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Italian Pages 72 Year 1993
Carlo Diano
FORMA ED EVENTO Principi per una interpretazione del mondo greco Prefazione di Remo Bodei
Saggi Marsilio
Carlo Diano
Forma ed evento Principi per una interpretazione del mondo greco Prefazione di Remo Bodei
Marsilio
© 1993 BY MARSILIO EDITORI® S.P.A. IN VENEZIA L'edizione originale di Forma ed evento è apparsa nel1952 presso Neri Pozza Editore, Vicenza
ISBN 88-317-5590-0
Prima edizione: maggio 1993
INDICE
7 Cristalli di storia
di Remo Bodei 33
FORMA ED EVENTO
67 Appendice. Lettera a Pietro de Francisci
CRISTALLI DI STORIA
di Remo Bodei
I.
l. Questo testo - di nervosa asciuttezza, sobrio nei riferimenti e nelle note - mostra subito una inusitata tensione teorica. La polarità, apparentemente semplice, delle nozioni di ed rinvia infatti a un'articolazione concettuale ramificata e a percorsi filologici in parte appena tracciati, in parte interrotti. Risultando da una sedimentata, tenace frequentazione dei classici e da incontri non occasionali con la filosofia contemporanea, esso incorpora nella sua lineare esposizione blocchi sporgenti di rappresa storicità. Una simile configurazione, metodicamente perseguita, affascina e illumina, ma può anche legittimamente disorientare. Per coglierne il senso più profondo, occorre aprirsi un varco tra due opposti atteggiamenti: di chi non giunge a porre radicalmente in discussione la tesi di una perfetta e univoca simmetria tra > dei loro differenti lati, iniziamo con lo stabilire, in maniera piana, gli aspetti più espliciti e accertabili della questione, per inoltrarci in seguito in quelli più controversi e sfuggenti. Che si tratti di idee dotate di puro e non ontologico, valide solo «sul terreno della storia>> e , è affermazione variamente sottolineata e più volte ripetuta 1• Forse con eccessiva insistenza, che potrebbe rivelarsi sintomatica dello sforzo di esorcizzare un temuto appiattimento dei dati filologici sotto il rullo compressore di una logica dualistica semplificante e implacabilmente meta-storica. li saggio La poetica dei Feaci aggiunge tuttavia, in un brevissimo inciso, un prezioso accenno, purtroppo non ulteriormente elaborato: nel quadro di una variante più rigorosa ed esigente della vichiana convertibilità del «certo>> e del , Diano ricorda come la natura fenomenologica delle categorie di > e di «evento>> implichi il loro essere «insieme storiche e logiche>>'. Ma cosa vogliono propriamente dire «evento>> e «forma>> e come si presume di far convivere in ciascuna di tali categorie tanto la dimensione relativa, storicamente condizionata, quanto quella assoluta, logicamente valida per ogni civiltà ed esaustiva di ogni esperienza umana? Non vi è dubbio che per l'autore di questo volume in principio era l' «evento>>. Da esso siamo partiti e ad esso l'esperienza moderna tende, con qualche eccezione, a tornare, accentuandone gli aspetti nichilistici (il riferimento è sempre a Heidegger). Questo termine
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1 Cfr., ad esempio, C. Diano, Forma ed evento, Vicenza 1967\ pp. 45-46 (d'ora in poi indicato con la sigla FE); Linee per una fenomenologia dell'arte, Vicenza 1968, p. 11 (d'ora in poi indicato con la sigla L). Solo che l'aggettivo «fenomenologico» non viene inteso in un significato tecnico-filosofico (hegeliano o husserliano), quanto piuttosto come sinonimo o affine di storico-descrittivo. 2 Si veda C. Diano, La poetica dei Feaci, in Saggezza e poetiche degli antichi, Venezia 1968 (d'ora in poi indicato con la sigla SP), p. 191 e si confronti questo inciso con l'affermazione contenuta alcune righe prima, secondo cui, dopo Vico, la cosiddetta isterica «non può essere se non fenomenologica. Ma può esserlo solo se la fenomenologia si libera dalle "parentesi" e, ferma restando la realtà storica del fenomeno, l'analisi delle strutture venga estesa a tutte le manifestazioni storiche dell'uomo».
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non indica affatto l'accadimento in generale, bensì il quod cuique èvenit, ciò che succede a qualcuno e ha valore per il diretto interessato, non in se stesso. Privo di rapporto con l'esperienza di uno specifico soggetto, l'evento resta un concetto vuoto, insaturo. Esso è quindi sempre puntuale e individualizzato: costituisce un vissuto, non un pensato. Riguarda la finitudine dell' hic et nune di ogni cuique a cui si manifesta e, simultaneamente e inseparabilmente, la periferia spazio-temporale indeterminata e infinita nella quale l' evento è inserito e da cui proviene, ossia l'indistinta, informe, tremenda e ineludibile presenza complementare dell' ubique et semper. Quest'ultima viene evocata con vari nomi e mostrata nelle sue numerose metamorfosi e resurrezioni: è, di volta in volta, l' apeiron periechon di Anassimandro; il , il mana o il praesens numen che si manifesta nel sentimento religioso e che alberga dovunque (qualcosa di analogo alla percezione vichiana dell' Iovzs omnia plena che caratterizzava la fantasia dell'umanità primitiva)'; è, nell'era moderna, il > del passato e del futuro oltre la presente dello stormire del vento proprio . Centro puntuale e circonferenza infinita, prossimità e distanza, 3 G. Vico, La scienza nuova (1744), a cura di P. Rossi, Milano 1959, p. 416. 4 C&. O. Longo, Carlo Diano dieci anni dopo, ora in Il segno della forma, Atti del Convegno di studio su Carlo Diano, Padova dicembre 1984, Padova 1986, p. 218: «Credo che qui sia da ravvisare uno dei momenti essenziali dell'adesione di Diano al pensiero gentiliano, anche perché è qui che si attiva il rapporto di polarità fra quel centro che è l'lo gentiliano non meno che il soggetto dell'evento, e una "circonferenza infinita"- sono parole di Gentile- di cui il nostro corpo, quale effettivamente lo sentiamo, è il "centro"».
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isolamento e coinvolgimento, coscienza umana ristretta all'immediatezza dell'esistere e potenza divina ubiqua ed eterna si contrappongono e, insieme, si completano in una relazione liminare mobile di reciprocità e compenetrazione (I'Ineinander a cui si riferisce Cassirer a proposito dello >, cominciando a abbozzarne i tratti caratteristici e inconfondibili. Essa si può intendere, geneticamente e in prima approssimazione, come risposta difensiva alla sfida dell'evento, comune virtualmente a tutti gli individui e a tutte le civiltà, come un paradossale modo di recingere, arginare e controllare, esaltandola, l'invadenza onnipervasiva del sacro: La reazione dell'uomo a questo emergere del tempo e aprirsi dello spazio creatigli dentro e d'intorno dall'evento, è di dare ad essi una struttura e chiudendoli dare norma all'evento. Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è la diversa chiusura che in esse vien dato allo spazio e al tempo dell'evento, e la storia dell'umanità, come la storia di ciascuno di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che chiusure di eventi (L, p. 20). -;-.Quel che caratterizza la forma è >, poi diffusosi a livello planetario - spetta in primo luogo aii'Omero dell'Iliade, a Pindaro, a Parmenide o a Platone. Tutto questo non significa affatto - e lo dirò fra poco - che egli disprezzasse o respingesse come semplicemente inferiori le civiltà dell'evento. Anche perché, volendo ragionare per un momento in termini di biografia e di convinzioni personali, Carlo Diano non poteva sentirsi vicino a orgogli razziali «ariani>> o a tendenze rigidamente elitarie. Ammiratore del «grande cuore mediterraneo>> di Euripide, attaccato, al pari del suo amico Carlo Felice Crispo, alla Calabria dalle profonde radici «greche>> e «mediterranee>>, pitagoricamente razionali e mistericamente legate alla terra, egli è realmente un «meticcio culturale>>. Sotto questo profilo, poteva semmai sentire l'orgoglio e il peso di questa doppia eredità. La sua attitudine dipende però in misura maggiore da un'immagine idealizzata, eroica e, per noi, alquanto antiquata di quei momenti che una certa tradizione umanistica ha considerato come vette insuperate della creatività scientifica e artistica: la Grecia e la Toscana, appunto, come luoghi di elezione non solo della forma filosofica e scientifica, ma del mirabile equilibrio di forma ed evento negli artisti e persino in storici e politici come Tucidide, Pericle e Machiavelli.
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III.
l. Non c'è dubbio che la > (FE, p. 56), situato nel tempo e nelle sue concatenazioni. n ragionamento di Diano si fa molto più suggestivo (segno che contiene germi di verità, degni di essere sviluppati), ma meno convincente quando egli contrappone la forma, come visibilità piena e integrale della figura di Achille, all'apparire sfuggente e laterale dell'evento, impersonato da Odisseo: Perché l'evento è sempre altro da quel che appare, la forma, in cui essere ed esser visto coincidono, è tutta alla superficie, su un unico piano frontale: la frontalità e la della plastica arcaica e classica. Achille lo vedete sempre di fronte, , come le statue del canone di Policleto, ma Ulisse sempre di sbieco, polyplokos, «tutto scorci e spire>>, come il polipo della brocca minoica di Gurnià e della similitudine di Teognide: polyplokos e polytropos, mobile e presente per tutti i trecentosessanta gradi del cerchio ... (FE, pp. 64-65). Achille è «ellenico>>, Ulisse è «mediterraneo>>. Quest'ultimo sembra rappresentare l'anello di congiunzione tra il tipo ideale della nobiltà militare e agonale achea e l'esponente utopicamente più evoluto della civiltà «mediterranea>>, quale si mostra :ùtraverso i Feaci, uomini dotati di talento tecnico e organizzativo, mobili e 23
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rapidi nei loro spostamenti per mare, efficaci nell'agire, interessati ai guadagni tratti dal commercio e, soprattutto, pacifici, anche perché della pace hanno bisogno per mantenere il loro isolamento e sviluppare i propri traffici. Neii'Odissea, in tal modo, > (FE, Appendice, p. 86). Ma si tratta di quella stessa morte come separazione, contrapposta all'amore come unione, che Diano ha così acutamente scandagliato, a partire dall'A/cesti di Euripide? Solo in parte e in modo assolutamente originale. Alcesti è infatti una duplice e vera figura «simbolica>> della separazione ricomposta, un'eroina sia della forma che dell'evento. Nel primo caso, perché risponde di sì immediatamente e senza alcun calcolo di convenienza, come Achille - alla domanda se una persona può morire al posto di un'altra". La forma esprime in tal modo la volontà di sfida alla morte. Solo che - e da questo dipende il lato per cui Alcesti è anche eroina dell'evento - ella agisce per amore, e >)", per crollare, infine, con gli Stoici. Socrate, posto nel crocevia di tale vicenda, raffigura l'unione di queste due anime: (FE, p. 67). In Aristotele la forma si presenta, al suo massimo livello, nella concezione del divino come perfezione assoluta del bios theoretikos, della contemplazione esclusiva di sé, e della sua natura di «motore immobile>>, il quale- al pari dell'amato o della calamita- attrae senza essere attratto: (FE, pp. 50-51). Sul piano umano, l'intelletto attivo aristotelico raffigura la definizione più compiuta della forma autosufficiente (). Ormai, tuttavia, è solo il pallido riflesso dello splendore divino, > (FE, p. 22). Essa regge il mondo nelle sue alterne vicende, fa paura, ma si ritiene possibile adorarla e ingraziarsela. Rimasto orfano della forma, ma credendosi anche libero dal nesso tragico di un destino voluto dagli dei e dalla rigidità della gerarchia sociale, ognuno si sente ora potenzialmente - al pari di Edipo - , ossia simile a un generato dalla buona fortuna, quella stessa che ha strappato alla morte il bambino esposto e che lo farà diventare tiranno di Tebe. Ma dentro e fuori dal teatro, la tragedia non è finita, perché la Fortuna, mostrando il suo altro volto, non si lascia circuire e adulare facilmente. Persino chi, come Edipo, acquisterà, in un'epoca di angoscia diffusa, la - scoprendosi gennaios, appartenente a nobile stirpe o dotato di gnome, di una acuta capacità di comprendere e di valutare, tanto gli enigmi della vita quanto quelli della Sfinge- non sarà risparmiato. La tyche potrà, infatti, rovinarlo egualmente, mostrandogli, attraverso il rovescia· mento improvviso degli eventi, come ". Per il periodo successivo (quello ellenistico, che segna il definiti· vo affermarsi della tyche) il fulcro meno visibile su cui insiste tutta l'analisi di Diano è la convinzione che esso non rappresenta tanto un'età di crisi, quanto un'epoca di fioritura e di lussureggiamento dell'individualismo: l'evento, per definizione, individualizza e , mentre, nella forma, il singolo scompare assieme alle sue vicissitudini. In questa fase storica, l'evento può vincere perché vengono meno le forze che l'avevano combattuto e tenuto a distanza: l'aristocrazia agonale e guerriera illustrata dall'Iliade o da Pindaro; lo
12 Cfr. FE, p. 41 e Edipo /t"glio della Tyche, cit., p. 132 (Diano parla qui solo di Edipo, senza alcun confronto diretto con le condizioni esistenziali successive). Per altri notevoli punti di i_ntersezione con queste tematiche si vedano articoli quali L'uomo e l'evento nella tragedia attzc~ [1_965], o~a in SP, pp. 303-27 e La Tyche e tl problema dell'acddente [1967), ora in Studi e saggt dz filosofia antica, Padova 1972, pp. 279-82.
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spirito comunitario panellenico, che - con le sue forme ordinate, anche militari: l'esercito oplitico e la flotta ben manovrata - si è opposto con successo, a Maratona e a Salamina, alle preponderanti forze del dispotismo persiano. Ora, sia in Grecia (che è diventata dapprima un protettorato macedone e in seguito un terreno di ennesime guerre civili e di endemica turbolenza politica), sia nel mondo della koine- che sorge come suo prolungamento e ibridazione dal fondersi della propria civiltà con quelle dell'Asia e dell'Africa - si assiste al contemporaneo riaffiorare dell'arcaico strato mediterraneo e alla >). Si potrebbe, volendo proseguire questo ipotetico confronto a distanza, sostenere inoltre che ogni evento non è mai un mero vissuto amorfo, come presuppone ogni credenza che attribuisca una mentalità pre-logica ai primitivi. Le forme stesse, poi, verrebbero probabilmente comprese altrettanto bene (o meglio) nell'ambito di sistemi categoriali articolati, ad esempio, mediante il concetto di «meta-morfosi», di mutamento di più forme in molteplici configurazioni a geometria variabile. Proprio perché non passano attraverso la contrapposizione con gli eventi puntuali e le loro periferie per sostituirli, esse appaiono dotate di una propria storicità già strutturata attraverso numerose e continue . Si potrebbe, infine, concludere, osservando come, persino in termini prettamente storici, la vie des formes sia molto più ricca e ininterrotta di quanto non ritenga Diano, che la concentra sostanzialmente in due sole isole fortunate sperdute nell'oceano degli eventi. Egli ne sottovaluta così il continuo e rigoglioso rifiorire, anche e soprattutto in un tempo come il nostro, che a lui si presenta in maniera heideggerianamente segnata dal dominio incontrastato della tecnica e dall'inquietudine dell'uomo moderno , spinto a infrangere le forme già date, per sperimentarne di nuove e vivere intensamente, ma in maniera inflazionata, una quantità di eventi sempre compressi nel tempo più breve. Ma a quale scopo tracciare tutti questi scenari concettuali estranei all'impostazione dichiarata di Diano? A confermarci, in assenza di una comune e credibile «Via regia», non solo quanto diverse possano apparire le strade che portano alla conoscenza, ma anche come ogni dispositivo di senso renda cospicui certi fenomeni 30
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proprio mentre ne offusca o ne cela altri. Tale è però il compito delle idee e dei punti di vista che ci orientano. Per nostra fortuna, Forma ed evento ci consente di riscoprire, nella galassia della cultura attuale, un piccolo classico. Del classico, infatti, il libro possiede l'originalità del tracciato, che il lettore potrà constatare di persona, percorrendolo con profitto e piacere intellettuale prevedibili. Esso costituisce una testimonianza esemplare di rigore non pedante e un convinto atto d'amore verso uno stile di ricerca ormai sempre più raro: quello che induce, da un lato, a curare l'esatta consequenzialità delle argomentazioni e dall'altro, a vigilare per ricostruire il senso più pregnante e meno banale della documentazione utilizzata (abbandonando così le piccole viltà, travestite da modestia operosa, di chi rinuncia a pensare in proprio, trovando più comodo e meno rischioso appoggiarsi all'autorità, sottratta all'ingrosso, di altri).· L'atteggiamento di Carlo Diano appare oggi particolarmente apprezzabile di fronte alla quantità di cascami culturali che da tempo impietosamente si accumula davanti ai nostri occhi. Quando proliferano opere e interpretazioni composte secondo criteri arbitrari, mosse da logiche barcollanti, infarcite di informazioni sciatte e inattendibili, sorrette da artifici retorici a buon mercato; oppure, quando i testi si spacciano per universi autosufficienti, che assottigliano sino a farla scomparire qualsiasi differenza tra il loro ambiente interno e l'«extra-testualità» (trasformando idee ed eventi in «effetti di codice» o «simulacri»), sia allora benvenuto questo volumetto, che mostra cosa significhi la serietà nell'affrontare le fatiche del proprio mestiere e la fedeltà al «reale>> intesa, in maniera elementare, come rispetto per la complessità dei referenti «esterni» almeno a quanto ancora non abbiamo capito e che non si deducono di sicuro dal solo universo dei «testi».
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Silvan;e uxori
La ricerca, della quale io presento, in forma estremamente sommaria e in gran parte provvisoria, i primi risultati, è nata in maniera del rutto occasionale da un problema tecnico di storia della filosofia greca, il problema del sillogismo degli Stoici nei suoi rapporti con quello di Aristotele. Quale significato io dia ai due termini di forma e di evento, ed entro quali limiti li assuma, apparirà, spero, dalla mia esposizione. Essa seguirà l'ordine in cui i problemi mi si sono presentati, e comincerà dalla fine per risalire alle origini. Se è vero, come voleva Aristotele, che in ogni indagine bisogna sempre muovere da ciò che a noi è più vicino e però anche più noto, la via che io mi sono trovato a seguire, fuori d'ogni presupposto di dottrina e guidato nei miei primi passi dal caso, potrebbe avere valore di metodo. Quando si parla del sillogismo, si pensa al sillogismo d'Aristotele. L'esempio trito è quello di Pietro, e se volete un nome greco, dite Corisco: che è uomo, e, perché è uomo, un giorno o l'altro necessariamente morrà. Di dove questa necessità? Dalla essenza, in cui Corisco ha la sua forma: una forma che in sé contiene i contrari, e, come rutte le forme del nostro mondo sublunare, non ha realtà se non nella successione degli individui che nell'ordine del tempo la rivestono: e questi passano, come le foglie della similirudine d'Omero. Ma quando morrà Corisco, e come morrà? Aristotele non lo sa e non lo può dire. E non perché è uomo e non dio: neanche un dio lo saprebbe. Nel suo universo non può saperlo nessuno; e per una ragione assai semplice, ed è che l'ora e il modo della morte di 35
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Corisco sono un evento individuale e gli eventi individuali hanno il loro principio nella materia e, dovuti a sole cause motrici, sfuggono alla necessità che è propria della forma, e che è la sola che valga in assoluto e permetta la previsione e il sillogismo. Un'unica necessità essi ammettono, quella del fatto, una volta accaduti, perché factum infectum fieri nequit, e neppure gli dèi, come dice Agatone, potrebbero farlo non fatto; ma prima che accadano, questa necessità è u:n:ofréaewç e si esprime col . Traduco dalla Metafisica: . Ma non si va lontano. A un certo punto la serie si arresta: si arriva a un che , e delle due possibilità che l'alternativa comporta, ... e cioè? Quella che si realizzerà: o, se volete sostituire un nome al verbo e parlare per figura, quella che il caso o la tUXlJ vorrà. È al di questa necessità ipotetica, che alla fine esclude ogni necessità e si risolve nella pura indeterminazione della tyche, che si riattaccano gli Stoici; ma negano la tyche. Essi ignorano il sillogismo che trae la sua necessità dalla forma: il loro sillogismo ha due figure principali, una ipotetica e l'altra disgiuntiva. Fatto capitale e generalmente non osservato: i termini enunciano eventi e non concetti. I concetti non hanno realtà: gli Stoici sono nominalisti integrali: realtà hanno solo i corpi. Ma non i corpi in quanto tali, ché si ricadrebbe nella forma e quindi nel concetto, come ci ricade Epicuro, bensì i corpi come realtà storica, nell'atto in cui sono colti dal senso: come eventi: tà tuyxavovta, come essi dicono. Di qui la dottrina che solo il presente è reale, e che in ogni giudizio il predicato è sempre un verbo, anche quando ha la forma di un nome. Socrate è virtuoso, equivale a: Socrate sta esercitando la sua virtù. Ed è per questo ch'essi dicono che la virtù è un corpo: perché dove è mai la virtù se non in questo Socrate qui che beve la cicuta? Ed ecco le loro famose e universalmente fraintese categorie. Primo è il soggetto: il puro e semplice , che si indica, come essi dicono, col dito, e non ha altra determinazione che d'essere hic et nunc. Poi viene la qualità, che tiene il luogo della forma, ma sempre come qualità storica: l'esempio che essi vi danno è: Socrate! Terzo è il :n:>. No, siamo agli antipodi di Aristotele: il nam babilonese è un primo adombramento della qn!oLç degli Stoici, d'una qn!mç in cui I'Elùoç è qualità e non sostanza ed è calato nel tempo, e s'identifica con l'evento. Solo che il loro dio, a differenza del dio babilonese, non ascolta preghiere e non si lascia piegare da offene: passato attraverso le categorie greche dell'essere, s'è irrigidito in una volontà che non muta in eterno. Maw Pohlenz, nella sua grande opera sulla Stoa, ha ripreso il problema già posto dal Bevan: a quali tratti nel sistema di Zenone e di Crisippo si lasci riconoscere la mentalità originaria della loro razza, ed enumera varie cose. La nostra risposta è già data: quello che i due filosofi portarono come tratto specifico della sfera etnica e culturale dalla quale provenivano, fu il senso della realtà come evento. 39
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Lo portarono in un momento in cui la Grecia aveva cominciato ad esserne dominata. Non che lo avesse ignorato mai: è della comune esperienza umana e faceva parte delle sue origini mediterranee. Lo aveva affrontato e vinto una prima volta nell'età di Omero, asserragliata nelle rocche delle sue aristocrazie guerriere, l'aveva ancora contenuto nel vr secolo, piegandolo alla legge delle sue città vegliate da Apollo e da Atena, quando, risorto con rinnovato vigore, come Anteo dalla terra, aveva minacciato di travolgerla, l'aveva nel v ricacciato oltre il mare con le orde di Serse, celebrando nella propria la vittoria degli dèi dell'Olimpo. Ora le forze che le avevano permesso di resistere, erano in gran parte fiaccate e le circostanze esterne contribuivano a renderne precarie le difese: l'egemonia dei Macedoni, la pressione esercitata alla periferia dai grandi stati sorti dallo smembramento dell'impero di Alessandro, le condizioni d'instabilità in cui le loro guerre continue tenevano le fortune pubbliche e private, la lenta ma sempre più decisa penetrazione dell'elemento etnico orientale, a cui l'allargamento dei confini politici e culturali del mondo greco aveva aperto la via e messo in mano le armi. La grande età dell'Ellade s'era chiusa e s'iniziava quella dell'Ellenismo. Tutti i fatti che gli storici enumerano e descrivono a caratterizzare la nuova età, si riconducono alla categoria dell'evento; l'individualismo, in cui la differenza formale cede il luogo a quella esistenziale e numerica, l'universalismo generico e meramente quantitativo, che ne è il necessario correlato, l'uso e l'abuso dell'appellativo di «salvatore>> dato agli dèi come agli uomini, la divinizzazione di tutti coloro che vengono sentiti come portatori d'evento e, per eccellenza, dei prìncipi, la voga presa dal culto d'Asclepio, il nuovo dio del miracolo, l'abbandono delle divinità più specificamente elleniche per quelle orientali a carattere misteriosofico e soteriologico, la graduale involuzionc della concezione antropomorfica del divino e la sostituzione del concetto di forza a quello di sostanza, il sincretismo, di cui un tale concetto costituisce la ragione e il principio, la credenza nei dèmoni, il ritorno alle forme più grossolane di superstizione e la diffusione della magia, la divinazione a carattere occultistico e magico e l'astrologia. TI fatto principe, e che da solo basta a definire la mutata visione del mondo, è l'ipostatizzazione dell'evento in quanto tale, la tyche. Fermiamoci ad esaminarla, perché essa è il punto in cui le varie concezioni della vita s'incontrano e da cui s'irraggiano. La parola è aoristica, designa il fatto nel suo momentaneo accadere, e il verbo che le corrisponde è sempre all'aoristo. Ciò la distingue da ~-tofga, 40
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che ha il suo verbo al perfetto (EL!!UQ'tm), e che, anche nella sua forma meno impegnativa e più vaga, quale è normalmente, ma non sempre, nell'Ilùzde, comporta, se pure irriflessa, l'idea di una necessità predeterminata. Quando questa necessità venne rgzionalizzata nel concetto di un ordine precostituito, all'àvétyxl'], che è già nota ad Omero, fu aggiunto il participio perfetto El~-tUQ!-tÉVYJ, che, assunto a termine tecnico, lasciò cadere il sostantivo e prese senz' altro valore di nome. Ignota ai poemi di Omero, tyche compare la prima volta in Esiodo, ed è una personificazione, una delle tante in cui vengono isolate le forme sotto le quali l'operare della divinità si manifesta. Da Esiodo in giù, sino al v secolo, ove faccia da soggetto, rinvia sempre all'azione divina, che ne costituisce il presupposto. Fatta esplicita, l'idea viene messa in evidenza in espressioni in cui «gli dèi>>, «il dio>>, , e assai spesso il òaCwov, col quale comunemente s'identifica, s'accompagnano al nome sotto la forma di un genitivo d'autore. Ma ecco che verso la metà del v secolo, in Atene, sotto l'azione delle idee di Anassagora, la tyche si separa dagli dèi e li nega. O la tyche o gli dèi, è il dilemma di Euripide: >. La definizione di Aristotele! Ma tant'è: accanto alle statue della Tyche si elevano quelle dell'Automatia, della >! Della tyche-caso la tyche-dea conserva l'illogicità e la momentaneità, ma è sentita come causa di bene più che di male: ciò che di sovente è espresso, con intenzione apotropaica, dall'aggettivo àyafui: non per altro è fatta dea. La si scambia, non senza una certa sfumatura di significato, col , e come v'è un dèmone personale, così anche una tyche: essa ha forma ufficiale nella tyche dei re e delle città. Terza, a chiudere il ciclo delle forme che possono venir rivestite all'evento, è la tyche-destino. In essa ogni residuo d'indeterminazione è annullato, e tra tyche ed heimarmene non v'è altra differenza se non quella che l'aspetto soggettivo e particolare dell'evento ha nei confronti della legge che lo spiega e ne fa la manifestazione di un ordine universale e oggettivo. Tyche tornava per tal modo ai significato che aveva avuto in origine, quando, come "tUXTJ ttE>, aveva cantato Archiloco. E Sofocle, più tardi: . Solo che nel pensiero dei due poeti gli dèi a cui l'una e l'altra rinviavano, erano ancora persone, e non la ferrea catena delle cause a cui li avevano ridotti gli Stoici. Giacché fu nella scuola degli Stoici che la tyche venne ricondotta all' heimarmene. Nell'ambito delle idee comuni entrò solo più tardi, ma, come era naturale, vi perdette molto del suo rigore. Un esempio significativo se n'ha nell'ode di Orazio alla Fortuna, la quale, pur tenendo dietro alla serva Necessitas, resta sempre una dea, e come tale il poeta la prega.
Tyche·caso, tyche-dea, tyche-destino: tre interpretazioni dell'e· vento, tre atteggiamenti e tre visioni della vita. Cominciamo dalla tyche ipostatizzata come Fortuna e fatta dea. 42
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Tyche è l'evento, come fatto momentaneo e contingente; che cos'è la dea? L'abbiamo detto descrivendo, di sulla logica del sentimento, il processo da cui nacque: una potenza. Dopo la scoperta del mana dei Melanesiani e di quant'altro di analogo s'è trovato nelle religioni primitive, il concetto di potenza è passato al centro dell'indagine moderna, e ad esso si è cercato di ricondurre, come a loro principio generatore, le varie forme sotto le quali l'esperienza religiosa si presenta. Se domandate da che cosa la rappresentazione della potenza trae la sua origine, vi si risponde: dallo «sbigottimento>>, che l'uomo prova davanti ~tutto ciò che lo «sorprende>>, e che egli sente «come affatto altro>>. E facile osservare, che, se la rappresentazione più o meno determinata e cosciente della potenza è la risposta alla domanda che lo «sbigottimento>> implicitamente contiene, e la > di penetrare con la magia nel mutevole mondo dell'evento, alla della rinascita nella morte mistica dei Misteri di Iside. «Curiosità fatale>> è anche quella di Psyche, la cui favola ha nel romanzo un significato che trascende le leggi del genere sotto il quale è presentata: una curiosità che, pure obbedendo alla medesima logica, è il preciso opposto di quella di Lucio. Lucio perde la forma per aver voluto operare nella sfera notturna dell'evento. Psyche perde l'evento per aver voluto, nella notte nella quale 45
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sola le è dato di essere la sposa d'Amore, contemplarne alla luce di una lampada la forma. TI principio primo dei suoi mali è di essere essa stessa portatrice della forma: la sua bellezza. Ed è ancora per la forma, per la «curiosità>> di vedere la bellezza chiusa nello scrigno, ch'ella porta dalla sotterranea Proserpina a Venere Celeste, che nella sua ultima prova soggiace alla morte. Ma nella morte, discrimine delle due vite divise dai Misteri, ritrova Amore, nell'irraffigurabile sfera dove ha sede la potenza che è insieme principio delle forme e degli eventi. Le divinità dei Misteri sono quasi tutte orientali: e le elleniche? Le divinità di Pindaro e di Omero? Vengono gradualmente trasformate in potenze e fuse con le nuove divinità dell'evento. Quelle che per la loro forma mitica resistono alla trasformazione, anche se conservano i loro culti e le loro feste, non vivono ormai più che nella poesia e nell'arte. La divinità più significativa di questo moto di rivoluzione o, se volete, di questa involuzione dinamistica che tende all'unità, è una divinità nuova, nata, sotto il primo Tolomeo, dalla speculazione di un Eumolpide d'Atene: Sarapide, che in sé riunisce Zeus, Dioniso, Osiride ed Api. Nel campo della cultura, se la guardiamo allo specchio che ce n'è offerto dalla filosofia, troviamo tre gruppi: da una parte gli Aristotelici, gli Epicurei e i Cirenaici, dall'altra i Cinici e gli Stoici: in mezzo gli Accademici e gli Scettici. Le lettere e le arti, e con esse il costume delle classi che continuano la tradizione più schiettamente ellenica, vanno in generale con Aristotele ed Epicuro. Cinici e Stoici riproducono nella sfera della ragione le due posizioni che abbiamo considerate come estreme in quella della religione, e, come nell'uomo dei Misteri c'è l'uomo della selva, così nello Stoico c'è il Cinico. L'opposizione, come insegna Aristotele, è sempre nell'ambito di un medesimo genere. Tanto i Cinici quanto gli Stoici ignorano le forme e muovono dall'evento: ma per i primi l'evento si isola e si vuota nell'immediatezza del fatto, per gli altri è il momento di un processo che si chiude nel ciclo, un verbo del discorso divino. L'evento nell'immediatezza del fatto: i Cinici non credono alle potenze, ignorano Dio: e non perché vi ragionino sopra, ma perché, o Fortuna o Dio, la realtà è sempre questa: un fatto. A una sola potenza essi credono: all'io. È un io senza volto, vuoto, come è vuoto l'evento che lo sollecita e lo svela: una volontà nuda, così come l'evento è una necessità pura, la necessità immediabile del fatto. L'io quale l'evento lo svela: perché è l'evento che svela l'io. L'evento 46
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individualizza: non per altro l'età ellenistica è l'età dell'individualismo. Ma l'individuazione è di volta in volta diversa, a seconda che l'evento è il fatto o la Fortuna o Dio. Alessandro e Diogene: due individui: agli occhi del volgo, l'eletto e il reietto: in Alessandro il figlio di Zeus, il nuovo Eracle, in Diogene il figlio del fatto', anch'egli un Eracle, ma che si gloria del nome di cane. L'uno e l'altro due volontà invitte: ma quella di Diogene è più forte: perché nega. La vita del Cinico è questa negazione assoluta: la sua virtù; una negazione che riconduce l'uomo alla selva e nella selva fa il deserto: la sua libertà. La libertà del Cinico è vuota come la sua virtù, la libertà dello Stoico ha un contenuto ed un senso. Gli eventi non sono isolati, formano un tutto e vanno ad un fine: la necessità non è quella del fatto, è prowidenza e ragione. Libertà è l'identificarsi con questa ragione. Udite Cleante: Guidami, o Zeus, e Tu, o Destino, al termine che m'avete assegnato, e senza indugio vi seguirò. Ché se giammai non voglia, verrò lo stesso, ma verrò da tristo. La virtù: gli eventi non sono isolati, ma ogni evento è qui, ora, e Dio è in tutti, come il circolo è in tutti i suoi punti e in ognuno si muove e riposa. Dio è sempre qui, ora, per qualcuno, per me. L'azione è improrogabile. Ciascuno ha la sua: nessuno può sostituirsi a nessuno, né il re al servo né l'amico all'amico. E la virtù dell'uno è pari a quella dell'altro: ed anche la colpa: e tutte le colpe sono uguali: perché tutti gli eventi sono necessari, e i doveri anche. Gli eventi sono necessari e questa necessità è prowidenza: è ogni evento un bene? Non in sé, ma nella connessione con gli altri. In sé non è né bene né male, è un fatto. Bene e male sono nel giudizio che l'uomo ne fa e nell'azione che a quel giudizio consegue. Lo Stoico, come il Cinico, ma per ragioni opposte, tiene l'evento per cosa indifferente. Senza piacere o dolore, senza desiderio né timore, fa quello che la ragione gli prescrive di fare, sifractus il!abatur orbis ... E se il fare gli è precluso, e la sua morte può servire d'esempio, si dà da se stesso la morte: anch'egli invitto e invincibile. Che cosa prescrive la ragione? Che l'uomo instauri in sé e nella vita con gli altri l'unità che le è propria, la solidarietà che è nel cosmo, che il punto ha con la sfera. Se il Cinico è anarchico, lo Stoico è cittadino: di una città le cui mura sono quelle del mondo, e comprende Greci e Barbari: la cosmopoli. Dove le forme sono 47
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ridotte all'evento, non vi può essere distinzione di razze né di patrie: l'evento, individuando, universalizza. Se questa universalità è vuota, la selva; se ha un contenuto, la cosmopoli. La città degli Stoici è universale come la chiesa dei Misteri. Quando lo stoicismo giunse a Roma, diede un senso alla sua storia e un contenuto al suo impero. n poema di Roma è l'Eneide, e l'eroe è un eroe dell'evento. Ma, irretito nella poetica degli Alessandrini, Virgilio vi mise dentro gli dèi d'Omero. Di qui le disarmonie che la sua arte non riesce a superare. n poema che obbedisse per intero alla poetica dell'evento, tentò di farlo Lucano, ma non era Virgilio. Se volete il degli Stoici, individuale insieme e totale, puntuale e continuo, guardate alle volte e agli archi, dove l'unità si media nella relazione, e lo spazio si muove col tempo, un tempo ciclico, che abbraccia il mondo e Io chiude: l'architettura di Roma. n mondo della religione è il mondo del e del , il mondo della filosofia cinica e stoica è il mondo della volontà chiusa nella negazione o protesa nello sforzo, un mondo senza sorriso e senza riposo, che ignora le Grazie e le Muse. Le Grazie e le Muse, il sorriso e il riposo li ritroviamo nel mondo del caso, che è quello !n cui vivono Aristippo, Epicuro e Aristotele, e che, come mondo del caso, è anche il mondo delle forme: forme estenuate ed umbratili, come è l'evento a cui esse si contrappongono, ma forme. Da Aristippo ad Epicuro, da Epicuro ad Aristotele, si passa da un minimo a un massimo. Per Aristippo le forme sono - egli non vive che di esse - ma sono l'iridata spuma dell'istante, il gioco prestigioso ed instabile d'un poeta, che con rapidità pari alla volubilità del suo estro le evoca e le disperde nel nulla. Questo poeta è il caso, un poeta capriccioso ed ironico, che gioca ed è prodigo solo a chi gioca. N o n altro che gioco è la vita, su una scena dove si mutano di continuo le quinte e le maschere. Aristippo le accetta tutte e in tutte ritrova se stesso, con l'agevolezza e la grazia dell'uomo che vive dell'arte e per l'arte, non inconcinnus, come dice Orazio. A un Cinico che gli rimproverava di aver ridotto la filosofia a una commedia: - Sì, rispose, ma la recito per me e non per gli altri. Commedia e gioco, e però piacere, un piacere che Aristippo sa moderare a suo arbitrio; perché è lui a cercarlo. Ditegli che la scena sulla quale egli recita è di legno e le sue maschere sono di tela, vi risponderà che non sono legno né tela le forme che esse riproducono, e se anche dietro c'è il nulla, sono forme: sono. Ma ogni gioco ha 48
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il suo rischio. Aristippo non se ne spaventa: è il prezzo che bisogna pagare. Se pensa alla morte si augura quella di Socrate, non perché fu la morte di Socrate, ma perché egli seppe renderla bella. Se volete un esempio di questo Socrate a rovescio, guardate, quattro secoli dopo, come muore Petronio. La scuola di Aristippo fu di breve raggio e si estinse presto. Non tutti hanno la capacità di vivere come reali delle forme che la ragione dichiara irreali, e allora l'evento torna alla necessità bruta del fatto. Egesia, uno degli ultimi discepoli, fa propaganda di suicidio. >, dea della vita e della morte, signora o potnia dei monti e delle acque, delle fiere e delle piante, oracolare e maga, tutelare e guerriera, le cui rappresentazioni, dalla sfera umana, in cui ella ha la sua forma prima e più significativa, a quella animale e vegetale e delle cose inanimate, mutano col mutare delle idee che nelle sue metamorfosi ella adombra, e delle sue sfere d'azione. Accanto, ma in posizione subordinata, quale è richiesta dalla sua originaria androginia, ella ha normalmente un paredro, anch'esso polimorfo e variamente simboleggiato, soggetto al ciclo della nascita e della morte, e a volta a volta figlio, fratello e amante. Ella stessa riunisce in sé i principì della permanenza e della caducità nella duplice figura della madre e della figlia, perpetuate in età storica nelle due dee di Eleusi. Intorno, in figure ibride di dèmoni, è la folla delle forze che si sottraggono ai grandi ritmi del mondo, e alle quali ella sovrasta. Sotto lo sguardo dei Greci questo mondo fluido ed ambiguo di concetti trasposti e di simboli si scinde e si fissa nella singolarità univoca delle figure: i sensi traslati cadono, la molteplicità delle rappresentazioni si fa molteplicità di sostanze. Per la prima volta le cose escono dalla sfera magica dell'evento, s'elevano dalla dispersione e dall'instabilità degli accidenti all'unità immobile dell'ess"re, riducono intera alla superficie visibile la loro essenza invisibile. E il mondo delle forme che sorge, e con esse appare per la prima volta lo spazio, separato dal tempo, nel cui flusso l'evento lo trascina e col quale l'esperienza esistenziale e la mentalità primitiva lo confondono, lo spazio come limite della forma che lo crea, e fuori della quale esso è nulla, quello che noi conosciamo dall'arte greca e che sarà definito da Aristotele, lo spazio , come egli dice, , laddove per gli Stoici è esterno al mondo ed è definito dall'evento. La realtà è esorcizzata; la trama delle relazioni simpatetiche, sulle quali opera il magico, si rompe, i regni della natura si dividono, i movimenti e le forze rientrano nei limiti delle grandezze: non più azioni a distanza, non più metamorfosi: le potenze abbandonano la sfera delle cose visibili, che s'apre al dominio dell'uomo, discendono nelle profondità della terra, negli abissi del mare: dal ciclo delle epifanie dell'evento si staccano gli dèi della forma. Sono tutti antropomorfi, ma immuni da vecchiezza e da morte, fermi in un'età senza tempo: l'aureola che chiude la figura dell'uomo fatta sostanza e proiettata nell'eterno. Nella sfera dell'eterno s'inalza la montagna ch'era stata della Potnia e dei suoi teriomorfi paredri; 55
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per i Greci che venivano dalla Tessaglia, l'Olimpo; «dove dicono»come canta Omero - «sia la sede sempre salda degli dèi, né i venti la scuotono, né la pioggia la bagna, né vi si accumula neve, ma una serenità senza nubi l'avvolge, e bianca la luce, l'atyÀT], v'è sopra». Ma non è luce di sole, è la luce che Platino proclamerà inseparabile dalla forma, la visibilità che ne costituisce l'essenza, la luce della plastica greca, interna alla forma. Fuori del tempo, essi lasciano fuori di sé l'evento, che o si isola nella vuota e prepostera necessità propria della moira che ad essi vien contrapposta, o si perde nella generica e impersonale rappresentazione di un daimon senza figura. Ciò che è nella logica del principio a cui essi devono la loro origine, e tutta la metafisica d'Aristotele è lì a darcene la prova: perché, se la cosa è la «cosa veduta», e cioè forma, gli accidenti cadono inevitabilmente fuori della sostanza, e all'evento non resta che la sola necessità del fatto, quale è espressa dalla tyche. Non per altro i motori d'Aristotele sono immobili e gli dèi d'Epicuro oziosi. E oziosi sono anche questi dèi. Affrancati, infatti, dalla necessità che è nelle cose, se operano, è per il loro piacere. In essi per la prima volta l'uomo contempla l'azione pura, che ha il fine in se stessa, che ritorna a se stessa ed è gioco, quella che i Greci esalteranno nei loro incontri agonali, e che Aristotele, come energeia pura, proclamerà sola propria della forma, l'azione in cui l'uomo è libero, e che sola guida alla scienza. Nel pieno possesso di se medesimi, immuni da fatiche e da cure «godono tutti i giorni», sono gli dèi «dalla facile vita», «i beati» per eccellenza, come per eccellenza sono «gl'immortali» e «i celesti». Su tutti domina Zeus, ma è un dominio che è diverso da quello della Potnia, perché è il dominio d'una forma e non d'una potenza, fondato sulla forza visibile ed esterna, e non su quella interna e invisibile; ed è un dominio sempre contrastato e quasi sempre di nome, perché le forme sono assolute e l'escludono, ed esso è un residuo della logica dell'evento: quando le forme gli verranno interamente subordinate, non saranno più forme, ma eventi, e Zeus non avrà più figura. Zeus, un dio, e non una dea: ed anche questo è nella logica della forma: perché l'evento, che non è se non in quanto e nell'atto in cui è generato, chiama l'idea della madre ed è femminile, ma la forma, che è la sola che è ed è per sé, è essenzialmente virile. Atena, una delle rappresentazioni della Potnia, e di cui la tradizione conosceva pure una maternità, passata nella sfera degli Olimpii, diventa per eccellenza la Vergine ed è fatta nascere dalla testa di Zeus. Dioniso, al contrario, l'eterno dio figlio, è sempre in mezzo alle donne ed è esso stesso femmineo. In tutte le 56
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religioni del tipo agrario, e quindi dell'evento, la prima e più amica raffigurazione della divinità è femminile. Non senza. ragione la fonte di tutti gli oracoli è la Terra e Themis è sua figlia. E la maestà della forma che Apollo ed Atena difendono contro le Erinni, vendicatrici della maternità e dell'evento nelle Eumenidi di Eschilo. La civiltà greca, fin che terrà fede alle forme, sarà virile ed esalterà la bellezza nella figura dell'uomo, che rappresenterà nuda nel dio e nell'efebo, riducendo al minimo i segni del sesso, ma la fanciulla e la dea le farà velate. Solo l'età ellenistica tornerà alla dea nuda del neolitico e del paleolitico superiore e nella vita come nell'arte sarà dominata dal femmineo, l'età ellenistica che è l'età dell'evento. Se l'opposizione tra il mondo unitario dell'evento e quello pluralistico della forma è, nell'analogia dei suoi termini e con moto inverso, la medesima alle origini come nell'ultima età greca, il processo d'unificazione, che in questa ha il suo compimento, trova la sua corrispondenza nella rivoluzione religiosa del VI secolo, che, come nell'età ellenistica, coincide con la rivoluzione politica. Nell'una e nell'altra età concorrono la speculazione dei filosofi e la superstizione delle plebi. E come nella seconda l'idea che guida il moto è rappresentata dall'evento nelle forme della tyche e dell'heimarmene e delle divinità dei Misteri, così nella prima alla tyche-dea corrisponde la tyche degli dèi, all'heimarmene, che è insieme ragione e legge, la moira, che è provvidenza e giustizia, alle dee madri Demetra, al dio che nasce e muore Dionisio. Ed è Dionisio che irrompe nel mondo delle forme e le sconvolge, un Dio che ha il simbolo in una maschera cava: la forma vuota e precaria che l'evento riveste nei suoi mutevoli aspetti. Dalle campagne, dove lo avevano relegato i signori, egli entra impetuoso nelle città e vi s'insedia, trascina su un palco, davanti all'orchestra, dove danzano i suoi capri, gli eroi d'Omero, li spoglia dei loro ammanti regali, strappa a ciascuno il suo volto e ne fa una maschera, sotto quella maschera mostra nudo l'uomo, l'uomo che è in tutti, insegna che esso è nulla. La tragedia: la rivoluzione dell'età dei tiranni. E il medesimo Dioniso, nella figura di Fales, prende l'uomo della gleba, lo trae ebbro nel corteggio dei suoi itifalli, lo s&ena nel tripudio estatico del comos, gli fa conoscere, dalle ferine alle umane, tutte le forme sotto le quali l'evento esalta la forza della vita nel mondo, ne fa un trionfatore, il rappresentante di essa stessa questa forza nella sua espressione più originale e più bassa, il ventre e il sesso, lo inalza a simbolo della vita che vince, gli dà nel motto scurrile, nell'invettiva sfrontata l'arma che lo affranca, gli fa toccare 57
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nel riso il vertice opposto a quello che aveva fatto toccare nel pianto all'eroe. La commedia: la rivoluzione dell'età del popolo. Divinità elleniche della forma e preelleniche dell'evento dividono, entro termini dati e come limiti ai quali l'ispirazione del poeta oscillando converge, i due poemi di Omero. Nell'uno e nell'altro la divinità suprema è la stessa, Zeus- sono i poemi della nobiltà achea: -ma nell'Iliade è sotto l'impero della forma ed è in generale distinto dall'evento, nell'Odissea è per intero divinità dell'evento e ne intravediamo appena la forma. Così la moira, nell'Odissea, è sempre la moira degli dèi, laddove nell'Iliade, tranne che nel XXIV canto, che segna il passaggio dal mondo dell'uno a quello dell'altro poema, è al di fuori di essi o ad essi contrapposta. E mentre nell'Iliade le divinità dominanti sono maschili, nell'Od!Ssea sono femminili, e l'azione è guidata da una dea, da Atena: l'antica dea del palazzo e tutelare del re, la dea che in età storica sarà tutelare della polis, la cui ultima trasformazione è, in età ellenistica, la , e nella città stessa che portava il suo nome, la , a cui, al tempo di Licurgo, andava una parte delle offerte che fmo allora ella aveva godute da sola. L'eroe dell' Ilzade è un eroe della forma e, come tale, della forza. Perché tra forma e forma non possono esservi altri rapporti che di forza: la forma è un assoluto che esclude la mediazione. Rapporti di forza, ma questa forza non è la forza bruta, che ha il principio ed il fine fuori di sé, come tutte le forze che sono nella natura, e rientra nell'evento, è la forza dell'azione che ha il suo fine in se stessa, la forza che è propria della forma. Che, se nei suoi effetti è materiale quanto l'altra, ed è ~Ca, nel principio da cui promana, è KQ> o (jJQOVl]aLç e nell' o TÉXVl] - che non è l'arte quale l'intendiamo noi, che dai Greci è detta «musica>> e rientra nella forma, ma la tecnica, - e la prudenza, a sua volta, cade sotto il medesimo genere della rravougy(a o furberia, altrettanto è della metis, ed Ulisse che ne è !'-eroe, è insieme prudente, furbo, ed artefice. E innanzi tutto, quanto alla prudenza, egli è ilLl !J,ijTLV à"t6.ÀavToç, , ma in più - quel che Zeus, come vedremo, non è mai - è rroÀU!J,l]'tLç, , e, in quanto tale, per una parte, è 1tOLXLÀO!J,i]Tl]ç, >, la metis è sterile all'arte. Fra tutti gli epiteti delle Muse, non ne trovate uno che la ricordi: le Muse vogliono la mente che contempla, non quella che calcola: la lira la inventa Ermete, ma la suona Apollo. Ulisse non contempla: per non cadere vittima della «malia>> delle Sirene, le quali pure non cantano che gesta di eroi, si fa legare all'albero della nave, e se non si chiude gli orecchi con la cera, lo fa per la philomathia che è propria della metis, e non per amore della theoria. il canto, che è estraneo al suo essere, non può agire su di lui che come forza esterna di potenze demoniche, e quando ode cantare le sue gesta, il suo x.Moç, piange. Piange, perché nel suo mondo le forme non sono che aspetti dell'evento, e la gloria è un'illusione, unica realtà è il : egli è appunto colui che , e li narra, non li canta. Li narra, uno dopo l'altro, nell'ordine del tempo:- Perché gli eventi sono nel tempo e si legano l'uno all'altro e fanno catena, e solo le forme si isolano e sono fuori del tempo: lo stile narrativo e continuo dell'arte orientale e più tardi romana e quello contemplativo e discreto dell'arte greca: e già nello stesso Omero, lo staccato dell'Iliade e il legato deii'Odz5sea. La metis intelligenza dell'evento. Guardatela negli dèi: l'hanno in proprio: Crono, Prometeo, Efesto, Atena, Ermete, tutte divinità che, o per le origini o nella funzione, appartengono alla sfera dell'evento. In Crono, àyx.uÀO!!'ijTT]ç, è furbesca; in Efesto zoppo e ambidestro, JtOÀ'ÌÌ!!T]'tLç e x.ÀU'tO'tÉXVTJç, che con due mani fa quello che non fanno le cento degli Ecatonchiri e così sciancato e , è tecnica; tecnica insieme e prudente nella noÀ'ÌÌ!!T]'tLç Atena, che, attraverso Zeus, ne è la figlia diretta, e la cui polymetia, come dice un poeta del v secolo, ov'ella non avesse le mani, non sarebbe nulla: per eccellenza furbesca e all'occasione anche tecnica in Ermete, che, come Ulisse, è noÀ'ÌÌ'tQOJtoç e ÒOÀO!!liTTJç, il dio di tutte le strade e di tutte le sorprese, ciurmatore e ladro; ma in Prometeo, che ne assomma tutte le specie, è prudente e furbesca e tecnica. Non basta. Come il kratos della forma sta alla bia dell'evento, e il noos alla metis, così la metis la trovate associata alla bia nei Ciclopi, che al congiungono > di Gaia. Perché egli la metis non ce l'ha fin dall'origine, l'acquista dopo, quando, divenuto re, sposa ed ingoia l'omonima figlia di Oceano. Ed anche qui i nomi sono parlanti: questa Metis ha come immediate sorelle Eurynome e Telesto, che è come dire Imperium ed Auctoritas, attributi che col Consilium sono inseparabili dalla regalità e la definiscono. E però Zeus, se è per eccellenza !J.T]l:Cna, lo è solo per il consilium, per la ~ouÀ.ij, e cioè in quanto è re e per quel tanto che, come divinità suprema, è dio dell'evento. Ma non è mai JtOÀ.U!J.rJl:tç e ancor meno àyxuÀ.O!J.fil:rJç, come è Crono, come è Prometeo. E se Prometeo, nella sua polymetia, le sa tutte, miv1:wv JtÉQL !J.fiOea dowç, egli sa solo le cose immortali, aqn'h1:a !J.fiOea Elowç, quelle che sono fuori del tempo, e che, sottratte all'evento, sono immutabili ed une: che è il sapere della forma, l'unico che Aristotele lascerà al suo immobile Intelletto: un sapere che è puramente teoretico, laddove quello del Logos degli Stoici è insieme pratico e tecnico. Volete vederlo in tutta la sua maestà questo Zeus della forma? Guardatelo quando se ne sta sulla cima dell'Ida e contempla, senza intervenire, «la città dei Troiani e le navi degli Achei, e il lampo del bronzo e quelli che uccidono e quelli che cadono, xuOEL yaCwv, superbo della sua gloria>>. Di qui si spiega perché, invincibile nella forza, ch'egli possiede nella duplice specie della bia e del kratos- il suo scettro e il suo fulmine, - e sulla quale fonda il suo dominio, sia così esposto alle insidie della intelligenza e cada tanto facilmente vittima delle seduzioni e degli inganni, ch'egli odia, come odia le arti, che mutano la forma delle cose, e perché, a malgrado del suo «consiglio>>, sia nell'Iliade tante volte distinto dalla moira e impotente contro di essa. A questo Zeus guardò il genio di Eschilo nel suo Prometeo, e quanto s'è detto, ne scioglie il nodo. Da un lato la forza in tutta la maestà che le è ·conferita dalla forma, dall'altra l'intelligenza in tutta la varietà e molteplicità che è propria dell'evento. È l'intelligenza che Eschilo aveva sentito esaltare da Anassagora, indagatore di meteore, di À.a!J.Jt6.0eç n:eo6.ogm, come egli dice in un luogo non ancora inteso delle Coefore, da Anassagora, che nell'intelligenza completata dalle mani, nel tempo e nell'evento, ridotto alla nudità della tyche, aveva indicato i tre elementi del progresso dell'uomo, . Ma come la forza di Zeus è ignara e 61
cbe sonoswe all'evU~lO, così l'intelligeoza di Prometeo, figlio di G.ia-Themis custode di tutù gli evoem:i., è imbelle e deve souoswe ~ forza. ADa fine si concilieranno, ma Zeus sarà superiore a Prometeo, che nell'anello e nella corona di salice ponerà i segni dell'antica pena. Perché Eschilo è una maratbonomacbo e, come Achille, ha il cuore di leone, ed ha gli occhi di Achille, e al di sopra ddla giustizia dell'evU~lO crede, come ci crede Pericle, come ci crederà Tucidide, ~ giustizia ddla forma. QuanlO la "'~tìs è necessaria ad Ulisse, tanlO è inutile ad Achille, perché egli non agisce mai in vista dell'evento, e l'azione nasce in lui non ~ riflessione, ma ~ passione: dall'ira, l'llllica delle passioni che sia propria della forma, l'ira che Aristotele difende e gli Stoici combattono. Se l'azione della forma è di forza, il suo principio non può essere che una forza. Ma come questa forza non è la forza selvaggia dell'evenro, ma quella cosciente di sé e in sé raccolta della forma, così anche è dell'ira che la mtJOVe. Perciò la misura la trova da se stessa: Achille, quando sta pet trarre la spada contro Agamennone, s'arresta: il Poeta fa intervenire Atena, ma Atena non è che 1'11retè stessa d'Achille fatta dea. Una sola volta l'ira di Acbille straripa, ed è contro Ettore; ma è stato remo nell'amore e l'amore è una delle forze cosmogoniche dell'evento. Ed è qui che l'Ilùule trapassa dall'epopea alla tragedia. All'ira d'Achille fa riscontro la pazienza di Ulisse, JtOÀ.in:Aaç; così come è :7tOÀU!'YJTlç;. Non c'è caso che s'adiri, ma non pet questo rinunzia alla vendetta: anzi solo la sua è vaxletta, ticnç, nel seoso mediterraneo della parola, meditata e fredda, spietata; mentre Achille agisce nell'impeto e nel calore della passione, e alla fine si lascia placare e piange con Priamo sul nulla che è l'uotno. E mentre la vendetta d'Achille sottostà alle leggi della forma, ed è un duello, un agone, ad anni pari, che egli affronta sapendo che, vittoria o sconfitta, ci rimette la vita, quella d'Ulisse è tramata coll'inganno, un inganno che è fornito da un agone; e non è un duello, è una strage, ch'egli attua solo quando ha predisposto ogni cosa ed è sicuro, con l'aiuto d'Atena, di trame salva la vita. E fatto anch'esso significativo, Achille combatte «a lancia e spada., che sono le armi dell'11retè, ma Ulisse i Proci li uccide con l'arco, l'arma dell'insidia e dell'ombra, che non ha bisogno di 11retè, l'arma che colpisce rapida e invisibile come l'evento, l'arma che i Greci lasciarono alloro ApoDo asiatico e alla sua sorella Aneroide, nella loro qualità di capponatori di monoo. ma tennero sempre a vile e coosiderarooo barbara. Dio è presa con l'inganno e con l'arco, perché la sua disauzione è voluta 62
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dalla moira e non può essere opera dell'aretè. E l'arco è quello di Eracle, anch'egli, come Ulisse, preellenico ed eroe dell'evento, ma eroe della bia e non della metis: perciò, prima ancora dell'arco, egli adopera la clava, e le mani «inaccostabili», come quelle dei figli di Gaia. Separata dal kratos e senza il sostegno della metis, questa bia non può essere che serva o cieca, ed Eracle tutta la vita è condannato a servire, e quando non serve, impazza: paziente e folle, così come Ulisse è paziente e saggio. I Cinici e gli Stoici ne faranno un eroe del dovere, ma l'eroe di Aristotele greco è Achille. Eroe della metis, Ulisse è anche per eccellenza eloquente. Non è l'eloquenza di Nestore, evocatore di «glorie», che esorta con gli esempi e si oblia nei ricordi, ÀtyCç, «canoro>>- e il termine è tecnico - come sono > e dal quale faceva «governare il tutto>>. Questo punto è della massima importanza. Vi sono eventi ed eventi, e ciascuno ha la sua dimensione e la sua direzione, ma tutti sono caratterizzati dall'avvertita e vissuta presenza dell' apeiron periechon. Ciò è provato dall'esperienza, dalla fenomenologia della religione e da due fra i più tipici sistemi dell'evento, lo stoicismo, che ne esprime la massima chiusura, e l'esistenzialismo, in cui esso si presenta nella forma più aperta. Nell'esperienza: ciascuno sa che ogni evento, nell'atto in cui lo si vive, è, almeno per un istante, tutto quanto v'è d'evento nel mondo, e la sensazione che lo accompagna è, nell'ordine spaziale, quella dell'isolamento e del vuoto, e, nell'ordine 71
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temporale, quella d'una specie d'arresto in cui il tempo emerge e fa gorgo, e l'una cosa è inseparabile dall'altra. Per quanto riguarda la religione, considerandola alle sue origini, è noto che il mana, se da un lato si presenta come determinato e particolare, dall'altro ha carattere d'universalità tale che a ragione s'è vista in esso adombrata la prima idea dell'unicità e della cosmicità del - scrive P. Saintyves (La force magique, 1914, p. 46, citato dal Van der Leeuw, La religion, p. 16)> che. il Dasein ha del suo Sein. Dasein è l'esistenza, e la definizione che Heidegger ne dà non s'intende se non riportandola all'evento. . E precisa: (l'essere sempre la mia esistenza, e che come tale è irrapresentabile). Concetto analogo all'In-derWelt-sein di Heidegger è l'Umgrezfende col qualeJaspers ha ripreso il periechon di Anassimandro, e che è sempre un Umgrei/endes vissuto, ed è sempre infinito. ll rapporto che è tra l' hic et nune del cuique e l' ubique et semper del periechon, è dinamico e reciproco. Di qui l'Ineinander con cui il Cassirer caratterizza lo spazio e il tempo della mentalità primitiva o, come egli dice, del mito. Questo rende intelligibile ed ancora adoperabile il concetto di partecipazione del Lévy-Bruhl.ln questo Ineinander le figure diventano precarie, le cose si disfanno della sostanzialità loro, tutto è fluido, l'uomo sente rotti i limiti ai quali nel proprio corpo si affidava, lo spazio esterno lo penetra, disco p re e mette a nudo in lui qualcosa che è alle radici stesse del suo respiro, per cui egli non ha parola, perché non ne può avere la rappresentazione, lo sospende tra il nulla dell'istante che cade e il nulla di quello che ancora deve scoccare e della durata fa un gorgo in cui l'irreversibilità del tempo è abolita (cfr. Van der Leeuw, La religion, p. 379), e tutto è possibile. Ed ecco il thambos, l'horror, la Scheu, di cui parla l'Otto, l' awe del Marett, e di contro il mana, l'orenda, il numen tremendum, Dio. La reazione dell'uomo a questa rottura del tempo e apertura dello spazio creatagli dentro e d'intorno dall'evento è di dare ad essi una struttura e, chiudendoli, dare norma all'evento. Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è la diversa chiusura che in esse 73
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viene data allo spazio e al tempo del periechon, e la storia dell'umanità, come la storia di ciascuno di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che forme di chiusura. n quadro di una civiltà primitiva è dato dal quadro spaziale-temporale in cui si collocano gli eventi. E quando gli antropologi dicono che lo spazio e il tempo dei primitivi sono sempre qualificati (ciò che del resto è per ciascuno di noi), questa qualificazione non è costituita da altro se non dalla posizione che in ciascuna regione dello spazio e per ciascuna divisione del tempo viene data agli eventi. Tutto ciò che non può venire collocato in un tale quadro, viene cacciato fuori dalla periferia, che normalmente coincide col territorio abitato, al di là della quale è il luogo delle forze incontrollabili e spesso dei morti. Di qui l'orrore che il primitivo ha di trovarsi fuori del proprio territorio e per tutto ciò che gli viene dall'esterno. E qui vengo alla tua domanda. Tutte queste chiusure non sono forme? E si deve dare la preminenza ad esse o agli eventi? La risposta mi sembra agevole. Se si guarda alla loro origine, è chiaro che la preminenza spetta all'evento. Se invece si considera la loro funzione, e che è in esse e per esse che la vita è possibile, queste forme non solo sono al mondo dei primitivi, ma anche al nostro, e in generale a qualunque stadio di civiltà, perché è per esse che noi possiamo arrivare a dare una struttura e una direzione a quella cosa incomunicabile che è l'evento. Ma - e questo è il punto importante - non possono essere separate dagli eventi, perché il rapporto che è tra esse e gli eventi non è di post rispetto a un prius; v'è la stessa dinamicità e reciprocità di quello che è tra l'hic et nunc e l'infinità del periechon, e che esso riflette. Cercherò di chiarire il mio pensiero con un esempio. Una delle forme più semplici che valgono a chiudere l'evento, è il nome. È noto quale importanza abbiano i nomi nel mondo dei primitivi e in generale nella sfera del sacro. n nome, specificando la potenza che si rivela nell'evento, ne supera l'infinità che la rende paurosa e la limita, rendendo così possibile all'uomo di liberarsi dal thambos che lo paralizza, e di dare una direzione alla propria azione. Ma questo medesimo nome, che dà forma all'evento, permette anche di riprodurlo e di farlo presente: è per questo che alcuni nomi sono tabù. L'esempio più cospicuo di chiusura sacra fatta a base di nomi sono gli Indigitamenta. Se consideriamo il mito, che è la più complessa delle forme date all'evento, il discorso è il medesimo. Mito è la figura dell'evento che fa da archetipo al rito e che in forma 74
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simbolica dà ragione del dròmenon. Vi sono riti senza mito, ma un mito non è tale se non in rapporto ad un rito e nell'atto della sua celebrazione, nella quale soltanto esso può venire vissuto come evento. Separato dal rito, si riduce a una favola e non ha nulla di sacro. Ma la tua domanda ne sottintende un'altra, e dobbiamo metterla in chiaro. Essa può essere divisa in tre proposizioni: l) che differenza passa tra codeste forme e la forma kat' exochèn? 2) fino a che punto questa differenza è fenomenologicamente giustificata e questa forma kat' exochèn può essere giustificata, e la forma kat' exochèn può essere assunta a categoria, per le forme che da essa si distinguono si può mantenere lo stesso nome o se ne deve cercare un altro? Rispondendo al primo punto, quella che io chiamo per eccellenza «la forma>> è l' etdos di Platone e di Aristotele, e ciò che la caratterizza è l'autòtes, l'essere per sé. Essa sola è xa-&'afn:6, e quello che è lo è in se stessa e per se stessa, ed esclude ogni relazione. Come tale, essa esaurisce la sua essenza nella sua contemplabilità: ciò che in essa non è contemplabile, non è. Le forme invece che l'uomo dà all'evento, hanno carattere del tutto opposto. Nessuna di esse è xa-&'aflT6, esse sono sempre xa-r'IH.Ào n ed EvExa nvoç aÀÀ.ou; e non s'intendono che nella relazione. Come forme esse sono contemplabili, ma la contemplabilità non esaurisce mai la loro essenza, è solo un mezzo per attingere a ciò che in esse non appare e a cui rinviano, e che per sua natura esclude ogni contemplabilità e può essere solo vissuto: sono symbola e funzioni, non eide, forme eventiche e non «le forme>>, ed hanno sempre valore pratico, non teoretico. Quanto al secondo punto, se fenomenologia è, per una parte, accertamento del fenomeno, e quindi storia, e per un'altra, analisi strutturale di esso, e quindi logica, questa differenza è giustificata sia sul piano della storia che su quello della logica. È giustificata sul piano della storia, perché un tal senso della forma kat' exochèn lo troviamo in materia più o meno oscura e incompleta in molte civiltà, e per eccellenza e nei termini più chiari e non mai raggiunti altrove nella civiltà greca, che, per ciò che ha di peculiare e di unico, ne è per intero caratterizzata, non solo nelle manifestazioni del pensiero riflesso, ma e soprattutto in quelle immediate della religione, dell'arte e del costume. È giustificata sul piano della logica, perché, per tutta l'esperienza che a noi è data da millenni di speculazione, ogni proposizione vette o sull'essenza o sull'esistenza, ed essenza ed 75
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esistenza costituiscono i due estremi entro cui tutto il pensiero logico si muove. Ma essenza è ciò che una cosa è per se stessa e tale è nel linguaggio tradizionale la forma kat' exochèn o l' eidos, e tutto quanto non è pura essenza in sé e per sé è sempre l'esistenza di qualcuno nell'atto in cui egli la vive e l'avverte, e però si riconduce all'evento. Dati questi due estremi, se l'evento è una categoria, l'altra è la forma in quanto tale. Terzo punto: si deve mantenere un unico nome o si deve distinguere? Io dico un unico nome, perché gli estremi sono due, e tutti i gradi intermediari non si hanno se non per il progressivo diminuire dell'uno o aumentare dell'altro. Le forme dell'evento, prese come forme, lo sono al medesimo titolo sotto il quale lo è la forma kat' exochèn, ed ogni istante possono diventare forme kat' exochèn, solo che l'evento a cui si riportano sia obliterato, ed esse vengano soltanto contemplate, e come forme contemplate si pongano in assoluto. È a questo modo che le forme eventiche delle divinità mediterranee divennero le forme sostanziali delle divinità olimpiche. Allo stesso modo, il quadrato, fino a Pitagora, era un simbolo e come tale carico di tutti i valori dell'evento e per intero immerso nell'atmosfera magica: Pitagora, guardandolo, lo vide come quadrato e non altro, e pose le basi della scienza. Questo passaggio dall'evento alla forma eventica e da questa alla forma kat' exochèn non va però preso in assoluto, così da fare dei tre termini tre momenti distinti di un processo a direzione unica e irreversibile. Forma ed evento sono delle categorie e solo come categorie possono essere distinti. Nella realtà vissuta il loro rapporto è instabile e fluido e ad ogni istante reversibile: la medesima divinità che un istante appare come forma, nell'istante successivo è sentita come evento e si confonde col periechon. Noi non viviamo solo nell'esistenza, come credono gli esistenzialisti, né solo nell'essenza, come volevano che si facesse Platone e Aristotele, ma in un'esistenza che continuamente si chiude nell'essenza e in una essenza che ad ogni istante si dirompe nell'esistenza. È per questo che bisogna rifarsi sempre alla storia vissuta. Il rapporto, tuttavia, tra forma ed evento non è sempre il medesimo: v'è sempre una dominante, e i gradi sono infiniti, e questo permette di isolare le civiltà nella loro struttura e di disporle in una scala: vi sono civiltà in cui la forma domina sull'evento, altre in cui l'evento domina sulla forma. Una cosa però è da tener ferma, ed è che, il passaggio dall'uno all'altro estremo essendo qualitativo, v'è un limite oltre il quale la forma kat' exochèn cessa, e tutto quel che segue ha valore funzionale 76
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e simbolico. Al medesimo limite e in senso opposto l'evento perde la sua cosmicità e si riduce a mero accidente. L'opposizione che è tra le due categorie non è soltanto logica, è reale, e questo rende drammatica la vita: il re non può dialettizzarsi col buffone e viceversa. Al limite in cui la forma ed evento separano i loro regni c'è la morte, o di una delle due categorie o dell'uomo. Di qui l'Uno di Platino, il Brahma e il Nulla degli Indiani, il Nulla di Lao Tze. CARLO DIANO
Luglio 1952
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