato di gesso. “Dio onnipotente, cosa vi succede?” “Io... io... credo che quell'uomo sia... penso che sia uno di loro... uno degli assassini della Tokaidò, quello colpito da Struan. Avete notato se la sua spalla era bendata?” Pallidar fu il primo a reagire. Saltò dalla finestra seguito da Marlowe che aveva afferrato la spada. Insieme si precipitarono tra gli alberi. Dopo lunghe ricerche dovettero ammettere che era scomparso. A mezzogiorno Babcott bussò qualche colpetto alla porta della camera da letto di Angélique. La chiamò “Mademoiselle? Mademoiselle?” a bassa voce. Non voleva svegliarla in caso stesse ancora riposando e infatti lei non rispose. Immobile al centro della stanza fissava la porta chiusa respirando a fatica, la vestaglia stretta intorno al corpo, un'espressione rigida sul volto. Il tremito ricominciò. “Mademoiselle?” Aspettò di sentire il suono dei passi del dottore morire in lontananza, e respirò più profondamente cercando con disperazione di fermare il tremito. Riprese a camminare dalla finestra al letto alla finestra come faceva da ore. Devo prendere una decisione, pensò disperata. La seconda volta si era svegliata con la mente lucida. Era rimasta tra le lenzuola sgualcite senza muoversi, felice di sentirsi sveglia e riposata, affamata e pronta per la prima buona tazza di caffè della giornata servita con quel croccante pane francese che il cuoco della Legazione di Yokohama sapeva preparare.

Ma non sono a Yokohama, ricordò, sono a Kanagawa e oggi avrò soltanto una tazza di vomitevole tè inglese al latte. Malcolm! Povero Malcolm, spero tanto che stia meglio. Torneremo a Yokohama oggi stesso, salirò sulla prima nave per Hong Kong e da li a Parigi... ma oh, che sogni ho fatto, che sogni! Le fantasie della notte erano ancora vive nel ricordo e si mescolavano alle immagini dell'attacco dei samurai sulla Tokaidò e della mutilazione di Canterbury e dello strano comportamento di Malcolm che dava per scontato il loro matrimonio. Le tornò alla mente lo sgradevole odore della sala operatoria ma cercò di allontanarne il ricordo con uno sbadiglio allungando la mano verso la sveglietta che aveva lasciato sul comodino. Quel piccolo movimento le procurò una fitta alle reni. Per un istante si chiese se fosse il sintomo di un mestruo anticipato poiché non era del tutto regolare, tuttavia accantonò subito l'ipotesi come impossibile. La sveglia segnava le dieci e venti. Era incastonata di lapislazzuli e gliel'aveva regalata il padre per il suo diciottesimo compleanno, l'8 di luglio, festeggiato circa due mesi prima a Hong Kong. Tante cose sono successe da allora, pensava. Sarò così felice di essere di nuovo a Parigi, nella civiltà, e non tornerò mai, mai, mai... All'improvviso si rese conto d'essere nuda. Con grande stupore scoprì che la camicia da notte, infilata soltanto sulle braccia e sulle spalle, era completamente lacerata e si era infilata tutta sotto la schiena. Stupita ne sollevò i due lembi. Alzandosi e dirigendosi verso la finestra per cercare di capire che cosa fosse accaduto venne colta da un'altra fitta di dolore. Alla luce del giorno notò una traccia di sangue sul lenzuolo e un'altra tra le gambe. “Come può essere già...” Contò e ricontò i giorni ma i calcoli non tornavano. Aveva avuto le ultime mestruazioni due settimane prima. Era leggermente bagnata e non ne capì la ragione, poi il cuore quasi le si fermò e il cervello cominciò a gridare che i sogni non erano stati sogni ma realtà e che doveva essere stata violentata durante il sonno. “Non è possibile! Devi essere matta... non è possibile” aveva ansimato annaspando in cerca d'aria. “Oddio, fa' che sia un sogno, che sia solo parte di quei sogni.” Andò verso il letto col cuore che batteva all'impazzata.

“Sei sveglia, questo non è un sogno, sei sveglia!” Si esaminò un'altra volta in preda al panico, poi passò a un'ispezione più accurata. Ne sapeva abbastanza per capire che non aveva sbagliato: il suo imene era stato rotto. Era la verità: era stata violentata. La stanza cominciò a girare. Oh Dio, sono rovinata, la mia vita, il futuro... nessun uomo decente mi sposerà adesso che sono disonorata. E per una ragazza il matrimonio è l'unico modo per avere un futuro felice; non ce n'è un altro. Quando tornò a pensare con coerenza si trovò sdraiata in diagonale sul letto; tremando cercò di ricostruire gli eventi della notte. Ricordò di aver chiuso la porta. La guardò. Il chiavistello era a posto. Ricordò Malcolm e il cattivo odore nella stanza dell'infermeria e di essere scappata, Phillip Tyrer che dormiva pacifico, il dottor Babcott che mi ha dato qualcosa da bere ed è salito con me... La bevanda! Oddio, sono stata drogata! Se Babcott può operare con queste droghe, è ovvio che può essere successo, è ovvio che ero incosciente ma questo adesso non mi aiuterà! E' successo! Pensa se aspettassi un bambino! Nuova ondata di panico. Le lacrime le rigarono le guance e dovette trattenersi dal gridare la sua angoscia. “Smettila!'” si ordinò imponendosi uno sforzo supremo per controllarsi. “Smettila! Non dire niente, niente! Sei sola, nessuno ti può aiutare, ci sei solo tu, devi pensare. Che cosa farai? Pensa!” Inspirò profondamente con il cuore a pezzi e cercò di rimettere ordine nella mente confusa. Chi è stato? Poiché il chiavistello era ancora al suo posto nessuno poteva essere entrato dalla porta. Aspetta un minuto, ricordo vagamente... o faceva parte del sogno prima di... mi sembra di ricordare di aver aperto la porta a Babcott e a quell'ufficiale della marina... Marlowe... e di averla richiusa. Sì, proprio così! Almeno penso che sia andata così. Non parlava francese... si lo parlava, molto male, poi sono andati via e io ho richiuso la porta, ne sono sicura. Ma perchè mi hanno svegliata nel cuore della notte? Cercò a lungo una risposta senza riuscire a trovarla, incerta sull'accaduto, mentre le immagini della notte le sfuggivano in parte se non del tutto.

Concentrati! Se non era passato dalla porta doveva essere, entrato dalla finestra. Guardò: la sbarra che serviva per bloccare le imposte dall'interno era sul pavimento sotto il davanzale anziché nella sua guida. Dunque il colpevole è entrato dalla finestra! Ma chi? Marlowe? Quel Pallidar o persino il buon dottore? So che tutti mi desiderano. Chi sapeva che ero drogata? Babcott. Potrebbe averlo detto a qualcuno ma certamente nessuno di loro avrebbe osato fare una cosa così malvagia e rischiare di arrampicarsi dal giardino. E se avessi strillato come un'aquila... Tutto il suo essere gridava un avvertimento: Sta' attenta. Il futuro dipende da quanto saprai essere saggia e attenta. Sta' attenta. Sei così sicura che sia successo durante la notte? E i sogni? Forse... Adesso non posso perdere tempo coi sogni eppoi soltanto un medico potrebbe dirmi la verità, e qui l'unico dottore disponibile è Babcott. Aspetta... potresti aver rotto quel sottile velo durante il sonno, agitandoti a causa di un incubo. Perché era un incubo, non è vero? E' già successo a qualche ragazza? Si, ma dopo erano ancora vergini e comunque questo non spiega il sangue e il resto. Ricorda Jeannette in convento, povera sciocca Jeannette che s'innamorò di uno dei fornitori e lo lasciò fare e più tardi ci raccontò tutto nei dettagli. Non restò incinta ma venne scoperta e l'indomani fu scacciata per sempre e più tardi venimmo a sapere che era stata data in sposa al macellaio di un villaggio, l'unico che avesse accettato di prenderla. Io non ero consenziente, ma questo non mi aiuterà, solo un dottore potrebbe saperlo con certezza e comunque non mi aiuterebbe e l'idea che Babcott o chiunque altro debba diventare così intimo mi riempie di orrore e a quel punto Babcott condividerebbe il mio segreto. Come faccio a condividere con qualcuno un segreto simile? Se si venisse a sapere... devo tenerlo per me! Ma come, come si fa, e poi cosa succederà? A questo troverò una risposta domani. Adesso devo capire chi è stato. No, prima ripulisci le tracce di quest'onta e rifletterai meglio. Devi pensare bene. Sfilatasi la camicia da notte, la gettò in un angolo con disgusto, si lavò a lungo e con cura cercando di far riaffiorare alla memoria tutte le nozioni contraccettive di cui era in possesso, ciò che Jeannette aveva fatto con successo. Poi indossò la vestaglia e si spazzolò i capelli.

Con la polvere dentifricia si pulì i denti e solo a quel punto si guardò allo specchio. Esaminò il proprio volto con grande attenzione. Era senza macchia. Allentò la vestaglia. Anche i fianchi e il seno sembravano incontaminati. Solo i capezzoli un pò arrossati. Si guardò un'altra volta nello specchio. “Nessun cambiamento, niente. E allo stesso tempo niente è come prima.” Poi si accorse che la piccola croce d'oro che portava da tanti anni e non si toglieva nemmeno per dormire era scomparsa. Cercò con cura nel letto e sotto, guardò in tutti gli angoli della stanza. Non era nascosta tra le lenzuola o sotto il cuscino né tra le pieghe delle tende. L'ultima possibilità era che si nascondesse nel pizzo del copriletto. Lo raccolse dal pavimento e lo esaminò. Niente. Poi vide i tre caratteri giapponesi rozzamente disegnati con il sangue sul tessuto. Un raggio di sole scintillò sulla croce d'oro. Ori teneva stretta nel pugno la sottile catena e la fissava ipnotizzato. “Perché l'hai presa?” chiese Hiraga. “Non lo so.” “Non uccidere quella donna è stato un errore. Shorin aveva ragione.” “Karma.” Erano al sicuro nella Locanda dei Fiori di Mezzanotte e Ori si era lavato e rasato. Ricambiando lo sguardo di Hiraga pensò: Tu non sei il mio maestro, ti dirò soltanto quello che mi va di dirti, niente di più. Aveva raccontato della morte di Shorin e di come si era arrampicato nella stanza della ragazza che dormiva profondamente e non si era risvegliata. Aveva raccontato anche di come si era nascosto, si era liberato dei vestiti da ninja, vi aveva avvolto le spade, si era lasciato scivolare dalla finestra e si era finto giardiniere riuscendo a raccogliere alcuni rami secchi poco prima di essere avvistato, e di come, infine, dopo aver riconosciuto uno degli uomini incontrati sulla Tokaidò era riuscito a scappare. Ma sul conto della ragazza non aveva detto altro. Come posso spiegare a qualcuno e in parole mortali che per mezzo di lei sono diventato tutt'uno con gli dei, che quando l'ho spalancata davanti a me e l'ho guardata mi sono ubriacato di desiderio, che quando sono entrato in lei l'ho fatto da amante e non da stupratore. Non so perchè ma è andata così, sono entrato lentamente, con attenzione, e

le sue braccia hanno circondato il mio corpo e si è aggrappata a me tremando senza svegliarsi mai davvero, ed era così stretta e io mi sono trattenuto e trattenuto e poi slanciato in avanti senza più freni. Non ho mai immaginato che potesse essere così meraviglioso, così sensuale, così appagante, così estremo. Le altre non erano nulla paragonate a lei. Lei mi ha fatto toccare il cielo ma non è per questo che l'ho lasciata vivere. Ero deciso a ucciderla. Poi avrei ucciso me stesso in quella stessa stanza. Ma sarebbe stato un grande egoismo morire all'apice della felicità, tanto appagato. Oh, come l'ho desiderato. Ma la mia morte appartiene a sonno-joi. A nessun altro. Nemmeno a me. “Non ucciderla è stato un errore” ripeté Hiraga interrompendo i suoi pensieri. “Shorin aveva ragione, ucciderla ci avrebbe fatto raggiungere un risultato, sarebbe stato meglio di niente.” “Sì.” “Allora perchè? “ L'ho lasciata viva per gli dei, se gli dei esistono, avrebbe voluto dire. Invece tacque. Mi hanno posseduto e mi hanno fatto fare quello che ho fatto e io li ringrazio. Adesso sono un uomo completo. Conosco la vita, mi resta da conoscere soltanto la morte. Sono stato il suo primo uomo, non potrà mai dimenticare, mi ricorderà anche se dormiva. Quando sarà sveglia e vedrà ciò che ho scritto con il sangue, il mio sangue, capirà. Voglio che viva per sempre. Io morirò presto. Karma. Ori ripose la croce in una tasca segreta del kimono e bevve dell'altro tè verde. Si sentiva completamente soddisfatto e vivo. “Hai detto di avere un piano per un'azione?” “Sì. Andiamo a bruciare la Legazione britannica a Edo.” “Bene. Facciamo presto.” “Subito. Sonno-joi!” A Yokohama sir William disse con rabbia: “Ditegli un'altra volta, e che sia l'ultima per Dio, che il governo di Sua Maestà esige una riparazione immediata pari a centomila sterline in oro per aver consentito che questo attacco non provocato venisse impunemente sferrato provocando l'uccisione di un suddito britannico... Uccidere un inglese è kinjiru per Dio! Inoltre esigiamo che ci vengano consegnati gli assassini satsuma entro tre

giorni oppure prenderemo gravi provvedimenti!” L'affollato ufficio della Legazione britannica di Yokohama, dall'altra parte della baia, vedeva riuniti i ministri di Prussia, Francia e Russia, i due ammiragli inglese e francese e il generale. Erano tutti al limite della sopportazione. Di fronte a loro, seduti in modo inappuntabile sulle sedie, vi erano due rappresentanti locali della Bakufu, il samurai capo delle guardie dell'Insediamento e il governatore di Kanagawa nella cui giurisdizione rientrava Yokohama. Indossavano pantaloni ampi e kimono e sontuosi mantelli fermati alla vita con una cintura. Erano tutti armati. Il disagio era generale e i giapponesi sembravano soffocare dalla rabbia. All'alba alcuni soldati armati si erano presentati alle dogane di Yokohama e Kanagawa picchiando sulla porta con il calcio dei fucili. Con un'animosità senza precedenti avevano convocato i più alti ufficiali e il governatore per una riunione che avrebbe avuto luogo a mezzogiorno. Anche quella fretta non aveva precedenti. Gli interpreti sedevano sui cuscini tra i due gruppi contrapposti. L'interprete giapponese era seduto sulle ginocchia, e l'altro, uno svizzero di nome Johann Vafrod, nella posizione del loto. Comunicavano tra loro in olandese. L'incontro durava già da due ore, l'inglese veniva tradotto in olandese e poi in giapponese, poi di nuovo in olandese quindi in inglese e così via. Le domande di sir William venivano puntualmente fraintese o ignorate, oppure dovevano essere ripetute parecchie volte. Già in una dozzina di modi diversi i giapponesi avevano chiesto tempo per “consultare le autorità preposte a istituire indagini ed esami” e ripetuto: “Oh si, in Giappone gli esami sono molto diversi dalle indagini. Sua eccellenza, il governatore di Kanagawa, ci spiega dettagliatamente che...” e “Oh, sua eccellenza, il governatore di Kanagawa, desidera precisare di non aver alcuna autorità su Satsuma che è a tutti gli effetti un regno autonomo...” e “Oh, ma a sua eccellenza il governatore di Kanagawa risulta che gli aggrediti abbiano estratto minacciosamente le pistole e che siano colpevoli di non aver rispettato le antiche tradizioni giapponesi...” e “Quanti stranieri dovevano esserci nel gruppo che non si è inginocchiato? e... ma le nostre tradizioni ....”. Le tediose, estenuanti e complesse conferenze in giapponese del governatore venivano trasformate con impegno in un olandese tutt'altro che fluente e poi ritradotte in inglese. “Ditelo piattamente, Johann, proprio come l'ho detto io.” “Lo faccio sempre sir William, ma sono sicuro che questo cretino non sta

facendo bene il suo lavoro e che traduce male sia quello che dite voi sia quello che dicono i giapponesi.” “Non è una novità, per l'amor di Dio, è mai stato diversamente? Cercate di arrivare a capo di qualcosa.” Johann diede alle parole di sir William una traduzione letterale. L'interprete giapponese arrossì, chiese una spiegazione del significato della parola “immediate”, poi trasmise con cautela una traduzione cortese, appropriata e approssimativa, che a suo parere poteva essere considerata accettabile. Ciononostante il governatore trattenne il respiro davanti a tanta maleducazione. Il silenzio divenne più pesante. Dopo aver tamburellato con le dita in modo irritato e monotono sull'elsa della spada, il governatore parlò brevemente, tre o quattro parole in tutto. La traduzione fu lunga. Johann disse allegramente: “Tagliando tutta l'aria fritta, il governatore dice che a tempo debito passerà la vostra “richiesta” alle autorità preposte”. A sir William si imporporarono leggermente le guance, gli ammiragli e il generale divennero paonazzi. “Richiesta” eh? Dite a quest'infame, e diteglielo così: non ve lo sto chiedendo, lo pretendo! E ditegli inoltre: Esigiamo un'udienza IMMEDIATA dallo shògun a Edo fra tre giorni! Tre giorni, per Dio! E arriverò all'appuntamento con le navi da guerra, maledizione!” “Bravo” mormorò il conte Zergeyev. Anche Johann era stanco di quel faticoso tira e molla, perciò diede alla sua traduzione un elegante tono definitivo. L'interprete giapponese prese fiato e si slanciò senza indugio in un'inarrestabile ondata di olandese acrimonioso a cui Johann rispose dolcemente con due parole che ebbero l'effetto di causare un immediato e atterrito silenzio. “Nan ja!” Cosa c'è, cos'ha detto, chiese il governatore irritato rendendosi conto dell'ostilità generale. Immediatamente il nervoso interprete gli fornì in tono di scusa una versione edulcorata. Il governatore reagì con un parossismo di minacce e implorazioni e rifiuti e altre minacce che l'interprete trasformò nelle parole che secondo lui gli stranieri volevano sentire. Poi, sempre più turbato, si accinse ad ascoltare e a tradurre di nuovo. “Che cosa sta dicendo, Johann?” Sir William dovette alzare la voce per farsi sentire perchè l'interprete stava parlando al governatore e agli ufficiali della Bakufu che parlavano tra loro.

“Che cosa diavolo stanno dicendo?” Johann era felice perchè sapeva che entro pochi minuti l'incontro sarebbe terminato. Avrebbe finalmente potuto far ritorno al Long Bar dove l'attendevano la colazione e lo schnapp, “Non so, capisco solo che il governatore continua a ripetere che l'unica cosa che può fare è passare la vostra richiesta eccetera all'autorità eccetera ma che non c'è nessuna possibilità che lo shògun vi conceda l'onore eccetera perchè è contro le loro tradizioni eccetera...” Sir William picchiò il palmo della mano sul tavolo e nello sbalordito silenzio che segui puntò prima un dito contro il governatore e poi contro se stesso: “Watashi... io...”, indicò oltre la finestra verso Edo. “Watashi andare Edo!” Poi alzò tre dita: “Tre giorni con una maledetta nave da guerra!”. Si alzò di scatto e uscì impetuosamente dalla stanza. Gli altri lo seguirono. Attraversò l'ingresso, entrò nello studio e dirigendosi senza esitazioni verso il banco che ospitava le bottiglie di cristallo si versò un bicchiere di whisky..“ Qualcuno vuole unirsi a me?” chiese in tono disinvolto agli uomini che lo circondavano. Versò automaticamente dello scotch per gli ammiragli, il generale e il ministro prussiano, un bicchiere di chiaretto per Seratard e una buona dose di vodka per il conte Zergeyev. “Tutto secondo i piani, no? Peccato le lungaggini.” “Pensavo che voleste farvi esplodere una giugulare” disse Zergeyev vuotando il bicchiere e versandosene un secondo. “Nemmeno per sogno. Ma dovevo chiudere l'incontro con un bel finale drammatico.” “Allora siamo a Edo fra tre giorni?” “Sì, mio caro conte. Ammiraglio, fate preparare la nave per una partenza all'alba, trascorrerete i prossimi due giorni mettendo ogni cosa a punto, ripulendo ostentamente i ponti per l'azione, facendo caricare i cannoni, esercitando l'intera flotta eccetera e poi date l'ordine a tutte le altre navi che si tengano pronte per la battaglia, se necessario. Generale, cinquecento giubbe rosse dovrebbero essere sufficienti per una guardia d'onore. Monsieur, l'ammiraglia francese vorrebbe unirsi a noi?” “E' naturale” rispose Seratard. “Vi accompagnerò personalmente. Inoltre suggerisco di utilizzare la Legazione francese come quartier generale e di adottare l'alta uniforme.” “La risposta è negativa per quanto concerne le alte uniformi; questa è una missione punitiva, non andiamo a presentare le nostre credenziali. Ci penseremo dopo. E negativa è anche la risposta all'offerta della Legazione francese. La vittima è un cittadino britannico e inoltre, come posso dire?

Sarà la nostra flotta il fattore decisivo dello scontro.” Von Heimrich sogghignò. “E' certamente decisivo in queste acque e in questo momento.” Diede un'occhiata a Seratard. “Mi rammarico di non disporre d'una dozzina di reggimenti di cavalleria prussiana, potremmo distruggere il Giappone in un batter d'occhio e farla finita con tutta quella loro stupidità tortuosa e quelle cattive maniere che fanno perdere tanto tempo.” “Una dozzina di reggimenti sarebbero davvero sufficienti?” gli chiese Seratard con un'occhiata raggelante. “Più che sufficienti, Herr Seratard, per l'intero Giappone. I nostri soldati sono i migliori al mondo, ovviamente dopo l'esercito di Sua Maestà britannica” aggiunse a bassa voce. “La Prussia è in grado di schierare venti o persino trenta reggimenti su questo piccolo settore e avere ciononostante un esercito ancora in grado di affrontare qualsiasi problema che potremmo incontrare altrove, soprattutto in Europa.” “Si, bene...” Sir William l'interruppe mentre Seratard diventava paonazzo. Finì di bere il whisky. “Vado a Kanagawa a predisporre alcune cose. Ammiraglio, generale, potremmo incontrarci per un breve punto della situazione al mio ritorno. Verrò sulla vostra nave. Oh, monsieur Seratard, che cosa volete fare con mademoiselle Angélique? Volete che la scorti io a Kanagawa?” Angélique uscì dalla sua stanza nel sole del tardo pomeriggio, percorse il lungo corridoio e imboccò lo scalone dell'ingresso. Indossava lo stesso abito con la crinolina del giorno prima ed era più elegante ed eterea che mai con i capelli ben spazzolati e raccolti, lo sguardo intenso. Lasciava nella sua scia il profumo e il fruscio delle sottogonne. Le sentinelle davanti alla porta principale la salutarono con qualche parola imbarazzata, senza fiato per la sua bellezza. Lei ricambiò con un sorriso distante e si diresse verso la sala operatoria. Un servo cinese la guardò per qualche secondo a bocca aperta poi scappò via. La porta della sala operatoria si aprì lasciandone uscire Babcott. “Oh buongiorno, signorina Angélique, parola mia siete bellissima” balbettò il dottore. “Grazie.” Il sorriso era gentile, la voce cortese. “Volevo domandarvi... possiamo parlare un momento?” “Certamente, entrate. Mettetevi comoda.” Babcott chiuse la porta, fece accomodare Angélique sulla sedia migliore e prese posto dietro la scrivania ammirando incantato la radiosità della ragazza e il modo in cui la sua pettinatura metteva in rilievo la perfezione

del lungo collo. Il dottore aveva gli occhi rossi ed era molto stanco. Eppure anche questa è vita, pensava estasiato dalla bellezza di Angélique. “Quella bevanda che mi avete dato ieri sera, era una droga o qualcosa del genere?” “Sì, sì lo era. Un preparato piuttosto forte perchè eravate... eravate scossa.” “E' tutto così vago e confuso, la Tokaidò, poi il mio arrivo qui e... Malcolm. Era un sonnifero molto forte?” “Forte ma non pericoloso, niente del genere. Il sonno è la cura migliore, un buon sonno profondo, e per Giove se dovete aver dormito bene, sono quasi le quattro, del pomeriggio. Come vi sentite ora?” “Ancora un pò stanca, grazie.” Gli concesse un altro di quei suoi sorrisi un pò tristi che avevano l'effetto di scuoterlo sin nel profondo. “Come sta monsieur Struan?” “Le sue condizioni sono stazionarie. Stavo per andare a dargli un'occhiata, potete venire anche voi, se lo desiderate. Si sta comportando egregiamente, tutto considerato. A proposito, hanno catturato quell'individuo.” “Quale individuo?” “Quello di cui vi abbiamo parlato la notte scorsa, l'intruso.” “Non ricordo niente della notte scorsa.” Babcott le raccontò quel che era successo nella sua stanza e in giardino, del ladro ucciso dai soldati e del suo probabile complice che era riuscito a sfuggire, e Angélique dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per mantenersi impassibile mentre dentro di sé gridava: tu figlio di satana con i tuoi sonniferi e la tua incompetenza, di quali ladri stai parlando? L'altro era nella mia stanza quando l'avete perquisita e non siete nemmeno riusciti a vederlo. E non mi avete salvato, né tu né quello scemo di Marlowe che è colpevole quanto te. Madre benedetta, dammi la forza, aiutami a vendicarmi di entrambi. E di lui, chiunque egli sia! Madre di Dio, aiutami a vendicarmi! Ma perchè avrà rubato la mia croce lasciando gli altri gioielli, perchè ha scritto quegli ideogrammi? Che cosa significano? E perchè li ha scritti con il sangue, il suo sangue? Si rese conto che Babcott la stava fissando. “Oui?” “Vi ho domandato se volete vedere il signor Struan adesso o preferite rimandare a un altro momento.” “Oh! Sì, sì adesso per favore.” Si alzò riprendendo il controllo di sé. “Oh, temo di aver versato la brocca dell'acqua sulle lenzuola, potreste chiedere alla cameriera di occuparsene, per cortesia?”

Babcott rise. “Qui non abbiamo cameriere. E' contro i regolamenti giapponesi. Abbiamo solo servitori cinesi. Ma non temete, avranno cominciato a riordinare la vostra stanza appena ne siete uscita ...” S'interruppe vedendola impallidire. “Che cosa vi succede?” Aveva perso per un istante l'autocontrollo tornando con la memoria nella stanza, mentre puliva con accanimento le tracce della notte sgomenta al pensiero che non si cancellassero. Invece erano scomparse; ricordava di aver controllato e ricontrollato perchè il suo segreto fosse al sicuro, non era rimasto alcun segno, sperma o sangue, e il suo segreto era al sicuro per sempre se trovava la forza di attenersi ai piani e la doveva trovare, e doveva anche essere intelligente, doveva assolutamente esserlo. Babcott osservò allibito la ragazza improvvisamente pallida che tormentava con dita inquiete la stoffa della gonna. Con un balzo le fu accanto e appoggiò con delicatezza le mani sulle sue spalle. “Non c'è niente di cui preoccuparsi, ora siete al sicuro, non c'è niente di cui preoccuparsi.” “Si, scusate” mormorò lei spaventata tenendo il capo appoggiato al petto del dottore e lasciando scorrere liberamente le lacrime. “Solo che io, mi, mi sono ricordata del povero Canterbury.” Con distacco si osservò lasciarsi confortare da Babcott, intimamente certa che il suo piano fosse l'unico e il solo piano saggio e attuabile: non è successo niente. Niente, niente, niente. Ci crederai fino alle prossime mestruazioni. E poi, se arriveranno, ci crederai per sempre. E se non arriveranno? Non so, non so, non so.

Capitolo 7 †

Lunedì, 15 settembre “I gai-jin sono volgari parassiti” esclamò Nori Anjo tremando di rabbia. Anjo, il capo del Roju, il Consiglio dei Cinque Anziani, era un uomo tarchiato dal volto rotondo, riccamente vestito. “Hanno respinto con sdegno le garbate scuse che avrebbero dovuto mettere fine alla questione della Tokaidò e ora chiedono in via ufficiale un'impertinente udienza allo shògun: il testo è stupido, le parole inappropriate, qua, leggi tu stesso, è appena arrivato.” Con malcelata impazienza tese il rotolo al suo giovane avversario, Toranaga Yoshi, che gli sedeva di fronte. I due erano soli in una delle sale delle udienze nel corpo centrale del castello di Edo, tutte le loro guardie personali attendevano dall'altra parte della porta. Un basso tavolo laccato di rosso separava i due uomini, e sul tavolo c'erano un vassoio nero, due tazze da tè di delicata fattura e una teiera della più fine porcellana. “Qualsiasi cosa dicano i gai-jin non ha importanza.” Yoshi accettò il rotolo senza leggerlo. Diversamente da Anjo, era vestito con semplicità e non portava spade da cerimonia. “Dobbiamo trovare il modo di costringerli a fare ciò che vogliamo.” Yoshi era il daimyo di Hisamatsu, un feudo piccolo ma importante e discendeva in linea diretta dal primo shògun Toranaga. In seguito a un “suggerimento” dell'imperatore, e malgrado la fiera opposizione di Anjo, Yoshi era stato nominato Guardiano dell'Erede, il giovanissimo shògun, e aveva occupato il ruolo vacante nel Consiglio dei Cinque. Era un uomo di ventisei anni, alto, aristocratico, con belle mani e dita affusolate. “Per nessuna ragione al mondo devono incontrare lo shògun” disse Yoshi, “perchè ciò confermerebbe la legalità dei trattati che non sono ancora stati ratificati. Ci opporremo alla loro insolente richiesta.” “Concordo con te sul fatto che sia insolente, ma ritengo tuttavia che non possa essere ignorata, e penso inoltre che dovremmo decidere il da farsi con quel cane satsuma, Sanjiro.” Erano entrambi stanchi del problema gai-jin che disturbava la loro wa,

l'armonia, da ben due giorni, e per di più erano molto ansiosi di mettere fine a quell'incontro; Yoshi voleva tornare ai suoi alloggi dove lo aspettava Koiko e Anjo aveva un appuntamento segreto con un medico. L'aria era calda e dalle finestre aperte entrava una lieve brezza con il profumo del mare e della terra fertile. Ancora nessuna minaccia d'inverno. Eppure l'inverno sta arrivando, pensò Anjo distratto dal dolore nel ventre. Odio l'inverno, stagione di morte, stagione triste, con il cielo triste, il mare triste, la terra triste e brulla, con gli alberi spogli e il freddo che ti morde le giunture ricordandoti che sei vecchio. A quarantasei anni Anjo aveva già i capelli grigi. Daimyo di Mikawa, era il membro più influente del Roju da quando quattro anni prima il dittatore, il tairò, era stato assassinato. Mentre tu, pensò rivolto a Yoshi, ragazzetto presuntuoso, sei nel Consiglio da due mesi soltanto e hai l'incarico di Guardiano da quattro settimane, incarichi politicamente delicati che ti sono stati affidati malgrado le nostre proteste. Sarebbe ora di tarparti le ali. “Ovviamente terremo conto del tuo consiglio” disse in tono mielato, e poi, non meno consapevole di Yoshi del fatto di aver mentito aggiunse: “Da due giorni i gai-jin preparano la flotta per la battaglia, i loro uomini si stanno esercitando alla luce del sole e domani arriveranno qui i loro capi. Che cosa suggerisci di fare?”. “Quello che abbiamo fatto ieri prima di ricevere la loro risposta: mandiamo altre scuse “per l'increscioso incidente” intrise di un sarcasmo che non capiranno mai, per mano di un ufficiale di cui non conosceranno mai il nome, appena prima che il loro capo lasci Yokohama, e chiederemo altro tempo per “svolgere indagini”. Se ciò non li soddisferà e uno o più di loro vorranno venire a Edo, vengano pure. Manderemo il solito ufficiale di basso rango così da non comprometterci a trattare con la loro Legazione e gli propineremo la solita acqua sporca senza pesce. Tergiversiamo insomma, tergiversiamo.” “Nel frattempo è giunto il momento di esercitare il nostro diritto ereditario: ordineremo a Sanjiro di consegnarci gli assassini affinché vengano immediatamente puniti, di pagare senza indugi l'indennizzo richiesto, e di mettersi agli arresti domiciliari senza por tempo in mezzo. Glielo ordiniamo!” concluse con durezza Anjo. “Tu non hai nessuna esperienza in queste alte questioni dello shògunato.” Yoshi si rammaricò di non disporre del potere necessario per mettere immediatamente agli arresti lo stesso

Anjo e punirlo così della sua stupidità e della sua maleducazione. Si limitò a dire: “Se diamo a Sanjiro un ordine che verrà ignorato ci troveremo costretti a lanciarci in una guerra, e quello di Satsuma è un feudo troppo forte e con troppi alleati. Non combattiamo da duecentocinquanta anni. Non siamo pronti per una guerra. La guerra è...” Scese improvvisamente uno strano silenzio. Entrambi misero istintivamente mano alle spade. Tazze e teiera cominciarono a tremare sul vassoio. In un punto lontano la terra rumoreggiò, l'intera torre subì una leggera scossa e parve inclinarsi, poi un'altra scossa, per un tempo che sembrò interminabile sebbene non fosse durato più di trenta secondi. Il terremoto finì all'improvviso com'era incominciato. I due uomini aspettarono impassibili senza distogliere lo sguardo dalle tazze sul tavolino. Nessuna scossa di assestamento. Ancora niente. Nel castello e in città tutti aspettavano. Ogni creatura vivente aspettava. Niente. Yoshi sorseggiò un pò di tè, poi appoggiò meticoloso la tazza sul piattino. Anjo non poté non invidiargli l'autocontrollo. Yoshi in realtà era tutt'altro che tranquillo e stava pensando: Oggi gli dei mi hanno protetto, ma cosa succederà alla prossima scossa? o a quella che seguirà, in qualsiasi momento, tra una candela o persino nel pomeriggio, oppure questa notte o domani? Karma! Per oggi sono salvo. Ma non è detto che ben presto non ve ne sia un altro più cattivo, un terremoto assassino, come quello di sette anni fa in cui quasi persi la vita e centinaia di migliaia di persone perirono soltanto e Edo a causa delle scosse e degli inevitabili incendi, senza contare le decine di migliaia di persone spazzate via dal mare e annegate nell'onda tsunami che uscì dal mare nella notte senza preavviso e si portò con sé anche la mia amata Yuriko, allora la passione della mia vita. Per dominare la paura riprese l'argomento dello scontro con Sanjiro. “In questo momento entrare in guerra sarebbe del tutto avventato da parte nostra. Satsuma è troppo forte, le legioni di Tosa e Choshu si alleeranno apertamente con Sanjiro e da soli noi non siamo abbastanza forti per schiacciarli.” I feudi di Tosa e di Choshu, molto lontani da Edo, erano storicamente nemici dello shògunato. “I daimyo più importanti verranno con noi, se li convocheremo, e gli altri seguiranno.” Anjo cercò di dissimulare lo sforzo che gli costava allentare la stretta della

mano intorno all'elsa della spada. Era ancora terrorizzato a morte. Yoshi, attento e ben addestrato, notò subito nell'altro il gesto di debolezza e ne prese nota per il futuro, lieto di avere l'opportunità di scrutare dentro il suo nemico. “Non verranno, non ancora. Prenderanno tempo, imprecheranno, piagnucoleranno, ma non ci aiuteranno mai a schiacciare i satsuma. Non hanno palle.” “Se non lo facciamo ora, quando lo faremo?” La rabbia di Anjo esplose amplificata dalla paura. Quand'era bambino si era trovato in mezzo a un terremoto particolarmente forte e aveva visto suo padre trasformarsi in una torcia umana e la madre e i due fratelli incenerire sotto i suoi occhi. Da allora ogni scossa, anche la più lieve, lo costringeva a rivivere quel giorno e a risentire l'odore delle carni bruciate dei suoi cari e le loro grida. “Dobbiamo piegare quel cane, prima o poi. Perché non ora?” “Perché è più saggio aspettare d'essere meglio armati. I feudi di Satsuma, Tosa e Choshu dispongono di alcune armi moderne, cannoni e fucili, e non sappiamo nemmeno quanti. Per non parlare delle navi a vapore.” “Vendutegli dai gai-jin, contro il volere dello shògunato!” “Acquistate grazie a una precedente debolezza del Consiglio.” Anjo divenne paonazzo. “Non sono io il responsabile!” “Io neppure!” Le dita di Yoshi si strinsero sull'elsa della spada. “Comunque che i feudi di Satsuma, Tosa e Choshu siano meglio armati di noi resta un fatto indipendentemente dalle responsabilità personali di ciascun membro del Consiglio. Perciò, nostro malgrado, dobbiamo aspettare. Il frutto di Satsuma non è ancora marcio al punto di farci partire soli per una guerra che non siamo in grado di vincere. Noi siamo isolati, Sanjiro no.” Il tono di Yoshi divenne più tagliente. “Ma come te ritengo che presto dovrà esserci una resa dei conti.” “Domani chiederò al Consiglio che sia emesso l'ordine contro Sanjiro.” “Per il bene dello shògunato, per il bene tuo e per quello di tutti i clan Toranaga, mi auguro che gli altri non ti diano ascolto!” “Staremo a vedere: la testa di Sanjiro deve essere infilzata su un palo ed esposta come esempio a tutti i traditori.” “Sono convinto quanto te che Sanjiro abbia ordinato l'esecuzione sulla Tokaidò solo per metterci in imbarazzo” disse Yoshi, “per far infuriare i gaijin. La nostra unica arma è prendere tempo.

La nostra missione in Europa dovrebbe essere di ritorno da un giorno all'altro ormai, e allora i nostri guai saranno finiti.” Otto mesi prima, in gennaio, lo shògunato aveva inviato in America e in Europa una nave a vapore con la prima delegazione ufficiale giapponese. La delegazione aveva ricevuto l'ordine segreto di rinegoziare i trattati che il Roju considerava “ipotesi di accordo non autorizzate” con i governi inglese, francese e americano, e di cancellare o rimandare qualsiasi accordo per l'apertura di altri porti. “Gli ordini erano chiari. A questo punto i trattati dovrebbero essere stati invalidati.” Anjo disse minaccioso: “Dunque anche se non gli dichiariamo subito guerra convieni con me che sia giunto il momento di eliminare Sanjiro?”. Il più giovane era troppo prudente per dichiararsi apertamente d'accordo con Anjo e continuava a chiedersi se l'altro avesse già fatto dei piani. Scostò le due spade per state seduto più comodamente e finse di riflettere. A Yoshi il nuovo incarico piaceva molto. Ancora una volta sono al centro del potere, pensò. Oh si, è Sanjiro che mi ha aiutato ad arrivare qui, ma soltanto per il suo vile proposito, quello di distruggermi rendendomi pubblicamente responsabile di tutti i guai portati dai maledetti gai-jin e trasformarmi così nel principale obiettivo dei dannati shishi per poi usurpare i nostri diritti ereditari, le ricchezze e lo shògunato. Poco importa, io sono consapevole di quello che Sanjiro e il suo leccapiedi Katsumata stanno organizzando, conosco le loro vere intenzioni nonché quelle dei loro alleati, i tosa e i choshu. E giuro sui miei avi che Sanjiro non ci riuscirà. “Come lo elimineresti?” La fronte di Anjo si corrugò al ricordo del violento scontro di qualche giorno prima con il daimyo di Satsuma. “Lo ripeto” gli disse Sanjiro in tono imperioso, “obbedisci al suggerimento dell'imperatore: riunisci subito tutti gli anziani daimyo e chiedi con umiltà che diano vita a un Consiglio permanente con l'incarico di riformare e governare lo shògunato, di cancellare quegli accordi infami e non autorizzati con i gai-jin, di ordinare che tutti i porti siano chiusi per gli stranieri e, qualora questi non se ne andassero di loro spontanea volontà, di espellerli immediatamente! “ “Vorrei ricordarti una volta di più che è esclusivo diritto dello shògunato quello di trattare affari di politica estera, e affari di politica in generale, e non un diritto dell'imperatore né tantomeno tuo! Sappiamo entrambi che l'hai ingannato” ribatté Anjo. Dell'altro odiava tutto: il lignaggio, le legioni, le ricchezze e l'ottima salute di cui godeva con evidenza. I tuoi suggerimenti sono ridicoli e improponibili!

Abbiamo mantenuto la pace per duecentocinquanta... “ “Sì, affinché i Toranaga potessero arricchirsi. Se tu rifiuti di obbedire al nostro signore, a colui che solo ha diritto alla nostra fedeltà, all'imperatore, dai le dimissioni o fai seppuku. Tu scegli un ragazzino per il ruolo di shògun, quel traditore del tairò ha firmato i cosiddetti trattati, se i gai-jin sono qui è soltanto colpa della Bakufu e la Bakufu è una creatura dei Toranaga.” Anjo era diventato paonazzo, fuori di sé all'idea di dover subire ancora dileggi e vessazioni da Sanjiro. Quelle trattative persecutorie che si trascinavano da mesi lo sfiancavano. Avrebbe messo volentieri mano alla spada se Sanjiro non fosse stato protetto da un mandato imperiale. “Se il tairò non avesse negoziato i trattati e non li avesse fatti firmare, i gaijin si sarebbero aperti un varco con i cannoni e oggi saremmo in ginocchio come la Cina.” “Congetture, sciocchezze!” “Hai dimenticato che il Palazzo d'estate di Pechino è stato bruciato e saccheggiato, Sanjiro-dono? Adesso la Cina è praticamente smembrata e il governo non è controllato dai cinesi. Hai dimenticato che gli inglesi, i nostri principali nemici, hanno ricevuto in concessione l'isola di Hong Kong vent'anni fa e l'hanno trasformata in un bastione inespugnabile? Tientsin, Shanghai, Swatow sono ormai porti autonomi del trattato in mano ai gai-jin. E se avessero preso una delle nostre isole nello stesso modo?” “Glielo avremmo impedito. Noi non siamo cinesi.” “E in quale modo glielo avremmo impedito? Mi dispiace doverti dire che sei cieco e sordo e hai la testa tra le nuvole. Un anno fa, nel momento stesso in cui finì l'ultima guerra cinese, se noi li avessimo provocati i gai-jin non avrebbero dovuto far altro che mandare navi e soldati contro di noi per schiacciarci. Solo l'intelligenza della Bakufu li ha fermati. Non avremmo mai avuto mezzi sufficienti per arginare l'avanzata di quelle armate, dei loro cannoni e dei fucili.” “Sono d'accordo che il fatto di non essere militarmente pronti sia imputabile esclusivamente allo shògunato, ai Toranaga. Dovremmo disporre di moderni cannoni e navi da guerra da molti anni; siamo al corrente dell'esistenza di tali mezzi da molto tempo, gli olandesi non ci hanno forse avvisato almeno una dozzina di volte delle loro invenzioni? Voi avete Sempre nascosto la testa nella sabbia! Avete tradito l'imperatore. Almeno avreste potuto accordarvi su un solo porto, Deshima, ma perchè dare a quel diavolo americano di Townsend Harris anche Yokohama,

Hirodate, Nagasaki e Kanagawa consentendo loro addirittura di accedere a Edo per stabilirvi quelle insolenti legazioni! Dai le dimissioni, Anjo, e lascia ad altri più qualificati di te l'onore di salvare la Terra degli Dei...” Ricordare quello scontro faceva ancora sudare Anjo che mal sopportava di dover riconoscere le sacrosante ragioni di Sanjiro. Prese un fazzoletto di carta dall'ampia manica del kimono e si asciugò il sudore dalla fronte e dalla sommità della testa, poi guardò Yoshi con astio. Era geloso del suo portamento e del suo bell'aspetto ma soprattutto della giovinezza e della leggendaria virilità. Fino a non molto tempo prima anche per lui era facile soddisfarsi, normale essere sessualmente potente. Ora invece, pensò in preda a una grande infelicità, il dolore nel ventre non mi dà tregua! Fino a non molto tempo prima anche per lui era facile eccitarsi senza sforzo, mentre adesso non gli riusciva più neppure con la più desiderabile, la più abile delle donne, e a nulla serviva ricorrere alle pozioni e agli unguenti più rari. “Può darsi che Sanjiro si consideri al sicuro, ma non lo è” riprese in tono definitivo. “Convincetene anche tu, Yoshi-dono, nostro giovane ma saggio consigliere, prova anche tu a escogitare un modo per liberarci di lui, altrimenti potrebbe essere tua la testa che finirà infilzata su un palo.” Yoshi decise di ignorare l'offesa e sorridere. “Che cosa consigliano gli altri anziani?” Anjo ebbe un ghigno sinistro. “Voteranno secondo la mia volontà.” “Se non fossimo consanguinei ti suggerirei di dare le dimissioni o di fare seppuku.” “Che peccato non essere il tuo illustre omonimo e non poterlo ordinare davvero, eh?” Anjo si alzò a fatica. “Invierò la risposta, tergiversiamo. Domani ci sarà la votazione formale per l'umiliazione di Sanjiro...” Di scatto si voltò, in guardia, verso la porta che era stata spalancata. Yoshi brandiva già la spada. “Ho dato ordine...” L'imbarazzata sentinella mormorò: “Sono molto dispiaciuto, Anjosama...”. La collera di Anjo svanì quando scostando bruscamente la sentinella un giovane si precipitò nella stanza seguito a pochi passi da una ragazza, non più alta di un metro e mezzo. Entrambi vestiti in modo ricercato e in preda a una visibile agitazione, erano seguiti da quattro samurai armati seguiti a loro volta da una matrona e da una dama di corte. Anjo e Yoshi si prostrarono fino a toccare il tatami con la fronte. La corte si in chinò di rimando. Il giovane, lo shògun Nobusada, e la ragazza, la principessa imperiale Yazu,

sua moglie, non si inchinarono. Avevano entrambi sedici anni. “Quella scossa ha fatto cadere il mio vaso preferito” disse il giovane ignorando ostentatamente Yoshi. “Il mio vaso preferito.” Fece cenno al seguito di chiudere la porta. Le guardie e le dame della moglie restarono immobili. “Volevo dirti che ho avuto un'idea meravigliosa.” “Mi dispiace molto per il vaso, Sire.” Anjo aveva parlato con gentilezza. “Avete avuto un'idea?” “Noi... ho deciso che noi, mia moglie e io abbiamo deciso che andremo a Kyòto a incontrare l'imperatore per chiedergli consiglio sul da farsi con i gaijin e per organizzare il modo di buttarli fuori!” Il giovane sorrise radioso alla moglie che annuì. “Partiremo il mese prossimo. Una visita di stato!” Se avessero seguito l'istinto, sia Anjo che Yoshi si sarebbero lanciati in avanti a strangolare quel ragazzo senza una briciola di cervello. Ma erano abituati alla sua petulante stupidità e ai suoi capricci, e per la millesima volta maledissero il giorno in cui il matrimonio tra Nobusada e Yazu era stato proposto e consumato. “Un'idea interessante Sire” rispose Anjo con cautela osservando la ragazza. Notò che anche lei lo stava tenendo d'occhio, e benché sorridesse con le labbra i suoi occhi erano gravi, come sempre. “Esporrò il vostro suggerimento al Consiglio degli Anziani e vi daremo tutta l'attenzione che merita.” “Bene” ribatté Nobusada con aria d'importanza. Era un giovanetto sottile che non raggiungeva il metro e sessanta di statura e perciò indossava sempre degli alti sandali, i geta, per sembrare più alto. Aveva i denti dipinti di nero secondo la moda di Kyòto anche se nello shógunato non era in uso. “Tre o quattro settimane dovrebbero bastare per i preparativi.” Sorrise ingenuamente alla moglie. “Ho dimenticato qualcosa, Yazuchan?” “No, Sire” rispose la principessa con grazia, “come potreste dimenticare qualcosa?” Il suo volto delicato era truccato nello stile classico della corte di Kyòto: al posto delle sopracciglia che erano state strappate aveva due archi scuri dipinti sul biancore del trucco, i denti tinti di nero, folti capelli corvini trattenuti sulla sommità del capo da fermagli preziosi. Un kimono color porpora decorato con spruzzi di foglie autunnali, l'obi, l'intricata fascia intorno alla vita, era dorata. La principessa imperiale Yazu, sorellastra del Figlio del Cielo, sposa di

Nobusada da sei mesi, era stata scelta per lui all'età di dodici anni, promessa a quattordici e sposata a sedici. “Ovviamente una decisione presa da voi è una decisione, non un suggerimento.” “Ovviamente, onorabile principessa” ribatté prontamente Yoshi. “Mi dispiace molto, Sire, ma iniziative di tale importanza non possono essere realizzate in quattro settimane. Posso suggerirvi inoltre di considerare che le implicazioni di una tale visita potrebbero essere fraintese?” Il sorriso di Nobusada svanì. “Implicazioni? Suggerimenti? Quali implicazioni? Fraintese da chi? Da te?” domandò aspramente. “No, Sire, non da me. Volevo soltanto mettere in evidenza il fatto che non è mai successo prima d'ora che uno shògun si recasse a Kyòto per chiedere consiglio all'imperatore e che un simile precedente potrebbe rivelarsi nocivo all'incarico che svolgete.” “Perché?” chiese Nobusada irritato. “Non capisco.” “Perché come ricorderete è lo shògun a esercitare il dovere ereditario di decidere per conto dell'imperatore insieme al Consiglio degli Anziani e allo shògunato.” Yoshi non abbandonò neppure per un istante il suo tono gentile. “Ciò significa che il Figlio del Cielo può trascorrere il suo tempo intercedendo per noi presso gli dei, mentre lo shògunato fa in modo che gli eventi mondani e terrestri non disturbino la wa dell'imperatore.” Dolcemente la principessa Yazu disse: “Quello che Toranaga Yoshisama dice corrisponde al vero, marito. Purtroppo però, come tutti ben sappiamo, i gai-jin hanno già disturbato la vostra wa, perciò chiedere a mio fratello l'Eminente un consiglio di certo sarebbe al tempo stesso cortese e filiale e non interferirebbe in alcun modo con i diritti storici”. “E così.” Il giovane shògun gonfiò il petto. “Deciso.” “Il Consiglio esaminerà immediatamente i vostri desideri” disse Yoshi. Il volto di Nobusada si contrasse: “Desideri? E una decisione! Sottoponiglielo pure, se vuoi, ma intanto io ho deciso! Io sono lo shògun, non tu! Io sono lo shògun! Ho deciso! lo sono stato scelto e tu sei stato respinto, tutti i daimyo leali erano con me. Io sono lo shògun, cugino!”. Tutti i presenti rimasero impietriti da quello scatto d'ira eccetto la ragazza che tenendo gli occhi bassi sorrideva pensando: finalmente, la mia vendetta comincia. “E vero, Sire” rispose Yoshi pallido ma con voce tranquilla, “ma io sono il

vostro Guardiano ed è mio dovere consigliarvi.” “Non voglio i tuoi consigli! Nessuno mi ha chiesto se volevo un Guardiano, io non ho bisogno di un Guardiano, cugino, soprattutto se si tratta di te!” Yoshi guardò il giovane tremante di collera. Una volta ero proprio come te, pensò freddamente, una marionetta a cui potevano ordinare qualsiasi cosa, da spedire lontano dalla famiglia per essere adottato da un'altra, o da far sposare, o esiliare e cercare d'uccidere per sei volte, e tutto ciò perchè gli dei hanno voluto che io nascessi da mio padre, mentre tu, patetico sciocco, sei nato dal tuo. Ti assomiglio in molte cose, cugino Nobusada, ma al contrario di te io non sono mai stato uno stupido, ma un uomo d'armi sempre consapevole d'essere manovrato e, ormai, anche molto diverso. Ora non sono più una marionetta. Sanjiro di Satsuma non lo sa ancora, ma i ruoli si sono scambiati. “Finché sarò Guardiano, Sire, vi proteggerò” disse. Gettò un'occhiata alla ragazza, all'apparenza tanto fragile e delicata. “E proteggerò la vostra famiglia. “ Lei non ricambiò lo sguardo. Non ce n'era bisogno. Entrambi sapevano che tra loro la guerra era dichiarata da tempo. “Siamo lieti della vostra protezione, Toranaga-sama.” “Io no” strillò Nobusada. “Eri mio rivale e adesso non sei niente! Tra due anni io ne compirò diciotto e allora regnerò da solo e tu...” Indicò con un dito tremante il volto impassibile di Yoshi sotto gli occhi sbalorditi di tutto il seguito. “Se non impari a obbedirmi io... Sarai esiliato nell'isola settentrionale per sempre. Andiamo a Kyòto e basta!” Girò su se stesso. In gran fretta una guardia aprì la porta. Tutti si inchinarono mentre lo shògun usciva. La principessa imperiale lo seguì, poi uscì il seguito. Quando furono nuovamente soli Anjo si asciugò il sudore dal collo. “E' lei... è lei la fonte di tutta questa agitazione e “vivacità” disse in tono acido.” “Da quando è arrivata lei quello scemo è diventato ancora più scemo, e certo non perchè stia fornicando fino a spappolarsi il cervello.” Yoshi nascose lo sbalordimento che gli procurava sentire Anjo fare una dichiarazione tanto pericolosa a voce alta. “Una tazza di tè?” Anjo annuì cupamente, geloso ancora una volta dell'eleganza e della forza dell'altro. Da un certo punto di vista invece non si può dire che Nobusada sia del tutto scemo, stava pensando. Sono d'accordo con lui, per quanto ti riguarda. Prima verrai eliminato e tanto meglio sarà, tu e Sanjiro rappresentate soltanto guai. Il Consiglio non potrebbe votare a favore d'una limitazione dei tuoi poteri di

Guardiano o magari di un esilio? Fai perdere la testa a quello sciocco ragazzo ogni volta che ti incontra, per non parlare dell'effetto che produci sulla principessa. Se non fosse per te riuscirei a manovrate quella strega, sorellastra dell'imperatore o no. E pensare che non soltanto ero favorevole al matrimonio, ma che ho addirittura appoggiato il tairò nelle sue manovre per conclude le nozze malgrado l'opposizione dell'imperatore. Non abbiamo forse rifiutato la sua prima riluttante offerta, quella della figlia trentenne, poi l'offerta dell'ultimogenita di un anno costringendolo a darci la sorellastra? Ovviamente lo stretto legame di Nobusada con la famiglia imperiale ci rafforza contro Sanjiro e i feudatari, contro Yoshi e quelli che lo volevano shògun. Il legame diventerà ancora più forte quando lei avrà un figlio che, oltretutto, avrà anche l'effetto di ammorbidirla e scacciare un pò di veleno. Anzi, una gravidanza dovrebbe già essere in corso. Il dottore del ragazzo dovrà aumentargli la dose di ginseng o propinargli qualche pillola speciale che migliori le sue prestazioni; è tremendo essere così deboli alla sua età. Si, prima Yazu resterà incinta e meglio sarà. Finì di bere il tè. “Ci vedremo alla riunione di domani.” Si salutarono con un profondo inchino. Yoshi uscì dalla stanza e si affacciò al parapetto perchè aveva bisogno di aria e di tempo per riflettere. Vedeva più sotto le grandi fortificazioni di pietra con i tre fossati concentrici, i forti imprendibili e i ponti levatoi, le mura enormi. All'interno di quelle mura c'erano alloggi per cinquantamila samurai, scuderie per diecimila cavalli, atri spaziosi e palazzi per le famiglie più leali, ma soltanto le famiglie Toranaga vivevano entro il fossato più interno, e giardini ovunque. Nel corpo centrale del castello, accanto all'alloggio del Guardiano c'erano gli appartamenti più sicuri e le stanze private dello shògun in carica, della sua famiglia, dei cortigiani e dei sudditi. E le stanze del tesoro. Nel suo ruolo di Guardiano Yoshi viveva qui, malaccetto e sempre sul chi vive e tuttavia sicuro. Oltre il fossato più esterno c'era il primo cerchio protettivo costituito dai palazzi dei daimyo, spesso imponenti, e da ricche residenze; quindi venivano i cerchi con le residenze minori, poi quelle ancora meno importanti, una per ogni daimyo del paese. Quell'organizzazione dello spazio intorno al corpo centrale del castello era stata voluta dallo shògun Toranaga nel pieno rispetto del sankin-kotai, la

legge della residenza alternativa. “Il sankin-kotai” aveva decretato Toranaga “impone a tutti i daimyo del paese di costruire immediatamente e mantenere negli anni a venire una residenza adeguata al loro rango sotto le mura del mio castello nell'esatta posizione che io ho stabilito per ognuno. Il daimyo, la sua famiglia e alcuni sudditi, anziani dovranno vivere in permanenza nel palazzo che sarà lussuoso ma privo di qualsiasi sistema difensivo. Ogni tre anni il daimyo potrà e dovrà far ritorno al suo feudo e restarvi con i sudditi ma senza la moglie, le concubine, madre, padre o figli o nipoti o qualsiasi consanguineo; l'ordine in cui i daimyo partiranno o resteranno è regolato accuratamente secondo l'elenco che segue. La parola “ostaggio” non veniva mai menzionata anche se quella degli ostaggi era una pratica comune alla quale si ricorreva quando non c'erano altri mezzi per assicurarsi un'alleanza. Persino Toranaga era stato tenuto in ostaggio dal dittatore Goroda; la sua famiglia invece dal successore di Goroda, Nakamura, suo alleato e signore a cui doveva fedeltà. Aveva deciso di trasformare una pratica tradizionale in legge, il sankinkotai appunto, che metteva tutti i daimyo del paese in uno stato di schiavitù. “Al tempo stesso” aveva scritto Toranaga nel suo legato, un documento privato destinato soltanto ad alcuni dei suoi discendenti, “gli shògun che seguiranno dovranno incoraggiare i daimyo a costruire edifici stravaganti, a vivere con eleganza, a vestire riccamente e intrattenere con prodigalità poiché questo è il mezzo più veloce per spogliarli della rendita feudale annuale che, secondo la corretta e immutabile tradizione, appartiene esclusivamente al daimyo. In questo modo i daimyo saranno ben presto oberati di debiti, sempre più dipendenti da noi e quindi non in grado di nuocerci, mentre noi continueremo a essere frugali e ci asterremo da ogni stravaganza.“ Malgrado ciò tuttavia alcuni feudi come quelli di Satsuma, Mori, Tosa e Kii, per esempio, dispongono di tali ricchezze che avranno sempre dei fondi pericolosi. Perciò di tanto in tanto lo shògun regnante inviterà i daimyo di questi feudi a fargli dono di qualche buona lega di strada, o di un palazzo, o di un giardino, o di una casa di piacere o di un tempio, e le cifre da spendere per l'edificazione, i tempi e gli intervalli che dovranno trascorrere tra la realizzazione di un'opera e l'altra saranno dettagliati nel documento allegato. Tanto intelligente, tanto lungimirante, mormorò Yoshi tra sé. Tutti i daimyo catturati in una ragnatela di seta, ridotti all'impotenza. Ma la stupidità di Anjo ha rovinato tutto.

La prima delle “richieste” dell'imperatore portate da Sanjiro davanti al Consiglio prima che Yoshi ne diventasse membro riguardava proprio l'abrogazione del sankin-kotai. Anjo e gli altri avevano perso tempo in cavilli, discusso fino all'estenuazione e infine avevano ceduto. Nottetempo i Palazzi si erano svuotati di mogli, concubine, figli, congiunti e guerrieri, e nel giro di pochi giorni l'area intorno al castello era diventata una terra desolata popolata soltanto da pochi sudditi lasciati soltanto come gesto simbolico. Il nostro più importante strumento di dominio e controllo volatilizzato per sempre, pensò Yoshi con amarezza. Come ha potuto Anjo essere così inetto? Lasciò che il suo sguardo scivolasse dietro i palazzi fino alla capitale. La città di Edo era abitata da un milione di persone che servivano il castello e ne traevano al tempo stesso la loro fonte di sostentamento. Era attraversata da corsi d'acqua e ponti quasi sempre di legno. Vide molti piccoli incendi, conseguenza della scossa tellurica, tracciare un sentiero infuocato che arrivava fino al mare. Bruciava anche un grande palazzo. E il palazzo del daimyo di Sai pensò Yoshi. Bene. Sai è dalla parte di Anjo. La sua famiglia se ne è andata ma il Consiglio può sempre ordinargli di ricostruire il palazzo. Il costo della ricostruzione lo metterebbe in ginocchio per sempre. Ma lui non conti niente, qual'è il nostro scudo difensivo contro i gai-jin? Deve pur essercene uno! Tutti dicono che potrebbero bruciare Edo, ma che non possono entrare nel castello né sostenere un lungo assedio. Io non sono d'accordo. Ieri Anjo ha raccontato ancora una volta agli Anziani la ben nota storia dell'assedio di Malta avvenuto trecento anni fa, quando tutto l'esercito turco non riuscì a piegare seicento valorosi cavalieri asserragliati nel castello. Anjo disse: “Disponiamo di decine di migliaia di samurai ostili ai gai-jin, vinceremo, e saranno costretti ad andarsene”. “Ma né turchi né cristiani possedevano cannoni” ribatté lui. “Non dimenticate che se lo shògun Toranaga ha aperto una breccia nel castello di Osaka con un cannone gai-jin, quei parassiti potranno fare lo stesso con noi.” “Anche se vi riuscissero noi potremmo metterci al sicuro sulle colline. Nel frattempo ogni samurai, ogni donna e ogni bambino del paese, anche i ricchi mercanti si affretteranno sotto la nostra bandiera scagliandosi sugli stranieri come locuste. Non abbiamo niente da temere” concluse Anjo pieno di sdegno. “Il castello di Osaka era diverso, un'altra questione, li si trattava di uno scontro tra daimyo, non di un'invasione. Il nemico non può sostenere una guerra sulla terraferma. Vinceremmo noi.”

“Ma farebbero terra bruciata, Anjo-sama, Non ci resterebbe più niente su cui governare. La nostra unica via è accerchiare il nemico e catturarlo in una ragnatela. Dobbiamo diventare ragno, dobbiamo trovare una ragnatela.” Ma il Consiglio non lo aveva ascoltato. Qual è la ragnatela? “Prima individua il problema” aveva scritto Toranaga nel suo legato, poi con pazienza troverai la soluzione.” Il punto cruciale del problema con gli stranieri è questo: come facciamo a ottenere il loro sapere, gli armamenti, le flotte, la ricchezza e il commercio alle nostre condizioni e al tempo stesso riuscire a scacciarli dal paese cancellando gli iniqui trattati e facendo in modo che mai nessuno di loro possa più rimettere piede, se non a durissime condizioni, sulla nostra terra? Il legato proseguiva così: “La risposta a tutti i problemi della NOSTRA terra può essere trovata in questo documento, oppure nell'Arte della Guerra di Sun-Tzu e... nella pazienza”. Lo shògun Toranaga era stato il governante più paziente della terra, pensò Yoshi come sempre mosso da una grande ammirazione. Benché sulla terraferma fosse imbattibile Toranaga aveva aspettato per dodici anni fuori del castello di Osaka, l'invincibile roccaforte costruita dal suo predecessore, il dittatore Nakamura, prima di far scattare la trappola che aveva preparato e dare inizio all'assedio. Il castello era in mano a Ochiba, vedova del dittatore, al loro diciassettenne erede, Yaemon, a cui Toranaga aveva solennemente giurato alleanza, e a ottantamila samurai fanaticamente fedeli. Erano stati necessari due anni di assedio, trecentomila soldati, un cannone preso dalla nave corsara olandese Erasmus di Anjin-san, l'inglese che l'aveva portata in Giappone insieme a un reggimento di fucilieri da lui stesso addestrato, centomila morti, tutta la scaltrezza di Toranaga nonché l'indispensabile traditore all'interno del castello prima che Ochiba e Yaemon preferissero il seppuku alla cattura. Poi Toranaga aveva fortificato il castello di Osaka, reso inutilizzabile il cannone, distrutto i moschetti, disperso il reggimento, aveva proibito la produzione e l'importazione di armi da fuoco, aveva annientato il potere dei gesuiti portoghesi e dei daimyo cristiani ridistribuendo i feudi, aveva allontanato tutti i nemici, promulgato le leggi del legato, proibito l'uso di ruote, la costruzione di navi per la navigazione oceanica e, purtroppo, aveva preteso per sé e per la sua famiglia un terzo delle imposte. “Ci ha fatto diventare forti” mormorò Yoshi. Il suo legato ci ha dato il potere di mantenere pura la nostra terra e di conservare la pace che lui aveva stabilito. Non devo venire meno all'impegno preso con il mio antenato. Che uomo! Com'è stato saggio da parte di suo figlio, Sudara, il secondo

shògun, cambiare il nome della dinastia in Toranaga sostituendolo al vero nome di famiglia, Yoshi, perchè non ci dimenticassimo mai la nostra origine. Che cosa mi consiglierebbe di fare in questo momento? Innanzitutto mi esorterebbe alla pazienza, poi citerebbe Sun-Tzu: Se conosci il tuo nemico come te stesso non dovrai temere cento battaglie; se conosci te stesso ma non il tuo nemico per ogni vittoria conquistata subirai una sconfitta; se non conosci né te stesso né il tuo nemico avrai sempre la peggio. Conosco alcune cose sul conto del nemico, ma non abbastanza. Benedico ancora mio padre per avermi fatto comprendere il valore dell'istruzione e per avermi messo a disposizione molti insegnanti sia stranieri che giapponesi. Peccato che non avessi predisposizione per le lingue e dovessi imparare attraverso intermediari: mercanti olandesi per la storia; un marinaio inglese per controllare l'autenticità dell'insegnamento degli olandesi e aprirmi gli occhi, come Toranaga usava l'Anjinsan ai suoi tempi, e tutti gli altri. Il cinese che mi insegnò l'arte del governo, la letteratura e L'Arte della Guerra di Sun-Tzu; il vecchio prete francese rinnegato che veniva da Pechino e trascorse sei mesi insegnandomi Machiavelli, traducendolo laboriosamente in cinese per me in cambio del permesso di vivere nel dominio di mio padre e di frequentare il Mondo dei Salici che adorava; il pirata americano abbandonato dai suoi a Izu che mi raccontò dei cannoni e degli oceani d'erba che chiamano praterie, del castello detto la Casa Bianca e delle guerre con cui sterminarono gli indigeni di quella terra; il russo scappato dalla prigionia in un posto chiamato Siberia che diceva d'essere un principe con diecimila schiavi e raccontava favole su luoghi chiamati Mosca e San Pietroburgo, e poi tutti gli altri insegnanti, qualcuno per pochi giorni, qualcuno per qualche mese, mai per un anno intero, e nessuno seppe mai chi ero perchè mi era stato proibito di dirlo; mio padre era cauto e discreto ma diventava terribile quando disubbidivo. “Quando questi uomini se ne vanno, padre” aveva chiesto un giorno, “che ne è di loro? Sono tutti così spaventati, perchè? Avete promesso di ricompensarli, non è vero?” “Hai undici anni, figlio mio. Perdonerò per una volta il modo sgarbato con cui m'interroghi. Per ricordarti la mia magnanimità resterai senza cibo per tre giorni, ti arrampicherai da solo sul monte Fuji e dormirai senza coperte.” Yoshi rabbrividì. A quell'epoca non sapeva che cosa significasse la parola magnanimità. Era stato sul punto di morire ma era riuscito a eseguire l'ordine paterno. Come premio per la sua autodisciplina il padre, daimyo di Mito, gli aveva comunicato che era stato adottato dalla famiglia Hisamatsu e nominato crede del loro ramo Toranaga: “Sei il mio settimo figlio. In questo modo

avrai un'eredità e un lignaggio superiori a quelli dei tuoi fratelli”. “Si, padre” aveva risposto trattenendo le lacrime. All'epoca non sapeva di essere stato allevato per diventare shògun, nessuno lo aveva messo a parte dei progetti che riguardavano la sua vita. Poi, quando quattro anni prima lo shògun Iyeyoshi era morto di tifo, all'età di ventidue anni Yoshi era pronto e suo padre l'aveva proposto. Invece il tairò si era opposto, e avendo il dominio sulle porte del palazzo aveva avuto la meglio. Così era stato il cugino di Yoshi, Nobusada, a essere nominato shògun. Yoshi, la famiglia, suo padre e tutti i loro sostenitori più influenti erano stati messi agli arresti domiciliari. Soltanto dopo l'assassinio di Li Yoshi era stato liberato insieme ai sopravvissuti e aveva riavuto le sue terre e i diritti del suo rango. Il padre era morto durante l'esilio domestico. Avrei dovuto essere io lo shògun, pensò per l'ennesima volta. Ero pronto, ben preparato, e avrei ripulito il marciume dello shògunato, avrei creato una nuova alleanza tra shògunato e daimyo e insieme avremmo trovato il modo di trattare con i gai-jin. Avrei avuto io in moglie quella principessa, non avrei mai firmato quegli accordi né lasciato che i negoziati si rivelassero tanto dannosi. Avrei trattato con Townsend Harris e dato inizio a una nuova era di caute riforme perchè il mondo esterno si adeguasse al nostro passo, non viceversa! Invece non sono shògun, Nobusada è stato eletto, i trattati esistono, la principessa Yazu esiste, Sanjiro, Anjo e i gai-jin sono alle porte e ci minacciano. Rabbrividì. Devo stare più attento. Il veleno è uno strumento antico, una freccia può colpire di giorno o di notte, gli assassini ninja sono centinaia e ovunque, al soldo di ogni padrone. E poi ci sono gli shishi. Deve esserci una risposta! Ma quale? Gli uccelli marini che volavano in cerchio gracchiando sulla città e sul castello interruppero i suoi pensieri. Scrutò il cielo. Nessun segno di cambiamento né di tempesta anche se quello era il mese dei grandi venti che portavano l'inverno. Quest'anno sarà un inverno crudele. Non di carestia come tre anni fa, ma il raccolto è scarso, ancora più scarso dell'anno scorso... Aspetta! Che cos'ha detto Anjo che mi ha fatto ricordare qualcosa? Tornò sui propri passi e chiamò eccitato una guardia, “Porta qui quella spia, il pescatore, come si chiama? Ah si, Misamoto. Portalo subito e in segreto nelle mie stanze, è agli arresti nel corpo di guardia orientale.”

Capitolo 8 †

Martedì, 16 settembre All'alba il cannone della nave ammiraglia ruggì i suoi undici colpi di saluto alla lancia di sir William che procedeva verso il barcarizzo. Dalla riva giunse un debole buon viaggio da tutti gli uomini sobri che erano riusciti a riunirsi sul molo per salutare la flotta in partenza per Edo. Il vento stava rafforzandosi, il mare era calmo, il cielo coperto. Sir William, accompagnato da Phillip Tyrer, ricevette il saluto formale con la sirena; gli altri assistenti erano già a bordo delle altre navi. I due inglesi indossavano la finanziera e il cilindro. Tyrer aveva il braccio ferito legato al collo. Videro l'ammiraglio Ketterer che li aspettava sul ponte principale, accanto a John Marlowe, tutti e due in alta uniforme, i cappelli inclinati con le mostrine dorate, le giacche blu a coda di rondine con le camicie bianche, panciotto, calzoni corti e calzettoni, scarpe con la fibbia e spade scintillanti. Immediatamente Phillip Tyrer pensò: dannazione, come è sempre elegante e virile John Marlowe in uniforme. Proprio come Pallidar. E accidenti a me che non ho nessuna uniforme e nemmeno un vestito elegante per competere con loro, e per di più sono povero in canna e non sono neanche vice segretario. Dannazione! Niente più di un'uniforme rende un uomo affascinante agli occhi di una ragazza. Rischiò di inciampare nei piedi di sir William che si era fermato sull'ultimo gradino mentre l'ammiraglio e Marlowe lo salutavano cortesemente. Tyrer venne ignorato. Accidenti, pensò, concentrati, hai dei doveri e sei davanti a dei grand'uomini. Sta' attento, non dare nell'occhio, zia Wiflie Winkie da quando ieri hai fatto rapporto è come un gatto con una vespa al culo. “'Giorno, sir William, benvenuto a bordo.” “Grazie. Buongiorno a voi, ammiraglio Ketterer.” Sir William si tolse il cappello imitato da Tyrer, mentre il vento agitava le code delle giacche. “Ammainate pure le vele, se volete. Gli altri ministri sono a bordo dell'ammiraglia francese.” “Bene.” L'ammiraglio fece un cenno a Marlowe che rispose con un saluto immediato e si diresse sulla plancia verso il capitano, a pochi passi dall'albero maestro. “Vi porto i saluti dell'ammiraglio, signore. Potete partire per Edo.” I comandi arrivarono rapidi a destinazione, i marinai lanciarono tre grida e

in pochi attimi le ancore vennero issate e sistemate mentre nell'affollata sala caldaie tre ponti più sotto squadre di fuochisti nudi fino alla cintola gettavano carbone nelle fornaci al ritmo di un canto, ansimando e tossendo in un'aria densa di polvere. In sala macchine, dall'altra parte del ponte delle paratie stagne, il capo ingegnere ordinò l'avanti mezza e gli enormi motori si misero in funzione. L'Euryalus di Sua Maestà britannica, costruita a Chatham otto anni prima, era una fregata a tre alberi con una ciminiera, eliche di legno e un tonnellaggio a pieno carico di 3200. Aveva trentacinque bocche da fuoco, un equipaggio che al completo raggiungeva trecentocinquanta membri tra ufficiali e marinai, oltre ai fuochisti e al personale della sala macchine. Tutte le vele erano issate e i ponti erano stati preparati per un'eventuale azione. “Una bella giornata, ammiraglio” disse sir William sul casseretto. Phillip Tyrer e Marlowe accanto a lui indugiavano, dopo essersi salutati. “Per il momento” replicò stizzito l'ammiraglio, a disagio come ogni volta che si trovava in compagnia di civili, specie se si trattava di uomini che gli erano superiori per grado, come nel caso di sir William. “Comunque il mio alloggio è a vostra disposizione, se lo desiderate.” “Vi ringrazio.” I gabbiani volavano sulla scia della nave emettendo arida acute. Sir William li osservò per un momento nel tentativo di scacciare il senso di depressione che lo opprimeva. “Vi ringrazio ma preferisco restare sul ponte. Non conoscete il signor Tyrer, vero? E il nostro apprendista interprete.” L'ammiraglio degnò per la prima volta Tyrer di un'occhiata. “Benvenuto a bordo. Qualcuno che parla il giapponese qui troverà molto da fare. Come va la vostra ferita?” “Non troppo male signore, grazie” rispose Tyrer cercando di tornare subito nell'ombra. “Bene. Brutto affare.” Gli occhi azzurro chiaro dell'ammiraglio solcarono il mare per poi soffermarsi sulla nave; aveva un volto florido, temprato dalle intemperie, con mascelle pesanti e un rotolo di carne superflua sulla nuca che sporgeva dal colletto inamidato dell'uniforme. Osservò con aria critica il fumo che usciva dalla ciminiera valutandone l'odore e il colore e poi borbottò qualche parola incomprensibile estraendo dall'impeccabile panciotto alcune particelle di carbone. “C'è qualcosa che non va?” “No, sir William. Solo che il carbone che troviamo qui non può competere con la qualità di Shanghai o con un buon carbone del Galles o dello Yorkshire. Troppe scorie. E abbastanza economico, quando c'è, ma non

abbonda mai. Dovreste insistere per ottenere un rifornimento più cospicuo, è il nostro problema principale, quello principale.” Sir William annuì stancamente. “La richiesta è già stata inoltrata, ma non sembrano esserci altre scorte disponibili.” “Robaccia, da qualsiasi parte venga. Oggi non possiamo andare a vela perchè abbiamo il vento contrario. I motori sono l'ideale in casi come questo o per le manovre costiere o d'attracco. Con la miglior nave da guerra o anche con una lancia a vela impiegheremmo cinque volte più tempo per arrivare a Edo, senza spazio di manovra di sicurezza. Purtroppo.” Sir William, a corto di senso dell'umorismo dopo un'altra notte insonne, reagì alla scortesia dell'ammiraglio. “Veramente?” chiese con un filo di voce. “Non importa, presto la Marina avrà una flotta di puzzolenti pentoloni a carbone e neppure una vela, e il problema sarà risolto.” Tyrer vide l'ammiraglio arrossire e nascose un sorriso. Sir William aveva toccato un punto dolente, un argomento assai dibattuto sulle prime pagine dei giornali londinesi che non esitavano a definire la futura flotta “pentoloni di varia misura comandati da cuochi di varia misura e abbigliamento adeguato”. “Ciò non accadrà nell'immediato futuro e soprattutto non funzionerà mai per le lunghe crociere né per i blocchi o le battaglie navali” esclamò l'ammiraglio quasi sputando le parole. “Non c'è modo di portare tutto il carbone di cui abbiamo bisogno da un porto all'altro su navi da guerra. Dobbiamo andare a vela per risparmiare carburante. Per i civili non è facile comprendere le questioni navali.” Ciò gli ricordò l'attacco dell'attuale governo liberale sulle più recenti stime della marina e la sua pressione subì un violento balzo in avanti. “Nel frattempo, per assicurarci le rotte e conservare i possedimenti dell'Impero, la marina, quale colonna portante della Politica governativa, deve disporre del doppio delle navi, siano di legno o di ferro, a vapore o a vela, insomma deve disporre di un numero di navi pari a quello delle due maggiori potenze navali mondiali messe insieme. E deve disporre dei motori più potenti e dei cannoni e delle armi più moderni.” “L'idea è interessante ma superata, poco pratica e, se consentite, troppo costosa perchè il ministro delle finanze e il governo possano digerirla.” “Che Dio ci scampi.” La piega di carne sul collo dell'ammiraglio divenne paonazza. “L'avaro signor Gladstone farebbe meglio a imparare subito quali sono le priorità. L'ho già detto: prima i liberali se ne vanno e il potere torna ai

conservatori e tanto meglio sarà! Grazie a Dio e non ai liberali la Marina Reale dispone ancora di navi e armi sufficienti per affondare le flotte francesi, russe o americane nelle loro stesse acque, se necessario. Ma che accadrebbe se queste tre potenze si alleassero contro di noi nel prossimo conflitto?” Irritato l'ammiraglio si girò per gridare a Marlowe: “Signor Marlowe! Segnalate alla Pearl! Non è dove dovrebbe essere, per Dio!”. “Sissignore!” Marlowe scattò immediatamente. Sir William guardò a poppa, ma non notando niente di strano nella rotta delle navi che li seguivano tornò a concentrarsi sull'ammiraglio. “Il ministro degli esteri Russell è troppo intelligente per farsi coinvolgere. La Prussia farà guerra alla Francia, la Russia resterà a guardare e gli americani sono troppo occupati con la loro guerra civile, Cuba, le Filippine e le isole hawaiane. A proposito, ho proposto di annetterci un paio di quelle isole prima che lo facciano gli americani perchè sarebbero porti perfetti per il carbone.” Marlowe si stava dirigendo cupo verso il segnalatore, gli occhi fissi sulla Pearl, la sua nave, una fregata tre alberi a motore classe Jason, monociminiera, con ventun cannoni e un tonnellaggio di 2100, temporaneamente agli ordini del suo braccio destro, il luogotenente Lloyd. Avrebbe molto desiderato essere al suo posto, anziché a bordo dell'Euryalus nel ruolo di lacchè dell'ammiraglio. Trasmise l'ordine al segnalatore e restò a guardarlo mentre muoveva le bandierine. Lesse la risposta prima che il giovanotto avesse il tempo di tradurgliela. “Dice che gli dispiace, signore.” “Da quanto tempo fai il segnalatore?” “Sei mesi, signore.” “Faresti meglio a ripassare i codici, e in fretta. Il messaggio diceva: “Il capitano Lloyd della nave di Sua Maestà Pearl presenta le sue scuse”. Fai un altro errore come questo e ti troverai nei guai.” “Si signore, mi dispiace, signore” rispose mortificato il giovanotto. Marlowe tornò dall'ammiraglio. Con grande sollievo vide che il temuto scontro tra l'ammiraglio e sir William sembrava esser rientrato; i due erano intenti a discutere piani alternativi di azione a Edo e a valutare le implicazioni dell'attacco della Tokaidò. Aspettando una pausa nella conversazione gettò un'occhiata cauta a Tyrer che gli sorrise di rimando. Sperava di essere congedato al più presto per poter rivolgere alcune domande all'interprete su Kanagawa e Angélique. Era stato costretto a partire tre giorni prima, quand'era arrivato sir William, e da allora non aveva più avuto informazioni di prima mano su quanto era accaduto. “Si, signor Marlowe?” L'ammiraglio ascoltò il messaggio e immediatamente

ribatté in tono stridulo: “Mandate un altro segnale: rapporto sull'ammiraglia al tramonto”. Vide Marlowe rabbrividire. “Presenzierete anche voi, signor Marlowe. Presentare delle scuse non basta a giustificare un simile disgustoso esempio di cattiva disciplina. Che ne pensate?” “Sì, signore.” “Riflettete su chi dovrà prendere il comando della vostra nave al posto di Lloyd, voi escluso naturalmente!” L'ammiraglio Ketterer si rivolse a sir William. “Come avete detto? Voi non pensate ...” Un colpo di vento fece gemere le attrezzature. I due ufficiali guardarono verso il cielo annusando il vento. Ancora nessun segno di pericolo. Tuttavia entrambi sapevano che il tempo in quel mese era imprevedibile e che nelle acque giapponesi le tempeste potevano alzarsi improvvise. “Come dicevate? Non pensate che le autorità, questa cosiddetta Bakufu, faranno quello che chiediamo?” “No, non senza qualche pressione da parte nostra. A mezzanotte ho ricevuto altre scuse e la richiesta di un mese di tempo per consultarsi “più in alto” e altre sciocchezze del genere. Mio Dio, sono davvero abili quando si tratta di cavilli. Ho rispedito il dannato messaggero con una pulce nell'orecchio e un messaggio piuttosto esplicito in cui chiedevo di darci soddisfazione o di prepararsi a pagarne le conseguenze.” “Ben fatto.” “Quando getteremo l'ancora davanti a Edo non potremmo sparare il massimo numero di salve per creare un arrivo d'effetto?” “Spareremo ventun colpi, il saluto reale. Suppongo che questa missione possa essere considerata una visita formale al loro sovrano.” Senza voltarsi l'ammiraglio disse con la voce stridula: “Signor Marlowe, trasmettete l'ordine a tutta la flotta e chiedete all'ammiraglio francese se seguirà il nostro esempio”. “Sissignore.” Come sempre Marlowe salutò prima di correre via. “Il piano per Edo è ancora quello che abbiamo discusso?” Sir William annuì. “Si. Io e i miei scenderemo e ci dirigeremo verso la Legazione, un centinaio di soldati come guardia d'onore dovrebbero bastare. Cento Highlander con le cornamuse fanno un grande effetto. Per il resto il piano è inalterato.” “Bene.” L'ammiraglio fissò davanti a sé, a disagio. “Vedremo Edo appena doppiato quel promontorio.” Il suo volto s'indurì. “Minacciare la guerra e tirare qualche cannonata a vuoto è una cosa, ma bombardare e bruciare la città senza una dichiarazione di guerra è tutt'altra faccenda e io non sono d'accordo.” Sir William rispose misurando le parole: “Spero di non dover chiedere a Lord

Palmerton di dichiarare la guerra o di prendere formalmente atto che essa ci è stata imposta. Un rapporto completo per Lord Palmerton è in viaggio. Poiché mancano quattro mesi al giorno in cui conosceremo la sua risposta, dobbiamo fare tutto quanto è in nostro potere di fare. Questi assassinii devono finire, la Bakufu deve piegarsi, in un modo o nell'altro. Adesso è il momento giusto”. “Le istruzioni dell'ammiragliato invitano alla prudenza.” “Con lo stesso dispaccio ho inviato un messaggio urgente al governatore di Hong Kong per comunicargli il mio piano e chiedergli quali rinforzi in navi e uomini sono disponibili in porto qualora fosse necessario ricorrervi, e per trasmettergli le ultime notizie sulle condizioni del signor Struan.” “Davvero? Quando l'avete inviato, sir William?” “Ieri. La Struan poteva far partire un bastimento e il signor McFay ha ritenuto che la situazione meritasse un'azione immediata.” In tono caustico Ketterer commentò: “L'intero incidente sembra essere una cause celebre della Struan; quel poveraccio ucciso non viene mai citato, non si parla di altro che di Struan, Struan, Struan”. “Il governatore è un amico personale della famiglia e la famiglia ha... ehm... è molto influente, e rappresenta una parte rilevante degli interessi commerciali di Sua Maestà in tutta l'Asia e in particolare in Cina. Molto rilevante.” “A me sembrano soltanto una genia di pirati, mercanti d'armi e d'oppio, speculatori senza vergogna.” “Il commercio delle armi è legale esattamente quanto quello dell'oppio, mio caro ammiraglio. La Struan è una società commerciale molto rispettabile, ammiraglio, con appoggi importanti in Parlamento.” La cosa non sembrò fare alcuna impressione sull'ammiraglio. “Un mucchio di farabutti anche loro, per Dio, se me lo consentite. Nel migliore dei casi idioti che cercano di tagliare i fondi della marina e dell'esercito, una cosa molto stupida visto che l'Inghilterra dipende dalla sua potenza navale.” “Convengo con voi sul fatto che per poter realizzare la politica dell'Impero sia necessario disporre della marina migliore e degli ufficiali più competenti” rispose sir William. A Marlowe, ancora in piedi accanto all'ammiraglio, non sfuggì l'insinuazione. Una veloce occhiata alla nuca del suo superiore gli confermò che il messaggio era arrivato anche a lui. Si preparò al peggio. “La politica dell'Impero? A me sembra” disse l'ammiraglio seccamente “che la marina passi la maggior parte del tempo a liberare le dita dei civili e dei mercanti dalle trappole insidiose nelle quali continuano a ficcarle quando la loro avidità o la loro passione per il doppio gioco li trascina in guai di cui

non avrebbero nemmeno mai dovuto sentir parlare. In quanto a quei bastardi laggiù” puntò un dito tozzo a sinistra, in direzione di Yokohama, “sono il peggior branco di delinquenti che io abbia mai visto.” “Alcuni lo sono, la maggior parte no, ammiraglio.” Sir William sporse il mento. “Senza i mercanti e i loro commerci non ci sarebbero soldi e non esisterebbero l'Impero né la marina.” Il collo già rosso dell'ammiraglio diventò paonazzo. “Senza la marina non ci sarebbe commercio e l'Inghilterra non sarebbe la più grande nazione del mondo, la più ricca, con il più grande Impero mai visto sotto il sole, per Dio.” Balle, avrebbe voluto ribattere sir William. Ma sapeva che se l'avesse fatto al suo interlocutore sarebbe venuto all'istante un colpo apoplettico, e Marlowe e tutti i marinai a portata d'orecchio sarebbero stati colti da malore. Il pensiero lo divertì allontanando quasi del tutto il malumore procurato dalle notti insonni passate a preoccuparsi della faccenda della Tokaidò. Ritrovò la capacità di comportarsi come un buon diplomatico. “La marina ha sempre la precedenza, ammiraglio, e sono in molti a condividere la vostra opinione. Suppongo che saremo puntuali, non è vero?” “Sì, lo saremo.” L'ammiraglio, più tranquillo, rilassò le spalle malgrado il capo gli dolesse a causa della bottiglia di porto che aveva bevuto dopo cena e di quella di chiaretto. La nave viaggiava a circa sette nodi col vento a favore. L'ammiraglio se ne compiacque. Controllò la posizione della flotta. Adesso la Pearl era diligentemente a poppavia insieme a due piroscafi a ruote e dieci bocche da fuoco che si trovavano alla sua sinistra. L'ammiraglia francese, una fregata corazzata a tre alberi con venti cannoni, navigava a dritta con noncuranza. “Il timoniere si meriterebbe d'essere messo ai ferri! Quella nave francese avrebbe bisogno di una nuova mano di vernice, di nuove attrezzature, andrebbe sottoposta a fumigazione per eliminare l'odore d'aglio e poi ripassata per bene con la pietra pomice. E ci vorrebbe anche una bella strigliata all'equipaggio, non siete d'accordo, signor Marlowe?” “Sissignore.” Quando gli sembrò d'aver controllato la posizione di tutte le navi tornò a rivolgersi a sir William. “Questa famiglia Struan e la loro cosiddetta Nobil Casa sono davvero tanto importanti?” “Sì. Il loro giro d'affari è enorme e la loro influenza in Asia e in particolar modo in Cina è senza pari, se si esclude quella della Brock and Sons.”

“Ho visto i loro bastimenti, ovviamente. Belli, e molto ben armati.” Poi, senza mezzi termini, l'ammiraglio aggiunse: “Spero davvero che non cerchino di importare oppio e fucili anche qui”, “Sono d'accordo con voi anche se il commercio di oppio e armi non è vietato dalle nostre leggi.” “Ma sono vietati dalla legge cinese e da quella giapponese.” “Si, tuttavia esistono alcune circostanze attenuanti” ribatté stancamente sir William. Aveva ripetuto la stessa spiegazione decine di volte. “Sono certo che sappiate quanto me che i cinesi accettano solo denaro contante, argento od oro, in pagamento del tè che noi dobbiamo importare. Nient'altro. E l'unica merce che a loro volta sono disposti a pagare in contanti, oro od argento, è l'oppio. L'unica. Purtroppo la realtà è questa.” “Perciò è compito dei mercanti e del Parlamento e dei diplomatici togliere il regno da questo pasticcio. Negli ultimi vent'anni la marina britannica ha imposto norme illegali in Asia, ha bombardato porti e città cinesi e compiuto ogni sorta di vile atto di guerra, a parer mio soltanto per poter sostenere il commercio dell'oppio... una macchia sulla nostra bandiera!” Sir William sospirò. Gli ordini ricevuti dal sottosegretario permanente erano stati precisi: “Per l'amor del cielo, mio caro Willie, poiché è la tua prima volta come ministro in carica fai attenzione e non prendere mai una decisione precipitosa se non è assolutamente indispensabile. Comunque hai un'incredibile fortuna, il telegrafo è già arrivato a Baghdad il che vuol dire che possiamo mandare e ricevere messaggi in soli sette giorni. Sette giorni ai quali devi aggiungere circa sei settimane perchè il vapore arrivi a Yokohama attraverso il Golfo Persico, l'Oceano Indiano, Singapore e Hong Kong. Insomma riceverai le nostre istruzioni in soli due incredibili mesi, invece che in dodici o quindici mesi come una decina d'anni fa. Perciò se hai bisogno di un buon consiglio, e ne avrai sempre bisogno se sei saggio, dovrai aspettarlo soltanto per quattro mesi, e questa è l'unica cosa che protegge il tuo collo e il nostro Impero. Chiaro?”. “Sì, signore.” “Regola numero uno: tratta i militari con i guanti di velluto e non decidere mai su di loro con leggerezza perchè la tua vita e quella di tutti gli inglesi nella zona dipende da loro. I militari sono portati ad avere la testa dura, il che è perfetto perchè ovviamente noi abbiamo bisogno di molte teste dure di quel tipo, che si buttano nella mischia e si fanno ammazzare per difendere il nostro... be'... la nostra politica imperiale. Non sollevare polveroni, il Giappone non conta niente ma è nella nostra sfera d'influenza e

abbiamo speso tempo e denaro per scacciare russi, americani e francesi. Non creare disordine nel nostro nido giapponese. L'Impero ne ha già abbastanza di ribelli indiani, afgani, arabi, africani, persiani, caraibici e cinesi per non parlare di quei fetenti degli europei, degli americani, dei russi eccetera. Mio caro, carissimo Willie, su diplomatico e non fare stronzate altrimenti saranno guai!” Davanti all'ammiraglio sir William sospirò ancora. Si controllò e ripeté ciò che già aveva avuto l'occasione di dire decine di volte, cioè la verità: “Molto di quanto dite è giusto, ammiraglio, ma per nostra sfortuna abbiamo il dovere di essere pratici. Senza le tasse sul tè l'intera economia britannica crollerebbe; per il momento possiamo sperare che entro pochi anni i nostri campi d'oppio bengalesi saranno bruciati. Nel frattempo non ci resta che attendere”. “Nel frattempo invece io suggerisco un embargo dell'oppio, di tutte le armi e navi da guerra moderne e degli schiavi.” “Sono d'accordo con voi per ciò che concerne la schiavitù: è stata abolita nel '33!” La voce di sir William s'indurì. “E gli americani lo sanno. In quanto al resto le decisioni dipendono da Londra.” L'ammiraglio contrasse la mascella. “Bene, sir William, io ho potere in queste acque. Potete considerare che da questo momento vige l'embargo. Ho sentito voci inquietanti su ordinazioni di fucili e cannoni alla Struan; hanno già venduto a questi indigeni tre o quattro navi armate e i giapponesi imparano anche troppo in fretta per i miei gusti. Comunicherò ufficialmente all'ammiragliato con la posta di domani i miei ordini insistendo affinché diventino permanenti.” Irritato, il ministro cercò di assumere una posizione ferma e minacciosa. “Un'ottima idea” ribatté gelido, “scriverò anch'io. Nel frattempo voi non avete l'autorità di impartire tale ordine senza la mia approvazione e fino a quando non riceviamo la direttiva dal Foreign Office lo status quo resta lo status quo!” I due aiutanti indietreggiarono di un passo lasciandoli soli a fronteggiarsi. L'ammiraglio guardò sir William, alto quanto lui. Quasi tutto l'equipaggio si sarebbe perso d'animo di fronte a quello sguardo, ma non sir William, che non battè ciglio. “Io... rifletterò su quanto dite, sir William. Ora se volete scusarmi avrei alcune cose da fare.” L'ammiraglio girò sui tacchi e marciò senza esitazioni verso la plancia. Marlowe cominciò a seguirlo senza troppo entusiasmo. “Per carità di Dio, Marlowe, smettetela di seguirmi come un cucciolo. Se avrò bisogno di voi vi chiamerò. Tenetevi a portata di voce!”

“Sì, signore.” Quando l'ammiraglio fu abbastanza lontano Marlowe sospirò. Anche sir William, tirò un sospiro, e asciugandosi la fronte mormorò: “Sono tremendamente felice di non essere nella marina”. “Anch'io” rispose Tyrer ammirato dal coraggio del ministro. Il cuore di Marlowe batteva all'impazzata perchè detestava essere redarguito, sia pure dall'ammiraglio in persona, e ciononostante non dimenticò la sua posizione. “Io, ehm... scusatemi signore, ma la flotta è al sicuro nelle sue mani, signore, e anche la spedizione, inoltre tutti noi crediamo che abbia ragione in merito alla vendita di navi, fucili, cannoni e oppio. I giapponesi stanno già costruendo delle navi e producendo piccoli cannoni, e quest'anno sono arrivati con il loro primo vapore in ferro, la Kanrin maru di trecento tonnellate, fino a San Francisco; era equipaggiata e capitanata interamente da indigeni. Se la sono cavata bene nelle acque profonde. Una cosa notevole in tempi tanto brevi.” “Sì, notevole, sì.” Sir William si domandò cosa fosse stato della delegazione giapponese che con quella nave era andata fino a Washington. E quale inganno il presidente Lincoln avesse escogitato contro il glorioso Impero britannico. Non dipendiamo forse dal cotone dei Confederati per i nostri stabilimenti del Lancashire? Al tempo stesso non diventiamo ogni giorno sempre più dipendenti dal grano, dal mais, dalla carne e da altre merci che abbondano negli stati dell'Unione? Rabbrividì. Dio maledica quella guerra, i politici, Lincoln. Nel suo discorso inaugurale di marzo non ha forse detto: “ ... Questo paese appartiene al popolo e quando il popolo si stancherà del governo potrà esercitare il diritto costituzionale, di emendarlo, o il diritto rivoluzionario di scioglierlo o travolgerlo ...”. Una frase a dir poco provocatoria! Se quell'idea si diffondesse anche in Europa! Mio Dio! Spaventoso! Ci troveremmo in guerra da un giorno all'altro, e certamente lo scontro decisivo avrebbe luogo sul mare. Abbiamo bisogno del cotone. Cercò di ritrovare la calma. Era grato di cuore all'ammiraglio per essersi ritirato e imprecò ancora contro se stesso per aver perso il controllo. Devi stare più attento, e non devi preoccuparti di Edo e dell'arrogante decisione di “andarci in tre giorni, per Dio, su una nave da guerra e incontrare lo shògun, per Dio!”. Non sei il generale Robert Clive in India. Non lo sei. Questa è la tua prima volta in Estremo Oriente. Sei un novizio. Che follia mettere a repentaglio la vita di tutti questi uomini per qualche omicidio, che follia rischiare una guerra su grande scala. Oppure no? Purtroppo non è una follia.

Se la Bakufu la farà franca gli omicidi non avranno mai fine e saremo costretti a ritirarci fino a che una flotta alleata torni per imporre il volere dell'Impero con il sangue. La tua decisione è giusta, sono i mezzi per realizzarla che sono sbagliati. Si, ma è maledettamente difficile quando non si ha nessuno con cui parlare, nessuno di cui fidarsi. Grazie a Dio, Daphne arriva tra un paio di mesi. Non avrei mai immaginato di sentire a tal punto la mancanza di mia moglie e dei suoi consigli. Muoio dalla voglia di vedere lei e i ragazzi, dieci mesi sono lunghi e credo che uscire dalla tetraggine di Londra e da quella nebbia densa come una minestra di piselli la farà contenta e i ragazzi si divertiranno. Potremmo ricorrere all'aiuto di qualche signora dell'Insediamento, faremo dei viaggi e Daphne trasformerà la Legazione in una vera casa. Concentrò l'attenzione sul promontorio che si faceva ormai sempre più vicino. Dall'altra parte c'erano Edo e la rappresaglia. E' stata un'azione saggia da parte mia? si domandò per un ennesimo scrupolo di coscienza. Lo spero. Poi scendiamo e andiamo alla Legazione. Dobbiamo farlo. E ci prepariamo per l'incontro di domani. Sei solo in questa storia. Henri Seratard non aspetta e non spera altro che di coglierti in fallo. Per non parlare dei russi. Ma il responsabile sei tu, perchè l'incarico è stato affidato a te, e non dimenticare che quello di diventare ministro era il tuo sogno, in qualsiasi angolo del mondo, dicevi, purché ministro. E' vero, ma mai mi sarei aspettato di finire in Giappone! Dannato Foreign Office. Non mi sono mai trovato in una situazione simile: ho acquisito tutta la mia esperienza ai tavoli delle conferenze con francesi o russi, a Londra o alla corte di San Pietroburgo, nella sfolgorante Parigi e a Monaco, dove non si vedono mai navi da guerra né reggimenti. “Spero che non vi dispiaccia, sir William, se ho espresso le mie opinioni sulle posizioni dell'ammiraglio” gli disse Marlowe con rigidità. “Oh, niente affatto.” Sir William si sforzò di allontanare le preoccupazioni: cercherò di evitare la guerra, ma se guerra deve essere che sia. “Avete ragione, signor Marlowe, e naturalmente sono onorato di avere l'ammiraglio Ketterer come comandante della flotta. La nostra divergenza di opinioni riguarda questioni di protocollo. “Si riprese, avendo ritrovato una certa tranquillità di spirito, “ma al tempo stesso dovremmo permettere ai giapponesi di industrializzare il paese e di varare delle navi, una o venti navi non possono costituire un problema per la Gran Bretagna.

Dovremmo anzi incoraggiarli. Noi non siamo qui per colonizzare il Giappone. Ma ritengo che dovremmo essere noi a occuparci del loro addestramento, signor Marlowe, e non gli olandesi né i francesi. Grazie per avermelo ricordato... più grande sarà la nostra influenza e meglio andranno le cose.” Sir William si sentiva più ottimista. Erano rare le occasioni in cui gli accadeva di esprimere delle opinioni sincere a un ufficiale, tuttavia Marlowe gli era sembrato un giovane diverso dagli altri già da quando l'aveva incontrato per la prima volta a Kanagawa. “Proprio tutti i militari detestano i civili e i mercanti?” “No, signore, ma credo che la maggior parte di noi non li capisca. Le nostre vite sono diverse, diversi i valori. Qualche volta per noi è difficile.” Pur conversando con sir William, Marlowe non aveva mai perso di vista l'ammiraglio, intento a parlare con il capitano sul ponte e circondato da alcuni ufficiali apparentemente sulle spine. Il sole squarciò le nuvole e all'improvviso la giornata sembrò più bella. “Essere nella marina è... be'... è quello che ho sempre desiderato.” “La vostra famiglia è nella marina?” Marlowe rispose con fierezza. “Sì, signore” disse e avrebbe voluto aggiungere: mio padre è un capitano attualmente in servizio in patria, come fu prima di lui suo padre, luogotenente di bandiera dell'ammiraglio Lord Collingwood della Royal Sovereign a Trafalgar e come tutti i miei avi che sono sempre stati in marina da quando ne esiste una. E prima ancora, almeno così narra la leggenda, erano pirati al largo del Dorset, da dove viene la nostra famiglia. E li sorge la casa che abitiamo da più di quattro secoli. Ma non disse niente perchè sapeva che le sue parole sarebbero sembrate presuntuose. Si limitò ad aggiungere: “La mia famiglia viene dal Dorset”. “La mia dal nord dell'Inghilterra, Northumberland, da molte generazioni” ribatté sir William distrattamente, gli occhi fissi sul promontorio sempre più vicino, la mente alla Bakufu. “Mio padre morì quand'ero giovane; era un membro del Parlamento e aveva interessi economici nel porto di Sunderland e a Londra, ed era anche coinvolto nel commercio baltico e in quello del pellame dalla Russia. Mia madre era russa, così sono cresciuto bilingue e questo è stato il mio primo passo verso il Foreign Office. Mia madre era...” si riprese appena in tempo, stupefatto d'essere stato sul punto di raccontare tanti particolari della sua vita a uno sconosciuto. Stava per aggiungere che sua madre, nata contessa Sveva, cugina dei Romanoff e ancora viva e vegeta, era stata dama di compagnia della regina Vittoria.

Devo stare più attento... come se la mia famiglia e le mie origini riguardassero questa gente. “E voi, Tyrer?” “Io vengo da Londra, signore. Mio padre è un procuratore legale come lo era suo padre.” Phillip Tyrer rise. “Dopo essermi laureato all'Università di Londra gli dissi che volevo entrare al Foreign Office e quasi gli venne un colpo! E quando feci domanda per l'incarico di interprete in Giappone mi disse che ero impazzito.” “Forse aveva ragione, avete avuto una grande fortuna a restare vivo e siete qui solo da una settimana. Non la pensate così anche voi, Marlowe?” “Sì, signore. E vero.” Ritenendo che fosse finalmente giunto il momento giusto, chiese: “A proposito, Phillip, come sta il signor Struan?”. “La risposta di George Babcott è stata: né bene né male.” “Spero proprio che si riprenda presto” disse sir William con un'improvvisa smorfia di dolore. Quand'era stato a Kanagawa, tre giorni prima, Marlowe era andato incontro alla sua lancia per dirgli tutto ciò che sapeva di Struan e Tyrer, dell'uccisione di un soldato, del suicidio dell'assassino e dell'inseguimento del suo complice. “Pallidar e io abbiamo dato la caccia a quell'infame, sir William, ma era scomparso. Abbiamo setacciato palmo a palmo le case intorno ma niente. Secondo Tyrer erano i due della Tokaidò, signore, gli assassini. Ma non è sicuro perchè si assomigliano tutti, voi non trovate. “Ma perchè mai avrebbero dovuto rischiare la vita intrufolandosi nella Legazione?” “La miglior risposta ci è sembrata che forse volevano impedire l'identificazione e finire il lavoro, signore.” Avevano lasciato il molo dirigendosi a passo veloce verso le strade deserte e sinistre. “E la ragazza, signor Marlowe?” “Sembra star bene, signore. E' solo scossa.” “Bene, ringrazio il cielo per questo perchè il ministro francese è fuori di sé per il vile insulto all'onore della Francia e a una sua suddita, che per di più è sotto la sua tutela. Prima tornerà a Yokohama e meglio sarà. Oh, a proposito, l'ammiraglio mi ha chiesto di dirvi di tornare a Yokohama immediatamente. Ci sono molte cose da fare. Noi... ehm... abbiamo deciso di fare una visita formale a Edo fra tre giorni con la nave ammiraglia.” Marlowe aveva trattenuto a stento l'entusiasmo. Le azioni di mare o di terra erano l'unico modo per ottenere una promozione e a dispetto delle opinioni dell'ammiraglio lui questa volta l'avrebbe avuta. Il mio vecchio sarà molto orgoglioso di me, e otterrò il grado di capitano

molto prima dei miei fratelli minori, Charles e Percy, entrambi tenenti. Ora, sul ponte dell'ammiraglia, con il sole che splendeva in cielo e sotto i piedi il potente frastuono delle macchine, la sua eccitazione crebbe ancora. “Saremo a Edo in men che non si dica, signore. Il vostro ingresso sarà il più grandioso che sia mai stato visto, otterrete gli assassini, l'indennizzo e tutto quello che vorrete.” Tyrer si era reso conto quanto sir William di quell'eccitazione, ma solo il ministro ne fu spaventato. “Sì, bene, ora penso che andrò di sotto per qualche minuto. No, grazie, signor Marlowe, conosco la strada.” I due giovani lo guardarono allontanarsi con grande sollievo. Marlowe cercò con gli occhi l'ammiraglio. “Cosa è successo a Kanagawa dopo la mia partenza, Phillip?” “Be', è stata straordinaria, è una donna straordinaria se è questo che volete sapere.” “Potete essere più preciso?” “Alle cinque è scesa ed è andata direttamente da Malcolm Struan dov'è rimasta fino all'ora di cena. E' allora che l'ho vista: sembrava... sembrava più vecchia, no, non è la definizione giusta, non più vecchia, ma più seria di prima, rigida. George dice che è ancora sotto shock. Durante la cena sir William le ha detto che l'avrebbe riportata con sé a Yokohama ma lei ha ringraziato e rifiutato. Perché prima voleva essere sicura che Malcolm si fosse ripreso e né lui né George né nessuno di noi è riuscito a farle mutare opinione. Non ha mangiato quasi niente e poi è tornata nella camera di Malcolm dove si è fermata e ha persino insistito perchè le preparassero un giaciglio per potergli restare vicina, in caso di necessità. In effetti per i due giorni successivi, cioè fino a ieri quando sono tornato a Yokohama, non ha mai lasciato il suo fianco e nessuno di noi è riuscito a scambiare con lei più di dieci parole.” Marlowe trattenne un sospiro. “Deve amarlo.” “Qui viene la parte strana. Né io né Pallidar crediamo che questa sia la ragione. E' quasi come se fosse... be', incorporea è una parola troppo forte. E' più come se fosse ancora immersa in un sogno e con lui si sentisse al sicuro.” “Cristo! E cosa dice Segaossa?” “Si stringe nelle spalle e dice che bisogna essere pazienti e non preoccuparsi e che lei è il miglior tonico che Malcolm Struan possa trovare.” “Me lo immagino. E lui come sta in realtà?” “E' quasi sempre drogato, soffre molto, un sacco di vomito e di dissenteria, non so come lei faccia a sopportare quell'odore anche se tengono sempre la

finestra aperta.” La paura li assalì al pensiero di essere feriti in modo così grave. Tyrer guardò davanti a sé consapevole che la sua ferita non era del tutto guarita, sapendo che poteva ancora incancrenirsi e che il suo sonno era turbato da incubi popolati di samurai e spade insanguinate e Angélique. “Ogni volta che mi affacciavo per vedere Malcolm, ma a essere onesto soprattutto per vedere lei” continuò, “le sue risposte si limitavano a “si, no o non so” così dopo un pò ho rinunciato. E' sempre... è sempre bella.” Marlowe si chiese: se non ci fosse in giro Struan lei sarebbe davvero così inavvicinabile? Tyrer potrebbe essere un rivale serio? Pallidar venne liquidato come appartenente a un'altra categoria, Angélique non poteva apprezzare un simile cialtrone. “Bontà divina, guarda!” esclamò Tyrer. Doppiato il promontorio videro la vasta baia di Edo, mare aperto a dritta, fumo dai focolari della città adagiata nel paesaggio dominato dal castello. La baia era deserta: i traghetti e i sampan e la miriade di barche da pesca che l'avevano affollata fino a poche ora prima erano scomparsi, tutti ad eccezione di poche imbarcazioni che si stavano affrettando verso la riva. Tyrer provò un forte senso di disagio. “Ci sarà la guerra?” Dopo una pausa Marlowe disse: “Sono stati avvisati. La maggior parte di noi pensa di no, non una guerra su grande scala, non ancora, non questa volta. Ci saranno scaramucce”. Poi, siccome Tyrer gli piaceva e ne ammirava il coraggio, gli svelò i suoi pensieri. “Ci saranno incidenti e scaramucce di varie entità, qualcuno dei nostri verrà ucciso, qualcuno scoprirà d'essere vile, qualcuno diventerà un eroe, la maggior parte resterà pietrificata e ogni tanto qualcuno riceverà una decorazione, ma alla fine naturalmente vinceremo”. Tyrer rifletté sulle parole dell'ufficiale; ricordava la sua personale paura e come Babcott l'aveva convinto che la prima volta è la peggiore. Ripensò all'ardimento con cui Marlowe si era lanciato all'inseguimento dell'assassino, a quant'era seducente Angélique e a quant'era bello essere vivi, giovani, con un piede sul primo gradino di quella scala che portava alla carica di ministro. Il calore del suo sorriso riscaldò anche Marlowe. “In amore e in guerra tutto è lecito, non è vero?” disse. Angélique sedeva accanto alla finestra nella stanza dell'infermeria di Kanagawa e fissava il sole pallido che di tanto in tanto s'apriva tra le nubi, soffici come piumini da cipria. Teneva premuto sul viso il fazzoletto intriso di profumo. Dietro di lei giaceva Struan, immerso tra la veglia e il sonno. Il giardino era

battuto dai soldati di ronda. Dopo l'incidente dei due giapponesi, il servizio di sicurezza era stato raddoppiato e dall'accampamento di Yokohama erano state inviate nuove truppe al comando di Pallidar. Un colpo alla porta la risvegliò dalla sua réverie. “Sì?” chiese nascondendo il fazzoletto nella mano. Era Lim. Lo seguiva un cameriere cinese con un vassoio. “Mangiare per padrone. Signorina volere mangiare, heya?” “Mettilo lì!” ordinò Angélique indicandogli il tavolo. Stava per chiedere che le portassero anche il suo vassoio ma poi cambiò idea trovando una soluzione migliore. “Questa sera, questa sera signorina cenare sala da pranzo. Capito, sì?” “Capito.” Lim rise tra sé sapendo che quando credeva di essere sola Angélique usava il fazzoletto. Ayeeyah, le altre parti saranno piccole e delicate come il suo nasino? Cattivo odore? Di quale cattivo odore si lamentano? Qui non c'è ancora odore di morte. Devo dire al figlio del tai-pan che ci sono cattive novità da Hong Kong? Heya, meglio se le scopre da solo. “Capito.” S'inchinò e uscì. “Chèri?” Offrì automaticamente a Struan la zuppa di pollo. “Dopo, grazie, cara” rispose Malcolm Struan con un filo di voce come sempre. E come sempre Angélique insistette pur sapendo che avrebbe ricevuto soltanto un rifiuto. “Cerca di mangiarne un pò.” Tornò al suo posto accanto alla finestra e ai sogni ad occhi aperti: immaginava di essere a Parigi, al sicuro, nella grande casa dello zio Michel e della cara Emma, l'aristocratica zia inglese che l'aveva allevata insieme al fratello quando tanti anni prima il padre li aveva lasciati per recarsi a Hong Kong. Erano cresciuti nel lusso, con Emma che organizzava grandi pranzi e cavalcate al Bois sul suo pregiato stallone, l'invidia di tutti. Incantava il bel mondo parigino con la sua grazia e per questo ne era onorata. Quando si inchinava davanti all'imperatore Luigi Napoleone, nipote di Bonaparte, e all'imperatrice Eugénie, veniva riconosciuta e riceveva un sorriso benevolo. Palchi a teatro, la Comédie Francaise, buoni tavoli al Trois Frères Provengaux, il momento dell'ingresso in società, i diciassette anni, i pettegolezzi della stagione, lo zio Michel che raccontava le sue avventure ai tavoli da gioco e alle corse e sussurrava storielle piccanti sul conto degli

amici aristocratici e dell'amante, la contessa Beaufois, così bella e devota. Tutti sogni a occhi aperti, ovviamente, perchè in realtà lo zio Michel era soltanto un vicesegretario aggiunto al ministero della guerra ed Emma un'attrice inglese venuta in Francia con una compagnia shakespeariana itinerante, figlia di un modesto contabile. Gli zii erano troppo poveri per affrontare tutte le spese necessarie ad Angélique per vivere nella capitale del mondo, per acquistarle un bel cavallo o quella carrozza di cui aveva un disperato bisogno per entrare in società, nell'unico ambiente in cui avrebbe incontrato qualcuno che la sposasse e non che volesse soltanto dormire con lei e poi lasciarla per svolazzare su un nuovo fiore. “Te ne prego, zio Michel, te ne prego, è così importante! “ “Lo so, cipollina mia” le aveva risposto con tristezza il giorno del suo diciassettesimo compleanno, quando l'aveva implorato per ottenere in dono un certo cavallo castrato e i vestiti da cavallerizza necessari. “Non posso fare niente, non posso chiedere altri favori, non so chi pregare né quale usuraio convincere. Non ho segreti di stato da vendere né principi da sostenere. Ho anche tuo fratello e nostra figlia a cui pensare.” “Ma te ne prego, caro zio.” “Ho soltanto un'altra idea e abbastanza franchi per pagarti un modesto passaggio in nave fino a Hong Kong. E per comperarti qualche vestito, ma nient'altro.” Allora si era occupata degli abiti che dovevano essere perfetti, delle prove interminabili e... si, anche la gonna di seta, lo zio Michel non brontolerà; poi l'eccitazione del primo viaggio in treno fino a Marsiglia, con un vapore ad Alessandria d'Egitto e a Porto Said passando accanto ai primi scavi per il canale di Suez di Monsieur de Lesseps che secondo i più non sarebbe mai stato finito o, qualora ciò fosse avvenuto, avrebbe ottenuto l'effetto di svuotare gran parte del Mediterraneo, che era notoriamente più basso degli altri mari. E le sue implorazioni e i suoi sorrisi le fecero ottenere ciò che voleva, viaggiare sempre in prima classe: “La differenza è così piccola, caro caro zio Michel ...... Venti lievi e volti nuovi, notti esotiche e splendide giornate, l'inizio di una grande avventura, alla fine dell'arcobaleno un marito bello e ricco come Malcolm. E adesso tutto era stato rovinato da uno schifoso giapponese! Perché non riesco a pensare alle cose positive?, si domandò in preda a un'angoscia improvvisa. Perché i pensieri buoni diventano cattivi e poi orrendi e poi comincio a pensare a quello che è successo e a piangere? Non farlo, si ordinò, respingendo le lacrime. Comportati bene. Sii forte!

L'hai deciso prima di uscire dalla stanza: non è successo niente e quindi ti comporterai come se niente fosse fino alle prossime mestruazioni. Quando arriveranno, e arriveranno, sarai salva. E se... se non arrivassero? Non devi pensarci. Il tuo futuro non verrà distrutto, non sarebbe giusto. Pregherai e resterai vicino a Malcolm e pregherai anche per lui e farai come Florence Nightingale e più avanti magari lo sposerai. Gli gettò un'occhiata senza allontanare il fazzoletto dal naso. Sorpresa, notò che Malcolm la stava osservando. “L'odore è ancora così tremendo?” le chiese con tristezza. “No, chèri” rispose lei lieta che le bugie suonassero ogni volta più spontanee e sincere. “Un pò di zuppa, vuoi?” Malcolm annuì debolmente; sapeva di doversi nutrire ma sapeva anche che qualsiasi cosa avesse ingerito sarebbe stata puntualmente espulsa. Il suo corpo si liberava di ogni alimento introdotto nello stomaco, con spasmi che laceravano i punti di sutura, e il dolore che ne seguiva lo lasciava prostrato. “Dew neh loh moh” mormorò. L'imprecazione era in cantonese, la prima lingua che aveva imparato nell'infanzia. Angélique gli sorresse la tazza sotto il mento e asciugò le gocce che cadevano mentre lui sorbiva la minestra a piccoli sorsi. Avrebbe voluto ordinarle di andarsene mentre era ancora in sé, ma al tempo stesso era terrorizzato all'idea che se ne andasse per non tornare più. “Mi dispiace per tutto questo... però sono felice che tu sia qui.” Per tutta risposta lei gli sfiorò gentilmente la fronte. Aveva un solo desiderio: andarsene da quella stanza in cerca di aria fresca e solitudine, per poter pensare. Non si fidava di parlare. Meno cose dici e meglio è, aveva deciso, così non potranno metterti in trappola. Accudì Malcolm distrattamente e lasciò vagare i pensieri sulla vita a Hong Kong o Parigi, soprattutto Parigi. Non avrebbe più dovuto lasciarsi andare a quei sogni a occhi aperti. Mai più, soprattutto di giorno, era troppo pericoloso. Solo di notte, quand'era a letto al sicuro e con la porta chiusa, poteva abbandonarsi e permettere alla sua mente di viaggiare dove più desiderava. Un colpo alla porta. “Sì?” Babcott entrò. Angélique arrossì sotto il suo sguardo: perchè penso sempre che possa leggere i miei pensieri? si chiese. “Volevo soltanto vedere come stanno i miei pazienti” esordì il medico in tono gioviale. “Bene, bene, signor Struan, come vi sentite?” “Come al solito, grazie.”

Gli occhi allenati del dottor Babcott notarono che mezza minestra era stata mangiata e che non c'era ancora vomito da pulire. Prese il polso di Struan. Il battito era irregolare ma più forte. La fronte ancora madida di sudore per la febbre ma un pò meno del giorno prima. Posso sperare che guarisca? Disse di trovarlo molto migliorato, probabilmente grazie alle cure della signorina, che lui non c'entrava niente, ripeté insomma il solito repertorio di incoraggiamento. C'era poco da dire in verità, quasi tutto era nelle mani di Dio, se Dio esiste. Perché devo sempre concludere con un se? “Se continuerete a migliorare penso che potremmo riportarvi a Yokohama. Magari domani stesso.” “Ma non è prudente” ribatté Angélique sgomenta all'idea di perdere il suo rifugio. “Invece sì” rispose Babcott in tono gentile. Ammirava la forza di quella ragazza, il suo attaccamento al giovane Struan e avrebbe voluto tranquillizzarla. “Non lo consiglierei se fosse rischioso, ma credo anzi che il trasferimento sia indispensabile per il signor Struan che a Yokohama potrebbe ricevere maggior aiuto e stare più comodo.” Mon Dieu, cos'altro posso fare? Non deve partire, non ancora, non ancora. “Ascolta cara” disse Struan cercando di sembrare forte, “se Babcott pensa che io debba essere trasferito, sarà proprio la cosa giusta da farsi. Restituirebbe a te la libertà e renderebbe tutto più facile.” “Ma io non voglio la mia libertà, voglio stare qui proprio come adesso senza... senza creare problemi.” Il suo cuore batteva all'impazzata; si rendeva conto di sembrare isterica ma quel trasferimento l'aveva colta alla sprovvista. Stupida, sei proprio una stupida. E' ovvio che prima o poi un trasferimento ci sarebbe stato. Pensaci! Che cosa puoi fare per impedirlo? Ma non c'era alcun bisogno di impedirlo. Struan le stava dicendo che non si doveva preoccupare, che all'Insediamento lei sarebbe stata al sicuro e lui più felice, che c'erano dozzine di servi e comodi appartamenti nel palazzo Struan, e se lei lo desiderava avrebbe potuto abitare accanto a lui con la possibilità di andare e venire a suo piacimento a ogni ora del giorno e della notte. “Ti prego di non preoccuparti, voglio che anche tu sia contenta” la rassicurò. “Sarai più comoda, lo prometto, e quando starò meglio, io...” Uno spasmo lo contrasse provocandogli i temuti conati di vomito. Babcott lo ripulì e gli somministrò un altro calmante. “Sarebbe davvero più comodo per lui” spiegò ad Angélique quand'ebbe finito con Malcolm.

“Là posso disporre di un aiuto più qualificato, di una migliore attrezzatura, qui ad esempio è praticamente impossibile tenere sterilizzati gli strumenti. Struan ha bisogno... Mi dispiace dirlo in questo modo ma ha bisogno di un aiuto più efficace. Voi state facendo per lui più di quanto possiate immaginare ma vi sono funzioni che i suoi servi cinesi possono svolgere meglio. Mi dispiace essere così esplicito.” “Non dovete scusarvi, dottore. Avete ragione e comprendo la necessità di partire subito.” La sua mente stava correndo all'impazzata. La suite accanto a quella di Malcolm sarebbe stata l'ideale, e ci sarebbero stati domestici in abbondanza e abiti puliti. Troverò una sarta e mi farò confezionare magnifici vestiti e sarò servita e riverita... e controllerò lui e il futuro. “Voglio soltanto la cosa migliore per Malcolm” disse. “Per quanto tempo sarà in queste condizioni?” chiese per sapersi regolare. “Confinato a letto e incapace di badare a se stesso?” “Si, vi prego di dirmi la verità. Ve ne prego.” “Non lo so. Almeno due o tre settimane, forse di più, e per un altro mese o due non avrà molta mobilità.” Gettò un'occhiata veloce al giovane assopito. “Preferirei che non gli diceste niente. Si preoccuperebbe senza motivo.” Adesso che tutto le sembrava andare a posto Angélique annuì contenta e rilassata. “Non temete, non dirò nemmeno una parola. Pregherò che si riprenda presto e prometto di dare tutto l'aiuto che posso.” Allontanandosi, il dottor Babcott continuò a pensare: Mio Dio, che donna stupenda! Che viva o muoia, Struan per il momento è molto fortunato a essere amato così.

Capitolo 9 † I ventun colpi di cannone che ciascuna delle sei navi ancorate al largo di Edo aveva sparato in segno di saluto echeggiarono senza sosta. Gli uomini di tutti gli equipaggi si sentivano eccitati e al contempo fieri della loro forza e del fatto che fosse finalmente giunto il momento della resa dei conti. “Avranno quello che si meritano, sir William,” esultò Phillip Tyrer inebriato dall'odore di cordite. La città davanti alla baia era estesa e dominata da un imponente castello. Sembrava deserta. “Staremo a vedere.” Sul ponte dell'ammiraglia, Ketterer si rivolse al generale: “Questo dovrebbe convincervi che il nostro Willie è soltanto un damerino con delle manie di grandezza. Al diavolo il saluto reale, faremmo meglio a guardarci le spalle”. “Avete ragione, per Giove! Sì. Lo aggiungerò al rapporto che invio mensilmente al Gabinetto di Guerra.” Sul ponte dell'ammiraglia francese, Henry Seratard fumava la pipa ridacchiando con il ministro russo. “Mon Dieu, mio caro conte, questo è un giorno felice. L'onore della Francia verrà vendicato dall'arroganza inglese; sir William è votato al fallimento. La perfida Albione si rivela più perfida che mai.” “Sì. E' disgustoso che sia la loro flotta a guidare l'attacco.” “Ben presto le nostre due flotte insieme avranno il sopravvento.” “Sì. Dunque siamo d'accordo? Quando gli inglesi se ne andranno prendiamo l'isola settentrionale più Sakhalin, le Kurili e tutte le isole fino all'Alaska russa... Il resto alla Francia.” “D'accordo. E appena il mio promemoria arriverà a Parigi l'accordo diventerà ufficiale pur restando, beninteso, segreto.” Sorrise. “Quando si crea un vuoto è nostro dovere diplomatico riempirlo...” A Edo insieme alle cannonate era arrivata la paura. Gli scettici rimasti si unirono alle masse che affollavano strade, ponti e vicoli fuggendo con i pochi averi che riuscivano a trasportare. Essendo vietato l'uso di veicoli a ruote tutti si affrettavano a piedi terrorizzati all'idea che le palle fiammeggianti e i razzi di cui avevano sentito parlare potessero da un momento all'altro far cadere una pioggia di fuoco che avrebbe bruciato la città trasformandola in cenere insieme a loro. “Morte ai gai-jin” era l'imprecazione che correva di bocca in bocca.

“Presto... via di li... presto!” gridavano in preda al panico. Qualcuno venne addirittura calpestato o fatto precipitare da un ponte o ricacciato dentro una casa, ma la maggior parte fuggi senza meta ma con la ferma determinazione di allontanarsi quanto più possibile dal mare. “Morte ai gai-jin!” L'esodo era cominciato al mattino quando la flotta era stata avvistata nel porto di Yokohama. Tre giorni prima, quand'erano giunte in città voci sullo sfortunato incidente e sulla reazione degli stranieri, i mercanti più prudenti avevano assoldato in gran segreto i portatori più robusti e si erano messi in salvo insieme alle famiglie e ai loro beni. Soltanto i samurai del castello e quelli incaricati della difesa esterna e delle roccaforti erano al loro posto. E come sempre succede in questi casi, gli sciacalli s'aggiravano cauti tra le case abbandonate cercando qualcosa da rubare e rivendere. In Giappone il saccheggio era considerato un crimine particolarmente grave, e i colpevoli venivano perseguitati fino alla cattura e alla crocifissione. Con uguale severità era punita qualsiasi forma di furto. Entro le mura del castello lo shògun Nobusada e la principessa Yazu si erano fatti piccoli piccoli dietro un fragile paravento e stavano rannicchiati uno tra le braccia dell'altra mentre le loro guardie, i camerieri personali e la corte si tenevano pronti a una partenza immediata e aspettavano solo il permesso del Guardiano. In tutto il castello gli uomini si preparavano alla difesa o bardavano i cavalli e impacchettavano i beni più preziosi degli Anziani in vista dell'eventuale evacuazione che avrebbe avuto inizio se fosse cominciato il cannoneggiamento o se al Consiglio fosse stata comunicata la notizia dello sbarco delle truppe nemiche. Nella carriera del Consiglio dove gli Anziani si erano riuniti in gran fretta parlava Yoshi. “Lo ripeto: non credo che ci attaccheranno in forza né che ci...” “E io non vedo perchè aspettare. Andarsene è prudente, cominceranno a bombardarci da un momento all'altro” disse Anjo. “Questi primi colpi sono stati un avvertimento.” “Non credo, penso che fosse soltanto una maniera arrogante di annunciare il loro arrivo. Non hanno colpito nessun obiettivo. La flotta non ci bombarderà e l'incontro di domani avrà luogo, come previsto. All'incontro ...” “Come fai a essere così cieco? Se le nostre posizioni fossero capovolte e tu comandassi quell'invincibile flotta, esiteresti forse un solo istante ad annientarci?”

Anjo ribolliva di rabbia. “Dimmi, esiteresti?” “No, certo che no! Ma loro non sono al nostro posto e noi non ci troviamo al loro, ed è per questo e soltanto per questo che riusciremo a tenerli in pugno.” “Tu non vuoi capire!” Esasperato Anjo si rivolse agli altri tre membri del Consiglio. “Lo shògun deve essere portato al sicuro e noi stessi dobbiamo metterci in salvo per poter continuare a governare. Non propongo altro che di assentarci temporaneamente. Con la sola eccezione delle nostre guardie personali tutti i samurai resteranno, resterà la Bakufu.” Guardò un'altra volta Yoshi con occhi di fuoco. “Resta pure con loro, se vuoi. Adesso votiamo per l'approvazione di un'assenza temporanea!” “Aspetta! Se fai una cosa simile lo shògunato perderà la faccia per sempre e non potremo più esercitare alcun controllo sui daimyo e l'opposizione... né sulla Bakufu. Mai più!” “Stiamo solo cercando di essere prudenti! La Bakufu non parte. Lo stesso fanno i guerrieri. Come capo del Consiglio ho il diritto di chiedere una votazione e dunque votiamo! Io voto Sì!” “Io dico No!” ribatté Yoshi. “Io sono d'accordo con Yoshi-san” disse Utani. Era un uomo piccolo e sottile con gli occhi dolci e il volto scarno. “Anch'io penso che andandocene perderemmo la faccia per sempre.” Yoshi gli sorrise. Utani gli piaceva; i daimyo del feudo di Watasa erano alleati con i Toranaga fin da prima di Sekigahara. Poi Yoshi guardò gli altri due che erano entrambi membri del clan Toranaga. Nessuno ricambiò il suo sguardo. “Adachi-sama?” Adachi, signore di Mito, un ometto rotondo e nervoso, infine parlò: “Sono d'accordo con Anjo-sama che dovremmo partire, insieme allo shògun naturalmente. Tuttavia sono d'accordo con te che in questo caso, a dispetto di ogni apparenza, potremmo andare incontro a una sconfitta più grande, e quindi voto rispettosamente No”. Il più anziano del gruppo, Toyama, era un uomo di cinquant'anni con i capelli grigi. Aveva un imponente doppiomento ed era guercio in seguito a un incidente di caccia, e rispetto alla vita media dei giapponesi era vecchio. Toyama, daimyo di Kii, era il padre del giovane shògun. “Vivere o morire non ha alcun significato per me, né mi preoccupa la morte di mio figlio, l'attuale shògun, poiché se ne potrà sempre nominare un altro. Ma m'inquieta assai ritirarmi soltanto perchè i gai-jin sono all'ancora nella nostra baia. Voto contro qualsiasi ritirata e a favore di un attacco. Voto

perchè ci si diriga sulla costa e, se gli sciacalli vogliono sbarcare, voto perchè si uccidano gli uomini e si distruggano navi, cannoni e fucili.” “Non disponiamo di abbastanza uomini” rispose Anjo disgustato da quel vecchio e dalla sua passione guerresca che non era mai stata messa alla prova della realtà di una battaglia. “Quante volte devo dirlo: non disponiamo di un numero sufficiente di uomini per difendere il castello e impedire al nemico di sbarcare in forze. Quante volte devo ripetere che le nostre spie ci hanno riferito che il nemico dispone di duemila soldati armati di fucili sulle navi e all'Insediamento e di altri ventimila a Hong Kong e...” Infuriato, Yoshi lo interruppe, “Avremmo avuto samurai in abbondanza e daimyo a portata di mano per guidare l'attacco se tu non avessi abrogato la legge del sankin-kotai!” “Fu per volere dell'imperatore, scritto e presentato da un principe di questa corte. Non potevamo far altro che obbedire. Avresti obbedito anche tu.” “Sì... se avessi ricevuto il documento! Ma io non l'avrei mai accettato, sarei stato sempre lontano oppure avrei cercato di trattenere il principe o impiegato una qualsiasi delle mille tattiche possibili, o sarei sceso e patti con Sanjiro, istigatore della “richiesta”, oppure ancora avrei chiesto a uno dei nostri sostenitori alla corte di presentare una petizione all'imperatore nella quale si domandava di ritirare il suo appoggio alle richieste” ribattè seccamente Yoshi. “Qualsiasi petizione dello shògunato dev'essere approvata, è la legge. Controlliamo pur sempre le ricchezze della corte! Tu hai tradito la nostra eredità.” “Mi chiami traditore!” Sotto gli occhi sbalorditi degli altri tre, Anjo aveva messo mano alla spada. “Dico che hai consentito a Sanjiro di manovrarti” replicò Yoshi immobile. Sembrava calmo e sperava che Anjo facesse la prima mossa per poterlo uccidere e farla finita una volta per tutte con le sue manifestazioni di stupidità. “Non esistono precedenti di questo genere: nessuno ha mai contravvenuto alle indicazioni del Legato. E' stato un tradimento.” “Eccetto le famiglie Toranaga non c'era daimyo che non volesse l'abrogazione! Erano d'accordo, anche la Bakufu e il Roju, e perciò sembrava più prudente accettare la “richiesta” dell'Imperatore piuttosto che spingere tutti i daimyo dalla parte dell'opposizione, riunita intorno a Sanjiro, ai tosa e ai choshu. Saremmo stati completamente isolati. Non è forse vero?” chiese rivolto agli altri. “Non è vero, dunque?” Utani rispose a bassa voce: “E' certamente vero che io ho votato per il abrogazione, ma adesso penso di aver commesso un errore”. “Il nostro errore fu di non intercettare Sanjiro e ucciderlo” disse Toyama. “Era protetto dal mandato imperiale” precisò Anjo.

Toyama digrignò i denti in un sorriso. “Che vuoi dire con questo?” “Tutti i Satsuma si sarebbero ribellati contro di noi e con diritto, e i tosa e i choshu si sarebbero uniti a loro, col risultato di far scoppiare una guerra civile che non possiamo vincere. Votate! Sì o No?” “Io voto per l'attacco, soltanto per l'attacco” rispose ostinato il vecchio. “Oggi contro i nemici nella baia e domani contro Yokohama.” Da lontano giunse il suono stridulo delle cornamuse. Altre tre lance si stavano dirigendo verso il molo, affollate di highlander che stavano raggiungendo gli altri già raggruppati a riva e intenti a battere sul tamburo e a soffiare nelle cornamuse. Kilt, colbacchi, tuniche scarlatte, fucili. Una quarta imbarcazione con a bordo sir William, Tyrer, Lun e i tre uomini al suo servizio le seguiva. Mentre sbarcavano il capitano responsabile del distaccamento salutò. “Tutto è pronto, signore. Abbiamo messo pattuglie a guardia del molo e delle zone circostanti. La marina ci darà il cambio entro un'ora.” “Bene. Allora procediamo verso la Legazione.” Sir William e il suo gruppo salirono sulla carrozza che era stata faticosamente trasportata fin li. La seguivano venti soldati scelti della marina. Il capitano diede l'ordine e il corteo parti con le bandiere al vento e i soldati tutt'intorno, preceduti da uno splendente tambur maggiore alto più di due metri, e i portatori cinesi di Yokohama in retroguardia che, infelici, trascinavano i carretti carichi di bagagli. Le stradine strette costeggiate da negozietti e case a un solo piano erano misteriosamente vuote. Vuoto era anche il posto di guardia al primo ponte di legno, sopra un canale maleodorante. E anche il Posto di guardia successivo. Un cane si precipitò ringhiando da un vicolo scomparve guaendo colpito da un calcio che lo fece volare per dieci metri. Altre strade e ponti vuoti. Il corteo procedeva lentamente a causa dell'ingombrante carrozza che cercava di avanzare lungo strade concepite soltanto per i pedoni. La carrozza si fermò un'altra volta. “Non sarebbe meglio se camminassimo, signore?” chiese Tyrer. “No, per Dio, arriverò in carrozza!” Sir William era furente con se stesso. Aveva dimenticato che le strade giapponesi potevano essere così strette. Aveva voluto arrivare in carrozza soltanto perchè le ruote erano proibite, per provocare la Bakufu. “Capitano, se per passare dovete abbattere qualche casa non esitate” gridò. Non fu necessario.

I soldati della marina, avvezzi a maneggiare i cannoni negli angusti spazi sotto coperta, si diedero a spingere e tirare e imprecando sollevavano di peso la carrozza facendole superare gli ostacoli che incontravano. La Legazione sorgeva su una leggera altura nel sobborgo di Gotenyama, accanto a un tempio buddista. Era una struttura a due piani, in stile britannico e circondata da un'alta cancellata i cui lavori di edificazione erano cominciati tre mesi dopo la firma del Trattato. La costruzione del palazzo tuttavia era proceduta con terribile lentezza; in parte perchè gli inglesi, volendo aderire in tutto al progetto originale, avevano utilizzato materiali da costruzione, vetro per le finestre e mattoni per le fondamenta, fatti arrivare appositamente da Londra, Hong Kong o Shanghai, e ignorando lo stile architettonico del Giappone le cui case, senza fondamenta, erano di legno e carta, volutamente leggere e facili da erigere o riparare o addirittura ricostruire in caso di terremoti. L'altra causa dei ritardi era invece imputabile alla Bakufu che, riluttante all'idea di un edificio straniero al di fuori dei confini di Yokohama, poneva ogni sorta di ostacolo al proseguimento dei lavori. Benché ancora incompleto, l'edificio della Legazione comunque venne occupato e la bandiera britannica fu alzata quotidianamente sul pennone alto che tanto faceva imbestialire gli ufficiali della Bakufu e gli abitanti di Edo. Il predecessore di sir William l'aveva abbandonata l'anno prima, quando i ronin nottetempo avevano assassinato i due uomini a guardia della sua camera da letto facendo infiammare gli animi degli inglesi ma esultare quelli dei giapponesi. “Ci dispiace tanto... “ aveva detto la Bakufu. Ma quel luogo, dato in affitto agli inglesi a tempo indeterminato, fu un errore, infatti da sempre i giapponesi avevano fatto il possibile per rientrarne in possesso, era stato scelto con grande oculatezza. Dal cortile anteriore si vedevano la città e il mare dove la flotta era all'ancora in posizione di battaglia. Il corteo arrivò a riprendere possesso del luogo con grande sfarzo militare perchè sir William aveva deciso di trascorrervi la notte per prepararsi all'incontro dell'indomani. “Che c'è?” chiese al capitano che si era portato una mano al berretto. “Faccio issare la bandiera, signore? Occupiamo la Legazione?” “Immediatamente. Attenetevi al piano, fate un gran fracasso, tamburi, cornamuse, eccetera, poi fate suonare la banda mentre marcia su e giù.” “Sissignore.” Il capitano si diresse verso il pennone e al suono delle cornamuse e tra i rulli di tamburo la bandiera britannica tornò a svettare sull'altura. Dall'ammiraglia venne sparata una bordata in risposta, sir

William alzò il cappello e diresse tre Viva la Regina. “Bene. Così va meglio. Lun!” “Sì, signore?” “Aspetta un minuto, tu non sei Lun!” “Io Lun numero due, padrone, Lun numero uno viene sera.” “D'accordo, Lun numero due. Cena al tramonto, sistema tutto per bene anche per gli altri padroni.” Lun numero due annuì con amarezza. Detestava trovarsi in quel luogo così isolato e pieno di pericoli, circondato da migliaia di occhi ostili che i barbari sembravano non notare nemmeno. Non li capirò mai, pensò. Quella notte Tyrer non riusciva a dormire. Sdraiato sul pagliericcio sistemato sopra un tappeto, si rigirava senza sosta agitato dalle preoccupazioni. Ripensava a Londra e ad Angélique, all'attacco subito e all'incontro che avrebbe avuto luogo l'indomani, al braccio ancora dolorante e a sir William che era stato irascibile tutto il giorno. L'aria era fredda nella piccola stanza, e lasciava presagire l'annuncio dell'inverno. Le finestre si affacciavano sui giardini posteriori dell'edificio, estesi e grandi e dalla fitta vegetazione. Nella stanza c'era un altro materasso per il capitano ancora impegnato dall'ultima ronda. La città era immersa in un silenzio rotto soltanto dal latrato dei cani affamati e dal miagolio di qualche gatto randagio. Di tanto in tanto giungeva fino a lui il suono lontano delle campane delle navi che battevano l'ora e l'eco delle risate gutturali dei soldati. Quei suoni lo rassicuravano; i soldati sono straordinari, pensò, qui siamo al sicuro. Incapace di prendere sonno, si alzò e si diresse sbadigliando alla finestra, l'aprì e si appoggiò al davanzale. Fuori solo tenebre e nubi fitte. Nessun'ombra nei giardini pattugliati dagli highlander che illuminavano i sentieri con le lampade a olio. Al di là dello steccato intravide la sagoma incerta di un tempio buddista. Al tramonto, quando le cornamuse avevano terminato di suonare la ritirata e la bandiera era stata ammainata come di rito, il pesante cancello sbarrato e suonate le loro campane, i monaci avevano riempito la notte con uno strano canto che non aveva mai fine: “Ommm mahnee padmeee hummmmm...”. Aveva avuto un effetto benefico sui nervi di Tyrer, altri nella Legazione avevano invece fischiato e gridato ai monaci di tacere. Accese la candela che qualcuno gli aveva preparato accanto al letto. Il suo orologio da tasca segnava le due e trenta.

Continuando a sbadigliare rimboccò la coperta, si sedette appoggiando la schiena contro il cuscino durissimo e aprì la sua piccola valigetta da diplomatico con le iniziali in rilievo, un regalo d'addio della madre, estraendone un taccuino. Scorrendo la colonna di parole e frasi giapponesi che aveva trascritto foneticamente, ripassò le traduzioni in inglese. Poi ripeté l'esercizio partendo dal termine inglese e pronunciando a voce alta la traduzione in giapponese e con grande soddisfazione scoprì di non aver fatto errori. “Ma sono poche parole e non so nemmeno se le pronuncio correttamente, c'è così poco tempo per studiare e non ho ancora incominciato a scrivere.” A Kanagawa aveva chiesto a Babcott qualche consiglio su come scovare un buon insegnante. “Perché non chiedere al padre?” gli aveva risposto il dottore. E così Tyrer aveva fatto. “Certamente, ragazzo mio. Ma questa settimana non è possibile, cosa ne diresti del mese prossimo? Vuoi un altro sherry?” Mio Dio, quanto si beve da queste parti! Cominciano a bere al mattino e sono tutti ubriachi entro l'ora di pranzo. Il reverendo non mi sarà di nessuna utilità e per di più puzza da far girar la testa. Che colpo di fortuna invece aver incontrato André Poncin! Il giorno precedente aveva incontrato il francese in uno dei negozietti del villaggio che vendeva i generi di prima necessità per gli stranieri. I negozietti erano tutti concentrati sulla strada principale, dietro High Street, che partendo dal mare collegava l'Insediamento con la Città Ubriaca e dove tutti sembravano vendere le stesse mercanzie locali: cibo e attrezzature per la pesca, spade da due soldi e curiosità. Tyrer stava appunto curiosando in uno scaffale di libri giapponesi fatti con carta di ottima qualità e molto spesso corredati di belle stampe e incisioni in rilievo, e cercava disperatamente di comunicare i propri desideri al sorridente proprietario. “Pardon, monsieur” aveva detto lo straniero, “ma dovete spiegare a quest'uomo che tipo di libro cercate.” Aveva una trentina d'anni, gli occhi marroni e i capelli castani e ondulati, un bel naso gallico e vestiti eleganti. “Dovete dire: watashi hoshii hon, Ing'erish Nihongo, dozo, sto cercando un libro con il testo in inglese e giapponese.” Sorrise. “Ovviamente libri del genere non esistono da queste parti, anche se con un'ottima imitazione della sincerità questo tizio vi risponderà: Ah so desu ka, gomen nasai, eccetera cioè: Oh, molto spiacente, oggi non ne ho ma se tornate domani... Ovviamente non dice il vero, o meglio vi dice ciò che

secondo lui voi volete sentire, una consuetudine giapponese dalla quale è impossibile prescindere. Temo che i giapponesi non siano generosi con la verità nemmeno con se stessi.” “Ma monsieur, posso domandarvi come avete fatto a imparare il giapponese... lo parlate correntemente.” L'uomo rispose con una piacevole risata. “Troppo gentile da parte vostra. No, tutt'altro che correntemente, ma mi sforzo.” Si strinse nelle spalle con aria divertita. “L'ho imparato con pazienza e con l'aiuto dei nostri santi padri che lo parlano.” Phillip Tyrer si irrigidì. “Non sono cattolico, temo... appartengo alla Chiesa d'Inghilterra e sono... ehm... un apprendista interprete della Legazione britannica. Mi chiamo Phillip Tyrer, sono appena arrivato e mi sento ancora confuso.” “Oh, ma certo, il giovane inglese della Tokaidò. Vi prego di accettare le mie scuse: avrei dovuto riconoscervi. Siamo stati tutti sconvolti dall'incidente. Posso presentarmi? Sono André Poncin di Parigi, commerciante.” “Je suis enchanté de vous voir” rispose Tyrer disinvolto nonostante un leggero accento. In tutto il mondo, eccetto in Gran Bretagna, il francese era la lingua della diplomazia e dell'aristocrazia, perciò conoscerlo alla perfezione era un requisito indispensabile per chiunque volesse ottenere un incarico presso il Foreign Office nonché per chiunque volesse passare per una persona istruita. Sempre in francese aggiunse: “Pensate che i vostri sacerdoti potrebbero prendere in considerazione l'ipotesi di darmi delle lezioni o quanto meno autorizzarmi a frequentare le loro classi?”. “Non credo che qualcuno di loro abbia dei veri e propri allievi, comunque potrei chiedere. Partite con la flotta domani?” “Sì, senz'altro.” “Anch'io, al seguito di monsieur Seratard, il nostro ministro. Eravate alla Legazione di Parigi prima di venire qua?” “Sfortunatamente no, sono stato a Parigi soltanto per due settimane, monsieur, in vacanza. Questo è il mio primo incarico. “Oh, ma il vostro francese è ottimo, monsieur.” “Temo di no, non proprio” rispose in inglese Tyrer. “Presumo che siate un interprete anche voi!” “Oh no, io sono soltanto un uomo d'affari. A volte do una mano a monsieur Seratard quando il suo interprete olandese è ammalato. Parlo olandese. Dunque desiderate imparare il giapponese e il più velocemente possibile, suppongo.” Poncin si avvicinò allo scaffale e scelse un libro. “Ne avete mai visto uno prima? Si intitola Le cinquantatré stazioni della Tokaidj di Hiroshige. Non dimenticate che in giapponese si comincia a leggere dall'ultima pagina e da destra a sinistra. Le illustrazioni si riferiscono

alle stazioni di cambio che si trovano lungo il percorso, fino a Kyòto.” Sfogliò il libro in fretta. “Ecco Kanagawa, e questa è Hodogaya.” Le incisioni a quattro colori erano di fattura squisita, più belle di qualsiasi altra incisione che Tyrer avesse mai visto; i dettagli erano davvero straordinari. “Sono meravigliose.” “Sì. L'autore è morto quattro anni fa. Peccato, perchè era un genio. Alcuni dei loro artisti sono straordinari; Hokusai per esempio, e Masanobu, Utamaro e dozzine d'altri.” André rise e prese un altro libro. “Ecco qua, questo è un testo fondamentale per apprendere i caratteri, gli ideogrammi, come si dice.” Tyrer rimase a bocca aperta. Si trattava di illustrazioni erotiche del tutto esplicite: c'erano uomini e donne vestiti in modo sontuoso con gli attributi mostruosamente esagerati, tratteggiati con dettagli grotteschi e significativi nell'atto di accoppiarsi con vigore e fantasia. “Oh mio Dio!” Poncin rise di gusto. “Ah, allora vi ho fatto dono di un nuovo piacere. Per la letteratura erotica i giapponesi non temono rivali; possiedo una collezione che sarò lieto di mostrarvi. Si chiamano shungae oppure wkiyoe: immagini del Mondo dei Salici o del Mondo Fluttuante. Non avete ancora visitato uno dei loro bordelli?” “Io... io no... no... io, ehm, non ci sono ancora andato.” “Oh, in questo caso posso avere l'onore di farvi da guida?” In quell'istante, nel giaciglio alla Legazione, Tyrer ricordò la conversazione con Poncin e il suo segreto imbarazzo. Aveva cercato di fingersi un uomo di mondo ma per tutto il tempo non aveva fatto che sentire la voce di suo padre che in tono grave gli ripeteva: “Stammi a sentire, Phillip, i francesi sono ignobili, senza eccezioni, e completamente indegni di fiducia, i parigini sono la feccia della Francia e Parigi è senza dubbio la Sodoma del mondo civile... una città licenziosa, volgare e... e francese!” Povero papà, pensò, si sbaglia su molte cose, ma del resto ha vissuto ai tempi di Napoleone ed è scampato al bagno di sangue di Waterloo. Per quanto grande, la vittoria dev'essere stata un'esperienza terribile per un tamburino di dieci anni; non mi stupisce che non possa perdonare né dimenticare o tantomeno accettare l'epoca nuova. Ma non importa, papà ha vissuto la sua vita e per quanto bene gli voglia e per quanto ammiri ciò che ha fatto io devo vivere la mia. La Francia ormai è quasi un'alleata, non c'è niente di male nello stare a sentire e imparare. Arrossì ricordando come il suo interesse era stato risvegliato dalle parole di André e si vergognò di quella debolezza.

Il francese gli aveva spiegato che in Giappone i bordelli erano luoghi di grande bellezza, e che le cortigiane, le Signore del Mondo Fluttuante come venivano chiamate, erano senza dubbio le più raffinate che avesse mai incontrato. “Esistono postriboli di vari livelli, ovviamente, e in quasi tutte le città puoi trovare anche delle donne di strada. Tuttavia è possibile usufruire di un quartiere tutto dedicato al piacere che si chiama Yoshiwara. E' dall'altra parte del ponte, oltre la recinzione.” Rise un'altra volta. “Lo chiamiamo il Ponte per il Paradiso. Oh si, e dovreste sapere... oh, ma scusatemi, ho interrotto i vostri acquisti.” “Ma no, niente affatto” si affrettò a rispondere Tyrer, sgomento all'idea che quel flusso di informazioni cessasse ponendo termine a un incontro decisamente interessante. Nel suo francese più fiorito e mellifluo disse: “Considererei un onore se voleste avere la bontà di continuare il racconto, lo dico davvero, è così importante imparare quanto più possibile e io... io temo che le persone che frequento e con cui parlo siano... ahimè, tutt'altro che parigini, piuttosto barbosi anzi, e all'oscuro delle raffinatezze in cui i francesi sono maestri. Per ricambiare la vostra cortesia sarei felice d'offrirvi un tè o dello champagne alla Casa da Tè inglese, o magari qualcosa di più forte all'Hotel Yokohama. Mi dispiace, non sono ancora membro del circolo e quindi non vi posso invitare”. “Troppo gentile. D'accordo, accetto di buon grado.” Colmo di gratitudine, Tyrer fece un cenno al negoziante e con l'aiuto di Poncin pagò il libro, sbalordito dal basso prezzo. S'incamminarono lungo la strada. “Che cosa stavate dicendo del Mondo dei Safici?” “Che non vi è alcunché di sordido, a differenza della maggior parte dei postriboli d'Europa e di quasi tutto il resto del mondo. Anche qui come a Parigi, ma in un certo senso ancora di più, l'atto sessuale è considerato una forma d'arte, qualcosa di delicato e speciale come l'alta cucina, un'arte da rispettare e praticare e apprezzare senza... scusatemi, senza alcun anglosassone senso di colpa.” Tyrer si irrigidì. Per un istante fu tentato di rispondere per le rime e puntualizzare che vi era un'enorme differenza tra un inutile senso di colpa e la salutare moralità e i sani valori vittoriani. E avrebbe anche voluto aggiungere che purtroppo i francesi non facevano mai alcuna distinzione data la loro propensione ad assumere atteggiamenti troppo disinvolti, un modo di vivere che tuttavia aveva sedotto persino un aristocratico come il Principe di Galles che non si tratteneva dal definire Parigi casa sua.

(”Una fonte di grave preoccupazione nei più altolocati circoli britannici” aveva scritto il “Times”, “poiché la volgarità francese non ha limite insieme a quella loro deprecabile ostentazione della ricchezza e a quelle scandalose danze moderne come il cancan, dove, ci viene comunicato da fonte certa, le ballerine evitano, per scelta personale o dietro sollecitazione di altri, di indossare la biancheria intima”.) Tuttavia tacque rendendosi conto che se avesse parlato sarebbe sembrato soltanto una brutta copia del padre. Povero papà, pensò concentrandosi sulle parole di Poncin mentre percorrevano High Street, accarezzati dal sole e tonificati dall'aria fresca. Probabilmente anche l'indomani, il giorno della spedizione a Edo, sarebbe stata una bella giornata. “Ma qui in Giappone, monsieur Tyrer” riprese il francese allegramente, “vi sono regole meravigliose sia per i clienti che per le ragazze. Per esempio le ragazze non sono in mostra tutte insieme se non nei postriboli d'infimo ordine, ma anche in questi nessun uomo può entrare, puntare un dito e dire: voglio quella”. “Non si fa?” “Oh no, la donna ha sempre il diritto di rifiutare un uomo senza per questo perdere la faccia. Esistono speciali protocolli che potrò spiegarvi nei dettagli, se lo desiderate, ma ciascuna Casa è diretta da una maitresse chiamata mama-san. San è il suffisso che significa padrone di casa, maschile e femminile, e la mama-san è una donna il cui vanto consiste nell'eleganza dell'ambiente che dirige e nella raffinatezza delle ragazze di cui si circonda. I prezzi e la qualità delle case ovviamente variano. Nelle case migliori la mama-san sottopone il cliente a un vero e proprio esame, considera se abbia i titoli per onorare la sua casa e tutto ciò che contiene, in sostanza vuole scoprire se lui può permetterselo o se poi non avrà il denaro per pagare il conto. In Giappone un buon cliente ottiene un enorme credito, monsieur Tyrer, ma peste lo colga se non paga o se paga in ritardo quando con discrezione gli verrà presentato il conto. Non ci sarà più nessuna casa in tutto il Giappone che accetterà di farlo entrare.” Tyrer ridacchiò nervosamente. “Come si passino parola non lo so, ma succede così, da qui fino a Nagasaki. Perciò, monsieur, in un certo senso questo è il paradiso. Un uomo può fornicare anche per un anno a credito, se lo desidera.” Il tono di voce di Poncin cambiò in modo impercettibile. “Ma l'uomo saggio compera il contratto di una donna e se la riserva per il suo esclusivo piacere personale. Sono davvero così affascinanti e così poco

costose se si tiene conto dell'enorme profitto che abbiamo sul cambio.” “Voi, dunque, consigliate questo?” “Si, senz'altro.” Bevvero una tazza di tè, poi dello champagne al circolo di cui André era un socio ben conosciuto e apprezzato. Prima che si separassero André aggiunse: “Il Mondo dei Salici merita cura e attenzione. Sarei onorato di diventare la vostra guida”. Phillip lo ringraziò pur sapendo che non avrebbe accettato l'offerta. E Angélique? E se... se mi prendessi uno di quei sordidi malanni, la gonorrea o il mal francese, che i francesi chiamano male inglese e i dottori chiamano sifilide, e di cui George Babcott mi ha subito parlato? Dice che abbonda sotto nomi diversi in tutti i porti del Trattato dall'Asia al Medio Oriente, “ ... e in qualsiasi porto del mondo, Phillip. Ne incontro molti casi tra i pazienti giapponesi, e non tutti sono casi che possiamo collegare alla presenza degli europei. Se avete tali inclinazioni usate una protezione, ma tenete presente che non è sicura. La miglior cosa da fare quindi è astenersi, se capite quello che voglio dire.” Phillip Tyrer era rabbrividito. Aveva avuto soltanto un'esperienza: due anni prima, dopo gli esami finali, si era vergognosamente ubriacato con alcuni compagni nel pub Star and Garter di Pont Street. “E' arrivato il momento, Phillip, vecchio mio. E' tutto sistemato; lei ci sta per un penny, non è vero, Flossy?” La ragazza era una sgualdrinella di quattordici anni, e l'incontro aveva avuto luogo in gran fretta e con una profusione di sudore in un puzzolente bugigattolo in cima alle scale; un penny per la ragazza e uno per il taverniere. Per molti mesi aveva vissuto nel terrore d'essere stato infettato. “Qui nel nostro Yoshiwara abbiamo più di cinquanta case da tè, come le chiamano, o locande, tra cui puoi scegliere, e tutte sono fornite di licenza pubblica e vengono controllate dalle autorità. State attento però a non andare mai nella Città Ubriaca. “La Città Ubriaca era la zona malfamata dell'Insediamento dove i bar più infimi e le camere in affitto più squallide s'affollavano intorno all'unico bordello europeo: “è un posto per la soldataglia e i marinai, per i relitti, i perdigiorno, gli usurai, i giocatori d'azzardo e gli avventurieri d'ogni razza. Di gente simile se ne trova in ogni porto perchè qui non esiste ancora polizia né legge sull'immigrazione. Può darsi che la Città Ubriaca sia una valvola di sicurezza per l'Insediamento ma è comunque poco intelligente andarci dopo il tramonto. Se volete conservare il portafoglio e le vostre parti intime in buona salute non tirateli mai fuori nella Città Ubriaca. Musuko-san merita di meglio”. “Chi?”

“Ah, ecco una parola molto importante. Musuko vuol dire figlio, o figlio mio, musuko-san letteralmente significa onorabile figlio oppure signor figlio, ma nel gergo comune sta a significare cazzo o mio onorabile cazzo. Le ragazze si chiamano musume. La parola significa figlia o figlia mia, ma nel Mondo dei Salici vuol dire vagina. Quando dite alla vostra ragazza konbanwa, musumesan, le state dicendo Buonasera, chérie. Ma se lo dite con una strizzatina d'occhi lei capisce il doppio senso: Come va? Come sta la tua gola d'oro, come i cinesi chiamano questo passaggio verso il paradiso. Sono così saggi i cinesi, perchè è certo che le sue pareti sono lastricate d'oro, l'oro vi scorre e soltanto l'oro ve ne consente l'accesso, in un modo o nell'altro...” Tyrer si lasciò ricadere sul giaciglio dimentico del taccuino, la mente in subbuglio. Quasi senza rendersene conto aveva aperto il libriccino delle ukiyo-e nascosto nella valigetta e ne stava studiando le immagini. Lo richiuse con un movimento brusco. Non c'è nessun futuro nel guardare immagini sconce, pensò disgustato. La fiamma della candela cominciava a tremolare. La spense e si allungò, i lombi appesantiti da quel dolore familiare. Che uomo fortunato è André. E' chiaro che ha un'amante. Dev'essere meraviglioso, anche se soltanto la metà di quello che dice è vero. Potrò averne una anch'io? Potrei comprare un contratto? André dice che qui molti lo fanno e che poi affittano una casetta nel quartiere di Yoshiwara, in un luogo segreto e fuori mano: “Si dice che tutti i ministri ne posseggano una e che sir William ci vada puntualmente una volta alla settimana; pensa che nessuno lo sappia ma invece gli altri lo spiano e ridono, tutti tranne quell'olandese che è impotente, e il ministro russo che preferisce esplicitamente compagnie d'altro genere ...”. Dovrei correre il rischio, se me lo potessi permettere? Dopotutto André me ne ha fornito una buona ragione: “Per imparare in fretta il giapponese, monsieur, la cosa migliore è procurarsi un dizionario da camera da letto... è l'unico modo” . Ma l'ultimo pensiero prima di lasciarsi travolgere dal sonno fu per André: mi chiedo perchè sia stato tanto gentile con me, tanto loquace. E' raro che un francese si dimostri così disponibile con un inglese. Molto raro. E' strano che non abbia menzionato Angélique nemmeno una volta... Mancavano pochi minuti all'alba. Ori e Hiragai ancora avvolti negli indumenti ninja, uscirono dal nascondiglio sulla proprietà del tempio di fronte alla Legazione, scesero dalla collina correndo in silenzio, attraversarono il ponte di legno e si immersero nei vicoli. Hiraga precedeva. Un cane li vide; ringhiando cercò di ostacolare la loro

corsa e morì. Il breve arco tracciato dalla spada di Hiraga fu fulmineo; continuarono a correre con le lame sguainate addentrandosi sempre più nelle viscere della città. Ori seguiva Hiraga con cautela. La ferita aveva cominciato a infettarsi. Al riparo di una baracca, Hiraga si fermò in un angolo protetto. “Qui siamo al sicuro, Ori!” sussurrò. Con gesti rapidi i due uomini si sfilarono gli indumenti ninja e li riposero in una sacca che Hiraga si mise a tracolla. Indossarono due anonimi kimono. Hiraga ripulì la sua spada con grande cura usando uno straccio di seta con cui tutti i samurai avevano l'abitudine di proteggere le loro lame e poi infilò l'arma nel fodero. “Pronto?” “Sì.” Hiraga ripartì orientandosi in quel labirinto di vicoli con passo sicuro, tenendosi al riparo dove poteva ed esitando negli spazi aperti fino a quand'era certo che fossero soli. Non voleva vedere e soprattutto incontrare nessuno. Erano diretti al loro nascondiglio. Erano rimasti a spiare la Legazione fin dal primo mattino. I bonzi, i preti buddisti, li avevano ignorati quando Hiraga si era svelato spiegando il motivo della loro presenza. Tutti i bonzi erano accesi xenofobi e disprezzavano gli stranieri i quali, ai loro occhi, erano tutt'uno con i gesuiti, il nemico più odiato e temuto. “Ah, shishi, siate i benvenuti” aveva detto il vecchio monaco. “Non abbiamo mai dimenticato che i gesuiti cercarono la nostra rovina né che gli shògun Toranaga sono il nostro flagello. “ Dalla metà del quindicesimo secolo fino agli inizi del diciassettesimo soltanto i portoghesi conoscevano la rotta per arrivare in Giappone. Alcuni editti papali avevano inoltre conferito al Portogallo un diritto esclusivo sulle isole e ai gesuiti portoghesi il diritto al proselitismo. Nel giro di pochi anni il numero di daimyo convertiti al cattolicesimo insieme ai loro sudditi era cresciuto a tal punto da permettere al dittatore Goroda di farsene schermo per massacrare migliaia di monaci buddisti che all'epoca gli erano apertamente ostili e avevano un certo seguito nella popolazione. Il tairò Nakamura che succedette a Goroda ne ampliò ulteriormente i poteri e mise i bonzi e i gesuiti gli uni contro gli altri ricorrendo all'inganno, alle persecuzioni, alle torture e alle uccisioni. Poi venne Toranaga. Toranaga, tollerante nei confronti delle religioni ma non verso l'ingerenza straniera, si rese conto che tutti i daimyo convertiti avevano combattuto contro di lui a Sekighara. Tre anni più tardi divenne shògun e dopo altri due anni abdicò in favore del figlio Sudara pur conservando tutto il potere nelle sue mani com'era nella

consuetudine giapponese. Tenne a freno gesuiti e buddisti con intransigenza ed eliminò o neutralizzò tutti i daimyo cattolici. Suo figlio Sudara inasprì la repressione e il nipote, lo shògun Hironaga, portò a compimento il progetto elaborato con tanta cura nel legato: mise ufficialmente fuori legge la cristianità in Giappone punendo i trasgressori con la morte. Nel 1638 Hironaga distrusse l'ultimo bastione cristiano di Shimabara, vicino a Nagasaki, dove alcune migliaia di ronin, trentamila contadini e le loro famiglie si erano riuniti per ribellarsi a lui. Quelli che si rifiutarono di abiurare vennero crocifissi o passati a fil di spada come criminali comuni. Soltanto uno sparuto gruppetto scelse l'abiura. Poi Hironaga rivolse la sua attenzione ai buddisti; accettò con grazia il cosiddetto dono delle loro terre e li rese innocui. “Siate benvenuti, Hiraga-san e Ori-san” aveva ripetuto il vecchio monaco. “Noi siamo con gli shishi, con sonno-joi e contro lo shògunato. Siete liberi di andare e venire come desiderate. Se avete bisogno d'aiuto non avete che da chiederlo.” “Prendete nota del numero di soldati, dei loro andirivieni, quali stanze sono occupate e da chi.” I due samurai aspettarono e spiarono tutto il giorno. Al tramonto indossarono gli abiti ninja e per due volte Hiraga cercò di avvicinarsi alla Legazione. Durante uno dei due tentativi arrivò persino a scalare il recinto per una ricognizione ma dovette ritirarsi in gran fretta quando una sentinella rischiò di scontrarsi con lui. “Non ci entreremo mai di notte, Ori” sussurrò. “Né di giorno. Troppi soldati.” “Per quanto tempo pensi che si fermeranno.” Hiraga sorrise. “Fino a quando non li staneremo.” Erano ormai quasi giunti al nascondiglio, una locanda che sorgeva a oriente del castello. L'alba era prossima, il cielo più luminoso e le nubi meno fitte del giorno precedente. Davanti a loro la strada era deserta. Deserto anche il ponte. Hiraga lo imboccò con sicurezza ma fu costretto a fermarsi. Una pattuglia della Bakufu di dieci uomini stava sbucando dall'ombra. Tutti si misero in guardia, le mani sull'elsa della spada. “Venite avanti e datemi i vostri documenti di identificazione” gridò il samurai in capo. “Chi sei tu per sfidarci?” “Hai visto le nostre insegne” ribatté furente l'uomo facendo scricchiolare un'asse del ponte. I suoi uomini si schierarono dietro di lui. “Siamo guerrieri di Mito, nono reggimento, guardiani dello shògun. Dichiarate la vostra identità.” “Siamo stati a spiare sulla palizzata nemica. Fateci passare.” “Sembrate ladri. Cos'avete in quella borsa eh? Presentatevi!” La spalla di Ori

doleva. Quando si era accorto della suppurazione non ne aveva fatto cenno a Hiraga e gli aveva taciuto anche il dolore. La testa gli girava all'idea di doversi battere ma pensò che in fondo rischiava soltanto una morte ammirevole. “Sonno-joi!” gridò all'improvviso scagliandosi contro il samurai sul ponte. Gli altri mossero un passo all'indietro per lasciar loro spazio mentre Ori colpiva con tutta la sua forza, si riprendeva dal colpo mancato, attaccava un'altra volta e dopo una finta metteva a segno il colpo. L'uomo giaceva morto ai suoi piedi. Poi Ori si slanciò verso un altro uomo che battè in ritirata. Provò con un terzo che a sua volta si ritirò. L'anello di uomini cominciava a chiuderglisi intorno. “Sonno-joi!” gridò Hiraga correndo al fianco di Ori. Insieme tennero a bada il gruppo. “Dichiaratevi!” ripeté senza scomporsi un giovane samurai. “Io sono Hiro Watanabe e non voglio uccidere né essere ucciso da un samurai sconosciuto.” “Sono uno shishi di Satsuma!” rispose Ori con fierezza aggiungendo come d'abitudine un falso nome: “Riyama Takagaki”. “E io sono di Choshu e il mio nome è Shodan Moto. Sonno-joi” gridò Hiraga, e si slanciò contro Watanabe che si ritrasse senza paura. “Non ho mai sentito parlare di nessuno di voi due” sibilò Watanabe. “Non siete shishi, siete due balordi.” Il suo fendente venne parato. Da abile uomo d'armi Hiraga usò la forza dell'assalitore per fargli perdere l'equilibrio, si scostò e lo infilò nel lato scoperto, poi si ritrasse e in un unico movimento posò la lama sul collo dell'uomo decapitandolo, mentre con una giravolta si rimetteva perfettamente in guardia. Seguì un profondo silenzio. “Chi è stato il tuo maestro?” qualcuno gli chiese. “Toko Fujita è stato uno dei miei sensei” rispose Hiraga preparandosi a uccidere ancora. “Eeee!” Si trattava di uno dei più rispettati maestri di Mito, morto a Edo nel terremoto del '55 in cui perirono centomila persone. “Sono shishi, e gli uomini di Mito non uccidono gli shishi, che sono dei loro” disse a bassa voce uno degli uomini. “Sonno-joi!” Il samurai mosse un passo in avanti incerto su quello che avrebbero fatto i compagni, la spada sempre sguainata. Ori e Hiraga lo guardarono, poi si guardarono l'un l'altro. Si mosse anche un altro uomo. Benché le spade fossero ancora tutte sguainate i samurai avevano aperto un varco per lasciarli passare. Hiraga si irrigidì aspettandosi una trappola ma Ori annuì dimentico del

dolore, incurante della vittoria o della morte. Con calma ripulì la lama e la infilò nel fodero. Si inchinò rispettosamente ai due morti e si avviò attraverso lo stretto passaggio tra gli uomini senza guardare né a destra né a sinistra. Un momento dopo Hiraga lo seguì con altrettanta lentezza. Appena giunsero all'angolo cominciarono a correre e fino a quando non furono molto lontani non si fermarono.

Samurai 1866

Capitolo 10 † I cinque rappresentanti della Bakufu entrarono con gran calma nel cortile anteriore della Legazione a bordo dei loro palanchini. Arrivavano con un ora di ritardo all'appuntamento preceduti da samurai con gli stendardi dagli emblemi ufficiali e circondati da guardie. Sir William lì accolse dall'alto della scalinata che conduceva all'imponente ingresso. Accanto a lui i ministri francese, russo e prussiano e i loro aiutanti, Phillip Tyrer e altri membri del personale della Legazione da un lato e dall'altro una guardia d'onore composta da soldati scozzesi e da alcuni soldati francesi voluti da Seratard. L'ammiraglio Ketterer e il generale erano rimasti a bordo, in riserva. I giapponesi s'inchinarono cerimoniosamente, sir William e gli altri alzarono i cappelli. In gran pompa condussero i giapponesi nell'enorme salone delle udienze cercando di trattenere l'ilarità davanti a quegli abiti stravaganti: i cappellini neri e laccati sul cranio rasato e legati con nodi elaborati sotto il mento, i sontuosi mantelli, i kimono da cerimonia di seta multicolore, i pantaloni voluminosi, i sandali con il cinturino e le calze-scarpe infradito, tabi, i ventagli infilati nelle cinture insieme alle immancabili due spade. “Quei cappellini non sono grandi abbastanza neanche per pisciarci dentro” disse il russo. Sir William, prese posto al centro di una fila di sedie con accanto i ministri. Anche Phillip sedeva a un'estremità, per raggiungere il numero previsto per una delegazione ufficiale. I rappresentanti della Bakufu presero posto di fronte agli inglesi; gli interpreti sedettero sui cuscini tra i due gruppi. Dopo lunghe discussioni stabilirono che ciascun gruppo avrebbe tenuto cinque guardie le quali presero posto dietro i loro padroni guardandosi in cagnesco. Gli avversari si presentarono seguendo un rigido protocollo. Toranaga Yoshi fu l'ultimo: “Tomo Watanabe, ufficiale di seconda classe” disse fingendo un'umiltà che non gli apparteneva. Aveva occupato l'ultimo posto all'estremità della fila giapponese e indossava abiti molto semplici. Tutti gli altri e le guardie erano stati istruiti, con la minaccia d'una severa punizione in caso di disobbedienza, di trattarlo come se fosse il membro meno importante della delegazione. Tornò a sedersi. Come sono brutti questi nemici, pensava, come sono ridicoli con quei cappelloni alti, quegli strani stivali e i vestiti brutti, pesanti e neri.... ecco perchè puzzano! Sir William spiegò prudente e con semplicità: “Un suddito inglese è stato

assassinato da un samurai Satsuma”. Alle cinque del pomeriggio l'umore degli europei era pessimo, i giapponesi invece sempre cortesi, sorridenti, apparentemente imperturbabili. In una dozzina di modi diversi i loro portavoce avevano sostenuto che... erano tanto dispiaciuti ma non avevano alcun potere legale sul feudo di Satsuma, non conoscevano gli assassini e non sapevano come fare a trovarli, comunque si, era una faccenda sgradevole, tuttavia no, non sapevano come ottenere riparazione, comunque si, tenuto conto di alcune circostanze una riparazione si poteva pretendere, tuttavia no, non era possibile incontrare lo shògun, comunque si, lo shógun sarebbe stato onorato di concedere un'udienza al suo ritorno, tuttavia no, non nell'immediato futuro, comunque sì, gli chiederemo subito un appuntamento per una data precisa, tuttavia no, non poteva essere per questo mese perchè i suoi impegni attuali non erano ancora stati resi ufficiali, comunque sì, al più presto, no, il prossimo incontro e tutti gli incontri successivi non avrebbero dovuto svolgersi a Edo, si a Kanagawa, comunque erano spiacenti, non questo mese, forse il prossimo, no, molto spiacenti, non abbiamo l'autorità... Ogni punto era stato tradotto dall'inglese all'olandese al giapponese, discusso come al solito lungamente dai giapponesi e poi risottoposto in tono pedante alla traduzione in olandese e poi in un inglese salmodiante con tutte le più cortesi richieste di spiegazioni sui punti più insignificanti. Yoshi trovava l'intera procedura molto interessante. Era la prima volta che si trovava accanto a un gruppo numeroso di gai-jin e che prendeva parte a un incontro dove persone che non erano di pari rango potevano discutere di politica anziché limitarsi ad ascoltare e obbedire. Tre degli altri quattro membri della delegazione giapponese erano ufficiali poco importanti della Bakufu. Tutti avevano usato nomi falsi, una consuetudine quando si trattava con gli stranieri. L'uomo che parlava inglese sedeva accanto a Yoshi. Si chiamava Misamoto. Yoshi gli aveva ordinato di ricordare ogni particolare, di riferirgli discretamente tutte le cose importanti che non venivano tradotte con precisione e di tenere la bocca chiusa quando non era interrogato. L'uomo era un criminale condannato a morte. Quando il giorno prima Yoshi l'aveva mandato a chiamare, Misamoto si era prostrato tremando di paura. “Alzati e siediti là.” Yoshi indicò con il ventaglio l'estremità del tatami su cui sedeva. Misamoto obbedì senza indugi. Era un uomo minuto con gli occhi molto stretti e allungati, i capelli e la barba brizzolati, il volto madido di sudore, gli abiti ridotti in cenci, le mani callose e la pelle color miele scuro. “Mi dirai la verità: chi ti ha interrogato dice che parli l'inglese.” “Sì, signore.”

“Sei nato ad Anjiro di Izu e sei stato in una terra chiamata America?” “Sì, signore.” “Quanto vi sei rimasto?” “Quasi quattro anni, signore.” “Dove precisamente?” “San Francisco, signore. “Cos'è San Francisco?” “Una grande città, signore.” “Proprio in America?” Yoshi lo studiava, ansioso di ottenerne informazioni. Vedeva che l'uomo era disperatamente determinato a compiacerlo e al tempo stesso spaventato a morte, spaventato da lui e dalle guardie che l'avevano spinto nella stanza costringendolo a prostrarsi con il volto a terra. Perciò Yoshi decise di tentare un approccio diverso. Licenziò le guardie e si diresse verso la finestra affacciata sulla città. “Dimmi in fretta e con parole tue che cosa ti è successo.” “Ero un pescatore nel villaggio di Anjiro, signore, quando sono nato trentatré anni fa, signore” cominciò Misamoto raccontando una versione ripetuta già centinaia di volte. “Nove anni fa stavo pescando con sei compagni sulla mia barca a pochi ri al largo quando fummo catturati da una tempesta improvvisa che diventò subito più grande e ci mandò alla deriva per trenta giorni o più verso est nel mare aperto, a centinaia di ri dalla costa, forse migliaia, sire. Tre dei miei compagni caddero in mare. Poi il mare si calmò ma le nostre vele erano a brandelli e non avevamo né cibo né acqua. Noi tre sopravvissuti cercavamo di pescare ma niente, non prendevamo niente... non c'era acqua da bere... Uno di noi impazzì e saltò in acqua cominciando a nuotare diretto verso un'isola che pensava di aver visto e annegò. Non c'era terra in vista né navi, soltanto acqua. Molti giorni dopo l'altro compagno, il mio amico Ishii, morì, e io restai solo. Poi un giorno pensai d'essere morto anch'io perchè vidi una strana nave senza vele che sembrava in fiamme, invece era soltanto un piroscafo a ruote americano diretto a San Francisco da Hong Kong. Mi portarono a bordo, mi fecero mangiare e mi trattarono come uno di loro... ero impietrito dall'orrore, signore, ma divisero il loro cibo con me, mi diedero da bere e mi vestirono...” “Questa nave americana ti portò a quel San qualcosa? Che cosa successe poi?” Misamoto raccontò com'era stato affidato a un fratello del capitano della nave, un commerciante, perchè imparasse la lingua e svolgesse qualche lavoretto utile fino a quando le autorità non avessero deciso che cosa fare di lui. Visse con la famiglia di quest'uomo per circa tre anni e lavorò nel loro negozio e al porto.

Un giorno venne portato al cospetto di un importante ufficiale di nome Natow che dopo averlo a lungo interrogato gli comunicò che l'avrebbe mandato con la nave da guerra Missouri a Shimoda come interprete del console Townsend Harris che si trovava in Giappone per negoziare un trattato. A quell'epoca Misamoto vestiva abitualmente all'occidentale e aveva imparato molti atteggiamenti americani. “Fui felice di accettare, sire, perchè ero certo che qui avrei potuto essere d'aiuto, soprattutto alla Bakufu. Il nono giorno dell'ottavo mese dell'anno 1857 secondo il loro calendario, cinque anni fa, sire, accostammo al largo di Shimoda in Izu, poco a sud del mio villaggio natale, sire. Appena sbarcato chiesi e ottenni un giorno libero di permesso e partii immediatamente, signore, per andare a fare rapporto al corpo di guardia più vicino convinto che sarei stato accolto a braccia aperte per via di tutto quello che sapevo... ma le sentinelle non vollero... “ Il volto di Misamoto era contratto dall'angoscia. “Non mi ascoltarono, sire, né capirono... mi legarono e mi trascinarono a Edo... questo accadeva circa cinque anni fa, sire, e da allora sono stato sempre isolato e trattato come un criminale, anche se non sono in prigione, e continuo a spiegare e rispiegare che non sono una spia ma un fedele suddito di Izu e che quello che mi è successo...” L'uomo cominciò a piangere. Disgustato, Yoshi pose bruscamente fine a quel piagnisteo. “Smettila! Lo sai o non lo sai che la legge proibisce a chiunque di uscire dal Giappone senza uno speciale permesso?” “Sì, signore, ma io...” “E non sai che in base alla stessa legge chiunque lasci il Giappone senza ragione non potrà più tornarvi sotto pena di morte?” “Oh sì, sire, sì, sì, lo sapevo ma, ma non pensavo che quella legge si riferisse a me, sire, io pensavo che sarei stato benvenuto perchè sapevo tante cose e avevo fatto naufragio, era stata la tempesta a...” “La legge è legge. E in questo caso si tratta di una buona legge. Previene la contaminazione. Ritieni di essere stato trattato in modo ingiusto?” “Oh no, signore” si affrettò a rispondere Misamoto asciugandosi le lacrime, e ancora più spaventato piegò la testa sul tatami. “Vi prego di scusarmi, imploro il vostro perdono, per favore scusate.” “Limitati a rispondere alle domande. Il tuo inglese è buono?” Io... io capisco e parlo un pò l'americano, sire. “E' la stessa lingua che parlano i gai-jin qui?” “Sì, sire, sì, più o meno...” “Quando sei venuto per incontrare l'americano Harris eri rasato o no?” “Non rasato, sire, avevo una barbetta corta come quasi tutti i marinai, sire, e

mi ero fatto crescere i capelli per legarli in un codino e incatramarli come loro.” “Chi hai incontrato con questo gai-jin Harris?” “Solo lui, sire, per circa un'ora con uno dei suoi aiutanti di cui non ricordo il nome.” Yoshi valutò un'altra volta i pericoli insiti nel suo piano: presentarsi all'incontro sotto mentite spoglie, senza l'approvazione del Consiglio, e usare quest'uomo come spia per origliare segretamente il nemico. Forse Misamoto è già una spia dei gai-jin, pensò gravemente, o perlomeno questo è quanto sembrano credere tutti quelli che l'hanno interrogato. Certo è un bugiardo ed è chiaro che la sua storia è fasulla, i suoi occhi sono troppo furbi e quando ha la guardia abbassata assomiglia a una volpe. “Molto bene. Più tardi vorrò sapere tutto quello che hai imparato, tutto e... sai leggere e scrivere?” “Sì, signore, ma in inglese poco.” “Bene. Intendo impiegarti. Se mi obbedisci alla lettera e mi fai contento, rivedrò il tuo caso. Ma se mi deludi ti augurerai di non avermi mai incontrato.” Yoshi spiegò a Misamoto quello che voleva da lui e lo affidò a degli insegnanti. Quando ventiquattro ore dopo le guardie glielo ebbero riportato con i capelli acconciati nello stile dei samurai e con indosso gli abiti di un ufficiale completi di spade prive di lama, non lo riconobbe. “Bene. Cammina su e giù.” Misamoto obbedì e Yoshi fu impressionato dalla velocità con cui aveva imparato a camminare eretto anziché curvo e servile come un pescatore. Troppo in fretta, pensò Yoshi, ormai convinto che Misamoto fosse ben di più, o molto meno, di quello che voleva far credere agli altri. “Hai capito bene cosa dovrai fare?” “Si, sire, giuro che non vi deluderò, sire.” “Lo so, le mie guardie hanno l'ordine di ucciderti se ti allontani di un solo passo o diventi sgarbato o... indiscreto.” “Faremo una pausa di dieci minuti” comunicò stancamente sir William. “Diglielo Johann.” “Vogliono sapere perchè.” Johann Favrod, l'interprete svizzero, sbadigliò. “Scusate. Sembra che pensino d'aver discusso tutti i punti eccetera e che porteranno il vostro messaggio al castello eccetera e s'incontreranno ancora con voi a Kanagawa con una risposta dall'alto eccetera eccetera tra circa sessanta giorni come suggerito ieri eccetera.” “Date a me la flotta per un giorno e vi sistemerò questi matyryebitz e l'intera faccenda” intervenne il conte Zergeyev. “Magari” disse sir William aggiungendo in perfetto russo: “Desolato, mio caro conte, ma siamo qui per trovare una soluzione diplomatica, se possibile”.

Poi in inglese precisò: “Accompagnateli nella sala d'attesa, Johann. Andiamo, signori?”. Si alzò e dopo un rigido inchino condusse il suo gruppo in un'altra sala. Passando davanti a Phillip Tyrer gli disse: “Restate con loro, tenete occhi e orecchi aperti”. Tutti i ministri si diressero verso il capiente vaso da notte nell'angolo della loro anticamera. “Mio Dio!” esclamò Sir William colmo di gratitudine. “Pensavo che mi sarebbe scoppiata la vescica.” Entrò Lun seguito da alcuni servi carichi di vassoi. “Ecco padrone, tè-cha, panini!” Indicò sprezzante con il pollice l'altra stanza. “Niente di buono da scimmie, heya?” “Cerca di non farti sentire, per Dio. Forse qualcuno di loro parla pidgin.” Lun lo fissò facendo finta di non capire. “Come dice padrone?” “Oh, non importa.” Lun uscì ridacchiando tra sé. “Bene, signori, come previsto progressi zero.” Seratard si stava accendendo la pipa e parlava con André Poncin molto compiaciuto della sconfitta di sir William. “Cosa proponete di fare, sir William?” “Voi che cosa consigliate?” “E' un problema soprattutto inglese che riguarda la Francia solo in parte. Se fosse un problema interamente mio l'avrei già sistemato con élan francese il giorno dell'accaduto.” “Tuttavia, mein Herr, avreste bisogno d'una flotta di pari grandezza” ribatté in tono brusco von Heimrich. “Naturalmente. In Europa ne disponiamo, come ben sapete. E se presenziare in forze come i nostri alleati britannici fosse la politica imperiale della Francia, schiereremmo anche noi un paio di flotte.” “Sì, infatti ...” Sir William era stanco. “Mi sembra di capire che suggeriate una risposta dura.” “Nuda e cruda” commentò il conte Zergeyev. “Ja.” “Naturalmente” convenne Seratard. “Pensavo che voi aveste già deciso in questo senso, sir William.” Il ministro addentò un panino e finì la sua tazza di tè. “D'accordo. Sospenderò l'incontro e ne convocherò un altro per le dieci di domani mattina con un ultimatum: un appuntamento con lo shògun entro la settimana, gli assassini e l'indennizzo oppure la nostra rappresaglia con... ehm... l'approvazione di voi tutti naturalmente.” “Sir William” disse Seratard, “poiché ritengo che per questi uomini possa

essere effettivamente difficile organizzare un incontro con lo shògun vi suggerisco di rimandare la richiesta al momento in cui arriveranno i rinforzi. A quel punto i vostri argomenti saranno ancora più convincenti. Dopotutto state soltanto mostrando i denti per stabilire un precedente, non per mettere in pratica la politica imperiale dei nostri paesi.” “Ben detto” commentò il prussiano pur con riluttanza. Sir William rifletté sulle motivazioni di quel suggerimento senza riuscire a trovarvi errori né vedervi insidie nascoste. “Molto bene. Domanderemo al più presto un incontro con lo shògun. D'accordo?” Tutti annuirono. “Scusatemi sir William” intervenne André Poncin in tono affabile, “posso suggerirvi di affidare a me l'incarico di comunicare ai giapponesi la vostra decisione: sospendere all'improvviso l'incontro potrebbe farvi perdere la faccia con queste persone. Non credete?” “Molto saggio, André” esclamò Seratard. Per tutti i presenti Poncin non era che un mercante con qualche conoscenza delle tradizioni giapponesi, un pò di familiarità con la lingua, un amico e un interprete occasionale. In realtà Poncin era un'importante spia mandata a scoprire e neutralizzare le iniziative degli inglesi, dei tedeschi e dei russi in Giappone. “Che cosa ne dite, sir William?” “D'accordo” rispose l'inglese sovrappensiero. “D'accordo. Avete ragione, vi ringrazio. E' meglio che non sia io a farlo. Lun!” La porta si aprì immediatamente. “Si, padrone?”. “Trova il signor Tyrer svelto svelto!” Poi si rivolse agli altri: “Trattandosi di un problema inglese sarà Tyrer a farlo al posto mio”. Quando Phillip tornò nell'altra stanza, che s'affacciava sul cortile anteriore, si diresse verso Johann con tutta la dignità che riuscì a trovare. Gli ufficiali della Bakufu continuarono a chiacchierare senza prestarli attenzione. Yoshi era sempre un pò appartato con Misamoto e non parlava. “Johann, presenta gli omaggi di sir William a questi signori e di' loro che l'insoddisfacente incontro di oggi è aggiornato ma che sono riconvocati per domattina alle dieci per ciò che egli si augura essere una conclusione soddisfacente di questa ingiustificabile faccenda: gli assassini, l'indennizzo e un incontro con lo shògun garantito al più presto. In caso contrario ci sarà una rappresaglia.” Johann impallidì. “Glielo devo dire così?” “Sì, esattamente così.” Anche Tyrer era stanco di quel tira e molla e non poteva dimenticare la morte violenta di John Canterbury, la sofferenza di Malcolm Struan e il terrore di Angélique.

“Diglielo.” Restò a osservare Johann che riferiva il breve ultimatum in un olandese gutturale. L'interprete giapponese arrossì e poi diede inizio a una laboriosa traduzione sotto gli occhi attenti di Tyrer che osservavano gli antagonisti con grande attenzione. Quattro di loro ascoltavano mentre l'ultimo, l'ometto con gli occhi piccoli e le mani callose, sembrava altrimenti indaffarato. Aveva già notato che era il solo a non avere le mani ben curate come gli altri. Sussurrava in continuazione qualcosa all'orecchio del più giovane degli ufficiali, il più nobile d'aspetto, Watanabe. Come vorrei capire quello che si stanno dicendo, pensò irritato Tyrer. Quell'incontro aveva rinnovato la sua determinazione a fare il possibile per imparare il giapponese al più presto. Quando l'interprete sgomento e imbarazzato smise di parlare seguì un silenzio rotto soltanto dai respiri affannosi degli uomini della delegazione giapponese. I loro volti tuttavia erano rimasti impassibili. Durante la traduzione Tyrer aveva notato che due degli ufficiali gettavano occhiate furtive a Watanabe. Perché? Adesso sembravano aspettare qualcosa. Watanabe abbassò le palpebre e nascondendosi dietro il ventaglio mormorò alcune parole. Subito l'uomo accanto a lui s'irrigidì e parlò brevemente. Tutti si alzarono e senza inchinarsi uscirono in silenzio. Watanabe per ultimo, prima dell'interprete. “Johann, questa volta il messaggio gli è arrivato” disse Tyrer contento. “Sì. E gli ha anche fatto girar le palle come si deve.” “E' quello che voleva sir William.” Johann si asciugò la fronte. Era un uomo di altezza media, magro e forte, con i capelli castani e un volto dai lineamenti duri. “Non vedo l'ora che tu cominci a fare l'interprete. Per me è giunto il momento di tornare ai miei monti pieni di neve finché ho la testa ancora sul collo. Ce ne sono troppi di questi cretini qui, e sono tutti troppo imprevedibili.” “Come interprete godrai di una posizione privilegiata, immagino” disse Tyrer un pò a disagio. “Sarai sempre il primo a sapere le cose.” “E a portare le cattive notizie! E sono tutte cattive, mon vieux. Questi ci odiano e non aspettano altro che di buttarci fuori. Io ho firmato un contratto con il vostro Foreign Office rinnovabile per mutuo consenso. Il contratto scade tra due mesi e tre giorni e il mio inglese sta andando all'inferno.” Johann si diresse verso il tavolinetto accanto alla finestra e prese il boccale di birra che aveva ordinato al posto del tè. “Niente rinnovo, anche se la tentazione è forte.”

All'improvviso sorrise. “Merde, sono state proprio le tentazioni a trattenermi.” Tyrer rise vedendo lo sguardo malizioso dell'altro. “Musume? La tua ragazza?” “Vedo che impari in fretta.” Nel cortile anteriore gli ufficiali stavano salendo sui palanchini. In giardino ogni attività si era fermata e la mezza dozzina di giardinieri si era inginocchiata e teneva la fronte appoggiata al suolo. Misamoto aspettava accanto a Yoshi consapevole che il minimo errore gli sarebbe costato la vita e augurandosi d'aver superato la prima prova. In un modo o nell'altro sarò utile a questo bastardo, pensava in inglese, fino al giorno in cui potrò salire su una nave americana e tornare al paradiso e raccontare al capitano che sono stato rapito quand'ero al servizio di Harris da queste canaglie sifilitiche... Alzò lo sguardo spaventato quando si accorse che Yoshi lo stava scrutando. “Signore?” “A cosa stavi pensando?” “Mi auguravo di essere stato d'aiuto, sire. Io... attento alle vostre spalle, sire!” sussurrò. Andrè Poncin stava scendendo i gradini diretto verso Yoshi. In un battibaleno i samurai formarono uno schermo protettivo. Impavido Poncin s'inchinò cortesemente e in un giapponese abbastanza corretto anche se poco scorrevole disse: “Vi chiedo scusa, potrei riferire un messaggio del mio padrone, l'esimio signore francese, per cortesia?”. “Quale messaggio?” “Dice che forse volete vedere l'interno di una nave a vapore, il motore, i cannoni. Chiede e invita umilmente gli ufficiali,” Poncin restò in attesa e quando vide che la sua proposta non suscitava reazioni eccetto un imperioso segno di congedo con il ventaglio, concluse: “Grazie, signore, vi prego di scusarmi”. Si allontanò, certo di non essersi sbagliato. Sul primo gradino della scalinata notò che Tyrer lo osservava dalla sala delle udienze. Soffocò un'imprecazione e fece un cenno di saluto che Tyrer ricambiò. Quando l'ultimo samurai lasciò il cortile anteriore, i giardinieri tornarono lentamente al loro lavoro. Uno di essi si mise la vanga su una spalla e si allontanò zoppicando. Era Hiraga, la testa coperta da un lurido cencio, il kimono lacero e sporco, felice del successo ottenuto. Adesso sapeva come, quando e dove ]'indomani avrebbe dovuto aver luogo l'attacco. Una volta al sicuro sul palanchino diretto al castello, con Misamoto seduto all'altra estremità, Yoshi lasciò che la sua mente vagasse. Era ancora sbalordito da quel maleducato congedo degli inglesi, ma non furibondo come gli altri. Era paziente, la vendetta arriverà nei tempi e nei

modi che io sceglierò. Un invito a guardare i motori di una nave da guerra e a salire a bordo? Un'occasione da non perdere. Accettare sarà pericoloso tuttavia dovrà essere fatto. Guardò Misamoto che fissava la strada da una fessura del finestrino. Certamente il prigioniero era stato utile. Stupido da parte degli interpreti non tradurre con cura. Stupido da parte del russo minacciarci. Stupido da parte di tutti loro essere così sgarbati. Stupidi i cervi cinesi a chiamarci scimmie. Molto stupido. Bene, mi occuperò di tutti prima o poi. Ma che fare con i capi e la flotta? “Misamoto, ho deciso di non rimandarti in prigione. Per venti giorni starai con il mio seguito e continuerai a imparare a comportarti come un samurai.” Misamoto s'inchinò fino a toccare con la fronte il fondo del palanchino. “Grazie, signore.” “Se sarò soddisfatto di te. Ora, che cosa accadrà domani?” Misamoto esitò terrorizzato: la prima regola della sopravvivenza diceva di non portare mai cattive notizie a un samurai, di non ammettere niente di propria spontanea volontà e, se costretti, di dire soltanto quello che l'altro voleva sentire. Tutto diverso da laggiù, in America, il paradiso in terra. La risposta è ovvia, avrebbe voluto gridare tornando a pensare in inglese, l'unica cosa che gli aveva impedito di impazzire durante gli anni di isolamento. Se tu vedessi come trattano la gente nella famiglia gai-jin dove vivevo, come mi trattavano; certo ero un servo, ma anche un uomo e mi trattavano meglio di quanto avrei potuto sognare. Se tu vedessi come gli uomini camminano a testa alta e possono portare un coltello o un'arma da fuoco, a parte gli uomini neri, se tu vedessi come sono impazienti di risolvere un problema per precipitarsi subito a risolverne un altro, anche con un pugno se necessario, o con una revolverata o un colpo di cannone. Se tu capissi come si vive in un posto dove per la legge quasi tutti sono uguali e dove non ci sono daimyo fetenti o samurai che ti possono ammazzare se gli salta in mente... Come se avesse letto i suoi pensieri, Yoshi disse a bassa voce: “Dimmi la verità, dimmi sempre la verità se tieni alla tua vita”. “Certo, signore, sempre.” Terrorizzato, Misamoto decise di rispondere. “Mi dispiace, signore, ma se non avranno quello che vogliono penso che... che distruggeranno Edo.” Sono d'accordo, ma la distruggeranno soltanto se ci comporteremo da stupidi, pensò Yoshi. “I loro cannoni sono in grado di farlo?” “Sì, sire. Non il castello, ma la città brucerebbe.” E sarebbe una stupida perdita di risorse per i Toranaga. Dovremo trovare altri contadini, artigiani,

cortigiani e mercanti per servirci. “Dunque come faresti a concedere un dito senza lasciarti prendere il braccio?” chiese Yoshi. “Vi prego di scusarmi sire, non lo so, non lo so.” “Allora pensaci. E portami la tua risposta all'alba.” “Ma... sì, signore.” Yoshi si adagiò sui cuscini di seta e tornò col pensiero alla riunione del Consiglio. Alla fine Anjo era stato costretto a ritirare l'ordine di evacuare il castello perchè non c'era una netta maggioranza ed era stato lo stesso Yoshi in qualità di Guardiano a proibire la partenza dello shògun. Questa volta ho vinto ma soltanto grazie all'ostinazione di quel vecchio scemo di Toyama che voleva mettere in atto il suo folle piano d'attacco e non ha votato né per me né contro di me. Anjo ha ragione: di solito gli altri due sono con lui. Non lo sostengono per questioni di merito ma soltanto perchè io sono ciò che sono, un Toranaga che avrebbe dovuto diventare shògun al posto di quello stupido ragazzo. Poiché Yoshi si sentiva al sicuro nel suo palanchino ed era solo a parte Misamoto, che comunque non poteva conoscere i suoi più intimi pensieri, si concesse il lusso di aprire quel compartimento segnato con il nome di Nobusada, affollato di pensieri segreti, esplosivi, pericolosi e ossessivi. Che fare di lui? Non posso contenerlo ancora per molto. E' infantile, e ora è caduto nelle grinfie più pericolose, quelle della principessa Yazu spia dell'imperatore e nemica giurata dello shògunato. Yazu ha rotto il suo fidanzamento con l'adorato compagno d'infanzia, un principe di bell'aspetto e con tutti i requisiti necessari, costringendosi in un esilio permanente da Kyòto, dalla famiglia e dagli amici, nella gabbia di un matrimonio con uno smidollato la cui erezione vale quanto una bandiera in un'estate senza vento e che probabilmente non le darà mai figli. Adesso ha progettato questa visita di stato a Kyòto per rendere omaggio all'imperatore, un colpo magistrale che distruggerà il delicato equilibrio di secoli: un editto garantisce a uno shògun e ai suoi discendenti autorità sull'impero e conferisce loro anche il titolo di Alto Connestabile. E' per questo che gli ordini dello shògun sono legge per il paese. Sarà soltanto la prima d'una serie di concessioni, pensava Yoshi e ben presto l'Imperatore regnerà in nostra vece. Nobusada non può capirlo, i suoi occhi sono offuscati dagli inganni della principessa. Che fare? Ancora una volta Yoshi imboccò il ben noto sentiero segreto: Nobusada è il

signore a cui per legge devo fedeltà. Non posso ucciderlo con le mie mani. E ben protetto, e per il momento non sono pronto a sacrificare la mia vita. Di quali altri mezzi dispongo? Il veleno? Sarei il primo a essere sospettato, e anche se riuscissi a liberarmi dei vincoli che mi incatenano, poiché sono prigioniero anch'io come Misamoto, il paese verrà distrutto da un'interminabile guerra civile dalla quale gli unici a trarre profitto sarebbero i gai-jin e, quel che è peggio, avrei tradito il mio giuramento di alleanza e fedeltà allo shògun, chiunque egli sia, e alleato. Devo fare in modo che sia qualcun altro a ucciderlo per me. Gli shishi? Potrei dar loro una mano, ma aiutare dei nemici votati alla tua distruzione è pericoloso. L'altra possibilità sono gli dei. Si concesse un sorriso. La buona e la cattiva sorte, aveva scritto lo shògun Toranaga, la fortuna e la sfortuna devono essere lasciati al cielo e alla legge naturale, non sono cose che si possano ottenere con la preghiera o con le astuzie. Sii paziente, gli sembrò di sentirsi dire da Toranaga, su paziente. Va bene, lo sarò. Yoshi richiuse quel compartimento e tornò a pensare al Consiglio. Che cosa dovrò dire? A questo punto sapranno di sicuro che ho incontrato i gai-jin. Insisterò su una regola che in futuro deve diventare assoluta: dobbiamo mandare a questi incontri soltanto uomini intelligenti. Che altro? Racconterò dei soldati: giganti con le uniformi scarlatte, le gonnelline corte ed enormi cappelli piumati, tutti armati di fucili a retrocarica ben lucidati, trattati con la stessa cura che noi riserviamo alle nostre lame. Devo raccontar loro che questi nemici sono sciocchi, privi di finezza, che possono essere controllati in virtù della loro impazienza e del loro odio? Misamoto mi ha raccontato abbastanza per arrivare alla conclusione che anche gli stranieri sono ribelli e gonfi d'odio come i daimyo. No, questo lo terrò per me. Ma comunicherò loro che domani la nostra delegazione andrà incontro a un fallimento se non escogitiamo un modo di procrastinare l'incontro accettabile per i gai-jin. Quale potrebbe essere? “Il messaggero. Misamoto” chiese in tono indifferente, “l'uomo alto con il nasone, perchè parlava come una femmina usando le parole delle femmine? Era mezzo uomo e mezza donna?” “Non so, sire . Ma forse... ce ne sono molti sulle navi, sire, anche se lo nascondono.” “Perché?” “Non so, sire, è difficile capire. Non parlano apertamente della fornicazione come noi, delle posizioni migliori, e non discutono se un ragazzo sia meglio di una donna. In quanto al parlare come le femmine, nella loro lingua

parlano tutti nello stesso modo, voglio dire che uomini e donne usano le stesse parole, è diverso dal giapponese. I pochi marinai che ho incontrato che sapevano qualche parola di giapponese, uomini che avevano vissuto a Nagasaki, parlavano come il nasone straniero perchè avevano imparato la nostra lingua dalle prostitute. Si, imparano le nostre parole dalle prostitute. Non sanno che le nostre donne parlano in modo diverso da noi, dagli uomini. Sire, non sanno che noi usiamo parole diverse come dovrebbero fare tutte le persone civili.” Yoshi nascose l'eccitazione improvvisa. Le puttane sono il loro unico contatto con la nostra realtà, pensò. E tutti le frequentano. Perciò il modo per controllarli e persino colpirli è attraverso le puttane, femmine o maschi che siano. “Non ordinerò alla mia flotta di bombardare Edo senza un ordine formale dell'ammiragliato o del Foreign Office” dichiarò l'ammiraglio paonazzo in volto. “Le istruzioni ricevute invitano alla cautela, sia me che voi. Noi non siamo una missione punitiva.” “Per amor di Dio, abbiamo avuto un incidente che deve essere risolto. Certo che si tratta di una missione punitiva!” Sir William non era meno furente dell'ammiraglio. Le otto campane della mezzanotte rintoccarono mentre intorno al tavolo rotondo della cabina l'ammiraglio e sir William discutevano con il generale, Thomas Ogilvy. La cabina era bassa e ampia e dagli oblò a poppa si vedevano le luci delle altre navi. “Lo ripeto ancora una volta: credo che senza l'impiego della forza non si piegheranno.” “Ottenete l'ordine scritto, per Dio e ci penserò io a piegarli.” L'ammiraglio si riempi nuovamente il bicchiere da una caraffa di porto ormai semivuota. “Thomas?” “Grazie.” Il generale tese il bicchiere. Cercando di controllarsi, sir William spiegò: “Lord Russell ci ha già dato istruzione di insistere presso la Bakufu per ottenere i danni, venticinquemila sterline, per le uccisioni avvenute nella Legazione, il sergente e il caporale dell'anno scorso, e se sapesse di questo nuovo incidente sarebbe ancora più esigente. Io lo conosco, voi no” aggiunse esagerando per amore dell'effetto. “Ci vorranno tre mesi per ricevere la sua approvazione. Se non otteniamo soddisfazione ora gli omicidi non avranno mai fine e senza il vostro appoggio io non posso fare niente.” “Avete il mio pieno appoggio, per Dio, ma non scatenerò una guerra. Bombardare la loro capitale ci coinvolgerebbe in una guerra per la quale non siamo equipaggiati. Thomas?

Cosa ne pensate?” “Circondare un villaggio come Hodogaya, eliminare poche centinaia di selvaggi e mettere un potentato indigeno di nessun peso a ferro e fuoco è molto diverso dal cercare di distruggere questa grande città e assediare il castello.” Con tono feroce sir William ribatté: “Allora cosa ne dite del vostro “non esiste alcuna operazione che le forze al mio comando non possano concludere velocemente”?”. Il generale arrossì. “Ciò che si dice in pubblico come ben sapete ha poca relazione con la realtà dei fatti. Come ben sapete! Edo è un'altra questione.” “Esattamente.” L'ammiraglio finì il liquore. “Cosa proponete dunque?” In tutta risposta non ottenne che un ostinato silenzio. Dopo qualche istante lo stelo del calice di sir William si ruppe tra le sue dita facendo sobbalzare gli altri due. “Dannazione!” esclamò, un pò più tranquillo dopo quel piccolo gesto distruttivo. Cercò di asciugare il vino con un tovagliolo. “Qui il ministro sono io. Se ritenessi necessario dare un ordine al quale vi rifiutate di obbedire, cosa che naturalmente avete il diritto di fare, chiederò che veniate sostituito immediatamente.” Il collo dell'ammiraglio si imporporò. “Ho già esposto i fatti all'ammiragliato. Ma vi prego di non fraintendermi. Sono più che pronto a scatenare una rappresaglia per l'uccisione del signor Canterbury e degli altri uomini. Se si tratta di distruggere Edo però esigo un ordine scritto, come vi ho già ripetuto fino alla nausea. Non c'è fretta, adesso o tra tre mesi questi selvaggi pagheranno con questa città o altre cento.” “Sì, pagheranno, per Dio!” Sir William si alzò. “Devo dire un'altra cosa importante prima che ve ne andiate: non prometto di poter restare ancora a lungo all'ancora. La flotta non è protetta, il mare è pericolosamente basso, il tempo peggiorerà e siamo più sicuri a Yokohama.” “Per quanto tempo potete resistere?” “Un giorno... non so, non ho potere sul tempo, che oltretutto in questo mese, come certo sapete, è piuttosto instabile.” “Sì, lo so. Bene, vado. Ci incontriamo alle dieci alla Legazione. Vi prego di sparare un colpo di saluto all'alba. Thomas, potete mandare altri duecento dragoni a proteggere l'area intorno alla banchina?” “Perché altri duecento uomini?” chiese il generale. “Ho già fatto sbarcare una compagnia.” “Può darsi che abbia voglia di prendere degli ostaggi. Buonasera.” Chiuse la porta senza far rumore.

I due uomini restarono a guardarsi sbigottiti. “Intendeva davvero dire quello che ha detto?” “Non lo so, Thomas. Ma con l'onorabile e impetuoso William accidenti Aylesbury non si sa mai.” Con il favore delle tenebre un distaccamento di samurai armati fino ai denti uscì dal cancello principale del castello, di corsa e senza far rumore attraversò il ponte levatoio e l'altro ponte sull'enorme fossato e si diresse verso la zona dove sorgeva la Legazione e dove stavano convergendo altre compagnie. Sul luogo vi erano già oltre duemila samurai, e altri mille erano pronti a muoversi. Sir William arrivava lentamente dal molo in compagnia della sua scorta, un ufficiale e dieci highlander, attraverso le strade deserte. Era stanco e depresso, preoccupato per l'indomani e assillato dalla necessità di escogitare un modo per uscire da quel vicolo cieco. Svoltarono dietro un altro angolo e proseguirono. Alla fine della strada c'era lo spazio aperto davanti alla Legazione. “Mio Dio, signore, guardate là!” Una folla di samurai silenziosi li stava osservando. Erano immobili, armati con spade, archi, lance e persino qualche moschetto. Un rumore leggero fece sobbalzare la scorta di sir William; si girarono a guardare. La ritirata era bloccata da un altro gruppo di samurai silenziosi. “Cristo!” mormorò il giovane ufficiale. “Già.” Sir William sospirò. Quella poteva essere una soluzione, ma poi avrebbero avuto bisogno dell'aiuto di Dio perchè almeno in quel caso la reazione della flotta sarebbe stata immediata. “Andiamo avanti. Tenete gli uomini pronti a sparare se necessario, sicure alzate.” Camminò davanti al gruppo. Più che coraggioso si sentiva distaccato dalla realtà, osservava se stesso e gli altri dall'alto. I samurai erano divisi in due schiere che lasciavano uno stretto varco nel sentiero alla cui estremità li aspettava un ufficiale. Quando sir William arrivò a circa tre metri da lui l'uomo s'inchinò cortesemente. Sir William si osservò alzare il cappello con uguale cortesia e proseguire. I soldati lo seguirono con i fucili in pugno, il dito sul grilletto. Lungo la salita che portava alla sommità della collina il silenzio era lo stesso, uguali gli sguardi dei giapponesi. Una massa di samurai immobili che arrivava fino al cancello. Il cortile e i giardini erano affollati di highlander armati, altri soldati erano appostati sul tetto e alle finestre. I soldati aprirono il cancello per far passare sir William e la sua scorta e lo

richiusero. Tyrer e il resto del personale aspettavano nell'ingresso; qualcuno era in vestaglia, qualche altro parzialmente vestito. Tutti gli si affollarono intorno. “Mio Dio, sir William” esclamò Tyrer a nome di tutti. “Temevamo che vi avessero catturato.” “Da quanto tempo sono li?” “Più o meno da mezzanotte, signore” rispose un ufficiale. “Avevamo delle sentinelle ai piedi della collina e quando il nemico è arrivato i ragazzi sono venuti ad avvisarci. Non c'era modo di avvertirvi o di comunicarlo alle navi. Se aspettano l'alba per attaccare possiamo difendere questo posto fino all'arrivo di rinforzi, se la flotta ci copre.” “Bene” rispose sir William con grande sangue freddo, “in questo caso consiglio a tutti di andare a dormire. Lasciate qualche uomo di guardia e tutti gli altri vadano a riposare.” “Signore?” l'ufficiale era perplesso. “Se avessero voluto attaccarci l'avrebbero già fatto senza tutta quella messinscena delle ore di silenzio.” Sir William vide che tutti lo fissavano e si sentì meglio, non era più depresso. Imboccò le scale. “Buonanotte.” “Ma, signore, non pensate...” Non finì nemmeno la frase. Il ministro sospirò. “Se preferite tenere gli uomini svegli fatelo pure, se la cosa vi rende felice.” Un sergente si precipitò nell'ingresso gridando: “Signore, se ne vanno! Quegli infami se la squagliano”. Gettando un'occhiata dalla finestra del pianerottolo sir William vide che i samurai stavano effettivamente scomparendo nella notte. Per la prima volta ebbe paura. Non aveva previsto quella mossa. Nel giro di pochi minuti il sentiero sulla collina si svuotò e lo spiazzo sottostante fu sgombro come al solito. Tuttavia sir William aveva la sensazione che non fossero andati lontano, che ogni porta e ogni strada fosse zeppa di nemici che aspettavano il momento di far scattare la trappola. Grazie a Dio gli altri ministri e la maggior parte dei ragazzi sono al sicuro sulle navi. Grazie a Dio, pensò riprendendo a salire le scale con passo fermo per incoraggiare gli uomini che non lo perdevano d'occhio.

Capitolo 11 †

Giovedì, 18 settembre La Locanda dei Quarantasette Ronin sorgeva poco lontano dal castello di Edo in un sudicio vicolo dietro la strada sterrata. La locanda, ben nascosta agli sguardi indiscreti da un alto steccato pericolante, vista dall'esterno aveva un aspetto malconcio e anonimo, ma una volta dentro ci si trovava in un ambiente lussuoso e raffinato. Giardini ben tenuti circondavano l'ambiente principale e le casette sopraelevate a una stanza, riservate agli ospiti di riguardo desiderosi di solitudine. La locanda, generalmente frequentata da ricchi mercanti, era anche utilizzata dagli shishi, che, con discrezione, la usavano come rifugio. In quei minuti che precedevano l'alba era immersa nel più profondo silenzio; clienti e cortigiane, mama-san, cameriere e inservienti dormivano. Tutti, ad eccezione di un gruppo di shishi intenti ad armarsi. Ori sedeva sulla veranda di una delle casette con il kimono arrotolato intorno alla vita. Cercava con difficoltà di rifare la fasciatura alla spalla; la carne intorno alla ferita aveva assunto una tonalità scarlatta, doleva ed era diventata sensibilissima. Tutto il braccio sembrava pulsare e Ori sapeva di avere un bisogno immediato dell'intervento di un dottore. Tuttavia aveva detto a Hiraga che mandarlo a chiamare o andare a farsi visitare costituiva un grosso pericolo: “Potrei essere seguito, non possiamo rischiare con tutte le spie che circolano in questa roccaforte Toranaga”. “La penso come te. Tornatene a Kanagawa.” “Quando la missione sarà finita.” Sfiorò inavvertitamente con le dita la ferita in suppurazione e una fitta lancinante lo attraversò. Non c'è fretta, si disse, un dottore potrà sempre inciderla e toglierne il veleno, ma ci credeva solo in parte. Karma. E se peggiorerà sarà sempre questione di karma. Era così assorto che non sentì un ninja scivolare oltre lo steccato e assalirlo alle spalle. Sobbalzò terrorizzato quando la mano del ninja gli coprì la bocca per impedirgli di gridare. “Sono io” sussurrò Hiraga furioso prima di lasciare la presa. “Avrei potuto ucciderti venti volte.” “Sì.” Ori si sforzò di sorridere e indicò tra i cespugli il samurai con l'arco e una freccia avvelenata già incoccata. “Ma tocca a lui fare la guardia, non a

me.” “Bene.” Hiraga salutò la sentinella e rabbonito si sfilò la maschera. “Gli altri sono pronti, Ori?” “Sì.” “E il braccio?” “Va bene.” Ori trattenne il respiro e strinse i denti quando la mano di Hiraga gli afferrò la spalla. Le lacrime gli rigarono le guance ma non emise neppure un gemito. “Ci saresti d'intralcio. Non puoi venire con noi. Tu te ne torni a Kanagawa.” Hiraga entrò passando dalla veranda. Abbattuto, Ori lo seguì. Sul tatami sedevano già undici shishi armati. Nove erano compatrioti di Hiraga, gli altri due erano gli uomini della pattuglia mori che avevano disertato per unirsi a loro. Hiraga prese stancamente posto. “Non sono riuscito ad arrivare a meno di duecento passi dal tempio o dalla Legazione, perciò non possiamo sparare al principe Yoshi al momento del suo arrivo, è impossibile. Dobbiamo preparare un'imboscata altrove.” “Scusa, Hiraga-san, ma sei proprio certo che si trattasse del principe Yoshi?” chiese uno dei samurai mori. “Sì, ne sono sicuro.” “Stento a credere che un uomo come il principe Yoshi corra il rischio di uscire dal castello scortato da poche guardie soltanto per incontrare qualche puzzolente gai-jin, anche se travestito. E' troppo intelligente, e di certo sa di essere nell'obiettivo degli shishi subito dopo lo shògun e prima del traditore Anjo.” “Forse non è intelligente. Comunque l'ho riconosciuto e sono certo di non sbagliare perchè l'avevo già incontrato a Kyòto.” In cuor suo Hiraga non si fidava affatto dei samurai mori, “Qualunque sia stata la ragione che la spinto a uscire è certo che non tornerà una seconda volta senza una scorta imponente. E per questo motivo che la zona pullula di uomini della Bakufu. Comunque domani lascerà ancora il castello: è un'occasione che non dobbiamo perdere. Possiamo tendergli un'imboscata da qualche parte? Qualcuno ha un'idea?” “Dipende dal numero di uomini che seguono il corteo” rispose un samurai mori, “se l'incontro dai gai-jin avrà luogo.” “Se? Il principe Yoshi potrebbe escogitare uno stratagemma?” “Io, lo farei se fossi in lui. Lo chiamano la Volpe.” “Cosa faresti?” L'uomo si grattò il mento. “Cercherei a tutti i costi il modo di prendere tempo.” Hiraga corrugò la fronte. “E se invece andasse alla Legazione, come ieri, in quale punto del percorso sarebbe più vulnerabile?”

Fu Ori a rispondere: “Quando scende dal palanchino. Nel cortile anteriore”. “Non possiamo arrivare fin lì nemmeno con una incursione suicida.” Scese il silenzio. Poi Ori disse a bassa voce: “Più saranno vicino alle porte del castello più i suoi capitani si sentiranno al sicuro e allenteranno la vigilanza”. Hiraga annuì soddisfatto e gli sorrise facendo nel frattempo un cenno a uno dei suoi compatrioti. “Quando la casa si sveglia, di' alla mama-san che deve trovare in gran segreto e in gran fretta un dottore per Ori.” “Ma avevamo deciso che non era sicuro.” “Il patrimonio degli shishi deve essere protetto, e tu mi fornisci spesso delle ottime idee.” Ori accettò il complimento con un inchino. “Meglio farsi dare un'occhiata, neh?“ Alle prime luci Phillip Tyrer si affrettava verso la banchina seguito da due highlander, un sergente e un soldato semplice. “Buon Dio, Phillip, due uomini sono più che sufficienti” gli aveva detto sir William. “Se i giapponesi intendono fregarci non basterà l'intera guarnigione a proteggervi. Il messaggio dev'essere consegnato a Ketterer e voi glielo consegnerete. Arrivederci!” I samurai erano tornati in silenzio poco prima dell'alba e Tyrer fu costretto a passare in mezzo a loro come sir William poche ore prima. Nessuno lo molestò né sembrò rendersi conto della sua presenza; ricevette soltanto qualche occhiata distratta e veloce. Il mare era di fronte a lui. Accelerò il passo. “Alt, chi va là, o vi faccio saltare le cervella” minacciò una voce nell'ombra. Tyrer si fermò di scatto. “Per carità” rispose morto di paura, “chi diavolo pensi che sia? Sono io, Phillip Tyrer, con un messaggio urgente per l'ammiraglio e per il generale.” “Scusate, signore.” Tyrer si affrettò a salire a bordo della lancia e venne portato a remi fino all'ammiraglia. Era così felice d'essere sfuggito alla trappola della Legazione che sarebbe scoppiato a piangere volentieri. Incitò i marinai a remare di buona lena e sali sulla scaletta dell'ammiraglia due gradini alla volta. “Salve Phillip!” Marlowe era l'ufficiale di guardia sul ponte. “Che cosa diavolo succede?” “Salve John, dov'è l'ammiraglio? Un dispaccio urgente da sir William. La Legazione è circondata da migliaia di bastardi musi gialli.” “Cristo!” Marlowe lo precedette con ansia lungo il barcarizzo e a poppa. “Come diavolo avete fatto a uscirne vivo?” “Camminando. Mi hanno lasciato passare in mezzo senza dire neanche una parola, mi hanno lasciato passare e basta. Non mi vergogno di dirvi che ero spaventato a morte; sono ovunque eccetto dentro la Legazione e sul molo.” La sentinella davanti alla porta della cabina salutò. “Buongiorno signore!” “Dispaccio urgente per l'ammiraglio.” Dall'interno la replica non si fece

attendere. “Allora portatemelo, per l'amor del cielo! Un dispaccio da chi?” Marlowe sospirò e aprì la porta. “Da sir William, signore.” “Cosa diavolo ha fatto quell'idiota che...” L'ammiraglio Ketterer si interruppe quando vide Tyrer. “Oh, voi siete il suo aiutante, non è vero?” “Apprendista interprete, signore, Phillip Tyrer.” Gli tese la lettera. “Con... ehm... i saluti di sir William, signore.” L'ammiraglio aprì la lettera. Indossava una lunga camicia da notte di flanella e un berretto con le nappe. Infilò un paio di occhiali dalla montatura sottile e cominciò a leggere muovendo le labbra mentre compitava le parole: Ritengo che sia per voi assai meglio evitare di presenziare all'incontro odierno insieme al generale e ai ministri. Siamo completamente circondati da centinaia, per non dire migliaia, di samurai armati fino ai denti. Fino a questo non hanno compiuto alcun gesto ostile né ci hanno impedito di uscire. Certamente hanno il diritto di far stare i loro soldati dove più gli aggrada e forse è soltanto un bluff per cercare di farci saltare i nervi. Per sicurezza tuttavia tratterò da solo con la Bakufu, se si faranno vivi. (Se ciò accadrà farò issare uno stendardo azzurro e cercherò di tenervi informato sugli sviluppi.) Qualora la Bakufu non si presentasse aspetterò un altro giorno o due e poi mi troverò costretto a ordinare una ignominiosa ritirata. Nel frattempo se vedrete la bandiera ammainata significherà che siamo stati sopraffatti. Prendete qualsiasi decisione vi sembrerà appropriata. Resto, signore, il vostro obbediente servitore. L'ammiraglio rilesse la lettera una seconda volta e poi in tono secco disse. “Signor Marlowe, chiedete al capitano e al generale di venire subito da me. Inviate a tutte le navi il seguente messaggio: “Recarsi immediatamente sui luoghi di combattimento. Tutti i capitani a rapporto sull'ammiraglia a mezzogiorno”. Mandate un segnale ai ministri invitandoli a raggiungermi al più presto. Signor Tyrer, fate colazione e poi tenetevi pronto a tornare con la mia risposta alla Legazione entro pochi minuti”. “Ma signore, non credete...” L'ammiraglio stava già gridando verso la porta chiusa. “Johanson” Il suo inserviente aprì immediatamente la porta. “Il barbiere sta arrivando, signore, la vostra uniforme è stirata, la colazione sarà pronta nel momento in cui siederete a tavola, il porridge è bello caldo!” Lo sguardo di Ketterer si posò su Marlowe e Tyrer. “Che cosa diavolo state aspettando voi due?”

Intanto a Yokohama la lancia della Struan, l'unica barca a motore di quel Porto, beccheggiava davanti al molo. Jamie McFay, ne scese agilmente e, percorsa la banchina di buon passo, si diresse verso l'edificio a due piani che dominava High Street. Benché fossero soltanto le otto era già uscito incontro al postale, che arrivava ogni quindici giorni alle prime luci dell'alba, a ritirare la posta, i dispacci e gli ultimi giornali, che il mio assistente cinese stava già ammucchiando su un carretto. McFay stringeva tra le mani due buste, una aperta e l'altra ancora sigillata, “'Giorno Jamie.” Gabriel Nettlesmith lo intercettò e, abbandonando il gruppetto di mercanti assonnati in attesa delle loro barche, gli si avvicinò. Era un uomo piccolo e pienotto Gabriel Nettlesmith, con gli abiti stazzonati che puzzavano lontano un miglio d'inchiostro e sporcizia e dei sigari che fumava senza sosta. Era direttore nonché editore dello “Yokohama Guardian”, il giornale dell'Insediamento, uno dei molti quotidiani di proprietà della Struan. “Cosa succede?” “Un sacco di cose. Fammi il favore, raggiungimi a colazione. Scusa ma adesso non posso fermarmi.” Benché la flotta fosse a Edo, nel porto l'attività sembrava frenetica; le lance che facevano servizio per una cinquantina di mercantili andavano e venivano senza sosta, e altre circondavano il postale. Jamie era stato come sempre il primo a ritirare la posta e sbarcare; lo faceva in parte per principio e in parte per convenienza dato che i prezzi di alcuni prodotti essenziali potevano fluttuare in modo considerevole a seconda delle notizie arrivate con la posta. La nave a vapore che seguiva la rotta Hong Kong Yokohama arrivava in nove giorni, quella che faceva tappa a Shanghai undici, tempo permettendo. La posta dall'Inghilterra arrivava in otto, dodici settimane, tempo e pirati permettendo. E il giorno dell'arrivo del postale era sempre denso di aspettative, bello o tremendo ma sempre atteso con ansia. Norbert Greyforth della Brock and Sons, principale rivale della Struan, osservava con il cannocchiale McFay, a un centinaio di metri dalla riva. McFay si rese conto d'essere spiato ma non se ne curò. Quell'infame lo saprà presto, se non ne è già venuto a conoscenza, pensò, e sentì un brivido di paura. Non gli capitava spesso d'essere spaventato, ma quel giorno lo era, per Malcolm Struan, per la compagnia, per se stesso, per il futuro e per Paijin, la donna che amava e che lo aspettava paziente nella loro casetta, Accelerò il passo. Tre o quattro ubriaconi giacevano sul marciapiede di High Street come vecchi sacchi di carbone e altri dormivano sulla spiaggia. Inciampò in un uomo addormentato, evitò un gruppo di marinai vocianti

che in preda ai fumi dell'alcool non riuscivano più a trovare la loro nave, imboccò di corsa i gradini che conducevano al grande ingresso del palazzo, poi percorse le scale fino al pianerottolo e infine il corridoio che correva lungo il magazzino finendo nell'appartamento di Malcolm. Aprì una porta senza far rumore e sbirciò all'interno. “Buongiorno Jamie” disse Malcolm Struan dal letto. “Oh, salve Malcolm, buongiorno. Non ero sicuro che foste già sveglio.” Chiudendo la porta dietro di sé notò che quella che comunicava con l'appartamento attiguo era accostata. Si avvicinò all'enorme letto di tek col baldacchino, fatto arrivare appositamente da Hong Kong o dall'Inghilterra come tutti gli altri mobili del palazzo. Adagiato su molti cuscini, Malcolm Struan sembrava pallido ed esausto; sebbene il dottor Barbcott l'avesse fatto dormire per tutto il tragitto e i marinai avessero cercato di rendergli il viaggio meno faticoso possibile, il tragitto in nave da Kanagawa aveva consumato gran parte delle sue forze. “Come vi sentite quest'oggi?” Struan lo guardò con quegli occhi azzurri sprofondati in due occhiaie profonde e scure. “Le notizie da Hong Kong non sono buone, vero?” L'approccio diretto non dava a McFay nessuna possibilità di tergiversare. “Si, mi dispiace. Avete sentito il segnale?” Quando veniva avvistato il postale la tradizione voleva che il capitano del porto sparasse un colpo di cannone per avvisare l'Insediamento. Era una procedura seguita in tutto il mondo, ovunque vi fosse un insediamento britannico. “Si, l'ho sentito” rispose Struan. “Prima di darmi le cattive notizie chiudete la porta di Angélique e passatemi il vaso da notte.” McFay obbedì. Dietro la porta c'era un salotto e oltre si intravedeva un camera da letto. Era il miglior appartamento del palazzo, e di solito veniva occupato dal taipan. Al loro arrivo Malcolm aveva insistito perchè ci si installasse Angélique, e la ragazza era stata felice di accettare l'offerta. Le voci su quella sistemazione nel palazzo avevano percorso l'Insediamento alimentando altri pettegolezzi sul conto di Angélique nel ruolo di nuova Florence Nightingale, ed erano in molti a scommettere che ormai lei era diventata proprietà di Malcolm Struan. Non c'era nessuno all'Insediamento che non avrebbe desiderato infilarsi nel suo letto. “Siete matti” aveva ribattuto McFay al circolo la sera prima. “Il poveretto è in uno stato pietoso.” “Si rimetterà in piedi prima che ve ne accorgiate” intervenne il dottor Babcott. “Suoneranno le campane nuziali, per Dio!” disse qualcuno. “E' la casa offrirà da bere a tutti” gridò un altro. “Benone, avremo un matrimonio tutto nostro all'Insediamento, il nostro primo matrimonio.”

“Ne abbiamo avuti già molti, Charlie; dimentichi le nostre musume?” “Quelle non contano, per Dio, io parlavo di un vero matrimonio in chiesa e di un bel battesimo e...” “Per Geova che saltella, stai forse insinuando che ce ne sia già uno in pentola?” “Si dice che sulla nave fossero sempre avvinti come l'edera... non che io lo condanni, se è per questo. “Ma se non sono nemmeno fidanzati, per Dio! Ripetilo un'altra volta, fai altre insinuazioni sul conto di Angélique e te la faccio vedere io!” McFay sospirò. Una scazzottata tra ubriachi e qualche bottiglia rotta, poi i due uomini erano stati allontanati dal circolo dove avevano fatto ritorno un'ora dopo accolti da un chiassoso benvenuto. Prima di andare a dormire McFay si era affacciato nella stanza di Malcolm per dargli un'occhiata e l'aveva trovato profondamente addormentato. Angélique sonnecchiava su una poltrona accanto al letto. L'aveva svegliata con delicatezza. “E' meglio che andiate a farvi un buon sonno, signorina Angélique, adesso non si sveglierà.” “ Si, grazie, Jamie. “ L'aveva osservata stiracchiarsi come un giovane felino, voluttuosa e felice, semiaddormentata, con i capelli sciolti sulle spalle nude, l'abito stretto sotto il seno che ricadeva in mille pieghe nello stile in voga cinquant'anni prima e preferito dall'imperatrice Giuseppina e che alcuni sarti parigini cercavano di reintrodurre. Ogni centimetro del suo corpo pulsava di una forza vitale che attraeva irresistibilmente gli uomini. Nel suo appartamento affacciato sul corridoio McFay quella notte stentò a prender sonno. Struan era immerso in un bagno di sudore. Lo sforzo era troppo grande per lui e troppo doloroso, e per di più l'unico risultato che ottenne fu qualche goccia di urina piena di sangue. “Allora Jamie, che cattive notizie mi portate?” “Oh be', vedete...” “Per amor di Dio, sbrigatevi!” “Vostro padre è deceduto nove giorni fa, lo stesso giorno in cui il vapore ha lasciato Hong Kong diretto qui senza fare scalo a Shanghai. I funerali erano previsti per tre giorni dopo. Vostra madre mi chiede di organizzare al più presto il vostro ritorno. Il vapore con le notizie della vostra disgrazia arriverà a Hong Kong solo tra quattro o cinque giorni, nella migliore delle ipotesi. Mi dispiace” aggiunse debolmente. Struan aveva sentito soltanto la prima frase di quel discorsetto. Benché non lo cogliesse impreparato, la notizia sembrò colpirlo con violenza nel fianco

già ferito. Era allo stesso tempo felice e triste, entusiasta che infine fosse giunto il momento di dirigere la compagnia, che da anni ormai si stava indebolendo e tuttavia era stata tenuta a galla dalla madre che dietro le quinte aveva persuaso, convinto, guidato e aiutato il padre nei tempi difficili. Erano stati quasi sempre tempi difficili per Culum Struan, soprattutto a causa dell'alcol, che usava come medicamento contro le insopportabili emicranie e gli attacchi della malattia di Happy Valley, la malaria, quella misteriosa febbre assassina che aveva decimato la prima popolazione di Hong Kong e che adesso qualche volta veniva tenuta sotto controllo dall'estratto di una corteccia, il chinino. Non riesco a ricordare un solo anno in cui mio padre non dovesse trascorrere lunghi periodi a letto, a volte con i brividi per almeno un mese, delirando per giorni e giorni. Nemmeno le infusioni di quella preziosa corteccia di china che il nonno aveva portato dal Perù erano servite a curarlo. Comunque avevano impedito che la febbre lo uccidesse, e che uccidesse anche altri. Ma non aveva salvato la piccola Mary, morta a quattro anni. Io ne avevo solo sette allora, ma da quel giorno non ho mai smesso di pensare alla morte, avevo capito che cosa significasse e che era senza ritorno. Sospirò con gravità. Grazie a Dio niente ha mai toccato mamma, né le epidemie o le febbri, né il passare degli anni o l'aria insalubre. E' una donna giovane, a trentotto anni ha ancora una bella figura malgrado i sette figli ed è il sostegno di noi tutti, capace di superare ogni difficoltà, ogni tempesta, anche l'amara, eterna ostilità che la divide da suo padre, maledetto Tyler Brock... anche la tragedia dell'anno scorso, quando i poveri gemelli Rob e Dunross annegarono al largo di Shek-O dove abbiamo la casa delle vacanze. E adesso il povero papà. Quanti morti. Tai-pan, adesso sono tai-pan della Nobil Casa. “Come? Cos'avete detto, Jamie?” “Ho detto soltanto che mi dispiace, tai-pan, e che... ecco, qui c'è una lettera di vostra madre.” Struan prese la busta con uno sforzo. “Qual è il mezzo più veloce per tornare a Hong Kong?” “La Sea Cloud, ma non l'aspettiamo che tra due o tre settimane. Gli unici mercantili in porto sono lenti e nessuno parte per Hong Kong prima di otto giorni. Il postale è il più veloce, ma deve passare da Shanghai. Comunque potremmo fargli invertire la rotta immediatamente.” L'idea di affrontare nove giorni di mare, con molta probabilità agitato, se non addirittura sotto un tifone, terrorizzava Malcolm. L'esperienza del giorno prima, il breve viaggio da Kanagawa, gli era bastata. Ciò nonostante disse: “Parlatene con il capitano. Convincetelo a tornare

direttamente a Hong Kong. Che altro c'era nella posta?”. “Non ho ancora controllato tutto ma... ecco...” Preoccupato per l'improvviso pallore di Struan, MeFay gli tese l'Hong Kong Observer a malincuore. “Nient'altro che cattive notizie, temo: la guerra civile americana si sta inasprendo. Ci sono state decine di migliaia di morti... battaglie a Shiloh, Fair Oaks, in dozzine di posti, un'altra a Bull Run con l'esercito dell'Unione... decimato. La guerra è cambiata in modo drastico ormai, con i fucili a retrocarica, le mitragliatrici e i cannoni portatili. Con il sud bloccato dall'Unione, il prezzo del cotone è salito alle stelle. Un altro motivo di panico alle borse di Londra e Parigi è la voce secondo cui la Prussia sta per invadere la Francia. Dalla morte del principe consorte in dicembre, la regina Vittoria non è ancora comparsa in pubblico, si dice che si strugga per la disperazione. In quanto al Messico, adesso che è chiaro che quell'arraffone di Napoleone Terzo è deciso a farne un dominio francese, abbiamo richiamato il nostro esercito. Carestie e sommosse in tutta Europa.” McFay esitò. “Desiderate qualcosa?” “Uno stomaco nuovo.” Struan gettò un'occhiata alla busta che stringeva ancora chiusa in una mano. “Lasciatemi il giornale, Jamie, esaminate la posta e poi tornate per decidere come organizzarci prima della mia partenza.” Un rumore improvviso li fece voltare verso la porta semiaperta. Sulla soglia c'era Angélique, avvolta in un'elegante vestaglia. “Ciao, chèri” salutò. “Mi sembrava di aver sentito delle voci. Come stai oggi? Buongiorno, Jamie. Malcolm, hai un aspetto decisamente migliore, vuoi qualcosa?” “No, grazie. Entra, siediti pure. Sei magnifica. Hai dormito bene?” “Non proprio, ma non importa” rispose lei, benché avesse dormito splendidamente. Lo sfiorò con dolcezza come una nuvola profumata e poi sedette. “Facciamo colazione insieme?” McFay distolse l'attenzione da lei. “Tornerò dopo aver sistemato le cose. Ne parlerò anche con George Babcott.” Quando la porta fu richiusa Angélique accarezzò la fronte di Struan. Lui le afferrò la mano con amore. La busta scivolò sul pavimento. La raccolse aggrottando la fronte. “Perché sei così triste?” “E' morto papà.” La sua tristezza la commosse. Non le era difficile piangere; riusciva a farlo a comando, fin dall'infanzia, poiché aveva imparato molto presto quale effetto facessero le lacrime sugli adulti, soprattutto sugli zii. E per provocarle le bastava pensare alla madre morta dando alla luce suo fratello. “Ma Angélique” rispondeva sempre la zia in tono piagnucoloso, “il piccolo

Gerard è il tuo unico fratello, non ne avrai mai un altro nemmeno se quel buono a nulla di tuo padre si risposasse, perchè in questo caso sarebbe soltanto un fratellastro. “Io lo odio.” “Non è stata colpa sua, povero ragazzo, è stato un parto difficile.” “Non m'importa. Ha ucciso maman, l'ha uccisa!” “Non piangere, Angélique.” E adesso Struan stava dicendo le stesse parole mentre le lacrime scendevano copiose e la sua tristezza era sincera. Povero Malcolm che aveva perso il padre. E' gentile con me, tanto gentile. Povero Malcom che cerca di essere coraggioso. Non importa, presto starà meglio, e poi adesso è molto più facile stare nella sua stanza, adesso che non c'è più quell'odore, che non c'è quasi più odore. Lo spettro improvviso di suo padre le venne alla mente: “Non dimenticare che questo Malcolm erediterà tutto molto presto, navi e potere e...”. “Non ci voglio pensare. Né... né al resto.” Si asciugò gli occhi. “Raccontami tutto.” “Non c'è molto da dire. Papà è morto. I funerali si sono svolti tre giorni fa e io devo tornare subito a Hong Kong.” “Subito. Certo... ma quando starai bene.” Si protese per baciarlo. “Cosa farai una volta laggiù?” Con fermezza Malcolm rispose: “Sono l'erede. Sono il tai-pan”. “Il tai-pan della Nobil Casa?” Riuscì a far sembrare la sua sorpresa genuina e con delicatezza aggiunse: “Malcolm, caro, è terribile per tuo padre, tuttavia.... tuttavia in un certo senso non inaspettato, vero? Mio padre mi ha raccontato che era ammalato da molto tempo”. “Ce l'aspettavamo, sì.” “E' triste... ma... tai-pan della Nobil Casa, però, posso essere la prima a congratularmi?” Gli fece una riverenza degna di un re e tornò a sedersi compiaciuta di se stessa. Malcolm la guardava in modo strano. “Cosa c'è?” “Niente. Solo che tu, tu mi fai sentire così orgoglioso, così bene. Vorresti sposarmi?” Angélique ebbe un tuffo al cuore. Arrossendo cercò d'essere prudente, di non precipitare le cose; si chiedeva se fosse meglio adeguarsi alla serietà di Malcolm o abbandonarsi all'entusiasmo e cercare di farlo sorridere. “Là” disse con aria scherzosa facendosi aria con un fazzoletto. “Si, vi sposerò monsieur Struan, ma soltanto se voi...” esitò prima di aggiungere: “soltanto se vi riprenderete in fretta, se mi obbedirete senza mai discutere, se avrete teneramente cura di me, se il vostro amore per me non avrà limiti, se costruirete un castello sul picco di Hong Kong e un palazzo sugli Champs Elysées, se allestirete un bastimento come letto nuziale, una stanza per i

bambini tutta d'oro, e ci troverete una proprietà in campagna di un milione di ettari!”. “Sii seria, Angélique, ascoltami. Io non scherzo!” Oh, ma sono seria, pensò, felice adesso che lui le sorrideva. Gli diede un altro bacio lieve, ma questa volta sulle labbra, pieno di promesse. “Ecco, monsieur, ma non beffatevi di questa giovane fanciulla indifesa.” “Non mi sto beffando di te, lo giuro davanti a Dio! Mi vuoi sposare?” Parole decise eppure Malcolm non era neppure in grado di mettersi seduto o allungare un braccio per stringerla a sé. “Ti prego.” Angélique lo guardò con occhi scherzosi. “Forse, quando sarai guarito... e soltanto se mi obbedirai senza mai discutere, se avrai cura di me...” Un altro irresistibile sorriso. “Forse si, monsieur Struan, ma prima dobbiamo conoscerci, poi dobbiamo fidanzarci e poi, monsieur le tai-pan de la Noble Maison, perchè no?” “Allora la risposta è sì?” Tanto bastava a Malcolm per sentirsi felice. Per alcuni lunghi secondi lei non parlò, poi con tutta la tenerezza di cui era capace disse: “Prenderò seriamente in considerazione la proposta, ma prima mi devi promettere di guarire in fretta”. “Guarirò, te lo giuro.” Si asciugò le ultime lacrime. “Ora, Malcolm, leggi la lettera di tua madre per favore e io resterò seduta qui accanto a te.” Il cuore gli batteva forte e la felicità gli aveva fatto dimenticare il dolore. Ma le sue dita non erano così abili e faticò a rompere il sigillo. “Ecco, angelo, vuoi leggerla tu per me se non ti dispiace?” Angélique ruppe il sigillo e osservò la bizzarra scrittura sul foglio. “Mio amato figlio” lesse ad alta voce “con grande tristezza ti comunico che tuo padre è morto e che adesso il nostro futuro è nelle tue mani. E' morto nel sonno, pover'uomo, e i funerali si svolgeranno fra tre giorni. I morti devono aver cura dei morti e noi vivi dobbiamo continuare a lottare finché abbiamo vita. Il testamento di tuo padre ti conferma erede e tai-pan, ma affinché la successione sia legale deve avvenire con una cerimonia alla quale, secondo il legato del tuo amato nonno, io e il compratore Chen dovremo presenziare in qualità di testimoni. Sistema dunque i nostri interessi in Giappone come avevamo stabilito e torna appena puoi.

La tua devota madre.” Gli occhi di Angélique si riempirono nuovamente di lacrime perchè una fantasticheria improvvisa l'aveva fatta identificare con la madre che scriveva al figlio. “E' tutto? Nessun postscriptum?” “No, chèri, nient'altro, soltanto “tua devota madre”. Che donna coraggiosa. Mi piacerebbe essere coraggiosa come lei.” Assorta nelle emozionanti novità di quegli ultimi minuti, restituì la lettera a Malcolm e si recò alla finestra affacciata sul porto. Quando la spalancò l'aria fresca cancellò l'odore che aleggiava nella stanza. Cosa fare? Aiutarlo a precipitarsi a Hong Kong lontano da quel posto dannato? Un momento... sua madre sarà favorevole alle nozze? Non lo so. Io lo sarei al suo posto? So di non esserle piaciuta durante le poche occasioni in cui ci siamo incontrate; è una donna altera, ma Malcolm dice che si comporta così con tutti gli estranei. “Aspetta di conoscerla, Angélique, è una donna magnifica e forte... “ La porta si spalancò senza preavviso e Ah Tok entrò reggendo un vassoio con il tè. “Neh hoh mak, padrone” disse con un sorriso che mostrava i due denti d'oro di cui andava tanto fiera. “Dormito bene padrone?” Malcolm rispose in un ottimo cantonese fluente: “Smettila di parlare in modo incomprensibile”. “Ayeeyah.” Ah Tok era la amah personale di Struan e si prendeva cura di lui fin da quando era nato. Autoritaria e dispotica, aveva occhi solo per lui e ignorava Angélique con ostentazione. Era una donna di cinquantasei anni, tarchiata e robusta, indossava il tradizionale camiciotto bianco con i pantaloni neri. La lunga treccia che le scendeva sulle spalle significava che aveva scelto di essere amah e di restare casta per non correre il rischio di avere dei figli propri che la distogliessero dal suo primo dovere. I due servitori cantonesi che l'avevano seguita nella stanza portavano asciugamani e acqua calda per lavare Struan. Ah Tok ordinò loro di chiudere la porta. “La padrona vuole guardare?” chiese indicando Angélique. “Tornerò dopo, chèri.” Struan si limitò ad annuire con un sorriso e poi tornò a fissare assorto la lettera. Angélique uscì lasciando socchiusa la porta, Ah Tok borbottò qualche parola di disapprovazione e andò a richiuderla di persona. Quindi ingiunse ai due domestici di affrettarsi con le abluzioni e versò a Malcolm una tazza di tè. “Grazie, madre” disse Malcolm in cantonese usando l'abituale titolo onorifico con cui per tradizione ci si rivolgeva alla persona che accudiva e proteggeva il padrone e lo teneva tra le braccia fin dalla prima infanzia. “Brutte notizie, figlio” disse. Le novità si erano già diffuse nella comunità cinese.

“Brutte notizie.” Malcolm sorseggiò il tè. Era molto buono. “Quando avrai fatto il bagno ti sentirai meglio e potremo parlare. Il tuo onorabile padre era in ritardo per il suo appuntamento con gli dei. Adesso è arrivato e tu sei tai-pan, così il male si trasforma in bene. Più tardi ti porterò un tè speciale che ho comprato solo per te e che curerà la tua malattia.” “Grazie.” “Mi devi un tael d'argento per le medicine.“ “La quinta parte.” “Almeno la metà.” “Almeno la ventesima parte, madre.” Mercanteggiare con lei era d'obbligo. “E se vuoi discutere ancora ti ricorderò che ti ho già anticipato lo stipendio di sei mesi per le spese del funerale di tua nonna, il suo secondo funerale a voler essere precisi.” Uno dei servitori ridacchiò ma Ah Tok finse di non vederlo. “Se lo dici tu, tai-pan.” Usò il titolo con delicatezza perchè era la prima volta che si rivolgeva a lui in quel modo, e intanto non lo perdeva d'occhio. Poi spronò i due che lo lavavano con cura e attenzione: “Sbrigatevi col vostro lavoro. Mio figlio il tai-pan deve sopportare la vostra presenza tutto il giorno?”. “Ayeeyah” rispose poco saggiamente uno dei due. “Fa' attenzione, fornicatore senza madre” ribatté lei a bassa voce in un dialetto che Struan non capiva. “Sbrigatevi e basta, e se graffi mio figlio mentre gli fai la barba ti farò il malocchio. Tratta mio figlio come la giada imperiale oppure ti polverizzerò il tuo frutto... e non ascoltare chi ti è superiore.” “Superiore? Ayeeyah, vecchia, tu vieni da Ning Tok, un merdoso villaggio di tartarughe famoso soltanto per le sue scorregge.” “Un tael di argento dice che una vecchia civilizzata può batterti cinque volte su sette a majong questa sera.” “Accetto!” ribatté l'uomo in tono bellicoso benché Ah Tok fosse una giocatrice esperta. “Cosa succede?” chiese Struan. “Chiacchiere di servi, niente di importante, figlio.” Quand'ebbero finito di lavarlo gli infilarono una camicia da notte pulita e inamidata. “Grazie” disse Struan rinfrescato. I servi si inchinarono rispettosamente e scomparvero. “Ah Tok, chiudi la sua porta senza far rumore.” La donna obbedì. Avvicinandosi alla camera comunicante sentì il fruscio delle vesti della ragazza. Decise che avrebbe vigilato su quella straniera. Una diavolessa

nasuta, una puttana brutta come un rospo con una porta di giada così affamata che una persona civilizzata può quasi sentirla salivare... “Accendimi la candela, per favore.” “Eh? Ti fanno male gli occhi, figlio?” “No, niente del genere. Ci sono dei fiammiferi nello scrittoi.” I fiammiferi, un recente brevetto svedese, venivano di solito tenuti sotto chiave perchè erano molto ambiti e avevano la sgradevole abitudine di scomparire. I piccoli furti in Asia erano endemici. Ah Tok ne accese uno maldestramente; non capiva perchè mai si accendessero soltanto se sfregati contro il fianco della loro scatola. Malcolm gliel'aveva spiegato ma lei si era limitata a brontolare contro l'ennesima diavoleria straniera. “Dove la vuoi la candela, figlio?” Lui indicò il comodino. “Qui. Adesso lasciami solo per qualche minuto.” “Ma dobbiamo parlare, ci sono tante cose da organizzare.” “Lo so. Ma aspetta fuori dalla porta e tieni lontano chiunque fino a quando non ti chiamerò.” Ah Tok uscì brontolando. Tutte quelle chiacchiere e le cattive notizie l'avevano sfinito, tuttavia Malcolm riuscì a tenere la candela in equilibrio sul letto, poi si riadagiò per prendere fiato. Quattro anni prima, in occasione del suo sedicesimo compleanno, la madre l'aveva portato sul picco per parlargli: “Ormai sei abbastanza grande per venire a conoscenza di alcuni segreti della Nobil Casa. Ci saranno sempre segreti per noi. Di alcuni tuo padre e io non ti metteremo e conoscenza fino a quando non sarai diventato tai-pan. Io ne terrò per me alcuni che non racconterò a tuo padre e altri che non racconterò a te. Altri ancora dividerò con te ora ma tacerò a lui e ai tuoi fratelli. In nessun caso questi segreti dovranno essere condivisi con altri. Nessun altro. Devi prometterlo davanti a Dio! “Si, mamma, lo prometto.” “Primo: forse un giorno potremo aver bisogno di scambiarci informazioni personali o pericolose in una lettera privata. Non devi mai dimenticare che gli scritti possono essere sempre letti da occhi nemici. Tutte le volte che ti scriverò aggiungerò P.S.: Ti voglio bene. Tu farai lo stesso, sempre, senza fallo. Ma quando non ci sarà la scritta P.S.: Ti voglio bene, vorrà dire che la lettera contiene informazioni importanti e segrete che io voglio farti pervenire o che tu vuoi fare pervenire a me e a nessun altro. Guarda bene!” Accese alcuni fiammiferi e vi avvicinò fin quasi a bruciacchiarlo un foglio che aveva preparato. Come per miracolo comparve un messaggio nascosto: Buon compleanno. Sotto il tuo cuscino c'è un assegno di diecimila sterline. E' un segreto, spendile bene. “Oh, mamma, c'è davvero? Ci sono davvero le diecimila sterline? Come hai fatto a scriverlo?”

“Prendi una penna pulita e scrivi con attenzione il tuo messaggio con un liquido che ti darò io oppure con il latte e lascialo asciugare. Quando avvicini la carta come ho fatto adesso apparirà lo scritto.” Accese un altro fiammifero e con grande serietà bruciò un angolo del foglio. Restarono a guardarlo bruciare in silenzio. Schiacciò poi le ceneri sotto il piede calzato in un minuscolo stivaletto. “Quando sarai tai-pan non ti dovrai fidare di nessuno” disse. E inspiegabilmente aggiunse: “Nemmeno di me”. Ora Struan protese la lettera della madre verso la fiamma della candela. Le parole comparvero nitide: Mi addolora dirti che tuo padre è morto vaneggiando, inebetito dal whisky. Deve aver corrotto un servo per farselo comprare. Tutto il resto te lo racconterò a voce. Grazie a Dio ha finito di soffrire, ma sono stati i Brock, il mio stramaledetto padre e mio fratello Morgan, che non ci danno pace e gli hanno fatto venire quei colpi... L'ultimo è stato appena dopo la tua partenza, quando abbiamo scoperto troppo tardi i dettagli della manovra segreta delle Hawaii contro di noi. Jamie è al corrente di qualche dettaglio. Per un attimo Malcolm smise di leggere inviperito. Presto ci sarà una resa dei conti, promise a se stesso prima di riprendere la lettura: Diffida del nostro amico Dmitri Syborodin. Abbiamo scoperto che è un agente segreto di quel rivoluzionario, il presidente Lincoln, e non un sudista come dichiara. Diffida di Angélique Richaud... Sentì un tuffo al cuore: Il nostro agente a Parigi mi ha scritto che lo zio della ragazza, tale Michel Richaud, ha fatto bancarotta subito dopo la sua partenza e adesso si trova nella prigione dei debitori. Altri fatti: suo padre frequenta cattive compagnie, ha ingenti debiti di gioco e racconta agli intimi che presto rappresenterà tutti i nostri interessi francesi, ho ricevuto a questo proposito la tua lettera dei quattro nella quale, presumo dietro istigazione della ragazza, me lo raccomandi, non rappresenterà mai niente per noi, è insolvente. Un altro dei suoi segreti: entro l'anno diventerai suo genero. Ridicolo, sei troppo giovane per il matrimonio, e non potrei immaginare un'unione peggiore. Separatamente o in combutta, quei due stanno cercando di metterti in trappola, figlio mio. Agisci con circospezione e diffida degli inganni femminili. Per la prima volta nella sua vita era furente verso la madre.

Appoggiò con mano tremante il foglio sulla fiamma nuda e lo guardò bruciare, poi polverizzò le ceneri, spense la candela e la scagliò sul pavimento, si riadagiò in preda a una forte nausea, con il cuore in tumulto. Come osa indagare sul conto di Angélique e della sua famiglia senza chiedermelo! Come osa commettere un errore tanto grossolano! Di qualsiasi colpa si siano macchiati i suoi parenti, Angélique non è colpevole. Eppure lei dovrebbe saperlo che le colpe dei padri non possono ricadere sui figli! Il mio adorato nonno non era forse un uomo molto immorale, assassino e pirata come suo padre è tuttora? Quanta ipocrisia! Chi sposo io è faccenda che non la riguarda. Si tratta della mia vita, e se l'anno prossimo voglio sposare Angélique la sposerò. Mamma non sa niente di lei, e quando conoscerà la verità l'amerà come l'amo io, altrimenti, per Dio, staremo a vedere! Lei... “Oh, Cristo” ansimò quando una fitta sembrò volerlo annientare.

Capitolo 12 † McFay alzò lo sguardo dal mucchio di lettere, documenti e giornali che ingombravano la sua scrivania. “come sta?” chiese con ansia quando il dottor Babcott entrò richiudendosi la porta alle spalle. L'ufficio di McFay era spazioso e si affacciava su High Street e sul mare. “Gli ho dovuto ricucire la pancia per bene, Jamie. Sta come previsto, temo, poveretto. Ho medicato la ferita perchè si erano lacerati alcuni punti e gli ho somministrato una dose di laudano.” Babcott si sfregò gli occhi arrossati dalla fatica; la giacca pesante che indossava aveva le maniche logore ed era macchiata qui e là da qualche sostanza chimica e da sangue secco. “Al momento non posso fare molto di più per lui. Che novità ci sono dalla flotta?” “Perdura lo status quo: le navi sono ai posti di combattimento, la Legazione è sempre circondata dai samurai e si attende da un momento all'altro l'arrivo della Bakufu.” “Cosa succede se non si fanno vivi?” McFay si strinse nelle spalle. “Ho ricevuto l'ordine di riportare Malcolm a Hong Kong al più presto, è molto importante per lui, potrei imbarcarlo sul postale che...” “Lo proibisco nel modo più assoluto!” esclamò Babcott con più durezza di quanto avrebbe voluto. “Sarebbe stupido e molto pericoloso, anzi, pericolosissimo. Se incontrassero un tifone, il che è molto probabile in questo periodo, be'... un vomito continuo e prolungato lacererebbe i punti uccidendolo. No!” “E allora quando si potrà affrontare un trasferimento senza correre troppi rischi?” Il dottore guardò fuori della finestra. Oltre il promontorio le onde erano alte e increspate di spuma. Nella baia tutto sembrava tranquillo, il cielo era coperto. Sul piatto della bilancia la propria impotenza e il proprio sapere medico. “Perlomeno una settimana, forse un mese. Dio, solo può saperlo, Jamie, io non sono in grado di fare previsioni.” “Se a bordo del postale ci fossi anche tu, la cosa cambierebbe?” “Per l'amor di Dio, no! Ma non mi hai sentito? No. No! Non deve essere mosso per nessuna ragione. Nove giorni su una nave lo ucciderebbero.” Il volto di McFay si irrigidì. “Quante probabilità ha di farcela? Devo saperlo. E' molto importante per me.”

“Parecchie. La temperatura è scesa a valori più o meno normali e non ci sono segni di infezione.” Babcott si sfregò gli occhi un'altra volta e sbadigliò. “Scusa, non era mia intenzione alzare la voce. Ma è da mezzanotte che rattoppo ciò che resta di uno scontro tra un marinaio e un soldato nella Città Ubriaca, poi all'alba sono stato chiamato allo Yoshiwara per un'emergenza; ho dovuto ricucire una giovane donna che ha cercato di andare al Creatore con l'aiuto di un pugnale.” Sospirò. “A Malcolm farebbe bene restarsene il più tranquillo possibile. Direi infatti che sono state le ultime cattive notizie a provocare la lacerazione dei punti.” La notizia della morte di Culum Struan e della nuova importanza acquisita da Malcolm, con le relative implicazioni, di vitale e immediato interesse per tutti i loro rivali commerciali, si era propagata nell'Insediamento in men che non si dica. Alla Brock, Norbert Greyforth aveva interrotto una riunione per stappare la prima bottiglia di champagne della cassa che da molte settimane teneva in fresco per quel momento, nella nuova e redditizia ghiacciaia annessa al magazzino, “è la migliore notizia che mi sia arrivata da anni” confidò ridacchiando a Dmitri, “e ho altre venti casse pronte per la festa che darò questa sera. Un brindisi, Dmitri!” Alzò il bicchiere di purissimo cristallo veneziano. “Al tai-pan della Nobil Casa: fuori il vecchio! E presto fuori anche il giovane, per Dio! E che finiscano sul lastrico entro l'anno!” “Berrò con te, Norbert, al successo del nuovo tai-pan, a nient'altro” rispose Dmitri. “Apri gli occhi. Gli Struan rappresentano il vecchio. Noi siamo il nuovo, una volta avevano le palle, forse, all'epoca di Dirk Struan, ma adesso sono fiacchi e deboli come donnicciole, McFay è un debole... con un pò di entusiasmo da parte sua e un pò di capacità di persuasione, la notte dell'omicidio di Canterbury avremmo potuto far sollevare l'intero Insediamento, la flotta, l'esercito, avremmo catturato quell'infame re satsuma e dopo averlo impiccato saremmo vissuti felici e contenti.” “Hai ragione. John Canterbury dovrebbe essere vendicato in un modo o nell'altro, povero diavolo” disse Dmitri. “Sai che mi ha lasciato le sue attività?” Canterbury possedeva una delle piccole ditte commerciali specializzate nell'esportazione della seta, soprattutto di bozzoli e uova di bachi da seta. Si trattava di un commercio molto redditizio con la Francia perchè in questo paese l'industria della seta, che un tempo era stata la più fiorente del mondo, era andata completamente distrutta a causa delle malattie. “John diceva sempre che avrebbe lasciato tutto a me ma non ci avevo mai creduto. Sono anche l'esecutore testamentario... Zia Willie mi ha consegnato il testamento prima di partire.”

“I samurai sono dei gran bastardi, non c'era nessuna ragione di farlo fuori. E la sua musume? Il vecchio John ne era molto preso; è incinta, non è vero?” “No, erano soltanto voci. Nel testamento mi chiede di prendermi cura di lei e di darle dei soldi perchè si possa comperare una casetta. Sono andato a trovarla ma la sua mama-san, quel vecchio pipistrello di Raiko, mi ha detto che la ragazza era tornata al villaggio e che ci avrebbe pensato lei a farle recapitare il denaro. Le ho affidato la somma che Johnny aveva lasciato scritto nel testamento. La faccenda mi sembra sistemata.” Pensieroso, Norbert finì il bicchiere di champagne, ne versò un altro e cominciò a sentirsi meglio. “Dovresti occuparti anche di te” disse a voce bassa ritenendo che fosse giunto il momento giusto. “Devi pensare al tuo futuro e non a qualche pezza di seta e a dei vermi. Considera il Grande Gioco, il gioco americano. Coi nostri contatti potremmo comprare qualsiasi quantità di armi inglesi, francesi o prussiane, abbiamo appena firmato un accordo esclusivo con la Krupp di rappresentanza per l'Estremo Oriente, a prezzi migliori di quelli che può pagare Struan, consegna alle Hawaii per il trasferimento a... in qualsiasi porto del mondo senza che nessuno faccia domande indiscrete.” “Brindo alla proposta.” “Qualsiasi cosa tu voglia noi possiamo procurartela a un prezzo migliore e più in fretta della Struan.” Norbert riempì i due bicchieri. “Mi piace il Dom Pérignon. E' meglio del Tatt... quel vecchio monaco se ne intendeva di sfumature e zucchero. Come lo zucchero hawaiano” riprese, “ho sentito dire che quest'anno sarà caro come l'oro sia per il nord sia per il sud.” Il bicchiere di Dmitri restò sospeso a mezz'aria. “Che vuol dire?” “Vuol dire che, detto tra noi, la Brock and Sons ha il controllo della produzione di quest'anno, cioè Struan non otterrà neanche un sacco da cinquanta chili, e quindi non potrai portare a buon fine il contratto che ti lega a loro. “ “Quando si saprà ufficialmente?” Dmitri socchiuse gli occhi per concentrarsi meglio. “Ti piacerebbe prendere parte all'affare? Al nostro affare? Potremmo ricorrere a un agente fidato per gli Stati Uniti, nord e sud.” Toccò a Dmitri versare lo champagne. “Che cosa vuoi in cambio?” “Solo un brindisi: alla caduta della Nobil Casa.” Altri brindisi si erano levati a Yokohama alla notizia della morte di Culum e della successione del nuovo tai-pan. Avevano esultato anche gli uffici di borsa dell'Estremo Oriente e quelli occidentali che lavoravano con l'Asia. Alcuni brindisi erano d'augurio, altri di soddisfazione, qualcuno brindava alla successione e qualcuno augurava a tutti gli Struan di bruciare tra le fiamme

dell'inferno, qualcuno pregava per il loro successo ma tutti gli uomini d'affari indistintamente si interrogavano sulle conseguenze perchè, piacesse o no, la Struan era ancora la Nobil Casa. Nella Legazione francese Angélique brindò, sorseggiando controvoglia lo champagne nel bicchiere da poco prezzo e non adatto al vino. “Si, sono d'accordo, monsieur Vervene.” Pierre Vervene era il Chargé d'Affairs, un uomo calvo, sempre stanco, di circa quarant'anni. “Il primo brindisi ne impone un secondo, mademoiselle” disse alzando il bicchiere e avvicinandosi a lei. “Non soltanto prosperità e lunga vita al nuovo tai-pan, ma anche alla... al vostro futuro marito.” “Là, monsieur!” Angélique appoggiò il bicchiere fingendosi contrariata. “Ve l'ho raccontato in confidenza perchè sono così felice, così fiera, ma la cosa non deve sapersi fino a quando non sarà monsieur Struan a renderla pubblica, dovete promettermelo.” “Certo, certo.” Benché il suo tono fosse rassicurante, in realtà Vervene aveva già progettato di inviare immediatamente un dispaccio a Seratard a bordo dell'ammiraglia, a Edo. Ovviamente le conseguenze e le opportunità politiche causate da una simile unione sarebbero state enormi sia per la Francia sia per i suoi interessi in Asia. Mio Dio, stava pensando, se ci comportiamo con intelligenza, e lo faremo, attraverso questa puttanella che non ha altri pregi eccetto un bel faccino, un bel seno, una testa vuota e natiche che promettono una sfiancante luna di miele, controlleremo la Nobil Casa. Come diavolo avrà fatto a intrappolarlo? Se quello che dice corrisponde al vero, se... Merde, il poveretto dev'essere ammattito per scegliere come madre dei suoi figli una sgualdrinella senza dote e per di più con una famiglia tanto chiacchierata! Che incredibile fortuna per quell'odioso porco di Richaud che adesso potrà togliersi per sempre dai guai. “Le mie più sincere congratulazioni, mademoiselle.“ La porta si spalancò e il primo servitore della Legazione, un cinese rotondetto e non più giovanissimo vestito in giacca di cotone, pantaloni e cappellino neri entrò nella stanza carico di posta. “Heya, padrone, posta, sempre posta!” Appoggiò con un tonfo lettere e pacchetti sulla scrivania riccamente decorata, guardò la ragazza e uscì ruttando. “Mio Dio, questi maleducati mi faranno impazzire! Ho detto migliaia di volte a quel cretino di bussare! Scusate un momento!” Vervene diede una veloce scorsa alle buste: due

erano della moglie, una dell'amante; tutte portavano il timbro di due mesi e mezzo prima. E tutte e due chiedono soldi, ci scommetto, pensò acidamente. “Ah, quattro lettere per voi, mademoiselle.” Erano in molti a farsi recapitare la posta presso la Legazione. “Tre da Parigi e una da Hong Kong.” “Oh! Oh, grazie!” Si illuminò vedendo che due erano di Colette, una della zia e l'ultima dal padre. “Siamo così lontani da casa, vero?” “Parigi è il mondo, sì, sì, lo è. Be', be', immagino che vogliate restare sola, potete usare la stanza sull'altro lato dell'ingresso. Se volete scusarmi...” Vervene indicò la scrivania ingombra con un sorriso di autocommiserazione, “affari di stato mi attendono,” “Certo, grazie. E grazie per i vostri auguri, ma per cortesia non una sola parola...” Si allontanò con passo danzante consapevole che nel giro di poche ore il suo prezioso segreto sarebbe stato di pubblico dominio, una frase sussurrata senza sosta da un orecchio all'altro. E' stata una cosa saggia da fare? Penso di sì. Malcolm mi ha chiesta in moglie in fondo, o no? Vervene aprì le lettere e con un'occhiata veloce si rese conto che effettivamente erano entrambe richieste di denaro. Siccome non sembravano contenere altre informazioni spiacevoli decise di rimandarle a più tardi e cominciò a scrivere il dispaccio per Seratard con una copia segreta per André Poncin, felice d'essere messaggero di buone notizie. “Aspetta un momento” borbottò tra sé, “potrebbe anche darsi che la figlia assomigli al padre e che si sia inventata la richiesta di matrimonio di sana pianta! Meglio scrivere alcuni appunti che la Mademoiselle mi ha sussurrato in confidenza, poi il ministro potrà decidere di sua iniziativa.” Dall'altra parte dell'ingresso, in una bella anticamera che si affacciava sul giardinetto dietro High Street, Angélique si era accomodata con grande curiosità per la sua corrispondenza. La prima lettera di Colette le portò gradite notizie di Parigi, della moda, delle questioni mondane e dei loro comuni amici. La piacevole lettura finì in un battibaleno; l'avrebbe riletta più volte quella sera stessa nel caldo del suo letto, libera di apprezzarne ogni particolare. Conosceva Colette dall'infanzia e le voleva molto bene; in convento erano state inseparabili e da buone amiche avevano diviso speranze, sogni e confidenze. La seconda lettera era ancora più esuberante e Colette la concludeva parlando del suo matrimonio. Benché avesse solo diciott'anni era già sposata da oltre un anno e madre di un bel bambino:

Sono incinta un'altra volta mia cara Angélique, mio marito è felice ma io sono un pò inquieta. Come sai la prima gravidanza non è stata facile, però il dottore mi assicura che sono abbastanza forte. Quando ritornerai? Sono stanca di aspettare... Angélique fece un respiro profondo e guardò fuori della finestra aspettando che la dolorosa fitta al cuore la lasciasse. Non devi essere così fragile, continuava a ripetersi sull'orlo di una crisi di pianto. Nemmeno se si tratta di Colette. Sii forte, Angélique. Fai attenzione. La tua vita è cambiata. Tutto è cambiato... Si, ma solo per poco. Non farti mai cogliere con la guardia abbassata. Un altro profondo sospiro. La terza lettera fu uno shock. Zia Emma le comunicava le tremende notizie sulla rovina dello zio... Adesso siamo in miseria e il mio povero povero Michel langue nella prigione dei debitori senza nessuno che lo aiuti. Non sappiamo cosa fare, non abbiamo soldi, è terribile, bambina mia, un incubo... Povero caro zio Michel, pensò Angélique piangendo lacrime silenziose, peccato che fosse tanto incapace di badare agli affari. “Non importa, cara zietta” disse a voce alta, improvvisamente felice. “Adesso posso ricompensarti di tutta la tua gentilezza, chiederò a Malcolm di aiutarvi, e certamente lui...” Un momento! Sarebbe saggio? Aprì la lettera del padre ancora assorta in quelle considerazioni. Con sua grande sorpresa vide che la busta conteneva soltanto una lettera e non, come aveva previsto, l'assegno richiesto di una parte del denaro che aveva portato con sé da Parigi e che era depositato alla Victoria Bank. Quel denaro le era stato prestato con generosità dallo zio dietro la solenne promessa che non una parola fosse fatta alla zia e che il padre lo avrebbe restituito non appena lei fosse giunta a Hong Kong. E infatti il padre le aveva assicurato di averglielo restituito. Hong Kong, 10 settembre: Ciao cipollina mia, spero che tutto vada bene e che il tuo Malcolm ti adori come ti adoro io, come ti adora tutta Hong Kong. Corre voce che il suo vecchio sia in punto di morte. Ti terrò informata. Nel frattempo scrivo in gran fretta perchè sono in partenza per Macao. Laggiù mi si presenta una

meravigliosa opportunità, un affare talmente eccezionale da spingermi a impossessarmi momentaneamente degli strumenti monetari che lasciasti in banca e che investirò per te trattandoti come un socio alla pari. Già con il prossimo giro di posta sarò in grado di spedirti una cifra dieci volte superiore a quella richiesta e di raccontarti dei nostri meravigliosi profitti. Dopotutto dobbiamo cominciare a pensare alla tua dote, senza la quale... eh? Angélique non riuscì a proseguire, la mente in subbuglio. Oh mio Dio! Quali affari? Sta andando a giocarsi i miei unici averi? Erano quasi le due e McFay, con lo stomaco vuoto, si sentiva debole e oppresso da pensieri cupi. Aveva scritto una dozzina di lettere, firmato una cinquantina di note, pagato dozzine di conti, controllato i registri del giorno prima che indicavano un calo nel volume degli affari. Aveva scoperto che tutte le ordinazioni dall'America erano state cancellate, trattenute od offerte a prezzi maggiorati, che anche tutti gli affari con il Canada e l'Europa erano in un modo o nell'altro toccati dalla guerra civile americana. Nessuna buona notizia in nessuno dei dispacci provenienti da Hong Kong. Molte cattive notizie dalla filiale di Shanghai benché Albert MacStruan, che laggiù era il capo, stesse facendo un ottimo lavoro. Mio Dio, pensò McFay, dover lasciare Shanghai con tutti gli investimenti fatti sarebbe una catastrofe. La città era ancora in subbuglio e nelle tre concessioni straniere controllate da inglesi, francesi e americani circolavano con insistenza voci su nuove manovre dei Tai-ping, l'esercito di rivoltosi con base a Nanchino e dintorni. Nanchino era una grande città a sud di Pechino, conquistata dai ribelli nove anni prima e usata come capitale. L'articolo ritagliato dallo “Shanghai Observer” diceva: Due anni or sono quando lo sforzo dei nostri valenti eserciti congiunti, quello inglese e quello francese, abilmente assistiti dal locale esercito mercenario organizzato e pagato dai nostri mercanti europei e cinesi, sotto il comando del prode soldato di ventura americano Frederick Townsend Ward, disperse i ribelli per un raggio di trenta miglia tutti pensammo che la minaccia fosse stata respinta per sempre. Ora testimoni oculari riportano che un invincibile esercito composto da mezzo milione di ribelli guidati anche da ufficiali europei si è ricostituito per marciare contro di noi mentre altri cinquecentomila punteranno verso

nord in direzione di Pechino. L'esercito manciù che li contrasta è inaffidabile e impotente e le loro reclute cinesi si ammutinano. Questa volta dunque non sopravviveremo. Ci si augura che il governo di Sua Maestà imponga alle autorità manciù di trasferire il comando dell'esercito di Ward, gravemente ferito in azione, al capitano Charles Gordon, e di affidargli anche l'addestramento dei soldati manciù. Il vostro corrispondente crede tuttavia che, come sempre, il tempo stringa. Abbiamo bisogno di un esercito britannico perfettamente equipaggiato di stanza in Cina in modo permanente. Il nervosismo serpeggia in India per il recente e spaventoso ammutinamento dei sepoy. Gli affari continuano a essere disastrosi e il prezzo della seta e del tè è sempre alto. A cinquecento miglia da noi vi sono aree devastate dalla carestia... Notizie persino più deprimenti da casa. Piogge torrenziali avevano distrutto i raccolti e in Irlanda si preannunciava una grave carestia, benché non della portata di quella detta Great Potato che aveva sterminato centinaia di migliaia di persone. Molta disoccupazione in Scozia. Povertà nel Lancashire con quasi tutti i cotonifici fermi, compresi i tre di proprietà della Struan, a causa dell'embargo dell'Unione nei confronti del cotone del sud e del blocco di tutti i porti degli stati sudisti. Con quel cotone l'Inghilterra aveva prodotto e fornito tessuti a tutto il mondo. Un bastimento della Struan carico di tè, sete e lacche diretto a Londra aveva fatto naufragio. Nel mercato azionario la Struan scendeva mentre saliva la Brock con l'arrivo dei nuovi raccolti di tè. Un'altra lettera arrivava dalla donna con cui era fidanzato da cinque anni, Maureen Ross, con altre brutte notizie: Quando arrivo? Mi hai mandato il biglietto? Mi avevi promesso che sarebbe stato l'ultimo Natale separati... “Non festeggeremo insieme nemmeno il prossimo, ragazza mia” mormorò con cipiglio McFay benché le fosse affezionato. “Non me lo posso ancora permettere e poi questo non è un posto adatto a una signorina.” Quante volte aveva cominciato a scriverle per dirglielo! Del resto sapeva che in realtà Maureen e i suoi genitori avrebbero preferito che lui lavorasse per la Struan in Inghilterra o in Scozia o, meglio ancora, che lasciasse quella compagnia immorale e accettasse un impiego normale”.

Da parte sua avrebbe voluto invece che Maureen rompesse il fidanzamento e lo dimenticasse, perchè la maggior parte delle mogli inglesi finiva ben presto per odiare l'Asia, detestare gli asiatici, provare orrore per le ragazze di piacere, inviperite dalla loro disponibilità, disprezzare il cibo e lamentarsi di voler tornare a casa e alla famiglia rendendo la vita dei mariti un inferno. McFay sapeva anche di amare l'Asia, di amare il suo lavoro, di adorare la libertà, di apprezzare lo Yoshiwara e di non voler tornare a casa. Perlomeno fino a quando non mi ritirerò, pensò tra sé. L'unica nota positiva nella posta di quel giorno erano i libri ricevuti dalla Hatchard's di Piccadilly: una nuova edizione illustrata di Sull'origine delle specie di Darwin, le poesie di Tennyson, un pamphlet appena tradotto di Carl Marx e Friedrich Engels intitolato Il Manifesto del Partito Comunista, cinque copie di “Punch”, ma soprattutto un'edizione di “All The Year Round”, la pubblicazione settimanale curata da Charles Dickens che conteneva la quattordicesima puntata di Grandi Speranze. Poi ne sarebbero mancate soltanto sei. Ignorando tutti gli impegni che l'aspettavano, McFay fece come tutti i fortunati che ne avevano ricevuto una copia dall'Inghilterra: si chiuse a chiave nella sua stanza e lesse la puntata con avidità. Quando arrivò alla frase “continua sul prossimo numero” sospirò. “Cosa diavolo farà adesso la signorina Havisham, quella vecchia strega? Mi ricorda la madre di Maureen. Spero che tutto si sistemi per Pip. In un modo o nell'altro deve sistemarsi! Spero che il buon vecchio Dickens ci dia un lieto fine...” Per un momento rimase assorto nell'ammirazione per lo scrittore e le sue meravigliose invenzioni, da Oliver Twist scritto più di vent'anni prima a Nicholas Nickleby, David Coppedield e una dozzina d'altri titoli per arrivare allo straordinario Le Due Città. Dickens è il più grande scrittore al mondo, non c'è dubbio. Si alzò per andare alla finestra a osservare il mare e a mandare mentalmente i suoi migliori auguri alla flotta ancorata a Edo e al postale che avrebbe ripreso la rotta regolare per Shanghai anziché dirigersi a Hong Kong con Malcolm Struan a bordo. Era preoccupato per Malcolm e per il futuro, che inspiegabilmente si stava confondendo con quello di Pip e della signorina Havisham. Si domandò come avrebbe fatto Pip a districarsi dal guaio in cui si trovava e se la ragazza si sarebbe innamorata di lui. Lo spero, poverino. E la mia Maureen? Sarebbe ormai giunto anche per me il momento di farmi una famiglia... Un colpo bussato alla porta lo distolse da quelle riflessioni. “Signor McFay, potrei parlarvi un istante?” Era Piero Vargas, il suo assistente.

“Un momento solo.” Con un piccolo senso di colpa nascose la copia del giornale sotto il mucchio della corrispondenza, si stiracchiò e andò ad aprire la porta. Piero Vargas era un bell'eurasiatico di mezza età, di Macao, la piccola enclave occupata dai portoghesi fin dal 1552, a circa quaranta miglia da Hong Kong, poco più di un neo sulla costa cinese. Diversamente dagli inglesi, i portoghesi consideravano Macao in tutto eguale alla patria, non una colonia; incoraggiavano i matrimoni interrazziali con i cinesi, accettavano i figli eurasiatici come cittadini portoghesi garantendo loro la possibilità d'accesso in Portogallo. Le unioni interrazziali degli inglesi, invece, erano molto contrastate benché qualche colono avesse messo su famiglia. I figli di queste unioni tuttavia non venivano accettati in società. La tradizione voleva che i bambini nati a Shanghai portassero il cognome del padre e quelli nati a Hong Kong quello della madre. Da quando gli inglesi commerciavano con la Cina avevano impiegato con soddisfazione gli abitanti di Macao più svegli come cambiavalute e compradores, che dovevano conoscere tanto l'inglese quanto alcuni dialetti cinesi. Il compratore della Nobil Casa, Gordon Chen, figlio illegittimo di Dirk Struan e di una delle sue molte amanti, la leggendaria Maymay, era invece un uomo eccezionalmente ricco. “Si, Piero?” “Mi dispiace interrompervi, senhor” disse Piero Vargas in un inglese sciolto e carezzevole. “Kinu-san, il nostro fornitore di seta, chiede di potervi incontrare.” “Oh. Perché?” “Be', non è proprio per lui ma per due acquirenti che lo accompagnano. Vengono da Choshu.” “Ah sì?” L'interesse di McFay si era risvegliato. Quasi due anni di trattative incerte da parte del daimyo di Choshu, il feudo a ovest sullo stretto di Shimonoseki, avevano prodotto l'anno precedente alcuni contratti significativi autorizzati dalla sede di Hong Kong e organizzati in Giappone: un vapore di duecento tonnellate con un carico molto particolare: cannoni, polvere e munizioni. Pagati puntualmente in oro e argento, metà in anticipo, metà alla consegna. “Falli entrare. Aspetta, meglio se li incontro nel salone principale.” “Si, senhor.” “C'è anche il giapponese dell'ultima volta?” “Senhor?” “Il giovane samurai che parlava un pò l'inglese?” “Non ho partecipato alla trattativa, senhor, ero in licenza in Portogallo.”

“Ah sì, ora ricordo.” Il salone dove venivano ricevuti gli ospiti di palazzo Struan era enorme e nel mezzo troneggiava un tavolo di quercia che poteva accogliere fino a quarantadue persone. C'erano poi altri tavolini e cassettoni adatti all'argenteria, bacheche di vetro scintillante con alcune armi. McFay ne aprì una, ne estrasse una cintura con pistola nella fondina, allacciò la cintura intorno alla vita e si accertò che la pistola fosse carica e pronta per essere estratta. Era sua abitudine non incontrare mai i samurai disarmato. “Per non perdere la faccia” spiegava ai subalterni, “nonché per ragioni di sicurezza.” In sovrappiù appoggiò il fucile Spencer allo schienale di una sedia e andò accanto alla finestra per tenere sempre d'occhio la porta. Vargas rientrò accompagnando tre uomini. Uno di mezza età, grasso, unto e disarmato, Kinu, il loro fornitore. Gli altri due erano samurai, uno sembrava poco più di un ragazzo mentre l'altro aveva circa quarant'anni. Erano entrambi piccoli e magri, con i volti duri, e armati, come previsto. Si inchinarono. McFay notò che a nessuno dei due era sfuggito lo Spencer sulla sedia. Ricambiò l'inchino. “Ohayo” disse. Buongiorno. Poi aggiunse: “Dozo” prego, indicando le sedie a distanza di sicurezza. “Buongiorno” rispose il più giovane senza sorridere. “Ah, parlate inglese? Eccellente. Accomodatevi, prego.” “Parlare un poco” disse il giovane prima di rivolgersi a Vargas in fugianese, il loro dialetto comune. Poi i due si presentarono e dissero di essere emissari del principe Ogama di Choshu. “Io sono Jamie McFay direttore della Struan and Company in Giappone e sono onorato di conoscervi.” Vargas tradusse. Con pazienza Jamie si sottopose agli inevitabili quindici minuti di interrogatorio sulla salute del loro daimyo e sulla propria, su quella della regina, su che tempo faceva nel feudo di Choshu e in Inghilterra, niente di particolare, tutto secondo le loro regole. Il tè venne servito e apprezzato e infine il più giovane dei due emissari di Ogama venne al dunque. Vargas si guardò bene dall'esprimere l'eccitazione che provava. “Vogliono comperare un migliaio di fucili a retrocarica con un migliaio di cartucce di bronzo per ogni arma. Dobbiamo fissare un buon prezzo e consegnarli entro tre mesi. Se ce la facciamo entro due pagheranno una maggiorazione del venti per cento.” McFay si dimostrò altrettanto calmo. “Non desiderano altro per il momento?” Vargas tradusse la domanda. “No,

senhor, ma chiedono mille colpi per fucile e un piccolo piroscafo.” McFay stava conteggiando l'enorme profitto che avrebbe ricavato da quell'affare. Ricordò la conversazione avuta con Greyforth e la ben nota ostilità dell'ammiraglio e del generale, sostenuti da sir William, verso la vendita di qualsiasi tipo d'arma. Non poteva dimenticare i diversi omicidi avvenuti a opera di giapponesi. Né Canterbury fatto a pezzi. Lui stesso non approvava la vendita di armi. Era giusto, trattandosi di una popolazione tanto bellicosa? “Digli che potrò dargli una risposta soltanto fra tre settimane.” Vide il bel sorriso svanire dal volto del giapponese più giovane. “Risposta... adesso. No tre settimane.” “Non avere fucili qui” gli rispose McFay sillabando le parole. “Dovere scrivere a Hong Kong, alla direzione, nove giorni per andare e nove per tornare. Alcuni fucili sono là. Il resto in America. Quattro o cinque mesi minimo.” “Non capire.” Vargas tradusse. Poi seguì una conversazione tra i due samurai e il mercante rispose alle loro domande con gravità. Altre domande a Vargas e cortesi risposte. “Dice molto bene, lui oppure un ufficiale di Choshu tornerà tra ventinove giorni. Questa transazione deve restare segreta.” “Ovviamente.” McFay guardò il giovane. “Segreta.” “Hai! Segreta!” “Chiedetegli come sta Saito, l'altro samurai.” Vide i giapponesi irrigidirsi ma non riuscì a decifrare l'espressione dei loro volti. “Non lo conoscono personalmente, senhor.” Altri inchini e Jamie rimase di nuovo solo. Assorto nei suoi pensieri ripose il cinturone nella bacheca. Se non glieli vendo io glieli venderà Norbert, pensò, a dispetto di qualsiasi considerazione di ordine morale. Vargas ritornò molto compiaciuto. “Un'ottima occasione, senhor, ma anche una grossa responsabilità.” “Si. Mi chiedo che cosa dirà questa volta la direzione.” “Facile scoprirlo, senhor, e rapido. Non dovete aspettare diciotto giorni, non abita forse al piano di sopra il nostro capo?” McFay lo fissò. “Io sia dannato. L'avevo dimenticato! Difficile pensare al giovane Malcolm come al tai-pan, il padrone. Hai ragione.” Sentirono un rumore di passi affrettati e la porta si aprì. “Scusate se mi precipito in questo modo” disse Nettlesmith ansimando e con il cappello di traverso. “Ma ho pensato che fosse meglio informarvi. Pochi minuti fa alla Legazione

abbiamo visto la bandiera azzurra salire... poi scendere e risalire, poi ridiscendere ancora a mezz'asta e restare così.” Jamie lo guardò a bocca aperta. “Che cosa diavolo vuol dire?” “Non so, so soltanto che una bandiera a mezz'asta di solito significa una morte, non è vero?” Molto nervoso, l'ammiraglio puntò un'altra volta il binocolo sul pennone della Legazione; gli altri erano dietro di lui sul ponte, i capitani della flotta, Marlowe, il generale, l'ammiraglio francese e von Heimrich, molto preoccupato, Seratard e André Poncin che invece fingevano soltanto di esserlo ma in realtà nutrivano una grande indifferenza per le difficoltà in cui versava sir William. Quando un'ora prima l'uomo di vedetta aveva dato l'allarme, tutti si erano precipitati sul ponte abbandonando il tavolo della colazione. Tutti eccetto il ministro russo. “Se volete aspettare al freddo, accomodatevi, ma non pretendetelo da me. Quando si capirà se la risposta è si, no, oppure guerra, per favore svegliatemi. Se cominciate a fare fuoco chiamatemi che vengo a darvi man forte...” Marlowe osservava il rotolo di grasso sul colletto dell'ammiraglio. Lo detestava e avrebbe tanto voluto essere a terra con Tyrer o a bordo della sua nave, la Pearl. A mezzogiorno l'ammiraglio aveva sostituito il capitano temporaneamente in carica con una perfetta nullità, un certo tenente Dornfild, contro il parere di Marlowe. Maledetto vecchio bastardo, guarda come si gingilla pomposo con quel binocolo, lo sappiamo tutti che sono strumenti molto costosi dati in dotazione solo a capitani e ammiragli. Maledetto vecchio... “Marlowe!” “Sì, signore.” “Dobbiamo scoprire subito che cosa diavolo succede. Andate a terra... No, ho bisogno di voi qua! Thomas, vorreste per cortesia essere così gentile da mandare un ufficiale alla Legazione? Marlowe, mandate anche un segnalatore.” Immediatamente il generale fece un cenno col pollice al suo aiutante che si precipitò, seguito a pochi passi da Marlowe. Seratard si strinse intorno al corpo il pesante cappotto che lo proteggeva dal vento. “Ho paura che sir William sia in trappola.” “Ricordo di aver già sentito la vostra opinione in proposito questa mattina” tagliò corto l'ammiraglio. Si riferiva a un incontro al quale avevano partecipato alcuni ministri ma che aveva prodotto, malgrado grida e strepiti, unicamente la proposta del conte Zergeyev di un immediato attacco in forze.

“Un attacco, mio caro conte” aveva sottolineato l'ammiraglio in tono acido, “che non possiamo sferrare se dobbiamo limitarci a un semplice bombardamento per distruggere la città e gli immediati dintorni.” Ketterer guardò Seratard con una smorfia; la loro antipatia era reciproca. “Sono certo che sir William troverà una risposta ma vi dico francamente, per Dio, che se vedo ammainare la nostra bandiera Edo brucerà!” “Sono d'accordo con voi” disse Seratard. “E' una questione di onore nazionale!” Il volto di von Heimrich s'indurì. “I giapponesi non sono stupidi come qualcuno di mia conoscenza. Non posso credere che sottovalutino le forze di cui disponiamo in questo momento.” Il vento s'alzò all'improvviso facendo scricchiolare le sartie e tingendo il mare sotto le nubi grigie di una tonalità più scura. Tutti gli occhi si volsero alla linea nera del ciclone all'orizzonte orientale. Il temporale si avvicinava minaccioso e la loro posizione in porto era troppo esposta. “Marlowe, mandate un... Marlowe!” urlò l'ammiraglio. “Sì, signore?” Marlowe ritornò correndo. “Per l'amor di Dio, restate a portata di voce! Segnalate a tutte le navi: “Preparatevi a far fronte al temporale. Se le condizioni peggiorassero in fretta al mio ordine agite individualmente. Ci ritroveremo a Kanagawa quando le condizioni climatiche lo permetteranno”. Voi capitani tornate sulle vostre navi sinché il tempo lo consente.” Gli ufficiali si allontanarono con piacere. “Tornerò anch'io sulla mia nave” disse l'ammiraglio francese. “Bonjour, messieurs.” “Verremo con voi, monsieur” disse Seratard. “Grazie per la vostra ospitalità, ammiraglio Ketterer.” “E il conte Alexi? E' venuto con voi, non è vero?” “Lasciatelo dormire. Meglio che l'orso russo dorma, n'est ce pas?” domandò Seratard con freddezza a von Heimrich. Entrambi erano perfettamente al corrente delle manovre segrete della Prussia che chiedeva allo zar di restare neutrale consentendole in questo modo di espandersi in Europa e soddisfare una politica di stato ormai evidente: una grande nazione germanica che riunisse popolazioni di lingua tedesca e guidata dalla Prussia. Correndo per raggiungere il segnalatore Marlowe vide la sua nave all'ancora e si preoccupò per la sua sorte; detestava l'idea di non prenderne il comando. A disagio, gettò un'altra occhiata verso il mare cercando di valutare la direzione del temporale, il peso delle nubi che si addensavano, l'odore e il sapore del sale nel vento. “Sarà una bella gatta da pelare.” Nella sala delle udienze della Legazione sir William, attorniato da un ufficiale scozzese, da Phillip Tyrer e da alcune guardie, sedeva impettito

davanti a tre ufficiali giapponesi piuttosto rilassati: erano Adachi, daimyo di Mito, l'anziano con i capelli grigi, il finto samurai Misamoto e per finire un piccolo ufficiale bakufu con la pancia prominente che conosceva l'olandese e il cui incarico ufficioso era di fare un rapporto privato a Yoshi sull'incontro e il comportamento degli altri due. Come d'abitudine i giapponesi avevano declinato false generalità. Nel cortile della Legazione erano arrivati cinque palanchini allo stesso modo del giorno prima, e un'uguale cerimonia era seguita. Solo il numero delle guardie era aumentato. Il fatto che i palanchini fossero cinque per tre passeggeri aveva subito insospettito sir William che, già innervosito dal continuo andirivieni notturno di samurai intorno al tempio e alla Legazione, aveva deciso di inviare un segnale d'allarme parziale alla flotta mettendo una bandiera abbrunata nella speranza che Ketterer capisse. Anche Hiraga, sempre travestito da giardiniere, era rimasto molto perplesso nel vedere i due palanchini vuoti e soprattutto nello scoprire che Toranaga Yoshi non faceva parte della delegazione. Ciò significava che si doveva cancellare il piano d'attacco, studiato con tanta attenzione, per far cadere Yoshi in un'imboscata sulla strada del ritorno, nei pressi delle porte del castello. Cercò di dileguarsi per avvisare i compagni ma un samurai gli ordinò in tono irritato di tornare al lavoro. Hiraga rimandò la fuga a un momento migliore. “Siete in ritardo di due ore e mezzo” esordì gelido sir William, come saluto d'apertura. “Nei paesi civilizzati gli incontri diplomatici si svolgono all'ora stabilita, non in ritardo!” Seguirono immediate e fiorite scuse, poi i soliti preamboli obbligatori e complimenti zuccherosi e sfoggio di gentilezza, e un'altra ora buona di perdite di tempo, di richieste respinte con calma, ponderose discussioni, richieste di rimandi e aggiornamenti, espressioni sbalordite dove non ce n'era alcun bisogno, domande ripetute all'infinito, fatti trascurati, verità negate, alibi, spiegazioni, ragionamenti e scuse cortesi. Sir William era sul punto di esplodere quando con grande formalità l'anziano, Adachi, estrasse un rotolo sigillato che tese all'interprete che lo porse a Johann. La stanchezza di Johann passò all'improvviso. “Gott im Himmel! Porta il sigillo del Roju.” “Come?” “Il Consiglio degli Anziani. Riconoscerei questo sigillo tra mille, è lo stesso apposto sul rotolo dell'ambasciatore Harris. Vi consiglio di accettarlo formalmente, sir William, poi io ne leggerò ad alta voce il contenuto, se è in olandese, ma ne dubito.” Soffocò uno sbadiglio nervoso. “Con ogni probabilità si tratta soltanto di un'altra tattica per rimandare.” Sir

William fece come suggeriva l'interprete, furente di essere solo e di dover contare su interpreti mercenari e per di più stranieri. Johann ruppe il sigillo e diede un'occhiata al documento. Il suo stupore fu evidente a tutti: “E' in olandese, per Dio! Tralasciando titoli, formalità eccetera dice: Il Consiglio degli Anziani avendo ricevuto ciò che ritiene essere una giusta lamentela si scusa per l'incuria dei suoi sudditi e desidera invitare l'onorevole ministro degli inglesi e gli altri ministri accreditati a un incontro con il Consiglio a Edo fra trenta giorni da oggi allorché le proteste formali saranno presentate e la questione discussa. E verranno deliberate le azioni da intraprendere e stabilito un indennizzo per l'accaduto che sarà giustamente pagato. Firmato... Nori Anjo, Capo Ministro. Sir William soffocò l'enorme sollievo che provava. Quell'incredibile svolta gli dava la possibilità di cui aveva disperatamente bisogno per non fare una pessima figura, e se fosse riuscito a ottenere qualche altra piccola concessione... Con orrore vide che Tyrer stava sorridendo apertamente. Senza guardarlo sussurrò: “Smettetela di sorridere, stupido idiota!”. E senza quasi riprender fiato aggiunse con durezza: “Johann, dite loro che avranno la mia risposta fra tre giorni. Nel frattempo voglio l'indennizzo in oro, sempre fra tre giorni, per un valore pari a diecimila sterline quale risarcimento per le famiglie del sergente e del caporale assassinati in questa Legazione l'anno scorso, indennizzo già richiesto quattro volte!”. Quando il suo discorso venne tradotto lesse la costernazione sul volto del samurai più anziano. Segui un altro interminabile scambio tra questi e l'ufficiale della Bakufu. In tono stanco Johann disse: “Il vecchio risponde come al solito che quello “sfortunato incidente” fu causato da un impiegato della Legazione che poi fece seppuku, si suicidò. Non è responsabilità della Bakufu. “ Non meno stanco di lui sir William ribatté: “Rispondetegli come al solito che, per Dio, furono loro ad assumerlo, loro a insistere perchè lavorasse da noi e che sono pertanto responsabili; inoltre si tolse la vita soltanto perchè era stato gravemente ferito nel tentativo di uccidere il mio predecessore e quindi sarebbe stato catturato immediatamente!”. Cercando di scacciare la stanchezza guardò i due ufficiali parlare con il loro interprete e il terzo uomo ascoltare come aveva fatto per tutto il pomeriggio. Magari è lui quello con il potere decisionale.

Cos'è accaduto a quell'altro che c'era ieri, il giovane, l'uomo a cui André Poncin si è avvicinato all'uscita? Che cosa sta tramando quell'infido bastardo di Seratard? Il vento sempre più freddo fece sbattere un'imposta contro la finestra. Una delle sentinelle si sporse sul davanzale per bloccarla. La flotta era poco lontano, e ora l'oceano era scuro scuro e coperto di schiuma bianca. Sir William notò il temporale che si delineava all'orizzonte e la sua ansia per le navi aumentò. Johann disse: “Il vecchio chiede se ne accettate tremila”. Sir William divenne paonazzo. “Diecimila e in oro!” Altri discorsi e infine Johann parlò asciugandosi il sudore dalla fronte. “Mein Gott, d'accordo per diecimila che verranno pagate in due rate: a Yokohama tra dieci giorni la prima parte, la seconda il giorno dell'incontro a Edo.” Dopo una pausa volutamente drammatica sir William disse: “Comunicherò loro fra tre giorni se l'offerta è accettabile”. I giapponesi trattennero un'altra volta il respiro, poi diedero il via ad alcuni tentativi per far diventare i tre giorni trenta, poi dieci, otto ma sir William fu irremovibile. “Tre.” Inchini cortesi e la delegazione uscì. Una volta rimasti soli Johann si abbandonò alla contentezza. “E' la prima volta che facciamo un progresso simile, sir William, la primissima volta!” “Sì, bene, staremo a vedere. Solo che io non li capisco affatto. E' ovvio che stavano cercando di stancarci. Ma perchè? Che cosa ci guadagnano? Avevano già il rotolo in tasca, dunque perchè diavolo non darmelo subito ed evitare tutte quelle stupide perdite di tempo? Mucchio di idioti! E perchè poi mandare due palanchini vuoti?” Phillip Tyrer disse allegramente: “Mi sembra che l'ambiguità sia una delle loro caratteristiche, signore”. “Sì, a proposito, Tyrer, venite con me per favore.” Lo condusse nel suo ufficio privato e quand'ebbe chiuso la porta disse: “Ma al Foreign Office non vi hanno insegnato proprio niente? Siete completamente impazzito? Non avete abbastanza buon senso per capire che a un incontro diplomatico bisogna restare impassibili? Vi è andato in fumo il cervello?” Tyrer rimase annichilito di fronte a quello scoppio di collera. “Mi dispiace, signore, mi dispiace molto, signore. Ero così contento per la vostra vittoria che...” “Non è stata una vittoria, idiota! E' stata soltanto una soluzione temporanea, anche se mandata dal cielo, per rimandare il problema!” Il sollievo che sir William provava per la fine di quell'incontro, durante il quale aveva ottenuto molto più di quanto avesse sperato, lo rendeva ancora più irritabile. “Avete le orecchie piene di muffa? Non avete sentito la frase “ciò che si ritiene una giusta lamentela”, insomma

la scappatoia più comoda che ci potessero lasciare, per Dio! Abbiamo ottenuto di rimandare, tutto qui, ma tanto mi basta e se fra trenta giorni a Edo avrà luogo l'incontro di cui hanno parlato ne resterò molto stupito. La prossima volta non date a vedere i vostri sentimenti per nessuna ragione al mondo, se volete diventare un interprete... Anzi, fareste meglio a imparare il giapponese in fretta altrimenti vi rimetto sulla prossima nave per l'Inghilterra con una nota sul vostro curriculum che vi procurerà un bell'incarico nella terra degli eschimesi per il resto della vostra vita!” “Sì, signore.” Ancora furente, sir William vide che il giovane lo fissava senza batter ciglio. Si domandò che cosa vi fosse di diverso in lui quando l'aveva visto per la prima volta. Poi si rese conto che la diversità era nello sguardo. Dove ho già visto prima quello sguardo, quello stesso indefinibile senso di estraneità che c'è anche negli occhi di Struan? Ah si, certo, ora ricordo! Negli occhi dei giovani soldati che tornavano dalla Crimea. Tutti, i feriti e quelli che se l'erano cavata, alleati e nemici. La guerra ha strappato loro la giovinezza, gli ha tolto l'innocenza con una tale oscena velocità che non saranno mai più gli stessi. Il cambiamento non si manifesta mai sui loro volti ma negli occhi. Quante volte ho sentito dire: prima della battaglia era un giovane e pochi minuti o poche ore più tardi un adulto: inglese, russo, tedesco, francese o turco, è lo stesso. L'idiota sono io, non questo ragazzo. Ho dimenticato che ha soltanto ventun anni e che in sei giorni ha rischiato di essere assassinato e ha vissuto una delle esperienze più violente che possa capitare a un uomo. E a una donna, per Dio! E' vero, c'era lo stesso sguardo negli occhi della ragazza. Come sono stato stupido a non capirlo prima. Poveretta. Non ha diciotto anni appena? E' tremendo crescere così in fretta. Io sono stato molto più fortunato. “Bene, signor Tyrer” disse con voce roca invidiando il coraggio con cui era passato attraverso il suo battesimo del fuoco, “sono certo che ve la caverete bene. Questi incontri sono, ecco... sono più che sufficienti per mettere alla prova anche la pazienza di Giobbe, giusto? Penso che adesso ci vorrebbe uno sherry.” Hiraga aveva faticato a scappare dal giardino e ritornare alla locanda dei Quarantasette Ronin. Quando vi arrivò scopri con sgomento che il suo gruppo era già partito, diretto al luogo dell'imboscata. “Uno dei nostri ha riferito che la delegazione era uscita dal castello esattamente come ieri, con gli stendardi di ieri e con cinque palanchini

come ieri e quindi abbiamo pensato che il principe Yoshi fosse con loro” gli spiegò Ori. “Ma eravamo d'accordo che avrebbero aspettato.” “Hanno aspettato, Hiraga, ma se... se non partivano quando sono partiti non sarebbero mai arrivati sul posto in tempo.” Hiraga indossò in fretta un kimono e raccolse le sue armi. “Ti sei fatto vedere da un dottore?” “No, la mama-san e io abbiamo pensato che oggi fosse troppo pericoloso. Lo faremo domani.” “Allora ci vediamo a Kanagawa.” “Sonno-joi!” “Vai a Kanagawa! Qui sei in pericolo!” Hiraga scavalcò lo steccato e si gettò tra vicoli e sentieri poco frequentati e lungo i ponti che conducevano al castello. Questa volta fu fortunato e non incontrò nemmeno una pattuglia. Quasi tutti i palazzi dei daimyo fuori dalle mura del castello erano deserti. Con grande cautela Hiraga passò di giardino in giardino sino a raggiungere le rovine del palazzo del daimyo distrutto tre giorni prima dal terremoto. Come stabilito i suoi compagni erano riuniti per l'imboscata vicino al cancello divelto del palazzo principale che si apriva sulla strada che conduceva alle porte del castello. Anziché undici gli shishi erano nove. “Hiraga, abbiamo deciso di fare a meno di te!” sussurrò il più giovane e il più eccitato. “Da qui lo uccideremo senza difficoltà.” “Dove sono i due mori?” “Morti.” Akimoto, il cugino di Hiraga, si strinse nelle spalle. Il più anziano del gruppo era un giovane corpulento di ventiquattro anni. “Siamo arrivati qui separatamente ma io ero vicino a loro e ci siamo scontrati tutti e tre con una pattuglia.“ Sorrise. “Io sono scappato prima in una direzione, poi in un'altra, ne ho visto cadere uno colpito da una freccia. Non avrei mai pensato di poter correre così in fretta. Dimenticati quei due; quando passerà di qua Yoshi?” La delusione fu enorme quando Hiraga raccontò che la vittima non era nel corteo. “Allora cosa dobbiamo fare?” chiese un bel giovane alto di soli sedici anni. “Questa imboscata è perfetta... Sono passati di qua una mezza dozzina di palanchini che trasportavano importanti membri della Bakufu ed erano quasi senza guardie.” “E un posto troppo buono per rischiarlo senza motivo” rispose Hiraga. “Ce ne andremo uno per volta. Akimoto, tu per primo...” Lo shishi di guardia fischiò il segnale di avvertimento. Subito tutti si nascosero, gli occhi incollati alle fessure tra le assi dello steccato rotto. Un palanchino sorretto da otto portatori seminudi e circondato da una dozzina di samurai con gli stendardi procedeva a circa trenta metri, diretto verso il castello.

Nessuno in vista da nessuna parte. Riconobbero immediatamente l'emblema: era quello di Nori Anjo, capo del Consiglio degli Anziani. La decisione fu istintiva: “Sonno-joi!”. Guidato da Hiraga, il gruppo si precipitò all'attacco come un sol uomo, uccise le prime due file di guardie e si avvicinò al palanchino. Ma nell'eccitazione sbagliarono i tempi di pochi secondi consentendo alle restanti otto guardie, guerrieri scelti, di riprendersi dalla sorpresa. Nella tremenda confusione che segui i portatori abbandonarono il palanchino e scapparono gridando, quelli che erano sfuggiti al primo violento attacco diedero ad Anjo il tempo necessario per aprire la porta del palanchino e scivolare fuori mentre la spada di Hiraga attraversava il legno morbido perforando il cuscino su cui Anjo era stato appoggiato fino a qualche istante prima. Imprecando, Hiraga estrasse con violenza la spada dal legno e si girò per pararsi le spalle, uccise il suo antagonista dopo un violento scontro di spade, poi superò con un balzo i pali della portantina per rincorrere Anjo, ormai protetto da tre guardie. Dietro Hiraga cinque dei suoi lottavano contro quattro samurai, uno shishi era morto, uno giaceva a terra ferito a morte e un altro ancora, assetato di sangue, sottovalutò il suo avversario e inciampò nel corpo di un portatore che piagnucolava ricevendo una terribile ferita al fianco. Prima che il suo assalitore potesse riprendersi uno shishi attaccò la guardia facendogli rotolare la testa nella polvere. Adesso erano sette contro sei. All'improvviso Akimoto smise di combattere e si precipitò ad aiutare Hiraga che attaccava Anjo e le tre guardie e stava per essere sopraffatto. Con una brillante finta Hiraga fece perdere l'equilibrio a una delle guardie e la infilzò, si ritrasse e scartò di lato per attirare le altre due e lasciare ad Akimoto un varco per raggiungere Anjo. In quell'attimo sentirono un grido d'avvertimento. Dal castello venti guardie si stavano precipitando ad aiutare Anjo. Un istante di esitazione da parte di Akimoto diede a una guardia il tempo di parare il colpo tremendo che avrebbe ucciso il capo del Roju e gli consentì di arrancare verso i rinforzi. Adesso gli shishi erano in netta minoranza. Non c'era più alcuna possibilità di raggiungere Anjo! Nessuna possibilità di vincere! “Ritirata!” ordinò Hiraga e ancora una volta come un sol uomo il gruppo ripeté la manovra provata infinite volte; Akimoto e gli altri quattro abbandonarono i duelli in cui erano impegnati e corsero oltre il cancello, Hiraga li seguiva con il giovane gravemente ferito, Jozan, che arrancava a fatica.

Per un istante le guardie rimasero disorientate da quella fuga improvvisa, poi si ripresero e con i rinforzi si lanciarono all'inseguimento mentre gli altri fermavano Jozan che perdeva sangue da un fianco. Akimoto condusse la disordinata ritirata attraverso le rovine del palazzo del daimyo, mentre Hiraga aveva i nemici alle costole. Raggiunse la prima barricata dove Gota aspettava nascosto, poi si fermò all'improvviso e insieme al compagno si girò per contrattaccare: aggredì e ferì mortalmente uno degli inseguitori e ne fece cadere altri due. Poi ripresero a correre trascinando il nemico con loro. Inciampando sul terreno irregolare attraversarono la breccia nel muro bruciacchiato dove Akimoto e un altro aspettavano per una seconda imboscata. Senza esitazione i due uccisero il primo inseguitore gridando “Sonno-joi!” mentre gli altri, sbalorditi dall'assalto improvviso si fermavano per riorganizzarsi. Quando i nemici lanciarono il loro grido di battaglia e scavalcarono di un balzo il corpo del loro compagno per infilarsi nella breccia, Akimoto, Hiraga e gli altri erano scomparsi. I samurai si sparpagliarono per cercarli sotto un cielo minaccioso e coperto da cumuli grigi. Di fronte al cancello principale Anjo aspettava circondato dalle guardie. Cinque dei suoi uomini erano stati uccisi e due gravemente feriti. I due shishi morti erano già stati decapitati. Il giovane giaceva a terra ferito, con una gamba quasi staccata dal busto a cui si aggrappava con disperata sofferenza. Jozan era appoggiato contro un muro. Cominciò a piovere. Il samurai in piedi accanto al giovane ripeté: “Chi sei? Come ti chiami? Chi ti ha mandato? Chi è il tuo capo?”. “Ve l'ho già detto, sono uno shishi di Choshu, mi chiamo Toma Hojo! Io ero il capo! Nessuno mi ha mandato! Sonno-joi!” “Sta mentendo, signore” disse un ufficiale ansimando. “Certo” ribatté Anjo in subbuglio. “Uccidilo.” “Chiedo rispettosamente che gli sia concesso di commettere seppuku.” “Uccidilo!” L'ufficiale, un uomo grande e grosso come un orso, si strinse nelle spalle e si diresse verso il giovane. Offrendo la schiena ad Anjo sussurrò: “Ho l'onore di essere il tuo secondo. Allunga il collo”. La spada si librò nell'aria e colpì sicura. Prese la testa per i capelli e la presentò ad Anjo come voleva la tradizione. “L'ho vista” disse Anjo seguendo il rituale ma scoppiando di rabbia perchè quegli uomini avevano osato attaccarlo, avevano osato spaventarlo a morte, lui, il capo del Roju! “Adesso quell'altro... mente anche lui, uccidilo!”

“Chiedo rispettosamente che gli sia concesso di commettere seppuku.” Anjo era sul punto di ordinare al samurai di uccidere quell'assassino brutalmente o di fare lui stesso seppuku quando avvertì l'improvvisa antipatia dei samurai che lo circondavano. Un'insolita paura lo assalì: di chi mi posso fidare? Le mie guardie personali sono soltanto cinque. Finse di riflettere sulla richiesta. Quando riuscì a contenere la rabbia che provava annuì, si allontanò dirigendosi verso il cancello sotto la pioggia sempre più fitta. I suoi uomini lo accompagnarono. Gli altri circondarono Jozan. “Puoi riposare un momento, shishi” disse l'ufficiale con cortesia asciugandosi il volto. “Dategli un pò d'acqua.” “Grazie.” Jozan si era preparato per quel momento sin da quando con Ori, Shorin e altri quattro compagni aveva giurato di “onorare l'imperatore e scacciare gli stranieri”. Raccolse le forze e cercò di mettersi in ginocchio ma con grande orrore scoprì che l'idea di morire lo terrorizzava. L'ufficiale capì il suo terrore e gli si inginocchiò accanto: “Hai una poesia di morte, shishi? Dimmela, fatti forza, ragazzo, non cedere, sei un samurai e questo è un giorno come un altro per te” sussurrò facendogli coraggio e augurandosi che smettesse di piangere. “Dal nulla al nulla, una spada taglia il nemico, una spada taglia te. Grida il tuo grido di battaglia e vivrai per sempre. Dillo: Sonno-joi... ancora...” Jozan si preparava da sempre a questo momento. Con un gesto improvviso ed elegante si alzò estraendo la spada dal fodero. E in un istante la sua giovinezza fu nell'eternità. “Uuh!” esclamò uno dei suoi uomini con ammirazione. “Uragasan, è stato sublime a vedersi.” “Il sensei Katsumata di Satsuma è stato uno dei miei maestri” spiegò con voce roca. Il cuore gli batteva come mai prima ma era felice che il giovane avesse compiuto il suo dovere di samurai. Uno degli uomini raccolse la testa tenendola per i capelli. La pioggia mischiò lacrime ad altre lacrime. “Pulisci la testa e portala al principe Anjo.” Uraga gettò un'occhiata verso il castello. “I vigliacchi mi fanno schifo” disse, e si allontanò. Nel cuore della notte Hiraga e gli altri uscirono dalla cantina dove si erano nascosti e prendendo vie diverse si diressero verso il nascondiglio. Il cielo era nero e coperto, il vento fischiava con forza e la pioggia scendeva torrenziale. Non sentirò freddo, non mostrerò disagio, sono un samurai, si ordinò Hiraga seguendo il modello di addestramento in uso da sempre nella sua famiglia. E così addestrerò i miei figli e le mie figlie se il mio karma sarà di averne, pensò. “E' giunto per te il momento di sposarti” gli aveva detto suo padre un anno prima.

“Sono d'accordo, padre. Rispettosamente vi chiedo di cambiare idea e di consentirmi di sposare una donna di mia scelta.” “Primo è dovere del figlio obbedire al padre, secondo è dovere del padre scegliere le mogli per i figli e i mariti per le figlie, terzo il padre di Sumomo non approva, lei è una satsuma e non una choshu e inoltre, benché desiderabile, non è adatta a te. Cosa ne dici della ragazza Ito?” “Vi prego di scusarmi, padre, concordo con voi che la mia scelta non sia perfetta ma la sua famiglia è samurai, lei stessa è samurai e io sono invaghito di lei. Ve ne prego. Avete altri quattro figli... io ho soltanto una vita e noi... voi ed io... siamo entrambi d'accordo sul fatto di dedicarla a sonno-joi e perciò sappiamo che sarà breve. Concedetemi Sumomo come un ultimo desiderio.” Secondo la tradizione la richiesta dell'ultimo desiderio veniva considerata con estrema serietà e significava che, una volta esaudita, qualsiasi altra richiesta fosse per sempre preclusa. “Molto bene” aveva risposto suo padre in tono burbero. “Ma non ti concedo l'ultimo desiderio. Ti potrai fidanzare quando lei avrà diciassette anni. Allora e solo allora la accoglierò nella nostra famiglia.” Questo era accaduto un anno prima. Alcuni giorni dopo Hiraga aveva lasciato Shimonoseki per raggiungere, in teoria, il reggimento choshu a Kyòto. In realtà era per aderire a sonno-joi, diventare ronin per quattro anni e mettere in pratica l'addestramento ricevuto. Adesso era il nono mese. Fra tre settimane Sumomo avrebbe avuto diciassette anni, ma ormai Hiraga era un fuorilegge e non aveva più nessuna possibilità di tornare sano e salvo. Fino al giorno prima. Suo padre aveva scritto: Con mio grande stupore il nostro principe Ogama ha offerto il perdono a tutti i guerrieri che hanno apertamente abbracciato sonno-joi e ripristinerà le paghe di quelli che faranno ritorno immediato, rinunceranno all'eresia e giureranno ancora alleanza a lui pubblicamente. Approfitterai di quest'offerta. Sono in molti a tornare. La lettera l'aveva intristito indebolendo la sua determinazione. “Sonno-joi è più importante della famiglia e anche del principe Ogama, più importante persino di Sumomo” si era ripetuto. “Del principe Ogama non ci si può fidare. In quanto alla mia paga...” Per sua fortuna il padre era benestante se paragonato alla maggioranza della popolazione e in virtù del nonno shoya era stato promosso al birazamurai, il terzo livello di samurai.

Sopra di lui c'erano i samurai hatomoto e i daimyo. Sotto allo hirazamurai c'erano tutti gli altri, goshi, ashigaru, samurai contadini, e fanti che appartenevano alla classe feudale ma inferiore a quella dei samurai. Grazie al nonno suo padre aveva avuto accesso ai gradi inferiori e aveva potuto far impartire ai figli l'educazione migliore. Gli devo tutto, pensò Hiraga. Si, e con obbedienza mi sono applicato per diventare il miglior allievo nella scuola di samurai, il più abile con la spada, il più bravo con l'inglese. E ho il permesso e l'approvazione sua e del sensei, il nostro maestro, di abbracciare sonno-joi, e diventare ronin, di guidare e organizzare i guerrieri choshu in un'avanguardia per il cambiamento. Si, tuttavia la loro approvazione è segreta, perchè se fosse resa nota costerebbe certamente a mio padre e al sensei la testa. Karma. Sto facendo il mio dovere. I gai-jin sono feccia che noi non vogliamo. Vogliamo solo le loro armi per ucciderli. La pioggia divenne ancora più battente. E cominciò il temporale, il che gli fu gradito perchè rendeva più difficile essere intercettati. La prospettiva di un buon bagno, di un buon sakè e indumenti puliti lo allettava. Che l'attacco fosse fallito non lo preoccupava granché. Era sempre e solo questione di karma. La certezza che i nemici e i traditori fossero ovunque gli era stata inculcata dagli insegnanti e dal padre ed era diventata ormai per lui una seconda natura. Procedette con cautela, si accertò di non essere seguito, cambiò spesso direzione e ogni qualvolta gli fu possibile controllò davanti a sé prima di muoversi. Quando raggiunse il vicolo le forze lo abbandonarono. La Locanda dei Quarantasette Ronin e lo steccato che la circondava erano scomparsi. Restavano soltanto il vuoto e l'odore acre del fumo e le ceneri ancora calde. Qualche corpo. Uomini e donne. Alcuni decapitati, altri tagliati a pezzi. Riconobbe il suo compagno Gota dal kimono. La testa della mama-san era stata infilata su una lancia. Attaccato c'era un cartello: E' contro la legge dare asilo a criminali e traditori Il sigillo ufficiale sotto la scritta era della Bakufu e la firma quella di Nori Anjo, capo del Roju. Hiraga fu travolto da un incontenibile gelido furore che andò ad aggiungersi a tutto quello già sedimentato in lui.

Quei maledetti gai-jin, pensò. E' colpa loro. utto ciò è accaduto per colpa loro. Presto ci vendicheremo.

Capitolo 13 †

Domenica, 28 settembre Malcolm Struan riemerse dal sonno a fatica, mentre i sensi rispondevano al richiamo del giorno con piccoli tentativi di ripresa. La perdita di due fratelli e una sorella gli aveva già molto insegnato sulla sofferenza dello spirito, ricordava bene l'angoscia provocatagli dall'ubriachezza paterna quando diventava violenta, le punizioni corporali inferte da insegnanti impazienti, le privazioni alle quali si sottoponeva spinto dall'ossessivo bisogno di eccellere perchè un giorno sarebbe diventato tai-pan; conosceva la paura subdola d'essere inadeguato malgrado gli sforzi, le speranze e le preghiere nonché la quotidiana fatica che gli aveva impedito di godere l'infanzia e l'adolescenza al pari dei suoi compagni. Tuttavia mai prima di Kanagawa aveva dovuto affrontare un risveglio che lo costringeva a sondare le profondità del dolore fisico; di riemergere a un giorno che, come tutti gli altri giorni, avrebbe portato soltanto sorda sofferenza, cercando disperatamente di ignorare l'improvviso e accecante spasmo che arrivava da un momento all'altro senza preavviso né logica. Oggi andava meglio di ieri, il dolore era soltanto spossante. Quanti giorni erano trascorsi dalla Tokaida? Sedici. Era il sedicesimo giorno. Si concesse qualche altro passo sul cammino del risveglio. Andava davvero molto meglio di ieri. Occhi e orecchie ormai erano aperti alle sollecitazioni del mondo. La stanza non turbinava nella luce del primo mattino. Cielo chiaro, una brezza leggera, nessun temporale in vista. Il temporale si era placato due giorni prima. Il vento che per otto giorni aveva soffiato con la forza di un tifone era scomparso all'improvviso. La flotta all'ancora al largo di Edo si era allontanata alle prime avvisaglie di tempesta mettendosi in salvo in altomare. L'unica nave che da allora avesse fatto ritorno a Yokohama era l'ammiraglia francese. Benché non fosse ancora il caso di disperare tutti tenevano lo sguardo fisso sull'orizzonte e speravano, e pregavano. Durante la burrasca un mercantile era stato spinto sulla riva di Yokohama, alcuni edifici avevano subito danni ingenti, molte lance e barche da pesca erano andate perdute, il villaggio e lo Yoshiwara erano stati in parte distrutti, molte tende nell'accampamento militare sulla scogliera erano state portate via dal vento.

Non c'erano stati feriti nell'Insediamento né altrove. Siamo stati molto fortunati, pensò Struan. Ma tornò subito a concentrarsi sul problema centrale del suo personale universo: posso mettermi seduto? Un tentativo goffo e incerto. Ahi! Un dolore forte, si, ma non insopportabile. Facendo perno con entrambe le mani riuscì a mettersi eretto. Sopportabile. Meglio di ieri. Dopo un attimo si sporse in avanti liberando con attenzione il peso da un braccio. Ancora sopportabile. Tolse il peso da entrambe le braccia. Sempre sopportabile. Con grande attenzione scostò le lenzuola e cautamente cercò di appoggiare i piedi sul pavimento. Non gli riuscì, la fitta di dolore era simile a una pugnalata. Il secondo tentativo fu seguito da un secondo fallimento. Non importa, proverò più tardi. Si riadagiò piano piano. Quand'ebbe liberato la vita e la schiena dalla fatica di sostenersi da sole sospirò di sollievo. “Aaah!” “Ci vuole pazienza, Malcolm” gli aveva ripetuto ogni giorno Babcott durante le sue visite. “Al diavolo la pazienza!” “Avete ragione... però state davvero facendo grossi progressi.” “E quando mi potrò alzare?” “Anche adesso se lo desiderate... ma non ve lo consiglio.” “Fra quanto?” “Diciamo tra un paio di settimane.” Aveva imprecato senza ritegno benché in un certo senso non gli dispiacesse di restare confinato a letto con a disposizione tutto il tempo che voleva per riflettere sulla sua nuova posizione di tai-pan, sul comportamento da tenere con la madre, con Angélique, con McFay e su come affrontare i problemi d'affari più urgenti. “Avete riflettuto sulla vendita dei fucili ai choshu?” gli aveva domandato McFay qualche giorno prima. “Sarebbe un ottimo affare.” “Ho un'idea. Lasciatemi fare.” “Norbert deve aver già subodorato la richiesta dei giapponesi e se non ci sbrighiamo si farà avanti con un'offerta più vantaggiosa.” “Al diavolo Norbert e i Brock! I loro contatti non sono buoni quanto i nostri, e Dmitri, la Cooper-Tillman e la maggior parte degli altri commercianti americani sono dalla nostra parte.” “Eccetto nelle Hawaii” ribatté McFay. Dieci giorni prima, con l'ultima posta, dopodiché non c'erano state novità perchè il vapore quindicinale non sarebbe arrivato che dopo cinque giorni, Tess Struan gli aveva scritto: La Victoria Bank ci ha traditi. Credo che abbiano sostenuto segretamente Morgan Brock a Londra con prodighe lettere di credito. Con queste lettere di credito Brock ha comprato o corrotto tutti i nostri

agenti hawaiani impossessandosi dell'intero mercato dello zucchero ed escludendoci completamente. Quel che è peggio, anche se non ne ho prove sicure, è che si dice che abbia stretti contatti con il presidente dei ribelli Jefferson Davis e con i proprietari delle piantagioni di cotone ai quali sta proponendo di acquistare l'intero raccolto per gli stabilimenti inglesi; un accordo del genere farebbe diventare Tyler e Morgan gli uomini più ricchi dell'Asia. CIO' NON DEVE ACCADERE! Sono allo stremo delle forze, Jamie, che cosa mi consigliate? Mostrate questo messaggio a mio figlio. “Che cosa consigliate, Jamie?” “Non ho idea, Malcolm... tai-pan.” “Se l'accordo è stato concluso è stato concluso e ciò risolve in un certo senso il problema. Se così fosse, potremmo intercettare il cotone in qualche modo?” McFay lo guardò allibito. “Un'azione di pirateria?” Struan rispose in tono indifferente. “Se è necessario, perchè no? Il vecchio Brock non si tirerebbe indietro, ha già fatto cose del genere in passato. E' una possibilità, perchè il cotone sarà tutto sulle sue navi. Seconda possibilità: la nostra Marina rompe il blocco dell'Unione e così possiamo ottenere tutta la merce che vogliamo.” “Potremmo soltanto se dichiarassimo guerra all'Unione. Impensabile! “ “Non sono d'accordo. Per l'amor di Dio, McFay, dovremmo deciderci a stare con Davis, il cotone è nel Sud e il cotone è la nostra linfa vitale. E con il nostro aiuto vinceranno, altrimenti sono perduti.” “E' vero. Però dipendiamo anche dal Nord.” “Come facciamo a impossessarci delle navi di Brock? Deve esserci un modo di fermarlo. Se non riuscisse a muovere il carico dovrebbe dichiarare bancarotta. “ “Che cosa farebbe Dirk?” “Colpirebbe al cuore” rispose Malcolm senza esitazione. “Allora dobbiamo scoprire...” Dove e come, si ripeté per l'ennesima volta Malcolm nella speranza di riuscire a trovare una soluzione a quello e agli altri problemi. Angélique? No, a lei penserò più tardi... per il momento mi devo accontentare di sapere che l'amo ogni giorno di più. Grazie a Dio adesso posso almeno scrivere delle lettere. Devo scrivere ancora alla mamma, se c'è qualcuno che sa dov'è il cuore della Brock quel qualcuno è lei. Tyler e Morgan Brock non sono forse suo padre e suo fratello? Ma come si permette di criticare la famiglia di Angélique? Dovrei scrivere al padre di Angélique? Si, ma non ancora, per questo c'è tempo.

Ho tanta corrispondenza da sbrigare, i libri da ordinare dall'Inghilterra, il Natale non è lontano, c'è il ballo benefico del Jockey Club di Hong Kong, il ballo annuale della Struan a cui pensare, gli incontri di oggi: Jamie ha chiesto due appuntamenti, Seratard viene nel pomeriggio... che cosa vorrà? Cos'altro c'è in programma per oggi? Phillip per due chiacchiere dopo colazione... Aspetta un attimo, no, non oggi. Ieri sir William l'ha mandato di nuovo a Edo a preparare la Legazione per l'incontro con il Consiglio degli Anziani che dovrebbe svolgersi tra venti giorni. “L'incontro avrà luogo, sir William?” gli aveva domandato quando il ministro era andato a trovarlo. L'assenza della flotta, che non poteva più proteggere la Legazione, e la continua presenza dei samurai avevano spinto sir William, per non perdere completamente la faccia, a ritornare con prudenza a Yokohama dopo qualche giorno per prepararsi a ricevere dai giapponesi l'indennizzo richiesto. “Penso di sì, signor Struan. Forse non con puntualità, comunque si, credo che a tempo debito la cerimonia avrà luogo e che a quel punto avremo fatto finalmente un bel passo avanti. Se ci consegnano il primo pagamento di cinquemila sterline come promesso... bene, sarà buon segno. A proposito, ho sentito dire che un vostro vapore parte quest'oggi per Hong Kong; potrei chiedervi la cortesia di imbarcare un membro del mio personale e della posta urgente... Mia moglie e i miei due figli dovrebbero raggiungermi entro breve e io vorrei predisporre il loro arrivo.” “Certamente, ne parlerò a McFay. Se volete un passaggio su una qualsiasi delle nostre navi per andare incontro alla vostra famiglia, non avete che da dirlo. “ “Vi ringrazio... Stavo progettando di prendere due settimane di vacanza per quando arriveranno. Si diventa un pò corti di vedute a stare rinchiusi quaggiù, non credete? Mi mancano le strade brulicanti di Hong Kong. Quella si è una città, dannazione, anche se a Whitehall non sembrano apprezzarla granché! Un buon roastbeef, cricket e tennis, teatro, opera, per non parlare di qualche giorno alle corse; quanto mi mancano! Voi quando tornerete laggiù?” Quando? Le notizie dell'attacco sulla Tokaidò devono essere arrivate quasi una settimana fa, se il postale ha superato la tempesta. La mamma avrà incassato il colpo senza darlo a vedere, come al solito. Arriverà con la prima nave disponibile? E' probabile, ma dovrà restare al quartier generale della compagnia, e poi ci sono Emma, Rose e Duncan a cui badare. Papà è appena morto, io sono qui confinato a letto, lei non può assentarsi per diciotto giorni dagli affari. Comunque anche nel caso fosse già a bordo della prossima nave mi restano pur sempre tre o quattro giorni per preparare la mia difesa. Strano pensare

a mia madre come a una possibile nemica o, se non proprio una nemica, qualcuno che non è alleato con me. Forse è un'amica dopotutto, lo è sempre stata, per quanto distante, presa dalle cure del marito con poco tempo da dedicare a noi. “Ciao, figlio mio, come potrei mai esserti nemica?” Restò di stucco vedendola in piedi accanto al letto insieme al padre. Sebbene gli sembrasse molto strano perchè ricordava che suo padre era morto, tuttavia in quel momento la cosa non sembrava avere alcuna importanza: si alzò dal letto senza provare alcun dolore e chiacchierò con loro allegramente a bordo della lancia che attraversava il porto di Hong Kong, sotto un cielo coperto di nubi temporalesche. I genitori lo ascoltavano con rispetto e approvavano i suoi intelligenti progetti mentre Angélique seduta a poppa con un abito diafano e il seno che spuntava malizioso alla scollatura, anzi no, era del tutto scoperto ora, le mani di Malcolm vi si appoggiavano e poi scendevano, era nuda adesso e il suo corpo si stringeva a quello di lui e con le mani gli accarezzava il volto... “Malcolm?” Si svegliò di soprassalto. Angélique in piedi accanto al letto gli sorrideva, avvolta in una vestaglia di seta azzurra. Il sogno svanì lasciando soltanto il vivo ricordo della tentazione e della promessa di quel corpo. “Io... oh, stavo sognando, mia cara, sognavo di te.” “Ah sì? E che cosa sognavi?” Aggrottò la fronte nello sforzo di ricordare. “Non ricordo niente” disse, “salvo che eri bellissima. Mi piace molto la tua vestaglia.” Angélique compì un'allegra giravolta per mostrargliela. “Me l'ha confezionata il sarto che mi ha procurato Jamie. Mon Dieu, Malcolm, io... è meraviglioso... ho ordinato quattro vestiti e spero che tu sia contento... Oh grazie!” Si chinò per baciarlo. “Aspetta Angélique, aspetta un secondo. Guarda!” Malcolm riuscì a mettersi a sedere dominando il dolore, tolse entrambe le mani dal letto e le tese verso di lei. “Ma è fantastico, chèri” disse lei felice prendendo le mani che lui le offriva. “Ah, monsieur Struan, penso che da oggi in avanti dovrò farmi sempre accompagnare ed evitare di trovarmi sola con voi in questa camera.” Sorridendo gli si avvicinò, pian piano gli posò le mani sulle spalle perchè lui potesse abbracciarla e lo baciò. Un bacio leggero che prometteva e insieme frenava il suo bisogno di qualcosa di più. Lo baciò vicino a un orecchio senza malizia, poi si alzò e rimase immobile con la testa di Malcolm appoggiata sul seno. Quell'intimità che ad Angélique sembrava soltanto divertente e piacevole per Malcolm era ben di più. Dietro la seta morbida sentiva il corpo misterioso e caldo della donna desiderata. “Malcolm, parlavi sul serio quando hai detto che mi vuoi sposare?” Sentì che le braccia di Malcolm si irrigidivano a causa d'una improvvisa fitta di dolore.

“E' naturale, te l'ho detto molte volte.” “Pensi, pensi che i tuoi genitori, pardon, che tua madre approverà il nostro matrimonio, sì? Oh, lo spero tanto.” “Sì, oh, certo che lo approverà, certo.” “Posso scrivere a papà? Mi piacerebbe comunicargli subito la notizia.” “Certo, scrivi quando vuoi, scriverò anch'io” rispose lui con un filo di voce. E poi, sopraffatto dall'affetto di Angélique e travolto dal desiderio baciò la seta della sua vestaglia, vi si aggrappò con forza e quasi imprecò ad alta voce quando la sentì ritrarsi. “Scusa” mormorò. “Non c'è bisogno di chiedere scusa, nessun senso di colpa anglosassone tra di noi, amore mio” disse Angélique. “Ti desidero anch'io.” Poi, seguendo il piano che aveva stabilito cambiò umore e prese un tono felice e contagioso. “Adesso mi travesto da Florence Nightingale” annunciò. Sistemò i cuscini e si diede a rassettare il letto. “Questa sera c'è una cena francese offerta da monsieur Seratard, domani sera invece ha organizzato una soirée. André Poncin suonerà un concerto per pianoforte di Beethoven... oh, mi piace molto più di Mozart... un brano di Chopin e un pezzo di un giovane musicista che si chiama Brahms.” La campana della chiesa anglicana chiamò per la messa seguita quasi immediatamente dai rintocchi dolci e melodiosi del campanile della chiesa cattolica. “Ecco” riprese aiutandolo a riadagiarsi “adesso devo andare a prepararmi. Tornerò dopo la messa, quando sarai pronto.” Lui le trattenne la mano. “Sei magnifica. Io ti...” Si girarono all'improvviso a guardare la maniglia della porta che girava senza riuscire ad aprire. “L'ho chiusa io mentre dormivi.” Angélique ridacchiò come una scolaretta. La maniglia si abbassò ancora. “I domestici entrano sempre senza bussare, hanno bisogno di una lezione!” “Padrone!” gridò il domestico, “tè-ah!” “Digli di andarsene e di tornare tra cinque minuti.” Rapito dal suo gioco Struan gridò l'ordine in cantonese e insieme restarono ad ascoltare i passi dell'uomo che si allontanava borbottando. Angélique rise. “Devi insegnarmi il cinese.” “Ci proverò.” “Come si dice “ti amo”?” “Non hanno una parola per dire amore, perlomeno non nel senso in cui la usiamo noi.” Angélique aggrottò la fronte. “Che tristezza!” Si avvicinò alla porta e l'aprì, gli lanciò un bacio e scomparve nel suo appartamento. Malcolm restò a fissare la porta comunicante con sofferenza. Poi sentì il suono delle campane diventare più insistente per ricordargli la messa!

Non pensarci, si disse con un filo di tristezza, non pensare che è cattolica. La mamma è un'intransigente fedele della Chiesa d'Inghilterra; la domenica due funzioni, e anche papà era devoto. Tutti in fila andavamo in chiesa insieme a tutte le famiglie per bene di Hong Kong. Cattolica? Non importa, io... A me non importa. Io devo averla. Quel desiderio sano e violento aveva il potere di scacciare il dolore. “Devo.” Quel pomeriggio quattro sudati portatori giapponesi appoggiarono il forziere di ferro sotto gli occhi di tre ufficiali di basso rango della Bakufu, di sir William, degli interpreti, di un contabile dell'esercito, del cambiavalute della Legazione, un cinese e di Vargas che non lo perdeva d'occhio. Nella sala principale della Legazione le finestre erano aperte e sir William a stento tratteneva un sorriso soddisfatto. Lentamente uno degli ufficiali estrasse una chiave cesellata con la quale aprì il forziere. All'interno vi erano dollari d'argento messicani, qualche tael d'oro, circa un'oncia e un terzo di peso, e dell'argento. “Chiedigli perchè l'indennizzo non è tutto in oro come richiesto.” “L'ufficiale dice che in così poco tempo non sono riusciti a procurarsi l'oro, ma che questi mex sono puliti e perfettamente legali e che per favore adesso si aspetta da voi una ricevuta.” “Puliti” voleva dire che le monete non erano bucate né raschiate. “Cominciate a contare.” Con piacere il cambiavalute versò il contenuto del forziere sul tappeto. Individuò subito una moneta bucata. Vargas ne trovò altre due che vennero messe da parte. Tutti gli occhi erano fissi sul tappeto, sui mucchi ordinati e distinti che crescevano in altezza. Cinquemila sterline erano una somma immensa tenuto conto che il salario di un interprete ammontava a quattrocento sterline all'anno, e le spese di vitto e alloggio erano a suo carico, che un cambiavalute non ne guadagnava più di un centinaio (benché una buona percentuale di ogni transazione finisse nelle sue tasche), che a Londra il salario di un domestico non andava oltre le venti sterline all'anno tutto compreso, quello di un soldato ammontava a cinque penny al giorno, quello di un marinaio a sei, di un ammiraglio a seicento sterline all'anno. Il conteggio venne concluso in fretta. Entrambi i cambiavalute controllarono due volte il peso dei lingotti d'oro, quindi pesarono le monete bucate e infine con l'ausilio di un abaco calcolarono il totale al cambio attuale. Fu Vargas a parlare. “Fa quattromila e ottantaquattro sterline, sei scellini e sette pence, sir

William, in moneta pulita, più cinquecentoventi sterline in oro, novantadue sterline e sedici in monete bucate per un totale generale di quattromilaseicentonovantasette sterline, due scellini e sette farthing.” “Mi dispiace padrone, sono otto farthing.” Il cinese si inchinò agitando il lungo codino e apportando quella correzione concordata in precedenza con Vargas per salvare la faccia. La percentuale che il collega portoghese aveva dedotto dall'indennizzo come loro compenso, il due per cento e mezzo, ovverosia centodiciassette sterline, otto scellini e sei pence da dividere in due, era nettamente inferiore a quella che lui sarebbe riuscito a spuntare, tuttavia non andava male per mezz'ora di lavoro. Sir William disse: “Vargas, rimettete tutto nel forziere e date loro una ricevuta con una nota nella quale direte che la cifra mancante verrà aggiunta al prossimo pagamento. Johann, ringraziateli, e ricordate loro che ci aspettiamo di ricevere quanto pattuito in oro tra diciannove giorni.” Johann obbedì. Immediatamente l'altro interprete cominciò un lungo discorso. “Adesso chiedono di rimandare, signore, e...” “Niente da fare.” Sir William sospirò, congedò Vargas e il cinese e si preparò per un'altra ora di interminabili discussioni. Con grande stupore però sentì Johann dire: “Sono arrivati improvvisamente al sodo, signore: si tratta dell'incontro di Edo, signore. Chiedono di rimandarlo di altri trenta giorni affinché diventino cinquanta giorni da oggi... Le esatte parole sono: lo shògun ritornerà da Kyòto e ha informato il Consiglio degli Anziani di avvisare i ministri che concederà loro un'udienza proprio quel giorno”. Per prendere tempo e poter riflettere sir William gridò: “Lun!”. Lun comparve immediatamente. “Tè!” I vassoi con il tè arrivarono entro pochi secondi insieme a sigari, tabacco da fiuto e tabacco da pipa. Ben presto la stanza fu invasa dal fumo mentre sir William continuava a valutare le varie possibilità. Innanzitutto la cosa più importante è che con grande probabilità in questo momento sto trattando con ufficiali di nessun peso e che perciò, a qualsiasi decisione si pervenga, seguiranno ulteriori negoziati. Secondo, è certo che i cinquanta giorni diventeranno due o tre mesi, ma se riusciamo a ottenere un'udienza con il massimo potere, ovviamente sotto la guida britannica, avremo fatto un significativo passo avanti. In effetti a me non importa se si rimanda anche di tre o quattro mesi perchè a quel punto avrò ottenuto l'autorizzazione di Lord Russell ad attaccare, i rinforzi saranno in viaggio dall'India e da Hong Kong, l'ammiraglio avrà ricevuto il suo dannatissimo ordine firmato e controfirmato e quindi disporrò delle forze

necessarie per cingere d'assedio Edo ed espugnarla. Potrei esigere prima l'incontro con il Consiglio degli Anziani e in seguito l'incontro con lo shògun. Sarebbe la cosa migliore, ma ho l'impressione che si rifiuteranno di contravvenire ai mistici desideri dello shògun e che se insisto probabilmente troveranno il modo di nicchiare, cambiar le carte in tavola e irretirci un'altra volta. Johann disse: “Il loro portavoce dice che se siete d'accordo con quanto proposto vi porgono i loro saluti”. “Non sono d'accordo su niente. Un ritardo di trenta giorni è inaccettabile. Abbiamo già stabilito una data per l'incontro con il Consiglio degli Anziani che si svolgerà quando stabilito e poi, dieci giorni più tardi, saremo lieti di incontrare lo shògun.” Dopo un'ora di respiri trattenuti e silenzi sconcertati da parte giapponese e di piatta durezza anglosassone da parte inglese sir William si permise di essere più malleabile e arrivò a un compromesso: l'incontro con il Consiglio degli Anziani si sarebbe svolto come stabilito e quello con lo shògun venti giorni più tardi. Una volta rimasto solo con sir William, Johann disse: “Non terranno fede all'impegno”. “Si, lo so. Non importa.” “Sir William, il mio contratto scade tra un paio di mesi e ho deciso che non lo rinnoverò.” Seccamente il ministro disse: “Non posso fare a meno di voi per almeno altri sei mesi”. “Per me è giunta l'ora di tornare a casa. In questo posto ci sarà presto un bagno di sangue e non ho alcun desiderio di vedere la mia testa infilzata su un palo.” “Vi aumenterò lo stipendio di cinquanta sterline l'anno.” “Non è questione di denaro, sir William. Sono stanco. Il novantotto per cento di tutti questi discorsi è sheiss. Non ho più la pazienza per stare a distinguere il grano dalla pula e il fango dallo sterco, signor ministro!” “Ho bisogno di voi per i prossimi due incontri.” “Non avverranno mai. Due mesi ancora e torno a casa. Il giorno preciso è scritto sul contratto. Mi dispiace, sir William, ma sono arrivato alla fine di questo viaggio e adesso vado a ubriacarmi.” E se ne andò. Sir William attraversò l'ingresso, entrò nel suo ufficio e si diresse alla finestra per scrutare l'orizzonte. Il tramonto era prossimo. Ancora nessuna traccia della flotta. Mio Dio, speriamo che siano in salvo. Devo riuscire a trattenere Johann. Tyrer sarà pronto solo tra un anno almeno. Di chi potrei fidarmi? Maledizione! La luce del sole morente non bastava a illuminare la stanza, perciò sir

William accese una lampada a olio aggiustandone la fiamma con attenzione. Sulla sua scrivania c'erano mucchietti ben ordinati di dispacci, la sua edizione di All the Year Round letto già da molti giorni dall'inizio alla fine insieme a tutti i giornali arrivati con l'ultimo postale, alcune edizioni dell'Illustrated London News e del “Punch”. Prese la copia di Padri e Figli di Turgenev, in russo, inviatagli da un amico alla corte di San Pietroburgo, lo sfogliò con distrazione, poi lo ripose e cominciò a scrivere la seconda lettera della giornata per il governatore di Hong Kong nella quale gli raccontava i dettagli dell'incontro odierno e chiedeva un sostituto per Johann. Lun entrò in silenzio e si chiuse la porta alle spalle. “Si, Lun?” Lun si avvicinò alla scrivania e dopo qualche istante di esitazione disse a bassa voce: “Padrone, ho sentito che esserci guai, guai tra poco nella Grande Casa di Edo, grandi guai”. Sir William lo fissò. Grande Casa era il modo con cui i domestici cinesi chiamavano la Legazione di Edo. “Quali guai?” Lun si strinse nelle spalle. “Guai.” “Quando?” Ancora una volta Lun si strinse nelle spalle. “Whisky e acqua, heya?” Sir William annuì pensieroso. Di tanto in tanto Lun gli riferiva voci che si rivelavano sgradevolmente esatte. Lo guardò avvicinarsi alla mensola e preparargli la bevanda proprio come piaceva a lui. Phillip Tyrer e il capitano, in kilt, stavano ammirando il tramonto da una finestra al piano superiore della Legazione di Edo mentre i soliti gruppi di samurai stazionavano fuori dalle mura e in tutte le vie d'accesso alla collina. All'orizzonte il cielo era rosso cupo, arancione, marrone, e striato d'azzurro proprio sopra il mare. “Come sarà il tempo domani?” “Non so granché del tempo da queste parti, signor Tyrer. Se fossimo in Scozia potrei azzardare una previsione” rispose il capitano, un uomo di trent'anni con i capelli brizzolati. Rise. “Pioggia con perturbazioni sparse... ma in fondo non così pessimo.” “Non sono mai stato in Scozia. Vorrei andarci durante la prossima licenza. Quando tornate a casa?” “Forse l'anno prossimo, o quello dopo ancora. E' soltanto il mio secondo anno in Giappone.” Tornarono a rivolgere l'attenzione all'esterno. Completato il giro di ronda sul molo dov'era di stanza un drappello di marinai, quattro highlander e un sergente si inerpicarono sulla collina attraverso gli schieramenti di samurai e varcarono il cancello di ferro. I samurai sembravano aspettare qualcosa,, a volte parlavano tra loro o si

raccoglievano in gruppo intorno ai fuochi, accesi quando faceva freddo, ma davano l'impressione di non abbassare mai la guardia. A nessun soldato o impiegato della Legazione era stato in alcun modo proibito di uscire o entrare. Tutti però dovevano passare attraverso un accurato e silenzioso esame. “Scusate, vado incontro al sergente” disse il capitano, “voglio sapere se la nostra lancia è lì, nel caso che... e sistemare tutto per la notte. Si cena alle sette come sempre?” “Si.” Quando si ritrovò solo Tyrer trattenne uno sbadiglio nervoso, si stiracchiò e mosse il braccio per allentarne la tensione. La ferita era guarita perfettamente e non aveva più bisogno di fasciature. Sono molto fortunato, pensò, eccetto che per Zia Willie. Perché mi ha spedito quaggiù quando ho tanto da studiare per diventare un interprete? Dopotutto non sono il suo tirapiedi, maledizione, maledizione, maledizione. E adesso perderò anche il concerto di André a cui tenevo tanto. Angélique sarà sicuramente presente. Voci sul suo fidanzamento segreto erano già circolate nell'Insediamento come un vento caldo e inquietante. Accenni fatti direttamente a lei o a Struan non erano serviti a ottenere né smentite né conferme, nemmeno una spiegazione. Al circolo le scommesse davano il fidanzamento due a uno, venti a uno il mancato matrimonio. “Struan sta male come un cane, lei è cattolica, e sapete bene com'è fatta la madre di lui, Jamie!” “Scommetto! Lui sta guarendo e voi non lo conoscete come lo conosco io. Dieci ghinee contro duecento.” “Charlie, a quanto mi date che ce n'è uno in arrivo?” “Oh, per l'amor di Dio!” “Angélique non è una donnaccia, per carità del cielo! “Mille a uno?” “D'accordo per Dio... una ghinea d'oro!” Con grande disgusto di Tyrer e Pallidar le scommesse e le percentuali su fatti sempre più personali e dettagliati cambiavano da un giorno all'altro. “Gli uomini qui sono soltanto un branco di farabutti! “Avete ragione, Pallidar. Individui spregevoli!” Oltre alle fitte congetture su Struan e Angélique l'argomento di dibattito dominante erano le preoccupazioni sulla sorte della flotta. Nel peggiore dei casi doveva essere in guai terribili e comunque anche nell'ipotesi più rosea qualche danno doveva averlo subito per forza. I mercanti giapponesi erano più nervosi che mai e riferivano voci di insurrezioni in tutto il paese contro o a favore della Bakufu, sussurravano che il mistico Mikado, il sommo sacerdote che risiedeva a Kyòto, avesse ordinato a tutti i samurai di marciare su Yokohama.

“Stupidaggini, se volete il mio parere” si rassicuravano l'un l'altro gli occidentali, ma gli ordini di armi e munizioni erano sempre in aumento e ormai persino le due donne dell'Insediamento dormivano con un'arma carica sotto il cuscino. La Città Ubriaca, si diceva, era una vera e propria santabarbara. Poi, qualche giorno prima, c'era stato un atto di guerra: un mercantile americano mal ridotto dalla tempesta aveva fatto rotta verso Yokohama attraverso lo stretto. Veniva da Shanghai con un carico di argento, munizioni e armi e doveva proseguire per le Filippine con oppio, tè e altre merci. Nello stretto era stato attaccato da alcuni cannoni che sparavano dalla spiaggia. “E non avete risposto al fuoco?” gridò qualcuno durante un'infuocata serata al circolo. “Avete ragione, maledizione! Noi sempre buoni come angeli! Quei bastardi di Choshu hanno avuto buona mira... quale incosciente infame gli ha venduto i cannoni? Ci hanno fatto saltare l'albero prima che potessimo renderci conto di quello che stava succedendo e metterci al sicuro. Certo, abbiamo risposto col fuoco ma avevamo soltanto un paio di stupidissimi cinque libbre che non fanno venire neanche il singhiozzo. Loro avevano almeno venti cannoni. “Mio Dio, con venti cannoni e qualche soldato esperto potrebbero bloccare lo stretto per sempre e se ciò accadesse noi ci troveremmo in un guaio tremendo. Lo stretto è la via più veloce e sicura per arrivare qui. “Ah! Il mare interno ci è indispensabile per Dio!” “E dov'è la flotta, spero che tutte le navi siano salve!” “E se non lo fossero?” “Charlie, ne dovremmo far arrivare altre.” Stupidi, pensò Tyrer, tutto quello che riescono a immaginare è di mandare a chiamare altre navi, ubriacarsi e fare soldi. Grazie a Dio l'ammiraglio francese ha riportato André con sé. Grazie a Dio per André, anche se è volubile e strano, ma forse è soltanto francese. Grazie a lui ho già due quaderni zeppi di parole e frasi giapponesi, e il mio diario di una buona raccolta di aneddoti folcloristici. Ho un appuntamento con un gesuita, quando torneremo a Yokohama. Insomma ho fatto qualche piccolo ma meraviglioso progresso. E' così importante per me imparare in fretta... e inoltre c'è l'argomento Yoshiwara. Vi ho già fatto tre visite. Le prime due guidate, la terza da solo. “André, non so dirvi quanto apprezzo tutto il tempo che mi avete dedicato e l'aiuto che mi date. E in quanto a stanotte, non vi potrò mai ripagare, mai.” Questo dopo la prima visita. Nervoso, paonazzo, sudato, incapace di parlare ma fingendo sempre un virile

coraggio che non aveva, al crepuscolo aveva seguito André fuori dall'Insediamento. Si erano uniti alle folle vocianti di uomini diretti allo Yoshiwara, avevano superato le guardie samurai alzando cortesemente i cilindri e ricevendo in cambio eleganti inchini, e imboccato il cosiddetto ponte del Paradiso dirigendosi verso gli alti cancelli della recinzione di legno. “Yoshiwara vuol dire luogo dei giunchi” aveva spiegato André. Si erano entrambi scaldati con lo champagne, ma su Tyrer il solo effetto era stato di rendere più inquietanti i suoi presagi. “E' il nome di un quartiere di Edo, una palude bonificata dove lo shògun Toranaga, due secoli e mezzo fa, fece costruire il primo quartiere di bordelli. Prima di allora erano sparsi in tutte le zone delle città. Da quel momento, così mi hanno detto, tutte le città hanno una zona riservata ai bordelli, tutti muniti di regolare licenza e sottoposti a severi controlli. Per tradizione molte di queste zone vengono chiamate Yoshiwara. Vedete quelli?” Sopra il cancello che gli stava indicando c'erano alcuni ideogrammi incisi nel legno con eleganza. “Significano: quando il desiderio preme, è necessario agire per soddisfarlo”. Tyrer rise nervosamente. C'erano molte guardie intorno ai cancelli. La sera precedente, quando André si era offerto di scortarlo allo Yoshiwara, stavano bevendo al circolo, gli aveva detto di aver sentito raccontare da un mercante che le guardie non stazionavano ai cancelli tanto per mantenere l'ordine quanto soprattutto per impedire alle prostitute di scappare. “Ma allora sono schiave, non vi sembra?” Con grande stupore aveva visto Poncin arrossire di sdegno. “Mon Dieu, non dovete mai pensare a loro come a delle prostitute. E non chiamatele mai prostitute nel senso in cui noi intendiamo questa parola. Non sono schiave. Alcune di loro sono legate da un contratto per un certo numero di anni, in molti casi sono state vendute dai genitori in giovane età. Comunque i loro contratti devono sempre essere approvati e registrati dalla Bakufu. Non sono puttane, sono le signore del Mondo dei Salici e non ve lo dovete dimenticare. Signore!” “Scusate, io...” Ma André aveva proseguito senza prestargli attenzione. “Alcune sono geishe, artiste, sono educate per intrattenervi, cantare, danzare e fare giochi sciocchi, e con loro non si può dormire. Le altre invece, mon Dieu, ve l'ho già detto, non pensate a loro come a delle puttane ma come a donne di piacere, educate nel corso di molti anni per darvi piacere.” “Scusate, non lo sapevo.” “Se le trattate nel modo giusto vi daranno piacere, qualsiasi tipo di piacere... se vogliono... e se pagate il giusto prezzo. Voi date loro del denaro che per voi non significa nulla e loro vi danno la giovinezza. E' uno scambio stravagante.” André l'aveva guardato con una strana espressione. “Vi danno

la loro giovinezza e nascondono le lacrime che voi provocate.” Trangugiò il vino e fissò il bicchiere, improvvisamente malinconico. Tyrer ricordò come, senza dire una parola, aveva riempito nuovamente i bicchieri maledicendosi in cuor suo per aver rotto quell'atmosfera di cordiale confidenza che gli era tanto preziosa e ripromettendosi in futuro di essere più cauto. Non poteva tuttavia non chiedersi il motivo di quel repentino cambiamento di umore. “Lacrime?” “La loro vita non è una bella vita, tuttavia non è neppure sempre malvagia. Per qualcuna di loro può essere addirittura meravigliosa. Le più belle diventano famose, vengono ricercate persino dai più importanti daimyo, i re del paese, possono fare matrimoni altolocati, sposare ricchi mercanti o samurai. Ma le nostre signore del Mondo dei Salici, quelle che sono riservate a noi gai-jin” aveva ripreso André con amarezza, “non hanno altro futuro che quello di aprire un'altra casa, ubriacarsi di sakè e impiegare altre ragazze. Mon Dieu, trattatele bene perchè una volta che entrano in contatto con noi per i giapponesi sono contaminate.” “Mi dispiace. Che cosa tremenda.” “ Si, nessuno capisce...” Un'esplosione di risate ubriache degli uomini li intorno lo distrasse per un momento. Il circolo risuonava di voci roche; faceva molto caldo. “A questi cretini non importa niente, non gliene frega niente, a nessuno di loro, eccetto a Canterbury, a lui si che importava.” André aveva alzato gli occhi dal fondo del bicchiere. “Voi siete giovane e puro, resterete qui un anno o due e sembrate desideroso di imparare, perciò pensavo... ci sono così tante cose da imparare da loro, tante cose buone.” Poi era scomparso. Questo qualche sera prima e adesso varcavano i cancelli dello Yoshiwara. André estrasse dalla tasca una piccola pistola. “Phillip, siete armato?” “No.” André consegnò la sua pistola a un domestico viscido in cambio di una ricevuta. Il giapponese sistemò l'arma insieme a molte altre. “Non si possono portare armi entro la recinzione, è una regola che vale per tutti gli Yoshiwara, persino i samurai devono separarsi dalle spade. On y va!” Davanti a loro si snodava una grande strada lungo la quale si affacciavano i vicoli affollati di casette strette una all'altra. In alcuni casi si trattava di bar e piccoli ristoranti, tutti costruiti in legno, con verande e porte scorrevoli di shoji, rialzati un poco da terra. Ovunque macchie di fiori colorati, rumori e risate e lanterne, candele e lampade a olio. “Il fuoco è un grande rischio qui, Phillip. L'anno scorso è bruciato tutto il quartiere ma l'hanno ricostruito in una settimana.” Sulle case campeggiavano insegne che Tyrer non riusciva a decifrare; qualcuna

aveva porte e finestre aperte. All'interno vedeva molte ragazze vestite in modo ricercato o modesto, con kimono adeguati al rango della casa. Alcune ragazze passeggiavano con ombrellini colorati, altre erano accompagnate da una cameriera e sembravano indifferenti agli uomini che passavano. C'erano avventori d'ogni genere, e stuoli di servette che elencavano senza peli sulla lingua le virtù di ciascuna casa in un roco pidgin; ovunque risuonavano le battute scherzose dei clienti, che venivano spesso riconosciuti e accompagnati al loro luogo favorito. Non c'erano giapponesi, solo le guardie, i portatori, i servi e i massaggiatori. “Non dimenticate, gli Yoshiwara sono luoghi di gioia, per il piacere della carne, per bere e mangiare. In Giappone non esistono né il peccato originale né altri tipi di peccato.” Ridendo André fece strada. I rari ubriachi venivano respinti senz'astio ma in gran fretta da enormi ed esperti buttafuori, e poi costretti a restare seduti sugli sgabelli e riempiti di altro sakè da zelanti cameriere. “Gli ubriachi sono benvenuti, Phillip, perchè perdono il conto dei soldi che spendono. Ma non mettetevi mai a discutere con un buttafuori, nel combattimento a mani nude non temono rivali.” “Paragonato ai nostri bassifondi questo posto è disciplinato come la Regent's Promenade di Brighton.” Un'impetuosa cameriera afferrò Tyrer per un braccio e cercò di attirarlo dentro una porta. “Sakè heya? Molto buono...” “Iyé, domo, iyé...” bofonchiò Tyrer. No, grazie, no, e si affrettò a raggiungere André. “Mio Dio, mi sono dovuto proprio liberare con la forza.” “E' il loro lavoro.” André svoltò infilandosi in un passaggio tra le due case e si fermò davanti a una porta cadente con una insegna sudicia. Bussò. Tyrer riconobbe gli ideogrammi che André aveva scritto per lui qualche ora prima: Casa delle Tre Carpe. Una piccola grata si scostò. Due occhi li scrutarono. La porta si aprì e Tyrer varcò la soglia di quello che gli parve il paese delle meraviglie. Giardini minuscoli, lanterne a olio e candele. Pietre lucenti nel muschio verde, fiori, aceri piccolissimi, foglie rosse in campo verde, una pallida luce arancione che filtrava dallo shoji. Un ponticello su un fiume in miniatura, una cascata. Inginocchiata sulla veranda c'era una donna di mezza età, la mama-san, vestita e pettinata con grande arte. “Bonsoir, monsieur Furansusan” disse, e appoggiate le mani sulla veranda, si inchinò. André ricambiò l'inchino. “Raiko-san, konbanwa. Ikaga desu ka?” Buonasera. Come stai? “Kore wa watashi no lomodachi desu, Tyrersan.” Questo è il mio

amico, il signor Tyrer. “Ah so desu ka? Taira-san?” S'inchinò con gravità e Tyrer ricambiò l'inchino, a disagio. La donna fece cenno a entrambi di seguirla. “Dice che Taira è un antico e famoso giapponese. Avete fortuna, Phillip, la maggior parte di noi deve accontentarsi di soprannomi. Io sono Furansu-san, più vicino di così a “il francese' non sono riusciti ad arrivare. Togliendosi le scarpe per non sporcare l'immacolato e costoso tatami, André Poncin sedette a gambe incrociate e spiegò a Tyrer cos'era il takoyama, l'alcova dove si appende uno speciale rotolo e si dispongono i fiori che verranno poi cambiati quotidianamente, e gli illustrò le qualità della carta e del legno usati per le pareti scorrevoli. Arrivò il sakè. La cameriera era una bambina di non più di dieci anni, non graziosa ma molto abile e silenziosa. Raiko versò da bere ad André, a Tyrer e infine a se stessa. Sorseggiò il sakè. André trangugiò in un solo colpo il contenuto della minuscola tazza che tese perchè fosse riempita nuovamente. Tyrer fece lo stesso trovando il sapore del vino caldo non spiacevole ma abbastanza insipido. Entrambe le tazze vennero ripetutamente svuotate e riempite. Arrivarono altri vassoi e altro sakè. Tyrer ne perse il conto ma ben presto si sentì avvolto da un piacevole calore, dimenticò il nervosismo e restò a guardare e ascoltare senza capire quasi niente di quello che si diceva. I capelli di Raiko erano neri e lucenti e adornati con molti piccoli pettini decorati. Il suo volto era coperto da uno spesso strato di polvere bianca; Tyrer non sarebbe stato capace di definirlo né bello né brutto, era soltanto diverso, e la stoffa di seta rosa del kimono era intessuta di carpe verdi. “Carpa si dice koi, un segno di buona fortuna” gli aveva spiegato André poco prima. “L'amante di Townsend Harris, Shimoda, la cortigiana che la Bakufu gli aveva dato per distrarlo si chiamava Koi. Purtroppo però la cosa non le portò fortuna. “Oh? Cosa successe?” “La storia che raccontano le cortigiane qui è che Harris la adorava e che quando se ne andò le lasciò abbastanza soldi perchè lei si potesse sistemare per sempre. Era stata con lui circa due anni. Poco dopo il ritorno di Harris in America lei scomparve. Probabilmente si tolse la vita o si rovinò con l'alcol.” “Lo amava a tal punto?” “Dicono che all'inizio, quando la Bakufu la contattò, lei avesse rifiutato con decisione di stare con uno straniero; si trattava di un'aberrazione inaudita, quasi un tabù, non dimenticate che Harris era il primo straniero non religioso autorizzato a vivere sul suolo giapponese. La donna implorò la Bakufu di rivolgersi a un'altra donna, di lasciarla vivere in pace, disse che sarebbe entrata in un monastero buddista, minacciò

persino di togliersi la vita. Ma gli uomini della Bakufu la implorarono di aiutarli a risolvere quel problema con il gai-jin, la pregarono per molte settimane e non si sa con quale mezzo alla fine riuscirono a convincerla. Dunque lei acconsentì e la Bakufu ringraziò come se fosse stata la salvatrice del paese. Ma quando Harris se ne andò le voltò le spalle insieme a tutti gli altri: Ah, ci dispiace molto, ma una donna che è stata con uno straniero è contaminata per sempre eccetera eccetera.” “Terribile!” “Sì, dal nostro punto di vista è molto triste. Ma ricordate che questa è la Terra delle Lacrime. Adesso Shimoda è diventata una leggenda e viene onorata dalle altre cortigiane e anche da coloro che al momento giusto le voltarono le spalle dimentichi del suo sacrificio.” “Non capisco.” “Nemmeno io, nessuno di noi capisce. Ma loro si. I giapponesi capiscono. Che strano, pensò Tyrer. Strano trovarsi in quella casetta in compagnia di un uomo e di una donna che chiacchieravano metà in giapponese e metà in pidgin ridendo, insomma la maitresse e il cliente che fingevano con tanto zelo d'essere altro da quello che erano. Sakè a fiumi. Poi la donna si alzò, si inchinò e scomparve. “Sakè, Phillip?” “Grazie. E' un bel posto, non è vero?” Dopo una pausa André disse: “Voi siete la prima persona che io abbia mai portato qui”. “Oh? Perché proprio io?” Il francese rigirò la tazza di porcellana tra le mani, trangugiò l'ultimo sorso, versò dell'altro liquore poi cominciò a parlare in francese con voce dolce e piena di calore: “Perché voi siete la prima persona che ho incontrato a Yokohama che... perchè parlate francese, perchè siete educato, perchè la vostra mente è come una spugna, perchè siete giovane, avete all'incirca metà dei miei anni, vero? Avete ventun anni e non siete come gli altri, siete puro, e resterete qua per qualche anno”. Sorrise, chiudendo la trappola intorno a Tyrer e dicendogli soltanto una parte della verità: “Veramente voi siete la prima persona che io abbia incontrato che... alors, benché siate inglese e in effetti un nemico della Francia, siete il solo che in un certo senso sembri meritare di condividere con me l'esperienza che ho acquisito”. Gli sorrise con aria imbarazzata. “E' difficile spiegare. Forse perchè ho sempre desiderato insegnare, forse perchè non ho mai avuto un figlio, o non mi sono mai sposato, forse perchè presto dovrò tornare a Shanghai, forse perchè abbiamo già abbastanza nemici... forse voi potreste essere un vero amico...” “Sarebbe un onore per me” si affrettò a rispondere Tyrer irretito, “e inoltre io ritengo... davvero, ho sempre ritenuto che noi dovremmo essere alleati, la

Francia e l'Inghilterra voglio dire, non nemici e...” Lo shoji scivolò aprendosi su una stanza dove Raiko era in ginocchio sul pavimento. Fece cenno a Tyrer di avvicinarsi. Il cuore del giovane sobbalzò. André Poncin sorrise. “Andate da lei e ricordate quello che vi ho appena detto.” Come in sogno Phillip Tyrer si alzò e la segui con passo incerto lungo un corridoio, dentro una stanza, attraverso la stanza su una veranda e in un'altra stanza vuota dove lei gli fece cenno di accomodarsi e dove, richiuso lo shoji, lo abbandonò. Una lampada a olio schermata, un braciere per riscaldare, ombre e oscurità e macchie di luce, futon piccoli materassi quadrati, adagiati sul pavimento come un letto, un letto per due persone. Coperte lanuginose. Due yukata, le vestaglie di cotone dalle ampie maniche, per dormire. Al di là di una piccola porta un bagno illuminato dalle candele con una vasca alta e piena di acqua bollente. Un sapone al profumo dolce. Uno sgabello basso a tre gambe. Asciugamani minuscoli. Tutto come André aveva descritto. Il cuore di Tyrer batteva molto in fretta. Tra i fumi dell'alcol cercò di costringersi a ricordare le istruzioni dategli da André. Metodicamente cominciò a svestirsi: giacca, panciotto, cravatta, camicia, maglia di lana, ciascun indumento piegato con meticolosità e appoggiato con nervosismo. Sedendosi si sfilò le calze, poi, con molta riluttanza, i pantaloni, e rimase con i lunghi mutandoni di lana. Indugiò un attimo prima di superare l'ultimo imbarazzo, si sfilò i mutandoni e li ripiegò con maggior cura di quella dedicata agli altri indumenti. Il freddo gli fece venire la pelle d'oca. Entrò nel piccolo bagno. Spillò dell'acqua dalla botte come gli era stato detto e si lavò. Sentendo i], fruscio della porta scorrevole si girò a guardare. “Dio onnipotente” mormorò. Entrò una donna bassa e tozza, con avambracci di dimensioni spaventose, che indossava una corta yukata e un perizoma. Gli si avvicinò con aria determinata e un vacuo sorriso e gli fece cenno di sedere sullo sgabello. In preda a un imbarazzo che non lasciava scampo, Tyrer obbedì. La donna notò immediatamente la cicatrice sul braccio non ancora perfettamente rimarginata e disse qualche cosa che lui non riuscì a capire. Si sforzò di sorridere. Tokaidò. “Wakayimasu.” Capisco. Prima che la potesse fermare lei cominciò a versargli acqua sulla testa, era una cosa del tutto inaspettata, lo insaponò e

lavò i lunghi capelli, poi passò a lavargli il corpo con dita decise ed esperte prestando molta attenzione a non sfiorare la ferita. Braccia, gambe, dorso, petto, poi gli tese la pezzuola indicando tra le gambe. Sempre in preda allo shock lui eseguì e restituì il cencio. “Grazie” mormorò. “Oh, mi dispiace, domo.” Altra acqua per togliere gli ultimi residui di sapone e a quel punto la donna indicò la vasca. “Dozo!” Prego. André aveva spiegato: “Phillip ricordatevi soltanto che a differenza di quello che facciamo noi, qui ci si deve lavare e ripulire per bene prima di entrare nella vasca così anche altri potranno usarla dopo di noi. Il legno è molto costoso e ce ne vuole tanto per riscaldare tutta quell'acqua, perciò non pisciateci dentro e non pensate a quella persona come a una donna mentre siete nella vasca ma soltanto a qualcuno che vi aiuta. Vi pulisce prima fuori e poi dentro, giusto?” Tyrer si accomodò nella vasca. L'acqua era calda al punto giusto. Chiuse gli occhi perchè non voleva vedere la donna che riordinava. Cristo, pensò infelice, non sarò mai capace di fare niente con lei. André ha commesso un enorme sbaglio. “Ma... be', io... ehm... non so quanto devo pagare, o devo dare i soldi alla ragazza prima?” “Mon Dieu, non dovete assolutamente mai dare i soldi alla ragazza, sarebbe il massimo delle cattive maniere, ma si può invece contrattare all'ultimo sangue con la mama-san e a volte anche con la ragazza, ma soltanto dopo aver bevuto il tè o il sakè. Prima di andarvene lascerete discretamente i soldi dove lei possa vederli. Nella Casa delle Tre Carpe non si lasciano soldi. E un posto speciale, ce ne sono altri che funzionano nello stesso modo, soltanto per clienti molto speciali, e io sono uno di questi. Loro mandano il conto due o tre volte l'anno. Ma fate attenzione, prima che vi ci porti dovete giurare davanti a Dio che pagherete il conto nel momento in cui vi verrà presentato e che mai, mai porterete qualcun altro nella casa o ne parlerete in giro.” Perciò Tyrer aveva giurato e promesso tenendo per sé tutte le domande che avrebbe voluto fare. “E il... ehm... conto, quando arriva il conto?” “Quando lo decide la mama-san. Come vi ho già detto, Phillip, potrete godere il piacere di un intero anno di credito. Ovviamente io rappresento una garanzia per voi...” Il calore dell'acqua l'aveva rilassato. Quasi non si accorse che la donna era uscita per tornare dopo qualche minuto. “Taira-san?” “Hai?” Sì? Gli stava tendendo un accappatoio. In preda a una strana letargia emerse dalla vasca con i muscoli distesi

dall'acqua e si lasciò asciugare. Ancora una volta si occupò personalmente delle sue partì intime e questa volta lo fece con minor imbarazzo. Un pettine per i capelli. Una yukata asciutta e inamidata. Poi gli indicò il letto. A quel punto il panico lo assalì nuovamente. Tremando si costrinse a sdraiarsi. Lei rimboccò le coperte e se ne andò. Il cuore batteva all'impazzata, tuttavia giacere li sdraiato era meraviglioso, il materasso era soffice e lindo e profumato, lui stesso non si era mai sentito tanto pulito. Quando lo shoji si aprì sentì un grande sollievo. Intravide una ragazza minuscola, fragile come un giunco, che indossava una yukata giallo pallido e portava i capelli sciolti sulle spalle come una lunga cascata. Si inginocchiò accanto al letto. “Konbanwa, Taira-san. Ikaga desu ka? Watashi wa Ako.” Buonasera, signor Taira. Stai bene? Io sono Ako. “Konbanwa, Ako-san. Watashi wa Phillip Tyrer desu. Lei si fece seria. “F... iii...” cercò di pronunciare il nome Phillip alcune volte senza riuscirvi, poi rise allegramente, disse qualcosa che lui non capì e che terminava con Taira-san. Adesso lui era seduto e la guardava; il cuore gli batteva forte, era inquieto, niente affatto eccitato. La ragazza indicò l'altro lato del letto. “Dozo?” Prego, posso? “Dozo.” Alla luce della candela non la poteva distinguere chiaramente. Soltanto quel che bastava per sapere che era più o meno giovane come lui, che il suo volto era morbido e bianco, coperto di cipria, che aveva i denti bianchi, le labbra rosse, i capelli lucenti, un naso quasi romano, gli occhi come strette ellissi, un sorriso gentile. Lei si infilò nel letto e si voltò a guardarlo. In attesa. La timidezza e l'inesperienza lo paralizzavano. Cristo, come faccio a dirle che non la voglio, che non voglio nessuna donna, che non posso, lo so che non posso, non ce la farò, questa sera non ce la farò, non ce la farò e mi vergognerò e André... André! Cosa gli potrò dire? Diventerò lo zimbello di tutti, oh Cristo, perchè ho accettato di venire qui dentro? Ako allungò una mano e gli sfiorò una guancia. Senza volerlo lui rabbrividì. Mormorò dolci parole di incoraggiamento sorridendo dentro di sé: sapeva bene che cosa aspettarsi da quell'uomo bambino perchè era stata preparata da Raiko-san. “Ako, stanotte è un raro momento della tua vita e tu devi ricordare ogni dettaglio per intrattenerci a colazione. Il tuo cliente è un amico del francese e, cosa rarissima nel nostro mondo, è vergine. Il francese dice che è timido

da non potersi immaginare, che avrà paura, che probabilmente piangerà quando il suo onorabile membro lo tradirà, che potrebbe persino bagnare il letto per l'eccitazione frustrata, ma non ti preoccupare, cara Ako, il francese mi assicura che potrai trattarlo come di consueto e che non hai niente di cui preoccuparti.” “Non capirò mai i gai-jin, Raiko-san.” “Nemmeno io. Certamente sono tutti barbari strani ma per fortuna sono quasi sempre molto ricchi. Poiché è il destino che ci fa essere qui dobbiamo ricavarne tutto quello che possiamo. E non bisogna sottovalutare che secondo il francese questo giovane è un importante ufficiale inglese, potenzialmente un cliente a lungo termine, quindi fagli provare Il Tempo delle Nubi e della Pioggia in un modo o nell'altro anche se... anche se dovessi ricorrere al Dono Sublime.” “Oh ko!” “L'onore della casa è in gioco.” “Oh! Capisco. In questo caso... in qualche modo farò”. “Mi fido completamente di te Ako-chan, dopotutto hai quasi trent'anni di esperienza nel nostro Mondo dei Salici.” “Ed è come il francese nei gusti, credi?” “Se gli piace farsi solleticare la schiena e apprezza occasionalmente le Perle del Piacere? Ho chiesto direttamente al francese se il giovane abbia qualche propensione verso gli uomini. Strano che il francese abbia scelto la nostra casa per iniziare un amico invece di quelle che frequenta adesso.” “La colpa non è della casa. Ti prego di non pensarlo mai Raiko-chan. Sono onorata che tu abbia scelto me e farò tutto il necessario.” “Certo. Quando si pensa che gli Steli dei gai-jin di solito sono molto più grandi di quelli delle persone civilizzate, e che la maggior parte di loro può fornicare in modo soddisfacente benché senza il vigore, la sensibilità e l'urgenza d'arrivare al limite dei giapponesi con l'unica eccezione del francese, penseresti che siano felici fornicatori come tutti. Invece non è così, hanno tante ragnatele nella testa e ti danno l'impressione che fornicare non sia come per noi il più celestiale dei piaceri ma un rito segreto e religioso. Strano.” Ako si avvicinò a Tyrer e gli accarezzò il petto, poi abbassò la mano e le costò un grande sforzo non scoppiare a ridere quando il giovane si ritrasse spaventato. Le ci volle qualche momento per ricomporsi. “Tairasan?” mormorò. “Sì, cioè hai, Ako-san?” Gli prese una mano e la infilò sotto la yukata all'altezza del seno, si chinò e gli baciò una spalla senza dimenticare che doveva fare attenzione alla ferita sul braccio che un coraggioso shishi gli aveva inferto. Nessuna reazione. Si avvicinò di più. Sussurrandogli quant'era coraggioso,

quant'era forte e virile, con quanti elogi la cameriera aveva descritto lui e il suo frutto senza mai smettere di accarezzargli il petto con pazienza. Lo sentì rabbrividire ma non vide nessun segno di passione. I minuti passavano. Ancora niente. La sua preoccupazione cominciò a crescere mentre dita leggere come farfalle volteggiavano sul suo corpo inerte, sulle mani chiuse a pugno, sulle labbra sigillate. Dopo qualche tempo Tyrer rispose con qualche carezza gentile ma ancora senza trasporto. Passarono altri minuti, ancora niente. Ako era preoccupata, a quel punto temeva di dover ammettere la sconfitta. Gli sfiorò un orecchio con la lingua. Ah, finalmente un piccolo risveglio: il suo nome pronunciato a bassa voce e le labbra di lui che le baciavano il collo. Oh, pensò Ako rilassandosi, e Tyrer appoggiò la bocca su un capezzolo. Adesso è soltanto questione di tempo perchè la sua verginità esploda fino al cielo, poi potrò ordinare del sakè e dormire fino all'alba e dimenticare che ho quarantatré anni e sono sterile e ricordare soltanto che Raiko-san mi ha salvato dalla casa di sesta classe dove la mia età e, la mancanza di bellezza mi avevano relegata. Tyrer stava guardando pigramente i samurai davanti alla Legazione mentre il sole sfiorava l'orizzonte, la sua mente era ancora con Ako, poi ripensò alla ragazza di due notti dopo, Hamako. E infine a Lei. Fujiko. L'altro ieri. Bastava il ricordo di Fujiko a eccitarlo, sapeva d'essere stato ormai catturato da quel mondo, il Mondo Fluttuante, dove, come André gli aveva detto, si viveva solo nell'attimo fuggente, nel piacere, scivolando senza pensieri come un fiore sulla corrente di un fiume tranquillo. “Non è sempre tranquillo, Phillip. Com'è questa Fujiko?” “Oh... ehm... l'avete vista, non la conoscete?” “No, ho soltanto detto a Raiko-san che tipo di ragazza poteva piacervi ponendo l'accento sul fatto che doveva essere colta perchè volete imparare il giapponese. Com'era?” Tyrer aveva riso per nascondere il suo imbarazzo e la sua inquietudine davanti a una domanda così personale e schietta. Ma dopotutto era debitore nei confronti di André e inoltre desiderava essere “francese” e diretto, perciò mise da parte la convinzione che un gentiluomo non debba mai discutere o dare informazioni sulle donne e disse: “Lei... lei è più giovane di me. E' piccola, anzi minuscola, no, non graziosa come intendiamo noi ma è straordinariamente attraente. Penso di aver capito che è nuova. “Volevo sapere a letto, com'è a letto? Meglio delle altre?”

“Oh. Be', non c'era... non c'era paragone.” “Era più vigorosa? Più sensuale? E' vero?” “Be', si... ehm.... vestita o svestita è incredibile. Speciale. Ancora non so come ringraziarvi, vi devo tanto.” “De rien, mon vieux.” “E' vero. La prossima volta... la prossima volta la incontrerete.” “Mon Dieu no, è la regola. Non presentate mai la vostra 'favorita' a nessuno, soprattutto a un amico. Non dimenticate che finché non la sistemate in un posto vostro e pagate tutti i suoi conti è disponibile per chiunque abbia denaro per pagarla... se vuole accettarlo.” “Oh, l'avevo dimenticato” aveva mentito Tyrer. “Ma anche una volta sistemata potrebbe pur sempre avere un amante clandestino, se lo desidera. Chi verrebbe a saperlo?” “Lo immagino.” Nuova ondata di angoscia. “Non innamoratevi mai di una cortigiana, amico mio. Prendetela per quello che è, una donna di piacere. Godetene, apprezzatela fino in fondo ma non amatela e fate in modo che non si innamori di voi.” Tyrer rabbrividì; detestava quell'avvertimento che nascondeva molta parte di verità, odiava il pensiero di lei insieme a un altro, stretta tra le braccia di un altro come si era stretta a lui, odiava l'idea che lo facesse per denaro, odiava quel dolore ai lombi. Mio Dio, era davvero così speciale, amabile, soave, una dolce creatura chiacchierina, gentile e cortese, così giovane e nella Casa solo da così poco tempo. Devo sistemarla? La domanda è devo o posso? Sono sicuro che André ha una casetta con dentro una ragazza speciale anche se non l'ha mai detto e io non gliel'ho mai chiesto. Cristo, quanto verrebbe a costarmi una cosa simile? Probabilmente più di quello che mi possa permettere... Non pensarci adesso! E non pensare a lei. Con uno sforzo rivolse l'attenzione al giardino ma il dolore persisteva. Una parte del distaccamento di highlander si stava radunando intorno al pennone, il trombettiere e i quattro tamburini già in posizione per ammainare la bandiera. Routine. Il gruppo eterogeneo dei giardinieri si radunava vicino al cancello per essere contato e congedato. Strisciavano fino ai cancelli e scomparivano in mezzo alla folla di samurai. Routine. Le sentinelle chiudevano i cancelli di ferro. Tamburi e trombe suonavano mentre la bandiera britannica veniva lentamente ammainata perchè in tutto il mondo la regola imponeva che il sole non tramontasse mai sulla bandiera del Regno. Routine. Quasi tutti i samurai ora si allontanavano lasciando alle porte della Legazione soltanto un drappello simbolico. Routine.

Tyrer rabbrividì. Se tutto sta andando come previsto perchè sono tanto nervoso? I giardinieri della Legazione entrarono in fila nella casupola dormitorio sull'altro lato del tempio buddista. Nessuno di loro incontrò lo sguardo di Hiraga. Erano stati avvisati che le loro vite e le vite dei loro figli dipendevano dalla sua salvezza. “Attenti a come parlate con gli stranieri” li aveva avvertiti. “Se la Bakufu scopre che mi avete dato asilo pagherete ugualmente con la vita, con l'unica differenza che anziché avere una morte onorevole verrete crocifissi.” Malgrado le loro rassicurazioni e gli inviti a fidarsi, Hiraga sapeva di non essere al sicuro. Dopo l'imboscata ad Anjo di dieci giorni prima aveva trascorso quasi tutto il tempo nel nascondiglio di Kanagawa, la Locanda dei Fiori di Mezzanotte. Il fatto che l'attacco fosse fallito e che tutti i suoi compagni eccetto uno fossero stati uccisi era da attribuire soltanto al karma. Il giorno prima era arrivata da Kyòto una lettera di Katsumata, lo shishi satsuma clandestinamente a capo del movimento: Importante: tra qualche settimana lo shògun Nobusada venendo in visita di stato dall'imperatore compirà un gesto senza precedenti. Tutti gli shishi sono avvisati di riunirsi qui immediatamente per organizzare un modo di intercettarlo, ucciderlo e prendere possesso delle Porte del palazzo. Katsumata aveva firmato Raven, il suo nome in codice. Hiraga aveva discusso il da farsi con Ori e aveva poi deciso di tornare a Edo determinato a distruggere la Legazione britannica in un'azione solitaria. Il Consiglio degli Anziani gli sembrava ipnotizzato e succubo dei gai-jin e la cosa lo imbestialiva. “Kyòto può aspettare, Ori. Noi dobbiamo continuare ad attaccare i gai-jin. Dobbiamo provocarli fino a fargli bombardare Edo. Altri possono occuparsi dello shògun e di Kyato.” Avrebbe portato con sé Ori ma il ragazzo era inservibile perchè senza l'intervento di un medico la sua ferita peggiorava ogni giorno di più. “E il tuo braccio?” “Quando diventerà insopportabile farò seppuku” aveva risposto Ori con la voce un pò impastata dal sakè che usava per placare il dolore. Hiraga, Ori e la mama-san stavano bevendo qualcosa insieme prima del commiato. “Non ti preoccupare.” “Ma non c'è un altro dottore, un dottore sicuro?” “No, Hiraga-san” rispose Noriko, la mama-san. Era una donna di cinquant'anni minuta e dalla voce gentile. “Ho persino mandato a chiamare un agopuntore coreano e un erborista miei amici, ma il loro intervento non ha potuto niente contro il male. C'è il

gigante gai-jin...” “Sei stupida” gridò Ori. “Quante volte te lo devo dire? Questa è una ferita d'arma da fuoco, dentro c'è uno dei loro proiettili e se non bastasse sono stato visto a Kanagawa!” “Ti prego di scusarmi” disse la mama-san umilmente chinando la testa sul tatami, “ti prego di scusare questa stupida donna.” Si prostrò ancora e poi uscì dalla stanza in cuor suo maledicendo Ori per non essere un vero shishi e non aver fatto seppuku approfittando della presenza di Hiraga, il secondo più perfetto che si potesse desiderare, sventando così il pericolo che minacciava lei e la sua Casa. Notizie della tragica sorte della Locanda dei Quarantasette Ronin erano giunte a più di cinquanta ri, e uccidere clienti, cortigiani e domestici e infilzare su un palo la testa della mama-san sembrava a tutti una vendetta vergognosa. Mostruoso, pensò furiosa. Come può una casa proibire l'ingresso a un samurai, shishi o non shishi? In passato i samurai uccidevano molto più spesso di quanto non facciano oggi, è vero, ma questo accadeva centinaia di anni fa e quasi sempre soltanto se era necessario, e comunque non uccidevano le donne e i bambini. Questo succedeva quando la legge della terra era giusta, lo shògun Toranaga giusto, suo figlio e sua nipote giusti, prima che corruzione e sperpero divenissero una regola di vita per i loro discendenti, per i daimyo e i samurai che per più di un secolo ci hanno tormentato con le loro angherie come una piaga purulenta! Gli shishi sono la nostra unica speranza! Sonno-joi! “Anjo deve morire prima di noi” esclamò con fervore quando Hiraga ritornò sano e salvo due giorni dopo l'attacco. “Abbiamo temuto che tu fossi stato preso e bruciato insieme agli altri. Sono stati gli ordini di Anjo, Hiraga-san, i suoi ordini... Stava proprio tornando dalla locanda quando l'avete attaccato vicino alle porte del castello; ha ordinato personalmente le esecuzioni ed è rimasto a guardare.” “Chi ci ha tradito, Hiraga?” aveva domandato Ori. “I samurai mori.” “Ma Akimoto ha detto di averli visti mentre venivano sopraffatti e uccisi.” “Dev'essere stato uno di loro. Nessun altro è riuscito a fuggire?” “Akimoto... si è nascosto in un'altra locanda per un giorno e una notte.” “Ora dov'è?” Noriko disse: “E' occupato, devo mandarlo a chiamare?”. “No. Lo vedrò domani.” “Anjo deve pagare col sangue per la locanda... E' contro le nostre leggi!” “Pagherà. E pagherà anche il Roju. E così pure lo shògun Nobusada. E Yoshi.” Al castello, Yoshi stava componendo una poesia nelle sue stanze. Indossava

un kimono di seta azzurra e sedeva davanti a un tavolino basso illuminato da una lampada a olio e coperto di fogli di carta di riso, di pennelli di diverse grandezze, di una ciotola d'acqua per diluire la china solida che aveva una minuscola e invitante pozzanghera nel centro. Il crepuscolo stava diventando notte. Dall'esterno giungeva il ronzio delle onnipresenti anime di Edo, un milione di abitanti. Qualche casa in fiamme, come al solito. Sotto il castello, il rumore smorzato e rassicurante dei soldati e degli zoccoli dei cavalli sui ciottoli. Attraverso le feritoie degli arcieri nelle enormi mura, non ancora chiuse contro il freddo della notte, una risata rauca e occasionale saliva verso l'alto insieme al fumo e agli aromi dei fuochi delle cucine. Questo era il suo spartano santuario segreto: qualche tatami, un takoyama, la porta illuminata per poter vedere dall'interno la sagoma di qualsiasi figura senza essere visto. Davanti alla stanza c'era una grande anticamera con i corridoi che conducevano alle camere da letto, in quel momento occupate dai suoi domestici e dalla cameriera di Koiko, la concubina. La sua famiglia, la moglie, i due figli maschi e la figlia nonché la consorte con il figlio erano al sicuro strettamente sorvegliati nel castello fortezza di famiglia, il Dente del Drago, sulle montagne a circa venti ri a settentrione. Oltre l'anticamera vi erano le guardie ed altre stanze con altre guardie personali. Intinse il pennello nell'inchiostro. Posò la punta sulla delicata carta di riso e poi con mano ferma scrisse: Spada dei miei padri Brandita dalle mie mani Con disagio Tre linee verticali di caratteri, brevi e aggraziate, decise ma insieme lievi, dove necessario per evocare un'immagine. La scrittura dei caratteri giapponesi non concede la possibilità di correggere o modificare neppure l'errore più insignificante, poiché la carta di riso assorbe l'inchiostro immediatamente facendolo diventare parte indelebile di sé, dal grigio al nero più profondo rispetto all'uso del pennello e alla quantità di acqua contenuta nell'inchiostro. Yoshi esaminò freddamente quello che aveva scritto, l'effetto creato dalle ombre dei tratti neri sul fondo bianco, la forma e la fluida e oscura chiarezza dei caratteri. Perfetto, pensò senza vanità. Non potrei fare di meglio, sono pressoché al limite delle mie capacità. E che dire del significato della poesia, come dev'essere interpretato? Questa è la domanda importante, questo è il motivo della sua bellezza. Ma mi farà ottenere ciò che voglio? Tali interrogativi lo spinsero a ripensare alla stupefacente situazione che si

era creata a Edo e a Kyòto. Alcuni giorni prima era giunta notizia che con un improvviso e sanguinoso colpo di mano le truppe choshu avevano scacciato le forze satsuma e tosa, che negli ultimi sei mesi avevano mantenuto il governo del palazzo imperiale in una tregua difficile. Ora il principe Ogama di Choshu era al comando delle Porte del palazzo. Alla riunione convocata in fretta e furia dal Consiglio c'era stato uno scontro violento tra i membri e Anjo aveva quasi perso la calma. “Choshu, Satsuma e Tosa! Sempre quei tre. Sono cani che devono essere finiti! Senza di loro tutto sarebbe sotto controllo.” “E' vero” rispose Yoshi, “ripeto che dobbiamo ordinare alle nostre truppe a Kyòto di soffocare immediatamente la ribellione, a qualsiasi prezzo!” “No, dobbiamo aspettare. Le nostre forze non sono sufficienti.” Toyama, il più anziano del Roju, si accarezzò la barba brizzolata e disse: “Sono d'accordo con Yoshi-dono, la guerra è la nostra unica via, dobbiamo dichiarare Ogama di Choshu fuorilegge”. “Impossibile!” esclamò Adachi lamentoso, parlando anche a nome dell'altro membro del Consiglio. “Noi siamo d'accordo con Anjo che non si possa rischiare di offendere tutti i daimyo incoraggiandoli a coalizzarsi contro di noi.” “Dobbiamo agire senza indugi!” ripeté Yoshi. “Dobbiamo ordinare alle nostre truppe di riprendere le Porte, di soffocare la ribellione.” “Le nostre forze non sono sufficienti. Aspetteremo fino a quando non sarà giunto il momento.” “Perché non ascoltate il mio consiglio?” Yoshi era così furente che quasi non riusciva più a nasconderlo. Si trattenne con grande fatica consapevole del fatto che agitarsi e perdere la calma avrebbero fatalmente scatenato l'ostilità degli altri. Non era forse lui il più giovane del gruppo, quello con meno esperienza e tuttavia il più qualificato, colui che esercitava la maggiore influenza tra i daimyo, colui che, solo fra tutti i membri del Consiglio, se lo desiderava avrebbe potuto alzare il suo stendardo e chiamare l'intero paese alla guerra civile, com'era accaduto per secoli prima dello shògun Toranaga? Non erano stati forse tutti gonfi di astio e di veleno quand'era stato nominato Guardiano nonché membro del Consiglio su richiesta imperiale senza che essi fossero consultati, poco importa chi manipolasse il Figlio del Cielo? “So di avere ragione. Non avevo forse ragione a proposito dei gai-jin? Ho ragione anche oggi.” Il piano che aveva concepito per allontanare i gai-jin e la loro flotta da Edo, guadagnando così tempo per affrontare i problemi interni, si era rivelato un successo. Era molto semplice: “Ripaghiamo i gai-jin con una miseria ma con gran

pompa e presunta umiltà, poi proponiamo loro un futuro incontro con il Consiglio che verrà continuamente rimandato e infine cancellato, o che si potrà addirittura svolgere con qualche prestanome, se sarà davvero necessario, lasciando intendere, quando la loro pazienza sarà sul punto di esaurirsi, che, al ritorno dello shògun verrà organizzato anche un incontro con lui, incontro che sarà a sua volta rimandato, rinegoziato, rimandato e che insomma non avrà mai luogo o che, qualora avvenisse, non produrrà nient'altro che ciò che noi desideriamo. “Abbiamo guadagnato un pò del tempo di cui avevamo tanta necessità e scoperto un metodo per trattare in futuro: usare la loro stessa impazienza contro di loro, fare promesse, offrire solo fumo e non concedere niente, o magari soltanto inezie di cui non abbiamo bisogno o che non vogliamo. Erano soddisfatti, la flotta è ripartita nella tempesta e forse è affondata. Nessuna nave ha ancora fatto ritorno.” Fu ancora una volta il vecchio Toyama a parlare. “Gli dei ci hanno aiutato con quella tempesta, ancora una volta il Vento Divino, il vento kamikaze, lo stesso che soffiò contro le orde dell'invasore Kublai Khan secoli fa. Quando li scacceremo, soffierà ancora, gli dei non ci abbandoneranno. Adachi era molto fiero di sé. “E' vero che ho realizzato il nostro piano alla perfezione. I gai-jin erano docili come una cortigiana di quinta categoria.” “I gai-jin sono una piaga che non guarirà mai fino a quando noi saremo i più deboli in termini di forza militare o di ricchezza” ribatté Anjo irritato, torcendosi le mani. “Sono una piaga che non guarirà se non la cauterizzeremo col fuoco, e ancora non siamo in grado di fare niente, niente, senza i mezzi necessari per costruire navi e cannoni. Non possiamo mandare una parte delle nostre truppe a prendere le Porte. Non ancora. I choshu non sono ancora i nostri nemici più pericolosi, i nemici sono sonno-joi, e i cani shishi.” Yoshi aveva notato che sin dal tentato assassinio Anjo era molto cambiato: era molto più irascibile e ostinato e benché la sua influenza sugli altri Anziani non si fosse indebolita sembrava aver le idee meno chiare. “Non sono d'accordo, tuttavia se ritieni che le nostre forze siano insufficienti ordiniamo una mobilitazione generale e facciamola finita con quei principi e tutti quelli che li aiutano!” “La guerra è l'unica via, Anjo-sama” ripeté Toyama, “dimentica gli shishi, dimentica i gai-jin per il momento. Le Porte sono più importanti... innanzitutto dobbiamo riprendere possesso di ciò che è nostro per diritto ereditario. “ “Lo faremo al momento giusto” ribatté Anjo. “Secondo punto: la visita dello shògun procederà come stabilito.” Malgrado le proteste di Yoshi, Anjo aveva vinto ancora una volta la

votazione per tre contro due e quand'erano rimasti soli, con malanimo aveva aggiunto: “Te l'avevo detto Yoshi-dono, voteranno sempre per me. Gli shishi non ce la faranno mai contro di me come non ce la farai tu né nessun altro.” “Nemmeno lo shògun Nobusada?” “Lui... lui non è un nemico e inoltre accetta i miei consigli.” “E la principessa Yazu?” “Obbedirà... obbedirà a suo marito. “Obbedirà a suo fratello l'imperatore finché avrà vita”. Sbalordito aveva ascoltato Anjo chiedere con un sorriso stiracchiato: “Proponi un incidente? Eh?”. “Non propongo niente del genere.” Yoshi rabbrividì temendo che Anjo stesse diventando troppo pericoloso per vivere; era già troppo potente per essere neutralizzato, troppo lungimirante, sostenuto da folte schiere pronte e capaci di inghiottirlo... Una sagoma si stava avvicinando silenziosamente alla porta. Mise per istinto mano alla spada pur avendo riconosciuto la figura, che si era inginocchiata. Un colpo delicato venne battuto sulla porta. “Sì?” Lei fece scivolare la porta, si inchinò con un sorriso e attese. “Ti prego di entrare, Koiko” disse, felice di quella visita inaspettata che scacciava d'un sol colpo tutti i suoi demoni. Lei obbedì, richiuse la porta e corse verso di lui facendo frusciare il lungo kimono variopinto, si inginocchiò appoggiando una guancia alla mano di lui e notò subito la poesia. “Buonasera, signore.” Lui rise e la strinse in un tenero abbraccio. “A cosa devo questo piacere?” “Mi siete mancato” rispose lei con semplicità. “Posso leggere la vostri poesia?” “Naturalmente.” Mentre lei osservava la sua opera Yoshi osservava lei, un piacere di cui non era ancora sazio da quando, trentaquattro giorni prima, era venuta a vivere tra le mura del castello. Abiti di squisita eleganza, morbida seta, pelle di porcellana finissima, capelli corvini e scintillanti che, sciolti sulle spalle, raggiungevano la vita, naso delicato, i denti bianchi anziché anneriti secondo la moda di corte. “Stupidi!” gli aveva detto suo padre quando era giunto all'età della ragione. “Perché dovremmo annerirci i denti per seguire una tradizione di corte cominciata secoli fa da un imperatore che aveva i denti marci e che quindi decretò che avere i denti dipinti di nero fosse più bello che averli candidi come quelli delle fiere? E perchè usare tinture per le labbra e le guance come qualcuno ancora usa fare solo perchè un altro imperatore avrebbe voluto essere una donna e amava travestirsi imitato dai cortigiani che volevano ottenerne i favori?”

A ventidue anni Koiko era una tayu, il grado più alto di geisha che si potesse raggiungere nel Mondo Fluttuante. Avendo sentito favoleggiare della sua bellezza alcuni mesi prima, Yoshi l'aveva mandata a chiamare e avendone molto apprezzato la compagnia aveva subito ordinato alla mama-san di Koiko di presentare un'offerta per i suoi servizi. Secondo le regole l'offerta era stata esaminata dalla moglie di Yoshi, che dal Dente del Drago gli aveva scritto: Amato marito, oggi ho concluso in modo soddisfacente gli accordi con la mama-san della tayu Koiko della Casa del Glicine. Sire, data la vostra posizione, abbiamo ritenuto che fosse preferibile, nonché più sicuro, ottenerne l'esclusiva, circondato come siete da nemici, e non limitarci a una prima opzione. Il contratto è rinnovabile ogni mese a vostro piacimento e un pagamento mensile assicurerà che i suoi servizi si mantengano all'alto livello che voi avete il diritto di pretendere. La vostra consorte e io siamo liete che voi abbiate deciso di avere un giocattolo, eravamo e siamo tuttora molto preoccupate per la vostra salute e la vostra sicurezza. Mi congratulo per la vostra scelta poiché mi si dice che Koiko sia davvero di rara bellezza. I vostri figli crescono felici e in buona salute così come vostra figlia. Anch'io godo di buona salute. Vi trasmettiamo la nostra fedele devozione e la nostalgia della vostra presenza. Vi prego di tenermi informata sulle vostre decisioni poiché devo ordinare al nostro ufficiale pagatore di disporre dei fondi... Secondo le regole la moglie non aveva parlato di cifre, e le cifre infatti non lo interessavano. Gestire la ricchezza di famiglia e provvedere al pagamento dei conti era uno dei compiti principali di una moglie. Koiko alzò gli occhi. “La vostra poesia è impeccabile Yoshi-chan” disse battendo le mani. Chan era un diminutivo che rivelava la loro intimità. “Tu sei impeccabile” rispose lui, nascondendo la soddisfazione. Oltre che per la sua grande bellezza Koiko era celebre a Edo per le sue qualità di calligrafa, per la raffinatezza delle sue composizioni poetiche e per la sua abilità nelle arti e nella politica. “Adoro il modo in cui scrivete e la poesia è sublime. Adoro la complessità della vostra mente soprattutto perchè scegliete il verbo “brandire” quando un uomo meno raffinato userebbe “impugnare” o il più volgare “stringere” che darebbe un doppio senso erotico. E la scelta della parola finale, quel “disagio” finale... ah, Yoshi-chan, quanta intelligenza nell'usare quella parola

per concludere, una parola segreta, perfetta. La vostra creazione è superba e può essere letta in dieci modi diversi.” “E che cosa intendevo dire secondo te?” Lo sguardo di Koiko si accese. “Prima ditemi se intendete conservarla... se intendete conservarla apertamente, conservarla in segreto o distruggerla.” “Qual è la mia intenzione?” domandò divertito. “Se la conservate apertamente, o se fingete soltanto di nasconderla, volete che la leggano altri i quali, in un modo o nell'altro, informeranno i vostri nemici, come desiderate.” “E che cosa penseranno?” “I meno intelligenti riterranno che la vostra determinazione si stia indebolendo e che il timore cominci ad avere il sopravvento.” “E gli altri?” Lo sguardo di Koiko non perse la luce del divertimento ma Yoshi vide aggiungervisi un'ulteriore scintilla. “Tra i vostri principali avversari” rispose con delicatezza, “lo shògun Nobusada la interpreterebbe così: segretamente concordate con lui sul fatto di non essere abbastanza forte per rappresentare una vera minaccia e ne dedurrebbe che gli basterà attendere per potervi eliminare. Anjo sarebbe travolto dall'invidia davanti alla vostra abilità di poeta e calligrafo e storcerebbe il naso davanti alla parola “disagio” giudicandola infelice e inadatta, tuttavia la poesia otterrebbe l'effetto di ossessionarlo e preoccuparlo, soprattutto se gli venisse presentata come un documento segreto, e finirebbe per trovarvi ottantotto significati nascosti che avrebbero soltanto l'effetto di accrescere la sua implacabile ostilità nei vostri confronti.” La franchezza di lei lo sbalordiva. “E se la conservassi in segreto?” Koiko rise. “Se questa fosse stata la vostra intenzione avreste dovuto bruciarla subito senza mostrarmela. E' triste distruggere una cosa tanto bella, molto triste, Yoshi-chan, ma tuttavia è necessario per un uomo nella vostra posizione.” “Perché? E soltanto una poesia.” “Credo che sia una poesia speciale. E' così bella. Un'opera d'arte come questa nasce dal profondo. Porta con sé una rivelazione. E la rivelazione è lo scopo della poesia.” “Continua.” Gli occhi di Koiko sembrarono cambiar colore mentre si chiedeva fino a che punto potesse osare, fin dove dovesse spingersi per verificare i propri limiti intellettuali e intrattenere ed eccitare il suo padrone, se era questo ciò che lo divertiva. Yoshi notò il cambiamento ma non ne comprese la ragione. “Per esempio” riprese con naturalezza, “agli occhi sbagliati sembrerebbe che i vostri pensieri più segreti siano: Il potere del mio antenato lo shògun Toranaga Yoshi è a portata di mano e implora di essere usato”.

Yoshi la guardò e Koiko non riuscì a indovinarne i pensieri. Molto bene, stava pensando lui con i sensi tesi a percepire il pericolo, sono così leggibile? Forse questa donna è troppo intuitiva per essere lasciata in vita. “E la principessa Yazu? Che cosa penserebbe la principessa?” “Lei è più intelligente, Yoshi-chan, ma questo lo sapete. Comprenderebbe subito il significato... se un significato speciale esiste.” Il suo sguardo si rese impenetrabile. “E se questa poesia fosse un dono per te?” “Allora quest'umile persona sarebbe colma di gioia davanti a un simile tesoro ma al tempo stesso si troverebbe in imbarazzo, Yoshi-chan.” “In imbarazzo?” “E' troppo speciale per essere donata e accettata.” Yoshi tornò a guardare la poesia con attenzione. Rappresentava il meglio cui potesse ambire, non avrebbe mai potuto scriverne un'altra uguale. Poi guardò Koiko con altrettanta determinazione. Prese il foglio e lo tese alla donna, chiudendo la trappola. Con reverenza lei la ricevette tra le due mani e si inchinò. La studiò con attenzione affinché quei caratteri si imprimessero nella sua memoria come l'inchiostro sulla carta. Un profondo sospiro, poi con attenzione avvicinò un angolo del foglio alla fiamma della lampada a olio. “Con il vostro permesso, Yoshi-sama, prego?“ chiese formalmente guardandolo con occhi fermi, la mano immobile. “Perché?” chiese lui sbalordito. “E troppo pericoloso per voi lasciare in circolazione simili pensieri.” “E se rifiutassi?” “Allora vi prego di scusarmi ma dovrò decidere per voi.” “Decidi, dunque.” Senza esitare Koiko appoggiò il foglio sulla fiamma che lo incendiò. Abilmente lo piegò affinché bruciasse lasciando un velo di cenere intero che ripose su di un foglio. Le sue dita erano lunghe e delicate, le unghie perfette. In silenzio ripiegò il foglio che conteneva la cenere in un origami e lo appoggiò sul tavolo. Aveva assunto la forma di una carpa. Quando Koiko rialzò gli occhi pieni di lacrime, Yoshi si sentì mosso da affetto per lei. “Mi dispiace, vi prego di scusarmi” disse con voce rotta. “Ma era troppo pericoloso per voi... così triste dover distruggere tanta bellezza, avrei voluto conservarla. Tanto triste ma troppo pericoloso...” Teneramente lui la prese tra le braccia sapendo che Koiko aveva fatto l'unica cosa possibile per lui e per se stessa ma tuttavia era sbalordito da quella capacità di discernere le sue intenzioni originali. Aveva in effetti pensato di nasconderlo in modo che venisse trovato e mostrato a tutti quelli che aveva nominato, soprattutto alla principessa Yazu.

Koiko ha ragione, ora me ne rendo conto. Yazu avrebbe indovinato il mio piano e carpito i miei pensieri segreti: che la sua influenza su Nobusada deve finire altrimenti io sono un uomo morto. Non è che un altro modo di dire: “Potenza dei miei antenati...” ma per lei avrei messo in pericolo la mia testa! “Non piangere, piccolina” mormorò ormai certo di potersi fidare. E mentre si lasciava consolare e riscaldare, nel suo terzo cuore, il suo cuore più segreto, il primo era per il mondo, il secondo si apriva soltanto ai familiari più stretti ma il terzo non veniva mai rivelato a nessuno Koiko sospirò di sollievo per essere riuscita a superare un'altra prova, perchè di una prova sicuramente si era trattato. Troppo pericoloso per lui conservarla, ma ancora più pericoloso per me possederla. Oh si, mio magnifico padrone, è facile adorarti, facile ridere e giocare con te, simulare l'estasi quando mi prendi, ed è divino ricordare che alla fine d'ogni giorno, d'ogni singolo giorno, ho guadagnato un altro koku. Pensa a questo, Koiko-chan! Un koku al giorno tutti i giorni per prender parte al gioco più eccitante, con uno degli uomini di cui il mondo intero magnifica il nome, un uomo giovane e straordinario, di grande cultura, il cui membro è il più vigoroso che abbia mai conosciuto... e al tempo stesso diventare ogni giorno più ricca di chiunque altro, ricchissima. Le sue mani, le labbra, il corpo rispondevano con destrezza schiudendosi, aprendosi, aprendosi ancora per riceverlo guidandolo, aiutandolo, come uno strumento perfettamente accordato da cui lui poteva trarre le note più melodiose; e lei si consentiva di provare piacere fingendo perfettamente l'estasi, fingendo di concedersi tutta senza mai concedersi, era importante conservare le energie e la ragione, perchè lui era un uomo dai molti appetiti, apprezzando la sfida, senza fretta, spingendolo in avanti, facendolo vacillare sul precipizio, lasciandolo andare e trattenendolo all'ultimo istante, lasciandolo andare e trattenendolo, lasciandolo infine andare con sollievo. Adesso era la calma. Il peso di lui addormentato non era spiacevole, e sopportato con pazienza. Attenta a non muovere un muscolo per non disturbare la sua quiete. Perfettamente soddisfatta della sua arte così come, lo sapeva, lui era soddisfatto della propria. Il suo ultimo e più esilarante pensiero prima di scivolare nel sonno fu: mi chiedo come interpreteranno “spada dei miei padri” Katsumata, Hiraga e i loro amici shishi.

Capitolo 14 †

Kyòto, Lunedì, 29 settembre A poche miglia a sud di Kyòto la luce del tramonto illuminava il campo di battaglia che vedeva schierati gli uomini di Satsuma in fuga contro i choshu del principe Ogama che avevano preso il controllo delle Porte del palazzo. Katsumata, il maestro d'armi satsuma, guidava la retroguardia insieme a un centinaio di samurai a cavallo proteggendo la fuga del principe Sanjiro e del grosso delle forze satsuma che si trovavano qualche miglio più avanti, verso meridione. I nemici erano assai più numerosi e il vento soffiava con intensità nella campagna aperta portando con sé l'afrore del concime umano dei campi. Nel cielo si addensavano nubi minacciose. Katsumata incitò i suoi a un altro furioso attacco che aprì una breccia tra le prime file dell'avanguardia riunita sotto il vessillo dei daimyo di Choshu, Ogama. Benché anche i choshu fossero a cavallo vennero respinti e subirono gravi perdite mentre numerosi rinforzi accorrevano a proteggere il loro signore. “Tutte le truppe avanti!” gridò Ogama. Il principe Ogama era un uomo di ventotto anni alto e muscoloso. Indossava un'armatura leggera di bambù e metallo e un elmetto da guerra e brandiva una spada coperta di sangue. “Accerchiate quei cani! Circondateli! Voglio la testa di Sanjiro!” Gli aiutanti di campo si precipitarono a trasmettere gli ordini. A tre o quattro miglia di distanza il principe Sanjiro insieme a ciò che restava delle sue forze si stava affrettando verso la costa e Osaka, ad altre venti miglia di distanza, dove avrebbe cercato di procurarsi le imbarcazioni per farsi trasportare all'isola di Kyushu, in salvo verso la capitale, Kagoshima, a quattrocento miglia marine a sud. I due schieramenti contavano in tutto circa ottocento samurai fanatici e ben equipaggiati che avrebbero desiderato tornare a combattere sopra ogni cosa perchè la sconfitta e l'abbandono di Kyòto, una settimana prima, ancora bruciavano. Ogama aveva scagliato un improvviso attacco notturno circondando le caserme degli uomini satsuma e incendiandone tutti gli edifici, abrogando con un solo gesto gli accordi solenni che intercorrevano tra le due fazioni. I satsuma erano riusciti ad aprirsi un varco fuori della città a prezzo di dure perdite e a raggiungere il villaggio di Fushimi dove Sanjiro, fuori di sé, li

aveva riuniti mentre i choshu incalzavano. “Siamo in trappola.” Uno dei suoi capitani disse: “Principe, propongo un contrattacco immediato su Kyòto”. “Troppo pericoloso” ribatté Katsumata concitato. “Sono troppi, verremo sopraffatti. Sire, vi alienerete tutti i daimyo e spaventerete ulteriormente la corte. Vi suggerisco di offrire a Ogama una tregua se acconsente a ritirarsi in buon ordine.” “Una tregua su quali basi?” “Accetterete come condizione della tregua che le sue forze custodiscano le Porte, le sue forze soltanto, non quelle tosa, e ciò otterrà l'effetto di creare un ulteriore motivo di attrito tra i due.” “Non posso accettarlo” rispose Sanjiro, ancora tremante di rabbia davanti all'imbroglio di Ogama. “E anche se io lo accettassi lui non lo farebbe mai, perchè dovrebbe? Siamo in suo potere. Può fregarsene delle nostre offerte. Se io fossi in lui annienterei il villaggio entro mezzogiorno.” “Si, principe, così infatti farà se non riusciamo a prevenirlo. E potremmo riuscirci con lo stratagemma che vi ho proposto perchè Ogama non è un vero combattente come voi, le sue truppe non sono composte di uomini arditi quanto i vostri né altrettanto bene addestrati. Ha avuto la meglio su di noi soltanto perchè ci ha colto di sorpresa nottetempo con un lurido tranello. Non dimentichiamo che la sua alleanza con i tosa è precaria. Deve consolidare il dominio sulle Porte e non dispone di truppe sufficienti per affrontare tutti i problemi che gli si presenteranno durante le prossime settimane. Deve organizzarsi e trovare rinforzi senza suscitare forti opposizioni. E presto la Bakufu arriverà in massa per riprendersi le Porte, com'è nel suo diritto. In base all'editto di Toranaga, i daimyo in visita a Kyòto non potevano portare in città più di cinquecento uomini e tutte le guardie dove vario vivere con severe restrizioni nelle loro caserme prive, per legge, di sistema difensivo. Lo stesso editto prevedeva che le forze dello shògunato fossero più numerose di tutte le forze dei daimyo assommate. Ma nel corso dei secoli di pace la Bakufu aveva allentato il controllo su tali leggi e recentemente i daimyo di Tosa, Choshu e Satsuma, grazie al potere acquisito, erano riusciti ad accrescere il numero delle loro schiere, almeno fino a quando la Bakufu non li aveva costretti a rimandare a casa i guerrieri in sovrappiù. “Ogama non è uno sciocco, non mi lascerà mai una via di scampo. Se fosse lui a cadere nella mia trappola lo annienterei”. “Non è uno sciocco ma può sempre essere manipolato.” Poi Katsumata abbassò la voce.

“Oltre alla concessione delle Porte potreste dichiarare che se o quando vi sarà un'assemblea di daimyo, voi sosterrete la sua candidatura a capo del Consiglio degli Anziani.” “Mai!” urlò Sanjiro. “Sa che non acconsentirei mai a una cosa simile. Perché dovrebbe credere a una simile sciocchezza?” “Perché si chiama Ogama. Perché ha fortificato lo stretto di Shimonoseki con dozzine di cannoni venuti dalla sua tutt'altro che segreta fabbrica costruita dagli olandesi e perciò crede, a ragione, di poter fermare le navi gai-jin e di essere al sicuro. Pensa inoltre di essere il solo a poter realizzare il desiderio imperiale di scacciare i gai-jin dal paese, il solo in grado di restaurare la potenza imperiale, o una parvenza di essa. Dunque perchè non dovrebbe aspirare al titolo di tairi, di dittatore?” “Il paese sarà messo a ferro e fuoco prima che una cosa simile accada.” “Per finire, ritengo che potrebbe accogliere una proposta di tregua, sire, perchè è la prima volta che detiene il controllo delle Porte e in fondo non è che un villano rifatto, un usurpatore, progenie di gente comune” disse Katsumata con un ghigno, “non di una stirpe antica e nobile come la vostra. E c'è un altro motivo ancora: accetterà la tregua che voi offrite perchè l'offrirete in modo permanente.” Durante quel discorsetto Sanjiro aveva fissato sbalordito e furente il suo consigliere, annichilito per l'enorme quantità di concessioni che avrebbe voluto fargli fare. Non capiva dove volesse arrivare, tuttavia conoscendolo bene decise di congedare i presenti e restare a quattr'occhi con lui. “Cosa si nasconde dietro quello che mi stai proponendo?” chiese con impazienza. “Ogama non può non sapere che a dispetto di qualsiasi promessa una tregua sarà valida soltanto fino a quando non sarò al sicuro dietro le mie montagne, dove mobiliterò fino all'ultimo satsuma per marciare su Kyòto a riprendere possesso di ciò che mi spetta di diritto, a vendicare l'insulto e a pretendere la sua testa. Perché fai discorsi così insensati?” “Perché vi trovate in una condizione di pericolo mortale, principe, una situazione gravissima. Siete in trappola. Tra noi ci sono delle spie. Ho bisogno di tempo per trovare le imbarcazioni a Osaka e preparare un piano di battaglia.” E alla fine Sanjiro aveva detto: “D'accordo. Negoziamo”. Le trattative erano in corso già da sei giorni. Nel frattempo Sanjiro se ne stava rintanato a Fushimi mentre le sue spie controllavano tutte le vie d'accesso a Kyòto. Come misura di mutua fiducia Sanjiro aveva acconsentito a trasferirsi con i suoi in una posizione meno difendibile e Ogama aveva ritirato tutte le sue forze dall'eventuale via di fuga dei satsuma lasciando solo un drappello simbolico. Poi entrambi avevano incominciato ad aspettare la prima mossa sbagliata dell'altro.

A Kyòto Ogama esercitava un potere assoluto ma discreto, e stringeva con soddisfazione la sua morsa sulle Porte, sostenuto da più di mille samurai, coltivava i daimyo e soprattutto i cortigiani che stavano dalla sua parte. Riuscì a convincere questi ultimi a chiedere all'imperatore di “domandare” le dimissioni immediate di Anjo e di tutto il Consiglio degli Anziani, di convocare un'assemblea di daimyo a cui fosse conferito il potere di nominare un nuovo Consiglio, con Ogama stesso nel ruolo di tairò, che avrebbe regnato fino al giorno in cui lo shògun Nobusada non fosse giunto alla maggiore età e che in un colpo solo avrebbe sostituito tutti i sostenitori di Toranaga nella Bakufu. Aveva accolto con grande soddisfazione la notizia dei colpi di cannone sparati dai suoi contro le navi gai-jin, le congratulazioni dell'imperatore e infine l'offerta di tregua di Sanjiro con quelle straordinarie concessioni. La sua influenza a corte ne era uscita ulteriormente rafforzata. “La tregua è accettata” aveva comunicato il giorno prima a Katsumata con autorità. “Ratificheremo l'accordo tra sette giorni a partire da oggi qui, nel mio quartier generale. Poi potrete ritirarvi a Kagoshima.” Ma quella mattina era giunta notizia della scandalosa iniziativa dello shògun Nobusada di recarsi in visita a corte. Sanjiro aveva immediatamente mandato a chiamare Katsumata. “Cosa mai può aver spinto Anjo e Yoshi a lasciargli commettere una simile follia? Sono forse impazziti? Comunque vadano le cose per loro sarà una sconfitta.” “Sono d'accordo con voi, sire, ma ciò rende la vostra posizione ancora più pericolosa. Più vulnerabile. Finché Ogama ha il controllo delle Porte e quindi dell'accesso all'imperatore, ogni nemico di Ogama è nemico dell'imperatore. “ “Ovvio! Che cosa posso fare? Che cosa suggerisci?” “Di inviare immediatamente a Ogama una lettera nella quale suggerite un incontro fra tre giorni per discutere le conseguenze della visita dello shògun, lui stesso deve essere sconcertato. Nel frattempo, cioè questa notte stessa, noi approntiamo il nostro piano di battaglia.” “Non possiamo scappare all'insaputa di Ogama, siamo circondati di spie e le sue truppe sono poco lontano. Nel momento stesso in cui sente dire che stiamo lasciando il campo si lancerà all'inseguimento.” “Si, infatti noi lasceremo il campo esattamente com'è. Partiremo alla chetichella portando con noi soltanto le armi. Posso avere la meglio su di lui, lo conosco.” “Se lo conosci così bene perchè non hai previsto l'attacco a tradimento, eh?” ribatté furibondo Sanjiro. Oh, infatti ne ero al corrente, pensò Katsumata, ma per il momento mi

conveniva di più che Ogama avesse il controllo delle Porte. Non siamo forse sfuggiti alla sua trappola senza subire danni ingenti? Ogama non sarà mai capace di misurarsi con la corte, i daimyo ostili, i tosa, la visita dello shògun Nobusada o la principessa Yazu... inoltre Nobusada non arriverà mai, e sarà Ogama a fare le spese della sua morte. “Dolente, Sire” disse fingendosi avvilito. “Sto indagando sul perchè le nostre spie non sono state efficienti. Cadranno alcune teste.” “Bene.” Appena scesa l'oscurità Katsumata inviò un gruppo di uomini bene addestrati ad assassinare senza il minimo rumore gli ignari soldati choshu che li stavano spiando. Poi, seguendo il piano di battaglia di Katsumata, Sanjiro e il grosso delle forze satsuma, con l'eccezione di Katsumata stesso e dei suoi cento cavalieri, si affrettarono verso sud con l'ordine di lasciare cento uomini ogni tre ri. Sicuro di sé Katsumata tese il suo agguato sulla strada per Kyòto. Era certo che se fosse sopravvissuto fino all'alba tenendo i choshu impegnati a combattere ben presto questi avrebbero dovuto abbandonare la battaglia e tornare a Kyòto per rafforzare la loro posizione laggiù lasciando soltanto un numero simbolico di uomini all'inseguimento dei satsuma. Già si diceva che le alleanze di Ogama stavano sfilacciandosi, e la notizia era amplificata da voci menzognere abilmente diffuse dagli alleati segreti di Katsumata. Katsumata aveva scoperto con grande stupore che era lo stesso Ogama a guidare l'inseguimento e che già era arrivato il momento dello scontro definitivo. Karma. “All'attacco!” gridò Katsumata, e ancora una volta durante la fuga girò di scatto il suo cavallo contro il nemico. Immediatamente la cavalleria che sembrava smembrata si riunì in falangi che si scagliarono con violenza contro i nemici disperdendoli. L'aria fredda e umida si saturava dell'odore della paura, del sudore e del sangue bruciando le narici. Uomini cadevano a destra e a sinistra, sia nel drappello dei soldati scelti di Katsumata sia nelle schiere di Ogama. Ancora una volta Katsumata fu sul punto di aprirsi un varco fino a Ogama ma ancora una volta venne ingannato e costretto a lanciarsi coi suoi in una precipitosa ritirata. Dei suoi cento cavalieri ne erano sopravvissuti venti. “Chiamate la riserva! Cinquecento koku per la testa di Katsumata!” gridò Ogama, “e mille per quella del principe Sanjiro!” “Sire!” Uno dei suoi capitani più valenti gli indicò il cielo. Mentre l'eccitazione della battaglia teneva gli uomini impegnati, nubi di tempesta si erano addensate nel cielo oscurando in parte la luna. “Spiacente ma la strada per Kyòto è difficile e non sappiamo se quegli astuti cani ci stanno preparando un'altra imboscata.” Ogama rifletté un attimo.

“Richiama la riserva! Prendi cinquanta uomini a cavallo e inseguili. Se mi riporti la testa di uno dei due ti nominerò generale e avrai diecimila koku. Abbandoniamo la battaglia!” I capitani si precipitarono a trasmettere gli ordini del principe. Ogama scrutò nell'oscurità che si infittiva inghiottendo Katsumata e i suoi uomini. “Per i miei antenati” esclamò con rabbia, “quando sarò tairò il feudo di Satsuma diventerà un protettorato choshu, i trattati verranno cancellati e nessuna nave gai-jin passerà dal mio stretto!” Poi fece girare il cavallo e con le sue guardie personali si lanciò al galoppo verso Kyòto e il destino. Quella sera nella Legazione francese di Yokohama la festa e il concerto che Seratard aveva organizzato in onore di Angélique stavano riscuotendo grande successo. Il cuoco aveva superato se stesso: pane fresco, ostriche stufate, aragosta fredda, gamberi, pesce allo zenzero e aglio con contorno di porri dell'orto privato di Seratard, tarte au pomme con le mele francesi essiccate che venivano usate solo nelle occasioni più speciali. Champagne, La Doucette e un Margaux di cui andava particolarmente fiero perchè proveniva dal suo paese natale. Dopo la cena e i sigari grandi applausi avevano accolto André Poncin, un pianista di talento ma avaro di sé, e altri applausi avevano fatto seguito a ogni pezzo. Ora, passata la mezzanotte, al terzo bis ci fu un applauso a scena aperta mentre l'ultimo dolce accordo di una suonata di Beethoven moriva nell'aria. “Meraviglioso...” “Superbo...” “Oh, André” spasimò Angélique seduta al posto d'onore, accanto al pianoforte, grata alla musica di averle fatto dimenticare ansie e preoccupazioni. “E' stato meraviglioso.” Agitò il ventaglio con garbo, bellissima come sempre nell'abito nuovo con crinolina e sottogonne che le lasciava le spalle nude e accentuava con una cascata di sottili pieghe di seta verde il vitino di vespa. “Merci, mademoiselle” replicò Poncin. Si alzò e accennò a un brindisi, gli occhi leggermente velati. “A toi!“ “Merci, monsieur” disse lei. Poi si rivolse a Seratard circondato da Norbert Greyforth, Jamie McFay, Dmitri e altri commercianti, in abito da sera con le camicie di seta guarnite di increspature, panciotti colorati e cravatte, alcune nuove e altre vecchiotte, spiegazzate e stirate in fretta in onore di Angélique. Erano presenti alla serata alcuni ufficiali della marina e dell'esercito francesi, con le loro uniformi cariche di galloni e mostrine e con i foderi della spada scintillanti, e non si pavoneggiavano meno degli ufficiali inglesi. Due delle tre donne dell'Insediamento erano presenti nella sala affollata e illuminata da lampade a olio e candele. Mabel Swarin e Victoria Lunkchurch

erano ragazzone senza figli sposate a due mercanti che, in preda ai fumi della gelosia a causa di Angélique, in quel particolare momento tenevano i due mariti al guinzaglio. “Adesso, caro signor Swarin” disse Mabel Swatin tirando su col naso indispettita, “Te ne andrai a letto a dire le tue preghiere con una bella tazza di tè inglese.” “Se sei stanca, mia cara, tu e Vick ...“ “Subito!” “Anche tu, Barnaby” disse Victoria Lunkchurch con un accento dello Yorkshire non meno pesante dei suoi fianchi, “e togliti qualsiasi pensiero sporco dalla testa, ragazzo mio, prima che te lo faccia passare io!” “Chi, io? Ma cosa ho fatto?” “Cos'hai fatto? Tu e quella puttanella straniera... che Dio ti perdoni” esclamò con un tono ancora più velenoso. “Fuori di qui!” Nessuno sentì la loro mancanza né si rese conto che se n'erano andati. Erano tutti concentrati sull'ospite d'onore; chi si trovava lontano cercava di avvicinarsi a lei come attratto da una calamita, e quelli che le erano già vicino dovevano lottare con i gomiti di chi voleva spodestarli. “Una splendida serata, Henri” stava dicendo Angélique. “Grazie a voi. Con la vostra presenza rendete ogni cosa più bella.” Mentre pronunciava galanti luoghi comuni, tra sé e sé Seratard si rammaricava del fatto che Angélique, non essendo ancora sposata, non fosse pronta per una relazione con un uomo di mondo. Povera ragazza: dovrà sopportare un immaturo e bovino scozzese... certo molto ricco... mi piacerebbe essere il tuo primo amante... sarebbe un piacere insegnarti l'arte dell'amore. “Sorridete, Henri?” gli chiese lei, consapevole di dover stare in guardia. “Stavo soltanto pensando al vostro splendido futuro e ciò mi rendeva felice.” “Ah, come siete gentile!” “Stavo pensando che...” “Signorina Angélique, se posso avere l'ardire” li interruppe Norbert Greyforth. Era furente con Seratard che la monopolizzava e disgustato dal fatto che avesse la scortesia di parlare in francese, lingua che lui non conosceva. Detestava lui e tutto quello che riguardava la Francia, a eccezione di Angélique. “Se posso permettermi, questo sabato ci sarà una corsa di cavalli e noi... è una nuova corsa in... ehm... in vostro onore. Abbiamo deciso di chiamarla la Coppa dell'Angelo, vero Jamie?” “Sì” rispose McFay. Anch'egli come Greyforth era membro del Jockey Club e come lui stregato da Angélique. “Noi, be', abbiamo deciso che sarà l'ultima corsa della giornata e la Struan pagherà il premio: venti ghinee per la coppa. Vorreste esserne la madrina, signorina Angélique?” “Oh sì, con piacere, se il signor Struan è d'accordo.”

“Oh, certo che lo è.” McFay aveva già ottenuto il permesso da Struan, ma tutti quelli che avevano sentito la risposta di Angélique non poterono non chiedersi quali fossero le implicazioni, anche se le scommesse sul fidanzamento erano ormai chiuse. Anche in privato Struan continuava a mantenere il massimo riserbo benché McFay si fosse sentito in dovere di riferirgli le voci che circolavano. “Non sono affari loro, Jamie. Nel modo più assoluto.” McFay si era dichiarato d'accordo e aveva taciuto la sua inquietudine. Il capitano di un mercantile arrivato da poche ore, suo vecchio amico, gli aveva consegnato una lettera della madre di Malcolm nella quale gli si richiedeva un dettagliato rapporto confidenziale: Desidero sapere tutto quello che è accaduto dal giorno in cui questa Richaud è arrivata a Yokohama, Jamie. Ogni cosa, voci, fatti, pettegolezzi, e non c'è bisogno che vi dica che resterà un segreto tra noi. Dannazione, pensò Jamie, sono vincolato da un sacro giuramento a servire il tai-pan, chiunque egli sia, e ora sua madre vuole... Tuttavia una madre ha dei diritti, non è forse vero? Non sempre, ma la signora Struan ne ha perchè è la signora Struan e... be'... perchè sei abituato a obbedirle. Non esegui forse i suoi ordini da anni? Per l'amor di Dio, smettila di ingannare te stesso, Tess Struan è stata per anni a capo della ditta al posto di Culum. Perché nessuno ha mai voluto affrontare apertamente questa realtà? “E' vero” mormorò a voce alta, turbato da quel pensiero, che aveva sempre avuto paura di affrontare. Subito si pentì di quella distrazione e sentendosi a disagio cercò di camuffare il lapsus. Nessuno sembrava averlo notato. Nessuno eccetto Norbert Greyforth. “Su che cosa siete d'accordo, Jamie?” chiese nel brusio della conversazione con un sorrisetto insipido. “Niente, niente, Norbert. Eccezionale serata, vero?” Con suo grande sollievo Angélique venne a trarlo d'impaccio. “Buonanotte, buonanotte, Henri, signori” disse malgrado le proteste generali. “Mi dispiace ma devo andare a visitare il mio paziente prima di andare a dormire.” Tese la mano. Con un gesto esperto ed elegante Seratard gliela baciò; Norbert, Jamie e gli altri lo imitarono con minore eleganza. Battendo tutti sul tempo André Poncin disse: “Posso accompagnarvi a casa?”. “Naturalmente, perchè no? La vostra musica mi ha reso felice.” Il cielo era coperto e la notte fresca ma piacevole. Lo scialle di lana di Angélique era drappeggiato con grazia intorno alle spalle, la guarnizione della lunga gonna sfiorava con noncuranza la polvere dei marciapiedi di legno, indispensabili durante i mesi in cui le piogge estive trasformavano le strade in pantani. Angélique camminava distrattamente. “André, la vostra musica è magnifica, oh, come mi piacerebbe suonare come

voi” disse sinceramente. “E' soltanto questione di esercizio, esercizio.” Si avviarono verso il palazzo Struan, illuminato, chiacchierando amabilmente in francese. André, consapevole delle occhiate invidiose degli uomini che attraversavano la strada per recarsi al circolo, si sentiva riscaldato dalla vicinanza di lei non tanto per lussuria, passione o desiderio, quanto per il piacere della sua compagnia e delle sue allegre chiacchiere che non pretendevano risposte. La notte precedente a una cena “francese” organizzata da Seratard in una sala privata dell'albergo di Yokohama era stato seduto accanto a lei e la sua giovinezza e la sua apparente frivolezza lo avevano rianimato. L'amore e la conoscenza di Parigi, dei ristoranti e dei teatri, le chiacchiere sui suoi amici, i racconti delle loro passeggiate o cavalcate al Bois, tutta l'eccitazione del secondo impero insomma l'avevano riempito di nostalgia ricordandogli gli anni dell'università. Aveva trascorso troppi anni in Asia tra Cina e Giappone. E' strano come questa ragazza assomigli a mia figlia Marie, ha la stessa età, sono nate nello stesso mese, luglio, hanno gli stessi occhi, la stessa pelle... Si corresse: Forse assomiglia a Marie. Da quanti anni ho abbandonato Francoise insieme a nostra figlia, nella pensione della sua famiglia vicino alla Sorbona dov'ero arrivato come pensionante? Diciassette? Quanti anni sono passati da quando le ho viste per l'ultima volta? Dieci? Merde, non avrei mai dovuto sposare Francoise, incinta o no. Io sono stato lo stupido, non lei che almeno si è risposata e adesso gestisce la pensione. Ma Marie? Il rumore delle onde attirò la sua attenzione verso il mare. Sentì il grido di un gabbiano solitario. Non troppo lontane dalla riva si intravedevano le luci della loro ammiraglia all'ancora e ciò bastò a rompere l'incantesimo dei ricordi e a farlo concentrare sul presente. Gli sembrava ironico che quella ragazzetta stesse diventando una pedina importante nel Grande Gioco della Francia contro l'Inghilterra. Ironico eppure vero. Aspetto fino a domani o dopodomani oppure scopro subito le mie carte, come avevo deciso insieme a Henri? “Ah” stava dicendo Angélique agitando il ventaglio, “sono così felice questa notte, André, la vostra musica mi ha dato tanto, mi ha riportato all'Opéra, mi ha fatto sognare e persino sentire il profumo di Parigi...” Poncin ne era affascinato; è lei che mi incanta o mi piace pensare a quello che Marie avrebbe potuto essere? Non lo so. Ma non importa, Angélique, per questa sera ti lascerò nella tua nuvoletta rosa. Il domani verrà già troppo in fretta per te, Poi il vento gli portò il suo profumo, Vie de Camille, che gli ricordò la boccetta acquistata a Parigi per la

sua musume con tanta difficoltà, Hana, il Fiore, e una rabbia cieca e improvvisa spazzò via ogni impulso alla gentilezza e alla comprensione. Percorrevano High Street quasi deserta, nondimeno parlò a bassa voce. “Mi dispiace per quello che sto per dirvi ma ho delle notizie private che vi riguardano. Non c'è modo di far sembrare la cosa migliore di quel che è quindi arrivo subito al sodo... alcune settimane fa vostro padre è andato a Macao, ha giocato forte e ha perduto.” La vide impallidire. Pur essendone commosso continuò come aveva progettato insieme a Seratard. “Mi dispiace.” “Forte, André? Che cosa significa?” Le sue parole erano appena un sussurro; lui la vide fissarlo con gli occhi sbarrati. “Ha perduto tutto. I suoi affari, i vostri fondi.” Lei trattenne il respiro. “Tutto? Anche i miei fondi? Ma non può!” “Mi dispiace, può farlo e l'ha fatto. E' legale, siete sua figlia, per di più nubile e minorenne. Lui è vostro padre e quindi siete sotto la sua tutela e per la legge tutto ciò che possedete è suo. Mi dispiace. Avete altro denaro?” chiese pur sapendo di fare una domanda superflua. “Come?” Angélique rabbrividì. Cercò di essere lucida adesso che la seconda delle sue paure diventava realtà e lacerava il bozzolo protettivo che si era inventata. “Come? Come fate a saperlo?” balbettò annaspando in cerca d'aria. “I miei fondi sono miei... me lo ha promesso.” “Deve aver cambiato idea in seguito. E Hong Kong è come un paesino, non ci sono segreti a Hong Kong, Angélique, come non ce ne sono qui. Oggi è arrivato un messaggio inviato con un corriere da un socio d'affari di vostro padre con tutti i dettagli della vicenda. Il socio si trovava a Macao ed è stato testimone della rovina.” Continuò a parlarle con il tono sollecito di un amico fedele pur dicendole soltanto una parte della verità. “Quest'uomo e io, noi... noi siamo in possesso di alcuni documenti di vostro padre che riguardano prestiti ricevuti e mai restituiti.” Un'altra ondata di paura la assalì. “Mio padre non... non paga i debiti?” “No, temo di no.” Ripensò con angoscia alla lettera della zia e capì che il prestito non era stato ripagato e che forse era per questo che lo zio Michel si trovava in prigione, a causa... a causa mia, avrebbe voluto gridare. Si augurò che fosse soltanto un sogno. Oh Dio, oh Dio che cosa farò? “Volevo dirvi che se avete bisogno d'aiuto potete considerarmi a vostra disposizione. Mi dispiace.” All'improvviso Angélique parlò con una vocetta acuta. “Vi dispiace? Avete distrutto la mia pace, se quanto dite corrisponde al vero. Vi dispiace? Perché me lo avete detto questa sera mentre ero felice?”

“Ho ritenuto che fosse preferibile farvelo sapere al più presto. E che non lo veniste a sapere da un nemico.” Il bel volto della ragazza si contrasse in una smorfia. “Un nemico? Di quali nemici parlate? Perché dovrei avere dei nemici? Non ho fatto niente di male a nessuno, niente niente niente...” Scoppiò a piangere e Poncin la strinse per un istante tra le braccia provando una grande compassione, poi si riprese e la scrollò bruscamente. “Smettetela” le disse con durezza. “Smettetela subito, non capite che sto cercando di aiutarvi?!” Un gruppo di uomini si avvicinava con passo malfermo ma Poncin vide che erano troppo ubriachi per accorgersi di loro. Non c'era nessun altro nei pressi, soltanto qualche mercante diretto al circolo, e l'ombra di un palazzo li proteggeva alla vista di Occhi indiscreti. La scosse una seconda volta facendola gemere di dolore. “Mi fate male!” Tuttavia smise di piangere e sembrò tornare in sé. Almeno in parte, pensò André freddamente. Era un esperto di crisi di nervi perchè si era trovato in situazioni analoghe centinaia di volte, occupato a manipolare la verità e a esercitare la violenza psicologica su altri innocenti di cui si doveva servire per il bene della Francia. Trattare con gli uomini era molto più semplice, agli uomini basta un calcio nelle palle o la minaccia di tagliargliele, o di infilare qualche ago nel... Ma con le donne? E' riprovevole maltrattare le donne. “Siete circondata da nemici, Angélique. Sono in molti a non desiderare che il vostro matrimonio con Struan avvenga, sua madre combatterà con tutti i mezzi...” “Non ho mai detto che ci sposeremo, è... è un pettegolezzo, un pettegolezzo e nient'altro!” “Merde! Certo che vi sposerete! Non ha forse chiesto la vostra mano?” La scosse ancora stringendole le spalle con durezza. “Non è vero?” “Mi state facendo male, André, sì, sì, me lo ha chiesto.” Le tese un fazzoletto con deliberata gentilezza. “Ecco, tenete, asciugatevi gli occhi, non c'è molto tempo.” Lei ubbidì, riprese a piangere, si controllò. “Perchéssssietecosìorrrrribile?” “Sono l'unico amico che avete in questo paese, sono dalla vostra parte, pronto ad aiutarvi, sono l'unico di cui vi possiate fidare davvero l'unico, lo giuro, l'unico in grado di fare qualcosa per voi.” In altre situazioni avrebbe aggiunto con trasporto: Lo giuro su Dio, ma in questo caso decise che non era necessario arrivare a tanto, poteva sempre dirlo in un altro momento. “E' meglio conoscere la verità prima degli altri così avrete il tempo per prepararvi. La versione ufficiale dell'accaduto arriverà soltanto tra una settimana, perciò avrete il tempo per rendere il vostro fidanzamento

ufficiale e solenne.” “Come?” “Struan non è forse un gentiluomo?” Poncin mascherò con difficoltà il ghigno beffardo che era comparso sul suo volto. “Un gentiluomo inglese, pardon, scozzese, insomma britannico? Non sono forse costoro uomini che onorano la parola data? Quando la promessa sarà resa pubblica non potrà più tornare sui suoi passi, qualunque sia la vostra dote, qualunque reato abbia commesso vostro padre, qualunque cosa dica sua madre.” Lo so, lo so, avrebbe voluto urlare Angélique. Ma io sono una donna e devo aspettare, ho aspettato infatti e adesso è troppo tardi. Oppure no? Oh, Madre Benedetta, aiutami tu! “Io non... non credo che Malcolm attribuirà a me le colpe di mio padre, né tantomeno che presterà ascolto alla madre.” “Temo che invece dovrà farlo, Angélique, non dimenticate che pur essendo tai-pan è anche lui minorenne. Compirà i ventun anni soltanto in maggio. Fino a quel momento la signora Struan potrà imporre tutte le limitazioni che riterrà necessarie, e la legge inglese le consentirebbe persino di annullare il fidanzamento.” Non ne era del tutto sicuro ma poiché ciò valeva per la legge francese gli sembrava ragionevole che potesse adattarsi anche a questo caso. “Potrebbe rivalersi anche contro di voi, magari intentarvi un processo” aggiunse in tono fintamente triste. “In Asia gli Struan sono potenti, dominano praticamente incontrastati. Potrebbe denunciarvi... e sapete cosa si dice dei giudici, no? Potrebbe trascinarvi davanti a un magistrato con l'accusa di aver irretito e ingannato suo figlio perchè volevate mettere le mani sul suo denaro... o peggio. Potrebbe dipingere un ritratto spaventoso, e voi lì sul banco degli imputati, la figlia di un giocatore d'azzardo, un bancarottiere eccetera, con uno zio in prigione per debiti, senza soldi, un'avventuriera insomma.” Lei lo guardò con aria stanca. “Come sapete dello zio Michel? Chi siete in realtà, André?” “Non ci sono trucchi, Angélique” rispose lui con disinvoltura. “Quanti cittadini francesi risiedono in Asia? Non molti, e soprattutto non molti appariscenti come voi. E la gente apprezza i pettegolezzi. In quanto a me io sono soltanto André Poncin, mercante in Cina e Giappone. Non avete nulla da temere da me. Non voglio che amicizia e fiducia e in cambio vi aiuterò.” “E in che modo? La mia situazione è troppo drammatica.” “Non lo è invece” rispose Poncin a bassa voce fissandola negli occhi. “Voi lo amate, non è vero? E se ve ne fosse data l'opportunità sareste per lui la migliore moglie del mondo, giusto?” “Sì, sì, certo ...” “Allora fategli fretta, incantatelo, convincetelo, fate tutto il possibile per

rendere pubblico il vostro fidanzamento. Forse sono in grado di darvi dei consigli anche a questo proposito. “ Finalmente lei lo ascoltava e cominciava a capire le sue parole. Con leggerezza scagliò il colpo di grazia. “Una donna saggia, e voi siete saggia almeno quanto bella, arriverebbe al matrimonio al più presto. Al più presto,” Struan leggeva alla luce della lampada a olio sul comodino. La porta comunicante con l'appartamento di Angélique era socchiusa, il letto abbastanza confortevole, la storia che stava leggendo appassionante. La camicia da notte di seta metteva in risalto i suoi occhi e il pallore del bel viso, ancora debole. Sul comodino c'erano il sonnifero, pipa, tabacco e fiammiferi e un bicchiere di whisky allungato con molta acqua. “Ti farà bene” gli aveva detto Babcott. “E' la miglior medicina contro l'insonnia, se lo si allunga. Molto meglio del laudano. “ “Se non prendo il laudano resto sveglio tutta la notte e mi sento male.” “Sono passati diciassette giorni dall'incidente, Malcolm. E' arrivato il momento di smettere perchè contare su un medicamento per dormire è nocivo alla salute. E' molto meglio fermarsi in tempo.” “Ci ho provato ma non ci sono riuscito. Smetterò tra un paio di giorni...” Le tende alle finestre erano state tirate per escludere la notte e la stanza era molto confortevole. Il tic-tac del pendolo svizzero segnava pacifico il tempo. Era quasi l'una di notte, e il libro che stava appassionando Malcolm, Gli omicidi della Rue Morgue, gli era stato prestato quella mattina da Dmitri. “Credo che ti piacerà, Malc, è quello che chiamano un giallo, ed Edgar Allan Poe è uno dei nostri più bravi scrittori, anzi farei meglio a dire era perchè è morto nel '49, l'anno dopo la Corsa all'Oro. Ho una raccolta completa delle sue opere, racconti, romanzi e poesie, se questo ti piace. “Grazie, sei molto gentile. Sei davvero gentile a passare a trovarmi tanto spesso. Ma perchè sei depresso oggi, Dmitri? “Ho ricevuto brutte notizie da casa. I miei... va tutto male a casa, Malc, c'è una grande confusione, cugini, fratelli, zii schierati sugli opposti fronti. All'inferno, certo non hai voglia di ascoltare questi discorsi. Sta' a sentire, ho molti altri libri, anzi potrei quasi dire di disporre di una biblioteca. “Continuo a parlarmi della tua famiglia” aveva risposto Malcolm lottando contro il dolore che inaugurava una nuova giornata di sofferenze. “D'accordo, come vuoi tu. Bene, quando il nonno e la sua famiglia arrivarono negli Stati Uniti dalla Russia, dalla Crimea per essere precisi non ti avevo mai detto che siamo cosacchi?, si stabilirono in un posticino che si chiamava

Far Hills, nello stato del New Jersey, e li fecero gli agricoltori fino alla guerra del 1812, quando il nonno venne ucciso. Era un gran bel posto anche per allevare cavalli e così la famiglia prosperò. Restarono tutti nel New Jersey eccetto due figli del nonno che si trasferirono più a sud, a Richmond, in Virginia. Quand'ero nell'esercito, parlo di quindici anni fa, e allora era soltanto l'esercito dell'Unione, non c'erano divisioni fra Nord e Sud, restai in Cavalleria per cinque anni, soprattutto nel Sud e nel Sud-ovest, nelle guerre indiane, se sai di che cosa parlo. Trascorsi più di un anno nel Texas, che era ancora una repubblica, ad aiutarli a eliminare tutti gli indiani, poi dopo un altro paio d'anni, nel '45, il Texas entrò a far parte dell'Unione. Comunque noi eravamo di stanza a Austin e fu lì che incontrai mia moglie, Emilie, anche lei è di Richmond, suo padre era colonnello degli Approvvigionamenti. Quello era proprio un bel posto, i dintorni di Austin, ma quelli di Richmond sono ancora più belli. Emilie... Hai bisogno di qualcosa?” “No, no grazie, Dmitri, passerà. Vai avanti, se non ti dispiace... Il tuo racconto mi aiuta molto.” “D'accordo, come vuoi tu. Dunque la mia Emilie, Emilie Clemm si chiamava, era una lontana cugina della moglie di Poe, Virginia Clemm, e quando lo scoprii mi procurai tutti i suoi libri.” Dmitri rise. “Poe era un grande scrittore ma anche un ubriacone e un donnaiolo. Sembra che tutti gli scrittori siano barboni, alcolisti e fornicatori, prendi Melville per esempio, forse è per questo che diventano scrittori mentre io invece non riesco a finire una lettera senza sudare sette camicie. E tu?” “Oh, scrivere lettere non rappresenta un problema per me, devo farlo, e tengo un diario come la maggior parte della gente. Che cosa stavi dicendo su questo Poe?” “Stavo per raccontarti che aveva sposato Virginia Clemm quando lei i aveva tredici anni, erano cugini per di più, figurati, e che hanno vissuto sempre felici e contenti, ma forse non del tutto felici e contenti se quello che dicono i giornali e le voci è vero. Lui doveva essere un bel figlio di puttana ma a lei la cosa non sembrava dare fastidio. La mia Emilie non aveva tredici anni bensì diciotto ed era una vera bellezza del Sud. Ci sposammo quando mi congedai dall'Esercito ed entrai alla Cooper-Tillman a Richmond. Volevano espandere i loro commerci agli armamenti e alle munizioni per l'Asia, di cui io ero un esperto. Sapevo tante cose sull'Asia, su come si spara a un indiano e su come si alleva un cavallo. Il vecchio Jeff Cooper pensava che fucili e altre merci esportate da Norfolk, in Virginia, potessero essere scambiate con l'oppio da rivendere lungo la costa cinese e

con argento e tè da riportare a Norfolk, ma tu conosci Jeff. Cooper-Tillman e gli Struan sono vecchi amici, giusto?” “ Si, e spero che rimanga così. Va' avanti.” “Non c'è molto altro da dire. Nel corso degli anni altri membri della famiglia si trasferirono nel Sud stabilendosi in diversi stati. Mia madre veniva dall'Alabama, ho due fratelli e una sorella tutti più giovani di me. Adesso Billy è con il Nord, 1° Cavalleggeri del New Jersey, e il piccolo Janny, ha preso il nome dal nonno, Janov Syborodin, anche Janny è con i cavalleggeri ma con il 3° Reggimento della Virginia, Battaglione d'assalto. E' una stupidaggine, quei due non sanno niente della guerra e si faranno solo ammazzare, ne sono certo. “Tu non... non pensi di tornare?” “Non lo so, Malc. Durante il pomeriggio e la sera penso di si, al mattino quando mi sveglio decido di no, che non ho alcuna intenzione di uccidere i miei fratelli e che non mi importa da che parte stiano.” “Perché sei partito per venire in quest'angolo di mondo dimenticato da Dio?” “Emilie morì. Prese la scarlattina durante un'epidemia e non riuscì a superarla. Questo accadeva nove anni fa, aspettava un figlio.” “Che sfortuna!” “Sì. Tu e io abbiamo avuto la nostra parte...” Struan era talmente concentrato nella lettura del libro di Dmitri che non sentì la porta che si apriva né Angélique che in punta di piedi si affacciava per un istante. Subito dopo la porta comunicante venne chiusa. Malcolm alzò gli occhi e ascoltò i rumori che giungevano dalla camera attigua. Angélique gli aveva detto che sarebbe passata a trovarlo e che se non fosse stato addormentato l'avrebbe salutato, o che se fosse stata troppo stanca sarebbe andata subito a letto, buona buona. “Non preoccuparti, cara” l'aveva rassicurata lui, “ci vedremo a colazione. Dormi bene e pensa che ti amo. “ “Anch'io ti amo, chèri. Sogni d'oro.” Il libro adesso giaceva nel grembo di Malcolm. Con uno sforzo riuscì a mettersi a sedere sul letto e appoggiò i piedi sul pavimento. Quella posizione era appena sopportabile ma di alzarsi non se ne parlava. Alzarsi in piedi era ancora al di là delle sue possibilità. Il cuore gli batteva forte e con un senso di nausea tornò a sdraiarsi. Tuttavia gli sembrava di notare ogni giorno un piccolo progresso: Devo applicarmi di più, indipendentemente da quello che dice Babcott, si ripeté cupo massaggiandosi il ventre. Domani farò un altro tentativo, anzi domani ne farò tre. Forse non servono a niente. Ma voglio stare con lei e Dio dovrà aiutarmi quando succederà. Quando si sentì meglio riprese a leggere felice di avere quel libro appassionante; tuttavia adesso la storia non lo assorbiva come prima, e la

sua attenzione vagava permettendo alla mente di mescolare immagini prese dal libro alla realtà; immaginò che qualcuno stava per assassinare Angélique, e cadaveri, e si vide correre a proteggerla, e altre immagini ancora, sempre più erotiche. Infine ripose il libro utilizzando come segnalibro una pagina che Angélique aveva strappato al suo diario. Mi chiedo che cosa scriva, so che è molto diligente. Scrive di noi due? Noi due? Ora era molto stanco. Allungò una mano per spegnere la lampada ma la trattenne sul comodino. Il piccolo bicchiere che conteneva una notte di sonno felice lo tentava. La mano tremò. Babcott ha ragione, non ne ho bisogno. Spense la luce con fermezza, si sdraiò e chiuse gli occhi pregando per Angélique e per tutti gli Struan, per ottenere la benedizione di Tess e infine pregò per se stesso. Oh Dio, aiutami a guarire... ho paura, molta paura. Ma il sonno non voleva saperne di arrivare. Rigirarsi nel letto per trovare una posizione confortevole significava soltanto acuire il dolore e il dolore gli faceva pensare 92a Tokaidò e a Canterbury. Nel dormiveglia la sua mente era affollata di immagini macabre prese in prestito dal libro. Come sarebbe andata a finire la storia? Immagini d'ogni tipo, alcune belle, altre brutte, alcune vivide, mentre anche il più piccolo movimento portava con sé ondate di terribile sofferenza. Il tempo passò, un'ora o qualche minuto, e infine bevve l'elisir e si rilassò contento, sapendo che ben presto avrebbe cominciato a volteggiare su una sottile ragnatela mentre Angélique lo accarezzava, o lui accarezzava lei, sul seno e ovunque, e ne veniva ricambiato, si, morbide appassionate carezze date non soltanto con le mani.

Capitolo 15 †

Venerdì, 3 ottobre Appena dopo l'alba Angélique si alzò e prese posto davanti alla toeletta, accanto alla finestra che si affacciava su High Street e sul porto. Era molto stanca. Nel cassetto c'era il suo diario con la copertina di pelle rosso chiaro e un lucchetto. Prese la chiave del cassetto dal nascondiglio e lo aprì, aprì il diario e dopo aver immerso la penna nell'inchiostro cominciò a scrivere. In quei giorni il diario le sembrava il suo unico amico, l'unico di cui potesse davvero fidarsi: Venerdì 3: un'altra brutta notte. Mi sento orribile. Sono passati quattro giorni da quando André mi ha dati le tremende notizie sul conto di papà. Da allora non sono più riuscita a scrivere né a fare niente, ho chiuso la porta e me ne sono rimasta a letto fingendo d'avere la febbre e alzandomi solo un paio di volte al giorno per andare a trovare il mio Malcolm e per placare la sua ansia, ma tenendo chiusa la porta per tutti eccetto la mia cameriera, che odio. Ho visto una volta Jamie e una volta André. Povero Malcolm, il primo giorno era fuori di sé quando non sono comparsa e mi sono rifiutata di aprire la porta e ha minacciato di farsi portare su una barella nel mio boudoir per vedermi, anche se avessero dovuto abbattere i muri per farlo passare. Sono riuscita a prevenirlo costringendomi ad andare da lui per dirgli che stavo bene e avevo soltanto un forte mai di testa e che... no... non avevo bisogno di Babcott, e non si doveva preoccupare delle mie lacrime. In privato gli ho fatto capire che si trattava di “quei giorni” e che a volte ne soffrivo perchè erano irregolari. Il fatto di accennare alle mestruazioni lo imbarazzava da morire! Da morire! Come se non ne avesse mai sentito parlare. Certe volte non lo capisco affatto anche se è così gentile e attento, l'uomo più gentile e attento che io abbia mai conosciuto. Un'altra preoccupazione: in verità il poverino non è molto migliorato e soffre tanto che certi giorni mi vien voglia di piangere. Madre Benedetta, dammi la forza! E poi c'è l'altra preoccupazione. Cerco di non pensarci ma sono in preda al panico. Il giorno si avvicina. Mi libererò di quel terrore ma non dalla povertà.

Riprese a scrivere: E' così difficile avere un pò di intimità nel palazzo degli Struan benché sia molto confortevole, mentre l'Insediamento è orrendo. Non c'è un parrucchiere né una sarta per signora (anche se ho un sarto cinese molto abile nel copiare), nessuna modista, non ho ancora provato il calzolaio, non c'è nessun posto dove andare e niente da fare. Oh, quanto mi manca Parigi! Ma come farò a vivere in Francia? Se ci sposassimo, Malcolm sarebbe disposto a trasferirsi? Lo escludo. E se non ci sposassimo... come farò a pagarmi il biglietto di ritorno a casa? Come? Me lo sono domandato migliaia di volte ma non ho mai trovato una risposta. Il suo sguardo lasciò il foglio bianco per spaziare oltre la finestra, sulle navi all'attracco nella baia. Vorrei essere a bordo di una di quelle navi, in procinto di tornare a casa, vorrei non essere mai venuta qui. Odio questo posto... E se... se Malcolm non mi sposa dovrò ripiegare su qualcun altro... e non ho dote, niente. Oh Dio, non era questo quello in cui speravo. Se riuscissi a tornate a casa il problema dell'indigenza non sarebbe risolto, i miei poveri zii sono rovinati. Colette non ha niente da prestarmi, non conosco nessuno da sposare che sia ricco o famoso o che sia abbastanza importante per fare di me la sua favorita. Potrei prendere la strada del palcoscenico ma è necessario avere un produttore che corrompa i direttori dei teatri e paghi le commedie e tutti i vestiti e i gioielli e le carrozze, per non parlare dell'affitto di un palazzo sontuoso per le soirée, e ovviamente dovrei andare a letto con il produttore a suo piacere fino a quando non diventassi ricca e famosa e per quello ci vuole tempo, e non ho conoscenze né amici che ne abbiano. Oh, cielo, sono così confusa. Penso che piangerò ancora... Nascose il volto tra le braccia e pianse, attenta a non fare rumore per non essere sentita dalla cameriera che altrimenti avrebbe sollevato un putiferio, come il primo giorno. Angélique indossava una camicia da notte di seta color crema e una vestaglia verde pallido, aveva i capelli arruffati e formava uno strano contrasto con quella stanza mascolina con l'enorme letto a quattro colonne, la camera da letto più grande del palazzo. Su un lato dell'anticamera che collegava l'appartamento di Angélique a quello di Malcolm si apriva una sala da pranzo che poteva ospitare fino a venti persone sedute, con cucina annessa.

Ma le porte erano state chiuse a chiave. La toeletta era l'unica nota frivola nell'arredo e Angélique l'aveva fatta ricoprire di satin rosa. Quando smise di piangere si asciugò gli occhi e in silenzio studiò il riflesso nello specchio d'argento. Nessuna ruga, nessun'ombra, era solo un pò più magra di prima ma non si notava alcun sostanziale cambiamento. Sospirò prima di riprendere a scrivere: Piangere non serve. Oggi devo parlare con Malcolm. Devo e basta. André mi ha detto che il postale è già in ritardo di un giorno e che il resoconto della mia catastrofe sarà a bordo. Perché una nave è femminile e il postale è maschile? Sono terrorizzata all'idea che vi sia a bordo anche la madre di Malcolm. Le notizie del ferimento devono essere arrivate a Hong Kong il 24, il che le avrebbe dato tutto il tempo necessario per organizzare la partenza. Jamie dubita che possa aver lasciato Hong Kong con un preavviso tanto breve perchè ha altri tre figli a cui badare, ed essendo morto il marito da sole tre settimane la poveretta è ancora in pieno lutto. Quando Jamie è venuto a trovarmi, era la prima volta che gli parlavo in privato, mi ha raccontato un sacco di storie sugli altri Struan. Emma ha sedici anni, Rose tredici e Duncan dieci, e tante storie tristi sulla loro famiglia: l'anno scorso i due gemelli Robb e Dunross di sette anni sono annegati in un incidente di barca, al largo di un posto che si chiama ShekO, a Hong Kong, dove gli Struan hanno delle terre e una casa per le vacanze estive. E anni fa, quando Malcolm aveva sette anni, un'altra sorella di quattro, Mary, è morta per la febbre di Happy Valley. Poverina, ho pianto tutta la notte pensando a lei e ai due gemelli. Così piccoli! Jamie mi piace ma è così noioso, così rozzo, cioè goffo, ecco, non è mai stato a Parigi e conosce soltanto la Scozia e la famiglia Struan e Hong Kong. Mi domando se non potrei insistere nel caso che... [Cancellò le ultime parole e riscrisse:] Mi chiedo se quando saremo sposati [la penna esitò] potrò insistere per trascorrere qualche settimana a Parigi con Malcolm ogni anno e per farvi crescere i bambini in un collegio cattolico. André e io abbiamo parlato, proprio ieri del fatto che sono cattolica, è molto gentile e mi distrae coi suoi discorsi e con la musica dai miei problemi, e del fatto che la signora Struan è una calvinista e abbiamo parlato di quello che dovrò dire quando arriverà il momento. Parlavamo a voce molto bassa, oh, sono così fortunata ad averlo come amico e a essere stata avvertita delle disgrazie di mio padre, quando all'improvviso ha portato un dito alle labbra, è andato di corsa verso la porta e l'ha spalancata di colpo. Quella vecchia megera di Ah-Tok, la amah di Malcolm, era li con l'orecchio incollato e quasi è caduta nella stanza.

André parla un pò di cantonese e l'ha mandata via. Quando più tardi ho visto Malcolm non la finiva più di scusarsi. Non è importante, ho detto io, la porta non era chiusa e la mia cameriera si trovava nega stanza come è corretto che sia, nel ruolo di chaperon, ma se Ah-Tok vuole spiarmi dille per favore di bussare ed entrare. Ammetto di essere stata distante e fredda con Malcolm mentre lui faceva l'impossibile per essere gentile e calmarmi ma mi sento così, anche se devo confessare che André mi ha consigliato di comportarmi in questo modo soltanto fino a quando il fidanzamento non sarà pubblico. Ho dovuto chiedere ad André, ho dovuto purtroppo chiedergli un prestito... è stato orribile. E' la prima volta che faccio una cosa simile ma ho un bisogno disperato di liquidi. E' stato gentile e mi ha detto che domani gli porterà venti luigi in cambio di una firma, più che sufficienti per le piccole spese di una settimana o due. Malcolm non sembra nemmeno rendersi conto che ho bisogno di soldi e non volevo essere io a chiederglieli... E' vero che cercando di trovare una via di scampo a quest'incubo ho quasi sempre mal di testa. Non c'è nessuno di cui mi possa fidare totalmente, nemmeno André, anche se fino a questo momento si è dimostrato affidabile. E tutte le volte che cerco di fare a Malcolm il discorsetto che mi sono ripetuta mille volte so già che le parole uscirebbero forzate, piatte e tremende, così non dico niente. “Che cosa c'è, cara?” continua a chiedermi. “Niente” rispondo io. Poi dopo averlo salutato richiudo la porta e piango per ore nel cuscino. Ho paura che il dolore mi faccia impazzire... Come ha potuto mio padre mentirmi, ingannarmi e rubarmi i soldi? E perchè Malcolm non mi dà del denaro senza costringermi a chiederlo, perchè non me ne offre un pò che io possa poi fingere di rifiutare e infine accettare ben contenta? Non sono questi i doveri di un fidanzato e di un marito? Non è dovere di un padre proteggere l'amata figlia? E perchè Malcolm continua a rimandare il momento di rendere pubblico il nostro fidanzamento? Ha forse cambiato idea? Oh Dio, fa' che questo non succeda... Angélique smise di scrivere e ricominciò a piangere lasciando cadere alcune lacrime sulla pagina. Asciugò gli occhi, sorseggiò dell'acqua da un bicchiere e poi riprese: Oggi gli parlerò. Devo farlo oggi. C'è una buona notizia: alcuni giorni fa con grande gioia di tutti l'ammiraglia britannica è tornata sana e salva in porto. Senza navi da guerra siamo piuttosto indifesi. La nave era malridotta e aveva perso un albero. Subito dopo sono arrivate tutte le altre eccetto la fregata con venti cannoni Zephyr, con a bordo più

di duecento persone. Ma forse sono in salvo, lo spero. Il giornale locale dice che durante il tifone sono morti cinquantatré marinai e due ufficiali. E stato terribile, la peggior tempesta che io abbia mai visto. Ero terrorizzata. Pensavo che l'intero palazzo fosse sul punto d'essere spazzato via, invece si è dimostrato solido come Jamie McFay. Il quartiere dove abitano gli indigeni è andato quasi interamente distrutto e ci sono stati molti incendi. La fregata Pearl ha subito dei danni e ha perso un albero. Ieri mi è arrivato un biglietto da parte del capitano Marlowe: Ho saputo che siete ammalata e vi invio i miei più sentiti e sinceri auguri di pronta guarigione, eccetera. Non credo che Marlowe mi piaccia, è troppo borioso anche se l'uniforme gli dà un'aria elegante e virile, è l'effetto inevitabile dei calzoni aderenti, proprio come noi donne ci vestiamo in modo di mettere in mostra il seno e la vita e le caviglie. Ieri sera è arrivata una lettera da Settry Pallidar, è la seconda che mi manda, con tanti auguri, eccetera. Penso di odiare entrambi. Ogni volta che penso a loro mi torna alla mente quell'inferno chiamato Kanagawa e che non mi hanno protetto quando sarebbe stato necessario. Phillip Tyrer è ancora alla Legazione di Edo ma secondo Jamie dovrebbe arrivare domani o dopodomani. Questo mi fa molto piacere perchè quando arriva ho intenzione di... Il rombo di un cannone la fece sobbalzare sulla sedia richiamando la sua attenzione verso il porto. Era il cannone segnaletico. Da un punto imprecisato nel mare un altro cannone rispose. Scrutando oltre la flotta, vide all'orizzonte il fumo della ciminiera del postale che si stava avvicinando. Con una valigia zeppa di posta sotto il braccio, Jamie McFay guidava uno straniero lungo la scalinata di palazzo Struan mentre il sole inondava l'atrio attraverso le alte ed eleganti finestre. Benché la giornata fosse particolarmente calda i due uomini indossavano finanziera e cilindro. Lo straniero aveva con sé una valigetta. Era un uomo di circa cinquant'anni, piuttosto tozzo, poco attraente e con una barba folta, alto all'incirca come Jamie ma con le spalle più ampie, e un lungo ciuffo ribelle di capelli grigi e ispidi che sfuggiva da sotto il cappello. Percorso il corridoio, McFay bussò due colpi leggeri alla porta di Malcolm. “Tai-pan?” “Entrate, Jamie, è aperto.” Struan guardò il nuovo arrivato e senza neppure salutarlo chiese: “C'è anche mia madre, dottor Hoag?”. “No, Malcolm.” Il dottor Ronald Hoag notò il sospiro di sollievo del giovane Struan e, pur comprendendone le ragioni, ne fu rattristato. Tess Struan aveva avuto parole dure per la “sgualdrina straniera” che a suo

parere aveva irretito il figlio. Nascondendo la preoccupazione che la magrezza e il pallore di Malcolm gli suscitarono, Hoag appoggiò il cilindro sullo scrittoio, accanto alla valigetta. “Mi ha chiesto di venire a trovarti” disse con una voce profonda e gentile, “di scoprire se potevo esserti utile e riportarti a casa, se hai bisogno di scorta.” Hoag era il medico di famiglia da quindici anni e aveva fatto nascere gli ultimi quattro fratelli di Malcolm. “Come stai?” “Io... Il dottor Babcott si è occupato di me. Sto... sto bene. Grazie di essere venuto, mi fa piacere vederti.” “Fa piacere anche a me essere qui. George Babcott è un buon medico, non ce ne sono di migliori.” Hoag sorrise socchiudendo i piccoli occhi color topazio e contraendo il volto rugoso e scuro, e in tono discorsivo continuò: “Viaggio schifoso, ci ha preso la coda del tifone facendoci quasi affondare; ho passato tutto il tempo a ricucire marinai e i pochi passeggeri, e soprattutto a riaggiustare ossa rotte. Abbiamo perso due uomini in mare, un passeggero cinese di terza classe e uno straniero di cui non abbiamo scoperto l'identità. Secondo il capitano l'uomo aveva pagato il biglietto a Hong Kong bofonchiando un nome qualsiasi. E' stato quasi tutto il tempo in cabina e quando è venuto sul ponte, puff, un onda se l'è portato via. Malcolm, hai un aspetto migliore di quel che avevo immaginato sentendo le voci che sono arrivate nella colonia.” Jamie lo interruppe. “Vi lascerò soli” disse. Appoggiò un mucchio di lettere sul comodino. “Qui c'è la vostra posta personale, porterò i libri e i giornali più tardi.” “Grazie.” Malcolm lo guardò. “Qualcosa di importante?” “Due da vostra madre. Le ho messe sopra.” Il dottor Hoag cercò in una delle sue voluminose tasche e ne estrasse una busta stropicciata. “Qua ce n'è un'altra da Tess, Malcolm, è stata scritta dopo le altre due. Potresti leggerla e poi ti darò un'occhiata, se me lo consentì. Jamie, non dimenticate Babcott.” Jamie aveva già raccontato al dottor Hoag che Babcott era a Kanagawa in missione e che l'avrebbe mandato a prendere con una lancia appena possibile. “Ci vediamo più tardi, tai-pan.” “No, aspettate un momento, Jamie.” Struan aprì la lettera che gli aveva dato Hoag e cominciò a leggerla. Quando Jamie era arrivato sul ponte del postale il dottor Hoag gli aveva consegnato tutta la posta della Struan. “No, Jamie” l'aveva tranquillizzato subito, “la signora Struan non è a bordo, c'è soltanto una sua lettera.” La lettera diceva semplicemente: Jamie, fai tutto quello che Hoag ti chiede e

mandami rapporti dettagliati e confidenziali con ogni postale. “Sapete che cosa c'è scritto, dottore?” “Non l'ho letta ma conoscendo la signora posso immaginarne il contenuto. “Come sta?” Hoag rifletté un istante prima di rispondere. “Come sempre: apparentemente imperturbabile ma con dentro un vulcano. Un giorno esploderà, nessuno può trattenere tanta tristezza, tante tragedie, nessuno. Nemmeno lei.” Aveva seguito Jamie lungo il barcarizzo con l'impressione di essere osservato da mille occhi. “Devo confessare che quest'opportunità di visitare il Giappone mi rende felice. Voi sembrate in buona forma, Jamie. L'incarico vi si confà certamente. Vediamo, è passato quasi un anno dalla vostra partenza, vero? Raccontatemi tutto dunque, dell'omicidio”, e della signorina Richaud.” Prima che arrivassero a riva il dottor Hoag era stato messo al corrente di tutto quello che Jamie sapeva: “Ma per favore”, aggiunse quest'ultimo a disagio, “vi prego di non fare parola con Malcolm di quello che vi ho raccontato sul conto di Angélique, è una ragazza splendida e ha anche avuto delle brutte esperienze, e non penso davvero che lei e Malcolm abbiano fatto qualcosa di male. Tutti dicono che si siano fidanzati segretamente, comunque lui è innamorato e non posso rimproverarlo per questo, chiunque lo sarebbe al posto suo. Detesto l'idea di spedire alla signora Struan dei rapporti confidenziali sulla vita privata del figlio e lo detesto per ovvie ragioni. Comunque ne ho già scritto uno, in versione mitigata, che partirà domani con la nave. La mia fedeltà va innanzitutto a Malcolm che è il tai-pan.” Guardando Malcolm Struan a letto intento a leggere la lettera che Hoag gli aveva dato, McFay incominciò a interrogarsi sul futuro di quel giovane dal volto esangue e dal corpo privo di forze. Rivolse al cielo una silenziosa preghiera. Struan alzò lo sguardo e lo fissò. “Che cosa c'è, Jamie?” “Volevate affidarmi un incarico?” “Sì” rispose Malcolm dopo una pausa, “lasciate un messaggio alla Legazione francese dove dovrebbe trovarsi Angélique. Mi ha detto che andava a ritirare la sua posta. Se la trovate ditele che vorrei farle conoscere un vecchio amico appena arrivato da Hong Kong.” McFay annuì con un sorriso. “Già fatto. Chiamatemi se avete bisogno di qualsiasi cosa.” Li lasciò. Struan osservò la porta con un senso di disagio. Il volto di Jamie era persino troppo facile da decifrare. Cercando di ritrovare la calma tornò a dedicarsi alla lettera.

Malcolm, caro figlio mio, solo un biglietto in gran fretta giacché Ronald Hoag sta per salire a bordo del postale che ho trattenuto perchè lui potesse arrivare e tu potessi avere le cure migliori. Mi ha sconvolta sapere di quei porci e dell'attacco che hai subito. Secondo Jamie questo dottor Babcott ha dovuto operare... ti prego di scrivermi appena puoi e spedire con ogni espresso postale e ti prego di tornare a casa al più presto perchè ci si possa curare di te nel modo più adeguato. Ti mando il mio amore e le mie preghiere insieme a Emma, Rose e Duncan. P.S.: Ti voglio bene. Alzò lo sguardo. “Dunque?” “Dunque? Dimmi la verità, Malcolm. Come stai?” “Mi sento malissimo e ho paura che morirò.” Hoag sedette in poltrona e fece schioccare le dita. “Che ti senta male è comprensibile, che tu possa morire non è necessario anche se non è impossibile, anzi è molto, molto facile e molto, pericoloso credervi. I cinesi sono capaci di “farsi morire”, possono trascinarsi nel pensiero nella morte anche se in buona salute, l'ho visto succedere.” “Cristo, ma io non voglio morire, ho tutti i motivi per voler vivere. Voglio vivere e star bene, non puoi nemmeno immaginare quanto, ma a un certo punto della notte o del giorno il pensiero arriva... si abbatte su di me come un maglio.” “Che medicine stai prendendo?” “Solo una cosa... con dentro del laudano... per aiutarmi a dormire. Il dolore è violento e mi rigiro nel letto.” “La prendi tutte le sere?” “Sì.” E poi in tono di scusa Struan aggiunse: “Babcott vuole che smetta di prenderlo, dice che oh... che dovrei smettere”. “Ci hai provato?” “Si.” “Ma non ci sei riuscito?” “No, non ancora, sembra che la mia volontà mi abbandoni.” “E' una delle controindicazioni, per quanto sia un medicamento prezioso e anche molto piacevole.” Sorrise. “Laudano è il nome dato a questa panacea da Paracelso. Sai chi è Paracelso?” “No.” “Neanch'io” disse Hoag ridendo. “Comunque abbiamo tenuto il suo nome per questa tintura di oppio. Peccato che tutti i derivati dell'oppio diano assuefazione. Ma a questo punto lo hai capito anche tu.” “Sì.”

“Comunque possiamo tirarti fuori, non è questo il problema.” “Invece lo è, so anche questo e so che voi continuate a non approvare il nostro commercio di oppio.” Hoag sorrise. “Sono contento che sia tu a dirlo. Ma nemmeno tu lo approvi, nessun mercante in Cina lo approva ma siete tutti in trappola. Comunque per ora tralasciamo le discussioni economiche o politiche, Malcolm. Seconda questione, la signorina Richaud?” Struan si sentì salire il sangue alla testa. “Stammi a sentire una volta per tutte: qualsiasi cosa dica mia madre sono abbastanza adulto per sapere quello che voglio e per fare quello che voglio! E' chiaro?” Hoag sorrise con benevolenza. “Io sono il tuo medico, Malcolm, non tua madre, e sono anche tuo amico. Ho mai tradito te o qualche membro della tua famiglia?” Seppure con evidente sforzo Struan riuscì a controllare la sua ira, anche se il cuore continuava a battergli all'impazzata. “Mi dispiace, mi dispiace ma io ...” scrollò le spalle. “Mi dispiace.” “Non è necessario. Non è mia intenzione interferire nella tua vita privata, tuttavia la tua salute dipende da molti fattori e a quanto pare questa donna è un elemento fondamentale. Da qui la mia domanda. Chiedo ragioni mediche, non familiari. Dunque questa signorina Angélique Richaud?” S truan avrebbe voluto suonare virile e calmo ma non potendo contenere il suo senso di frustrazione sbottò: “Voglio sposarla e starmene qui sdraiato come un... come un incapace mi fa impazzire. Per l'amor di Dio non riesco nemmeno a scendere dal letto, non posso pisciare né... non posso fare un accidente di niente, non posso nemmeno bere o mangiare qualcosa senza sentire un male da cani. Sto diventando matto e per quanto faccia non sembra che ci sia alcun miglioramento ...” Imprecò fino a ridursi senza forze mentre Hoag si limitava ad ascoltare. Infine, dopo essersi scusato, Malcolm tacque. “Posso darti un'occhiata?” “Sì... sì certo.” Hoag lo esaminò con grande cura; lo auscultò per sentire in che condizioni era il cuore, esaminò la lingua, sentì il polso, scrutò e annusò la ferita. Palpò lo stomaco e il ventre cercando gli organi, valutando l'estensione del danno. “Fa male qui... e qui... qui fa meno male?” Malcolm gemeva. Infine Hoag si fermò. Struan ruppe il silenzio. “Ebbene?” “Babcott ha fatto un eccellente lavoro con una ferita che avrebbe potuto ucciderti.” Le parole di Hoag erano ben misurate e cercavano di infondere sicurezza. “Adesso faremo un esperimento.” Prese le gambe di Struan e con delicatezza lo aiutò a sedersi sul bordo del letto.

Poi gli passò un braccio intorno alle spalle e prendendo su di sé quasi tutto il suo peso aiutò il giovane ad assumere per la prima volta dopo tanto tempo la posizione eretta. “Attento!” Pur sostenendosi quasi interamente sul medico, Struan ebbe l'impressione di avercela fatta e ne fu molto incoraggiato. Dopo un minuto o due Hoag lo fece riadagiare sul letto. Nonostante il cuore gli battesse all'impazzata per il dolore, Malcolm era molto soddisfatto. “Grazie.” Il dottore tornò a sedersi in poltrona per riprendersi dallo sforzo. Poi disse: “Adesso ti lascio e vado a organizzare il mio soggiorno qui. Vorrei che riposassi. Tornerò dopo aver parlato con Babcott. Probabilmente torneremo insieme. Poi parleremo della situazione. D'accordo?”. “Sì. E... grazie, Ronald.” Per tutta risposta Hoag gli battè qualche colpetto su un braccio, afferrò la sua borsa e uscì. Rimasto solo, Struan cominciò a piangere per la felicità che gli dava il fatto d'essere riuscito ad alzarsi dal suo letto di dolore e si addormentò. Quando si risvegliò riposato come non si sentiva da tempo giacque immobile ricordando che era riuscito a stare eretto, con un aiuto certo ma pur sempre eretto e che perlomeno aveva cominciato a fare dei veri progressi e che adesso... adesso aveva un vero alleato. Leggermente girato sul fianco sinistro poteva vedere il mare dalla finestra. Il mare gli suscitava sentimenti contraddittori di odio e amore; non era mai a proprio agio in mare, lo temeva perchè era incontrollabile e imprevedibile. Come quel giorno in cui il nostromo remava a cento metri dalla riva e bastò un'onda per capovolgere la barca e i gemelli scomparvero trascinati dalla corrente. Tutti erano abili nuotatori e i gemelli nuotavano come pesci, ma furono ugualmente trascinati via. Lo shock ebbe un effetto devastante su di lui e quasi uccise suo padre. La madre entrò in una sorta di coma ma era sveglia e ripeteva continuamente: “Sia fatta la volontà di Dio. Dobbiamo andare avanti”. Non penserò ai miei fratelli né a Dirk Struan, si disse Malcolm, felice di essere in salvo sulla terraferma. Ma il nostro passato è legato al mare quanto il nostro futuro. Le nostre fortune non sono forse legate alle lance e ai vapori e al commercio transoceanico? Il Giappone è un piccolo mercato, interessante ma pur sempre piccolo, non potrà mai essere paragonato a quello cinese. Qui possiamo sicuramente guadagnare molto denaro vendendo armi, navi e la nostra competenza. Dirò a Jamie di concludere l'affare con i choshu; che si massacrino pure in una

guerra fratricida, se lo vogliono. Le ginocchia di sir William tremano mentre aspetta la stupida approvazione da Londra. Se il potere decisionale fosse nelle mie mani ordinerei ai giapponesi di consegnarci gli assassini e di pagare l'indennizzo richiesto immediatamente, perchè in caso contrario dichiarerei lo stato di guerra e la mia prima azione sarebbe quella di ordinare la distruzione di Edo. Non perdonerei mai quei bastardi! La prospettiva gli sembrò esaltante. Presto dovrò tornare a Hong Kong ad assumermi l'incarico. Tra una settimana, più o meno. Senza fretta. C'è tempo. Che ore sono? Non aveva bisogno di guardare l'orologio perchè il sole era quasi allo zenit; pensò che in condizioni normali avrebbe ordinato un ottimo roastbeef con del pudding dello Yorkshire, una salsa e patate arrosto, una ciotola di pollo tagliato a dadini con riso fritto e verdure miste e altri piatti cinesi preparati da Ah-Tok. Apprezzava molto la cucina cinese che la madre e i fratelli invece definivano insipida e senza sostanza, probabilmente nociva e adatta soltanto ai pagani... Un suono lieve richiamò la sua attenzione. Rannicchiata dentro una poltrona Angélique singhiozzava disperata e il suo bel volto rigato di lacrime aveva un'aria terribilmente infelice. “Cristo, cosa succede?” “Sono... sono rovinata.” Riprese a piangere. “Per l'amor di Dio, di che cosa stai parlando?” “Ecco, è arrivata oggi” disse alzandosi e porgendogli una lettera. Il movimento brusco che Malcolm dovette compiere per prendere la lettera gli procurò una fitta atroce e a stento riuscì a trattenere un grido. Il foglio di carta era verde come la busta, recava la data del 23 settembre, Hong Kong e l'intestazione Guy Richaud, Richaud Frères. Era scritta in un francese che Struan non ebbe difficoltà a leggere: Mia cara Angélique, due parole. L'affare di cui ti avevo parlato non si è rivelato redditizio. I miei soci di Macao mi hanno ingannato facendomi perdere molto. Tutto il mio capitale attuale è svanito e forse sentirai delle menzogne, diffuse dai miei nemici secondo le quali non sarei più in grado di avere rapporti con le banche e la mia società sarebbe nelle mani dei curatori fallimentari. Non credere neppure a una parola, il futuro è luminoso, non bisogna mai aver paura, tutto è a portata di mano. Questa lettera parte domani con il postale. Oggi io mi imbarco su un vapore americano, il Liberty, che mi porterà a

Bangkok dove mi sono stati promessi nuovi finanziamenti da French Source. Ti scriverò da li e nel frattempo resto il tuo devoto padre. P.S.: Ormai sarai stata anche tu messa al corrente della triste ma non sorprendente notizia che riguarda Culum Struan. Abbiamo appena saputo del vile attacco nipponico a Malcolm. Spero che le sue ferite non siano gravi e ti prego di fargli i miei auguri di pronta guarigione. La mente di Struan era in subbuglio. “Perché saresti rovinata?” “Ha preso tutti i miei soldi” gemette lei, “ha rubato tutti i miei soldi e li ha persi al gioco, è un ladro e adesso io non ho più... più niente al mondo. Mi ha rubato tutto quello che avevo, oh Malcolm, che ne sarà di me?” “Angélique! Ascolta, Angélique!” Sembrava così infantile e melodrammatica che gli venne quasi da ridere. “Per amor del cielo ascolta, questo non rappresenta un problema, io ti posso dare tutti i soldi di cui tu...” “Non posso accettare soldi da te” gridò lei tra le lacrime. “Non è giusto!” “Perché no? Tra poco saremo sposati, o no?” Smise di piangere. “D... davvero?” “Sì. Annunceremo il nostro fidanzamento oggi stesso.” “Ma mio padre è...” Tirò su col naso piagnucolando come una bambina. “André mi ha detto d'aver saputo da fonte sicura che non c'erano affari da concludere a Macao né altrove e che non ve ne erano mai stati. Sembra che papà fosse un giocatore. Deve aver perduto tutto al gioco. L'aveva promesso, l'aveva promesso a Henri, Henri Seratard, gli aveva promesso che avrebbe smesso e che avrebbe pagato i debiti... Lo sapevano tutti tranne me, oh Malcolm, non ho mai sospettato niente, mi sento così male che vorrei morire. Papà mi ha rubato il denaro mentre aveva giurato di conservarlo al sicuro!” Un altro scoppio di pianto la spinse a correre accanto a lui e a inginocchiarsi affondando la testa nella coperta. Lui le accarezzò teneramente i capelli con la piacevole sensazione d'essere un uomo forte e potente. La porta si aprì per lasciar entrare Ah-Tok. “Vattene” gridò. “Dew neh loh moh!” Ah-Tok scomparve. Spaventata, Angélique si fece ancora più piccola. Non l'aveva mai visto arrabbiato. Malcolm continuava ad accarezzarle i capelli. “Non temere, mia cara, non ti devi preoccupare per tuo padre. Vedremo più tardi se si può fare qualcosa per aiutarlo, ma per il momento non ti devi preoccupare.

Penserò io a te.” Non aveva mai usato parole tanto tenere e i singhiozzi di Angélique si calmarono. Si sentiva molto più leggera adesso che gli aveva raccontato la verità prima che fosse un estraneo a informarlo. Era anche molto contenta che lui non ne sembrasse turbato. André è un genio, pensò. Era esausta ma provava un grande senso di sollievo. Aveva previsto che Malcolm avrebbe reagito in questo modo: “Siate onesta Angélique, raccontategli la verità, cioè che non sapevate che vostro padre fosse un giocatore d'azzardo, che questa è la prima volta che ne sentite parlare e che ne siete sconvolta, che vostro padre ha rubato i vostri soldi, è importante usare le parole rubare e ladro, dite la verità insomma, mostrategli la lettera e con la giusta dose di lacrime e tenerezza lo legherete a voi per sempre”. “Ma André” aveva risposto lei sentendosi molto infelice, “non oso fargli vedere la lettera. Non oso, nel postscriptum dice cose tremende...” “Guardate! Senza la seconda pagina il postscriptum termina così: I miei auguri di pronta guarigione. Perfetto. La seconda pagina? Ma di quale seconda pagina state parlando? Ecco, la strappo e non è mai esistita.” Ma più tardi le dita agili di André avevano incollato i minuscoli brandelli della pagina lacerata ricomponendola perfettamente. “Ecco, Henri” disse facendola scivolare sulla scrivania, “leggete voi stesso.” Non gli ci era voluto molto tempo per rimettere insieme la pagina, gettata con apparente disinvoltura nel cestino della carta straccia del suo ufficio. Ora si trovavano in quello di Seratard, a porte chiuse. Sul foglio c'era scritto quanto segue: Nonché le mie speranze, come abbiamo già detto, che tu possa organizzare al più presto un fidanzamento e un matrimonio con qualsiasi mezzo... E' lui il miglior partito del momento ed è vitale per il nostro futuro, soprattutto il tuo. La Struan renderà solvibile la Richaud Frères per l'eternità. E poco male se è un inglese, se è troppo giovane o qualsiasi altra cosa. Adesso è il tai-pan della Struan e può comperare per tutti noi un dolce futuro. Comportati da donna adulta, Angélique, e fai tutto quanto è necessario per legarlo a te perchè attualmente il tuo futuro è in pericolo. “Non è poi così terribile” commentò Seratard a disagio, “in fondo mi sembra soltanto il consiglio di un padre che sta toccando il fondo e pensa alla figlia e a un modo per risollevarsi. Struan è senza dubbio un ottimo partito per qualsiasi ragazza e Angélique... chi potrebbe condannare un padre?” “Dipende dal padre. Comunque questo foglio, se usato al momento giusto e nel modo giusto è

un'arma contro di lei e contro la Nobil Casa.” “Dunque pensate che la povera ragazza riuscirà nell'intento?” “Dobbiamo fare in modo che vi riesca. Adesso che siamo in possesso di questa prova da utilizzare, se necessario, in futuro, dobbiamo darle una mano, per ragioni politiche.” Le labbra di André si chiusero in una linea sottile. “E non penso a lei come a una povera ragazza; Angélique ha tutti i numeri per incastrarlo con qualsiasi mezzo necessario. Voi non credete?” Seratard si lasciò ricadere su una sedia di pelle rossa. Il suo ufficio era immerso nel disordine, sulle pareti erano appesi alcuni quadri a olio di pittori francesi poco conosciuti. Tra questi Seratard prediligeva le opere di Edouard Manet che collezionava acquistandole a poco prezzo da un agente parigino. “Credo soltanto che si stia lasciando corteggiare da un ricco giovanotto, nient'altro.” Allontanò la lettera sulla scrivania. “Questi metodi non mi piacciono, André. Sono spiacevoli. Voi avete incoraggiato la ragazza a entrare nel pantano delle mezze verità consigliandole di dare a Struan soltanto una parte della lettera.” “Machiavelli scrisse: “E necessario che lo stato si occupi di bugie e mezze verità perchè gli uomini sono fatti di bugie e mezze verità. Anche i principi”. E certamente tutti gli ambasciatori e gli uomini politici per definizione.” André si strinse nelle spalle e ripiegò la lettera con cura. “Forse non dovremo mai usarla, tuttavia ritengo che sia giusto conservarla nelle nostre mani perchè dopotutto noi rappresentiamo lo stato.” “Usarla in che modo?” “Usare per esempio il fatto che Angélique l'abbia stracciata e...” “Ma non è stata lei!” esclamò Seratard stupefatto. “Ovvio” rispose André con freddezza. “Ma si tratterebbe della sua parola contro la mia. Chi pensate che avrà la meglio? Il fatto che abbia stracciato la seconda pagina mostrandogli soltanto la prima agli occhi di Struan dovrebbe bastare per condannarla e per fornirgli, a causa dell'evidente “inganno”, una scusa perfetta per annullare qualsiasi promessa di matrimonio. La signora Struan? Se madame fosse al corrente dell'esistenza di questo foglio pagherebbe qualsiasi prezzo per ottenerlo, nel caso suo figlio insistesse a sposarla contro il suo parere.” “Non mi piacciono i ricatti.” André arrossì. “Non piacciono nemmeno a me questi metodi ma sono costretto a usarli per i nostri, ripeto, nostri fini.” Ripose la pagina in una tasca. “Fatta circolare in società o pubblicata con tutti i dettagli, questa lettera potrebbe distruggere Angélique. In un tribunale equivarrebbe a una condanna. Forse mette in luce soltanto la verità: che la ragazza è una

giovane avventuriera in combutta con il padre giocatore d'azzardo che ben presto sarà accusato, come il fratello a Parigi, di bancarotta fraudolenta. In quanto al fatto che a sentir voi io la incoraggerei, voglio precisare che in realtà mi limito a dirle quello che vuole sapere. L'aiuto insomma. Il problema è suo, non è mio né vostro.” Seratard sospirò. “Che tristezza. E triste che si sia immischiata in un simile pasticcio.” “Sì, ma ormai è fatta, e non è forse meglio che le cose volgano a nostro vantaggio?” André sorrise ma i suoi occhi restarono di ghiaccio. “Per non parlare del vostro vantaggio personale, monsieur. Usato con giudizio questo documento potrebbe garantire la presenza della ragazza nel vostro letto qualora il vostro indiscutibile fascino non bastasse, del che dubito.” Seratard non sorrise. “E voi, André? Che cosa farete a proposito di Hana, il Fiore?” André si volse bruscamente a guardarlo: “Il Fiore è morto!”. “Sì. E in circostanze poco chiare.” “Chiarissime” ribatté André con uno sguardo inespressivo come quello di un rettile. “Si è tolta la vita.” “E' stata trovata con la gola tagliata, e dal vostro coltello. La mama-san dice che come sempre avevate trascorso la notte insieme.” André cercò di capire perchè mai Seratard insistesse sull'argomento. “E' vero, ma ritengo che non siano affari che vi riguardano.” “Temo di sì, invece. L'ufficiale della Bakufu di zona ieri mi ha inviato una richiesta formale di informazioni.” “Ditegli di andare a morire ammazzato. Hana, il Fiore, era speciale, sì, era mia, sì. Ho pagato il prezzo più alto per averla, ma era pur sempre soltanto una donna del Mondo Fluttuante.” “Come avete detto poc'anzi con tanta precisione, gli uomini sono fatti di menzogne e mezze verità. Secondo il rapporto avete avuto una violenta discussione perchè lei aveva un amante.” “Abbiamo litigato, è vero, e avrei voluto ucciderla, è vero anche questo, ma non perchè aveva un amante” borbottò André senza fiato. “La verità è... la verità è che aveva avuto altri clienti in passato. Tre in tutto, quando lavorava nell'altra casa, prima che diventasse di mia proprietà. Uno di loro... uno di loro le aveva trasmesso la sifilide e lei l'ha trasmessa a me.” Seratard rimase di stucco. “Mon Dieu, sypbilis?” “Sì.” “Mon Dieu, ne siete proprio sicuro?” “Sì.” André si alzò e andò a versarsi un bicchiere di brandy che trangugiò d'un fiato. “Babcott me l'ha confermato un mese fa. Nessuna possibilità di errore. E non può essere stata che lei. Quando gliene ho parlato, lei...”

Gli parve di rivederla che lo guardava nella casetta dentro le mura della Casa delle Tre Carpe, con le sopracciglia leggermente aggrottate nell'ovale perfetto del volto. Aveva diciassette anni e non era più alta di un metro e cinquanta. “Hai, gomen nasai, Furansu-san, macchie come tue ma un anno fa, mie macchie sukoshi, piccole, hay piccole, Furansu-san, sukoshi, no cattive, vanno via” disse con gentilezza e un sorriso dolce nella sua abituale mescolanza di giapponese e brandelli di inglese. “Hana dice mama-san. Mama-san dice vedere dottore, dottore dice, no cattive. Macchia no cattiva perchè io appena cominciato lavorare e io piccola. Dottore dice prega tempio e bevi medicina. Ugh! Ma poche settimane tutto va via” e in tono allegro aggiunse: “Tutto va via un anno fa”. “Non sono andate via'!” “Perché arrabbiato? No preoccupa. Io prega tempio shintoista come dice dottore, pagato monaco molti tael, mangiato... “ Rise con una smorfia, “mangiato cattiva medicina. Poche settimane e tutto andato via.” “Non è andato via. Non se ne andrà mai. Non c'è cura!” Lei lo guardò con un'espressione strana. “Tutto andato, tu vedi me, mio corpo, tutto, quante volte vedi? Tutto andato via, certo. “Per Dio, no!” Un'altra smorfia, poi Hana si strinse nelle spalle. “Karma, vero?” Lui era esploso. In preda a un profondo shock la ragazza si era prostrata appoggiando la fronte al tatami e implorando perdono. “No cattivo, Furansu-san, andato via, dice dottore, andato via. Tu vedi stesso dottore, tutto va via...” Intorno alle pareti di shoji, André sentiva passi e sussurri. “Devi farti visitare dal dottore inglese!” Sentiva i battiti del cuore nelle orecchie, amplificati, e cercava di esprimersi con coerenza pur sapendo che andare da un medico, da qualsiasi medico, sarebbe stato inutile, e che per quanto a volte i segni della devastazione potessero essere fermati, era altresì vero che un giorno o l'altro sarebbero spuntati in massa. “Ma non capisci?” aveva urlato. “Non esiste una cura!” La ragazza era rimasta prostrata tremando come una foglia e con monotonia ripeteva: “No cattivo, Furansusan, no cattivo, tutto va via!” André si riscosse dalle sue fantasticherie e guardò Seratard. “Quando la interrogai lei mi disse di essere stata curata un anno prima. Era in buona fede, credeva nell'efficacia della cura e ovviamente si sentiva guarita. In quanto a me, oh sì, io continuavo a gridare e a chiederle perchè non l'avesse detto a Raiko-san, e lei continuava a rispondere: Che cosa

dovevo dire, secondo il dottore non era niente e se fosse stato importante sarebbe stata la sua mama-san a parlarne a Raiko-san.” “Ma è terribile, André. Babcott l'ha visitata?” “No.” Trangugiò un altro sorso di brandy senza tuttavia riceverne consolazione e spinto da un bisogno disperato di raccontarlo infine a qualcuno disse: “Babcott mi ha detto che la malattia... che una donna appena contagiata dalla malattia può non avere nessuna colpa, perchè non sempre è contagiosa, almeno non tutte le volte che si dorme con lei, Dio sa perchè, ma finisce inevitabilmente per diventarlo se ci si continua a dormire, e quando compare il primo segno è l'inizio della fine. Spesso dopo un mese o due i segni se ne vanno e ci si sente in salvo quando invece non è affatto così!” La vena nel centro della fronte di André era scura e gonfia. “Qualche settimana o qualche mese più tardi compare un'eruzione cutanea: quello è il secondo stadio. Può trattarsi di una manifestazione debole o violenta, non si sa da cosa dipenda, e qualche volta è accompagnata da epatite o meningite, e può durare a lungo o andarsene subito, ancora una volta Dio solo sa perchè. L'ultimo stadio, lo stadio dell'orrore, può manifestarsi in qualsiasi momento a partire da pochi mesi dopo il contagio fino a trent'anni dopo.” Seratard estrasse un fazzoletto dalla tasca e si asciugò la fronte; ripensando alle frequenti visite che aveva fatto allo Yoshiwara, alla sua musume, che in teoria era soltanto per lui ma che poteva benissimo avere altri amanti, pregò di essere stato risparmiato. Come si fa a stabilire se le ragazze e la mama-san sono complici dato che il loro unico interesse è irretirti? “Avevate il diritto di ucciderla” disse in tono cupo. “Avreste dovuto uccidere anche la mama-san.” “Raiko non era responsabile. Le avevo detto che nessuna delle ragazze disponibili in nessuna casa dello Yoshiwara era di mio gradimento. Volevo una ragazza giovane, speciale, vergine o quasi. La implorai di trovarmi un fiore, spiegandole quello che volevo nei dettagli, e lei lo trovò; Hana-chan era tutto quello che potevo desiderare, la perfezione... inoltre proveniva da una delle migliori case di Edo, e... non potete immaginare quant'è... quant'era bella.” Ricordò come aveva sussultato il suo cuore la prima volta che Raiko gliel'aveva mostrata mentre era intenta a chiacchierare con altre ragazze in una stanza. “Voglio quella, quella col kimono azzurro.” “Ti consiglio di prendere Fujiko o Akiko o una delle mie altre ragazze” aveva ribattuto Raiko che, quando voleva, sapeva parlare inglese discretamente. “Col tempo te ne troverò un'altra. Guarda la piccola Saiko. Tra un anno o due...” “Voglio quella, Raiko. E' perfetta. Chi è?”

“Si chiama Hana, il Fiore. Secondo la sua mama-san quella bella creatura è nata vicino a Kyòto ed è stata comprata dalla sua casa all'età di tre o quattro anni perchè venisse addestrata a diventare geisha.” Raiko sorrise. “Per tua fortuna non è geisha... se fosse geisha non sarebbe in offerta, mi dispiace.” “Perché io sono un gai-jin?” “Perché la geisha è per l'intrattenimento, non per dormire, e poi mi dispiace, Furansu-san, ma è molto difficile apprezzare una geisha se non si è giapponesi. I maestri di Hana erano pazienti ma lei non aveva talento per le arti e così è stata addestrata per altro.” “La voglio, Raiko. “ “Un anno fa era abbastanza grande per cominciare. La sua mama-san ha ottenuto i migliori prezzi, naturalmente solo dopo che Hana aveva approvato il cliente. Soltanto tre clienti hanno goduto di lei, la sua mamasan dice che è una buona allieva e che era autorizzata a dormire con i clienti soltanto due volte la settimana. L'unico tratto negativo è che è nata nell'anno del Cavallo di Fuoco. “Che cosa significa?” “Sai che noi contiamo dei cicli di dodici anni come i cinesi, e che ciascun ciclo porta il nome di un animale: Drago, Serpente, Gallo, Toro, Cavallo e così via. Ma ciascun animale ha anche uno dei cinque elementi: Fuoco, Acqua, Terra, Metallo e Legno, che variano da un ciclo all'altro. Delle donne nate nell'anno del Cavallo con il segno del Fuoco si dice che siano... sfortunate.” “Non credo nelle superstizioni. Ti prego di dire il prezzo.” “E un fiore da letto senza prezzo.” “Il prezzo, Raiko.” “Nell'altra casa dieci koku, Furansu-san. In questa due koku all'anno. E una casa per lei dentro le mie mura, due cameriere, tutti i vestiti che vuole e un regalo d'addio di cinque koku quando non hai più bisogno dei suoi servizi... Questa somma deve essere depositata presso il nostro mercante di risobanchiere del Gyokoyama e gli interessi resteranno tuoi fino al momento della separazione. Tutto deve essere messo per iscritto, firmato e registrato dalla Bakufu.” Era una somma enorme per il Giappone e piuttosto alta anche per un europeo, pur tenendo conto di un cambio molto favorevole. André Poncin aveva trattato per una settimana riuscendo a ottenere soltanto uno sconto di pochi centesimi. Sognava tutte le notti di aver concluso l'accordo e infine accettò le condizioni imposte da Raiko. Con il dovuto rituale, sette mesi prima la ragazza gli era stata presentata formalmente. Lei l'aveva formalmente

accettato. Formalmente entrambi avevano firmato i documenti e la notte seguente lui l'aveva fatta adagiare nel suo letto per scoprire che era tutto ciò che aveva sognato. Allegra, felice, entusiasta, tenera, amorevole. “Era un dono di Dio, Henri.” “O del demonio. Per non parlare della mama-san.” “No, lei non aveva colpa. Il giorno prima che io ricevessi Hana, Raiko mi disse, in modo ufficiale e prima di ricevere il pagamento, che il passato era passato e che aveva promesso di trattare Hana come una delle sue ragazze, di controllare che nessun altro uomo la incontrasse e che restasse solo mia a partire da quel giorno.” “Dunque l'ha uccisa lei?” André versò un altro brandy. “Io.... ho chiesto a Hana di farmi il nome degli altri tre uomini. Il mio assassino è tra loro, ma lei diceva di non essere in grado di aiutarmi, oppure non lo voleva fare. Io... io l'ho picchiata per costringerla a dirmelo ma lei continuava a gemere e a non parlare. L'avrei uccisa, è vero, ma l'amavo e... me ne sono andato. Ero come un animale impazzito, suonavano le tre o le quattro di notte quando mi buttai in mare. Forse volevo annegarmi, non so, non ricordo esattamente, ma l'acqua fredda ebbe l'effetto di farmi tornare in me. Quando arrivai alle Tre Carpe, Raiko e le altre erano in stato di shock, sconvolte. Hana era rannicchiata dove l'avevo lasciata ma aveva il mio coltello conficcato nella gola e sotto il suo corpo una pozza di sangue diventava a ogni istante più grande.” “Dunque si è tolta la vita?” “Così dice Raiko.” “Non le credete?” “Non so a che cosa credere” rispose André in preda a una profonda angoscia. “So soltanto che ero tornato per dirle che l'amavo, che la malattia era soltanto una questione di karma, che non era colpa sua, che mi dispiaceva aver detto quello che avevo detto e di aver fatto quello che avevo fatto, che tutto sarebbe tornato come prima e che quando la malattia si fosse manifestata ci saremmo uccisi insieme...” Henri Seratard cercò di raccogliere le idee. Era frastornato. Non aveva mai sentito parlare della Casa delle Tre Carpe prima che le voci sulla morte della ragazza avessero cominciato a circolare nell'Insediamento. André era stato sempre molto discreto, pensò, e giustamente; e ha ragione, si tratta di affari che non mi riguardano dopotutto, o meglio non mi riguardavano fino a quando la Bakufu non ne ha fatto motivo di un'inchiesta ufficiale. “Quei tre uomini... Raiko sa chi sono?”

Stordito, André si limitò a scuotere il capo. “No, e dall'altra mama-san non se ne possono ottenere i nomi.” “Chi è? Come si chiama questa donna? Dove vive? La denunceremo alla Bakufu e ci penseranno loro a farglieli dire.” “Non perderebbero il loro tempo per questo, perchè dovrebbero? Inoltre l'altra casa, la Locanda dei Quarantasette Ronin, era un covo di rivoluzionari, circa una settimana fa è stata bruciata e la testa della mamasan infilzata su un palo. Santa madre di Dio, Henri, che cosa farò? Hana è morta e io sono vivo...”

Capitolo 16 † Il dottor Hoag arrivò a Kanagawa nel Primo Pomeriggio, a bordo della lancia. Babcott gli aveva fatto sapere che non poteva lasciare la Legazione perchè stava operando nella clinica ma che avrebbe cercato di tornare quanto prima... Mi dispiace ma non potrò arrivare prima di tarda notte o più probabilmente domattina. Se volete raggiungermi qui siete il benvenuto, ma preparatevi a trascorrervi la notte perchè il tempo sta cambiando... L'aspettavano sul molo un granatiere e Lim che indossava un cappotto bianco, ampi pantaloni neri, scarpe di stoffa e uno zucchetto. Mentre Hoag toccava terra, Lim accennò a un inchino simbolico. “Salute, padrone, sono Lim, ragazzo numero uno.” “Puoi smetterla di parlare pidgin, Lim” ribatté Hoag in un cantonese passabile. Lim lo guardò con un'espressione corrucciata e perplessa. “Sono Il Dottore di Medicina Saggio e Illuminato.” Quella era, più o meno, la traslitterazione del nome cinese di Hoag, cioè il significato dei due caratteri più vicini ai suoni “Hoa” e “Che”, scelti tra una dozzina di possibilità da Gordon Chen in persona che era un suo paziente. Lim continuò a fissarlo. Fingere di non capire era sempre il modo più veloce per far perdere la faccia a un demone straniero che avesse l'impertinenza di imparare qualche parola della lingua civilizzata. Ayeeyah, pensò, chi è questo sfacciato fornicatore, questo putrido demone rosso mangia madre con un collo da toro, questa scimmia con la faccia da rospo che ha l'ardire di parlare la nostra lingua e darsi tante arie... “Ayeeyah” rispose Hoag con dolcezza, “anch'io conosco molti sporchi modi per descrivere la madre di un fornicatore nonché le parti putrefatte di un uomo venuto da un villaggio pieno di piscio e di sterco che me ne dia l'occasione, per esempio fingendo di non capire quello che dico.” “Dottore di Medicina Saggio e Illuminato, ayeeyah, proprio un bel nome!” Lim rise e crepapelle. “E non ho mai sentito un demone straniero parlare così bene la mia lingua.” “Perfetto. E presto ne sentirai delle altre se non la smetti di chiamarmi demone straniero. E' stato Chen della Nobil Casa a scegliermi il nome.” “Chen della Nobil Casa? “ Lim lo guardò con aria sciocca. “L'illustre Chen che possiede più borse d'oro di quanti peli abbia un bufalo? Ayeeyah, che privilegio fornicante!” “Sì” convenne Hoag, aggiungendo qualcosa che non corrispondeva del tutto

alla verità, “mi ha detto che se incontro qualche problema a causa di qualcuno del Regno di Mezzo, umile o altolocato, o se non vengo trattato con A rispetto dovuto a un amico, devo riferirgli al mio ritorno il nome del vile fornicatore.” “Oh ko, Dottore di Medicina Saggio e Illuminato, è senz'altro un onore avervi nella nostra umile e fangosa dimora.” Il dottor Hoag ebbe l'impressione di aver ottenuto un ottimo risultato e benedisse i suoi insegnanti, quasi sempre pazienti colmi di gratitudine, che gli avevano insegnato le parole più importanti e come trattare alcune persone e alcune situazioni nel Regno di Mezzo. La giornata era piacevole e calda e la piccola città gli fece una buona impressione con i suoi templi visti dall'alto, i pescatori occupati nella pesca a strascico nelle acque interne, i contadini chini nelle risaie, uomini e donne che andavano e venivano indaffarati e l'inevitabile flusso di viaggiatori sulla Tokaidò, alle spalle di Kanagawa. Quando raggiunse la Legazione con l'aiuto coscienzioso di Lim, Hoag si era fatto un quadro della situazione di Kanagawa, del numero odierno di pazienti di Babcott e di quello che l'aspettava. George Babcott stava operando assistito da un giapponese, un apprendista assegnatogli dalla Bakufu affinché gli insegnasse la medicina occidentale. L'anticamera era affollata di gente del villaggio. L'intervento chirurgico era brutale, si trattava dell'amputazione di un piede: “Questo povero diavolo è un pescatore a cui è rimasta una gamba intrappolata tra la barca e il molo; non sarebbe successo senza il sakè, temo. Quando ho finito possiamo parlare di Malcolm. L'avete visitato?”. “Sì, fate pure con calma. Mi fa piacere vedervi, George. Posso esservi d'aiuto?” “Grazie, molto volentieri. Qui me la cavo da solo, ma se volete potete dare un'occhiata alla folla fuori, dividere i casi urgenti da quelli che possono aspettare. Occupatevi di chi volete. C'è un'altra “sala operatoria” qui accanto ma è poco più di una stanzetta. Mura, passami la sega” disse al suo assistente sillabando le parole, e afferrato lo strumento cominciò ad amputare il piede del pescatore. “Tutte le volte che ho un intervento qui succede il finimondo. Nell'armadio ci sono le solite cose, iodio eccetera, le solite medicine, qualche analgesico, sciroppi amari per la tosse delle vecchiette, dolci e sciroppi dolci per quelle arrabbiate.“ Hoag uscì e andò a occuparsi della gente in attesa nell'anticamera. Il loro atteggiamento ordinato e paziente, gli inchini e il silenzio lo stupirono. Stabilì ben presto che nessuno di loro era affetto da vaiolo, lebbra, morbillo, tifo o colera né da altre malattie infettive, in gran parte endemiche in Asia. Sollevato dalla constatazione si dedicò a interrogarli a uno a uno. Dapprima

incontrò molta diffidenza, ma per fortuna tra i pazienti in attesa vi era un anziano scriba e indovino itinerante di Canton, Cheng-sin, che parlava giapponese e che gli offrì il suo aiuto, in cambio della promessa di una medicina particolarmente efficace e moderna per alleviare la sua tosse secca. Dopo essere stato presentato come il Maestro del Gigante Guaritore, il dottor Hoag cominciò le visite nel secondo ambulatorio. Alcuni dei pazienti soffrivano di disturbi leggeri, alcuni erano casi più seri; riscontrò febbri, malori, dissenterie e sintomi analoghi di cui riuscì quasi sempre a risalire alla causa, poi vi erano alcune ossa rotte da aggiustare, qualche ferita da spada e coltello, ulcere, una giovane donna sofferente molto prossima al momento del parto. Con occhio esperto Hoag giudicò che quel parto, il quarto, sarebbe stato difficile, e che le cause della sofferenza di quella donna erano un matrimonio troppo precoce, il lungo lavoro nei campi e i tre figli, che erano già troppi. Le diede una bottiglietta contenente un estratto di oppio. “Dille che quando arriverà il momento e il dolore sarà troppo forte ne dovrà bere un cucchiaio.” “Un cucchiaio? Grande o piccolo, Onorabile Saggio e Illuminato?” “Un cucchiaio normale, Cheng-sin.” La donna s'inchinò. “Domo arigato gozaimashita” mormorò uscendo, patetica nella sua gratitudine, mentre con entrambe le mani cercava di aiutarsi a sostenere il peso del ventre. Bambini con febbre e raffreddore, anchilostomiasi e qualche altra malattia infantile, una situazione molto meno grave di quanto avesse immaginato. Nessun caso di malaria; i denti erano bianchi e forti, gli occhi chiari, niente pidocchi, tutti i pazienti sembravano straordinariamente puliti e sani se paragonati agli abitanti di villaggi simili in Cina. Nessun caso di assuefazione all'oppio. Dopo un'ora Hoag si sentì felicemente lanciato nella pratica della sua professione. Aveva appena finito di sistemare un braccio rotto quando all'improvviso la porta si aprì e una bella ragazza vestita con eleganza entrò con passo incerto salutando con un inchino. Indossava un kimono di seta azzurra con un obi verde, e tra i capelli corvini dai riflessi bluastri spuntavano alcuni pettini. Hoag notò che Cheng-sin si era irrigidito. La ragazza rispose alle sue domande in tono persuasivo, e a bassa voce benché fosse visibilmente nervosa. “Dottore di Medicina Saggio e Illuminato” disse Cheng-sin inframmezzando ogni parola con un colpo di quella tosse secca che Hoag aveva diagnosticato al primo istante come tubercolosi terminale. “Questa signora dice suo fratello bisogno di importante aiuto, quasi morto. Vi prega di

accompagnarla, la casa è vicina.” “Dille di farlo portare qui.” “Sfortunatamente non si può muovere.” “Di cosa soffre?” Dopo altre domande e altre risposte che a Hoag sembrarono più che altro una trattativa d'affari Cheng-sin disse: “La sua casa si trova solo a due strade. Suo fratello è...” tossì cercando la parola, “dorme come uomo morto ma è vivo con delirio e febbre.” La voce di Cheng-sin si fece suadente: “Lei paura muoverlo, Onorabile Dottore di Medicina Saggio e Illuminato. Suo fratello samurai. Lei dice molte persone importanti molto felici se aiutate fratello. Credo lei dice verità”. Dai giornali di Hong Kong, Hoag aveva imparato che i samurai in quanto classe dirigente erano molto importanti in Giappone e che qualsiasi persona avesse ottenuto la foro fiducia e quindi la loro cooperazione sarebbe stata d'aiuto all'influenza britannica. Scrutò la ragazza che abbassò immediatamente gli occhi diventando ancora più nervosa. Poteva avere quindici o sedici anni e aveva tratti diversi da quelli delle donne del villaggio, e una carnagione magnifica. Se suo fratello è samurai lo è anche lei, pensò affascinato. “Come si chiama?” “Uki Ichikawa. Prego fare svelto.” “Suo fratello è un samurai importante?” “Sì” rispose Cheng-sin. “Io accompagno voi. Non avere paura.” Hoag sbuffò. “Paura io? Al diavolo la paura! Aspettate qui.” Andò nella sala operatoria e aprì la porta senza far rumore, Babcott era totalmente assorto nell'estrazione di un dente con ascesso, un ginocchio appoggiato al petto del giovane la cui madre disperata si torceva le mani parlando senza sosta, che non lo sentì entrare. Decise di non disturbarlo. Ai cancelli il sergente della guardia fermò il gruppo e chiese a Hoag dove fosse diretto. “Vi faccio accompagnare da un paio dei miei ragazzi. Le cautele non sono mai troppe.” La ragazza cercò di dissuaderli dal portare con loro dei soldati ma il sergente fu irremovibile e alla fine dovette accettare la scorta. Sempre più nervosa li condusse lungo interminabili vicoli. Al loro passaggio gli uomini distoglievano lo sguardo e scappavano. Hoag portava con sé la sua valigetta. Riusciva ancora a vedere il tempio al di sopra dei tetti e si sentiva rassicurato all'idea di avere con sé i due soldati. Andare da solo in una missione simile sarebbe stata una follia. Cheng-sin li seguiva camminando con l'aiuto di un lungo bastone. Questa giovane non è quello che finge di essere, pensò Hoag con freddezza. Imboccarono un altro vicolo. Poi la ragazza si fermò davanti alla porta di una palizzata e bussò. Prima si aprì una grata, quando il tarchiato domestico

vide i soldati cercò di richiudere subito la porta che aveva socchiuso ma la ragazza gli ordinò in tono imperioso di aprire. Il giardino era piccolo e ben tenuto e molto tradizionale. I gradini conducevano a una veranda dove la ragazza si sfilò gli zoccoli e chiese agli altri di imitarla. Non fu facile per Hoag che calzava un paio di stivali alti fino al ginocchio ma la ragazza ordinò a una cameriera di aiutarlo e venne obbedita all'istante. “Voi due restate di guardia qui” disse Hoag ai soldati, un pò in imbarazzo per i buchi nei calzini. “Sissignore.” Uno dei due giovani controllò il fucile. “Vado a dare un'occhiata qui intorno. Se c'è qualche problema gridate.” La ragazza fece scorrere una parete shoji. Ori Ryoma, lo shishi dell'attacco sulla Tokaidò, giaceva sui futon tra lenzuola madide di sudore mentre una cameriera seduta sul pavimento gli faceva aria con un ventaglio. La donna spalancò gli occhi quando vide Hoag anziché l'Onorabile Gigante Guaritore che si era aspettata di vedere e si ritrasse in un angolo della stanza mentre lui avanzava lentamente a piedi scalzi con passi goffi. Ori era in coma, le sue spade erano state appoggiate su un basso scaffale e nel takoma c'era un mazzo di fiori. Hoag gli si inginocchiò accanto. La sua fronte scottava ed era paonazzo, era chiaro che si trattava di una febbre pericolosa. La causa di quella febbre gli fu subito chiara quando scostò la fasciatura sulla spalla. “Cristo” mormorò vedendo l'estensione della zona infiammata: esaminò la parte gonfia e malata, ne annusò l'odore e tastò la carne ormai nera per la cancrena intorno alla ferita aperta dal proiettile. “Quando gli hanno sparato?” “Lei non sa esattamente. Due o tre settimane.” Hoag osservò la ferita per qualche istante, poi, indifferente agli sguardi acuti e interrogativi dei presenti, uscì dalla stanza e andò a sedersi sulla veranda a fissare nel vuoto. Ciò di cui avrei bisogno adesso per salvare questo povero ragazzo è il mio ottimo ospedale di Hong Kong e una buona attrezzatura chirurgica, le mie magnifiche infermiere nonché una buona dose di fortuna. Maledetti fucili, dannata guerra, dannati politici... Per l'amor di Dio, ho cercato di rabberciare le mutilazioni provocate dalle armi da fuoco durante tutta la mia carriera, senza riuscirvi quasi mai, sei anni con la compagnia delle Indie Orientali nel terribile Bengala, quindici anni nella Colonia, gli anni delle guerre dell'Oppio, un anno come volontario in Crimea, il peggiore di tutti, con il distaccamento dell'ospedale di Hong Kong. Dannati fucili! Cristo, quante vite sprecate! Dopo aver sfogato la sua ira con le bestemmie si accese un sigaro e gettò il fiammifero in giardino. Il domestico sbalordito si affrettò a raccogliere

l'oggetto oltraggioso. “Oh, mi dispiace” disse Hoag che non aveva notato la pulizia che regnava nel giardino. Inspirò profondamente, allontanò i ricordi e si concentrò sul giovane. Quando fu pervenuto alla sua decisione accennò il gesto di scagliare il mozzicone del sigaro sul pavimento, si fermò in tempo e lo tese al domestico, che dopo un inchino corse a seppellirlo in un angolo nascosto. “Cheng-sin, dille che mi dispiace ma che credo che suo fratello morirà sia che operi sia che non operi. Mi dispiace.” “Lei dice: “Se muore è karma. Se non riceve aiuto muore oggi o domani. Per favore prova. Se muore, karma. Lei chiede aiuto”. Poi Cheng-sin aggiunse a bassa voce: “Dottore di Medicina Saggio e Illuminato, questo giovane è importante. Importante provare”. Hoag guardò la ragazza, che ricambiò la sua occhiata. “Dozo, Hoah Ghe-sama” disse. Per favore. “D'accordo, Uki. Cheng-sin, ripetile che non posso prometterle niente ma che proverò. Ho bisogno di sapone, di molti bacili di acqua calda, lenzuola pulite, molte lenzuola tagliate a forma di tamponi e bende, molta quiete e qualcuno con uno stomaco forte per darmi una mano.” La ragazza indicò se stessa. “Sòji shomasu”: lo farò io. Hoag si accigliò. “Dille che sarà molto brutto, con molto sangue, molta puzza, un brutto spettacolo.” La guardò mentre ascoltava la traduzione del cinese e rispondeva con evidente orgoglio: “Gomen nasai, Hob Ghe-san wakayimasen. Watashi samurai desu”. “Dice “Prego scusare, io capisce. Io sono samurai.”” “Non so che cosa ciò significhi per te, graziosa signorina, e non sapevo nemmeno che le donne potessero essere samurai, comunque cominciamo pure.” Hoag scoprì subito una delle qualità dei samurai: il coraggio. Durante tutta l'operazione di ripulitura la ragazza non ebbe mai un cedimento, né quando recidevano il tessuto infetto o estraevano il pus maleodorante ripulendo la ferita, né mentre il sangue pulsava da una vena parzialmente recisa che Hoag riuscì a riparare arrestandone il flusso tamponando e tamponando senza fine. Le ampie maniche del kimono della ragazza erano state arrotolate e fissate in modo che non le intralciassero i movimenti, e la sciarpa con cui aveva legato i capelli ben presto fu intrisa di sudore. Per un'ora intera Hoag lavorò canticchiando tra sé, senza sentire nulla, né rumori né odori, con tutti i sensi concentrati nella ripetizione di un intervento che aveva compiuto qualche migliaio di volte di troppo: tagliare, cucire, ripulire, fasciare. Quand'ebbe finito, con calma si stiracchiò per allentare la tensione della

schiena, si lavò le mani e si tolse il lenzuolo insanguinato che aveva usato come grembiule. Ori era in bilico all'estremità della veranda steso su un tavolo di fortuna, Hoag aveva operato dando le spalle al giardino: “Non posso lavorare seduto sulle ginocchia, Uki” aveva spiegato. La ragazza aveva fatto tutto ciò che lui le aveva chiesto senza mai discutere. Non c'era stato bisogno di anestetizzare il ferito. Hiro Ichikawa, così gli avevano detto che si chiamava, era immerso in un coma profondo. Un paio di volte durante l'intervento gridò, non per il dolore ma per qualche demone che lo inseguiva nell'incubo. E cercò anche di lottare, ma senza forza. Ori emise un sospiro profondo. Hoag gli sentì il polso ansiosamente, Era impercettibile quanto il suo respiro. “Non importa” mormorò. “Perlomeno c'è un polso.” “Gomen nasai, Hob Geh-san” disse la voce dolce della ragazza, “anata kangaemasu, hai, iyé?” “Lei dice: “scusate Onorabile Saggio Illuminato, pensate sì o no?”” Cheng-sin tossì. Aveva trascorso tutto quel tempo ben lontano dalla veranda, dando la schiena ai due. Hoag si strinse nelle spalle e la guardò chiedendosi da dove le venisse quella forza, dove vivesse e che cosa sarebbe successo ora. Era pallida e tesa ma sembrava ancora dominata da una volontà di ferro. Gli occhi di Hoag si socchiusero in un sorriso. “Non lo so. E' nelle mani di Dio. Uki, voi siete la numero uno. Samurai.” “Domo... domo arigato gozaimashita.” Grazie. Si inchinò fino a toccare il tatami. Si chiamava Sumomo Anato, era la promessa sposa di Hiraga e sorella di Shorin, non di Ori. “Lei chiede che cosa deve fare ora?” “Per suo fratello niente, al momento. Dica alla cameriera di mettergli asciugamani freddi sulla fronte e di tenere la fasciatura bagnata d'acqua pulita fino a quando la febbre scenderà. Se la... quando la febbre sarà scesa, spero prima dell'alba, il giovane vivrà. Forse.” E quante possibilità ci sono? era di solito la domanda seguente. Ma questa volta nessuno parlò. “Bene, adesso vado. Dille di mandarmi una guida domani mattina presto...” Se sarà sopravvissuto, avrebbe voluto aggiungere, ma poi decise di tacere. Mentre Cheng-sin traduceva cominciò a lavare gli strumenti. La ragazza fece un cenno al domestico e gli parlò. “Hai” rispose l'uomo prima di allontanarsi di corsa. “Dottore di Medicina Saggio e Illuminato, prima che voi parte signora sicura voi vuole bagno. Sì?” Il dottor Hoag fu sul punto di declinare l'offerta ma decise invece di accettarla. E più tardi fu molto contento d'averlo fatto.

All'imbrunire, seduto sulla veranda della Legazione, Babcott sorseggiava un whisky; era stanco ma soddisfatto del suo lavoro. C'era un buon profumo di mare nella brezza che sfiorava il giardino mentre i suoi occhi vagavano senza meta sugli arbusti dove tre settimane prima era stato catturato e ucciso l'assassino vestito di nero. La campana del tempio cominciò a suonare e giunse fino a lui l'eco lontana del canto profondo dei monaci: “Ommm mahni padmì hummmmm...” Alzò lo sguardo vedendo Hoag avvicinarsi lentamente. “Buon Dio!” Hoag indossava una yukata a disegni floreali stretta in vita da una cintura. Ai piedi portava le scarpe-calze bianche con gli zoccoli dei giapponesi. I capelli e la barba erano pettinati e ancora umidi. Sotto il braccio teneva un barilotto coperto di paglia e pieno di sakè e sorrideva radioso. “Buonasera, George!” “Sembrate soddisfatto di voi stesso, dove siete stato?” “La parte migliore dell'avventura è stata il bagno.” Hoag appoggiò il barile sopra un mobile e si versò un buon bicchiere di whisky. “Mio Dio, il miglior bagno della mia vita. Non immaginate nemmeno come mi sento bene.” “E lei com'era?” chiese Babcott. “Niente sesso, vecchio mio, sono stato strigliato e messo a mollo in acqua praticamente bollente, massaggiato e strapazzato e poi infilato dentro questa vestaglia. Nel frattempo i miei vestiti venivano lavati e stirati, gli stivali lucidati e le calze sostituite. Fantastico! Poi mi hanno dato il sakè e questi...” Infilò una mano nella manica e mostrò a Babcott due monete di forma ovale e un rotolo coperto di caratteri. “Mio Dio, siete stato ben pagato. Questi sono oban d'oro... potrete offrire champagne per almeno una settimana! Il sergente mi ha detto che siete stato chiamato per una visita a domicilio.” Risero. “Era un daimyo?” “Non credo; era un giovane, un samurai. Non credo di aver potuto fare molto per lui. Riuscite a decifrare quello che c'è scritto?” “No. Ma Lim sì. Lim!” “Si, padrone?” “Cosa c'è scritto?” Lim prese il rotolo, sbarrò gli occhi, rilesse il testo con attenzione e infine disse a Hoag in cantonese: “Dice così: “Dottore di Medicina Saggio e Illuminato ha svolto grande servizio. Nel nome degli shishi di Satsuma dategli tutto l'aiuto di cui ha bisogno”.” Lim indicò la firma con dita tremanti. “Mi dispiace, signore, non riesco a leggere il nome.” “Perché hai paura?” gli domandò Hoag in cantonese. A disagio Lim rispose: “Gli shishi sono ribelli, banditi a cui la Bakufu dà la caccia. Sono samurai ma cattivi, signore”. Con impazienza Babcott s'intromise. “Che succede, Ronald?” Hoag glielo raccontò. “Buon Dio, un bandito? Cos'è accaduto?” Hoag si versò un altro whisky e

cominciò a descrivere dettagliatamente la donna, il giovane, la ferita e il suo intervento. ”... A quanto pare il poveretto dev'essere stato ferito due o tre settimane fa...” “Cristo Onnipotente!” Babcott balzò in piedi mentre ogni tassello del mosaico andava al suo posto, e fece rovesciare a Hoag parte del suo bicchiere di whisky. “Siete impazzito?” esclamò Hoag. “Riuscireste a ritornare alla casa?” “Come? Be', be' sì, credo di sì, ma cosa...” “Andiamo, svelto.” Babcott corse fuori chiamando: “Sergente di guardia!”. Percorsero a grandi passi un vicolo secondario guidati da Hoag, sempre con la sua yukata ma con gli stivali al posto degli zoccoli, Babcott subito dietro, il sergente e dieci soldati al seguito, tutti armati. I pochi passanti muniti di lanterne vedendoli si allontanarono di corsa. In cielo splendeva luminosa la luna. Più in fretta ora. Una svolta sbagliata. Hoag imprecò poi tornò sui suoi passi, rifletté e ritrovò l'imboccatura seminascosta del vicolo giusto. Avanti. Un altro vicolo. Si fermò e indicò davanti a sé. A venti metri c'era la porta della casa. Il sergente e i soldati entrarono in azione senza indugio. Due si misero di guardia al muro esterno, quattro sfondarono la porta. Hoag e Babcott li seguirono nella stanza. Anche loro erano armati e sapevano entrambi sparare piuttosto bene, talento indispensabile alla sopravvivenza di qualsiasi civile europeo in Asia. Percorsero il sentiero, salirono i gradini. Il sergente scostò la porta shoji. La stanza era vuota. Senza esitare entrò nelle altre stanze. Nessuna presenza umana in nessuna delle cinque stanze né nella cucina o nel piccolo gabinetto esterno. Tornarono in giardino. “Dividiamoci, ragazzi, Jones e Berk da quella parte, voi due di là, voi due restate qui di guardia e per l'amor di Dio tenete gli occhi aperti!” Gli uomini si addentrarono nel giardino in coppia per coprirsi le spalle perchè la lezione del primo assassinio era servita. Scrutarono in ogni angolo e percorsero tutto il perimetro col cane dei fucili alzato. Niente. Quando il sergente tornò era sudato. “Nemmeno l'ombra di un giallo, signore! Neanche un sussurro, niente. Siete sicuro che sia questa la casa giusta, signore?” Hoag indicò una macchia scura sulla veranda. “E' lì che ho operato.” Babcott si guardò intorno imprecando. La casa, circondata da altre case, lasciava vedere soltanto i tetti al di sopra della staccionata. Non c'erano altri

nascondigli. “Devono essersene andati appena voi siete uscito.” Hoag si asciugò il sudore dalla fronte; in cuor suo era lieto che la ragazza fosse sfuggita alla trappola. Dopo essersi diretto verso il bagno purtroppo non l'aveva più incontrata. Era stata la cameriera a consegnargli il denaro, il rotolo e il barile e a dirgli che l'indomani la sua padrona avrebbe mandato qualcuno a prenderlo, poi l'aveva ringraziato a suo nome. Nei confronti del ragazzo adesso i sentimenti di Hoag erano ambivalenti. Poiché il giovane era soltanto un paziente, come medico voleva soltanto che guarisse. “Non mi è mai passato per la testa che potesse essere uno degli assassini, ma qualora l'avessi pensato non avrebbe fatto alcuna differenza, non ai fini dell'intervento. Perlomeno adesso sappiamo come si chiama.” “Scommetto mille oban contro un bottone che vi hanno dato un nome falso, e non sappiamo neppure se il ragazzo era davvero suo fratello. Se lui era uno shishi come dice il rotolo avranno mentito anche sulla parentela, inoltre essere ambigui è un vecchio uso giapponese.” Babcott sospirò. “E in fondo non siamo sicuri che si trattasse davvero del tizio della Tokaidò. Ho solo un vago sospetto. Che possibilità ha di sopravvivere?” “Il trasferimento non gli avrà certo giovato.” Hoag rifletté un istante. Era così tozzo e sgraziato accanto all'aitante Babcott, ma nessuno dei due se ne era mai reso conto. “Ho controllato prima di partire. Il polso era debole ma regolare, credo di aver tolto tutto il tessuto morto ma...“ si strinse nelle spalle, “sapete come si dice: “Paghi e ti prendi i tuoi rischi”. Non scommetterci. Comunque chi può saperlo? Adesso raccontatemi tutti i particolari dell'attacco.” Sulla via del ritorno Babcott fece una dettagliata relazione dell'accaduto e gli parlò di Malcolm Struan. “Malcolm insomma mi preoccupa” concluse, “ma Angélique è pur sempre la migliore infermiera che gli potesse capitare.” “Jamie mi ha detto la stessa cosa. So bene che niente è efficace come una bella donna nella stanza di un malato. Malcolm ha perso molti chili, e tutto il suo spirito, ma è giovane ed è sempre stato il più forte della famiglia, dopo la madre beninteso. Se i punti tengono dovrebbe cavarsela. Mi pare che abbiate fatto un ottimo lavoro, George. Anche se per lui, povero ragazzo, sarà una storia lunga. E' molto preso dalla ragazza, non è vero?” “Sì. Ed è ricambiato. Uomo fortunato.” Camminarono in silenzio per un momento poi Hoag disse in tono esitante: “Io... credo di non dovervi dire che la madre di Malcolm è assolutamente contraria a qualsiasi legame con la signorina.” “Sì, l'ho sentito dire. Ciò creerà qualche problema.” “Allora pensate che Malcolm faccia sul serio?”

“Più serio di così non sarebbe possibile. E lei è una ragazza speciale.” “La conoscete?” “Angélique? Non bene, non come paziente, anche se come ho detto l'ho conosciuta in un momento particolarmente difficile. E voi?” Hoag scosse il capo. “L'ho incontrata a qualche festa a Hong Kong, alle corse, occasioni mondane. Da quando è arrivata, tre o quattro mesi fa, è stata la reginetta di ogni ballo, e giustamente. Non l'ho mai incontrata come medico. C'è un dottore francese a Hong Kong adesso, figuratevi! Ma sono d'accordo con voi che è stupenda. Non necessariamente la moglie ideale per Malcolm, se vuole proprio sposarla.” “Perché non è inglese? E non è ricca?” “Per queste due ragioni e per altre ancora. Mi dispiace doverlo ammettere ma io non mi fido dei francesi, è gentaglia, è una questione genetica. Suo padre ne è un perfetto esempio, cortese e affascinante in superficie ma se si gratta un pò sotto appare il mascalzone. Mi dispiace ma non sceglierei sua figlia come sposa per il mio, quando avrà l'età per accasarsi.” Babcott si domandò se Hoag sapesse che lui era al corrente dello scandalo che riguardava la sua vita: quando il giovane dottor Hoag, venticinque anni prima, era andato in Bengala con la Compagnia delle Indie Orientali, contravvenendo alle convenzioni e al parere dei suoi superiori aveva sposato una ragazza indiana. Era stato quindi congedato e rispedito in patria in disgrazia. Da quell'unione erano nati due bambini, un maschio e una femmina, e poi sua moglie era morta: il freddo, la nebbia e l'umidità londinese erano stati una condanna a morte per una donna indiana. La gente è strana, pensò Babcott. Ecco qui un inglese bravo e coraggioso, un grande chirurgo con due figli mezzi indiani e quindi socialmente inaccettabili in patria che critica la famiglia di Angélique. Che stupidaggine, e cercare di sfuggire alla verità è ancora più stupido. Si, ma non cerchi forse di sfuggire anche tu? Hai ventotto anni, molto tempo per sposarti, ma troverai da qualche parte una donna più eccitante di Angélique? E soprattutto la troverai in Asia dove trascorrerai tutta la tua esistenza fino al momento di ritirarti dalla professione? Non la troverò, lo so bene, ma per fortuna è probabile che Struan la sposi e così la faccenda è sistemata. E io gli darò una mano, per Dio! “Forse la signora è troppo protettiva, come tutte le mamme” disse, conoscendo l'importanza del parere di Hoag per la famiglia Struan. “E si oppone essenzialmente al fatto che lui si voglia impegnare così presto. Ciò è comprensibile. Adesso lui è tai-pan e questo gli assorbirà tutte le energie. Ma non fraintendetemi; io credo che Angélique sia una brava ragazza, coraggiosa e per bene quanto chiunque potrebbe desiderare, e per

cavarsela Malcolm avrà bisogno di tutto l'aiuto che riuscirà a trovare.” Hoag avvertì la passione trattenuta, ne prese nota e accantonò l'argomento. Ripensò a Londra, dove sua sorella e il cognato si occupavano dei suoi figli, e si odiò, come sempre quando gli capitava di pensarci per aver lasciato l'India, per essersi piegato alle convenzioni e aver ucciso la bella Arjumand. Devo essere stato pazzo a portare la mia amata moglie in quel sudicio inverno londinese, soli, senza un quattrino, senza lavoro, costretto a ricominciare daccapo. Cristo, dovevo restare e dare battaglia alla Compagnia, alla fine la mia abilità di chirurgo li avrebbe costretti ad accettarmi e saremmo stati salvi... Le due sentinelle rimaste di guardia li salutarono. Nella sala da pranzo il tavolo era apparecchiato per due. “Whisky o champagne?” chiese Babcott. Poi chiamò Lun. “Champagne. Posso offrire io?” “Già fatto” rispose Babcott aprendo il vino che aspettava in un porta ghiaccio d'argento in stile georgiano. “Alla salute! LUN!” “Alla felicità!” Brindarono. “Perfetto! Com'è il vostro cuoco?” “Quasi tremendo, in compenso la qualità del pesce è ottima, gamberetti, ostriche e dozzine di pesci diversi. Dov'è quel demonio di Lun?” Babcott sospirò. “Quell'infame ha bisogno di una bastonata. Insultatelo quando arriva.” Ma la stanza del maggiordomo era vuota. Lun non era nemmeno in cucina. Alla fine lo trovarono in giardino, accanto al sentiero. Era stato decapitato e la sua testa era stata spinta un pò in disparte. Al suo posto c'era la testa di una scimmia. “No, signora” disse molto spaventata la mama-san. “Non potete lasciare qui Ori-san fino a domani. Deve andare via all'alba.” “Spiacente, Ori-san resterà fino a...” “Spiacente, dall'attacco al primo ministro Anjo la caccia agli shishi si è intensificata e le taglie per qualsiasi informazione sono andate alle stelle. La pena è la morte per chiunque, per chiunque dia loro riparo.” “Quell'ordine riguarda Edo, non Kanagawa” ripeté Sumomo. “Spiacente ma qualcuno ha parlato” disse la mama-san a denti stretti. Si chiamava Noriko. In quel momento le due donne erano sole nelle sue stanze private alla Locanda dei Fiori di Mezzanotte. Erano entrambe inginocchiate su cuscini rossi e la stanza era illuminata dalle candele; un tavolino basso le separava. Noriko era appena tornata da un difficile incontro con il ricco mercante usuraio che aveva alzato l'interesse della sua ipoteca dal trenta al trentacinque per cento, adducendo come scusa il pericolo in cui versava lo

stato in quel momento. Cane bastardo, pensò furente, poi accantonò quel problema per affrontarne un altro ancora più pericoloso. “Questa mattina ho saputo che la Ronda Armata è ...” “Chi?” “La Ronda Armata. Sono pattuglie speciali di uomini della Bakufu che vengono a interrogare la gente, uomini senza pietà. Sono arrivati di notte. Mi aspetto di ricevere una loro visita da un momento all'altro. Spiacente, ma all'alba deve andarsene.” “Spiacente, ma lo terrai qui fino a quando sarà guarito.” “Non ne ho il coraggio! Non dopo quello che è successo alla Locanda dei Quarantasette Ronin. Gli uomini della Ronda non conoscono pietà. Non voglio che questa testa mi venga tagliata.” “Ma quella era Edo, qui siamo a Kanagawa. Questa è la Locanda dei Fiori di Mezzanotte. Spiacente, Hiraga-san insisterebbe.” “Nessuno può insistere qui, signora” rispose Noriko con asprezza. “Nemmeno Hiraga-san. Devo pensare a mio figlio e alla mia Casa.” “E giusto. E io devo pensare all'amico di mio fratello e alleato di Hiraga. Devo anche ricordare il voto di mio fratello. Inoltre sono autorizzata a pagare i suoi debiti.” Noriko la guardò a bocca aperta. “Tutti i debiti di Shorin?” “Metà adesso e metà quando sonno-joi sarà al potere.” “Accetto” disse Noriko, così sbalordita da quell'inaspettato colpo di fortuna da dimenticarsi di trattare sul prezzo. “Ma niente dottori gai-jin e soltanto per una settimana.” “D'accordo.” La ragazza estrasse da una tasca segreta della manica una piccola borsa. Noriko trattenne il respiro alla vista di tutte quelle monete d'oro. “Ecco qui dieci oban. Mi rilascerai una ricevuta dettagliata per la metà che abbiamo convenuto quando ce ne andremo. Dove possiamo mettere al sicuro Ori-san?” Noriko si maledisse per aver avuto tanta fretta di accettare, ma ormai non poteva più tirarsi indietro per non perdere la faccia. Mentre rifletteva sul da farsi osservava la ragazza seduta davanti a lei, Sumomo Anato, sorella minore di Shorin Anato, lo shishi, il Selvaggio, il ragazzo che tanti anni prima lei aveva iniziato al mondo adulto. Quanta passione, che vigore per un ragazzo tanto giovane, pensò con rimpianto. E che eccezionale cortigiana sarebbe diventata Sumomo. Insieme potremmo guadagnare una fortuna, tra un anno o due si sposerebbe un daimyo, e se è ancora vergine che prezzo potrei ottenere! E' bella Proprio come aveva detto Shorin, una tipica satsuma, e secondo lui è una samurai in tutto e per tutto. Bellissima. “Quanti anni hai, signora?” Sumomo sembrò stupita da quella domanda. “Sedici.” “Sai come è morto tuo fratello?”

“Sì. Lo vendicherò.” “Te l'ha raccontato Hiraga?” “Tu fai troppe domande” disse Sumomo tagliente. Noriko era divertita. “Nel gioco che tu e io stiamo giocando, anche se tu sei samurai e io mama-san, siamo sorelle.” “Davvero?” “Oh si, spiacente, ma è il gioco molto serio di proteggere i nostri uomini, di fare da schermo alla loro audacia o stupidità, dipende su quale lato ti trovi, rischiando le nostre vite per proteggerli da loro stessi, è un gioco che merita fiducia da entrambe le parti. Fiducia di sorelle di sangue. Dunque è stato Hiraga a raccontarti di Shorin?” Sumomo sapeva di trovarsi in una posizione indifendibile. “Sì.” “Hiraga è il tuo amante?” Sumomo socchiuse gli occhi. “Hiraga è... era fidanzato con me prima che... prima che se ne andasse per servire sonnojoi.” La mama-san sbatté le palpebre. “Un samurai satsuma acconsente a promettere la figlia a un samurai choshu, shishi o no, ronin o no?” “Mio padre non approvava il nostro fidanzamento, Né l'approvava mia madre. A mia volta io non approvavo la scelta che la famiglia aveva fatto per me.” “Ah, mi dispiace.” Noriko era rattristata perchè sapeva bene che per una ragazza ciò significava subire pressioni continue, essere confinata in isolamento o peggio: “Sei stata ripudiata dalla tua famiglia?”. Sumomo restò immobile e parlò con calma: “Alcuni mesi fa ho deciso di seguire mio fratello e Hiraga-san per risparmiare a mio padre la vergogna. Adesso sono ronin”. “Sei impazzita? Le donne non possono diventare ronin.” “Noriko” disse Sumomo giocando d'azzardo, “hai detto che dovremmo essere sorelle di sangue.” Nella sua mano comparve uno stiletto. Noriko sbatté gli occhi stupita perchè non aveva visto da dove era uscito. Guardò Sumomo pungersi il dito e tenderle il coltello. Eseguì a sua volta senza esitare e poi appoggiò il polpastrello a quello di Sumomo. Le due donne si inchinarono con gravità. “Sono onorata. Grazie, Sumomosan.” Sorridendo la mama-san restituì il coltello. “Adesso anch'io sono un pochino samurai, vero?” Il coltello scomparve nella manica. “Quando l'imperatore ritornerà al potere sarà Lui a nominare samurai quelli che l'avranno meritato. Noi faremo una petizione per te, Hiraga-san, Ori e io.” Noriko si inchinò ringraziandola ancora una volta; trovava quell'idea piacevole anche se irreale e riteneva che non sarebbe mai vissuta abbastanza a lungo per vedere l'impensabile accadere: il giorno della fine dello shògunato Toranaga. “A nome di tutta la mia stirpe, grazie. Adesso sakè!”

“No grazie, spiacente, il sensei Katsumata ha fatto giurare alle donne della sua classe di rinunciare al sakè perchè ottunde i sensi e distoglie dall'obiettivo. Dove si trova Hiraga-san, prego?” Noriko la guardò nascondendo un sorriso. “Katsumata il grande sensei? Hai studiato con lui? Shorin ci ha raccontato che sai usare la spada, il coltello e lo shuriken. E' vero?” Con stupefacente velocità la mano di Sumomo si infilò nell'obi e ne uscì scagliando l'arma nella stanza. Il piccolo cerchio d'acciaio a cinque lame, affilate come un rasoio, andò a infilarsi con violenza nel centro esatto di una colonna. Sumomo non sembrava essersi neppure mossa. “Per favore, dov'è Hiraga-san?” ripeté con gentilezza.

Capitolo 17 †

Edo Quella notte Hiraga guidò il silenzioso attacco al palazzo del daimyo oltre la palizzata, nel secondo anello esterno alle mura del castello. Correvano attraverso i giardini verso l'ingresso posteriore, nella notte illuminata da una luna incerta. I suoi uomini, sei in tutto, indossavano un corto kimono nero da combattimento notturno, senza armatura per essere più rapidi e silenziosi. Erano tutti armati di spade, coltelli e lacci per strangolare. Erano ronin choshu convocati con grande urgenza da Kanagawa per quell'incursione. Intorno al palazzo sorgevano le baracche dei soldati, le scuderie e i quartieri della servitù. In condizioni normali ospitavano cinquecento guerrieri, oltre alla famiglia e ai domestici del daimyo, ma quella notte erano sinistramente deserti. C'erano soltanto due assonnate sentinelle a guardia della porta posteriore che videro gli incursori troppo tardi per dare l'allarme, e morirono. Akimoto indossò l'uniforme di una delle due sentinelle e poi, nascosti i corpi dietro un cespuglio, raggiunse gli altri sulla veranda. Aspettarono immobili, l'orecchio teso ad ascoltare. Se fosse giunto un grido d'avvertimento avrebbero rinunciato alla missione all'istante. “Se ci sarà pericolo ci ritireremo” aveva detto Hiraga al crepuscolo, quando i suoi uomini erano arrivati a Edo. “Ci basterà essere penetrati nel castello. Il nostro obiettivo di questa notte è il terrore, uccidere un uomo e spargere il terrore, far capire a quella gente che non c'è uomo o luogo al mondo che non possa essere raggiunto dalle nostre spie. Diffondere il terrore, entrare e uscire velocemente, effetto sorpresa e nessuna perdita. L'opportunità di questa notte è unica.” Sorrise. “Quando Anjo e gli Anziani hanno cancellato il sankin-kotai hanno scavato la fossa allo shògunato.” “Incendiamo il palazzo, cugino?” chiese Akimoto in tono allegro. “Dopo l'esecuzione.” “E lui chi è?” “E' vecchio, con i capelli grigi, un ometto basso e magro, si chiama Utani, è un Anziano del Roju.” Erano rimasti tutti di stucco. “Il daimyo di Watasa?” “Sì. Ma sfortunatamente non l'ho mai incontrato. Qualcuno di voi lo conosce?” “Penso di poterlo riconoscere” rispose un giovane di diciotto anni con una

brutta cicatrice che gli deturpava il volto. “E' scheletrico come un pollo malato. L'ho visto un giorno a Kyòto. Allora stanotte mettiamo un Anziano a dormire eh, un daimyo? Bene!” Sorrise e si grattò la cicatrice, ricordo del fallito tentativo choshu di impossessarsi delle Porte del palazzo a Kyòto, in primavera. “Utani non andrà più da nessuna da parte dopo questa notte. E un pazzo a dormire fuori dalle mura e farlo sapere in giro! E senza guardie poi! Stupido!” Joun, un ragazzo di diciassette anni, il più prudente del gruppo, si intromise: “Scusami, Hiraga-san, ma sei certo che non si tratti di una falsa informazione per farci cadere in trappola? Yoshi viene detto la Volpe e Anjo è persino più scaltro di lui. Sulle nostre teste ci sono grosse taglie, non è vero? Sono d'accordo con mio fratello, perchè Utani dovrebbe comportarsi in modo così stupido?”. “Perchè ha un incontro segreto. E un pederasta.” Gli uomini fissarono Hiraga senza capire. “E perchè dovrebbe tenerlo segreto?” “Perché il ragazzo è un intimo di Anjo.” “So ku!” Gli occhi di Joun scintillarono. “In questo caso credo che lo terrei segreto anch'io. Ma perchè un bel ragazzino con un protettore potente dovrebbe concedersi a un uomo come Utani?” Hiraga si strinse nelle spalle. “Per soldi, per quale altro motivo? Nori è avaro, Utani prodigo... i suoi contadini non sono forse i più tassati di tutto il Giappone? I suoi debiti non arrivano forse alle stelle? Non si dice forse che consumi oban d'oro come se fossero chicchi di grano? In un modo o nell'altro Anjo presto lascerà questa terra. Forse il bel ragazzino pensa che Utani gli sopravviverà e che quindi valga la pena di correre il rischio. Utani poi ha influenza a corte, giusto? Koku! Perché no? Probabilmente la sua famiglia destituita sta annegando nei debiti. Tutti i samurai di grado inferiore a quello di hirazamurai non vivono forse nell'indigenza?” “E vero” risposero gli altri in coro. “Ed è così fin dal quarto shògun” aggiunse con amarezza il diciottenne, “da quasi duecento anni. I daimyo si prendono le tasse, vendono il rango di samurai ai dannati mercanti e decurtano le nostre paghe. I daimyo ci hanno traditi, hanno tradito i loro fedeli sudditi!” “Hai ragione” ribatté Akimoto furente. “Mio padre deve vendersi come bracciante per sfamare i miei fratelli...” “A nostro padre non sono rimaste che le spade, niente casa, soltanto una capanna” disse Joun. “Siamo indebitati così fin dall'epoca del bisnonno, non riusciremo mai a restituire i prestiti.” “Io saprei come fare per sistemare quei luridi adoratori del Dio denaro: cancellerei i debiti oppure li ucciderei” disse un altro.

“Se i daimyo a volte si sdebitano così, perchè non dovremmo farlo anche noi?” “Ottima idea” esclamò Akimoto, “ma ti costerebbe la testa. Il principe Ogama farebbe di te un esempio per tutti nel caso i suoi usurai smettessero di anticipargli denaro su... a che punto siamo adesso?... sulle tasse dei prossimi quattro anni.” Un altro disse: “Lo stipendio della mia famiglia non è cambiato dall'epoca di Sekigahara, e da allora il costo del riso è centuplicato. Dovremo diventare anche noi mercanti o fabbricanti di sakè. Due zii e un fratello maggiore hanno rinunciato alle loro spade per darsi al commercio. “E' terribile, si, ma ci ho pensato anch'io.” “I daimyo ci hanno traditi.” “Quasi tutti i daimyo” precisò Hiraga. “Non tutti.” “E' vero” rispose Akimoto. “Non importa, sceglieremo il nostro daimyo quando avremo scacciato i barbari e messo fine allo shògunato Toranaga. Il nuovo shògun ci darà cibo a sufficienza per sfamare le nostre famiglie, armi migliori e magari persino qualche fucile dei gai-jin. “Lo shògun si terrà i fucili per i suoi uomini.” “Perché dovrebbe, Hiraga? Ci saranno armi per tutti. Non è forse vero che i Toranaga si accaparrano una cifra che va da cinque a dieci milioni di koku all'anno? E' più che sufficiente per armare tutti i samurai del paese in modo adeguato. Ascolta, se ci dobbiamo dividere, dove ci ritroviamo?” “Nella Casa dei Salici Verdi, a sud del quarto ponte, non qui. Se non vi sarà possibile nascondetevi da qualche parte e trovate il modo di tornare a Kanagawa...” In piedi sulla veranda, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi segnale di pericolo, Hiraga sorrise godendo di quella sensazione, con il cuore in gola, sentendo la gioia di vivere e il rischio di morire ogni giorno più vicino. Tra pochi istanti ci muoveremo, in azione finalmente... Per giorni era stato in attesa nel tempio accanto alla Legazione britannica, aspettando un'occasione per appiccarle fuoco. Ma c'erano sempre troppe truppe nemiche, stranieri e samurai. Aveva vissuto alla Legazione come giardiniere spiando, ascoltando, studiando piani, sarebbe stato così facile uccidere il barbaro spilungone che era sfuggito all'attacco sulla Tokaidò. Era incredibile che su tre uomini e una donna, Shorin e Ori fossero riusciti a fare soltanto una vittima. Ah, Tokaidò! Tokaidò vuol dire Ori, Ori vuol dire Shorin che vuol dire Sumomo che compirà diciassette anni il mese prossimo. Ignorerò la lettera di mio padre, la ignorerò! Non accetterò il perdono di Ogama se per ottenerlo devo rinnegare sonno-joi. Seguirò la scia di sonno-joi, a qualsiasi morte mi condurrà. Sono rimasto solo io adesso. Ori è morto o morirà domani. Anche Shorin è

motto. E Sumomo? La notte scorsa le lacrime avevano bagnato le sue guance durante un sogno, e Sumomo era presente con il suo bushido, il suo fuoco, il suo profumo e il corpo che lo chiamava ed era irraggiungibile. Dormire era impossibile, perciò si era seduto nella posizione del loto ed era ricorso allo zen per dare un pò di pace alla sua mente. Poi quella mattina, dono degli dei, il furtivo messaggio in codice dalla mama-san di Koiko che aveva saputo con altrettanta segretezza dalla cameriera di Koiko della scappatella di Utani. Eeeh, pensò con gioia, mi chiedo cosa farebbe Yoshi se sapesse che i nostri tentacoli lo raggiungono persino nel suo letto e si stringono intorno ai suoi testicoli? Sicuro ormai che non erano stati scoperti, balzò verso la porta e l'aprì forzandola con il coltello. Entrarono in fretta lasciando di guardia Akimoto nella sua uniforme da sentinella. Gli altri seguirono Hiraga silenziosamente, lungo le scale verso gli appartamenti delle donne. Tutto era molto lussuoso, i legni migliori, i tatami più fini, la più pura carta di riso per gli shoji e gli oli più fragranti per le lampade e le candele. Svoltarono in un angolo del corridoio: sorpresa, la guardia li fissò senza capire. Aprì la bocca ma non emise alcun suono. Il coltello di Hiraga l'aveva soffocato sul nascere. Scavalcò il corpo, si diresse verso l'estremità del corridoio ed esitò un istante per fare il punto della situazione. Era un cul-de-sac. Su entrambi i lati c'erano pareti di shoji scorrevoli dietro le quali si aprivano le stanze. Di fronte c'era una porta più grande e più decorata delle altre. In tutte le stanze erano accese le lampade a olio. Sentì qualcuno russare e il respiro pesante di altre persone. In silenzio fece cenno a Todo e a Joun di seguirlo e agli altri di restare di guardia, poi avanzò come un predatore notturno. Il suono del respiro pesante si fece più forte. Un cenno col capo a Joun. Immediatamente il giovane gli passò davanti e, raggiunta la porta più lontana, a un altro segnale di Hiraga fece scorrere lo shoji. Hiraga balzò nella stanza seguito da Todo. Due uomini giacevano proni sulle belle coperte di seta imbottita dei futon, nudi e avvinghiati, il giovane sotto e l'anziano sopra di lui ansimava abbarbicato al suo corpo menando gran colpi, dimentico di tutto. Hiraga si avvicinò, alzò la spada fin dietro la testa con le due mani e stringendo con forza l'elsa l'abbassò infilzando i due corpi a pochi centimetri dal cuore e facendola penetrare fin nel tatami trafiggendo qualsiasi cosa incontrasse sul suo fatale percorso. L'uomo anziano morì all'istante con uno spasimo e un tremito delle

membra. Il giovane lottò, incapace di girarsi, senza poter muovere il busto, in grado soltanto di agitare braccia, gambe e testa ma non abbastanza per vedere né capire cos'era successo eccetto che la sua vita se ne andava. Un urlo di terrore gli si formò in gola ma Todo con un balzo gli fu accanto per soffocarglielo con il laccio, un istante troppo tardi. Un brandello di quell'urlo restò sospeso nell'aria fetida. Todo e Hiraga si precipitarono verso la porta, i sensi all'erta. Hiraga impugnava il coltello. Todo, Joun e i loro compagni rimasti nel corridoio sguainarono le spade con i cuori che battevano all'impazzata, pronti alla carica, alla fuga o alla lotta, a morire ma anche a combattere fino all'ultimo respiro. Alle spalle di Hiraga le mani delicate del giovane si affannavano intorno al collo, le unghie lunghe, perfette e smaltate come farfalle intorno al filo di ferro. Le dita tremarono e si irrigidirono e con un ultimo tremito giacquero, immobili per sempre. Silenzio. Da qualche parte qualcuno si stiracchiò rumorosamente e tornò a dormire. Nessun allarme né grida d'avvertimento. Gradualmente i samurai si ripresero dallo spavento; erano coperti di sudore. Hiraga ordinò la ritirata. Ubbidirono tutti immediatamente eccetto Joun che ritornò nella stanza per recuperare la spada di Hiraga. Diede uno strattone ai due corpi ma tutta la sua forza non gli bastò a recuperare l'arma. Hiraga gli fece cenno di allontanarsi, si cimentò a sua volta e falli. Su un basso porta armi di legno laccato giacevano le spade dei due uomini morti. Hiraga ne prese una. Sulla soglia si girò a guardare. Nella luce chiara e immobile della lampada a olio i due corpi sembravano una gigantesca e mostruosa libellula con molte zampe e una testa umana; le coperte spiegazzate erano le sue ali colorate, la spada samurai un gigantesco spillone d'argento, Vide il volto del ragazzino per la prima volta, era un volto molto bello. Yoshi passeggiava sul parapetto del castello accanto a Koiko. Era più alto di almeno una testa. Nella brezza che veniva dal mare e nella bassa marea c'era l'annuncio del freddo ma Yoshi non vi badò. Ancora una volta i suoi occhi si spostarono dalla città, laggiù in basso, alla luna; era completamente assorto nei suoi pensieri. Koiko aspettava paziente. Indossava un kimono dello shantung più prezioso con un sotto kimono scarlatto e i capelli sciolti le cadevano sulle spalle fino alla vita. Il kimono di Yoshi invece era di seta, di tipo comune però, come le spade, comuni ma affilate. “A che cosa state pensando, sire?” domandò Koiko ritenendo che fosse

giunto il momento di scacciare la sua malinconia. Benché fossero soli parlò a bassa voce, non c'era un solo angolo del castello in cui ci si potesse sentire sicuri fino in fondo. “Kyòto” rispose lui a voce altrettanto bassa. “Accompagnerete lo shògun Nobusada?” Scosse il capo in segno di diniego; in realtà invece aveva deciso che sarebbe andato a Kyòto prima dell'arrivo dello shògun. La consuetudine all'inganno aveva reso le menzogne automatiche. Devo trovare il modo di fermare quello stupido ragazzino e diventare l'unico tramite tra l'imperatore e lo shògunato, stava pensando, assillato dalle difficoltà che negli ultimi tempi non gli avevano dato tregua: la follia di quella visita di stato, Anjo che con la sua influenza sul Consiglio era riuscito a ottenerne l'approvazione, Anjo con il suo odio e i suoi complotti, questo castello in cui sono chiuso in trappola, la moltitudine di nemici in tutto il paese, primi fra tutti Sanjiro di Satsuma, Hiro di Tosa e Ogama di Choshu, che adesso è padrone delle Porte che sono nostre per diritto ereditario. E in più ci sono i gai-jin, in attesa di piombarci addosso come lupi affamati. Bisogna risolvere il problema degli stranieri in modo definitivo. Il giovane Nobusada e la principessa devono essere neutralizzati, in modo definitivo. La soluzione definitiva per i gai-jin è chiara: dobbiamo escogitare un piano che a qualsiasi prezzo ci faccia diventare più ricchi e meglio armati del nemico straniero. E ciò deve restare segreto ora e per sempre. Come raggiungere questo obiettivo? Ancora non lo so. Ma per motivi politici nel frattempo dobbiamo lusingarli, disorientarli, utilizzare i loro sciocchi atteggiamenti contro di loro e impiegare le nostre superiori capacità per farli cadere in una trappola dorata. Nobusada? E' altrettanto chiaro. Ma non è lui la vera minaccia. La vera minaccia è sua moglie. Non mi devo preoccupare di Nobusada, è la principessa Yazu la vera forza dietro il ragazzo. Si abbandonò alle fantasticherie e immaginò la principessa che, dotata di un pene, abusava di un passivo Nobusada. Sorrise tra sé. Sarebbe una magnifica shunga, pensò divertito. Le shunga erano incisioni colorate a soggetto erotico, così popolari e apprezzate tra i mercanti e i negozianti di Edo che lo shògunato le aveva vietate da più di un secolo perchè troppo licenziose per la classe inferiore e perchè rischiavano di essere usate come libelli contro i potenti. Nell'immutabile gerarchia nipponica istituita dal tairò, il dittatore Nakamura, e resa permanente dallo shògun Toranaga, prima venivano i samurai, secondi i coltivatori, terzi gli artigiani d'ogni tipo e ultimi, disprezzati da tutti, i mercanti: “parassiti dell'altrui lavoro” come li definiva

il Legato. Disprezzati perchè tutti avevano bisogno della loro abilità e della loro ricchezza, soprattutto della ricchezza. In particolare i samurai. Perciò le regole, alcune regole perlomeno, potevano essere allentate. Quindi a Edo, Osaka e Nagasaki, dove vivevano i mercanti più ricchi, le shunga, bandite dalla legge, venivano tuttavia dipinte, incise e tranquillamente prodotte dai migliori artisti e stampatori del paese. In ogni epoca gli artisti avevano gareggiato tra loro per conquistare fama e fortuna vendendone a migliaia. Immagini erotiche molto esplicite ma sempre con genitali gargantueschi, allegramente sproporzionati, le shunga migliori avevano dettagli perfetti e mobili. Altrettanto apprezzati erano gli ukiyo-e, ritratti degli attori più famosi, costante argomento di pettegolezzi; scandalo e licenziosità. Siccome la legge non permetteva che le donne recitassero, erano attori di sesso maschile, gli on-nagata a interpretare i ruoli femminili. E andavano soprattutto a ruba i ritratti delle cortigiane più famose. “Vorrei che qualcuno eseguisse il tuo ritratto. E un peccato che Hiroshige e Hokusai siano morti.” Koiko rise. “Come dovrei posare, principe?” “Non a letto” rispose Yoshi ridendo con lei. Poiché accadeva molto di rado che lui ridesse, Koiko si compiacque con se stessa della vittoria. “Mentre cammini per la strada con un ombrellino verde e rosa e il kimono verde con la carpa d'oro.” “Magari, principe, anziché lungo una strada, in un giardino al tramonto mentre inseguo le lucciole.” “Ah sì, molto meglio!” Yoshi sorrise ricordando le rare sere estive della sua giovinezza in cui era stato autorizzato ad allontanarsi dagli studi. Insieme ai fratelli e alle sorelle e agli amici usciva nei campi a dare la caccia alle lucciole con sottilissimi retini e poi le chiudeva in gabbie minuscole e restava a guardare la luce che miracolosamente lampeggiava, componendo poemi, ridendo e scherzando, giovane e irresponsabile. “Come mi sento adesso con te” mormorò. “Come dite, signore?” “Tu mi fai dimenticare me stesso. Tutto di te mi piace.” Per tutta risposta lei gli sfiorò un braccio, dicendo tutto e niente, lieta del complimento, concentrata su di lui nel desiderio di leggerne pensieri e bisogni, nel desiderio di essere perfetta per compiacerlo. Ma questo gioco è stancante, pensò un'altra volta. Questo padrone è troppo complicato, troppo acuto, troppo imprevedibile, troppo solenne e difficile da divertire. Mi chiedo per quanto tempo mi terrà con sé. Io comincio a odiare il castello, a odiare questo esilio, le prove a cui sono continuamente sottoposta, la lontananza da casa, dalle risate e dalle

chiacchiere delle altre ragazze, Raggio di Luna, Primavera, Petalo e soprattutto la mia cara mama-san, Meikin. Sì, ma mi piace molto essere al centro del mondo, adoro guadagnare il mio koku quotidiano, mi esalta essere ciò che sono, cortigiana del più nobile padrone che in realtà è soltanto un uomo come gli altri, e come tutti gli uomini non è che un bambino irrequieto che finge d'essere complicato ma in realtà si lascia controllare con una caramella e uno schiaffo, come sempre, e che, se sei intelligente, decide di fare soltanto quello che tu hai già deciso che farà. La sua risata trillò. “Che cosa c'è?” “Mi fate felice, mi fate sentire viva, sire. Vi chiamerò Signore Dispensatore di Felicità!” Yoshi si sentì pervaso da una sensazione di calore. “Anche a letto?” “Anche a letto.” Sottobraccio si avviarono verso l'interno lasciando la luce della luna. “Guarda là” esclamò lui all'improvviso. In lontananza uno dei palazzi stava bruciando. Le fiamme si alzavano in cielo tra nubi di fumo scuro. Sentirono giungere da lontano le deboli campane che annunciavano il fuoco e videro le persone piccole come formiche affannarsi intorno al palazzo. Altre file di formiche si aggiunsero alle prime dando vita a una colonna interminabile che collegava il palazzo al serbatoio dell'acqua: è il fuoco il nostro principale nemico, non la donna, aveva scritto lo shògun Toranaga nel Legato, con umorismo. Contro il fuoco possiamo difenderci mentre contro una donna no. Tutti gli uomini e le donne giunti in età da matrimonio si sposeranno. Tutte le abitazioni avranno serbatoi d'acqua a portata di mano. “Non riusciranno a spegnerlo, vero, principe?” “No. Immagino che qualche stupido abbia fatto cadere una lampada o una candela” borbottò Yoshi a denti stretti. “Sì, avete ragione, principe, uno stupido” ripeté lei per placarlo avvertendo l'ira improvvisa ma non comprendendone la causa. “Sono così felice che voi siate il responsabile delle misure antincendio del castello perchè così possiamo dormire tranquilli. Il colpevole di questo incendio, chiunque egli sia, dovrebbe essere punito severamente. Mi chiedo di chi sia il palazzo che sta bruciando” “E la residenza di Tajima.” “Ah, sire, continuate a stupirmi” ribatté Koiko con toccante ammirazione, “è straordinario essere capaci di distinguere un palazzo da un altro fra centinaia di palazzi, e a una tale distanza poi.” Si inchinò: per nascondere il volto innanzitutto, perchè sapeva con certezza che si trattava invece del palazzo di Watasa, e che a quel punto il daimyo Utani doveva essere morto e

gli attaccanti al sicuro. “Siete un uomo straordinario.” “No, tu sei straordinaria, Koiko-chan.” Sorrise a quella donna così dolce e minuscola, obbediente e pericolosa. Tre giorni prima la sua nuova spia, Misamoto, ansiosa come sempre di provare il proprio valore, aveva riferito le voci che circolavano nelle caserme sul convegno segreto tra Utani e il ragazzino. Ma Yoshi aveva ordinato a Misamoto di far giungere il segreto anche alle orecchie della cameriera di Koiko che certamente l'avrebbe sussurrato all'orecchio della sua padrona o a quello della mama-san o magari di entrambe; altre voci avevano un fondamento di verità, ovvero che questa mama-san, Meikin, fosse un'entusiasta sostenitrice di sonno-joi e che clandestinamente trasformasse la sua casa in luogo d'incontro e rifugio per gli shishi. L'informazione sarebbe stata passata agli shishi che non avrebbero perso tempo davanti all'occasione di uccidere un uomo tanto importante. Da quasi due anni le sue spie tenevano Meikin e la casa sotto sorveglianza per seguire i movimenti degli shishi e di Koiko. Ma mai una volta era emersa la minima prova a sostegno di questa teoria. Ah, ma ora, pensò osservando le fiamme, se il palazzo brucia Utani dev'essere morto e dispongo quantomeno di una prova: un'informazione mormorata all'orecchio di una cameriera ha dato il suo cattivo frutto. Utani per loro è stato un bel colpo. Come lo sarei io, se non di più. Un brivido lo attraversò. “Il fuoco mi fa paura” disse lei fraintendendo quel brivido e cercando di toglierlo dall'imbarazzo. “Si, al diavolo, li lasceremo al loro karma.” Sottobraccio si allontanarono. Yoshi trovava difficile nascondere la sua eccitazione. Mi chiedo quale sia il tuo karma, Koiko, si domandò. La cameriera ti ha riferito l'informazione e tu le hai detto di passarla a mama-san? Sei un anello della catena. Forse sì e forse no. Non ho visto nessun cambiamento in te quando ho detto che si trattava del palazzo di Tajima anziché di quello di Watasa, eppure ti scrutavo con attenzione. Non ho le idee chiare. Ovviamente ti sospetto, ti ho sempre sospettata, perchè avrei scelto te altrimenti, non è forse questo un pò di pepe aggiunto al mio letto? Lo è, e tu sei stata all'altezza della tua reputazione. Poiché sono davvero più che soddisfatto aspetterò a condannarti. Tuttavia ora sarebbe facile farti cadere in trappola, spiacente, sarebbe persino più facile far confessare la verità alla tua cameriera, alla tua mama-san che dopotutto non è intelligente come crede di essere, nonché a te, piccolina. Troppo facile, spiacente, quando farò scattare la tua trappola. Eeeh, sarà una decisione difficile da prendere perchè ora, grazie a Utani, ho una linea segreta e diretta con gli shishi che potrà usare per smascherarli,

distruggerli o persino utilizzarli contro i miei nemici. Perché no? Che tentazione! Nobusada? Nobusada e il sua principessa? Una grande tentazione! Scoppiò a ridere. “Sono così felice che voi siate felice stanotte, sire.” La principessa Yazu era in lacrime. Per quasi due ore per eccitare il suo giovane marito aveva usato ogni tecnica di cui avesse letto o visto le immagini nei libri da camera da letto. Benché fosse riuscita a ottenere un'erezione, prima che potesse raggiungere il Tempo delle Nubi e della Pioggia lui era venuto meno al suo dovere di uomo. Poi come al solito aveva cominciato a piangere e in un parossismo di tosse nervosa a vaneggiare che la colpa era di Yazu. Come al solito la tempesta si era placata in fretta, aveva chiesto perdono e si era rannicchiato accanto a lei per baciarle il seno addormentandosi mentre le succhiava un capezzolo. “Non è giusto” gemette lei esausta e incapace di prendere sonno. Se non avrò un figlio al più presto Nobusada e io non conteremo niente e alla fine mi dovrò vergognare tanto da rasarmi il capo e diventare una monaca buddhista... oh ko, oh ko... Nemmeno le sue donne erano state in grado di aiutarla. “Avete tutte esperienza, molte di voi sono sposate, deve esserci un modo per fare del mio signore un uomo” aveva gridato dopo settimane di tentativi inutili. “Scovatelo, è vostro dovere scovarlo.” Durante quei mesi la corte aveva consultato erboristi, agopuntori, medici e indovini ma senza successo. Quella mattina aveva mandato a chiamare la sua matrona in capo. “Deve esserci un modo! Che cosa suggerisci?” “Avete soltanto sedici anni, onorabile principessa” aveva risposto la matrona inginocchiandosi, “e il vostro sposo sedici, e...” “Ma tutti concepiscono a questa età, se non prima, quasi tutti. Qual è il suo problema, o il mio?” “Non c'è niente che non vada in voi, principessa, ve l'abbiamo ripetuto molte volte, i dottori ci assicurano che non c'è niente che non vada in...” “E' il dottore gai-jin, il gigante di cui ho sentito parlare? Una delle mie cameriere mi ha raccontato che si dice che trovi cure miracolose per ogni malattia, forse può curare anche il mio sposo.” “Oh, spiacente, altezza” aveva esclamato la donna sbalordita, “ma è impensabile che uno di voi due consulti un gai-jin! Vi prego di avere pazienza, ve ne prego. Cheng-sin, l'infallibile indovino, ci dice che la pazienza certamente avrà...” “Potremmo farlo in segreto, sciocca! Aspettare! Sono mesi che aspetto!”

aveva gridato. “Mesi di pazienza e il mio sposo non ha ancora nemmeno cominciato a produrre un erede!” Incapace di controllarsi aveva schiaffeggiato la donna. “Dieci mesi di pazienza e cattivi consigli sono troppi, vattene, miserabile, VATTENE! VATTENE VIA PER SEMPRE!” Si era preparata durante tutto il giorno per l'incontro di quella sera. Aveva fatto cucinare piatti speciali che a Nobusada piacevano molto speziandoli con ginseng. Aveva fatto preparare un sakè speciale contenente ginseng e polvere di corno di rinoceronte. Speciali profumi molto afrodisiaci. Preghiere speciali a Budda. Speciali suppliche ad Ameratsu, la dea del sole, nonna del Dio Niniji disceso dal cielo a governare il Giappone, il bisnonno del primo imperatore mortale, Jinimu-Tennu, che venticinque secoli prima aveva fondato la dinastia imperiale, e quindi sei diretta antenata. Ma ogni espediente aveva fallito lo scopo. Adesso, nel cuore della notte Yazu piangeva in silenzio adagiata sui suoi futon, accanto a lei il marito, infelice nel sonno, che di tanto in tanto tossiva agitando le membra con piccoli spasmi, il suo volto addormentato gradevole. Povero sciocco ragazzo, pensò Yazu in travaglio, sarà il tuo karma morire senza eredi come molti della tua stirpe? Oh ko oh ko oh ko! Perché mi sono lasciata trascinare in questo disastro, perchè mi sono lasciata strappare dalle braccia del mio amato principe? Quattro anni prima, all'età di dodici anni, con l'approvazione incondizionata della madre, ultima e favorita consorte del padre,, l'imperatore Ninko, morto lo stesso anno in cui lei era nata, e con altrettanta incondizionata nonché necessaria approvazione dell'imperatore Komei, il suo fratellastro molto più anziano asceso al trono, Yazu era stata felicemente fidanzata a un compagno d'infanzia, il principe Sugawara. Ciò accadeva l'anno in cui la Bakufu firmava formalmente i trattati che, contro il parere espresso dall'imperatore Komei, dalla maggioranza dei membri della corte e dalla maggior parte dei daimyo, aprivano i porti di Yokohama e Nagasaki al traffico straniero. Lo stesso anno in cui sonno-joi divenne un grido di battaglia. Lo stesso anno in cui l'allora tairò propose al principe Consigliere di far sposare la principessa Yazu allo shògun Nobusada. “Spiacente” era stata la prima risposta del Consigliere. “E' impossibile.” “E' molto possibile invece e altamente necessario legare lo shògunato alla dinastia imperiale al fine di portare pace e tranquillità al paese” aveva risposto Li. “Esistono molti precedenti storici di Toranaga che hanno sposato membri della famiglia imperiale.” “Spiacente” aveva ripetuto il Consigliere, un uomo senza vigore con un abbigliamento e un'acconciatura elaborati e i denti anneriti. “Come ben sapete sua altezza imperiale è già fidanzata e si sposerà appena raggiunta la

pubertà. E sapete altrettanto bene che lo shògun Nobusada è fidanzato con la figlia di un nobile di Kyòto.” “Spiacente, ma i fidanzamenti di persone tanto illustri sono faccende che riguardano la politica dello stato e quindi sono competenza dello shògunato, come è sempre stato.” Li era un uomo piccolo, corpulento e inflessibile. “Il fidanzamento dello shògun Nobusada è già stato, beninteso dietro sua richiesta, annullato.” “Ah, spiacente, molto triste. Avevo sentito dire che era una coppia ideale.” “Lo shògun Nobusada e la principessa Yazu hanno la stessa età, vi prego di suggerire all'imperatore che il tairò desidera informarlo che lo shògun sarebbe onorato di accettarla come moglie. Possono sposarsi quando lei avrà raggiunto i quattordici o quindici anni.” “Consulterò l'imperatore, tuttavia temo che la vostra richiesta non potrà essere accolta.” “Spero che il Figlio del Cielo venga guidato dal cielo stesso in una decisione tanto importante. I gai-jin sono alle porte, lo shògunato e la dinastia devono essere rafforzati.” “Spiacente, la dinastia imperiale non ha bisogno di essere rafforzata. In quanto alla Bakufu l'obbedienza ai desideri dell'imperatore migliorerebbe sicuramente la pace.” Li aveva ribattuto aspramente: “I trattati dovevano essere firmati. Le flotte e le armi barbare possono umiliarci, indipendentemente da quello che dichiariamo in pubblico! Siamo senza difese! Siamo stati costretti a firmare!”. “Spiacente, questo è un problema la cui responsabilità riguarda la Bakufu e lo shògunato; l'imperatore Komei non approvava i trattati e non desiderava che fossero firmati.” “La politica estera e più in generale ogni fatto che riguardi la politica temporale come il matrimonio che tanto umilmente suggerisco è assoluta competenza dello shògunato. L'imperatore...” li scelse attentamente le parole ”... domina in tutte le altre sfere.” 'Altre sfere?' Fino a pochi secoli fa l'imperatore governava su tutto, come la nostra tradizione ha stabilito da millenni. “Spiacente, ma non viviamo più due secoli fa.” Quando la proposta di Li, che tutti gli oppositori della Bakufu ritenevano un grave insulto alla dinastia, divenne di pubblico dominio vi fu una protesta generale. Nel giro di poche settimane gli shishi assassinarono il tairò per punirlo della sua arroganza e la questione venne accantonata. Fino a due anni prima, quando la principessa, ebbe compiuto i quattordici anni. Benché non fosse ancora una donna, la principessa imperiale Yazu era già una buona poetessa, sapeva leggere e scrivere il cinese classico, conosceva

tutti i rituali di corte indispensabili al suo futuro ed era sempre innamorata del suo principe che la ricambiava di tutto cuore. Mosso dalla necessità di accrescere il prestigio dello shògunato, sempre in pericolo, Anjo avvicinò il principe Consigliere che gli rispose come già aveva risposto a Li. Anjo ripeté le argomentazioni di Li e con grande sbalordimento del suo interlocutore aggiunse: “Vi ringrazio per la vostra opinione ma, spiacente, il cancelliere imperiale Wakura non è d'accordo”. Ufficiale di corte d'alto rango, Wakura, per quanto non di nobile origine, a quarant'anni aveva assunto fin dall'inizio il comando del movimento xenofobo cresciuto tra la media nobiltà contraria ai trattati. Nel suo ruolo di cancelliere era uno dei pochi ufficiali di corte che avesse accesso all'imperatore. Pochi giorni dopo l'incontro tra Anjo e il Consigliere, Wakura chiese un incontro alla principessa. “Sono lieto di annunciarvi che il Figlio del Cielo vi chiede di acconsentire ad annullare il vostro fidanzamento con il principe Sugawara per sposare lo shògun Nobusada.” La principessa Yazu faticò a non svenire. Nell'ambito della corte una richiesta imperiale equivaleva a un ordine. “Deve esserci un errore”. Il Figlio del Cielo si oppose due anni fa a questo arrogante suggerimento per ragioni che sono ovvie. Voi siete contrario come tutti. Non posso credere che il Divino voglia chiedermi una cosa tanto orrenda.” “Spiacente, ma non è orrenda ed è stata richiesta.” “In questo caso mi rifiuto... mi rifiuto!” “Non potete rifiutarvi, spiacente. Forse posso spiegarvi che...” “No, non potete! Mi rifiuto, mi rifiuto, mi rifiuto!” L'indomani, quando le venne richiesto un altro colloquio, la principessa si finse malata e così fece nei giorni che seguirono. “Spiacente, altezza” disse molto nervosa la sua matrona. “Il cancelliere imperiale richiede ancora una volta un momento per spiegarvi perchè vi venga fatta questa richiesta.” “Non lo voglio vedere. Ditegli che voglio vedere mio fratello!” “Oh, spiacente, altezza” rispose la matrona atterrita. “Vi prego di scusarmi ma è mio dovere ricordarvi che il Figlio del Cielo una volta asceso al trono non ha più amici né parenti.” “Io... certo, vi prego di scusarmi, lo so. Io sono... sono provata, vi prego di scusarmi.” All'interno della corte soltanto la moglie, le consorti, la madre, i figli, i fratelli e le sorelle e i due o tre consiglieri avevano l'autorizzazione di guardare il volto dell'imperatore senza chiederne prima il permesso. Al di fuori di questi pochi intimi le sue sembianze erano proibite. L'imperatore era divino.

Come tutti gli imperatori che lo avevano preceduto, dal momento in cui aveva completato i rituali che univano in una comunione mistica il suo spirito a quello del padre appena scomparso, come il padre si era unito al nonno e questi con suo padre in una linea ininterrotta che risaliva fino a jimmu-Tennu, Komei aveva cessato d'essere mortale per diventare una divinità, il Guardiano dei Sacri Simboli, il globo, la spada e lo specchio, il Figlio del Cielo. “Vi prego di scusarmi” ripeté umilmente Yazu, sgomenta d'aver compiuto un sacrilegio. “Mi dispiace, io... vi prego di chiedere al cancelliere di inoltrare domanda al Figlio del Cielo perchè mi conceda un minuto del suo tempo.” Ora, nella sua camera da letto, Yazu ricordò attraverso le lacrime come, molti giorni dopo quel discorso con la matrona, era stata autorizzata a inginocchiarsi di fronte all'imperatore e alla sua onnipresente folta schiera di cortigiani a capo china. L'aveva riconosciuto a stento nelle sue formali vesti fruscianti, era la prima volta che lo vedeva dopo mesi. Aveva implorato e pregato in una litania di gemiti usando l'indispensabile linguaggio di corte, incomprensibile a chi non vi era addentro, fino a essere esausta. “Altezza imperiale, non voglio lasciare la mia casa, non voglio andare in quel brutto posto che si chiama Edo, dall'altra parte del mondo, chiedo licenza di dire che abbiamo lo stesso sangue, non siamo signori della guerra venuti dal nulla...” e avrebbe voluto urlare: non discendiamo da contadini che non sanno parlare né vestire né mangiare o comportarsi, che non sanno né leggere né scrivere come si deve, e puzzano di daikon, ma non osò. Si limitò a dire: “Ve ne prego, lasciatemi restare qui”. “Primo; per favore vai e ascolta attentamente e con calma, come si conviene a una principessa imperiale, quanto il cancelliere Wakura deve dirti.” “Obbedirò, altezza imperiale”. “Secondo: non autorizzerò niente contro la tua volontà. Terzo: ritorna tra dieci giorni e ne riparleremo. Adesso va', Yazu-chan.” Era la prima volta nella sua vita che il fratello la chiamava con il diminutivo. Così aveva ascoltato Wakura. “Le ragioni sono complesse.” “Sono abituata alla complessità, cancelliere.” “Molto bene. In cambio del fidanzamento la Bakufu ha acconsentito a espellere i gai-jin e a cancellare tutti i trattati.” “Secondo Nori Anjo ciò è impossibile.” “E' vero. Per ora è impossibile. Tuttavia egli ha acconsentito a dare immediato inizio alla modernizzazione dell'esercito e alla costruzione di un'invincibile marina. Egli promette che tra sette, otto o al più tardi dieci

anni saremo abbastanza forti per imporre il nostro volere.” “O tra venti o cinquanta o cento anni! Gli shògun Toranaga sono bugiardi e inaffidabili. Hanno tenuto confinato per secoli l'imperatore usurpandone il patrimonio ereditario. Non sono uomini di cui ci si possa fidare. “Spiacente, ma ora l'imperatore è convinto che si debba accordare loro fiducia. In verità, principessa, noi non abbiamo alcun potere temporale su di loro.” “Dunque sarei una sciocca a consegnarmi in qualità di ostaggio.” “Spiacente, ma stavo per aggiungere che le vostre nozze porterebbero a una riappacificazione tra l'imperatore e lo shògunato, riappacificazione indispensabile alla tranquillità del paese. Allora lo shògunato presterebbe ascolto all'opinione imperiale e obbedirebbe ai desideri dell'imperatore.” “Se diventassero filiali. Ma come si potrebbe ottenere tutto ciò con un matrimonio?” “Non potrebbe forse la corte aver l'opportunità di intervenire attraverso di voi, se noti addirittura di controllare il giovane shògun e il suo governo?” L'attenzione della principessa si era risvegliata. “Controllare? Per conto dell'imperatore?” “Certo. Come potrebbe questo ragazzo, paragonato a voi, altezza, un poppante, celarvi dei segreti? E' impossibile. Certamente è speranza dell'Elevato che voi, sua sorella, diventiate anche la sua intermediaria. Nel ruolo di moglie dello shògun sareste al corrente di ogni cosa e una persona con le vostre capacità potrebbe essere in grado di accentrare nelle sue mani tutto il potere della Bakufu attraverso il giovane shògun. Dopo il terzo Toranaga non ci sono stati altri shògun forti. Vi trovereste nella posizione ideale per avere tutto il potere.” Yazu aveva riflettuto a lungo. “Anjo e lo shògunato non sono degli sciocchi. Ci avranno già pensato.” “Loro non vi conoscono, altezza. Credono che voi siate soltanto un giunco da piegare a loro capriccio, come il giovane Nobusada. Altrimenti perchè avrebbero scelto proprio lui? Vogliono queste nozze, è vero, per accrescere il loro prestigio e certamente anche per avvicinare la corte e lo shògunato. Ovviamente voi, una ragazza, nelle loro intenzioni non sareste che un'arrendevole marionetta da utilizzare per sovvertire la volontà imperiale.” “Spiacente, chiedete troppo a una donna. Io non voglio lasciare la mia casa né rinunciare al mio principe.” “L'imperatore ve lo chiede.” “Ancora una volta lo shògunato lo sta costringendo a scendere a patti quando dovrebbe soltanto ubbidire” commentò Yazu con amarezza. “L'imperatore vi chiede di aiutarlo a ottenere la loro obbedienza.” “Ti prego di scusarmi, non posso.” “Due anni or sono, nell'anno cattivo” continuò Wakura nello stesso tono

misurato, “l'anno delle carestie, l'anno in cui Li firmò i trattati, alcuni studiosi della Bakufu ricercarono nella storia esempi di imperatori deposti.” Yazu trattenne il respiro. “Non oseranno... arrivare a tanto!” “Lo shògunato è lo shògunato e oggi è onnipotente. Perché non dovrebbero prendere in considerazione l'eliminazione di un ostacolo? Non è forse vero che, distrutto il suo wa, l'imperatore ha valutato l'ipotesi di abdicare in favore del figlio, il principe Sachi?” “Pettegolezzi” esclamò lei, “non può esserci niente di vero.” “Credo che invece sia un timore fondato, principessa imperiale” rispose Wakura in tono grave. “E' ora egli vi domanda, vi prega di aiutarlo.” Fuori di sé, Yazu si rese conto che qualsiasi risposta avrebbe fatto tornare Wakura sullo stesso argomento. Non c'era via d'uscita. Alla fine avrebbe dovuto cedere o farsi monaca. Aprì la bocca per esprimere l'ultimo rifiuto ma non vi riuscì. Sembrava che qualcosa si fosse insinuato nella sua mente, per la prima volta cominciò a pensare in modo diverso, non più come una bambina ma come una donna adulta, e la sua risposta rispecchiò il nuovo atteggiamento. “Molto bene” disse, decidendo di non svelare i propri pensieri, “acconsento purché possa continuare a vivere a Edo come ho vissuto nel palazzo imperiale...” Quella conversazione era stata il primo passo verso il silenzio della stanza nuziale nel cuore della notte, silenzio rotto soltanto dalle sue lacrime. Yazu si mise a sedere sul letto e asciugò dal volto le tracce di pianto. Bugiardi, pensò con tristezza, hanno promesso e poi mi hanno ingannata anche in questo. Nobusada emise un lieve suono e si rigirò nel sonno. Alla luce della lampada, senza la quale il giovane shògun non riusciva a dormire, il suo volto sembrava più infantile del solito, più il volto di un fratello minore che quello di un marito. Gentile, attento, sempre pronto ad ascoltarla, ad accettare i suoi consigli, a confidarle ogni segreto, tutto come Wakura aveva previsto. Ma da ciò lei non aveva alcuna soddisfazione. Mio caro Sugawara, ormai perduto... per questa vita. Rabbrividì. La finestra era spalancata. Si appoggiò all'architrave e guardò senza vedere il palazzo in fiamme che bruciava e i fuochi sparsi ovunque nella città, la luna sul mare; senza sentire nell'aria l'odore di bruciato mentre l'alba già rischiarava il cielo a oriente. Dal giorno della conversazione con Wakura la sua decisione segreta non era mutata: dedicare la vita a distruggere lo shògunato che le aveva distrutto i suoi giorni, privarlo con qualsiasi mezzo del potere per restituirlo al Divino Li distruggerò come essi hanno distrutto me, pensò. Ormai era diventata troppo saggia per dare voce a simili pensieri, Vorrei non essere mai venuta qui, vorrei non aver mai sposato questo ragazzo, e anche se gli voglio bene odio questo posto detestabile, questa detestabile gente.

Voglio andare a casa! Tornerò a casa. Ciò renderà la mia vita sopportabile. Faremo la nostra visita a Kyòto indipendentemente da qualsiasi cosa Yoshi potrà dire o fare, da quello che chiunque potrà dire o fare. Torneremo a casa, e vi resteremo.

Capitolo 18 †

Lunedì, 13 ottobre Dieci giorni più tardi, nel radioso sole di mezzogiorno, Phillip Tyrer si esercitava divertito con inchiostro, acqua e pennello nella calligrafia giapponese, sulla scrivania della veranda della Legazione di Edo. Intorno erano sparse decine di fogli, già completati o abbandonati dopo un minimo errore, dato che in Giappone la carta di riso costava molto meno che in Inghilterra. Tyrer era stato inviato a Edo da sir William per organizzare la prima riunione con gli Anziani. All'improvviso si interruppe. Il capitano Settry Pallidar e dieci dragoni a cavallo stavano risalendo la collina nelle loro uniformi immacolate. Al loro arrivo nella piazza i samurai presenti, molto più numerosi di prima, si divisero per lasciarli passare e accennarono grevi e rigidi inchini a cui Pallidar rispose con un saluto altrettanto secco, evidentemente secondo un protocollo instaurato di recente. I soldati di guardia, anch'essi più numerosi di prima, aprirono i cancelli di ferro e li richiusero non appena il drappello fu entrato nel cortile. “Ciao, Settry” gridò Tyrer scendendo di corsa i gradini d'ingresso per salutarlo. “Accidenti, come sono contento di vederti, da dove diavolo salti fuori?” “Da Yokohama, amico, da dove altro potrei arrivare? Siamo venuti in nave.” Prima ancora che Pallidar scendesse da cavallo un giardiniere è si precipitò ossequioso per tenere le briglie, ma subito il capitano allungò la mano sulla fondina. “Vattene!” “E' dei nostri, Settry. Si chiama Ukiya e si è sempre dimostrato molto servizievole. Domo, Ukiya” disse Tyrer. “Hai, Taira-sama, domo” rispose Hiraga inchinandosi con un sorrisetto sciocco. Poi rimase immobile. Il volto seminascosto dal cappello da coolie, appoggiandosi alla zappa. “Vattene” ripeté Pallidar. “Scusa, Phillip, ma non voglio intorno nessuna di queste canaglie, specie quando ha una maledetta zappa. Grimes!” Un dragone lo raggiunse all'istante, spinse da parte Hiraga e afferrò le briglie. “Togliti dai piedi, giapponese!” Hiraga chinò la testa senza smettere di sorridere e si allontanò. Si fermò a una distanza che gli consentiva ancora di sentire la conversazione degli inglesi, reprimendo l'impulso di vendicarsi immediatamente dell'insulto con la zappa affilata, o

con il piccolo stiletto nascosto nel cappello o anche solo con le sue mani d'acciaio. “Perché mai siete venuti via mare?” chiese Tyrer. “Per guadagnare tempo. Le pattuglie di ricognizione ci hanno riferito che lungo la Tokaidò i giapponesi hanno moltiplicato i posti di blocco e sono tutti più nervosi del solito per la lentezza del traffico tra Hodogaya ed Edo, più caotico di quello di Piccadilly Circus nel giorno del compleanno della Regina. Ho un dispaccio di sir William, ti ordina di chiudere la Legazione e di riportare i tuoi a Yokohama. Io vi farò da scorta per non farvi perdere la faccia.” Tyrer lo fissò perplesso. “E che ne sarà della riunione? Ho lavorato come un matto per preparare tutto.” “Non lo so, caro. Eccoti il dispaccio.” Tyrer spezzò i sigilli della lettera ufficiale: P. Tyrer, Legazione britannica, Edo: Con questa vi informo di essermi accordato con la Bakufu per posticipare la riunione dal 20 ottobre a lunedì 3 novembre. Per evitare un inutile dispendio di uomini, voi e tutti i membri del vostro gruppo tornerete immediatamente con il capitano Pallidar. “Evviva, si torna a Yokohama!” “Quando vuoi partire?” “Subito, sia fatta la volontà del Grande Padre Bianco. Non vedo l'ora. Dopo pranzo? Entra, sediamoci un pò. Ci sono novità da Yokopoko?” “Non molte.” Mentre i due si avviavano verso le comode sedie della veranda, Hiraga si avvicinò e si mise a zappare per origliare ancora. Pallidar accese un sigaro. “Sir William, il generale e l'ammiraglio hanno lanciato un'altra bordata contro la Bakufu e il governatore, giurando che avrebbero avuto le budella per colletto se non avessero fatto saltar fuori gli assassini di Canterbury, e ora anche quelli della tremenda esecuzione di Lun. E sai cos'hanno ottenuto in risposta? La solita solfa: Ah, spiacenti, per catturarli abbiamo messo sotto controllo tutte le strade, tutti i sentieri, spiacenti per il ritardo e il disturbo! Oh, ha detto sir William, dunque sapete chi sono? Oh no, ha risposto il giapponese, ma se verifichiamo i documenti e perquisiamo tutti forse riusciremo a trovarli, stiamo facendo il possibile, per favore aiutateci stando anche voi più attenti ai rivoluzionari. Un sacco di balle! Se volessero li avrebbero già presi. Sono dei bugiardi.” “E terribile quello che è capitato a Lun. Spaventoso! Mi ha sconvolto. A sir William è quasi venuto un attacco di cuore. Si è già capito come hanno

fatto gli assassini a penetrare nella nostra Legazione di Kanagawa?” “No, non c'è nessuna novità.” Pallidar aveva notato i fogli coperti di ideogrammi, ma preferì non commentare. Si allentò il colletto. “Il caporale a cui era affidato il comando ha perso il grado ed è stato punito per negligenza insieme agli altri due con cinquanta frustate. Dopo l'aggressione della Tokaidò avrebbe dovuto stare all'erta. Ma perchè la testa di scimmia?” Tyrer rabbrividì. “Sir William ritiene che abbiano voluto vendicare l'offesa ricevuta da Lun quando ha preso in giro la loro delegazione chiamandoli “scimmie”.” Pallidar sibilò. “Questo significa che almeno uno di loro, all'insaputa dei nostri, capisce l'inglese, o quantomeno il pidgin.” “Anche noi siamo arrivati alla stessa conclusione.” Tyrer si sforzò di allontanare la paura. “All'inferno questa storia, sono molto contento di vederti. Cos'altro c'è di nuovo?” Pallidar, assorto, stava fissando Hiraga, in realtà senza vederlo. “Il generale crede che i locali abbiano aumentato i posti di blocco e i movimenti delle milizie per qualche precisa ragione. I mercanti hanno saputo dai loro contatti giapponesi che tutte le strade intorno a Edo sono presidiate perchè sta per esplodere la guerra civile. Dovremmo saperlo con sicurezza, dovremmo muoverci liberamente sul territorio come ci garantisce il Trattato e scoprirlo. Una volta tanto il generale e l'ammiraglio sono d'accordo che bisognerebbe fare come in India e negli altri paesi, cioè mandare in giro qualche drappello o persino un reggimento o due a far sventolare la nostra bandiera, per Dio, e a contattare i principi scontenti per usarli contro gli altri. Hai una birra?” “Certo, scusa. Chen!” “Sì, padrone?” “Biru chop chop” disse Tyrer. Dubitava che la belligeranza dell'amico fosse il metodo più adatto per arrivare allo scopo. Il capo giardiniere si avvicinò alla veranda fermandosi sul prato e si inchinò rispettoso. Con sorpresa di Pallidar, Tyrer rispose, anche se con un inchino solo accennato, in giapponese. “Hai, Shikisha? Nan desu ka?” Si, Shikisha, cosa vuoi? Sempre più stupefatto, Pallidar ascoltò l'uomo inoltrare la sua richiesta e Tyrer sostenere disinvolto la conversazione che seguì tra loro. Infine l'uomo si inchinò e se ne andò. “Hai Taira-sama, domo.” “Mio Dio, Phillip, di che parlavate?” “Cosa? Oh, con il vecchio Shikisha? Voleva solo sapere se i giardinieri possono andare a lavorare nel giardino sul retro. Sir William vuole ortaggi freschi, cavolfiori, cipolle, cavolini di Bruxelles, patate da fare al forno... ma cosa ti prende?” “Allora parli davvero il giapponese?” Tyrer rise. “Oh, no, ma sono stato rinchiuso qui per dieci giorni senza niente da fare,

così mi sono messo a studiare e ho cercato di imparare un pò di parole e qualche frase. Sir William mi ha imposto di darmi da fare, e in realtà mi diverto. Essere in grado di comunicare mi dà carica.” Gli balzò alla mente il viso di Fujiko e il ricordo delle frasi e delle ore trascorse con lei durante il suo breve ritorno a Yokohama, un giorno e una notte, dieci giorni prima. Grazie a sir William, questa sera o domani la potrò rivedere, sarà fantastico. “Fantastico!” esclamò senza pensare, con un grande sorriso. “Oh” si riprese, “si, uhm, questi primi tentativi di parlare, leggere e scrivere mi divertono molto. Il vecchio Shikisha mi sta insegnando molte parole, soprattutto riguardanti il lavoro, e Ukiya” indicò Hiraga alacremente impegnato a zappare a poca distanza da loro, ignorando che “Ukiya” fosse uno pseudonimo e in realtà significasse semplicemente “giardiniere”, “mi aiuta a scrivere. E' un ragazzo molto intelligente per essere giapponese.” Durante la lezione di scrittura del giorno prima, volendo verificare le voci che aveva sentito, gli aveva chiesto a gesti e con le parole imparate da Poncin di scrivere gli ideogrammi di “guerra”, senso, e “presto”, jiki-ni e li aveva copiati sommariamente componendo la frase “Guerra in Giappone presto. Prego?” Il volto del giovane si era trasformato per la sorpresa. “Gai-jin toh nihon-go ka?” Tra stranieri e giapponesi? “Iyé, Ukiya. Nihonjin to nihonjin.” No, Ukiya, tra giapponesi e giapponesi. Il giovane era scoppiato a ridere. Typer aveva notato com'era bello d'aspetto e diverso dagli altri giardinieri. La sua superiorità intellettuale era evidente, sebbene in Giappone, al contrario di quanto accadeva in Inghilterra, quasi tutti i lavoratori sapessero leggere e scrivere. “Niho njin tsuneni senso nihonjin!” I giapponesi sono sempre in guerra con i giapponesi, aveva detto Ukiya ridendo di nuovo e contagiando Tyrer. A Tyrer quel ragazzo piaceva ogni giorno di più. Allegro Tyrer esortò Pallidar: “Dai, che altro c'è? Non intendo sul lavoro, per l'amor di Dio, ma Angélique?“. Pallidar grugnì. “Ah, ti interessi a lei?” chiese in tono indifferente, mentre in realtà era divertito. “No, per niente” rispose Typer. I due risero insieme consapevoli delle rispettive finzioni. “Domani ci sarà la festa di fidanzamento.” “Beato Malcolm! Meno male che mi hanno rimesso in libertà. Mi dispiacerebbe mancare al ricevimento. Lei come sta?” “Bella come sempre. E' stata nostra ospite d'onore al Circolo Ufficiale. Quando è arrivata sembrava una dea, l'accompagnavano quell'arrogante del ministro francese e André Poncin. Non mi piacciono proprio, quei due...”

“André non è male, mi sta aiutando molto con il giapponese.” “Sarà, ma io non mi fido. Sul “Times” c'è un lungo articolo sull'imminente conflitto in Europa: la Francia e forse la Russia contro la Germania. Ci trascineranno dentro di nuovo.” “Ecco una guerra di cui potremmo fare a meno. Stavi dicendo?” “E' stata una serata fantastica” riprese Pallidar raggiante. “Ho ballato con lei, eccezionale. Un valzer, ci ho messo l'anima. Da vicino, senza mancarle di rispetto, il suo seno è fantastico e il suo profumo...” Inebriato, Pallidar rievocò quel momento: tutti gli occhi su di loro che volteggiavano sulla pedana da ballo costruita in fretta, le brillanti uniformi tutt'intorno, lei l'unica donna presente, il bagliore delle candele e delle lampade a olio, la banda militare che suonava con vigore e loro due che ballavano come una coppia perfetta suscitando la gelosia di tutti. “Invidio davvero Struan.” “Lui come sta?” “Chi? Oh, Struan? Un pò meglio, dicono, Io non l'ho visto ma dicono che si sia alzato dal letto. L'ho chiesto ad Angélique ma mi ha risposto solo che sta meglio.” Sorrise ancora. “Si sta occupando di lui il dottore che è appena arrivato, si chiama Hoag, è il loro medico di famiglia. Pare che sia bravissimo.” Non appena Pallidar finì la birra l'attento e gioviale Chen gliene portò un'altra. Chen era grassoccio, assomigliava a Lim, e come lui era una spia nonché un lontano cugino del compradore della Struan. “Grazie.” Pallidar la sorseggiò con gusto. “Questa birra è buonissima.” “E' di produzione locale. Ukiya dice che i giapponesi la fabbricano da anni e che la migliore viene da Nagasaki. Devono aver imparato a farla dai portoghesi qualche secolo fa. Cos'altro mi racconti?” Pallidar guardò pensieroso Tyrer. “Cosa ne pensi della storia dell'assassino raccontata da Hoag? Dell'intervento chirurgico e della ragazza misteriosa?” “Non so davvero. Mi è sembrato di riconoscerne uno. Quel tipo era ferito proprio nello stesso punto. I conti tornerebbero. Che peccato che tu e Marlowe non l'abbiate beccato. Sarebbe una beffa se uno di noi, curandolo, lo avesse messo in condizione di uccidere altri dei nostri.” Tyrer abbassò la voce per non essere sentito dagli inservienti e dai soldati che si aggiravano a poca distanza. “Rimanga tra noi, ma sir William ha chiesto rinforzi e navi da Hong Kong.” “L'ho sentito anch'io. Presto ci sarà la guerra, oppure dovremo intervenire se cominceranno a combattere tra loro...” Mentre strappava erbacce e zappava, Hiraga non perdeva una parola e pur non capendo tutti i particolari del dialogo ne coglieva tuttavia la sostanza e le notizie da parte inglese non

facevano che confermare quanto già sapeva aumentando la sua preoccupazione. Dopo aver appiccato il fuoco al palazzo di Utani, lui e i suoi amici avevano raggiunto il loro rifugio senza incidenti. Todo e gli altri avevano deciso di tornare a Kanagawa all'alba, all'apertura delle barriere, ed erano partiti. Lui, Joun e Akimoto avevano invece scelto di rimanere per avere l'occasione di attaccare la Legazione, e si erano divisi in nascondigli separati. All'alba di quella stessa notte la Bakufu con una celerità senza precedenti raddoppiò il numero di barriere sulla Tokaidò ed estese il controllo sulle quattro strade principali e su tutte le possibili vie di comunicazione con Edo. Quell'aumento di sorveglianza li immobilizzava e impediva ogni movimento anche a tutti gli altri shishi presenti nella capitale. Quattro giorni prima la mama-san Noriko aveva inviato da Kanagawa una lettera nella quale si scusava di non aver potuto mandare prima notizie a causa dell'accresciuta sorveglianza e raccontava di Ori e Sumomo e del medico gai-jin. La lettera terminava: Ancora non ho avuto notizie di Todo e degli altri due shishi, sono spariti nel nulla. Sappiamo che hanno superato la prima barriera ma niente di più. Temiamo che siano stati traditi e che veniate traditi anche voi. Fuggite finché potete. Ori si sta rapidamente riprendendo, la ferita è pulita. Per sicurezza l'ho mandato a Yokohama, l'ultimo posto in cui la Bakufu lo cercherebbe. La tua signora rifiuta di partire senza un tuo ordine, provvedi subito, perchè temo che la mia casa sia sorvegliata. Se mi dovessero prendere rivolgiti a Rajko, alla casa delle Tre Carpe, a Yokohama. Le notizie dell'assassinio di Utani si sono diffuse in tutto il Giappone seminando terrore. Sonno-joi! Hiraga si accinse a rispondere ma il messaggero di Noriko era molto spaventato. “Arrivare qui è stato terribile, Hiraga-san. Le guardie alle barriere perquisiscono tutti, denudano uomini, donne e bambini, nel caso i messaggi siano nascosti nel perizoma. L'hanno fatto anche a me, signore. “E come mai non ti hanno scoperto?” Il messaggero si toccò il sedere. “Ho nascosto la lettera in un piccolo tubo di metallo, Hiraga-san, ma non voglio rischiare più, certe guardie sono ben informate sui trucchi dei contrabbandieri. Per favore, affidatemi un messaggio a voce.” “Allora porta alla tua padrona la mia gratitudine e i miei auguri e di' a Sumomo-san di andare subito da Shinsaku.” Hiraga usò il nome segreto di suo padre perchè Sumomo potesse avere la

certezza che l'ordine di tornare a casa giungeva proprio da lui. Pagò l'uomo.“ Fai attenzione. “Karma.” Si, karma, pensò Hiraga tornando a concentrarsi sulle parole straniere, contento che Ori fosse vivo e divertito all'idea che fosse stato proprio un gai-jin a salvarlo per metterlo in grado di uccidere altri gai-jin, come lui che presto avrebbe ucciso quei due. Potrei approfittare della confusione della partenza e ucciderne almeno uno, il primo che mi capita a tiro. Eeeh dei, se esistete, proteggete Sumomo. Ha fatto bene a resistere alle pressioni dei suoi genitori, ha fatto bene ad andare nella casa dei miei a Choshu, ha fatto bene a venire a Kanagawa e ha fatto benissimo a trovare il coraggio di unirsi a me in battaglia, sarà un'ottima madre per la mia progenie, se questo sarà il mio karma. Quindi meglio che si metta al sicuro a casa. Meglio che stia a Choshu, lontano dal pericolo... Colse la parola “Shimonoseki”. L'ufficiale gai-jin era loquace e sembrava piuttosto esaltato, e pur non capendo gran parte di ciò che diceva Hiraga intuì che i cannoni avevano colpito le loro navi nello Stretto, uccidendo alcuni marinai, e che i gai-jin erano furibondi perchè la navigazione dello Stretto per loro era essenziale. Sì, è così, pensò Hiraga divertito, ed è esattamente per questo che non l'avrete mai. Anche con i pochi cannoni di cui disponiamo attualmente siamo in grado di tenerlo chiuso alla flotta dei barbari, e presto la nostra fabbrica di armamenti, costruita e progettata dagli olandesi, sarà in grado di produrre tre cannoni da sessanta libbre al mese completi di affusti! Finalmente il vento è girato a nostro favore: il principe Ogama di Choshu, unico tra tutti i daimyo, ubbidisce alla volontà dell'imperatore di attaccare e scacciare i gai-jin; le truppe di Choshu mantengono con fermezza il controllo sui cancelli del palazzo; Katsumata sta riunendo tutti gli shishi per tendere un'imboscata e uccidere lo shògun, attirato per miracolo fuori dalla propria tana, in viaggio verso Kyòto; e noi stiamo stringendo la morsa intorno alla roccaforte dei gai-jin, Yokohama... All'improvviso l'attenzione di quanti erano nel cortile fu richiamata dalle grida provenienti dai cancelli sprangati e sorvegliati. Lo stomaco di Hiraga si strinse. Un ufficiale samurai a capo di un drappello che portava le insegne della Bakufu e lo stendardo personale di Toranaga Yoshi chiedeva il permesso di entrare. I soldati di guardia gli risposero di andarsene. In fondo al drappello Hiraga vide Joun, il suo compagno shishi, incatenato, malridotto ed evidentemente terrorizzato. Una tromba suonò l'allarme. I soldati all'interno delle mura, alcuni con le giubbe sbottonate e senza

berretto ma tutti armati di fucili carichi e baionette, corsero alle postazioni d'attacco e i giardinieri si buttarono carponi con il volto a terra. Hiraga, colto di sorpresa, rimase in piedi per un istante, poi, sentendosi terribilmente esposto, si affrettò a imitare l'esempio degli altri giapponesi. I soldati accorsi nella piazza cominciarono a schierarsi con aria minacciosa. Tyrer si alzò impaurito. “Che cosa diavolo sta succedendo?” Con grande calma, Pallidar disse: “Sarebbe meglio accertarcene”. Si rivolse tranquillo al capitano, comandante delle guardie della Legazione, che stava aprendo la fondina. “'giorno, sono il capitano Pallidar.” “Capitano McGregor. Sono contento che siate qui, sì, molto contento.” “Si va?” “Sì.” “Quanti uomini avete?” “Cinquanta.” “Bene, sono più che sufficienti. Phillip, non ti preoccupare.” Pallidar conservava un'apparente tranquillità ma dentro aveva l'adrenalina alle stelle. “Ma siccome qui sei il funzionario di grado più elevato, tocca a te chiedergli cosa vogliono. Noi ti scorteremo.” “Sì, sì, molto bene.” Sforzandosi di mantenere la calma, Tyrer si mise il cilindro, si aggiustò la finanziera e scese i gradini nell'attenzione generale. I dragoni guardavano Pallidar in attesa di ordini. Tyrer si fermò a cinque metri dal cancello, protetto alle spalle dai due ufficiali. Per un attimo riuscì a pensare solo che aveva un bisogno impellente di orinare, poi ruppe il silenzio. Con un balbettato saluto disse: “Ohayo, watashi wa Taira-san. Nan desu ka?”. Buongiorno, sono il signor Tyrer, che cosa volete per favore? Uraga, l'ufficiale corpulento che aveva difeso il castello di Anjo dall'imboscata degli shishi, lo fissò, si inchinò e attese. Tyrer rispose con un inchino meno profondo, come André Poncin gli aveva suggerito, e ripeté: “Buongiorno, per favore, cosa volete?”. Irato per la mancanza di rispetto l'ufficiale sbottò con una raffica di parole in giapponese che travolsero Tyrer, terrorizzandolo. Anche Hiraga rimase impietrito: l'ufficiale chiedeva il permesso immediato di perquisire la Legazione e di interrogare subito i giapponesi presenti perchè era probabile che tra di essi si trovassero certi shishi assassini e rivoluzionari, “come questo” disse indicando Joun. Tyrer si sforzò di trovare le parole. “Wakarimasen. Dozo, hanashi wo suru noroku.” Non capisco, per favore parlate lentamente. “Wakarimasen ka?” Non capite? chiese esasperato l'ufficiale. Poi, alzando il tono di voce, convinto come quasi tutti che rivolgersi a uno straniero gridando faciliti la comprensione, ripeté le parole di prima, ancora più

gutturali e spaventose, e concluse: “Non ci metterò molto, per favore, è per la vostra sicurezza!”. “Spiacente, non capire. Per favore, parlare inglese od olandese?” “No, certo che no. E' ovvio. Voglio entrare solo per poco tempo. Per favore aprite il cancello! E' per la vostra sicurezza! Guardate, il cancello! Qui, vi faccio vedere!” Si avvicinò, afferrò una sbarra e scosse forte il cancello. I soldati all'interno si spaventarono e molti di loro tolsero le sicure. Pallidar gridò: “Sicure innestate! Non sparate se non lo ordino!”. “Non so di cosa diavolo stia parlando” disse Tyrer, con un rivolo di sudore freddo che gli scendeva lungo la schiena. “Salvo che ovviamente vuole che gli apriamo il cancello.” “Non lo faremo di certo, non con quella marmaglia armata! Digli di andarsene, digli che questa è proprietà britannica.” “Questo...” Tyrer rifletté un attimo, poi indicò l'asta e la bandiera britannica, “questo luogo inglese... non si entra. Per favore dovete andare!” “Andare? Voi siete matto. Come vi ho appena spiegato, si tratta della vostra sicurezza. Abbiamo appena catturato questo cane e siamo sicuri che dentro o qui intorno ce n'è un altro nascosto. APRITE IL CANCELLO!” “Molto spiacente, non capisco...” Sommerso da una nuova valanga di parole giapponesi, Tyrer si guardò in giro attonito. Poi vide Hiraga poco lontano. “Ukiya, vieni qui” gridò in giapponese. “Ukiya!” Il cuore di Hiraga quasi si fermò. Tyrer lo chiamò di nuovo. Fingendosi terrorizzato Hiraga lo raggiunse con una corsa maldestra, gli si gettò ai piedi e chinò la testa. Il volto era quasi completamente nascosto dal cappello da coolie e dava la schiena al cancello. “Cosa dice l'uomo?” chiese Tyrer. Simulando un grande tremore ma con tutti i sensi all'erta Hiraga rispose a bassa voce: “E' un uomo cattivo... vuole entrare, per... per rubare i vostri fucili”. “Ah, si, entrare. Perché?” “Vuole... fare una perquisizione.” “Non capisco. Cosa vuol dire “perquisizione”?” “Cercare. Vuole guardare nella vostra casa, dovunque.” “Si, capisco che vuole entrare. Perché?” “Ve l'ho detto, per guardare...” “Tu, giardiniere” gridò il samurai. Hiraga, investito dall'ira della sua voce, sobbalzò. Per la prima volta in vita sua, al centro dell'attenzione dei samurai là fuori, in ginocchio davanti a un gai-jin, con la testa avvolta da un rozzo turbante e coperta da un cappello che se gli fossero stati tolti avrebbero

rivelato la fronte rasata e il codino da samurai, fu improvvisamente assalito dalla paura. “Tu, giardiniere” gridò ancora l'ufficiale scuotendo il cancello, “di' a questo idiota che voglio solo cercare gli assassini, gli shishi assassini!” Disperato, Hiraga mormorò: “Taira-sama, il samurai vuole entrare per guardare tutti. Ditegli che siete in partenza, dopo potrà entrare”. “Non capisco. Ukiya, vai laggiù a dirglielo!” Tyrer indicò il cancello. “Digli di andarsene, andarsene per bene!” “Non posso, non posso” sussurrò Hiraga, tentando di non perdere il controllo e reprimere la nausea. “Phillip” intervenne Pallidar che aveva il retro dell'uniforme rigato di sudore. “Cosa diavolo sta tentando di dirti?” “Non lo so.” L'atmosfera diventava sempre più tesa. L'ufficiale scosse ancora il cancello, ripeté la richiesta di entrare e i suoi uomini si avventarono sulle sbarre per assecondarlo. Obbligato a intervenire, Pallidar si fece avanti e salutò freddamente. Altrettanto freddamente l'altro rispose con un inchino. Poi, con calma, Pallidar disse: “Questa è una proprietà britannica. Vi ordiniamo di andarvene pacificamente o saremo costretti a ricorrere alla forza”. L'ufficiale lo fissò senza capire, poi con le parole e con i gesti ripeté l'intimazione di aprire il cancello, e in fretta. “Andatevene!” Senza voltarsi, Pallidar gridò: “Dragoni! Ai posti di combattimento!” Subito i dieci dragoni avanzarono compatti e si schierarono in due file di fronte al cancello. Gli uomini della prima fila si inginocchiarono, poi tutti levarono le sicure, caricarono i fucili e puntarono. Scese il silenzio. Pallidar slacciò lentamente il fodero. “Andatevene!” L'ufficiale reagì con una risata che contagiò tutti i samurai presenti nella piazza. Erano centinaia, e li vicino ne avrebbe trovati a migliaia e poco lontano altre decine di migliaia. Nessuno di loro aveva mai visto la carneficina che pochi valorosi e disciplinati soldati britannici potevano provocare con i loro veloci e maneggevoli fucili a retrocarica. La risata si spense velocemente com'era cominciata. Entrambi gli schieramenti attendevano che l'altro facesse la prima inevitabile mossa. La tensione era allo spasimo. Sarà uno scontro all'ultimo sangue, shi kiraku beki, Dio santissimo, Namu Amida Butsu... Hiraga lanciò un'occhiata furtiva a Tyrer e lo vide interdetto, impotente. Lo maledisse sapendo che da un momento all'altro l'ufficiale sarebbe stato costretto a dare l'ordine di attacco per difendere l'onore della bandiera contro la crescente minaccia che veniva dall'esterno. In Hiraga scattò l'istinto di sopravvivenza e senza neppure accorgersi di quello che stava per fare giocò il tutto per tutto. Si sentì mormorare in

inglese: “Per favore, fiducia, per favore dite: Sencho... dozo...” Non aveva mai fatto capire prima a Tyrer di conoscere la sua lingua. L'inglese infatti lo fissò a bocca aperta. “Cosa? Hai detto “fiducia”?” Spintosi ormai troppo in là per tornare indietro, con il cuore in gola, sperando che i due ufficiali accanto fossero troppo concentrati su quanto accadeva all'esterno per udirlo, Hiraga si sforzò di pronunciare le parole nel migliore dei modi. “Per favore, calmo. Pericolo! Fingere parole vostre. Dire: Sencho, dozo shizuka ni... Dire!” Sconvolto dalla paura, aspettò, ma quando si rese conto che la tensione dei samurai all'esterno era sul punto di esplodere sibilò ancora in inglese, questa volta in tono perentorio: “Dire parole subito! Subito! Sencho... dozo shizuka ni...“. Tyrer ubbidì meccanicamente. “Sencho, dozo shizuka ni...” E continuò a ripetere fedelmente tutto quello che Hiraga gli suggeriva ignaro del significato delle parole, confuso dal fatto che il giardiniere conoscesse l'inglese e persino incerto che quello che stava vivendo non fosse un brutto sogno. Tuttavia si rese conto che le parole sortivano un certo effetto. L'ufficiale intimò alla piazza di fare silenzio e la tensione diminuì. Ora il samurai lo ascoltava con attenzione, limitandosi solo a dire di quando in quando: “Hai, wakatta”. Si, capisco. Ritrovato un pò di coraggio Tyrer si concentrò su Hiraga e sul samurai. Il suo discorso terminò improvvisamente. “Domo.” L'ufficiale cominciò a rispondere. Hiraga attese che finisse e mormorò: “Scuotere testa. Dire Iyé, domo, inchinare veloce, tornare casa. Ordinare me venire”. Tyrer scosse la testa con decisione. “Iyé, domo!” disse con importanza e nel silenzio attonito che lo circondava si avviò verso l'edificio della Legazione. Poi improvvisamente si fermò, confuso, si voltò e gridò in inglese “Ukiya! Vieni... oh, Cristo.” Cercò disperato la parola giapponese, la trovò e chiamò: “Ukiya, isogi!”. Muovendosi nello stesso modo impacciato di prima, Hiraga lo seguì. In cima ai gradini della veranda, piegandosi come il più umile dei servitori e volgendo la schiena agli sguardi dei presenti, disse pianissimo: “Per favore, ordinare tutti gli uomini adesso calma. Veloce dentro casa, per favore”. Ubbidiente, Tyrer gridò: “Capitano Pallidar, ordinate agli uomini di sciogliersi, ora, uhm, il pericolo è finito!“. Una volta al sicuro nella Legazione, il livido sollievo di Tyrer si trasformò in ira. “Chi sei, cosa diavolo ho detto, eh?” “Spiego dopo, Taira-san. Samurai vogliono cercare te, tutti uomini, per prendere fucili” rispose Hiraga incespicando nelle parole, ancora sconvolto dalla paura. Adesso stava eretto e guardava l'altro diritto negli occhi,

consapevole che il pericolo non era affatto finito. “Capitano molto arrabbiato, vuole fucili, prendere fucili, cercare... nemico di Bakufu. Tu detto. “No, capitano, kinjiru, cercare proibito. Oggi io e uomini parte, poi voi cerca. Adesso no, kinjiru. Noi parte con armi. Kinjiru, proibito fermare noi. Grazie. Ora preparo partire per Yokohama.” “Ho detto questo?” “Sì. Per favore, ora uscire ancora, con rabbia ordina me e giardinieri tornare al lavoro. Parola hataraki-mashoi” disse Hiraga inquieto. “Parla dopo, in segreto, voi e io, si?” “Si, ma non da soli, con un ufficiale presente.” “Così io no parla, spiacente.“ Dopo quello scambio durato pochi secondi, Hiraga riprese l'abituale atteggiamento servile, uscì dalla stanza e si inginocchiò ancora davanti a Tyrer con la schiena rivolta verso il cortile. Confuso, Tyrer tornò sulla veranda e scoprì che tutti erano rimasti immobili ai loro posti. “Capitano Pallidar e, uhm, capitano McGregor, ordinate agli uomini di sciogliere le fila e per favore raggiungetemi per un colloquio. Hataraki-mashoi! Ikimasho! Rimettevi al lavoro! Presto!” gridò ai giardinieri. Gli ubbidirono tutti subito. Con grande sollievo Hiraga corse a mettersi in salvo in giardino mormorando ai giardinieri di coprirlo, mentre gli ufficiali e i sergenti impartivano gli ordini ai soldati e la vita riprendeva a scorrere con un ritmo più normale. Tyrer, in piedi sulla veranda, non riusciva a distogliere lo sguardo da Hiraga, inorridito al pensiero che fosse una spia e nel contempo grato che li avesse salvati. “Volevi parlare con noi?” chiese Pallidar interrompendo i suoi pensieri. “Oh! Oh, sì... per favore, seguitemi.” Li condusse in ufficio, chiuse la porta e riferì loro ciò che aveva detto al samurai. Entrambi si congratularono. “Maledettamente efficace, Phillip” disse Pallidar. “Per un attimo ero sicuro che ci sarebbe stato uno scontro, e Dio solo sa come sarebbe andata a finire. Quelle canaglie in realtà erano troppe, alla fine ci avrebbero sopraffatti. Alla fine però. Poi ovviamente la flotta ci avrebbe vendicati, ma noi intanto saremmo diventati concime per le margherite, una prospettiva davvero poco divertente.” “Molto poco divertente” borbottò il capitano McGregor. Poi guardò Tyrer. “Cosa volete fare adesso, signore?” Tyrer esitò, stupito che nessuno dei due avesse sentito Hiraga parlare inglese e contento del prestigio guadagnato da quell'episodio: era la prima volta che McGregor lo chiamava “signore”. “Ci conviene eseguire l'ordine di sir William. Ordinate a tutti di fare i bagagli ma non deve sembrare una vergognosa ritirata, non possiamo concedere loro di impadronirsi dei nostri fucili, che sfacciataggine!, né lasciare che

pensino che questa sia una fuga. Usciremo di qui... uhm... con la banda e con grande pompa.” “Perfetto, dopo avere cerimoniosamente ammainato la bandiera.” “Ottimo! Bene, ora... devo sistemare tutti i documenti nelle scatole, eccetera.” “Se permettete, signore...” disse McGregor, “credo che vi siate meritato un buon bicchiere di champagne. Ci dev'essere ancora qualche bottiglia.” “Grazie.” Tyrer sorrise soddisfatto. “Ma forse è meglio festeggiare con una doppia razione di rum” suggerì in accordo con la migliore tradizione marinara. “E anche mangiare qualcosa, così dimostriamo di non avere fretta di scappare.” “Me ne occupo subito” disse McGregor. “Una bella pensata chiamare in aiuto il giardiniere; a volte le sue parole sembravano quasi inglese. Ma perchè volevano perquisire la Legazione?” “Per trovare... per cercare i nemici della Bakufu.” I due uomini lo fissarono stupiti. “Ma se è così, qui non ci sono giapponesi, a parte i giardinieri.” Tyrer sobbalzò per quell'evidenza che incastrava Ukiya, ma fu subito distratto da Pallidar che protestava. “Non lascerai che perquisiscano la nostra Legazione, vero? Sarebbe un pericoloso precedente.” Il buonumore di Tyrer svanì, ovviamente Pallidar aveva ragione. “Maledizione, non ci avevo pensato!” McGregor ruppe il silenzio. “Forse, forse prima di partire, signore, potreste invitare l'ufficiale samurai a fare un giro di ispezione nella Legazione insieme a noi, non c'è niente di male a invitarlo. Nel frattempo potrà controllare i giardinieri, o magari li faremo uscire prima di partire e chiudere i cancelli.” “Un compromesso perfetto” esultò Pallidar. Hiraga, sporco e sudato, strappava le erbacce vicino a una porta secondaria della Legazione, sotto la finestra aperta. Il sole del tardo pomeriggio era ancora caldo. I bagagli venivano ordinatamente impilati su alcuni carretti, i cavalli strigliati e i primi soldati erano già schierati nel cortile in ordine di marcia. Le sentinelle pattugliavano le mura di cinta. Fuori dal recinto i samurai, ancora minacciosi, stavano ammassati all'ombra del parasole o vagavano senza meta. “Adesso!” gridò Tyrer dall'interno della stanza. Hiraga si accertò di non essere osservato, sgattaiolò tra i cespugli e aprì la porta. Subito Tyrer gli fece strada lungo il corridoio fino a una stanza che si affacciava sul cortile e chiuse la porta a chiave. Dalle tende che coprivano le finestre sprangate filtrava la luce del sole. L'ufficio era spoglio, arredato solo con alcune sedie e una scrivania su cui era posata una pistola e decine di rotoli di documenti e fascicoli. Tyrer si

sedette dietro la scrivania e indicò una sedia. “Prego, accomodati. Ora dimmi chi sei.” “Prima, segreto che io parlo inglese, si?” Hiraga rimase ritto in piedi, con un aspetto vagamente minaccioso. “Prima dimmi chi sei e poi deciderò.” “No, spiacente, Taira-san. Io utile a voi, già salvato uomini. Molto utile. Vero?” “Sì, vero. Perché vuoi che rimanga segreto?” “Salvo io... e salvo voi.” “Io cosa c'entro?” “Forse non saggio avere... come si dice, ah, si, segreto altri gai-jin non sa. Io molto utile voi. Aiuto imparare lingua, aiuto imparare Giappone. Io dico verità a voi, voi dite verità a me, voi aiuta me, io aiuto voi. Quanti anni, per favore?” “Ventuno.” Hiraga nascose la sorpresa e gli sorrise da sotto la falda del cappello: gli era molto difficile stabilire l'età dei gai-jin, si assomigliavano tutti. La pistola che quello stupido nemico teneva sul tavolo non gli incuteva alcun timore perchè avrebbe potuto ucciderlo a mani nude prima che riuscisse a impugnarla. E' facile ucciderlo, una grande tentazione, e questo posto è perfetto, potrei scappare senza problemi, ma poi, una volta fuori, non mi sarebbe altrettanto facile sfuggire ai samurai. “Segreto?” “Chi sei? Il tuo nome non è Ukiya, vero?” “Promette segreto?” Tyrer respirò a fondo, soppesò le conseguenze e vide comunque davanti a sé soltanto guai. “D'accordo.” Gli si fermò il cuore quando Hiraga estrasse la lama dal bordo del cappello e si maledì per la sventatezza che lo aveva spinto a esporsi a un simile rischio. “Ormai è fatta” mormorò. “Cosa?” “Niente.” Hiraga si punse un dito e gli porse il pugnale. “Ora tu, per favore.” Tyrer esitò, sapendo già quello che sarebbe seguito, ma fedele alla decisione presa alzò le spalle e ubbidì. Hiraga avvicinò solennemente il proprio dito a quello di Tyrer per suggellare il patto di sangue. “Giuro davanti dei mantiene segreto su voi. Per favore, dite stessa frase davanti Dio cristiano, Taira-san.” “Giuro davanti a Dio di mantenere il segreto su di te finché potrò” disse Tyrer con gravità, chiedendosi dove lo avrebbe portato quel patto. “Dove hai imparato l'inglese? In una scuola di missionari?” “Hai, ma io non cristiano.” Meglio non raccontargli delle nostre scuole Choshu, pensò Hiraga, né di Grande Puzza, l'olandese che ci insegnava

l'inglese e diceva di essere stato un prete prima di diventare pirata. Dire la verità o mentire a Taira è irrilevante, è un gai-jin, un capo poco importante dei nostri principali nemici stranieri, devo usarlo, non concedergli nessuna fiducia, odiarlo e poi ucciderlo. “Mi aiuti a scappare?” “Chi sei? Da dove vieni? Non ti chiami Ukiya.” Hiraga sorrise e finalmente si sedette. “Ukiya significa giardiniere, Taira-san. Nome mia famiglia Ikeda.” Raccontò la bugia senza difficoltà. “Nakama Ikeda, ufficiale samurai vuole me. Io ventidue anni.” “Perché?” “Perché io e mia famiglia, di Choshu, contro Bakufu. Bakufu ruba potere a imperatore e ...” “Vuoi dire lo shògun?” Hiraga scosse la testa. “Shògun è Bakufu, capo di Bakufu. Lui...” Si fermò a riflettere, poi mimò una marionetta appesa a un filo. “Capisci?” “Marionetta?” “Si, marionetta.” Tyrer sgranò gli occhi. “Lo shògun è una marionetta?” Hiraga annuì, più rilassato ora che riusciva a comunicare, concentrandosi per trovare le parole. “Shògun Nobusada è ragazzo, sedici anni, marionetta di Bakufu. Vive Edo. Imperatore vive Kyòto. Ora imperatore senza potere. Più duecento anni fa, Shògun Toranaga prende potere. Noi lotta per prendere potere di Shògun e Bakufu e restituire imperatore.” Tyrer, pur affaticato dallo sforzo di capire le parole storpiate di Hiraga, si rese subito conto delle immense implicazioni di quelle informazioni. “Questo ragazzo Shògun, che età ha, per favore?” “Shògun Nobusada sedici anni. Bakufu dice lui cosa fare” ripeté Hiraga controllando l'irritazione, consapevole di dover stare calmo. “Imperatore molto potere ma non...” non riuscendo a trovare la parola decise di spiegarsi in altro modo “Imperatore non come daimyo. Daimyo molti samurai, molte armi. Imperatore no samurai, no armi. Non può fare ubbidire Bakufu. Bakufu, ha eserciti, imperatore no, wakatta?” “Hai, Nakama, wakatta.” Tyrer, la cui mente era affollata da un'infinità di domande, capì che quell'uomo era un pozzo di informazioni ma che doveva usare molta cautela e che quello non era il luogo adatto. Notando il volto intensamente concentrato del giapponese, pensò che questi non avrebbe capito facilmente le sue domande e si ripromise di parlare adagio e con la massima semplicità. “Quanti di voi combattono contro la Bakufu?” “Molti.” Hiraga scacciò una zanzara. “Centinaia, migliaia? Che tipo di persone, persone normali, giardinieri, operai, mercanti?” Hiraga lo guardò perplesso. “Loro niente. Loro serve samurai. Solo samurai combatte. Solo samurai ha armi. Kinjiru per altri

avere armi.” Tyrer sgranò di nuovo gli occhi. “Tu sei un samurai?” “Samurai combatte. Io combatte Bakufu, si? Nakama samurai!” rispose Hiraga sempre più stupito dall'ottusità dell'inglese. Si tolse il cappello e il sudicio straccio sudato che gli faceva da turbante e mostrò la caratteristica fronte rasata e il codino. Ora che Tyrer lo poteva vedere bene in volto, per la prima volta senza il grande cappello da coolie e osservandolo con attenzione riconobbe i duri occhi obliqui di un samurai e la struttura ossea, così diversa da quella di un contadino. “Quando shenso, capitano samurai, vede me così, io morto.” Tyrer annuì sconcertato. “Facile io scappa. Per favore, dammi vestiti soldato.” A Tyrer riuscì difficile non far trasparire l'agitazione e la paura, il conflitto interiore tra il disperato desiderio di fuga e la brama di ottenere quante più informazioni poteva dal samurai. Manovrato nel modo giusto, forse, anzi certamente, quell'uomo gli avrebbe aperto il mondo segreto del Giappone e il suo stesso futuro. Ma quando stava per accettare senza riserve la richiesta si ricordò dell'avvertimento di sir William e, grato, si concesse un pò di tempo per ricomporsi. “Facile scappa, sì?” ripeté Hiraga impaziente. “Non facile, possibile. Ma rischioso. Devo prima convincermi che valga la pena di salvarti.” Tyrer notò negli occhi dell'altro un improvviso moto d'ira, o forse d'ira e paura insieme, non ne era certo. Cristo, un samurai! Come vorrei che sir William fosse qui, non so che cosa fare. “Non credo di poter...” “Per favore” implorò Hiraga, sapendo che quella era la sua unica possibilità di sfuggire alla trappola. Sbrigati ad accettare o altrimenti ti ucciderò e cercherò di mettermi in salvo scavalcando il muro. “Nakama giura su dei aiuta Taira-san.” “Giuri solennemente sui tuoi dei che risponderai con sincerità a tutte le mie domande?” “Hai” rispose subito Hiraga, stupefatto che Tyrer fosse così ingenuo da chiedere una simile promessa a un nemico. Non può essere così stupido. Quale dio e quali dei? Non esistono neppure. “Giuro su dei.” “Aspetta qui. Spranga la porta, apri solo a me.” Tyrer si mise in tasca la pistola, uscì a cercare Pallidar e McGregor e lì chiamò in disparte. “Ho bisogno di aiuto. Ho scoperto che Ukiya è uno degli uomini ricercati dai samurai, sembra che sia un dissidente. Voglio travestirlo da soldato e farlo tornare con noi.” I due ufficiali lo fissarono sorpresi. Poi McGregor disse: “Scusatemi, signore, siete sicuro che non sia un grosso rischio? In fin dei

conti la Bakufu rappresenta il governo ufficiale e se ci scopre...”. “Non ci faremo scoprire. Lo vestiamo come un soldato e lo mescoliamo agli altri. Cosa ne pensi, Settry?” “Sì, si può fare, Phillip, ma se lo vedono e ci fermano siamo nei guai fino al collo.” “Hai un'alternativa da suggerire?” chiese Tyrer sempre più agitato, la voce incrinata dall'eccitazione e dalla paura. “Voglio portarlo fuori di qui. Senza il suo aiuto probabilmente ora saremmo tutti morti, e inoltre ci sarà molto utile in futuro.” Gli altri due si scambiarono un'occhiata perplessa e poi guardarono Tyrer. “Mi dispiace, è troppo pericoloso” disse Pallidar. “Non è vero!” sbottò Tyrer esasperato. “Va fatto! E' una questione di estrema importanza per il governo di Sua Maestà e non si discute!” McGregor sospirò. “Si, signore, molto bene. Capitano, se lo mettessimo a cavallo?” “Come, un dragone? E' un'idea ridicola, per l'amor di Dio, un giardiniere non sa cavalcare. Meglio farlo marciare e circondarlo di soldati...” “Cinquanta sterline contro un centesimo di rame che quella canaglia non tiene il passo, sarà riconoscibile come una puttana nei mutandoni di un vescovo!” Intervenne Tyrer: “Potremmo mettergli un'uniforme, bendargli il viso e le mani e portarlo in barella, fingere che sia malato”. Gli ufficiali lo guardarono con un sorriso. “Questa si che è un'idea!” “Meglio ancora” concluse Pallidar tutto contento, “fingeremo che sia contagioso... vaiolo, morbillo, peste!” I tre risero tutti insieme. L'ufficiale samurai e le guardie a cui concessero di entrare nella Legazione ormai vuota seguirono Tyrer, McGregor e quattro dragoni all'interno dell'edificio. erquisirono con grande meticolosità ogni stanza, ogni armadio e persino la soffitta. Alla fine l'ufficiale si dimostrò soddisfatto. Nell'ingresso giacevano due soldati in barella, entrambi febbricitanti, uno dei due bendato solo in parte, l'altro, Hiraga, completamente bendato, testa, piedi e mani, con l'uniforme grondante di sudore. “Tutti e due molto malati” disse Tyrer in giapponese, ripetendo le parole che Hiraga gli aveva suggerito. “Questo soldato ha la malattia dei foruncoli.” Il samurai sbiancò e arretrò di un passo. Nelle città giapponesi le epidemie di vaiolo erano endemiche, anche se non gravi come in Cina, dove avevano causato la morte di centinaia di migliaia di persone. “Dobbiamo... metterlo a rapporto” mormorò l'ufficiale, coprendosi la bocca come stavano facendo i suoi uomini, convinto che l'infezione si prendesse respirando l'aria contagiata che aleggiava intorno ai malati. Tyrer si limitò ad alzare le spalle senza capire. “Uomo molto malato.

Non avvicinatevi.” “Non intendo davvero avvicinarmi, sarei pazzo!” L'omaccione giapponese uscì sulla veranda. “Ascoltate” disse piano ai suoi, “non dite niente agli altri fuori o sarà il panico. Fetenti cani stranieri. Nel frattempo tenete gli occhi aperti, Hiraga dev'essere qui intorno.” Setacciarono il giardino e i dintorni, mentre tutti gli addetti della Legazione e i soldati restavano ammassati all'ombra impazienti di marciare verso il molo e le navi. Finalmente soddisfatto, l'ufficiale si inchinò con severità e a grandi passi uscì dal cancello per raggiungere i samurai che tenevano Joun ancora legato tra le prime file. I giardinieri, pietrificati in ginocchio, nudi e senza cappello, al suo passaggio abbassarono ulteriormente la testa sulla terra. “Alzatevi!” gridò lui. Dopo aver dato ordine di spogliarli scoprì che nessuno di loro aveva la testa rasata, né ferite di spada o altro segno che lo identificasse come samurai. La sua preda doveva trovarsi ancora nascosta all'interno o era riuscita a scappare. Ora che anche la Legazione era stata perquisita, si parò inferocito davanti a Joun. “Per mascherarsi il ronin Hiraga si è rasato tutta la testa o si è lasciato crescere i capelli come questa marmaglia di giardinieri. Identificalo!” Joun era in ginocchio, sfinito e morente. Era stato picchiato ripetutamente e fatto tornare in sé per ordine di Anjo. “Identifica Hiraga!” “Lui... non c'è, non è qui.” Preso a calci nelle parti più sensibili dall'ufficiale, il giovane gridò. I giardinieri tremarono terrorizzati. “Non c'è... non è qui...” Un altro calcio spietato. Agonizzante Joun indicò uno dei giardinieri. Il ragazzo crollò in ginocchio gridando la propria innocenza. “Fatelo tacere!” ordinò l'ufficiale. “Portatelo dal giudice, imprigionatelo e crocifiggetelo, prendeteli tutti, sono colpevoli di averlo nascosto, prendeteli tutti!” Mentre li trascinavano via tra urla di innocenza, il ragazzo gridò di aver visto Hiraga poco prima, vicino alla casa, che lo avrebbe identificato se lo avessero lasciato andare, ma nessuno lo ascoltò e ben presto le sue urla e quelle dei suoi compagni furono brutalmente soffocate. L'ufficiale si terse il sudore dalla fronte, soddisfatto di aver eseguito gli ordini. Bevette un sorso d'acqua da una bottiglia, lo sputò per sciacquare la bocca e ne bevette dell'altra. Eeeh, pensò tremando, il vaiolo! Una malattia che i gai-jin hanno portato da fuori! Tutto il marcio viene da fuori, i gai-jin vanno scacciati una volta per tutte. Osservò furibondo la banda che si riuniva e i soldati impettiti continuando a pensare allo shishi a cui dava la caccia. Non è possibile che quel giardiniere fosse il famoso Hiraga, lo shishi dello scontro. Karma che quel giorno io e i miei uomini siamo arrivati troppo

tardi e lui e gli altri sono riusciti a scappare senza che li vedessimo. No, non karma, Dio era sopra di me. Se li avessi visti non avrei dovuto fingere di farmi indicare Hiraga da quel Joun. Ma Hiraga dov'è? E nascosto da qualche parte. Dio, ti prego, aiutami, Eeeh, la vita è strana. Odio i gai-jin eppure, in segreto, credo in Gesù, il loro Dio, come mio padre, il padre di mio padre e i miei antenati dai tempi di Sekigahara. Sì, credo in questo Dio Gesù, l'unico bene prezioso portato da fuori, i principi maestri gesuiti non dicevano forse che la Fede aumenta il nostro potere e che quando abbiamo un problema lo dobbiamo affrontare come un cane affronta un osso? Hiraga si nasconde da qualche parte. Ho cercato con cura. Eppure è riuscito a travestirsi, da cosa, da albero, da che altro? All'interno delle mura continuavano i preparativi per la partenza. Venne ammainata la bandiera. Ora la banda suonava, i cavalieri montarono in sella e le barelle furono posate su un carro. Il cancello si aprì, i soldati a cavallo si schierarono guidati dal gai-jin con il nome giapponese, sfilarono, scesero la collina e... Le bende! L'intuizione fulminò la mente dell'ufficiale. Non c'è nessuna epidemia! Furbo, pensò eccitato, ma non abbastanza! Adesso cosa faccio, lì affronto e lì costringo in un vicolo? o incarico le spie di seguirlo e lo tengo sotto controllo, così mi porta dagli altri? Lo tengo sotto controllo.

Capitolo 19 †

Martedì, 14 ottobre La festa di fidanzamento di Angélique era al suo apice. Mille lampade a olio illuminavano a giorno il sovraffollato salone del circolo. Malcolm Struan aveva affittato per la speciale occasione l'intero palazzo e tutte le sale erano state addobbate a festa. Erano stati invitati tutti i membri rispettabili dell'Insediamento ed erano presenti anche gli ufficiali che si erano potuti allontanare dai loro posti. Davanti all'ingresso del palazzo su High Street pattuglie della Marina e dell'Esercito erano pronte a impedire a ubriaconi e indesiderabili della Città Ubriaca di importunare. Angélique non era mai stata più bella: crinolina, acconciatura con piume di uccello del paradiso e un anello di fidanzamento abbagliante. Il ballo era un nuovissimo vibrante valzer di Johann Strauss, appena arrivato da Vienna con una valigia diplomatica, e André Poncin lo stava suonando con gusto al pianoforte abilmente sostenuto da un gruppo scelto della banda della marina in alta uniforme. Angélique volteggiava fra le braccia di Settry Pallidar che era stato scelto per rappresentare l'esercito tra grida di consenso e gelosia generali. Anche Victoria Lunkchurch e Mabel Swarin danzavano il valzer rispettivamente in compagnia di sir William e Norbert Greyforth, e avevano i carnet di ballo già esauriti fin dall'inizio della festa. Malgrado le loro ampie circonferenze erano due buone ballerine. Entrambe sfoggiavano abiti nuovi con la crinolina seppure non paragonabili a quello di Angélique né per ricchezza né per profondità di scollatura. “Sei uno schifoso spilorcio, Barnaby” sussurrò Victoria al marito. “Mabel e io ci faremo fare dei fronzoli nuovi anche se ti dovessero costare tutta la compagnia, per Dio! E vogliamo un'acconciatura come la sua, per Dio!” “Cosa?” “Sì, cosa, cosa! Acconciature... cappelli.” Le piume di Angélique erano state il colpo di grazia per le due inglesi. “Vuole la guerra e l'avrà” dissero. Tuttavia i numerosi inviti al ballo avevano fatto dimenticare la gelosia e ora volteggiavano con abbandono. “Maledetto fortunato bastardo” borbottò Marlowe che aveva occhi solo per il suo rivale. La giacca blu dell'uniforme della marina scintillava insieme alle

mostrine di aiutante di campo e ai pantaloni di seta bianca, e anche le calze e le scarpe nere con le fibbie d'argento erano molto eleganti. “Chi è il bastardo?” domandò Tyrer passandogli accanto con un altro bicchiere di champagne, euforico per la serata e per essere riuscito a far fuggire Nakama, il samurai di Edo, e con l'approvazione di sir William a metterlo in salvo alla Legazione nel ruolo di insegnante di giapponese. “Chi è il bastardo, Marlowe?” “Vai al diavolo... come se non lo sapessi!” Marlowe fece una smorfia. “Sta' a sentire, io sono il rappresentante della marina e mi tocca il prossimo giro e farò vedere il fatto suo a quel cretino o morirò nel tentativo.” “Fortunato! Che cos'è?” “Una polka!” “Accidenti... l'hai chiesta tu?” “Buon Dio, no!” La polka, ispirata a una danza popolare boema, era un'altra novità nelle sale da ballo d'Europa dove andava molto di moda benché fosse considerata audace. “E' nel programma! Non hai visto?” “No, non l'ho letto, avevo troppe cose a cui pensare” rispose Tyrer allegro, e ansioso di raccontare a qualcuno le sue prodezze. Era anche felice all'idea che appena finita la festa avrebbe attraversato il ponte del paradiso per gettarsi tra le braccia della sua amata. Rimpiangeva tuttavia di aver giurato di mantenere il segreto su entrambi gli argomenti. “Balla come una fata, non è vero?” “Ehi, giovane Tyrer...” Era Dmitri Syborodin, lustro e sudato, con un bicchierone di rum in mano. “Ho domandato al capo banda di suonare anche un can-can. Guy dice che sono il quinto a chiederlo.” “E lo suonerà?” domandò Tyrer sgomento. “Ho visto eseguire un can can una volta, a Parigi... non ci crederete ma le ragazze non indossavano affatto i mutandoni.” “Ci credo, ci credo! “ ridacchiò Dmitri. “Ma Tette d'Angelo li indossa e non ha paura di farceli vedere!” “State a sentire...” cominciò Marlowe accalorandosi. “Suvvia John, sta solo scherzando. Dmitri, siete impossibile. Il direttore della banda non oserà, vero?” “Non senza il permesso di Malc.” Guardarono tutti dall'altra parte della stanza dove Malcolm Struan sedeva in compagnia del dottor Hoag, di Babcott, Seratard e alcuni ministri. Sembrava osservare l'insieme dei ballerini ma in realtà aveva occhi soltanto per Angélique che ondeggiava alle note dell'eccentrica musica moderna che divertiva tutti i presenti. Teneva una mano appoggiata su un pesante bastone e l'anello d'oro col sigillo scintillava a ogni movimento delle dita

mentre batteva il tempo. Indossava un elegante abito da sera con colletto rigido, cravatta color crema e fermacravatta con diamante, morbidi stivali di pelle fatti arrivare da Parigi. “E un peccato che sia ancora così malconcio” mormorò Tyrer. Era sinceramente dispiaciuto per l'altro e al tempo stesso non poteva che rallegrarsi d'aver avuto più fortuna. Struan e Angélique erano arrivati tardi. Il giovane camminava con estrema difficoltà, curvo in avanti, malgrado tutti gli sforzi per restare diritto, e appoggiava l'intero peso del corpo sui due bastoni. Angélique avanzava raggiante al suo fianco. Li accompagnava il dottor Hoag come sempre attento e premuroso. Furono accolti da saluti festosi, Angélique soprattutto, e poi Malcolm sedendosi con sollievo aveva dato ufficialmente il benvenuto agli ospiti invitandoli ad avvicinarsi al banchetto allestito sui tavoli. “Ma prima, amici miei” disse, “vi prego di alzare i vostri bicchieri e di brindare alla più bella ragazza del mondo, mademoiselle Angélique Richaud, mia futura sposa.” Seguirono brindisi e congratulazioni. Alcuni domestici cinesi in livrea portarono lo champagne, Jamie McFay aggiunse qualche parola di felicitazione e la festa ebbe inizio. Vini di Bordeaux e Borgogna, uno speciale Chablis molto apprezzato in Asia, cognac, whisky tutte merci di cui Struan era l'importatore esclusivo, gin, birra da Hong Kong. E poi roastbeef, alcuni agnelli arrosto, sformati di pollo, cosciotti di maiale affumicato, prosciutto, patate di Shanghai al forno ripiene di maiale e burro, pudding e infine cioccolato, un nuovo prodotto importato dalla Svizzera. Dopo cena i tavoli vennero rimossi insieme ad alcuni ospiti già ubriachi. André Poncin prese posto al pianoforte e la banda cominciò a suonare. Sir William chiese formalmente a Malcolm l'onore del primo ballo. Dopo di lui venne il turno di Seratard e poi dei ministri, con l'eccezione di von Heimrich che un attacco di dissenteria costringeva a letto, dell'ammiraglio e del generale. Tutti dopo il ballo con Angélique ballarono con le altre due dame. Al termine di ogni ballo Angélique veniva circondata da un folto gruppetto di uomini accaldati e sorridenti e lei facendosi aria col ventaglio, correva accanto a Malcolm, felice dell'attenzione di tutti ma allo stesso tempo attenta solo a lui. Rifiutava ogni invito acconsentendo soltanto quando era Malcolm a insistere. “Ma Angélique, adoro guardarti ballare, mia cara, danzi con tanta grazia.” E infatti ora la stava osservando, dilaniato dalla felicità e dal senso di frustrazione, sgomento d'essere ancora infermo. “Non crucciartene” gli aveva detto Hoag quella sera nel tentativo di

calmarlo quando il semplice gesto di vestirsi per la festa aveva rappresentato un inferno di sofferenze e la conferma della propria infelice situazione. “Oggi è il primo giorno che sei in piedi. Sei stato ferito soltanto un mese fa, non preoccuparti...” “Ripetimelo un'altra volta e sputerò sangue.” “Non è soltanto la ferita a farti soffrire. C'entra anche la medicazione, per non parlare della posta arrivata oggi. Hai ricevuto una lettera da tua madre, non è vero?” “Sì” aveva risposto con aria infelice sedendo sul letto e rinunciando a terminare di vestirsi. “E'... be'... è furibonda, non l'ho mai sentita così arrabbiata. E' contraria al mio fidanzamento, al matrimonio nel modo più assoluto... A sentir lei Angélique è il diavolo in persona. Ha...” incespicò nelle parole, “ha i... ignorato la mia lettera, l'ha ignorata completamente, e senti qua cosa dice: Sei impazzito? Sei diventato matto? Tuo padre è morto da sole tre settimane, non hai ancora ventun anni, quella donna vuole mettere le mani sui tuoi soldi e la nostra compagnia, è la figlia di un bancarottiere fuggito chissà dove, nipote di un altro criminali e, Dio ci aiuti, cattolica e francese! Sei impazzito? Dici di amarla? Stupidaggini! Sei stregato! Metti fine a questa sciocchezza. Devi mettere fine a questa sciocchezza! Lei ti ha stregato. E' ovvio che non hai la lucidità indispensabile per essere a capo della Struan! Devi tornare senza quella persona appena il dottor Hoag darà il suo consenso. “ “Quando darò il mio consenso, Malcolm, farai quello che tua madre ti chiede?” “Non per quanto riguarda Angélique. Niente di quello che dice mia madre conta per me, niente! E' chiaro che non ha nemmeno letto la mia lettera, che non le importa niente di me. Che cosa diavolo posso fare?” Hoag si era stretto nelle spalle. “Quello che hai già deciso. Ti fidanzerai e a tempo debito ti sposerai. A poco a poco starai meglio. Riposerai, mangerai tante buone zuppe e porridge e ti terrai lontano dai sonniferi e dagli antidolorifici. Per le prossime due settimane resterai qui, poi tornerai a Hong Kong ad affrontare il...” aveva sorriso con gentilezza, “il futuro tranquillamente.” “Sono molto fortunato ad averti come dottore.” “Sono molto fortunato ad averti come amico.” “Hai ricevuto una sua lettera anche tu?” “Sì.” Una risatina. “Adesso che ci penso mi sembra di sì.” “Dunque?” Hoag aveva alzato gli occhi al cielo. “Non abbiamo già dedicato abbastanza tempo a questo argomento?”

“Sì. Grazie.” E ora, mentre la guardava danzare al centro dell'ammirazione e del desiderio generale, il seno in parte scoperto come voleva la moda, le caviglie sottili che invitavano lo sguardo a cercare più in alto, sotto i cerchi ondeggianti color albicocca, si sentì eccitare. Grazie a Dio, pensò mentre la sua ira svaniva, perlomeno quello continua a funzionare, ma so che non potrò aspettare fino a Natale, non ne sarò capace. Era quasi mezzanotte e Angélique sorseggiava champagne celandosi dietro il ventaglio, muovendolo con abilità, scherzando con gli uomini che la circondavano. Poi diede a qualcuno il suo bicchiere da tenere come se fosse un dono prezioso, si scusò e volteggiò verso Struan dove c'era un gruppo animato composto da Seratard, sir William, Hoag, altri ministri e Poncin. “Là, monsieur André, suonate in modo superbo. Non è vero, Malcolm caro?” “Sì, superbo” rispose Struan che non si sentiva affatto bene ma cercava di non darlo a vedere. Hoag lo guardò di sottecchi. Angélique stava dicendo in francese: “André, dove vi siete nascosto negli ultimi giorni?”. Lo guardava al di sopra del ventaglio. “Se fossimo a Parigi giurerei che avete dato il vostro cuore a una nuova innamorata.” “Assorto dal lavoro, mademoiselle” rispose Poncin con affettazione. Poi Angélique si rivolse a Struan in inglese: “Ah, quanta malinconia. Parigi in autunno è magnifica, bella da mozzare il fiato quasi come in primavera. Oh, aspetta e vedrai quando te la farò conoscere, Malcolm. Potremmo trascorrere una stagione a Parigi, non credi?”. Era in piedi accanto a lui che le passò un braccio intorno alla vita; lei appoggiò leggermente il suo sulle spalle di lui e giocherellò con i suoi lunghi capelli. Le piaceva essere abbracciata da lui; Malcolm era bello e indossava bei vestiti e l'anello che le aveva regalato quella mattina, un diamante circondato da brillanti più piccoli, la rendeva felice. Lo guardava e lo rigirava ammirandolo e chiedendosi quanto valesse. “Ah, Malcolm, Parigi ti piacerà, in stagione, è davvero fantastica. Non potremmo andarci?” “Perché no? Se lo desideri.” Angélique sospirò accarezzandogli discretamente la nuca. Come se fosse stata colta da un pensiero improvviso esclamò: “Forse, cosa ne pensi, chéri, forse potremmo trascorrere lì la nostra luna di miele... ballare tutte le notti.” “Vedervi ballare è uno spettacolo delizioso, mademoiselle, in qualsiasi città del mondo” intervenne Hoag accaldato e a disagio nell'abito troppo aderente. “Vorrei poter dire lo stesso di me. Posso suggerire...” “Voi non ballate mai, dottore?”

“Anni fa, quand'ero in India, ballavo anch'io ma smisi dopo che mia moglie morì. Le piaceva tanto che adesso non posso più divertirmi senza di lei. E' una festa eccezionale, Malcolm. Posso suggerire di ritirarci?” Angélique lo guardò mentre il sorriso le si spegneva sulle labbra; notò la preoccupazione sul volto del medico e guardando Malcolm si rese conto che era sfinito. Che peccato che sia tanto ammalato, pensò. Dannazione! “E' ancora presto” disse Malcolm eroicamente quando in realtà desiderava soltanto sdraiarsi, “non è vero, Angélique?” “Devo confessare di essere molto stanca anch'io” rispose lei senza esitare. Chiuse il ventaglio, lo appoggiò e sorrise a Malcolm, a Poncin e agli altri e si preparò a uscire. “Potremmo allontanarci senza farci notare e lasciare che la festa continui...” Si scusarono con le persone più vicine mentre gli altri ospiti fingevano di non notare la loro partenza. Tuttavia senza di lei la festa non fu più la stessa. Fuori dalla porta si fermò un istante. “Oh là là, ho dimenticato il ventaglio. Ti raggiungo subito, caro.” Corse dentro la sala. Poncin la intercettò. “Mademoiselle” disse in francese, “credo che questo vi appartenga.” “Ah, molto gentile.” Prese il ventaglio lieta che il suo stratagemma avesse funzionato e che Poncin avesse uno spirito d'osservazione acuto quanto lei aveva sperato. Mentre lui si chinava sulla sua mano per baciargliela lei gli sussurrò in francese: “Devo vedervi domani”. “Alla Legazione a mezzogiorno, chiedete di Seratard, non ci sarà.” Angélique si spazzolava i capelli davanti allo specchio canticchiando la melodia dell'ultimo valzer che aveva ballato. Qual era stata la migliore? La danza migliore? La risposta è facile, si disse, la polka con Marlowe, molto meglio del valzer con Pallidar. I valzer andrebbero ballati soltanto con il grande amore, lasciando che la musica ti faccia girare la testa con l'adorazione e il desiderio trasportandoti sulle nuvole, facendoti fremere come io fremo questa sera, la sera più beffa della mia vita, la sera in cui mi sono fidanzata a un bell'uomo che mi ama con tutto il cuore. Si, dovrebbe essere la giornata più bella della mia vita eppure non lo è. E' strano persino che mi sia divertita, che sia riuscita a comportarmi e a pensare con calma quando il tempo è scaduto e io sono in ritardo, e probabilmente ho nella pancia il figlio di uno stupratore. Osservava il riflesso nello specchio come se si trattasse dell'immagine di un'altra persona mentre spazzolava con mano ferma i capelli solleticando il cuoio capelluto, sbalordita di essere ancora viva malgrado tutte le sofferenze e di avere ancora lo stesso aspetto.

Curioso. Dopo il primo giorno era stato sempre più facile. Come mai? Non lo so. Be', non importa. Domani magari le mestruazioni arrivano o forse questa notte stessa potrebbero cominciare e allora non ci sarà più bisogno di aver paura e piangere e piangere e aver paura. Decine di migliaia di donne si sono trovate nella mie condizioni eppure sono riuscite a cavarsela senza danni. Una piccola medicina e tutto torna come prima e nessuno ne sa niente. Eccetto tu e io! Eccetto tu e il tuo dottore, o tu e la levatrice... o la megera. Per questa sera basta, Angélique. Abbi fede in Dio e nella Madre Benedetta. La Madre Benedetta ti aiuterà perchè sei senza colpa. Sei ufficialmente fidanzata a un uomo meraviglioso, presto sarai sposata e vivrete felici insieme per sempre. Domani... domani si vedrà. Alle sue spalle Ah-Soh stava rassettando il letto, raccoglieva le sue calze e la biancheria. La crinolina era già stata appesa all'attaccapanni assieme alle altre due e a una mezza dozzina di abiti nuovissimi ancora avvolti nei fogli di carta di riso che erano stati appoggiati li accanto. Attraverso la finestra giungeva dal circolo l'eco delle risate e dei canti sguaiati e delle note della musica; la festa non accennava a terminare. Angélique sospirò con nostalgia e spazzolò più energicamente i capelli. “Signorina volere qualcosa, heya?” “No. Solo dormire.” “'Notte, signorina.” Angélique richiuse la porta. La porta comunicante con la suite di Struan era solo accostata. Fino a qualche giorno prima appena terminato di fare toilette Angélique bussava per dargli il bacio della buonanotte e a volte per chiacchierare per qualche minuto, poi tornava nella sua stanza lasciando la porta socchiusa in caso lui avesse bisogno di lei durante la notte. Ormai era raro che ciò accadesse perchè da una settimana aveva smesso di prendere il sonnifero ed era diventato molto irrequieto e, benché non se ne lamentasse, dormiva poco. Angélique tornò a sedere davanti allo specchio compiaciuta dell'immagine che vedeva. La camicia di seta e pizzo, una copia fatta in Giappone di un modello che aveva portato da Parigi, le dava un'aria molto alla moda: ...e non immagineresti mai come lavorano, Colette, né la velocità dei sarti cinesi aveva scritto nel pomeriggio in una lettera che sarebbe partita l'indomani col vapore.

Ora posso farmi copiare tutto. Mandami per favore dei modelli o qualche ritaglio da “La Parisienne” o “L'Haute Couture” dell'ultimissima moda o di qualsiasi cosa ti sembri magnifica... Il mio Malcolm è tanto generoso e tanto ricco! Dice che posso ordinare qualsiasi cosa! E il mio anello, è un diamante con quattordici brillanti. Gli ho chiesto come avesse fatto a procurarselo qui a Yokohama e lui si è limitato a sorridere. Devo stare davvero attenta a non fare domande sciocche. Oh, Colette, tutto è così fantastico solo che la sua salute mi preoccupa. Migliora troppo lentamente e cammina molto male. Ma cresce invece il suo ardore, poverino, e devo fare attenzione... Adesso mi devo vestire per la festa ma aggiungerò qualcosa prima di chiudere la lettera. Per il momento il mio eterno affetto. Quant'è fortunata Colette per la quale le gravidanze sono un dono di Dio. Smettila! Basta, altrimenti torneranno le lacrime e la paura. Accantona il problema. Hai deciso cosa fare sia nel caso fossi incinta sia nel caso non lo fossi. Lo sei, quindi ora deve scattare il piano prestabilito... Che cos'altro potresti fare? Una goccia di profumo dietro le orecchie e tra i seni, un'aggiustatina al pizzo. Un colpo bussato con gentilezza alla porta della camera comunicante. “Malcolm?” “Entra... sono solo.” Anziché essere a letto Struan era seduto su una poltrona con indosso una vestaglia di seta rossa; aveva uno sguardo strano. Immediatamente l'istinto la mise in guardia. Richiuse la porta e gli si avvicinò: “Non sei stanco, amore mio?“. “Sì e no. Sei bella da mozzare il fiato.” Tese le mani verso di lei e Angélique gli si avvicinò col cuore che batteva forte. Le mani di lui erano scosse da un forte tremito. La costrinse ad avvicinarsi e le baciò le mani, le braccia e il petto. Per un attimo lei non oppose resistenza, lieta della sua adorazione; lo desiderava a sua volta e quindi lo baciò e si lasciò accarezzare. Poi quando l'ardore si fece troppo impetuoso lei si lasciò cadere in ginocchio accanto alla sedia, emozionata quanto lui e cercò di sciogliersi dall'abbraccio. “Non dobbiamo” mormorò senza fiato.“ “Lo so, ma devo, ti desidero tanto...” Le labbra di Malcolm ardenti e calde cercavano le sue che rispondevano. Ora la mano di lui le accarezzava una coscia accendendo ancora di più il suo fuoco, e poi con piacevole tormento sali sempre più in alto. E lei avrebbe voluto che non si fermasse ma per non lasciarsi sopraffare si sottrasse

un'altra volta sussurrando: “No, chéri”. Ma questa volta lui reagì con sorprendente forza e stringendola con l'altro braccio in una morsa amorosa, voce e labbra sempre più persuasive, sempre più vicine, la trattenne. All'improvviso, muovendosi bruscamente e senza riflettere, una fitta di dolore lo attraversò. “Oh Cristo!” “Che cosa succede? Stai bene?” chiese lei spaventata. “Sì, credo di sì. Dio onnipotente!” Gli ci vollero alcuni minuti per riprendersi perchè quella fitta lancinante, che aveva spento il suo ardore, aveva lasciato una sorda sofferenza forte quanto quella del desiderio. Teneva ancora le mani su di lei, tremanti ma ormai prive di forza. “Cristo, mi dispiace...” “Non scusarti, mio caro.” Grata per l'opportunità di riprendere il controllo della situazione, Angélique si alzò e andò a versare una tazza di tè freddo dalla teiera che Malcolm teneva sul comodino; i suoi lombi inquieti e doloranti e nervosi, il cuore agitato le dicevano che non si sarebbe sottratta spontaneamente agli abbracci di Malcolm pur sapendo che lo doveva fare, che sarebbe bastato qualche minuto e non ci sarebbe riuscita; doveva trovare un modo per non rovinare tutto, per non perdere lui, per non far sfumare il loro matrimonio. Una voce dal passato le ripeté la ben nota litania: “un uomo non sposa mai la sua amante, non concedere niente prima del matrimonio, dopo invece tutto è permesso” insegnatale a forza appena aveva raggiunto l'età per comprenderla. “Ecco” mormorò porgendogli la tazza di tè. Si inginocchiò e restò a guardarlo: era madido di sudore e teneva gli occhi chiusi. In un istante il suo disagio e la sua inquietudine si dissolsero. Gli appoggiò una mano sul ginocchio e lui la prese tra le sue. “Stare così, così vicini non va bene per noi, Malcolm” disse dolcemente. Lui le piaceva molto, le sembrava di amarlo anche se non era davvero sicura di cosa fosse l'amore. “E' difficile per entrambi... noi... chèri, anch'io ti voglio, anch'io ti amo.” Dopo una lunga pausa lui parlò a bassa voce e in tono grave. “Si, ma mi puoi aiutare.” “Ma non possiamo, non prima del matrimonio, non ancora, non possiamo, non adesso.” Era stato costretto a restarsene seduto per tutta la sera a guardarla mentre danzava tra le braccia di altri uomini che la desideravano. La frustrazione di essere un infermo che poteva camminare a stento era diventata insopportabile. Inoltre fino a un mese prima era stato il miglior ballerino di tutta l'Asia e ciò rendeva le cose ancora più difficili. Perché non subito? avrebbe voluto gridare, che differenza c'è tra un mese o due? Per l'amor del cielo... d'accordo, lo accetto, una ragazza per bene arriva al matrimonio vergine altrimenti è una donna perduta.

Accetto che un gentiluomo non approfitti di lei prima del matrimonio. Lo accetto, eppure esistono altri modi... “Lo so che... che noi non possiamo” disse in tono gutturale, “ma... Angélique, ti prego, fai lo stesso qualcosa per me.” “Ma come?” Le parole gli restarono in gola e rischiarono di soffocarlo: Per l'amor del cielo, quello che fanno le ragazze nelle case, quando ti baciano e ti accarezzano e ti fanno godere, pensi che far l'amore significhi soltanto aprire le gambe e restarsene immobili come bambole, le cose semplici che quelle ragazze farebbero senza vergognarsene e mostrandosi poi anche contente per te alla fine. “Ehi, va meglio adesso, heya?” Tuttavia Malcolm sapeva che non sarebbe mai riuscito a dirglielo. Andava contro l'educazione che aveva ricevuto. Come si fa a spiegare una cosa simile alla donna che ami e che è così giovane e inesperta o così egoista o magari soltanto ignorante? All'improvviso la verità gli sembrò stantia. Qualcosa in lui mutò facendogli cambiare umore. Con voce diversa disse: “Hai proprio ragione Angélique, è difficile per entrambi. Forse sarebbe meglio che tu ti trasferissi di nuovo alla Legazione fino a quando non partiremo per Hong Kong. Adesso che sto guarendo dobbiamo difendere la tua reputazione”. Lei lo fissò, turbata dal cambiamento. “Ma Malcolm, io qui sto bene, e poi ti sono vicino nel caso tu abbia bisogno di me.” “Oh sì, ho bisogno di te.” Mosse le labbra in un sorriso ironico. “Chiederò a Jamie di organizzare le cose.” Angélique esitò incerta sul da farsi. “Se è quello che desideri, chéri.” “Sì, è la cosa migliore. Come hai detto, stare così vicini è difficile per tutti e due. Buonanotte, amore mio. Sono molto felice che la festa ti sia piaciuta.” Un brivido che non era di freddo percorse Angélique. Lo baciò pronta a ricambiare la sua passione ma della passione non era rimasta nemmeno l'ombra. Che cosa gli aveva fatto cambiare umore così? “Sogni d'oro, Malcolm. Ti amo.” Ancora niente. Non importa, pensò, gli uomini sono lunatici e capricciosi. Sorridendo come se niente fosse aprì la porta, gli lanciò da lontano un tenero bacio e scomparve nella sua stanza. Lui restò a guardare la porta leggermente socchiusa, come sempre, mentre tutto il resto nel loro mondo era cambiato. La porta e la vicinanza di lei non lo tentavano più, si sentiva diverso, un altro in un certo senso. Non ne conosceva la ragione ma si sentiva molto triste e molto vecchio e uno strano istinto gli diceva che per quanto lui l'amasse e per quanto lei potesse dargli fisicamente, non sarebbe mai stata la donna adatta per soddisfarlo fino in fondo.

Riuscì ad alzarsi a fatica con l'aiuto del bastone e si avvicinò in silenzio allo scrittoio. Nel primo cassetto c'era la bottiglietta con la medicina che conservava gelosamente per le notti in cui l'insonnia diventava insopportabile. Ne trangugiò l'ultimo sorso e sempre con grande sforzo si trascinò fino al letto. Stringendo i denti riuscì a sdraiarsi e sospirò di sollievo quando gran parte del dolore lo abbandonò. Il fatto di aver bevuto le ultime gocce della pace notturna non lo preoccupava in alcun modo. Chen, Ah-Tok o uno qualsiasi dei domestici non avrebbero avuto difficoltà a procurargliene in qualsiasi momento. Dopotutto non era forse la Struan a rifornire d'oppio gran parte della Cina? Ancora appoggiata contro il battente della porta, in preda a grande turbamento Angélique si chiedeva se ritornare da Malcolm o lasciarlo solo. L'aveva sentito avvicinarsi allo scrittoio e aprire il cassetto ma non ne conosceva il motivo e aveva sentito anche le molle del letto scricchiolare e il lungo sospiro di sollievo. E' soltanto perchè soffre e perchè non possiamo fare niente, almeno non adesso, pensò soffocando uno sbadiglio nervoso nel tentativo di rassicurarsi. Anche perchè è dovuto restare seduto durante tutta la festa essendo un grande ballerino, il migliore che io abbia mai conosciuto. Non è stato forse questa la prima cosa che mi ha attratto in lui a Hong Kong? Non c'è niente di male se vuole fare l'amore, e non è colpa mia se è stato ferito. Povero Malcolm, è soltanto sfinito. Domani avrà dimenticato e tutto andrà bene e inoltre se mi trasferisco è meglio perchè c'è l'altro problema da considerare. Tutto andrà per il verso giusto. Si infilò sotto le coperte e scivolò senza difficoltà nel sonno ma i suoi sogni vennero popolati da strani mostri dalle faccine contorte e infantili e dalle risate orrende, che la tiravano scrivendo “mamma... mamma” sulle lenzuola con il sangue che le fuoriusciva dalla punta del dito con la quale tracciava e ritracciava quei caratteri, quelli del copriletto incisi per sempre nella sua mente e che non aveva ancora avuto il coraggio di chiedere ad André o Tyrer di decifrare. Qualcosa la svegliò all'improvviso. Gli incubi svanirono. Gettò un'occhiata alla porta quasi certa di vedere Malcolm sulla soglia. Ma lui non c'era, dall'altra stanza giungeva il suo respiro debole e regolare perciò Angélique si riadagiò sui cuscini dicendosi che doveva essere stato il vento o un'imposta. Mon Dieu, sono stanca, ma quanto mi sono divertita alla festa. E che splendido anello mi ha regalato. Canticchiando la polka e invidiando il successo di John Marlowe, piuttosto

certo che avrebbe potuto fare una figura almeno altrettanto buona, Phillip Tyrer arrivò sulla soglia della Casa delle Tre Carpe, nel vicoletto deserto, quasi a passo di danza e battè sulla porta a tempo di musica. Qui lo Yoshiwara sonnecchiava, ma poco lontano c'erano le case e i bar di Main Street dove fervevano i divertimenti notturni, tra le risate e i canti sguaiati degli uomini, il suono occasionale dei samisen e le battute in pidgin. Lo spioncino della porta si aprì e una voce maschile gli chiese cosa volesse. “Parlate giapponese. Sono Taira-san e ho un appuntamento.” “Ah, davvero?” disse il domestico. “Tairasan eh? Vado a informare la mamasan.” Lo spioncino si richiuse. Aspettando, Tyrer tamburellava con le dita sul vecchio legno. Era stato costretto a trascorrere l'intera giornata e la sera prima con sir William fornendogli spiegazioni sul conto di Nakama e della Legazione, organizzando un modus vivendi per il suo nuovo insegnante e sentendosi colpevole di non aver rivelato la vitale informazione che l'uomo parlava un pò di inglese. Ma aveva giurato e la parola di un suddito inglese è parola d'onore. Sir William, alla fine aveva acconsentito a che Nakama fosse apertamente riconosciuto come samurai. Figli di famiglie samurai avevano soggiornato per brevi periodi nelle Legazioni francese e inglese in passato nello stesso modo in cui Babcott aveva degli assistenti giapponesi. Tuttavia sir William aveva ordinato che Nakama non indossasse né custodisse armi da taglio entro i confini dell'Insediamento. Era questa una regola che valeva per tutti i samurai con l'eccezione delle guardie dell'Insediamento che, al comando di un ufficiale, svolgevano i loro giri di pattuglia. Inoltre Nakama avrebbe dovuto evitare di vestirsi in modo appariscente e di avvicinarsi alla Dogana o alla baracca delle guardie e doveva tenersi il più in disparte possibile perchè qualora fosse stato scoperto dalla Bakufu, sir William sarebbe stato obbligato a consegnarglielo. Tyrer aveva mandato a chiamare Nakama e gli aveva riferito le disposizioni di sir William. Alla fine si era reso conto di essere troppo stanco per andare da Fujiko. “Ora, Nakama, ho bisogno di far arrivare un messaggio a qualcuno e voglio che sia tu a consegnarlo. Per favore scrivi: 'Ti prego di stabilire...'. “ Stabilire? non capisco.” “Organizzare, fissare. 'Ti prego di fissarmi un appuntamento domani sera con...' lascia il nome in bianco.” C'era voluto qualche tempo a Hiraga per capire che cosa si volesse da lui e perchè. Disperato, Tyrer aveva finito per dirgli il nome di Fujiko e quello della Casa delle Tre Carpe. “Ah, le Tre Carpe?” aveva esclamato il samurai. “So-ka! Dare messaggio mama-san, niente errore, organizzare tu vedere musume domani, giusto?”

“Sì, per favore.” Nakama gli aveva mostrato come scrivere i caratteri e Tyrer li aveva copiati fiero di sé e aveva poi firmato con gran cura il messaggio con il carattere che Hiraga aveva inventato per lui. E adesso eccolo qui davanti alla porta. “Svelto, non perdere tempo” mormorò ansioso. Dopo qualche tempo lo spioncino si riaprì lasciando intravedere Raiko. “Ah, buonasera Taira-san, vuoi che parliamo giapponese, giusto?” gli chiese con un sorriso prima di lanciarsi in un monologo in giapponese ben cadenzato di cui lui non capì una sola parola eccetto il nome di Fujiko ripetuto diverse volte e che il discorso terminava con “spiacente”. “Come? Oh, spiacente? Spiacente perchè Raiko-san? Buonasera, ho un appuntamento con Fujiko... Fujiko.“ “Ah, spiacente” ripeté la donna con pazienza, “ma Fujiko questa sera non è libera nemmeno per pochi minuti. Spiacente ma non c'è niente che io possa fare. Ti manda a dire che se ne rammarica, ovviamente, spiacente ma tutte le mie altre ragazze sono occupate. Molto spiacente.” Non riuscì a capire tutte le parole neanche questa volta ma comprese tuttavia il senso del discorso. Capì comunque che Fujiko non era disponibile anche se non ne comprese la ragione. “Ma la lettera, ieri, il mio messaggero, Nakama, ti ha portato, sì?” “Oh sì! Nakama-san portato e come io gli ho detto pensavo che tutto sarebbe stato perfetto ma, spiacente, adesso non è possibile accontentarti. Spiacente Taira-san, grazie per aver onorato la nostra casa. Buonanotte.” “Aspetta” gridò Tyrer in inglese mentre lo spioncino cominciava a chiudersi. “Avete detto che non c'è... che non è qui, giusto? Aspetta, te ne prego, Raikosan” implorò. “Domani... scusa, domani Fujiko, sì?” Raiko scosse il capo con tristezza. “Ah spiacente, anche domani non è possibile, però mi addolora molto dirlo. Spero che tu capisca, spiacente. “ Tyrer era sbalordito. “Domani no? E dopodomani sì?” Raiko esitò, poi sorrise e fece un altro piccolo inchino. “Forse, Taira-san, forse, ma spiacente non posso promettere niente. Per favore chiedi a Nakama-san di venire qui di giorno e glielo dirò. Capisci? Mandami Nakama-san. Buonanotte.” Senza capire più nulla Tyrer fissò la porta, imprecò con violenza, agitò i pugni con un grande desiderio di rompere qualcosa. Gli ci volle qualche minuto per riprendersi dal disappunto ma infine, abbattuto, si allontanò. Hiraga aveva osservato tutta la scena attraverso un buco nello steccato. Quando Tyrer scomparve dietro l'angolo ripercorse il tortuoso sentiero attraverso il giardino, profondamente immerso nei suoi pensieri. Per un'illusione ottica il giardino sembrava molto più spazioso di quanto non fosse e fitti arbusti nascondevano le casette.

Hiraga si immerse nella boscaglia e bussò a un pannello nella staccionata. La porta si aprì senza far rumore. Il domestico si inchinò, Hiraga annuì e imboccò un sentiero che conduceva a un edificio analogo. Quasi tutte le locande disponevano di uscite segrete o nascondigli o passaggi comunicanti con le locande vicine e quelle che davano asilo agli shishi prestavano particolare attenzione all'aspetto della sicurezza. Quella parte della Casa delle Tre Carpe era per ospiti molto speciali e disponeva di servitù e cucine separate ma le cortigiane erano le stesse. Sulla veranda si sfilò i geta, gli zoccoli, e fece scivolare lo shoji. “Che cosa ha fatto?” “Se ne è andato con la coda tra le gambe. Strano.” Hiraga scosse il capo stupito e sedette di fronte a Ori. Rispose al profondo inchino di Fujiko con un breve cenno di saluto. Il giorno prima, dopo aver consegnato la lettera di Tyrer, con la divertita complicità di Raiko aveva chiesto i servizi di Fujiko per la notte. “Posso chiedertene la ragione, Hiraga-san?” aveva chiesto Raiko. “Soltanto per irritare Taira.” “Eeeh, credo che abbia lasciato la sua verginità qui, Taira, con Ako. Poi ha provato Meiko e poi Fujiko. Fujiko gli fa perdere la testa.” Hiraga aveva riso con Raiko ma nel vedere Fujiko era rimasto stupito che il suo nemico la trovasse tanto attraente. Era una ragazza banale, con i capelli banali, e tutto in lei era banale eccetto gli occhi che erano spiacevolmente grandi. Ciononostante tenne per sé la sua opinione e si complimentò con Raiko per aver acquisito un simile fiore che dimostrava sedici anni benché ne avesse trentuno e lavorasse come cortigiana già da quindici anni. “Grazie, Hiraga-san.” Raiko aveva sorriso. “In effetti è un buon investimento perchè per qualche ragione ai gai-jin piace molto. Ti prego di non dimenticare che Taira è nostro cliente e che i gai-jin non sono come noi. Hanno la tendenza ad affezionarsi a una ragazza sola. Ti prego di incoraggiarlo, i gai-jin sono ricchi e a quanto pare questo è un ufficiale importante e potrebbe fermarsi qui qualche anno.” “Sonno-joi!” “Questo è un problema vostro. Voi prendetevi pure le loro teste, ma promettimi di non farlo qui così io mi prendo i loro soldi.” “Permetti a Ori di restare?” “Ori-san è uno strano giovane” rispose lei con esitazione, “molto forte, molto arrabbiato, molto sconvolto, infiammabile. Ho paura di lui. Posso nasconderlo qui per un giorno o due ma... per favore tienilo a bada mentre è mio ospite. Abbiamo già abbastanza guai nel Mondo dei Salici senza andarli a cercare.” “Sì. Hai qualche notizia di mio cugino, Akimoto?”

“E' al sicuro a Hodogaya. La Sala da tè della Prima Luna.” “Mandalo a chiamare.” Hiraga estrasse un oban d'oro dalla tasca segreta e notò che gli occhi di Raiko brillavano. “Questo ti ripagherà delle spese per Akimoto e Ori e per il messaggero, nonché, ovviamente, per i servizi di Fujiko domani.” “Naturalmente.” La moneta, un prezzo piuttosto generoso, svanì nella sua manica. “Ori-san resterà fino a quando io non riterrò giunto il momento di allontanarlo, spiacente, poi se ne dovrà andare, sei d'accordo?” “Sì.” “Altra cosa, spiacente, shishi, ma devo dirti che qui per te è molto pericoloso. Questo è stato mandato a tutte le Barriere.” Raiko spiegò sotto gli occhi di Hiraga un ritratto, un'incisione di circa trenta centimetri di lato. Era il suo ritratto. La didascalia diceva: La Bakufu offre la taglia di due koku per la testa di questo assassino choshu conosciuto con molti nomi tra cui quello di Hiraga. “Baka!” sibilò Hiraga tra i denti. “Mi assomiglia? Com'è possibile? Nessuno mi ha mai fatto un ritratto.” “Non so che dirti. Gli artisti hanno la memoria lunga, Hiraga-san. Magari è stato uno dei samurai dello scontro. A meno che il traditore non sia ancora più vicino a te. Inoltre è grave il fatto che ti stiano cercando anche persone importanti. Anjo prima e adesso Toranaga Yoshi.” Hiraga rabbrividì e si chiese se la cortigiana Koiko era tradita o traditrice. “Perché proprio lui?” Raiko si strinse nelle spalle. “E' lui la testa del serpente, che ti piaccia o no. Sonno-joi, Hiraga-san, ma non portarmi qui i nemici della Bakufu. Voglio tenermi la testa attaccata al collo, io.” Era tutta la sera che Hiraga pensava al ritratto e al da farsi. Accettò un'altra tazza di sakè da Fujiko. “Questo Taira mi diverte, Ori.” “Perché perdere tempo con lui? Uccidilo.” “Non subito. Stare a osservarli, metterli alla prova, cercare di indovinare le loro reazione è come una partita di go in cui le regole cambiano in continuazione, è affascinante... una volta superato il disgusto per la loro puzza.” “Avremmo dovuto fare come dicevo io, ucciderlo e scaraventare il suo corpo vicino alla baracca delle sentinelle e lasciare che incolpassero loro.” Irritato Ori si passò la mano destra sulla peluria che già gli ricopriva il cranio e le guance. Aveva il braccio sinistro ancora fasciato e legato al collo. “Domani mi raderanno un'altra volta e mi sentirò di nuovo come un samurai. Raiko ha un barbiere fidato, ma rasato o no, Hiraga, questa inattività forzata mi sta facendo impazzire.” “E la tua spalla?” “La ferita è pulita. Prude ma è un buon prurito.” Ori alzò il braccio.

“Non riesco a spingerlo più in su ma ogni giorno lo forzo un pò. Non riuscirei a usarlo in uno scontro. Karma. Ma quel gai-jin Taira, se l'avessimo ucciso, né noi né la Casa avremmo corso alcun rischio, hai detto che è stato così discreto da non raccontare a nessuno che viene qui?” “Sì, ma può aver cambiato idea e averlo detto, è una cosa che infatti non capisco. Sono imprevedibili. Continuano a cambiare idea, dicono una cosa e fanno l'esatto opposto ma non con calcolo come facciamo noi, non come noi.” “Sonno-joi! Ucciderlo avrebbe provocato i gai-jin. Lo dobbiamo fare la prossima volta che viene.” “Sì, lo uccideremo, ma a tempo debito, Ori, per il momento è troppo importante. Ci rivelerà i loro segreti, come sottometterli, come ucciderli a centinaia di migliaia quando li avremo usati per umiliare e annientare la Bakufu.” Hiraga protese di nuovo la tazza del sakè e prontamente Fujiko gliela riempì con un sorriso. “Sono stato addirittura nell'ufficio del Capo di tutti gli inglesi, a cinque passi da lui, sono proprio al centro dell'autorità gai-jin! Peccato che non possa parlare meglio la loro lingua.” Era troppo cauto per rivelare a Ori la sua reale conoscenza dell'inglese o per raccontargli come avesse convinto Tyrer a metterlo in salvo, soprattutto davanti a quella Fujiko. Mentre nel corso della serata riempiva le loro tazze, sorridendo, sempre attenta e senza mai interrompere, Fujiko ascoltava avidamente e avrebbe desiderato fare centinaia di domande, ma era troppo ben addestrata per farlo. “Tu limitati ad ascoltare, a sorridere e a fingere di essere sciocca, una bambola e basta” le aveva insegnato la mama-san, “ben presto ti racconteranno tutto quello che vuoi sapere senza che tu l'abbia dovuto chiedere. Ascolta e sorridi e osserva e lusinga e rendili felici perchè solo allora saranno generosi. Non dimenticare mai che la felicità equivale all'oro e che l'oro è il nostro solo obiettivo e la nostra unica sicurezza.” “A Edo” stava dicendo Hiraga “questo Taira è stato piuttosto coraggioso, stasera sembrava un codardo. Fujiko, com'è a letto?” Sorridendo la ragazza nascose la sua sorpresa davanti a tanta indelicatezza. “Come tutti i giovanotti, Hiraga-san.” “Certo, ma com'è? E' proporzionato... Uomo alto, lancia lunga?” “Ah, spiacente” rispose lei in tono modesto, abbassando gli occhi, “ma le signore del Mondo dei Salici non discutono mai di un cliente con un altro

cliente, chiunque egli sia.” “Le nostre regole si applicano anche ai gai-jin? Veramente?” chiese Hiraga. Ori ridacchiò. “Non otterrai niente da lei, da nessuna di loro. Ci ho già provato io. Raikosan mi ha molto sgridato per aver osato domandare! “Gai-jin o no, le antiche regole dello Yoshiwara valgono sempre” mi ha detto. “Possiamo parlare in generale, ma non di un cliente particolare... Baka-neh!” era piuttosto arrabbiata.” I due uomini risero ma Fujiko vide che gli occhi di Hiraga restavano seri. Fingendo di non averlo notato, ansiosa di piacergli e al tempo stesso piena di curiosità su ciò che avrebbe dovuto fare per lui durante la notte, disse: “Spiacente, Hiraga-san, ma la mia esperienza non è molta, né con giovani, né con anziani o uomini di mezza età. Ma le signore con più esperienza dicono che le dimensioni non garantiscono la soddisfazione né per l'uomo né per la donna ma che i giovani sono sempre i clienti migliori perchè danno più soddisfazioni”. Tra sé Fujiko rise di quella bugia. Mi piacerebbe dirti la verità per una volta: che i giovani sono i clienti peggiori, i più esigenti e quelli che soddisfano meno. Siete tutti impazienti, avete vigore in abbondanza, richiedete molte penetrazioni, avete laghi di sperma e siete poco contenti dopo, e di rado siete generosi. E ancora peggio, per quanto una ragazza provi a difendersi, prima o poi succede che si innamori di un giovane particolare e ciò conduce ad altra infelicità, altri disastri e a volte al suicidio. Un vecchio è venti volte meglio. “Alcuni giovani” riprese per rispondere a Hiraga in modo indiretto, “sono incredibilmente timidi anche se ben dotati.” “Interessante. Comunque, Ori, non riesco ancora a credere che questo Taira sia stato così mansueto da allontanarsi.” Ori si strinse nelle spalle. “Mansueto o no, avrebbe dovuto essere morto e io avrei dormito meglio. Cos'altro poteva fare poi?” “Qualsiasi cosa. Avrebbe dovuto abbattere la porta a calci... Un appuntamento è un appuntamento e il fatto che Raiko non avesse una sostituta pronta rappresentava un insulto ancora più grave.” “Ma la porta e lo steccato sarebbero robusti anche per noi.” “Allora avrebbe dovuto tornare sulla strada principale e raccogliere cinque, dieci o venti dei suoi e tornare qui con loro e abbattere tutto; è un ufficiale importante, ufficiali e soldati alla Legazione gli ubbidiscono. Una simile reazione avrebbe certamente costretto Raiko a prostrarsi per un anno e più e gli avrebbe garantito il servizio che voleva in qualsiasi momento. Per di più noi saremmo stati costretti a filarcela. Così mi sarei comportato io

al suo posto.” Hiraga sorrise e Fujiko represse un brivido. “Si trattava di non perdere la faccia. Eppure capiscono molto bene questo concetto. Avrebbero difeso la loro stupida Legazione fino all'ultimo uomo e la flotta era pronta a radere al suolo Edo.” “E non è quello che noi vogliamo?” “Sì” Hiraga rise. “Ma non se sei disarmato e umiliato nel ruolo di giardiniere... Come mi sentivo nudo!” Un'altra tazza di sakè. Hiraga guardò Fujiko. In condizioni normali anche con una ragazza non particolarmente attraente la sua virilità e il sakè l'avrebbero eccitato. Ma quella sera era tutto diverso. Quello era lo Yoshiwara gai-jin, Fujiko aveva dormito con loro e quindi era contaminata. Forse piaceva a Ori, pensò guardandola e poi le sorrise per non essere scortese. “Ordina del cibo, Fujiko. Quanto di meglio la casa possa fornire.” “Subito, Hiraga-san” rispose la ragazza prima di scappare via. “Sta' a sentire, Ori” sussurrò Hiraga quando furono soli, “c'è un grande pericolo.” Gli mostrò il manifesto ripiegato. Ori era sbalordito. “Due koku? Una grossa tentazione per chiunque. Sembri tu, non sei identico ma una guardia della Barriera potrebbe fermarti per un controllo.” “Raiko ha detto la stessa cosa.” Ori lo guardò. “Joun non era un cattivo artista.” “L'avevo immaginato che fosse stato lui, e ancora mi chiedo in che modo l'abbiano catturato e come siano riusciti a farlo collaborare. Conosce molti segreti shishi e conosce il piano di Katsumata per intercettare lo shògun.” “Disgustoso che si sia lasciato prendere vivo. E' ovvio che tra noi ci sono degli infiltrati.” Ori restituì il manifesto a Hiraga. “Due koku rappresentano una tentazione per chiunque, anche per la più devota mama-san.” “Ho pensato anche a questo.” “Fatti crescere la barba o i baffi, Hiraga, potrebbero servire.” “Sì, potrebbero servire.” Hiraga era felice che Ori fosse tornato in sé perchè i suoi consigli erano sempre preziosi. “E una strana sensazione sapere che c'è questo manifesto in giro.” Ori ruppe il silenzio. “Tra un giorno o due, poiché mi sento meglio ogni giorno che passa, andrò a Kyòto per cercare Katsumata e avvisarlo di quello che è successo a Joun. Bisogna metterlo in guardia.” “Sì, è una buona idea, anzi ottima.” “E tu?” “Io tra i gai-jin sono al sicuro, anzi sono più al sicuro lì che altrove se nessuno mi tradisce. Akimoto è a Hodogaya, l'ho mandato a chiamare. Poi decideremo.”

“Bene. Sarai più al sicuro se partirai immediatamente per Kyòto prima che questi manifesti vengano spediti lungo tutta la Tokaidò.” “No. Taira è un'occasione troppo preziosa per lasciarla perdere. Nasconderò lì delle spade in caso di necessità.” “Procurati una pistola, è più pratica” Ori infilò la mano destra dentro la yokata e grattò le bende che coprivano la ferita. Hiraga vide con grande stupore la piccola croce d'oro appesa alla catena intorno al suo collo. “Perché porti quella cosa?” Ori si strinse nelle spalle. “Mi piace.”, “Liberatene, Ori... quell'oggetto ti collega all'assassinio della Tokaidò, a Shorin e alla donna. Quella croce rappresenta un inutile pericolo.” “Molti samurai sono cristiani.” “Sì, ma lei potrebbe riconoscerla. E' folle correre un simile rischio. Se vuoi proprio portare una croce procuratene un'altra.” Dopo una pausa Ori disse: “Mi piace questa”. Hiraga sentendo il tono inflessibile lo maledisse tra sé ma decise che suo principale dovere era difendere il movimento shishi e sonno-joi e che doveva insistere. “Toglitela subito!” A Ori salì il sangue alla testa. Il mezzo sorriso non cambiò sul suo volto ma capì di aver ricevuto un ordine. La scelta era semplice: rifiutare e morire oppure obbedire. Una zanzara ronzò a pochi centimetri dal suo naso. La ignorò perchè non voleva fare movimenti bruschi. Lentamente strappò con la mano destra la catena e fece sparire nella tasca della manica la croce e la catena. Poi appoggiò entrambe le mani sul tatami e si inchinò. “Hai ragione, Hiraga-san, è stato un inutile pericolo. Ti prego di accettare le mie scuse.” Senza dire niente Hiraga ricambiò l'inchino. Soltanto allora si rilassò e Ori si alzò. Entrambi sapevano che il loro rapporto era cambiato per sempre. Non erano diventati nemici ma non erano più amici, sempre alleati ma mai più amici. Mai più. Mentre Ori sollevava la sua tazza di sakè in un brindisi fu lieto di scoprire che la sua rabbia era così controllata da non fargli tremare le dita. “Grazie.” Hiraga bevve con lui poi si protese verso il contenitore del sakè e riempì le tazze. “Adesso parlami di Sumomo. Raccontami di lei, per favore.” “Non ricordo quasi niente.” Ori aprì il ventaglio e scacciò la zanzara. “La mama-san Noriko mi ha raccontato che Sumomo arrivò come uno spirito con me su una barella e non le disse quasi niente eccetto che un dottore gai-jin mi aveva tagliato e ricucito. Pagò metà dei debiti di Shorin e la convinse a nascondermi. Durante l'attesa Sumomo non parlò quasi mai e si limitò a chiedere di Shorin, di ciò che gli era successo. Quando il messaggero tornò da Edo con il tuo messaggio parti immediatamente per Shimonoseki. Le uniche notizie erano che Satsuma si

sta mobilitando per la guerra e che le vostre batterie choshu hanno fatto fuoco un'altra volta sulle navi gai-jin nello stretto, facendole scappare.” “Bene. Le hai raccontato tutto di Shorin?” “Sì. Me l'ha chiesto con grande serietà e poi dopo aver sentito il mio racconto ha detto che sarebbe stato vendicato.” “Non ha lasciato alla mama-san qualche messaggio o una lettera per me?” Ori si strinse nelle spalle. “Niente.” Forse Noriko ha qualcosa, pensò Hiraga. Non importa, potrà aspettare. “Stava bene?” “Sì. Le devo la vita.” “Sì. Un giorno vorrà farsi pagare il debito.” “Ripagando lei pagherò te e onorerò sonno-joi.” Restarono seduti in silenzio cercando di immaginare cosa stesse pensando l'altro, cosa stesse pensando davvero. All'improvviso Hiraga sorrise. “Questa sera all'Insediamento c'era una grande festa con musica volgare e molto alcol, è la loro tradizione quando un uomo stipula un contratto di matrimonio.” Svuotò la tazza d'un fiato. “Non è male questo sakè. Uno dei mercanti, il gai-jin che hai ferito sulla Tokaidò, sposerà quella donna.” Ori non credeva alle sue orecchie. “La donna della croce? E' qui?” “L'ho vista poche ore fa.” “Ah!” mormorò Ori tra sé poi finì il sakè e ne versò dell'altro per entrambi. Qualche goccia di liquore finì sul vassoio ma Hiraga non se ne accorse. “Si deve sposare? Quando?” Hiraga si strinse nelle spalle. “Non lo so. Li ho visti insieme questa sera, lui cammina con due bastoni come uno storpio, la tua spada l'ha ferito gravemente, Ori.” “Bene. E la... la donna com'era?” Hiraga rise. “Esotica, Ori, vestita come un pagliaccio. “ Descrisse la sua crinolina e l'acconciatura. Poi si alzò e ne imitò l'andatura. Scoppiarono entrambi a ridere rotolandosi quasi sui tatami. ”... E i seni nudi fin qua, depravata! Prima di venire qui ho spiato da una finestra. Gli uomini l'abbracciavano sotto gli occhi di tutti; ne abbracciava uno dopo l'altro vorticando in una specie di danza, davanti a tutti, al suono di quegli orrendi strumenti, non avresti mai detto che fosse musica! E scalciava le sue gonne facendo vedere fino a metà gamba e i mutandoni bianchi di pizzo alle caviglie. Non ci avrei mai creduto se non l'avessi visto con i miei occhi ma passava da un uomo all'altro come una puttana da un sen e tutti la ammiravano. E lo scemo che la sposerà se ne stava seduto in una sedia a sorridere, figurati!” Cercò di versare dell'altro sakè ma la bottiglia era ormai vuota. “Sakè!” la porta si aprì immediatamente e una cameriera comparve con due bottiglie, riempì le loro tazze e si allontanò. Hiraga-san ruttò, il sakè stava facendo il suo effetto.

“Si comportavano come bestie. Senza i loro cannoni e le loro navi sono esseri disprezzabili.” Ori guardò fuori della finestra verso il mare. “Che cosa c'è?” Hiraga era già in guardia. “Qualche pericolo?” “No, no, niente.” Hiraga si irrigidì ricordando la facoltà di Ori di percepire l'approssimarsi di un pericolo. “Hai delle spade qua?” “Sì. Me le custodisce Raiko.” “Detesto non averle con me.” “Anch'io.” Per qualche tempo restarono a bere in silenzio e poi arrivò il cibo. Piattini con pesce stufato, riso, sushi e sashimi e un piatto portoghese chiamato tempura, pesce e verdure in una pastella di riso fritta. Quando i portoghesi arrivarono nel 1550 d.C., i primi europei a mettere piede sulle loro terre, i giapponesi non conoscevano la tecnica della frittura. Quando furono sazi mandarono a chiamare Raiko per farle i complimenti, rifiutarono i servizi di una geisha e lasciarono che si ritirasse dopo un inchino. “Puoi andare anche tu, Fujiko. Domani arriverà dopo il tramonto.” “Sì, Hiraga-san” Fujiko fece un profondo inchino felice di essere congedata senza altre richieste poiché Raiko le aveva detto che era stata già pagata generosamente. “Grazie per l'onore che mi fate.” “Ovviamente niente di quello che hai visto o sentito verrà mai riferito a Taira, ad altri gai-jin o a chiunque.” Alzò la testa di scatto. “Ovviamente no, Hiraga-sama.” Quando incontrò il suo sguardo ebbe un tuffo al cuore. “Ovviamente no” ripeté con un filo di voce, si prostrò fino ad appoggiare la fronte al tatami e spaventata uscì. “Ori, corriamo dei rischi a lasciare che quella donna ascolti i nostri discorsi.” “Qualsiasi donna. Ma né lei né le altre oserebbero mai tradirci.” Ori usò il ventaglio contro gli insetti notturni. “Prima di andarcene potremmo pagare Raiko per mandare Fujiko in una casa di infimo rango dove sia troppo occupata per fare dei danni e dove non sia raggiungibile da nessun gai-jin né dalla Bakufu.” “Bene, Buon consiglio. Potrebbe costare caro. Secondo Raiko la ragazza per qualche ragione che non capisco è molto popolare presso i gai-jin.” “Fujiko?” “Sì. Strano, he? Secondo Raiko i gusti dei gai-jin sono molto diversi dai nostri.” Hiraga vide lo strano sorriso di Ori. “Che cosa c'è?” “Niente. Ne riparleremo domani.” Hiraga annuì, trangugiò l'ultima tazza di sakè, poi si alzò e, toltosi la rigida yukata fornita come consuetudine dalla casa si rivestì con un kimono ordinario, con un rozzo turbante e un cappello di paglia da coolie e poi si sistemò sulle spalle il cesto vuoto. “Sei al sicuro così?” “Sì, fino a quando non mi devo togliere il turbante e comunque ho questi.”

Hiraga gli mostrò i due lasciapassare, uno in giapponese e uno in inglese, che Tyrer gli aveva rilasciato. “I soldati al cancello e sul ponte stanno all'erta e altri pattugliano l'Insediamento durante la notte. Non c'è coprifuoco ma Taira mi ha detto di stare attento.” Ori restituì i lasciapassare con aria pensierosa. Hiraga li mise al sicuro in una manica. “Buonanotte, Ori.” “Sì, buonanotte anche a te, Hiraga-san.” Ori lo guardò in modo strano. “Mi piacerebbe sapere dove vive quella donna.” Hiraga socchiuse gli occhi. “Ah, sì?” “Sì, vorrei sapere dove vive esattamente.” “Credo di poterlo scoprire. E poi?” Il silenzio si fece più denso. Ori stava pensando, stanotte non sono sicuro, vorrei esserlo ma ogni volta che mi concedo di ricordare quella notte il mio desiderio è senza fine. Se l'avessi uccisa non esisterebbe più, ma saperla viva mi fa sentire stregato. Mi ha stregato. E' stupido, stupido, eppure mi ha stregato. E' una donna malvagia, disgustosa, lo so, ma ne sono ugualmente stregato e sono certo che lo sarò finché vivrà. “E poi?” ripeté Hiraga. Ori non aveva lasciato trasparire sul volto nemmeno uno dei suoi pensieri. Ricambiò lo sguardo del suo compagno e si strinse nelle spalle.

Samurai 1890

Capitolo 20 †

Mercoledì, 15 ottobre André Poncin sgranò gli occhi: “Siete incinta?”. “Sì” rispose lei piano. “Sapete, io...” “E' magnifico, rende tutto perfetto” esclamò André. La sua sorpresa cedette il posto a un grande sorriso: dopo aver compromesso una signorina illibata, Struan avrebbe dovuto legarsi immediatamente a lei col matrimonio se voleva continuare a chiamarsi gentiluomo. “Signora, vogliate accettare le mie...” “Zitto, André, niente congratulazioni e non parlate così forte. I muri hanno orecchie, specialmente alla Legazione” sussurrò stupita di riuscire a mantenere un tono di voce pacato e con tanta disinvoltura. “Vedete, sfortunatamente il padre non è il signor Struan.” André rimase interdetto per un istante poi tornò a sorridere. “State scherzando, ma perchè uno scherzo del genere?” “Ascoltatemi, per favore.” Angélique avvicinò la sedia. “A Kanagawa... sono stata stuprata.” Sotto lo sguardo attonito di Poncin, Angélique raccontò quel che era successo, la sua decisione in merito e il suo sforzo di nascondere a tutti l'orrore dell'accaduto. “Mio Dio, povera Angélique, poverina, che tremenda esperienza” riuscì a mormorare André profondamente colpito. Un altro pezzo del mosaico trova il suo posto, pensò. Sir William, Seratard e Struan avevano deciso di comunicare la notizia dell'intervento chirurgico del dottor Hoag al minor numero di persone possibile. E Angélique non doveva esserne informata perchè secondo i due dottori la notizia avrebbe avuto un'influenza negativa sulla sua salute. “Perché metterla inutilmente in ansia? L'incidente della Tokaidò l'ha già sconvolta abbastanza.” Non è ancora il momento di dirglielo, pensò André, a disagio, celando il suo stupore per l'ironia della situazione. Le prese una mano, gliela accarezzò e accantonò le sue riflessioni per concentrarsi su di lei. Vederla nel suo ufficio, così serena e dimessa, con quegli occhi limpidi e quell'espressione innocente, conferiva al racconto un alone di totale irrealtà. Soltanto qualche ora prima era stata la protagonista del più grandioso ballo mai dato a Yokohama. “E' accaduto davvero?

Davvero?” Angélique sollevò una mano: “Lo giuro su Dio”. Poi incrociò le mani sul grembo. Indossava un ampio vestito da giorno giallino e portava un cappellino arancione e l'ombrello. André scosse il capo perplesso. “Sembra impossibile.” Eppure gli era accaduto spesso di trovarsi coinvolto in tragedie analoghe: alcune volte perchè costretto dai superiori o dal caso e non di rado perchè le aveva provocate personalmente. Ed era quasi sempre riuscito a usarle a vantaggio della sua causa: la Francia, la rivoluzione, libertà fraternità uguaglianza, oppure l'imperatore Luigi Napoleone o chiunque altro fosse in auge in quel momento, e innanzitutto per se stesso. Perché no? pensò. Cos'ha mai fatto e cosa mai farà per me la Francia? Niente. Angélique invece, se non crolla da un momento all'altro, potrebbe rivelarsi come una di quelle donne nate cattive che manipolano la verità a loro piacimento, oppure come quelle che si sono trasformate sotto il peso dell'orrore in spietate calcolatrici. La sui serenità è troppo irreale. “Come?” “Ho bisogno di disfarmi di questo problema, André.” “Un aborto? Ma siete cattolica!” “Anche voi. Ma si tratta di una questione tra me e Dio.” “E la confessione? Dovete confessarvi. Domenica andate in chiesa e...” “Quella è una questione tra me e un sacerdote, e poi tra me e Dio. Prima devo disfarmi del problema.” “E' contro la legge di Dio e quella degli uomini.” “E' vero, tuttavia si è sempre fatto sin dai tempi del diluvio universale.” La sua voce si indurì. “E voi, André, confessate proprio tutto? Anche l'adulterio è contro la legge di Dio, mi pare. E l'omicidio, non è forse contro ogni legge?” “Chi vi ha detto che abbia mai ucciso qualcuno?” “Nessuno, ma è più che probabile che abbiate ucciso o causato la morte di qualcuno. Questi sono tempi violenti. André, e io ho assolutamente bisogno del vostro aiuto.” “Rischiate la dannazione eterna.” Sì, mi sono disperata e ho pianto fiumi di lacrime, pensò Angélique cupa. Si sforzava di mantenere uno sguardo limpido nonostante l'odio che le suscitavano quell'uomo e la necessità di fidarsi di lui. Quella mattina si era svegliata presto ed era rimasta a letto a riflettere per l'ennesima volta sul suo piano. All'improvviso aveva capito di dover odiare tutti gli uomini: padri, mariti, fratelli, figli e preti sono la causa di tutti i nostri problemi. E i preti sono i peggiori di tutti: molti di loro sono famosi fornicatori, pervertiti, bugiardi

che usano la chiesa per i loro sporchi fini, anche se è vero che qualcuno è un santo. Li odio tutti, eccetto Malcolm. Lui non lo odio, non ancora. Non so se lo amo davvero, non so che cosa sia l'amore, ma lui mi piace più di qualsiasi uomo abbia mai conosciuto, e mi sembra persino di capirlo. Quanto al resto, grazie a Dio i miei occhi si sono finalmente aperti! Guardava André con un'espressione fiduciosa e implorante. Sono costretta ad affidarti la mia vita ma grazie a Dio adesso ti leggo nell'animo. Malcolm e Jamie hanno ragione, ti vuoi soltanto impadronire della Struan o mandarla in rovina. Ah, doversi fidare di un uomo! Se soltanto fossi a Parigi, o a Hong Kong, là conosco decine di donne alle quali potrei rivolgermi con discrezione e ottenere l'aiuto che mi serve. Ma qui? Dovrei rivolgermi a quelle due streghe? Impossibile! Mi odiano e sono mie nemiche. Lasciò spuntare le prime lacrime. “Per favore, aiutatemi.” André sospirò. “Parlerò con Babcott oggi stesso...” “Siete matto? Non possiamo assolutamente coinvolgere Babcott. Neppure il dottor Hoag. No, André, ho riflettuto molto attentamente, non possiamo parlarne a nessuno dei due, dobbiamo trovare qualcun altro. Una maitresse.” Lui la fissò, la sua voce calma e la sua fermezza lo lasciavano interdetto. “Intendete una mama-san?” balbettò. “Chi?” “Oh... è la donna, la donna giapponese che... che dirige i postriboli, decide i contratti per le prestazioni delle ragazze, stabilisce i prezzi, le sistema... questo genere di cose.” Angélique aggrottò la fronte. “Non avevo pensato a una di loro. Mi hanno parlato di una casa in fondo alla strada...” “Mio Dio! Non quella di Naughty Nelly... nella Città Ubriaca? Non ci andrei per mille luigi.” “Ma non appartiene alla sorella della signora Fortheringill, la famosa signora Fortheringill di Hong Kong?” “Come sapete di lei?” “Oh mio Dio, André, credete che io sia una sciocca e bigotta inglese?” reagì Angélique. “A Hong Kong, anche se fingono il contrario e non ne parlano mai apertamente, tutte le europee sono al corrente dell'esistenza dell'Istituto per Signorine di madame Fortheringill o del fatto che i loro uomini frequentano le case cinesi o hanno amanti orientali. Quanta ipocrisia. Stupirebbe persino voi ascoltate quello che si dicono le signore nel segreto dei loro boudoir o più semplicemente se non ci sono

uomini in giro. A Hong Kong mi hanno detto che sua sorella aveva aperto una casa qui.” “La casa di qui è diversa, Angélique, è frequentata da marinai, ubriachi e reietti di ogni genere. Naughty Nelly non è sorella della signora Fortheringill, anche se finge di esserlo. Probabilmente le allunga qualche soldo per poterne usare il nome.” “Oh! Se è così, dove vanno a “distrarsi” gli uomini qui?” “Allo Yoshiwara” rispose André. Quella conversazione franca e senza peli sulla lingua non finiva di stupirlo. “E voi, prediligete qualche casa? Siete in buoni rapporti con una mama-san?” “Sì.” “Benissimo. Andate dalla vostra mama-san questa sera stessa e fatevi dare la medicina che usano da queste parti.” “Mio Dio, André, siate ragionevole! E' un problema serio e se non lo risolveremo io non diventerò mai la castellana della Nobil Casa e non potrò mai favorire... certi interessi.” Capì di aver colpito nel segno e se ne compiacque. “Andateci questa sera stessa e chiedete la medicina alla mama-san. Non a una ragazza, loro probabilmente non sanno come procurarsela. Chiedetela alla maitresse, alla mama-san. Le direte che “la ragazza” ha un ritardo.” “Ma non so nemmeno se una medicina del genere esista.” Angélique gli sorrise con benevolenza. “Non siate sciocco, André, ce l'hanno di sicuro, non può essere diversamente” disse mentre sistemava con gesti decisi le dita del guanto sinistro con la mano destra. “Quando questo problema sarà risolto tutto procederà magnificamente, e mi sposerò a Natale. A proposito, ho pensato che finché non saremo sposati è meglio che io lasci l'appartamento, ora che il signor Struan si sta riprendendo. Tornerò alla Legazione oggi pomeriggio.” “Ne siete sicura? Non vi conviene stargli accanto?” “In condizioni normali si, mi converrebbe. Ma, convenzioni a parte, per un paio di giorni dopo aver preso la medicina sicuramente non mi sentirò granché in forma. Quando mi sarò ripresa deciderò se mi converrà tornare. So di poter contare su di voi, amico mio.” Si alzò. “Domani alla stessa ora?” “Se non avrò trovato niente ve lo farò sapere.” “No. Incontriamoci qui a mezzogiorno. So di poter contare su di voi.” Il suo volto si aprì nel più accattivante dei sorrisi. Quel sorriso lo fece sussultare di piacere. Qualsiasi cosa fosse accaduta d'ora in poi, Angélique era legata a lui per sempre. “Gli ideogrammi sul lenzuolo” disse, “li ricordate?” “Sì” rispose lei, stupita dall'apparente mancanza di logica. “Perché?”

“Me lì potreste disegnare? Forse sono in grado di interpretarli, forse hanno un significato.” “Erano sul copriletto, non sul lenzuolo. Scritti... con il suo sangue.” Con un profondo respiro prese la penna e la immerse nell'inchiostro. “Ho dimenticato di raccontarvi un particolare. Quando mi sono svegliata la piccola croce che portavo al collo da quando ero bambina era sparita. L'ho cercata ovunque senza trovarla.” “L'ha rubata?” “Credo di sì. Ma non ha preso nient'altro. Nella stanza c'erano altri gioielli, non di grande valore ma sicuramente più preziosi della croce, e non li ha toccati.” Il pensiero di Angélique distesa sul letto, inerme, con la camicia da notte squarciata in tutta la lunghezza e il violentatore che dischiudeva il suo corpo e, forse prima, forse dopo, le strappava la catenina con la croce illuminata dalla luna divenne ossessivo, e molto eccitante. Turbato André la scrutò da capo a piedi, ma lei si limitò ad abbassare il capo sulla scrivania e a scrivere, incurante della sua brama. “Ecco” disse Angélique porgendogli il foglio. André lo fissò. Il sole faceva brillare l'anello d'oro con il sigillo. Gli ideogrammi sembravano non aver alcun significato, “Mi dispiace, non significano niente, non si direbbero neppure cinesi. La scrittura cinese e quella giapponese sono identiche.” Per un'intuizione improvvisa girò il foglio. Sussultò. “Tokaidò, ecco che cosa vogliono dire!” Sbiancò in volto. “Li avete scritti al contrario. La parola Tokaidò spiega tutto! Voleva farlo sapere a tutto l'Insediamento. Avremmo subito capito se ci aveste raccontato l'accaduto! Ma perchè?” Sconvolta lei si portò le dita alle tempie. “Io... non lo so. Forse... non lo so. Ma lui... lui adesso dev'essere morto, il signor Struan gli ha sparato, dev'essere sicuramente morto.” André esitò, incerto se raccontarle la verità. “Visto che ci legano tanti segreti e che sapete sicuramente come mantenerli, sono costretto a mettervi a parte di un altro.” Le raccontò dell'intervento di Hoag. “Non è stata colpa sua, non poteva saperlo. E' ironico, entrambi i medici hanno consigliato di non parlarvene per risparmiarvi un ennesimo motivo di preoccupazione.” “E colpa di Babcott e del suo sonnifero se ora mi trovo in questo guaio” borbottò lei con una voce che lo fece rabbrividire. “Allora quell'uomo è vivo?” “Non lo sappiamo. Secondo Hoag non aveva molte speranze. Ma perchè quel demonio ha voluto metterci al corrente del suo delitto, Angèlique?” “Sapete altro che io non so su questa storia tremenda?” “No. Perché avrà voluto che tutti lo sapessero? Per lanciare una sfida?”

Angélique rimase a lungo con gli occhi fissi sugli ideogrammi che aveva disegnato, immobile. Soltanto il petto si alzava e si abbassava seguendo il ritmo regolare del cuore. Poi se ne andò senza aggiungere altro. La porta si richiuse. André scosse il capo e tornò a fissare il foglio. Nella casetta accanto alla Legazione britannica che divideva con Babcott, Tyrer faceva esercizio di calligrafia con Hiraga, che conosceva con il nome di Nakama. “Per favore, dimmi come si dice in giapponese: oggi, domani, dopodomani, settimana prossima, anno prossimo; e come si chiamano i giorni della settimana e i mesi dell'anno.” “Sì, Taira-san.” Hiraga pronunciò le parole giapponesi distintamente, una a una, e osservò Tyrer mentre le trascriveva in caratteri romani. Dopo avervi scritto accanto gli ideogrammi lo osservò ancora mentre li copiava. “Tu bravo studente. Bene seguire sempre stesso ordine per i tratti più facile, così non dimentica.” “Si, comincio a capire. Grazie, mi sei molto utile” rispose Tyrer. Leggere, scrivere e studiare il giapponese lo divertiva, lo divertiva anche insegnare l'inglese a Nakama, perchè si stava dimostrando intelligente e molto veloce nell'apprendere. Si esercitò ancora un pò insieme a lui e quando fu soddisfatto concluse: “Bene. Grazie. Adesso per favore vai da Raiko-san per confermare l'appuntamento di domani”. “Confermare”, prego?” “Chiedere. Chiedi se l'appuntamento di domani è sicuro.” “Ah, capisco.” Hiraga si accarezzò il mento già ispido nonostante si fosse rasato la sera prima. “Vado subito a confermare.“ “Sarò di ritorno dopo pranzo. Fatti trovare, per favore, così faremo un pò di conversazione e mi racconterai ancora del Giappone. Come si dice in giapponese?” Hiraga gli suggerì la traduzione. Tyrer la trascrisse sul quaderno degli esercizi, ormai zeppo di parole e intere frasi, e la ripetè più volte. Quando stava per congedare Hiraga improvvisamente gli chiese: “Che cosa vuol dire “ronin”?”. Dopo averci pensato un istante Hiraga glielo spiegò nel modo più semplice possibile, evitando tuttavia di parlare degli shishi. “Tu allora sei un ronin, un fuorilegge?” “Hai.” Sovrappensiero, Tyrer lo ringraziò e lo lasciò andare. Represse uno sbadiglio. La notte prima aveva dormito male perchè era rimasto disorientato dall'inatteso rifiuto di Raiko.

Maledetta Raiko, maledetta Fujiko, pensò mettendosi il cilindro e preparandosi a percorrere High Street fino al circolo, dove avrebbe pranzato. Maledetto lo studio del giapponese e tutto il resto, mi duole la testa e non imparerò mai questa lingua così incredibilmente complicata. “Non essere ridicolo” si disse ad alta voce. Ce la farai, con due buoni insegnanti come Nakama e André. Questa sera ti concederai una buona cena, una bottiglia di champagne con un amico divertente e andrai a letto presto. Non maledire Fujiko, presto farai di nuovo l'amore con lei. Oh Dio, lo spero davvero! Era una bella giornata e la baia era punteggiata di navi. I mercanti convergevano verso il circolo. “Oh, salve, André! Sono contento di vedervi. Volete unirvi a me per il pranzo?” “No, grazie” rispose Poncin senza fermarsi. “Qualcosa non va? State bene?” “Sì, certo. Sarà per un'altra volta.” “Domani?” Non è da André comportarsi in modo così brusco, pensò Tyrer. Accidenti, volevo chiedergli come fare per... “Vi tengo io compagnia, Phillip, se non vi dispiace” intervenne McFay. “Certo, Jamie. Sembrate reduce da una bella sbornia, vecchio mio.” “Infatti. Anche voi. E' stata una bella festa, però.” “Sì. Come sta Malcolm?” “Non benissimo. Volevo parlarvi anche di questo.” Presero posto a un tavolo d'angolo nella sala fumosa, soffocante e gremita di mercanti. I servitori cinesi si aggiravano con vassoi di roastbeef, sformati di pollo, zuppe di pesce, pasticci della Cornovaglia, pudding dello Yorkshire, maiale salato, curry e ciotole di riso per i patiti del cibo cinese, oltre a whisky, rum, gin, champagne, vino bianco e rosso e boccali di birra. Non mancavano le mosche. McFay agitò lo scacciamosche. “Volevo chiedervi di parlare con Malcolm, ovviamente senza dirgli che ve l'ho suggerito io, per convincerlo a tornare a Hong Kong al più presto.” “Ma Jamie, sono sicuro che lo farà senza bisogno del mio parere. Inoltre, perchè mai dovrebbe ascoltare me? Che cosa succede?” “Sua madre. Temo che non sia più un segreto, in ogni caso non fatene parola con nessuno; mi scrive con ogni postale ordinandomi di costringerlo a tornare. Ma non posso imporglielo perchè non mi ascolta e quando la notizia della festa del suo fidanzamento sarà arrivata a Hong Kong...” McFay alzò gli occhi al cielo. “Ayeeyah! Pioverà merda da qui fino a Edo.” Nonostante la gravità del tono di McFay, Tyrer rise. “Deve essere già successo perchè una puzza così non l'avevo mai sentita. Il giardino della Legazione è appena stato

generosamente concimato.” “Cosa?” Lo scozzese si irrigidì e annusò l'aria. “Non l'avevo notato. Com'è il curry?” chiese a un vicino. “Piccante, Jamie.” Lunkchurch sputò un pezzo di osso di pollo sul pavimento coperto di segatura. “Ho fatto persino il bis.” Tyrer chiamò un inserviente che passava ma il giovane, un ragazzo coi dentoni radi, fece finta di non accorgersene. “Hey, Dew neh loh moh, cameriere!” gridò irritato McFay. “Un curry, veloce, veloce, heya!” Le imprecazioni in cinese provocarono un'ondata di risa e scherno da parte dei mercanti e l'occhiata dura del sacerdote del battaglione degli highlander che stava pranzando allegramente con il cappellano della chiesa anglicana e con il loro reverendo: Un piatto di roastbeef al sangue fu sbattuto in malo modo sotto il naso di McFay. “Curry, padrone, curry veloce veloce, heya?” disse il giovane inserviente ridendo. Esasperato, McFay respinse il piatto. “Questo è roastbeef, per Dio! Curry, in nome di Dio, portami il CURRY!” “E per me lo sformato di pollo” si affrettò ad aggiungere Tyrer. L'inserviente tornò in cucina brontolando e non appena vi giunse si sbellicò dalle risate nel pandemonio che vi regnava. “Fay della Nobil Casa è scoppiato come un barile di petardi quando gli ho messo il roastbeef sotto il nasone fingendo che fosse curry. Ayeeyah” disse tenendosi la pancia dal ridere. “Me la sono quasi fatta addosso. Tormentare i demoni stranieri è più divertente che fornicare!” Gli altri risero insieme a lui. Poi fu raggiunto dal capocuoco che lo prese a schiaffi con violenza. “Sentitemi bene, tu, fornicatore da strapazzo, e tutti gli altri, finché Chen della Nobil Casa non ve lo dirà non dovete tormentare i demoni stranieri della Nobil Casa. E adesso prendi subito il curry e non sputarci dentro o ti cucinerò le palle con la pastella.” “Ayeeyah, sputare nel cibo del demone straniero è normale, onorevole capocuoco” mormorò il ragazzo, schiaffeggiato così brutalmente da fargli girare la testa. Prese anche un piatto di sformato di pollo e corse nella sala. Sbatté il piatto di curry e una ciotola di riso sul tavolo davanti a McFay. “Curry, padrone, heya.” Scappò via imprecando tra sé. Sebbene gli dolesse il capo era soddisfatto perchè, senza disubbidire agli ordini del capocuoco, lungo il tragitto dalla cucina aveva tenuto il pollice sporco nel piatto. “Bastardo insolente” disse Jamie. “Scommetterei dieci dollari contro un soldo bucato che quella canaglia ci ha sputato dentro prima di portarmelo.” “Se ne siete così sicuro perchè lo avete sgridato?” chiese Tyrer, tagliando la spessa crosta dello sformato. “Gli serve una bella strigliata, serve a tutti, ma ci vorrebbe anche un bel

calcio nel sedere.” McFay cominciò a mangiare avidamente il suo stufato di montone giallastro e le patate al curry, che navigavano nell'unto. “Ho sentito dire che avete aiutato un samurai che parla un pò di inglese a scappare da Edo, e che ve lo siete portato all'Insediamento.” Tyrer quasi si strozzò con un pezzo di pollo. “Fesserie!” “Allora perchè siete diventato paonazzo, eh? Suvvia, state parlando con McFay della Nobil Casa! Suvvia, Phillip, come potete pensare di tenere un segreto del genere in questo posto? Vi hanno sentito in molti.” Aveva la fronte imperlata di sudore per il curry piccante e di tanto in tanto agitava la mano per scacciare le mosche. “E' piccante da friggere i coglioni. Buono però. Ne volete assaggiare un pò?” “No, grazie.” McFay continuò a mangiare di gusto. Poi, tra un boccone e l'altro e senza alzare la voce usò un tono più duro: “Se non mi raccontate tutto subito, vecchio mio, prometto di non rivelarlo a nessuno, parola d'onore, e non mi promettete di riferirmi tutte le informazioni che vi darà, passo subito la notizia... a lui”. Indicò con il cucchiaio Nettlesmith, il direttore del “Yokohama Guardian”, che già li stava guardando con interesse. Uno schizzo di curry macchiò la tovaglia. “Se Zia Willie legge il vostro segreto sul giornale darà in escandescenze.” A Tyrer era passata la fame. Con grande disagio disse: “Io... è vero, abbiamo aiutato un dissidente a scappare da Edo. Non posso dirvi altro. E sotto la protezione di Sua Maestà, per il momento. Scusate, non posso dire di più, è un segreto di stato”. McFay gli lanciò un'occhiata penetrante. “Sotto la protezione di Sua Maestà britannica, eh?” “Sì, mi dispiace. Bocca chiusa non acchiappa mosche, non posso dirvi di più. Segreto di stato.” “Interessante.” McFay finì il suo curry e gridò per farsene portare un'altra porzione. “In cambio non lo dirò ad anima viva.“ “Mi dispiace, ho giurato di mantenere il segreto.” Anche Tyrer stava sudando, e non soltanto perchè in Asia nelle stagioni calde fosse normale. Tuttavia era soddisfatto per come stava tenendo testa a Jamie, senza dubbio il più importante dei mercanti di Yokohama. “Sono certo che mi capite.” McFay annuì accondiscendente e si concentrò sul piatto. “Vi capisco molto bene, vecchio mio: non appena avrò finito di mangiare Nettlesmith avrà l'esclusiva.” “Non dovete farlo!” Tyrer non era più tanto soddisfatto di sé. “E' un segreto di...” “All'inferno i segreti di stato” sibilò McFay. “Innanzitutto non vi credo, ma se anche fosse come dite noi mercanti abbiamo il diritto di saperlo, siamo noi lo stato, per Dio, non quella manciata di diplomatici mascalzoni incapaci di

cavare un ragno dal buco!” “Ascoltate...” “Vi sto ascoltando, parlate, Phillip, o leggerete la notizia sull'edizione del pomeriggio.” Sorridendo benevolmente McFay raccolse l'ultimo sugo con un pezzo di pane e se lo portò alla bocca. Ruttò e allontanò la sedia dal tavolo accennando ad alzarsi. “L'avete voluto voi.” “Aspettate.” “Siete disposto a raccontarmi tutto?” Tyrer annuì confuso. “Se giurate di mantenere il segreto.” “Bene. Ma non qui. Il mio ufficio è più sicuro. Seguitemi.” Passando accanto a Nettlesmith chiese: “Che novità ci sono, Gabriel?”. “Leggi l'edizione del pomeriggio, Jamie. In Europa scoppierà presto la guerra, in America la guerra è tremenda e qui sta fermentando.” “Le solite cose insomma. Bene, leggerò. A presto...” “Buongiorno, signor Tyrer.” Nettlesmith scrutò Tyrer, si grattò il mento, poi riportò l'attenzione su McFay. “Ho una copia in bozze dell'ultimo capitolo di Grandi Speranze.” Jamie e Tyrer si fermarono di botto. “Non ci posso credere, per Dio!” “Te la do in cambio di dieci dollari e della promessa di una notizia in esclusiva” incalzò Nettlesmith. “Quale notizia?” “La prima che ti capiterà tra le mani. Mi fido.” Nettlesmith scrutò ancora Tyrer che si sforzò di non tradire alcuna emozione. “Oggi pomeriggio, Gabriel? Promesso?” “Sì, per un'ora, così non lo potrai copiare. E' una mia esclusiva. Mi è costato tutta l'influenza di cui godo a Fleet Street ottenere ...” “Rubare, vuoi dire. Due dollari?” “Otto, ma prima lo do a Norbert.” “La mia ultima offerta è otto. E lo dai prima a me.” “Più la notizia in esclusiva? Bene. Sei un galantuomo e una persona colta, Jamie. Sarò nel tuo ufficio alle tre.” Attraverso la finestra aperta Tyrer sentì la campana dell'ufficio della capitaneria di porto battere otto rintocchi. Dimentico degli esercizi di calligrafia del pomeriggio, sonnecchiava con i piedi sulla scrivania. Sapeva che erano le quattro senza bisogno di guardare l'orologio a muro. A bordo delle navi cominciava il primo gaettone di due ore, quello dalle quattro alle sei; il secondo sarebbe durato dalle sei alle otto e i successivi erano di quattro ore ciascuno, fino all'indomani alla stessa ora. Marlowe gli aveva spiegato che i turni brevi, detti gaettoni, erano stati inventati per far ruotare l'equipaggio.

Sbadigliò e aprì gli occhi. Fino a poco più di sei mesi fa, pensò, non sapevo nemmeno cosa fosse un gaettone, tantomeno avevo mai visto una nave da guerra, mentre adesso sono in grado di stabilire l'ora ascoltando la campana della capitaneria e senza bisogno di guardare l'orologio. Il pendolo battè le quattro. Spaccava i], minuto. Tra mezz'ora devo vedere sir William. E' vero che gli svizzeri producono orologi migliori dei nostri. Dove diavolo è finito Nakama? Che sia scappato? Avrebbe dovuto essere qui già da due ore. Cosa diavolo vorrà sir William? Speriamo che non abbia saputo del mio segreto, che voglia solo appiopparmi altri dispacci da copiare. Accidenti alla mia grafia che è la migliore di Yokohama, sono stato ingaggiato come interprete non come scrivano! Dannazione! Si alzò pigramente, mise in ordine i fogli sulla scrivania e andò a lavarsi le mani nella tinozza per togliersi le macchie di inchiostro. Bussarono alla porta. “Avanti.” Apparve Hiraga accompagnato da due furenti militari britannici che imbracciavano i fucili a baionetta. Hitaga, cereo per la rabbia, era malconcio e pieno di lividi, senza turbante e cappello e con il kimono stracciato. Il sergente lo spinse nella stanza con violenza e salutò. “Lo abbiamo preso mentre scavalcava il recinto, signore. Ci abbiamo messo un sacco di tempo per farlo stare calmo. Ha un lasciapassare firmato da voi. E' autentico?” “Sì, sì, è autentico.” Tyrer si precipitò verso di loro. “E' un nostro ospite, sergente, un ospite di sir William e mio. E un insegnante di giapponese.” “Un insegnante, eh?” disse il sergente con durezza. “Bene, dite a questa canaglia che gli insegnanti non scavalcano i recinti, non cercano di scappare, non portano i capelli come i samurai e non spaventano la gente né si azzuffano come gatti randagi. Uno dei miei uomini ha un braccio rotto e un altro il naso rovinato. La prossima volta che lo prendiamo non gliela facciamo passare liscia.” I due soldati se ne andarono. Tyrer chiuse la porta, corse verso il ripiano e prese dell'acqua. “Prendi.” Hiraga scosse il capo, ammutolito per la rabbia. “Per favore. Vuoi un sakè o una birra?” “Iyé.” “Per favore... siediti e raccontami che cosa è successo.” Hiraga sbottò con una spiegazione in giapponese. “Gomen nasai, Ing'erish dozo.” Prego, inglese, per favore. A fatica Hiraga passò all'inglese, e con lunghe pause tra una parola e l'altra spiegò: “Molte guardie alla porta e al cancello. Io passato per palude e acqua e recinto. Soldati visto. Io fermato, inchinato, preso lasciapassare, loro

buttato per terra. Io lottato ma loro troppi”. Proseguì in giapponese con un profluvio di epiteti all'indirizzo dei soldati e promesse di vendetta. Quando si fu calmato, Tyrer disse: “Mi dispiace, ma è stato un tuo errore...”. Arretrò d'istinto per evitare l'improvviso scatto di Hiraga. “Calmati!” gridò. “Il soldato ha ragione. I samurai spaventano la gente! Sir William, e io ti abbiamo chiesto di stare attento.” “Mi sono comportato bene, ho fatto solo quello che era giusto!” rispose con durezza Hiraga in giapponese. “Quelle scimmie maleducate si sono avventate su di me mentre stavo cercando il lasciapassare. Scimmie, li ucciderò tutti!” Il cuore di Tyrer batteva all'impazzata e gli era salito in bocca il sapore nauseabondo della paura. “Ascolta, dobbiamo risolvere questo problema insieme e in fretta. Quando sir William lo verrà a sapere potrebbe scacciarti dall'Insediamento. Lo dobbiamo risolvere insieme, capisci?” “Iyé! “Risolvere”, prego?” Tyrer fu contento di sentire quel “prego” e controllò la paura. Quest'uomo è evidentemente pericoloso, violento e facinoroso come tutti i samurai. Grazie a Dio non è armato. “Risolvere” significa trovare una soluzione. Dobbiamo risolvere questo problema, tu e io dobbiamo capire come farti vivere qui al sicuro. Capisci?” “Hai. So desu ka! Wakarimasu. Taira-san e io risolvere problema.” Hiraga soffocò l'ira. “Prego, cosa suggerisce? Lasciapassare non buono per soldati. Uomini che vede me odia me. Come risolvere questo problema?” “Prima di tutto... una saggia e antica abitudine inglese: quando c'è un problema da risolvere si beve il tè.” Hiraga lo fissò senza capire. Tyrer suonò il campanello e ordinò il tè a Chen. Il domestico numero uno, con un coltellaccio nascosto dietro la schiena, lanciò a Hiraga un'occhiata sospettosa. Mentre aspettavano il tè Tyrer tornò a sedersi sulla sua poltrona e guardò fuori dalla finestra. Ardeva dal desiderio che l'altro gli parlasse di Fujiko ma era troppo educato per porre a bruciapelo una domanda così delicata. Accidenti a lui, pensò, sa bene che sono sulle spine, potrebbe parlarmene spontaneamente anziché lasciarmi friggere nell'attesa. Devo insegnargli le buone maniere inglesi, devo insegnargli a non perdere le staffe, i soldati hanno ragione. Devo trasformarlo in un gentiluomo. Ma come? E Jamie... quella canaglia è troppo furbo. Dopo pranzo era andato nell'ufficio di McFay, aveva bevuto un brandy e nel giro di pochi minuti gli aveva raccontato tutto. “Phillip, siete geniale” commentò McFay con sincero entusiasmo. “Se gli verranno fatte le domande giuste quel tipo si rivelerà una miniera

d'oro. Vi ha detto da dove viene?” Da Choshu, credo che abbia detto così. “Vorrei parlare con lui in privato.” “Se parla con voi gli altri lo verranno a sapere e la notizia... si diffonderà ovunque.” “Se lo so io, lo sa di sicuro anche Norbert e, ci scommetterei, lo sa anche la Bakufu, non sono scemi. Mi dispiace, ma qui non esistono segreti, quante volte ve lo devo ripetere?” “Va bene, glielo chiederò. Ma potrete parlare con lui soltanto in mia presenza.” “Non è necessario, Phillip, con tutto quello che avete da fare. Non voglio farvi perdere tempo prezioso. “Prendere o lasciare! McFay sospirò. “Siete un duro, Phillip. Accetto.” “Voglio anche leggere l'ultimo capitolo di Grandi Speranze, gratis, diciamo domani. Vi metterete d'accordo con Nettlesmith. McFay ribatté subito: “Se io per averlo devo sborsare otto dollari dovete contribuire anche voi”. “Allora niente intervista e lo dirò a sir William.” Tyrer sorrise tra sé ricordando l'espressione cupa sul volto di McFay. Fu riportato al presente da Chen: “Tè, padrone, veloce veloce”. Il domestico, che aveva lasciato il coltellaccio a portata di mano dietro la porta, posò il vassoio sul tavolo. Tyrer versò solennemente il tè per entrambi, vi aggiunse latte e zucchero e sorseggiò con sollievo la rovente infusione scura. “Adesso va meglio.” Hiraga lo imitò. Dovette fare uno sforzo per non sputarlo subito: era troppo caldo e aveva un sapore disgustoso. “Buono, vero?” gli chiese Tyrer con un sorriso finendo la prima tazza. “Ne vuoi ancora?” “No, grazie. Questa abitudine inglese, sì?” “Sì, inglese e americana, ma non francese. “ Tyrer alzò le spalle. “I francesi non hanno gusto.” “Ah, so ka?” A Hiraga non era sfuggito il tono di scherno. “Francesi non come inglesi?” chiese con finta innocenza accantonando per il momento la rabbia. “Per l'amor di Dio no, non sono affatto come noi. I francesi vivono sul continente, noi invece viviamo su un'isola, come voi. Siamo diversi in tutto, abitudini, cibo, sistema di governo, e naturalmente la Francia ha meno potere della Gran Bretagna.” Tyrer aggiunse un altro cucchiaino di zucchero al tè soddisfatto di essere riuscito a placare la rabbia di Hiraga. “Siamo molto diversi.” “Oh, davvero? Inglesi e francesi fatto guerra?” Tyrer rise. “Dozzine di volte nel corso dei secoli, e a volte sono stati alleati. Nell'ultimo conflitto eravamo alleati.”

Gli raccontò brevemente della guerra in Crimea, poi di Napoleone Bonaparte, della rivoluzione francese e dell'imperatore Luigi Napoleone. “E' il nipote di Napoleone Bonaparte, un vero buffone. Bonaparte non era un buffone, ma era l'uomo più cattivo mai esistito ed è stato responsabile di centinaia di migliaia di morti. Se Wellington, Nelson e il nostro esercito non l'avessero fermato avrebbe conquistato il mondo intero. Hai capito quello che ho detto?” Hiraga annuì: “Non tutte parole, ma capito”. Aveva colto il senso del discorso e ne era rimasto turbato perchè non riusciva a spiegarsi come un grande generale potesse venir considerato cattivo. “Prego, continua, Tairasan.” Tyrer proseguì la lezione di storia, poi si interruppe: “Torniamo al tuo caso. Quando hai lasciato lo Yoshiwara le guardie ti hanno creato problemi?”. “No, fatto finta portare ortaggi.” “Bene. Ah, a proposito, hai visto Raiko-san?” “Sì. Fujiko non disponibile domani.” “Oh. Non importa.” Tyrer alzò le spalle ma si sentì morire. Hiraga percepì il suo disappunto e se ne rallegrò. Sonno-joi, pensò con astio. Era stato costretto a pagare di tasca sua i servizi di Fujiko ma non se ne preoccupava. Raiko gli aveva detto: “Visto che paghi bene, anche se non quanto i gai-jin, accetto. Ma Taira dovrà avere Fujiko dopodomani; non voglio che se ne trovi un'altra...”. Tyrer stava dicendo: “Nakama-san, l'unica sicurezza per te qui è non uscire mai dall'Insediamento. Non ti manderò più allo Yoshiwara. Devi stare qui”. “Meglio io trova casa sicura nel villaggio, Taira-san. Dentro recinto più sicuro. Ogni giorno vengo qui all'alba, o quando vuoi, per insegnare e imparare. Tu sensei molto buono. Questo risolvere problema, sì?” Tyrer esitò. Non voleva togliergli il guinzaglio e lasciarlo del tutto libero ma neppure voleva più averlo troppo vicino. “Si, se prima mi mostrerai la casa dove andrai a vivere e non ti muoverai senza dirmelo.” Hiraga annuì e disse: “Accetto. Per favore, di' soldati giusto io sta qui e nel villaggio?”. “Sì, lo farò. Sono sicuro che sir William sarà d'accordo.” “Grazie, Taira-san. Di' anche soldati se attacca di nuovo io prende katana.” “No! Ti proibisco di farlo! Sir William ti ha proibito di farlo! Niente armi, niente spade!” “Per favore, di' soldati non attacca per favore.” “Sì, lo prometto. Ma se ti troveranno con la spada ti uccideranno, ti spareranno!” Hiraga alzò le spalle. “Per favore, niente attacco. Wakatta?” Tyrer non rispose. Wakatta era la forma imperativa di wakarimasu ka, capisci? “Domo.” Reprimendo una violenza che Tyrer poteva quasi odorare, Nakama

lo ringraziò nuovamente e promise di tornare al tramonto per condurlo al proprio rifugio e per rispondere a tutte le domande che gli volesse porre. Si inchinò. Tyrer rispose e lo guardò uscire. Soltanto allora vide le escoriazioni che gli coprivano la schiena e le gambe. Quella sera si alzò il vento e il mare si increspò. Le navi all'ancora nella baia avevano sistemato la velatura e si preparavano alla notte. I marinai del turno delle otto erano già ai loro posti di servizio. Nelle prigioni di bordo erano rinchiusi più di cinquanta uomini. Sei di loro stavano diligentemente preparando il gatto a nove code con cui all'alba sarebbero stati puniti con cinquanta frustate per aver turbato l'ordine e la disciplina militare: uno per aver minacciato di spezzare il collo a un nostromo omosessuale, tre per rissa, uno per aver rubato una razione di rum e un altro per aver insultato un ufficiale. Sempre all'alba si sarebbero celebrate nove sepolture in mare. Le infermerie della flotta erano piene di ammalati di dissenteria, diarrea, influenza, pertosse, scarlattina, morbillo, malattie veneree, arti rotti ed ernie. Tutte malattie comuni, solo a bordo dell'ammiraglia erano ricoverati in isolamento quattordici marinai con il vaiolo. Le malattie venivano curate soprattutto con salassi e forti purganti perchè quasi tutti i dottori erano anche barbieri, e solo i pazienti più fortunati venivano curati con la tintura del dottor Collis, inventata durante la guerra in Crimea, che aveva ridotto di tre quarti la mortalità per dissenteria: sei gocce di quel liquido scuro a base di oppio calmavano gli spasmi intestinali. Nell'Insediamento tutti si preparavano per la cena e per il momento più atteso della giornata: la conversazione del dopocena, durante la quale ci si scambiavano pettegolezzi e novità, grazie a Dio il postale era atteso per l'indomani, e si commentavano con ironia e affettuoso cameratismo gli scandali piccanti, il ballo, la tensione per i problemi di lavoro e la possibilità di una guerra imminente. Qualcuno raccontava la trama dell'ultimo libro letto e qualcun altro replicava con una storiella divertente o una poesia. Si favoleggiava di tempeste, terre ghiacciate e deserti, ci si raccontava di viaggi nei luoghi più remoti dell'Impero, in Nuova Zelanda, in Africa e in Australia, di cui erano state esplorate soltanto le zone costiere, o nel Selvaggio West americano e canadese; storie sulla California e la Corsa all'Oro del '48 e viaggi in Spagna, Francia o nell'America russa, Dmitri aveva navigato lungo la costa occidentale americana, poco esplorata, da San Francisco fino in Alaska, in terra russa, e ciascuno raccontava delle stranezze che aveva visto, delle ragazze che aveva sedotto e delle guerre di cui era stato testimone. Buon vino, liquori, pipe, tabacco della Virginia, qualche bicchierino al circolo, poi le preghiere e a letto.

Una tipica serata dell'Impero. Alcuni padroni di casa prediligevano i cori, le letture di poesia e di brani di romanzi famosi. Alla festa esclusiva di Norbert Greyforth, infatti, quella sera si dava lettura della copia clandestina dell'ultimo capitolo di Grandi Speranze, che nell'ora a sua disposizione Greyforth aveva fatto copiare mettendo al lavoro tutti i cinquanta impiegati della Brock. “Se lo si verrà a sapere vi licenzierò tutti” aveva minacciato. Anche gli invitati si erano impegnati a mantenere il segreto. Al circolo i mercanti commentavano il ballo della sera prima e si chiedevano come fare affinché si ripetesse. “Perché non organizzarne uno tutte le settimane? Tette d'Angelo potrebbe sgambettare e mostrarmi i suoi mutandoni tutti i giorni della settimana insieme a Naughty Nellie Fortheringill...” “Smettila di chiamarla Tette d'Angelo, per Dio!” “Tette d'Angelo ha e Tette d'Angelo è!” Tra le beffe e gli insulti era scoppiata una rissa. Mentre in sala si facevano scommesse, i due contendenti, Lunkchurch e Grimm stabilirono la zona di combattimento e cominciarono ad azzuffarsi senza risparmio di colpi. Dirimpetto, sul lato della strada verso il mare, c'era il grande edificio di mattoni della Legazione britannica, con l'asta della bandiera nel cortile e i giardini ben tenuti, circondato, come tutti i palazzi più importanti dell'Insediamento, da un'alta recinzione protettiva. Sir William e l'ammiraglio, suo ospite d'onore, entrambi vestiti da sera, erano furenti. “Maledetti bastardi!” esclamò l'ammiraglio con il volto più paonazzo del solito, dirigendosi verso la mensola per versarsi un altro whisky generoso. “Sono al di là di ogni comprensione.” “Assolutamente.” Sir William gettò da parte il rotolo e fissò adirato Johann e Tyrer. Lo scritto era arrivato un'ora prima per mano di un messaggero inviato dal governatore giapponese a nome della Bakufu. “Molto urgente, spiacente”. A differenza del solito, il messaggio non era scritto in olandese bensì in giapponese. Con il consenso di Seratard, Johann si era fatto aiutare da un missionario gesuita di passaggio e ne aveva stilato una prima traduzione che Tyrer aveva subito trascritto in buon inglese. Il messaggio proveniva dal Consiglio degli Anziani ed era firmato da Anjo: Vi invio formalmente questo dispaccio per comunicarvi che per ordine dello shògun, attualmente a Kyòto, l'incontro con il Roju e l'incontro con lo shagun previsto per lo stesso giorno, che secondo gli accordi provvisori avrebbero dovuto tenersi tra diciannove giorni, saranno posticipati di tre mesi in quanto Sua Maestà non rientrerà prima di quella data. A questa

comunicazione farà seguito una Conferenza durante la quale verranno definite le modalità specifiche di tali incontri. La consegna della seconda rata della donazione sarà posticipata di trenta giorni. Rispettosamente e umilmente. “Johann” disse sir William in tono gelido, “non ritenete che questo messaggio sia oltremodo duro e scortese nonché decisamente offensivo?” “Si può definire così, sir William” rispose con cautela lo svizzero. “Per Dio, ho contrattato, minacciato, perso il sonno, rinegoziato per giorni prima di riuscire a farli giurare sulla vita dello shògun che l'incontro con il Consiglio si sarebbe tenuto a Edo il 5 novembre e quello con lo shògun il 6, e adesso mandano questo!” Sir William trangugiò il suo gin e imprecò per almeno cinque minuti in inglese, francese e russo. Gli altri lo fissavano ammirati dalla strabiliante ricchezza del suo vocabolario di volgarità. “Avete ragione” sentenziò l'ammiraglio. “Tyrer, versate al povero sir William un altro gin.” Tyrer si precipitò a ubbidire. Sir William trovò il fazzoletto, si soffiò il naso, fiutò una presa di tabacco, starnuti e si soffiò di nuovo il naso. “Che peste li colga!” “Che cosa proponete, sir William?” chiese l'ammiraglio, sforzandosi di celare il piacere per l'ennesima umiliazione subita dall'avversario. “Risponderò immediatamente. Per favore ordinate alla flotta di far rotta su Edo domani stesso per cannoneggiare le installazioni del porto che vi indicherò.” Gli occhi azzurri dell'ammiraglio si strinsero. “Credo sia meglio discuterne in privato. Signori!” Tyrer e Johann si apprestarono a uscire. “No” intervenne sir William. “Johann, voi potete andare. Per favore, aspettatemi fuori. Tyrer è una delle mie persone di fiducia, deve rimanere.” Nonostante il disappunto, l'ammiraglio non disse niente finché la porta non fu richiusa. “Conoscete molto bene il mio punto di vista sui bombardamenti. Finché non riceverò disposizioni dall'Inghilterra io non darò l'ordine di colpire se non in caso di attacco nemico!” “La vostra posizione ostacola i negoziati. Il nostro potere dipende dal fuoco dei nostri cannoni, da nient'altro!” “La penso come voi ma ho una diversa valutazione dei tempi.” “La scelta dei tempi dipende da me. Bene. Abbiate dunque la compiacenza di ordinare un bombardamento limitato, venti cannonate, ai bersagli che indicherò.” “No, dannazione! Non sono stato chiaro? Quando arriverà l'ordine metterò a fuoco il Giappone se necessario, ma prima non sparerò un colpo.” Sir William arrossì. “La vostra riluttanza a mettere in atto la politica di Sua Maestà anche con i mezzi più irrisori è inconcepibile.”

“Il problema nasce soltanto da un desiderio di ambizione personale. Che differenza fanno pochi mesi? Nessuna, eccetto la prudenza!” “Al diavolo la prudenza” ribatté furente sir William. “E' ovvio che riceveremo istruzioni di procedere come io, ripeto, io vi sto suggerendo di fare. Rimandare è imprudente. Inoltrerò richiesta con il postale di domani di sostituirvi con un ufficiale più sensibile agli interessi di Sua Maestà, e più esperto!” L'ammiraglio divenne paonazzo. Erano in pochi a sapere che nel corso della sua carriera non aveva mai preso parte a un combattimento, né terrestre né navale. Non appena fu in grado di parlare disse: “Questo, signore, è nei vostri diritti. In attesa della mia sostituzione, o della vostra, resto al comando delle forze di Sua Maestà in Giappone. Buonanotte, signore”. E uscì sbattendo la porta. “Canaglia” mormorò sir William. Poi vide l'espressione impietrita di Tyrer, che fino a quel momento era rimasto dietro le sue spalle. “Farete bene a tenere la bocca chiusa. Ve lo hanno insegnato?” “Sissignore, certo.” “Bene.” Sir William decise di rimandare le sue preoccupazioni sulla Bakufu, i Roju e l'intransigenza dell'ammiraglio a un altro momento. “Tyrer, servitevi uno sherry, sembrate averne bisogno. Potreste unirvi a noi per la cena visto che l'ammiraglio ha declinato il mio invito. Giocate a backgammon?” “Sì, signore, grazie, signore” rispose mansueto Tyrer. “Già che ci siete, cos'è questa storia della schermaglia tra il vostro samurai e l'esercito britannico?” Tyrer raccontò i particolari dell'accaduto ed espose la soluzione che aveva trovato senza accennare alla minaccia del sensei Hiraga di armarsi di spade. Si sentiva sempre più colpevole nel nascondere la verità al ministro. “Vorrei tenerlo con me, signore, naturalmente con la vostra approvazione, perchè è un ottimo insegnante e sono sicuro che potrà esserci utilissimo.” “Ne dubito. E necessario evitare ogni ulteriore problema. Quel tipo potrebbe diventare una serpe in seno all'Insediamento. Voglio che sia allontanato domani stesso.” “Ma signore, mi ha già fornito informazioni preziosissime.” Assalito da un improvviso sconforto Tyrer sbottò: “Per esempio, mi ha detto che lo shògun è soltanto un ragazzo di sedici anni ed è una marionetta della Bakufu, che il vero potere è dell'imperatore, ha usato spesso il titolo Mikado, che vive a Kyòto.” “Dio santissimo!” esplose sir William. “E' vero?” Tyrer stava per lasciarsi sfuggire che il samurai parlava inglese ma riuscì a trattenersi. “Non lo so ancora, signore, non ho avuto il tempo di interrogarlo a fondo. Non è facile farlo parlare, ma si, credo che mi abbia detto la verità.” Sir William lo fissò.

Era sconvolto dall'importanza di quelle informazioni. “Che altro vi ha raccontato?” “Sono soltanto all'inizio: come potete immaginare, un interrogatorio di questo tipo richiede molto tempo” rispose Tyrer sempre più rinfrancato. “Mi ha parlato anche dei ronin. La parola ronin significa “onda” signore, lì chiamano così perchè sono liberi come le onde. I ronin sono samurai messi fuorilegge per diverse ragioni. La maggior parte di loro sono avversari della Bakufu, come Nakama. Nakama sostiene che la Bakufu ha usurpato il potere del Midako, scusate, del Mikado, come ho già detto.” “Un momento, non così veloce, Tyrer. Non ci manca il tempo. Chi è un ronin, esattamente?” Tyrer glielo spiegò. “Buon Dio!” Sir William si concesse una pausa per riflettere. “Così i ronin sono samurai dichiarati fuorilegge perchè il loro re è malvisto dalla Bakufu, oppure dichiarati fuorilegge dai loro stessi re per delitti più meno reali, o ancora sono samurai che hanno scelto di diventare fuorilegge e che si uniscono per rovesciare il governo centrale del fantoccio shògun?” “Sì, signore. Nakama lo chiama governo illegale.” Sir William sorseggiò l'ultimo goccio di gin e annuì. Quelle informazioni creavano in lui stupore e sollievo. “Dunque Nakama è un ronin, quello che voi definireste dissidente e io chiamerei piuttosto rivoluzionario?” “Sì, signore. Scusatemi, signore, posso sedermi?” chiese Tyrer tremando. Avrebbe desiderato gridare tutta la verità ma non ne aveva a coraggio. “Certo, certo, Tyrer; scusate. Ma prima versatevi un altro sherry e portatemi un bicchiere di gin.” Sir William lo guardò. Era soddisfatto di lui e al tempo stesso inquieto: l'esperienza accumulata in anni di rapporti con diplomatici e spie, fatta di mezze verità, bugie e palese disinformazione gli suggeriva che l'altro gli stava nascondendo qualcosa. Accettò il bicchiere. “Grazie. Prendete quella sedia, è la più comoda. Salute! Si vede che parlate molto bene il giapponese per aver ottenuto tante informazioni in pochi giorni” disse con disinvoltura. “No, signore, mi dispiace. Ma sto dedicando tutto il mio tempo a impararlo. Con Nakama, be', oltre che con una infinita pazienza, comunico con i gesti, con alcune parole in inglese e con le poche parole e frasi in giapponese che mi ha dato André Poncin. Poncin mi è stato di grande aiuto, signore.” “André è al corrente di quello che quest'uomo vi ha detto?” “No, signore.” “Non ditegli niente. Niente. Chi altro ne è al corrente?” “Nessuno, signore, tranne Jamie McFay.” Tyrer trangugiò il suo sherry. “McFay qualcosa sapeva già e, be', è un tipo molto convincente... mi ha

carpito le informazioni sullo shògun.” Sir William sospirò. “Si, Jamie è convincente, per usare un eufemismo, e sa sempre più di quanto non dica.” Si appoggiò allo schienale della comoda, vecchia poltrona girevole in pelle e sorseggiò il gin. Considerava tra sé le preziose informazioni appena ricevute e già riformulava la risposta da dare al brutale messaggio di Anjo chiedendosi quanto potesse osare e quanto si potesse fidare delle notizie di Tyrer. Come sempre gli accadeva in circostanze di quel genere, ricordò con disagio le ammonizioni con cui era stato congedato dal capo del suo ministero. “Quanto a Nakama” concluse, “accetto il vostro piano, Phillip... posso chiamarvi Phillip?” Tyrer arrossì di piacere per l'inatteso onore. “Certo, signore, grazie, signore.” “Bene, grazie. Per il momento accetto il vostro piano, ma per l'amor di Dio state attento, non dimenticate che i ronin hanno commesso tutti gli omicidi, tranne quello del povero Canterbury.” “Starò attento, sir William, non preoccupatevi.” “Fatevi dire il più possibile e non parlatene a nessuno e comunicatemelo immediatamente. Per l'amor di Dio state attento, tenete sempre un revolver a portata di mano e al minimo segno di violenza da parte sua chiamate aiuto, sparategli o mettetelo ai ferri.” Accanto alla Legazione britannica c'erano la Legazione americana, olandese, prussiana e francese. Quella sera, nel suo appartamento alla Legazione francese, Angélique si stava preparando con l'aiuto di Ah Soh. Era attesa un'ora più tardi alla cena che Seratard aveva organizzato in onore suo e di Malcolm per festeggiare il loro fidanzamento. Dopo cena era previsto un concerto. “Ma non suonate troppo a lungo, André, dite che siete stanco” lo aveva avvertito lei. “Così avrete il tempo che occorre per compiere la vostra missione, no? Gli uomini sono molto fortunati.” Angélique era contenta di essersi trasferita, ma anche triste. E' più saggio, pensò. Fra tre giorni potrò tornare nell'appartamento accanto a quello di Malcolm. Comincerò una nuova vita, una nuova... “Qualcosa non va, signorina?” “Niente, Ah Soh.” Angélique si sforzò di distogliere i pensieri da quello che presto avrebbe dovuto affrontare e spinse la paura nei recessi più remoti della mente. In fondo alla strada, nel tratto migliore del lungomare, quasi tutte le finestre del palazzo Struan erano illuminate, come nell'adiacente palazzo della Brock and Sons, poiché molti impiegati e cambiavalute erano ancora al lavoro. Nell'appartamento del tai-pan, molto più ampio e confortevole di quello in cui aveva vissuto fino al giorno prima, Malcolm Struan tentava

faticosamente di indossare gli abiti da sera. “Jamie, che cosa mi consigliate? Dannazione, dovrei sapere da solo come comportarmi con mia madre e le sue lettere, è un problema mio e non vostro! Sta minacciando anche voi, vero?” Jamie McFay alzò le spalle. “Per lei dev'essere difficile. Dal suo punto di vista ha ragione, vuole solamente il vostro bene. Penso che sia preoccupata a morte per la vostra salute e perchè siete lontano e non può raggiungervi. D'altra parte i problemi della Struan non si possono risolvere da Yokohama, tutto si concentra a Hong Kong. La China Cloud arriverà tra qualche giorno da Shanghai e da qui farà subito rotta verso Hong Kong. Tornerete con la China Cloud?” “No, e per favore non sollevate più la questione” disse Struan in tono tagliente. “Vi dirò io quando noi, Angélique e io, partiremo. Spero soltanto che mia madre non sia a bordo, sarebbe il colpo di grazia.” Struan si chinò per infilare gli stivali ma il dolore era troppo e non vi riuscì. “Scusate, volete aiutarmi voi? Grazie.” Poi esplose: “Essere ridotto come un fottuto invalido mi sta facendo uscire di senno”. “Posso immaginarlo.” McFay nascose lo stupore. Era la prima volta che sentiva Struan imprecare in quel modo. “Mi comporterei come voi, anzi, molto peggio” aggiunse con dolcezza. Sentiva molto affetto per Malcolm e ne ammirava il coraggio. “Quando saremo sposati e questa lunga attesa sarà finita, tutto si sistemerà.” Con la consueta difficoltà Struan usò il vaso da notte e si accorse che l'urina era macchiata di sangue. Già il giorno prima aveva riferito al dottor Hoag che quell'inconveniente si era verificato di nuovo e il medico gli aveva detto di non preoccuparsi. “Allora perchè sembri preoccupato?” “Non lo sono, Malcolm, ne ho solamente preso nota. Nel caso di lacerazioni interne di questo tipo è necessario prendere nota di ogni sintomo che si presenti durante il processo di guarigione...” Dopo aver finito, Struan si trascinò verso la poltrona accanto alla finestra e vi si lasciò cadere. “Jamie, vorrei chiedervi un favore.” “Certo, qualsiasi cosa, in che modo posso esservi utile?” “Potreste... ecco... ho bisogno di una donna. Potreste farmene venire una dallo Yoshiwara?” Jamie era sconcertato. “Io... sì, immagino di si.” Poi aggiunse: “Credete che sia prudente?”. Una folata di vento fece muovere le imposte e frusciare gli alberi del giardino. Dal tetto caddero alcune tegole costringendo alla fuga i topi provenienti dai mucchi di spazzatura abbandonata senza riguardo in High

Street e dal fetido canale intorno all'Insediamento, che fungeva anche da fogna. “No” rispose Malcolm. A mezzo miglio di distanza dal palazzo Struan, in un'anonima casa del villaggio giapponese nei pressi della Città Ubriaca, nudo e allungato sulla pancia Hiraga si stava facendo massaggiare. La casa aveva una facciata decrepita e, come le altre allineate sui due lati della stradina sterrata, serviva al tempo stesso da abitazione, magazzino e, durante il giorno, da negozio. All'interno, come molte case di mercanti facoltosi, era pulitissima, ben curata e spaziosa. Apparteneva allo shoya, l'anziano del villaggio. La massaggiatrice era cieca. Di una ventina d'anni, era una giovane di costituzione robusta, dal volto gentile e il sorriso dolce. In Asia per tradizione l'arte del massaggio era monopolio dei ciechi, sebbene a volte la praticassero anche le altre persone. E, sempre per tradizione, i ciechi erano sempre al sicuro e non venivano mai aggrediti. “Siete molto forte, samurai-sama” disse la giovane, rompendo il silenzio. “Coloro che si sono scontrati con voi sicuramente sono morti o stanno soffrendo.” Hiraga non rispose subito perchè si stava godendo il tocco esperto delle sue dita, che individuavano i muscoli tesi e li rilassavano. “Forse.” “Per favore, mi consentite di consigliarvi uno speciale olio cinese che aiuterà i graffi e le ferite del vostro corpo a guarire rapidamente?” Sorrise. I massaggiatori usavano spesso quel trucco per guadagnare qualche soldo in più. “Bene, usatelo pure.” “Oh, voi sorridete, onorato samurai! Non è un trucco per spillarvi denaro” disse mentre le sue dita lavoravano sulla schiena. “E un segreto che mi ha tramandato mia nonna. Anche lei era cieca.” “Come hai capito che sorridevo?” La risata della ragazza gli ricordò un'allodola che alle prime luci si libra nelle alte correnti del cielo. “Il sorriso comincia in molte parti del corpo. Le mie dita vi ascoltano, ascoltano i vostri muscoli e a volte anche i vostri pensieri.” “E a che cosa sto pensando adesso?” “A sonno-joi. Ah, avevo ragione!” Ancora quella risata che lo sconcertava. “Ma non temete, non avete detto niente, i padroni qui non hanno detto niente e io non dirò niente. Tuttavia le dita mi suggeriscono che siete un grande uomo di spada, il migliore che io abbia mai servito. Ed è certo che non siete un membro della Bakufu; dovete essere un ronin,

un ronin per scelta, visto che siete stato accolto in questa casa, quindi siete uno shishi, il primo mai stato qui.” Si inchinò. “Ne siamo onorati. Se fossi un uomo anch'io sosterrei sonno-joi.” La ragazza premette di proposito le dita d'acciaio su un centro nervoso e sentì che il corpo di lui veniva attraversato da un tremito di dolore”. Era contenta di poterlo aiutare più di quanto lui non sapesse. “Spiacente, ma questo è un punto molto importante per rinvigorirvi e far fluire le vostre energie vitali.” Hiraga sospirò: quel dolore lo costringeva contro il futon eppure era stranamente piacevole. “Anche tua nonna era una massaggiatrice?” “Sì. Nella mia famiglia almeno una bambina ogni due generazioni nasce cieca. In questa vita è toccato a me.” “Karma.” “Sì. Dicono che ai giorni nostri in Cina il padre o la madre accechino una delle figlie cosicché da adulta possa trovare un lavoro sicuro per tutta la vita.” Hiraga non aveva mai sentito quella storia ma le credette e si irritò. “Qui non siamo in Cina e non lo saremo mai. Un giorno ci impadroniremo della Cina e la civilizzeremo.” “Eeeh, spiacente di aver turbato la vostra armonia, signore, vi prego di scusarmi, molto spiacente. Ah, così va meglio, scusatemi ancora. Stavate dicendo, signore? Civilizzare la Cina? Come voleva fare il dittatore Nakamura? E' possibile?” “Sì, un giorno lo sarà. Il nostro destino è quello di conquistare il Trono del Drago, come il tuo è quello di massaggiare e di tacere.” Ancora una volta la sua risata trillò nell'aria come il canto di un uccello. “Sì, signore.” Hiraga sospirò mentre le sue dita allentavano la pressione e al dolore si sostituiva una sensazione di piacere diffuso. Dunque tutti sanno che io sono uno shishi, pensò. Tra quanto tempo sarò tradito? Perché non dovrebbe accadere? Due koku di ricompensa sono una fortuna. Non gli era stato facile trovare quel rifugio. Mentre si aggirava per il quartiere al suo passaggio cadeva il silenzio perchè lui era un samurai, un samurai senza spade e con l'aspetto di un selvaggio. Tranne le persone più vicine, che si inchinavano temendo per il proprio destino, tutti fuggivano alla sua vista, “Tu, vecchio, dov'è il ryokan, la locanda più vicina da queste parti?” “Non ne abbiamo nessuna, signore, non ce n'è bisogno, onorato signore” mormorò il vecchio calzolaio reso loquace dalla paura, “il nostro Yoshiwara non è lontano. E' più grande di quello di molte città e li troverete dozzine di posti in cui alloggiare e centinaia di ragazze, per non parlare delle cameriere, delle tre

vere geishe e delle loro sette allieve. E' laggiù...” “Basta! Dov'è la casa dello shoya?” “E' quella, signore.” “Dove, idiota? Alzati e mostrami come ci si arriva.” Furente, Hiraga seguì il vecchio lungo la strada desiderando accecare tutti quelli che lo spiavano da ogni fessura e soffocare i mormorii che si levavano al suo passaggio. “Ecco, signore.” Hiraga lo scacciò. L'insegna, posta all'esterno del negozio stipato di merci di ogni tipo ma deserto, annunciava la residenza e l'ufficio di Ichi Ryoshi, lo shoya, mercante di riso e banchiere, l'agente del Gyokoyama a Yokohama. Il Gyokoyama era uno zaibatsu, cioè un gruppo di famiglie unite da interessi commerciali. Molto potente a Edo e a Osaka, riuniva mercanti di riso, distillatori di birra e sakè e, soprattutto, banchieri. Bussò con la massima educazione, si accovacciò sui talloni e attese, sforzandosi di dominare la sofferenza procuratagli dalle botte ricevute dai dieci soldati inglesi. Dal negozio uscì infine un uomo di mezza età dal volto severo, che si inginocchiò. Hiraga rispose e si presentò come Nakama Otami. Disse che anche suo nonno era uno shoya e senza precisare in quale regione gli fornì le informazioni sufficienti per capire che si trattava della verità. Gli diede anche a intendere che, poiché nei dintorni non vi erano ryokan in cui alloggiare, desiderava una stanza a pagamento in casa sua. “Il nonno è molto onorato di trattare con lo zaibatsu Gyokoyama, a cui affida i raccolti dei suoi villaggi” disse con cortesia. “Vorrei che per favore voi faceste pervenire loro a Osaka il mio impegno e vi sarei grato se in cambio di questo mi anticipaste del denaro.” “Edo è più vicino di Osaka, Otami-san.” “Sì, ma preferisco Osaka” disse Hiraga, non volendosi compromettere a Edo dove più facilmente la Bakufu avrebbe potuto esserne informata. Si accorse dell'espressione impassibile dell'altro e nascose il proprio livore considerando che anche i daimyo dovevano stare attenti nel trattare con il Gyokoyama e i suoi agenti, persino il principe Ogama di Choshu. Era risaputo che Ogama era pesantemente indebitato con loro e che aveva impegnato anni di introiti futuri. “La mia compagnia è onorata di servire i vecchi clienti. Prego, per quanto tempo desiderate fermarvi nella mia casa?” “Per alcuni giorni, se non vi è di disturbo.” Sicuro che la notizia lo avesse preceduto, Hiraga gli raccontò di Tyrer e del suo scontro con i soldati. “Potrete fermarvi almeno tre giorni, Otami-san. Spiacente, ma nel caso di un'improvvisa incursione dovete essere pronto ad andarvene in fretta, di giorno o di notte.” “Capisco. Grazie.” “Per favore scusatemi, ma desidererei un ordine firmato da questo Taira, o

meglio ancora dal capo dei gai-jin, in cui mi si chiede di aprirvi la mia casa, da mostrare alla Bakufu se mai dovesse arrivare.” “Me lo procurerò.” Hiraga ringraziò con un inchino e nascose il disappunto per quelle condizioni. “Grazie.” Lo shoya diede ordine a un domestico di portare del tè e l'occorrente per scrivere, e osservò Hiraga mentre stilava una richiesta di anticipo da dedurre dal conto di Shinsaku Otami, il nome in codice di suo padre. La firmò e la sigillò, poi appose il timbro e la firma anche sulla ricevuta in cui era scritto che Ryoshi accettava di anticipare metà della somma al consueto interesse del due per cento al mese per i tre mesi necessari a far arrivare l'incartamento a Osaka e completare la transazione. “Desiderate il denaro in contanti?” “No, grazie, mi rimangono ancora alcuni oban” rispose esagerando giacché gliene rimanevano soltanto due. “Per favore apritemi un credito da cui dedurrete le spese della stanza e del cibo. Ho bisogno di vestiti e di spade. Vi prego inoltre di trovarmi una massaggiatrice.” “Certo, Otami-san. Per i vestiti il servo vi mostrerà il nostro magazzino. Scegliete quelli che preferite. Per quanto riguarda le spade” proseguì Ryoshi alzando le spalle, le uniche di cui dispongo sono gingilli adatti ai gai-jin e dubito che possano esservi utili, in ogni caso date un'occhiata. Forse riesco a trovare delle spade adatte a voi. Adesso vi mostrerò la vostra stanza, con ingresso indipendente protetto giorno e notte da una guardia.” Hiraga lo seguì. Ryoshi non aveva commentato la sua nudità e le sue ferite né aveva fatto domande in proposito. “Siete il benvenuto e la vostra presenza onora la mia povera casa” aveva detto congedandosi. Al ricordo delle parole dello shoya, a Hiraga si accapponò la pelle: dietro le apparenze, quell'uomo così educato e solenne era in realtà un nemico mortale. Disgustoso, pensò, è disgustoso che i daimyo corrotti, lo shògun e la Bakufu costringano noi samurai alla miseria e a ricorrere all'aiuto di questi zaibatsu di basso rango, sporchi mercanti assetati di denaro, convinti che i soldi diano loro potere su di noi. Per tutti gli dei, quando tornerà l'imperatore mercanti e zaibatsu la pagheranno cara... In quell'istante sentì che le dita della massaggiatrice si fermavano. “Cosa vi accade, signore?” chiese spaventata. “Niente, niente. Continua, per favore.” Lei obbedì ma adesso il suo tocco era diverso e l'atmosfera nella stanza sembrava carica di tensione. Nella stanza vi erano otto tatami di buona qualità, i futon erano imbottiti di piume e gli shoji erano stati rivestiti di recente con carta oleata. Nella nicchia del takoyama c'erano una lampada a olio, una composizione

floreale e un piccolo dipinto raffigurante un paesaggio con una piccola casa in un boschetto di bambù e sull'uscio una donna minuta dall'aspetto desolato e lo sguardo perso in lontananza. Accanto al paesaggio gli ideogrammi di una poesia d'amore.

Aspetto, Ascolto la pioggia, Accompagno la pioggia. Tanto sola e fiduciosa nel ritorno del suo uomo. Hiraga stava scivolando nel sonno quando la porta si scostò. “Scusate, signore.” Il domestico si inginocchiò e disse con imbarazzo: “Spiacente, fuori c'è una persona di basso rango che vuole vedervi. Dice di conoscervi. Spiacente di disturbarvi ma ha molto insistito e...” “Chi è? Come si chiama?” “Lui... non me lo ha detto né ha chiamato voi per nome, signore. Ha detto solamente: “Di' al samurai: Todo è il fratello di Joun”.” Hiraga si alzò di scatto. Mentre si infilava la yukata chiese alla massaggiatrice di tornare l'indomani alla stessa ora e la congedò. Si avvicinò alle spade che gli aveva procurato lo shoya in attesa di trovargliene di migliori e si inginocchiò in posizione di difesa-attacco, rivolto verso la porta. “Fallo entrare, e tieni tutti lontani.” Il giovane contadino, esile e sporco, strisciò con il suo kimono cencioso lungo il corridoio e si inginocchiò fuori dalla porta. “Grazie, signore, grazie di avermi concesso udienza” balbettò. Poi sollevò lo sguardo e aprì la bocca sdentata in uno sciocco sorriso. “Grazie, signore.” Hiraga gli lanciò un'occhiata furente, poi sussultò: “Ori? Ma... è impossibile!”. Lo guardò più da vicino e vide che i denti anneriti facevano parte del travestimento. Con quella luce l'illusione era perfetta. Niente in lui faceva pensare che fosse un samurai: non aveva più la crocchia e i capelli erano tagliati a spazzola. “Perché?” chiese. Ori sorrise divertito e si avvicinò. “La Bakufu sta cercando i ronin, sì o no?” sussurrò, per evitare le orecchie indiscrete che sicuramente erano in ascolto. “Continuo a essere un samurai ma conciato in questo modo posso attraversare qualsiasi barriera, no?” Hiraga fischiò ammirato. “Hai ragione. Sei intelligente, sonno-joi non dipende dal taglio di capelli. E' semplice, non ci avrei mai pensato.” “Mi è venuto in mente ieri sera, mentre pensavo al tuo problema, Hiraga, e...” “Attento. Qui mi faccio chiamare Nakama Otami.” “Ah! Bene.” Ori sorrise. “Non sapevo che nome usare, per questo ho utilizzato quella frase in codice.”

“Hanno trovato Todo e gli altri?” “No, non si sa dove siano. Probabilmente sono morti. Dicono che Joun è stato ucciso come un criminale comune, ma non so ancora come lo abbiano preso.” “Perché sei venuto qui, Ori? E' troppo pericoloso.” “Non di notte e travestito in questo modo. Volevo verificare il mio nuovo aspetto e vederti.” Si passò con disgusto una mano sulla testa e si grattò. Si era rasato il volto da poco. “E' una sensazione orribile, oscena in un certo senso, ma non importa. Conciato così potrò andare a Kyòto senza rischiare di essere scoperto. Partirò tra due giorni.” Hiraga lo fissò strabiliato, non riusciva ancora a credere a quello straordinario cambiamento. A un travestimento perfetto, anche se adesso tutti i samurai ti scambieranno per un uomo qualsiasi. Come farai con le spade?” “Quando avrò bisogno delle spade porterò un cappello. Quando mi travestirò userò questo.” Ori infilò la mano sana nella manica e ne estrasse un Derringer a due colpi. Il volto di Hiraga sembrò illuminarsi. “Eeeh, eccezionale! Dove l'hai presa?” “Me l'ha venduta Fujiko con una scatola di proiettili. Gliel'aveva regalata un cliente prima di partire da Yokohama. Immagina! Una puttanella di basso rango con un simile tesoro.” Hiraga valutò la pistola, la puntò e tolse la sicura per vedere i due proiettili di bronzo alloggiati nelle canne. “Con questa puoi uccidere due uomini prima di essere ucciso, se sei abbastanza vicino.” “Basta un colpo per darmi il tempo di scappare e procurarmi delle spade.” Ori scrutò Hiraga. “Ci hanno riferito del tuo scontro con i soldati. Volevo assicurami che tu stessi bene. Baka! Ce ne andremo insieme a Kyòto lasciando questo posto ai cani finché non potremo tornare in forze.” Hiraga scosse il capo e gli raccontò l'accaduto, poi gli parlò di Tyrer e della scoperta dell'inimicizia tra francesi e inglesi. Euforico aggiunse: “Ci sarà molto utile, la useremo per aizzarli tra di loro, così si uccideranno senza bisogno che lo facciamo noi, eh? Io mi devo fermare, Ori. Questo non è che l'inizio. Dobbiamo imparare tutto quello che sanno ed essere in grado di pensare come loro, così poi li potremo distruggere”. Ori aggrottò le sopracciglia considerando i pro e i contro di quel ragionamento. Sebbene non avesse perdonato a Hiraga di averlo costretto a perdere la faccia e a privarsi della croce, aveva il dovere di proteggere sonno-joi. “In questo caso, se dovrai diventare la nostra spia, ti converrà assomigliare a loro in tutto e infilarti nel loro ambiente come una cimice, fingere di essergli amico e persino indossare i loro vestiti.” Poiché Hiraga lo guardava

perplesso aggiunse: “Perché no? Servirà a proteggerti e farà in modo che ti accettino più volentieri, neh?”. “Ma perchè dovrebbero accettarmi?” “Perché sono degli idioti. Taira sarà la punta della tua lancia. Lui è in grado di farti accettare, di ordinarlo. Insisterà.” “Perché dovrebbe?” “Per ottenere in cambio Fujiko.” “Cosa?” “Raiko ci ha dato la soluzione: i gai-jin sono diversi. Preferiscono stare sempre con la stessa donna. Se aiuterai Raiko a farlo cadere nella rete, Taira ti seguirà come un cagnolino perchè diventerai il suo indispensabile tramite. Parlagliene domani. Digli che se ti sei infuriato con i soldati non è stata colpa sua. Poi raccontagli di essere sgattaiolato allo Yoshiwara e di avergli fissato un appuntamento per domani sera e “spiacente, Taira-san, per passare le barriere e andare a combinare per voi questi appuntamenti mi converrebbe indossare dei vestiti europei e così via”. Poi deciderai tu quando la ragazza dovrà essere disponibile, la userai come un'esca. Che ne dici?” Finalmente Hiraga gli sorrise. “Dovresti fermarti e non partire per Kyòto, i tuoi consigli sono troppo preziosi.” “Dobbiamo avvisare Katsumata. Adesso dimmi, dov'è la donna gai-jin?” “Domani lo scoprirò.” “Bene.” Si era alzato il vento. Una folata attraversò la casa facendo scricchiolare la carta degli shoji e muovendo la fiamma della lampada a olio. Ori lo fissò. “L'hai vista?” “Non ancora. I servi di Taira non parlano nessuna lingua che io capisca così non posso servirmi di quella lurida marmaglia cinese per avere informazioni. So però che l'edificio più grande dell'Insediamento appartiene all'uomo che presto la sposerà.” “E lei vive lì?” “Non ne sono sicuro ma...” Folgorato da un'idea, Hiraga esitò. “Ascolta, se riuscirò a farmi accettare potrò andare dove vorrò e scoprire tutto sul loro sistema difensivo; potrò persino salire a bordo delle loro navi da guerra e...” “E una certa sera” lo interruppe Ori spingendosi oltre col pensiero, “magari ne potremmo catturare una, o farla affondare.” “Sì.” I due giovani avvamparono. La candela ondeggiava disegnando strane ombre. “Con il vento adatto” mormorò Ori, “un vento come quello di stasera, insieme a cinque o sei shishi e con alcune taniche già sistemate nei magazzini giusti... non è necessario: sarà sufficiente preparare delle bombe incendiarie e dare fuoco allo Yoshiwara. Il vento spingerà gli incendi verso il villaggio e da lì all'Insediamento che andrà a fuoco! Neh?”

“E la nave?” “Approfittando della confusione andremo all'assalto della più grande. Potremmo farlo con facilità, neh?” “Con facilità ne dubito, ma che colpo!” “sonno-joi!”

Capitolo 21 †

Giovedì, 16 ottobre “Avanti! Ah, buongiorno, André” disse Angélique con un calore che tradiva ansia. “Siete molto puntuale. Tutto bene?” Lui annuì e chiuse la porta della stanzetta a pianterreno che fungeva da boudoir, adiacente alla camera da letto. Stupito che anche in quella circostanza lei fosse tanto calma e disponibile alla conversazione, si chinò educatamente per baciarle la mano prima di sedersi. L'arredamento della stanza era dimesso: c'erano alcune vecchie sedie, una chaise-longue e una scrivania, e sui muri intonacati qualche quadro a olio di poco valore firmato da pittori francesi contemporanei, Delacroix e Corot. “L'ho imparato nell'esercito, la puntualità conduce alla santità.” Angélique sorrise della battuta. “Là! Non sapevo che aveste un passato da militare.” “Ho avuto una nomina di dodici mesi in Algeria quando avevo ventidue anni; dopo l'università; niente di importante, dovevamo soffocare una delle solite rivolte. Quanto prima avremo schiacciato i ribelli e annesso tutto il Nordafrica al territorio francese tanto meglio sarà.” Allontanò le mosche con un gesto distratto e la studiò. “Siete più splendente che mai. Il vostro... stato vi si addice.” Gli occhi di Angélique persero il colore e assunsero un'espressione dura. Aveva trascorso una notte difficile, il letto di quella stanza disordinata e squallida era molto scomodo. Con il buio l'ansia aveva avuto la meglio sulla fiducia lasciandole una profonda inquietudine rispetto alla decisione di abbandonare così di fretta le comodità dell'appartamentino attiguo a quello di Struan. All'alba il suo umore non era migliorato e di nuovo l'aveva assalita quel pensiero ossessivo: gli uomini sono la causa di tutti i miei dolori. La vendetta le sarebbe stata dolce. “Intendete riferirvi alla mia condizione di futura moglie, non è vero?” “Certo” disse lui dopo una pausa, e lei, irritata, si chiese che cosa avesse e perchè mai fosse tanto rozzo e distante, come la sera prima, quando aveva suonato in modo annoiato, senza il tocco abituale. Aveva gli occhi cerchiati di scuro e i suoi lineamenti sembravano più spigolosi.

“Qualcosa non va, mio caro amico?” “No, Angélique cara, non c'è niente, niente di niente.” Bugiardo, pensò lei. Perché gli uomini mentono sempre, agli altri e a se stessi? “Siete riuscito nell'intento?” “Sì e no.” Poncin sapeva quanto lei fosse sulle spine e provò l'improvviso desiderio di farla soffrire e di soffiare sul fuoco per farla urlare e pagare per Hana. Sei matto, pensò. Non è colpa sua. E' vero, ma è per causa sua che la notte scorsa sono andato alle Tre Carpe, ho incontrato Raiko e, mentre parlavamo nel solito miscuglio di giapponese, inglese e pidgin, all'improvviso ho avuto l'impressione che fosse stato soltanto un incubo: che Hana sarebbe apparsa da un momento all'altro, con il sorriso negli occhi, e che il mio cuore avrebbe palpitato come sempre... ci saremmo congedati da Raiko e insieme avremmo fatto il bagno, giocato e mangiato nella nostra stanza e poi ci saremmo amati senza fretta. E quando ho realizzato la verità, che Hana se ne è andata per sempre, mi è sembrato che cervello e viscere pullulassero di vermi striscianti e ho quasi vomitato. “Raiko, devo sapere chi sono stati i tre clienti.” “Mi dispiace, Furansu-san, te l'ho già detto: la sua mama-san è morta, le persone della casa sono disperse, la Locanda dei Quarantasette Ronin non c'è più.” “Ci dev'essere un modo per...” “Nessun modo. Mi dispiace.” “Allora dimmi la verità... la verità su come è morta”. “Con il tuo coltello nella gola, mi dispiace.” “Lo ha fatto? Lei? Hara-kiri?” Raiko aveva risposto con voce paziente, la stessa voce con cui aveva raccontato la stessa storia e dato la stessa risposta già una dozzina di volte: “Hara-kiri è il modo antico, il modo onorevole, l'unico modo per espiare un errore. Hana ha tradito te e noi, padroni e protettori, e se stessa: era il suo karma in questa vita. Non c'è altro da dire. Mi dispiace, lasciala riposare. Il quarantesimo giorno dopo la morte, il giorno del kami, in cui una persona rinasce o diventa un kami, per lei è passato. Lascia che ora il suo kami, il suo spirito, riposi in pace. Mi dispiace, non parlare più di lei. Ora dimmi, cos'altro posso fare per te?” Angélique sedeva eretta sulla sedia, come le era stato insegnato da bambina, e lo osservava inquieta tenendo una mano sul grembo e muovendo l'altra per scacciare le mosche. Già due volte gli aveva chiesto “Che cosa intendete per sì e no?” ma lui non l'aveva sentita, come se fosse in trance. Poco prima che lei lasciasse Parigi, lo zio si comportava allo stesso modo e la zia le aveva detto “Lascialo stare, non si sa mai quali demoni dimorano nella mente di un uomo quando è in difficoltà.”

“In quali difficoltà si trova, zietta?” “Ah, chérie, la vita intera è una difficoltà quando ciò che si guadagna non basta a pagare ciò di cui si ha bisogno. Le tasse ci stanno soffocando, Parigi è un pozzo senza fondo di avidità, senza regole morali, e la Francia è di nuovo sul punto di esplodere, il potere del franco cala ogni mese, il prezzo del pane in sei mesi è raddoppiato. Lascialo stare, pover'uomo, fa del suo meglio.” Angélique sospirò. Si, pover'uomo. Domani provvederò, parlerò con Malcolm e lui penserà a far pagare i suoi debiti. Non è giusto che un uomo così buono finisca in prigione. A quanto ammonteranno i debiti? A pochi luigi in fondo... Si accorse che André era tornato in sé e la stava guardando. “Sì e no, André? Cosa significa?” “Sì vuol dire che una medicina del genere esiste, e no che non la potete ancora avere perchè...” “Ma perchè, perchè ...” “Mon Dieu, state buona, così potrò raccontarvi quello che la mama-san mi ha detto. Non la potete ancora avere perchè va presa al trentesimo giorno, e la seconda dose al trentacinquesimo, e anche perchè la bevanda, un'infusione di erbe, dev'essere preparata ogni volta al momento.” Quelle parole infransero la semplicità del piano di Angélique: André le avrebbe dato subito la bevanda, o la polvere, che si era procurato la sera prima e lei dopo averla immediatamente ingerita sarebbe andata a letto adducendo un malessere. Voilà! Un leggero mal di pancia e in poche ore, un giorno al massimo, tutto sarebbe stato perfetto. Per un momento vide il mondo intorno a sé vacillare, ma subito ritrovò il controllo: Basta! Sei sola. Sei l'eroina che le forze del male hanno messo in trappola. Devi essere forte, devi lottare e sconfiggerle! “Dopo trenta giorni?” chiese con voce strozzata. “Sì, e una seconda volta dopo trentacinque. Dovete essere molto precisa e...” “E poi cosa succederà, André? Sarà veloce?” “Per l'amor di Dio, lasciatemi finire. Lei sostiene di sì, che generalmente ha subito effetto e che la seconda dose non sempre è necessaria.” “Ma non c'è niente che io possa prendere fin d'ora?” “No. Non esiste nulla del genere.” “E quest'altra medicina, lei assicura che funziona sempre?” “Sì.” La risposta di Raiko era stata: “Nove volte su dieci. Se la medicina non funziona, ci sono altri modi”. “Volete dire un dottore?” “Sì. Comunque la medicina di solito funziona, ma è molto cara. Devo pagare in anticipo chi la preparerà. Per comprare le erbe, capite.” André tornò a concentrarsi su Angélique. “La mama-san dice che è efficace, ma costosa.”

“Efficace? Sempre? E' innocua?” “Sempre, e innocua. Ma costosa. Deve pagare lo speziale in anticipo, perchè si procuri le erbe fresche.” “Oh” disse lei noncurante, “allora per favore pagate per me, e in breve tempo vi ripagherò tre volte tanto.” Le labbra di lui disegnarono una riga sottile. “Ho già anticipato venti luigi. Non sono un uomo ricco.” “André, ma quanto potrà costare una semplice medicina, una medicina così ordinaria? Non sarà poi così cara.” “Lei mi ha detto, se una ragazza così importante ha bisogno di aiuto, di un aiuto segreto, che importanza può avere il prezzo?” “Certo, caro André.” Angélique accantonò il problema in tono caldo e amichevole, ma ebbe una stretta al cuore per quel comportamento da mercenario. “Fra trenta giorni, grazie all'assegno promessomi da Malcolm, vi pagherò il dovuto, e in ogni caso sono certa che voi, un uomo così abile e saggio, sarete in grado di sistemare la cosa. Grazie, mio caro amico. Per favore comunicatele che sono passati esattamente otto giorni dalla data prevista per le mie mestruazioni. Quando vi darà la medicina?” “Come vi ho già detto, il giorno precedente il trentesimo giorno. Possiamo farcela consegnare o mandare qualcuno a ritirarla il giorno prima.” “I disturbi... quanto dureranno?” André si sentiva molto a disagio, era stanco e furioso per essersi lasciato intrappolare, per quanto grandi e significativi potessero dimostrarsi i vantaggi che ne sarebbero derivati. “Mi ha detto che tutto dipende dal soggetto, dalla sua età, e dal fatto che vi abbia già fatto ricorso prima o meno. Se è la prima volta dovrebbe essere facile.” “Ma per quanti giorni durerà l'indisposizione?” “Mon Dieu, non me l'ha detto, né io gliel'ho chiesto. Se avete domande specifiche scrivetele e farò in modo di farvi avere le risposte. Ora vogliate scusarmi...” Si alzò. Immediatamente lei si lasciò salire le lacrime agli occhi. “Oh, André, grazie, mi dispiace tanto, siete così gentile ad aiutarmi e mi dispiace recarvi disturbo.” Singhiozzò felice di vederlo commosso e addolcito. “Non piangete, Angélique, non sono irritato con voi, non è colpa vostra... Chiedo scusa, per voi dev'essere terribile, ma vi prego, non vi preoccupate, avrò la medicina per tempo e vi presterò tutto l'aiuto necessario, scrivete le vostre domande e nel giro di qualche giorno vi procurerò le risposte. Mi dispiace... Ultimamente non sono stato molto bene...” Angélique aveva finto di confortarlo e dopo la sua partenza era rimasta a guardare High Street oltre le tende piene di mosche, lo sguardo perso nel vuoto, aveva riflettuto

su quanto le era stato detto. Trenta giorni? Non importa. Posso sopportare il ritardo, nessuno se ne accorgerà, si ripeteva nel tentativo di autoconvincersi. Venti giorni in più non sono niente. Per tenere tutto sotto controllo prese il diario, lo aprì con la chiave e iniziò a contare. Rifece il conto una seconda volta giungendo alla stessa data: 7 novembre. Venerdì. Il giorno di san Teodoro. Chi sarà mai san Teodoro? Gli accenderò delle candele ogni domenica. Non c'è bisogno di segnare il giorno, pensò con un tremito. Comunque, appose una piccola croce in un angolo del foglio. Mi dovrei confessare? Dio capisce. LUI capisce tutto. Posso aspettare, ma se... ? Cosa accadrà se non funzionerà, o se André si ammala, scompare o viene ucciso, se la mama-san, o chi perlei, per una ragione tra mille, non manterrà la sua promessa? Questo pensiero la tormentava. Annullava la sua risolutezza. Le sue guance si rigarono di lacrime sincere. Poi, all'improvviso, si ricordò di quanto le aveva detto un giorno suo padre, tanti anni addietro, poco prima di abbandonare lei e il suo fratellino, a Parigi... “Sì, ci ha abbandonati” disse ad alta voce esprimendo per la prima volta quella verità. “E' così. Mon Dieu, per quanto ne so ora, forse è stato meglio così. Ci avrebbe venduti, sicuramente mi avrebbe venduta già molto tempo fa.” Suo padre aveva citato il suo idolo, Napoleone Bonaparte: “Un buon generale prevede sempre un piano di ritirata da cui sferrare l'attacco che gli assicurerà la vittoria finale”. Qual è il mio piano di ritirata? Poi un'osservazione fatta da André Poncin molte settimane prima le si affacciò alla mente. Sorrise, ogni preoccupazione era svanita. Phillip Tyrer stava apponendo in bella grafia gli ultimi ritocchi alla risposta formale di sir William al Roju. Diversamente dalle comunicazioni precedenti, questa volta sir William aveva deciso di inviare l'originale inglese e una copia in olandese che Johann era stato incaricato di redigere. “Ecco, Johann, ho finito.” Completò la coda della B di sir William Aylesbury, K.C.B., con un complicato ricciolo. “Scheiss in mein Hut!” rise Johann. “Mai vista una grafia migliore. Non mi stupisce che zia Willie ti abbia affidato l'incarico di copiare tutti i suoi dispacci.” “Shigata ga nai!” rispose Tyrer senza riflettere. Non importa.

“Lo stai davvero studiando, il giapponese, eh?” “Sì, lo sto studiando, e rimanga tra noi, in nome di Dio non lo dire a Willie, ma mi piace immensamente. Cosa ne pensi di questa sua mossa?” Johann sospirò. “Con questa gente io non faccio supposizioni. Ma mi sembra che i sottintesi giapponesi gli abbiano fuso il cervello.” Il messaggio diceva: A sua Eccellenza reverendissima Nori Anjo, capo del Roju. Ho ricevuto il vostro messaggio di ieri e vi informo che il suo contenuto ci risulta inaccettabile. Se non pagherete in tempo la rata stabilita come risarcimento per l'assassinio di due soldati britannici, la cifra dovuta verrà quadruplicata per ogni giorno di ritardo. Mi dolgo di apprendere che evidentemente voi non comprendete il vostro stesso calendario. Mi premuro all'istante di istruirvi in merito. Salperò per Kyòto sulla mia nave ammiraglia con una scorta tra dodici giorni dalla data di oggi, facendo scalo a Osaka. Da lì, con una scorta a cavallo e il cannone di sessanta libbre di ordinanza della nostra Artiglieria Equestre Reale per i saluti reali, io e gli altri Ministri proseguiremo immediatamente per Kyòto al fine di ottenere soddisfazione per voi dalla Sua giovane Maestà, lo shògun Nobusada in persona o, qualora egli non fosse disponibile, da Sua Altezza Reale, imperatore Komei in persona, assicurandogli l'onore di un saluto di ventun colpi di cannone. Per favore vogliate informarli del nostro imminente arrivo. (firmato) Ministro e Ambasciatore di Sua Maestà Britannica, sir William Aylesbury, K.C.B.... “L'imperatore? Quale imperatore?” disse Johann esprimendo disgusto. “C'è solo il Midako, o Mikado, un nome del genere, e non è che una sorta di papa minore senza potere, non come Pio IX, che si intromette, complotta e si immischia nella politica, e che, come tutti i Gottverdamt cattolici, vuole di nuovo metterci al rogo!” “Dai, Johann, non sono tutti così cattivi. Adesso i cattolici britannici possono votare e persino candidarsi al Parlamento come chiunque altro.” “Peste ai cattolici. Sono svizzero, e noi non dimentichiamo.” “E allora perchè tutte le guardie personali del papa sono svizzere?” “Sono mercenari.” Johann scrollò le spalle. “Dammi la brutta copia del messaggio che mi metto al lavoro.” “Sir William dice che non intendi rinnovare il contratto.” “Per me è arrivato il tempo di cambiare aria e di lasciare il campo a quelli più giovani e più saggi.” Johann improvvisamente gli sorrise. “Come te.”

“Non mi fai ridere affatto. Per favore di' a Nakama di raggiungermi, dev'essere in giardino.” “Non ti fidare di quel bastardo. Meglio che tu stia attento, Phillip.” Tyrer si chiese che cosa avrebbe detto Johann se fosse stato al corrente di tutta la verità. Hiraga aprì la porta. “Hai, Taira-san?” “Ikimasho, Nakama-sensei, vecchio mio, hai?” Vogliamo cominciare? disse Tyrer sorridendo, ancora meravigliato dal cambiamento. Quando quel mattino Hiraga si era presentato all'alba, il sudiciume, gli stracci e soprattutto la capigliatura da samurai erano spariti e portava i capelli tagliati come un giapponese qualsiasi. Sul kimono pulito e inamidato, il nuovo cappello da sole gli pendeva sospeso ai lacci sulla schiena e con i tabi, gli zoccoli nuovi, ora assomigliava al figlio di un ricco mercante. “Dio mio, hai un aspetto fantastico, Nakama” aveva esultato, “quel taglio di capelli ti sta proprio bene.” “Ah, Taira-san” aveva detto Hiraga esitando, con falsa umiltà, secondo il disegno che lui e Ori avevano escogitato. “Quello che dite mi aiuta dimenticare io samurai. Presto tornerò a Choshu, diventerò contadino come mio nonno, o farò birra, o fabbrica sakè. “Dimenticare di essere un samurai? E possibile?” “Hai. Possibile. Per favore, non dire più, sì?” “Va bene, ma è una saggia decisione, congratulazioni.” Involontariamente Hiraga si passò una mano nei capelli, le cui ispide punte gli provocavano un fastidioso prurito. “Presto cresceranno, Taira-san, come i tuoi.” “Perché no?” I capelli di Tyrer, lunghi e naturalmente ondulati, gli arrivavano quasi alle spalle. A differenza di altri, Tyrer teneva molto alla pulizia personale: sul suo letto da sempre era affisso un quadretto ricamato al piccolo punto da sua madre, la Pulizia conduce alla Santità. “Come vanno le tue contusioni?” “Io dimenticate.” “Le ho dimenticate...” “Ah, grazie, le ho dimenticate. Buone novità, Taira-san.” Con molti particolari Hiraga gli aveva raccontato di essersi recato allo Yoshiwara per organizzargli un appuntamento con Fujiko per quella sera stessa. “Lei è vostra, per tutta la notte, bene, vero?” Per un attimo Tyrer era rimasto senza parole. D'impulso aveva afferrato la mano di Hiraga. “Grazie. Amico mio, grazie.” Poi era tornato a sedersi, aveva preso la pipa e offerto il tabacco a Hiraga che aveva rifiutato trattenendo una risata. “E' fantastico.” La mente di Tyrer era corsa all'appuntamento, il cuore gli batteva, fremente di desiderio. “Mio Dio, è fantastico.” A fatica aveva accantonato i prepotenti pensieri

erotici per concentrarsi sui programmi della giornata. “Hai trovato dove sistemarti al villaggio?” “Sì, per favore adesso andiamo?” Durante la loro passeggiata verso il quartiere giapponese, bene attenti a mantenere basso il tono di voce e a non parlare in inglese, Tyrer aveva continuato a interrogare Hiraga, scoprendo informazioni preziosissime, come i nomi dello shògun e dell'imperatore. All'abitazione dello shoya aveva ispezionato il negozio e la dimessa stanzetta in cui Hiraga si sarebbe installato. Poi aveva fatto rientro con lui alla Legazione, pienamente soddisfatto e rassicurato. “Hai visto come lungo la strada sei passato inosservato, anche agli occhi dei soldati, ora che non hai più l'aspetto di un samurai?” “Sì, Taira-san. Mi volete aiutare, prego?” “Certo, in che cosa?” “Vorrei provare indossare tuoi abiti, diventare come gai-jin, sì?” “Magnifica idea!” Di ritorno alla Legazione, Tyrer si precipitò elettrizzato da sir William per comunicargli i nomi dello shògun e dell'imperatore. “Ho pensato ne voleste essere informato immediatamente, signore. Un'altra cosa: se ho capito bene, Hiraga sostiene che tutti i giapponesi, anche i daimyo, devono avere un permesso per poter visitare Kyòto, residenza dell'imperatore.” “Chi sono i daimyo?” “Chiamano così i loro re, signore. E tutti, anche loro, devono farsi dare un permesso per visitare Kyòto. Dice che la Bakufu, che è un altro nome per lo shògunato, una sorta di amministrazione civile, ha paura di concedere il libero accesso alla città.” Aveva cercato di mantenersi calmo, ma le parole sgorgavano a fiotti. “Se questo è vero, e se in questo momento lo shògun si trova là, dove l'imperatore risiede e dove è concentrato ogni sorta di potere, recarvici, signore, non significherebbe scavalcare la Bakufu?” “Un'intuizione ispirata” rispose gentilmente sir William con un sorrisetto. Era arrivato a quella conclusione molto prima che Tyrer finisse di parlare. “Phillip, credo che dovrò modificare il messaggio. Torna tra un'ora, hai prestato un ottimo servizio.” “Grazie, signore.” Gli aveva poi raccontato del “nuovo” Nakama e del suo nuovo taglio di capelli. “Sono convinto che se riuscissimo a convincerlo a indossare abiti europei diventerebbe sempre più malleabile e naturalmente continuerà a insegnarmi il giapponese mentre io gli insegnerò l'inglese.” “Ottima idea, Phillip.” “Grazie, signore, me ne occuperò subito. Posso inviare il conto al nostro tesoriere?” Il buonumore di sir William si incrinò. “Non disponiamo di un esubero di fondi, Phillip, e il Ministero delle Finanze... Va bene. Ma un abito solo. Bada di contenere la spesa.”

Tyrer si era immediatamente congedato e ora, finito il suo lavoro sulla missiva, avrebbe accompagnato Hiraga dal sarto cinese in fondo alla strada. A quell'ora del giorno High Street era deserta, salvo che per alcuni ubriachi ammassati a ridosso dei moli per proteggersi dal vento. A metà pomeriggio gli uomini erano tutti nei loro uffici, a fare la siesta, o al circolo. Più tardi, sulla piazza d'armi, era prevista una partita di calcio, marina contro esercito, e Tyrer era ansioso di assistervi, più di quanto non lo fosse di incontrare Jamie McFay, che lo attendeva dopo il sarto. “E' il capo della Struan qui, Nakama-san, deve essere venuto a sapere di te, e anche del fatto che parli un pò di inglese. Ci si può fidare di lui.” “So ka? Struan? L'uomo che deve sposarsi?” “Oh, i servitori ti hanno parlato della festa di fidanzamento? No, McFay è solo il loro mercante in capo. E' il signor Struan, il tai-pan, quello che sta per sposarsi. In quell'edificio ci sono i suoi magazzini, gli uffici e la sua residenza.” “So ka?” Hiraga studiò attentamente la costruzione. Difficile da attaccare o penetrare, pensò. Le finestre più basse sono protette da sbarre. “Questo Struan, con la sua donna, stanno qui?” Tyrer, pensando a Fujiko, rispose distratto: “Struan abita qui, lei non so. A Londra, questo edificio non sarebbe che una casa qualunque. Ce ne sono a migliaia così. Londra è la città più ricca del mondo”. “Più ricca di Edo?” Tyrer rise. “Più ricca di venti, cinquanta Edo, come si dice in giapponese?” Hiraga glielo spiegò, mentre i suoi occhi acuti scrutavano ogni particolare. Non credeva a quella storia di Londra, era convinto che quasi tutto ciò che Tyrer gli raccontava fosse una bugia inventata per confonderlo. Ora percorrevano la via che fiancheggiava le case a un piano che ospitavano le Legazioni, facendosi largo tra la spazzatura abbandonata dovunque. “Perché bandiere diverse, prego?” Tyrer voleva fare pratica di giapponese, ma ogni volta che ci provava Hiraga gli rispondeva in inglese, subito pronto a incalzare con una nuova domanda. Ciononostante gli fornì la spiegazione, indicando col dito: “Sono le Legazioni: li ci sono quella russa e quella americana, laggiù quella francese e più avanti quella prussiana. La Prussia è una nazione molto importante del Continente. Potrei dire...” “Ah, per favore, hai mappa del tuo mondo?” “Oh, sì, sarò felice di mostrartela.” Un plotone di soldati si avvicinò e proseguì marciando senza prestare loro alcuna attenzione. “Quelli uomini di Prussia” disse Hiraga facendo attenzione a pronunciare la parola correttamente, “fanno guerra anche contro Francia?” “A volte. A loro piace combattere, sono sempre in guerra con qualcuno. Hanno da poco un nuovo re, il cui principale sostenitore è un principe

potente di nome Bismarck, che cerca di riunire tutti i popoli che parlano tedesco in un'unica grande nazione e...” “Per favore, Taira-san, scusa, non così veloce, sì?” “Ah gomen nasai.” Tyrer ripeté la spiegazione più lentamente, rispondendo a nuove domande, ogni volta più stupito dalla curiosità, dall'attenzione e dalla prontezza mentale del suo protetto. Rise. “Dobbiamo fare un patto, un'ora sul mio mondo in inglese, un'ora sul tuo in inglese e un'ora di conversazione in giapponese. Hai?” “Hai. Domo.” Quattro uomini a cavallo diretti all'ippodromo li raggiunsero, salutarono Tyrer e fissarono Hiraga con curiosità. Tyrer ricambiò il saluto. Al termine di High Street, all'altezza della barriera, centinaia di coolie carichi degli arrivi pomeridiani di mercanzie e cibo aspettavano davanti all'edificio della Dogana sotto gli occhi attenti dei samurai di guardia. “Meglio affrettarci, se non vogliamo mescolarci a quella folla di gente” disse. Attraversò la strada evitando gli escrementi dei cavalli, poi all'improvviso si fermò e agitò la mano. Avevano appena superato la Legazione francese. Angélique, scostate le tende, si era affacciata alla finestra della sua stanza, al pianterreno. Sorrise e rispose con la mano al saluto. Hiraka finse di non notare il suo sguardo indagatore. “E la signora che il signor Struan sta per sposare” Tyrer spiegò riprendendo il cammino. “Bella, vero?” “Hai. Quella è casa sua, sì?” “Sì.” “Buonanotte, signor McFay. Ho chiuso tutto.” “Grazie. Buonanotte, Vargas.” McFay trattenne uno sbadiglio e riprese a scrivere il suo diario, l'ultima incombenza di una giornata di lavoro. A parte i giornali delle due ultime settimane ancora da leggere, la sua scrivania era in ordine, il ripiano della posta in arrivo vuoto, quello della posta in partenza invece, traboccante di lettere di sollecita risposta, ordinativi, distinte di carico già aggiornate e firmate, era pronto per essere svuotato all'alba, alla ripresa delle attività. Vargas si grattò distrattamente una puntura di pulce, una consuetudine in Asia, e posò la chiave della camera blindata sul tavolo. “Devo portarvi un'altra lampada?” “No, grazie, ho quasi finito. A domani.” “Domani verranno i choshu, per le armi.” “Sì, non l'ho dimenticato, buonanotte.” McFay fu molto contento di restare un pò solo, tranquillo con se stesso nel suo ufficio a pianterreno. Eccetto Vargas, tutti gli impiegati, i contabili e gli altri membri della compagnia

avevano i loro quartieri in fondo al magazzino, nell'altra ala del palazzo e la porta di comunicazione tra le due sezioni di notte veniva chiusa. Sul lato che dava sulla strada, in cui c'erano gli uffici e la camera blindata dove si custodivano le armi, i registri e le casseforti con i dollari messicani d'argento, i tael d'oro, le monete giapponesi, vivevano, oltre a McFay, Struan e Vargas solo Ah Tok e i loro inservienti personali, al piano superiore. Quando arrivava la posta c'era sempre molto lavoro da sbrigare, spesso fino a notte inoltrata, ma quella era stata una serata davvero intensa perchè, non appena aveva ricevuto da Nettlesmith l'ultimo capitolo di Grandi Speranze, McFay era corso a condividere il suo entusiasmo e a leggerlo pagina dopo pagina con Malcolm Struan, poi era ridisceso, felice che Pip e la sua ragazza se la fossero cavata e soddisfatto della prospettiva di un nuovo romanzo di Dickens annunciato per il numero seguente. L'orologio del nonno ticchettava piacevolmente. Con la sua grafia nitida e scorrevole scrisse: MS si è infuriato per la lettera di sua madre giunta con la posta di oggi (piroscafo Swilt Wind, un giorno di ritardo, un uomo perso in mare causa tempesta al largo di Shanghai, attaccato dalle batterle di terra nello Stretto di Shimonoseki con una ventina di cannonate, nessun danno, grazie a Dio!). La mia risposta alla cannonata della signora S è stata melliflua (ancora non le è giunta notizia della festa, che provocherà un'esplosione da Hong Kong fino a Giava) ma dubito che riuscirà a calmare le acque. Le ho scritto che A si è trasferita alla Legazione francese ma questo per la signora S non significherà molto, mentre MS per tutto il giorno ha lamentato che A non gli abbia fatto visita, torturando di nuovo Ah Tok e mettendola di pessimo umore, che lei ha trasmesso a tutti gli altri servi, ahi! Devo riconoscere, che nonostante tutto il suo dolore, MS è molto più saggio di quanto immaginassi, ha un fiuto eccellente per gli affari e in particolare per il commercio internazionale e ora condivide il mio punto di vista sul grande potenziale di questo posto. Abbiamo discusso del problema dei Brock e ci troviamo d'accordo sul fatto che da qui non sia possibile agire ma che non appena tornerà a HK li affronterà. Si è rifiutato ancora una volta di far ritorno con il postale, Hoag temporeggia e non mi sostiene, dice che più a lungo Malcolm riposa qui meglio sarà, che per lui affrontare un viaggio così difficile potrebbe essere pericoloso. Ho avuto un primo incontro con il giapponese Nakama (non dev'essere il suo vero nome) che è certamente molto più importante di quanto finge di essere. Un samurai, un fuorilegge ronin, che parla un pò di inglese, che si sarebbe tagliato i capelli perchè ha deciso di abbandonare la sua

condizione di samurai e che vuole indossare i nostri abiti, dev'essere fuori dalla norma, e va seguito con attenzione. Se la metà di quello che dice corrisponde al vero, abbiamo fatto i grazie a Tyrer, sia benedetto, un grande passo avanti. Peccato che Nakama non sappia niente di affari, l'unica informazione utile che ci ha fornito è che il maggiore centro commerciale del Giappone è Osaka, e non Edo, quindi dovremmo ottenere quanto prima l'accesso a quella città. Nakama va sicuramente curato e... Sentì bussare contro una delle imposte. Diede un'occhiata all'orologio: erano quasi le dieci. Un'ora di ritardo. Non importa, il tempo in Asia non corre come da noi. Senza fretta si alzò, fece scivolare la rivoltella nella tasca laterale della finanziera, andò verso la sua porta privata e l'aprì. Fuori attendevano due donne avvolte in mantelli con il cappuccio e accompagnate da un servitore. Si inchinarono. Invitò le donne a entrare, allungò qualche moneta all'uomo che lo ringraziò e si inchinò di nuovo sparendo nella viuzza secondaria che portava allo Yoshiwara. McFay richiuse la porta. “Salve, Nemi, voi tutte belle, eh?” Sorrise e abbracciò una delle donne. Sotto il cappuccio la ragazza sorrise, sembrava scintillare. Era la sua musume da un anno e da sei mesi lui la manteneva. “Salve, Jami-san, stai bene, sì? Questa musume mia sorella, Shizuka. Carina, vero?” L'altra ragazza aveva scostato nervosamente il cappuccio accennando un sorriso. Lui ritrovò il respiro, Shizuka era giovane come Nemi e non meno fresca e attraente. “Hai!” disse. Le due ragazze sospirarono di sollievo: il primo esame era stato superato. Era la prima volta che McFay si trovava a scegliere una ragazza per qualcun altro. Imbarazzato, aveva chiesto a Nemi di insistere con la mama-san che la ragazza era per il tai-pan e doveva essere speciale. Le ragazze avevano poco più di vent'anni e gli arrivavano a malapena alle spalle. Ora si sentivano un pò più a loro agio, pur sapendo entrambe che il vero ostacolo era ancora da superare. “Shizuka, sono contento di conoscerti. Tai-pan uomo importante” disse con gentilezza, poi si rivolse a Nemi toccandosi il fianco all'altezza della ferita di Struan. “Sa della ferita, vero?” Nemi annuì con un sorriso smagliante. “Hai, io spiegato, Jami-san! Dozo, mantello qui o sopra?” “Di sopra.” Le precedette verso la grande scala bene illuminata dalle lampade a olio, mentre Nemi parlottava alla nuova ragazza che aveva gli occhi

sgranati dallo stupore. Era sua abitudine, di tanto in tanto, mandare a chiamare Nemi affinché passasse la notte da lui; il servo tornava poco prima dell'alba per riaccompagnarla alla piccola dimora che le aveva comprato all'interno del recinto della sua casa, la Locanda della Gioia Straripante. L'affitto dell'abitazione per cinque anni, dopo lunga contrattazione, gli era costato dieci sovrane d'oro. E altre dieci gli era costato il contratto con lei per lo stesso periodo, più gli extra per un nuovo kimono al mese, il parrucchiere, una cameriera personale e il vitto, sakè incluso. “Ma mama-san, e se il fuoco dovesse distruggere la casa?” aveva chiesto lui, spaventato di aver accettato un prezzo così alto, nonostante i tassi di cambio straordinariamente vantaggiosi consentissero a quelli della compagnia un profitto del quattrocento per cento al mese, il che perciò significava che lui poteva mantenere uno o due cavalli, bere champagne a volontà, e cosa più importante, pagare tutte le spese correnti di Nemi poche sterline all'anno. La mama-san si scandalizzò. “Costruzione come nuova. Paghi metà prezzo, giusto.” Nemi, presente alla trattativa finale, si mise a ridere. “In casa molto fuoco, Jami-san, molto jig jig, neh?” In cima alle scale, McFay l'abbracciò ancora senza una ragione precisa, forse solo perchè aveva dimostrato di valere ogni centesimo speso per lei, sempre offrendogli pace e piacere infiniti. Nemi si sfilò il mantello con il cappuccio e lo appoggiò insieme a quello di Shizuka sulla massiccia sedia dall'alto schienale, sul pianerottolo. Indossavano kimono graziosi e puliti e i loro capelli erano ben acconciati: le crisalidi si erano trasformate in farfalle. Soddisfatto di sé, McFay bussò alla porta. “Avanti.” Malcolm Struan era seduto nella sua poltrona, con un mozzicone di sigaro tra le dita, elegante nella sua veste da camera ma in realtà piuttosto a disagio. “Buonasera, Jamie.” “Buonasera, tai-pan.” Le due ragazze si inchinarono con deferenza. McFay non si rendeva conto che ogni particolare su Malcolm Struan, ma lo stesso valeva per lui e quasi tutti i gai-jin, la sua enorme ricchezza, la sua recente investitura a tai-pan, le circostanze del suo ferimento e ora il suo imminente matrimonio fossero di dominio pubblico allo Yoshiwara e argomenti di pettegolezzi avidi e continui. “Questa è Shizuka, si fermerà con voi. Il servo arriverà prima dell'alba e ogni cosa è come vi ho anticipato. Busserò alla porta. La ragazza sarà forse un pò timida all'inizio, ma insomma, non sarà un problema. Questa invece è la mia musume, Nemi. Ho... ho pensato che la sua presenza potesse essere d'aiuto

nella presentazione.” Le due ragazze si inchinarono ancora. “Buonasera, tai-pan” disse tranquillamente Nemi, contenta di incontrarlo e fiduciosa nella scelta: “Shizuka mia sorella, buona musume, sì!”. Annuì decisa e diede a Shizuka una piccola spinta. La ragazza si avvicinò esitante a Struan e dopo essersi inginocchiata si inchinò di nuovo. “Io sarò nella mia stanza, se avrete bisogno di me.” “Grazie, Jamie.” McFay chiuse silenziosamente la porta e si inoltrò nel corridoio. Il suo appartamento era lindo, virile e confortevole. Tre stanze, salotto, camera da letto e una seconda camera, ciascuna dotata di un camino, e un bagno. Sul buffet lo aspettava uno spuntino freddo, affettati, pane fresco, e la torta di mele appena sfornata che Nemi adorava, preparata con mele importate da Shanghai. Il sakè in un recipiente pieno di acqua calda e il whisky Loch Vey, che veniva dalle distillerie della Struan e che lei preferiva. Non appena la porta fu chiusa Nemi si alzò in punta di piedi e lo baciò con trasporto. “Non visti sei giorni, prima letto poi bagno!” disse, invertendo l'ordine abituale. Lui non aveva fretta ma il suo cuore sobbalzò. Lei lo prese per mano, lo condusse in camera e lo sospinse sul letto, si chinò per togliergli gli stivali e mentre lo spogliava, sempre parlottando nel suo quasi incomprensibile pidgin, gli disse che lo Yoshiwara ferveva di attività, il Mondo Fluttuante prosperava, di non preoccuparsi per Shizuka, perchè era cara, si, ma la migliore. Gli chiese come mai si vociferasse di guerra, per favore, noi non vogliamo guerra, solo affari, gli raccontò del suo nuovo kimono tutto ricamato con carpe della fortuna, certo, un pò caro, “ma ichihan, Jami-san, ti piacerà molto. Letto!” Obbediente, McFay si infilò nel letto a baldacchino. La notte era perfetta, nè calda né fredda. Lei si slegò l'obi, lasciò cadere il kimono, poi il sotto kimono e la biancheria. Nuda, senza vergogna né imbarazzo per la propria nudità come tutte le musume, una delle tante caratteristiche che le distinguevano, qualità che McFay e tutti i gai-jin trovavano straordinaria e invidiabile si tolse le forcine dai capelli, scosse la testa lasciando cadere le chiome fino alla vita e camminò trionfante verso il bagno per il primo dei piaceri della notte. Si sedette sul water, allungò la mano per afferrare la catenella e tirò. L'acqua scrosciò nella tazza di porcellana e, come sempre, lei applaudi con gioia. La prima volta che lo aveva visto non voleva crederci. “Dove va l'acqua?” chiese sospettosa. Lui glielo spiegò aiutandosi anche con qualche disegno ma lei non gli credette fino a che non le ebbe mostrato i tubi e la botola della fossa settica in giardino, tutti i tubi, le cisterne, gli

scaldabagni, le tre vasche da bagno, le tazze, le vaschette, i rubinetti e i lavandini erano importati dall'Inghilterra, da Hong Kong e Shanghai, dove già si producevano in quantità per gli importanti mercati dell'India e dell'Asia. Lo pregò di poterli mostrare alle sue amiche, e lui acconsentì con orgoglio, perchè quello, con grande invidia di sir William e somma irritazione di Norbert Greyforth, era stato il primo impianto di tutto il Giappone, modello di una decina di copie più o meno funzionanti, sebbene non tutte dotate di acqua calda e fredda: solo i prodotti migliori e più moderni, rigorosamente inglesi, per gli Struan. Così la visita guidata al bagno di Jami-san era divenuto uno dei percorsi favoriti nella Yokohama gai-jin delle musume più fortunate che tra molti inchini e cinguettando come stormi di uccelli esotici, si inchinavano, trattenevano il respiro e tiravano la catenella con esclamazioni di stupore e ammirazione. Nemi si lavò le mani. Poi, con un sospiro felice, si infilò sotto le lenzuola. Phillip Tyrer era stremato e stava quasi dormendo. Fujiko, non scomoda sotto il suo peso, dopo qualche minuto tuttavia cominciò a spostarsi. “Iyé, matsu. No, non te ne andare... aspetta” mormorò lui. “Voglio soltanto prendere un asciugamano, Taira-san. Asciugamano, capisci?” “Ah, sì Capisco asciugamano. Stai qui, vado io...” “Oh no, impossibile, mio dovere. Lasciami andare... non offenderti, non arrabbiarti.” Ridacchiò mentre lui cercava di trattenerla e si fermò, ma solo in attesa di poter espletare il suo compito. Ora la piccola stanza era silenziosa. Fuori, la notte era calma. Il vento faceva frusciare alberi e cespugli. Brevi folate li raggiungevano attraverso le finestre scorrevoli, ma non erano ancora fredde né fastidiose. La lampada a olio tremolava. In un attimo lei scivolò via senza disturbare il suo riposo e andò nel piccolo bagno dall'alta vasca di legno, piena di acqua calda, posata su una griglia di legno per consentire la fuoriuscita dell'acqua quando veniva tolto il tappo. Sapone profumato, vaso da notte e asciugamani puliti. Si lavò e asciugò in fretta. Tornò nella stanza portando con sé un asciugamano caldo, lo passò con cura sul corpo di lui e lo asciugò. Tyrer teneva gli occhi ben chiusi e quasi gemeva dal piacere, intimamente imbarazzato per quelle attenzioni. “Ah, Fujiko-chan, sei magnifica.”

“No, è un mio piacere” rispose lei che da tempo aveva superato l'imbarazzo per quelle strane abitudini dei forestieri: si facevano il bagno di rado, spesso si consumavano di colpa e vergogna per i piaceri del letto, erano sorprendentemente possessivi e di solito si infuriavano all'idea che frequentasse altri clienti, stupidi, loro chi erano se non clienti?, si voltavano, arrossendo, quando si spogliava per la loro gioia, si coprivano anche quando erano nudi solo a metà, preferendo fornicare al buio mentre gran parte del piacere consiste nel guardare, esaminare e osservare, e diventavano paonazzi quando tentava normali variazioni per evitare la noia e prolungare e aumentare gli Incontri con gli Dei, il tempo delle Nuvole e della Pioggia. No, i gai-jin non sono come noi. A loro piace soprattutto la Prima Posizione di Fretta, a volte anche Stuzzicare la Gallina o il Tempo dei Ciliegi in Fiore, non mi consentono mai di dimostrare la mia abilità, e quando, alla luce, vorrei dispormi a giocare con il Monaco Guercio i giochi che lo alzano, Vicino e Lontano, Sul Dorso del Drago, Semina di Primavera e Rubare il Miele, che anche il giovane più inesperto pretenderebbe e godrebbe, un gai-jin si sottrae, con gentile fermezza mi solleva per farmi sdraiare al suo fianco, mi bacia il collo, mi tiene stretta e borbotta frasi incomprensibili. “Ora ti massaggio per farti addormentare.” “Non capisco.” “Massaggio, Taira-san. Così.” “Ah, ora capisco. Massaggio, grazie.” Le dita di lei erano delicate e meravigliose e si lasciò trasportare, quasi incredulo davanti a tanta fortuna, felice della propria prestazione e che lei avesse raggiunto l'estasi tre volte almeno mentre lui una volta soltanto, poco importava che l'indomani, come aveva detto Raiko, Fujiko si sarebbe recata nel suo villaggio, vicino a Edo, per visitare il nonno malato, ”... ma solo per pochi giorni, Taira-san.” “Oh, mi dispiace molto, Raiko-san. Per favore, quanto via?” “Per quanti giorni lei starà via. Solo tre.” “Ah, grazie. Per quanti giorni lei starà via?” Tyrer ripeté, aveva chiesto sia a lei che a Fujiko di correggerlo sempre quando sbagliava. Tre giorni. Mi darà il tempo di riprendermi. Dio mio, questa è stata magnifica. Chissà cosa accadrà quando il Roju riceverà il nostro messaggio. Sono certo di aver dato il suggerimento giusto e che Nakama stia raccontando la verità. Dio, gli devo tantissimo, sir William era proprio soddisfatto, quanto a Fujiko... Cullata dal tocco delle sue mani, la mente di Tyrer cominciò a fantasticare su di lei, su Nakama, sulla sua permanenza in Giappone, dove tutto era così diverso, sullo studio del giapponese, con quelle parole lunghissime e le frasi

scombinate che scivolavano via. I futon erano duri e non era facile abituarcisi, ma ora vi giaceva con piacere, così prono, e godeva nel sentirla vicina a sé. Ma Dio, come sono stanco. Non posso tollerare l'idea di “altri clienti”. Devo farla mia, solo mia. Domani chiederò ad André di aiutarmi. Senza voltarsi spostò il braccio e le posò una mano sulla coscia. Che serica morbidezza. Dov'ero? Ah, sì, il Roju. Daremo a quei bastardi quello che si meritano. Quelle canaglie hanno anche bombardato il postale; dobbiamo neutralizzare Shimonoseki e se la fottuta Bakufu non lo farà, elimineremo noi stessi quei cannoni. Devo stare attento a come ne parlo con Nakama, è pur sempre un choshu. E se me ne servissi come mediatore? Se il Roju non neutralizzerà quei dannati Sutsuma toccherà a noi annientarli. Che fottuta faccia tosta, il daimyo sostiene di non sapere chi siano gli assassini di Canterbury, ma se sono usciti dai suoi ranghi, per Dio, li ho visti staccare il braccio a Canterbury e il sangue che schizzava... Le dita di lei si fermarono. “Che ti succede, Taira-san?” Per scacciare il ricordo della Tokaidò, l'abbracciò senza pensare a niente e quando il tremore fu placato si distese supino, la trascinò verso di sé e si avvinse al suo tiepido corpo sinuoso, amandola, grato di poter aspettare vicino a lei che il dolore tornasse sul fondo da cui era emerso. Anche lei giaceva quieta, in attesa, ma pensava a lui solo per ripetersi una volta di più che i gai-jin erano strani, al di là di ogni comprensione. Riposare accanto a lui era piacevole ed era contenta che la prima prestazione del suo cliente fosse andata bene e che lui sembrasse soddisfatto, perchè voleva dire che si era guadagnata anche il premio sul compenso. Nel comunicarle l'appuntamento, quella mattina, mama-san Raiko le aveva annunciato un aumento della tariffa: “Solo con Taira, perchè dovrai lavorare di piti. Bada, Fujiko, se staremo attente e gli piacerai, per te potrebbe essere un pesce grosso, un cliente a lungo termine molto migliore di Kanterburysan. Furansusan mi ha detto che è un addetto importante, per cui cerca di accontentarlo. Devi parlare solo giapponese, non pidgin, e fargli da maestra. Incoraggialo, ricorda che è grottesco per quanto è timido e non sa niente, e non menzionare mai Kanterbury. Fingeremo che dovrai assentarti per qualche giorno ma non ti preoccupare, ho altri due clienti per domani, nel pomeriggio un gai-jin e alla sera una persona come si deve. Con un protettore generoso per un paio d'anni, pensò lei, potrei pagare

velocemente tutti i miei debiti e godere di una vita molto migliore, non sarei più costretta ad accettare il primo che capita. Poi, come sempre cercava di fare quando era con un cliente, abbandonò il presente per proiettarsi nel futuro, dove l'attendevano un ricco marito e quattro o cinque figli e una vita felice. Vedeva la loro grande fattoria circondata da campi di riso verdeggianti di teneri germogli in inverno e di colture che promettevano un altro abbondante raccolto in primavera, una suocera gentile e contenta di lei, i buoi legati all'aratro, i fiori nel giardinetto e... “Ah, Fujiko. Grazie, sei magnifica!” Lei gli si accoccolò più vicino e si complimentò per quanto fosse forte e virile. “Cosa?” chiese lui con aria assonnata, e quando la sua mano gli rispose con intimità, si divincolò. “No, Fujiko, per favore, prima dormire. No... per favore dopo...” “Ah, ma un uomo forte come te...” mormorò lei nascondendo la noia, e continuò coscienziosamente. Ori sbadigliò e allontanò l'occhio dallo spioncino. “Ne ho visto abbastanza” bisbigliò. “Impressionante.” “Sono d'accordo.” Anche Hiraga parlava a voce bassa. “Terribile. La prestazione di Fujiko è stata la peggiore che io abbia mai visto. Baka!” “Se io fossi Taira chiederei i soldi indietro.” “Sono d'accordo. Baka! Lei ci mette delle ore a eccitarlo e quanto a lui... solo la Prima Posizione, una sola volta e davvero di fretta! Dieci colpi e puf! Passato sulla Luna come un'anatra.” Ori dovette tapparsi la bocca con una mano per non scoppiare a ridere, poi richiuse accuratamente i buchi che avevano fatto nell'angolo più alto dello shoji con dei pezzetti di carta. Insieme si dileguarono tra i cespugli e, usciti dal cancello segreto del recinto, guadagnarono l'abitazione di Ori. “Sakè!” La cameriera semiaddormentata posò il vassoio davanti a loro e si allontanò, rinunciando a gettare un'altra occhiata ai loro strani tagli di capelli. Brindarono e riempirono di nuovo le tazze. La stanza era piccola e piacevole, illuminata da una candela, con i futon già distesi nella camera adiacente. Le spade giacevano su bassi ripiani laccati: Raiko aveva fatto loro una concessione alla regola dello Yoshiwara che vietava le armi all'interno delle muta perchè erano shishi, perchè Hiraga aveva una taglia sulla testa, e perchè entrambi avevano giurato su sonno-joi di non usarle contro nessuno della casa e contro nessun ospite ma solo per difendersi. “Hiraga, non posso credere che Taira si sia lasciato ingannare dai falsi

Incontri con gli Dei di Fujiko, uno dopo l'altro in quel modo! Una pessima recita. Ma è così stupido?” “Ovviamente.” Hiraga rise sfregandosi con forza le tempie e la nuca. “Accidenti, con quella sua arma enorme avrebbe davvero potuto farla urlare, tutti i gai-jin sono fatti così?” “Che importa, nel suo caso è sprecata.” “Manca di fierezza, Ori! Potrei procurargli uno dei libri sull'amore destinati alle spose vergini, non credi?” “Meglio uccidere lui e tutti gli altri e dare fuoco all'Insediamento.” “Abbi pazienza, lo faremo, c'è tempo ancora.” “E' un bersaglio perfetto, e questa è un'altra occasione perfetta” esclamò Ori lasciando trasparire un filo di irritazione. Hiraga lo guardò senza alcuna cordialità. “Sì, ma non ancora, lui è troppo importante.” “Hai detto tu stesso che se li provochiamo al punto giusto bombarderanno Edo a tutto vantaggio della nostra causa.” “Sì, hai ragione, ma non c'è fretta.” Per calmarlo e fargli ritrovare il controllo, Hiraga si sforzò di nascondere la sua preoccupazione. “Taira sta rispondendo a tutte le mie domande. Per esempio, chi prima di lui ci aveva informato che i gai-jin litigano tra loro come cani selvatici, peggio dei daimyo prima di Toranaga? L'Olandese ce lo aveva nascosto, non è così?” “Sono tutti barbari e bugiardi.” “Sì, ma ci devono essere altri migliaia di frammenti di informazioni come questa, utili a indicarci la via per giocarli e sconfiggerli. Dobbiamo imparare tutto, Ori, e poi, quando faremo parte della nuova Bakufu, metteremo tedeschi contro russi contro francesi contro britannici contro americani...” Hiraga rabbrividì ricordando quel poco che Tyrer gli aveva raccontato della Guerra Civile, delle battaglie e dei morti, delle armi moderne, delle centinaia di migliaia di uomini coinvolti e della incredibile vastità delle terre dei gaijin. “Questa sera mi ha detto che la marina britannica governa tutti gli oceani del mondo e, per legge, è grande il doppio delle due che le sono seconde messe insieme, con migliaia di navi da guerra, migliaia di cannoni,” “Bugie. Esagerazioni per spaventarti. Lui, tutti loro vogliono intimidirci, e tu non fai eccezione. Anche lui vuole i nostri segreti!” “Gli dico solo quello che voglio fargli sapere.” Irritato, Hiraga ruttò. “Ori, dobbiamo capire chi sono! Questi cani hanno conquistato gran parte del mondo, hanno umiliato la Cina e incendiato Pechino, e quest'anno la Francia ha conquistato la sovranità sulla Cocincina e sta per colonizzare la

Cambogia.” “Sì, ma i francesi hanno messo i principi locali uno contro l' altro come gli inglesi in India. Qui siamo in Giappone. Noi siamo diversi, questa è la Terra degli Dei. Con tutti i cannoni del mondo non riusciranno a conquistarci.” E viso di Ori si contrasse in una strana smorfia. “Se anche convincessero qualche daimyo a stare dalla loro, anche in quel caso, il resto di noi li massacrerebbe.” “Non senza cannoni ed esperienza.” “Senza cannoni sì, Hiraga-san.” Hiraga alzò le spalle e versò da bere a entrambi. Molti shishi condividevano l'ardore di Ori e avevano dimenticato Sun-tzu: Conosci il tuo nemico come te stesso e vincerai cento battaglie. “Spero che tu abbia ragione, ma nel frattempo io scoprirò tutto quello che posso. Mi ha promesso che domani mi porterà una mappa del mondo, lui la chiama “atlante”.” “Come farai a sapere che non sia finta?” “Non è verosimile che ne abbiano falsificata una. Forse potrei anche farmene dare una copia, la potremmo far tradurre, anche i loro libri di scuola.” Hiraga si stava infiammando di entusiasmo. “Taira dice che stanno facendo grandi progressi nei calcoli, li insegnano anche nelle scuole, e nelle misure astronomiche chiamate “longitudine” e “latitudine” Hiraga pronunciò quelle parole con difficoltà, “che li guidano con incredibile precisione sugli oceani, migliaia di miglia lontano da terra. Baka che ne sappia così poco! Baka non poter leggere l'inglese!” “Imparerai” disse Ori, “io mai. Tu farai parte del nostro nuovo governo, io no.” “Perché dici così?” “Io sono un devoto di sonno-joi, ho già pensato alla poesia per la mia morte e l'ho recitata. L'ho recitata a Shorin, la notte dell'attacco. Baka che sia stato ucciso così presto.” Ori svuotò la sua tazza di sakè, vi versò le ultime gocce rimaste nella fiaschetta e ne ordinò un'altra. Fissò Hiraga attentamente. “Ho sentito che il tuo signore Ogama è disposto a perdonare tutti gli shishi di Choshu che rinnegheranno pubblicamente sonno-joi.” Hiraga annuì. “Mio padre me lo ha scritto. Per noi, shishi di Choshu, non significa niente.” “Si dice che Ogama controlli le Porte e ne escluda chiunque altro, e che sia in corso un nuovo scontro tra le sue truppe e quelle di Satsuma.“ “Molti daimyo di quando in quando si sbagliano, capita” disse Hiraga con calma, preoccupato per la piega che stava prendendo la conversazione e notando come Ori, da ubriaco, fosse ancora più litigioso. Quella sera Raiko lo aveva avvisato che Ori era un vulcano in eruzione. “Abbiamo concordato da tempo di non dipendere dai successi o dalle malefatte dei nostri capi ereditari.” “Se Ogama mantenesse il controllo sulle Porte, potrebbe restituire il potere

all'imperatore e fare di sonno-joi una realtà.” “Forse lo farà, forse lo ha già fatto.” Ori vuotò la tazza di sakè. “Sarò contento di lasciare Yokohama. Qui l'aria è avvelenata. Meglio che tu venga a Kyòto con me. Questo covo di bugiardi potrebbe infettarti.” “Senza di me sulla strada per Kyòto sarai più al sicuro. Mi riconoscerebbero anche senza capelli.” Una folata di vento improvvisa sollevò la paglia del tetto e fece sbattere un'imposta semiaperta. La fissarono per un attimo e poi tornarono a bere. Il sakè li aveva sciolti, ma non aveva cancellato le loro preoccupazioni sotterranee, i pensieri sulla morte e sugli agguati che li attendevano, né il progetto di imboscata allo shògun Nobusada, Shorin e Sumomo, e soprattutto, cosa fare della ragazza gai-jin? Hiraga non ne aveva parlato e Ori si era fino a quel momento astenuto dal chiedere di lei ma erano entrambi in attesa, e tutti e due giravano intorno a quel problema centrale, impazienti e al tempo stesso esitanti. Fu Ori a rompere il silenzio. “Domani quando arriverà Akimoto, quanto hai intenzione di raccontargli?” “Tutto quello che sappiamo. Farà il viaggio a Kyòto con te.” “No, meglio che si fermi, avrai bisogno di un guerriero.” “Perché?” Di nuovo Ori alzò le spalle. “Due è meglio di uno. In questo momento” disse brusco, “dimmi dov'è lei.” Hiraga descrisse l'edificio con precisione. “Non ci sono sbarre alla finestra né alla porta laterale, per quello che ho visto.” Per tutto il giorno si era chiesto come risolvere il problema di Ori. Se Ori avesse fatto irruzione in quella casa e l'avesse uccisa, che sopravvivesse o meno, tutto l'Insediamento si sarebbe sollevato, vendicandosi contro ogni giapponese a portata di mano. “Sono d'accordo che lei sia un giusto bersaglio per sonno-joi ma non è ancora il momento, non finché non mi avranno accettato e insegnato i loro segreti.” “Un bersaglio così perfetto va colpito subito, Katsumata dice che esitare è perdere. Possiamo impadronirci dei loro segreti dai libri.” “Te l'ho già detto: non sono d'accordo.” “Quando l'avrò uccisa, tutti e tre daremo fuoco allo Yoshiwara e quindi all'Insediamento, poi approfitteremo della confusione per ritirarci. Lo faremo tra due giorni.” “No.” “Io dico di sì! Due o tre giorni, non di più!” Hiraga pensò a Ori e a quel piano con molta attenzione. Freddamente. Poi sentenziò: “Te lo proibisco”. Quelle parole definitive colpirono Ori come uno schiaffo. Era la seconda volta in pochi giorni. Ed entrambe le volte riguardavano lei.

Ora la stanza era immersa nel silenzio. Restarono impassibili. Il vento, fuori, si andava calmando, ma di tanto in tanto faceva scricchiolare la carta oleata dello shoji. Ori centellinava il sakè e la sua implacabile determinazione lo faceva ribollire. Sapeva che se la sua forza e la sua agilità fossero state quelle di una volta avrebbe già impugnato la spada per difendersi dall'aggressione verbale di Hiraga, inevitabile, se Hiraga non gli avesse chiesto scusa. Non importa. In uno scontro diretto, anche se fossi in perfetta forma, mi colpirebbe per primo. Pertanto dovrò toglierlo dal mio cammino con un altro sistema. Deciso a sfidare quel nuovo nemico così determinato a ostacolarlo, Ori giurò che non sarebbe stato il primo a rompere il silenzio e a perdere la faccia. La tensione tra loro crebbe. In pochi secondi divenne insopportabile, pronta a esplodere Si udirono passi affrettati. Lo shoji si scostò. Raiko era terrorizzata. “Le truppe della milizia Bakufu hanno occupato il ponte e la porta. Dovete scappare. Presto!” Dimentichi di tutto balzarono in piedi e si affrettarono a impugnare le spade. “Entreranno nello Yoshiwara?” le chiese Ori. “Sì, a gruppi di due o tre, lo hanno fatto altre volte, lasciano stare i gai-jin, ma non noi.” La voce e le mani di Raiko tremavano. “E' possibile scappare attraverso le risaie?” “Per le risaie non si va da nessuna parte, Ori” rispose Hiraga per lei, avendo già studiato quella possibilità il giorno prima. “La terra è piatta e per un ri non offre rifugio. E se hanno occupato la porta e il ponte saranno anche lì.” “E la zona dei gai-jin, Raiko?” “L'Insediamento? Non ci entrano mai...” Si girò di scatto, ancora più spaventata, e i due uomini misero mano alle spade. Giunse di corsa una cameriera bianca in viso. “Sono nel vicolo, perquisiscono casa dopo casa” piagnucolò. “Avvisa gli altri.” La ragazza fuggì via. Hiraga cercò di pensare in fretta. “Raiko, dov'è il tuo nascondiglio, la tua cantina segreta?” “Non ne ho” rispose lei torcendosi le mani. “Ce ne dev'essere una qui in giro.” All'improvviso Ori si mosse verso di lei e la fece arretrare terrorizzata. “Dov'è il passaggio segreto per l'Insediamento? Veloce!” Quando lo vide impugnare meglio la spada, sebbene ancora la minaccia non fosse esplicita, Raiko capì di rischiare la morte e quasi svenne. “Io... per l'Insediamento? Non ne sono sicura ma anni fa mi è stato detto... Me ne ero dimenticata” disse tremando. “Non ne sono sicura ma... per favore seguitemi in silenzio.” Affondarono dietro di lei nel folto dei cespugli, incuranti dei rami che cercavano di ostacolarli. La luna era ancora bella e alta tra le nuvole che

correvano spinte dal vento. Giunta a una zona nascosta del recinto che separava la sua locanda da quella limitrofa, Raiko premette un nodo nel legno. Il cancelletto segreto scricchiolò sui vecchi cardini di legno mai usati. Senza attirare l'attenzione dei chiassosi avventori condusse i due giovani attraverso il secondo giardino, entrò in un terzo, poi si portò dietro la bassa struttura antincendio di mattoni, in cui si custodivano gli oggetti di valore, fino al luogo dove si trovavano i grandi serbatoi dell'acqua e i pozzi, in parte alimentati da acqua piovana e in parte riforniti quotidianamente da file di coolie. Ansimante, indicò il coperchio di legno di un pozzo. “Penso, penso che sia qui.” Hiraga scostò il coperchio. Dalla parete di mattoni sporgeva una rudimentale scala di ferro arrugginito, più sotto non si vedeva l'acqua. Sempre terrorizzata Raiko bisbigliò: “Mi hanno detto che conduce a una galleria... Non ne sono sicura, dicevano che passa sotto il canale, ma non so dove sbuchi. Me ne sono dimenticata... Ora devo tornare...”. “Aspetta!” Ori le si parò davanti. Raccolse una pietra e la lasciò cadere nel pozzo. Dopo un lungo silenzio la pietra colpì l'acqua con un tonfo. “Chi lo ha scavato?” “La Bakufu, mi hanno detto, quando hanno costruito l'Insediamento.” “Chi te l'ha detto?” “Un servitore... non ricordo chi, ma lui li aveva visti con i suoi occhi...” Richiamati dalle voci concitate che provenivano dalla strada principale si voltarono tutti e tre. “Devo tornare...” La donna svanì lungo il sentiero da cui erano giunti. I due samurai scrutarono inquieti nel pozzo. “Se lo ha costruito la Bakufu, Ori, potrebbe essere una trappola destinata a gente come noi.” Da una casa vicina giunsero delle imprecazioni in inglese “Che diavolo volete... andate via!” Ori infilò la lunga spada nella cintura. Con difficoltà, a causa della spalla, si calò nel pozzo e iniziò a scendere. Hiraga lo seguì e richiuse il coperchio. Laggiù il buio sembrava ancora più fitto, poi il piede di Ori toccò terra. “Attento, credo sia solo uno spunzone.” La sua voce era strozzata ed echeggiava in modo spettrale. Hiraga scese l'ultimo gradino e a tentoni si avvicinò a Ori. Strofinò uno dei fiammiferi svedesi che aveva nella tasca della manica. “Eh!” disse Ori eccitato. “Dove lo hai trovato?” . “Ce ne sono dovunque alla Legazione, quei cani sono così ricchi che lì lasciano in giro. Taira mi ha detto di prenderli pure. Guarda!” All'ultimo barlume del fiammifero scorsero la bocca di un cunicolo. Era

asciutto, alto quanto un uomo. Tre metri più sotto si vedeva il pozzo pieno d'acqua. In una nicchia era rimasta una vecchia candela, Hiraga dovette usare tre fiammiferi per accenderla. “Vieni.” La galleria era in forte pendenza. Dopo una cinquantina di passi il fondo cominciò a essere bagnato, poi divenne fangoso e per lunghi tratti sommerso dall'acqua che sgorgava fetida dal tetto e dalle pareti puntellate da assi di legno marcio e pericoloso. Più si inoltravano più l'aria diventava irrespirabile, rancida. “Possiamo fermarci, Ori, aspettare qui.” “No, vai avanti.” Sudavano per la paura e per il caldo. La fiamma della candela ondeggiò e si spense. Imprecando Hiraga la riaccese e cercò di proteggere la fiamma, ma cera e stoppino erano quasi finiti. Si trascinò avanti, con l'acqua che ora gli arrivava ai fianchi. Pur scivolando continuamente Ori riuscì a non perdere del tutto l'equilibrio. Altri venti o trenta passi. L'acqua continuava a crescere. Adesso gli arrivava alla vita, mentre il tetto sfiorava le loro teste. Proseguirono. La luce della candela era sempre più fioca. Ancora avanti. Hiraga scrutava la candela, imprecando. “Meglio che torniamo ad aspettare all'asciutto.” “No, continuiamo finché la candela non si spegne.” Davanti a loro la galleria curvava nel buio e il tetto si abbassava fin quasi a sfiorare l'acqua. Con lo stomaco stretto dalla nausea Hiraga proseguì sul fondo scivoloso. Altri passi. Il tetto gli premeva contro la testa, poi cominciò ad alzarsi di qualche centimetro. “Il livello dell'acqua si sta abbassando” constatò. Nauseato per il sollievo, s'inoltrò più veloce nell'oscurità maleodorante. Dopo la curva il tetto era decisamente più alto. Proseguirono. La candela crepitò ma prima di spegnersi concesse ai due uomini il tempo di vedere che il terreno più avanti era asciutto e che il tunnel terminava in un pozzo. Hiraga brancolò nel buio. “Ori, sono arrivato sul bordo. Faccio cadere una pietra, ascolta.” La pietra rimbalzò a lungo contro le pareti prima di toccare l'acqua con un rumore sordo. “Accidenti, dev'essere profondo almeno trenta metri” disse con lo stomaco capovolto. “Accendi un altro fiammifero.” “Me ne rimangono solo tre” rispose Hiraga accendendone uno. Videro una serie di pioli arrugginiti e malsicuri che portavano verso l'alto. “Perché eri sicuro che Raiko conoscesse questo passaggio?” “Un'intuizione. Doveva esserci un passaggio, al loro posto io lo avrei costruito.” Ori aveva la voce rauca e respirava a fatica. “Potrebbero essere là fuori, in agguato per ricacciarci indietro, se non riusciremo a saltar fuori.”

“Sì.” “Svelto, odio questo posto. Arrampicati!” Non meno nervoso del compagno, Hiraga si aggiustò la lunga spada nella cintura. Ori indietreggiò e spaventato afferrò l'impugnatura della sua. All'improvviso i due uomini si fronteggiarono, forse vicini alla salvezza, ma senza che tra loro si fosse risolto alcunché. Il fiammifero crepitò e si spense. Al buio non potevano più vedersi. Allontanandosi istintivamente dallo strapiombo, erano arretrati entrambi verso la parete della galleria. Hiraga, più scaltro in battaglia, teneva un ginocchio appoggiato per terra e la mano sull'elsa, pronto a staccargli le gambe dal corpo se Ori avesse attaccato, e ascoltava il silenzio in attesa di udire il fruscio della spada sfilata dal fodero. “Hiraga!” proruppe la voce di Ori nel buio, da una certa distanza. “La voglio morta, l'andrò a cercare, per sonno-joi e per me. Sei tu che ti vuoi fermare, quindi spetta a te trovare una soluzione.” Hiraga restò in silenzio. “Trovala tu” sibilò e subito, senza far rumore, cambiò posizione. “Non ne sono capace. Ci ho provato.” Hiraga, temendo un trucco, esitò. “Prima di tutto metti giù le spade.” “E poi?” “Secondo: poiché lei ti ossessiona più di sonno-joi, non voglio che tu mi stia intorno armato a Yokohama, partirai per Kyòto domani e ne parlerai con Katsumata, è lui il tuo capo sarsuma. Al tuo ritorno faremo tutto come hai detto tu.” “E se non dovessi tornare?” “Lo farò io, al momento scelto da me.” La voce di Ori suonò ancora più dura. “Ma lei potrebbe andarsene, scappare... E se dovesse partire prima che io faccia ritorno?” “Mi terrò informato di ogni movimento e te lo farò sapere. Se non riuscirai ad arrivare in tempo, prenderò una decisione. Lei e suo marito, se nel frattempo si saranno sposati, potrebbero recarsi solo a Hong Kong. Tu, o noi, potremmo raggiungerla lì.” Udì il respiro pesante di Ori e attese, in guardia contro un attacco improvviso, sapendo di non potersi fidare di Ori mentre lei era viva e così vicina, ma per il momento quello era il piano migliore. Ucciderlo sarebbe stato uno spreco. Ho bisogno della sua abilità. “Sei d'accordo?” Lui esitò a lungo. Poi: “Sì” disse. “Che altro?” “Per ultimo: la croce, buttala nel pozzo.” Hiraga udì un secco singulto di rabbia e poi ancora silenzio. “Sono d'accordo, Hiraga-san. Per favore, accetta le mie scuse.” Il sensibile udito di Hiraga registrò il fruscio leggero di un tessuto, il sibilo di qualcosa

che gli passava sopra la testa e subito dopo il tintinnio di un oggetto metallico che colpiva la parete del pozzo alle sue spalle per poi dileguarsi nel fondo. Infine un rumore di spade che venivano posate sul terreno. Hiraga accese un fiammifero. Adesso Ori era del tutto indifeso. Hiraga avanzò subito, Ori indietreggiò in preda al panico, ma l'altro si limitò a raccogliere le spade. Prima che il fiammifero si spegnesse fece in tempo a buttare anche le spade nel pozzo. “Ori, per favore, ubbidiscimi. E non avrai niente da temere. Io uscirò per primo; aspetta finché ti chiamo.” I pioli erano rosi dalla ruggine e alcuni vacillarono sotto il suo peso. Salì. Finalmente, molto in alto, vide con sollievo che il pozzo si apriva su un cielo dove qualche stella faceva capolino tra le nuvole. Udì i rumori della notte, del vento e del mare. Si arrampicò ancora, ma con più cautela. Dovette far ricorso a tutte le sue forze per sollevarsi sulla balaustrata di pietra e guardarsi in giro. Il pozzo abbandonato era vicino al canale che delimitava l'Insediamento, in un terreno coperto di sterpaglie e rifiuti poco distante dal mare. Case diroccate e strade sterrate piene di buche. Poco lontano, il latrato di un cane affamato. Voci roche portate dal vento. Adesso riusciva a orientarsi. Erano sbucati nella Città Ubriaca.

Capitolo 22 †

Venerdì, 17 ottobre Nella luce del mattino, al castello di Edo, Misamoto, il pescatore, falso samurai e spia di Yoshi inginocchiato davanti agli ansiosi membri del Consiglio degli Anziani, teneva tra le mani tremanti la versione inglese della risposta di sir William. Al suo fianco c'era un ufficiale della Bakufu terrorizzato. “Parla più forte, pescatore!” ripeté Anjo, il capo degli Anziani, nel silenzio teso e gelido della stanza. “Non importa se non capisci tutte le parole, vogliamo sapere se l'ufficiale della Bakufu ha tradotto il messaggio accuratamente. Il messaggio dei gai-jin dice proprio così?” “Sì... più o meno, sì, sire” mormorò Misamoto, terrorizzato al punto che quasi non riusciva a parlare. “E' come il signor ufficiale... più o meno, sire... più o meno...” “Cos'hai al posto della lingua, un'alga, e al posto del cervello frattaglie di pesce? Veloce! Il principe Toranaga sostiene che tu sai leggere l'inglese, leggi!” Anjo era stato svegliato un'ora prima dall'ufficiale della Bakufu che al colmo dell'agitazione gli aveva portato la risposta di sir William in inglese e in olandese. Furioso, Anjo aveva convocato una riunione del Consiglio durante la quale l'ufficiale aveva ripetuto la sua traduzione della versione olandese. “Cosa dice il foglio in inglese?” “Ecco, sire, dice...” La voce di Misamoto, soffocata dal panico, si spense di nuovo. Esasperato, Anjo si rivolse a Yoshi, “Questo pesce morto è una tua spia” disse con calcolata freddezza. “E stata una tua idea mandarlo a chiamare, adesso per favore convincilo a parlare.” “Traduci quello che dice la lettera, Misamoto” disse Yoshi gentilmente, ribollendo dentro di sé dalla rabbia e dalla frustrazione. “Nessuno ti farà del male. Con parole tue. La verità.” “Ecco, signore, è più o meno... più o meno quello che ha riferito il signor ufficiale, sire” balbettò Misamoto, “ma questa lettera è, non conosco tutte le parole, sire, solo alcune...” Il suo viso si contorse dalla paura. Yoshi attese un momento. “Prosegui, Misamoto, non temere, dì la verità, qualunque essa sia. Nessuno ti

toccherà. Dobbiamo conoscere la verità.” “Ecco, sire, come ha detto l'ufficiale” mormorò Misamoto “il capo dei gai-jin informa che tra undici giorni si recherà a Osaka, ma non per una “visita cerimoniale”...” Dinanzi all'intensità dei loro sguardi restò impietrito, terrorizzato, con il naso che gli colava e la saliva che gli bagnava il mento, poi all'improvviso esplose: “Non è affatto contento, è invece molto arrabbiato e andrà, andrà a Osaka con tutta la sua flotta, muoverà in forze verso Kyòto con i cannoni che sparano proiettili da sessanta libbre, la cavalleria e la fanteria per incontrare il Figlio del Cielo e Sua Altezza lo shògun, li chiama anche per nome, sire, imperatore Komei e giovane shògun Nobusada”. Nella stanza sobbalzarono tutti, anche le guardie, normalmente impassibili, obbligate a fingere di non ascoltare. Misamoto chinò la testa sul tatami e rimase immobile. Yoshi puntò il dito verso l'ufficiale della Bakufu, che impallidì sentendo tutta l'attenzione concentrata su di sé. “E' corretto?” “Per le vostre auguste orecchie, sire, la traduzione corretta di “visita cerimoniale” dovrebbe essere... la definizione dei barbari è rude e irrispettosa, sono sinceramente convinto che vada resa con “visita cerimoniale di Stato”, e...” “Ma si parla effettivamente di “cannoni e cavalleria”?” “Di fatto, sire, la lettera...” Tra lo stupore generale, Yoshi gridò: “Sì o no?”. L'ufficiale deglutì, sbalordito che gli si ordinasse di dare una risposta così diretta, per la prima volta in vita sua, inorridito per la contestazione e per quel venir meno alle regole e alle consuete sottigliezze della diplomazia, “Mi duole informarvi che di fatto la lettera ne fa menzione, ma tale impertinenza è chiaramente un errore e...” “Perché non hai tradotto accuratamente?” “Quando ci si rivolge a orecchie auguste, sire, è necessario interpretare...” “E vengono menzionati i nomi di quelle auguste persone? Sì o no?” “I nomi ci sono ma io...” “E i caratteri con cui sono scritti sono corretti?” “Sembrerebbe, sire, i caratteri sembrano essere corretti...” “Scrivi immediatamente la traduzione fedele della lettera.” Sebbene ora Yoshi usasse un tono cortese, la violenza delle sue parole echeggiò contro le disadorne pareti di pietra della stanza. “Fedele! E d'ora in poi farai in modo che ogni messaggio che giunga da loro o che a loro sia destinato venga tradotto con altrettanta fedeltà. FEDELTA'! Un errore e la tua testa finirà in un mucchio di spazzatura. Fuori! Misamoto, ti faccio i miei complimenti, per favore aspetta fuori.”

I due uomini si dileguarono, Misamoto maledicendo il giorno in cui aveva acconsentito ad accompagnare Perry in Giappone convinto che la Bakufu lo avrebbe onorato per la sua eccezionale esperienza e gli avrebbe garantito una fortuna, e l'ufficiale giurando di vendicarsi di Yoshi e di quel pescatore bugiardo prima che il Consiglio avesse potuto mettere in atto l'inevitabile sentenza contro di lui, ufficiale saggio e corretto. Yoshi, con la mente freneticamente occupata a escogitare la mossa successiva di quel conflitto infinito, ruppe il silenzio. “Non possiamo in alcun modo tollerare una visita armata a Kyòto! L'accaduto dimostra ciò che da tempo continuo a ripetere: abbiamo bisogno di interpreti, traduttori di fiducia che ci dicano cosa i loro disgustosi messaggi significhino realmente!” “Non è necessario” ribatté con durezza Toyama, con il doppio mento che tremava per la rabbia. “L'impertinenza dei gai-jin è un insulto senza precedenti che equivale a una dichiarazione di guerra. A un affronto simile dobbiamo rispondere con il sangue.” Un mormorio serpeggiò tra le guardie. “E' una dichiarazione di guerra. Bene. Fra tre o quattro giorni condurrò un attacco a sorpresa all'Insediamento e porrò fine a questa pazzia una volta per tutte.” “Questo sarebbe baka. Non lo faremo. Baka!” ripeté Anjo, rivolgendosi in verità alle guardie, tra le quali non era difficile si nascondesse un segreto ammiratore degli shishi o un devoto di sonno-joi. “Quante volte devo ripetere che non li dobbiamo ancora attaccare, nemmeno a sorpresa?” Toyama divenne paonazzo. “Yoshi-san” disse, “potremmo annientarli e mettere a fuoco Yokohama, neh? Vero che potremmo? Questa offesa mi è intollerabile, è troppo!” “E' vero, potremmo certamente distruggere Yokohama senza difficoltà, ma Anjodono ha ragione, non abbiamo modo di colpire la loro flotta. Suggerisco di continuare come prima” disse Yoshi con calma, non sentendosi affatto calmo, “offriremo loro del brodo annacquato senza pesce: li invitiamo a una riunione con il Consiglio degli Anziani fra trenta giorni, poi, quando insisteranno, acconsentiremo ma dopo otto giorni, e a quel punto rimanderemo fino a quando ci sarà possibile.” “Incontrerò quei cani solo sul campo di battaglia.” Yoshi soffocò l'irritazione. “Sono certo che ti adeguerai alle decisioni del Roju, ma propongo che all'incontro tu venga sostituito da un impostore: Misamoto.” “Cosa?” Lo fissarono tutti. “Sarà un sostituto perfetto.” “Quello stupido pescatore non...” disse Anjo. “Vestito con abiti da cerimonia e istruito su come indossarli... otto giorni sono più che sufficienti per addestrarlo. Anche se non lo è, dall'aspetto può

già essere scambiato per un samurai. Fortunatamente non è stupido e ci teme, quindi farà qualsiasi cosa gli ordineremo di fare, e, soprattutto, ci riporterà la verità, di cui abbiamo estremo bisogno.” Yoshi notò che Anjo era diventato paonazzo. Gli altri finsero di non accorgersene. “Poi cosa accadrà, Yoshi-san?” “Poi l'incontro avrà luogo qui al castello.” “E' fuori discussione!” disse Anjo. “Naturalmente prima proporremo Kanagawa” rispose Yoshi irritato, “e poi ci lasceremo convincere a farli entrare qui.” “E' fuori discussione” ripeté Anjo nell'approvazione generale. “Utilizzando il castello come esca potremo rimandare ancora, anche di un altro mese, la curiosità li avvincerà, e limiteremo la visita all'ala esterna. Perché non farli entrare nel castello? Perché non cogliere l'occasione di farli convenire di loro spontanea volontà tra le nostre mura? Potremmo prenderli in ostaggio, saranno nelle nostre mani.” Lo fissarono sconcertati. “Prenderli in ostaggio?” “E' una possibilità, una delle tante” spiegò Yoshi pazientemente, perchè gli occorrevano alleati per la battaglia a venire. “Fino a quando non possederemo una flotta pari alla loro, dovremo giocare d'astuzia, lavorare di fino e sfruttare i loro punti deboli, non fare la guerra.” “Fino a quando?” sbottò Adachi. Era un uomo piccolo e rotondo, il membro più ricco del Consiglio, che la stirpe Toranaga rendeva pari a Yoshi. “Credete davvero che dovremo trattare con questi cani finché non avremo una flotta competitiva?” “O tanti cannoni potenti da tenerli lontani dalle nostre coste. Ci basteranno due o tre sacchi d'oro e si calpesteranno l'un l'altro per venderci tutto quello che ci serve per farli scomparire dalle nostre acque.” Yoshi aggrottò la fronte. “Ho sentito che alcuni emissari choshu stanno già cercando di comprare fucili da loro.” “Cani!” Toyama sputò furioso. “Sempre i choshu. Sarebbe ora di schiacciarli.” “E Satsuma” aggiunse Anjo nel consenso generale, guardando Yoshi. “E altri ancora!” Yoshi finse di non capire il sottinteso dell'avversario. Non ha importanza, pensò, il giorno è vicino. “Affronteremo tutti i nostri nemici, ma uno alla volta, non tutti insieme.” Con voce aspra Toyama annunciò: “Io sono a favore di ordinare a tutti i daimyo alleati di aumentare immediatamente le tasse e armarsi. Per parte mia inizierò domani”. “Suggerire” è un termine più appropriato” precisò Adachi, trangugiando l'ultimo sorso di tè. I vassoi posati davanti a ciascuno dei presenti erano decorati con fiori delicati. Annoiato e ansioso di tornare a dormire, Adachi represse uno sbadiglio. “Per favore, Yoshi-dono, proseguì con il tuo piano: se non lo conosciamo nei

dettagli come potremo votarlo?” “Il mattino dell'incontro Anjo-sama verrà sfortunatamente colpito da una malattia, oh... con nostro grande rammarico, certo. E poiché, mancando un membro, il Consiglio non sarà al completo, noi non potremo prendere nessuna decisione vincolante, ma ascolteremo e cercheremo di raggiungere un compromesso. Se ciò non sarà possibile, con ossequiosa deferenza acconsentiremo a “sottoporre le loro richieste a una riunione del Consiglio al completo da tenersi al più presto”, e rimanderemo fino a farli impazzire, di modo che saranno loro a commettere un errore, non noi.” “Perché dovrebbero accettare un ulteriore ritardo?” chiese Anjo, soddisfatto di non doversi trovare faccia a faccia con i gai-jin. Tuttavia, non fidandosi di Yoshi, si domandava dove si nascondesse l'inganno. “Quei cani hanno dimostrato di preferire la diplomazia alla guerra, sono codardi” proseguì Yoshi. “Potrebbero facilmente sottometterci, ma è chiaro che non ne hanno il coraggio.” “E se non fossero d'accordo e quell'insolente scimmione inglese mantenesse il suo proposito di partire per Kyòto? Cosa accadrebbe? Non glielo possiamo permettere, in nessun caso!” “Concordo” disse Yoshi, l'unico sicuro di sé nell'inquietudine generale. “Significherebbe la guerra, una guerra che di certo alla fine perderemmo.” Toyama incalzò: “Meglio la guerra della schiavitù toccata ai cinesi, agli indiani e a tutte le altre tribù di barbari”. Il vecchio fissava Yoshi. “Se dovessero sbarcare, voteresti a favore della guerra?” “Subito! Qualsiasi tentativo di sbarco con la forza verrà contrastato.” “Bene. Spero che sbarchino” concluse Toyama soddisfatto. “La guerra equivarrebbe a un disastro. Sono sicuro che acconsentiranno a discutere e che li potremo far desistere da tale follia a nostro vantaggio.” La voce di Yoshi si indurì. “Non sarà difficile se agiremo con astuzia. Nel frattempo dobbiamo concentrarci su questioni più importanti: su Kyòto e su come riprendere il controllo delle nostre Porte, sui daimyo ostili, sul reperimento di oro sufficiente per comprare armi ed equipaggiare il nostro esercito e quello dei nostri fedeli alleati, e su come evitare che Choshu, Tosa e Satsuma si armino fingendo di appoggiarci ma in realtà solo per poterci attaccare quanto prima.” “Ogama il traditore andrebbe messo fuorilegge” disse Toyama. “Perché non lo dichiariamo fuorilegge e ci riprendiamo le Porte?” “Attaccarlo ora sarebbe baka!” lo rimproverò Anjo. “Significherebbe solo spingere Satsuma, Tosa e tutti quelli che ancora esitano tra le sue braccia.” Con difficoltà cambiò posizione, lo stomaco gli faceva male, e anche la testa

gli doleva, perchè il nuovo medico cinese che aveva segretamente consultato non era stato di nessun giovamento alla sua costante sofferenza. “Concludiamo così Yoshi-dono, prego, stilate una bozza di risposta alla lettera dei gai-jin da presentare alla riunione di domani.” “Certo. Ma quello che ancora vorrei sapere è chi passa loro le informazioni sul nostro conto. Chi è la spia dei gai-jin? E' la prima volta che menzionano il giovane shògun e lo chiamano per nome, come chiamano per nome l'imperatore. Qualcuno ci sta tradendo.” “Ordineremo a tutte le nostre spie di indagare! Bene. E ci aggiorneremo come di norma a domani mattina, valuteremo la bozza della nostra risposta e decideremo il da farsi.” Gli occhi di Anjo divennero due sottili fessure. “Inoltre prepareremo la partenza definitiva dello shògun Nobusada per Kyòto.” Yoshi impallidì. “L'abbiamo già discussa una dozzina di volte. Nella nostra ultima...” “La sua visita è confermata! Viaggerà sulla strada settentrionale, non lungo la costa, sulla Tokaidò. E' più sicuro.” “Come Guardiano mi oppongo a questa visita per le ragioni che ho già più volte illustrato, non importa su quale strada!” “E' più saggio che mio figlio si rechi a Kyòto” intervenne Toyama. “Presto saremo in guerra. I nostri guerrieri non si lasceranno tenere a freno ancora per molto.” “Né guerra né viaggio. L'una e l'altro ci annienterebbero” ribatté Yoshi furioso. “Se lo shògun dovesse prostrarsi all'imperatore, come è vostra intenzione fargli fare, la nostra posizione sarebbe irrimediabilmente compromessa. La Legge sancisce...” “La Legge non ha potere in questo caso.” “La Legge Toranaga è la nostra unica ancora di sicurezza e non può...” “Non sono d'accordo!” Reprimendo la propria ira, Yoshi stava per alzarsi, ma si fermò quando Anjo disse: “C'è un'ultima questione da discutere oggi: la nomina immediata del nuovo Anziano, il sostituto di Utani”. Si creò un'improvvisa tensione. Dopo l'assassinio di Utani e le circostanze della sua morte, la stanza in cui lui e il giovane erano stati uccisi non era stata distrutta completamente dal fuoco, e dopo il fallimento delle legioni di spie e di soldati nella cattura degli assassini, nessuno degli Anziani aveva dormito sonni tranquilli. Specialmente Anjo, al quale ancora bruciava il recente agguato in cui era caduto. A eccezione di Yoshi che sporadicamente aveva ricevuto il supporto di Utani, nessuno degli Anziani ne rimpiangeva la morte, né il modo in cui era avvenuta, tanto meno Anjo, che sconvolto dalla rivelazione dell'identità dell'amante rimproverava Utani di avergli segretamente sottratto un'occasionale fonte di piacere.

“Ora votiamo.” “Una questione così importante dovrebbe essere affrontata domani.” “Spiacente, Yoshi-sama, questo è il momento migliore.” Adachi assentì. “Se il Consiglio non è completo non possiamo prendere decisioni importanti. Tu chi proporresti?” “Propongo formalmente Zukumura di Gai.” Nonostante il suo autocontrollo, Yoshi sospirò rumorosamente. Il daimyo in questione era un uomo di scarsa intelligenza, parente di Anjo e suo aperto alleato. “Ho già espresso là mia disapprovazione a riguardo, ci sono molte persone più degne di lui” sbottò. “Ci eravamo accordati su Gen Taira.” “Disapprovo.” Anjo sorrideva solo con le labbra. “Mi sono limitato a dire che avrei considerato con attenzione la sua candidatura. Così ho fatto. Zukumura è la scelta migliore. Ora votiamo.” “Non credo che votare ora sia saggio...” “Si voti! In facoltà di capo Consigliere è mio diritto mettere la questione ai voti! Si voti!” “Io voto no!” esclamò Yoshi fissando gli altri due. Adachi evitò di incrociare i suoi occhi limitandosi a dire: “I gai sono stati alleati di Mito sin dai tempi di Sekigahara. Sì”. Toyama scrollò le spalle. “Come volete.” Yoshi, grondante sudore, colpì con violenza con la spada di legno i suoi due assalitori, poi, con mossa fulminea, arretrò, girò su se stesso e tornò all'attacco. I contendenti, entrambi esperti, si spostarono di lato e contrattaccarono, impegnandosi nella lotta perchè una prestazione scadente sarebbe costata la consegna in caserma per un mese e tre mesi di paga. Con una finta uno dei due aprì un varco al compagno ma l'attento Yoshi si abbassò per evitare il fendente e gli assestò sul petto un colpo così forte che mandò la sua spada in frantumi, eliminandolo dalla competizione; se si fosse trattato di una lama vera avrebbe tagliato il poveretto in due. Subito l'altro si precipitò per sferrare il colpo decisivo ma Yoshi si era già spostato e lo colpì dal basso con un calcio da karateka. Raggiunto allo scroto da un piede duro come l'acciaio, l'uomo urlò e cadde torcendosi dal dolore. Ancora in preda all'ira Yoshi si scagliò sul corpo prono e sollevò in aria il brandello di spada per sferrargli il colpo della morte alla gola: con il cuore che batteva all'impazzata trattenne la spada a un filo dal collo dell'avversario, felice della propria abilità, del proprio controllo e di aver vinto, sebbene la vittoria non significasse niente. La sua rabbia repressa era scomparsa. Soddisfatto, gettò la spada rotta e cominciò a rilassarsi nella palestra spoglia e spartana come il resto del castello.

Mentre tutti e tre ansimavano per la fatica dell'incontro e lo sconfitto ancora si rotolava a terra dolente, si intese un leggero applauso. Yoshi, sorpreso, si voltò furioso, non invitava mai nessuno ad assistere a quegli allenamenti nei quali si sarebbe potuto misurare il suo coraggio o giudicare la sua debolezza e la sua brutalità, ma subito anche quell'irritazione si dissolse. “Hosaki! Quando siete arrivata?” chiese sforzandosi di limitare l'affanno. “Perché non vi siete fatta annunciare?” Il suo sorriso si spense. “Problemi?” “No, sire” gli rispose felice la moglie inginocchiandosi accanto alla porta. “Nessun problema, solo tanto piacere nel vedervi.” Si prostrò in un lungo inchino. Il suo abbigliamento semplice, gonna e giacca da cavallo, in pratica e pesante seta verde, il mantello imbottito intonato, il grande cappello legato sotto il mento e la corta spada in vita, mostrava le tracce di un lungo viaggio. “Vi prego di scusarmi se mi sono presentata al vostro cospetto in questo modo, senza essere stata invitata e senza essermi cambiata d'abito, ma davvero non potevo aspettare di vedervi. E ora sono ancor più contenta d'aver osato perchè ho visto che con la spada siete ancora più abile di prima. “ Yoshi si finse indifferente al complimento, le si avvicinò e la scrutò con intensità. “Davvero non ci sono problemi?” “Sì, sire.” Lei gli sorrise raggiante di ammirazione. I suoi denti candidi e gli obliqui occhi d'ebano illuminavano un volto classico, né attraente né banale, tuttavia impossibile da dimenticare, e tutta la sua figura esprimeva una grande dignità. “Yoshi” gli aveva detto suo padre, quando lui era diciannovenne, “ti ho scelto una moglie. Il suo lignaggio è Toranaga, come il nostro, sebbene del ramo minore di Mitowara. Si chiama Hosaki, che nell'antica lingua significa spiga di frumento, presagio di abbondanza e fertilità, nonché punta di lancia. Sono certo che non ti deluderà in nessuna delle due funzioni.” Infatti non lo aveva deluso, pensò Yoshi con fierezza. Già madre di due bei ragazzi e di una figlia, è ancora forte, sempre saggia, gestisce le nostre finanze con molto acume, e, cosa rara in una moglie, amarla di tanto in tanto è abbastanza piacevole, anche se non possiede il fuoco della mia concubina o delle mie amanti, in particolare di Koiko. Accettò l'asciugamano che gli veniva offerto dall'avversario incolume e fece un segno di congedo. L'uomo si inchinò silenziosamente e aiutò l'altro, ancora dolorante e incerto sulle gambe, ad allontanarsi. Yoshi si inginocchiò accanto alla moglie asciugandosi il sudore. “Dunque?” “Questo non è un posto sicuro, neh?” mormorò Hosaki sottovoce. “Non esiste un posto sicuro.”

“Per prima cosa, per prima cosa Yoshi-chan, ci occuperemo del vostro corpo: un bagno e un massaggio, poi parleremo.” “Bene. Ci sono molte cose di cui parlare.” “Sì.” Sorridendo lei si alzò e notando il suo sguardo indagatore si dispose ancora una volta a rassicurarlo. “Al Dente di Dragone va tutto bene, i vostri figli godono di buona salute, la concubina e suo figlio sono felici, i capitani e gli attendenti vigili e ben armati... tutto come potreste desiderare. Ho deciso di farvi una breve visita solo per un capriccio improvviso” aggiunse per ingannare eventuali ascoltatori, “avevo soltanto bisogno di vedervi e di parlare dell'amministrazione del castello.” E anche di fare l'amore con te, mio amato, pensava nel segreto del suo cuore, con le narici piene del suo odore virile, consapevole della sua vicinanza e come sempre bramando la sua forza. Quando sei lontano, Yoshi-chan, non mi è difficile calmare il desiderio, ma accanto a te? Ah, quando ti sono vicina mi è quasi impossibile, anche se mi sforzo di fingere, oh, quanto devo fingere, per nascondere la gelosia per le altre e comportarmi come una moglie degna. Ma questo non significa che io, come tutte le mogli, non soffra di una gelosia violenta, a volte fino alla pazzia, e non desideri uccidere o, più ancora, mutilare le rivali, agognando di essere desiderata e amata con pari passione. “Siete stato lontano troppo a lungo, mio sposo” mormorò dolcemente desiderando che lui la prendesse subito, li sul pavimento, con l'ardore di un giovane contadino. Era quasi mezzogiorno e un vento leggero spazzava il cielo. Nel suo appartamento più recondito, tre camere con tatami e una stanza da bagno in un angolo della torre, Hosaki gli versava il tè con la grazia di sempre. Come Yoshi, aveva studiato sin da bambina la cerimonia del tè, e ora era una sensei, una maestra di tè a tutti gli effetti. Entrambi avevano fatto il bagno ed erano stati massaggiati. Le porte erano sprangate, le guardie ai loro posti e le cameriere congedate. Lui indossava un kimono inamidato, lei un morbido kimono da notte. Aveva sciolto i capelli. “Dopo aver parlato con voi, farei bene a riposare. Così la mia mente questa sera sarà limpida.” “Avete cavalcato tutto il giorno?” “Sì, sire.” Il viaggio era stato effettivamente faticoso, aveva dormito poco e aveva dovuto cambiare cavallo ogni tre ri, ogni nove miglia. “Quanto tempo avete impiegato?” “Due giorni e mezzo, mi sono fatta accompagnare da una scorta composta di soli venti uomini al comando del capitano Ishimoto.” Rise.

“Avevo proprio bisogno di un bagno e di un massaggio. Ma prima...” “Avete percorso dieci ri al giorno? E perchè mai questa marcia forzata?” “Soprattutto per il mio piacere” disse lei con allegria sapendo che non occorreva precipitarsi con le cattive notizie. “Ma prima, Yoshichan, un tè per il vostro.” “Grazie.” Yoshi bevve il delicato tè verde dalla tazza Ming, la posò e poi attese, rapito dall'arte e dalla calma di lei. Lei versò altro tè, questa volta per sé, lo sorseggiò e depose la tazza. Poi disse piano: “Ho deciso di non rimandare la visita perchè mi sono giunte all'orecchio voci inquietanti e desideravo rassicurare me stessa e i capitani sul vostro benessere. Le voci dicevano che siete in pericolo, che Anjo sta mettendo il Consiglio contro di voi, che l'attentato degli shishi contro di lui e l'assassinio di Utani dimostrano un grave inasprirsi di sonno-joi, che la guerra, sia interna che esterna, è vicina, e che Anjo si accinge a tradire voi e tutto lo shògunato. Dev'essere folle se intende permettere che lo shògun e la sua imperiale consorte si rechino a Kyòto per prostrarsi”. “E' tutto vero, perlomeno in parte” confermò calmo. Il viso perse la sua imperturbabile compostezza. “Le cattive notizie viaggiano sulle ali di un falco, Hosaki, neh? La situazione si è aggravata per colpa dei gai-jin.” Poi le raccontò del suo incontro con gli stranieri, di Misamoto, la spia, e descrisse in dettaglio gli intrighi del castello. Omise tuttavia di accennare ai suoi sospetti sulla complicità di Koiko con gli shishi: Hosaki, pensò, non potrebbe mai capire quanto lei sia seducente e quanto il pericolo che sia una spia aumenti il suo fascino. Mia moglie suggerirebbe l'immediato licenziamento di Koiko, un'indagine, la punizione, e non mi darebbe pace finché tutto non fosse risolto. Concluse raccontandole della flotta nemica che metteva in pericolo le loro coste, della lettera minacciosa di sir William e della riunione con gli Anziani. “Zukumura, uno degli Anziani? Quella vecchia testa di pesce, con un figlio sposato a una nipote di Anjo? Non ditemi che il buon Toyama ha votato per lui!” “Ha scrollato le spalle dichiarando: “Lui o un altro non importa, tanto presto saremo in guerra. Prendete chi vi pare”.” “Dunque nella migliore delle ipotesi saranno tre contro due a vostro sfavore.” “Sì. Ora niente potrà fermare Anjo. Potrà fare quello che vuole, votare che gli vengano assegnati più poteri, auto nominarsi tairò, decidere quello che più gli aggrada, come lo stupido viaggio di Nobusada a Kyòto.” Yoshi sentì di nuovo una morsa al petto, ma cercò di ignorarla, contento di poter parlare apertamente, per quanto gli era consentito, con l'unica persona al mondo di cui si fidasse.

“I barbari erano come voi li immaginavate, sire?” chiese lei. Era affascinata da ogni particolare: “Conosci il tuo nemico come te stesso...”. Sun-tzu era stato il principale insegnamento che Hosaki aveva ricevuto insieme alle quattro sorelle e ai tre fratelli, oltre alle arti marziali, alla calligrafia e alla cerimonia del tè. Poi lei e le sorelle erano state iniziate dalla madre e dalle zie allo studio della gestione e dell'amministrazione delle terre, oltre al giusto modo di trattare con uomini di ogni classe in vista di un futuro degno di loro. Benché fosse capace di usare un coltello e di difendersi abbastanza bene, non aveva mai eccelso nelle arti marziali. Yoshi le raccontò tutto quello che ricordava, anche le notizie riferitegli da Misamoto sui gai-jin e la regione d'America chiamata California, o anche Terra della Montagna d'Oro. Gli occhi di Hosaki si assottigliarono mentre ascoltava, ma lui non se ne accorse. Quando Yoshi finì il racconto, le rimanevano ancora mille domande, ma le rimandò per non affaticarlo. “Mi avete dipinto ogni scena con molta cura, Yoshi-chan, raccontate bene. Quali decisioni avete preso?” “Per ora nessuna... vorrei che mio padre fosse ancora in vita, mi mancano i suoi consigli, anche quelli di mia madre.” “Sì” disse lei. In realtà era contenta che fossero morti entrambi, il padre due anni prima, di vecchiaia, a cinquantacinque anni, e a causa del severo confino impostogli da Li, e la madre durante l'epidemia di vaiolo dell'anno prima. Entrambi le avevano reso la vita impossibile e avevano cercato di dominare Yoshi fino all'ultimo. Era sempre stata convinta che il padre non avesse cura della famiglia e che spesso prendesse decisioni sbagliate. La madre era stata una suocera delle peggiori, cattiva ed esigente, e con lei si era dimostrata più dura che con le mogli degli altri tre figli. L'unico gesto indovinato che abbiano fatto in vita loro, pensò, è stato l'assenso dato alle nostre nozze. Di questo li ringrazio. Ora comando il Dente di Dragone e le nostre terre, che passeranno ai miei figli, inviolate e degne del Signore shògun Toranaga. “Sì” ripeté lei. “E' una disgrazia che siano morti. Mi inchino ogni giorno davanti al loro altare implorando di essere degna della loro fiducia.” Lui sospirò. Dopo la morte di sua madre aveva sentito un vuoto più grande di quello avvertito dopo la perdita del padre, un uomo ammirevole ma al tempo stesso temibile. Ogni qualvolta aveva avuto un problema, o provato paura, si era rivolto a lei con fiducia per essere consolato, guidato e rincuorato. “Karma che mia

madre sia morta così giovane” mormorò. “Sì, sire.” Hosaki comprendeva la sua tristezza, perchè quel dolore era proprio di ogni figlio che riconoscesse il dovere primo di ubbidire e proteggere la propria madre sopra ogni altro, per tutta la vita. Io non potrò mai colmare quel vuoto, così come le mogli dei miei figli non potranno mai colmare il vuoto che io lascerò. “Che cosa suggerite, Hosaki?” “Sono indecisa a molti riguardi” gli confidò preoccupata, con la mente che si perdeva nel mosaico di pericoli ovunque in agguato. “Mi sento inutile. Datemi il tempo di riflettere questa sera e domani, forse, sarò in grado di trovare un suggerimento che vi aiuti a risolvere la situazione, poi, con il vostro permesso, farò ritorno a casa per occuparmi senza indugio del rafforzamento delle nostre difese. Dovrete dirmi voi cosa fare. Ma intanto ho da sottoporvi alcune considerazioni immediate: aumentate la vigilanza delle guardie del corpo e disponetevi a mobilitare tutte le vostre forze.” “Ho già preso decisioni in questo senso.” “Il gai-jin che vi ha avvicinato dopo l'incontro, un francese a quanto dite, vi suggerirei di accettare il suo invito a visitare la loro nave da guerra, è molto importante che la vediate con i vostri occhi. A mio avviso potreste anche fingere amicizia nei loro confronti, per poterli manovrare a vostro vantaggio contro gli inglesi.” “Ho già preso decisioni in questo senso.” Lei rise tra sé e abbassò il tono di voce fino a farlo diventare un sussurro. “Per quanto sia difficile Anjo va neutralizzato per sempre e senza indugio. Poiché non potrete impedire che lo shògun e la principessa partano per Kyòto, concordo pienamente che lei è una spia della Corte, una marionetta, e vostra nemica, ruolo corretto dal suo punto di vista dovrete partire in segreto subito dopo di loro, correre a Kyòto percorrendo la più veloce Tokaidò per anticiparli... sorridete, sire?” “Solo perchè mi piacete. E quando sarò arrivato a Kyòto?” “Diventerete il confidente dell'imperatore... i nostri amici a Corte vi aiuteranno. Poi, è una possibilità fra tante, me ne rendo conto, vi accorderete in segreto con Ogama di Choshu perchè il controllo sulle Porte rimanga a lui...” Vedendo Yoshi arrossire esitò. “Ma solo se si alleerà apertamente con voi contro Satsuma e Tosa.” “Ogama non si fiderebbe mai di me, né io di lui, eppure è necessario riprendere il controllo delle Porte a tutti i costi.” “Concordo. Il patto potrebbe essere così concepito: Ogama dovrà unire le sue forze alle vostre per un attacco a sorpresa, da effettuarsi al momento da

voi stabilito, contro il principe Sanjiro di Satsuma; dopo la sconfitta di Sanjiro lui prenderà il potere su Satsuma e in cambio vi restituirà il controllo sulle Porte.” Yoshi era sempre più perplesso. “Sconfiggere Sanjiro via terra è molto difficile, nessuno lo stanerebbe dalle montagne che proteggono il suo territorio. Neppure lo shògun Toranaga ha mosso guerra contro Satsuma dopo Sekigahara: si è limitato a pretendere da loro una pubblica ammenda e un voto di fedeltà per tenerli a freno con le buone. E non possiamo attaccarli dal mare.” Rifletté per qualche istante. “E un sogno, non una possibilità reale. Troppo difficile” mormorò. “Ma tra un pò, chissà. Passiamo al prossimo argomento.“ “Sopprimere Nobusada mentre è in viaggio per Kyòto è un'opportunità unica” disse lei con un filo di voce. “Mai!” sbottò lui con violenza. In realtà era intimamente molto turbato che lei avesse avuto il suo stesso pensiero o che, peggio ancora, leggesse le sue più segrete intenzioni. “Significherebbe tradire la Legge, la mia eredità, ogni cosa per la quale lo shògun Toranaga ha lottato. Ho accettato di essergli fedele come era mio dovere fare e non verrò meno al mio impegno.” “Avete certamente ragione” si precipitò a rassicurarlo lei con un inchino profondo. Eppure aveva previsto quella reazione quando aveva deciso di trasformare il suo pensiero in parole. “E' stato baka da parte mia. Concordo pienamente. Mi dispiace.” “Bene! Non pensatelo e non ditelo mai più.” “Certo. Vi prego di scusarmi.” Hosaki rimase a testa china bisbigliando le sue scuse per il tempo necessario, poi scivolò via per riempirgli ancora la tazza e tornò a sedersi, con gli occhi bassi, in attesa che lui la invitasse a riprendere il discorso. Nobusada doveva essere eliminato da tuo padre, Yoshi, rifletteva intanto tra sé, mi stupisce che tu non te ne sia mai reso conto. Tuo padre, per primo, e tua madre, che avrebbe dovuto consigliarlo, hanno fallito nel loro compito quando il traditore Li ha imposto la candidatura di quel piccolo stupido contro la tua. Li ci ha imprigionato nella nostra stessa casa, ha distrutto la nostra pace per anni e ha quasi ucciso il nostro figlio maggiore durante quei mesi di clausura in cui vivevamo di stenti. Tutti sapevamo quello che Li stava tramando molto prima che accadesse. Bisogna eliminare Nobusada: per quanto si tratti di un'azione eretica e sgradevole rappresenta l'unica possibilità che abbiamo di proteggere il nostro futuro. E se non troverai tu il modo di farlo, Yoshi, provvederò io... “Un cattivo proposito, Hosaki. Terribile!” “Concordo, sire. Vi prego di accettare le mie umili scuse.” Ancora una volta abbassò la testa sul tatami. “Sono stata stupida. Non so da dove derivi una simile stupidità. Naturalmente avete ragione. Forse mi sono lasciata travolgere dal timore per tutti i pericoli che vi minacciano.

Per favore, sire, concedetemi di ritirarmi.” “Tra un momento, sì, nel frattempo...” Leggermente tranquillizzato, tuttavia ancora sconvolto all'idea che lei avesse osato esprimere, anche se solo a lui, un simile sacrilegio, le fece cenno con la mano di versargli ancora del tè. “Posso confidarvi un altro pensiero, sire, prima di andare?” “Sì, se non è stupido come l'ultimo.” Hosaki trattenne una risata di scherno davanti a quella frecciata da bambino petulante che non la scalfiva minimamente. “Con grande saggezza, sire, avete detto che il quesito più importante da sciogliere sui gai-jin riguarda il modo di affondare le loro flotte o tenere i loro cannoni lontani dalle nostre coste, vero?” “Sì.“ “I cannoni possono essere montati su chiatte?” Yoshi corrugò la fronte senza capire, troppo assorto nei pensieri che riguardavano Nobusada. “Come? Immagino di sì, perchè?” “Converrebbe chiederlo agli olandesi, ci aiuteranno. Forse potremmo costruire una flotta di difesa, non importa quanto lenta e ingombrante, e ancorare in mare le chiatte in corrispondenza strategica dei nostri capisaldi, di fronte allo stretto di Shimonoseki per esempio. Potremmo poi fortificare le imboccature dei nostri porti, che per fortuna non sono molti, neh?” “Sembrerebbe possibile” ammise lui, che non aveva mai pensato a questa opportunità. “Ma non possiedo denaro né oro sufficiente per acquistare tutti i cannoni necessari per le nostre batterie di terra, tanto meno per costruire una flotta simile. E non abbiamo il tempo né le capacità o i mezzi economici per impiantare armerie e, fonderie per costruire i cannoni, né gli uomini per farle funzionare.” “E' vero, sire. Siete molto saggio” commentò Hosaki con un triste sospiro. “Tutti i daimyo sono ridotti in povertà e assillati dai debiti e noi non facciamo eccezione.” “Come? E il raccolto?” “Spiacente di portarvi cattive notizie, ma quest'anno è stato più scarso dell'anno scorso.” “Più scarso di quanto?” “Di un terzo.” “Sono notizie tremende, proprio ora che ho bisogno di entrate straordinarie!” strinse il pugno. “I contadini sono tutti baka.” “Mi dispiace, non è colpa loro, Yoshi-chan, le piogge sono arrivate troppo presto o troppo tardi, e il sole non è stato da meno. Quest'anno gli dei non ci hanno sorriso.” “Gli dei non esistono, Hosaki-chan, c'è solo il karma. Karma che il raccolto sia cattivo. Tuttavia dovrete aumentare le tasse.” Gli occhi le si riempirono di lacrime.

“La regione di Kwanto verrà colpita dalla carestia prima del prossimo raccolto, e se questa tragedia capita a noi, che possediamo le risaie più fertili del Giappone, che ne sarà degli altri?” Il ricordo della carestia di quattro anni prima assalì entrambi. Aveva causato la morte di migliaia di persone, e altre decina di migliaia erano state sterminate dalle epidemie che inevitabilmente erano seguite. Durante la Grande Carestia, vent'anni prima, erano morte centinaia di migliaia di persone. “Questa è davvero la Terra delle Lacrime.” Yoshi annuì con uno sguardo assente. Poi in tono acido disse: “Aumenterete le tasse di un decimo e tutti i santurai riceveranno una paga ridotta di un decimo. Parlate con gli usurai. Ci devono aumentare il credito. Quei soldi serviranno per gli armamenti”. “Certo.” Poi aggiunse cauta: “Siamo in condizioni finanziarie migliori di tanti altri, abbiamo impegnato solo il raccolto dell'anno venturo. Ma sarà difficile ottenere tassi di interesse ordinari”. “Cosa volete che ne sappia o che me ne importi dei tassi di interesse?” sbottò lui irritato. “Cercate di ottenere le migliori condizioni possibili!” Il suo volto si tese in una smorfia. “Forse è giunto il momento di proporre al Consiglio l'adeguamento dei “tassi di interesse” come già fece il mio bisnonno.” Sessant'anni prima lo shògun, schiacciato dai debiti di suo padre, avendo impegnato come molti altri daimyo anni di futuri raccolti ed essendo assillato dall'arroganza e dà disprezzo della classe mercantile, aveva all'improvviso decretato la cancellazione di tutti i debiti e tutte le ipoteche sui futuri raccolti. Nei due o tre secoli successivi al regno di Sekigahara quell'atto estremo era stato promulgato quattro volte, causando il caos nel paese anche sessant'anni prima. Il prezzo pagato da tutte le classi, ma soprattutto dai samurai, fu enorme. I mercanti di riso, che erano i principali usurai, furono annientati. Molti di loro dichiararono bancarotta. Alcuni fecero seppuku. Il resto entrò in clandestinità e partecipò della miseria collettiva. Ma già al raccolto successivo i contadini avevano bisogno dei mercanti e l'intera popolazione di riso, sicché i prodotti scarseggiavano, erano dunque molto cari e, clandestinamente, i contadini fecero ricorso a prestiti per comprare sementi e attrezzi per il nuovo raccolto, e ancora una volta, anche se con molta discrezione, i samurai si fecero anticipare del denaro barattando le