Follia - Patrick McGrath [PDF]

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Zitiervorschau

PATRICK McGRATH FOLLIA (Asylum, 1996) A Jack Davenport Con amore e gratitudine a mia moglie Maria che mi ha aiutato e sostenuto mentre scrivevo questo libro; e con i più affettuosi ringraziamenti al dottor Brian O'Connell per la sua preziosa consulenza nelle questioni psichiatriche. I Le storie d'amore catastrofiche contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale ormai da molti anni. Si tratta di relazioni la cui durata e la cui intensità differiscono sensibilmente, ma che tendono ad attraversare fasi molto simili: riconoscimento, identificazione, organizzazione, struttura, complicazione, e così via. La storia di Stella Raphael è una delle più tristi che io conosca. Stella era una donna profondamente frustrata, che subì le prevedibili conseguenze di una lunga negazione e crollò di fronte a una tentazione improvvisa e soverchiante. Come se non bastasse, era una romantica. Traspose la sua esperienza con Edgar Stark sul piano del melodramma, facendone la storia di due amanti maledetti che sfidano il disprezzo del mondo in nome di una grande passione. È stata una vicenda il cui corso ha distrutto quattro vite, eppure Stella, ammesso che abbia mai provato qualche rimorso, è rimasta fedele alle sue illusioni fino alla fine. Io ho cercato di aiutarla, ma lei mi ha tenuto lontano dalla verità finché non è stato troppo tardi. Non aveva scelta. Non poteva permettersi di lasciarmi vedere le cose come stavano: sarebbe stata la rovina delle poche, fragili strutture psichiche che le erano rimaste. All'epoca dei fatti Stella era sposata con Max Raphael, uno psichiatra criminale; avevano un figlio di dieci anni, Charlie. Il padre di Stella, un diplomatico, era stato rovinato anni prima da uno scandalo, ma adesso sia lui che la moglie erano morti. Quando sposò Max, Stella aveva sì e no vent'anni. Max era un uomo riservato, piuttosto malinconico, con buone doti di amministratore, ma debole, e senza fantasia. Fin dal nostro primo incontro capii che non era la persona adatta per una donna come Stella. Quando

Max fece domanda per il posto di vicedirettore, lui e Stella vivevano a Londra. Max venne da noi per un colloquio; fece buona impressione sul consiglio direttivo, e soprattutto sul direttore, Jack Straffen. Nonostante il mio parere contrario, Jack gli offrì il posto, e qualche settimana dopo i Raphael arrivarono in ospedale. Era l'estate del 1959, e il Mental Health Act era appena diventato legge. Anche se dio solo sa se non si è preso i miei anni migliori, questo è un posto spaventoso. E un istituto di massima sicurezza, una cittadella fortificata che sorge su un alto colle e domina la campagna circostante: fitte pinete a nord e a ovest, bassi acquitrini a sud. È costruito secondo il tipico schema lineare dell'architettura vittoriana, con i bracci che si irradiano dai corpi principali in modo che tutti i padiglioni abbiano la vista libera sull'aperta campagna al di là del Muro. È un'architettura morale, che esprime regolarità, disciplina e organizzazione. Tutte le porte si aprono verso l'esterno, perché non si possano barricare, e tutte le finestre hanno le sbarre. Solo le terrazze digradanti, che scendono fino al muro ai piedi della collina e ricoperte di alberi, manti erbosi e aiuole fiorite, ingentiliscono e rendono in qualche misura più umana la tetra architettura carceraria che le sovrasta. La residenza del vicedirettore si trova a un centinaio di metri appena dal Cancello principale. È una grande casa scura di pietra grigia, uguale a quella dell'ospedale, un po' in disparte dalla strada interna e nascosta fra i pini. Costruita in un periodo in cui i medici arrivavano con famiglie numerose e almeno due domestici, era decisamente troppo grande per i Raphael. Prima del loro arrivo era rimasta vuota per anni, e il giardino, abbandonato a se stesso, era inselvatichito. Con mia grande sorpresa, Max si preoccupò immediatamente di risistemarlo. Fece pulire lo stagno sul retro della casa, ci rimise l'acqua e i pesci rossi, e potò le siepi di rododendro che correvano tutt'intorno al prato, facendole rifiorire. Il progetto che lo interessava di più, tuttavia, era il restauro della vecchia serra in fondo all'orto. Era una grande costruzione ornamentale del secolo scorso, che era servita per coltivare orchidee, gigli e altre delicate piante tropicali. A suo tempo era stata una struttura ariosa e imponente, ma all'arrivo di Max e Stella si trovava in un tale stato di abbandono che si era parlato di abbatterla. Quasi tutti i vetri erano rotti, e i pochi sopravvissuti erano coperti di polvere e ragnatele. La vernice si era scrostata, e in molti punti le parti in legno erano marcite e crepate. Dentro gli uccelli avevano fatto il nido, topi e ragni erano di casa, e tra le fessure del pavimento di pietra crescevano le erbacce.

Ma Max Raphael aveva una passione per il vittoriano, e l'architettura esotica della serra, coi suoi ghirigori di legno e vetro e gli slanciati archi romanici delle finestre, sembrava piacergli in modo particolare. Fortuna volle che tra i pazienti in semilibertà dell'ospedale c'era un uomo che sosteneva di poter restaurare la serra. Quell'uomo era lo scultore Edgar Stark. Edgar era uno dei miei. Io sono sempre stato affascinato dalla personalità artistica; credo dipenda dal ruolo vitale che l'impulso creativo svolge in psichiatria, o quantomeno nel mio lavoro clinico. Quando arrivò da noi, Edgar Stark era già una figura di spicco nel mondo dell'arte, anche se quello che ci trovammo davanti la prima volta era un uomo confuso e molto scosso, che si trascinò in ospedale come una grande bestia ferita e rimase ore e ore piegato in due su una panca tenendosi la testa fra le mani. Mi colpì subito, e quando riuscii a calmarlo e a farlo parlare scoprii che si trattava di un individuo dalla personalità molto forte, con una mente originale, e dotato di un notevole fascino, se solo decideva di usarlo. Tra di noi si sviluppò rapidamente un rapporto basato su un affettuoso antagonismo, che io incoraggiavo con uno scopo ben preciso: volevo che sentisse di avere un rapporto speciale col suo medico. Al tempo stesso diffidavo di lui, perché aveva un'intelligenza irrequieta e subdola, pronta a cogliere i meccanismi dell'ospedale e sempre molto attenta al proprio interesse. Sapevo che avrebbe sfruttato ogni situazione a suo vantaggio. Sembrerà strano, ma l'unica volta che l'ho visto insieme a Stella è stato al ballo dell'ospedale, un anno dopo l'arrivo dei Raphael e a tre settimane esatte da quando aveva cominciato a lavorare, ai primi di giugno, nell'orto di Max. I balli costituiscono un evento importante nel calendario ospedaliero, e sono sempre preceduti da un'attesa febbrile. Si svolgono nel salone dell'Amministrazione, un ambiente molto spazioso col soffitto alto, un palco a un'estremità, una fila di colonne al centro, e portefinestre che si aprono sulla prima terrazza. L'orchestra si sistema sul palco, mentre da una parte si dispongono lunghi tavoli su cavalietti con tartine e bibite. Al ballo possono partecipare i pazienti in semilibertà del braccio maschile e di quello femminile, chi insomma non deve rimanere chiuso nei padiglioni, e per una sera all'anno loro e il personale diventano una famiglia allargata, senza distinzioni di qualifica o condizione. Almeno in teoria. La realtà è che a un ballo i malati di mente non danno il meglio di sé. I nostri pazienti si vestono in modo eccentrico e si muovono con goffaggine, impediti come sono, in eguai misura, dai tarmaci che

assumono e dalla malattia che li richiede. Nonostante gli energici sforzi della nostra orchestra, e l'allegria forzata del personale, ho sempre trovato molto imbarazzanti queste serate, cui partecipo per dovere e senza aspettarmi nulla di piacevole. Quella sera, mentre osservavo la festa dall'ombra di una colonna in fondo alla sala, non mi sembrò particolarmente strano né che Edgar Stark avvicinasse la moglie del vicedirettore, né che lei ballasse con lui. Ricordo che mi sfrecciò davanti fra le sue braccia, mentre l'orchestra attaccava un pezzo piuttosto vivace e latineggiante. Fino a poco tempo fa non ho saputo con precisione quello che accadde di lì a poco. Forse avrei dovuto accorgermi che qualcosa non andava, perché avevo notato che Stella era leggermente arrossita. Li seguii con lo sguardo mentre attraversavano rapidi la pista e passavano proprio davanti al tavolo del direttore, e solo adesso capisco che insulto sfrontato, esplicito, temerario Edgar ci sbatté in faccia quella sera. Il ballo finì alle dieci in punto, e i pazienti si allontanarono rumorosamente. Jack invitò i suoi collaboratori più stretti, quelli che non se ne erano ancora andati, a bere qualcosa da lui. Io e Max, tutti e due in smoking, tutti e due con un buon sigaro, uscimmo insieme e ci avviammo chiacchierando di vari pazienti. Il cielo era terso, la brezza tiepida, e il mondo sotto di noi, le terrazze, il muro, gli acquitrini, tutto era buio e tranquillo sotto la luna. La voce di Stella ci arrivava limpida nell'aria calda della notte. Oh, nella mia vita ho conosciuto molte donne belle ed eleganti, ma nessuna quanto Stella quella sera. Aveva un vestito da sera nero e scollato, di seta grezza a coste, un gros-grain raffinatissimo che non avevo mai visto. La scollatura quadrata lasciava intravedere la curva del seno. Il vestito era aderente, ma dalla vita in giù si apriva a campana, formando sulle ginocchia come un tulipano, con uno spacco in mezzo. Portava tacchi vertiginosi, e uno scialle posato sulle spalle. Stava chiedendo a Jack del suo ultimo compagno di ballo, e sentendo il nome del mio paziente rividi per un attimo quegli uomini e quelle donne trascinarsi nei loro vestiti sbagliati. Avevano tutti qualcosa di impercettibilmente sghembo: tutti, tranne lui. Jack era in piedi in fondo al terrazzo, e teneva aperto il cancello per Max e per me. Stella era visibilmente divertita alla vista di due primari in smoking che affrettavano il passo per non far aspettare il loro direttore. Un paio di minuti dopo eravamo nel salotto degli Straffen, e il telefono suonava. Era l'infermiere capo; riferiva al direttore che nessun paziente mancava all'appello, e che l'ospedale era stato chiuso per la notte.

Io non sono una persona socievole, e appena c'è un po' di gente tendo a rimanere in disparte. Lascio che siano gli altri a venire da me, è un privilegio dell'anzianità. Anche dagli Straffen mi ero messo vicino alla finestra del salotto, e bisbigliavo mezze frasi alle mogli dei colleghi che, via via, passavano a salutarmi. E guardavo Stella, cui Jack stava raccontando qualcosa che era accaduto a un ballo di vent'anni prima. A Jack Stella piaceva per le stesse ragioni per cui piaceva a me: per il suo spirito, il suo distacco e la sua sensazionale bellezza. So che era considerata splendida. Tutti dicevano meraviglie dei suoi occhi; aveva la carnagione pallida, quasi diafana, e folti capelli biondi, quasi bianchi, che teneva piuttosto corti e pettinati all'indietro. Era decisamente florida, con un bel seno, più alta della media, e il giro di perle che portava quella sera dava risalto al candore del collo, delle spalle e del petto. Allora la consideravo un'amica, e mi interrogavo spesso sulla sua vita inconscia. Mi domandavo se dietro quella sua maschera algida nascondesse serenità e ordine, o se, molto più semplicemente, Stella riuscisse a dominare le proprie nevrosi meglio di altre donne. Pensavo che chi non la conosceva avrebbe potuto scambiare il suo autocontrollo per freddezza, o addirittura per indifferenza, e in effetti era proprio per questa ragione che, al suo arrivo in ospedale, Stella aveva incontrato resistenze e ostilità. Ma ormai quasi tutte le signore l'avevano accettata. Si era sforzata di partecipare ai nostri vari comitati interni e, in generale, di fare tutto quello che ci si aspetta dalla moglie di un primario. Quanto a Max, se ne stava lì col suo bicchiere di sherry e un mezzo sorriso di indulgenza vagamente inquieta, mentre le signore gli raccontavano aneddoti più o meno raccapriccianti del ballo. Sembrava che ognuna di loro si fosse scelta con cura un compagno talmente goffo da far sfigurare chi l'aveva preceduto l'anno prima. Quella sera Stella parlò di Edgar, ma non davanti al gruppo al completo, e naturalmente senza neppure accennare a quello che lui aveva fatto in pista. A un certo punto venne da me, e mi disse che quell'uomo ballava come un dio. Non era uno dei miei pazienti? Ma certo che era uno dei miei. Credo di averlo detto con una specie di cinismo affettuoso, perché ricordo che Stella mi scrutò con estrema attenzione, come se mi fossi lasciato sfuggire qualcosa di importante. «Lavora nel nostro orto. Lo vedo spesso. Non ti chiedo cosa pensi di lui, perché so che non me lo diresti». «Come puoi vedere da te,» replicai «è un tipo estroverso, che sa farsi

benvolere, e dotato di una certa, come dire, vitalità animale». «Vitalità animale. Già, è vero. È un caso molto grave?». «Insomma». «A parlarci non si direbbe affatto». Si voltò per gettare un'occhiata a quei gruppetti di vecchi conoscenti, ognuno a modo suo un po' eccentrico, come capita spesso nelle comunità psichiatriche. «Il fatto è che noi siamo più strani rispetto alla media della popolazione, no?» mormorò, continuando a guardare gli altri. «Non c'è dubbio». «Max sostiene che la psichiatria attrae chi ha il terrore di diventare pazzo». «Max parli per sé». La battuta strappò uno sguardo in tralice ai suoi grandi occhi indolenti. «Ho visto che non ti sei concesso neppure un ballo». «Sai benissimo che sono negato, per queste cose». «Ma le signore si divertono da morire. Dovresti farlo per loro». «Stai diventando una vera santa, mia cara». Si girò verso di me, fissandomi a lungo. Poi si tirò su una spallina. «Una santa?» disse, e in quel momento vidi che Max guardava nella nostra direzione pulendosi distrattamente gli occhiali, senza cambiare di una virgola quel suo atteggiamento lugubre. Lo vide anche lei, e voltandosi dall'altra parte mormorò: «Mi par di capire che la mia ricompensa sarà in paradiso». Più tardi, quella stessa sera, tornai in studio per stendere le mie osservazioni. Il comportamento di Edgar mi aveva impressionato. Guardandolo ballare con Stella si stentava a credere che soffrisse di un disturbo che comprometteva gravemente i suoi rapporti con le donne. Prima di venire da noi aveva fatto per alcuni anni lo scultore, con tutte le tensioni che solo chi vive nel mondo dell'arte conosce. Circa un anno prima del suo ricovero cominciò a essere ossessionato dall'idea che sua moglie Ruth avesse una relazione con un altro. A detta di tutti, Ruth Stark era una donna assolutamente tranquilla e ragionevole, che posava per Edgar e il più delle volte provvedeva al sostentamento di entrambi. Ma a causa delle violente e feroci accuse di lui il matrimonio aveva cominciato a sfasciarsi, e Ruth minacciava di andarsene. Una notte che tutti e due avevano bevuto ci fu una scenata terribile, e lui la massacrò a martellate; ma fu quello che le fece dopo a mostrarci fino a che punto fosse disturbato. Benché le urla di Ruth si sentissero fino in

strada, nessuno era accorso. Edgar arrivò da noi in uno stato di profondo shock. Dopo averlo aiutato a riprendersi, mi aspettavo di vedere insorgere le reazioni inevitabili in casi come il suo, e cioè il rimorso e il senso di colpa. Ma a quanto potevo vedere non c'era traccia né dell'uno né dell'altro; qualche settimana più tardi Edgar riacquistò il suo equilibrio, e presto cominciò a partecipare a varie attività all'interno dell'ospedale. Eravamo preoccupati per lui. Pur dimostrando una notevole intelligenza, non dava alcun segno di sapere perché avesse ucciso sua moglie. A turbarmi non era solo la persistenza delle sue ossessioni, ma anche la loro assurdità intrinseca. Sosteneva di avere una montagna di prove dell'infedeltà di lei, eppure quando gli chiedevamo quali fossero tirava fuori solo piccole banalità quotidiane in cui scorgeva significati abnormi. Uno scarico di sciacquone, una macchia sul pavimento, la posizione di una scatola di detersivo sul davanzale, queste erano le cose cui sembrava attribuire importanza. Su tutti gli altri piani poteva considerarsi recuperato, tanto che avrebbe potuto essere dimesso, ma su quest'unico punto, e cioè sulla logicità del suo omicidio, era irremovibile. Oh, ammetteva che non avrebbe dovuto succedere, e rimpiangeva di aver bevuto in quel modo, ma insisteva di esserci stato quasi costretto dalle provocazioni e dagli insulti di Ruth. Né io né nessun altro pensavamo che potesse uscire, per il momento. Era con noi da cinque anni, e secondo me ci sarebbe rimasto almeno altri cinque. Questa era la situazione quando gli venne affidato il restauro della serra di Max Raphael. Ogni mattina, quell'estate, vari gruppi di pazienti in semilibertà, con i pantaloni di fustagno giallo, la casacca azzurra e una giacca di tela bianca buttata sulle spalle, uscivano dal Cancello principale, seguiti da un infermiere, per dedicarsi a vari lavori di manutenzione. Edgar faceva parte del gruppo assegnato all'orto del vicedirettore. Stella lo incontrava spesso quando andava a cogliere un po' di verdura o dei fiori, e se il sorvegliante, un infermiere anziano di nome John Archer, non era a tiro si sedeva per qualche minuto a chiacchierare. Ammise in seguito di essersi sentita attratta da lui quasi fin dal primo momento. Per ovvie ragioni aveva cercato di non pensarci, ma il fatto che ogni giorno lui fosse là fuori le aveva reso più facile escogitare pretesti per incontrarlo. In fondo che male c'era a fare amicizia con un paziente? Questo era ciò che si ripeteva per giustificare il proprio comportamento. Come era successo? La prima volta che le feci questa domanda non riuscì a darmi una rispo-

sta convincente. Evitava il mio sguardo e divenne evasiva. E quando azzardai che poteva essersi semplicemente trattato di una qualsiasi storia di sesso, destinata a finire come era cominciata, il suo sognante distacco scomparve, e per un attimo sentii, da parte sua, una vampata di ostilità. Che a poco a poco si spense. Era già gravemente depressa, e non riusciva a tollerare le emozioni. Accennò a qualcosa che lui aveva fatto un giorno, qualcosa che esprimeva, oh, forza, tenerezza... Chissà. Evitai di insistere. Fu in uno dei nostri colloqui successivi che mi raccontò con meno reticenza cosa avesse fatto Edgar per affascinarla e attrarla in quel modo fin dall'inizio. Un pomeriggio molto caldo Stella era andata a cogliere un po' di lattuga, e aveva visto Charlie in fondo all'orto con un paziente, quell'uomo grande e grosso coi capelli neri di cui lei non sapeva neppure il nome, ma solo che riparava la serra di Max; questo succedeva un paio di settimane prima del ballo. Curiosa di vedere cosa stesse combinando il ragazzo, aveva preso il sentiero, mentre Charlie le gridava di essersi inventato una prova di forza che doveva assolutamente andare a vedere. Charlie Raphael era un ragazzino piuttosto grasso, con la pelle chiara come quella di sua madre che in estate si copriva di lentiggini. I capelli castano scuro gli ricadevano sulla fronte in una spessa frangia, e quando rideva scopriva la fessura tra gli incisivi da coniglio. Quell'estate portava sempre una camicia di cotone a maniche corte, dei calzoncini molto larghi e dei sandali, e vista la quantità di progetti di ricerca in cui era impegnato aveva le gambe immancabilmente graffiate e incrostate di fango. Stella si sedette all'ombra sulla panchina vicino al muro e rimase a guardare Charlie che chiedeva al paziente di rimanere dov'era, sul sentiero, e di impugnare una vanga alle due estremità del manico tenendola in orizzontale, mentre lui ci si inginocchiava sotto e la afferrava al centro. «Alza!» gridò Charlie. Il paziente lanciò un'occhiata a Stella ed eseguì, e Charlie si sollevò lentamente da terra aggrappandosi con tutte e due le mani alla vanga, le ginocchia piegate e la faccia stravolta dallo sforzo. «Adesso conto!» urlò. «Uno, due tre, quattro...». Rimase aggrappato fino a venti, quando Stella, ridendo, lo pregò di lasciare che quel poveretto lo mettesse giù. Charlie urlò: «Giù», e venne depositato delicatamente a terra. «Sei proprio forte» disse guardando con ammirazione Edgar, che sembrava uscito indenne dalla prova. Stella mi disse di aver sentito il primo fremito di interesse per lui proprio mentre

Charlie penzolava come una scimmia dal manico della vanga. Il giorno dopo tornò alla serra per vedere cosa stava facendo Edgar. Scelse liberamente di andarci; è un fatto, e in quanto tale difficile da giustificare, o da nascondere. Lo trovò in cima a una scala che toglieva schegge di vetro da un telaio, liberandole con estrema cura dal mastice ormai in briciole. Le gettava in un bidone vicino alla scala, e a brevi intervalli la quiete sonnacchiosa del pomeriggio era spezzata dal rumore dei vetri infranti. Vedendola avvicinarsi Edgar scese dalla scala e si tolse gli spessi guanti da lavoro. «Mrs Raphael» disse. Si piantò davanti a lei con un leggero ansito, scostandosi i capelli dalla fronte, e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto rosso e bianco col quale si asciugò il sudore prima dalla faccia, poi dalle mani, continuando a fissarla con un'espressione che secondo Stella era amichevole, ma al tempo stesso, in qualche modo, beffarda, o piuttosto provocatoria: era come se la stesse sfidando a gettare la maschera. Ma Stella si trovava del tutto a suo agio nelle schermaglie di quel genere, senza contare che l'uomo che aveva davanti le era simpatico. «Non deve smettere di lavorare» disse. «Volevo solo vedere cosa stava facendo». «Edgar Stark». Si strinsero la mano. Stella si riparò gli occhi dal sole voltandosi verso la serra. «Vale la pena di ripararla?». «Oh, è bellissima. Le cose erano costruite per durare, allora. Come questo posto». Le sorrise indicando il Muro, che si vedeva attraverso i pini in fondo al giardino, vicino alla strada. «Sarà un po' meno tetra, spero». «Quando avrò finito sarà magnifica. Vi siete sistemati bene?». «Be', siamo qui da un anno». «Così tanto?». Edgar tirò fuori il tabacco e si arrotolò una sigaretta. Quel gesto aveva qualcosa di libero, e le piaceva. Non si comportava come un paziente. «E lei da quanto tempo è qui?» gli chiese. «Cinque anni, ma uscirò presto. Ho ucciso mia moglie». Edgar al suo meglio, ricordo di aver pensato sentendo questo. Ma quanto a schiettezza Stella era perfettamente in grado di tenergli testa. «Perché?». «Mi tradiva». «Mi spiace».

Non era uno stupido. Le tragedie erano pane quotidiano, per Stella, che infatti si mostrò comprensiva. È difficile che la moglie di uno psichiatra criminale si lasci impressionare da una confessione del genere. «Faceva il muratore, fuori?». «L'artista. Ero uno scultore. Figurativo, per lo più. Si interessa di arte, Mrs Raphael?». «Non è che abbia molte occasioni, qui. A Londra sì». La prima impressione di Stella fu che Edgar non fosse né servile né arrogante. Disse che c'era qualcosa di solido e di maturo, in lui, e io non potei fare a meno di pensare a tutti quei discorsi deliranti e maniacali sulla sua defunta moglie. Se li avesse sentiti anche lei forse lo troverebbe un po' meno solido e un po' meno maturo, pensai. Ma non li aveva sentiti, e così l'indomani, dopo aver colto quello che le serviva nell'orto, scese di nuovo fino alla serra. Lo trovò sulla scala, stavolta senza casacca. Stava parlando di calcio con Charlie, che era arrampicato sul muro dell'orto. Edgar era un omone, con un fisico massiccio - spalle larghe, molto petto, molte cosce, molto stomaco - e la pelle morbida bianca. Stella notò subito le mani grandi e sottili, le belle, forti, sensibili mani di un artista. Era quasi glabro, e si chiese se fosse il tipo che ingrassava. Poi gli propose di bere qualcosa di fresco. Quando tornò poco più tardi con un bicchiere di limonata Edgar si era rimesso la casacca. Stella chiese a lui e a Charlie se poteva sedersi per un po' sulla panchina all'ombra. Mi confessò che le piaceva guardarlo lavorare, e intanto io pensavo a Max, al cerebrale Max, alto quanto Edgar ma curvo, pallido, e con quella mania di pulirsi in continuazione gli occhiali; Max poteva anche aver avuto l'idea di restaurare la serra, ma per metterla in pratica era servito il lavoro di un altro. E i risultati si vedevano già. Molti dei vecchi vetri erano stati tolti, e adesso la struttura, ridotta allo scheletro, aveva una scarna essenzialità. E una sua strana bellezza, aggiunse Stella, che tornando a casa portò con sé quell'immagine, l'immagine di un omone a torso nudo, sicuro di sé, che in cima alla scala staccava le schegge dall'intelaiatura della serra vittoriana - a una a una, con delicatezza. Tornò il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Lui le parlò di suo figlio, del figlio che aveva lasciato senza madre, Leonard, si chiamava così, e adesso aveva più o meno l'età di Charlie, anche se non lo vedeva da più di cinque anni. Era stato affidato ai parenti della moglie, i quali avrebbero fatto di tutto perché il ragazzo non venisse mai a sapere chi era suo padre. Una storia perfetta per suscitare le simpatie di una madre.

Peccato che fosse falsa. Edgar non aveva figli. Un giorno le chiese se poteva chiamarla Stella, e lei rispose di sì, ma non davanti a John Archer o a Charlie. Un'altra volta Edgar stava facendo lo schizzo di una decorazione floreale tutta arrugginita che doveva ricostruire, e le chiese se poteva farle il ritratto. Lei accettò. Edgar la fece sedere sulla panchina, e in pochi minuti produsse uno strano bozzetto. Non aveva niente di naturalistico, e nelle sue linee sbavate era impossibile ritrovare la rotondità e la monumentalità che io vedevo in Stella; ma in qualche modo le somigliava. Lei gli chiese se poteva tenerlo, e lui, senza una parola, strappò il foglio dal blocco e glielo diede. «Ma lo deve firmare» gli disse Stella. Per una serie di ragioni che non si sentiva di analizzare troppo a fondo, chiuse il disegno in un cassetto e lì lo tenne, senza farlo vedere a nessuno. Anche se in superficie non era successo nulla di scabroso, Stella si era ben guardata dall'accennare a Max del suo nuovo amico; e passando sotto silenzio un evento che nella sua vita quotidiana aveva una qualche importanza, si era lasciata andare a una forma di ambiguità. La razionalizzò. Avrebbe dovuto sapere che l'inganno corrode l'integrità di un matrimonio, e tenerne conto, ma non lo fece. Scelse di non farlo, e da questa scelta di comodo seguì tutto il resto. Oh, si diceva, ma che assurdità, e che banalità, oltretutto, l'idea che scambiare due parole con un paziente nell'orto potesse avere importanza. E allora, se era tutto così banale, che motivo aveva di ragionarci su? Il motivo era la sua crescente attrazione sessuale per quell'uomo, cui stupidamente aveva ceduto nel modo più ambiguo, cioè cercando di fare amicizia con lui e lasciando che si insinuasse nelle sue fantasie. All'inizio parlare di queste cose fu per lei tutt'altro che facile. So che era tentata di imputare i fatti, e le loro tragiche conseguenze, al destino, o ai capricci del cuore umano. Cercò insomma di scaricare le responsabilità come del resto facciamo tutti, anche se non le piaceva accampare scuse o nascondersi dietro astrazioni. Ma difese fino alla fine Edgar, cioè l'unica persona che avrebbe potuto accusare. Non l'ho mai, assolutamente mai sentita attribuirgli la responsabilità di quanto era accaduto. La prima volta che mi resi conto della loro crescente intimità fu il giorno che Charlie cadde dal muro dell'orto. Vicino alla serra c'era un vecchio melo, e quando Edgar era sulla scala Charlie saliva sul muro, e da qui si

arrampicava sull'albero. Era uno scalatore impavido, ma non molto agile data la sua grassezza, e un giorno, mentre stava tornando dall'albero al muro, il ramo si spezzò: Charlie perse l'equilibrio, cadde con un grido sul sentiero, e per un paio di secondi rimase privo di sensi. Quando Edgar piombò in casa col ragazzo semisvenuto fra le braccia Stella era di sopra. Mrs Bain, la donna di servizio, era seduta al tavolo di cucina a sgusciare piselli. Questa Mrs Bain era sposata con uno degli infermieri anziani, un certo Alec Bain; fu lui a raccontarmi, in seguito, cosa avesse pensato sua moglie vedendo un paziente che entrava non solo senza bussare, ma anche chiamando Mrs Raphael a gran voce. E per nome. Edgar voleva mettere il ragazzo su un letto o su un divano, ma siccome Mrs Bain non ebbe la presenza di spirito di indicargli il soggiorno le passò oltre, uscì dalla cucina e andò in anticamera. Lei cominciò a urlargli dietro proprio mentre Stella scendeva le scale di corsa e lanciava un grido terrorizzato. Charlie stava bene. Si riprese in pochi minuti, tanto che Stella non giudicò fosse il caso di telefonare a Max in ospedale. Lo tenne abbracciato mentre Mrs Bain andava a prendere un asciugamano umido, mostrando anche di spalle la sua opinione sui pazienti che si presentano in casa senza essere invitati e chiamano in quel modo la moglie del dottore. Charlie tentò di alzarsi, ma Stella gli disse di restare disteso ancora un po'. Poi si voltò verso Edgar, che era rimasto in piedi passandosi le mani fra i capelli. «Grazie per averlo portato dentro» gli disse. Sembrava sollevato a vedere che il ragazzo era tutto intero. Ovvio, pensò Stella, si sarà sentito responsabile. «Tutto a posto» disse Edgar. «Credo anch'io. Ma per oggi è meglio che rimanga a casa». «No!» disse Charlie. «Sì, invece» disse Stella. Edgar uscì dalla porta della cucina. Stella pensò che forse sarebbe stato il caso di spiegare a Mrs Bain perché Edgar mostrava tanta familiarità nei suoi confronti, ma qui venne a galla la sua consueta, orgogliosa noncuranza, e non disse una parola; non vedeva proprio perché avrebbe dovuto farlo. Benché non fosse accaduto ancora nulla di fisico, questo episodio contribuì a cementare una specie di legame fra loro. Naturalmente Stella avrebbe dovuto troncarlo, appena si rese conto che comportarsi in modo

tanto informale con un paziente le avrebbe causato, prima o poi, qualche problema. Ma non le passò neppure per la testa. In quel momento non perse tempo a chiedersi perché si sentisse più divertita che allarmata; in seguito disse che doveva essere per via dell'atteggiamento ridicolo di Mrs Bain, che si comportava come se i pazienti appartenessero a una classe inferiore. Edgar cominciò a raccontarle la sua vita in ospedale, e lei si rese conto, con un certo stupore, di aver sempre considerato quello che le accadeva intorno solo dal punto di vista di Max, cioè in una prospettiva psichiatrica. Ora intravedeva una prospettiva nuova, cominciava a capire cosa significasse vivere, mangiare e dormire in un reparto sovraffollato, sessanta uomini in un dormitorio pensato per trenta, con servizi igienici che risalivano al secolo prima e che di solito funzionavano per modo di dire. In particolare, trovò raccapricciante la storia di un paziente del Reparto 1, che si lavava la faccia nella propria urina e poi usava l'asciugamano comune. Cominciò a sentirsi coinvolta. Il processo di identificazione, in un primo momento ancora confuso e protetto da un apparente distacco amichevole, diventò a poco a poco sempre più forte. La indignava l'idea che quest'uomo, questo artista, fosse costretto a subire l'umiliazione dei bagni antidiluviani, della mancanza di intimità, delle angherie, della noia, e dell'incertezza più assoluta circa il proprio futuro. Adesso era nel Reparto 3, un paziente in semilibertà con una stanza tutta per sé, ma doveva ancora tollerare cose che il senso di giustizia di Stella considerava incompatibili con la cura e l'assistenza della malattia mentale. A parte il fatto che non era più così sicura che Edgar fosse davvero un malato di mente. Pensava avesse commesso un delitto passionale; e la passione di per sé è una cosa positiva, no? Edgar non si spingeva mai troppo oltre, e non rimaneva mai serio troppo a lungo. Spesso la faceva ridere, come quando le raccontava del matematico di Cambridge che passava i suoi giorni seduto in un angolo della stanza comune a tracciare calcoli complicatissimi su un foglio di carta igienica, o di partite di bridge così impetuose che una volta una lite si era messa male e un paziente ci aveva quasi lasciato un occhio. Le diceva che ogni tanto gli sembrava di essere diventato socio di un club molto esclusivo, visto che aveva conosciuto banchieri, avvocati, ufficiali e agenti di cambio; vecchi etoniani, ma anche uomini dei bassifondi. «Però abbiamo tutti una cosa in comune». «Cioè?». «Siamo tutti pazzi». Stella ricordava bene quel momento. Era seduta nell'orto, sulla panchina

all'ombra del muro, mentre Edgar era in cima alla scala, a torso nudo, e la guardava dall'alto ridendo della propria battuta: che lei non aveva trovato affatto divertente. «Io non credo che lei sia pazzo». Il tono di Edgar cambiò di colpo, adeguandosi al suo. «Neanch'io». «E allora non dovrebbe essere qui». Non dovrebbe essere qui. Non era esattamente quello che voleva sentirle dire? Che la moglie del vicedirettore giungesse alle sue stesse conclusioni, be', questo sì era un bel passo avanti. Poi ci fu il ballo. Stella sostiene che il mattino dopo il ballo era rimasta per ore seduta al tavolo di cucina davanti a una tazza di tè, sfogliando distrattamente un giornale. Aveva pensato a quello che era successo per gran parte della notte, e si sentiva a disagio. La sostanza, mi disse, era che mentre ballava con Edgar si era resa conto che quello che lui le stava strofinando addosso attraverso i pantaloni era, be' sì, era il pene: e gli stava diventando duro. Disse di ricordare distintamente i due momenti, prima l'indecisione, e poi, un attimo dopo, la certezza che era proprio quello che pensava che fosse; ma nell'attimo stesso in cui si scostava da lui, nell'attimo stesso in cui apriva la bocca per gridare la sua indignazione, qualcosa le aveva fatto cambiare idea, qualcosa che aveva riconosciuto nell'espressione di Edgar - una specie di sgomento muto come se quello che gli stava succedendo fosse più forte di lui. Era tutto molto buffo, e anche triste, e Stella si era lasciata commuovere da quel bisogno che aveva percepito così all'improvviso. E poi sì, si era strofinata anche lei contro la sua erezione, e avevano volteggiato per tutta la sala stretti l'uno all'altro, Edgar palesemente raggiante e Stella con lo sguardo fisso in un punto lontano, con un'espressione dignitosa e imperscrutabile. Quella sua compostezza, del resto, non l'abbandonò mai, né allora né in seguito. Quando la musica finì, e Edgar si voltò di colpo avviandosi dall'altra parte della sala, a Stella era quasi dispiaciuto. Quel che mi raccontò certo non mi sconvolse. Fui sorpreso, però, sorpreso e infastidito, non tanto dalla natura della loro connivenza - sia Edgar sia Stella avevano una libido molto forte, e tutti e due erano chiaramente eccitati dalla dimensione pubblica dell'episodio -, quanto dal fatto che lui avesse messo in pericolo con tanta leggerezza il nostro lavoro, quello che avevamo fatto insieme io e lui: se Stella avesse raccontato quello che era suc-

cesso saremmo tornati indietro di mesi, se non di anni. Il giorno dopo il ballo fu uno dei più caldi di tutta l'estate. Stella fece tre o quattro bagni in diversi momenti della giornata, e ogni volta, mentre si spogliava, le sembrava di sentirsi di nuovo addosso quell'erezione. Fino a quel momento la sua attrazione per lui era stata una faccenda strettamente intima, e non le era neppure venuto in mente che potesse essere reciproca; e invece, a quanto pareva, lo era. La presenza di Edgar nell'orto cominciò quindi a diventare un problema. Era seccante, perché nell'orto c'erano molte cose che le servivano, cipolline, ravanelli, lattuga. Pur non essendo una donna timida, Stella non aveva nessuna voglia di riprendere i rapporti con lui, anche perché si rendeva perfettamente conto che non poteva permettersi di cedere una seconda volta. Ma siccome prima o poi avrebbe comunque dovuto scendere nell'orto e affrontare Edgar, decise che tanto valeva farlo subito. Il mattino dopo sparecchiò gli avanzi della colazione, si spazzolò i capelli, si mise un po' di rossetto e uscì, passando dal cortile. Portava un leggero abito estivo, e sandali bianchi senza calze. Il sole era già caldo. Il muro che circondava l'orto era coperto di edera, e un manto di muschio rivestiva gli interstizi fra i mattoni. Alla porta di legno, col suo arco moresco arrotondato, era appena stata data una mano di verde. Stella ci si fermò davanti, in ansia. Sentiva la maniglia scottare sotto le dita. Alla fine la abbassò; il sentiero correva tra una profusione di fiori e verdure, e cascate di gattaria si riversavano sulla ghiaia. L'aria era immobile e luminosa, e gli insetti ronzavano fra le rose. I vasi da fiori brillavano nel sole. A metà sentiero Stella vide John Archer seduto sulla panchina. Era in maniche di camicia, e si arrotolava una sigaretta tutto piegato in avanti, con i gomiti sulle ginocchia. Stella non aveva nessuna voglia di parlargli, ma era troppo tardi per tornare indietro. Sentendo i suoi passi sulla ghiaia, John Archer scattò immediatamente in piedi. «Mrs Raphael» disse. «Buon giorno, Mr Archer». Contro il muro era appoggiata una pila di pannelli di vetro. Edgar, in ginocchio, stava togliendo con uno scalpello la malta sgretolata dal basamento della serra. Sentendola arrivare si accovacciò sui calcagni, poi, riparandosi gli occhi con la mano, alzò lo sguardo verso di lei, che si era fermata sul sentiero, a pochi metri di distanza. Non disse nulla, la guardò soltanto, in attesa, senza sorridere, con i capelli che gli cadevano sulla fronte e quella sua espressione di mortale serietà. Stella colse la delicatezza della

situazione. John Archer era tenuto a mostrarle deferenza in quanto moglie di un dottore, mentre Edgar era un paziente, e quindi, rispetto a loro due, quasi un intoccabile. Eppure, in un certo senso, a spingerla nell'orto era stato proprio il suo diretto approccio fisico, quel muto gesto sessuale di un uomo verso una donna. Adesso Edgar si era alzato in piedi, e rimase fermo, sfidandola in silenzio a tradirlo. «Mr Archer,» disse Stella «Charlie potrebbe aiutare gli uomini a fare il falò?». John Archer rispose di sì. «Sa come sono i bambini... Ma se disturba lo mandi via». Mentre risaliva il sentiero inondato di sole immaginava gli sguardi che i due si scambiavano alle sue spalle. Poco prima, incrociando gli occhi socchiusi di Edgar, Stella aveva provato una fitta di eccitazione, ma aveva resistito: non intendeva spingere oltre la sua connivenza. È abile, pensò, e sgradevole, e crede di tenermi in pugno perché gli ho lasciato fare quella cosa al ballo. Scacciò dalla mente quella sordida esperienza. Il fatto che io e lei fossimo amici non facilitò in alcun modo i nostri primi colloqui, anzi. Le inibizioni di Stella erano evidenti. Convinto che, molto semplicemente, si vergognasse di parlare, cercai di farle capire che non aveva alcun bisogno di nascondermi nulla, perché non intendevo giudicarla. Solo qualche tempo dopo mi resi conto che il motivo per cui esitava ad aprirsi con me non era la vergogna, ma l'incertezza circa il mio atteggiamento verso Edgar. Non era sicura che sarei riuscito a capire quello che lei aveva fatto, e soprattutto il perché: temeva che avrei dato la colpa a lui. Appena lo intuii, riuscii a convincerla che non intendevo giudicare neppure Edgar, perché in quanto psichiatra, le dissi, i giudizi morali non mi interessavano. Era una rassicurazione di cui Stella sembrava avere estremo bisogno. Da quel momento in poi, infatti, cominciò a parlare, e fu come se si fosse aperta una diga da cui l'intera vicenda si rovesciò in un diluvio di dettagli. Era con Charlie nel prato dietro casa. Stava leggendo un romanzo, ma ogni tre secondi alzava lo sguardo in preda a una certa inquietudine, perché Charlie era inginocchiato sul bordo dello stagno dei pesci rossi e guardava nell'acqua. Lo stagno era profondo, e non le piaceva affatto che Charlie stesse lì, ma si sforzava di non essere troppo protettiva. Era tutta l'estate che Charlie trafficava con anfibi di varie specie, che teneva in una serie di

acquari in cortile. Max gli aveva detto che sarebbe stato felice se fosse diventato uno zoologo. A Stella gli anfibi non piacevano, così come non le piaceva vedere Charlie zampettare intorno allo stagno in quel modo, ma proprio mentre stava per dirgli di allontanarsi sentì il telefono che squillava. «Stai lontano dal bordo» gli disse, poi attraversò il prato ed entrò dalla portafinestra. La stanza di Edgar era al piano terra del Reparto 3. A un'estremità del padiglione c'era la stanza comune e all'estremità opposta, vicino al locale degli infermieri, due piccoli parlatori, in uno dei quali c'era un telefono. Come Edgar fosse riuscito a trovare il modo di usarlo non l'ho mai capito. Certo corse un grave rischio, perché se fosse stato scoperto avrebbe perduto all'istante il privilegio della semilibertà. Dato che tutte le chiamate interne passavano per il centralino, immagino si sia fatto passare per un infermiere che voleva parlare col dottor Raphael. Quando pochi minuti dopo Stella tornò fuori non era ben sicura di cosa fosse successo. Edgar si era scusato per il suo comportamento, ed era stato così spiritoso, e così, oh, così adulto che tutto sommato lo trovava di nuovo simpatico. Lui le aveva ricordato la loro amicizia, alludendo di sfuggita al fatto che non toccava una donna da cinque anni. Non era mica scemo, il mio Edgar. Disse che quello che aveva fatto era imperdonabile, ma che le era grato di non aver detto nulla. Né in quel momento né in seguito Stella pensò di dover riferire a Max della telefonata, non più di quanto pensasse di dovergli raccontare quello che Edgar le aveva fatto al ballo. Quando tornò fuori Charlie era ancora sul bordo dello stagno. Le urlò che forse c'erano delle bisce. Stella andò a sedersi e riprese il suo romanzo. Charlie si stava sporgendo pericolosamente sull'acqua, tenendosi al bordo con una mano mentre con l'altra esplorava il fondale, ma lei non gli disse di allontanarsi. La sua mente cominciò quasi subito a vagare. Seduta all'ombra del vecchio frassino Stella guardava senza vederla la casa, le portefinestre del soggiorno, e più oltre l'anticamera, e in fondo all'anticamera la porta di casa, che si vedeva anche da lì, e più oltre ancora il viale, gli alberi e il Muro. Si sentiva sollevata, in pace con se stessa, come se il tumulto nell'ordine delle cose provocato dal quel pene indocile fosse stato sedato, e la sua amicizia con Edgar recuperata. II In quella fase Stella non si rendeva ancora pienamente conto che Edgar

Stark soffriva di gravi disturbi mentali. Non aveva passato, come me, ore e ore ad ascoltare i suoi deliri morbosi, e benché avesse appreso dalle sue labbra quello che aveva fatto continuava a giustificarlo, a ritenere quell'omicidio soltanto un delitto passionale, il che naturalmente le consentiva di farsi di lui un'immagine romantica. Appena Edgar lo intuì cambiò subito tattica, ma in un primo momento credo avesse un obiettivo più circoscritto: influenzare, attraverso Stella, Max, portandolo a considerare con un certo favore l'eventualità di un suo rilascio. In questo, Edgar dimostrava tutta la sua ingenuità, perché le cose non funzionano così. Dal mio punto di vista, l'aspetto più interessante era comunque che Edgar si comportava in modo manipolatorio, e che almeno all'inizio aveva cercato di usare la sua notevole sensualità come strumento di controllo: il fatto poi che questo controllo avesse deciso di esercitarlo sulla moglie di un dottore era un segno della debordante megalomania dei suoi piani. All'inizio del nostro rapporto avevo discusso con lui la strategia psicoterapeutica che intendevo adottare. Gli avevo detto che il mio scopo era smantellare le sue difese: abbattere la facciata, gli atteggiamenti, tutte le false strutture della sua personalità disturbata, per poi ricominciare da zero, ricostruendolo, per così dire, dalle fondamenta. E siccome sarebbe stato un processo lungo ed estenuante, avrebbe avuto bisogno di tutto l'appoggio che potevo dargli. Lavoravamo insieme da quasi quattro anni, ma adesso questa sua relazione clandestina con Stella denotava una certa malafede nei miei confronti. Anziché tentare di analizzare le caratteristiche patologiche dei suoi rapporti con le donne, Edgar stava innescando il processo che già una volta lo aveva condotto all'omicidio, e che era stato la causa del suo arrivo da noi. Poi successe qualcosa, qualcosa che credo nessuno dei due avesse previsto, se non altro a livello conscio: Edgar e Stella sottovalutarono - come può capitare a chiunque in circostanze analoghe - la violenza dei sentimenti che si scatenarono in lei. In sostanza, non si resero conto che le barriere della cautela e del senso comune minacciavano di crollare, travolgendo il loro fragile equilibrio. Parlare di sesso con una persona come Stella, che ovviamente trovava sgradevole chiamare le cose col loro nome, non era facile. Eppure, quando mi raccontò com'era cominciata, lo fece senza risparmiare i dettagli. Era successo tutto nel primo pomeriggio di un'altra limpida, luminosa, calda giornata estiva. La luce del sole filtrava dalle finestre delle grandi stanze al

pianterreno, facendo brillare il parquet tirato a lucido. Stella gironzolava per casa a piedi nudi, passando da una stanza all'altra senza trovar pace. A un certo punto si fermò davanti allo specchio sopra il camino e squadrò con severità la sua immagine riflessa. Si diede una sistemata ai capelli, poi salì in camera a cambiarsi; mise un morbido vestito estivo, leggero e scollato; una passata di rossetto davanti allo specchio della toilette e tornò di sotto. Andò alla portafinestra che dava sul prato e guardò fuori; poi si versò da bere. Quella mattina, Edgar le aveva proposto senza tante cerimonie di andare nella serra con lui. Agitatissima, Stella aveva imboccato di corsa il sentiero ed era tornata a casa. Sesso con quell'uomo: espressa a chiare lettere, l'idea che da tanto tempo si agitava nella sua immaginazione aveva una forza devastante. Uscì di casa dalla porta principale e attraversò il vialetto. Un'apertura nell'alta siepe di fronte dava su quello che un tempo era stato un grande prato, ma ora, da quando nessuno se ne occupava più, era diventato una distesa di erbacce e fiori selvatici. Stella la attraversò, dirigendosi verso l'arco che si apriva nel muro dell'orto vicino alla serra, e quando lo raggiunse si fermò in attesa, con la schiena appoggiata ai mattoni. Sentiva Edgar lavorare. Sentiva il vetro andare in pezzi nel bidone. Sapeva che lui non ci avrebbe messo molto ad accorgersi della sua presenza sotto l'arco, perché avrebbe visto la sua ombra sul sentiero; ma dubitava di poter resistere a lungo così lì. Da un momento all'altro avrebbe probabilmente trovato ridicolo quello che stava facendo, e sarebbe tornata di corsa a casa. Silenzio. Poi vide Edgar di fronte a lei. Senza dire una parola, Stella lo trascinò nella serra. Gli prese la testa fra le mani, le guance fra le dita, e lo baciò con foga sulla bocca. Si gettarono sul pavimento, nascosti alla vista dal basso muro di pietra su cui poggiava la struttura. Lei si sistemò rapidamente per terra, mentre lui si inginocchiava sbottonandosi i pantaloni. Qui usai una certa delicatezza. Non potevo forzare apertamente la sua riluttanza a parlare di quello che accadde poi. Ci saremmo tornati più avanti. Immagino comunque sia stato tutto piuttosto primitivo, un misto di smania famelica e di istinto. Immagino che Edgar l'abbia presa subito, e brutalmente, e che fosse quello che lei voleva; era avida quanto lui, nessuna timidezza ormai, nessuna esitazione. E immagino che sia finito abbastanza in fretta, e che subito dopo Stella, rossa e bollente, sia corsa in casa e sia salita dritta in bagno. Conosco quel bagno. I pezzi originali sono intatti. La grande vasca ha i rubinetti di ottone annerito, e poggia con le quattro zam-

pe leonine sul pavimento di mattonelle stinte. Una felce, rigogliosa nell'aria densa di vapore della grande stanza umida, deborda dal vaso di terracotta vicino alla porta, e subito accanto c'è la grande cesta di vimini per la biancheria. L'acqua scrosciava dai rubinetti. Stella si spogliò ed entrò nella vasca, sentendo a poco a poco la febbre placarsi. Ci rimase un'ora, con gli occhi chiusi e la mente vuota, anche se non del tutto, perché sotto la superficie si agitava la consapevolezza di ciò che aveva appena fatto. Rivedere quella scena, o anche solo ammettere di averla vissuta, le era intollerabile; ma ci sono forme di esperienza mentale che sfuggono al meccanismo della rimozione, e in quelle oscure regioni della sua psiche Stella non poteva non chiedersi se, avendolo fatto una volta, l'avrebbe fatto di nuovo; e benché in realtà non si ponesse il problema in questi termini (li avrebbe respinti con sdegno se si fossero affacciati alla sua coscienza), sapeva con certezza, la certezza che accompagna ogni pensiero intollerabile, che la risposta era sì. Qualche ora dopo Stella era seduta nel prato all'ombra del frassino, in una poltrona di vimini bianca, con un bicchiere in mano e il romanzo in grembo, quando sentì Max alla porta. Entrò in casa, traversò l'anticamera e gli aprì; sembrava che avesse qualche problema con le chiavi. In abito scuro, con la cravatta allentata, Max era stanco e accaldato, e soprattutto moriva dalla voglia di bere qualcosa. «Giornataccia» disse. Alle sue spalle, in fondo al vialetto, i pini si stagliavano in una massa scura contro il cielo della sera. Stella lo abbracciò con un calore per lei insolito, e mentre lo faceva pensò che per spingere un'adultera fra le braccia del marito non c'è niente di meglio di un bel senso di colpa. «Ehi» disse Max mentre lei gli si aggrappava come una donna alla deriva, una donna che sta per annegare «Che succede?» Stella andò davanti allo specchio sopra il camino spento e si aggiustò i capelli, cercando di cogliere sul proprio volto una qualche traccia di peccato. «Niente. È che oggi mi sei mancato, tutto qui». «E come mai?» Si voltò a guardarlo. Nella sua voce c'era una curiosità autentica, e Stella sentì di avere improvvisamente di fronte lo psichiatra, non l'uomo, o meglio vide distintamente l'uomo rientrare nell'ombra, lasciando che lo psichiatra venisse allo scoperto per esaminare quel frammento della sua vita

psichica alla ricerca di un significato. Fu allora, in quel momento, che Max diventò il suo nemico. Adesso Stella era certa che se avesse abbassato la guardia lo avrebbe fatto a suo rischio e pericolo. E sentiva di dover usare tutta l'astuzia di cui era capace per celare il suo esplosivo segreto allo sguardo di chi era ormai, da pochissimo, un estraneo: un estraneo con una micidiale capacità di insinuarsi nella mente altrui e interpretarla. Se non rimarrò costantemente sul chi vive lo scoprirà senza neanche sforzarsi troppo, pensò mentre versava da bere per tutti e due. E lo scoprirà non per una mia banale distrazione, ma leggendomi nel pensiero - leggendomi come un libro, un libro scritto con frammenti di comportamento, sfumature passeggere di espressione, atti mancati di cui io non mi renderò nemmeno conto. Ah, devo stare attenta, d'ora in poi devo stare molto attenta. Questo pensava Stella. Ma per mettere a punto una politica di dissimulazione aveva ancora un po' di tempo, perché Charlie entrò di corsa e, senza aspettare di riprendere fiato, cominciò a raccontare a suo padre di un osso che aveva trovato nell'acquitrino. «Penso che sia umano» disse. «Non credo proprio» rispose Max con un sorrisetto. «Secondo me ci potrebbe essere stato un omicidio» fece Charlie con aria tenebrosa. Stella si avvicinò alla portafinestra, guardò il sole che calava e si concesse di pensare al suo amante. Nei tre giorni successivi ci pensò a intermittenza, senza mai scendere nell'orto. Una sera, a cena, Max lo nominò, facendola trasalire. Era riuscita a nascondere lo shock, lo shock che aveva provato nel sentire quel nome sulla bocca di Max? Stella pensava di sì. O forse Max si era distratto; gli capitava spesso di avere la testa altrove. In ogni caso, Max disse che per qualche giorno Edgar Stark si sarebbe occupato del giardino del cappellano. Grazie al cielo, si disse Stella, adesso non dovrò immaginarlo sempre qua fuori. Dopo qualche giorno di ansia terribile cominciò a sentirsi più calma. Pensò fosse il sollievo che si prova dopo uno scampato pericolo. Fu sorpresa di scoprire in sé un affetto nuovo per Max, e si rese conto che gli era grata perché non aveva sospettato nulla, perché senza volere le aveva concesso di seppellire il suo colpevole segreto. E così il primo, violento shock per quella spaventosa trasgressione - fare sesso con un paziente, a neanche cinquanta metri da casa - cominciò ad attenuarsi, e Stella si disse che era stato solo un momento di follia, nient'altro; e che, naturalmente, non si sa-

rebbe più ripetuto. Eppure la preoccupava l'idea che prima o poi Edgar sarebbe ritornato in giardino, e che allora, volendo, avrebbe saputo dove trovarlo. Adesso che si stavano avvicinando alla fase dell'organizzazione e della struttura, Stella, com'era prevedibile, cominciò a creare nella sua mente una sorta di arabesco, una griglia di pensieri e sentimenti il cui scopo era riportarla da lui. Mi raccontò che un caldo mattino di luglio uscì a bere il suo tè sulla terrazza a nord della casa, guardando da sotto l'elegante cappello di paglia i pazienti che svuotavano nel falò le carriole cariche di legna secca e altri rifiuti sparsi nel campo. Abbandonato da anni, quel terreno ampio, coperto di bassa vegetazione, si appiattiva gradualmente, per poi risalire oltre il recinto fino alla macchia di alberi decidui che, coronando la cima più lontana, segnava il limite della foresta. Il progetto di Max era farlo ripulire per mettere un manto nuovo. Aveva in mente di seminarlo a pascolo, un'idea che turbava Stella perché lasciava supporre che sarebbero rimasti in quella casa più a lungo di quanto lui le aveva fatto credere. Le sembrava che in realtà la vera ambizione di Max fosse addomesticare e coltivare sia l'ospedale che la tenuta, fino a farne i suoi giardini gemelli. I pazienti continuavano a lavorare sodo. La legna stagionata prendeva subito, e bruciava nel sole sollevando spruzzi di scintille bianche e oro. Stella vide gli uomini gettare nel fuoco mucchi di erba secca, e fare un passo indietro quando cominciarono a sprigionarsi nubi di fumo nero. Adesso erano tutti a qualche metro dal falò, e lo tenevano d'occhio appoggiati ai forconi. Uno di loro si voltò, e riparandosi gli occhi dal sole guardò in alto, verso la cima del pendio, dove Stella era in piedi col suo cappello di paglia e la tazza di tè. Lei gli restituì lo sguardo. In quell'occasione, Stella era rimasta sconcertata dal proprio comportamento, e mi domandò cosa potesse significare. Non aveva fatto nemmeno un gesto, era solo rimasta ferma a guardare quell'uomo. Lui aveva afferrato le maniglie della carriola e l'aveva spinta su per il pendio, senza andare direttamente verso di lei, ma prendendo invece il sentiero che arrivava alla porta del recinto. Aveva i bragoni di fustagno delle squadre di lavoro e la casacca azzurra dell'ospedale, coi polsini slacciati. Si fermò per togliersi un ciuffo di capelli dalla fronte e si asciugò il sudore con un fazzoletto bianco e rosso che le era certamente familiare, perché Edgar ne aveva uno identico. Stella non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, e lui lo sapeva. Cominciò a sventolarsi piano piano col cappello; poi, irritata, si girò e rien-

trò in casa. Non le dissi che, in funzione del suo rapporto con Edgar, aveva cominciato non solo a identificarsi con i pazienti, ma a erotizzarli. Aveva erotizzato il corpo del paziente. Edgar lavorò per tutta la settimana nel giardino del cappellano, e tornò alla serra il lunedì successivo. Stella sapeva che era lì, lo sentiva lavorare, e sapeva cosa doveva fare. Aspettò che Max andasse in ospedale e che Charlie uscisse a fare un giro in bicicletta. Aveva deciso di trattarlo con freddezza quando lo avesse rincontrato, per fargli capire che considerava quanto era successo un errore di cui non avrebbero dovuto parlare mai più, e che naturalmente non si sarebbe ripetuto. D'ora in poi avrebbero mantenuto un contegno consono alle loro rispettive posizioni. Anche Edgar sarebbe stato d'accordo, ne era certa. Attraversò il cortile ed entrò nell'orto. Edgar era lì, e vedendolo Stella sentì il suo cuore cantare. Con Stella c'era sempre di mezzo il cuore, il linguaggio del cuore. Edgar era in piedi davanti al vecchio tavolo da vasaio che usava per i lavori di falegnameria, e le dava la schiena; e anche se doveva averla sentita sul sentiero non si mosse finché non fu vicinissima. Poi si girò di colpo. Ora erano in piedi l'uno di fronte all'altra. Stella tremava. Lui le sfiorò la guancia, sorridendo della sua agitazione. «Grazie al cielo». Stella si appoggiò al muro, che le trasmise il suo tepore attraverso la camicetta. Resistere alla tentazione era impossibile, tutto qui. Era perduta. Edgar appoggiò le sue grandi mani sul muro, ai lati della testa, e si piegò in avanti, la faccia vicinissima alla sua. Stella lo guardò freddamente negli occhi, ma i suoi pensieri erano tutt'altro che freddi. Gli afferrò la casacca, aggrappandosi con tutte le sue forze. «Mi hai pensato?» Lui annuì. Stella lo attirò a sé, e mentre si baciavano sentì la mano di Edgar posarsi prima sul seno, poi sui fianchi, poi scendere ancora. «Non qui» sussurrò. Lui fece un passo indietro, e Stella si allontanò dal muro. Arrivata sotto l'arco si voltò: in piedi davanti alla serra, Edgar si stava pulendo le dita su uno straccio, senza toglierle gli occhi di dosso. Stella attraversò il campo fino alla macchia di pini. Non c'era nessuno. Si inoltrò fra gli alberi e andò a stendersi tra le felci. Poi sollevò una mano per ripararsi gli occhi dal sole che filtrava tra i rami.

Lo stava aspettando con la camicetta sbottonata, quando sentì le voci. Si mise a sedere. Non riusciva a distinguere le parole, ma erano voci maschili, e venivano dal campo. Trattenne il respiro. Aveva capito cos'era successo: Edgar aveva incontrato John Archer, e i due si erano fermati a parlare mentre lei era nascosta lì, sotto gli alberi, a venti metri da loro. Qualche attimo dopo Stella si trovò a lottare contro un impulso bizzarro: le scappava da ridere. Voleva urlare tutta la gioia sfrenata che le dava quella situazione così indecente ma anche, in tutta franchezza, così comica, perché non riusciva a non pensare come l'avrebbe presa Max, cosa avrebbe detto vedendo sua moglie nascosta nel bosco, mezza nuda, privata dei suoi pochi, furtivi momenti di piacere solo perché un infermiere aveva casualmente intercettato Edgar Stark, impedendogli di raggiungerla. Poco dopo le voci scemarono. Stella sgattaiolò fuori dal bosco e raggiunse il vialetto che la riportò a casa. Salì subito al piano di sopra a farsi un bagno, e quando scese in salotto per bere qualcosa era ancora un po' stordita. Si sedette in poltrona con un libro, il bicchiere in mano, e si accese una delle sue rare sigarette. Ancora una volta la sua reazione l'aveva stupita. Perché mai le era venuto da ridere? Cosa significava? Sapeva benissimo cosa sarebbe successo se fosse stata scoperta, e ridere era come dire che non gliene importava nulla. Questa era la sua interpretazione. La mia era che invece c'entrasse, in qualche modo, la rabbia. Quale rabbia? La rabbia verso Max. Le dissi di non avere molti dubbi sul fatto che il suo comportamento fosse legato al desiderio di ferire Max. Scosse la testa. Non credo, Peter, disse. Ma io sospettavo in lei un consistente fondo di rancore, anche se, dato che non era ancora pronta a parlarne, evitai di insistere. Ci saremmo arrivati. La fase successiva sarebbe stata l'organizzazione. Fissare tempi e luoghi, dar loro una struttura. A complicare il tutto, naturalmente, c'era il fatto che Edgar godesse di una libertà di movimento così limitata, ma all'interno di quei limiti i due riuscirono comunque a trovare tempi e luoghi, ci si riesce sempre; e insomma sì, si organizzarono. Il giorno dopo l'interferenza di John Archer si incontrarono alla serra, e Stella disse a Edgar che dovevano inventarsi qualcosa. Lui era al banco da lavoro. Rimase in silenzio a lungo. «Allora vuoi che continuiamo a vederci?» disse alla fine.

Stella era seduta sulla panchina all'ombra del muro, con il cappello di paglia e gli occhiali da sole. Sollevò la testa e annuì. Lui sembrò barcollare impercettibilmente e tornò al lavoro. «Archer» mormorò. Stella gettò qualche fiore nel cestino che aveva con sé, poi si alzò in piedi e riprese il sentiero verso casa, lungo il quale, annunciato dallo scricchiolio della ghiaia sotto gli stivali, veniva avanti John Archer. Stella si sforzò di comportarsi con naturalezza. «Buon giorno, Mr Archer. Complimenti per i pomodori. Belli e dolci». Archer annuì con aria affabile e disse qualcosa sulle insalate estive. Stella si domandò che cosa, in quel suo sguardo fermo, la mettesse in allarme. Forse niente. Forse solo il suo senso di colpa, a parte il fatto che Archer aveva l'abitudine di aspettare che parlasse l'altro, creando un silenzio che andava riempito; e Stella si sentiva a disagio con gli uomini che si comportavano così. In questo caso, comunque, il suo disagio era giustificato. John Archer mi riferiva tutto. Aveva un occhio molto acuto e una mente subdola, subdola quasi quanto quella di Edgar; mi aveva messo al corrente fin da subito di quella loro amicizia sempre più stretta. Forse sbagliai, ma avevo deciso di non intervenire. Ero curioso. Edgar non vedeva una donna da cinque anni. Il nostro campo da cricket è un'ampia distesa di terreno piatto fiancheggiata dai pini e chiusa su un lato dalla strada interna, nel tratto che costeggia il giardino dei Raphael risalendo verso il Cancello. Oltre gli alberi, dalla parte dell'ospedale, c'è un'altra strada secondaria che scende passando vicino al Muro e gira intorno alla casa del cappellano prima di attraversare gli acquitrini. Subito sopra questa strada, in una posizione che domina il campo da cricket sorge, all'ombra dei pini, il capanno. È una graziosa costruzione in legno, un po' vecchiotta, con il tetto di assi e un galletto segnatempo. Sul davanti c'è la veranda ombreggiata dove ci sediamo a guardare le partite, e dentro uno stanzone fresco e tetro con un bar. Quell'estate c'era sempre una squadra di pazienti al lavoro nel giardino del cappellano, il quale, come Max, si era imbarcato in una serie di progetti che comprendevano la costruzione di una serra. Edgar era il miglior carpentiere che avessimo nelle squadre di lavoro esterno, e quindi c'era spesso bisogno di lui. Poteva andare da un giardino all'altro senza scorta, e per scendere la collina prendeva un sentiero che passava vicino al capanno, di cui Stella, in quanto membro del comitato del cricket, aveva le chiavi. Ecco, adesso era tutto organizzato. Si sarebbero visti là.

Nei momenti di lucidità, Stella analizzava freddamente quello che stava facendo. Una sera, mi raccontò, era uscita per fare quattro passi al chiaro di luna. Era arrivata allo stagno dei pesci rossi, si era seduta sul bordo a guardare le forme grasse, vaghe e argentate scivolare tra i gigli nell'acqua nera, e aveva pensato con un sorriso alle bisce di Charlie. Aveva guardato la luce che dalle portefinestre del soggiorno si riversava sul prato, e più sopra, nel buio, le finestre aperte della camera di Charlie, con le tende che fluttuavano leggere nella brezza, e all'improvviso l'idea della sua vita familiare le era sembrata commovente. Era una vita protetta, e il suo comfort, il suo senso e il suo ordine erano strettamente connessi a Charlie e al suo benessere. Quindi non riuscì a non pensare all'avventura che si stava concedendo, e d'improvviso si rese conto con assoluta chiarezza che se vi si fosse abbandonata avrebbe messo a rischio proprio quell'ordine. Per la prima volta sentì un brivido di paura. Fu una sensazione che non l'abbandonò per giorni, bloccando ogni ulteriore sviluppo. Ma Stella non riusciva comunque a trovar pace. Un mattino imboccò il vialetto, attraversò la strada e si diresse verso il campo da cricket. Era l'ennesima giornata calda e luminosa di quell'estate, e in mezzo al campo, in pieno sole, due pazienti coi bianchi cappelli flosci e la casacca arrotolata intorno al petto spingevano sudando avanti e indietro il grande rullo. Passando non vista, o almeno sperava, sotto i pini, Stella fece il giro del campo e arrivò al capanno. Sul retro c'era una rimessa vuota dove veniva tenuto il rullo. Dentro, nel buio, si sentiva odore di erba tagliata e di terra. Alla fine Stella trovò proprio quello che cercava, una finestrella raggiungibile dal tetto della rimessa. Tornò sul davanti e salì i gradini di legno che portavano alla veranda. I pazienti al lavoro erano due macchie indistinte nel sole, e non c'era traccia di infermieri. Stella si girò verso la porta del capanno e la aprì. Dentro c'erano alcune sdraio appoggiate contro il muro. Un unico raggio di sole penetrava il buio, illuminando un pezzo di parquet sul quale, negli anni, le scarpe da cricket dei giocatori che uscivano dallo spogliatoio avevano impresso centinaia di cerchietti. Nello sgabuzzino Stella trovò coperte e cuscini, che sistemò sul pavimento. E mentre contemplava quel letto di fortuna si era resa improvvisamente conto, con stupore, di ciò che stava facendo: stava progettando di portare lì un uomo per fare sesso con lui. E non un uomo qualsiasi; un paziente. Il tuo paziente, Peter. Scappò via, chiudendo a chiave e tornò a casa, dove trovò Mrs Bain che trafficava

in cucina. Quel giorno, e l'indomani, non si avvicinò neppure all'orto, benché sentisse benissimo Edgar martellare e segare. Alla fine una reazione aveva preso il sopravvento sulle altre. Era una specie di torpido raccapriccio, e secondo Stella si era manifestato per la prima volta la notte che si era seduta sul bordo dello stagno e aveva percepito il calore e la sicurezza che la casa pareva offrirle. Ma come tutte le reazioni nascoste nel profondo della psiche si manifestò con estrema lentezza, tanto che quando affiorò alla coscienza era diventata troppo ingombrante e venne vissuta, più che come apprensione, come orrore: orrore al pensiero stesso di mettere a repentaglio non solo la propria sicurezza, ma anche quella di Charlie. E insidiare la felicità del ragazzo le sembrava davvero un atto crudele e irresponsabile. Com'è tranquillo, a volte, ricorda di aver pensato vedendolo tornare a casa quel pomeriggio. Aveva voglia di stargli vicino, e mi disse che guardandolo si era sentita in colpa per quello che aveva immaginato la mattina nel padiglione, come se fosse stata infedele a lui. Ma scusa, provai a dirle, in cosa credi che consista il tradimento? Nell'andare a letto con qualcuno, o nella possibilità di distruggere, andandoci, la felicità di qualcun altro? Non è mai il fatto nudo e crudo, sono le conseguenze che avrebbe se si venisse a sapere: l'atto in sé è insignificante. In linea di principio Stella era d'accordo con me, ma nulla di tutto ciò aveva più importanza; adesso l'unica cosa che importava era garantirsi la segretezza più assoluta. E proprio a questo stava pensando seduta sotto il frassino. Charlie, al sole, si era messo a pancia in giù sull'erba, e appoggiato sui gomiti, con i capelli che gli ricadevano sugli occhi, fissava serissimo il suo libro: poi, come se fosse riuscito a sentire i pensieri di Stella, alzò improvvisamente lo sguardo. «Mami». «Sì, amore». Qui Charlie si produsse in una straordinaria contorsione fisica, come se stesse pensando con tutto il corpo un pensiero particolarmente complicato. Si rotolò a metà su un fianco e guardò il cielo, un braccio paffuto dietro il collo, una mano serrata sul mento, l'altra sollevata, con le dita aperte contro il sole. «Ho inventato una battuta». «Dimmi...». «Chiedimi perché quel giorno sono caduto dal melo». «Perché quel giorno sei caduto dal melo?». «Perché ero maturo».

«Molto divertente». Non poteva stare lontana da Edgar. Ce la metteva tutta, va detto, e per un attimo, se si fermava a soppesare le possibili ripercussioni di quello che stava facendo, provava un cupo sgomento. Ma era una reazione passeggera. Sentendolo così vicino Stella non riusciva a controllare la continua, instancabile frenesia della propria immaginazione. Il mattino successivo, dopo che Max era andato in ospedale, si spinse di nuovo fino all'arco nel muro dell'orto. E lo sentì tornare, quello stato di grazia cui riusciva a pensare solo come a un'intossicazione. Edgar era dalla parte opposta, vicino alla serra, dove aveva appoggiato su due cavalietti vicino al tavolo da lavoro un pezzo di legno che stava segando con colpi rapidi, e apparentemente senza sforzo. Quando Stella arrivò a metà sentiero la sentì, si voltò e rimase a guardarla mentre si avvicinava. «Continua pure a lavorare» disse Stella con calma, avvicinandosi. «Non ti fermare per me». Ma Edgar non continuò a lavorare. Tirò fuori la scatola del tabacco dalla tasca dei pantaloni, si sedette sulla panchina vicino al muro e si arrotolò una sigaretta. Stella andò a sederglisi vicino. «Sono stata al capanno» disse. «Lo so». Aveva un tono sardonico. «Come fai a saperlo?». «Uno degli uomini ti ha visto». Questo avrebbe dovuto allarmare Stella. Ma non la allarmò. «Puoi venirci oggi pomeriggio?» gli chiese. Lui si fermò un momento, accennando un sorriso mentre leccava il bordo della cartina. Si stava godendo l'impazienza che aveva suscitato in quella donna pallida e appassionata. Lei se ne accorse, e gli fece una carezza. «Puoi?» mormorò. «Sì». Stella cercava di nascondergli la sua eccitazione, più forte a ogni parola che si scambiavano. Adesso sentiva il fustagno dei pantaloni di Edgar contro le gambe nude. Era stupido correre rischi nell'orto, ma lo baciò lo stesso. Quel pomeriggio si incontrarono nel capanno del cricket. Eliminarono rapidamente l'impaccio della polvere e della scomodità, fabbricando coi cuscini e le coperte una specie di letto. Poi si spogliarono a vicenda e si

buttarono per terra. Sul sesso Stella tendeva a non dilungarsi. Diceva soltanto che era naturale e intenso, per tutti e due, e che lei non aveva mai provato nulla di simile, nulla di simile alla vigorosa lotta cui i loro corpi si abbandonavano con tanta immediatezza e tanta forza. Dopo, Edgar aveva preso del whisky da una bottiglia dietro il bancone, riempiendo la fiaschetta piatta di metallo che portava in tasca. Stella si era un po' agitata, perché le era sembrato un rischio inutile. «E se se ne accorgono?». Edgar attraversò la stanza e andò a inginocchiarsi sul loro letto improvvisato, dove Stella era seduta, languida, calda e scompigliata. Poi le prese il viso tra le mani e la baciò. Stella lo vedeva come una specie di adorabile canaglia. Non riusciva a contraddirlo. Non era capace di contrastarlo in nessun modo, non era possibile, perché ormai si era arresa, spingendo così a fondo l'identificazione da sentirsi incompleta senza di lui. Capiva cosa stava succedendo, si stava innamorando, e non voleva fermarsi. Non poteva, mi disse. Per questo non si oppose al suo furto, perché aveva assunto lo stesso atteggiamento di sprezzo del pericolo di Edgar e lo aveva razionalizzato. Qualche giorno dopo, quando lui le chiese dei soldi, gli diede tutto quello che aveva nel borsellino. Aveva perso il controllo. Non si controlla un innamoramento, mi disse, non è possibile. E la divertiva che fosse potuto accadere in questo modo, con quest'uomo. Un paziente. Un paziente che lavorava nell'orto. Stella, le dissi, non potevi fare una scelta più scriteriata. La verità, mi rispose, è che non ho scelto affatto. A casa cercava di funzionare nel modo più normale possibile, ma era come se fosse da un'altra parte. A poco a poco, le sue giornate cominciarono a concentrarsi sul momento in cui, sempre più eccitata, aspettava al buio nel capanno del cricket di sentire gli scarponi di Edgar che si arrampicava sul muro, e da lì sul tetto della rimessa, per poi infilarsi nella finestrella e saltare sul pavimento. Poi veniva verso di lei con un sorrisetto, verso di lei che lo aspettava, pronta per lui, sulle coperte, e le si gettava addosso, e lei si perdeva completamente mentre lo cercava, mentre sentiva le sue mani forti sul suo corpo. Oh, sì, lo amava. Chissà. III

Ormai mi è chiaro che la visita, quell'estate, di Brenda Raphael, la madre di Max, contribuì stranamente a far precipitare la situazione. Brenda arrivò alla residenza del vicedirettore un venerdì pomeriggio di inizio agosto, cinque o sei settimane dopo il ballo. C'ero anch'io. Avevo finito prima del solito, in ospedale, e tornando a casa ero passato a trovare Stella. John Archer mi aveva appena riferito della sua amicizia sempre più intima con Edgar Stark, e naturalmente volevo parlarle. Ma non era stato possibile, perché Stella mi aveva subito detto che sua suocera sarebbe arrivata da un momento all'altro. «Mi sono offerta di andarla a prendere alla stazione,» mi raccontò facendomi accomodare in soggiorno «ma no, ci mancherebbe, non ha assolutamente voluto che mi disturbassi. Lo ha detto come se fossi, non so, una specie di invalida, che a ogni spostamento rischia di lasciarci le penne». Bevemmo qualcosa in giardino, ma Stella era distante, turbata. Lì per lì non collegai il suo umore all'eco attutita dei vetri infranti e delle martellate che arrivava fino a noi, nell'aria immobile, dalla parte dell'orto. Cinque minuti dopo sentimmo una macchina sul vialetto. Andammo nell'anticamera per aprire la porta proprio nel momento in cui il tassista depositava a terra la prima delle molte valigie di Brenda, e la loro proprietaria scendeva dalla portiera posteriore. Brenda era una donna sofisticata e dispotica, oltre che ricca. Ero venuto casualmente a sapere che aiutava Max e Stella a mantenere anche qui un certo tenore di vita, e in particolare che la loro macchina - una Jaguar bianca, nientemeno - era stata il suo regalo per la nomina di Max a vicedirettore. Brenda mi telefonava spesso, un po' perché io e lei ci capivamo e un po' perché contava su di me per avere notizie fresche di suo figlio. Con regale noncuranza Brenda pagò il tassista facendogli cenno di tenere il resto. «Peter,» disse «che gioia. Stella, cara, ti vedo proprio bene». Si scambiarono un bacio, e Brenda entrò in casa. Era vestita alla moda, e sapevo che Stella le invidiava la sua vita a Londra e l'aura chic che, come sempre, Brenda emanava. «Se non vuoi salire subito in camera potremmo andare a bere qualcosa in giardino» disse Stella. «Oh, magnifico, magnifico. Senti Peter, non sognarti di scappare solo perché sono arrivata io. Dov'è Charlie?». «Giù agli acquitrini, credo» rispose Stella «oppure nella serra». Brenda inarcò un sopracciglio sottile e meticolosamente depilato. «Poteva anche venire a salutare sua nonna; è proprio figlio vostro. Max non era

certo molto diverso. A proposito, come sta Max?». E si lasciò cadere in una poltrona, accavallò le gambe eleganti e prese le sigarette dalla borsa. «Molto occupato» disse Stella «Contento, mi pare. Si trova bene, qui». «Lo temevo. Difficile che Max faccia il passo più lungo della gamba, ve ne sarete accorti anche da soli. E la prospettiva di un lavoro sicuro come questo dev'essergli sembrata a dir poco attraente». «Immagino che il posto di direttore non gli spiacerebbe affatto. Non credi anche tu, Peter?» disse Stella. Io ero di spalle, perché stavo preparando da bere. Trovai quell'insinuazione piuttosto sgradevole e mi irrigidii leggermente, mormorando una vaga protesta. Poi mi voltai per porgere i bicchieri alle signore. «Tu non vorrai rimanere qui, spero» disse Brenda a Stella. Era un'altra conferma di come funzionavano i loro rapporti; Brenda non era una di quelle donne che piacciono alle donne, ma nel corso degli anni lei e Stella erano giunte a una sorta di tacito compromesso, e ora apparentemente erano alleate, almeno su un punto: nessuna delle due voleva vedere Max seppellito in questo istituto di provincia. Passai il gin tonic a Stella, che mi lanciò un sorriso di intesa. «Oh, per un paio d'anni posso anche reggere, ma temo che Max abbia in mente qualcosa di più. Andiamo in giardino? «È questa fìssa del giardino che mi preoccupa» continuò dopo averci fatto sedere nelle poltrone di vimini sotto il frassino. Per la seconda volta in pochi minuti mi resi conto di quanto fosse turbata. Davanti a noi c'era il prato, con lo stagno dei pesci rossi che luccicava nel sole. «Per sistemare bene un giardino ci vogliono anni, e Max ci sta lavorando come se dovesse passarci il resto dei suoi giorni». «Preoccupante». Brenda mi gettò un'occhiata, ma io mantenevo un atteggiamento ostentatamente neutrale. «Adesso sta facendo rimettere a posto la vecchia serra». Era la seconda volta che la nominava. «Spero che ti sbagli. Ma dimmi, cara, tu come stai? A vederti, sei proprio un fiore». Guardai Stella. Un fiore. Non so perché, ma in quella parola ravvisai subito una sfumatura erotica. Fu allora che mi accorsi che quello che stava succedendo a Stella c'entrava col sesso. La scrutai attentamente. «Sto passando un'estate pigra» disse in tono salottiero. «Non ho un granché da fare, in realtà. Certo, la casa è grandissima, ma al mattino viene Mrs

Bain, e in genere lascio che pensi a tutto lei». Scacciò una vespa che ronzava intorno al suo bicchiere. Brenda cominciò a raccontare della sua vita mondana a Londra, e la litania di colazioni, cocktail e cene eleganti era accompagnata dalla solita lamentela di circostanza su come non si facesse che ricevere inviti, e su quanto ci si stancasse, e su quanto poco la gente capisse che il tempo era prezioso. Mentre Stella ascoltava, mormorando che una frenetica vita mondana londinese era la cosa più vicina al paradiso che riuscisse a immaginare, mi domandai oziosamente con chi potesse andare a letto; ma non mi veniva in mente nessun candidato plausibile, almeno qui. «Dovreste farvi vedere più spesso in città» le stava dicendo Brenda. «Tutti ci chiedono vostre notizie. Potreste dormire da me. Magari ce ne andiamo a teatro, e poi a cena». «Verremo presto». Parlarono un po' di Charlie, e alla fine Brenda andò a darsi una rinfrescata prima che Max tornasse dall'ospedale. Mi alzai anch'io, quasi subito, ma Stella approfittò di quei brevi attimi per dirmi in un sussurro concitato che i prossimi giorni sarebbero stati tutti così, un autentico tormento, e che non sapeva come avrebbe fatto a non impazzire. Le espressi tutta la mia solidarietà, riuscendo persino a strapparle un sorriso. Poi ci avviammo verso l'imbocco del vialetto, dove avevo lasciato la macchina, e Stella mi prese sottobraccio. «Peter» disse. Aveva un tono assorto, quasi sognante. «Sì, mia cara?». «Fra quanto uscirà Edgar Stark?». Non era una domanda così insolita, eppure mi fece sobbalzare. Le risposi che, se fosse dipeso da me, ne avrebbe avuto per un bel pezzo. «Perché vuoi saperlo?» le chiesi quando arrivammo alla macchina. «Così. Sta lavorando alla serra di Max. Ci vediamo martedì sera?». «Certo» risposi baciandole la guancia. Il mio Edgar? Alla sera il personale se ne va, e l'atmosfera di questo posto cambia. Sembra un po' un paese di mare quando la stagione è finita e i turisti tornano a casa. A me piace quell'ora, tanto che negli anni ho preso l'abitudine di tornare in studio, nel silenzio del crepuscolo, per riflettere con calma sui fatti della giornata. «Di nuovo qui, dottor Cleave» mi dice ogni volta l'infermiere al Cancello quando ritiro le chiavi.

«Di nuovo qui» gli rispondo. Con il personale di custodia ostento, da sempre, una sorta di distaccata cordialità. A loro piace. Se c'è una cosa che non gli manca, è il senso della gerarchia, e poi mi conoscono bene: sono qui da molto più tempo di chiunque di loro. Il mio studio ha una bella vista sulla campagna, che dà il meglio di sé nelle sere d'estate, quando, al di là del Muro, gli ultimi raggi di luce proiettano sugli acquitrini un bagliore soffice e caliginoso, mentre a occidente il sole al tramonto tinge il cielo di tutte le sfumature del rosso. Un giorno, qualche mese dopo l'arrivo di Edgar in ospedale, ero tornato in studio proprio a quell'ora. Mi ero versato da bere - tengo una piccola riserva sottochiave nella mia scrivania - ed ero rimasto qualche minuto a guardare fuori dalla finestra. Me lo ricordo così bene perché era stato quello stesso giorno, in una seduta di poche ore prima, che Edgar mi aveva lasciato intravedere per la prima volta tutta l'enormità dei suoi deliri, rinunciando a fingere che l'omicidio fosse stato, come in un primo tempo aveva sostenuto, un raptus. Ero andato da lui quel pomeriggio, nella sala comune del Reparto 3. È un locale grande e soleggiato, col pavimento lucido e un tavolo da biliardo al centro. Ci sono poltrone e divani ricoperti in finta pelle verde scuro, e un grande tavolo a un'estremità dove i pazienti possono giocare a carte o leggere il giornale. Dalla parte opposta era appena stato messo un televisore. Edgar stava giocando a biliardo. Era curvo sulla stecca, in posizione, quando qualcuno gli disse sottovoce che c'era il dottor Cleave. Edgar tirò il colpo come se non avesse sentito. «Ah sì?» disse poi, raddrizzandosi. Quindi si voltò verso la porta con un sorrisetto. Io dissi: «Vieni». Ho una registrazione integrale del nostro colloquio, che si svolse in parlatorio e durò quasi un'ora. La prima cosa che Edgar mi raccontò fu che era stato promosso: lo avevano trasferito al piano terra del Reparto 3. Era evidente che senza il mio consenso non sarebbe mai potuto accadere, eppure in questo Edgar era come un bambino, aveva bisogno non solo di prendersi tutto il merito, ma di sentirsi dire da me quanto era stato bravo. Che il paziente proietti sullo psichiatra i sentimenti di un figlio verso il padre è un fenomeno abbastanza comune, e a volte, come nel caso di Edgar, questo tipo di traslazione può essere utile per riportare alla luce materiale rimosso. Appena ci sedemmo accesi il registratore. Fino a quel momento avevo una conoscenza tutto sommato superficiale della personalità che mi trova-

vo di fronte. Certo, Edgar mi aveva accennato ad alcuni dei motivi che lo avevano portato a uccidere sua moglie, ma le sue spiegazioni suonavano a dir poco inverosimili. In molti casi - e questo non faceva in alcun modo eccezione - le costruzioni deliranti si reggono su un'evanescente parvenza di logica. Spinto da morbosi processi inconsci a immaginare che sua moglie lo tradisse con un altro uomo, Edgar si era convinto, primo, che i due usassero un codice per prendere accordi, e secondo, che i loro misfatti lasciassero tracce. Quindi era passato a fabbricare prove sia dei codici che delle tracce, sfruttando episodi banali, come il fatto che Rutti avesse aperto la finestra nel preciso istante in cui in strada passava una motocicletta, o dettagli insignificanti, tipo una grinza sul cuscino o una macchia su una gonna. Come all'inizio di ogni colloquio, gli chiesi se continuava a pensare che sua moglie lo avesse tradito. «Certo». Sembrava sicurissimo di quello che diceva. Si stava arrotolando una sigaretta, gli occhi fissi sulle dita. Annuì più volte. «E per quanto è andata avanti?». Sollevò lo sguardo, e gettò un'occhiata fuori dalla finestra per raccogliere le idee. Leccando il bordo della cartina corrugò leggermente la fronte. Sembrava del tutto ragionevole e padrone di sé. Vidi che stava decidendo di non nascondermi più nulla. «Otto o nove anni». Adesso spero che capirai, diceva la sua faccia. «Edgar, tu sei stato sposato per otto o nove anni». Annuì, con una tristezza del tutto credibile. «Quando hai cominciato ad avere dei sospetti?». «L'ho saputo fin dall'inizio». «Mi stai dicendo che per tutto il tempo che sei stato sposato sapevi che tua moglie ti era infedele?». «Sì». «Con lo stesso uomo?». «No. Ce ne sono stati altri». «Quanti?». Il suo volto si animò all'improvviso. Masticava amaro, ma con un certo gusto, era evidente. «Quanti? Centinaia. Ho perso il conto». «E non hai fatto nulla per impedirlo?».

«L'ho supplicata. L'ho minacciata. Non penso fosse colpa sua. Non era responsabile delle sue azioni». Cominciò a passarsi le dita fra i capelli. «E non è servito?». «Mi ha riso in faccia». «Capisco». Rimasi qualche istante in silenzio. I rapporti che avevo letto dicevano che il matrimonio era stato relativamente stabile fino a un anno prima dell'omicidio, ma poteva darsi che fossero inesatti. Forse Ruth Stark aveva avuto davvero tanti amanti. Forse Edgar aveva cominciato a tormentarla con le sue accuse fin dall'inizio. «Qualcuno sapeva che le cose fra di voi non andavano bene?». Annuì. Ora l'espressione era quella di chi è costretto a fare un'ammissione difficile e dolorosa, non tanto per sé, ma per l'altro. «Chi lo sapeva?». «Parecchia gente». «Chi? Gli amici? La famiglia?». Annuì di nuovo. Ormai ero sicuro che tutto quello che stavo ascoltando facesse parte della sua costruzione delirante. «E così Ruth andava a letto con un'infinità di uomini fin dall'inizio del matrimonio. Tu lo sapevi, gliene parlavi, ma lei faceva finta di niente». Nei suoi occhi brillò una sorta di attonita incredulità. «Rideva di me!». «Rideva di te. E anche altri sapevano cosa stava succedendo». «Non c'era bisogno che glielo dicessi io. Se ne accorgevano da soli». «E a lei non importava». «Cosa c'entra, quello era il suo lavoro. Ruth faceva la puttana». Questo non lo aveva mai detto. «Continua». «Se li portava in studio quando ero fuori. Li vedevo aspettare in strada, gironzolare finché non mi toglievo dai piedi. Poteva farsene dieci o dodici al giorno. Era più forte di lei». Qui si interruppe. Adesso mi guardava con l'aria disperatamente patetica di chi ti sta supplicando di credergli. Mi sentii quasi costretto ad alzarmi, fare il giro del tavolo e posargli una mano sulla spalla. «E tu lo sapevi» gli dissi con calma. «Per tutti quegli anni, tu lo hai sempre saputo». Era l'ultima cosa che ci eravamo detti. Seduto alla mia scrivania, rimasi ad ascoltare il fruscio del nastro che finiva di riavvolgersi fino a quando

scattò. Poi mi alzai, e andai alla finestra a guardare la sera che avanzava in silenzio sugli acquitrini. Gelosia morbosa. Il delirio dell'infedeltà. Freud lo considerava una forma di omosessualità latente, la proiezione sul partner di un desiderio omosessuale rimosso: non sono io ad amare lui, è lei. Ma in questo caso non mi sembrava un'interpretazione convincente. Certo, in apparenza Edgar era un uomo sicuro di sé, della sua forza, della sua virilità, eppure sospettavo che in lui ci fosse un profondo e infantile desiderio di sublimare, e idealizzare, l'oggetto d'amore. Succede abbastanza spesso, agli artisti, e credo dipenda dalla natura stessa del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un'intensità abnorme. E quando, inevitabilmente, arriva la delusione, il senso di tradimento è talmente profondo che in alcuni può tradursi nella convinzione patologica della duplicità dell'altro. Ma quello che mi colpiva di più, in Edgar, era che fosse riuscito a modificare retroattivamente la sua memoria fino a estendere ai primi anni di matrimonio deliri che ne avevano così tragicamente contrassegnato la fine, e che adesso coinvolgevano centinaia di uomini e un intero sistema di falsi ricordi. Sentivo che avremmo dovuto lavorare sulla chiarificazione, lasciando che fossero le stesse assurdità di cui era intessuto il suo pensiero, una volta portate allo scoperto, a scuotere dalle fondamenta quella struttura delirante, facendola crollare. Solo allora avremmo potuto cominciare a ricostruire la sua psiche. Il problema però era che questa storia con Stella ci avrebbe riportato indietro di mesi, perché nascondendomi la verità Edgar aveva interrotto il flusso di confidenze senza il quale non avremo potuto raggiungere il nostro scopo, e aveva trasformato il processo terapeutico in una commedia degli inganni. Per la cena avevano spalancato le portefinestre, e dal prato arrivava una brezza tiepida che portava con sé i profumi dell'orto. Era tutto in onore di Brenda. L'alto dignitario in visita pretendeva di ricevere il tributo dell'elite psichiatrica del posto, e Max non intendeva deludere le sue aspettative. L'invito era fra le sette e mezzo e le otto, e io ero arrivato per primo. Stella sembrava tranquilla e padrona di sé. Dopo quello che avevo scoperto la settimana precedente, o meglio dopo aver intuito che fra lei e Edgar Stark c'era più di una semplice amicizia, la mia disposizione di spirito nei suoi confronti era profondamente cambiata: ma cercavo di non darlo a vedere.

«Sono riuscita a starmene un paio d'ore da sola in cucina» mi sussurrò accompagnandomi in giardino. «Se riesco a farle credere che sto lavorando Sua Maestà mi lascia in pace». Max era stato mandato al pub a prendere del brandy. Stella continuava a vedere in me un alleato, perché naturalmente era all'oscuro dei sospetti che nutrivo nei suoi confronti. In qualche modo, comunque, mi spiaceva non poterle dire quello che sapevo della sessualità di Edgar. Prima di rientrare in cucina mi chiese di intrattenere Brenda, che era rimasta sola in giardino, e così andai a sedermi vicino alla matriarca. Da dove eravamo si vedeva uno scorcio del prato, e gli alberi sullo sfondo. «Che bel quadretto agreste» sospirò Brenda. «Peter, anche a te Max sembra felice? Stella teme che non abbia la minima intenzione di muoversi da qui». Ovviamente capivo che i timori di cui parlava erano i suoi. «Per un certo tipo di psichiatra» dissi prudentemente «è una situazione ideale. Una popolazione affascinante, alcuni casi sublimi, il tutto in un'istituzione abbastanza grande da poter riprodurre i meccanismi del mondo esterno». «Pensi che voglia diventare direttore?». Non mi sbilanciai. «Be', certo,» ammisi «l'idea di dirigere uno di questi grandi ospedali chiusi è una bella tentazione. Sai, esercitare il paternalismo vittoriano su vasta scala...». Mi fermai qui. Restammo in silenzio. «Sembra che ne sia tentato anche tu». Mi schermii con una risata. «Oh, no. Io no. No, per mandare avanti questi carrozzoni ci vuole un giovane. Io sono troppo vecchio». Brenda si voltò verso di me, squadrandomi con uno sguardo affilato come una lama. «Mmm» fece con aria scettica. Subito dopo ci raggiunse Max, poi arrivarono gli Straffen, e a quel punto eravamo al completo. Ce ne stavamo tutti in giardino, tutti eccetto Stella, che era ancora in cucina, e Bridie Straffen, che era salita di sopra per salutare Charlie. Brenda conduceva la conversazione, e noi tre psichiatri ci ritrovammo a rivolgere tutte le nostre osservazioni a lei, in ossequio alla sua autorità matriarcale. Dopo essersi assicurato che i bicchieri fossero pieni, Max tornò dentro, e dieci minuti dopo venimmo chiamati in sala da pranzo. Se sistemando i posti Stella avesse seguito il proprio capriccio, anziché l'etichetta, non avrebbe potuto andarle meglio: i due padroni di casa erano

a capotavola, ma lei aveva vicino Jack Straffen e me, mentre a Max erano toccate Bridie e Brenda. Al salmone, non so più perché, qualcuno si mise a parlare del matrimonio, e quando si è in sei a tavola astrarsi dalla conversazione diventa difficile. Se non ricordo male Brenda tirò fuori il suo primo marito, Charles, da cui aveva divorziato quando Max era bambino, e ne parlò in un modo tale che Max chiese a Bridie Straffen perché, secondo lei, alcuni matrimoni durassero e altri no. Bridie evitò i giri di parole. Era un intelligente donnone dublinese, che aveva passato qui gli ultimi vent'anni interpretando con successo il ruolo di moglie del direttore. Aveva una sua rumorosa simpatia, e una tolleranza agli alcolici pari soltanto a quella di suo marito. «Gli ho fatto fare il Giuramento» disse guardando Jack, che accennò a un gesto di protesta. «Quale giuramento?». Quello di non toccare più un goccio, pensavo. «Il Giuramento di Ippocrate» disse. «Non farai alcun male. Pensa a me come a un paziente, gli ho detto, e ne usciremo vivi tutti e due. E così è andata». Un brusio divertito percorse la tavola. Ognuno voleva dire la sua, ma la voce di Stella staccò su tutte. «Alcun male? Ma se moriamo tutte di trascuratezza cronica!». Ci fu un attimo di silenzio. Eravamo imbarazzati. In quell'uscita un po' sopra le righe, un po' troppo personale, risuonava l'eco di un'amara verità. Stella aveva trasceso. Bridie accorse in suo aiuto. «Stella cara, mi hai preso troppo alla lettera. Si tratta solo di limitare i danni, ma cattivelli sono e cattivelli rimangono. Sono fatti così. Tutti, sai, persino Max». Max, chiamato in causa, non poté non intervenire, e poco dopo riportò la conversazione in carreggiata. Ma in quello spaventevole attimo di silenzio avevo visto Brenda scrutare Stella con uno sguardo sotto le cui braci ardeva una curiosità famelica. Dopo cena uscimmo sul prato continuando a chiacchierare. Parlammo soprattutto del caldo eccezionale, di quell'estate così poco inglese in cui si poteva stare sotto la luna alle undici di sera, e l'aria era tiepida e profumata come in pieno giorno. Max raccontò a Jack delle sue migliorie, e lo portò a dare un'occhiata alla serra. Dopo quanto Stella ci aveva detto sulle sue ambizioni non ero sorpresa di vederlo così incollato al direttore: Jack sarebbe andato in pensione fra un paio d'anni, ma non prima di aver nominato per-

sonalmente il suo successore. Mi allungai su una sdraio e rimasi ad ascoltare Brenda e Bridie, imbarcate in un discorso che passò dall'aristocrazia in generale alle grandi famiglie irlandesi fino a una conoscenza comune, il conte di Dunraven. Quando Max e Jack tornarono dall'orto ci stavamo preparando ad andarcene. Notai che Stella era di nuovo sulle spine, e che la conversazione stava prendendo una piega decisamente minacciosa. Dopo aver descritto a Brenda e a Bridie lo stato di abbandono in cui versava il giardino prima dell'arrivo di Max e Stella, Jack disse infatti di essere felice che Max lo stesse rimettendo a posto. Max intervenne: «Mi faccio aiutare. Nessuno conosce questi grandi giardini meglio di John Archer. Sarei perduto senza di lui». «E senza Edgar Stark» disse Stella. Lo disse piano, quasi a se stessa. Jack, Max e io ci voltammo a guardarla. «E tutto il giorno che lo sento martellare» aggiunse, cercando di eludere quelli che più tardi definì i nostri atroci sguardi psichiatrici. «Quell'uomo lavora come un ossesso». «Be' sì, in effetti è il termine appropriato» disse Jack. «Come pensi di regolarti con lui?». Mentre Max rivolgeva questa domanda a Jack, Stella provò una sensazione che conosceva bene, quella di sentirsi tagliata fuori dal loro sapere professionale: che in questo caso, fra l'altro, riguardava Edgar. «Vorrei saperlo anch'io. Mi interessa moltissimo» disse Brenda. «È una gran seccatura» disse Jack col tono leggermente annoiato tipico di quando aveva qualche grana in ospedale, magari anche da poco, ma sufficiente per intralciare l'esercizio della psichiatria criminale; anche se, a pensarci bene, non si capisce di cos'altro se non di grane la psichiatria criminale - almeno quella carceraria - dovrebbe occuparsi. «Qualcuno fa entrare alcolici in ospedale. E pensiamo che quel qualcuno possa essere Edgar Stark». «Sembra una faccenda piuttosto seria. E perché sospettate proprio di lui?» chiese Brenda. Jack si tenne sul vago. Fanno sempre così, pensò Stella con rabbia: quando ci sono di mezzo i loro sospetti, bocche cucite. Hanno un potere assoluto, e quei sospetti bastano a decidere il destino di un uomo, per rinchiuderlo a tempo indeterminato. E Jack era come tutti gli altri. Pur non avendo prove, partiva dal presupposto che a portar dentro l'alcol non poteva essere che un paziente (e perché non un infermiere corrotto? si chiedeva

Stella), quindi un paziente in semilibertà delle squadre di lavoro, quindi uno dei tre o quattro possibili colpevoli, fra cui Edgar - che adesso era nei guai fino al collo. Forse era l'unico sospetto. Sarebbe bastato per farlo espellere dalle squadre di lavoro, privarlo della semilibertà, e allontanare di mesi, se non di anni, la prospettiva di uscire. Quello che Stella aveva davanti era il vero volto del potere carcerario, e quella che ascoltava era la voce del padrone. Si sentì ferita, ferita come se le stessero strappando suo figlio, e il peggio era che quella voce non poteva essere contraddetta, perché Edgar non aveva voce, era muto, com'era muta lei. Non importava che lei fosse lì, nell'olimpo ospedaliero; prendendo le difese di Edgar avrebbe solo peggiorato le cose. Non le restava altro che tacere, tacere e piangere in silenzio per le loro voci perdute. Cosa gli avrebbero fatto? Lo avrebbero espulso dalle squadre di lavoro? Lo avrebbero segregato? Jack disse soltanto che non intendeva discuterne davanti alle signore. La serata era finita, era ora di tornare a casa. Per un breve attimo la realtà manicomiale si era intromessa in una serata fra amici. Succedeva abbastanza spesso, e non ci si poteva fare nulla, perché in un istituto di massima sicurezza come questo le mogli sono strettamente coinvolte nelle attività dei loro mariti. Ma ci sono segreti che rimangono inaccessibili, rifletté Stella, livelli di conoscenza da cui le donne sono escluse. Il destino del suo amante non sarebbe stato deciso al chiaro di luna, in una calda serata estiva, da un affabile direttore leggermente alticcio. No, sarebbe stato deciso alla luce fredda e impietosa del giorno, in un ufficio che si trovava nel cuore di un complesso di vetusti, enormi edifici con le sbarre a ogni finestra. Max e Stella erano a letto in camera loro, al buio. Nessuno dei due parlava. Stella pensava alla difficile situazione del suo amante, e Max a quello che Stella aveva detto a cena, e che aveva provocato quell'orribile silenzio. «Hanno capito tutti che ce l'avevi con me» disse. «Non essere così paranoico». «Risparmiami il gergo psichiatrico». «Sta' zitto! Almeno sta' zitto!». Tacquero di nuovo. Con Brenda in casa, muri spessi o no, se si trattava di questioni personali parlavano sottovoce. «Che bisogno avevi di umiliarmi?». «Adesso esageri. Dicevo tanto per dire, nessuno mi ha preso sul serio». «Eri ubriaca. Perché devi bere in quel modo? Nessun altro ha bevuto

tanto». Una pausa di silenzio. Era un silenzio cupo, carico di collera e di risentimento: il silenzio di Max. Stella aveva passato il segno, e il suo modo di punirla era creare quel mostruoso silenzio, che riempiva la stanza di dolore e di rabbia. Stella si voltò dall'altra parte, lasciandosi inondare la mente dalle immagini di Edgar. Poi pianse sommessamente nel buio, perché non riusciva a non pensare, con terrore, che Jack Straffen poteva revocargli la semilibertà. Max non fece neppure il gesto di consolarla, e del resto lei non glielo avrebbe concesso. Quella sera, per la prima volta, Stella sentì che la catastrofe si avvicinava. La giornata era calda e serena, e gli insetti ronzavano fra le rose sfiorite mentre lei andava incontro al suo amante, che intravedeva al banco da lavoro nella serra. Con lui c'era anche Charlie. Vedendola arrivare, Edgar posò gli attrezzi e si pulì le mani sul fustagno dei pantaloni. Stella aveva con sé il cestino, con dentro i guanti da giardinaggio e le cesoie. Edgar le aveva raccolto un po' di fagioli e di scarola, e un mazzo di carotine. Mentre le riempiva il cestino Stella andò a sedersi sulla panchina. «Mrs Bain ti ha preparato una cosa in cucina» disse a Charlie. «Ho troppo da fare». «Ma devi andare, tesoro. L'ha fatta apposta per te». Charlie la guardò in cagnesco, e lei fece altrettanto. «Torno fra un minuto» disse a Edgar, partendo a razzo su per il sentiero. «Cosa c'è che non va? È successo qualcosa, sei sconvolta» le disse Edgar tranquillamente, senza guardarla. Stella gli disse che lo sospettavano di far entrare alcolici in ospedale. Non gli fece alcun rimprovero, non le passò neppure per la testa. «Non ti preoccupare». «Certo che mi preoccupo». Stella arrivò fino al melo. Attraverso i rami poteva vedere il Muro, che incombeva su quella parte dell'orto. «Cosa farò se non ti lasceranno più uscire?». Tornò a sedersi vicino a lui. Edgar le prese le dita e se le portò alle labbra. Poi le rovesciò la mano e le baciò il palmo, ma senza riuscire a calmarla. «Cosa farò? Un mattino scenderò e a lavorare qui ci sarà qualche altro paziente. Io chiederò dove sei, e mi sentirò rispondere che non fai più parte delle squadre di lavoro. Finirà così. Ci separeranno, mi staccheranno da te,

e non potrò dire nemmeno una parola. Non ti rivedrò mai più». «Ma no» disse Edgar continuando a baciarle la mano. Lei gliela sottrasse. «Tu non li conosci». «Sì che li conosco». «Allora saprai che possono fare tutto quello che vogliono, e nessuno può dirgli nulla. Né tu né io». «Vieni al capanno oggi?». «Non lo so». Stella camminava avanti e indietro sul sentiero. Edgar appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si piegò in avanti e guardò per terra. Credo di sapere a cosa stava pensando; stava prendendo una decisione. Stella gli dava la schiena, continuando a guardare il Muro fra i rami del melo. Quando sentì Edgar scattare in piedi e mormorare «Charlie» raccolse il cestino e riprese il sentiero verso casa. Lasciò il cestino sul tavolo della cucina e salì al piano di sopra. La casa era vuota, perché Brenda era andata a far compere in macchina. Stella si buttò sul letto e rimase lì a fissare il soffitto. Dieci minuti dopo si tirò su. Stava cercando le scarpe sotto il letto quando sentì dei passi rapidi sulle scale. «Charlie, sei tu?». Non era Charlie. Stella non riusciva a crederci, ma sulla porta c'era Edgar. «Che diavolo ci fai qui?!» gli sussurrò «C'è mia suocera da noi!». Le venne da ridere. Immaginò Brenda incrociare a metà mattina Edgar che usciva dalla sua camera riabbottonandosi i calzoni. Senza smettere di ridere andò a chiudere la porta. Trovava divertente che Edgar fosse venuto in camera sua? Lo trovava divertente, spaventoso, eccitante. Capii che le situazioni rischiose la eccitavano. Edgar non perse tempo, si strappò di dosso la casacca azzurra e i pantaloni gialli, la sua divisa da paziente. Stella scivolò alla svelta fuori dai suoi abiti. Da non credersi: lui lì, in camera di Stella, Stella che violava con lui il letto coniugale. Eppure non credo che lei si rendesse conto dell'aggressività insita in quell'atto: più che fare qualcosa con Edgar, stava facendo qualcosa contro Max. Adesso era fra le braccia di Edgar. I loro vestiti erano ammucchiati sul pavimento ai piedi del letto. La sveglia sul comodino segnava le undici

meno dieci. Che gran voglia devo avere di essere beccata, pensò; ma non era un pensiero allarmante, solo la calma, tranquilla voce della verità. Stella mi disse di aver capito in quel momento che in ciascuno di noi c'è come l'anelito a gridare al mondo la verità, a qualsiasi costo. O a distruggersi. Lei in quel momento lo sentì, sentì il piacere che le avrebbe dato dire a Max, a me, a tutti noi che amava Edgar Stark, e che non sopportava più di doverlo nascondere! Certo, Stella non era ancora così alla deriva da permettere a queste sensazioni di affiorare per più di qualche secondo, e come ogni amante clandestino non perdeva mai di vista i problemi pratici: di conseguenza, quando sentì una macchina sul vialetto ogni sua velleità di uscire allo scoperto svanì. Doveva essere Brenda, che tornava dal suo giro con ore di anticipo. Edgar si alzò a sedere e Stella gli disse che dovevano rivestirsi, aveva sentito una macchina. Nonostante la tensione si scambiarono un sorriso di complicità, come due bambini che l'avevano fatta grossa. Brenda entrò dalla porta sul davanti proprio mentre Stella scendeva le scale. «Troppo caldo, tesoro. Io un caldo simile proprio non lo reggo. E poi senti, non c'era un posteggio, e un orribile omuncolo ha cominciato a strombazzare col clacson, così ho deciso di lasciar perdere, e di tornare a casa a rinfrescarmi e a fare un riposino». «Ottima idea. Metto su l'acqua?». «Be', una tazza di tè ci vorrebbe proprio». Brenda salì di sopra. Stella si fermò sulla soglia della cucina, e sentì la porta della camera che si chiudeva. Poco dopo Edgar scese le scale con gli scarponi in mano, come il personaggio di una farsa. Stella lo guidò di corsa fino in cucina e aprì la porta sul retro per assicurarsi che in cortile non ci fosse nessuno. Quando si voltò vide che Edgar aveva sottobraccio un fagotto di vestiti di Max. «Cosa ci fai con quelli?» gli sussurrò. Lui le appoggiò un dito sulle labbra e attraversò il prato con passo deciso. Stella tornò di sopra. Lo sportello dell'armadio era aperto, e parecchie stampelle dalla parte di Max erano vuote. Mentre faceva il letto per la seconda volta nella stessa mattinata, stavolta con le lenzuola pulite, sentì Brenda uscire dalla sua camera e arrivare fin sulla soglia. «Ti spiace se faccio un bagno? Mi sento tutta appiccicosa». «Figurati» rispose Stella senza voltarsi.

Scese di sotto e si sedette al tavolo della cucina. Perché Edgar aveva preso i vestiti di Max? Cosa diavolo pensava di farci? Cosa si era messo in testa? Max rientrò dall'ospedale poco dopo l'una, quindi mangiarono tutti e quattro insieme. Nelle situazioni di tensione Stella si elettrizzava, e quel mattino tesa lo era senz'altro. Neanche due gin molto abbondanti erano serviti a farle dimenticare l'enormità del rischio che avevano corso. Non poteva neppure pensare a cosa sarebbe successo se li avessero scoperti. Così, tutta allegra, servì in tavola carne fredda, patatine novelle con burro ed erba cipollina, e un'insalata di pomodori con un intingolo all'aglio, facendo il possibile per mantenere una parvenza di normalità. Max era silenzioso e preoccupato, e alla fine del pranzo le chiese di portargli il caffè nello studio. Era seduto alla scrivania. Sentendola entrare si voltò con un'espressione che le provocò un'immediata fitta d'ansia. Stella era molto sulla difensiva, e per reazione assunse un'aria disinvolta, ma aveva paura che qualcuno l'avesse vista e avesse parlato, e i suoi timori parvero confermati quando Max le chiese: «Stella, cos'hai a che fare con Edgar Stark?». «Lo vedo quasi tutte le mattine nell'orto» rispose lei, aggrottando la fronte come se si sforzasse di indovinare il motivo di quella strana domanda. «Perché?». «E mai entrato in casa?». È mai entrato in casa! Nel letto c'era ancora l'impronta calda del suo corpo, le lenzuola nella cesta della biancheria sporca erano umide e macchiate. «Solo la volta che ha portato Charlie». Max sospirò. Si tolse gli occhiali e si strofinò le palpebre. «Ormai è appurato che qualcuno fa entrare alcolici in ospedale. Il problema è che gli infermieri sono in subbuglio. Dobbiamo far vedere che prendiamo la cosa molto sul serio». «Non è possibile che il colpevole sia uno di loro?». Non era sicura che dirglielo fosse saggio. Se c'era qualche sospetto su di lei, poteva passare per una tattica diversiva. Ma d'altra parte, se nessuno aveva sospetti, la domanda sarebbe sembrata perfettamente logica. Fissò Max con estrema attenzione. Non aveva neppure alzato la testa. Stella capì di essere al sicuro. Per ora. «Non è impossibile, ma è un'idea che per il momento Jack preferisce non prendere in considerazione. È una questione di... di buoni rapporti».

«Cioè vi serve un capro espiatorio?». Ora Stella tentava di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. «Non mi sembra molto corretto». «Certo che no, non cerchiamo nessun capro espiatorio. Non vogliamo accusare nessuno finché non siamo sicuri». «L'alcol non è uscito da questa casa». «Ma potrebbe essere uscito dal capanno del cricket». «Può darsi». Una pausa. «Accompagnamici» disse Max. «Prendo le mie chiavi». Le sue chiavi. Sullo scrittoio al piano di sopra. O forse nelle tasche della giacca di lino. Nell'armadio. Stella rimase seduta in studio ad aspettare che scendesse. La scrivania di Max era in perfetto ordine, solo la posta del mattino e sopra un paio di cartelle, tutte le penne e le matite e le carte distribuite nei vari cassetti. La finestra dello studio guardava su una macchia di prato costeggiata da lettiere di fiori, e più oltre c'erano i pini che riparavano la casa dalla strada. Sugli scaffali, pile di riviste e di volumi di psichiatria. «Stella». Stella si affacciò nell'anticamera. Max era appoggiato alla ringhiera. «L'hai mandata in lavanderia?». «Cosa?». «La mia giacca di lino». Pensa alla svelta, Stella. Calmati, e vedi di uscirne meglio che puoi. «No. Non la trovi?». Max tornò in camera, e lei salì di sopra. Quando entrò, Max le dava la schiena. Stava frugando tra i vestiti e le giacche appese alle stampelle. Non si voltò. «È molto strano. Mi mancano anche una camicia e un paio di pantaloni». «Non ho mandato niente in lavanderia, questa settimana». «Avevo tutte le chiavi in tasca. Dov'è Charlie?». «Non credo proprio che ti abbia preso lui i vestiti». «Neanch'io». Max si mise a sedere sulla sponda del letto, fissandosi le unghie con aria preoccupata. Stella si appoggiò allo stipite. La luce del sole batteva sulla sua toletta. Sapeva che stava per perdere tutto, e in qualche modo non le importava. Era curiosa di vedere come sarebbe andata a finire. Da un momento all'altro Max l'avrebbe accusata, e lei non aveva idea di come difendersi. «Dev'essere entrato qui».

«Chi?». «Edgar Stark». «Impossibile. Come avrebbe fatto, con me e Brenda in casa? Fammi vedere se Charlie è in giardino». Max era seduto con le mani in grembo e la fronte aggrottata. Un uomo organizzato come lui, un uomo con un simile controllo sul proprio mondo, un uomo del genere non perde una camicia e un paio di pantaloni, e una giacca di lino con tutte le chiavi in tasca. Stella si precipitò di sotto e uscì dalla porta principale. Gli uomini non erano ancora tornati dalla pausa per il pranzo. Fece una corsa fino alla serra, dove trovò la giacca bianca di Edgar appesa alla porta. Aprì una bustina di semi e con un mozzicone di matita ci scarabocchiò sopra un messaggio, che poi cacciò nella tasca della giacca in modo che Edgar non potesse non vederlo. Mentre tornava a casa vide la squadra di lavoro in fondo al vialetto. Poteva solo pregare che Edgar vedesse il suo messaggio e trovasse il modo di sbarazzarsi dei vestiti. In anticamera incontrò Max. Gli disse che Charlie non era in giardino, e che probabilmente non sarebbe rientrato prima di qualche ora. «Non credo che Charlie abbia toccato i miei vestiti» ripeté Max tornando nello studio. Stella rimase sulla soglia. «Cosa farai?». Max era accanto alla sua scrivania, con la cornetta in mano. «Mi passi il Reparto 3». Lo disse al telefono, ma continuando a fissare Stella. La notizia arrivò quella sera. Brenda scese alle cinque e Stella le disse delle chiavi e dei vestiti scomparsi, dopodiché andarono in soggiorno a bersi un gin abbondante a testa. Stella non riusciva a star ferma. Naturalmente, la sua ansia si poteva leggere come affettuosa sollecitudine nei confronti del marito. «Max sistemerà tutto, tesoro» disse Brenda. «Certo che sì. Ma sono in pensiero lo stesso». Prima che Max rientrasse dall'ospedale bevvero un altro gin. Brenda era ancora in soggiorno, mentre Stella era andata in cucina a preparare la cena. Quando sentì la porta che si apriva corse nell'anticamera. Max sembrava di pessimo umore. Gli andò incontro. «Cos'è successo?». Max non la guardò neppure; i loro occhi si incrociarono appena. Max entrò in soggiorno, si mise in piedi di fronte al camino spento e comunicò

la notizia. «Edgar Stark è evaso». In quel preciso momento si sentì il terribile urlo delle sirene. IV Doveva essere andata così: dopo pranzo Edgar aveva detto a John Archer che c'era bisogno di lui nel giardino del cappellano, e si era avviato da solo. Era passato a prendere i vestiti di Max dove li aveva nascosti, cioè fra gli alberi in fondo al giardino dei Raphael, li aveva indossati ed era fuggito, tenendosi alla larga dalla strada fino a quando non si era allontanato abbastanza, e poi in qualche modo - in treno, in autobus o in autostop - era riuscito a raggiungere Londra. Era stato già abbastanza spiacevole scoprire fino a che punto fossero blande le misure di sicurezza per le squadre di lavoro esterno, ma la domanda più imbarazzante, tanto per me quanto per Jack, era che cosa avesse fatto Max fra il momento in cui si era accorto che gli erano scomparsi i vestiti e quello, intorno alle cinque, della fuga di Edgar. C'era un intervallo di quasi tre ore. La perquisizione della stanza di Edgar, e subito dopo quella dell'intero padiglione, non erano approdate a nulla, ma Max si era ben guardato dal dire a Jack cos'era successo. Se fosse andato immediatamente a cercare Edgar nel giardino del cappellano, si sarebbe accorto che non c'era, l'allarme sarebbe scattato molto prima, e lo avremmo catturato in quattro e quattr'otto. Ma a quanto pare Max era così determinato a cavarsela da solo che aveva commesso parecchi errori, e soprattutto aveva lasciato passare l'intero pomeriggio senza scoprire che fine avesse fatto Edgar. Dopo essere tornato in ospedale e avere controllato col personale del Reparto 3 se ci fossero novità, era rientrato nello studio. E qui, senza una ragione apparente, aveva aspettato un'altra mezz'ora prima di chiamare Jack. A quel punto le squadre di lavoro stavano per rientrare, e John Archer aveva già scoperto che il suo paziente era scomparso. Ne fui subito informato, e mi precipitai nello studio di Jack, dove mi trovavo quando Max telefonò. Jack sapeva della fuga di Edgar. Quello che non sapeva, e che per Max era ingrato e umiliante dovergli dire - e qui va ovviamente ricercata la spiegazione del suo comportamento di quel pomeriggio -, era di chi fossero i vestiti che il fuggitivo indossava. Con tutta la buona volontà, Max non riusciva a farmi pena; aveva lasciato scappare il mio paziente. E Edgar, nonostante questa

bella impresa, aveva ancora bisogno di me. Era un uomo malato. Fummo Jack e io a decidere di non far suonare immediatamente le sirene, perché fino a quando non fosse stato proprio necessario preferivamo non comunicare a tutta la campagna circostante la notizia che un nostro paziente era evaso. Meglio organizzare una squadra di ricerca e disporre una rapida perlustrazione della tenuta, nella speranza di prenderlo prima che arrivasse troppo lontano. Sapevamo entrambi che ci sono due cose di cui un paziente in fuga ha bisogno, e cioè denaro e vestiti, e che almeno una delle due Edgar se l'era procurata. Gli infermieri si diedero da fare per un paio d'ore: perquisirono la fattoria e gli acquitrini, e si inoltrarono per un tratto nella foresta. Stava calando la sera. Non sapevano con certezza che vantaggio avesse. Secondo noi non più di tre ore, ma per un uomo scaltro, con denaro e vestiti a disposizione, tre ore erano più che sufficienti. Nessuno sapeva se avesse dei soldi con sé, nessuno tranne Stella, naturalmente, che gliene aveva dati più volte, e di sicuro abbastanza per arrivare fino a Londra. Nel frattempo noi potevamo solo sperare che fosse ancora nei paraggi, che si aggirasse senza meta per la campagna diventando facile preda della polizia locale, che avevamo avvertito dopo due ore di ricerche infruttuose. Brenda e Stella reagirono all'annuncio di questi sviluppi drammatici con esclamazioni tra il sorpreso e lo scomposto. Ma fu Brenda a pensare a Charlie, che non era ancora tornato a casa. Con una certa presenza di spirito, Stella riuscì a simulare a sua volta un'ansia intollerabile per il ragazzo, che in realtà le servì a mascherare l'impatto emotivo della fuga di Edgar. Sperava solo che Max non si accorgesse che la sorte di Charlie era stato il primo pensiero di Brenda anziché il suo. La secca risposta di Max fu che a Edgar Stark i ragazzi non interessavano. «Vuole solo andare il più lontano possibile». Poco dopo Charlie entrò di corsa in casa, eccitatissimo; aveva sentito le sirene, e voleva assolutamente sapere cos'era successo. Stella tornò in cucina a finire di preparare la cena. Vuole solo andare il più lontano possibile. Era in piedi davanti ai fornelli, il volto rigato di lacrime. Sentendo Brenda entrare si asciugò gli occhi col grembiule e accese il fuoco sotto le patate. Doveva a tutti i costi riuscire a comportarsi come se la sua unica apprensione fossero i gravi problemi cui l'ospedale sarebbe andato incontro, a tutto detrimento dei pazienti, ma anche dei medici, degli infermieri e delle loro famiglie. Fu più o meno quello che mormorò a Brenda.

«Dio, che seccatura» rispose Brenda. «Quell'uomo si è comportato malissimo. E lavorava in giardino?». «Stava restaurando la serra». «La sola idea che sia entrato qui mi fa orrore. Cosa sarebbe successo se avesse trovato te, o me? Mi dicono che in passato è stato violento con delle donne». «Avrà prima controllato che non ci fosse nessuno in casa». «E cosa sarebbe successo se Charlie lo avesse sorpreso in camera vostra? Nella vostra camera da letto, Stella! Ma non ti senti violata al pensiero che quell'uomo sia entrato in camera vostra?». «In effetti è stato uno shock. Non l'ho ancora superato». «Lo credo bene». Durante questo interrogatorio Brenda non le aveva mai tolto gli occhi di dosso. Qualcosa nelle sue reazioni alla fuga l'aveva stupita, e Stella lo sapeva. Che cos'era stato a tradirla? Non aver pensato a Charlie quando le avevano detto che un paziente evaso era a piede libero nei dintorni? O non essere riuscita a mostrarsi abbastanza sorpresa, come se sapesse già tutto? Pregava solo di arrivare alla fine della serata senza altre prove come quella. E invece il peggio doveva ancora venire. A metà della cena squillò il telefono dello studio, quello collegato con l'ospedale, e Max andò a rispondere. Quando tornò disse a Stella che Jack voleva vederli tutti e due da lui. «Tutti e due?» chiese Brenda. «Sì, mamma» rispose Max con insolita fermezza. «Tutti e due». Quando varcarono il Cancello si stava facendo buio. Il cielo pallido era striato di nuvole rosa, azzurre e malva, e le due grandi torri quadrate, con la doppia barriera di ferro che le univa, si stagliavano nella luce opaca della sera. Entrando in macchina, Max le aveva chiesto perché pensava che Jack volesse vedere anche lei, e Stella gli aveva risposto di non averne idea. Max non aveva aggiunto altro, guidando in silenzio fino alla residenza del direttore, vicino al braccio femminile. Venne ad aprire Bridie, che aveva messo su una doverosa aria di circostanza. Con un fremito di disgusto Stella notò come, dopo il loro lungo matrimonio, Bridie si era inserita nel tessuto della vita professionale di Jack, e in quel momento si rese conto che lei non si sarebbe mai trovata in quella posizione. Era abituata a pensare che prima o poi le sarebbe toccato, quel ruolo di moglie del direttore che fra sé e sé snobbava tanto, ma adesso era chiaro che non glielo avrebbero neppure offerto: la direzione era perdu-

ta. Si chiedeva se Max se ne rendesse conto. Bridie li fece entrare nello studio di Jack, una grande stanza confortevole e piena di libri. Rivolgendo loro la sua ampia schiena, Jack armeggiava con la bottiglia di whisky. Non si voltò subito. Chiese soltanto se qualcuno voleva da bere, e Stella rispose di sì con un po' troppa sollecitudine. Bridie chiuse la porta e li lasciò soli. «Fate come se foste a casa vostra» mormorò Jack con un tono brusco e distaccato che Stella non gli conosceva. «Brutto affare» disse quando si furono accomodati. «Questa è la mia quinta evasione. È sempre un incubo, anche se li prendiamo alla svelta. Edgar Stark». Jack si interruppe, fissando corrucciato il suo bicchiere di whisky, e il nome dell'amante di Stella rimase sospeso nella penombra mentre la sera moriva e dal giardino arrivava l'ultimo canto degli uccelli. «Stavolta la faccenda è spinosa. Verrò subito al dunque. Non te ne ho parlato finora, Max, perché non mi sembrava il caso di metterti in agitazione riportandoti voci incontrollate. Ma dopo quello che è successo oggi pomeriggio bisogna che questa... questa cosa venga fuori». Fece un'altra pausa. Questa «cosa» - quale «cosa»? In bocca a Jack sembrava una parola sporca, disgustosa, immonda. E perché mai lei doveva essere lì mentre veniva fuori una cosa disgustosa e immonda? «Quali voci?» chiese Max. Con un sospiro, il direttore si girò verso Stella. «Qualcuno ha detto» cominciò «che i tuoi rapporti con Edgar Stark sono andati al di là di quanto si conviene alla moglie di un medico». «E chi lo ha detto?» chiese Max seccamente. «Perché non sono stato informato?». «Chi lo ha detto non ha alcuna importanza. Lo sai anche tu come vanno queste faccende. I pazienti chiacchierano, un infermiere li sente, si precipita ad aggiornare i colleghi, e in un batter d'occhio la cosa arriva fino a me». «E tu l'hai presa sul serio. Non ci posso credere!». Sia Jack sia Stella furono sorpresi dalla veemenza di Max. «Max, ascoltami, per favore. Come puoi immaginare, le voci in genere mi lasciano indifferente. Me ne arrivano un'infinità ogni giorno, e quasi tutte senza il minimo fondamento. Ma questo è un manicomio molto grande, e la gente parla. Non prendo quello che dicono di Stella per oro colato, è ovvio, però devo sapere come mai lo dicono».

«L'avranno vista che gli parlava in giardino, tutto qui». «Stella?». Si girarono tutti e due verso di lei. Max era in collera. La si poteva anche scambiare per una naturale reazione alle accuse di Jack, ma in realtà c'era dell'altro - la necessità stessa di quel colloquio, ad esempio, oltre all'atroce consapevolezza di aver sottovalutato il furto dei vestiti, rendendo in sostanza possibile la fuga di Edgar. Di fatto, l'atteggiamento cavalieresco di Max era più apparente che reale, e Stella se ne rendeva benissimo conto. «Ma io ci ho solo parlato, Jack» rispose Stella con una voce impercettibilmente più incredula che offesa. «A volte quando scendo nell'orto ci scambio - o meglio, ci scambiavo - due chiacchiere. È una cosa che faccio con tutti i pazienti. La ritengo importante». «Lo vedevi tutti i giorni? Mi spiace, Stella, ma ti ripeto, devo capire da cosa è nata, questa voce». Stella non rispose subito. Prima cercò di impersonare la dignità ferita. In fondo era una rispettabile donna sposata la cui virtù era stata messa in dubbio. Poi, a poco a poco, lasciò trasparire una dolorosa accettazione della realtà. «Be', l'insalata dell'orto la mangiamo tutti i giorni. Se incontro Edgar lo saluto, e qualche volta, te l'ho detto, mi fermo a parlargli». Jack si concesse una piccola pausa. Aggrottò la fronte, annuì, e scrutò attentamente Stella. «Grazie, Stella» disse alla fine. «Ero sicuro che dovesse trattarsi di qualcosa del genere. Ti chiedo scusa, ma spero che tu capisca. Sai, a volte le mogli degli psichiatri mi ispirano una certa compassione. Hanno un compito ingrato, solo noi sappiamo fino a che punto». Questo era rivolto a Max, che a sua volta aggrottò la fronte e annuì. «Bevete ancora qualcosa». «No, grazie, Jack» disse Max alzandosi. «Dobbiamo andare». Jack non si scusò più. Sapeva che quel discorso andava fatto e non si era tirato indietro, ma ce ne sarebbe voluto per convincerlo che la moglie di un medico potesse comportarsi in modo sconveniente con un paziente, e quanto aveva sentito gli bastava. O almeno, immagino, questo pensava Max uscendo dal colloquio. Quando i Raphael se ne andarono Jack venne in salotto da noi: da Bridie e da me. Ero lì da un'ora per aggiornarli su quel poco che sapevo della relazione di Stella col mio paziente. «E allora?» chiesi.

Jack annuì. «Temo che sia vero». «Oh, dio. Cosa farai?». Jack sospirò. «Dipende». «Ma Max non si accorge che mente?» chiese Bridie. Jack allargò le braccia senza dire nulla. «Sospetto di sì» intervenni. «Ma credo anche che preferisca non vedere. E che sia per questo che l'ha lasciato andare». Jack fissava il suo bicchiere. Tutt'a un tratto capii che non riusciva a farsene una ragione. Il pensiero che Stella potesse essere colpevole di ciò che avevo insinuato era un vero shock. Non voleva crederci. Bridie aveva meno remore. «È inconcepibile» mormorò. «Inconcepibile, che la moglie di un medico...». Si interruppe. Era troppo anche per lei. «Forse è meglio che scambi due parole con Max» dissi. Quella sera, mi disse Stella, le era sembrata interminabile. Era come se prima che le fosse concesso di prendere un sonnifero, di mettersi a letto, e di rimanere veramente sola con un dolore che ormai traboccava dalla facciata che aveva eretto contro il mondo, dovessero scorrerle davanti agli occhi ogni cerchio, ogni increspatura creata da quel sasso gettato nello stagno immobile della loro vita. Mentre passavano dal Cancello aveva chiesto a Max: «Cosa dirai a Brenda?». «Non ci ho pensato». Adesso le loro voci funzionavano, apparentemente, su un doppio registro. Quello che si dicevano, era una mera copertura di emozioni in parte inconsce, e comunque inespresse. Ora, ad esempio, Max sembrava solo stanco, e teso, ma subito dietro quel primo fronte nuvoloso Stella sentiva arrivare la perturbazione molto più intensa della sua rabbia, rivolta sia contro se stesso sia contro di lei. Perché dovesse avercela con lei, però, non lo capiva: in fondo aveva spiegato ogni cosa, e la sua spiegazione era stata accettata da Jack Straffen. Ma ormai non aveva più importanza. Max entrò nello studio e chiuse la porta senza una parola. Brenda moriva dalla voglia di sapere tutto, e per quanto si sforzasse non riusciva a nasconderlo. «Ho mandato Charlie a letto» disse. «C'è rimasto un po' male, perché non voleva perdersi il bello». Erano in piedi nell'anticamera. Stella posò la borsa sul tavolo sotto lo specchio e controllò la propria immagine riflessa. Brenda stava aspettando.

«E allora?». «Allora ci sono state delle voci» disse Stella. «Su di me». Brenda la seguì in soggiorno e rimase vicino al camino mentre Stella si versava da bere. Prima o poi avrebbe dovuto dirglielo, ma si sarebbe fatta ammazzare piuttosto che servirle tutto su un piatto d'argento. «Su di te?». Stella andò col suo bicchiere alla finestra e si mise a guardare fuori. Benché fosse calata la sera, le tende erano ancora aperte. C'era la luna piena. «È una notte magnifica» disse. Dov'era Edgar, adesso? In un fosso, in un granaio, in un fienile, rannicchiato nel buio, coi vestiti di Max, ad arrotolarsi il suo tabacco? Oppure era scomparso in qualche mondo di cui lei non sapeva nulla? Si allontanò dalla finestra. «Sì, su di me». «Stella, ti prego, raccontami cos'è successo. Se non vuoi, non importa. Ma, vedi, sono preoccupata. Vorrei poter fare qualcosa». «Qualcuno ha detto a Jack che il mio rapporto con Edgar Stark non era del tutto irreprensibile». «E lo era?». «Ma certo. C'è bisogno di chiederlo?». «Scusa». Stella la guardò con calma. Oh, Brenda aveva pronta per lei una bella lettera scarlatta; sarebbe stata felice di darle tutta la colpa dei guai di Max, ma lei non glielo avrebbe permesso. Nel frattempo avevo lasciato gli Straffen per raggiungere la casa del vicedirettore. Passando dal Cancello avevo notato un'atmosfera diversa dal solito; nonostante l'ora tarda c'erano parecchi uomini in giro, e un'aria di emergenza. Il colloquio che mi aspettava era piuttosto delicato: dovevo riuscire a evitare che Max, tra i molti meccanismi di difesa a sua disposizione, scegliesse l'isolamento. Purtroppo avevamo ancora bisogno di lui. Delle reazioni di Stella ero meno sicuro, ma prevedevo che si sarebbe resa conto di essere stata tradita, e che avrebbe dato la colpa non tanto a Edgar quanto a se stessa. C'era la possibilità che questo innescasse un episodio depressivo. Dovevamo vigilare. Suonai il campanello. Nell'anticamera Stella si fermò di nuovo davanti allo specchio. Dallo studio non arrivava alcun rumore. Aprì la porta. «Oh, Peter. Entra, Max è nello studio».

«Vorrei parlare prima con te». «Sono in soggiorno con Brenda». La seguii. Si muoveva con una disinvoltura anche eccessiva, come se cercasse di smentire col corpo la sua tensione. Brenda mi accolse affettuosamente. Mi lasciai cadere in una poltrona. «Proprio una brutta storia, per tutti voi» dissi mentre Stella mi passava un gin. «Peter, ma cosa succede?» mi domandò Brenda. «La solita prassi. Chi se la passerà peggio naturalmente è Jack. La stampa lo metterà in croce, ci saranno interrogazioni parlamentari, tutto il sistema della semilibertà verrà condannato. Un'evasione come questa riporta l'ospedale indietro di cinque anni». Stavo cercando di comunicare una specie di estenuata prostrazione, come se tutta la faccenda fosse in definitiva una gran seccatura, e nient'altro. Speravo che sarebbe servito a mascherare l'effettiva gravita della crisi. Brenda intanto aveva assunto la sua espressione indifesa e disorientata; evidentemente sperava che vedendola in quelle condizioni qualsiasi vero cavaliere si sarebbe deciso a vuotare il sacco. «Ma lo prenderete presto, vero?». Sorseggiai il mio gin e lasciai cadere una mano dal bracciolo della poltrona. «Forse. Anche se pensiamo che possa avere qualche amico a Londra». «Non sapevo che avesse amici a Londra» disse Stella. «E come potevi saperlo?» risposi guardandola con aria assente. «Max non mi ha parlato di amici a Londra. Che possano essere coinvolti, intendo». «Ha qualche amico dei vecchi tempi, a Soho». In seguito Stella mi disse che all'improvviso le era sembrato di vedere la scena dall'altra parte del vetro, come se stesse guardando dal giardino, nel buio, un uomo in poltrona parlare con due donne che lo ascoltavano rapite. Adesso nell'espressione di Brenda la curiosità nuda e cruda si mischiava alla fascinazione e allo sgomento. Le era caduta la maschera. Qualche minuto dopo mi alzai. «Sarà meglio che parli un po' con Max» dissi. «Ti prego Stella, rimani seduta». Fiato sprecato. Mi accompagnò fino alla porta del soggiorno e rimase a guardarmi mentre percorrevo il corridoio e bussavo piano alla porta di Max, poi entravo nello studio e mi chiudevo la porta alle spalle. Non sapeva dire a che ora Max l'avesse raggiunta in camera. Lei era salita subito dopo, aveva preso una pillola e si era messa a letto aspettando di

addormentarsi. La luce della luna filtrava attraverso le tende. La casa era silenziosa. Con la faccia premuta sul cuscino aveva pianto fino a inzuppare la federa, poi l'aveva cambiata, e a quel punto, alleggerita dal peso più immediato del suo dolore, era rimasta a fissare il soffitto. Ripensava alle notizie che aveva appena sentito, che in sostanza significavano una cosa sola: se Edgar aveva degli amici, probabilmente era al sicuro. Tenendosi stretta a questo pensiero si era addormentata. Sono convinto che sia andata effettivamente così. Non credo che avessero un piano. Non credo che Stella stesse complottando contro di noi. Andò tutto all'incirca come avevo previsto. La stampa rispolverò il caso, e Stella fu costretta suo malgrado a rendersi conto del perché Edgar fosse finito qui. Aveva ucciso sua moglie a martellate, e ne aveva mutilato il cadavere. Al processo, due psichiatri avevano testimoniato che soffriva di psicosi paranoide, e la corte aveva emesso il verdetto di infermità mentale richiesto dalla difesa. Il giorno dopo me lo avevano consegnato. Adesso la stampa voleva sapere perché a un uomo simile fosse stato concesso di lasciare ogni mattina l'ospedale e di lavorare fuori fino alla sera. Furono giorni terribili per tutti noi. Nella casa del vicedirettore Brenda si occupava di Charlie, in modo che Stella e Max potessero concentrarsi sui loro problemi. Ripensandoci, Stella era convinta di essere riuscita a controllare le proprie emozioni, che com'è ovvio erano tutte rivolte all'amante scomparso. Naturalmente fingere le riusciva tutt'altro che facile; dopotutto, era pur sempre nella tana del lupo. Max tornava a colazione quasi tutti i giorni, e Brenda e Stella cercavano di creare dal nulla una corrente di calda domesticità femminile che avrebbe dovuto fargli sentire la casa come un rifugio, un posto sicuro, isolato dalle spaventose tensioni cui in quel periodo era sottoposto in ospedale. Eravamo tutti sotto stretta sorveglianza. In giro era pieno di giornalisti che interrogavano chiunque fosse disposto a parlare. In quell'estate senza notizie di spicco il caso di Edgar Stark dominò senza sforzo le prime pagine. Ci sentivamo assediati. A Charlie fu proibito di uscire dal giardino. L'unica volta che disobbedì a quest'ordine un giornalista lo avvicinò con aria amichevole, e appena scoprì chi era cominciò a fargli domande imbarazzanti, come di che cosa parlava papà a tavola. Il povero Charlie tornò a casa mortificato e in lacrime. Temeva di aver fatto qualcosa di molto brutto rispondendo a quell'uomo, ma per educazione non aveva saputo dirgli di no.

Delle squadre di lavoro non c'era più traccia. Stella andò a fare un giro in giardino; nell'aria immobile notò subito la tenue vibrazione dell'assenza. Scese nell'orto per cogliere un po' di lattuga e di uva spina. In quell'esplosione di verde mancava qualcosa: la macchia di fustagno giallo vicino alla serra. Gli alberi che sovrastavano il muro del giardino sembravano torpidi e stranamente appesantiti, e gettavano profonde pozze di ombra. Era tutto così lussureggiante, l'erba del prato era alta e folta e le rose rampicanti prorompevano nella loro seconda fioritura, ma in quel tripudio il suo amante non c'era. Stella percorse il sentiero ghiaioso col cestino al braccio, e si fermò vicino al flogo che aveva trapiantato in primavera dai vecchi ceppi. Ne aspirò il profumo. Un calabrone si arrampicò sulla corolla di un cardo, poi si alzò nell'aria sonnolenta e volò via. Stella si sedette sulla panchina e grattò con l'unghia una chiazza di lichene che era spuntato sul tenero legno grigio. Poi si alzò e andò nella serra. Anche la serra sembrava triste, in abbandono, dimenticata. Come lei. Edgar aveva cominciato a sostituire il legno marcio, e i listelli e le tavole nuovi erano inseriti nelle parti integre dell'originale con una precisione assoluta. L'accostamento fra legno vecchio e legno nuovo era piacevole a vedersi. Stella si sdraiò sulle pietre spaccate, fra le erbacce, nel punto dove lei e Edgar si erano buttati la prima volta. Sentì gli occhi che si riempivano di lacrime. Se li asciugò e si alzò in piedi, poi uscì dalla serra e prese il sentiero come se avesse in mente qualcosa, fermandosi a raccogliere da terra qualche bastoncino di rabarbaro. Il giardino sentiva la mancanza di Edgar quanto lei. Molti fiori erano reclinati su se stessi; le ortensie, senz'acqua, si erano seccate. Tutte le piante avrebbero avuto bisogno di una potata, e il sentiero che attraversava l'erba incolta del prato era cosparso di denti di leone appassiti. Il tubo dell'acqua, che nessuno usava più, pendeva dal gancio vicino al rubinetto nella siepe. Il giardino aveva perso tutta la sua freschezza. Stella ne parlò a Brenda mentre preparavano il pranzo. «Per forza» rispose lei. «I giardinieri sono così presi, d'estate». «Mi sa che dovrò farlo da sola». «Che seccatura. E pensare che mi sembravi l'unica persona di mia conoscenza ad aver brillantemente risolto Il problema della servitù». Adesso fai anche la spiritosa, pensò Stella. E il lieve fremito sulle labbra di Brenda le dette ragione. Stella non sapeva se Jack o io avessimo fatto notare a Max che non ave-

va denunciato subito il furto dei vestiti. Per lei era diventato difficile cavargli qualche informazione, oltre alla notizia che le ricerche si erano concentrate su Londra e non approdavano a nulla. «Sembra scomparso» disse Max. «Qualcuno lo starà nascondendo» fece Brenda. Era al sicuro, almeno per il momento. A Stella bastava sapere questo. Era al sicuro, e stava pensando a lei; in qualunque buco fosse andato a nascondersi non mollava e pensava a lei. I giorni passavano, era già settembre. A volte Stella si diceva che forse non lo avrebbe più rivisto, e si sentiva prendere dalla disperazione. Era un'idea sconvolgente, e per scacciarla ripensava a tutto quello che lei e Edgar si erano detti e ripromessi. Non l'avrebbe abbandonata, ne era certa. Non perse mai la fiducia. Si ripeteva di essere paziente, e si consolava pensando che, ovunque fosse, non era in pericolo. Viveva in uno stato di sospensione; nulla era finito, anche se tutto stava cambiando. Non provava neppure a immaginare quello che poteva succedere, perché il solo pensiero la faceva star male, ponendole problemi pratici al momento insormontabili. Si chiedeva soltanto che cosa Edgar avrebbe voluto che facesse, e la risposta era che rimanesse, sì, paziente, muta, sollevata di saperlo al sicuro. Beveva in continuazione, le sembrava essenziale per mantenere una qualche forma di equilibrio. Evitava di pensare agli aspetti pratici e si faceva cullare il più possibile da una specie di fede assoluta; da quella, e dal gin. In alcuni momenti, quando agli aspetti pratici era costretta a pensare, si rendeva conto che quella fede, e il gin, non avrebbero potuto rimanere in eterno il suo unico nutrimento spirituale; ma finché ci fosse riuscita sarebbe andata avanti in quel modo. Tutti gli altri erano talmente distratti dall'emergenza, dagli occhi del mondo puntati addosso, da non accorgersi che Stella trascorreva i suoi giorni in uno stato di distaccata astrazione, facendo quello che ci si aspettava da lei, certo, ma con la testa sempre da un'altra parte. Tutti, tranne me. Io la stavo osservando. In quel periodo, Stella subì uno shock piuttosto forte. Una mattina era nell'orto ad annaffiare. Continuava a far caldo, non pioveva da settimane e la terra, in superficie, sembrava sabbia. Aveva bisogno di bere molto, una condizione che Stella in quel momento capiva benissimo. Così attaccò la canna al rubinetto nella siepe e si mise a dare un sorso d'acqua a ogni pianta, una per una. Con gli stivali di gomma, il vestito estivo, gli occhiali da sole e il cappello di paglia a tesa larga Stella si muoveva con decisione trascinandosi dietro il tubo, e quello che stava facendo le dava una specie di

piacevole spensieratezza, qualcosa di cui andava alla ricerca in ogni sua attività durante quelle difficili giornate. Il rumore dei passi sulla ghiaia alle sue spalle la disturbò. Ma quello che vide quando si voltò, con la canna in mano, la disturbò anche di più. Jack Straffen veniva verso di lei lungo il sentiero. Allerta. Massima allerta. Gli gridò di aspettare, perché doveva chiudere l'acqua. Uscì a grandi passi dall'orto della lattuga, mentre a terra il tubo continuava a zampillare, e andò a chiudere il rubinetto. «Max è ancora in ospedale» disse. Con l'abito scuro e il panama, Jack sembrava accaldato, a disagio e del tutto fuori luogo nel verde che lo circondava da ogni parte. «Veramente volevo parlare con te. Possiamo sederci?». Stella gli fece strada fino alla panchina della serra, dove si sedettero all'ombra. Jack si tolse il cappello e lo appoggiò accanto a sé. «Fumi?». «No, grazie». «Un uomo come Edgar Stark» disse, e si fermò. Fece cadere con un gesto studiato la cenere della sigaretta sulla ghiaia sotto di loro e rimase a guardarla. Poi fece un sospiro. «Sai qual è la sua diagnosi? Paranoia. Ne abbiamo molti come lui, qui. Vedi Stella, questi pazienti sono pericolosi tanto quanto gli schizofrenici che hanno commesso un omicidio. Ma il fatto singolare è che in nessuno di loro c'è traccia di psicosi. Neanche la minima traccia. E quindi non gli diamo farmaci. Proviamo con la terapia, ma purtroppo senza grandi risultati. Possiamo gestirli, possiamo contenerli, ma non sappiamo esattamente come curarli. Perché non capiamo veramente cosa sono». A chi ti riferisci, pensò Stella, ai tuoi pazienti o alle donne? «Anche se non lo sembra affatto, Edgar Stark è un individuo gravemente disturbato». «Questo lo so, Jack». «Mi chiedo se lo sai davvero. Ad esempio, sai cosa ha fatto a quella donna dopo averla uccisa?». Stella non rispose. «L'ha decapitata. Poi l'ha enucleata. Sai cosa vuol dire? Vuol dire che le ha tagliato la testa e poi le ha cavato gli occhi». Stella guardò il giardino, meravigliandosi di come le piante che aveva annaffiato sembrassero già più vive delle loro vicine. Alle due estremità della panchina, all'ombra, c'erano le metà di un barile che Edgar aveva riempito di terra e dove aveva piantato dei ciclamini d'inverno. Stella si ri-

cordava benissimo Edgar che segava il barile in due. Gliel'aveva tenuto fermo lei. Anche i ciclamini avevano bisogno d'acqua. «Beviamo qualcosa?». «Non sono neanche le dieci, Stella». «Il giardino andrà in malora senza le squadre. Guardalo». «Mi hai ascoltato, Stella? Hai capito cosa ti sto dicendo?». Stella si voltò verso di lui. «Non so che cosa vuoi da me» disse. «Pensi che ti stia nascondendo qualcosa, ma non è vero». «Ti ha mai toccato?». «No!». «Ti ha mai chiesto dei soldi?». «No. Non credi che se fosse successo lo avrei detto a Max?». Jack si tolse gli occhiali. Si strofinò le palpebre con le dita. Si appoggiò allo schienale e fissò il giardino illuminato dal sole. Era un uomo corpulento, sulla sessantina, un uomo preoccupato con i capelli grigi cortissimi e lo sguardo penetrante. Stava per andare in pensione, e avrebbe fatto volentieri a meno di questo problema. Sul suo anulare la fede brillava ai raggi del sole che filtravano attraverso l'edera sopra le loro teste. «Non credo che tu mi stia dicendo tutta la verità». Stella non protestò. Alzò le spalle e scosse leggermente la testa, come se disperasse di riuscire a convincerlo. «Stella, se ti sei cacciata in qualche guaio, se ti ha convinta a fare qualcosa...». «Cosa?». «Io lo conosco, Edgar Stark. So come si muove. Non c'è motivo di vergognarsi ad ammettere che ti ha coinvolta nel suo caso, si è conquistato la tua simpatia, ti ha montata contro Max, Peter e me. Sai cosa credo? Credo abbia immediatamente individuato in te una persona da usare. Ti ha detto che stavamo per rimetterlo in libertà? Non è affatto vero. Ma se non mi dici cosa è successo non posso aiutarti». «Non è successo niente». Jack sospirò. «Non è successo niente». «No». «Non me lo vuoi dire». «Te lo sto dicendo». Jack prese il suo panama. «Forse per te è un bene che se ne sia andato. Vieni a trovarmi presto, d'accordo?». Stella annuì.

Lo guardò mentre camminava pesantemente sul sentiero. Il cuore le batteva forte, e le tremavano le mani. All'erta. Edgar le aveva preannunciato che Jack le avrebbe detto queste cose, parola per parola. Stella risalì a sua volta, lentamente, il sentiero. Sentiva con un certo fastidio quanto fosse convincente il direttore, e quanto sarebbe stato facile soccombere al tono affettuoso e paterno con cui le offriva comprensione e sostegno. Doveva stare all'erta, doveva sforzarsi di non dimenticare mai che era Jack Straffen a cercare di manipolarla, non Edgar. Ah, era furbo il mio Edgar. L'aveva preparata a qualcosa del genere, le aveva spiegato come comportarsi. In un colpo solo si era garantito il suo silenzio e la propria sicurezza; e senza neanche dirle che voleva scappare. Durante il periodo immediatamente successivo alla fuga Stella e Max mantennero una strana distanza fra loro. Stella aveva le sue buone ragioni per evitarlo, ma si chiedeva perché Max diffidasse tanto di lei. Il perché, in realtà, era evidente: Max aveva paura che le voci fossero vere. La conosceva abbastanza per nutrire quantomeno un dubbio. Alla fine di una seduta particolarmente lunga e sofferta Stella mi confessò che un anno prima che tutto questo accadesse aveva detto a Max di non essere disposta a farsi seppellire viva in un matrimonio freddo, un matrimonio in bianco, solo perché a lui il sesso non interessava un granché, o perché non aveva abbastanza fantasia intellettuale, o fisica, per sentirsi attratto da lei, o perché incanalava tutta la sua libido nel lavoro, o per qualsiasi altra spiegazione intendesse offrirle. Secondo Stella, Max a suo tempo aveva probabilmente sottovalutato la minaccia implicita nell'ultimatum, e ora si trovava di fronte all'eventualità non solo che Stella l'avesse messo in pratica, ma che l'avesse fatto con un paziente. Un'eventualità a cui Max ovviamente non poteva neppure pensare, perché avrebbe significato accettare la responsabilità del fallimento del loro matrimonio, almeno sul piano fisico, e forse anche della disastrosa scelta di Stella. In ogni caso, Max non era disposto a parlarne con lei: per quanto lo riguardava, la miglior medicina era la negazione. Così, nelle ultime giornate di caldo dell'estate si muovevano per quella loro grande, triste casa come fantasmi, passandosi accanto senza parlare di nulla, in pratica ignorandosi. Rimaneva soltanto l'attenzione di Brenda ai rituali della vita civile, che agiva come una sorta di collante, unendoli in

un simulacro di famiglia. Per Charlie era importante, specie adesso che l'eccitazione per il dramma in atto era smorzata dalla tensione di vivere in una casa di fantasmi. Brenda li teneva insieme, e Stella, intanto, si sosteneva con quella sua fede e il gin. Alla fine Edgar sparì dalle prime pagine, e in assenza di notizie fresche i giornali smisero di interessarsi a lui. A poco a poco l'ospedale si abituò alla sua assenza, e l'emergenza sfumò in qualcosa che somigliava alla normale routine quotidiana. Il tempo alla fine peggiorò, e dopo settimane di clima caldo e secco cominciò a piovere. V In piedi davanti alla finestra del soggiorno, Stella guardava l'acquazzone. Si era scatenato senza preavviso e andò avanti per parecchi minuti, poi si trasformò in una pioggerellina sottile per cedere infine a una timida schiarita. Ora il giardino brillava nel sole, e tutto sembrava più verde, più rigoglioso. Ma non durò. Tornarono le nuvole, il cielo si oscurò di nuovo, e riprese a piovere. Per qualche giorno il tempo fu variabile, e nelle nostre frequenti conversazioni a riguardo parlavamo di un'estate nel complesso splendida, ma ormai finita: e dall'Inghilterra, aggiungevamo, non si poteva pretendere di più. Brenda tornò a Londra, e Stella cominciò a preparare Charlie per la scuola. Lei dice di non aver smesso un solo istante di sperare; di non aver mai voltato le spalle, dentro di sé, a Edgar. Era come se lo sentisse al suo fianco, sempre. Aveva imparato a fidarsi di lui. Senza una ragione al mondo, ovviamente, o forse proprio per questo, sì, perché si stava convincendo che la fiducia, e la speranza e l'amore sono tali in quanto nascono e crescono a dispetto della ragione. Stella comunque non aveva idea di che fine avesse fatto Edgar. Io supponevo che si fosse dileguato in un tenebroso sottobosco londinese di artisti e delinquenti, ma tiravo a indovinare, perché le mie fonti, che avevo contattato con molta discrezione, mi avevano lasciato a bocca asciutta. Ero frustrato, questo sì, ma sapevo anche che prima o poi Edgar sarebbe uscito allo scoperto. La mia vera preoccupazione era piuttosto che senza cure, e senza la mia mano a guidarlo, il mio paziente si lasciasse trascinare in un rapporto con una donna, e la sua malattia esplodesse di nuovo. ***

La mia ansia di sapere dov'era Edgar, e come stava, si rispecchiava, per una specie di aberrazione ottica, in Stella, tanto che più avanti ravvisai nella sua infatuazione sessuale e amorosa per lui il riflesso, certo primitivo e distorto, ma comunque un riflesso, della mia sollecitudine per un uomo malato, che si trovava, privato di qualsiasi appoggio terapeutico, in una situazione di grande tensione e incertezza. Di fatto, quando Stella mi parlò di quei giorni ritrovai nella sua esperienza qualcosa della mia. Il peggio erano le sere, mi disse. Dopo cena Max si ritirava nello studio e lei si trascinava in soggiorno. Quando circa un'ora dopo lui andava a letto lei rimaneva di sotto, dicendo di voler leggere ancora un po'. La porta della camera da letto che si chiudeva era il segnale per mettere via il romanzo e versarsi qualcosa di più forte. Le ore che seguivano erano di Edgar. Stella si abbandonava ai ricordi di quell'estate. Usava come riferimento la sua agenda; non aveva tenuto un resoconto scritto, ma grazie a certi segni cifrati in corrispondenza di particolari giorni era in grado di ricordare ogni incontro e, per usare le sue parole, ogni atto d'amore. Aveva imparato ad assorbire le immagini come boccate di sigaretta: riusciva a trattenerne nella mente tutto il peso, e il significato, e le sensazioni che evocavano, e da questo punto di vista, diceva, alcune erano più potenti di altre. Una volta, nel capanno del cricket, qualche secondo dopo aver fatto l'amore, Edgar le aveva appoggiato la testa sulla spalla, e lei aveva sentito il suo respiro placarsi a poco a poco. Poi Edgar si era tirato su, e nei suoi occhi Stella aveva visto qualcosa che non riusciva a spiegarmi, così come non sapeva descrivermi cosa si erano detti senza parlare in quei pochi secondi, prima che il loro pensiero tornasse a banalità come la fretta o le precauzioni per non farsi scoprire. In quell'attimo sospeso, nel patto che avevano stretto senza parole, Stella aveva sentito infrangersi i loro ego separati, e le loro identità fondersi l'una nell'altra: adesso fra lei e Edgar non c'era più differenza, ormai erano una cosa sola, erano, come aveva detto? Inseparabili... Rimasi pazientemente ad ascoltare tutto questo rinunciando alla domanda più ovvia: e lui? E Edgar? Aveva pensato anche lui che erano una cosa sola, che erano, come aveva detto? Inseparabili? In quel momento credevo ancora che Edgar avesse suscitato questi sentimenti in Stella per poterla poi usare, e che una volta uscito dal manicomio sarebbe svanito nel nulla. Mi sbagliavo.

Una sera, più o meno in quel periodo, Max mi invitò a cena. Eravamo solo noi tre. Bevemmo qualcosa in soggiorno, e inevitabilmente ci mettemmo a parlare di Edgar. Max sosteneva che l'evasione era stata studiata fin nei dettagli. Non pensava quasi più ad altro, e non la finiva mai di parlarne. «L'unica cosa che gli serviva erano degli abiti normali. Ha aspettato che la casa fosse vuota. Appena è stato sicuro che eravamo tutti fuori non ha perso un secondo». «La sua fortuna» mormorai, gettando un'occhiata a Stella «è stata avere la tua stessa taglia». «Già, proprio una bella fortuna. Per lui» disse Max aggrottando la fronte. Odiava questo aspetto della faccenda, e cioè l'identificazione, benché indiretta, fra lui e Edgar Stark. Stava piegato in avanti, il bicchiere in mano, gli occhiali che dondolavano fra le dita. Dal momento della fuga non era più riuscito a scrollarsi di dosso il senso di colpa per il tempo perso dopo la scoperta del furto, che aveva di fatto consentito a Edgar di guadagnare terreno. Era uno psichiatra troppo esperto per non aver analizzato, come me, la ragione di quella perdita di tempo, che ormai era evidente anche a Stella: Max aveva esitato perché era giunto alla conclusione che Edgar fosse entrato in camera da letto perché ce l'aveva portato lei. Ma piuttosto che accettarla, quella conclusione, meglio lasciar scappare Edgar. «Una cosa che continuo a non spiegarmi» dissi con una certa malizia «è quella storia dell'alcol rubato dal capanno. Edgar poteva avere le chiavi solo dal giorno in cui ti ha preso i vestiti, che però è lo stesso della fuga». Max scosse la testa. «Non credo che quell'alcol venisse dal capanno» disse. «Che strano» disse Stella. Si sentiva addosso il mio tipico sguardo svagato, e d'un tratto, ammise più tardi, si era resa conto che di svagato non c'era proprio nulla nell'intelligenza al lavoro dietro quegli occhi pigri. Si chiese quanto effettivamente sapessi di ciò che era accaduto nel capanno del cricket. In quel preciso momento squillò il telefono, e Stella posò il bicchiere. «Vi raggiungo a tavola fra cinque minuti» disse. Andò nell'anticamera, chiudendosi la porta alle spalle, e la sentii sollevare la cornetta. Solo in seguito ho saputo chi era. A tavola feci notare che non mi ero sbagliato: Edgar aveva ancora degli amici a Londra. «Sapevano che stava arrivando» dissi. «C'era un posto

pronto per lui. Adesso non lo prenderemo più, a meno che non faccia qualche stupidaggine». «Ne fanno sempre» sussurrò Max piluccando il suo curry. Stella divideva fra Max e me il suo sguardo attento e partecipe da brava moglie di psichiatra. Era su di giri, quasi euforica, ma non mi venne in mente di domandarmi perché. Un errore da parte mia, visto l'effetto atroce che questa conversazione doveva fare su una donna innamorata. «Davvero, Peter?» mi domandò. «Credo di sì. E non credo che rivedremo più Edgar Stark». Ci mettemmo a parlar d'altro. Stella sparecchiò e portò i piatti in cucina. Rimase in piedi davanti al lavandino, guardando fuori, il cuore in fiamme. Puoi immaginare cosa abbia significato quella telefonata per me, mi disse poi. Sì, le risposi. Quello che facevo più fatica a immaginare era perché Edgar, una volta evaso, stesse rischiando tutto per rivederla. Solo col tempo sono arrivato a capire che c'entrava la sua scultura. Dopo quasi cinque anni di inattività, Edgar voleva ricominciare, e per farlo gli serviva una testa. E considerando chi era lui, e chi era lei, e soprattutto che lei lo amava, non poteva essere che la testa di Stella. Ora le giornate si trascinavano con una lentezza esasperante. Anche a distanza dai fatti, certe volte Stella si sentiva prendere dal panico. Sono pazza? si chiedeva. Come posso giocarmi tutto quello che ho, come posso essere così irresponsabile, io, una donna adulta, una madre? Ma alla sola idea di rivedere Edgar tutti i dubbi e le esitazioni svanivano. La domenica sera disse a Max che l'indomani avrebbe fatto un salto a Londra. Lui le chiese se le serviva la macchina per andare alla stazione. Solo se non la prendi tu, altrimenti chiamo un taxi, rispose Stella. Erano diventati molto cerimoniosi. Quella sera, quando andò a letto, trovò Max ancora sveglio. La sua voce risuonò nel buio. «Cara?». La risposta di Stella fu un gemito assonnato. «Questa maledetta storia ha rovinato tutto, mi dispiace». Max si girò sul fianco. Ora erano uno di fronte all'altra. La sua mano si insinuò sotto il lenzuolo. «Sono molto stanca, Max». «Non lo facciamo da settimane».

Stella si voltò di spalle, e Max si strinse a lei. Se lo sentiva addosso, petto contro schiena, gambe contro gambe. Perché proprio quella sera? «Adesso dormi» gli sussurrò. Si era accorta che si stava eccitando. «Ti ho perduta» sussurrò Max. «Non dire sciocchezze. Dormi». Dopo, fu per me fin troppo facile immaginare quello che aveva provato Stella: l'attesa febbrile, la tensione quasi insopportabile mentre contava le ore che la separavano da lui. Aveva deciso di prendere un treno al mattino presto. In un'ora avrebbe potuto comprare qualcosa per giustificare il viaggio, e avere così il resto della giornata tutto per sé. Dalla Victoria Station prese un taxi fino a Knightsbridge, dove fece qualche acquisto in fretta e furia. Poi tornò alla stazione e sedette in un bar davanti a una tazza di caffè. Il grande tetto di vetro le ricordava la serra. Si mise ad aspettare. Portava un tailleur bianco, e scarpe bianche con il tacco alto. Si era trovata un posto verso il fondo da dove poteva tener d'occhio l'ingresso. A mezzogiorno e dieci vide Edgar entrare, andare al banco e ordinare un tè, continuando a darle le spalle. Stella era fuori di sé, non sapeva nemmeno più se per l'esaltazione o il terrore, ma quando lui si voltò fu costretta ad accendersi una sigaretta per nascondere l'imbarazzo: non era Edgar, non gli somigliava neanche un po' ! L'uomo si rese conto di essere osservato, e Stella si voltò da un'altra parte, dando spasmodici segni di disinteresse; con suo grande sollievo lui non si avvicinò. Per molti uomini, una donna sola nel bar di una grande stazione ha tutta l'aria di una preda. Edgar non arrivò, e alle due Stella si arrese. Non se la sentiva di fare altre compere. Prese il primo treno e guidò senza problemi dalla stazione fino a casa. In casa non c'era nessuno. Si infilò in un bagno caldo con un gran bicchiere di gin tonic dicendosi che Edgar non era potuto venire all'appuntamento per qualche ragione indipendente dalla sua volontà. Tornò l'indomani. La seconda volta fu più facile; come andare a letto con Edgar la seconda volta. Il confine lo aveva passato, poi si era semplicemente ritrovata dall'altra parte. E ormai aveva infranto tutte le leggi, anche quelle non scritte del suo matrimonio, della sua famiglia, e della sua società, che naturalmente era l'ospedale. Di nuovo si sentì esaltata e terrorizzata. Essere fuori, al di là della legge, era sempre la sensazione più forte che si potesse provare, mi disse, era quello che le dava alla testa. Le donne romantiche, riflettei: non pensano mai al male che fanno in quella loro forsennata ricerca di esperienze forti. In quella loro infatuazione per la libertà.

Era di nuovo seduta al bar di Victoria Station. Si era messa gli occhiali scuri e un cappello a tesa corta, in modo da sorvegliare l'ingresso senza attrarre l'attenzione. Verso mezzogiorno un ragazzo alto e allampanato venne a sedersi sulla sedia di fronte alla sua, tenendo gli occhi fissi sul tavolo. Aveva i capelli color paglia e la barba a chiazze. Portava una vecchia giacca di tweed macchiata e una camicia senza cravatta, con il colletto lurido. Era tutto schizzato di vernice. Mise lo zucchero nel tè e mentre lo mescolava, senza sollevare lo sguardo, disse: «Stella?». Lei rabbrividì. Pensò che, nonostante le apparenze, fosse un poliziotto. Non aveva messo in conto che Edgar potesse mandare qualcuno, invece di venire di persona. Fece per prendere la borsa e andarsene. «Lei è Stella Raphael» disse quella specie di barbone, lanciando occhiate furtive da una parte all'altra. Stella riconobbe subito l'accento dei college giusti. Adesso il ragazzo, per parlarle, si era appoggiato al tavolino. «Edgar mi ha detto di portarla da lui. Be', è lei o non è lei?». Continuava a non trovare un solo motivo per fidarsi di lui. Incontrare una terza persona a conoscenza della sua storia con Edgar, così segreta, era sconvolgente. Stella decise che, nel dubbio, era meglio considerarlo un nemico. «Lei sta sbagliando persona» disse freddamente. «Io non la conosco, e non conosco nessun Edgar». Fece per alzarsi dalla sedia. L'uomo gettò un'altra rapida occhiata ansiosa al bar pieno di gente. «Tu sei Stella» le disse. «Edgar mi ha detto com'eri fatta. Io sono quello che si occupa di lui». Il ragazzo si sporse ancora di più, come per sfidarla a negarlo. Stella percepì la sua paura e la sua impazienza. Rimase zitta per qualche istante, e non si alzò. L'altro aspettava una risposta, tamburellando nervosamente con le dita su un pacchetto di sigarette. Diede un'ennesima occhiata in giro, e fu questo a convincere Stella. Era un'occhiata solo apparentemente casuale: in realtà aveva uno scopo ben preciso e registrava tutto. Era identica a quelle che lei aveva gettato alla porta nell'ultima ora. «D'accordo» disse Stella. Tirò fuori una sigaretta e il ragazzo le tese un fiammifero. Era visibilmente sollevato. «Ti ho già visto ieri» le disse. «Ma dovevamo essere sicuri che nessuno ti seguisse». «Dovevamo?» «Edgar e io».

«Come ti chiami?». «Nick». Più tardi, Stella mi disse di aver avuto la sensazione che tutto si fosse capovolto. Non era lei che stava abbandonando il suo mondo per raggiungere un uomo braccato, un fuggitivo; era il fuggitivo che aveva un suo mondo protetto, in cui le stava offrendo asilo. Era lei la braccata, e non aveva più un posto dove andare. Il comportamento melodrammatico di quello spilungone vestito di stracci non faceva che rendere la situazione ancora più bizzarra. Da lì in poi fu come entrare in un sogno. Quel Nick la accompagnò a una Vauxhall parcheggiata dietro la stazione, una macchina sporca con le imbottiture strappate e rifiuti ovunque, sui sedili, sul pavimento, sul cruscotto. Passarono il fiume a Westminster e si diressero a est. C'era un caldo fuori stagione, e molto smog, e benché il sole splendesse sul Tamigi l'aria era ferma, polverosa, opprimente. Non un alito di vento. Era una zona di Londra che Stella non conosceva. Stradine anguste separavano magazzini in disuso del secolo scorso, o forse di quello prima. Gli edifici lasciavano filtrare pochissima luce, e avevano tutte le finestre murate, o spaccate, o incrostate di polvere. Passarono vicino a un cratere dell'ultima guerra circondato da una catena, e Stella notò un gattino nero sotto il sole che si faceva strada tra le macerie. Ciuffi di erbacce ricoprivano le cataste di mattoni rotti e di legname. Nonostante l'ora non c'era in giro un'anima. Per tutto il viaggio si concessero un solo, breve scambio di battute, quando a Stella venne spontanea una domanda. «Come ti ha detto che ero?». Nick sorrise senza rispondere. «E dài». «Un Rubens». «Oh, un Rubens». Era un modo di dire tutto loro, suo e di Edgar, ma adesso lo sapeva anche Nick. Stella ci rifletté. Strano, non le importava. Vide il ragazzo controllare lo specchietto. Erano arrivati in una strada deserta vicino al fiume. Nick frenò di colpo, ingranò la retromarcia e si infilò velocemente in un vicolo che portava a un cortile dietro a un magazzino. C'erano edifici su tre lati, e sul quarto, proprio di fronte a loro, un viadotto ferroviario. Sotto le arcate, un mercato all'ingrosso di frutta e verdura: deserto, come tutto il resto, con i lucchetti appesi a porte e inferriate. «Eccoti arrivata».

Stella scese dalla macchina. Nell'aria c'era odore di arance marce. Le finestre degli edifici tutt'intorno al cortile sembravano fissarla come tanti occhi ciechi. Contro il muro, pile e pile di copertoni usati cuocevano al sole. Per terra, un foglio di giornale si muoveva appena. Nick lasciò Stella vicino alla macchina in mezzo al cortile e sparì nel vicolo. Tornò quasi subito e la accompagnò fino a un andito sul retro di uno degli edifici. Era buio e puzzava di urina. Stella pensò che stessero per ammazzarla. Nick aprì una porta in fondo all'andito. Una scala stretta e ripida si arrampicava nell'ombra. L'aria era umida, fredda. Adesso c'era puzza di muffa e di escrementi. «Sali, dai» la incitò. «Lui dov'è?». «All'ultimo piano. Sali». Nick sembrava vagamente divertito, e Stella pensò che la schernisse; perché si era fatta portare fin lì di buon grado, forse, oppure perché adesso esitava, la gran signora fuori dal suo ambiente naturale e sul punto di perdere le sue fragili sicurezze. Ora Nick non era più comico, era sinistro, ma Stella cominciò lo stesso a salire, e del resto che cos'altro avrebbe potuto fare? I gradini si incurvavano scricchiolando sotto i suoi piedi. L'aria era appiccicosa. Un corrimano di legno levigato dall'uso era malamente fissato al muro. Quando si rese conto che Nick non la seguiva Stella si fermò, appoggiata al corrimano, e si voltò a guardare. Nick era ai piedi della scala, e la teneva d'occhio. Il suo lungo indice le faceva cenno di salire, di continuare a salire, di salire fino in cima. Stella fece diversi piani. In cima, una finestra polverosa dava sul cortile sottostante. Vide Nick aprire la portiera della Vauxhall e si tirò indietro, urtando un pezzo di tubo metallico che cadde sull'assito sollevando una nuvoletta di polvere. Sul pianerottolo c'era una porta, che Stella aprì timidamente. Era terrorizzata. Davanti a lei si apriva uno stanzone talmente ampio che le finestre rischiaravano soltanto una striscia di pavimento. A poco a poco i suoi occhi si abituarono alla penombra. Sulla parete di fondo, da cui l'intonaco si era staccato scoprendo le assi e il canniccio, si aprivano alcune porte. «Edgar?». Stella avanzò di qualche passo. Il rumore dei suoi tacchi alti sull'assito sembrava assordante. Portava un foulard e un impermeabile estivo color tabacco con la cintura annodata, e aveva una grande borsa gettata su una spalla. Una figura con la barba la guardava dall'ombra. Stella lo vide al-

l'improvviso, e non riuscì a trattenere un grido. Edgar si fece avanti sorridendo, e lei gli corse incontro. *** Rientrò a casa qualche minuto dopo le sei, e quando scese dopo il bagno trovò Max, appena tornato dall'ospedale. Era di buon umore, evento raro in quei giorni. Voleva sapere com'erano andati i suoi acquisti, e, visto che il suo era un interesse puramente formale, per Stella non fu difficile elencare i contrattempi e i giri a vuoto che avrebbero reso necessario un'altra puntata a Londra venerdì. Lui le propose una passeggiata in giardino prima di cena, e Stella trovò prudente acconsentire. Cominciarono dall'orto, e Stella trovò paradossale che quello fosse, almeno tecnicamente, territorio di Max, perché lei sentiva ovunque la presenza del suo amante. Edgar. Si era fatto crescere la barba. Nella tiepida serata di inizio settembre l'aria era stagnante, afosa. Il rigoglio estivo aveva prostrato la terra, e i frutti di quell'effimera esplosione di vita si stavano decomponendo. Da dietro il muro si sentivano gli uccelli cantare. «Hai visto Brenda?» chiese Max mentre risalivano il sentiero, fermandosi a ispezionare ora questa ora quella pianta. «Non ho avuto tempo». «Ma sì, in fondo perché avresti dovuto? Ne avrai fin sopra i capelli di mia madre, dopo quest'estate. Per non parlare di quell'altra storia...». La sua voce si spense. «Brenda e io andiamo d'accordo, quando è necessario. Anzi, mi ha fatto piacere averla qui. È stata preziosa, con Charlie». Erano arrivati alla serra. I lavori erano stati interrotti, e lo scheletro incompleto della grande struttura bianca, col suo debole lucore nel crepuscolo, sembrava una rovina. Max sospirò. Inesorabilmente, la conversazione si era spostata sul periodo successivo alla fuga di Edgar. Non riuscirono mai a parlare a fondo di ciò che era accaduto e di come da allora la posizione di Max in ospedale fosse cambiata. Ma era davvero cambiata? Si sedettero a fumare sulla panchina vicino al muro. Max le chiese di nuovo della sua giornata a Londra, e per Stella non fu facile riportarlo ai suoi soliti argomenti di conversazione, che in genere avevano a che fare con il suo lavoro. Si domandava perché lui le stesse così addosso, e ricordò che a letto, qualche notte prima, le aveva detto di averla perduta. Pensò che se voleva vedere regolarmente Edgar a Londra bisognava che nel suo matrimo-

nio tutto tornasse normale. Doveva ridiventare invisibile, per Max. Lui le prese la mano. «Mi piace questo posto, la sera». La guardò: «Ti sta venendo freddo?». «Ho un po' di brividi. Dovevo portarmi il cardigan». «Torniamo dentro». Risalirono il sentiero nel tramonto, mano nella mano. Solo qualche giorno dopo venni a sapere di questo viaggio a Londra, e del secondo che Stella fece nella stessa settimana. In quel momento Stella era in una posizione precaria. Curiosamente, nonostante la frenesia che avevano di vedersi, nei primi giorni della loro storia la tensione era stata minore. Allora Stella aveva persino temuto che quella follia amorosa fosse causata proprio dai limiti della situazione, e che senza quei limiti, e la smania che alimentavano, prima o poi si sarebbe chiesta, per puro sfinimento, che cosa l'avesse spinta a correre quei rischi. Mi confessò che certe volte, in qualche angolo della sua mente - un luogo in cui le priorità erano la sicurezza, la prudenza, la salute - era arrivata a sperare di vedere la cosa ridimensionarsi da sé, di sentirsi libera da quell'ossessione su cui non aveva alcun controllo. Ma adesso no. Adesso tutte le strutture che avevano sorretto la sua vita quotidiana, le sue responsabilità, la famiglia, le apparenze, la routine erano diventate meri involucri. Continuava a tenerle in piedi, ma per ragioni di puro pragmatismo; non voleva attirare né attenzione né interferenze, disse, perché altrimenti non avrebbe potuto andare da lui. E allora, che cos'era successo? Stella pianse sommessamente raccontando di quel giorno, quando aveva salito le scale fino al sottotetto, dove Edgar la stava aspettando. Non avevano perso tempo. Erano corsi nella stanza in fondo, quella che lui chiamava il suo studio, ed erano saliti su per una scala fino a una specie di soppalco con un materasso, dove si erano buttati. Qui provai a farle dire qualcosa di più, perché mi interessava sapere se dal punto di vista sessuale avesse notato qualcosa di diverso rispetto a prima, al manicomio, ma la sua unica risposta fu che stavolta non c'era stato bisogno di non farsi sentire. Dunque primitivo, frenetico, e anche rumoroso (il corsivo è mio). Più tardi, nudi sulle coperte, avevano parlato dei giorni successivi all'evasione, dell'arrivo di Edgar a Londra, di come Nick fosse andato a prenderlo e lo avesse portato lì, mettendogli a disposizione il suo studio. Stella mi disse di non essere mai stata in una stanza come quella. Era uno spazio indu-

striale, con le pareti di mattoni fuligginosi e gli alti soffitti lungo i quali correvano le tubature. C'erano tre grandi finestre che davano su un magazzino abbandonato in fondo alla strada. Un tavolo su cavalietti addossato al muro era ingombro di carta da disegno e altri materiali. Stella disse poi che quella stanza da artista le piaceva, la faceva sentire, oh, spericolata, originale, e libera. Scese di sotto e fece un giro con l'impermeabile aperto, un bicchiere in mano, raccogliendo oggetti, esaminando tutto. Più tardi, di nuovo a letto, raccontò a Edgar di come aspettando la sua chiamata avesse tirato avanti a fede e gin. «E insomma non hai mai dubitato di me». Stella lo guardò e scosse la testa. «Io al tuo posto qualche dubbio l'avrei avuto». «Tu non sei me». «E chi sono, allora?». Si strinse a lui, le mani che esploravano il suo corpo, seguendone le forme, e poi la sua faccia, strofinandogli le dita nella barba umida. Fecero di nuovo l'amore, il tempo volò, e solo quando Stella si rimise a sedere dicendo che doveva andare risuonò un'unica nota aspra, minacciosa. Stella lo sentì muoversi nel letto, alle sue spalle. «Torni da Max» disse. «Torno da Max». «Sa di noi?». I «Non vuole saperlo». All'improvviso la voce di Edgar si riempì di scherno. «È uno smidollato. E gli altri? Peter Cleave sarà fuori di sé!». Stella fu colpita da questo sfogo. Edgar era improvvisamente passato dall'indolenza del dormiveglia al furore del risentimento e del disprezzo. Stella si inginocchiò vicino a lui baciandogli il viso e il collo, accarezzandogli la testa, mormorando parole di conforto. Lui scrollò la testa, scacciò l'irritazione, e si calmò. Adesso non voleva lasciarla andare. Voleva sapere quando sarebbe tornata. Le disse che aveva bisogno di lei. Stella gli si sdraiò vicino e lo strinse fra le braccia. Non lo aveva mai visto così, la sua immagine di lui era sempre stata quella del fuorilegge, dell'artista beffardo, spavaldo, appassionato, libero. Ora vedeva con chiarezza la forma che la sua vita avrebbe preso: frequenti viaggi a Londra con pretesti che non destassero sospetti. Non le importava quanto sarebbe stato difficile. Questa improvvisa vulnerabilità non mi sorprendeva. Gli uomini gelosi sono intrinsecamente deboli. Hanno il terrore di essere abbandonati. Edgar la accompagnò, anche se lei non voleva. Era di nuovo di buon umore, e

non ci furono altri drammi. Tenendosi abbracciati stretti andarono fino alla prima strada frequentata, dove Edgar rimase a fumare sulla soglia di un pub mentre lei chiamava un taxi. Adesso il caldo era meno soffocante. Dal finestrino posteriore del taxi Stella lo vide allontanarsi dal pub, buttar via la sigaretta e tornare verso il fiume. Si rese conto che portava la giacca di lino di Max, e i suoi calzoni, legati stretti in vita con una sottile cintura di cuoio. Ripensandoci, le veniva da sorridere. Il venerdì Nick tornò a prenderla. Ora Stella lo vedeva come il suo alleato, il suo intermediario. La accompagnò al magazzino, e stavolta Stella notò il nome della strada, che era Horsey Street. Salendo le scale non fece quasi più caso al buio, agli scricchiolii, al penetrante, fetido puzzo dell'edificio abbandonato che ormai ospitava soltanto derelitti e parassiti. Si arrampicò in fretta su per l'ultima rampa, aprendosi il cappotto, e si precipitò dentro. Edgar le saltellò incontro (come un lupo, disse Stella, un grosso lupo) e passarono un altro pomeriggio a letto, e di nuovo il tempo scivolò via in modo quasi irreale. Lei gli aveva portato dei vestiti, del sapone e una bottiglia di whisky, e bevvero un bel po'. Scendendo le scale per andare nello studio Stella barcollò, e inciampò mentre si infilava la gonna. Tutto quell'alcol a stomaco vuoto: Stella lo reggeva bene, ma non senza mangiare niente. Mentre percorrevano Horsey Street alla ricerca di un taxi notò di avere qualche problema ad avanzare in linea retta; si rese conto che prima di rientrare a casa sarebbe stato il caso di riprendere il controllo. Voleva o non voleva ridiventare invisibile? Be', il modo migliore non era certo tornare da un giro di negozi barcollando. Alla stazione prese un caffè nero e un sandwich, e passeggiò avanti e indietro sulla banchina fino alla partenza del treno. Poi si sedette vicino a un finestrino aperto inspirando profondamente, ma d'un tratto si sentì ridicola, chiuse il finestrino e si accese una sigaretta. Non era ubriaca, assolutamente no. Appena scesa dal treno si incamminò verso il parcheggio. Mise in moto, ma staccò la frizione troppo bruscamente e la macchina fece un salto indietro come una gazzella impaurita, e si spense. Stella la rimise in moto e ingranò la retromarcia con estrema prudenza, stavolta senza errori. Quindi tornò a casa lentamente, guidando con una concentrazione spasmodica. Andò dritta in cucina e si mise davanti al lavandino a bere acqua fresca. Per fortuna, Max non era ancora tornato dall'ospedale. Prima di incontrarlo

doveva assolutamente andare di sopra a farsi un bagno. Si girò, e rimase di sasso vedendo Charlie seduto al tavolo della cucina, che dondolava le gambe e la fissava con sguardo clinico. «Tesoro! Da quanto tempo sei qui?». «Da non molto. Dove sei stata?». «Sono dovuta tornare a Londra. Perché?». Mentre Stella beveva il suo bicchier d'acqua, Charlie continuava a fissarla. «Sei ubriaca?». «Certo che no! Perché diavolo me lo chiedi?». «Hai gli occhi strani». Quando Max tornò a casa dal lavoro, Stella era nella vasca. Lo sentì parlare di sotto con Charlie. Uscita dal bagno, si sentiva assolutamente presentabile. Si era lavata e truccata, si era lavata i denti e si era esaminata attentamente gli occhi alla ricerca di quei sintomi di ubriachezza che Charlie sembrava avervi scorto, ma non ne trovò. Si sarebbe vestita, sarebbe scesa di sotto e avrebbe preparato la cena, e sarebbe stato tutto come al solito, una tipica serata casalinga, en famille, nella casa del vicedirettore. Dopotutto, lei era la donna invisibile. Invisibile fino a un certo punto. Dal bagno passò in camera da letto, la vestaglia leggera aperta sulla pelle nuda, e lì trovò Max. In abito scuro, era appoggiato alla finestra vicino alla sua toletta, e guardava fuori. Quando la sentì entrare si voltò, e Stella si richiuse la vestaglia annodandosi la cintura. «Ah, sei qui» mormorò. Gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla guancia, poi sedette alla toletta e cominciò a passarsi il detergente sul viso. Mentre lo faceva, sollevò lo sguardo e incontrò gli occhi di lui che la fissavano. «Siediti, caro» disse. «Parlami. Raccontami cosa hai fatto oggi». Max aveva qualcosa che non le piaceva, qualcosa che la inquietava. «Dove sei stata?» le chiese. Stella posò il vasetto della crema. «Dove sono stata? Lo sai dove sono stata. A fare spese in città. Cosa c'è, Max?». «Dimmi la verità». «Ti sto dicendo la verità. Perché diavolo dovrei mentire? Scusami, ma non capisco. Perché mi fai questo interrogatorio?». «Fammi vedere quello che hai comprato». Ci fu una lunga pausa. Lei rimase seduta alla toletta, girata a metà verso

Max, che si era seduto sul letto. Secondo Stella in quel momento, mentre si guardavano, era come se fossero stati nudi l'uno di fronte all'altra. Ma Stella non aprì bocca. In quei momenti di nudità era forte quanto lui, e tutto l'acume, tutta l'esperienza psichiatrica di Max non potevano perforare il suo scudo femminile. Sempre senza dire una parola, Stella si voltò di nuovo verso lo specchio, ricominciando a passarsi la crema. Lo specchio aveva due ante orientabili, che lei regolò in modo da continuare a guardarlo. Max non si mosse dal bordo del letto. Dandogli la schiena, Stella cercava di fargli capire che nei limiti del possibile avrebbe cercato di far finta che lui non avesse parlato. E, soprattutto, che non avesse voluto insultarla. Gli stava offrendo la possibilità di scusarsi. Ma lui non si scusò. Il suo volto rimase freddo come l'acciaio. «Fammi vedere quello che hai comprato» disse lui di nuovo. Senza una parola, Stella si pulì le dita su un fazzoletto e si alzò in piedi. Passò vicino al letto per andare fino all'armadio che correva lungo tutta la parete vicino alla porta. Lo aprì dalla sua parte e si alzò in punta di piedi per prendere una scatola dallo scaffale sopra gli attaccapanni. La scatola era avvolta in carta da regalo. Tornando alla toletta la gettò sul letto. «Cos'è?». Stella taceva, spalmandosi la crema. Adesso nella voce di Max c'era una punta di incertezza, ma Stella continuava a non dire nulla. «Romperò la carta» disse lui. Stella aveva la faccia vicina allo specchio, ma riusciva a vedere Max che apriva il pacco senza strapparla. Dentro c'era una lunga scatola di cartone. «Harrods» mormorò. Aprì la scatola. Scostò le falde di carta velina e tirò fuori due pigiami di seta. Poi si voltò verso la toletta. «Sono per me?» chiese. La collera era come rifluita via. Stella uscì di corsa dalla stanza, ma sulla porta si fermò per dire: «E per chi diavolo vuoi che siano?». Sbatté la porta del bagno, la chiuse a chiave e aspettò. Dopo un paio di minuti lo sentì scendere di sotto; non aveva neppure tentato di scusarsi da dietro la porta. Stella tornò in camera a vestirsi. Quando scese di sotto Max era in soggiorno. Andò dritta al mobiletto degli alcolici e si versò un gin; ormai era decisamente sobria, e ne voleva uno abbondante. Max andò a chiudere la porta. «Sono uno stupido» disse. «Ora ti spiego cosa è successo. Charlie mi ha detto che eri tornata a casa ubriaca e io ci ho costruito su tutta una fantasia. Una fantasia di tradimento. Ti devo delle scuse».

Stella si mise a sedere in poltrona, e per qualche istante rimase a godersi il disagio di Max. Alla fine decise di parlare. «Charlie ti ha detto che sono tornata a casa ubriaca?». «Sì». «Bisogna che gli parli. Anzi no, a pensarci meglio gli parlerai tu. Come si permette, Max? E come ti permetti tu? Come ti permetti di accusarmi di averti tradito solo perché il bambino ha una fantasia perversa?». «Mi sento uno stupido. Mi dispiace». Stella continuò a guardarlo bevendosi il suo gin. «Non penso che basti. Sono preoccupata. Questi ultimi mesi sono stati un'autentica tortura. Tu non te ne sei neanche accorto, ma nel bel mezzo del finimondo chi ti ha fatto trovare la casa pulita e la cena pronta? Chi, dimmi un po'? Non certo tua madre». «Lo so». «Già, lo saprai anche, ma è la prima volta che te lo sento dire. Io ho visto com'è stato difficile per te, ma credo che tu non abbia pensato neppure per un attimo a quello che stavo passando io. E con tua madre per casa». «È arrivata al momento sbagliato». «Eh, sì» disse Stella con sarcasmo. Adesso era arrabbiata, ma si divertiva anche. Max andava avanti e indietro con lo sguardo corrucciato. Una volta le aveva detto che dalle loro discussioni imparava sempre qualcosa. «Perché mi hai comprato quei pigiami?». «Come pegno di pace. O premio di consolazione. O nuovo inizio. Non lo so, perché una moglie compra un regalo a suo marito dopo un periodo difficile? Sei tu lo psichiatra, o no?». Max si sedette sul sofà con i gomiti sulle ginocchia, fissando il tappeto, rigirando gli occhiali tra le dita. «Mi sento un verme. Devo sembrarti proprio un becero». «Guarda, lascia perdere». Max alzò lo sguardo. Sorrise. «Non cedi di un millimetro, eh?». «Non sono più disposta a tollerare che tu prenda quello che ti viene da me come qualcosa di dovuto, né tantomeno che tu creda alla prima storia che Charlie ti racconta. È offensivo. Ma come gli viene in mente? E soprattutto, come viene in mente a te di dargli retta?». «Gli parlerò, Stella. Per la terza volta, ti chiedo scusa. E mi piacciono, i pigiami. Grazie». Max le si avvicinò, e Stella si lasciò baciare una guancia. «L'alcolista ne vuole ancora un goccio?».

«Sì,» rispose Stella «lo vuole». Quella notte lui insistette per fare l'amore e lei non poté tirarsi indietro, anzi, dovette fingere entusiasmo, sempre per quella storia dell'invisibilità. Dopo, Max era soddisfatto di sé. Si fumò una sigaretta col suo pigiama di seta, appoggiato contro la testiera del letto, mentre le ombre dei rami fuori dalla finestra si muovevano sulla parete e sul soffitto. Stella lasciò che si crogiolasse nel suo piccolo trionfo post-coitale. Voleva vederlo contento, voleva che sentisse che nel suo matrimonio tutto andava per il meglio, che lui era un buon marito e lei una buona moglie. In quegli stessi giorni Stella fece un'altra scappata a Londra, che ci dice molto sulle tensioni e le contraddizioni della doppia vita che tentava di condurre in quel periodo. Prese un taxi dalla stazione fino in fondo a Horsey Street, imboccò il vicolo e salì le scale. Aveva solo un'ora, perché più tardi nel pomeriggio doveva passare a prendere Charlie. A letto, Edgar le disse: «Non farti toccare da lui». Avrebbe dovuto sembrarle un campanello d'allarme, ma non fu così. «Non farmi toccare da chi, amore mio?». «Da Max». «Non ti devi preoccupare di Max, è finita tra noi. Da un pezzo». «Ma devi dormire nel suo stesso letto?». Stella si rese conto che Edgar non aveva un'immagine chiara del suo matrimonio, né più in generale della sua difficile situazione. «Troverebbe strano che non lo facessi». «E tu sei contenta». «Naturalmente no, ma cosa posso farci? Amore, non sopporto che nessun altro mi tocchi, a parte te. Certo che non mi lascio toccare da lui. E comunque lui non si sogna di farlo». «No?». «Da anni». Questo parve sollevarlo. Stella lo prese di nuovo fra le braccia, e poi, con grande disappunto di entrambi, dovette staccarsi da lui, lavarsi, vestirsi, e trovare un taxi che la portasse alla stazione. Aveva lasciato che si facesse pericolosamente tardi. Scesero in cortile e andarono al solito posto, dove si abbracciarono per qualche istante sulla soglia del pub; poi Edgar si alzò il colletto e sgattaiolò via, mentre Stella cercava un taxi. Non ce n'erano, e col passare dei minuti Stella si rese conto che avrebbe perso il treno, e che non sarebbe anda-

ta a prendere Charlie a scuola come aveva promesso. Per qualche secondo si sentì prendere dal panico, e corse quanto i tacchi alti le consentivano fino all'angolo più vicino, dove il traffico era più intenso. Poi scoprì che non le importava. Non le importava di perdere il treno e non le importava neppure di essere in ritardo. Charlie sarebbe andato a casa in autobus, lei avrebbe raccontato una storia qualsiasi e non sarebbe successo nulla. Era abbastanza lucida per riconoscere l'aggressività che si annidava in quel pensiero, e per capire che non aveva ancora perdonato al bambino di aver fatto la spia. Prese il treno all'ultimo minuto. Sedette accanto al finestrino e guardò i cortili delle villette a schiera, con i loro muri alti e le lenzuola che sbattevano al vento. Vide passarle davanti agli occhi gli scambi, i cortili delle fabbriche, gli appezzamenti di terreno, poi i prati e l'aperta campagna. Pensò a Edgar. Quel suo insistere perché Max non la toccasse l'aveva commossa. Sapeva come potesse diventare mostruosa la gelosia nelle situazioni sbagliate. E la loro situazione, piena di difficoltà e di frustrazioni, non era un terreno fertile per la gelosia? Edgar era così isolato, lei era il suo solo porto, il suo unico rifugio, e ogni volta lo lasciava per tornare alla casa e al letto di un uomo che lui odiava. Era una situazione che poteva facilmente provocare un parossismo di gelosia. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per impedire che accadesse. Avevano già abbastanza nemici intorno a loro. Questo sfoggio di ingenuità mi lasciò francamente stupefatto. Davvero Stella non riusciva a vedere il rischio che correva? Vivere in mezzo agli psichiatri non le aveva insegnato nulla? VI Stella era nell'orto; mi disse poi che ci andava quando voleva abbandonarsi alla nostalgia degli inizi della loro storia. Tutt'intorno si coglievano già i primi segni dell'autunno, le ombre lunghe nella luce del pomeriggio, i colori più cupi e più brillanti. Qualcosa, nell'aria appena pungente, le parlava di foglie morte, di notti fredde, e della densa rugiada che all'alba brillava sulle ragnatele fra i rami. La squadra di pazienti in semilibertà era di nuovo al lavoro, sorvegliata come prima da John Archer. Spazzavano, pulivano, bruciavano, potavano quello che era cresciuto nella stagione ormai finita; preparavano il giardino per il letargo invernale. Seduta sulla panchina vicino alla serra, Stella guardava un paziente sconosciuto spingere una

carriola fino al falò che bruciava senza fiamma in una radura in fondo all'orto. Il fumo saliva dal cumulo maleodorante offuscando la luce del pomeriggio. Stella provava un senso di conclusione, di fine. I meli erano carichi e i frutti caduti cominciavano a marcire nell'erba. Avrebbe dovuto raccoglierli per la conserva, ma preferiva rimanere seduta e pensare a quello che era successo durante l'estate. Non si erano mai fermati a riflettere, avevano agito alla cieca. Adesso che riusciva a vedere le cose con un minimo di prospettiva capiva che fermarsi sarebbe stato impensabile. Ma c'era qualcos'altro che non avrebbe pensato, fino a poco tempo prima: di poter essere così temeraria. Il loro amore oggi era più forte, si ripeteva, più solido, più tenace di quanto avesse osato sperare in estate. Il giardino stava morendo, andava in letargo per l'inverno, ma i suoi germogli erano ancora in fiore. Lasciandosi cullare da questi pensieri gradevoli e vagamente elegiaci, alla cui formulazione avevano contribuito i due gin che aveva bevuto prima di pranzo, Stella pensò di rientrare in casa. Ancora cinque minuti, si disse, e in quel preciso istante la porticina in fondo all'orto si aprì. Imboccai il sentiero, avanzando con cautela fra l'erba secca e i fiori ammucchiati sulla ghiaia e cercando di non inalare il fumo. Dopo la fuga di Edgar avevo intuito che Stella nascondeva qualcosa; e secondo me, visto che da un po' mi girava alla larga, lei sapeva che sapevo. Fino a quel momento la mia tattica era stata rimanere alla finestra senza fare nulla ma appena messo al corrente di quelle sue gite a Londra capii che dovevo agire senza perdere altro tempo. La mia intrusione l'allarmò. Vedendomi attraversare la cortina di fumo le tornò in mente Jack Straffen, che qualche settimana prima le era andato incontro sullo stesso sentiero. Evidentemente noi psichiatri dovevamo trovarla irresistibile? «Peter, che bella sorpresa. Siediti. Mi stavo giusto godendo l'ultimo scampolo di estate». «E che estate. Mi verrebbe quasi voglia di andare in letargo fino a primavera. Come stai, mia cara?». «Bene, grazie. Credo che Max sia in ospedale». «Posso fare a metà dello scampolo? Cosa dici? Ci siamo visti così poco, negli ultimi tempi. Mi sembri in gran forma. Sbaglio?». E qui, vedendomi sfoderare, be', sì, lo sguardo svagato, Stella si mise sulla difensiva; ma al tempo stesso lottava contro un bisogno quasi insopprimibile di aprirsi come un tempo, prima che la nostra amicizia fosse compromessa. Tutte le grandi passioni hanno la disperata necessità di rive-

larsi, di raccontare la loro storia, e io ero proprio l'ascoltatore perfetto, un amico saggio e gentile. Stella doveva costringersi a uno sforzo incessante per tenermene fuori. «Adesso che Charlie ha ripreso la scuola ho più tempo per me. Quest'estate con lui in casa è stato faticosissimo. Per non parlare di Brenda. Non credo che Max si renda ben conto di cosa significhi avere sua madre fra i piedi a metter becco su tutto». Più tardi mi confidò di aver gettato l'amo per vedere se abboccavo. «Quel tesoro di tua suocera. È davvero impagabile. Sai che mi ha chiesto di convincere Max a non candidarsi per il posto di Jack?». «Non ci posso credere». «Mi ha preso da parte, mi ha detto quanto ci tenesse a sapere cosa ne pensavo, e poi mi ha chiesto di non incoraggiarlo, anzi se possibile di dissuaderlo». «Devo dire che in questo sono d'accordo con lei». «Immagino che tu preferisca tornare a Londra, no?». Prima di proseguire lasciai che questa frase così densa di significato rimanesse nell'aria per un po'. «Ma Max ci tiene davvero a quel posto? Io come puoi immaginare non gliene ho parlato». «Temo di sì» rispose Stella. «Capisco». Presi il portasigarette d'argento dalla tasca interna della giacca e fumammo. Poi Stella mi domandò una cosa che fino a quel momento non le era mai passata per la testa. «Peter, non è che lo vuoi tu, il posto di Jack?». Mantenni un'aria assorta e pensierosa, ma non sorpresa. «A volte me lo chiedo. Ma no, sai, credo di no. È roba da giovani, e mi toccherebbe lavorare troppo. E poi ormai in posti come quello finisci per fare il passacarte». Mi fermai lì. La lasciai pensare alla mia vita, alla mia bella casa a pochi chilometri da lì, con i suoi bei quadri, i suoi bei mobili, e la sua bella biblioteca. No, non riusciva proprio a vedere come in un'esistenza come la mia, tutta giocata sull'equilibrio fra il rigore dello psichiatra criminale e le debolezze dell'esteta, potessero trovar posto i complicati problemi amministrativi di un grande istituto come il nostro. O una vita sessuale, fra l'altro. Immagino che, a riguardo, avesse sentito le solite congetture, ma probabilmente il suo sesto senso le diceva che, qualunque cosa avessi

combinato da giovane, ormai era acqua passata. E nonostante la franchezza che c'era, o c'era stata fino a poco tempo prima tra noi, non mi aveva mai chiesto niente. Si doveva essere fatta l'idea che i miei appetiti non fossero poi così voraci, e cercava di immaginarsi che razza di vita conducessi. Senza riuscirci. La sentivo pensare queste cose. «Caro Peter» mormorò. «Vedi ancora Edgar Stark?» le chiesi. Allerta! Ero pericoloso. Non doveva sottovalutarmi. Un'ammissione parziale l'avrebbe messa al riparo dal peggio? No, doveva negare tutto. Ed essere convincente. Si girò lentamente su se stessa con un sorrisetto incredulo, sgranando gli occhi. «Cosa te lo ha fatto pensare?». Il tono era calmo; niente onta, per intenderci. Mi tolsi un immaginario granello di polvere dai pantaloni. Ero vestito da lavoro: ottima stoffa, taglio impeccabile, il tutto di un bel nero psichiatrico. «La tua reazione alla sua fuga». Stella capì subito che non avevo avuto bisogno di prove circostanziali, tipo le ore che aveva passato qui nell'orto sola con Edgar (certo, John Archer mi aveva informato, ma lei non poteva saperlo), o la sua presenza al campo da cricket proprio mentre si sospettava che Edgar stesse rubando gli alcolici dal capanno. No, mi era bastato il mestiere, tutto qui. Avevo semplicemente osservato e interpretato la sua reazione emotiva all'evasione. «Non capisco». «Edgar non ti ha detto che se ne andava, questo è chiaro». «E perché avrebbe dovuto dirmelo?». Non risposi. «Perché, Peter? Perché un paziente dovrebbe dire alla moglie di un medico che sta per scappare?». «Proprio così. Perché?». Eccola, l'onta. «Questa è una cattiveria, e un insulto, anche. Non ti permetto di parlarmi così!». Si alzò, passò di corsa in mezzo al fumo del falò e continuò a correre fino a casa. Entrò in cucina e si mise davanti al lavandino. Sentiva il nostro fiato caldo sul collo. Ma non si era ancora liberata di me. La seguii fin dentro casa, tenendola d'occhio dalla finestra mentre mi avvicinavo. Era lì in piedi, tremante. Non mi aveva mai visto così. La mia abituale espressione ironica aveva lasciato

il posto a qualcosa di molto serio, che la spaventava a morte. Un attimo dopo ero vicino a lei in cucina. «Adesso ascolti tutto quello che ho da dirti. Voglio che tu ti metta bene in testa che Edgar Stark è un uomo pericoloso. Guarda che non sto scherzando. Lo capisci?». Mi ero portato dietro il suo cestino, e lo tenevo ancora in mano. Notandolo, Stella accennò un sorriso, poi me lo prese e appoggiò le mele sul tagliere vicino al lavandino. Aprì il cassetto delle posate, scegliendo un aggeggio con cui cominciò a togliere i torsoli. Ora non avevo tempo per analizzare le sue attività di spostamento. Le appoggiai le mani sulle spalle. La costrinsi dolcemente a voltarsi, quindi le presi l'aggeggio e me lo infilai in tasca. «Hai paura che ti ci accoltelli?» disse. «Stammi molto bene a sentire. Edgar beve?». Stella capì che non avrei mollato tanto facilmente. Sedette al tavolo della cucina e disse che non capiva perché dovesse starmi a sentire. Mi sedetti anch'io. Le dissi che Ruth Stark era stata la moglie di Edgar, ma prima ancora la sua modella, di più, il cuore, l'origine stessa del suo lavoro. Questo almeno fino a quando, per una qualche ragione, non lo aveva deluso. Allora la sua idealizzazione era crollata, e Edgar aveva cominciato a sviluppare una serie di deliri morbosi che si erano dilatati fino a sfuggire del tutto al suo controllo. A questo punto aveva ucciso Ruth, poi le aveva tagliato la testa e l'aveva mutilata. Senza mai dare segno di capire davvero perché lo avesse fatto, né di provare un sincero rimorso. Stella rimase ad ascoltare in un silenzio assente, rifiutando di guardarmi in faccia. Quindi ripeté più volte che stavo sprecando il fiato, perché innanzitutto lei non sapeva dove fosse Edgar, e in secondo luogo non aveva alcuna ragione per vederlo; e ora, se non avevo altro da aggiungere, mi pregava di andarmene. Le dissi ancora una volta che avevo voluto solo metterla in guardia, e la pregai di prendere molto seriamente le mie parole, qualsiasi cosa intendesse fare; quindi me ne andai. Più tardi mi raccontò che subito dopo corse di sopra, si gettò sul letto e scoppiò in lacrime. Mi odiava per quello che le avevo appena fatto. Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta sul letto a piangere. Sperava che insieme alle lacrime scivolassero via sia l'angoscia delle ultime settimane sia la consapevolezza che, ormai, noi sapevamo. Ma se davvero sapevamo, pensò, per loro era finita. Questo innescò un'altra crisi di disperazione, e Stella pianse fino a sentirsi esausta, svuotata. Poi cominciò a pen-

sare. Si girò su un fianco e decise che, tutto sommato, non era detto che fosse davvero finita. Andò in bagno a sciacquarsi la faccia, poi passò davanti alla toletta per riparare i danni. Non è detto, si ripeteva, non è affatto detto. Se mollava adesso, se non tornava a Londra, Edgar non avrebbe corso rischi, ma sarebbe stata la fine. Se prendeva tempo, la prossima volta non l'avrebbe più trovato. Ma se si muoveva subito, se andava subito da lui, che cosa avremmo potuto fare? Niente, se si muoveva subito non potevamo fare niente. Se si muoveva subito. Tornò di sotto, in soggiorno. La casa era vuota. Max si fermava a colazione in ospedale e Mrs Bain era tornata a casa sua. Charlie era a scuola. Bevve qualcosa. Se si muoveva subito. Camminò avanti e indietro per il soggiorno. Faceva freddo, e c'era una leggera foschia. Da fuori arrivava l'odore del fumo. Muoversi subito significava salire di sopra, riempire una valigia e chiamare un taxi per farsi portare alla stazione. Da lì sarebbe andata in Horsey Street senza più tornare indietro. Dopo un altro bicchiere chiamò il taxi. Rimase per qualche attimo inchiodata dov'era a pensare a cosa ne sarebbe stato di Charlie, e per poco non cambiò idea. Ma non lo fece, scacciò quel pensiero. Il taxi arrivò, e Stella disse all'autista di portarla alla stazione. Lungo la strada gli chiese di fermarsi davanti alla banca, dove ritirò le poche centinaia di sterline che lei e Max avevano sul conto comune. Nell'atrio della Victoria Station si sentì oppressa dalla calca, e con una certa ansia si fece largo fino al bar. Non se la sentiva di bere di nuovo, così andò a sedersi a uno dei soliti tavolini sul fondo dove si fece portare un caffè. Poi fumò una sigaretta. Era terrorizzata. Si vide mentre posava una moneta di fianco al piattino, si alzava dalla sedia e raccoglieva valigia e borsa, poi, in uno stato di assoluto straniamento, si vide che usciva dal bar come una qualsiasi signora in arrivo dalla provincia per un pomeriggio di commissioni, e magari un teatro in serata (il che giustificava la valigia). Come una di loro, Stella uscì dalla stazione e si avviò alla fila dei taxi. Dopo aver dato l'indirizzo al taxista si sistemò dietro, accese un'altra sigaretta e si mise a guardare fuori dal finestrino. Quasi subito il senso di distacco si trasformò in una specie di euforia: non c'erano altre decisioni da prendere. Lo aveva fatto, e adesso sentiva solo quella specie di ebbrezza, di vertigine che la prendeva sempre, prima di incontrare Edgar: l'unica cosa importante era che i pochi minuti che li separavano smettessero di trascinarsi e cominciassero a volare finché non fossero stati di nuovo insieme.

Adesso ogni semaforo, ogni ostacolo lungo la strada ce l'avevano con lei. Alla sua sinistra, con la coda dell'occhio, vedeva il fiume brillare al sole, la foschia del mattino dissolversi, e sulla riva opposta la cupola di St Paul. Un attimo, e arrivarono nella zona dei magazzini. Un altro, e Stella si ritrovò con la sua valigia all'inizio di Horsey Street, mentre il taxi ripartiva. Si avviò verso il fiume, i tacchi alti che picchiettavano sul selciato. In fondo alla strada due ragazzini calciavano un pallone contro un muro, usando come bersaglio la sagoma umana che ci avevano disegnato sopra col gesso. Imboccò il vicolo. Nel cortile tirava vento, e i fogli di giornale vorticavano in cerchi sempre più stretti a pochi centimetri da terra. Improvvisamente un treno sfrecciò rombando sul viadotto, sopra il mercato della frutta, facendola trasalire. Salì di corsa le scale fino all'ultimo piano. La porta era chiusa a chiave. Appoggiò la valigia per terra e bussò. Niente. Chiamò attraverso la porta con tutta la voce che si sentiva di usare. Ancora niente. Era di nuovo spaventatissima. Che Edgar potesse essere fuori non lo aveva proprio messo in conto. Bussò di nuovo, lo chiamò a voce più alta, poi si sedette sulla valigia ad aspettare. Venti minuti dopo scattò in piedi sentendo qualcuno salire. Non c'era modo di nascondersi, tanto valeva rimanere lì. I passi diventarono più pesanti, e una figura comparve sul penultimo pianerottolo. Con enorme sollievo, Stella vide che era Nick. «Grazie al cielo. Lui dov'è?» disse. «Non ti aspettavamo». «Non sapevo che sarei venuta. È dentro?». Nick bussò, urlando a Edgar di aprire. Finalmente la porta si aprì, e sulla soglia c'era Edgar, che la guardava. Stella raccolse la valigia. «Posso entrare?» disse. Gli occhi di Edgar si fermarono per un attimo su Nick, poi tornarono su di lei. «Vieni a stare qui?». «Sì». «Lo hai lasciato?». Stella annuì. «Stai con noi, adesso?». «Sto con te». Edgar sorrise con quel suo largo sorriso da lupo, le passò cameratescamente un braccio intorno al collo ed entrarono dentro allacciati, ondeggiando. Poi rimasero stretti in un abbraccio, in mezzo alla stanza.

Com'è ovvio non avevo affatto escluso che Stella potesse fare qualcosa del genere, ma ero incline a ritenere che mi avrebbe dato ascolto. Sottovalutavo, credo, sia la sua disperazione sia il potere che evidentemente Edgar aveva su di lei. Risultato, da qui in poi la perdo di vista, e di quanto accadde nei giorni successivi so soltanto quello che in seguito mi ha raccontato lei, con parole sconnesse, frammentarie, e spesso cariche di emozione. Una delle prime cose che le chiesi fu come pensava avessimo reagito alla sua scomparsa. Stella era in grado di descrivere la scena con lucidità e precisione. Rientrando a casa, Max si sarebbe chiesto dove fosse finita. Anche Charlie, a quell'ora, doveva essere tornato da scuola, benché Stella preferisse non pensare all'effetto che tutto questo poteva avere avuto su di lui. Sarebbe partita qualche telefonata, poi lo sconcerto si sarebbe trasformato in preoccupazione, quindi in angoscia. A un certo punto della serata Max, Jack e io ci saremmo riuniti per cercare di capire che cosa fosse successo. In un primo momento Max si sarebbe rifiutato di accettare l'evidenza, poi, via via che passavano le ore e di Stella continuava a non esserci traccia, si sarebbe reso conto di quello che lei gli aveva fatto. Stella disse di non aver voluto pensare né allo stato d'animo di Max, né a Charlie e a come gli avrebbero spiegato la sua assenza. Mentre preparava la valigia e chiamava il taxi senza neppure una riga di spiegazione lo aveva volutamente lasciato fuori dai suoi pensieri, cercando di sovrapporlo a Max, di renderlo tutt'uno con l'uomo che stava lasciando. Immaginare la sua reazione sarebbe stato, ovviamente, troppo pericoloso. Si era rifiutata di farlo anche il mattino dopo, quando ormai la situazione le era perfettamente chiara. L'unica traccia di senso di colpa era una presenza in ombra dietro la luce del suo amante. E non poteva guardarla, doveva fingere di non vederla, ne andava della sua felicità. Ma come era stata quella prima notte? Stupenda, ma neanche, era stata la notte più bella della sua vita. Nick era uscito a prendere pesce fritto e patatine e qualcosa da bere, poi erano rimasti ore seduti al tavolo di cucina. Era come se l'avessero rubata, quella felicità, anzi come se l'avessero trovata per caso e se la fossero portata via di corsa, perché in realtà apparteneva a qualcun altro e loro non ne avevano alcun diritto. Rimasero a bere fino a tardi, e Stella era elettrizzata alla prospettiva di passare la notte lì senza dover mai più tornare al nostro ospedale. Nel loro cerchio magico era compreso anche Nick. In fondo era stato fin dall'inizio il loro amico, e il loro salvatore, e poi quel posto era suo, era lui che aveva offerto loro un rifugio. Stava bene con Nick, e lui con lei, ed

era evidente che la triste vita che i due artisti avevano condotto fino a quel momento stava per cambiare in meglio. Quanto a Edgar, immagino benissimo la sua soddisfazione per la piega che avevano preso gli eventi. Ce l'aveva portata via, l'aveva convinta a lasciarsi alle spalle ogni sicurezza e a seguirlo nella latitanza, dove Stella credeva di trovare la libertà. La libertà! Come sempre, Edgar non perse tempo. Sapeva cosa voleva, credo sin da prima della fuga, e credo fosse per questo che si era spinto a fare quella folle telefonata da Londra: voleva scolpire la sua testa. Adesso era di nuovo un artista, ed era smanioso di tradurre in una qualche forma di espressione il suo rapporto con Stella, il complesso di emozioni forti che lei gli aveva fatto provare. Passò un'ora nello studio lavorando a uno schizzo. Per Stella era tutto affascinante: vedere gli occhi di lui che si alzavano dal foglio, sentirsi addosso quel suo sguardo impersonale, e poi i rumori: i fruscii della matita sul blocco, e i mormorii e i sospiri di Edgar. Sembrava che stesse eseguendo una delicata operazione chirurgica, non un disegno. Era la prima volta che lo vedeva lavorare sul serio, e si rese conto che solo adesso cominciava a conoscerlo. Più tardi guardò quello che Edgar aveva fatto, e ciò che vide la sbalordì. Era un groviglio di linee multiple, contorni sbavati, tratteggi, spirali. Forse sentiva la propria presenza, in quel ritratto, ma non vi si riconosceva. Le sembrava tutto così provvisorio e incerto, così indefinito, in qualche modo. Chiese a Edgar se avesse sempre disegnato così. Nello studio, seduto sul davanzale della finestra, c'era anche Nick. «Ho sempre disegnato così?». Edgar scambiò con Nick un largo sorriso e un'occhiata. Stella era in piedi vicino al tavolo e guardava il foglio, scura in viso. «Intendo dire,» fece «perché?». Edgar le si avvicinò. «Perché cosa?». «Perché non fai i contorni? Sarà una domanda stupida, ma è come... come se non sapessi chi sono». «È questo il punto» disse Nick. «Quello che non voglio» disse Edgar «è vederti...». Si passò una mano sulla faccia, irritato per essere costretto a spiegarlo a parole. Aveva le mani macchiate di grafite. Si scostò i capelli, ormai lunghi e incolti, dagli occhi, sporcandosi la fronte. Non capiva bene neanche lui perché lavorasse come lavorava. E per quanto strano possa sembrare, negava le proprie emozioni. «Vedermi come?».

«Come ti vedi tu. O come ti vedono gli altri. Come una donna affascinante, bellissima. Non me ne importa nulla. Io cerco solo un'immagine realistica. La realtà, capisci?». No, Stella non capiva. «Nel senso che vuoi vedermi dal di fuori, come se fossi un'estranea?». Adesso anche lui guardava corrucciato il disegno, picchiettando con impazienza la matita sul tavolo. «Neanche». «Come un oggetto?». Edgar si strofinò la macchia sulla fronte. «Una cosa inanimata? Insensibile?». «No, non inanimata. Solo quello che vedo». Qui Stella cominciò a scorgere un significato. «Non quello che senti». «Ecco. Non quello che sento». «E questa sarebbe la realtà». «Questa sarebbe la verità» disse Nick. Edgar alzò lo sguardo e gli lanciò un'occhiataccia. «Questa sarebbe una gran stronzata» disse, e i due uomini scoppiarono a ridere. Edgar continuò a sorridere a Nick, poi attraversò la stanza, gli prese la faccia tra le mani e lo baciò in fronte. Nick aveva un'aria un po' ridicola, tanto pareva felice per quello slancio. I primi giorni insieme furono più o meno tutti uguali. Passavano la mattina a letto, poi si vestivano e scendevano di sotto. Stella non si truccava più, portava un foulard e una vecchia camicetta su una gonna nera qualsiasi o su dei calzoni. Preparava qualcosa e mangiavano in cucina con Nick. Dopo pranzo Edgar si metteva al lavoro, e Stella posava per tre ore di seguito, a volte anche quattro. La concentrazione di Edgar era assoluta. Le aveva detto che prima di cominciare il modellato vero e proprio aveva bisogno di disegnare. Il terzo giorno la fece posare nuda su un lenzuolo davanti al muro. Lui sembrava perfettamente a suo agio, e lei si mostrò altrettanto disinvolta. Nick si affacciò dal fondo dello stanzone e rimase a guardarla freddamente. Stella pensò che non importava. Edgar non si era accorto di lui, ma appena Nick aprì bocca gli disse, senza alzare la voce, di togliersi dalle scatole. Per Stella fu un'esperienza molto eccitante. Quando Edgar aveva finito, Stella andava a sedersi per conto suo al tavolo di cucina, e si guardava nello specchietto del portacipria cercando di vedere quello che vedeva lui. Se tornava nello studio Edgar la ignorava,

continuando a lavorare, oppure la portava di sopra, a letto. La sera Stella cucinava di nuovo per tutti, a meno che Nick non uscisse a rimediare un po' di pesce fritto. Poi si prendevano una sbronza tutti insieme e parlavano. Parlavano di qualsiasi cosa, ma soprattutto di arte. Gli attacchi d'ansia, violenti e improvvisi, cominciarono dopo i primi quattro o cinque giorni. In genere le succedeva al mattino presto, quando Edgar dormiva ancora e lei si svegliava col senso dell'enormità di quel che aveva fatto e della situazione in cui si era messa. Cercava di non pensarci, non sopportava che nulla venisse a turbare quell'idillio, e non ne parlava mai. Passerà, si diceva, dimenticheranno, presto potremo tornare in punta di piedi nel mondo e passare inosservati. Quando cercava di pensare al futuro, non andava più in là di così. Ma al vasto mondo di fuori non pensava quasi mai. Soprattutto cercava di non soffermarsi su Charlie, ma senza un gran successo, temo. Al suo arrivo nel sottotetto l'economia domestica era ridotta ai minimi termini. C'era molto da fare, e di questo era ben contenta. Anche solo tener pulito era un'impresa, perché i due uomini erano ben più trascurati di lei. Avevano solo un gabinetto e un lavandino con un unico rubinetto, e spesso pieno di pennelli. Non importava. L'unica cosa che importava era stare insieme, puliti o no. La sua identificazione con Edgar diventava ogni giorno più profonda. Mi disse che stava assumendo consapevolmente tutti i suoi gusti, le sue idee, i suoi sentimenti. L'indifferenza di Edgar alle comodità domestiche la faceva vergognare di tutti gli anni in cui la sua unica occupazione era stata assicurare una vita materialmente piacevole a suo marito e a suo figlio. Quando nessuno la vedeva cominciò a scribacchiare. Preparava piatti molto semplici su un fornelletto a due fuochi, e se le serviva qualcosa faceva una lista per Nick, che divideva le spese con lei. I momenti più belli erano le sere in cui si sedevano tutti e tre intorno al tavolo a bere e a parlare. Stella si sentiva come risucchiata dentro un modo di pensare e di sentire completamente nuovo, e stava perdendo quella che ora, fra sé e sé, chiamava la sua identità vecchia e stantia. Ogni giorno che passava Max e l'ospedale erano un po' più lontani. Quello, mi disse, era stato il periodo in cui era cresciuta di più, perché ogni giorno arrivava a capire meglio cosa significasse pensare, e sentire, e vedere come un artista. Della sua nuova vita le piaceva tutto, persino che lei e Edgar fossero due fuggitivi e non potessero uscire alla luce del sole per paura di venire scoperti e arrestati. Era inebriante, le faceva assaporare

quel profumo di pericolo connaturato all'esistenza di ogni vero artista. Scoprire che Nick e Edgar ricevevano visite fu una sorpresa. Da quando in qua i latitanti ricevevano visite? Eppure, il secondo o terzo giorno, mentre erano seduti tutti e tre in cucina a mangiare toast e sardine, sentirono bussare alla porta. Stella scattò in piedi dallo spavento, ma Edgar si limitò a gettare un'occhiata a Nick, che disse: «È Tony» e andò ad aprire. «Chi è Tony?» sussurrò Stella. «Un amico» tagliò corto Edgar, tornando alle sue sardine. Poi la guardò con un sorrisetto. «Non preoccuparti» disse. «Ti piacerà». E in effetti Tony le piacque. Era un artista, come del resto tutti quelli che passavano per casa, e almeno a giudicare dai vestiti doveva essere senza un soldo; inoltre non badava un granché alle forme, beveva e fumava troppo, e sembrava non prendere nulla sul serio. Che Edgar fosse fuggito da un manicomio sembrava lasciarlo del tutto indifferente, ma che la moglie del vicedirettore lo avesse seguito, be', questo doveva proprio averlo stupefatto. Tony sedette con loro in cucina, prese il suo piatto di toast e sardine che mangiò con le mani, pulendosele poi sui pantaloni - e si mise a spettegolare con Edgar e Nick di gente che Stella non conosceva, ma i cui nomi, a forza di sentirli ripetere, cominciavano a diventarle familiari. Da soli o in due, tutti quei personaggi si presentarono allo studio nei giorni successivi. La fuga di Stella a Londra aveva evidentemente stuzzicato la loro fantasia, ed erano tutti gentilissimi con lei. All'inizio Stella rimaneva sulle sue, perché non le sembrava una gran trovata che mezza Londra conoscesse il nascondiglio di Edgar, ma poi finì col ricambiare l'affetto di quegli uomini strani, cordiali, trasandati, così lontani da quelli che aveva frequentato nella sua vita di prima. Ma una sera che erano loro tre soli a bere in cucina Stella espresse la sua inquietudine. Nick parve sorpreso. Evidentemente non aveva mai pensato che qualcuno potesse tradire Edgar. «E chi avrebbe interesse a fare una cosa simile?» chiese con sincero stupore. Edgar scrollò le spalle. Se non si preoccupa lui, pensò Stella... Dopo giorni e giorni passati al chiuso Edgar era sempre più irrequieto, e una sera andò con Stella fino al fiume, a guardare le torri di Cannon Street e la cupola di St Paul sull'altra riva. Da quella volta cominciarono a uscire.

Non entravano ancora nei pub, ma nelle stradine buie si sentivano abbastanza al sicuro. Se qualcuno gli si avvicinava si infilavano in un portone o in un vicolo e si abbracciavano, eccitandosi al punto da correre, a volte, rischi superflui. Il fatto - ormai quasi preoccupante, secondo Stella - era che appena si sfioravano i loro corpi prendevano fuoco. Né lei né Edgar sembravano in grado di controllare la fame che avevano l'uno dell'altra. Edgar la notte dormiva profondamente, ma lei rimaneva sveglia per ore nel buio a guardare il soffitto e ad ascoltare i treni che passavano rombando sul viadotto. Una notte aveva sentito il Big Ben battere le quattro, si era girata su un fianco e aveva guardato Edgar dormire. Chi era? Chi era quell'estraneo, il suo amante? Si accese una sigaretta. Ricordò la prima impressione che aveva avuto di lui, di quell'uomo coi calzoni gialli che restaurava la serra. Si ricordò del ballo, di quando aveva sentito la sua erezione premerle addosso, e si era eccitata perché lui era eccitato, e l'aveva voluto perché lui voleva lei. Poi la brusca impennata della loro storia, il terrore sempre più forte di venire scoperti, e la fuga. E adesso tutto questo. Ma lui chi era? Dagli episodi frammentari delle ultime settimane cercò di ricostruire un uomo. Adesso era più forte. Da quando era libero parlava e si muoveva con un'autorevolezza che all'ospedale non gli aveva mai conosciuto. Bastava vederlo con Nick. Per gran parte del tempo sembravano vecchi colleghi, e amici intimi, ma appena saltava fuori un problema serio Nick, prima di esprimere un'opinione, aspettava di vedere cosa ne pensasse Edgar. E del resto con lui un po' tutti avevano un atteggiamento deferente. Durante le discussioni Stella rimaneva in disparte, limitandosi ad ascoltare. Tirava giù uno dei volumi gualciti di riproduzioni di Nick e si metteva a sfogliarlo sul tavolo, guardando le tavole e cercando di capire che sensazioni le suscitassero. Si lasciò scivolare nel dormiveglia. Pensava alla parola che Edgar aveva usato, realtà, all'idea di riuscire a staccarsi dagli interessi e dai sentimenti degli altri e diventare puro sguardo. Avrebbe saputo vedere Edgar in quel modo? E sarebbe stata la verità? Si sporse dal materasso per spegnere la sigaretta. Adorava dormire con lui sotto quella coperta ruvida. Adorava svegliarsi al mattino e trovarlo ancora vicino a lei. Durante il giorno, quando Edgar non aveva bisogno di lei per lavorare, Stella scendeva in cortile a prendere una boccata d'aria. Il mercato dall'altra parte della strada era coperto da un'alta tettoia vetrata sorretta da snelle

colonnine di metallo, dagli elaborati montanti traforati. Molte bancarelle erano chiuse e ingombre di casse di legno e scatole di cartone. Una mattina Stella vide due uomini caricare dei sacchi di patate sul pianale di un camion polveroso. Quando si rese conto che l'avevano notata si allontanò, perché ormai evitava per istinto di attrarre l'attenzione. Prese Horsey Street, poi girò verso il fiume e si imbatté in una grande chiesa, antica e fatiscente. Fu sorpresa di trovare una chiesa lì, in fondo a quell'oscuro intrico di strade e vicoli. E lo fu ancora di più scoprendo che si trattava della cattedrale di Southwark. Appena dentro ebbe la sensazione di trovarsi in un'isola di pace, che in centinaia di anni il male e la violenza non avevano scalfito. Si sedette in fondo e guardò un barbone che parlava concitato con un giovane sacerdote dalla lunga tonaca nera. In una cappella laterale vide un uomo di mezza età assorto in preghiera, coi calzoni del gessato che spuntavano sotto il cappotto nero. Contò i venti santi nelle nicchie dietro l'altare e si fermò vicino alla tomba del primo poeta inglese, la cui effigie era in posizione di riposo, con le mani strette in preghiera sul petto e la testa poggiata su tre libri, uno dei quali era la Confessio Amantis. Tornò in Horsey Street rinfrancata dall'ora di serenità trascorsa nella chiesa, ma non ne parlò né a Nick né a Edgar. Sospettava che la cattedrale sotto casa non li avrebbe interessati più di tanto. Cominciarono a passare qualche sera al pub. Nick o Stella andavano al banco a prendere da bere mentre Edgar rimaneva seduto al tavolo nell'angolo più buio del locale. Non sembrava così rischioso. Erano tutti pub da due soldi, con il pavimento di assi e il rivestimento di legno alle pareti corroso dagli anni. Poco illuminati e squallidi, accoglievano uomini e donne ansiosi di affogare il tedio delle loro giornate dure e monotone in una birra o un liquore scadente. Nessuno faceva caso a Stella e ai due artisti scalcinati chini sui loro bicchieri e le loro sigarette, che parlavano a voce bassa in fondo alla stanza. Stella trovava già più emozionante andare al Southwark o al Globe, perché significava che nella loro vita clandestina si stava facendo largo una sorta di normalità, e che entro certi limiti potevano comportarsi come persone qualsiasi. Cominciava a intravedere un futuro. Affrontare il mondo comportava comunque qualche problema. Un sabato sera lei e Edgar erano da soli nell'angolo più nascosto di un pub molto grande e affollato. Il locale era pieno di fumo e di rumore e Stella si sentiva a proprio agio, parte dell'ambiente. Sedevano vicini su una panca davanti a un tavolino rotondo, e lei gli teneva la mano sotto il tavolo. Anche

se non conoscevano nessuno, in quel pub accogliente e chiassoso tutti le sembravano, in qualche modo, loro compiici. Stella ripensò con un brivido a tutti i salotti in cui era stata, ciascuno governato da una moglie o da una madre di psichiatra, e ricordò l'orribile senso di estraneità che aveva provato ogni volta. Edgar prese i bicchieri e si diresse verso il bancone, mentre lei lo seguiva con uno sguardo ardente. Il gin la teneva su, trasmettendole una sorta di pacata euforia. Tutto, praticamente tutto riusciva a sembrarle romantico. All'improvviso un uomo si materializzò davanti al tavolo, spogliandola con gli occhi. Stella abbassò lo sguardo e si mise a frugare nella borsa alla ricerca delle sigarette, dell'accendino, di una cosa qualsiasi. «Sola soletta, gioia?» disse l'uomo. Stella alzò lo sguardo. «No, direi di no. Sono con mio marito». «Con tuo marito, eh?». Era un uomo grande e grosso, piuttosto bello, ma aveva bevuto e non faceva niente per nasconderlo. Appoggiò le mani sul tavolo e si chinò verso di lei. Stella sperava che se ne andasse. Non le piaceva che le facesse il verso, e si malediceva per avergliene dato l'occasione. «Sì, proprio» disse calcando molto il «proprio». Un'idea balorda, perché l'uomo lo trovò divertente, prese una sedia e si sedette. No, pensò Stella, io non volevo... In quel preciso momento Edgar tornò con i bicchieri. «E questo chi è?» disse. L'uomo aveva piantato i gomiti sul tavolo, e teneva gli occhi fissi su Stella. Poi si voltò e lanciò un'occhiata a Edgar. «Questo sarebbe il maritino, vero gioia?». Stella lanciò a Edgar uno sguardo disperato. Non so nemmeno chi sia, stava cercando di dirgli. Edgar appoggiò piano i bicchieri sul tavolo, senza guardare l'uomo. Poi lo prese per il bavero, e adesso la sua grande faccia barbuta era incollata a quella dell'altro. Intorno a loro si fece improvvisamente silenzio. Stava per succedere qualcosa, e Stella vide con assoluta chiarezza la scena: la rissa, i bicchieri rotti, il sangue, le urla, la polizia. Edgar lasciò andare il colletto dell'uomo, che indietreggiò. Poi si sedette. La gente ricominciò a bere e a chiacchierare. Ma intorno a loro la conversazione si era come smorzata, e Stella sapeva che li stavano ascoltando. Edgar si arrotolò una sigaretta senza guardarla. «Che cosa gli hai detto?» mormorò Edgar. «Niente!». Lui leccò la cartina, e scosse la testa. «Gli avrai pur detto qualcosa».

Stella gli raccontò in un sussurro concitato cosa era successo. Per un po' Edgar rimase tranquillo. Pensava forse che lo avesse adescato lei? Era freddo e distante come non lo aveva mai visto. Stella provò a ripetergli che l'uomo si era seduto senza essere invitato né incoraggiato. «Tu non mi tradirai, vero, Stella?» disse alla fine con una voce calma e amichevole. «Non dire vaccate!». «Allora tutto a posto». Sarà stato anche tutto a posto, ma quella frase pacata, che Stella aveva sentito così minacciosa, le lasciò un sapore amaro in bocca. Sentì montare l'orgoglio di un tempo e pensò: vai al diavolo. Guardò dritto davanti a sé, fumando rabbiosamente la sigaretta a brevi, rapide boccate. Quando sentì le dita di Edgar sulla coscia e la sua bocca sul collo cercò di ignorarlo, e gli tolse la mano. Ma non c'era verso, appena lui la toccava si sentiva morire. «Dammi un bacio, amore» le sussurrò Edgar. «Crepa» rispose Stella, mordendogli un labbro. Pochi minuti dopo, mentre correvano a casa nella notte buia e umida, dimentichi di tutto, smaniosi di arrivare il più presto possibile, videro i poliziotti che Stella si era immaginata poco prima. Erano in due. Avanzavano lentamente nella loro direzione dalla parte opposta della strada, con le mani dietro la schiena. Stella si strinse a Edgar, aggrappandoglisi al braccio con tutte e due le mani, ma lui non rallentò il passo. Stella si rese conto che li avrebbero incrociati proprio sotto un lampione. «Ci vedranno» mormorò. Edgar continuava a camminare. Stella non riusciva a pensare a niente, un rigurgito di terrore cieco le riempiva la gola, ne sentiva persino il sapore. La nebbia del gin si dissolse rapidamente, e il ticchettio dei suoi tacchi sul marciapiede bagnato sembrava scandire vi-sti, vi-sti, vi-sti. Edgar la fece scendere dal marciapiede, poi passarono vicino a una fila di argani e scesero qualche gradino fino al fiume; lì, dove l'acqua nera lambiva le pietre, la baciò. Lei gli gettò le braccia al collo e bevve avidamente i suoi baci: sperava che, vedendo tutta quella passione, i poliziotti se ne sarebbero andati, lasciandoli in pace. Adesso sentiva solo il respiro di Edgar e i passi che si avvicinavano. I poliziotti si fermarono in cima alla gradinata. Stella passò le dita sulla nuca di Edgar, si riempì il pugno di capelli, la bocca incollata a quella di lui. «Via di lì» disse uno dei poliziotti. Poi, un attimo dopo, più forte: «Via di lì, voi due».

Obbedirono. Si allontanarono imboccando un vicolo, avvinghiati come due amanti che erano stati interrotti e volevano a tutti i costi preservare il loro calore, e affrettarono talmente il passo che quando sbucarono sulla strada stavano correndo. Si precipitarono nel cortile e salirono le scale urlando. Stella disse che non avrebbe mai dimenticato quella notte. Anche Edgar sentiva che qualcosa era cambiato, che nonostante lo spavento di poco prima adesso provavano una sicurezza nuova. Il senso di panico, il senso di avere solo un passo di vantaggio, del fiato caldo sul collo, era scomparso, sostituito da una provvisoria tracotanza, dalla consapevolezza che ogni ora, ogni giorno diventava più facile mantenere il vantaggio, confondere le tracce e far perdere la pista ai segugi. Per la prima volta Stella sentiva che era valsa la pena di saltare nel vuoto, perché alla fine avrebbero trovato il posto sicuro dove amarsi senza paura. E fu in quello spirito che fecero l'amore: senza paura, liberamente, mentre i treni rombavano sul viadotto nella notte. E Stella lo fece ridendo, gridando, urlando al magazzino intero tutta la vita che aveva dentro, senza curarsi se Nick sentisse o meno. Almeno, così è come lo descrisse. VII Stella andava spesso nella cattedrale. Si sedeva su una panca di pietra verso il fondo, nella penombra, oppure camminava lungo una navata laterale, passando davanti alle tombe e alle cappelle, i tacchi che risuonavano sulle lastre del pavimento. Portava sempre gli occhiali da sole e un foulard legato stretto sotto il mento. Quando raccontava di quei giorni, del momento che stava attraversando, si teneva sul vago, ma io la immaginavo così, come la Triste Signora nella Cattedrale. Il problema era che più era lontana dall'ospedale più trovavo difficile ricostruire la sua esperienza, darle una qualche forma riconoscibile, almeno per me. Edgar aveva cominciato a lavorare con l'argilla, e le cose non andavano bene. All'inizio Stella cercava di dirgli che doveva avere pazienza, in fondo era da moltissimo che non scolpiva e non poteva pretendere di recuperare di colpo la mano di un tempo. Ma Edgar non le dava retta. Le giustificazioni non lo interessavano, e la mano ritrovata o no c'entrava fino a un certo punto. Era in collera, frustrato. Appena sfiorava l'argilla gli si scatenava un furore freddo, e finiva immancabilmente col distruggere quello che aveva appena fatto. Edgar lavorava in piedi, spalmando l'argilla su u-

n'anima di fil di ferro che aveva grossomodo la forma di una testa ed era montata su un logoro supporto di legno. Gli strumenti e l'argilla li aveva procurati Nick, e Stella li aveva pagati. Il problema dei soldi la preoccupava sempre più. A parte il contributo di Nick - un po' di spesa e qualche spicciolo -, non sapeva né dove né come trovarne. Cercava comunque di scacciare questo genere di pensieri. Erano inutili. Stella aveva cominciato a dividere il mondo in ciò che era utile e ciò che non lo era, e parlare di denaro con Edgar rientrava decisamente nella seconda categoria. Ai suoi bisogni personali non badava affatto; non se la sarebbe sentita di spendere per sé. Aveva finito tutti i cosmetici, e i ricambi di biancheria pulita scarseggiavano. Le sarebbe servito un cappotto pesante, ma non se ne parlava neanche, e tutti gli altri vestiti puzzavano di chiuso e di fumo. Il tempo si era fatto umido e nuvoloso, e se apriva le imposte entravano folate di pioggia. Con Edgar totalmente assorbito dal suo lavoro, Stella aveva molto tempo per pensare, specie se Nick era fuori, come ormai capitava sempre più spesso. Ma un pomeriggio, mentre Edgar dormiva, Nick attaccò discorso. L'umore di Edgar, disse, era normalissimo. Tutti gli artisti sono così, quando il lavoro non ingrana. «Tu però no». «No, io no». Era seduto sull'orlo di un vecchio divano dall'altra parte della stanza, con la fronte aggrottata, i gomiti sulle ginocchia e le dita intrecciate. Una sigaretta gli pendeva dalle labbra. «Ma io non sono un vero artista. Non come lui». Stella fece un giro per la stanza dando un'occhiata alle tele di Nick. La sua pittura aveva un che di pomposo. Si fermò vicino alla finestra. Un camion di patate stava entrando a marcia indietro nel mercato. «E quando ingrana, come sono?» chiese Stella. «Idem». Le venne da ridere, e Nick la guardò sorpreso. «Cosa ci trovi di così divertente?». «Il modo in cui l'hai detto». Nick ci pensò su. Senza muoversi dalla finestra, e senza smettere di fissarlo, Stella si accese una sigaretta. «Non ce l'hai una donna, Nick?». Lui scosse la testa. «Pensavo che andassi da lei, quando esci. Dalla tua amante».

Nick continuava a scuotere la testa, lo sguardo fisso a terra, torcendo le lunghe dita. Poi le lanciò un'occhiata di cui Stella non colse bene il senso; decise comunque di lasciar perdere. Strano ragazzo, pensò, così bloccato. In ogni caso, Nick passava sempre meno tempo con loro, e Edgar rimaneva per ore sulle sue, torvo e distante. A volte Stella si sentiva quasi soffocare dall'ansia, e l'unico modo per scacciarla era tener viva la fiamma del loro amore, farla divampare: ma le costava sempre più fatica. Non voleva parlarne a Edgar, non era utile. Così mentre lui lavorava, o dormiva, o beveva, Stella combatteva battaglie atroci e silenziose con se stessa, da cui usciva prostrata: eppure la notte rimaneva sveglia a lungo, sentiva i treni rombare sul viadotto e il Big Ben battere le ore. Cominciava a porsi domande che la turbavano. Sullo squallore, ad esempio, e la paura, e l'incertezza, e l'eccesso di intimità. Queste cose avevano impedito al loro amore di crescere, e adesso era quasi sicura che lo avrebbero presto fatto morire. Come aveva potuto non rendersene conto? Com'era stata stupida, e impulsiva, e ingenua! A volte ripensava alla sua vita di prima, al manicomio e a quello che adesso rappresentava per lei, una specie di luogo remoto e vagamente irreale dove splendeva sempre il sole e l'ordine regnava sovrano, dove ognuno aveva un posto preciso, e nessun desiderio: un castello abbarbicato su uno sperone di roccia, e fra le sue mura sicurezza e abbondanza. Era un'illusione, lo sapeva, ma abbastanza plausibile, e poter pensare a un luogo sicuro le dava sollievo; che poi esistesse solo nella sua mente aveva un'importanza relativa. Più tardi le sarebbe sembrato a dir poco curioso considerare un'isola felice proprio il posto da cui lei e Edgar avevano scelto di fuggire, finendo per cercare sicurezza, calore e abbondanza in una strada di magazzini abbandonati. Finalmente Edgar cominciò a fare qualche progresso. Ora aveva bisogno di lei anche per quattro o cinque ore al giorno. Stella vedeva la sua testa e il suo collo emergere a poco a poco dall'argilla, stranamente allungati e appiattiti, eppure riconoscibili. Ma Edgar era nervoso e distratto come prima, e quando un paio di giorni dopo Nick fece i bagagli Stella si ritrovò completamente sola. Ora non faceva che pensare, mi raccontò, e non all'ospedale, non a Max, ma a Charlie. Non poteva fare a meno di contare i giorni trascorsi dall'ultima volta che lo aveva visto. Era sicura di mancargli, ma anche che lui stesse imparando a odiarla. Charlie vedeva suo padre soffrire, sapeva di chi era la colpa, e più Stella rimaneva lontana più il suo odio metteva radici.

Stella lasciò che questi sentimenti contaminassero i suoi rapporti con Edgar, e le conseguenze furono nefaste. Raggiunto solo a prezzo di sforzi enormi, l'equilibrio psichico di un artista è così delicato che ogni distrazione, ogni interferenza della cruda realtà esterna possono distruggerlo in un attimo: per fare arte bisogna voltare le spalle alla vita. Sotto questo profilo Edgar era talmente sensibile che avevo sempre considerato la sua una personalità artistica allo stato puro. Per lui la relazione tra arte e salute mentale era tanto precisa quanto delicata: se la prima veniva disturbata, la seconda ne avrebbe risentito, finendo per andare in pezzi. Un mattino, al risveglio, Stella si ritrovò sola. Prima di allora Edgar non era mai uscito di giorno. All'inizio Stella la prese abbastanza bene. Si preparò una tazza di té, poi fece un po' di bucato nel lavandino e lo appese ad asciugare sullo stendipanni. Quindi passò nello studio e aprì le imposte. Era una giornata tersa e ventosa, con qualche nuvola alta a rincorrersi nel cielo. Girando per la stanza, diede un'occhiata ai disegni attaccati al muro con le puntine. La testa di argilla era coperta da qualche straccio umido. Andò di sopra e si mise a sfogliare un giornale vecchio. Dopo un'ora cominciò a torcersi dalla preoccupazione. Edgar non le aveva detto né dove andava né quanto sarebbe stato via, e non ci voleva molto a immaginare un altro incontro casuale con la polizia, stavolta senza il favore delle tenebre e senza un vicolo in cui infilarsi. Come l'avrebbe saputo, lei? Il pensiero la colpì all'improvviso, in tutta la sua brutalità: se prendevano Edgar, lei come l'avrebbe saputo? Di colpo la sua impotenza le sembrò terrificante. Senza i due uomini era perduta. Dipendeva in tutto e per tutto da loro. Nel loro sistema c'era una falla. Casi come questo andavano previsti, e Edgar non doveva più piantarla in asso in quel modo. A mezzogiorno aveva perso ogni speranza. Non aveva più dubbi che Edgar fosse nelle mani della polizia. Si sentiva in collera con lui, ma intuiva confusamente che doveva essere una conseguenza dell'ansia, perché si ricordava che quando Charlie spariva negli acquitrini per ore aveva una reazione molto simile. Pensare a Charlie fu un errore. Stella non aveva l'energia mentale per affrontare il senso di colpa, specie adesso che probabilmente aveva perduto anche Edgar. Comunque non poteva rimanere lì un minuto di più. Si precipitò giù dalle scale. Ora non ricorda dove avesse voluto andare, ma ricorda la fretta, l'improvvisa, folgorante certezza che non facendo nulla avrebbe perso tutto. Provai a suggerire che forse voleva tornare a casa, ma la sua risposta fu un cenno di diniego. Aveva sceso le scale a precipizio, imboccando l'andito di

corsa e ritrovandosi fuori, nel sole: e tra le braccia di Edgar. «Che diavolo succede?» fece lui. Solo allora Stella si rese conto dello stato in cui era, senza impermeabile, senza cappello, i capelli conciati da far paura, la faccia gonfia e sporca. Sentendo il panico scemare, lasciò che Edgar la aiutasse a risalire le scale. Sembrava molto irritato dal suo comportamento. Stella cercò di spiegargli che si era ridotta in quello stato dalla paura, anzi, dalla certezza che fosse caduto nelle mani della polizia, ma Edgar si allontanò da lei, mettendosi a camminare avanti e indietro. Aveva un'espressione allucinata, si rosicchiava il pollice e ogni tanto le lanciava un'occhiata feroce. Non lo aveva mai visto così, finora era sempre stato abbastanza forte da contenere le ansie di lei e riuscire a calmarla. Stella non capiva che cosa avesse. «Ti piacerebbe, eh?» disse. Stella lo guardò. Era in mezzo alla stanza e la fissava freddamente. «No! Come puoi pensarlo?». «Così torneresti alle tue comodità, che ti mancano tanto». Ora Edgar si era avvicinato al tavolo, e sfogliava distrattamente gli schizzi senza guardarla, continuando a rosicchiarsi il pollice. «Ma mi hai sentito? Pensavo che ti avessero preso. Pensavo di essere rimasta sola». «Non lo saresti rimasta per molto, in ogni caso». Stella racconta di non aver capito subito quello che Edgar intendeva. Sentiva solo che stava male, e gli si avvicinò cercando di abbracciarlo. Lui la respinse e andò a sedersi su una sedia vicino all'argilla, arrotolandosi una sigaretta. Stella si inginocchiò ai suoi piedi. «Mi sono spaventata» sussurrò. Edgar non la guardò neppure: scrollò le spalle e si accese la sigaretta. Stella si alzò in piedi, andò alla finestra e si sedette sul davanzale, guardando in strada. Sentì una stretta al cuore. Tutta quell'arte, tutto quello squallore, a cosa servivano? «Spaventata» disse Edgar con sarcasmo, ma sembrava spaventato anche lui, e d'improvviso le parve una cosa così infantile, così meschina, così egoista prendersela con qualcuno che ha avuto paura per noi! «Oh, tu non mi ami. Non sai neanche cosa vuol dire». Glielo disse senza guardarlo. Quindi sentì uno schianto, e vide Edgar in piedi vicino alla sedia rovesciata; poi se lo ritrovò quasi addosso, enorme, furioso, con i pugni serrati. «Hai intenzione di picchiarmi?» gli chiese con calma. Lo guardò senza

paura. Non aveva più importanza, ormai. Nulla aveva più importanza. Poteva anche massacrarla di botte. Era solo un animale come tanti, il mondo ne era pieno. «Stavi tornando da Max». «Non dire assurdità». Edgar si voltò e diede un gran pugno contro il muro. La stanza adesso era satura di violenza. Da così vicino, la rabbia di Edgar era spaventosa. Come mai non se n'era accorta prima? «Dunque avevano ragione, su di te». «In che senso?». «Nel senso che sei uno psicopatico». Si sarebbe arrabbiato ancora di più, ma Stella non riusciva a preoccuparsene. Aveva superato quella fase. Edgar si girò di nuovo verso di lei, e il suo furore trattenuto pervase la stanza, facendola tremare come un istante prima del crollo. Poi qualcosa cambiò. Con un respiro profondo, Edgar si appoggiò al muro con entrambe le mani, a occhi chiusi. La sua rabbia si era placata. «Già, uno psicopatico» disse. «Da chi l'hai sentita questa, da Max? O da Cleave?». Certo non da me. Edgar è molte cose, ma non uno psicopatico. In ogni caso, Stella poteva accettare tutto, ma non questo. Non di essere accomunata agli psichiatri. Gli si avvicinò cercando di prendergli le mani. Edgar la respinse continuando a tenere gli occhi chiusi, ma stavolta lei non gliene fece una colpa. Aveva ragione lui. «Scusa» gli sussurrò. «Ero disperata. Non ti vedevo tornare, ed ero sicura che ti avessero preso. Non sapevo dov'eri». Edgar aprì gli occhi e le fece una carezza distratta. Aveva di nuovo cambiato umore. Adesso sembrava tutto contento. «Guarda qui» le disse. Tirò fuori dalla tasca interna una busta e gliela porse. «Avanti, aprila». Stella la strappò con l'unghia. Dentro c'era un fascio di banconote da dieci. «Eri andato a cercar soldi» gli disse. Poi tirò fuori il denaro. Denaro voleva dire roba da mangiare e da bere. Avrebbe dovuto farla felice, e invece si sentì depressa. Il pensiero di cosa comprare con quel denaro, il denaro di Edgar, era di una volgarità intollerabile. La vita era uno squallido baratto, soldi contro tempo. Coi soldi potevano comprarsi un po' di tempo, va bene, e col tempo che cosa si sarebbero comprati, la possibilità di vedere il loro amore trasformarsi in cenere?

Sentire che tutto si svuotava di significato era spaventoso. Stella lasciò cadere i soldi sul pavimento. «Cosa ne sarà di noi?» disse. Edgar raccolse il denaro, e senza toglierle gli occhi di dosso se lo portò alle labbra. Poi lo rimise in tasca. «Niente di buono» sussurrò lei. «Soldi, Stella». «Già, soldi». Stella rimase in piedi alla finestra, dandogli le spalle. «Soldi, proprio così» disse Edgar. Lei sapeva cosa avrebbe aggiunto. Che trovarli era stato tutt'altro che facile. «Pensi che sia stato facile?». «Voglio andare a dormire». Si allontanò dalla finestra e salì stancamente i gradini senza guardarlo. Poi si coricò e chiuse gli occhi. Si sentì subito ad anni luce da lì. Era esausta. Voleva dormire per mesi, e al risveglio sarebbe stato tutto come prima, avrebbe riavuto il suo bambino. Ma Edgar la scrollò, svegliandola. «Mi scusi?» disse. Aveva bevuto, l'alito gli puzzava di vino. Stella si girò sulla schiena, poi si appoggiò sul gomito cercando una sigaretta. «Oh, lascia perdere». Ci fu un attimo di silenzio. Edgar non la capiva. Come mai? Lui che era così intelligente, che capiva sempre tutto, perché adesso era così ottuso? Sedeva in fondo al materasso guardando fisso davanti a sé. Appoggiata su un gomito, Stella continuava a fumare, dandogli la schiena. «L'ho preso per noi» disse Edgar. In qualsiasi altro momento quella frase l'avrebbe riempita di gioia. Ora la lasciava indifferente. Stella non disse nulla, si limitò a una scrollata di spalle, ma Edgar la stava tenendo d'occhio e reagì malissimo. La afferrò per i polsi, facendola quasi scendere dal letto. Bastò questo a eccitarli. Un bacio, e si stavano già strappando i vestiti di dosso. Era proprio quella specie di voracità, di lussuria famelica a spaventare Stella. Odiava essere costantemente preda di qualcosa che non riusciva a dominare. Adesso lo facevano con disperazione, con aggressività. Stella ci metteva tutta la sua ansia e la sua frustrazione, e stavolta, durante un abbraccio convulso, morse Edgar su una spalla, e non ci andò leggera. L'effetto fu drammatico. Lui schizzò su e le diede uno schiaffo, ma non si fermarono lì, e solo un minuto o due più tardi, quando ognuno rotolò dalla

sua parte, Stella nascose la faccia nel cuscino. Si sentiva completamente intorpidita. Come aveva previsto, stava andando tutto in pezzi, ma non le importava. Sentì Edgar borbottare qualche idiozia che non ascoltò. Era coricata sul materasso, con la faccia che bruciava e la testa vuota. Pensava che l'avrebbe picchiata, e non le importava. Ma qualche attimo dopo Edgar scese nello studio. Stella si mise a sedere e trovò il portacipria. La faccia era già rossa. Le sarebbe rimasto un livido. Chiuse di scatto l'astuccio. Stupida, stupida, stupida, si ripeté. Quando Stella tornò dalla cattedrale era pomeriggio inoltrato. Edgar non le chiese scusa. Si era rimesso a lavorare senza accendere la luce, e lo stanzone, con le imposte socchiuse, era immerso nella penombra. La luce del giorno, il suo abbacinante chiarore, avevano avuto il loro momento, adesso era il tempo del buio, del gin, e infine del sonno. Una notte di buio e di gin. Erano tutti e due depressi, non parlavano, non avevano voglia di uscire. Stella era sul letto, buttata sopra le coperte in calze e slip, una donna alla deriva in un mare di boccette vuote e giornali vecchi. Quando si fece buio Edgar non accese neanche la luce, ma aprì le imposte, e i lampioni della strada diffusero nello studio un alone grigiastro. L'unica cosa che Stella voleva era ubriacarsi e tentare di vedere le cose con un minimo di ottimismo. Si portò il gin nello studio e andò alla finestra. Edgar continuò a lavorare curvo sull'argilla, senza neanche voltarsi. «Vorrei che ci fosse Nick» disse Stella, e lo vide irrigidirsi. Si svegliò all'alba. Non si era neppure infilata sotto le coperte, in compenso ci aveva rovesciato sopra il gin. Edgar si era buttato sul letto senza spogliarsi, e dormiva. Stella si tirò a sedere. Aveva la bocca secca, impastata. Sentiva il saporaccio amaro del gin, che a stomaco vuoto le faceva pulsare la testa. Mise a letto Edgar e si riaddormentarono di schianto. Il giorno dopo, mentre cercava svogliatamente di dare una pulita, pensò che è impossibile elevarsi al di sopra dell'ambiente in cui si vive; non molto a lungo almeno. Basta stare in un lurido buco e guardarsi allo specchio per vedere qualcosa di altrettanto lurido, e cominciare a comportarsi di conseguenza. Stella era sempre stata considerata una donna bellissima; adesso le avevano tolto anche quello. In un posto così la bellezza era fuori luogo, e per quanto Stella cercasse di rimediare con il trucco, l'unico risultato era che somigliava sempre più a una puttana. Sembrava che Edgar non se ne rendesse conto, o quantomeno non se ne

preoccupava. A preoccuparlo era lei. L'episodio del cortile lo aveva insospettito, mettendogli in testa che volesse tornare da Max. Lei cercava di spiegargli che semmai le mancava Charlie, non certo Max, non poteva non capirlo. Eppure, a quanto pareva, non lo capiva: sembrava aver perso quella prontezza cui Stella era così abituata. Quando faceva così, mi disse, diventava volgare. Persino la voce gli si involgariva. Io penso che fosse solo spaventato. Penso che scambiasse qualsiasi manifestazione di stanchezza da parte di Stella per il segno di un abbandono imminente. Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino sperduto e indifeso. La sera dopo, al pub, Edgar le fece paura. Era così strano, si comportava come se qualsiasi uomo che vedeva fosse lì per portargliela via. Rimase per un pezzo a borbottare fra sé, con rabbia, poi se ne accorse e smise, scrollando la testa, imbarazzato e stupito da quella voce estranea che sentiva uscirgli da dentro: la voce distorta e ripugnante della gelosia, del terrore e del bisogno. Stella non sopportava di vederlo soffrire così, di vederlo lottare inutilmente per non trasformarsi in quell'essere che odiava, che non voleva diventare. Prendendogli la mano gli disse con molta forza di resistere, di continuare a combattere, perché sarebbe andato tutto bene, e lei non lo avrebbe mai lasciato. Alla fine, con grande fatica, Edgar riuscì a dominarsi, e per un po' sembrò tornato quello di un tempo. Ma adesso Stella non poteva fidarsi, perché non sapeva quanto sarebbe durata. Vedeva un uomo diviso: l'uomo che aveva conosciuto all'ospedale c'era ancora, ma adesso era come invaso, come posseduto da uno spirito che non era il suo. Provò a dirgli che dipendeva dalla tensione in cui vivevano, e che avevano solo bisogno di un po' di tempo, ma non riuscì a convincerlo fino in fondo. Edgar continuava a sfregarsi la testa con un'espressione torva, come se cercasse di scacciare un brutto sogno, non una malattia. Quanto tempo avevano? Stella rimaneva sveglia la notte a chiedersi per quanto poteva andare avanti così. Il livido sulla faccia si vedeva ancora, e la gente da quelle parti era piuttosto smaliziata. Stella si accorgeva benissimo degli sguardi di solidarietà delle altre donne, e quando uscivano la sera vedeva i loro occhi che scrutavano Edgar per paragonare il suo bruto ai loro. Era una sensazione molto sgradevole. In ognuna di quelle occhiate avrebbe potuto balenare, all'improvviso, il lampo di un riconoscimento. E intanto i giorni passavano. Stella faceva l'impossibile per sostenere Edgar, anche se quando andava a dormire e lui tornava al suo lavoro ricominciava a pensare a Charlie, e a piangere in silenzio sul cuscino. Ora che doveva

trattare Edgar come un bambino, un bambino suscettibile e bisognoso d'affetto, Stella si domandava perché si occupasse di quel bambino, e non del suo. Che fosse rimasta con lui mi sembrava tutto sommato logico. In fondo credo che, nonostante tutto, lo amasse, o almeno si dicesse che lo amava, e in queste cose le donne sono ostinate. Aveva fatto la sua scelta, era andata da lui di sua volontà, e adesso non sarebbe certo corsa a casa solo perché Edgar era malato, e quindi meno responsabile. Quello che mi sorprendeva, semmai, era che fosse riuscita a ignorare le molteplici avvisaglie di un'imminente esplosione di violenza. Ma va detto che le capacità di negazione di Stella erano sbalorditive, tanto da farle addirittura dimenticare ciò di cui Edgar era capace. Neanche quando vide quello che stava facendo al suo lavoro, neanche allora arrivò a riconoscere il pericolo che stava correndo. Fu svegliata all'alba dalle grida del mercato. Edgar dormiva vicino a lei. Stella si alzò, si infilò l'impermeabile e scese nello studio. Aprì le imposte, lasciando entrare la pallida luce autunnale. Fumò una sigaretta e ascoltò il mercato che si animava. Poi, d'impulso, scostò a uno a uno gli stracci umidi che, come sempre, coprivano l'argilla. Quello che vide era orribile, e impressionante. È probabile che quella testa e quelle spalle stranamente oblunghe, innegabilmente sue, ma piene di tagli e di buchi, le avessero fatto finalmente capire a quale livello di violenza fosse arrivato Edgar con le sue mani e con i suoi strumenti. Si sentì male, e ricoprì immediatamente la testa. Ma invece di correr via da lì, di mettersi in salvo, tornò a letto, e strinse Edgar fra le braccia. Adesso era di nuovo l'Edgar di prima: ci furono di nuovo passione e, poi, tenerezza. In quella fase il sesso, mi disse, le dava qualche problema. Il suo ciclo era irregolare, e una volta aveva addirittura pensato di essere incinta. Le chiesi se volesse farsi vedere da un medico, ma mi disse di no, era tutto a posto. Aveva sempre pensato lei alla contraccezione, e in realtà non era preoccupata. No, la sua unica preoccupazione era lui. Quando teneva la guardia bassa, quando si fidava di lei, quando era se stesso, Stella non rimpiangeva nulla. Ne era valsa la pena. Appena Edgar si mostrava ricettivo lei si arrendeva. Voleva solo amarlo, la sua volontà era piegata, il suo orgoglio di un tempo dissolto. Se solo avessero avuto abbastanza tempo, pensava, sarebbe andato tutto bene. Sempre che Edgar non facesse qualche stupidaggine. Ma era così

difficile rassicurarlo. Le rispondeva che sui giornali era finita la sua fotografia, che era lui che cercavano, lui che avrebbero riportato dentro, lei era al sicuro, lei aveva Max da cui tornare. Su questo punto Stella aveva smesso di discutere, farlo arrabbiare ancora di più non sarebbe servito a nulla. E Max? Aveva mai sentito la sua mancanza? Mai. Stella ammise di averci pensato, naturalmente, ma senza un briciolo di rimorso, il che faceva sembrare tristemente fuori luogo la gelosia di Edgar, e il suo timore che Stella volesse tornare da lui. No, per Max non provava niente. Disse che se fosse stato un vero marito nulla di tutto questo sarebbe mai successo, lei non avrebbe sentito quel vuoto, quell'avidità, non avrebbe avuto bisogno di quello che Edgar le aveva offerto e che era stata incapace di rifiutare, anche se significava perdere tutto il resto, suo figlio, la casa, un posto nel mondo. Max adesso le sembrava una specie di morto vivente, una creatura esangue che osservava l'umanità con uno sguardo da entomologo, rinchiudendo le persone in tante bacheche con sotto la loro brava etichetta, questo è un disturbo della personalità, questo un isterico. Solo dopo averlo lasciato, mi disse, si era resa conto di quanto grande fosse il vuoto che Max aveva creato in lei. Lo odiava per questo, per averla spinta a quel parossismo di disperazione. Non sapeva che cosa ne sarebbe stato di lei, ma le sembrava di non avere altra scelta che giocarsi la partita fino in fondo. Un giorno, mentre stava posando, Stella chiese a Edgar di Ruth. In particolare, gli domandò se le avesse fatto una testa in argilla. «Inutile» rispose Edgar senza interrompersi. «Perché?». «Alla fine la guardavo e non vedevo più niente». «Come mai?». Edgar era molto concentrato, e le rispose solo dopo qualche minuto, in tono vago. «Tutti quegli uomini. Mi stavano davanti. Mi impedivano di vedere». «Di vedere cosa?». «Di vedere com'era». «Ah». Stella rimase in silenzio per un po'. «La sua verità» disse poi. «Ho provato con un'altra, ma anche la sua testa era tutta sbagliata. E la

sua verità comunque non mi interessava». «E Ruth come l'ha presa?». «Cosa?». «L'altra donna». Edgar sbuffò. «Non le è piaciuto per niente». «E quindi?». Un altro silenzio. «E quindi le ho detto che se non le andava la porta era quella». «Ci sei andato a letto, con l'altra?». Qui Edgar si interruppe e la guardò per un attimo, con la spatola di legno impiastricciata che gli pendeva fra le dita. Sorrise. «No». «Ne avevi voglia?». «No! Mi interessava solo fare quella maledetta testa!». A questo punto Stella credette di scorgere qualche segnale incoraggiante dal mondo esterno. Sui quotidiani, che leggeva regolarmente, il nome di Edgar non compariva da settimane. Il suo non era mai neppure stato citato, e naturalmente non era mai stata pubblicata una sua fotografia. Stella indovinò il motivo. Com'è ovvio l'ospedale non ci teneva a far sapere che la moglie del vicedirettore era l'amante del paziente evaso, e che era scappata con lui. Quella sì sarebbe stata una notizia sensazionale, e un ulteriore scandalo era proprio ciò che Jack e tutti noi volevamo evitare. E così, è vero, avevamo messo tutto a tacere, e dal punto di vista di Stella questo giocava a loro favore. Erano in vantaggio. Ed è qui che rientra in scena Nick. VIII Caro Nick. Si era affezionata a Nick, all'alto, allampanato, premuroso Nick. I pochi soldi che Edgar portava a casa venivano quasi sempre da lui. Aveva una sua piccola rendita, e la metteva generosamente in comune. Quando aveva visto come si mettevano le cose tra Edgar e Stella si era fatto prestare un appartamentino a Soho, in modo che loro due avessero più spazio. Rivederlo per Stella fu un sollievo. Credo anche per Edgar, a modo suo; sentiva di fare sempre più fatica a dominarsi, e probabilmente era spaventato. Senza di me, il lavoro era la sua unica ancora di salvezza, l'unica cosa che desse alla sua esistenza una sorta di struttura e di scopo. E

più i sospetti lo tormentavano, meno Stella sembrava contare per lui. Per quanto si sforzasse di combatterli, infatti, quei pensieri gettavano un'ombra sulla sua mente, e Edgar viveva sotto una cappa di dolore e di dubbio che si sollevava solo di rado, e cioè quando lavorava: solo allora vedeva Stella con piena chiarezza. Edgar era andato avanti con la sua scultura, continuando a sfigurarla, ma ormai buchi e tagli si potevano considerare uno stadio nell'evoluzione del pezzo. Fu felice di mostrarla a Nick, e guardandola Stella capì che quella testa, la sua testa, era diventata anche qualcos'altro, una trasposizione dei sentimenti sempre più oscuri e tormentati di Edgar: era, penso, patologia in argilla. Nick si rese immediatamente conto che Edgar stava facendo qualcosa di importante. La sua reazione portò Stella a domandarsi se tutto quello che lei e Edgar stavano passando non si potesse in fondo attribuire ai sussulti connaturati a qualsiasi progetto artistico degno di questo nome, e a nient'altro. Non si dà creazione senza sofferenza, e la grande arte nasce solo da grandi sofferenze, non è così? Ma certo, la colpa di tutto era della testa, pensò. Preferiresti tornare nei salotti degli psichiatri, con le loro mogli e le loro madri? si chiese. Naturalmente no. Era grata a Nick per averla aiutata a capire questo. Forse lei e Edgar avevano passato troppo tempo da soli. Nick era una ventata d'aria fresca. La tensione calò di colpo. Senza contare che Nick aveva un influsso benefico anche su Edgar. Per quanto cercasse di nasconderlo, Edgar era molto compiaciuto della sincera ammirazione di Nick per il suo lavoro, Stella lo vedeva benissimo. La reazione di Nick era molto più importante della sua, perché essendo un artista Nick capiva dove Edgar stesse cercando di arrivare. Più tardi i due uscirono e tornarono con una cassa di vino rosso e una busta con la spesa. Quella sera fu una delle più felici che Stella avesse passato nel sottotetto. Nick e Edgar erano allegrissimi, e rimasero tutti e tre a gozzovigliare, a ridere, a far baccano fino all'alba. Senza parere, Stella teneva d'occhio Edgar, felice di vederlo star bene. Quella notte rivide il vecchio Edgar, l'Edgar spiritoso, tenero, brillante, acuto, laconico: e pericoloso. A un certo punto lui e Nick cominciarono a discutere piuttosto animatamente di altri pittori. Tirarono fuori un blocco e Nick fece uno schizzo dei dipinti cui intendeva lavorare. Edgar gli diede una serie di rapidi consigli e Nick ascoltò annuendo, mordicchiandosi il labbro come faceva sempre quando si concentrava, prendendo nota di tutto più in fretta che poteva. Più tardi, mentre Nick, ubriaco, si era allungato sul divano a fumarsi un sigaro, Stella disse a Edgar che non aveva rimpianti. Erano ubriachi anche loro. Stella era stravaccata sulla

sedia, con un piede appoggiato sul tavolo e la gonna che le lasciava scoperta la coscia; Edgar si alzò barcollando e fece il giro del tavolo per raggiungerla, poi le strinse le spalle, si chinò, e le chiese solennemente scusa per essere la merda che era. «Non sei una merda» disse lei. «Sì, invece». «Eccome» fece Nick dal divano. Nick si addormentò dov'era, e il mattino dopo, che era domenica, si svegliarono tardi. Edgar dormiva ancora quando Stella si alzò per andare in cucina, dove trovò Nick che frugava tra i suoi schizzi tentando di decifrare gli appunti buttati giù mentre Edgar gli rovesciava addosso un'idea dopo l'altra. Stella disse che la sbronza non le era ancora passata, e che aveva bisogno di una boccata d'aria. Nick si offrì di accompagnarla. Uscirono di soppiatto per non svegliare Edgar. Andarono a passeggiare lungo il fiume. Nick era ridotto da fare spavento. Aveva la sua vecchia giacca di tweed, i calzoni e le scarpe macchiati di pittura, la barba lunga, gli occhi rossi e la faccia gonfia. Era una mattina grigia e gelida, il vento portava folate di pioggia. Rimasero qualche minuto a guardare l'acqua, ma faceva troppo freddo, e Nick propose una sosta al pub. L'incubo cominciò un'ora dopo, al rientro. Nick e Stella trovarono Edgar sulla porta dello studio, che li fissava. Non aveva aperto le imposte e la stanza era ancora buia; la sua faccia non si distingueva bene. Al pub Stella si era scolata un paio di bicchierini che le avevano rimesso in circolo l'alcol della sera prima, ed era già alticcia. «Tesoro!» strillò. «Ti abbiamo portato la colazione!». Nick gli mostrò due bottigliette di birra scura. «E l'antidoto» disse. «Cos'hai?». Edgar non si era mosso, non aveva detto una parola, era solo rimasto a guardarli con una strana luce negli occhi, il labbro superiore piegato in una smorfia e i denti serrati. Stella gli si avvicinò, mentre il riso le si spegnava in gola lasciando il posto a un'espressione preoccupata. Adesso c'era l'altro, lì, il malato, e solo lui. Edgar era scomparso. «Cosa c'è? È successo qualcosa?». «Non ti avvicinare». Stella si girò verso Nick, che fissava Edgar con le sopracciglia aggrottate, turbato quanto lei dal suo comportamento. Ormai la sbornia se l'erano

fatta passare, e alla svelta. «Edgar...». «Vattene, Nick. E non farti mai più vedere». «Ma...». «Fuori dai coglioni, Nick!». «Senti...». Edgar gli si avvicinò con la chiara intenzione di picchiarlo. Nick indietreggiò. «Fuori dai coglioni!». Nick obbedì. Stella, sbigottita, rimase a guardarlo in silenzio mentre se ne andava. «Bastardo» mormorò Edgar mentre in sottofondo si sentivano i suoi passi giù per le scale. «Adesso smettila, mi fai paura...». «Tu, puttana. Con Nick». Imitò l'accento da college dell'altro. «Non capisco» rispose Stella. Ma non era vero. «"Non capisco"». Le fece il verso. «Certo che capisci, smettila di mentire». Di colpo, Stella si sentì a pezzi. Lo aveva già visto, l'altro, ma mai così. E non se l'era mai presa con Nick. Quanto ci sarebbe voluto, questa volta, prima che se ne andasse? Si mise a sedere e accese una sigaretta. Era nauseata e depressa. «Queste assurdità mi annoiano a morte» disse senza alzare la voce. Prese un'arancia dalla coppa sul tavolo e se la rigirò pigramente fra le dita. Fu un attimo. Edgar le saltò addosso, trascinandola sul pavimento. Stella rimase concentrata sull'arancia, la seguì con lo sguardo mentre rotolava verso la finestra, e avrebbe voluto dire a Edgar di stare attento a non pestarla, con quello che costava. Poi lui la sollevò per i polsi, come aveva fatto qualche notte prima, urlandole che sapeva benissimo che si fotteva Nick, cosa credeva, che fosse cretino? Stella non gli rispose, non sarebbe servito a nulla, e lui le diede un ceffone, e stavolta per farle male. Stella cadde per terra e si girò, riparandosi il viso con le braccia. Poi cercò di rimanere immobile. Aveva il fiato corto, e tremava tutta. Non sentiva niente. Non capiva che cosa stesse facendo Edgar, ma era ancora nello studio. Il tempo sembrava scorrere più lento, e Stella non sapeva se da quando Edgar l'aveva colpita fosse passato un minuto o dieci. Non osava mettersi a sedere per paura che si arrabbiasse ancora di più. Poi sentì una specie di strofinio, che in un primo momento non riconobbe. Alzò leg-

germente la testa e aprì gli occhi. Adesso lo vedeva. Era in piedi vicino al tavolo dall'altra parte della stanza, e le dava la schiena. «Cosa stai facendo?» Edgar non si girò e non le rispose. Che noia, pensò di nuovo Stella. Si alzò a sedere con un sospiro, toccandosi con cìrcospezione la faccia, che sentiva pulsare. Cercò il portacipria per verificare i danni. Edgar continuava a darle la schiena, e a strofinare un oggetto contro un altro. «Ti ho chiesto cosa stai facendo» disse Stella. Poi ci arrivò da sola: Edgar stava passando una lama su una pietra. Aprì di scatto il portacipria. Era molto spaventata. Si guardò nello specchietto rotondo; un lato della sua faccia stava già cambiando colore. La pulsazione era lieve, ma faceva male. «Cosa stai affilando?». Nessuna risposta. Per un attimo, Stella pensò di correre alla porta. In fondo lo conosceva così poco. Nella serra sapeva chi aveva davanti, nella serra si era sentita sicura che qualsiasi cosa fosse accaduta in futuro, qualsiasi cosa lui avesse fatto, sarebbe stato sempre Edgar. Ma quello che aveva davanti non era lui. Era un altro. A meno che l'uomo del giardino non se lo fosse inventato lei a misura dei propri bisogni. «Cosa stai affilando?». «Un coltello». Un coltello con cui tagliarle la testa. «E perché, scusa?». Con una calma anche eccessiva, Stella si diede una controllata alla faccia. Ricorda di aver pensato che in fondo le era andata bene, la pelle era intatta. Si passò con cautela un fazzoletto sul trucco sbavato intorno agli occhi. Devo scappare, pensava, sta per uccidermi. Ma lo pensava senza terrore, era come staccata da tutto. Le cose, intorno a lei, non erano più in scala. Lo specchietto che si teneva davanti alla faccia sembrava lontanissimo, e piccolo come una moneta. Anche la sua immagine riflessa era minuscola, talmente minuscola che non riusciva neppure a distinguerne i tratti. «Per sbucciare l'arancia» disse Edgar. Anche lui era minuscolo, e lontanissimo, come se lo stesse guardando dall'estremità sbagliata di un cannocchiale. Aveva finito di affilare la lama. Continuava a darle la schiena, ma la teneva d'occhio. Un omino minuscolo, lontano lontano, dall'altra parte di una stanza enorme. «Per sbucciare l'arancia?» chiese Stella. La sua voce, atona e metallica, sembrava arrivare da chissà dove. Edgar

attraversò la stanza con il braccio teso, porgendole uno spicchio. Stella se lo mise in bocca. Non voleva ucciderla, ma solo darle un po' di frutta. Mentre masticava, Edgar non le tolse gli occhi di dosso. «Cosa c'è?» chiese. Aveva uno sguardo stranissimo. Stella non riusciva a immaginare a cosa stesse pensando. Lui si voltò scuotendo la testa, poi Stella lo vide prendere un altro spicchio e portarselo alle labbra con diffidenza, come se non avesse mai assaggiato un'arancia in vita sua. E allora capì. Le tornò in mente una cosa che le avevo raccontato proprio io, a proposito dei deliri di Edgar. Una delle sue idee fisse, le avevo detto, era che Ruth gli avvelenasse il cibo. Per Stella, fino a quel momento impermeabile a tutto, fu un'intuizione sconvolgente. Era riuscita a razionalizzare la violenza di Edgar, e a spiegarsi la sua gelosia. Ma il sospetto che lei stesse cercando di avvelenarlo con un'arancia era davvero preoccupante. Stella capiva che per il suo bene avrebbe fatto meglio a lasciarlo, e tutto quello che le avevamo detto, e che fino ad allora era riuscita a rimuovere, le riaffiorò alla coscienza. Per la prima volta Edgar la spaventava a morte - anche se più tardi mi avrebbe ripetuto con insistenza che non aveva paura di lui, ma della sua pazzia. Inoltre sapeva che non doveva mostrargli il suo terrore, perché altrimenti Edgar avrebbe potuto diventare violento, e farle quello che aveva fatto a Ruth. Anzi, forse con lei non avrebbe avuto neppure bisogno di ubriacarsi, forse aveva già perso il controllo. Forse a scatenarlo sarebbe bastato l'odore della sua paura. Voleva scappare, ma non osava uscire dalla stanza. Sentiva che Edgar avrebbe capito che cosa le passava per la testa, e allora sarebbe stata la fine. «Vado di sopra» disse soltanto. Raccolse la borsa, salì lentamente le scale e si sedette sul materasso. Si asciugò le dita appiccicose di arancia e si diede un'altra controllata allo specchio. Poi prese un libro, si coricò sulla schiena e cominciò a leggere senza guardare di sotto. Sentiva che Edgar la sorvegliava. Era venuto il momento? La calma che Stella tentava di trasmettere era assolutamente falsa. Il cuore le batteva all'impazzata, era madida di paura, e il panico minacciava di sopraffarla da un momento all'altro. Edgar passò l'intero pomeriggio nello studio, a lavorare alla testa. Credo di immaginare quale sforzo sovrumano gli sia costato dominarsi. Penso

che tutto quell'accanirsi sulla testa fosse in realtà un modo per cercare di vedere Stella con chiarezza, di cogliere la sua verità, nella speranza di riuscire prima a dominare, poi a sconfiggere la pazzia. Stella, di sopra, non aveva idea di tutto questo, pregava solo che lui uscisse, e intanto si concentrava mentalmente sui preparativi per la partenza. Sul letto sfatto, fumava con la schiena appoggiata contro i mattoni. Dopo averlo censurato per tanto tempo, ora non riusciva a pensare quasi ad altro che all'omicidio di Ruth. Se Edgar era arrivato a pensare che lei lo stava avvelenando, allora era pazzo, sì, era pazzo. Ma nonostante il terrore che ne provava, Stella riusciva ancora a compatirlo, perché sapeva che un pazzo è, prima di tutto, un malato. Era vissuta troppo a lungo tra gli psichiatri per dimenticarsene. Appena buio Edgar uscì senza una parola. Stella lo sentì andar via, quell'uomo così forte, e non perse tempo. Aveva pianificato tutto fin nei dettagli. Per vestirsi e riempire la valigia le ci vollero una decina di minuti. Si mise l'impermeabile, il foulard e gli occhiali scuri e si precipitò giù dalle scale. Si fermò nell'andito e gettò un'occhiata al cortile. Era deserto. Camminò rapidamente fino alla strada, poi si fermò accanto al muro per controllare che Edgar non stesse tornando. Via libera. Un vento freddo saliva dal fiume. Si allontanò di corsa. Una mezz'ora dopo Stella entrò con circospezione in un piccolo pub piuttosto squallido dalle parti di Waterloo. Era un locale pulito, caldo, vuoto, e pericoloso; Stella pensò che Londra era piena di locali identici a quello, posti apparentemente sicuri, ma in ciascuno dei quali, da un momento all'altro, poteva entrare Edgar. L'unico cliente, oltre a lei, era un tale con l'impermeabile grigio, che se ne stava al banco col giornale della sera e il suo bicchiere di birra. Un tappeto sul pavimento e un caminetto a gas acceso. Vicino al fuoco, nell'angolo, un tavolino rotondo con le gambe di metallo. Tutto qui: un uomo al banco, il tepore del caminetto, le calde luci soffuse, le sigarette, l'alcol, e fuori il freddo e il crepuscolo, uno studio vuoto, un pazzo. Stella decise di bere qualcosa al tavolino. Chiese alla barista un pacchetto di sigarette e un gin tonic abbondante e se li portò vicino al caminetto, dove si sistemò con la guancia tumefatta rivolta verso il muro. Allungò il gin con l'acqua tonica e si accese una sigaretta. Dopo un paio di minuti si rese conto che l'uomo al banco la stava osservando, ma appena lei alzò lo sguardo lo vide tornare al suo giornale. L'atmosfera era calda e tranquilla, le luci basse. Dato che le era avanzata un po' di acqua tonica, Stella prese un altro gin. Quando si avvicinò al ban-

co l'uomo le chiese se voleva bere qualcosa con lui. Stella rispose di no, che stava aspettando suo marito. Probabilmente, mi disse Stella, si stava chiedendo il perché degli occhiali scuri, e anche del livido in faccia, ma che pensasse pure quello che voleva, per lei era lo stesso. Si portò il gin al tavolino vicino al caminetto e ricominciò ad aspettare. Aveva scelto quel pub perché subito fuori c'era una cabina telefonica. Prima di entrare aveva cercato Nick, ma le avevano detto che era uscito. Avrebbe richiamato fra mezz'ora. Un'ora dopo non era ancora tornato. Sentiva la tristezza montare in lei, un'onda dopo l'altra, ma si diceva severamente, con un tono che conosceva bene, il tono di Max, che non doveva fare la stupida né commiserarsi - doveva darsi un contegno. E in una situazione simile era davvero il colmo che le venisse in aiuto uno dei precetti di Max contro gli eccessi dell'emotività femminile. Datti un contegno, cara, sei in un posto pubblico, vuoi dare spettacolo? Sì, era proprio questo che la sconvolgeva, l'idea di dare spettacolo. Come se ci fosse una cornice intorno alla figura piangente seduta al tavolino, una cupa cornice nera con sotto il titolo: «Melanconia». Nonostante la faccia indolenzita Stella sorrise, mentre le lacrime continuavano a rigarle silenziosamente le guance. Dal bar arrivarono delle risate maschili. Adesso basta, si disse Stella, ma servì solo a peggiorare le cose: l'uomo al banco si voltò e cominciò a fissarla ostentatamente. Stella diede di nuovo spettacolo uscendo a chiamare Nick una terza volta. *** L'appartamento era un buco, ma sempre meglio del sottotetto, senza contare il piacere di un vero bagno. Nick si era preso uno spavento terribile. Era tornato da loro, non li aveva trovati, e pur non sapendo bene cosa pensare aveva temuto il peggio. Sentire la voce di Stella al telefono era stato quindi un enorme sollievo. Nick si era precipitato al pub, avevano bevuto qualcosa insieme, e poi l'aveva portata a casa sua. Lei gli aveva detto che quello che desiderava di più era farsi un bagno. Si era quasi strappata i vestiti di dosso, poi si era immersa nell'acqua calda ed era rimasta a lungo sdraiata con gli occhi chiusi. Non si sentiva veramente pulita da un'eternità, e le parve che un po' dell'infelicità, dello squallore, dell'ansia e del senso di colpa degli ultimi giorni scivolassero via insieme allo sporco. Dopo qualche minuto cominciò a esaminare il suo corpo - la pelle bianca, i seni, le gambe, le mani diafane e sottili, i piedi. A

Max, dopo tre o quattro anni di matrimonio, quel corpo non aveva detto più niente, ma del resto per mantenere viva l'attrazione sessuale ci vuole fantasia, e lui non ne aveva. Sta di fatto che, fino a Edgar, Stella era vissuta in castità, o quasi. Ora però non se la sentiva di pensare a lui, e lo cacciò via dalla sua mente. Uscì dalla vasca e si diede il borotalco davanti al lungo specchio appeso alla porta. Caro Nick. Pur non essendo attrezzato per offrire ospitalità e appoggio a una donna in fuga, faceva del suo meglio. Insistette perché Stella prendesse il letto; per lui sarebbe andata benissimo la poltrona. Stella era già in camicia da notte, e finì per accettare. Giusto il tempo di allungarsi sotto le lenzuola, e Nick le stava già portando da bere. «Vuoi mangiare qualcosa?». «Non ho fame, Nick, grazie». Stella era dignitosa e garbata, come qualsiasi vera signora in circostanze analoghe. Quell'uomo debole, disordinato e buono le piaceva. I suoi calzoni perennemente macchiati l'avevano sempre fatta sorridere. Una volta, scherzando, lei e Edgar gli avevano detto che avrebbe dovuto farci su una mostra, in fondo erano opere d'arte. Il povero Nick ci aveva riso, ma il giorno dopo si era presentato con un paio pulito, che tuttavia non era rimasto tale a lungo. Ora sedeva, sul bordo della poltrona, chino in avanti, strofinandosi le grandi mani e raccontandole timidamente dell'enorme sollievo che aveva provato qualche ora prima sentendo la sua voce al telefono. «Sai, lo conoscevo già quando si è messo in testa quelle idee su Ruth» disse. «Oh, Ruth» fece Stella. Non aveva nessuna voglia di parlarne. Poi le venne in mente una cosa. «Nick» disse. «Sì?». «Edgar è mai stato qui?». Nick, terreo, rispose di sì. Stella non riusciva a dormire, e nemmeno Nick. Stravaccato sulla poltrona, con una coperta buttata addosso, continuava a rigirarsi cercando una posizione comoda; a un certo punto lei si chiese se non fosse il caso di prenderselo a letto. Più tardi Stella andò fino alla finestra e scostò la tenda di qualche centimetro. La pioggia cadeva molto forte, tagliando di sbieco il fascio di luce dei lampioni. La stradina davanti a casa era lucida e deserta. Che cosa si aspettava, di vedere Edgar in piedi sotto il lampione, nella

pioggia, a guardare la finestra? Qualche istante dopo sentì Nick che cercava di prendere le sigarette senza farsi sentire. Poi ci fu il bagliore del fiammifero. «Non riesco a dormire» disse Stella nel buio. «Neanch'io». «Nick». «Cosa?». «Verrà, non è vero?». «Non lo so». «Ho paura». Nick andò a sedersi sul bordo del letto e le prese la mano. «Non è per lui» disse Stella. «È perché è malato. Tu lo sai che può essere diverso, vero?». Nick non disse nulla. Le stringeva forte la mano, e Stella si rese conto che era eccitato. Non aveva mai immaginato che Nick potesse desiderarla, ma forse Edgar sì, e forse da lì era cominciato tutto. Forse era colpa di Nick. «La porta è chiusa a chiave» disse Nick. Stella ricambiò la sua stretta, e un attimo dopo si lasciò baciare. Poi Nick infilò le mani sotto la coperta e provò a toccarle il seno. «No, Nick». «Scusa». Nick tornò in poltrona. «Ora cerca di dormire» disse Stella. Edgar arrivò all'alba. A svegliarli fu il rumore della maniglia che girava. Non scoprirono mai come avesse fatto ad arrivare fin lì, visto che anche il portone sulla strada era chiuso a chiave. Si ritrovarono seduti a fissare inorriditi la porta. «Nick, apri». Quella voce attutita li terrorizzava. Non era lui, era sempre l'altro, con quello strano accento posticcio. Nick fissava Stella con uno sguardo spiritato, scuotendo la testa. Anche al buio Stella gli vedeva il terrore sul viso. «Apri la porta, Nick. Avanti, bello, mi hai riconosciuto, no? Non voglio farti niente di male». Silenzio. Erano assolutamente immobili. Non vorrà farsi sentire da tutti, pensò Stella. Non oserà sfondare la porta, sarebbe la sua fine. A meno che non gliene importi più nulla.

«Lei è lì, vero? È lì?». Nick non sapeva cosa fare. Era paralizzato. Stella lo fissava facendo cenno di no con la testa. Non doveva mettersi a parlare con lui, nemmeno attraverso la porta. Nick scrollava le spalle come un bambinetto impaurito. Stella attraversò la stanza con un dito sulle labbra, andò a sedersi su un bracciolo della poltrona e gli appoggiò una mano sulla bocca, mentre con l'altra gli teneva fermo il polso. Quando lui alzò lo sguardo, gli fece segno con le labbra di tacere. «Non è colpa tua, Nick» disse la voce dietro la porta. «Lo so com'è, lei». Nick sgranò gli occhi. Stella non capiva che intenzioni avesse. Gli tolse la mano dalla bocca, si chinò su di lui e lo baciò. «È una donnaccia» fece Edgar. Nick cercò di girarsi verso la porta, ma Stella lo teneva per i capelli, continuando a premergli la bocca sulla sua. «Nick!». Edgar diede un gran colpo alla porta. Nick schizzò quasi dalla poltrona, ma Stella lo trattenne cacciandogli la lingua in bocca. Nel tentativo di mantenersi in equilibrio sul bracciolo la vestaglia le si era aperta sulle gambe, e Nick ci infilò sotto una mano, toccandole timidamente la coscia. Adesso da dietro la porta veniva solo silenzio. Edgar doveva essere sgattaiolato via per paura che il baccano avesse tirato giù dal letto tutta la casa. Oppure stava aspettando sul ballatoio. Stella sentì la mano di Nick risalirle lungo la coscia. La lasciò arrivare fino in fondo. Si stava eccitando anche lei, e non solo perché Nick la toccava: per la situazione in sé. Ma alla fine gli tolse la mano, andò alla porta e ci appoggiò sopra l'orecchio. Niente. Nick, sprofondato in poltrona, era pallidissimo. Stella si spostò alla finestra e sollevò appena la tenda. Vide Edgar uscire allo scoperto e lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava. Anche il suo modo di camminare era diverso, rispetto a prima: si muoveva a scatti, come se non riuscisse a coordinare i movimenti. Stella dovette fare uno sforzo per non chiamarlo, per lasciarlo andar via. Aveva smesso di piovere. Si voltò verso la stanza e si trovò di fronte Nick, prostrato e sconvolto. «Se n'è andato» disse Stella. «Devo bere qualcosa». «Poveraccio. Povero Edgar». Un'ora dopo uscirono. Sgattaiolarono via da una porta secondaria con una valigia per uno. In giro non c'era un'anima, la strada era praticamente

deserta. Passarono vicino a due uomini in abito da sera che cercavano un taxi schiamazzando. Stella era rimasta con un solo paio di scarpe, quelle coi tacchi alti, e arrancava cercando di tener dietro a Nick, che era ancora spaventatissimo. Gli lasciò la borsa e si aggrappò al suo braccio. Salirono su un autobus che andava verso ovest, il più lontano possibile da Southwark, e sedettero in mezzo a uomini e donne silenziosi, insonnoliti e troppo presi dai loro giornali e dal loro malumore per fare caso alla donna con l'impermeabile coperta di lividi e all'uomo alto, malandato e nervoso che sedeva vicino a lei. Era una giornata nuvolosa. Brevi raffiche di pioggia spazzavano i finestrini dell'autobus. Dopo qualche minuto scesero. Nick disse di sapere dov'erano. La guidò in una stradina che sbucava in una piazza fatiscente di grandi case georgiane con in mezzo un albero e una macchia di erba marrone cinta da uno steccato. La pensione era indistinguibile dagli altri edifici. Una donna stanca li accompagnò su per due rampe di scale coperte da una moquette scadente e mostrò loro la stanza. La finestra dava su un alto muro di mattoni con in cima cocci di bottiglia e su un vicolo ingombro di bidoni della spazzatura, di corde per il bucato e di gatti. Stella disse che i due giorni passati con Nick erano stati i più deprimenti. Le era rimasto impresso solo qualche dettaglio. Nick era una persona piuttosto sporca, mangiava nelle scatolette, si puliva le mani sui calzoni. Era gentile e affettuoso, certo, ma non faceva che fissarla, e non con tenerezza, ma con bramosia. Stella si chiedeva se sarebbe stato capace di violentarla. Lei passava ore e ore sul letto matrimoniale sfondato, e la lampadina appesa al soffitto mandava una fioca luce giallastra che imbruttiva tutto, loro due inclusi. Rimaneva coricata lì a preoccuparsi per Edgar. La sua paura era che ormai fosse troppo disturbato per non attrarre prima o poi l'attenzione su di sé. Temeva che facesse qualche stupidaggine. E il loro futuro insieme? Oh, mi disse con un'aria spensierata, di quello non aveva mai dubitato. Sapeva che il filo non si era spezzato, sentiva che anche nelle sue peggiori crisi di gelosia Edgar non aveva smesso di amarla, che la sua passione era solo confusa e deviata, come se fosse stata infilata a forza in qualche oscuro cunicolo da cui era riemersa mostruosa e irriconoscibile. E quel cunicolo era la sua malattia. E mi rivelò che proprio durante i due giorni passati con Nick aveva tentato per la prima volta di seguire quello che chiamava l'istinto del cuore, cioè di separare, su un piano non intellettuale ma emoti-

vo, l'uomo dalla sua malattia, e si era accorta che sì, ci riusciva. Oh, era facile, poteva farcela tranquillamente, vedeva Edgar con la testa fra le mani mentre l'uragano infuriava nella sua povera mente ottenebrata, ma l'uragano e lui erano due cose diverse! Passato l'uragano sarebbe guarito, sarebbe stato di nuovo lui. Ma nei momenti di pazzia doveva stargli lontano, per il suo bene; sarebbe tornata da lui più tardi. Decise di credere a tutti i costi che sarebbe andata così, per quanto impossibile potesse sembrare. Nick aveva troppa paura per tornare nel sottotetto, o anche solo per uscire, e così finirono col passare troppo tempo insieme. Presto Stella diventò insofferente, ma non aveva più soldi e non sapeva come trovarne. In fondo al corridoio c'era un bagno, che lei e Nick condividevano con gli altri clienti del piano. Stella ci passava più tempo possibile, anche solo per sfuggire a Nick, ai suoi odori, alla sua ansia, alle sue voglie. La casa puzzava di cavolo bollito, e a quanto pareva ospitava solo esseri grigi e sciatti, che quando la incrociavano in corridoio o per le scale evitavano il suo sguardo. Alla fine Stella non ce l'aveva fatta più. E se l'era presa con Nick. La mattina del terzo giorno, dopo un'ennesima notte agitata e infelice, Stella ci era andata a letto. Era stato un momento di debolezza, o forse era solo stufa di vederselo ronzare intorno con la lingua di fuori. Era rimasta praticamente immobile, anche perché era un po' indolenzita. C'era stato un solo aspetto positivo, che mentre Nick si dava macchinosamente da fare per raggiungere l'orgasmo Stella, all'improvviso, si ricordò come fosse fare l'amore con Edgar. E così, nella sua lancinante degradazione, ritrovò l'immagine del suo amante. Una volta finito, Nick commise l'errore di mostrarsi pateticamente compiaciuto, e fu questo a far scattare la molla. Stella gli si rivoltò contro, lo prese ferocemente in giro, gli disse che era un debole, che non sapeva cosa farsene di un uomo così moscio, e quando Nick provò a dire che le voleva bene e la voleva aiutare lo mandò all'inferno. Poi andò in bagno, tornò e si vestì davanti a lui, provocandolo apertamente; quindi uscì senza dirgli dove stava andando, perché non lo sapeva nemmeno lei. Lo lasciò a leccarsi le ferite, come un cane bastonato. Vagabondò per le strade, una donna triste e stordita, con l'impermeabile aperto e una sigaretta tra le dita. Non le importava dell'effetto che poteva fare. Una donna triste alla deriva per strade tristi, incorporea, irreale, forse solo un fantasma. Alla fine prese una decisione.

D'improvviso, mi disse, le parve assurdo continuare a nascondersi, e non dalle autorità dell'ospedale, ma da Edgar! Prese un autobus che la portò a Blackfriars, da dove raggiunse Horsey Street a piedi, sotto la pioggia. In strada i soliti ragazzini giocavano a pallone contro il muro, ma al suo passaggio si fermarono. La guardarono infilarsi nel vicolo che portava al cortile, e quella loro attenzione silenziosa ebbe un effetto tutt'altro che tranquillizzante. Il suo terrore era quasi fisico, adesso. Aveva la nausea. Continuava a inciampare, e pensò che non ce l'avrebbe fatta a proseguire. Entrò nell'andito. Anziché riprendere il gioco, i ragazzini l'avevano seguita fino al cortile, e adesso se ne stavano lì a guardarla in silenzio. Presto Stella capì perché. La porta in cima alle scale era aperta, e nel sottotetto c'era qualcuno. Stella tornò immediatamente indietro, ma ormai l'avevano vista. Continuò a scendere anche quando una voce la chiamò. Un uomo la rincorse, raggiungendola a metà delle scale. Solo un momento, prego, disse appoggiandole una mano sulla spalla. Lei si voltò, e l'altro la riconobbe. Cristo, disse, è Mrs Raphael. Lei è Stella Raphael. Stella lo guardò. Non l'aveva mai visto. Lui cominciò a chiamare gli altri uomini. In un attimo ne arrivarono due, entrambi sorpresi quanto il primo. La riportarono nel sottotetto. Edgar non c'era, e a quanto pareva non sapevano dove fosse. Volevano farle qualche domanda, dissero. Se non le dispiaceva. IX Dopo questa svolta drammatica Stella rientra nel mio campo visivo, ritorna a fuoco; il mio resoconto si basa quindi di nuovo sull'osservazione diretta, e su quello che lei stessa mi dice. Ad esempio di essere grata ai poliziotti per averla trattata con una certa umanità. Personalmente, ritengo si sia trattato, più che altro, di stupore. L'ultima cosa che si aspettavano era di vedersela cadere fra le braccia in quel modo, tant'è vero che le chiesero solo se sapesse dov'era Edgar, rinviando a più tardi l'interrogatorio vero e proprio. Gli eventi delle ore successive sono nella sua memoria qualcosa fra l'allucinazione e l'incubo. Stella ricorda un locale nella stazione di polizia, e una donna in uniforme che le offre un tè. Dopo circa un'ora era arrivato Max. Evidentemente anche lui, come la polizia, aveva scelto un approccio morbido: Stella la vittima, sedotta e abbandonata, una povera donna corrotta da un uomo diabolico, che dopo averla manipolata e irretita si è sba-

razzato di lei. Vedendo Max entrare Stella aveva cercato di controllarsi, ma le sarebbero servite energie che non aveva più: prima che lui avesse il tempo di aprir bocca si era ritrovata fra le sue braccia, avvinghiata disperatamente a lui. Negli ultimi giorni si era sentita troppo debole, e sola, e disperata. Max le aveva fatto qualche carezza - da medico, da psichiatra, Stella se ne rendeva perfettamente conto, ma non le importava, anzi, era proprio ciò di cui aveva bisogno. Solo qualche tempo dopo il medico avrebbe lentamente ceduto il passo al marito, e per Stella sarebbe iniziato un altro incubo. Si era concessa di crollare. Era diventata docile e remissiva come una bambina, o una malata. Aveva risposto alle domande sempre gentili dei poliziotti. Vedeva le loro espressioni preoccupate, li sentiva scambiarsi pareri a bassa voce, ma non tentava nemmeno di capire, o di avere una parte attiva in ciò che stava accadendo. Voleva solo che qualcuno si occupasse di lei. Non chiedeva altro. Passò la notte in cella. I poliziotti sembravano quasi contriti, ma a Stella importava solo dormire, e loro le avevano promesso una pillola. La stanza era spoglia, e le lenzuola pulite. Stella inghiottì la pillola e chiuse gli occhi. Non riusciva più a pensare né a sentire nulla. Fece un lungo sonno profondo, e il mattino dopo l'unico sogno di cui conservasse traccia riguardava l'orto e la serra, ma non riusciva a ricordare altro. A poco a poco il senso di stordimento svanì. Il giorno dopo dovette sottoporsi a un lungo interrogatorio. Il poliziotto, disse, era molto corretto, anche se un po' brusco. Gli occhi di Stella vagavano per l'ufficio. Le pareti erano di un verdino lucido fino all'altezza della spalla, e da lì in su color crema. C'erano due grandi finestre ad arco polverose, diversi archivi di metallo, una carta topografica piena di puntine colorate e un grande orologio sopra la porta. Il poliziotto le chiese dove avesse vissuto con Edgar Stark, che cosa avessero fatto insieme, chi avessero visto. Stella gli disse tutto quello che riusciva a ricordare, anche perché ormai non vedeva come potesse nuocere a Edgar, ma non riuscì a fare un solo nome. Il poliziotto annuì, prese qualche appunto, e soprattutto la aiutò a ricostruire i fatti nella loro concatenazione, a partire dalla prima volta che era stata in Horsey Street. Stella gli fornì la propria versione senza preoccuparsi delle reazioni che suscitava. Sorvolò sulle crisi di gelosia, e nei limiti del possibile cercò di lasciar fuori Nick. C'erano parti del racconto che al poliziotto sembravano interessare più di altre, ma Stella non capiva perché, né si sforzava di

capirlo. Era finita, tutto qui, e per certi versi si sentiva sollevata e svuotata, anche se cominciava a intravedere, come attraverso una nebbia, la morsa lacerante del rimpianto per ciò che aveva perduto, e a intuire vagamente che cosa la aspettasse. Si stava preparando per le tenebre. Il giorno dopo Max la riportò a casa. La Jaguar bianca aspettava nel cortile della stazione di polizia. Mentre Max le apriva la portiera Stella sollevò lo sguardo e vide le sbarre della cella dove aveva passato le ultime due notti. Poi la macchina uscì silenziosamente dal cortile confondendosi nelle luci del traffico londinese. Da quando l'avevano presa era la prima volta che Stella si ritrovava a tu per tu con Max. «Hai l'aria stanca» buttò lì. Max non rispose subito. Fumava, tenendo gli occhi fissi davanti a sé. «Ieri sera ho telefonato a Jack. Siamo tutti e due convinti che la polizia archivierà il caso». «Quale caso?». Max si voltò un attimo a guardarla. Stella era raggomitolata sul sedile, avvolta nel cappotto che le aveva prestato lui. Sentendosi osservata, si girò a sua volta. Gli occhi di Max tornarono a fissarsi sulla strada. «Nel caso tu non ne sia al corrente, quello che hai fatto è un crimine». Il suo tono di voce non le piaceva, e quello che diceva non le interessava. Non gli rispose neanche. Adesso fissavano tutti e due la strada. «Uno scandalo non serve a nessuno» disse Max. Stella rimase in silenzio. «Non dirmi grazie, per carità» aggiunse lui. Davanti a loro un camion cambiò corsia e Max dovette frenare bruscamente. Poi si concentrò sul sorpasso, e quando riprese un'andatura normale sembrava aver dimenticato le sue pretese di gratitudine. Ma Stella no. Ora che era tutto finito, capiva di avere davanti a sé trattative complesse e delicate. Sempre che fosse tutto finito. In apparenza il comportamento di Max era molto nobile. Aveva fatto in modo che la polizia non andasse a fondo. Era al suo fianco. Ma tutto questo avrebbe avuto un prezzo. La gratitudine era solo un anticipo. Parlai con Stella un freddo mattino di fine ottobre. Ricordo ancora i batuffoli di bruma fra i rami. Passeggiavamo nell'orto, dove era cominciato tutto. Gli uomini stavano bruciando foglie secche, e c'era odore di falò. Stella mi disse che le dispiaceva non vedere un'altra primavera e un'altra estate nel giardino. La trovavo molto cambiata. Era più pallida, più lenta,

più pesante; adesso in lei c'era una specie di strana gravita. I meli erano carichi di frutti, e il terreno tutto intorno era cosparso di morbide sferette spugnose, verdi o gialle, picchiettate di puntolini scuri. Mentre avanzavamo cercando di evitarle, Stella mi prese sottobraccio. In seguito mi confessò che ero il suo primo e unico visitatore. Gli altri le facevano tutt'al più un cenno di saluto, ma non riuscivano a guardarla negli occhi: evidentemente offendeva il loro senso del decoro. Questo valeva per tutti, anche per gli Straffen, che sembravano svaniti nel nulla. E lei supponeva che anche il suo vecchio amico Peter Cleave fosse dalla loro parte. «Insomma, come stai, mia cara?» le chiesi. «Be', Peter,» rispose «ho passato periodi migliori. È davvero molto carino da parte tua venirmi a trovare. Ti pensavo a fischiare con gli altri». «Io?» le dissi. «Io fischiare te? Non prendo le mie amicizie tanto alla leggera». «Dovevo immaginarlo». «E in ogni caso io sono un medico, non ho nulla da rimproverare a chi si ammala. E come potrei rimproverare a te di esserti innamorata?». «Gli altri ci riescono benissimo». «Ah, ma perché per loro è stato un trauma. Se ci pensi, quand'è che cominciamo a fare delle distinzioni tra quel che è giusto e quel che è sbagliato? Quando qualcosa ci ferisce o minaccia di farlo». «Funziona così?». «Almeno credo. Non sei d'accordo?». Arrivati alla panchina vicino alla serra ci mettemmo a sedere. Stella rovesciò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. «Non lo so, sono troppo stanca per pensare». Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. In seguito Stella mi disse com'era stato meraviglioso anche solo sentire qualcuno vicino; e che fino a quel momento non si era resa conto di quanto le fosse mancato. «Come vanno le cose con Charlie?» le chiesi tranquillamente. Stella aprì gli occhi. «Caro Peter» mormorò. Mi era grata per il mio tatto, perché non le avevo chiesto come andava con Max; avevo individuato, mi rivelò in seguito, quale fosse l'unico rapporto che davvero contava per lei. «Lo sto riconquistando. Ha bisogno di volermi bene». «Mi mancherai» le dissi. «Così hai sentito?». «Di Cledwyn? Sì».

«Conosci il posto?». «Ci sono stato una volta, a trovare un paziente. È tutto pecore e trattori. Temo che non ti piacerà». Stella sorrise. «Pecore e trattori. Farò la donna di campagna. E nessuno saprà del mio sordido passato». Prima di alzarmi per andarmene le dissi quello che ero venuto a dirle, e cioè quanto sollievo mi dava vederla uscita indenne da quella storia. «Tu questo non puoi saperlo». «Ma sei tutta intera, mi sembra». Stella si portò una mano al petto. «Non qui». «Lì guarirai» le dissi. «Torna a trovarmi, ti prego. Sei l'unico amico che ho». Promisi di farlo. Al momento dei saluti Stella mi chiese, facendo finta di niente, se sapevo dove fosse Edgar. Le risposi di no. In seguito mi disse di essersi sentita più serena, dopo la mia visita. Per un po' le tenebre parvero diradarsi. Decise di appoggiarsi il più possibile a me, prima della partenza per il Galles. Lo avrebbe preso come un esercizio spirituale, per prepararsi a ciò che la aspettava. Nei giorni successivi andai spesso a trovarla, e Stella mi parlò in modo molto esplicito dei rapporti con suo marito. A quanto pareva, Max provava una specie di sinistro compiacimento nel vederla subire il contraccolpo del suo adulterio, e il sottinteso costante di ogni sua parola e di ogni suo gesto era più o meno lo stesso: te la sei cercata, è colpa tua. Ma va' all'inferno, pensava Stella, posso sopportare tutto, tutto tranne la tua finta calma, e lo so benissimo cosa nascondi dietro quella maschera asettica che porti: la tua mefitica superiorità morale. Max voleva fare il magnanimo davanti agli altri, ma a lei non avrebbe mai concesso di dimenticare che l'aveva ferito, o meglio, che l'aveva umiliato, davanti a tutti; avrebbe scelto lui dove e quando colpire. Secondo Stella, Max dava per scontato che una donna così enormemente in torto non avrebbe mai avuto il coraggio di ribellarsi alle sue velenose punzecchiature. La vedremo, pensava Stella, preparandosi al peggio con animo di sfida. Com'era stato il ritorno a casa? Oh, disse Stella con un brivido, di colpo le stesse stanze in cui era tran-

quillamente vissuta fino a qualche settimana prima le erano sembrate anguste, sembravano celle, peggio di quelle della polizia da cui era appena uscita. Duro e asciutto come sempre, Max aveva pronunciato tre parole in tutto, «Eccoci a casa», dirigendosi subito verso il mobile bar. Stella era rimasta in silenzio, ma per una ragione diversa: sentiva la morsa delle tenebre che la stringeva alla gola. In casa, quella sera, c'era uno strano silenzio. L'estate era finita da un pezzo, e il tempo era umido e nebbioso. Max e Stella si aggiravano per le stanze improvvisamente troppo grandi come due estranei in un albergo vuoto. Max aspettava a dare inizio alle rappresaglie, ma secondo Stella era perché l'enormità della sua colpa lo metteva in soggezione. Che nonostante il peso del suo peccato lei riuscisse ancora a mangiare, a bere, o a entrare in una stanza lo lasciava stupefatto, e in un certo senso anche ammirato. Non riusciva a capacitarsi di non vederla strisciare, piangere e strapparsi i capelli implorando il suo perdono. Meno Stella sembrava vergognarsi di ciò che aveva fatto, più appariva svergognata agli occhi di Max; e più lo inorridiva il piacere inconfessabile che egli stesso in realtà traeva da quel sordido gioco delle parti. Era una sera decisamente fredda, ma Stella si portò da bere sul prato e rimase in piedi a fissare il buio. Alle sue spalle sentiva Max muoversi per casa. Era quasi l'ora della buona notte. Stella si fece il letto nella stanza degli ospiti. Era sicura che Max lo avrebbe preso per un atto di riguardo, che lo sollevava dall'imbarazzante rifiuto di dormire con lei. Invece era una decisione tutta sua; se avesse voluto dormire nel suo letto l'avrebbe fatto e basta. Non aveva paura di lui, e non gli avrebbe certo tolto le castagne dal fuoco. Se voleva punirla, che si arrangiasse da solo. Come? Era un problema suo, non la riguardava. Stella sentì il terreno tremarle sotto i piedi, e l'abisso che cominciava a spalancarsi. Per qualche giorno tutto sembrò intriso di un solenne, pesante formalismo. Stella ricorda di aver trascorso un lungo pomeriggio di pioggia prima nella vasca con un gin tonic, poi vagando da una stanza all'altra senza far niente, senza annoiarsi, solo inerte, passiva. Era entrata nella stanza di Charlie e si era buttata sul letto. Probabilmente si era addormentata, perché tornando dal lavoro Max l'aveva trovata ancora lì. Era nervoso, come al solito, ma c'era qualcos'altro: stavolta il motivo dell'ansia che Stella percepiva non era lei. «Cosa c'è?» gli chiese. «È successo qualcosa a Charlie?».

Max era appoggiato contro lo stipite. Tirò fuori le sigarette, guardando ostentatamente da un'altra parte. «Sei sicura che ti interessi?». «Certo che mi interessa. Dimmi». Era seduta sul bordo del letto. Max si accese una sigaretta, piegò la testa all'indietro e soffiò il fumo verso il soffitto. «Mi hai rovinato». «Cosa intendi?». «Jack mi ha buttato fuori». Stella non sapeva cosa dire. «Oh, ma non può!». Max si strofinò la faccia e mandò un sospiro. «Non ti interessa sapere perché sono diventato una persona non grata? O, se preferisci, un medico che non offre molte garanzie, da quando sua moglie è fuggita con un paziente». Nella sua voce, all'improvviso, c'era la collera. «Cosa farai?» gli chiese. Max aspettò prima di rispondere. Stava di nuovo covando in silenzio. «Jack è convinto che la mia presenza comprometterebbe la missione dell'ospedale». Stella sbadigliò. «Che trombone» disse. Max scosse la testa, poi scese di sotto. Stella lo sentì entrare in studio, dove rimase chiuso per il resto della sera, e dov'era ancora quando lei andò a dormire. Si sentiva terribilmente stanca. Il mattino dopo telefonò a Charlie. Stava da Brenda e non si erano ancora visti, ma lo aveva chiamato tutti i giorni. Aveva sofferto, certo che aveva sofferto; lei era sparita nel nulla senza prepararlo, mi disse, e naturalmente si era sentito abbandonato. Secondo Stella si era addirittura attribuito tutta la colpa, almeno fino a quando Brenda e Max non gli avevano spiegato che non doveva tormentarsi, che non era lui il responsabile della sua infelicità, ma lei, soltanto lei. Eppure Stella era sicura che Charlie volesse tornare a casa. Aveva bisogno di voler bene a sua madre, e di sentire che anche lei gliene voleva. Ma Brenda faceva il possibile per impedirlo. «Non è in casa» le disse. Stella sapeva che non era vero. «Fammici parlare, Brenda». «Ieri sera era molto agitato. Credo che dovresti dargli il tempo di capire

un po' alla volta». «Passamelo, per favore». «Hai pensato cosa è meglio per lui?». «Per favore, non ti intromettere. Lasciamici parlare». Qualche attimo di silenzio, poi Charlie venne all'apparecchio. «Mami?». «Ciao, tesoro. Cosa fai?». «Oh, ho fatto un sacco di gite. Adesso però voglio tornare a casa». Nel pomeriggio andò con Max alla stazione. Durante il tragitto rimasero in silenzio. Stella era sicura che lui volesse il divorzio, ma non ne aveva ancora parlato, e non sarebbe stata certo lei ad affrontare l'argomento. Aveva avuto abbastanza traumi, ora le servivano solo un rifugio e un po' di tempo: per riprendersi dallo stato di shock, innanzitutto, e poi per affrontare il dolore della perdita di Edgar. Charlie scese dal treno nervosissimo, ma quando si ritrovarono tutti e quattro sulla banchina (era venuta anche Brenda), e Stella si accovacciò e gli prese le mani, si buttò fra le sue braccia, e la baciò sulla bocca. Stella colse l'occhiata che Brenda gettava a Max, e l'inarcarsi di un sottile sopracciglio depilato. La macchina era posteggiata subito fuori dalla stazione. Charlie e sua madre si avviarono tenendosi per mano, seguiti da Max e Brenda. Stella disse che si era sentita sollevata da un grosso peso. Le sembrava che se lei e Charlie avessero ritrovato l'armonia di prima si poteva recuperare almeno una parvenza di vita normale. Max avrebbe continuato a bollire nel suo brodo, e Brenda avrebbe sicuramente detto ai suoi amici di Knightsbridge che suo figlio aveva sposato una troia, ma nulla di tutto questo la toccava, nulla aveva la minima importanza. Mentre Max offriva da bere a sua madre in soggiorno, Stella accompagnò Charlie in camera. «Sono proprio felice che tu sia tornato a casa» gli disse appendendogli i vestiti mentre lui si preparava per andare a dormire. «Adesso torni a Londra?». «No, non andrò mai più via. Mi dispiace tanto. Mi perdoni?». Si sedette sul letto. Charlie finì di abbottonarsi il pigiama, poi la baciò di nuovo. Stella lo abbracciò, stringendo forte a sé il suo corpiciattolo paffuto e chiedendosi come avesse potuto abbandonarlo. Poi gli disse quanto le fosse mancato, e scoppiò a piangere. Charlie la consolò, comportandosi da

vero cavaliere: rimase ad ascoltarla parlare dei suoi rimorsi accarezzandole i capelli e ripetendole solennemente che ormai era tutto a posto, e quindi non c'era nessun bisogno di piangere, per favore. Quella notte Stella si sentì sommergere dai ricordi di Edgar. Ma perché proprio quella notte? Perché la crosta ovattata che le ricopriva il cuore aspettò proprio quella notte per spezzarsi? Secondo Stella, perché Charlie era tornato, e amare lui aveva risvegliato quell'altro, più grande amore, di cui aveva subito sentito la mancanza e il desiderio. Dopo cena era salita nella stanza degli ospiti, la sua stanza, lasciando Max a occuparsi di offrire il caffè a Brenda e di riaccompagnarla alla stazione. La cena - prosciutto e patate lesse - era stata consumata con tetra compitezza. Per lunghi tratti, a spezzare una tensione quasi palpabile e che nessuno si sentiva di affrontare, c'era stato solo il tintinnio delle posate (a parte le banalità che Brenda ogni tanto sussurrava, ma con le quali era difficilissimo imbastire una conversazione, perché presupponevano che loro tre sarebbero rimasti a vivere lì). Max non le aveva detto di aver perduto il posto. Troppo imbarazzante, immaginava Stella. Per lei, comunque, andava benissimo così: Brenda le avrebbe sicuramente dato addosso, l'avrebbe considerata una volta per tutte la rovina di suo figlio, e Stella proprio non se la sentiva di affrontare anche questo. Insomma eccola lì, l'allegra famigliola riunita in una fredda serata d'autunno, e meno male che alle chiacchiere pensava Brenda, altrimenti il silenzio in agguato negli angoli della stanza li avrebbe fatti a pezzi. Stella rimase a tavola il minimo indispensabile, poi scappò di sopra. Per la cena non ci fu neanche un grazie, né da Max né da sua madre. Entrò un attimo da Charlie, che dormiva, poi si buttò sul letto, lasciandosi sommergere da un'ondata di dolore e di pianto che la lasciò prostrata. Più tardi si mise alla finestra, con un cardigan sulle spalle, e si consolò ripensando alle notti di Londra e a quanto viva si fosse sentita, pazza d'amore per quel povero malato e per la loro vita insieme in quelle poche, splendide settimane prima della catastrofe. Dov'era, dov'era Edgar? Le bastava pensare a lui per vederlo come se lo avesse davanti agli occhi; non era né facile né indolore, ma per nulla al mondo lo avrebbe lasciato andare. Capì allora che non sarebbe finita tanto presto. Sentì Max e Brenda uscire di casa, e subito dopo il rumore della macchina che partiva. Dopo un po' lo sentì rientrare, spegnere le luci e salire di sopra. Si era fermato in corridoio; grazie al cielo non aveva bussato alla sua porta. Il mattino dopo si parlarono. Fu Max a prendere l'iniziativa. Rientrò dal-

l'ospedale a mezzogiorno, e Stella era sola in cucina. Le disse che forse era il caso di scambiare due parole, in studio da lui, se non le dispiaceva. Stella non poté tirarsi indietro. Max non sembrava in collera, e neanche particolarmente risentito, solo stanco, e preoccupato, e triste. Le faceva quasi pena. Stella si asciugò le mani su uno strofinaccio e lo seguì in studio. «Siediti» le disse. «Sto pensando al nostro futuro». Obbediente, Stella si sedette, pronta ad ascoltare quello che Max aveva da dirle. «Ho cominciato a cercare un posto. Ci sono diverse possibilità. Niente di trascendentale, solo incarichi clinici. Al momento nessuno smania per offrirmi un posto di responsabilità. Non sembro la persona più indicata». La frase fu lasciata sospesa nell'aria per qualche secondo. «Di tornare a Londra per ora non se ne parla». Altra pausa. Max fissava Stella con un'espressione fredda e concentrata, da entomologo. Aspettava una sua reazione. «Peccato» mormorò Stella. «Già, peccato». Max si rabbuiò, armeggiando con fiammiferi e sigarette senza offrirne a Stella. «Temo non ci si possa fare nulla. Del resto te la sei voluta». «Posso avere una sigaretta anch'io, per favore?». «Certo, scusa». Per qualche attimo fumarono in silenzio. «Stella, vorrei sapere se intendi continuare a vivere con me o no. Se hai altri progetti sono qui per ascoltarli. In ogni caso Charlie rimarrà con me, non c'è bisogno che te lo dica. Hai altri progetti?». «Non ho nessun progetto, Max». «Siamo ancora sposati. Di quello che è successo parleremo quando sarai pronta per farlo. Non vedo che senso abbia metterti fretta, mi sembri ancora sotto shock. Nel frattempo ti propongo di salvare le apparenze, nei limiti del possibile». Stella non disse nulla. «Penso che potremmo se non altro provare ad avere rapporti civili. Dio sa se non è già abbastanza dura per me. Mi hai fatto molto male, Stella». «Nel senso che ti ho fatto fare la figura del cretino». «No, non in quel senso». Max si sforzò di contenere l'irritazione. «Non in quel senso» ripeté. «Ma ne parleremo a suo tempo. Non ora.

Vorrei che tu e io prendessimo alcuni accordi di base. Penso che sia meglio se porti le tue cose nella camera degli ospiti. E credo che dovresti continuare a occuparti della casa, cucinare, fare le pulizie, e così via. Io troverò un posto e mi occuperò del trasloco. Propongo di andare avanti alla giornata, per un po', e di provare a ricostruire una specie di vita». Fuori dalla finestra dello studio c'era un albero. Quasi tutte le foglie erano cadute ma qualcuna ancora si staccava ogni tanto dai rami. «Fin qui sei d'accordo?». «Si». Max si tolse gli occhiali e si passò la mano sul viso. «Posso chiederti almeno di fare uno sforzo?». «Mi occuperò della casa». «Non intendevo questo. Non importa». Max diede un'occhiata all'orologio e disse che doveva rientrare in ospedale. Si alzarono insieme, ritrovandosi uno di fronte all'altro al centro della stanza. Max sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma squillò il telefono e andò a rispondere. «Pronto?». Silenzio. «Pronto?». Dopo qualche attimo, Max riagganciò. «Chi era?» chiese Stella. «Nessuno». Ma Stella sapeva che era lui. Tre giorni dopo Max le comunicò di aver fatto domanda per un posto in un ospedale psichiatrico nel nord del Galles. Disse che glielo avrebbero tirato dietro, sottintendendo che si trattava di una soluzione molto al di sotto delle sue possibilità. Non ne aveva ancora parlato a sua madre. Stella cercò di immaginare da dove avrebbe cominciato. Dalla troia che era stata la sua rovina? I ricordi di Edgar erano calci nello stomaco, la coglievano sempre alla sprovvista e la lasciavano boccheggiante. Ma adesso a mitigare il dolore c'era la convinzione che Edgar stesse cercando di raggiungerla e, a tratti, sentiva riaffiorare la speranza. Quando Max era a casa, comunque, le riusciva impossibile anche solo darsi un contegno. Secondo Stella lui sapeva cosa stava succedendo: qualsiasi psichiatra, da una distanza così ravvicina-

ta, sarebbe stato in grado di diagnosticare un cuore infranto. Ma non le mostrava un briciolo di comprensione, e Stella lo odiava. Lo odiava perché non era Edgar, eppure era lì con lei, e tanto bastava. Non era giusto, ma non poteva farci nulla. In alternativa all'odio provava solo indifferenza, un senso di vuoto, di morte, di freddezza in cui riconosceva una forma di aggressività passiva. Se fosse stata meno esausta non avrebbe tollerato di vivere in quel modo. Ma siccome aveva bisogno di un rifugio, e di Charlie, finì per trascinarsi un giorno dopo l'altro, mandando più o meno avanti la casa e aspettando nel più assoluto disinteresse la partenza per il Galles. E ogni volta che suonava il telefono sentiva un colpo al cuore. Ma non era mai lui. Il tempo continuava a peggiorare, e la prospettiva dell'inverno le dava uno strano senso di sollievo. L'unico desiderio che aveva era dormire, e per una persona nella sue condizioni l'aria fredda e le notti sempre più lunghe significavano una cosa soltanto: poter scivolare dolcemente nel buio. Stella pensava che volendo, avrebbe sempre potuto risvegliarsi in primavera. Il sonno era una promessa di oblio, e nell'oblio, se non altro, il fantasma di Edgar avrebbe smesso di perseguitarla. Ma Edgar, il vero Edgar, dov'era? Spesso, in quelle umide giornate d'autunno, a letto o passeggiando in giardino, Stella cercava di immaginarsi la scena del suo ritorno, o del loro prossimo incontro. Se lo sarebbe semplicemente ritrovato davanti, o l'avrebbe mandata a prendere come aveva fatto l'altra volta? E lei gli avrebbe risposto? Sarebbe corsa di nuovo da lui senza pensarci un minuto? Non lo sapeva. Non lo sapeva. Ma prima di tutto Stella doveva prepararsi alla tempesta che Brenda avrebbe scatenato appena messa al corrente delle novità. Max esitava a parlargliene, era evidente, ma non poteva temporeggiare in eterno. Qualche giorno dopo prese la macchina e andò a Cledwyn, da dove tornò meno abbattuto di quanto Stella si sarebbe aspettata. Disse che c'erano possibilità interessanti. Interessanti in che senso, gli domandò Stella. Oh, rispose lui, in ospedale. Il direttore è una mia vecchia conoscenza. Ha qualche buona idea. Vuole fare dei cambiamenti. «Dove vivremo, Max?». «Ho pensato che potremmo comprare una fattoria e rimetterla a posto. È pieno di grandi fattorie di pietra, da quelle parti. Anche piuttosto belle, a modo loro. Potrebbe essere divertente». E da quando in qua a Max interessava il divertimento? Magari, chissà, le ambizioni frustrate lo avevano condotto a sperimentare una nuova filosofia

di vita in cui rientrava anche quello. Be', se davvero il lavoro era meno grigio del previsto, forse si sarebbe divertito; quanto meno di giorno, in ospedale. Diverse erano le prospettive dell'intrattenimento serale, fra le mura domestiche. «Cos'hai detto?» chiese Max. «Ho detto, perché no». Erano in sala da pranzo, dopo cena, e stavano finendo il vino. Charlie era salito in camera a leggere. «Quando pensi di dirlo a Brenda?». Il «perché no» di Stella aveva strappato a Max un sospiro di rassegnazione. Avrebbe preteso un minimo di entusiasmo, da parte sua. Anche finto, sarebbe andato bene lo stesso. In fondo lui stava dannandosi per mantenere una parvenza di normalità, e non capiva perché Stella, che quella normalità aveva infranto con tanta violenza, non dovesse fare altrettanto. Ma sapeva anche che arrabbiarsi con lei non sarebbe servito a niente. Da qui il sospiro. «Vado di là e la chiamo» rispose. «Così la facciamo finita». «Dio, le piglierà un colpo». «Cercherò di calmarla. La sola idea di noi tre nel Galles le sembrerà raccapricciante». «Non di noi tre. Di te e di Charlie. Che io ci sia o no per lei è identico». Max non accennò neppure a contraddirla. Prese il suo bicchiere e andò in studio, chiudendosi la porta alle spalle. Stella rimase seduta a tavola, nel suo strano torpore, senza la forza di muoversi. Brenda avrebbe odiato a morte la donna che stava trascinando suo figlio e suo nipote in esilio. Li stava trascinando a fondo con lei, glieli stava strappando. Sì, Brenda l'avrebbe odiata come non mai. Non era andata bene, se ne rese conto vedendo Max uscire dallo studio, afflosciarsi in poltrona, e, soprattutto riempirsi di nuovo il bicchiere. «Non compreremo nessuna fattoria» disse. Non riusciva a guardarla in faccia. «Come?». «Se andiamo a Cledwyn non vedremo più un soldo da lei». «E il tuo stipendio?». «Col mio stipendio non potremo certo permetterci la vita che facciamo qui. In un buco come quello, uno psichiatra qualsiasi...». Max era impietrito alla prospettiva della loro imminente povertà. A Stella invece non faceva né caldo né freddo, come tutto il resto. Poi, di colpo,

le venne in mente una cosa. «Scusa, Max,» disse «ma se divorziassimo? Voglio dire, se tu e Charlie andaste a Cledwyn senza di me, anche in quel caso Brenda ti taglierebbe i fondi?». Max non rispose. Il suo silenzio equivaleva a un no. «Capisco. Ti ha messo di fronte a un aut aut. O ti sbarazzi di me o niente soldi». Max continuava a tacere. «O me o lei, Max» disse Stella. «Sta a te scegliere». Povero Max, pensò suo malgrado. Sua madre lo aveva messo in una gran brutta posizione. Solo in apparenza, però, perché in realtà Max non aveva scelta. Ormai aveva deciso di fare il bel gesto, e non avrebbe certo potuto cambiare idea per denaro. Era una questione di principio. «La macchina possiamo tenerla, spero» disse. Max allora la guardò. La sua faccia stanca era stravolta dall'amarezza e dal disgusto. «Sì, Stella. La macchina possiamo tenerla». In realtà, a Stella non importava affatto. «Be', è già qualcosa» disse. Cominciò a preparare i bagagli. Era un lavoro che non le impegnava la testa, e richiamava l'idea di una famiglia che si sposta in continuazione pur rimanendo unita. Ma che cosa teneva uniti loro tre, che tipo di futuro poteva mai attenderli? Non gliene veniva in mente nessuno, ma sentiva di non avere alternative. Così imballò stoviglie e porcellane sistemando i pacchetti negli scatoloni, che chiuse col nastro adesivo ed etichettò. La stessa fine fecero quadri, vestiti e lenzuola. Mrs Bain le diede una mano, mettendo bene in chiaro che lo faceva per puro senso del dovere, non certo perché le andava. Stella vuotò le stanze una per una, sistemando le loro cose in scatole, casse, bauli e valigie, e in qualche modo impacchettare la vecchia vita e spedirla altrove finì col sembrarle la soluzione migliore. Una mattina, mentre stava ancora trafficando con le casse e il nastro adesivo, tornai a trovarla. Mi preparò un tè, poi mi disse che non poteva assolutamente smettere di lavorare, era troppo occupata, ma che le avrebbe fatto piacere se fossi rimasto. Magari potevo accompagnarla in soggiorno e raccontarle qualcosa, mentre lei avrebbe continuato a impacchettare i libri. Così me ne stetti per un po' a guardarla, prima di dirle quello che avevo in mente. «Stella, Max ti dà qualche medicina?». Mi guardò rimanendo piegata su

una cassa di libri. La domanda l'aveva colta di sorpresa. «No, certo che no» rispose. «Perché me lo chiedi?». «Perché penso che tu sia depressa». «Be', certo che sono depressa. Tu non lo saresti?». Si raddrizzò, passandosi una mano fra i capelli. Adesso trovava buffo che me ne stessi lì a fissarla dicendole, con una serietà mortale, delle banalità assolute. Io non ci trovavo niente da ridere. «Non sarà facile, per lui, cogliere i segnali» dissi. «Quali segnali?». «Qualcuno dovrebbe seguirti. Qualcuno che non sia Max, intendo». «Cosa stai cercando di dirmi?». Si sedette sul bordo di una poltrona accendendosi una sigaretta. «Stella, in questo momento tu sei vulnerabile. Stai per trasferirti in una regione in cui la gente non va famosa per la sua cordialità con i forestieri, dove non conosci nessuno, e con un marito che è ancora furioso con te. Sono preoccupato, Stella». «Ce la farò» mi rispose tranquilla. «Lo spero. Vorrei che mi scrivessi». «D'accordo». «Regolarmente». «E va bene, va bene!». Adesso rideva. «Ma davvero il Galles è questo inferno? Da come ne parli sembra la Siberia». «Per te sarà proprio questo. Una specie di Siberia». «Oh, smettila». Poi, accompagnandomi alla porta, mi fece la solita domanda. «Nessuna notizia di lui?». Mi presi un momento prima di risponderle. Stella dava per scontato che fossimo entrambi in ansia. Frenai l'impulso di dirle che doveva smettere di pensarci, e mi limitai a scuotere la testa. «Povero Edgar. Peter, dove vive suo figlio?» mi chiese. «Suo figlio?». «Leonard». «Edgar non ha figli». «Sì, invece!». «Stella, Edgar non ha figli. Credi che non lo saprei?». Stella fece una risatina nervosa. «Forse non dovremmo parlare di lui, vero?» disse.

Si aggirava per le stanze vuote ripensando agli avvenimenti dell'estate. Fra meno di una settimana sarebbe stata in Galles, e non avrebbe più rivisto quella casa. Alla fine Max aveva rimediato una sistemazione: avrebbero preso in affitto parte di una fattoria in cui vivevano anche il proprietario e sua moglie. Pareva non ci fosse un vero e proprio giardino, ma Max diceva che tutt'intorno era aperta campagna, con prati, boschi, una cava. Charlie seguiva con molta attenzione, cercando di convincersi che nel cambio ci avrebbe guadagnato. Non ci furono cerimonie di commiato. Jack Straffen offrì a Max un bicchiere di sherry nel suo studio. C'ero anch'io; si scambiarono qualche ovvietà, come che la casa della psichiatria è molto grande e c'è posto per tutti, poi Jack espresse a Max la sua comprensione, anche se non si capiva bene che comprensione potesse mai avere per un uomo che voleva il suo posto, e che senza il fatale sabotaggio di sua moglie sarebbe anche riuscito ad averlo. Ma la domanda che si ponevano tutti era in realtà un'altra, e cioè se Max non fosse un po' matto anche lui, visto che aveva sposato una donna capace di fare quel che aveva fatto Stella. Insomma, se era uno di cui ci si poteva fidare. Io mi sforzavo di non giudicare, ed esortavo gli altri a fare altrettanto, anche se pensavo, come del resto penso ancora oggi, che Jack avesse fatto bene a mandarlo via. La nostra è un'istituzione troppo esposta per affidare un ruolo di responsabilità a un uomo come Max Raphael. Mi sembra di sentirlo: «Le sono rimasto vicino, nonostante tutto le sono rimasto vicino». La mattina della partenza pioveva. I traslocatori erano venuti il giorno prima a caricare su un grande furgone nero i mobili, poi le casse e infine le scatole con il loro bel nastro adesivo e le loro belle etichette. Quando ebbero finito Charlie e Stella li guardarono andar via, mentre Max faceva il giro della casa per chiudere tutto. Andarono per l'ultima volta fino al Cancello e consegnarono le chiavi. Poi partirono per il nord. Il viaggio durò diverse ore. Siccome a Charlie il paesaggio interessava più che a Stella, si era messo davanti; Max guidava. Almeno ci rimane la macchina, Stella ricorda di aver pensato; era affezionata a quella macchina così comoda. A nord di Birmingham le venne un pensiero terribile: come farà Edgar a trovarmi? Quando verrà a cercarmi, chi gli dirà dove sono andata? A chi potrà chiederlo? Guardò fuori dal finestrino cercando di ricacciare indietro le lacrime. Poi colse nel retrovisore il lampo degli occhi di

Max che la fissavano, come sempre, in attesa di un momento di debolezza come quello, della conferma che lei era ancora da un'altra parte, e niente affatto pentita. Oh Edgar, pensò, perché mi hai fatto questo, perché mi hai lasciato qui a torcermi dal dolore sotto lo sguardo di quest'uomo gelido? Allora era in collera col suo amante, e poteva permetterselo: sapeva che stava cercando di raggiungerla. Quando arrivarono era già buio. Avrebbero trascorso la notte in paese; avevano appuntamento con i traslocatori il mattino dopo davanti a casa. Max era stanco, e arrabbiato: si era accorto che Stella aveva pianto, e sapeva per chi. Si era distratto facendo quattro chiacchiere con Charlie, e dopo un po' Stella si era messa a seguire la loro conversazione. Quello che si stavano dicendo la lasciava indifferente, mentre la affascinava, e la inorridiva, il modo in cui Max stava modellando i pensieri di Charlie. Gli inculcava i propri schemi logici, lo allontanava dalla sua sfera d'influenza; non sapeva se la ritenesse inadatta come madre o se, come sospettava, seguisse un impulso più primitivo, quello di punirla. In ogni caso, Stella lo trovava sgradevole, anche perché Charlie era proprio nell'età in cui si viene plasmati come cera dall'impronta di una mente adulta. Stavano mangiando nel ristorante dell'albergo, e Stella osservava con calma lo squallore provinciale dell'ambiente. All'improvviso ebbe la certezza che la casa in cui sarebbero andati ad abitare il giorno dopo fosse orrenda. «Max» disse. «È brutta, la casa? La odierò?». Padre e figlio smisero di parlare e la guardarono. Li aveva interrotti. Bene, pensò. Devo interromperli il più spesso possibile. Non devo permettere che Max si tenga il bambino tutto per sé. Che gli rubi l'anima. «Non mi sembra brutta, no» disse Max. «Anzi, è una casa abbastanza bella». «Di cosa è fatta?» chiese Charlie. «Di pietra» rispose Max. «Qui per costruire usano la pietra». «Chissà com'è fredda» disse Stella a Charlie. «Tu cosa ne pensi, tesoro? Non pensi che sarà fredda?». Charlie era indeciso. «È fredda?» chiese. «C'è una stufa a legna in soggiorno, caloriferi elettrici, e moquette in tutte le stanze, tranne in cucina». «Non intendevo questo» disse Stella. «E allora cosa?».

«Intendevo fredda dentro». Max non disse nulla. Sorseggiava la sua acqua continuando a fissare Stella con due occhi che dicevano stai attenta, basta così. Charlie guardava ora l'uno ora l'altro, senza capire. «Ma noi la scalderemo, vero tesoro?» disse Stella. «Cosa vuol dire?» chiese Charlie. «La mamma vuol dire che nella nuova casa saremo felici». Max la guardò. «Non è così?». X Dalla strada la casa si vedeva a un chilometro di distanza. L'ampia vallata era chiusa da lunghe colline basse con file di alberi in cresta. Era una giornata limpida e ventosa, e Stella non riusciva a scrollarsi di dosso la paura che l'opprimeva. Banchi di nuvole si inseguivano nel cielo. La strada, stretta e cosparsa di letame, correva fra siepi selvatiche e muri a secco. A quattro o cinque chilometri dal paese Max indicò a Stella e a Charlie la fattoria, un massiccio blocco grigio e squadrato che dominava la vallata. Sembrava una roccaforte costruita per difendere i suoi occupanti, ma da cosa? Max gettò un'occhiata nel retrovisore. «Che ne pensi?» disse. «Non la trovi bella?». Nella sua voce Stella colse una sfumatura di trionfo; sapeva di averla presa in trappola. «Non lo so» mormorò lei. Non riusciva a capire se quella grande casa grigia l'avrebbe protetta o no. Cinque minuti dopo oltrepassarono il cancello e scesero timidamente dalla macchina. Sulla targa subito fuori c'era scritto «Plas Mold». Il camion dei traslochi era già parcheggiato dietro casa, con la ribalta abbassata e gli uomini tutt'intorno a fumarsi una sigaretta. Uno di loro, un piccoletto smilzo con una giacca ruvida di tweed, si fece avanti. Per scappare dal vento che tirava, e dalla puzza di letame, Stella tornò in macchina, e rimase a guardare Max e Charlie stringere la mano all'uomo in giacca di tweed, che subito dopo tirò fuori un mazzo di chiavi. Poi i tre si diressero verso la porta sul retro e sparirono dentro. Da qualche parte, dietro la casa, un cane abbaiava. I traslocatori si arrampicarono sul camion e cominciarono a passarsi le scatole. Qualche minuto dopo Max uscì e si avvicinò alla macchina. «Vieni a dare un'occhiata» disse. Sembrava proprio convinto che il posto

le sarebbe piaciuto. L'uomo in giacca di tweed era il proprietario, Trevor Williams, che viveva nell'altra metà della casa con sua moglie Mair. Non avevano figli. Williams accompagnò i nuovi inquilini a fare un giro. Era un tipo silenzioso, e Stella ebbe la netta sensazione che preferisse avere il meno possibile a che fare con loro. Il vento ululava intorno alla casa, facendola gemere e scricchiolare come una nave. La cucina era una lunga stanza al pianterreno, identica al soggiorno del piano di sopra, mentre il secondo piano era diviso in due stanze da letto, con un corridoio e un bagno. Stella capì subito che avrebbe dovuto dormire con Max, e si chiese perché lui non l'avesse informata. Cosa gli faceva credere che avrebbe accettato? Ma sul momento non disse nulla, perché Trevor Williams la stava guardando. Il padrone di Plas Mold non le piaceva affatto. Mi disse che nelle settimane successive avrebbe incontrato diversi personaggi dello stesso genere, uomini guardinghi, sospettosi, cupi, sfuggenti, che per i Raphael, come per tutti gli inglesi, covavano un risentimento antico. Quanto alle donne, erano tutte incattivite dalla fatica. Più tardi Stella incontrò Mair che usciva di casa con il cesto del bucato. Stava andando a stenderlo sulla corda tesa di fianco alla casa, dove c'era una macchia d'erba. Mentre Mair faceva avanti e indietro col cesto, un paio di mollette fra i denti, il bucato sbatteva rumorosamente nel vento. Era magra come suo marito, ma senza quella scintilla di vitalità furtiva che Stella aveva colto nello sguardo di lui e che testimoniava il desiderio di piaceri segreti, anche da poco, purché insaporissero quell'esistenza scialba. Negli occhi di Mair c'erano solo lavoro, delusione, rancore e sterilità; non aveva figli. Si presentò, poi le due donne rimasero in piedi nel vento, Mair aggrappata con tutte e due le mani al suo cesto di biancheria, mentre gli uomini, ansimando, portavano in casa il letto matrimoniale. Mair chiese a Stella se venissero da Londra, e Stella disse di no, non da Londra, ma da un posto abbastanza vicino. Ah, disse Mair, e Stella capì che per il momento il lezzo dello scandalo non era arrivato a quelle sottili narici arcuate. «Quanti anni ha suo figlio?» chiese Mair. «Dieci». «È piccolo». «Sì». Sollevato da un uomo a ogni estremità, il telaio del letto venne fatto passare attraverso la porta. Stella offrì una sigaretta a Mair, che per prenderla posò il bucato. Sapeva come si accende una sigaretta nel vento. Non dove-

va avere più di trentacinque o trentasei anni, ma la sua bellezza si era come prosciugata. Nonostante gli occhi chiarissimi, e la pelle che un tempo era stata liscia, sembrava senza età e senza sesso, un frutto dimenticato da tempo immemorabile, e ormai senza più una stilla di succo. «Vi ha già fatto vedere tutto, vero?» disse. «Sì». Mair annuì, raccolse il cesto, e con la sigaretta che le penzolava dalle labbra, gli occhi socchiusi per il fumo, si trascinò dietro la casa, dove il cane continuava ad abbaiare. I traslocatori tornarono fuori. Stella non aveva ancora affrontato con Max il problema del letto. Riuscì a farlo solo dopo cena, quando Charlie salì di sopra e loro due rimasero seduti al tavolo di cucina. Dalla finestra in fondo alla stanza, ancora senza tende, si vedevano la vallata buia e il cielo stellato. L'incessante ruggito del vento non copriva del tutto i rumori del bestiame nei campi sotto casa. A molti chilometri di distanza, i fari di una macchina avanzavano lentamente lungo la strada principale. «Hai pensato a come fare per la notte?». Max posò il giornale. Ormai, a meno che con loro non ci fosse anche Charlie, non facevano più neppure finta di parlare. «Io con te non dormo» disse Stella. «O trovi una soluzione o ci toccherà trovare un'altra casa. Così non può andare». «Non faremo un altro trasloco» rispose Max. Oh, per quanto determinato fosse a mantenersi calmo e ragionevole, lei riusciva subito a fargli perdere le staffe. Stella sentì l'irritazione montargli nella voce, il fremito lamentoso che reprimeva a fatica sentendosi dettare condizioni da lei, lei, che era la responsabile di quello sfacelo. Max era imprigionato nell'idea dei propri obblighi morali, ma temo avesse un carattere troppo debole per crederci fino in fondo. «Perché non vuoi aiutarmi?» disse a denti stretti. Stella era spietata. Lo odiava solo perché non era Edgar. «Uno di noi due deve dormire in camera di Charlie» rispose. «Non importa chi». Max si alzò, andò alla finestra e rimase a guardare fuori, nel buio, con le mani in tasca e le dita che si contraevano nello sforzo di controllare i nervi. «Per stanotte dormirò sul divano» disse Stella. «Per me è lo stesso». «No,» disse Max continuando a darle la schiena «ci dormirò io». «Perché?». Si girò. «Perché non mi sembra il caso che Charlie ti veda dormire sul

divano. Veramente non dovrebbe vedere nessuno dei due. Non puoi aspettare finché non faccio portare il letto degli ospiti nella sua stanza?». «No. Perché non ci hai pensato prima?». Max si voltò di nuovo verso la finestra. Non voleva dirglielo, perché non ci aveva pensato. Forse aveva sperato che ricominciassero a dormire insieme. In quel momento Stella si rese conto, con una punta di soddisfazione, di avere ancora un certo potere: di essere ancora, a dispetto di tutto, più forte di lui. Il giorno dopo, quando Trevor Williams passò da loro, Max gli disse che voleva portar dentro il letto singolo che avevano messo nel fienile. Quando Stella scese in cucina Williams le gettò una rapida occhiata. Forse non sapeva nulla del suo scandaloso passato, ma sullo stato attuale di quel matrimonio doveva aver già tratto le sue conclusioni. Il lunedì successivo accompagnarono a scuola Charlie, che tornò a casa piuttosto abbacchiato. Con gli altri bambini non si era trovato. Erano antipaticissimi, diceva, e lo trattavano male. Stella passò molto tempo con lui, a sentirlo raccontare di come a ricreazione se ne fosse rimasto per conto suo, e in classe non avesse capito niente di quello che bisognava fare. Stella gli disse che tutto si sarebbe risolto, che cominciare da zero in un posto nuovo non era mai facile, ma visto che gli sarebbe toccato farlo per tutta la vita tanto valeva imparare subito. «Ma perché dobbiamo ricominciare da zero?» le chiese Charlie. «Per via del lavoro di papà». Dopo averci pensato su, Charlie disse che siccome voleva diventare uno zoologo, e viaggiare parecchio, la cosa migliore sarebbe stata non sposarsi. Stella rispose che le sembrava una decisione molto saggia. Il lavoro di Max si era rivelato meno interessante di quel che lui aveva sperato. Forse si era illuso, aveva cercato di convincersi che non sarebbe stato un lavoro come tanti, ma si vedeva che era già stufo, e che della loro nuova situazione pensava più o meno le stesse cose di Charlie. Non l'avrebbe mai ammesso, così come non avrebbe mai ammesso l'idea, decisamente troppo penosa, di essere stato spedito nelle retrovie, dove la sua carriera si sarebbe arenata mentre i posti che già aveva considerato suoi andavano a colleghi meno dotati di lui. Max era un ambizioso, e a volte Stella si chiedeva se in realtà non le rimproverasse più di avergli rovinato la carriera che di essergli stata infedele.

L'inverno arrivava presto nel nord del Galles, ed era molto rigido. Al mattino, prima di andare in ospedale, Max accompagnava Charlie a scuola, e Stella rimaneva abbandonata a se stessa. Se voleva la macchina doveva alzarsi insieme a loro, ma ora restava a letto fino a tardi, visto che di notte non chiudeva occhio. Pioveva per giorni, e ogni mattina, al risveglio, Stella ritrovava i banchi di nuvoloni grigi che passavano sulla vallata, il picchiettare della pioggia sul tetto, e i latrati del pastore bianco e nero che Trevor Williams teneva alla catena dall'altra parte della casa, e che lei e Charlie chiamavano Lo Sgolato. Un giorno erano andati a dargli un'occhiata, e quello gli si era avventato contro: non fosse stato per la catena, li avrebbe sicuramente azzannati alla gola. Charlie era molto turbato, pensava che tenere un cane legato per tutto il giorno fosse una crudeltà. Cercò di farci amicizia, ma ogni volta che si avvicinava alla cuccia Lo Sgolato gli si buttava contro scoprendo le zanne e abbaiando a più non posso. Alla fine, temendo che prima o poi la catena si spezzasse, decise di lasciarlo perdere. Per Stella le giornate scivolavano via tutte uguali. Tenere in ordine e cucinare le pesava sempre di più. Stava mettendo su chili, ma non le importava. Passava moltissimo tempo alla finestra della cucina. Guardava la pioggia cadere sui campi, e quando si scuoteva dalle sue fantasticherie si era già dimenticata a cosa stava pensando un attimo prima. Ogni volta che smetteva di piovere andava a fare due passi. Dal prato dietro casa arrivava fino in cima alla collina, dove la vista spaziava sulla vallata successiva, con le fattorie sparse e la cava in lontananza. L'acqua piovana scorreva giù per i fossi, e al passaggio di Stella le pecore si ammucchiavano belando dietro le spesse siepi potate. A parte qualche contadino, non incontrava mai un'anima. Sì, ogni tanto passava Trevor Williams, che andava chissà dove sulla sua Land Rover arrugginita e incrostata di fango. Le faceva un cenno di saluto, ma non si fermava mai. Trasportate dal vento, le foglie cadute si raccoglievano in mucchi fradici lungo i canali di scolo. L'acqua gocciolava dai rami spogli degli alberi. Una volta Stella era in cima alla collina, nel vento, lo sguardo a occidente; all'improvviso le nuvole si diradarono, e il sole fece una breve apparizione. Quello splendore acquoso le sembrò un miracolo, una piccola visione celestiale. Portava degli stivali di gomma che la riempivano di vesciche, e un lungo impermeabile grigio. Erano settimane che non andava da un parrucchiere, ma non gliene importava nulla, tanto non vedeva mai nessuno. Cercò di immaginare Edgar lì nei dintorni, che si avvicinava, che la veniva a prendere. Il sabato andavano a fare la spesa tutti e tre insieme. Stella detestava i

weekend: la casa le sembrava invasa, le dava fastidio tutto quel rumore, e di cucinare aveva sempre meno voglia. Ormai si era abituata a mangiare la prima cosa che le capitava e alle ore più strane; per questo stava ingrassando. Non vedeva l'ora che arrivasse lunedì, quando intorno a sé avrebbe avuto di nuovo il vuoto e il silenzio. Ogni tanto prendeva un tè in cucina con Mair, che non la disturbava, perché nessuna delle due sentiva il bisogno di fare conversazione. La prima volta che andò a letto con Trevor Williams fu a metà novembre. Non fu Stella a prendere l'iniziativa, non si era mai neppure sognata di vedere Williams in quella luce. Successe la mattina che Mair partì per andare qualche giorno da sua madre. Stella sfogliava distrattamente una rivista al tavolo di cucina, davanti a una tazza di tè. Sentendo bussare si affacciò alla finestra del lavandino e lo vide. Benché fosse ancora in vestaglia aprì, e Williams chiese se poteva entrare un minuto: ricevuto il permesso, andò dritto alla finestra di fronte e si mise a guardare la vallata. Era uno di quei giorni in cui sulla campagna regnava un silenzio di morte. Non c'era una bava di vento, sembrava che gli alberi auscultassero immobili il respiro della terra, o forse l'urlo del sangue, il sangue rappreso dei gallesi morti, dei figli trucidati di Owen Glendower. A Stella quel silenzio metteva i brividi, si sentiva minacciata da cose innominabili. Stava davanti ai fornelli a braccia conserte e guardava Williams. «Perché è tutto così immobile? Non lo sopporto». Lui si girò. «Davvero, Stella?». Era la prima volta che la chiamava così, in realtà, non l'aveva mai chiamata in nessun modo. Di colpo capì perché era venuto. Si chiese meccanicamente cosa fare. Adesso Williams era in piedi di fronte a lei. Stella era ancora a braccia conserte. «Sei una gran bella donna» le disse. La voce di Williams, col suo greve accento gallese, era bassa e roca. Stella sentì una specie di piccola contrazione, la debole fiammella di un desiderio indagatore, una reazione così automatica e impercettibile che avrebbe potuto reprimerla in un secondo. Invece aspettò. Lui le disse chiaro e tondo che cosa aveva voglia di fare. La fiammella si ravvivò, e Williams se ne accorse. Le sfiorò i capelli, passandole una mano dietro la nuca. Poi le si avvicinò fino a toccarla, e mentre con l'altra mano le cercava il seno fece per baciarla. Stella si allontanò leggermente. Aveva sentito una fitta di calore; ma si rendeva conto di provare solo una blanda, distaccata curiosità per quell'uomo, quel rozzo contadino che si era presentato nel bel mezzo

del mattino a parlar di sesso. «Qui da voi si usa così?» domandò Stella. «Cosa?». Il pube di lui premeva appena contro il suo. Lei gli appoggiò le mani sulle spalle come per respingerlo. Williams aveva la pelle sbiancata dal vento. Gli occhi grigio ardesia erano piccoli e infossati e il fiato sapeva di tabacco. «Chiedevo se qui da voi usate così. Entrate e dite subito quello che volete». Lui non rispose, ma guardandola fissa negli occhi cominciò ad accarezzarla nella piega dell'inguine, finché senza neppure volerlo Stella allargò leggermente le gambe. Lui le infilò le dita sotto la vestaglia; poi premette, delicatamente. Stella pensò che tutto sommato poteva anche dargli quello che voleva, perché no? In fondo lui ne aveva una voglia tremenda, e poi le sembravano secoli dall'ultima volta che si era sentita anche solo lontanamente viva da quel punto di vista, e a parte tutto sarebbe stato troppo complicato fermarlo. Come niente l'avrebbe violentata. «Se vuoi andiamo di sopra» gli disse, e lui le lanciò uno sguardo volpino, come se fosse riuscito a fregarla. Quando furono in camera Stella si inginocchiò sul letto, aggrappata alla testiera, e rispose ai colpi di lui con forza, a occhi chiusi, senza pensare a niente; aprì bocca solo per dirgli che non poteva venirle dentro: da qualche settimana, convinta che non le sarebbe più servito, aveva buttato via il diaframma. «Non lo fai con Mair?» gli disse dopo, mentre lo guardava rimettersi i calzoni. «Non tanto. E tu con lui non lo fai per niente». Non gli rispose neanche. Lui si mise a sedere sul letto e la studiò con l'aria di uno che calcola le sue entrate. Stella avrebbe giurato di sapere sotto quale voce compariva sul libro mastro di Williams: donna disponibile a portata di mano. «Tipo fortunato, eh? Non credevi che sarebbe stato così facile». «Me n'ero accorto che ti sentivi sola». «Io non mi sento sola». Subito dopo Williams se ne andò. Cercò di prendere degli «accordi», ma Stella non gli diede retta. Passi il libro mastro, ma l'agenda proprio no. Ora che aveva appagato la curiosità, provava di nuovo un'assoluta indifferenza; anche se continuava a meravigliarla che un uomo potesse entrare in pieno

giorno nella cucina di una donna, dirle che cosa voleva fare, e farlo. Ma forse non c'era niente di così strano. Max tornò a casa nervoso, come se sapesse di essere stato di nuovo tradito, mentre in realtà era solo irritato dalla questione dei letti. Adesso dormiva in camera di Charlie, una sistemazione per lui scomodissima. Siccome nell'armadio non c'era abbastanza posto gli toccava tenere i vestiti in camera di Stella, che, per non essere svegliata, lo costringeva a prendere alla sera quello che gli sarebbe servito al mattino. Non aveva neppure un angolo per lavorare, e non poteva nemmeno sistemare le sue carte sul tavolo del soggiorno, perché la parete della stanza confinava con le scale e ogni volta che qualcuno saliva al piano di sopra lo disturbava. Max sentiva di aver subito un torto, e faceva sempre più fatica a nasconderlo. A poco a poco, l'equilibrio del loro rapporto cambiò. Libero dai doveri che il codice cavalieresco gli imponeva verso la peccatrice, Max sembrava preoccuparsi solo di Charlie, e Stella si rendeva conto che prima o poi non sarebbe stata più al sicuro. Un giorno, forse non domani, certo, ma un giorno Max l'avrebbe lasciata, portandosi via Charlie: e ora, nell'attesa, quel simulacro di vita familiare, per quanto superficiale fosse, era l'unica struttura, l'unica protezione che le rimanesse. La sola idea di perderla avrebbe dovuto terrorizzarla, eppure persino in quel momento, mentre sentiva che stava per sfuggirle di mano, non poteva fingere di provare per Max altro che indifferenza. Adesso Max si comportava come se avesse messo da parte gli obblighi morali e anteponesse a tutto le proprie esigenze. Stella lo sorvegliava con una certa apprensione: lui non la degnava di uno sguardo, ai suoi occhi era come trasparente. Se poteva farne a meno non le rivolgeva neanche più la parola. Aveva smesso persino di avercela con lei. Era solo stanco, impaziente, irritabile, distratto. Si era arreso. Per cambiare le cose Stella avrebbe dovuto fare uno sforzo, ma non ci riusciva. Viveva in una specie di nebbia, e le persone intorno a lei erano solo buie figure spettrali, fantasmi privi di una vera sostanza. Né lei sembrava averne ai loro occhi. Qualche giorno dopo Trevor Williams tornò a trovarla. Stella gli cedette come la prima volta, perché almeno con lui si sentiva viva a metà, e il sesso la calmava, le faceva venire sonno, e per un po' metteva a tacere la sua ansia. Mair doveva aver intuito qualcosa. Conosceva abbastanza suo marito per sapere che una donna infelice sotto lo stesso tetto non gli sarebbe sfuggita

a lungo. Ma non sembrava importarle granché. Veniva a trovare Stella come al solito, e come al solito sedevano davanti a una tazza di tè senza quasi parlare. A Stella era tutto sommato indifferente chi venisse dei due: sia lui che lei, ciascuno a suo modo, la aiutavano a sollevare, almeno per un po', la spessa coltre che soffocava il mondo, e scoloriva e offuscava tutto. Ogni volta che smetteva di piovere Stella, sempre con gli stivali di gomma e l'impermeabile, saliva su per la collina dietro casa, perché si era affezionata a quei sentieri solitari e ai fitti cespugli, e alle pecore, e agli alberi spogli e sgocciolanti, e ai muri di pietra coperti di licheni verde pallido e di piccoli, delicati funghi bianchi. Era tutto così bagnato! Nei rigagnoli ai bordi del sentiero l'acqua scorreva a valle sulle pietre, e quando un attimo prima di raggiungere la cima, si voltava a guardare la vallata sotto di lei vedeva i campi di stoppie, dove le strisce di acqua piovana luccicavano come vetro nei solchi dell'aratura. Allora si fermava e pensava: lui è qui, non so dove ma è qui. E mentre i corvi si levavano in volo dalla terra bagnata che il bestiame trasformava in fango, Stella attraversava i boschi in cima alla collina, ritrovandosi d'improvviso in radure scoscese circondate da alberi secolari. A volte le sembrava che la terra custodisse segreti antichissimi: e in qualche modo, stranamente, si sentiva a casa. Una mattina, mentre era seduta in cucina con Mair, suonò il telefono. Chiamavano da scuola per dirle che Charlie non stava bene, e se, per favore, poteva andarlo a prendere. Quel giorno Max non aveva preso la macchina, e Stella rispose che sì, poteva. La voce maschile all'altro capo disse che non c'era ragione di spaventarsi, e Stella ribatté di non essere affatto spaventata. Mair si offrì di accompagnarla. Le strade intorno a Cledwyn erano una distesa di fango e letame, e la macchina aveva fatalmente perso la sua aria chic; con tutte quelle incrostazioni sembrava una carretta da contadini. Come non bastasse, la settimana prima Stella aveva strisciato contro un muro, e non potevano rifare la fiancata perché costava troppo. Così quella che poco dopo la telefonata si fermò davanti alla scuola era una Jaguar sciatta e ammaccata, un po' come la madre che ne scese avviandosi verso il portone. La scuola era un grande edificio vittoriano di mattoni a tre piani, con alti finestroni e un campo da gioco su un lato. Stella non ci aveva mai messo piede, e le incuteva un certo timore. Andò in segreteria, dove le dissero di accomodarsi in sala professori mentre cercavano l'insegnante di Charlie, un certo Mr Griffin. Dietro di lei, nel frattempo, erano comparsi parecchi

bambini, ognuno col suo messaggio da recapitare in segreteria. Sembravano molto incuriositi da lei, e si parlavano all'orecchio lanciandole sguardi furtivi e ridacchiando fra loro. Stella si chiese che cosa avesse di così strano. Le gambe nude, forse, o l'accento inglese? Non che gliene importasse nulla. Entrando in sala professori notò che la segretaria si voltava verso i bambini e li zittiva con un'occhiataccia. Qualche minuto dopo, mentre fumava una sigaretta leggendo gli avvisi affissi in bacheca, entrò Hugh Griffin. Si presentò, scusandosi di averla fatta aspettare. La stanza era tutta per loro. Griffin spostò una pila di sussidiaci da un divano e la invitò a sedersi. Era un ragazzo alto, con una folta massa di capelli biondi e ondulati. Aveva un lungo naso a punta e una giacca di tweed verde con i risvolti impolverati di gesso. «Spero di non averla messa in agitazione» attaccò. «Certo che no. Mi ha detto di non spaventarmi e io non mi sono spaventata». «Bene». Sentiva di aver fatto colpo. Gli piacevo, mi raccontò, e la cosa lo imbarazzava, un po' perché lei era la madre di ano dei suoi scolari e un po' perché era diversissima dalle maestre e dalle mogli dei fattori che in genere costituivano l'elemento femminile del suo mondo. Stella guardava divertita quel ragazzo allampanato, con le dita lunghe e i vestiti impolverati di gesso. «Allora, Mrs Raphael. Perché Charlie è così infelice?». «Infelice?» rispose Stella con una certa sorpresa. Non le era venuto neanche in mente che potesse dirle una cosa del genere. L'altro aggrottò la fronte e si guardò le scarpe passandosi una mano fra i capelli. Poi la fissò dritta negli occhi. «È un ragazzino sveglio,» le disse «ma non si applica. Credo sia un fatto di ansia, ma a me non dice cosa c'è che non va». «Non mi ero mai accorta che ci fosse qualcosa che non andava». «Mi sta dicendo che non ha notato niente di strano?». «Forse sarebbe meglio che parlasse con suo padre». «Lei non può aiutarmi?». «È lui lo psichiatra, sì o no?». Lo disse con più livore di quel che avrebbe voluto, e la risatina che fece subito dopo suonò falsa persino a lei. Hugh Griffin si sporse sul bordo della sedia, le lunghe gambe distese e le mani fra le ginocchia. Le ricordava Nick.

«Con lei il ragazzo non parla, Mrs Raphael? E come mai non parla con sua madre? Potrebbe essere questo il problema». «Ma lei di che diavolo si impiccia?» rispose Stella scattando in piedi. Poi frugò nella borsa alla ricerca di una sigaretta. «Si sieda, prego» disse quel villano di un maestrino con la sua servile vocetta gallese. «Non ho tempo» rispose Stella. Ora gli dava le spalle, fissando la bacheca senza vederla e fumando avidamente la sua sigaretta. L'altro sospirò. Non voleva lasciarla andare. Stava per aggiungere qualcosa quando la porta si aprì ed entrarono due donne che stringevano al petto una pila di quaderni e parlavano ad alta voce. Andarono in fondo alla stanza e lanciarono un'occhiata distratta a Hugh Griffin e a Stella. Alla fine il maestro si alzò stancamente e disse che andava a prendere Charlie. Raggiunsero la macchina quasi di corsa, e Stella era ancora talmente arrabbiata con quell'uomo che riusciva a malapena a parlare. Subito dopo, uscendo sulla statale, mancò per un pelo un'altra macchina, e dovette fermarsi un attimo a riprendere fiato e riacquistare il controllo dei nervi. Non si sentiva volare una mosca. Sulla via del ritorno, senza neppure voltarsi, Stella disse a Charlie che secondo il maestro non si impegnava abbastanza. Charlie non le rispose. «Dice che è perché sei infelice» aggiunse Stella. Silenzio. «Io gli ho detto che mi sembrava tutto a posto». Stella gettò un'occhiata a Mair, che era seduta al suo fianco e guardava davanti a sé. «Charlie, sei infelice?». Il bambino scrollò le spalle e si mise a guardare fuori dal finestrino. Per il resto del viaggio rimasero in silenzio. Una volta a casa, Charlie salì in camera senza dire una parola. Stella chiese a Mair se voleva una tazza di tè, ma lei disse di no, e a quel punto si sedette da sola in cucina a guardare fuori dalla finestra. Dopo un po' si versò da bere. Sapeva che cosa le stava succedendo. Cominciava a vedere Charlie come un'estensione del padre, anche lui parte di un complotto ai suoi danni. Non avrebbe voluto pensare al bambino in quel modo, sapeva che non era giusto, ma non poteva farci niente. Quando la sera Max tornò a casa Stella non gli disse che cosa era successo. Preferiva che glielo raccontasse Charlie a modo suo, e che fosse poi Max a parlargliene. Ma quando Max scese di sotto, dopo aver dato la buo-

na notte a Charlie, si sedette in soggiorno per conto suo, con una rivista di medicina. Stella passò la notte in bianco. Era sicura che anche Max fosse sveglio, e la sentisse passeggiare avanti e indietro. Fuori soffiava il vento, la casa era tutta uno scricchiolio, e, nonostante il maglione sulla camicia da notte, i calzettoni di lana e la vestaglia, Stella aveva freddo. Rimase a lungo alla finestra, rabbrividendo. Guardava il cielo stellato fumando una sigaretta dopo l'altra, mentre i pensieri correvano a briglia sciolta. Rivide i bambini che avevano riso di lei davanti alla segretaria, e il maestro che le diceva che stava rendendo infelice suo figlio. Poi pensò a Trevor Williams, che dormiva dall'altra parte del muro, e a quelle loro gelide scopate. Da quando sua moglie era tornata, Williams aveva trascinato Stella un paio di volte in un capanno di pietra, dove l'aveva fatta piegare su un mucchio di balle di fieno. Che bel culo bianco che hai, le aveva detto. Sembrava ce l'avesse sempre duro. Tutte e due le volte, attraversando il cortile per rientrare, Stella non se l'era sentita di alzare gli occhi per paura di vedere Mair alla finestra, ma se anche ci fosse stata non sarebbe cambiato nulla, a quanto pare, perché veniva sempre a bere il tè. Pensò a Edgar, e alle loro settimane a Londra, e si rese conto che i suoi ricordi cominciavano a scolorirsi come vecchie foto. Per mantenere una sorta di contatto con lui le rimanevano solo i fenomeni naturali che avevano vissuto insieme - certe formazioni di nuvole, il canto di alcuni uccelli particolari, certi fiori - e che Stella ora considerava come un privato sistema di segni. Ogni volta che andava a fare la spesa, da sola o in compagnia, a Cledwyn o a Chester, frugava con gli occhi ogni angolo di strada nella speranza di vedere spuntare Edgard. Almeno una decina di volte si era detta eccolo, è lui, ma era sempre rimasta delusa. Eppure quell'attimo di emozione, quel colpo al cuore le bastavano, anche se a suscitarli era stata l'ampia schiena nera di un corpulento fattore del Galles che entrava ai grandi magazzini con la moglie. Si rimise a letto, ma senza riuscire a prender sonno. Mentre si rigirava da una parte e dall'altra cominciò a singhiozzare. Nessuno venne alla porta. Nessuno bussò sussurrando: «Cosa succede? Tutto bene?». Stella pensò a suo padre, e si ricordò di quando scivolava nel sonno mentre quell'uomo forte e massiccio, seduto sul bordo del letto, le accarezzava i capelli ascoltandola mormorare gli ultimi pensieri della giornata. Poi pensò di nuovo a Edgar, e al loro ballo all'ospedale - due dèi che danzavano fra i mortali -, e non sentì alcun rimpianto, alcun rimorso: potendo, avrebbe rifatto tutto,

assolutamente tutto. Vide il cielo impallidire, poi si addormentò. Si svegliò nella tarda mattinata, fece un bagno e si preparò una tazza di tè con tre cucchiaini di zucchero e uno spruzzo di gin. Dopo si sentì meglio. Riempì un termos e se lo portò in cima alla collina, dove trascorse il resto del pomeriggio. Charlie tornò a casa con una lettera del maestro. Stella gli domandò se aveva parlato di lei con Griffin, o se Griffin gli aveva chiesto qualcosa. Charlie scosse la testa. Sembrava terrorizzato, come se non riconoscesse più la persona che aveva davanti. Stella gli chiese se quel cenno voleva dire sì o no, e lui rispose che voleva dire no. La lettera era molto educata. Griffin si scusava ancora di averla disturbata, e ripeteva di volere solo il bene di Charlie. Poi chiedeva se il dottor Raphael e lei erano disposti a prendere un appuntamento con lui per parlarne. No, pensò Stella. Appallottolò la lettera e la gettò via. Passarono le settimane, e passò anche Natale. Stella disse di averlo trascorso da sola, a ubriacarsi. Max e Charlie erano andati tre giorni a Londra, da Brenda. Al ritorno, Max era in uno stato pietoso; di sicuro Brenda non si era lasciata sfuggire l'occasione di insistere perché la lasciasse. Lui tuttavia non prese iniziative, e la vita continuò come al solito. Hugh Griffin non si era fatto più sentire, anche se secondo Stella aveva scritto a Max in ospedale. Il sospetto le era nato da una discussione che avevano avuto una sera, dopo che Charlie era andato a dormire. «Non hai motivo per odiare anche Charlie» aveva detto Max senza preamboli. Erano in cucina. Lei stava lavando i piatti, e Max, seduto al tavolo, sfogliava un giornale. «Hai parlato col maestro?» gli chiese Stella. «No, perché?». Stella non gli credeva, ma non disse nulla, e si rimise a lavare i piatti. «Perché, con te ha parlato?» domandò Max. «Non di recente». «E quando, scusa?». «Oh, che noia. Ci siamo visti in autunno, quando non me lo ricordo, prima di Natale. Ha cercato di dirmi che Charlie era infelice per colpa mia». «Ma tu non te ne accorgi che sta male?».

Lei scrollò le spalle. «Stella, davvero non te ne accorgi?». Stella fece finta di non aver sentito. «Cristo!» esclamò Max. Lei si voltò. Lui si sforzava di mantenere la calma. «Ascolta,» disse «io rimango qui, con te, per una sola ragione, e cioè perché penso che il bambino abbia bisogno di una madre. Ma se non sei in grado di dargli un po' di calore non ha molto senso. Mi segui?». Lei lo guardò in silenzio. «Mi segui, Stella?». «È tuo figlio» rispose Stella. «Per me prova quello che provi tu, o meglio, quello che tu gli hai insegnato a provare». «Queste sono stronzate». «È la verità». «La mia pazienza si sta esaurendo. È da settimane che sei così. Non servi a niente, né a me né a lui». «Avevamo detto che mi sarei occupata della casa» rispose Stella. «È vero, ti occupi della casa, ma in realtà sei da un'altra parte. Possibile che tu non riesca a venirne fuori? E se proprio non ci riesci, perché devi prendertela col bambino?». «Perché tu gli hai insegnato a odiarmi». In quel momento si resero conto che Charlie era in piedi in fondo alle scale, in pigiama, pallido e sgomento. Max fulminò Stella con lo sguardo, poi andò da lui e lo prese per mano. «Avanti, giovanotto, è ora di andare a letto» gli disse. Mezz'ora dopo scese di nuovo in cucina. «Non capisce» disse. «Non capisce perché sei così. Per amor di dio, Stella, parlagli. Non rimane molto tempo». Stella non era per niente convinta, ma per stanchezza acconsentì. Max andò alla finestra e guardò fuori, serrando ritmicamente i pugni come faceva sempre quando era nervoso. Si vedeva benissimo che non riusciva a tollerare questo fallimento; l'idea che Charlie soffrisse perché il matrimonio dei suoi genitori stava andando in pezzi lo metteva in un enorme imbarazzo. Stella salì di sopra senza aggiungere altro. La porta della camera di Charlie era aperta, e lei si fermò sulla soglia. Il bambino era a letto, di schiena. Sapeva che era sveglio, e che l'aveva sentita, ma siccome non si girava esitò, poi andò in camera sua e chiuse la porta. Il pomeriggio dopo stava sbucciando le patate davanti al lavandino quando Charlie, di ritorno da scuola, entrò di corsa, gettò la cartella su una

sedia e si sedette per cambiarsi le scarpe. «Che si mangia?» disse. «Stufato». «Mami?». «Cosa c'è?». «Posso chiederti una cosa?». «Se vuoi». Stella continuò a pelare le patate. La finestra sopra il lavandino dava sulla rimessa dall'altra parte della strada, dove Trevor Williams teneva il trattore. In alto c'era una finestra senza vetri. Un corvo si posò sul davanzale con un frullo di ali e fece qualche saltello becchettando. Poi Trevor Williams uscì dalla rimessa. Nella luce fioca del tramonto, e dietro la finestra della cucina, forse non la vedeva neppure; in ogni caso si portò la mano alla patta dei pantaloni e se la strofinò. Stella non poté fare a meno di sorridere. «Mami». «Insomma, si può sapere che c'è?». Trevor aprì il recinto del campo sotto la rimessa, dove aveva appena portato le vacche. Stella non capiva perché le spostasse in continuazione; doveva essere un problema di pascolo. Williams si richiuse il cancello alle spalle e si avvicinò alla mandria, che si era raccolta dalla parte opposta. «Voglio che siamo amici». Stella si voltò, commossa da quella richiesta così struggente, ma fece finta di volerci pensare su. «Sei sicuro?». «Sì». «Mmm. Ti ha mandato papà a dirmelo?». «No». «È stato Mr Griffin?». «No». Stella tirò su col naso, si voltò di nuovo verso il lavandino e cominciò a tagliare le patate sul ripiano. Conosceva bene l'espressione cupa e adirata di Charlie: era quella di Max. Ci fu un altro lungo silenzio mentre Stella riempiva una pentola d'acqua, ci metteva dentro le patate e aggiungeva il sale, voltandosi ogni tre secondi per guardare Charlie con le sopracciglia esageratamente aggrottate. Il bambino non capiva bene fino a che punto sua madre stesse scherzando. Nel buio sempre più fitto, Stella sentiva la mandria rumoreggiare.

«Accendi la luce,» disse «non ci vedo più». Si mise a tagliare una cipolla. Aspettava lo scatto dell'interruttore, ma niente. La stanza rimaneva buia e silenziosa. «Charlie!» disse girandosi, e vide dal tremolio del suo visino che stava per piangere. «Oh, amore!» gridò gettandoglisi addosso e prendendolo fra le braccia. «Certo che voglio che siamo amici! Non lo eravamo già? Io credevo di sì!». L'indomani Stella, davanti a casa, guardava il panorama. Come al solito c'era molto vento, ma non pioveva. Stormi di nuvole bianche passavano davanti al sole, che qua e là bagnava di luce slavata una collina, lasciando quella dopo immersa nell'ombra. Era un cielo irrequieto, mosso, e Stella rimase a guardarlo per qualche minuto con un senso di felicità. I piloni della luce, installati da poco, marciavano per la vallata e salivano in fila indiana verso le colline in lontananza. Quando ci passava sotto li sentiva crepitare e ronzare. Adesso il sole era più alto nel cielo; la primavera era alle porte. Il fumo bianco che usciva dai camini andava verso est. Per la prima volta da mesi, Stella provò qualcosa di simile alla speranza. Quella sera chiese a Max perché non cercava lavoro a Londra. Con un evidente fremito di piacere, lui le rispose che intendeva rimanere dov'era per almeno altri due anni. «E quindi, mi sa che devi fartene una ragione» aggiunse. Stella si attaccò al gin. A volte la crudeltà di Max era come una pugnalata, disse. Oh, era diventato bravissimo, ormai sapeva insinuare la lama fra le piastre della sua corazza e arrivare dritto al cuore. E riusciva a farla sentire una stupida. Come aveva potuto dimenticare anche solo per un attimo che la loro era una sfida all'ultimo sangue, un duello mortale? Dopo cena si riempì il bicchiere, infilò il cappotto e uscì a guardare le stelle. Rimase appoggiata al cancello per un pezzo, poi, quando il freddo diventò insopportabile, si trasferì in cucina, dove continuò a bere piazzando una sedia davanti alla finestra, appoggiando i piedi sul davanzale e dondolandosi, con la bottiglia sul pavimento, a portata di mano. Aveva un solo problema con l'alcol: la faceva pensare a Edgar, e pensare a Edgar le faceva venire la lacrima facile. Quando Max scese in cucina gli disse che era un pezzo di merda, e lui, con la solita voce venata di furore freddo, le rispose che la sua pazienza era quasi al limite, il che scatenò un'altra raffica di insulti da parte di Stella e un rapido ripiegamento di Max alla volta delle sue riviste

di medicina. Ecco, adesso Stella piangeva di nuovo, ma non un cane che si scomodasse a venire a vedere come stava, in fondo cos'era mai, solo la troia giù in cucina, la troia che aveva rovinato le loro vite e tracannava gin dalla bottiglia frignando per il suo amante pazzo. Fece un'ultima sortita - al culmine della quale si mise a tempestare di pugni la porta dei Williams, chiamando a gran voce Trevor - e una sosta in soggiorno, dove era stata tentata di scaraventare dalla finestra la bottiglia del gin, così, tanto per vedere la faccia di Max tirato giù dal letto. Poi, pensandoci meglio, decise che non valeva la pena di sprecare tutto quel gin per una stupidaggine simile, e con una risata rumorosa salì faticosamente di sopra, addormentandosi senza neppure spogliarsi. Al mattino Max era furibondo, tanto che Stella si sentì in dovere di chiedergli scusa. Per fortuna bussando alla porta dei Williams nel cuore della notte aveva evitato di dire perché voleva Trevor. Ecco com'erano i giorni a Plas Mold, mi disse. E che fine aveva fatto Edgar, il pazzo, il suo amante perduto? Per un lungo periodo, con mia profonda costernazione, non ne avevo saputo più nulla. Sembrava scomparso dalla faccia della terra, tanto che più di una volta lo avevo dato per morto. Fui dunque molto sollevato quando finalmente mi giunse una segnalazione attendibile: Edgar era stato visto dalle parti della stazione di Euston. Siccome tutto lasciava supporre che fosse diretto a nord, chiamai subito Max. Gli dissi che sospettavamo avesse scoperto dove vivevano lui e Stella, ma ammesso che stesse davvero cercando di raggiungere Cledwyn, sulle sue intenzioni potevamo solo fare delle ipotesi. Gli parlai delle misure precauzionali che la polizia stava comunque prendendo, e riuscii almeno in parte a rassicurarlo. In effetti erano notizie tutt'altro che rassicuranti e non gli nascosi che ero anch'io piuttosto inquieto. Poi gli domandai di Stella. Le avevo parlato da poco al telefono, e non mi sentivo tranquillo; mi sembrava abbandonata a se stessa. Max si tenne sulla difensiva, ma mi bastò sondare un po' il terreno per percepire subito, nella sua voce, l'immenso peso della collera repressa. Cercai quindi di incoraggiarlo, con tutta la delicatezza possibile, a adottare una prospettiva differente, più distaccata: in altre parole, una prospettiva psichiatrica. Gli dissi che Stella aveva attraversato una fase di isteria, che stava cercando di elaborare uno schiacciante senso di colpa e che da sola rischiava di non farcela. Aveva bisogno di tutto il suo aiuto.

Max non disse nulla, e io presi il suo silenzio per un assenso. Mi aspettavo che riferisse a Stella quello che la polizia aveva scoperto su Edgar, ma in seguito scoprii che non gliene aveva neppure accennato, forse per un malinteso senso di protezione. O forse piuttosto per mera aggressività passiva: altrimenti perché nasconderle che un uomo stava venendo da lei con l'intenzione pressoché certa di ucciderla? Qualche giorno dopo arrivò un'altra lettera di Hugh Griffin. Stella stava quasi per gettarla via senza neppure aprirla, immaginando che fosse un'ennesima esortazione a coccolare più spesso il suo bambino, o qualche altra sciocchezza del genere, ma poi pensò a quel lungagnone piegato in avanti sulla sedia che la fissava intrecciando le dita ossute, e cambiò idea. Era in cucina, ancora in vestaglia, col bollitore sul fuoco. Aveva appena lavato un paio di calze e le aveva messe ad asciugare sullo schienale della sedia, perché non aveva nessuna voglia di andare a stenderle fuori. Si sedette a leggere la lettera: il maestro non la esortava a essere più sensibile e comprensiva, né le chiedeva un appuntamento per «parlarne». Voleva semplicemente invitarla a una gita scolastica a Cledwyn Heath, una zona di brughiera a qualche chilometro dal paese, che rientrava nel programma sulla flora e la fauna del posto. Lì per lì Stella non ci pensò neppure, ma poi, mentre beveva il tè guardando fuori dalla finestra, decise che quasi quasi, se fossero stati molto gentili con lei, si sarebbe lasciata convincere. Lo annunciò quella sera stessa, a tavola, scatenando l'entusiasmo di Charlie, che evidentemente aveva considerato pressoché nulle le sue possibilità di presentarsi alla gita con almeno un genitore. Anche Max si tirò un po' su; poveraccio, l'aveva ridotto proprio male durante l'inverno, benché fosse disposta ad assumersi solo una parte di responsabilità per la depressione in cui era sprofondato da settimane: il resto, ne era sicura, dipendeva dal lavoro. Sapeva ad esempio che nel reparto di Max le pazienti erano in gran parte schizofreniche, donne di mezza età, se non decisamente anziane, internate da tempo immemorabile, quindi senza alcuna speranza concreta di miglioramento. Certo non era la situazione ideale per uno come lui, che aveva costantemente bisogno di stimoli. Max avrebbe preferito vedersi affidare i pazienti più giovani e con disturbi più acuti, ma John Daniels, il direttore, proprio colui che gli aveva fatto intravedere la prospettiva di un lavoro interessante, se ne occupava di persona. John Daniels è un mio vecchio amico. Quando gliene parlai mi disse che Max era arrivato

tardi, tutto qui. La situazione rimase immutata fino alle prime due settimane di febbraio. La polizia non aveva ricevuto altri rapporti, e Max non aveva detto a nessuno che Edgar poteva essere da quelle parti. La famiglia conservava quel suo delicato equilibrio esplosivo, tirando avanti alla giornata, senza far deflagrare le spaventose energie distruttive che si annidavano al suo interno. Chi ne soffriva di più, naturalmente, era Charlie; quando non poteva star fuori passava il tempo chiuso in camera, e a tavola era triste e silenzioso. Poi giunse una notizia ovviamente destinata a esacerbare una situazione già tesa; a Max suonò come un presagio di sventura, mentre a Stella scatenò un soprassalto di sarcasmo. Brenda era in arrivo. Max ricevette la telefonata in ospedale, un martedì mattina, e la sera stessa ne parlò a Stella. «E dove pensa di alloggiare?» gli chiese lei. «Ha prenotato una stanza al Bull». «Mmm, che tatto!». Stella immaginava benissimo la strategia della suocera. Brenda non intendeva in alcun modo permettere che suo figlio si rovinasse la vita e la carriera marcendo in un buco gelido come quello, un posto abbandonato da dio, e poi nel Galles, figurarsi. Però sapeva di avere due nemici, l'inerzia e Stella. Queste erano le forze che avrebbe dovuto combattere, se voleva che l'astro di Max tornasse a splendere nel firmamento psichiatrico. Tutto considerato, quindi, non le rimaneva che intervenire: doveva impedire a tutti i costi che l'inerzia, e Stella, trascinassero Max in un pantano di mediocrità da cui non sarebbe più stato in grado di risollevarsi. La cosa che mi fa più paura, mi disse Brenda, è che quella donna me lo involgarisca. Io avevo cercato di dissuaderla in tutti i modi, non mi sembrava davvero il caso che andasse, ma Brenda, quando prendeva una decisione, aveva una volontà d'acciaio. A pagare il prezzo più alto, naturalmente, era Max. Fin dall'inizio aveva faticato non poco per mantenere una qualche armonia fra sua moglie e sua madre, e ora che Brenda poteva dire di aver visto giusto, adesso che era chiaro a tutti che Stella era una poco di buono, una troia, una madre indegna, che cosa avrebbe potuto ribattere: come avrebbe potuto sostenere che intendeva restare con lei, continuare a sacrificarsi per una donna che non lo meritava? Max annaspava, e Stella si godeva lo spettacolo. Gli propose di invitare Brenda a cena. «Ma neanche per sogno!» sbottò lui.

«Perché no?». «Lo sai benissimo. Non rigirare il coltello nella piaga». Rigirare il coltello nella piaga. Era questo che stava facendo? Almeno Charlie era contentissimo, lui voleva bene a quella nonna che lo riempiva di soldi e dimostrava continuamente di stravedere per lui. Era davvero felice, Stella non lo vedeva così vispo da un sacco di tempo. Certo, per Max era diverso. A lui quella visita faceva solo paura. Un sabato di pioggia Max e Charlie andarono a prendere Brenda alla stazione di Chester. A quanto pare la prima cosa che la irritò furono le condizioni della macchina; non la vedeva da quando erano partiti per il nord, e un inverno di strade di campagna non le aveva fatto granché bene. D'altra parte non poteva essere entusiasta dell'umore di Max, e Cledwyn non le aveva certo strappato nessun commento favorevole. E meno male, mi disse Stella, che non l'avevano portata a casa, perché neppure nelle sue fantasie più cupe Brenda avrebbe immaginato uno sfacelo simile, con le pile di piatti sporchi nel lavandino, le calze stese sullo schienale della sedia, e sua nuora ancora in vestaglia alle undici e mezzo del mattino che si beveva un bel tè corretto. Brenda aveva avanzato fin da subito richieste eccessive, cui Max non era stato in grado di opporsi. La prima era che suo figlio cenasse con lei tutte le sere, e siccome aveva già visto che a Cledwyn non c'era uno straccio di ristorante degno di questo nome dovevano andare fino a Chester, cioè a quindici chilometri. Inoltre voleva assolutamente vedere l'ospedale e conoscere il direttore, senza capire che ora la posizione di Max era molto diversa da quella di un tempo. In ogni caso fecero come voleva, e Max la portò a conoscere John Daniels. E Stella? E quella piagnona, quella poco di buono di una nuora fradicia di gin? Voleva incontrare anche lei? No grazie, preferiva di no. Per Stella, fra parentesi, era meglio così; neppure lei moriva dalla voglia di vedere Brenda. Avrei detto che neanche Max auspicasse un loro incontro, ma qui mi sbagliavo. Max infatti aveva intuito (giustamente, come poi mi confidò Brenda) che il vero obiettivo della venuta di sua madre a Cledwyn era quello di dividerli: sperava che passando un po' di tempo con suo figlio e suo nipote, ed escludendo Stella, sarebbe riuscita a porre le basi di una struttura familiare alternativa. Voleva dimostrare a Max che questa famiglia alternativa era realizzabile, che lei avrebbe potuto prendere il posto di Stella e occuparsi di tutti e due, di lui e di Charlie. Fra le righe, gli fece capire di essere pronta ad aiutarli come prima.

A Max quell'accenno di ricatto non piacque, e comunque aveva escogitato una soluzione migliore. La spiegò a Stella una sera dopo cena. La sua intenzione era quella di prendere in contropiede la madre, tentando di ribaltare il suo tentativo di esclusione: provare, provare adesso, subito, a farcela tutti e quattro insieme. Fu il suo ultimo, coraggioso, disperato tentativo di salvare la sua famiglia. Se la invitiamo a cena da noi, concluse, sono certo che arriveremo a una riconciliazione. Che strano effetto le fece sentirgli dire «noi». Perché la voleva ancora? Perché non accettava l'offerta di Brenda, perché non afferrava al volo l'idea di una famiglia alternativa, perché non la abbandonava alle sue tenebre? Dio sa se se l'era meritato, e dio sa se Max non avrebbe avuto una vita migliore sotto l'ala protettiva di sua madre piuttosto che sul seno freddo di sua moglie. In ogni caso, Stella promise che ce l'avrebbe messa tutta. Max sapeva che convincere Brenda sarebbe stato tutt'altro che facile. Quando gli avevo parlato a gennaio, e avevo colto il furore represso con cui parlava di Stella, l'avevo esortato a mettere da parte i sentimenti e a rendersi conto che sia la storia con Edgar Stark sia tutto quello che era successo in seguito andavano visti nel quadro clinico dell'isteria; ragion per cui, in primo luogo, Stella non si poteva considerare del tutto colpevole, e in secondo luogo, più che di un castigo aveva bisogno di affetto e attenzioni. Allora sarebbe stata meglio. Con Brenda Max adottò una linea molto simile. Non era un punto di vista che lei potesse condividere fino in fondo, e infatti, con i suoi tipici giri di frase, tentò di sostenere che la psichiatria non poteva risolvere tutto. Ma Max, va detto a suo onore, tenne duro, le spiegò che Stella aveva avuto un esaurimento nervoso e che adesso ci volevano molta pazienza e molta comprensione. Accettare la proposta, da parte di Brenda, fu un indubbio segno di affetto per suo figlio, ma si dà il caso che io la sapessi scettica almeno quanto Stella circa i risultati. Fu quindi deciso che Brenda sarebbe andata a cena da loro. Per il momento le rovinose sbronze di Stella erano dimenticate, così come era dimenticato tutto il resto, la sua feroce indifferenza ai sentimenti altrui, la sua sciatteria, la sua egoistica espropriazione della camera da letto. No, adesso l'unica cosa importante era che preparasse la cena, la servisse in tavola e facesse il possibile per dimostrare di essere ancora parte di una famiglia con qualche problema, ma sostanzialmente solida. Con grande sollievo di suo marito, Stella si dedicò di buon grado all'ideazione e alla preparazione di quell'evento decisivo, scelse il menu e fece di persona la spe-

sa, e già solo questo, Max cercava di convincersi, era segno che stava migliorando, e lasciava intravedere un possibile, graduale ritorno alla normalità. Stella aveva deciso cosa avrebbe cucinato: rognone. Fu un disastro. Max era andato a prendere sua madre in albergo, e appena entrata in casa Brenda non era riuscita a mascherare il disgusto che il loro stile di vita le ispirava. Aveva attraversato il cortile con aria schifata, anche perché Trevor Williams stava concimando da giorni, e il tanfo era insopportabile. Brenda entrò in cucina, diede un bacio a Charlie e salutò Stella con una freddezza appena attenuata da una punta di compassione; questo naturalmente per far contento Max, che aveva continuato a insistere sul tema della sua «malattia», del suo «esaurimento». Stella si era messa un vestito vecchio e liso, con sopra il grembiule. Max propose di bere qualcosa in soggiorno, e Brenda accondiscese a salire di sopra. Poi insistette per fare il giro della casa, e scoprendo come dormivano le venne quasi un colpo. Max non l'aveva preparata alle camere separate. Che suo figlio, uno psichiatra di prim'ordine, fosse ridotto a vivere come uno scolaro! Quando Stella li raggiunse trovò Brenda appollaiata su un angolo del divano, come se avesse paura di prendersi, al contatto, una malattia infettiva. Sua suocera le rivolse uno sguardo smarrito; era la prima volta che Stella la vedeva in difficoltà. «Mia cara,» disse «non avevo idea che le case gallesi fossero così spartane». Stella rise allegramente. «Eh già, prima eravamo molto viziati, con tutte quelle grandi stanze. Adesso ci tocca arrangiarci, come tutti gli altri». «Eh già, vedo». Le prime stilettate. Max era sul chi vive, e intervenne tempestivamente. «Non ci troviamo male» mormorò. «Ci sono posti molto peggiori dove abitare». «Ah sì?» disse Brenda. Era evidente che stentava a crederlo. «Sì» disse Max. «I gallesi sono gente abituata a vivere nascosta, appena possono costruiscono ai piedi delle colline, o in mezzo ai boschi. Hanno una specie di passione per tutto ciò che è cupo. Questa casa almeno cupa non è». Sulla fronte marmorea di Brenda un sopracciglio si inarcò di un millimetro. Era il segno di un crescente scetticismo. «John Daniels mi diceva» aggiunse Max «che in questa parte del Galles

c'è il più alto tasso di depressione di tutta Europa. Scandinavia a parte, naturalmente». Se l'era inventato lì per lì. Stella l'aveva capito dal tono. Max doveva essere già alle corde. «Quel John Daniels non mi ha fatto una grande impressione» disse Brenda. «Dove ha studiato?». «A Edimburgo». «Ah, ma pensa». Madre e figlio cominciarono a discutere dei dipartimenti di psichiatra delle varie università inglesi, e Stella li lasciò soli. Scese in cucina a dare un'occhiata al rognone e a riempirsi il bicchiere da una bottiglia nuova. Quando li chiamò a tavola aveva finito la bottiglia e ne aveva attaccata un'altra. Dio sa se ne ho bisogno, stasera, si era detta. Il problema, naturalmente, era che bere le calmava l'ansia, ma influiva anche sul suo autocontrollo; dopo tre o quattro bicchieri diventava «disinibita». L'espressione era di Max, e Stella me la ripeté con una smorfia sarcastica. Comunque, mentre portava in tavola la zuppa di porri e patate si sentiva esattamente così, disinibita. «Non è precisamente quello a cui sei abituata, Brenda,» disse Stella «ma la necessità aguzza l'ingegno». «Eppure la cucina regionale può riservare delle sorprese, mia cara, non credi?». Brenda si mise il tovagliolo sulle ginocchia e prese il cucchiaio. «Bene, bene,» disse speranzosa «ha proprio un bell'aspetto». Stella si servì per ultima e si mise a sedere, slacciandosi il grembiule e lanciandolo all'inarca verso la zona dei ganci. «Certo,» disse «se puoi permetterti gli ingredienti. Non che ci sia molto da comprare da queste parti. E con quello che guadagna Max è già tanto riuscire a portare qualcosa in tavola». «Adesso stai un po' esagerando, cara» intervenne Max. «Di solito ai ragazzi preparo dei bei panini al montone freddo. E la domenica cavolo. Per festeggiare» disse Stella. Lanciò un'occhiata a Charlie, che si agitava sulla sedia ridacchiando. Almeno lui si stava divertendo. «Ci prendi in giro, cara» disse Brenda conciliante. «Ma capisco cosa vuoi dire, la disponibilità degli ingredienti è spesso un limite. Quando il padre di Max e io viaggiavamo in Spagna, negli anni Quaranta, spesso cenavamo con una zuppa d'aglio e una fetta di pane. Non si trovava altro». «Ma non mi dire» fece Stella. Aveva cercato di farle capire che erano

poveri, ed eccoli lì a parlare di zuppe d'aglio spagnole. Max colse l'occasione per far notare a sua madre che tutte le storie della Spagna di un certo valore erano opera di autori inglesi. Stella non riuscì a capire se fosse un'altra invenzione. «Già, interessante» disse Brenda. «Per favore, Max, riempici i bicchieri» disse Stella. «Se si beve abbastanza si riesce a mandar giù senza farci tanto caso. Charlie, per favore, porta via i piatti». Poi Stella si alzò e si mise a trafficare con i fornelli. «Immagino che tu non abbia mai mangiato in cucina, vero Brenda?» disse senza girarsi. «Be', così vedi come vivono gli altri». «Nei primi anni di matrimonio Charles e io ci siamo spesso trovati in ristrettezze» disse Brenda. «Mi riesce un po' difficile immaginarlo» disse Stella e, mentre si girava per portare in tavola il tegame del rognone, sorprese lo sguardo, accompagnato da un sospiro sommesso, che Brenda lanciava a Max. La cena non stava andando come lui aveva sperato. E non migliorò. Senza arrivare a una vera e propria lite, continuarono a punzecchiarsi per tutta la sera, spezzettando la conversazione che Max faceva l'impossibile per sostenere. Tutta colpa di Stella, naturalmente, che era disinibita; e verso la fine addirittura delusa per non essere riuscita a trascinare Brenda in una bella scenata. Ma sua suocera era troppo scaltra per raccogliere le sue provocazioni. «Buona notte, mia cara» le disse quando Max fu pronto per riaccompagnarla al Bull. «Spero che presto starai meglio». E con questo si infilò in macchina. Un'ora dopo Max rientrò inferocito e trovò Stella ancor più disinibita di prima. Attraversò la cucina come una furia e andò a piazzarsi schiumando davanti alla finestra. Stella era ancora a tavola fra i piatti sporchi, a bere vino e a fumare. «Non sei solo egoista» disse Max con la voce arrochita dall'ira. «Sei anche cretina». Stella appoggiò i gomiti sul tavolo. Teneva il bicchiere davanti a sé, guardando Max da sopra l'orlo senza dire nulla. «Ti rendi conto di quello che hai fatto?». «Che cosa ho fatto, Max?». Pensava di sentirsi dire che per colpa sua non avrebbero più avuto un

soldo da Brenda. Ma stavolta Max la sorprese. «Hai sprecato la tua ultima occasione» disse con una voce improvvisamente placata. Stella non riusciva a calarsi nell'atmosfera melodrammatica del momento. «La mia ultima occasione» disse. «E cioè?». Max fece un sorrisetto sgradevole. Ci fu un breve silenzio. Poi Stella sbuffò. «Cosa vuoi dire, Max?». «Voglio dire che d'ora in poi dovrai cavartela da sola». «Io me la sono sempre cavata da sola». «Ma fammi il piacere. Io vado a dormire». «Che cosa diavolo stai dicendo?». Si era alzata in piedi. Tutta quell'aria grave, definitiva, non le piaceva neanche un po'. Senza muoversi da dov'era lo afferrò per la manica, mentre lui cercava di raggiungere le scale. Max la guardò con una rabbia, se possibile, più fredda del solito. «Lasciami» le disse. Stella si aggrappò ancora di più alla sua manica, stringendo nel pugno un pezzo di stoffa con un sorrisetto. «Ti ho detto lasciami!». Per divincolarsi, Max perse leggermente l'equilibrio. Poi inciampò, e si aggrappò alla ringhiera. «Ma come siamo disinibiti!» gli gridò Stella. Max cominciò a salire. «Che cazzo dici, Max?» gli urlò dietro Stella. «Che cazzo vuoi dire devi cavartela da sola? Io sono sempre stata sola! Nel caso non te lo ricordassi, ho sposato te!». Max scese qualche gradino. «Adesso taci, va bene? Dei dettagli parleremo domattina, ma non voglio che svegli Charlie». «Quali dettagli?». Rimasero a fissarsi così, lei in fondo alle scale, lui a metà, ma voltato verso il basso. E fu Stella ad accorgersi per prima che sul pianerottolo c'era Charlie, in pigiama, che si stropicciava gli occhi con aria imbronciata. «Tesoro, ti abbiamo svegliato? Scusaci, papà stava solo facendo finta di essere un imbecille». Max si precipitò su per le scale. «Avanti, tu,» lo sentì dire «fila a letto».

Scomparvero entrambi, e Stella tornò al tavolo della cucina a scolarsi tutto quello che riuscì a trovare. Quando Max tornò di sotto le comunicò brutalmente la notizia che aveva tenuto in serbo per lei tutto il giorno. Edgar Stark era nelle mani della polizia. Lo avevano preso quella mattina. A Chester. Per il momento lo avrebbero trattenuto lì. I due giorni successivi furono irreali. Stella represse il suo dolore e lo incanalò nell'ira per quello che aveva dovuto subire: era stata esibita davanti a Brenda, in modo che quella carogna, constatando di persona la sua malattia, ricominciasse a foraggiare Max. Quanto a Max, non lo aveva mai visto così calmo. Avevano litigato con una tale ferocia che evidentemente lui non vedeva più alcun futuro per il loro matrimonio. Max aveva abbandonato anche la prospettiva psichiatrica, e come dargli torto? Tuttavia, quando tentò di parlarle di separazione, Stella si rifiutò di ascoltare e uscì dalla stanza. «Così non risolverai niente» disse Max. Ma Stella non se la sentiva di affrontare un'altra lite. E dal momento che Max non voleva parlarne con Charlie in casa, Stella riuscì a evitare quell'esame dei dettagli in cui lui sembrava così smanioso di addentrarsi. Non quello che si dice una famiglia felice, insomma. Ogni volta che usciva, Stella pensava che al ritorno avrebbe trovato la serratura cambiata. Ne parlò con Trevor Williams, notando uno strano lampo passargli negli occhi. Lascia solo che ci provi, le disse. Poi le assicurò che nessuno poteva cambiare la serratura tranne lui, il che parve rassicurarla. In qualche modo, le forme esteriori della vita familiare erano rimaste in piedi. Nonostante l'abisso fosse ormai spalancato, Stella continuava a occuparsi della casa, e cucinava, ma solo perché le dava una specie di sollievo che non aveva nulla a che vedere con nessuno, solo con lei, col fatto di conservare alle sue giornate una qualche struttura, un senso di ordine di cui sembrava avere più bisogno che mai. Non le restava altro. Riusciva a tollerare il silenzio e l'odio, la disperazione e la vacuità, ma il disordine no. Il caos no. La casa sporca e la tavola vuota no. Perché ormai si reggeva a un filo. Si sentiva travolgere da improvvise ondate di disperazione, e in quei momenti avrebbe solo voluto coricarsi e morire, ma resisteva, non avrebbe ceduto, non si sarebbe arresa, non ancora, a costo di intaccare le ultime riserve di energia rimastele. Era questo rifiuto convulso di cedere che la costringeva a continuare la solita routine, a

fare il letto e il bucato e a preparare la cena. Non lo faceva per gli altri due, lo faceva per se stessa. Per questo si aggrappò ai lavori di casa: per non perdere la ragione. *** Tutte le sere mangiavano in silenzio, e dopo cena, se non pioveva, Max e Charlie andavano a fare una passeggiata. Stella sparecchiava e lavava i piatti, e beveva ancora un bicchiere seduta davanti alla finestra. Guardava la luce spegnersi a poco a poco, perché ora faceva buio più tardi. Fra tre ore dormirò, si diceva, e avrò passato un altro giorno senza impazzire. Si stava abituando a considerarlo un risultato. Non pensava al futuro, perché pensare al futuro ha senso solo se si desidera qualcosa, e lei ora non desiderava niente, le bastava arrivare in fondo alla giornata senza diventare pazza. Lui era a Chester. A quindici chilometri. In mano alla polizia. Tutto perduto. I sogni di evasione e di fuga non avevano più senso. Tutto, tutta la struttura era crollata. In senso strettamente clinico, la depressione di Stella cominciò in quel momento. Una sera, a tavola, Charlie era irrequieto. Lanciava continue occhiate a Max, e Stella capiva che gli stava chiedendo di dirle qualcosa. «Be', cosa c'è? Non ce l'hai la lingua?». Charlie lanciò uno sguardo sconsolato a Max, che sospirò pulendosi le labbra col tovagliolo. «Charlie ha paura che tu ti sia dimenticata la sua gita scolastica di domani». «Vuoi sempre venire?» le chiese Charlie. Stella si alzò, andò al lavandino, posò il piatto sull'asciugatoio e si appoggiò al ripiano dandogli le spalle. Dalla finestra vedeva il cielo a occidente, isole merlettate di nuvole che passavano sul sole al tramonto, e una luminescenza dell'arancio più tenue immaginabile. Passò qualche secondo. Sentì il buio invaderla. «Sì, direi di sì». XI

La corriera arrivò alle nove e mezzo. Charlie era pateticamente grato a sua madre per aver detto di sì. Stella invece aveva una nottataccia alle spalle, e potendo si sarebbe tirata indietro, anche se la prospettiva di rimanere a casa da sola le sembrava ancora meno attraente. In tempi migliori, pensò, avrebbe chiesto a Max di prescriverle qualcosa, perché doveva pur esserci qualche vantaggio a vivere con uno psichiatra; ma in tempi migliori, del resto, non ne avrebbe avuto bisogno. Così bevve il caffè e fumò le sue sigarette mentre Charlie preparava lo zaino e le raccontava delle meraviglie che li aspettavano. Stella notò stupita come il bambino riuscisse a vivere nel presente senza farsi toccare, almeno in apparenza, dall'infelicità che lo circondava; lei se ne stava seduta in un angolo, con lo sguardo assente, in silenzio, il buco nero nel cuore della famiglia che aveva inghiottito tutta la gioia della sua infanzia, eppure, nell'eccitazione di una gita, a Charlie importava solo salire su quella corriera con sua madre, anche se era una donna dura e depressa, che nelle ultime settimane gli aveva lesinato persino le carezze. Quando salirono sulla corriera Stella si sentì rabbrividire: una ventina di scolari gallesi e una decina di adulti li guardavano in silenzio prender posto negli ultimi sedili disponibili, quelli in fondo. Di fianco al conducente, Hugh Griffin disse qualcosa di amichevole, ma fu l'unico a parlare. In quel momento Stella si rese conto che l'infelicità di Charlie aveva fatto di lui un escluso, proprio come era successo a lei, e ne trasse una mesta sensazione di conferma; avrebbe dovuto saperlo, la gente è fatta così, seleziona con fiuto infallibile le proprie vittime fra chi avrebbe più bisogno di calore. Lei e Charlie erano due estranei, e solo quando furono seduti buoni buoni in fondo alla corriera sentirono riprendere, a poco a poco, il mormorio degli adulti, e gli strilli e il chiacchiericcio dei bambini. Madre e figlio si misero a guardare il paesaggio ignoto fuori dal finestrino. Cledwyn Heath era un altopiano insignificante cui si arrivava attraversando una zona collinosa, e l'autobus faticò parecchio per risalire dalla valle. Per chilometri, tutt'attorno, si apriva un panorama desolato di muschio e felci, con qua e là un albero rachitico, ma abbastanza resistente da opporre al vento il suo profilo ricurvo. Cominciavano a comparire precipizi improvvisi, nelle cui profonde fenditure si raccoglieva l'acqua stagnante; le pozze erano circondate da un intrico di vegetazione bassa, e l'acqua, in ombra, sembrava nera, e limacciosa, e sinistra. Stella odiava quella brughiera solitaria, c'era un'atmosfera di violenza che non doveva essere la sola a percepire, se anche gli altri si erano zittiti. Per un po' si sentì solo il

rumore del vento. Finalmente si fermarono in un posto riparato vicino a un bosco. Appena scesi dalla corriera, i bambini ricominciarono a far baccano. Hugh Griffin li divise in gruppi, spiegando dove e quando ritrovarsi per pranzo. Il gruppo di Charlie e Stella doveva seguire un sentiero lungo il margine orientale della brughiera fino a un punto panoramico da cui si vedeva il mare a una cinquantina di chilometri. Madre e figlio si accodarono al gruppo, con un altro genitore, un padre che era già stato in gita nella zona, a far loro da guida. Mentre si trascinava con gli stivali di gomma, l'impermeabile stretto in vita e un foulard annodato sotto il mento, Stella provava un disagio sempre più forte. Il sentiero era stretto e pietroso, e più ripido di quanto era sembrato da lontano. C'erano nuvole basse, e il cielo minacciava pioggia. Gli altri erano già scomparsi, e ora lei e Charlie sembravano gli unici esseri viventi in quel posto lugubre, col sentiero che saliva e scendeva fra montagnole e ciuffi d'erica, e nessuna struttura in vista, nemmeno un albero a spezzare il paesaggio vuoto e quel cielo troppo vicino. Charlie marciava davanti a Stella, con lo zaino che gli saltellava sulla schiena e la testa che si girava a destra e a sinistra per non perdere nulla. Ogni tanto la sua faccetta felice e ansiosa di bambino solo si voltava per assicurarsi che sua madre non rimanesse indietro. Stella sentì di nuovo il buio che le si gonfiava dentro, e pensò che avrebbe fatto meglio a rimanere a casa, quel posto non andava bene per lei, non le piaceva per niente ritrovarsi in quel nulla, fra estranei ostili, a lottare contro il vento umido e sferzante. Quando arrivarono in vista del mare Stella non ce la faceva quasi più, camminare era diventato un incubo, perché una forza oscura la spingeva a gettarsi a terra e a ripararsi la testa con le braccia, per non alzarsi mai più. Il padre cercò di attaccare discorso, ma Stella non riuscì neppure a rispondergli. Ormai aveva passato il confine. Continuando a camminare arrivarono al posto del picnic, un luogo riparato ai piedi di una collina. Hugh Griffin e gli altri avevano cominciato a disporre i panini e le bibite su una roccia bassa e piatta. I bambini si erano divisi in tanti piccoli gruppetti rumorosi, mentre gli adulti raccolti intorno al maestro versavano il tè caldo dai termos. Quando un'improvvisa raffica di vento fece volar via una mappa dalla roccia si sentirono grida e risate. Stella si allontanò di qualche passo, e un paio di minuti dopo si rese conto che Charlie camminava al suo fianco mangiando in silenzio un panino. Le chiese se aveva fame, e lei fece segno di no con la testa, ma rispose di sì quando le domandò se voleva vedere cosa c'era dall'altra parte della colli-

na. Poco dopo sparirono dalla vista degli altri. Charlie scese lungo il pendio fino allo stagno giù in fondo, circondato da folti ciuffi di erbacce. Stella lo seguì andando a sedersi un po' in disparte. Sentiva cadere le prime gocce. Charlie le gridò che secondo lui c'erano dei tritoni. Stella si ritrovò con la testa sulla ginocchia, la faccia tra le mani. Stavolta era una tortura. Onde nere infuriavano dentro di lei, sentiva la terra sussultare. Quando risollevò la testa l'aria era oscurata da una fuliggine impalpabile, come limatura di grafite. Stava cominciando a piovere. Dietro lo spesso schermo che si era chiuso intorno a lei vedeva, infinitamente lontani, lo stagno nero, la superficie increspata dell'acqua, ora picchiettata dalla pioggia, e Charlie che saltellava sulla riva nel folto delle erbacce. Tirò fuori le sigarette e se ne accese una, tenendo le mani a coppa davanti alla fiamma. Charlie stava tentando di afferrare qualcosa che gli sfuggiva. Stella lo guardava in silenzio, inerte, continuando a fumare. Vide il bambino afferrare la preda e, nel farlo, perdere l'equilibrio. L'aria era nera, la pioggia cadeva più forte, le spaventose scosse sotto i suoi piedi si andavano spegnendo. Stella sentì arrivare a poco a poco la sensazione di stordimento che si prova sempre, dopo. Charlie si era inoltrato nello stagno e cercava di reggersi in piedi nel fango, agitava le braccia e gridava, e qualcosa in quel grido la fece alzare in piedi. Per qualche attimo rimase così, ingobbita nel turbine di vento e di pioggia, a guardare il bambino. Poi si voltò dall'altra parte, portando la sigaretta alle labbra. Gli orli del foulard le sbattevano furiosamente sulla faccia; la superficie dell'acqua, adesso, era quasi piatta. Tornò a guardare lo stagno e vide confusamente una testa affiorare, una mano che annaspava e poi tornava sotto, e si voltò ancora dall'altra parte; e mentre avvicinava il braccio irrigidito alla bocca si afferrò il gomito con la mano. Si girò di nuovo, e di nuovo portò la sigaretta alle labbra. Si muoveva a scatti, spezzando ogni gesto in tanti frammenti distinti e misurati. Hugh Griffin comparve in cima alla collina alle sue spalle, ma lei non se ne accorse, e non lo sentì neppure urlare quando la vide fumare, con la testa che continuava a voltarsi prima a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra, mentre una figura indistinta si dibatteva nello stagno. Lo vide solo quando le passò vicino di corsa nella pioggia, e sempre urlando si tuffò in acqua. Quello che venne dopo fu abbastanza confuso. Stella rimase a guardare mentre Hugh Griffin usciva dall'acqua con Charlie tra le braccia e lo depositava a terra cercando di rianimarlo. Poi arrivarono gli altri di corsa giù

dalla collina, e nella concitazione qualcuno riportò i bambini alla corriera, qualcun altro andò a chiamare la polizia e tutti si dimenticarono di lei, finché una donna non le porse una tazza di tè e le mise una coperta sulle spalle, mentre Stella la sentiva dire che Mrs Raphael era in stato di shock. Quindi la corriera ripartì, e arrivarono gli agenti, e quando la portarono alla stazione di polizia c'era Max, che dopo qualche altra tazza di tè la accompagnò a casa e le diede una pillola, e lei andò a letto e si addormentò di schianto. Dormì fino al mattino dopo. Quando scese di sotto Mair le disse che Max era alla polizia, e sarebbe ritornato a pranzo. Sedettero senza parlare al tavolo di cucina. Stava ancora piovendo. «Che cosa terribile» disse Mair dopo un lungo silenzio. «Terribile». Che ne sapeva, lei? si chiese Stella. Non aveva figli. Che ne sapeva di come ci si sente quando ti annega un figlio? Alla fine Max rientrò a casa, e Mair li lasciò soli. Max sedette al tavolo e guardò Stella. La guardò e basta. Poi, in un tono di sbigottimento assoluto, le chiese: «Ma perché non hai gridato?». Stella lo trovò buffo; proprio lui, Max, che le chiedeva perché non avesse gridato. «Non hai fiatato» ripeté Max con la stessa voce attonita. «Non hai aperto bocca». Di solito vogliono che tu tenga la bocca chiusa, a volte invece pretendono che gridi, e si aspettano che sappia tu la differenza. Era questo che trovava buffo. «Quel Griffin,» disse Max «quel Griffin sostiene che è stata colpa tua». Silenzio. «Be', di' qualcosa, per dio! Non startene lì come una mummia, di' qualcosa, spiegami come è potuto succedere. Oh, Cristo». Si calmò. «Non so cosa sto dicendo» mormorò. «È una reazione traumatica; credo che sia lo stesso per te. Ci vorranno un paio di giorni perché cominciamo a renderci conto. Meglio rimanere calmi». Si strofinò il volto con le mani per qualche attimo, e la guardò con la faccia scavata che gli era venuta da poco. «Ma perché non hai gridato?» sussurrò. «Ma perché non ha gridato, Mrs Raphael, quando ha visto che il bambi-

no era in pericolo?». Era nella stazione di polizia, e anche lì non sapeva rispondere. Nei giorni seguenti la solidarietà nei suoi confronti scomparve. Questo perché Hugh Griffin insisteva sulla sua versione: quando lui era arrivato in cima alla salita aveva visto Charlie in acqua che gridava e sua madre che fumava una sigaretta come se niente fosse. Non aveva battuto ciglio, sosteneva Griffin, benché fosse chiaro che il bambino era in grave pericolo. Secondo lui, se Stella avesse dato l'allarme Charlie si sarebbe potuto salvare. Ora, considerata la distanza fra la cresta della collina e lo stagno, quest'ultimo punto era piuttosto dubbio, ma il lato veramente scabroso della vicenda era che Stella fosse rimasta per tutto il tempo muta e immobile. Quando questo fu accertato, cambiò tutto. Da un momento all'altro Stella diventò una madre che aveva guardato affogare suo figlio senza muovere un dito. Era una cosa contro natura, dicevano. Una cosa perversa. Non riuscivano a capirlo; non ha sentimenti, dicevano, non è un essere umano, è un mostro. O forse è pazza. Era pazza. Quale altra spiegazione dare? Una spiegazione ci voleva, perché un bambino era morto, e allora delle due l'una, o Stella era un mostro oppure era pazza. La prima cosa che fecero fu accusarla di omicidio colposo. Venne trattenuta in stato di fermo e messa di nuovo in cella. Intontita, svuotata, Stella era del tutto staccata dalla donna che veniva spostata da una stanza all'altra, e interrogata all'infinito, senza peraltro riuscire a dir loro quel che volevano sapere. Guardava se stessa mentre affrontava le interminabili ore di quelle strane giornate. A volte si guardava dal di dentro, da una specie di cittadella fortificata all'interno della sua psiche, a volte dal di fuori, cioè da un punto che secondo lei era qualche spanna sopra la testa, un po' di lato. Fu allora che andai a trovarla. Non mi aspettava, e vedendomi provò il primo, fioco barlume di emozione dopo molti giorni. Appena entrato nella stanza feci del mio meglio per mostrarle che le ero vicino, e che intendevo occuparmi di lei. «Povera cara» le dissi. Nient'altro. Le lacrime arrivarono subito. *** Adesso che le davano delle pillole, e che nessuno sembrava volere più niente da lei, Stella riusciva ad allentare la morsa della tensione. Dormiva,

sognava, si lasciava andare. Arrivò persino a dirmi che cosa aveva visto nell'acqua. Non ne fui sorpreso, così come non lo fui notando che dal nostro ultimo incontro era cambiata: aveva qualche chilo in più, i capelli in disordine e le occhiaie, ma la pelle liscia e bianca di sempre. Era ancora una splendida donna. Però era anche una donna gravemente depressa. La mia visita divenne l'evento principale delle sue giornate, quello che rendeva tutto il resto sopportabile. Ci furono vari altri interrogatori, cui presenziai. Ci fu un'udienza in tribunale, che cercai di renderle il meno traumatica possibile. Stella del resto non provava neppure a capire che cosa le stava accadendo, lasciava che me ne occupassi io. Un giorno le domandai se voleva che continuassi a farlo. Certo, mi disse con una punta di inquietudine. C'era bisogno di chiederlo? Le stavo dicendo che avrei anche potuto abbandonarla? Cercai di spiegarle che cosa la aspettava. L'avrebbero ricoverata. Era stata molto male, e io volevo curarla. Ma era sicura di volerlo anche lei? «Oh, sì» rispose. Allora doveva venire da me. Si ricordava il nome del mio ospedale? Se lo ricordava. «Perfetto» le dissi. «Allora siamo d'accordo. Verrai in ospedale e ti seguirò io». Ero convinto che nessuno avrebbe saputo curarla meglio di me. Certo, riportarla in ospedale poteva sembrare poco ortodosso, se non, date le circostanze, obiettivamente pericoloso; ma nella mia posizione attuale ero in grado di decidere liberamente. Max andò a trovarla. Era una visita che le avevo preannunciato, e che lei mi aveva supplicato di risparmiarle. Con molta calma, ma con altrettanta fermezza, l'avevo pregata di non opporsi. Stella mi disse che ero un sadico e un bastardo, e io le ricordai che se mi accettava come medico doveva fidarsi di me. Le spiegai che avrebbe fatto bene anche a lei, non solo a Max. «Questa cosa lo ha distrutto» le dissi. «Cerca di fare pace con lui». «Pace!». «È per il bene di entrambi». Così accettò. Si incontrarono in una stanza spoglia, con un tavolo di legno al centro e un'unica finestra molto alta. Stella fu accompagnata dentro. Stringeva in mano un pacchetto di sigarette e un accendino, ed era in uno stato di profonda ansia. Max era già lì; si alzò in piedi, e mentre la porta si chiudeva rimasero l'uno di fronte all'altra.

«Ciao, Stella». Il suo primo impulso fu di girare i tacchi e andarsene, ma si trattenne. Lo fece per me, non voleva deludermi. Si mise a sedere, e Max la imitò. Era dimagrito ancora, ma non solo; dava come l'idea di una grande fragilità. Lo guardavi e pensavi: se lo tocco va in mille pezzi. Le offrì una sigaretta. Sembrava anche invecchiato. Non era tanto una questione di aspetto, ma dei gesti che faceva, del portamento che aveva. Forse aveva raggiunto quella fase in cui gli uomini cambiano percezione di sé, pensano di non essere più di ferro e adottano le movenze della vecchiaia, comportandosi come se le loro risorse fossero limitate, e andassero dosate con cura. Stella accettò la sigaretta. Si stava chiedendo se ora la vedesse come la troia che gli aveva rovinato la vita o come la pallida strega grassa che aveva affogato suo figlio. «Perché hai voluto incontrarmi?» gli domandò. Max non se l'aspettava. Aprì la bocca e gli uscì una via di mezzo fra un colpo di tosse e una risatina. «Scusa tanto» disse. «Veniamo subito al dunque? Va bene. Non credevo ci fosse bisogno di fare questa domanda». Stella aspettò di sentire che cosa aveva da dirle. «Immagino non ti interessi sapere cosa penso di quello che ci è successo. Di chi credo sia la responsabilità». Come un ragioniere, pensò Stella. La colonna dei debiti e quella dei crediti. Io mi prendo la colpa di questo, tu ti prendi la colpa di quello, così possiamo dormire tranquilli. «In effetti forse a questo punto non ha più importanza. Be', di' qualcosa tu» fece Max. «In acqua c'era Edgar». Max annuì. «Lo avevo immaginato». Dopo qualche attimo di silenzio, Stella cominciò a innervosirsi. Si rigirava sulla sedia e lanciava continue occhiate alla porta. Voleva che venissero a prenderla. «Mi odi ancora?» chiese Max. Stella pensò a un sogno che aveva fatto qualche notte prima. Era a letto con Max, e il letto era pieno di merda. Glielo raccontò e lo vide trasalire. «Sì, mi odi ancora» concluse Max. Poi sbuffò, quasi impercettibilmente. Stella lo osservava con estrema attenzione. Lui si portò la mano alla bocca fissandola con quei suoi occhi vuoti, e Stella si girò dall'altra parte. «Dovrei odiarti anch'io?».

A Stella quella contabilità non interessava. «Non sarebbe giusto verso Charlie» disse Max. Un colpo basso, probabilmente, ma senza alcun effetto visibile. Un altro breve silenzio. Forse sarebbero rimasti nella stanza finché lei non fosse andata alla porta a chiamare qualcuno. Stava per chiedere a Max di farlo, ma lui riprese a parlare. «Sai cosa succederà adesso? Lo shock passerà, e tu comincerai a sentirti in colpa. Me ne intendo, sai, di queste cose. Sarà un senso di colpa atroce. Dovranno tenerti d'occhio perché starai talmente male che potresti tentare il suicidio. Alla fine, con l'aiuto di Peter, riuscirai ad accettare quello che hai fatto, e a quel punto smetterai di odiare sia me sia te stessa. Almeno spero. L'unica cosa che proverai sarà una tristezza mortale, e quella tristezza non ti abbandonerà più per il resto dei tuoi giorni». Fu in quel momento che Stella gli tirò l'accendino e cercò di arrampicarsi sul tavolo per piantargli le unghie in faccia. Le sue urla fecero accorrere le infermiere. La portarono via, lasciando Max a congratularsi con se stesso per la perfetta riuscita della seduta. Il braccio femminile dell'ospedale è composto di due reparti, che visti dal di fuori non fanno un brutto effetto: in mezzo c'è un grande giardino con aiuole fiorite, prati e panchine. A sud il giardino dà sulle terrazze, e così le pazienti che godono della semilibertà possono passeggiare tranquillamente in mezzo al verde proprio come i loro colleghi maschi, dai quali, com'è ovvio, le separa un muro interno. Tecnicamente, il braccio femminile è il mio territorio da anni. E quando ogni tanto mi fermo a guardare quei sentieri, quei prati e quelle terrazze così curate e in ordine mi sento un po' come se posassi orgogliosamente l'occhio su qualcosa di mio. L'indomani Stella venne accompagnata in ospedale. Non le chiesi com'era stato risalire la collina su una macchina della polizia, vedere dal finestrino la sua vecchia casa, entrare non dal Cancello principale ma dall'ingresso del braccio femminile, e da lì passare direttamente all'accettazione. Mentre la polizia mi consegnava i suoi documenti, Stella rimase in disparte. Dopo il breve colloquio di rito la affidai a Mary Muir, un'infermiera giovane ma molto preparata. La prima tappa fu il grande bagno comune. La fecero spogliare, e poi la accompagnarono in una delle cabine con la vasca, dove la aiutarono a lavarsi. Quindi si sottopose alla mia visita medica, indossò un camice di cotone e alla fine si lasciò condurre alla stanza che le era stata assegnata.

«Eccoci qui» disse Mary aprendo la porta. C'erano un letto, una finestra con le sbarre, un lavandino e un gabinetto. Nella porta si apriva uno spioncino. Dopo Stella entrai anch'io. «E adesso?» mi chiese. «Adesso voglio che tu ti sistemi e ti faccia una bella dormita» risposi. «Pensi di aver bisogno di qualcosa?». Più tardi ammise che in quel momento riusciva a pensare solo al mazzo di chiavi in mano all'infermiera. Scosse la testa. «Aspetta!» disse subito dopo. Mary e io ci bloccammo sulla soglia. «Sì?». Avrebbe voluto chiedermi con una voce normale per favore non andartene, non chiudere la porta, non chiudermi dentro. Ormai avrebbe dovuto esserci abituata, durante il fermo era già stata in cella, ma adesso era diverso, aveva creduto che arrivando qui l'incubo sarebbe finito, o se non altro sarebbe stato meno spaventoso. Ma non riuscì a dire nulla di tutto ciò, non a quelle che più tardi definì le nostre facce fredde e cortesemente stupite. Scosse solo la testa. La porta si chiuse con un colpo, e Mary girò la chiave. Un'ora dopo tornò. Quando sentì la chiave nella serratura Stella era coricata sul letto, gli occhi fissi al soffitto. Mary le aveva portato una tazza di tè e delle pillole. Stella domandò cosa fossero, ma si sentì rispondere di prenderle e basta, perché le aveva prescritte il dottor Cleave. Stella si mise a sedere, ingoiò le pillole e bevve un sorso di tè. Mary sedette all'altro capo del letto e rimase a guardarla. Le disse che il direttore era molto preoccupato per lei. «Chi è il direttore, adesso?» chiese Stella. «Non lo sa?». «Una volta era Jack Straffen, ma è andato in pensione, no?». «Certo, il dottor Straffen non c'è più. Adesso c'è il dottor Cleave». Preferivo che lo venisse a sapere così, apparentemente per caso, da qualcuno del personale. Comunque sì, quando Jack Straffen era andato in pensione avevano chiesto a me di sostituirlo, forse perché conosco questo ospedale meglio di chiunque altro. Avevo accettato con riluttanza. Stella mi disse che prima di addormentarsi il suo ultimo pensiero era stato per Max, che per tanto tempo aveva considerato quel posto praticamente suo. Il mattino dopo un'altra infermiera, una certa Pam, le portò il vassoio della colazione. Stella aveva dormito profondamente e ora faticava a sve-

gliarsi del tutto, intontita com'era dai farmaci. Si tirò a sedere sul bordo del letto, ma la testa le crollava sul vassoio, che le scivolò dalle ginocchia. Pam lo prese al volo e lo appoggiò sul pavimento. Stella ripiombò sul letto riaddormentandosi subito. Più tardi, nel pomeriggio, fu svegliata, al solito, dal rumore della chiave nella serratura; stavolta ero io. Mi misi a sedere sul letto. «Come ti senti, mia cara?». Le presi la mano e gliela accarezzai. «Da cani». Si strofinò la faccia. L'obnubilamento indotto dai farmaci sembrava leggermente attenuato. Mi scusai con lei, spiegandole che prescrivere sedativi pesanti ai nuovi arrivati era una procedura standard, serviva al personale per rendersi conto delle condizioni del paziente. «Credo che l'unica cosa di cui si renderanno conto è di come dormo» disse Stella. «Passerà. Fra un paio di giorni ti portiamo nella sala comune, vedrai». Sbadigliò. «Sono distrutta». «Lo so». Le diedi un colpetto sulla gamba. «Torno a trovarti domani». Mi alzai per andarmene. Stella ricadde sul cuscino, gli occhi sgranati a guardare il soffitto. Quando la sera Mary Muir arrivò con le pillole provò a dirle che le sembravano troppe, ma Mary non le diede retta, e lei non ebbe la forza di discutere. Almeno i primi tre, dunque, furono giorni perduti. Stella visse in una specie di crepuscolo della coscienza, e non lasciò mai la sua stanza. I contatti con l'esterno furono qualche breve, impastato scambio di battute con le infermiere e la mia visita quotidiana. Cominciai a diminuirle gradualmente i farmaci, e riguadagnò un minimo di lucidità. Il quarto giorno le feci portare dei vestiti - non i suoi, quelli dell'ospedale -, e per la prima volta Stella si affacciò nel reparto. In seguito mi disse che sentirsi ancora ottenebrata, da un certo punto di vista, era stata una fortuna, perché la sua prima impressione di quel posto era stata di assoluta estraneità. Mentre Pam la accompagnava fino alla sala comune Stella fissava con sgomento, da sotto le palpebre appesantite, le povere creature che si trascinavano lungo il corridoio, donne piegate dal dolore, con la testa china, che abitavano altri mondi, mondi infernali da cui erano incapaci di distogliere lo sguardo. Nessuna rispondeva agli allegri saluti di Pam. Arrivarono alla sala comune. Ecco, ora Stella poteva godersi lo spettaco-

lo delle sue compagne a ricreazione. Non riuscì a non pensare di nuovo, con un brivido, a tutti quegli inferni privati, che coesistevano in un unico spazio. Era una stanza lunga, col sole che filtrava attraverso i finestroni a sbarre andando a cadere sul pavimento lucido. Lungo le pareti c'erano tavoli e sedie, e dalla parte opposta il televisore, con attorno un divano e qualche poltrona. Una donna era in piedi assolutamente immobile, e guardava il muro. Un'altra cercava di togliersi pelucchi invisibili dalla gonna, cioè cercava, con una concentrazione spasmodica, di afferrare il nulla. Una terza sedeva dondolandosi da una parte e dall'altra, sorridendo e mormorando qualcosa. «Eccoci qua» disse Pam in tono ilare. «Andiamo a conoscere qualcuna delle ragazze». Le ragazze che Stella conobbe erano tutte intontite dai farmaci e affrante, proprio come lei. Si sedette a un tavolo con Pam e altre due, a fumare. Stella le guardava e loro guardavano lei, ed era come scrutare da una fenditura vette lontanissime, e sentire che non era completamente sola, che in quella regione desolata c'era qualcun altro. Nonostante i coraggiosi sforzi di Pam, una conversazione sembrava impossibile. Il tranquillo mormorio della stanza fu scosso una volta dallo scoppio di una strana risata, un'altra da una specie di gemito, e una terza da un piccolo tumulto di eccitazione quando venne portato dentro il carrello, e qualcuno gridò «Il tè, signore!». Più tardi, al momento di rientrare nelle camere, una donna che Stella non aveva notato si materializzò al suo fianco chiedendole da fumare. Muovendo molto lentamente le dita, Stella aprì il pacchetto e tirò fuori un paio di sigarette, che la sconosciuta si infilò nella manica del cardigan con un «Grazie, tesoro». Poi fecero tutto il corridoio insieme. Mi hanno portato qui senza niente, disse la donna, solo con i vestiti che avevo addosso. Stella scosse la testa. Avrebbe voluto risponderle che era una vergogna, ma non ci riuscì. Riguardati, tesoro, le sussurrò la donna. Poi le sfiorò la mano e sparì nella sua stanza. Nei giorni seguenti la vita di Stella seguì uno schema tipicamente ospedaliero, in cui si succedevano i pasti, la somministrazione dei farmaci, le ore nella sala comune e quelle in camera. Andai a trovarla più volte, dicendole di non preoccuparsi, perché presto avremmo cominciato a parlare davvero. Nel frattempo, volevo soltanto che si calmasse. Calmarsi. Più tardi mi disse che l'avevo fatta sentire come una bambina pestifera.

Col passare dei giorni cominciò a sentirsi meno estranea a quanto la circondava, anche se ogni volta che se ne rendeva conto si sforzava di resistere. Questo non è il mio mondo, si ripeteva, anche se quale fosse, il suo mondo, ormai non lo sapeva più. Ma le altre donne non le sembravano più così pazze, o così strane, o così diverse da lei. Cominciava a capire perché erano finite da noi. Spesso si era trattato di una bizzarra concatenazione di eventi, non diversissimi da quelli capitati a lei, che erano culminati in una sorta di pubblica umiliazione. La donna che le aveva detto di essere stata portata qui con solo i vestiti che aveva indosso, ad esempio, le raccontò di chiamarsi Sarah Bentley, e di essere stata sposata a un tale che quando si ubriacava, e cioè tre o quattro volte alla settimana, la picchiava. Arrivata al limite della sopportazione, Sarah gli aveva detto che se l'avesse toccata un'altra volta l'avrebbe ucciso. Lui aveva promesso di non farlo più, ma un paio di mesi dopo era tornato a casa ubriaco, e prima di stramazzare sul divano le aveva di nuovo messo le mani addosso. Così, con le forbici da cucina, lei gli aveva prima tagliato la gola e poi aperto la cassa toracica per strappargli il cuore, che aveva gettato nella tazza del gabinetto. Dopodiché se ne era andata a dormire. Il mattino dopo era arrivata la polizia, e quando l'avevano portata via tutte le donne del vicinato erano scese in strada a godersi la scena. Applausi e fischi, secondo Sarah, si erano più o meno divisi in parti uguali. Certo, nessuno riusciva a capire perché avesse buttato il cuore nel gabinetto. Per lei invece era chiaro come il sole: non voleva che quel bastardo ritornasse. Poi Sarah le chiese che cos'avesse fatto lei. Stella tentò di abbozzare una risposta, sentendosi immediatamente sopraffare da un orrore senza nome. Erano sedute vicino alla finestra nella stanza comune, e Sarah cercò, senza riuscirci, di placare la crisi. Pochi minuti dopo Stella era stata chiusa nella sua stanza, imbottita di sedativi ma ancora in lacrime. Il giorno dopo andai a trovarla. Mi sedetti in fondo al letto, annuendo al racconto dell'ondata di orrore da cui si era sentita travolgere. Le dissi che era del tutto naturale e prevedibile, che per stare meglio avrebbe dovuto stare peggio, e che anzi quel dolore era un buon segno. Qualcosa stava cominciando a muoversi. Le dissi anche che non intendevo aumentarle i farmaci, ma che l'avremmo tenuta sotto osservazione. La volta successiva le chiesi se era pronta a raccontarmi quello che era successo, cominciando dall'inizio. «E quale sarebbe l'inizio?». «Io credo Edgar. E tu?».

Sollevò la testa, guardandomi con un'espressione che non riuscii a interpretare fino in fondo. Dolore, apprensione, paura, c'era tutto questo, naturalmente, ma anche qualcos'altro, qualcosa che ora credo fosse la consapevolezza insorgente della nuova natura del nostro rapporto. Le cose non erano più semplici come prima. Adesso io ero il medico, e lei la paziente. Eravamo su due fronti opposti. Le serviva una strategia. Era ovvio che dovessimo cominciare da Edgar. Stella era finita da noi perché era rimasta a guardare suo figlio che affogava, ma per quanto riguardava quell'episodio specifico la patologia in atto non presentava zone d'ombra. La letteratura sulle madri infanticide è infatti limitata, ma esauriente: in genere si tratta di un suicidio allargato, della rimozione del figlio da un contesto che la madre ritiene intollerabile, anche se nel caso di Stella tutto era complicato dall'intensa avversione verso il padre del bambino; un classico complesso di Medea. Anche il procedimento terapeutico è sostanzialmente noto. Si tratta in primo luogo di assistere il paziente durante un periodo iniziale di sofferenza molto intensa, caratterizzato essenzialmente dal senso di colpa, cui seguono in genere il riconoscimento del trauma e la reintegrazione del trauma nella memoria e nell'identità. In altre parole, mera routine. No, da un punto di vista clinico era molto più interessante la sua relazione con Edgar, uno dei più complessi e drammatici casi di ossessione sessuale morbosa che io avessi mai incontrato in molti anni di pratica. Basti solo pensare che nell'acqua, in extremis, Stella non aveva visto Charlie, e neppure Max. Aveva visto Edgar. Adesso che l'avevo qui, nel braccio femminile, non vedevo l'ora di far saltare le sue difese, di aprire Stella con le mie mani per vedere com'era fatta la sua psiche. Naturalmente sapevo che mi avrebbe resistito, ma non era certo il tempo a mancarci. Mi parve incoraggiante che si preoccupasse di nuovo del proprio aspetto. Mi disse che da quando portava solo la divisa delle pazienti - cardigan grigio, camicetta azzurra, gonna grigia, calze grigie e scarpe nere con le stringhe - io, al confronto, le sembravo un damerino. Ogni volta che dovevamo vederci andava nell'ufficio in fondo al padiglione e chiedeva di poter usare il beauty. Il beauty era in realtà una vecchia scatola di biscotti dove il personale metteva rossetti, matite per gli occhi, campioncini di profumo, vasetti di crema e di cipria, tutti omaggi che le pazienti potevano usare nelle occasioni importanti, come la visita di un dottore. Seduta al tavolo dell'ufficio, Stella prese uno specchietto e cercò di fare del suo meglio col ma-

teriale a disposizione. Poi si pettinò, chiedendomi mentalmente scusa per essere cosi tristemente al di sotto delle mie sofisticate aspettative. Quindi tornò nella sala comune, dove le altre si complimentarono cameratescamente con lei per il risultato dei suoi sforzi. La nostra prima, vera seduta si svolse in un piccolo studio vicino all'ufficio. Prima di cominciare, le chiesi come stava. La osservavo tenendo i polpastrelli uniti e gli indici appoggiati al labbro superiore. Più tardi mi disse che in quel momento i miei occhi erano come due spilloni che le infilzavano l'anima. «Peter, cosa fai? Guarda che non sono un coleottero! E comunque in questi giorni non ho nessuna voglia di lasciarmi sezionare. A proposito, perché ci fate vestire come suore?». Era un secolo che non la sentivo parlare così, nello stile da commedia brillante di tutti i nostri dialoghi di un tempo. Per un breve attimo era quasi tornata quella di una volta, una donna in confidenza con un vecchio amico. «Abbiamo parecchio lavoro da fare» le dissi. «E sarà piuttosto doloroso, per te». Si concentrò sul tentativo di accendersi una sigaretta. Nonostante i suoi sforzi quella debole fiammella di allegria si estinse subito, di fronte alla mia gravità. «Parliamo di Edgar. Dimmi della prima volta che hai pensato seriamente a un rapporto sessuale con lui». Suonava piuttosto brutale, ma l'avevo fatto apposta. Stella abbassò gli occhi e giocherellò col pacchetto di sigarette, allineandolo meticolosamente al bordo del tavolo. La sua voce era guardinga. «Dio mio, non lo so. La prima volta?». Annuii. «Nell'orto» disse con calma. Vedevo la sua esperienza riprendere lentamente forma. «Continua». Dentro di sé rivisse quel momento al sole, in cui si era resa conto che sarebbero andati a letto, perché ormai non si potevano più fermare. Era molto semplice: non farlo era impossibile. Impensabile. E quando capisci che non puoi più evitare, o rinviare, o ignorare una necessità, il rischio cessa di essere un deterrente. Stella cercò di spiegarmi questo. «Ed era davvero una necessità?». «Sì». «E pensi che Edgar avesse questa tua stessa sensazione di... necessità?

Nonostante i rischi, voglio dire?». «Oh, sì». «E perché?». Scrollò leggermente le spalle. «Non lo so. Ne ero certa, tutto qui». «È possibile che Edgar ti abbia usato perché stava progettando una fuga?». «No». «D'accordo. Ed è stato tutto come te lo aspettavi?». Stella cercò di scherzarci su: «Vuoi i dettagli, Peter? Devo farti un disegnino?». «Avevate trovato un posto nell'orto». «All'inizio, sì. La serra». Cercai di ignorare il tono di fastidio con cui mi passava questo scampolo di informazione. «E poi?». «Nel capanno». «Ah già, il capanno». Mi appoggiai allo schienale. «Mi spiace, cara. Non mi diverto a metterti in imbarazzo. Davvero Max era così deludente?». «Tu che ne dici? Altrimenti tutto questo non sarebbe successo». «No?». «No. Penso che ci si possa innamorare di qualcuno solo se non si è già innamorati di qualcun altro». «E tu di Max non eri innamorata. Ma gli volevi bene?». Mi fissò con aria inespressiva. «Tu non sei mai stato sposato, vero?» disse alla fine. «Eri frustrata?». Uno scoppio di riso. «E chi non lo è?». Aspettavo ancora una risposta. «Oh, Peter, non so cosa dirti. Nei primi tempi provavo una grande ammirazione per Max, ecco. E quando siamo arrivati qui, dopo un po' avrei preferito tornare a Londra, ma in pratica era l'unica cosa su cui litigavamo. Non smaniavo dalla voglia di un'avventura, se è questo che vuoi sapere». «Un matrimonio come tanti, allora». «Immagino di si». «Un marito, una casa, un figlio, una serenità accettabile. Eppure hai messo in gioco tutto per una storia di sesso con un paziente». «Sai, sono calcoli che uno non fa». «Ma come ti sembrava l'idea che tutto il tuo mondo fosse in pericolo?

Non so, era inebriante?». Mi ero appoggiato con un gomito al tavolo, e la guardavo con un'espressione di partecipe, aperta curiosità. «Essermi innamorata, questo mi sembrava inebriante». Ci fu un attimo di silenzio. «Già, l'amore» dissi. «Parliamo di questo sentimento che non riuscivi a dominare. Come lo descriveresti?». Qui Stella fece un'altra pausa. Poi, con voce stanca, riprese: «Se non lo sai non posso spiegartelo». «Allora non si può definire? Non se ne può parlare? È una cosa che nasce, che non si può ignorare, che distrugge la vita delle persone. Ma non possiamo dire nient'altro. Esiste, e basta». «Queste sono parole, Peter» mormorò Stella. «Forse» dissi un po' piccato. «Ma sono anche l'unica cosa che abbiamo. Vorrei chiederti di considerare la possibilità che questo tuo amore, in realtà, fosse la copertura di qualcos'altro». «Cosa intendi dire?». «Guarda gli effetti che ha avuto. Hai mollato tutto. Hai cominciato a disprezzare l'uomo che avevi imparato a...». Mi interruppi. Stella aveva cominciato a piangere sommessamente. Le diedi un fazzoletto. Vedevo che si odiava per quell'esibizione di fragilità femminile, tanto che in una seduta successiva sentì il bisogno di parlarmene. In quella fase, mi disse, sapeva che se io l'avessi respinta, disprezzata, condannata, non le sarebbe rimasto nulla. Lei non era nulla. Il quadro mi era perfettamente chiaro. «D'accordo, basta così» le dissi affettuosamente, e parlammo d'altro. Ma prima di andarmene le chiesi di pensare a quel che significava, per lei, amare. Cerca di essere rigorosa, le dissi. Ci proverò, rispose. Più tardi mi disse che quel colloquio l'aveva gettata in uno stato di confusione e di ansia. Era tornata alla routine del padiglione con un'inquietudine che non l'aveva lasciata neanche nella sala comune, dove non aveva parlato con nessuno. Tentava di capire dove volessi arrivare. L'avevo turbata di proposito, ma perché? Probabilmente per metterla alla prova, per saggiare la sua forza. E lei non aveva certo reagito bene, crollando in quel modo. Le avevo fatto capire quanto fragile fosse diventata, mostrandole tutta la sua debolezza. In fondo, concluse, mi ero semplicemente compor-

tato da psichiatra: non le avevo chiesto di essere forte, l'avevo solo portata a desiderare di esserlo. Ammise che per capirlo le ci erano voluti giorni e giorni di riflessione, durante i quali era giunta alla conclusione di essere fortunata a vivere in un posto sicuro, dove nessuno le avrebbe fatto del male, e dove era affidata a mani esperte che avrebbero saputo curarla. Provò anche, faticosamente, a vedersi in un modo nuovo. Dopo Cledwyn Stella si era ridotta a un grumo di preoccupazioni superficiali, egoistiche, e cercava di ottundere le proprie sensazioni per non pensare a Charlie; adesso si aprì quel poco che bastava a riconoscere di essere malata e di aver bisogno di aiuto. Aiuto che, naturalmente, si aspettava da me. Nel nostro incontro successivo raccolse tutto il suo coraggio e si presentò con un sorriso intrepido, col quale voleva dimostrarmi di essere pronta ad andare oltre. Vidi immediatamente che la sola idea la terrorizzava. Feci il giro del tavolo e le spostai la sedia. «Cerca di rilassarti» le dissi nel tono più tranquillizzante possibile. Si sedette, la aiutai ad avvicinare la sedia al tavolo e le poggiai la mano sulla spalla. Ce la lasciai per qualche secondo, il tempo di percepire la sua intensa reazione a quel contatto fisico. Poi andai a sedermi e le chiesi come andava nel padiglione, e di nuovo lei sembrò tornare la Stella ironica e pungente di un tempo; mi regalò una descrizione decisamente spassosa dell'eccentrica comunità di cui si trovava a far parte. Ma appena mi vide appoggiare le dita alle labbra, e assumere l'espressione contemplativa che probabilmente cominciava a riconoscere, il suo umore cambiò. «Hai pensato a quello a cui ti avevo chiesto di pensare?» le chiesi. «Sì, ma non so cosa dirti, Peter». «Prova a descrivermi Edgar. Fisicamente, intendo». La sua risposta fu che aveva paura di farlo, perché quando cercava volontariamente di recuperare il ricordo di Edgar era come se l'immagine di lui fosse nascosta da uno schermo. Cercai di riportarla a Cledwyn Heath, e al fatto che quel giorno lei aveva visto Edgar annaspare nell'acqua. Io la consideravo una prova definitiva del suo desiderio di perderlo, interrompendo così il tormento della coazione. Le dissi che agognare la morte dell'amante è uno stadio tipico di tutte le relazioni di quel genere. Ora mi interessava appurare quanto oltre si fosse spinto questo meccanismo: in altre parole, se la loro storia fosse davvero finita. Parlammo di Edgar per circa un'ora. Fra mille esitazioni, Stella riuscì più o meno a descrivermelo, ma subito dopo vennero le domande più difficili,

quelle sui sentimenti. E qui Stella ammise di non aver mai provato in tutta la sua vita un'attrazione di una tale intensità fisica ed emotiva per qualcuno; era una cosa che conosceva solo di riflesso, per averla percepita negli uomini che la provavano per lei. La lasciavo parlare limitandomi ad annuire, e di tanto in tanto, quando esitava, incoraggiandola. Alla fine riuscì a trovare le parole per descrivermi quella specie di uragano sentimentale che erano state le poche settimane con lui. Mi raccontò tutto quello che era successo, prima da noi, poi a Londra. Ero sorpreso di non sentirla mai pronunciare un giudizio morale: non condannava Edgar né per essere fuggito senza dirle niente, né per averla picchiata. «Come mai?» le chiesi. Non lo sapeva, ma nella mia domanda, mi disse, c'era qualcosa che non tornava. Per criticare Edgar avrebbe dovuto porre a lui, e ai suoi sentimenti per lui, delle condizioni: ti amo a patto che tu non faccia questo. E la cosa non si era mai presentata in questi termini. «Insomma tutto quello che veniva da Edgar andava bene». «Credo di sì». «Anche le botte». «Sapevo perché mi picchiava». «Se ti dicessi che Edgar è qui, in ospedale, che reazione avresti?». La osservavo con estrema attenzione. Vidi un lampo passarle negli occhi; poi scrollò le spalle. Disse che non aveva immaginato potessero riportarlo qui, anche se a pensarci le pareva ovvio. In ogni caso, non aveva più alcuna importanza. Sentendo questo la guardai con quello che lei chiamava il terrificante distacco del mio occhio da entomologo. «Non ha importanza?». «È finita, Peter. È finita con la morte di Charlie». Sollevò la testa, guardandomi dritto negli occhi. Mi sarebbe piaciuto crederle, ma sapevo che lei sapeva cosa volevo sentirle dire. La misi di nuovo alla prova. «Era una domanda astratta, Stella. Edgar non è qui». Di nuovo quell'impercettibile lampo di emozione. «Meglio così» disse. Per rimettere in sesto qualcuno che arriva da noi nello stato in cui era arrivata Stella ci vuole qualche settimana. Dai rapporti che mi trovavo ogni mattina sulla scrivania notavo un crescente interesse nei confronti del mondo in cui viveva, per quanto angusto e circoscritto fosse. Non se la

sentiva ancora di affrontare la morte di Charlie, ma non intendevo metterle fretta. Piuttosto c'era qualcosa che mi inquietava, e cioè i possibili effetti negativi di quella mia domanda su Edgar: non volevo aver interrotto, inavvertitamente, il processo di traslazione, cioè lo spostamento dei sentimenti superstiti per Edgar su di me, il suo medico. Era infatti essenziale che ora Stella mi considerasse il suo unico sostegno. Nei giorni successivi riacquistò decisamente lucidità. Mary Muir, che l'aveva vista arrivare, disse che era fantastico assistere a un miglioramento del genere. Stella parlava molto più di prima. Si interessava persino ai pettegolezzi dell'ospedale, voleva sapere tutto della comunità cui ora apparteneva. Cominciò, altro buon segno, a passare più tempo possibile nella sala comune. Abbandonò invece, gradualmente, la sua breve identificazione con le altre donne, in particolare con Sarah Bentley. Sarah era una sovversiva, le piaceva prendere in giro le infermiere e sconvolgere la routine ospedaliera. Il fatto era che non riusciva a celare il disprezzo che provava per la propria situazione, né la certezza di essere finita nel posto sbagliato. Ho ucciso quel bastardo perché lo odiavo, aveva detto a Stella. Mi picchiava. Questo non vuol dire che sono da manicomio. In galera, dovevano mettermi. Almeno saprei quando esco. Sarah poteva andare avanti così tutta la mattina, e Stella si rendeva conto che l'amicizia con lei avrebbe potuto rivelarsi compromettente. Cercò di spiegarle che bisogna essere diplomatici. Bisogna capire quello che gli altri si aspettano da te. Sarah rifiutava di accettarlo. Secondo lei erano tutti degli imbecilli, e comunque non aveva la minima intenzione di starsene zitta. Secondo Stella era un errore. C'erano momenti, le disse, in cui bisognava stare zitti. Ma, sia pure con tristezza, si rendeva conto che lei e Sarah non potevano più essere amiche. Così fece domanda per lavorare in lavanderia. «Tu?» le chiesi in tono divertito, cercando di nasconderle i miei sospetti. «Ma come ti può venire in mente?». «Dai, Peter, non è che muoia dalla voglia, ma qui mi annoio a morte. Non mi troveresti qualcosa da fare?». «Te la stai cavando bene» le dissi asciutto. «Forse ti piacerebbe passare al piano di sotto». «In effetti,» mi disse con un sorriso aperto «non credo che questo sia il posto giusto per me. E tu?». Non mi sbilanciai. Stella sapeva che non potevo credere fino in fondo al miglioramento che faceva l'impossibile per mostrarmi, così come sapeva

che, mentre la intrattenevo con quelle che lei definiva le mie soavi disquisizioni, mi domandavo se non stessi in realtà assistendo a una falsa ripresa, presagio di una depressione ancora più profonda della prima. «Pensi mai a Charlie?». «Sì». «E...?». Il tono adesso era tranquillo. «E incomincio ad accettarlo». Era di nuovo il momento della ruga di concentrazione: polpastrelli uniti, sguardo fisso su di lei. Silenzio. Era aprile, e attraverso le sbarre dello studio in fondo al padiglione si vedevano i rami del castagno coperti di boccioli bianchi. Faceva già caldo. Dal corridoio arrivavano i soliti rumori, le chiavi nelle serrature, i mormorii, il grido attutito «In stanza, signore!». Il rumore dello spazzolone nel secchio. L'odore di candeggina. Nello studio silenzioso osservavo la donna pallida seduta di fronte a me. Poi mi alzai improvvisamente in piedi. «Non ancora, Stella» le dissi. «Penso che tu non sia ancora pronta». «Perché?». Sollevò lo sguardo verso di me. Era inquieta e delusa. «Non lo so. Vorrei prima capire meglio come stai». «Be', non mi metterò a discutere» disse tranquillamente. Annuii. A dispetto - o forse in virtù - del fatto che io, per Stella, non ero certo la figura neutra generalmente ritenuta adatta a condurre questo tipo di psicoterapia dinamica, a ogni incontro mi convincevo un po' di più che la sua traslazione stesse imboccando la direzione che volevo, e la sua dipendenza si stesse spostando su di me. Questo pensiero mi dava una complessa, particolarissima soddisfazione, che purtroppo mancai di analizzare al momento giusto. Il suo comportamento subì un'evoluzione prevedibile. Innanzitutto Stella cominciò a sviluppare un atteggiamento diverso nei confronti del tempo. Costretta a pensare in termini di mesi, se non di anni, dovette abituarsi a dominare la sua impazienza. Da quando le avevo diminuito i farmaci tollerare la noia era diventato un problema, e Stella sapeva benissimo che uno scoppio di frustrazione, uno solo, sarebbe bastato a vanificare settimane di meticoloso autocontrollo. Inoltre, le infermiere non dovevano accorgersi del suo sforzo. Stella sapeva che cosa volevano vedere: una persona calma, equilibrata, vivace, ma non isterica, composta, ma non depressa. Una parte piuttosto difficile da reggere, specie senza sapere per quanto, né se noi avessimo notato i suoi progressi, e contemporaneamente cercando di abi-

tuarsi all'idea di rimanere a marcire lì dov'era per un'eternità. Ma la sua attesa fu molto meno lunga di quanto avesse temuto. Qualche giorno dopo Mary Muir le disse che avevo deciso di spostarla al piano di sotto. Di sotto la vita era meno eccentrica, e Stella arrivò rapidamente a capire perché. Di sopra nessuno si stupiva di niente, perché si dava per scontato che le pazienti fossero tutte pazze. Una persona sempre infelice, e cattiva, e sarcastica, come Sarah ad esempio, era pazza, ma lo era altrettanto chi passava il tempo dando la caccia a un filo inesistente, o si agitava per un appuntamento mancato o per faccende lasciate a metà ventisette anni prima. Finché non cominciavi a comportarti come se non fossi affatto rinchiuso in un manicomio senza sapere quando e se ti avrebbero messo fuori, per loro eri un pazzo. Quando invece dimostravi di considerare la tua situazione del tutto normale, allora pensavano che avessi fatto dei progressi e ti spostavano di sotto. Questo, naturalmente, dal punto di vista del paziente. Dal nostro, l'autocontrollo necessario per fare questi calcoli e comportarsi di conseguenza era il necessario primo passo verso un effettivo miglioramento. Le donne al piano di sotto lo avevano fatto, questo primo passo, e nessuno lì dava in escandescenze, non davanti alle infermiere, almeno. Stare di sotto significava più tempo per sé e una certa autonomia, e con quella la possibilità di lasciarsi andare al riparo da sguardi indiscreti. Spesso, significava semplicemente la libertà di piangere per una vita rovinata, una famiglia distrutta, un marito perduto. Un figlio morto. Piangere era una cosa che facevano i matti, un sintomo certo di depressione che in quanto tale andava trattato coi farmaci, e i farmaci si portavano via la chiarezza e la lucidità di cui loro, o almeno alcune di loro, avevano così bisogno. Di sotto si potevano indossare i propri vestiti. Questo faceva una grande differenza, per Stella. Me ne resi conto non appena la rividi. Si presentò in gonna nera, con un'elegante camicetta color crema dal colletto alto su cui aveva appuntato una graziosa spilla. Adesso i suoi gesti e le sue espressioni erano più lenti e studiati, quasi ieratici, e davano ancor più risalto alla sua bellezza, che aveva sempre avuto qualcosa di maestoso. Mi ringraziò di cuore per il trasferimento; sapeva che quasi tutti i pazienti rimanevano molto più a lungo al piano di sopra. Le risposi che non aveva nulla di cui essermi grata. «Non mi sembrava avesse più molto senso farti rimanere di sopra». Mi scrutava. Ero andato a trovarla nel padiglione e mi ero fatto accompagnare nella sua nuova stanza. Era più grande di quella di sopra, senza

sbarre alla finestra né spioncino alla porta. Vicino al letto c'erano un tappeto, un tavolo e una sedia, oltre a un armadio per i vestiti. L'alloggio di una studentessa al college. «Niente fotografie?» le chiesi. «Niente ninnoli, nulla di personale?». «No» rispose tranquillamente. Io ero sul letto, e lei sulla sedia di fronte a me. Aveva subito notato un atteggiamento più morbido, da parte mia. Il tono secco, distaccato, inquisitorio che avevo sempre mantenuto fino a quel momento era scomparso. Stella sentiva di poter contare su di me di nuovo come amico, non solo come medico, ma non cercò di approfittarne. Non ancora. Ormai non si concedeva più reazioni spontanee. «Te la senti di parlare di Charlie?». Questa era la cosa più difficile. Per un attimo mi guardò in silenzio. Sentii cosa mi stava dicendo: lo so come è morto, so anche perché, ma non riesco a parlarne. «No, Peter,» disse alla fine. «Non ancora». «Perché?». «Sarebbe troppo doloroso». Annuii. «Pensi molto a lui?». Un risolino ironico. «Credi davvero che riesca a pensare a qualcos'altro?». Annuii di nuovo. «Ne parleremo presto. Voglio darti tutto il tempo di cui hai bisogno». «Lo so. Grazie». Le ripetei che non c'era niente di cui ringraziarmi. Poi mi alzai in piedi. «Devo andare» dissi. «Ho una stupidissima riunione con quelli del ministero. Burocrati. Mi fanno diventare matto». «Povero Peter». Rimase sulla soglia a guardarmi mentre mi allontanavo lungo il corridoio, un uomo elegante, anziano, con un fascio di schede sotto braccio e un'istituzione sulle spalle. Ero toccato dalla sua sollecitudine. Stella era una mia paziente, ma anche una donna, e non lo scoprivo certo adesso. Negli ultimi giorni non facevo che immaginarla in casa mia, dove una volta era stata tanto spesso, tra i mobili, i libri, gli oggetti preziosi. Sì, quello era il posto per lei: tra le mie opere d'arte. Sarebbe stata certo molto meglio che qui. Tra i privilegi della sua attuale condizione c'era quello di poter passeggiare sulla terrazza del braccio femminile in certe ore del giorno, e Stella

lo sfruttava fino in fondo. Era arrivata la primavera, e a Stella piaceva starsene a guardare la campagna col cappotto sulle spalle, perché faceva ancora fresco anche al sole, e spesso tirava vento. Non aveva nessuna fretta di fare amicizia con le donne del nuovo padiglione; pensava fosse meglio che succedesse a poco a poco, e ostentava una certa freddezza. Sapevano tutti che era la moglie del dottor Raphael, il vicedirettore di prima, e che il dottor Cleave era un suo vecchio amico. In realtà conoscevano tutta la storia; una ragione in più per tentare di ammantarsi di un po' di mistero. XII Nelle settimane successive, via via che Stella si lasciava assorbire dalla vita dell'ospedale, il suo mistero cominciò a sfumare; e del resto, pur continuando a tenersi un po' a distanza, neppure lei voleva isolarsi del tutto dalle altre. Esprimeva molto equilibrio e molta dignità, questo sì, e portava come un velo l'aria addolorata della protagonista di un dramma vittoriano. La vidi anche perfezionare un certo sorriso triste, appena accennato, e notai che pazienti e personale la trattavano con rispetto, quando non con deferenza. Vestiva in cupe tonalità di blu, grigio e nero, e portava sempre con sé un libro. Era un'assidua frequentatrice della nostra biblioteca. Insomma, valutando tutti questi segni nel loro insieme la consideravo sulla via della guarigione; pensavo che nei recessi più nascosti del suo essere stesse affrontando, e accettando, i fatti di Cledwyn Heath. Avevamo un paio di sedute alla settimana, e ogni volta che accennavo alla morte di Charlie mi faceva credere che sì, non pensava praticamente ad altro, non riusciva a staccarsi da quel pensiero terribile, e che la gravità della sua colpa la stava profondamente cambiando. A poco a poco, mentre lo spaventoso rimorso per quel gesto atroce corrodeva come un acido il suo vecchio sé, portando alla luce qualcosa di nuovo, Stella assunse le sembianze di una santa, di una donna che sta dolorosamente arrivando a una catarsi. E l'ospedale diventò quindi un monastero, un convento, e lei una dama solitaria afflitta da un'immensa pena che i monaci avevano accolto per consentirle di compiere il suo viaggio intcriore in una quiete claustrale. Sulla terrazza sceglieva sempre una certa panchina, dove andava a sedersi tutti i pomeriggi, con meticolosa puntualità, fra le tre e le quattro. A volte una paziente o un'infermiera le facevano compagnia, ma spesso era sola. Fra i pazienti al lavoro in giardino, o nelle terrazze inferiori, quella figura col cappotto sulle spalle, seduta a fumare e a contemplare tran-

quillamente il paesaggio, non passava inosservata. Uno di loro, un ragazzo con una zazzera di capelli neri, ogni volta che smetteva per un attimo di zappare ne approfittava per voltarsi, non verso il panorama, ma verso l'alto, dove la donna vestita di scuro sedeva sola, assorta nei suoi pensieri, un giorno dopo l'altro, fra le tre e le quattro del pomeriggio. Quando me lo riferirono presi subito la cosa molto sul serio. Nessuno doveva disturbare Stella durante il difficile periodo della convalescenza, e meno di tutti questo giovane psicopatico coi capelli neri, un certo Rodney Mariner. Uno dei miei. Lo feci immediatamente rimuovere dalla squadra di lavoro, gli revocai la semilibertà e lo trasferii nel reparto agitati. Era una misura puramente precauzionale. A quanto pareva avremmo avuto un'altra estate calda. Le giornate erano limpide e senza vento, e nelle lunghe sere tiepide si respirava la fragranza della prima fioritura. Mi sorpresi a pensare che solo un anno prima Stella passeggiava su quella stessa terrazza con Max e me dopo il ballo. Sembrava fosse trascorsa una vita. Mi chiedevo come Stella reagisse a immagini, suoni, tutto ciò che non poteva non ricordarle l'estate scorsa, e la sorvegliavo di continuo, alla ricerca dei segni di un'irrequietezza insolita. Ma diventava sempre più chiaro che ormai Edgar non era più al centro dei suoi pensieri; ne ebbi conferma scoprendo la presenza di un nuovo intruso psichico. Durante una seduta Stella mi disse infatti di soffrire, da qualche tempo, di emicranie notturne, che immancabilmente facevano seguito a sogni tanto nebulosi quanto terrificanti. Da quei sogni, spesso, si svegliava di soprassalto. Al buio, seduta sul letto, continuava a rivedere quelle immagini, e per qualche attimo pensava con terrore di non avere scampo. Per fortuna il sogno svaniva quasi subito, tornando nella zona oscura da cui era emerso, e l'unica, fievole traccia del suo passaggio nella mente addormentata di Stella era una forte pulsazione alle tempie. Ma prima, per pochi ma interminabili secondi, nella testa di Stella risuonavano delle grida. Non si trattava di uno sviluppo sorprendente, anzi, in un certo senso era proprio quello che stavo aspettando. E tuttavia, notando la serietà con cui ascoltavo il suo racconto, Stella cercò di minimizzare, dicendomi che era solo uno stupido incubo, le bastavano due compresse di aspirina per il mal di testa. Delle grida Stella non era in grado di dirmi nulla, ma essendo praticamente certo di trovarmi di fronte all'insorgere di quel senso di colpa che finora lei aveva così efficacemente rimosso sapevo benissimo che cos'erano: erano le grida di un bambino che annegava.

Dunque la guarigione era davvero cominciata: Stella si stava liberando di Edgar e cominciava ad affrontare la morte di Charlie. Adesso non rimaneva che elaborare il senso di colpa. Confidavo che sarebbe stato un processo doloroso ma diretto, e relativamente rapido, almeno nella fase iniziale e più acuta. Passata quella, non avrebbe più avuto senso tenerla qui, perché non poteva più essere considerata un reale pericolo per la società. Era quindi tempo che io pensassi al suo futuro, a cosa Stella avrebbe fatto di lì a un mese, quando fosse stata abbastanza bene da lasciare l'ospedale. In particolare, bisognava decidere chi si sarebbe occupato di lei. Qualche giorno dopo andai nel Galles per discutere i miei progetti con Max. Poveretto, non aveva nessuna voglia di vedermi, né che io vedessi come si era ridotto. Lavorava ancora all'ospedale di Cledwyn, e viveva sempre dai Williams, ma avevo la sensazione che fosse diventato una specie di recluso. Arrivai a Plas Mold nel primo pomeriggio. La casa, il cortile, i campi erano esattamente come me li aveva descritti Stella; il cane abbaiava, il tanfo di concime appestava l'aria. Avevo sperato di vedere, magari di sfuggita, Trevor Williams, ma di quel dongiovanni rusticano e di sua moglie non c'era traccia. Max ciabattò fuori in camicia e bretelle, invitandomi a entrare. Era magro come un chiodo, l'ombra di se stesso. Attraversammo la cucina immacolata e salimmo nel soggiorno, che adesso era diventato il suo studio. Max mi propose uno sherry. La stanza era a dir poco austera. Niente quadri, niente radio, niente televisione, solo una poltrona, qualche scaffale di libri, e una scrivania con la vista sulla vallata. Mentre Max riempiva i bicchieri mi avvicinai alla finestra. Non era il panorama a interessarmi, ma le foto incorniciate che Max teneva sulla scrivania. Erano quasi tutti ritratti di Charlie, in un paio dei quali compariva anche lui. Ne sollevai uno alla luce. Max si materializzò al mio fianco porgendomi il bicchiere, e guardammo insieme suo figlio. Mormorai la cosa più ovvia, e cioè che non vedevo foto di Stella. Con un sospiro, Max mi fece cenno di accomodarmi in poltrona. Poi girò la sedia della scrivania in modo che fossimo l'uno di fronte all'altro. «No,» disse «niente foto di Stella». Tanto valeva arrivare subito al dunque, e gli esposi il motivo della mia visita. Fu sorpreso, ma non più di tanto. Purtroppo, ogni manicomio di provincia ha il suo Max - un uomo dalla vita distrutta -, quindi conosco bene il tipo, e in particolare so come reagiscono quasi tutti gli psichiatri al-

le tragedie personali: si lasciano affascinare dalla loro stessa sofferenza. Sul lavoro rimangono gli stessi di prima, competenti e a volte persino energici, ma dentro sono come piegati dal peso apparentemente immane dell'esperienza, sia loro sia dei pazienti. Perdono ogni traccia di naturalezza e di umorismo, e affrontano le patologie con una sensibilità troppo acuta per conservare un minimo di distanza da ciò che vedono e sentono ogni giorno in ospedale. Cancellando il confine tra salute e malattia, prendono su di sé, come Cristo, le sofferenze dell'umanità. Si tengono alla larga dalla vita, e spesso si dedicano a letture filosofiche, in genere misticheggianti. Max era così. Immagino che Stella si trovi bene da voi, mi disse con voce lugubre. Gli tracciai a grandi linee il quadro clinico. Annuì ripetutamente, prima di sprofondare di nuovo in un silenzio cupo. «Credo che dovresti essere molto prudente» disse alla fine. Per i casi disperati come Max, la prudenza diventa spesso un valore assoluto. «Prudente?» dissi. «Non sono nella posizione di darti dei consigli» disse con impercettibile, plumbea ironia. «Dopotutto sei tu il medico curante. Io sono solo...» un breve colpo di tosse «il marito». Aspettai che aggiungesse qualcosa. Parlava a fatica. Probabilmente non gli rimane molto da vivere, pensai. Mi chiesi se non avesse un cancro. «Il punto è che lo ha fatto entrare in casa lei, capisci?». Non dissi nulla. Pensavo solo che se fosse stato un mio paziente gli avrei prescritto degli antidepressivi. «Stella dovrebbe essere in prigione» continuò. «Io credo che tu sia ancora molto in collera con lei, e del resto non potrebbe essere altrimenti». «Non usare quel tono condiscendente con me, Peter. Guarda che so di cosa sto parlando. Ma ognuno per sé, immagino». Un altro colpo di quella brutta tosse secca. «Esattamente». «Hai la mia benedizione. Ma voglio metterti in guardia». Un'altra pausa sofferta. «Da cosa?». «Dalla perfidia. Dalla menzogna». Sembrava un gesuita. Ma avevo sentito quello che volevo sentire. Mormorai qualche banalità, poi mi alzai. Max si tolse gli occhiali e cominciò a pulirseli col fazzoletto. «Comunque, tutto questo è secondario, vero?» disse. «Tu vuoi arrivare a Stark».

«Li ho in cura entrambi». Mi lanciò uno sguardo acuto, ma non aggiunse altro. Poi mi accompagnò fuori. C'era molto vento. Max si infilò le mani in tasca e rabbrividì. Quindi, guardando il cielo, mi disse: «Con la vergogna bisogna lottare ogni giorno. Ma la cosa più difficile è assumersi le proprie responsabilità». Quando mi allontanai era ancora lì, con le mani in tasca, a guardare il cielo. Cosa gli fosse successo era evidente; aveva rivolto le proprie tendenze punitive contro di sé, e si stava condannando a morte a poco a poco. Non aveva più alcun interesse reale per Stella. Al nostro incontro successivo dissi a Stella di essere talmente soddisfatto dei suoi progressi che avrei chiesto l'autorizzazione per il suo rilascio; non subito, naturalmente, ma in un futuro non lontano. La sua reazione fu cauta: sollievo, sì, ma temperato dal dolore. Ormai parlavamo come due vecchi amici. Un giorno le annunciai che non c'era più bisogno di incontrarci nel padiglione, e l'indomani la feci accompagnare nel mio ufficio in Direzione. Non aveva più senso tenerla ancora all'oscuro delle mie intenzioni. Quando arrivò le andai incontro e dissi all'infermiera di tornare un'ora dopo. L'ufficio del direttore è il più bello dell'ospedale: è una stanza molto ampia, col soffitto alto, tutta legno lucido e cuoio stagionato nei toni del nero, del marrone e del sangue di bue. Più che l'ufficio di un ospedale, sembra il salone di un club. Da un lato c'è il tavolo delle riunioni, dall'altro una grande scrivania, dietro la quale la vista spazia sulle terrazze e la campagna a perdita d'occhio. Stella fece un giro per la stanza, dicendo che ci si sentiva la mano di un uomo. Sui pannelli di legno scuro c'erano dipinti e stampe. Alcuni appartenevano all'ospedale, ma la maggior parte proveniva dalla mia collezione. Notò diversi quadri che conosceva per averli visti in casa mia, e ci si mise davanti come se stesse riabituandosi a dei vecchi amici. «Questo te lo ricordi» le mormorai avvicinandomi per indicarle una piccola natura morta italiana che le era sempre piaciuta. «Oh, certo» rispose. Curiosando nella libreria trovò, vicino ai soliti testi di psichiatria, diversi scaffali di letteratura. Tirò fuori un volume di poesia, e lo stava sfogliando quando udì un tintinnio familiare di cui aveva sentito molto la mancanza nelle ultime settimane. Voltandosi mi vide appoggiare sulla scrivania una bottiglia di gin e un paio di bicchieri.

«Vuoi bere qualcosa?». Se ne stava lì con il libro in mano a rigirarsi la mia domanda nella testa come un vino d'annata. Era una domanda da degustare senza fretta. Sorrise. «Ti va un gin tonic?» le chiesi. «Io lo prendo sempre, a quest'ora». «Sì, mi va, molto, Peter». «Bene». Sorvolammo entrambi sull'opportunità di offrire alcolici a un paziente. Ci comportammo come fosse tutto normalissimo. Una bella coppia che beve un aperitivo a metà pomeriggio. «Siediti pure, Stella» le dissi indicando le comode poltroncine con l'imbottitura di cuoio rossiccio, sistemate a semicerchio intorno alla scrivania. Stella ne scelse una, e io quella vicina. Poi ci mettemmo a guardare il cielo immenso, ammantato di nubi candide. Un attimo dopo suonò il telefono, e fui costretto ad accettare un appuntamento di lì a un'ora. Tornai a sedermi piuttosto nervoso. «Avrei dovuto rifiutare l'incarico» dissi. «Non fa per me». «In effetti non so se ti ci vedo» rispose Stella. «E non mi riesce granché bene». «No, per questo sono sicura che te la cavi egregiamente, ma con tutte queste grane burocratiche non ti rimane abbastanza tempo da dedicare al tuo vero mestiere. Ed è un peccato, sai. Lì sei proprio brava». «In ogni caso, ho in mente di andare in pensione». «Peter!». «Che c'è di strano? Non sono ancora così decrepito da non potermi mettere a scrivere, ad esempio. Oppure potrei occuparmi del mio giardino, che sta diventando una vera steppa. Perché no?». «Ma quando ti sei candidato per il posto lo avrai fatto a ragion veduta, no?». Stella cominciava a capire che tutto questo portava a qualcosa; probabilmente, a un colpo di scena. «Oh, era evidente che il mio sarebbe stato solo un interregno. Tutti pensavano che sarebbe stato Max a prendere il posto di Jack. Era la scelta più ovvia». Una pausa. Stella non disse nulla. «Ma le cose sono andate altrimenti» mi affrettai ad aggiungere. «E così mi hanno chiesto di restare finché non si trovava qualcuno per un incarico a lungo termine. Adesso di tempo ne hanno avuto. Se rimango ancora que-

st'ansia diventerà cronica. Pensi mai a Max?». Era dispostissima a parlarne. Mi disse che rimpiangeva che Max non si fosse aperto con lei, dopo Edgar, che non le avesse detto cosa provava. Se non avesse agito in malafede, forse avrebbero potuto rendere l'atmosfera più respirabile, trovare il modo di convivere. E forse Charlie... Una pausa. Abbassò la testa e si rinchiuse nel silenzio. Da parte mia, un sospiro comprensivo. Era una bella giornata, c'era un tiepido sole primaverile, e dalla finestra aperta entrava un soffio di brezza. Un gruppo di pazienti coi calzoni gialli, la giacca sulle spalle e gli scarponi da lavoro attraversò la terrazza. L'eco attutito delle loro voci arrivò fino a noi. L'orologio a muro ticchettava. Rimasi passivo, in ascolto. «Continua» mormorai dopo qualche tempo. «Oh, adesso non so dirti cosa provo per lui. Vorrei non averlo mai conosciuto. Hai parlato con Brenda?». «Sì». «E come sta?». «Ancora molto scossa, come puoi immaginare. Il suo medico la tiene sotto osservazione». «Quanto deve odiarmi». «Non credo. Soprawiverà, come sopravviverai tu. La tragedia è un aspetto della vita meno raro di quanto a volte si creda». Fece un sorrisetto stentato. «Mi fa piacere che le prospettive non siano poi così fosche». Da quel sorrisetto capii che era arrivato il momento di parlare. Io ho superato i sessanta e presto andrò in pensione. Se sono fortunato mi restano una quindicina d'anni, e non intendo passarli da solo. Da qualche tempo mi ero messo in testa che una volta uscita dall'ospedale Stella avrebbe potuto venire a vivere con me. Dal mio punto di vista era una sistemazione molto vantaggiosa. Stella era una donna colta e bellissima. Capiva il mio modo di vivere, e lo avrebbe trovato congeniale. Arte, viaggi, giardinaggio e libri erano interessi comuni. Stella avrebbe portato un soffio di luce e di grazia nella mia casa tranquilla e nella mia vita austera. Era perfetta per quelle stanze sontuose, che mi sentivo pronto a dividere con lei. Avremmo parlato, sarei arrivato a conoscerla. A capire la sua storia con Edgar. E lei, in me, avrebbe trovato conforto. Sicurezza. Sarei stato il suo angelo custode. «... custode?».

Era stupefatta. Scattò in piedi, attraversò tutta la stanza, e si mise a guardarmi appoggiata alla parete più lontana. Io ero ancora seduto e le davo le spalle, lo sguardo sul panorama. Nel caos in cui era precipitata, Stella si aggrappò all'unico dato inoppugnabile. «Ma io sono ancora sposata con Max!». Adesso mi girai. «Sono stato a trovarlo» dissi. «Non si opporrà». «Veramente?». Annuii. All'improvviso, Stella sembrò trovare tutto esilarante. Una proposta di matrimonio dal direttore dell'ospedale, col consenso di suo marito. Che razza di pomeriggio. Si sentiva come una partita di femminilità danneggiata, ma tutto sommato riutilizzabile, che passava dal vecchio proprietario al nuovo dopo essere stata messa per qualche tempo in magazzino. Si coprì la bocca con la mano e mi guardò, mentre una risata silenziosa le scuoteva le spalle. Non smise finché non la riaccompagnai alla poltrona, dove mi si aggrappò alla giacca affondandomi la faccia nella spalla. Dopo qualche attimo riprese il controllo. Lasciò andare la giacca e usò il fazzoletto che avevo estratto dal taschino. Si riaggiustò i capelli, poi prese il bicchiere. «Devo fare spavento. Per favore, non darmi sedativi». «Non vuoi niente?». «Non ne ho bisogno». Tirò fuori portacipria e rossetto nel tentativo di riparare il danno. «Devo dire» mormorò controllandosi nello specchietto «che hai un modo insolito di comunicare le brutte notizie». «Qual è la brutta notizia?». «Max. Max che non si oppone». Nelle sue parole c'era una pesante ironia. «So che non mi ami,» le dissi «ma penso che tu abbia bisogno di me, almeno in questo momento. E sono pronto a scommettere che col tempo le cose cambieranno. Che non proverai più solo affetto». Un altro silenzio. Sentivo la sua compassione. Poveraccio, pensava. Accennò un sorriso. Non mi stava prendendo del tutto sul serio, ma cercava di non darlo a vedere. Rigirava il bicchiere fra le dita, guardandolo tra le palpebre socchiuse. Un raggio di sole batteva sul cristallo, rifrangendosi in minuscoli barbagli. Stella inarcò le sopracciglia. Sapeva che la stavo osservando. «Tu sei un uomo molto appassionato, Peter?» mormorò.

«Penso sia una cosa che potremo scoprire insieme, noi due» risposi a bassa voce. Accentuai appena il «noi». Le stavo dicendo che sarebbe dipeso solo da lei. Questo la scosse dalla sua fantasticheria. «Che cosa?». «Riesci a immaginarlo, allora?» le chiesi. Tornò alla libreria e fece scorrere un dito sui dorsi. Sono l'Addolorata, diceva la sua schiena, sono un'acqua scura, sono dolore, la mia anima è lacera, sanguina, toccherai la mia ferita? Un attimo di silenzio. Non lo farà, si disse, non mi dissezionerà proprio qui, proprio ora; e infatti non lo feci. La lasciai tornare in silenzio alla poltrona. Alla fine parlò lei. «Prendi sotto la tua ala un bel caso disperato». «Oh, io sono un mago, sai». «Se ti sposassi...». Oh, e la mia faccia, mi disse, si riempì immediatamente di tenerezza. Che cosa meravigliosa era quella tenerezza, e quanto bene le fece! Con un sorriso cercò la mia mano, che era poggiata sulla scrivania; e i suoi occhi cercarono il mio viso, assorbendo fino all'ultima stilla il sentimento che aveva suscitato in me. «E quando pensavi...?». «A luglio». «Non qui, vero?». Scossi la testa. «Una cosa tranquilla?». «Sì, una cosa tranquilla». Adesso mi guardava con un'espressione che diceva, magari fosse così semplice. Le lessi nel pensiero. «Sarà semplicissimo». Mi strinse la mano. «Caro Peter» disse, anche se in realtà credo continuasse a pensare povero Peter. Si lasciò ricadere in poltrona. «Ora vorrei tornare in camera» disse. «Certo». L'Addolorata riprese la vita di sempre, senza rivelare a nessuno la stupefacente proposta del direttore. Era stata sul punto di dirlo alle sue compagne, tanto per vedere come l'avrebbero presa, ma in fondo lo sapeva già. Ti ha chiesto di sposarlo? Ma come no, tesoro. E io sono la sposa di Cristo. Sulle prime la mia proposta l'aveva quasi divertita, ma sapevo che presto

avrebbe cominciato a fare i suoi conti, arrivando fatalmente alla conclusione che sposare me sarebbe stata la scelta migliore. La stavo sottoponendo a un peso notevole, come non ne avesse già abbastanza di suo, ma ero convinto che ormai fosse abbastanza forte da reggerlo. Riuscii anche, senza troppo sforzo, a superare la sua reticenza riguardo ai sogni. Sapevo che solo parlandomene sarebbe riuscita ad alleviare, almeno in parte, il suo lancinante senso di colpa. Naturalmente il bambino che gridava era Charlie. Sentiva, mi disse, delle forze dentro di lei che cercavano di difenderla da lui, ma Charlie era troppo forte, e alla fine, nonostante tutto, riusciva a passare. Stella si alzava a sedere sul letto, la faccia tra le mani, e sentiva la mente che si snebbiava, ma non abbastanza in fretta da non mostrarle l'immagine di Charlie che sfumava a poco a poco. Il peggiore di tutti era un sogno ricorrente in cui lui la fissava, e con la vocina e la buffa espressione di quando voleva parlare sul serio diceva: «Mami, non vedi che sto annegando?». Ah, quelle parole! Risuonavano ancora al risveglio, quando Stella entrava nella routine della vita ospedaliera, e si lavava e si vestiva e andava in mensa con le altre. Le prime ore del mattino, mi disse, erano il momento più duro della giornata. Doveva mantenere un contegno, fingere serenità, e intanto lottare per non soccombere a quell'atroce vocina che non faceva che ripetere, Mami, non vedi che sto annegando? Mami, non vedi che sto annegando? Certo tesoro, certo che lo vedo, sto venendo ad aiutarti, non aver paura, amore, mamma ti aiuterà, mamma non ti lascerà annegare! urlava Stella, ma a chi? chi mai poteva sentirla? Nessuno; la sua voce echeggiava sotto una volta piena di ombre, e non c'era nessuno a risponderle, nessuna presenza amica usciva dal buio per prenderle la mano, e rassicurarla, e dirle che andava tutto bene, era stato solo un sogno. E anche da sveglia non cambiava niente, perché non era stato solo un sogno. Charlie era morto, ma continuava a vivere in lei, e urlava, urlava dal terrore, perché non capiva come mai la mamma non lo aiutava. Raccontarmi questo l'aveva sconvolta, e cercai di tranquillizzarla. Non è il primo caso che vedo, le dissi. Charlie è morto, e noi non possiamo riportarlo indietro, ma io ti posso aiutare. Posso alleviare il tuo dolore. Non sei più sola. Stella mi confessò che ora andare a dormire le faceva paura, era come scendere in una cantina dove sapeva che avrebbe trovato solo orrore. Ecco cos'era diventata la notte, per lei: un viaggio nell'orrore. L'ombra si allungava, svaniva sempre più tardi, impregnava le prime ore del giorno col suo fetido retrogusto psichico...

Oh, il suo fu un gioco davvero astuto, niente da dire. Al mattino non la vedevo mai, ero troppo preso dai miei infiniti impegni burocratici; cominciavo le sedute coi pazienti, lei compresa, solo nel pomeriggio, e a quel punto, mi diceva, la voce era svanita, e il suo equilibrio molto meno precario. Di fatto riuscivamo a parlare di Charlie con più calma, e Stella sdrammatizzava, e mi lasciava abbondantemente vedere che stava sdrammatizzando prima di passare ad argomenti più piacevoli, ad esempio il nostro matrimonio. Il nostro matrimonio: era chiaramente un'idea che continuava a divertirla, e tutte le volte che vi accennavo rideva come di una battuta particolarmente spiritosa. Le battute, almeno prima, avevano avuto un ruolo importante nella nostra amicizia. E questa, anche se io sembravo non considerarla tale, era la più divertente di tutte. Stella aveva sempre creduto che io fossi omosessuale, lo sapevo bene. Be', doveva pensare adesso, magari lo è, magari più che un matrimonio nel vero senso della parola Peter mi sta proponendo una sistemazione con risvolti terapeutici. Si immaginava la mia casa e il mio giardino, e credo che senza neppure accorgersene cominciasse ad anelare di andarvi, perché significavano tutto ciò di cui, in fondo, aveva bisogno: pace, eleganza, comodità. D'improvviso sentiva di volere disperatamente la vita che le avevo offerto. Adesso la mia unica preoccupazione era che cambiasse idea. Per la prima volta da anni mi sorpresi a provare un filo di insicurezza. Immaginavo Stella pensare: tutti i giorni Peter. Peter a colazione, a pranzo e a cena. Io e lui sotto lo stesso tetto, a condividere le stesse stanze, tutti i giorni che dio manda in terra. Ma subito mi rassicuravo. Non poteva non rendersi conto, pensavo, che la vita con me sarebbe stata sotto il segno del divertimento colto e sofisticato. Sapeva di non dover temere la sinistra scoperta di laide abitudini, piccole crudeltà, durezze impreviste. Sapeva che sono una persona civile. Sì, poteva vivere con me. Ma sapeva un po' meno come sarebbe stato venire a letto con me. Questo era un campo che riservava immancabilmente sorprese, e di rado piacevoli... Riuscì a farmi credere che avrebbe potuto essere all'altezza delle mie aspettative, riuscì a farmi credere che mi avrebbe fatto felice, conquistando al tempo stesso, per sé, un minimo di serenità. Non sarebbe stato difficile, visto il tipo di uomo che ero e anche, perché no, quello che possedevo. Il benessere rende tutto meno degradante, mi disse. Avevamo visto entrambi che cosa succedeva in un ambiente squallido: oh, l'amore ardeva, certo, ma di un fuoco tremolante, sempre sul punto di spegnersi. Un amore come

quello che Stella aveva vissuto non avrebbe mai trovato posto nel tipo di vita che contemplavamo, era un inferno in confronto al raffinato tepore che noi due intendevamo tener vivo. Credevo pensassimo entrambi che quelle emozioni violente tendono, per loro natura, a divampare senza freni per poi estinguersi dopo aver divorato ciò che le aveva alimentate. In ogni caso tutto questo, ormai, era finito. O comunque Stella riuscì a farmelo credere. Quando mi chiese di aumentarle la dose di sonnifero le risposi che sarebbe stata molto meglio senza sedativi, e che continuando a rimuovere i sogni avrebbe bloccato un materiale inconscio di cui aveva invece assoluto bisogno per elaborare la morte di Charlie. Stella si spaventò moltissimo, tanto da arrivare sul punto di gridarmi: «Non c'è niente di rimosso!», ma ricacciò il grido in gola. Disse invece che siccome di giorno i ricordi non la abbandonavano neppure per un attimo, sperava le venisse concessa una tregua almeno durante il sonno. «Come vuoi» le risposi. Non insistetti su quel tasto, non la forzai. Purtroppo non detti neppure molto peso alla richiesta, e naturalmente avrei dovuto. In tutto questo, infatti, un dato mi sfuggì, e cioè quanto le costasse recitare, attanagliata com'era da un dolore implacabile, che non le dava tregua, e di cui io, concentrato solo ed esclusivamente sul senso di colpa, non colsi la vera natura. Decisi di non aumentarle i sonniferi. Le dissi che la dose era già abbastanza alta. Non la vidi per parecchi giorni. A luglio, le avevo detto; adesso eravamo alla fine di maggio. Mancavano ancora cinque o sei settimane. Le giornate di Stella erano sempre le stesse: ogni mattina si vestiva con estrema cura, passava a prendere un libro in biblioteca, se lo portava nella sala comune e si metteva a leggere vicino alla finestra, a meno che una delle altre non attaccasse discorso. Rimaneva distante, composta, gentile, triste. Una paziente che sta per uscire viene trattata da tutti in un modo molto particolare. Intorno a questo strano ibrido - non più una malata, non ancora una donna libera -, finisce sempre per crearsi un'aura di pacata celebrazione, perché una paziente che esce è motivo di vanto per il personale e di speranza per le sue compagne. Stella era in ospedale da poco, ma aveva sempre cercato di conservare la sua dignità, guadagnandosi così il rispetto generale. Le altre le facevano gli auguri, e quando le chiedevano dei suoi progetti lei rispondeva che avrebbe vissuto a Londra con la famiglia di sua sorella. E se anche qualcuno si era chiesto perché nessun membro di quella famiglia fosse mai venuto a trovarla, aveva tenuto quel dubbio per sé. Stel-

la, dal canto suo, non mi domandò nulla sull'autorizzazione necessaria al nostro matrimonio. Ogni pomeriggio me la portavano in ufficio, e in quella stanza grande e confortevole passavamo un'ora a discutere dei nostri progetti, passati nel frattempo da un matrimonio in forma strettamente privata a un viaggio di nozze in Italia, dove intendevo mostrarle Firenze, che conoscevo bene, e Venezia, che conoscevo meno. Avevamo deciso di partire a fine settembre, quando fa meno caldo e i turisti sono tornati a casa. Poi avremmo cominciato la nostra convivenza, o meglio la nostra rarefatta comunione spirituale. Un pomeriggio le dissi di non condividere l'opinione corrente secondo cui il matrimonio risolve il problema del sesso: per me il matrimonio, o almeno il matrimonio come lo intendevamo noi, risolve il problema della conversazione. Ma Stella come vedeva la prospettiva di un matrimonio fondato sull'amicizia? Sembrava anche a lei che avrebbe risolto il problema della conversazione? Io credevo di sì, credevo che a questo pensasse quando sedeva sulla sua panchina, vestita di scuro, con quell'aria di malinconica rassegnazione, perduta nei calcoli del suo cuore. Non trascuravo affatto l'ospedale. Al mattino partecipavo alle riunioni e sbrigavo le pratiche, nel pomeriggio mi occupavo dei casi che seguivo di persona. Visto che stavo per andare in pensione, volevo preparare i pazienti alla mia partenza. Solo uno di loro mi dava qualche serio motivo di preoccupazione: Edgar (che ovviamente era da noi: dove altro avrebbe potuto andare?). Era qui da subito dopo la sua cattura a Chester. Mi restava ancora un punto da chiarire, e cioè se avesse seguito Stella per portarla via o per ucciderla. Lo tenevo in una stanza all'ultimo piano, in isolamento, ma non era, come potrebbe sembrare, una misura punitiva. Non sappiamo ancora molto circa i suoi spostamenti dopo la fuga di Stella da Horsey Street, ma spero che presto avremo qualche dettaglio in più. Di sicuro Edgar aveva passato altri tre giorni nel sottotetto, lavorando senza interruzioni alla testa. Il quarto giorno pareva che qualcuno, non è ben chiaro chi, fosse venuto a dirgli che la polizia era sulle sue tracce. Edgar aveva cacciato in una sacca qualche vestito e un paio di libri ed era scappato qualche minuto prima dell'arrivo dei poliziotti e, per colmo di ironia, del ritorno di Stella. I poliziotti avevano posto sotto sequestro l'intero contenuto dello studio, e in seguito mi avevano convocato chiedendomi di aiutarli a capire se in mezzo a tutta quella roba ci fosse qualche indizio

utile per rintracciare il mio paziente. Mi erano parsi interessanti soprattutto i lavori che Edgar aveva fatto nei giorni della convivenza con Stella, cioè i disegni e, naturalmente, la testa. Aveva lasciato tutto lì. Dopo la fuga Edgar era letteralmente scomparso, risucchiato, riteniamo, dal sottobosco di artisti e delinquenti che lo aveva nascosto e mantenuto nelle settimane successive. Eravamo convinti che si spostasse in continuazione da uno studio all'altro, da un appartamento all'altro, e a me sembrava quasi di vederlo, un omone barbuto col giubbotto, il bavero rialzato e il berretto sugli occhi, che si presentava alla porta degli amici nel cuore della notte chiedendo ospitalità; verosimilmente, con una certa apprensione da parte delle loro mogli. Ci era giunta una segnalazione dalla Cornovaglia, dove pareva vivesse in un cottage in riva al mare; ma secondo me non si era mai allontanato da Londra, che conosceva come le sue tasche, almeno fino a quando non aveva deciso di andare da Stella. Quanto a Nick, fu fermato per un interrogatorio e rilasciato su cauzione. Era figlio di un giudice. Edgar era stato riammesso in ospedale in aprile, e da allora si era sempre rifiutato di parlarmi. Fosse stato per me non lo avrei certo tenuto a languire in isolamento, ma non mi dava scelta. Francamente, era una bella seccatura. Prima di affidarlo a qualcun altro mi serviva un profilo psichiatrico completo, in base al quale consigliare al mio successore una strategia terapeutica. Sapevo che alla fine avrebbe ceduto, avevo avuto a che fare con tipi anche più duri di lui; e in genere bastava aspettare. Ma adesso non avevo tempo. Così provai a dirgli, senza particolari precauzioni, del mio fidanzamento con Stella. Fui brutale, e anche aggressivo. Volevo costringerlo a reagire. Eravamo in una stanzetta del suo reparto, una cella nuda con le pareti dipinte di verde, un'unica finestra con le sbarre, un tavolo massiccio tutto ammaccato e un paio di seggiole di legno. Edgar era chino sul tavolo, dove faceva rotolare pigramente una sigaretta avanti e indietro. Portava la divisa grigia dell'ospedale, ma senza cintura e senza stringhe. Gli avevano tagliato i capelli e la barba. Era dimagrito di qualche chilo, e sembrava meno sicuro, più giovane, e stranamente vulnerabile. Non era l'Edgar arrogante che conoscevo: quello che avevo davanti era un uomo ombroso, debole e infantile. Lo osservavo attentamente. Aspettavo che ricominciasse a parlarmi, ma non solo: volevo saperne di più dei suoi attuali sentimenti per Stella, e chiarire una volta per tutte per quale ragione l'avesse seguita fino a Chester. Si mise lentamente a sedere, e vidi le emozioni - risentimento, ironia, incredulità - passargli sul viso come una folata di vento sull'acqua.

«Sta scherzando?». Erano le prime parole che mi rivolgeva dal suo ritorno. «No» dissi. Ma non ero ancora riuscito ad agganciarlo. «Che effetto le fa?» gli chiesi. Alzò le spalle, scuotendo leggermente la testa. Lo vedevo lottare con se stesso. «Ho saputo quello che è successo nel Galles» disse. Lasciai trascorrere qualche istante in silenzio. Poi ripresi: «Penso che Stella si meriti un po' di felicità, dopo quello che ha passato» dissi. «Non crede?». Una smorfia sardonica. «Rispondi alla domanda, Edgar». A questo punto abboccò. «No, rispondi tu alla domanda, Peter. E la domanda è: cosa ci trova Stella in una vecchia checca come te?». Tentai di celare la mia soddisfazione. «Non lo sopporti, vero? Non sopporti l'idea che lei possa amare qualcun altro». «Stella vuole solo uscire da qui». Tacqui un momento. Naturalmente ci avevo pensato anch'io. «E così la ami ancora» ripresi. «Stella è... è un animale». Questo non me lo aspettavo. «In che senso?» mormorai. «Tu non la conosci affatto, vero?» disse. «E tu?». Non mi rispose. Tornò a chinarsi, evitando il mio sguardo e fissando la sigaretta spenta che continuava a far rotolare sul tavolo. «Devo ricordarti cosa fai alle donne quando credi di conoscerle?» gli chiesi. Ero seduto al tavolo, davanti a quell'assassino, e lo vidi irrigidirsi e lasciar perdere la sigaretta. Ad ogni buon conto, in caso di aggressione c'era un infermiere dietro la porta. Edgar aveva tagliato la testa di Ruth e l'aveva infilzata sul suo cavalietto. Poi ci aveva lavorato sopra con gli strumenti come fosse un blocco di argilla umida. Per prima cosa le aveva cavato gli occhi. Un poliziotto mi aveva detto che era stato come entrare in una macelleria. Senza i denti, e qualche ciocca di capelli fradici, non avrebbero nemmeno capito che cos'e-

ra. Avrebbe potuto essere Stella. C'era mancato un soffio. Quella sera, appena in ospedale fu tutto tranquillo, tornai in ufficio per ripensare al nostro colloquio. Edgar si era mostrato cinico e sprezzante nei confronti di Stella, ma non mi aveva convinto. Era un uomo complicato, e ora più che mai attento a tenere nascosto il suo vero stato d'animo. Ritenevo possibilissimo che desse a Stella dell'animale, considerandola invece una dea; dopotutto non aveva alcuna ragione per essere onesto con me, se si considera che io non solo ero padrone del suo destino, ma stavo anche per sposare la donna che un tempo aveva amato, e che forse, a suo modo, amava ancora. Ma se l'amava ancora mi avrebbe detto che era un animale? Se il suo intento era quello di distruggere l'immagine che avevo di lei, sostituendola con una di sua invenzione, sì. Il pomeriggio successivo tornai al reparto. Prima che lo portassero giù scambiai due parole con l'infermiere, dal quale appresi, con un certo stupore, che Edgar aveva trascorso una notte tranquilla. Mi sarei aspettato che sfasciasse la stanza, o che saltasse addosso a qualcuno in corridoio, ma non aveva fatto niente di particolare, tanto che per un attimo mi chiesi se davvero non gli importasse più niente di Stella. Ma no, l'istinto mi diceva che gliene importava, e molto. Che nell'economia psichica amore e odio coesistano strettamente è a dir poco un luogo comune clinico. Quello che volevo sapere era verso quale polo Edgar gravitasse, e fino a che punto i suoi sentimenti fossero patologici. Gli andai incontro all'uscita del reparto. Era sempre in divisa grigia, e qualcuno gli aveva fatto la barba. Non un professionista, evidentemente, visto che sulla sua guancia coriacea c'era un taglietto con un po' di sangue raggrumato. Aveva lo stesso atteggiamento distaccato del giorno prima. Quando rimanemmo soli gli offrii una sigaretta, che si infilò sopra l'orecchio. Andai dritto al sodo. «Perché è un animale?». «Cosa mi stai chiedendo, perché lo è, o come faccio io a sapere che lo è?». «Come fai tu a sapere che lo è». Mi guardò dritto negli occhi. Dietro il suo sguardo vedevo ribollire un tumulto di pensieri, malati e no. Ne affiorò uno malato. «Dall'odore». Questa non l'avevo mai sentita.

«Quale odore?». «Quello degli animali in calore. Erano sempre in calore. E lei era così anche con me, nell'orto. Sempre in calore». «Erano chi?». «Lei e Nick». «Nick?». Stella mi aveva detto tutto di Nick. Ci era andata a letto una volta sola, in albergo. Adesso Edgar mi fissava con un'espressione di trionfante disgusto. Che cosa stava succedendo nella sua testa? Rimodellava senza neppure rendersene conto la sua esperienza per adattarla alle future produzioni ossessive? Non aveva forse fatto la stessa identica cosa con il ricordo di Ruth, non le aveva sovrapposto un comportamento promiscuo che in realtà lei non aveva mai tenuto? Ci scrutavamo a vicenda. «Non era la stessa cosa che dicevi di Ruth?». «No. Ruth era una puttana. Stella invece lo fa gratis, col primo che le capita». Non potei fare a meno di pensare, con una fitta di disagio, a Trevor Williams. Mi coprii la bocca con la mano e lo osservai per qualche secondo. La odiava. La odiava e stava male, peggio di prima, e mi dispiaceva moltissimo per lui, mi dispiaceva che tutti i suoi sentimenti per Stella fossero contaminati da questa immonda falsità. Uscendo dalla stanza lo sentii canticchiare tranquillamente fra sé. Poi, appena chiusi la porta, gridò: «Cleave!». Tornai indietro e rimasi ad aspettare, con la mano sulla porta. «Sì?». Si alzò in piedi, e pensai che stesse per aggredirmi. Ma la sua insolenza e il suo rancore si erano dissolti. Nella preghiera che mi rivolse con voce bassa e roca, e in tono assolutamente ragionevole, era rimasta solo una disperata sincerità. «Lasciamela vedere». Ero stupefatto. «Che male ci può essere? Solo cinque minuti». Era quasi riuscito a farmi credere che la odiava, ma alla fine aveva dovuto cambiar tattica. Guardando il povero essere spezzato che avevo davanti provai uno slancio di tenerezza: Edgar aveva bisogno di protezione e di aiuto, perché qualunque cosa Stella gli avesse dato, lui era troppo fragile per vivere senza. «No».

Intorno a lei non si parlava che del ballo, e tutti le chiedevano se ci sarebbe andata. La sola idea le dava i brividi. Da settimane cercava di costruirsi un'immagine accettabile, a dispetto dell'umiliante retrocessione da moglie di medico a paziente, e non era stato facile; spesso sentiva il velato disprezzo del personale e delle altre pazienti, che non le perdonavano il trattamento di favore di cui godeva. Il fatto che nessuno l'avesse apertamente insultata era dovuto solo, secondo lei, alla sua riuscita interpretazione dell'Addolorata; ma non le sembrava il caso di insistere su quella parte anche al ballo. Peraltro non era affatto sicura di riuscire a mantenere un comportamento dignitoso nel salone, dove la frattura della sua vita sarebbe stata esposta troppo brutalmente, e dove tutti avrebbero tratto la stessa conclusione, la stessa ovvia morale, e cioè che Stella era solo una donna perduta come tante, una creatura, a ben vedere, patetica. E lei questo non lo voleva. Ma poi cominciò il solito dilemma; la solita voce ulteriore le impose di considerare la delicatezza della sua posizione. Forse a me la sua assenza dal ballo sarebbe dispiaciuta. Dopotutto ero ancora il suo psichiatra. Poteva arrischiare un atto di trasgressione? Poteva permettersi di non venire? Non lo sapeva, e il solo pensiero la metteva in ansia. Oh, ma una donna che progetta un viaggio di nozze in Italia non vacilla alla prospettiva di un ballo d'ospedale. E pensò che questa era probabilmente l'ultima prova della sua breve carriera di paziente. Va bene, allora, l'avrebbe affrontata, avrebbe recitato per l'ultima volta l'Addolorata. Cominciò a prepararsi per quel cimento, concentrandosi sull'abito, la pettinatura, il trucco. Non avrebbe avuto l'aria della donna perduta, nemmeno se gli occhi di tutto l'ospedale fossero stati puntati su di lei. *** Secondo i miei calcoli fu quella notte, o tutt'al più la notte dopo, che Stella saltò la prima dose di farmaci. Invece di inghiottire le pillole le aveva tenute in mano, infilandole poi nella cucitura di un reggiseno che probabilmente aveva cacciato in fondo all'armadio. Dei pazienti in semilibertà tendiamo a fidarci; non pensiamo che facciano scherzi del genere con le medicine, ed è per questo che concediamo loro una certa privacy. Immagino Stella in camicia da notte, che guarda fuori dalla finestra la prima luce dell'alba scolpire la superficie dei mattoni. Doveva aver capito d'un tratto

che nulla sarebbe cambiato, che né la psichiatria né il trascorrere del tempo avrebbero cancellato la scena di quel mattino a Cledwyn Heath, la testa a pelo d'acqua, la mano che annaspava. Ma la testa di chi? La mano di chi? Le ombre in cortile si erano spostate. Stava sorgendo il sole. Mi resi immediatamente conto che qualcosa non andava, e stavolta non la presi alla leggera. Me l'avevano portata, come sempre, dal braccio femminile, e appena la porta si chiuse alle sue spalle cominciai a osservarla con estrema attenzione. «Che è successo?» le chiesi accompagnandola a una sedia, e prendendo posto vicino a lei. Non voleva destare il minimo sospetto. «Niente. Cosa può essere successo?». Riuscì persino a metterci una punta di ironia, come se mi stesse dicendo, lo sai anche tu che dove vivo io non succede mai niente. Ma non avevo nessuna voglia di ridere. Ero di nuovo il suo medico. «Hai un'aria che non mi piace. Brutti sogni?». Qualche giorno prima mi aveva detto che ora i sogni erano meno nitidi, e meno frequenti. «Mi sveglio presto, e non riesco a riaddormentarmi». «Non voglio aumentarti la dose. E penso che non lo voglia neanche tu, no? Non credo che ti piacerebbe rimanere intontita tutto il giorno». «La dose va benissimo, Peter, davvero. D'estate mi sveglio sempre presto. Nessuna novità per l'autorizzazione?». Sfogliai le carte che avevo sul tavolo. Mi ero accorto che stava cercando di cambiare discorso. «Forse si saprà qualcosa verso la fine della settimana». Sollevai lo sguardo. «Ci tengono sulla corda, vero cara?». «Be', un po' sì». «Comunque non preoccuparti. Se ci fosse qualche problema me lo avrebbero detto. Hai voglia di cominciare la tua nuova vita?». Mi posò la mano sul braccio. «Certo» disse. Guardai quella donna triste e bellissima e pensai a Max, a Max che ormai era un uomo finito, e sentii l'eco delle sue solenni parole: «perfidia, menzogna». Ma no, era assurdo, non ci volevo neppure pensare. Non diede mai problemi al personale del turno di notte. Stava ben attenta, perché al minimo incidente le infermiere si sarebbero accorte che non

prendeva i farmaci. Il suo corpo sdraiato non la tradì mai. Nessuna infermiera venne mai a svegliarla per una dose supplementare di sonniferi: doveva dare l'impressione di dormire della grossa. Di giorno l'Addolorata, di notte la Dormiente; in quegli ultimi giorni, o come probabilmente anche lei aveva cominciato a considerarli, nei giorni prima del ballo, recitava ininterrottamente; la sua fu una recita totale, senza neanche la possibilità di togliersi la maschera o di slacciarsi il costume per un momento. Le altre ormai non stavano più nella pelle. Per le pazienti del braccio femminile il ballo era importantissimo. L'agitazione era al culmine. Stella ci scherzava su. Io naturalmente avevo partecipato a più balli di quanti me ne volessi ricordare, e sorridevo al pensiero della tempesta di isteria repressa che spazzava il braccio femminile nei giorni precedenti il grande evento. «E c'è persino la luna piena» le dissi. «Un bel guaio» rispose. «Ma no, il guaio è il mattino dopo. Il calo di tensione è quasi drammatico. Di solito voi signore siete molto depresse, il mattino dopo il ballo». «Allora dovrò stare in guardia». «Oh, di te non mi preoccupo. Fra l'altro penso che non ci dovresti venire, se non te la senti. Io ti capirei benissimo». «Ma figurati se non vengo. Non se ne parla. Sarebbe molto, molto antisociale da parte mia». «Sarai sotto gli occhi di tutti, e tutti faranno commenti. Lo sai, vero?». «Sì». La riaccompagnarono al padiglione passando, come al solito, dalle terrazze, e forse fu in quel momento che Stella capì di essersi fatta tanti problemi per nulla. Ma da quando aveva accettato, per ragioni diplomatiche, di partecipare al ballo, contava quasi le ore. Non era un cambiamento così strano come poteva sembrare; secondo me aveva semplicemente deciso che quanto sarebbe successo quella sera avrebbe segnato, una volta per tutte, il suo destino. Le pazienti prendevano i loro posti nel salone prima che venissero fatti entrare gli uomini. Nelle ultime ore l'atmosfera nel reparto diventava decisamente febbrile, e l'attesa cresceva fino a un parossismo destinato prima o poi a trasformarsi in delusione. Donne esagitate in varie fasi di vestizione si precipitavano in corridoio alla ricerca di forcine, profumi, trucchi, biancheria intima. Una lite per una spilla da due soldi sarebbe degenerata in

rissa senza l'intervento di un'infermiera. Qualche paziente strillava, qualcun'altra piangeva, e le giovani facevano le stupide, chiacchierando fra loro di fidanzati e storie d'amore. Le donne più mature cercavano di mantenersi calme, ma era difficile non farsi contagiare dalla frenesia che montava sempre più con l'avvicinarsi delle sette. Stella rimase nella sua stanza a prepararsi. Per l'occasione aveva scelto un abito da sera nero che aveva portato con sé dal Galles. Ormai le stava stretto; come costume da Addolorata era un po' troppo peccaminoso, ma del resto un'Addolorata senza peccato non avrebbe avuto senso. Contò di nuovo le sue pillole. Si sentiva più tranquilla. Ce n'erano abbastanza, pensò. Quando uscì dalla stanza per unirsi al gruppo lasciò tutte senza fiato. Le altre si resero immediatamente conto che era di gran lunga la più bella. Erano fiere di lei, e pregustavano il momento in cui, al loro ingresso nel salone - o meglio, all'ingresso degli uomini - avrebbero brillato di luce riflessa. Uscirono dal reparto abbastanza tranquille, considerata la cacofonia di voci che aveva imperato fino a pochi istanti prima. Ognuna di loro cominciava a sentirsi intimidita dalla solennità dell'evento. Scortate dalle infermiere attraversarono il cortile fino alla terrazza. Era una serata calda. L'aria era carica di profumi, e la luce appena velata. Le donne si bisbigliavano le ultime raccomandazioni, e in ognuna, a poco a poco, cresceva l'orgoglio di essere lì insieme a tutte le altre, a tutte le altre e a quell'unico fiore di bellezza. E quell'unico fiore era Stella, che camminava maestosa in mezzo a loro nel suo abito nero, un ampio scialle nero a proteggere dal fresco della sera le braccia e le spalle nude. L'Addolorata, fra le sue ancelle, era pronta per la recita d'addio. Il grande salone era come lo ricordava, con le sedie lungo le pareti, le finestre aperte sulla sera, e l'orchestra che accordava gli strumenti sul palco. Un gruppetto di infermiere stava aspettando le donne, che entrarono dalla terrazza contemporaneamente a me e al cappellano. Rivolsi subito a Stella un inchino, e fu in quel momento che notai cosa indossava. Rimasi senza parole, e non riuscii a toglierle gli occhi di dosso. Come il cappellano, del resto. Poi capii che cosa aveva fatto, e quanto doveva esserle costato, e le feci un cenno di approvazione. Sì, aveva lo stesso vestito, lo stesso vestito di seta nera dalla scollatura vertiginosa che aveva messo quella sera di un anno prima. E l'effetto, stavolta, era sensazionale. La straordinaria bellezza di Stella faceva la sua parte, naturalmente, ma c'era di più: il fatto di aver scelto per il ballo proprio quel vestito era il gesto di sfida di uno spirito che

non era stato scalfito dalla vergogna. Mi sentii davvero orgoglioso di lei. Stella si sedette e guardò il trambusto che la circondava. Gli infermieri andavano avanti e indietro parlottando fra loro, le giovani più irrequiete erano già al tavolo dove si servivano le bibite; i dirigenti dell'ospedale chiacchieravano e ridevano con un'ostentata disinvoltura, da aristocratici quali in un certo senso erano. Che ipocriti! In realtà l'unica cosa a cui pensavano era che solo un anno prima Stella era stata una di loro, e le occhiate in tralice al suo indirizzo non si contavano. Ma con che coraggio si è rimessa quel vestito, dicevano i loro sguardi. I miei no, erano espliciti, esprimevano solo affetto e sollecitudine, e volevo che fosse ben chiaro a tutti. Al mio occhio tranquillo e vigile non sfuggiva nulla, e di fatto Stella venne lasciata in pace. Il decoro e l'ordine in cui si stava svolgendo la serata erano una conseguenza diretta della mia presenza, della mia pacata autorevolezza e del rispetto che tanto il personale quanto i pazienti mi tributavano. Col passare dei minuti, nell'impassibilità di Stella si insinuò una certa tensione. Poi entrarono gli uomini, e lei sentì l'atmosfera diventare di colpo più elettrica, e vagamente minacciosa. Ora gli aristocratici sembravano meno estenuati, e gli infermieri più attenti. Quanto alle donne, fremevano. E mentre l'orchestra attaccava il primo pezzo, gli uomini si diressero in fila indiana ai loro posti. Non c'erano tutti. Mancava Edgar. Già, mancava Edgar. Le sue condizioni non gli consentivano di partecipare a un ballo. Nel corso della serata Stella danzò molto, e benché gli occhi di tutta la sala fossero puntati su di lei non ebbe un attimo di cedimento. Non ballammo insieme; del resto io non ballai con nessuno, ma a ogni giro di pista Stella cercava il mio sguardo, e io capivo che quel suo sorriso fisso e imperscrutabile era diretto a me, che era con me che stava ballando. Il cappellano, tra noi del personale, fu l'unico a invitarla. Non se la cavava male, e fra le sue braccia Stella riuscì a muoversi con leggerezza e con grazia. I brevi sguardi che mi rivolse, gli istanti fuggevoli in cui i nostri occhi si incontrarono, tutto la rassicurò: si stava comportando benissimo, esattamente come avevo sperato. Povero Peter, deve aver pensato. Verso la fine della serata salii sul palco, presi il microfono e al solito dissi qualche parola affabile e feci un paio di battute. Sono un direttore molto benvoluto, e il mio discorsetto incoraggiante ricevette un'accoglienza calorosa. Stella mi guardava senza ascoltare quello che dicevo. Le ba-

stava sentire la mia presenza, la mia elegante disinvoltura, il mio bonario umorismo. Penso odiasse sinceramente l'idea di farmi soffrire. Durante l'ultimo ballo rimase seduta, e al momento di rientrare si accodò alle altre. Si incamminarono nel chiaro di luna, attraversando la terrazza per raggiungere il braccio femminile. Le poche ragazze ancora su di giri chiacchieravano; tutte le altre se ne stavano in silenzio, soddisfatte ma esauste. Era stato un bel ballo, forse il più bello da molti anni a questa parte. Qualche sogno d'amore si era infranto, certo, ma in compenso ne erano nati molti altri. Arrivate al padiglione si scambiarono un buona notte più affettuoso del solito, e ognuna rientrò nella sua stanza. Stella si mise a letto. Appena si spensero le luci piombò il silenzio. Allora Stella si alzò, aprì il rubinetto dell'acqua fredda e la lasciò scorrere. Poi prese qualcosa dall'armadio. Ero seduto in ufficio, a scrivere. Fuori dalla finestra le terrazze, i giardini e gli acquitrini erano bagnati dal chiaro di luna. Mi fermai e alzai lo sguardo. Qualcosa non mi tornava. Era da quando avevo visto Stella entrare nel salone che ci pensavo. Per tutta la sera avevo combattuto contro una sensazione di inquietudine, che fino a quel momento ero riuscito a tenere a bada. Probabilmente era legata al vestito di Stella. Il vestito che aveva portato la sera in cui Edgar l'aveva presa fra le braccia, la sera in cui le si era strofinato addosso. L'idea di Stella ancora innamorata di lui era un'evidente incongruenza. E allora perché continuavo a pensarci? E se mi fossi sbagliato? Ma certo, certo che mi ero sbagliato: la loro storia non era finita, non era affatto finita. Lei lo amava ancora. Ero molto spaventato. Rimisi il cappuccio alla penna e afferrai la cornetta. Composi un numero interno e il telefono squillò in un ufficio del braccio femminile. Oh, ero stato cieco! Non era per noi, quel vestito, non era un gesto di orgoglio, di sfida, non era uno schiaffo alla comunità dell'ospedale, era per lui, lo aveva messo per lui, era il suo abito nuziale, era il vestito che indossava la sera in cui si era sposata con lui, e mentre aspettavo che qualcuno rispondesse al telefono capii anche fino a che punto avessi ingannato me stesso: avevo lasciato che i miei sentimenti personali interferissero con l'analisi, e facendolo avevo perduto l'obiettività clinica. Una controtraslazione da manuale. Dopo che le ebbi parlato brevemente, l'infermiera di turno uscì dall'ufficio senza riagganciare e percorse tutto il corridoio fino alla stanza di Stella. Aprì la porta quel tanto che bastava per vedere il letto e la sua occupante

immersa in un sonno profondo, quindi la richiuse e tornò a riferirmi. Dopo averla ringraziata, riattaccai. Non mi rimisi a scrivere. Guardavo fuori dalla finestra senza trovar pace. Passai velocemente in rassegna gli eventi delle ultime settimane. Ricordai il lampo negli occhi di Stella quando le avevo fatto pensare che Edgar era qui in ospedale. Immaginai come avesse potuto sconvolgerla quell'esile filo di speranza, e mi resi conto che la mia successiva smentita - non è qui, era solo una domanda astratta - non poteva essere bastata. Avevo ridestato un sentimento violentissimo, ecco che cos'avevo fatto, e una semplice parola non lo avrebbe certo spento. Vidi Stella tornare nella sua stanza e soffiare sulla fiammella di speranza che io stesso avevo acceso, per mantenerla viva. E l'aveva mantenuta viva fino a oggi. Oh, non ci aveva messo molto a capire perché prima le avessi detto la verità, e cioè che Edgar era qui, e poi avessi cercato di rimangiarmela, affermando il contrario, e aveva anche capito che per me il segno della sua guarigione sarebbe stato proprio l'indifferenza alla menzione di Edgar. In quel momento aveva capito di dover fingere che non gliene importava più nulla. Tutto quello che era seguito la richiesta di un lavoro in lavanderia, quel sedersi da sola sulla panchina, perfino il sogno del bambino che gridava - era stato una messinscena, un diversivo per tenermi alla larga dalla verità. E la verità era che tutto il dolore delle ultime settimane non era affatto il rimorso per la morte di suo figlio, la verità era che Stella era ancora ossessionata da Edgar Stark. Il resto non contava. Sì, anche il sogno del bambino che gridava era un'invenzione. Come il fidanzamento con me, anche quello era una messinscena, l'estremo azzardo di una donna ancora disperatamente innamorata di un altro, e pronta a tutto pur di nasconderlo... Mi ritrovai a passeggiare avanti e indietro, la mente abbacinata da questa nuova verità, e dovetti fare uno sforzo per riprendere il controllo e sedermi al tavolo. Ma se Stella era davvero convinta che Edgar fosse in ospedale, pensavo, e si era messa quel vestito per lui, non vedendolo arrivare avrà... E allora capii che cosa mi stava dicendo il mio intuito di psichiatra, e perché mi sentivo così a disagio. Se non poteva avere Edgar, tanto valeva morire. La vita sarebbe stata intollerabile senza di lui. Meglio morire che soffrire così. È una reazione rara, ma a volte insorge. È l'ultimo stadio della malattia. Pochi minuti dopo attraversavo la terrazza diretto al braccio femminile.

Camminavo sempre più in fretta fra i chiostri ombrosi e i cortili inondati di luna dell'ospedale addormentato. Per tutte le lunghe ore di quella notte lottammo per salvarla, ma Stella aveva vissuto fra gli psichiatri abbastanza a lungo da saper dosare con precisione una dose letale di sedativi. Morì poco prima dell'alba, senza riprendere conoscenza. Quando si rilassò, abbandonando per sempre inganni e rimozioni, la sua faccia cambiò, la sua bellezza divenne ancora più impressionante. Era di nuovo pallida e meravigliosa come quando l'avevo conosciuta. Eravamo tutti distrutti. Ricordai agli altri che chi desidera veramente morire trova sempre il modo, presto o tardi, ma non servì a consolare quanti di noi si erano occupati di lei e avevano imparato, ciascuno a suo modo, a volerle bene. La seppellimmo tre giorni dopo nel cimitero dell'ospedale, subito fuori dal Muro, e il cappellano celebrò il servizio. A parte noi interni non c'era quasi nessuno. Era una giornata calda, di sole, e sudavamo negli abiti scuri. Gli Straffen mandarono solo un telegramma, perché a quanto pare Jack non stava bene, ma Max venne, e venne anche Brenda. Max era cambiato in modo preoccupante nelle poche settimane trascorse dal nostro ultimo incontro. Sembrava ancora più vecchio, più sottile, più curvo, e la sua pelle era quasi trasparente. Si appoggiava a sua madre. Lei, naturalmente, era forte; nella tragedia Brenda dà il meglio di sé. Dopo la cerimonia li invitai a prendere uno sherry da me. Se a Max facesse effetto trovarsi quel giorno nel mio ufficio, l'ufficio del direttore, non lo diede a vedere. Mi sorprese Brenda, che sfornò una serie di viscide banalità. Speriamo che ora Stella riposi in pace, mormorò. Io annuii e mi voltai dall'altra parte, lievemente disgustato dalla sua volgarità. Era chiaro che Max non le aveva parlato dei nostri progetti di matrimonio. Non sono andato in pensione come avevo in mente. Mi rimane del lavoro da fare. Edgar è ancora in isolamento; il suo atteggiamento non è migliorato. E ancora ostile e si rifiuta di collaborare, ma cambierà, già sento che sta cedendo; immagino abbia capito che ormai gli resto soltanto io. Non gli ho detto che Stella è morta, perché voglio prima sentire la sua versione dei fatti. Ci sono ancora troppe domande senza risposta. Max, per dirne una, è tuttora convinto che i suoi vestiti non siano stati rubati d'impulso, come raccontava Stella, ma che sia stata invece lei a darli a Edgar; in altre parole, che già allora lei stesse complottando contro di noi, e fosse

a conoscenza della sua intenzione di fuggire. A pensarci bene Edgar verrà a sapere comunque della sua morte, ammesso che non lo sappia già. Questo è un istituto molto grande, e la gente parla. Soffrirà molto, e noi dovremo fare molta attenzione. Come me, come tutti noi era stato folgorato dalla sua bellezza, ma lui era andato più a fondo di noi, l'aveva idealizzata e poi aveva dovuto lottare contro il caos delle sue stesse passioni quando si era ritrovato nell'impossibilità di nutrire l'immagine che aveva creato. Penso fosse quello che inconsciamente aveva cercato di esprimere con la sua ultima opera, benché sostenesse di voler soltanto scardinare certezze, capovolgere abitudini e convenzioni visive. Non riesco a non sentirmi vicino a quelle due povere anime sconvolte, intrappolate qui nelle ultime settimane della loro vita, ciascuna a contorcersi nel suo inferno privato, ciascuna a spasimare per l'altra. So come funzionano le storie d'amore distruttive, e alla fine si arriva sempre a questo, o a qualcosa di molto simile. Ho ripreso l'abitudine di tornare in ufficio verso sera. La polizia è stata molto comprensiva, e ora tutti i ritratti di Stella fatti nel sottotetto, e anche gli schizzi dell'orto, sono in mano mia. Hanno un tratto curiosamente incerto, e all'occhio risulta qualcosa che ricorda quella che gli italiani chiamano «morbidezza». Ho anche la testa. L'ho fatta cuocere e colare in bronzo nero, e la tengo nel cassetto della scrivania. Edgar ci ha lavorato così ossessivamente, negli ultimi giorni in Horsey Street, e sempre a togliere, che adesso è affusolata e minuscola. È bellissima: sottile, minuscola, angosciata... ma è lei. La tiro fuori spesso, durante il giorno, e resto a contemplarla. E così, vedete, dopotutto ho ancora la mia Stella qui con me. E naturalmente ho lui. FINE