Franz Kafka: 58 Racconti [PDF]

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Zitiervorschau

Franz Kafka

Descrizione di un duello ed altri racconti

Traduzione dal tedesco e note a cura di Nicola Spinosi (2014) Indirizzo e-mail: [email protected]

Titoli: Descrizione di un duello Desiderio di diventare indiano Il rifiuto La via di casa Sguardo svagato Passanti in corsa Il passeggero Meditazione sui signori cavallerizzi Infelicità Smascheramento di un imbroglione La finestra sulla via Gente di città Fracasso immane Infelicità dello scapolo La passeggiata improvvisa Decisioni Il fochista Davanti alla legge Il maestro di villaggio Un giovane studente ambizioso Blumfeld Un sogno In loggione Un fratricidio Il ponte A cavallo di un secchio Sciacalli e arabi Il nuovo avvocato Ieri ho avuto un mancamento Avrei dovuto

Il messaggio imperiale Una vecchia pagina D'estate Undici figli La mia ditta L'incrocio Una visita in miniera Il villaggio vicino Il cruccio del capofamiglia K era un gran prestigiatore Lampade nuove Una comune confusione Sancho Panza Un'accolita di farabutti Ospite dei morti Di notte La nostra cittadina La questione delle leggi Le coscrizioni Poseidon Convivenza Lo stemma della città Il timoniere Sviluppo La prova L'avvoltoio Favoletta La trottola La partenza Prime pene Difensori

Nella nostra sinagoga Era solo un gioco di pazienza La coppia di coniugi Un commento A proposito delle metafore Ritorno a casa Josefine, o il popolo dei topi

Descrizione di un duello* In abiti ventosi van gli uomini Camminando sul pietrisco Sotto questo gran cielo Che di collina in collina S’allarga lontano.

I Già verso mezzanotte alcuni cominciarono ad alzarsi, s’inchinarono, si porsero reciprocamente la mano, dissero che era stato molto bello e poi passarono in anticamera attraversando la grande porta incorniciata, per vestirsi. La padrona di casa stava nel centro della stanza ed eseguiva agili inchini imprimendo leziose oscillazioni al suo abito a pieghe. Io sedevo a un tavolinetto – aveva tre gambe sottili – sorseggiando il terzo bicchierino di Benedikter e ciò facendo abbracciavo con lo sguardo la piccola scorta di pasticcini da me scelti e accumulati per via del loro delizioso sapore. Allora la mia nuova conoscenza, un po’ in stato di alterazione e in disordine, venne verso di me e, un poco divertito da quel che m’impegnava, con voce fervida disse: „Perdonatemi se vengo qui da voi. Ma finora sono stato da solo con la mia ragazza in una stanza qui vicina. Dalle undici e mezzo, neppure tanto tempo. Perdonatemi, se ve lo dico. Certo, ci conosciamoappena. No? Ci siamo incontrati per le scale stasera ed abbiamo scambiato poche parole di cortesia, ed ora già vi parlo della mia ragazza, ma ora dovete – ve ne prego - perdonarmi, la felicità è

insopportabile, non potevo farcela da solo. Del resto qui non ho nessun conoscente di cui fidarmi.“ Parlò così. Io lo guardavo con mestizia – dato che il pasticcino alla frutta di cui avevo in bocca un pezzetto non aveva un buon sapore – e dissi a quella faccia gradevole ed arrossata: „Sono lieto di sembrarvi degno di fiducia, ma mi rattrista che me lo abbiate raccontato. E anche voi - se non foste così turbato - vi rendereste conto di quant’è fuori luogo raccontare, a uno che sta seduto da solo a bere acquavite, di una ragazza che fa l’amore.“ Avevo appena detto queste parole che lui si mise a sedere di botto, si appoggiò alla spalliera e lasciò penzolare le braccia. Poi le ritirò su facendo leva sui gomiti e cominciò a vaneggiare a voce piuttosto alta parlando a se stesso: „Là completamente soli nella stanza – seduti - con l’Annetta, ed io l’ho baciata – baciata sulla bocca, sulle orecchie, sulle spalle -“ Alcuni signori lì vicino supponendo che fosse in corso un qualche vivace scambio di opinioni, si avvicinarono tra gli sbadigli. Perciò mi alzai e dissi a voce alta:“ Bene, se volete ci vengo, ma è assurdo andare adesso sul monte Laurenzi, infatti fa freddo ed è caduta un po’ di neve, le strade sono come piste di pattinaggio. Ma se volete, ci vengo.“ Prima lui mi guardò stupefatto ed aprì la bocca dalle labbra grandi, rosse ed umide. Ma poi, quando vide quei signori che già ci erano vicini, rise, si alzò e disse: „ Ma sì, il fresco ci farà bene, abbiamo gli abiti pieni di calore e di fumo, sono anche un po’ brillo, pur senza aver bevuto molto, sì, prenderemo congedo e poi ce ne andremo.“ Così andammo dalla padrona di casa e, quando lui le baciò la mano, lei disse: „ Sono davvero lieta che oggi voi abbiate un’espressione tanto felice, quando di solito è tanto seria ed annoiata.“

La benignità di tali parole lo commosse e di nuovo le baciò la mano; lei ne sorrise. Nell’ingresso c’era una cameriera, la vedevamo ora per la prima volta. Ci aiutò con i soprabiti e poi prese una piccola lanterna per farci luce lungo le scale. Certo era bella. Il collo era nudo e, sotto il mento, serrato solo da una sottile striscia nera di velluto, nello scendere le scale davanti a noi sorreggendo la lanterna il suo busto morbidamente abbigliato continuava ad inclinarsi ed a raddrizzarsi con grazia. Le guance erano arrossate dal vino che aveva bevuto, le labbra dischiuse. In fondo alle scale appoggiò la lanterna su un gradino, andò un poco barcollando verso il mio conoscente, lo abbracciò e baciò senza staccarsi. Dopo che le ebbi messo una moneta in mano sciolse torpidamente le braccia da lui, aprì con lentezza il portoncino di casa e c’immise nella notte. Una gran luna in un cielo appena nuvoloso e perciò quasi illimitato rischiarava uniformemente la strada vuota. Neve sottile copriva il terreno. Si scivolava, quindi bisognava procedere a passi brevi. Eravamo appena usciti, che mi prese una potente allegria. Baldanzoso alzai le gambe e con gusto feci scrocchiare le giunture, urlai un nome in direzione della strada come se un amico mi fosse sfuggito dietro l’angolo, tirai in aria il cappello e lo riacchiappai con vanagloria. Il mio conoscente senza curarsene mi veniva dietro. Teneva la testa china. E non parlava. La cosa mi stupì, perché mi ero aspettato che la gioia lo avrebbe reso frenetico, senza più la presenza della compagnia; mi calmai. Stavo già per dargli un colpetto d’incoraggiamento sulle spalle, ma me ne vergognai e rimisi la mano in tasca; non mi serviva.

Quindi procedemmo in silenzio. Notai come risuonavano i nostri passi e non riuscivo a capire perché mi era impossibile restare al passo con il mio conoscente. Mi arrabbiai un po’. La luna era chiara, la visibilità buona. Qua e là c’era chi si faceva alla finestra e ci osservava. Quando fummo in Ferdinandstrasse notai che il mio conoscente canticchiava una melodia, molto piano ma udibile. Trovai la cosa offensiva. Perché non mi parlava? Se non gli servivo, perché non mi aveva lasciato in pace? Irritato mi rammentai le buone cose che avevo lasciato per amor suo sopra il mio tavolinetto. Anche del Benedektiner mi ricordavo e questo mi rese più allegro, quasi altezzoso, si può dire. Con le mani sui fianchi, mi immaginai di andare a passeggio da solo. Ero stato in compagnia, avevo salvato dallo svergognamento un giovane ingrato, ed ora andavo a passeggio al chiar di luna. Un modo di vivere illimitatamente naturale. Al lavoro di giorno, in compagnia la sera, di notte per una volta sulla strada. Comunque il mio conoscente mi camminava ancora dietro, certo affrettava addirittura il suo passo, perché si rendeva conto di essere rimasto indietro, e lo faceva con naturalezza. Ma io valutai se fosse o no giusto svoltare a un angolo della strada, dato che non avevo certo l’obbligo di passeggiare in compagnia. Potevo andarmene a casa da solo e a nessuno era lecito impedirmelo. Nella mia stanza avrei acceso la lampada a stelo con il piedistallo di ferro che si trova sul tavolo, e mi sarei messo nel seggiolone con sotto il tappeto orientale, che non ne può più. A questo punto mi saltò addosso il solito svuotamento d’energia che mi coglie non appena sono costretto a pensare al ritorno nel mio appartamento ed alle ore di solitudine da passare tra le pareti dipinte e sul pavimento che pare andar di sbieco, riflesso nello specchio incorniciato d’oro che si trova appeso sulla parete

alle mie spalle. Le gambe mi s’infiacchivano, ero già deciso comunque ad andarmene a casa e a sdraiarmi nel mio letto, allorché mi venne il dubbio: ora, andandomene a casa, dovevo salutarlo o no, il mio conoscente? Ero troppo timido per andarmene senza salutare, e troppo debole per salutarlo chiamandolo ad alta voce, perciò mi fermai, appoggiato a un muro rischiarato dalla luna, e attesi. Il mio conoscente mi raggiunse festoso ed anche un po’ preoccupato. Faceva ampi cenni, ammiccava, stese le braccia in aria, sollevò con forza verso di me la testa coperta da un cappello duro di color nero, insomma con tutto ciò sembrava mostrarmi di capire ed apprezzare molto bene lo scherzo che avevo fin lì portato avanti per il suo divertimento. Perplesso dissi a bassa voce: „E’ una serata piacevole.“ E feci un solitario tentativo fallito di risata. Lui replicò: „Sì, e avete visto, anche la cameriera mi ha baciato!“ Non ero in grado di parlare, avevo la gola colma di lacrime, allora per non restare zitto tentai di emettere il suono della trombetta del postiglione. Lui si tappò le orecchie, poi con gentilezza mi strinse la mano destra ringraziando. Dové sembrargli fredda, perché la lasciò e disse: „Avete la mano freddissima, le labbra della cameriera erano più calde, eh sì!“. Annuii con aria d’intelligenza. E dissi, mentre pregavo il buon Dio di darmi dell’imperturbabilità:“Sì, avete ragione, andremo a casa, è tardi e domani presto ho l’ufficio; va bene che si può dormire anche lì, ma non è una cosa giusta. Avete ragione, andremo a casa.“ Con il che gli porsi la mano come se la faccenda fosse definitivamente sbrigata. Invece lui rise a crepapelle delle mie parole: „Sì, giusto, una sera simile mica vuol essere passata a letto a dormire. Considerate quanti pensieri gai si riescono a schiacciare sotto le coperte del letto, se si dorme da soli, e quanti sogni infelici si riscaldano con loro.“

Felice di questa sua trovata mi si attaccò al soprabito, all’altezza del torace – più in alto non arrivava – e mi scosse allegramente; poi strinse gli occhi e confidenzialmente disse: „Sapete come siete? Comico, siete.“ E ricominciò a camminare; senza rendermene conto lo seguii, infatti la sua uscita mi stava dando da pensare. Tanto per cominciare mi allietava, perché sembrava significare che lui supponeva qualcosa in me, qualcosa che certo non c’era, ma che lui supponesse qualcosa attirava la mia attenzione su di lui. Una cosa così mi rende felice. Ero contento di non essere andato a casa, il mio conoscente stava diventandomi prezioso come uno che mi attribuisce un valore al cospetto degli uomini senza che io debba prima guadagnarmelo! Lo guardavo con occhi pieni di affetto. Nel pensiero lo proteggevo dai pericoli, in particolare da rivali e uomini gelosi. La sua vita mi diventava più cara della mia stessa. Trovavo bello il suo viso, ero fiero della sua fortuna con le cameriere e partecipavo ai baci che aveva ricevuto stasera dalle due ragazze. Oh, questa sera era piacevole! Domani lui parlerà con la signorina Anna, prima le solite cose, è naturale, ma poi dirà d’improvviso: „Ieri notte ero con un uomo come tu cara Annetta di certo non hai mai visto. Ha l’aspetto – come faccio a descrivertelo – d’una stanga oscillante su cui è infilato un po’ goffamente un cranio giallo di pelle e nero di chioma. Il corpo ce l’ha adorno di molti, piccoli, vivaci pezzi di materia giallastra ** che ieri lo coprivano completamente per il fatto che, mancando la notte scorsa il vento, gli aderivano senza difficoltà. Con timidezza procedeva accanto a me. Tu mia cara Annetta, che sei capace di baciare così bene, so che avresti riso un po’ e un po’ avuto paura, ma io, che ho tutta l’anima svaporata via per amor tuo, della sua presenza mi rallegravo. Forse è infelice e non ne parla, vicini a lui si sta in continua

agitazione, ma a cuor leggero. Ieri soccombevo alla felicità, sì, eppure quasi ti ho dimenticata. Era come se la gran volta del cielo stellato si sollevasse insieme ai respiri del suo piatto torace. L’orizzonte si dischiudeva, e sotto le nuvole accese i paesaggi divenivano visibilmente infiniti come ci piacciono – santo cielo come ti amo, Annetta, e il tuo bacio mi è più caro di un paesaggio. Basta parlar di lui, noi, e vogliamoci bene l’un l’altra.“ Quando a passi lenti percorremmo il lungo fiume, certo invidiai il mio conoscente per i baci, ma felicemente provai l’intima vergogna che lui, per come gli apparivo, ben doveva sentire davanti a me. Pensavo questo. Ma i miei pensieri in quel momento si confusero, perché la Moldava ed il quartiere sull’altra riva si confondevano in un’unica tenebra. Brillavano solo alcune luci e giocavano con gli occhi in contemplazione. Ci trovavamo al parapetto. Tirai fuori i guanti, perché dall’acqua saliva il freddo; quindi sospirai senza motivo come è lecito fare di fronte a un fiume nella notte, e mi accinsi a camminare ancora. Il mio conoscente invece guardava verso l’acqua e non si muoveva. Poi si accostò di più al parapetto, appoggiò i gomiti sul ferro e si mise la fronte tra le mani. Mi sembrò stolto. Gelavo, tirai su il bavero del cappotto. Lui si tirò su e mise la parte superiore del corpo, che ora si reggeva sulle sue braccia allargate, sul parapetto. Confuso mi misi a parlare per reprimere gli sbadigli: „E’ davvero degno di nota che veramente solo la notte sia capace d’immergerci nei ricordi, non è vero? Ora per esempio ripensavo a questo: una volta stavo allungato su una panchina sulla riva di un fiume, era sera. Di traverso. Con la testa appoggiata sulle braccia posate sullo schienale di legno, vidi le montagne nuvolose dall’altra parte del fiume e udii un violino

che qualcuno con delicatezza suonava nell’albergo sulla riva. Di qua e di là transitavano a momenti dei treni il cui fumo risaltava.“ Parlai così, mentre tentavo faticosamente di escogitare, dietro le parole, qualche storia amorosa, situazioni memorabili; neanche un po’ di grossolanità e pura brutalità carnale bisognava che mancasse. Dopo queste mie prime parole, lui, sorpeso di vedermi ancora lì così mi parve - con indifferenza si girò dalla mia parte e disse: „Vedete, è sempre così. Quando oggi scendevo le scale per fare una passeggiata prima del ricevimento, delle mie mani arrossate mi ha colpito il modo come si dimenavano nel bianco dei polsini e l’allegria insolita con cui lo facevano. Mi sono aspettato un’avventura amorosa, in quel momento. Capita sempre così.“ Disse queste cose, nell’incamminarsi, così per caso, a mo’ di osservazione senza pretese. Io invece ero toccato in modo penoso dall’ipotesi che la mia lunga figura, in confronto alla quale lui forse appariva troppo piccolo, potesse risultargli incresciosa. Il dettaglio mi tormentava, nonostante che fosse notte e non incontrassimo quasi nessuno, al punto che abbassai le spalle fino a sfiorarmi, nel camminare, le ginocchia con le mani. Affinché lui non se ne accorgesse, modificavo la mia postura in modo assolutamente graduale, cautamente, tentando di sviare la sua attenzione da me tramite osservazioni su gli alberi dell’Isola dei Tiratori e sul riflesso dei lampioni del ponte nel fiume. Ma improvvisamente girandosi e guardandomi, lui disse con aria paziente: „Perché poi camminate in quel modo? Siete tutto ripiegato e quasi basso come me.“ L’aveva detto con benevolenza, così risposi:“ Può essere. Ma questa postura mi piace. Sono piuttosto debole, sapete, ed il mio

corpo mi risulta troppo pesante da tener dritto. Non è che sia una qualche stupidaggine; sono troppo alto.“ Con diffidenza lui disse: „Di sicuro è soltanto un capriccio. Prima camminavate dritto, credo, e anche durante il ricevimento stavate su in modo passabile. Perfino avete danzato, o no? No? Comunque camminavate dritto e ancora potete farlo.“ Risposi ostinato agitando la mano: „Sì, sì, camminavo dritto. Ma voi mi sottovalutate. So che cos’è la buona educazione e per questo cammino chinato.“ Non gli sembrò comprensibile, abbastanza confuso dalla sua felicità non capiva il senso delle mie parole e disse soltanto: „Mah, come vi pare“, e guardò in direzione dell’orologio della torre del mulino che segnava già quasi la una. Mi dissi: „Com’è spietato, quest’uomo! Com’è chiara e precisa la sua indifferenza alle mie umili parole! E’ felice davvero, e la natura delle persone felici consiste nel trovar naturale tutto quel che accade intorno a loro. La felicità crea una splendida coerenza. E se ora fossi saltato in acqua oppure se i crampi mi dilaniassero qui per terra davanti a lui, sotto quest’arco, mi troverei sempre infilato nella sua felicità. Anzi, se gliene venisse il capriccio – una persona felice è senza dubbio un pericolo – mi colpirebbe a morte come un assassino di strada. E’ certo, e dato che sono un vile non oserei neanche urlare, per il terrore – per l’amor di Dio!“ – Mi guardai intorno impaurito. Davanti ad un lontano caffè con le vetrine nere rettangolari un agente di polizia scivolò apposta sul pavimento stradale. Lo ostacolava un po’ la sciabola, dunque la resse con una mano ed iniziò a procedere con grazia. E poiché nonostante la gran distanza ne udii l’hurrà, mi convinsi che non mi avrebbe salvato, nel caso che il mio conoscente avesse l’intenzione di colpirmi a morte.

Ora però sapevo che cosa fare, infatti è proprio davanti ad eventi terribili che una gran fermezza di decisione mi prende. Dovevo correr via. Facilissimo. Potevo, nello svoltare verso il ponte Carlo, balzare nella via Carlo sia a sinistra che a destra. Tortuosa, c’erano portoni scuri e taverne ancora aperte; non dovevo disperare. Quando sotto l’arco fummo arrivati al termine del lungofiume, corsi nella via sollevando le braccia; però all’altezza di una porticina della chiesa caddi, perché lì c’era uno scalino che non avevo visto. Fu una botta. Il lampione successivo era distante, rimasi disteso nel buio. Da una taverna uscì una donna grassa con una lanternina fumante a controllare che cosa fosse accaduto in strada. Si sentiva un pianoforte ed un uomo spalancò la porta fin lì aperta per metà. Costui sputò grandiosamente su un gradino e, nel solleticare le mammelle alla cameriera, disse che quel che era successo non aveva importanza. Si voltarono e la porta fu richiusa. Quando tentai di rialzarmi ricaddi. „Si sdrucciola“, dissi, e sentii male al ginocchio. Ma ero compiaciuto per il fatto che quelli della taverna non erano riusciti a vedermi, e mi sembrò la cosa più comoda restar lì disteso fino all’alba. Il mio conoscente aveva camminato da solo fino al ponte senza aver visto che io me n’ero andato, ma dopo un po’ venne da me. Non vidi che fosse stupito, quando si chinò compassionevolmente su di me e mi accarezzò con dolcezza. Percorse in su e in giù le mie guance ossute e mi appoggiò due dita carnose sull’ignobile fronte: „Vi siete mica fatto male? Si sdrucciola e bisogna esser prudenti – la testa vi duole? No? Ah, è il ginocchio.“ Parlava con voce cantilenante come se raccontasse una storia, per di più una storia piacevole su un remotissimo male al ginocchio. Muoveva anche le braccia, ma non pensava a

tirarmi su. Appoggiai la testa alla mano destra – il gomito su una pietra del pavimento stradale – e dissi svelto, perché non mi passasse di mente: „Davvero non so perché sono corso verso destra. Sì, sotto il portico di questa chiesa – non so come si chiama, per favore, scusate – ho visto una gatta correre. Una gattina che aveva la pelliccia chiara. Ci avevo fatto caso. – No, non è andata così, scusatemi, ma è abbastanza una pena restare a galla. Si dorme proprio per darsi forza in vista di tale pena, invece non si dorme, poi ci succedono spesso cose futili, ma sarebbe scortese, da parte di chi ci accompagna, esprimere stupore.“ Lui teneva le mani in tasca e guardava in direzione del ponte vuoto, poi verso la chiesa dei Crociati, infine al cielo, che era chiaro. Poiché non mi aveva udito disse preoccupato:“Sì, perché non parlate, mio caro? Vi fa male – certo, ma perché non vi alzate e basta? Si gela, vi raffredderete, e poi volevamo andare sul monte Laurenzi.“ „Come no?“ dissi, „scusate“, e mi alzai da solo, ma sentendo molto male. Barcollavo e fui costretto a guardare fermamente la statua di Carlo IV, per essere sicuro della mia posizione. Però anche la luce lunare era malferma e muoveva anche Carlo IV. Mi assestai meglio e i piedi mi acquistarono in saldezza, a causa della paura, Carlo IV avrebbe potuto crollare, se non fossi stato in una posizione più sicura. In seguito il mio sforzo mi parve vano, infatti Carlo IV cadde giù, proprio mentre mi veniva in mente che io sarei stato amato da una fanciulla stupendamente vestita di bianco. Faccio cose inutili e trascuro il più. Com’era felice questa trovata riguardante la fanciulla! – Ed amabile da parte della luna che illuminasse anche me; volli per modestia mettermi sotto la volta del ponte, ma vidi che era naturalissimo che la luna illuminasse tutto. Ed allora spalancai le braccia con

gioia per godermela completamente. Mi vennero in mente i versi: Balzai attraverso le vie come un ebbro corridore a passi pesanti attraverso l’aria e mi fu agevole, infatti avanzavo facendo movimenti delle braccia da nuotatore privo di energia, senza dolore e pena. L’aria faceva bene alla mia testa e l’amore della fanciulla vestita di bianco mi recava tristi incanti, perché mi sembrava come se mi allontanassi a nuoto dall’amata e dalle montagne nuvolose della sua contrada. – E mi rammentai di quando avevo odiato un conoscente felice che forse camminava ancora vicino a me, e mi rallegrò che la mia memoria fosse tanto buona da serbare da sola cose di importanza così secondaria. Perché la memoria ha molto carico da sostenere. Così seppi d’un tratto il nome di ogni stella, anche se non l’avevo mai imparato. Erano nomi certamente strani, difficili da trattenere, ma li sapevo tutti e con gran precisione. Alzai l’indice e li pronunciai uno per uno a voce alta. – Tuttavia smisi, infatti dovevo nuotare oltre, non volevo troppo immergermi. Dopo però, perché non mi si potesse dire che chiunque saprebbe nuotare sul pavimento stradale e che ciò non merita un racconto, veloce mi issai sul parapetto e girai attorno ad ogni statua di santo che incontravo. – Alla quinta, quando con un meditato salto mi fermai sul pavimento stradale, il mio conoscente mi prese la mano. Allora rimasi giù e sentii male al ginocchio. Avevo dimenticato i nomi delle stelle, e della cara fanciulla sapevo solo che aveva indossato un abito bianco, ma non riuscivo quasi più a ricordare quale motivo avevo avuto di credere al suo amore. Sorse in me una gran rabbia e una paura del fatto che io potessi perderla. E non facevo che

ricapitolare spossato „abito bianco, abito bianco“, per trattenerla con me almeno con questo simbolo. Ma era inutile. Il mio conoscente si strinse sempre di più a me e, nel momento in cui iniziavo a comprendere le sue parole, un bianca aggraziata luminescenza transitò lungo il parapetto del ponte, attraversò la torre e balzò nella strada buia. „Ho sempre amato“, disse indicando la statua della santa Ludmilla, „le mani di quest’angelo, a sinistra. La loro tenerezza è sconfinata e le dita, nell’aprirsi, tremano. Ma da stasera mi sono indifferenti, posso ben dirlo, perché ho baciato delle mani –„ E mi abbracciò, baciò il mio abito e mi si gettò con la testa sull’addome. Dissi: „Certo, certo, ci credo. Non ho dubbi“, ed insieme gli pizzicai i polpacci per quanto possibile alle mie dita. Ma non se ne accorse. E mi dissi: „Perché vai con quest’uomo? Non lo ami e neppure lo odii, infatti la sua felicità consiste in una certa ragazza che non è sicuro neanche che porti un abito bianco. Costui dunque ti è indifferente – ripetilo – indifferente. Ed anche innocuo, come si è dimostrato. Dunque va’con lui sul monte Laurenzi, visto che già sei in cammino in una splendida notte, ma lascia che parli e distraiti a tuo piacimento, non senza – dillo piano – proteggerti meglio che puoi.“

II Divertimenti, ovvero dimostrazione del fatto che vivere è impossibile.

1 Cavalcata E saltai con disinvoltura non comune sulle spalle del mio conoscente, colpendolo con pugni sulla schiena in modo da imprimergli un moto leggero. Dal momento però che lui procedeva con una certa riluttanza ed a tratti continuava perfino a star fermo, lo colpii sul ventre svariate volte con gli stivali per renderlo più vivace. Ciò ebbe buon esito e noi entrammo più velocemente sempre più all’interno di una estesa, ma ancora incompiuta, contrada - dove regnava la sera. La strada di campagna su cui cavalcavo era pietrosa e saliva notevolmente, ma proprio questo mi andava a genio e la resi ancor più pietrosa e ripida. Non appena il mio conoscente incespicava, lo tiravo per i capelli, e non appena gemeva gli davo pugni in testa. Frattanto sentivo com’era salutare questa cavalcata serale, e allegra, ed al fine di renderla più selvaggia detti luogo ad un vento che ci soffiava contro a prolungate raffiche. Ora aumentavo ancora sulle larghe spalle del mio conoscente le balzanti mosse del cavalcare, e mentre con le mani mi tenevo stretto al suo collo rovesciai indietro la testa e contemplai le nuvole multiformi che più deboli di me goffamente fuggivano con il vento. Ridevo e fremevo di coraggio. La giacca mi si spalancava e mi dava forza. In più strinsi le mani tra loro ed agii come se non sapessi con ciò di strangolare il mio conoscente.

Al cielo, che mi veniva coperto gradualmente dai rami ricurvi degli alberi che facevo crescere ai bordi della strada, gridai nell’eccitato moto del cavalcare: „Ben altro che non star a sentire sempre chiacchiere da innamorato, ho da fare. Perché è venuto da me, questo ciarliero innamorato? Loro son tutti felici e di più lo diventano se altri lo sanno. Ritengono di avere una serata piacevole e già per questo si rallegrano della vita futura.“ A quel punto il mio conoscente cadde, e quando lo esaminai vidi che era ferito seriamente al ginocchio. Dato che non poteva più servirmi lo lasciai sulle pietre e richiamai fischiando un certo numero di avvoltoi giù dall’alto, che umili gli si misero addosso, serio il becco, per fargli la guardia. 2 Passeggiata Spensierato andai oltre. Dato però che in qualità di camminatore temevo lo sforzo della strada di montagna, feci diventare il percorso sempre più piano ed alla fine in lontananza discendente in una valle. Le pietre, secondo il mio volere, sparirono, ed il vento si calmò perdendosi nella sera. Camminavo di buon passo e poiché andavo in discesa tenevo rigidi il corpo ed il capo, tenuto questo dalle braccia incrociate. Amo i boschi di abeti rossi, quindi procedevo attraverso boschi di abeti rossi; volentieri guardo in silenzio verso il cielo stellato, quindi sbocciavano lente e calme stelle, come di solito fanno, nel cielo assai allargato. Vedevo solo poche nuvole sfilacciate che un vento spirante alla loro specifica altezza trascinava nell’aria. Molto oltre la mia strada, verosimilmente separata ad opera mia da un fiume, feci sorgere un’alta montagna la cui vetta ricoperta di boscaglia sfiorava il

cielo. Riuscivo anche a vedere distintamente le mosse varanti dei rami più alti. Una tale vista, come può anche essere normale, mi rallegrava tanto che io, come un uccellino sulla cui coda dondoli un cespuglio arruffato, mi dimenticai di far sorgere la luna che già si trovava dietro la montagna, forse in collera a causa del ritardo. Ora tuttavia si allargò la luminosità che precede il sorgere della luna, e sulla montagna d’un tratto si levò la luna stessa dietro uno degli inquieti cespugli. Avendo guardato in altra direzione, quando ora guardai davanti a me, la vidi, come riluceva già quasi pienamente rotonda, e restai con gli occhi perturbati, infatti la mia scomoda strada sembrava portare verso questa spaventevole luna. Mi ci abituai poco a poco, tuttavia, e valutai con precisione come saliva a fatica, finché da ultimo, dopo che lei ed io per un bel pezzo ci eravamo mossi reciprocamente incontro, provai una piacevole sonnolenza causatami, come credevo, dalle fatiche della giornata, al ricordo indubbiamente ardue. Camminai per un pochino con gli occhi chiusi mantenendomi sveglio solo per il fatto che battevo le mani una con l’altra, forte e regolare. Dopo capitò che il cammino mi si sviluppasse sotto i piedi in modo troppo sdrucciolevole ed il tutto, con fiacchezza pari alla mia, cominciasse a sparire, allora mi sbrigai ad inerpicarmi con movenza eccitata sul pendio che si trovava a destra della strada, per arrivare in tempo all’alto bosco di abeti rossi dove avevo intenzione di dormire la notte. Era necessario fare in fretta. Le stelle stavano già oscurandosi ed in cielo la luna sprofondava come in un’acqua mossa. La montagna faceva già parte della notte, allarmantemente la strada terminava lì dove avevo svoltato per il pendio, mentre da dentro la foresta udivo approssimarsi gli schianti dei tronchi cadenti. Certo avrei potuto

buttarmi a dormire ugualmente sul muschio, ma avevo paura delle formiche, quindi strisciai, le gambe attorcigliate al tronco, su un albero che già, pur senza vento, oscillava, mi sistemai su un ramo, la testa appoggiata al tronco, e mi addormentai alla svelta mentre uno scoiattolo di umore uguale al mio si metteva a coda ritta sopra il termine tremulo del ramo, e si cullava. Il fiume era largo e le sue rumorose ondine rilucevano. Anche sull’altra riva c’erano prati che salivano nel fitto dietro cui si vedevano in lunga prospettiva veri e propri viali di alberi da frutta che portavano verso colline verdi. Rinfrancato da tale vista scesi considerando, nel tapparmi le orecchie in opposizione al timore di piangere, che qui avrei potuto esser contento. „Infatti è solitario e gradevole. Non serve coraggio, per viverci. Ci si dovrà magari tormentare come da un’altra parte, ma almeno non ci si dovrà dar da fare veramente. Non servirà. Ci sono infatti soltanto montagne e un gran fiume, ed io sono ancora abbastanza ragionevole da considerarli privi di vita. Certo, se la sera arrancherò sui prati in salita, non sarò più perduto della montagna, ne avrò soltanto la sensazione. Tuttavia credo che anche ciò avrà termine.“ Così giocavo con la mia vita futura e cercavo ostinatamente di dimenticare. Nel farlo guardavo, socchiudendo gli occhi, verso quel cielo di colore insolitamente piacevole. Già da tempo non lo avevo visto così, mi commossi e mi ricordai del giorno preciso nel quale avevo creduto di vederlo. Tolsi le mani dalle orecchie, allargai le braccia e le feci ricadere nell’erba. Udii qualcuno singhiozzare debolmente in lontananza. Si alzava il vento e grandi quantità di foglie secche che prima non avevo visto, volavano rumorose. Dagli alberi da frutta follemente cadevano sul terreno frutti ancora immaturi. Da dietro una montagna

vennero fuori brutte nuvole. Le onde del fiume a causa del vento si ritiravano crepitando. Rapidamente mi levai. Mi duoleva il cuore perché ora sembrava impossibile uscire dalle mie pene. Già avevo intenzione di tornare indietro per dimenticare questa contrada e riprendere il mio modo di vivere, quando ebbi quest’idea:“ E’ davvero degno di nota che ancora nel nostro tempo delle persone come si deve siano spedite con tanta fatica su di un fiume. Non c’è altra spiegazione se non che si tratti di una vecchia usanza.“ Scossi la testa, ero stupito. 3 Il grassone. a Discorso al paesaggio

Dalla boscaglia situata sull’altra riva provenivano numerosi giganteschi uomini nudi che reggevano sulle spalle una portantina di legno. Vi sedeva un uomo enormemente grasso. Nonostante che venisse portato lungo un percorso non battuto della boscaglia, lui non scostava i rami spinosi, ma urtava su di essi tranquillo con il suo corpo immobile. I rotoli delle sue grasse carni erano così accuratamente estesi da ricoprire con precisione l’intera portantina, ed inoltre penzolavano dalle parti sugli orli di un tappeto giallognolo, senza tuttavia che lui ne fosse disturbato. Il suo cranio calvo era piccolo e luccicava giallo. Il volto esprimeva la semplicità di una persona che medita e non si sforza di nasconderlo. A tratti chiudeva gli occhi; li riapriva, torceva il mento.

Il paesaggio disturba il mio pensiero“, disse a bassa voce, „indebolisce le mie riflessioni come foseero ponti sospesi su una corrente rabbiosa. Essa possiede una magnificienza che richiede di essere contemplata.“ „Chiudo gli occhi e dico: tu, verde montagna sul fiume, tu con le tue rocce opposte all’acqua che scorre, tu sei splendida.“ „Eppure non le basta, vuole che io apra gli occhi verso di lei.“ „Se io invece con gli occhi chiusi dico: montagna, non ti amo perché mi rammenti le nuvole, la quiete serale ed il cielo rampante, cose che quasi mi inducono al pianto, perché sono sempre irraggiungibili quando ci si faccia portare su una piccola lettiga. Invece tu me le indichi, perfida montagna, celandomi per mezzo di splendide visioni la prospettiva di quello che è invece raggiungibile ed allietante. Ecco perché non ti amo, montagna sull’acqua, non ti amo.“ „Questo discorso le sarebbe indifferente come quello precedente, se non lo facessi con gli occhi aperti. Non l’accontenta che ciò.“ „E mica abbiamo l’obbligo di esserle amici, purché si sia sinceri con lei, con lei che ha una predilizione tanto capricciosa per la nostra materia grigia. Abbatterebbe le sue ombre frastagliate su di me, muta sposterebbe orride pareti fredde su di me, ed i miei portatori inciamperebbero sul pietrisco.“ „Ma non la sola montagna è tanto vanesia, molesta e vendicativa, anche tutto il resto lo è. Quindi io con gli occhi aperti intorno – ah, se fanno male – devo sempre ripetere: Sì, montagna, sei splendida e le foreste del tuo pendio occidentale mi rallegrano. – Anche di te, fiore, sono contento, ed il tuo rosa rende felice la mia anima. – Tu, erba del prato, sei già alta e forte e dai refrigerio. – E tu, boscaglia inconsueta, pungi tanto improvvisa, che i nostri pensieri procedono a salti. – Di te

tuttavia, fiume, ho così gran gusto che mi farò trascinare dalla tua arrendevole acqua.“ Gridato a voce altissima tale panegirico tra certi sottomessi scuotimenti del suo corpo, lui fece ricadere la testa e con gli occhi chiusi disse: „Ora tuttavia prego Loro – montagna, fiore, boscaglia, fiume, di darmi un poco di spazio perché io possa respirare.“ Allora avvenne un precipitoso dislocarsi delle vicine montagne, che si spinsero dietro la nebbia sospesa. I viali certo restarono saldi e conservarono bene la loro larghezza, ma sparirono in anticipo: nel cielo stava davanti al sole una nuvola carica d’acqua dall’orlo appena tralucente, sotto la cui ombra sprofondò la landa, e tutte le cose persero ciò che le distingueva nitidamente. I passi dei portatori divennero udibili fino alla mia riva, ma nell’oscuro quadrilatero composto dalle loro facce non riuscivo a distinguere niente di preciso. Vidi solo come inclinavano da una parte la testa e come incurvavano la schiena a causa del carico fuori del comune. Avevo paura per loro perché si notava che erano provati. Agitato vidi che camminavano nell’erba della riva, poi con passo regolare sulla sabbia bagnata, finché non sprofondarono nel fango del canneto, dove i due portatori di dietro si curvarono ancora di più per mantenere la lettiga in posizione orizzontale. Io tenevo le mani serrate l’una all’altra. Ora dovevano sollevare ad ogni passo i piedi tanto che il loro corpo luccicava di sudore nell’aria fredda di questo mutevole pomeriggio. Il grassone sedeva tranquillo, le mani sulle cosce; le cime delle canne lo sfioravano, quando scattavano in avanti dopo che i portatori erano passati.

I movimenti dei portatori divennero irregolari quando essi vennero più vicino all’acqua. A tratti la lettiga oscillava come se già si trovasse tra le onde. Certe piccole pozzanghere dovevano essere aggirate od oltrepassate, infatti forse erano profonde. In un caso si levarono strepitando delle anatre selvatiche e salirono rapidamente verso la nuovola piovosa. Vidi allora un contratto movimento sul volto del grassone; era tutt’altro che tranquillo. Mi alzai e corsi a salti maldestri sul pendio pietroso che mi separava dall’acqua. Non tenevo conto che era pericoloso, pensavo solo ad aiutare il grassone nel caso che i suoi servi non avessero più potuto trasportarlo. Corsi tanto sconsideratamente che, in basso, non riuscii a fermarmi dov’era l’acqua, invece fui costretto a correrci dentro per un pezzo tra gli schizzi e ci rimasi in un primo momento dove essa mi arrivava alle ginocchia. Dall’altra parte i servi avevano portato contorcendosi la lettiga nell’acqua, e mentre con una mano facevano fronte alla sua agitazione, le loro braccia pelosissime sollevavano la lettiga, tanto che se ne vedevano i muscoli particolarmente tesi. L’acqua prima colpì loro il mento, poi la bocca, la testa dei portatori si piegò all’indietro ed i manici caddero dalle spalle. L’acqua già sfiorava loro l’osso del naso e loro seguitavano a mantenere il loro sforzo, per quanto fossero appena nel mezzo del fiume. A quel punto un’onda infame abbatté le teste dei portatori davanti, ed i quattro uomini annegarono in silenzio, tirando violentemente giù con sé la lettiga. Come un coperchio, l’acqua ci scorse sopra. Allora la bassa luce del sole al tramonto fuoriuscì dagli orli della grande nuvola e rischiarò la collina e le montagne all’orizzonte, mentre il fiume ed il paesaggio sotto la nuvola restarono indistintamente illuminati.

Il grassone con lentezza si girò in direzione della corrente e fu trascinato a valle, sembrava un’icona sacra di legno chiaro divenuta inutile e gettata nel fiume. Egli scorse via nell’area del riflesso della nube piovosa, il quale si allungava davanti e si raccoglieva dietro con il risultato di un notevole tumulto, che si poteva notare anche dallo sciabordìo dell’acqua contro le mie ginocchia e contro le pietre della riva. Strisciai in alto sulla scarpata per riuscire a far da testimone al percorso del grassone, che in verità mi stava a cuore. Forse potevo anche imparare qualcosa sulla pericolosità di questa landa dall’apparenza sicura. Percorsi una striscia di sabbia così fina che bisognava abituarcisi, prima, le mani in tasca ed il viso girato ad angolo retto verso il fiume tanto che avevo il mento quasi appoggiato sulla spalla. Sulle pietre della riva erano posate delicate rondini. Il grassone disse: „Caro signore della riva, non cercate di salvarmi. Si tratta della vendetta dell’acqua e del vento, io sono perduto, ora. Sì, vendetta, perché quante volte, io e il mio amico baciapile***, li abbiamo offesi con il suono della nostra spada, sotto lo sfavillare dei cembali che accrescono la magnificienza dei tromboni e la luce risaltante dei timpani?“ Un piccolo gabbiano ad ali distese gli volò sopra la pancia senza diminuire in velocità. Il grassone narrò di seguito:

b Discorso iniziale con il baciapile.

Ci fu un tempo che ogni giorno andavo in una chiesa - una fanciulla di cui mi ero innamorato pregava lì in ginocchio per una mezz’ora tutte le sere, ed io potevo contemplarla con calma. Una volta che la fanciulla non era venuta ed io, risentito, osservavo i fedeli, colpì la mia attenzione un giovane gettatosi sul pavimento con tutta la sua scarna persona. A tratti costui a tutta forza urtava il cranio nel palmo delle sue mani appoggiate sulle pietre. Nella chiesa c’erano solo alcune vecchie bacucche, e spesso voltavano dalla parte del baciapile le loro testoline per guardarlo. Tale attenzione sembrava farlo felice, infatti prima di ogni sua pia effusione girava gli occhi intorno per valutare il numero delle persone che lo guardavano. Trovai che era sconveniente e decisi di affrontarlo, quando fosse uscito di chiesa, e di domandargli perché pregava in quel modo. Certo, ero contrariato perché la mia fanciulla non era venuta. Quello si alzò soltanto dopo un’ora, eseguì con cura un segno della croce e camminò a scatti verso l’acquasantiera. Io mi piazzai tra questa ed il portone pensando che non l’avrei lasciato passare senza una spiegazione. Strinsi la bocca come faccio sempre per prepararmi a parlare con risolutezza. Posi in avanti la gamba destra e mi ci appoggiai, mentre tenevo la sinistra con negligenza sulla punta del piede; anche questo mi dona saldezza. E’ possibile che quell’uomo già sbirciasse verso di me mentre si spruzzava l’acqua santa sul viso, forse con inquietudine mi aveva già notato prima, sta di fatto che corse improvvisamente verso il portone ed oltre. La porta a vetri si chiuse con fracasso, e quando anch’io fui uscito non lo vidi più, dato che là fuori c’erano varie stradine dove il transito era assai assortito.

Nei giorni successivi lui non venne, venne invece la mia fanciulla. Aveva un abito nero con trine sulle spalle al di sopra del bordo a mezzaluna della camicia, il cui colletto ben tagliato spuntava da sotto le trine. Venendo la fanciulla, io scordai il giovane, e mi disinteressai di lui anche quando in seguito regolarmente venne a pregare in quel suo modo. Tuttavia camminava davanti a me con gran fretta, il viso girato. Sarà stato perché riuscivo a pensarlo solo in movimento, ma anche quando stava fermo mi faceva l’effetto che andasse di soppiatto. Una volta feci tardi, a casa, ciò nonostante andai nella chiesa, non ci trovai più la fanciulla ed avevo intenzione di tornare sui miei passi. C’era quel giovane, e la vecchia storia mi tornò in mente incuriosendomi. In punta di piedi guizzai verso il portone, detti una moneta al mendicante cieco lì seduto e mi infilai vicino a lui dietro il battente. Ci restai per un’ora, magari assumendo un’espressione maliziosa. Mi ci trovavo bene, lì, e decisi di venirci più spesso. Passate due ore però trovai stupido star lì per il baciapile. Nonostante questo rimasi lì a perder tempo mentre gli ultimi uscivano dalla chiesa sospirando profondamente. E venne il suo turno. Camminava con cautela, con i piedi saggiava il terreno prima di procedere. Mi alzai, feci un bel passo deciso e lo afferrai per il bavero. „Buonasera“, dissi, e lo spinsi al di sotto dei gradini, trattenendolo, dove c’era della luce. Quando fummo scesi, lui disse con voce del tutto non difensiva: „Buonasera, caro, caro signore, siete mica in collera con il vostro devotissimo servitore?“

„Sì“, dissi io, „voglio domandarvi qualcosa, signor mio, l’altra volta mi siete sfuggito, ma oggi non vi riuscirà.“ „Abbiate la sensibilità, mio signore, di lasciarmi andare a casa. Merito compassione, questa è la verità.“ „No“, gridai nel fracasso del tram che avanzava, „non vi lascio. Giusto queste storie mi piacciono. Sono un colpo di fortuna. Mi felicito con me stesso.“ Allora disse: „Oh, Dio, voi ci avete un cuore dinamico e una testa bella dura. Mi menzionate un colpo di fortuna, beato voi! La mia sfortuna, infatti, barcolla, è una sfortuna barcollante su di uno stretto piedistallo, basta toccarla e ricade addosso a chi pone domande. Buonanotte, mio signore.“ „Bene“, dissi tenendogli strettamente la destra, „se non mi rispondete, comincerò a gridare qui in strada. Tutte le commesse che stanno tornando dal lavoro con tutti i loro lietissimi innamorati si accalcheranno credendo che sia caduto un cavallo di una carrozza o sia successo qualcosa del genere. Dopodiché vi segnerò a dito.“ A quel punto si mise a baciarmi le mani. „Vi dirò quel che volete sapere, ma ve ne prego, andiamo di là nella strada accanto.“ Feci un segno affermativo e ci muovemmo. Ma non gli bastò l’oscurità della viuzza con gialle lanterne lontane l’una dall’altra, perché mi condusse nel basso androne di una vecchia casa sotto una lucerna che penzolava gocciolando dalle scale di legno. Con aria d’importanza prese il fazzoletto e lo stese su uno scalino: „Su, sedetevi, caro signore, così potete far meglio le domande, io resto in piedi, perché posso rispondere meglio. Ma non tormentatemi.“ Mi misi seduto e dissi, mentre lo guardavo stringendo gli occhi:“ Siete un bel soggetto da manicomio, ecco cosa siete! Come vi

comportate in chiesa! Quant’è ridicolo e sgradevole per i presenti! Come ci si può raccogliere se si è costretti a vedere voi?“ Stava appoggiato alla parete, muoveva soltanto la testa. „Non ve la prendete – perché dovete prendervela per cose con cui non avete a che fare? Mi dispiace di comportarmi in modo maldestro; ma se un altro si comporta male, io me ne rallegro. Non vi arrabbiate, però, se dico che lo scopo delle mie preghiere è venir notato dalla gente.“ „Che cosa dite?“, data l’angustia dell’androne gridai troppo, ma temevo di abbassare la voce, „sul serio, che cosa state dicendo? Certo, me l’aspettavo, anzi, me l’aspettavo già dalla prima volta che vi ho visto, in che stato vi trovate. Sono un esperto, e non è una supposizione fatta per scherzo se dico che si tratta di un mal di mare in terra ferma, la cui natura consiste nell’avere, voi, dimenticato il nome vero delle cose e nello sparare in fretta nomi a caso. Rapido, rapido! Ma non appena ve ne siete allontanato, di nuovo ne avete scordato il nome. Il pioppo campestre da voi chiamato „Torre di Babele“ perché non sapete o non volete sapere che è un pioppo, di nuovo oscilla senza nome, e voi siete costretto a chiamarlo „Noè l’ubriacone“. “ Quando disse „mi fa piacere di non aver capito quel che dite“, rimasi sbigottito. Inquieto dissi in fretta: „E’ vero che ho fatto un accenno, caro signore, ma anche voi avete parlato in un modo strano.“ Misi le mani su un gradino superiore, mi appoggiai indietro e dissi, forte di tale postura quasi inattaccabile, lo scampo estremo del pugile sul ring: „Avete una maniera divertente di salvarvi, presupponendo nell’altro la vostra condizione.“ Ne trasse coraggio, mise una mano nell’altra allo scopo di darsi una coesione e disse a mo’ di delicata controreplica:“No, non lo

faccio con tutti, per esempio con voi, perché non posso. Ma sarei contento se lo potessi, perché poi non mi servirebbe più l’attenzione della gente nella chiesa. Lo sapete perché ne ho bisogno?“ Questa domanda mi mise in difficoltà. Certo non lo sapevo e, credo, non volevo saperlo. Certo non avevo avuto l’intenzione di venire in quel luogo, mi dissi allora, ma il tizio mi ha costretto a starlo a sentire. Dunque ora dovevo soltanto scuotere la testa per segnalargli che non lo sapevo, ma non riuscivo a fare nessun movimento. L’uomo che mi stava davanti sorrideva. Poi si piegò sulle ginocchia e raccontò, facendo una torpida smorfia: „Mai avuto convinzioni mie personali circa la mia vita. In altre parole ho comprensione delle cose che mi circondano solo tramite rappresentazioni così esauste da farmi credere sempre che le cose siano esistite un tempo mentre ora sono finite. Sempre, caro signore, mi diverto tormentosamente a vedere le cose come possono darsi prima di mostrarsi a me. Stan lì tutte belle tranquille. Dev’esser così, perché sento spesso la gente parlarne in questo modo.“ Poiché tacevo e mostravo solo nelle contrazioni involontarie del viso la sgradevolezza provata, domandò: „Non credete che la gente parli così?“ Ero dell’opinione di dover annuire, ma non ci riuscivo. „Davvero non lo credete? Ah, sentite, allora; da bambino una volta aprii gli occhi dopo un sonnellino pomeridiano, ed udii, ancora nella confusione del sonno, mia madre sul balcone chiedere in tono normale:’Cosa fate, mia cara? Fa così caldo.’ Dal giardino sottostante una signora rispose:’Faccio merenda nel verde’. Lo dissero senza pensarci e in modo abbastanza indistinto, come se per tutti fosse scontato.“

Io credevo di essere oggetto di una domanda, perciò misi le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni come se cercassi qualcosa. Ma non cercavo alcunché, piuttosto desideravo modificare il mio aspetto per indicare con ciò la mia partecipazione al colloquio. Dopodiché dissi che non comprendevo affatto in che modo quel caso fosse degno di nota. Aggiunsi che non credevo fosse vero, ma che invece fosse inventato con uno scopo a me ignoto. E chiusi gli occhi, perché mi duolevano. „Oh, va bene davvero che voi siate della mia opinione, ed era per altruismo, che voi mi avete fermato per dirmelo. Perché dovrei vergognarmi – o dovremmo vergognarci – del fatto che io non cammino da persona seria e dotata di una direzione, non colpisco il pavimento stradale con il bastone e non sfioro gli abiti della gente che mi viene incontro rumorosa; no? Non dovrei avere molta più ragione di lagnarmi con ostinazione del fatto che ingobbito barcollo come un’ombra lungo gli edifici, talvolta infilandomi nella porta a vetri di un negozio? Che razza di giornate, che passo! Perché tutto è costruito così male che talvolta capita che case alte crollino senza che se ne possa trovare una causa esterna? Ed io ad arrampicarmi sulle macerie e a domandare a tutti quelli che incontro: „ Nella nostra città, come poteva succedere? – una casa nuova – oggi è già la quinta – pensate.“ Nessuno sa rispondere. Spesso cadono persone per la strada e ci restano, morte; allora tutti i negozianti aprono le vetrine cariche di mercanzie, disinvolti escono, trasportano il morto in una casa e tornano fuori con il viso sorridente; dicono: „Buongiorno - giornata grigia – vendo una quantità di fazzoletti – eh sì, la guerra.“ Barcollando vado in quella casa, alzo timidamente la mano, piego un dito, busso alla finestrella del portinaio. „Caro mio“, dico gentilmente, „hanno portato una persona morta qui da voi.

Vi prego, fatemela vedere.“ E siccome quello scuote la testa indeciso, io con determinazione dico: „Mio caro. Sono un agente del servizio segreto. Mostratemi subito il morto.“ „Un morto?“, domanda lui quasi offeso. „No, qui non abbiamo nessun morto. E’ una casa per bene.“ Lo saluto e me ne vado. Ma se ho da attraversare una grande piazza, mi dimentico tutto. La difficoltà dell’impresa mi confonde e tra me penso:„Se è solo per spavalderia che se ne crea una tanto grande, perché non si costruisce anche una balaustrata di pietra che conduca da una parte all’altra? Oggi tira una vento sud occidentale. L’aria in piazza è mossa. Il vertice della torre del Municipio descrive piccoli cerchi. Perché la ressa non si placa? Che razza di fracasso! Tutti i vetri delle finestre fan rumore e i lampioni si piegano come bambù. Il manto della Madonna, sulla colonna, si gonfia, l’aria di tempesta gli scorre sopra. Nessuno lo vede? I signori e le signore che dovrebbero camminare sulle pietre, ondeggiano. Quando il vento riposa, costoro si fermano, si dicono qualcosa l’un l’altro, si salutano inchinandosi, ma il vento ricomincia, non ce la fanno a resistergli e sollevano i piedi simultaneamente. Certo, devono tenersi stretti i cappelli, ma hanno uno sguardo divertito, come fosse bel tempo. Soltanto io ne ho timore.“ Nel tormento in cui mi trovavo, dissi: „La storia che prima avete raccontato su vostra madre e sulla signora in giardino non la trovo per niente significativa. Non solo di storie simili ne ho udite e viste molte, ci ho perfino preso parte spesso. E’ qualcosa di assolutamente naturale. Fossi stato io al balcone, non pensate che avrei potuto parlare nello stesso modo, e dal giardino nello stesso modo rispondere? E’ un caso semplicissimo.“ Quando ebbi detto così, lui parve molto lieto. Disse che ero vestito con grazia, che gli piaceva molto la mia cravatta. E che

pelle delicata, avevo. Dichiarazioni della massima chiarezza, sarebbero divenute, se fossero state smentite.

c Storia del baciapile Poi si mise seduto vicino a me, che timidamente gli avevo fatto posto con un cenno della testa. Non mi sfuggì d’altra parte che anche lui fosse un poco imbarazzato, nel sedersi; cercando di restare a una certa distanza da me, faticosamente disse: Che razza di giornate, che passo! Ieri sera mi trovavo a un ricevimento. Sotto la luce di una lampada a gas, stavo per inchinarmi davanti a una ragazza dicendo: „Ci avviamo verso l’inverno, davvero me ne rallegro“, queste le mie parole, ma nel piegarmi mi sono mio malgrado accorto di una disarticolazione del mio femore destro. Anche della rotula, un po’ fuori posto. Così mi misi seduto e, dato che cerco sempre la lungimiranza, nelle cose che dico, aggiunsi: „L’inverno, infatti, è molto più agevole; ci si può comportare con più leggerezza, non serve faticare con le parole. Spero di aver ragione su questa faccenda, nevvero, cara signorina?“ Intanto la gamba destra mi dava molto fastidio. Sembrava rotta, sul principio, ma un po’ alla volta, muovendola e premendoci sopra in modo empirico, quasi la recuperai. A quel punto udii la ragazza, che compassionevolmente si era seduta anche lei, dire a bassa voce: „No, non mi fate impressione per niente –„

„Guardate“, dissi tra il lieto e l’impaziente, „che neanche cinque minuti, dovete metterci, a chiacchierare con me. Su, ve ne prego, mangiate mentre parliamo.“ Ed allungai un braccio, presi un grappolo d’uva che fuoriusciva pesante da un piatto sostenuto da un bronzeo fanciullo alato, lo tenni un attimo in aria e poi lo appoggiai su un piattino bordato d’azzurro che porsi forse non senza grazia alla ragazza. „Non mi fate impressione per niente“, disse lei, „tutto quel che dite è noioso ed incomprensibile, e neanche vero. In altri termini credo, signor mio, - perchè mi chiamate sempre cara signorina? – credo che voi non vi occupiate della verità solo perché essa è troppo faticosa.“ Dio, se non mi fece piacere!“Sì, signorina, signorina“, quasi gridai, „come avete ragione! Cara signorina, lo capite, è una gioia da restare a bocca aperta esser così capiti senza averci puntato.“ „ La verità vi costa troppa fatica, signor mio, ed infatti che aspetto avete! Siete ritagliato, per quanto siete lungo, nella carta velina, carta velina gialla, bella silhouette, e se camminate si deve sentire il fruscìo. Per cui non è neanche giusto prendersela per come vi comportate o per le vostre opinioni, infatti voi siete costretto a piegarvi alla corrente d’aria che c’è nella stanza.“ „Ecco che cosa non capisco. Ci son bene delle persone qui nella stanza. Allungano un braccio sullo schienale della sedia, o si appoggiano al pianoforte, o si portano lentamente alla bocca un bicchiere, oppure con circospezione vanno di là, e, dopo che nel buio si sono fatti male alla spalla destra urtando su un armadio, pensano, respirando davanti alla finestra aperta: lì c’è Venere, la stella della sera. E invece io sono qui in compagnia. Se questo ha una coerenza, io non lo capisco. Ma non so neppure se ha

coerenza.- E vedete, cara signorina, tra tutte queste persone che, in conformità alla loro mancanza di chiarezza, si comportano in modo così incerto e ridicolo, soltanto io sembro degno di sentirne dire chiare e tonde, di cose su di me. E le dicono sfottendo, per loro piena gratificazione, in modo che resti evidente un qualcosa; avviene lo stesso con i muri maestri di una casa che dentro è bruciata. La vista risulta appena occlusa, di giorno si vedono attraverso le grandi aperture delle finestre le nuvole nel cielo, e di notte le stelle. Tuttavia le nuvole sono ritagliate da pietre grige, e le stelle danno forma ad immagini innaturali. – Così sarebbe se vi confidassi, come ringraziamento, che tutte le persone che desiderano vivere avranno una volta il mio aspetto di carta velina gialla, ritagliata in una bella silhouette – come notavate – e quando camminano le si sentiranno frusciare. Non saranno diversi da ora, ma ne avranno l’aspetto. Anche voi, cara –„ Mi accorsi allora che la ragazza non sedeva più vicino a me. Doveva essere già andata via dopo le sue ultime parole, infatti ora si trovava lontano da me a una finestra, circondata da tre giovani dagli alti colletti bianchi che ridendo parlavano. Lieto quindi bevvi un bicchiere di vino e mi avvicinai al pianista, che tutto solo stava suonando un pezzo malinconico. Per non allarmarlo, cautamente mi chinai ed a bassa voce, senza turbar la melodia, gli dissi all’orecchio: „Abbiate la bontà, stimato signore, di far suonare me, adesso, perché sto per avere un momento di fortuna.“ Dato che non mi sentiva, rimasi un po’ in imbarazzo, poi tuttavia passai, reprimendo la mia timidezza, da ognuno degli invitati, come per caso dicendo: „Oggi suonerò il piano. Sì.“ Sembrava che tutti sapessero che non ne ero capace, ma risero con benevolenza della simpatica interruzione dei loro conversari.

Si fecero molto attenti però quando a voce molto alta dissi al pianista: „Abbiate la bontà, stimato signore di far suonare me, adesso, perché sto per avere un momento di fortuna. Si tratta di un trionfo.“ Certamente il pianista sentì, ma non lasciò libero il suo sgabello marrone né mi sembrò aver compreso. Sospirò, e con le sue lunghe dita si coprì il viso. Stavo già sentendo una certa compassione e volevo incoraggiarlo a suonare ancora, quando la padrona di casa insieme ad altri invitati si avvicinò. „E’ comico“, dissero, e risero forte, come se io volessi far qualcosa d’innaturale. Anche la ragazza venne, mi guardò sprezzante e disse:“Prego, gentile signora, lasciatelo suonare. Forse vuol farlo per scherzo. Bisogna apprezzarlo. Per favore, gentile signora.“ Tutti, anch’io, credendo che ciò fosse ironico, si divertivano. Solo il pianista era ammutolito. A testa china sfiorava con l’indice della sinistra il legno del suo sgabello, come se disegnasse nella sabbia. Io tremavo, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Inoltre non mi riusciva più di parlare in modo distinguibile, tutto il mio viso sembrava star per piangere. Dovevo scegliere talmente le parole da dire, che il pensiero che io stessi per piangere dové sembrare ridicolo agli astanti. „Gentile signora“, dissi, „io ora devo suonare perché –„, ma avevo dimenticato la motivazione, e di colpo mi misi al piano. Allora di nuovo seppi qual’era il punto.Il pianista con tatto si alzò dallo sgabello, dato che io gli stavo chiudendo la strada. „Spegnete la luce, prego, perché posso suonare solo al buio.“ Mi stavo rinfrancando. Allora due signori afferrarono lo sgabello e mi trasportarono molto distante rispetto al piano, indietro, verso il tavolo dei rinfreschi, fischiando una canzone e dondolandomi un poco.

Tutti sembrarono approvare, la signorina disse:“Vedete, gentile signora, ha suonato proprio bene. Lo sapevo. E voi eravate tanto spaventata!“ Compresi, e ringraziai con un elegante inchino. Mi fu versata una limonata ed una signora dalle labbra rosse mi tenne il bicchiere perché bevessi. La padrona di casa mi porse una meringa su un piatto d’argento e una ragazza tutta in bianco me la infilò in bocca. Una formosa signorina dall’abbondante chioma bionda resse sopra di me un grappolo d’uva, avevo solo da spiccarne i chicchi, mentre lei mi guardava negli occhi rovesciati indietro. Tanto bene mi trattavano tutti, che io mi meravigliai del fatto che di comune accordo mi trattenessero quando di nuovo volli andare al piano. „Ora basta“, disse il padrone di casa, che fin qui non avevo notato. Uscì e rientrò con un enorme cappello a cilindro ed un soprabito a fiorami color rame scuro.“Ecco la vostre cose.“ Non si trattava certo delle mie cose, ma non volevo causargli di nuovo la fatica di andare a vedere. Lui stesso mi mise il soprabito che mi andava stretto, aderendo al mio corpo sottile. Una signora dal volto indulgente mi abbottonò la giacca, abbassandosi poco a poco, in tutta la sua lunghezza. „Dunque, state bene“, disse la padrona di casa, „e ritornate presto. Vi si vede sempre volentieri, lo sapete.“ L’intera compagnia s’inchinò come se ciò fosse così necessario. Anch’io ci provai, ma il soprabito era troppo stretto. Allora presi il cappello ed attraversai la porta davvero in modo eccessivamente goffo. A piccoli passi fuori dal portone della casa, il cielo con le stelle, la luna e la sua gran volta, la piazza circostante con il Municipio, la statua di Maria e la chiesa, mi colsero di sorpresa.

Con calma mi staccai dall’ombra verso la luce della luna, abbottonai il soprabito e ripresi calore; quindi misi a tacere il brusìo notturno levando in alto le mani, ed iniziai a riflettere: „Che cosa fate, voi, come se foste reali? Volete farmi credere che sono irreale io, comicamente in piedi allo scoperto su questo selciato. Ma è passato molto tempo da quando eravate reali, tu, cielo, tu piazza, mai siete stati reali.“ „E’ pur vero che mi siete superiori, ma soltanto dopo che vi ho lasciato in pace.“ „Grazie a Dio, luna, tu non sei più luna, tuttavia forse è privo di accuratezza da parte mia che io, cosìddetta luna, ti chiami ancora luna. Perché non sei più tanto baldanzosa, se ti chiamo ’derelitta lanterna di carta di strano colore’? E perché tu quasi ti tiri indietro, se dico ’statua di Maria’ e non riconosco più il tuo incombere, statua di Maria, se ti chiamo ’luna giallolucente’?“ „Pare dunque che non vi sia propizio, se si pensa a voi; perdete in coraggio ed in salute.“ „Dio, come dev'esser conveniente, imparare a riflettere dagli ubriachi!“ „Perché tutto questo silenzio? Credo che non tiri più vento. E le casette, spesso in movimento sul posto come stessero su rotelle, sono ben fissate – Silenzio – silenziose – non si vede affatto la sottile striscia nera che le stacca dal suolo.“ E mi misi a correre. Girai di corsa senza intralci tre volte intorno alla grande piazza e non incontrai nessun ubriaco, corsi senza interrompere la mia velocità, e senza sentire lo sforzo, verso via Carlo. La mia ombra mi correva vicino, spesso più piccola di me, sulla parete, come se facesse un percorso incassato tra il muto ed il piano stradale. Giunto alla sede dei vigili del fuoco, sentii il rumore del campanello, e quando svoltai sul posto vidi un ubriaco

appoggiato al graticcio del pozzo, le braccia in posizione orizzontale, i piedi piantati in terra a distanza, con gli zoccoli. Prima mi fermai per calmare l’affanno, poi mi avvicinai all’ubriaco, mi levai il cilindro dalla testa e mi presentai: „Buonasera, gentile nobiluomo, io ho ventitre anni, ma ancora non possiedo alcun titolo. Voi certamente, in possesso di un nome rimarchevole, di sicuro melodioso, venite dalla grande Parigi. L’odore tutto artificiale dell'instabile corte di Francia vi circonda.“ „Certamente i vostri occhi truccati hanno visto quelle gran dame che stanno sull’alta e luminosa terrazza, e con ironia ruotano i loro vitini mentre il termine del loro variopinto strascico giace, dispiegato lungo la scalinata, nella ghiaia del giardino sottostante.- Su lunghi pali disposti dappertutto salgono servi che indossano frack grigi e calzoni bianchi dal taglio sfacciato, le gambe attorcigliate, il busto all’indietro e proteso di lato, per sollevare da terra, con grosse corde, enormi teli di lino grigio, secondo la voglia di avere un mattino nebbioso della gran dama non è vero?“ Poiché l’ubriaco fece un rutto, io quasi spaventato dissi:“ Davvero, signore, voi venite dalla nostra Parigi, dalla turbolenta Parigi, ah, da quell’esilarante grandinata?“ Quando lui ruttò di nuovo, imbarazzato dissi: “Lo so, mi è toccato un grande onore.“ E mi abbottonai con dita svelte il soprabito, quindi fervido e timoroso parlai: „So che non mi ritenete degno di risposta, ma dovrei trascorrere una vita colma di pianto, se oggi non ve lo domandassi.“ „Ve ne prego, o signore così ornato, è vero quel che mi è stato detto? Che a Parigi ci sono persone che esistono solo se hanno decorazioni sull’abito, che ci sono case che dispongono di

autentici portali, ed è vero che nei giorni d’estate il cielo in fuga sopra la città è azzurro, tuttavia abbellito da una folla di nuvolette che hanno la forma del cuore? E che c’è un panottico assai frequentato dove si trovano comuni alberi che portano, su tavolette fissatevi, il nome dei più celebri eroi, criminali e innamorati?“ “E poi ancora questa questa! Questa notizia ovviamente falsa!“ „Non è vero che le strade di Parigi si ramificano all’improvviso; che sono agitate, non è vero? Mai tutto è in ordine, e come potrebbe? Se capita un incidente la gente si raduna arrivando dalle strade vicine con quel passo tipico della grande città, che sfiora appena il lastrico; tutti sono incuriositi, ma temono anche la delusione; respirando in fretta allungano le loro testoline. Ma se si sfiorano l’un con l’altro s’inchinano profondamente e chiedono scusa: ’Molto spiacente – è capitato senza intenzione – la calca è grande, perdonate, ve ne prego – sono stato davvero goffo – lo ammetto. Mi chiamo – mi chiamo Jerome Faroche, faccio il rivenditore di spezie in Rue de Cabotin – permettete che vi inviti per domani a pranzo – anche mia moglie ne sarebbe molto lieta.’ Parlano in questo modo, intanto la via è assordata ed il fumo dei camini cala tra le case. Certamente è così. E potrebbe essere che talvolta in un animato boulevard di un quartire distinto si fermino due carrozze. I servitori aprono subito le portiere. Otto nobili cani lupo siberiani saltano giù e a balzi corrono sulla carreggiata abbaiando. Si dice pure che ci si travesta, i giovani parigini sono dei gagà.“ L’ubriaco aveva gli occhi socchiusi. Quando tacqui s’infilò tutte e due le mani in bocca e spinse la mascella in giù. Il suo abito era tutto sporco. Forse lo avevano cacciato da una taverna e non aveva ancora riacquistato lucidità.

Forse era quella breve pausa di calma totae tra la notte e il giorno, quando il capo inaspettatamente ci oscilla sulla nuca e quando tutto, inavvertitamente, tace, e, poiché non lo prendiamo in considerazione, poi scompare. Mentre restiamo soli con il busto piegato, ci guardiamo intorno, ma senza vedere più niente, e nemmeno sentiamo più alcuna resistenza dell’aria, ma intimamente ci atteniamo al ricordo che ad una certa distanza da noi si trovano case dotate di tetti e, meno male, di comignoli spigolosi dai quali l’oscurità fluisce nelle case, nelle varie stanze, attraverso le soffitte. Ed è una fortuna che domani sarà un giorno in cui, è incredibile davvero, si potrà vedere tutto. L’ubriaco alzò tanto le sopracciglia che tra quelle e gli occhi sorse una lucentezza che si rivelò sulla sporgenza: „E’ così, voglio dire – voglio dire, ho sonno, perciò andrò a dormire – voglio dire, ho un cognato in via Venceslao – vo lì, perché ci abito, perché ci ho il letto – allora io vo – voglio dire, è solo che non lo so come si chiama e dove abita – mi sembra di averlo dimenticato – ma non fa niente, perché non so neanche, davvero, se un cognato ce l’ho – voglio dire, ora vo – credete che lo troverò?“ Senza pensarci, dissi: „Certo. Ma voi venite dall’estero e per l’appunto la vostra servitù non è con voi. Lasciate che vi porti io.“ Non rispose. Gli offrii il braccio, perché ci si reggesse. d Seguito del colloquio tra il grassone e il baciapile. Ma io già da un po’ tentavo di svegliarmi. Mi strofinai addosso e mi dissi:

„E’ arrivato il momento di parlare. Già sei confuso. Ti senti afflitto? Sta’attento! Conosci di sicuro la situazione. Rifletti con calma! Anche la compagnia aspetterà.“ „E’ come nel gruppo di persone della scorsa settimana. Qualcuno legge ad alta voce qualcosa di un manoscritto. Su sua richiesta, una parte è opera mia. Quando leggo i brani scritti da lui, mi spavento. Sono inconsistenti. Gli astanti si chinano dai tre lati del tavolo sullo scritto. Giuro piangendo che non è mio.“ „Ma perché ciò dovrebbe assomigliare a quel che capita oggi? Soltanto a te sta che risulti un discorso preciso. E’ tutto a posto. Fatti forza, mio caro!- Magari incontrerai un’obbiezione. Puoi dire:’Ho sonno. Ho male alla testa. Adieu.’ Svelto, dunque, svelto. Fa’attenzione! – Cos’è? Ancora intoppi su intoppi? Di che cosa ti ricordi? – Mi ricordo di un altopiano che sollevava la terra contro il grande cielo come uno scudo. Lo vidi da una montagna e mi preparai ad attraversarlo. Cominciai a cantare.“ Avevo le labbra secche e indocili, quando dissi: „Non si potrebbe vivere in un altro modo?“ „No“, rispose lui sorridendo. „Ma perché la sera pregate in chiesa?“, domandai, mentre tra me e lui crollava tutto quello che come nel sonno avevo sostenuto. „No, perché dovremmo parlarne? La sera nessuno che viva in solitudine ha responsabilità. Molte cose si temono. Che magari si dilegui la corporeità, che le persone davvero siano come sembrano nel crepuscolo, che non si possa camminare senza il bastone, che magari sarebbe bene andare in chiesa a pregare urlando, allo scopo di essere osservati e conseguire un corpo.“ Parlò in questo modo e poi tacque, perciò estrassi il fazzoletto rosso di tasca e piansi chinato. Si alzò, mi baciò e disse:

„Perché piangi? Sei grosso, questo mi piace, hai mani lunghe che agiscono secondo la tua volontà; perché non te ne rallegri? Porta sempre i bordi delle maniche scuri, te lo consiglio. – No – io ti vezzeggio, e tu piangi lo stesso? Questa difficoltà del vivere tu la reggi del tutto con razionalità.“ „Costruiamo, è un fatto, inutili macchine da guerra, torri, mura, cortine di seta, e potremmo assai stupircene, se ne avessimo il tempo. E restiamo in equilibrio, non cadiamo, sfarfalliamo, per quanto brutti come dei pipistrelli. Ed è difficile che qualcuno possa in una bella giornata impedirci di dire: ’Ah, Dio, oggi è una bella giornata.’ Infatti siamo installati sulla nostra terra e viviamo sulla base del nostro consenso.“ „Siamo in altre parole come tronchi d’albero nella neve. Stanno appoggiati apparentemente senza difficoltà e si potrebbe spingerli via con un modesto urto. Ma no, non si può, perché sono strettamente connessi al terreno. Ma vedi, spesso questa è solo apparenza.“ Riflettere mi impedì di piangere: „E’ notte, e nessuno domani mi rinfaccerà che cosa potrei dire ora, dato che ciò può essere detto nel sonno.“ E dissi: „Sì, è così, ma di che cosa parliamo, poi? Non potevamo parlare alla luce del cielo, e allora ci troviamo nel fondo di un androne. No – avremmo potuto parlare lì, perché nel nostro discorrere non siamo del tutto liberi, infatti non vogliamo fondare né senso né verità, ma solo burla e passatempo. Ma non potreste raccontarmi ancora una volta, però, la storia della donna nel giardino? Com’è ammirevole, com’è saggia! Dovremmo comportarci secondo il suo esempio. Come mi piace, lei! Ed è bene che io vi abbia incontrato e che vi abbia fatto la posta. E’ stato un gran divertimento per me aver parlato con voi.

Ho udito qualcosa che a me forse intenzionalmente finora era ignoto – me ne rallegro.“ Sembrò contento. Per quanto mi sia sempre penoso il contatto con un corpo umano, dovetti abbracciarlo. Poi uscimmo dall’androne sotto il cielo. Il mio amico soffiò via qualche nuvoletta dispersa, così che ci si offrì l’ininterrotto luccichìo delle stelle. Il mio amico camminava a fatica.

4 Affondamento del grassone. A quel punto tutto fu preso in velocità e si allontanò. L’acqua del fiume si scaricò in una rapida, volle trattenersi, ancora si agitò sul margine di rottura, ma poi cadde in un ammasso vaporoso. Il grassone non riuscì a parlare oltre, invece fu costretto a rivoltarsi e scomparire nella rapida rumorosa. Io, che avevo appreso tante cose spassose, stetti sulla riva e guardai. „Che cosa non devono fare i nostri polmoni!“, gridai; gridai „respirano svelti e soffocano al loro interno nel veleno; respirano lenti e soffocano nell’aria irrespirabile, tra le cose oltraggiose. E se vogliono cercare il loro ritmo, già vanno in rovina durante la ricerca.“ Nello stesso tempo le rive del fiume si allargarono a dismisura, ciò nonostante sfiorai con la palma della mano il ferro di una minuscola indicazione stradale in lontananza. Non riuscivo del tutto a capire. Ero piccolo, quasi più piccolo del solito, ed un cespuglio di bacche bianche, che rapidissimamente agitato, mi sovrastava. Vidi ciò, perché in un attimo mi era vicino. Ma mi ero sbagliato, perché le mie braccia erano grandi come nuvoloni di pioggia battente, solo più frettolose. Non so perché, volevano schiacciare la mia povera testa. Che era però piccola come un uovo di formica, solo un po’ sciupata, quindi non più interamente rotonda. La spostai con moti d’implorazione, perché l’espressione dei miei occhi non avrebbe potuto essere notata, tanto erano piccoli. Eppur tuttavia le mie gambe, le mie gambe impossibili si trovavano sulla montagna boscosa e facevano ombra alle vallate rustiche. Crescevano, crescevano! Già traboccavano dallo spazio

disponibile di ogni paesaggio, già da un pezzo erano tanto lunghe quanto non bastava, a vederle, l’acutezza dei miei occhi. Ma no, non è così – io sono sempre piccolo, provvisoriamente piccolo – rotolo – rotolo – sono una valanga di montagna! Per favore, voi che m’incontrate, ditemi come sono grande, prendete le misure di queste braccia, di queste gambe. III „Date le circostanze“, disse il mio conoscente, che insieme a me era venuto via dal ricevimento e tranquillamente era salito su un sentiero del monte Laurenzi, „rimanete un poco, suvvia, perché io ci veda chiaro. – Sapete, ho una cosa da risolvere. E’ tanto faticoso – una notte freddissima e luminosa, e un vento così fastidioso che pare perfino che quell’acacia cambi di posto.“ L’ombra lunare della casa del giardiniere si distendeva sul sentiero appena bombato, decorata da un po’ di neve. Quando vidi la panchina vicino alla porta l’indicai sollevando la destra da quella parte, la sinistra sul petto, infatti mancavo d’audacia e mi aspettavo rimproveri. Lui si sedette alla stanca e senza riguardi per il suo bell’abito, e mi stupì con il suo appoggiar la fronte sulle dita, i gomiti premuti sulle anche. „Sì, ora voglio dire questo. Sapete, io vivo in modo regolato, non c’è niente da ridire, succede tutto quello che legittimamente doveva succedere. I rovesci cui si è avvezzi nella compagnia che frequento non mi hanno risparmiato, come abbiamo visto appieno io ed il mio ambiente, ed anche questo comune benessere non si tiene per sé, ho potuto anzi parlarne in circoli ristretti. Bene, io non mi ero mai veramente innamorato. Talvolta me rammaricavo, ma approfittavo di quel parlarne, se mi

serviva. Ordunque, io devo dire: sì, sono innamorato e provo molta emozione nell’esserlo. Sto sui carboni ardenti amorosi, come piace alle ragazze. Eppure, non avrei avuto l’obbligo di pensare che proprio questa precedente mancanza dava una svolta eccezionale e lieta, soprattutto lieta, alle mie realzioni? „Sì, però, calma, calma!“, dissi io con indifferenza e pensando solo a me: „La vostra amata è bella come avete detto?“ „Sì, è bella. Mentre sedevo accanto a lei pensavo sempre solo questo: ’quest’impresa è rischiosa – ed io così audace – comincio un viaggio per mare – bevo vino a galloni.’ Ma se ride, lei non mostra i denti come ci si dovrebbe aspettare, si vede solo la buia stretta apertura della bocca incurvata. V’è della malizia e della senilità, quando lei ridendo butta indietro la testa.“ „Non posso negarlo“, dissi con un sospiro, „forse l’ho visto anch’io, infatti dev’essere stridente. Ma non si tratta solo di quello, grazia femminile, soprattutto! Spesso quando vedo abiti molto pieghettati, increspati e ricchi di gale, che donano all’avvenenza dei corpi, penso che essi non restano così a lungo, prendono delle grinze, non sono più veramente lisci, le gale s’impolverano irrimediabilmente, e penso che nessuno vorrebbe rendersi così ridicolo e tapino da indossare prima abiti costosi, per poi toglierseli a sera. E invece vedo ragazze molto belle che esibiscono l’eccitante generosa muscolosità tesa sotto la pelle delle loro snelle caviglie, e la massa dei loro capelli fini, però si mostrano tutti i giorni in quest’unica maschera naturale, ed il loro specchio riflette sempre lo stesso volto appoggiato sulla palma della mano. Solo qualche volta, la sera, al ritorno da una festa, tardi, nello specchio la maschera naturale appare logora, già vista da tutti e appena degna di essere ancora indossata.“ „Comunque io durante il cammino vi ho domandato più di una volta se voi trovate bella la ragazza, ma avete sempre cambiato

discorso senza rispondermi. Dite, v’è della malvagità? Perché non mi tranquillizzate?“ Allungai i piedi nell’ombra e dissi: „Non dovete essere tranquillizzato. Voi siete innamorato.“ E misi davanti alla bocca, per non prendere freddo, il mio fazzoletto decorato di grappoli d’uva blu. Ora lui si girò verso di me ed appoggiò la sua faccia grassa allo schienale della panchina: „Sapete, a parte tutto non c’è fretta, posso sempre por fine a questo amore nascente con una porcata, o un’infedeltà, o con la partenza per un paese lontano. Il fatto è che non so davvero se devo espormi ad un turbamento simile. Nulla è certo, nessuno sa dove porti e quanto duri. Vado in una taverna con l’intenzione di ubriacarmi, e so che sarò ubriaco quest’unica sera, ma nel caso presente! Tra una settimana vogliamo fare un’escursione insieme a una famiglia con cui abbiamo fatto amicizia, ciò non ci provoca mica una tempesta nel cuore di quattordici giorni. I baci di stasera mi rendono torpido, per dare spazio a sogni indomiti. Oppongo loro resistenza e faccio una passeggiata notturna, allora capita che io mi trovi in un’incessante commozione, ho il viso come colpito da raffiche di vento, freddo e caldo; che debba toccare di continuo in tasca un nastro rosa; sono molto preoccupato per me, eppure non riesco a far niente, e addirittura, signor mio, vi sopporto, mentre altrimenti di certo non parlerei mai con voi.“ Mi faceva molto freddo e il cielo già volgeva un poco al chiaro.“Allora non ci sarà bisogno di alcuna porcata, tradimento o partenza per un paese lontano. Dovrete uccidervi“, dissi, per di più con il sorriso sulle labbra. Davanti a noi, dall’altra parte del viale, c’erano due cespugli dietro cui in basso c’era la città. Ancora un poco illuminata.

„Bene“, esclamò lui, e colpì con il suo piccolo pugno chiuso la panchina, lasciandocelo appoggiato, „ma voi vivete. Non vi uccidete. Nessuno vi ama. Zero successi. Potreste non dominare l’attimo che si approssima. Allora mi parlate così, voi, uomo meschino. Non potreste amare, soltanto la paura vi eccita. Guardatemi il torace, allora.“ Si aprì rapidamente la giacca, il gilet e la camicia. Aveva un torace davvero ampio e ben fatto. Iniziò a raccontare: „Sì, stati simili di arroganza di tanto in tanto ci colgono. Quest’estate mi trovavo in un villaggio presso un fiume. Ricordo tutto con precisione. Spesso sedevo sul lato lungo di una panchina presso la riva. C’era anche un albergo, sul greto. Si sentiva spesso un violino. Giovani pieni di salute parlavano di caccia e di avventure, nel giardino, ai tavoli, davanti a una birra. Sull’altra riva c’erano montagne nuvolose.“ A quel punto mi alzai a bocca storta e stanca, andai nel prato dietro la panchina, ruppi dei rametti innevati e poi dissi all’orecchio del mio conoscente: „Lo confesso, sono fidanzato.“ Il mio conoscente non si stupì che mi fossi alzato: „Lo siete?“ Si accomdò fiaccamente, sostenuto solo dallo schienale. Poi si tolse il cappello e ne vidi la chioma che racchiudeva la rotondità della sua testa, sul collo carnoso, con una linea marcatamente stondata, com’era di moda quest’inverno. Mi rallegravo di avergli risposto co tale sagacia. „Sì“, mi dissi, „ma come vaga sciolto in pubblico, lui, con braccia e collo liberi. E’ capace di accompagnare coi suoi bei discorsi una signora attraverso la sala, e se fuori piove non perde la calma, né se lì c’è un timido, o se invece accade qualcosa di penoso. No, lui s’inchina lo stesso con grazia davanti alla signora. Ma ora resta seduto.“

Si passò sulla fronte un fazzoletto di batista. „Per favore“, disse,“ mettetemi un po’ la mano sulla fronte. Ve ne prego.“ Dato che non lo facevo, si mise a mani giunte. Come se i nostri crucci avessero oscurato tutto, sedevamo in cima alla montagna come se fossimo in una stanzetta, per quanto già da prima avessimo notato la luce ed il vento mattutino. Eravamo insieme e vicini, anche se non ci piacevamo, ma non potevamo allontanarci l’uno dall’altro, perché le pareti erano veramente solide. Tuttavia avevamo la possibilità di comportarci in modo ridicolo e senza dignità umana, perché non dovevamo vergognarci di fronte al silenzio che ci stava sopra e di fronte agli alberi antistanti. Allora, senza cerimonie, il mio conoscente estrasse da una tasca un coltello, meditabondo lo aprì e, come per gioco, se lo piantò nell’avambraccio sinistro, senza toglierlo. Subito il sangue sgorgò. Le sue guance rotonde erano smorte. Tirai via il coltello, strappai la manica del cappotto e del frack, tirai su la manica della camicia. Poi corsi appena, su e giù, per vedere se non ci fosse qualcuno che potesse aiutarmi. Ogni fronda era acutamente visibile ed immota. Poi succhiai un poco la ferita, che era profonda. Mi ricordai della casetta del giardiniere. Di corsa feci la scala che conduceva su al prato vicino alla casa, in fretta esaminai la finestra e la porta, di fretta, scalpitando, suonai, per quanto subito avessi visto che la casa era disabitata. Poi guardai la ferita che sanguinava con un flusso scuro. Bagnai il fazzoletto del ferito nella neve e gli bendai alla buona il braccio. „Tu, caro, caro“, dissi,“ ti sei ferito per causa mia. Sei così ben fatto, dotato di gentilezza, di giorno puoi andare a passeggio, quando molte persone ben vestite si vedono vicino o lontano tra i tavolini o nei sentieri della collina. Pensa a questo, alla

primavera, allora andremo in quel giardino alberato, no, non ci andremo, purtroppo è vero, ci andrai correndo insieme all’Annetta, con gioia. Oh sì, credimi, ti prego, e il sole attirerà tutti al meglio verso di voi. Oh, è musica, si odono cavalli, nessuna preoccupazione, sono grida, e organetti suonano nel viale.“ „Oh, Dio“, disse lui, si alzò, si appoggiò a me, e andammo, „questo non mi aiuta affatto. Non potrebbe rallegrarmi. Perdonate. E’ già tardi? Forse damattina presto dovrei far qualcosa. Oh, Dio.“ Una lanterna vicina al muro bruciava e proiettava sul sentiero e sulla neve l’ombra del fusto, mentre quella dei numerosi rami contorti, come rotti, si posava sul pendio. *Evitiamo la canonica traduzione di Kampf con „battaglia“, termine che ci pare generico. Dato che tra i modi di indicare il duello v'è la forma Zweikampf, e che qui si tratta di due persone che s'incontrano in modo „conflittuale“, abbiamo deciso di usare il termine „duello“. **E' in questione, diremmo, qualcosa come la forfora; ciò riceve conferma dall'accenno presente nella versione breve (o non finita) di questo racconto, dove la ragazza protesta che il dettaglio le fa passare l'appetito. Le dà il voltastomaco. ***Traduciamo Beter non con il canonico „orante“, proponendo questa piccola forzatura . N.B. C'è una versione molto più breve (interrotta, forse) di Beschreibung eines Kampfes, opera – appunto - di sperimentazione letteraria giovanile non priva di momenti che fanno pensare ad un „trip“: in essa mancano le pagine riguardanti il grassone, ma non quelle riguardanti l’incontro con il baciapile, rievocato e sviluppato dal narratore come suo; al posto delle pagine sul grassone troviamo invece un „ricordo d’infanzia“ del narratore. La versione breve termina del resto assai diversamente dalla lunga, con il narratore che si reca, accompagnato dal baciapile solo fino al portone, in una casa dove lo aspetta un ricevimento. Senza quindi sangue.

Il paragrafo iniziale, nella versione breve termina con un appello che il narratore, malconcio, da terra rivolge al suo „conoscente“:

„(...) gridai: ’Basta storie! Non voglio sentire più nulla per frammenti. Raccontatemi tutto dall’inizio alla fine. La parte non l’ascolto, vi dico questo. Ma per il tutto io brucio.’ Non appena lui mi guardò smisi di gridare. ’E sulla mia riservatezza potete contare! Raccontate tutto quel che avete nel cuore e basta. Un ascoltatore discreto come me non l’avete mai avuto, ancora.’ Piuttosto a bassa voce gli dissi all’orecchio: ’E non dovete temere, inutile dirlo.’ Lo sentii ridere.“

Veniamo ora ad una scelta di brani della versione breve.

(Il narratore, penetrato nella contrada in parte da lui estrosamente plasmata, dopo essersi lasciato alle spalle la sua „cavalcatura“ ed aver camminato, un po’ in salita un po’ in discesa un po’ in pianura secondo convenienza, comunque esposto al panorama, si accomoda infine sul ramo di un albero e si addormenta. )

Dormendo sognai con tutto il mio essere agitandomi, tra l'angoscia e la pena, in un modo intollerabile al sogno che però non era capace neppure di svegliarmi, così continuai a dormire, infatti il mondo circostante non c’era più. Così attraversai quel sogno profondamente lacerato e feci ritorno, come avessi trovato scampo – sfuggito sia al sonno sia al sogno – nel mio villaggio natìo. Sentivo avanzare lungo la cancellata del giardino i carri, a tratti li vedevo attraverso gli scarsi pertugi aperti nel fogliame. Come scricchiolava, nel gran caldo dell’estate, il legno dei raggi e dei timoni! Lavoratori venivano dai campi ridendo oltraggiosamente. Sedevo sulla nostra piccola altalena, mi riposavo tra gli alberi nel giardino dei miei genitori.

Davanti alla cancellata non finivano di passare in un baleno fanciulli di corsa; carri di grano, sui covoni uomini e donne, oscuravano dietro e intorno a sé le aiole fiorite; verso sera vedevo un signore con un bastone passeggiare lento, e alcune ragazze che a braccetto gli venivano incontro salutavano e si spostavano sull’erba di lato. Uccelli spiccavano il volo come schizzando, li seguivo con lo sguardo, vedevo come salivano nel tempo d’un respiro fino a dove non pensavo che arrivassero, intanto avevo l’impressione di cadere e cominciavo a dondolarmi un poco tenendomi saldo, a causa della debolezza, alle corde. Presto dondolavo con più energia dell’aria fresca che spirava, e gli uccelli in volo mi sembravano piuttosto stelle tremanti. Mi facevano cenare al lume di candela. Spesso tenevo entrambe le braccia appoggiate al piano del tavolo e, già stanco, sbocconcellavo il mio pane imburrato. Spalancate con forza, le cortine si gonfiavano nel vento caldo e, a tratti, qualcuno di passaggio le teneva ferme con le mani da fuori, se desiderava vedermi meglio e parlare con me. Il più delle volte la candela si consumava presto e nel suo oscuro fumo vagavano ancora per un poco certe adunate bizzarrie. Dalla finestra qualcuno m’intratteneva, così lo contemplavo come si trovasse sulla montagna o davvero per aria, e neanche a lui premeva molto una risposta. Spuntava quindi qualcuno al davanzale ed annunciava che gli altri si trovavano già davanti alla casa, così mi alzavo, tuttavia sospirando. “No, perché sospiri così? Cos’è successo, in fondo? E’ un tipo speciale, mai capace di smetterla con l’infelicità? Sapremo mai sollevarcene? E’ davvero tutto perduto?”

Nulla era perduto. Correvamo davanti alla casa. “Grazie a Dio, finalmente ci siete!” – “Tu vieni sempre in ritardo!” – “ Io?” – “Sì, proprio tu, resta a casa, se non vuoi venire con noi” – “Siete spietati!” – “Che cosa? Spietati? Ma come parli?” Non avevamo altro che la sera per la testa. Non c’era il giorno – e neanche la notte. Presto i bottoni dei nostri gilè, come denti, si sfregavano reciprocamente, presto ci trovavamo a correre senza mai raggiungerci, le bocche brucianti, simili a belve tropicali. Come se avessimo la corazza, da guerrieri antichi, scalpitando e a gran salti, ci buttavamo in discesa per la breve stradina e, con lo slancio nelle gambe, di nuovo in salita sulla strada maestra. Alcuni di noi entravano nei fossi laterali, bastava che sparissero sullo sfondo scuro della scarpata per trasformarsi già in estranei, e dal viottolo scrutavano in basso. “Venite giù, forza!” – “ Venite prima voi quassù!” – “Così poi ci buttate di sotto, non ci pensiamo nemmeno, non siamo mica scemi.” – “ Non ne avete il coraggio, ecco cos’è. Venite, venite e basta!” – “Ma davvero? Voi? Ci farete davvero volar giù? Pensate di esserne capaci?” Partivamo all’assalto, loro ci spintonavano e noi finivamo nell’erba del fosso cadendovi di nostra volontà. Tutta l’erba era uniformemente calda, non ne sentivamo il calore, non ne sentivamo il freddo, eravamo soltanto stanchi. Se ci si girava sul fianco destro, e s’infilava la mano sotto l’orecchio, veniva voglia di addormentarsi sul posto. C’era certo la voglia di balzare su ancora fieramente, ma anche l’altra, di cadere in un fosso più profondo. Si continuava poi a saltare nell’aria, braccia piegate in avanti, gambe indietro, e di nuovo a cadere in un certo fosso ancora più profondo. E non si aveva l’intenzione di smettere.

Non appena però si pensava a come ci saremmo, al limite estremo, distesi nel fosso finale proprio a dormire in stato di particolare impotenza, giacevamo sulla schiena come malati sul punto di piangere. Si ammiccava se, qualche volta, un giovane, le braccia piegate sui fianchi, spuntava in strada dalla scarpata, con le sue suole scure, sopra di noi. Si vedeva già ad una certa altezza la luna alla cui luce avanzava una carrozza postale. Un vento delicato si alzava ovunque, lo si sentiva anche nel fosso, e la foresta vicina cominciava a rumoreggiare. Restare lì da soli non piaceva più tanto. “Dove siete?” – “Venite qui!” – “Tutti insieme!” – “Che cosa

c’è

sotto, basta sciocchezze!” – “ Non lo sapete che c’è già la posta?” – “Ma no! Già ?” – “Certo, è passata mentre dormivi.” –“Ho dormito? Solo un pochino!” – “Taci, che ti teniamo d’occhio.” – “Ma ti prego.”- “Venite!”. Si correva meno distanziati, alcuni tenendosi per la mano, poiché andavamo in discesa non si poteva tenere la testa abbastanza alta. Qualcuno lanciava un grido di guerra indiano, le gambe si mettevano più che mai al galoppo, dai balzi che facevamo il vento sui fianchi si rinforzava. Niente avrebbe potuto fermarci; eravamo tanto impegnati nella gara che nel sorpassarci incrociavamo le braccia e potevamo guardarci senza fatica. Arrivati al ponte sul torrente ci fermavamo; quelli che erano corsi avanti tornavano indietro. L’acqua sottostante urtava sulle pietre e le radici, come se non fosse già tarda sera. Non ve n’era ragione, infatti nessuno si sporgeva dal parapetto. Oltre la boscaglia in lontananza transitava un convoglio ferroviario, tutti gli scompartimenti illuminati, certamente i finestrini aperti. Uno di noi cominciava a cantare una canzonetta alla moda, ma tutti ne avevamo voglia. Cantavamo molto più svelti al passaggio del treno, facevamo oscillare le braccia,

perché le voci non bastavano, creavamo un’intensità vocale in cui stavamo bene. Se la nostra voce si confonde sotto un’altra, è come esser presi all’amo. Cantavamo dunque dietro la foresta nelle orecchie dei viaggiatori lontani. Gli adulti nel villaggio erano ancora svegli, le madri preparavano i letti per la notte. Era già il momento. Baciavo quello che mi era vicino, porgevo la mano soltanto ai tre meno distanti, cominciavo a fare il percorso di ritorno correndo, nessuno mi chiamava. Al primo incrocio, là dove non potevano più vedermi, voltavo e correvo di nuovo sul viottolo verso la foresta. La mia meta era la città a sud, di cui nel nostro villaggio si diceva: “Là sì che c’è gente! Pensate, non dormono!” “E perché non dormono?” “Perché non si stancano.” “E perché non si stancano?” “Perché sono matti” “I matti non si stancano?” “Come potrebbero stancarsi, i matti!” (Quando, più avanti, il narratore riesce a bloccare il baciapile sul portone della chiesa, quest’ultimo accetta di rispondere alla domanda circa il suo pregare esagerato, ma a tal fine conduce il narratore dentro l’androne di una vecchia casa che si trova in una viuzza piuttosto buia. )

(...)“Mi portate in questo buco come se fossimo cospiratori, mentre siamo collegati solo per mezzo della curiosità, io, e voi per mezzo della paura. Come vi comportate, là in chiesa! Da pazzo completo! Com’è ridicolo, com’è spiacevole per chi guarda, ed insopportabile per i fedeli!“

Lui si teneva attaccato al muro, movendo liberamente solo la testa:“Si tratta di un errore, di nient’altro, infatti i fedeli trovano il mio comportamento normale, e gli altri lo trovano pio.“ „La mia irritazione confuta codesto ragionamento.“ „La vostra irritazione – ammesso che sia tale – dimostra soltanto che voi non fate parte né dei fedeli né degli altri.“ „Avete ragione, dire che il vostro comportamento mi ha provocato irritazione era un po’ troppo; no, mi ha incuriosito, come ho ben detto prima. Ma voi di chi fate parte?“ „Oh, mi diverto ad esser guardato dalla gente, tutto qui, e di tanto in tanto a gettare un’ombra sull’altare.“ „Divertimento?“, domandai mentre il mio viso si contraeva. „No, se volete saperlo. Non ve la prendete, se ho detto il falso. Non si tratta di divertimento, per me si tratta di necessità, di bisogno di farmi inchiodare per un’oretta da queste occhiate, con l’intera città che mi circonda –„ „Ma cosa dite?“, gridai, un po’ troppo forte in paragone a quell’asserzione insignificante ed in rapporto a quel basso androne, ma avevo timore di ammutolire o di perdere la voce, „davvero, ma cosa dite?“ (...) (...)“Sapete dunque perché prego in quel modo?“ Stava mettendomi alla prova. No, non lo sapevo e neanche volevo saperlo. Non avevo certo voluto venire in quel luogo, ma quest’uomo mi aveva addirittura obbligato ad ascoltarlo. Andava benone che scuotessi la testa e basta, ma ad un tratto proprio ciò non mi fu possibile. Lui mi sorrise. Poi si abbassò sulle ginocchia e raccontò, con una smorfia torpida: „ Ora finalmente posso anche rivelarvelo, il perché mi sono lasciato rivolgere la parola da voi. Per curiosità, per speranza. Il vostro sguardo mi confortava già da parecchio

tempo. E spero di sapere da voi come stanno veramente le cose che mi cadono attorno simili ad una nevicata, mentre per gli altri anche un bicchierino d’acquavite sta sul tavolo saldo come un monumento.“ (...) (...) Ora, in quest’androne faceva per di più molto caldo, il viso cominciava a scottarmi. Per facilitarmi un poco le cose mi spinsi ancora di più all’indietro, finché il cappello non mi cadde dalla testa. La volta della scala stretta e ripida mi stava sopra con i suoi angeli ed alberi rossicci dipinti. Li guardai e con una mano mi detersi il sudore dalla fronte e dalle guance. Volevo rialzarmi, spingere via con tutto il mio peso l’uomo che mi stava davanti, aprire il portone e respirare all’esterno, come mi necessitava. Mi alzai, battei con forza i tacchi sul pavimento, lui saltò un po’indietro spinto dalle palme delle mie mani protese, poi afferrai la balaustra di legno e per un momento mi ci destreggiai per abituarmi a stare in piedi, ma lui, lungo com’era, si coricò sulla scala, si piegò sul groppone, poi si ridistese, allungò le gambe e allargò completamente le braccia qualche gradino più in su, dimodoché le dita della sua sinistra strusciavano sulla parete, quelle della destra bussavano sulla base della scala. Mi misi all’esterno della balaustra e mi portai le mani contratte sulla bocca. Lui girò lentamente la testa sull’angolo di un gradino fino a guardarmi proprio in faccia, quindi disse: „Stai lì come un perdigiorno sul lungofiume, e io allora sto disteso come un ubriaco.“ „Mica sarebbe male“, pensai, alzai la testa e dissi: „Ti sei messo proprio comodo.“ Avevo le labbra secche da non credere, e me le toccai.

Scosse la testa, alla mia osservazione e disse: „Prima era il contrario, solo che io non sono rimasto freddo come te adesso.“ Restai pensieroso: „Dicevo che ti sei messo comodo“, fui costretto a sorridere. „Ti dispiace, per caso?“, disse lui, e chiuse un poco gli occhi, „se ti fa soffrire, esci dal portone e respira all’aria, ne hai bisogno.“ „Tu!“, gridai – era un rimprovero, il suo -, corsi a piccoli passi intorno alla balaustra, ottenebrato come durante un combattimento, caddi accanto a lui e cominciai a piangere sul suo petto. „Ma! Ma!“, disse lui, e mi accarezzò i capelli, „Sei matto, non posso mica alzarmi! Tu vuoi schiaccirmi a tutti i costi! No, per davvero sei matto!“ Nella foga del pianto, però, non conoscevo nessun posto migliore per il mio viso, così lo lasciai dov’era. „Possibile che non te sia accorto!“, disse inoltre. „Fin dall’inizio avevo l’intenzione di portarti a piangere. Non ho detto nessuna parola che non avesse questo scopo, finché alla fine avevo quasi perso la speranza di poter riuscirci. Allora faccio un ultimo scherzo e davvero tu mi accontenti e ti metti a piangere. Va’! Vergognati!“ „Non piango più, è sicuro“, dissi io e lo guardai dal punto in cui avevo appoggiato il mento, „con un amico come te, certamente non piangerò.“ Ma piangevo ancora, non riuscivo a smettere. Per guardarmi contorse il collo, mi prese il fazzoletto di mano e mi asciugò gli occhi; „ Non sarebbe altro che una sciocchezza“, disse, „piangere senza alcun motivo, dipenderebbe dalla scontentezza, ma dove lo trovi al mondo un motivo di scontentezza? Le cose devono restare precisamente come sono. Al limite, ti concederei il timore che possano cambiare.“

„Guarda – te lo dico io – noi costruiamo macchinari bellici di speciale inutilità, torri, muri, cortine seriche, e, se ne avessimo il tempo, potremmo stupircene. Ci teniamo in equilibrio, non cadiamo, ci agitiamo, anche se la nostra bruttezza quasi uguaglia quella dei pipistrelli. Il che non toglie tuttavia che difficilmente qualcuno possa impedirci, durante una bella giornata, di dire: ’Ma che bella giornata!’ Perché siamo piazzati sulla nostra terra e fondamentalmente acconsentiamo a vivere.“ E mi dette un tale colpo sulle spalle che io, spaventato, mi sollevai, ma preferivo restare chinato su di lui, le mie mani all’altezza delle sue ascelle. „Non distrarti“, disse, rise e mi scosse. „Non sai che siamo come fusti d’albero nella neve? Sembra che stiano solo appoggiati appena e che con una modesta spinta si potrebbe poterli spostare. Invece no, non si può, infatti sono saldamente fissati nel suolo. Va bene, ma anche questo è apparenza.“ „Ma pensa“, dissi. Allora lui mi scostò di colpo le mani, io caddi con la mia bocca sulla sua, e subito ebbi un bacio. „Ecco, ed ora andiamo“, disse, ed entrambi ci alzammo. „Ma tua madre!“, dissi ancora.“Dev’essere stata una signora coi fiocchi! Ne avessi avuta una così!“ „A che cosa mi è servita? Dimenticati quella storia!“, disse e mi spolverò la giacca con il mio fazzoletto. „Sì, impediscimi anche questo!“, dissi facendo un passo oltre, così che lui mi venne dietro con il fazzoletto. „Che vuoi?“, disse. „E’ una storia inventata. Si vede da lontano che è inventata.“ „Sì, lo so“, dissi. „Tu non sai niente!“, disse.“E il ricevimento dove stasera devi andare?“

„Davvero, il ricevimento! Pensa, me ne sarei completamente scordato! Che sbadato! Tra parentesi questa sbadataggine è una novità assoluta, per me.“ „merito mio!“ „Può darsi! Mi accompagnerai, almeno? Non è lontano. Eh?“ „Ovvio.“ „E salirai insieme a me? Ti prego!“ „Questo no davvero“ „Perché no? E se io veramente te ne prego? Allora sì, non è vero?“ „Intanto muoviti! E’ già tardi!“ „Davvero non lo so, se ci vado senza di te.“ „Pensa a muoverti! Vieni! Qui sembra che ti piaccia moltissimo, ma non ti serve affatto.“ „Quasi“, dissi, mi mordicchiai il labbro inferiore e lo guardai. Mi mise un braccio sulle spalle, aprì il portone e mi spinse fuori. Così uscimmo dall’androne sotto il cielo. Il mio amico soffiò via alcune nuvolette sfilacciate, e ci si offrì l’ininterrotta luce delle stelle. Lui faticava un po’ a camminare, ma senza fare alcuna impressione, sembrava più che altro un contadino malato. Mi mise una mano sulla spalla come per starmi tutto vicino, ma in realtà voleva appoggiarsi; io non mi sottrassi, anzi, me la infilai per la punta delle dita sotto l’ascella. Davanti alla casa dove ero invitato, rimasi in sua compagnia. „Allora adieu“, dissi. „E’ qui?“ „Già, qui.“ „Non era lontano“ „Te lo dicevo.“

„Tu“, dissi, e gli detti un colpetto con il ginocchio, „non addormentarti.“ Quando lui aprì gli occhi, i miei scivolarono via dal suo viso; anche se mi sforzavo di tenerli alti, continuavo a vedergli solo il collo. „ Quasi ti saresti addormentato“, dissi, e, poiché non volevo dare allla mia faccia confusa un’espressione in qualche modo ferma, io sorrisi, e parve che quel che avevo detto fosse stato uno scherzo. Me ne accorsi subito e mi sentii gelare nel cappotto, pur senza smarrire la sensazione del gran freddo notturno e del caldo del cappotto stesso. Il mondo circostante stava per sparire, oppure per volarsene via sopra la mia testa, nell’attino stesso in cui ne riebbi la consapevolezza, e fui costretto a pensare di averlo risvegliato per mezzo di quel colpo del mio ginocchio. „Sei davvero brutale“, disse, tese un poco il labbro inferiore sotto quello di sopra, forse anche a causa del sonno, „a svegliarmi con una ginocchiata. E in particolare sei brutale nei miei confronti.“ „Però, sei irritabile! Ti ho forse fatto male? Ora ti metti a protestare in pubblico contro di me. Allora io devo segnalarmi pubblicamente.“ Mi volsi verso la via e mi tolsi il cappello al di lei cospetto. „Comunque non dovevi colpirmi.“ „Certo, non devo. Ma ti saresti addormentato, se non l’avessi fatto. „Ho dormito davvero, tu questo non riesci a capirlo.“

Desiderio di diventare indiano. Magari essere un indiano, di pari prontezza, e curvo sul cavallo in corsa nell’aria rinnovar continuamente un tremito sincopato sul terreno vibrante fino all’abbandono degli speroni, ché di speroni proprio non ce n'erano, fino al rigetto delle briglie, ché di briglie proprio non ce n'erano, rivelandosi a stento la landa di fronte un terreno perfettamente mietuto, già senza il collo e la testa il cavallo.

Il rifiuto. Se m’imbatto in una bella fanciulla e le chiedo “ abbi la gran bontà di venir con me”, e lei procede senza una parola, con ciò suppone: “Non sei affatto un duca di reputazione squillante, né un solido americano alto come un indiano, di occhi fermi e diritti, di pelle lavorata dall’aria delle praterie e dei fiumi che le solcano, non ti sei mai spinto fino ai Grandi Laghi e neppure fino ai laghi che non so dove si trovino. Anch’io ti chiedo: perché io, una bella fanciulla, devo venir con te?” “Tu dimentichi che nessun’ automobile ti porta tra una scossa e l'altra per la via; non vedo strizzati nel loro abito i signori del tuo seguito venirti dietro mormorando benedizioni a pro tuo in preciso semicerchio; i tuoi seni sono ben contenuti nel corsetto, ma le tue cosce ed i fianchi si prendono la rivincita su quella continenza; tu porti un abito di taffetà a falde plissettate come lo scorso autunno assolutamente a tutti noi piaceva, eppure di tanto in tanto sorridi - con questo pericolo mortale addosso.” “Sì, entrambi abbiamo ragione, e, al fine che ciò non ci divenga inconfutabilmente noto, non vogliamo piuttosto, ognun da solo, andare a casa?”

Il negoziante. Può darsi che certe persone mi compiangano, ma non me ne accorgo affatto. Il mio modesto negozio mi riempie di preoccupazioni che da dentro mi torturano fronte e tempie, ma senza darmi prospettive di soddisfazione, dato che è un modesto negozio. Devo prendere decisioni con ore d’anticipo, mantenere sveglia la memoria del garzone, far attenzione ai temuti errori, prevedere durante l’annata in corso le mode della successiva, non come sarà tra la gente del mio giro, ma invece tra inaccessibili popolazioni della regione. Il mio denaro lo hanno degli ignoti; le loro condizioni economiche possono non essermi chiare; io non prevedo i tracolli che potrebbero colpirli; come potrei impedirli! Forse sono diventati sperperatori, uno dà una festa nel giardino di un’osteria, l’altro per un po’ si sofferma in tal festa nel fuggire in America. Or dunque, quando la sera di una giornata di lavoro il negozio viene chiuso e vedo improvvisamente davanti a me ore durante le quali io non potrò produrre alcunché ai fini delle necessità ininterrotte del mio negozio, allora la mia inquietudine del mattino largamente in anticipo si getta in me come un flutto in risacca, però non ci resta e senza fine mi trascina. Non riesco per nulla a giovarmi di quest’umore, in definitiva, e posso soltanto andare a casa, dato che ho la faccia e le mani sporche e sudate, l’abito macchiato e impolverato, il berretto di bottega in testa e gli stivali graffiati dai chiodi della cassa. Cammino allora come ondeggiando, faccio schioccare le dita di entrambe le mani e le passo tra i capelli dei bambini che mi si parano davanti.

Il percorso è troppo breve, però. Sono subito a casa, apro la porta dell’ascensore ed entro. Vedo che adesso all’improvviso sono solo. Altri, che devono salire le scale, fanno un po’ di fatica, devono aspettare con il fiatone fino a quando non si viene ad aprire la porta dell’appartamento, hanno quindi un motivo d’irritazione e d’impazienza, poi entrano nella stanza d’ingresso dove appendono il cappello e solo al momento dell’arrivo nella loro stanza, dopo esser transitati davanti a una porta a vetri, sono soli. Io invece sono subito solo, in ascensore, e guardo nello stretto specchio che termina all’altezza dei miei ginocchi. Come l’ascensore inizia a salire, dico: “Tacete, ritiratevi nell’ombra degli alberi, dietro i tendaggi della finestra, sotto il pergolato, volete?” Parlo tra i denti, e la balaustra delle scale scorre giù come acqua dietro i vetri opachi. “Volate via, le vostre ali, che io non ho mai visto, hanno la possibilità di portarvi su rustiche valli, o fino a Parigi, se là vi sentite spinto. Godetevi dalla finestra lo spettacolo, quando le processioni arrivano da tutte e tre le vie, non si evitano, si attraversano a vicenda lasciandosi in coda di nuovo dello spazio libero. Salutate con il fazzoletto, siate spaventato, siate turbato, omaggiate la bella signora che passa. Oltrepassate il ruscello sul ponte di legno, salutate i ragazzini che fanno il bagno, stupitevi degli hurrà che provengono dai mille marinai della lontana corazzata. Pedinate unicamente l’uomo che non dà nell’occhio, e quando l’avete spinto in un androne, derubatelo e guardate poi come

s’incammina mesto, dopo, le mani in tasca, nella viuzza a sinistra. La polizia, sparpagliata al galoppo sui suoi cavalli, frena gli animali e vi spinge indietro. Lasciatela fare, renderanno tristi le strade vuote, lo so. Che già cavalchino via a coppie, io prego, lentamente svoltando gli angoli delle strade, attraversando la piazza.” A questo punto devo uscire dall’ascensore, terminata la salita, suonare il campanello, e la ragazza apre la porta mentre io saluto.

La via di casa. Dopo il temporale, si manifesta la forza di persuasione dell’aria! I miei meriti mi si mostrano e mi sopraffanno, e sia pure che non oppongo resistenza. Cammino, e il mio ritmo è il ritmo di questo lato della via, di tutta la via, di tutto il quartiere. Sono non a torto responsabile di ogni colpo dato sui portoni, dei pugni battuti sui tavoli, di tutti i brindisi, delle coppie d’amanti che si stringono nei letti, nelle impalcature degli edifici in costruzione, contro il muro delle case nei vicoli bui, sulle ottomane nei bordelli. Valuto il mio passato in rapporto al futuro, ma li trovo entrambi eccellenti, non riesco a preferire l’uno o l’altro, e devo soltanto biasimare la sventatezza della provvidenza, che mi favorisce tanto. Invece, non appena entro nella mia stanza, mi sento un poco pensieroso, ma senza che, nel far le scale, ne avessi un valido motivo. Né mi serve molto che io spalanchi la finestra e che, da un giardino, salga della musica.

Sguardo svagato. Che fare, in questi giorni che portano svelti la primavera? Oggi sul presto il cielo era grigio, ma ora si va alla finestra e, sorpresi, s’appoggia la guancia alla maniglia. Giù è visibile la luce del sole, già calante tuttavia sul viso della fanciulla innocente che cammina guardandosi intorno, e su di lei l’ombra dell’uomo che le sta dietro. Poi l’uomo passa oltre, ed ora il viso della fanciulla è tutto in chiaro.

Passanti in corsa. Quando andiamo a passeggio di notte e un uomo che vediamo da lontano – perché la via sale e la luna è piena – ci corre addosso, non lo affrontiamo, anche se è vestito di stracci, anche se qualcuno lo rincorre gridando, ma lo lasciamo andar via. Infatti è notte e non sappiamo, per quanto la via salga davanti a noi in piena luce lunare, se i due hanno organizzato la scena per gioco, se danno la caccia a un terzo uomo, se lo straccione viene rincorso mentre al contrario è innocente; forse l’altro ha intenzione di compiere un assassinio e noi saremmo suoi complici, forse i due non sanno niente l’uno dell’altro e corrono senza alcuna giustificazione verso i rispettivi letti; forse sono nottambuli, forse lo straccione è armato. E, infine, non possiamo permetterci di essere stanchi e di aver bevuto parecchio vino? Del resto, siamo lieti di non vedere più quei due.

Il passeggero. Mi trovo sul tram ed assolutamente non sono certo del mio posto in questo mondo, in questa città, nella mia famiglia. Inoltre non so indicare con precisione quali pretese avanzare, e in quale direzione. Non saprei affatto giustificare il fatto di trovarmi su questa piattaforma, di reggermi a questa maniglia, di farmi portare da questo tram, o il fatto che la gente gli ceda il passo, o si muova tranquilla, o sosti davanti a una vetrina. Nessuno me lo chiede, ma fa lo stesso. Il tram si avvicina alla fermata, una ragazza si mette vicina ai gradini, tra un po’ scenderà. Mi sembra così vera, come se l’avessi palpata. E’ vestita di nero, le pieghe della gonna quasi immobili, la giacchetta aderente, il colletto di maglia dalle punte bianche, la mano sinistra aperta sulla parete, l’ombrello nella destra appoggiato dov’è il gradino. Il suo viso è incolore, il naso, un po’ schiacciato ai lati, termina largo e rotondo. Ha una quantità di capelli castani, della peluria sulla tempia destra, l’orecchio minuto, lo vedo bene perché sono vicino, ha il padiglione che aderisce all’ombra che proietta sul collo. A questo punto mi chiedo perché lei non si meraviglia di se stessa, tiene la bocca chiusa e non dice nulla.

Meditazione sui signori cavalieri. Pensandoci, nella volontà di primeggiare in una gara nulla è allettante. La gloria di essere riconosciuto come il miglior cavaliere della regione rallegra troppo, quando l’orchestra attacca, perché il giorno dopo si riesca ad evitare il rimorso. L’invidia degli avversari, scaltri, gente importante, non può non dispiacere, ora, nello stretto passaggio tra due ali di folla in cui si cavalca dopo il pendio, che invece era vuoto fino al punto dove qualche avversario doppiato cavalcava minuscolo contro la linea dell’orizzonte. Molti nostri amici intanto s’affrettano a incassare la loro vincita e, con aria d’indubitabile superiorità, urlano, dallo sportello laggiù, il loro hurrà al nostro indirizzo; i migliori amici, di nuovo, non hanno assolutamente puntato sul nostro cavallo, perché temevano che finisse perdente, forse ce l’hanno con noi, ma ora che il nostro è arrivato primo e loro non hanno vinto nulla, si voltano dall’altra parte, se noi ci facciamo avanti e guardiamo soddisfatti verso la tribuna. I concorrenti sconfitti, saldi in sella, cercano di valutare la sfortuna che li ha colpiti e l’ingiustizia che in qualche modo è stata loro fatta; prendono un’aria gagliarda, come se dovessero cominciare una nuova corsa seria, dopo la prima, quella dei bambini. A molte signore il vincitore appare ridicolo, perché mena vanto, eppure non sa come contenersi con le infinite strette di mano, saluti, inchini, richiami da lontano, mentre gli sconfitti tengono la bocca chiusa e danno colpetti sul collo dei loro cavalli che, quasi tutti, nitriscono. Infine, dal cielo diventato fosco, comincia anche a piovere.

Infelicità. Una sera di Novembre - non ne potevo più e misuravo di furia i passi sullo stretto tappeto della mia stanza come se fosse una pista, mi sgomentava la vista della strada illuminata, facevo dietrofront per trovare però un altro limite nel tavolo e nel fondo dello specchio - solo per sentirlo cacciai un grido cui niente rispose e niente tolse forza, si alzò dunque senza contrappeso e non poté cessare neanche quando si spense; a quel punto si aprì una porta, ma tanto di colpo, senza che fosse necessario, che anche i cavalli da tiro giù sul selciato della strada, come fossero imbizzarriti in battaglia, s’impennarono rovesciando il collo indietro. Un fantasma di fanciullo percorse tutto al buio il corridoio in cui la lampada non ardeva ancora e rimase ritto su una striscia d’impiantito che oscillava impercettibilmente. Come privato della vista per via della penombra della stanza subito si mise il viso tra le mani, ma d’improvviso si calmò guardando verso la finestra, davanti al cui telaio i vapori dell’illuminazione stradale, sospinti in alto, arrivavano a sostare. Restò ritto davanti alla porta con il gomito destro appoggiato alla parete e si fece accarezzare i piedi, il collo, le tempie dalla corrente d’aria. Per un po’ stetti a guardare, poi dissi “buongiorno” e presi la giacca dal parafuoco, non volevo mica restare così mezzo svestito. Per farmi finire l’agitazione, rimasi un momento con la bocca aperta. Aveva un cattivo sapore, la saliva, le ciglia mi tremavano, per farla breve non mi mancava che questa visita a dire il vero aspettata. Il fanciullo restava lì vicino alla parete, aveva la mano destra premuta sul muro e non riusciva, tutto rosso in viso, ad esserne soddisfatto, infatti la parete intonacata di bianco era ruvida e gli

pizzicava la punta delle dita. Dissi: “E’ proprio da me che volete venire? Non è uno sbaglio? Niente di più facile, in una casa grande come questa. Io mi chiamo Tal de' tali, abito al terzo piano. Sono io quello a cui volete far visita?” “Calma! Calma!” disse il fanciullo da sopra una spalla, “è tutto a posto.” “Allora entrate, devo chiudere la porta.” “L’ho chiusa giusto ora. Non vi affaticate. Soprattutto calmatevi.” “Non si tratta di fatica. E’ che in quest’androne abita una quantità di gente, tutti com’è naturale sono miei conoscenti; la maggioranza torna ora dal lavoro; se sentono parlare in una stanza credono di avere senz’altro il diritto di venire a vedere cosa c’è. Già una volta è successo. Questa gente ha alle spalle il lavoro di tutti i giorni; durante la provvisoria libertà serale, non guardano in faccia a nessuno. Del resto già lo sapete. Fatemi chiudere la porta.” “Che sarà mai? Che avete? Per me può venire il casamento intero. E poi, di nuovo, la porta l’ho già chiusa, credete di saperla chiudere solo voi? Perfino a chiave, ho chiuso.” “Allora va bene. Mi basta. Non avreste dovuto chiudere anche a chiave. E ora mettetevi comodo, se davvero volete. Siete mio ospite. Fidatevi completamente. Accomodatevi senza paura. Non vi costringerò né a rimanere né ad andarvene. Devo proprio dirlo? Mi conoscete così male?” “No. Non avreste dovuto dirlo, anzi, certamente non avreste potuto dirlo. Sono un fanciullo; perché prendersi tanto disturbo con me?” “Non fa niente. Certo, un fanciullo. Ma non siete mica tanto piccolo. Siete già bello grande. Se foste una fanciulla non potreste così semplicemente chiudervi con me in una stanza.”

“Non ce ne dobbiamo affatto preoccupare. Volevo soltanto dire: che vi conosca così bene mi protegge poco, vi libera solo dalla fatica di darmi qualcosa ad intendere. E tuttavia mi fate il cerimonioso. Smettetela, lo esigo, smettetela. Inoltre non vi conosco bene, così in questo buio . Sarebbe meglio se voi faceste luce. No, meglio di no. Comunque mi ricorderò che mi avete minacciato.” “Come? Vi avrei minacciato? Ma vi prego. Io sono davvero felice che finalmente siate qui. Dico ‘finalmente’ perché è già tanto tardi. Mi resta incomprensibile la ragione per cui siete venuto tanto tardi. Può darsi che nella gioia io abbia parlato senza precisione e che voi abbiate capito lo stesso senza precisione. Che io vi abbia parlato in questo modo, lo ripeto dieci volte, è vero, in fin dei conti vi ho minacciato, quel che volete. – Niente discussioni, per l’amor del cielo! – Ma come potete pensarlo? Come potete offendermi così? Perché volete guastare così questo breve momento di presenza qui? Un estraneo sarebbe più amabile di voi.” “Credo che non abbiate usato della saggezza. Io vi sono tanto vicino quanto un estraneo può permettersi di esserlo, per natura. Lo sapete, dunque perché prendersela? Ditelo, che volete far la scena, e me ne vado subito.” “Dunque! Anche questo osate dirmi? Siete un po’ troppo temerario. In fondo vi trovate nella mia stanza. Strofinate come un matto quel dito sulla mia parete. La mia stanza, la mia parete! Ed oltre a questo c’è quel che dite, ridicolo, non solo sfrontato. Dite, è la vostra natura che vi obbliga a parlare con me in quel modo. Davvero? La vostra natura vi obbliga? E’ carino da parte sua. La vostra natura è la mia, e se mi comporto in modo amichevole per natura, voi non potete fare altro che la stessa cosa.”

“Questo è amichevole?” “Parlo di prima.” “Sapete come sarò più tardi?” “Non so niente.” E andai al tavolino da notte dove accesi una candela. Allora nella mia stanza non avevo né il gas né l’elettricità. Restai al tavolino ancora un momento, finché non fui stanco anche di questo, mi misi il soprabito, presi il berretto dal divano e soffiai sulla candela per spegnerla. Seduto su una sedia dibattei con me stesso se uscire oppure no. Per le scale incappai in un inquilino del mio stesso piano. “Andate via di nuovo, vagabondo?” domandò quello fermandosi con le gambe distanti tra loro due gradini. “Cosa devo fare?” dissi, “ho avuto ora un fantasma nella mia stanza.” “Lo dite scontento come se aveste trovato un capello nella minestra.” “Voi scherzate, ma rendetevi conto, un fantasma è un fantasma.” “Verissimo. Ma come, visto che ai fantasmi non si dà alcun credito?” “Non penserete che io creda ai fantasmi? Tuttavia questo non credere a che cosa mi serve?” “Semplicissimo. Non dovete assolutamente avere alcuna paura, se un fantasma davvero viene da voi.” “Sì, ma questa è la paura secondaria. Quella vera è la paura della causa dell’apparizione. E questa paura rimane. L’ho dentro di me in modo grandioso.” Il nervosismo mi fece rovistare in tutte le mie tasche. “Ma dal momento che non avete alcuna paura dell’apparizione stessa, avreste potuto interrogarla con calma sulla sua causa!”

“E’ evidente che voi ancora non avete mai parlato con i fantasmi. Con loro non si riesce proprio mai ad avere un’informazione chiara. Tergiversano. Questi fantasmi sembrano più dubbiosi di quanto lo siamo noi sulla loro esistenza, ciò che non è affatto stupefacente, data la loro nullità.” “Però ho sentito che si può allevarli.” “Siete ben informato. Si può. Ma chi lo farà mai?” “Perché no? Se per esempio è un fantasma di donna”, disse, e balzò sullo scalino superiore. “Eh sì!” dissi “ma lui non è mica adatto.” Mi ricordai. Il mio conoscente era già salito tanto che doveva sporgersi da un angolo delle scale per vedermi. “Comunque”, gridai, “se lassù vi prendete il mio fantasma tra noi è finita per sempre.” “Ma era solo uno scherzo”, disse, e tirò indietro la testa. “Allora va bene”, dissi, e ora sarei potuto andare a passeggio davvero tranquillo. Invece, poiché mi sentivo completamente abbandonato, andai su e mi distesi a dormire.

Smascheramento di un ingannatore. Infine, verso le dieci di sera, insieme a un semisconosciuto che stavolta si era all’improvviso riaccostato a me e mi aveva trascinato per due ore qua e là, arrivai davanti alla casa padronale dove ero stato invitato a un ricevimento. “Dunque!”, dissi, e battei le mani per segnalargli l’assoluta necessità che ci separassimo. Già avevo fatto qualche tentativo, ma debole. Non ne potevo più.“Andate proprio lì?”, domandò lui. Sentii un rumore come se digrignasse i denti. “Sì.”Ero invitato davvero, glielo avevo detto chiaro. Ero invitato, tuttavia, ad entrare dove ero già stato volentieri, e non a rimanere lì sotto davanti al portone contemplando le orecchie di chi mi stava davanti. E adesso anche a tacere insieme a lui, come se fossimo decisi a rimanere lì. Allora in quel silenzio subito presi ad interessarmi al campanello della casa e al buio che ci sovrastava, fino alle stelle. Ed ai passi d’invisibili pedoni diretti chissà dove, al vento che continuava ad irrompere dagli angoli delle strade e ad un grammofono che suonava dietro la finestra chiusa di qualche stanza – cose che si lasciavano udire in quel silenzio come se fosse loro proprietà, dai tempi più remoti e per sempre. Dopo un sorriso dedicato anche a me, il mio accompagnatore si rassegnò, mise il braccio destro sul muro e vi appoggiò il viso, ad occhi chiusi. Non vidi bene quel sorriso, tuttavia, perché l’imbarazzo mi costrinse di colpo a girarmi. Sapevo bene che un tal sorriso non era altro che un inganno. Presente in questa città da mesi, pensavo di conoscere in tutto e per tutto questi ingannatori: il modo come costoro dalle traverse, di notte, le mani protese, come osti si fanno incontro a noi, come se la svignano dietro la colonna degli avvisi pubblici presso cui ci siamo fermati, come

spiano da dietro, costoro, almeno con un occhio, facendo a nascondino, come all’improvviso tentennano, agli incroci, se c’insospettiamo, mettendosi sull’altro lato del nostro marciapiedi! Li comprendevo così bene, erano stati i primi che avevo incontrato in città, nelle osterie, erano quelli cui rimproveravo la durezza della prima occhiata che ora non riuscivo ad immaginarmi eliminata dal mondo, che anzi già potevo toccare in me stesso. Il modo come si ponevano di fronte a una persona, seppur sfuggitagli da un pezzo, anche se da un pezzo non c’era più niente da carpirle! Il modo come non prendevano posizione né si arrendevano, piuttosto scrutando uno con sguardi convincenti, quand’anche solo da lontano! E i loro argomenti erano sempre gli stessi: noi ci eravamo piazzati in una posizione migliore della loro, come sapevano dettagliatamente. Tentavano di scacciarci dal luogo cui aspiravamo, in cambio ci preparavano un posticino nel loro cuore, e se da ultimo il sentimento accumulato in noi si ribellava, costoro lo prendevano come un abbraccio in cui gettarsi a capo fitto. Avevo scoperto questi loro giochetti soltanto dopo esserci stato parecchio tempo insieme. Con le dita li sbriciolavo uno dopo l’altro, allo scopo di annullare la vergogna patita. Quel tale stava appoggiato come prima, contento per come gli era andata, si riprese per ordire un nuovo inganno, ma la guancia che non stava appoggiata al muro gli si arrossì. “Scoperto!”, dissi, e lo colpii leggermente sulla spalla. Poi corsi su per le scale, e le facce disinteressatamente fidate della servitù mi rallegrarono come una bella sorpresa. Li guardai, tutti in riga, mentre mi toglievano il soprabito e mi spolveravano gli stivali. A lunghi passi, rifiatando, entrai poi nella sala.

La finestra sulla via. Chi vive in solitudine, e nonostante ciò di tanto in tanto vorrebbe accompagnarsi non sappiamo dove con gli altri, chi, tenendo conto dei cambiamenti dell’orario, del tempo, dei rapporti di lavoro e simili, desidera senz’altro vedere un qualsiasi braccio al quale potrebbe tenersi, - costui, senza una finestra sulla via, non ce la farà a lungo. A lui succede di non cercare quasi niente, e soltanto come un uomo che non ne può più, gli occhi vaganti tra la gente ed il cielo, va al davanzale della sua finestra, e senza volere ha voltato un po’ la testa, così che in basso il cavallo, cui segue carrozza fracassona, lo entusiasma, e per tal mezzo da ultimo anche l’umana armonia.

Gente di città . Oskar M. uno studente fuori corso – a guardarlo da vicino ci si spaventava – rimase un pomeriggio d’inverno nel pieno d’una nevicata in una piazza vuota in piedi vestito da inverno la giacca invernale sopra uno scialle al collo e in testa un berretto di pelliccia *. Riflettere gli faceva strizzare gli occhi. Tanto si era perso nel pensare che si tolse il berretto e si passò sulla faccia la pelliccia crespa. Infine parve arrivato ad una conclusione e si girò verso la via di casa con un volteggio. Come aprì la porta del soggiorno della casa dei genitori, vide suo padre un uomo ben rasato dal volto pesantemente carnoso seduto davanti a un tavolo vuoto le spalle rivolte alla porta. “Era ora” ** disse il padre non appena Oskar ebbe messo piede nella stanza fammi il piacere di restare sulla porta, perché sono così infuriato con te che non mi fido di me stesso. Ma padre disse Oskar accorgendosi da come parlava quant'era affannato. Silenzio gridò il padre e si alzò, con il che nascose una finestra alla vista. Silenzio ti ordino. E smettila con i tuoi ma, tienilo a mente. Nel frattempo afferrò con entrambe le mani il tavolo spostandolo di un passo verso Oskar. La tua vita da scioperato non la sopporto semplicemente più. Sono vecchio. In te credevo di avere una consolazione per la vecchiaia, invece sei per me peggio di qualsiasi malattia. Che schifo un figlio del genere che a forza di pigrizia, dissipazione, malvagità e stupidità porta il suo vecchio padre nella fossa. A questo punto il padre tacque, ma il volto gli si agitava come se parlasse ancora. Caro padre disse Oskar e cautamente si avvicinò al tavolo, calmati, andrà tutto bene. Oggi m’è venuta un’ispirazione che farà di me un uomo operoso tanto quanto puoi augurarti. Sarebbe? Domandò il padre guardando da una parte. Fidati di me e basta, a cena ti spiegherò tutto. Dentro di me sono

sempre stato un bravo figlio, solo che non riuscivo a farlo vedere, mi amareggiavo tanto che, se proprio non ero capace di onorarti, invece ti facevo arrabbiare. Ma ora lasciami andare un po’ a passeggio per sviluppare con più chiarezza i miei pensieri. Il padre, che facendosi dapprima attento si era seduto al tavolo, si alzò: non credo che le cose che hai detto ora significhino molto, al contrario, le considero chiacchiere. Ma alla fine sei mio figlio – vieni a casa per tempo ceneremo e dopo puoi esporre la tua cosa. Questo po’ di fiducia mi basta, te ne sono grato di cuore. Ma non mi toccherà di vedere che sei impegnato completamente in una cosa grave? Per ora non vedo nulla disse il padre. Ma può essere anche colpa mia, perché sono fuori esercizio, soprattutto nel giudicarti. Nel frattempo, com’era sua abitudine, dava attento certi colpi regolari sul piano del tavolo, come segnasse lo scorrere del tempo. La cosa più importante è tuttavia che non ho più nessuna fiducia in te Oskar. Quando qualche volta ti sgrido – come sei arrivato del resto ti ho sgridato, non è vero? – non lo faccio perché io speri di migliorarti, ma perché penso alla tua povera madre, che ora forse non prova alcun immediato dispiacere a causa tua, tuttavia pian piano va in rovina sforzandosi di respingere un dispiacere immediato, perché pensa con questo in qualche modo di aiutarti. Infine son cose tuttavia che davvero sai molto bene, ed io per quanto mi riguarda non le avrei ricordate, se tu non mi ci avessi provocato con le tue promesse. Nel correre di queste ultime parole entrò la servetta per dare un’occhiata al fuoco nella stufa. Appena ebbe lasciato la stanza Oskar protestò: ma padre! Non me lo sarei aspettato. Se mi fosse venuta, diciamo, solo un’ ispirazioncina per la mia tesi di laurea che, è vero, giace nel mio cassetto già da 10 *** anni e manca di mordente, è possibile, per quanto improbabile, che io come è successo oggi sarei corso a

casa dopo la passeggiata e avrei detto: padre per fortuna mi è venuta questa e quest’altra ispirazione. Se tu poi mi avessi gettato in faccia i tuoi rimproveri con la tua venerabile voce, allora la mia ispirazione sarebbe stata semplicemente spazzata via e io avrei subito dovuto con qualche scusa, o senza, mettermi in marcia. Ora al contrario! Tutto quel che dici contro di me è d’aiuto alle mie idee, non stanno a sentire, fortificandosi mi riempiono la testa. Andrò, perché soltanto stando da solo posso metterci ordine. Nel calore della stanza lui trangugiò un respiro. Può darsi anche che tu abbia in testa una bagatella disse il padre sgranando gli occhi, infatti io credo che sia quel che ti si adatta. Se pure qualcosa di buono si è smarrito in te, durante la notte ti sfugge via. Ti conosco. Oskar storse la testa come se lo tenessero per il collo. Fammi andare ora. Stai tormentandomi troppo. La mera possibilità che tu sappia prevedere correttamente come mi va a finire, non dovrebbe in verità indurti ad interrompere la mia buona riflessione. Forse il mio passato te ne dà la ragione, ma non dovresti approfittartene. Considera meglio quanto dev’ esser grande la tua mancanza di sicurezza, se ti costringe a parlare così contro di me. Niente mi costringe disse Oskar e mosse d’improvviso la nuca. Si avvicinò inoltre moltissimo al tavolo, così che non si seppe più di chi dei due il tavolo fosse in potere. Quel che dicevo, lo dicevo con rispetto e perfino con amore per te, come del resto vedrai tra poco, perché nelle mie decisioni il rispetto per te e mamma ha la parte più grande. Te ne sono grato già da ora disse il padre perché è molto improbabile che tua madre ed io ne saremo capaci al momento giusto. Per favore però padre lascia che il futuro continui a dormire, come merita. Infatti se lo si sveglia in anticipo, si ottiene poi un presente assonnato. Tuo figlio deve per prima cosa dirti questo. Non volevo certamente convincerti subito, ma

annunciarti solo la novità. E almeno questo mi è riuscito, come devi ammettere tu stesso. Ora Oskar questo mi stupisce davvero di nuovo: perché tu non sia già venuto altre volte da me come oggi con un caso così, che corrisponde al tuo carattere abituale. No davvero, si tratta della mia serietà. Di sicuro invece di ascoltarmi mi avresti interrotto. Sono venuto di corsa, lo sa Dio, per darti veloce una gioia. Ma non posso rivelarti niente fino a quando il mio piano non è completo. Perché mi rimproveri in questo modo per una mia buona idea e vuoi avere chiarimenti che però ora potrebbero danneggiare l’attuazione del mio piano? Taci perché non voglio sapere nulla. Ma devo risponderti subito perché ti avvicini di nuovo alla porta ed è chiaro che hai in testa qualcosa di urgente: hai placato con il tuo gioco di prestigio la mia nascente rabbia, solo che ora sono più triste di prima per la mamma quindi per favore – se insisti posso anche pregarti – almeno non dirle nulla delle tue idee. Mi basta questo. Non è certo mio padre che parla in questo modo esclamò Oskar, che già aveva appoggiato la mano alla maniglia della porta. Questo pomeriggio ti è successo qualcosa, oppure sei una persona estranea che ora incontro per la prima volta nel soggiorno di mio padre. Il mio vero padre – Oskar tacque un momento restando con la bocca aperta – avrebbe dovuto abbracciarmi e avrebbe chiamato la mamma. Cos’hai padre? Faresti meglio a cenare con il tuo vero padre, secondo me. Sarebbe più allegro. Verrà subito. In fondo non può restare assente. E dev’esserci la mamma. E Franz che adesso vado a chiamare. Tutti. Dopodiché Oskar spinse la porta, che si muoveva benissimo, come se avesse intenzione di sfondarla con la spalla.

Arrivato all’abitazione di Franz si chinò sulla minuscola padrona di casa con queste parole: il signor ingegnere lo so che dorme, non importa, e senza badare alla signora che scontenta della visita si aggirava senza costrutto nell’anticamera, aprì la porta a vetri che tremò nelle sue mani come se fosse costretta a un lavoro indelicato e gridò senza garbo in direzione della camera ancora invisibile: Franz alzati. Ho bisogno del tuo consiglio da specialista. Però qui non mi va, dobbiamo andare un po’ a passeggio, devi anche venire a cena da noi. Dunque sbrigati. Molto volentieri disse l’ingegnere dal suo divano di pelle, ma qui, cos’è quest’ alzarsi di colpo cenare andare a passeggio dar consigli? Non avrò afferrato qualcosa. Soprattutto Franz niente scherzi. E’ la cosa più importante, che ho dimenticato. Ti faccio immediatamente il favore. Ma alzarsi – per te cenerei magari due volte piuttosto che alzarmi una volta sola. Orsù! Niente obbiezioni! Oskar prese il pigrone per la giacca e lo tirò su. Però lo sai che sei brutale. Bisognerà che tutti stiano attenti. Si nettò con i mignoli gli occhi chiusi. Parla. Non è la prima volta che ti strappo così dal divano. Ma Franz disse Oskar facendo una smorfia vestiti una buona volta. Mica sono matto a svegliarti senza ragione. – E così senza ragione io non ho dormito. Ieri ho avuto il turno di notte, dopodiché finalmente sono venuto a fare il mio sonnellino pomeridiano, è anche colpa tua – Come mai? Ma che, mi fa già arrabbiare la poca considerazione che hai per me. Non è la prima volta. Certo, tu come studente universitario sei più libero e puoi fare quel che vuoi. C’è chi non ha tale fortuna. Ci vuole riguardo, al diavolo. Certo che sono tuo amico, ma per questo non è che io sia dispensato dal lavoro. – Esponeva la cosa agitando qua e là pigramente le mani. Come faccio a non pensare dalla tua presente parlantina che tu abbia dormito più che a sufficienza disse Franz che si era appoggiato a una colonna

del letto da dove osservava l’ingegnere come se avesse meno fretta di prima. Allora che cosa vuoi di preciso da me? O per meglio dire perché mi hai svegliato domandò l’ingegnere e si grattò energicamente la gola sotto la sua barba da capra con quella dimestichezza che si ha con il proprio corpo dopo aver dormito. Che cosa voglio da te disse Oskar piano dando di tacco un colpo al letto. Pochissimo. Te l’ho già detto dall’anticamera. Che ti vesta. Se con ciò Oskar mi vuoi segnalare che m’interessa pochissimo la tua novità, hai perfettamente ragione. Va bene così, certo, così la graticola su cui ti metteranno i miei sarà tutta a carico loro, senza che la nostra amicizia ci vada di mezzo. Anche il ragguaglio sarà più chiaro, mi serve chiarezza, non dimenticarlo. Se però stai magari cercando colletto e cravatta, sono lì sulla poltrona. Grazie disse l’ingegnere e cominciò a mettersi colletto e cravatta su te si può davvero contare. * Il testo, presente anche in uno dei diari di Kafka, è caratterizzato da una notevole assenza della solita interpunzione. Curiosamente, ciò rende a tratti difficile capire se a parlare è Oskar o il padre. ** Le frasi pronunciate dai personaggi mancano tutte delle virgolette, tranne questa. *** “10” nel testo.

Fracasso immane. Nella mia stanza mi trovo nel quartier generale del rumore dell’intero appartamento. Sento sbattere tutte le porte, nel cui fracasso mi vengono risparmiati solo i passi di chi si muove tra l’una e l’altra porta, inoltre sento chiudere lo sportello del forno, in cucina. Mio padre spalanca la porta della mia stanza e passa semidiscinto in vestaglia, dalla stufa nella stanza accanto si raccoglie la cenere, Valli chiede, urlando ogni singola sua parola nella stanza qui davanti, se il cappello di mio padre è stato ben pulito, inoltre un bisbiglio che vorrebbe essermi amico suscita l’urlo d’una voce che gli risponde. Si apre la porta d’ingresso con un rumore d’una gola scatarrante, poi si riapre sopra la voce d’una donna che canta, e si chiude infine con una cupa virile botta, irriguardosissima. Mio padre è uscito, ora comincia il diffuso, più leggero, disperato chiasso dei due canarini. Molto prima che questa faccenda dei canarini tornasse ad irrompere in me, io pensavo di aprire uno spiraglio della porta, di strisciare come un serpente nella stanza accanto e, dal pavimento, implorante, di chiedere tregua alle mie sorelle e alla loro servetta.

Infelicità dello scapolo. Pare davvero brutto restar scapolo, elemosinare come un vecchio, a rischio della propria dignità, di essere accolti, quando si vuol passare una serata con qualcuno, esser ammalati e restar a guardare da un cantuccio del letto la stanza vuota, accettar sempre di lasciarsi davanti al portone di casa, non far le scale accanto alla propria moglie, aver nella stanza soltanto porte che danno in appartamenti sconosciuti, tornare a casa con la cena in mano, dover osservare con stupefazione sconosciuti bambini, non poterne più di ripetere ogni volta “io non ne ho”, esercitarsi ad avere l’aspetto e il comportamento giusto sulla base dei ricordi giovanili di un paio di scapoli. Sarà così, ma nella realtà odierna o futura ce ne staremo lì, dotati nella realtà di un corpo e di una testa, dunque anche di una fronte, a percuoterli con una mano.

La passeggiata improvvisa. Ci sembra, la sera, di aver deciso definitivamente di non uscire, abbiamo messo la giacca da casa, ci siamo seduti dopo cena al tavolo con la luce accesa e si è cominciato a fare un lavoro, o qualche gioco con quel che segue, andare normalmente a letto, fuori il tempo è ostile e restare a casa è comprensibile, inoltre si è rimasti fermi al tavolo tanto a lungo che andar via potrebbe provocare lo stupore generale, hanno infatti spento la luce delle scale di casa e il portone è sbarrato, ciò nonostante in uno stato improvviso di disagio ci s'alza, si cambia la giacca, subito salta fuori quella giusta per uscire, si dichiara di doversene andare, e, dopo un breve saluto, si procede a sbattere la porta dell’appartamento per la velocità con cui la si chiude, più o meno ci sembra di provocare dell’irritazione, ci si trova in strada mentre i familiari rispondono vivacemente a questa inattesa libertà che si è procurata loro, e in noi si sente completa, durante questo movimento deliberato, ogni capacità risolutiva, si comprende con maggior chiarezza del solito che siamo in possesso anche di più forza di quanta ne serva a produrre e tenere in moto il più veloce cambiamento, si percorrono lunghe strade, per stasera si è completamente usciti dalla propria famiglia, che ora vira nell’inesistente, e in solitudine, ben saldi sulle gambe, nero il contorno della nostra ombra, muovendo i passi ci si eleva alla propria vera forma. La potenza cresce ancora, se a quest’ora si fa visita a un amico, per vedere come gli vanno le cose. N.B. Il testo è presente anche in uno dei diari di Kafka.

Decisioni. Per sollevarsi al di sopra della miseria del vivere serve leggerezza, ancorché voluta con energia. Mi strappo dalla poltrona, giro intorno al tavolo, ruoto testa e collo, metto lo sguardo a fuoco, fletto i muscoli. Bando ai sentimenti, quando arriva A lo saluterò con vigore, sopporterò amichevolmente B nella mia stanza, con C riferirò a me stesso, tramite lunghi passaggi, tutto quel che si dirà, nonostante la pena e la fatica. Eppure, ammesso che la cosa riesca, a parte ogni immancabile pecca, prevarrà l’equilibrarsi completo di leggerezza e pesantezza, e io mi troverò a girare a vuoto. Resta tuttavia migliore il consiglio di accettare tutto, di comportarsi come pietre pesanti, nonostante che in questo modo ci si senta come scomparsi, di non farsi strappare alcuna mossa inutile, di guardare l’altro con occhi da animale, di non provare alcun rimorso, in breve: repressione di propria mano di quel che ancora resta un fantasma di vita, ciò che significa incrementare ancor di più un’estrema calma sepolcrale e non lasciar più esistere niente al di fuori di quella. Caratteristico di una simile condizione è il gesto di passare il mignolo sulle sopracciglia.

Il fochista. Un frammento. Quando il sedicenne Karl Rossmann, spedito in America dai suoi poveri genitori dopo che una domestica lo aveva traviato ed aveva avuto un bambino da lui, entrò nel porto di New York a bordo della nave che già rallentava, riconobbe la statua della dea della libertà, già tenuta d’occhio da un pezzo, come in una luce solare improvvisamente divenuta più forte. Il suo braccio armato di spada * era come se si fosse sollevato da poco, e attorno alla sua sagoma aleggiavano arie libere. “Quant'è alta!” Si disse, e, come se addirittura non pensasse ad andar via, venne spinto pian piano fino al parapetto dalla sempre più densa calca di facchini che stava sommergendolo. Un altro giovane, di cui era in poco tempo divenuto durante il viaggio conoscente, nel proseguire gli disse: “Beh, non avete ancora voglia di scendere?” “Sono già pronto”, disse Karl sorridendogli, e baldanzoso sollevò, poiché era un giovane robusto, la valigia all’altezza della spalla. Però, quando guardò da cima a fondo il suo conoscente, che già s’allontanava con gli altri brandendo un poco il suo bastone, costernato notò di aver dimenticato il suo ombrello sottocoperta. Svelto, in nome dell’amicizia, pregò il conoscente, che non ne sembrò molto lieto, di badare un momento alla valigia, valutò ancora la situazione per orientarsi durante il ritorno, e se ne andò in fretta. Con rammarico sotto trovò sbarrato per la prima volta, cosa che con lo sbarco probabilmente aveva convogliato tutti insieme i passeggeri, un passaggio che gli avrebbe parecchio accorciato il cammino, e dové con fatica cercarsi la via attraverso un’infinità di piccoli ambienti, per brevi scale che continuavano a succedersi, lungo corridoi con diramazioni ripetute, attraverso una stanza vuota con una scrivania

dimenticata, fino a che non si fu effettivamente del tutto perduto, poiché aveva fatto questo percorso solo una o due volte, e sempre in compagnia. Nel suo disorientamento, e perché non incontrava nessuno, e sopra di sé continuava a sentire soltanto lo scalpiccio di migliaia di piedi umani, e in lontananza notava, come un fiato, il movimento finale delle macchine già fermate, prese senza riflettere a dar colpi su una porticina a caso presso cui si era fermato nel suo girovagare. “Sì, è aperto”, gridò qualcuno da dentro, e Karl aprì la porta con un vero sospiro di sollievo. “Perché date colpi così da matto alla porta?”, domandò un uomo gigantesco non appena volse lo sguardo verso Karl. Da un qualche lucernario di boccaporto cadeva una luce opaca, già parecchio affievolita nell’alto della nave, nella misera cabina in cui un letto, un armadio, una sedia e l’uomo stavano a malapena l’uno accanto agli altri, come stivati.”Mi sono perso”, disse Karl, ”non l’avevo affatto notato durante la traversata, ma è una nave spaventosamente grande.” “Sì, avete ragione”, disse l’uomo con una certa fierezza, e non smise di darsi da fare alla serratura di una valigetta che continuava a chiudere con entrambe le mani per sentire lo scatto del blocco a molla. “Ma entrate!”, continuò, ”non starete lì fuori!” “Non disturbo?”, domandò Karl. “Oh, davvero disturberete!” “Siete un tedesco?”, Karl cercò ancora di accertarsi, infatti aveva sentito parlare molto dei pericoli che in particolare incombevano sui nuovi arrivati in America da parte degl’irlandesi. “Lo sono, lo sono”, disse l’uomo. Karl esitava ancora. Allora l’uomo improvvisamente afferrò la maniglia della porta che chiuse di colpo, e con la porta sospinse Karl verso di sé. “Non riesco a sopportarlo, se mi si guarda dal corridoio”, disse l’uomo, che di nuovo si dava da fare con la sua valigia, “ognuno transita qui davanti e guarda dentro, questa è la

gabella dovuta !” – “Ma il corridoio è ancora completamente vuoto”, disse Karl, che scomodamente stava stretto contro una colonna del letto. “Sì, ora”, disse l’uomo. “E’ certo di ora che si tratta“, pensò Karl “parlare con quest’uomo è difficile.” “Mettetevi sul letto, lì avete più posto”, disse l’uomo. Karl strisciò dentro, com’ era possibile, e rise al suo primo debole tentativo di salirci sopra. Ma appena fu nel letto, gridò: “Per l’amor di Dio, mi son dimenticato completamente della valigia!” “Dov'è?”-“Di sopra, sul ponte, uno che conosco ci badava, ma come si chiama?”, e dalla tasca segreta che sua madre gli aveva sistemato nella fodera della giacca in vista del viaggio, estrasse un biglietto da visita. “Butterbaum, Franz Butterbaum.” “Avete molto bisogno di questa valigia?”“Naturale.”“E allora perché l’avete data ad un estraneo?”“Avevo scordato di sotto l’ombrello ed ho fatto una corsa per andare a prenderlo, ma non volevo tirarmi dietro la valigia. E poi mi sono perso.” “Siete solo? Senz’ accompagnamento?”“Sì, solo.””Dovrei forse aggrapparmi a quest’uomo”, passò per la testa a Karl, “dove lo trovo un amico migliore.” “E ora avete perso anche la valigia. Dell’ombrello non parliamo.” E l’uomo si mise sulla sedia come se per lui la faccenda di Karl avesse qualche interesse. “Io però credo che la valigia non sia ancora perduta.” “Credere rende felici”, disse l’uomo, e si grattò con forza i capelli scuri, corti e fitti, “cambiando di porto, sulla nave cambiano anche gli usi. In quello di Amburgo il vostro Butterbaum forse avrebbe badato alla valigia, qui la probabilità che di tutt’e due non ci sia più alcuna traccia è alta”. “Ma lo stesso devo controllare”, disse Karl e guardò in giro come avrebbe potuto uscir di lì. “Ma restate”, disse l’uomo, e con una mano sul petto lo ributtò, piuttosto bruscamente, nel letto. “Perché mai?”, domandò Karl stizzito. “Perché non ce n’è ragione”, disse l’uomo, “un

momentino e vado anch’io, poi andiamo insieme. O la valigia è stata rubata, allora non c’è niente da fare, oppure l’uomo l’ha abbandonata, allora la troveremo tanto meglio quando la nave sarà interamente vuotata. Lo stesso per il vostro ombrello.” “V’intendete della nave?”, domandò insospettito Karl, e gli sembrò come se il pensiero, altrimenti persuasivo, che trovare la sua roba nella nave vuota sarebbe stata la miglior cosa, avesse una difficoltà celata. “Dopotutto sono fochista navale”, disse l’uomo. “Siete fochista navale!”, gridò Karl con gioia, come se ciò oltrepassasse tutte le attese, e, appoggiato al gomito, guardò l’altro più da vicino.”Proprio davanti alla camera dove ho dormito con lo slovacco era installato un boccaporto attraverso il quale si poteva guardare nella sala macchine.” “Sì, ho lavorato lì”, disse il fochista. ”Mi sono sempre tanto interessato alla tecnica”, disse Karl, che continuava un ragionamento preciso, ”e sarei diventato di sicuro presto ingegnere, se non avessi dovuto partire per l’America.” “Perché poi siete dovuto partire?” “Mah!”, disse Karl, e spazzò via con la mano l’intera storia. Insieme guardò il fochista sogghignando, come se gli chiedesse indulgenza per la mancata risposta. ”Una ragione ci sarà pure stata”, disse il fochista, e non si seppe bene se lui con ciò sollecitava il racconto di questa ragione o intendeva rifiutarlo. “Ora potrei anch’io diventare fochista”, disse Karl, “per i miei genitori ora è del tutto indifferente quel che divento.” “Il mio posto si libera”, disse il fochista, e mise con piena coscienza di ciò le mani nelle tasche e per allungarsi buttò sul letto le gambe, infilate in pantaloni grigio ferro spiegazzati e ingrommati. Karl fu costretto ad arretrare contro la parete. “Lasciate la nave?” “Certamente, partiamo oggi.”“E perché? Non vi va a genio?”“Sì, sono le circostanze, non è che si decida sempre quel che a uno va a genio o no. Del resto avete ragione, non mi va più a

genio. Probabilmente non ci pensate sul serio, a diventare fochista, ma può succedere facilissimamente proprio ora. Vi consiglio dunque di decidere. Se in Europa desideravate studiare, perché poi non volete farlo qui? Le università americane sono certo senza confronto migliori di quelle europee.” “E’ possibile, sì”, disse Karl, ”ma non ho quasi soldi per studiare. Ho effettivamente letto di qualcuno che di giorno lavorava in una bottega ed ha studiato di notte, fino a diventar dottore e credo borgomastro, ma per questo è richiesta una gran perseveranza, no? Ho paura che a me manchi. E poi non ero mica tutto questo bravo studente, staccarmi dalla scuola veramente non m’è stato difficile. E qui le scuole forse sono più severe. L’inglese quasi non lo so. Soprattutto, credo io, con gli stranieri si è tanto prevenuti.” “Ve ne siete già accorto? Eh no, non va mica bene. Vedete, siamo bene su una nave tedesca, Linea Amburgo - America, perché non siamo soltanto tedeschi, qui? Perché il capo macchinista è un rumeno? Schubal, si chiama. E’ da non credere, in definitiva. Questo farabutto sfrutta noi tedeschi su una nave tedesca! Non crediate,” – gli mancò l’aria, con una mano segnalò l’esitazione - ”che io mi lamenti per lamentarmi. So che voi non contate nulla e siete pure un povero ragazzino. Ma è troppo madornale!” E picchiò sul tavolo il pugno parecchie volte senza perderlo d’occhio, mentre picchiava. “Ho già servito in così tante navi” - e nominò venti nomi di seguito come se fosse un’unica parola, Karl si confuse completamente “e mi son fatto onore, sono stato elogiato, ero un lavoratore che piaceva ai suoi capitani, addirittura sono stato alcuni anni sullo stesso mercantile” – si alzò in piedi come se ciò fosse stato il culmine della sua vita – “e qui, su questa baracca dove tutto è fondato sulla precisione, dove non serve alcun ingegno, qui non servo a niente, allo Schubal son sempre d’impaccio, sono un

fannullone, mi merito di esser cacciato e vengo pagato per misericordia. Lo capite, questo? Io no.” “Non potete lasciare che vi facciano questo”, disse Karl eccitato. Quasi ne aveva perso il senso, di trovarsi nell’incerto territorio di una nave, sulla costa di un continente sconosciuto, così tanto si sentiva in patria sul letto del fochista. “Vi siete presentato dal capitano? Avete già cercato di ottener ragione davanti a lui?”“Ah, via, via, caro. Non vi voglio qui. Non mi state a sentire e mi date consigli. Che devo andare dal capitano!”E il fochista, stanco, si rimise seduto, la faccia tra le mani. “Un suggerimento migliore non so darglielo”, si disse Karl. E soprattutto valutò che, invece di dare consigli che tuttavia venivano presi soltanto per scemenze, avrebbe dovuto piuttosto andare a prendere la sua valigia. Quando il padre gliela aveva affidata per sempre, gli aveva domandato scherzoso: “Per quanto tempo l’avrai?”, ed ora questa costosa valigia forse era già perduta sul serio. L’unica consolazione era ancora che il padre con difficoltà avrebbe potuto sapere la situazione attuale della valigia, per quante ricerche dovesse fare. La compagnia di navigazione poteva soltanto dire ormai che lui era stato seguito fino a New York. Tuttavia a Karl dispiaceva che ancora aveva potuto adoperare appena la roba in valigia, nonostante che, per esempio, da molto avesse avuto necessità di cambiarsi la camicia. Aveva dunque sbagliato a lesinare; ora che avrebbe avuto bisogno, proprio all’inizio della sua carriera, di presentarsi con un abito a posto, sarebbe stato costretto a presentarsi con la camicia sporca. A parte questo, la perdita della valigia non sarebbe stata tanto grave, perché l’abito che Karl aveva indosso era perfino migliore di quello in valigia, effettivamente solo un ricambio che la madre aveva dovuto aggiustargli subito prima del viaggio.

Ora si ricordò anche che in valigia c’era un pezzo di salame veronese che la madre gli aveva impacchettato come elargizione speciale e di cui finora era riuscito a mangiare soltanto la minima parte, perché durante la traversata non aveva avuto affatto appetito, e la minestra distribuita nell’interponte gli era abbondantemente bastata. Ora invece avrebbe avuto a disposizione volentieri l’insaccato, per farne omaggio al fochista. Persone del genere, infatti, si conquistano facilmente, se gli si mette in mano qualche piccolezza, Karl lo sapeva anche da suo padre, che per mezzo della distribuzione di sigari si era conquistato tutti i bassi impiegati con cui aveva avuto a che fare per i suoi affari. Ora Karl possedeva ancora soltanto il suo denaro, come regalo in contanti, e per il momento non voleva toccarlo, poiché forse doveva aver già perso la valigia. Ritornò a pensare alla valigia, e non riusciva ora veramente a capire perché, durante la traversata, l’avesse sorvegliata con tanta diligenza che gli era quasi costata il sonno, se ora si era lasciato portar via questa stessa valigia così alla leggera. Rammentò se stesso nelle cinque notti durante le quali aveva sospettato senza sosta un piccolo slovacco, sistemato due posti letto oltre, alla sua sinistra, di aver preso di mira la sua valigia. Questo slovacco aveva soltanto aspettato con impazienza che Karl, finalmente colpito dalla spossatezza, si appisolasse un attimo, per tirargli via la valigia con un lungo bastone con cui durante il giorno giocava sempre o faceva esercizi. Di giorno questo slovacco sembrava abbastanza innocuo, ma, appena era calata la notte, ogni po’ si tirava su dal suo giaciglio e guardava là, verso la valigia di Karl, con un’aria da afflitto. Karl poteva chiaramente distinguere tutto ciò, perché in giro qualcuno accendeva sempre un lumicino, nonostante che il regolamento della nave lo proibisse, con la smania dell’emigrante, e tentava di orientarsi

incomprensibilissimi prospetti delle agenzie di emigrazione. Se c’era una luce del genere vicina, allora Karl poteva sonnecchiare un poco, ma se era lontana o era scuro lui doveva tenere gli occhi aperti. Questo sforzo l’aveva piuttosto estenuato, e però forse era stato inutile. Questo Butterbaum, se una volta avesse potuto incontrarlo da qualche parte! Ora brevi piccoli tonfi come di piedi infantili risuonarono più avanti all’esterno, in lontananza, nel silenzio fin lì perfetto, si avvicinarono con rumore crescente e adesso si trattava dell’andatura tranquilla di persone. Manifestamente procedevano in fila, come nello stretto passaggio era naturale, si sentiva come un tintinnare come di armi. Karl, il quale già poco mancava che sul letto si addormentasse in un sonno affrancato da ogni cruccio relativo a valigia e slovacco, sobbalzò e urtò il fochista per richiamarne l’attenzione, poiché la testa del corteo sembrava essere arrivata alla porta. “E’ l’orchestra della nave”, disse il fochista, “hanno suonato di sopra e ora vanno a far le valige. E’ tutto terminato e noi potremo andare. Venite!”. Afferrò Karl per la mano Karl, prese inoltre all’ultimo momento un’immagine incorniciata della madre di Dio dalla parete sopra il letto, la infilò nella tasca interna della giacca, agguantò la sua valigia e in fretta lasciò la cabina insieme a Karl. “Ora vado nell’ufficio e dirò ai signori la mia opinione. Passeggeri non ce ne sono più, di riguardi non se ne deve avere alcuno.” Il fochista continuò a ripeterlo variamente e volle, mentre camminava, calpestare scalciando di lato un topo che gli attraversava il percorso, ma lo cacciò solo più alla svelta nel pertugio dove l’animale era tempestivamente ritornato. D’altra parte lui era lento di movimenti, per quanto avesse le gambe lunghe, esse erano però troppo pesanti.

Attraversarono un angolo della cucina dove alcune ragazze con il grembiule inzaccherato – lo bagnavano apposta – lavavano stoviglie in grandi mastelli. Il fochista chiamò una certa Line vicino a sé, le circondò un’anca con il braccio e la trascinò un pochino, mentre lei civettuola continuava, a dispetto del braccio, a scansarsi. “Ora che siamo di paga, vuoi venire con me?”, domandò. “Perché mi devo disturbare, portami i soldi qui, piuttosto”, rispose lei, sgusciò da sotto il braccio e corse via. “Dove l’hai poi trovato, quel bel ragazzo?”, gridò ancora, ma non voleva più nessuna risposta. Si sentì la risata di tutte le ragazze, che avevano interrotto il loro lavoro. Loro proseguirono, tuttavia, e pervennero a una porta che sopra aveva un frontoncino sostenuto da piccole cariatidi dorate. Come allestimento, sembrava davvero eccessivo per una nave. Karl, come notò, non era mai venuto in questo settore, che probabilmente era stato riservato durante il viaggio ai passeggeri di prima e seconda classe, mentre ora si erano aperte le porte divisorie per la pulizia della nave. Loro avevano in realtà incontrato già alcuni uomini che portavano scope in spalla ed avevano salutato il fochista. Karl si stupì per la grande attività; nel suo interponte non ne era venuto certo a conoscenza. Lungo il passaggio si dipanavano inoltre i fili della rete elettrica, e si sentiva un continuo scampanellare. Il fochista bussò rispettosissimo alla porta, e quando qualcuno gridò “avanti” invitò Karl con un cenno della mano ad entrare senza paura. Questi in effetti entrò, ma rimase sulla porta. Al di là delle tre finestre della stanza vide le onde del mare e, considerando il loro lieto movimento, gli batté il cuore, come se per cinque lunghi giorni non avesse visto ininterrottamente il mare. Grandi navi s’incrociavano nel loro rispettivo percorso e cedevano all’urto delle onde solo quant’era possibile alla loro

pesantezza. Se si stringevano gli occhi, queste navi sembravano dondolare per pura pesantezza. Agli alberi avevano strette bandiere, ma lunghe, che certo durante il viaggio si stendevano, ciò non di meno ancora sbattevano qua e là. Era probabilmente da navi militari che risuonavano spari a salve, le canne dei cannoni di una di queste, che transitava non troppo oltre, risplendendo con il riflesso della loro superficie d’acciaio, erano come accarezzate dalla sicura, liscia e tuttavia non orizzontale andatura. Le piccole navicelle e le barche si potevano notare, almeno là dalla porta, solo in lontananza, quando a frotte entravano nei varchi tra le navi grandi. Ma sullo sfondo di tutto ciò si trovava New York e guardava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli. Sì, in questa stanza si sapeva dove si era. Ad un tavolo rotondo sedevano tre signori, uno, ufficiale della nave, in uniforme blu, gli altri due, funzionari dell’autorità portuale, in uniformi americane, nere. Sul tavolo c’erano, impilati, svariati documenti che l’ufficiale dapprima scorreva con la penna in mano per poi passarli ad entrambi gli altri, che alla svelta leggevano, alla svelta stralciavano, alla svelta riponevano nelle loro cartelle, se uno, che faceva quasi ininterrottamente un rumorino con i denti, per caso non dettava al suo collega qualcosa in un verbale. Sedeva ad una scrivania presso la finestra, voltando la schiena alla porta, un signore dall’aspetto più modesto affaccendato con grossi libri disposti in fila davanti a lui sopra un robusto scaffale all’altezza della sua testa. Vicino a lui c’era una cassaforte aperta, almeno a prima vista vuota. La seconda finestra era sgombra ed offriva la vista migliore. Vicino alla terza però si trovavano due signori che parlavano a mezza voce. Uno si appoggiava accanto alla finestra, anche lui indossava l’uniforme della nave e giocava con l’impugnatura

della sciabola. Quello con cui parlava era voltato verso la finestra e, per via di un movimento, a tratti copriva una parte della fila di decorazioni sul petto dell’altro. Era in abito civile ed aveva un sottile bastone di bambù che, tenuto con entrambe le mani al fianco, sporgeva anch’esso come una sciabola. Karl non ebbe molto tempo per osservare tutto, infatti presto comparve loro davanti un cameriere e domandò al fochista, guardandolo come se lì fosse fuori posto, che cosa mai volesse. Il fochista rispose, con la stessa voce bassa con cui era stato interpellato, che aveva intenzione di parlare con il signor cassiere capo. Il cameriere per quanto lo riguardava respinse questa richiesta con un gesto della mano, ma ciò nonostante andò in punta di piedi, scansando con un largo giro il tavolo rotondo, dal signore con i libri. Costui – lo si vide chiaramente addirittura restò di stucco alle parole del cameriere, ma alla fine si girò in direzione dell’uomo che desiderava parlare con lui e poi, severamente sulla difensiva, se la prese con il fochista e per sicurezza anche con il cameriere. Come conseguenza questi si girò verso il fochista e, nel tono di raccomandargli qualcosa, disse: “Se ne vadano subito da questa stanza!” Dopo tale risposta il fochista abbassò lo sguardo su Karl come fosse il tesoro suo cui confidasse muto le sue pene. Senza pensarci troppo Karl si svincolò, attraversò la stanza di corsa, tanto che addirittura sfiorò leggermente la poltrona dell’ufficiale; il cameriere corse anche lui, ingobbito, le braccia protese, come se inseguisse un insetto pericoloso, ma Karl arrivò per primo al tavolo del cassiere capo, dove si resse saldamente nel caso che il cameriere dovesse tentare di trascinarlo via. Naturalmente la stanza si animò in conformità con quel che accadeva. L’ufficiale che stava al tavolo era saltato su, i signori dell’autorità portuale osservavano con calma, ma attentamente,

entrambi i signori alla finestra si erano avvicinati l’uno all’altro, il cameriere, che riteneva di essere fuori posto là dove gli esimi signori mostravano dell’interesse, tornò indietro. Il fochista aspettava sulla porta attento a quando il suo apporto sarebbe stato necessario. Il cassiere capo infine eseguì una gran virata a destra con la sua sedia. Karl estrasse dalla tasca segreta, che non aveva alcuno scrupolo di far vedere a quella gente, il suo passaporto, e lo stese aperto sul tavolo, in alternativa ad una più estesa presentazione. Il cassiere capo parve prendere questo passaporto per una cosa di secondaria importanza e lo spinse con due dita da una parte, per cui Karl, come se tale formalità fosse stata sbrigata in modo soddisfacente, se lo rimise in tasca. “Mi permetto di dire”, cominciò, “che a mio avviso al signor fochista è capitata un’ingiustizia. C’è qui un certo Schubal, che gli sta addosso. Lui ha servito già su molte navi che è capace di nominarvi tutte con totale soddisfazione, è diligente, è ben disposto nei confronti del suo lavoro, e davvero non si capisce perché proprio su questa nave dove comunque il servizio non è tanto gravoso come per esempio sulle navi a vela, lui dovrebbe non essere all’altezza. Per cui può essere soltanto la calunnia, che gl’ impedisce di far carriera e gli toglie il riconoscimento che altrimenti non gli mancherebbe con assoluta certezza. Ho parlato di questa faccenda solo in generale, sarà lui stesso che presenterà a lor signori le sue rimostranze.” Karl con queste parole si era rivolto a tutti perché di fatto tutti ascoltavano e sembrava assai probabile che tra tutti ci fosse una persona giusta, come che questa persona giusta fosse precisamente il cassiere capo. Con sagacia Karl aveva taciuto inoltre sul fatto principale, che lui conosceva il fochista da così poco tempo. Del resto avrebbe parlato anche meglio, e parecchio, se non fosse

stato messo in imbarazzo dal rossore sul viso del signore con il bastone di bambù, che vedeva per la prima volta dalla posizione di ora. “E’ tutto vero, parola per parola”, disse il fochista, prima che qualcuno glielo domandasse, e prima che si fosse data un’occhiata dalla sua parte. La precipitazione del fochista sarebbe stata un grave errore se il signore con le decorazioni, che, a mo’ di rivelazione per Karl, comunque era il capitano, non fosse già interiormente propenso ad ascoltare il fochista: alzò una mano e gridò al fochista, con una voce così ferma che si sarebbe potuto prenderla a martellate: “Venite qui!”. Ora tutto dipendeva dalla condotta del fochista, visto che Karl non dubitava della legittimità della faccenda che lo riguardava. Per fortuna in questo caso il fochista si rivelò un vero uomo di mondo. Dalla sua valigetta prese con calma esemplare ed al primo colpo un piccolo fascio di documenti, nonché un taccuino, con i quali andò verso il capitano come fosse cosa scontata e nella totale indifferenza nei confronti del cassiere capo, e sciorinò sul davanzale la sua documentazione. Al cassiere capo toccò di scomodarsi. “Si tratta di un noto seccatore”, disse a mo’ di spiegazione, “sta più alla cassa che in sala macchine. Ha portato alla totale disperazione Schubal, che è una persona tranquilla. State a sentire, una buona volta!”, e si voltò verso il fochista, “Voi esagerate davvero con la vostra invadenza. Quante volte siete stato cacciato via dall’ufficio paga, e quanto ve lo siete meritato con le vostre pretese del tutto prive di fondamento! Quante volte siete venuto di corsa da lì alla cassa generale! Quante volte vi si è detto con le buone che Schubal è vostro diretto superiore e che solo con lui, in quanto dipendente, dovete mettervi d’accordo! E ora venite addirittura qui nel momento in cui è presente il capitano, non vi vergognate

neppure d’importunare lui, mentre allo stesso tempo avete l’ardire di portare come competente portavoce delle vostre calunnie questo poppante, che tanto per cominciare io vedo sulla nave per la prima volta!” Karl dominò il balzo che voleva fare. Tuttavia già c’era il capitano, a dire: “Però ascoltiamo anche lui, una buona volta. Lo Schubal veramente col tempo mi diventa troppo indipendente, non è però che con ciò io voglia dire alcunché in vostro favore.” Questo riguardava il fochista, naturalmente non significava che il capitano potesse adoperarsi subito in suo favore, ma tutto pareva avviarsi bene. Il fochista iniziò la sua spiegazione, e si dominò subito bene, quando dette allo Schubal il titolo di “signore”. Quanto ne fu felice Karl, stando alla scrivania lasciata dal cassiere capo, dove continuava a spinger giù, per puro divertimento, il piatto di una bilancia per la corrispondenza. – Il signor Schubal non è giusto! Il signor Schubal favorisce gli stranieri! Il signor Schubal buttò fuori il fochista dalla sala macchine e gli fece pulire la latrina, cosa che non era di certo compito suo! In un caso venne messa in dubbio perfino la capacità del signor Schubal, più apparente che sostanziale. Da dove si trovava, Karl teneva d’occhio intensamente e premurosamente il capitano, come se fosse suo collega, perché non si facesse influenzare negativamente dal modo di esprimersi un po’ maldestro del fochista. Il fatto era che i tanti discorsi non portavano a niente di concreto, e tanto il capitano continuava a guardare davanti a sé risoluto ad ascoltare il fochista fino in fondo, stavolta, quanto invece gli altri signori si spazientivano, e la voce del fochista non dominava più in modo assoluto, lì, come diverse cose facevano temere. Dapprima il signore in abiti civili mise in azione il suo bastone di bambù, picchiettando leggermente, è vero, sul parquet. Gli altri signori com’è naturale

facevano vagare il loro sguardo, i signori dell’autorità portuale, che avevano molta fretta, ripresero i documenti e cominciarono, anche se un po’ distrattamente, ad esaminarli, l’ufficiale si tirò il tavolo più vicino, e il cassiere capo, che riteneva di aver partita vinta, emise un profondo ironico sospiro. Sembrava esente dalla distrazione in tutti nascente solo il cameriere, che condivideva una parte delle pene del poveruomo finito in mezzo ai potenti, e fece un cenno a Karl, come per spiegargli qualcosa. Nel frattempo la vita del porto, oltre le finestre, continuava; passò una piatta nave da carico con sopra una montagna di botti che dovevano essere sistemate meravigliosamente, per non rotolare giù, e quasi oscurò la stanza; piccoli battelli a motore, che ora Karl, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe potuto osservare con piacere, filavano frattanto rumoreggiando guidati dalle mani convulse di un uomo che stava ritto al timone; strani galleggianti qua e là, indipendentemente, emergevano nell’acqua agitata, di nuovo venivano sommersi e sprofondavano, una meraviglia a guardarli; battelli appartenenti a piroscafi oceanici procedevano spinti con ardore e sforzo da rematori, pieni di passeggeri seduti come stipati dentro, silenziosi e colmi di aspettativa, per quanto alcuni di loro non potessero smettere di girarsi a guardare il mutevole scenario. Un movimento infinito, un’agitazione, trasmessi dall’acqua inquieta alle persone inermi ed alle loro opere! Ma tutto quanto era una esortazione alla fretta, alla chiarezza, alle descrizioni assolutamente precise; e invece che cosa faceva il fochista? Parlava, ma sudando, non riusciva più a trattenere a lungo nelle sue mani tremolanti le carte aperte davanti alla finestra, dai quattro punti cardinali gli si liberavano lamentele su Schubal delle quali, secondo lui, ognuna da sola sarebbe bastata a seppellire completamente Schubal, tuttavia quel che lui poteva

esibire al capitano era solo un minestrone nel suo complesso scombinato. Da un bel po’ il signore con il bastone di bambù fischiettava sommesso in direzione del soffitto, i signori dell’autorità portuale già trattenevano l’ufficiale al loro tavolo e non avevano intenzione di mollarlo di nuovo, il cassiere capo era manifestamente impedito solo dalla calma del capitano dall’intromettersi, il cameriere, sull’attenti, da un momento all’altro aspettava un ordine del suo capitano in merito al fochista. Karl non poteva più restare senza far niente. Così si mosse lento verso di loro, e soltanto nell’andare valutò in modo tanto più veloce come avrebbe potuto prendere in pugno la cosa nel modo possibilmente più abile. Era il tempo massimo, ancora un attimo e loro due potevano molto semplicemente essere cacciati dall’ufficio. Il capitano poteva essere un brav’uomo e per giunta in questo momento avere, come sembrò a Karl, qualche particolare ragione per dimostrarsi un superiore giusto, ma in definitiva non era mica uno strumento che si potesse continuare a suonare senza fine – e il fochista lo trattava esattamente in questo modo, anche se con la sconfinata indignazione del suo animo. Dunque Karl disse al fochista:”Voi dovete raccontare l’essenziale con più chiarezza, il signor capitano può non apprezzare come voi glielo raccontate. Come fa poi a conoscere tutti i macchinisti e i galoppini di nome o magari di cognome, da sapere di chi si tratta se voi fate uno di questi nomi? Mettete le vostre rimostranze in ordine, dite le cose più importanti per prime posponendo le altre, infatti forse non sarà più necessario anche soltanto menzionarne la maggior parte. A me avete sempre fatto una così buona descrizione!” Se in America è lecito rubare le

valige, si possono dire anche un po’ di bugie, pensò per giustificarsi. Fosse servito!

Magari era troppo tardi? Certo, il fochista

s’interruppe subito, quando udì la nota voce, ma i suoi occhi tutti velati dalle lacrime per l’offesa al senso dell’onore di un uomo, per i ricordi orribili, per la difficoltà presente, non potevano già più riconoscere bene neppure Karl. Come poteva – Karl se ne rese conto tacendo di fronte a quello che ora taceva - come poteva inoltre cambiare ora il suo modo di parlare, infatti gli sembrava come se quel che c’era da dire fosse stato già esposto senza il più piccolo riconoscimento, senza che lui avesse d’altra parte detto quasi niente

e senza

che potesse pretendere che i signori riascoltassero tutto un’altra volta.

E in un momento simile ecco Karl, il suo unico difensore,

a dar buoni consigli, invece dimostrandogli che tutto, tutto è perduto. “Mi fossi mosso prima, invece di guardar fuori dalla finestra”, si disse Karl, chinò il viso davanti al fochista e si batté con le mani aperte la cucitura dei pantaloni, segnalandogli la fine di ogni speranza. Tuttavia il fochista equivocò il gesto, intuì probabilmente certi nascosti rimproveri per i suoi atti e, con la buona intenzione di dissuaderlo, dette inizio a una disputa con Karl proprio ora che i signori al tavolo rotondo da parecchio tempo erano indignati per l’inutile confusione che disturbava il loro fondamentale lavoro, che il cassiere capo trovava a poco a poco incomprensibile la pazienza del capitano, che il cameriere, tutto di nuovo nella sfera dei suoi padroni, misurava il fochista con sguardi feroci, e infine ora che il signore con il bastone di bambù, guardato dal capitano di tanto in tanto perfino con simpatia, fattosi già del tutto indifferente al fochista, in fin dei conti disgustato, estratto

un piccolo taccuino e chiaramente preso da tutt’altro, stava spostando gli occhi tra Karl e il taccuino. “Certo, certo, lo so”, disse Karl, che stentava a respingere la scarica diretta contro di lui dal fochista, nonostante che gli restasse ancora, con ogni sforzo, un sorriso amichevole per lui, “avete ragione, ragione, certo non l’ho messo in dubbio.” Gli avrebbe volentieri fermato le mani che gesticolavano per timore di esserne colpito, meglio ancora del resto lo avrebbe spinto in un angolo per sussurrargli due parole tranquillizzanti che nessuno avrebbe dovuto udire. Ma il fochista era fuori di sé. Karl ora cominciò addirittura a trovare una sorta di consolazione pensando che il fochista all’occorrenza potesse aver la meglio, con la forza della disperazione, su tutti i sette uomini presenti. Per quanto vicino alla scrivania si trovasse, bastava darci un’occhiata per capirlo, un’alzata con una quantità di pulsanti elettrici, e la semplice pressione di una mano potesse chiamare alla rivolta l’intera nave con tutti i suoi corridoi pieni di nemici. A quel punto il signore con il bastone di bambù, pur così disinteressato, si avvicinò a Karl e a voce non troppo alta, ma udibile al di sopra di tutte le grida del fochista, domandò: “E qual’è il vostro nome, precisamente?” Bussarono, come se qualcuno avesse aspettato alla porta quest’uscita. Il cameriere si volse verso il capitano, questi annuì. Il cameriere andò ad aprire. Fuori c’era un uomo che indossava una vecchia giacca da cacciatore alla Franz Joseph **, di statura media, di aspetto non propriamente da macchinista, e tuttavia lo era – Schubal. Se Karl non l’avesse riconosciuto in tutti gli occhi, che esprimevano una certa soddisfazione di cui non mancava neppure il capitano, sarebbe stato costretto a capirlo dall’allarme del fochista, che a braccia irrigidite strinse i pugni come se tale stretta fosse per lui la cosa più importante nella vita, cui era pronto a sacrificare

tutto. Lì era racchiusa tutta la sua forza, ora, anche quella che lo manteneva, essenzialmente, in piedi. E dunque ecco l’antagonista, vispo e in vacanza, in abiti festivi, con sottobraccio un libro contabile, probabilmente il ruolino paga e la posizione lavorativa del fochista, e studiò gli occhi di ciascuno, ammettendo tranquillamente che voleva appurarne lo stato d’animo. I sette del resto erano già tutti dalla sua parte poiché, per quanto il capitano avesse usato contro di lui un certo argomento, o forse soltanto avesse finto, dopo la pena causatagli dal fochista, non gli sembrò probabilmente da biasimare neppure la minima cosa, in Schubal. Contro un uomo come il fochista non era possibile procedere con sufficiente severità, e se c’era qualcosa da rimproverare allo Schubal era che lui non fosse riuscito a spezzare nel corso del tempo la riottosità del fochista, al punto che costui oggi aveva osato comparire davanti al capitano. Che il confronto tra il fochista e Schubal non avrebbe mancato di fare il suo effetto, confacente davanti a un tribunale più elevato, neanche davanti ai sette uomini, si poteva ora anche ammettere, forse sì, infatti, se Schubal poteva fingere bene, tuttavia era costretto a non poter mantenere la finzione fino in fondo. Un rapido balenare della sua malvagità poteva bastare a renderla evidente ai signori, perciò Karl volle provvedere subito. Conosceva, per quanto relativamente, l’acume, le debolezze, gli umori dei singoli signori, e da questo punto di vista il tempo trascorso qui non era perduto. Se solo il fochista avesse fatto meglio la sua parte, e invece questi pareva del tutto incapace. Se gli si fosse dato lo Schubal, avrebbe potuto ben sfondargli il cranio a pugni. Ma già a due passi da lui era appena capace di farglisi sotto. Perché Karl non aveva previsto quel che era facile da prevedere, che Schubal alla fine dovesse venire, se non

spontaneamente, chiamato invece dal capitano? Perché nel venire qui insieme al fochista non aveva discusso un piano di battaglia all’altezza, invece di arrivare a una porta nient’altro che disperatamente impreparato, come in realtà avevano fatto? Soprattutto, poteva il fochista parlare ancora, dire dei sì e dei no come durante l’interrogatorio, del resto incombente solo nel più favorevole dei casi, sarebbe stato necessario? Stava lì, a gambe larghe, le ginocchia malsicure, la testa appena sollevata, e l’aria gli transitava nella bocca come non ci fossero più polmoni che l’assimilassero. Karl tuttavia si sentiva così forte e in possesso delle sue facoltà mentali come mai forse era avvenuto a casa. Se i suoi genitori avessero potuto vedere come difendeva il bene, lui, in terra straniera e davanti ad personaggi stimati, e se ancora non l’aveva fatto trionfare, tuttavia si preparava in modo perfetto alla definitiva vittoria! Avrebbero riconsiderato la loro opinione su di lui? L’avrebbero ripreso tra loro ed elogiato? Una volta, una buona volta, l’avrebbero guardato negli occhi tanto devoti? Domande difficili da porre, e al momento tra le meno adatte! “Sono qui perché ritengo che il fochista mi accusi di qualche disonestà. Una ragazza della cucina mi ha detto che l’avrebbe visto venir qui. Signor capitano e lor signori tutti, sono pronto a confutare ogni accusa sulla base delle mie carte, all’occorrenza per mezzo di deposizioni imparziali e testimoni non influenzati, che sono qui alla porta.” Così parlò Schubal. Era il discorso chiaro di un uomo, e dal cambiamento delle espressioni di coloro che ascoltavano si sarebbe potuto credere che udissero per la prima volta dopo lungo tempo di nuovo suoni umani. Non si rendevano conto tuttavia che anche questi bei discorsi avevano un punto debole. Perché la prima parola decisiva a lui venuta in mente era “disonestà”? Forse l’accusa avrebbe dovuto

cominciare da qui, invece che dai pregiudizi nazionali del fochista? Una ragazza in cucina aveva visto il fochista in cammino per l’ufficio e Schubal aveva capito subito? Non era la consapevolezza della colpa che gli acuiva la comprensione? E insieme aveva portato con sé testimoni detti inoltre imparziali e non influenzati? Furfanteria, nient’altro che furfanteria! E i signori la sopportavano e la riconoscevano come giusta condotta? Perché lui aveva fatto passare tanto tempo, com’era indubitabile, tra la comunicazione della ragazza della cucina e il suo arrivo qui? Con l’unico scopo di lasciare che il fochista seccasse i signori al punto che perdessero poco a poco la loro capacità di giudizio, quella che Schubal aveva temuto soprattutto. Sul momento non aveva bussato, lui che di sicuro era rimasto a lungo dietro la porta, perché sperava che in seguito a qualche domanda marginale di quei signori il fochista fosse rovinato? Tutto chiaro e, certo senza volere, esibito da Schubal, ma ai signori la cosa si doveva mostrare in altro modo, ancora più evidente. Avevano bisogno di essere svegliati. Dunque Karl approfittò svelto, almeno ora, del tempo che restava prima che i testimoni comparissero e allagassero tutto! Invece proprio in quel momento il capitano fermò lo Schubal, che di conseguenza – poiché la sua pratica pareva per il momento rimandata – subito si fece da parte e insieme al cameriere, che gli si era aggregato, cominciò a parlare sottovoce non senza occhiate laterali e accenni delle mani in direzione del fochista e di Karl. Così Schubal pareva far le prove del suo prossimo gran discorso. “Non volevate domandare qualcosa al giovane, signor Jakob?” disse il capitano nel silenzio generale, rivolto al signore con il bastone di bambù.

“Ma certo”, disse costui, ringraziando con una certa grazia della premura. E domandò di nuovo a Karl: “Com’è che vi chiamate, precisamente?” Karl, che riteneva fosse nell’interesse della faccenda principale sbrigare alla svelta questo inciampo provocato dalla reiterata domanda, rispose brevemente, senza presentarsi com’era sua abitudine esibendo il passaporto che avrebbe prima dovuto cercare: “Karl Rossmann.” “Ma”, rispose colui al quale ci si era rivolti con il nome Jakob, indietreggiando quasi incredulo e sorridendo. Anche il capitano, il cassiere capo, l’ufficiale, certo, perfino il cameriere mostrarono chiaramente uno smisurato stupore, al nome di Karl. Solo i signori dell’autorità portuale e Schubal si mantennero indifferenti. “Ma”, ripeté il signor Jakob avvicinandosi rigido a Karl, “allora sì, io sono tuo zio Jakob, e tu sei il mio caro nipote. Ho continuato a presentirlo per tutto il tempo !” disse al capitano, prima di abbracciare e baciare Karl, che lasciò fare senza una parola. “Voi come vi chiamate?” domandò dopo che si sentì liberato, certo pieno di speranza, ma del tutto impassibile, e si sforzò di considerare le conseguenze che la novità avrebbe potuto avere per il fochista. Per il momento nulla gli indicava che Schubal potesse trarre vantaggi da questa faccenda. “Certo capite la vostra fortuna, giovanotto”, disse il capitano, che riteneva ferita, dalla domanda di Karl, la dignità personale del signor Jakob, che si era spostato alla finestra per non far vedere agli altri l’emozione dipinta sul suo viso, cui appoggiava a colpetti leggeri un fazzoletto. “E’ il senatore Edward Jakob, che si è fatto riconoscere da voi come vostro zio. Vi attende oramai, certo contro le speranze avute da voi finora, una splendida

carriera. Cercate di rendervene conto, già ora vi va benone, e comportatevi come si deve!” “Ho senza dubbio in America uno zio Jakob”, disse Karl rivolto al capitano, “ma se ho capito bene, Jakob è il cognome del signor senatore.” “Esatto”, disse il capitano, in preda alla tensione. “Ora, mio zio Jakob, che è il fratello di mia madre, si chiama Jakob di nome, mentre il suo cognome dovrebbe essere com’è naturale lo stesso di mia madre, che è nata Bendelmayer.” “Signori miei!” esclamò il senatore ritornando dal luogo dove si era calmato, divertito dalla spiegazione di Karl. Tutti, tranne i funzionari portuali, si misero a ridere, chi commosso, chi impenetrabile. “Di certo quel che ho detto non era affatto da ridere”, pensò Karl. “Signori miei”, riprese il senatore, “loro partecipano, contro la mia e contro la loro volontà, ad una scenetta famigliare, ed io non posso far a meno di dar loro una spiegazione, in quanto che, come ritengo, soltanto il capitano” – menzione che ebbe come conseguenza un inchino reciproco – sa tutto.” “Ora devo stare attento ad ogni parola”, si disse Karl compiacendosi, a una sua occhiata di lato, del ritorno della vita sul volto del fochista. “Vivo, dopo tutti i lunghi anni di soggiorno americano – la parola soggiorno del resto non è adatta al cittadino americano che con tutta l’anima sono – dopo tutti i lunghi anni vivo dunque completamente distaccato dai miei parenti europei per motivi per prima cosa ora fuori luogo e per seconda cosa troppo complessi da raccontare. Addirittura ho timore del momento in cui sarò costretto a riferirli al mio caro nipote, quando purtroppo

sarà inevitabile un discorso senza veli sui suoi genitori e i loro parenti.” “E’ mio zio, non c’è dubbio”, si disse Karl e stette a sentire, “probabilmente si è fatto cambiare il nome.” “Il mio caro nipote dunque è stato – diciamola, la parola che descrive adeguatamente la cosa – buttato fuori come si butta fuori dalla porta un gatto che dà noia. Non è che io voglia mascherare quel che mio nipote ha fatto, e che sia stato punito, ma la sua colpa è di tal genere che soltanto a nominarla contiene una certa giustificazione.” “Su questo si può discutere”, pensò Karl, “ma io non voglio che lo racconti a tutti. Del resto forse non lo sa. Come fa a saperlo?” “In altri termini”, riprese lo zio, e flettendo il bastone di bambù che aveva puntato davanti a sé sul pavimento di fatto riuscì ad alleggerire l’inutile gravità che il discorso avrebbe altrimenti senza dubbio avuto, “in altri termini lui è stato traviato da una ragazza di servizio, Johanna Brummer, una persona di trentacinque anni. Con il termine “traviato” non è che io voglia offendere mio nipote, ma certo è difficile trovarne un altro che si adatti altrettanto bene.” Karl, che già si era avvicinato allo zio, ora si girò per cogliere l’impressione che faceva il racconto sulle facce dei presenti. Nessuno rideva, tutti ascoltavano pazienti e seri. In definitiva non si ride mica sul nipote di un senatore così come capita, alla prima occasione. Piuttosto si sarebbe detto che il fochista, anche se appena, sorridesse a Karl, cosa che tanto per cominciare faceva piacere come ulteriore segno di vitalità, e poi era comprensibile, perché Karl, nella cabina, su questa faccenda ora divenuta così pubblica, aveva voluto mantenere una particolare segretezza.

“Ora”, continuò lo zio, “Questa Brummer ha avuto da mio nipote un bambino, un maschio sano battezzato con il nome Jakob, senza dubbio in riferimento alla mia modesta persona che, seppure nelle menzioni di assolutamente secondaria importanza fatte da mio nipote, deve aver fatto una grande impressione alla ragazza. Felicemente, dico io. In seguito i genitori, per evitarsi le spese di mantenimento oppure lo scontato scandalo incombente – ignoro, come devo sottolineare, sia le leggi di laggiù, sia le normali relazioni sociali dei genitori - e per evitare al loro figliolo, al mio caro nipote, le spese di sostentamento e lo scandalo, l’hanno fatto trasferire in America con il bagaglio irresponsabile e insufficiente che si vede, in questo modo il ragazzo, senza il prodigio ed il miracolo che ancora sopravvivono in America, abbandonato a se stesso sarebbe già andato in malora in un vicoletto del porto di New York, se quella ragazza di servizio, in una lettera pervenutami dopo lunghe peregrinazioni l’altro ieri non mi avesse comunicato l’intera storia insieme alla descrizione di mio nipote e, giudiziosamente, all’indicazione del nome della nave. Se intendessi intrattenervi, miei signori, potrei leggerne ad alta voce” – estrasse di tasca due enormi fogli da lettera riempiti fittamente di scrittura e li sventolò – “qualche passo. Farebbe sicura impressione perché è scritta con una certa quale ingenua scaltrezza, ma sempre benevola, e con molto amore per il padre del bambino. Ma io non voglio intrattenervi più di quanto serve a una spiegazione, né forse ad una eventuale approvazione, né ferire gli effettivi sentimenti di mio nipote, che se vuole può leggerla per ammaestramento nel silenzio della stanza che già lo attende.” Karl tuttavia non provava alcun sentimento per quella ragazza. In un passato che si accumulava sempre di più all’indietro, lei stava seduta in cucina vicino alla credenza, sulla cui lastra

teneva appoggiati i gomiti. Se lui entrava qualche volta, per un bicchiere d’acqua da portare a suo padre o per riferire un ordine di sua madre, lei lo guardava. Capitava che scrivesse una lettera in quella scomoda posizione di fianco alla credenza e cercasse ispirazione dal viso di Karl. Capitava che si coprisse gli occhi con le mani e che nessuna parola rivoltale la toccasse. Capitava che s’inginocchiasse nella sua angusta stanzetta e pregasse davanti ad una croce di legno; e Karl passando l’osservava timido dallo spiraglio della porta appena aperta. Capitava che girasse veloce nella cucina e indietreggiasse, ridendo come una strega, se Karl le veniva tra i piedi. Capitava che chiudesse la porta della cucina, se Karl era entrato, e tenesse la maniglia stretta con la mano fino a quando Karl non chiedeva di andar via. Capitava che prendesse qualcosa che lui non voleva e gliela premesse nelle mani. Ma una volta lei disse “Karl” e, tra smorfie e sospiri, lo portò, stupito dell’inatteso invito, nella sua stanzetta, che chiuse a chiave. Gli avvinse il collo e, mentre lo pregava di spogliarla, di fatto lo spogliò lei, lo sdraiò sul letto come se da quel momento lo volesse tutto per sé, per accarezzarlo e per dedicarsi a lui fino alla fine del mondo. “Karl, oh tu, Karl!” gridò, come se vedendolo trovasse confermato il suo possesso, mentre lui non vedeva niente e si sentiva a disagio tra tutte quelle coperte che lei pareva aver accumulato apposta per lui. Poi si stese anche lei, sopra di lui, e volle sapere qualche segreto, ma lui non aveva alcun segreto da dire, allora lei per scherzo o sul serio si arrabbiò, lo scosse, gli ascoltò il cuore, gli offrì il seno per indurlo a far lo stesso, ma senza riuscirci, calcò il suo ventre nudo sul suo corpo, disgustosamente tentò con una mano sulla testa e il collo di Karl di farsi baciare tra le gambe, urtò poi diverse volte il ventre contro di lui – era come un animale, forse per questo a lui era venuto un bisogno spaventoso di aiuto. Da

ultimo lui se ne andò piangendo, dopo molti voti da lei espressi di rivedersi nel suo letto. Tutto qui, eppure lo zio intendeva farne una gran storia. E la cuoca aveva seguitato a pensare a lui, informando lo zio del suo arrivo. La cosa era bell’e fatta, e lui una volta l’avrebbe ricambiata. “Ed ora”, esclamò il senatore, “voglio sentire con chiarezza da te se io sono o non sono tuo zio.” “Sei mio zio”, disse Karl e gli baciò la mano, baciato da lui sulla fronte. “Sono molto felice di averti incontrato, ma ti sbagli se credi che i miei genitori parlino soltanto male di te. Anche a prescindere da questo, tuttavia, il tuo discorso contiene degli errori, voglio dire che la cosa non è successa così, in realtà. Certo, non puoi giudicare i fatti così bene da qui, ed io credo inoltre che non sia particolarmente dannoso se i signori sono stati informati un po’ erroneamente nei dettagli di qualcosa che, del resto, non può molto importar loro.” “Belle parole”, disse il senatore, guidò Karl al cospetto del capitano, visibilmente partecipe, e domandò:”Non ho un nipote formidabile?” “Sono felice”, disse il capitano inchinandosi, dato che loro agivano soltanto come gente addestrata militarmente, “vostro nipote, signor senatore, ho imparato a conoscerlo. Per la mia nave è un onore speciale aver potuto dar luogo ad una simile riunione. Ma il viaggio nell’interponte è stato veramente pessimo, e lì chi può mai sapere chi portiamo. Ora, noi facciamo tutto il possibile per facilitare il viaggio alle persone dell’interponte, molto di più per esempio delle linee americane, ma ancora non siamo riusciti sempre a fare di un simile viaggio un piacere.” “Non mi ha procurato danni”, disse Karl.

“Non gli ha procurato danni!”, ripeté a voce alta il senatore, con un sorriso. “Solo, ho paura di aver perso la mia valigia – “ e con questo lui si rammentò di tutto quel che era successo e di che cosa ancora restava da fare, si guardò intorno e riconobbe tutti i presenti, nel posto che occupavano prima, gli occhi su di lui, in silenziosa attenzione. Soltanto nei funzionari portuali si notava, per quanto le loro facce severe e sicure di sé consentissero di farsi un’idea, il rincrescimento per essere venuti in un’ora così inopportuna, e l’orologio da tasca che avevano appoggiato davanti a sé probabilmente per loro era più importante di tutto quello che accadeva e forse ancora poteva accadere nella stanza. Il primo che dopo il capitano espresse la sua partecipazione fu, notevolmente, il fochista. “Auguri di cuore a loro”, disse, e strinse la mano a Karl, con cui intendeva anche qualcosa come l’espressione di un elogio. Poiché intendeva rivolgersi con le stesse parole anche al senatore, costui arretrò, come se il fochista con ciò oltrepassasse i suoi diritti; il fochista rinunciò subito. I restanti capirono ora quel che bisognava fare, e dettero luogo ad uno scompiglio intorno a Karl ed al senatore. Dunque accadde che Karl ebbe le congratulazioni di Schubal, che accettò ringraziando. Ultimi, nella ritornante calma, si fecero avanti i funzionari portuali e dissero due parole in inglese, ciò che fece un’impressione bizzarra. Il senatore era del tutto nella disposizione di spirito giusta per assaporare fino in fondo il piacere, e per ricordare a sé e agli altri momenti d’importanza secondaria, ciò che naturalmente tutti permisero ed anzi accettarono con interesse. Così dunque lui richiamò l’attenzione sul fatto che aveva preso appunti, sul suo taccuino, sui segni caratteristici di Karl menzionati nella

lettera della cuoca, allo scopo di farne l’uso necessario al momento opportuno. Ora, durante le insopportabili chiacchiere del fochista, aveva estratto il taccuino unicamente per distrarsi, e aveva provato a collegare, per esempio con l’aspetto di Karl, le osservazioni della cuoca, naturalmente non abbastanza valide dal punto di vista di un detective. “E così si trova il proprio nipote!”, concluse, come nel tono di chi volesse ancora una volta ricevere congratulazioni. “Che cosa succede ora al fochista?”, domandò Karl, dopo l’ultimo racconto dello zio. Nella sua nuova posizione credeva di poter dire tutto quel che pensava. “Al fochista succederà quello che merita”, disse il senatore, “e quel che il capitano ritiene. Noi ne abbiamo abbastanza e più che abbastanza del fochista, io credo, ognuno dei signori presenti certo sarà d’accordo.” “Questo non conta per una faccenda di giustizia”, disse Karl. Si trovava tra lo zio e il capitano, e credeva, forse influenzato da tale posizione, di avere in mano il verdetto. E nonostante questo, sembrava che il fochista per sé non sperasse più nulla. Teneva le mani infilate a metà nella cintura dei pantaloni che era salita, a forza di movimenti agitati, insieme alle righe di cui la sua camicia era decorata ***. Non gliene importava niente; aveva sfogato tutte le sue pene, ora era lecito vedere anche i suoi stracci, e poi si poteva portarlo via. Il cameriere e Schubal, i due qui di rango più basso, dovevano tributargli quest’ultima gentilezza, si immaginava lui. E poi Schubal avrebbe avuto la sua calma e non sarebbe caduto più nella disperazione, per usare le parole del cassiere capo. Il capitano avrebbe potuto appoggiare il rumeno in modo migliore, si sarebbe parlata soprattutto la lingua rumena, e magari poi davvero tutto sarebbe andato meglio. Nessun fochista avrebbe

più blaterato alla cassa principale, soltanto le sue ultime ciance sarebbero rimaste come un ricordo alquanto benigno, perché avevano dato il via indiretto, come il senatore aveva dichiarato espressamente, al riconoscimento del nipote. Questo nipote, prima, aveva d’altra parte ripetutamente provato a giovargli e, in conseguenza della sua funzione ai fini del riconoscimento, ancor prima aveva reso grazie più che sufficienti; al fochista forse ora non veniva di pretendere ancora qualcosa da lui. Del resto poteva anche essere il nipote del senatore, non era ancora il capitano, ma dalla bocca del capitano da ultimo sarebbe venuta la parola negativa. – Come se ciò esprimesse la sua opinione, il fochista non tentò neppure di guardare verso Karl, ma sfortunatamente in questa stanza dell’avversario non rimaneva nessun luogo dove riposare gli occhi. “Non fraintendere la situazione”, disse il senatore a Karl, “si tratta forse di una faccenda di giustizia, ma nello stesso modo di una faccenda disciplinare. Entrambe e in modo del tutto peculiare la seconda qui dipendono dal giudizio del capitano.” “E’ così”, mormorò il fochista. Chi se ne accorse e capì, sorrise meravigliato. “Comunque, a prescindere da questo, abbiamo talmente intralciato il capitano nelle sue funzioni, che stanno accumulandosi incredibilmente dopo l’arrivo a New York, che per noi è davvero l’ora di lasciare la nave allo scopo di non trasformare, con una qualche nostra sommamente inutile intromissione, come se non bastasse, quest’insignificante litigio tra macchinisti in un evento. Io caro nipote comprendo il tuo modo d’agire, del resto perfetto, ma ciò mi dà appunto il diritto di condurti via in fretta da qui.” “Farò subito approntare il battello per voi”, disse il capitano senza sollevare anche soltanto la più piccola obbiezione, con

stupore da parte di Karl, alle parole dello zio, che pure potevano essere considerate un’ indubbia auto mortificazione da parte sua. Il cassiere capo corse precipitoso alla scrivania e telefonò al pilota l’ordine del capitano. “Il tempo ha iniziato a incalzare”, si disse Karl, “ma non posso far nulla senza offendere tutti. Non posso lasciare lo zio, dopo che mi ha appena ritrovato. Il capitano è certo cortese, ma questo è tutto. La sua cortesia fa parte della disciplina, e lo zio ha sicuramente reso il suo pensiero. Con Schubal non voglio parlare, mi provoca addirittura della pena, avergli dato la mano. E tutti gli altri sono scorie.” E lentamente, con pensieri del genere, si avvicinò al fochista, gli estrasse la mano da sotto la cintura e la tenne nella sua, giocandoci .”Perché non dici niente?”, domandò. “Perché ti fai andar bene tutto?”. Il fochista corrugò la fronte, solo questo, come se cercasse l’espressione giusta per ciò che aveva da dire. E guardò in basso, la sua mano e la mano di Karl. “Ti è andata storta certo come a nessuno sulla nave, lo so esattamente.” E Karl infilò le sue dita tra le dita del fochista, che volse con occhi luccicanti lo sguardo in giro, come se gli stesse toccando una delizia che nessuno però avrebbe potuto prender male. “Tu devi resistere, assentire e negare, altrimenti la gente non ha nessuna idea della verità. Devi promettermi che mi asseconderai, dopo io, ho molti motivi per temerlo, non potrò più aiutarti.” E ora Karl piangeva mentre baciava la mano del fochista, la prese, screpolata, quasi senza vita, e se la calcò sulla guancia come un tesoro cui si deve rinunciare. – Ma era già lì accanto lo zio senatore a tiralo via, per quanto con la forza più lieve.

“Sembra che il fochista ti abbia ammaliato”, disse, e dette uno sguardo d’intesa, al di sopra della testa di Karl, al capitano. “Tu ti sei sentito perso, hai trovato il fochista, ed ora gli sei riconoscente, ciò è senz’altro molto lodevole. Ma non spingerti oltre, per amor mio, ed impara a capacitarti della tua posizione.” Al di là della porta si levò un chiasso, si udirono grida, era addirittura come se qualcuno ci fosse brutalmente sbattuto sopra. Entrò un poco cialtronesco un marinaio, e aveva legato addosso un grembiule da ragazza. “Fuori c’è gente”, gridò, e sgomitò come se stesse ancora nella ressa. Infine rientrò in sé e volle fare il saluto al cospetto del capitano, allora si occorse del grembiule, se lo strappò via, lo buttò sul pavimento ed esclamò: “E’ proprio uno schifo, m’han legato addosso un grembiule da ragazza.” Ma poi batté i talloni insieme e salutò. Qualcuno provò a ridere, ma il capitano disse severo: “Questo io lo definisco buon umore. Allora, chi c’è fuori?” “Sono i miei testimoni”, disse Schubal venendo avanti, “chiedo umilmente scusa per la loro condotta sconveniente. Quando la gente si lascia alle spalle la traversata, qualche volta diventa come indemoniata.” “Chiamateli qui immediatamente!” ordinò il capitano e rivolgendosi al senatore disse cortesemente ma in fretta:”Abbiate la bontà, egregio signor senatore, di seguire insieme al vostro signor nipote questo marinaio, che vi condurrà fino al battello. Non ho certo bisogno di dire quale piacere e quale onore ha generato in me la mia personale conoscenza con voi, signor senatore. Mi auguro solo di avere presto occasione di poter riprendere una volta, signor senatore, la nostra conversazione interrotta sullo stato della flotta americana, e poi forse di nuovo di essere interrotto così piacevolmente.”

“Per il momento mi è sufficiente quest’unico nipote”, disse ridendo lo zio. “Ed ora abbiate il mio migliore ringraziamento per la vostra amabilità, e addio. Non sarebbe d’altronde così impossibile che noi,” – strinse a sé con affetto Karl – “nel nostro prossimo viaggio in Europa, potessimo forse incontrarci con voi.” “Mi farebbe sinceramente piacere”, disse il capitano. I due signori si strinsero reciprocamente la mano, Karl poté soltanto in silenzio e di sfuggita porgere la mano al capitano, poiché costui era già occupato con le forse quindici persone che, sotto la direzione di Schubal, certo un po’ confuse, tuttavia molto chiassose, facevano il loro ingresso. Il marinaio pregò il senatore di poter uscire e divise la calca per lui e Karl, che con facilità passarono tra le persone che s’inchinavano. Pareva che costoro, del resto bonari, prendessero la lite di Schubal con il fochista per uno scherzo la cui assurdità non finiva neppure al cospetto del capitano. Karl notò tra loro anche la ragazza della cucina, Line, che facendogli l’occhiolino allegramente, si riannodò il grembiule buttato dal marinaio. Seguendo il marinaio lasciarono l’ufficio e svoltarono in un piccolo corridoio che, dopo pochi passi, portava ad una porticina dalla quale per una breve scala si arrivava al battello che era pronto per loro. I marinai sul battello dentro il quale saltò il pilota, si alzarono e salutarono. Il senatore era intento ad esortare Karl a scendere con cautela, quando Karl, ancora sul gradino più in alto si mise a piangere forte. Il senatore pose la mano destra sotto il mento di Karl, lo strinse solidamente a sé e con la sinistra lo accarezzò. Così scesero piano un gradino dopo l’altro ed entrarono allacciati nel battello, dove il senatore subito scelse per Karl un buon posto davanti a sé. Ad un segnale del senatore i marinai presero lo slancio dalla nave e si misero al lavoro insieme. Non appena furono distanti pochi metri dalla

nave, Karl fece l’inattesa scoperta che si trovavano proprio da quel lato dove davano le finestre della cassa principale. Tutte e tre le finestre erano occupate dai testimoni di Schubal, che salutavano amichevolmente e facevano cenni, perfino lo zio ringraziò, ed un marinaio eseguì il numero di mandar su un bacio con la mano senza interrompere l’uniforme remata. Era davvero come se non ci fosse più alcun fochista. Karl strinse lo zio e con le ginocchia quasi toccò le sue, osservandolo con maggior attenzione, e dubitò che quest’uomo potesse mai prendere per lui il posto del fochista. Invero lo zio evitò le sue occhiate, e guardò le onde che deviavano il loro battello. *Non la fiaccola. ** Kaiserrock. L’imperatore aveva lanciato quindi una moda. *** La circostanza si rende comprensibile facendo riferimento al fatto che i pantaloni, com’era uso anche da noi fino a non molti decenni or sono, non disponevano dei passanti per la cintura, che dunque poteva scivolare in alto dando magari adito a scorci di biancheria. N.B. “Il fochista” costituisce il primo capitolo del romanzo “Lo scomparso” (o “America”)

Davanti alla legge. Davanti alla legge si trova un guardiano. Un campagnolo chiede di essere ammesso al cospetto della legge, ma il guardiano gli dice che adesso non può concedergli l’ammissione. Il campagnolo ci pensa, e poi chiede se, di conseguenza, potrà entrare più tardi. “Forse”, fa il guardiano,”ma non adesso”. Dato che il portone della legge è aperto come sempre e il guardiano traccheggia da una parte, il campagnolo tenta di guardare dentro. Non appena il guardiano se ne accorge, ride e fa:”Se vuoi, provaci, ad entrare nonostante il mio divieto; ma attento: io sono un’autorità, pur essendo solo il guardiano di grado minimo. Da una sala all’altra troveresti guardiani sempre più influenti. Già la vista del terzo per me è insostenibile per più di una volta.” Il campagnolo è impreparato a una simile difficoltà, eppure la legge dovrebbe essere sempre accessibile a tutti, pensa, tuttavia, non appena guarda bene il guardiano con quel soprabito di pelliccia, con quel po'po' di naso, con quella lunga barba da tartaro, cambia opinione: meglio aspettare il permesso, per entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo lascia sedere da una parte. Giorni e anni il campagnolo resta lì seduto, fa molti tentativi di venir ammesso, disturbando così con le sue suppliche il guardiano. Costui quasi sempre gli dà un po’ di spago, gli chiede del paese e di molte altre cose, ma sono domande piene d’indifferenza, come le fanno i gran signori, e in definitiva gli ripete che ancora non può farlo entrare. Il campagnolo, che in vista del suo viaggio si è ben rifornito, impiega tutto quel che ha, valori inclusi, allo scopo di ungere il guardiano. Costui accetta tutto, ma ciò nonostante dice: “Accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.” Il campagnolo lo tiene d’occhio ininterrottamente per

molti anni. Dimentica gli altri guardiani, e questo primo gli appare come l’unico ostacolo al suo ingresso al cospetto della legge. Maledice il suo caso infelice, nei primi anni a voce alta e senza riguardi, più tardi, invecchiando, bofonchia tra sé e sé. Diventa puerile, e poiché durante lo studio del guardiano, anni e anni, ne ha individuato anche le pulci della pelliccia, prega perfino le pulci di aiutarlo a far cambiare opinione al guardiano. Da ultimo la vista gli s’indebolisce, e non si rende conto se è buio o se ad ingannarlo sono i suoi occhi. Ma ora riconosce bene nell’oscurità un luccichio ininterrotto che proviene dalla porta della legge. E’ alla fine. Prima di morire nella sua testa tutte le esperienze di tutto il tempo trascorso si aggrumano in una domanda fin qui mai posta al guardiano. Gli fa un cenno, dato che non riesce più a sollevare il suo corpo irrigidito. Il guardiano è costretto ad abbassarsi parecchio verso di lui, infatti la differenza di statura è cambiata molto a sfavore del campagnolo. “Che cosa vuoi sapere ancora?”, domanda, “sei insaziabile”. “Tutti anelano alla legge”, dice il campagnolo, “e allora com’è che in tanti anni nessuno ha chiesto il permesso di entrare, all’infuori di me?” Il guardiano capisce che il campagnolo è alla fine, e per toccarne l’udito morente gli grida: “Qui nessun altro poteva avere il permesso, perché quest’ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo.” N.B. “Davanti alla legge” fa parte del romanzo “Il processo”.

Il maestro di villaggio. Coloro che come me trovano ripugnante perfino una talpa piccola, sarebbero morti di ripugnanza, probabilmente, se avessero visto la talpa gigantesca osservata anni or sono nei pressi di un villaggio, che per questa ragione ha raggiunto una certa effimera notorietà. Oggi del resto già da tempo è nuovamente caduto nell’oblio e partecipa con ciò soltanto all’oscurità dell’intero fatto, rimasto del tutto inesplicabile, che tuttavia ci si è sforzati poco di spiegare e che, a seguito di un’incomprensibile negligenza di alcuni circoli che avrebbero dovuto occuparsene, e che si occupano con effettiva concentrazione di molte cose insignificanti, è stato dimenticato senza ricerche ulteriori. Non se ne riesce a trovare alcuna giustificazione con l’argomento che il villaggio dista molto dalla ferrovia, molta gente venne per curiosità da lontano, perfino dall’estero, soltanto coloro che avrebbero dovuto mostrare qualcosa in più della curiosità non vennero. Certo, se non si fosse curata dell’evento la gente semplice del tutto in solitudine, la gente il cui lavoro quotidiano le permetteva appena di respirare, se non se ne fosse curata in modo disinteressato, la fama del fatto avrebbe a mala pena varcato il circondario immediato. Si deve aggiungere che la fama, altrimenti inarrestabile, in questo caso fu francamente lenta, se non la si fosse addirittura promossa non si sarebbe propagata. Tuttavia anche questo non costituiva davvero una ragione per non occuparsi dell’evento, al contrario, anche questo fatto avrebbe dovuto essere studiato meglio. Invece se ne lasciò l’unica cura scritta al vecchio maestro del villaggio, certo nel suo ufficio un uomo notevole, ma di una capacità ed insieme di una preparazione che gli rendevano poco possibile produrre

un’approfondita ed in seguito utilizzabile descrizione, ed ancor meno poi una spiegazione. Lo scrittarello fu stampato e numerosamente venduto ai visitatori di allora, ebbe anche qualche riconoscimento, ma il maestro era abbastanza saggio da rendersi conto che le sue isolate fatiche senza alcun sostegno erano in fondo inutili. Se lui nonostante ciò non desistette e rese l’evento, nonostante che esso per sua natura, anno dopo anno, divenisse sempre più senza speranza, il compito della sua vita, ciò prova quanto grande era l’effetto che l’evento era in grado di fare e d’altra parte quanta perseveranza e fedeltà alle proprie convinzioni si possono trovare in un vecchio ignorato maestro di villaggio. Che lui tuttavia abbia molto sofferto a causa degli atteggiamenti di rifiuto delle personalità dotate d’influenza, lo prova una postilla che lui aggiunse al suo scritto, del resto la prima dopo diversi anni, cioè in un’epoca nella quale giusto qualcuno poteva ricordarsi di che cosa si fosse trattato. In tale postilla egli protesta persuasivamente, forse non da storico, ma con schiettezza, per l’incomprensione che gli è toccata da parte della gente, laddove se ne sarebbe dovuta aspettare di meno. Di tale gente egli dice, in modo giusto: “Non sono io, ma loro, a parlare come fanno i vecchi maestri di villaggio.” E tra le altre cita l’osservazione di uno scienziato, da cui si è recato appositamente per la sua cosa. Il nome dello scienziato è omesso, ma da svariate circostanze si può indovinare di chi si tratti. Dopo che il maestro aveva superato grandi difficoltà per ottenere d’essere ricevuto dallo scienziato, cui si era annunciato con settimane d’anticipo, già dal saluto d’accoglienza notò che lo scienziato era, riguardo all’evento, preda di un invincibile pregiudizio. Con quale distrazione lo scienziato stette a sentire il lungo resoconto del maestro, fatto sulla base del suo scritto, si manifestò nell’osservazione che costui fece dopo aver simulato

alcune riflessioni. “Certo ci sono svariate talpe, piccole e grandi. Nella vostra regione il terreno è particolarmente duro e scuro. Orbene, esso per questa ragione fornisce alle talpe un’alimentazione particolarmente grassa, e queste diventano grandi in modo insolito.” “Certo, ma mica grandi così”, esclamò il maestro, e misurò, con il suo accanimento un po' eccessivo, due metri dalla parete.”Sì, sì”, rispose lo scienziato, cui l’intera faccenda pareva evidentemente molto spassosa, “perché no, in fondo?” Il maestro tornò a casa con questa risposta. Racconta come di sera, sotto una nevicata, lungo la strada provinciale sua moglie e i suoi sei figli l’avessero atteso, e come lui dovette confessar loro il fallimento completo delle sue speranze. Quando lessi del contegno tenuto dallo scienziato nei confronti del maestro, non conoscevo ancora per niente il suo scritto. Ma senza indugio presi la decisione sia di raccogliere sia di confrontare tutto quel che potevo apprendere sul caso. Poiché non potevo misurare un pugno in faccia allo scienziato, almeno il mio scritto doveva difendere il maestro, o, per dir meglio, non tanto il maestro quanto le buone intenzioni di un uomo onesto ma privo di autorità. Lo ammetto, mi pentii presto di tale decisione, dato che alla svelta mi resi conto che la sua messa in atto doveva portarmi in una strana posizione. Da un lato anche la mia influenza era largamente insufficiente a portare gli scienziati e anche solo l’opinione pubblica dalla parte del maestro, dall’altro il maestro doveva capire che a me il suo proposito principale, dimostrare l’apparizione della grande talpa, premeva meno della difesa della sua onestà, che a lui sembrava del resto ovvia e non bisognosa di alcuna difesa. Si doveva arrivare dunque al punto che io, che pure intendevo unirmi al maestro, non trovai da lui alcuna comprensione, probabilmente invece, per giovargli, mi sarebbe servito un aiutante diverso, era

davvero incredibile il contegno del maestro. Oltre a ciò mi addossai, con la mia decisione, una gran fatica. Avevo intenzione di essere convincente, dunque non potevo richiamarmi al maestro, che certo non era riuscito ad esserlo. La conoscenza del suo scritto mi avrebbe soltanto fuorviato, ed evitai perciò di leggerlo prima di eseguire il mio proprio lavoro. Certo, non entrai neppure una volta in contatto con il maestro. Tuttavia tramite intermediari lui venne a sapere delle mie ricerche, ma ignorava se lavoravo con o contro la sua idea. Certo, sospettava quest’ultima possibilità, per quanto lo negasse, ma ho la prova che lui mi ha messo nel frattempo diversi ostacoli sulla via. Poteva farlo molto facilmente, perché ero costretto, certo, a ricominciare tutte le ricerche che lui aveva già condotto, e per questo lui poteva sempre precedermi. Tale obbiezione era tuttavia l’unica che a ragione si poteva fare al mio metodo, obbiezione del resto inevitabile, che però, certo, per mezzo della cautela e della dissimulazione delle mie conclusioni, poteva molto essere indebolita. A parte ciò, tuttavia, il mio scritto era libero da ogni influsso del maestro, forse su questo punto avevo dato prova perfino di troppa meticolosità, era davvero come se nessuno avesse finora studiato il caso, come fossi il primo che interrogasse i testimoni che avevano visto e quelli che avevano sentito dire, il primo che confrontasse tra loro le dichiarazioni, il primo che traesse conclusioni. Quando, successivamente, lessi lo scritto del maestro – aveva un titolo assai prolisso: Una talpa così grande come ancora nessuno l’ha vista - di fatto trovai che noi su punti essenziali non concordavamo, anche se entrambi credevamo di aver provato la cosa principale, cioè l’esistenza della talpa. Quelle divergenze certo erano singole, ma ostacolarono la nascita di un rapporto amichevole con il maestro quale io in verità mi ero aspettato. Da parte sua si sviluppò quasi

dell’ostilità. Restò certo sempre misurato e ossequioso con me, ma il suo stato d’animo autentico si poteva notare tanto più distintamente. Era dell’opinione che io avessi danneggiato lui e danneggiato completamente la cosa, e che la mia fiducia di aver giovato o di poter giovare ad essa fosse nel caso migliore dabbenaggine, ma verosimilmente presunzione o perfidia. Per prima cosa indicava a tal proposito che tutti i suoi oppositori finora non avevano mostrato apertamente la loro avversione, ma solo a quattr’occhi o almeno solo a parole, mentre io avevo ritenuto necessario far pesare subito tutte le mie critiche. Che inoltre i pochi oppositori che si erano occupati sul serio dell’evento, anche se solo superficialmente, avevano ascoltato, prima di pronunciarsi, la sua opinione, l’opinione del maestro, cioè quella nella fattispecie decisiva, che io invece avevo prodotto risultati sulla base di testimonianze raccolte in modo non sistematico e in parte interpretate male, essenzialmente esatti, ma che dovevano certo sembrare, tanto alla massa quanto alle persone istruite, inattendibili. Ma la più tenue apparenza d’inattendibilità era il peggio che in questo caso poteva darsi. In merito a tali obbiezioni, quand’anche copertamente avanzate, avrei potuto rispondergli facilmente – per esempio che proprio il suo scritto rappresentava il vertice dell’inattendibilità – ma meno facile tuttavia era combattere un suo ulteriore sospetto, e questa era la ragione per cui in fondo mi contenevo molto nei suoi confronti. Egli, cioè, credeva segretamente che io avessi voluto togliergli la gloria di essere il primo patrocinatore pubblico della talpa. Ora, certo la sua persona non era toccata quasi da nessuna gloria, ma piuttosto dal ridicolo, del resto limitato ad una sempre più ristretta cerchia ed al quale io certo non desideravo aspirare. Inoltre avevo spiegato con chiarezza, nell’introduzione al mio scritto,

che il maestro doveva per sempre essere considerato lo scopritore della talpa – e tuttavia neppur lo era - e che soltanto il senso di partecipazione alla sorte del maestro mi aveva spinto alla stesura dello scritto. “Il fine di questo scritto” – così concludevo in modo troppo patetico, ma corrispondente alla mia passione di allora – “è di giovare alla meritata diffusione dello scritto del maestro. Ciò ottenuto, il mio nome, che è intrecciato alla presente vicenda in modo solo transitorio ed esterno, deve senza indugio essere da essa cancellato.” In questo modo respingevo apertamente ogni maggior partecipazione alla cosa; era quasi come se avessi in qualche modo presentito l’incredibile rimprovero del maestro. Ciò nonostante lui trovò in questa presa di posizione il pretesto contro di me, e non nego che una traccia di giustificazione, in quel che disse o forse accennò, era insita, così come mi accorsi, soprattutto in certi casi, che lui sotto alcuni aspetti mostrava nei miei confronti più acume che non nel suo scritto. Affermava cioè che la mia introduzione era ipocrita. Se veramente tenevo alla diffusione del suo scritto, perché non mi occupavo esclusivamente di lui e del suo scritto, perché non indicavo la sua priorità, la sua inconfutabilità, perché non mi limitavo a mettere in rilievo l’importanza della scoperta ed a renderla comprensibile, perché insistevo molto di più sulla scoperta e trascuravo completamente il libro? Non era già stata fatta, la scoperta? Restava forse, stando a tale sospetto, ancora qualcosa da fare? Ma, se io veramente ritenevo che la scoperta fosse da fare di nuovo, perché nell’introduzione mi dichiaravo così solennemente svincolato dalla scoperta? Ciò avrebbe potuto essere ipocrita modestia, ma era alquanto irritante. Mettevo fuori corso la scoperta, richiamavo su di essa l’attenzione soltanto per annientarne il senso, l’avevo esaminata ed accantonata, forse intorno a quest’evento si era fatto un po’ più

silenzio, ora facevo di nuovo del chiasso, ma nello stesso tempo rendevo la situazione del maestro più difficile di quel che era mai stata. Al maestro premeva soltanto quel che significava per lui la difesa della reputazione dell’evento, solo di quello. Tuttavia io lo tradivo perché non lo capivo, perché non ne davo la giusta valutazione, perché non ero sensibile ad esso. Superava altissimo il mio intelletto. Sedeva davanti a me e mi guardava calmo con la sua vecchia faccia rugosa, ma la sua opinione era unicamente questa. Per altro non era esatto che gli premesse solo l’evento, egli era addirittura famelico di onori e desiderava anche guadagnare del denaro, ciò che, in considerazione della sua numerosa famiglia, era comprensibilissimo, eppure il mio interesse all’evento, in confronto al suo, gli sembrava così piccolo, che credeva di poter passare per disinteressato senza dire una menzogna troppo grande. In realtà non bastava neppure intimamente a soddisfarmi dirmi che i suoi rimproveri, in fondo, risalivano al fatto che lui per così dire aveva toccato con mano la sua talpa e voleva che chiunque le si avvicinasse anche solo con un dito fosse definito traditore. Non era così, la sua condotta non era spiegabile facendo riferimento all’avarizia, almeno non solo all’avarizia, ma più facilmente facendo riferimento alla rabbia che le sue grandi fatiche prive di qualsiasi successo avevano suscitato in lui. Ma neppure la rabbia spiegava tutto. Forse il mio interesse all’evento era davvero troppo scarso, il disinteresse del mondo esterno nei confronti del maestro era già un’abitudine per lui, che nel complesso soffriva meno, e non soffriva più di pene particolari, tuttavia a questo punto aveva trovato uno che s’interessava all’evento in modo non comune, eppure non lo capiva. Una volta, messo alle corde in tal senso, non volli negare. Non sono mica uno zoologo, forse me ne sarei dato l’aria, preso dall'entusiasmo, se avessi fatto la

scoperta, ma non ho fatto la scoperta. Una talpa così enorme è certo una curiosità, ma non si può pretendere l’attenzione ininterrotta del mondo intero sulla talpa, specie se la sua esistenza non è del tutto ineccepibilmente accertata e non è comunque esibibile. E garantii inoltre che mai, anche nel caso che ne fossi stato lo scopritore, mi sarei tanto impegnato in merito alla talpa quanto volontariamente m’impegnavo di buon grado per il maestro. Ora, il disaccordo tra me e il maestro forse si sarebbe risolto presto se il mio scritto avesse avuto successo. Ma tale successo stava mancando. Forse non era buono, non era redatto in modo abbastanza persuasivo, io sono un commerciante, la stesura di uno scritto del genere eccede il mio settore abituale più estesamente di quanto non fosse nel caso del maestro, nonostante che io fossi superiore a lui in ogni conoscenza necessaria a tal fine. L’insuccesso poteva spiegarsi anche diversamente, il momento dell’uscita forse era sfavorevole. La scoperta della talpa, incapace di imporsi, da un lato non era così lontana nel tempo da esser del tutto dimenticata e dunque riproponibile con il mio scritto come straordinaria, dall’altro era trascorso abbastanza tempo da esaurire completamente quel po’ d’interesse che c’era stato all’inizio. Coloro che, d’altronde, si accostarono al mio scritto, si dissero,con lo sconforto già da anni dominante in questa discussione, che ora le vane fatiche su questa noioso evento obbligatoriamente sarebbero riprese un’altra volta, e alcuni addirittura confusero il mio scritto con quello del maestro. In un importante periodico di economia agraria si leggeva la seguente nota, per fortuna stampata in piccoli caratteri e in fondo: “Ci è stato inviato di nuovo lo scritto sulla talpa gigante. Ce ne ricordiamo, già una volta anni or sono ne abbiamo riso di cuore. Da allora non è divenuto più

ragionevole, né noi più stupidi. Semplicemente, non riusciamo a riderne per la seconda volta. Piuttosto domandiamo alle nostre associazioni d’insegnanti se un maestro di villaggio non possa trovare un’occupazione più utile che non quella di andare a caccia di talpe giganti.” Un’imperdonabile confusione! Non si era letto né il primo né il secondo scritto, e le due insufficienti parole colte in fretta, talpa gigante e maestro di villaggio, a quei signori bastarono allo scopo di manifestarsi come sostitute di un interesse vero. Altrimenti varie cose si sarebbero potuto tentare con successo, ma la scarsità d’informazione me ne tenne lontano alla pari del maestro. Tentai bensì di tenergli nascosto il periodico per quel che potevo. Lui tuttavia lo scoprì ben presto, lo capii già da un’osservazione contenuta in una sua lettera con cui mi prospettava la sua visita durante le vacanze natalizie. Scriveva: “Il mondo è malvagio e ladro”, dove voleva dire che io sono una parte del mondo malvagio, ma non mi accontento della cattiveria insita in me, invece rubo al mondo, cioè sono indaffarato a carpire la cattiveria generale ed a procacciarle la vittoria. Ora, io avevo già preso le necessarie decisioni, potevo tranquillamente aspettarlo e stare a vedere come veniva da me, lui salutò in modo meno cortese del solito, si sedette muto davanti a me, estrasse con cura il periodico dalla tasca interna della sua caratteristica giacca imbottita di bambagia e me lo spinse davanti senza parole, aperto. “Lo conosco”, dissi e respinsi il periodico senza leggere. “Lo conoscete”, disse lui sospirando, aveva l’abitudine dei vecchi maestri di ripetere le risposte altrui. “Naturalmente non l'accetterò senza difendermi”, continuò, picchiettò inquieto un dito sul periodico e mi guardò con aria severa, come se io fossi dell’opinione contraria; aveva il giusto presentimento di quel che volevo dire; ho ritenuto di far notare che lui, non tanto per quel che diceva,

quanto per altri segni, possedeva una sensibilità molto giusta in merito ai miei propositi, ma non le cedetti e la lasciai correre. Ecco che cosa dissi allora, posso riprodurlo quasi alla lettera perché l’ho annotato poco dopo il colloquio.”Fate quel che volete”, dissi, “da oggi le nostre strade si dividono. Credo che questo non vi risulti né inatteso né spiacevole. La nota qui sul periodico non è la causa della mia decisione, essa l’ha consolidata definitivamente. La vera ragione sta nel fatto che io all’inizio credevo, con la mia entrata in scena, di potervi giovare, mentre ora sono costretto a vedere che vi ho nociuto in ogni senso. Perché sia andata così, non lo so, le ragioni del successo e dell’insuccesso sono sempre ambigue da spiegare, non mi riferisco soltanto alle spiegazioni che mi accusano. Ricordatevi, anche voi avevate le migliori intenzioni e tuttavia vi è andata male, parlando in genere. Non sto scherzando, mi è ben avverso dire che anche il rapporto con me contribuisce al vostro insuccesso; che io ora mi ritiri non è né viltà né tradimento. Avviene perfino con sforzo; come stimi la vostra persona risulta già nel mio scritto, mi siete divenuto, da un certo punto di vista, maestro e perfino la talpa mi è divenuta cara. Nonostante questo mi faccio da parte, voi siete lo scopritore e, mentre desideravo impegnarmi anch’io, continuo ad impedirvi d’incontrare la probabile gloria, attiro l’insuccesso e ve lo trasmetto. Basta così. Per ammenda posso solo chiedervi perdono e, se volete, la confessione fatta qui la ricapitolo pubblicamente, per esempio, su questo periodico.” Queste furono allora le mie parole, non erano del tutto sincere, ma la sincerità era facilmente deducibile in esse. In lui ciò agì come più o meno avevo previsto. La maggior parte delle persone anziane hanno caratterialmente qualcosa d’ingannevole nei confronti dei giovani, qualcosa di falso, si continua a viver loro tranquillamente accanto, si ritiene

consolidato il rapporto, si conoscono le opinioni prevalenti, si ricevono continue attestazioni d’armonia, tutto si considera certo, e all’improvviso, quando avviene qualcosa di decisivo, mentre la serenità fin lì costruita doveva servire, queste persone anziane saltan su come estranee, hanno opinioni più nette, più impetuose, ora dispiegano la loro bandiera per la prima volta e vi si legge con sgomento il nuovo motto. Principalmente tutto questo sgomento deriva dal fatto che ciò che dicono ora gli anziani veramente è molto giustificato, sensato e, come se la certezza fosse aumentata, è anche più certo. La falsità ineguagliabile tuttavia è che quel che dicono ora essi in fondo lo hanno sempre detto, eppure non era in genere prevedibile. Dovevo aver approfondito molto questo maestro di villaggio, infatti ora non mi sorprese affatto. “Ragazzo”, disse, appoggiò la mano sulla mia e amichevolmente la strofinò, “come vi venne in mente di aver a che fare con questa cosa? Quando mi giunse all’orecchio la prima volta ne parlai con mia moglie.” Si spostò dal tavolo, allargò le braccia e guardò in basso, come se lì sotto, piccolissima, ci fosse la moglie: “ ‘Così tanti anni’, le dissi, ‘che combattiamo in solitudine, e ora invece sembra sopraggiunto in città un protettore di rango più elevato, un commerciante del posto, che si chiama così e così. Ora dovremmo essere assai felici, no? Un commerciante in città non vuol dire poco, se un miserabile contadino crede in noi e lo manifesta, questo non può giovarci, infatti quel che fa un contadino è sempre volgare, sia che dica che il vecchio insegnante del villaggio ha ragione, sia che sputi in modo sconveniente, entrambe le cose fanno lo stesso effetto. Se invece di un contadino insorgono diecimila contadini, l’effetto se possibile è ancora peggiore. Un commerciante in città è al contrario qualcosa di diverso, un uomo del genere ha delle relazioni, perfino quel che dice solo per

caso si diffonde in cerchie più larghe, nuovi protettori s’interessano all’evento, per esempio uno dice che anche da un maestro di villaggio si può imparare, ciò che il giorno dopo va mormorandosi una quantità di persone dalle quali, a giudicare dalle apparenze, mai si sarebbe supposto di dedurlo. Ora si trovano risorse in denaro per la cosa, uno raccoglie e gli altri gli contano il denaro in mano, si ritiene che il maestro del villaggio debba essere portato via di lì, si arriva, non ci si cura del suo aspetto, lo si prende con sé e, poiché la moglie e i figli dipendono da lui, si prendono anche loro. L’hai vista la gente di città? Cicalano senza tregua. Sono un'intera fila e il cicaleccio va da destra a sinistra e viceversa, e su e giù. Così ci issano cicalando in carrozza, c’è appena il tempo di far un cenno con il capo. Il signore a cassetta si sistema gli occhiali, brandisce la frusta e partiamo. Tutti fan cenni di saluto per congedarsi dal villaggio, come noi fossimo ancora lì e non sedessimo tra loro. Dalla città ci vengono incontro alcune carrozze di persone particolarmente impazienti. Appena ci avviciniamo si alzano dai loro sedili e si allungano per vederci. Colui che ha raccolto il denaro fa ordine ed esorta alla calma. Quando entriamo in città la fila delle carrozze è già lunga. Abbiamo ritenuto che i saluti fossero già terminati, ma ora davanti all’albergo riprendono. Nella città si riuniscono, come a un appello, molte persone. A ciò cui s’interessa l’uno, s’interessa anche l’altro. Si tolgono reciprocamente, con il respiro, le opinioni e le fanno proprie. Non tutte queste persone possono viaggiare in carrozza, aspettano davanti all’albergo. Altre possono, ma deliberatamente non lo fanno. Aspettano anche loro. E’ incredibile come colui che ha raccolto il denaro tenga sott'occhio tutti quanti.’ “ Lo avevo ascoltato tranquillamente e mi ero fatto sempre più tranquillo durante il suo discorso. Sul tavolo avevo accumulate

tutte le copie del mio scritto di cui disponevo. Ne mancavano solo pochissime, perché negli ultimi tempi per mezzo di una lettera circolare avevo chiesto e nella maggior parte ottenuto la restituzione di tutte le copie inviate. Da molte parti mi era stato scritto, del resto molto cortesemente, che non ci si ricordava affatto di aver ricevuto uno scritto come il mio e che sfortunatamente si doveva averlo perduto, se pure era arrivato. Anche così andava bene, in fondo non desideravo altro. Solo uno mi pregava di poter tenere lo scritto come curiosità e si impegnava, ai sensi della mia circolare, a non mostrarlo ad alcuno per i prossimi venti anni. Il maestro del villaggio ancora non aveva visto questa circolare, mi rallegrai che le sue parole mi rendessero tanto agevole mostrargliela. Ero in grado di farlo, o di non farlo, senza preoccupazione, dato che nel redigerla avevo usato molta cautela e mai avevo trascurato gl’interessi del maestro del villaggio e della sua cosa. Il tema centrale della circolare suonava cioè: “Non chiedo la restituzione perché mi sia in certo modo allontanato dalle opinioni sostenute nello scritto o perché in alcune parti le consideri erronee o anche solo indimostrabili. La mia richiesta ha ragioni solo personali, per quanto plausibili, essa non consente tuttavia, circa la mia posizione in merito all’evento, le minime illazioni, sono a pregarvi di prender nota particolare di questo e, se vi piace, anche di darne diffusione.” Questa circolare per il momento la tenni ancora coperta dalle mie mani e dissi: “Volete rimproverarmi perché non è andata così? Perché volete far ciò? Non amareggiamoci il distacco. E infine, provate a riconoscere che voi avete fatto una scoperta, certo, che però essa non supera tutto il resto e che, a causa di ciò, neanche l’ingiustizia che vi tocca è un’ingiustizia che supera tutte le altre. Non conosco le regole delle società scientifiche,

ma non credo che vi sarebbe stata predisposta un’accoglienza, anche nel caso più favorevole, solo approssimativamente paragonabile a quella che avete descritto alla vostra povera moglie. Se io stesso speravo qualcosa dallo scritto, credevo che magari potesse attirare sulla nostra cosa l’attenzione di un professore, il quale avrebbe incaricato un giovane studente di seguirla, che questo studente sarebbe venuto da voi e avrebbe controllato ancora una volta a modo suo le vostre e le mie ricerche, e che alla fine, se l’esito gli fosse sembrato degno di menzione, - qui va ricordato che tutti i giovani studenti dubitano molto -, avrebbe pubblicato un suo scritto nel quale ciò che voi avete riferito sarebbe stato scientificamente giustificato. Tuttavia, anche nel caso che tale speranza fosse soddisfatta, non molto sarebbe stato ancora ottenuto. Lo scritto dello studente che avesse giustificato un caso così particolare forse sarebbe stato ridicolizzato. Guardate qui per esempio nel periodico di economia agraria come ciò capiti facilmente, e i periodici scientifici sono da questo punto di vista ancora più spietati. E’ anche comprensibile, i professori hanno molte responsabilità nei confronti di se stessi, della scienza, delle generazioni future, non possono vantarsi ad ogni nuova scoperta. Noialtri siamo in confronto a loro in vantaggio. Ma io ci rinuncio e voglio ora ammettere che lo scritto dello studente si fosse imposto. Che cosa sarebbe successo, allora? Il vostro nome sarebbe stato fatto qualche volta con rispetto, probabilmente avrebbe giovato alla vostra posizione, si sarebbe detto: “I nostri maestri di villaggio non dormono mica”, e questo periodico di economia agraria avrebbe dovuto chiedere scusa, se i periodici avessero memoria e coscienza, si sarebbe trovato quindi anche un professore di buona volontà allo scopo di favi ottenere uno stipendio, è anche possibile che si sarebbe tentato di spostarvi

in città, di procurarvi un posto in una scuola elementare cittadina e di darvi occasione di utilizzare i sussidi scientifici che la città offre per la vostra ulteriore formazione. Se devo esser franco bisogna che dica che ciò si sarebbe soltanto tentato. Nel caso che voi foste chiamato, che voi foste anche venuto, e certo come postulante al pari delle centinaia che ce ne sono, senza tutta quell’accoglienza grandiosa, che si fosse parlato con voi, che si fosse riconosciuta la vostra ambizione, si sarebbe visto però allo stesso tempo che siete un uomo anziano, che a quest’età iniziare studi scientifici è inutile, che voi tanto per cominciare siete arrivato alla vostra scoperta più per caso che secondo un programma, e che, a parte questo caso particolare, non vi si prevede operativo un’altra volta. Per queste ragioni vi si sarebbe lasciato certamente nel villaggio. La vostra scoperta d’altra parte sarebbe stata portata avanti, perché non è così modesta da esser dimenticata, una volta riconosciuta. Ma voi non sareste venuto a saperne più molto, e ciò che avreste saputo l'avreste capito appena. Ad ogni scoperta tocca di essere incanalata nella totalità delle scienze e cessa per così dire di essere una scoperta, essa cresce nell’insieme e sparisce, è necessario possedere un occhio scientificamente educato per poi riconoscerla. Viene connessa a principi di cui noi non sappiamo niente, e, nel corso delle dispute scientifiche, sulla base di tali principi vien sollevata in alto fino alle nuvole. Vogliamo capirlo o no? Se udissimo una disputa del genere, crederemmo magari che sia in questione la scoperta della talpa, ma invece è in questione tutt’altra cosa.” “Bene”, disse il maestro del villaggio, prese la sua pipa e cominciò a riempirla del tabacco che portava con sé sciolto in tutte le tasche, “voi volontariamente vi siete preso cura dello spiacevole evento ed ora lo stesso volontariamente vi ritirate. E’

tutto assolutamente giusto.” “Non sono ostinato”, dissi io. “Trovate nella mia iniziativa forse qualcosa da criticare?” “No, niente affatto”, disse il maestro, e la sua pipa già sbuffava. Non ne sopportavo il puzzo e perciò mi alzai e mi mossi in giro. Già da precedenti conversazioni ero abituato al fatto che il maestro con me era assai di poche parole e che, però, una volta venuto, non intendeva andarsene. La cosa mi aveva colpito, talvolta, avevo sempre pensato, di conseguenza, che volesse qualcosa da me, e gli avevo offerto del denaro, che di regola lui accettava. Ma era sempre andato via quando gli era garbato. Abituale era quindi finir di fumare la pipa, girarsi sulla sedia, riaccostarla rispettosamente al tavolo, afferrare il bastone nodoso appoggiato da una parte, tendermi la mano con zelo, e andarsene. Oggi però il suo starsene lì seduto senza parole mi dava noia. Se una buona volta a uno si propone il congedo definitivo, come avevo fatto io, e tal congedo dall’altro è considerato del tutto giusto, e poi tuttavia si fa il poco che c’è da sbrigare insieme il più possibile alla svelta, non si opprime l’altro con la propria presenza silenziosa. Se da dietro si osservava come sedeva al mio tavolo il tenace vecchietto, si poteva credere che fosse assolutamente impossibile cacciarlo dalla stanza.

N.B. Quando usiamo la formula “maestro di villaggio” ci riferiamo al ruolo, per riferirci al personaggio usiamo invece la formula “maestro del villaggio”.

Un giovane studente ambizioso. Un giovane studente ambizioso che si era molto interessato al caso dei cavalli di Elberfeld * ed aveva accuratamente letto e meditato tutto ciò che sull’argomento era apparso sulla stampa, decise di avviare di propria iniziativa il tentativo in questa direzione e di affrontare la cosa fin da principio in modo tutto nuovo e a suo parere incomparabilmente più accurato dei suoi predecessori. A dire il vero i suoi mezzi economici non bastavano a rendergli fattibile in grande stile il tentativo, e nel caso che il primo cavallo che intendeva comprare per tale tentativo si mostrasse ostinato, ciò che può anche essere stabilito solo dopo settimane di faticosissimo lavoro, lo studente non avrebbe avuto, per un tempo piuttosto lungo, alcuna prospettiva di iniziare un nuovo tentativo. Tuttavia non se ne preoccupò troppo, perché con il suo metodo probabilmente poteva esser vinta ogni ostinazione. In ogni caso lui si portò avanti, in modo corrispondente alla sua indole, già con il calcolo delle spese che gli sarebbero toccate e con il metodo che avrebbe adottato, del tutto sistematicamente. Alla somma che gli occorreva per le strette necessità dello studio, fino a quel momento speditagli regolarmente ogni mese dai suoi genitori, poveri bottegai della provincia, a tal sostegno lui pensò di non rinunciare neppure in seguito, per quanto com’è ovvio lui dovesse abbandonare del tutto gli studi che i genitori seguivano a distanza con grandi speranze, se voleva conseguire gli attesi grandi risultati nel campo in cui ora sarebbe entrato. Che loro avessero comprensione per questi sforzi, o che magari lo incoraggiassero in tale direzione, era impensabile, lui doveva dunque tener loro segreti i suoi propositi, per quanto fosse doloroso, e mantenerli nella convinzione che lui stesse procedendo con regolarità nello

studio seguito fino a quel momento. Quest’impostura ai danni dei genitori era solo uno dei sacrifici che lui aveva intenzione di imporsi per il bene della cosa. Il contributo dei genitori non poteva bastare alla copertura dei costi, prevedibilmente alti, che sarebbero stati necessari ai suoi sforzi. Lo studente perciò decise da ora d’impiegare in lezioni private la maggior parte della giornata, che fin lì era servita allo studio. La maggior parte della notte, tuttavia, doveva servire al lavoro vero e proprio. Lo studente scelse le ore notturne per l’addestramento dei cavalli non solo perché nel corso delle sue non propizie relazioni esterne era, per di più, impacciato, anche le nuove regole che lui aveva intenzione d’introdurre nell’addestramento dei cavalli lo rimandavano per vari motivi alla notte. Anche la più breve distrazione dalla vigilanza esercitata sul cavallo, secondo la sua opinione, comportava un danno irreparabile all’addestramento, perciò durante la notte lui era il più possibile sicuro. L’eccitabilità della persona e del cavallo, se durante la notte essi sono svegli e al lavoro, risulta catturata, nel suo piano si prevedeva esplicitamente. Non temeva, come altri esperti, la natura turbolenta dei cavalli, ne pretendeva di più, anzi aveva intenzione di generarla, certo non con la frusta, ma per mezzo della stimolazione causata dalla sua incessante presenza e dall’incessante addestramento. Sosteneva che nell’addestramento dei cavalli non era possibile avere alcun progresso isolato, i progressi isolati di cui si vantavano troppo, ultimamente, svariati dilettanti, non erano altro che prodotti dell’immaginazione dell’istruttore od invece il segnale chiarissimo che non stava affatto per sopraggiungere un progresso complessivo, ciò che era anche peggio. Lui stesso da null’altro desiderava astenersi di più che dal conseguimento di progressi isolati, la moderazione dei suoi predecessori, che

credevano, con il buon esito del calcolo dei piccoli passi, di aver già raggiunto qualcosa, gli pareva incomprensibile, in questo modo era come se nell'educazione ci si volesse impegnare ad inculcare nel bambino, cieco sordo ed insensibile se paragonato mondo umano, nient'altro che le tabelline. Era così completamente assurdo, gli errori degli altri istruttori di cavalli talvolta gli sembravano così spaventosamente netti che lui maturò dei sospetti perfino su se stesso, infatti era quasi impossibile che uno solo, per giunta inesperto, spinto unicamente da una sicurezza profonda e senz’altro indomabile, ma priva di verifiche, potesse aver ragione contro tutti gli intenditori. * Cittadina non lontana da Düsseldorf. Nei primi anni del Novecento un insegnante di matematica aveva addestrato un cavallo di nome Hans a risolvere calcoli. Hans passò poi ad un abitante di Elberfeld, che fece il tentativo con altri cavalli, muli, ponies eccetera .

Blumfeld, un scapolo in là con gli anni Blumfeld, uno scapolo in là con gli anni, una sera saliva nel suo appartamento, faticosa pena, infatti abitava al sesto piano. Durante la salita pensò, come spesso negli ultimi tempi, che era davvero una noia questa vita tutta solitaria, che ora avrebbe dovuto far le scale come in segreto, arrivare di sopra nella sua stanza vuota, dove ancora come in segreto avrebbe indossato la vestaglia, acceso la pipa, letto un po’ il periodico francese cui già da qualche anno era abbonato, sorseggiato un kirsch versato da lui stesso e alla fine, dopo una mezz’ora, sarebbe andato a letto non senza prima rimettere completamente in ordine lenzuola e coperte che la domestica, inaccessibile ad ogni indicazione, buttava lì secondo la luna. Una qualche compagnia che assistesse alle cose che lui faceva sarebbe stata assai benvenuta. Aveva già considerato l’ipotesi di prendersi un cagnolino. Un animale così è piacevole, grato di ogni cosa e fidato; un collega di Blumfeld ce l’ha, un cane così, che non fa amicizia con nessuno che non sia il suo padrone, non l’ha visto da pochi momenti eppure lo accoglie abbaiando forte per esprimere, è chiaro, la sua gioia di aver ritrovato questo suo straordinario benefattore. D’altra parte una cane presenta anche degli svantaggi. Anche se lo si tiene ben pulito, sporca la stanza. E’ assolutamente inevitabile, non si può, tutte le volte che entra nella stanza, fargli il bagno nell’acqua calda, anche la sua salute ne soffrirebbe. Ma Blumfeld non sopporta la sporcizia nella sua stanza, la cui nettezza per lui è come indispensabile, diverse volte alla settimana litiga con la domestica, su questo punto sfortunatamente non molto accurata. Dato che è dura d’orecchio, lui la tira per un braccio in quei posti della stanza sui quali ha qualcosa da ridire in fatto di pulizia. Con questo rigore

ha ottenuto che nella stanza l’ordine approssimativamente corrisponda al suo desiderio. Introducendovi un cane, è chiaro che invece Blumfeld porterebbe nella stanza volontariamente lo sporco fin qui con tanto scrupolo tenuto lontano. Le pulci, stabile compagnia dei cani, farebbero la loro comparsa. Una volta lì le pulci, tuttavia, per lui non remoto sarebbe il momento di lasciare la sua gradevole stanza al cane e di cercarne un’altra. Degli inconvenienti del cane la sporcizia era solo uno, però. I cani si ammalano anche, e tuttavia nessuno in realtà capisce le loro malattie. Quando poi questa bestia sta accucciata in un angolo o arranca, guaisce, tossicchia, inghiottisce male, la si avvolge con una coperta, le si soffia sul muso, la si smuove, le si dà il latte, in breve la si assiste nella speranza che si tratti di un malanno passeggero, com’è anche possibile, mentre invece può trattarsi di una malattia grave, ripugnante e contagiosa. E anche se il cane rimane sano, dopo però invecchia, non si è saputo decidere a dar via con tempestività il fedele animale, e poi viene il momento in cui uno osserva la sua propria vecchiaia nei lacrimosi occhi canini. Ci si deve poi tormentare, e perciò pagar care le gioie di una volta, con una bestia mezza cieca, debole di polmoni, quasi immobilizzata dal grasso. Blumfeld ora terrebbe volentieri un cane, nello stesso modo desidera tuttavia far le scale da solo per altri trenta anni, invece di essere seccato, più tardi, da un vecchio cane del tipo che, gemendo più forte di lui stesso, gli si trascina dietro di stanza in stanza. Blumfeld dunque resterà solo, è certo, non ha mica le brame d’una vecchia zitella che voglia aver vicino una creatura viva sottomessa da proteggere, con cui poter essere affettuosa, servizievole, bastandole allo scopo una gatta, un canarino o anche un pesciolino rosso. O che, in alternativa, sia allietata perfino dai fiori alla finestra. Al contrario Blumfeld desidera

soltanto una compagnia, un animale di cui non debba importargli molto, che non sia danneggiato da un’occasionale pedata, che all’occorrenza possa passare la notte anche in strada, che però, se Blumfeld vuole, sia ugualmente a sua disposizione abbaiando, saltando e leccandogli le mani. Blumfeld desidera qualcosa del genere, ma visto che non può averlo senza troppi svantaggi, come lui riconosce, allora ci rinuncia, eppure di tanto in tanto, in conformità con la sua fondamentale natura, lui ritorna, come per esempio stasera, agli stessi pensieri. Di sopra, quando davanti alla porta della sua stanza lui tira fuori di tasca la chiave, un rumore che viene dall’interno lo colpisce. Un rimbalzare strano, molto vivace, assai regolare. Dato che Blumfeld ha pensato proprio ai cani, il rumore gli ricorda quello che le zampe fanno quando alternandosi colpiscono il terreno. Ma le zampe non rimbalzano, non si tratta di zampe. Apre in fretta la porta e accende la luce elettrica. A quel che vede non era preparato. Certo è magia, due palline di celluloide, bianche a righe celesti, rimbalzano sul parquet una accanto all’altra, su e giù, quando l’una colpisce il pavimento l’altra sta in aria, ed instancabili seguitano il gioco. Una volta, al ginnasio, Blumfeld ha visto, durante un noto esperimento elettrico, saltare in modo simile delle sferette, ma queste sono in confronto grandi, saltano in una stanza vuota e nessun esperimento è in corso. Blumfeld si china per osservarle meglio. Non c’è dubbio che si tratti di comuni palle che verosimilmente ne contengono altre più piccole, quelle che producono il rumore sbatacchiante. Blumfeld stende la mano nell’aria per appurare che non siano appese ad un filo, no, si muovono del tutto autonomamente. Peccato che Blumfeld non sia un bambino piccolo, due palle di questo genere sarebbero state per lui una gioiosa sorpresa, mentre ora l’intera cosa gli fa un effetto sgradevole. Non è certo

senza importanza condurre, da ignorato scapolo, una vita unicamente segreta, ora qualcuno, non importa chi, scoperto il segreto, gli ha inviato queste due ridicole palle. Ne vuol catturare una, ma quelle arretrano davanti a lui e lo attirano nella stanza. „E’ veramente troppo stupido“, lui pensa, „correr dietro in questo modo alle palle“, si ferma e osserva come rimangono nello stesso punto, siccome l’inseguimento pare sospeso. „Cercherò di acchiapparle, però“, pensa ancora, e veloce si muove verso di loro. Che subito scappano, ma Blumfeld le sospinge allargando le gambe in un angolo e davanti ad una valigia riesce a catturarne una. Si tratta di una fredda pallina che gli si rigira in mano, evidentemente bramosa di svignarsela. E l’altra, come se vedesse il pericolo corso dalla compagna, balza più in alto di prima, allunga i salti fino a toccare la mano di Blumfeld. Vi urta contro sempre più rapidamente, cambia il punto di attacco, poi rimbalza ancora più in alto, visto che non riesce a ottenere nulla contro questa mano che racchiude l’altra palla, verosimilmente vuol raggiungere Blumfeld al volto. Lui potrebbe acchiappare anche questa ed imprigionarle da qualche parte, ma lì per lì gli sembra umiliante adottare un provvedimento simile contro due palline. Certo, è anche un passatempo possedere due palle di questo genere, presto si stancheranno quanto basta, rotoleranno sotto un armadio e staranno tranquille. Nonostante tale riflessione Blumfeld scaglia con una certa rabbia la palla in terra, è un portento che non si rompa il fragile, quasi trasparente, involucro di celluloide. Senza transizione le due palle riprendono i loro bassi salti reciprocamente sintonizzati. Tranquillo, Blumfeld si spoglia, sistema l’abito nell’armadio, ha sempre l’abitudine di controllare che la domestica abbia lasciato tutto in ordine. Una o due volte si guarda oltre la spalla in

direzione delle palle, che ora sembrano addirittura disinteressate ad incalzarlo, si trovano al suo seguito e dunque saltano appena. Blumfeld indossa la vestaglia e intende attraversare la stanza per prendere una delle pipe che si trovano appese al loro sostegno. Senza volere dà una calcagnata indietro, prima di voltarsi, ma le palle riescono ad evitarla e non ne vengono colpite. Quando poi va a prendere la pipa le palle lo seguono ancora, lui trascina le pantofole, compie passi irregolari, però ad ogni suo appoggio del piede le palle quasi senza pausa fanno seguire un battito, tengono il suo passo. Blumfeld si gira improvvisamente per vedere come reagiscono. Ma non appena lui si è voltato quelle descrivono un semicerchio e sono di nuovo dietro di lui; e la cosa si ripete ogni qual volta lui si gira. Come accompagnatrici subordinate tentano di evitare di soffermarsi al suo cospetto. Fin qui probabilmente hanno solo osato prefigurarsi di essere al suo servizio, ora lo hanno già iniziato. Finora Blumfeld ha sempre, quando eccezionalmente con le sue forze non è riuscito a dominare le situazioni, scelto il rimedio di far come se non si fosse accorto di nulla. Spesso ciò è stato utile e nella maggioranza dei casi ha prodotto dei miglioramenti. Anche stavolta si contiene così, sosta davanti al portapipe, labbra arricciate, sceglie una pipa, la riempie in modo particolarmente accurato tenendola dentro la borsa del tabacco già pronta, e senza badarci lascia che le palle rimbalzino dietro di lui. Fermo, esita ad andare al tavolo, udire il ritmo cadenzato dei balzi e dei suoi passi quasi lo affligge. Così rimane sul posto, senza motivo riempie a lungo la pipa e studia la distanza che lo separa dal tavolo. Tuttavia alla fine vince la sua debolezza e copre il percorso a passi così pesanti da non udire le palle.

Quando si siede, del resto, quelle saltano dietro il seggiolone di nuovo udibili come prima. Al di sopra del tavolo è fissata a portata di mano sulla parete una mensola su cui si trova, contornata da minuscoli bicchieri, la bottiglia del kirsch. Accanto, una pila di numeri del periodico francese. Ma invece di prendere quel che gli serve, Blumfeld siede tranquillo e guarda dentro il fornello della pipa non ancora accesa. E’ in agguato, ad un tratto del tutto improvvisamente il suo torpore cessa, e lui si gira con uno scossone insieme alla sedia. Ma anche le palle sono attente nello stesso modo, se non seguono d’istinto la legge che le governa, insieme alla giravolta di Blumfeld cambiano anch’esse di posto e gli si nascondono alle spalle. Dunque Blumfeld siede con la schiena voltata al tavolo, in mano la pipa fredda. Le palle saltano ora sotto il tavolo e si sentono appena, infatti lì c’è un tappeto. Grande vantaggio; ora il rumore è debolissimo, sordo, per udirlo ancora serve grande attenzione. Del resto Blumfeld è attentissimo e le ode con precisione. Ma solo ora, tra un attimo probabilmente non le sentirà più. Che possano rendersi così poco percepibili sopra il tappeto, sembra a Blumfeld una loro grande debolezza. Gli si metta sotto uno o anche meglio due tappeti, e quelle sono quasi impotenti. D’altra parte solo per un dato tempo, e inoltre la loro mera esistenza significa già un certo potere. Ora a Blumfeld servirebbe davvero un cane, perché un giovane animale impetuoso sarebbe adatto alle palle; e questo cane gli si rappresenta, come a zampate le insegue, le sloggia da dove si trovano, come le incalza in lungo e in largo ed alla fine le tiene tra i denti. E’ facile che Blumfeld in futuro se ne procuri uno. Ma intanto le palle hanno da temere soltanto Blumfeld, che ha una certa voglia di distruggerle, forse gli manca solo la forza di volontà. Torna la sera stanco dal lavoro ed ecco che, dove la

tranquillità è a sua disposizione, gli si prepara questa sorpresa. Ora per la prima volta sente veramente la stanchezza. Distruggerà certamente le palle nell’immediato futuro, per ora no, probabilmente domani, sarà la prima cosa. Se si guarda oggettivamente tutto quanto, le palle si comportano in modo abbastanza discreto. Per esempio potrebbero saltar fuori, apparire e di nuovo tornare al loro posto, oppure potrebbero saltare più in alto, per sbattere contro il piano del tavolo allo scopo di compensare l’azione smorzante del tappeto. Ma non lo fanno, non vogliono irritare Blumfeld, si limitano all’indispensabile, è chiaro. D’altra parte anche questo indispensabile è sufficiente a guastare a Blumfeld il piacere di stare al tavolo. Siede lì qualche minuto e già pensa che tra poco andrà a dormire. Uno dei motivi di ciò è anche che dove si trova non può fumare, infatti ha i fiammiferi sul tavolino da notte. Bisognerebbe prenderli, dunque, ma una volta presso il tavolo è molto meglio rimanere lì e coricarsi. A tale scopo ha anche un secondo fine, crede cioè che le palle nel loro cieco tentativo di tenersi sempre dietro di lui salteranno sul letto e che poi lui, coricandosi, le schiaccerà, volente o nolente. Respinge l’obbiezione che anche i resti delle palle in certo modo possano balzare. Anche l’inusitato deve avere dei limiti. Le palle integre balzano o non balzano, al contrario frammenti di palle non balzano mai, e neppure stavolta lo faranno. „Uffa!“, prorompe, reso quasi temerario da tale riflessione, e marcia di nuovo pesantemente verso il letto, dietro di lui le palle. La sua speranza pare avverarsi; quando si ferma apposta vicinissimo al letto una palla subito vi balza sopra. Ma avviene però l’inatteso, infatti l’altra palla si mette sotto il letto. Alla possibilità che le palle possano rimbalzare anche sotto il letto

Blumfeld non ha affatto pensato. Con quest’unica palla è furioso, pur se pensa che ciò è giusto, infatti rimbalzando sotto il letto la palla forse assolve ancora meglio della palla sul letto il suo compito. Ora tutto dipende da quale posto le palle si decidano a scegliere, infatti Blumfeld non crede che possoano agire a lungo separatamente. E difatti un attimo dopo anche la palla di sotto balza sul letto. „Ora le tengo“, pensa Blumfeld eccitato dalla gioia, e si strappa la vestaglia di dosso per buttarsi sul letto. Tuttavia già la medesima palla balza di nuovo sotto il letto. Smisuratamente deluso Blumfeld ha un vero crollo. La palla probabilmente si è solo guardata intorno e non le è piaciuto. Ora anche l’altra la segue e naturalmente resta di sotto, perché sotto è meglio. „Ora avrò per tutta la notte questo tamburellare“, pensa Blumfeld, stringe le labbra ed annuisce. Ignorando di fatto dove le palle possano far danno durante la notte, lui s’incupisce. Il suo sonno è ottimo, facilmente prevale sul rumore, quando è modesto. Per averne la totale certezza mette sotto il letto due tappeti, una questione d’esperienza. E’ come se avesse un cagnolino, cui volesse preparare un giaciglio morbido. E quasi che le le palle siano a loro volta stanche e assonnate, anche i loro balzi sono più bassi e più lenti di prima. Quando Blumfeld s’inginocchia davanti al letto e con la lampada da notte fa luce giù, crede che forse le palle resteranno posate sui tappeti, tanto debolmente ricadono, tanto lente rotolano poco oltre. Poi però si risollevano, ne hanno il dovere. Ma è facile che Blumfeld, se più avanti guarda sotto il letto, ci trovi ferme due innocue palle da bambini. Comunque pare che non possano reggere fino a domani con i rimbalzi, infatti quando Blumfeld è disteso a letto non le sente più. Si sforza di sentire qualcosa, chinato in fuori ascolta – niente. Tanta potenza i tappeti non l’hanno, ciò si spiega solo

con il fatto che le palle non saltano più, oppure non riescono a staccarsi quanto basta dai morbidi tappeti, e perciò hanno abbandonato provvisoriamente i balzi, ma è più probabile che non salteranno mai più. Blumfeld potrebbe alzarsi per vedere come stanno veramente le cose, ma nella sua soddisfazione per il fatto che alla fine c’è pace, preferisce star disteso, neppure con lo sguardo vuole toccare le palle che si sono placate. Rinuncia perfino volentieri a fumare, si gira sul fianco e si addormenta subito. Eppure non resta indisturbato; come d’altra parte sempre, il suo sonno è molto agitato, anche stavolta senza sogni. Innumerevole durante la notte lo spaventa l’illusione che qualcuno bussi alla porta. Sa con certezza che nessuno bussa, chi potrebbe bussare di notte alla sua porta di scapolo solitario? Nonostante che lo sappia con certezza, seguita a sussultare ed a guardare per un attimo verso la porta in preda all’eccitazione, a bocca aperta, gli occhi sbarrati, mentre a ciocche i capelli gli si scompigliano sulla fronte madida. Tenta di contare quante volte si sveglia, ma l’enormità che ne risulta lo tramortisce, e ricade nel sonno. Crede di sapere da dove proviene quel bussare, non è dalla porta che ha origine, ma da un posto totalmente diverso, tuttavia lui, nella confusione del sonno, non può ricordarsi dove si basino le sue supposizioni. Sa solo che numerosi minimi nauseanti colpi si accumulano prima di produrre il gran poderoso bussare. Sarebbe tuttavia disposto a sopportare l’intera nausea dei colpetti se riuscisse ad evitare il bussare, ma per qualche motivo il bussare ritarda e lui non può farci niente, il bussare non è immancabile. L’indomani lo desta quello della domestica, con un sospiro di sollievo lui saluta questo tranquillo bussare della cui impercettibilità si è sempre lagnato. E vuol già gridare „avanti“, quando sente anche un altro bussare vivace, per quanto debole,

ed apertamente bellicoso. Si tratta delle palle da sotto il letto. Si sono svegliate, han raccolto, contrariamente a lui, nuove energie durante la notte? „Subito“, esclama Blumfeld in direzione della domestica, si leva sul letto, ma con tanta cura da tenere le palle dietro di sé, salta sul pavimento sempre voltando loro la schiena, abbassa il capo e guarda – gli scapperebbe un’imprecazione. Come bambini che durante la notte respingano coperte fastidiose, le palle hanno spinto in fuori i tappeti da sotto il letto, a forza di piccole convulsioni durate l’intera notte, al punto che di nuovo sotto di loro il parquet è libero, e possono fare chiasso. „I tappeti a posto, avanti“, dice Blumfeld con una faccia cattiva. Subito, quando le palle, grazie ai tappeti, sono ridiventate silenziose, grida alla domestica di entrare. Mentre costei, una donna grassa, ottusa, che cammina sempre rigidamente eretta, sistema sul tavolo la colazione e fa quelle poche cose utili che servono, Blumfeld, per mantenere le palle nella loro posizione sotto il letto, vi rimane vicino immobile in vestaglia. Segue con lo sguardo la domestica per capire se lei nota qualcosa. Data la sua debolezza d’udito ciò è assai improbabile, e Blumfeld attribuisce alla sua propria sovreccitazione causata dal cattivo sonno se, invece, crede di vedere che la domestica fermarsi qua e là, trattenersi presso qualche mobile, e restare in ascolto con le sopracciglia alzate. Sarebbe lieto di riuscire ad indurre la domestica ad accelerare un po’ il suo lavoro, ma lei è quasi più lenta del solito. Meticolosamente si carica degli abiti e degli stivali di Blumfeld e se ne va in corridoio, resta fuori a lungo, di qua risuonano monotoni e intervallati i colpi con cui lei scuote gli abiti. E durante tutto questo tempo Blumfeld deve resistere, non può muoversi se non vuole attirare dietro di sé le palle da sotto il letto, è costretto a far freddare il caffè che lui beve tanto

volentieri il più caldo possibile, e non può far altro che fissare la tenda abbassata, dietro la cui finestra si sveglia opaco il giorno. Finalmente la domestica ha finito, augura il buon giorno e sta per andarsene. Ma prima di farlo definitivamente continua a stare sulla porta, muove un poco le labbra e osserva Blumfeld con lunghe occhiate. Blumfeld sta per chiedergliene conto, quando lei alla fine se ne va. In particolar modo Blumfeld vorrebbe spalancare la porta e gridarle dietro che razza di donna stupida, vecchia ed ottusa è. Quando però ci pensa, a che cosa di particolare lui abbia da obbiettarle contro, trova solo l’assurdità che lei senza dubbio non ha notato alcunché, ma voleva darsi l’aria di aver notato qualcosa. Come sono imbrogliati i suoi pensieri! E ciò solo a causa di una notte mal dormita! Al sonno cattivo trova solo la spiegazioncella di essere stato ieri sera allontanato dalle sue abitudini, non ha fumato né bevuto il liquore. „Quando non fumo e non bevo il liquore, dormo male“, questo il risultato della sua riflessione. Da ora in poi starà attento alla sua salute, comincia con il prendere dalla sua farmacia di casa appesa sopra il tavolino da notte l’ovatta e se ne preme due pallottoline nelle orecchie. Quindi si alza e fa un passo di prova. Sì, le palle lo seguono, ma lui quasi non le sente, un rinforzo di ovatta le rende del tutto impercettibili. Blumfeld fa ancora qualche passo, funziona abbastanza. Ognuno per conto suo, sia Blumfeld che le palle, certo un collegamento reciproco c’è, ma senza disturbi. Soltanto in un caso, quando Blumfeld si volta più svelto, una palla non riesce a fare rapidamente la contromossa, e lui la urta con un ginocchio. E’ l’unico imprevisto, intanto Blumfeld beve tranquillamente il caffè, ha fame come se stanotte non avesse dormito, ma avesse avesse fatto un lungo cammino, si lava con acqua fredda, rinfrescante in sommo grado, e si veste. Finora

non ha tirato le tende, prudenzialmente e rimasto nella penombra, non gli serve che un occhio estraneo veda le palle. Tuttavia, poiché ora è pronto ad andarsene, deve in qualche modo provvedere a che le palle non osino – lui non crede seguirlo in strada. A tal fine ha una buona trovata, apre l’armadio e ci si mette davanti di schiena. Come se le palle presentissero quel che viene progettato, si tengono lontane dall’interno, sfruttano ogni minimo spazio rimasto tra Blumfeld e l’armadio, al più ci saltano dentro per un attimo, si ritirano di nuovo davanti al buio, non c’è modo di tirarle dentro da dietro lo spigolo, preferiscono violare il loro impegno e si tengono quasi di lato rispetto a Blumfeld. Ma le loro furbiziole non possono aiutarle per nulla, perché adesso è lo stesso Blumfeld che monta all’indietro nell’armadio, cosicché devono seguirlo senza meno. E ciò è decisivo per le palle, tuttavia i numerosi oggetti che si trovano sul fondo dell’armadio, stivali, scatole valigette, tutto in ordine – e Blumfeld ora lo deplora – fanno loro da impedimento. E non appena Blumfeld, che intanto ha quasi chiuso lo sportello dell’armadio, con un balzo d'altri tempi se ne stacca e lo chiude con forza a chiave, le palle sono imprigionate. „Questa è fatta“, pensa Blumfeld, asciugandosi il sudore sul viso. Come strepitano le palle dentro l’armadio! Sembrano disperate. Invece Blumfeld è molto contento. Lascia la stanza e già il corridoio vuoto gli fa bene. Libera le orecchie dall’ovatta e lo estasiano i molti rumori delle case che si svegliano. Poche persone si vedono, ancora è molto presto. Giù nell’androne, davanti all’usciolino che dà nel sottosuolo dove abita la domestica, c’è suo figlio minore, dieci anni. Un ritratto di sua madre, in questo viso di fanciullo nessuna bruttezza di lei è stata tralasciata. Gambe storte, le mani in tasca, sta lì e ansima, ha già il gozzo e può fare solo respiri pesanti. Ma mentre di

solito Blumfeld, se il piccolo gli capita tra i piedi, allunga il passo per risparmiarsene la vista più che può, oggi vorrebbe quasi trattenercisi. Anche se è stato messo al mondo da quella donna e si porta tutti i segni della sua origine, è pur sempre un fanciullo, ha in testa pensieri da bambino, a parlargli in modo comprensibile, a chiedergli qualcosa, forse risponderà con voce chiara, innocente e rispettosa, e si potrà anche, con un certo sforzo, accarezzargli le guance. Blumfeld pensa questo, però passa oltre. In strada si accorge che il tempo è più sereno di quel che lui ha pensato quando era al chiuso. Le nebbie mattutine si diradano ed appaiono spicchi di cielo spazzati dal vento poderoso. Blumfeld è grato alle palle di essere uscito molto prima del solito, ha dimenticato addirittura sul tavolo il giornale, senza leggerlo, comunque ha guadagnato molto tempo ed ora può camminare piano. E’ degno di nota quanto poca preoccupazione gli recano, ora che le ha isolate da sé. Fintanto che gli stavano dietro, si potevano considerare attinenti a lui, si poteva scambiarle per qualcosa che dovesse comportare in certo modo un giudizio sulla sua persona, ora invece sono un giocattolo dentro l’armadio, in casa. E viene in mente a Blumfeld a questo punto che lui potrebbe renderle innocue destinandole al loro scopo vero e proprio. Lì nell’androne c’è ancora il piccolo, Blumfeld gliele regalerà, mica gliele presterà, per esempio, al contrario gliele regalerà espressamente, vale a dire che ne ordinerà la distruzione. E seppure dovessero restare integre, in mano al piccolo rappresentaranno anche meno che non dentro l’armadio, tutto il casamento vedrà come lui ci gioca, altri fanciulli si uniranno, l’opinione generale che il caso sia quello di palle giocattolo e non, per dire, di compagne di vita di Blumfeld, diverrà ferma ed irresistibile. Blumfeld rientra di corsa. Il piccolo è già sceso nel sottosuolo ed è intenzionato ad aprirne la porta.

Blumfeld deve dunque chiamarlo e pronunciarne il nome, ridicolo come tutto quello che sta in rapporto con lui. Lo fa. „Alfred, Alfred“, grida *. Il piccolo esita alquanto. „E vieni, su“, grida Blumfeld, „che ti do una cosa“. Le due ragazzine del portinaio sono uscite dalla loro porta, e si piazzano incuriosite una alla destra, l’altra alla sinistra di Blumfeld. Sono molto più svelte di comprendonio dell’altro, non capiscono perché non viene. Gli fanno segno senza smettere di guardare Blumfeld, ma non riescono a coglier cosa di regalo aspetti Alfred. Sono tormentate dalla curiosità e saltellano da un piede all’altro. Blumfeld ride tanto di loro quanto del piccolo. Questi pare che finalmente abbia capito tutto e rifà le scale, rigido e pesante. Neppure nell’andatura si differenzia da sua madre, che d’altro canto appare già sulla porta del sottosuolo. Blumfeld alza molto la voce, ragion per cui anche la domestica lo intende e controlla l’esecuzione del suo comando, ammesso che ciò sia necessario. „Ci sono su nella mia stanza“, dice Blumfeld, „due palle meravigliose. Le vuoi?“ Il piccolo si limita a storcere la bocca, non sa come comportarsi, si volta e guarda sua madre interrogativo. Ma anche le ragazzine cominciano a saltellare attorno a Blumfeld e lo pregano di averle loro. „Anche voi ci potrete giocare“, dice Blumfeld, però aspetta la risposta del piccolo. Potrebbe anche regalarle a loro, ma gli sembrano troppo disinvolte, lui ora ha più fiducia nel piccolo. Questi intanto si è consultato senza parole con sua madre ed annuisce quando Blumfeld gli rinnova la sua domanda. „Allora sta’attento“, dice Blumfeld, che senza difficoltà riconosce che nessuno ora lo ringrazierà del suo dono, „la chiave della mia stanza devi fartela dare da tua madre che ce l’ha, ora ti do la chiave dell’ armadio, le palle si trovano lì. Richiudi con cura l’armadio e la stanza. Ma con le palle puoi farci quel che vuoi e non devi restituirmele. Hai

capito?“ Il piccolo però non ha capito, sfortunatamente. Blumfeld ha voluto spiegare ogni cosa, a questa creatura sconfinatamente lenta di comprendonio, nei dettagli, ma per far ciò ha continuato a ripetere tutto troppe volte, troppe volte insistendo sulle chiavi, la stanza, l’armadio, ragion per cui il piccolo lo fissa non come un donatore, ma come un tentatore. Le ragazzine invece hanno capito tutto, si stringono a Blumfeld e protendono le mani per la chiave. „Calma, via!“, dice Blumfeld, e si stizzisce con tutti e tre. Tanto più che il tempo passa, non può trattenersi ancora. Magari la domestica finalmente avesse la bontà di dire che ha capito e che ogni cosa sarà sbrigata come dovuto per il piccolo. Invece quella rimane giù sulla porta, sorride con affettazione, da sordastra in imbarazzo, forse crede che Blumfeld sia andato all’improvviso in estasi per suo figlio e gli risenta le tabelline. Blumfeld però non può scendere le scale del sottosuolo e ripetere urlando all’orecchio della domestica la sua richiesta che, dio santo, il suo bambino possa liberarlo dalle palle. Si è dominato già abbastanza nel voler affidare a questa famiglia la chiave del suo armadio per un giorno intero. Per non risparmiarsi, porge ora la chiave al piccolo, piuttosto che condurlo su di persona e consegnargli le palle. Il fatto è che lui di sopra non può prima regalare le palle e poi, com’è prevedibile che succeda, riprenderle al ragazzo tirandosele dietro come scorta. „Allora, non mi capisci?“, domanda Blumfeld quasi con tristezza, dopo che, disposto ad una nuova spiegazione, la ha troncata di fronte allo sguardo vuoto del piccolo. Un tale sguardo vuoto ti disarma. Potrebbe perfino sedurti, se non è, a dirlo, un riempitivo troppo intelligente di questo vuoto. „Noi le palle gliele piglieremo“, gridano le ragazzine. Sono maliziose, hanno capito che possono averle solo con una qualche intercessione del bambino, di cui sono ancora prive. Nella stanza

del portinaio il rintocco dell’orologio sollecita Blumfeld a sbrigarsi. „Allora eccoti la chiave“, dice, premendola nella mano del bambino, più che non consegnandogliela. Se gliela avesse data, invece, la certezza sarebbe stata incomparabilmente maggiore. „La chiave della stanza prendila giù dalla signora“, ripete Blumfeld, „e quando torni con le palle devi darle entrambe le chiavi.“ „Sì, sì“, gridano le ragazzine, e corrono giù. Sanno tutto, proprio tutto, e, come se Blumfeld fosse contagiato dalla lentezza di comprendonio del piccolo, ora neanche lui capisce come loro possano aver capito tanto alla svelta la sua spiegazione. Giù di sotto ora quelle si attaccano all’abito della domestica strattonandola, ma Blumfeld non riesce, eppure gli piacerebbe, a vedere meglio come eseguiranno il suo ordine, e certo non solo perché si è fatto tardi, ma chiaramente perché non vuole esserci, quando le palle verranno allo scoperto. Addirittura di qualche strada, vuole essersi allontanato, quando le ragazzine di sopra aprono la porta della sua stanza. Mica lo sa, che cosa ancora può aspettarsi dalle palle! E così esce per la seconda volta, stamattina. Ha anche visto come la domestica di fatto si difende dalle ragazzine e come il piccolo mulina le sue gambe storte correndo in aiuto della madre. Blumfeld non comprende perché vengano al mondo e si riproducano persone come la domestica. Sulla strada per la fabbrica di biancheria dove Blumfeld ha un impiego, i pensieri del lavoro hanno pian piano la meglio su tutto il resto. Accelera i passi e, nonostante il ritardo che il bambino ha causato, arriva in ufficio per primo. Si tratta di un piccolo spazio rivestito di vetro, contiene una scrivania e due scrittoi senza sedia per i praticanti alle dipendenze di Blumfeld. Nonostante che questi scrittoi senza sedia siano così piccoli e ridotti, come fossero destinati a degli solaretti, nell’ufficio ci si

stringe molto - i praticanti non hanno il permesso di star seduti perché poi per la sedia di Blumfeld non ci sarebbe più posto. Così restano tutto il giorno pressati sui loro scrittoi. Certamente per loro è molto scomodo, ma con ciò a Blumfeld risulta difficile tenerli sott’occhio. Si stringono spesso con zelo ai loro scrittoi, ma forse non per lavorare, piuttosto per bisbigliarsela o perfino per appisolarsi. Blumfeld ce l’ha parecchio con loro, non lo aiutano per niente a quel che serve nel lavoro enorme che gli tocca. Tale lavoro consiste in questo, lui si occupa di tutta la distribuzione di merce e denaro alle lavoratrici a domicilio impiegate dalla fabbrica per la produzione di capi in certo modo più raffinati. Per poter valutare la quantità di questo lavoro occorre avere una visione precisa in ogni direzione. Nessuno tuttavia ha più tal visione da quando, anni prima,, il diretto superiore di Blumfeld è morto, anche per questo Blumfeld non può riconoscere ad alcuno il diritto di giudicare il suo lavoro. Per esempio l’industriale signor Ottomar palesemente sottovaluta il lavoro di Blumfeld, com’è naturale riconosce i meriti che Blumfeld ha acquisito nella fabbrica nel corso di vent’anni, non solo per dovere ma anche per la stima che ha di Blumfeld come uomo fedele e degno di fiducia; tuttavia sottovaluta il suo lavoro, crede infatti che esso possa essere organizzato in modo più semplice e perciò da ogni punto di vista più vantaggioso di come Blumfeld fa. Si dice, e forse ciò è credibile, che Ottomar si mostri così di rado nella sezione di Blumfeld per risparmiarsi il fastidio in lui provocato dalla vista del suo modo di lavorare. Essere così disconosciuto è certo per Blumfeld una cosa triste, ma non ci si può far niente, infatti lui non può obbligare Ottomar a restare magari un mese ininterrottamente nella sua sezione a studiare la natura complessa del lavoro che vi si sbriga, ad applicare i suoi propri metodi, definiti migliori, ed a farsi

persuadere da Blumfeld, previa l’inevitabile conseguente rovina della sezione. Perciò Blumfeld svolge con la solita fermezza il suo lavoro, un po’ spaventato se una volta ogni tanto compare Ottomar, in tal caso tuttavia, per senso del dovere di subordinato, fa un debole tentativo di spiegare ad Ottomar questo o quel provvedimento in merito al quale Ottomar annuisce senza alzare gli occhi andando oltre, e lui soffre meno per tale disconoscimento, del resto, che a causa del pensiero che, se dovrà dimettersi dal suo posto, l’immediata conseguenza sarà un gran disordine non risolvibile da alcuno, infatti lui non conosce alcuna persona nella fabbrica che potrebbe sostituirlo e prendere in consegna il suo posto in modo da evitare mesi di gravi blocchi produttivi. Se il capo sottovaluta qualcuno naturalmente gli impiegati cercano da parte loro se possibile di schiacciarlo. Ciò svaluta di conseguenza ogni sforzo di Blumfeld, nessuno ritiene necessario alla sua formazione lavorare per un periodo di tempo con Blumfeld, e, se sono assunti nuovi impiegati, nessuno vuole essere destinato a Blumfeld. Ecco perché nella sezione di Blumfeld mancano nuove leve. Settimane di durissima battaglia vi furono, quando Blumfeld, che fin lì si era occupato di tutto completamente da solo, aiutato da un inserviente e basta, chiese l’assistenza di un praticante. Quasi tutti i giorni compariva nell’ufficio di Ottomar e gli spiegava in modo tranquillo e dettagliato perché gli fosse necessario un praticante. Non perché volesse risparmiarsi, non voleva risparmiarsi, lui lavorava la sua parte e anche di più e non pensava di smettere, ma il signor Ottomar avrebbe dovuto solo considerare quanto l’impegno nel corso del tempo fosse aumentato, tutte le sezioni si erano ingrandite, solo quella di Blumfeld veniva sempre dimenticata. Ed in effetti lì il lavoro, quanto era cresciuto! Ai tempi dell’entrata di Blumfeld in

fabbrica, certo il signor Ottomar non poteva ricordarsene, lì si aveva a che fare circa con una decina di cucitrici, ora il loro numero era salito a più di cinquanta. Un impegno simile richiedeva energia. Blumfeld poteva garantire che lui ci si consumava completamente, ma non avrebbe potuto più garantire di poter da ora eseguirlo. Ora, certo il signor Ottomar non rifiutava mai del tutto le richieste di Blumfeld, non poteva far questo ai danni di un vecchio impiegato, ma il modo che aveva di ascoltare appena, di parlare con altre persone mentre Blumfeld lo pregava, di fare mezze promesse e di dimenticare tutto nel giro di pochi giorni – ciò era assai offensivo. In realtà non per Blumfeld, Blumfeld non è affatto un tipo grandioso, è uno tutto dignità e consenso, può sentirne la mancanza, resterà tuttavia al suo posto tanto a lungo comunque vada, infatti lui sta dalla parte della ragione ed alla fine la ragione deve ottenere il consenso, anche se capita che serva molto tempo. E così nei fatti certamente Blumfeld ha avuto addirittura due praticanti, ma che razza di praticanti! Si sarebbe potuto credere che Ottomar avesse valutato di poter dimostrare il suo disprezzo per la sezione di Blumfeld tramite la concessione dei praticanti ancor meglio che negandoli. Era perfino possibile che Ottomar avesse fin lì tenuto a bada Blumfeld per la ragione che era alla ricerca di due praticanti del genere e per molto tempo non era riuscito a trovarli, com’era comprensibile. E ora Blumfeld non poteva lagnarsi, la replica era senz’altro prevedibile, aveva avuto due praticanti pur avendone richiesto uno soltanto; così tutto era stato ordito abilmente da Ottomar. Certo che Blumfeld si lagnava, ma solo perché era davvero messo alle strette dalla difficoltà della sua situazione, non perché ancora si aspettasse un rimedio. Non si lagnava neppure con vigore, piuttosto solo per inciso, presentandoglisi l’occasione adatta. Ciò nonostante si

diffuse presto tra i colleghi malevoli la voce che qualcuno avesse chiesto ad Ottomar se fosse mai possibile che Blumfeld, che pure aveva ricevuto un così straordinario aiuto, continuasse a lagnarsi. E che Ottomar avesse risposto che era così, che Blumfeld continuava a lagnarsi, ma a ragione. Che lui, Ottomar, alla fine ne avrebbe tenuto conto, e che aveva l’intenzione di assegnare un po’ alla volta a Blumfeld un praticante per ogni cucitrice, quindi più di cinquanta in tutto. Non fossero bastati, ne avrebbe disposti ancora di più e non avrebbe smesso prima del perfezionamento del manicomio che già da anni si era sviluppato nella sezione di Blumfeld. Il linguaggio di Ottomar, in quest’osservazione, risultava ben imitato, ma lui, Blumfeld non ne dubitava, era lungi dall’esprimersi mai su Blumfeld così o in modi del genere. Era tutta un’invenzione del fannullone dell’uffico al primo piano, Blumfeld la ignorava, avesse potuto ignorare con la stessa tranquillità la presenza dei praticanti! Stavano lì e non erano più eliminabili. Pallidi ragazzini deboli. Documentalmente potevano aver raggiunto l’età postscolastica, di fatto non si riusciva a crederlo. Non si avrebbe avuto voglia certo di affidarli neppure ad un insegnante, tanto era chiara la loro permanenza nel mondo della mamma. Non erano ancora in grado di muoversi con razionalità, specie nei primi tempi stare a lungo in piedi li stancava parecchio. Se non li si teneva d’occhio si afflosciavano nella loro debolezza, stavano chinati e storti da una parte. Blumfeld tentava di render loro noto che sarebbero rimasti storpi per tutta la vita, se avessero sempre ceduto in questo modo alla comodità. Dar loro un piccolo compito era rischioso, una volta uno era riuscito a fare appena due passi, troppo zelantemente era corso e si era ferito un ginocchio contro lo scrittoio. La stanza era piena di cucitrici, gli scrittoi di merce, ma Blumfeld aveva trascurato ogni cosa per portare il praticante

in lacrime nell’ufficio ed applicargli una piccola benda. Tuttavia anche questo zelo dei praticanti era solo esteriore, volevano talvolta mettersi in mostra come dei veri ragazzini, ma anche molto più spesso o meglio quasi sempre volevano solo ingannare l’attento superiore ed imbrogliarlo. Al tempo del più gran lavoro, sudando li aveva sorpresi ed aveva visto che loro, nascosti in mezzo ai sacchi di merce, scambiavano le etichette. Avrebbe voluto prendereli a pugni in testa, per un comportamento simile sarebbe stata l’unica possibile punizione, ma erano ragazzini, Blumfeld mica poteva ammazzare dei ragazzini. E così continuava a tormentarsi. Sulle prime si era immaginato che i praticanti l’avrebbero assistito dandogli subito quella mano che, al momento dello smistamento della merce, serviva per tanta fatica ed attenzione. Aveva pensato che si sarebbe piazzato al centro dietro lo scrittoio, cose del genere, che avrebbe mantenuto la visione d’insieme su tutto e si sarebbe curato della registrazione, mentre i praticanti ai suoi ordini sarebbero corsi qua e là ed avrebbero eseguito le suddivisioni. Si era immaginato che la sua sorveglianza, seppur penetrante, potesse non bastare a fronte di un ammucchiamento del genere, per mezzo dell’attenzione dei praticanti sarebbe divenuta perfetta, e che questi praticanti un po’ alla volta avrebbero accumulato esperienze, non sarebbero rimasti unicamente dipendenti dal suo comando ed alla fine avrebbero anche imparato a distinguere le cucictrici l’una dall’altra, ciò che la richiesta delle merci e la sua affidabilità richiedeva. Su questi praticanti erano state poste speranze completamente a vuoto, presto Blumfeld si accorse che soprattutto non poteva farli trattare con le cucitrici. Da alcune infatti neppure da all’inizio erano andati, i praticanti, perché ne avevano avuto timore oppure erano rimaste loro antipatiche, invece erano corsi incontro ad altre, le preferite,

spesso fin sulla porta. A queste portavano solo quel che volevano, per quanto le cucitrici fossero autorizzate alla presa in consegna della merce gliela premevano in mano con una sorta di segretezza, accumulavano in una scansia vuota, in vista di tale favoritismo, numerosi ritagli, scampoli senza valore, nonnulla pur sempre utilizzabili, ammiccavano loro da dietro le spalle di Blumfeld, già a distanza in sollucchero, e per questo veniva riempita loro la bocca di bonbon. Blumfeld mise del resto velocemente fine a questo disordine e li spingeva, se venivano le cucitrici, nello scomparto a vetri. Non finiva lì, quelli prendevano la cosa per una grave ingiustizia, opponevano resistenza, rompevano apposta le penne e picchiavano con forza, non osando per altro alzare la testa, sulle lastre di vetro, per render noto alle cucitrici il maltrattamento che secondo loro dovevano sopportare da parte di Blumfeld. Ciò di cui essi si rendono colpevoli, tuttavia, non possono capirlo. Così per esempio quasi sempre arrivano troppo tardi. Blumfeld, loro superiore, che fin dalla primissima giovinezza ha ritenuto ovvio presentarsi almeno mezz’ora prima dell’inizio del lavoro – indotto a ciò non dall’arrivismo, non dall’esagerato senso del dovere, ma soltanto da un certo senso della decenza – è costretto ad aspettare i suoi praticanti di solito per più di un’ora. Masticando il suo panino ha l’abitudine di restare in sala dietro lo scrittoio ed intanto riportare i conteggi nei libretti delle cucitrici. Presto sprofonda nel lavoro e non pensa a nient’altro. Proprio allora di botto lo spavento lo lascia con la penna tremante in mano. Uno dei praticanti si è precipitato dentro come se volesse ribaltarsi, con una mano si attacca a qualcosa per reggersi, con l’altra si preme il petto ansimando pesantemente – il tutto non prefigura niente, però, se non la presentazione da parte del praticante di una scusa del suo

ritardo così ridicola che Blumfeld decide di non sentire, infatti se lo facesse dovrebbe giustamente bastonarlo. Dunque si limita a guardarlo per un momento, poi solleva una mano a indicare lo scomparto a vetri e si rimette al lavoro. A questo punto sarebbe lecito aspettarsi che il praticante valuti la bontà del suo superiore e si affretti verso il suo posto. No, non si spiccia, ballonzola, procede in punta di piedi, li appoggia uno davanti all’altro. Ha intenzione di prendere in giro il suo superiore? Neanche. Si tratta di nuovo soltanto di questa mescolanza di timore ed autogratificazione contro cui si resta indifesi. Come infatti spiegare altrimenti che oggi Blumfeld, venuto contrariamente alle sue abitudini in ritardo, ora, dopo una lunga attesa – non si diletta mica a verificare i libretti – tra le nuvole di polvere alzategli in faccia dalla scopa dell’inserviente, un insensato, scopre in strada con quale tranquillità arrivano entrambi i praticanti? Si tengono pressoché abbracciati e pare che si raccontino cose decisive, che però con il lavoro hanno a dir poco una relazione non autorizzata. Più si avvicinano alla porta a vetri e più rallentano l’andatura. Da ultimo uno di loro impugna la maniglia, ma non l’abbassa, ancora seguitano a parlarsi, ad ascoltarsi, a ridere. „Ma aprigli, ai nostri due signori“, grida Blumfeld all’inserviente levando in su le mani. Tuttavia, quando i praticanti entrano, Blumfeld non ha più voglia di litigare, non risponde al loro inchino e va alla sua scrivania. Inizia a fare i suoi conti, ma ogni tanto guarda che cosa fanno i praticanti. L’uno pare assai stanco, sbadiglia e si stropiccia gli occhi; appena ha attaccato il suo soprabito al chiodo ne approfitta per restare ancora un poco appoggiato alla parete, in strada era vispo, ma la vicinanza del lavoro lo rende stanco. L’altro invece si diverte a lavorare, ma solo selettivamente. Così da sempre poter spazzare è quel che desidera. E’ però un lavoro

che non gli spetta, spazzare sta all’inserviente, Blumfeld non avrebbe da parte sua niente in contrario , che spazzi pure, il praticante ne ha il permesso, peggio dell’inserviente non si può farlo, tuttavia se il praticante vuole spazzare deve venir prima, prima che l’inserviente inizi, e non deve usare il tempo in cui è esclusivamente adibito all’ufficio. Se però il ragazzo è già inaccessibile ad ogni ragionevole riflessione, pochissimo potrebbe esserlo l’inserviente, questo vegliardo mezzo cieco che il capo certo in nessun altra sezione che in quella di Blumfeld potrebbe tollerare e che vive ancora per grazia di Dio e del capo, pochissimo questo inserviente potrebbe accondiscendere a lasciar per un attimo la scopa al ragazzo, che tuttavia non è capace di rinunciare al divertimento di spazzare e correrà dietro all’inserviente con la scopa solo per spingerlo ancora a spazzare. L’inserviente tuttavia sembra sentirsi particolarmente responsabilizzato a spazzare, si vede come lui, non appena il ragazzo gli si avvicina, cerca di stringere meglio, a mani protese, la scopa, preferisce fermarsi e smettere di spazzare per poter volgere ogni attenzione al possesso della scopa. Ora, il praticante non usa le parole per chiedere, infatti certo teme Blumfeld, apparentemente intento al conteggio, del resto sarebbero per lo più inutili, perché l’inserviente lo si raggiunge solo con urla altissime. Il praticante dunque tira, intanto, l’inserviente per una manica. L’inserviente sa benissimo di che cosa si tratta, guarda truce il praticante, scuote la testa ed accosta la scopa al petto. Ora il praticante congiunge le mani e prega. Non ha alcuna speranza d’altra parte di ottener qualcosa con le preghiere, pregare lo diverte soltanto, e per questo lui prega. L’altro praticante segue l’evento ridendo sommessamente ed è chiaro, anche se incomprensibile, che lui crede che Blumfeld non lo senta. All’inserviente la preghiera non fa il minimo

effetto, si gira e ritiene adesso di poter di nuovo usare la scopa tranquillamente. Ma il praticante in punta di piedi gli saltella dietro e fervidamente confricando l’una con l’altra le mani lo segue e lo prega. Queste virate dell’inserviente ed i saltellamenti del praticante si ripetono più volte. Alla fine l’inserviente si sente pressato da ogni parte e si rende conto che si stancherà prima lui del praticante, come avrebbe già potuto fare fin dall’inizio con un po’ meno dabbenaggine. Ragion per cui cerca aiuto esterno, con il dito minaccia il praticante ed indica Blumfeld, presso il quale farà reclamo nel caso che il praticante non la smetta. Il praticante capisce che deve sbrigarsi se davvero vuole avere la scopa. Così gliel’afferra da dietro, con sfacciataggine. Un grido involontario dell’altro praticante rivela la svolta in corso. Certo l’inserviente tiene ancora la scopa stavolta indietreggiando e stringendola a sé. Ma ora il praticante non cede più, ferino balza in avanti, l’inserviente sta per scappare, ma le sue vecchie gambe tremano, non corrono, il praticante dà uno strattone alla scopa, ed anche se non se ne impadronisce la tocca con tanta forza da farla cadere, e così per l’inserviente è perduta. D’altra parte lo è anche per il praticante, pare, infatti con la caduta della scopa sul momento s’irrigidiscono tutti e tre, i praticanti e l’inserviente, perché ora tutto non può che diventare manifesto, a Blumfeld. Infatti lui guarda fuori da un pertugio come se fosse solo da ora attento, fissa i tre con occhi severi, neppure la scopa per terra gli sfugge. Sia che duri troppo il silenzio, sia che il praticante in difetto non possa trattenere la sua bramosia di spazzare, comunque lui si china, del resto con molta cautela, sembra che allunghi la mano su una bestia, non su una scopa, la prende, la strofina sul pavimento, ma subito la getta via spaventato, perché Blumfeld salta su ed esce dallo scomparto a vetri. „Tutti e due al lavoro, e

senza fiatare“, grida Blumfeld, ed indica ai due praticanti i loro scrittoi con una mano rigidamente protesa. Ubbidiscono subito, ma non, come dire, contriti, a testa bassa, davanti a Blumfeld s’irrigidiscono e lo fissano negli occhi come se volessero trattenerlo dal picchiarli. E però potrebbero aver imparato già abbastanza dalle passate esperienze che Blumfeld fondamentalmente non picchia mai. Ma sono oltremodo impauriti e cercano sempre e indelicatamente di tutelare le loro autentiche o apparenti ragioni. *Per capire cos'abbia mai di ridicolo il nome Alfred, riferito a questo bambino bruttino e un po' „timido“, uno spunto potrebbe esser dato dall'omonimo personaggio „fascinoso“ dell'operetta intitolata „Il pipistrello“ (1874), di Johann Strauss .

Un sogno. Joseph K. sognò che era una bella giornata; aveva voglia di andare a passeggio, ma, fatti pochi passi, si trovò al cimitero in un complicato scomodo groviglio di vialetti molto artificiosi. Ciò nonostante K transitò lungo uno di questi vialetti librandosi imperturbabile, come se fosse portato sul pelo di un’acqua trascinante. Già da lontano puntò lo sguardo in direzione di un tumulo scavato da poco, dove desiderava soffermarsi. Il tumulo esercitava su K una certa seduzione, tanto che lui pensò di non farcela proprio, ad arrivarci abbastanza velocemente. Quando vide meglio il tumulo, tuttavia, certi stendardi, che si attorcigliavano e sbattevano l’uno contro l’altro con gran forza, glielo nascosero; i portatori degli stendardi non si vedevano, ma era come se in quel punto vi fosse un gran giubilo. Mentre stava regolando lo sguardo ancora sulla distanza, d’improvviso vide il tumulo vicino, accanto al vialetto, già quasi dietro di sé. Svelto percorse a salti l’erba, ma i suoi passi scattanti si bloccarono ancora, K si volse, e cadde in ginocchio precisamente davanti al tumulo. Due uomini che si trovavano nella fossa tenevano sollevata tra le mani una pietra tombale; comparso K, i due la sbatterono in terra, e quella restò come saldamente murata. Subito sbucò da un cespuglio un terzo uomo, che K riconobbe essere un artista: non indossava altro che un paio di pantaloni e una camicia semi sbottonata, in testa un berretto di velluto, in mano una normale matita con cui, nell’aria, andava tracciando accuratamente certe figure. Con questa matita in mano l’artista si addossò alla pietra, che era molto alta e lo costringeva, mentre si sosteneva con la mano sinistra alla sua superficie, a stare in una posizione scomoda, perché il tumulo, da cui lui non voleva staccarsi, distava dalla

pietra stessa. Gli bastò una certa speciale manipolazione della sua normale matita per tracciare lettere dorate; scrisse: “Qui giace”. Ogni lettera gli veniva bella, netta, ben incisa, perfettamente d’oro. Scritte le due parole, l’artista si girò a guardare dalla parte di K. Questi, assai voglioso di conoscere il seguito dell’iscrizione, si curò appena dell’artista, guardando solo la pietra. In effetti l’artista si rimise a scrivere, ma non poteva, qualcosa glielo impediva, lasciò cadere la matita e di nuovo guardò verso K. Stavolta anche K guardò l’artista e si accorse che costui era fortemente imbarazzato, ma incapace di dirne la ragione. Tutta la sua energia era scomparsa. Anche K provò imbarazzo, i due si scambiarono sguardi impacciati; un orribile malinteso che nessuno poteva sbrogliare. Per di più, in quel momento inopportuno, un campanello dalla cappella mortuaria suonò; l’artista levò la mano in alto accennando qualcosa e si mise all’ascolto. Poco dopo il campanello ricominciò, stavolta pianissimo, senza che ce ne fosse bisogno, ma smise subito; era come se volesse fare una prova. K, reso sgomento dalla situazione in cui si trovava l’artista, si mise a piangere e a singhiozzare a lungo con le mani sul viso. L’artista aspettò finché K non si fu calmato, quindi si decise, in mancanza di alternative, a riprendere il suo lavoro. Al primo suo piccolo tratto di matita K si sentì liberato, tuttavia l’artista riuscì a renderlo chiaro soltanto con la massima difficoltà, anche la scrittura non era più bella, intanto pareva che mancasse di oro, ed il tratto si trascinava scolorito e incerto, solo la lettera risultava ora assai grande. Una J; era quasi già terminata, quando l’artista colpì infuriato il tumulo con un piede, tanto che la terra volò tutta intorno per aria. Allora K capì, di pregare l’artista non c’era più tempo; ficcò le dita in quella terra facile da scavare, tutto era pronto, sembrava che solo in apparenza ci

fosse un sottile strato di terra tirata sopra, subito sotto si apriva una grossa buca dalle pareti ripide, dove K sprofondò rotolando di spalle morbidamente. Dal basso già stava rialzando la testa, lui, ma venne afferrato dall’inesorabile profondità, mentre sulla pietra il suo nome riccamente abbellito di ornamenti scorreva in alto. Rapito da una simile visione, Joseph K. si destò.

In loggione. Se girasse in pista davanti al pubblico instancabile una cavallerizza vecchia e ansimante, e facesse il suo capo, spietato, schioccar la frusta, e si dimenasse lei da un mese di seguito, buttasse baci dondolando sul vitino, e questo numero continuasse squallido, tra i clamori continui dell’orchestra e del ventilatore, da ora in avanti, accompagnato da applausi prima in calo, poi di nuovo alti, veri e propri colpi di maglio - allora magari un giovane loggionista correrebbe giù per la lunga scalinata attraversando ogni ordine di posti, si precipiterebbe nella pista e urlerebbe quel che segue: Basta! Tra le fanfare dell’orchestra che si adatta ad ogni evento. Ma le cose non stanno così; un'avvenente dama, bianca e rossa, sbuca volando dai tendaggi che le tengono aperti i gradassi in livrea; il direttore, cercando pieno di deferenza i suoi occhi, ansima come una bestia al suo indirizzo; come se fosse la di lui nipote preferita in partenza per una corsa pericolosa, provvidenzialmente lei sfoggia il cavallo pomellato; lui non riesce a decidersi a dare il segnale schioccando la frusta; da ultimo ce la fa, a dominare le sue passioni, e lo dà; corre a bocca aperta accanto al cavallo a passi gravi, segue i balzi della cavallerizza con gli occhi fissi; appena ne può cogliere la capacità artistica; tenta di mantenere il controllo con certi suoi urli in inglese; incita furiosamente alla più scrupolosa attenzione il palafreniere che regge il cerchio; prima del gran Salto Mortale * scongiura l’orchestra, le mani levate, di tacere; a cose fatte la piccola si solleva sul cavallo fremente, lo bacia sulle guance e non le bastano le ovazioni; intanto, sostenuta dal pubblico, sollevandosi sulla punta dei piedi si scuote la polvere dalla testolina piegata indietro con ampio gesto delle braccia, vuol

condividere la sua felicità con tutto il circo – poiché le cose stanno così, il loggionista osserva dal parapetto e senza rendersene conto piange affondando nella marcetta finale, che assomiglia ad un sogno opprimente. * in italiano nel testo.

Un fratricidio* E’ dimostrato che l’omicidio ebbe luogo nel seguente modo: Schmar, l’assassino, verso le nove di una sera rischiarata dalla luna si mise sull’angolo nel punto in cui Wese, la vittima, doveva svoltare, dalla via dove aveva l’ufficio, in quella dove abitava. Freddo, aria notturna che fa rabbrividire chiunque. Eppure Schmar aveva messo soltanto un leggero abito azzurro; inoltre la sua giacca era sbottonata. Non sentiva affatto freddo, tuttavia continuava a tremare. Teneva fermamente stretta in pugno, sfoderata, l’arma del delitto, una via di mezzo tra la baionetta e il coltello da cucina. Alla luce della luna la esaminò, il taglio luccicava; non abbastanza, per Schmar; l’arrotò provocando scintille sui mattoni della pavimentazione stradale; forse se ne pentì; e per rimediare all’errore strofinò il coltello, a mo’ di violinista, sulla suola dello stivale, mentre, chinato in avanti su una gamba, ascoltava il rumore del coltello sullo stivale e contemporaneamente tutto quel che poteva succedere nella strada accanto, ricolma di fato. Perché il pensionato Pallas, che dalla sua finestra a un secondo piano stava in osservazione, non alzò un dito? Vai a sapere, la natura umana! Guardò in basso, il bavero della vestaglia sollevato, e scosse la testa. Cinque edifici oltre, davanti a lui, di lato, la signora Wese, pelliccia di volpe sulla camicia da notte, controllava, guardava se stesse arrivando suo marito, oggi insolitamente molto in ritardo. Ultimo, si sentì il suono del campanello posto sulla porta dell’ufficio di Wese, troppo forte per un campanello, sulla città, fino al cielo, e Wese, l’indefesso lavoratore serale, uscì in strada, ancora non visibile, segnalato soltanto dal suono del

campanello; e subito il pavimento stradale contò i suoi passi tranquilli. Pallas si sporge; non può lasciarsi sfuggire niente. La signora Wese, tranquillizzata dal suono del campanello, chiude rumorosamente la finestra. Schmar continua a inginocchiarsi, ad appoggiare il viso e le mani, tutto quel che visibilmente ha di scoperto, sulla pietra; dove tutto è gelo, lui brucia. Wese si trova fermo proprio sull’angolo tra la strada dov’è il suo ufficio e quella di casa, è soltanto il suo bastone che tocca la seconda. Un capriccio. L’ha attratto il cielo serale, il cupo azzurro, lo splendore. Ignaro guarda, ignaro infila una mano sotto il cappello e si gratta tra i capelli; niente, lassù, che lo informi del suo prossimo futuro; tutto insondabile, insensato, al suo posto. E’ di per sé molto razionale che Wese riprenda il cammino, sennonché finisce sul coltello di Schmar. “Wese!”, grida Schmar, ritto sulle punte dei piedi, il braccio levato, il coltello puntato con forza, “Wese! E’ inutile che Julia ti aspetti!” E lo pugnala alla gola, due colpi, a sinistra, a destra, e un terzo affondo nel ventre. Sbudellate, le talpe emettono un suono simile a quello di Wese. “Fatto”, dice Schmar, e scaglia il coltello, zavorra insanguinata, contro la facciata dell’edificio più vicino. ”Beatitudine dell’assassinio! Che sfogo, che sollievo dà il sangue altrui che scorre! Wese, vecchia ombra notturna, amico, compagno di bevute, il fondo della strada ti beve. Perché non sei solo una vescica gonfia di sangue, che io mi ci piazzi sopra per farti sparire completamente? Non si può avere tutto, non s’avvera ogni sogno di sangue, le tue pesanti spoglie già sono di ostacolo a qualunque passo. Che cosa significa la domanda muta che fai?”

Pallas, soffocandosi nel ventre tutto il veleno, sconvolto, ora si affaccia alla sua porta aperta di colpo. “Schmar, Schmar! Mi sono accorto di tutto, non mi è sfuggito nulla”. I due si esaminano l’un con l’altro. A Pallas basta questo, Schmar non ne trae niente di conclusivo. La signora Wese, intorno a lei una folla di persone, corre sul posto, lo spavento le ha invecchiato il volto. Cade sopra Wese, e il suo corpo rivestito dalla camicia da notte appartiene a lui; la pelliccia, aperta sui coniugi, come erba tombale, appartiene alla folla. Schmar, lui reprime a fatica la nausea definitiva premendo la bocca sulla spalla della guardia che lesta lo porta via. * Che l'assassino e la vittima siano fratelli nel testo non emerge.

Il ponte. Ero rigido e freddo, ero un ponte, bloccato su uno sprofondo, le punte dei piedi affondate da una parte, dall’altra le mani, pezzi d’argilla tra i miei denti. Le falde della giacca sventolavano di qua e di là. Sotto, il frastuono del gelido torrente, le trote. Nessun gitante si arrischiava fino a quest’altezza impraticabile, il ponte non era ancora segnato sulla carta. Insomma, ero immobilizzato ed aspettavo; dovevo aspettare; un ponte, una volta costruito, non poteva certo smettere di essere ponte, se non venendo giù. Una volta, verso sera, la prima o la millesima non lo so, perché i pensieri mi si confondevano sempre e giravano a vuoto, verso sera, in estate, il torrente mormorava più scuro - sentii passi umani. Da questa parte, da questa parte! Ponte, distenditi, assestati, deboli travi del parapetto, rimanete sicure, fate da contrappeso impercettibile all’incertezza dei suoi passi; ma, se lui incespica, allora, ponte, fatti riconoscere, e, come una divinità della montagna, scaglialo giù. Arrivò, mi colpì con la punta ferrata del bastone, poi mi sollevò le falde della giacca e le mise in ordine sopra di me, spinse quindi la punta nei miei capelli cespugliosi e v’indugiò a lungo, forse guardandoci dentro. Poi, mentre anelavo che lui si trovasse oltre la montagna e la valle, si mise a saltarmi con entrambi i piedi sulla schiena. Tremavo di un dolore bestiale, senza sapere nulla, cos’era? Un bambino? Un ginnasta? Uno spericolato? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi voltai per vederlo. Il ponte si voltò! Non mi ero ancora girato, che cadevo e già venivo smembrato ed infilzato da quei sassi appuntiti che sempre mi avevano guardato tanto pacifici tra l’acqua furiosa.

A cavallo di un secchio Consumato tutto il carbone, vuoto il secchio, la paletta inutile, la stufa diffonde freddo, il gelo divora la stanza, fuori della finestra alberi irrigiditi nella brina, il cielo è uno scudo d’argento nemico di chi vorrebbe il suo aiuto. Devo procurarmi del carbone, non posso mica morire assiderato; dietro di me ho la spietatezza della stufa, davanti il cielo, anche lui spietato; ecco perché devo decidermi a cavalcare alla svelta per cercare aiuto dal carbonaio. Dato che lui è di solito insensibile alle mie preghiere, devo dimostrargli con la massima precisione che non ho più neanche un pezzetto di carbone e che lui perciò rappresenta addirittura il sole nel firmamento. Devo arrivare da lui come un mendicante moribondo che rantola per la fame sulla soglia dell’ingresso, cui la cuoca dei padroni decide di conseguenza che si versi in gola il fondo di caffè avanzato: proprio nello stesso modo il carbonaio deve buttare una paletta piena di carbone nel mio secchio, contrariato, ma sottoposto al comandamento “Non uccidere”. La mia uscita di casa dev’essere decisiva, perciò cavalco il secchio. Come cavaliere del secchio, una mano stretta al manico, la semplicissima briglia, faccio le scale con difficoltà, tuttavia il secchio mi si solleva sotto magnifico; i cammelli, umilmente accovacciati al suolo, non si levano, colpiti dal bastone del padrone, in modo più bello. Per la via, che è parecchio ghiacciata, procediamo al trotto regolare, non poche volte vengo sollevato all’altezza dei primi piani, mai giù fino ai portoni delle case. Incredibilmente alto mi libro di fronte al soffitto della cantina del carbonaio, dove lui, in basso, ripiegato sul suo tavolo, scrive: per smaltire il calore esagerato ha aperto la porta. “Carbonaio!” grido con la voce rauca per il freddo, avvolto in una nube di fumo, “ti prego, carbonaio, dammi un po’ di carbone. Ho

il secchio così vuoto che riesco ad andarci a cavallo. Sii così buono. Quando posso ti pago.” Il carbonaio porta la mano all’orecchio. “Sento bene?”, chiede al di sopra della spalla a sua moglie, che lavora a maglia sulla panca della stufa, “sento bene? Un cliente.” “Io non ho sentito proprio nulla” dice la moglie, respirando impassibile sui ferri del lavoro a maglia, la schiena piacevolmente scaldata. “Sì” grido, “sono un vecchio cliente fedele, affezionato, solo per il momento sprovvisto di mezzi”. “Moglie”, dice il carbonaio, “è qualcuno, non posso certo sbagliarmi, dev’essere un cliente, un vecchio cliente, a parlar così al mio cuore.” “Cos’hai, marito?”, dice la moglie appoggiandosi il lavoro al petto per riposarsi un momento. “Non è nessuno, la strada è vuota, tutti i nostri clienti sono a posto, possiamo interrompere i nostri affari per giorni e riposarci.” “Ma io sono qui sul secchio”, grido, e senza che me ne accorga lacrime di freddo mi velano gli occhi, “per favore, guarda fuori, mi vedrai facilmente, per favore, una paletta piena di carbone, e sarei felicissimo se me ne voleste dare due. Gli altri clienti sono già riforniti. Ah! Già lo sento scricchiolare nel secchio!” “Arrivo”, dice il carbonaio, e vorrebbe salire la scale della cantina con quelle sue gambe corte, ma la moglie è già su di lui, lo blocca per un braccio e dice: “Tu non ti muovi, tu desisti dalla tua testardaggine, ci vado io. Pensa a quella brutta tosse di stanotte. Per un affare soltanto ipotetico trascuri moglie e figlio e sacrifichi i polmoni? Vado io.” “Allora però fagli l’elenco di tutte le qualità di carbone che abbiamo in magazzino, che io ti grido i prezzi.”

“Bene”, dice la moglie e sale in strada. Naturalmente mi vede subito. “Signora carbonaia”, grido, “le porgo i miei rispettosi saluti, soltanto una paletta piena di carbone, qui, nel secchio, che la porto a casa, una paletta piena del più scadente. Naturalmente lo pago tutto, ma non subito, non subito.” Come scampanano le due parole “non subito”, e come si confondono con l’avemaria che per l’appunto si sente dal campanile della chiesa vicina. “Cosa vuole, allora?”, grida il carbonaio. “Niente”, risponde gridando la moglie, “non è niente, non vedo niente, non sento niente, soltanto che suonano le sei e noi ora si chiude. Il freddo è spaventoso, domani di sicuro avremo molto lavoro.” Non vede e non sente nulla, lei, eppure si slaccia il grembiule e tenta di sventagliarmelo addosso. Purtroppo le riesce. Il mio secchio ha tutte le qualità di un animale da sella, ma non quella di resistere, troppo leggero, basta un grembiule da donna a farlo volar via. “Screanzata!”, le grido di rimando, mentre girandosi verso il negozio, metà soddisfatta metà sprezzante, lei, armata di grembiule, colpisce l’aria. “Screanzata! Ho implorato una paletta piena di carbone, del più scadente, e tu non me l’hai data”. E arrivederci a mai più, io salgo dove le montagne sono di ghiaccio, e dove mi perdo.

Sciacalli e arabi. Ci eravamo accampati nell’oasi. I compagni dormivano. Un arabo alto e bianco mi passò davanti; aveva provveduto al cammello ed andava dove avrebbe dormito. Mi girai nell’erba; volevo dormire; non ci riuscivo; l’ululato lamentoso di uno sciacallo a distanza; mi rimisi seduto. E ciò che era stato tanto lontano, d’improvviso era vicino. Intorno a me un brulicare di sciacalli; occhi d’oro opaco balenanti; corpi snelli, eccitati all’agilità ed all’obbedienza come da una frusta. Da dietro ne venne uno, mi s’infilò sotto il braccio, stretto a me come se richiedesse il mio calore, poi mi si mise davanti e parlò, i suoi occhi quasi fissi nei miei: “Sono lo sciacallo più vecchio in assoluto. Sono felice di poterti accogliere proprio qui. Avevo quasi già perso la speranza, infatti noi ti aspettiamo da un’infinità di tempo; mia madre e la madre di lei hanno aspettato, e a ritroso tutte le madri, fino alla madre di tutti gli sciacalli. Devi crederci!” “ La cosa mi stupisce”, dissi, e dimenticai di accendere la legna accatastata, pronta per tener lontani gli sciacalli con il fumo, “sentirla mi stupisce molto. E’ solo per caso che vengo qui dall’estremo nord e sto facendo un breve viaggio. Che cosa volete dunque, voi sciacalli?” E loro, come incoraggiati da queste frasi forse troppo amichevoli, strinsero di più il loro cerchio intorno a me; tutti avevano il respiro corto e sbuffante. “Sappiamo”, disse l’anziano, “che vieni dal nord, proprio su questo si basa la nostra speranza. Lì c’è il giudizio che qui tra gli arabi non si trova. Sai, da questa fredda superbia non si genera alcuna scintilla di giudizio. Uccidono gli animali per mangiarli e disdegnano le carogne.”

“Non parlare a voce così alta”, dissi, “qui vicino dormono degli arabi.” “Sei veramente uno straniero”, disse lo sciacallo, “altrimenti sapresti che fin qui mai nella storia universale uno sciacallo ha avuto paura di un arabo. Dovremmo averne paura? Non basta, quanto alla sfortuna, che noi siamo banditi tra gente simile?” “Può essere, può essere”, dissi, “non mi sono fatto un’opinione su cose che mi sono tanto lontane; sembra una contesa assai vecchia; dunque sta completamente nel sangue; così forse avrà termine soprattutto con il sangue.” “Sei molto acuto”, disse il vecchio sciacallo; e tutti respirarono ancora più svelti; con affanno, per quanto se ne stessero ancora tranquilli; dalle fauci aperte fuoriuscì un odore cattivo, solo momentaneamente sopportabile tenendo i denti serrati, “sei molto acuto, quel che dici è conforme alle nostre antiche dottrine. Noi dunque li priviamo del sangue e la contesa è finita.” “Oh!” dissi con più violenza di quanto volessi, “loro si difenderanno, a frotte vi uccideranno con i loro schioppi.” “Ci fraintendi”, disse lui, “dipende dalla natura umana, che non viene meno neppure nel lontano nord. Noi mica li uccideremo. Il Nilo non avrebbe abbastanza acqua per mondarcene. Alla sola vista del loro corpo vivo ce ne scappiamo via nell’aria più pura, nel deserto, che perciò è la nostra patria.” E tutti gli sciacalli intorno, ai quali nel frattempo se n’erano aggiunti molti da lontano, abbassarono il muso tra le zampe anteriori e se lo pulirono; era come se volessero nascondere una ripugnanza così paurosa che io sarei, per prima cosa, saltato su, fuori dal loro cerchio.

“Che cosa avete intenzione di fare”, domandai, e volevo alzarmi; ma non potevo; due giovani animali mi avevano saldamente piantato i denti nella giacca e nella camicia; dovevo restare seduto. “Ti tengono lo strascico”, disse con serietà il vecchio sciacallo a mo’ di spiegazione, “un atto di omaggio”. “Devono lasciarmi andare!”, urlai, un po’ rivolto all’anziano, un po’ ai giovani. “Certo che lo faranno”, disse l’anziano, “se tu lo chiedi. Ma ci vuole un po’, perché loro come sono abituati a fare hanno addentato in profondità, e prima devono staccare pian piano il morso un poco per volta. Nel frattempo, ascolta la nostra preghiera.” “La vostra condotta non mi ha reso molto sensibile a ciò”, dissi io. “Non farci scontare la nostra inettitudine”, disse, ed ora per la prima volta adoperò il tono lamentoso naturale della sua voce per chiedere aiuto, “siamo poveri animali, questa è la nostra sola certezza; per tutto quello che abbiamo intenzione di fare, il bene e il male, ci resta quest’unica certezza.” “Che cosa vuoi, dunque?”, domandai, placato appena un po’. “Signore”, gridò lui, e tutti gli sciacalli ulularono; nella lontananza buia mi sembrò che fosse una melodia. “Signore, tu sei destinato a por fine alla contesa che divide il mondo. I nostri anziani ti hanno descritto così, come sei, colui che lo farà. Noi dobbiamo ottenere la pace dagli arabi; aria respirabile; purgata della loro presenza la vista tutt’intorno, fino all’orizzonte; nessun montone macellato dagli arabi che urli i suoi lamenti; ogni animale è destinato a morire quietamente; dev’essere prosciugato da noi senza che siamo disturbati, e venir ripulito fino alle ossa. Pulizia, non desideriamo altro che pulizia,” – ora tutti piangevano, singhiozzavano – “come fai tu, cuore nobile, sensibili viscere, anche soltanto a sopportarlo? Nell’umano il bianco è sozzura,

sozzura il nero, orrore la barba; vederne la coda dell’occhio dà il vomito; ed esce l’inferno dalle loro ascelle, quando sollevano il braccio. Perciò, o signore, o prezioso signore, di mano tua, di mano tua onnipotente, taglia loro la gola con queste forbici!” E, obbedendo ad uno scatto della sua testa, si avvicinò uno sciacallo che reggeva, su un dente canino, un paio di piccole forbici da cucito ricoperte di vecchia ruggine. “E dunque eccoci finalmente alle forbici, e con questo alla conclusione!” gridò il capo carovana arabo, che si era avvicinato strisciando contro vento ed ora agitava il suo enorme scudiscio. Tutto terminò di colpo, ma numerosi animali rimasero lo stesso a qualche distanza, rannicchiati strettamente insieme, così stretti e immobili da sembrare una compatta barriera intorno a cui volteggiassero fuochi fatui. “Dunque, signore, anche tu hai visto e udito questa messa in scena”, disse l’arabo e rise tanto allegro quanto il riserbo della sua stirpe gli consentiva. “Quindi tu sai quel che vogliono gli animali?” domandai. “Certo, signore”, disse lui, “è universalmente noto, certo; finché ci sono arabi queste forbici vagano per il deserto e vagheranno con noi fino alla fine dei giorni. Vengono proposte per il capolavoro a tutti gli europei; ogni europeo è giusto quello che a loro sembra competente. Questi animali hanno una speranza insensata; folli, sono veramente folli. Noi li amiamo per questo; si tratta dei nostri cani; meglio dei vostri. Guarda, ora, un cammello è morto durante la notte, l’ho fatto trasportare qui.”

Vennero molti portatori e gettarono il pesante cadavere davanti a noi. Non appena giacque lì, gli sciacalli fecero sentire la loro voce. Ognuno tirato come da funi irresistibili, si avvicinarono non senza soste sfiorando il suolo con la pancia. Avevano dimenticato gli arabi, dimenticato l’odio, li affascinava la presenza del cadavere che, con il suo forte olezzo, cancellava tutto il resto. Già uno si attaccava alla gola e trovava, al primo morso, la giugulare. Come una piccola pompa frenetica che, tanto perentoria quanto inutile, intenda spegnere un fuoco troppo poderoso, ogni muscolo del suo corpo ora tirava, ora sussultava. E già tutti si trovavano all’opera sul cadavere, ammonticchiati. Allora il capo li colpì forte in lungo e in largo con il tagliente scudiscio. Sollevarono la testa; mezzo ebbri e inermi; videro l’arabo star loro davanti; ebbero da sentire con i musi lo scudiscio; si tirarono indietro con un salto e corsero un poco a ritroso. Tuttavia il sangue del cammello già formava una pozza, fumava, il corpo era squarciato in molti punti. Non potevano resistere; erano di nuovo lì; di nuovo il capo sollevò lo scudiscio; gli afferrai il braccio. “Hai ragione, signore”, disse, “lasciamoli al loro mestiere; del resto è tempo di partire. Hai visto. Prodigiosi animali, non è vero? E come ci odiano!”

Il nuovo avvocato. Abbiamo un nuovo avvocato, il dottor Bucephalus. Il suo aspetto esteriore ricorda poco l’epoca in cui era il cavallo da combattimento di Alessandro il Macedone. Del resto, chi ha familiarità con la circostanza nota qualcosa, ma ultimamente, per le scale, vedevo perfino un semplicissimo usciere giudiziario guardare stupito l’avvocato, con l’occhio esperto dei piccoli frequentatori delle corse, mentre costui, sollevando le gambe, saliva con passo risonante sul marmo, uno scalino dopo l’altro. Di solito il Foro accetta con approvazione Bucephalus. Si dice con straordinaria assennatezza che Bucephalus, nell’odierno ordine sociale, ha una posizione difficile e che dunque, anche a causa della sua importanza in ambito storico, merita in ogni caso gentilezza. Oggi innegabilmente non c’è alcun Alessandro Magno. Anzi, alcuni hanno comprensione per l’assassinio, del resto non manca nella storia l’atto di colpire di lancia l’amico durante un banchetto. La Macedonia a molti pare troppo angusta per deprecare Filippo, il padre – ma nessuno, nessuno è capace di far la guida con destinazione India. Già da tempo le porte dell’India erano irraggiungibili, ma la regale spada indicò la via. Oggi la porte si trovano da tutt’altra parte, e hanno una maggior tenuta, sia in larghezza che in lunghezza; nessuno indica la via, molti hanno la spada, ma solo per brandirla, e lo sguardo che vuole seguirla si confonde. Forse perciò la cosa migliore, come Bucephalus ha fatto, è immergersi nei libri di legge. Libero, le costole non oppresse dai lombi del cavaliere, lontano dal fracasso battagliero di Alessandro, vicino ad una tranquilla lampada, legge, e sfoglia i nostri vecchi libri.

Ieri ho avuto un mancamento Ieri ho avuto un mancamento. Abita nella casa accanto, lei, spesso mi sono inchinato vedendola scomparire dentro un basso uscio. Una gran dama, abito lungo, largo e spiovente, cappello con piume. Ieri entra di fretta in casa mia come un medico timoroso di essere arrivato tardi da un malato terminale. “Anton”, fa lei a bassa voce, fiera però, “eccomi”. Si lascia cadere sulla sedia che le ho indicato. “Stai di casa in alto, te”, dice sospirando. Sprofondato in poltrona annuisco. Danzano innumerevoli gli scalini che portano fino alla mia stanza, uno dietro l’altro, instancabili ondine. “Perché fa così freddo?”, domanda lei, ma si toglie i guanti, vecchi e lunghi, e li butta sul tavolo. Vede che tengo la testa bassa e gli occhi serrati. Mi sento come un passerotto, saltello per le scale e lei mi scompiglia le piume morbide. “Mi duole davvero che tu ti consumi dietro a me”, dichiara. “Ho visto il tuo viso sciupato, quando stai in cortile e guardi verso la mia finestra, non sono mal disposta verso di te, ma tu non possiedi ancora il mio cuore, forse hai la possibilità di conquistarlo”.

Avrei dovuto La scala *. Come, dove stia, in questo mondo, questa scala, che cosa ci sia da aspettare, in questo mondo, come iniziare, ecco di cosa avrei dovuto occuparmi già da molto tempo. Mi dicevo, come scusa: tu non hai mai sentito parlare di questa scala, eppure nei libri e nelle riviste si tratta con minuzia di tutto, com’è e come non è. Tuttavia circa questa scala non ho trovato nulla. Forse hai letto senza accuratezza, mi dicevo. Distratto, hai saltato paragrafi, addirittura ti sei accontentato dei titoli, forse si menzionava la scala e ti è sfuggito. E ora ti serve proprio quel che ti è sfuggito. A momenti continuo a riflettere su questo punto di vista. Mi è venuto in mente di aver letto una volta, in un libro per bambini, forse, di una scala del genere. Niente di che, magari soltanto la menzione della sua esistenza, ciò che non può servirmi a nulla. * Il finale del testo intitolato “Difensori” potrebbe offrire una spiegazione a queste misteriose righe.

Il messaggio imperiale* A te l’imperatore, proprio a te, un privato, misero suddito, ombra minuscola sfuggita nella lontananza più remota al sole imperiale, a te, dicono, ha appena inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha sussurrato di far inginocchiare il messaggero vicino al letto e gli ha parlato nell’orecchio; gli premeva tanto il messaggio, che se lo è fatto ripetere di nuovo, nell’orecchio. Con cenni del capo ha approvato la conformità del detto. E davanti a tutti quanti i testimoni della sua morte – abbattute tutte le pareti che erano d’ostacolo, stava la cerchia dei grandi dell’impero sulle alte armoniose scalinate – davanti a tutto questo egli ha dato il via al messaggio. Il messo parte subito per il suo viaggio, forte, instancabile, si fa largo nella folla ora con un braccio, ora con l’altro, trova resistenza, mostra il petto con su il simbolo del sole, procede con gran facilità, come nessun altro farebbe, tuttavia la folla, i cui alloggiamenti non accennano a terminare, è talmente grande. Il messaggero si aprirà svelto la strada, volando, e presto udrai il colpo magnifico dei suoi pugni sulla tua porta. No, invece lui incontra difficoltà che lo fiaccano, attraversa le stanze del palazzo interno sempre più a fatica, non le oltrepassa mai, e se gli riuscisse non avrebbe ottenuto niente, dovrebbe lottare per scendere le scalinate, e se gli riuscisse non basterebbe, ci sarebbero i cortili, il secondo palazzo che circonda il primo, e ancora scalinate e cortili, e ancora un palazzo, e così via per un migliaio di anni. Infine il messaggero cadrebbe proprio davanti alla porta esterna, ma la cosa non potrebbe mai, mai succedere; prima, davanti a lui, si allargherebbe la città, che è il centro del

mondo, colmo dei suoi scarti, dove nessuno può farcela, men che meno con il messaggio di un morto. Eppure tu siedi alla finestra e lo agogni, quando viene la sera. * “Il messaggio imperiale” fa parte del lungo racconto “La costruzione della muraglia cinese” .

Una vecchia pagina. Sembra che molto sia stato trascurato nella difesa della nostra patria. Finora non ci abbiamo fatto caso, badando ai nostri affari, tuttavia gli ultimi avvenimenti ci danno da pensare. Io ho una bottega di calzolaio nella piazza antistante il palazzo imperiale. Appena apro, alle prime luci dell’alba, vedo già le strade che sbucano nella piazza occupate da uomini armati. Tuttavia non sono soldati nostri, sembra che siano nomadi provenienti dal nord. Senza che io capisca come, sono penetrati fino nella capitale, che per altro si trova molto lontana dal confine. Eppure eccoli lì, e sembra che aumentino ogni giorno. Secondo la loro natura stanno accampati sotto il cielo, dato che detestano le case di abitazione. Si danno da fare affilando le loro spade, mantenendo appuntite le lance, e si esercitano a cavallo. Di questo luogo, tenuto sempre scrupolosamente pulito, hanno fatto una stalla. Noi talvolta cerchiamo, è vero, di schiodarci dai nostri affari e di eliminare la sporcizia peggiore, ma ciò succede sempre più raramente, perché la fatica è inutile, e per giunta ci espone al pericolo di finire sotto i cavalli selvaggi o di esser feriti dalle frustate. Con i nomadi non si può parlare. Non conoscono la nostra lingua, ammesso che ne abbiano una loro. S’intendono reciprocamente a mo’ di cornacchie. Si continua sempre a sentire questo gracchiare di cornacchie. Il nostro modo di vivere e i nostri costumi a loro sono tanto incomprensibili quanto indifferenti. Perciò sembrano alieni anche davanti al linguaggio mimico. Hai voglia di serrare le mascelle e di stringerti con le mani le giunture, loro non ti capiscono né ti capiranno. Spesso fanno smorfie, ruotano le pupille in alto mostrando il bianco degli occhi, ma non è che vogliano dirti qualcosa o spaventarti, lo

fanno e basta, è la loro razza. Quel che gli serve se lo prendono, non si può dire che usino la forza. Quando pigliano, ci si fa da parte e gli si lascia tutto. Hanno prelevato anche dalla mia bottega parecchi buoni articoli, non posso rammaricarmene, però, se guardo a come vanno le cose al macellaio di fronte. Appena porta dentro la sua merce, tutto gli vien portato via dai nomadi, e divorato. Anche i loro cavalli si nutrono di carne, spesso un cavaliere e il suo cavallo giacciono l’uno accanto all’altro e si sfamano allo stesso pezzo di carne, ognuno dalla sua parte. Quest’azzannare è spaventoso e ci vuole coraggio per portare a termine la consegna della carne, tuttavia di ciò ci rendiamo conto, facciamo la colletta e aiutiamo il macellaio. Se non avessero la carne, i nomadi, chissà che cosa gli verrebbe in mente di fare, del resto, chissà che cosa hanno in mente, anche quando ne ricevono tutti i giorni. Tempo fa il macellaio pensò di risparmiarsi la fatica della macellazione, e una mattina portò un bue vivo. Non poté più rifarlo. Io per un’ora mi ritrovai schiacciato sul pavimento, dentro la mia bottega, addosso un mucchio di vestiti, coperte, cuscino, tutto per non sentire i muggiti del bue, assalito da ogni parte dai nomadi che gli azzannavano pezzi di carne viva. S’era fatto silenzio da un bel po’, prima che mi azzardassi a venir fuori; e quelli si sbracavano attorno ai resti del bue, parevano ubriachi attorno a una botte di vino. Fu proprio quella volta che ebbi il pensiero che l’imperatore stesso, stando a una finestra del palazzo, avesse visto; altrimenti mai che lui venisse in questo suo appartamento esterno, viveva sempre solo nel giardino più interno, ma stavolta si trovava, così almeno mi sembrò, ad una delle finestre, e guardava a testa bassa quel che succedeva davanti alla sua residenza.

“Com’è avvenuto ciò?”, ci domandiamo noi tutti. “Per quanto tempo sopporteremo questa pena, questo supplizio? Il palazzo imperiale ha attirato i nomadi, ma non sa scacciarli. La porta rimane chiusa, la guardia, che sempre, prima, marciava solennemente dentro e fuori, ora sorveglia da dietro le inferriate. La salvezza della patria è affidata a noi artigiani e commercianti, ma non siamo all’altezza di tale compito e non abbiamo mai preteso di esserlo. Si tratta di un equivoco che ci manda in rovina.”

D’estate Durante una giornata d’estate molto calda, tornando verso casa, giunsi insieme a mia sorella davanti al portone di una fattoria. Lei colpì con risolutezza il portone con un pugno, non saprei, magari lo fece distrattamente, solo mimando, senza bussare davvero. Cento passi più avanti sulla strada di campagna che voltava a sinistra iniziava un villaggio che noi non conoscevamo. Subito uscì gente dalla casa più vicina e, amichevolmente, ci accennò di stare in guardia; erano spaventati, ingobbiti dalla paura. Indicarono la fattoria cui noi eravamo davanti e a gesti il colpo sul portone. I padroni della fattoria ci avrebbero rimproverato, e si sarebbe dato inizio all’indagine. Io calmissimo tranquillizzai mia sorella, probabilmente non aveva quasi dato il colpo, e, anche se lo avesse dato, per questo mai al mondo s’intenta un processo. Provai a far capire loro questa cosa, mi ascoltarono, ma non espressero un parere. Successivamente dissero che non solo mia sorella, ma anch’io, in quanto fratello, sarei stato accusato. Ridendo dissi di sì, mentre tutti guardavamo in direzione della fattoria come si tiene d’occhio una nuvola di fumo lontana e si sta attenti alla fiamma. In realtà ben presto si videro uomini a cavallo entrare nel grande portone aperto della fattoria alzando un polverone che coprì tutto e sopra cui lampeggiava solo la punta delle lance. Appena sparita quella truppa nella fattoria, subito si vide che voltava i cavalli e veniva verso di noi. Spinsi da parte mia sorella, avrei chiarito tutto da solo, lei si rifiutò di lasciarmi, e allora le dissi che avrebbe dovuto indossare magari un abito migliore per presentarsi davanti a quei signori. Infine obbedì e si accinse a fare la lunga strada per tornare a casa. Gli uomini a cavallo già erano su di noi, dall’alto chiesero a mia sorella di non restare per

ora sul posto, avrebbe anzi risposto dettagliatamente, ma di presentarsi più tardi. La risposta di lei fu accolta quasi con indifferenza, soprattutto sembrava importante che fossi stato individuato io. Si trattava di due signori, un giovane ufficiale dall’aria sveglia e uno più tranquillo, il suo aiutante, il vice. Venni invitato nella stanza di soggiorno della fattoria: lentamente, scuotendo la testa, stirando le mie bretelle, passai sotto gli sguardi intenti di quei signori. Pensavo ancora che bastasse una parola per essere lasciato libero, io, il cittadino, perfino con onore, agli occhi di questi campagnoli. Invece, quando ebbi varcato la soglia di quella stanza, l’ufficiale, che mi aveva preceduto dentro e stava aspettandomi, disse: “Quest’uomo mi fa compassione”, ma era fuor di dubbio che non si riferiva tanto alla mia condizione presente, quanto a quel che mi sarebbe successo. La stanza, più che un soggiorno rustico, pareva una cella. Lastroni di pietra, fredde pareti grigio scure, qua e là certi anelli di ferro, e nel mezzo qualcosa tra la panca e il tavolo operatorio.

Undici figli. Ho undici figli. Il primo, esteriormente molto misero, è tuttavia serio e intelligente; ciò nondimeno non lo stimo, sebbene lo ami assai come figlio, al pari di tutti gli altri. Non guarda né a sinistra né a destra, e neppure in prospettiva; continua a ripercorrere il breve giro delle sue idee, o invece fa dietrofront. Il secondo è bello, slanciato, ben fatto; incantevole, vederlo nella posizione dello schermitore. Anch’egli è intelligente, ma anche uomo di mondo; ha visto molte cose e sembra però che il carattere del suo paese si esprima strettamente attraverso di lui così come si esprime attraverso chi se n’è rimasto a casa. Tale pregio tuttavia non dipende una volta per tutte soltanto dall’aver lui viaggiato, ma attiene molto di più all’inimitabile di questo ragazzo, che per esempio viene apprezzato da chiunque voglia, dopo i suoi, rifarne i tuffi in acqua, le molteplici capriole, impetuose eppure controllate. L’imitatore esibisce fino al termine dell’asse del trampolino gioia e coraggio, ma a quel punto, invece di saltare, d’improvviso si pianta lì ed alza le braccia per giustificarsi. – Eppure ciò nonostante (dovrei bearmi di un ragazzo simile) il mio rapporto con lui non è sereno. Ha l’occhio sinistro un po’ più piccolo del destro e lo stringe con un tic; solo un piccolo difetto, sicuro, che rende la sua faccia ancora più sfacciata di quel che altrimenti sarebbe stata, e nessuno biasimerà, di fronte all’inaccessibile indipendenza del suo carattere, quest’occhio più piccolo ammiccante. Io, il padre, lo faccio. Non è questo difetto fisico a farmi male, ma una certa quale sregolatezza spirituale, un certo veleno che vaga nel suo sangue, una certa incapacità, che, soltanto a mevisibili, danno in modo decisamente eccessivo l’impostazione alla sua vita.

Proprio questo d’altra parte fa di lui, anche troppo, il mio vero figlio, infatti tale suo difetto è allo stesso tempo il difetto di tutta la nostra famiglia, in questo figlio solo più evidente. Anche il terzo figlio è bello, ma la sua non è una bellezza che mi va a genio. Si tratta della bellezza del cantante: bocca tremula, occhi sognanti; la testa ha bisogno, per operare, dello sfondo di un drappeggio; il torace è troppo tondo; le mani si sollevano lievi, e troppo lievi si abbassano; le gambe, poiché non sanno portarlo, fan le leziose. E soprattutto: la tonalità della voce non è piena; per un attimo inganna, attira l’attenzione dell’intenditore; ma poi è corta di respiro. – Nonostante che tutto spinga a mettere in mostra questo figlio, io lo tengo più di tutto segreto; lui stesso non si fa largo, ma forse non perché sa la sua insufficienza, piuttosto per ingenuità. Si sente inoltre estraneo in quest’epoca; spesso è malinconico, come se appartenesse anche ad un’altra famiglia, non solo alla mia, e niente riesce a rasserenarlo. Il mio quarto figlio è forse il più affabile di tutti. Un vero ragazzo del suo tempo, tutti lo capiscono, il suo terreno è quello comune a tutti e tutti hanno la tentazione di fargli un cenno di saluto. Forse da quest’approvazione generale il suo contegno trae un che di leggero, i suoi movimenti qualcosa di sciolto, i suoi giudizi qualcosa di spensierato. Qualcuna delle sue uscite sarebbe da riportare, solo qualcuna però, infatti in genere lui patisce di un’eccessivaa leggerezza. Assomiglia a uno che abbia un ammirevole slancio, solchi l’aria lieve come una rondine, ma sconsolatamente finisca nella solitudine della polvere, un niente. Questi pensieri mi rendono amara la vista di questo ragazzo. Il quinto figlio è buono e caro; prometteva assai meno di quel che faceva; era tanto insignificante che in presenza sua ci si sentiva davvero soli; ma ciò ha indotto alcuni a stimarlo. Mi si

domandasse com’è successo, saprei appena rispondere. Con innocenza s’infila senza sforzo nell’infuriare degli elementi della vita, ed è innocente. Forse troppo. Benevolo con tutti. Forse troppo. Confesso: non mi sta bene, se lui mi viene lodato in faccia. Cioè, se si loda uno così evidentemente degno di lode com’è mio figlio, è una lode fatta troppo alla leggera. Il mio sesto figlio sembra, almeno a prima vista, il più malinconico di tutti. Avvilito e tuttavia ciarliero. E’ per questo che non gli si sta facilmente vicino. E’ soggetto alla sconfitta, così s’abbandona ad un’invincibile afflizione. Va in sovrappeso e ci resta a forza di ciarle. Non gli nego una certa quale svagata passione; nel pieno del giorno si fa combattivamente strada tra i pensieri come in sogno. Senza esser malato – per lo più gode di un’ottima salute – talvolta barcolla, soprattutto all’imbrunire, ma non gli serve aiuto alcuno, non cade. Forse in quest’apparenza fisica risiede l’autentica spiegazione, lui è troppo grosso per la sua età. Ciò lo rende nel complesso non bello, nonostante certi dettagli visibilmente belli, per esempio le mani ed i piedi. Non bella del resto anche la fronte, la cui pelle, a causa della conformazione ossea, è grinzosa. Il settimo figlio m’appartiene forse più di tutti gli altri. Il mondo non lo apprezza troppo; non capisce la sua particolare indole arguta. Non lo sopravvaluto; lo so che è piuttosto insignificante; se il mondo non avesse alcun altro difetto a parte quello di non saperlo apprezzare, sarebbe ancora perfetto. Ma non vorrei fare a meno di questo figlio nella mia famiglia. Porta tanto di sconvolgimento quanto di rispetto profondo, della tradizione, e li congiunge, secondo me, in un insieme incontestabile. Di quest’insieme certo lui sa fare, per quanto minimamente, qualcosa; non metterà in movimento la ruota del futuro, ma questa sua disposizione è così incoraggiante, così ricca di

speranza; vorrei che avesse figli, e questi, di nuovo, figli. Sfortunatamente questo desiderio non sembra aver la prospettiva di essere esaudito. A causa di un certo comprensibile, ma non meno indesiderato amor proprio soddisfatto, che tuttavia è contraddetto con forza dal giudizio del suo ambiente, si muove da solitario, non si occupa delle ragazze, ciò nonostante non perderà mai il suo buon umore. Il mio ottavo figlio è di quei ragazzi che danno molte preoccupazioni, ed io non ne so davvero la ragione. Mi guarda come un estraneo, eppure io mi sento, come padre, assai legato a lui. Il tempo ha lavorato molto bene; prima però, se pensavo a lui, ero assalito dal tremito. Percorre la sua strada; ha rotto tutti i legami con me e certamente, con la sua testa dura, il suo corpicino atletico – solo le gambe, da giovane, aveva piuttosto esili, ma nel frattempo deve averle irrobustite – se la caverà ovunque. Avevo spesso voglia di fargli un fischio, di chiedergli come stava, perchè si isolava così dal padre e che cosa davvero voleva fare, ma ora tutto resta com’è. Sento dire che lui, solo tra i mei figli, porta un gran barba; in un uomo così piccolo naturalmente non va bene. Il mio nono figlio è molto elegante ed ha secondo le signore uno sguardo decisamente dolce. Tanto dolce che capita anche a me di esserne sedotto, per quanto io sappia che, a cancellare tale sublime splendore, basta una spugna umida. Quel che è speciale in questo giovane, tuttavia, è che in pratica non cerca di sedurre; gli sarebbe sufficiente passar la vita sdraiato sul divano e vagare con lo sguardo verso il soffitto, o anche, molto meglio, tenerlo a riposo sotto le palpebre. In tale posizione a lui diletta parla, e non male; chiaro e conciso; tuttavia entro limiti stretti; se li varca, e ciò è inevitabile data la loro ristrettezza, lui discorre in modo assolutamente vacuo. Gli si farebbe capire a

cenni che non va, se si sperasse che un tale sguardo assonnato potesse farci caso. Il mio decimo figlio è considerato una persona insincera. Non intendo contestare interamente questa pecca, né confermarla. Certo, chi lo vede avvicinarsi con quella compostezza assai incongrua con la sua età, sempre in finanziera ben abbottonata, con un cappello nero, vecchio ma tenuto anche troppo pulito, impassibile il volto, mento sporgente, palpebre inarcate con gravità, le due dita portate alla bocca – chi lo vede così pensa: è un simulatore senza limiti. Ma lo si senta parlare! Assennato; cauto; di poche parole; vivacemente cattivo in risposta alle domande; in sorprendentemente spontanea e felice concordanza con il mondo intero; una concordanza che irrigidisce il collo e solleva la testa. Molti, che si credono assai intelligenti e perciò, secondo loro, si sentivano tenuti lontano dal suo aspetto, lui li ha sedotti assai con le sue parole. Ora, tuttavia, pare che esistano persone indifferenti al suo aspetto alle quali le parole di lui sembrano ipocrite. Io, come padre, qui non voglio tuttavia giudicare, e devo riconoscere che questi ultimi censori in ogni caso sono degni di essere ascoltati come i primi. Il mio undicesimo figlio è debole, davvero il più fragile tra i miei figli; ma d’ingannevole fragilità; sa essere infatti a tratti forte e deciso, forse però la fragilità in certo qual modo resta fondamentale. Non si tratta tuttavia di una imbarazzante fragilità, ma invece di qualcosa che solo nel nostro mondo sembra tale. Per esempio non è questione di fragilità anche il fatto di star per prendere il volo, che è tuttavia tentennamento e indecisione e battito d’ali? Mio figlio mostra qualcosa del genere. Simili caratteristiche naturalmente non rallegrano il padre; concorrono certo evidentemente alla distruzione della famiglia. Càpita che mi guardi come se volesse dirmi: „Padre, io ti

prenderò con me.“ Ed io penso:“Saresti l’ultimo di cui mi fiderei.“ E il suo sguardo sembra ancora dire:“ Voglio dunque almeno esser l’ultimo.“ Ecco gli undici figli.

La mia ditta. La mia ditta pesa interamente sulle mie spalle. Due dattilografe e i registri dei conti nell’anticamera, e la mia stanza, dov’è una scrivania, la cassa, un tavolo per le riunioni, una poltrona di pelle e il telefono, ecco tutta la mia attrezzatura professionale. Tanto semplice da tener sott’occhio, quanto facile da gestire. Sono giovane, e gli affari mi vanno bene, non mi lamento. Non mi lamento. Dall’inizio di quest’anno uno più giovane, di colpo, ha preso in affitto l’appartamentino vuoto accanto al mio, dopo che, goffamente, avevo esitato tanto ad affittarlo io. Appunto una stanza e un’anticamera, ma anche una cucina. La stanza e l’anticamera avrei potuto usarle, le mie due dattilografe già stanno pigiate, ma a cosa mi sarebbe servita la cucina? A causa di questa domanda gretta mi sono fatto soffiare l’appartamento. Ora questo giovanotto sta qui accanto. Si chiama Harras. Che cosa faccia di preciso non lo so. Sulla porta c’è soltanto “Harras, Ufficio”. Ho raccolto informazioni: mi si è fatto sapere che si tratta di un’attività simile alla mia, che con la concessione di credito non si è mai abbastanza guardinghi, che simili faccende hanno anzi un avvenire se le tratta un giovane in ascesa, che d’altra parte i consigli in fatto di credito non sono mai troppi, dato che oggi come oggi con ogni probabilità il giovanotto non dispone di alcun capitale: le solite informazioni che si danno quando non si sa nulla. Talvolta incontro Harras per le scale, deve avere una fretta straordinaria, letteralmente mi guizza davanti, quasi non l’ho visto bene, ancora, ha la chiave del suo ufficio pronta in mano, in un attimo ha aperto la porta, scivola dentro come la coda d’un topo e io mi ritrovo di nuovo davanti soltanto alla targa “Harras, Ufficio”, che ho già letto molto più spesso di quel che meriti. Le pareti miseramente sottili che

tradiscono l’uomo onesto e infaticabile, proteggono invece il disonesto. Il mio telefono è installato alla parete che mi separa dal mio vicino, lo evidenzio solo perché è un fatto veramente ironico, infatti, anche se il mio telefono stesse sulla parete opposta, dall’appartamento vicino si sentirebbe tutto. Ho smesso di fare il nome del cliente a cui telefono, tuttavia non c’è bisogno di molta scaltrezza per indovinare i nomi dalle particolari inevitabili frasi dei discorsi. Capita che io, tormentato dall’irrequietezza, ballonzoli in punta di piedi accanto al telefono con il ricevitore all’orecchio, ma ciò non può evitare che i segreti si propaghino. Com’è naturale anche le mie scelte professionali, al telefono, si fanno più incerte, la voce mi trema. Cosa fa Harras, mentre telefono? Volendo esagerare molto, ma spesso ciò serve per esser chiari, potrei dire che Harras non ha alcun bisogno del telefono: adopera il mio, ha il divano accostato alla parete e ascolta. Invece io, se suona, devo correre, soddisfare i clienti, prendere decisioni importanti, persuaderli, ma, innanzitutto, fare involontariamente rapporto ad Harras attraverso la parete. Forse non aspetta quasi neanche la fine dei discorsi, dopo aver capito i punti a lui utili, invece, si alza, com’è sua abitudine guizza per la città e, prima che io abbia riattaccato, forse è già all’opera contro di me.

L’incrocio. Ho uno strano animale, mezzo gatto, mezzo agnello. Si tratta di un’eredità della mia famiglia, proprietà di mio padre, ma si è formato quando io ero piccolo, prima era molto più agnello che gatto, ora invece ha senza dubbio l'aspetto di entrambi nella stessa misura. Del gatto ha testa e unghie, dell’agnello la mole e le forme, di entrambi gli occhi dolcemente fiammeggianti, il pelame, che aderisce soffice e corto, e le movenze, tanto saltellanti quanto guardinghe; si acciambella sul davanzale alla luce splendente del sole e fa le fusa, corre come un matto per i prati, imprendibile, scappa davanti ai gatti, vuole assalire gli agnelli, durante le notti di luna è la grondaia il suo percorso più amato, non sa miagolare e al cospetto dei topi si disgusta, può stare per ore in agguato accanto al pollaio, però ancora non ha mai colto l’occasione per compiere un assassinio, io lo nutro del latte più dolce, la cosa migliore per lui, lo inghiotte a grandi sorsate stando sulle sue zampe ferine. Naturalmente per i bambini è un grande spettacolo. La domenica a mezzodì è ora di visita, io lo tengo in grembo e i bambini di tutto il vicinato mi attorniano. Vengono fatte le domande più curiose, allora, cui nessun essere umano può rispondere. Io non mi sforzo per nulla, invece mi accontento, senza ulteriori spiegazioni, di farlo vedere com’è. Qualche volta i bambini portano con sé dei gatti, in un caso hanno portato perfino due agnelli, tuttavia, contrariamente a quanto si aspettavano, non ci fu nessuna scena di riconoscimento, gli animali si guardarono a vicenda negli occhi animaleschi ed apparentemente accolsero il loro essere come reciproca realtà divina. In grembo a me l’animale non conosce né paura né fregola della caccia. Stretto a me sta benissimo. E’ legato alla famiglia che lo

ha tirato su. Non che sia in questione una straordinaria fedeltà, piuttosto lo è l’appropriato istinto di un animale che, di sicuro sulla terra innumerevolmente imparentato, tuttavia non ha alcun consanguineo prossimo in particolare, e per il quale è sacra la protezione che certo ha trovato presso di noi. Qualche volta mi viene da sorridere, quando si mette ad annusarmi, mi transita tra le gambe attorcigliandosi e quasi non riesco a sciogliermene. Non basta che sia agnello e gatto, vuol essere anche un cane, quasi. Cioè, io credo, assomigliante quanto alla dignità. Di entrambi ha l’irrequietezza, quella del gatto e quella dell’agnello, per quanto siano eterogenei. La sua pelle perciò gli sta stretta. Per lui forse il coltello del macellaio sarebbe una liberazione, che io però devo rifiutare, perché si tratta di un’eredità della mia famiglia.

Una visita in miniera Oggi gli ingegneri di grado più elevato erano giù con noi. C’è stata qualche disposizione della dirigenza di approntare nuove gallerie, per cui gli ingegneri sono venuti dabbasso per dare inizio alle primissime misurazioni. Come sono giovani, costoro, e nello stesso tempo già tanto reciprocamente diversi! Tutti sono cresciuti senza coercizioni, ed i loro caratteri, chiaramente stabiliti già nei primi anni, appaiono indipendenti. Uno, dai capelli scuri, vivace, guarda da ogni parte. Un secondo, dotato di un blocco per appunti, mentre cammina scrive, si guarda intorno, annota. Un terzo, le mani nelle tasche della giacca che di conseguenza gli si tende tutta addosso, procede eretto; mantiene la dignità; solo nel suo continuo mordersi le labbra traspare, non troppo marcatamente, la giovanile impazienza. Un quarto fornisce al terzo non richiesti chiarimenti; più basso, come un tentatore che lo insegue, sembra che reciti soprattutto una litania: che cosa c’è da vedere qui. Un quinto, forse quello di grado più elevato, non tollera alcuna compagnia; alla svelta si trova in testa, o in coda; gli altri regolano i loro passi sui suoi; è pallido e fragile; la responsabilità gli ha scavato gli occhi; preme spesso, nel riflettere, la mano sulla fronte. Il sesto e il settimo camminano un po’ curvi, le teste vicine, a braccetto, conversando confidenzialmente; se non fossero evidenti, qui, la nostra miniera di carbone e il lavoro che facciamo, si potrebbe pensare che questi signori ossuti, imberbi, con il naso a patata, siano dei giovani ecclesiastici. Uno continua a farsi delle risatine che sembrano le fusa di un gatto; anche l’altro ride, guida la conversazione e a questo scopo con la mano

libera dà come il tempo. Come devono essere sicuri del loro impiego questi due signori, e quale stipendio, a dispetto della loro giovane età, devono essersi già conquistati nella nostra miniera, per potere qui, durante una visita così importante, sotto gli occhi dei loro superiori, permettersi di trattare, imperturbabilmente, solo di questioni particolari o comunque estranee all’immediata incombenza! O invece loro, nonostante tutto il ridere e la sbadataggine, rilevano benissimo quel che serve: possibile? Su tali signori si osa a mala pena dare un giudizio ponderato. D’altra parte è certo, tuttavia, che l’ottavo, per esempio, sta più attento, senza confronto, di questi e anche più di tutti gli altri signori. Deve toccare tutto e picchiettare con un martelletto che seguita a tirar fuori ed a rimettere in tasca. A tratti s’inginocchia nello sporco, nonostante il suo elegante abito, e colpisce il suolo, poi, ma solo mentre riprende il cammino,le pareti o il soffitto al di sopra della sua testa. In un caso si è messo lungo disteso ed è rimasto lì fermo, noi già a pensare che fosse capitato un guaio; ma poi è saltato su con solo uno scatto del suo fisico slanciato. Aveva fatto, dunque, una verifica, nient’altro. Noi credevamo di conoscere la nostra miniera e le sue pietre, ma non riusciamo a capire quello a cui indaga così senza soste questo ingegnere. Un nono spinge davanti a sé una specie di carrozzina per bambini dove si trovano gli apparecchi di misurazione. Costosissimi strumenti affondati negl’intarsi di un contenitore ovattato. Veramente a spingere il carretto dovrebbe essere un sottoposto, ma non glielo si affida; deve stargli accanto un ingegnere, e, come si nota, lo fa volentieri. E’ davvero il più giovane, forse ancora non conosce tutti gli strumenti, comunque il suo sguardo ci torna di continuo, perciò corre quasi il rischio, a volte, di sbattere il carretto contro una delle pareti.

Ma ad evitarlo c’è un altro ingegnere che cammina accanto al carretto. Costui evidentemente conosce gli strumenti in modo completo e sembra esserne il più autentico custode. Di tanto in tanto ne prende uno senza fermare il carretto, ci guarda attraverso, avvita, svita, scuote e dà colpetti, lo porta all’orecchio e ascolta; infine lo rimette nel carretto, si tratta di un oggettino appena visibile da lontano, mentre il conduttore durante la maggior parte dell’operazione resta fermo. Quest’ingegnere è un po’ prepotente, ma soltanto in nome degli strumenti. A distanza di dieci passi davanti al carretto noi dobbiamo, basta un segno delle dita senza parole, farci da parte, anche lì dove non c’è nessuno spazio disponibile. Dietro questi due signori cammina il sottoposto, sfaccendato. Ciascuno dei signori ha da tempo naturalmente maturato una certa fierezza dal suo sapere, il sottoposto invece l’ha racimolata dentro di sé. Una mano dietro la schiena, l’altra davanti, sui bottoni dorati, oppure a toccare la fine stoffa della sua livrea, il sottoposto annuisce ripetutamente a destra e a sinistra come se noi ci fossimo inchinati e lui rispondesse, o come se supponesse che noi ci fossimo inchinati senza poterlo, dal suo alto livello, verificare. Naturalmente non c’inchiniamo, tuttavia si avrebbe voglia quasi di creder che sia qualcosa di incredibile, un usciere di segreteria presso la direzione della miniera. Del resto gli ridiamo dietro, ma nemmeno un colpo di tuono potrebbe farlo voltare, lui resta qualcosa d’incomprensibile alla nostra attenzione. Oggi si è lavorato poco, dopo la visita; l’interruzione era ingombrante; via tutti i pensieri di lavoro. Troppo allettante osservare i signori nel buio della galleria sperimentale in cui sono tutti spariti. Anche il nostro turno è finito presto; non potremo più vedere il loro ritorno.

Il villaggio vicino. Mio nonno usava dire: “La vita è sorprendentemente breve. Ora si restringe così tanto nella mia memoria, che per esempio comprendo a mala pena come un giovane possa decidere di recarsi a cavallo in direzione del villaggio vicino senza temere che – senza considerare alcuna coincidenza sfortunata – non sia affatto sufficiente, ad una gita del genere, il tempo della solita vita già felicemente trascorsa”.

Il cruccio del capofamiglia. La parola Odradek deriverebbe dallo slavo, dicono gli uni, tentando di circostanziare l’origine della parola nell’ambito di tale lingua. Deriverebbe dal tedesco, pensano altri, dello slavo subirebbe soltanto l’influsso. L’incertezza di entrambe le spiegazioni fa tuttavia concludere ragionevolmente che nessuna ci abbia azzeccato, che tanto meno sia possibile, con l’una o l’altra, individuare un significato della parola. Naturalmente nessuno si prenderebbe la briga di uno studio del genere se non si desse un’entità reale di nome Odradek. Essa ha in primo luogo l’aspetto di un rocchetto da filo, piatto, a forma di stella, ed in realtà sembra avere a che fare con il filo; del resto anche semplici pezzi delle più varie specie e colori, consumati, vecchi, annodati l’un con l’altro, ma anche arruffati insieme, potrebbero far da filo. Non è tuttavia solo un rocchetto, invece dal centro della stella spunta un bastoncino che l’attraversa, e a questo bastoncino se ne adatta un altro ad angolo retto. Con l’aiuto di quest’ultimo da una parte, e di una delle punte della stella dall’altra, l’insieme può stare in piedi come su due gambe. Tale struttura avrebbe avuto nel passato qualche tipo di uso, ed oggi sarebbe soltanto rotta, si sarebbe tentati di pensare. Non sembra essere questo il caso, tuttavia; almeno, non se ne trova alcun indizio; da nessuna parte si notano rotture o pezzi aggiunti che richiamino qualcosa del genere; l’insieme pare certamente privo di senso, tuttavia di specie unica. Non si possono dare altri dettagli, del resto, perché Odradek è straordinariamente versatile e non si fa inquadrare. Lui resta o nel solaio, o per le scale, o nei corridoi, o nell’ingresso, talvolta non si vede per dei mesi, perché forse si è trasferito in altre case; poi, senza fallo, ritorna di nuovo in casa

nostra. Talvolta, quando si va alla porta e lui si spenzola giù dalla ringhiera, viene la voglia di parlarci. Naturalmente non gli si fa nessuna domanda complicata, invece lo si tratta come un bambino – appunto a causa della sua piccolezza. “Allora, come ti chiami?” gli si domanda, “Odradek”, dice lui. “E dove abiti?”, “Domicilio incerto”, dice, e ride; si tratta tuttavia di una risata espressa come senza polmoni. Suona in qualche modo come il frusciare di foglie cadute. La conversazione per lo più finisce qui. Del resto tali risposte neanche si ottengono sempre; spesso lui tace lungamente, come il legno di cui sembra esser fatto. Mi domando a vuoto che cosa gli capiterà. Davvero può morire? Tutto quel che muore, prima ha uno scopo naturale, ha avuto una funzione naturale e poi è diventato polvere; nel caso di Odradek questo non è vero. Un giorno così potrebbe rotolare magari giù per le scale trascinandosi dietro fili di refe incalzato dai piedi dei miei figli e nipoti? Non fa certo del male a nessuno; ma anche l’idea che mi debba sopravvivere, mi provoca una certa sofferenza.

K era un gran prestigiatore K era un gran prestigiatore. I suoi numeri erano un po’ monotoni, ma così ben eseguiti da restare attraenti. Dello spettacolo durante il quale lo vidi per la prima volta, nonostante che siano trascorsi vent’anni e io fossi giovanissimo, ricordo naturalmente tutto con precisione. Arrivò nella nostra cittadina senza avviso e allestì lo spettacolo la sera stessa. Nel salone da pranzo del nostro hotel attorno alla tavola c’era dello spazio, tutta qui la preparazione dello spettacolo. Mi pare che la sala fosse piena, dunque ora vedo una quantità di bambini, qualche lampada accesa, e sento il brusio degli adulti, un cameriere correva di qua e di là, cose così, non so neanche perché fosse convenuta tanta gente ad uno spettacolo chiaramente improvvisato, eppure resta, naturalmente nella mia memoria, questo presunto affollamento del salone, secondo l’impressione che ricavai dello spettacolo, certo decisiva.

Lampade nuove Era la prima volta che mi trovavo nella segreteria della direzione, ieri. Il nostro turno di notte mi ha scelto come uomo di fiducia e, visto che non va bene come son fatte e come si riforniscono le nostre lampade*, io lì dovevo venire a capo di questo problema. Mi si indica l’ufficio competente, io busso ed entro. Un giovane esile, molto pallido, mi sorride dalla sua scrivania. Annuisce molto, troppo. Non so se posso sedere, è vero che c’è una sedia a braccioli pronta, ma penso che alla mia prima visita forse non devo sedermi subito, ma fargli un rapporto sulla faccenda restando in piedi. E’ proprio a causa di tale riservatezza, tuttavia, che provoco nel giovane dell’evidente imbarazzo, infatti è costretto ad alzare verso di me il viso, posto che non voglia, e non lo vuole, spostare la sua sedia. D’altra parte però, nonostante ogni premura, lui non porta indietro completamente il collo, perciò guarda in su storto, durante il mio rapporto, a mezza strada in direzione del soffitto, ed io anche, senza volere. Appena ho finito, si alza lentamente, mi batte sulle spalle, dice: bene, bene – bene bene, e mi spinge nella stanza accanto, dove un signore con una gran barba incolta evidentemente è rimasto in attesa, visto che sulla sua scrivania non c’è nessuna traccia visibile di qualche lavoro, mentre una porta a vetri aperta dà in un giardinetto con fiori e siepi in abbondanza. Poche parole di chiarimento sussurrategli dal giovane bastano al signore ad afferrare i nostri molteplici problemi. Senza indugio si alza e dice: dunque, mio caro – esita, vuol sapere il mio nome, credo, e perciò io apro la bocca per presentarmi un’altra volta, ma lui m’interrompe: sì, sì, va bene, ti conosco benissimo – dunque la tua, o la vostra richiesta è certamente accolta, io e i signori della direzione siamo gli ultimi

ad essere riconosciuti nel nostro valore. Il bene delle persone, credimi, ci sta più a cuore del bene dell’azienda. Perché no? L’azienda si può rifare di nuovo, costa solo soldi, al diavolo i soldi, invece un essere umano va in malora, cioè, appunto, un uomo va in malora, resta la vedova, i figli. Ah, tu, amata generosità! Perciò è altamente benvenuta tra noi qualunque proposta d’introdurre più sicurezza, più illuminazione, più comodità e lusso. Chi viene con questo scopo è il nostro uomo. Tu lasciaci qui dunque le tue proposte, noi le valuteremo attentamente, si dovesse poter imbastire qualche piccola splendida novità, noi non mancheremo e andremo fino in fondo, ben vengano le vostre lampade. Però di’ai tuoi laggiù**: finché non avremo realizzato nelle vostre gallerie un salotto noi, qui, non staremo con le mani in mano, e se alla fine voi non morirete in stivaletti di vernice non avremo pace. E con questo, i miei rispetti. *A petrolio. ** In miniera.

Una comune confusione Un episodio comune; sopportarlo è da eroi comuni; A. deve concludere un affare importante con B., del villaggio vicino, H. Per una discussione dei preliminari si reca alla volta di H., percorre la strada in dieci minuti per volta, andata e ritorno, e a casa si vanta di questa notevole velocità. Il giorno dopo si reca di nuovo alla volta di H., per concludere l’affare; ciò richiedendo, presumibilmente, diverse ore, A. esce già di buon mattino; tuttavia, nonostante che ogni dettaglio circostanziale, almeno secondo A.,sia del tutto uguale al giorno prima, stavolta egli impiega dieci ore a percorrere la via per H. Quando arriva stanco, a sera, gli viene detto che B., irritato dall’assenza di A., dopo mezz’ora circa si è mosso verso A. e il villaggio di A.; avrebbero dovuto incontrarsi, in realtà. Sarebbe consigliabile che A. aspettasse B., che dovrebbe ritornare proprio tra poco. Tuttavia A., in ansia per l’affare, parte subito verso casa. Stavolta rifà la strada, senza farci molto caso, addirittura in un batter d’occhio. A casa viene a sapere che B. è arrivato presto, ancor prima che A. partisse, che ha incontrato A. proprio sulla porta di casa, che gli ha ricordato l’affare, ma che A. gli ha detto di non averne assolutamente tempo, che doveva partire in gran fretta. Che, nonostante questa incomprensibile condotta di A., B. è rimasto ad aspettare A. Che ha, certo, molte volte chiesto se A. fosse tornato, o se invece si trovasse ancora in camera sua. Fortunatamente A., intanto, sale di corsa le scale per poter parlare con B. e spiegargli tutto. E’ già di sopra, inciampa, si stira un tendine e presto, reso inerme dal dolore, incapace perfino di gridare, limitandosi a piagnucolare nel buio sente e vede che B., non si distingue se in gran lontananza o vicino a lui, infuriato scende le scale e scompare definitivamente.

Sancho Panza Tra l’altro senza vantarsene, Sancho Panza nel corso degli anni, la sera e la notte – con l’aiuto di una quantità di romanzi d’avventura e di brigantaggio – riuscì così bene a sviare da sé il suo demone cui più tardi dette il nome di Don Chisciotte, che poi costui realizzò senza tregua le opere più folli che però non nuocevano ad alcuno perché mancanti della loro propria materia, che avrebbe dovuto essere proprio Sancho Panza. Sancho Panza, un uomo libero, forse con un certo senso di responsabilità, seguì imperturbabile Don Chisciotte nelle sue spedizioni traendone fino alla fine un utile e grande divertimento.

Un’accolita di farabutti C’era una volta un’accolita di farabutti, o meglio non erano affatto farabutti, piuttosto persone qualsiasi, nella media. Stavano sempre insieme. Se per esempio uno di loro aveva commesso qualcosa di leggermente canagliesco, o meglio, niente di leggermente canagliesco, piuttosto di normale, abituale, e lo confessava al cospetto dell’accolita, loro l’analizzavano, giudicavano e applicavano la pena: perdonato e simili. La cosa non era mal pensata, gl’interessi del singolo e dell’accolita erano scrupolosamente tutelati ed al reo confesso si offriva l’opportunità complementare di aver mostrato la sua coloritura fondamentale. Così stavano sempre insieme, neanche dopo la morte scioglievano la società, invece salivano al cielo uniti in un girotondo. Nell’insieme era una visione di pura innocenza infantile, il modo come prendevano il volo. Ma al cospetto del cielo il tutto veniva riportato alle sue parti elementari, ed essi ricadevano come autentici sassi.

Ospite dei morti Ero ospite dei morti. Si trattava di una grande cripta ben tenuta, già vi si trovavano diverse bare, con tuttavia dei posti ancora disponibili, due erano aperte, dentro sembravano letti sfatti che giustappunto siano stati lasciati. Un po’ di lato, tanto che non lo individuavo con chiarezza, uno scrittoio dietro cui stava un uomo dal fisico possente. Nella mano destra teneva una penna, era come se avesse scritto e terminato proprio ora, la sinistra giocava all’altezza del panciotto con la catenella luccicante d’un orologio, la testa profondamente abbassata su di essa. Una domestica spazzava, per quanto non vi fosse nulla da spazzare. Con una certa curiosità tiravo via il fazzoletto che le copriva il capo mettendole in ombra il viso. Solo ora la vedevo. Era una ragazza ebrea che una volta avevo conosciuto. Piccoli occhi scuri e un viso bianco sensuale. Dato che mi sorrideva dal centro dei suoi stracci che la facevano sembrare una vecchia, dicevo: “State facendo la scena, non è vero?” “Sì”, “un po’. Come la sai lunga!” Poi però indicava l’uomo allo scrittoio e diceva: “Ora va’ e salutalo, qui lui è il padrone. Fino a quando non lo hai salutato, non posso davvero conversare con te”. “Chi è mai?”, domandavo piano. “Un aristocratico francese”, diceva lei, “si chiama de Poiton”. “Com’è che si trova qui?”, domandavo io. “Non lo so”, diceva lei, “qui c’è una gran confusione. Aspettiamo uno che faccia ordine. Sei tu?” “No no”, dicevo io. “Molto assennato”, diceva lei, “Ora però va' dal signore”. Così ci andavo e m’inchinavo; tuttavia lui non alzava la testa – vedevo solo i suoi capelli bianchi spettinati -, dicevo buonasera, ma ancora non si muoveva, una gattina svoltava l’angolo dello scrittoio, ecco, era saltata dal grembo del signore e spariva di nuovo, forse lui non stava guardando la catenella dell’orologio,

ma sotto lo scrittoio. Ora volevo dimostrare in qualche modo che mi ero avvicinato, ma la mia conoscente mi tirava per la giacca e bisbigliava: “E’ già sufficiente così”. Molto contento di questo, mi voltavo verso di lei e ritornavamo a braccetto verso le bare. La scopa mi dava noia, “buttala via”, dicevo, “no, ti prego”, diceva lei, “lasciamela tenere, lo vedi bene, no, che spazzare qui non può dare alcun fastidio, e dunque; d’altra parte, però, è qualcosa che mi fa guadagnare e non voglio rinunciarci. Rimarrai qui?”, domandava, cambiando discorso. “Per te resto volentieri”, dicevo lentamente. Ora ci muovevamo attaccati strettamente come una coppia d’innamorati. “Rimani, oh, rimani”, diceva lei; “Come mi sento dopo che ti ho visto. Qui non è tanto male come forse temi. E cosa c’importa di quel che c’è intorno”. Per un attimo procedevamo in silenzio, avevamo sciolto reciprocamente la stretta, ora ci tenevamo a braccetto. Percorrevamo il passaggio principale, a destra e a sinistra c’erano bare, la cripta era molto grande, o almeno molto lunga. Era scuro, sì, ma non completamente, una sorta di crepuscolo che però si rischiarava in un piccolo circolo intorno a noi. D’improvviso lei diceva: “Vieni, ti mostrerò la mia tomba”. La cosa mi stupiva. “Non sei mica morta”, dicevo. “No”, diceva, “ma per la verità qui io ci capisco poco, anche per questo sono così felice che tu sia venuto. Ci metterai meno a capire tutto quanto, già ora probabilmente vedi più chiaro di me. Comunque: io ho una bara”. Svoltavamo in un passaggio laterale, ancora tra due file di bare. La disposizione mi ricordava una grande cantina che avevo visto una volta. Lungo questo passaggio attraversavamo un ruscelletto che scorreva rapido, largo appena un metro. Poi in breve eravamo presso la bara della ragazza, dotata di un bel cuscino guarnito di pizzo. La ragazza ci si metteva dentro e mi

attirava giù, meno con il cenno dell’indice che non con lo sguardo. “Tu sei una cara ragazza”, dicevo, le tiravo via il fazzoletto dal capo e trattenevo la mano nella soffice pienezza dei suoi capelli. “Non posso restare ancora con te. C’è qualcuno nella cripta con cui devo parlare. Non vuoi aiutarmi a cercarlo?” “Devi parlare con lui? Qui non ci sono obblighi”, diceva. “Ma io non sono di qui”. “Credi ancora di metterti in salvo?” “Certamente”, dicevo. “Ragione di più per non sprecare il tuo tempo”, diceva. Poi cercava sotto il cuscino e tirava fuori una camicia. “E’ la mia veste funebre”, diceva, e me la porgeva, “ma io non la indosso”.

Di notte Come quando ci s’immerge in una riflessione, sono immerso nella notte. Nella notte. Intorno dormono. Che dormano a casa, distesi su solidi letti, sotto solidi tetti, o rannicchiati su materassi tra lenzuola e coperte, è una messa in scena da quattro soldi, un’immensa auto illusione, in realtà si sono radunati da poco o da tanto tempo in un luogo deserto, in un campo aperto, innumerevoli, un esercito, un popolo, al di sopra di loro un cielo freddo, sotto di loro una terra fredda, buttati dove capita, la fronte appoggiata al braccio, la faccia al suolo, e respirano a stento. E tu sorvegli, sei un guardiano, agiti un pezzo di legno ardente al di sopra del tuo riparo di saggina e così individui il guardiano che si trova più oltre. Perché sorvegli, tu? Si dice che qualcuno deve farlo. Uno deve esserci (...)* * Non finito .

La nostra cittadina La nostra cittadina non si trova prossima alla frontiera, ne è assai lontana, ne dista così tanto che forse ancora nessuno dei suoi abitanti è stato alla frontiera, ci sono da attraversare deserti altipiani, ma anche vaste fertili campagne. Stanca anche soltanto immaginarsi una parte del percorso, e più di una parte quasi è inimmaginabile. Anche grandi città si trovano sul percorso, molto più grandi della nostra. Dieci cittadine come la nostra messe una accanto all’altra, ed altrettante pressate l’una sull’altra non danno come risultato nessuna di queste colossali, densissime città. Non si perde la strada, diretti alla frontiera, invece ci si perde certamente nelle città, ed a causa della loro grandezza è impossibile scansarle. Tuttavia ancora più lontana della frontiera dalla nostra cittadina, se distanze simili potessero essere paragonate – come se si dicesse che un uomo di trecentocinquanta anni è più vecchio di uno di duecentocinquanta anni - ancora più lontana della frontiera è, dalla nostra cittadina, la capitale. Mentre noi talvolta riceviamo notizie delle guerre alla frontiera, della capitale non veniamo a sapere quasi niente, intendo noi civili, poiché i funzionari del governo dispongono a dire il vero di un ottimo collegamento con la capitale; da essa in due, tre mesi, già riescono a ricevere una notizia, almeno così sostengono. Ora, è strano, e me ne stupisco sempre, come noi nella nostra cittadina ci sottomettiamo imperturbabilmente a tutto ciò che viene disposto dalla capitale. Da centinaia di anni presso di noi non ha avuto luogo alcun cambiamento politico per mano dei cittadini stessi. Nella capitale si sono dati il cambio l’un con l’altro principi illustri, perfino dinastie si sono esaurite, o sono state deposte e delle nuove hanno avuto inizio, nelle centinaia di

anni addirittura la capitale stessa è stata distrutta, ne è stata fondata una nuova lontano dalla prima, più tardi anche la nuova è stata distrutta e la vecchia ricostruita, e ciò non ha avuto nessun vero influsso sulla nostra cittadina. I nostri funzionari sempre al loro posto, quelli di grado più elevato provenienti dalla capitale, quelli di grado medio quasi tutti provenienti da fuori, quelli di grado più basso dalla nostra cerchia, così è stato e così ci è andato bene. Il funzionario più alto è il sovrintendente alla esazione delle imposte, ha il rango di un colonnello e così anche viene denominato. Oggi è un vecchio, io lo conosco da anni perché già durante la mia fanciullezza lui era sovrintendente, prima ha fatto una carriera molto veloce, poi parve che essa ristagnasse, tuttavia per la nostra cittadina il suo rango è sufficiente, non saremmo all'altezza di accoglierne presso di noi uno di grado più elevato. Se provo a immaginarmelo, lo vedo seduto comodamente nella veranda* della sua casa sulla piazza del mercato, la pipa in bocca. Sopra di lui sventola la bandiera imperiale, ai lati della veranda, così ampia che qualche volta vi si fanno anche delle piccole esercitazioni militari, sta appeso ad asciugare il bucato. I nipoti del Colonnello, con i loro begli abiti di seta, giocano intorno a lui, non possono scendere nella piazza, gli altri fanciulli non sono degni di loro, ciò nonostante la piazza li attira ed essi, almeno, infilano la testa tra le sbarre della ringhiera e, quando gli altri fanciulli bisticciano, dall’alto ci bisticciano insieme. Questo Colonnello dunque governa la città. Non ha, credo io, mostrato a nessuno un documento che lo autorizzi a ciò. Forse non ce lo ha neanche, un documento del genere. Forse è davvero sovrintendente alla esazione delle imposte, ma è tutto qui?, questo lo autorizza a governare anche in tutti i settori dell’amministrazione? La sua carica per lo Stato è certo molto

importante, ma per i cittadini non è la più importante. Tra la gente si ha un’impressione che a parole suona più o meno così: “Ora che ci hai preso tutto quello che avevamo, per favore, prenditi anche noi.” Infatti lui non si è mica impadronito del potere in sé, e neanche è un tiranno. Avviene dai tempi antichi che il sovrintendente alla esazione delle imposte sia il primo funzionario, e il Colonnello, non diversamente da noi, obbedisce a questa tradizione. Non è che viva tra noi in modo troppo privilegiato, tuttavia lui è qualcosa di totalmente diverso rispetto ai residenti. Se gli si presenta una delegazione con una supplica, lui si erge come se fosse la Muraglia. E’ il termine del mondo, dopo di lui niente più, in pratica si odono poche voci che lì seguitano a bisbigliare circospette, tuttavia ciò probabilmente è illusione, ed ecco che il Colonnello intima di concludere il tutto, almeno per quel che ci riguarda. Bisogna averlo visto, durante queste udienze. Da bambino ero lì la volta che una delegazione lo supplicava di una sovvenzione governativa per il fatto che il quartiere più povero della città era stato completamente ridotto in cenere da un incendio. Mio padre, maniscalco con una reputazione nella comunità, era membro della delegazione e mi aveva condotto con sé. Del tutto normale il pigia pigia attirato da un simile spettacolo, la delegazione vera e propria a mala pena si distingueva dalla folla; udienze del genere avevano luogo per lo più sulla veranda, c’era anche gente che ci partecipava dalla piazza del mercato, arrampicata su delle scale appoggiate alla ringhiera. Quella volta la cosa si era messa così, il Colonnello aveva per sé un quarto della veranda, la folla riempiva il resto. Alcuni soldati controllavano tutto quanto e gli stavano attorno a semicerchio. In definitiva sarebbe stato sufficiente un soldato solo, tanto è grande il timore che noi se ne ha. Non so bene da

dove vengano questi soldati, comunque da lontano, si assomigliano tutti, non avrebbero certo bisogno d’una uniforme. Si tratta di persone piccole, non robuste, ma agili, hanno straordinariamente vistosa la dentatura che arriva a riempir loro la bocca, occhi piccoli e stretti dallo sguardo guizzante. E’ a causa tanto della dentatura che degli occhi che essi sono il terrore dei fanciulli, ma anche il loro diletto, infatti passano di continuo davanti a queste dentature e a questi occhi, desiderano spaventarsi per poi correre via sgomenti. Questo sgomento infantile probabilmente non svanisce neanche negli adulti, se non aumenta, com’è probabile. Si aggiunge a ciò anche dell’altro. I soldati parlano un dialetto che ci è del tutto incomprensibile, riescono appena ad assuefarsi al nostro, perciò si rileva in loro una certa segregazione ed inaccessibilità che del resto è conforme al loro carattere, sono così silenziosi, seri, rigidi, non fanno niente di veramente cattivo, eppure, quanto all’atteggiamento, lo sono in modo quasi insopportabile. Per esempio un soldato viene in un negozio, compra una sciocchezza e rimane lì appoggiato al banco, ascolta i discorsi, forse non li capisce, però è come se li capisse, continua a non dire una parola, guarda irrigidito quello che parla e poi quelli che ascoltano, intanto tiene la mano sul manico del lungo pugnale che ha alla cintura. Questo è detestabile, si perde il piacere della conversazione, il negozio si svuota e, quando è tutto vuoto, anche il soldato se ne va. Dove i soldati si presentano, dunque, la nostra gente, che è vivace, si blocca. Era così anche quella volta. Come in tutte le occasioni solenni, il Colonnello si teneva eretto e teneva con le mani allungate in avanti due bastoni di bambù. E’ una vecchia usanza che all’incirca significa: così lui si fonda sulla legge, così la legge si fonda su di lui. Dunque, è vero che ognuno sa che cosa lo aspetta sulla veranda, ciò non di

meno succede che ci si faccia riprendere dallo sgomento di nuovo, anche quella volta la persona destinata a parlare non riusciva a iniziare, stava già davanti al Colonnello, ma poi il coraggio gli venne meno e si ritirò di nuovo con vari pretesti tra la folla. D’altra parte non si trovò nessun altro, idoneo, che fosse pronto a parlare – invece si offrì qualcuno che non faceva parte degli idonei – c’era una gran confusione, e si mandarono messi a vari cittadini riconosciuti come oratori. Nel frattempo il Colonnello rimase fermo sul posto, solo l’ampio torace gli si sollevava ed abbassava nel respirare. Non che lui respirasse in alcun modo con affanno, respirava solo molto vistosamente come per esempio fanno le rane, ma loro fanno sempre così, ora invece ciò era insolito. Mi spinsi furtivo tra gli adulti e l’osservai attraverso il varco aperto tra due soldati fino a quando uno con un ginocchio non mi spinse via. Intanto colui che all’inizio era destinato a parlare aveva ripreso coraggio e, quasi sostenuto da due concittadini, tenne il discorso. Era toccante come, nel corso di questa serissima dichiarazione vertente sulla gran disgrazia, continuasse a sorridere, un sorriso assai umile che, invano, s’intensificava per suscitare anche solo un lieve rispecchiamento sul volto del Colonnello. Alla fine costui formulò la supplica, chiese soltanto un’esenzione di un anno dalle imposte, credo, se non forse del legname delle imperiali foreste a prezzo di favore, nient’altro. Poi s’inchinò profondamente e rimase in quella posizione, esattamente come tutti gli altri, eccetto il Colonnello, i soldati e qualche funzionario sullo sfondo. Buffa, per il fanciullo che ero, fu la maniera in cui quelli che stavano sulla scala posta al margine della veranda ne scesero alcuni pioli per non farsi vedere durante questa decisiva pausa, e come, curiosi, di tanto in tanto si limitassero a sbirciare dal basso stretti al pavimento della veranda. Passò un po’ di tempo, poi un funzionario, uno

piccolino, andò di fronte al Colonnello, sulla punta dei piedi tentò di alzarsi fino a lui, sempre immobile tra un respiro e l’altro, ne ottenne un sussurro nell’orecchio, batté le mani, tutti si rialzarono dall’inchino, e proclamò:”La supplica è respinta, allontanatevi.” Un’ innegabile sensazione di ritrovata leggerezza percorse la folla e ne sbottò fuori; al Colonnello, che certo era ridiventato un essere umano come noi, a mala pena qualcuno fece caso, io vidi solo che lui, effettivamente stanco, lasciò cadere i bastoni, sprofondò in una sedia con lo schienale trascinata sul posto da un funzionario e, velocemente, si ficcò la pipa in bocca. Un fatto nel complesso simile non è raro, di solito è così che va. Capita è vero che ogni tanto qualche supplica di poco conto venga accolta, ma poi è come se il Colonnello la avesse accolta di sua responsabilità in quanto autorevole persona privata, ciò che – certo in modo non esplicito, ma umorale – deve essere ufficialmente celato all’amministrazione governativa. Ciò significa che, è vero, il Colonnello ha occhi per la nostra cittadina, per quel che noi possiamo giudicare, ed anche l’amministrazione governativa ne ha, ma qui si manifesta una differenza nella quale non si deve completamente penetrare. Nelle questioni che contano, d’altra parte, la cittadinanza può essere certa di un rifiuto. Ora, è strano che, di tale rifiuto, per così dire, non si possa fare a meno, e che parimenti, quest’andare a ricevere un rifiuto, non sia assolutamente una formalità. Si va sempre di bel nuovo con serietà, e poi si ritorna da lì non apertamente rafforzati, tuttavia neppure fiaccati e delusi. Esiste comunque, a quanto posso osservare, una certa classe di età che non si accontenta, sono giovani dai diciassette ai venti anni circa. Dunque ragazzini che, a causa della distanza, non

possono indovinare la portata della più futile idea né a maggior ragione la portata di un'idea rivoluzionaria. E proprio tra loro s’insinua l’insoddisfazione. * In italiano nell’originale.

La questione delle leggi. Sfortunatamente le nostre leggi non sono conosciute da tutti, sono il segreto del piccolo gruppo di aristocratici che ci governa. Siamo convinti che queste vecchie leggi vengano rispettate, tuttavia esser governati secondo leggi che non si conoscono è qualcosa di molto angoscioso. Non penso, a questo proposito, alle differenti possibilità d’interpretazione ed agli svantaggi che comporta il fatto che solo il singolo, e non tutto il popolo, può partecipare all’interpretazione. Tali svantaggi forse non sono davvero molto grandi. Le leggi sono in fin dei conti così vecchie, centinaia di anni hanno elaborato la loro interpretazione, pure quest’interpretazione è divenuta già legge, le possibili libertà nell’interpretazione certo rimangono sempre, ma sono molto circoscritte. Inoltre l’aristocrazia non ha certamente alcuna ragione di farsi influenzare dal suo proprio interesse a nostro svantaggio per mezzo dell’interpretazione, dato che le leggi certo dal loro inizio in poi sono fissate a vantaggio dell’aristocrazia, l’aristocrazia sta fuori dalla legge, e per questo la legge sembra già essere esclusivamente in mano dell’aristocrazia. In questo c’è saggezza – chi dubita della saggezza delle vecchie leggi? – per quanto penoso, ciò è necessario. Del resto quest’apparenza di leggi è solo oggetto di congettura. E’ una tradizione che esse esistano e siano affidate come segreto all’aristocrazia, ma più perché vecchie, e la loro anzianità non è del tutto tradizione degna di credito e non può esserlo, poiché la natura di queste leggi esige anche la segretezza della loro esistenza. Per cui, se noi del popolo dai tempi più antichi seguiamo attentamente l’agire dell’aristocrazia, se disponiamo delle annotazioni in proposito dei nostri progenitori e le abbiamo

scrupolosamente seguite, e se pensiamo di riconoscere negli innumerevoli fatti certe linee generali che permettono di concludere su questa o quella determinazione legale, e se noi tentiamo, dopo queste conclusioni scrupolosamente vagliate ed ordinate, di prepararci al presente ed al futuro – ecco, tutto è altamente incerto e forse soltanto un gioco dell’intelligenza, poiché forse queste leggi che noi tentiamo di indovinare dopotutto non esistono. C’è un piccolo partito che è davvero di quest’opinione e che tenta di dimostrare che, se una legge esiste, essa può soltanto recitare: quel che fa l’aristocrazia è legge. Questo partito vede solo atti arbitrari dell’aristocrazia e rifiuta la tradizione popolare, che secondo la sua opinione porta soltanto vantaggi minimi casuali mentre provoca soprattutto grave danno in quanto dà al popolo, di fronte agli eventi futuri, una falsa sicurezza che induce troppo alla noncuranza. Questo danno è innegabile, ma la maggioranza di gran lunga preponderante del nostro popolo ne vede le cause nel fatto che di tradizione ancora non ce n’è assolutamente abbastanza, che dunque ancora molto in essa si deve ricercare, e che la sua materia, per quanto ci sembri colossale, è ancora scarsa, e che devono trascorrere ancora secoli prima che basti. Per il presente l’opacità di questa prospettiva ravviva solo la fede che verrà una buona volta un tempo in cui la tradizione ed il suo studio, per così dire tirando un sospiro di sollievo, si arresti, tutto sia diventato chiaro, la legge appartenga al popolo e l’aristocrazia scompaia. Questo mica è detto con odio verso l’aristocrazia, no davvero e da nessuno, piuttosto noi odiamo noi stessi perché ancora non sappiamo diventare degni della legge. Ecco la ragione per cui quel partito, certo molto allettante, che non crede ad alcuna legge, è rimasto così piccolo: perché anch’esso riconosce in pieno l’aristocrazia e il suo diritto a durare. Ciò si

può esprimere in una sorta di contraddizione: un partito che rifiutasse, accanto alla fede nelle leggi, anche l’aristocrazia, avrebbe immediatamente l’intero popolo dietro di sé, ma un simile partito non può formarsi perché nessuno osa rifiutare l’aristocrazia. Noi viviamo sul taglio di un simile coltello. Uno scrittore ha una volta riassunto la cosa in questo modo: l’unica evidente indubitabile legge che ci viene imposta è l’aristocrazia, e noi dovremmo volerci privare di quest’unica legge?

Le coscrizioni Le coscrizioni, spesso necessarie a causa delle continue lotte di confine, si svolgono come segue: si emana l’ordine che in un giorno stabilito, in un quartiere stabilito, tutti i residenti senza distinzione, uomini, donne, ragazzi, debbano rimanere nelle loro abitazioni. Di solito per prima cosa, verso mezzogiorno, fa la sua comparsa, all’ingresso del quartiere dove un reparto di fanteria e di cavalleria sta in attesa già dall’alba, il giovane aristocratico che deve metter mano alla coscrizione. Si tratta di un giovane magro, piccolo, gracile, vestito in modo trascurato, gli occhi stanchi, assalito senza tregua da un’irrequietezza che assomiglia al rabbrividire di un malato. Senza guardare nessuno, costui fa un cenno con lo scudiscio, unico suo equipaggiamento, alcuni soldati gli fanno seguito e lui si dirige verso la prima casa. Un soldato che conosce personalmente i residenti di questo quartiere dà lettura dell’elenco di tutti gl’inquilini. Di solito ci sono tutti, stanno in riga dentro casa, come se fossero già soldati non staccano gli occhi dall’aristocratico. Tuttavia può anche succedere che di tanto in tanto ne manchi uno, si tratta sempre di uomini. Dal momento che nessuno oserà accampare una scusa o addirittura una bugia, ci si limita a tacere, si tengono gli occhi bassi, mal si sopporta il peso della trasgressione avvenuta in questa casa, ma la muta presenza dell’aristocratico trattiene tutti ai loro posti. L’aristocratico dà un segnale, non si tratta neppure di un cenno del capo, lo si legge unicamente nei suoi occhi, e due soldati iniziano a cercare colui che manca. Questo non costa assolutamente alcuna fatica. Non si trova mai fuori di casa, il mancante, mai ha l’intenzione di sottrarsi veramente al servizio militare, non si trova al suo posto soltanto per paura, ma nemmeno la paura del servizio è quella

che lo trattiene, si tratta soprattutto del timore di farsi vedere, l’ordine per lui è smisuratamente formale, gli causa grande paura, da solo non riesce a cavarsela. Perciò non scappa, si nasconde soltanto, quando sente che l’aristocratico è in casa striscia fuori dal nascondiglio verso la porta della stanza e viene subito afferrato dai soldati che ne stanno uscendo. Lo si porta davanti all’aristocratico, che prende lo scudiscio a due mani – è tanto debole, con una mano non farebbe niente – e picchia. E’ difficile che ciò provochi forti dolori, perché l’aristocratico fa calare lo scudiscio un po’ con stanchezza, un po’ con ripugnanza, l’atto deve sopprimerle e raggiungere l’uomo. Dopodiché costui può unirsi alla fila dei restanti. Del resto è quasi sicuro che non verrà dichiarato idoneo. Succede tuttavia, ed è più frequente, che ci siano più persone di quante si trovano nell’elenco. Per esempio c’è una ragazza estranea che guarda l’aristocratico, viene da fuori, forse dalla provincia, attirata dalla coscrizione, molte donne non sanno resistere al fascino di una tale coscrizione estranea – che a casa ha un significato totalmente diverso. E’ curioso, non si vede niente di vergognoso nel fatto che una donna ceda a questa seduzione, anzi, è qualcosa che secondo l’opinione di qualcuno le donne devono provare, come un debito che pagano al loro sesso. E la cosa si svolge sempre nello stesso modo. La ragazza o la donna sente dire che da qualche parte, anche molto lontano, presso parenti o amici, c’è la coscrizione, chiede ai suoi che le permettano il viaggio, le si dà il consenso, non si può rifiutarglielo, lei si veste al meglio delle sue possibilità, è più felice del solito, e insieme calma e serena, indifferente come può essere di solito, e al di là di tutta la calma e la serenità è inaccessibile, quasi come una straniera che si reca in patria e non pensa più a nient’altro. Invece, nella famiglia presso cui deve aver luogo la coscrizione, lei viene

ricevuta come un’ospite abituale, è adulante, deve passare per ogni stanza, sporgersi da ogni finestra, impone le mani sul capo a qualcuno, ciò supera le benedizioni dei padri. Quando la famiglia è pronta alla coscrizione, lei riceve il posto migliore, cioè quello vicino alla porta, dove meglio viene vista dall’aristocratico e meglio lei vedrà lui. Tale onore tuttavia le dura solo fino all’entrata dell’aristocratico, dopo addirittura si spegne. Lui la guarda poco come guarda poco gli altri e, se rivolge lo sguardo su qualcuno, questi non si sente guardato lo stesso. Ciò lei non se lo è aspettato, o meglio, se lo è aspettato certamente, poiché non può essere che così, ma non era nemmeno l’aspettativa del contrario a spingerla, solo qualcosa che ora invece è finito. Si vergogna come forse si vergognano di solito le nostre donne, soprattutto ora si rende conto che si è veramente intromessa in una coscrizione estranea, e, quando il soldato ha letto ad alta voce l’elenco, il suo nome non è venuto fuori e per un attimo c’è stato silenzio, lei tremando scappa ingobbita fuori dalla porta e si prende anche un pugno nella schiena dal soldato. C’è un uomo in soprannumero, nonostante che non faccia parte di questa casa ora non vuole nient’altro che trovarsi insieme ai coscritti. Anche questo è del tutto senza speranza, mai un soprannumerario è stato arruolato e mai sì è visto qualcosa del genere.

Poseidon Poseidon guarda sul suo tavolo da lavoro e conteggia. Interminabile, il daffare che gli dà l’amministrazione di tutte le acque. Potrebbe disporre di collaboratori a volontà, e ne ha già moltissimi, ma, dato che prende molto sul serio il suo ufficio, perde tempo a conteggiare, dunque i collaboratori gli servono a poco. Non si può dire che il lavoro lo rallegri, in realtà lo esegue soltanto perché gli è stato imposto, anzi, ha cercato spesso di ottenerne uno più gradevole, così Poseidon si esprime, ma poi, quando gli si è fatta una proposta di cambiamento, si è visto che nulla gli andava a genio come l’ufficio che sappiamo. Davvero difficile trovare qualcos’altro per lui. Impossibile assegnargli magari un solo mare, a parte il fatto che anche in questo caso la fatica di calcolare non sarebbe minore, ma solo più delimitata: il gran Poseidon può accettare una posizione di dominio, nient’altro. Se gli si offrisse un posto esterno alle acque, a lui farebbe male, la sua divina respirazione perderebbe il ritmo, il suo ferreo torace tremerebbe. Tra l’altro le sue proteste non sono prese molto sul serio; se un personaggio di rango dà fastidio, si deve mostrare, anzi, cedevolezza, anche nei casi più disperati, ma non c’è chi pensi davvero ad un esonero di Poseidon dal suo ufficio, fin dall’inizio dei tempi è stato il dio del mare, e così sia. In modo particolare Poseidon si irrita – ecco la causa della sua insoddisfazione sul lavoro – quando, in moto continuo tra i flutti, con in mano il tridente, gli giungono voci e proposte che lo riguardano. Nel frattempo scruta nelle profondità del mare e calcola senza tregua, un viaggio da Giove di quando in quando è l’unica interruzione della noia: viaggi tra l’altro da cui ritorna quasi sempre infuriato. In questo modo è probabile che li abbia

appena visti, i mari, solo di sfuggita, durante le salite frettolose verso l’Olimpo, che mai li abbia attraversati. Aspetta la fine del mondo, come dice lui, quell’attimo di tranquillità appena prima della fine: un’ultima occhiata ai conteggi e potrà fare ancora un veloce giretto.

Convivenza Siamo cinque amici venuti fuori da una casa uno dopo l’altro. Il primo si mise sulla porta, poi, lieve come una sferetta di mercurio, scivolò dalla porta il secondo, vicino al primo, poi il terzo, il quarto e il quinto. Tutti in fila, da ultimo. La gente ci notava, c’indicava e diceva: eccoli i cinque, fuori dalla casa. Da quando stiamo insieme la vita sarebbe felice, se un sesto* non continuasse ad intromettersi. Non è che ci faccia qualcosa di male, ma è spiacevole, e tanto basta, infatti lui si intromette dove non si vuole che stia. Noi non possiamo e non vogliamo accoglierlo. E’ vero che noi cinque insieme prima non ci conoscevamo, e , se si vuole, neppure ora, ma ciò che con noi cinque è possibile e sopportabile non lo è con quel sesto. Siamo cinque e non vogliamo essere sei, tutto qui. E quel che può avere specialmente senso per uno, in questa continua convivenza, presso di noi cinque insieme non ne ha affatto, ma in definitiva noi siamo già insieme e ci restiamo, e non vogliamo una convivenza nuova, ad imporlo è la nostra esperienza. E significherebbe già quasi una sorta di accettazione nel nostro circolo dilungarsi in chiarimenti allo scopo di far capire tutto quanto al sesto, meglio non spiegare nulla, e non accoglierlo. Faccia pure la bocca storta quanto vuole, noi gli diamo una gomitata. Eppure, nonostante che si continui a scacciarlo, lui ritorna sempre. *E' pensabile che sia in questione il “sesto senso” .

Lo stemma della città Per quanto riguarda la torre di Babele all’inizio tutto era abbastanza a posto, magari l’ordine era troppo grande, si pensava troppo alle indicazioni stradali, agl’interpreti, agli alloggi dei lavoratori, alle vie di comunicazione, come se davanti si avessero centinaia di anni di possibile lavoro. Passava l’opinione allora dominante che, di fatto, non si sapesse costruire con sufficiente lentezza; quest’opinione non era eccessiva e si poteva del resto esitare spaventati dalla costruzione delle fondazioni. Si argomentava dunque in questo modo: essenziale di tutta l’impresa è l’idea di costruire una torre che arrivi a toccare il cielo. Rispetto a quest’idea tutto il resto è secondario. L’idea, una volta compresa nella sua misura, non può più svanire; finché ci sono uomini ci sarà anche il potente desiderio di portare a termine la costruzione della torre. A questo riguardo non si deve avere per il futuro alcuna preoccupazione, al contrario, il sapere umano cresce, l’abilità costruttiva ha fatto progressi e ne farà ancora, un’opera per la quale noi impieghiamo un anno sarà forse tra cento anni finita in sei mesi, meglio inoltre, e più solida. Perché dunque già oggi affaticarsi al limite delle forze? Ciò poi significherebbe solo, sperabilmente, costruire la torre nel tempo di una generazione. Ma ciò non sarebbe in alcun modo auspicabile. E’ più probabile che la prossima generazione, con il suo perfezionato sapere, trovi scadente l’operato della generazione precedente e che il costruito venga abbattuto per cominciarlo di nuovo. Tali idee paralizzavano le energie e più che della torre ci si curava della costruzione della città operaia. Ogni squadra di campagnoli voleva avere il quartiere più bello, da ciò si produssero controversie che crebbero al punto di diventare lotte

sanguinose. Queste lotte non finivano più; per i capi esse erano un nuovo motivo per cui la torre, mancando anche la necessaria concentrazione, dovesse esser costruita con più lentezza, o meglio, soprattutto dopo la pacificazione generale. Non si consumava il tempo però solo con le lotte, nelle pause si abbelliva la città, per la qualcosa tuttavia spuntarono nuove invidie e nuove lotte. Così il tempo della prima generazione trascorse, ma nessuna delle seguenti fu diversa, solo la perizia artistica si rinforzava di continuo, e la smania di lottare. A questo punto accadde che già la seconda o terza generazione riconoscessero l’insensatezza della costruzione della torre fino al cielo, tuttavia si era già troppo legati reciprocamente per abbandonare la città. Tutto ciò che, in fatto di leggende e canzoni, ha avuto origine in questa città è colmo di attesa impaziente di un giorno profetizzato, quando la città sarà distrutta da cinque rapidi colpi di un pugno gigantesco. Per cui la città ha il pugno nello stemma.

Il timoniere “Non sono timoniere?”, gridai. “Tu?”, replicò un losco spilungone passandosi una mano sugli occhi, come per scacciare un sogno. Ero rimasto al timone nella notte buia, sulla mia testa quel poco di lanterna accesa, e ora quest’uomo voleva sbattermi via. Non cedevo, e quello mi piazzava un piede sul petto, mi spingeva pian piano indietro, ma io continuavo ad attaccarmi ai mozzi della ruota del timone fino a farlo girare di colpo, con il risultato che mi trovavo inginocchiato. Lui lo bloccò e lo rimise a posto, con ciò sbattendomi via. Allora mi venne in mente di correre al boccaporto dell’alloggiamento dell’equipaggio e di gridare: “Equipaggio, camerati! Venite, presto! Un estraneo mi ha scacciato dal timone!” Vennero lentamente,salirono la scaletta, forme possenti, insonnolite, barcollavano. “Sono io, il timoniere?”, domandai. Loro annuirono, ma avevano occhi soltanto per l’estraneo, restandogli intorno, e quando lui disse con tono di comando “non disturbatemi”, si raccolsero, annuirono al mio indirizzo e infilarono di nuovo la scaletta. Che razza di gente, stanno al mondo solo per mangiare, senza senso, oppure pensano anche?

Sviluppo* Eravamo cinque impiegati di commercio, il contabile, un malinconico miope che si distendeva come una rana sul libro mastro, immobile salvo che per lo stentato respiro, debolmente immesso ed emesso, poi il rappresentante, un ometto con un largo torace da ginnasta, gli bastava una mano per appoggiarsi alla scrivania e saltarci sopra bello leggero, il viso serio, guardando nel frattempo intorno con gravità. Poi avevamo una commessa, una signorina anziana, magra e delicata, abito attillato, per lo più teneva la testa chinata da una parte e sorrideva con le sottili labbra della sua gran bocca. Io, l’apprendista, che non avevo da fare molto di più che vagare sul piano della scrivania con lo straccio per spolverare, spesso avevo il piacere di accarezzare o addirittura di baciare la mano della nostra signorina, una mano lunga fragile secca, color legno, se incurante e dimenticata essa giaceva sulla scrivania, oppure di baciare il viso – questo sarebbe stato il massimo – lì dov’era così piacevole, di lasciar riposare questa sua mano e solo di tanto in tanto farle cambiar posizione, in nome della giustizia, perché ogni guancia l’assaporasse. Tuttavia questo non succedeva mai, al contrario la signorina, quando mi avvicinavo, proprio con questa mano m’indicava un nuovo lavoro da qualche parte, lontano, oppure su di sopra dal direttore. Quest’ultima cosa era particolarmente spiacevole, perché su faceva un caldo soffocante per via del gas dell’illuminazione acceso, né mi mancavano i capogiri, spesso mi ci sentivo male, qualche volta, con il pretesto di certe particolari pulizie, lassù, infilavo la testa tra i piani di una scaffalatura e piangevo un pochino, oppure, se nessuno guardava verso di me, tenevo alla signorina, di sotto, un breve discorso muto e le rivolgevo grandi rimproveri, sapevo,

è vero, che lei non aveva alcun potere di decidere né in questo né in altri casi, ma in qualche modo pensavo che se avesse voluto avrebbe potuto averlo e poi usarlo in mio favore. Tuttavia lei non voleva, veramente non usava mai il suo potere. Per esempio, era l’unica del personale che il tuttofare assecondasse un po’, normalmente lui era la persona più ostinata, certo, nell’ufficio era il più anziano, aveva prestato servizio già sotto il vecchio capo, quante ne aveva subite qui noialtri non ne avevamo idea, ma traeva da ciò la falsa conclusione di capire tutto meglio degli altri, per esempio di saper tenere la contabilità non solo altrettanto bene, ma molto meglio del contabile, di saper rifornire la clientela meglio del rappresentante e così via, e di aver occupato il posto di tuttofare nell’ufficio solo per libera scelta, mentre per tale posto non si era trovato nessuno, neanche un incapace. E dunque si affannava da quaranta anni, lui che forse poteva essere stato non molto robusto, ed ora era già un relitto, con il carretto e i pacchi. L’aveva fatto per libera scelta, ma ce ne eravamo dimenticati, erano arrivati tempi nuovi, non lo si apprezzava più, e mentre intorno a lui in ufficio si facevano gli errori più spaventosi, doveva inoltre, senza che lo si lasciasse intervenire, inghiottire la disperazione e per di più restare incatenato al suo pesante lavoro. * Konsolidierung si potrebbe in genere tradurre con “rafforzamento”; non sembra, e non è la prima volta, un concetto rispecchiato dal testo se non, forse, nelle ultime righe, dove si accenna ai “tempi nuovi”: da ciò “sviluppo”.

La prova Sono un servo, ma per me non c’è alcun lavoro. Sono timido e non mi faccio avanti, veramente non mi metto neppure in fila con gli altri, ma questa non è l’unica causa del mio non impegno, è anche possibile che non sia proprio in questione il mio disimpegno, la causa principale è comunque che io non vengo chiamato al servizio, vengono chiamati altri, e non hanno cercato più di me di ottenerlo, magari forse non hanno avuto neppure il desiderio di essere chiamati, mentre io ne ho di più, almeno qualche volta. Così dunque sto sul tavolaccio nella stanza dei lavoranti agricoli, guardo in alto la trave del soffitto, mi addormento, mi sveglio e subito mi riaddormento. Qualche volta vado all’osteria, dove si serve una birra acida, è capitato che per il disgusto io ne abbia rovesciato un bicchiere, ma poi ne bevo ancora. Mi metto volentieri lì perché da dietro la finestrella chiusa, senza essere scoperti da qualcuno, si possono guardare le finestre della nostra casa. E’ vero che non si vede molto, stando qui sulla strada, credo io, solo la finestra del corridoio e per giunta non quel corridoio che porta all’appartamento dei padroni. E' anche possibile che mi sbagli, ma qualcuno una volta lo ha affermato, senza che io glielo avessi domandato, e l’impressione generale che si ha di questa facciata lo conferma. Solo raramente si aprono le finestre e quando ciò avviene è un servo a farlo, si sporge dal davanzale un momento e guarda in basso. Ci sono corridoi dove nemmeno lui può essere colto sul fatto. Del resto io non conosco questi servi che di solito dormono da un’altra parte, di sopra rispetto ai servi impegnati, non nella mia stanza. Una volta che ero venuto nell’osteria, nel mio posto di osservazione già sedeva un avventore. Non osavo proprio

guardare da quella parte e volevo subito girarmi verso la porta ed andarmene. Invece l’avventore mi chiamò lì e venne fuori che anche lui era un servo che una volta già avevo visto da qualche parte, senza averci finora parlato.”Perché vuoi andartene? Siediti e bevi. Pago io.” Così dunque mi sedetti. Mi domandò qualcosa, ma io non sapevo rispondere, in realtà non capivo neppure le domande. Perciò dissi: “Forse ora ti penti di avermi invitato, e allora io me ne vado”, e già volevo alzarmi. Ma lui allungò la mano sopra il tavolo e mi spinse giù: “Resta”, disse, “era solo una prova. Chi non risponde alle domande ha superato la prova.”

L’avvoltoio C’era un avvoltoio che mi dava colpi di becco sui piedi. M’aveva già lacerato stivali e calze, ora passava alla carne. Sbatteva senza tregua le ali, svolazzava inquieto intorno a me, poi ricominciava la sua opera. Un signore che passava di lì guardò un momento e domandò perché lasciavo fare. Dissi: “Non ce la faccio, questo arriva e comincia a beccare, così, com’è naturale, volevo scacciarlo, ho tentato di strozzarlo, ma un animale del genere possiede grandi energie; voleva anche saltarmi al viso, allora gli ho offerto i piedi: ora sono mezzo dilaniati.” “A meno che non vi dispiaccia di esser tormentato, basta un colpo e l’avvoltoio si fa fuori.” “Davvero?”, domandai, “e vorreste farlo?” “Volentieri”, disse quel signore, “devo soltanto andare a casa per prendere il fucile. Potete aspettare ancora una mezz’ora?” “Non lo so”, dissi irrigidendomi dal dolore: “Per favore, ci provateci comunque”. “Bene” disse quel signore, “mi spiccerò”. Durante il dialogo l’avvoltoio era rimasto a sentire quieto, i suoi occhi si spostavano da me a quel signore: ora vedevo che aveva capito tutto; si levò in volo, arretrò per prendere lo slancio e, come un giavellotto scagliato, affondò il becco nella mia bocca. Cadendo riverso mi accorgevo con un senso di liberazione che l’avvoltoio annegava nel mio sangue che irresistibilmente colmava ogni mia cavità interna e sgorgava fuori senza limiti.

Favoletta “Ah!”, disse il topo, “il mondo diventa ogni giorno più stretto. Prima era così largo che io avevo paura, correvo in giro ed ero contento di vedere lontano all’infinito, a destra e a sinistra, ma questi lunghi muri urgono così svelti uno contro l’altro che io mi trovo proprio nell’ultima stanza e lì in un angolo c’è la trappola dentro cui corro.” “Hai solo da cambiare la direzione della corsa”, disse il gatto, e lo divorò.

La trottola Un filosofo che aveva l’abitudine di bighellonare vicino a certi ragazzini che giocavano, ne vide uno che aveva già notato prima, con una trottola. Non appena la trottola fu in movimento, il filosofo la inseguì per prenderla. Nonostante che i ragazzini rumoreggiassero e cercassero di tenerlo lontano dal loro giocattolo, il filosofo non se ne curò, e catturò la trottola che ancora girava; ne fu felice, ma soltanto per un attimo, poi la buttò in terra e se ne andò. La conoscenza d’ogni minuzia, come per esempio di una trottola che gira, lui pensava, basta alla conoscenza della generalità. Perciò non si occupava dei grandi problemi, cosa che gli pareva antieconomica, si occupava invece della trottola che gira, perché dalla conoscenza della minuzia si ricava la conoscenza della generalità. Quando provava a far girare la trottola, sperando di riuscirci, la speranza si trasformava in certezza durante lo sfiancante tentativo, ma poi il filosofo si ritrovava in mano quello stupido manico di legno, e si sentiva male; le grida dei ragazzini, che fin lì non aveva sentito, ora invece gli arrivavano all’improvviso alle orecchie, lo perseguitavano, e lui barcollava come una trottola caricata male.

La partenza Ordinai di andare a prendere il mio cavallo nella scuderia. Il servo non mi capì. Andai da solo nella scuderia, sellai il mio cavallo e lo montai. In lontananza sentii suonare una tromba, e chiesi al servo che cosa significasse. Non sapeva niente e niente aveva udito. Mi fermò vicino alla porta e domandò: “Dove vai, signore?” “Non lo so”, dissi, “via da qui, via da qui e basta. Via da qui senza tregua, solo in questo modo posso raggiungere la mia meta.” “Tu, dunque, conosci la tua meta?”, domandò il servo. “Sì, già l’ho detto, via-da-qui è la mia meta.” “Non hai con te alcuna provvista di cibo”, disse lui. “Non mi serve”, dissi, “il viaggio è così lungo che sono costretto a morir di fame, se lungo la via non trovo niente. Nessuna provvista di cibo può mantenermi. Si tratta anzi di un viaggio veramente enorme, per fortuna.”

Prime pene Un trapezista – è noto che quest’arte, praticata nell’alto delle volte sovrastanti i grandi palcoscenici del varietà, è, tra tutte, una delle più difficilmente praticabili dall’uomo – aveva organizzato la sua vita, prima solo per la ricerca della perfezione, poi anche per l’abitudine divenuta tirannica, in modo da rimanere sul trapezio, finché lavorava nella stessa azienda, giorno e notte. A tutti i suoi bisogni, tra l’altro modesti, si faceva fronte per mezzo di una serie di inservienti che sorvegliavano dal basso e tiravano su e giù, dentro recipienti realizzati appositamente, quello che in alto serviva. Da tale modo di vivere non risultavano particolari difficoltà a carico dell’ambiente teatrale, solo durante gli altri numeri in programma disturbava un poco il fatto che il trapezista, nonostante che in questi momenti se ne stesse per lo più tranquillo, deviasse su di sé uno sguardo del pubblico. Tuttavia la direzione del teatro glielo perdonava, infatti lui era un artista straordinario, insostituibile. Naturalmente si riconosceva anche che non viveva in questo modo per spavalderia, di fatto solo così restava in più costante esercizio, solo così poteva mantenere nella perfezione la sua arte. In alto comunque era anche salubre, ed inoltre, quando nei periodi più caldi dell’anno su tutto il giro della volta si aprivano le finestre laterali e, insieme all’aria fresca, il sole entrava in quello spazio crepuscolare, era perfino bello. Naturalmente i suoi rapporti umani erano limitati, solo qualche volta un collega ginnasta si arrampicava sulla scala di corda fino al trapezista, quindi si mettevano entrambi sul trapezio, si appoggiavano a destra e a sinistra alle corde e conversavano, oppure i lavoratori edili riparavano il tetto e scambiavano con il trapezista qualche

parola da una finestra aperta, oppure il vigile del fuoco controllava l’illuminazione d’emergenza nella galleria più alta e gli gridava qualcosa in tono rispettoso, ma scarsamente comprensibile. Altrimenti intorno al trapezista c’era la quiete; solo qualche volta faceva la sua comparsa un impiegato che magari si smarriva meditabondo nel pomeriggio del teatro vuoto, nell’altezza che quasi si sottraeva allo sguardo, là dove il trapezista, senza sapere che qualcuno stava osservandolo, esercitava la sua arte o riposava. Il trapezista avrebbe potuto vivere dunque indisturbato, se non ci fossero stati gl’inevitabili viaggi da luogo a luogo, che lo molestavano in sommo grado. Certo l’impresario* provvedeva a dispensare il trapezista da ogni inutile prolungamento delle sue pene: per i percorsi in città ci si serviva di potenti automobili con cui, possibilmente durante la notte o nelle primissime ore del mattino, si correva nelle strade vuote di umani ad alta velocità, tuttavia senza dubbio troppo lentamente in rapporto all’ansia del trapezista; in treno si riservava un intero scompartimento dove il trapezista, compensazione effettivamente misera del suo modo di vivere, trascorreva il viaggio sulla rete portabagagli; nel teatro della successiva esibizione straordinaria il trapezio era da lungo tempo, prima dell’arrivo del trapezista, già al suo posto, anche tutte le porte d’ingresso allo spazio teatrale erano spalancate e tutti i passaggi liberi – tuttavia l’attimo più bello nella vita dell’impresario era quello in cui il trapezista metteva il piede sulla scala di corda e in un attimo, finalmente, di nuovo pendeva in alto sul suo trapezio. Per quanto, in tal modo, all’impresario ne fossero riusciti molti, tuttavia ogni nuovo viaggio era ancora penoso, perché i viaggi, valutati da tutt’altra prospettiva, erano comunque distruttivi per i nervi del trapezista.

Una volta dunque che erano in viaggio di nuovo, il trapezista disteso sulla rete portabagagli a fantasticare, l’impresario appoggiato di fronte dalla parte del finestrino a leggere un libro, il trapezista gli si rivolse sottovoce. L’impresario fu subito ai suoi ordini. Avrebbe dovuto avere sempre due trapezi per le sue acrobazie, invece di uno com’era stato fino a quel momento, disse il trapezista mordendosi le labbra, due trapezi uno di fronte all’altro. L’impresario fu su questo subito d’accordo. Tuttavia il trapezista, come volendo evidenziare tanto l’irrilevanza del consenso dell’impresario, quanto per contraddirlo in qualche modo, disse che lui ora mai più e in nessuna circostanza avrebbe fatto le sue acrobazie con un trapezio soltanto. Alla sensazione che ciò potesse succedere anche solo una volta, egli sembrava rabbrividire. L’impresario si dichiarò, guardando titubante, di nuovo in totale accordo, due trapezi sono meglio di uno, del resto questo nuovo allestimento era vantaggioso, avrebbe reso lo spettacolo più vario. A quel punto il trapezista prese improvvisamente a piangere. Molto spaventato l’impresario si levò e domandò che cosa fosse dunque successo e, dal momento che non ebbe nessuna risposta, salì sul sedile e accarezzò il trapezista avvicinando al viso di quest’ultimo il suo viso, così che le lacrime del trapezista lo inondarono. Solo dopo molte domande e paroline carezzevoli il trapezista disse singhiozzando: “Solo quest’unica sbarra tra le mani – come devo fare a vivere!” Ora per l’impresario consolare il trapezista fu più facile; promise di telegrafare per i due trapezi subito, dalla stazione della prossima località di esibizione; si rimproverò di aver lasciato lavorare il trapezista per così tanto tempo solo su un trapezio e lo ringraziò e lodò molto del fatto che alla fine lui avesse constatato il difetto. In questo modo l’impresario riuscì a placare poco a poco il trapezista, e poté

tornare di nuovo nel suo angolo. Lui stesso tuttavia era sconsolato, considerava il trapezista con più seria preoccupazione di nascosto, al di là del suo libro. Se simili pensieri cominciavano a tormentarlo una volta, potevano mai terminare del tutto? Non dovevano continuare a rafforzarsi? E davvero l’impresario credeva di vedere come ora, nel sonno apparentemente tranquillo in cui il pianto del trapezista era terminato, cominciassero a disegnarsi le prime rughe sulla sua liscia fronte fanciullesca. * In italiano nel testo.

Difensori C’era molta incertezza sul fatto che io avessi difensori, intanto non ero capace di sapere con precisione alcunché, ogni faccia mancava di affabilità, la maggior parte delle persone che incontravo e che urtavo di continuo negli ambulacri avevano l’aspetto di vecchie donne incinte, dei grandi grembiali a strisce blu e bianche nascondevano loro tutto il corpo, si sfioravano il ventre e andavano lentamente avanti e indietro. Non riuscivo neanche a sapere se ci trovavamo in un tribunale. Certi indizi lo confermavano, molti no. A parte ogni dettaglio, quello che mi ricordava di più un tribunale era un boato che si poteva di continuo sentire a distanza, non si sapeva da quale direzione, colmava tanto ogni spazio che si poteva ammettere che provenisse da ogni parte oppure, ciò che sembrava ancora più corretto, che il posto stesso dove fortuitamente ci si trovava fosse il vero e proprio luogo di tale boato, ma era di sicuro un’illusione, perché quello veniva da lontano. Questi ambulacri, stretti, dal semplice soffitto a volta, rallentati da cambi di direzione, con alte porte parsimoniosamente ornate, sembravano addirittura creati allo scopo di accrescere il silenzio, come corridoi di un museo o di una biblioteca. Se tuttavia non si trattava assolutamente di un tribunale, perché poi cercavo un difensore lì? Perché più di tutto desideravo un difensore, necessario più di tutto, certo utile meno in tribunale che altrove, dato che il tribunale giudica secondo la legge si deve accettare che agisca nell’occasione in modo ingiusto o sventato, sia pure al prezzo della vita si deve aver fiducia che il tribunale apra spazi alla maestà della legge, perché tale è il suo unico dovere, però nell’ambito della legge tutto è imputazione, difesa e giudizio, l’intrusione autonoma di una persona sarebbe qui un sacrilegio.

D’altra parte le cose cambiano in merito alla fattualità di un giudizio, questo si basa su accertamenti, su indagini varie, particolarmente brevi, presso parenti ed estranei, amici e nemici, presso la famiglia e il pubblico, la città e il paese. In questo caso è urgentissimamente necessario il difensore, difensori in quantità, difensori al meglio, uno accanto all’altro, un muro vivente, perché i difensori sono per loro natura molto lenti, le imputazioni, invece, queste volpi astute, queste donnole leste, questi topolini invisibili, sgusciano nelle minime falle, scivolano tra le gambe dei difensori. Attenzione, dunque! Ecco perché mi trovo qui, faccio incetta di difensori. Ma ancora non ne ho trovato nessuno, soltanto queste vecchie vanno e vengono di continuo, se non fossi qui a cercare, mi verrebbe da addormentarmi. Non sono nel posto giusto, sfortunatamente non posso respingere l’impressione di non essere nel posto giusto. Dovrei essere in un posto dove s’incontrano persone di ogni genere, di svariate contrade, di ogni città, di ogni mestiere, di età varie, dovrei avere la possibilità di scegliere tra molti gl’idonei, gli amichevoli, coloro che hanno nei miei riguardi un certo riguardo. Al meglio sarebbe adeguata forse una grande fiera annuale. Invece sto vagando per questi ambulacri dove riesco a vedere soltanto queste vecchie donne, anche poche e sempre ogni volta le stesse, e nonostante la loro lentezza lo stesso non si fanno intercettare da me, mi scappano, stanno sospese come nubi gonfie di pioggia, tutte occupate in faccende ignote. Perché corro alla cieca in un edificio, non leggo quel che c’è scritto sulla porta, rimango negli ambulacri, resto fermo qui con un’ostinazione tale che non so ricordare di essere mai stato davanti all’edificio, di aver mai fatto le scale di corsa. Tuttavia indietro non posso andare, questa perdita di tempo, quest’ammissione di aver sbagliato strada, mi sarebbero

insopportabili. E che? Riscendere giù una scala in questa breve precipitosa vita accompagnata dall’impazienza di un boato? Impossibile. La dose di tempo che Ti è concessa è tanto breve che Tu, se perdi un secondo, hai già perso tutta la Tua vita, perché essa non è lunga di più, lo è sempre soltanto come il tempo che perdi. Hai dunque iniziato una strada, continuala comunque, puoi soltanto vincere, non corri alcun pericolo, forse alla fine cadrai, ma se Ti fossi, già dopo i primi passi, girato indietro e fossi ridisceso giù per la scala, saresti ugualmente caduto all’inizio, non forse, ma con certezza. Non trovi niente negli ambulacri, apri le porte, non ci trovi niente dietro, c’è un altro piano, di sopra non trovi niente, non c’è pericolo, sali altre scale, fin quando non smetti di salire i gradini non terminano, essi aumentano verso l’alto sotto i Tuoi piedi che salgono.

Nella nostra sinagoga. Nella nostra sinagoga vive un animale di taglia simile a quella di una martora. Tollera che le persone gli si avvicinino fino alla distanza di due metri, qualche volta è molto bello da vedere. Il suo colore è un verdazzurro chiaro. Nessuno però ha sfiorato la sua pelliccia, quindi non se ne può dire nulla di più, si potrebbe quasi affermare, anche, che il vero colore del pelame è ignoto, forse quello visibile deriva solo dalla polvere e dalla malta cadutevi sopra, ed ha qualcosa anche dell’intonaco interno della sinagoga, solo un po’ più chiaro. Si tratta, considerando la sua ritrosia, di un animale stanziale estremamente calmo; non venisse spaventato così spesso, si sposterebbe ben difficilmente, la sua dimora preferita è la griglia della zona riservata alle donne *, alle cui maglie si aggrappa con agio evidente, si stira e guarda giù dove si prega, quest’audace posizione sembra rallegrarlo, ma l’inserviente del Tempio ha l’incarico di non permetterglielo mai, lui ci si abituerebbe e ciò, a causa delle donne che ne hanno paura, non può essere consentito. Perché lo temano non è chiaro. A prima vista sì, sembra che le spaventino il lungo collo, il muso triangolare, la fila di denti superiori sporgente quasi in orizzontale sul labbro, il pelame chiaro setoloso dall’aspetto molto duro, ma subito si deve riconoscere che tutta quest’apparente spaventosità è innocua. Innanzitutto lui si tiene ben lontano dalle persone, è più ritroso di un animale della foresta, non pare legato ad alcunché se non all’edificio, e la sua personale infelicità risiede tutta nel fatto che quest’edificio è una sinagoga, cioè un posto a momenti animatissimo. Si potrebbe comunicare con l’animale, si potrebbe davvero consolarlo con l’argomento che la comunità della nostra cittadina montana di anno in anno diviene più piccola e ciò le

rende faticoso sostenere i costi della manutenzione della sinagoga. Non è escluso che tra breve la sinagoga diventi un granaio o simili, e che l’animale abbia la calma che ora gli manca dolorosamente. Soltanto le donne, a dire il vero, temono l’animale, agli uomini è diventato da molto tempo indifferente, una generazione lo ha mostrato all’altra, sempre lo si è continuato a vedere, in realtà non gli si è più rivolto uno sguardo, e neanche i ragazzi che lo vedono per la prima volta si stupiscono più. E’ divenuto l’animale domestico della sinagoga, perché la sinagoga non dovrebbe avere un animale speciale apparso in nessun altro luogo? Se ne saprebbe a mala pena l’esistenza, non fosse per le donne. Ma anche loro non hanno nessuna autentica paura di fronte all’animale, sarebbe anche troppo strano temere un siffatto animale ogni giorno - per decine di anni. Si giustificano, certo, con l’argomento che l’animale il più delle volte si trova molto più vicino a loro che non agli uomini, e questo è vero. L’animale non si azzarda a scendere tra gli uomini, ancora non lo si è mai visto sul pavimento. Non gli si permette di arrampicarsi sulla griglia della zona riservata alle donne, così lui si tiene almeno alla stessa altezza sulla parete opposta. Lì c’è una stretta sporgenza del muro, larga appena due dita, che corre intorno ai tre lati della sinagoga, l’animale qualche volta ci transita svelto avanti e indietro, di solito però sta accovacciato tranquillamente in un certo posto elevato dirimpetto alle donne. E’ quasi incomprensibile come riesca così facilmente a servirsi di questo stretto passaggio, e merita di esser visto come, arrivato in fondo, lassù si rigiri, è un animale certo molto vecchio, eppure non esita a fare le piroette più ardite, davvero non fallisce mai, s’è appena girato in aria e già rifà il suo percorso in direzione opposta. Veramente quando lo si è visto qualche volta se ne ha

abbastanza e non si ha alcun motivo di continuare a guardarlo. Sì, non è né paura né curiosità quel che tiene le donne in agitazione, fossero più impegnate nella preghiera, potrebbero dimenticare del tutto l’animale, quelle devote lo farebbero anche, se le altre, che sono la gran maggioranza, lo permettessero, queste tuttavia desiderano spesso e volentieri attirare su di sé l’attenzione e l’animale ne è un pretesto ben accolto. Se potessero, se ne avessero il coraggio, attirerebbero l’animale ancora più vicino, per avere ancor più paura. In realtà però è vero che l’animale non si spinge affatto dalla loro parte, se non lo si assale si occupa poco delle donne come degli uomini, resterebbe è probabile soprattutto ritirato, come lui vive tra una funzione religiosa e l’altra, evidentemente in un buco nel muro che ancora noi non abbiamo scoperto. Appena s’inizia a pregare lui appare, spaventato dal chiasso vuol vedere che cos’è successo, vuole restare vigile, vuole essere libero, in grado di fuggire, corre fuori, fa le sue capriole di paura e non si azzarda a ritirarsi fino a quando la funzione religiosa non è terminata. Preferisce l’alto naturalmente perché lì è sicurissimo ed ha le sue migliori possibilità di fuggire sulla griglia e sulla sporgenza del muro, ma assolutamente non sta sempre lì, talvolta scende più in basso verso gli uomini, la cortina che copre l’Arca dell’Alleanza ** è sostenuta da una sbarra di ottone che sembra attrarre l’animale, lui striscia piuttosto spesso fin lì, dove però sta sempre tranquillo, mai una volta, quando è vicino all’Arca, si può dire che disturbi, con i suoi occhi lucenti sempre aperti, forse privi di palpebre, sembra guardare la comunità, ma certo non guarda nessuno, piuttosto guarda soltanto ai pericoli dai quali si sente minacciato. A questo riguardo lui pareva, almeno fino a poco tempo fa, non molto più assennato delle nostre donne. Quali pericoli ha poi da

temere? Chi ha in animo di fargli qualcosa? Non vive in definitiva da molti anni del tutto abbandonato a se stesso? Gli uomini non s’interessano della sua presenza e la maggioranza delle donne sarebbero probabilmente scontente se sparisse. E siccome è l’unico animale dell’edificio non ha del resto alcun nemico. In fin dei conti dovrebbe averlo già capito, negli anni. E la funzione religiosa con il suo chiasso può, sì, essere alquanto paurosa per l’animale, tuttavia essa si ripete con regolarità e senza sospensioni, breve ogni giorno, più lunga nelle festività, anche l’animale più pauroso avrebbe già potuto abituarsi, soprattutto vedendo che il chiasso non è qualcosa che proviene da persecutori, ma è un chiasso che non lo riguarda affatto. E tuttavia questa paura. E’ memoria di tempi lontani o presentimento di tempi a venire? Forse questo vecchio animale non lo sa meglio di quanto lo sappiano le tre generazioni che, di volta in volta, si sono radunate nella sinagoga? Molti anni or sono, così raccontano, deve davvero esser stato fatto il tentativo di allontanare l’animale. E’ certo possibile che sia vero, probabilmente tuttavia si tratta solo di storie inventate. Certo si può dimostrare che quella volta si è analizzata, dal punto di vista della legittimità religiosa, la questione se un animale simile potesse esser tollerato nella Casa del Signore. Si richiese il parere di svariati noti rabbini, le opinioni si divisero, i più furono favorevoli all’allontanamento ed alla nuova inaugurazione della Casa del Signore, ma tale decreto era facile a distanza, in verità era davvero impossibile allontanare l’animale.

* Divisorio che serve per tenere le donne separate e poco visibili dagli uomini. ** Una cassa di legno ricoperta, dentro e fuori, con lamine d’oro, contenente le due Tavole della Legge .

Era solo un gioco di pazienza Era solo un gioco di pazienza, un semplice gioco di poco prezzo, non più grande di un orologio da tasca, privo di qualsiasi meccanismo particolare. Sulla superficie di legno verniciata di rosso e marrone c’erano dei tracciati, blu, alcuni sbagliati, altri sfocianti in una buchetta. La pallina, anch’essa blu, si cominciava a farla scendere in uno dei tracciati e infine nella buca. Entrata in buca la pallina, il gioco era finito; per ricominciare, si doveva di nuovo far uscire dalla buca la pallina. Tutto quanto era coperto da un robusto vetro concavo, si poteva infilare il gioco di pazienza in tasca e portarselo dietro, e, ovunque si fosse, tirarlo fuori e giocare. La pallina era disoccupata, dunque, nella maggioranza dei casi, le mani dietro la schiena, qua e là sulla superficie scansava i tracciati. A suo parere, tra una giocata e l’altra, lei si annoiava quanto basta, quindi aveva il diritto, se non veniva giocata, di riposarsi sulla superficie libera. Aveva un’andatura arrogante e asseriva di non esser fatta per quegli angusti tracciati. Ciò in parte era vero, perché i tracciati potevano appena contenerla, ma era anche sbagliato, perché lei era accuratissimamente calibrata sulla larghezza di ogni singolo tracciato, tuttavia i tracciati non potevano risultarle comodi, perché altrimenti non ci sarebbe stato alcun gioco di pazienza.

La coppia di coniugi Lo stato generale degli affari è così cattivo che mi capita perfino, se in ufficio ne trovo il tempo, di prendere la cartella con i modelli e di andare di persona dai clienti. Già da un po’, tra l’altro, mi ero riproposto di andare una volta da K., con cui in precedenza sono stato in stabili rapporti di lavoro che tuttavia l’anno scorso per motivi a me ignoti si sono pressoché interrotti. Per inconvenienti simili non serve affatto che ci siano neppure vere ragioni; negli odierni rapporti instabili spesso a decidere è un nulla, uno stato d’animo, e altrettanto un nulla, una parola, può rimettere tutto a posto. Tuttavia è un po’ disagevole recarsi da K.; è un uomo vecchio, ultimamente molto malato, ed anche se tiene ancora in mano gli affari del negozio, sul lavoro non viene quasi più di persona; se si vuole parlarci bisogna andare a casa sua, e un’incombenza di lavoro del genere volentieri si rimanda. Ieri sera dopo le sei comunque mi mossi; certo non era più affatto ora di visite, ma la faccenda era valutabile come commerciale, non d’ufficio. Ebbi fortuna, K. si trovava a casa; appena tornato insieme a sua moglie da una passeggiata, mi dissero in anticamera, era nella camera di suo figlio, a letto perché non stava bene. Mi pregarono inoltre di entrare; dapprima tentennai, ma poi prevalse il desiderio di por fine alla penosa visita prima possibile, così mi feci accompagnare come mi trovavo, cappotto, cappello e cartella dei modelli in mano, per una stanza buia in una stanza male illuminata, dove si trovava riunita una piccola compagnia. Quasi d’istinto il mio sguardo cadde dapprima su un agente di commercio anche troppo ben noto, in certo modo mio concorrente. Dunque si era di nuovo infilato qui prima di me.

Sedeva comodo vicino al letto del malato come se fosse il medico; stava lì con il suo bel cappottone aperto, colossale; la sua sfrontatezza non ha pari; anche il malato doveva pensare qualcosa del genere, mentre giaceva a letto con le guance un po’ arrossate dalla febbre ed a tratti lo guardava. Non è più giovane, tra parentesi, avrà la mia età il figlio, con la barba, a causa della malattia, tutta quanta mal cresciuta. Il vecchio K. , un omone dalle spalle larghe, ma, con mio stupore, molto dimagrito per via delle sue segrete pene, incurvito e malfermo, si trovava ancora come era arrivato, in pelliccia, e mormorava qualcosa in direzione del figlio. Sua moglie, minuta e decrepita, ma molto vivace limitatamente a ciò che riguardava il marito – noialtri ci guardava appena – era indaffarata a togliergli la pelliccia, quel che la gran differenza tra i due rendeva un po’ difficoltoso, però da ultimo ci riuscì. Del resto il difficile stava nel fatto che K. non aveva pazienza e si agitava, proteso a tentoni verso l’agognata poltrona che poi, dopo che la pelliccia fu tolta, sua moglie gli avvicinò svelta. Prese la pelliccia quasi scomparendoci sotto e la portò via. A questo punto finalmente mi sembrò venuto il mio momento, o meglio, non era venuto e probabilmente neppure sarebbe venuto; se però d’altra parte volevo ancora fare un qualche tentativo, doveva succedere ugualmente, perché avevo la sensazione che in quel luogo le premesse per una discussione d’affari stessero diventando ancora più sfavorevoli; però piazzarmi lì, come sembrava che ne avesse l’intenzione l’agente, non mi piaceva; del resto non volevo avere per lui la minima considerazione. Così cominciai veramente di punto in bianco ad esporre la mia faccenda, nonostante notassi che a K. faceva piacere intrattenersi un po’ con il figlio. Purtroppo ho l’abitudine, parlando in stato di leggera agitazione – cosa che

avvenne ancor prima del solito in questa camera di malato – di alzarmi e andare, durante il discorso, avanti e indietro. Quando si è nel proprio ufficio si tratta di un’ottima mossa, in casa d’altri tuttavia è un po’ noiosa. Ma non riuscivo a dominarmi, senza contare che mi mancava la solita sigaretta. Ora, ciascuno ha le sue cattive abitudini, ciò nonostante le mie, in confronto a quelle dell’agente, io le lodo. Che dire per esempio del fatto che lui, totalmente di sorpresa, a un tratto si mise in testa il cappello che teneva appoggiato su un ginocchio e che continuava adagio a spostare su e giù; certo, se lo ritolse come se fosse stata una svista, tuttavia l’aveva tenuto in testa per un attimo, e lo rifece, e continuò ancora ad intervalli di tempo. Impossibile qualificare una condotta simile. Non importa, vado avanti e indietro, sono tutto preso dalle mie cose nel parlare e ci passo sopra, ma possono esserci persone che un simile gioco con il cappello è capace di portare alla completa perdita del controllo. A dire il vero io non ci bado, non solo non mi scaldo per un disturbo del genere, ma neppure per nessun disturbo in assoluto, certo che vedo quel che succede, ma lo accetto finché non ho finito o finché non mi arriva un’obbiezione che per così dire mi colga impreparato. Così notai bene per esempio che K. era assai poco ricettivo; a disagio continuava a ruotare le mani intorno ai braccioli, non guardava me, vanamente intento, piuttosto, a cercar qualcosa nel vuoto e il suo viso sembrava così disinteressato come se nessun suono delle mie parole, e certo neppure una sensazione della mia presenza, entrassero in lui. Anche se vedevo che tale condotta insolita mi dava poco da sperare, continuai a parlare come se comunque avessi ancora qualche speranza di riequilibrare nuovamente, alla fine, ogni cosa con le mie parole, con le mie vantaggiose offerte – io stesso ero sgomentato dalle concessioni che stavo facendo, concessioni

che nessuno mi aveva chiesto. Un certo compiacimento mi venne anche dal fatto che l’agente, come notai di sfuggita, finalmente lasciò in pace il cappello e incrociò le braccia sul petto; le mie argomentazioni, che certo in parte erano calibrate anche su di lui, sembravano assestare un duro colpo ai suoi piani. E avrei continuato a parlare forse ancora a lungo, nello stato di benessere in quel modo generatosi, se il figlio, cui non avevo finora fatto caso in quanto persona per me marginale, non si fosse tirato su nel suo letto e, minacciandomi con un pugno, non mi avesse fatto tacere. Visibilmente aveva intenzione anche di dire qualcosa, di segnalare qualcosa, ma non ne ebbe la forza necessaria. Dapprima scambiai il tutto per un delirio, ma poi senza volere mi accorsi del vecchio K. e compresi meglio. K. sedeva là, gli occhi aperti, vitrei, gonfi, per il momento ancora sotto controllo, tremando chinato in avanti come se qualcuno lo stringesse o lo colpisse sulla nuca, il labbro inferiore e anche la mandibola, tutte scoperte le gengive, penzolavano per conto loro, il volto interamente sfatto; se non altro respirava, quand’anche con difficoltà, ma poi come sciolto cadde indietro contro la spalliera, chiuse gli occhi, gli passò ancora sul viso l’espressione di qualche gran fatica, e fu finita. Svelto balzai verso di lui, gli presi una mano rilasciata e morta, fredda da far rabbrividire; non c’era più pulsazione alcuna. Così dunque era la fine. Certo, un vecchio. Magari la morte potesse venirci con la stessa leggerezza. Ma quanto c’era da fare, ora! E cosa, prima di tutto, e alla svelta? Mi guardai intorno in cerca d’aiuto; ma il figlio si era tirata la coperta sulla testa, si sentiva il suo singhiozzare; l’agente, freddo come una rana, sedeva immobile nella sua poltrona, a due passi da K., ed era evidente che non aveva intenzione di far nulla, se non aspettare che scorresse il tempo; dunque io, soltanto io restavo per far qualcosa, ed ora

giustappunto la cosa peggiore, cioè dare la notizia alla signora in un qualche modo accettabile, un modo che però non esiste. E già udivo nella stanza accanto i passi, premurosi e strascicati. Ella – ancora in abito da passeggio, non aveva avuto il tempo di cambiarsi – recava una camicia da notte tenuta al caldo sulla stufa, che ora voleva far mettere al marito. “Si è addormentato”, disse sorridendo e scrollando la testa, quando ci trovò così silenziosi. E, infinita fiducia dell’innocenza, prese la stessa mano che io avevo tenuto con ripugnanza e timore nella mia, la baciò con breve tocco coniugale e – per il gran piacere di noialtri tre – K. si mosse, sbadigliò rumorosamente, si lasciò infilare la camicia, sopportò tra l’ironico e l’irritato gli affettuosi rimproveri della moglie per essersi lui tanto sforzato nella passeggiata troppo lunga e, per spiegare dal suo punto di vista il fatto di essersi addormentato, obbiettò curiosamente qualcosa sulla noia. Poi si stese momentaneamente, per non prender freddo nel passaggio in altra stanza, a letto insieme al figlio; la sua testa fu fatta adagiare, accanto ai piedi del malato, su due cuscini sveltamente portati lì dalla moglie. Dopo quel che era successo, non ci trovai mica niente di strano. Poi chiese il giornale della sera, lo prese senza riguardo per gli ospiti, ma non si mise a leggere, lo scorse un poco e, con sorprendente perspicacia professionale, ci espresse qualche vera e propria spiacevolezza in merito alle merci da noi offerte, mentre con la mano libera continuava a fare gesti sprezzanti ed accennava, schioccando la lingua, al cattivo sapore che il nostro agire professionale gli aveva lasciato in bocca. L’agente non riuscì a trattenersi dal formulare qualche inopportuna osservazione, perfino con la sua grossolana sensibilità capiva bene che ora K. doveva produrre una qualche compensazione a quel che era successo prima, ma indubitabilmente la cosa non gli andava giù. Io mi congedai alla

svelta, quasi grato all’agente; senza la sua presenza non avrei avuto la forza di andarmene così subito. Nell’anticamera incontrai ancora la signora K.. Vedendone l’aspetto misero espressi con franchezza quel che pensavo, che mi ricordava un poco mia madre. E, dato che restava in silenzio, aggiunsi:” Che cos’altro si può dire a questo punto, quella era capace di miracoli. Quel che noi avevamo distrutto, lei lo rimetteva a nuovo. L’ho perduta quand’ero bambino.” Intenzionalmente avevo parlato in modo lentissimo e chiaro, infatti credevo che la vecchia signora fosse debole d’udito. Invece era proprio sorda, infatti di rimando chiese: “Che mi dite dell’aspetto di mio marito?”. Nelle poche parole di commiato del resto mi accorsi che mi scambiava per l’agente; volentieri ritenni che altrimenti avrebbe avuto con me più familiarità. Poi scesi le scale. La discesa fu più ardua della salita che l’aveva preceduta, e mai qui una salita era stata facile. Ohi, ohi, cosa non capita nei giri di lavoro a vuoto, e cosa non si seguita a sopportare!

Un commento. Era prima mattina, le strade erano chiare e vuote, io andavo alla stazione. Quando confrontai con la mia l’ora di un campanile, vidi che era molto più tardi di quel che avevo pensato, dovevo affrettarmi parecchio, i timori datimi dalla scoperta mi misero addosso una certa insicurezza, non sapevo ancora molto ben orientarmi in questa città, per fortuna lì vicino c’era una guardia, corsi da lui e senza fiato gli chiesi la strada. Lui rise e disse: “Tu vuoi sapere la strada da me?” “Sì”, dissi io, “da solo non so trovarla.” “Rinuncia, rinuncia”, disse lui, e con un gran balzo si voltò, come fanno le persone che vogliono esser sole con le loro risate.

A proposito delle metafore Molti deplorano il fatto che le parole dei saggi siano sempre e soltanto metafore, inservibili tuttavia nella vita quotidiana eppure disponiamo solo di queste. Se il saggio dice “Va’ di là”, egli non intende che noi si debba andare dall’altra parte della strada, cosa che si potrebbe sempre fare, se ne valesse la pena; invece egli intende qualche favoloso di là, ciò che ignoriamo, ciò che da parte sua non è nominabile con più precisione e che quindi in questo mondo non può servirci affatto. Tutte questi metafore significano soltanto che l’inconcepibile è inconcepibile, questo è quanto dobbiamo sapere. Ma ciò che ci affligge ogni giorno è altro. Uno diceva: perché vi opponete? Seguite le metafore, quindi aspettate che esse si avverino e con ciò sarete esentati dalle pene quotidiane. Un altro disse: scommetto che anche questo è una metafora. Il primo disse: hai vinto. Il secondo disse: tuttavia, purtroppo, solo metaforicamente. Il primo disse: no, nella realtà, metaforicamente hai perso.

Ritorno a casa. Sono tornato a casa, ho attraversato l’atrio e mi guardo intorno. E’ la vecchia fattoria di mio padre. Nel mezzo il pantano. Un intrigo di vecchi inutili attrezzi ostacola l’accesso ai piedi della scala. La gatta fa la posta sul muro. Un panno che ha visto giorni migliori, attorcigliato al palo, si rianima nel vento. Sono arrivato. Chi mi accoglierà? Chi aspetta dietro la porta della cucina? Sale fumo dal comignolo, si prepara il caffè per la cena. Ti pare accogliente, ti senti a casa? Non so, sono molto incerto. E’ la casa di mio padre, ma i suoi componenti restano fredde una accanto all’altra, come se ognuna fosse occupata in una sua faccenda che io non ho dimenticato e non potevo sapere. In che cosa posso loro servire, che cosa sono per loro, pur essendo altresì figlio del padre, del vecchio contadino? Non oso bussare alla porta della cucina, ascolto a distanza, solo stando a distanza, per non poter essere scoperto come uno che origlia. E poiché ascolto a distanza, non capisco niente, sento unicamente un leggero battere dell’ora, se non, invece, mi limito a pensare di udirlo a rimorchio dei tempi dell’infanzia. Quel che invece accade nella cucina è il mistero, protetto contro di me, di chi siede lì dentro. Quanto più a lungo s’indugia davanti alla porta, tanto più si diventa sconosciuti. Come sarebbe, se ora qualcuno aprisse la porta e mi domandasse qualcosa? Allora io stesso non sarei come uno che vuol custodire il suo segreto?

Josefine, o il popolo dei topi. La nostra cantante si chiama Josefine. Chi non l'ha udita ignora il potere del canto. Non c'è alcuno che il suo canto non trascini, ciò che vale anche di più dal momento che la nostra specie solitamente non ama la musica. La tranquillità del silenzio è la musica che noi preferiamo; la nostra vita è difficile, anche se abbiamo fatto lo sforzo di liberarci per una volta di ogni cruccio quotidiano, non sappiamo più elevarci a quanto è tanto lontano, come la musica, dalla nostra solita vita. Tuttavia non ce ne lagniamo molto; non arriviamo neanche a questo; una certa qual furbizia pratica, che però ci serve senza dubbio in sommo grado, noi la poniamo come nostra massima virtù, e cerchiamo di confortarci soprattutto con il sorriso di tal furbizia, e se una volta dovessimo avere desiderio della felicità – ciò del resto non accade - esso devia dalla musica, forse. Solo Josefine è differente; lei ama la musica e sa anche produrne; è l'unica; con la sua dipartita la musica – chissà per quanto tempo – scomparirà dalla nostra vita. Ho riflettuto spesso su come stanno davvero le cose in merito a questa musica. E' certo che noi siamo del tutto non musicali; come accade che comprendiamo il canto di Josefine o, dal momento che lei nega la nostra comprensione, crediamo di comprenderlo? La risposta più semplice sarebbe che la bellezza di questo canto è tanta che anche i sensi più ottusi non san resistere, ma tale risposta non soddisfa. Fosse davvero così, in presenza di questo canto si dovrebbe in primo luogo e sempre sentire lo straordinario, sentire qualcosa che solo quest'unica Josefine e nessun altro ci abilita ad udire, qualora risonasse da questa gola qualcosa da noi mai udito finora e che non siamo capaci di udire. Ciò, secondo la mia opinione, non succede

proprio, io non lo sento e neppure ho notato alcunché di simile in altri. In cerchie intime noi parliamo con franchezza del fatto che il canto di Josefine non rappresenta nulla di eccezionale, come canto. Si tratta poi davvero di canto? A dispetto della nostra non musicalità noi abbiamo tradizioni canore; ci fu, nei nostri tempi antichi, del canto; ne raccontano leggende, e si conservano perfino canzoni che però nessuno sa più cantare. Un sentore di che cos'è il canto dunque lo abbiamo, e l'arte di Josefine in realtà non vi corrisponde. Si tratta poi davvero di canto? Non è invece forse solo uno squittire? E noi tutti del resto conosciamo lo squittire, è la vera capacità artistica del nostro popolo, o, molto meglio, non una capacità, piuttosto una caratteristica manifestazione di vita. Tutti noi squittiamo, ma nessuno pensa certo di dar luogo con ciò a qualcosa di artistico, squittiamo senza farci caso, di più, senza capirlo, e tra noi ci sono molti che ignorano del tutto che lo squittire appartiene alle nostre caratteristiche. Se dunque fosse vero che Josefine non canta, ma squittisce soltanto e forse addirittura, come almeno a me pare, varca a mala pena il limite dello squittire normale – anzi, forse non ha neppure la forza bastevole a questo squittire normale, quando invece uno sterratore qualsiasi riesce a farlo tutto il giorno mentre è al lavoro – se fosse vero, allora certo la pretesa artisticità di Josefine sarebbe confutata, ma poi ci sarebbe, a maggior ragione, da risolvere l'enigma della sua grande efficacia. Non è tuttavia proprio soltanto uno squittire, quel che lei produce. Ci si metta distanti da lei e si ascolti, o, ancor meglio, ci si faccia interrogare in merito, canti Josefine putacaso tra altre voci e ci si dia il compito di riconoscere la sua, allora inevitabilmente non si coglierà altro che un normale squittire,

magari poco appariscente, che sta tra il delicato ed il fioco. Ma si resti davanti a lei, non è soltanto uno squittire; ai fini della comprensione della sua arte è necessario non solo udirla, ma anche vederla. Anche se si trattasse del nostro squittire quotidiano, però, già innanzitutto la singolarità consiste nel fatto che qualcuno si metta con solennità a fare null'altro che il solito. Schiacciare una noce non è davvero arte, nessuno oserà radunare un pubblico per schiacciare noci allo scopo d'intrattenerlo. Ma se lo fa ed il suo proposito riesce, allora può essere in questione non solo il puro e semplice schiacciar noci. O no, si tratta di schiacciar noci, ma salta fuori che noi abbiamo ignorato quest'arte perché la conoscevamo perfettamente, e che tal nuovo schiacciatore di noci ne indica per primo l'essenza particolare, ragion per cui, s'egli è un po' meno abile nello schiacciar noci della maggioranza di noi, ai fini del risultato ciò potrebbe perfino essere vantaggioso. Forse succede qualcosa di simile con il canto di Josefine, noi ammiriamo in lei quel che non ammiriamo affatto in noi, del resto lei concorda in pieno con noi a quest' ultimo riguardo. Una volta ero presente quando qualcuno, come naturalmente accade spesso, richiamò senza sfacciataggine la di lei attenzione sul generale squittire popolare, per Josefine ciò fu troppo. Non ho ancora visto un sorriso tanto sfrontato, altezzoso, come quello che allora fece lei; lei, che è esteriormente la tenerezza perfetta, che par tenera anche all'interno del nostro popolo, ricco di simili figure di donna, quella volta si mostrò meschina; del resto, sensibile com'è, riuscì a sentire di esser meschina, e si contenne. Comunque lei nega ogni rapporto tra la sua arte e lo squittire. Non si cura di color che sono di opinione contraria, forse segretamente li odia. Non si tratta della solita vanità, infatti gli oppositori, tra i quali in parte mi trovo, l'ammirano

certo non meno della massa, ma Josefine non vuole essere ammirata soltanto, vuole essere ammirata esattamente nel modo da lei stabilito, niente le garba dell'ammirazione generica. E quando le sediamo davanti, lei ne ha contezza; solo da lungi si pratica l'opposizione; quando le sediamo davanti, sappiamo che quel che lei squittisce non è affatto uno squittire. Poiché lo squittire fa parte delle nostre abitudini involontarie, si potrebbe opinare che anche all'interno dell'uditorio di Josefine taluni squittiscano; che, nonostante l'arte sua, ci venga bene squittire, e che, se ci va, noi squittiamo; invece il suo uditorio non squittisce, se ne sta zitto zitto, taciamo come fossimo divenuti partecipi alla bramata armonia da cui il nostro proprio squittire come minimo ci allontana. E' nel suo canto, la malia, o non lo è molto di più nel silenzio solenne da cui la sua deboletta voce è circondata? In un caso capitò che una qualunque, durante il canto di Josefine, iniziasse a squittire candidamente, anche lei, una stolta cosuccia. Orbene, si trattava assolutamente della stessa cosa che udivamo da parte di Josefine; là davanti, nonostante tutto il mestiere, sempre lo stesso timido squittire, qui, tra il pubblico, lo svagato infantile squittire; indicarne la differenza sarebbe stato impossibile; e però fischiammo e squittimmo addosso alla disturbatrice per quanto non fosse necessario, infatti lei si sarebbe nascosta lo stesso, impaurita e vergognosa, intanto che Josefine iniziava ad intonare il suo squittire trionfale protendendo le braccia, tutta fuor di sé, gonfio al massimo il collo. Del resto lei è sempre così, ogni inezia, ogni caso, ogni insubordinazione, uno scricchiolio in platea, un digrignar di denti, ogni disturbo dell'illuminazione, lei lo ritiene confacente ad aumentare l'effetto del suo canto; di fatto lei canta, questa la sua opinione, davanti a orecchie dure; passione e plauso non

mancano, ma lei ha imparato a rinunciare alla comprensione autentica, come pensa. Ecco che ogni disturbo le viene a fagiolo; tutto quel che da fuori si oppone alla purezza del suo canto e che è vinto con lieve lotta, anzi senza lotta, con il solo mezzo del raffronto, può contribuire a destare la massa, ad insegnarle certo non la comprensione, ma il rispetto responsabile. Se tuttavia le fa tanto gioco il meno, quanto maggiormente le serve il più? La nostra vita è molto agitata, ogni giorno porta sorprese, angosce, speranze e spaventi che il singolo non può sopportare da solo senza l'appoggio del compagno in qualsiasi momento del giorno e della notte; ma anche così spesso è davvero difficile; talvolta sotto il fardello cui era destinato uno solo, tremano anche mille spalle. E' allora che Josefine stima che sia venuto il suo momento. Eccola, la tenera creatura, vibrante il suo petto di straordinaria angoscia, è come se avesse radunato tutta la sua forza, come se in lei ciò che non serve direttamente al canto fosse proibito; devolve tutte le sue forze, quasi tutta la sua vitalità, ai buoni spiriti della protezione, come se un alito più freddo, intanto che lei si trova tutta rinserrata nel canto, potesse ucciderla. Tuttavia davanti ad un simile spettacolo noi supposti oppositori siamo soliti dirci: ”Non sa neanche squittire; deve sforzarsi in modo così spaventoso, e non per cavar da se stessa un po' di canto – non parliamo mai di canto – ma il solito squittire.” Questo il nostro parere, certo è un'impressione inevitabile, eppur fuggevole, che cessa velocemente. E già anche noi ci immergiamo nel sentimento della moltitudine stante in ascolto calda, accostati i corpi, in soggezione, il fiato sospeso. E per radunare intorno a sé tal moltitudine di popolo, il nostro, che più o meno in continuo movimento scappa qua e là, nella maggioranza dei casi Josefine non deve far altro che prendere quella posizione, testolina inclinata indietro, bocca semiaperta,

occhi volti all'insù, indicante che lei intende cantare. Può farlo dove vuole, non dev'essere affatto un luogo visibile da lontano, è adatto anche un qualche oscuro angoletto scelto a caso per improvviso capriccio. La notizia che lei ha intenzione di cantare si propaga lo stesso, e velocemente si allungano processioni. Ora, capita che subentrino ostacoli, Josefine preferisce cantare proprio nei momenti d'inquietudine, molteplici preoccupazioni e necessità ci costringono quindi a svariati percorsi, con la migliore volontà non si riesce radunarsi con la velocità che Josefine desidera, e lei in tali occasioni se ne sta lì con la sua aria d'importanza senza un totale sufficiente di uditori, per un po' – allora s'infuria, scalpita, impreca in modo non certo femminile, anzi, arriva a mordere. Eppure neanche una condotta del genere nuoce alla sua reputazione; invece di porre qualche argine alle sue enormi pretese ci si sforza di aderirvi; si mandano messaggeri a chiamar gli uditori; tenendoglielo segreto; si notano nelle vie vicine vedette far cenni di sbrigarsi a chi si avvicina; fino a quando da ultimo non si raccoglie un numero passabile di uditori. Che cosa spinge il popolo a disturbarsi tanto per Josefine? Trattasi di questione non più facile da risolvere di quella inerente il canto di Josefine, ma ad essa legata. Potremmo cancellarla ed unificarla con la seconda, se si sostenesse a un dipresso che il popolo è incondizionatamente devoto al canto di Josefine. Ma non è così; il nostro popolo quasi ignora la devozione senza condizioni; questo popolo amante più di tutto dell'astuzia bonaria, del bisbiglio infantile, del pettegolezzo innocente, com'è ovvio, e leggibile solo a fior di labbra, un tal popolo non può comunque abbandonarsi senza condizioni, lo sente bene anche Josefine, ecco che cosa lei combatte sforzando la sua deboletta gola.

Non è certo lecito andar troppo lontano opinando che il popolo è devoto a Josefine ma non in modo incondizionato. Per dirne una, non sarebbe capace di ridere di lei. E' garantito che più d'uno incita a ridere di lei; e noi siamo gente che è sempre prossimo al ridere od al deridere; a dispetto di tutte le disgrazie della nostra vita da noi è sempre di casa per dir così un sommesso riso; ma non su Josefine. A volte ho l'impressione che il popolo interpreti il suo rapporto con Josefine nel senso che lei, questa creatura fragile, valetudinaria, in qualche modo speciale, secondo lei speciale per via del canto, gli sia affidata e che sia doveroso preoccuparsi di lei; nessuno ne sa la ragione, ma il fatto è sicuro. E su quel che ci è affidato non si ride; riderne sarebbe violazione dei doveri; il massimo della cattiveria è quel che i peggiori tra noi aggiungono: “Il ridere ci passa, se vediamo Josefine.” Così il popolo si preoccupa per Josefine a mo' di un padre che si prende cura di un figlio che tende verso di lui le sue manine – non sappiamo se imploranti od incoraggianti. Il nostro popolo non è capace di compiere questi doveri, si potrebbe obbiettare, ma in realtà li esercita, almeno in questo caso, in modo esemplare; nessun singolo individuo potrebbe fare quello di cui il popolo come totalità è capace. Di sicuro la differenza di forza tra il popolo e il singolo è tanto enorme, basta questo, da attirare il protetto nel calore della sua vicinanza, e la protezione è sufficiente. A Josefine del resto non si osa parlare di tali cose: “Io squittisco per proteggervi”, lei dice, “Sì sì, tu squittisci”, pensiamo noi. E non c'è davvero nessuna obbiezione, se lei si ribella, poiché tali ribellioni fanno parte dell'indole infantile e della riconoscenza infantile, ed il padre, secondo la sua natura, non ne tiene conto. Però conta anche dell'altro, che è difficile da spiegare, in questa relazione tra popolo e Josefine. Lei in altri termini è dell'opinione

contraria, crede di essere la protettrice del popolo. Il suo canto ci salva per dir così da condizioni peggiori in politica ed in economia, niente di meno, e se non allontana i guai almeno ci dà la forza di tollerali. Non che lei si esprima così, od in altri modi, di base parla poco, tace in mezzo ai chiacchieroni, ma lampeggiano dai suoi occhi, certe opinioni, rilevabili dalla sua bocca chiusa – tra noi pochi san tenerla chiusa, lei ci riesce. Dopo ogni cattiva notizia – e certi giorni esse si rincorrono, tra loro le false e le vere a metà – lei si alza, quando di solito anela fiaccamente il suolo, tende il collo e tenta la visione generale del suo gregge, come il pastore in vista del temporale. Certo anche i bambini, secondo la loro indole rozzamente priva di autocontrollo, hanno pretese simili, che però in Josefine non sono altrettanto prive di fondamento. E' chiaro che lei non ci salva né ci dà alcuna forza, è facile atteggiarsi a salvatore di questo popolo che pure si è sempre salvato da solo, foss'anche a costo di olocausti in merito ai quali lo storico – in genere noi trascuriamo del tutto gli studi storici – impietrisce orripilato. Eppure è vero che proprio in stato di necessità, più che non nella normalità, stiamo ad ascoltare la voce di Josefine. Le minacce che incombono su di noi ci rendono più silenziosi, più modesti, più arrendevoli in rapporto all'attitudine al comando di Josefine; ci raduniamo di buon grado, di buon grado ci stringiamo gli uni agli altri; in particolare perché ciò accade del tutto collateralmente rispetto alla straziante questione principale; è come se noi tornassimo in fretta – necessaria fretta, Josefine lo dimentica troppo spesso – a bere insieme al calice della pace, in vista della battaglia. Non si tratta di un'esibizione canora, ma, molto di più, di un'adunata popolare in cui il popolo tace del tutto prima del deboletto squittire; l'ora è troppo seria perché si voglia trascorrerla nelle chiacchiere.

Ora, d'una simile relazione Josefine non potrebbe rallegrarsi affatto. Nonostante tutto il malessere nervoso che, a causa della sua posizione mai del tutto chiarita, la colma, lei non nota tante cose, accecata dal suo orgoglio, e può senza grande sforzo essere indotta alla sopravvalutazione di molte cose, una schiera di zelatori è a tale proposito, dunque in un senso in genere proficuo, sempre attiva, ma non sprecherebbe certo per loro il suo canto, per quanto ciò in sé non sarebbe affatto poca cosa lei da una parte, inosservata, in un angolo dell'adunata popolare. Tuttavia non ha da fare neanche questo, perché la sua arte non resta inosservata. Per quanto noi ci si occupi di tutt'altro e non domini assoluto il silenzio solo per amor del canto, e molti non alzino lo sguardo, premendo anzi il muso nella pelliccia del vicino, e Josefine lassù sembri affaticarsi a vuoto, tuttavia – è innegabile - qualcosa del suo squittire penetra immancabilmente anche in noi. Questo squittire, che si leva dove a tutti gli altri è imposto di tacere, viene quasi come un messaggio del popolo ai singoli; il delicato squittire di Josefine tra le gravi decisioni è quasi come la misera esistenza del nostro popolo nel mezzo del tumulto del mondo ostile (corsivo a cura del traduttore). Josefine si afferma, questa nullità in fatto di voce, di prestazione, si afferma e si fa strada verso di noi, ciò fa pensare. Un artista del vero canto, se mai tra noi ce ne potesse trovare uno, non lo sopporteremmo di certo, in simili occasioni, e respingeremmo unanimi l'insensatezza di una simile esibizione. A Josefine piacerebbe esser protetta dal conoscere che il fatto che noi stiamo ad ascoltarla è una dimostrazione contro il di lei canto. Ne ha certo il sentore, perché altrimenti negherebbe così appassionatamente che noi la stiamo ad ascoltare? Eppure al di là di tal sentore continua ogni volta a cantare di nuovo, e squittisce tuttavia.

Però sarebbe pur sempre una consolazione per lei: stiamo ad ascoltarla davvero, per dir così, probabilmente in modo analogo a come si sta ad ascoltare un artista del canto; lei perviene a risultati cui inutilmente presso di noi aspirerebbe un artista del canto, e che solo ai suoi insufficienti mezzi sono per l'appunto consentiti. Ciò sta certo in relazione principalmente con il modo di vivere del nostro popolo. In esso è ignota ogni giovinezza, a malapena si conosce un'infanzia brevissima. E' vero, con regolarità si rivendica la possibilità di garantire ai bambini una libertà speciale, una cura speciale, il diritto ad un po' di spensieratezza, ad un po' di sgambettamento a vuoto, ad un po' di gioco, è un diritto che si potrebbe riconoscere dandogli una realizzazione; si manifestano tali rivendicazioni e quasi tutti le approvano, ma non v'è nulla che nella realtà della nostra vita potrebbe esser meno concesso, si approvano le rivendicazioni, si fanno tentativi in tal senso, ma presto tutto di nuovo ricade dalla parte dei vecchi. La nostra vita purtroppo è siffatta che un bambino, non appena corre un poco e può discernere l'ambiente, deve occuparsi di sé proprio come un adulto, i territori nei quali per convenienza dobbiamo vivere dispersi sono troppo vasti, troppi i nostri nemici che dappertutto ci creano pericoli imprevedibili – non possiamo tenere i bambini lontani dalla lotta per l'esistenza, se lo facessimo ciò vorrebbe dire la loro fine precoce. A queste tristi ragioni facilmente se ne aggiunge una più importante: la fecondità della nostra stirpe. Una generazione – e ciascuna è numericamente grande – incalza l'altra, i bambini non hanno il tempo di essere bambini. Presso gli altri popoli i bambini possono essere curati scrupolosamente, là si possono edificare scuole per loro, quotidianamente possono uscirne, sono il futuro del popolo, loro, ma continuando a sbucarne senza darsi il cambio con altri per parecchio tempo,

giorno dopo giorno. Noi non abbiamo alcuna scuola, tuttavia dal nostro popolo escono a brevissimi intervalli le incalcolabili greggi dei nostri bambini felicemente fischiando o sibilando fino a quando ancora non sanno squittire, ruzzolando o seguitando a rotolare in virtù del loro peso fino a quando non sanno ancora correre, portando via con sé ogni cosa con la loro massa, goffamente, fino a quando ancora non sanno vedere, i nostri bambini! E non, come in quelle scuole, sempre gli stessi, no, ancor sempre e sempre nuovi, senza fine, senza interruzione, non appena sbuca un bambino non è più un bambino, ma già dietro a lui spingono nuovi musi di bambino indistinguibili nella loro frettolosa moltitudine, rosei e felici. Per quanto ciò possa essere bello ed altri a ragione possano invidiarlo, però noi non possiamo dare ai nostri bambini un'infanzia autentica. Da ciò certi effetti, come una certa inesausta ed inestirpata fanciullaggine che scorre nel nostro popolo; in deciso contrasto con quel che abbiamo di meglio, con la praticità ed esattezza della comprensione, talvolta noi agiamo del tutto da stolti, in altri termini quasi come agiscono i bambini, in modo assurdo, dissipatorio, grandioso, spensierato, e tutto ciò spesso per amore di una piccola burla. E se la nostra gioia, com'è naturale, non può continuare ad aver tutta la forza di quella infantile, qualcosa certo ne sopravvive. Di tal fanciullaggine del nostro popolo Josefine approfitta da sempre. Il nostro popolo tuttavia non è solo infantile, è per dir così anche precocemente vecchio, infanzia e vecchiaia si presentano presso di noi in modo diverso che presso altri. Non abbiamo giovinezza alcuna, siamo come adulti, e lo siamo troppo a lungo, una certa fiacchezza e una certa disperazione solca profondamente lo spirito del nostro popolo d'altra parte in genere tanto tenace e dotato in fatto di speranza. Anche la nostra non musicalità è

davvero in relazione con questo; siamo troppo vecchi per la musica, essa eccita, slancia, ciò non si accorda con la nostra gravità, stanchi le opponiamo un diniego; in merito allo squittire abbiamo operato una ritrattazione; un poco di squittire di tanto in tanto, questa è la cosa giusta per noi. Chissà se tra noi non ci sono talenti musicali; ma se ci fossero, il generale carattere etnico dovrebbe assoggettarli in vista della sua evoluzione. Al contrario Josefine a suo piacimento può squittire o cantare, o come vuol chiamarlo lei, questo non ci disturba, ci è conforme, possiamo tollerarlo bene; se dovesse esserci, dentro, qualcosa di musicale, ciò è ridotto alla massima nullità possibile; si difende una certa tradizione musicale, ma senza che questo ci opprima minimamente. Josefine però a questo popolo siffattamente disposto reca assai di più. Durante i suoi concerti, specie in tempi gravi, s'interessano ancora alla cantante in quanto tale soltanto i giovanissimi, che, soli, stanno a guardare come lei arriccia le labbra, come soffia via l'aria tra i graziosi denti incisivi, ammirati ai suoni che lei insieme emette e spegne, spingendosi con tal venir meno ad un nuovo effetto che le viene sempre più astruso, tuttavia la massa vera e propria s'è ritirata in se stessa – ciò è evidente. Durante le scarse pause tra una battaglia e l'altra il popolo qui sogna, è come se al singolo si sciogliessero le membra, come se l'angustiato potesse una buona volta a piacer suo allungarsi e stirarsi nel gran letto caldo del popolo. E in tali sogni trilla qua e là lo squittire di Josefine; lo chiama spumeggiante, lei, noi traballante; comunque qui è al suo posto come da nessun altra parte, come musica quasi mai trova il suo momento giusto. Nello squittire c'è qualcosa della misera breve infanzia, qualcosa della perduta e mai riacquistabile felicità, ma anche qualcosa della presente vita operosa, del suo po' di

incomprensibile eppur sussistente né troppo soffocabile allegria. E tutto ciò non è espresso davvero con grandi suoni, ma lievi, bisbiglianti, confidenziali, talvolta un poco rauchi. E' uno squittire, certo. Perché no, poi? Lo squittire è la lingua del nostro popolo, molti per tutta la vita non fanno altro che squittire e non lo sanno, ma qui lo squittire è affrancato dalle catene della vita lavorativa, e libera per un breve tempo anche noi. Certo non vorremmo fare a meno di queste esibizioni. Da qui a quanto asserisce Josefine, che nei momenti gravi ci darebbe nuove forze eccetera eccetera, ce ne corre. Secondo la gente comune, ma non secondo gli zelatori di Josefine. “Come sennò” - dicono loro, davvero con disinvolta sfacciataggine - “si potrebbe spiegare altrimenti, specie nell'urgenza di un immediato pericolo, il grande afflusso che già alcune volte ha impedito addirittura la sufficiente tempestività della difesa precisamente da tal pericolo?” Ora, questo è giusto, purtroppo, ma non è un titolo di merito di Josefine, specie se si aggiunge che, quando le adunate improvvisate venivano disperse dal nemico e alcuni di noi dovevano lasciarci la vita, Josefine, di tutto quanto responsabile, che anzi aveva forse attirato il nemico con il suo squittire, aveva per sé i più sicuri posticini ed era la prima a sparire zitta e svelta sotto la protezione dei suoi seguaci. Ma in fondo tutti lo sanno, questo, ciò non di meno si affrettano di nuovo quando Josefine, a sua discrezione, alla prima occasione una volta o l'altra si alza e canta. Dal che si potrebbe concludere che Josefine sta quasi al di fuori della legge, che ha il permesso di fare quel che vuole, anche quando il fatto mette in pericolo la collettività, e che tutto le viene perdonato. Se fosse così, allora anche le pretese di Josefine sarebbero comprensibili, anzi, in tale libertà che le darebbe il popolo, in questo straordinario omaggio mai di norma accordato

ad altri, e che di fatto indebolisce le leggi, potrebbe in certo qual modo vedersi un'ammissione di questo, che il popolo, come lei asserisce, non la comprende, osserva impotente e stupefatto l'arte sua, non se ne sente degno, e cerca di compensare questo suo torto ai danni di Josefine per mezzo di una gratificazione chiaramente estrema, e, così come l'arte sua esorbita dalla sua capienza, anche la sua persona ed i suoi desideri esorbitano dal suo potere di comando. Orbene, questo non è assolutamente vero, forse il popolo capitola troppo alla svelta davanti a Josefine, ma non in modo incondizionato, così come non capitola incondizionatamente davanti ad alcuno. Già da molto tempo, forse dall'inizio della sua carriera artistica, Josefine lotta per essere affrancata da qualsiasi lavoro in considerazione del suo canto; perché le si possano togliere le preoccupazioni in merito al pane quotidiano ed a tutto quello che è di norma connesso con la nostra lotta per l'esistenza, probabilmente scaricandole sul popolo come collettività. Un appassionato incauto – ve n'è di tali – potrebbe già soltanto dalla singolarità di tali pretese, dalla disposizione d'animo capace di escogitare tali pretese, trarre conclusioni in merito alla sua intrinseca giustificazione. Ma il nostro popolo trae conclusioni diverse, e serenamente disapprova le pretese. Non si stanca neanche molto a confutarne i motivi. Per esempio, Josefine sa a questo riguardo che la fatica lavorativa danneggia la voce, certo essa è modesta in confronto a quella canora, che però tal fatica la priva della possibilità, una volta cantato, di riposare a sufficienza e di riprendersi in vista del successivo canto, inoltre lei è costretta a dare proprio tutto, ma, nonostante tal costrizione, in queste circostanze giammai può raggiungere il massimo della sua prestazione. Il popolo sta ad ascoltarla, ma ignora quanto sopra. Questo popolo che tanto facilmente è

troppo commosso, talvolta non si commuove affatto. Il rifiuto talvolta è così duro che anche Josefine se ne sorprende, sembra sottomettersi; si affatica come le si addice, canta bene come sa, ma tutto questo solo per poco, poi riprende la lotta con nuove energie – che sembra avere illimitate. Ora, è certamente chiaro che Josefine non aspira davvero a quel che alla lettera richiede. E' ragionevole, non rifugge il lavoro perché sicuramente il rifiuto del lavoro specie tra noi è ignoto, lei non vivrebbe diversamente da prima una volta che le sue pretese fossero soddisfatte, il lavoro non sarebbe affatto d'intralcio al suo canto, ed il canto del resto non diverrebbe neanche più bello – ciò cui aspira è dunque il chiaro, netto, duraturo riconoscimento fin qui conosciuto della superiorità della sua arte su ogni altra. Mentre tuttavia tutto il resto le pare raggiungibile, questo le si nega con caparbietà. Forse avrebbe dovuto condurre l'assalto altrove fin da principio, forse adesso lei stessa si accorge dell'errore, ma ora non può tornare indietro, tornare indietro significa non essere fedele a se stessa, ora lei deve mantenere le sue pretese o cadere. Se avesse veramente nemici come dice, essi potrebbero assistere soddisfatti a tale lotta senza muovere un dito. Ma lei non ha alcun nemico, ed anche se qua e là certuni hanno obbiezioni nei suoi confronti, questa lotta non piace a nessuno. Non già perché in questo caso il popolo si mostra nel suo atteggiamento di giudicante freddezza, come presso di noi si vede solo assai di rado. Ed anche se in questo caso può approvare tale atteggiamento, la semplice obbiezione che una volta potrebbe agire in modo simile esclude ogni gioia. Non si tratta, nel caso del rifiuto come nel caso delle pretese, della stessa cosa, ma del fatto che il popolo possa ritirarsi in modo tanto impenetrabile nei confronti di un compagno, tanto più

impenetrabile di quanto altrimenti provveda con umiltà proprio a tal compagno in modo paterno e più che paterno. Se al posto del popolo, qui, ci fosse un singolo, si potrebbe credere che quest'uomo abbia continuato a cedere, riguardo a Josefine, alle sua perenni richieste, e che finalmente ponga termine all'arrendevolezza; che abbia ceduto in modo eccezionale, fiducioso che la concessione comunque troverà il suo preciso limite; anzi, che abbia concesso più del necessario soltanto per affrettare la faccenda, per viziare Josefine e suscitarne sempre nuovi desideri, fino al momento in cui lei non accampi davvero l'ultima delle pretese; che abbia dato luogo ora al rifiuto definitivo, esatto, netto, proprio perché lungamente preparato. Ora, di certo il popolo non si comporta così, non ha bisogno di simili astuzie, inoltre il suo culto per Josefine è leale e provato, e le pretese di Josefine sono d'altronde tanto grandi che qualsiasi bambino avrebbe potuto pronosticarne l'esito; ciò nonostante può essere che alla concezione che Josefine ha della questione concorrano anche simili congetture e che aggiungano amarezza al dolore del rifiuto. Tuttavia lei può fare anche simili congetture, non si fa spaventare dalla lotta. Negli ultimi tempi essa addirittura si acutizza; fin qui lei l'ha condotta a parole, ora inizia ad usare altri mezzi che, a suo avviso più efficaci, ai nostri occhi sono più pericolosi per lei. Molti credono che Josefine si faccia tanto insistente perché si sente diventare vecchia, la voce rivela indebolimento, e che le sembri perciò arrivato il momento di condurre la lotta finale per il suo riconoscimento. Io non sono d'accordo. Josefine non sarebbe lei, se fosse vero. Per lei non c'è alcuna vecchiaia ed alcun indebolimento vocale. Se pretende qualcosa, non è spinta da cose esteriori, ma invece da interna coerenza. Tende alla

corona massima non perché a un dato momento essa pende un poco più in giù, ma perché si trova al massimo dell'altezza; fosse in suo potere, l'appenderebbe ancora più in alto. Questo disdegno delle difficoltà esterne non le impedisce del resto di adottare i mezzi più indegni. Non ha dubbi sui suoi diritti; quel che le preme è come realizzarli; in particolare proprio i mezzi degni devono fallire in questo mondo, come le si presenta. Forse per questo ha spostato perfino la lotta per i suoi diritti dal terreno del canto ad un altro che le garba poco. I suoi sostenitori hanno diffuso sue asserzioni secondo cui lei si sente assolutamente abile a cantare in modo tale che per il popolo in tutti i suoi strati, fino alla più nascosta opposizione, sarebbe un vero diletto, vero diletto non secondo il popolo, che sostiene anzi di provarne da sempre, al canto di Josefine, ma diletto secondo i desideri di Josefine. Lei aggiunge però che, siccome non potrebbe dissimulare ciò che è elevato né cedere alle lusinghe di ciò che è vile, l'elevato deve restare esattamente com'è. Altro discorso è quello della lotta per venir liberata dal lavoro, in effetti anch'essa finalizzata al canto, ma non condotta direttamente con le armi del canto, bensì con ogni mezzo che sia buono abbastanza allo scopo. Così per esempio veniva propagata la diceria che Josefine aveva intenzione, qualora non le si cedesse, di abbreviare i suoi gorgheggi. Io non so niente di gorgheggi, non ho mai notato nel suo canto un qualche gorgheggio. Lei però vuole abbreviarli, non sopprimerli per intanto, solo abbreviarli. Ha realizzato la sua minaccia, dicono, del resto non mi sono accorto di alcuna differenza rispetto alle esibizioni precedenti. Il popolo nell'insieme è stato ad ascoltare come sempre, senza pronunciarsi in merito ai gorgheggi, né è mutato il suo modo di trattare le pretese di Josefine. Non si nega però che Josefine

possieda talvolta della vera leggiadria, tanto nella sua figura quanto nei suoi pensieri. Così, per esempio, dopo ogni sua esibizione lei è andata spiegando, quasi che il taglio dei gorgheggi fosse stato troppo duro e immediato per il popolo, che nel futuro lei canterà di nuovo gorgheggiando in pieno. Dopo il concerto successivo tuttavia ha cambiato idea un'altra volta, con i gorgheggi pieni era finita inappellabilmente, e, prima d'una presa di posizione popolare a lei favorevole, non sarebbero più stati eseguiti. Orbene, il popolo sta ad ascoltare senza abbassarsi a tutto questo spiegare, decidere e cambiar decisione, come un adulto assorto nei suoi pensieri ascolta le chiacchiere di un bambino, fondamentalmente ben disposto, ma inaccessibile. Josefine non cede, però. Così di recente affermava di essersi fatta male a un piede sul lavoro, ciò che durante il canto le rendeva gravosa la posizione eretta; potendo d'altra parte cantare solo stando in piedi, era costretta addirittura ad abbreviare le sue canzoni. Nonostante che zoppichi e si faccia sostenere dai suoi seguaci, nessuno crede ad una ferita vera. Anche ammettendo la speciale sensibilità del suo corpicino, noi però siamo un popolo lavoratore, ed anche lei fa parte del popolo; se per ogni escoriazione dovessimo zoppicare, nessuno potrebbe smetterla. Lei vuole farsi portare come fosse paralitica, tuttavia, preferisce farsi vedere in questo stato miserevole, il popolo ascolta riconoscente ed affascinato il suo canto, ma non si preoccupa del fatto che sia abbreviato. Siccome non può continuare a zoppicare, escogita qualcos'altro, prende a pretesto la stanchezza, il malumore, la debolezza. Non bastavano i concerti, ora abbiamo anche il teatro. Vediamo alle sue spalle i suoi seguaci quanto la pregano e scongiurano di cantare. Ne avrebbe voglia, ma non può. La si conforta, adula,

quasi la si trascina fino al luogo prescelto perché lei canti. Infine cede inspiegabilmente in lacrime, ma quando intende cantare visibilmente con la volontà che le resta, spossata, con le braccia non levate come al solito, ma penzolanti dal corpo senza vita, per cui si ricava l'impressione che siano un po' troppo corte – quando si accinge a cantare, dunque, poiché ancora non sta bene accenna il fatto con una sdegnata scossa del capo, e crolla davanti ai nostri occhi. Del resto in seguito balza in piedi e canta, secondo me, non molto diversamente dal solito, forse avendo orecchio alle più fini sfumature si coglie una stizza un po' fuori del comune, che tuttavia torna utile alla cosa. E alla fine lei è perfino meno stanca di poco prima, a passi sicuri, ammesso che il suo trotterellare sgusciante possa esser definito così, si allontana respingendo ogni aiuto dei sostenitori e scrutando con freddezza la folla che la scansa reverente. Così ultimamente, ma l'ultimissima è che lei, quando si aspettava che cantasse, era scomparsa. Non solo i seguaci la cercano, in molti si mettono al servizio di tal ricerca, è inutile; Josefine è sparita, non vuol cantare, non vuole neppure esser pregata, stavolta ci ha proprio abbandonato. Strano come faccia male i suoi conti, lei, la furba, così male che si dovrebbe credere che non li faccia proprio, che invece sia spinta dal suo destino, che nel nostro mondo può essere soltanto un destino assai triste. Sottraendosi al canto lei distrugge anche il potere che ha acquisito sui cuori. Come poteva fare solo lei, perché questi cuori li conosce ben poco. Si cela e non canta, ma il popolo, tranquillo, senza visibile delusione, altero, massa autoconsistente che all'apparenza, per quanto l'apparenza dica il contrario, può solo dare, mai ricevere doni, nemmeno da Josefine, questo popolo prosegue per la sua strada.

Per Josefine però si mette male. Presto verrà il momento in cui risuonerà il suo ultimo squittire, e finirà. Lei è un breve episodio della storia infinita del nostro popolo, ed il popolo supererà la perdita. Non sarà facile, come saranno possibili le adunate totalmente mute? In effetti, non lo erano anche con Josefine? Il suo effettivo squittire era più alto e vivo del ricordo che se ne ha? Da viva, era più di un puro e semplice ricordo? Nella sua saggezza il popolo non ha, invece, posto il canto di Josefine tanto in alto proprio perché esso nel suo genere era imperdibile? Forse dunque non ne sentiremo molto la mancanza, ma Josefine, liberata dalle tribolazioni terrene che tuttavia, secondo lei, sono preparate per gli eletti, felicemente si perderà nella folla innumerevole degli eroi del nostro popolo e presto, poiché noi non tramandiamo alcuna storia, sarà dimenticata, come tutti i suoi fratelli, entro una più grande liberazione.