Flash Katmandu Il Grande Viaggio A Katmandu [PDF]

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Zitiervorschau

CHARLES DUCHAUSSOIS Flash Katmandu il grande viaggio

romanzo SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE – TORINO

Prima edizione, maggio 1972 Seconda edizione, giugno 1972 Terza edizione, luglio 1972 Quarta edizione, luglio 1972 Quinta edizione, aprile 1977 Sesta edizione, settembre 1979 Settima edizione, aprile 1980 Ottava edizione, giugno 1981 Nona edizione, ottobre 1982 Decima edizione, giugno 1983 Undicesima edizione, maggio 1984 Dodicesima edizione, giugno 1985 Tredicesima edizione, aprile 1987 Quattordicesima edizione, maggio 1989 Quindicesima edizione, maggio 1991 Titolo originale dell'opera: Flash ou le grand voyage © Libraire Arthème Fayard, Paris Traduzione di Ferruccio Voglino © by SEI • Società Editrice Internazionale Torino 1972 Stabilimento Grafico SEI • Torino ISBN 88-05-04787-2

A Bernard Touchais, che mi ha strappato questa confessione

PRESENTAZIONE Flash, in inglese, vuol dire: lampo. Per un drogato, vuol dire: spasimo. Il flash è ciò che succede nel corpo di un drogato quando la droga, spinta dallo stantuffo della siringa, entra nelle vene. Ha la violenza del lampo e l'intensità dello spasimo. Un giorno ho dato a una ragazza quella polvere appiccicaticcia, giallognola, che scorre quasi a fatica nel palmo della mano, e che è l'eroina, il «cavallo». La ragazza stava per venir meno. Piangeva torcendosi le mani, mentre preparavo l'iniezione. L'ho calmata, dolcemente, con parole tenere, mentre riempivo la siringa. Le ho legato il braccio, le ho bucato una vena sporgente nella piega del gomito, ho infuso quel liquido, fatto d'una mescolanza d'acqua e di polvere. Più il liquido entrava nella sua vena, più la ragazza si rovesciava all'indietro, i suoi occhi si velavano, le sue gote arrossivano, e lei ansimava. Infine si lasciò andare, gemendo di piacere, sul letto. Poi sembrò che si addormentasse, placata, felice. Aveva avuto il suo flash. Era «partita», «viaggiava», stava «sprofondando». Allora, a mia volta, mi ero fatto l'iniezione. E a mia volta avevo avuto il mio flash, avevo viaggiato, ero sprofondato. Non c'è che l'iniezione — lo shoot — che dà il flash. Ecco perché il vero drogato, un giorno o l'altro, giunge fatalmente all'iniezione. E diventa un junkie. Un dio. O uno straccio. A scelta.

UNA VALIGIA PIENA DI SABBIA Prima parte 1. Per me, il cammino della droga e cominciato con una scheggia d'obice nell'occhio, quando non ero ancora cosciente. Avevo quattro mesi e otto giorni, quel mattino del giugno 1940, quando gli aerei tedeschi bombardarono la stazione di smistamento di Busigny vicino a Cambrai. I miei nonni paterni possedevano una piccola fattoria. Avevano accolto in essa mia madre, mio fratello maggiore, e me, dopo la notizia che mio padre, ufficiale, era stato fatto prigioniero sulla Mosella. I bombardamenti, mi hanno raccontato più tardi, si succedevano sulla stazione da alcuni giorni con tale frequenza, che quel mattino, all'alba, mio nonno aveva riempito la sua auto di valige e noi eravamo così entrati nella lunga colonna di profughi che rifluiva verso il sud. Siamo appena partiti, che una gragnuola di bombe fuori bersaglio rade al suolo la nostra fattoria. Poi gli Stukas sono risaliti, con le sirene urlanti. Hanno fatto tre passaggi prima di ripartire definitivamente verso l'est, e mi hanno detto che mia nonna pregava a voce spiegata per ringraziare il cielo di averci risparmiati. Poi mia madre si è messa a gridare. Nell'improvviso silenzio io, allungato in fondo al fosso in cui avevano coricato mio fratello e me, strillavo con tutta la potenza dei miei piccoli polmoni. Il lato sinistro del mio viso era in un bagno di sangue. Mi hanno lavato con l'acqua d'un thermos. Una fenditura, piccola ma netta e ben visibile, solcava il mio globo oculare nella sua lunghezza. Non c'erano medici nella colonna di profughi. Quattro giorni dopo, al nostro arrivo a Parigi, la piaga era cicatrizzata, ma l'occhio aveva preso la tinta lattiginosa che ha ancora adesso. Se fosse stato curato subito, il mio occhio sarebbe stato salvato, perché la scheggia lo aveva appena scalfito. Ora non c'era più niente da fare. Io ero orbo. «Orbo», «sgorbio». Sono, tra gli altri, i nomignoli che mi hanno accompagnato nella scuola, dalle elementari fino alle superiori. Per quanto risalga indietro nei miei ricordi, mi trovo sempre «scartato». I sarcasmi degli uni, e le gentilezze esasperanti degli altri, m'hanno fatto accumulare una solida diffidenza verso il prossimo. E mi viene una voglia, che cresce sempre di più, di non fare nulla come gli altri, dato che io «non sono come gli altri». Tuttavia cerco di «integrarmi». Dopo aver dato l'esame di ammissione, entro all'istituto tecnico commerciale. Persuaso dai miei genitori, i quali pensano che col mio handicap non possa aspirare ad altro che a un impiego in ufficio, voglio diventare ragioniere. A vent'anni, mentre preparo questo diploma, lavoro alla Pile Zoé di Chàtillon. I miei genitori sono contenti di me: il bambino solitario, da duro e chiuso che era, sembra guarito. E il mio volto «scartato», invece di nuocermi, mi procura grossi successi presso le ragazze. È la faccenda della mia patente di guida che scatena il vulcano, la cui ultima eruzione mi getterà, scheletrito e bruciante di febbre, su un aereo dell'Air France con destinazione Orly, il 10 gennaio 1970, rimpatriato a spese dell'ambasciata di Francia da Katmandu. La scena si svolge nell'aprile 1962, sui viali della periferia di Parigi. Con i miei risparmi ho appena finito di pagarmi un'auto. Una volta presa la patente, l'auto sarà mia.

Mi piace guidare, e conosco il codice sulla punta delle dita. All'esame non commetto alcun errore. Salvo quello di voltare la testa, sorridendo, verso l'esaminatore alla mia destra, mentre riempie il foglio rosa del permesso provvisorio intestato al mio nome. «Ciò cambia tutto — mi dice facendosi scuro. — Bisogna che passi una visita medica. Poi tornerà». E straccia il foglio rosa. Uscendo dall'auto, io odio il mondo intero; ma quella sera annuncio con tono trascurato ai miei amici che ho superato l'esame «a mani alzate». In fondo è vero. Qualche giorno più tardi la vettura, una «ID 19», è intestata a mio nome, e le sue chiavi sono in tasca mia. Non taglio i ponti tutto d'un colpo. Saranno le mie difficoltà di «autista senza patente» a decidermi progressivamente a passare dall'altra parte della barriera. Com'era inevitabile, un giorno mi faccio pescare da un controllo della polizia. Me la cavo, riesco ad aggiustare la faccenda. Continuo a guidare, e i fastidi ricominciano. Ma molto presto prendo un gusto formidabile a non essere in regola. A pensarci bene, non è che un altro modo di essere orbo… Poi le cose precipitano. Dapprima prendo l'abitudine di ospitare in casa i complici delle mie baldorie. Il mio appartamento in Rue des Frères-Keller diventa il centro d'una festa perpetua. Accumulo debiti, e allaccio cattive relazioni. Nel novembre 1962 l'ID 19 mi viene definitivamente confiscata. Il lunedì seguente non vado più in ufficio. Con 500 franchi in tasca, in blue-jeans, bavero rialzato e blouson addosso, uno zaino sulle spalle, occhiali neri sul naso, prendo il metrò per Porta d'Orléans e parto in autostop alla volta di Marsiglia. Sono solo. L'avventura comincia…

2. Da allora, fino al mio primo shilom di hashish (all'Old Gulhane Hotel, nel vecchio quartiere d'Istanbul, nel gennaio 1969), sono otto anni di vagabondaggio: assegni rubati, truffe con cambiali a 90 giorni, furti con scasso a ville, due o tre «visite» al Palazzo di giustizia per traffico di carte d'identità e altri documenti, «colpi» un po' dappertutto in Europa e in Africa. Anche due anni di prigione, a Tolosa e a Nizza. Nel maggio 1968 a Mentone, passando attraverso la terrazza, entro nell'appartamento di un collezionista. Gli rubo quindici statuette orientali in giada, che rivendo per 4000 franchi a un ricettatore. Sospettato, parto per Marsiglia e vi lavoro otto giorni come barman presso un amico, Christian (quattro anni prima avevamo giocato ai Robinson Crusoe insieme a una ragazza, per dei mesi, nei boschi della Corsica); poi Gérard, un altro compagno di Nizza partito per il Libano, mi manda un telegramma proponendomi di andare a raggiungerlo. È il 12 giugno. In treno fino a Ventimiglia, poi in autostop attraverso la Iugoslavia e la Grecia, poi in battello, arrivo a Beirut ai primi di luglio. Gérard mi aspetta in un camping in riva al mare, a 45 chilometri da Beirut. Il tempo è bello e fa caldo, il Mediterraneo si frange giorno e notte sulla striscia di sabbia ai piedi della scogliera. Accanto al camping c'è una lussuosa villa, dove «Mercedes» e auto sportive riversano quasi ogni giorno gruppi di ragazzi e graziose ragazze. Gérard vi è già introdotto. Divento anch'io uno dei frequentatori della Zuleilla. Il padrone si chiama Aruache. Sposato a Gill, una graziosa inglesina rossa, è un armeno di quarant'anni dal pelo nero e fitto, solido come una guardia del corpo. È spesso in viaggio, e quando è in casa si dà alla pesca subacquea. Ne avevo fatta anch'io molta a Cassis, vicino a Marsiglia. Diventiamo amici. Tra l'altro, egli fa il trafficante d'armi. Un giorno mi propone un lavoro: scortare fino a Tangeri un piccolo cargo, che laggiù imbarcherà delle casse di armi. Al ritorno, il battello si fermerà a poche gomene dalle coste libanesi. Chiamati con segnali ottici, che ci scambieremo con loro, falsi doganieri di Beirut verranno con le vedette del porto e prenderanno la mercanzia. A me toccheranno un milione, un milione e mezzo di vecchi franchi per viaggio. Il primo trasporto è per il principio di dicembre. Tutto fila liscio come l'olio. Quest'affare del traffico d'armi mi mette certe idee… Idee da ricco. È all'hashish, però, che io penso. Il Libano ne è un grosso produttore, più o meno clandestino senza dubbio, ma pur sempre un grosso produttore. Perché non moltiplicare per venti, trenta e forse più, ciò che mi frutterà il traffico d'armi, acquistando con quel guadagno l'hashish direttamente dal produttore, per rivenderlo al consumatore con il minimo d'inintermediari? Il mio amico Christian, per esempio… I vantaggi saranno enormi. In pochi mesi sarò ricco a decine di milioni. II primo problema è di andar a cercare l'hashish, comperarlo e immagazzinarlo. Poi, penserò al modo di spacciarlo. Aruache non può aiutarmi. Non vuole immischiarsi nel traffico dell'hashish. Troppo pericoloso, dice. E il suo traffico d'armi, allora? A ogni modo io non gliene parlerò più. Collerico com'è, è capace di mandare a monte il nostro progetto comune. Nel Libano tutto ciò che gravita attorno agli ambienti un po' bizzarri, e anche attorno agli altri del resto, è più o meno implicato in faccende di hashish. Così, niente mi è più facile che incontrare una sera, in un bar di Beirut, un certo tipo che se ne occupa. Qualche giorno più tardi, una volta fatta conoscenza, egli accetta volentieri di informarmi. La cosa migliore, mi spiega, è salire fino a Baalbeck, dove c'è un grosso rivenditore (e mi dà

l'indirizzo), che cerca uomini disposti a lavorare per lui. Non è la mia intenzione, io voglio lavorare per conto mio, ma la cosa può essere interessante. In capo a tre giorni, salgo dunque a Baalbeck dal rivenditore. Un certo signor Fawziad. Abita in una grande casa nella parte antica della città; è grosso e sudato, ha una risata fragorosa da far scappare un bambino gridando all'orco, ma mi apre. Lo spettacolo m'inchioda sulla soglia per la sorpresa. Mi trovo in una grande stanza rustica, molto rustica (il suolo è in terra battuta), e ammobiliata con vecchi cassoni lavorati. Lungo tutti i muri ci sono enormi cubi avvolti in plastica. Fawziad me ne apre uno. Un odore molto forte, che dà alla testa, mi sale su per le narici. Un odore di humus, di pelle selvatica, si potrebbe dire. Osservo il cubo: è fatto d'una pasta color rosso cupo, con riflessi verdastri, in cui il mio dito s'imprime come nella creta. È hashish. Fawziad, al quale il nostro intermediario ha fatto pervenire informazioni sul mio conto, mi domanda d'improvviso se voglio lavorare per lui. Gli do il mio assenso in linea di massima. Ciò che lui vuole da me, dato che sono abituato a fare l'autostop e il giramondo, è di andar a gironzolare nell'alta valle di Baalbeck. Da quando le autorità hanno obbligato i contadini a sostituire la coltura dell'hashish con quella del girasole, tutto si è complicato. La maggior parte dei contadini continua a coltivare l'hashish: una fila di girasole, una fila di hashish, eccetera. Il girasole, più alto, nasconde la piantina di hashish che non supera i 50 centimetri, e il gioco è fatto. Ma ciò ha sconvolto le abitudini e il mercato. Bisogna rifare il censimento dei produttori. Tanto più che là in alto cominciano a volare fucilate. I contadini hanno finito per subodorare che li si sfruttava. C'è da ricominciare tutto da capo. E per questo, occorre in primo luogo che un tipo dritto vada a vedere sul posto, domandi, s'informi. Ora è il momento buono, la raccolta dell'hashish si farà tra quindici giorni. Voglio essere io questo dritto? Avrò del denaro. Solo bisogna che resti lassù almeno un mese. D'accordo? «D'accordo», dico. È proprio quel che mi ci vuole. Il traffico d'armi non comincerà che al principio di novembre, al più presto. Ho tutto il tempo che occorre, e sono libero come l'aria. Negli ultimi giorni di settembre, zaino sulle spalle e stivali da viaggio ai piedi, arrivo sugli altopiani. Il paesaggio è grandioso. In basso la vallata, con l'erba e gli alberi, fa pensare a una valle europea. A sinistra e a destra i primi pendii della montagna, che man mano si fanno sempre più scoscesi, più aridi, con colture a spalliera, come se ne vedono nel mezzogiorno della Francia. E queste colture sono dappertutto piante di girasole, con i loro fiori enormi, trasudanti olio, che pesano sugli steli, nello sforzo di orientarsi verso il sole. Dietro, le montagne. Mi trovo a 500 metri dall'ultimo villaggio: una trentina di casupole con le mura d'argilla e paglia, con tetti a terrazza. Sembra di essere in un villaggio dell'Atlante marocchino. Per arrivare fin qui ho dovuto affrontare una strada pietrosa tutta giravolte per una buona quindicina di chilometri. Quando arrivo, è mezzogiorno. Fa caldo, ma non troppo: l'altitudine attenua l'ardore del sole. Siamo a più di 1000 metri di quota. Sfinito, poso lo zaino nella polvere, sul bordo della fontana, e tuffo il viso nell'acqua. Poi bevo, avidamente. Infine mi rialzo, e solo allora m'accorgo che sono circondato da una dozzina di arabi. Con i lunghi vestiti bianchi, e i turbanti, hanno l'aspetto di veri arabi, come nei libri. Ma le donne (ce ne sono due) non sono velate. Ne avrò la spiegazione più tardi: questi musulmani sono cristianizzati.

Mi trovo in una regione che è stata a lungo sotto la dominazione dei Crociati, e più recentemente dei francesi. Uno degli uomini parla bene il francese. Un tipo alto, secco, ben piantato, dai capelli brizzolati, sulla cinquantina. Sorridendo mi tende una tazza e mi dice: «Prendi e bevi, viaggiatore. Tu sei a Saliet. È il nome di questo villaggio». Non ho più sete, ma per non contrariarlo bevo nella sua tazza. «Molte grazie. La strada è dura, fin quassù…». Scrolla la testa sorridendo, e aggiunge: «Vai lontano?». Faccio un gesto vago con la mano, indicando le montagne. «Non so — dico. — Vado. Visito il paese. Sono un turista a piedi, ecco». Egli ride di nuovo. Attorno a noi, ora, c'è una ventina di curiosi. Il mio amico traduce per loro la mia risposta, ed essi mi divorano con gli occhi. «Hai fame?». «Oh, sì! Ho del denaro, sai». Scrolla le spalle, e aggiunge: «Si vedrà dopo. Ora vieni con me». È così che scopro la leggendaria ospitalità araba. Ospitalità che non ritroverò mai più, né in Afghanistan, né in India, né nel Nepal… Pochi istanti dopo mi trovo seduto a tavola in casa sua, sopra una stuoia stesa per terra, davanti a una cuccuma di tè e a una specie di minestra di mais mescolato con un po' di carne, molto piccante. La moglie del mio ospite me l'ha servita, e ora si accoccola davanti a me, accanto a suo marito. Lui mi lascia terminare il pasto, poi: «Mi chiamo Alì — dice. — E tu?». «Charles». Allora mi fa una domanda dopo l'altra. Mi tengo fedele al personaggio che mi sono fabbricato. Sono uno studente in vacanza che visita il Libano. È tutto. Alì è il capo del villaggio. È un vecchio soldato dell'esercito francese, del tempo in cui il Libano era sotto il protettorato della Francia. Era sotto le armi con il generale Dentz ai tempi dei famosi combattimenti contro i gollisti. Ha una figlia di quattordici anni, Salima, che al momento è in un altro villaggio, in visita a certi cugini. Sento che pende su di me una vera e propria inchiesta. Ma rispondo con calma. Le mie risposte sembrano soddisfacenti, perché egli conclude prendendomi per le spalle: «Amico, resta qui tutto il tempo che vuoi, se hai bisogno di riposarti». Io protesto. «Sì, resta. Mi fa piacere vedere un francese. Tu sei mio ospite». Ho un bell'insistere, dire che almeno voglio pagare la mia parte; lui non ne vuole sapere. «Sei stanco, riposati. Ecco, se vuoi fare la siesta, lì c'è la tua stuoia». Mi indica una stuoia di corda, in un angolo della stanza. Non c'è praticamente nulla in questa stanza, a parte un forno in terra per la cucina. Nient'altro che stuoie sul pavimento. Appena una cassapanca in un angolo, e delle scansie in bell'ordine, con qualche utensile in un vano del muro. Non mi faccio pregare. Cado dal sonno. L'ultima notte, sotto le stelle, al riparo di un albero, sono stato risvegliato di continuo da lunghi ululati provenienti dalla montagna; sciacalli, ne sono sicuro.

Appena allungato sulla stuoia, con la testa sul mio sacco, m'addormento.

3. Otto giorni dopo, sono ancora qui. Alì e io siamo diventati veri amici. Una sera, a lume di candela, mi ha fatto vedere il suo ripostiglio, e fin dall'entrata ho potuto riconoscere l'odore selvatico dell'hashish. Ma il ripostiglio è vuoto. «Vedi, fratello — mi dice Alì. — Tra una quindicina di giorni questo ripostiglio sarà pieno di hashish, il raccolto di tutto il villaggio. Lo rivenderò. Il mercante verrà da Baalbeck, e si porterà via tutto». Alì si fa scuro in volto. «Senza pagare troppo, però — aggiunge. — Ci derubano, ma che possiamo farci? Non ho un autocarro per fare il trasporto io stesso, come fanno loro, di notte, fino alle piccole insenature del mare, da dove partono i battelli a luci spente. «E non vogliono che si cerchi di far loro concorrenza. Un uomo è stato trovato morto, per questo, l'anno scorso, laggiù in quel villaggio dall'altra parte della valle. Per di più, essi si fanno fuori tra loro, ora, per sfruttarci meglio. «Cosi per noi è più dura di prima. Ci hanno fatto sradicare tutte le piante, e obbligati a sostituirle con il girasole. Allora bisognò imbrogliare, per piantare dell'hashish. Ti farò vedere domani». L'indomani Alì mi porta ai campi. Ci avviciniamo a una piantagione di girasoli. Hanno ben due metri d'altezza, e i fiori sono molto grossi. «Vieni», mi dice Alì, penetrando fra due filari di girasole. E li vedo, fra le piante giganti, un filare di altre piante ben nascoste. Somigliano un po' alla patata. In cima a ogni pianta c'è un fiore molto grosso, simile alla margherita, con petali bianchi. Alì ne carezza uno. «Presto sarà maturo. Farai la raccolta con noi?». «Ma sicuro, Alì. Voglio imparare tutto». Qualche giorno dopo, ho uno choc. Vedo arrivare una meravigliosa ragazzina di quattordici anni. È Salima, la figlia di Alì. È graziosa come un bocciolo e m'innamoro subito di lei. Raramente ho visto una piccola araba così bella, con i suoi immensi occhi neri a mandorla, le ciglia fini, i capelli ricci e quasi inanellati, e la bocca umida finemente orlata. Sotto il lungo vestito di lino ha un corpo flessuoso e ondeggiante, che mi fa subito perdere la testa. Anche i suoi piedi sono straordinari. Piccolissimi, molto greci, col secondo dito più lungo di tutti gli altri, le unghie color rosa e madreperla. Se non fossi l'amico di Alì, credo che le farei subito la corte. Ma non posso tradire Alì. Non importa, quella notte sogno a lungo il piccolo corpo di Salima… A ogni modo diventiamo molto presto amici. Salima mi conduce a passeggio, mi fa visitare i dintorni del villaggio. Non ci parliamo. Lei non comprende una sola parola di francese o d'inglese, e quanto al mio arabo… Ci accontentiamo di sorriderci, e di ridere, quasi a scrosci. Come mi aveva annunciato Alì, la raccolta dell'hashish comincia. Un mattino tutto il villaggio va tra i filari e inizia il lavoro. Anch'io, si capisce, sono della comitiva. Faccio parte del gruppo di Salima. È lei che l'ha voluto. Mi domando se la piccola non si sia un po' innamorata del grande europeo barbuto… Alì è con noi; ciascuno con il suo grande orcio di terra. Entriamo fra due filari di girasole. «Vedi — mi spiega Alì, — è un lavoro facile. Ti chini, afferri il gambo dell'hashish con due mani, alla base, stringendo bene; ti rialzi tirando verso l'alto. Tutto quel che ti resta tra le mani,

foglie e fiori, è buono. Lo butti nell'orcio, e passi a un'altra pianta». Ognuno prende un filare e la raccolta comincia… Il secondo giorno, Alì è chiamato al villaggio. C'è un mercante, vuole una stima del raccolto. Alì parte con il messaggero che è venuto a cercarlo. Giuro che non l'ho voluto… Ma è proprio così, ciò che donna vuole, vuole; e Salima, per quanto giovane e piccola sia, è già una donna… Suo padre è partito appena da cinque minuti, e io vedo sbucare la sua testa dal filare, tra due grandi girasoli. Mi sorride, le ricambio il sorriso. Passa in mezzo ai girasoli, viene verso di me, lentamente. Ha un'aria curiosa, un'aria che non bisogna essere un genio per capire. Mi si avvicina e, ridendo, asciuga con la manica il sudore che m'imperla la fronte, mentre sono chino davanti al mio orcio e pigio a due mani ciò che ho raccolto. L'hashish inebria già quando lo si raccoglie? Non lo so, ma tutto me lo fa credere. In questa specie di riparo nascosto anche al sole, in mezzo ai lunghi fusti spessi dei girasole, l'odore delle piccole piante velenose è forte e stordente. E Salima è così civettuola e carezzevole davanti a me… La stoffa del suo lungo vestito bianco, stretto alla vita da una cintura di cuoio orlato, disegna i suoi seni piccoli e duri. La sua anca è tonda, i suoi piedi graziosi sono impolverati. Ha caldo anche lei, e la sua fronte liscia è madida. Mi siedo, troppo turbato per continuar a lavorare, e la guardo. Allora Salima mi viene vicina vicina, fa un'adorabile smorfia con la boccuccia, alza un po' le spalle come per dire «Inch Allah» e si stringe nelle mie braccia. La sera, a cena, oso appena guardarla. Se Alì, suo padre, sapesse… Mi butterebbe fuori, senza dubbio. Non è questo che mi fa paura, ma lo sguardo che avrebbe, lo sguardo di un amico della cui confidenza si è abusato. Senza pensare al colpo di pugnale che si dà facilmente da queste parti per un tradimento del genere. Quattro o cinque giorni più tardi, la raccolta è terminata. Salima e io non abbiamo più avuto occasione di ritrovarci soli. Meglio così. Per fortuna l'attività febbrile che regna nel villaggio ci viene in aiuto. Si tratta ora di preparare la pasta che, una volta essiccata, sarà l'hashish tal quale si fuma e si mangia. Partecipo anche a questo lavoro. Non è difficile da capire e da eseguire. Sulla piazza del villaggio gli uomini portano un grosso mortaio fatto di pietre cave, che vengono riempite fino all'orlo con quel miscuglio di foglie e fiori. Poi con pestelli di legno si pesta il tutto fin che non sia completamente spappolato. Ne viene fuori una sorta di segatura grossolana, molle e trasudante, gonfia di succhi, brunastra e molto odorante. Intanto le donne stendono al sole grandi drappi, e ogni volta che un mortaio è pronto, si vuota sopra un drappo. Poi si sparpaglia bene la pasta, e si lascia al sole per qualche giorno. Quando è ritenuta abbastanza priva di umidità, viene il lavoro dell'impastatura. Tutti quanti, uomini, donne, e anche i bambini, vi prendono parte. Ognuno afferra a piene mani quel che è divenuto ora una pasta untuosa e pesante, molto densa. Bisogna impastare questa massa a lungo, per ore, per renderla fine. Il gesto è un po' quello del panettiere che impasta il pane. Ne viene fuori un impasto elastico e soffice, simile ai pasticcini che i confetturieri delle fiere impastano e stirano, prima di tagliarli con le loro grandi cesoie. Quando la pasta è ben raffinata, la si taglia in cubi, in rettangoli, in barre, secondo l'ordine del

compratore, si sistema il tutto entro la plastica e si chiude. L'hashish è pronto. Ci sono in Libano altri modi di prepararlo. Per esempio, si può raccogliere solo il succo. Dipende dalle regioni. Quest'anno a Saliet il raccolto è di circa 800 chili di hashish. Prima di essere tagliato, l'hashish viene collocato, in grossi blocchi di 20 chili, dentro il ripostiglio di Alì. Il giorno dopo, un autocarro arriva da Baalbeck. Quattro tipacci dalla faccia patibolare ne discendono. Due hanno la pistola alla cintola. Caricano e pagano il capo del villaggio. Io li osservo di nascosto dalla casa di Alì, perché è meglio che non vedano un bianco da queste parti. Conosco questo genere di individui. Non c'è dubbio, appartengono al giro del racket. «Lo vedi — mi dice Alì ritornando, — il villaggio vivrà praticamente tutto l'anno sulla vendita di questo raccolto, fino al prossimo. A 50 lire libanesi il chilo, (circa 10.000 lire italiane) non fa poi molto per ciascun abitante». «Noi — continua Alì — siamo qui un centinaio. Il calcolo è facile da fare. Sono all'ingrosso 400 lire libanesi per persona all'anno. Il prezzo di 8 chili». Quattrocento lire libanesi, cioè 600 franchi (80.000 lire italiane). Chiaro che non è una cuccagna, anche se si ha il proprio orticello, il pollaio, e qualche capra… Ma io faccio anche un altro calcolo, non troppo fraterno, devo ammetterlo. Cinquanta lire libanesi al chilo, fanno circa 75 franchi al chilo. A Parigi, un chilo di hashish si rivende attorno ai 3000 franchi (quasi 400.000 lire italiane). Perbacco! Se potessi mettermi d'accordo con Ali e comperare io l'intero raccolto del suo villaggio, anche pagandolo il doppio del prezzo degli altri, che vantaggio, cari miei! Venti volte di più! Ecco, pagarlo il doppio, è proprio quello che bisogna fare. E lo potrò fare facilmente, quando sarò riuscito a fare qualche viaggetto con il traffico d'armi a Tangeri. Anche quello, facile. Mi farà piacere rendere un servizio a questa brava gente che è così ospitale con me, e per la quale ora nutro una vera amicizia. Senza contare quel che Salima rappresenta per me! E poi è senza dubbio il solo modo per deciderli a non vendere più ai loro mercanti abituali. Il che non sarà facile, detto tra noi. Perché questi mercanti sono gente organizzata, che non retrocede davanti a niente, pur di tenere ben saldo in mano il proprio mercato. Il mio progetto è molto delicato, me ne rendo conto appena l'ho abbozzato. In ogni caso, non sarà possibile realizzarlo prima dell'anno prossimo. Ma non è mai troppo presto per cominciar a fare qualcosa. Così una sera decido di giocare il tutto per tutto con Alì. È un uomo che ormai ho imparato a conoscere, e so che è senza preconcetti. E poi qui in Oriente trafficare, vendere o acquistare armi o hashish, non è così immorale come in Occidente. In questi paesi è considerato normale. E così gli dico tutto: chi sono, l'incarico che mi è stato affidato a Baalbeck, e ciò che vorrei fare in realtà. E poi, in uno slancio di sincerità, gli confesso anche che amo sua figlia e che lei mi ama. Diavolo d'un Alì! Lui sorride quando ho finito di parlare. E mi dice: «Mi sono accorto subito che tu non eri uno studente. Ne ho già visti, di studenti veri. Hanno sempre almeno due o tre libri nel loro bagaglio. E non possono fare a meno di tirarli fuori e di leggerli. Tu invece non hai mai letto un libro. «E poi, tu non hai l'aria di uno studente. Lo si vede subito. Gli studenti sono bambini, magari bambini vecchi, ma sempre bambini. Tu invece sei un uomo. Si vede che hai vissuto e sofferto. «Non credere che me la sia presa con te per questa piccola bugia. Non ha nessuna importanza. Ognuno ha il diritto di conservare i propri segreti per sé, se si comporta bene con gli altri. Tu ti sei comportato bene. E me lo hai provato una volta di più parlandomi con confidenza.

«E con coraggio, anche. Perché io avrei potuto andare in bestia per quel che mi dici riguardo a Salima. «Anche di questa faccenda, pur senza esserne certo, io avevo cominciato a nutrire qualche sospetto, sai. Quando una ragazza è innamorata glielo si legge negli occhi, e Salima da qualche tempo ha gli occhi di ragazza innamorata. «Ora bisogna lasciare che il tempo confermi i sentimenti. Il tempo darà il suo verdetto su Salima e te. Ma io te lo posso dire già subito: te la do in moglie con gioia. Tu sei un francese, sei un uomo solido e sperimentato, sarai un buon marito per Salima». Le parole di Alì mi riempiono di gioia, e anche di confusione. Saprò essere all'altezza di quest'uomo saggio e stupefacente? Con un gesto caccio via questi dubbi. Il tempo, come dice Alì, darà il suo verdetto, e io saprò fra qualche settimana che decisione prendere. «Aspetta, fratello — mi dice Alì. — Vado a cercare mia moglie e Salima. Voglio dir loro, davanti a te, che tu ormai fai parte della famiglia». Quando sua moglie e sua figlia sono arrivate, Alì riprende a parlare: «Salima, io voglio che tu ami Charles. Sei d'accordo?». Per tutta risposta Salima, con gli occhi pieni di lacrime, corre a gettarsi nelle mie braccia. Alì si volta verso sua moglie. «E tu, Irada, sei d'accordo?». Irada sorride senza rispondere, e accenna di sì con la testa. «Molto bene — conclude Alì. — Ora, come dite voi in Francia, bisogna fare le pubblicazioni». Mezz'ora più tardi tutto il villaggio è riunito sulla piazza. Alì ha messo Salima e me l'uno accanto all'altra, e parla. Di ciò che dice in arabo non capisco una parola, è naturale. Ma non ho bisogno che mi venga tradotto. Grida di gioia salutano le «pubblicazioni», e qualcuno esplode colpi in aria. «Questa sera — mi dice Alì — si farà un gran banchetto». È così che Salima e io ci siamo fidanzati. A sera, la festa è sontuosa. Non si sono uccisi meno di cinque montoni, e le ragazze del villaggio hanno danzato attorno al fuoco. Poi, Salima ottiene il diritto di venire a dormire con me. Per lasciarci soli, suo padre ci ha installati nel fienile. Un mucchio di fieno è il nostro letto… L'indomani Alì mi guida lungo un sentiero che porta verso la valle. «Charles — mi dice» — questa notte ho riflettuto sul tuo progetto. Io sono d'accordo, lo sai, di riservarti la produzione del villaggio. Ma in questo modo ci mettiamo in un'impresa rischiosa. «Ci occorrono armi. Molte. È il solo modo di farci rispettare. Purtroppo abbiamo solo qualche schioppo, qui. Ma mi è venuta un'idea». Si ferma e mi prende la mano. «Guarda lassù — mi dice, puntando il dito verso la montagna. — Vedi quella valle là in alto, con un picco roccioso sulla sinistra?». «Sì, la vedo». «Ci sono armi là sotto, nascoste in fondo a un tunnel». Stupefatto, esclamo: «Armi? In un tunnel?». «Ora ti spiego. Durante quella guerra disgraziata, quando i francesi si battevano tra loro, i soldati del generale Dentz avevano fortificato questa linea di creste. Avevano cominciato a costruire delle postazioni, a scavare trincee e rifugi, ad ammucchiarvi munizioni, armi e cannoni. «Ma sono sopravvenuti i combattimenti… Tu lo sai, Dentz è stato battuto. E — aggiunge Alì con

un gesto largo — tutto questo è stato abbandonato. «Io non ero qui, ero sull'altopiano. Ecco perché non so dove sono le armi. Ma il capo del villaggio che mi ha preceduto, lui lo sapeva. «Prima di morire, me l'ha detto. Vieni, torniamo a Saliet. Mia moglie ci sta preparando da mangiare per questa sera e domani. Dormiremo sul posto, e torneremo a casa in giornata». Salima ha il cuore gonfio a lasciarmi partire per una notte, ma suo padre ha comandato… Per sentieri da capre cominciamo la scalata della montagna. Verso le quattro del pomeriggio, a 1500 o 1600 metri d'altitudine, in un paesaggio di pietrame, rocce e arbusti intisichiti, simile a quello delle montagne secche del sud della Corsica, arriviamo vicino a un ammasso di rovine. S'indovinano ancora i lineamenti di una piccola fortificazione, delle trincee riempite a metà dal terreno franato. «È qui — mi dice Alì. — Il vecchio mi ha rivelato che c'è da qualche parte, qua sotto, un nascondiglio sotterraneo, un tunnel, del quale i soldati hanno fatto saltare l'ingresso prima di ritirarsi. E sembra che dentro ci sia un grosso stock di fucili con relative munizioni in casse ermetiche. «Se riusciamo a scoprire il deposito d'armi, Charles, allora sì che potremo lavorare con te. Allora saremo abbastanza forti per dire di no ai mercanti di Baalbeck. E chissà, forse il nostro esempio farà riflettere gli altri villaggi, e a loro volta anch'essi diranno di no a quei luridi che ci impongono la loro legge e ci pigliano per la gola». Alì s'infiamma, stringe i pugni. «Allora saremo noi, i contadini, che imporremo la nostra legge ai mercanti, e non loro!». Si ferma di colpo, e scoppia a ridere. «Per ora, bisogna trovare l'entrata del tunnel. Vieni, cerchiamo». Fino al cadere della sera Alì e io solleviamo pietre, facciamo risuonare le rocce a colpi di tallone. La notte sopravviene, e non abbiamo trovato nulla. D'improvviso fa freddo. Un grande fuoco ci riscalda. Mangiamo il pasto preparato da Irada. Poi, avvolti lui in una coperta e io nel mio sacco a pelo, costruiamo a lungo castelli in aria prima di addormentarci sotto le stelle. È verso le undici del mattino, il giorno dopo, che Alì lancia d'improvviso un grido. Ha trovato una roccia che risuona chiaro, mentre le altre hanno un suono sordo. La percuotiamo con una grossa pietra. Non c'è dubbio, si sente il vuoto sotto. È di sicuro qua. Del resto è circondata da grosse pietre con gli spigoli vivi, come a scheggia, mentre le altre pietre sono come logore dall'erosione. Hanno fatto saltare una carica di dinamite da queste parti, di sicuro. Sfortunatamente la roccia che deve tappare l'entrata è troppo pesante perché possiamo sollevarla in due. Bisogna tornare qui in molti. Alì decide di mobilitare gli uomini più robusti del villaggio, che verranno con pali e picconi. Otto giorni più tardi, la grossa roccia è rimossa e l'entrata è sgombra dei detriti che la ostruivano. Alì e io, con la torcia in mano, entriamo nel tunnel. Vittoria! In fondo, a dieci metri appena dall'entrata, la torcia illumina cinque grosse casse di legno. Sono le armi! Sì, sono loro. Tirate fuori le casse, le sventriamo e, avvolti in tela cerata e sacchi abbondantemente ingrassati, vengono alla luce, uno dopo l'altro, tra urla di gioia e danze selvagge, ventidue fucili Lebel; quattordici fucili MAS 36; quattro fucili mitragliatori; sette pistole d'ordinanza;

cinquanta granate difensive. Due delle casse sono piene di munizioni adatte a ciascun modello delle armi. Alì viene verso di me. «Fratello — mi dice, ora tocca a te fare la tua parte. Noi siamo forti a sufficienza». Ora tocca a me: ciò vuol dire molte cose. Primo: bisogna che mi occupi di quel farabutto di Baalbeck. Non so ancora cosa dovrò raccontargli. La cosa migliore, senza dubbio, è cercar di rifilargli una frottola (quale, resta da vedere) per tenerlo tranquillo fino all'anno prossimo. Secondo: bisogna che metta seriamente a punto il piano di rivendita dell'hashish. Partenza dal villaggio, custodia in un deposito, uscita dal Libano. Non è una cosa facile. Però ho tempo fino all'anno prossimo per risolvere il problema. Terzo: più che mai, è importante che il traffico d'armi di Aruache vada in porto. Spiego tutto ad Alì, mentre ritorniamo al villaggio armati fino ai denti. La cosa migliore, a mio parere, è che io scenda a Baalbeck, per saggiare il terreno nei confronti del mercante. Salima si fa in quattro, appena è al corrente, per ottenere il permesso di accompagnarmi. Suo padre finisce per acconsentire. Ma il mattino prima di partire, mi consegna di nascosto una pistola d'ordinanza e una quindicina di proiettili. «Charles — mi dice, — non fidarti. Non si sa mai quel che può capitare. Soprattutto perché viaggi con una ragazza. Gli uomini della valle sono caproni in fregola. Nove su dieci sono senza donne, perché i ricchi le accaparrano tutte. Sii prudente. Non deve capitare nulla, né a Salima né a te». Ci abbracciamo. Irada piange. Sa che ne avremo per pochi giorni, ma è inquieta lo stesso. Presto, col sacco in spalle, la grossa pistola cacciata sotto la giacca, la canna infilata nella cintura, tenendo Salima per mano, prendo la strada verso Baalbeck. Salima è in uno stato di gioia indescrivibile. Sgambetta al mio fianco come un capriolo e canta a squarciagola. «Sono felice, felice, felice!», ripete senza fermarsi. Le ho insegnato qualche parola francese, e naturalmente sa anche dire: «Ti amo». Me lo ripete a ogni svolta della strada. A piccole tappe scendiamo verso la città. La notte, dormiamo sotto un albero. Salima è così piccola, che stiamo tutt'e due nel sacco a pelo. Di solito a mezzogiorno pranziamo in qualche locanda, e la sera facciamo uno spuntino attorno a un fuoco. Finalmente Baalbeck è in vista. Quando arriviamo alle prime case, mi fermo al bordo della strada e dico a Salima: «Hai capito bene quel che ha detto tuo padre?». Lei fa di sì con la testa. Ciò che suo padre le ha detto, è il piano di lavoro. È semplice, del resto: prenderemo posto all'albergo. Lei mi aspetterà, e io andrò dal mercante. Un giorno e una notte a Baalbeck dovrebbero bastare. In una stradicciola del centro troviamo un piccolo albergo dall'aspetto non troppo rassicurante, ma che mi pare adatto. Salima fa gli occhi grossi così: non era mai stata in città. Un albergo, neppure sapeva che esistesse: non immaginava che qualcuno potesse affittare la propria casa ai viaggiatori. Ce la lascio, proibendole di uscire dalla camera. Me lo promette. Vado da Fawziad. Per fortuna c'è. «Ah, eccoci, signor Charles! — mi dice, contento di vedermi. — Che rapporto ha da farmi?». Mi siedo accanto a lui, e gli spiego che la situazione è del tutto rassicurante. Ho visitato, gli dico, parecchi villaggi, facendomi passare per un turista cui piace camminare a piedi. Dappertutto l'atmosfera mi è parsa calma. I malumori di cui mi aveva parlato non sono che reazioni superficiali

senza conseguenze. In realtà i contadini sono contenti. Si ha torto di credere che essi contino unicamente sull'hashish per sopravvivere. Vivono molto bene con i prodotti della loro terra. Inutile agitare gli spiriti con ispezioni e inchieste non necessarie. Sarebbe un grosso errore, che rischierebbe di mettere alla gente la pulce nell'orecchio. E per dare alle mie affermazioni una miglior patina di verità, cito nomi di villaggi che Alì mi ha fornito, nomi di capi di villaggio, cifre di raccolti, eccetera. Il mio discorso fa effetto su Fawziad. Ha un'aria evidentemente sollevata. «Non è tutto, — mi dice. — Vorrei parlarle di un'altra cosa. Le interessa veramente lavorare con me?». Io drizzo le orecchie: «Come sarebbe a dire?». E cerco di assumere l'aria più tranquilla possibile. «Sarebbe a dire che i miei servizi di raccolta dell'hashish sono un po' troppo anarchici. Sono sicuro che ci sono delle fughe, degli individui che se ne vanno con le tasche piene di hashish. «Mi ci vorrebbe un tipo intraprendente e serio che sorvegliasse tutto. Il guadagno per lui sarebbe grosso». «Potrei vedere se è un lavoro possibile — dico. — Ma, per assicurarmene, bisognerebbe che facessi un sopralluogo per conoscere gli individui e tutta la trafila». «D'accordo. Quando i raccolti in corso di ammassamento saranno sistemati e ci sarà un po' di calma, la metterò in contatto con i miei uomini». «Allora, appuntamento a fine dicembre. Va bene?». Perfetto. Per me va tutto molto bene. Prima di allora, avrò avuto modo di fare un viaggio a Tangeri e avrò un milione e mezzo in tasca. Perfetto, perfetto. Lascio Fawziad molto soddisfatto. Tutto dovrebbe andare a gonfie vele. Come arrivo all'albergo, vedo che qualche cosa non va. Salima è seduta nella sala del ristorante, circondata da tre grossi individui allegri che non mi dicono niente di buono. Aggrotto le sopracciglia. «Salima! Ti avevo detto di restare nella tua camera! Vieni!». Capisco cos'è capitato. Spinta dalla curiosità, ha voluto discendere, e i tre individui le sono piombati addosso. Con aria mogia, Salima si alza, ma mentre fa per venire, uno dei tre l'afferra a un polso. «Resta!», dice. Parla in arabo, ma ho capito quel che le ha detto. Nello stesso tempo si volta verso di me, e sorridendo mi dice in inglese: «Questa qui è sua?». Faccio di si con la testa. «Carina — continua l'altro, con l'aria di valutarla, ma senza lasciarla. — Dove pensa di farla lavorare?». Dunque mi ha preso per un magnaccia europeo venuto a comperare una piccola araba per metterla in un bordello! «La lasci stare», gli grido irritato. Con rincrescimento ubbidisce, e Salima si rifugia tra le mie braccia. «Ah! Ah! — esplode l'altro. — La piccola vuol tanto bene al suo protettore! Presto rimarrà ben delusa…».

Io gli mostro i pugni. «Stia zitto o le spacco il muso!». Ma lui continua a ridere, forte. Allora, facendo finta di niente, apro la giacca e la mia pistola fa capolino. L'effetto è immediato, l'individuo smette subito. Con la massima calma, prendo posto a un tavolino per pranzare con Salima. Lei è fuori di sé dalla gioia. Non ha mai visto delle posate. Non sa usarle. Io fatico sette camicie per insegnarle. I tre tipacci non hanno più fiatato, e se ne sono andati alla chetichella. Siamo soli. Mi sento bene. E non oso dire a Salima che presto dovremo separarci. Evidentemente non posso condurla con me a Beirut. Sono dunque contento di poterle offrire una cena e una notte in albergo. E per lei questa festicciola è una grande festa! Quattro o cinque giorni dopo, siamo di ritorno a Saliet. Racconto tutto ad Alì e gli restituisco la pistola. Non ho troppa simpatia per questi aggeggi. È dare un pretesto alla polizia per arrestarti se, per una ragione o un'altra, hai che fare con essa. Alì capisce benissimo che devo ritornare a Beirut. Ma Salima no. È un torrente di lacrime, quando le annuncio la mia partenza. L'indomani all'alba, ci abbracciamo ancora appassionatamente. Devo strapparmela di dosso. Singhiozza… Anch'io ho il cuore gonfio quando, giù nella valle, Saliet dietro a me appare come un mucchietto di macchioline nere.

4. Mai avrei dovuto ritornare a Beirut! Tutto andava così bene! E purtroppo ho finito per commettere l'errore. Un errore che provocherà il crollo di tutte le mie speranze, e di conseguenza in conseguenza causerà la mia partenza per l'Oriente e la mia caduta nella droga… Quando arrivo da Aruache, lui non c'è. Sta viaggiando in qualche parte dell'Europa. Gill, sua moglie, è sola. Anche lei è bella, dolce e tenera… Divento il suo amante. Durante un lungo mese viviamo felici, senza nascondere la nostra felicità. È un errore imperdonabile, una follia. Un mattino, ai primi di dicembre, qualcuno mi scuote mentre mi rosolo al sole sulla spiaggia del camping. È Gérard. «Squagliatela in fretta! — mi grida. — Io non so chi ti abbia tradito, ma Aruache è tornato e è pazzo di rabbia. Sa che gli hai soffiato la moglie. «È sbarcato a casa con due scagnozzi. Crede che ti sia nascosto là dentro. Sta frugando tutta la casa, gridando che ti ammazza. E i due tipi hanno la rivoltella. «Da un momento all'altro ti arrivano sulle croste. Sbrigati, diamine. Fila, sparisci!». Mi vesto in un niente, mi butto lo zaino in spalla. Neanche il tempo di dire addio a Gill. Gérard mi aspetta con l'auto. Salto dentro, e mi deposita a Beirut con un po' di denaro, in un albergo in cui mi rintanerò per qualche tempo. Tornerà domani a informarmi. L'indomani, quando torna, ha un'aria catastrofica. Aruache ha appioppato alla moglie una scarica di legnate, e, quanto a me, ha giurato che mi ritroverà. Ha messo in allarme tutta la sua rete di sorveglianza, e ha distribuito i miei connotati. Accidenti! Questa volta ho proprio paura, e a mezzogiorno senza più attendere altro, salto sul treno che porta a Baalbeck. Meglio andare a mettersi al sicuro per qualche tempo a Saliet. Lassù, com'è naturale, Salima è folle di gioia nel rivedermi, ma Alì è sorpreso del mio ritorno anticipato. Povero Alì, come confessargli quel che mi è capitato? Gli racconto che va tutto bene, che ero stanco e sono tornato per riposarmi un po' a casa sua. «Casa mia e di Salima», conclude Alì ridendo. Io non ho alcuna voglia di ridere. Non vedo proprio come rimediare al disastro combinato. È proprio la fine di tutto! Fine del traffico d'armi. Fine del traffico di hashish con Alì. Che bestia sono stato! E Salima? Salima nuota nella felicità. Per parte mia faccio del mio meglio per non apparirle preoccupato, ma per quanto tempo riuscirò a recitare la commedia? Del resto bisogna che pensi seriamente al mio avvenire. Per prima cosa, voglio attendere qui un mese o due. Può darsi che Aruache si calmi. Ma non lo spero troppo. Testardo e spietato com'è negli affari, dev'esserlo altrettanto nei suoi rancori. Brr… Purché non trovi le mie tracce! Un mattino capita qualcosa di strano: una jeep della polizia arriva al villaggio, e i poliziotti entrano da Alì. Io sono presente. E sono io che essi vogliono. Devo seguirli subito. Che cosa succede? Non capisco. Ma non penso minimamente ad Aruache. Salgo sulla jeep,

mentre tutto il villaggio viene a vedere. Allora il poliziotto a fianco del conducente si volta verso di me e mi punta la pistola sul naso! «Mettiti lungo e disteso nella jeep, presto!», mi comanda in inglese. Un brivido mi percorre dalla testa ai piedi, mentre indovino tutto d'improvviso. Non sono poliziotti. Sono uomini di Aruache travestiti da poliziotti. Come hanno fatto a rintracciarmi, non è la cosa che in quel momento mi interessi di più. Ciò che conta, ora, è cercar di scappare. Grido: «Alì! Falsi poliziotti!». Ma avrei anche potuto fare a meno di gridare. In un batter d'occhio la jeep è circondata dagli abitanti del villaggio, e — non so proprio come abbiano potuto fare così in fretta — una dozzina di uomini tengono il fucile in mano. I fucili nascosti dalle truppe di Dentz. «Lasciatelo! — ordina Alì, — o siete morti. E sloggiate di qui in fretta». I falsi poliziotti non insistono, e la jeep scompare in un nugolo di polvere. Senza di me. Che respiro! Mi butto nelle braccia di Alì. «Grazie, mi hai salvato la vita». «Che cos'era, figliolo? — mi domanda preoccupato. — Delle noie per causa nostra?». «In un certo senso, sì — gli rispondo. — Il nostro progetto solleva qualche difficoltà. A Beirut la mafia dell'hashish si è allarmata, vedendo che mi sto dando da fare. Non te ne parlavo per non inquietarti, sperando che tutto si calmasse… Ma essa deve aver deciso di farmi fuori». Mi vergogno di mentire ad Alì. Ma cos'altro posso fare? «Noi ti difenderemo — dice Alì. — Conta su di noi». La notte, non faccio che voltarmi e rivoltarmi nel letto. Questa volta le cose hanno preso una piega troppo brutta. La mia vita è veramente in pericolo. Non posso più restare qui. Non ho il diritto di mettere questa brava gente nei guai per causa mia. Meglio che me ne vada. Non ho il coraggio di farlo di giorno. Visto che Salima dorme sodo, mi levo senza far rumore, e chiudo il mio zaino. Scrivo due parole per Alì: due sole parole, per domandargli perdono di partire in questo modo, e per promettergli che ritornerò quando tutto sarà calmo. E aggiungo quest'altro, che cancella la mia promessa: «Di' a Salima che cerchi di dimenticarmi…». Prendo la strada della montagna, verso il nord-est. Non so dove sto andando. Verso la Siria, in ogni modo, per ora. Fa molto freddo sulla montagna. E soffro molto, prima di arrivare in Siria. Passata la frontiera siriana e risalito verso la Turchia, sugli altopiani, poco prima di Ankara, mi sento morire di freddo. Ho commesso l'errore di voler fare l'autostop al cadere della notte, sperando in un autocarro che mi avrebbe fatto fare un lungo tragitto (il più delle volte, con le auto, non si fanno che piccoli tratti). Sfortunatamente non passa alcun autocarro, e mi trovo in aperta campagna, a un incrocio, a pestare i piedi nella neve. A mezzanotte sono ancora lì. Tira un vento glaciale. Batto i denti. Alla fine mi decido a cercare un riparo. In lontananza, un lume. Marcio in quella direzione. Il vento raddoppia. Cammino piegato in due: com'è da prevedere, il vento soffia contro di me. Presto la luce si spegne. A tastoni, brancolando nella tormenta, costeggio il bordo della strada e alla fine, quasi alle tre del mattino, arrivo davanti a una massa nera.

È la casa. Busso alla porta gridando. Finalmente mi aprono. È una locanda. Caritatevole, il padrone sveglia tutti quanti. Mi svestono, accendono un gran fuoco, mi frizionano con panni imbevuti d'alcool. Era tempo, ho già i piedi bluastri per il freddo. Ingozzato di minestra e di alcool, avvolto in quattro coperte (la pelle ora è rossa come un gambero), m'addormento davanti al fuoco. Mi hanno offerto una camera, ma io non ne ho voluto sapere: dormire di fronte al fuoco, è tutto quel che mi occorre. Non c'è nulla di più dolce al mondo!

5. Ai primi di gennaio 1969 arrivo a Istanbul. Perché Istanbul? Non ho nessun piano prestabilito. Non so se sto per rientrare in Europa o restare in Oriente. Semplicemente, Istanbul è una città in cui può capitare di tutto, ed è appunto quello che ho sempre cercato. E poi è anche la città di ogni sorta di traffici. Penso che c'è di sicuro qualcosa che fa al caso mio. Nel mio taccuino ho segnato l'indirizzo di un albergo che mi aveva dato un tale, per strada, in Grecia, a Salonicco: l'Old Gulhane Hotel. Mi aveva detto: «Non è caro, è buono, e puoi farci incontri molto interessanti». Questo sì, d'incontri ne ho fatti davvero, all'Old Gulhane! Ed è lì che la mia discesa all'inferno è cominciata. Quando arrivo a Istanbul, nevica. Attraverso il Bosforo sotto grossi fiocchi bianchi che turbinano attorno al traghetto prima di ammassarsi a mucchietti sul mio zaino. Fa un freddo cane, e non sono per niente allegro. Non mi resta più molto in tasca, ma peggio per me: prendo un tassì. Come dico al conducente il nome dell'albergo, si illumina in un largo sorriso: «Hippy!» esclama, e parte. Il conducente è un turco che parla inglese. Mentre guida, mi spiega. L'Old Gulhane Hotel si trova non lontano dalla Moschea Azzurra, da Santa Sofia e dal Gran Bazar, in un vecchio quartiere di Istanbul, a nord del Parco Gulhane (di qui il suo nome), in una stradicciola che dà sull'avenue Sultana Meth. In capo a un quarto d'ora, il tassì mi scarica con il mio lardello in una stradetta medioevale senza marciapiedi, in terra battuta, piena di ragazzi dal cranio rapato, che corrono e schiamazzano dappertutto, a piedi nudi nella neve che continua a cadere. Mi trovo di fronte una casa dai muri in terra compressa, screpolati, molto stretta. Alzo gli occhi e sulla porticina in legno massiccio leggo l'insegna, in lettere nere scolorite, fantasiose e con fregi: «Gulhane Hotel». Ci sono. Guardo un po' meglio. Sono tre piani, e due finestre per piano. In alto una terrazza circondata di rete metallica, coperta per metà da un tetto sommario di latta ondulata e cartone. Sull'altra metà, un telone. Spingo la porta, entro in un corridoio nero e sporco. In fondo, una porta dà su un giardinetto incolto pieno di immondizia ammassata. Puzza in modo stomachevole. Chiamo. Nessuna risposta. A destra c'è una porta. Busso. Giro la maniglia, invano. È chiusa. A sinistra invece la porta si apre. C'è uno stanzino con un grande mastello di legno sulla terra battuta. Anch'esso è vuoto. Mi avventuro per le scale dai vecchi gradini scricchiolanti, e al primo piano mi trovo in una stanza di circa quattro metri per cinque. Come topaia, raramente ho visto di meglio. Al soffitto, travi annerite. Al suolo, coperto di polvere e rifiuti sospetti, un pavimento rudimentale. Le pareti, naturalmente, sono in terra compressa. Su quattro vetri alla finestra, tre sono mancanti e il quarto è attraversato dal tubo di una stufa a segatura, di ferro. Nessun letto. Tutto in giro lungo le pareti, tanti pagliericci in tela di iuta, ciascuno con una sudicia coperta araba. Tutte le coperte sono stranamente tagliuzzate. Saprò in seguito perché. Qua e là, zaini e valige. Nell'aria una forte puzza. È un tanfo di sudore e di orina, un po' come in uno zoo. E un vago odore d'incenso e di hashish. Solo allora il mio sguardo, che si sta abituando a poco a poco all'oscurità, scopre che nell'angolo più buio della stanza c'è qualcuno. Un'interminabile sagoma coricata. È un ragazzo, un europeo scheletrito, barbuto, dai capelli lunghi e inanellati. È a piedi nudi, e i suoi piedi sono molto sporchi. Alle gambe ha pantaloni di tela che doveva essere bianca una volta, e indossa una camicia ampia,

anch'essa bianca, senza colletto, con grandi maniche larghe. Accenno un saluto. Nessuna risposta. Mi avvicino. Il ragazzo mi getta uno sguardo distratto e abbozza un vago sorriso. Ho l'impressione che mi abbia appena intravisto. Del resto, ha ben altro da fare. E assisto a una strana operazione. Sostenendosi su un gomito, e tossendo con tosse secca e rapida, tira fuori una siringa dal suo sacco, poi una piccola scatola di cartone, tipo prodotti farmaceutici. Posa la siringa, che ha già l'ago infilato, per terra, sul pavimento, accanto a sé. Senza curarsi affatto della mia presenza, apre la scatola, ne estrae un tubetto, lo apre e fa cadere nel palmo della mano cinque o sei pastigliette rotonde e bianche che posa per terra, accanto alla siringa. Fruga di nuovo nel suo sacco, ne cava fuori un pezzo di carta di giornale, lo posa vicino alle pastiglie e gliele mette sopra. Poi afferra un bicchiere slabbrato, e a piccoli colpi polverizza le pastiglie una per una. Io lo guardo, affascinato. Mi sporgo un po' e leggo sulla scatola questa parola: Metedrina. È, so bene, un potente eccitante, del genere maxiton. Ora il drogato, per la prima volta, sembra accorgersi che ci sono anch'io. Mi tende il bicchiere e, in un inglese perfetto, mi chiede di metterci un dito d'acqua. «Dove la prendo?», domando, facendo con lo sguardo il giro della stanza. «Al rubinetto, sul pianerottolo», mi spiega. Vado, e in un angolo del pianerottolo, vicino a un buco da cui esce un tanfo di pozzo nero, trovo un vecchio rubinetto di rame, corroso e gocciolante. Prendo il dito di acqua richiesto. «Thanks», mi dice il drogato, con un sorriso sfuggente: grazie. Abilmente piega il giornale a imbuto, e fa scivolare la polverina bianca nel bicchiere. Col dito rimescola la miscela per un momento. Prende la siringa e aspira il liquido attraverso l'ovatta. Poi tira ancora fuori dal sacco un cinghietto, arrotola la manica sinistra della camicia, avvolge il cinghietto attorno a quel poco di bicipite che ancora gli resta, appena sopra il gomito. E stringe. Ma non ci riesce. Mi fa segno di aiutarlo. «Stringi qui, per favore?», mi dice. Io stringo. Le vene risaltano in fuori, tutte rigonfie di piccole ernie, con punti nerastri di sangue secco un po' dappertutto, e lividi sotto la pelle. Lui affonda la siringa ben diritta, senza esitare. Tira indietro lo stantuffo. Un po' di sangue arrossa l'interno della siringa. Soddisfatto, si inietta ora tutto il miscuglio, rimette a posto in fretta le sue cose e si ricorica, girato verso la parte del muro. Non si muove più. Un po' sconcertato, poso il mio sacco su un pagliericcio che mi pare non occupato, e torno verso di lui. Lo scuoto. «Ehi, di' un po'. Sei solo, qui? C'è nessun padrone?». Gira la testa verso di me e mormora che c'è, e dev'essere di sopra, o in giardino, lui non sa. Seguo la sua indicazione e salgo al secondo piano. Anche lì c'è un dormitorio, altrettanto sporco, altrettanto puzzolente. Un grosso topo mi passa tra i piedi. Ma non c'è nessuno. Salgo al terzo piano. Stessa scena, con in più un altro individuo del tutto somigliante al drogato del primo piano, e anche lui immobile. Arrivo sulla terrazza. Anche lì ci sono dei pagliericci, dalla parte coperta con la latta ondulata. Continua a nevicare. Finalmente vedo una figura in piedi. È un uomo molto vecchio, molto magro, con il pizzo e capelli grigi arruffati. Indossa pantaloni turchi di tela, molto larghi, ciabatte ai piedi, e una giacca europea. Sta borbottando chissà cosa attorno a un mucchio di rifiuti. Porta su di me uno sguardo

tranquillo, udendo i miei passi sul pavimento. «È lei il padrone?», dico in inglese. «Yes». «E… Posso prendere posto?». «Dove le piace». Insisto: «Ma dove? È tutto vuoto». Fa un gesto vago con la mano. «Questa sera», risponde. «E quanto fa?». «Una lira sulla terrazza, due lire in basso» (si tratta della “ lira turca “, che equivale a 40-45 lire italiane). E aggiunge senza che gli abbia domandato nulla: «Si paga quando si vuole». «E per il mangiare? — gli dico ancora. — Si può mangiare qui?». Mi risponde con un inintelligibile brontolio in cui mi pare di distinguere la parola pudding e si rituffa nel suo mucchio di rifiuti. Sono le tre del pomeriggio, e non ho mangiato niente dall'alba. Dovrò cavarmela da solo, se ho capito bene. Me ne vado. Do un ultimo colpo d'occhio al drogato del primo piano, affidandogli la custodia del mio zaino, dato che tutto sommato sembra che abbia già la sorveglianza su tutto il resto, e che il mio zaino non contiene — purtroppo — nessun tesoro. Fuori, fatti cento metri, sbocco in un grande viale fiancheggiato da alberi, dall'aspetto quasi accettabile. Lo attraverso, seguendo il flusso dei passanti. Trovo un caffè aperto, ed entro. Mi servono da mangiare e, rinvigorito, me ne vado a bighellonare per la città. «Questa sera», ha detto il padrone del Gulhane. Vuol dire che questa sera ci sarà un sacco di gente all'albergo. Dunque, rientrerò per la sera. Effettivamente, quando rientro verso le nove, dopo aver fatto il turista a Santa Sofia, non riconosco più il mio deserto. È intasato di gente. Nella mia camera, dove il drogato perpetuo è sempre immobile, sono in una dozzina seduti in cerchio sui pagliericci. Ragazzi e ragazze. Tutti hippies. Vestiti stravaganti, capelli lunghi, collane, camicie indiane, piedi nudi. Tutti giovani, tutti sporchi, tutti uguali. Io, con le mie scarpe, i miei calzoni e il mio colletto rialzato, stono visibilmente. Ma nessuno ha l'aria di considerarmi un intruso. Mi si fa un po' di posto, e mi siedo anch'io sul pagliericcio, col mio abito europeo, in mezzo agli altri. Hanno acceso la stufa, che ronfa. Ma fuma anche spaventosamente. È insopportabile. Mi alzo, la regolo, la sistemo. Il fumo finisce. Riscuoto qualche sorriso di ringraziamento. Allora mi guardo un po' meglio intorno. E vedo delle cose curiose. Accanto a me c'è un individuo vestito di bianco, ancora più magro forse di quell'altro nell'angolo, al quale nessuno fa attenzione. Ha una scimmietta sulle spalle. E la scimmietta lo spidocchia meticolosamente. Ogni volta che acchiappa un pidocchio, squittisce e lo dà al suo «proprietario», che si volta verso la sua vicina. Questa, una biondona tedesca, danese o svedese, indossa una divisa da marinaio sbottonata sul petto. Attorno al collo ha qualcosa di arrotolato. Qualcosa che, lo vedo subito, è un serpente. Un cobra, nientemeno. Lei prende il pidocchio e lo passa al cobra, che lo ingoia in un soffio. Un altro tipo viene avanti. Ha un topo in mano, vivo. Lo consegna alla ragazza, che lo passa al cobra, il quale lo ingoia tutto intero.

La ragazza mi sorride e io mi faccio coraggio: le indico il drogato disteso nella stessa posizione di questo pomeriggio. «È malato?» domando, sempre in inglese, perché sembra che tutti parlino inglese, qui. La ragazza alza le spalle. «Johnny? — fa lei ridendo. — Sono tre mesi che non si muove di lì». «Tre mesi?». «Eh, sì!». La cosa non sembra stupirla per niente. Ondeggia un po' sui fianchi, e canticchia guardando il drogato: «Johnny junkie, Johnny junkie». Non le ho chiesto che cosa vuol dire junkie. Ma lo imparerò fin troppo in fretta: è il nome che si dà ai drogati all'ultimo stadio, quelli che non hanno più altra scelta tra la porta dell'ospedale e quella del cimitero. Un nome che ascolterò anch'io, bisbigliato al mio passaggio, una notte di follia inimmaginabile a Katmandu… Ma d'improvviso si crea una specie d'agitazione. Tra gli accessi di tosse (ho dimenticato di dire che, da quando sono rientrato, sento tossire dappertutto, la stessa tosse breve, secca, acuta, la tosse dei fumatori di hashish), si leva una musica attutita. Uno ha tirato fuori la chitarra da sotto il pagliericcio, ha cominciato a suonare. Una melodia indiana, aspra e dolce insieme, lancinante. Gli altri si restringono un poco, e uno di loro fruga nel suo sacco. Ne tira fuori un pacchetto di sigarette americane; poi una specie di cono vuoto, di marmo bianco, lungo un palmo e annerito all'interno; poi, da un involto di plastica, una placca d'una materia bruna, dura e opaca, che riconosco subito. È hashish. Ne taglia un pezzetto con il temperino, e mette via con cura il resto. Poi toglie una sigaretta dal pacchetto e, arrotolandola tra le dita, la svuota a poco a poco, facendo cadere il tabacco nel palmo aperto. Poi infila l'hashish sulla punta del temperino e lo scalda alla fiamma d'un fiammifero, girando il temperino per quindici o venti secondi. Poi sbriciola l'hashish, sempre nella palma aperta, un po' piegata per fare conca, e col pollice mescola tutto. Intanto la ragazza che gli sta accanto taglia un quadratino di carta stagnola dal suo pacchetto di sigarette, fa bruciare la carta perché non rimanga più che la lamina metallica, la arrotola a pallina e la colloca in fondo al cono. Poi taglia un pezzo, della dimensione di due o tre francobolli, dalla coperta del suo pagliericcio (capisco d'improvviso perché esse sono tutte tagliuzzate). Umetta di saliva il lembo di stoffa e lo avvolge attorno all'estremità inferiore del cono. «Passami lo shilom», dice il ragazzo. Lei gli porge il cono. Shilom, è dunque il nome di quell'oggetto. Ne avrò presto anch'io una dozzina… Sono sopravvissuti a tutte le mie peripezie. Li ho conservati. Il ragazzo versa il suo miscuglio di tabacco e hashish nello shilom, lo preme un poco, accende un cerino, gli dà fuoco, preme ancora perché la brace rimanga ben compressa, poi riversando la testa all'indietro e tenendo a due mani lo shilom, nell'atteggiamento di chi soffia nelle palme a imbuto per scaldarsi, aspira dal di sotto la fumata dell'hashish. Aspira molto forte, molto profondo. E passa lo shilom alla sua vicina. Lei fa altrettanto, e lo passa al suo vicino. E così di seguito. Io li guardo come se fossi d'improvviso trasportato in mezzo ai pellirosse che fumano il calumet

della pace. Ma lo shilom si avvicina a me. Che cosa faranno? Salteranno il mio turno? Mi sembra logico, e non me la prenderei. Dopo tutto, non mi conoscono neppure, e si tratta del loro hashish, non del mio. E se mi porgeranno lo shilom? Mi prende un po' di panico. Come comportarmi, se me lo passano? Lo sento confusamente, ma con certezza: non sarebbe certo il caso di rifiutare. Ho l'impressione che non sono cose da farsi. Ma io non so come si fuma, ecco il pasticcio! Non importa: il mio vicino, dopo aver tirato la sua boccata, mi ha passato l'arnese. Ho fatto ben attenzione a come hanno fatto gli altri. E mi butto. Affettando la maggior naturalezza possibile, con l'aria di far ciò da un'eternità, prendo lo shilom, metto le mani a imbuto di sotto, e tiro una boccata… Niente arriva ai miei polmoni. Perché, anche se ho osservato bene il modo con cui fanno gli altri, io non ce l'ho ancora, questo modo. Passa dell'aria tra le mie giunture, sfugge dalla cavità delle mie palme. In pratica aspiro per metà l'aria circostante, e per metà il fumo dello shilom. Stringo un po' più le dita, e mi contraggo tutto. Questa volta va meglio, ottengo una boccata migliore. Passo lo shilom al mio vicino, e continuo a studiare, con la coda dell'occhio, come fanno gli altri. Lo shilom fa un giro completo, e torna a me. Questa volta ho capito il meccanismo. Aspiro quasi interamente il fumo, ma non è facile. E poi, non oso tirare così forte come fanno gli altri. Il fumo è molto aspro. Bisogna avere una gola blindata per non sputare polmoni e budella, quando questa roba ti entra nella gola. Del resto tossisco già un po', ma senza rendermi ridicolo. In tutto questo tempo lo shilom ritorna al suo punto di partenza. E l'individuo che lo riprende, non lo mette più in circolo. Lo abbandona al suo fianco. Un altro shilom intanto è partito, e sta facendo il giro. Capisco che il primo è finito. Quando il secondo arriva a me, mi faccio coraggio e aspiro una buona boccata. Funziona: non tossisco affatto, e aspiro pochissima aria. E poi, comincia a fare effetto. Da qualche minuto mi sento bene. Ho l'impressione di «planare». Non conosco parola più adatta per descrivere questa sensazione. Attorno a me tutto sfuma lentamente in un mare di ovatta. Se voglio, posso non osservare né sentire più niente del mondo esterno. Mi basta volerlo, e ops mi trovo tutto solo al mondo. Ma se voglio fissare l'attenzione su qualche cosa, un oggetto, un suono o un pensiero, è facile; d'improvviso viene in primo piano, e il resto non esiste più. Mi sento beato, la vita è bella e morbida, il mondo è perfetto e malleabile, e io volo dolcemente al di sopra di tutto. Basta che io immagini di volare, e mi sento volare veramente. Quanto alle preoccupazioni, addio! Non ho più soldi in tasca? Al diavolo i soldi! Ci s'aggiusterà sempre. Forse è Aruache il vero proprietario del Gulhane Hotel? Ebbene, lo sia: non me ne importa proprio niente. Ora è la quinta volta che lo shilom torna a me. E io mi sento sempre più felice. L'individuo della chitarra suona sempre le stesse arie agrodolci, e io non ho mai sentito musica più bella. Di tanto in tanto, come in un sogno in cui si crede di volare, mi offro un piccolo ritorno sulla terra. Allora noto Johnny il junkie sempre rivolto verso il muro, e mi prende un'immensa simpatia per lui. Vedo altri individui che si fanno iniezioni, pur continuando a fumare. Anche a loro vorrei dare delle pacche amichevoli. Tutt'a un tratto mi viene voglia di ridere. Rido. E stupefatto, mi sento ridere, d'un riso incoercibile, come non ho mai riso in vita mia, francamente, con tutto il cuore, a gola spiegata, a gorgheggi lunghi e acuti da far saltare quel che resta dei vetri alle finestre della camera.

Ciò mi sveglia. Mi fermo, un po' vergognoso. Getto uno sguardo di traverso agli altri. Non mi hanno neppure degnato di uno sguardo. Di colpo ricomincio a ridere, perché ne ho voglia, una voglia violenta, inspiegabile, più forte di me. Ma ecco, arriva il mio sesto shilom. A questo punto non mi fa più paura, lo prendo con sicurezza. Fieramente, vuoto i polmoni il più possibile, e aspiro profondo, come gli altri. Era da prevederlo: esplodo. Con i polmoni devastati da un bruciore irresistibile, tossisco da farmi scoppiare la cassa toracica. Impiego cinque buoni minuti per rimettermi, e devo saltare un giro di shilom. Ma anche questa volta, nessuno fa attenzione a me. Ognuno è troppo assorto nei suoi voli. Quel che può capitare agli altri, che importanza può avere? Lo shilom torna ancora una volta. Io resto perfettamente cosciente, e mi dico che sto per farmi cacciar via, che mi si domanderà perché non tiro fuori anch'io il mio hashish, perché non partecipo alle spese. È impossibile che non mi trattino da scroccone! Ma no, nessuno mi chiede nulla, nessuno mi parla. Una volta o due mi si domanda una sigaretta o un pezzo della carta del pacchetto, per metterlo in fondo allo shilom. Ma è tutto. Sono già stato accettato. È una cosa che noterò lungo tutto il mio viaggio nel mondo della droga. Mai in un gruppo si rifiuta la droga a qualcuno. Tutto è in comune. Chi ne ha, ne dà. Chi non ne ha, ne prende. È la fraternità più completa. Ancora una volta lo shilom è nelle mie mani. Quante volte mi è già arrivato? Non lo so. Non conto più. Sono completamente «partito». E non ho alcuna voglia di fermarmi. Del resto si continua ad andare avanti. Quando smettiamo di fumare, quando non c'è più hashish nel sacchetto, è mezzogiorno dell'indomani… Ho fumato per quasi quindici ore consecutive! E mi sento meravigliosamente bene. Per nulla affaticato, senza la minima voglia di dormire. Né gola che brucia, né testa pesante. Perfettamente in forma, sento anche fame, una fame da divorare un bue. Bisogna assolutamente che vada a mangiare. Lo dico. Altri sono d'accordo. Qualcuno decide: «Andiamo al Pudding Shop». Seguo gli altri. Eccoci in cinque o sei, fuori, sotto la neve che cade sempre, io in sandali, gli altri a piedi nudi, calzoni e camicia di tela, senza niente d'altro, ma non abbiamo freddo. Guardo la neve che cade. Sono anch'io come uno dei fiocchi che volteggiano al vento, e che cerchiamo di afferrare correndo, scossi da scoppi di risa, nell'Avenue Sultana Meth, in mezzo alle vetture che sterzano per evitarci. Dopo 300 metri, arriviamo a una specie di bar dalla facciata a vetri, preceduta da una piazzuola. C'è un sacco di gente sul marciapiede, nonostante la neve, e sono tutti hippies. Alcuni entrano, altri escono, restano lì, con le braccia ballonzolanti, incerti, poi se ne vanno. Noi entriamo. L'interno è molto chic. Pannelli di legno lungo i muri, lampadari dorati un po' dappertutto. A destra un lungo banco di fòrmica a pannelli blu, crema e ocra, con una vetrina obliqua piena di tappeti orientali ed europei. A destra, una lunga fila di tavolini tra gli specchi a muro. Il locale ha un'aria molto europea. Tanto più che è pieno di norvegesi, tedeschi, svedesi, americani, inglesi, eccetera. Una ragazza discute animatamente con un cameriere, al primo tavolo. Mi pare di capire che è lì da un paio d'ore e che non ha ancora ordinato nulla. Deve sloggiare, malgrado le sue proteste

veementi. Ci siamo appena accomodati al suo tavolo, che lei ritorna trionfante con un biglietto. Ci si restringe per restituirle il suo posto. E come lei, anche noi ordiniamo creme al cioccolato e caramello, con un eccellente pudding inglese (presto ne avrò mangiati così tanti, da non poterli più vedere). Paghiamo in contanti. È piuttosto caro. Eppure è proprio questo Pudding Shop, dove ci si aspetterebbe di vedere vecchie turiste americane venute a fare lo spuntino, il principale luogo di convegno degli hippies di Istanbul. Io mi trovo bene. L'hashish fa sempre il suo effetto, ma con dolcezza, quel tanto che basta per tenermi perfettamente fresco e sveglio. Comincio a simpatizzare con i miei compagni della notte, ai quali devo la mia iniziazione alla droga. Non cerco più di nascondere loro che è stata la mia prima esperienza. Del resto mi dicono che se ne sono accorti subito, dal modo in cui tenevo lo shilom. Dico loro di dove vengo e chi sono. Non sembra che li interessi molto. Ma mi trattano da amici. Dopo tutto, sono io che pago questa visita al bar. Ma ero in debito con loro. Poi si mettono a conversare. L'argomento è l'India, il Nepal, soprattutto Katmandu. Pochi ci sono andati e tutti spasimano di partire, o di ripartire. Ci sono anche storie di lasciapassare che non arrivano, di persone bloccate da qualche parte, per mancanza di denaro, in Iugoslavia o in Afghanistan. E, si capisce, si parla di droga, di fornitori, di miscugli, di prezzi. Sento per la prima volta termini che mi diventeranno presto familiari. Si parla di trip e di acide, di grass e di joint. Cioè, da quel che capisco, si tratta del «viaggio», dell'LSD, e della marijuana. Quanto al joint, è una sigaretta di tabacco e hashish mescolati. Ma molte altre parole per me sono ancora cinese. Solo più tardi imparerò che to drop vuol dire prendere LSD, che bread non è il pane, contrariamente a quel che si potrebbe credere, ma il denaro. Che quando si crasche è quando si dorme. Che i downers sono i tranquillanti. Che è groovy vuol dire è «una pacchia». Che essere stoned è essere sotto l'effetto della droga. Che l'eroina si chiama smack. Che un poliziotto è un man. Che un mike è un microgramma, misura dell'LSD (una capsula ne contiene in media da 250 a 500). Si parla anche del drogato che ho trovato ieri all'arrivo. Uno dei presenti è stufo di lui. Ha accettato l'incarico di trovargli dei crystals (della metedrina), e l'altro lo supplica di comperargliela in fiale e non più in pastiglie (di cui l'ho visto servirsi ieri). In fiale è molto più nice (bello, efficace), solo che costa molto più cara. Per di più, il finto medico che gli prescrive le indispensabili ricette si è fatto pizzicare dai men (plurale di man, vedere sopra). Poi si passa all'hash, alla «mostarda», perché è così che si chiama l'hashish. Per quale motivo? Penso che è un termine dialettale inventato per evitare di farsi scoprire da orecchie indiscrete… o poliziesche. Nel gruppo, più nessuno ne ha. Urge trovarne. Purché il change-money passi presto. Capisco subito che si tratta di un trafficante turco che, più che un cambiamonete, è un uomo tuttofare, un intermediario. In capo a un'ora, arriva. È un piccolo turco dallo sguardo sfuggente, vestito all'europea, sulla quarantina. Siede con noi e tira fuori di tasca un sacchetto di plastica. Dentro, quando lo apre, vedo una grossa placca di hashish rossastro, non molto somigliante a quello che abbiamo usato ieri. «To', è di quello libanese», dico io. Gli altri si voltano verso di me, stupefatti. «Allora te ne intendi?». La mia frase ha prodotto il suo effetto. Ne sono lietissimo, ma cerco di non farlo troppo vedere. E continuo: «E posso anche dirvi che questo non è granché. È vecchio, non ha meno di un anno». Gli batto sopra con l'unghia dell'indice.

«Vedete, è duro, non ha più il suo bel riflesso verde. E non odora più molto». «Hai ragione — mi dice Terry l'americano. — Ma come fai a sapere queste cose?». «Ho fatto la raccolta dell'hashish a settembre nella valle di Baalbeck, in Libano». Terry si volta verso il change-money, che mi sta lanciando occhiate feroci. «Be', non hai niente di meglio?», gli dice. L'altro dice di no, che i tempi sono duri, ma che è disposto a diminuire il prezzo. Si contratta. È disposto a non farlo pagare al prezzo solito, di 20 lire turche (attorno alle 900 lire italiane) per tholla (misura corrispondente a 11-12 grammi). Dato che un chilo fa all' incirca 90 tholla, e che una tholla permette di fare 30 sigarette, o da 10 a 15 shilom (press'a poco quel che abbiamo fumato la notte scorsa), l'infera nottata ci è venuta a costare 10 franchi (circa 1.200 lire italiane), mentre a Parigi per la stessa quantità se ne sarebbero spesi 200 (quasi 25.000 lire italiane)! Invece di 20 lire turche per tholla, il change-money è disposto a scendere fino a 12, ma non di più. «Dodici lire per una tholla della tua vecchia marmellata? Mi fai ridere! — ribatte Terry. — No, grazie. Bye, bye». Il change-money brontola qualche minaccia, poi se ne va. «Non si rischia niente — commenta Terry, rivolgendosi a me. — Si andrà da Liener. Ne ha sempre, lui. Ma dimmi, spiega un po' come è andata la raccolta della "mostarda". Se è così, bisogna che ci vada anch'io». Non mi faccio pregare, e snocciolo tutte le mie avventure. Aruache, Baalbeck, Saliet, Ali, eccetera. «Credevo che la coltivazione dell'hashish fosse proibita, ora, in Libano», interviene una ragazza. «Sì, l'hanno sostituita con quella del girasole, ma essi aggirano l'ostacolo». E spiego la faccenda delle piante piccole nascoste sotto quelle grandi, la loro raccolta, pigiatura, eccetera. «Di' un po', hai visto molto hashish, lassù?», mi domanda Terry. «A Baalbeck, presso un rivenditore, in un suo magazzino, ce n'era, ammucchiato lungo un muro, alto come me». «E non hai pensato a prenderne un poco?». Sorrido, imbarazzato. «Capisci, allora non pensavo a fumare». Restano senza parola per due minuti, come un piccolo borghese a cui raccontino che è stato acceso il fuoco nel camino con le sue azioni. Ma star lì a fantasticare non serve a nulla, bisogna andar a cercare l'hashish. E ci rimettiamo in marcia. Cammin facendo, Terry mi spiega dove si va. Liener è il proprietario di un piccolo ristorante frequentato dagli hippies, qualcosa come il Pudding Shop. Vende hashish, e ne fuma lui stesso. In due minuti arriviamo in una stradicciola che porta a un angolino in disparte, invaso da un grosso albero morto a metà. Ci sono tavolini sul pavimento in cemento, ma sono vuoti a causa della neve. A destra, una piccola scala porta a una bottega stretta e sudicia, senza insegna. I muri sono tappezzati di tela di sacco grigia. È molto buio. Per l'illuminazione non ci sono che due o tre deboli lampadine che pendono nude dal soffitto. A sinistra una grande tavola, e a destra due tavolini a due posti. La stanza non misura che sei o sette metri di profondità. In fondo, una cucina stretta, con una vetrina di paste e un'altra di piatti. Sono le otto di sera. C'è un mucchio di gente, ma noi siamo solo in tre: io, la ragazza che si

chiama Kacha, e Terry, e troviamo un po' di posto. Terry ordina da mangiare. Ci portano due piatti ciascuno. Nel primo, un misto di legumi, zucchini, patate e fagioli verdi, il tutto molto piccante; e nel secondo una porzione di vitello bollito. Come al Pudding Shop, si paga in contanti: 3 lire a persona, più un tè, mezza lira. Presto, a un segno di Terry, un uomo ben piantato, con grossi baffi, il gesto misurato, il passo assolutamente sicuro di sé, si avvicina. È Liener, il proprietario. Sì, lui ha della «mostarda». Al prezzo normale. Ed è veramente buona quella che ci fa vedere, molto buona, molto odorosa, non troppo dura. «Dammene per 6 tholla», dice Terry. Liener taglia e pesa su una piccola bilancia. Fa 90 lire. Rifletto in fretta. Capisco che bisogna fare un gesto, se voglio veramente entrare a far parte del gruppo. Mi restano in tasca 400 lire, niente più. «È per me», dico. E pago. Terry e la ragazza non protestano. Io intasco l'hashish. «Adagio — mi dice Terry sorridendo. — Ne fumiamo un poco, no?». Getto un'occhiata attorno a me. «Ma qui non si può», osservo. «Certo, non con lo shilom. Hai delle sigarette?». Tiro fuori un pacchetto di americane. Terry ne prende tre, le arrotola tra il pollice e l'indice per farne cadere il tabacco. Lo mescola con l'hashish e riempie le sigarette. Sono diventate dei joints. Abbiamo finito di mangiare, e fumiamo. È molto meno forte che con lo shilom, evidentemente (dato che con un tholla si possono fare trenta sigarette, contro una quindicina di shilom soltanto), ma ognuno ha una sigaretta tutta per sé. Ben presto tutto va a gonfie vele, io sto planando. Ho la pancia piena, un buon joint in bocca, ho passato una notte in bianco, ma mi trovo perfettamente in forma, completamente stoned. Viva la «mostarda»! Verso le nove si rientra al Gulhane… per piombare nel bel mezzo di un'invasione di poliziotti. Ci sono dei men dappertutto, alcuni con la pistola in mano. Verificano i documenti di ognuno. Terry ci trattiene in tempo. «È da scemi entrare — dice. — Non si sa mai, con quelli lì. Ci impacchettano per un niente. Andiamo all'isola. Ci passeremo molto bene la notte». Andiamo nell'isola? Andiamoci. Quale isola? Poco importa, si vedrà. È questo, la droga: niente conta più, si è disponibili a tutto. Si riparte tutt'e tre: Kacha, Terry e io. Si costeggia il Gulhane Park, si taglia a sinistra, oltre la stazione, e presto si è sul Bosforo. Nevica che Dio la manda. Ma siamo completamente insensibili al freddo. Per strada ci siamo preparati ancora dei joints. Attraversiamo un braccio del Bosforo su un ponte, lo costeggiamo fino ai sobborghi, e finalmente Terry trova un pescatore che ritira la sua barca. Nonostante la notte e la neve, riesce a convincerlo, con l'aiuto di 3 lire, di condurci nell'isola. Saliamo a bordo di una lunga barca, con panche per traverso, e il pescatore si mette a vogare all'indietro. L'acqua è immobile sotto la neve, dei gabbiani passano mollemente gridando nella luce del nostro fanale. Un accesso folle di riso, come ieri sera, mi prende. Ora so che è caratteristico dei

fumatori dilettanti, ma io me ne impipo. Fa tanto nice, ridere.

6. Dopo un quarto d'ora, la barca urta un piccolo imbarcadero di legno. Di fronte a noi distinguo a tratti dei barlumi tremolanti, come di candele. Terry ci guida, e arriviamo presto davanti a una grotta nel fianco della collina. È di lì che vengono i bagliori. Avanzo, passo sotto una volta alta tre o quattro metri, e sbocco in una grande cavità, profonda una quindicina di metri, rischiarata da una luminaria fantastica. Da un posto all'altro, grosse candele che fumano, flambeaux e bugie posate su casse o sul suolo in terra battuta. Le pareti della grotta sono di granito. Ci saranno da 50 a 60 hippies, ragazzi e ragazze, alcuni seduti, altri stesi, o intenti a ravvivare i lumi. Tutti indossano vestiti dai colori vistosi, sciarpe attorno al collo, bende che cingono le fronti. Le ragazze hanno segni strani tracciati sulla fronte, di rossetto, ma anche di tutti i colori. Molti hanno vestiti di pelle, con l'orlo a frangia, ricamati con disegni orientali. Alcuni, come il mio junkie di ieri, sono tutt'in bianco. Sono i più smagriti, e hanno lo sguardo febbricitante. Molti altri portano serti di fiori, o fiori nei capelli, soprattutto le ragazze. Sono grosse margherite gialle. Come fanno, a questa stagione, sotto la neve, a trovare questi fiori? Non lo saprò mai. In un angolo, un chitarrista suona canticchiando. Un po' più lontano, un flautista lo accompagna. Ha un flauto bizzarro. Lungo 40-50 centimetri, con quattro o cinque fori soltanto, e bruscamente rigonfio dalla parte della bocca. È una specie di piccola zucca secca, gialla, venata di bruno, con una conchiglia incastonata in mezzo. Terry mi spiega che è un flauto per incantare i cobra. Il suono è acidulo, lancinante, snervante; da principio lo trovo molto sgradevole, ma mi ci abituerò in fretta. Terry mi spiega ancora che ci sono otto o nove grotte in tutto nell'isola e che un centinaio di hippies le abitano. Noi ci installiamo in un angolo e, sempre ascoltando il chitarrista e il flautista, ricominciamo a fumare. Terry ha con sé uno shilom di terracotta, tutto annerito. Lo prepara con cura, e tutt'e tre aspiriamo dallo shilom. Non siamo i soli, ma ne vedo altri che anche si fanno iniezioni, qua e là. Nessuno parla, o quasi. Nessuno mangia o fa qualcosa. Semplicemente si fuma o ci si fa iniezioni, stretti gli uni agli altri, nella luce gialla e rossa che proietta grandi ombre fantomatiche sulle pareti, cullati dalle bizzarre melodie del flautista e del chitarrista. Poco lontano da me, sotto una candela che la rischiara perfettamente, ho notato una graziosa biondina in blue-jeans azzurri e pullover verde-azzurro chiaro, che sembra sola. L'ho notata perché assomiglia a una ragazza che ho conosciuto in Francia. Allora concentro la mia attenzione su di lei. Tutti gli altri pensieri svaniscono, non vedo che lei, e mi metto a sognare che è la francesina di allora. Molto presto i miei sogni diventano precisi. Comincio ad abituarmi alla droga, riesco a dirigere meglio i miei sogni. Mio Dio, com'è gradevole! In capo a un'ora o due, non so quanto, la ragazza si muove e si siede. La vedo tirar fuori una siringa dal suo sacco, poi tre fiale d'un liquido incolore. Caccio via i miei sogni e decido di rientrare nella realtà. Fatto, sono rientrato, è facile. Osservo la ragazza attentamente. Rompe — una dopo l'altra — le tre fiale e riempie la siringa. Poi si fa un laccio con un foulard indiano di cui tiene i capi con i denti, e si fa l'iniezione in profondità nel gomito. Ritira la siringa e allora, bruscamente, s'irrigidisce, con la siringa in mano. Diventa livida, si mette a respirare molto forte, ansima sempre più. Due o tre hippies che l'hanno vista si alzano e vanno verso di lei. La sostengono, cercano di farla

respirare. L'ha presa un malore, di sicuro. Soffoca sempre più. Ora è completamente bluastra. D'improvviso si riversa indietro, e strabuzza gli occhi. Le prendo il polso. Non batte più. Sono passati appena tre o quattro minuti, da quando s'è fatta l'iniezione. È morta. Allora nella grotta molti si alzano, vengono verso di lei. Si è fatto silenzio. Ciascuno, a turno, la guarda. Si cercano sue notizie. Chi è? Chi la conosce? Nessuno. Non si sa il suo nome. È arrivata tre giorni fa e si è sempre fatta iniezioni. È tutto. Non ha sopportato un 'overdose (eccesso di droga). Sul volto dei presenti non noto alcuna emozione. Niente. Una ragazza è morta, lì, tutta sola, sembra una danese, o una norvegese, diciotto o vent'anni, e nessuno ne sembra turbato. Il chitarrista ha smesso di suonare. Ma non il flautista. Nel silenzio generale, lo strepito acidulo del suo flauto continua. Viene anche lui vicino alla ragazza e continua a suonare, mentre la guarda tranquillamente di tanto in tanto. Una ragazza alta e bruna si avvicina e chiude gli occhi della morta, dolcemente. Poi, aiutata da un ragazzo, la stende sul suo sacco a pelo, le braccia lungo il corpo. Un'altra ragazza viene, si toglie il serto di fiori, e lo posa sul cadavere. Una ragazza arriva con una lunga sciarpa di seta gialla, dai disegni neri lungo tutto l'orlo e sovrimpressi in mezzo (ho saputo più tardi che era una sciarpa sacra di Benares). Stende la sciarpa sul corpo della morta, lasciando il viso scoperto. Altri vengono ancora, e presto la morta è coperta di fiori. Attorno al corpo piantano bastoncini d'incenso. Ce ne sono una cinquantina. E la morta resta lì, illuminata dalla luce rossastra dei bastoncini, il volto bluastro, contratto, le mani accartocciate che escono da sotto la sciarpa. Nel giro di un'ora il suo viso si distende e comincia a impallidire. Allora ritorna molto bella… Intorno, la vita ha ripreso. Ognuno è tornato al suo posto. Gli shilom hanno ricominciato a circolare, e le siringhe a funzionare. Il flautista suona senza interruzione. Il chitarrista di nuovo lo accompagna. Finalmente l'alba imbianca l'ingresso della grotta, e vedo che continua a nevicare. Due ragazzi vanno verso la morta, rifanno il suo fagotto, frugano in un sacchetto di cuoio e tirano fuori i suoi documenti. Poi afferrano il suo corpo, uno alle spalle e l'altro ai piedi. Tutti fanno largo; essi escono. Qualcuno dev'essere andato a cercare una barca: è lì fuori, simile a quella che ha portato noi. Vi caricano il corpo, posandolo di traverso sulle panche. I due ragazzi che lo porteranno alla polizia salgono a bordo e si siedono ai lati. La ragazza è sempre coperta con la sciarpa, e ornata delle grosse margherite gialle. Il barcaiolo, un vecchio piccolo e secco, fa leva sul remo di coda e la barca si stacca. Va verso Istanbul, sotto la neve che cade, circondata da un volo di gabbiani gridanti, nella luce lattea dell'alba.

7. Una decina di giorni più tardi, mi sento perfettamente integrato nella banda degli hippies. Integrato, forse è una parola un po' forte. Accettato, sarebbe più giusto. Perché infatti io non sono uno di loro. Per il vestito, tanto per cominciare. Porto abiti da viaggiatore, da autostoppista classico, io. Stivali di cuoio, calzoni, maglietta e giacca normali. Unica mia leziosaggine è che vesto in nero (e presto mi chiameranno l'uomo in nero). E poi non ho i capelli lunghi. Anche quello che chiamo il mio vestito della festa, è classico. Ben sistemati in fondo allo zaino, messi da parte per le grandi occasioni, tengo un paio di pantaloni chiari, una giacca chiara, una camicia nera con una cravatta rigata nera e bianca, e scarpe di corda. E poi, la filosofia hippy: non è la mia. Io non dico «Do your thing» (Fatti gli affari tuoi), una specie di slogan che significa grosso modo: «Fa' tutto quel che ti piace, e il resto non conta». Io non ho un guru né un inner space (spazio psichico interiore). Mio motto non è Plant your seed (Pianta il tuo seme), ossia: diffondi la filosofia hippy con l'esempio e l'amore universale. Io non cerco a qualsiasi costo la white light, la luce bianca, la scoperta dell'io interiore. Io non cerco di zap the cops, di sommergere i poliziotti di tenerezza. In parole povere, io sono uno straight, uno che è fuori della comunità hippy. E tuttavia mi accettano, parlano davanti a me senza segreti. Hanno convenuto che sono piuttosto un avventuriero. Questo per me «il mio affare», e ogni «affare», dopo tutto, vale «quanto qualsiasi altro. Per il momento io mi sono buttato nell'hashish francamente, e questo a loro piace. E la vita continua, cullata dalle chitarre, profumata dal buon odore dell'hashish che brucia nel crogiolo dello shilom. Qualche volta ci si batte con i topi che vengono a rosicchiarci le orecchie mentre si dorme. Si va al Pudding Shop o da Liener, a mangiare e cercare hashish, si va in giro per il Gran Bazar a comperare ciondoli e a scambiare i dollari. Un pomeriggio, al primo piano del Pudding Shop, dei poliziotti sbucano fuori in gruppo, mi piombano addosso e mi portano in gattabuia. Mi dibatto come un diavolo scatenato. Che ho fatto di male? Ho fumato? Ma fumano tutti. Ho uno shilom in tasca? E chi non ce l'ha? Per fortuna la vista del mio passaporto li calma immediatamente. Mi liberano sorridendo, e mi spiegano: mi hanno scambiato per un americano che aveva ucciso due di loro. Soltanto! Mentre la vita scorre così, dolce e tranquilla, il mio portafoglio si svuota paurosamente. Non mi restano più che 200 lire turche. Bisogna che faccia qualcosa. Dopo tutto sono venuto a Istanbul per vedere se non si poteva tentare qualche «colpo». Ormai è tempo che mi dia da fare. È chiaro che dovrà trattarsi di un traffico di droga. Sì, ma che colpo? È allora che il caso mi viene in aiuto e mi permette di tentare, e di realizzare, un colpo molto bello, che — grazie alla sua riuscita e al piccolo malloppo che mi procura — deciderà di tutto: della morte di due ragazzi di vent'anni, del confino per tutta la vita di un terzo dentro un letto d'ospedale, e per me, della mia partenza verso l'Oriente. E anche del mio sprofondamento a larghe bracciate, sempre più in basso, nella droga, fino in fondo.

8. Un mattino, da Liener, entrando trovo un tipo tutto solo in fondo alla bottega. Ha l'aria molto abbattuta. Lo guardo meglio e vedo che piange. È un ragazzo d'una ventina d'anni, vestito da hippy, ma non troppo sgargiante. Cioè, ha dei bluejeans normali, dei Clarks ai piedi; la sua camicia è variopinta, ma la sua giacca in pelle di montone con le maniche bianche non porta alcun fregio. Capelli castano-chiari, molto ricciuti, lunghi ma non troppo. Ha il volto roseo, è molto giovane. Ed è piuttosto slanciato. Mi sembra ridicolo veder piangere un ragazzo così. Vado verso di lui e in inglese gli domando: «Qualcosa non gira? Posso aiutarti?». Solleva la testa, e, dato che ha subito capito che sono francese per via dell'accento, mi risponde in francese: «Mi preoccupo per i miei compagni. Sono partiti in treno per cercare un'auto a Lione. Un mese fa. Dovrebbero essere tornati da un pezzo. Non ho più notizie, né denaro, né niente». E aggiunge, gettando uno sguardo disperato verso la cucina: «E Liener rifiuta di darmi da mangiare… Sono proprio finito». Si chiama René, e mi racconta la sua storia. Erano quattro amici, di Lione. Vengono a Istanbul da molto tempo. Questa Volta hanno deciso di passare il Bosforo e di continuare verso l'Asia. Per questo gli altri tre — Yvon, Romain e Taras Bulba — nono tornati in treno a Lione: per comperare un'auto usata. Da allora, più nessuna notizia. Gli pago la colazione, e gli presto 50 lire delle poche che mi restano. Mentre chiacchieriamo, ecco che René viene fuori con qualcosa che fa tilt nelle mie orecchie. Prima di partire — mi dice, — Yvon si è imbattuto in un individuo incredibile. Un canadesefrancese di trenta-trentacinque anni, venuto con le tasche foderate di dollari all'Hilton di Istanbul, che va in giro da ogni parte gridando che vuole comperare 25 chili di hashish a 100 dollari il chilo, più 500 dollari per l'intermediario, cioè in tutto 3000 dollari! Ha chiesto a Yvon e a René di trovarglielo, ma il colpo è sembrato loro troppo grosso, hanno avuto paura di cadere nella trappola di un provocatore e hanno eluso la proposta. Il canadese insisteva e gridava forte che aveva il denaro e il biglietto di ritorno per Montreal, ma più gridava e meno gli credevano. E intanto invitava Yvon, e gli pagava il ristorante. Questa storia mi turbina nella testa. È strano. Un vero provocatore, una spia, non fa tutto quel chiasso. Si dimostra più furbo, più discreto. Non so perché, ma subodoro l'occasione da non mancare e il pollo da spennare. Domando a René: «Dove si può trovare questo canadese, oltre che all'Hilton?». «Da un po' di tempo non lo si vede più tanto. Aspetta Yvon, che ti metterà in contatto con lui». L'indomani uno dei compagni di René, Romain, arriva solo. Racconta: a 80 chilometri da Istanbul l'auto, una vecchia Frégate commerciale verde, acquistata per 60.000 vecchi franchi, è stata bloccata dalla neve. Yvon e Taras Bulba sono restati là. Lui, Romain, è rientrato per avvertire René. Appena la strada sarà sgombra, l'auto arriverà. Nella bottega c'è un altro francese di venticinque anni, proveniente da Ginevra, un piccoletto robusto dai capelli castani tirati all'indietro a mo' di casco. Si chiama Guy. Vuole andare in Israele a lavorare in un kibbuz, e mettere insieme il denaro necessario per tornare nell'India, che conosce già. A Ginevra trafficava in auto, ma gli affari gli sono andati male. Allora è partito. Sì, anche lui ha sentito parlare del canadese. Ma bisogna aspettare Yvon. Due giorni più tardi siamo al Pudding Shop, quando i due mancanti, Taras Bulba e Yvon,

arrivano. A piedi. L'auto è in panne, non si riesce più a cambiare le marce. Lasciando la vettura sul posto, sono venuti in autostop. Domani, dopo aver cercato in un garage l'occorrente per riparare l'auto, ripartiranno. Taras Bulba è il fusto della banda: ventiquattro-venticinque anni, capelli neri arruffati, enormi baffoni e grosse gambe robuste. Con i suoi occhi d'un blu metallico, le palpebre a mandorla un po' alla cinese, gli zigomi sporgenti e la carnagione scura, sembra un vero selvaggio, un unno. E, dato che porta anche un berretto russo in pelle con paraorecchi ricongiunti in alto, stivali di cuoio col pelo che fuoriesce, calzoni di cuoio rossastro, un grosso cinturone e guanti di cuoio foderato, il suo soprannome gli sta a pennello. Dimenticavo: attorno al collo ha anche una grossa catena di ferro, che lui stesso si è fabbricato. Romain invece è elegante, il distinto, l'Aramis di questi moschettieri, se Taras Bulba ne è il Porthos. Molto bello, abbastanza alto, è biondo con bei ricci. I suoi stivali di cuoio rosso fanno molto chic sopra i pantaloni di velluto nero. E ha una camicia arancione che lui stesso si è dipinta, con gusto raffinato, in stile psichedelico. Come spada ha la chitarra, nella sua fodera, sempre a tracolla. Non la lascia mai. Ma è soprattutto Yvon che io osservo, poiché è lui il «contatto» che deve condurmi al canadese. È molto giovane, ha l'aria ancora di un ragazzino, di forse diciassette anni. Alto come me, il volto affilato come una lama, ha zigomi sporgenti, e sul grande naso gli occhiali rotondi da miope, con le lenti molto spesse, L'abbigliamento: blue-jeans rappezzati, maglietta a brandelli, giaccone da pastore in pelle di montone senza maniche, e attorno al collo — a mo' di sciarpa — uno straccio. Dal primo colpo d'occhio ho visto che è influenzabile e senza molta esperienza. Non mi dovrebbe essere difficile farlo parlare. Gli offro un joint di hashish, come pure agli altri. E, mentre fumiamo, lo interrogo sul canadese. Mi dice che l'ha incontrato al Gran Bazar. Che l'altro gli ha parlato subito dei 25 chili di hashish. Che gli ha pagato più volte le consumazioni, e gli ha anche promesso un bell'anello per convincerlo. Yvon mi assicura che ha paura. Gli replico che la cosa m'interessa e che, se vuole aiutarmi, avrà la sua parte. Mi sembra molto scosso. Domani, promette, andrà all'Hilton Per vedere se c'è il canadese, cosa di cui non dubita. Il giorno dopo, Taras Bulba e Romain ripartono per riparare l'auto. Yvon invece va all'Hilton. Ritorna con una buona notizia: ha potuto vedere il canadese, gli ha detto che conosce qualcuno capace di trovargli quel che lui cerca e che questo qualcuno era pronto a incontrarsi con lui. Non voglio far vedere il canadese agli hippies (non si sa mai, qualcuno potrebbe soffiarmelo), perciò catechizzo per bene Yvon. Niente appuntamenti al Pudding Shop o da Liener. Sono troppo frequentati. Mi trovi una piccola bettola fuori mano. È quel che fa. L'appuntamento viene fissato per la sera stessa, alle otto, in un ristorante turco, di fianco al Gran Bazar. Arrivo insieme a Yvon, con venti minuti di ritardo. Apposta. Se il canadese c'è ancora, è segno che ci tiene davvero all'affare. C'è, e sento subito che la mia intuizione è giusta. È un ciccione paffuto, molto paffuto, dal faccione florido, capelli molto corti e molto biondi. Le sue parole confermano in pieno il suo aspetto: è un ingenuo innocuo. Mi ripete la sua filastrocca. È venuto apposta da Montreal a Istanbul per comperare 25 chili di hashish. Ha del denaro: 3000 dollari. Paga 100 dollari al chilo e, se io gliene fornisco, mi toccano 500 dollari a titolo di mediazione. E subito domanda:

«Lei ha dell'hashish? Io bluffo. Sicuro che ne ho! Non cosi su due piedi, è difficile trovarne 25 chili d'un colpo. Si vede raramente un'ordinazione del genere (lui sorride, con una certa fierezza), ma a ogni modo voglio provare. Credo di potergli assicurare di trovargliene almeno 20. «Di bene in meglio», dice col tono di uno che se n'intende. «Di questo tipo — aggiungo, tirando fuori di tasca una piccola tavoletta. — È tutto così, e è buono, credimi, io non fumo porcherie». Me lo prende di mano, lo esamina con aria da intenditore, lo annusa, lo posa. «Di questo?», dice. «Di questo». Poggia i gomiti sul tavolo e, con ciglia aggrottate, lo sguardo duro, sibila: «Ho fretta». «Eh, adagio! — replico. — Non posso mica prometterti per domani, né per dopodomani. Vedrò di fare il possibile, ecco». Faccio una pausa e domando: «A quanto lo rivenderai nel tuo paese?». «1500-2000 dollari», dice tutto impettito. «Caspita! Rende bene, eh?». «Sì, benino», risponde, fingendo modestia. Ci mettiamo d'accordo che, appena io avrò delle novità, andrò a trovarlo all'Hilton. Ma appena si alza, lo fermo. «Non è tutto — gli dico. — Ho fiducia in te, ma… vorrei vedere il denaro. Vengo con te. Vieni anche tu, Yvon?». Il canadese si fa paonazzo, ondeggia sulle grosse zampe. Le mie parole sono andate a segno. Bisogna sempre intimidire i clienti, ciò li disarma. «Bene — dice un po' offeso. — Andiamo». Ma appena nella strada ritrova il suo sorriso. Ora sembra del tutto soddisfatto della piega che prendono gli avvenimenti. Estrae un biglietto da visita e me lo porge: «Ecco il mio nome e il mio indirizzo — mi dice. Si chiama O'Brian, curioso nome per un canadese-francese. — Quando si sarà fatto l'affare e io sarò tornato a casa, tu mi spedirai dell'hashish tutti i mesi. Ma sta' tranquillo: ti pagherò in anticipo. Trecento dollari al chilo, ti va?». Delle due l'una: o questo individuo è matto, o è davvero un sempliciotto. Non vedo altre spiegazioni per il suo caso, e propendo per la seconda. Perché, ora ne sono del tutto sicuro, non è né un poliziotto né una spia. Mai costoro tenterebbero di adescarmi con metodi così grossolani. All'Hilton saliamo diritto in camera sua. Una bella camera di lusso con moquette, bagno e tutto quel che ci vuole per vivere comodi. Dall'armadio O'Brian tira fuori, con aria da cospiratore, una valigia di pelle marrone, ne cava una scatoletta, l'apre, e saltano fuori i 3000 dollari in biglietti da 100. Li conta, davanti Yvon e a me. «Basta, va bene — dico, cercando di non avere gli occhi troppo lucidi davanti a quei bei biglietti nuovi che crocchiano nelle sue mani. — Ci si rivede domani, nel pomeriggio. Prima di allora spero di avere notizie per te». Ce ne andiamo fregandoci le mani. I 3000 dollari saranno presto nelle nostre tasche… se tutto andrà bene. Perché si tratta ora di mettere a punto un piano serio e impeccabile, che faccia cadere di sicuro quel bel denaro nelle nostre tasche.

Neanche a pensarci, infatti, di trovare i 25 chili di hashish. Ciò che occorre, è turlupinare in grande il nostro uomo. Sì, ma come? Rientrando verso Sultana Meth, mi concentro più che posso. A poco a poco il piano mi si delinea nella testa. Mi occorre un intermediario, un piccolo trafficante a cui darò qualcosa e che presenterò a O'Brian come il padrone dell'hashish. Poi si fisserà un appuntamento, e allora farò io la mia parte. Al Gran Bazar faccio in fretta a trovare Neiman. È un change-money con cui abbiamo avuto molte volte che fare. Sulla cinquantina, ben conservato, è molto furbo, e parla anche un po' di francese. Due qualità importanti per quel che ho da chiedergli. Andiamo a bere insieme un tè e a mangiare due paste. E intanto gli spiego il piano, che ora è tutto ben elaborato. Per cominciare, gli racconto in fretta la storia del canadese, dei 25 chili di hashish a 100 dollari il chilo, l'ingenuità del cliente, eccetera. Lui è subito d'accordo. «Benone — gli dico. — Ecco come io vedo la messinscena. Domani pomeriggio vado dal canadese. Gli dico che ho trovato un rivenditore capace di mettere insieme 25; forse solo 20 (perché la polizia sta con gli occhi aperti, i tempi sono duri, eccetera), e che ci incontreremo con lui sul far della sera, sempre domani. «Alle sette, ci ritroviamo tutti qui: tu, Yvon, io e il canadese. Si tratterà ora di fargli paura, ora di infondergli fiducia; e tutto questo, si capisce, per poterlo turlupinare meglio. Tu ci condurrai da te — dico ancora a Neiman. — Da te, cioè in una camera d'albergo, un piccolo albergo di periferia. Ma ci arriveremo facendo dei lunghi giri, sorvegliando senza sosta a sinistra, a destra, alle spalle, come se si avesse paura di essere pedinati. Una volta nella camera, tocca a te fare la tua parte, Dapprima tu ripeterai che 25 chili è difficile, è molto difficile poterli trovare, che a ogni modo ti ci proverai. Che tu rischi grosso, ma che lo fai per me, perché mi conosci da tanto tempo. Del resto tu non vuoi aver che fare con altri che con me, tu non parli che con me. Non al canadese. Tu, lui non lo conosci. Tu diffidi. Tutto questo per fare scena, capisci?». Certo che capisce. E ride sotto i baffi. Io continuo: «Poi, tu domandi a me come lui vuole il suo hashish. In polvere o in barre? E in quanti pacchi? Eccetera. Poi si regola la faccenda del prezzo. Tu mi chiedi il denaro. A me, dico, non a lui. È molto importante, per quel che avverrà dopo. Poi dici che vai a metterti in cerca dei 25 chili, e vai a preparare la valigia. Alle dieci di sera ci si ritrova sul posto, all'angolo del Parco Gulhane. Tu arrivi in tassì, con la tua valigia piena di sabbia, o di segatura, di quel che vuoi tu, purché sia molto pesante, e si fila insieme verso il luogo dove faremo l'affare, tutti sul tassì. Poi "gireremo" la scena della consegna dell' "hashish". Essa deve svolgersi su una spiaggia deserta. Bisognerà essere terribilmente inquieti, fingere di temere che possano arrivare i poliziotti. E soprattutto, particolare essenziale, bisognerà che il change-money continui a rivolgersi sempre e soltanto a me. Perché sarò io che avrò il denaro addosso, e io che gli pagherò la merce». Dopo due ore ci si lascia. Tutto è previsto, tutto dovrebbe filare liscio. La scelta di Neiman mi pare buona. Sembra in tutto e per tutto l'uomo che fa per me. Il giorno dopo, 27 gennaio 1969 (è il giorno del mio ventinovesimo compleanno, me ne accorgo partendo per l'Hilton), telefono a O'Brian alle undici esatte. Mi aspetti lì, arrivo subito. Mezz'ora più tardi trovo il mio canadese eccitato e tremante, come un fidanzato al momento

d'incontrarsi per la prima volta con suo suocero. Lo calmo e gli spiego che bisogna avere sangue freddo, perché l'impresa sarà difficile da condurre in porto. Gli ho trovato il suo uomo. Abbiamo un appuntamento questa sera alle sette. Tutto dovrebbe concludersi prima di mezzanotte… «Bene — gli dico ancora. — A partire da questo momento, bisogna che tu faccia esattamente tutto quello che ti dico. È indispensabile: basta il minimo passo falso per mandare tutto a monte. «Per cominciare, lasciami parlare con il rivenditore. Lui mi conosce. Abbiamo già fatto insieme parecchi affari. Ha fiducia in me. Poiché non ti conosce, diffida, è normale. Dunque sarò io a condurre la trattativa. «E dato che lui, il rivenditore, non vuole aver che fare che con me, capirai che si fiderà solo se sono io ad avere il denaro. Logico, no?». O'Brian fa di sì con la testa. «Logico — dice, — e poi?». «Be' — aggiungo, — vuol dire che bisogna che tu mi dia il denaro fin d'ora, mentre nessuno ci vede. Oh, non aver paura! Non scapperò. Tu starai sempre con me, e così potrai sorvegliarmi». «Oh, non è questo!», mormora con un sorriso impacciato. «Ma sì, ma sì, è normale. Al tuo posto, io farei altrettanto. Hai qui il denaro?». Tira di nuovo fuori la valigia, ne estrae la scatoletta, e con qualche esitazione mi porge il fascio di biglietti. «Vedi che non controllo neppure se ci sono tutti — gli dico, infilando i biglietti in tasca. — Io ho fiducia in te». Facendo cosi, corro il piccolo rischio che i 3000 dollari non siano al completo. Ma si tratta d'un rischio molto piccolo, sapendo che tipo è il mio uomo. «Benissimo — dico. — E ora, non ci si lascia più fino alle sette. A quell'ora si vedrà il rivenditore, e si metterà tutto a punto nei minimi dettagli. Tu gli dirai come vuoi l'hashish, in quale formato, e come confezionato. E lui andrà a cercarlo». «Posso dirti subito come lo voglio», esclama eccitato. «No, no, è inutile. È al rivenditore che dovrai dirlo». E usciamo, O'Brian, Yvon e io. Ho dimenticato di dire che Yvon è sempre con me; ormai fa parte del colpo anche lui, gli ho promesso i 500 dollari della mediazione. Esattamente ciò che mi offre il canadese per il mio lavoro… Da mezzogiorno alle sette, tutt'e tre non ci lasciamo più. O'Brian ci invita a pranzo, poi passeggiamo per il Gran Bazar dove offre a Yvon un bell'anello d'oro con una pietra nera e una croce incisa, che lasciamo al gioielliere fino a domani perché dev'essere incastonata. Andiamo a prendere un tè, e ricominciamo a passeggiare. Insomma faccio di tutto per tenere occupato il mio uomo, parlando di ogni argomento, soprattutto di droga, di individui scaltrissimi che si sono fatti acciuffare come bambini, e delle difficoltà sempre crescenti del traffico. Alla sera, O'Brian è lavorato a puntino. Secondo i momenti, tremante di paura o di eccitazione. Le sette. All'angolo del Parco Gulhane, Neiman è fermo e aspetta sotto un albero. Sta gettando occhiate furtive in tutte le direzioni, è visibilmente inquieto. Recita a meraviglia! Faccio rapidamente le presentazioni. «Ecco il signore di cui ti ho parlato», dico. «Molto bene, molto bene — mormora inquieto. — Andiamo via di qui». E ci trascina nella città vecchia. In fondo alla prima stradicciola volta a sinistra, poi ancora a sinistra, poi taglia bruscamente a destra. Poi ci spinge sotto un portone e ci fa segno di attendere

nell'ombra. Lui esce fuori, va fino ai due angoli della strada, e ritorna. «Tutto bene — dice con un sospiro di sollievo. — Niente da segnalare». Ripartiamo. Per un buon quarto d'ora camminiamo in piccole vie sordide e pidocchiose, mentre Neiman non smette di sorvegliare in tutte le direzioni. A un tratto vede due poliziotti. Eccoci di nuovo sotto un portone. Neiman si massaggia la nuca, aggrotta le ciglia. È più che perfetto. Mi pare che stia strafacendo. Ma no, il canadese beve tutto avidamente. È in pieno romanzo giallo. È pallido, ma estasiato. Usciamo e raggiungiamo una piazzuola. Neiman ci ferma, si dirige verso un albergo sgangherato, entra. Due minuti più tardi ne esce e ci fa segno che la via è libera. Possiamo andare. Al terzo piano, in cima a una scala ripida come se fosse a pioli, eccoci in una stanza più sporca che al Gulhane Hotel. Neiman chiude la porta dietro di sé, a doppia mandata, e mi dirige un sorriso di sollievo. «Bene — dico. — Ecco, questo signore è americano. Vorrebbe 25 chili di hashish. Credi che sarà possibile?». Neiman punta un occhio sospettoso verso O'Brian. Poi mi guarda con aria interrogativa. Io sorrido. «Puoi fidarti — dico. — Rispondo io di lui, è un amico». «Si, sì — interviene O'Brian, sorridendo con tutti i suoi denti. — Sono un amico, io». Neiman esita un poco, poi quasi con dispiacere fa segno di sì. E mi domanda: «Hai il denaro?». Estraggo i 3000 dollari e li conto sotto i suoi occhi. Neiman finalmente si degna di sorridere al canadese, ma subito dopo torna a voltarsi verso di me. «E come vuoi la merce?», mi domanda. «Come la vuoi?», dico a mia volta al canadese. O'Brian si precipita: «Ecco, io faccio conto di nascondere l'hashish dentro delle bambole. Ufficialmente io sono venuto a Istanbul per comperare bambole turche». «Parla meno forte, tu sei matto! — dico, decisamente contrariato. — I muri possono avere orecchie!». Lui arrossisce: «Scusatemi», dice. Io riprendo, rivolto a Neiman: «È in polvere che gli serve. Non ti pare?». «Va bene — dice Neiman. — Ma lo vuole in sacchetti o in scatole?». «Non ha importanza — bisbiglia O'Brian. — Ciò che conta è che sia in polvere». È francamente comico. Questa volta ci ha parlato quasi sottovoce! Io guardo Yvon. Il ragazzo si morde le labbra, talmente ha voglia di ridere. Gli lancio un'occhiataccia, poi mi rivolgo di nuovo al change-money: «Allora, credi che riuscirai a trovarmi questa roba?». Il change-money scuote la testa, con l'aria di essere schiacciato da tutta la miseria del mondo. Sta recitando a perfezione la scena che abbiamo studiato ieri per mettere il nostro «pollo» in perfetta condizione psicologica per farsi spennare. «Venticinque chili — finisce per dire, — non lo so. Con i tempi che corrono… Ma per te, Charles, ti assicuro che farò del mio meglio. Venticinque, onestamente, non mi sento di prometterli.

Ma 20, credo di farcela. Sì, credo di potercela fare. «Bene — aggiunge dopo una pausa, — ora è tempo di separarci. Voi andrete ad aspettarmi da qualche parte. E io, vado dal mio mercante, per cercare di riunire tutta questa roba. Ah, non sarà facile! Il tuo amico non può aspettare qualche giorno?». «No, no! — esclama O'Brian. — Ho molta fretta». Evidentemente tutto il nostro «cinema» ha effetto su di lui. Comincia ad avere molta paura. «E va bene — borbotta il change-money, — vado a cercare. Nel giro di due ore, prevedo, dovrei mettere insieme qualcosa. Ma ascoltami bene, Charles». Mi prende per mano e mi parla con apprensione, come se la vita dei suoi figli dipendesse da quelle parole. «Io non voglio complicazioni — mi dice. — Costa troppo salato farsi pigliare. Alle dieci fatevi trovare all'angolo del Parco, là dove ci siamo incontrati prima. Se alle dieci e dieci non sono ancora arrivato, andatevene. Tornerete alle dieci e trenta, e così di seguito, tutte le mezze ore». È un attore formidabile. Recita la sua parte a meraviglia. O'Brian lo guarda affascinato, senza muoversi. «Io arriverò in tassì — riprende Neiman. — Vi farò un segno, e voi monterete in fretta sul tassì. Voi non direte nulla, eh? Parlo io al tassista, e io solo. Ci condurrà in riva al Bosforo, in un posticino tranquillo. Là si fa l'affare e ci si separa, ciascuno per suo conto. Da quel momento, non ci siamo mai visti, non ci siamo mai conosciuti. Capisci, Charles?». Io protesto con l'aria offesa di un amico in cui non si ha più fiducia: «Ascolta, ti ho forse già tradito qualche volta?». «È vero, è vero — replica Neiman, — però…». E getta ancora uno sguardo furtivo a O'Brian. «Rispondo io di lui, te l'ho già detto — intervengo con voce esasperata. — A ogni modo, siamo d'accordo? Allora si va? A fra poco, e buona fortuna». E Neiman ci fa uscire tutt'e tre. Lui, se ne va dopo. Tra le otto e le dieci il mio canadese è una pila elettrica che si scarica a grande velocità. Al ristorante, mentre Yvon e io mangiamo con l'appetito di condannati ai lavori forzati dopo una giornata di faticacce, lui tocca appena il piatto. Io lo riscaldo ancora, lo incoraggio, lo rassicuro. Anche stavolta paga lui il conto. Alle dieci, eccoci all'angolo del Parco Gulhane. Alle dieci e dieci, ancora nessuno. (Anche questo fa parte del piano studiato ieri). Dieci e trenta. Dopo aver passeggiato dall'altra parte del viale, con O'Brian sempre più nervoso, e noi anche un poco ora, ma non per le stesse ragioni, ci portiamo di nuovo al posto dell'appuntamento… Dieci e trentacinque, un tassì arriva. Un grosso tassì nero, di marca inglese, con una valigia sul sedile posteriore. Neiman è dentro. Ci chiama con un segno furtivo da cospiratore, e noi ci affrettiamo a prendere posto con lui. Il tassì riparte in direzione del Bosforo. Aggira il Parco Gulhane, costeggia la stazione, taglia a sinistra e imbocca un lungo viale che fiancheggia il mare. Neiman deve aver dato precise istruzioni al tassista, perché costui ferma, senza che nessuno gli dica nulla, dopo 300 metri, all'altezza di un vecchio quartiere. Con prontezza O'Brian tira fuori del denaro dalla tasca e paga il tassista che si profonde in ringraziamenti alla vista della mancia. Eccoci tutti sul viale, con Neiman che si piega sotto il peso della sua valigia.

«Tu sei matto — dico furioso a O'Brian, — a lasciare una mancia così grossa al tassista. Quello si ricorderà bene di noi!». La botta va a segno, O'Brian smoccola tra i denti. «In fretta — ci dice Neiman, — seguitemi». E ci trascina attraverso il viale verso la spiaggia. È circondata di scogliere e coperta di grossi ciottoli rotondi sui quali quasi ci sloghiamo le caviglie, perché non li abbiamo visti: sono coperti dalla neve. È buio pesto. Una scarsa luce giunge da lontano in riverbero, e c'è il riflesso del mare che schiaffeggia lentamente i sassi. È proprio il posto adatto. In pochi istanti ci riuniamo dietro una scogliera. Neiman posa a terra la valigia. «Ne ho solo 18 chili — dice precipitosamente. — Non ho potuto trovarne di più». Ha l'aria sinceramente desolata. È formidabile. O'Brian trasale. «Pazienza — dice con gli occhi luccicanti. — Li prendo». Ora tocca a me fare la mia parte. Bisogna agire in fretta e bene. «Va' a metterti di guardia», dico a Neiman. Anche questo rientra nei piani. Il change-money ha il compito di far perdere la testa a O'Brian. Deve fingere di avere paura. «Si, vado — risponde. — Ma tu sbrigati, eh?». E va a tener d'occhio il viale. Prima di scendere dal tassì io avevo preso dal fondo della mia tasca una pugnata di hashish in polvere, e l'ho tenuta accuratamente stretta nella sinistra. Tutto dipenderà da questa manciata di hashish. Con l'altra mano apro la valigia e vi trovo, come previsto, dei sacchetti di tela di iuta. «Ecco la merce — dico. — Ora te la mostro». In questo momento, dalla scarpata, il change-money ci grida con voce soffocata: «Abbassatevi! Abbassatevi!». Ci si schiaccia tutti nella neve. «Sbrigatevi! Ci sono troppe vetture!», grida ancora Neiman. «Capisci? — dico a O'Brian, che comincia a perdere davvero la testa. — Verifichiamo in fretta». Intanto apro rapidamente uno dei sacchi. Tuffo la mano sinistra chiusa dentro, e la ritiro aperta, con l'hashish che avevo in pugno. «Tieni — dico, — assaggia». E gliene rifilo un pizzico sulla lingua. Lui sputacchia. «Allora, che te ne pare? È buono? Ti piace? Deciditi in fretta!». «Sì, sì, mi va», farfuglia O'Brian guardando da tutte le parti. Alle nostre spalle Neiman si spazientisce sempre più. Io domando a Yvon: «Che cosa dice?». «Non capisco. Sembra che dica che un momento fa è passata un'auto della polizia». Mi volto verso O'Brian. «Aspetta un attimo. Vado a pagare l'uomo e poi ci mettiamo in salvo. Ognuno per conto suo». Corro dal change-money e gli metto in mano un biglietto da 100 dollari. Lo intasca e fila via di corsa. Credo che questa volta, a forza di fingersi impaurito, abbia paura davvero. Torno verso O'Brian e Yvon. «Questa è fatta, l'ho pagato. È già scappato, il fifone!

«E ora a noi. Tu, O'Brian, te ne vai da questa parte col tuo hashish, prendi una viuzza, e scappi con un tassì più lontano che puoi. Tu non ci hai mai visti. Tu non ci conosci, eh? Se ti fai prendere, tieni la lingua a posto. Parti, arrivederci, ci scriveremo quando sarai tornato a casa. Salve!». Non si fa pregare. Prende la valigia, la solleva e se ne va verso il viale, piegato sotto il peso. Allora capita qualcosa che ci fa scoppiare a ridere, Yvon e io. Arrivato nel bel mezzo del viale, la maniglia della valigia si rompe. Quello spilorcio di Neiman gli ha anche rifilato una valigia di cartapesta! Per un po', gettando sguardi impauriti attorno, O'Brian la trascina per terra. Poi la solleva, se la carica in spalla, e scompare correndo dietro l'angolo della strada. Yvon e io ridiamo fino alle convulsioni. «Ma senti un po' — mi dice Yvon quando può riprendere fiato. — Lo abbiamo derubato, anche». «Come sarebbe?». «Sì, perché ti ha lasciato i suoi 3000 dollari. Ciò non fa 100 dollari al chilo, ma molto di più, dato che ne ha solo 18». È vero, non ci avevo pensato, lì per lì, nel calore dell'azione. Non solo O'Brian se n'è andato con una valigia di cartapesta, piena, fino a sfasciarsi, di sabbia o di chissà cosa che egli ritiene hashish di ottima qualità, ma in più, nella sua grande paura, mi ha lasciato tutto il denaro! In vita mia non avevo mai incontrato un «pollo» simile… Non è ancora finita, bisogna che ce ne andiamo anche noi. Do, secondo il convenuto, 500 dollari a Yvon, e rientriamo nell'albergo dove posso contare (finalmente!) i miei biglietti. C'erano proprio 3000 dollari all'inizio, e me ne restano 2400. Una vera fortuna, in Turchia. Mi sono fatto un bellissimo regalo per il mio compleanno. Poro dopo ritroviamo Guy e René, e offro a tutti una festa. Una bella festa con pranzo, hashish e tutto il resto, che ci manda a letto, russanti come suonatori, alle sette del mattino. Il giorno dopo, colpo di scena. La giornata tuttavia comincia bene, con un piccolo consiglio di guerra. Bisogna decidere quel che faremo ora. Per ciò che mi riguarda, io devo partire, è evidente. Non si può sapere quel che O'Brian deciderà di fare, una volta scoperto che i suoi 18 chili di hashish non sono altro che sabbia. Yvon, anche lui, non ha più interesse a circolare per Istanbul. E dato che Yvon e René sono come due dita della stessa mano, anche René partirà. Quanto a Guy, poiché vuole andarsene verso l'Oriente, non ci sono problemi. Non resta più che attendere il ritorno di Taras Bulba e di Romain con la Frégate. Quando saranno arrivati, ci si imbarcherà tutti sopra, e via verso l'Oriente e i suoi paradisi! Mentre aspettiamo, Yvon decide di andar a prendere dal gioielliere del Gran Bazar l'anello del canadese. Dev'essere già pronto, a quest'ora. Ci andiamo tutti… e contro chi si va a sbattere in pieno Gran Bazar, appena dopo aver ricuperato l'anello? Nel canadese. Preso dalla paura, vorrei scappare. Ho torto. Il canadese si avvicina, sembra distrutto. «Sai — mi dice a precipizio, — credo che ci siamo lasciati truffare». Sentendo che parla al plurale, capisco tutto. L'imbecille non ha immaginato neppure per un attimo che sia stato io a truffarlo. Pensa che tutt'e due siamo vittime del change-money. È troppo! Costui è ancor più ingenuo di quanto potessi sperare. È il vertice dell'imbecillità. Mette la mano in tasca, e la estrae costernato. È piena di sabbia.

«Oh, no! Non è possibile! — esclamo fingendo stupore. — Non è la roba che ti ho fatto vedere là sulla spiaggia!». Alza le braccia al cielo. «No. Ci si è fatti truffare. Lui, ti aveva messo un po' di vero hashish proprio in cima». E mormora cupamente: «Tutto il resto, sabbia… «Ma di' un po' — riprende. — Tu lo conosci bene, quel tipo? Avevi già combinato affari con lui?». Non so come fare per non ridergli in faccia. «Si capisce che lo conosco — rispondo. — Sono anni ormai che lavoro con lui. E non capisco proprio che cosa gli abbia preso. Però, questa me la paga, brutto mascalzone!». Ora sono tornato perfettamente padrone di me. Dato che lui è così bestia, tanto vale profittarne fino in fondo. «Dimmi, O'Brian — continuo a ciglia aggrottate, rovesciando le parti. — Non sarai mica tu, per caso, che mi stai giocando la commedia? Sei ben sicuro che si tratta di sabbia? Quasi quasi mi viene voglia di andar a controllare all'Hilton come stanno le cose. Perché, te lo ripeto, sarebbe la prima volta che il mio uomo mi tradisce». O'Brian protesta con tanta buona fede, che alla fine rinuncio: «Va bene, ti credo. Ma allora la cosa non va. Bisogna che io ritrovi la merce. Tu l'hai pagata, e tu devi averla. Non preoccuparti, io la troverò. Vado a vedere il change-money». «Bene — dice. — Vengo anch'io». «Assolutamente no! Lasciami fare da solo. — E ci diamo l'appuntamento fra due o tre ore al Pudding Shop. — D'accordo?». «Come vuoi — dice esitando. — A presto, al Pudding Shop». E se ne va mogio mogio. Due ore più tardi, nella corriera che viaggia in direzione di Edirne (Turchia europea), ci sono due «carichi» di hashish che sonnecchiano scossi dai sobbalzi della strada: Yvon e io. Abbiamo lasciato senza perdere un minuto Istanbul, e andiamo a raggiungere Taras Bulba e René. Guy e Romain sono restati a Istanbul. Romain ha difficoltà i mettere in regola il suo passaporto, e Guy non ha voluto lasciarlo solo. Prima di partire abbiamo tracciato il nostro itinerario, perché al momento non sappiamo nulla di come si mettano le cose riguardo all'auto. È già riparata? O ci vorrà ancora un sacco di tempo? Ci siamo dunque messi d'accordo con Guy e Romain di fissare parecchi appuntamenti lungo la strada per l'Oriente. Il primo a Ismit, poco dopo aver attraversato il Bosforo, il secondo ad Ankara, e così di seguito fino a Bagdad. Ciascun gruppo, quello a piedi e quello in auto, una volta giunto a una località di appuntamento, andrà all'ufficio postale per vedere se ci sono dei messaggi. Ma l'essenziale è partire al più presto. O'Brian sarà un imbecille, ma ha un fratello più anziano, un autentico giramondo della malavita, che viene sovente a Istanbul. È capace di farsi vivo, chiamato dal fratellino. Ed è inutile correre rischi. Una bella sorpresa quando ritroviamo Taras Bulba e René: Taras ha riparato da solo la vettura, con fil di ferro e chiodi! Raccontiamo loro la nostra storia, che li rende allegri, e il più presto possibile riprendiamo la strada. Il giorno dopo attraversiamo il Bosforo sul traghetto, senza passare per Istanbul, sempre per evitare O'Brian, e puntiamo verso Ismit, sotto la neve che ha ripreso a cadere, e su un rischioso fondo ghiacciato.

Siamo pieni di eccitazione. Abbiamo denaro, molto denaro, ogni svolta di strada ci allontana da O'Brian, l'avvenire è nostro. La catastrofe ci aspetta di lì a una settimana, in piena Turchia.

9. Per essere una carcassa, va fin troppo bene, questa vecchia vettura ballonzolante che arranca verso Ankara. Attorno a noi la circolazione si fa sempre più rara, la neve si accumula con regolarità e la strada diventa sempre più una superficie ghiacciata. Naturalmente noi non abbiamo le catene. Ma ci mancano ben altre cose! Il cambio delle marce funziona quando crede bene. I freni non rispondono più, e anche il tergicristallo è in panne. Conseguenza: bisogna viaggiare con il finestrino aperto, e chi guida deve tirar fuori continuamente la mano per spazzare via la neve dal parabrezza. Dentro, si capisce, fa un freddo cane. Abbiamo un bell'essere tutt'e quattro rimpinzati di hashish, geliamo lo stesso. Per i passeggeri può ancora andare. Sprofondati nei sacchi a pelo, non teniamo fuori che il naso. Ma René, che guida, trema di freddo malgrado tutte le coperte in cui si è avvolto. Quando arriviamo a Ismit, qualche decina di chilometri da Istanbul, primo luogo di appuntamento con Guy e Romain,suscitiamo un certo interesse. Immaginate, emergenti da un blocco di ghiaccio montato su pneumatici, quattro tipi dal naso rosso porpora, che si liberano penosamente dei loro sacchi a pelo per apparire… in tenuta hippy. A Ismit non si era mai visto nulla del genere. Ismit è una cittadina sperduta in mezzo alla campagna. Bisogna vedere lo stupore soprattutto dei bambini. Mentre andiamo a zonzo divertendoci (e siamo sempre, non va dimenticato, sotto l'effetto dell'hashish), i monelli ci seguono come dalle nostre parti, seguono il circo che fa il giro di propaganda prima dello spettacolo. E può darsi che ci scambino davvero per l'anteprima d'un circo. Soprattutto Taras Bulba fa su loro un effetto straordinario, con la sua zazzera, la catena e gli stivali sbalorditivi. Quanto a me, devono prendermi per il diavolo, tutto vestito di nero, con la barba trapuntata di goccioline gelate e l'occhio spento. Nel giro di mezz'ora sono già una trentina attorno a noi, silenziosi, a bocca aperta. Ci siamo trovati un piccolo albergo, scalcinato quanto basta, e René è andato all'ufficio postale per vedere se c'è una lettera di Guy e Romain. Perché potrebbero essere già passati per Ismit. Ma non c'è niente. Allora lascia l'auto davanti alla posta, con l'indirizzo del nostro albergo sul parabrezza. Così, se arrivano, ci ritrovano facilmente, una volta vista l'auto che si scorge da lontano, sulla piazza della posta, come il naso in mezzo alla faccia. E cominciamo ad aspettarli. Bighelloniamo nei paraggi, fumiamo senza smettere. Taras Bulba fa il buffone ovunque passa, e presto tutta la città crede che sia davvero arrivato il circo. Ma la cosa non passa sempre liscia con i giovanotti del paese, che ci tengono d'occhio dal mattino alla sera. Un pomeriggio alcuni di essi, gelosi senza dubbio dei nostri costumi, si mettono a prenderci in giro. Così non può andare. Con una scarica di pugni all'aria Taras Bulba fa loro capire che il maciste del circo è lui. Ora siamo circondati dal più profondo rispetto. Ma ci annoiamo a morte. Cerchiamo di riparare la vettura, di trovare delle catene. Niente da fare. Non c'è nessun garage a Ismit. Nel frattempo Taras Bulba, sempre lui, per non venir meno alla sua reputazione fa l'imbecille più del solito. Non la smette di provocare la gente, pronto a picchiare quando qualcuno non gli va a genio. Presto i negozianti, scocciati, rifiutano di servirci. Un pomeriggio, quasi finisce male. Taras entra in una bottega, ubriaco di hashish. Vuole del formaggio. Lo mettono fuori. Rientra. Dei turchi vanno a dare man forte ai commessi. Accorriamo anche noi. Baruffa generale… che finisce al posto di polizia, come è giusto. Io occupo il tempo andando alla posta, a telefonare a Istanbul in tutti i piccoli alberghi che

conosco, in particolare all'Aghia Sophia, dove Guy e Romain dovrebbero essere. Niente, nessuna notizia di loro. Mi racconteranno più tardi quel che è accaduto. Il giorno dopo la nostra partenza, ci sono state retate della polizia in tutti gli alberghi e caffè frequentati da hippies. Il Gulhane è stato circondato, il Pudding Shop anche, come pure la bettola di Liener. Un vero e proprio rastrellamento in grande stile. Non ho mai potuto sapere cosa sia accaduto esattamente, ma sono quasi sicuro che si tratta di un'iniziativa del canadese. Immagino che, dopo aver aperto gli occhi, abbia chiamato il suo famoso fratello in aiuto, e che costui, non potendo farmi ricercare per il vero motivo, abbia raccontato alla polizia qualche truffa «confessabile», perché lo aiutassero a mettermi le mani addosso. Per Guy e Romain, non siamo troppo inquieti. Non sono pulcini nella stoppa, e riusciranno a cavarsela. E poi abbiamo fissato con loro parecchi altri punti d'incontro lungo la strada dell'Oriente. Il prossimo è Ankara, il successivo è Adana. Infine avevamo convenuto che se non ci incontriamo né a Istanbul, né ad Ankara, né ad Adana, ci si aspetterà gli uni gli altri a qualsiasi costo a Bagdad. Lì sarà facile trovarsi: i gruppi di europei vanno sempre negli stessi alberghi, si fermano sempre negli stessi posti lungo la rotta delle Indie. Basta seguire il grande flusso, e ci si ritrova. La vita diventa insostenibile a Ismet, con Taras che dà i numeri sempre peggio, e decidiamo di rimetterci per strada, anche se ha ripreso a nevicare e lo strato di ghiaccio si è fatto più spesso. Solo un mese più tardi, quando avrò finalmente ritrovato Guy e Romain per un caso incredibile, alla frontiera turco-siriana, verrò a sapere che non ci siamo incontrati per un solo giorno. Essi arrivano l'indomani della nostra partenza da Ismit, non trovano l'auto davanti alla posta, ci cercano dappertutto, e riescono anche in un'impresa incredibile: mobilitano un'auto della polizia munita di altoparlante, e percorrono la città strombazzando i nostri nomi. Appena usciti da Ismit, troviamo una strada spaventosa. Il ghiaccio è proibitivo, la neve cade in grossi fiocchi. A pochi chilometri da Ismit, una sorpresa sgradevole: la strada per Ankara è bloccata. Essa affronta una regione montagnosa. La neve la rende impraticabile, è impossibile passare. Che fare? Aspettiamo che la strada ridiventi praticabile, o andiamo ad Ankara? O saltiamo l'appuntamento di Ankara? Arriviamo presto alla conclusione che, a ogni modo, la strada sarà bloccata anche per Guy e Romain. A meno che essi non prendano il treno… Che fare? Taras Bulba estrae di tasca una moneta. Testa, si torna a Ismit; croce, si salta Ankara e si punta su Adana. È croce. Rifacciamo la strada fino a una biforcazione che prende verso il sud. E fin dall'inizio le cose vanno male. Il freddo è terribile. Tremiamo, dentro i nostri materassini. Taras e René, i due che guidano, devono alternarsi tutti i momenti al volante per non crepare di freddo. Le vetture si fanno sempre meno numerose. Quelle poche che incontriamo, hanno tutte le catene, e marciano al passo. Noi invece voliamo. In primo luogo, perché più in fretta saremo ad Adana, nel sud della Turchia, e meno freddo soffriremo. E poi perché l'auto va sempre peggio. Ogni 50 o 60 chilometri bisogna fermare e sostituire il chiodo che permette di cambiare le marce. Di mattino presto (ho dimenticato di dire che abbiamo lasciato Ismit sul tardo pomeriggio, e che abbiamo viaggiato tutta la notte), usciamo di strada e finiamo nel fosso. Un autocarro ci tira fuori rimorchiandoci con un cavo. Il giorno dopo, sul mezzogiorno, abbiamo talmente marciato che siamo ormai a pochi chilometri da Adana, in pieno Tauro. In più, l'auto ha noie alla batteria. Dobbiamo assolutamente arrivare ad Adana prima della notte.

E andiamo ancora più in fretta. Verso le tre del pomeriggio ci fermiamo a prendere un caffè, per scaldarci. Partendo, Taras Bulba, che guidava, invece di riprendere il volante lo cede a René. Se lo avesse ancora tenuto, non sarebbe capitato niente, perché conduceva con molta prudenza, per quanto fosse matto… È dunque René che guida. Lui, è uno spericolato. Di colpo preme allegramente sull'acceleratore, e l'auto schizza via. Al suo fianco c'è Yvon. Dietro a lui, io; e alla mia destra, Taras Bulba. Qualche minuto dopo, su un rettilineo, entriamo in un banco di nebbia. René rallenta un poco. Troppo poco… D'improvviso appare la parte posteriore d'un autocarro. René si porta a sinistra, per sorpassarlo. E mentre abbiamo fatto centinaia di chilometri senza quasi incontrare auto in circolazione, ecco che un altro autocarro ci si presenta davanti! Disperatamente, René si butta a destra, e frena. Invano. Ci schiantiamo in pieno contro la parte posteriore del primo autocarro, che va avanti con infinita prudenza…

10. Quando mi risveglio, sono lungo e disteso sul ghiaccio. Sono insanguinato dappertutto, e ho un forte mal di capo. Lentamente muovo braccia e gambe, mi sollevo sui gomiti. Non ho nulla di grave. Cerco di sedermi. La testa mi gira, devo di nuovo distendermi. Davanti a me, l'auto è ritta sulle quattro ruote, schiacciata come una fisarmonica. Non si è neppure capovolta. Si è fermata di botto, sul colpo. Accanto a me vedo René, disteso sul fianco. Non si muove. Un po' più lontano vedo Taras Bulba, pallidissimo, all'apparenza senza un graffio. Dei turchi stanno tirando fuori Yvon dal mucchio di ferramenta. Ha il volto e un braccio sanguinanti. Altri turchi si avvicinano, con un carro basso tirato da un trattore. Uscendo a poco a poco dal mio semi-coma, vedo che i turchi stanno frugando nelle nostre cose. Sarà di sicuro per trovare i nostri documenti. Ma io mi inquieto. Mi prende un'idea fissa, dovuta di sicuro allo choc che ho ricevuto, ma tutto sommato non del tutto stupida. Mi dico: frugano per vedere se c'è del denaro. Per i miei 2400 dollari non ho paura: essi non sono nel mio zaino, e non c'è pericolo che me li trovino in una tasca, se svengo di nuovo. Li ho nascosti a uno a uno, accuratamente piegati e accavallati l'uno sull'altro, per i due terzi della loro lunghezza, ben avvolti in plastica, nella cintura dei miei pantaloni. È una cintura cava, dall'aspetto normale se la si guarda, ma attraversata da una sottile chiusura lampo nella parte interna, che la percorre per tutta la sua lunghezza. Ma ci sono i 500 dollari di Yvon. Io so che, prima di lasciare Istanbul, li ha affidati a René, suo compagno inseparabile, perché riteneva che su di lui fossero più al sicuro. Ma so anche che René nasconde sempre il denaro negli slip… Mi trascino più in fretta che posso verso René. Lo scuoto. «Come va? I 500 dollari… Bisogna nasconderli». René non risponde. È sempre svenuto. Ha un filo di sangue secco a una narice. Getto due o tre occhiate prudenti attorno a me. Gemendo di dolore, perché sento male dappertutto, specie alla testa, apro i pantaloni di René, frugo negli slip, e tiro fuori i 500 dollari di Yvon. Li metto al sicuro in una mia tasca. Per ora stanno bene lì. Più tardi, se sarà necessario, li metterò con gli altri, nella cintura. Torno a distendermi. Ben presto, l'uno dopo l'altro, siamo issati sul carro basso. E partiamo nella nebbia gelida, trainati dal trattore, distesi l'uno sull'altro, sballottati a ogni svolta di strada. Saranno almeno dieci gradi sotto zero. Ma io sono il solo a battere i denti, gli altri sono sempre privi di sensi. A tre o quattro chilometri di lì c'è un villaggio con un pronto soccorso. Ci scaricano. Un medico si avvicina. Vedendomi, ha un soprassalto. Mi esamina per primo. Mi dice in inglese: «C'è qualcosa all'occhio sinistro». Io trovo la forza di sorridere: «No, no, è cosa vecchia. Guardi piuttosto gli altri. Sono sempre svenuti. Io me la sono cavata, credo». Il medico osserva René e gli solleva il braccio. Tasta il polso. Si china, ascolta il cuore con lo stetoscopio. Si rialza e si volta verso di me: «È morto», dice. Poi esamina Taras Bulba. Lui, almeno, ha il cuore che batte. Ma il suo stato dev'essere grave, lo indovino dalla faccia preoccupata del medico. Infatti manda subito un infermiere a telefonare. Ora si occupa di Yvon. E anche stavolta scuote la testa con aria molto inquieta. Gli domando: «Che cos'ha? È grave?».

«Ha un braccio molto malmesso e un occhio spappolato». Mi giro dall'altra parte, e piango come un bambino. A sera, Taras, Yvon e io ripartiamo su un furgone-tassì (il tassista mi deruba: mi fa pagare 300 lire turche una corsa che ne vale 30 o 40), e ci ritroviamo a 100 o 150 chilometri di lì, nell'ospedale di Nigde. Taras al nostro arrivo non ha ancora ripreso conoscenza. La sera stessa, lasciando Yvon e Taras, che sono stati messi in una camera a due letti dell'ospedale, vado ad affittare una camera in città, e comincio a compilare i documenti richiesti dallo stato civile e dalla polizia. Riesco a farmi amico un ufficiale che parla molto bene il francese. Mi suggerisce il miglior albergo della città e mi trasferisce in esso. Vado continuamente all'ospedale, al capezzale di Yvon e di Taras, sollecitando i medici e le infermiere. Yvon migliora un poco. Ma il suo occhio è perduto per sempre, e il suo braccio non è in condizioni migliori. Taras è sempre in coma. Mi reco ad Ankara per parlare col console di Francia (dovrò andarci quattro volte). Si tratta di rintracciare gli indirizzi delle famiglie in Francia. Quando torno, mi annunciano che Taras Bulba è morto. Le formalità per il rimpatrio di René si esauriscono in fretta, e il suo corpo viene imbalsamato. Per Taras Bulba le cose non vanno avanti. Riusciamo a rintracciare una sua probabile fidanzata, ma nessuno in Francia vuole assumersi le spese del rimpatrio. Allora il corpo di Taras parte per Ankara. Più tardi, lo sotterreranno a Istanbul. E c'è ancora adesso, senza dubbio… Bisogna far rientrare in Francia anche Yvon. I suoi genitori hanno mandato i soldi per il biglietto. Un mattino lo accompagno alla corriera. Si trascina sulle grucce. Ha il volto sbarrato da una fascia trasversale, e il braccio al collo. Piange. Fa pietà, vederlo. Gli restituisco il suo anello, e gli do 200 lire turche. «Buona fortuna, Charles — mi dice. — Per me, tutto è finito». Guardo la corriera che parte. Ho un nodo alla gola. Per loro, l'avventura è finita davvero. Resto io solo…

11. Allora, per dimenticare, mi do ai bagordi. Durante otto giorni, senza smettere mai. Festini, dancings, ragazze, eccetera. Ho un bel pagare senza lesinare, intacco appena il contenuto della mia cintura. Ma tutto ciò mi fa bene. Io che fino a Istanbul sono stato sempre solo, ho viaggiato solo, ho fatto i miei colpi da solo, mi ero realmente integrato — per la prima volta — in un gruppo e mi ci sentivo bene… E cosi mi rimetto a pensare a Guy e a Romain. Chissà cos'è capitato a loro, dove sono ora, che cosa stanno facendo. Saranno di sicuro a Bagdad, ancora ad aspettarci. O forse si sono separati… Decido di partire per Bagdad. Ad Adana, vado nel miglior albergo, frequento il migliore ristorante, danzo nelle sale migliori. Per ora ho smesso di fumare. Rimasto solo, non mi interessa più. Ma presto mi interesserà di nuovo… Ad Adana, prendo un biglietto di prima, con cuccetta, nel treno per Bagdad. Ed eccomi di nuovo in viaggio, intento a domandarmi dove mai potrò ritrovare Guy e Romain. L'incontro avverrà molto presto, e in circostanze abbastanza sorprendenti. Sono arrivato alla frontiera Turchia-Irak, e me ne sto sul treno fermo alla stazione di frontiera, aspettando, affacciato al finestrino, che venga il mio turno di passare alla dogana. Guardo distrattamente un treno che arriva nella direzione opposta, da Bagdad, e che si è fermato sul binario di fronte. Tutto d'un colpo, davanti a me, sull'altro treno, a un finestrino situato a due metri di distanza sulla mia sinistra, vedo Guy e Romain! Che fare? Ho appena il tempo di pensarci un istante. Il loro treno può ripartire da un momento all'altro. Ma bisogna assolutamente che io racconti loro il dramma capitato, anche se, come immagino, per Romain sarà uno choc terribile: Taras Bulba era il suo amico inseparabile fin dall'infanzia. «Che cos'è capitato? — mi domandano. — Vi abbiamo attesi a Bagdad; non abbiamo più un soldo, e rientriamo». «Ascoltatemi — dico molto in fretta. — Non ho tempo per usare i riguardi del caso. È capitato un incidente d'auto. Taras e René sono morti». Ho appena il tempo di vedere che Romain sta crollando, e il loro treno riparte. Ma si ferma un po' più lontano, e il mio… indietreggia! Ora non siamo più vicini come prima. Corriamo nei corridoi, Guy dalla sua parte e io dalla mia, urtando tutti per riavvicinarci. «Su, venite via — dico. — Sbrigatevi: ho del denaro, e torniamo a Bagdad. D'accordo?». Guy esita un istante, poi mi grida: «D'accordo. Vado a cercare Romain». E ci ritroviamo tutt'e tre sul treno di Bagdad, intenti a discutere con il controllore, perché se Guy ha un biglietto (e neppure fino a Istanbul), Romain non ce l'ha. Racconto loro l'incidente. Romain fatica a darsi pace. Per fortuna, sul treno, siamo incappati in altri tre hippies francesi, dei veri hippies questi, con la mentalità, il linguaggio, la sporcizia e tutto il resto. Essi si prendono cura di Romain, gli spiegano che sta uscendo da una dura prova, ma che in fondo niente è veramente importante e che è meglio dimenticare tutto al più presto. Lui comincia a cedere, anche perché lo fanno fumare. A Bagdad, dove c'installiamo in un albergo hippy, niente d'importante da segnalare. Non ci sono che hippies. La proprietaria è soprannominata Salam, perché risponde «salam» («buon giorno», in

arabo; di lì l'espressione «far salamelecchi»), facendo un inchino a tutto quel che le si dice. Le strade sono piene di soldati in armi, perché c'è la guerra con Israele. I nostri compagni di viaggio si divertono a provocarli, fingendosi spie, scattando foto, facendosi arrestare quasi ogni giorno. È meglio ripartire. Ma per dove? La questione merita di essere dibattuta. Perché in realtà non sappiamo esattamente quel che vogliamo fare. Il grosso problema è il denaro. Io ne ho, ma Guy e Romain, che non ne hanno più, sono complessati. Vorrebbero andar a lavorare da qualche parte. Dove? Nel Kuwait, è meglio. In quel piccolo Paese, rimpinzato di petrolio e straricco, c'è di sicuro qualcosa da fare. Solo che occorrono i visti d'entrata. E il Kuwait li distribuisce col contagocce. E mai per più di una settimana. Ci rechiamo all'ambasciata. Sulla porta c'è gente che aspetta da settimane. Noi entriamo e mostriamo il passaporto. L'impiegato ci ride in faccia: «Dei visti? Si vedrà domani». Il giorno dopo ritorniamo. «Ripassate domani». E si va avanti così per tre giorni. Allora io ne ho abbastanza, e vado direttamente a casa dell'ambasciatore. Quando gli imbrattacarte ti danno dispiaceri, rivolgiti sempre a chi sta più in alto. È una tecnica che mi è sempre riuscita. E riesce anche stavolta. Comincio con l'accapigliarmi con una sentinella. Il chiasso attira un ufficiale. Gli spiego il mio caso. E due giorni più tardi ho i miei visti, non solo il mio e quelli di Guy e Romain, ma anche quelli dei tre super hippies. Costoro, non ho avuto il coraggio di presentarli, per via delle loro zazzere. Abbiamo fatto copie delle foto dei loro passaporti, in cui hanno i capelli corti, e le ho portate direttamente all'ambasciata. L'indomani mattina, senza più attendere oltre, ci installiamo tutt'e sei sull'autocarro che va al Kuwait, in mezzo a montoni, galline e conigli. L'Oriente non aspetta che noi!

LE TORRI DELLA MORTE Seconda parte 1. Il Kuwait è stato una tappa tutta speciale del mio viaggio verso Katmandu. Per prima cosa, una pausa nella droga, come se inconsciamente avessi voluto prendere un po' di respiro prima di fare il grande tuffo negli eccitanti. E poi, nel Kuwait la baldoria per tutto un mese non ha conosciuto sosta. Bacchica. Un vero delirio di sbornie e di avventure amorose. Niente di più facile nell'uno e nell'altro caso, per un ragazzo libero com'ero io, senza preoccupazioni, il naso al vento in tutte le occasioni. Libero e disponibile come l'aria. Il Kuwait, per gente come me, è un paradiso. Questo piccolo principato, reso ricchissimo dal petrolio di cui rigurgitano il suo sottosuolo e la sua costa, scoppia di denaro e di lusso. Appena arrivi, un certo numero di dettagli significativi ti saltano agli occhi. Le strade sono splendide, per cominciare. Dopo aver sobbalzato per giornate intere su piste scassate e disselciate, eccoti, appena passata la frontiera, su uno straordinario velluto di lucido asfalto, largo come le nostre autostrade. Attorno a te non ci sono che vetture americane, sbalorditive per il lusso e i colori. E la città: case sontuose dappertutto. In tutto il Kuwait non ho visto che un solo rudere in terra compressa. Tutto il resto è nuovo. Non ci sono poveri, in Kuwait. Sulla facciata di ogni casa, alla finestra di ogni appartamento, e a volte in ogni finestra, c'è la griglia quadrata dei condizionatori d'aria. Un po' ovunque, sopra tutti i tetti — quelli dei palazzi e quelli delle casette — grandi cisterne d'acqua, dipinte, non ho mai saputo il perché, con strisce trasversali bianche e nere. Anche la casa più piccola ha la sua cisterna d'acqua e i suoi condizionatori d'aria. In un simile lusso e in una simile abbondanza, è evidente che ci si diverte. E ci si diverte forte in Kuwait. Forse non tanto tra i suoi veri abitanti, soprattutto all'epoca in cui arriviamo noi (è il Ramadan), ma nella colonia europea. Le mogli degli ingegneri petroliferi sono vere divoratrici in agguato dei forestieri. Noi ci facciamo mettere lo zampino addosso la sera stessa del nostro arrivo. Abbiamo cercato invano un albergo libero — sono tutti stracolmi di pellegrini in viaggio verso la Mecca, — e stiamo riflettendo sui gradini della posta, risoluti di chiedere ospitalità alla polizia (l'ho fatto molte volte in Oriente), quando vediamo arrivare due giovani donne. Sono due francesi. Ci hanno sentito parlare, e sono venute sorridenti. Sono mogli d'ingegneri. I loro mariti sono da otto giorni al lavoro sui derriks, in mare, e non torneranno prima di quindici giorni. Esse sono sole, e si annoiano. Ci invitano per il giorno dopo, ma sono un po' preoccupate, perché siamo in troppi. Si accetta tuttavia l'appuntamento, e per quella sera si va a dormire dai poliziotti, sotto un capannone. L'indomani mattina, molto gentili, essi ci offrono la prima colazione. Poi Guy, Romain e io spieghiamo ai nostri tre super hippies che vogliamo metterci a lavorare li in Kuwait e che intendiamo farci aiutare in ciò, se è possibile, dalle due francesi. Alla parola «lavoro», essi si tirano indietro come gatti gettati nell'acqua. Si disputa un poco. Noi vorremmo rimanere con le mani libere… E ci riusciamo: essi se ne vanno, offesi, per conto loro. Poco dopo siamo dalle due francesine. Si pranza con loro. Sono semplicemente affascinanti.

Francoise è una bella brunetta. L'altra, Jacqueline, ha qualche anno in più ed è bionda ossigenata. Dopo il pranzo Jacqueline se ne va. Noi restiamo soli con Francoise: parliamo di tutto ed ascoltiamo musica. La sera ci fermiamo a casa sua. Il giorno dopo Jacqueline ritorna e annuncia che ci ha trovato un appartamento, quello d'un celibe, anche lui al mare. Un appartamento che risulta, lo vediamo subito al nostro ingresso, l'emporio del whisky della colonia francese. In Kuwait l'alcool è proibito. Se ne beve solo nelle case dei privati (ma molti hanno un bar anche sull'auto). Si butta giù, a dir poco. Meglio, si tracanna. Ma resta il problema dei visti. Non sono validi che per una settimana, ed è un vero peccato essere costretti a lasciare questo paradiso al termine degli otto giorni. Ancora una volta Jacqueline, così irritante con la sua parlantina inarrestabile di incendiaria, ci risolve il problema. Un mattino ci conduce all'ufficio visti. Il direttore, che rilascia i visti per il Kuwait, è una grande personalità. Ci accoglie nel suo gigantesco ufficio imbottito, lussuoso. È un grosso arabo dai baffetti sottili, imponente in mezzo alle sue tappezzerie e ai suoi mobili stile inglese. Sembra che conosca bene Jacqueline. Del resto lei, senza un attimo di esitazione, corre direttamente a sedersi, sotto i nostri occhi, sulle sue ginocchia. Poi gli passa una mano dietro la nuca e si mette a coccolarlo. «Ho qui degli amici francesi — cinguetta leziosamente — che bisogna aiutare as-so-lu-ta-mente». «Cara signora — le risponde lui sullo stesso tono, — mi consideri suo servitore». «Ecco — riprende lei, spettinandolo teneramente, — Lei è semplicemente ridicolo con questi suoi visti che durano appena una settimana». Egli ha un sussulto, ma Jacqueline è troppo carezzevole perché possa rifiutarle qualcosa, e per di più è anche tutto rosso, ora. «Come vuole che questi studenti abbiano tempo, in otto giorni, di raccogliere tutti i loro appunti per la tesi?». Eccoci diventati studenti, alle prese con una tesi. «Allora li aiuti, prolunghi i loro visti, lo faccia per me!», riprende lei mettendogli la generosa scollatura sotto il naso. Qualche minuto più tardi abbiamo tutt'e tre un visto per altri quindici giorni, e il direttore ottiene in segno di ringraziamento un bacio sulla fronte, ma niente più. Diavolo d'una Jacqueline! Restiamo ancora per quindici giorni nel nostro appartamento. Quindici giorni di sbornie e di «parties a sorpresa». Siamo diventati il centro d'attrazione di tutte le francesi, inglesi, americane del petrolio, trascurate dai loro mariti. Non so come esse se la sbrighino con i mariti quando tornano, ma si dimostrano diabolicamente astute. Una sola volta un inglese viene a fare uno scandalo, ma non è neppure un marito, è soltanto fidanzato. Al termine dei quindici giorni, Jacqueline torna a sedersi sulle ginocchia del direttore dei visti, e la nostra autorizzazione di soggiorno è prolungata di altri quindici giorni. Ma ora dobbiamo lasciare 1'appartamento, il suo inquilino è tornato. Dove andare? È un grosso problema. Gli alberghi sono sempre zeppi, e noi abbiamo ormai assimilato così bene l'idea di farci aiutare dagli altri, che il solo pensiero di metterci a cercare un alloggio da soli ci affatica. Nel giro di un mese abbiamo avuto modo di fare la conoscenza di tutto il «Kuwait bene», e in particolare del console di Francia, il solo console francese simpatico (con quello di Katmandu) che abbia mai visto all'estero. In tutti gli altri posti, nella loro professione, non ho incontrato che dei bifolchi. E non sono il solo a dirlo. Tutti i ragazzi che viaggiano vi possono dire la stessa cosa. Per cominciare, questo console fa rifare a nuovo i nostri tre passaporti, in ventiquattr'ore, senza

farceli pagare. Poi prende il telefono, chiama un ministro del Kuwait, non so quale, e… noi diventiamo boy-scout! Un centro immenso, completamente nuovo, lussuoso che è una meraviglia, è stato allestito per gli scout del Kuwait. Ci installano lì dentro, bardandoci il petto di mostrine. Ci sono lì una ventina di camere, sala da pranzo, un salone, eccetera. Ci viene assegnato un valletto personale, uno scout, e ci si lascia liberi di fare quel che vogliamo. Restiamo lì quindici giorni, ma ormai dobbiamo pensare a cosa fare… dopo. Facendo autostop, un giorno vengo caricato dal direttore del più grande night-club. Vado a trovarlo e gli domando del lavoro. Accetta, e al momento buono fa molto di più: ci fa rinnovare i visti per tre mesi. Eccoci assunti al Gazelle Club, Guy come pilota di scafi per lo sci acquatico, Romain e io come addetti ai dischi. È un mestiere che conosco bene. L'ho praticato per anni sulla Costa Azzurra. E ho modo di prendere presto le cose in mano. Faccio rinnovare la decorazione del club, convinco il proprietario a installare un karting e dei bungalow, rinnovo la discoteca, faccio installare sulla spiaggia i dischi a comando telefonico. Presto il Gazelle Club monopolizza la clientela dei festaioli del Kuwait. Ma va tutto troppo bene per durare. Ksarès, il proprietario, ha una sorella, una vecchia linguacciuta e bisbetica che vede di cattivo occhio le mie iniziative. Mi ha sulle corna e mi rende la vita difficile quando suo fratello è assente, cioè molto spesso, perché Ksarès viaggia molto. Dopo due mesi, nell'aprile 1969, io ne ho abbastanza. Abbiamo un battibecco, e scrivo a Ksarès, che si trova a Londra, che le cose non vanno e perciò parto. Guy decide di seguirmi. Romain, di restare. Vuole guadagnare ancora dell'altro denaro, per poter partire tranquillo alla volta dell'India. E poi anche tra noi non ce l'intendiamo più molto. Ancora una volta, sono sulla strada. Ho sistemato in fondo al sacco i miei abiti civili, ho rimesso stivali, camicia e calzoni neri, e ho controllato il mio denaro. Mi restano quasi 2000 dollari di quelli presi al canadese, tanto la vita costa poco, anche a fare spese pazze, in Oriente. Il denaro è sempre ben sistemato nella mia cintura. Mi metto il sacco in spalle, e cominciamo ad alzare il pollice, Guy e io, al bordo del marciapiede, ancora in città. Non dobbiamo attendere molto. Dopo due minuti una Cadillac si ferma (nel Kuwait l'autostop si fa dappertutto, anche in pieno centro), e ci conduce fino alla frontiera irakena. Lì, un'avventura banale. Ho nel sacco dei talkies-walkies (nel Kuwait, zona franca, si può comperare di tutto, apparecchi fotografici, cineprese, eccetera, per un niente). I doganieri irakeni subito piombano sui talkies-walkies. Non hanno mai visto cose del genere. Spiego loro come funzionano. Stupefatti, se ne impossessano, uno di essi si inoltra per un chilometro nel deserto, e si mettono a giocare come monelli per una buona ora. Cominciamo a pensare che lo scherzo duri un po' troppo. Finalmente ritornano, discutono tra loro, e me li restituiscono senza dire una sola parola. Possiamo ripartire. Proprio all'uscita del posto di frontiera, un automobilista si ferma. Noi saliamo. Va a Abadan, 80 chilometri di lì. Durante il viaggio ci facciamo buona compagnia. Si ascolta la radio, si parla, si beve il whisky del bar. La vettura ha l'aria condizionata, tutto va a gonfie vele. Arrivati ad Abadan, l'automobilista ci dice: «È tardi, vi invito a cena». «D'accordo». Ferma davanti a un palazzo. Prendiamo l'ascensore. Suona alla porta d'un appartamento. L'appartamento è pieno di poliziotti che ci saltano addosso. E ci ritroviamo in prigione, catalogati come spie. Grazie ai talkies-walkies…

Lì per lì non osiamo protestare. Abbiamo ancora dell'hashish con noi. Appena possiamo, andiamo a gettarlo in una latrina, c allora mi metto a fare un chiasso del diavolo. Ricorro alla mia arma classica, domando di vedere il console di Francia e, se non basta, anche l'ambasciatore. Dopo una notte di discussioni, ci rilasciano e possiamo ripartire. Ora comincia il periodo dei viaggi in autocarro verso l'Iran. Poi le linee di autocarri si fermano. Riusciamo a cavarcela, lungo il deserto salato, in mezzo a paesaggi favolosi di montagne dalle cime innevate e laghi verdi in fondo alle valli disidratate dal sole, facendoci trasportare da camionisti. O meglio, da banditi a lungo corso, sempre pronti a derubarci alla prima nostra disattenzione. Di notte, Guy e io dobbiamo darci il cambio e fare i turni di veglia. Una notte Guy mi scuote. I tre camionisti si aggirano attorno a noi. Anche se il loro colpo riuscisse, resterebbero a bocca asciutta, a meno che non abbiano l'idea di frugare dentro la mia cintura… Estraiamo in fretta i nostri coltelli scout, eredità del Kuwait. Vedendoli luccicare al chiarore della luna, gli altri fischiettano distrattamente e vengono a offrirci delle sigarette all'hashish. Attraversiamo così l'Iran, un deserto trapunto di oasi verdi, erbose come la Normandia, e un pomeriggio arriviamo a Zahidan, presso la frontiera pakistana. È la fine dell'aprile 1969. Tra poco ricomincerò a drogarmi. Cominciare sarebbe la parola più esatta. Perché quel che ho preso finora non è che uno scherzo, in confronto ai veleni micidiali che mi aspettano. La frontiera irano-pakistana, oltre Zahidan, è costituita da una ferrovia che corre in pieno deserto. Da una parte l'Iran, dall'altra il Pakistan. Esaurite le solite formalità, bisogna aspettare che arrivi l'autocarro proveniente da Quetta, nel Pakistan. A volte si aspetta anche otto giorni, ammassati in una baracca a un solo piano, con terra dappertutto (come suolo, alle pareti, e come tetto), che di albergo ha solo il nome, e un pozzo quasi secco. Né elettricità, né luce a gas. Appena qualche candela. E ci si corica direttamente sul terreno. In mezzo agli insetti che brulicano. Gli scarafaggi in particolare, che escono appena arriva la notte. Si arrampicano sul corpo e bisogna dormire in loro compagnia, perché l'albergatore (o come chiamarlo) vigila e vuole che nessuno li tocchi: sono animali sacri. Imbacuccato nei suoi stracci sporchi, egli passeggia lungo il dormitorio e ci sorveglia, sorridente ma inflessibile. La sola cosa al mondo che lo interessa sono le sue bestioline. Del traffico della droga se ne infischia. In Pakistan la vendita della droga è tollerata (anche se in teoria la legge la interdice; in Iran e Irak invece, se un trafficante si fa beccare, lo fucilano). Si trova droga dappertutto, con la facilità con cui in Francia si comprano i pasticcini al bar dell'angolo. Tutti fumano, e bisogna essere santi — o matti — per non farlo. Le poche decine di hippies e d'altri stranieri che si trovano lì, vi si abbandonano con tutta l'anima. Per i veri intossicati l'arrivo al Pakistan è la fine di un lungo calvario. Per giorni e giorni hanno viaggiato a piccole tappe, brucianti d'impazienza e di febbre, facendo acrobazie per procurarsi la droga. E tutto d'un colpo si spalancano loro le porte del paradiso. A prezzi che scoraggiano ogni concorrenza, si vedono offrire tutto quel che vogliono: dall'hashish all'eroina, passando attraverso l'LSD, l'oppio e la ricca gamma delle amfetamine. È come una polla d'acqua sorgiva che appaia d'improvviso agli occhi d'uno scampato dal deserto, che da settimane non aveva visto scorrere nient'altro che il suo sudore. Accanto a me ci sono due drogati — inglesi, credo — che sembrano molto in difficoltà. Si sono

procurata della metedrina, e tremano letteralmente per il desiderio, mentre preparano le loro siringhe. Sto per assistere a una delle scene che mi impressioneranno di più. Dopo aver schiacciato le compresse di metedrina e versato la polvere in una tazza d'acciaio, cercano dell'acqua per sciogliervela. Non ne hanno. Sono sempre più sul punto di venir meno, cominciano ad ansimare, bisogna assolutamente che trovino dell'acqua. Uno di essi finisce per scorgere, frugando lo stanzone con il fascio di luce della pila elettrica, un secchiello contro il muro. Lo raggiunge. Il secchio è pieno. L'inglese, d'improvviso calmo, immerge il bordo della tazza, fa entrare un po' di liquido, agita il suo miscuglio, e attraverso un batuffolo di cotone riempie la siringa. L'altro fa altrettanto. Poi si mettono al lavoro per fare l'iniezione. Hanno un bello stringere il legaccio più che possono, e tenere il più possibile vicina la luce della loro pila, non riescono a trovare la vena. E poi, tremano troppo. Il primo vede che li osservo. Mi fa un cenno e mi chiede di aiutarli. Io terrò la pila, per illuminarli quando faranno l'iniezione, più possibile vicino alla piega del gomito, perché la luce è molto debole. Faccio come mi chiedono e, volendo mettermi più vicino a loro, afferro il secchio per allontanarlo. Un insostenibile odore di urina e di marciume mi sale al naso mentre lo smuovo. Il secchio, è quello della latrina! Li dentro hanno preso il liquido che vogliono iniettarsi nelle vene! Un po' scosso, mi siedo vicino al primo, e accosto la pila fin quasi a toccare la piega del suo gomito. La sua carne è deturpata, piena di lividi e di bitorzoli. Egli buca. Tira indietro lo stantuffo della siringa per vedere se il sangue risale (se no, è segno che 1'ago è penetrato nella carne, e la droga andrebbe perduta). Il sangue non risale. Tira indietro l'ago, e buca un'altra volta. La vena sfugge e si lacera, il sangue cola. Bestemmia, si asciuga, e ricomincia. Trema sempre di più. Dovrà ricominciare cinque o sei volte, prima di farcela. E per l'altro, che l'attesa ha reso con i nervi allo scoperto, succede lo stesso. Finalmente, in qualche modo, sono riusciti a prendere la propria dose, e tornano a coricarsi. Passeranno una notte felice. Anch'io, del resto. Quando ritorno al mio posto, Guy mi tende il suo shilom già acceso. Aspiro una lunga fumata; il piacere viene presto, più presto ancora che la prima volta a Istanbul. Ne accendiamo un altro, e ricominciamo. Una benefica lucidità mi prende. Come mi sembra lontano il mondo occidentale! Quei due mesi passati nel Kuwait tra le guardie, le ragazze e l'alcool, che gusto amaro e sporco mi lasciano nella memoria! La droga invece, come mi sembra pura, nitida e limpida, in confronto con tutto il marciume della civiltà! Non ho più voglia di bere, il ricordo di tutti quei cadaveri di bottiglie di whisky gettate nella pattumiera a cinque o sei per volta ogni mattina, mi rivolta lo stomaco almeno quanto l'immagine del secchio della latrina, poco fa. Attorno a me, nel silenzio caldo e pesante della notte, tante piccole braci rilucono una dopo l'altra, seguendo il ritmo delle inspirazioni. Mi sento bene, sono felice. Ho l'odorato abbastanza penetrante e la bocca abbastanza grande per vedere e mangiare tutte le cose buone di questo mondo. La natura intera mi sembra un paradiso terrestre fatto per essere divorato a grandi morsi voraci, stretto e posseduto con tutto il mio corpo.

Domani ripartirò, e l'Oriente mi aprirà le sue porte. Ormai non starò più un solo giorno, una sola notte, senza drogarmi.

2. Il più spaventoso dei veicoli che abbia mai visto, è l'autocarro per Quetta, che si fa aspettare solo tre giorni. Ogni due ore il carico umano discende, tra le grida dei monelli e gli squittii del pollame, sia per fare i propri bisogni, sia per dire le preghiere. Preghiere o bisogni, la scena è la stessa. C'è deserto a perdita di vista, ed è inutile cercare di isolarsi o anche di allontanarsi. Tutti si dispongono in cerchio attorno all'autocarro e si accoccolano chiacchierando. O si appiattiscono sulle stuoie, se è per la preghiera che ci si è fermati. Poi si riparte. Il viaggio dura due giorni. A Quetta facciamo conoscenza con il miglior tè del mondo. Nelle sale da tè, tutti piccoli ambienti con appena una tavola e dei sedili, si cuoce e ricuoce il tè con il latte parecchie volte. È delizioso. Esitiamo parecchio, a Quetta, sulla strada da seguire. Quetta è un crocevia. Discutiamo con accanimento, Guy e io, e alla fine ci troviamo d'accordo su un progetto: e se si facesse il giro del mondo? Sì, ma passando per dove? Cominciando dall'India? Passando per l'Afghanistan o discendendo a Karachi per prendere il battello fino a Bombay? A ogni modo, per quel che riguarda l'hashish, ciò non ha alcuna importanza. Se ne vende dappertutto, ormai. Il caso sceglie per noi. Facciamo conoscenza con dei carovanieri che ci offrono di accompagnarci fino a Karachi. Solo che essi non partono prima di tre settimane. Che importa? Intanto visiteremo l'Afghanistan, e tanto peggio per i visti che non abbiamo. Passeremo attraverso le montagne. Così, metà a piedi e metà in autostop, percorriamo a grandi passi l'Afghanistan, andando attraverso Kandahar fino a Kabul e a Herat. Fumiamo sempre di più. Io, dieci shilom al giorno. Guy ne fa molti di più. Fino a venti il giorno. L'hashish lo danno per niente. Non costa che 10 dollari al chilo (mentre il canadese a Istanbul lo pagava 100 dollari). Va detto che l'Afghanistan è, con il Nepal, il principale produttore di hashish del mondo. E ha un hashish molto pregiato: forte, fresco e profumato. La vita è meravigliosa. La droga ci mette in uno stato straordinario di forza e di lucidità. Non siamo mai stanchi. Al termine delle tre settimane rientriamo a Quetta. I nostri carovanieri sono ancora lì. Indossiamo anche noi come loro una gellaba bianca (una specie di barracano), e arrotoliamo un turbante attorno alla testa. Ci appollaiamo ognuno sopra un cammello, ed eccoci partiti, a piccole tappe, con male al sedere e una vaga nausea perpetua. Ci occorrono tre settimane per raggiungere Karachi. Durante queste tre settimane capisco perché in queste regioni dell'Oriente tutti quanti, o quasi, si drogano. Il clima desertico è così estenuante, esige un tale sforzo, che per resistere si ha bisogno di aiuto. E l'aiuto lo dà la droga. Attraversare un deserto a dorso di cammello, se non si ha, grazie alla droga, l'euforia che permette di sopportare il tormento del sole, del calore e della siccità, è un vero supplizio. Senza i nostri shilom e la nostra riserva di hashish, credo che Guy e io avremmo ceduto durante il viaggio. Come pure i carovanieri, del resto. Anche se hanno sofferto meno di noi, perché sono abituati al clima. Mi riferisco soltanto alle fatiche del viaggio in se stesso. Passare delle giornate intere a

consumarsi il sedere sopra una sella dura, sballottato in modo abominevole come in un battello sollevato dalla tempesta, è già molto penoso. Ma poi c'è il sole. Il corpo e la testa sono protetti dalla gellaba e dal turbante. I piedi, li si avvolge in stracci. Ma per le mani non c'è niente da fare. Bisogna per forza esporle, per tenersi, lassù, in vetta alla gobba del cammello. E così le mani sono bruciate in continuità dal sole. In capo a otto giorni le nostre mani non sono più che una piaga. In principio riusciamo a resistere, ingozzati come siamo di hashish, ma presto è una tortura intollerabile. Un giorno il capo dei carovanieri ci osserva e scuote la testa. Poi va a cercare degli escrementi di cammello, e due paia di guanti col solo pollice separato. Li riempie con gli escrementi freschi, e ce li porge: «Mettete questi», ci dice. Meravigliati, lo guardiamo senza comprendere. Ci spiega che è un rimedio formidabile. Che dobbiamo portare questi guanti pieni d'escrementi finché le nostre piaghe rimarranno aperte. È il solo modo di guarire. Obbediamo, superando meglio che ci riesce il disgusto. Tutti i giorni si rinnova il contenuto dei guanti. Del resto non siamo i soli ad avere male alle mani. Due carovanieri devono subire lo stesso trattamento. Nel giro di otto giorni non solo le piaghe sono guarite, ma non ci siamo pigliata nessuna infezione. La sera, quando ci si ferma, ci massaggiamo la schiena a vicenda. Perché il piacere di montare un cammello vi procura anche violenti mali di schiena. Come si vede, un vero viaggio turistico! Ma l'hashish è lì per farci conservare intatto il nostro buon umore, e grazie a lui arriviamo senza aver ceduto, anche se completamente sfiancati, a Karachi. Ci crediamo finalmente liberati dai cammelli. Ma non è finita. Come in India le città sono piene di vacche, così Karachi è intasata di cammelli. Ce ne sono dappertutto, a tutti i crocevia, in piena circolazione, tra i palazzi di vetro e d'acciaio, che bloccano le automobili e scompigliano i semafori. Più in fretta possibile, ci installiamo in un albergo, naturalmente per hippies. Un albergo molto bello. Non ha niente che vedere con l'Old Gulhane, è tenuto molto meglio. Ha dei dormitori (una rupia per notte), ma anche delle camere (due rupie). I dormitori sono riservati agli indigeni. Così noi prendiamo posto in una piccola camera molto curiosa, sulla terrazza. Tutta dipinta con disegni psichedelici. I quattro muri sono traforati. Sono fatti con mattoni alternati che lasciano passare l'aria, precauzione indispensabile per non morire di caldo. Ci buttiamo subito sui letti e tiriamo fuori gli shilom. Ne abbiamo proprio bisogno, per dimenticare il deserto, i cammelli, il male al sedere e le scottature alle mani. Ce ne restiamo qui dentro un mese, non uscendo che per mangiare o rinnovare le provviste di droga. Qualche volta andiamo a discutere un po' con Jimmy. È un americano che abita nella camera di fronte alla nostra. È il secondo junkie che ho visto, e non lo dimenticherò, perché, contrariamente a tutti i junkies, è pulito. È tutto bianco. Di pelle innanzi tutto, perché non esce mai. E poi di vestito. Impressiona per la sua serenità. Sempre sorridente e gentile. Cinque o sei volte al giorno tira fuori una polvere bianca — sempre pronta — dal suo sacco, ne versa in una siringa, aggiunge acqua e si fa l'iniezione, con un eterno sorriso sulle labbra. Prende l'eroina, in quantità enormi. Poi si ridistende e non si muove più. Con la sua lunga barba bionda, i riccioli che gli scendono fino alle spalle, lo si direbbe Gesù Cristo nel sudario. Quando parla, è per dire che presto partirà per l'Afghanistan. Vuole stabilirsi

sulle montagne. Per fare che? Per finirvi la vita, semplicemente. Non ne fa mistero. Sa che è arrivato a dosi troppo forti, e che la morte non è lontana. Ci pensa con calma. Ha fatto la sua scelta… Ci impressiona al vivo, e ricordo che, osservandolo, giuro a me stesso di fare di tutto per non arrivare al punto in cui è lui. Giuramento per «vergogna», beninteso. A Katmandu anch'io gli assomiglierò, e parlerò di andar a morire tra le montagne. E partirò perfino… Ma per il momento non siamo che all'hashish. Non ha ancora soddisfatto tutte le nostre curiosità. Un mese più tardi, prendiamo il treno per l'India. Alla frontiera, assaggio per la prima volta il betel. Sopra una bassa bancarella, quasi per terra, un mercante mi mostra delle foglie d'albero, ciascuna delle quali corrisponde a mucchietti di polveri o di impasti di diversi colori. Mi domanda se lo voglio forte o meno. Per prudenza gli dico «medio». Fa un miscuglio, arrotola tutto in una foglia, mi chiede mezza rupia e mi porge l'involto. Lo porto alla bocca, e comincio a masticarlo. È molto aromatico, amaro, non sgradevole. Presto sto salivando abbondantemente, e ho la bocca rossa. Attendo che produca un qualche effetto, perché sono convinto che è una droga. Ma niente. Non è nient'altro che un chewing-gum orientale, proprio nulla di speciale. Non sarà certo il betel che iscriverò nella lista delle mie esperienze più stupefacenti! Nel treno scateniamo una grandiosa battaglia campale. Abbiamo prenotato delle cuccette (mi rimane ancora parecchio denaro) e, non ho mai capito il perché, ci rifiutano le nostre cuccette. Noi protestiamo. Una dozzina di indù ci rimbecca vivacemente. Altri, dei sikh, prendono la nostra difesa. Sentendoci sostenuti e, in più, ormai ingaggiati nel pieno della contesa, noi replichiamo. Ed è subito la battaglia. Tutto il vagone, da 25 a 30 persone, si mette a picchiare. Le valige volano, i colpi piovono. Si va avanti così per un'ora almeno. Una buona piccola baruffa, che finisce per l'intrusione di un'armata di controllori… che ci cacciano via, Guy e io! Arriviamo a Dehli e ci installiamo a ciel sereno sopra una terrazza della stazione. A un chilometro o due di lì, Connect Place. È il luogo di convegno degli scoiattoli di Delhi. Ce ne sono a migliaia sugli alberi. Sotto, un sacco di gente e gli hippies. Bisogna fare molta attenzione per comperare l'hashish, perché in India la droga è proibita e i poliziotti sono sempre con gli occhi aperti. Tutti gli europei si danno convegno in un immenso caffè, e gli indiani, in particolare i sikh, vengono a osservare gli europei. Questi ultimi sono per tre quarti ubriachi. Eppure l'alcool è proibito in India. Ma sulle ginocchia hanno tutti la loro bottiglia, e la vuotano coscienziosamente, mentre la loro tazza di tè si raffredda, intatta, davanti a loro. Presto ne abbiamo abbastanza di dormire sotto le stelle, e andiamo a installarci in un albergo. La proprietaria è un'europea completamente svanita. Si droga da anni ed è visibilmente suonata. Ce ne accorgiamo fin dal nostro arrivo. Ci porge il registro dell'albergo e ci costringe a scrivere, Guy e io, dopo i nostri nomi e generalità, questa frase: «I am not Hippy» (io non sono un hippy). È una sua mania. Anche il più hippy degli hippies, il più zazzeruto e variopinto, deve scrivere quelle parole, sotto pena di essere immediatamente espulso. A causa della polizia? Ma la polizia, se viene in casa sua, vede bene che tutti questi «non hippies» sono hippies nati e sputati… Non restiamo molto a Delhi. Passando per Accra — la perla dell'India, la città dai più bei palazzi — ridiscendiamo a Bombay.

Lì ci aspettano alcune piccole avventure un po' banali. La prima, a momenti, mi porge l'occasione di farmi sgozzare a coltellate. E tutto per non aver voluto seguire la solita trafila e andare in un albergo frequentato da europei. Volendo fare gli originali, Guy e io decidiamo di scegliere un albergo frequentato esclusivamente dagli indiani, sconosciuto dai bianchi. Ne scoviamo uno dietro la stazione Victoria, una stazione che non porta solo il nome di quella famosa di Londra, ma ne è anche l'identica copia. Il nostro arrivo provoca lo stupore generale. Non si è mai visto un europeo entrare lì! E ci accolgono come dei re. Sfortunatamente non ci sono più camere libere. Allora i proprietari ci cedono il loro appartamento al terzo piano. Di notte può andare, perché essi dormono in uno sgabuzzino. Ma di giorno, la moglie del proprietario viene a fare cucina da noi. E Guy, al quale l'hashish fa perdere anche il minimo rispetto che si deve portare ai propri ospiti, le fa una corte tanto sfrenata quanto diretta. In capo a tre giorni il marito ne ha abbastanza, tempesta e minaccia. Cerco di far ragionare Guy, e lui si calma. Ma la storia si è risaputa in giro e noi siamo considerati come delle bestie rare. Nel frattempo incontriamo, come e naturale, altri europei, e ben presto gli hippies vengono a trovarci. Il nostro appartamento diventa un luogo d'incontro, pieno di americani, inglesi, olandesi, danesi, eccetera. Insomma, un vero «Old Gulhane» stipato di individui della miglior risma. Ora in una stanza vicina, sullo stesso pianerottolo, c'è un circolo clandestino di giochi d'azzardo. E i giocatori hanno preso l'abitudine di venire, tra una giocata e l'altra, a darci un'occhiata dalla soglia della camera, perché non c'è porta. Restano lì impalati, con gli occhi spalancati, e commentano nel loro dialetto tutto quel che noi facciamo. Ma un giorno mi salta la mosca al naso. Lì, sulla soglia, ci sono tre indiani che si guardano lo spettacolo. Dopo dieci minuti grido loro di andarsene. Come non detto, essi restano. Allora li ricopro d'insulti. Ed ecco che uno di loro, che ha capito il mio inglese, tira fuori un coltello e mi si scaglia addosso. Per fortuna il mio sacco non è troppo lontano, e ho il tempo di afferrare il mio pugnale prima che l'altro mi abbia raggiunto. Rotoliamo a terra. Lui tutto vestito, e io tutto nudo, lottando all'arma bianca come nei migliori film d'avventure. È svelto, e faccio fatica a parare i suoi colpi, perché lui vuole veramente la mia morte, glielo si legge negli occhi iniettati di sangue. Quanto a me, drogato come sono, non sono meglio di lui in fatto di buone intenzioni. Per fortuna siamo di forze pressoché uguali, e ci facciamo solo qualche graffio. Ma dopo cinque minuti io comincio a riprendere il controllo di me stesso. Quel che sta capitando è troppo stupido, bisogna smetterla. Guy, vicino a noi, grida che siamo degli imbecilli. La camera si è riempita di gente e il proprietario saltella da tutte le parti gridando aiuto. Riescono a separarci. Io sono inflessibile: costui non metta più piede qua dentro, e la smetta di fare il guardone. È tutto quel che domando. Il proprietario cerca di convincerlo. Lui dice di sì con la testa, e mi guarda di traverso. Gli tendo la mano. Ci sorridiamo. È tutto finito. Allora, mentre mi giro per andar a cercare i miei pantaloni, perché mi sono accorto d'improvviso che ero ancora tutto nudo, sento Guy che mi grida: «Attento, Charles!». Mi abbasso… e quel tipo passandomi sopra va a finire contro il muro. Porco! Mi butto verso di lui, impugnando il coltello, ma Guy e il padrone mi si avvinghiano al

corpo, mentre alcuni indiani cinturano l'altro. Stiamo lì, a faccia a faccia, ansimanti. «Bene, visto come stanno le cose — dico al proprietario, — noi ce ne andiamo via di qui. Non può durare così. Un albergo di guardoni, dove per di più ti saltano addosso col coltello. Andremo a protestare al consolato. Vi assicuro che sentirete ancora parlare di noi». Il padrone impallidisce. È chiaro che, con la sua bisca clandestina, ha terrore di aver che fare con le autorità, ciò che vuol dire — alla fin fine — con la polizia. Tutti parlano tra loro in indiano. Noi europei, con sussiego, ci ritiriamo nel nostro appartamento attendendo il risultato della discussione. Dopo dieci minuti sentiamo delle grida, del frastuono giù per le scale, poi la porta dell'albergo che sbatte. E il padrone ritorna. Cammina curvo, e sorride con tutti i suoi denti. Si sprofonda in scuse. Noi possiamo restare. Noi non avremo più nulla da temere. L'uomo dal coltello è stato messo alla porta. E difatti più nessuno verrà a darci noia. Ora siamo noi, veramente, i padroni. A essere più preciso, sono io, il padrone. In primo luogo per gli indiani, che la mia colluttazione ha riempito di rispetto. Ma in un certo modo anche per gli europei. E non tanto per via del coltello, ma a causa della mia cintura a doppio fondo. Perché mi restano ancora la metà dei miei 2400 dollari. Sono 1400 o 1500, se ricordo bene. In un paese in cui un operaio guadagna in media una rupia (corrisponde a 83 lire italiane) al giorno, è una fortuna. È chiaro che non ho detto a nessuno ciò che ho nella mia cintura, e Guy si è guardato bene dal tradire il mio segreto: una volta o l'altra qualcuno mi avrebbe potuto assalire in qualche posto solitario e derubare fino all'ultimo centesimo. Ma tutti vedono che io pago, e prendono l'abitudine di lasciarmi pagare. Del resto lo faccio volentieri. Non sono mai stato uno spilorcio, e ho sempre trovato normale, in un gruppo, che chi ha del denaro paghi. E così molto in fretta l'albergo del «francese in nero e con un occhio solo» (questa seconda parte del soprannome la invento io, perché con le mie orecchie non l'ho mai sentita, ma suppongo che sia stata reale) diventa celebre nella comunità degli hippies. Vi si accorre da tutte le parti. L'appartamento che fu del proprietario è ora stipato da 25 o 30 occupanti variopinti, muniti di capelli lunghi, e bardati di flauti, magnetofoni e chitarre. I servi hanno il loro da fare a portar su piatti pieni e a riportarli giù vuoti. Perché tutti bevono, mangiano, dormono e si drogano praticamente sul mio conto. Il proprietario è entusiasta, io pago regolarmente, e nessuno si dà pensiero di sapere di dove escono i dollari, purché continuino a uscire. È così che per la prima volta faccio veramente parte di una comunità di hippies. Ospito pittori, poeti, musicisti, ho una corte di ragazze incantevoli che mi dicono «ti amo» in tutte le lingue dell'Occidente. Per il mio servizio personale ho due ragazzi che il padrone mi ha messo a disposizione. Un monello di dieci o dodici anni, con un piede storpio, ma che fa di corsa tutte le commissioni che gli assegno, e dorme per terra davanti al mio letto. E poi un altro, di venticinque anni, che fa il pittore. Io sono per lui un dio vivente. Gli ho spiegato alcuni trucchi per vendere i suoi quadri, e hanno funzionato. È sicuro che lo porterò con me a Parigi. Io non oso dirgli che ha poche possibilità di arrivarci molto presto, perché Guy e io siamo — al momento ancora fermamente decisi a fare il nostro giro del mondo. Secondo i nostri progetti, la prossima tappa sarà la Malaysia. Vogliamo andarci per mare e ci rechiamo regolarmente al porto per vedere se riusciamo a combinare il viaggio. Ci respingono dappertutto. Noi non ci scoraggiamo e di notte montiamo a bordo dei carghi, clandestinamente, del

tutto suonati, e svegliamo i comandanti… che ci cacciano via uno dopo l'altro. In quindici giorni, diventiamo famosi come le bestie rare, siamo conosciuti da tutti i marinai, i doganieri e i poliziotti del porto di Bombay, ma nessuno vuole saperne di noi. Quali conseguenze ne vengano, si vedrà più tardi. Per ora, continuiamo per la nostra strada! Fra i nostri parties di droga e d'amore, le nostre sedute musicali un po' speciali, e le nostre chiacchiere filosofiche, letterarie e artistiche, ce la ridiamo divertiti guardando le strade bloccate da imbottigliamenti mostruosi, nelle ore di uscita dagli uffici, perché una vacca sacra distesa in mezzo alla strada scaccia le mosche con grandi colpi placidi della sacra coda, mentre decine d'indù le fanno pssit! con la mano, a rispettosa distanza. Andiamo a farci solleticare dai pulitori di orecchie, andiamo a farci massaggiare. Sorprendenti, i massaggiatori di Bombay. Sono, si dice, i migliori del mondo, e io lo credo volentieri. Ma immagino che la loro reputazione venga anche da certi talenti un po' particolari che non esitano a esercitare sui clienti, che la decenza mi impedisce di descrivere. E la sera, quando ne abbiamo abbastanza di stare al chiuso, andiamo tutti ad accendere falò sulla spiaggia e facciamo fantastici bagni di mezzanotte. Per il resto del tempo c'è un viavai perpetuo fra il nostro albergo e un altro situato a due chilometri di lì, il Rex Hotel, un albergo tutto in legno con balconi che danno su un piccolo cortile interno, vicino a un celebre arco di trionfo, il Gate Way, in riva al mare. È un altro albergo di hippies, accanto all'albergo dell'Esercito della Salvezza, e al Sun Rise (Sol Levante), un caffè che è il luogo d'incontro preferito dagli europei. Facciamo continuamente la spola fra il loro albergo e il nostro. A tal punto, che un giorno assumiamo un tassì soltanto per noi, a prezzo forfettario. Il tassista lavora solo per noi. Staziona in continuità davanti all'albergo, e ci scarrozza da dieci a quindici volte al giorno tra andate e ritorni. Noi siamo drogati senza interruzione, e ciò va molto bene; le nostre serate sono indimenticabili. E l'avventura continua: le relazioni si annodano e si sciolgono, tante vicende, nessuna preoccupazione, nessuna seccatura. Una vita formidabile! Almeno è quel che credo al momento, perché di fatto sto per entrare nel mio secondo periodo, quello dell'oppio. E ben presto, per quanto straordinaria abbia potuto essere la mia esperienza dell'hashish, essa non mi lascerà che un ricordo scialbo e incolore. L'hashish, in confronto all'oppio, è un brodo di legumi a confronto del cognac.

3. È per caso che arrivo all'oppio. Fino a questo momento, sempre sognando di partire per la Malaysia, io non sono ancora un vero drogato, cioè uno che non pensa ad altro che alla droga e vive solo per la droga. Senza dubbio l'hashish mi regala dei sogni meravigliosi, ma per ora è solo un accessorio della mia vita, non l'essenziale. A partire dall'oppio, tutto diventa diverso. Dunque un mattino esco a fare scorta di «Bombay nero». È il nome dell'hashish prodotto a Bombay, ed è il migliore di tutti. Molto forte e profumato. È l'hashish più famoso. Viene mescolato con un po' di oppio. Occorre molto meno tempo che con gli altri per «partire». Se ne trova solo nel quartiere cinese. È il solo posto in tutta Bombay dove la polizia non osi mettere il naso (c'è anche una città in India, dove è consentito «fumare»: Benares; ma non l'hashish, bensì la «gangia», che è molto più debole). Il quartiere cinese di Bombay è un labirinto incredibile, tipicamente cinese, ma senza molti cinesi. Ci sono soprattutto indiani. Ora il «Bombay nero» si vende nelle fumerie d'oppio. Per trovarne una non occorre avere un indirizzo: basta avere il naso. Ci si orienta dall'odore. L'oppio si sente da molto lontano. Un odore che fa pensare al caramello. Il paragone non è mio, ma non ne conosco di più esatti. Quel giorno dunque me ne vado a spasso con il naso al vento in un dedalo di viuzze, e a un tratto sento una zaffata di caramello… Mi fermo, annuso l'aria; avanzo un po'; l'odore si precisa. C'è una casetta metà in legno e metà in terra compressa, sulla sinistra. Somiglia a tutte le altre case, ma è lei che odora di caramello. Busso. Nessuno risponde. Apro la porta ed entro in un lungo corridoio. In fondo, una porta. Picchio con coraggio. Nessuna risposta. Apro. C'è una scala che scende. La infilo. Arrivo in una cantina. Sono in una fumeria d'oppio, del quartiere cinese di Bombay. A prima vista, per il mio desiderio del pittoresco, il colpo è duro. Non è proprio come la immaginavo. Per me, come per molti in Occidente senza dubbio, una fumeria assomiglia a un ristorante cinese, con luci smorzate, legni scolpiti, pitture sui muri, eccetera; insomma, un ambiente molto esotico. Ce ne sono, forse, che mettono insieme questo genere di decorazione, ma la mia è piuttosto sordida e deludente. Piccolissima, tre metri per quattro al massimo, ha muri bisunti e tutto attorno dei tavolacci. Davanti a ciascuno di essi, una piccola tavola con gli strumenti e una lampadina accesa. L'odore di caramello è abominevole. Non c'è né uno spiraglio né aerazione d'alcun genere, non si vede un bel niente. È già molto se mi riesce di distinguere sul tavolaccio di destra un vecchio scheletrito, seduto, che indossa giacca e calzoni. È circondato da coppe. Attorno a lui, dei fumatori distesi; ce ne sono cinque o sei, più un altro uomo chino presso un fumatore, che gli prepara la pipa. Il vecchio scheletrito, da quel che capisco, è il padrone. L'altro, il servitore. Gli altri sono quasi nudi. E tutti i posti sono occupati. Il padrone mi dice che gli spiace, ma non c'è più posto. Bisogna che io aspetti. Gli dico che sono venuto per del «Bombay nero». Ah, bene! È un altro discorso. Quanto me ne occorre? Glielo dico. Mi serve, e pago. E me ne vado, molto deluso. Perché d'improvviso mi ha preso una voglia furiosa di assaggiare l'oppio. Sarà forse perché l'ho sognato da ragazzo, leggendo storie che si svolgevano in Estremo Oriente (in un Tintin et Milou, non so più quale, non c'è una scena che si svolge in una fumeria?). O forse sarà perché a forza di fumare il «Bombay nero» mi sono a poco a poco intossicato con l'oppio

che contiene. Credo che la spiegazione giusta sia piuttosto questa. A ogni modo bisogna assolutamente che fumi dell'oppio. Faccio qualche passo per la strada, indeciso. Resto esitante per una mezz'ora. Poi, torno sui miei passi… Impossibile ritrovare la mia fumeria! Mi sono sperduto nel dedalo delle viuzze, delle piazzole, dei corridoi e dei cortiletti. Sono infuriato e cammino in tutte le direzioni, quando d'improvviso eccomi al punto, si sente odor di caramello! Questa volta l'odore mi porta verso un'altra casa, non quella di prima. Ha la facciata più bianca che quella delle altre. Entro e resto perplesso. Non si vede a un palmo dal naso. A tastoni percorro un corridoio molto lungo, forse 25 o 30 metri, fiancheggiato da porte a destra e a sinistra. Quale porta sarà? Con le narici dilatate, percorro il corridoio nei due sensi. È la terza porta a sinistra partendo dall'ingresso, quella che odora di più. Ho indovinato. La fumeria è lì, subito dietro la porta. Stesso bugigattolo (tre metri per quattro al più), stesso scenario sordido, stesso vecchio scheletrito seduto a destra in giacca e calzoni sul suo tavolaccio, stesso servitore, stessi tipi distesi. Frugo l'ombra con avidità: evviva, c'è un posto vuoto! A me l'oppio! Sono un poco preoccupato per il modo in cui lo si fuma. L'ho visto fare già una volta a Karachi, ma dal vedere al praticare direttamente su di sé ne nassa. Però non me la cavo troppo male. Una volta disteso, comincio ad abituarmi un poco alla penombra, e vedo nettamente il servo che viene con la sua coppa. So che lì dentro ce n'è per fare all'incirca quattro pipe, e che lui me le preparerà. È un vecchietto rinsecchito, tutto bianco, e mentre mi porge uno sgabello basso che metto sotto il capo a modo di cuscino, mi accorgo che ha un lato del corpo, quello sinistro, come macerato. La pelle è striata — spalla, braccio, avambraccio, fianco, coscia e polpaccio — da scanalature brune, profondamente incrostate, come scavate nella carne. Affascinato, mi stendo di fianco sul mio tavolaccio per voltarmi verso di lui, e mi faccio un po' male al gomito. È la paglia della stuoia del tavolaccio che mi entra nella carne. Allora, in un lampo, comprendo tutto: è la stuoia che ha conciato in quel modo il servo! Quanti anni saranno occorsi alla stuoia per cesellare così il suo corpo? Lo saprò più tardi, quando diventerò amico di lui e del padrone, a furia di venire e di condurre dei clienti: il servo è qui da cinquant'anni, e da cinquant'anni, quando fuma, si corica sempre sul fianco sinistro. Cinquantanni… Siamo nel 1969. È dunque nel 1919 che ha cominciato a stendersi lì, sopra una stuoia, sul fianco sinistro. Dal 1919. Cinquantanni sul fianco sinistro. Al momento è chino presso la mensola dove ha posato la coppa piena d'una pasta molle color verde-bruno: l'oppio. Sulla mensola si trova anche una lampada a olio con un vetro cilindrico che protegge la fiamma. Il servo prende una bacchetta d'acciaio lunga e sottile, con essa afferra una pallottolina di oppio per metterla poi sulla fiamma. A due mani gira la bacchetta per lavorare e impastare l'oppio, per cuocerlo al punto giusto. Quando stima che è fatto, prende una pipa. La sua canna è sottile, lunga come l'avambraccio. È di legno d'ebano, scolpito e incrostato di pietre. Da una parte, quella dove si aspira, c'è un bocchino di avorio. Dall'altra il camino. È un camino a forma di cono, ma dalla parte opposta alla punta, non è aperto come una pipa di tabacco. Da questa parte, c'è solo un piccolo foro.

Il servo vi pone sopra la pallina, la comprime leggermente perché vi formi come un piccolo cuscinetto, poi riprende la bacchetta d'acciaio e perfora il cuscinetto perché l'aria dall'esterno comunichi attraverso l'oppio con la canna della pipa. Ciò fatto, capovolge la pipa e me la presenta, col camino verso il basso, rigirato sopra la fiamma. Tocca a me ora fare la mia parte. So, grosso modo, come fare. Bisogna vuotare completamente i polmoni e tirare, con un'inspirazione lunga e lenta, lunga il più possibile. È quel che faccio. Una fumata calda, a seconda dei momenti acre o dolciastra, invade i miei polmoni. Io aspiro, aspiro. La cosa finisce, il cuscinetto d'oppio è andato tutto in fumo, i miei polmoni ne sono pieni. Mi ridistendo, un po' ansioso. Il servo, di sua iniziativa, si mette a prepararmi un'altra pipa. Ne fumo quattro, che prendo una dopo l'altra, faticando un poco con la terza, cosa che sembra dispiacergli parecchio, poi gli faccio segno che può bastare. Quando ne vorrò delle altre, mi dice, non avrò che da dirglielo. Si vedrà in seguito. Per ora, faccio l'esperimento. Molto presto prendo il volo. Molto meglio che con l'hashish. È davvero formidabile. Benessere, potenza, lucidità, sogni che cominciano e finiscono a volontà. Come ho potuto finora accontentarmi di fumare l'hashish? Quando rientro all'albergo, è deciso: finito l'hashish, passerò all'oppio. E cerco, come è naturale, di condurre Guy con me, ma lui rifiuta. A lui l'hashish basta. È arrivato a trenta shilom al giorno, e si trova bene, non vede perché dovrebbe cambiare. C'è niente che lo convinca, non vuole neppure provare. Forse ha ragione lui, in fondo. È quel che mi dirò più tardi, quando sarò diventato junkie, dopo aver assaporato tutte le droghe, anche le più violente e devastatrici, e sentendo che anche in me la follia sta in agguato in qualche angolo del mio cervello. Ma per ora concludo che è un fifone. È vero, d'altra parte: forse sono i fifoni che hanno ragione. Sono destinati a vivere più a lungo! Quanto a me, io non sono d'accordo, per la mia felicità presente. E per mia disgrazia, senza dubbio, in futuro. Inch Allah, si è ciò che si è!… Io esagero in tutto. E se sopravvivo devo dir grazie al fatto che sono una roccia. Già l'indomani torno alla fumeria, e… non la trovo più. Ne provo un'altra. Poi il giorno seguente un'altra ancora. Ma è quella in cui ho fumato la mia prima pipa che io voglio. Perché? Non lo so. Forse a causa dei due vecchi manifesti rappresentanti l'uno Hong Kong e l'altro Gandhi, che mi hanno fornito lo spunto per le mie prime fantasticherie? È possibile. Sarei portato a crederlo, perché poi, ritrovata la fumeria, ho fatto di tutto perché il proprietario me li regalasse, in cambio della pubblicità che gli avevo fatto. E lui ha finito per farlo. Li ho ancora adesso, e li guardo sovente, appesi al muro della mia cameretta, oggi, a Clamart, aspettando che il caso mi rilanci e mi conduca su una nuova strada capace di tentarmi e di eccitarmi, il che sarà piuttosto difficile, poiché ora ho bisogno di "pimenti" molto molto forti, da quando sono ritornato… Finalmente un giorno ritrovo la mia casa bianca in fondo al labirinto. E disteso sulla stuoia, aiutato dal servo col fianco macerato, ritrovo più forti che le altre volte le tenebrose delizie della mia prima pipa. Uscendo, mi procuro dei punti di riferimento. Ma mi occorrerà parecchio tempo per ritrovare la casa tutte le volte senza sbagliare, talmente è complicato il dedalo delle stradicciole del quartiere cinese di Bombay. Dopo cinque o sei volte, io tremerò di rabbia e d'impazienza percorrendo le viuzze che s'incrociano, che si tagliano e non finiscono mai, allontanandomi inesplicabilmente dal piccolo paradiso nero, di tre metri per quattro, in cui l'oppio delizioso mi attende per due rupie alla

coppa. Alla lunga, un sesto senso mi aiuterà, e io finirò per trovare ogni giorno la casa bianca e il suo corridoio ombroso la cui terza porta a sinistra s'apre, cigolando, sul sorriso sdentato del servo macerato, al quale getto il mio denaro, sollecitandolo a fare presto ciò di cui ho bisogno. Poi, mentre egli impasta, gira e rigira la morbida pallina del benefico veleno, io mi svesto molto in fretta, perché so che presto suderò a goccioloni, tanto calore mi darà l'oppio. Tengo addosso solo lo slip, e nella penombra in cui nessuno mi vede, solo con la mia frenesia, comincio ad aspirare, lentamente, profondamente, senza più commettere errori, dalla cannuccia d'ebano, stringendo il bocchino d'avorio tra le labbra. Al momento sono arrivato a dieci coppe al giorno, cioè quaranta pipe. Più avanti, arriverò anche a quindici coppe, ciò che è, e lo so bene, un'enormità. Nella fumeria mi si rispetta. Sono un buon cliente, pago sempre e fumo bene. M'installo lì per giornate e notti intere. Mi faccio portare da mangiare e bere. Vivo lì dentro. Vado all'albergo solo per dormire. Sempre più spesso porto con me ragazzi e ragazze. E prendiamo insieme gigantesche ubriacature. Uscendo facciamo qualunque cosa, cantiamo, schiamazziamo, andiamo a bagnarci in mare. E l'alba di solito ci trova intenti a fare l'amore sulla spiaggia dove si frangono le onde dell'oceano Indiano. Ben presto la mia cintura, sollecitata con tanta intensità, non pesa più molto. Devo assolutamente trovare una soluzione. Il cinema è lì per offrirmela. Tutti gli hippies lo sanno, quando sono in India: è il paese che ha la seconda produzione cinematografica del mondo, dopo il Giappone. Bombay è piena di studi, e i cineasti hanno sovente bisogno di europei come comparse, per scene di cabaret in Europa, o per ruoli di gangsters eccetera. Perciò tiro fuori la mia famosa tenuta di gala bianca dal sacco, e mi presento a uno «studio». Non ho difficoltà a farmi ingaggiare, col mio grugno che si nota da lontano, la mia taglia e la mia andatura gigionesca. Guy ha meno successo. Soprattutto perché fa troppo l'imbecille. Fuma soltanto hashish, ma quando è «partito» (e cioè sempre) commette sciocchezze piramidali. Ed è un grosso errore. Bisogna saper restare lucidi, quando è necessario… Dunque vengo assunto, e presto guadagno bene: da 40 a rupie al giorno. È una cifra favolosa per un operaio ordinario indiano, che come ho già detto guadagna in media una rupia al giorno. Presto negli studi sono ricercato, e divento più che una comparsa. Ci devono essere dei film in cui il mio ceffo appare in primo piano, accanto agli attori principali! Va da sé che sul set è proibito fumare. Ma noi non ci badiamo, e troviamo sempre il modo di arrotolarci un joint tra una ripresa e l'altra, dato che non è possibile servirci di uno shilom e tanto meno fumare l'oppio. E lì, negli studi, faccio conoscenza con colei alla quale devo la mia partenza per Katmandu, colei che mi ha strappato ai miei progetti di giro del mondo. Si chiama Agathe. Con Agathe passo il periodo, forse più grande, di felicità della mia vita. Fuma oppio come me. Prendiamo presto l'abitudine di andare insieme alla fumeria. Si passeggia insieme per giornate intere, per notti intere. Non possiamo più fare a meno l'uno dell'altra. A volte ci abbracciamo come fanno le bestie, non importa dove, sotto un portico, in un giardino pubblico, in mezzo agli altri che dormono, o sulla spiaggia. A volte siamo molto sentimentali, molto dolci, molto teneri. Tutto è all'estremo, eccessivo, demenziale. Ci si scatena, ci si aggredisce. L'oppio ci rende un po' masochisti. Non siamo più noi, non sappiamo quel che facciamo.

Guy invece ha problemi sentimentali più classici. In questo mondo di hippies in cui tutto si fa secondo natura, in cui quando un ragazzo ha voglia d'una ragazza glielo dice, o le fa un segno, niente più, e se lei è d'accordo si alza e viene, lui continua a usare le maniere europee. Lui fa la corte come si fa in Europa. Così fa ridere tutti, e non ottiene un bel niente. Gli manca solo di fare il baciamano, inventa complicati sistemi d'approccio, si studia sorrisi e dichiarazioni. E tutto tra i vapori della droga, senza rendersi conto che è ridicolo. Povero Guy, non si adatterà mai all'ambiente. Già negli studi del cinema. Non riesco mai a ricordare senza ridere i sudori freddi che Agathe e io facciamo prendere a Guy mentre si gira (in qualche modo ero riuscito a fargli ottenere un ruolo o due). Lei e io abbiamo trovato un piccolo ridotto fuori mano, e ne abbiamo fatto il nostro rifugio. Tutte le volte che abbiamo un momento libero tra due riprese, andiamo e ci sprofondiamo in esso, e giù con la droga! Poche coperte in un angolo ci servono da letto. Drogati come siamo in continuità, non smettiamo mai di fare l'amore. Perché l'oppio, nei primi tempi che lo si prende, è un eccitante formidabile. Poi, è un'altra cosa… Guy monta la guardia. Trema tutte le volte che qualcuno passa nel corridoio. Ci sommerge con i suoi «Sbrigatevi! Tocca a voi!». Quando è il momento di comparire sul set, lo mandiamo a spasso ridendo, e arriviamo tranquilli, col naso al vento, puzzando di droga lontano un miglio, all'ultimo momento, appena in tempo per fare gli istrioni davanti alle cineprese, e poi di nuovo, appena terminata la nostra scena, sprofondiamo nel nostro nido d'amore. Quando siamo veramente spossati, ci mettiamo a dipingere. Agathe ha portato delle tele e dei pennelli, e dipingiamo quadri incredibili, del tutto demenziali, capaci di far arrossire un reggimento della legione straniera. E Guy sta alla porta, ci supplica di fare attenzione, ci ripete che finiremo per farci prendere e mettere in prigione. Insomma è la vera follia, il sogno in azione, il delirio formidabile. La felicità! Neanche all'albergo lo sfortunato Guy è a suo agio. Perché tutti si comportano alla nostra maniera. Quando lui fa la corte a una ragazza, un altro ragazzo la guarda, lei lo guarda. Lui le viene vicino, l'abbraccia, la interroga con gli occhi. Lei fa di sì con la testa, e i due se ne vanno piantando in asso Guy col suo corteggiamento di civilizzato inutile e senza effetto, in mezzo alle risate di tutti. Un'altra cosa che smonta Guy è il modo in cui i drogati, attorno a noi, si procurano il denaro. Per lui, il denaro si guadagna lavorando. Invece dappertutto ci sono di quelli che ne trovano e evidentemente non lavorano affatto. Il tipo più stupefacente — e bisogna ammettere che ci stuzzica un po' tutti — è William, un inglese rossiccio che è a Bombay da parecchi anni. È un junkie, ha bisogno delle sue otto o dieci iniezioni al giorno, ma ecco la cosa sorprendente: è un junkie solido e ben piantato. Malgrado la droga, è rimasto muscoloso, ed è una cosa rarissima tra i junkie. Chiaro che ha bisogno di molto denaro, anche se la droga a Bombay è lontana dall'attingere i prezzi esorbitanti dell'Europa. A sera esce per non molto tempo, un'ora o due, e ritorna sempre con le sue 30 o 40 rupie. Dove le prende? Nessuno lo sa. Va fino al porto. Deve chiedere l'elemosina. Non se ne sa niente. Ma quando torna, ha sempre di che pagare le sue dieci fiale di morfina per il giorno dopo. Se mi fermo a parlare di lui, è perché avrà una parte in un momento della mia storia. E poi è divertente, perché ha un modo poco comune di drogarsi. Lo si è ribattezzato «Pique du nez» (praticamente intraducibile; in italiano potrebbe somigliare a "Picchiata col naso"). Quando s'è fatto la sua iniezione, resta sempre lì, seduto sul bordo del letto, molte volte senza togliersi la siringa dalla vena. E allora si mette a ciondolare con la testa. A poco a poco la testa cade. Si risveglia di soprassalto, e ricomincia. A volte la testa piomba giù, più bassa del

pagliericcio, talmente scende in picchiata col naso. E resta lì, piegato in due, immobile, in equilibrio, senza cadere. Due altri «speciali» sono francesi di vent'anni o poco più, biondissimi, due ragazzi del Nord. Non un briciolo di intelligenza. Non sono certo loro gli inventori del filo per tagliare il burro. Grazie a loro, un giorno mi troverò ingolfato nello sterco, nel senso letterale della parola! Ho avuto la sfortuna di rifilare a uno di loro una puttana indiana. Una sagoma incredibile. Una vera botte (è del resto il soprannome che le danno). Una ragazza enorme. Un pallone di grasso. Impomatata e impiastricciata come non ne avevo viste mai. E va a prendersi una cotta proprio per me. Mi ripete senza sosta che vuole lavorare per me. Confesso che la cosa non mi spiacerebbe in linea di massima, ma lei è troppo racchia. Si potrebbe anche rischiare di far lavorare una ragazza, ma che sia almeno passabile! Così un giorno, per scrollarmela, la dirotto verso Jeannot, uno dei due francesi. Miracolo, a lei il ragazzo piace. Ed ecco che si mette a portargli tutte le mattine il denaro guadagnato nella notte. Io ne sono contento. Così almeno lui e il suo compagno smetteranno di scroccarmi soldi. Jeannot è felice. La «botte» lo nutre, lo veste, gli paga la droga. C'è però il rovescio della medaglia, bisogna che lui almeno di tanto in tanto la accontenti un poco. Ma lui non ce la fa. Ha un bel tentare tutti i trucchi, è molto se è riuscito a farla felice due o tre volte in tutto. La ragazza vive in una stamberga dal tetto di latta ondulata, in fondo a una bidonville. Lì riceve i clienti. E lì fa anche le sue devozioni, come tutti gli indiani. In un angolo della stamberga ha messo un altarino, statuette, candeline, immaginette, eccetera. All'ora della preghiera, si impiastriccia di cipria e di petali di fiori. E il mostro entra in preghiera. L'effetto è irresistibile. Quando sono annoiato, vado a vederla, e non mi stanco mai dello spettacolo. La galleria dei tipi curiosi è molto vasta. C'è per esempio un vecchio indiano, piccolo e magro come un chiodo, che peserà 35 chili al massimo. Arriva con un suo compagno, sempre lo stesso, un albino dai capelli bianchi e dagli occhi rossi. Prendono posto accanto alla ragazza e pregano tutt'e tre, coperti di cipria e di petali. Poi i due amici ritornano da me all'albergo, e fumano. Il vecchio è straordinario. Ha un modo di fumare lo shilom che non ho mai visto in altri. Magro come è, ha naturalmente le guance molto scavate, e nient'altro che pelle sulle ossa. Ma quando prende lo shilom, lo posa ritualmente sulla fronte, e si mette a tossicchiare per svuotarsi i polmoni prima di aspirare la fumata, allora è unico. Lo stomaco (è sempre a torso nudo, perciò lo si vede bene) si restringe talmente che di profilo non è più largo che lo spessore della colonna vertebrale. Lo si potrebbe prendere per la vita con due dita. Quanto alle sue guance, esse si scavano tanto che sembra le abbia ingoiate. Fa quasi paura. Poi aspira. E allora con un colpo solo svuota tutto lo shilom. Non ho mai visto nulla di simile. Non so dove metta la sua fumata, ma il fatto è questo: mentre a chiunque occorrono parecchie aspirazioni per consumare uno shilom, lui, il vecchio di 35 chili, con una sola fumata si tira dentro tutto. È finita, lo shilom è bell'e pronto per essere ricaricato. E la sfilata nell'albergo continua. Tutte le nazionalità, tutte le razze, passano di lì. Ricorda, tra gli altri, un vietnamita che ha una scimmia sulla spalla. Le fa fumare l'oppio. Ciò rende la scimmia completamente pazza. Essa salta dappertutto, vezzeggia tutti, carezza le ragazze. Credo sia diventata realmente pazza, questa scimmia. E il vietnamita non sta molto meglio.

4. Un giorno le cose si mettono male per me. Vedo arrivare un indiano grande e grosso, e furioso, con gli occhi iniettati di sangue, che mi si pianta davanti e dice che devo fare i conti con lui. Farfuglia un inglese spaventoso, ma in qualche maniera riesco a capire che è il magnaccia della «botte», che è di ritorno da un viaggio, che la ragazza gli ha dichiarato che io, mi occupavo di lei. Mi minaccia. Non solo, mi intima di non mettere più piede nella catapecchia della ragazza, e pretende che gli paghi un risarcimento. Gli rispondo che la sua ragazza può tenersela, che è troppo racchia per me, che se qualcuno se ne è occupato durante la sua assenza non sono stato io, ma un certo Jeannot, al quale farà bene a rivolgersi. Lui non vuole credere una parola delle mie spiegazioni. La «botte» gli ha parlato di me (andate a capire il perché), è con me che lui ce l'ha, e non con altri. Questa sera stessa devo versargli il risarcimento: 500 rupie. È troppo! Mi alzo, lo prendo per le spalle e lo sbatto fuori dicendogli che non voglio più incontrarlo sulla mia strada. Altrimenti… Sparisce mugugnando minacce. Il giorno dopo, di mattino, vado nella bidonville da un rivenditore di oppio. È un cinese che abita ai limiti della bidonville, non molto lontano dalla Gate Way e dai quartieri ricchi, sulla spiaggia. Non mi ero mai aggirato da quelle parti. Quel che vedo, nelle prime stradicciole, quasi mi fa dar di volta allo stomaco, tanto è sporco, marcio e pestilenziale. Prendo dal cinese la mia provvista di oppio, esco, e chi vedo nella viuzza, deciso a chiudermi il rientro in città? Il mio indiano, che mi ha seguito. Ha un coltello in mano… Anch'io, si capisce, ho il mio. Non me ne separo mai. Ma non sono matto. Non ho nessuna voglia di imbarcarmi in una zuffa tanto stupida, né di prendermi una coltellata, per una puttana grassa e pidocchiosa. Mi giro sui tacchi e mi butto nella bidonville. Penso che non mi sarà difficile, nel dedalo delle viuzze, seminare quel matto furioso. Vado avanti, e finisco nella più incredibile «corte dei miracoli» che abbia mai visto. Una montagna di immondizie. Le viuzze sono degli scarichi. Gli scarichi sono viuzze. Dappertutto brulicano pezzenti, monelli coperti di pustole, animali morti e in putrefazione. Avanzo tappandomi il naso. Poi le viuzze finiscono. Non so più dove andare. Non vedo neppure più il cielo, tanto ci sono, al di sopra di me, tappezzerie, teloni, cartoni e latte ondulate. Sto sguazzando in una cloaca infetta. I topi mi passano tra le gambe. Si sente dappertutto l'urina, lo sterco e la morte. E dietro a me, l'indiano mi segue sempre. Inciampo in un corpo di ragazzo nudo, col ventre gonfio e un nugolo di mosche che gli succhiano l'ombelico. Taglio a sinistra e mi trovo in una baracca. Sopra un giaciglio, un vecchio rantola. Attorno a lui delle donne pregano. Si sentono, tra un rantolo e l'altro, dei bambini che piangono. Come luce, quella debole e fumosa di alcune candele. Mi guardano senza dire niente. Esco. L'indiano non c'è più. Finalmente ce l'ho fatta, l'ho seminato… Ma non è finita, ora mi tocca ritrovare la strada. Il che è un altro paio di maniche. Mi sono del

tutto smarrito. Allora approfitto d'un piccolo cortile per alzare il naso al cielo e cercare dove si trova il sole. Bene, sono all'incirca le dieci del mattino. Il sole è da questa parte. Il mare dev'essere dall'altra. Mi avvio in questa direzione. Quando avrò trovato il mare, non avrò che da costeggiare il molo, o la spiaggia, secondo quel che trovo, e neanche il diavolo potrà impedirmi di rintracciare da qualche parte la mia strada. La bidonville a un certo punto dovrà pur finire! Infatti dopo un quarto d'ora arrivo al mare, su una specie di terrapieno con reti da pesca. Appena arrivo sul terrapieno, quasi mi metto a vomitare. Dappertutto, per terra, negli angoli, sulle rocce, sulla sabbia dove battono dolcemente le onde, c'è dello sterco. Mucchi di sterco, spessi strati, fumanti al sole. E al di sopra, volano le mosche. Nugoli di mosche azzurre, che ronzano a migliaia attorno a me, stordite dal puzzo insostenibile. Resto lì interdetto, cercando di scrollare penosamente dagli stivali lo sterco a ogni passo, domandandomi come uscire da quest'incubo, quando d'improvviso ricevo nella schiena una violenta spinta. Sono sbalzato in avanti, per poco non finisco nella cloaca. Mi volto di scatto. Il mio indiano è lì, lo sguardo più torvo che mai. E ora siamo completamente soli! In fretta estraggo il coltello, e lo aspetto. Lui gira attorno a me. È a piedi nudi. Vedo i suoi piedi sguazzare nello sterco. Di tanto in tanto, con il dorso della mano scaccia una mosca. Non dice una parola. È chiaro, vuole farmi fuori. E la danza comincia. Saltando a destra e a sinistra, schivando, volteggiando, cominciamo le prime schermaglie. Andiamo avanti così per cinque buoni minuti, e un paio di volte corro il rischio di farmi infilzare, quando d'improvviso il mio uomo scivola e sprofonda in tutta la sua lunghezza. Mi precipito su di lui per disarmarlo. Mi va male, scivolo a mia volta e gli rovino addosso. Ci arrotoliamo due o tre volte come maiali, ansimando, ingoiando sterco a bocca piena. Cerco di disarmarlo. Ma è forte, e resiste come un demonio. Di colpo, non riesco a capire perché, sento che si va afflosciando. Emette un sospiro, riversa gli occhi, è scosso da tremiti. S'irrigidisce. Mi alzo… Non si muove più. Che cosa gli è accaduto? Lo smuovo col piede… È morto! E mentre il suo corpo si piega un poco sul fianco, vedo apparire in una buca, nello sterco, prodotta da una pietra che l'indiano deve aver rimosso con la schiena, un nido di serpenti che brulicano, piccolissimi, lunghi appena un dito! Tremando di disgusto e di nausea, corro come un folle fino al mare e mi tuffo, nuotando a grandi bracciate verso il largo, grattandomi, stropicciandomi, sputando, cercando disperatamente di scrollarmi di dosso tutta questo sterco che mi ricopre dalla testa ai piedi… Quando rientro all'albergo, due ore più tardi, dopo aver aggirato la bidonville lungo il litorale, sussulto ancora per il voltastomaco e per la fifa provata. La camera è vuota. Non c'è che «Pique du nez», tutto solo. Mentre controllo che il denaro della mia cintura non si sia inzuppato (ma no, la plastica in cui è avvolto l'ha protetto bene), gli racconto come è andata. Lui scuote placidamente la testa, con l'aria di uno che ne ha viste ben altre. E mi dichiara solennemente, mentre mi svesto per lavarmi sotto l'abbondante getto d'acqua del rubinetto:

«È il momento di festeggiare la tua vittoria. Che ne diresti di una buona iniezione di morfina?». Non l'ho mai provata. Ma ha ragione, l'occasione mi sembra buona. Sorrido. Almeno servirà a cacciar via la voglia di vomitare. «Pique du nez» mi tira vicino a sé, sul suo pagliericcio. Prepara la siringa, mi lega il braccio… E, per la prima volta in vita mia, provo il piccolo dolore acuto dell'ago che entra nelle mie vene. «Aspetta un poco — mi dice "Pique du nez", spingendo lentamente lo stantuffo. — Sarà una cosa extra». Io aspetto. Non succede niente. Aspetto ancora… E una violenta voglia di vomitare mi prende d'improvviso! Devo alzarmi precipitosamente per correre alla latrina. Oh, sì: per essere extra, è stata davvero extra! «Non è nulla — conclude tranquillamente "Pique du nez" mentre si fa la sua iniezione. — La prossima funzionerà. Hai avuto troppe emozioni, e non è quel che ci vuole per la morfina». Mi addormento, mentre lui si mette lentamente a ciondolare col naso in giù.

5. A Bombay manca poco che una mattina all'alba non la finisca una volta per sempre con l'avventura, divorato da una muta di molossi. E tutto a causa di un giornalista inglese. L'affare incomincia in una fumosa «casa del tè». Discutiamo a un tavolo, quando un giovanotto si siede con noi. Non siamo gente che dia troppa importanza alle presentazioni. Ci basta che uno sia giovane, trasandato nel vestire quanto basta, un aria disinvolta, e lo accettiamo. Non abbiamo bisogno di altro biglietto da visita. Gli si fa un po' di posto, ed è tutto. Il nuovo venuto si sistema, dopo aver posato vicino a sé un piccolo sacco di cuoio rigido che portava a bandoliera. Stiamo fumando lo shilom. Quando viene il suo turno, aspira come gli altri. Ma è un novellino. Lo si vede dal modo in cui prende lo shilom. E poi fa una nuvola di fumo invece di mandarlo giù, e il poco che trangugia basta a causargli un colpo di tosse. Tutti ridono. Ma non è un riso cattivo. La prima volta, anche noi abbiamo tossito come lui. Prendo lo shilom e gli spiego come debba fare. Lo aiuto. Finisce per cavarsela da solo, quasi correttamente. Ma d'un colpo svuota lo stomaco vomitando tutto sul tavolo! Questa volta la risata è generale e fragorosa, e tutti ci alziamo, come un volo di passeri, per cambiare di tavolo, tirandoci dietro l'individuo per le spalle. È veramente messo male. Al punto che gli propongo di ricondurlo a casa. Accetta senza farsi pregare, e lo conduco con un tassì. È alloggiato in un piccolo albergo non molto lontano dal mio. Quando vi arriviamo, sta già meglio. E tutto confuso, per ringraziarmi, m'invita a bere un bicchiere al bar del suo albergo. Lì mi spiega che è un giornalista free lance, che lavora cioè per suo conto e vende i suoi servizi e le foto ai giornali. È venuto in India per fare un servizio sugli hippies. Conta di seguirli fino a Katmandu. Ma se ne lamenta: li trova poco portati a collaborare, e diffidenti. Ha l'impressione che non riuscirà a concludere molto di buono, e che avrà sprecato inutilmente i soldi del viaggio. «Ciò che mi occorrerebbe — mi dice — è un grosso colpo. Uno scoop un'esclusiva. Ma è difficile farlo. Oh!, uno ci sarebbe da fare, ma confesso che mi fa paura. Eppure renderebbe parecchio…». To', sento un orecchio che fischia. «E quale sarebbe, questo colpo?», dico distrattamente. «Un colpo fotografico, essenzialmente. Un colpo che non è mai stato fatto: fotografare una torre della morte. Ma da vicino, da sopra. Certo ne verrebbe fuori un mucchio di foto non pubblicabili, a causa dell'orrore. Ma su un mucchio, se ne potrebbero vendere parecchie, e un reportage simile renderebbe bene». Ho già capito quel che vuole fare, o meglio quel che ha paura di fare, e so bene il perché. È molto, molto arrischiato, e del resto nessuno finora l'ha fatto. Bombay è il focolaio di una setta religiosa, quella dei Parsi, che hanno la caratteristica di trattare i morti in modo del tutto speciale. Non seppelliscono i loro morti, non li bruciano sopra i roghi. Li espongono sopra torri di pietra, e li abbandonano agli avvoltoi. Ciò avviene poco fuori della città, sul terreno d'un monastero inviolabile. La proprietà è cintata da alte mura. Nessuno, a parte i monaci, ha il diritto di varcare questo recinto. Tutto quel che se ne sa è che dei molossi fanno buona guardia nei boschi che circondano la collina dove si alzano le due torri della morte, e che per di più ci sono delle tagliole. E i monaci ammazzano sul posto chiunque venga sorpreso nel recinto, se i molossi non l'hanno

dilaniato prima. Brr! Io arrotondo la bocca ed emetto un fischio. «Ebbene — gli dico, — adesso capisco perché tu esiti». Lui scuote la testa. «Si, è un grosso rischio. Ma è un vero peccato. Uno scoop così, lo si potrebbe vendere a 1500 sterline» (più di due milioni di lire italiane). Caspita! È davvero una bella somma. Così bella che, dopo un momento di silenzio, gli domando: «Supponiamo che tu faccia il colpo e che esso riesca. Dovresti tornartene a casa, in Inghilterra, per vendere le foto e l'articolo?». «No. Mi rivolgerei agli uffici dei corrispondenti di qui, e lascerei fare a loro. Essi telefonerebbero a Londra e io venderei tutto al miglior offerente, pronta cassa». «Questo cambia tutto!», gli rispondo. «Perché?». Mi chino un po' verso di lui, e lo guardo negli occhi. «Se facessimo il colpo insieme, divideremmo, fifty-fifty?». Scoppia a ridere: «Sì, è chiaro; ma più ci penso e meno ho voglia di provarci. Ci tengo alla pelle». Al contrario, l'idea mi eccita. Non tanto per il denaro da guadagnare. Al denaro ci penso seriamente, non c'è dubbio: 750 sterline, in India, sono una fortuna. Ma è soprattutto la mia testa calda da «cascador» che si è risvegliata. Come sempre, quando c'è un colpo da fare che finora nessuno ha fatto, è più forte di me, mi stuzzica, bisogna che mi ci butti a capofitto. Su questo punto non cambierò mai. E sento che un giorno ci lascerò la pelle. «Ascoltami — dico a Roy (è il suo nome). — Senza impegnarci in niente, possiamo andar a visitare i posti, per vedere se per caso non c'è una smagliatura nel sistema di sorveglianza. Non si sa mai». Sorride. «Be', se vuoi — mi dice. — Ma solo per farti piacere». Un'ora più tardi, dopo aver lasciato una piccola strada in terra battuta e camminato 200 o 300 metri lungo un sentiero che attraversa una specie di giungla, arriviamo ai piedi d'un muro di pietra. È molto alto, quasi 4 metri. Le pietre sono grossi cubi posti l'uno sopra l'altro, senza cemento. Guardando con attenzione, scopriamo a 2 metri dal suolo una scanalatura dove sarebbe possibile far entrare un piede. Un'altra è evidente un po' più a sinistra, a un metro circa dalla prima. «Sali sulle mie spalle», dico a Roy. Ci prova. È alto ma sottile, e perciò leggero. Per due volte manca la presa e ricade. La terza volta riesce ad aggrapparsi. Lo sento lanciare un fischio. «È peggio di quel che credevo — mi fa. — C'è un altro sbarramento. Un reticolato di filo spinato. E in alto si piega verso di noi. Si può passare il muro, ma non il reticolato. «Lascia vedere a me — gli dico. — Torna giù». Lui salta a terra, lasciandosi penzolare. Salgo a mia volta sulle sue spalle e scalo il muro. Non ha raccontato frottole. Il reticolato di filo spinato è impressionante. Ma subito osservo i tralicci. Sono di legno, molto grossi, terminanti con un braccio di sostegno orizzontale che regge il filo spinato rivolto verso l'esterno. In lontananza intravedo fra due alberi, a 600-700 metri, una collina, e dietro di essa la sommità d'una torre di pietra, sormontata da un volo di avvoltoi. È di sicuro una delle due torri della morte. Una corda con un nodo scorsoio, ecco quel che ci occorre. Si stringerà il cappio attorno

all'estremità del sostegno, e ci si arrampicherà sulla fune, aiutandosi con i piedi, ben protetti da scarpe robuste, sopra il filo spinato, tra le sue spine. Sarà difficile, ma neppure troppo, mettersi in equilibrio sul sostegno orizzontale. E poi si scenderà dall'altra parte tenendosi con le mani al traliccio e con i piedi al filo spinato. Ritengo che si possa fare. È quel che spiego a Roy. Lui ammette che è possibile, ma arriccia il naso: «Restano le torri. Sono alte: 7 o 8 metri, sembra». «Bisogna che siamo in tre, ecco tutto». «D'accordo, ma chi?». «Non preoccuparti, si troverà». «Bene, io sono d'accordo. Ma ci sono anche le tagliole». «Si farà attenzione». «Sì, ma tu hai dimenticato un'altra cosa: ci sono i cani… Come farai a evitarli?». Già. Ma ecco mi viene in mente un ricordo d'infanzia. C'era un canile nel villaggio in cui passavo le vacanze. E nell'ora in cui il proprietario dava da mangiare ai cani, si sentiva prima un fischio e poi un assordante concerto di latrati, ai quali succedevano sordi grugniti, per tutto il tempo che durava il pasto delle bestie. «La sola difficoltà — dico — sono i cani. Bisogna assolutamente sapere a che ora li nutrono. Di sicuro in quel momento li si chiama, in un modo o nell'altro, e (credi a me, che ho conosciuto un canile) allora li si sente molto bene, i cani, quando sono invitati a tavola e accettano l'invito. «Perciò, ragioniamo con logica. Durante il giorno, ci devono essere anche i monaci a sorvegliare. Di notte invece devono affidare la guardia esclusivamente ai cani. Ora qual è il modo migliore per renderli aggressivi e il più possibile cattivi? È di farli vigilare a digiuno. Secondo me, dev'essere al mattino che li fanno mangiare. «Allora, se vuoi, facciamo i turni. Sono le cinque della sera, io resto qui in ascolto. Tu vieni a sostituirmi verso l'una di notte. Okay?». «Okay! Ma se non ti dispiace, preferirei restare io. Vieni tu a rilevarmi all'una». «D'accordo! A presto. Intanto mi metto a cercare l'uomo che ci vuole per noi». Me ne vado pensando che se Roy preferisce restare ora, è perché ha paura di notte, il che non è un buon segno. È perciò importantissimo che, se qualcuno dovesse venir meno, io mi trovi un uomo sicuro. Guy? Neanche a pensarci, non ha abbastanza fegato. L'ideale sarebbe un tipo come Hans, un atletico svizzero di Zurigo, i cui occhi — come direbbe Alphonse Allais — non conoscono i rigori delle basse temperature. L'ho visto bene, un giorno di baruffe con i poliziotti di Bombay. Si, bisogna che trovi Hans. Mi va bene, mi imbatto in lui nel piccolo ristorante dove di solito pranza. È subito d'accordo, anzi è entusiasta. «Voglio venirci anch'io, conducetemi», supplica Marlène, la ragazza che è con lui. La valuto con un colpo d'occhio. È una svizzera grande e bionda, tipo campionessa olimpica di slalom, con delle spalle e dei polpacci così. «Ma sicuro — mi dice Hans. — Possiamo prenderla, credimi». «Okay, verrà anche Marlène». All'una ritorno sotto il muro. Roy non ha sentito che qualche latrato, niente di ciò che ci aspettiamo. Io lo sostituisco, e mi metto seduto, con la schiena contro il muro. Accendo uno shilom e comincio ad attendere. Il silenzio della notte è impressionante. Di tanto in tanto qualche scricchiolio, qualche ansimare di bestie che cacciano. Dall'altra parte, non si sente nulla. Neppure il più piccolo abbaiare. Le ore passano. Verso le sei, il cielo sbianca. Qualche uccello comincia a cinguettare…

E d'improvviso, un fischio lontano, molto acuto, molto lungo, e subito dopo un concerto di latrati rauchi, alcuni dei quali partono da 20 metri da me, appena dietro il muro. Diamine! A giudicare dalle loro voci, si deve trattare di molossi formidabili… Ma ho indovinato: è proprio al mattino che li nutrono. Sono le sei e dieci. Nel giro di qualche minuto, a una distanza che valuto — a orecchio — attorno al chilometro, forse più che meno, sento che i latrati convergono, si raggruppano, e a poco a poco si placano. E poi non è più possibile sentire niente, perché il sole è sorto e gli uccelli ora tutti svegli fanno uno schiamazzo infernale. Così non so quanto dura il pasto dei cani, ma lo valuto una ventina o una trentina di minuti. Poi, dovranno pur fare una piccola siesta digestiva. Ritengo che avremo quasi un'ora di tranquillità tutta per noi. Tornato a Bombay, racconto tutto ai miei complici. E decidiamo di ritrovarci a mezzanotte nel mio albergo. Di lì andremo in tassì fino all'uscita della città, e faremo il resto a piedi. Prendo da parte Roy: «Attento — gli dico. — Gli altri non sanno che noi due ci dividiamo il guadagno. Essi credono che tu tenti il colpo solo per il gusto di farlo. Noi ti si aiuta da amici, per niente, per divertimento e basta». «Per divertimento? — mormora lui. — Bel divertimento!». «Di' un po', non vorrai mica tirarti indietro, ora che tutto è pronto!». «No, no, vengo», protesta senza troppo entusiasmo. Questo qui sta per piantarmi in asso, lo sento, ne sono sicuro. E sarebbe il colmo: è lui che deve prendere le foto! «Bene — gli dico freddamente. — Ora noi andiamo a comperare una corda e una sbarretta di ferro per fare l'uncino che servirà ad agganciare in alto il muro del recinto e la torre. E tu, non dimenticare di preparare la tua macchina fotografica». A mezzogiorno ho tutto l'occorrente, e rientro per andare a dormire. Casco dal sonno. Giorno X, ore cinque del mattino. Ci siamo tutt'e quattro, Hans, Marlène, Roy e io, sotto il muro. Aspettando che si scateni la sinfonia dei latrati, ricerchiamo con una lampadina tascabile le fessure del muro, e le allarghiamo una per una, costruendo una specie di gradinata rudimentale, con l'aiuto dell'uncino di ferro. Hans, Marlène e io, siamo pronti a entrare in azione. Anche Roy sembra deciso. È un po' troppo silenzioso, ma credo che la nostra sicurezza debba contagiarlo. Un po' prima delle sei, aiutandoci gli uni con gli altri, cercando di evitare ogni rumore, agganciamo l'uncino su in alto, fra due pietre. Ha preso bene, tiene. Ci si arrampicherà in fretta. Il cielo si sta schiarendo. Le sei… Sei e cinque… Sei e dieci. Ancora due minuti, e il colpo di fischietto lacera l'aria. Subito un latrato straziante, a 50 metri da noi. Ancora qualche minuto, e tutti i cani sono di sicuro laggiù, col naso nella zuppa. «Presto, andiamo!», dico. Hans si arrampica per primo, poi Marlène, poi è il turno di Roy. Getta la macchina fotografica a tracolla, comincia a issarsi, mette un piede nella prima fessura, e… ridiscende. «Non ce la faccio, Charles — mi dice a testa bassa. — Proprio non ce la faccio». E lo vedo tremare. Questa è troppo grossa! Lo esorto, a denti stretti: «Fatti animo, Roy, ritenta. Sali. Siamo tutti con te».

Niente da fare. Resta lì impalato, paralizzato dalla paura. È inutile insistere, non ne caverò nulla. «Dammi la macchina». Esita, e gli strappo la macchina dalle mani. È una Nikon, grandangolo. Ne ho avuta una così. «In fretta, mettila a posto». «È già pronta. C'è solo da scattare». «Apertura? Tempo?». «Non hai che da puntare l'obiettivo. Guarda». In fretta mi fa vedere. È semplice, ho capito. Mi getto la macchina a bandoliera e salgo a mia volta, lasciando Roy a terra. Hans e Marlène sono già saltati dall'altra parte. Annuncio loro, furibondo: «Roy non se l'è sentita». Hans scrolla le spalle, Marlène sghignazza. Il nodo scorsoio è già pronto. Al terzo tentativo, Hans lo aggancia e lo fissa con uno strattone secco. Siamo tutti in blue-jeans di tela robusta, e con stivali. Hans arriva facilmente in cima, si rialza sul sostegno orizzontale e ridiscende dall'altra parte, a ritroso, come giù da una scala. «Va bene — sbuffa una volta dall'altra parte. — Le spine sono abbastanza distanziate». Marlène lo segue. È formidabile, questa ragazza. Una vera acrobata. Due minuti più tardi avanziamo tra gli alberi, l'occhio ai pericoli. Si tratta di non finire tra le braccia di un monaco nascosto, o con un piede in una tagliola. Per arrivare sotto la torre impieghiamo un buon quarto d'ora. Io apro la marcia e gli altri mettono il piede esattamente nelle mie orme. Procedendo rompiamo dei rami, a destra e a sinistra, per ritrovare la strada al ritorno. Il cuore ci batte forte, ma tutto sommato il morale è alto. Siamo tutt'e tre ingozzati di hashish. Ci aiuta. Finalmente eccoci ai piedi della torre, in mezzo a una spianata sgombra di alberi. Una bella sorpresa ci attende: la torre è meno alta di quanto credessimo, poco più di 5 metri. E le sue pietre, rudimentali, tagliate all'ingrosso, sono mal giustapposte. Non dovrebbe essere troppo difficile. «Puah! Che fetore!», si lamenta Hans. Ha ragione. L'aria puzza d'un odore spaventoso. Di marcio, di carne in putrefazione. Serra la gola. Respiriamo con la bocca cercando di attutire la sensazione, ma resta ugualmente insostenibile. Sopra di noi gli avvoltoi roteano lentamente, in silenzio. Di tanto in tanto uno discende e si posa sulla torre. Curioso, quasi non ci sono uccelli tra gli alberi vicino a noi. Sarà il fetore che li tiene lontani? O piuttosto la presenza degli avvoltoi? Lontano, molto lontano, forse a 500 metri, sentiamo i grugniti dei cani che mangiano. Il monastero dev'essere lì, a sinistra, in un avvallamento, dietro la collina. I raggi del sole fanno già brillare la cima degli alberi. Scatto alcune foto alla torre e ai dintorni. Ma conviene salire. Io sono il più alto, mi appoggio contro le pietre, a gambe divaricate, e Hans si arrampica sulle mie spalle. Quando è in piedi, con le mani saldamente aggrappate agli interstizi delle pietre, anche Marlène si arrampica, aggrappandosi prima a me e poi a Hans. Io cedo un poco sotto il doppio peso, ma resisto, gambe e schiena arcuati, mascella stretta. Se non fosse per la puzza, potrebbe andare. Sbuffo: «Ce la facciamo?». «Sì — risponde Marlène, che ha la corda arrotolata intorno al collo. — Ora prendo la corda, la faccio oscillare un poco, e la butto su». Ma deve tentare cinque o sei volte prima di riuscire ad agganciare con l'uncino in alto.

Sento che il peso sulle mie spalle è diminuito. Marlène ce l'ha fatta, si sta issando. La corda penzola in tutta la sua lunghezza, e batte contro i miei polpacci. Uff, cominciava a pesare un po' troppo… Anche Hans si stacca e s'arrampica. Faccio altrettanto, affrettandomi a raggiungerli lassù. Mentre sto arrivando, vedo Marlène che si china verso l'esterno, tutta verde. Vomita, quasi addosso a me. Fa un gesto, come per cacciare una mosca. «Non resisto più a guardare — balbetta. — Scendo giù». Con un ultimo sforzo arrivo a sedermi sulla pietra, e Marlène comincia la sua discesa. Capisco benissimo perché ha vomitato. Non ho mai visto nulla di più atroce. Non ho mai immaginato, neppure negli incubi più angosciosi, uno spettacolo cosi spaventoso. Lì davanti a me, in un recinto di 15 metri di diametro, contro il muricciolo di pietra che gira tutto intorno, ci sono, stesi alla rinfusa gli uni sugli altri, deposti sopra mucchi d'ossa, una ventina di morti. Alcuni sono intatti, altri scorticati a metà dagli avvoltoi. Altri non sono più che una poltiglia in putrefazione. C'è sangue dappertutto, sui vestiti a brandelli, sulle pietre. Degli intestini si srotolano come stomachevoli serpentelli verdastri. Non si vedono che ventri squarciati, occhiaie scavate, gambe e braccia scorticate, carni a brandelli, casse toraciche sfondate. In un angolo un avvoltoio conficca il becco in un'occhiaia e si drizza, guardandomi tranquillamente, mentre dal becco gli sgocciola della materia cerebrale. Un altro scuote una coscia, dilaniandola. Tira, inarcandosi sulle zampe, e il cadavere segue, docilmente, le gambe sballottate, pietoso fantoccio che sembra ancora in vita. Ci sono vecchi, uomini nel vigore delle forze, giovani… Hans mi tocca un braccio. Trasalisco così forte, che quasi cado giù. Per una decina di secondi, ho l'impressione che un avvoltoio si stia posando su di me. Hans è verde, come del resto devo esserlo io. Mi indica qualcosa col dito, alla mia destra. A due metri da me, contro il muretto di pietra, che ce l'aveva nascosta, una ragazza morta è distesa sul dorso, con braccia e gambe incrociate. È nuda. La sua testa posa sopra un mucchio di ossa, ben diritta, un po' sollevata. Il sole le illumina in pieno il volto, con luce radente. Essa ha gli occhi chiusi, sembra sorridere. Il riposo della morte ha ammorbidito i suoi lineamenti. Sembra stia dormendo. È bellissima. Le sue mani e i suoi piedi sono molto piccoli, molto fini. D'improvviso delle ali sbattono pesantemente sopra di noi, rimescolando l'aria che ci solleva un po' i capelli. L'avvoltoio si abbatte sulla ragazza. Le sue zampe, con gli artigli in fuori, si aggrappano alla carne delle cosce. Spaventati, non possiamo staccare lo sguardo dalla scena. L'avvoltoio ripiega le ali, abbassa la testa. Il becco mostruoso balza in avanti e, con un colpo secco, strappa la metà d'un seno. All'urto, il corpo ha avuto un sussulto, la testa si gira da un lato, sempre sorridente e tranquilla. Il becco dell'avvoltoio si abbatte ancora una volta. «Io me ne vado», dice Hans con un filo di voce. «Anch'io. Non ne posso più». Solo allora mi ricordo che ho un apparecchio fotografico. Meccanicamente, senza neppure controllare, «mitraglio» più in fretta che posso, a destra e a sinistra, finché non mi rimangono che

tre o quattro foto da scattare. Le conservo per fotografare il filo spinato, il muro e la nostra corda. Infilo la macchina nella giacca. Sgancio la corda e la lancio nel vuoto, mi spenzolo sulle braccia e salto. Un capitombolo, e sono in piedi. Filo dietro a Hans e Marlène, che sono già partiti. Camminando, guardo l'orologio. Sono le sette meno un quarto. «Sbrighiamoci!», dico a Hans. Ma, come era da immaginarsi, non ritroviamo più la strada. E così ci tocca camminare con la massima prudenza, guardando a ogni passo dove posiamo i piedi, se c'è una tagliola, aspettandoci da un momento all'altro che uno di noi lanci un urlo mentre una morsa dai denti di ferro prende il suo piede. Sono le sette passate quando scorgiamo, a 20 metri da noi, il filo spinato. Respiriamo. Nello stesso istante, un grugnito sordo ci inchioda sul posto. Lì davanti, fra il reticolato e noi, c'è un cane. Un molosso, una bestia enorme, dal pelo raso, con una mascella così. Se ne sta accovacciato, ci guarda con occhi iniettati, ringhia, ha le guance cadenti che fremono. Impiego venti secondi per capire perché è lì e non a mangiare nel canile, e perché non ci è saltato addosso da quando ci ha visti. Tra le zampe anteriori tiene una bestia, qualcosa come una donnola, o un coniglio, non so. E la zampa anteriore della bestia è presa in una tagliola. Correndo al richiamo del fischio, il cane ha dovuto imbattersi in essa, e ha preferito questa carne bella fresca alla zuppa dei monaci. Con la mano faccio segno a Hans: «Giriamogli attorno». Lentamente, col cuore che batte all'impazzata, pieghiamo a destra. Io chiudo la marcia e cammino di fianco, guardando il cane. So che non bisogna mai voltare la schiena a un cane da guardia. Metro per metro, ci avviciniamo al reticolato. Presto non è che a 5 o 6 metri. Il cane, col sangue che cola dalla bocca, ci osserva senza muoversi, sempre grugnendo. Mormoro con un filo di voce: «Ognuno al suo traliccio: tu, Marlène, a destra; tu in mezzo, Hans. Io a sinistra. Si farà più in fretta». Mi doveva capitare anche questa… Camminando a ritroso, come sto facendo, non vedo dove metto i piedi. Inciampo contro un tronco e finisco lungo e disteso per terra. Mi sono appena rialzato, e sento già il latrato del cane e il fracasso dei rami che spezza avanzando. Con un balzo sono al mio traliccio. A 3 metri sulla mia sinistra, Marlène e Hans s'arrampicano freneticamente. Mi slancio, mi aggrappo al traliccio, mi tiro su, insensibile al filo spinato che mi lacera le mani. Mi credo ormai in salvo, quando una morsa di ferro mi blocca il piede sinistro. Il cane ha saltato e ha piantato i suoi denti nel mio stivale. E tira, scuote, ringhia furiosamente. Sento che sto per cedere. Le sue zanne hanno già quasi attraversato il cuoio dello stivale… Con uno sforzo disperato, io tiro, tiro verso di me. Lo stivale si sfila! Il cane rotola indietro urlando di rabbia. Tre secondi più tardi, io sono al sicuro dall'altra parte. Uffa, trentasei volte uffa! Il resto non è che un gioco da bambini. Indifferente ai latrati assordanti del cane, che ormai non può più nulla, lancio la corda. Il gancio

prende, risaliamo il muro di cinta, ridiscendiamo, chiamiamo Roy che arriva di corsa. Era a 100 metri da lì. E galoppiamo come dei dannati verso la strada, ridendo come matti. Io, zoppicando e torcendomi di dolore ogni volta che un sasso urta il mio povero piede scalzo. A mezzogiorno Roy, al quale ho restituito la macchina fotografica perché faccia sviluppare le foto al più presto, mi ha condotto nello studio del corrispondente locale di un giornale inglese. Resto con lui per guardare lo sviluppo della pellicola. Il corrispondente estrae il negativo dall'acqua, e fa luce. Guardiamo. Non c'è niente. La pellicola è nera. «Porci! — grida Roy. — Mi hanno rifilato una pellicola troppo vecchia!». Ne estrae un'altra dal sacco, comperata insieme alla prima, guarda la data che indica la scadenza per l'uso: «Settembre 1964». Ecco quel che è scritto sulla scatola. La pellicola è scaduta da cinque anni…

6. Senza Agathe e il suo influsso, di sicuro io non mi sarei spinto oltre, sulla strada della droga. Perché, l'ho già detto, anche se tiro dallo shilom senza sosta, anche se ho spinto molto avanti l'esperienza dell'oppio e ho provato una sera — col successo che si sa — la morfina, per il momento io non sono ancora un vero drogato. Posso fare marcia indietro. E senza troppa fatica. Basta che sostituisca alla curiosità della droga quella del viaggiare. E non mi dovrebbe costare troppo arrivarci. Viaggiare, non è stato da sempre il mio desiderio profondo, la mia vera passione? Mi rimane sempre ben piantato in testa il progetto del giro del mondo. E ho il compagno ideale nella persona di Guy. Su questo, noi due siamo d'accordo: dopo Bombay partiamo per Madras, e di lì c'imbarchiamo verso l'est. Addio alla droga, grazie per il piacere che ci ha procurato la sua scoperta, un saluto all'esperienza e agli incontri fatti. Ma ritorniamo alle cose serie. Valigia! In seguito, molte volte ho sorriso pensando che io, l'uomo che si credeva forte e duro, io che avevo sempre tagliato netto con le avventure quando duravano troppo, proprio io mi sono lasciato indurre da una semplice ragazzina a entrare nella coorte dei drogati e a diventare in pochi mesi il più junkie dei junkie, titubante, solo, scheletrito, febbricitante, coperto di piaghe, tra le montagne ostili dell'Asia, con un solo scopo: farla finita, una volta per tutte… Un giorno Agathe e una delle sue amiche, Claudia, decidono di lasciare Bombay e di partire per Katmandu. E come se fosse la cosa più naturale del mondo, Agathe mi chiede di partire con lei. Secondo la sua testolina, innamorati come siamo, nulla è più logico. La notizia mi coglie di sorpresa. Se ho un po' di curiosità per Katmandu, ne ho molta di più per l'altra metà del globo — ricca di porti, città, strade, traversate, avventure — che mi resta da percorrere per completare il mio giro del mondo. Ma lasciare Agathe, ecco il problema. Convincerla a venire con Guy e me? Neanche a pensarci. Si viaggia male con una ragazza. E anche se la accettassimo, bisognerebbe prendere pure Claudia, divenuta da qualche tempo sua amica inseparabile. No, non è possibile. Allora mi sento, con stupore, rispondere ad Agathe che sì, io vado con lei a Katmandu, ma non subito… Le faccio notare che mi ha preso alla sprovvista, che ho qualche faccenda da regolare con Guy prima di partire. Mi lasci il suo indirizzo di là, e io la raggiungerò tra qualche giorno. Mi dà un pezzo di carta sul quale ha scritto queste due semplici parole: «Orientai Lodge». È un albergo. E parte. Restato solo, se fossi partito subito con Guy per Madras, penso che avrei presto dimenticato Agathe, come avevo già dimenticato Salima e Gill. Solo che il diavolo ci mette la coda. Un tale che viene da Madras mi dice, disgustato, che ha cercato per tre settimane di farsi imbarcare. Invano. È meglio cercare qualche altra soluzione. Quanto a me, ho ancora del denaro, potrei pagarmi il biglietto del battello, ma Guy è al verde. Non mi è stato difficile convincerlo a partire con me per Katmandu. Là ci si fermerà qualche giorno, poi si vedrà. Ed eccoci in treno. Passiamo prima per Delhi, molto in fretta, senza fermarci, e arriviamo a Benares, nostra prima tappa. Benares, per coloro che l'hanno visitata, è la città dai duemila templi, la città santa. Ed è davvero una città tutta speciale. A Benares convergono tutte le miserie e tutti i rifiuti dell'umanità. Tutti i

mutilati, tutti i malati. Chiunque è bell'e spacciato, in India, confluisce lì. La città non sembra molto grande, ma è sovrappopolata. È anche la città dove passa il Gange, il fiume sacro. Infine, è la città in cui ci si trova immersi, e lo si sente fin dall'arrivo, in piena atmosfera mistica. È un qualcosa che si respira nell'aria. Dappertutto si avverte una specie di tensione, di fluido mistico. Tutti sono più o meno in preghiera, anche durante le occupazioni più comuni della vita, tanto al mercato come per le grandi strade. Ogni tempio emana un forte odore d'incenso, che prende alla gola. Poi c'è l'odore — dal vivo — della malattia, della putrefazione e della morte. Morti di fame, morti di colera, morti per un colpo di coltello in una stradicciola. E al di sopra di tutto, un odore che penetra dappertutto e si avverte sempre di più, man mano che ci si avvicina al fiume: l'odore delle cremazioni. Ma per me, al di là di queste violente sensazioni, Benares resterà per sempre la città in cui ho assistito alla scena più crudele, più barbara, più rivoltante che abbia mai visto. È accaduto un mattino pieno di sole, sopra uno dei battelli ancorati al molo lungo il celebre mercato, che si dondolano dolcemente nel fluire del fiume. Il giorno prima, Guy e io abbiamo lasciato l'albergo in cui ci eravamo sistemati all'arrivo. È troppo sporco e troppo caro, per quel che ci offre. Un hippy incontrato in una «sala da tè» ci ha informati che si possono affittare dei letti a bordo di una specie di battelli-dormitori. Non è per nulla caro lì, ci si trova proprio al centro della città, e si sta bene. Eccoci dunque installati sopra un grosso barcone formicolante di pellegrini. Costa praticamente nulla ed è molto conveniente, perfino meno sporco di quell'altro posto. Attorno a noi i pellegrini fumano una specie di pipa ad acqua. Non è hashish quel che ci mettono, ma una pallottola secca simile a tabacco, ma che visibilmente non lo è. Mi rendo subito conto che è la «gangia», detta anche kif, la marijuana degli indiani. E a Benares non c'è da doversi nascondere — mi pare di averlo già detto — per fumarla, come invece bisogna fare nel resto dell'India. A Benares la «gangia» è autorizzata. Domando al mio vicino dove possiamo procurarcene. Farfuglia qualche parola d'inglese. Mi spiega che l'ha comperata da un piccolo rivenditore che «fa» i battelli. Tra poco dovrebbe passare. Infatti venti minuti più tardi vedo arrivare uno scugnizzo di sette od otto anni, coperto di stracci, con un sacco di iuta a tracolla. È sporco all'inverosimile, senza sosta scaccia macchinalmente le mosche dagli occhi, che sono bellissimi, e mi scocca un sorriso folgorante, quando gli faccio un cenno. Si avvicina di corsa, leggero come un capretto, e si accoccola davanti a me. «Quanto ne vuoi, sahib?», mi dice in un inglese passabile. Gli faccio aprire il sacco e ne prendo l'equivalente d'un pacchetto di sigarette, che lui pesa con un bilancino a due piatti. Pago, e se ne va saltellando. Dopo qualche minuto, Guy e io fumiamo da una pipa che ci siamo fatta prestare. È molto buono, ma molto leggero. Abituati come siamo all'hashish, ci tocca prenderne in proporzione tre volte di più, per cominciare a «volare» veramente. Ma una volta partiti, si sta bene. Ci riversiamo sui sacchi a pelo, al sole, con le mani sotto la nuca, e ci abbandoniamo ai nostri pensieri. Dopo un'ora, Guy si muove per primo. «Facciamo un bagno?», mi dice. «Dove?». «Nel Gange, diamine».

«Hai guardato l'acqua?». Guy si china e guarda. Io guardo con lui. L'acqua è gialla, terrosa. Da lontano, se la si esamina controluce, dà l'impressione di una melma liquida, molto opaca. Ma qui alla nostra altezza è abbastanza chiara. Indico a Guy il rogo delle cremazioni, a monte del nostro battello. «Ti rendi conto di quel che gettano qua dentro?». «Be', ceneri», mi dice. «Ceneri, questa roba?». A due metri da noi, un braccio passa, calcinato, raccapricciante, con un po' di sangue che cola e si diluisce nell'acqua. Accanto gli scorrono bucce di verdura, poi un cane morto, col ventre all'aria. «Puah! — dice Guy con un sobbalzo. — È stomachevole». Ma poi mi indica, a una ventina di metri da lì, dei monelli che nuotano, tuffandosi come pesci, ridendo come matti. «To' — mi dice, — c'è il nostro piccolo venditore di gangia. Lo vedi laggiù?». Guy ha ragione, il ragazzo è là in mezzo agli altri. «Conviene chiamarlo — dice Guy. — Non abbiamo quasi più gangia». Fa segni al ragazzo, gridando. Il piccolo ci riconosce, si lascia portare fino a noi dalla corrente. «Gangia? — gli domanda Guy. — Ne hai ancora?». Fa segno di no, sorridendo. Questa sera ne avrà, e tornerà da noi, lo promette. E con un gesto, sempre ridendo, ci invita a tuffarci. Guy e io ci guardiamo, un po' smarriti. Ma il monello insiste. «Come, come, good…». Venite, venite, è divertente. Bah! Ciò che fa un ragazzo, lo possiamo fare anche noi, no? E presto ci ritroviamo nudi nell'acqua, accanto al ragazzo che ride rumorosamente e nuota davanti a noi, scartando tutto ciò che galleggia per evitare che ci tocchi. A sera, il ragazzo non viene. Esprimiamo il nostro stupore ad altri che sono con noi sul battello. Anch'essi sono stupiti. Di solito, passa tutte le sere. Che cosa gli è capitato? Dopo due o tre ore pensiamo che forse non ha trovato la gangia, che verrà domani, e dopo un'ultima pipata ci corichiamo, con il sospetto che anche questo ragazzo sia come tutta la gente orientale, che dimentica facilmente le promesse senza farsene un dramma. Ancora adesso provo rimorso di aver avuto questo pensiero. Perché al mattino presto scopriamo, terrificati, l'atroce verità. Verso le sei o le sette degli urli c i risvegliano di soprassalto. È una voce acuta, una voce di bambino. E le grida sono spaventose, insostenibili. Dapprima stridenti, si trasformano a poco a poco in un lungo pianto spaventoso, che viene dal fondo della gola, che sale, sale, si arresta, riprende, senza sosta. «Ma è il nostro ragazzo! — dico. È la sua voce». «Credi? — risponde Guy. — Sei matto…». «Sì, te lo assicuro. Ascolta». Attorno a noi, altri che dormivano si sono svegliati, e rialzandosi sui gomiti stanno ascoltando. Le grida vengono da poco lontano, tre o quattro battelli sopra di noi, lungo il fiume. Almeno sembra. «È da quelle parti che il ragazzo nuotava ieri», dico a Guy.

«Hai ragione, è strano». «Andiamo a vedere». Ci ritroviamo sul molo, ai primi raggi del sole. Il più in fretta possibile, risaliamo la riva del fiume. La voce, ora attutita, ci guida. Si spegne presto, in una specie di rantolo. Più niente… Ma non abbiamo più bisogno che ci diriga. Sul ponte del quarto battello a monte del nostro, uomini e donne stanno raggruppati, chini. Saranno una dozzina. È lì di sicuro. Saltiamo sul ponte, ci avviciniamo. E allora, in mezzo al gruppo, vediamo la scena infernale. Un uomo, con un coltello insanguinato in mano, sta chino sopra un piccolo corpo disteso di traverso sul ponte, direttamente sul pavimento. Due altri tengono fermo il corpo, con le braccine distese come in croce; e un terzo gli fissa solidamente le anche, stando con le ginocchia sulla gamba destra. Il ragazzo ha la testa ripiegata di fianco. È bianco come un cencio. È svenuto. È il nostro piccolo venditore. Nessuno ormai ha più bisogno di tenergli ferma la gamba sinistra. Essa è tagliata sopra il ginocchio… Con due o tre rapidi movimenti, l'uomo finisce di tagliare gli ultimi lembi di carne che tengono ancora unito l'arto alla coscia, estrae un legaccio per arrestare l'emorragia, traffica nella piaga, la ricopre con uno straccio. Per un istante immagino che il ragazzo abbia avuto un incidente, e che per questo l'abbiano amputato. Ma no: la piccola gamba tagliata, posata nel sangue lì sul ponte, è intatta, perfettamente sana. È apposta, che hanno mutilato il ragazzo! Sì, ecco quel che si può vedere, in India, nel 1969, in pieno ventesimo secolo… Guy e io, sgomenti, credendo appena alla realtà di questo spettacolo da incubo, interroghiamo l'uomo e la donna, che se ne stanno lì tranquilli, dietro al ragazzo svenuto, abbandonato in pieno sole. Ci guardano senza rispondere, con occhi gelidi. «Che è capitato? Cos'avete fatto? Perché? Perché?». Grido, e scuoto quel carnefice afferrandolo per la camicia. Mi respinge, bofonchia imprecazioni e minaccia col coltello. Ho una tale rabbia in corpo, che quasi gli salto addosso, ma gli altri gli si stringono al fianco, e vedo uscire altri coltelli. Gli sguardi sono duri. Lo so bene, a Benares, ci si fa sgozzare come un coniglio per il solo fatto che si è europei, e suppongono che si abbia il portafoglio pieno. Insistere sarebbe una follia. Del resto Guy, terrorizzato, mi tira indietro. «Vieni via — mi dice. — Non fare l'idiota». Indietreggiamo, saltiamo sul molo. Prima di partire, getto un ultimo sguardo al battello. La donna, china sul ragazzo, lo schiaffeggia per farlo rinvenire. Il carnefice raccoglie la gamba e la getta nel fiume, dove se ne va a filo d'acqua. La gamba del mio piccolo venditore di gangia, di otto anni, che non correrà né saltellerà mai più. Tornati al nostro posto, abbiamo la spiegazione di tutto, dal padrone del nostro battello. Per farlo mendicare, hanno mutilato il ragazzo… Perché un mutilatino commuove di più, e porta più denaro. Molto più che a vendere la gangia, che si trova dappertutto. Descrivo il carnefice al padrone. Lo conosce.

È il padre del ragazzo.

SEDICI CENTIMETRI CUBI DI MORFINA Terza parte 1. Non ci sentiamo più di restare ancora a Benares, la città dove si mutilano i bambini per farli mendicare. La sera stessa siamo sopra un trenino traballante d'una linea ferroviaria secondaria, che punta a nord, verso Raxaul. Appena entrati nel Nepal, prendiamo una sbornia con i fiocchi. L'alcool, difficile da trovare in India, nel Nepal è invece in libera vendita. Passeremo poi molto tempo prima di metterci a bere di nuovo, perché se il fumatore di hashish continua a essere tentato dall'alcool, chi prende altre droghe non avrà più assolutamente voglia di bere… Dalla frontiera a Katmandu c'è una sola via di accesso: la strada. E — a parte il tassì che è troppo caro — non ci sono che due modi di farvisi portare: fare l'autostop (ma le vetture sono rare e quindi è molto difficile), o prendere l'autocarro. Il viaggio in autocarro costa sette od otto rupie, e ha sempre qualcosa di epico. Gli autocarri sono pieni come un uovo. I nepalesi si sistemano come e dove possono, perfino sulla cabina. E poi l'autocarro è sempre carico di merci. Il nostro è pieno di sacchi di zucchero in polvere, cosa non del tutto sgradevole, data la strada così malvagia. Ci sistemiamo in un angolo, e Guy comincia a non star bene. Si sentirà male per tutto il tempo del viaggio. E la strada non è certo fatta per migliorare le cose. Quasi subito si mette a salire in tornanti rapidi e stretti come forcine da capelli, sfiorando i precipizi. Partiti alle sette del mattino, arriviamo a Katmandu verso le quattro o cinque del pomeriggio. È il 4 luglio 1969. Esattamente fra sei mesi meno sei giorni, sarò sull'aereo che decollerà per Parigi. Mezzo morto. Ma ora, mentre salto giù dall'autocarro, sono solido, fiducioso, con tutti i sensi in perfetta efficienza. Mi trovo in una città asiatica piatta, non molto grande, di poco diversa dalle altre, che come le altre brulica di gente e ha dappertutto cupole e templi. Ma qualcosa di diverso c'è: l'aria è straordinariamente leggera. È normale, Katmandu è a 1000 metri d'altitudine, e in lontananza si vedono le cime innevate dell'Himalaya. Ma è questa la prima impressione, che mi ha colpito subito: la leggerezza dell'aria. È vivificante, balsamica, molto ossigenata. E, per ironia della sorte, quando penso a quel che mi è capitato lì, adesso mi dico: «Almeno qui mi posso ossigenare!». Senza tardare, Guy e io cerchiamo l'albergo in cui Agathe e Claudia ci hanno dato appuntamento, l'Orientai Lodge. Lo troviamo poco lontano dall'ufficio turistico, in una stradicciola della città antica. Agathe è in albergo. Abbracci, grida di gioia. E tanto amore… Io m'installo con Guy in una camera a tre, senza Agathe (restata con Claudia), ma con Michel, un altro francese. Al solito, sono io quello che paga. Guy, si sa, è sempre al verde; e quanto a Michel, ha avuto una disavventura a Delhi. Sulla grande piazza centrale, si è fatto soffiare tutto quel che aveva. Il ragazzo

che l'ha fatto fesso doveva essere formidabile: Michel dormiva sull'erba, con la testa sul sacco e questo legato al polso. Il che non ha impedito che glielo rubassero con tutto quello che c'era dentro, senza che si accorgesse di nulla! Ma Michel ripartirà molto presto. Si è messo in testa di andare in Afghanistan. Ho saputo in seguito che non c'è arrivato mai. A Calcutta si è talmente imbottito di droga, che è partito per la tangente. È diventato pazzo. Si è lasciato rubare il denaro. Lo hanno visto gironzolare per qualche giorno nelle strade come un vagabondo, farfugliando parole senza capo né coda. E poi, una sera, è scomparso. Appena arrivati, l'albergo ci fa un'impressione favorevole. Certo è piccolo, con i soffitti molto bassi (come tutte le case del Nepal, perché i nepalesi misurano un metro e mezzo, un metro e sessanta al massimo); ma ha graziose camere in legno con ogni confort — water e toeletta — sul pianerottolo. Una comodità ben rara in Oriente. È in tutto un albergo medio, simile a quelli che si trovano in Europa. Ed è caro: 5 rupie per giorno, a persona. Si trova in pieno centro, in una piccola via che dà sulla Piazza dei Templi, dove c'è l'ufficio turistico e un tempio sul cui balcone appare di tanto in tanto una ragazzina ornata di pietre preziose e vesti ricamate d'oro, con l'aria di annoiarsi a morte. Ha dieci o undici anni, è la reincarnazione d'una dea, e tutti gli anni i monaci la sostituiscono con un'altra. Il primo giorno, come ogni volta che arrivo in una città nuova, faccio per prima cosa il giro delle camere, per rendermi conto esattamente di che si tratta, chi le occupa; poi vado fuori a individuare i punti strategici: ristoranti, negozi, alberghi, l'ufficio della posta — molto importante, quando si viaggia, per via della corrispondenza, — l'ufficio turistico, l'ambasciata di Francia, eccetera. Insomma, cerco di farmi al più presto un quadro di tutto, senza dimenticare le informazioni sui fornitori di droga, e cominciando a fiutare se c'è qualche colpo da fare qua e là. In pochi giorni il giro di ricognizione è fatto, e so l'essenziale. Ora credo che la cosa migliore, prima di cominciare il racconto vero e proprio delle mie avventure a Katmandu, sia di descrivere lo scenario in cui si svolgeranno. Altrimenti temo che non ci si orienterà, tanto ha importanza in se stesso ogni luogo di cui parlerò. Comincerò perciò con gli alberghi, perché erano in qualche modo i «campi base» della colonia europea e degli hippies di Katmandu. Va da sé che non c'è solo l'Orientai Lodge. Gli hippies si distribuiscono nei vari altri alberghi, secondo i loro gusti, o piuttosto secondo i loro mezzi economici. Neanche a pensarci, per esempio, che essi vadano a vivere nei due palazzi, il Royal Hotel, e il Soaltie Hotel. In essi c'è il gran lusso. Solo i turisti molto ricchi ci vanno. Ci sono stato anch'io, ma non è ancora il momento di raccontare questo episodio della mia vita a Katmandu. Il Royal Hotel, molto bello, è un vecchio palazzo donato dal re Mahendra Bir Bikram, molti anni fa, a un avventuriero europeo di nome Boris. Questo Boris era riuscito a conquistarsi la fiducia del re, e gli aveva reso molti servizi, al punto che in ringraziamento il re gli aveva fatto dono del palazzo. E Boris l'aveva trasformato in albergo. Quanto al secondo palazzo, il Soaltie Hotel, appartiene alla classe internazionale dei celebri Hilton. Ci entrerò all'epoca in cui frequenterò una stupefacente scrittrice, Éliane M. Un albergo hippy a Katmandu, il più famoso senza dubbio, è il Quo Vadis. Nel mondo intero credo non ci sia un solo hippy, che abbia un po' viaggiato, a non conoscerlo almeno di fama. Il Quo Vadis è a 100 metri dall'Oriental Lodge, direttamente sulla grande piazza centrale, la Piazza dei Templi. È il più celebre, anzitutto perché è stato il primo che ha aperto la sua porta agli hippies, ma anche

per ciò che vi capita dentro. Il proprietario, che chiamano «Uncle» (dall'inglese: zio), è continuamente drogato. Fuma come una ciminiera. L'unico suo commercio è la vendita ufficiale dell'hashish e dell'oppio. Non fa pagare le camere. A queste condizioni, è chiaro che l'albergo è pieno zeppo. È davvero la casa della provvidenza. Eppure molti hippies non riescono a decidersi ad abitarci, perché è troppo sporco. Dall'esterno, la facciata attira subito l'occhio. Molto stretta, quasi soffocata fra le altre, ha ad ogni piano — cinque in tutto — dei piccoli balconcini in legno scolpito, molto antichi, ben lavorati, graziosissimi, una vera trina. Ma all'interno è una topaia. Camere che sono tali solo di nome. In realtà sono tane oscure, sporche, dal pavimento per lo più in terra battuta, senza letti: solo pagliericci, gettati sul terreno. Nessuna comodità, salvo un rubinetto nella lavanderia del pianterreno. Ma una delle camere è famosa. Si trova al terzo piano, e quando arrivo a Katmandu c'è un tedesco chiamato Staff che la occupa. È decorata con garbo. Degli arredi pendono dal soffitto. I muri sono ricoperti di pitture psichedeliche fatte a spruzzo. È l'ideale per «partire», quando ci si droga. Più che in qualsiasi altra camera del Quo Vadis, in questa non si smette mai di fumare e di farsi iniezioni. Ventiquattr'ore su ventiquattro. C'è gente, lì dentro, che non vede il sole da settimane. È la stanza di Katmandu che ha visto il maggior numero di junkie. Un numero impressionante di ragazzi e ragazze sono usciti impazziti da questa stanza. Una notte, una ragazza vi è morta. La chiamano la camera dei junkie. Per un altro motivo il Quo Vadis è celebre: Uncle, il proprietario, vi organizza dei parties alla droga. Al Quo Vadis io salterò il fosso, passerò dall'altra parte della barriera, con la mia prima iniezione di metedrina. Il terzo albergo hippy, quello in cui mi installerò quando la vita all'Orientai Lodge sarà divenuta insostenibile, è il Garden Hotel. Il Garden è al limite dei sobborghi, nel cuore del vecchio quartiere, in riva al fiume. La strada è in terra battuta. L'albergo, all'esterno simile — grosso modo — agli altri, ha un vantaggio: dà su un grande giardino con un tappeto erboso abbastanza curato. All'interno è un po' più sporco dell'Orientai Lodge, ma ha delle docce. In tutto, una trentina di camere, e nel sottotetto due dormitori comuni. Letti nelle camere, pagliericci nei dormitori. Poi, si cade negli alberghi riservati a chi è veramente in bolletta. E di albergo hanno solo il nome. Il Jet Sing, e il Match Box. Ma i più miserabili sono, non lontano dal fiume, sempre nella città vecchia, il Paris Hotel e il Coltrane Hotel. Sono press'a poco porcili, stabbi per armenti. Il soffitto è così basso, che chi è alto come me deve stare piegato in due. Nient'altro che un pagliericcio sul nudo terreno, con una coperta lacera, resa rigida dalla sporcizia. Niente camere a posti singoli, solo dormitori. Il Paris Hotel è molto frequentato. Primo, perché vi fanno funzionare dischi arrivati dall'Europa; secondo, perché giù nel ristorante si servono piatti a base di gangia. E poi, due cameriere sono prostitute. Le sole, in pratica, di tutta Katmandu. Due ragazze molto graziose, pronte ventiquattro ore al giorno per accontentare i clienti. Perché il ristorante è il solo aperto giorno e notte. Il che non vuole ancora dire che sia facile farsi servire, di notte. Bisogna risvegliare i domestici, che dormono sui tavoli, o sotto, o da qualche altra parte, tanto

sono drogati. E bisogna poi insistere per saldare il conto, dopo che si è consumato il pasto. Essi non hanno che un solo desiderio: dormire. Ma il Paris, a confronto del Coltrane, è quasi un palazzo. Al Coltrane si va solo quando non si ha più il becco di un quattrino. È ciò che esiste di più a buon prezzo al mondo: da 20 a 30 pesa (da 15 a 20 lire italiane) per notte. I muri e i pavimenti sono ancora più sporchi, il soffitto ancora più basso che altrove. La scala di legno ha i gradini traballanti, e la si può salire solo a testa bassa. Le camere: vere gabbie per conigli, non c'è altro paragone; attorno ai muri, tramezzi di legno separano le stuoie gettate per terra. La prima notte che ho passato al Coltrane, sono rimasto così disgustato dalla sporcizia della camera, che ho preferito dormire per terra nel corridoio. Molti di questi alberghi danno da mangiare, ma gli hippies hanno anche i loro ristoranti. Più famoso di tutti è il Cabin Restaurant. Quando sono arrivato io, era il ristorante alla moda, il luogo d'incontro degli hippies, tutte le sere. Si trova nella città vecchia, in fondo a una stradicciola molto buia. Bisogna proprio saperlo, che è là. L'interno: una stanza lunga, con la cassa a sinistra. I muri sono neri (solo più tardi li si coprirà di pitture psichedeliche). Da ogni lato tre tavoli di marmo, e in fondo due colonne con due arcate. Di fianco, un cortile interno con gabinetti immondi dove è necessaria la candela. E poi una cucina così sporca, che non bisogna mai andare a vederla, perché altrimenti non uno riesce ancora a ingoiare qualcosa. Il proprietario è di continuo «partito», gli occhi iniettati. Perché fuma con tutti, oltre allo shilom che fuma per conto suo. È il più grande venditore di hashish, perfino più grande, credo, che i governement shops gli empori ufficiali. Altra ragione del successo del Cabin Restaurant: vi si suona la musica europea e di sera i drogati vengono a sognare ascoltando i Beatles e i Rolling Stones. Oltre agli hippies, vengono i turisti. È la più grande attrazione di Katmandu, molto più rinomata che i templi. Tutti i turisti che passano da Katmandu vogliono andare al Cabin, perché lì ci sono gli hippies che fumano, gli hippies che si drogano, e questa è la cosa veramente straordinaria! Sono sicuro che un sacco di turisti ripartono da Katmandu con le tasche piene di rotoli di foto scattate agli hippies, ma senza averne presa una all'Himalaya. C'è poi tutta una serie di ristoranti meno noti del Cabin, il che non vuol dire che siano trascurabili. Al contrario. Sono tutti ammucchiati nello stesso quartiere, la città vecchia, in modo che si può andare dall'uno all'altro a piedi, a casaccio, seguendo l'estro o gli amici. Il Capitol, per primo. È un ristorante cinese, il solo di facile accesso. È sulla grande strada. Il Lido, altro ristorante cinese, è più caro. Ci si va molto di rado, e a volte entrando ci sbellichiamo dalle risa: sopra di sé, la proprietaria ha scritto su una lavagna il piatto del giorno, in inglese. Proprio sopra la sua testa. Sembra che l'iscrizione debba applicarsi a lei. Così, secondo i giorni, è «anitra», «bue» o «porchetta». L'Indirah: raffinato e caro. Al tempo dell'Orientai, quando ero ancora relativamente ricco, ci andavo sovente, soprattutto al mattino per la colazione, a degustare un caffè al cioccolato, e quel che chiamano «toast francese»: mollica di pane ricoperta di uovo e passata al forno, che ha un po' il gusto del pandorato. Il Ravi Spot. Piccolino, miserabile, ma pratico perché vicino all'Orientai Lodge. Il Tashi. Più miserabile del Ravi Spot, ma prepara il miglior dal bat che ci sia: riso cotto nell'acqua e servito con una tazza di brodo di piselli (e a volte di verdura), che è il piatto nazionale nepalese. Molti lì non mangiano che questo, tutto l'anno, mattino, mezzogiorno e sera. È entrato

nella consuetudine al punto, che ho conosciuto a Katmandu un nepalese che, avendo ottenuto una borsa di studio a Parigi per tre mesi, è tornato al suo paese dopo un mese, incapace — me l'ha confessato lui — di resistere oltre senza il suo dal bat. Altre specialità del Tashi: una specie di melanzane verdi, preparate in tutte le salse, ma sempre molto piccanti, le bananas fritters (banane fritte), pan cakes, e tutti i frutti dell'Oriente, datteri rossi dal gusto aspro, piccole arance molto profumate, manghi rossi, filamentosi e amari. L'Himali Cold Drink. Questo, chiamato Cold perché è il solo a possedere un frigorifero, ha molto successo nella stima dei drogati, perché offre una specialità fatta apposta quando a forza di droghe si perde l'appetito, e i cibi comuni come carne, riso e salse li disgustano: il lassi, a base di latte cagliato, molto facile da ingoiare. Ben digeribile, viene presentato in una terrina. Una sua variante, senza dubbio ancor più apprezzata, è il bang lassi: un lassi mescolato con hashish. Un nettare per i drogati: nutre, e fa «volare» nello stesso tempo. Il latte che viene usato è latte di capra, così forte che si riesce a berlo solo se tagliato con l'acqua: metà e metà. I formaggi sono molto maturi e fermentati. Inoltre, nella maggior parte dei ristoranti — e stupisce, le prime volte, a migliaia di chilometri dall'Europa, in questa città che ha tutta l'aria di essere in capo al mondo — perfino nei ristoranti indigeni vi servono bistecche fritte. Fritte con molto olio, e bistecche di bufalo, non di bue. Ma bistecche. Non ci sono che bufali nel Nepal, e la loro carne è dura come una suola. Gli spaghetti, però, si trovano dappertutto. Passiamo alla voce «bevande». A Katmandu, a parte i due palazzi di cui ho parlato, è inutile chiedere vino. Non esiste. Hanno due sole bevande: acqua e tè. E due tipi di liquori: uno bianco, fatto con riso germogliato; e un altro che ha il colore del cognac, ma è amaro e aspro. Restano da considerare le sale da tè, che vendono una quantità di pasticcini, in gran parte orientali, fatti con una pasta molto zuccherata, marrone e bianca, a base di tutti i gusti, in particolare la mandorla. Queste osservazioni sull'alimentazione valgono solo per Katmandu. Appena lasciata la città, si entra in pieno Medioevo, in una miseria inimmaginabile. I villaggi vivono esclusivamente delle loro risorse. La gente non mangia altro che ciò che raccoglie. Per esempio, un villaggio che coltiva la barbabietola mangerà barbabietola e nient'altro, per mesi, aspettando la raccolta degli zucchini che lo nutrirà finché non ritorni la raccolta della barbabietola, eccetera. Di altro, un po' di frutta, un po' di formaggio. È tutto, proprio tutto. Non c'è neppure del tè.

2. Il giorno del mio arrivo all'Orientai Lodge, cado in quel che non posso chiamare altrimenti che un mondo di follia. Una follia che mi stupisce ancora adesso, ma che doveva diventare ben presto un elemento normale dell'esistenza anche per me. Questo, non bisogna mai dimenticarlo, quando si cerca di immaginare che cosa siano stati questi pochi mesi nei quali una colonia di europei drogati si è abbattuta sulla capitale del Nepal, prima d'essere decimata a poco a poco per la perdita della ragione, per le overdoses, le epatiti, le espulsioni. A Katmandu, al tempo di cui io parlo, la vita non era ordinaria. Gli atti più stupefacenti, le conversazioni più demenziali, gli eccessi più sregolati, erano moneta corrente. Siamo una piccola società che vive in un'ubriacatura permanente, quella di decine di droghe di tutti i tipi, che fumiamo, mangiamo, annusiamo, iniettiamo nelle vene. Un'elettricità permanente regola da sola i nostri rapporti. Mattino, mezzogiorno, pomeriggio, sera, notte, sono parole ormai senza senso. Il ritmo solare non esiste più. Mangiamo quando abbiamo fame, mai a ore regolari, dormiamo quando la voglia di dormire si fa più forte che l'eccitazione della droga. Il normale non esiste più, l'anormale ha preso il suo posto. E io — oggi che sono tornato nel mondo normale — ritrovo con stupore, nella mia memoria, questa serie d'avvenimenti fuori del comune nei quali ho turbinato per mesi, come un sonnambulo. Al mio arrivo all'Orientai Lodge, un gruppo si forma attorno a me, sempre perché ho dei soldi. Ci sono, l'ho già detto, Guy e Michel, Agathe e Claudia, ma anche Paul, un altro francese di quarant'anni, bizzarro. Tira fuori grosse enormità sulle cose più ovvie della vita, le snocciola d'improvviso, ma dopo una riflessione profonda e convinta. Non abbandona mai un bastone da pastore. E Agnès, una piccola riccioluta, ha turbe sessuali. E poi, c'è Barbara. La sera stessa del mio arrivo mi capita subito sulle costole. Sto dormendo sul pagliericcio, quando un grido mi sveglia di soprassalto. Davanti a me, una ragazza bionda, non molto alta, completamente svestita, agita le braccia oscillando in un vago movimento di danza, con una candela in mano. Mi riempie di calci nelle costole. E strilla: «Prendimi. Prendimi!». Ti doveva ancora capitare questa, dico a me stesso mentre la respingo stancamente. Io ho una voglia sola, quella di dormire, e non sarà proprio questa invasata a farmi cambiare idea. Ma lei insiste, vuole dormire con me. E ripete, come una nenia, con voce stridula: «Prendimi… Prendimi…». Guy e Michel si sono svegliati. Vedo Michel che ride divertito, mentre io, che ho afferrato la ragazza ai polsi, cerco di tenerla ferma. Ma sguscia come un'anguilla. «Non è niente — mi dice Michel. — È Barbara». «Barbara?». «Sì, finirai per abituarti anche tu. Non è pericolosa. È solo un po' svanita». Gli rispondo: «Tu la penserai così, ma io non so che farmene di questa ragazza. Se non la smette, le do un sacco di legnate e vedrai che si calmerà». «Esistono maniere più semplici — replica Michel. — Sta' attento, ora ti spiego il trucco per la prossima volta». E la chiama dolcemente:

«Barbara… Barbara…». Subito la ragazza si calma. Guarda Michel da dietro il lume della sua candela. È ancora ansimante. «Barbara riprende Michel, — pensa a tuo marito… Tu non devi fare così». Allora, bruscamente, Barbara si distende. Le lascio i polsi, lei si rialza e si aggiusta i capelli. «È vero— dice, — hai ragione». E se ne va! Michel mi guarda con aria di trionfo, e mi spiega. Barbara è una tedesca di buona famiglia, che è venuta qui su una 2 CV. Si è drogata troppo, al punto che è svanita. Un giorno si è innamorata d'un austriaco. E nella sua follia s'è messa in testa di sposarlo, col rito religioso. Nessuno sa come abbia fatto, ma è riuscita a convincere i lama del Tempio delle Scimmie, a Soyambonat (un villaggio sacro a un'ora di marcia da Katmandu), di sposarli. La cerimonia ha dirottato verso Soyambonat tutta la colonia hippy, ed è stata l'occasione d'un gigantesco «party alla droga» durante il quale almeno a una decina di essi ha dato di volta il cervello. Dopo un po' l'austriaco ne ha avuto abbastanza di lei, e Barbara, restata sola, si è drogata sempre più, fino al punto che ora è completamente pazza. Certi giorni, ripete per ore e ore il suo grido: «Prendimi… Prendimi…». Un giorno qualcuno, seccato, le ha detto per scherzo: «Se tuo marito ti sentisse!», ed è bastato per farla smettere di colpo, come per miracolo. Da allora, ogni volta che ricomincia, le si parla di suo marito e lei si calma. Proprio in quel momento, appena Michel ha finito di raccontarmi la storia di Barbara, dal fondo del corridoio, improvviso, più stridulo che mai, il grido demenziale ricomincia: «Prendimi… Prendimi…». «Ma allora… — esclama Michel scuotendo la testa con aria delusa, — il trucco non funziona più!». Ed è così comico che scoppio a ridere. «Be', almeno cerchiamo di dormire», sospira. Ma è proprio impossibile, tutti i minuti il grido risale, lancinante, acuto: «Prendimi… Prendimi…». Sopporto per un quarto d'ora, poi mi alzo. «Vieni, andiamo a calmarla sul serio». Michel mi segue. Usciamo sul corridoio. Barbara, sempre svestita, ha spalancato la finestra che dà sulla strada. Con le braccia levate al cielo, la testa ciondolante all'indietro, ripete lentamente il suo ritornello. Le arriviamo alle spalle in silenzio, e le saltiamo addosso. «Tienila», dico a Michel. E le mollo un manrovescio con tutta la mia forza. Crolla senza un grido, senza una lacrima. Per questa volta ha finito. Allora dal basso, dalla strada, sentiamo un grido generale di protesta. Sono voci maschili. Stupiti, ci affacciamo a guardare. Una trentina di nepalesi ci mostrano il pugno, furiosi perché li abbiamo privati dello spettacolo! Purtroppo non è ancora finita con Barbara. Avrò ancora da sopportarla parecchio. E non solo lei, tanto per restare nel genere «spogliarelliste urlatrici». Barbara ha un'amica, Brigitte, anch'essa di buona famiglia, d'origine belga mi pare, che è non meno svitata. Brigitte non grida «Prendimi» per delle ore, ma la sua specialità è altrettanto sconcertante. Di

tanto in tanto si sveste completamente, va in mezzo alla strada e cammina tra i nepalesi, gesticolando e lanciando in tutte le direzioni, fra altre frasi irripetibili, i sacri gridi buddisti. Il che è molto spiacevole, in primo luogo perché esce in bestemmie tali che dobbiamo correrle dietro e riportarla all'albergo prima che la facciano a pezzi; e poi perché scene del genere a poco a poco ci mettono in cattiva luce, tutti in blocco, europei e hippies. Sette o otto giorni più tardi, io rompo con Agathe. Devo dire che è molto cambiata dal suo arrivo a Katmandu. Ora è passata alle iniezioni e si droga al punto, che l'amore quasi non la interessa più. Eppure è una crisi di gelosia che porta alla rottura. A causa di Guy. Una sera Agathe mi prende in disparte e mi pone un aut-aut senza via di uscita: «Charles, — mi dice, — lascia perdere Guy e prendi una camera con me. Voglio insegnarti le iniezioni. Sarà meraviglioso, vedrai». Io protesto che lei corre troppo in fretta con la droga, che al momento l'hashish e l'oppio mi bastano. «E poi — aggiungo — non posso piantare Guy nello stato in cui si trova». È vero: si è messo piuttosto male. Da quando è all'Oriental Lodge, non lascia più la camera e non smette più di tirare dal suo shilom. Ne è divenuto un vero specialista. È maestro nell'arte di prepararlo. Non c'è alcuno come lui per tostare, impastare, sistemare l'hashish nello shilom. In camera nostra c'è una sfilata continua di ragazzi e ragazze che vengono a prendere lezione da lui. E Guy non smette, per conto suo, di accendere uno shilom dopo l'altro, giorno e notte, mangiando quasi nulla, e dormendo meno ancora. Ricordo queste cose ad Agathe, e le chiedo di comprendere la situazione: Guy, del resto, è mio amico da Istanbul, un dramma terribile ci ha uniti, non ci siamo più lasciati da sei mesi. No, io non posso separarmi da lui. «D'accordo — mi risponde lei seccamente. — L'hai voluto tu». Si gira sui tacchi e se ne va. Io alzo le spalle. Questa ragazza, che ho tanto amato a Bombay, mi è diventata ora del tutto indifferente. E così il capitolo Agathe è pietosamente chiuso. Resteremo amici, almeno per un po' di tempo, finché un bel giorno riuscirà a mandarmi fuori dai gangheri. Ma intanto il risultato è che mi trovo presto con un'altra ragazza sulle spalle. Agnès. È una svizzera, slanciata, al momento incollata a un australiano. Sono installati in una camera a due, ma appena Agnès vede che fra Agathe e me è finita, decide di mettere il suo zampino su di me. Tutte le notti, quando il suo australiano, impinzato di droga, è piombato nel sonno, lei si alza e viene a infilarsi nel mio letto. La cosa in sé non avrebbe nulla di sgradevole, anzi, perché la ragazza è molto graziosa, solo che ha una fame da lupi. Di cibo, voglio dire. E mai in ore normali. Di giorno, al ristorante, non mangia nulla. Ma di notte… Tutte le notti, è inevitabile, alle tre del mattino mi scuote: «Charles, ho fame…». «Ecco, ci risiamo…».

«Vieni, andiamo a mangiare». «Ma sai bene che è tutto chiuso». A quell'epoca ignoro ancora, come lei, l'esistenza del Paris Restaurant, quello aperto tutto il tempo. «Non importa. Troveremo qualcosa. Andiamo a bussare al Ravi Spot». La mia disgrazia è stata di dirle di sì la prima volta. Brontolando mi alzo, ed eccoci nella strada. Subito i cani ci sono addosso. Una banda di cani astiosi, cattivi, rognosi, stomachevoli, e molto grossi, che ci si fanno attorno digrignando i denti, lanciando sordi grugniti, guaiti orripilanti. Mi tiro subito indietro, ma in fondo la loro presenza non mi sorprende troppo. Li sento sempre urlare di notte, tutta la notte, dal mio arrivo. I cani di Katmandu sono il solo rumore costante, incessante, che si senta dal tramonto al levare del sole… E so anche perché i nepalesi non li ammazzano. Essi mangiano i topi. Senza di loro, la città ne sarebbe invasa. Rifletto un momento. Se torno indietro e risalgo in camera, avrò Agnès sulle costole a ripetere «Ho fame» fino all'alba. Mentre con un po' di coraggio posso farcela ad arrivare fino alla porta del Ravi Spot, distante una ventina di metri, quasi in faccia all'Orientai Lodge. E mentre Agnès batte per svegliare i camerieri, io dovrei farcela a tenere a distanza i cani. Mi metto così a distribuire pedate sui musi dei più vicini, accompagnandole con pesanti insulti. Miracolo! I cani scappano come passerotti. In seguito non ho mai avuto noie, di notte, dai cani di Katmandu. Urlavo più di loro, distribuivo pedate in tutte le direzioni, e scappavano. Tutt'al più la banda si ricomponeva più lontano, e mi seguiva a rispettosa distanza nelle mie peregrinazioni notturne, ringhiando sordamente. Ma bastava girarmi e lanciare un urlo di tanto in tanto, per starmene poi tranquillo per un pezzo. Perché l'essenziale è non lasciarsi prendere dal panico. I cani se ne accorgono subito e attaccano senza pietà. Un americano ne è uscito molto malconcio, una notte, per aver commesso l'errore di scappare di corsa. Dunque noi due raggiungiamo in fretta la porta del Ravi Spot. Agnès bussa, mentre io assesto un'ultima pedata all'ultimo cane. Continuiamo a bussare per cinque buoni minuti. Alla fine aprono. Appare la testa arruffata e sonnolenta di un ragazzo. Nello stesso tempo, dall'interno, una voce d'uomo bofonchia in nepalese e, stando al tono di voce, vuole di sicuro dire: «Ma non si può neppure dormire tranquilli!». «Mangiare, vogliamo mangiare», dice Agnès in inglese. Allora si avverte un tramestio all'interno. La luce si accende, la porta si apre, e ci troviamo davanti un'assemblea di cinque o sei domestici e di due o tre ragazzini che dormivano un po' dappertutto, sui tavoli, sulle sedie, per terra, e che il solo suono della voce d'una ragazza è riuscito a svegliare, a rendere sorridenti e cerimoniosi. «Vedi — conclude Agnès, entrando come una principessa, — basta domandare». Dieci minuti più tardi siamo a tavola davanti a un piatto pieno di polpette di riso e a una teiera fumante. Poi ci friggono delle banane, e per finire preparano a ciascuno un bang lassi, il delizioso latte cagliato con hashish. Non so se la dose dell'hashish sia troppo forte o se abbiamo esagerato con gli shilom la sera precedente all'albergo, ma è certo che il bang lassi ha su di noi un effetto prodigioso. Dopo pochi istanti siamo completamente «partiti», planiamo nell'aria. Tornare a dormire? Non ci pensiamo nemmeno.

«Andiamo a spasso», decreta Agnès. Anch'io sono del suo parere. Usciamo tenendoci a braccetto, leggeri come piume, con l'impressione di sfiorare appena il terreno, di poterci librare in aria con un semplice colpo di tallone, come fa il palombaro che risale dal fondo. Durante una buona mezz'ora gironzoliamo a casaccio, senza parlare, distribuendo ogni tanto una pedata a qualche cane. Arriviamo nella strada centrale, quella che porta alla Piazza dei Templi. Agnès si ferma: «Guarda!», mi dice, indicandomi un atrio sulla nostra sinistra. Mi avvicino, perché la luce è scarsa. «È un tempietto dedicato all'Amore — mi dice Agnès. — Vedi i bassorilievi?». È proprio così, non ci si può sbagliare. Scolpite nella pietra davanti a noi, delle figurine, uomini e donne, in tutte le posizioni che l'immaginazione più scatenata può concepire. Tutta l'arte di amare vi è rappresentata, come in una dispensa per corrispondenza a fumetti. Avanziamo lentamente sotto l'atrio. In fondo, un cancello socchiuso. Dietro di esso, all'interno, delle candele tremolano. Avanziamo ancora, facciamo cigolare il cancello aprendolo completamente. È straordinario. Siamo in una minuscola cappella dai muri scolpiti con immagini più scapigliate che quelle viste fuori. Fra le sculture, dappertutto, in mezzo a decine e decine di candele, ci sono fiori a profusione. E in una nuvola d'incenso, che col suo odore ci stordisce un po', appare la dea dell'Amore. «Guarda lì!», grida d'improvviso Agnès, stringendosi a me. A mia volta, col sangue gelato, scorgo quello che l'ha fatta strillare. Una decina di ombre nere scorrono sulla statua. Sono topi. Quando ci ritroviamo fuori, ancora sconvolti, il giorno comincia a levarsi. Riprendiamo il nostro cammino, sempre a casaccio, ma ora verso ovest, verso il fiume. E sbuchiamo in una piazzetta lastricata in pietre, somigliante in ciò alla piazza Fùrstenberg di Parigi, ma la somiglianza finisce lì. In questa piazza c'è il mattatoio di Katmandu. Davanti a noi, con i piedi legati, un bufalo attende la morte. Si vede che capisce ciò che lo aspetta. Ruota gli occhi spaventati, fuma dalle narici. Di soppiatto due inservienti si portano dietro a lui, e insieme, con una sola spallata, lo urtano violentemente. Il bufalo crolla su un fianco. Mugghia con tutta la forza dei suoi polmoni. Si è rotto qualcosa di sicuro, almeno le costole. Ma già il suo boia si china su di lui, e con un gesto rapido gli taglia la gola. Il sangue zampilla in grossi rigagnoli e se ne va come un ruscello, sul lastricato in discesa, verso la stradicciola più in basso. Scorre e scorre, non finisce più di scorrere, mentre la bestia a poco a poco s'immobilizza, rantolando. Il ruscello di sangue fumante passa davanti ai nostri piedi. Uno sciame di mosche si butta all'assalto e beve avidamente. Colpendolo col piede sul muso, il boia si assicura che il bufalo non reagisca più. L'animale è proprio morto. Allora gli inservienti lo coprono di paglia e sterpi secchi, innaffiano il tutto con benzina, e appiccano il fuoco. Le fiamme divampano, il fumo descrive grosse volute, un intollerabile odore di peli bruciati

invade la piazza. In capo a una ventina di minuti il fuoco è spento. Gli uomini strigliano l'animale e si mettono a farlo a pezzi. Sono convinto che se non fossimo storditi dall'hashish, Agnès e io, saremmo già andati via da un pezzo. Ma l'hashish annulla la nostra volontà. Uno spaventevole incantamento ci tiene lì, con gli occhi inchiodati su quel corpo, i cui organi fumanti saltano fuori uno dopo l'altro sotto i colpi dei coltelli. La macellazione è atroce, l'odore insostenibile, ma noi restiamo. C'è da vergognarsi a dirlo, ma siamo avidi di questo spettacolo. Ciò che vediamo scatena in noi uno straordinario fuoco d'artificio di sensazioni violente, appena sostenibili, ma che ci fanno quasi tremare di piacere. Restiamo lì a lungo. Assistiamo all'uccisione di quattro bufali. Ne vediamo uno inciampare mentre lo portano sul posto, cadere sulle corde che lo legano, e finire scivolando sul fianco dentro il sangue, giù nella stradicciola in discesa, urlando a morte. I macellai ridono mentre fanno a pezzi la carne; la buttano davanti a se stessi, lì per terra, formando una specie di bancarella primitiva. Già arrivano le prime massaie. Una bilancia viene estratta da un cassone; si fa il filo ai coltelli, si chiacchiera, si taglia, si consegna, si paga. Vedo davanti a me una ragazzina d'una decina d'anni, che se ne torna a casa tenendo in mano un ripugnante pezzo di carne sporco di terra, che fuma ancora. Solo ora, la voglia di vomitare mi prende. «Partiamo — dico stomacato a Agnès. — Andiamo a farci uno shilom». Lasciamo la piazza, ci sediamo sotto un portone, e ci facciamo due buoni shilom che ci rimettono completamente in sesto. Ora non abbiamo proprio più alcuna voglia di andare a dormire. II sole si è alzato da parecchio, e ovunque nelle strade i nepalesi circolano, portando enormi gerle di vimini tenute in equilibrio da una cinghia di cuoio che passa sulla gerla e circonda la fronte del portatore. Con la massima attenzione, sempre trotterellando, evitano le vacche sacre in cui s'imbattono. Alcune gerle sono piene di legna, altre di sterco di vacca seccato, altre ancora di volatili pigolanti. Le donne portano la gerla altrettanto bene che gli uomini. Sono contadini venuti dai monti a vendere nel mercato. Quasi tutti hanno in mano un rosario e un «mulino da preghiera»: un cilindro cavo, contenente una pergamena su cui sono riportati testi sacri, fissato con una cordicella a un manico di legno che essi fanno ruotare. Ogni tanto si fermano davanti a un tempio o a uno stupa (una piramide in pietra, ornata con mulini da preghiera infissi), e con un gesto rapido fanno girare i propri mulini. Poi ripartono, sempre trotterellando. Quasi tutti sono nudi, con appena un panno nero tra le gambe, che lascia le natiche scoperte. Le donne, con un solenne vestito nero che scende fino alle caviglie, portano dei pendagli smisurati alle orecchie, che perforano i lobi e li allungano con il loro peso. Alcune hanno un anello al naso, che perfora di lato la narice. Quasi tutti gli uomini hanno i capelli lunghi. Ma ce ne sono che hanno il cranio rasato a zero, salvo un ciuffo sottile, molto lungo, che pende dal centro del cranio. Ciò che mi manda in visibilio sono le loro gambe nude. Sono bellissime. Si vede che sono state esercitate fin dalla nascita alla marcia sui monti, lungo i piccoli sentieri che tagliano i pendii. Il loro attacco al tronco è perfetto e ben disegnato. I muscoli giocano sotto la pelle, e la pelle è

lucida di sudore. Non mi stanco di vederle sfilare davanti a me, e le trovo belle come le gambe delle statue greche. Ma Agnès mi tira per una manica. Ci risiamo, c'era da aspettarselo: ha di nuovo fame. Ci mettiamo sulla scia dei portatori, e finiamo in pieno mercato. Il suk. Ovunque bancarelle colorate: viveri, sacchi di zucchero e di riso, frutta, tessuti, sciarpe multicolori, in un baccano incessante e in una baraonda indescrivibile. In mezzo, le vacche sacre passeggiano col sussiego di regine, tuffando il muso nei sacchi di grano senza che il venditore osi opporsi. Però ho visto uno di essi, esasperato — la vacca gli aveva divorato un terzo di sacco, che la respingeva, con molto rispetto senza dubbio, ma anche con molta fermezza. Ma è pazzo? Non finirà per farsi lapidare, come ho visto che per poco non capitava a un europeo a Bombay, per aver avuto la sfortuna di urtare senza farlo apposta una vacca sacra? No: anche altri vengono ad aiutarlo. Risultato: devo concludere che nel Nepal le vacche non sono poi così sacre come altrove! Agnès ha trovato quel che cercava: un mercante di formaggio. Sceglie un formaggio ben maturo, naturalmente di capra. «Hai dei soldi?», mi domanda. Ne ho. Tiro fuori un biglietto da una rupia, e lo tendo al mercante. Lui scuote la testa e mi fa segno che non vuole il mio biglietto. Perché mai? È un biglietto buono, un'autentica rupia nepalese, diamine! Protesto in inglese. Egli mi ascolta, non capisce nulla ma resta irremovibile. Non vuole il mio biglietto e ritira il formaggio dalle mani di Agnès. Nello stesso tempo parla, vivace, indicandoci col dito qualcosa in fondo alla piazza, dietro i due immensi stupa a fianco dei templi. Che vuol dire? Per fortuna Agnès ha capito. Si batte la mano sulla fronte. «È vero — esclama. — Bisogna che tu vada a scambiare il biglietto». La guardo stupefatto. «Vieni!», mi dice. Arriviamo davanti a un gruppo di quattro o cinque mercanti che hanno, come unica mercanzia davanti a sé, enormi mucchi di monetine, ciascuno alto un buon metro. D'autorità Agnès mi prende dalle mani il biglietto d'una rupia, e lo porge al primo commerciante. Poi pilucca nei mucchi di monetine. Ne prende cinque di 10 pesa (100 pesa fanno una rupia), cinque di 5 pesa, e venticinque d'una pesa (una rupia nepalese vale al cambio 62 lire italiane; perciò una pesa vale lire 0,62. Ma in questo caso come in altri il riferimento ai cambi non ha un vero significato, trattandosi di sistemi economici del tutto diversi). Riconta tutto, e restituisce una pesa al mercante, prima di deporre il resto nelle mie mani. «Una pesa — mi spiega — è ciò che gli spetta per il cambio». E ritorniamo a comperare il formaggio, che costa 8 pesa. Agnès, mentre mangia seduta sul primo gradino d'uno stupa, mi spiega come stanno le cose. Nel Nepal la gente guadagna così poco denaro (50-70 pesa al giorno per un lavoratore agricolo, 25 soltanto per un uomo che bituma le strade, per esempio), che una rupia è una cifra di tutto rispetto. E a meno di andare dai grossi commercianti, dai ristoranti e alberghi di lusso, nessuno ha mai con sé del denaro. Di qui l'istituzione quasi ufficiale dei mercanti di monete, che vivono con la piccolissima percentuale che prendono ogni volta. E con la vendita delle pipe per l'hashish puro, anche. «Non ne hai mai fumato?»,