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Italian Pages 351 Year 1997
Vincenzo Vitiello Filosofia teoretica l .c domande fondanwntali: percorsi e interpretazioni
Bruno Mondadori
Il volumf' si propone di offrire uno strumento per orientarsi nel complesso orizzonlt' della filosofia occidentale. Vitiello, che fornisce anche una sua personalf' interpretazionf', organizza la trattazione in quattro grandi figure: l ,i n~uaggio/1 .ogie a, D inlettic a/Esistenza, Fenomenologia/Ermeneuti ca, .\lt'lafisica/TeologiH. l'natale strutturazione della materia permette di fornirl' un pauorama assai ampio clf•i problemi f' degli autori della filosofia e in.sie1111' di aiTroutarli sulla basP di una prospt>ttiva teoretica e non semplicemente, lnuliziunalnwntt•, storiografica.
\"itH't'nzo \"itiPIIn l- docPntt' di Filosofia teoretira presso l'Università degli Studi di Salerno. Si t- O('eupato in particolare dei rapporti fra pensiero dialettit·o t•d f'rlllt'nt'utir (molti d> (Hegel), owero: l'essenza del dialogo, si sottrae al dialogo. E se il dialogo è la verità -l'essenza del dialogo si sottrae alla verità. Non a caso nella Repubblica Platone parla del sacrificio del filosofo che per governare la po/is deve abbandonare la "pianura della verità". E il sacrificio non è determinato dal fatto che il filosofo deve ridiscendere nella caverna per portare agli altri, ai compagni ancora costretti dalle catene dei sensi, un po' della 19
Fifoso/iateQretica
luce vista di fuori, all'aperto. lovero ciò che più conta, ciò che è alla base d'ogni vedere (theorein) filosofico, il ftlosofo mai non riesce a vedere. Il sole non lo si mira direttamente, altrimenti acceca l'occhio che a esso si volge. Fuor di metafora, il Bene che è alla base di ogni operare appropriato o "giusto", ovvero: il "veramente essente", il dialogo che sostiene ogni logo, la Legge che è al fondo d'ogni vincolo della Città, non viene mai come tale al dialogo, al dire essoterico della ftlosofia - perché il logo che Io dice è sempre e solo una prospettiva particolare sul dialogo, è parte e non tutto. Viene allora alla parola non dialogica del sapiente? Se è così, perché allora il dialogo? Questo potrà valere per singole e particolari verità, non per la Verità che tutte le fonda. La philo-sophia oscilla pericolosamente tra sofistica e sophia, in cerca di un luogo proprio. Va anche detto che la phzlosophia si è mostrata consapevole di questa sua intrinseca "debolezza"- sin dall'inizio, e cioè già con Platone. Forse, e senza forse, non c'è esperienza dei limiti della ragione più conseguente e radicale, che quella fatta ed esibita da Platone nel Parmenide - e non con altri mezzi che quelli stessi della ragione. Come a voler dar ragione dell'impossibilità di dar ragione. Sembrerebbe, questa, una conclusione negativa, il racconto di una magnifica avventura, conclusasi però in un naufragio. La cosa non sta così. La filosofia non è l'esperienza di un fallimento. Neppure è il tentativo sempre rinnovato, pur nella consapevolezza della sua inanità, di varcare il proprio limite. La filosofia non ama l'esaltazione dell'avventura, l'eroismo dell'optime navigavi, naufragium feci. Sobriamente riconosce il proprio limite, con coraggio indugia presso di esso, mai dismettendo di interrogarsi su dove inizi e dove termini il suo limite. In questo interrogare resta sempre nel medesimo luogo - sul limite, appunto nello sforzo di conoscerlo sempre meglio. Nelle pagine che seguono descriveremo le principali figure di questa esperienza, del modo in cui s'è svolta, dei suoi più significativi itinerari. Ma prima vogliamo dare la parola a Platone perché ci narri, direttamente, altro racconto, l'ultimo. Non per altro che per segnalare la capacità della ragione di guardare nei più ascosi anfratti di se medesima. 20
/ntroduzirme
Questo racconto, questo mythos, è un racconto cosmologico. Ne riportiamo qui solo una piccolissima parte, quella che ora ci interessa, che riguarda appunto il limite della ragione. Chi parla non è Socrate, è Timeo. Ascoltiamolo: ... bisogna ammettere che vi è una forma di realtà che è sempre allo stesso modo, ingenerata e imperitura, che non accoglie dal di fuori altra cosa, né essa passa mai in altra cosa, e non è visibile e percepibile con altro senso. Ed è questo, appunto, che all'intelligenza toccò in sorte di contemplare. E bisogna ammettere che di nome eguale e ad essa somigliante vi è una seconda forma di realtà che è sensibile, generata in continuo movimento, che nasce in un qualche luogo e nuovamente di là perisce. E questa si comprende con l'opinione che si accompagna alla sensazione. E a sua volta bisogna ammettere che v'è un terzo genere, quello dello spazio (chOra), che è sempre e che non è soggetto a distruzione, e che fornisce sede a .tutte le cose che sono soggette a generazione. E questo è coglibile senza i sensi con un ragionamento ibrido (/ogism6 tini n6tho), ed è a mala pena oggetto di persuasione. Guardando a esso noi sogniamo, e diciamo che è necessario che ogni cosa che è, sia in qualche luogo e occupi uno spazio, mentre dò che non è in terra né in qualche luogo del ciclo non è nulla. (Timeo, 52a-b) Timeo narra, non interroga. Ha la ragione smesso di interrogare? Ma può la ragione smettere, senza negare se stessa? Forse Platone sta qui indicando nel narrare di Timeo un'esperienza di pensiero più elevata della ragione interrogante? O non si cela nel racconto di Timeo un più profondo interrogare? Certo quella ch6ra, quello spazio, che tutto accoglie e che non possiamo mirare se non come in sogno, quel luogo che non ha una determinazione sua perché ogni determinazione accoglie in sé, appare come lo spazio proprio della filosofia: un nulla, che pure in qualche modo è. In qual modo? È quello che cercheremo di capire analizzando dapprima le figure in cui storicamente si è dato. Riservando alle pagine conclusive un'interrogazione più diretta su questo medesimo spazio, nel quale pure da sempre ci aggiriamo.
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I Percorso Linguaggio/Logica
l. Mythos e Logos 2. Il nome, la cosa 3. n propriamente esseme: l'ousia 4. L'esperienza pre-categoriale e il giudizio 5. Platino e il sostrato (hypokeimenon) ultimo del giudizio: la possibilità pura 6. Giudizio e siliogismo 7. Alle origini della scienza moderna 8. La Metafisica antica e la moderna mathesis universali$ 9. Sostanza e accidenti: interiorità ed esteriorità lO. L'isola della verità e l'oceano della parvenza
Linguaggio/Logica
l. Mythos e Logos
Chiariamo subito che il nostro problema non è quello di determinare la realtà storica del "mito" e la funzione che nel suo mondo era chiamato ad assolvere; né quello di definire il rapporto storico del mito col pensiero logico, e cioè: se, come e perché questo sia nato da quello. Il nostro problema è alcro: vogliamo comprendere il bisogno a cui risponde la Logica. A tal fine descriviamo due forme discorsive denominare tradizionalmente Mythos e Logos. E le descriviamo in base a testi e a interpretazioni che fanno parte della nostra storia culturale, di noi uomini dell'Occidente. Ora, anche se si assume che questi testi e le loro interpretazioni siano creazioni dello stesso pensiero logico, e che quindi ciò che chiamiamo "mito", nonché essere l'antecedente storico dellogo, ne è solo la controfigura, quasi l'ombra ch'esso proietta dietro di sé, il valore della descrizione, ai fini della nostra indagine, non viene meno. Anzi ne acquista, perché, se il "mito" descritto è solo la rappresentazione di ciò che il pensiero logico non vuole essere, di ciò da cui ha bisogno di distinguersi, allora l'analisi di questa "figura" ci porta direttamente nel cuore del nostro problema, che riformlÙiamo in forma di domanda: quale l'esigenza cui intende rispondere la Logica?
1.1
n conflitto natura/cultura
Ma: con quale mito iniziare la nostra descrizione? Sembra non ci sia che l'imbarazzo della scelta. Muoviamo allora da quello ch'è forse il più noto: il mito di Edipo. li resto di riferimento è l'omonima tragedia di Sofocle. 25
Ftlosofiatcoretica
Com'è stato da più parti notato, questa è la tragedia dell'ambiguità: a cominciare dal nome del protagonista, Otdipus, che deriva sia da oida, "io so", la cui radice "id" è la stessa di "eidon", vedo: so, dunque, in quanto vedo; che da PoUs, piede, che richiama tanto l'enigma della Sfinge sciolto dall'eroe, quanto, col suo gonfiore (oidos), l'infausta nascita. Edipo: quegli che sa sciogliere gli enigmi, ma che è enigma a se stesso. Straniero nella sua patria; marito della propria madre, e fratello dei suoi figli; cieco quando vede, veggente quando s'acceca. Colui che vuoi de-cidere bene da male, ma che vive nell'in-decisione dei due. Hegel coglie felicemente l'ambiguità di questa esistenza regale sospesa tra presente storico e passato naturale, il cui potere crolla quando l'agire dell'autocoscienza, sorda alle altrui premonizioni, spingendo lo sguardo nell'abisso dell'inconscio, rivela"al figlio" che l'offensore che egli ha percosso e ucciso è il padre, e la regina che ha preso in moglie la madre. Allora si manifesta «la potenza che ha in orrore la luce» (die lichtscheue Macht), che «coglie l'autocoscienza in flagrante)), non potendo questa «negare il delitto e la sua colpa)). Ma non si chieda se è la volontà di vedere -l'«occhio di troppo)) di Edipo di cui parla un frammento di HOlderlin, e cioè, nei termini di Hegel, l'autocoscienza -, che lo spinge passo dopo passo a perdersi, o non piuttosto quella potenza inconscia, notturna, che erompe solo alla fine; non lo si chieda perché il negativo dell'autocoscienza, ciò che più aspramente le si oppone, non è altro da lei, ma il suo essere stesso, il suo essere naturale. 1 Turto ciò è già nel nome. Il nome Oidipus evoca il vedere-sapere, lo scrutare nel fondo della propria coscienza, per penetrare la Notte del passato, della natura, che il Giorno della presenza, della storia spirituale, della cultura ha rimosso. La polisemia del nome evoca il contrasto p re-storico tra cultura e natura. Diversamente si presenta la polisemia del linguaggio nell'Agamennone eschileo. Clitemnestra riceve lo sposo vincitore al 1 Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomcno/ogw deflo spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1963, vol. n, p. 28, ed. it. con testo tedesco a fronte a c. di V. Cicero, Rusconi, Milano 1995, pp. 631-633 [nelle citazioni successive della Fe11omenofogia le pagine di questa ed. verranno indicate tra parentesi quadre].
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Linguaggio/Lngw1
ritorno da Troia con parole che all'apparenza esprimono fedeltà e sottomissione, in realtà pre-annunciano il crimine tramato. La vendetta della regina, che restituisce al marito la violenza da lui compiuta sul corpo della figlia, da lui sacrificata per ingraziarsi alla partenza per la guerra di Troia il favore degli dei, parla anch'essa il linguaggio dell'ambiguità, ma non al modo di Edipo. L'ambiguità del tebano è inconscia, appartiene al suo linguaggio che dice più di quanto egli non sappia; perciò tutto quello che proferisce gli si rivolra contro: la condanna emessa all'inizio dell'azione tragica ricade alla fine su di lui. Clitemnestra, invece, parla consapevolmente parole doppie. Ella sa più di quanto il suo linguaggio apparente dice; le sue parole nascondono il loro senso vero. Il conflitto natura/cultura è in questa tragedia trasposto tutto sul piano della storia, delle relazioni intersoggettive. Ingannato dal linguaggio non è colui che parla, ma colui a cui si parla. Coscienza e inconscio sono qui divisi, sono due "persone", le due dramatis personae. Eschilo ci mette sulla traccia di questa "differenza", quando, all'inizio della tragedia, fa dire alla scelta: «io a chi sa volentieri parlo; taccio (/éthomai: celo, lascio nascosto) a chi non sa)) (vv. 38-39).
1.2 L'ambiguità del linguaggio La trasposizione del conflitto pre-storico natura/cultura sul piano della storia e della coscienza porta con sé la possibilità di usare strumentalmente l'ambiguità del linguaggio. Di quest'uso furono maestri i Sofisti, che l'appresero nelle aule dei tribunali. I dissoi l6goi, i discorsi doppi, facevano leva sulla polisemia del linguaggio. Si diffuse l'eristica, l'arte (tèchne) di dimostrare tutto e il contrario di tutto. Ma così veniva meno la possibilità stessa di comunicare. Al limite nessun giudizio più poteva esprimersi, opponendosi a chi diceva: "il cavallo corre", che altro è "cavallo" e altro "correre", e che è falso attribuire al medesimo il diverso. Peraltro dire il medesimo del medesimo, come, per esempio: "cavallo cavallo" e "correre correre", non pare porti a qualcosa. Così la ricchezza del linguaggio - la sua polisemia - veniva impiegata contro il linguaggio stesso. Per contrastare tale pratica 27
Fi/oso/tateoretica
distruttiva era necessario anzituno impadronirsene perfettamente. Bisognava diventare più sofisti dei sofisti, antichi e "nuovi". Ecco quindi, nel Parmentde platonico, Socrate opporre a Zenone che non c'è nulla di stupefacente nel fano che l'uno e il molteplice- gli opposti -siano entrambi predicati di un medesimo soggetto, ché ogni cosa è una e molteplice, come il corpo dell'uomo, che è uno, pur essendo costituito di braccia e gambe, di testa e tronco, della parre destra e della sinistra, e così via dicendo. Meraviglioso sarebbe, invece, poter dimostrare che l'uno in quanto uno è molti, e i molti in quanto tali sono uno, che il medesimo nel suo esser medesimo è altro, e l'altro, nella sua alterità, medesimo (cfr. Parmentde, 129a-e). Di questa meraviglia Platone dà un saggio, e, non a caso, proprio là dove, nel So/ista, intende confutare definitivamente l'argomento eristico, secondo il quale se il non-essere non è, allora non è il falso, l'errore, che è il non-essere del vero, così come non sono il brutto, il male, e in generale il negativo. L'argomentazione platonica, che qui riassumiamo nel suo nocciolo essenziale, dice questo: l'identico, in quanto tale, perché sia identico è necessario si distingua dal diverso, e cioè che sia diverso dal diverso; e lo stesso dicasi del diverso, che è tale, solo se identico a sé. La polisemia del linguaggio è qui portata all'estremo della contraddizione. Ogni termine partecipa del suo opposto, lo ha in sé, lo è (cfr. So/ista, 254b260b). Come sottrarre allora il lago alla sua essenziale contraddittorietà? Come restituire il linguaggio alla sua funzione comunicativa, intersoggettiva? Proseguendo per la medesima via che porta il linguaggio dalla polisemia del parlare mitico alla contraddizione del discorso logico, e cioè esaminando in qual modo si è giunti a mostrare la diversità dell'identico e l'identità del diverso. È evidente: ponendo l'uno in relazione all'altro, considerando, cioè, l'identico riguardo al diverso, e viceversa. Ché, se invece si considera l'identico riguardo alfessere, o alla quiete, o al movimento, certo esso apparirà partecipare dell'essere o della quiete, e forse non del movimento, ma del diverso neppure si farà cenno. Le parole, come le cose, sono quel che sono ciascuna in relazione alle altre. Non ha senso dire che l'acqua disseta se non in riferimento a un bisogno animale - non certo rispetto al fuoco. 28
Lmguaggio!J..ogJCa
Anche se nel parlare figurato diciamo che l'acqua spegne la sete. Ma il parlare figurato è tale, solo perché noi distinguiamo i vari "riguardo a" in base a cui diciamo le cose, le definiamo. Il "riguardo a" restituisce così al linguaggio la sua funzione comunicativa, senza sonrargli la polisemia che lo caratterizza. Dobbiamo però chiederci se la polisemia del linguaggio rifletta semplicemente la relatività delle cose - le cose, s'è detto, sono quelle che sono solo perché in relazione tra di loro-, o s'aggiunga a essa come un elemento ulteriore di complicazione. Riportiamo qui un'osservazione di Aristotele: «i nomi sono in numero finito, mentre le cose sono infinite. È quindi inevitabile che un nome unico abbia più sensi» (Elenchi so/istici, l, 165a 11). La polisemia del linguaggio è più antica, più originaria della relazione dei nomi tra loro. Ma come può un nome indicare più cose? E prim'ancora come può un nome indicare una cosa? E che significa "indicare"?
2. Il nome, la cosa Il nome "rosa" non ha colore, né odore, eppure indica entrambi, odore e colore, e altro ancora; né la parola "zucchero" ha il sapore di ciò che indica. E non si respinga la domanda, osservando che neppure il dito che indica la luna è lunare. Perché, a parte il fatto, che pur deve significare qualcosa, che un'antica tradizione, iniziata forse da Platone, certo continuata da Platino, e che giunge sino a Goethe, si è chiesta: se «l'occhio non fosse solare, potrebbe mai vedere il sole?»-; perché, a parte la tradizione, è pur vero che una qualche "partecipazione" dell'indice alla cosa indicata si deve ammettere. Altrimenti, perché indicare la luna col dito e non piuttosto con ... un'equazione di 2o grado? Evidentemente anche nel caso del dito e della luna una qualche partecipazione v'è. Non diretta, certo, ma mediata. Entrambi partecipano di un terzo, Io spazio, e per esso comunicano tra loro. Non indicheremmo mai col dito un'idea, un sentimento, un moto dell'animo. Non la radice quadrata di 144, ma i segni sulla lavagna con i quali la si scrive. E tuttavia ... E tuuavia il nome rosa non ha colore, né odore ... Come la meniamo? 29
Fl1oso{1ateoretica
2.1 L'unità originaria: vece e gesto Questo il problema che Platone affronta nel Crati/o. L'interlocntore di Socrate, Ermogene, ha la risposta pronta: i nomi indicano le cose- e non solo le materiali, ma tutte, e quindi l'ente in generale, ciò che è, l'essente- per convenzione. Non muta nulla se noi ci mettiamo d'accordo di chiamare uomo il cavallo e cavallo l'uomo. Tutco sta nell'attenersi all'uso convenuto. Socrate non ne è convinto, e chiede se si dà distinzione tra discorso vero e discorso falso. Ricevutane risposta affermativa, domanda in che i due si distinguano. Propone lui stesso la risposta: «Vero non è forse il discorso che dice l'essente hos éstin, c falso quello che dice l'essente hos ouk éstin?» (Crati/o, 385b) Le espressioni hos éstin, hos ouk éstin possono essere tradotte sia con "come è" e "come non è", che con "in quanto è" e "in quanto non è". Nel primo caso il discorso può essere tanto vero quanto falso- ben potendosi dire una cosa com'essa non è: per esempio, che il tavolo sui cui scrivo è quadrato, laddove è rettangolare; nel secondo caso non v'è spazio per il discorso falso, vale a dire non posso parlare dell'essente che non è - beninteso non dell'essente che non esiste, dell'essente che non rientra nel nostro mondo reale o anche solo immaginario, ché i nostri discorsi sono intessuti di tali affermazioni, ma dell'essente che non è, del non-essente. Perché se lo nomino, in qualche modo esso è- è almeno nel mio discorso. Dell'essente come non è, invece, parliamo continuamente. Ma qual è la condizione di possibilità di questo parlare? La distinzione della parola dalla cosa, del nome che dice la cosa dalla cosa stessa. Ché, se parola e cosa, nome e cosa fossero uno e medesimo, allora non si potrebbe dire la cosa come non è. Orbene, tutta la prima parte del Crattlo, e cioè il dialogo tra Socrate ed Ermogene ha questo fine: mostrare la non-separatezza del nome dalla cosa nominata. Invero il nome non dice la cosa, l'ente, ma l'ousfa della cosa, l'essenza dell'essente: ciò ch'esso propriamente è, e non l'apparenza, il modo in cui esso può apparire o non apparire a noi. Il nome dice l'ousfa dell'ente - e ciò proprio in quanto esso, il nome, è phonè, suono. Questo non significa che Platone intenda ridurre l'essenza delJO
Lmguaggiollhgica
le cose a musica. Nel Crati/o Socrate afferma che la phonè del nome non ha nulla a che vedere né con l'onomatopcia né con il suono musicale. In che modo allora la phonè del nome dà non la cosa, ma l'essenza della cosa? Per rispondere a questa domanda Platone ricorre a un esempio, che è anche più che un esempio: è una traccia del vero itinerario seguito da Platone nel Crati/o. Un itinerario non sempre visibile al primo sguardo. Chiede dunque Socrate al buon Ermogene: se non avessimo né voce, né lingua, in che modo potremmo l'un l'altro mostrarci (deloim) le cose (pràgmata)? Come i muti, cercheremmo di significarle (semainein) con le mani, la testa c le altre membra del corpo. Mostreremmo quindi l'andar su di ciò che è leggero levando in alto la mano, e l'andar giù di ciò che è pesante abbassandola verso terra. Parimenti ci comporteremmo dovendo mostrare un animale in corsa. Perché è naturale che per mostrare una cosa la si imiti col corpo, cercando di raffigurarla al meglio con i nostri gesti (schémata [Crati/o, 422d-423a]l. L'esempio va leno attentamente: l'imitazione di cui qui si parla non è affatto tra la mano e il corpo, leggero o pesante, bensì tra il movimemo della mano e quello del corpo. È il movimemo che imita il movimento. Si imita la cosa non altrimenti che riproducendola. E si badi: la cosa è qui non il corpo, ma il gesto. Non si imita l'animale, ma l'acimale in corsa, owero: il correre dell'animale, la sua azione. Non è certo un caso che Platone nomini la "cosa": pràgma, e non: on. To on è l'ente, ciò che è, la "cosa" in generale, ogni e qualsiasi cosa, senza distinzione. To pràgma, invece, è la cosa in quanto agita. Vale a dire: per comprendere il senso dell'" imitazione" di cui ora si tratta, dobbiamo porci dal puma di vista dell'originaria co-appartenenza di mano e arnese, di mano e manufatto- più in generale: di uomo e mondo; o, per far uso di termini più legati alla tradizione del linguaggio filosofico, di ''soggetto" e "oggetto". Pràgma è la cosa vissuta, esperita: veramente essente: l'ousia. Non !"'oggetto" innanzi a noi, ma l'" oggetto" ch'è nostro, che fa parte di noi stessi, che è noi stessi, in quanto noi siamo il nostro mondo. Ed è questo !'originario "oggetto" del nome, della voce, della phonè: non la cosa-oggetto, la cosa davanti a noi, altra da noi, bensì to pràgma: il gesto. Che originariamente non è distinto dalla voce, ma fa tutt'uno con 3!
Fdorofia teoretica
essa. I.:originaria phonè è il grido del guerriero che accompagna il lancio della pietra o del giavellotto. Grido, udendo il quale è possibile figurarsi il gesto - il lancio - pur quando non lo si vede. Grido che quindi dà figura, schema, alla cosa-ges[Q, e ne serba il ricordo. All'origine della separazione di nome e cosa v'è la loro unità: l'unità di voce e gesto. I.:"imitazione" è possibile per questa unità originaria, che l'esperienza stessa, direttamente interrogata, mostra. Ed è per questa unità che il nome rosa, che non ha colore, né odore, può imitare- e cioè: indicare, mostrare -l'oggetto che ha colore e odore. Chiaramente un lungo cammino è stato necessario per giunge· re dal grido originario, dalla voce-gesto, phonè kai schéma, alla parola "rosa"- e alle altre a lei consimili. Gli inizi di questo lungo cammino nessuno forse più del filosofo napoletano Giam· battista Vico, lettore assiduo del Crati/o, ha meglio compreso, specie in quelle pagine della Scienza nuova, ove parla della lingua originaria, delle «voci monosillabe>) e dei «geroglifici», «co' quali si truovano aver parlato tutte le nazioni nella loro prima barbarie)). 2
2.2 La deriva della separazione Se ora passiamo alla seconda parte del dialogo, alla discussione di Socrate con Cratilo, la scena muta parecchio. Dopo aver dimostrato a Ermogene che nome e cosa son tutt'uno, che il nome dice l'ousia della cosa, ciò che la cosa propriamente è, to pràgma, Socratc respinge la tesi di Cratilo, che purè identica alla sua. O sembra soltanto identica alla sua? Un fano è certo: la definizione di Socrate - «giustezza (orth6· tes) del nome è quella che mostra qual è la cosa (pràgma)» (428e) - è pienamente condivisa da Cratilo. Di più, Cratilo sostiene proprio l'inseparabilità di nome e cosa: «Infatti, Socrate, com'è possibile che uno che dice quello che dice, non dica ciò che è?»
2 Cfr. G. Vico, Prinapi di Scienm nuova, degnità LVII·LX, in Id., Opere /tlosofiche, a c. di N. Badaloni e P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1971, p. 446.
J2
(429d). Il passo non può non richiamare alla memoria quello iniziale sopra citato e commentato: «Vero non è forse il discorso che dice l'essente hos éstin, e falso quello che dice l'essente hos ouk éstin?» (385b). Chiaramente nella prospettiva di Cratilo "hos éstin" dice: "in quanto è", e "hos ouk éstin": "in quanto non è". L'essente in quanto non è -è l'impossibile: ciò che non si può pensare-dire. Quindi il falso, l'errore sono impossibili. Conseguentemente non si danno nomi falsi. Il cosiddetto nome falso non è nome: voce significante, voce che mostra, che imita la cosa; è soltanto rumore. Socrate non è d'accordo. Perché? Non ha forse proprio lui dimostrato l'originaria unità di voce e gesto, phonè e pràgma? Certo, ma altro è l'originaria co-appartenenza di voce e gesto, altro la significatività del nome poi ch'è separato dalla cosa. Se è vero che il nome "rosa", che non ha colore e odore, può indicare colore e odore della cosa "rosa" solo in quanto la voce conserva memoria del gesto originario (del pràgma che è phonè kai schéma, suono e figura: grido e lancio, nell'esempio del guerriero fatto sopra)- non è men vero che il nome e la cosa si sono disgiunti, e che ora altro è la cosa, altro il nome. Cratilo non opera quella distinzione senza di cui il dialogo platonico che prende nome da lui riesce incomprensibile nella sua interezza. Quella distinzione tra la lingua dei «mutoli>>,la lingua dei «geroglifici)) e delle «voci monosillabe)), e la lingua «volgare», che segna due età del mondo -come Vico, acuto lettore dell'opera platonica, comprese e descrisse. Ora, dunque, nel tempo storico della filosofia - che è, come si ricordava nell'Intoduzione, un tempo non iniziale, ché il sapere dei phi!o-sophoi rinvia a un sapere ben più antico- nome e cosa san due e non più uno. Perciò anche possiamo valutare la giustezza (orth6tes) dei nomi in rapporto alle cose. Ma se le cose sono divenute altre dai nomi, e se si deve giudicare dell'esattezza (orth6tes) di questi in rapporto a quelle, allora v'ha da essere un'esperienza delle cose ch'è fuor dei nomi e prima dei nomi (438d-439b). Che tipo di esperienza? E ancora: in tanto sarà possibile misurare l'esattezza dei nomi, in quanto le cose cui essi si riferiscono sono stabili. Ché se invece mutano e ci sfuggono di mano, come potremmo mai misurare i nomi sulle cose (439c-440e)? Jl
Ft!oso/iateoretica
Prima di lasciare il Crati/o è opportuno, se non necessario, riprendere un passaggio su cui già abbiamo richiamato l'anenzione nelle pagine imroduuive. Quel passaggio in cui Platone si domanda se i sapienti antichi, coloro che primi misero i nomi alle cose, non caddero nel medesimo errore dei suoi contemporanei, l'errore di confondere il loro agitarsi in cerca delle cose con il movimento di queste. Perché ricordiamo nuovamente questo passaggio? Forse per rilevare che Platone sembra rimangiarsi qui la distinzione, fondamemale per la sua analisi sui nomi, tra la lingua delle origini, nella quale la voce era il gesto medesimo, to pràgma, e la lingua del suo tempo, del tempo della filosofia, nel quale i nomi s'erano già da un pezzo separati dalle cose? No, non per questo, bensì per gettare un ulteriore sguardo, anche se molto rapidameme, nell'abisso dei nomi. Se gli antichi sapienti, e i "moderni" a Platone contemporanei, non si fossero sbagliati, non avessero confuso il loro movimento con quello delle cose, ma se le cose stesse si muovessero, e con le cose i nomi, i nomi originari, le voci-gesto, phonè kai schéma, in qual modo allora nell'instabilità delle cose e dei nomi, delle cose-nomi, potremmo orientarci nel mondo? Cade qui opportuna la citazione di un breve scritto di Freud, che può illulllinarci nel cammino futuro. In esso l'autore espone i risultati di una ricerca del glouologo Karl Abel sul Significato opposto delle parole primordiali. Dopo aver citato alcuni esempi, tratti dall'antica lingua egiziana, di parole composte di termini contraddittori (forte/debole, legare/dividere, dentro/fuori) e impiegate a indicare non un terzo concetto, bensì l'uno dei due presenti nella composizione, Freud rileva la presenza negli Urworte, nelle parole originarie, dell'unità degli opposti dalla cui separazione sono poi nate le lingue storiche, e che in queste medesime permangono come dei residui, o relitti, di quell'amica, originaria unità, e cita per esempio la parola inglese "without" (senza) che ha in sé il "con" (with) e il suo opposto, il "fuori". 1 Perché questo riferimento a Freud? Perché ci dice che la coiml Cfr. S. Freud, Significato opposto delle parole primord1oli, in Opere d1 Sigmund Freud, ed. it. diretta da C.L. Musatti, vol. VI, Boringhieri, Torino 1974, pp.l8.5-191.
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Linguau,wi!Agica
plicanza dei contrari non deriva dalla relazione tra più nomi, ma la si ritrova già nel singolo nome. È prima della relazione stessa. Non è questa una spia rivelatrice dell'originaria contraddittorietà delle cose? Può- deve -la logica togliere questa contraddittorietà? E se riesce a tanto, non ci allontana dalle cose stesse?
3. Il propriamente essente: I'ousia Dell'originaria contraddittorietà delle cose, delle cose in quanto pràgmata, non si fa esperienza solo nei nomi. Invero le "cose" ci sono date immediatamente nell'esperienza sensibile. Nel toccare, nell'odorare, nel gustare ... E questa esperienza parla proprio il linguaggio della contraddizione: ché il dolce si converte in amaro, il profumo diviene maleodorante, e lento il veloce - basta che muti il tempo, o il luogo, o l'attore. Si dice: l'oggetto dei sensi è relativo al soggetto che lo percepisce; ma di /atto nell'esperienza sensibile non v'è qualcosa come un soggetto senziente e un oggetto sentito; nell'esperienza sensibile v'è puramente e semplicemente la sensazione, H mutevole dato della sensazione: quest'unicum, che è l'odore, il sapore, il colore, di cui in seguito distinguiamo il lato soggettivo e quello oggettivo. Ma questa distinzione è un'operazione del pensiero, che interviene più tardi e investe con categorie sue l'esperienza dei sensi. In questa non v'è un "io stabile e permanente" che stia di faccia a un "oggetto" parimenti stabile e permanente. L'esperienza sensibile, è un flusso di determinazioni cangianti, ove neppure è possibile distinguere il soggettivo dall'oggettivo. Che cosa nella mutevolezza di un odore, o di un sapore, o di un çolore, è soggettivo, e che cosa è oggettivo? Se l'occhio che vede è da assegnare al "soggettivo", qutd della sua "posizione" c "collocazione''? E sono separabili !"'occhio" e la sua "posizione"? E la trasparenza dell'aria, e la luce, che sono i mezzi attraverso cui l'occhio può incontrare i colori, i colori possono colpire l'occhio, a quale sfera appartengono a quella "oggettiva" o alla "soggettiva"? E se con soggettivo si indica chi agisce e con oggettivo chi patisce, sono i colori che per la luce colpiscono l'occhio, o è l'occhio che va incontro ai colori? J5
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3 .l Il linguaggio della contraddizione Come cogliere allora questa "nlutevolezza"? Come entrare in rapporto con essa, senza alterarla? senza trasformarla in altro da lei stessa? Qui soccorre il linguaggio. Sì, di nuovo il linguaggio, che ancor qui manifesta la sua origine co-attuale alle cose, all'esperienza, pur quando da questa si allontana. Ché, pur quando indichiamo il mutevole e contraddittorio, lo indichiamo come tale che è: come essente. Il medesimo vale per il non-mutevole e non-contraddittorio. Essente è quindi il termine che copre tutto ciò che in qualche modo è. Esso è certamente frutto di un'astrazione del pensiero, che, astraendo dalle diverse modalità in cui il fenomeno si presenta, mira a cogliere soltanto il/atto d'essere comune a tutti ifenomeni, naturali o prodotti dalla mano dell'uomo, reali o solo immaginati, fantasticati. Essente è il cavallo come l'ippogrifo, la dura realtà dei contrasti politici, economici, sociali, come la lam· pada di Aladino. Essente è finanche il "non-essere", se, come osserva Aristotele, diciamo di esso che è non-essere. Essente dunque è persino il nullo. E non si opponga che così dicendo si confonde l'essere dichiarativo della "copula" con l'essere esistentivo, in quanto affermare che "il non-essere è non-essere" non significa affatto attribuire l'essere al non-essere, anzi l'esatto contrario: significa affermare proprio che il non-essere non-è. Non si opponga questo, perché invero anche il più innocente essere dichiarativo è esistentivo: infatti per dire che il non-essere è non-essere, è pur necessario che ciò che si nomina "non-essere" abbia una qualche determinazione, foss'anche quella dell'indeterminatezza, e cioè che in qualche modo sia. Epperò, se si prescinde dal "modo", anche del non-essere bisogna dire che è. Essente è più ampio di essere, se anche l'opposto dell'essere è essente. Di questa maggiore ampiezza di essente parla lo stesso Aristotele, là dove criticando Protagora e Anassagora dice: Sembra dunque ch'essi parlino dell'indeterminato; e, mentre essi credono di parlare dell'essere in realtà parlano del non-essere, perché l'indeterminato è essere in potenza e non in atto. E in verità essi sono costretti ad ammettere che di ogni cosa è pombile affermare o negare qualsiasi cosa. (Met., IV, 1007b 26-30; corsivo mio) l6
Avremo modo di tornare sulla distinzione tra essere-in-potenza e essere-in-ano, quel che ora più importa rilevare è che l'aiuto che ci si attendeva dal linguaggio non pare possibile, se anche il non· essere è essere, quantunque in potenza. Quindi quel significato minimo di essere, il semplicemente essente, a partire dal quale credevamo di poter aver rapporto con le mutevoli "cose" dell'e· sperienza sensibile, è così ampio da non consentire neppure di distinguere essere da non-essere, e anzi in base a esso «di ogni cosa è possibile affermare o negare ogni cosa».
3.2 Per dire le cose Ma il cammino percorso non è stato compiuto invano, perché, se l'essente in generale non si distingue da altro - come già Platone aveva dimostrato nel So/ista, parlando della partecipazione dell'essere all'identico e al diverso, alla quiete e al movimento-, tuttavia esso, come il passo citato di Aristotele chiarissimamente mostra, si distingue al suo interno. Il discorso sull'essente in generale, sul semplicemente essente (ap!Os on), mostra la necessità di parlare dei "modi dell'essere", ovvero: dei vari sigmficati ge· nerali dell'essente. Aristotele ne distingue dieci: la sostanza, il quanto, il quale, il rapporto a qualcosa, il dove, il quando, il giacere, l'avere, l'agire e il patire. Non abbiamo menzionato la po· tenza e l'atto perché questi non sono partizioni interne all'essere, ma le due modalità fondamentali in cui possono presentarsi i "significati" dell'essente. Il "rapporto a qualcosa" può essere tanto potenziale quanto attuale, e così il dove e il quando, il quanto e il quale, l'agire e il patire, il giacere e l'avere. Non abbiamo citato la "sostanza" -e a ragione. Ché nella sostanza le due modalità fondamentali dell'essente in generale si dividono. Tentiamo di capirne le ragioni. Nel presentare i "significati" generali dell'essente, Aristotele distingue tra quelli che si dicono di qualcosa, che sono i nove or ora menzionati, da quello che, unico, dice invece direttamente qualcosa. Il dove e il quando si dicono di un evento: la battaglia di Salamina, per esempio; l'agire e il patire di un uomo: di Temistocle; e così di seguito con le altre "categorie". Ma "Socrate" o "Temisto37
de", la "battaglia di Salamina" et similia dicono l'essente cometale. La prima categoria, la sostanza, non è propriamente "categoria", se prendiamo il termine in senso letterale: perché non dice (agoreuo) di, o intorno a (kata) qualcosa, dice la cosa stessa, la significa. La distinzione tra semafnein ben- dire, significare uno- e semafnein kath'hen6s significare, dire intorno a uno- è per Aristotele fondamentale. Consente, infatti, di evitare le aporie del linguaggio create ad arte da Sofisti e Dialettici per mettere in difficoltà i loro interlocutori. Un esempio: è ben possibile che Socrate sia "musico"; ora, se dire qualcosa intorno a qualcosa fosse il medesimo che dire qualcosa, allora "musico" e "Socrate" sarebbero il medesimo, e quindi anche Socrate e Callia, se questi per avventura fosse anch'egli musico. Non solo: anche "musica" e "bianco" sarebbero il medesimo, potendo predicarsi entrambi di Socrate, e pertanto, essendo "musica" "non-bianco" c "bianco" "non-musico", avremmo l'identità degli opposti- di essere e non-essere. Avremmo l'indeterminatezza che caratterizza la potenza; l'indeterminatezza dell'essente in generale, per uscire dalla quale sono stati definiti i "significati" generali dell'essere, le modalità fondamentali del suo darsi. Con la sostanza, quindi, potenza e atto si separano, in quanto non si dà sostanza se non in atto. Quesw argomento è però solo esigenziale. E cioè: è vero che senza una sostanza in atto non si potrebbe predicare nulla di nulla, tutto essendo eguale -l'andare a Megara come il pensiero di andarci, o anche il semplice non-andare e non pensare di andarci -; ma ... non potrebbe la cosa esser proprio così? Certo, bene a ragione Aristotele afferma che è arrostfa dianofas (Phys., VIII, 253a 33-34), infermità d'intelletto, non saper spiegare ciò che l'esperienza dei sensi ci attesta- che cioè andare a Megara è diverso dal non andarci -. ma appunto compito del pensiero è "spiegare" questa esperienza e non semplicemente esibirla. Non possiamo en philosophe dimostrare il moto semplicemente mettendoci a camminare, dobbiamo addurre argomenti. Ora quale l'argomentazione di Aristotele a favore dell'attualità della sostanza? Questo, che è fondamentale: senza una causa in atto non potrebbe esserci il movimento, il passaggio cioè delle cose dalla potenza all'atto, dalla possibilità alla realtà (Met., XII, 107lb 28-29). L'atto quindi è prima della potenza. Torneremo più avanti su l&
l..inguaggio/IAgiCfl
questo tema; per ora ci limitiamo a rilevare che al primato dell'atto si è giunti riflettendo sul linguaggio, sulla possibilità di dire le cose. Per dirle è necessario presupporre la loro determinatezza. Così sembra, almeno.
3.3 Il principio di non contraddizione Vediamo ora che ne consegue. Anzitutto: qual è il principio che regge la "sostanza"? Quello di non contraddizione - risponde Aristotele -, che così lo formula: È impossibile che lo stesso nel medesimo tempo e sotto lo stesso riguardo appartenga e non appartenga allo stesso (e si aggiungano pure le altre determinazioni che si possono aggiungere per evitare difficoltà di indole dialettica). (Met., IV, IOO'b 19-22)
È questo il principio supremo, il più saldo, il più noto, quello su cui non è possibile cadere in errore. Più noto, non perché la sua formulazione sia da tutti conosciuta (della sua stessa formulazione Aristotele non pare del tuno soddisfatto, se awerte il bisogno di precisare che si possono fare delle aggiunte), ma perché il principio è da tutti applicato. Anche chi a parole lo nega, lo applica di fatto, quando, parlando, esprime "qualcosa che abbia si· gnificato per lui e per gli altri": quel significato e non altro - e non l'opposto. Chiaramente, tale principio non può essere dimostrato, la sua dimostrazione presupponendo, come ogni altra di· mostrazione, il suo uso. ll che non implica affatto che esso venga assunto senza ragione; ben al contrario: la prova della sua validità è nelle cose stesse, nella rilevata impossibilità di non far uso del principio nel parlare. Ma in che senso è primo questo principio? Non presuppone esso la determinatezza dell'essente? Chiaramente non v'è prima la determinatezza e poi il principio di non contraddizione (d'ora innanzi: pnc), dacché quella non è pensabile senza questo: il de· terminato è tale in quanto nega il suo opposto. Tuttavia in tanto è possibile affermare il primato del pnc, in quanto è presupposta l'originarietà della determinatezza dell'essente, che per Aristotele 39
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è evidente: phaneròn (d. il passo cit. di M et., XII, 1071b 28-29 e il successivo 1072a 7-9, su cui v. più sotto). Ma: l) la dimostrazione dell'originarietà della determinatezza dell'essente non si basa sul pnc, e 2) la pensabilità della potenza- dell'indeterminatoesclude l'applicabilità del pnc a tutti i "fenomeni". Torneremo su questi problemi in seguito. Per ora è sufficiente aver richiamato l'attenzione su di essi.
3.4 B, A > C, parte di B > C. La conclusione può essere solo particolare, come questo esempio chiaramente mostra: se l'uomo è animale, se l'uomo è ragionevole, allora alcuni animali sono ragio· nevoli. Nella presentazione enormemente semplificata, che abbiamo da· to della teoria aristotelica del sillogismo, non abbiamo detto nep· pure delle differenze tra i vari tipi di sillogismo secondo che lepre· messe sono necessarie o solo ipotetiche, ricavate pur esse da prece· denti sillogismi, o solo per induzione; ma quello che in questo con· testo interessa non è- ribadiamo -l'analisi della varia tipologia del sillogismo e il suo sviluppo storico; è bensì la determinazione della natura del sillogismo, e cioè se esso sia solo uno strumento, una tecnica, o un metodo del pensiero per giungere alla verità (necessa· ria o solo probabile), o non appartenga invece alla struttura stessa della realtà, alla costituzione essenziale dell'essente.
6.2 Verità del giudizio Non si tratta soltanto di affermare la "corrispondenza" del sillogismo alla costituzione metafisica della realtà, e cioè che in tanto possiamo dimostrare sillogisticamente che l'uomo è animale ragia· nevole in quanto nella "sostanza" uomo è compresa con !'"anima· lità" la ''ragionevolezza". La questione concerne direttamente la struttura del giudizio. E cioè, se le connessioni che si evidenziano nel sillogismo appartengono all'essente, allora, essendo tali con· nessioni tutte contemporanee (Socrate non è prima animale ragionevole, e poi mortale), il sillogismo non può essere una figura "po· steriore" al giudizio, se non nell'astrazione di un pensare che non si coglie nella sua "corrispondenza" all'essere dell'essente; deve bensì essere il giudizio stesso, che nella sua costituzione essenziale 48
Linguaggw/Lr:Jgic(1
è formato di molti logoi predicativi, è, cioè, sillogistico. Affermare non: "Socrate è uomo", ma più semplicemente: "questi è Socrate" ha significato se e in quanto in quel giudizio è implicito l'essere "animale ragionevole", e l'essere "bipede", c l'essere "mortale", e tutti gli altri infiniti predicati che lo distinguono da ciò che non è. Ove l'esplicitazione va intesa come quel lavoro ulteriore del pensiero che trova la sua verità solo nel togliere se stesso, la sua ulteriorità, owero: nel togliere sé come processo, divenire, wtluppo, per conoscere l'essente qua talis. No, qui non possiamo ripetere con Hegei che il cammino del pensiero è il cammino della "cosa stessa". Certamente ripetiamo con H egel che la verità del giudizio è il sillogismo, ma nel senso- anche questo profondamente hegeliano- che ciò che il pensiero "pone" non è altro che il suo "presupposto". Ma possiamo esser anche più brevi e riprendere l'inizio del paragrafo 19 della Analitica dei concetti della Critica della ragion pura, che merita d'esser letto per esteso: Io non ho mai potuto appagarmi della definizione che i logici danno del giudizio in generale; esso è, secondo loro, la rappresentazione di un rapporto tra due concetti. Ora, senza stare qui a contrastare con essi intorno a quel che c'è di difettoso in questa definizione (che in ogni caso non si applico se non ai giudizi categoriCI; ma non agli ipotetici e disgiuntivi; in quanto questi ultimi non contengono una relazione di concetti; ma addirittura di giudizi) ... 8 Ci fermiamo qui: anche se Kant mantiene la distinzione tra giudizio e sillogismo - ma con l'assegnarli a due sfere diverse del pensare, l'uno all'intelletto (Verstand) l'altro alla ragione (Vernun/t), ne muta profondamente carattere e senso-: appare chiaro da questa citazione che il giudizio stesso è sillogistico, in quanto connessione di più logoi predicativi. Riprenderemo il discorso su Kant più oltre; ora dobbiamo tornare a Platino, per capire qualcosa di più in merito al carattere sillogistico del giudizio quale costituzione antologica dell'essente.
8 I. Kant, Critica della ragion pura (d'ora innanzi; Crp), B 140.141, trad. ir. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riveduta da V. Mathieu, Laterza, Bari 19659, p. 143 [corsivo mio]. 49
Filoro/iuteoretica
6.3 La pianura della verità Pollà epoiese tr:n mfan (En., VI, 7, 15): fece dell'uno molti. Così Platino, parlando di Nous, dell'intelletto, in rapporto a Hen, a Uno. I molti di Nous non sono "eventi" o "corpi", sono "idee". Il cosmo di Nous è l'universo intelligibile che Platone denominò "pianura della verità" (to pedfon tis alethèias), la cui caratteristica, secondo Platino, sta in questo, che da essa mai Intelletto non esce, perché lo spazio del movimento coincide con lo stesso movimento. Che significa ciò? Significa che Intelletto non conosce discorsivamente, passando cioè da un"'idea" all'altra, ma Tutto possiede insieme, non però nella forma di un'intuizione immediata, immota - e cioè senza vita. Intelletto è in senso eminente Vita, perché origine della Vita, o, che è lo stesso, della molteplice varietà dell'uni-verso. Intelletto conosce il Tutto nella universale particolarità delle sue determinazioni essenziali, ave l'una mai non è senza l'altra. Come nella koinonia tOn gen6n del So/ista platonico, ogni genere si rapporta all'altro come al suo termine necessario: l'identico al diverso, la quiete al movimento, e tutti all'essere che non è se non identico e diverso, quiete e movimento. Spazio intelligibile e movimento intelligibile sono il medesimo in quanto l'insieme non si costruisce parte dopo parte, ma è compresente alle parti. L'identità in Nous di spazio e movimento dice il medesimo di quel che dice in Hegel "mediazione immediata", e cioè: automediazione, mediazione di sé con sé in sé.
6.4 Platino: l'universo intelligibile c il "mondo reale" Vediamo ora di dire in modo più concreto e percepibile che cosa s'ha da intendere con tutto ciò. Cominciamo col leggere un passo di Platino: Noi consideriamo l'uomo o il suo occhio, per esempio, come la statua e l'occhio della statua; ma lassù [se.: nel cosmo noetico, nella "pianura della verità"] uomo è uomo e il "perché" di uomo, se, in quanto intelligibile, dev'essere uomo, o anche occhio, e il suo perché, e non esisterebbero affatto, se non fossero dei "perché"; quaggiù in50
Linguaggio!Wgica
vece come ciascuna delle parti è separata dall'altra, così ne è separato anche il "perché". Lassù in uno sono tutte le cose, talché la cosa e il perché della cosa sono il medesimo. Spesso, però, anche quaggiù la cosa è il medesimo che il suo "perché", come nell'essenza dell'eclisse. [. .. ) L'Intelletto possiede il suo "perché", e così anche ciascun essen· te che è in esso; ma questi non hanno bisogno del "perché" della loro esistenza, poiché questa è ciascuno di essi, ed essi sono sorti insieme con Ici e possiedono in sé la causa della loro esistenza. Poiché non sorgono a caso, a essi non manca il "perché", ma possedendo tutto posseggono anche il bello [se.: la perfezione d'essere] insieme alla loro causa. Pertanto concedono anche alle cose che partecipano di Intelletto di avere il "perché" [della loro esistenza]. (En., VI, 7, 2, 4· 12 e 23-30)
Lassù, ekèi, quaggiù, entàutha: metafore per segnare la distanza tra l'intelligibile e il sensibile; la differenza tra il piano ideale, la "pianura della verità", e il mondo dei corpi, tra l'orizzonte a priori d'o· gni possibile esperienza e l'a posteriori, l'empirico, il fattuale. L'o· rizzante "è" ed è il suo "perché": "ed è" dice che il suo essere è il "perché" dell'essere. Pertanto non vi sono due distinti esseri, quello dell'orizzonte e l'altro dell'empirico o fattuale. I.: essere è uno so· lo: quello empirico e fattuale; al "perché", a Nous, all'orizzonte a priori pertiene altra determinazione che non l'essere. Perciene la determinazione del "possibile": anzitutto del possibzle come ciò che rende possibile; del possibile in quanto possibilità pombilitante. È per questa possibilità possibilitante che il mondo dei fatti e delle cose, degli enti, il mondo che abitiamo con i nostri sensi e le nostre intelligenze, i nostri corpi e le nostre anime, propriamente è. f. un uni-verso, un ordine, un cosmo. Ed è questo universo l'oggetto, il tema della scienza moderna, così come dell'antica epistème nata in Grecia con la phtlo-sophia, con Platone, che rappresenta non solo l'orizzonte del nostro passato, sì anche del nostro più proprio presente.
7. Alle origini della scienza moderna «Quel mirare per quegli occhiali m'imbalordiscon la testa: basta non ne voglio saper altro)). Questa, a dena di un contemporaneo, 51
Ft1osoftateoretica
la risposta del filosofo aristotelico Cesare Cremonini al suo collega dell'Università di Padova, e amico, Galilei, che l'invitava a metter l'occhio al suo cannocchiale perché vedesse anche lui le meravi· gliose scoperte presentate e ragionate nel Nuncius Sidereus. L'epi· sodio è ricordato, spesso se non sempre, per mostrare la diversa apertura all'esperienza del "nuovo" filosofo rispetto al "vecchio" aristotelico. Ma anche chi, come Geymonat, ha con gran convin· zione sostenuto la centralità dell'esperimento nel metodo galileiano- rimarcando tra l'altro che la fiducia di Galilei nel suo telesco· pio non ebbe mai un fondamemo matematico, basandosi sempre soltanto sull'osservazione: nell610 scriveva a Manco Carosio d'a· ver sperimentato le sue !emi «centomila volte in centomila stelle e oggetti diversi>> -, non può non ricordare che quando Galilei si recò a Bologna dal Magini, che direnameme e indirettamente l'o· steggiava, per fargli controllare de visu la veridicità delle sue scoperte astronomiche, il risultato fu un fallimento. Da una lettera a Keplero di Martino Horky, amico del Magini e testimone dell'episodio, sappiamo che nei giorni 24 e 25 aprile 1610 venne più volte, nelle ore diurne e in quelle nouurne, speri· mentato il cannocchiale «tam in inferioribus, quam in superiori· bus>>. La lettera- citata da Geymonat- così prosegue: «In inferioribus facit mirabilia; in superioribus fallir quia aliae stellae fixae duplicatae videntur». Chiaramente le condizioni atmosferiche non erano idonee. Ma questo che a noi oggi appare cosa ovvia, in quanto il mondo di Galilei, il mondo della scienza moderna, ci è familiare, non poteva certo apparire così al Magini e all'Horky, c alla maggior parte dei loro contemporanei, compresi gli uomini di scienza. Ma la grande novità, la vera "rivoluzione" di Galilei, traspare pur dalle parole del testimone. Che in in/erioribus il telescopio facesse «mirabilia>>, fallendo invece se diretto al cielo, non creava imbarazzo alcuno all'Horky. Tun'altro, consolidava lui e i suoi amici nelle loro convinzioni più profonde: nell'"aristotelica" divisione del cosmo in due, in mondo sublunare e sovralunare. Quella divisione che Galilei metteva in forse prim'ancora d'aver visto le macchie lunari, col fano stesso di pumare il cannocchiale alle stelle. Quale conferma delle proprie convinzioni, dei propri paradigmi scientifici, nel fallimento delle osservazioni celesti dell'aprile 1610! 52
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7 .l La "buona" fisica a priori di Galilei E con ciò ribadiamo quanto è stato più volte detto, e da varie parti, e autorevolmente, e cioè che, per usare le parole di uno che di storia della scienza se ne intendeva, Alexandre Koyré, «la buona fisica si fa a priori». Pertanto non risponde a verità l'immagine della scienza antica e medievale tutta concetti e deduzioni con scarsi riferimenti all'esperienza, contrapposta alla scienza moderna fondata prevalentemente sull'esperimento. E di certo questa visione "positivistica" del sapere e del metodo scientifici è in profondo contrasto con la concezione di Galilei, che nei Dialoghi sui massimi sistemi oppone all'aristotelico Simplicio, sostenitore dell'esperienza, il suo alter ego Salviati che proclama il primato della deduzione senza di cui nessuna esperienza è possibile si istituisca. E di fatto alcune distinzioni fondamentali della fisica aristotelica paiono, e sono, molto più vicine all'esperienza dei sensi di quanto non siano le teorie galileiane. A cominciare dalla distinzione tra moto circolare, perfetto, e moto rettilineo. L'osservazione ci mostra infatti con il moto degli astri la perfezione del movimento circolare, così come nella caduta dei gravi l'irregolarità del moto rettilineo. Mentre questa medesima osservazione mai non ci mostra non solo un moto rettilineo che continui all'infinito, ma neppure un corpo su cui non si eserciti l'influsso di altri corpi, come pur è presupposto dalla formulazione (newtoniana) della galileiana legge d'inerzia. Moto rettilineo e corpo sottratto a ogni influsso sono soltanto due astrazioni mentali: due ipotesi, due /ictiones. Eppure è col moto rettilineo che Galilei intende spiegare il curvilineo. Osserva Koyré: Curioso modo di procedere del pensiero, nel quale non si tratta affatto di spiegare il dato fenomenico con la supposizione di una realtà soggiacente {così come fa l'astronomia che spiega i fenomeni, ovvero i movimenti apparenti, con una combinazione di movimenti reali), e neanche di analizzare questo dato nei suoi clementi semplici per ricostruirlo a cose fatte (metodo risolutivo e compositivo, al quale- a nostro avviso a torto- si riduce la novità del metodo galileiano), ma si 53
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tratta per essere precisi, di spiegare ciò che~ partendo da ciò che non è, da dò che non è mai. E anche partendo da ciò che non può mai essere." Ricordiamo ora l'esperimento, citato anche da Heidegger, sulla caduta dei gravi fatto da Galilei dalla torre di Pisa. Si trattava di mostrare sperimentalmente che tuni i corpi cadono con la medesima velocità e che la differenza dei tempi di caduta dipende solo dalla resistenza dell'aria. L'esperimento non andò come Galilei si anendev:a; v'erano delle differenze, per quanto piccole, nei tempi di caduta. Cionostante il "filosofo" non sconfessò la sua teoria, suscitando la dura opposizione di quanti avevano partecipato all'esperimento. Galilei fu costretto a rinunciare alla cattedra di matematica che aveva all'Università pisana e a cambiare città.
7.2 L'onnirelatività dell'ente L'episodio è una conferma di quanto sin qui s'è detto riguardo al metodo galileiano, e in generale alla scienza moderna, o meglio alla scienza tout-court: ciò che decide è la teoria non l'esperimento. E la cosa non potrebbe essere altrimenti: l'esperimento ogni esperimento - può esser condotto solo seguendo procedure appropriate. E l'appropriatezza di queste è stabilito non da altro che dalla teoria, owero dall'orizzonte categoriale prescelto. E questo è il vero "platonismo" di Galilei, il platonismo zdeale, essem:.iale e necessario, che non è solo di Galilei ma della scienza tutta, che non può procedere se non in tal modo. Quanto poi alla famosa affermazione sul libro della natura scritto in linguaggio matematico, questo è il "platonismo" storico del grande pisano, che rientra nella sua opposizione all"' aristotelismo" del suo tempo, e in particolare agli assunti fondamentali della Fisica di Aristotele. Ma- chiediamoci -perché Galilei volle spiegare col moto ret"A. Koyré, Studi ga!Jleiani, trad. it. di M. Torrini, Einaudi, Torino 1979, pp. 209-210.
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tilineo quello circolare? Perché negò la divisione del cosmo tra mondo sublunare e mondo sovralunare? Perché respinse la distinzione tra moto "naturale" e moto "violento"? Risposta: perché la sua concezione dell'essere dell'ente era radicalmente altra da quella aristotelica. Heidegger e Koyré insistono sulla diversità dei concetti di moto e spazio in Aristotele e Galilei. Nel filosofo greco il moto attiene alla natura del corpo che si muove: la pietra lanciata in alto cade, perché tende al basso, e cioè a tornare nel suo "luogo naturale", così come la fiamma tende all'alto- come l'osservazione ci attesta. Ma per Galilei non c'è più qualcosa come il "luogo naturale", v'è solo e semplicemente lo spazio geometrico, cioè un ricettacolo uniforme, indifferente, privo di qualità, nel quale trovano dimora tutti gli enti corporei, senza differenza di natura. La matematizzazione della natura, la soppressione di tutte le differenze qualitative, è la versione moderna della "pianura della verità". Chiaramente non mancano anche qui i riferimenti a Platone, al Platone del Timeo -e se ne è già fatto cenno poco sopra, ma avremo modo di vedere anche a questo proposito che vi sono connessioni più profonde di quelle visibili a occhzo nudo, o, se si vuole, a libro aperto. Ma di ciò a suo tempo. Ora preme rilevare la differenza tra il concetto aristotelico di "relatività" e quello galileiano. Per Aristotele il moto è relativo alla natura del mobile, per cui v'è il "basso" e l"' alto", il "pesante" e il "legge· ro". Tutt'altro senso prevale in Galilei, la cui fisica non conosce "qualità naturali", "essenze", né termini fissi di riferimento, come per esempio la Terra. Il movimento di un corpo si misura in rapporto agli altri corpi, è relativo a essi. E questi possono es· sere in quiete o in movimento, come per esempio il pontile da cui la nave si stacca nel salpare, o i sacchi di grano che sono nella stiva della nave da cui portiamo via quello che adesso ci abbisogna. Quiete e movimento sono termini che mutano a seconda del quadro di riferimento. Pertanto non v'è un "basso", né un "alto"; né v'è la "leggerezza", e quindi, correlativamente, neppure la "pesantezza". Di stabile non v'è che il quadro di riferimen· to, lo spazio geometrico. Col che non vogliamo dire che in Galilei la Fisica si riduca a Geometria, quindi a Matematica; vogliamo dire che la "corporeità" del corpo non è che altra deter55
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minazione propria di un sistema di riferimento non diverso concettualmente da quello geometrico, anche se con proprie caratteristiche. In breve, e volendo far uso del linguaggio di Aristotele, la Fisica di Galilei non conosce ousfai, sostanze. Tutto è sumbebek6s, ''accidente" nel senso letterale della parola: tutto quel che è, è in quanto accade. La conclusione inevitabile della Fisica galileiana è la desostanz.ializ.z.az.ione dell'ente. È a partire da questa che possiamo intendere il concetto fondamentale della scienza moderna, il concetto di mathesis universa!is, in relazione al concetto di màthema che predomina nell'eptStème greca c da cui pur discende.
8. La Metafisica antica e la moderna mathesis universalis Riflettendo sul "metodo", Cartesio si chiede come mai nella "matematica" vengono comprese, come sue "parti", non soltanto l'aritmetica e la geometria, ma anche «l'astronomia, la musica, l'ottica, la meccanica e altre parecchie». Il nome, di origine greca, dice genericamente "disciplina". Ma non ci si può certo appagare di questa spiegazione terminologica. Osserva il filosofo: A chi consideri la questione più attentamente, appare chiaro che si riferiscono alla matematica soltanto tutte quelle cose nelle quali si esamina l'ordine o la misura, e che non ha interesse se tale misura si debba ricercare nei numeri, o nelle figure, o negli astri, o nei suoni o in qualunque altro oggetto; e perciò ci deve essere una scienza generale, che spieghi tutto ciò che si può chiedere circa l'ordine e la misura non riferita ad alcuna speciale materia, ed essa, non già con un vocabolo straniero, ma con uno già antico c accettato dall'uso, ha da essere chiamata matematica universale, perché in questa si contiene tutto ciò per cui quelle altre scienze sono dette parti della matematica. 10
La mathestS universalis prende il posto che un tempo era assegnato alla meta/ùica generalù, alla scienza dell'ente in quanto eme. E ciò
10 R. Dcscartcs, Regole per la gUida dell'intelligenza, IV, trad. it. a c. di G. Galli c A. Carlini, Laterza, Bari 1954, p. 17.
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perché ora l'eme in quanto ente, l'essere dell'ente, è dato dall'ordine o misura, da ciò che è in senso eminente mathematico. E cioè: dalla relazione, dalle relazioni che gli enti hanno tra di loro. Preso in sé e per sé, l'ente non è nulla, tutto ciò che è essendolo in virtù delle sue relazioni con gli altri enti. Non c'è infatti misura c ordine se non nella relazione ad altro. Quanto si diceva poco sopra circa la riduzione della sostanza ad accidente.
8.1 Nichilismo del numero, formalismo del giudizio Heidegger, trattando della nascita della scienza moderna, mette giustamente in luce il rapporto tra il carattere a priori della scienza moderna e il concetto platonico di "matematica": il mente concipere di Galilei- il «figurarsi col pensiero un mobile lasciato completamente a se stesso>)- è lontano epigono di quella mathesis definita nel Menone (85d) come quel sapere che si prende non da altro che da se medesimi, perché in se medesimi già si trova. Questo giusto riferimento al pensiero antico non deve però occultare la diversità della matematica moderna. Accanto al significato antico, generale e generico- secondo il quale entrano nella matematica universale anche l'astronomia, l'ottica, la musica e altre "discipline" ancora- v'è il significato specifico, richiamato da Cartesio, della mathematica come scienza dell'ordine e della misura, e del numero in quanto criterio e strumento d'ordine e di misura. Ed è con questo secondo significato che la "matematica" si è imposta nella scienza moderna, al puma da far dire a Kant, come Heidegger stesso ricorda, che «in ogni particolare teoria della natura è possibile trovare tanta autentica scienza per quanta matematica v'è in essa>>.LL L'affermarsi del "numero" nella scienza consegue direttamente e necessariamente alla riduzione dell'essere dell'ente a rapporto, alla totale esterioriuazione dell'ente. L'essere dell'ente è definito, determinato
11 I. Kant, Prim1 prù1Cipi meta/ùici della scienza della natura, trad. it. e nota informativa di L Galvani, introduzione di L Geymonat, Cappelli, Bologna l959,p.l2.
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Fi/oso/iateorettca
dai suoi rapporti spaziali e temporali. La Wtalità dell'ente è costituita da "spazio" e "tempo". La conclusione della "scienza moderna"- già implicita nella Fisica galileiana- è la nientificazione dell'ente, il nichilismo: l'esito estremo della desostanzializzazione dell'essere. Questo deve farci capire che il conflitto tra Galilei e la Chiesa di Roma non riguardava tanto il moto della Terra o del Sole, quanto la concezione stessa della Verità. Non era- e non è- pertanto accomodabile con mediazioni o, peggio, compromessi. Del resto la storia stessa del pensiero moderno- ma a dir bene del pensiero occidentale -lo prova, come avremo modo di mostrare e spiegare. Ma la desostanz.ialiv.az.ione dell'essere dell'ente reca con sé altro carattere su cui ora dobbiamo soffermarci, e che riguarda direttamente il giudizio, la sua funzione e il suo rapporto. Se l'essere dell'ente in sé e per sé considerato è niente, tutto l'essere essendo dato dalle relazioni tra gli enti, allora il rapporto predicativo non ha, non può avere, come termine di riferimento primo il soggetto del giudizio, anzi il soggetto è l"'ultimo": non ciò che al giudizio è dato e che il giudizio deve solo qualificare, ma ciò che il giudizio deve riuscire a de-terminare. Primaria, pertanto, è la relazione dei predicati, delle categorie tra loro, dalla cui connessione soltanto può nascere qualcosa come un soggetto di predicati, un termine di riferimento delle molteplici relazioni che costituiscono l'essere dell'ente(= del niente). II giudizio dunque- il giudizio, aggiungiamo, in quanto sillogismo - si definisce come l'orizzonte formale di tutti i possibili soggetti. Nichilismo come formalismo assoluto? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fermarci sul rapporto Leibniz/Kant, che è fondamentale per la comprensione moderna dell'ente,
9. Sostanza e accidenti: interiorità ed esteriorità Il ruolo di Leibniz all'interno del pensiero moderno è di particolare interesse, e ciò proprio per l'ambiguità della sua posizione metafisica. Infatti, se per un verso egli s'oppone al processo di nichiliz.z.az.ione dell'ente, che prepotentemente si manifesta nell'età moderna (quantunque domini nel sottofondo l'intera storia 58
Linguaggio/U,gica
dell'Occidente), dall'altro non intende rinnegare le conquiste della scienza moderna e anzi con la sua logica vuole contribuire a un uheriore avanzamento. Nichilizzazione dell'ente, ovvero- questo abbiamo appreso da Galilei- riduzione della sostanza ad accidente, del!'ousia a symbebek6s, o, con linguaggio platonico, del ti a poi6n, del "che cosa" a "qualità". Ma questa riduzione, portata a compimento, riconduce alla sostanza, e cioè sostanzializza la qualità. Seguiamo l'argomentazione di Leibniz. 9.1 Leibniz: l'essere attuale e l'essere virtuale della monade Chiamo "perfezione" ogni qualità semplice che sia positiva e assoluta: tale cioè che ciò che esprime, lo esprima senza limitazione. 12 Questa definizione corrisponde a quella della monade, o sostanza: Si potrebbe dare il nome di ente:lecheia a tutte le sostanze semplici o monadi create, poiché esse posseggono una certa perfezione (échousi lo entelés) e una sufficienza a se stesse (autdrcheia) che le rende fonti deUe loro azioni interne e, per così dire, automi incorporei. 11 Evidente l'impianto categoriale aristotelico- sino a rimarcare l'identità di significato tra il termine "perfezione", che indica ciò che è compiuto, il perfectum, appunto, e la parola greca "entelecheia": ciò che en télei échei, che si possiede nel fine, o, nella versione leibniziana, ciò che possiede il /in e-; non meno evidente il ribaltamento di questo impianto: la qualità sostanzializzata non è il medesimo che la sostanza. Cade, infatti, la distinzione fondamentale in Aristotele tra sostanza e accidenti, se ovviamente ci si mantiene fedeli al concetto della semplicità della sostanza, se cioè si resta coerenti alla concezione della "sostanza-monade". Ma Leibniz non è coerente con se stesso. Dapprima respinge la molteplicità, al punto da
12 G.W.
Leibniz, Quod Em Per/ectissimum existil, trad. it. in Id., Saggi filosofici
e lettere, antologia a c. di V. Mathieu, Laterza, Bari 1963, p. 90. Il G.W. Leibniz, Lo monadologia, § 18, trad. it. in Id., Saggi., cit., p. 371. 59
F1loso/wteorelica
negare figura ed estensione alla monade 14 definita come un punto metafisica, indiviszbile in quanto non composto di parti, assoluta· mente semplice. Leibniz intendeva in tal modo sottrarsi alla conclusione della Fisica galileiana: la riduzione dell'essere dell'ente a spazio e tempo, a mera "esteriorità". Per lui non sono spazio e tempo che determinano l'essere della monade, ma al contrario è l'essere della monade la condizione di possibilità dei rapporti spazio-temporali. La monade infatti non muta per una causa esterna ma per un principio interno 15 . Tale mutamento, però, implica comunque «una pluralità nell'unità, o nel semplice. Infatti, poiché ogni mutamento nawrale avviene per gradi, qualcosa cambia e qualche altra no; e quindi occorre che nella sostanza semplice, per quanto sprovvista di parti, vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti»16. Non è questo il luogo per evidenziare tutte le aporie del sistema di Leibniz che toccano l'estremo quando si giunge al concetto della monade assoluta, o Dio; qui interessa piuttosto mostrare quali sono le ragioni di queste aporie, e cioè le domande per rispondere alle quali il filosofo è spinto a contraddirsi. Ora, perché si diano rapporti spazio-temporali, anche nella supposizione che l'essere dell'ente nçlla sua totalità sia determinato da questi rapporti, è pur necessario ammenere che ci sia qualcosa che entri in rapporto con altro qualcosa. Questo qualcosa, per non essere predeterminato al rapporto spazio-temporale, deve essere pura indeterminatezza, ovvero: semplice possibilità. Possibilità d'essere tutto quello che è stato, è, sarà. Ma non possibilità astratta, bensì concreta, e cioè non mcramente passiva, ma attiva. La stessa possibilità passiva, la possibilità d'essere determinato da altro, implica un principio attivo di determinazione a qualcosa: l'argilla può- ha il potere di- essere plasmata, non il ferro; l'animo dell'uomo sensibile può- ha il potere di - commuoversi, non quello di un bruto. Possibilità attiva significa: potenza, dfnamis. E cioè forza. La monade è principio metafisica di mutamento, di movimento. Quel che poc'anzi si diceva: è la monade che determina i rapporti spazio-temporali, e non viceversa. 14 Cfr.ivi, § 3, p.J69. 15 Cfr. ivi, § 11, p. 370. 16 Ivi,§1J.
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Linguaggloll..t.~gica
Per sottrarsi all'esteriorizzazione dell'ente, Leibniz afferma che la totalità dei rapporti dell'ente non da altro è determinata che dall'ente stesso, dal suo principio interno. Leibniz oppone all'esteriorizzazione radicale, la più radicale interiorizzazione. E tuttavia ... E tuttavia la conclusione è la stessa, se non addirittura più grave. Infatti, essendo il principio interiore della monade, ciò per cui essa è tutto quello che è stata, è, sarà, potenza attiva, forza, e cioè: appetitus, ne discende che l'essere dell'ente, il suo principio interiore, è tutto volto all'esteriorità. Non solo all'esteriorità delle altre monadi - esteriorità che pur la costituisce, non essendo la monade che una prospettiva sull'universo delle menadi, ossia visione dell'esteriore-, sì anche all'esteriorità del suo se stesso, del suo futuro, di sé come futuro: non si appetisce che ciò che non ancora si ha, e più profondamente ancora, che ciò che non ancora si è. L'interno della monade è solo per l'esterno. Leibniz corre ai ripari. In qual modo? Affermando che tutto ciò che la monade attualmente non è, lo è già virtualmente. Possiamo intendere a pieno il senso di questa distinzione solo se ci fermiamo sull'altra, notissima, tra verità di ragione e verità di fatto. Il problema è, e resta, un problema di logica.
9.2 Verità di ragione e verità di fatto Verità di ragione sono quelle il cui contrario implica contraddizione, come, per esempio, "il triangolo ha tre angoli". Verità di fatto quelle, invece, il cui contrario non è contraddittorio, per esempio, "Giulio Cesare è morto alle idi di marzo del44 a.C.". Le prime sono rette dal p n c, in quanto nel soggetto è già il predicato: praedicatum inest subjecto. Le verità di fatto sono invece rette dal principio di ragion sufficiente. Che non è meno necessario di quello aristotelico, quantunque l'uomo possa apprendere le verità di fatto solo attraverso l'esperienza. Nessuna deduzione mai mi permetterà di ricavare dal soggetto "Giulio Cesare" l'anno della sua morte, né le sue vittorie sui Galli, o la sua politica antisenatoriale. Ma questo solo perché io non conosco la ragion sufficiente della sostanza individuale, o monade, denominata "Giulio Cesare". In Dio non è possibile distinguere tra verità di fatto e verità di 61
Ft1oso/ùJteoretictJ
ragione. Egli infatti, per creare il mondo scegliendo, conformemente alla sua natura perfetta, tra gli infmiti universi possibili il migliore, deve conoscere tutte le sostanze individuali e le loro ragioni sufficienti. Per Lui, pertanto, tutte le verità sono di ragione. Dal che discendono queste due conseguenze, entrambe esiziali per il sistema leibniziano: l) il mondo nonché essere libero, è stretto dalla più dura necessità, quella medesima che costringe Dio a scegliere il meglio per non contraddire la sua natura; 2) la distinzione tra verità di fatto e verità di ragione non è una distinzione di ordine logico, bensì al più psicologica; invcro è una distinzione tra conoscenza (divina) e ignoranza (umana). D'altronde il principio che regge tutti i giudizi, e quelli che esprimono verità di ragione, e quelli che dicono verità di fatto, è: il medesimo: l'inerenza del predicato al soggetto.
9.3 Il giudizio onta-logico di Leibniz Ma facciamo parlare direttamente Leibniz, anche per evidenziare con k sue stesse parole il nesso necessario tra antologia e logica:
... è evidente che ogni predicazione vera ha qualche fondamento nella natura delle cose, e quando una proposizione non è identica, cioè quando il predicato non è espressamente compreso nel soggetto, bisogna che sia compreso virtualmente, ed è questo che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. :t: necessario quindi che il termine del soggetto includa sempre quello del predicato, sicché colui che intendesse perfettamente la nozione del soggetto giudicherebbe anche se il predicato gli appartiene. Così stando la cosa, possiamo dire che la natura di una sostanza individuale o d'un essere completo Cetre complet) è di avere una nozione così completa (accomplie) che sia sufficieme a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto a cui tale nozione si attribuisce. Laddove l'accidente è un essere la cui nozione non include tutto ciò che si può attribuire al soggetto cui si attribuisce questa nozione. Così la qualità di re che si attribuisce ad Alessandro Magno, facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza determinata per un individuo e non include affatto le altre qualità dello stesso soggetto né tutto dò che la nozione di questo principe comprende, mentre Dio vedendo la nozione individuale o "ecceità" di Alessandro, vi vede nello stesso tempo il fondamento e 62
Lingua?)l,iollhf!,tca
la ragione di tutti i predicati che si possono dire di lui secondo verità (véritablement), come per esempio che vincerà Dario e Poro, al punto da conoscere a priori (e non per esperienza) se è morto di mone natu· cale o di veleno, cosa che noi possiamo sapere solo dalla storia. Così, quando si consideri bene la connessione delle cose, si può dire che in ogni tempo ci sono nell'anima di Alessandro i resti di tutto ciò che gli è accaduto e i segni di tutto ciò che gli accadrà, e anche le tracce di tutto ciò che awiene nell'universo, sebbene appartenga solo a Dio conoscerli tuui. 17
Che aggiungere? Solo questo, che nella distinzione tra sapienza divina e ignoranza umana è assorbita, e negata, anche l'altra- fondamentale in Aristotele- tra sostanza e accidenti. Per l'uomo tutto, quanto alle cosiddette "verità di fatto", è "accidente"; per Dio, al contrario, rutto è "sostanza". D'altronde non è, questa, una conseguenza necessaria del concetto di monade quale sostanza semplice? La distinzione tra sostanza e accidente renderebbe "composta" la monade, perciò viene confinata nella regione dell' agnoia umana: del non-sapere. Con tutto ciò, ovvero: nonostante lo stravolgimento dell'impianto categoriale di Aristotele, Leibniz perviene a una conclusione affatto identica a quella di Aristotele. La conclusione del tautà aei, del "sempre le stesse cose": non è concepibile, per Leibniz che le sostanze semplici o monadi possano dissolversi o nascere - non "naturalmente", almeno. 18 Certo possono nascere ed estinguersi «d'un colpo: cominciare cioè per creazione e finire per annienta· mento». 19 Ma, in quanto create da Dio, sono eterne come Dio. Virtualmente- almeno. Ma, giacché la distinzione tra "attualità" e "virtualità" appartiene non al vero ma all'errore, a quell'errore sommo che è l'agnoia, il non sapere, è chiaro che le monadi né nascono, né periscono. Sono sempre le stesse: tautà aei. Questa la conseguenza necessaria della concezione del giudizio come inerenza del predicato al soggetto.
17 G.W. Leibniz, Discorso dr metafi:>ica, § 8, trad. it. in Id., Saggi ., cit., pp. llO·lll. 18 Cfr. G.W. Leibniz, Monado/ogia, cit., §§ 4-5, p. 607. 19 Ivi, §6.
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Filoso/iateoretica
9.4 Il giudizio in Kant: la forma "prima" della materia Il filosofo intellettualista non poteva ammettere che la forma dovesse precedere le cose stesse, anzi determinarne la possibilità; censura questa del tutto giusta, una volta che egli assunse che noi intuiamo le cose quali sono (sebbene con rappresentazione oscura). Ma poiché l'intuizione sensibile è una condizione soggettiva affatto particolare che sta a priori a fondamento di tutte le percezioni, e la cui forma è originaria; cosi la forma è data soltanto per se stessa, c, lungi dal dover la materia (o le cose stesse che appariscono) esser di fondamento (come parrebbe a giudicare secondo semplici concetti}, la possibilità di essa presuppone piuttosto come data una intuizione formale (tempo c spazio). 20
Così Kant nell"'Anfibolia dei concetti della riflessione per lo scambio dell'uso empirico dell'intelletto con l'uso trascendentale", posta come Appendice conclusiva del II libro dell'Analitica, dedicato ai Grunsiitze, i "principi", o meglio: le "proposizioni fondamentali" dell'intelleuo puro. Questo secondo libro dell'Analitica rappresenta il cuore della Critica della ragion pura, in esso Kam porta a lermine la definizione dell'orizzonte trascendentale del giudizio, nel quale soltanto si danno gli "oggetti". I Grundsdtze sono i giudizi sintetici puri che stanno a fondamento di tutti i possibili giudizi sintentici a priori; essi sono, per dir così, i giudizi dei giudizi, e perciò Grund-sà'tze: proposizioni/ondamentali. Che Kant abbia voluto chiudere questa parte della sua opera fondamentale con una lunga discussione critica della filosofia leibniziana - questo è il tema dell' Appendice- sta a indicare l'importanza che egli annetteva al suo confronto con Leibniz.
9.5 Giudizi analitici e giudizi simetici a priori I.:Intellectualphilosoph è dunque Leibniz. La presunzione intellettualistica di poter definire le cose in sé mediante i soli concetti dell'imelletto (Leibniz riconosceva tutt'al più un ruolo nello svi20 I. Kant, Crp, A267-268, B 323-324, trad. il. cit., p. 272.
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Linguav,io/Logù:a
luppo dei processi cognitivi alle percezioni confuse, quali gradi inferiori delle percezioni chiare e distinte che caratteriz>;26 2) Anticipazioni della percezione, per cui «in tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una quantità intensiva, cioè un
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F11osofialeorelica
grado»; 27 3) Analogie dell'esperienza, per le quali «l'esperienza è possibile soltanto mediante la rappresentazione di una connessione necessaria delle percezioni»;28 4) Postulati del pensiero empirico in generale, secondo i quali: a) «Ciò che si accorda con le condizioni formali dell'esperienza (secondo l'intuizione e i concetti) è possibile>); b) «Ciò che si connene con le condizioni materiali dell'esperienza (con la sensazione) è reale (wirklich)»; c) «Ciò la cui connessione col reale è determinata secondo le condizioni universali dell'esperienza è (esiste) necessariamente».29 Queste quattro proposiziom; o giudizi, fondamentali (Grund-siitze) definiscono l'orizzonte di ogni esperienza possibile, l'orizzonte trascendentale. Essi determinano gli oggetti dell'esperienza prima separatamente (Assiomi e Anticipazioni) poi in connessione tra di loro (Analogie). Chiaramente il "prima" e il "poi" sono solo astrazioni metodologichc: l'esperienza effettiva è sempre una connessione di rappresentazioni o fenomeni, mai dandosi un oggetto isolato. V isolamento dell'oggetto risponde a un'esigenza di metodo, quella di illuminare dapprima la struttura del singolo fenomeno (o oggetto) che nell'esperienza concreta, effettiva si presenta solo in connessione con altri fenomeni. Di qui la centralità delle Analogie: san esse le vere proposizioni fondamentali, i veri giudizi sintetici puri che determinano l'orizzonte trascendentale dell'esperienza, di cui i Postulati definiscono le tre modalità fondamentali: la possibilità, la reahà e la necessità. Questi "giudizi sintetici puri"- i giudizi che sono a base d'ogni giudizio sintetico a priori- sono tre, così definiti: I Analogia: «- facciamo cioè esperienza della totalità del tempo - attraverso la permanenza della sostanza. Che in tanto è il referente necessario dei vari mutamenti- degli "accidenti" -in quanto ne è la "causa". E per esserne la causa deve in qualche modo contenerli già tutti in sé: «in questo permanente ogni esistenza e ogni cangiamento nel tempo può essere considerato soltanto come un modus della esistenza di ciò che è costante e permanente)>.3' Ne discende che le sostanze sono eterne, né nascono, né muoiono- sono sempre le stesse: tautà aei. Se si aggiunge a ciò che esse sono in rapporto dinamico tra loro, sono cioè potenze, forze interagenti - e secondo un ordine dinamico p re-stabilito: come potrebbero altrimenti essere gli accidenti modi delle sostanze? -, la vicinanza, la prossimità di Kant per un verso ad Aristotele e per l'altro a Leibniz appare davvero impressionante. Quid novi? La risposta è molto semplice: tutto. Non bisogna infatti dimenticare che l'orizzonte temporal-causale della coscienza trascendentale, ovvero: l'ordine del cosmo, è fenomenico. Kant non si stanca di sottolineare, nelle Analogie, che le sostanze, «i sostrati di tutte le determinazioni temporali», sono Erscheinungen, fenomeni, e non cose in sé. J')
lvi, A 183, B 226, rrad. it. ci1., p. 202. 72
LinguaggiO/Logica
Dietro il molteplice, variegato mondo dei "fenomeni" che il pensiero riesce a dominare, conoscendone l'ordine e il senso, si cela il grande enigma del mondo. Il suo inspiegabile esserci. A spiegare il mondo, il pensiero giunge sempre troppo tardi giunge quando esso già c'è. D'altronde che senso avrebbe spiegare il mondo, quando esso non c'è ancora? Ma quando il mondo è sorto, con esso è sorto anche il pensiero, che non è altro che il mondo, l'orizzonte trascendentale dei fenomeni. Perciò spiegare con le categorie, con i concetti, l'esserci del "mondo", è come pretendere di conoscere l'ombra con la luce. Kant denunzia il paralogismo in cui cade il pensiero incapace di riconoscere il proprio limite:
D soggetto delle categorie non può, per il fatto che le pensa, conseguire un concetto di se stesso come oggetto delle categorie; perché, per pensarle, deve porre a fondamento la sua autocoscienza pura, che pur doveva essere spiegata. 40 La critica di Kant non colpisce solo Cartesio, sì anche la plotiniana derivazione di Nous da Hen. Colpisce invero anche Hegel. Ma di ciò si dirà nel m Percorso: "Fenomenologia/Ermeneutica" (cfr.§ 7.1). Quello che ora ci preme mettere in luce è un indirizzo della logica contemporanea che rappresenta una vera e propria fuga dai problemi posti da Kant, anche se talora si presenta come la più coerente conseguenza della filosofia critica.
10. L'isola della verità e l'oceano della parvenza Fin qui abbiamo non solo attraversato il territorio dell'intelletto puro esaminandone con cura ogni parte, l'abbiamo anche misurato, assegnando a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un'isola, chiusa dalla natura stessa entro confini immutabili. È la pianura della verità (stimolante nome), circondata da un vasto e tempestoso oceano, vero e proprio luogo di parvenze, ave banchi di nebbia e ghiacci che presto si sciolgono danno l'illusione di nuove terre, e ingannando
40
Ivi,B422,trad.it.cit.,p.339. 73
Filoso/iateorettca
senza sosta con vuote speranze il navigante che erra in cerca di scoperte, lo attirano in avventure, cui egli come non sa mai rinunziare, neppure riesce mai a portare a compimemo. 41
Quante volte si è letto e commentato questo passo di Kant, brano di alta retorica dovuto a una delle penne più sobrie dell'intera tradizione filosofica! Letto, commentato e ... da molti impiegato anche contro il suo stesso Autore! Se la pianura della verità è un'isola, perché mai awenturarsi nell'oceano delle parvenze? Meglio stare con i piedi ben saldi sulla terraferma. Ma non è facile non farsi sedurre dall'awentura in mare aperto.
10.1 Dal formalismo trascendentale al formalismo empirico: l'idolatria del fatto Qualcuno ha pensato di erigere barriere più alte di quelle costruite da Kant, e tornando sulle sue stesse scoperte fondamentali, ha ripreso la vecchia distinzione tra H logico e !'empirico, tra la determinazione del senso di una proposizione e la sua corrispondenza con i fatti- dimenticando che i "fatti" sono tali solo all'interno di un orizzonte di senso, owero di un contesto logico. Qualcuno è arrivato a rimproverare a Kant la stessa distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici, osservando che il giudizio analitico "il corpo è esteso" non è meno privo di senso logico dell'altro, sintetico, "il corpo è pesante" -l'unica forma di giudizio sensato in Logica essendo di questo tipo: "se un corpo è pesante allora v'è la legge di gravità". Osservazione giustissima, solo che era già stata fatta da Kant, 42 il quale peraltro s'era preso anche la briga di darne ragione, ritenendo che in questa "briga" consiste il compito della logica filosofica. Ma qui non ci intcres-
41 lvi, A 235-236, B 294-295, trad. it. cit., p. 248 [corsivo mio]. 42 Cfr. L Kant, Prolegomeni ad ogni meta/ùica futura che vorrà presentam come scienzo, traduzione, introduzione e commento di P. Maninetti, Paravia, Torino 1945 2, § 20, specialmente nora p. 102.
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Linguaggio/Logica
sano le interpretazioni e i fraintendimemi di Kam; ci interessa rilevare che dalla raccomandazione di non oltrepassare il territorio dell'intelletto se ne è ricavata una logica interessata esclusivamente alle relazioni formali tra concetti dati. Al formalismo trascendentale s'è sostituito un formalismo empirico che ha senz'altro i suoi meriti, oltreché le sue motivazioni, nell'ambito delle scienze positive, particolarmente per quamo riguarda la logica matematica, ma che proprio perché nasce in questo ambito, ed esclusivamente in esso vuole mantenersi, è incapace di discuterne il senso. Il formalismo empirico è la forma più rigida di positivismo. E cioè di quel pensiero dominato dall'idolatria del "fatto". Che opporre a questa idolatria? La consapevolezza husserliana che le scienze di meri fani (die blofien Tatsachenwissenscha/ten) producono solo uomini di meri fatti (blofie Tatsachenmenschen)? E cioè che la filosofia è sempre una ricerca del "senso" delle cose? Che anche nel positivismo è implicita una filosofia del "senso"- del senso ridotto a mero fatto? Tutto questo ci porta invero troppo oltre. Ché l'imerpretazione del "senso" della filosofia data da Husserl, in particolare nella Krisis, ci sembra si spinga un po' troppo nell'" oceano delle parvenze", scambiando il desiderio con la realtà, col prospettare quale compito della filosofia quello di portare alla luce la ragione nascosta della storia. Questa teleologia della ragione ci appare come il ritorno di un'illusione anche nobile di un passato che più non ci appartiene, o, se si preferisce, al quale più non apparteniamo (cfr. III Percorso, § 8). Torniamo alla sobrietà kantiana, leggendo ciò che segue al brano citato all'inizio di questo paragrafo: Ma, prima di affidarci a questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare... Sospendiamo qui la lettura, è già sufficiente il passo che s'è letto. Dunque il mare tempestoso delle parvenze non può restare inindagato, non possiamo semplicememe voltare a esso le spalle e restare sulla nostra isoletta, sicuri delle nostre certezze. E se l'oceano minacciasse anche quest'isola? È proprio così sicura e stabile la "pianura della verità"? 75
Filoro/iateorettco
Forse conviene volgersi di nuovo a chi dette il nome stesso a questo sapere di cui ancora cerchiamo di definire i contorni: a Platone.
10.2 Il linguaggio e l'ethos Per Platone l'argomento della filosofia, ciò che essa insegna, non è affatto dicibile, come invece quello degli altri saperi. La filosofia, infatti, pretende esibire il che delle cose, e il linguaggio, per contro, ne dice sempre e solo le qualità. Sin dall'inizio la filosofia è stata consapevole dell'essenza nichilistica del linguaggio. Pure Platone non invita a uscire da esso, a metterlo da parte sprofondandosi nel silenzio mistico; afferma anzi che solo passando per i nomi e le definizioni, le immagini e la conoscenza è possibile che d'improvviso s'illumini in noi l'essenza della cosa, che si riveli eu pephyk6s eu pephyk6ti: la buona natura a chi ha buona natura. L'essenza delle cose, ciò che è oltre le qualità sempre relative degli enti, il loro puro che, a cui la filosofia si volge, è allora il bene? Invita il Filosofo a fare un passo oltre il sapere logico in vista dell'etica?
10.3 Il "pensiero ibrido" Certo l'ethos greco, l'ethos di Platone, non è da confondere con la dottrina morale, con gli "imperativi", !"'intenzione", la "coscienza". L'zdéa toU agathoU non è da confondere con il bene morale. L'ethos di Platone accenna piuttosto a un modo diverso di abitare il linguaggio - e con il linguaggio il sapere, i saperi. Un modo che in Platone stesso si è offuscato nell'atto medesimo in cui egli cercava di porrarlo al pensiero e alla parola. E il compito di dare a esso una più adeguata espressione è- forse -la più impegnativa eredità che Platone ha lasciato al pensiero dell'Occidente. Tentiamo ora di tracciare il perimetro ideale in cui questa eredità si iscrive. Lo faremo ponendo alcune domande. Queste: In quanto luogo di logos, ethos è oltre la parola e il sapere: quale 76
Lùrguaggio!Lr~Qca
il "senso" di questa oltranza? È ethos il medesimo che la chOra, quello spazio puro, né sensibile né intelligibile, che tutto accoglie, e che solo un "pensiero ibrido" (logismòs nOthos), un pensieronon-pensiero riesce non certo a definire ma a figurarsi come in sogno? E quale il rapporto tra ethos e Uno, to aOriston? La sede di logos,la ch6ra, è il luogo sicuro d'ogni vicenda umana e divina, storica e naturale, fonte essa medesima d'ogni pensiero e d'ogni avventura, o non è, invece, proprio in quanto dimora, il pericolo stesso, l'estremo e supremo pericolo che minaccia il pensiero, illogos? Sembra che l'isola della verità sia solo la vetta di un vulcano emersa nell'oceano tempestoso e ingannevole della parvenza. E forse verità e parvenza appartengono a un'unica superficie, e condividono un medesimo destino. Saperlo significa affrontare l'avventura del profondo, più pericolosa ancora che quella dell'oceano. Al pensiero dialettico appare consolatorio e suona quindi retorico e falso anche l'eroismo tragico di Nietzsche che esalta l'avventura nell'oceano dell'infinito: Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo ta· gliato i ponti alle nostre spalle e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c'è l'oceano: è vero non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui sa· prai che è infinito e che non c'è niente di più spaventevole dell'infmito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà- e non esiste più "terra" alcuna! 4'
No, l'avventura della Dialettica è più che tragica, perché non riguarda noi, solo noi, solo la navicella del nostro umano, troppo umano destino. Riguarda la Verità e la Parvenza, la Terra e l'Oceano, il Finito e l'Infinito. Sì, anche l'Infinito può finire, l'Essere annullarsi- nell'Uno, nel Semplice, nel Perfetto.
4' F. Nietzsche, La ~,dia tcienza, DJ, af. 12-4, nad. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietvche, ed. it. direua da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 ss., vol. v, tomo 11, p. 129.
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II Percorso Dialettica/Esistenza
L ll linguaggio e l'etica della filosofia. La morte come destino della filosofia 2. La svolta della dialeuica platonica: dall'identità alla contraddizione
3. Aristotele e l'esorcizzazione della dialettica 4. Hegel: la proposizione speculativa e le prime categorie della Logica 5. Dell'essere e dell'essenza: performatività e obliquità del linguaggio della ri-flessione 6. Schelling critico di Hcgel: i limiti del concetto. Critica della critica 7. La dialettica negativa di Adorno: tra hegelismo e materialismo 8. Marx e il rovesciamento della dialettica hegeliana 9. Hcgel e il tempo della filosofia. U profondo in sé e l'"ahro" dal concetto 10. li "salto" dalla Fenomenologia alla Logica. La "prassi"
all'inizio della Logica. Il limite interno del concetto
Dialettica/Esistenza
1. Il linguaggio e l'etica della filosofia. La morte come destino
della filosofia Il pericolo maggiore per il linguaggio è rappresentato dalla sua stessa struttura significante che spinge a obliarne la natura pratico-espressiva, per badare al solo contenuto del dire, al "significato" appunto. Questa autoestraneazione del linguaggio che è alla base dei processi di obiettivazione e idealizzazione delle scienze, viene poi codificata dalla logica formale. Ma la filosofia sin dalla nascita ha contrastato il dominio assoluto del significato, a ciò mossa dalla sua stessa pratica linguistica, il dialogo, che la spingeva a riflettere sui limiti e le possibilità dellinguaggio-significaw. Ora tale riflessione ha questo di particolare, se non di paradossale, che, nell'atto stesso in cui afferma il limite del linguaggio ridotto al solo significato, porta a "significato" la sua stessa pratica. Di questo "paradosso" la filosofia è, ovviamente, ben consapevole. E sin dall'inizio, se lo ha posto come discrimine tra la filosofia e gli altri sa peri. Ricordiamo di nuovo il noto passo della VII Lettera di Platone: la "cosa" della filoso· fia non è assolutamente dicibile come nelle altre discipline (.341c). La "cosa" è to pràgma, che dice insieme: prassi e riflessione. Che indica il mdthema proprio della filosofia: l'insegnamento nel duplice significato dell'insegnare e dell"'oggetto" dell'insegnare. Ma il rinvio alla prassi del dire non è solo un rimando a ciò che innanzitutto e per lo più resta nascosto nel "significato"; è insieme e principalmente un rimando all'etica della filosofia. E qui etica dice: "abito", "disposizione", "facoltà". Se e come questo "significato" di etica rinvii all'altro- di cui s'è detto al termine del I Percorso, dedicato alla Logica - si vedrà in seguito, in corso 81
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d'opera. Ora prestiamo :menzione a quali "dispoSizioni", o "facoltà", sono richieste a chi voglia seguire l'insegnamento della fi. losofia. 1.1 La "massa senza qualità": Platone e l'esercizio della filosofia Nella Repubblica Platone ne indica anzitutto due, e opposte: per un verso, la costanza, e cioè la stabilità del carattere, la fermezza della volontà di apprendere nonostante le molte difficoltà della filosofia, che esige si ossellli il mondo e la vita da una prospettiva insolita, contrastante le comuni abitudini della maggior parte degli uomini; per l'altro, un grande, reale interesse per i diversi e mutevoli aspetti della vita e dell'accadere, e per tutte le discipline, coltivate proprio per e nella loro varietà. Sono quindi richieste all'apprendista filosofo temperanza e indifferenza ai beni materiali, amore per la verità e memoria salda, insieme a sodevolez· za, magnanimità e senso della misura. La conclusione è che mai «la massa può essere filosofa» (494a). È a questo ragionamento della Repubblica che va collegata l'affermazione di Platone, che si legge nella VI/ Lettera, secondo la quale egli mai non aveva scritto sull'argomento proprio (to pràgma) della filosofia, né mai l'avrebbe fatto. Se davvero pensassi che è possibile scrivcrne in modo degno e darne comunicazione anche alla massa, che cosa di più bello nella vita potrei fare, se non mettere per iscritto un insegnamento che è di grande utilità per gli uomini, svelandone così in piena luce per tutti la natura? Ma non penso sia un bene per gli uomini metter mano a tali argomenti, tranne che per quei pochissimi che sono capaci di trovarli essi stessi, purché sia loro dato un piccolo cenno; e ritengo invece riguardo agli altri che il solo metter mano a ciò riempirebbe alcuno in modo assai disdicevole di non giustificata superbia, e altri di speranza altezzosa e vuota, come se avessero imparato qualcosa di sublime. (341c-e)
La pratica della filosofia - e Platone scriveva avendo presente la figura del tiranno di Siracusa, Dionisio II -esige quindi una natura nobile, bennata, ché il bene, ciò che ha buona natura (eu pephyk6s), si rivela solo a chi ha buona natura (eu pephyk6tz). 82
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È questo, d'ahronde, un principio costante nel pensiero di Platone. Basta ricordare la chiusa del Menone ave Socrate, dopo aver osservato che non vi sono maestri, né discepoli di virtù, afferma non esser questa insegnabile- ouk didakt6n areté -, in quanto si può agire bene non solo se guidati dalla scienza, che può essere insegnata, sì anche dalla retta opinione. E come questa si formi in lui, come egli la possegga, chi agisce non lo sa e non può sa perlo, ché opera come operano i profeti e gli indovini e i poeti, «i quali nella loro ispirazione dicono sovente la verità, ma non sanno nulla di ciò che dicono» (99c). Non dipende dall'uomo, dunque, esser virmoso? Socrate rammenta a Menone che «le donne chiamano divini gli uomini virtuosi e i Lacedemoni, quando elogiano qualche uomo virtuoso, dicono: "È un uomo divino"» (99d). Non è superfluo notare che Aristotele è del medesimo awiso. Nell'Etica a Nicomaco, dopo aver distinto la "prudenza" (phr6nesis), la capacità cioè di adeguare i mezzi all'attuazione di un fine buono, dall"'abilità" (dein6tes), dall'uso accorto dei mezzi per qualsiasi scopo, non manca di precisare che all'uomo è dato scegliere i mezzi ma non il fine, il bene, che è dato physei, per natura, come la vista. La "buona natura", l'euphyia, non si apprende da altri, la si ha per nascita (1114b). L'" uomo divino" del Menone è l'uomo dotato di buona natura, l'eu pephyk6s della VII Lettera di Platone, l'euphyés della Nicomachea di Aristotele. Tuttavia questo pensiero sembra trovare una smentita proprio nel Menone. Riportiamo qui la scena-madre: Socrate deve rispon· dere all'obiezione eristica- che ha sedotto Menone- secondo la quale l'uomo non può ricercare né ciò che sa, in quanto lo sa, né ciò che non sa, in quanto non sa che cosa cercare (SOd-e). Sacra te respinge l'argomento, considerandolo tipico degli animi pigri e fiacchi, e oppone a esso che «ricercare e apprendere sono total· mente anamnesi» (8ld). Per dimostrare la sua tesi chiede a Meno· ne di portargli un suo schiavo ignorante di tutto, e a questi me· diante appropriate domande fa risolvere un problema di geome· tria. Tutto quanto conosciamo - ne conclude Socrate - noi non l'apprendiamo dall'esterno, ma da noi stessi, dalla nostra anima che ha acquistato ogni sapere prima d'essere unita al corpo, quando abitando nell'Ade poteva contemplare nella loro purezza le idee. "Noi" dice qui, e non può non dire: noi tutti, senza distinzio83
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ne, perché tutti siamo dotati di anima. Noi rutti e non solo i caratteri nobili, se dobbiamo prendere sul serio l'esempio dello schiavo. Ma forse l'esempio dello schiavo non smentisce la tesi che la massa non può esser filosofa. Lo schiavo infatti ha avuto nel suo esercizio di anamnesi un maieuta d'eccezione. Se Socrate parla con tuni è perché ha la capacità, lui e lui solo, di estrarre dall'animo di tutti gli uomini il seme di verità che in loro abita ma non germoglia perché dediti ai piaceri dei sensi, resi ciechi dalle immagini del mondo, frastornati dalle opinioni senza verità; perché lui, e lui solo, ha la capacità di far compiere al suo interlocutore un viaggio nelle profondità dell'anima. E Socrate che rende nobili gli uomini. Ma per breve tempo, ché dopo il viaggio entro se stessi, gli uomini tornano alle quotidiane occupazioni, immergendosi di nuovo nell' errore dei sensi, nell'esteriorità delle immagini e delle opinioni del mondo. Per restare in compagnia di Socrate, anche nell'assenza di Sacrate, è necessario che l'anima, una volta che s'è ritrovata, sappia conservare memoria di sé. Socrate da personaggio storico si trasforma in figura emblematica della filosofia stessa: nel Maestro che portiamo in noi, e che tanto più è in noi, tanto più matura e cresce in noi, quanto più la sua presenza reale si allontana nel tempo. Maestro è Socrate perché grande mediatore, mettendo egli in rapporto, in comunicazione non gli uomini tra loro, ma l'uomo con se stesso, l'esterno con l'interno, la superficie col profondo. Socrate rappresenta non una dottrina filosofica, e neppure la filosofia intesa come un insieme di dottrine; Socrate è la pratica stessa della filosofia. Non una tra le altre, poche o tante che siano, ma l'unica pratica possibile. Perciò la sua morte non è la morte di un uomo d'eccezione, la morte di un filosofo o del filosofo; non è una morte, ma la morte come destino della filosofia. Così Platone nel Fedone: filosofo è qui l'uomo dxios thandtou (64b), degno di morte, e che fa esercizio di morte, meléte thandtou (8la). E non è in primo luogo in cose simili che il filosofo si manifesta, nello sciogliere il più possibile, a differenza dagli ahri uomini, l'anima dalla comunanza col corpo? (64e-65a) .. .l'anima del filosofo ha il massimo disprezzo del corpo e fugge da esso, cercando invece distarsene in sé per conto suo ... (65c-d) 84
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1.2 L'educazione del filosofo
«Ii ricercare e l'apprendere sono totalmente anamnesi.» La ricerca, invero, è il processo mnestico, l'apprensione ne è il risultato. La divisione delle due non riproduce- in altra forma -la separazione tra la prassi del linguaggio e il "significato"? La prassi, in fondo, il dialogo dell'anima con se stessa, è solo strumentale rispetto al vero. Conseguitolo, l'uomo, o meglio l'anima nell'uomo, cessa di ricercare, di interrogarsi, di dialogare con se stessa, con il suo profondo. Ma se il vero è giunto pienamente, completamente alla superficie, perché non scriver/o? Perché tacerne agli altri- agli altri tutti, alla massa? Portato in superficie, nella visibilità del mondo, perché non comunicarlo a tutti? Se non tutti possono essere scopritori del vero, nulla asta a dividere con tutti il sapere una volta reso palese.
1.3 Il mito della caverna È, questo, il progetto di Platone spiegato nella Repubblica e reso famoso dal celebre, giustamente celebre, mito della caverna. nfilosofo, dopo che è uscito dalla caverna e ha visto prima le cose reali, quindi i loro modelli ideali, infine il sole che tutto illumina e dalla cui luce nasce pure il mondo umbratile, ha l'obbligo di rientrare nella caverna e di portare gli altri fuori, tutti gli altri. L'educazione, 1'e-ducere, è coessenziale al lavoro del filosofo. Che è tale, filosofo, se e quando ripete l'esperienza di Socrate, del Maestro. n dialogo dell'anima con se stessa deve aprirsi a dialogo tra gli uomini, o meglio: tra le anime che abitano negli uomini. Questa precisazione non è affatto secondaria, anzi essenziale. Chiediamoci, infatti, cosa spinga il filosofo a ridiscendere nella caverna. La motivazione - è ben evidente- va ritrovata nella filosofia stessa, nella sua pratica, e non fuori. Se è fuori, in un'esigenza altra dalla filosofia, allora la motivazione non interessa la filosofia come tale. Chi ne fosse interessato, dovrebbe volgersi altrove, e non alla filosofia. Diciamo questo, perché nel libro v della Repubblica, ove Socrate, richiestone da Glaucone, discute del problema, le motivazioni addotte sono tutte estranee alla filosofia. È solo per una ragione di conve85
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nienza che il filosofo viene obbligato a curare gli affari dello Stato, essendo il suo disinteresse la migliore garanzia di un'equa amministrazione del potere. Ma il filosofo si allontana dalla contemplazione delle idee con dispiacere, e solo per un'imposizione esterna, conseguente alla considerazione puramente economica che, essendo stato educato a spese dello Stato, deve poi ricambiare. Ma quale la ragione filosofica non del fatto che il filosofo regga lo Statoma più radicalmente che lo Stato sia? E che con lo Stato perduri il mondo visibile, il mondo sensibile, il mondo esteriore privo di ve· rità? Che perduri la vita? Il problema qui posto, è chiaro, è dinatura non politica, ma antologica. Attiene all'essere stesso. Forse il filosofo ritorna nella caverna per realizzarvi la Città ideale? Invero Platone stesso non manca di osservare, nella Repubblica, che egli va descrivendo un modello di uomo e di Città, e che il problema non è di trasporre tal quale, in questo mondo, il modello idealeimpresa impossibile, anzi contraddittoria nel suo stesso assunto, altro essendo !"'idea", altro il mondo sensibile; bensì di avvicinare la realtà sensibile all'ideale. Ma perché questo compito? Nel descrivere la figura del Maestro Socrate, Platone argomenta e spiega l'esigenza dell'anima di esercitarsi alla morte, di sciogliere i ceppi che la tengono avvinta al corpo; ma del ritorno alla vita, al mondo dei sensi non fornisce che un racconto, al più invocando a sostegno della sua tesi l'autorità dei poeti. È un limite di Platone, della sua capacità argomentativa- o non stiamo qui di fronte a un limite della ragione che giunta al suo culmine non può che tornare a narrare? Certo il "mito" della filosofia non ha più la sorgiva innocenza del miro che è prima della filosofia. Ma è bene non anticipar troppo. Ora dobbiamo discutere le ragioni che Socrate adduce a dimostrazione della tesi che «ricercare e apprendere sono totalmente anamnesi».
1.4 L'immortalità dell'anima e la dialettica L'argomento principe è quello dei contrari: come dal caldo il freddo, e viceversa; come dal lento il veloce, e da questo a quello, così dalla vita la morte, e dalla morte la vira. Se la vita precipitasse nella morte e non ci fosse ritorno, allora si avvererebbe il 86
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detto di Anassagora: omoU pànta chrémata, tutte le cose insieme, fuse nell'unità indistinta della morte (Pedone, 72c-d). Che questo non accada lo mostra il ciclo perenne della vita che di continuo si rinnova. Platone si rifà all'antica dottrina orfica della reincarnazione delle anime. Cita Pindaro: Perché Persefone rinvia nuovamente in alto verso il sole nel nono anno, le anime di quelli che hanno scontato la pena di antica colpa, e da esse emergono re illustri e uomini potenti per forza ed eccelsi per sapienza; e per il resto dd tempo sono onorati tra gli uomini come eroi senza macchia. (Menone, 8lb-c)
Nella versione platonica il ciclo deHe successive reincarnazioni è condizionato dal tipo di esistenza che le anime hanno condotto durante la loro permanenza in questo nostro mondo: quelle che vissero praticando sapere e virtù si reincarneranno in uomini parimenti virtuosi e saggi, e potenti, le viziose dovranno attendersi invece il misero destino di un'esistenza puramente animale. Di questo aspetto della dottrina platonica dell'anima ci interessa rilevare non l'esplicita concezione morale, bensì l'antologia che è nello sfondo. L'antologia del rapporto necessario, e indissolubile tra immortalità e vita, mondo ideale e mondo sensibile: è tanto necessario questo a quello, che il destino futuro dell'anima dipende dal modo in cui essa si è condotta nella vita trascorsa nel mondo. L'immortalità è condizionata dalla vita mortale. La so· stanza - ciò che permane - dagli accidenti - ciò che di volta in volta accade. Ma le cose stanno veramente così?
1.5 L'itinerario della conoscenza lovero ciò che deH'anima dipende dalla sua condotta non è l'immortalità, che resta tale, quale che sia il suo comportamento. Dipende il modo della sua vita mortale. Certo non di questa o quella vita mortale, ma dell'intero ciclo, pur esso immortale, di vite mortali. Ma questo non fa che ribadire la separazione tra im-
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mortalità e vita. Tra mondo ideale e mondo sensibile. L'anima considerata in ciò che le è più proprio, anzi in ciò che solo le è proprio, in ciò e per ciò che non si può sopprimere senza sopprimere l'anima stessa- è, e resta, altra non solo rispetto a una singola vita mortale, ma rispetto all'intero ciclo della vita. L'anima è un punto che attraversa l'intero circolo vita/morte/vita senza esserne affetta- per ciò e in ciò, ripetiamo, che solo le è proprio: la sua essenza immortale. Quanto si è detto riguardo all'anima trova la sua migliore conferma nell'analisi della conoscenza. Rifacciamoci alle pagine della Repubblica, ai libri VI e VII, in particolare. Dopo aver distinto ciò che assolutamente è, epperò è assolutamente conoscibile, da ciò che assolutamente non è, epperò non è assolutamente conoscibile, Platone riconosce esservi una regione imermedia, quella dell'essere che non è, o anche del non-essere che è: l'ampia regione delle opinioni. Sin qui nulla di diverso da quanto si legge nel poema di Parmenide. Particolarmente se si tien conto del fatto che come Parmenide anche Platone sostiene che l'educazione del filosofo deve mirare alla liberazione dalle opinioni. Il cammino è arduo e Platone ne fissa le tappe: dall'opinione (d6xa) alla credenza (pirtis), quindi alla conoscenza dianoetica, per giungere infine alla imellezione noetica, quale si realizza nella dialettica. Le prime due tappe dell'itinerario della conoscenza appartengono a quella zona intermedia di cui s'è detto, ave propriamente non c'è scienza, perché nulla è saldo, né nel conoscere né nell'essere, ogni cosa e ogni nozione essendo e non essendo insieme. Il sapere vero inizia propriamente con la conoscenza dianoetica, e cioè con la matematica. Ma la verità di questo sapere resta condizionata dalle ipotesi da cui il conoscere muove, per cui le sue conclusioni sono valide a patto che lo siano le premesse. Che sono l'indimostrato della dimostrazione dianoetica. Solo l'intellezione noetica giunge non solo a provare le conclusioni, ma a dimostrare la validità delle ipotesi. Meglio: la conclusione della dimostrazione noetica non è che la prova della validità dell'ipotesi. La conoscenza noetica toglie l'ipotesi in quanto ipotesi, dimostrandola. La conoscenza noetica è un circolo che, ruotando su se stesso, si sopprime. Perché? Perché se è l'ipotesi che mette in movimento il processo conoscitivo, la di88
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mostrazione dell'ipotesi, ossia il toglimento dell'ipotesi in quanto ipotesi, chiude il circolo della dimostrazione. Non v'è altro da conoscere. La fine non si congiunge con l'inizio nel senso che riapre il processo: il fine del conoscere ne è insieme la fine. E non è secondario il fano che proprio trattando della di alereica Platone giunga a una tale conclusione.
1.6 La dialettica verso il Silenzio Dialettica viene da dialéghesthai. È connessa a dialogo, a quella forma discorsiva che si realizza tra più persone. Ma v'è anche il dialogo dell'anima con se stessa. E a questo dialogo pensa certamente Platone in tutte queste sue pagine, del Menone, del Fedone, ma non meno della Repubblica. Al dialogo dell'anima con se stessa, con la sua interiorità, col suo essere profondo, quello che non è immediatamente visibile, ché non si mostra al mondo, quello che non è udibile nelle parole dette, pronunciate, ma che pure è al fondo di queste. La dialettica è essenzialmente il cammino della parola verso il Silenzio. La dialetcica intende portare, infatti, a parola ciò che è oltre la parola. Intende portare a parola, a significato, ciò che genera parole e significati: to pràgma, la prassi della filosofia, il dialogo non come concerto di voci, come sillogismo, comunione di logoi, ma come l'operare stesso della filosofia, che è silenzioso perché sempre più profondo delle parole dette, dei significati espressi, e pur di quelli ancora da esprimere. Perché sempre oltre l'opera sua. Pure nel dire il Silenzio, nel dire la sua prassi, e proprio per rispettarne l'ulteriorità -la hyperoché, per dirla con Platino -la parola si tace. Giunta al Silenzio, all'zpotesi d'ogni ipotesi, al sostegno d'ogni sostegno, all'ultimo sostrato, la parola non ha più niente da dire. La dialettica che è movimento s'acquieta. La dialettica che dovrebbe congiungere prassi e linguaggio raggiunge la prassi pura solo col silenzio, togliendo alla parola la possibilità di un nuovo inizio; in tal modo la prassi neppure è più prassi: non parla, non fa nulla più. La filosofia, non più solo la sua figura mortale, il filosofo, muore. La perfezione è la fine. ll fine la fine. Il ritorno alla vita è affidato al mito. Al mito di Er. Racconto 89
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stupendo della condizione umana, dell'uomo che viene al mondo con un destino già tracciato, già scelto. Quando? Nel tempo passato che si conquista solo con la morte, nella morte. Nel tempo passato che non è storia, che non è scelto, che non d appartiene, anche se noi apparteniamo a esso. Non ci appartiene, se neppure sappiamo perché torniamo al mondo. Se, morti, nessun desiderio di vita ci spinge a tornare in questo mondo, che da filosofi abbiamo cercato di abbandonare pur da vivi.
1.7 L'identità oltre la dialettica Se, dunque, non v'è ragione alcuna- ragione che la filosofia sappia addurre- al ritorno di Er dall'Ade alla terra, allora non solo la divisione in due del cosmo è destinata a finire, ma è destinato a finire anche il cosmo noetico. È destinata a finire la molteplicità cometale nell'unità indistinta. Omoiì pànta chrémata, tutte le cose insieme -questo il destino del mondo che il filosofo conosce in anticipo? e a cui, pur quando lo neghi, nel profondo dell'anima anela? Ma forse siamo andati troppo in fretta alle conclusioni. E infatti: perché la fine della molteplicità sensibile dovrebbe comportare la fine della pluralità delle idee? Certo è per l'idea del bello in sé perfetta che sono possibili le sempre imperfette opere belle dovute alla mano dell'uomo, e lo stesso dicasi dell'idea del giusto, e dell'armonia, e dell'eguaglianza, e delle altre tutte parimenti in sé perfette, riguardo alle corrispondenti opere umane, pur queste sempre imperfette; ma da ciò non si può ricavare che la fine dd sensibile rechi con sé la fine dell'intelligibile. Semmai è vero il comrario: la fine del molteplice intelligibile comporterebbe il venir meno della molteplicità sensibile. Non la misura dipende dal misurato, ma ben il contrario. Solo che ...
1.8 La dialettica negata. La Repubblica Solo che la pagina di Platone parla in senso opposto. Ricordiamo quanto Socrate afferma nel VII libro della Repubblica: vi sono alcuni oggetti che stimolano il pensiero perché provocano impressioni 90
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opposte, come il numero c l'unità (524d). Questa infatti sempre s'accompagna al molteplice, nessuna cosa essendovi che non sia insieme una e molte. Ma quando il pensiero s'è messo in moto, allora ciò cui mira è }"'identità" pura, l'identico non commisto al diverso. E solo nell'imellezione di questa identità pura, che ha allontanato da sé ogni opposizione, perché ogni imperfezione, potrà il pensiero noetico appagarsi, scorgendo in essa quella «meta dove chi giunge potrà ristorarsi del cammino percorso e porre termine al suo viaggiare» (532e). A questa dialettica positiva che muove dall'opposizione per negarla, Platone contrappone la dialettica negativa di quanti si valgono dell'opposizione per dimostrare tutto e il contrario di tutto, restando felicemente immersi nella contraddizione. - Non ti rendi conto di quanto sia grande il male che oggi circonda la dialettica? (537e) -Credo che non ti sia ignoto che i giovincelli, non appena assaporano la dialettica, se ne servono come per giuoco, usandola sempre per contraddire; e, imitando chi li confuta, confutano poi essi stessi altre persone c si divertono come cuccioli a tirare e a dilaniare con il discorso rh i via via venga loro a tiro. -Sì, si divertono straordinariamente- rispose. - E quando hanno essi stessi confutato molti e da molti sono stati confutati, eccoli precipitarsi impetuosi e rapidi, a rinnegare tutto quello che ritenevano prima. Ecco perché di fronte agli altri sono screditati essi stessi e coinvolgono nel discredito l'intero mondo della filosofia. (539b-c) Dialogare è giusto, e così dibattere, confrontare le opposte ragioni e argomentazioni, ma bisogna arrivare a una conclusione, e che le opposizioni siano vinte, tutte, che si scopra l'essenza in sé incontraddittoria della cosa. Se, per contro, l'anima resta invischiata nella dialettica - allora essa si perde. Il paradosso della dialettica è questo: il suo impiego è felice se coincide con la sua negazione. Platone deve negare la dialettica per salvaguardare la serietà del lavoro filosofico. Se la filosofia non si nega, non si salva. Sowiene l'immagine della filosofia dettata dal giovane Wittgenstein, come di una scala che si mette via una volta usata. Purtroppo la fine della dialettica segna la fine del molteplice, del mondo- e sensibile e noetico. La pura identità, pura perché priva 91
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di opposizione e di contraddizione, l'unità liberata del molteplice, la meta agognata, ave il viaggio s'arresta, non è vita, ma morte. Perché l'aspirazione somma del filosofo non fosse la morte, perché il mondo dell'intellezione noetica fosse un mondo vivo -era necessario operare una svolta radicale. Era necessario togliere la separazione tra i due mondi, portando la dialettica e il suo movimento nel cuore stesso dell'intelligibile. Era necessario correre il rischio di perdersi nelle opposizioni e nelle contraddizioni, riconoscendo a queste dignità di "idee". E di idee somme, di quelle che reggono l'intero universo ideale. Era necessario amare il viaggiare senza meta e senza sosta. Era necessario sentirsi estranei anche a casa propria. Sovrattutto a casa propria. Senza peraltro perdere il sentimento fondamentale della fllosofia: la nostalgia, qualcosa anche di più del semplice «impulso di sentirsi ovunque a casa propria» («das Trieb zu flause iiberallzu sein», Novalis).
2. La svolta della dialettica platonica: dall'identità alla contraddizione La svolta radicale è annunciata nella prima parte del Parmenzde. A tener banco è ancora Socrate. Contro quanto aveva precedentemente sostenuto nella Repubblica, e cioè che la compresenza degli opposti in un medesimo oggetto stimola il pensiero alla ricerca dell'identità, Socrate afferma ora, in polemica con l'allievo di Parmenide, Zenone, che non v'è nulla di straordinario in tale compresenza, essendo un fatto di ordinaria esperienza. Degno di meraviglia (thaumast6n) sarebbe invece poter mostrare che l'uno in quanto uno è molteplice, e il molteplice come tale è uno, e parimenti il simile dissimile, la quiete moro, e così via con le altre idee. Davvero stupefacente sarebbe mostrare in ogni idea la potenza di congiungersi con la sua opposta e insieme di separarsene (129d-c). È ben evidente che anche il fine della dialettica è mutato rispetto alla Repubblica: non è più l'identità fuori e oltre l'opposizione. Platone s'allontana dalla sua dottrina anzitutto per bocca del suo Maestro. Intende così mostrare che la "svolta" nasce da una esigenza interna alla stessa dottrina delle idee. Poi, però, asse92
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gna a Parmenide il compito di portare sino in fondo la critica alla sua teoria, e a Socrate quella di sostenerla. Perché? Perché vuole rimarcare lo stacco, la svoha. Non che Pla[Qne attribuisca a Socrate la dottrina che ora abbandona, come per sottrarsi in anticipo alle critiche di Parmenide. La sua identificazione con il Maestro è tale che nell'allontanarsi da sé, egli awerte di allontanarsi anche dalla sua prima guida. n fatto è che qui non è in giuoco solo una "teoria", è in giuoco una "dottrina" che è insieme "prassi". È in giuoco un comportamento di vita: il rappono col mondo. La "svolta" è in primo luogo una svolta "etica". Ma perché la critica a tale dottrina è rimessa a Parmenide? Diciamo prima della critica, poi delle possibili ragioni per cui viene affidata al vecchio Eleate.
2.1 La critica della dottrina delle idee.
n Parmenide
La prima obiezione, espressa da Parmenide in forma di domanda - vi sono nel cosmo intellegibile anche le idee delle cose senza pregio, degli atim6tata, del fango, del sudiciume? e se non vi sono, come spiegare questi enti inferiori? - rivela che le idee più che essere modelli del mondo sensibile ne sono soltanto la copia idealizzata. La seconda mostra come la separazione dei due mondi, il sensibile e l'intelligibile, se dà ragione tanto del conoscere puro, del conoscere che il dio comunica a profeti e poeti, del possesso inconsapevole della Verità, quanto del mero opinare, della philo-doxia dei sofisti, non spiega invece come sia possibile quel sapere erotico, mediano, né solo umano, né puramente divino, che vorrebbe essere la phzlo-sophia, che è ricerca del Vero e non possesso, o se si vuole, possesso solo perché insieme ricerca. Se poi s'invoca -questa la terza critica -la somiglianza tra i due mondi, l'ideale e il sensibile, si deve opporre che della somiglianza stessa è necessario affermare l'idea, e pertanto il rapporto a due si complica in uno a tre termini, nel rapporto tra la somiglianza di questi due mondi e l'idea di somiglianza, aprendosi così un processo all'infinito. Evidente che qui Platone anticipa l'argomento aristotelico cosiddetto del "terzo uomo". E infine, se l'idea, che è una, si partecipa del molteplice sensibile, può 93
Ft1osofiateoretica
parteciparsi o nella sua totalità o solo in parte. Se si partecipa nella sua totalità, allora essa si moltiplica per quanti sono i sensibili cui si partecipa; se solo in parte, si divide all'infinito, perdendo la sua natura, il suo esser-una. Prima di chiudere con le critiche di Parmenide alla teoria delle idee, torniamo per un accimo sulla prima domanda-obiezione .. Nel rispondere al suo interlocutore, Socrate dichiara che non gli sembra possibile che anche le cose indegne abbiano un corrispondente modello nel cielo delle idee. Replica Parmenide: un dì, quando la filosofia si sarà impadronita completamente di te, oudèn autim atimasefs, non disprezzerai più nessuna di quelle cose. Nulla è in filosofia disprezzabile. Compito primario della filosofia è comprendere: rutto. La dottrina che separa in due il mondo è, nella sua essenza profonda, antt/i!oro/ica. Questo dice Parmenide, il Soph6s. Ma, quando al termine della sua spietata critica della teoria delle idee, Socrate gli confessa d'esser perplesso su tutto, non avendo più alcun punto di riferimento per orientarsi in filosofia, proprio lui, Parmenide, l'avverte che senza eidos, senza ciò che resta zdentico nel variare degli emi, non soltanto non si saprebbe più dove volgere il pensiero (6poi trépsei didnoian), ma verrebbe meno la stessa possibilità di dialogare (ten toiì dialéghesthai djnamin) (135b-c}. La critica della dottrina delle idee poteva esser condotta solo da Parmenide, perché solo dopo la negazione della divisione dell'universo in due era possibile introdurre nel mondo delle idee, nel cosmo noetico dell'identità e dell'unità, la dialettica. E con questa non semplicemente la molteplicità, ma la contraddizione. La contraddizione e la sua negazione; e questa non come il risultato della dialeccica, non come la verità che è oltre la contraddizione, bensì come elemento della contraddizione medesima, comc momento della dialettica. La negazione della contraddizione come suprema contraddizione, come la contraddizione della contraddizione, epperò non fuori, non al di là della contraddizione, ma in e come questa medesima. La negazione della contraddizione: contradictio contradictionis. Non è facile comprendere questo cammino di pensiero che non è in cerca di pace, di quiete, che in ogni risposta scorge una nuova domanda, in ogni meta solo un nuovo inizio. E in ogni 94
Dialettica!Erùteflw
nuovo inizio solo il riflesso di quello più antico ed essenziale, quello che forse abbiamo dimenticato. Platone stesso non ci aiuta nel cammino, ché l'ordine e il progresso del suo domandare non corrispondono affatto alla successione dei suoi scritti - ammesso pure che di questa successione si possa avere conoscenza cerca. Ma l'ordine e il progresso del pensare sono affatto indipendenti dall'ordine estrinseco della cronologia. Anche della cronologia dei propri scritti.
2.2 Il parricidio di Platone. Il "semplicemente essente", l'essere e la copula Soffermandosi sull'affinità linguistica era ousia (l'essenza: ciò che è proprio dell'essente come tale) e bestia (il focolare domestico, la dimora in generale) - già rilevata da Platone nel Crati/o: «L'ousia sarà stata chiamata bestia anche perché noi diciamo che éstin {è) rutto ciò che rientra nell'ousia» (401c) -,Platino osserva che ousfa è bestia in quanto accoglie in sé rutti gli enti (En, v, 5, 5). I confini della casa dell'essere sono i confini stessi dell'univer· so: nulla ne è fuori. Rileviamo che Platino (cfr. tbtdem) esplicitamente identifica ous{a con to on (l'essente) e to einai (l'essere). Domanda: dicono il medesimo "essere" (einat), "essente" (to on), "è" (éstin)? Cerchiamo di rispondere a questa domanda richiamandoci a quelle pagine del So/ista ove Platone parla del "parricidio" da lui commesso, per aver violato il principio di Parmenide introducendo il non-essere nell'essere. Ricordiamo le tappe fondamenta· li del discorso platonico. L'identico è tale in quanto non-diverso; se non si differenziasse da questo neppure sarebbe se stesso. Il medesimo va detto riguardo al moto e alla quiete. Ne discende che l'un termine per essere rinvia all'essere dell'altro. L'essere dell'uno è però il non-essere dell'altro, che pure in sé è- e deve essere perché anche il primo sia. Il non-essere quindi è relativamente e non assolutamente non-essere, e cioè: non contrario (enant{on) all'essere, ma diverso (éteron) dall'essere. Diverso, perché il moto, la quiete, l'identico e il diverso, non sono certamente "essere", dacché dire identico non è lo stesso che dire 95
Fdo10/io teoretico
"essere", poi che anche il "diverso" è "essere". Ciascun termine è ''essere" e non lo è. Platone dice: partecipa dell'essere. Così come l'identico, che non-è il diverso, partecipa di questo per poter essere quello che è: diverso dal diverso. Domanda: ma v'è solo questo "non-essere" relativo, il non-essere rappresentato da moto e quiete, identico e diverso? Non v'è anche il "non-essere" non determinato, il "non-essere" che nega la totalità dell'essere e non soltanto questo o quell'"essere" particolare? Chiaramente solo se si risponde a questa domanda negando la possibilità stessa del non-essere assoluto, dell'indeterminato nonessere, potrà dirsi compiuto il "parricidio" di Parmenide.
2.3 Il So/ista c le ipotesi del Parmenide sull'uno ed il molteplice Platone non si pone direttamente questa domanda, non se la pone nella formulazione esplicita che ne abbiamo dato noi. Ma pur vi risponde. In che modo? Cominciamo con l'osservare che le cinque "idee", o "generi" del SofiSta non sono su un piede di parità. Per esempio: la partecipazione del moto alla quiete è facilmente comprensibile: il moto deve permanere nel suo stato per esser .moto; ma in che modo la quiete partecipa del moto? Essenzialmente diversa da quella degli altri "generi" è poi la condizione dell"'essere". E non solo perché sol esso partecipa di tutti gli altri generi- sempre; ma anche perché esso, l'essere, è il presupposto di ogni "partecipazione". Anche della partecipazione di sé agli altri generi. Che debbono in qualche modo essere perché !"'essere" si partecipi ad essi. Se già non fossero secondo il modo che loro è proprio- se già non fossero identico e/o diverso, moto e/o quiete -indipendentemente dal parteciparsi ad essi dell'" essere", allora da questa partecipazione dovrebbero ottenere con l'" eSSere", col semplice "essere", pur la loro determinazione specifica, l'identità e la diversità, la quiete e il moto. Il che non è. Non v'è dunque un solo "significato" di essere: quello determinato delle cinque idee-generi (e altri possono seguire o accompagnarsi a essi); v'è anche quello indeterminato, che è indipendente dalle singole e 96
DwicttlàlfEsistenw
molteplici determinazioni possibili. Quesro essere indeterminato - qui il punto centrale della questione- ha un enantion, un con· trario? Per averlo dovrebbe essere determinato, dovrebbe essere altro da quello che è: non indeterminato ma identico o diverso, moto o quiete, per restare agli esempi di Platone. Il "parricidio"- il vero parricidio- compiuto da Platone è nella negazione del non-essere assoluto. Paradossalmente nella radicalizzazione di Parmenide. Solo la negazione del non-essere as· soluto dà forza all'affermazione del non-essere relativo. Solo la negazione dell'enantion dell'essere consente l'affermazione del non-essere come éteron dell'essere. Come sopra si diceva: Hestia, la dimora dell'essere, non conosce confini: tutto è in essa, anche il non-essere. Ma ... Ma è giusto tenere indistinti "essere", "essente", "è"? Forse il vero parricidio non è stato ancora compiuto. A com· pierlo Platone chiama Parmenide stesso. Solo Parmenide può uccidere Parmenide. Ritorniamo al punto in cui avevamo lasciato il vecchio Soph6s e il "molto giovane" (sph6dra néos) Socrate. Molto giovane, ma non abbastanza per essere l'interlocutorc ideale di Parmenide nel "faticoso giuoco" cui Zenone e gli altri l'avevano trascinato: il giuoco delle ipotesi sulle "idee". Già, perché una volta ricono· sciuro che è impossibile fare a meno dell"'idea", di ciò che permane identico e ~no nel mutare dell'esperienza, non altro resta che esaminare tutte le possibili ipotesi riguardo all'uno e al molteplice, e ai loro rapporti, ciascun d'essi con sé e con l'altro da sé, considerando quali conseguenze discendano da ognuna delle ipotesi. Scelto come interlocutore il più giovane (ho ne6tatos) tra i presenti, perché - è da presumere - meno condizionato dalle opinioni del mondo, Parmenide inizia il giuoco movendo dall'i· potesi: "se uno è uno" (ei hen hen). Se uno è uno- che significa? Significa considerare l'uno solo in rapporto a sé- e non ad altro. Non in rapporto al moto, né alla quiete, né al tempo, né ai molti; non in rapporto all'identico, né al diverso. Talché non si potrà dire che l'uno è identico a sé, né diver· so dal molteplice, dal moto, dalla quiete, dal tempo, e dai loro con· trari. Non essendo diverso da nulla, neppure sarà identico a sé. ll sé si costituisce, infatti, in rapporto all'altro. Il rapporto a sé è sem97
Filoro/ioleore/ica
pre insieme rapporto all'altro. Conseguenza: prendere isolatamente l'uno comporta non poter avere esperienza alcuna di esso, né sensibile, né intelligibile; comporta non poter dire nulla di esso, né che è, né che non è. L'uno si ritrae in uno spazio irraggiungibile pur dal linguaggio: non è uno, infatti, più che molteplice. lovero non è né uno, né molteplice. Neppure "non-è". Tanto l'"essere", quanto il "non-essere" gli sono inadeguati. Siamo qui davanti a un "essente" affatto indeterminato. Questa indeterminatezza, limite del pensare come del dire, ci avverte di una differenza tra "essente" ed "essere" su cui dovremo tornare in seguito. Seconda ipotesi: se l'uno è (hen ei éstin). "Se è" dice: se si rapporta all'essere, se si rapporta all'altro da sé. Infatti "uno" non dice "essere": che qualcosa sia "uno" anziché "molteplice" non implica che "sia". Pertanto l'" uno che è" non è "uno" ma "due", in quanto composto di "uno" e di "essere". Non basta: se "uno che è" è composto di due, anche ciascun termine di "uno che è" -e "uno" ed "è" -è due: "uno" per quel che s'è già detto, "è" perché partecipa di "uno". Talché "uno se è" non è uno ma "molteplice"- e di una indefinita molteplicità, perché il processo di reduplicazione dei termini, com'è facile intendere, non si arresta al quattro. Chiaramente qui Parmenide sta applicando contro se stesso l'argomento (che poi Aristotele chiamerà del "terzo uomo") prima fatto valere contro la dottrina delle idee. Quale il senso di tutto ciò? Non ci vuoi molto a capirlo. Nel mondo delle idee si riproduce la medesima frattura che abbiamo precedentemente visto nel rapporto tra mondo intelligibile e mondo sensibile. Ma bisogna dire di più: nel mondo delle idee, delle pure idee, la frattura è ancora più profonda. Perché se in qualche modo l'anima, pur anelando a sciogliere i legami che la tenevano awinta al mondo sensibile, riusciva comunque a portare in questo una qualche unità o connessione, per imperfetta che fosse, o almeno a immaginare di riuscirvi; la dialettica delle pure idee mostra invece con la separazione tra uno e molteplice, da un lato l'inafferrabilità dell'uno, dall'altro la dispersione infinita del molteplice, la sua inarrestabile disseminazione. La dialettica elevata al piano dell'assoluto e dell'idea rende impossibile spiegare l'uni-verso: la connessione di uno e molteplice. Nel mondo delle idee essi non entrano neppure in conflitto -semplicemente si ignorano. 98
Dtolettico/Esistenl4
2.4 La terza ipotesi Terza ipotesi. È Platone che la nomina: to trfton. La precisazione è necessaria perché tra le tante discussioni che il Parmenide ha fatto sorgere lungo i secoli, gran parte di queste è stata dedicata al numero delle ipotesi. Non è un caso che a negare addirittura l'esistenza di una terza ipotesi si sono distinti coloro che hanno negato rilevanza filosofica al Parmentde, considerato appunto solo un giuoco di ginnastica mentale, un divertissement filosofico ad alto, altissimo livello, ma solo questo, un giuoco, un divertissement. lovero il pafzein di cui parla Platone nell'introdurre la seconda parte del dialogo non ha nulla del gioco scherzoso, del divertimento, che quand'anche elevato si allontana comunque dall'impegno serio della vita e dalla responsabilità del ragionare filosofico, sempre mosso da una interiore necessità; richiama piuttosto la libertà di movimento, l'assenza di qualsiasi costrizione esterna che caratterizza il giuoco del fanciullo divino di cui parla Eraclito nel noto frammento. Il giuoco del Parmenide è dawero un "giuoco divino". Dalla sua dialettica dipende il senso del mondo. Se v'è un mondo, se v'è un senso. To tr!ton: di che tratta questa terza ipotesi? Del "terzo", del Medio tra la prima e la seconda ipotesi. Siamo nel cuore stesso del nostro problema: la congiunzione dell'uno e del molteplice. Dell'idea dell'uno e dell'idea del molteplice. La riflessione muove dal concetto di partecipazione (metéchein) dell'uno all'essere. Come riassumendo i risultati delle prime due ipotesi (e non della seconda soltanto), Parmenide osserva che talora l'uno partecipa dell'essere, talaltra no. Quindi chiede: - Quando vi partecipa sarà in condizione di non parteciparvi, o quando non vi partecipa, di parteciparvi? -No, di ceno. -Quindi in un tempo vi partecipa, in altro no: soltanto così, infatti, è possibile partecipare e non partecipare di uno stesso. (155c)
V'è dunque il tempo dell'uno che partecipando all'essere è molteplice, e moto, e diverso, e il tempo in cui è uno, quiete, identico. Leggiamo bene; il tempo in cui l'uno è quiete e identico, il tempo 99
Fi/orofiateoretica
in cui resta nell'unità, se è il "tempo" della prima ipotesi, neppure invero è tempo. È il "non" -tempo della "non"-quiete, della "non"identità, del "non" -uno. Tutro ciò che nella prima ipotesi vien detto è sotto il segno della negazione: quiete qui sta per non-movimento, identico per non-diverso, uno per non-molteplice. Ma il "non" è tanto "non" che si riflette su se stesso: la quiete è nonquiete, l'identico non-identico, l'uno non-uno. Ma di ciò s'è già detto trattando della prima ipotesi. Quello che ora va rilevato è che il tempo segna il discrimine tra l'uno e il molteplice, quiete e moto, identico e diverso- o, più esattamente: tra il No e il Sì, tra Negazione e Affermazione. V'è insomma il tempo (non-tempo) dell'unouno, dell'uno che non partecipa ad altro, e il tempo del suo partecipare all'essere, e con l'essere alle altre idee. Il non-tempo dell'uno, della non-partecipazione, e il tempo dell'altro, della partecipazione. Bene, quando passa dal non-partecipare al partecipare e da questo a quello? Quando? La risposta è secca: en chr6no oudeniin nessun tempo. E infatti come potrebbe passare dalla non-partecipazione alla partecipazione, e viceversa, nel tempo, se il tempo è proprio della partecipazione? Ma, attenzione: l'esclusione del tempo è qui così radicale da escludere anche il "non" -tempo della non-partecipazione. E infatti come potrebbe passare dalla nonpartecipazione alla partecipazione, e viceversa, nel non-tempo, se il "non" -tempo è proprio della non-partecipazione? Il passare avviene nell' exaiphnes, istantaneamente: è un passare senza tempo, epperò un passare che non diviene, che non muta, che non passa. Lexafphnes ha una strana natura (phJsis dtopos), ché «giace frammezzo (metaxJ) al movimento e alla quiete» senza essere né movimento né quiete. Se non è nel tempo, neppure è spazio: la stranezza della sua natura è di essere un dtopon metaxJ, un frammezzo non spaziale, un luogo-non-luogo. lnvero per definirlo sono necessarie insieme l'affermazione e la negazione, è necessario dire e disdire insieme, è necessaria la contra-dizione.
2.5 L'anima del giudizio Strana non è però solo la "forma" dell'exaiphnes; lo è parimenti il "contenuto": ovvero ciò che in esso avviene. 100
Dialettica!Es1slen1A
Diamo la parola a Platone: -E l'uno così, se appunto sta e anche si muove, si muterà in ciascuna delle due condizioni; soilanto così potrà partecipare di ambedue le condizioni, e, mutando, muta istantaneamente e memre muta non è in nessun tempo, non si muoverà allora, né starà. -No, infatti. - Analogamente è anche per gli altri tipi di mutamento, quando passa dall'essere al perire e dal non-essere al venire all'essere, allora esso viene a essere fra determinati moti e determinati stati, e allora né è né non è, né viene all'essere, né perisce. Non è vero? - Almeno pare. - Per lo stesso ragionamento anche quando passa dall'esser uno all'esser mobi e dall'esser molti all'esser uno, non è né uno né molti né si divide in parti né si rifonde in uno, e quando passa dal simile al dissimile e dal dissimile al simile, non è né simile né dissimile, né si assimila né si dissimila, e quando passa dall'esser piccolo all'esser grande, all'esser uguale e viceversa, non è piccolo, non è grande, non è uguale e nemmeno aumenta in grandezza, diminuisce, si eguaglia. (156e~157b)
Siamo qui davvero davanti al thaumast6n di cui parlava all'inizio del dialogo il molto giovane Socrate. Siamo innanzi alla contra-dizione pura che né divide né unifica (oUte diakrinetai oUte sugkrinetat), ma dividendo unifica, unificando divide. E che nel far ciò, è al di là, meglio: al di qua, dell'unificare e del dividere. La dialettica delle idee replica in qualche modo - e cioè: radicalizzandola - la dialettica tra mondo sensibile e mondo ideale. Come in questa vi sono tre termini: l'idea, il mondo e l'anima, così nella dialettica delle idee troviamo l'Uno, il Molteplice, e, to trfton, il Medio. Ma se l'anima, nella sua essenza, partecipava solo dell'idea, essendo la sua presenza nel mondo sensibile soltanto conseguenza di un'esterna, inspiegabile costrizione, il Medio della dialettica delle idee è pienamente autonomo rispetto a entrambi gli estremi, al punto da sottrarsi a ogni determinazione, per accoglierle in sé tutte. Se a6riston è l'Uno, non meno lo è il Medio. Che pure bisogna tener distinto da Uno. E se con essere intendiamo la totalità del molteplice - la dimora che accoglie in sé ogni ente determinato-, e con essente- con ap!Os on, il sem101
Ft!oso/iatcorctica
plicemente essente, non l'ente determinato che, insieme con tutti gli altri emi parimenti determinati, abita nella casa dell'essere-, e con essente l'Uno, ch'è di là dell'essere stesso, allora "è" (éstin) è pur esso fuori della casa dell'essere, in quanto indeterminato, ma neppure può esser detto "essente", non al modo, almeno, in cui lo si dice di Uno. Volendo tornare là donde la dialettica ha preso le mosse, al linguaggio, possiamo ora in conclusione dir questo: se il giudizio è la forma caratteristica del dire, allora essendo Uno il soggetto e Molteplice il predicato, all'exafphnes, all'titopon metaxj, allo "strano frammezzo" della dialettica delle idee corrisponde la copula. La copula è il luogo-non-luogo ove si attua il "passaggio". Domanda: "ave" si attua o anche che attua? È nella copula che si manifesta e si cela insieme la prassi dd linguaggio? Certo nella dialettica delle idee la copula corrisponde all'anima, c cioè a quello o quegli che mette in opera la dialettica tra mondo sensibile c mondo intelligibile. Ma la copula è un'anima -l'anima del giudizio - che opera solo celandosi. E questo spiega perché la prassi del linguaggio si sottrae al linguaggio nell'atto stesso in cui viene detta, espressa, portata a parola, a "significato" Ma anche su ciò a suo tempo. Ora, accingendoci a chiudere il Parmenide, d resta da dire perché fermiamo alla terza ipotesi la nostra lettura. È presto detto: perché le altre sei sono variazioni sullo stesso rema, quello della contra-dizione. Ascoltiamo le parole con cui Platone chiude il dialogo: Si dica dunque [. .. ] che, sia o non sia l'uno, esso stesso e gli altri, [. .. ) e in rapporto a se stessi c in rapporto alloro altro, sono assolutamen· te tutto e non lo sono, appaiono esserlo e non appaiono. (166c)
3. Aristotele e l'esorcizzazione della dialettica Dall'Index Aristotelicus del Bonitz risulta che in nessuno scritto dello Stagirita è mai citato il Parmenide; il che testimonierebbe, secondo Calogero, che nella stessa Accademia platonica a questo dialogo non veniva amibuita molta importanza. Calogero censi· derava il Parmenide uno "scherzo" filosofico-letterario: Platone 102
Dialellica/Esisten7.A
avrebbe scelto l'ironia per confutare l'eleatismo megarico, mostrando a quali assurdità conducevano le argomemazioni di quell'indirizzo di pensiero. Facile capire perché, in questa pro· spettiva, lo stesso exafphnes venga definito «una cosa poco seria»; più difficile, invece, intendere come questa «stravaganza» possa essere stata, e «non a torto» ritenuta «il culmine speculativo del dialogo e insieme di tutta la dialettica antica», sebbene soltanto «da un punto di vista puramente teoretico». Chiaramente la riduzione del Parmenide a un puro "scherzo" filosofico cozzava troppo aspramente con i ben diversi giudizi di Platino e Prode, Leibniz, Hegel, Kierkegaard, e pertanto, per non far torto a tali autori, Calogero distinse con un taglio netto teoresi da storia. Ma anche a voler attribuire loro la più fervida fantasia teorica, ci par strano, se non stravagante, ritenere che tali filosofi abbiano esercitato la loro non comune vii ermeneuti· co-speculativa proprio su una "poco seria" teoria platonica, elevandola al vertice del pensiero H.losofico antico. Dal punto di vista ermeneutico ci sembra più corretto scorgere nel silenzio di Aristotele sul Parmenide solo il segno di un radicale dissenso da Plalone riguardo al modo d'intendere la dialettica. Affermazione, questa, facilmente documentabile. Aristotele, infatti, separa nettamente il sillogismo apodittico, proprio della scienza, che muove da premesse certe, dimostrate, per giungere a conclusioni parimenti certe, dal sillogismo dialettico, le cui premesse sono invece éndoxa, opinioni, anche se le più accreditate tra i dotti. La dialettica nonché essere al culmine del sapere, neppure è più scienza. Essa è propriamente una tecnica dialogica, che è necessario non solo saper usare per condurre in modo concludente una discussione senza cadere nei lacci delle obiezioni eristiche, ma anche conoscere nelle sue regole fondamentali, attraverso l'individuazione dei principali schemi argomentativi, o tOpoi. La ricerca sulla dialettica deve quindi occuparsi dell'uso appropriato dei termini, delle omonimie, della concatenazione dei generi e delle specie, della definizione, del proprio. Insomma del linguaggio-"significato", di cui studia forme e strutture, convenzionali e non. li suo posto è accanto alla grammatica e alla retorica. Pertanto, se l'oggetto proprio della dialettica è il rapporto tra il linguaggio-"prassi" e il linguaggioIOJ
Ft1oso/tateoretica
"significato", va detto che Aristotele toglie alla dialettica il suo oggetto specifico. Permane comunque in Aristotele un nesso tra sillogismo dirne· strativo e sillogismo dialettico, questo potendo fornire a quello le premesse per via induttiva. Da regina del sapere la dialettica si trova così a essere tutt'al più ancilla scientiae.
3.1 Itinerari storico-filosofici La concezione aristotelica ha segnato il destino della dialettica. Durante il Medioevo, a partire in particolare da Sic et non di Abelardo, la dialettica viene intesa come quell'ars opponendi et respondendi ch'è necessaria a risolvere le controversie che nascono dall'interpretazione delle diverse, quando non opposte sentenze dei Padri della Chiesa. Una calzante definizione di questa ars disputandi è quella di Lamberto di Auxerre, riportata nelle Summulae di Pietro Ispano: «dicitur autem dyalectica a dya quod est duo, et /exis quod est ratio, vel /ogos quod est sermo, quasi ratio ve! sermo duorum, scilicet opponencis vel contradiccntis in dispmatione~~Una volta ridotto il linguaggio a "significato", ad esso non venne riconosciuta altra "realtà" che quella espressa, detta, intenzionata, che la realtà "oggetto" delle sue proposizioni. Si dibatté a lungo allora, e con molta sottigliezza, sulla "conformità" tra il contenuto delle proposizioni e l'ente in generale, l'ente mondano e pur quello trascendente l'esperienza del mondo, nei limiti in cui esso poteva essere "oggetto" di proposizione. E vi furono coloro i quali sostennero che tale conformità poggiava su una metafisica identità d'essenza tra gli oggetti delle proposizioni linguistiche e gli enti, fondando tale antologica identità sulla creazione divina, e coloro i quali affermarono invece la natura solo convenzionale, e umana, ditale corrispondenza. Naturalmente per i primi la dialettica assurgeva di nuovo dalla bassura delle opinioni alle alte vette della Logica e della Metafisica; per i secondi al contrario la dialettica veniva sempre più awicinata alla retorica e all'arte della persuasione. L'Umanesimo e il Rinascimento, pur ereditando dal Medioevo questo dibattito tra "realisti" e "nominalisti", risalirono alle sue fonti, a Platone e Aristotele. Per cui quando Francesco Picco104
Dialeuica/Esistr:nJA
lamini nel 1600 pubblicò a Venezia il De rerum de/initionibus liber unus, poté ben distinguere due significati del termine: l'uno, di origine platonica, secondo il quale la dialettica coincide con la logica della filosofia, in quanto non si ferma ai probabtlia ma s'eleva a trattare delle più alte questioni usque ad irresolubilia - e qui il riferimento al Parmenide, per quanto indiretto, appare innegabile-; l'altro, di derivazione aristotelica e ciceroniana insieme, secondo il quale la dialettica è il metodo di sillogizzare ex probabilibus, e insieme l'arte di distinguere il vero dal falso, di definire e interpretare ciò che è nascosto e/o ambiguo. Va però detto che per quanto le differenze tra "platonici" e "aristotelici" fossero notevoli, entrambi condividevano la concezione che l'essere del linguaggio nella sua totalità sia "significato", per cui anche coloro che maggiormente insistevano nell'evidenziare, con il carattere convenzionale del linguaggio, la condizionatezza e la relatività storico-sociale delle sue strutture, non ad altra prassi e ad altra storia facevano riferimento che a quelle già ridotte a oggetto di linguaggio, già portate a ''significato", già ordinate all'interno del sistema categoriale proprio del linguaggio costituito. V effettiva radice storica del linguaggio, e cioè la sua prassi reale, rimase fuori del loro orizzonte problematico. Un primo ac.cenno a questa radice profonda della storia e alla prassi linguistica originaria potrà trovarsi solo nelle pagine di Vico, che fu a ciò condotto dali' esigenza di superare la separazione di origine aristotelica tra Logica e Dialettica. Nella ricerca del principio universale d'ogni sapere e divino c umano, Vico fu dapprima portato a scoprire l'ordine eterno, universale e necessario per il quale soltanto è possibile la storia e la sua conoscenza, quindi a interrogarsi sull'origine stessa di questo ordine, sull'origine della mathesis universalis. È su questa via che s'imbatterà nella scoperta dellinguaggio-"prassi". Ma le sue credenze religiose, dandogli la risposta prim'ancora ch'egli avesse formulato con sufficiente chiarezza la domanda, impedirono a Vico di battere liberamente la strada che pur aveva genialmente intrapreso. Per trovare il problema dialettico nella sua formulazione più consapevole e profonda dobbiamo volgerei a Hegel. Con lui la tematica propria del Parmenide viene ripresa al massimo livello speculativo. 105
Fi/oro/iateorettca
4. Hegel: la proposizione speculativa e le prime categorie della Logica Un brano della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito- quello in cui Hegel evoca le lamentele contro l'«incomprensibilità degli scritti filosofici» 1 -ci rimanda direttamente alla VII Lettera di Platone. Il mdthema della filosofia - aveva scritto il filosofo greco non è assolutamente dicibile come nelle altre discipline, ché il "veramente essente" né dal nome né dalla definizione vien colto, né in immagine dai sensi, e neppure dalla verità della scienza; e Hegel: un testo filosofico va letto più volte per poter capirlo, perché la forma della proposizione è inadeguata al "contenuto filosofico" che con essa si vuole esprimere. Convinto come Platone dell'estraneità del mdthema filosofico al linguaggio comune, Hegel non rinuncia però al compito di portarlo a espressione linguistica e concettuale. E per motivi filosofici. Perché- è lui stesso che lo dice in queste pagine- «il superamento della forma della proposizione non può awenire in modo immediato, né in forza del suo mero contenuto».2 Vale a dire: non c'è una forma espressiva diversa da quella della proposizione, c neppure si può in filosofia rinunciare al linguaggio, attendendo che, passando di continuo dal nome alla definizione, dall'immagine alla scienza, la "cosa" (to pràgma) d'improwiso si illumini dentro di noi. No, il "puro contenuto", il contenuto puro d'ogni espressione, fuor del detto e dello scritto, semplicemente non c'è. No, per dirla con Valéry (e scusandoci dell'anacronismo: ma anche il "tempo" della filosofia non è quello della vita comune e quotidiana), tlfautfaire des sonnets; e in filosofia i "sonetti" sono le proposizioni, i giuc:lizi, i sillogismi, le dimostrazioni. 4.1 Dire l'inespresso Bisogna scrivere, dire, parlare la filosofia, portarla al linguaggio, senza però cadere nell'errore di pensare che il linguaggio si esaurisca nel "significato" delle proposizioni. Il linguaggio è di più, e 1 G.W.E Hegel, Fenomenologia, cit., vol. l, p. 53 [129]. 2 Ivi,p. 54 [131].
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Vlalelllcall:.ststenzo.
questo udì più" la filosofia intende comprendere pur esso in concetti, ché >. 16 Alla critica della dialettica zdealistica di Hegel s'accompagna, necessario pendant, la critica della dialettica materialistica. Come quella resta chiusa nell'identità delle proprie astrazioni, così questa nell'identità di una parimenti astratta materia, vero idolum mentis. Scrive Adorno; La dialettica è nelle cose, ma non sarebbe senza la coscienza che le riflette; così come essa si può tanto poco dissolvere in questa. In una materia assolutamente una, senza distinzioni, totale, non ci sarebbe dialettica. La dialettica ufficialmente materialistica ha saltato la gnoseologia per mezzo di decreti. La raggiunge la vendetta della gnoseologia, nella teoria del rispecchiamento. Il pensiero non è un'immagine riflessa della cosa- a ciò lo riduce soltanto una mitologia materialistica di stile epicureo, che inventa che la materia invia delle microimmagini bensì tocca la cosa stessa. 17 In che modo il pensiero tocca la cosa? Una prima risposta già l'abbiamo: tocca la cosa identificandola, portandola a concetto, e cioè: determinandola. Inserendo il "fatto" in un contesto di concetti o categorie, il pensiero lo sottrae alla sua immediatezza, mediando/o. Operazione, questa, che è criticamente svolta se non nega il termine di partenza, il fatto, l'immediato. Nell'immediatezza non è insito il suo essere mediato allo stesso modo che nella mediazione è insito un immediato che è stato mediato? Hegel ha trascurato la distinzione. Mediazione dell'immediato riguarda il suo modus: il sapere di esso e i limiti di tale sapere. 18 Dopo quanto abbiamo detto sulla ''riflessione ponente" non ci sembra proprio di poter condividere l'affermazione che H e gel abbia trascurato la distinzione. D'altronde se la mediazione è già
16 T. W. Adorno, Dialellica negativa, trad. it. di C.A. Donalo, Einaudi, Torino 1970,p. 32.
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Filo;ojiateorctica
nell'immediato - implicite, supponiamo, essendo compito del pensare l'esplicitarla-, come sostenere !"'alterità" dell'immediato, del "fatto"? Detto con altri termini: come può accendere la contraddizione del concetto, nel concetto, un fatto che ha la stessa struttura del concetto? Talora sembra che il "fatto" abbia addirittura un'identità che non ha il concetto, un'tdentità a cui il pensiero dovrebbe mirare: In quanto il pensiero si sprofonda in quel che dapprima gli sta di fronte, il concetto, diventando consapevole del suo carattere immanentemente antinomico, segue l'idea di qualcosa che sarebbe al di là della contraddizione. 19
Il "fano" al di là della contraddizione sarebbe, nell'esempio adorniano che immediatamente segue la citazione, la società di un "libero scambio" davvero tale, non dominata da privilegi, monopoli, violenza. Un fatto "ideale", quindi, ma pur sempre un "fatto'' contrapposto al "pensiero immanentemente antinomico". È forse l'identità che contraddice il pensiero, la contraddizione del pensiero? Adorno si avvicina, ma del tutto inconsapevolemente, a un tema di gran rilievo. Solo che questa "identità" che contraddice la contraddizione immanente al pensare non può cerro essere l'identità di un fatto. Non foss'altro perché il fatto, come spiega del resto anche Adorno, non può mai essere in quanto tale, in quanto fatto, senza contraddizione. La contraddizione, immanente al pensiero, è immanente non meno ai fatti, alle cose, che sono sempre in un contesto, in una totalità, che per armonica, o "organica", che la si voglia concepire è sempre al suo interno, contraddittoria. D'altronde è anche inutile andare in cerca di corrispondenze tra le contraddizioni "reali" e le contraddizioni "pensate": non è forse questo modo di procedere tipico della teoria del rispecchiamento della di al ettica materialistica?
19
Ivi,pp.130-13l. 126
Dialettica/Esistenu
7.2 C alterità del "fattuale" Ciò che Adorno mette in luce è la co-appartenenza di con ceno e fatti, di pensiero ed esperienza. Così descrive il "paradosso dell'io'': Si afferma che la soggettività, il pensiero stesso, non è spiegabile a partire da sé, ma dal fattuale e specialmente dalla società; però si dice, d'altra parte, che l'oggettività della conoscenza è: nulla senza il pensiero, la soggettività. Tale paradosso nasce nella norma cartesiana, secondo la quale la spiegazione dovrebbe fondare il conseguente, almeno quello logico, a partire dal precedente. Questa norma ormai non è più cogente. [. .. ] In certo senso la logica dialettica è più positivistica del positivismo, da lei disprezzato: essa rispetta, come pensiero, quel che si deve pensare, l'oggetto, anche dove esso non segue le regole del pensi~ro. Il pensiero non è costretto a comentarsi della propria normatività; è in grado di pensare contro se stesso, senza rinunciare a se stcsso. 20
Il pensiero dialettico che pensa anche contro se stesso ma senza rinunciare a sé, è chiaramente il pensiero che solo nell'" altro" da sé, nell'esteriorità oggettiva, ritrova sé. Ma questo è proprio ciò che dice Hegel. Basta leggere le pagine finali della Sezione della Scienza della logica dedicate all'Oggettività, per capire che il medio- sì, proprio la "copula" del giudizio e del sillogismo - in quanto unione degli estremi del soggetto e dell'oggetto, dell'interno e dell'esterno, è il pensiero, e che non v'è altro pensiero che questa interrelazione di pensiero e fatto; che il medio è il concetto, e che non v'è altro concetto che la relazione necessaria tra concetto ed essente. D'altronde non bisogna neppure attendere la Scienza della logica: già nel suo primo scritto critico sulla Differenza tra il sistema di Fichte e quello di Schelling (1801) Hegel aveva criticato come ancora soggettiva la relazione soggetto-oggetto della dottrina fichtiana della scienza. E invero i primi spumi critici riguardo al pensiero astratto, al pensiero puramente soggettivo, separato dall'essere oggettivo, si trovano già nel
20
Ivi,p.l26. 127
Ftloro/iateorettca
frammento francofortese sulla Religione, ave è detto qual è il pensiero vero: die Verbindung der Verbindung und der NichtVerbindung, il legame del legame c del non-legame. Non pare pertanto sensato opporre a Hegel che il pensiero dialettico (della dialettica negativa, owiamente) è "in grado di pensare contro se stesso, senza rinunciare a se stesso". Non è possibile opporre a Hegel quanto non altri che Hegel ha per primo sostenuto e dimostrato! Neppure ci sembra "inconciliabile" con la concezione hegeliana l'affermazione che la logica della dialettica negativa «è logica della disgregazione», ché essa «non tende all'identità nella differenza di ogni oggetto dal suo concetto>), avendo «in sospetto l'identico))21 - dal momento che proprio il circolo logico hegeliano si definisce come circolo di circoli, owero come produttivo di continue differenze, di continue "disgregazioni" degli apparati concettuali. La dialettica negativa può salvarsi da Hegel a una sola condizione, quella di riaffermare la piatta e volgare contrapposizione (propria del materialismo dialettico) di pensiero cd essente, concetto e fattuale, l'uno di contro all'ahro e ben distanti tra loro, come due lottatori che lottano mimando le mosse della lotta, senza mai toccarsi, per paura di contaminarsi. La critica della "dialettica negativa" di Adorno ci ha permesso di ribadire, e, vogliamo credere, di esplicitare ancor meglio, il senso della dialettica hegeliana quale autocomprensione di un pensiero strettamente e indissolubilmente legato al suo oggetto, di un pensiero concreto che si differenzia facendosi continuamente altro non in sé ma in altro. Bene, una volta ribadito ciò, confermiamo insieme la critica che a questa dialerrica - meglio: alla sua formulazione più esplicita e convinta, più rispondente alle intenzioni del suo Autore- abbiamo rivolto, e cioè che il circolo dci circoli non realizza una vera apertura all'alterità. Evidentemente l'alterità cui pensiamo noi non è l'alterità del "fattuale" cui pensava Adorno. È altra e ben più profonda, e inassimilabile, c irriducibile alterità.
21 lvi, pp. 129-130. 128
Dia!ettica!Esùtenl;JJ
8. Marx e il rovesciamento della dialettica hegeliana Prima di affrontare direttamente la questione, dobbiamo dire di un'altra critica della filosofia hegeliana, quella di Marx. Ne trat· damo da un particolare angolo visuale che ci consentirà di aprire l'orizzonte problematico ad altre questioni, che, pur streuamen· te congiunte con quanto sinora s'è detto, non sono state ancora affrontate. La nostra anenzione si concentrerà su un unico testo: !'Introduzione del '57 a Per la critica dell'economia politica, che rappresenta un vero e proprio Discours de la méthode del Marx maturo. E, più precisamente ancora, ci soffermeremo soltanto sul paragrafo 111 di questa Introduzione, perché è in esso che l'opposizione "materialismo"/''idealismo", condotta sul terreno dell'economia e della storia, è meglio definita ed esposta. La cri· tica di Marx a Hegel non riguarda, infatti, il metodo scientifico in astratto, ma la confusione tra l'oggetto del pensiero e l'oggetto reale.
8.1 Analisi e sintesi: l'ordine inverso della scienza Due sono, secondo Marx, i possibili metodi d'indagine in economia: l'uno che muovendo dall'analisi della realtà -la popolazione, lo Stato, i rapporti di scambio tra gli Stati, ecc. - giunge agli elementi più semplici, ma astratti, del valore d'uso e di scambio, del danaro, del lavoro e della sua divisione, e così via; l'altro che segue il cammino inverso, e, muovendo dagli elementi semplici giunge a spiegare la realtà complessa dell'organizzazione sociale, del mercato, dei rapporti internazionali, ecc. Questi due metodi non sono pure ipotesi di studio; sono i metodi che la scienza economica moderna ha effettivamente praticato in due momenti diversi, e successivi, della sua storia. Al suo sorgere, nel secolo XVII, lo studio dell'economia politica seguì il primo; in seguito, una volta fissati i concetti "semplici" di valore, denaro, lavoro, mercato, ecc., nella scienza invalse il metodo inverso, che, comunque, poté affermarsi solo perché c'era stato il precedente lavoro analitico di scomposizione del reale nei suoi termini semplici e astratti. Ciononostante Marx dice a chiare lette129
Filoso/iateoretica
re che il primo metodo «a un anento esame si rivela falso». 22 Perché, argomenta, se si comincia con la popolazione senza considerare le classi che la compongono e gli elementi semplici su cui queste si fondono, quali il lavoro, il capitale, il mercato ... si ha soltanto «una rappresentazione caotica dell'insieme». La vera conoscenza scientifica è solo quella che spiega la realtà complessa con glielementi semplici che la compongono. Ne consegue che il metodo vero, una volta conseguito, condanna quello che non l'ha semplicemente preceduto, ma ne è stato il necessario presupposto, alla non-
verità. Spiega Marx: il primo procedimento - analitico - disintegra «> in «astratte determinazioni»; il secondo- sintetico- ri-componendo queste astrazioni riproduce il «concreto nel cammino del pensiero». 23 Resta fermo, tuttavia, che la verità della scienza non corrisponde al processo reale: è "non vera" se misurata su questo. Perché nella realtà il prius è il complesso e npn il semplice. Esemplificando: la famiglia, non il possesso. Pertanto bene a ragione Hegel ha trattato, nella Filosofia del diritto, prima del possesso e poi della famiglia; ebbe torto, però, nel ritenere che la categoria più semplice sia quella che nel processo reale viene per prima. Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia c approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di risalire dall'astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria del concreto, lo riproduce come qualcosa di spiritualmente concreto. 24 Sotto l'opposizione tra metodo scientifico e processo reale non è difficile scorgere una speculare corrispondenza - fondata su un'identità di fondo: la struttura relazionale dell'oggetto, tanto dell'oggetto del pensiero quanto dell'oggetto reale. Per cui, se il significato originario di ragione, ratio, logos, è quello di "relazio22 K. Marx, lmrodu:àone a Per la critica dell'economia po/;tica, Cantimori Mezzamonti, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 188. 23 Ivi, p.I89. 24 Ibidem.
IJO
trad. it. di E.
DiiJ/ettl't:siEsistenu
ne", dobbiamo dire che anche la realtà è razionale, logica. Vale per Marx non meno che per Hegel la proposizione famosa che
was verniin/tig ist, das ist wirklich; und was wirklich tSt, das ist verniin/tig. Forse potremmo introdurre per Marx una piccola variazione, mettendo al posto dell'"und" "weif': ciò che è razionale è reale, perché ciò che è reale è razionale. Ma, si domanda Marx, le «categorie semplici non hanno anche un'esistenza storica o naturale indipendente, prima delle categorie più concrete?». Certo, risponde, può accadere; per esempio: il denaro esisteva anche prima delle banche, del capitale, del lavoro salariato ... In questo caso la "corrispondenza" tra metodo scientifico e processo reale sarebbe non speculare ma diretta. Comunque, aggiunge Marx, le categorie semplici raggiungono la loro piena realizzazione solo nelle società più evolute. Il lavoro, per esempio, «categoria del tutto semplice», era sì presente come tale anche nell'età più antica, tuttavia come lavoro puro, o sans phrase, come lavoro in generale, indifferenziato, «diviene praticamente vera» solo nell'economia moderna. I.:indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro a un altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. 2'
Marx ribadisce, dunque, la sua tesi che il metodo scientifico veramente valido è quello che procede in senso inverso aii'ordine storico reale. La società più evoluta - quella in cui sono meglio determinati, e cioè più "semplificati" i suoi organi e funzioni, le sue categorie - ci consente di capire meglio le società più antiche e meno progredite. Segue un paragone di particolare efficacia rappresentativa: come «l'anatomia dell'uomo è una chiave per l'anatomia della scimmia», così «l'economia borghese fornisce la chiave per l'economia antica».u
Bl
tlforojlateorellca
8.2 Il "dopo" che fa comprendere il "prima" Nel giro di poche pagine lo scenario traueggiato da Marx è radicalmente mutato. I due metodi- dal complesso al semplice, l'uno, dal semplice al complesso, il secondo- che dapprima sembravano dover occupare solo lo spazio mentale della conoscenza scientifica, sconfinano ora - entrambi - nel processo reale della storia. Entrambi, e non solo il primo, ché nella storia troviamo talora la cate· goria "semplice", quella che dovrebbe essere solo un'astrazione della scienza, prima della categoria "complessa". Però, se storia e scienza seguono, anche se soltanto in alcuni casi, il medesimo cammino, non si può definire "falso", come invece poco sopra s'è letto, quel metodo che riproduce nell'ambito della scienza il processo storico reale. Marx tiene fermo, comunque, il principio che è il dopo che fa capire il prima: è l'economia borghese che fornisce la chiave per la comprensione dell'economia delle società antiche. Conseguentemente anche il rapporto tra i due metodi deve essere capovolto: non il primo è il presupposto del secondo, ma esatta· mente l'inverso. È il presente che fa comprendere il passato (e non soltanto quanto il presente stesso deve al passato): il tempo della scienza capovolge il tempo reale. E solo per questa Umkehrung possiamo comprendere il tempo reale. Sarebbe facile richiamare ancor qui le pagine hegeliane sulla "riflessione ponente", per mostrare ancora una volta come certe critiche a Hegel - e ci riferiamo alle più serie e profonde - non fanno che ripetere Hegel; ma sarebbe anche del tutto superfluo. E distrarrebbe la nostra attenzione dal problema fondamentale che Marx pone in queste pagine dell'Introduzione del '57. Pro· blema fondamentale, ora appena toccato, quello del tempo pro· prio della scienza, problema che è centrale anche per Hegel, e in particolare per la questione, sopra posta, dell'apertura all'altro della dialettica hegeliana. Ma diamo di nuovo la parola a Marx: L'esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide- proprio a causa della loro natura astratta - per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che v'è di determi132
Dialettica!E!ùten~
nato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni. 27
Chiediamoci: l'astrazione della scienza che ci fa comprendere la realtà storica può esser mai solo un prodotto del pensiero? O non dobbiamo attribuire al concetto un "essere" che, certo, se misurato sull'ente reale quotidianamente esperito nel mondo, non può che dirsi ni-ente, ma che tuttavia non è una merafictio mentis? E questi concetti- che, validi sempre: "in tutte le epoche proprio a causa della loro natura astratta", vengono tuttavia in piena luce solo in un determinato tempo storico: quello più evoluto della società borghese, nell'esempio del lavoro- in che modo si rapportano alla storia? Vale a dire: è storico il loro "essere'', o non, piuttosto, la loro conoscenza e interpretazione? V'è allora un operare inconscio dei concetti? Infine, la domanda-principe, che tutte le altre riassume: il presente della scienza è solo un momentum che tramezza passato c futuro -o non invece il luogo temporale che abbraccia e contiene l'intera storia, il ni-ente quale orizzonte di senso di ogni tempo sto"rico, di ogni "ente"? Con queste domande torniamo a interrogare i testi hegeliani. A testimonianza del legame profondo che legò Marx, ben oltre la consapevolezza critica che poté averne, a Hegel.
9. Hegel e il tempo della filosofia. Il profondo in sé e !"'altro" dal concetto Dalla Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto: Comprendere ciò che è, questo il compito della fùosofia, poiché ciò che è è la ragione. Per quanto riguarda l'individuo, ognuno è certamente un figlio del suo tempo; parimenti la fùosofia è il suo tempo appreso in pensim·. È altrettanto folle immaginare che una qualche filosofia vada oltre
il suo mondo presente, quanto che un individuo salti oltre il suo tempo, salti oltre Rodi. Infatti, ove mai la teoria andasse oltre, costruendosi un mondo così come dev'essere, questo mondo esisterebbe certo, ma so21
lbidem.
m
Filoso/iateoretica
lo nella sua opinione - e cioè in un elemento malleabile, nel quale si può plasmare tutto do che piace. 28 Dal capitolo conclusivo della Fenomenologia dello spirito, dedicato al sapere assoluto, owero allo "spirito che si sa come spirito": Il tempo è il concetto stesso che ci è, e che si rappresenta alla coscienza come vuota intuizione; perciò lo spirito appare necessariamente nel tempo, e appare nel tempo finché non coglie (er/aftt) il suo concetto, ossia finché non cancella (ti/gt) il tempo. 29
A una prima lettura i due brani paiono parlare due lingue diverse: il primo lega la filosofia al suo tempo, considerando puri vaneggiamenti quei pensieri che si volgono a immaginare un mondo altro da quello a lei presente; il secondo afferma invece che lo spirito, fin quando non cancella il tempo, non comprende se stesso al modo che a esso unicamente è proprio: mediante il concetto. A confermare il contrasto tra i due testi è anche la considerazione che il tempo che l'un resto pregia al punto da considerarlo come referente necessario della filosofia, è proprio lo stesso tempo che l'altro dice che dev'essere cancellato dalla filosofia: il tempo dell'individuo, owero dell'intuizione. I due testi divergono radicalmente, quindi. Almeno cosi sembra. E del resto perché stupirsene? La Fenomenologia appare nell807, la Ftloso/ia del diritto nell821. Nella vita di un pensarore quattordici anni contano, e come! A non dire che furono anni decisivi per Hegel, che, a tacer d'altro, diede alle stampe opere quali la Scienza della logica e l'Enciclopedia! Ma evitiamo che proprio il tempo "esteriore", il tempo non elevato a concetto, abbia la prima e l'ultima parola sulla questione. E chiediamoci piuttosto se il tempo della filosofia coincida proprio di tutto punto con il tempo dell'individuo. Certo anche la filosofia non può saltare oltre il suo mondo, oltre il suo presente, se vuole pensare "ciò che è" e non incamminarsi nei liberi sentieri dell'immaginazione. Ma, appunto, la filosofia
28 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia dei diritto, ed. it. con testo tedesco a fronte a c. di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, pp. 61-63. 29 G.W.F. Hegel, Fenomenologia, cit., vol. 11, p. 298 {1053].
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Diafefflca!Esùtem/1
ha il compito di portare a concerto il tempo. E forse il cancellare {tilgen) il tempo di cui parla la Fenomenologia non è diverso dal "cogliere in pensieri" il tempo di cui parla la Filosofia del diritto. E
invero, quale tempo cancella "lo spirito che si sa come spirito", il "sapere assoluto"? Il tempo dell'intuizione, il tempo astratto (astratto anche per Kant- checché ne pensasse Hegel! e tanti altri con lui, ancor oggi!), il tempo inteso come mero fluire, nel quale accadono gli eventi, i "fatti". Il tempo come concetto che semplicemente ci è, il tempo nel quale il concetto stesso è ridotto a fatto. È questo il tempo che la filosofia non può non cancellare, se vuole comprendere was ist, ciò che è, con il concetto.
9.1 Tempo·orizzonte e tempo dell'individuo Il tempo della filosofia, il tempo che la filosofia apprende in pen· sieri, non è il tempo esteriore dell'intuizione, il tempo come fat· to, come il fatto del mero fluire; è bensì il tempo elevato a con· cetto, a orizzonte di senso. Il tempo, per dirla con Kant - ma con il Kant non dell'Estetica, bensì dell'Analitica, più precisa· mente ancora delle Analogie dell'esperienza -, il tempo che b!etbt und nicht wechselt, il tempo che permane e non cambia. Quello che Hegel stesso, chiudendo l'Introduzione delle sue Lezioni sulla filosofia della storia, definisce come il tempo pro· peio del vero storico, o, per riprendere una sua bella espressione degli anni giovanili, dello "storico pensante". Il quale sembra che guardi al passato, ma invero mira sempre al "presente", all"'ora". Non all'" ora" che passa, però, non al presente che flui· sce dal passato verso il futuro, bensì ali"' ora" che è ed è soltanto. All'aionica ora che contiene in sé passato e futuro, e pur il presente che passa, l'ora che sorge solo per tramontare, che sorge e tramonta insieme. Il tempo vero, il tempo in cui riceve verità an· che il tempo che passa: il fuggevole momentum, è l'eterna icona del Tempo·Cielo (richiamiamo qui il celebre brano del Timeo platonico, 37d·38c, certamente ben presente in queste pagine hegeliane). Cielo, s'è detto, perché in esso sorgono e tramontano i Giorni e le Notti, e le lunghe stagioni come della natura così della storia, gli anni, e i secoli, e le grandi epoche dell'umanità. ll5
Fi!osoftateoretica
Icona - di che icona? Lasciamo per ora io sospeso la domanda, cbé ancora non s'è affrontata la questione decisiva prospettata nel primo brano citato, quello della Prefazione alla Filosofia del diritto - la questione, cioè, del rapporto tra questo tempo-orizzonte, il tempo proprio della filosofia, il tempo appreso in concetti, e il tempo dell'individuo. E torniamo alle Lezioni sulla filosofia della storia, per leggere il passo che segue immediatamente quello appena richiamato sull'ora che non passa, ma sempre è: Nulla per l'idea è perduto nel passato, poiché essa è presente, lo spirito immortale, e cioè non è "stato" né "ancora ha da essere", ma è essenzialmente ora. Con ciò si intende dire che la forma presente dello spirito contiene in sé tutti i precedenti gradi. Questi si sono certo formati come autonomi, l'uno dopo l'altro; però dò che lo spirito è, lo è sempre stato in sé (an sich), la differenza concerne solo lo sviluppo di questo In-sé (Ansich). La vita dello spirito presente è un circolo di gradi, che per un verso stanno ancora l'uno accanto all'altro, e per l'altro appaiono solo come passato. I momenti, che lo spirito sembra aver dietro di sé, li ha nella sua presente profondità (in seiner gegenwiirtigen Tie/e). 30
L'orizzonte del tempo - sempre presente- giunge alla consapevolezza della filosofia per gradi. E questi gradi nella loro autonoma successione costituiscono propriamente la storia del pensiero scientifico. Il quale è legato al tempo doppiamente: al tempo come concetto, l'orizzonte che non cambia ma sta -la categoria astratta, di cui parlava Marx, valida proprio per la sua astrazione e "semplicità'' in tutte le epoche-; e al tempo come interpretazione del tempo-orizzonte- il marxiano "prodotto di condizioni storiche", owero: "ciò che v'è di determinato" nella astrazione della categoria. Entrambi questi "tempi" sono presenti nel passo della Prefazione della Rechtsphilosophie, e vanno accuratamente distinti per comprendere il brano in tutta la sua complessità, senza cioè ridurre il tempo della filosofia a quello dell'individuo, ma anche senza negare per il tempo della filosofia il tempo del30 G.W.F Hegel, Vorlesungen iiber die Phdosophie der Geschichte, in Id., Werke in :{wan:{ig Biinden, a c. di E. Moldenhauer e K.F. Miche!, Suhrkamp,
Frankfun a.M. 1969-1970, vol. Xli, p. 105. 136
Dialeuica/fuiJtenu
l'individuo. Ché, se nell'Introduzione marxiana il rapporto tra i due tempi è presente come un fatto ma non come problema, in Hegel invece acuto è il senso della sua problematicità. Il brano delle Lezioni sulla filosofia della storia ora citato lo attesta. E non si tratta affatto di un brano isolato, tutt'altro. Basti qui ricordare qual è il senso, la meta della Fenomenologia, che cos'è lo spirito che si sa come spirito: die 0/fenbarung der Tiefe. La rivelazione del profondo, ovvero: di ciò che sempre è, dell'ora che non passa, dell'oriZzonte trascendentale del tempo. Storicità della rivelazione, dunque, ed eternità del profondo quale orizzonte del tempo? lovero la pagina della Filosofia della storia or letta dice ben altro. Dice che il profondo in quanto tale, non quello che nel sapere assoluto si manifesta come circolo di gradi - come circolo di circoli -,ma il profondo an sich, il profondo in sé, nel suoAnsi'chsein, nel suo essere-in-sé, non appare in nessun grado o momento della storia. Perché quel passato sotto le cui spoglie esso si manifesta non è affatto il "profondo in sé", ma solo una sua traccia nel concetto, nella storia. Come si è letto: «i momenti che lo spirito sembra aver dietro di sé, li ha nella sua presente profondità». E, chianmente non li ha in quanto distinti, e cioè come sono nell'esposizione pur sempre parziale del tempo storico. Li ha quindi raccolti in uno. Siamo qui a un punto decisivo per la lettura di Hegel, per l'interpretazione della sua dialettica. Se v'è un aspetto del profondo che si sottrae alla storia, e ciò perché la storia stessa possa essere, allora non è vert la tesi espressa da Hegel nella Prefazione della Fenomenologia su cui nei precedenti paragrafi abbiamo richiamato l'attenzione, e cioè che lo spirito è profondo per quanto della sua profondità riesce a manifestare. Vi è una dimensione del profondo che mai non si manifesta, che è oltre ogni sua manifestazione, anche la più compiuta, perfetta. Anzi proprio alla più compiuta maggiormente si sottrae. Sopra, nell'accostare l'hegeliano orizzonte trascendentale del tempo al tempo-icona di Platone, ci siamo chiesti di cosa possa essere icona il tempo-orizzonte, il tempo aionico della scienza. Forse non d'altro che del profondo che resta in sé. Torniamo a leggere, in questa prospettiva, le categorie iniziali della Logica. 137
fìloro/iatcoretica
10. Il "salto" dalla Fenomenologia alla Logica. La "prassi" all'i· nizio della Logica. Il limite interno del concetto Si tratta, chiaramente, di una lettura di secondo grado, di un'in· terpretazìone, cioè, che mira non a ciò che è esplicito nella pagi· na hegeliana, e neppure semplicemente all'implicito, ma a ciò che è in contrasto con lo stesso pensiero dominante di Hegel, e che, ciononostante, pur s'awerte nelle pieghe del testo. ll vuoto dell'essere, il vuoto del nulla: san proprio il medesimo? E la loro differenza è solo quella che si coglie nel terzo, nel diveni· re? O non v'è in essi qualcosa che li differenzia, prim'ancora della differenza del divenire? Un profondo e acuto interprete di Hegel, Bertrando Spaventa- più oscurato che illuminato dal pensiero del suo maggior discepolo, Giovanni Gentile, che non poco lo mutilò col ridurlo a precursore del suo "idealismo attuale" -, si poneva queste domande leggendo le prime categorie della Logica: Adunque, perché il No? Il Non essere, la negazione? e dopo, e non astante il Sì, l'essere, l'affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, neUa sua massima semplicità logica. Quel che sappiamo è che senza il Pensare non sarebbe il No, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l'invincibile c fende l'indivisibile, cioè l'Essere; che distingue e contrappone nell'Essere medesimo in quanto mcdesi· mo ciò che è c ciò che non è: la generazione o geminazione dell'Essere; quegli che turba la tranquilla immobilità, l'oscuro impene· trabile sonno dell'assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. Se non fosse altro che Essere, non sarebbe il No. E, quando si va a vedere, l'Essere stesso, solo l'Essere, non dice Essere, non dice ti, non dice punto. L'È -la stessa affermazione- è pensare, è distinguere, è concentrar l'Essere; è sem· plificarlo, ridurlo a un punto, c perciò geminarlo. H
Il gran prevaricatore è certo memoria della ungeheure Macht des Negativen, della immane potenza del negativo di cui parla Hegel
)l B. Spaventa, Logica e metafisica, in Id., Opere, Sansoni, Firenze 1972, vol. p.J99.
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Dialeuica1Esisten7JJ
nella Fenomenologia, e cioè dell'intelletto che divide, che separa; ma è insieme memoria del plotiniano Nous, che pollà epoiese ten mfan, che fece dell'uno molti. Memoria- ma creativa, perché rivela a noi che cosa si cela nelle profondità di quel vuoto non-essere che troviamo all'inizio della Scienza della Logica: l'intero mondo del concetto, l'orizzonte di senso nel quale e per il quale cade la pietra e girano gli astri nel Cielo stellato, cresce il ftlo d'erba e si espande la vita sulla Terra, Roma devasta Cartagine e i Germani Roma, Socrate beve la cicuta e Hegel rilegge la storia dell'universo mondo. li mondo del concetto come quell'assoluto 119n-essere che s'oppone «all'oscuro, impenetrabile sonno dell'ingenito Essere», che è già falsato se detto Essere, ché esso non dice essere, anzi "non dice punto". Non dice, perché tutto ciò che è detto, non da lui è detto, tutto ciò che è fatto non è da lui fatto. Non dice e non opera. È al di là d'ogni fare e dire, d'ogni pensare e operare. D'ogni essere, ché anche l'essere perché sia tale è necessario che si rapporti a sé, ed esso neppure questo rapporto a sé è. La memoria speculativa e storica di Spaventa affonda il suo sguardo sin nelle pieghe più riposce della prima categoria logica, vede in essa il Prius d'ogni priuJ", ma non l'origine, non il principio, se non vogliamo chiamare origine quel che non origina, e principio quel che non principia. La domanda- perché il No dopo il Sì, la negazione dopo l'affermazione?- resta infatti senza risposta. Non è una domanda vana, però, se rivela l'enigma dell'universo. Rivela e custodisce. Nel commento spaventiano si mostra in tutta la sua antologica profondità il mistero della copula, di quell'"è" che unisce, tenendoli insieme assolutamente separati, Essere e Non-essere, o con altro linguaggio: Hen e Nous, Uno e Intelletto, Uno e mondo, Silenzio e parola. Questo "è" è il senso del Werden, della terza categoria, che è detta "divenire" proprio perché in essa s'attua il movimento/non-movimento, il passaggio/non-passaggio dall'indicibile quiete dell'Essere all'irrequietezza estrema del Non-essere. L'assoluto contraccolpo in se stesso. Che si dice, non dicendosi; che dice di sé solo parlando d'altro, di Essere e Nulla, e del mistero del loro legame. Una voce sottile, che si crede ipercritica ed è solo ingenua, naif. la voce dell'oggettività storica e dell'esattezza fllologica, chiede: ma tutto ciò a chi appartiene, a Bertrando Spaventa in139
filoso{iSteoretiCtJ
terprete di Hegel (se non addirittura a noi lettori di Spaventa), o a Hegel? E se a Hegel, dove mai nella Scienza della logica o altrove, in altre opere di Hegel, si parla di tutto questo?
10.1 Il più profondo pensiero di Hegel Appartiene a Hegel, al pensiero più profondo di Hegel, che, come pur s'è detto e ripetuto, non altri che Hegel contnsta. Ma, ed è qui la forza del suo pensiero, non tanto contnsta da impedire ad esso di emergere. Torniamo alla Scienza della logica. All'inizio, e appunto trattando dell'inizio, Hegel scrive: Qui si può addurre solo questo, che non c'è nulla né in cielo né neUa natura né neUo spirito, che non contenga tanto l'immediatezza quanto la mediazione, sicché queste sue detenninazioni si mostrano come inseparate e inseparabili, e quelia opposizione come un nulla (ein Nichtiges).n Che anche l'inizio della scienza sia immediato-mediato si spiega col fatto che ciò che nella Logica è "primo", è però "risultato" se considento alla luce della Fenomenologia che è il necessario presupposto della Scienza della logica. La conclusione, infatti, della "scienza dello spirito che appare", è il sapere assoluto, che è tale, ab-solutus, in quanto sciolto da ogni opposizione tra soggettivo e oggettivo, certezza e verità. Lo spirito assoluto, il puro sapere, è quel sapere che è, nell'altro, presso di sé, nell'altro, se stesso. Da esso ogni differenza è dunque tolta. Nella Logica esso si presenta quale ein/oche Unmittelbarkeit, come dieses Unterschiedslose, quale semplice immediatezza, come: questo indistinto. "Nella Logica"- Che significa? Significa che non v'è passaggio, ma solto, dalla Fenomenologia alla Logica. Ché tutto si può dire del sapere assoluto, tnnne che esso sia: "questo indistinto,. Il toglimento delle differenze proprio del sapere assoluto è nella Fenomenologia non la spoliazione dello spirito della sua ricchezza, bensì l'accoglimento di tutte le opposizioni, e comnsti, e differenze. l: immediatezza dello spirito asn G.W.F. Hegd, ScienZA ., c:it., vol. l, pp. 51-52. 140
Dialetttca!Erùtenw
saluto, dello spirito che si sa come spirito, è non mediazione per altro, ma: mediazione per sé, automediazione, dacché l'altro in quanto altro è lo stesso che il sé, appunto lo spirito assoluto. Tutt'altra cosa l'immediatezza semplice, la ein/ache Unmittelbarkeit, dell'inizio della Logica, che è mera indistinzione. D'altronde questo salto dall'automediazione della Fenomenologia all'immediatezza della Logica è riconosciuta da Hegel stesso. Che, infatti scrive: Affinché ora, partendo da questa affermazione del sapere puro, il cominciamento resti immanente alla scienza di esso [se.: della Logica], non v'è altro da fare che considerare, o meglio che accogliere, mettendo da parte tutte le riflessioni e opinioni che si hanno, ciò che ci sta dinanzi (was vorhanden ist).H
Il "saho" dalla Fenomenologia alla Logica sta in ciò, che quello che nella prima è "sapere puro", è was vorhanden ist nella seconda. E la distanza del "salto'' è coperta, superata non dal pensiero -e quale pensiero mai potrebbe coprirla, superarla? Non certo il pensiero finale della Fenomenologia, che si arresta appunto a questa, né quello iniziale della Logica che ha il "salto" alle sue spalle. Non dal pensiero, ma dalla volontà - e da una volontà non razionale, bensì arbitraria. Ma diamo nuovamente la parola aHegel: Se non si deve fare nessuna presupposizione, se il cominciamento dev'essere preso immediatamente, allora esso si determina solo perciò ch'esso dev'essere il cominciamento della logica, del pensare per sé. È qui presente solo la risoluzione (nur der Entschlufi), che si può considerare anche un arbitrio (den man /Ur eine Willkiir ansehen kann), di volere considerare il pensare come talc.) 4
«Ii pensare come tale», ovvero, precisa subito Hegel, come cominciamento assoluto, astratto (absoluter, abstrakter An/ang) ~ale a dire: come essere, puro essere, senza altra determinazione. E dunque un atto del volere che incontriamo all'inizio della
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Filosofia teoretica
Logica, quell'atto che separa immediatezza da mediazione, dando così inizio al procedimenro logico. Nel vuoto che separa la Logica dalla Fenomenologia, il linguaggio- "significato" delle prime categorie logiche dal linguaggio- "significato" del sapere assoluto, ovvero del sapere dello spirito che ha a oggetto (a contenuto) se stesso, incontriamo la prassi, l'altro dal "significato", pur esso però interno alla Logica, pur esso, quindi, linguaggio, quantunque non "significato". Vero è che Hegel intende togliere l'arbitrio iniziale, e ciò fa chiamando in causa proprio la logica del circolo, la logica dialettica che piegandosi su di sé, mostra la verità dell'inizio. La prassi, il linguaggio-"prassi", costituisce solo un momento, l'iniziale e transeunte, destinato a sparire nel linguaggio-"verità", nel linguaggio- "significato" finale. 10.2 Alterità che mi~accia L'essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato, quanto che l'intero sia in se stesso un movimento in circolo (ein KreisltiU/), in cui il Primo è anche l'Ultimo e l'Ultimo anche il Primo."
Così Hegel. Ma vediamo in che modo il Primo e l'Ultimo si uniscono in circolo. L'immagine della dialettica hegeliana sembra ripetere quella della dialettica platonica del circolo della vita-mortevita. È solo un'impressione, un accostamento puramente soggettivo? No, non è un 'impressione soggettiva, anche per questa ragione, che il movimento in circolo in tanto si realizza come tale, in tanto non assume l'aspetto di una spirale -la quale riprodurrebbe tutte le aporie di un procedimento lineare: anzitutto quella della "cattiva infinità", che rinviando la sua attuazione sempre oltre se stessa, mai non si possiede come tale, come infinità, epperò neppure può avere il concetto di sé come infinito rimando -, in quanto il "cominciamento" è insieme il «fondamento (Grundlage) che è presente e si conserva in tutti gli sviluppi successivi, è ciò che perma-
)~lvi, p. 57.
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Diaietltca!EJiJtenzo
ne in modo assolutamente immaneme nelle sue ulteriori determinazioni».36 Il cominciamento-fondamento è proprio come l'immortalità dell'anima platonica- si badi: come l'immortalità, non come l'anima- che attraversa l'intero processo, l'intero ciclo vitamorte-vita senza esserne toccata; anch'esso infani, in quamo permanente, das Bleibende, resta identico a sé in ogni variazione. S'avverte qui, all'inizio della Logica, l'abisso del profondo che nel disvelarsi si ri-vela, che in ogni sua manifestazione, resta chiuso in sé, impenetrabile nel suo Ansichsein. E la sua presenza non da altro è fatta sentire che da quell'atto arbitrario, da quella "prassi" che insieme dà inizio al Logos- al Linguaggio e alla Logica- e apre l'a· bisso del Silenzio. Già, perché quell'Essere che sempre al divenire si sottrae, quel Profondo che non è mai tutto espresso nei significati del mondo, quel Silenzio che si rifiuta a ogni parola, quell'Essere ingenito e indiviso, indistinto, das Unterschiedslose, non è altrove che nel mondo, nelle parole significanti e significate, nelle differenze del tempo e della storia. Il passato remoto della pre-storia non è alle nostre spalle, ma nel nostro presente. L'essere, il Sì, l'affermazione pura, l'Identico che è oltre ogni identità, il semplicemente essente, accompagna il Ni-ente del tempo-orizzonte di senso, la negazione che crea ed è il molteplice e variegato mondo di Nous, del gran prevaricatore, della ungeheure Macht des Negativen. Accompagna e pur abita in esso. Perciò è l'eterna minaccia del mondo, della parola, del linguaggio- ''significato". E questa eterna minaccia vive nella copula, nell"'è", non meno e non più dell'orizzonte del mondo, dell'orizzonte del tempo. È questa la vera alterità, che rende enigmatico il mondo, e insicuro- sempre. E finita la copula. Finita, cioè mortale. In questo senso la vera filosofia è un costante colloquio con la morte. E la dialeuica una pratica di meditazione, un esercizio. L'esercizio più importame che in vita possa farsi: he meléte thandthou. L'esercizio della morte.
l6 Jbidem. 143
III Percorso Fenomenologia/Ermeneutica
l. Imparare a vedere. Il gesto antico del fùosofo 2. Atteggiamento naturale ed epoché. Il significato della riflessione fenomenologica
3. L'enorme potenza del negativo 4. Fenomenologia delle passioni 5. Essere per la morte 6. La nascita dell'autocoscienza trascendentale 7. La nascita dell'autocoscienza e l'angoscia 8. Il nichilismo e l'altro inizio
U linguaggio del possibile: il mito dopo il lego. Mythos e Mytho-/ogia L'ermeneutica nell'alveo della storia Storicizzare la storia Trascendenza e storia «The time is out of joint» 14. Ermeneutica e tragedia: la soul/rance 15. L'Altro al di là dell'essere 9. 10. 11. 12. 13.
Fenomenologia/Ermeneutica
l. Imparare a vedere. Il gesto antico del filosofo 1933: Enzo Paci legge le Medt"tazioni cartesiane di Husserl. Il senso gli resta oscuro. D suo maestro, Banfi, al quale ricorre in cerca d'aiuto, non gli parla del libro. Gli dice: «Vede questo vaso di fiori? Provi a dire, a descrivere quello che veramente vede». Paci ricorda l'episodio in una pagina di diario segnata 30 ottobre 1958: dopo 25 anni. Adesso è lui il maestro riconosciuto della "fenomenologia" in Italia. Insegna alla Statale di Milano, la stessa Univershà in cui aveva insegnato Banfi. Chiaramente, se consegna la memoria del fatto a uno scritto originariamente, si presume, non destinato alla pubblicazione, è perché su di esso dev'essere tornato più volte. A tanti anni di distanza, con alle spalle un lungo itinerario fdosofico, che l'ha ponato per luoghi diversi, spesso lontani dalla fenomenologia, tornando là donde aveva cominciato, rilegge l'episodio, così: I libri per la fenomenologia sono mezzi per la viva comunicazione orale. Le parole scritte (mito di Theut nel Fedro di Platone) hanno il loro lato negativo se non producono un discorso nuovo, se non vengono ridestate e rese presemi. 1
L'atteggiamento del vecchio maestro lo riporta all'insegnamento dd più antico, al Maestro di tutti coloro che osano avventurarsi nel territorio della Filosofia: Platone. Il "fatto è significativo" anche olEre ciò che Paci giustamente rileva. Perché mostra la radice amica dell'atteggiamento fenomenologico. Che nell'atto stesso in
1 E.
Paci, Diario fenomenologico, i1 Saggiatore, Mi1ano 1961, p. 86. 147
F11ow/1aleorellca
cui respinge i condizionamenti, i pre-giudizi, come oggi si dice, della storia, della tradizione, nell'atto in cui invita a tornare alle cose stesse, con libertà di sguardo, ripete il gesto antico, il primo gesto della ftlosofia. Osserviamo, questo gesto, secondo che Paci ce lo descrive: Posso dire che il vaso da fiori è un cilindro. Ma in rea1tà il termine «cilindro" è troppo compromettente perché deriva da una scienza che conosco, ma di cui, per ragioni di metodo, non devo servirmi. È meglio che io guardi liberamente e che cerchi di usare e di rinnovare il linguaggio comune. Per esempio: la superficie del vaso al centro mi appare più vicina, mentre gradatamente verso i lati è più lontana. Si allontana con le modalità tipiche di una curva, in modo tale da darmi l'idea di essere rotonda, e posso presumere che questa idea sia confermata se mi muovo e vado a vedere come mi appare, come mi sirivela il vaso, via via che lo guardo durame il mio spostamento. Ma il vaso non è soltanto una forma. È un solido, ha dei colori. Si trova in una certa luce, in un certo chiaroscuro. Posso, se mi awicino, toccarlo. Le sensazioni visive sono in un determinato rapporto con le sensazioni tattili.2 Fermiamoci un istante. La prima osservazione che viene spontaneo fare è che, se "cilindro" è termine scientifico, non lo sono meno "curva", "rotondo", "forma", "solido", a non dire del "rapporto" tra sensazioni "visive" e "tattili". Ma è un'osservazione tanto owia quanto inutile. È ben evidente che il mondo del linguaggio scientifico- se vogliamo: l'insieme dei pregiudizi del nostro tempo- non lo si supera d'un colpo. La fenomenologia è anzitutto un esercizio. "Alle cose stesse" si arriva e-ducandosi. E cioè uscendo da sé, dal sé abituale, irretito nel linguaggio, in cui si trovano, cristallizzate, le convenzioni della "cultura" e non meno le pratiche della vita quotidiana, in cui si è depositata l'intera esperienza del passato. Anche lo sguardo ne è vincolato. La fenomenologia è anzitutto un esercizio al vedere. Al vedere le cose direttamente, senza mediazioni. La fenomenologia mira a riconquistare una perduta naturalezza del vedere, e del "rapporto" tra il vedere e le altre sensazioni. Mira a 2
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Fenomenologia/Ermeneutica
una mediata immediatezza. Situazione certo paradossale, perché nel riconoscere i pre-supposti, i pre-giudizi, da cui si deve liberare, la fenomenologia riconosce insieme l'inevitabile presenza di pre· supposti pur nel suo esercizio e-ducativo.
1.1 Lo sguardo fenomenologico Di nuovo la fenomenologia ci rinvia al primo gesto filosofico, quello che Platone descrive con il mito della caverna. Ed è significativa la scelta platonica del linguaggio mitico. Era il linguaggio della cultura tradizionale nella quale egli s'era formato. Del quale si valeva, doveva valersi, per uscirne. Non ve ne erano altri. La scena del mito è ben nota: alcuni uomini sono incatenati in una caverna, con le spalle rivolte all'entrata. Fuori, antistante alla bocca della caverna, un muro, dietro al quale è acceso un gran fuo· co. Tra il muro e l'entrata passano altri uomini, portando sulle spalle, curvati dal peso, statue e altri oggetti. Il fuoco proietta sulla parete di fondo della caverna le immagini di questi oggetti, che quelli di dentro credono cose reali, cui attribuiscono le voci e i rumori che provengono dall'esterno. I più accorti, valutando la figura del· le immagini e la frequenza con cui appaiono, nonché i loro rapporti con le voci e i rumori, definiscono un ordine di relazioni, che è il mondo a loro tutti comune. Mondo di ombre, scambiate per realtà. Alcuni, però, tra coloro che abitano nella caverna, invero pochi o pochissimi, osano quanto i più neppure riescono a pensare: voltano la testa dall'altra parte. E mal gliene incoglie. Accecati dalla luce, non sono in grado di scorgere neppure più le orilbre. Ma, perseverando, riescono col tempo a sopportare la luce del fuoco, e quindi a distinguere le statue e gli altri oggetti, e pur gli uomini che H portano sulle spalle. Vedono la realtà vera. Cosl possono uscire dalla caverna. lovero ne sono già usciti- con lo sguardo: la verità li ha resi liberi. Con altro linguaggio, con il linguaggio della cultura del nostro tempo, Paci racconta la stessa storia. Il vaso di fiori, questo semplicissimo oggetto della nostra più comune esperienza, ci riserva delle sorprese. Credevamo che osservandolo da dietro si presentasse in un certo modo, al contrario è diverso. 149
Fdoso/ia tcoretica
Allora mi accorgo che ciò che mi aspettavo di vedere non l'ho visto [ ... ]. Quante cose entrano in gioco! Eppure quelle accennate sono ben poche. In realtà ciò che è in gioco è il modo con il quale io ho esperienza della realtà, è il mio Erlebni:s della cosa, il modo con il quale la cosa mi si dà, il come mi si dà. La fenomenologia è la scienza delle modalità del darsi, è la scienza dei "come". Mi fa vedere come io "costituisco" le cose, il mondo. E non solo questo. Ho esperienza delle mie percezioni, dei miei sentimenti, del mio corpo, della impenetrabilità e materialità delle cose, delle peculiarità dei corpi viventi (dci Letber), di tutte le loro operazioni e della storia delle loro operazioni, comprese le operazioni culturali e quelle socialP
L'e-ducazione al vedere è qui ben descritta come educazione alla vita. Lo "sguardo" del filosofo, che tutto vede, che vede il tutto, non è un astratto, isolato vedere; è - sonolinea Paci - un Erlebnis, un'esperienza di vita, di vita nuova. Meglio: è un rinnovamento radicale dell'esperienza. Così Paci con rara efficacia: La descrizione del vaso contiene in sé il significato del mondo, della mia vita, della vita di tutti. L'ha in sé come verità che dev'essere visSllla, progressivamente realizzata, costituita secondo un telo:s infinito. Infinito ma tuuavia potenzialmente presente in ogni mia esperienza, se mi preoccupo di esaminarla, di farla diventare fenomeno. 4
Nei due brani or letti, Paci riespone- sempre, è ovvio, nel linguaggio della sua, e nostra, cultura - anche la conclusione dd mito platonico: il ritorno nella caverna. La fenomenologia, proprio in quanto è un nuovo modo di "vedere", un rinnovarsi della vita, non può non espandersi, diffondersi. Non può non farsi esperienza di tutti e di ciascuno. Questo il te/o:s, il fine. Questo il lato politico, in senso originario, della filosofia, epperò della fenomenologia. Ma la po/is filosofica non si restringe al presente e al futuro. Varca la so· glia del tempo: si estende al passato. Anche il passato è recuperato. Anche il passato è osservato con lo "sguardo" nuovo del fenomenologo, che ora sappiamo chi veramente egli sia: il filosofo che tende a fare della verità/enomeno. Che tende a portare nel mondo co>Jvi,p. 87. ~lvi, p. 89. 150
Fenomenolog,a!F.nneneutica
mune la verità. A trasformare quindi anche i luoghi del pre-giudizio in spazi di verità. Anche la storia e la tradizione vengono redente. Diamo una volta ancora la parola a Paci: La fenomenologia è la scienza delle permanenzc essenziali c delle modalità delle loro variazioni. È una scienza dello stile della vita c, come lo stile, modula se stessa in una continua e rinnovata descrizione di rutto ciò che si rivela nel fluire delle mie esperienze, della mia soggettività, nella soggettività altrui. È la scienza del rivelarsi sorgivo, del rivelarsi originario: la scienza dei/enomeni, dclla/amù.~
2. Atteggiamento naturale ed epoché. Il significato della riflessione fenomenologica Nel racconto platonico del mito, così come nella descrizione fenomenologica, è detto che accade qualcosa, e qualcosa di essenziale, fondamentale per la vita non di questo o quell'individuo, ma per l'umanità storica. Non è detto però perché questo accada. E accade a qualcuno e non ad altri. Accade perché accade? Come il fiore di Angelus Silesius che fiorisce perché fiorisce, c cioè: ohne warum, senza perché? La scienza dei "come" si arresta qui, senza chiedere ragione di sé? del suo modo d'essere che implica un mutamento radicale d'ogni modo d'essere, della vita stessa in ogni sua manifestazione? Difficile, se non impossibile crederlo. Difficile, se non impossibile pensare che la filosofia che chiede ragione di tutto, non chieda poi ragione di se medesima. Certo è anche vero che la filosofia arriva sempre troppo tardi a chiedere ragione di sé, perché chiedere ragione di sé è già fare filosofia. L'osservazione risale al giovane Aristotele, che in tal modo intendeva mostrare l'inevitabilità del filosofare. Ma, non è proprio questa inevitabilità che fa muovere l'obiezione di fondo? Questa: com'è possibile, se si è già nel cerchio magico della filosofia, descrivere con sguardo puro ciò che è accaduto prima della ftlosofia e ha portato a essa? Non deve la filosofia guardarsi anzitutto da se medesima? }Ivi,p.88. 151
F11osofwteorelica
2.1 L'occhio dentro lo sguardo Nella fenomenologia questo problema è sentito c vissuto con particolare intensità e acutezza. E ciò si dice proprio a conferma della sua radicalità filosofica, della sua originaria ispirazione filosofica. Prendiamo per esempio il gesto primario e fondamentale della fenomenologia: l' epoché. Questa serve - come scrive lo stesso Husserl- a liberare il campo dall'atteggiamento naturale e quindi a conquistare «il libero orizzonte dei fenomeni "trascendentalmente" purificati e con ciò il terreno della fenomenologia».6 I.:epoché, in quanto predispone il terreno dell'indagine fenomenologica, è in cerro modo prima della fenomenologia. Ma si può parlare di epoché prima della fenomenologia, se è essa l'atto che la costituisce? Se I'epoché è esercizio di riflessione, e di quella particolare riflessione che è la riflessione fenomenologica, allora l'epoché prefenomenologica è insieme preriflessiva. Un assur· do! Eppure di questo assurdo - e di altri consimili - vive la fenomenologia in quanto scienza ft.losofica. Husserl ne era ben consapevole, dichiarava infatti che la difficoltà di penetrare il senso autentico del lavoro fenomenologico era costituito dal fatto che bisognava assumere un atteggiamento completamente diverso «rispetto all'atteggiamento naturale dell'esperienza e del pensiero» operante in tutte le altre scienze, psicologia compresa. Ne discende che la ri-flessione fenomenologica è ben altro che il ripiegarsi su di sé del soggetto: questo è il maggior fraintendimento della fenomenologia. Da sempre il pensiero come si è rivolto all"'oggetto" dell'esperienza, così si è ripiegato su se medesimo, su di sé in quanto "soggetto". Questo duplice rivolgersi all'oggetto e al soggetto è proprio dell'esperienza naturale: se vi è un "mondo" guardato, osservato, interpretato, vi dev'essere anche l'occhio che lo guarda e l'osserva e l'interpreta, occhio non ignaro di sé e delle sue operazioni. La riflessione fenomenologica è ben altro. E Husserl ha estrema cura nel distinguere il soggetto naturale- che lui nomina con buone ragioni, ma non senz' altro a ragione: "cartesia·
6 E. Hussed, Idee per una fenomenologia pura e per una /iloso/1'6 fenomeno/o· gica, rrad. it. di G. Alliney c E. Filippini, Einaudi, Torino 1965, voLI, p: 9.
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Fenomenofogia!Ermeneuttca
no"- dal soggetto fenomenologico. Questo non è «un pezzo del mondo», né il mondo «un pezzo dell'io»/ quantunque si debba dire che, se «la coscienza trascendentalmente pura non è un frammento della natura, del mondo reale)) è purvero ch'essa, la natura, «è possibile solo come un'unità intenzionale, motivata da nessi immanenti alla coscienza pura». 8 il soggetto fenomenologico non è un "pezzo", o "frammento" di mondo, anzitutto perché non è un termine della relazione, ma la totalità della relazione soggetto-oggetto. Pertanto la riflessione fenomenologica è la totalità della relazione che si flette su se medesima. Non l'occhio, ma la visione nella sua interezza, che vede se stessa. L'occhio, l'occhio naturale, nonché essere l'autore dello sguardo, è dentro lo sguardo stesso. È uno, e uno solo, dei termini della relazione visiva. Ciò che resta "fuori" della visione, ciò che è "prima" del visto- soggetto o oggetto che sia - è soltanto ... la visione! È un punto, questo, su cui dobbiamo soffermarci.
2.2 Essenze e dati di fatto Cerchiamo innanzitutto di capire come si arriva a questa visione della visione, allo strato ultimo della riflessione fenomenologica. Già, perché se è giusto parlare al singolare di riflessione fenomenologica, bisogna però pur dire che questa ha vari strati. Dunque la riflessione fenomenologica ha come sua caratteristica principale quella di sospendere l'atteggiamento naturale, e cioè la credenza originaria nella "realtà" delle cose e del mondo. Questa sospensione si attua in due momenti diversi, ma che sirichiamano vicendevolmente, e che rappresentano anche due livelli differemi della ricerca fenomenologica. il primo momento è rappresentato dalla riduzione eidetica. La fenomenologia pura o trascendentale, spiega Husserl, non è una scienza di dati di fatto (Tatsachenwissenschaft), ma di essenze, o ei7 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane,§ Il, in Id., Meditazioni cartesiane e discorsi parigmi, trad. it. di F. Costa, presentazione di R. Cristin, Bompiani, M~ano 1989, pp. 57-58.
E. Husserl, Idee ... , cit., vol.!, cap. m,§ 51, p. III.
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Ft1oso/ùl U.'Oreti~o
detica: i fenomeni della fenomenologia sono "irreali" (irrea/). La distinzione tra "dati di fatto" cd "essenze" non è certo di difficile comprensione. S'intende da sé che se reale è l'inchiostro rosso che sta sul tavolo, non è invece reale l'essenza "rosso", o l'essenza "colore". E tuttavia ... E tuttavia le cose non sono così semplici. Anzitutto il linguaggio di Husserl tradisce un'incertezza, se non un' ambiguità. Irreali, irreal, vengono qui definiti i fenomeni della fenomenologia. Chiaramente: le essenze. Ma queste dovrebbero dirsi, invero, unwirchlich, non irreal. Rea/, Realiti11 sono latinismi che indicano nel tedesco coho della filosofia non la realtà effettiva (Wirklichkeit), l'esistenza concreta o esserci (Dasein), ma la realitas, ovvero: ciò che pertienc all'essenza di una cosa, esista essa concreta· mente, "realmente", "effettivamente", o non. Per esempio: alla realitas della cosa-corpo appartiene l'estensione, quale che sia questa cosa, un tavolo o un animale, ed esista tra le cose del mondo o non. Ora nel senso della realitas se c'è qualcosa di reale (rea[) sono proprio le essenze, e solo queste. Husserl le caratterizza invece come ù·real. È solo imprecisione di linguaggio?
2.3 Predicabili, irrealtà, inesistenza Trasferiamoci ora dal regno delle essenze al mondo dei "dati di fatto", degli oggetti singoli e individuali. Scrive Husserl: Un oggetto individuale non è qualcosa di semplicemente individuale, un effimero questo qui (Dies da.'), ma in quanto è in "se stesso" così e così costituito ha una sua proprietà (Eigenart), constando esso di predicabili essenziali (wesentlichen Priidikabi/ien) che di necessità gli competono (competono cioè all"' essente com'è in se stesso"), in se· guito a ciò possono a esso convenire altre determinazioni, secondarie eaccidentali. 9
Il linguaggio husserliano ha un indubbio accento aristotelico. L'oggetto individuale non è un mero t6de ti (Dies da!, traduce alla lettera Husserl: un questo, qui davanti a notl, consta bensì di 9
Ivi,p.l7. 154
FenomenologuliErmeneutico
essenze. Per queste la cosa singola, il "questo'', ha una consistenza d'essere non effimera, non accidentale. Ha, o dovrebbe avere? Iniziamo con l'osservare che Husserl definisce le essenze Prddikabilien, non Priidikate, predicabili, non predicati. Perché? Perché se è vero che a ogni oggetto individuale spettano di necessità quei predicati che ne definiscono l'essenza, tuttavia a essi altri se ne possono aggiungere, e di fatto se ne aggiungono, in modo del tutto accidentale. Per esempio: all'essenza del corpo materiale -l'" estensione"- può aggiungersi in modo affatto casuale un "colore", il rosso o il nero, così come lo "stato" liquido o solido o gassoso, e altro ancora. Ora, per l'oggetto singolo, concreto, questi predicati secondari non sono meno essenziali dci primi, mai dandosi un "questo" corporeo che non sia colorato e o liquido, o solido, o gassoso. Ma se l'insieme dei predicati è accidentale, ed è sufficiente che uno solo di essi sia tale per rendere accidentale l'insieme, allora la proprietà, la Eigenart, dell'oggetto singolo, concreto, determinato, che è data appunto dall'insieme di tutti i predicati, è come tale accidentale. Ecco quindi perché le "essenze" san dette Priidikabilien c non Priidikate. Il fatto che si possano aggiungere predicati secondari e accidentali sottrae ai necessari la possibilità di determinare la realitas della cosa singola, della Tatsache. Questa nella sua specificità- nel suo essere in quanto "corpo" non solo esteso ma anche rosso e li qui· do, o nero e solido - resta accidentale. Talché la distinzione "aristotelica" tra predicati necessari e predicati secondari e accidentali, ripresa da Husserl, si rivela inidonea a dare stabilirà al "dato di fatto" (Tatsache), a conferire a esso lo status di oggetto (in tedesco: Gegen-stand, ciò che sta di contro, di fronte al soggetto). Ora, se la "proprietà" come tale- e cioè l'incontro di più predicati - è accidentale, essendo l'accidentale, secondo la definizione aristotelica, «quasi solo un nome, qualcosa di prossimo al non-essere>) (Met., VI, 2, 1026b 21), allora nell'lrrealitdt dell'essenza è compreso anche il significato di Unwirklichkeit, di inesistenza- almeno possibile. Cominciamo a comprendere il carattere rivoluzionario dell'atteggiamento fenomenologico. Il pensiero e l'esperienza "naturali", e cioè: la credenza originaria nella realtà del mondo e delle cose, ne escono sconvolti. Il momento successivo dell' epoché 155
F,Josofialeoretica
conferma questo radicale mutamento di prospettiva, insieme ne spiega l'interna finalità.
2.4 Il cogito fenomenologico Dunque, le cose dd mondo, i "dati di fatto", sono accidentali: non posseggono stabilità, non hanno lo status di enti di per sé sussi· stenti. Sono e insieme non sono, perché possono non essere. Ma di contro alle cose mondane s'erge la coscienza quale «essere assoluto nel senso che nulla "re" indiget ad existendum». 10 Nulla re- cos'è la res di cui la coscienza non ha bisogno per esistere? Scrive Husserl: Se pensiamo alla possibilità del non essere giacente nell'essenza della trascendenza propria d'ogni cosa (jeder dinglichen Transzendenz), ap· pare chiaramente che l'essere della coscienza, di ogni corrente di vis· suti di coscienza (jedes Erlebnisstrom) in generale, verrebbe certo modificato necessariamente da un annientamento del mondo delle cose, ma non ne sarebbe toccato nella sua propria esistenza. 11 La contrapposizione mondo trascendente/coscienza immanente sembra mettere in questione tutto quanto s'è detto sulla radica· lùà dell'atteggiamento fenomenologico, sul carattere eversivo ch'esso ha nei confronti dell'atteggiamento naturale; sembra ri· portare la riflessione fenomenologica nell'ambito della più tradizionale e ingenua riflessione "naturale" E se così fosse, sin trop· po facile sarebbe la critica. Come si può affermare che l'annien· tamento del mondo non tocca l'essere della coscienza e la vita della coscienza nel suo fluire? Appartiene certo alla vita e all'essere della coscienza il percepire un odore, un suono, il gustare un cibo, il vedere uno spettacolo naturale. Senza le cose del mondo, come ancora il vedere e il gustare, l'odorare e il toccare? E senza gustare e toccare, mirare e ascoltare, e odorare, come il flusso della coscienza, il tempo? L'annullamento del mondo por· ta con sé inevitabilmente l'annullamento della coscienza, del suo 10 11
Ivi,p.l07. Ib!dem. !56
Fmomenologia/Ermeneutlca
fluire e del suo essere. Cosa è, dunque, la res di cui non indiget, non abbisogna la coscienza per essere? E, ancora, che s'intende qui con "coscienza", con l'essere e il fluire della coscienza? Che cosa s'intende, e deve intendersi - per non tradire il senso profondo della ri-flessione fenomenologica? Res dice qui: eldos, essenza, praedicabile. Bene, proprio di ciò la coscienza, diciamo anche il cogito trascendentalmente puro, non ha bisogno, perché esso è prima. Prima dell'essenza, dell'eidos, dei predicati e dei predicabili. È prima, perché solo per il cogito, per la coscienza pura è possibile l'essenza, l'eidos il possibile predicato. Perché solo per il cogito si dà qualcosa come l'epoché. E qui stiamo innanzi al vero paradosso dell'Io, ché quel che appare come il risultato dell' epoché è già prima, necessariamente prima, dell'epoché stessa. Questo è il vero "dentro/fuori" della riflessione fenomenologica di cui sopra s'era cominciato, solo cominciato, a vedere e dire qualcosa.
2.5 Dall'io vuoto all'io-orizzonte Che il cogito sia prima dell' epoché non significa che non si dia riduzione etdetica anche del cogito, ma questa riduzione è possibile soltanto mediante il cogito, è anch'essa un'operazionedel cogito. Operazione possibile solo dopo l'esercizio del cogito. La riduzione eidetica del cogito, è la riduzione degli atti del cogito, delle operazioni operate, non del cogito in atto, del cogito, cioè, che nulla re indiget ad existendum. Bisogna dire pertanto non solo che riduzione eidetica ed epoché trascendentale, riduzione alla coscienza pura, si implicano vicendevolmente, nel senso che la prima è condizione della seconda, e questa della prima, ma anche che il cogito è la condizione di entrambe. Ma come è da intendersi il cogito che è prima della stessa epoche? Che si cela sotto questo nome che Husserl stesso ebbe a definire, in un contesto argomentativo prossimo a questo che andiamo presentando, ma certo non propriamente lo stesso, un "equivoco", ancorché necessario? Che è quello che denominiamo cogito, io, coscienza pura- nomi tutti che ben s'anagliano a ciò che si scopre dopo la riflessione e mediante questa? Husserllo denomina "orizzonte", e invero anche questo nome se più si awicina !57
Fdoro/iateorctu:a
alla "cosa" (Sache) non è propriamente die Sache selbst, la cosa stessa. La "cosa" che qui temiamo di portare a tema di discorso, si sottrae invero a ogni discorso, proprio perché è lo spazio aperto a ogni possibile discorso, come a ogni possibile contenuto, o realtà (nel duplice senso di realitas e di effettività, o esistenza determinata). Platone, che a questa "cosa" si avvicinò da par suo, la denominò chOra, da cui noi abbiamo derivato la nostra espressione "spazio aperto". Aperto ad accogliere tutto. Ma anche questo è già un "risultato". Non certo te phfsei, secondo natura, mapros hemàs, per noi. Husserl espone il cammino che il cogito ha da fare per raggiungere questa sua apertura, per raggiungere sé come spazio aperto. Ecco perché parte dal cogito pre-fenomenologico, dal cogitosoggetto, dal cogito opposto all'oggetto. Ed ecco perché muove dalla Weltvernichtung, dall'annichilimento del mondo. Ed è affatto vero, e corrispondente all'intenzione di Husserl, che la Weltvernichtung porta con sé l'annichilamento pur della coscienza. Ed è proprio questo il processo che Husserl vuoi mostrare: la !eh-Vernichtung, l'annichilamento dell'io-soggetto di mondo, del cogito me cogitare cogitata. È questo il processo vero dell'epoché trascendentale. La negazione dell'io, lo svuotamenro totale e radicale dell'io. In questo svuotamenro radicale di sé si realizza pienamenre l'io come coscienza pura, il puro Erlebnisstrom della coscienza, che non "non-è", ma si annienta, si fa "niente''. Non-ente, in quanto vuoto orizzonte. Spazio assolutamente libero. Orizzonte di ogni possibile mondo, quindi. Si fa - a qual fine? Al fine di recuperare a partire da sé, nel proprio libero spazio, aperto all'accoglienza di tutto, appunto il tutto. Il mondo si ricostituisce così a partire dall'io, dall'io-vuoto, dall'io trascendentalmente purificato. Si comprende solo ora l'enorme significato dell'affermazione husserliana che l'io non è ein Stuck der Welt, un pezzo di mondo. Che l'io non appartiene alla regione del mondo. E si comprende anche l'altra affermazione che si legge sempre in Ideen I, e che dapprincipio può apparire dettata solo da cautela se non da indecisione filosofica, l'affermazione che l'epoché non nega il mondo esistente, non intende revocare in dubbio le certezze della coscienza empirica, l'originaria credenza nella datità del mon· do. Husserl appare più cauto e prudente di Cartesio, se si pre!58
J:enomenologia!Ermeneutica
mura di avvertire il lettore che lui non è un sofista. Ma a ben guardare l'epochéfenomenologica ha una radicalità di gran lunga maggiore del dubbio iperbolico.
2.6 La radice oltre-mondana del mondo e oltre-umana dell'uomo La non-appartenenza dell'io al mondo è davvero una radicale Weltvernichtung. Il mondo della credenza originaria, dell'Ur-doxa, è messo totalmente da parte. Husserl si pone il problema di spiegare non la realtà (esistenza, effettività) del mondo oggetto di questa credenza, ma solo il sorgere di questa, mostrando gli atei di coscienza che la costituiscono. Vero è che questo mondo semplicemente non è. È solo creduto. Come non è il mondo della fisica galileiana. Questo mondo di figure geometriche è solo una tardiva idealizzazione operata sul corpo vivo del mondo reale. Quel mondo la cui realtà (esistenza effettiva) si recupera solo attraverso l' epoché, e cioè muovendo dall'io puro, dall'io vuoto, dall'io che è "io" solo per un "equivoco", ma che è necessario nominarlo "io", perché è dalla epoché del soggetto cartesiano che si può raggiungere quello spazio libero all'accoglienza di tutto, quella ch6ra, che è l'apertura essenziale alla rivelazione del mondo vero, del mondo-della-vita, della Lebenswelt. L'"accidentalità", la "non-stabilità oggettiva" dei dati di fatto mostra qui il suo risvolto positivo. Non banno stabilità, non sono "oggetti", Gegen-stiinde, i "dati di fatto", le Tatsachen, perché sono momenti del flusso della vita, di quel flusso vitale, "eracliteo", 12 che appartiene non soltanto alla coscienza soggettiva, ma al mondo stesso. Recuperando dall'interno della coscienza pura- dapprima "lo-vuoto", poi "lo-orizzonte" -il mondo e le cose, Husserl ha guadagnato una diversa immagine del mondo e delle cose del mondo, e così dell'io, dell'io singolo, individuale, del soggetto umano. Le cose non sono oggetti inerti a disposizione dell'uomo, le cose vivono della vita stessa degli uomini
12 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. ìt. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961, p. 204; ma cfr.§ 46 ss., p. 186ss.
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FtloJo/iateoretica
e gli uomini della vita delle cose. L'intersoggeuività è potenziai· mente estesa alle cose tutte dell'universo, tutte nella loro radice profonda vive, viventi. So~gettivizzazione del mondo, ingenua umanizzazione delle cose? E vero l'esatto contrario: è l'uomo che viene immesso nella vita del cosmo, che viene sottratto a quella "dignità" che a un tempo lo dichiarava superiore agli esseri tutti dell'universo e lo isolava dal mondo. Attraverso I'epoché la feno· menologia raggiunge insieme la radice oltre-mondana del mondo e oltre-umana dell'uomo. Husserl ha così ripercorso - a modo suo, chiaramente, e cioè col suo linguaggio e col suo metodo - la via già battuta da Hegel. Il riferimento è essenziale, anche per riprendere, criticamente, la domanda sul "perché" lasciata sopra in sospeso, ma certo non dimenticata.
3. L'enorme pOlenza del negativo Pochi ftlosofi hanno criticato l'imellettualismo quanto e come Hegel; ma forse nessuno ha pronunciato dell'intelletto più alto elogio: L'attività del separare è la forza e il lavoro dell'intelletto, della più straordinaria e più grande potenza, o meglio. della potenza assoluta. n circolo che riposa chiuso in se stesso, e in quanto sostanza sostiene i suoi momenti, è il rapporto immediato e perciò nulla di sorprendente. Ma che l'accidentale come tale, il reale, che è tale perché connesso con altro e solo in questa connessione, separato dal suo proprio ambito, guadagni un'esistenza propria e una separata libertà, questa è l'immane potenza del negativo, dell'energia del pensiero, dell'io puroY
L'elogio dell'intelletto è un elogio della Vita, della vita dello spi· rito che ha in sé la forza di sopportare anche la potenza devasta· trice dell'intelletto: La morte, se così vogliamo chiamare quella irreahà [se.: la irreahà dell'accidentalità separata], è la cosa più terribile, e per tener fermo
l}
G.W.F. Hegel, Fenomenologia, cit., vol. I, pp. 25·26 [84]. 160
Fenomenologia/Ermeneutico
dò che è mono è necessaria la più grande forza. La bellezza priva di forza detesta l'intelletto, perché questo pretende da lei dò ch'essa non può fare. Ma non la vita che innanzi alla mone inorridisce e si conserva pura dalla devastazione, bensì quella che sopporta la morte e si mantiene in essa, è la vita dello spirito. Lo spirito guadagna la sua verità soltanto col trovare se stesso nell'assoluta lacerazione. 1 ~
È qui descritta, con rara efficacia retorica, la negazione del mondo, la Weltvernichtung, a opera dell'io. Nulla regge l'urto della critica della coscienza. Cadono idoli, ma anche dèi. Superstizioni, ma anche religioni; insulse, quando non abominevoli consuetudini, ma insieme con queste anche nobili tradizioni. Tuttavia lo scopo di questa Verwiistung è la "verità". La coscienza deve far terra bruciata attorno a sé per liberare lo spazio necessario alla costruzione di un nuovo mondo, all'inizio di altra storia, ave regni la vita e non la morte.
3.1 Ritorno alla vita Lo spirito deve saper accogliere in sé anche la morte, ma per recuperare il morto alla vita. Di qui la condanna senza appello del fatuo intellettualismo che si aggira tra le morte figure di un mondo reso oggettivo non da altri che da se stesso, dalla coscienza, cioè, che incapace di superare la sua soggettività, si ferma al puro negare, senza mai raggiungere alcunché di positivo. A questo imbelle raziocinare manca la serietà della negazione. Esso s'arresta al momento puramente soggettivo, ignaro che soggetto e oggetto san uno alla radice. ' Contro questo fatuo raziocinare (Riisonnieren) opera la potenza stessa dell'intelletto che, non fermandosi innanzi a nulla, volge la negatività contro la stessa negazione. In questa riflessione del negativo su se medesimo soggetto e oggetto si ricongiungono, si ritrovano nella loro unità, non immediata, ma mediata, non semplice ma articolata, non solo intuita, ma riflessa. Qui davvero l'idea è
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Ivi,p.26 [87].
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F1loso/ialeore/ica
Ruckkehr zum Leben, 15 "ritorno alla vira", ma solo p~rché la vita stessa s'è fatta idea, ovvero coscienza di sé, sapere. Così Hegel nel suo duro, ma essenziale linguaggio: L'esistenza immediata dello spirito, la coscienza, ha i due momenti del sapere e dell'oggettività negativa del sapere. Dacché lo spirito si sviluppa in questo elemento e vi dispiega i suoi momenti, a essi, in quanto si presentano come figure della coscienza, appartiene anche l'opposizione che è propria di questa. La scienza di tale itinerario è la scienza dell'esperienza che la coscienza fa; la sostanza viene considerata, nel suo essere e nel suo movimento, oggetto della coscienza. La coscienza non altro sa e comprende che quanto è nella sua esperienza, poiché ciò che è in questa è solo la sostanza spirituale, la sostanza, cioè, in quanto oggetto del suo Se stesso. Lo spirito è però oggetto, perché è questo movimento del farsi altro, e cioè oggetto di se steJJo, e del togliere (au/zuhe· ben) questo esser-altro. Viene chiamata esperienza proprio questo movimento, in cui l'immediato, il non-esperito, e cioè l'astratto, sia esso l'essere sensibile o il solo pensiero del semplice, si estranea, e poi da questa estraneazione ritorna a sé, presentandosi ora nella sua realtà e verità, anche come proprietà della coscienza. 16 Così lo "spirito", la coscienza consapevole di sé come unità di sé e del suo altro, del soggettivo c dell'oggettivo, è radice, origine: Vita. Ma Vita portata a consapevolezza di sé. Totalità come correlazione universale, per tornare al linguaggio di Husserl e di Paci, col quale abbiamo iniziato. Non visione delle cose singole, dunque, ma del rutto in cui tutte le singole cose sono: "la descrizione del vaso di fiori", ma in quanto "contiene in sé il significato del mondo, della mia vita, della vita di tutti". Epperò non visione - non visione soltanto; ma visione della visione. Lo sguardo- non l'occhio- che vede, osserva, analizza e ricompone se stesso. Cogito me cogitare cogitata. Il problema ora è di capire questo "me", questo cogito universale che tuttavia si dice (e si pensa) come singolare: come me. Questa universale vita consapevole che si dice e si pensa sempre attraverso un pronome personale: "io" o "tu", o "egli", o "noi" ...
l5 G.W.F. Hegel, Scienzo ... , cit., vol. 11, p. 935. G.W.F. Hegel, Fenomenologia, cit., vol.!, pp. 28-29 [91].
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Fenomenologia/Ermeneutics
Ma qui bisogna intendersi: non è in questione il fatto che la coscienza trascendentale, !"'io-orizzonte" vive nei moheplici io empirici, negli "io-corpo" degli indefiniti uomini che costituis.cono l'umanità storica- e dove altrimenti? Altro è il problema. E che la coscienza trascendentale è come tale singola, individua. Che l'orizzonte in quanto orizzonte, e cioè in quanto onnicomprendente, è particolare. Solo così, infatti, si dà unirà vera di universale e singolare, e non semplice congiunzione o sovrapposizione. Si tratta - in certo senso, ma solo in certo senso - di fare il cammino inverso a quello sin qui percorso. Se finora il nostro in· tento è stato di mostrare l'elevarsi della coscienza singola e finita all'universalità e infinità dello sguardo, ora nostra cura sarà di mostrare la singolarità dello sguardo universale, la finitezza della sua infinità. Chiaro che non bisogna ritornare alla coscienza, alla sua separatezza. Alla sua divisione dall'oggetto (o contenuto, o "sostanza"). In giuoco ora è ben altro: è lo sguardo stesso, la visione e la visione della visione. L'universale e l'Infinito come tali. È di questi che bisogna mostrare la finitezza.
4. Fenomenologia delle passioni Secondo un'interpretazione largamente diffusa Heidegger col termine Dasein (esserci) ha inteso definire l'esistenza umana in antitesi con la tradizione kantiano-idealistica alla quale Husserl, a partire almeno da Ideen, era ancora legato, della autocoscienza tr2scendentalc. Laddovc questa è universale, quello è singolare; laddove questa è un soggetto "senza mondo" (weltlos), quello è un'esistenza determinata essenzialmente dal suo essere-nel-mondo; laddove quella è un "io-orizzonte", comprensivo quindi del tutto, questo è solo un'io mondano finito. Che questa interpretazione trovi anche più di un sostegno nelle parole stesse dei due fLiosofi, non si può certo negare; si nega però che sia condivisibile senza danno, e danno grave, per le tesi fondamentali dei due autori. A cominciare - riguardo a Husserl - dalla riflessione fenomenologica, che si ridurrebbe alla più vieta riflessione naturalistica, come già sopra si è detto, ovc mai l'io trascendentale venisse inteso, non diciamo come un soggetto weltlos, ma anche 16J
FJ1oro[iateoretica
solo come soggetto contrapposto all'" oggetto" mondo. Quanto a Heidegger l'interpretazione di Dasein come di un'esistenza singola, strutturalmente legata al mondo e agli altri, è certamente fedele alla parte iniziale dell'Analitica esistenziale, ma solo a questa. E l'inizio dell'Analitica è rivolto a esporre le strutture di Dasein così come si presentano nell'esistenza "inautentica" (uJteigentliche), nell'esistenza, cioè, perdura, "deierra", nel mondo. Muovendo di qui, e cioè dall'esistente com'esso iJtnanzitutto e per lo più si mostra, Heidegger ripercorre il medesimo cammino di Husserl. E non è certo un omaggio al Maestro, o peggio una captatio benevolentiae, il fatto che Heidegger iscriva la sua "analitica" nell'ambito della fenomenologia, sottolineando che questa diversamente dalle altre discipline, come per esempio la teologia, non indica un determinato ambito oggettuale di ricerca, bensì solo un metodo, il metodo del puro mostrare i fenomeni, quale che sia il loro ambito d'appartenenza. È quindi il caso di andare a leggere la definizione che Heidegger dà della fenomenologia in Essere e tempo: L'espressione fenomenologia può esser fotmul>; 218
MetafiJtca!Teolog/a
non dicono assolutamente nulla; né dichiarano, né esprimono. Quelli che le pronunciano non sono neppure Musiker ohne muszka!ische Filhigkeit. Non sono neppure strimpella tori. Vero è che fuor delle proposizioni matematiche e di quelle delle scienze empiriche pare non vi siano proposizioni che abbiano senso. Nel dire questo Carnap s'appoggia all'autorità di Hume. Ma, si chiede, se questo è vero, qual è la funzione delle proposizioni filosofiche? O più rudemente: che fine fa la filosofia? La domanda è per noi rilevante - perché conferma, in negativo, il legame tra metafisica e filosofia: cade quella, e questa traballa. Ma Carnap non vuole che questo accada. Pertanto contra Wittgenstein - il Wittgenstein del Tractatus, eletto a proprio nume tutelare dai filosofi della scienza del Circolo di Vienna afferma che le "proposizioni filosofiche" non sono prive di senso, e quindi non vanno messe da parte una volta che si è chiarita e capita la distinzione tra le proposizioni che sono dorate di senso e quelle che ne sono prive. La filosofia ha un compito molto serio una volta che si è liberata dagli inutili rompicapo (non-problemi) della metafisica: essa deve contribuire all'unità della scienza, che oggi sembra disperdersi in una molteplicità di discipline e di metodi, che per la loro stessa specializzazione tendono a ignorarsi reciprocamente. La "sintassi logica" è lo strumento che Carnap elabora per giungere a tanto.
2.1 Il compito della filosofia- secondo Rudolf Carnap Carnap comincia col distinguere nell'enunciato in generale l'aspetto materiale da quello formale. Il primo attiene al contenuto, a ciò che l'enunciato significa, il secondo all'ordine di connessione dei termini dell'enunciato -le parole. Lo scopo che si prefigge è l'elaborazione di una "sintassi del linguaggio", e cioè di un insieme di regole di formazione e di trasfomazione di enunciati. Le prime, vere e proprie regole grammaticali, determinano il modo di costruzione degli enunciati, le seconde il modo o i modi in cui da certi enunciati possono dedursene altri. Per esempio: dagli enunciati "tutte le aquile sono uccelli" e "tutti gli uccelli 219
FilowfiateoretiCtJ
sono animali" si ricava l'enunciato: "tutte le aquile sono animali". Ci fermiamo qui, al nocciolo di questa sintassi; vediamo ora quali conclusioni trae Carnap da questa analisi linguistica sia riguardo alb filosofia che alla scienza. La prima concerne il metodo della filosofia. Ed è la risposta di Carnap alla questione circa la "funzione" delle proposizioni filosofiche. Bene, nella comune pratica del linguaggio la distinzione tra la "forma" e il "contenuto" dell'enunciato non viene rispettata. Accanto a enunciati che asseriscono fatti, individuali o generali, e ad enunciati formali o si.ntattici, relativi alle connessioni dei termini del discorso, altri ve ne sono che sembrano designare oggetti ma hanno invece valore sintattico o formale. Carnap porta ad esempio questi tre enunciati: (a) «il signor A ha visitato l'Africa»; (b) «questo libro tratta dell'Africa»; (c) «questo libro contiene la parola Africa». Il primo è un enunciato oggettuale perché dice una qualità dell'Africa: l'esser stata visitata dal signor A. L'enunciato (c) è un tipico enunciato formale; il (b) sembra esser un enunciato materiale, invece non lo è, ché non dice una qualità dell'Africa, ma solo della parola "Africa". Infatti, ragiona il Nostro, «una persona può sapere tutto dell'Africa e non saper nulla su questo libro». Il modo materiale di parlare è ingannevole perché sembra asserire "fatti", laddove dice solo di "parole"- di termini del discorso. Ora il compito della filosofia consiste nel purificare il linguaggio scientifico da questi enunciati pseudo-oggettuali. Un esempio ancora: i numeri secondo Peano e Hilbert sono termini elementari, secondo Whithcad e Russell sono invece classi di classi. Fin quando i numeri verranno considerati "oggetti", vale a dire: fin quando i loro asserti verranno presi come "oggettuali", questi filosofi non cesseranno di discutere e persino litigare, ma senza costrutto alcuno, ché la questione è indecidibile sul terreno oggettuale. Ma se questi filosofi si decideranno a tradurre in linguaggio formale i loro asserti, allora la questione è decisa, prima ancora di sorgere. Avranno infatti ragione entrambi. Ma facciamo parlare direttamente Carnap: Se chiamiamo L1 il sistema linguistico di Peano, e L2 quello di Russell, i due enunciati possono essere così completati: >. Resta tuttavia anche nella contrapposizione "al di là da ogni contrapposizione", nel rapporto oltre il rapporto. Pareyson deve tenere insieme questi estremi: la totale libertà di Dio e il rapporto di Dio con il mondo. Trascendenza e immanenza. La soluzione è quella classica
Jd Deus creator: ... un rapporto tra due termini, uno dei quali è incomrnensurabile e quindi infini[amente preponderante sull'altro, è un rapporto impossibile, che diventa possibile, tuttavia, soltanto se il termine incommensurabile sia la condizione dell'altro termine e del rapporto che ha con lui. Un tal termine nel quale risiede il centro del rapporto è Dio, e un tal ter· mine, che consiste dall'essere posto da un termine cui si rapporta, è l'uomo col suo mondo. 4 o
L'implicanza di positivo e negativo concerne dunque, con l'uomo, anche Dio- che è dentro e fuori il rapporto non nell'ortica limitata e finita dell'uomo, ma per sé. È Dio che ha reso possibile l'impowblie. È Dio che ha scelto il mondo. Nell'eternità si ha la coincidenza di relatività e incommensurabilità.41 39 Ivi, p.I68epassim.
40 L. Pareyson, Esistem:11 e persona, il melangolo, Genova 1985~ [1950], p. 160. 41
/bidem.
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Metafisica/Teologia
Che cosa distingue, può distinguere, questa posizione da quella hegeliana? Chiaramente non altro che l'implicanza di positivo e negativo, ma non nel senso che l'uno determini l'altro, il positivo il negativo, l'incommensurabile il relativo - questa implicanza è già cutta interna alla logica hegeliana, al rapporto SostanzaSoggetto, o Essenza-Concetto -, bensì nell'altro affatto diverso della pari possibilità di entrambi. Vale a dire: la trascendenza che ha reso possibile l'impossibile rapporto deve essere anche oltre questa possibilità. La sua libertà deve comprendere anche la possibilità di non rendere possibile l'impossibile. Solo così si mantiene per davvero nel rapporw /uor d'ogni rapporto.
9.2 Dio non può non scegliere di essere Dio. Il Male "oltre" Dio L'ultima meditazione di Pareyson è stata un incessante colloquio con Schelling, l'ultimo,lo Schelling della Filosofia della mitologia e
della Rivelazione, ma, vedremo, non solo con l'ultimo. Dell'estrema tensione di questa meditazione su Dio, sul male, sulla libertà, diamo qui e in seguito alcuni rapidissimi exempla: Nulla è drammatico come l'atto primo con cui Dio origina se stesso, perché è una lotta fra la volontà e il desiderio di Dio di affermarsi e di esistere e il pericolo che vincano il nulla e il male. La positività e l'esistenza di Dio hanno uno spessore, una densità, una profondità, che la metafisica dell'essere non può né prospettare né sondare. Questa abissalità divina è data dal fatto che Dio è libertà, la quale per un verso è volontà d'esistenza cd atto iniziatore, e per l'altro verso è possibilità del male e scelta originaria. A rigore Dio è molto di più della sua esistenza e della sua positività, perché dietro ad esse c'è il Dio prima di Dio, il Dio che agisce prima di esistere, il Dio come libertà abissale. È Dio come libertà che è autore della sua propria esistenza intensamente voluta, e sorgente della sua propria positività liberamente scelta.41
42 L Pareyson, Ontologia dei!d libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, pp. 266,267.
257
Filosofiateoretica
Palese l'eco dello schellinghiano Wo/len ist Urseyn, «il volere è l'essere originario))' della Sehnsucht, die dtJs ewlge Elne emp/lndet, slch selbst z.u gebiiren, della «brama che prova l'eterno Uno di generare se stesso». 41 Il richiamo è fano non per indicare un debito, ma un limite. Per quanto si dia alla libertà la scelta estrema tra sé e la sua negazione, alla fine l'equilibrio si rompe a favore della scelta di sé. Della libertà. Pareyson prospena invero la possibilità che il negativo prevalga - ma è una possibilità negata nel momento stesso in cui viene prospettata: Dire "Dio esiste" significa dire che ab aeterno è stato scelto il bene, che il male è stato vinto per sempre.44 La scelta nega la libertà. Dio è incatenato più duramente di Prometeo all'opera operata. Operata da sempre. Il futuro della storia eterna non è futuro, è tutto il tempo. Non c'è mai stata pre-istoria nella storia ideale eterna di Dio. D male nasce solo come già vinto, scartato irrevocabilmente dalla definitività dell'esistenza di Dio; ma in virtù di questa stessa irrevocabilità è tuttavia presente come una poss;b;/ità, che diventa minacciosa solo perché possono sempre sopravvenire le circostanze, le occasioni, gli autori che lo rea!t'zzano. 0
Non restai?-o che gli uomini a sostenere il peso della libertà. Ma possono? E pensabile la libertà dell'ente finito insieme con la necessità dell'In-finito? Necessltà, sì- e non solo posteriore alla scelta, ma anche anten'ore: Nessun progetto, nessun fine nel "Dio prima di Dio", bensì soltanto la pura volontà: volontà di essere, desiderio di esistere, atto di libertà;
43 F. W.]. Schelling, Ricerche filosofiChe sull'esJenzo della libertà umano, trad. i t. con testo tedesco a fronte a c. di S. Drago del Boca, lei, Milano 1947, p. 58. 44
4~
/bidem.
lvi, p. 270. 258
Meta/luCa/Teologia
di qui il "Dio dopo Dio", la scelta assoluta, l'esistenza divina, la positività originaria. 4 ~ Se Dio- il Dio "prima" di Dio- era volontà di esistere non poteva che scegliere l'esistenza, che se stesso- il Dio "dopo" Dio-;
non pareva che scegliere il bene. Avesse vinto il male non Dio sarebbe stato colpevole; ma il male stesso, più force, se avesse prevalso, di Dio. No, Dio non sarebbe stato colpevole della vittoria del male. Nella lotta Egli è solo uno dei contendenti. S'affaccia qui l'idea del "Dio finito"?
10. Il Dio finito Certo. Ma non nel senso del Dio impotente, del Dio che per sua scelta imperscrutabile si è rimesso al caso e al divenire, al rischio totale del tempo e della storia, rinunziando al proprio potere di governare il mondo degli uomini. In questa teologia della finitezza, avanzata da Hans Jonas per sottrarre Dio al coinvolgimento negli orrori del mondo, in particolare nel "peccato" di Auschwitz, rivive l'antica dottrina dello tsim-tsum, della "contrazione" di Dio, risalente a !sacco Luria, uno dei maggiori rappresentanti della mistica ebraica, della Kabbalah, del Cinquecento. L'appello alla tradizione, però, non basta a legittimare una teodicea. La coerenza è cerco una "virtù" anche per Dio. Ma sino a qual punto imporre, per attenersi a essa, sacrifici a quegli imprevidenti degli uomini? Creati poi tali, imprevidenti, dallo stesso Dio che volle far loro dono della libertà - un fardello troppo grave per i più, lamentava il Grande Inquisitore di Dostoevskij. Non senza ragione, stando ai fatti- e più ancora all'opera di Dio, che ha dovuto intervenire una seconda volta nella creazione! lnverola teoria dell'aurolimitazione divina ricorda un po' troppo l'Idea hegeliana che non paga mai di tasca propria, che getta sul teatro del mondo il cadavere di un Cesare perché la Repubblica di Roma trapassi a Impero. L' accostamemo parrà, di primo acchito, poco congruo: il ritrarsi divino non è l'e-
46
Ivi,p.267. 259
Ft!o~ofia
teorctica
sano opposto della pre-potente ragione hegeliana che ha la pretesa di governare il mondo? Come avvicinare la sobrietà, se non la modestia teologica di Jonas alla hjbris della ftlosofia hegeliana della storia? Pure, se ci rammentiamo dell'ascendenza neo-platonica, dell'emanatismo, come dire?, rovesciato che caratterizza la dottrina dello tsim-tsum, la distanza tra il "balbettio" della teodicea di Jonas- come lui stesso la definisce- e il superbo argomentare della hegeliana teologia della storia molto si riduce. Per annullarsi affatto quando Jonas al suo accomuna il "balbettio" delle «incomparabili parole dei grandi vari e uomini di fede, dei profeti e dei salmisti», per poi aggiungere, chiudendo il suo discorso sul "concetto di Dio dopo Auschwitz" con questa citazione goethiana: e la lode che a Dio si balbetta lassù in cerchi su cerchi sta riunitaY
La balbettata lode è piena conoscenza di Dio, se assume di sapere anche la sua destinazione finale: il suo essere già "lassù". Vero è che mai non si potrà cogliere il senso profondo del "Dio finito", fin quando non ci si interrogherà sulla Trinità, così tornando alla grande speculazione filosofico-teologica. 10.1 La Trinità secondo Agostino Richiamandosi palesemente ad Aristotele, Agostino distingue due tipi differenti di predicati in Dio: quelli secundum substantiam, che spettano alla divinità in quanto tale, quali la bontà, la sapienza, la potenza, l'infinità, da quelli che si dicono solo relative, come l'esser-Padre che è proprio della prima Persona, l'esserFiglio della seconda e l'essere-Spirito della terza. Solo che ciò che si predica relative di Dio non è accidentale, ma essenziale, appartenendo a Dio ab aeterno. Dio è da sempre Padre, da sempre Figlio, da sempre Spirito: da sempre uno e trino. Bisogna, inoltre, non perdere per la distinzione l'unità dei predicati: se di-
~ 7 H.Jonas, Il concei/o di Dio dopo Aurchwilz. Una voce ebraica, uad. it. di C. Angelino, il melangolo, Genova 1989, p. 40.
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Meta/irictJ!TeologttJ
ciamo che in quanto infinito Dio è uno, e in quanto Padre, Figlio, Spirito è trino, noi separiamo l'Unità dalla Trinità, separiamo il "riguardo" per cui Dio è detto Uno, dal "riguardo" per cui è detto Trino. Verrebbe così meno la semplicità essenziale di Dio, l'essenza una. E invece è necessario mantenere l'unità delle determinazioni sostanziali e di quelle relative. E questo comporta che la Trinità va concepita come carattere specifico essenziale d'ogni momento della Trinità: del Padre, del Figlio, dello Spirito. Il che non pluralizza affatto l'essenza trinitaria, non moltiplica per tre ogni termine della Trinità, al contrario mostra che l'Uni-Trinità è inscindibile, non potendosi pensare la Trinità che unitariamentc, e cioè tutta nel Padre, tutta nel Figlio, tutta nello Spirito. Padre, Figlio, Spirito, si co-appartengono nel senso che non sono se non nel movimento eterno del loro comune passare l'uno nell'altro e l'altro nell'uno. Non c'è il Padre che, dapprima in sé, pas~a poi nel Figlio, né dopo di essi lo Spirito qual terzo. Non v'è nulla prima del passare l'uno nell'altro. Non dal solo Padre- afferma Agostino - venne inviato il Figlio, bensì a Patre et Filio. Per "mandarlo", infatti, il Padre dovette o imporsi al Figlio (iubere), o pregarlo (rogare), o esortarlo (admonere), dovette in ogni caso far uso della parola, de!logo, di ciò che è proprio del Figlio. 48 li Figlio, dunque, è "prima" del Figlio. È già nel Padre. Spiega Agostino: «L'affermazione: "In principio erat Verbum", va così intesa: nel Padre era il Verbo». 49 E come il Figlio è nel Padre, così il Padre è, passa, nel senso che è già da sempre passato, nel Figlio: non altro la "missione" del Figlio mostra che il Padre. Nel Figlio è il Padre. Il Padre è il Figlio: «Ego et Pater unum sumus» (lo, 10.30). Ed entrambi sono nello Spirito. Agostino ricorda la definizione dello Spirito santo qual dono di Dio, e così la commenta: se del Padre e del Figlio si dice che sono Spirito e che sono santi, se la denominazione a loro comune funge da nome proprio della terza persona, allora lo Spirito
48 Agostino, De Trinit11te- Lt Trinità, 11, 5.9, rrad. ìt. con testo latino a fronte di G. Beschin, Città Nuova, Roma 1973. 49 Ivi, VI,2.3. 261
Fifow/tateoretica
santo è la loro comunione, il loro reciproco donarsi, la loro rela. zione che solo in astratto è un "terzo", essendo realmente e veramente il primo, il Frius. Ma un "primo" che non sta a sé, essendo solo il comunicarsi del Padre e del Figlio, il reciproco darsi l'uno all'altro, l'altro all'uno. Pur muovendo da un'impostazione rigorosamente aristotelica, Agostino sottrae l'essenza del Deus-Trinitas al dominio del princi· pium firmissimum, del principio di non-contraddizione. La Tri· nità non è un'ousia, una sostanza, una struttura che si possa definire. È l'indefinibile. Non a caso Agostino chiama lo Spirito -la "comunione" del Padre e del Figlio, il loro movimento assoluto, ab-solutus, cioè, da ogni condizionante essenza sostanziale- inef fabilis communio. Ineffabile - perché? in qual senso? Non nel senso - si rivela qui la prima e più pro/onda radice del pensiero trinitario -, non nel senso dell'Uno-Uno della l ipotesi del Parmenide platonico, ma in quello dell'dtopon metaxf della m, di quel non-spaziale e non-temporale frammezzo che media Uno e molteplice senza essere né Uno né molteplice. Senza essere: in quanto pura copula, di là- o forse meglio: di qua- dall'essere e dal non·essere, dato che per essa entrambi gli opposti sono, e cioè possono essere. E qui è già tutto il "circolo dei circoli" della hegeliana dialettica del sapere assoluto- tutto nel suo nocciolo concettuale, compresa la sua aporia di fondo. Ché, come si è detto e ripetuto più volte nelle pagine precedenti, questo movimento incessante- da Hegel paragonato al fu· rare bacchico è in se stesso la quiete suprema, da nulla essendo, da nulla potendo esser mosso. Ma il pensiero trinitario di Agostino non si ferma qui. È più ricco e profondo.
10.2 L'Inizio La quiete in cui riposa der bacchantische Taumel del movimento dialettico allude a un Profondo che è anche oltre la sua manifestazione, un Profondo che, contro la dottrina esplicita di Hegel, resta in sé, non si es-pone nel mondo (cfr. retro, n Percorso, § 262
Meta/ilica!Teologla
9.1). Bertrando Spaventa, leggendo le prime categorie della Logica hegeliana, seppe scorgere questa eccedenza del Profondo hegeliano, quantunque poi attribuisse anch'egli questa eccedenza, questa plotiniana hyperoché, più alla propria interpretazione di Hegel che non a Hegel. Massimo Cacciari, nel riprendere il tema a cui Spaventa legò il suo nome, distingue "inizio" da "cominciamento". In questo è già implicito il movimento dell'es-posizione, dell'Aus-legung. Ma l'Inizio per esser tale va pensato anche come altro dal "cominciamento", altro dall'Iniziante. L'Inizio è prima: è il Prius stesso, come tale sciolto dalla necessità del "cominciamento". In esso tutto èpowbi/e, com-possibile: l'iniziare come il non-iniziare. L'Uno-Uno della I ipotesi del Parmenide e l'Uno-molti della II sono entrambi compresi nell'Inizio. Inizio non è differenza, ma indifferenza. Inizio è insieme (hama, simu/) Silenzio e Parola, Lethe ed Alétheia, Ab-Grund e Ur-Grund, "Dio prima di Dio" e Deus-Trinitas. Nel che è implicito che la separazione non è del Figlio dal Padre, ma della Trinità dall'Inizio. Il Padre, per Cacciari, non è Inizio, archè, proprio perché Padre: iniziante Inizio. Ricordiamo l'agostiniano «a Patre et Filio missus est idem Filius». Ma la vicinanza ad Agostino non deve impedirci di scorgere la distanza, che è ben maggiore. Ricostruiamola, muovendo da un passo di Cacciari: Il Deus Trinitas è assoluto in quanto ab-solto dall'Inizio: e perciò è libero. Questo "lato" -che segna l'origine stessa della relazione, del Relativum non accidentale, tra Dio e il Logos- costitutivo dell'intera vita intradivina, si manifesta sino all'incarnazione e alla morte più maledetta {più opposta all'origine), nel Figlio. Nel manifestarla, perciò, il Figlio non si separa per nulla dall'intero originario - perché questo intero è in verità libero, è già in sé perfettamente distinto, il suo simbolo è già in sé distinzione-da, indica un'immemorabile provenienza.50
La morte del Figlio rivela la mortalità del Deus Trinitas. La distanza da Hegel è quanto mai chiara: coinvolto il Padre e l'intera Trinità
50 M. Cacciari, Dell'Inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 217. 263
Ftloso/tateorettca
nella de-cisione del Figlio non v'è più spazio per dialettiche conciliazioni. Dio non solo muore, ma, per dirla con Nietzsche, "resta morto".~ 1 Di più: il "Non" che separa il Deus-Trinitas dall'Iniziol'hegeliana ungeheure Macht des Negativen, !'"enigma" spavenriano del No dopo il Sì, della Negazione dopo l'affermazione- reca in sé la possibilità di altro e più tremendo "Non": L'in-differenza dell'Inizio ha in sé anche questo possibile- anche il possibile di un'estrema "nostalgia" di Dio per "dò" cui il suo stesso ek-sisterc fa segno.H
È un punto decisivo questo. Cacciati è qui lontano da Hegel ma non meno da Schelling. Questa Sehnsucht di Dio, volta non al futuro intemporale della creazione - la schellinghiana Sehnsucht des ewigen Einen, um sich selbst :zu gebiiren -ma al Senza-tempo de!I'aidion, si sottrae anche al concetto della com possibilità. Qui creatio e decretitio non stanno insieme. Qui appare un pombile che nega la stessa possibilità. Nell'in-differenza dell'Inizio è anche la Differenza estrema, la Negazione dell'in-differenza. È anche l'Identità assoluta - da tutto sciolta -che nega la contraddizione, il movimento, il tempo aionico della Tri-unità divina. Questa possibilità, negatrice non d'altro che di se medesima, come sottrae certezza d'essere al Dio Uno e Trino, così salva il circolo divino, il circolo dei circoli, la Trinità stessa alla quiete assoluta dell'identità con sé, dell'essere solo sé in se stessa, dall'essere sola con se stessa. Paradossalmente è l'Identità che salva la contraddizione dall'identità: l'Identità opposta alla contraddizione che salva la contraddizione dalla sua identità con sé. E qui, incredibilmente, torna Agostino.
l 0.3 L'abbandono . Nel libro VII del De Trinitate Agostino si chiede come debba essere 'interpretata l'affermazione di Paolo: «Cristo [è] la forza di Dio e la
51 E Nietzsche, 52
La gaia scienza, cit., af. 125, pp. 150-152.
M. Cacciari, op.cit., p. 219. 264
Metafisica/Teologia
sapienza di Dio» (Cor., I, l, 24). Non cerw- risponde- nel senso che il Padre è forte e sapiente per il Figlio. Se tuuo quello che il Padre è, lo fosse per il Figlio, allora non avrebbe un'essenza, e conseguentemente neppure potrebbe esservi comunità essenziale tra il Padre e il Figlio. Il Dio-Padre non è nulla, al contrario è tutto, se è già Verbo, come precedentemente si è detto. Epperò è sapienza e forza e bontà e grandezza. Invero è il Figlio per il Padre, in quanto da Lui generato. Cristo è lumen de lumine, luce da luce, sapienza da sapienza, forza da forza, bontà e grandezza da bontà e grandezza." Quale il senso di questa derivazione? Il Padre non è sapienza al modo del Figlio, né bontà, né potenza. Perché nel Figlio questi predicati essenziali (e cioè non relativi, ma neppure sostanziali) sono generati, nel Padre ingenerati. Certo il Figlio è co-eterno al Padre. Ma la differenza tra "generato" e "ingenerato" non è d'ordine temporale. Sapienza e bontà, giustizia e potenza, forza e grazia sono nel Padre ingenerate, nel senso che non ancora sono nate: nel Padre non c'è la giustizia come tale, la giustizia ch'è solo giustizia, come non c'è bontà ch'è solo bontà, grazia ch'è solo grazia. Esse si generano col Figlio, sono per il Figlio, in virtù del Verbo che distingue la sapienza in quanto sapienza dalla grazia in quanto grazia, la giustizia in quanto tale dalla potenza ch'è solo potenza. Ciò che nel Padre è uno, nel Figlio è molteplice. In questo senso il Figlio è l'autorivelazione del Padre. Nel Figlio il Padre si conosce, conosce sé in quanto distinto, in quanto Parola, Lago, Sapienza - e forza e bontà e grandezza. Pertanto non basta dire che il Padre è sapienza e il Figlio sapienza da sapienza come lumen de lumine. Fermarsi qui significherebbe concepire l'uni-trinità soltanto per come appare in uno solo dei suoi momenti. li Padre è qui l'ex quo visto nell'orizzonte del per quem. Ma il Padre è anche oltre questo orizzonte. Nel suo orizzonte proprio, in sé e per sé, il Padre è l'Uno-in-Uno, l'Uno che permane Uno. Sapienza, sì, ma sapienza che non è diversa da bontà, forza, grandezza. Il Padre non conosce determinazione, quindi non ha in sé negazione alcuna. È col Figlio che inizia la negazione. È facile che ora sorga l'obiezione: se il Padre, come lo Hen di H Agostino,
op. al., VII, 2 ss.
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Ft1oso/i(l teoretiClJ
Platino, permane éiro en bdthei, chiuso nella sua profondità,'4 e al Figlio, come al Nous che rende molteplice l'uno (pol/à epofese ten mfan)," si amibuisce la creazione del mondo, in che l'interpretazione agostiniana di Dio si distingue più dalla concezione di Platino - nell'essenziale? E in tal modo non si nega proprio l'uni-trinità di Dio? lovero la distanza tra le due posizioni diviene tanto più rilevante quanto più si insiste sulla differenza tra l'Uno-in-Uno del Padre e l'Uno-Molti del Figlio. Perché l'unità del Dio trino comporta con la prossimità del Padre al Figlio, con la medesimezza della loro essenza, l'identità dell'uno che nega il molteplice con l'uno che si esplica nel molteplice. Laddove Platino, portando, con la teoria dei due atti, la divisione pur nel seno dell'Uno, tiene separato lo ben-ben dallo henpanta, e così salva il molteplice e il mondo, l'imperfezione dalla perfezione dell'uno, Agostino, affermando l'identità radiCale delle tre personae della divinità, porta la negazione assoluta del molteplice nel cuore stesso di questo. Se, come si è detto, l'uni-trinità caratterizza ogni momento del divino, da ciò consegue che il Padre è nel Figlio non solo qua icona, Verbum - ovvero: coscienza di sé in altro, che è l'aspetto di sopra illuminato -, sì anche qua negazione d'ogni coscienza e immagine, e parola di sé. n Padre com'è il Verbo, così ne è la negazione: come "manda" il Figlio, come in lui si rivela, così si nega e lo nega - e ciò nel Figlio. Se poc'anzi s'è detto che il Figlio è anche "prima" del Figlio, ora dobbiamo aggiungere, per e-splicare il senso pieno dell'uni-trinità, che il Padre è anche "dopo" il Padre. E questa seconda proposizione- il Padre "dopo" il Padre- non è per essenza diversa dalla precedente: il Figlio "prima" del Figlio, dacché è l'identità dei diversi e contraddittori che qui si afferma: dapprima l'identità nell'uno-in-uno della negazione e dell'affermazione del molteplice, di poi l'identità nell'uno-molteplice dell'affermazione e della negazione del molteplice. E questa identità è tanto rilevante da assumere una figura particolare: quella dello Spirito ' 4 Plo[ino, Ennudi, VI, 8, 18. "lvi, VI, 7, 15. 266
Meta/inàiiTeologta
- il Terzo che esprime la verità del Primo e del Secondo. Verità non come conciliazione, anzi come discordia totale; legame o comunanza non come superamento della loro contraddizione, anzi come affermazione dell'irriducibilità, dell'irredimibilità di questa. L'uno rappresenta nel molteplice la sua costante minaccia e pericolo. Il toglimento d'ogni certezza. Lo spirito è questo: la pura contraddizione come abbandono infinito e irredimibile- e questo e solo questo è il legame che lega il Figlio al Padre. È quindi nella stessa vita intradivina del Deus-Trinitas il "pericolo" e la "minaccia" dell'Uno, dell'Afdion - del non-iniziante Inizio, che non è il "passato" intemporalmente prima dell'eterno presente trinitario, ma la presente possibilità di questo eterno presente: possibilità che simullo fa essere e lo nega. Rileggiamo ora una pagina evangelica: la più alta. Al Getsemani il Figlio implora il Padre di sottrarlo all'ora estrema. Umano, troppo umano ancora, vede nel Padre la possibile salvezza, sino a coinvolgerlo nel suo destino, e ad attribuirgli un volere, quantunque infinito: . Tuttavia- è in ciò la grandezza del Figlio- Egli è capace di sciogliersi dai ceppi della volontà, di liberarsi della sua umanità: