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Italian Pages 113 Year 2001
Marguerite Yourcenar
FUOCHI
Traduzione di Maria Luisa Spaziani
“Nato da una crisi passionale, Fuochi, si presenta come una raccolta di poesie d’amore, o, se si preferisce, come una serie di prose liriche collegate fra loro sulla base di una certa nozione dell’amore. Come tale, l’opera non ha bisogno di commenti, in quanto l’amore totale, imponendosi alla vittima come malattia e insieme come vocazione, è da sempre una realtà dell’esperienza e un tema fra i più visitati della letteratura. Si può tutt’al più ricordare che ogni amore vissuto, come quello che ha dato origine al libro, si fa e poi si disfa all’interno di una determinata situazione, grazie a un complesso miscuglio di sentimenti e di circostanze che in un romanzo formerebbero la trama stessa della vicenda mentre in una poesia sono il punto di partenza del canto.”
Prefazione
Fedra o della disperazione Achille o della menzogna Patroclo o del destino Antigone o della scelta Lena o del segreto Maria Maddalena o della salvezza Fedone o della vertigine Clitennestra o del crimine Saffo o del suicidio
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PREFAZIONE
Fuochi non è propriamente un libro di giovinezza: è stato scritto nel 1935; avevo trentadue anni. L’opera, pubblicata nel 1936, è riapparsa nel 1957 quasi senza ritocchi. Nemmeno nel testo della presente edizione è stato cambiato alcunché. Nato da una crisi passionale, Fuochi si presenta come una raccolta di poesie d’amore, o, se si preferisce, come una serie di prose liriche collegate fra di loro sulla base di una certa nozione dell’amore. Come tale, l’opera non ha bisogno di commenti, in quanto l’amore totale, imponendosi alla vittima come malattia e insieme come vocazione, è da sempre una realtà dell’esperienza e un tema fra i più visitati della letteratura. Si può tutt’al più ricordare che ogni amore vissuto, come quello che ha dato origine al libro, si fa e poi si disfa all’interno di una determinata situazione, grazie a un complesso miscuglio di sentimenti e di circostanze che in un romanzo formerebbero la trama stessa della vicenda mentre in una poesia sono il punto di partenza del canto. In Fuochi, questi sentimenti e queste circostanze si esprimono ora direttamente, ma molto cripticamente, in “pensieri” isolati che all’inizio erano appunti di diario, ora invece indirettamente, con racconti tratti dalla leggenda o dalla storia e destinati a offrire un sostegno al poeta attraverso i tempi.
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I personaggi mitici o reali evocati da questi racconti appartengono tutti all’antica Grecia, tranne Maria Maddalena, situata in quel mondo giudeo-siriano in cui si è formato il cristianesimo, e che i pittori del Rinascimento e del Barocco, in questo forse più realisti di quanto si pensasse, si sono sempre compiaciuti di arricchire con belle architetture classiche, bei panneggi e bei nudi. A gradi diversi, tutti questi racconti modernizzano il passato; certuni inoltre s’ispirano a stadi intermedi che quei miti o quelle leggende hanno attraversato prima di arrivare fino a noi, così che l’“antico” propriamente detto non è sovente in Fuochi che un primo strato poco visibile. Fedra non è affatto la Fedra ateniese; è l’ardente colpevole che ci ha consegnato Racine. Achille e Patroclo non sono visti tanto nella visuale omerica quanto secondo i poeti, i pittori e gli scultori scaglionati fra l’antichità omerica e noi; quei due racconti screziati qua e là di colori del ventesimo secolo sfociano del resto in un mondo onirico senza età. Antigone è tolta di peso dalla tragedia greca, ma di tutti i racconti che si snodano in Fuochi, quell’incubo di guerra civile e di rivolta contro un potere iniquo è forse il più denso di elementi contemporanei o pressoché presaghi. La storia di Lena s’ispira a quel poco che si sa della cortigiana così chiamata che nel 525 prima della nostra era partecipò al complotto di Armodio e Aristogitone, ma il colore locale greco moderno e l’ossessione delle guerre civili del nostro tempo ricoprono quasi completamente in questo racconto il tufo del VI secolo. Il monologo di Clitennestra incorpora alla Micene omerica una Grecia rustica del tempo del conflitto greco-turco del 1924 o dell’impresa dei Dardanelli. Quello di Fedone esce da un accenno di Diogene Laerzio sull’adolescenza di questo allievo di Socrate; l’Atene nottambula del 1935 si sovrappone qui a quella della gioventù dorata del tempo d’Alcibiade. La storia di Maria Maddalena si basa su una tradizione menzionata nella VI
Leggenda aurea (e del resto respinta come non autentica dall’autore di quel pio florilegio) che faceva della santa la fidanzata di San Giovanni, da lui abbandonata per seguire Gesù; il Vicino Oriente evocato nel racconto a margine dei Vangeli apocrifi è quello dell’altroieri e di sempre, ma certe metafore o ambiguità semantiche vi introducono qua e là anacronistici modernismi. L’avventura di Saffo aderisce alla Grecia con la leggenda quanto mai controversa del suicidio della poetessa per un bell’indifferente, ma questa Saffo acrobata appartiene alla gaudente società internazionale fra le due guerre, e il trauma del travestimento si ricollega alle commedie scespiriane più che ai temi greci. Un chiaro intento di sovrimpressione mescola ovunque in Fuochi il passato a un presente che a sua volta diventa passato. Ogni libro porta la sua data ed è bene che sia così. Questo condizionamento di un’opera da parte del suo tempo avviene in due modi: da una parte, con il colore e l’odore dell’epoca stessa, di cui la vita dell’autore è più o meno impregnata; dall’altra, soprattutto quando si tratta di uno scrittore ancora giovane, con il gioco complicato delle influenze letterarie e delle reazioni contro quelle stesse influenze, e non è sempre facile distinguere fra di loro queste diverse forme di penetrazione. Io riconosco facilmente in “Fedone o della Vertigine” l’influenza del voluttuoso umanesimo di Paul Valéry che maschera qui con la sua bella superficie una veemenza per nulla alla Valéry1. La violenta impennata di Fuochi reagisce più o meno cosciente-
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Sottolinea questo interesse per L’opera di Valéry un’ allusione all’ammirevole Paul nel primo gruppo di pensieri. La formula di Valéry alla quale questo pensiero si oppone si trova in Choses tues, 1932. (N.d.A.)
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mente a Giraudoux la cui Grecia ingegnosa e pariginizzata m’irritava come tutto ciò che ci è insieme totalmente opposto e vicinissimo; oggi mi accorgo che quel fondo comune di antichità trasposta nel gusto moderno rendeva trascurabile, tranne che al lettore più attento, quella profonda dissomiglianza fra il mondo di Giraudoux così ben inserito nella tradizione francese e il mondo più delirante che io cercavo di dipingere. Ma mi piaceva Cocteau; ero sensibile al suo genio mistificatore e stregonesco; però gli rimproveravo di abbassarsi troppo sovente a trovate da illusionista. La franchezza arrogante della persona che parla in Fuochi, con o senza maschera, l’insolente volontà di rivolgersi soltanto al lettore già acquistato o conquistato, rappresentano un irrigidimento contro certi compromessi sapienti e leggeri. Il precedente di Cocteau mi ha certamente incoraggiata a usare l’antichissimo procedimento del gioco di parole lirico, riscoperto più o meno nei medesimi anni e in modo un po’ diverso dai surrealisti. Non credo che mi sarei arrischiata a certe forzature verbali che in Fuochi corrispondono alla sovrimpressione tematica di cui poco fa parlavo, se alcuni poeti miei contemporanei, e non soltanto passati, non me ne avessero dato l’esempio. Altre similitudini in apparenza dovute a strofinamenti letterari contemporanei sono dovute alla vita stessa, come suggerivo poco fa. È così che la passione dello spettacolo nel suo triplo aspetto di balletto, di music-hall e di film, comune a tutta la generazione che verso il 1935 aveva più o meno trent’anni, spiega come in “Achille o della Menzogna” il racconto tipicamente onirico della discesa della scala della torre da parte di Achille e di Misandra si saldi alla descrizione di un esercizio di volteggio di quel Barbette quasi alato, trascinantesi dietro i drappeggi delle Vittorie classiche, che dovevo rivedere più tardi in Florida, deVIII
formato da una terribile caduta, occupato a insegnare la propria arte agli equilibristi del circo Barnum; o è così ancora che in “Fedone o della Vertigine” un ballo da cabaret viene avvicinato alla danza degli astri. Che in “Patroclo o del Destino” il duello di Achille e dell’Amazzone sia un balletto barocco interpretato con la mediazione di Diaghilev o di Mossine e “mitragliato” dagli obiettivi dei cineasti, è un’ulteriore caratteristica di quest’atmosfera giocosa e angosciata. In “Antigone o della Scelta”, grazie a una anticipazione che è essa stessa senz’altro d’epoca, i pennelli luminosi che seguono sulla scena del libro le evoluzioni di un primo soggetto, sono già pronti a diventare i lugubri fari dei campi di concentramento: questa sensibilizzazione al pericolo politico incombente sul mondo ha lasciato innegabili tracce in certi poeti e romanzieri del secondo anteguerra; è naturale che Fuochi, come questo o quell’altro libro della stessa epoca, rechi in sé qualche ombra profetica. L’analisi spinta oltre non offrirebbe più, senza dubbio, che un residuo puramente biografico: importa probabilmente a me sola che “Saffo o del Suicidio” sia nato da uno spettacolo di varietà a Pera, e sia stato scritto sul ponte di un cargo ormeggiato sul Bosforo, mentre il grammofono di un amico greco girava instancabilmente il ritornello popolare americano: “He goes through the air with the greatest of ease, the daring young man on the flying trapeze”; importa anche pochissimo che questi ingredienti si siano mescolati alla leggenda dell’antica poetessa, al ricordo dei travestimenti del Rinascimento, a un’eco dei soli versi buoni che io conosca di quel virtuoso fantasista che fu Banville a proposito di un pagliaccio lanciato in cielo fra le stelle, a un meraviglioso disegno di Degas, e infine a un certo numero di macchiette cosmopolite che in quel tempo frequentavano i bar di Costantinopoli. Soltanto da questo punto di vista IX
di un’esclusiva esegesi letteraria vale forse la pena di ricordare che l’Atene di Fuochi rimane quella in cui le mie passeggiate mattutine all’antico cimitero del Ceramico, con le sue erbe selvagge e le sue tombe abbandonate, erano orchestrate dal rumore stridente di un vicino deposito di tram; dove delle indovine stabilitesi in certe bidonville vaticinavano su fondigli di caffè turco; dove un gruppetto di amici e di amiche, trentenni, alcuni dei quali erano destinati di lì a poco a una morte improvvisa o lenta, terminavano la loro lunga notte oziosa, tonificata qua e là da discussioni sulla guerra civile di Spagna o sui rispettivi meriti di una stella del cinema tedesco e della sua rivale svedese, per andare poi, un po’ ebbri per il vino e per la musica orientale delle osterie, a contemplare sul Partenone le prime luci dell’aurora. Grazie a un effetto di ottica in sé certo molto banale, quelle cose e quelle creature che costituivano allora la realtà contemporanea mi appaiono oggi più lontane e più cancellate dal tempo che non i miti o le oscure leggende ai quali io le avevo per un attimo confuse. Stilisticamente parlando, Fuochi appartiene a quella maniera tesa e ornata che fu la mia per un certo periodo, in alternanza a quella del racconto classico, discreto quasi all’eccesso. Ugualmente lontana oggi dall’una e dall’altra, ho parlato altrove di quelle che mi sembrano tuttora le virtù della narrazione classica alla francese, della sua espressione astratta delle passioni, del controllo apparente o reale al quale essa obbliga l’autore. Senza alcun pregiudizio circa i meriti o i demeriti di Fuochi, tengo altresì a dire che l’espressionismo quasi estremo di queste poesie continua a sembrarmi una forma di confessione naturale e necessaria, uno sforzo legittimo per non perdere nulla della complessità di un’emozione o del suo fervore. Questa tendenza che persiste o rinasce a ogni epoca in tutte le letterature, nonoX
stante sagge restrizioni puriste o classiche, si ostina, forse in modo chimerico, a creare un linguaggio totalmente poetico, dove ogni parola, caricata di un massimo di senso, rivelerebbe i suoi valori nascosti come sotto una certa illuminazione si rivelano le fosforescenze delle pietre. Si tratta sempre di concretizzare il sentimento o l’idea in forme fattesi esse stesse preziose (l’aggettivo è già in sé rivelatore), come quelle gemme che devono la loro densità e il loro splendore alle pressioni e alle temperature pressoché insostenibili che hanno dovuto attraversare, o magari si tratta di ottenere dal linguaggio le torsioni sapienti dei ferri battuti del Rinascimento, i cui complicati intrichi sono stati all’inizio del ferro incandescente. Ciò che si può dire di peggio di simili audacie verbali è che colui che vi si arrischia corre perpetuamente il rischio dell’abuso e dell’eccesso, proprio come lo scrittore votato alle litoti classiche sfiora continuamente il pericolo dell’eleganza secca e dell’ipocrisia. Se il lettore può sovente non vedere che preziosismo nel peggior senso della parola in ciò che io preferirei definire espressionismo barocco, capita qui in realtà che nove volte su dieci il poeta ha ceduto al desiderio di sbalordire, di piacere o decisamente di non piacere; capita altresì che quello stesso lettore sia incapace di approfondire del tutto l’idea o l’emozione che il poeta gli offre, e in cui ha il torto di non vedere che metafore forzate o freddi concetti. Non è colpa di Shakespeare, ma colpa nostra, se, quando il poeta paragona il suo amore per il destinatario dei Sonetti a una tomba pavesata di trofei delle sue antiche passioni, noi non sentiamo garrire su di noi tutti gli stendardi dell’epoca elisabettiana. Non è colpa di Racine, ma è colpa nostra, se il famoso verso pronunciato da Pirro innamorato di Andromaca, “Bruciato da più fuochi di quanti mai ne accesi” non ci fa scorgere dietro quella passione disperata l’immenso braXI
ciere di Troia, né ci fa sentire in ciò che ai lettori sensibili non pare che un banale equivoco indegno del grande Racine, l’oscuro ritorno su se stesso dell’uomo che è stato spietato e comincia a sapere che cosa significhi soffrire. Questo verso in cui Racine, grazie a un procedimento frequente in lui, ravviva la metafora dei fuochi dell’amore, già vecchia al suo tempo, rendendogli lo splendore delle fiamme autentiche, ci riporta alla tecnica del gioco di parole lirico, che per così dire fa tracciare alla parola stessa i due rami di una parabola. Se, per ritornare a Fuochi, Fedra afferra per la sua discesa agli Inferi dei remi che sono nello stesso tempo quelli di Caronte e quelli della metropolitana, significa che il flusso umano che preme nelle ore di punta nei corridoi sotterranei delle nostre città è forse per noi la più spaventosa immagine del fiume delle ombre; se Teti è nello stesso tempo la madre e il mare, è perché quest’equivoco, che del resto ha senso soltanto in francese, unifica il doppio aspetto di Teti madre di Achille e di Teti divinità delle onde. Potrei moltiplicare gli esempi che in Fuochi valgono ciò che valgono. L’importante è di tentare d’indicare in questi giochi (dove il senso di una parola gioca davvero nella sua struttura sintattica), non una forma deliberata di affettazione o di scherzo, ma come nel lapsus freudiano e nelle associazioni di idee doppie e triple del delirio e del sogno, una reazione del poeta alle prese con un tema particolarmente ricco per lui di emozioni e di rischi. In una mia opera più recente, e quanto mai lontana da qualsiasi ricerca di stile, e per conseguenza da qualsiasi affermazione di poetica stilistica, è avvenuto spontaneamente, senza immaginare che ne sarebbe risultato un gioco di parole, che io ho dato al carceriere della prigione dove agonizza il protagonista del libro, il nome di Hermann Mohr, che in francese richiama la morte. XII
Ho un bel dire (eppure in principio è vero) che una raccolta di poesie d’amore non ha bisogno di commenti: so che ho l’aria di aggirare l’ostacolo soffermandomi così a lungo su particolarità stilistiche o tematiche, dopotutto secondarie, e passando sotto silenzio l’esperienza passionale che ha ispirato il libro. Ma, oltreché sentire il ridicolo di commentare troppo lungamente un’opera che desideravo non fosse mai letta, non è qui il luogo adatto a discutere se l’amore totale per una particolare creatura, con ciò che comporta di rischio per sé e per l’altro, d’inevitabile inganno, di abnegazione e di umiltà autentiche, ma altresì di violenza latente e di egoistiche esigenze, meriti o no il posto privilegiato che gli hanno riservato i poeti. Ciò che appare evidente è che questa nozione dell’amore puro, a volte scandaloso ma pur tuttavia imbevuto di una specie di virtù mistica, non sembra possa sussistere se non associato a una qualsiasi forma di fede nella trascendenza, non fosse che all’interno della persona umana, e che una volta privato del sostegno di certi valori metafisici e morali oggi disprezzati, forse perché i nostri predecessori ne hanno fatto un abuso, il folle amore smette presto di essere altro che un vano gioco di specchi o una triste mania. In Fuochi, dove credevo di limitarmi a glorificare un amore molto concreto, o forse a esorcizzarlo, l’idolatria dell’essere amato si associa molto visibilmente a passioni più astratte, ma non meno intense, che talvolta prevalgono sull’ossessione sentimentale e carnale: in “Antigone o della Scelta”, la scelta di Antigone è la giustizia; in “Fedone o della Vertigine”, la vertigine è quella della conoscenza; in “Maria Maddalena o della Salvezza”, la salvezza è Dio. Non c’è sublimazione, secondo le pretese di una formula decisamente infelice e offensiva per la carne stessa, ma oscura percezione che l’amore per una data persona, cosi lancinante, spesso non è che un bell’incidente di passaggio, in certo senso meno reale che certe predisposizioni o XIII
certe scelte che l’hanno preceduto e dureranno dopo di lui. Attraverso la foga o la disinvoltura inseparabili da questo genere di confessioni quasi pubbliche, certi passi di Fuochi mi sembrano oggi racchiudere verità intraviste molto presto, ma che poi tutta la vita non sarebbe stata di troppo per tentare di ritrovare e di autenticare. Questo ballo in maschera è stato una delle tappe di una presa di coscienza.
2 novembre 1967
XIV
A Hermès
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Spero che questo libro non venga mai letto. * * * C’è fra di noi qualcosa che è meglio dell’amore: è una complicità. * * * Assente, il tuo volto si dilata tanto da colmare l’universo. Passi allo stato fluido, quello dei fantasmi. Presente, si condensa; e raggiungi la concentrazione dei metalli più pesanti, l’iridio, il mercurio. Mi fa morire, quel peso, cadendomi sul cuore.
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* * * Si è ingannato Paolo l’ammirevole. (Parlo del grande sofista e non del grande predicatore.) Per ogni pensiero, per ogni amore che abbandonato a se stesso potrebbe venir meno, esiste un cordiale stranamente energico: TUTTO IL RESTO DEL MONDO, che gli si oppone, senza averne il valore. * * * Solitudine... Io non credo come credono loro, non vivo come vivono loro, non amo come amano loro... Morrò come loro. * * * L’alcool snebbia. Dopo qualche sorsata di cognac non penso più a te.
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FEDRA O DELLA DISPERAZIONE
Fa tutto, Fedra. Lascia sua madre al toro, sua sorella alla solitudine: queste forme d’amore non l’interessano. Abbandona il suo paese come si rinunzia ai sogni; rinnega la famiglia come ci si sbarazza dei ricordi. Fra gente per cui l’innocenza è un crimine, contempla disgustata quello che lei stessa prima o poi diventerà. Il suo destino le fa orrore, visto dall’esterno: non lo conosce ancora se non in forma d’iscrizione sul muro del Labirinto: è con la fuga che si strappa al suo orrendo futuro. Sposa distrattamente Teseo, come santa Maria Egiziaca pagava con il proprio corpo il prezzo del pedaggio. Lascia che sprofondino a ovest in una nebbia di favola i giganteschi macelli di quella certa sua America cretese. Sbarca, impregnata dell’odore del ranch e dei veleni di Haiti, senza il sospetto di portare con sé la lebbra contratta sotto un torrido tropico del cuore. Il suo stupore alla vista di Ippolito è quello di una viaggiatrice che si accorga di aver percorso inavvertitamente il cammino all’indietro: il profilo di quell’adolescente le ricorda Cnosso e la scure a doppio taglio. Lei lo odia, lei lo alleva; è contro di lei che lui cresce, respinto dal suo odio, uso da sempre a diffidare delle 3
donne, costretto fin dal collegio, fin dalle vacanze di Capodanno a saltare tutti gli ostacoli che gli frappone l’ostilità di una matrigna. Lei è gelosa delle sue frecce, ossia delle sue vittime; dei suoi compagni, ossia della sua solitudine. In quella foresta vergine che è il luogo d’Ippolito, lei rizza suo malgrado i pali indicatori del palazzo di Minosse: traccia in mezzo a quella sterpaglia la strada a senso unico della Fatalità. Crea Ippolito, momento per momento; è proprio un incesto il suo amore; non può uccidere quel ragazzo senza una specie d’infanticidio. Gli fabbrica la bellezza, la castità, le debolezze; le estrae dalle profondità di se stessa; di lui isola quella detestabile purezza per poterlo odiare sotto le smorte sembianze di una vergine: e plasma da cima a fondo l’inesistente Aricia. Si inebria del gusto dell’impossibile, l’unico alcool su cui immancabilmente si basino tutte le misture dell’infelicità. Nel letto di Teseo gusta l’amaro piacere d’ingannare nella realtà colui che ama e nell’immaginazione colui che non ama. È madre: ha figli come se avesse rimorsi. Fra le sue umide lenzuola di febbricitante si consola con bisbigli di confessione risalenti alle confidenze infantili balbettate nel collo della nutrice; succhia la mammella del dolore; alla fine diventa la miserevole serva di Fedra. Dinanzi alla freddezza d’Ippolito imita il sole quando urta un cristallo: si trasforma in spettro. Non abita più il suo corpo se non come il suo stesso inferno. Ricostruisce al fondo di sé un Labirinto in cui non può che ritrovarsi: il filo d’Arianna non le permette più di uscirne, dal momento che se lo avvolge intorno al cuore. Diventa vedova, finalmente può piangere senza che gliene chiedano il perché; ma il nero non giova a quel viso cupo: accusa il suo lutto di illudere sul suo dolore. Sbarazzata di Teseo, porta la sua speranza come una vergognosa gravidanza postuma. Si dà alla 4
politica per distrarsi da se stessa: accetta la Reggenza quasi cominciasse a sferruzzarsi uno scialle. Il ritorno di Teseo avviene troppo tardi per ricondurla nel mondo delle formule in cui quell’uomo di Stato si rannicchia; lei non riesce a rientrarvi che di sbieco, con un sotterfugio; e s’inventa gioia per gioia lo stupro di cui accusa Ippolito, così che la menzogna le diventa appagamento. Dice la verità: ha subito l’estremo oltraggio; la sua impostura è una traduzione. Prende il veleno, poiché contro se stessa è mitridatizzata; la scomparsa d’Ippolito le fa il vuoto intorno; aspirata da quel vuoto, s’inabissa nella morte. Prima di morire si confessa, per avere un’ultima volta il piacere di parlare del suo delitto. Senza mutare luogo raggiunge il palazzo avito dove la colpa è innocenza. Spinta dalla folla degli antenati scivola lungo quei corridoi da metropolitana pieni di un odore di bestia, dove i remi fendono l’acqua grassa dello Stige, dove i binari lucidi non propongono che il suicidio o la partenza. Al fondo dei cunicoli da miniera della sua Creta sotterranea finirà pure per incontrare il giovane uomo sfigurato dai suoi morsi di belva, dal momento che per raggiungerlo si trova a disposizione tutti i circuiti dell’eternità. Non lo ha rivisto dopo la scena madre del terzo atto; è per causa di lui che lei è morta; è per causa di lei che lui non ha vissuto; lui non le deve che la morte; lei gli deve i soprassalti di un’inestinguibile agonia. Ha il diritto, lei, di addossargli il proprio crimine, la propria immortalità sospetta sulle labbra dei poeti che di lei si serviranno per esprimere le loro aspirazioni all’incesto, come il guidatore che giace sulla strada, con il cranio fracassato, può accusare l’albero contro cui è andato a cozzare. Come ogni vittima, è stato lui il suo boia. Parole definitive potranno finalmente 5
uscire dalle sue labbra che la speranza non fa più tremare. Che cosa dirà? Indubbiamente grazie.
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In aereo, accanto a te, non temo più il pericolo. Non si muore che soli. * * * Io non sarò mai vinta. Non lo sarò che a forza di vincere. Poiché ogni trappola evitata mi rinchiude nell’amore che finirà per essere la mia tomba, finirò la mia vita in una segreta di pure vittorie. Sola, la disfatta trova chiavi, apre porte. Per raggiungere il fuggiasco, la morte deve mettersi in movimento, perdere quella fissità che ci fa riconoscere in lei il duro contrario della vita. Ci offre la fine del cigno colpito in pieno volo, di Achille afferrato per i capelli da chissà quale oscura Minerva. Come per la donna asfissiata nel vestibolo della sua casa a Pompei, la morte non fa che prolungare nell’altro mondo i corridoi della fuga. Per me, la morte sarà di pietra. Conosco le passerelle, i ponti girevoli, le trappole, tutte le zappe della Fatalità. Non mi ci posso perdere. La morte, per uccidermi, avrà bisogno della mia complicità. 7
* * * Hai osservato che i fucilati si ripiegano, cadono in ginocchio? Del tutto rilasciati nonostante le corde, si afflosciano come in un postumo svenimento. Fanno come me. Adorano la loro morte. * * * Non esiste un amore infelice: non si possiede se non ciò che non si possiede. Non esiste un amore felice: ciò che si possiede, non lo si possiede più. * * * Non c’è nulla da temere. Ho toccato il fondo. Non posso cadere più in basso del tuo cuore.
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ACHILLE O DELLA MENZOGNA
Ogni lampada era stata spenta. Le serve, nella sala inferiore, tessevano di nascosto i fili di un’imprevedibile trama che diventava quella delle Parche; un inutile arazzo pendeva dalle mani di Achille. L’abito nero di Misandra non si distingueva più dall’abito rosso di Deidamia; l’abito bianco di Achille era verde sotto la luna. Dopo l’arrivo di quella giovane straniera in cui tutte le donne fiutavano un dio, il timore si era insinuato nell’Isola come un’ombra stesa sotto i piedi della bellezza. La luce non era più la luce, ma la maschera bionda sovrapposta alle tenebre; i seni delle donne diventavano corazze su petti di soldati. Da quando Teti aveva visto formarsi negli occhi di Giove il film delle lotte in cui avrebbe dovuto soccombere Achille, aveva cercato in tutti i mari del mondo un’isola, uno scoglio, un letto di sufficiente tenuta stagna da galleggiare sull’avvenire. Quella dea agitata aveva rotto i cavi sottomarini che trasmettevano fino all’Isola le scosse delle battaglie, spaccato l’occhio del faro che dava istruzioni alle navi, cacciato a colpi di tempeste gli uccelli migratori che portavano a suo figlio messaggi di commilitoni. Come le contadine mettono vesti femminili ai loro ragazzi malati per sviare la 9
Febbre, così lei l’aveva rivestito con le sue tuniche di dea per ingannare la Morte. Quel figlio contagiato di mortalità le ricordava l’unico errore della sua giovinezza divina: si era coricata accanto a un uomo senza prendere la banale precauzione di mutarlo in dio. In lui si ritrovavano i tratti di quel rozzo giovane, rivestiti di una bellezza ereditata da lei sola, e che un giorno gli avrebbe reso più penoso l’obbligo di morire. Inguainato di seta, velato da garze, appesantito da collane d’oro, Achille era entrato di soppiatto per suo ordine nella torre delle fanciulle. Aveva appena lasciato il collegio dei Centauri: stanco di foreste, sognava capigliature; stanco di petti selvaggi, sognava seni. Il nascondiglio femminile dove lo rinchiudeva sua madre diventava per quell’imboscato una sublime avventura; sotto la protezione di un corsetto o di una gonna si trattava di entrare in quel vasto e inesplorato continente delle Donne dove l’uomo fino a quel momento non era penetrato se non come vincitore, e alla luce degli incendi dell’amore. Transfuga dal campo dei maschi, Achille veniva qui a correre il rischio unico di essere altro da sé. Per gli schiavi apparteneva alla razza asessuata dei padroni; il padre di Deidamia spingeva la propria aberrazione fino ad amare in lui la vergine che non era; soltanto le due cugine si rifiutavano di credere a quella fanciulla troppo simile all’immagine ideale che un uomo si fa delle donne. Quel ragazzo che ignorava le realtà dell’amore cominciava nel letto di Deidamia a esercitarsi nelle lotte, nei rantoli, nei sotterfugi; le sue estenuazioni sopra quella tenera vittima servivano da succedaneo a una gioia più terribile che non sapeva dove attingere, di cui ignorava il nome e che altro non era che la Morte. L’amore di Deidamia, la gelosia di Misandra rifacevano di lui il duro contrario di una fanciulla. Le passioni fluttuavano nella torre 10
come sciarpe tormentate dal vento. Achille e Deidamia si odiavano come quelli che si amano; Misandra e Achille si amavano come quelli che si odiano. Quella muscolosa nemica diventava per Achille l’equivalente di un fratello; quel rivale delizioso inteneriva Misandra come una specie di sorella. Ogni onda in transito sull’Isola recava messaggi: cadaveri greci, spinti in alto mare da venti inauditi, erano altrettanti relitti dell’armata che aveva fatto naufragio per il mancato soccorso di Achille; fari lo cercavano in cielo, dissimulato in astro. La gloria, la guerra, confusamente intraviste nelle brume dell’avvenire, gli apparivano come amanti esigenti per il cui possesso si sarebbe addossato troppi crimini: al fondo di quella prigione di donne credeva di sfuggire alle pressioni delle sue vittime future. Una barca pregnante di re si arrestò ai piedi del faro spento, che sembrava solamente uno scoglio in più: Ulisse, Patroclo, Tersite, avvertiti da una lettera anonima, avevano annunciato la loro visita alle principesse; Misandra, all’improvviso compiacente, aiutava Deidamia a puntare forcelle nella chioma di Achille. Le sue grandi mani tremavano come se le fosse caduto a terra un segreto. Le porte spalancate fecero entrare la notte, i re, il vento, il cielo traboccante di segni. Tersite ansimava, affaticato dei mille gradini della scala, soffregandosi fra le mani quelle sue aguzze ginocchia d’infermo: sembrava un re spilorcio che facesse da buffone a se stesso. Patroclo, esitando davanti a quel furetto annidato nei recessi delle Signore, tendeva a casaccio le sue mani dal guanto di ferro. La testa di Ulisse ricordava una moneta logora, consunta, arrugginita, dove ancora affiorassero le sembianze del re d’Itaca: con la mano a visiera sugli occhi, come sull’alto di un albero di nave, osservava la triplice statua femminile delle principesse addossate al muro; e i ca11
pelli corti di Misandra, le sue grandi mani che scuotevano quelle dei capi, la sua disinvoltura, gliela fecero sulle prime scambiare per il nascondiglio di un maschio. I marinai della scorta schiodavano casse, ne estraevano, mescolate agli specchi, ai gioielli, agli astucci di smalto, quelle armi che certamente Achille di lì a poco si sarebbe affrettato a brandire. Ma i caschi maneggiati da quelle sei mani laccate ricordavano quelli in uso presso i parrucchieri; i cinturoni rilasciati si trasformavano in cinture; nella braccia di Deidamia uno scudo rotondo sembrava una culla. Come se il travestimento fosse un sortilegio maligno al quale nulla sfuggiva nell’Isola, l’oro si faceva vermeil, i marinai diventavano dei travestiti, e i due re venditori ambulanti. Soltanto Patroclo resisteva all’incantesimo, l’infrangeva come una spada nuda. Un grido d’ammirazione di Deidamia lo indicò all’attenzione d’Achille che balzò verso quella spada viva, prese fra le mani la dura testa cesellata come il pomo di una sciabola, senz’accorgersi che i suoi veli, i suoi braccialetti, i suoi anelli mutavano il suo gesto nello slancio di un’innamorata. La lealtà, l’amicizia, l’eroismo cessavano d’essere parole utili agli ipocriti che vogliono travestirsi l’anima: lealtà era lo sguardo rimasto limpido di fronte a quel cumulo di menzogne; amicizia i loro cuori, gloria il loro doppio avvenire. Patroclo respinse arrossendo quella stretta femminile: Achille indietreggiò, lasciò pendere le braccia, versò lacrime buone soltanto a dare l’ultimo tocco al suo travestimento da ragazza, ma anche a offrire a Deidamia un’ulteriore ragione di preferire Patroclo. Qualche occhiata, certi sorrisi intercettati come biglietti amorosi, il turbamento del giovane alfiere quasi naufrago in quell’ondata di pizzi trasformarono in gelosia furiosa lo smarrimento d’Achille. Quel ragazzo vestito di bronzo eclissava le imma12
gini notturne che Deidamia conservava di Achille, proprio come una divisa, ai suoi occhi di donna, aveva la meglio sulla pallida luminosità di un corpo nudo. Achille afferrò goffamente un pugnale, lo gettò subito, per stringere il collo di Deidamia si servì delle sue mani di fanciulla invidiosa del successo di una compagna. Gli occhi della strangolata schizzarono fuori come due lunghe lacrime; schiavi si precipitarono; le porte che si richiudevano con il rumore di migliaia di sospiri soffocarono gli ultimi sussulti di Deidamia: sconcertati, i re si ritrovarono al di là della soglia. La camera delle Signore fu invasa da un’oscurità soffocante, interna, assolutamente estranea alla notte. Achille inginocchiato ascoltava la vita di Deidamia sfuggirle dalla gola come un’acqua dall’imboccatura troppo stretta di un vaso. Si sentiva più separato che mai da quella donna che lui aveva tentato non soltanto di possedere ma di essere: fattasi sempre meno prossima via via che lui aumentava la stretta, l’enigma di essere una morta si era aggiunto in lei al mistero di essere una donna. Palpava con orrore i suoi seni, i suoi fianchi, i suoi capelli nudi. Si alzò, tastando i muri andò dove più nessuno scampo si offriva, vergognoso di non aver riconosciuto nei re gli emissari segreti del suo proprio coraggio, certo di essersi lasciato sfuggire l’unica occasione di essere un dio. Gli astri, la vendetta di Misandra, l’indignazione del padre di Deidamia si sarebbero uniti per tenerlo chiuso in quel palazzo senza facciata sulla gloria. I suoi mille passi intorno a quel cadavere, ecco in che cosa sarebbe consistita ormai l’immobilità di Achille. Mani quasi fredde quanto quelle di Deidamia gli si posarono sulla spalla: sbalordito, udì Misandra proporgli di fuggire prima che su di lui si abbattesse la collera di quel padre onnipotente. Abbandonò il polso alla mano di quell’amica 13
fatale, accordò il passo al passo di quella fanciulla così avvezza alle tenebre, senza sapere se Misandra obbedisse a un rancore o a una torva gratitudine, se lui avesse per guida una donna che si vendicava o una donna che lui aveva vendicata. Battenti si scostavano, poi si richiudevano: le mattonelle consunte si abbassavano dolcemente sotto i loro piedi come un molle incavo d’onda; Achille e Misandra proseguivano sempre più in fretta la loro discesa a spirale, come se la loro vertigine fosse una gravità. Misandra contava gli scalini, sgranava a voce alta una specie di rosario di pietra. Finalmente una porta si aprì sulla scogliera, le dighe, le scale del faro: l’aria salata come il sangue e le lacrime zampillò in faccia a quella strana coppia inebriata da tanta marea di freschezza. Con una risata aspra, Misandra, prendendola per la gonna, fermò la bella creatura già sul punto di spiccare il salto, le tese uno specchio in cui l’alba le permetteva di trovare il suo viso, come se non avesse acconsentito a guidarla all’aperto se non per infliggerle, in un riflesso più terribile del vuoto, la prova scialba e imbellettata della sua non-esistenza di dio. Ma il suo pallore marmoreo, i suoi capelli ondeggianti come la criniera di un casco, il suo rossetto misto a lacrime che le si coagulava sulle guance come il sangue di un ferito, riunivano anzi in quell’angusta cornice tutti i futuri aspetti d’Achille, come se l’esile scaglia di specchio avesse imprigionato l’avvenire. Il bell’essere solare si strappò la cintura, snodò la sciarpa, volle sbarazzarsi di quelle asfissianti mussoline, ma temette d’esporsi ancor più al fuoco delle sentinelle se mai avesse avuto l’imprudenza di mostrarsi nudo. Per un attimo la più dura di quelle due donne divine si curvò sul mondo, in dubbio se prendere sulle proprie spalle il peso del destino d’Achille, di Troia in fiamme e di Patroclo vendicato, dal 14
momento che nemmeno il più perspicace fra gli dèi o fra i macellai sarebbe stato in grado di distinguere quel cuore d’uomo dal suo cuore. Prigioniera dei suoi seni, Misandra scostò i due battenti che gemettero per lei, con il gomito spinse Achille verso tutto quanto lei non sarebbe stata. La porta si richiuse sulla sepolta viva: lanciato come un’aquila, Achille corse lungo le rampe, scivolò per gli scalini, piombò giù dai bastioni, saltò precipizi, rotolò come una melagrana, filò come una freccia, volò come una Vittoria. Gli spigoli della roccia gli laceravano gli abiti senza mordere la sua carne invulnerabile: l’agile creatura si fermò, si sciolse i sandali, offrì alle sue piante nude una possibilità di essere ferite. La squadra levava l’ancora: richiami di sirene s’incrociavano sul mare; la sabbia agitata dal vento recava appena il segno dei piedi leggeri d’Achille. Una catena tesa dalla risacca ammarava al molo la barca già tutta ansimante di macchine e di partenza: Achille s’insinuò su quel cavo delle Parche, con le braccia spalancate, sorretto dalle ali delle sue sciarpe ondeggianti, protetto come da una nube bianca dai gabbiani della sua Madre marina. Un salto issò a poppa della nave d’alto bordo quella fanciulla spettinata in cui nasceva un dio. I marinai s’inginocchiarono, proruppero in grida, salutarono con bestemmie di meraviglia l’arrivo della Vittoria. Patroclo tese le braccia, credette di riconoscere Deidamia; Ulisse scosse il capo; Tersite scoppiò in una risata. Nessuno sospettava che quella dea non fosse donna.
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Un cuore, una cosa piuttosto sudicia. Di competenza della tavola anatomica e della vetrina del macellaio. Preferisco il tuo corpo. * * * Intorno a noi c’è l’atmosfera di Leysin, del Montana, dei sanatori d’alta montagna con vetrate da acquario, riserve gigantesche dove instancabile la Morte viene a pesca. I malati sputano confidenze sanguinolente, si scambiano bacilli, confrontano indici di febbre, s’instaurano in un cameratismo di rischi. Fra te e me, chi ha più caverne? * * * Dove trovare scampo? Tu riempi il mondo. Non posso fuggire che in te stesso.
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* * * Il Destino è gioviale. Chi presta alla Fatalità chissà che bella maschera tragica non ne conosce che i travestimenti teatrali. Un tetro sconosciuto burlone ripete la stessa traccia grossolana fino alle nausee dell’agonia. Aleggia intorno alla Sorte un vago odore di camera dei bambini, di scatola verniciata da cui spuntano i diavoli dell’Abitudine, di armadi da cui le nostre bambinaie, infagottate in modo grottesco, balzavano fuori di colpo nella speranza di farci urlare. I personaggi dei tragici trasalgono, bruscamente disturbati dalla rozza risata del tuono. Prima di essere cieco, Edipo, per tutta la vita, non ha fatto altro che giocare a mosca cieca con la Sorte. * * * Per quanto io muti, non muta la mia sorte. Qualsiasi figura può essere inscritta all’interno di un cerchio. * * * Ricordiamo i nostri sogni: non ricordiamo i nostri sonni. Soltanto due volte sono penetrata in quei fondali solcati da correnti dove i nostri sogni non sono che relitti di realtà sommerse. L’altro giorno, ebbra di felicità come si è ebbri d’aria alla fine di una lunga corsa, mi sono buttata sul letto come un tuffatore che si lanci di schiena, con le braccia in croce: ho oscillato in un mare azzurro. Addossata all’abisso come una nuotatrice che faccia il morto, sostenuta dalla bombola d’ossigeno dei miei polmoni pieni d’aria, emersi da quel 17
mare greco come un’isola neonata. Questa sera, ubriaca d’angoscia, mi lascio cadere sul letto con i gesti di un’annegata che non opponga resistenza: cedo al sonno come all’asfissia. Correnti di ricordi persistono attraverso l’abbrutimento notturno, mi trascinano verso una specie di lago Asfaltide. Impossibile sprofondare in quell’acqua satura di sale, amara come la secrezione delle palpebre. Fluttuo come la mummia sul suo bitume, nell’apprensione di un risveglio che tutt’al più sarà sopravvivenza. Il flusso, poi il riflusso del sonno mi capovolgono mio malgrado su questa spiaggia di batista. A ogni istante le ginocchia mi cozzano contro il ricordo di te. Il freddo mi ridesta, quasi mi fossi coricata accanto a un morto. * * * Sopporto le tue mancanze. Ci si rassegna alle mancanze di Dio. Sopporto la tua mancanza. Ci si rassegna in mancanza di Dio. * * * Un figlio è un ostaggio. La vita ci ha catturati. * * * Lo stesso avviene con un cane, una pantera o un cinghiale. Leda diceva: “Non sono più libera di suicidarmi da quando ho comprato un cigno.” 18
PATROCLO O DEL DESTINO
Scendeva sulla pianura la notte, o piuttosto una luce madreperlacea: sarebbe stato difficile dire in che direzione si dirigesse il crepuscolo. Le torri parevano rocce, ai piedi di montagne che parevano torri. Cassandra urlava sulle mura, in preda all’orribile travaglio di far nascere l’avvenire. Il sangue si coagulava, come un belletto, sulle guance irriconoscibili dei cadaveri; Elena si passava su quella bocca da vampiro un rossetto che ricordava il sangue. Da anni si erano stabiliti laggiù in una specie di consuetudine rossa in cui la pace si mescolava alla guerra come la terra all’acqua nelle fetide regioni paludose. La prima generazione di eroi che avevano accolto la guerra come un privilegio, quasi come un’investitura, mietuta dalle falci dei carri fu sostituita da un contingente di soldati che l’accettarono come un dovere, poi la subirono come un sacrificio. L’invenzione dei carri armati aprì enormi brecce in quei corpi che non esistevano più che come baluardi; una terza ondata di assalitori si precipitò contro la morte; questi giocatori che a ogni colpo puntavano la loro vita caddero alla fine come ci si suicida, colpiti dalla pallina in piena casella rossa del cuore. Finito ormai il tempo di quelle eroi19
che tenerezze in cui l’avversario era il fosco rovescio dell’amico. Ifigenia era morta, fucilata su ordine di Agamennone, colpevole di essersi immischiata nell’ammutinamento degli equipaggi del Mar Nero; Paride era stato sfigurato dallo scoppio di una granata; Polissena era stata appena stroncata dal tifo all’ospedale di Troia; le Oceanidi inginocchiate sulla spiaggia non tentavano più di scacciare le mosche azzurre dal cadavere di Patroclo. Dal giorno della morte di quell’amico che aveva riempito il mondo e insieme lo aveva sostituito, Achille non lasciava più la sua tenda ammantata di ombre: nudo, sdraiato rasoterra come se si sforzasse di imitarne il cadavere, si lasciava rodere dai vermi dei suoi ricordi. La morte gli appariva sempre più come un rito consacratorio di cui sono degni soltanto i più puri: molti uomini si sbriciolano, pochi muoiono. Tutti i particolari significativi di cui si ricordava pensando a Patroclo: il suo pallore, quelle spalle rigide, appena appena risalenti, quelle mani sempre un po’ fredde, il peso del corpo che piombava nel sonno con la densità di una pietra acquistavano ora la pienezza del loro senso di attributi postumi, quasi che Patroclo, vivo, non fosse stato che un progetto di cadavere. L’odio inconfessato che dorme sul fondo dell’amore predisponeva Achille a una mansione di scultore: invidiava Ettore per aver completato un simile capolavoro; lui soltanto avrebbe dovuto strappare gli ultimi veli che il pensiero, il gesto, il fatto stesso di essere in vita interponevano fra di loro, per scoprire Patroclo nella sua sublime nudità di morto. Invano i capi troiani facevano dar fiato alle trombe per annunciare abili corpo a corpo, privi ormai dell’ingenuità dei primi anni di guerra: vedovo di quel compagno che meritava di essere un nemico, Achille non uccideva più, per non suscitare a Patroclo rivali d’oltretomba. Ogni tanto echeggiavano grida: ombre con l’elmo passavano sul muro rosso: da 20
quando Achille si rinchiudeva in quel morto, i vivi non gli si manifestavano che in forma di fantasmi. Un’umidità infida saliva dal nudo terreno; il passo di armate in marcia faceva tremare la tenda; i pali oscillavano in quella terra che non offriva più presa; i due campi riconciliati lottavano contro il fiume che si sforzava di annegare l’uomo: pallido, Achille entrò in quella notte da cui non sarebbe sorto nessun sole. Lungi dal vedere nei vivi i precari superstiti di un fatale maremoto ancora minaccioso, adesso erano i morti ad apparirgli sommersi dall’immondo diluvio dei vivi. All’acqua instabile, animata, informe, Achille contendeva le pietre e il cemento che servono a fare tombe. Quando l’incendio serpeggiante giù dalle foreste dell’Ida giunse fino al porto a leccare il ventre delle navi, Achille contro i tronchi, le vele, gli alberi stranamente fragili scelse il partito del fuoco che non teme di abbracciare i morti sui letti di legna dei roghi. Turbe bizzarre sbucavano dall’Asia come fiumi: preso dalla follia di Aiace, Achille sgozzava quella mandria senza nemmeno riscontrarvi dei lineamenti umani. Quei branchi destinati alle cacce dell’altro mondo, lui li mandava a Patroclo. Comparvero le Amazzoni; un’inondazione di seni ricoprì le colline del fiume; l’armata fremeva a quell’odore di velli nudi. Per tutta la sua vita le donne avevano rappresentato per Achille la parte istintiva della sciagura, quella di cui lui non aveva scelto la forma, che doveva subire, che non poteva accettare. Rimproverava a sua madre di aver fatto di lui un meticcio a metà strada fra il dio e l’uomo, togliendogli così la metà del merito che gli uomini hanno nel farsi dèi. Provava rancore nei suoi confronti per averlo portato da bambino ai bagni dello Stige per immunizzarlo contro la paura, come se l’eroismo non consistesse appunto nell’essere vulnerabile. Era amareggiato con le figlie di Licomede per non essersi accorte che il suo 21
travestimento era il contrario di una mascherata. Non perdonava a Briseide l’umiliazione di averla amata. La sua spada affondò in quella gelatina rosa, tagliò nodi gordiani di viscere; le donne urlanti, partorendo la morte per la breccia delle ferite, s’impigliavano come cavalli da corrida nel groviglio delle loro stesse interiora. Pentesilea si svincolò da quell’ammasso di donne calpestate, duro nocciolo di quella polpa nuda. Aveva abbassato la visiera perché nessuno si commuovesse guardandole gli occhi: lei soltanto osava rinunciare all’astuzia di essere senza veli. Con la corazza, l’elmo in capo e la maschera d’oro, quella Furia minerale non conservava d’umano che i capelli e la voce, ma i capelli erano d’oro, e di oro risuonava la sua voce pura. Sola fra le sue compagne, aveva consentito a farsi tagliare un seno, ma tale mutilazione era appena visibile su quel petto divino. Trascinarono fuori dell’arena le donne morte afferrandole per i capelli; i soldati si disposero a quadrato, trasformando in campo chiuso il campo di battaglia, spingendo Achille al centro di un cerchio dove la carneficina era per lui l’unica via di scampo. Su quello sfondo color kaki, feldgrau, blu orizzonte, l’armatura dell’Amazzone variava la sua forma con i secoli, le sue tinte secondo i proiettori. Con quella slava che di ogni finta faceva un passo di danza, il corpo a corpo diventava torneo, poi balletto russo. Achille avanzava, poi indietreggiava inchiodato a quel metallo che conteneva un’ostia, invaso da quell’amore che si ritrova in fondo all’odio. Con tutta la sua forza lanciò la spada, come per spezzare un incantesimo, spaccò l’esile corazza che interponeva fra lui e quella donna chissà che puro soldato. Pentesilea cadde come se cedesse, incapace di resistere a quello stupro di ferro. Infermieri si precipitarono; si udì crepitare la mitraglia delle riprese cinematografiche; mani impazienti scorticavano quel cadavere 22
d’oro. Alzata, la visiera scoprì, anziché un viso, una maschera dagli occhi ciechi che i baci non raggiungevano più. Achille singhiozzava, sosteneva il capo di quella vittima degna di essere un amico. Era l’unico essere al mondo che somigliasse a Patroclo.
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Non darsi più, è darsi ancora. Significa dare il proprio sacrificio. * * * Nulla di più improprio dell’amor proprio2. * * * Il delitto del pazzo è quello di preferirsi. Quest’empia preferenza mi ripugna in quelli che uccidono e mi spaventa in quelli che amano. La creatura amata non è più, per quel genere di avari, che una moneta d’oro su cui artigliare le dita. Non è più di un dio: è appena una cosa. Mi rifiuto di fare di te un oggetto, quand’anche fosse l’Oggetto Amato.
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Intraducibile gioco di parole fra sale (sporco) e propre (pulito, o proprio). (N.d.T.)
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* * * L’unico orrore è di non servire. Fai di me ciò che vorrai, uno schermo magari, magari del metallo buon conduttore. * * * Tu potresti sprofondare in blocco in quel nulla dove scompaiono i morti: io mi consolerei se tu mi lasciassi l’eredità delle tue mani. Soltanto le tue mani sopravvivrebbero, scisse da te, inesplicabili come quelle degli dèi di marmo diventati polvere e calce della loro stessa tomba. Sopravvivrebbero ai tuoi atti, ai corpi miserabili che hanno accarezzato. Non servirebbero più da intermediarie fra le cose e te: sarebbero mutate loro stesse in cose. Ridiventate innocenti, dal momento che non ci saresti più tu a farle tue complici, tristi come levrieri senza padrone, sconcertate come arcangeli a cui nessun dio dirami più ordini, le tue mani inutili riposerebbero sulle ginocchia delle tenebre. Le tue mani aperte, incapaci di dare o di prendere una gioia qualsivoglia, mi avrebbero lasciata cadere come una bambola rotta. Io bacio, all’altezza del polso, quelle mani indifferenti che la tua volontà non scosta più dalle mie; accarezzo l’arteria azzurra, quella colonna di sangue che un tempo sorgeva incessante come lo zampillo di una fontana dal suolo del tuo cuore. Con brevi singhiozzi soddisfatti io abbandono il capo come nell’infanzia fra quelle palme piene di stelle, di croci, di precipizi di ciò che fu il mio destino.
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* * * Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un corpo. * * * Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti lascio, il dolore sta al fondo del mio essere come una specie di orribile figlio.
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ANTIGONE O DELLA SCELTA
Che cosa manifesta il profondo del mezzogiorno? L’odio incombe su Tebe come un sole atroce. Dal tempo della morte della Sfinge, l’ignobile città è priva di segreti: tutto viene alla luce. L’ombra striscia lungo il basamento delle case, ai piedi degli alberi, come l’acqua dolciastra in fondo alle cisterne: le camere non sono più pozzi d’oscurità, magazzini di frescura. I passanti sembrano sonnambuli di un’interminabile notte bianca. Giocasta si è strangolata per non vedere più il sole. Si dorme in piena luce; si ama in piena luce. I dormienti sdraiati all’aperto hanno un aspetto da suicidi; gli amanti sono cani che si avvinghiano nel sole. I cuori sono aridi come i campi; il cuore del nuovo re è arido come la roccia. Tanta aridità chiama il sangue. L’odio infetta le anime; le radiografie del sole rodono le coscienze senza ridurne il cancro. Edipo è diventato cieco a forza di manipolare quei raggi cupi. La sola Antigone sopporta le frecce scoccate dalla lampada ad arco di Apollo, come se il dolore fosse per lei un paio di occhiali neri. Sta abbandonando questa cittadina d’argilla cotta i cui visi induriti sono fatti con la terra delle tombe; accompagna Edipo fuori delle porte spalancate che sembrano vomitarlo. Guida 27
lungo le vie dell’esilio quel padre che è insieme il suo tragico fratello maggiore: lui benedice il felice errore che l’ha buttato su Giocasta, come se l’incesto con la madre non fosse stato per lui che un mezzo per generarsi una sorella. Non avrà tregua finché non l’avrà visto riposare in una notte più definitiva della cecità umana, steso nel letto delle Furie che di colpo si trasformano in dee protettrici, dal momento che ogni dolore al quale ci si abbandona si muta in serenità. Lei rifiuta l’elemosina di Teseo che le offre abiti, biancheria fresca, un posto nella vettura pubblica per rientrare a Tebe: ritorna a piedi nella città che trasforma in delitto ciò che è soltanto un disastro, in esilio ciò che è soltanto una partenza, in castigo ciò che è soltanto una fatalità. Spettinata, sudata, oggetto di derisione per gli stolti, oggetto di scandalo per i saggi, eccola che segue nella nuda campagna la pista delle armate segnata da bottiglie vuote, scarpe sfondate, malati abbandonati che gli uccelli da preda scambiano già per morti. Si dirige verso Tebe come San Pietro rientra a Roma, per farvisi crocifiggere. Se la svigna attraverso le sette cerchie degli eserciti accampati intorno a Tebe, invisibile come una lampada nel rosseggiare dell’Inferno. Rientra per una porticina nascosta all’interno dei bastioni sormontati da teste tagliate come nelle città cinesi; sguscia per le strade svuotate dalla peste dell’odio, scosse fino alle fondamenta dal transito dei carri d’assalto; si arrampica fino alle piattaforme dove le donne e le ragazze ululano di gioia per ogni proiettile che non colpisca i loro cari; il suo viso esangue fra le lunghe trecce nere si allinea fra i merli negli interstizi delle teste tagliate. Non fa maggiore distinzione tra i suoi due fratelli nemici che fra il petto squarciato e le mani gocciolanti dell’uomo che si suicida: i gemelli non sono per lei che una sola stretta di dolore, come all’origine non 28
erano stati che un unico sussulto di gioia nel ventre di Giocasta. Attende la disfatta per votarsi al vincitore, come se la sciagura fosse un Giudizio Divino. Ridiscende, attratta dal peso del suo cuore verso i bassifondi del campo di battaglia; cammina sui morti come Gesù sulle onde. Fra quegli uomini livellati da un inizio di decomposizione, riconosce Polinice da quella sua nudità sinistramente esibita come un nulla da dichiarare, da quella sua solitudine che lo circonda come un picchetto d’onore. Volge la schiena alla volgare innocenza che consiste nel punire. Benché vivo, il cadavere ufficiale di Eteocle, raggelato dal successo, si trova già mummificato nella menzogna della gloria. Benché morto, Polinice esiste come il dolore. Non rischia più di finire cieco come Edipo, di vincere come Eteocle, di regnare come Creonte: non può irrigidirsi; può soltanto imputridire. Vinto, spogliato, morto, ha toccato il fondo della miseria umana: nulla s’interpone fra di loro, nemmeno una virtù, nemmeno un punto d’onore. Innocenti delle leggi, scandalosi fin dalla nascita, avviluppati nel delitto come in una stessa membrana, hanno in comune l’orribile verginità che consiste nel non appartenere a questo mondo: le loro due solitudini s’incontrano esattamente come due bocche nel bacio. Si curva su di lui come il cielo sulla terra, ricreando cosi nella sua integrità l’universo di Antigone: un oscuro istinto di possesso l’inclina verso quel colpevole che non le verrà conteso. Quel morto è l’urna vuota in cui versare d’un solo colpo tutto il vino di un grande amore. Le sue esili braccia sollevano a fatica quel corpo che le contenderanno gli avvoltoi: porta la sua creatura crocefissa come si porterebbe una croce. Dall’alto dei bastioni, Creonte vede venire quel morto sostenuto dalla sua anima immortale. Dei pretoriani si precipitano, trascinano fuori del cimitero quella 29
baccante della Resurrezione: le loro mani strappano forse sulla spalla di Antigone una tunica senza cuciture, s’impadroniscono del cadavere che già si dissolve, sfuma come un ricordo. Alleggerita del suo morto, quella ragazza dal viso abbassato sembra sopportare Dio. Creonte vede rosso guardandola, come se quei suoi stracci coperti di sangue fossero una bandiera. La città spietata ignora i crepuscoli: il giorno si abbruna di colpo, come una lampadina bruciata che non emetta più luce: se il re alzasse gli occhi, i lampioni di Tebe ora gli nasconderebbero le leggi scritte nel cielo. Gli uomini sono privi di destino se il mondo è privo di astri. La sola Antigone, vittima del diritto divino, ha ricevuto come appannaggio l’obbligo di perire, e questo privilegio può spiegare il loro odio. Eccola procedere in quella notte fucilata dai fari: i suoi capelli da pazza, i suoi cenci da mendicante, le sue unghie da scassinatrice mostrano fin dove deve giungere la carità di una sorella. In pieno sole, lei era l’acqua pura sulle mani insozzate, l’ombra nell’incavo dell’elmo, il fazzoletto sulla bocca dei trapassati. A notte piena, diventa una lampada. La sua devozione agli occhi di Edipo rifulge su milioni di ciechi; la sua passione per il fratello putrefatto rianima oltre il tempo miriadi di morti. Non si uccide la luce; si può soltanto soffocarla: si mette sotto il moggio l’agonia d’Antigone. Creonte la rigetta nelle fogne, nelle catacombe. Lei se ne ritorna al paese delle sorgenti, dei tesori, dei germogli. Respinge Ismene che è soltanto una sorella carnale; evita in Emone il rischio orribile di generare dei vincitori. Parte alla ricerca della sua stella situata agli antipodi della ragione umana, e che non può raggiungere se non attraverso la tomba. Emone convertito al dolore si precipita sui suoi passi per corridoi neri: quel figlio di uomo cieco è il terzo aspetto del suo tragico 30
amore. Egli giunge in tempo per vederla che appresta un complicato sistema di sciarpe e pulegge che le permetterà di evadere verso Dio. Il profondo meriggio parlava di furore: la profonda mezzanotte parla di disperazione. Il tempo non esiste più in quella Tebe privata d’astri; i dormienti stesi nel nero assoluto non vedono più la loro stessa coscienza. Creonte, coricato nel letto di Edipo, riposa sul duro cuscino della Ragione di Stato. Dei contestatori sparpagliati nelle strade, degli ubriachi della giustizia, inciampano su un po’ di notte e si stravaccano contro i paracarri. Di colpo, nell’istupidito silenzio della città che smaltisce il suo delitto, un battito sale dalle profondità della terra, si precisa, cresce, s’impone all’insonnia di Creonte, diventa il suo incubo. Creonte si alza, cammina a tastoni, trova la porta dei sotterranei di cui lui solo conosce l’esistenza, scopre nell’argilla del sottosuolo i passi del suo primogenito. Una vaga fosforescenza che emana da Antigone gli permette di riconoscere Emone appeso al collo dell’immensa suicida, preso nell’oscillazione di quel pendolo che sembra misurare l’ampiezza della morte. Legati l’uno all’altro come per aggravare il loro peso, il loro lento andirivieni li spinge ogni volta un po’ più dentro alla tomba, e quel peso palpitante rimette in moto il meccanismo degli astri. Quel rumore rivelatore attraversa i lastricati, i marmi, i muri d’argilla secca, riempie di un pulsare d’arterie l’aria inaridita. I divinatori si inginocchiano con l’orecchio contro il suolo, auscultano come dottori il petto della terra caduta in letargo. Il tempo riprende il suo corso al rumore dell’orologio di Dio. Il pendolo del mondo è il cuore di Antigone.
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Amare a occhi chiusi significa amare come un cieco. Amare a occhi aperti forse significa amare come un folle: accettare a fondo perduto. Io ti amo come una folle. * * * Mi resta un’ignobile speranza. Faccio assegnamento mio malgrado su una soluzione di continuità dell’istinto, l’equivalente, nella vita del cuore, del moto del distratto che sbaglia i nomi, le porte. Io ti auguro con orrore un tradimento, un fallimento, uno scandalo che ti allontani da tutti, solo per sempre. Un qualsiasi passo falso potrebbe farti cadere sul mio corpo. * * * Si arriva vergini a tutti gli avvenimenti della vita. Ho paura di non sapere come fare con il mio Dolore. 32
* * * Un dio vuole che io viva e ti ha ordinato di non amarmi più. Non sono brava a sopportare la felicità. Per mancanza d’abitudine. Fra le tue braccia non potevo che morire. * * * Utilità dell’amore. I voluttuosi si industriano a farne a meno nell’esplorazione del piacere. A niente serve il delirio nel corso di una serie di esperimenti sulle commistioni e combinazioni dei corpi. Poi ci si accorge che restano delle scoperte da fare in un emisfero oscuro. Di quello c’era bisogno perché imparassimo il Dolore.
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LENA O DEL SEGRETO
Lena era la concubina di Aristogitone e non tanto la sua amante quanto la sua serva. Abitavano in una casetta accanto alla cappella di San Sotiro: nel piccolo giardino lei coltivava le tenere zucchine e le abbondanti melanzane, salava le acciughe, tagliava in quarti la carne rossa dei cocomeri, scendeva a lavare la biancheria nel letto arido dell’Ilisso, badava che il suo padrone prendesse un foulard per non raffreddarsi dopo gli esercizi allo Stadio. Per compensarla di tante cure, lui si lasciava amare. Uscivano insieme: andavano nei piccoli caffè ad ascoltare i dischi che macinavano certe canzoni popolari ardenti e tristi come un sole oscuro. Era orgogliosa di vedere il ritratto di lui sulla prima pagina dei giornali sportivi. Si era iscritto agli incontri di boxe di Olimpia; aveva permesso che ci venisse anche lei: lei aveva sopportato senza protestare la polvere del viaggio, l’ambio stancante delle mule, le locande pidocchiose dove l’acqua costava più del miglior vino delle isole. Sulla strada, il rumore delle vetture era così insistente che non si udiva nemmeno più lo stridere delle cicale. Finché, un certo mezzogiorno, alla svolta di una collina aveva scoperto ai suoi piedi la vallata di Olimpia, cava come il palmo di 34
un dio che recasse in mano la statua della Vittoria. Un velo di calura ondeggiava sopra gli altari, sulle cucine e le botteghe della fiera di cui Lena bramava i gioielli di paccottiglia. Nella folla, per non perdere il padrone stringeva fra i denti un lembo del suo mantello. Aveva unto di grasso, ornato di nastri, imbrattato di baci gli idoli tanto buoni da non respingere le offerte di una serva; per il successo del padrone aveva recitato tutte quante le preghiere che sapeva, e urlato contro i suoi rivali tutte quante le sue maledizioni. Separata da lui durante le lunghe astinenze imposte agli atleti, se n’era stata tutta sola a dormire sotto la tenda, nel quartiere delle donne, fuori del recinto riservato ai concorrenti, scansando le mani tese nell’ombra, indifferente persino ai cartocci di semi di girasole che le vicine le offrivano. L’immaginazione del pugile era fitta di schiene massaggiate con l’olio e di teste rasate che non offrono presa alle mani: aveva l’impressione che Aristogitone la trascurasse per i suoi avversari; la sera delle Olimpiadi le era apparso nei corridoi dello Stadio, portato in trionfo, ansante come dopo l’amore, preda dello stile dei cronisti, delle lastre dei fotografi; le era parso che la tradisse con la Gloria. La sua vita di trionfatore trascorreva di festa in festa nel gran mondo: lei lo aveva visto uscire dal banchetto rituale in compagnia di un giovane aristocratico ateniese, ebbro di un’ebbrezza che le sarebbe piaciuto poter attribuire all’alcool, perché dal bere ci si disavvezza più in fretta che dalla felicità. Era rientrato ad Atene nella vettura di Armodio, abbandonando Lena alle cure di una delle sue vicine; era scomparso in un nugolo di polvere, rapito alle sue carezze come un morto o come un dio; l’ultima immagine che aveva registrato di lui era quella di una sciarpa ondeggiante su una nuca bruna. Come una cagna che segua di lontano sulla strada il padrone 35
partito senza di lei, Lena riprese in senso inverso il lungo cammino montuoso dove le donne affrettavano il passo, nei punti deserti, temendo di vedere i satiri. In ogni locanda di paese in cui entrava per comprare un po’ d’ombra e un caffè accompagnato da un bicchiere d’acqua, trovava l’oste ancora intento a contare le monete d’oro cadute con negligenza dalle tasche di quei due uomini: ovunque avevano preso le camere migliori, bevuto il miglior vino, costretto i cantanti a sbraitare fino all’alba: l’orgoglio di Lena, che era ancora amore, medicava le piaghe del suo amore, che era ancora orgoglio. A poco a poco il giovane dio predatore cessava di essere soltanto un volto, diventava per lei un nome, una storia, un breve passato. Il garagista di Patrasso la informò che si chiamava Armodio; il sensale di cavalli, a Pirgo, parlava dei suoi destrieri; il passatore dello Stige, costretto dalle sue mansioni a frequentare i morti, sapeva che era orfano e che suo padre era appena approdato sull’altra riva del tempo; i ladroni di strada non ignoravano che il tiranno d’Atene l’aveva colmato di ricchezze; le cortigiane di Corinto credevano di sapere che era bello. Tutti, perfino i mendicanti, perfino gl’idioti del villaggio, sapevano che riportava nella sua vettura da corsa il campione di boxe delle Olimpiadi: quel giovane raggiante non era più che la coppa, il vaso ornato di nobili bende, l’immagine lungocrinita della Vittoria. A Megara, la guardia del dazio raccontò a Lena che avendo Armodio rifiutato di cedere la strada al carro del capo dello Stato, Ipparco aveva violentemente rimproverato al giovane la sua ingratitudine, le sue frequentazioni plebee: i suoi militi si erano riappropriati a forza del carro fiammeggiante che lui certo non gli aveva regalato, diceva, per andarci a spasso in compagnia di un pugile. Alla periferia di Atene, Lena sobbalzò al rumore delle se36
diziose acclamazioni con cui, consumato da diecimila paia di labbra, le arrivava il nome del suo padrone; in onore del vincitore la gioventù aveva organizzato delle fiaccolate alle quali Ipparco si rifiutava di assistere: abeti strappati con le radici piangevano a calde lacrime la loro resina sacrificata. Nella casetta del rione San Sotiro, i danzatori, battendo il tacco con ritmo irregolare contro il lastricato del cortile, proiettavano sul muro un affresco mobile e nudo. Per non disturbare nessuno, Lena sgusciò dentro silenziosamente dalla porta della cucina. Le giare, le casseruole perdevano per lei il loro linguaggio familiare; mani maldestre avevano preparato un pasto; si tagliò un dito raccattando un bicchiere rotto. Cercò inutilmente di ammansire con qualche osso e qualche blandizia il levriero di Armodio sdraiato sotto la dispensa. Aveva sperato che il padrone le riportasse la lista dei pranzi ai quali partecipava nel bel mondo; ma nemmeno i suoi sorrisi comprendono lei; per sbarazzarsene, Aristogitone la spedisce ai lavori della vendemmia nella sua piccola fattoria in Decelia. Lei prevede nozze fra il suo padrone e la sorella di Armodio: pensa con orrore a una sposa, con sconforto a dei bambini. Vive nell’ombra che sulla strada proietta il bell’Eros delle nozze circondato di fiaccole. L’assenza di riti di fidanzamento non tranquillizza che a metà quell’innocente che s’inganna circa il pericolo: Armodio ha fatto entrare la sciagura in quella casa come un’amante velata; lei si sente abbandonata a favore di quella donna impalpabile. Una sera, un uomo nella cui fisionomia consunta lei non riconosce il volto moltiplicato all’infinito dai francobolli e dalle monete con l’effigie d’Ipparco, viene a bussare alla porta di servizio, chiede timidamente il tozzo di pane di una verità. Aristogitone rientrando per caso la trova seduta a tavola con quel mendicante so37
spetto; diffida troppo di lei per rimproverarla: lo buttano fuori dalla stanza improvvisamente piena di grida. Qualche giorno dopo, Armodio scopre ai piedi della sorgente Clessidra il suo amico vittima di un agguato: chiama Lena perché lo aiuti a trasportare sull’unico divano della casa il corpo del pugile tatuato di coltellate: le loro mani scurite dallo iodio s’incontrano sul petto del ferito. Lena vede disegnarsi sulla fronte curva di Armodio la piccola ruga preoccupata dell’Apollo che ammansisce le piaghe. Lei tende verso il giovane le grandi mani angosciate supplicandolo di salvarle il padrone: non si sorprende sentendo che si rimprovera ogni ferita quasi ne fosse lui il responsabile, tanto è naturale per lei che un dio sia nello stesso tempo salvatore e assassino. Il passo di una guardia in borghese su e giù per la stradetta deserta fa sobbalzare il ferito disteso sulla sedia a sdraio; il solo Armodio continua ad avventurarsi in città come se nessun coltello potesse aprirsi un passaggio nella sua carne, e questa noncuranza conferma Lena nell’idea che sia un dio. I due temono la sua lingua al punto di cercare di convincerla che l’aggressione del giorno prima altro non fosse che una rissa di ubriachi, certo nella paura che possa far pesare dal macellaio o dal droghiere dell’angolo le loro possibilità di vendetta. Lena si accorge con orrore che fanno assaggiare al cane gli stufati che lei prepara, come se le attribuissero delle buone ragioni per odiarli. Per farsi dimenticare, vanno in campeggio con qualche amico sul Parnaso, secondo la moda cretese; le nascondono l’ubicazione della caverna in cui dormono; lei ha l’incarico di portare le provviste e di metterle sotto una pietra come se si trattasse di morti vaganti ai confini del mondo: porta in offerta ad Aristogitone il vino nero, dei quarti sanguinolenti di carne senza riuscire a far parlare quello spettro 38
esangue che non le dà più baci. Quel sonnambulo del delitto non è più ormai che un morto incamminato verso la sua tomba, simile ai cadaveri degli Ebrei pellegrini verso Giosafat. Gli tocca timidamente le ginocchia, i piedi nudi, per assicurarsi che non siano di ghiaccio; crede di vedere nelle mani di Armodio la bacchetta da rabdomante di Ermete che guida le anime. Il loro rientro ad Atene si svolge fra i cani della paura e i lupi della vendetta: grottesche facce di signorotti scalcinati, di avvocati senza cause, di soldati senza domani sgusciano nella camera del padrone come ombre portate dalla presenza di un dio. Da quando Armodio si costringe per prudenza a non dormire più a casa sua, Lena confinata in soffitta non può vegliare il padrone ogni notte come si veglia un malato, rimboccandogli le coperte ogni sera come si fa con un bambino. Nascosta in terrazzo, guarda aprirsi e chiudersi instancabilmente la porta di quella casa colpita dall’insonnia: assiste senza capirci niente a quegli andirivieni, la spola del tessuto della vendetta. In vista di una festa sportiva la mettono a cucire croci uncinate su cappe di lana scura. Ardono lampade quella sera su tutti i tetti di Atene: le fanciulle nobili tirano fuori il vestito della prima comunione per la processione del giorno dopo: si rimettono in piega al fondo del santuario le chiome rosse della Vergine Santa: un milione di granelli d’incenso fumano sotto il naso di Atena. Lena si tiene sulle ginocchia la piccola Irini che ora abita da loro, perché Armodio teme che Ipparco si vendichi di lui facendogli rapire la giovane sorella. Lei trabocca di pietà per quella ragazzina che un giorno temeva tanto di veder entrare in casa con la corona di sposa, quasi fossero state tradite le loro comuni speranze. Passa la notte a smembrare rose rosse che la piccola deve gettare a piene mani al passaggio della Purissima Vergine: Ar39
modio affonda in quella cesta le sue mani impazienti che sembrano immergersi nel sangue. Nell’ora in cui Atene svela il suo viso di perla, Lena prende per mano la piccola Irini tutta eccitata nei suoi veli madreperlacei: sale con la saggia bambina le rampe dei Propilei... Diecimila fiammelle di ceri rilucono debolmente nella luce dell’alba come tanti fuochi fatui che non avessero avuto il tempo di ritornare alle loro tombe. Ancora ubriaco di incubi Ipparco strizza gli occhi davanti a tutto quel biancore, dà un’occhiata distratta alla fila candida e azzurra delle Figlie di Atena. Di colpo, una somiglianza detestata affiora per lui sul viso informe della piccola Irini: il padrone frenetico scuote le braccia della giovane ladra che osa appropriarsi di quegli esecrabili occhi, urla che caccino lungi dalla sua vista la sorella del miserabile che gli avvelena i sogni. La bambina cade in ginocchio; la cesta rovesciata riversa il suo rosso contenuto; le lacrime confondono sul volto della piccola l’abominevole e divina somiglianza. Nell’ora in cui il cielo è d’oro come quel cuore inalterabile, la brava Lena riporta a casa la piccola spettinata, privata del suo cestino: Armodio salta di gioia davanti a quel desiderato affronto. Lena inginocchiata sul selciato del cortile, con la testa oscillante come una lamentatrice funebre, si sente posare sulla fronte la mano di quel duro ragazzo che rassomiglia a Nemesi: gl’insulti del tiranno, le sue minacce che lei ripete senza tentare di capirle, assumono nella sua voce atona l’orrenda banalità dei verdetti senz’appello e del fatto compiuto. A ogni oltraggio Armodio aggiunge al suo viso un aggrottarsi della fronte o un sorriso d’odio: in presenza di quel dio che disdegnava perfino d’informarsi del suo nome, lei s’inebria d’esistere, di essere utile, forse di far soffrire. Aiuta Armodio a mutilare i bei lauri del cortile come se il primo dovere con40
sistesse nel sopprimere ogni ombra: esce dal giardino al fianco dei due uomini che nascondono i coltellacci della cucina al fondo di quei mazzi da domenica delle Palme; richiude la porta sulla siesta d’Irini, la gabbia delle colombe, la scatola di cartone in cui si pascono alcune cicale, su tutto quel passato ormai profondo come un sogno. La folla vestita a festa la separa dai suoi padroni che non distingue nemmeno più l’uno dall’altro. Si mette a seguirli lungo i cantieri del Partenone, urtando rozzi blocchi ammonticchiati che fanno somigliare il tempio della Vergine alle sue future rovine. Nell’ora in cui il cielo mostra il suo volto rosso, vede i due amici sparire nell’ingranaggio delle colonne come al fondo di una macchina che stritoli il cuore umano per farne scaturire un dio. Esplodono bombe, grida: il fratello maggiore d’ipparco, sventrato sull’altare coperto di sangue e braci, sembra offrire le proprie viscere all’esame dei sacerdoti: Ipparco ferito a morte continua a urlare ordini, s’appoggia a una colonna per non cadere da vivo. Le porte dei Propilei si chiudono per sbarrare ai ribelli l’unica uscita che non dia sul vuoto: i congiurati presi in quella trappola di marmo e cielo, correndo qua e là inciampano su cumuli di dèi. Aristogitone ferito a una gamba viene catturato da alcuni battitori in fondo alle grotte di Pan. Il corpo linciato di Armodio è fatto a pezzi dalla folla come quello di Bacco nel corso delle messe cruente: avversari, o forse seguaci, si passano di mano in mano quell’ostia orripilante. Lena s’inginocchia, raccoglie nel suo grembiule i riccioli di Armodio come se tale servizio fosse il più urgente da rendere al suo padrone. Gli sbirri le si buttano addosso; le incatenano le mani che immediatamente perdono il loro aspetto consunto di utensili di cucina e diventano mani di vittima, falangi di martire; sale sul cellulare come i morti salgono sulla 41
barca. Attraversa un’Atene stagnante, raggelata dalla paura, dove i visi si nascondono dietro le persiane chiuse temendo di dover giudicare. Si ferma davanti a una casa che per la sua aria d’ospedale e di prigione si rivela il palazzo del capo dello Stato. Sotto la porta cocchiera incrocia Aristogitone malfermo sulle gambe ferite: lei lascia sfilare il plotone d’esecuzione senza nemmeno alzare sul suo padrone quegli occhi già simili alle pupille vetrificate dei morti. Il crepitio delle fucilate in fondo al cortile vicino non echeggia per lei se non come una salve d’onore sulla tomba d’Armodio. La spingono in un camerone imbiancato a calce dove i torturati assumono l’aspetto di bestie agonizzanti e i carnefici di vivisettori. Ipparco steso su una barella volge verso di lei la sua testa bendata, arriva a tastoni a quelle mani di donna serrate sulla sola verità di cui lui sia ancora avido, le parla così accosto e con la voce tanto bassa che quell’interrogatorio ha l’aria di una confidenza amorosa. Esige nomi, confessioni. Che cosa ha visto? Chi erano i complici? Era il più anziano dei due a trascinare il più giovane in quella corsa alla morte? Il pugile non era che un buon sinistro nella mano di Armodio? Era la paura che spingeva il giovane a sbarazzarsi d’Ipparco? Sapeva che il capo non lo detestava, che avrebbe perdonato? Parlava sovente di lui? Era triste? Un’intimità disperata si stabilisce fra quell’uomo e quella donna posseduti dal medesimo dio, che muoiono del medesimo male, i cui sguardi opachi si volgono verso due assenti. Lena pressata di domande stringe i denti, arriccia le labbra. I suoi padroni tacevano quando lei portava i piatti; è rimasta sulla soglia della loro vita come una cagna fuori della porta. Quella donna vuota di ricordi si sforza per orgoglio di far credere che lei sa tutto, che i suoi padroni le hanno messo il cuore in mano come a una ricettatrice 42
su cui si può contare, e che non dipende che da lei sputar fuori il loro passato. Dei carnefici la stendono su un cavalletto per operarla del suo silenzio. A quella fiamma si minaccia il supplizio dell’acqua; a quella sorgente si parla d’infliggere il supplizio del fuoco. Lei teme la tortura che non estrarrà da lei che l’umiliante confessione di essere stata soltanto una serva per nulla complice. Un fiotto di sangue le sgorga dalla bocca come per un’emottisi. Si è tagliata la lingua per non rivelare i segreti che non aveva.
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Bruciato da più fuochi... Bestia stanca, uno staffile di fiamme mi colpisce le reni. Ho ritrovato il vero senso delle metafore dei poeti. Mi sveglio ogni notte nell’incendio del mio stesso sangue. * * * Non ho mai conosciuto se non l’adorazione o la depravazione. Che cosa significa? Non ho mai conosciuto se non l’adorazione o la pietà. * * * I cristiani pregano davanti alla croce, se la portano alle labbra. Si accontentano di quel pezzo di legno, anche se nessun Salvatore vi è attaccato. Il rispetto dovuto ai suppliziati finisce per nobilitare l’ignobile apparato del supplizio: non basta amare le creature se non se ne adora la miseria, l’avvilimento, il dolore. 44
* * * Se perdo tutto, mi resta Dio. Se smarrisco Dio, ti ritrovo. Non si può avere insieme la notte immensa e il sole. * * * Giacobbe lottava con l’angelo nel paese di Galaad. Quell’angelo è Dio, dal momento che il suo avversario uscì vinto dalla lotta, e sfiancato dalla disfatta. I gradini della scala d’oro si offrono soltanto a quanti cominciano con l’accettare quel knock-out eterno. È Dio tutto ciò che ci sorpassa, tutto ciò su cui non abbiamo trionfato. La morte è Dio, il mondo è Dio, e anche l’idea di Dio per il pugile imbecille che si lascia travolgere dal suo grande battito d’ala. Tu sei Dio: potresti distruggermi. * * * Non cadrò. Ho raggiunto il centro. Ascolto il pulsare di chissà quale orologio divino attraverso l’esile parete carnale della vita piena di sangue, di trasalimenti e respiri. Sono accanto al nocciolo misterioso delle cose come di notte, talvolta, si è accanto a un cuore.
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MARIA MADDALENA O DELLA SALVEZZA
Mi chiamo Maria: mi chiamano Maddalena. Maddalena è il nome del mio villaggio: un borgo dove mia madre aveva dei campi, dove mio padre aveva delle vigne. Sono nata a Magdala. A mezzogiorno mia sorella Marta portava caraffe di birra agli operai della fattoria; io andavo verso di loro con le mani vuote; loro lappavano il mio sorriso; quegli sguardi mi andavano palpando come un frutto quasi maturo la cui fragranza non dipenda ormai che da un po’ di sole. I miei occhi erano due bestiole selvagge prese al laccio dei miei cigli; la mia bocca quasi nera era una sanguisuga gonfia di sangue. La colombaia traboccava di colombe, la madia di pane, la cassaforte di monete con l’effigie di Cesare. Marta si consumava gli occhi a ricamare il mio corredo con le iniziali di Giovanni. La madre di Giovanni aveva delle peschiere; il padre di Giovanni aveva delle vigne. Giovanni e io, seduti il giorno delle nozze sotto il fico della fontana, sentivamo già su di noi l’intollerabile peso di settant’anni di felicità. Le stesse arie di danza avrebbero servito alle nozze delle nostre figlie; io sentivo già pesare dentro di me i bambini che avrebbero avuto. Giovanni mi veniva incontro dal fondo della sua infanzia; ri46
deva con gli angeli, suoi soli compagni; per lui avevo respinto le offerte del centurione romano. Rifuggiva dalla taverna dove le prostitute si agitavano come vipere ai suoni eccitanti di un flauto triste; distoglieva gli occhi dal viso rotondo delle contadinotte. Amare la sua innocenza fu il primo peccato. Non sapevo di lottare contro un rivale invisibile come nostro padre Giacobbe contro l’Angelo, né che la posta fosse quel ragazzo dai capelli in disordine dove qualche filo di paglia accennava a un’aureola. Non sapevo che un altro aveva amato Giovanni prima che lo amassi io, prima che lui mi amasse; non sapevo che Dio è l’ultima risorsa dei solitari. Presiedevo il banchetto di nozze nella stanza delle donne; le matrone mi sussurravano all’orecchio consigli da mezzane, espedienti da cortigiane; il flauto gridava come una vergine; i tamburi percossi rimbombavano come cuori; le donne accovacciate nell’ombra, pacchi di veli, grappoli di seni, m’invidiavano con voce arrochita la gioia violenta di ricevere lo Sposo. I capretti sgozzati in cortile vagivano come gl’innocenti fra le mani dei carnefici di Erode; io non colsi in lontananza il belato dell’Agnello rapitore. I vapori della sera confusero tutto nella camera alta; la luce grigia smarrì il senso delle forme e del colore delle cose: e non vidi, seduto tra i parenti poveri all’estremo capo della tavola degli uomini, il bianco vagabondo che comunicava ai giovani con un tocco delle dita, con un bacio, quell’orribile specie di lebbra che li costringe a separarsi da tutto. Non intuivo la presenza del Seduttore che dà alla rinuncia la dolcezza del peccato. Si chiusero le porte; si bruciarono i profumi per incantare i diavoli; fummo lasciati soli. Alzando gli occhi m’accorsi che Giovanni non aveva fatto che attraversare la festa delle sue nozze come una piazza affollata da una pubblica festa. Tremava, ma di dolore; era 47
pallido, ma di vergogna; temeva soltanto uno scacco dell’anima impotente a possedere Dio. Io ero incapace di distinguere sul viso di Giovanni la smorfia del disgusto da quella del desiderio: ero vergine, e del resto ogni donna che ami non è che una povera innocente. Ho capito più tardi che rappresentavo per lui il peggiore dei peccati carnali, il peccato legittimo, approvato dalle usanze, tanto più vile in quanto è permesso ravvoltolarvisi senza vergogna, tanto più temibile in quanto non rischia la condanna. Lui aveva scelto in me la più velata delle ragazze, che potesse corteggiare con la speranza segreta di non ottenerla mai; io giustificavo il suo disgusto per prede più accessibili; seduta su quel letto, non ero ormai che una donna facile. La sua impossibilità ad amarmi creava fra di noi una somiglianza più forte di quei contrasti sessuali che fra due esseri umani servono a distruggere la fiducia, a giustificare l’amore: desideravamo ambedue cedere a una volontà più forte della nostra, darci, essere presi: ci offrivamo a qualsiasi dolore per far nascere una nuova vita. Quell’anima dai lunghi capelli correva verso uno Sposo. Stava con la fronte appoggiata al vetro sempre più appannato dal vapore del suo alito: gli occhi stanchi delle stelle non ci spiavano nemmeno più; una serva in agguato dall’altro lato della soglia prendeva forse i miei singhiozzi per singulti d’amore. Sorse dal buio una voce che per tre volte chiamò Giovanni, come avviene davanti alle case in cui qualcuno sta per morire: Giovanni aprì la finestra, si sporse per misurare la profondità dell’ombra, vide Dio. Io non vidi che tenebre, ossia il Suo mantello. Giovanni strappò le lenzuola dal letto, le annodò per farsene una corda; delle lucciole palpitavano a terra come astri, e lui sembrava così immergersi nel cielo. Persi di vista quel transfuga incapace di preferire una donna al seno di 48
Dio. Aprii con cautela la porta della mia camera dove era avvenuta soltanto una partenza; scavalcai i convitati che russavano nel vestibolo; presi dalla patera il cappuccio di Lazzaro. La notte era troppo nera per cercare sul suolo la traccia dei piedi divini; i lastricati in cui inciampavo non erano quelli dove saltavo su un piede solo uscendo da scuola; scorgevo per la prima volta le case come le vedono dall’esterno quelle che non hanno un focolare. All’angolo dei vicoli malfamati, ecco di nuovo consigli osceni sgorgare dalla bocca sdentata delle ruffiane; vomiti d’ubriachi sotto i portici del mercato mi ricordarono i fiumi di vino della mia festa di nozze. Per sfuggire alla ronda corsi lungo i portici di legno della locanda fino alla camera del luogotenente romano. Quel bruto venne ad aprirmi, ancora ubriaco dei brindisi fatti in mio onore alla tavola di Lazzaro; certamente mi prese per una di quelle puttanelle con cui si coricava di solito. Mi tenni sul viso il mio cappuccio di lana nera; fui più arrendevole quando si trattò del mio corpo: quando mi riconobbe io ero già Maria Maddalena. Gli nascosi che Giovanni mi aveva abbandonata la sera del mio festino nuziale, temendo che si sentisse obbligato a versare nel vino del suo desiderio l’acqua insulsa della sua pietà. Gli lasciai credere di aver preferito le sue braccia villose alle lunghe mani sempre congiunte del mio pallido fidanzato: mantenni a Giovanni il segreto della sua fuga con Dio. I ragazzetti del villaggio scoprirono dov’ero; mi gettarono delle pietre. Lazzaro fece purgare il fosso del mulino pensando di ripescare il cadavere di Giovanni; Marta chinava la testa passando davanti alla locanda; la madre venne a chiedermi conto del presunto suicidio del suo unico figlio: io non mi difesi, trovando meno umiliante lasciar credere a tutti che quello scomparso mi avesse follemente amata. Un mese dopo, 49
Mario ricevette l’ordine di raggiungere a Gaza la seconda divisione della Palestina; io non riuscii a trovare i soldi necessari per prendere nella diligenza uno di quei posti di terza classe da sempre riservati ai profeti, ai miserabili, ai soldati in licenza, ai Messia. L’oste mi trattenne ad asciugare bicchieri: imparai dal mio padrone la cucina del desiderio. Mi era caro che la donna disprezzata da Giovanni cadesse direttamente al rango infimo delle creature: ogni schiaffo, ogni bacio mi modellavano un volto, un seno, un corpo diverso da quello che il mio amico non aveva accarezzato. Un cammelliere beduino accettò di portarmi a Giaffa per un compenso di abbracci; un armatore marsigliese mi prese sulla sua nave: sdraiata a poppa, mi lasciai lambire dal caldo tremolio del mare spumeggiante. In un bar del Pireo, un filosofo greco m’insegnò la sapienza come una dissolutezza in più. A Smirne, le generosità di un banchiere mi fecero capire quanta dolcezza aggiungano alla pelle di una donna nuda il cancro dell’ostrica e il pelo delle bestie selvagge, così che fui insieme invidiata e concupita. A Gerusalemme un fariseo mi abituò a usare l’ipocrisia come un inalterabile belletto. In fondo a un tugurio di Cesarea, un paralitico guarito mi parlò di Dio. Nonostante le suppliche degli angeli che senza dubbio si sforzavano di ricondurlo in cielo, Dio continuava ad aggirarsi di villaggio in villaggio, schernendo i preti, insultando i ricchi, spargendo zizzania nelle famiglie, giustificando la donna adultera, esercitando ovunque il suo momento di voga: a uno di quei martedì dove non convocava che personaggi celebri, Simone il Fariseo ebbe l’idea di invitare Dio. Io non avevo fatto tanto la puttana se non per offrire a quel terribile Amico una rivale meno ingenua: sedurre Dio significava privare Giovanni del suo sostegno eterno; significava costringerlo a ricadere su di 50
me con tutto il peso della sua carne. Noi pecchiamo perché Dio non c’è: è perché nulla di perfetto ci appare che noi ci accontentiamo delle creature. Se Giovanni avesse capito che Dio era soltanto un uomo, non avrebbe avuto più ragione di non preferirgli i miei seni. Io mi agghindai come per un ballo; mi profumai come per un letto. La mia entrata nella sala del banchetto bloccò ogni mascella; gli Apostoli si alzarono in tumulto temendo di essere infettati dal contatto con la mia gonna: agli occhi di quei benpensanti io ero impura come se fossi continuamente mestruata. Dio soltanto se n’era rimasto sdraiato sul suo sedile di cuoio: io riconobbi d’istinto quei piedi consumati fino all’osso a forza di camminare su tutte le strade del nostro inferno, quei capelli pullulanti di parassiti d’astri, quegli immensi occhi puri come i soli frammenti che gli restassero del suo cielo. Era brutto come il dolore; era sporco come il peccato. Caddi in ginocchio, ringhiottendo il mio sputo, incapace di aggiungere un sarcasmo all’orribile peso di quella desolazione di Dio. Vidi subito che non lo avrei potuto sedurre dal momento che non mi fuggiva. Mi sciolsi i capelli come per coprire meglio la nudità del mio peccato; vuotai davanti a lui la fiala dei miei ricordi. Capivo come quel Dio fuorilegge avesse dovuto sgusciare un mattino fuori delle porte dell’alba, lasciandosi dietro le persone della Trinità sbalordite di essere rimaste in due. Aveva preso alloggio nella locanda del tempo; si era prodigato con innumerevoli passanti che rifiutavano di dargli l’anima ma pretendevano da lui ogni sorta di gioie tangibili. Aveva sopportato la compagnia dei banditi, il contatto dei lebbrosi, l’insolenza dei gendarmi: accettava come me l’orribile sorte di appartenere a tutti. Mi poggiò sul capo la sua grande mano di cadavere che pareva già svuotato di sangue: noi non facciamo altro che 51
cambiare schiavitù: nel preciso momento in cui i demoni mi lasciarono, eccomi diventata la posseduta di Dio. Giovanni si cancellò dalla mia vita come se l’Evangelista non fosse stato per me che il Precursore: di fronte alla Passione ho dimenticato l’amore. Ho accettato la purezza come una perversione peggiore: ho passato notti bianche a tremare di brina e di lacrime, stesa sulla nuda terra fra gli Apostoli, un mucchio di pecore intirizzite innamorate del Pastore. Ho invidiato i morti, sui quali i profeti si coricano per resuscitarli. Ho aiutato quel divino cerusico nelle sue meravigliose terapie: ho bagnato col fango gli occhi dei mendicanti ciechi dalla nascita. Ho lasciato che Marta si affaccendasse al mio posto il giorno del pranzo di Befania, per paura che Giovanni venisse a sedersi contro le ginocchia celesti sullo sgabello lasciato da me. Le mie lacrime, le mie grida hanno ottenuto da quel dolce taumaturgo la seconda nascita di Lazzaro. Quel morto stretto nelle bende, che faceva i primi passi sulla soglia della tomba, era quasi nostro figlio. Io gli ho procacciato dei discepoli; ho immerso le mie mani pallide nella lavatura dei piatti dell’Ultima Cena; ho fatto da palo sullo spiazzo degli Olivi mentre si stava perpetrando il colpo della Redenzione. L’ho amato tanto che ho smesso di compiangerlo: il mio amore si preoccupava di aggravare quella desolazione che, sola, lo faceva Dio. Per non rovinare la sua carriera di Salvatore, ho accettato di vederlo morire come un’amante accetta il brillante matrimonio dell’uomo che ama: nel salone d’attesa del Pretorio, quando Pilato ci ha offerto la scelta fra uno scassinatore e Dio, io ho gridato come gli altri perché si liberasse Barabba. L’ho visto coricarsi sul letto verticale delle sue nozze eterne: ho assistito al terribile annodarsi delle corde, al bacio della spugna ancora impregnata dell’amarognolo del mare, al colpo 52
di lancia del soldato che si sforzava di bucare il cuore di quel vampiro sublime, nel timore che risorgesse a succhiare tutto l’avvenire. Mi sono sentita fremere sulla fronte quel dolce rapace inchiodato alla porta dei Tempi. Un vento di morte scavava il cielo strappato come una vela; il mondo s’inclinava dal lato della sera, trascinato dal peso della croce. Il pallido capitano stava appeso al pennone del tre alberi sommerso della Colpa: il figlio del falegname espiava gli sbagli di calcolo del suo Padre eterno. Io sapevo che niente di buono sarebbe nato dal suo supplizio: l’unico risultato di quell’esecuzione sarebbe stato di far sapere agli uomini che si può far fuori Dio. Il divino condannato non spandeva sulla terra che un inutile seme di sangue. I dadi piombati del Caso sobbalzavano vanamente nel pugno delle sentinelle: i lacerti dell’Abito infinito non bastavano a nessuno per tirarne fuori un vestito. Invano ho versato sui suoi piedi l’onda ossigenata della mia chioma; invano ho tentato di consolare l’unica madre che abbia concepito Dio. Le mie urla di donna e di cagna non raggiungevano il mio maestro morto. I ladroni almeno condividevano le sue pene: ai piedi di quell’asse attraverso cui passava tutto il dolore del mondo, io ero soltanto riuscita a turbare il suo dialogo con Dima. Alzarono scale: tirarono corde. Dio si staccò come un frutto maturo, già pronto a imputridire nella terra della tomba. Per la prima volta il suo capo inerte accettò la mia spalla; il succo del suo cuore impiastrava le nostre mani rosse come in tempo di vendemmia; Giuseppe d’Arimatea ci precedeva, portando una lanterna; Giovanni e io stavamo curvi sotto quel corpo più pesante dell’uomo; alcuni soldati ci aiutarono a porre una pietra da macina sulla bocca della tomba. Potemmo rientrare in città soltanto nel freddo del sole tramontato. Ritrovammo con stupore le botte53
ghe, i teatri, l’insolenza dei garzoni d’osteria, i giornali della sera per i quali la Passione era una notizia di cronaca. Passai la notte a scegliere le mie più eleganti lenzuola di cortigiana; all’alba spedii Marta a comprare tutto quanto trovasse di profumi. I galli cantavano come se ci tenessero a ravvivare il pentimento di Pietro: stupita che la luce ritornasse, io seguivo una stradetta di periferia dove dei meli ricordavano la Caduta e dei vigneti la Redenzione. Benché il vento venisse dal Nord, non si sentiva l’odore del cadavere di Dio. Guidata da un ricordo, angelo incorruttibile, entrai in quella caverna scavata nelle profondità di me stessa; mi accostai a quel corpo come alla mia stessa tomba. Avevo rinunziato a ogni speranza di Pasqua, a ogni promessa di resurrezione. Non mi accorsi che la pietra da macina era spaccata dall’alto in basso per effetto di chissà quale divina fermentazione: Dio si era alzato dalla morte come da un giaciglio d’insonnia: dalla tomba disfatta pendevano i lenzuoli chiesti per carità al giardiniere. Per la seconda volta nella mia vita io mi trovavo di fronte a un letto dove non dormiva che un assente. I granelli d’incenso si sparsero sul suolo del sepolcro, caddero sul fondo della notte. I muri mi rimandarono il mio urlo di strega insoddisfatta; uscendo fuori di me, sbattei la fronte contro la pietra dell’architrave. La neve dei narcisi era rimasta vergine di qualsiasi impronta umana: i rapitori di Dio avevano camminato nel cielo. Il giardiniere curvo verso terra stava sarchiando un’aiuola: alzò la testa sotto quel cappellaccio di paglia che lo aureolava di sole e d’estate; io caddi in ginocchio, invasa da quel dolce tremito delle donne innamorate che si sentono traboccare per tutto il corpo la sostanza del loro cuore. Aveva sulla spalla il rastrello che gli serve per cancellare le nostre colpe: stringeva nella mano il gomitolo di filo e le 54
cesoie affidati dalle Parche al loro fratello eterno. Si apprestava forse a scendere all’Inferno per la strada delle radici. Conosceva il segreto del rimorso delle ortiche, dell’agonia del verme: il pallore della morte non lo aveva abbandonato, e così pareva essersi travestito da giglio. Intuivo che il suo primo gesto sarebbe stato di scostare da sé quella peccatrice contaminata dal desiderio. Mi sentivo una limaccia in quell’universo di fiori. L’aria era così fresca che le mie palme alzate ebbero la sensazione di appoggiarsi a un cristallo: il mio Maestro era transitato dall’altra parte dello specchio del tempo. Il vapore del mio fiato confuse la grande immagine: Dio si cancellò come un riflesso sul vetro del mattino. Il mio corpo opaco non era un ostacolo per quel Risuscitato. Avvertii uno scricchiolio, forse al fondo di me stessa: caddi con le braccia in croce, trascinata dal peso del mio cuore: dietro lo specchio che avevo appena infranto non c’era nulla. Ero di nuovo più vuota di una vedova, più sola di un’abbandonata. Finalmente misuravo tutta l’atrocità di Dio. Dio non mi aveva soltanto rubato l’amore di una creatura, nell’età in cui si crede che le creature siano insostituibili, Dio un tempo mi aveva preso le mie nausee di gravidanza, i miei sonni di donna che ha partorito, le mie sieste di vecchia sulla piazza del villaggio, la tomba al fondo dell’orto dove i miei figli mi avrebbero distesa. Dopo la mia innocenza, Dio mi ha sottratto i peccati: quando esordivo appena nella professione di cortigiana, mi ha tolto ogni possibilità di mettermi in vista o di sedurre Cesare. Dopo il suo cadavere mi ha preso il suo fantasma: non ha nemmeno voluto che mi ubriacassi di un sogno. Come il peggiore dei gelosi, ha distrutto quella bellezza che mi esponeva a ricadute sui letti del desiderio: i miei seni pendono; assomiglio alla Morte, questa vecchia amante di Dio. Come il peg55
gior maniaco, non ha amato che le mie lacrime. Ma quel Dio che mi ha preso tutto, non mi ha dato tutto. Non ho ricevuto se non una briciola dell’amore infinito: come la prima venuta, ho diviso il suo cuore con le creature. I miei amanti d’un tempo si stendevano sul mio corpo senza preoccuparsi della mia anima: il mio celeste amico del cuore si è prodigato soltanto nel riscaldare quest’anima eterna, e così una metà di me non ha smesso di soffrire. E tuttavia mi ha salvata. Grazie a lui, di ogni gioia io non ho avuto che la sua parte di pena, la sola inesauribile. Sfuggo alle ripetitività della casa e del letto, al peso morto del denaro, al vicolo cieco del successo, alle soddisfazioni dell’onore, al fascino dell’infamia. Poiché quel condannato all’amore di Maddalena è evaso verso il cielo, io evito lo squallido errore di essere necessaria a Dio. Ho fatto bene a lasciarmi sbattere dalla grande onda divina; non rimpiango di essere stata rimodellata dalle mani del Signore. Egli non mi ha salvata né dalla morte, né dai mali, né dal delitto, poiché è grazie a essi che ci si mette in salvo. Mi ha salvata dalla felicità.
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Quando ti rivedo, tutto ridiventa limpido. Accetto di soffrire. * * * E tu te ne vai? Tu te ne vai?... No, tu non te ne vai: io ti trattengo... Mi lasci nelle mani la tua anima come un mantello. * * * Sei il mio prossimo? No, sei prossimo. Ti compiango come me stessa. * * * Ho conosciuto dei giovani che venivano dal mondo degli dèi. I loro gesti facevano pensare alle traiettorie degli astri; non ci si stupiva che il loro duro cuore di porfido fosse insensibile; se tendevano la mano, la rapacità di quei mendicanti 57
squisiti era un vizio da dèi. Come tutti gli dèi, rivelavano inquietanti parentele con i lupi, gli sciacalli, le vipere: ghigliottinati, avrebbero assunto l’aspetto livido dei marmi decapitati. Certe donne, certe fanciulle provengono dal mondo delle Madonne: le peggiori allattano la speranza come un figlio promesso alle crocifissioni future. Alcuni miei amici provengono dal mondo dei saggi, da una sorta di India o di Cina interiore: l’universo intorno a loro si dissipa in fumo, accanto a quei freddi stagni in cui si rispecchia l’immagine delle cose, gli incubi si aggirano come tigri addomesticate. Amore, mio duro idolo, le tue braccia tese verso di me sono vertebre di ali. Ho fatto di te la mia Virtù; in te accetto di vedere una Dominazione, una Potenza. Mi affido a quel terribile aereo alimentato da un cuore. La sera, in quegli antri malfamati dove ci trascinavamo insieme, il tuo corpo nudo sembra un Angelo incaricato di vegliare sulla tua anima. * * * Mio Dio, rimetto il mio corpo fra le tue mani. * * * Si dice: pazzo di gioia. Si dovrebbe dire: savio di dolore. * * * Possedere è l’equivalente di conoscere: la Scrittura ha sempre ragione. L’amore è stregone: sa i segreti; è rabdoman58
te, sa le sorgenti. L’indifferenza è guercia; l’odio è cieco; incespicano a fianco a fianco nel fossato del disprezzo. L’indifferenza ignora; l’amore sa; va compitando la carne. Bisogna godere di una creatura per aver l’occasione di contemplarla nuda. Ho dovuto amarti per capire che la peggiore o la più mediocre delle persone umane è degna di ispirare lassù l’eterno sacrificio di Dio. * * * Sei giorni fa, sei mesi fa, erano sei anni allora, e fra dieci secoli... Ah! morire per fermare il Tempo...
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FEDONE O DELLA VERTIGINE
Ascolta, Cebete... Ti parlo a voce bassa, perché è soltanto parlando a voce bassa che ascoltiamo noi stessi. Sto per morire, Cebete. Non scuotere il capo: non dirmi che lo sai, e che moriremo tutti. Il tempo non costa niente a voi filosofi: eppure esiste, dal momento che ci inzucchera come frutti e ci dissecca come erbe. Per quelli che si amano, il tempo non esiste più, perché gli amanti si sono strappati il cuore per darlo all’altro; per questo sono insensibili alle migliaia di uomini e di donne che non rientrano nel loro amore; per questo piangono e si disperano con assoluta sicurezza. Ed è al rallentatore di quei cruenti orologi che quelli che sono amati vedono avvicinarsi la vecchiaia e la morte. Per chi soffre, il tempo non esiste; si annulla a forza di precipitarsi, perché ogni ora di supplizio è una tempesta di secoli. Ogni volta che mi si annunciava un dolore, io mi affrettavo a sorridergli perché a sua volta mi sorridesse, e tutti prendevano il volto radioso di una donna tanto più bella in quanto fino a quel momento non ci eravamo mai accorti della sua bellezza. Io so del dolore ciò che insegna il suo contrario, e così deduco dalla vita le poche certezze che ho già sulla morte. Come Narciso nella sorgente, 60
io mi sono specchiato nelle pupille umane: l’immagine che vi scorgevo era così radiosa che ero grato a me stesso di dispensare tanta gioia. Conosco dell’amore quel poco che mi hanno insegnato gli occhi che mi hanno saputo amare. Un tempo, nell’Elide, circondato da un brusio di gloria, ho valutato i progressi della mia adolescenza sui sorrisi sempre più tremuli che mi palpitavano accanto. Steso sul passato della mia razza come su una terra feconda, ero rivestito della mia ricchezza come di un manto d’oro. Gli astri volteggiavano come fari; i fiori diventavano frutti; il letamaio si faceva fiore; gli esseri accoppiati passavano come forzati o sposi di villaggio: il piffero del desiderio, il tamburo della morte ritmavano il valzer triste per il quale i danzatori non mancavano mai. La loro strada che credevano diritta sembrava circolare al ragazzetto sdraiato al centro dell’avvenire. Mi palpitavano i capelli; i miei cigli mi nascondevano gli occhi prigionieri per sempre delle mie palpebre; il mio sangue scorreva in mille giri come quei fiumi sotterranei che sembrano neri agli occhi notturni delle ombre, ma che si sarebbero rivelati rossi se mai il sole si alzasse nel regno dei morti. Il mio sesso trasaliva come un uccello in cerca di un nido oscuro. Crescendo facevo scoppiare intorno a me lo spazio come una scorza azzurra. Mi alzai in piedi: le mie mani respinte da muri di collegio si tendevano nella notte, cercavano di cogliere i Segni; il movimento nasceva in me come una divina gravitazione; la pioggia di primavera ruscellava sul mio tronco nudo. Le piante dei piedi restavano per me l’unico punto di contatto con quella terra fatale che un giorno mi avrebbe ripreso. Ebbro di vita, titubante di speranza, mi aggrappavo per non cadere alle spalle lisce e dolci di compagni di gioco che passavano lì per caso: cadevamo insieme; ed è questa mischia che noi chiamavamo amo61
re. I miei amati non erano per me che bersagli che mi sentivo obbligato di colpire al cuore, giovani cavalli che bisognava lusingare con un lento spostamento di mano per carezzarli sul collo, fino a far trasparire sotto la pallida marezzatura della pelle il rosso tessuto del sangue. E i più belli, Cebete, non erano che il premio o il bottino della vittoria, la dolce coppa offerta per riversarvi l’intera vita. Altri ancora furono le siepi, gli ostacoli, le fosse dissimulate dietro fasci di rami verdi. Partii per Olimpia sotto la custodia di un pedagogo cieco: vinsi il premio alla gara dei ragazzi: i fili d’oro dei nastri rituali, improvvisamente invisibili, si persero fra i miei capelli. Il mio pugno sollevava il disco il cui slancio disegnava fra il mio bersaglio e me la curva pura di un’ala; diecimila petti umani ansavano al gesto del mio braccio nudo. La notte, steso sul tetto della casa paterna, contemplavo gli astri girare in uno stadio olimpico coperto di sabbia buia, ma non cercavo di calcolare il mio avvenire. I giorni futuri sembravano traboccare di carezze di lottatori, di pugni amichevoli, di cavalli lanciati al galoppo verso chissà quale Felicità. All’improvviso scoppiarono clamori sotto le mura della mia città natale; un velo di fumo coprì la faccia del cielo. Colonne di fuoco si sostituirono alle colonne di pietra. Il rumore dei piatti rovesciati con fracasso coprì in cucina il grido delle serve violentate; una lira spezzata gemette come una vergine fra le braccia di un ubriaco. I miei genitori scomparvero fra le rovine imbrattate di sangue. Tutto vacillò, tutto cadde, tutto fu annientato senza che io sapessi se si trattava di un vero assedio, di un reale incendio, di un vero massacro, o se quei nemici non erano che amanti, e quello che s’incendiava non fosse altro che il mio cuore. Pallido, nudo, intento a specchiare la mia vergogna in scudi d’oro, ero grato a quei begli av62
versari di calpestarmi il passato. Tutto finì con staffilate e scene di schiavitù: e anche questa è, Cebete, una delle conseguenze dell’amore. La speranza del guadagno aveva attirato i mercanti nella città assediata; io ero in piedi sulla piazza pubblica: il mondo con le sue pianure, le sue colline dove i miei cani non inseguivano più i cervi, i suoi orti pieni di frutti di cui non disponevo più, le sue onde dove il mio riposo non avrebbe più languidamente vogato sulla seta violetta, mi giravano intorno come una ruota gigantesca di cui io fossi il suppliziato. Lo spiazzo polveroso del mercato non era che un’unica accozzaglia di braccia, di gambe, di seni perquisiti dal ferro delle lance; il sudore e il sangue mi rigavano il viso che sembrava sorridere soltanto perché il sole mi ispirava delle smorfie. Nere croste di mosche si incollavano alle nostre bruciature. L’insopportabile calore del suolo mi obbligava a sollevare ora l’uno ora l’altro dei miei piedi nudi, così che a forza di orrore sembrava che danzassi. Chiudevo gli occhi per non vedere più la mia immagine in quelle pupille oscene: avrei voluto distruggere in me l’udito per non sentir più commentare volgarmente gli aspetti della mia bellezza; chiudermi le narici per non sentire il puzzo delle anime, così forte che l’odore dei cadaveri è al confronto un profumo; e poi perdere ogni gusto, per non sentirmi nella bocca il sapore ripugnante della mia remissività. Ma le mie due mani legate m’impedivano di morire. Un braccio mi passò intorno alle spalle, per sostenermi, non per carezzarmi; i legacci delle mie gambe caddero: ubriaco di sete e di sole, seguii quello sconosciuto fuori del carnaio dove sarebbero morti quelli che la vergogna stessa non aveva accettati. Entrai in una casa dai muri di terra battuta che trattenevano un po’ di fangosa freschezza; per letto mi fu offerto un mucchio di paglia. L’uomo 63
che mi aveva comprato mi sostenne il capo per farmi bere l’unica sorsata d’acqua che l’otre conteneva ancora. Sulle prime pensai che si trattasse di amore: ma le sue mani non indugiavano sul mio corpo che per medicarmi le piaghe. Poi, vedendo che piangeva strofinandomi un balsamo, pensai che si trattasse di bontà. Ma m’ingannavo, Cebete: il mio salvatore era un mercante di schiavi; piangeva perché le mie cicatrici gli avrebbero impedito di rivendermi al più alto prezzo nei bordelli di Atene; rinunziava ad amarmi temendo di attaccarsi troppo a un oggetto fragile di cui bisogna disfarsi al più presto finché ne dura la freschezza. Infatti le virtù, Cebete, non hanno tutte le medesime cause e non sono tutte belle. Quell’uomo mi portò a raggiungere a Corinto il suo carico di schiavi; mi affittò un cavallo per risparmiarmi i piedi. Non poté impedire che una parte del suo bestiame annegasse attraversando un guado durante un temporale; noi dovemmo fare senza cavalcatura la lunga strada infiammata che costeggia l’Istmo di Corinto; ognuno di noi, tanto curvo verso il suolo da sfiorare la propria ombra, portava il sole come un greve fardello. Alla svolta di un bosco di pini, l’orizzonte si spalancò per mostrarci Atene: sdraiata come una fanciulla, la città si adagiava pudicamente fra il mare e noi. Il tempio sulla collina dormiva come un dio rosato. I miei pianti, che la sciagura non era riuscita a far nascere, sgorgarono per la bellezza. Passammo la stessa sera sotto la Porta Dipila: le strade puzzavano di orina, di olio rancido e di polvere divulgata dal vento. Dei venditori di stringhe urlavano agli incroci, proponendo ai passanti un’occasione di strangolarsi di cui non volevano approfittare. I muri delle case mi nascondevano il Partenone. Una lanterna ardeva sulla soglia di una casa di donne: tutte le camere traboccavano di tappeti e di specchi d’argento. Il lus64
so della mia prigione mi fece temere che sarei stato costretto a starci sempre. Sgusciai per danzare nella saletta rotonda ammobiliata a tavolini bassi, più emozionato di quanto fossi la mattina della gara nella pista d’Olimpia. Bambino, avevo danzato su prati pieni di narcisi selvatici, scegliendo i più freschi per posarvi i piedi. Danzavo su sputi, su bucce d’arancia, su schegge di bicchieri caduti da mani di ubriachi. Le mie unghie dipinte rilucevano nel cerchio delle lampade; il vapore delle carni arrostite e gli aliti densi m’impedivano di vedere tanto chiaramente i visi dei clienti da cominciare a odiarli. Ero uno spettro nudo che ballava per dei fantasmi. A ogni colpo di tacco sul pavimento sporco io respingevo sempre più il mio passato, il mio avvenire di giovane principe: la mia danza disperata calpestava Fedone. Una sera, un uomo dalle labbra bionde venne a sedersi a un tavolo posto in piena luce: io non ebbi bisogno degli imbonimenti del tenutario per riconoscere in lui un membro dell’Olimpo umano. Era bello come me, ma la bellezza non era che un attributo di quell’essere innumerevole al quale soltanto l’immortalità mancava per essere dio. Per tutta la notte quel giovane un po’ ubriaco mi guardò danzare. Ritornò il giorno dopo, ma non era solo. Il piccolo vecchio panciuto che l’accompagnava assomigliava a uno di quei pupazzi che una base di piombo tiene diritti nonostante gli assalti dei bambini per farli cadere. Si intuiva che quell’astuta palla d’uomo aveva un suo centro di gravità, il suo asse, una sua densità specifica che nessuno sforzo dei suoi contradditori poteva modificare: l’Assoluto, dove si era posto con il salto prodigioso di quelle sue gambe da satiro, faceva da piedistallo a quel personaggio concreto come un tronco d’albero, ideale come una caricatura, però capace di farsi creatore di se stesso. La ragione non era per quel sofista 65
che una specie di spazio puro dove non si stancava di far circolare le forme: Alcibiade era dio, ma quel vagabondo da strada sembrava essere Universo. Si cercava sotto il suo mantello frusto i piedi del Caprone celeste. Quell’uomo gonfio di saggezza girava all’intorno i suoi occhioni pallidi che sembravano lenti in cui le virtù e i difetti delle anime appaiono ingranditi. La fissità del suo sguardo sembrava rinvigorire i muscoli delle mie gambe, gli ossi delle mie caviglie, come se io avessi ai talloni le ali del suo pensiero. Davanti a quel Pan sbozzato da uno scultore rozzo, che suonava sui flauti della ragione le melodie della vita eterna, la mia danza cessava di essere un pretesto per diventare una funzione, come il cammino degli astri; e siccome la saggezza è il supremo delirio agli occhi dei crapuloni, gli avvinazzati spettatori videro nella mia leggerezza il colmo dell’eccesso. Alcibiade batté le mani per chiamare il tenutario di quella taverna: il mio padrone venne avanti, arcuando il palmo per acchiappare un po’ d’oro. Quell’uomo così a proprio agio nella turpitudine non lucrava soltanto un guadagno di poche dracme: ogni vizio da lui annusato in fondo all’argilla umana gli procurava la speranza di un buon affare e insieme il sentimento gratificante di una bassa fraternità. Il padrone mi gridò di farmi avanti per permettere ai clienti di apprezzare la merce viva: mi sedetti al loro tavolo, ritrovando d’istinto i miei gesti di ragazzo libero, accanto a quel giovane che assomigliava al mio orgoglio perduto. Avendo esaurito le monete d’oro che la sua cintura conteneva, Alcibiade per comprarmi sfilò due dei suoi bracciali. S’imbarcava il giorno dopo per la guerra di Sicilia: io sognavo già di interporre il mio petto come un dolce scudo fra il rischio e lui. Ma quel bel dio indifferente non mi aveva comprato che per compiacere Socrate: per la prima volta nella 66
mia vita mi sentii respinto; quell’umiliante rifiuto mi dava, mio malgrado, alla Saggezza. Uscimmo tutti e tre nella strada sconvolta dall’ultimo temporale: Alcibiade scomparve nel tuono di un carro; Socrate prese la sua lanterna, e quella magra stella si rivelò più pietosa degli occhi freddi del cielo. Seguii il mio nuovo padrone nella sua casetta dove una donna trasandata lo aspettava con la bocca gonfia d’ingiurie; dei ragazzetti spettinati strillavano in cucina; i pidocchi invadevano i letti. La povertà, la vecchiaia, la propria bruttezza e la bellezza degli altri flagellavano quel Giusto con le loro corregge di vipere: come noi tutti non era che uno schiavo condannato a morte. Sentiva pesare su di sé la bassezza degli affetti familiari, che per lo più non sono che mancanza di rispetto. Ma invece di liberarsi a forza di rinunzie, immobile come un cadavere che tema di sbattere con la fronte alla pietra della sua tomba, quell’uomo aveva capito che il destino non è che un calco vuoto in cui noi versiamo la nostra anima, e che la vita e la morte ci adoperano come scultori. Quel fannullone imitava di volta in volta suo padre che era marmista e sua madre che era levatrice: tirava fuori le anime, da ostetrico; scultore, coperto di obiezioni come da una polvere di marmo, scopriva un’effigie divina in teneri blocchi umani. La sua saggezza multipla come gli aspetti delle cose compensava per lui i piaceri del lussurioso, i trionfi dell’atleta, i rischi eccitanti dell’avventuriero sul mare del caso. Povero, godeva delle ricchezze che avrebbe potuto possedere se non si fosse votato a profitti invisibili; casto, gustava ogni sera il sapore della dissolutezza che avrebbe potuto offrirsi se l’avesse giudicata utile per Socrate; brutto, godeva in tutta purezza della giusta beltà che la Sorte felice aveva conferito a Carmide, così che il corpo pressoché grottesco in cui il destino aveva allogato la 67
sua anima non era più che una delle forme, non più preziosa di altre, del Socrate infinito. Simile a quella del dio che forse crea i mondi, la sua parte di libertà erano le sue creature. Aveva capito che quel vortice in cui venivano risucchiati i miei piedi nudi s’apparentava all’immobilità delle sue estasi segrete: io l’ho visto in piedi, indifferente agli astri che ruotavano senza accrescere la sua vertigine, nera forma raccolta sulla chiara notte attica, sopportare senza cedimenti l’atroce vento diaccio che soffia dalle profondità di Dio. Ho seguito di mattina lungo i campi di lavanda quel sublime mezzano che ogni giorno presentava alla giovinezza di Atene qualche nuova verità nuda. L’ho scortato lungo il portico Regale dove la morte ululava per lui come una civetta sotto le spoglie di Anito. La cicuta era cresciuta in qualche posto nella campagna arida: il vasaio dell’Agorà aveva modellato la coppa in cui il veleno sarebbe stato versato; le calunnie avevano avuto il tempo di maturare al sole del Disprezzo. Mi trovavo solo nel segreto della spossatezza di quel saggio: io solo l’avevo visto alzarsi dal suo miserabile letto e curvarsi ansimando per cercare i suoi sandali. Ma la semplice stanchezza non avrebbe spinto quell’uomo di settant’anni a rinunziare al fiato che gli restava. Quel vegliardo che per tutta la sua vita aveva barattato una verità chiara contro una verità ancora più smagliante, un bel viso amato per un altro più bello, trovava ora il modo di cambiare la morte banale e lenta che le sue arterie gli andavano interiormente preparando per una morte più utile, più giusta, generata dai suoi stessi atti, nata da lui come una figlia devota che venisse a rimboccarlo nel letto al cadere del giorno. Quella morte abbastanza solida da durare qualche secolo intorno al suo ricordo s’inseriva nella serie di atti buoni che avevano costituito la sua vita, e prolungava il suo cammino 68
verso una vita eterna. Era giusto che Atene innalzasse sul duro tufo delle Leggi quei templi ogni giorno più orgogliosi a divinità di ora in ora più perfette; ed era giusto che lui, lo spregiatore, seduto sotto quei portici meno belli di un puro pensiero, insegnasse ai giovani a non fidarsi se non della loro anima. Era giusto che un servitore vestito a lutto venisse per ordine di Eliaste a tendergli quella coppa piena di un liquore amaro; ed era altresì giusto che quella morte serena aprisse una macchia in tanto azzurro e tuttavia non servisse che a farlo sembrare più blu. Indubbiamente la Morte aveva per lui più fascino di Alcibiade, dal momento che lui non le proibiva di infilarsi nel suo letto. Succedeva una sera, in quella stagione dell’anno in cui i giovani mendicanti hanno le mani piene di rose, nell’ora in cui il sole copre Atene di baci prima di dirle addio. Una barca rientrava nel porto, ripiegando le sue due ali, bianca come il cigno del dio che i pellegrini erano andati a pregare. La cella era scavata nel fianco d’una roccia; la porta aperta lasciava entrare la brezza e il grido dei portatori d’acqua; dal fondo della prigione simile a una caverna, il Tempio di un pallido viola si rivelava a noi come un’Idea divina. Il ricco Critone gemeva, indignato che il Maestro non gli permettesse di aprirgli verso la fuga una strada lastricata d’oro; Apollodoro piangeva come i bambini tirando su le lacrime con il naso; oppresso, il mio petto tratteneva i sospiri; Platone era assente. Simmia, con uno stilo nella mano, annotava in fretta le ultime parole dell’uomo irreparabile. Ma già le parole non sgorgavano che a fatica da quella bocca rasserenata: certamente quel saggio capiva che la sola ragione d’essere dei viali del Discorso, che lui aveva instancabilmente percorsi per tutta la vita, è di condurre a quella riva del silenzio dove batte il cuore degli dèi. Giunge sempre un mo69
mento in cui s’impara a tacere, forse perché si è finalmente degni di ascoltare, il momento in cui si cessa d’agire, perché si è imparato a guardare fissamente qualche cosa d’immobile, e questa serenità deve essere quella dei morti. Stavo in ginocchio accanto al letto, il Maestro posò la mano sulla mia chioma svolazzante. Sapevo che la sua esistenza votata a uno scacco sublime traeva le sue principali virtù dai prestigi amorosi che pretendeva di raggiungere soltanto per andar oltre. Dal momento che la carne è dopo tutto il più bell’abito in cui l’anima possa ravvolgersi, che cosa sarebbe Socrate senza il sorriso di Alcibiade e i capelli di Fedone? A quel vecchio che non conosceva del mondo che i sobborghi di Atene, alcuni corpi amati non avevano soltanto insegnato l’Assoluto, ma altresì l’Universo. Le sue mani un po’ tremule si perdevano sulla mia nuca come in una valle in cui palpitasse la primavera: intuendo finalmente che l’eternità non è fatta che da una serie d’istanti ognuno dei quali è stato unico, sentiva fuggirsi sotto le dita la forma serica e bionda della vita eterna. Il carceriere entrò, portando la coppa piena del succo fatale dell’innocente pianta; il mio Maestro la vuotò; gli tolsero i ferri; io massaggiai dolcemente le sue gambe congestionate dalla stanchezza, e la sua ultima frase fu che la voluttà è identica a sua sorella la pena. Io piansi ascoltando quelle parole che giustificavano la mia vita. Quando si fu coricato, io lo aiutai a ricoprirsi il volto con le pieghe del suo vecchio mantello. Sentii per l’ultima volta pesarmi sul viso il benevolo sguardo miope di quegli occhioni da cane triste. Fu allora, Cebete, che ci ordinò di sacrificare un gallo alla Medicina: se ne andò portandosi dietro il segreto di quella suprema malizia. Ma io ho creduto di capire che quell’uomo stanco di mezzo secolo di saggezza voleva farsi un buon sonno prima 70
d’incorrere nella possibilità della Resurrezione; incerto sull’avvenire, dopo tutto soddisfatto di essere stato Socrate, gli piaceva l’idea di torcere il collo al messaggero dell’eterno mattino. Il sole tramontò; il gelo raggiunse quel cuore: diventare freddo è la vera morte del Saggio. Noi, i discepoli, sul punto di separarci per non rivederci mai più, non provavamo che indifferenza reciproca, irritazione e forse rancore: non eravamo già più che le membra sparse del Filosofo spento. Tutti svilupparono rapidamente quei germi di morte che la loro vita conteneva: Alcibiade dovette soccombere alle soglie dell’età matura, trafitto dalle frecce del Tempo; Simmia imputridì da vivo sul bancone di una bettola, e il ricco Critone morì d’apoplessia. Io solo, fatto invisibile a forza di velocità, continuo ad allacciare intorno ad alcune tombe la mia immensa parabola. Danzare sulla saggezza significa danzare sulla sabbia. La marea del movimento corrode ogni giorno una scheggia di quel suolo arido dove la vita non nasce. L’immobilità della morte non può essere per me che un ultimo stadio della suprema velocità: la pressione del vuoto mi farà esplodere il cuore. Già la mia danza oltrepassa i bastioni delle città, i terrapieni delle Acropoli, e il mio corpo volteggiante come il fuso delle Parche svolge la sua propria morte. I miei piedi coperti di schiuma si posano ancora sulla cresta continuamente distrutta delle onde, ma la mia fronte tocca gli astri, e il vento degli spazi mi strappa via quei rari ricordi che m’impediscono di essere nudo. Socrate e Alcibiade non sono ormai che nomi, cifre, vane figure tracciate sul niente dal frullo dei miei piedi. L’ambizione non è che un inganno; la saggezza si sbagliava; perfino il vizio ha mentito. Non esiste virtù, né pietà, né amore, né pudore, né i loro potenti contrari, bensì soltanto una conchiglia vuota che danza al vertice di 71
una gioia che è insieme Dolore, un lampo di bellezza nel turbinare delle forme. La chioma di Fedone spicca sulla notte dell’universo come una meteora triste.
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L’amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli. * * * Bisogna amare un essere per correre il rischio di soffrire per lui. Bisogna amarti molto per rimanere capace di soffrirti. * * * Non posso impedirmi di vedere nel mio amore una forma raffinata di dissolutezza, uno stratagemma per passare il tempo, per negare il Tempo. Il piacere compie in pieno cielo un atterraggio forzato, nel folle stridore meccanico degli ultimi sussulti del cuore. In volo planato, vi sale la preghiera; l’anima vi trascina il corpo nell’assunzione dell’amore. Perché sia possibile un’assunzione, ci vuole un Dio. Tu hai quello che ci vuole di bellezza, di accecamento e di esigenze per 73
sembrare un Onnipotente. In mancanza di meglio, ho fatto di te la chiave di volta del mio universo. * * * I tuoi capelli, le tue mani, il tuo sorriso ricordano vagamente un essere che io adoro. Chi mai? Te stesso. * * * Le due del mattino. I topi rosicchiano negli immondezzai i resti del giorno morto: la città appartiene ai fantasmi, agli assassini, ai sonnambuli. Dove sei tu, in che letto, in che sogno? Se ti incontrassi, tu andresti oltre senza vedermi, perché noi non siamo visti dai nostri sogni. Non ho fame: questa notte non riesco a digerire la mia vita. Sono stanca: ho camminato tutta la notte cercando di buttare via il tuo ricordo. Non ho sonno: non ho nemmeno appetito della morte. Seduta su una panchina, abbrutita mio malgrado dall’avvicinarsi del mattino, smetto di ricordare che sto tentando di dimenticarti. Chiudo gli occhi... I ladri non pensano che ai nostri anelli, gli amanti alla carne, i predicatori alle nostre anime, gli assassini alla vita. La mia se la possono prendere: li sfido a cambiarvi qualcosa. Rovescio indietro la testa per sentire su di me l’agitarsi delle foglie... Mi trovo in un bosco, in un campo... Questa è l’ora in cui il Tempo si traveste da spazzino e Dio forse da straccivendolo. Lui, avaro, ostinato, lui che non permette che una perla si perda nel mucchio di cocci d’ostriche sulle porte delle osterie. Padre nostro che sei nei cieli... Vedrò mai venire a sedermisi accanto un vecchio signore in cappot74
to scuro, con i piedi infangati per essere riuscito a raggiungermi attraverso Dio sa che fiume? Si lascerebbe cadere sulla panchina, stringendo nella mano chiusa un regalo preziosissimo, sufficiente a cambiare tutto. Aprirebbe le dita lentamente, una dopo l’altra, con la massima prudenza, perché niente voli via... Che cosa stringe? Un uccello, un germe, un coltello, una chiave per aprire la scatola di conserva del cuore? * * * Umorismo? Nel dolore? C’è pure un po’ di sale nelle lacrime. * * * Paura di niente? Ho paura di te.
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CLITENNESTRA O DEL CRIMINE
Ora vi spiegherò tutto, Signori della Corte... Mi vedo davanti innumerevoli orbite di occhi, linee circolari di mani appoggiate alle ginocchia, di piedi nudi posati sulla pietra, di pupille fisse da cui sgorga lo sguardo, di bocche chiuse dove il silenzio sta maturando un giudizio. Mi vedo davanti delle assisi di pietra. Ho ucciso quell’uomo con un coltello, in una vasca da bagno, con l’aiuto di quel poveraccio del mio amante che non riusciva nemmeno a tenergli fermi i piedi. Conoscete la mia storia: non c’è uno fra di voi che non l’abbia ripetuta venti volte alla fine di qualche lungo pranzo, accompagnato dagli sbadigli delle serve, e non c’è una fra le vostre donne che per una notte non abbia sognato di essere Clitennestra. I vostri delittuosi pensieri, le vostre smanie inconfessate affluiscono giù dai gradini e vengono a riversarsi in me, e così una specie di orribile andirivieni fa di voi la mia coscienza e di me il vostro grido. Vi siete raccolti qui perché la scena dell’omicidio venga ricostituita sotto i vostri occhi un po’ più rapidamente che nella realtà, perché richiamati al focolare della cena serale voi potete dedicare qualche ora al massimo per sentirmi piangere. E in questo corto spazio bi76
sogna altresì che non soltanto i miei atti ma anche le loro motivazioni esplodano in piena luce, benché per prendere consistenza ci abbiano messo quarant’anni. Io ho aspettato quell’uomo prima che avesse un nome, un viso, quando non era ancora per me che una sciagura lontana. Ho cercato nella folla dei vivi quella creatura necessaria alla mia futura delizia: non ho guardato gli uomini se non come si dà un’occhiata ai passanti a un’uscita di stazione, per accertarsi bene che non sono loro quelli che aspettiamo. È per lui che la mia nutrice mi ha fasciata quando uscivo da mia madre; è per tenere i conti della sua casa di uomo ricco che ho imparato il calcolo sulla lavagna della scuola. Per pavesare la strada dove si sarebbe forse posato il piede di quello sconosciuto che avrebbe fatto di me la sua serva, ho tessuto lenzuola e stendardi d’oro. Per troppa applicazione ho lasciato cadere qua e là sul morbido tessuto qualche goccia del mio sangue. La scelta è stata dei miei genitori: e anche se rapita da lui all’insaputa della mia famiglia, avrei comunque obbedito al desiderio di mio padre e di mia madre dal momento che da loro vengono i nostri gusti, e che l’uomo che noi amiamo è sempre quello che le nostre bisavole hanno sognato. Ho lasciato che sacrificasse l’avvenire dei nostri figli alle sue ambizioni d’uomo: non ho nemmeno pianto quando mia figlia è morta per questo. Ho accettato di fondermi nel suo destino come un frutto in una bocca, per non dargli che una sensazione di dolcezza. Signori della Corte, voi non l’avete conosciuto che appesantito dalla gloria, invecchiato da dieci anni di guerra, una specie di enorme idolo consumato dalle carezze delle donne asiatiche, schizzato dal fango delle trincee. Io sola gli sono stata vicina quand’era un dio. Era dolce per me portargli su un grande vassoio di rame quel bicchiere d’acqua 77
che avrebbe infuso in lui le sue riserve di freschezza. Era dolce per me, nella cucina che ardeva, preparare le pietanze che avrebbero soddisfatto la sua fame procurandogli nuovo sangue. Era dolce per me, greve del peso del seme umano, posarmi le mani sul ventre gonfio dove lievitavano i miei figli. La sera, al ritorno dalla caccia, mi buttavo con gioia contro il suo petto d’oro. Ma gli uomini non sono fatti per passare l’intera vita a scaldarsi le mani alla fiamma di un unico focolare: eccolo partire verso nuove conquiste, lasciandomi dov’ero, come una grande casa vuota che echeggi del battito di un’inutile pendola. Il tempo passato lontano da lui scorreva senza senso, goccia a goccia o a ondate, simile a sangue perduto, lasciandomi ogni giorno più povera d’avvenire. Dei soldati in licenza che si erano ubriacati mi raccontavano la sua vita negli accampamenti di retroguardia: l’armata d’Oriente era infestata di donne: ebree di Salonicco, armene di Tiflis i cui occhi blu sotto cupe palpebre facevano pensare a sorgenti sul fondo di una grotta buia, e turche pesanti e dolci come quella loro pasticceria fatta con il miele. Ricevevo delle lettere per i miei compleanni; passavo la vita a spiare sulla strada il passo claudicante del postino. Lottavo di giorno contro l’angoscia, di notte contro il desiderio, sempre contro il vuoto, questa forma codarda della sciagura. Gli anni si susseguivano lungo le strade deserte come una processione di vedove; la piazza del villaggio era nera di donne in lutto. Invidiavo quelle infelici che per rivale avevano soltanto la terra, sicure almeno che il loro uomo dormisse da solo. Seguivo al suo posto i lavori dei campi e le rotte del mare; immagazzinavo i raccolti; facevo inchiodare la testa dei briganti al palo del mercato; mi servivo del suo fucile per sparare alle cornacchie; battevo i fianchi della sua giumenta da caccia con le mie 78
uose di tela scura. Mi sostituivo a poco a poco all’uomo che mi mancava e che mi ossessionava. Finivo per guardare con il suo stesso occhio il collo bianco delle serve. Egisto galoppava accanto a me per i campi abbandonati; la sua adolescenza coincideva con il mio periodo di vedovanza; aveva quasi l’età per raggiungere gli uomini; mi riportava al tempo dei baci scambiati nei boschi con i cugini durante le vacanze d’estate. Non lo vedevo tanto come un amante quanto come un figlio che mi fosse nato dall’assenza; gli pagavo i conti del sellaio e dei mercanti di cavalli. Infedele a quell’uomo, continuavo a imitarlo: Egisto non era per me che l’equivalente delle donne asiatiche o dell’ignobile Arginna. Signori della Corte, esiste un solo uomo al mondo: il resto, per ogni donna, non è che un errore o un malinconico surrogato. E l’adulterio non è sovente che una forma disperata della fedeltà. Se qualcuno io ho tradito, si tratta certamente di quel povero Egisto. Avevo bisogno di lui per sapere fino a che punto fosse insostituibile colui che amavo. Stanca di carezzarlo, salivo a condividere sulla torre l’insonnia della vedetta. Una notte, l’orizzonte orientale s’infiammò tre ore prima dell’aurora. Troia bruciava: il vento proveniente dall’Asia trasportava sul mare faville e nuvole di cenere; i fuochi d’allegrezza delle sentinelle si accesero sulle cime: il Monte Athos e l’Olimpo, il Pindo e l’Erimanto fiammeggiavano come roghi; l’ultima lingua di fiamma si posava dinnanzi a me sul piccolo colle che da venticinque anni mi sbarrava l’orizzonte. Vedevo la fronte della vedetta chinarsi con il suo casco per ricevere il mormorio delle onde; chissà dove, sul mare, un uomo gallonato d’oro si appoggiava con i gomiti alla prua, lasciava che ogni giro d’elica gli avvicinasse sua moglie e il focolare assente. Scendendo dalla torre, io mi munii di un coltello. Volevo uccidere 79
Egisto, far lavare il legno del letto e il pavimento della camera, tirar fuori dal fondo di un baule il vestito che indossavo al momento di quella partenza, cancellare insomma quei dieci anni come un semplice zero nella somma dei miei giorni. Passando davanti allo specchio mi fermai per sorridere: di colpo, mi vidi; e questa vista mi ricordò che avevo i capelli grigi. Signori della Corte, dieci anni contano qualcosa: sono più lunghi della distanza tra la città di Troia e il castello di Micene; quell’angolo di passato è oltretutto assai più alto del luogo in cui ci troviamo, giacché il Tempo lo possiamo discendere e non risalire. Come negli incubi: ogni passo che facciamo ci allontana dalla meta invece di avvicinarla. Al posto della sua giovane moglie, il re avrebbe trovato sulla soglia una specie di cuoca obesa; l’avrebbe complimentata per l’ottimo stato dei cortili e delle cantine: non potevo più aspettarmi che qualche freddo bacio. Se ne avessi avuto il coraggio, mi sarei uccisa prima del momento del suo ritorno, per non leggergli sul viso la delusione di ritrovarmi sfiorita. Ma volevo almeno rivederlo prima di morire. Egisto piangeva nel mio letto, spaventato come un bambino colpevole che senta arrivare la punizione del padre; gli andai vicino; scelsi la mia voce più dolce e bugiarda per dirgli che nulla si era intuito dei nostri appuntamenti notturni, e che suo zio non aveva ragione alcuna per smettere di volergli bene. Invece speravo che lui sapesse già tutto, e che l’ira e il gusto della vendetta mi restituissero così un posto nei suoi pensieri. Per maggior sicurezza, feci unire alla posta destinata a lui sulla nave una lettera anonima che esagerava le mie colpe: stavo affilando il coltello che doveva aprirmi il cuore. Contavo che per strangolarmi usasse magari quelle sue mani così spesso baciate: sarei almeno morta in quella specie di abbraccio. Venne il giorno in 80
cui la nave da guerra attraccò finalmente nel porto di Nauplia in un gran chiasso di evviva e di fanfare; le collinette coperte di papaveri rossi sembravano pavesate per ordine dell’estate; il maestro aveva dato un giorno di vacanza ai bambini del villaggio; le campagne della chiesa suonavano. Ero in attesa sotto la Porta dei Leoni; un parasole rosa imbellettava il mio pallore. Le ruote della vettura scricchiolavano sull’irta salita; la gente del villaggio si attaccò alle stanghe per alleviare la fatica ai cavalli. Alla svolta della strada potei finalmente intravedere la carrozza un po’ più alta della cima delle siepaglie, e mi accorsi che il mio uomo non era solo. Gli stava accanto quella specie di maga turca che si era scelta come parte del bottino, benché fosse un pochino guasta, forse, dai giochi dei soldati. Era quasi una bambina; aveva dei begli occhi cupi in un viso giallo tatuato di ferite; lui le accarezzava il braccio per impedirle di piangere. L’aiutò a scendere dalla carrozza; mi abbracciò freddamente, mi disse che contava sulla mia generosità per far buona accoglienza a quella ragazza orfana di padre e di madre; strinse la mano a Egisto. Era cambiato, anche lui. Camminando aveva il fiato grosso; il suo collo enorme e rubicondo traboccava dal collo della camicia; la sua barba tinta di rosso si perdeva nelle pieghe del suo petto. Tuttavia era bello, ma bello come un toro invece di esserlo come un dio. Salì con noi i gradini del vestibolo che io avevo fatto tappezzare di porpora, come il giorno del mio matrimonio, perché il mio sangue non vi si vedesse. Lui mi guardava appena; a pranzo non si accorse che avevo fatto preparare tutti i suoi piatti favoriti; bevve due bicchieri, tre bicchieri di alcool; la busta strappata della lettera anonima gli usciva da una delle tasche: strizzava l’occhio dalla parte di Egisto; alla frutta farfugliò certe facezie da ubriaco sulle mogli che si fanno conso81
lare. La serata insopportabilmente lunga si trascinò sulla terrazza infestata di zanzare: parlava turco con la sua compagna; lei era, pare, figlia di un capo tribù; da un movimento che fece, mi accorsi che aspettava un figlio. Forse era di lui, o di uno dei soldati che ridendo l’aveva snidata dal recinto paterno, spingendola a colpi di staffile verso le nostre trincee. Pare che avesse il dono di leggere il futuro: per distrarci, ci lesse la mano. Allora impallidì e si mise a battere i denti. Anch’io, Signori della Corte, conoscevo il futuro. Tutte le donne lo sanno: si aspettano sempre che tutto finisca male. Lui aveva l’abitudine di fare un bagno caldo prima di andare a letto. Io salii per preparare l’occorrente: il rumore dell’acqua che scendeva mi permetteva di singhiozzare senza ritegno. Il bagno si riscaldava con la legna. Una scure che serviva a spaccare i ciocchi era posata sul pavimento; non so perché, la nascosi dietro la gruccia degli asciugamani. Per un attimo ebbi voglia di mettere in scena un incidente destinato a non lasciare tracce, dato che la sola colpevole sarebbe stata la lampada a petrolio. Ma volevo almeno obbligarlo in punto di morte a guardarmi in faccia: soltanto per questo lo ammazzavo, per costringerlo a rendersi conto che io non ero una cosa senza importanza che si può lasciar cadere o cedere al primo venuto. Chiamai a bassa voce Egisto; divenne livido appena aprii la bocca: gli ordinai di aspettarmi sul pianerottolo. L’altro saliva pesantemente i gradini; si sfilò la camicia; la sua pelle nell’acqua calda si fece tutta viola. Gli stavo insaponando la nuca: tremavo così forte che il sapone mi scivolava continuamente dalle mani. Lui si sentiva mancare il fiato; mi ordinò duramente di aprire la finestra che era troppo alta per me; io diedi una voce a Egisto perché venisse ad aiutarmi. Appena fu entrato, io chiusi la porta a chiave. L’altro non se ne ac82
corse, perché ci girava le spalle. Io gli assestai maldestramente un primo colpo che fu solo buono a scalfirgli le spalle; si alzò tutto in piedi; il suo viso gonfio si marezzava di chiazze nere; mugghiava come un bue; Egisto atterrito gli afferrò le ginocchia, forse per chiedere perdono. Lui perse l’equilibrio sul fondo scivoloso della vasca e cadde come un’unica massa, con il viso nell’acqua, con un gorgoglio che sembrava un rantolo. Fu allora che io gli assestai il secondo colpo, spaccandogli la fronte. Ma credo proprio che fosse già morto: non era più che uno straccio molle e caldo. Si è parlato di un mare di sangue: in realtà ha sanguinato pochissimo. Ho sanguinato più io dando alla luce suo figlio. Dopo di lui, abbiamo ucciso la sua amante: era più generoso, se lo amava. La gente del villaggio si è messa dalla nostra parte; ha taciuto. Mio figlio era troppo giovane per dare libero corso al suo odio per Egisto. Passarono alcune settimane: avrei dovuto sentirmi calma, ma come voi sapete, Signori della Corte, non se ne esce mai del tutto, tutto ricomincia. Mi sono messa ad aspettarlo: è ritornato. Non scuotete la testa: vi dico che è ritornato. Lui che durante dieci anni non ha fatto lo sforzo di prendersi un congedo di otto giorni per ritornare da Troia, lui è ritornato dalla morte. Inutilmente gli avevo tagliato i piedi per impedirgli di uscire dal cimitero: questo non gli impediva di sgusciare da me, la sera, tenendosi i piedi sotto il braccio come portano i ladri le loro scarpe per non fare rumore. Mi copriva con la sua ombra; non aveva nemmeno l’aria di accorgersi che Egisto era presente. Più tardi mio figlio mi ha denunziata alla polizia: ma mio figlio è ancora il fantasma di lui, il suo spettro in carne e ossa. Credevo che almeno in prigione sarei stata tranquilla; ma lui si ostina a ritornare: si direbbe che alla sua tomba preferisca la mia cella: io so che la mia testa finirà per 83
rotolare sulla piazza del villaggio, e che lo stesso coltello aspetta quella di Egisto. E strano, Signori della Corte: si direbbe perfino che voi mi abbiate già giudicata sovente. Ma lo so, io, che i morti non se ne stanno in riposo: io mi rialzerò, trascinandomi dietro Egisto come un triste levriero. Mi aggirerò di notte per le strade alla ricerca della Giustizia di Dio. Quell’uomo io lo ritroverò in qualche angolo del mio inferno: ricomincerò a gridare di gioia sotto i suoi primi baci. Poi mi abbandonerà: andrà a conquistare una provincia della Morte. Se il Tempo è il sangue dei vivi, l’Eternità dev’essere il sangue delle ombre. L’eternità che mi riguarda si consumerà nell’attesa del suo ritorno, e così ben presto io sarò la più sfinita di tutte le ombre. Allora lui ritornerà, per beffarsi di me, per accarezzare davanti a me la sua gialla strega turca abituata a giocare con le ossa delle tombe. Che cosa fare? Non si può proprio uccidere un morto.
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Cessare di essere amata, significa diventare invisibile. Tu non ti accorgi più che io abbia un corpo. * * * Fra la morte e noi, talvolta non c’è che lo spessore di una sola creatura. Tolta quella creatura, non ci sarebbe che la morte. * * * Come sarebbe stato scialbo essere felici! * * * Ogni mio gusto mi è venuto dall’influenza di amici che il Caso mi ha dato, quasi che io non potessi accettare il mondo se non grazie alla mediazione di mani umane. Giacinto mi ha 85
dato il gusto dei fiori, Filippo il gusto dei viaggi, Celeste il gusto della medicina, Alessio il gusto dei pizzi. Perché non avrei derivato da te il gusto della morte?
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SAFFO O DEL SUICIDIO
Poco fa ho visto in fondo agli specchi di un palco una donna che si chiama Saffo. È pallida come la neve, come la morte o il viso chiaro delle lebbrose. E poiché si trucca per nascondere quel pallore, sembra il cadavere di un’assassinata, con un po’ del suo stesso sangue sulle guance. I suoi occhi cavi si aggrottano per sfuggire alla luce, lontano da quelle aride palpebre che non offrono nemmeno più ombra. I suoi lunghi riccioli cadono a ciocche, come le foglie delle foreste sotto le tempeste precoci; ogni giorno si strappa dei nuovi capelli bianchi, e quegli scialbi fili di seta saranno ben presto tanto numerosi da tesserle il lenzuolo funebre. Piange la sua giovinezza come una donna che l’avesse tradita, la sua infanzia come una figlioletta che avesse perduta. È magra: al momento del bagno, distoglie lo sguardo dallo specchio per non vedere i suoi seni tristi. Va errando di città in città con tre grandi bauli pieni di perle false e di sfilacciature di uccelli. È acrobata come nei vecchi tempi era poetessa, perché la forma particolare dei suoi polmoni la obbliga a scegliersi un mestiere che stia fra cielo e terra. Ogni sera, alle prese con le bestie del Circo che se la divorano con gli occhi, svolge i suoi im87
pegni di stella in uno spazio ingombro di pulegge e di pali. Il suo corpo appiattito contro il muro, spezzettato dalle lettere delle pubblicità luminose, appartiene a quel gruppo di fantasmi in voga che planano nel grigiore delle città. Creatura magnetizzata, troppo alata per il suolo, troppo carnale per il cielo, i suoi piedi massaggiati con la cera hanno rotto il patto che ci lega alla terra; la Morte le agita laggiù le sue sciarpe di vertigine senza riuscire mai a confonderle la vista. Da lontano, nuda, ricoperta di stellari lustrini, ha l’aria di un atleta che rifiuti d’essere angelo per non togliere ogni pregio ai suoi salti pericolosi; da vicino, drappeggiata in lunghe vestaglie che le restituiscono le ali, può far pensare di essere travestita da donna. Lei sola sa che sotto la gola le palpita un cuore troppo pesante e troppo grosso per esistere altrove che al fondo di un petto allargato da due seni: quel peso nascosto al fondo di una gabbia di ossa conferisce a ognuno dei suoi balzi nel vuoto il sapore mortale del rischio. Divorata a metà da quella fiera implacabile, lei si sforza segretamente di essere la domatrice del proprio cuore. È nata in un’isola, e questo è già un inizio di solitudine: poi il suo mestiere è sopravvenuto a costringerla ogni sera a una specie d’isolamento nel senso dell’altezza; sdraiata sull’altalena del suo destino di stella, esposta seminuda a tutti i venti dell’abisso, una mancanza di dolcezza la fa soffrire come per una mancanza di cuscini. Gli uomini della sua vita non sono stati che i gradini che ha scalato non senza sporcarsi i piedi. Il direttore, il suonatore di trombone, l’agente pubblicitario le hanno dato il disgusto dei baffi incerati, dei sigari, dei liquori, delle cravatte a strisce, dei portafogli di cuoio, di tutti gli attributi esterni della virilità che scatenano la fantasia delle donne. Soltanto il corpo delle fanciulle sarebbe abbastanza dolce, abbastanza morbido, ancora ab88
bastanza fluido per lasciarsi manipolare dalle mani di quel grande angelo che fingerebbe per gioco di mollarle in pieno abisso: lei non riesce a trattenerle a lungo in quello spazio astratto limitato da ogni parte dalla sbarra dei trapezi: presto spaventate da quella geometria che si trasforma in colpi d’ala, tutte prima o poi hanno rinunziato a farle da compagna di cielo. Lei deve ridiscendere a terra per trovarsi allo stesso livello della loro vita rattoppata a stracci che non sono nemmeno fasce di bambini, quegli amori finiscono per assumere l’aspetto di una vacanza del sabato, di un giorno di permesso passato dal gabbiere in compagnia di damigelle. Il fiato le manca in queste camere che non sono che alcove. Apre la porta sul vuoto con disperazione, come un uomo obbligato dall’amore a vivere tra le bambole. Tutte le donne amano una donna: amano perdutamente se stesse, il loro stesso corpo è infatti di solito l’unica forma in cui siano d’accordo nel trovare qualche bellezza. Gli occhi penetranti di Saffo guardano più lontano, presbiti del dolore. Chiede alle ragazze ciò che si aspettano dagli specchi le civettuole tutte intente ad addobbarsi: un sorriso che risponda al suo sorriso tremulo, finché il vapore delle labbra sempre più vicine confonda il riflesso e riscaldi il cristallo. Narciso si ama com’è. Nelle sue compagne Saffo adora con amarezza ciò che non è stata. Povera, coperta di quel disprezzo che per l’artista è l’altra faccia della gloria, non avendo per avvenire se non le prospettive dell’abisso, va accarezzando la felicità sul corpo delle sue amiche meno minacciate. I veli delle comunicande che portano l’anima all’esterno di se stesse le fanno sognare un’infanzia più limpida di quanto non sia stata la sua, perché perdute le illusioni si continua sempre a prestare agli altri un’infanzia senza peccato. Il pallore delle ragazze risveglia in lei il ricordo presso89
ché incredibile della verginità. In Girinno lei ha amato l’orgoglio, e si è abbassata a baciarle i piedi. L’amore di Anactoria le ha fatto scoprire il sapore delle frittelle mangiate a grossi bocconi nelle feste popolari, dei cavalli di legno degli spassi da fiera, del fieno dei covoni che solletica la nuca della bella ragazza sdraiata. Di Attide ha amato il dolore. Ha incontrato Attide in fondo a una grande città asfissiata dal fiato delle folle e dalla nebbia del fiume; la sua bocca conservava l’odore di un confetto allo zenzero che aveva appena finito di sgranocchiare; tracce di fuliggine le s’incollavano sulle guance brinate di lacrime; correva su un ponte, vestita di falsa lontra, con scarpe rotte ai piedi; il suo viso di giovane capra traboccava di torva dolcezza. Per giustificare le sue labbra serrate, pallide come la cicatrice di una ferita, i suoi occhi simili a turchesi malati, Attide possedeva in fondo alla memoria tre racconti diversi che dopo tutto non erano che le tre facce dello stesso dolore: il suo amico, con il quale usava passeggiare la domenica, l’aveva abbandonata perché una sera, in un taxi, rientrando dal teatro, lei non aveva accettato di farsi accarezzare; una ragazza che le prestava un divano per dormire in un angolo della sua camera da studentessa l’aveva cacciata accusandola falsamente di volerle rubare il cuore del suo fidanzato; e poi, suo padre la picchiava. Aveva paura di tutto: dei fantasmi, degli uomini, del numero tredici e degli occhi verdi dei gatti. La sala da pranzo dell’albergo l’abbagliò come un tempio in cui si sentiva tenuta a parlare soltanto a voce bassa; la sala da bagno le fece battere le mani. Saffo spende per questa ragazzina lunatica il capitale accumulato dei suoi anni di arrendevolezza e di temerarietà. Impone ai direttori di circo questa mediocre artista capace solo di qualche giochetto di destrezza con dei mazzi di fiori. Le due girano insieme lungo 90
le piste e le pedane di tutte le capitali, con quella regolarità nel cambiamento che è propria degli artisti nomadi e dei dissoluti tristi. Ogni mattino, nelle camere ammobiliate in cui abitano per evitare ad Attide la promiscuità degli alberghi pieni di clienti troppo ricchi, esse rattoppano i loro costumi teatrali e rimagliano le sfilature delle loro aderentissime calze di seta. A forza di curare quella ragazzetta patita, di scostarle dal cammino gli uomini che potrebbero tentarla, lo smorto amore di Saffo assume a sua insaputa una forma materna, come se quindici anni di voluttà sterili avessero avuto il risultato di farle generare quella bambinella. I giovani in smoking incontrati nei corridoi dei palchi ricordano tutti ad Attide l’amico di cui lei forse rimpiange quei baci respinti: Saffo l’ha così spesso sentita parlare della bella biancheria di Filippo, dei suoi gemelli di camicia azzurri, e dello scaffale pieno di riviste porno che abbellivano la sua camera a Chelsea, che lei finì per avere di quell’uomo d’affari correttamente vestito un’immagine precisa come quella di alcuni amanti che non ha potuto evitare d’introdurre nella sua vita: e lo allinea distrattamente tra i suoi peggiori ricordi. Le palpebre di Attide assumono a poco a poco delle tinte di violette; va a cercare in fermo posta certe lettere che strappa dopo averle lette; pare stranamente informata sui viaggi d’affari che potrebbero obbligare quel giovane a incrociare per caso la loro strada di nomadi povere. Saffo è addolorata di non poter offrire ad Attide che un rifugio in disparte dalla vita, soffre perché soltanto la paura dell’amore appoggia questa piccola testa fragile contro la sua forte spalla. Quella donna amara di tutte le lacrime che ha avuto il coraggio di non versare mai, si rende conto di non poter offrire alle sue amiche che un carezzevole sconforto; la sua unica scusa è di dirsi che l’amore in tutte le 91
sue forme non ha nulla di meglio da offrire alle creature pavide, e che Attide allontanandosi avrebbe poche possibilità di incontrare una felicità maggiore. Una sera Saffo rientra dal circo più tardi del solito, portando nelle braccia fasci di fiori che ha raccolto soltanto per infiorare Attide. La portinaia fa al suo passaggio una smorfia diversa da quella di ogni giorno; la spirale della scala di colpo ricorda gli anelli di un serpente. Saffo osserva che la bottiglia del latte non sta sullo zerbino al suo solito posto; già dall’ingresso annusa un odore di acqua di colonia e di tabacco biondo. Constata in cucina l’assenza di un’Attide intenta a friggere pomodori; in bagno, la mancanza di una fanciulla nuda che giochi con l’acqua; nella camera da letto, l’avvenuto rapimento di un’Attide disposta a lasciarsi cullare. Davanti all’armadio a specchi dalle ante spalancate, piange sulla biancheria scomparsa della ragazza amata. Un gemello azzurro caduto sul pavimento è la firma dell’autore di quella partenza che Saffo si ostina a non credere eterna, per paura di non poterla sopportare senza morire. Ricomincia ad aggirarsi sola sulla pista delle città, cercando avidamente in ogni serie di palchi un viso che il suo delirio preferisce a qualsiasi cosa. Dopo qualche anno, uno dei suoi giri di spettacoli nel Levante la riporta a Smirne; viene a sapere che ora Filippo vi dirige una manifattura di tabacchi orientali; si è appena sposato con una donna imponente e ricca che non può essere Attide: la fanciulla abbandonata, sente dire, è entrata in una compagnia di ballerine. Saffo ricomincia il giro degli alberghi del Levante dove ogni portiere ha un suo modo particolare di essere insolente, impudente o servile; delle case di piacere dove l’odore del sudore avvelena i profumi, dei bar dove un’ora di abbrutimento nell’alcool e nel calore umano non lascia altra traccia che il cerchio di un bic92
chiere su una tavola di legno nero; scandaglia perfino i ricoveri dell’Esercito della Salvezza nella speranza sempre vana di ritrovare un’Attide caduta in povertà disposta a lasciarsi amare. A Istanbul, il caso le dà ogni sera come vicino di tavola un giovane trasandato che dice di essere impiegato in un’agenzia di viaggi; la sua mano un po’ sporca sostiene pigramente il fardello di una fronte triste. Scambiano quelle poche parole banali che per due esseri diventano spesso una passerella verso l’amore. Lui dice di chiamarsi Faone, sostiene di essere figlio di una greca di Smirne e di un marinaio della flotta britannica: il cuore di Saffo batte ascoltando ancora una volta quel delizioso accento tante volte baciato sulle labbra di Attide. Lui ha alle spalle ricordi di fughe, di miseria e di pericoli indipendenti dalle guerre e più segretamente legati alle leggi del suo cuore. Sembra appartenere anche lui a una razza minacciata, alla quale una tolleranza precaria e sempre provvisoria permette di rimanere in vita. Quel ragazzo senza permesso di soggiorno ha non poche personalissime preoccupazioni; è contrabbandiere, trafficante di morfina, forse agente della polizia segreta; vive in un mondo di conciliaboli e di parole d’ordine in cui Saffo non entra. Lui non ha bisogno di raccontarle la sua storia perché fra di loro si stabilisca la fraternità della sciagura. Lei gli confida le sue lacrime; si dilunga a parlargli di Attide. Lui crede di averla conosciuta: ricorda vagamente di aver visto in un cabaret di Pera una ragazza nuda che ballava facendo dei giochi con fiori. Possiede, Faone, una barchetta a vela per andare in giro sul Bosforo la domenica; si mettono insieme alla ricerca in tutti quei caffè vecchiotti che si allineano sulla riva, nei ristoranti delle isole, nelle pensioncine della costa asiatica dove vivono modestamente gli stranieri poveri. Seduta a poppa, Saffo 93
guarda tremolare alla luce della lanterna quel bel viso di giovane maschio che è adesso il suo unico sole umano. Ritrova in quei tratti certe caratteristiche che un tempo ha amato nella sua piccola fuggitiva: la stessa bocca tumefatta che una misteriosa ape sembra aver punto, la stessa piccola fronte dura sotto capelli diversi e che questa volta sembrano intinti nel miele, gli stessi occhi simili a due lunghi e torbidi turchesi, ma incastonati in un viso cotto dal sole anziché pallido, così che la smorta ragazza bruna appare ormai la semplice cera persa di quel dio di bronzo e d’oro. Sbalordita, Saffo comincia a poco a poco a preferire quelle spalle rigide come la sbarra del trapezio, quelle mani indurite dal contatto dei remi, tutto quel corpo in cui sussiste quel tanto di dolcezza femminile che basta a farglielo amare. Stesa sul fondo della barca, si abbandona alle pulsazioni nuove dell’onda che quel nocchiero va fendendo. Non gli parla più di Attide se non per dirgli che la fanciulla smarrita gli somiglia ma è molto più bello lui: Faone accetta questi omaggi con una gioia preoccupata e tinta d’ironia. Lei strappa davanti a lui una lettera in cui Attide le annunciava il suo ritorno, e di cui non s’è nemmeno data la pena di decifrare l’indirizzo. Lui la osserva, con un debole sorriso sulle labbra che gli tremano. Per la prima volta lei trascura le discipline del suo severo mestiere; interrompe quegli esercizi che mettevano ogni muscolo sotto il controllo dell’anima; cenano insieme; cosa inaudita per lei, mangia un po’ troppo. Le restano ormai pochi giorni da rimanere con lui in quella città da cui la cacciano i suoi contratti, obbligandola a planare verso altri cieli. Lui accetta finalmente di passare quell’ultima sera nell’alloggetto che lei occupa vicino al porto. Nella camera ingombra lei guarda l’andirivieni di quella creatura simile a una voce in cui le note acute si mescolano 94
alle note profonde. Incerto nei gesti quasi temendo di spezzare un’illusione vulnerabile, Faone si china con curiosità sui ritratti di Attide. Saffo si siede sul divano viennese ricoperto di ricami turchi; si stringe fra le mani il viso come sforzandosi di cancellare la traccia di quei ricordi. Questa donna che finora si riservava la scelta, la proposta, la seduzione, la protezione delle sue amiche più fragili, si stende e finalmente si abbandona, mollemente arresa al peso del suo proprio sesso e del suo proprio cuore, felice di non dover ormai più compiere, con un amante, che il gesto di accettare. Ascolta il giovane aggirarsi nella camera accanto, dove il biancore di un letto si presenta come una speranza rimasta malgrado tutto meravigliosamente aperta; lo sente aprire flaconi sul ripiano della pettiniera, frugare nei cassetti con la sicurezza di un ladro o di un amichetto cui sia permesso tutto, e infine aprire le due ante dell’armadio dove i vestiti di Saffo pendono come altrettanti suicidi, mescolati a qualche superstite fronzolo di Attide. All’improvviso un frusciare di seta simile al passaggio di fantasmi si avvicina come una carezza capace di far gridare. Lei si alza, volge il capo: l’essere amato è ravvolto in una vestaglia che Attide si è lasciata dietro al momento di andarsene: la mussolina posata sulla carne nuda rivela la grazia quasi femminea di quelle lunghe gambe da ballerino; liberato dagli attillati abiti maschili, quel corpo flessibile e liscio è quasi un corpo di donna. Quel Faone così a suo agio nel travestimento non è più che un surrogato della bella ninfa assente; ed è ancora una fanciulla quella che le viene incontro con un riso da sorgente. Smarrita, Saffo corre a testa nuda verso la porta, fugge quello spettro di carne che non potrà darle se non gli stessi tristi baci. Scende di corsa per le strade seminate di detriti e spazzatura che conducono al mare, affonda nel mareg95
giare dei corpi. Sa che nessun incontro può offrirle la salvezza, se ovunque va non può che ritrovare Attide. Quel volto smisurato le blocca ogni via di scampo che non dia sulla morte. La sera scende come una stanchezza che le offuschi la memoria; un po’ di sangue persiste dal lato del tramonto. All’improvviso esplodono dei cembali come se la febbre glieli facesse cozzare dentro il cuore: a sua insaputa, una lunga abitudine l’ha ricondotta verso il circo a quella solita ora serale che la vede in lotta con l’angelo della vertigine. Per l’ultima volta si inebria di quell’odore di bestia selvaggia che è stato l’odore della sua vita, di quella musica enorme e discordante come quella dell’amore. Una costumista apre a Saffo il suo camerino di condannata a morte: lei si denuda come per offrirsi a Dio; si spalma di un bianco grasso che già la trasforma in fantasma; si aggancia in fretta intorno al collo la collanina di un ricordo. Un inserviente vestito di nero viene ad avvertirla che il momento è venuto: lei si arrampica su per la scala di corda del suo celeste patibolo: fugge verticalmente la beffa di aver potuto credere che un uomo esistesse. Si strappa agli imbonimenti dei venditori d’aranciata, alle acute risate dei bambini color di rosa, ai gonnellini delle danzatrici, alle mille maglie delle reti umane. Si issa con un colpo di reni sull’unico punto di appoggio che il suo amore del suicidio possa accettare: la sbarra del trapezio oscillante in pieno vuoto trasforma in uccello quell’essere stanco di non essere che donna a metà: ora fluttua, alcione del suo stesso abisso, reggendosi per un piede sotto gli occhi del pubblico che non crede alla sventura. La intralcia la sua abilità: nonostante gli sforzi, non riesce a perdere l’equilibrio: ambiguo scudiero, la Morte la rimette in sella sul trapezio vicino. Finalmente se ne sale più in alto del regno delle lampade: gli spettatori non 96
possono più applaudirla perché non la vedono più. Aggrappata alla corda che aziona la volta tatuata di stelle dipinte, la sola risorsa che le resta per superarsi ancora è di andare oltre quel firmamento di tela. Il vento della vertigine fa gemere sotto di lei i cavi, le pulegge, i cabestani del suo destino ormai superato; lo spazio oscilla e boccheggia come il mare in tempo di tramontana, il cielo gremito d’astri sembra capovolgersi fra pennoni e alberi di nave. Laggiù la musica è ormai soltanto una vasta onda liscia che spazza via ogni ricordo. I suoi occhi non distinguono più i semafori rossi dai semafori verdi; i fari azzurri che sciabolano la folla nera fanno brillare qua e là delle spalle nude di donna simili a dolci scogli. Saffo artigliata alla sua morte come a un promontorio, per cadere sceglie il punto in cui le maglie della rete non la tratterranno. Il suo destino d’acrobata non occupa infatti che una metà dell’immenso circo indistinto: nell’altra parte dell’arena dove sulla sabbia i pagliacci eseguono i loro giochi con le foche, niente è predisposto per impedirle di morire. Saffo si tuffa, con le braccia spalancate come per abbracciare la metà dell’infinito, non lasciandosi dietro che l’oscillare di una corda a prova del suo distacco dal cielo. Ma chi non realizza la propria vita corre anche il rischio di fallire il suicidio. La sua caduta obliqua cozza contro una lampada simile a una grossa medusa azzurra. Stordita, ma intatta, l’urto fa rimbalzare l’inutile suicida verso le reti dove schiume di luce si rapprendono e si sciolgono; le maglie s’incavano senza cedere sotto il peso di quella statua ripescata dalle profondità del cielo. E ben presto gl’inservienti non avranno che da rimorchiare sulla sabbia quel corpo di marmo pallido, ruscellante di sudore come d’acqua di mare un’annegata. 97
Non mi ucciderò. Ci si scorda così presto dei morti. * * * Non si costruisce una felicità che su fondamenta di disperazione. Penso proprio che ora posso mettermi a costruire. * * * Della mia vita non si accusi nessuno. * * * Non si tratta di un suicidio. Si tratta soltanto di battere un record.
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