Filosofia antica e medievale [Vol. 1] [PDF]

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13-10-2008

12:47

Pagina I

Costantino Esposito Pasquale Porro

filosofia antica e medievale

Editori Laterza

Esposito-Porro-Vol1-Romane.qxp:Layout 1

1-03-2010

© 2009, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari Prima edizione 2009 Seconda ristampa 2010

12:10

Pagina II

L’Editore Gius. Laterza & Figli si impegna a mantenere invariato il contenuto dell’opera per un quinquennio, come disposto dall’art. 5, Legge 169/2008.

Questo manuale è il risultato del lavoro comune dei due Autori. Al di là della responsabilità condivisa, il primo volume è stato curato principalmente da Pasquale Porro, il secondo e il terzo da Costantino Esposito. In questo volume Marienza Benedetto ha collaborato alla stesura del cap. 6 e dei Percorsi tematici. Gli esercizi e le sintesi sono stati realizzati da Roberto Massari, Federica Pellicoro e Benedetto Pizzolla. L’editing è stato curato da Arcangelo Licinio.

Copertina e progetto grafico a cura di Luigi Fabii / Pagina soc. coop., Bari. Servizi editoriali a cura di dMB Editoria e grafica s.r.l., Firenze.

L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.

ISBN 978-88-421-0912-9

Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.aidro.org.

Editori Laterza Piazza Umberto I, 54 70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it

Questo prodotto è stato realizzato nel rispetto delle regole stabilite dal Sistema di gestione qualità conforme ai requisiti ISO 9001:2000 valutato da AJA e coperto dal certificato numero AJAEU/09/11317

Finito di stampare nell’aprile 2010 da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa

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Pagina III

PREFAZIONE

Chi scrive di filosofia – soprattutto quando si tratta di offrire un’introduzione storica alla disciplina – non può ancora oggi sottrarsi all’obbligo di definire in primo luogo il suo oggetto, ovvero di chiarire che cosa intenda per “filosofia”. Per noi l’oggetto della filosofia è essenzialmente una domanda – o meglio una serie di domande – sul senso delle cose, di ciò che sta attorno a noi come di noi stessi, della natura come della storia, della politica come di Dio: in una parola, la domanda sul significato di tutto. Ciò di cui si tratta dunque nella filosofia è innanzi tutto capire “che cosa c’è” e “perché c’è”, tentando di scoprire la realtà nella sorprendente molteplicità dei suoi aspetti e dei suoi fattori. E se è vero che vi sono «più cose in cielo e in terra» di quante possa contenerne una teoria filosofica, è altrettanto vero che ogni tentativo della filosofia nasce dalla domanda su questo “tutto”, che non è da intendere come la mera somma di tutte quante le cose, ma come il significato della realtà. Questa domanda appartiene alla stoffa della ragione umana, e non è mai posta né tanto meno esaurita una volta per tutte, ma si riapre di continuo, in epoche diverse, in tradizioni culturali diverse, in generazioni diverse, perché essa costituisce uno dei tratti essenziali e mai scontati del nostro esserci al mondo. Ogni persona consapevole avverte, pur in forme e prospettive diversissime tra loro, l’incalzare di questo interrogativo sul perché delle cose – delle cose che ci sono effettivamente e di quelle che ci sono state prima di noi; delle cose solo possibili, cioè che potrebbero essere, ma anche di quelle che dovrebbero essere o che vorremmo che fossero. Si tratta di un interrogativo fondamentale che si traduce di volta in volta nelle diverse forme del sapere filosofico: dalla logica e dalla teoria della conoscenza alla metafisica, dall’estetica all’etica, dalla morale alla politica, e così via. Ma proprio per il fatto che le questioni filosofiche si accendono sempre in forme molteplici e differenti, in risposta alle diverse sollecitazioni del reale – a volte in continuità a volte in discontinuità tra loro – assume un particolare interesse il modo in cui coloro che ci hanno preceduto nel corso della storia hanno posto a loro volta e hanno cercato di risolvere le loro domande. Per quanto riguarda la filosofia, la conoscenza del suo svolgimento storico non può essere considerata come un semplice accessorio né ridotta a un mero censimento di dottrine e di sistemi, o relegata a un settore specialistico degli studi: la storia della filosofia è un’occasione formidabile per imparare a domandare, confrontandosi con i tentativi più importanti di

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IV

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Pagina IV

Prefazione

venire a capo di questa lotta per il significato. E questo non perché il passato possa fornirci una serie di soluzioni già pronte o di modelli da ripetere: tutt’al contrario, perché esso può aiutarci a formulare e sviluppare in maniera più cosciente i problemi del nostro presente e il lavoro che tocca a noi. La storia della filosofia ci fornisce inoltre l’occasione per scoprire in che misura il nostro modo di ragionare e di porre dei problemi porta dentro di sé tutto il peso della nostra tradizione o delle tradizioni che si sono incontrate e scontrate nel corso del tempo. Possiamo rendercene conto anche solo considerando le parole che usiamo più comunemente, e il cui significato ci sembra quasi ovvio, mentre è il frutto o la sedimentazione di scelte teoriche e di discussioni divenute patrimonio diffuso del nostro stesso linguaggio. Parole come “io” o “essere”, “verità” o “bene”, “intelletto” o “volontà”, “concetto” o “idea”, “giustizia” o “politica”, “natura” o “Dio”, “legge” o “caso”, “male” o “amore” – e l’elenco potrebbe continuare fino a coprire gran parte del nostro vocabolario di base – non sarebbero concepibili, almeno come noi le usiamo, senza l’esperienza di pensiero degli autori che ci hanno preceduto e delle tradizioni che essi hanno iniziato o sviluppato. Da questo punto di vista la storia della filosofia può certamente costituire uno strumento di prim’ordine per verificare criticamente a che cosa realmente ci riferiamo nei nostri discorsi, e a non dare per scontate le opzioni dottrinali, le visioni del mondo o le ideologie che stanno sotto le categorie con cui pensiamo. Molti dei problemi filosofici, infatti, si annidano e spesso si nascondono dentro i termini, e quindi verificare il significato delle parole è forse il primo passo per l’acquisizione di una posizione critica nel sapere e nell’agire. Il nuovo manuale che presentiamo riprende dunque l’idea classica che per imparare che cosa sia la filosofia – e perché no, anche per imparare a “filosofare” – si debba conoscere la storia della filosofia. In tale prospettiva però l’affrontare storicamente i singoli autori o le tradizioni di pensiero è stato impostato in maniera tale da non limitarsi a fornire le loro dottrine standard, ma da ricostruire le problematiche da cui esse sono sorte, seguendone passo passo l’evoluzione, con un’attenzione particolare a come ciascun autore recepisce, reinterpreta e a sua volta modifica la tradizione e il lessico di partenza del suo pensiero. Questo ha comportato la necessità di presentare fedelmente i filosofi, soprattutto quelli più determinanti nella storia del pensiero, per così dire “di prima mano”, attraverso i loro stessi testi e con un’attenzione particolare all’uso dei termini tecnici di ciascun autore. Tale scelta è dovuta alla convinzione che la filosofia sia un sapere con un proprio statuto e una propria strumentazione specifica attraverso cui si deve necessariamente passare: si tratta di un lavoro di immedesimazione con i tentativi, spesso faticosi e complessi, dei filosofi, che non ci si può risparmiare, perché proprio attraverso questo impegno può emergere il senso della riflessione filosofica nella sua concretezza. Per quanto possibile i tecnicismi sono stati sciolti e spiegati, ma mai evitati, con l’obiettivo di mostrare come un’idea o una teoria non siano mai frutto dell’arbitrio, ma tentativi più o meno riusciti di rispondere a problemi ben precisi, i quali costituiscono dunque come il terreno da cui può germogliare una pianta e possono maturare i suoi frutti: ciò che si è voluto mostrare è appunto come avvenga questo sviluppo. In questo modo, è forse possibile sottrarsi all’alternativa, spesso enfatizzata ma non sempre convincente, tra coloro che sostengono la via storico-cronologica per lo studio della filosofia e coloro che invece privilegiano una via sistematica o “per problemi”. In ogni autore della storia del pensiero, infatti, è possibile riconoscere e mettere a fuoco una modalità particolare di porre e risolvere dei problemi, e quindi in ogni momento di quella storia è racchiusa la possibilità di penetrare a fondo una questione filosofica, sondando le capacità e i limiti della nostra ragione. E viceversa, proprio nella considerazione di come nascono, si evolvono, mutano e a volte cadono certi problemi se ne può verificare la portata universale. Il pensiero infatti non è mai un’attività astratta e impersonale o un sistema immutabile di idee, ma un’esperienza viva di uomini concreti, in carne e ossa; e se in filosofia vi sono idee o problemi che attraversano i tempi e tor-

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Prefazione

nano a porsi in contesti diversi e spesso contrari, o in forme completamente mutate, ciò è possibile proprio perché nascono dall’esperienza che quegli uomini – e noi con essi – fanno nel corso del tempo. Da tutto ciò si vede dunque che in filosofia – come del resto in tutte le altre scienze – il metodo di studio non può mai essere arbitrario, ma deve sempre partire dal suo oggetto. E se l’oggetto della filosofia è la domanda sul significato della realtà, è ponendo nuovamente noi questa domanda che potremo conoscere effettivamente la storia del pensiero, evitando sia i limiti della “dossografia”, cioè della mera raccolta delle diverse opinioni dei filosofi, sia il pregiudizio “idealistico”, la posizione di coloro che credono di sapere già in anticipo quello che invece si può solo scoprire. A volte si pensa che la storia della filosofia sia come una lunga autostrada, in cui si entra al casello “Talete” e si esce solo al casello “Derrida”, senz’alcuna interruzione o deviazione. E invece la strada è spesso interrotta, o non è solo una, ma sono due o più che corrono in parallelo, e poi magari si incrociano e tornano nuovamente a dividersi. Verificare alcune delle continuità o delle discontinuità di queste strade è uno dei compiti che questo manuale prova ad assumersi esplicitamente. Se dunque noi abbiamo bisogno di tornare sempre alla grande storia da cui proveniamo, anche questa storia, per poter continuare o magari per cambiare, ha bisogno di noi e del nostro lavoro di immedesimazione critica. Questo è un lavoro che si può imparare. Solo una condizione ci è richiesta per poterlo iniziare: seguire quella curiosità per il reale che è la molla segreta di ogni intelligenza e che, se coltivata, può diventare passione del domandare e gusto per la scoperta. Un primo criterio seguito nell’organizzazione e nella ripartizione di un materiale così vasto, complesso e diversificato come è la storia della filosofia – dai primi frammenti dei cosiddetti “presocratici” alle più recenti tendenze della filosofia analitica ed ermeneutica – è stato quello di dare uno spazio significativo alla trattazione degli autori “classici” che hanno segnato alcune tra le più rilevanti tradizioni di questa storia, e di riportare invece in capitoli più agili tutta una serie di autori e di correnti senza dei quali non si capirebbero gli sviluppi, le interruzioni, le trasformazioni che hanno segnato quelle tradizioni e si perderebbe il quadro variegato e spesso dissonante delle singole epoche. Per quanto riguarda poi il confronto con i singoli autori, si è cercato di evitare una presentazione di tipo meramente “sistematico”, fatta di grandi temi o di problematiche generali, e si è seguito invece – per quanto possibile – lo sviluppo interno dei problemi, avendo come guida costante i testi originali degli autori, che sono sempre citati direttamente e mai di seconda mano, ed evidenziati anche graficamente, in modo da costituire una sorta di filo conduttore nella comprensione delle diverse filosofie. Nel primo paragrafo dei capitoli sugli autori più importanti viene comunque offerta una chiave di lettura sintetica del percorso che segue o vengono evidenziati alcuni elementi di particolare rilievo che hanno indirizzato in una certa prospettiva la nostra interpretazione. N on si è ritenuto opportuno, anche considerando il carattere introduttivo di questo manuale, riportare nel testo riferimenti espliciti alla letteratura critica, sebbene nelle scelte interpretative che si sono operate nell’esposizione degli autori e delle scuole di pensiero si sia sempre tenuto presente lo stato più avanzato delle discussioni specialistiche a livello internazionale. Anche sulla base di queste ultime, è stata inoltre riservata un’attenzione particolare a momenti o ambiti che solitamente non ricevono molto spazio nei manuali di filosofia: nel primo volume, per esempio, la presentazione del pensiero medievale non è stata limitata alla sola considerazione del problema ragione-fede nell’ambito latino-cristiano, ma è stata impostata alla luce della singolare e quasi irripetibile coesistenza – talvolta pacifica e assai proficua, talvolta conflittuale – tra ben quattro culture diverse (quella arabo-islamica, quella ebraica, quella bizantina e appunto quella latino-cristiana). Un altro esempio, all’interno del secondo volume, è l’attenzione prestata nella ricostruzione dell’epoca rinascimentale a quel-

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Prefazione

la “seconda” o “tarda” Scolastica che in genere viene presentata come un residuo del passato rispetto alle nuove prospettive del pensiero moderno, mentre in realtà quest’ultimo trova proprio nella tradizione scolastica alcuni dei suoi più importanti presupposti teorici e concettuali. Nel terzo volume invece si può fare l’esempio della trattazione complessiva della filosofia analitica, dalla crisi dei fondamenti della matematica di fine Ottocento alla scuola analitica americana di fine Novecento e fino alla contemporanea “filosofia della mente”. Al termine di ogni capitolo vengono riportate, in Bibliografia, l’indicazione delle traduzioni italiane da cui sono tratti i passi citati in quello stesso capitolo (sezione “Fonti”), le principali edizioni di riferimento delle opere più importanti degli autori affrontati (sezione “Opere”) e una selezione ragionata di studi essenziali per approfondire i filosofi e i temi trattati (sezione “Studi critici”). Va tuttavia segnalato che le traduzioni italiane utilizzate nelle citazioni sono state talora modificate. Per quanto riguarda la parte didattica, alla fine dei singoli capitoli e in diversi casi anche alla fine di singoli paragrafi, sono state inserite delle prove di verifica, che possono essere utilizzate anche come un’occasione per ripercorrere i concetti e i problemi principali esposti di volta in volta nel testo. Inoltre, in ogni capitolo è sempre offerto un riepilogo sintetico di tutti i singoli paragrafi, che può valere dunque come una specie di quadro sinottico o una mappa di tutte le questioni affrontate. Nel corso del testo sono anche proposti degli schemi di riepilogo e delle schede di approfondimento o di documentazione su correnti, termini, riferimenti storici e testimonianze testuali, che possono dare un’idea esemplificativa dei molteplici problemi e delle diverse prospettive che ogni momento della storia della filosofia porta con sé. Infine, nella parte conclusiva di ogni volume sono offerti poi dei percorsi tematici, i quali si propongono di mettere a fuoco categorie o problemi di lunga durata, e in qualche modo trasversali – come il tempo, il soggetto, la morale, la politica, la natura, Dio, il metodo della conoscenza, ecc. – documentando la loro nascita, le loro trasformazioni e i loro molteplici usi attraverso una selezione di brani dalle opere più significative o più indicative degli autori trattati nei singoli volumi. Si tratta dunque di una serie di agili ma dense antologie, accompagnate ogni volta da un’introduzione generale al problema e da brevi note introduttive ai singoli brani. Come tutte le scelte, anche queste sono ovviamente opinabili, e anche queste privilegiano qualcosa a scapito di altro. Ci auguriamo solo che esse, proprio in quanto rese qui così esplicite e così riconoscibili, possano offrire agli insegnanti e agli studenti un terreno su cui essi possano a loro volta compiere e motivare le proprie scelte, ed elaborare un proprio percorso – tanto a livello interpretativo e storiografico, quanto per ciò che riguarda l’esperienza stessa del pensiero. gli Autori

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parte I

Indice del volume

LA FILOSOFIA ANTICA: UNA SCELTA DI VITA

1

I caratteri della vita filosofica

5

2 3 4 5

2 1 2 3

2

Una scelta di vita: la ricerca della sapienza e della felicità La filosofia come “dare ragione” delle cose Le origini della filosofia La filosofia come fenomeno storico e “regionale” Il superamento del mito e il ruolo della città-Stato

2

6

9 10

I princìpi, la natura, l’essere: le origini della filosofia in Asia Minore e nella Magna Grecia

11

Il lògos universale: Eraclito 4.1 Un lògos oltre i contrasti, p. 17 tura ama nascondersi», p. 18

21 22 24 26 26

11

Dalla filosofia alla “scienza”: il sapere medico

31

Sintesi Bibliografia Esercizi

32 34 34

3

La filosofia ad Atene: i sofisti e Socrate

35

1

Un quadro d’insieme: i sofisti, “intellettuali” di professione

35

11 13

I sofisti

14 2 3 16

4.2 «La na-

La critica alle interpretazioni mitiche: Senofane L’essere come unità: Parmenide La dialettica dei paradossi: Zenone Essere e natura: Melisso La molteplicità e il divenire: i “pluralisti” 10.1 La teoria degli elementi: Empedocle, p. 27 10.2 L’intelletto e i “semi” del reale: Anassagora, p. 27 10.3 Gli “atomisti”: Leucippo e Democrito, p. 29

6

Sintesi Bibliografia

Un quadro d’insieme: le origini della filosofia nelle colonie greche Le testimonianze e i frammenti: la questione delle fonti Alla ricerca di un principio: i “fisici ionici”

7 8 9 10

3 3

3.1 Talete, p. 14 3.2 Anassimandro, p. 15 3.3 Anassimene, p. 16

4

19

5.1 Il pitagorismo come stile di vita, p. 19 5.2 I numeri come princìpi del reale, p. 20

6

1

L’armonia dei numeri: Pitagora e la tradizione pitagorica

La realtà e le apparenze La critica all’oggettività del reale 3.1 «L’uomo misura di tutte le cose»: Protagora e Seniade, p. 38 3.2 Gorgia e la negazione dell’essere, p. 38

37 38

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VIII

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Pagina VIII

Indice del volume 4

La natura e la legge

40

13

4.1 La vita associata secondo Protagora, p. 40 4.2 L’antitesi tra legge e natura, p. 41

7 8 9

I dati sulla vita di Socrate Le principali fonti sulla figura e il pensiero di Socrate Ignoranza e ironia L’arte maieutica e l’esortazione a prendersi cura di sé L’“intellettualismo etico”

14 43

84 86

Sintesi Bibliografia Esercizi

88 91 92

5

Aristotele

94

1 2 3 4

Il «maestro di color che sanno» La vita e gli scritti Un accademico critico di Platone La logica come “strumento” della scienza: l’Òrganon

94 95 96

15

47 49

Le strategie dialettiche dei “megarici” Gli sviluppi del rigorismo socratico: Antistene, Diogene e i “cinici” Aristippo e i “cirenaici”

50

Sintesi Bibliografia Esercizi

52 54 55

4

Platone

56

1 2 3

Un autore “assente” La vita e l’esperienza politica Scrivere la filosofia: la forma dialogica

56 57 59

12

La cosmologia: il “discorso verosimile” del Timeo L’Accademia

44 45

Le cosiddette “scuole socratiche minori” 10 11

50 51

Il valore politico delle idee: la città malata e la giustizia

5

5 6 7

La tripartizione della società e la comunanza dei beni La corrispondenza tra l’anima e la città Il valore conoscitivo delle forme o idee: contro il relativismo

6 67 68

9 10 11 12

I modi della conoscenza: scienza e opinione La dialettica Il “buono in sé” e le dottrine non scritte Le relazioni interne al mondo ideale e i “generi sommi” La ridiscesa del filosofo e il mito della caverna

7

71

75 77 78 80 81

108

Le tre facoltà dell’anima: il De anima

115

6.1 L’anima vegetativa e quella sensitiva, p. 115 6.2 Intelletto potenziale e intelletto produttivo, p. 117

La ricerca delle cause e dei princìpi primi: la Metafisica

118

7.1 L’origine dell’opera e del titolo, p. 118 7.2 La filosofia prima come scienza dell’ente in quanto ente, p. 118 7.3 La filosofia prima come teologia o scienza divina, p. 119 7.4 L’analisi della sostanza, p. 119 7.5 Il divino come pensiero di pensiero, p. 120 7.6 La metafisica aristotelica tra ontologia e teologia, p. 121

7.1 Le caratteristiche delle forme, p. 71 7.2 Il rapporto tra le forme ideali e il mondo sensibile, p. 73

8

La filosofia naturale: la Fisica 5.1 I princìpi degli enti in movimento, p. 108 5.2 Potenza e atto, p. 109 5.3 Le quattro cause, p. 110 5.4 I diversi tipi di mutamento o movimento, p. 111 5.5 Il luogo e il vuoto, p. 111 5.6 L’infinito e il tempo, p. 112 5.7 Il mondo sublunare e quello celeste, p. 113

64

4.1 Che cos’è la giustizia?, p. 64 4.2 La suddivisione dei compiti e la forma ideale del “giusto”, p. 65

97

4.1 Classificare i predicati: le Categorie, p. 98 4.2 Sostanze prime e sostanze seconde, p. 100 4.3 Dai termini alle proposizioni: il De interpretatione, p. 101 4.4 I sillogismi: gli Analitici primi, p. 102 4.5 La teoria aristotelica della scienza: gli Analitici secondi, p. 104 4.6 La conoscenza dei princìpi: il nùs, p. 105 4.7 La dialettica e le fallacie: i Topici e le Confutazioni sofistiche, p. 106

3.1 Le riserve sulla scrittura, p. 59 3.2 Platone e la scrittura della filosofia, p. 62

4

82

13.1 Il ruolo dell’anàmnesi nel processo conoscitivo, p. 82 13.2 La filosofia come preparazione alla morte, p. 83

Socrate 5 6

L’anàmnesi e l’immortalità dell’anima

8

Vivere secondo “virtù”: l’Etica Nicomachea e l’Etica Eudemia 8.1 Etica della felicità e descrizione dei caratteri, p. 122 8.2 La felicità come attività dell’anima secondo la virtù, p. 123 8.3 Virtù etiche e virtù dianoetiche, p. 124

121

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Indice del volume 9

Lo Stato e la realizzazione dell’individuo: la Politica

125

9.1 Lo Stato come comunità naturale, p. 126 9.2 Le forme di governo, p. 127

10 11

6

La Retorica e la Poetica Aristotele e il piacere della conoscenza

127 128

Sintesi Bibliografia Esercizi

129 132 133

La filosofia ellenistica

136

7

La filosofia in età imperiale

161

1

Un quadro d’insieme: la filosofia nel mondo latino Filosofi “di scuola” e filosofi “domestici” Le trasformazioni del platonismo

161 162 164

2 3

3.1 Da Filone di Larissa ad Antioco di Ascalona, p. 164 3.2 Caratteri generali del medioplatonismo, p. 165 3.3 Tendenze platonizzanti ad Alessandria: Eudoro e Filone, p. 166 3.4 Il medioplatonismo del II secolo, p. 167

4 5

1

Un quadro d’insieme: la cultura ellenistica 136

3 4 5

Dal Caos al Giardino: la vita e gli scritti di Epicuro La canonica e la fisica L’anima e gli dèi Implicazioni etiche e politiche

6 138 138 140 141

8 9 10

La lunga tradizione della Stoà La logica stoica e la rappresentazione catalettica Lògos e materia: la fisica stoica La concezione dell’anima e l’etica Lo stoicismo di mezzo: Panezio e Posidonio

L’imperturbabilità: Pirrone di Elide La curvatura scettica dell’Accademia I neopirroniani: contro il dogmatismo negativo

144 147 148 149

150 151 152

13.1 I “tropi” e la sospensione del giudizio: Enesidemo di Cnosso, p. 153 13.2 L’equivalenza delle posizioni: Sesto Empirico, p. 153

Il quadro delle scienze 14 15 16 17 18

171

Sintesi Bibliografia Esercizi

174 175 176

8

Plotino

177

1 2 3

Un filosofo “imperiale” La vita e le Enneadi Il rapporto tra mondo intelligibile e mondo sensibile Il rapporto anima-corpo Al di là dell’anima: il nùs Al di là del nùs: l’Uno Parlare dell’ineffabile La derivazione del nùs dall’Uno La derivazione dell’anima dal nùs I corpi, la materia, il male Il ritorno e l’anima “indiscesa”

177 180 182 185 187 189 190 191 193 193 195

Sintesi Bibliografia Esercizi

196 197 198

143

Gli scettici 11 12 13

Due scienziati dell’età imperiale: Tolomeo e Galeno 6.1 Gli sviluppi dell’astronomia: Tolomeo, p. 171 6.2 Medicina, scienza, filosofia: Galeno, p. 173

Gli stoici 6 7

168 169

5.1 L’epicureismo a Roma: Lucrezio, p. 170 5.2 Lo stoicismo a Roma: Seneca, p. 170 5.3 Lo stoicismo a Roma: Epitteto e Marco Aurelio, p. 171

Epicuro 2

La tradizione aristotelica: da Andronico ai commentatori Epicureismo e stoicismo in età imperiale

I centri del sapere: Atene e Alessandria Le nuove tesi cosmologiche Le scienze matematiche Il sapere geografico La medicina: razionalisti ed empiristi

154 154 155 156 156

Sintesi Bibliografia Esercizi

157 158 160

4 5 6 7 8 9 10 11

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parte II

Indice del volume

L’ETÀ TARDO-ANTICA: GLI INIZI DEL PENSIERO CRISTIANO E L’ULTIMO NEOPLATONISMO 11

9

Filosofia e cristianesimo

200 1

2 3

Atene e Gerusalemme: l’opposizione tra filosofia e cristianesimo La vita cristiana come vera “filosofia” L’appropriazione cristiana della filosofia

200 202 203

5 6

Il neoplatonismo cristiano latino: Calcidio e Mario Vittorino La reazione filosofica anticristiana Un platonismo “rivelato”: Oracoli caldaici e Corpus hermeticum Sintesi Bibliografia Esercizi

210 210 211

10

Agostino d’Ippona

212

1

Un teologo africano fondatore della teologia della grazia Da retore a vescovo: una vita di cambiamenti e contrasti

212

2

213

2.1 Dagli studi di retorica alla conversione al cristianesimo, p. 213 2.2 Agostino polemista: le controversie contro i manichei, i donatisti e i pelagiani, p. 214

3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14

Filosofia e felicità: la prima fase del pensiero agostiniano “Vera religione” e “vera filosofia” Felicità e salvezza Grazia, predestinazione e merito La non universalità della salvezza Credere per comprendere Scienza e sapienza Le cose e i segni Dall’anima a Dio Il tempo Le ragioni seminali e il male La città di Dio e la città terrena

Le trasformazioni della tradizione neoplatonica Il neoplatonismo in Occidente: Porfirio

235 236

Il neoplatonismo in Siria: Giamblico Il neoplatonismo alessandrino La scuola di Atene: Siriano L’ultima sintesi neoplatonica: Proclo

240 241 242 242

7

Damascio e la fine della scuola di Atene Sintesi Bibliografia Esercizi

LA FILOSOFIA NEL MEDIOEVO: NUOVI LINGUAGGI E NUOVE CULTURE

12

Alcuni tratti peculiari del pensiero medievale

1 2 216 217 218 220 223 224 225 225 226 228 230 231

235

6.1 L’interpretazione “teologica” del Parmenide, p. 243 6.2 L’esposizione delle classi di6.3 La vine: la Teologia platonica, p. 244 causazione circolare: gli Elementi di teologia, p. 244 6.4 Proclo critico di Plotino: la negazione delle negazioni, l’anima, il male, p. 245

206 208 209

Il tardo neoplatonismo e la fine della filosofia antica

2.1 Dal medioplatonismo al neoplatonismo, p. 237 2.2 L’Isagoge e l’“albero di Porfirio”, p. 237

3 4 5 6

3.1 Il rapporto con lo stoicismo, p. 203 3.2 Il rapporto con il medioplatonismo e il neoplatonismo, p. 204 3.3 La dottrina dell’apocatàstasi: Origene di Alessandria, p. 205 3.4 I Padri cappadoci: Gregorio di Nazanzio, Basilio il Grande, Gregorio di Nissa, p. 205

4

2

231 233 234

parte III

1

Sintesi Bibliografia Esercizi

13 1 2 3 4

La pluralità delle culture medievali Il radicamento istituzionale della filosofia nel Medioevo Sintesi Bibliografia Esercizi

L’ultimo progetto filosofico del mondo romano: Severino Boezio Gli obiettivi di fondo del progetto boeziano La questione degli universali La distinzione tra l’“essere” e “ciò che è” La sapienza come fonte di felicità: La consolazione della filosofia

246 248 249 250

252 252 254 256 256 257

258

258 259 260 262

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Indice del volume

14 1 2 3

Sintesi Bibliografia Esercizi

263 264 264

L’eredità neoplatonica a Bisanzio e nell’Alto Medioevo latino

265

L’impoverimento della filosofia Lo Pseudo-Dionigi Areopagita e gli studi filosofici a Bisanzio Il periodo carolingio: Giovanni Scoto (Eriugena)

14

Il destino degli studi filosofici nel mondo arabo Sintesi Bibliografia Esercizi

291 291 293 294

16

Il pensiero ebraico medievale

295

1

La dottrina dell’ilemorfismo universale: Ibn Gabirol Filosofia e “reticenza”: Mosè Maimonide Sintesi Bibliografia Esercizi

295 296 299 299 299

17

Il pensiero latino tra XI e XII secolo

300

1 2

Dialettica e teologia nell’XI secolo La prova dell’esistenza di Dio: Anselmo d’Aosta

300

265 266 268

2

3.1 La questione della predestinazione, p. 268 3.2 La divisione della natura, p. 269

15 1 2 3

Sintesi Bibliografia Esercizi

271 271

La filosofia nel mondo arabo

273

Le traduzioni dal greco e la filosofia in lingua araba I primi esempi di falsafa: il Libro delle cause La filosofia in lingua araba da Oriente a Occidente

272

273

Avicenna (Ibn Sina)

6 7 8 9

La vita La metafisica come scienza dell’ente in quanto ente La dottrina dell’indifferenza delle essenze La teoria dell’emanazione e delle intelligenze La conoscenza: i sensi interni La conoscenza: i gradi dell’intelletto

276

L’opposizione alla filosofia avicenniana

276 278

Sintesi Bibliografia Esercizi

279 280 280

LA SCOLASTICA E LA FILOSOFIA COME PROFESSIONE

18

Il nuovo contesto del XIII secolo

284 285

1

287

2 3

Le traduzioni e l’ingresso di Aristotele nell’Occidente latino Gli Ordini mendicanti La nascita delle corporazioni degli intellettuali: le Università Sintesi Bibliografia Esercizi

282

Averroè (Ibn Rushd) 11 12 13

Il “Commentatore” per eccellenza L’accordo tra filosofia e religione La dottrina dell’unicità dell’intelletto potenziale 13.1 Lo statuto dell’intelletto potenziale: i presupposti della questione, p. 287 13.2 L’evoluzione della posizione di Averroè, p. 288 13.3 La definitiva soluzione averroista: l’unicità dell’intelletto potenziale, p. 288

4

La diffusione delle scuole monastiche e cattedrali Una nuova impostazione nella logica e nell’etica: Pietro Abelardo 4.1 Gli universali e la teoria dello status, p. 305 4.2 L’etica dell’intenzione, p. 307

al-Ghazali 10

3

parte IV

4 5

2.1 Il Proslogion e l’“unico argomento” per la dimostrazione dell’esistenza di Dio, p. 301 2.2 Le obiezioni di Gaunilone all’argomento anselmiano, p. 303

275 275

301

304 305

308 309 310

312

312 313 314 318 319 319

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XII

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Pagina XII

Indice del volume 320

19

La Scolastica del XIII secolo

1

La filosofia come oggetto di insegnamento e di discussione I principali maestri francescani nel XIII secolo a Parigi Caratteristiche dell’insegnamento dei francescani a Parigi Filosofia, teologia e scienza naturale a Oxford I maestri domenicani: Alberto Magno I maestri della Facoltà delle Arti: Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia Sintesi Bibliografia Esercizi

331 334 336 337

20

Tommaso d’Aquino

338

1 2 3

Tommaso e il tomismo Una vita movimentata Il lessico metafisico: L’ente e l’essenza

338 338 341

2 3 4 5 6

3 320

Teologia e filosofia: il Commento al De Trinitate di Boezio 4.1 La conoscibilità di Dio, p. 346 statuto della metafisica, p. 347

4

5

La ricerca della verità: la Somma contro i Gentili

6

Un compendio della dottrina cristiana: la Somma di teologia

8

21 1

L’unicità dell’intelletto e l’eternità del mondo Tommaso e la filosofia Sintesi Bibliografia Esercizi

La crisi del 1277 e il ripensamento della tradizione greco-araba Il contesto della condanna del 7 marzo 1277

Filosofia e teologia nel XIV secolo

384

1

Il contesto culturale del XIV secolo

384

Giovanni Duns Scoto 2 3 4

6 7 349

386 387 389 390

La vita e le opere L’unione con Dio e la metafisica dell’intelletto

392 392

Guglielmo di Ockham 8 9 10 11

364 366 368 371 372

Una carriera tra Oxford, Parigi e Colonia La riconfigurazione del rapporto tra metafisica e teologia Univocità dell’ente e dimostrazione dell’esistenza di Dio Il ripensamento della tradizione aristotelica Meister Eckhart

346

6.1 Piano e struttura dell’opera, p. 356 6.2 Le cinque vie per dimostrare l’esistenza di «ciò che chiamiamo Dio», p. 356 6.3 La conoscenza, p. 361 6.4 L’etica e la legge, p. 362

7

22

5

355

376

380 381 382 383

326 327

5.1 Il compito del sapiente, p. 350 5.2 Felicità filosofica e beatitudine ultraterrena, p. 353

374

Teodorico di Freiberg e il ruolo costitutivo dell’intelletto Sintesi Bibliografia Esercizi

323

4.2 Lo

Le implicazioni dottrinali dell’intervento di Tempier La controversia sulla distinzione tra essere ed essenza 3.1 Essere dell’essenza ed essere dell’esistenza in Enrico di Gand, p. 376 3.2 Egidio Romano e la distinzione reale, p. 377

321

3.1 Il significato di ente ed essenza e l’essenza delle sostanze composte, p. 342 3.2 La distinzione tra essere ed essenza, p. 343 3.3 L’essere divino e le essenze creaturali, p. 344

4

2

12 13

Da Oxford alla corte imperiale di Monaco La logica dei termini e il principio di economia Teoria della supposizione e ridefinizione del criterio di verità Conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva Teologia, metafisica, fisica Etica e politica

394 394 396 398 399 400

Dante Alighieri 14 15

Fra chierici e laici Dante e la felicità filosofica

401 402

Sintesi Bibliografia Esercizi

404 406 408

373 373

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Pagina XIII

Indice del volume T14 Aristotele • L’anima come forma del corpo

PERCORSI TEMATICI

De anima, III, 4, 429 a 10 - 430 a 9; III, 5, 430 a 10 - 26

1 T1

L’essere

T4 T5 T6 T7

Metafisica, V, 7, 1017a-1017b; VII, 1, 1028a-1028b

Enneadi, V, 4, 2

416

419

T17

T20 Avicenna • La decima intelligenza celeste De anima (dal Libro della Guarigione)

420

2

L’anima e l’intelletto

447

Commento Grande al De anima, III, t.c. 5 e 36 448

Commento al De anima, III, 3, 11

423

424

450

T23 Tommaso d’Aquino • Contro l’unicità dell’intelletto: l’uomo come soggetto del pensiero L’unità dell’intelletto, I, §§ 1-3; III, §§ 63-65

451

T24 Teodorico di Freiberg • La funzione costitutiva dell’intelletto nei confronti delle cose L’origine delle cose predicamentali, V

Bibliografia

453 454

La comunità politica

455

427

Meister Eckhart • Dio è pensiero, non essere

Bibliografia

443

De Trinitate, X, 8, 11; X, 9, 12; Il libero arbitrio, II, 3, 7; De Trinitate, X, 10, 14 445

T22 Alberto Magno • La congiunzione con gli intelletti e la felicità dell’uomo

Enrico di Gand e Egidio Romano • Distinzione “intenzionale” e distinzione “reale” tra essere ed essenza

Questioni parigine: «Se in Dio siano la stessa cosa l’essere e il pensare»

441

T19 Agostino d’Ippona • L’auto-conoscenza dell’anima

T21 Averroè • L’intelletto potenziale come sostanza separata

Tommaso d’Aquino • La distinzione tra essere ed essenza

Ordinatio, I, dist. 3, p. 1, qq. 1-2 B

441

T18 Plotino • La terza ipostasi e la discesa dell’anima nel corpo

T10 Giovanni Duns Scoto • L’univocità del concetto di ente T11

440

Alessandro di Afrodisia • L’anima come pura forma e i gradi dell’intelletto

420

Avicenna • La scienza dell’ente e le nozioni prime

Quodlibet I, q. 9: «Se l’essenza stessa della creatura sia il suo essere»; Teoremi sull’essere e sull’essenza, prop. 19

Frammenti [A]136-138; [A]518

418

Agostino d’Ippona • Colui che è De Trinitate, V, 2, 3

Lettera a Erodoto, IV

Enneadi, IV, 8, 3; IV, 8, 4

Plotino • L’Uno al di là dell’essere

L’ente e l’essenza, 1; 4

T9

413

Filone di Alessandria • L’essere è Dio Il mutamento dei nomi, II, 7-14

438

Epicuro • La corporeità dell’anima

L’anima, 16-18; 85-86; 87-89

Aristotele • L’essere e i suoi molti modi

Metafisica, I, 1; I, 5

T8

412

Platone • Le due regioni dell’essere, i generi sommi e il “parricidio” nei confronti di Parmenide Sofista, 246 A-E; 256 C; 258 C

T3

T15

T16 L’anima e lo pneuma secondo gli stoici antichi

Parmenide • Si può pensare solo l’essere Frammento 8

T2

410

3 428 430 431

T25 Platone • La virtù politica e la città ideale Protagora, 322 A - 322 D; 323 C - 325 D; Repubblica, IV, 441 C - 442 D; VI, 484 B - 485 A; VIII, 1, 543 A - 2, 545 C

456

T26 Aristotele • L’uomo come “animale politico” Politica, I, 2, 1252 b - 1253 a; III, 7, 1279 a-b; IV, 10, 1295 a - 1296 a

T12 L’anima come principio vitale e armonia secondo i pitagorici Frammenti 58B30; 44A23

T13

433

Platone • L’immortalità dell’anima, il rapporto con il corpo e l’anàmnesi Fedone, 79 C - 80 B; 105 A - 105 E; 82 E - 83 E; 76 A-D; Fedro, 246 A-D; Repubblica, X, 15-16, 617 E - 619 E 433

461

T27 Agostino d’Ippona • La città di Dio e la città terrena La città di Dio, 11, 1; 14, 28

464

T28 Avempace (Ibn Baggia) • La città perfetta e il ruolo del saggio Il regime del solitario; Il significato del regime

465

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XIV

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Pagina XIV

Indice del volume

5

T29 Tommaso d’Aquino • I princìpi e il fine dell’agire umano Sul regno, al re di Cipro; Somma di teologia, I-II, q. 91, a. 1; I-II, q. 91, a. 1

467

T30 Marsilio da Padova • Il cittadino e le leggi Il difensore della pace

T31

470

Bibliografia

Metafisica, XII, 7, 1072 a 24; XII, 7, 1072 b 30; XII, 9, 1074 b 28-35 492

T43 Cleante di Asso • Zeus, artefice del mondo, e la ragione cosmica 494

T44 Plotino • La semplicità e l’onnipresenza dell’Uno 471

T32 Dante Alighieri • L’ordine politico e l’ordine ecclesiastico De Monarchia, III, XV

491

T42 Aristotele • Il primo motore immobile

Inno a Zeus, [CA]537

Guglielmo di Ockham • Il potere del papa e i suoi limiti Se un principe, per le necessità belliche, possa riprendersi i beni ecclesiastici, anche contro la volontà del papa, 1; 2

Il divino

473 474

Enneadi, III, 8, 9

495

T45 Agostino d’Ippona • L’esistenza di Dio e i contenuti dell’anima Il libero arbitrio, II

496

T46 Damascio • L’ineffabilità dell’Uno Sui primi princìpi, I, 3

498

T47 Pseudo-Dionigi Areopagita • Conoscere Dio nell’ignoranza Teologia mistica, c. 2, c. 3, c. 4

499

T48 Avicenna • La dimostrazione metafisica dell’esistenza di Dio

4

Il tempo

Metafisica, I, 6

475

501

T49 Mosè Maimonide • L’argomento basato sulle modalità Guida dei perplessi, II, 1

T33 Platone • Il tempo e il demiurgo Timeo, 37 C - 38 B

476

T34 Aristotele • Il tempo, l’anima e il movimento Fisica, IV, 11, 218 a - 219 b

Proslogion, 2-4

477

T51

479

T52 Giovanni Duns Scoto • Se Dio è possibile, allora esiste necessariamente

T35 Sesto Empirico • L’indefinibilità e l’inesistenza del tempo Contro i fisici, II Enneadi, III, 7, 5; III, 7, 11

Trattato sul primo principio, c. 3

481

T37 Agostino d’Ippona • Il tempo come distensione dell’anima Le confessioni, XI

Bibliografia

510

486

T53 Platone • Conoscere il bene e il male

Gorgia, 468 D - 470 C; Carmide, 173 D - 174 E

511

T54 Aristotele • Il fine ultimo delle azioni umane e l’esercizio della razionalità 488

T41 Guglielmo di Ockham • L’identità reale di tempo e movimento Questioni sulla Fisica, q. 47; Filosofia naturale o Brevi somme sulla Fisica, p. IV, c. 8

La felicità e il male

6

T40 Enrico di Gand • Le due componenti del tempo: l’anima e il movimento Quodlibet III, q. 11: «Se il tempo possa essere senza l’anima»

Bibliografia

506 509

485

T39 Severino Boezio • L’eternità di Dio e la perpetuità del mondo La consolazione della filosofia, V, 6

504

483

T38 Proclo • Eternità, tempo e partecipazione Elementi di teologia

503

Tommaso d’Aquino • Le cinque vie per dimostrare l’esistenza di Dio Somma di teologia, I, q. 2, art. 3

T36 Plotino • L’eternità e il tempo

502

T50 Anselmo d’Aosta • L’“unico argomento” per dimostrare l’esistenza di Dio

Etica Nicomachea, I, 7, 1097 a - 1098 a; X, 7, 1177 a - 1178 a

514

T55 Epicuro • Il tetrafarmaco: la filosofia e la felicità dell’anima Lettera a Meneceo

489 490

516

T56 Seneca • La felicità deriva dalla virtù La felicità, 4

517

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Pagina XV

Indice del volume T57 Plotino • La vita perfetta dell’intelletto e il male come privazione Enneadi, I, 4, 3; I, 8, 3

T62 Mosè Maimonide • L’origine del male dalla materia 517

T58 Proclo • L’esistenza accidentale del male Sull’esistenza del male, 50

519

Il sommo bene

T59 Agostino d’Ippona • Il male come assenza di bene L’ordine, I

521

525

Bibliografia

527 528

Indice dei nomi

529

522

T61 Avicenna • L’ideale del filosofo: diventare un mondo intelligibile Metafisica (dal Libro della Guarigione), X, 7

524

T64 Dante Alighieri • La conoscenza è il nutrimento dell’uomo felice Convivio, I, 1

T60 Severino Boezio • La sapienza è la vera felicità La consolazione della filosofia, II, 4; IV, 2

Guida dei perplessi, III, 10

T63 Boezio di Dacia • La felicità intellettuale del filosofo

523

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parte I

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LA FILOSOFIA ANTICA: UNA SCELTA DI VITA

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capitolo 1

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I caratteri della vita filosofica

1 Una scelta di vita: la ricerca della sapienza e della felicità «Non c’è alcun altro motivo, per l’uomo, di fare filosofia, se non quello di essere felice» [La città di Dio, XIX, 1]: l’affermazione è di Agostino di Ippona – un autore cristiano del IV secolo d.C. – ma racchiude l’essenziale di ciò che la filosofia ha rappresentato per l’intero mondo antico, e cioè qualcosa di profondamente diverso da ciò che si potrebbe intendere oggi sotto lo stesso nome: non una disciplina da apprendere, o un possibile oggetto di studio, ma un’opzione esistenziale, una vera e propria scelta di vita. Fare filosofia non significava soltanto leggere e conoscere un certo numero di testi, né dedicarsi alla pura attività speculativa (alla pura attività del pensare), ma impegnarsi a condurre un determinato stile di vita, un bìos (termine che in greco non indica soltanto l’esistenza biologica, ma anche appunto un particolare genere di vita) in grado di procurare la felicità. La filosofia antica, sin dalle sue origini greche, non ha insomma soltanto una valenza teoretica (cioè finalizzata unicamente alla conoscenza),

ma anche e soprattutto pratica: essa consiste in definitiva in un’arte del vivere, nel tentativo di condurre una vita buona e felice. Questa dimensione pratica dev’essere intesa nel suo senso più radicale: non si tratta semplicemente di riconoscere che una qualunque convinzione filosofica può avere conseguenze sul modo di vivere, ma, ben più in profondità, che qualsiasi discorso filosofico trae in realtà origine da una decisione intorno a sé stessi. In altri termini: adottare un determinato stile di vita non è semplicemente una conseguenza del fare filosofia, ma è all’origine del fare filosofia, perché la filosofia è appunto una forma peculiare di condurre la propria esistenza. È in questo modo che gli antichi hanno inteso lo stesso termine “filosofia”. Esso indica una tensione verso la sapienza: filo- deriva dal greco philèo, che significa appunto ‘amo’, ‘tendo verso qualcosa’; sophìa indica la ‘sapienza’. Ma la sapienza a cui si fa qui riferimento non è in prima istanza (o soltanto) un insieme di dottrine. Tendere verso la sapienza vuol dire piuttosto mirare a una trasformazione di sé, a una conversione totale del proprio essere: come dirà efficacemente Plotino, un filosofo del III secolo

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I caratteri della vita filosofica capitolo 1

d.C., si tratta fondamentalmente di «scolpire la propria statua» [Enneadi, I, 6, 9], ovvero di modellare o forgiare sé stessi. Per raggiungere questo obiettivo, i filosofi antichi hanno elaborato e proposto una serie di tecniche, che sono state definite dallo storico francese Pierre Hadot “esercizi spirituali”. Esse comprendono, per esempio, la concentrazione su di sé e la ricerca di sé stessi; la pratica dell’esame di coscienza; il controllo assoluto delle passioni in vista dell’imperturbabilità (ataraxìa); il conseguimento di una piena indipendenza rispetto alle situazioni contingenti e ai beni esteriori, ovvero l’autosufficienza (autàrkeia); la meditazione sulla morte e la preparazione alla morte; l’abitudine a sentirsi in armonia con la natura e con il resto del cosmo. N on tutte le scuole e, ancor più, non tutti i pensatori del mondo antico hanno inteso queste tecniche o pratiche allo stesso modo, ma in linea generale tutti ne hanno condiviso il fine: quello di ricercare la sapienza per essere felici. D’altronde, la stessa idea di “scuola filosofica”, nell’Antichità, non indica tanto un luogo deputato principalmente alla trasmissione di dottrine e insegnamenti, quanto la scelta di seguire, nella misura del possibile, il modello di vita di un maestro. L’elemento davvero fondamentale nel concetto antico di “scuola filosofica” è quello di condividere uno stesso genere di vita, adottando un determinato insieme di tecniche e di esercizi per controllare e trasformare sé stessi.

2 La filosofia come “dare ragione” delle cose Tra le tecniche principali per cercare di raggiungere la sapienza un posto peculiare spetta al saper interrogare, in una triplice accezione: 1. saper interrogare sé stessi («conosci te stesso», secondo il precetto fatto scolpire nel tempio di Apollo a Delfi); 2. saper interrogare gli altri; 3. saper interrogare la realtà che ci circonda (la natura, la phy`sis, come insieme dei fenomeni e dei processi che possiamo osservare). Questi vari aspetti o livelli dell’interrogazione sono meno separati tra loro di quel che si po-

trebbe immaginare. L’uomo ha una tendenza naturale a voler comprendere non solo sé, ma ciò di cui fa esperienza e a cui in qualche modo appartiene. N on a caso Aristotele, all’inizio della sua Metafisica, afferma non solo che tutti gli uomini tendono naturalmente al sapere, ma anche – riprendendo una tesi già espressa da Platone nel Teeteto – che la filosofia inizia sempre dalla meraviglia, dallo stupore: «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia [thaumàzein]» [Metafisica, I, 2]. Ora, coloro che per primi si dedicarono alla filosofia, sempre secondo Aristotele (e cioè i cosiddetti “fisici ionici”:  2.3), si interrogarono sulla realtà (sulla phy`sis) nella sua totalità, ricercandone le cause e i princìpi. Fare filosofia significa dunque anche chiedere conto (lògon aitèin) e cercare di dar conto (lògon didònai) delle cose, e conseguentemente darne conto ad altri: cercare di comprendere le cose, in altri termini, significa anche saper fondare e giustificare le proprie opinioni, e vagliare criticamente quelle degli altri. Ancora Aristotele aggiunge in tal senso che il sapiente è colui che conosce la ragione o il perché delle cose, e non chi si limita solo a registrarle o esporle, senza tentarne una spiegazione. Questo tentativo di dare/rendere ragione, di cercare cioè cause plausibili e razionalmente coerenti dei fenomeni, è anche ciò che differenzia la filosofia dai miti, che pure avevano giocato un ruolo essenziale nella formazione della cultura greca. La filosofia antica, dunque, nasce dalla confluenza di due elementi fondamentali: la volontà di trasformare e plasmare sé stessi, attraverso l’adozione di un preciso stile di vita, e quella di chiedere e dare ragione del mondo e delle proprie opinioni su di esso.

3 Le origini della filosofia Ci si potrebbe a questo punto chiedere quando si sia sviluppato questo peculiare modello di vita, ovvero quando sia nata la filosofia. Ora, se si considera il termine in sé, occorre notare come esso si sia affacciato piuttosto tardi rispetto al nostro modo usuale di ricostruire la storia della filosofia. In linea di massima, prima di

3

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

Alcune parole chiave dei filosofi greci Nel manuale i caratteri del greco antico sono stati traslitterati senza accenti, né caratteri sottoscritti, né spiriti, ovvero in forma semplificata. Sulle parole è stato inserito unicamente l’accento tonico grave, a indicare la corretta pronuncia scolastica convenzionale italiana. La tabella seguente riporta alcune parole-chiave che incontreremo nella lettura. greco

traslitterazione corretta

traslitterazione semplificata

significato

ατια

aitía

aitìa

causa

πειρον

ápeiron

àpeiron

illimitato

ταραξια

ataraxía

ataraxìa

imperturbabilità

τοπια

atopía

atopìa

eccentricità

ατρκεια

autárkeia

autàrkeia

autosufficenza

βιος

bíos

bìos

vita/stile di vita

δαιμων

daímon

dàimon

dèmone/carattere

δινοια

diánoia

diànoia

razionalità discorsiva

δξα

dóxa

dòxa

opinione

εδος

eîdos

èidos

forma

θος

éthos

èthos

costume/carattere

εθυμια

euthymía

euthymìa

tranquillità d’animo

δα

idéa

idèa

λγος

lógos

lògos

idea razionalità/pensiero razionale/discorso

μιμησις

mímesis

mìmesis

imitazione

μ!θος

my´thos

my` thos

mito

νησις

nóesis

nòesis

intellezione

νμος

nómos

nòmos

legge

νο!ς

noús

nùs

intelletto/mente

οσια

ousía

usìa

essenza/sostanza

φιλοσοφια

philosophía

philosophìa

filosofia

φρνησις

phrónesis

phrònesis

saggezza

πιστις

pístis

pìstis

credenza

φυσις

phy´sis

phy`sis

natura/realtà

σχη ματα

schémata

schèmata

figure

σ$μα

sóma

sòma

corpo

σοφια

sophía

sophìa

sapienza

στοιχε%α

stoicheîa

stoichèia

elementi

τχνη

téchne

tèchne

tecnica/arte

θυμς

thymós

thymòs

autoaffermazione/ orgoglio

τπος

tópos

tòpos

luogo

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Socrate e Platone – e cioè del periodo compreso tra il V e il IV secolo a.C. – non compaiono né il verbo philosophèin né il sostantivo philosophìa. Ci sono solo poche eccezioni a questo riguardo, e derivano tutte da testimonianze più tarde. Un frammento [ 2.2] attribuito a Eraclìto (vissuto tra il VI e il V secolo a.C.) recita per esempio:



È necessario infatti […] che coloro che amano la sapienza [philosòphus àndras – gli ‘uomini amanti della sapienza’] siano certamente esperti di molte cose. [Diels-Kranz 22, fr. 35]



Ma a riportare il frammento è Clemente Alessandrino, un autore cristiano vissuto tra il II e il III secolo d.C. [ 2.2; 9.3.1]: nulla ci impedisce pertanto di pensare che egli utilizzi a ritroso un termine in uso ai suoi tempi già da secoli, ma non veramente attestato all’epoca di Eraclìto. Una testimonianza di Diògene Laèrzio – autore, nel II secolo d.C., di una importante raccolta delle vite e delle opinioni dei filosofi antichi – attribuisce invece a Pitàgora (VI secolo a.C.) la prima occorrenza del termine:



Il primo che fece uso del termine “filosofia” e che chiamò sé stesso “filosofo” è stato Pitàgora, discutendo a Siciòne con Leonte, tiranno di Siciòne o di Fliùnte, secondo quanto afferma Eraclìde Pòntico nell’opera Sull’inanimata: nessuno, infatti, è sapiente tranne Dio. Troppo facilmente, infatti, si dava il nome di sapienza e si chiamava sapiente chi la professava, ossia colui che avesse raggiunto la perfezione nel profondo dell’anima, mentre filosofo è colui che aspira alla sapienza. [Vite dei filosofi, I, 12]



Si tratta di un passo interessante perché la ricerca della sapienza, propria del “filosofo”, è esplicitamente distinta dal possesso della sapienza stessa, una condizione ritenuta più divina che umana. Anche questa indicazione è tuttavia da prendere con cautela: Diògene scrive molti secoli dopo Pitàgora (che per altro, a quanto sembra, non aveva invece mai scritto nulla) ed è probabile che gli attribuisca una terminologia maturata dopo di lui. Un’attestazione cronologicamente più attendibile si ritrova nello storico del V secolo a.C.

Eròdoto. Egli descrive un incontro tra Solòne, legislatore ateniese del VII-VI secolo a.C., e Creso, re della Lidia, che si rivolge al primo dicendogli:



Mio ospite, la fama della tua sapienza, dei tuoi viaggi, è giunta fino a noi. Ci è stato riferito che avendo il gusto per la sapienza [philosophèon] tu hai visitato molti paesi, a causa del tuo desiderio di vedere. [Storie, I, 30]



“Filosofia” significa qui ancora in generale passione per la ricerca, desiderio di acquisire una sempre maggiore esperienza. Più o meno la stessa valenza si ritrova in un passaggio del discorso che un altro storico, Tucìdide (V secolo a.C.), fa pronunciare a Pèricle in occasione della commemorazione dei caduti della guerra del Peloponneso: «N oi Ateniesi coltiviamo il gusto del bello con semplicità e filosofiamo senza mollezza» [La guerra del Peloponneso, II, 40, 1]. Anche qui il verbo non ha ancora un’accezione tecnica, ristretta, ma indica il generale desiderio di sapienza. Tuttavia, tra il V e il IV secolo a.C. diventano sempre più frequenti nella lingua greca gli aggettivi (e i corrispondenti sostantivi) costruiti a partire da philo- e adoperati per designare colui che modella tutta la sua vita in vista di qualcosa; nel caso del “filo-sofo” (philòsophos), questo qualcosa è appunto la sapienza. Allo stesso tempo, quest’ultima viene intesa in senso meno generico e indifferenziato, per essere identificata invece con la condizione necessaria per la vita buona e felice. Quest’ultimo passo si compie con Socrate e Platone: Socrate è anzi quasi il prototipo di colui che antepone la ricerca della sapienza a ogni altro interesse (ai beni, alla famiglia, agli amici, alla sua stessa vita), tanto da risultare eccentrico (àtopos) agli occhi dei più – di coloro che non hanno scelto di dedicarsi alla filosofia. Platone, nel Simposio, descrive così la filosofia come qualcosa di intermedio tra l’ignoranza e la sapienza. È infatti proprio del “filo-sofo” ricercare la sapienza, e non già possederla (cosa che appare soprattutto una prerogativa divina):



Nessuno degli dèi fa filosofia, né desidera diventare sapiente, dal momento che lo è già. E chiunque altro sia sapiente, non filosofa. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia, né deside-

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rano diventare sapienti. Infatti, l’ignoranza ha proprio questo di penoso: chi non è né bello né buono né saggio, ritiene invece di esserlo in modo conveniente. E, in effetti, colui che non ritiene di essere bisognoso, non desidera ciò di cui non ritiene di aver bisogno. [Simposio, 204 A]



Il passo non dev’essere inteso nel senso che il puro tendere o cercare sia in sé preferibile al conseguimento di ciò che si ricerca o verso cui si tende, ma nel senso che la sapienza non è per gli uomini qualcosa da possedere come un oggetto: è un continuo lavoro su di sé, un impegno che distingue la vita filosofica da ogni altro genere di vita. È dunque solo al tempo di Socrate e Platone, tra il V e il IV secolo a.C., che il termine “filosofia” e l’aggettivo “filosofo” cominciano a stabilizzarsi in un’accezione più precisa e ristretta. È stato invece Aristotele ad attribuire la qualifica di “filosofi”, a ritroso, anche ai pensatori del VI secolo a.C., ovvero a coloro che hanno preceduto Socrate. Questa attribuzione ha fatto sì che la filosofia si sia fabbricata da sé, in qualche modo, le sue origini e la sua tradizione: consideriamo in effetti ancora oggi come “filosofi” Talète, Anassimàndro, Anassìmene, Parmènide e tutti coloro di cui si parlerà nei prossimi due capitoli perché è stato in definitiva Aristotele a presentarli come tali.

4 La filosofia come fenomeno storico e “regionale”

Il fatto che la filosofia greca abbia costruito, a posteriori, il suo stesso passato, e si sia poi sviluppata in costante riferimento a esso, pone inevitabilmente la questione se la filosofia stessa possa o debba essere considerata un fenomeno esclusivamente greco. Non si può certo negare che la ricerca della sapienza sia stata coltivata in molte altre civiltà, prima dei Greci e in parallelo alla civiltà ellenica, e tuttavia ciò che indichiamo con il termine “filosofia” dovrebbe essere giudicato in ultima analisi come un fenomeno tipicamente e genuinamente greco, in quanto si presenta appunto come un fenomeno storicamente determinato.

Considerare la filosofia come un’attitudine eterna, atemporale dell’animo umano – presente in ogni luogo e in ogni tempo – significa in realtà lasciarsi sfuggire ciò che le è proprio: il fatto di essere una pratica e un sapere determinati sviluppatisi in un contesto determinato (esattamente come la poesia epica greca o la tragedia greca sono fenomeni culturali tipicamente greci). In altri termini, altre civiltà hanno senz’altro sviluppato forme diverse di sapienza religiosa o civile, ma ciò non toglie che quella forma specifica che va sotto il nome di “filosofia” sia stata elaborata originariamente in Grecia. Non è pertanto corretto parlare di filosofia prima dei Greci, così come d’altra parte è possibile che ci siano stati periodi e civiltà senza filosofia anche dopo i Greci, perfino nel mondo occidentale dipendente da quello greco (come si può dire, per esempio, del periodo fra il VII e l’VIII secolo d.C. per quanto riguarda l’intero bacino del Mediterraneo). Poiché dunque la filosofia è un fenomeno storico, essa è anche un fenomeno “regionale”, nel senso che dev’essere ricondotta ad un ambito geografico delimitato. Ciò non significa attribuire alla civiltà occidentale, e alla sua origine greca, una qualche forma di superiorità culturale rispetto alle altre civiltà: non è insomma lecito sostenere che il pensiero occidentale sia l’unica forma universale di sapienza o di ricerca della sapienza, ma proprio perché non è universale, esso va riconosciuto e indagato nella sua particolarità o peculiarità. Analogamente, sarebbe fuorviante negare i contatti che la cultura greca ha avuto, nell’Antichità, con le altre a essa limitrofe (quella persiana, quella fenicia, quella babilonese, quella egiziana, quella indiana); ma resta il fatto che la filosofia è in senso stretto una tradizione determinata che si è autocaratterizzata come tale e che perciò dev’essere esaminata nel suo contesto e nella sua specificità.

5 Il superamento del mito e il ruolo della città-Stato È opportuno, allora, accennare ad alcuni elementi di questa specificità, ovvero a ciò che ha fatto sì che qualcosa come la filosofia, nel senso che si è delineato, sia sorta proprio in Grecia. Un primo tratto peculiare è il congedo, almeno par-

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ziale, dall’interpretazione mitica del mondo. I primi pensatori di cui abbiamo notizia (soprattutto tramite Aristotele), e cioè i “fisici” di Milèto in Asia Minore, sembrano in effetti mettere esplicitamente da parte i racconti mitici – e insieme a essi il ruolo delle potenze divine e delle pratiche rituali – per proporre spiegazioni di carattere più propriamente razionale. Ciò comporta un evidente distacco non solo nei confronti delle altre culture, ma anche della stessa precedente tradizione greca. Inizialmente, nella cultura greca, il mito (my`thos) non sembra indicare qualcosa di diverso dal lògos (il termine che più di ogni altro sarà utilizzato per esprimere la razionalità filosofica): i termini my`thos e lògos significano entrambi originariamente ‘racconto’, ‘discorso’. È invece proprio con lo sviluppo della filosofia che nasce la contrapposizione: le teogonìe e le

cosmogonìe [ Il mito] cedono il passo a discorsi più razionalmente coerenti, ovvero alla ricerca di princìpi in grado di giustificare in modo uniforme la totalità della natura. In altri termini, i fenomeni naturali non sono più interpretati come manifestazioni estemporanee di una o più divinità, ma in base a leggi e norme in qualche modo intrinseche alla natura stessa. Certo, non si deve incorrere neppure nell’errore di enfatizzare unilateralmente il carattere razionale del pensiero greco: figure come Pitàgora, Empèdocle, lo stesso Socrate, e più tardi Giàmblico e Proclo, mantengono (in misura e forme diverse) un alone di tipo religioso, e tuttavia in tutti questi casi la componente religiosa non sopprime, ma presuppone la ricerca razionale, e anzi dipende sostanzialmente da essa. Un secondo elemento determinante che spiega la specificità della filosofia greca, e sembra averne reso possibile lo sviluppo, è dato dalla formazione e ancor più dall’evoluzione democratica della pòlis, e cioè del modello della città-Stato che s’impone gradualmente, Il mito a partire già dall’VIII-VII secolo I miti, nel mondo classico, sono narrazioni di a.C., come la forma tipica della carattere poetico e religioso che riguardano la generavita associata nel mondo grezione degli dèi (teogonìe); la produzione del mondo (cosmogonìe); o le gesta di eroi, come quelle narrate da Omero nei due co. Anche questo evento segrandi poemi mitici che segnano gli inizi della cultura greca, l’Iliade e gna una rottura non solo l’Odissea. I miti svolgono almeno tre funzioni fondamentali: rispetto alle monarchie • racchiudono l’insieme delle credenze di un popolo, cioè l’insieme di ciò assolute delle culture liin cui un popolo crede; mitrofe, ma anche ris• definiscono l’appartenenza a un sistema sociale; proprio perché i miti petto alla stessa tradiesprimono ciò che un popolo crede, ne fondano l’identità, e il senso di appartenenza: qualsiasi greco, per esempio, si riconoscerà negli dèi dell’Olimpo zione micenea. descritti nei poemi mitologici, e sentirà come predecessori gli eroi della spedizione La pòlis non muta contro Troia narrata da Omero; semplicemente il con• propongono una spiegazione dei fenomeni naturali per cui, per esempio, la pioggia testo complessivo, poè riconducibile a una determinata divinità, i terremoti a un’altra, ecc.: tutta la natura, litico ed economico, nel mondo dei miti, possiede qualcosa di sacro ed è sotto il segno di una determinata divinità. ma introduce un camPrima della nascita della filosofia, l’interpretazione tanto del mondo divino quanto di biamento sostanziale quello naturale passa attraverso la forma mitica, cioè attraverso racconti mitici: è il canella mentalità degli so soprattutto di Esìodo (autore tra l’altro di un’importante Teogonìa in cui descrive la abitanti (che da sudgenealogia degli dèi e la storia dell’Universo), ma anche degli stessi poemi omerici. diti diventano cittadiLa filosofia si caratterizza invece, nel suo processo di costituzione, proprio per il ni), nell’orizzonte sociasuo intento di distaccarsi da questi tentativi di spiegazione poetico-religiosi, le, nella percezione dei per proporne altri più strettamente razionali. Non per questo, tuttavia, i miluoghi del potere (dal pati spariranno completamente dall’orizzonte della filosofia: Platone si serlazzo sacro e talora inaccesvirà di racconti mitici per spiegare alcune delle sue dottrine più delisibile del sovrano alla pubblica cate [ 4.3.1,12,13]; Aristotele dirà che anche chi ama il mito è piazza – l’agorà – che appartiene in qualche modo filosofo e, sia pur con qualche eccezione, in generale i filosofi non rinnegheranno mai a tutti). Proprio questa concezione esplicitamente gli dèi della propria città o differente, “egalitaria”, dello spazio del proprio popolo. politico favorisce l’interpretazione neutra e desacralizzata dello spazio fisico (della natu-

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ra). Ma la pòlis è anche il terreno più fertile per lo sviluppo delle arti del linguaggio, e dunque della retorica e della dialettica: le nuove regole della democrazia si fondano sulla ricerca del consenso, e quest’ultima presuppone la capacità di saper persuadere gli altri – e cioè di saper chiedere e dare ragione. Ciò spiega almeno in parte anche la ragione per cui all’interno del mondo greco, la filosofia si è sviluppata prima nelle colonie dell’Asia Minore (la costa orientale della Turchia) e della Magna Grecia (l’Italia meridionale), e poi ad Atene: nelle colonie, il processo di democratizzazione (e di affrancamento dalle tradizioni) è stato relativamente più rapido. D’altra parte, sia pure in lieve ritardo, proprio il caso di Atene mostra il nesso tra l’evoluzione democratica

della città-Stato e lo sviluppo della filosofia: la fioritura intellettuale di Atene ha infatti luogo dopo le riforme di Clìstene (508-507 a.C.) che avevano portato all’estensione dei diritti politici a tutti i cittadini maschi, liberi e adulti, all’introduzione della bulè (un consiglio di 500 cittadini eletti, in cui venivano prese le decisioni più importanti) e al proporzionale ridimensionamento dell’Areòpago (la precedente assemblea composta solo dagli aristocratici anziani). Come tutte le città greche, Atene rimarrà esposta al rischio costante dei colpi di mano e dell’avvento della tirannide, ma lo sviluppo delle discussioni politiche, l’esigenza di provvedere alla formazione dei cittadini, l’abitudine a prendere e giustificare decisioni pubbliche daranno un impulso decisivo allo sviluppo del pensiero filosofico (così come di altre forme culturali: la tragedia ripropone, per esempio, sotto aspetti diversi, alcuni temi affrontati dagli stessi filosofi). Ciò non vuol dire, d’altra parte, che la filosofia abbia potuto far conto sempre su condizioni idilliache: fin dall’inizio, la storia della filosofia è anzi anche la storia dei tentativi di censurarla, condannarla, metterla a tacere. Il mondo greco, che ha creato la filosofia, non fa eccezione: Anassàgora e Protàgora – come vedremo – furono banditi da Atene; Socrate venne addirittura messo a morte; molte comunità pitagoriche, nell’Italia meridionale, furono scacciate dalle città in cui si erano costituite; in diverse occasioni, i filosofi furono espulsi da Roma, fino ad arrivare alle condanne da parte degli imperatori cristiani e alla decisione dell’imperatore bizantino Giustiniano, nel 529 d.C., di vietare l’insegnamento della filosofia pagana e di chiudere le ultime scuole filosofiche ad Atene. In quanto scelta di vita diversa da quella comune, la filosofia non si sottrae mai al rischio dell’incomprensione (dell’eccentricità, dell’atopìa) e non procura alcun vantaggio economico o La nascita di Atena, VI sec. a.C. sociale a chi la pratica. Tuttavia, essa [Museo del Louvre, Parigi] rimane la via maestra per costruire sé Nella Teogonìa, Esìodo ricostruisce la storia degli dèi e dell’Universo attrastessi e ritrovare, nella misura in cui è verso i legami genealogici. Ne è un esempio la nascita di Atena: dea della possibile in questo mondo, serenità e guerra, protettrice delle istituzioni, delle scienze e delle arti, nacque dalla testa di Zeus, vestita con l’armatura, l’elmo, una lancia e uno scudo. felicità. Un passo di Seneca – un altro

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filosofo che, come Socrate, fu costretto al suicidio (sia pure per motivi più squisitamente politici, nella Roma del I secolo d.C.) – esprime in modo esemplare la convinzione che la filosofia sia l’unico vero mezzo di salvezza intramondana (in questo stesso mondo):

“ SINTESI CAPITOLO 1

fruga dentro di te, scrùtati da varie parti, osservati con cura e, soprattutto, vedi se hai fatto progressi solo nello studio della filosofia, o an-

Una scelta di vita: la ricerca della sapienza e della felicità. Nel mondo antico la filosofia non rappresentava una disciplina da apprendere, ma un’opzione esistenziale, una vera e propria scelta di vita, nel tentativo di conseguire una vita buona e felice. Per raggiungere questo obiettivo, i filosofi antichi hanno elaborato e proposto una serie di tecniche (quasi degli “esercizi spirituali”) per controllare e trasformare sé stessi. Sebbene non tutti i pensatori del mondo antico le abbiano intese allo stesso modo, in linea generale tutti ne hanno condiviso il fine: quello di ricercare la sapienza per essere felici. La filosofia come “dare ragione” delle cose. Tra le tecniche principali per cercare di raggiungere la sapienza un posto peculiare spetta al saper interrogare (saper interrogare sé stessi, gli altri e la realtà che ci circonda). Fare filosofia significa dunque anche chiedere conto e cercare di dar conto delle cose e delle proprie opinioni, e conseguentemente darne conto ad altri. Questo tentativo di cercare cause plausibili e razionalmente coerenti dei fenomeni è anche ciò che differenzia la filosofia dai miti, che pure avevano giocato un ruolo essenziale nella formazione della cultura greca. Le origini della filosofia. In linea di massima, prima del V e del IV secolo a.C. il termine “filosofia” non compare. Ci sono solo poche eccezioni a questo riguardo e derivano tutte da testimonianze più tarde. Ancora negli storici del V secolo a.C., Eròdoto e Tucìdide, il termine indica il generale desiderio di sapienza. È tra il V e il IV secolo a.C. che la

che nella vita. La filosofia non è un’arte che serve a far mostra di sé di fronte alla gente: non consiste nelle parole, ma nelle azioni. […] La filosofia forma e plasma l’animo, dà ordine alla vita, dirige le azioni, mostra le cose che si debbono e quelle che non si debbono fare, siede al timone e regola la rotta attraverso i pericoli di un mare in tempesta. Senza di essa, nessuno può vivere sereno e sicuro. [Epistole a Lucilio, 16, 2-3]

sapienza viene intesa come la condizione necessaria per la vita buona e felice. Quest’ultimo passo si compie con Socrate e Platone. È stato invece Aristotele ad attribuire la qualifica di “filosofi”, a ritroso, anche ai pensatori del VI secolo a.C., ovvero a coloro che hanno preceduto Socrate. Consideriamo ancora oggi come “filosofi” tutti coloro di cui si parlerà nei prossimi due capitoli perché è stato in definitiva Aristotele a presentarli come tali. La filosofia come fenomeno storico e “regionale”. La ricerca della sapienza è stata coltivata in molte altre civiltà, prima dei Greci e in parallelo ai Greci, e tuttavia ciò che indichiamo con il termine “filosofia” deve essere giudicato come un fenomeno tipicamente e genuinamente greco. Considerare la filosofia come un’attitudine dell’animo umano presente in ogni luogo e in ogni tempo significa infatti lasciarsi sfuggire ciò che le è proprio: il fatto di essere un sapere determinato sviluppatosi in un contesto storicamente determinato. La filosofia è in senso stretto una tradizione determinata che si è autocaratterizzata come tale e che perciò dev’essere esaminata nel suo contesto e nella sua specificità. Il superamento del mito e il ruolo della città-Stato. Un primo tratto peculiare della filosofia come forma specifica di ricerca della sapienza sorta in Grecia è il congedo dall’interpretazione mitica del mondo. Originariamente sia my`thos che lògos (termine che più di ogni altro sarà utilizzato per esprimere la razionalità filosofica) significano ‘racconto’, ‘discorso’; con lo sviluppo della filo-



sofia nasce la loro contrapposizione: i fenomeni naturali non sono più interpretati alla luce dei racconti mitologici come manifestazioni estemporanee di una o più divinità, ma in base a princìpi intrinseci alla natura stessa in grado di giustificare in modo uniforme le sue manifestazioni. Un secondo tratto della specificità della filosofia greca è dato dalla formazione e dall’evoluzione democratica della pòlis. La pòlis introduce un cambiamento sostanziale dello spazio politico, promuovendone una concezione “egalitaria”, che favorisce lo sviluppo di un’interpretazione neutra e desacralizzata anche dello spazio fisico (della natura). Inoltre, la pòlis è anche il terreno più fertile per lo sviluppo delle arti del linguaggio, e dunque della retorica e della dialettica: le nuove regole della democrazia si fondano sulla ricerca del consenso, e quest’ultima presuppone la capacità di saper persuadere gli altri – e cioè di saper chiedere e dare ragione. Ecco perché, all’interno del mondo greco, la filosofia si è sviluppata prima dove il processo di democratizzazione è stato relativamente più rapido, ovvero nelle colonie dell’Asia Minore e della Magna Grecia. Ciò non vuol dire che la filosofia abbia potuto far conto sempre su condizioni idilliache: fin dall’inizio, la storia della filosofia è anzi anche la storia dei tentativi di censurarla e condannarla. In quanto scelta di vita diversa da quella comune, la filosofia non si sottrae mai al rischio dell’incomprensione e non procura alcun vantaggio economico o sociale a chi la pratica. Tuttavia, essa rimane la via maestra per coltivare sé stessi e ritrovare serenità e felicità.

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BIBLIOGRAFIA Fonti • Agostino di Ippona, La città di Dio, a cura di L. Alici, Bompiani, Milano 2001. • Plotino, Enneadi, a cura di R. Radice, Mondadori, Milano 2002. • Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1978, poi Bompiani, Milano 2000 (nella serie «Testi a fronte») e 2004 (nella serie «Il pensiero occidentale»). • Eraclito, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. I, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863. • Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Laterza, RomaBari 20057; Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, con la collaborazione di G. Girgenti e I. Ramelli, Bompiani, Milano 2005. • Erodoto, Le storie, a cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, Utet, Torino 1996. • Tucidide, La guerra del Peloponneso, a cura di L. Canfora, Einaudi, Torino 2006. • Platone, Simposio, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. • Seneca, Lettere a Lucilio, introd. di L. Canali, trad. e note di G. Monti, cronologia di E. Bertelli, Rizzoli, Milano 200723.

Studi critici La tesi secondo cui la filosofia antica dev’essere intesa principalmente come uno stile di vita o un’opzione esistenziale si deve soprattutto allo storico francese Pierre Hadot. Si vedano principalmente in proposito:

• P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 1998; • P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005. Sulla stessa linea di Hadot cfr. anche: • C. Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici, Carocci, Roma 2004. In un altro intervento, recentemente tradotto in italiano, Pierre Hadot chiarisce la propria concezione della filosofia come “modo di vivere” anche al di là di ciò che riguarda esclusivamente il pensiero antico: • P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, Einaudi, Torino 2008. Sul ruolo giocato dalla pòlis e dal superamento del pensiero mitico nella genesi della filosofia greca rimane fondamentale: • J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco, Se, Milano 2007. Sul rapporto dei Greci (e in particolare delle classi colte) con i loro miti una lettura particolarmente originale e suggestiva è quella di Paul Veyne: • P. Veyne, I Greci hanno creduto ai loro miti?, il Mulino, Bologna 20052. Sui rapporti tra il pensiero greco e le culture orientali si può fare riferimento a: • M.L. West, La filosofia greca arcaica e l’Oriente, il Mulino, Bologna 1993. Esistono naturalmente numerose ricostruzioni d’insieme del pensiero greco. L’esposizione forse più dettagliata rimane: • G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, 10 voll., Bompiani, Milano 2004.

Un tentativo particolarmente interessante di combinare un approccio per autori e uno di tipo più sistematico (soprattutto nel confronto tra Platone e Aristotele) è rappresentato da: • F. Trabattoni, La filosofia antica. Profilo critico-storico, Carocci, Roma 2002. Un manuale particolarmente solido, reso ancor più utile dall’ampio e dettagliato lessico conclusivo, è: • G. Cambiano, Storia della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2005. Un’esposizione esemplare per sobrietà, rigore e chiarezza (e anche per l’equilibrio tra le varie parti) è: • P. Donini - F. Ferrari, L’esercizio della ragione nel mondo classico. Profilo della filosofia antica, Einaudi, Torino 2005. Un utile strumento di consultazione, che comprende sia un panorama degli Autori sia una rassegna delle varie scienze e discipline, è rappresentato da: • G.E.R. Lloyd - J. Brunschwig, Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di M.L. Chiesara, 2 voll., Einaudi, Torino 2007. Recentemente, Enrico Berti ha pubblicato un’introduzione tematica alla filosofia antica, selezionando alcune questioni fondamentali (l’essere, l’uomo, il divino, ecc.). Il risultato è un volume che, oltre a essere assai istruttivo, risulta estremamente piacevole da leggere, grazie anche alla consueta limpidezza dell’Autore: • E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2007.

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capitolo 2

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1 Un quadro d’insieme: le origini della filosofia nelle colonie greche La filosofia ha un periodo e un luogo di nascita che possono essere circoscritti con un discreto margine di approssimazione. Per quanto riguarda il periodo, il VI secolo a.C.; per quanto riguarda il luogo, le colonie fondate dai Greci a oriente nella Ionia (la regione costiera dell’Asia Minore, ovvero la costa orientale dell’attuale Turchia) e a occidente nella Magna Grecia (ovvero nell’Italia meridionale) e in Sicilia. Proprio per questa distribuzione geografica piuttosto ampia e discontinua, il contesto originario in cui si è sviluppato l’esercizio della filosofia non può essere considerato completamente omogeneo: anche dal punto di vista linguistico, i dialetti parlati nelle colonie orientali e occidentali erano spesso profondamente diversi. Tuttavia, tutte le colonie erano comunque accomunate dalla consapevolezza di appartenere al mondo greco in opposizione ai potenziali invasori, ai “barbari” (e cioè, alla lettera, ‘coloro che non riuscivano a parlare in greco’, e che dunque “balbettavano” in altre lingue), e tutte o

I princìpi, la natura, l’essere: le origini della filosofia in Asia Minore e nella Magna Grecia

quasi, sia pure in modalità differenti, riproducevano la forma sociale che si era gradualmente affermata nella madrepatria e che ha rappresentato un presupposto quasi ineludibile per la nascita della filosofia: quella della pòlis, della città-Stato [ 1.5]. Occorre tuttavia chiedersi perché un interesse di tipo propriamente filosofico si sia sviluppato nelle colonie prima che nelle città o nelle isole della Grecia in senso stretto. I fattori che possono essere chiamati in causa sono molteplici. In primo luogo, le colonie rappresentavano in qualche modo una terra di frontiera, la cerniera tra il mondo conosciuto (per i Greci, evidentemente) e quello ignoto; in quanto tali, erano caratterizzate da una maggiore apertura e permeabilità nei confronti di altri influssi culturali, e ciò in qualche modo accresceva, in esse, una forma di curiosità intellettuale. A ciò si deve aggiungere il fatto che tanto le città dell’Asia Minore quanto quelle siciliane e dell’Italia meridionale svilupparono ben presto una rete commerciale più fitta rispetto a molte delle isole e delle città della Grecia continentale: gli scambi commerciali non soltanto favorirono anche quelli culturali, ma crearono le condizioni di stabilità

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

I luoghi d’origine della filosofia

e relativo benessere economico indispensabili per la crescita delle attività intellettuali. Ma soprattutto, il processo di democratizzazione delle pòleis, delle città-Stato – avviatosi a partire dal VII secolo a.C. – fu per certi versi più rapido nelle colonie, in cui erano meno vincolanti le consuetudini, le tradizioni e i rapporti di potere consolidatisi nelle città della madrepatria: lo sviluppo delle istituzioni democratiche e delle discipline del linguaggio ad esse connesse costituì di per sé il terreno più favorevole per la pratica della filosofia. Infine, il minor peso delle tradizioni e delle consuetudini si avvertiva, nelle colonie, non solo nell’ambito strettamente politico, ma anche in quello religioso-culturale: in una città di recente fondazione (per quanto unita alla madrepatria) i legami con le divinità e i miti della tradizione erano certamente un po’ più flessibili che nelle città con un più grande passato. Ciò fece sì che i pensatori ionici potessero per esempio indagare la natura svincolandosi almeno in parte dalle narrazioni tradizionali di tipo mitico e religioso (perfino in aperta opposizione con i poemi di Omero ed Esìodo:  Il mito, p. 7), e proponendo un approccio

nuovo, diverso, che potremmo definire più strettamente razionale. Si è soliti indicare i primi pensatori greci di cui ci sono giunti frammenti, o almeno notizie e testimonianze, con il nome di “presocratici”, intendendo con ciò anche sottolineare che fino a Socrate i filosofi si sarebbero occupati soprattutto della natura, mentre Socrate avrebbe introdotto nel campo della filosofia anche il mondo propriamente umano. Questa etichetta è tuttavia doppiamente ambigua, se non ingannevole: in primo luogo, non è del tutto corretta dal punto di vista strettamente cronologico, perché alcuni pensatori considerati “presocratici” sono in realtà contemporanei di Socrate; in secondo luogo, perché non è vero che tutti i filosofi prima di Socrate si siano limitati a indagare solo la natura, trascurando la sfera delle azioni umane: molti di essi hanno lasciato massime di condotta pratica e molti hanno proposto un modello di vita filosofica. Anche la denominazione di “presofisti”, utilizzata talora in sostituzione di quella di “presocratici”, non risolve tali incongruenze – tanto più che, se è vero che i cosiddetti “presofisti” si sono Mar Nero

Abdera Elea Magna Grecia

Taranto Metaponto Crotone

Atene Agrigento

Samo

Clazomene Colofone Efeso Mileto

Ionia

Mar Mediterraneo

La filosofia ha origine nelle colonie fondate dai Greci nella Ionia, nella Magna Grecia e in Sicilia. Talète [ 2.3.1] visse a Milèto tra il VII e VI secolo a.C., così come Anassimàndro [ 2.3.2] fra il 610 a.C. e la metà del VI secolo a.C. Anassìmene [ 2.3.3] nella seconda metà del VI secolo a.C. Molto più tardi nel V secolo a.C. vi nascerà anche Leucìppo [ 2.10.3]. Eraclìto [ 2.4] nacque ad Èfeso tra il VI e V secolo a.C. Pitàgora [ 2.5] nacque a Samo intorno al 570 a.C.; il pitagorismo si sviluppò nelle colonie della Magna Grecia: Taranto,

Metapònto, Crotòne. A Samo nascerà intorno al 485 a.C. anche Melìsso [ 2.9]. Senòfane [ 2.6] nacque a Colofòne nella prima metà del VI secolo e nei suoi viaggi giunse anche ad Elèa dove nacquero nella seconda metà del VI secolo a.C. Parmènide [ 2.7] e intorno al 490 a.C. Zenòne [ 2.8]. Empèdocle [ 2.10.1] nacque ad Agrigento intorno al 490 a.C. Anassàgora [ 2.10.2] nacque a Clazòmene tra il 500 e il 496 a.C., ma si trasferì presto ad Atene. Demòcrito [ 2.10.3] nacque ad Abdèra intorno al 460 a.C. e molto probabilmente trasferì la sua attività ad Atene.

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in realtà già occupati dell’uomo, è vero anche, in senso opposto, che i sofisti si sono occupati della natura. Se dunque si intende continuare a chiamare i primi filosofi presocratici o presofisti, lo si può fare solo a patto di considerare entrambe queste etichette come meramente convenzionali. 1. Con l’espressione “presocratici” intendiamo: a. tutti quei pensatori che, prima di Socrate, si sono occupati del problema della natura. b. per convenzione, quei primi pensatori, vissuti sino al tempo di Socrate o a lui contemporanei, di cui ci sono giunte notizie e testimonianze. c. tutti quei pensatori vissuti nell’età precedente a quella di Socrate. d. tutti quei pensatori precedenti o contemporanei a Socrate che si sono occupati prevalentemente delle questioni umane.

V F V F V F V F

2 Le testimonianze e i frammenti: la questione delle fonti Il grande problema che ci si pone nell’affrontare i primi filosofi è che alcuni di essi (come Pitàgora, e forse Talète) non hanno scritto nulla, e di tutti gli altri non ci sono giunti gli scritti originali. Dobbiamo quindi far riferimento esclusivamente a una tradizione indiretta, cioè cercare di ricostruire le loro posizioni attraverso altri filosofi più tardi che o hanno parlato della loro vita e delle loro dottrine – lasciandoci delle testimonianze sul loro conto – o hanno riportato, all’interno dei loro scritti, citazioni testuali più o meno letterali tratte dalle opere perdute dei loro predecessori – conservandone quindi dei frammenti. La raccolta delle testimonianze e dei frammenti relativi ai primi filosofi fu portata a termine nel 1903 dal filologo tedesco Hermann Diels e fu poi arricchita e completata dal suo allievo Walter Kranz fino all’edizione definitiva del 1952: per questo la raccolta si indica ancora oggi convenzionalmente come Diels-Kranz (o come DK). In essa, tutti i testi relativi ai primi pensatori rinvenuti nella tradizione successiva sono appunto numerati e divisi in testimonianze (indicate con la lettera A) e frammenti (indicati con la lettera B; in alcuni casi è presente anche una terza sezione, indicata con la lettera C, comprendente le “imitazioni”, ovvero i passi scritti prendendo a modello gli autori in questione).

Le fonti principali da cui sono state tratte le informazioni sui primi filosofi sono di tipo diverso. Abbiamo innanzi tutto le cosiddette fonti dossografiche: cioè le raccolte delle opinioni dei filosofi realizzate da altri filosofi o da storici più tardi (dossografia vuol dire appunto ‘raccolta di opinioni’: graphè infatti in greco vuol dire ‘scrittura’, e dòxa ‘opinione’). Una delle più note è quella composta (con il titolo Vite e dottrine dei più celebri filosofi, solitamente abbreviato in Vite dei filosofi) da Diògene Laèrzio, un autore vissuto tra il II e il III secolo d.C.; altrettanto importante è la raccolta di un dossografo precedente, Aèzio (tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C.), che è andata in realtà perduta, ma di cui ampie sezioni sono state trascritte da altri autori. Un secondo tipo di fonti è dato dai riferimenti dei filosofi successivi: il nome più importante a questo proposito è quello di Aristotele, che prima di affrontare un determinato problema inserisce spesso, come punto di avvio della discussione, una ricostruzione delle opinioni in proposito dei suoi predecessori. Tuttavia, per quanto Aristotele sia senza dubbio accurato, il problema è che egli non intendeva in alcun modo scrivere una fedele e oggettiva storia della filosofia, ma fare un uso filosofico delle dottrine già disponibili. Occorre così tenere conto del fatto che la nostra immagine dei primi pensatori è fortemente condizionata dall’impiego che ne ha fatto Aristotele: di alcuni di essi sappiamo in effetti solo o quasi ciò che egli ha inteso riportare, ma per i suoi scopi, e non certo per informarci compiutamente sulla figura di colui che stava citando. Per esempio: se per così lungo tempo è invalsa l’abitudine di considerare i primi pensatori ionici come interessati esclusivamente alla natura, è perché molto di ciò che leggiamo di essi è tratto dalla ricostruzione che Aristotele ha fatto del concetto di causa nella spiegazione della totalità della realtà: non è detto che i primi pensatori si siano davvero preoccupati solo di trovare un principio per tutti i fenomeni naturali, ma questo è ciò che in quel momento serviva ad Aristotele per l’analisi del concetto di causa. Altre fonti filosofiche sono rappresentate da tardi pensatori neoplatonici come Giàmblico (III-IV secolo d.C.), Proclo (V secolo d.C.) e Simplìcio (VI secolo d.C.): questi autori sono tuttavia posteriori di circa un millennio rispetto

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ai primi filosofi greci, ed è facile immaginare quante deformazioni (e quante aggiunte) possano essere intervenute in un periodo di tempo così lungo. Infine, un terzo tipo di fonte (per non citarne che le principali) è rappresentato dalle opere dei primi autori cristiani (come Clemente Alessandrino, II-III secolo d.C., Ippòlito di Roma, nel III secolo d.C.; Eusèbio di Cesarèa, tra il III e IV secolo d.C.): nell’intento di confutare la filosofia pagana (o, talora, di mostrarne la compatibilità con il cristianesimo), essi ne hanno spesso preservato ampi stralci, che talvolta includono anche le opinioni dei primi filosofi. Naturalmente, anche in questo caso si deve tener conto della grande distanza temporale intercorsa e dello scopo ben preciso degli scritti che ci hanno tramandato tali frammenti. Nelle pagine che seguono, i nomi appena citati torneranno spesso per indicare la fonte da cui proviene una testimonianza o un frammento relativi ai primi pensatori. Lo scopo non è quello di appesantire l’esposizione con inutili informazioni erudite, ma solo quello di rendere evidente fin dal principio che nella storia del pensiero non viaggiano mai le idee in sé, ma solo i testi: è quindi opportuno tenere sempre presente quale testo abbia veicolato o trasmesso una certa dottrina, e sotto quali condizioni, prestando cioè attenzione alla distanza temporale più meno estesa, agli obiettivi specifici di chi riporta una citazione, e al contesto storico-sociale completamente diverso tra l’autore originario e chi ne riporta un frammento, o ci offre qualche testimonianza sul suo conto.

3 Alla ricerca di un principio: i “fisici ionici” È nella Ionia, e in particolare a Milèto, che si concentrano le prime testimonianze relative a un’attività filosofica. E la prima figura di filosofo, con tutte le ambiguità iniziali, è quella di Talète.

3.1 Talete Talète visse a Milèto tra il VII e il VI secolo a.C., e forse non scrisse alcuna opera. Le fonti

gli attribuiscono capacità di vario tipo. Lo storico Eròdoto racconta per esempio che Talète fu in grado di deviare parzialmente il corso del fiume Halys per diminuire la portata delle acque e permettere così all’esercito di Creso di guadarlo senza difficoltà. Lo stesso Eròdoto riferisce che egli riuscì a prevedere con un certo margine di approssimazione un’eclissi di Sole (si presume, quella del 585 a.C.). Il tardo filosofo neoplatonico Proclo gli attribuisce la dimostrazione di molti teoremi matematici, e soprattutto accredita la tesi (riproposta in realtà per molti altri dei primi filosofi greci) che egli avesse derivato le sue conoscenze geometriche dall’Egitto, dove erano state sviluppate per motivi pratici. Fu probabilmente anche consigliere politico, e non a caso il suo nome fu inserito nell’elenco tradizionale dei sette sapienti (ovvero di coloro che avevano formulato massime autorevoli di saggezza morale e di condotta di vita). Le fonti attribuiscono dunque a Talète sia un sapere di tipo matematico e scientifico, sia uno di tipo tecnico-pratico. Due episodi, raccontati rispettivamente da Platone e da Aristotele, sembrerebbero contrapporre espressamente questi due aspetti:



successe anche a Talète, o Teodòro, che mentre osservava le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo, e si racconta che una servetta tracia, intelligente e spiritosa, l’abbia preso in giro dicendogli che si preoccupava di conoscere le cose del cielo e non s’accorgeva di quelle che aveva davanti e tra i piedi. [DK 11, A 9 = Platone, Teeteto, 174 A]





Siccome, povero com’era, gli rinfacciavano l’inutilità della filosofia, dicono che, avendo previsto in base a computi astronomici un abbondante raccolto di olive, ancora nel cuore dell’inverno, disponendo di una piccola somma di denaro, si accaparrò tutti i frantoi di Milèto e di Chio, dando una cifra irrisoria perché non ce n’era richiesta alcuna: ma quando giunse il tempo della raccolta, poiché molti cercavano i frantoi, tutt’insieme e d’urgenza, li dette a nolo al prezzo che volle, e così, raccolte molte ricchezze, dimostrò che per i filosofi è davvero facile arricchirsi, se lo vogliono – e invece non se ne preoccupano. [DK 11, A 10 = Aristotele, Politica, I, 11]



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In realtà, i due frammenti non si contraddicono e soprattutto ci dicono molto sulla figura del filosofo. Talète appare un uomo di scienza (guardare il cielo significa dedicarsi a osservazioni astronomiche), perfettamente in grado di utilizzare il suo sapere per fini pratici, tanto privati (come dimostra l’esempio dei frantoi) quanto più generali (la deviazione del corso del fiume), ma non è questo che principalmente gli interessa: piuttosto, egli sembra interessato alla considerazione in sé della realtà e dei suoi fenomeni, ai fini della sola conoscenza. Una seconda caratteristica che entrambi i passi suggeriscono è il distacco del filosofo dal sapere comune (ciò che Platone chiamerà poi atopìa): il filosofo vede le cose diversamente, e si preoccupa di ciò che gli altri non vedono. Da qui il riso della donna di Tràcia, che rappresenta il sentire comune, e che troverà poi nella stessa storia della filosofia alcuni appassionati difensori. Ciò che sappiamo di Talète, come per la gran parte dei primi filosofi greci, è fortemente condizionato dalla ricostruzione aristotelica delle posizioni dei suoi predecessori intorno alle cause e ai princìpi delle cose. Secondo Aristotele, coloro che per primi si dedicarono alla filosofia ritennero che tali princìpi fossero materiali; nella convinzione (per altro condivisa da quasi tutto il pensiero greco) che niente si produce e niente si distrugge, essi cercarono di individuare un elemento materiale di fondo che, trasformandosi, desse origine a tutte le cose. Talète, espressamente designato da Aristotele come il «fondatore di tale forma di filosofia» [Metafisica, I, 3], avrebbe indicato tale principio nell’acqua (hy`dor) – una scelta probabilmente dettata (sempre secondo Aristotele) dall’osservazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e l’acqua è il principio di tutto ciò che è umido. Se la vita sembra derivare dall’acqua, l’acqua può essere indicata come principio fondamentale dell’intera realtà. Simplìcio aggiungerà una motivazione simmetrica e opposta, ma ben più macabra, ovvero che il secco corrisponde alla morte: i cadaveri in effetti si essiccano. A Talète viene attribuita anche la massima secondo cui «tutto è pieno di dèi»: il dossografo Aèzio e il retore-filosofo latino Cicerone (I secolo a.C.) collegano questa dottrina a quella precedente affermando che secondo Talète la potenza divina passa attraverso l’umido elemen-

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tare mettendolo in movimento (ovvero, come scrive Cicerone, dio è la mente che a partire dall’acqua costruisce ogni cosa). N on siamo evidentemente in grado di ricostruire molto più di questo: si può ipotizzare, tuttavia, che Talète (come anche altri dei fisici ionici) abbia attribuito un carattere divino a ciò che egli considerava come il principio di tutto il reale. 1. Per Aristotele Talète è: a. il fondatore di quella forma di filosofia che individua in un elemento materiale il principio di tutte le cose. V b. il fondatore di quella forma di filosofia che attribuisce al principio materiale di tutte le cose una natura divina. V c. il fondatore di quella forma di filosofia che individua in un elemento non soggetto a trasformazione l’origine di tutte le cose. V d. il fondatore di quella forma di filosofia secondo cui V in natura nulla si crea e nulla si distrugge.

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3.2 Anassimandro Con ogni probabilità, Talète non diede vita a una vera e propria scuola a Milèto, ma non si può escludere che Anassimàndro (nato anch’egli a Milèto intorno al 610 e morto verso la metà del VI secolo a.C.) ne abbia conosciuto le posizioni. Anassimàndro scrisse un’opera in prosa intitolata Sulla natura: probabilmente il primo vero e proprio testo di filosofia che sia mai stato messo per iscritto in Occidente (anche se non ci è pervenuto). Gli vengono attribuite anche la realizzazione della prima carta geografica del mondo conosciuto e l’invenzione dello gnomòne, ovvero di un orologio solare. Le sue osservazioni astronomiche gli avrebbero permesso di fissare i solstizi e gli equinozi, e perfino di stabilire l’inclinazione dello zodiaco (la fascia ideale contenente le dodici costellazioni attraversate in un anno dal Sole nel suo moto apparente): si tratta tuttavia di informazioni da prendere sempre con cautela, poiché è prassi usuale nell’antichità attribuire ad autorevoli figure del passato tutta una serie di scoperte e invenzioni in realtà non riconducibili a loro. Anche Anassimàndro cerca di riportare la pluralità del reale a un unico principio di fondo, e tuttavia, a differenza di Talète (e di quanto farà poi anche Anassìmene), egli non ritiene che un singolo elemento determinato – e quindi visibi-

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le o percepibile, come l’acqua e l’aria – possa servire a questo scopo. Per Anassimàndro il principio originario è così l’illimitato (àpeiron), ciò che è privo di limiti, l’infinito. In modo analogo, cambia anche la descrizione del processo di formazione del mondo e delle cose, che non è più spiegato come alterazione di un unico elemento, ma come distacco dei contrari (caldo, freddo, umido, secco) dall’infinito a causa di un movimento eterno. L’infinito avvolge un Universo sferico, di cui la Terra (immaginata, invece, di forma cilindrica) occupa il centro. Tutte le cose derivate dall’infinito sono così finite, limitate. Un frammento molto noto – spesso considerato come il detto filosofico più antico di cui si abbia testimonianza (ma pur sempre riportato solo da Simplìcio, all’incirca un millennio dopo la vita di Anassimàndro) – sembra far riferimento proprio alla natura delle cose finite:



dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. [DK 12, B 1 = Simplìcio, Commento alla Fisica, 24, 13]



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L’“ingiustizia” a cui il frammento fa riferimento allude probabilmente alla limitazione reciproca delle cose, in quanto distaccate dall’infinito: la “pena” consisterebbe in tal senso nella loro dissoluzione, ovvero nel ritorno nell’infinito o illimitato. Tutti i processi naturali sembrano così essere spiegati prendendo a modello l’agire umano e le sue implicazioni. 1. L’àpeiron è: a. l’elemento determinato con cui Anassimàndro spiega la pluralità del reale. b. il principio sensibile con cui Anassimàndro spiega la pluralità del reale. c. il principio originario, ovvero l’indeterminato, con cui Anassimàndro spiega la pluralità del reale. d. il principio fisico e naturale dalla cui alterazione deriva la pluralità del reale.

3.3 Anassimene Anche Anassìmene nacque a Milèto, nella prima metà del VI secolo a.C., e anch’egli compose uno scritto Sulla natura. Come Talète,

Anassìmene crede nella possibilità di individuare in un elemento determinato il principio di tutte le cose; tale principio non è tuttavia per lui l’acqua, ma l’aria (aèr). Anche questa scelta è giustificata sulla base dell’osservazione di ciò che è fondamentale per l’uomo: se Talète aveva rilevato l’importanza del nutrimento, e dunque dell’umido, Anassìmene considera il ruolo della respirazione nei processi vitali. Da qui l’idea che l’aria rappresenti non solo la nostra anima, ma il principio vitale dell’intero Universo, come attesta un frammento riportato da Aèzio: «Come l’anima nostra, che è aria, ci tiene insieme, così il soffio e l’aria abbracciano tutto il mondo» [DK 13, B 2]. La produzione e la differenziazione delle cose sarebbero così dovute a processi di condensazione e rarefazione: rarefacendosi o attenuandosi, l’aria diventerebbe fuoco; condensandosi, diventerebbe progressivamente vento, nuvole, acqua, terra e tutti i corpi composti. La caratteristica più degna di nota di questa ipotesi è che l’intero Universo viene considerato come sostanzialmente omogeneo, dal momento che le singole differenze sono riportate a diversi gradi di densità di uno stesso elemento: un criterio quantitativo si affaccia per la prima volta, accanto a quelli qualitativi (i contrari), nella spiegazione dell’Universo. 1. Il principio con cui Anassìmene spiega la pluralità del reale è fondato: a. su un elemento determinato. b. sul principio della lotta dei contrari. c. su un criterio qualitativo. d. sull’osservazione della centralità della respirazione nei processi vitali.

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4 Il lògos universale: Eraclito Nato a Èfeso, altra città della Ionia non lontana da Milèto, tra il VI e il V secolo a.C., anche Eraclìto avrebbe composto un libro intitolato Sulla natura, di cui ci sono pervenuti un centinaio di frammenti. Eraclìto ha sempre avuto fama di pensatore oscuro: Aristotele, per esempio, riferisce che la lettura dei suoi passi risulta ostica perché non è

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neppure facile stabilirne l’interpunzione. Di famiglia aristocratica, è stato descritto come altero e volutamente distante dalle opinioni del volgo, come sembrano attestare alcuni dei frammenti a lui attribuiti:



uno è per me diecimila, se è il migliore [DK 22, B 49]; legge è anche ubbidire alla volontà di uno solo [DK 22, B 33].



Questa concezione elitaria si salda a ciò che possiamo ricostruire del suo pensiero: Eraclìto è infatti convinto che l’intera realtà sia pervasa e dominata da un lògos unico e universale, che tuttavia la grande maggioranza degli uomini non riesce né a riconoscere né a seguire. Il termine lògos, che in greco significa tanto ‘ragione’/‘intelletto’, quanto ‘parola’ e ‘discorso’, ‘narrazione’, dovrebbe qui essere inteso in tutta la sua ricchezza e complessità: lògos starebbe dunque a indicare sia la razionalità che pervade tutto il reale, sia la comprensione che gli uomini possono averne, sia il discorso attraverso cui gli uomini possono esprimere tale comprensione. Ma ciò riesce appunto solo a pochi, ai veri sapienti; gli altri uomini si comportano «come se fossero addormentati», ignorando il lògos universale, e vivendo come se fosse possibile avere tanti discorsi particolari, tante particolari forme di sapienza; al contrario, come afferma Eraclìto: «Ascoltando non me, ma il lògos, è saggio convenire che tutto è uno» [DK 22, B 50]. Il mondo appare quindi molteplice e frammentato perché gli uomini, invece di riconoscere il lògos comune, considerano il mondo stesso dal loro particolare punto di vista, forgiandosi così tante forme particolari, e perciò illusorie, false, di sapienza.

4.1 Un lògos oltre i contrasti Per Eraclìto la sapienza è una sola e sta nel riconoscere l’unità del reale: «Un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto» [DK 22, B 41]; il volgo preferisce invece prestare fede ai poeti e a coloro che si vantano delle loro conoscenze molteplici (e tra cui vanno forse annoverati anche i grandi poeti Omero ed Esìodo:  Il mito, p. 7). Eraclìto contrappone così espli-

citamente l’attitudine filosofica ai miti dei poeti e al sapere disperso di coloro che pretendono di occuparsi di tutto. Filosofo – secondo Clemente Alessandrino, Eraclìto sarebbe stato anzi il primo a riservare per sé il termine “filosofo” – è così colui che sa disporre il lògos della propria anima (il proprio pensiero) in accordo con il lògos cosmico, giacché «il pensare è a tutti comune». In questo modo, l’anima è in qualche modo in grado di dilatarsi nel tentativo di arrivare a coincidere con il lògos universale:

“ ”

È proprio dell’anima un lògos che accresce sé stesso. [DK 22, B 115] L’anima è così potenzialmente infinita, come esprime un altro frammento particolarmente significativo:



per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo l’intera via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lògos. [DK 22, B 45]



Compito di ogni uomo dovrebbe così essere quello di indagare sé stesso e di rinvenire in sé una chiave di accesso al lògos cosmico: ritroviamo qui altri due elementi caratteristici dell’intera filosofia greca [ 1.1], e cioè da una parte la convinzione che la filosofia sia innanzi tutto una trasformazione di sé a partire da un’analisi di sé stessi, e dall’altra la tesi che sia necessario ritrovare una sostanziale consonanza, o un accordo di fondo, tra sé e il cosmo. Questa doppia esperienza riesce di fatto a pochi, ma in principio è accessibile a tutti, e dovrebbe essere anzi un compito per tutti: «ad ogni uomo è concesso conoscere sé stesso ed esser saggio» [DK 22, B 116]. Gli uomini che, invece, preferiscono sviluppare discorsi particolari, si precludono la possibilità di scorgere la vera unità e la vera armonia che regna al di là dei contrasti. Le cose che possono apparirci discordi, contrastanti o addirittura opposte, infatti, non sono che aspetti diversi della medesima realtà. Molti frammenti fanno riferimento a quest’unità che va al di là degli opposti:



L’armonia nascosta vale più di quella che appare [DK 22, B 54];

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Una e la stessa cosa è la via all’in sù e la via all’in giù [DK 22, B 60]; La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi [DK 22, B 88].



Quest’ultimo frammento sembra alludere ad un altro dei temi di fondo tradizionalmente attribuiti a Eraclìto, quello dell’incessante divenire di tutte le cose, sintetizzato nella formula pànta rhèi, ‘tutto scorre’. Tuttavia, questa formula non si ritrova in quanto tale in Eraclìto, e sembra piuttosto il risultato di una semplificazione delle sue dottrine ad opera dei suoi seguaci. Il tema del divenire è in effetti sfiorato in alcuni frammenti eraclitei: «nello stesso fiume non è possibile scendere due volte» [DK 22, B 88]; «per coloro che entrano negli stessi fiumi, altre e sempre altre scorrono le acque» [DK 22, B 12]. Esso tuttavia sembra diventare davvero dominante in un discepolo di Eraclìto, Cràtilo, con cui Platone si confronta nel dialogo che porta il suo nome. In realtà, Eraclìto sembra soprattutto preoccupato di mostrare la simultaneità degli opposti, l’armonia oltre i contrasti, più che il divenire stesso. Il contrasto (la guerra, il conflitto) appare in effetti come la vera legge del reale:



Pòlemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi. [DK 22, B 53]



Ma il segreto dell’unità sembra stare per Eraclìto proprio nel perenne conflitto e nell’incessante trasformazione di un contrario nell’altro: l’unità a cui egli fa riferimento non è dunque immobile, statica, ma dinamica, tale da alimentarsi proprio attraverso il contrasto. Forse per questo, in alcuni frammenti, il lògos come ordine universale è identificato con un fuoco sempre vivo:



Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura. [DK 22, B 30]



Secondo Aristotele, Eraclìto non si sarebbe così alla fine discostato troppo dal tentativo dei primi pensatori ionici di ritrovare un principio fisico o materiale del mondo – principio che in questo caso sarebbe stato identificato non con l’acqua o con l’aria, ma appunto con il fuoco: tutto deriverebbe dal fuoco per condensazione e rarefazione, e tutto sarebbe destinato a risolversi nel fuoco. È tuttavia difficile stabilire se Eraclìto abbia davvero posto una coincidenza in senso stretto tra il lògos universale e il fuoco, o abbia considerato quest’ultimo come manifestazione visibile del lògos stesso, ovvero come indice di un ordine universale che si fonda sul reciproco trasformarsi degli elementi nei loro opposti.

4.2 «La natura ama nascondersi» Un ultimo tema eracliteo è espresso da un frammento che non ha mai smesso di affascinare moltissimi filosofi, fino al Novecento: «la natura ama nascondersi» (phy`sis kry`ptesthai philèi) [DK 22, B 123]. Il termine greco phy`sis da una parte indica la natura come ordinamento già dato, insieme di tutti i fenomeni, e dall’altra il processo di genesi o apparizione, realizzazione (phy`sis deriva da phy`o, ‘faccio nascere’, e, intransitivamente, ‘nasco’, esattamente così come il termine latino natura deriva dal verbo intransitivo nascor). Scegliendo la prima accezione avremmo già due possibili interpretazioni: dire che la natura delle cose ama nascondersi potrebbe significare che l’ordine effettivo delle cose è difficile da scoprire e che, quindi, è necessario forzare il velo delle apparenze, o piuttosto che il vero sapiente deve proteggere tale senso nascosto, perché non venga profanato e frainteso da chi non sa riconoscerlo. Il frammento eracliteo è stato così assunto come giustificazione di due differenti modi di porsi nei confronti della natura: da una parte un atteggiamento operativo, se non addirittura aggressivo (l’uomo deve forzare il senso della natura, per impadronirsi di quest’ultima e trasformarla a proprio vantaggio); e dall’altra un’attitudine improntata al rispetto della natura stessa (solo i veri sapienti, gli “iniziati” – o i poeti – possono sollevare senza danni il velo della natura, cogliendone quel significato che sfugge invece allo scienziato).

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Ma il fatto è che non solo il termine phy`sis, ma anche il verbo kry`ptesthai è ambiguo, poiché non significa solo ‘nascondersi’ (come viene di solito tradotto), ma anche ‘seppellire’, o ‘far scomparire’, ‘far morire’. E allora il frammento potrebbe voler dire qualcosa di assai diverso da ciò che indica la traduzione usuale; il suo senso potrebbe essere invece: ‘Ciò che fa nascere (la phy`sis, la natura come genesi) tende a far scomparire (ama far scomparire, ama seppellire)’ o anche, più semplicemente, ‘ciò che è nato [ciò che è venuto alla luce], vuole morire, tende di per sé a morire’. Quest’ultima interpretazione sarebbe in accordo con molti altri frammenti eraclitei, in cui l’antitesi tra nascita e morte, come quella tra tutti gli opposti, viene considerata solo apparente, perché al fondo (nella “natura”) c’è tra esse un’identità profonda. Vita e morte appartengono alla stessa natura, sono aspetti diversi della medesima realtà, e questa consapevolezza distingue colui che veramente ama la sapienza da chi segue le opinioni comuni: in questo modo, la filosofia offre anche un primo tentativo di razionalizzare l’apparente insensatezza della morte, mostrando che essa non si contrappone alla vita, ma ne è semplicemente l’altra faccia, senza di cui la prima non potrebbe comunque darsi. 1. Per Eraclìto il lògos: a. coincide con forme particolari e individuali di sapienza. b. coincide con l’anima individuale dell’uomo. c. è unicamente lo strumento discorsivo con cui gli uomini descrivono il reale. d. è la forma unica e unitaria di sapienza del reale.

2. Per Eraclìto le vera legge del reale coincide con: a. l’unità degli opposti, in perenne conflitto tra loro. b. il perenne conflitto degli opposti che culmina in una stasi finale. c. la continua espiazione della colpa per ripristinare la giustizia, ovvero l’unità. d. l’armonia guadagnata dagli opposti col ritorno al principio originario.

5 L’armonia dei numeri: Pitagora e la tradizione pitagorica Con Pitàgora ci spostiamo nell’altro dei due ambiti geografici in cui è nata la filosofia, quello della Magna Grecia, ovvero delle regioni meridionali italiane colonizzate (soprattutto per quel che riguarda la fascia costiera) dai

Greci. In realtà, Pitàgora nacque intorno al 570 a.C. a Samo, un’isola del Mar Egeo nei pressi delle coste dell’Asia Minore (l’attuale Turchia) e dunque non lontano dai primi centri in cui abbiamo visto cominciare a svilupparsi un’attività filosofica (Milèto ed Èfeso). A causa della pressione dei Persiani e forse anche delle condizioni imposte dal tiranno locale si trasferì, intorno al 530 a.C., in Calabria, e precisamente a Crotòne, dove diede vita a una comunità politico-religiosa di impostazione aristocratica. Fu tuttavia costretto ad abbandonare anche Crotòne in seguito a una rivolta antiaristocratica (ma è possibile che l’ostilità sia stata fomentata anche da un’altra fazione aristocratica che non si ritrovava nella comunità pitagorica). Si stabilì quindi prima a Locri (sempre in Calabria) e poi a Metapònto, sulla costa ionica dell’attuale Basilicata, dove morì intorno al 490 a.C. Qualche decennio più tardi i pitagorici furono cacciati anche da Metapònto: alcuni si recarono in Grecia, tra cui Filolào di Crotòne, vissuto tra il 470 e il 390 a.C. e autore di uno scritto in cui venivano esposte per la prima volta le dottrine fondamentali della scuola, dal momento che Pitàgora stesso non scrisse nulla; altri si stabilirono in diverse località della Magna Grecia, dove il pitagorismo rimase comunque una tradizione ben radicata (prova ne è, per esempio, ancora nel IV secolo a.C., il tiranno di Taranto Archìta, che ritroveremo nelle vicende biografiche di Platone).

5.1 Il pitagorismo come stile di vita Proprio perché Pitàgora non scrisse nulla, è difficile stabilire quale fosse il nucleo del suo insegnamento, anche perché molte delle dottrine che gli sono state attribuite sono in realtà elaborazioni successive, che risalgono almeno alla prima sistemazione proposta da Filolào. Pitàgora incarna piuttosto il prototipo del “filosofo antico” nel senso di colui che propone uno stile di vita, un bìos, ai suoi discepoli, più che un insieme definito di dottrine e contenuti [ 1.1]. Lo stile di vita proposto da Pitàgora doveva fondarsi, oltre che sull’esame di coscienza (esercizio spirituale per eccellenza di tutta la filosofia antica), su una serie di pratiche di purificazione, di prescrizioni e divieti alimentari. Ma

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anche a questo proposito le fonti sono tutt’altro che concordi. Aristotele menziona per esempio il divieto di mangiare alcuni pesci (come il cefalo e la “coda-nera”) e determinati organi di tutti gli animali (come il cuore), assieme alla singolare prescrizione di astenersi assolutamente dalle fave (curiosamente, un discepolo di Aristotele, Aristòsseno di Taranto, afferma invece che Pitàgora era solito consumare fave in gran quantità). Giàmblico, autore di una fortunata Vita di Pitagora (composta tuttavia più di sette secoli dopo la morte del protagonista), riferisce molti altri precetti: per esempio, quelli di fare figli, di calzare sempre prima il piede destro, di non sacrificare galli bianchi, di non recarsi ai bagni pubblici. Nel tempo, si è tentato di dare un’interpretazione più profonda, in chiave allegorica o metaforica, di tali divieti o precetti, ma è molto probabile che almeno alcune di queste consuetudini fossero praticate alla lettera: in effetti, la “scuola” pitagorica fu originariamente più una setta politicoreligiosa (perciò dotata, come tutte le sette o le consorterie, di un suo proprio rituale) che una vera e propria scuola filosofica nell’accezione successiva del termine. Così, per quanto la figura di Pitàgora abbia assunto spesso connotati leggendari e quasi divini, è significativo che né Platone né Aristotele facciano realmente riferimento a qualche sua dottrina determinata. Sebbene le fonti non siano concordi, è possibile che la preferenza dei pitagorici per una dieta vegetariana possa essere ricondotta a uno degli elementi di fondo delle convinzioni religiose della scuola, e cioè la dottrina della metempsicòsi o trasmigrazione delle anime: dopo la morte, l’anima umana sarebbe destinata a reincarnarsi in corpi diversi, e perfino in corpi di altri animali (il che avrebbe appunto potuto suggerire la convinzione che fosse preferibile astenersi dal sacrificare gli animali e dal cibarsi delle loro carni). 1. I precetti di natura alimentare praticati nella scuola pitagorica possono presumibilmente essere spiegati in base: a. al fatto che il pitagorismo fu una setta politico-religiosa. V b. alla centrale dottrina della metempsicòsi sostenuta da Pitàgora. V c. alle conoscenze medico-scientifiche del tempo. V d. alle tradizioni alimentari caratteristiche della Magna Grecia. V

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5.2 I numeri come princìpi del reale È anche possibile che il modello di esistenza venisse insegnato e praticato secondo gradi diversi: ad un primo livello dovevano collocarsi i cosiddetti acusmàtici, gli ‘ascoltatori’, ovvero coloro ai quali era concesso di ascoltare gli insegnamenti del maestro e praticare le sue regole di vita; ad un livello superiore si collocavano i matematici, cioè coloro che venivano ammessi alla conoscenza di dottrine più profonde e nascoste come quelle di carattere appunto matematico. Anche qui è difficile stabilire se Pitàgora abbia effettivamente insegnato alcune delle dottrine matematiche che gli sono state poi attribuite, come quella dei numeri irrazionali e delle grandezze incommensurabili (come la diagonale rispetto al lato del quadrato): è più probabile che si tratti di scoperte successive, considerate però come patrimonio esclusivo e riservato della scuola. Il vincolo del silenzio tra i membri, anche a proposito di tali verità matematiche, era comunque molto forte: sempre Giàmblico racconta che il pitagorico Ippàso fu bandito dalla comunità e “metaforicamente” ucciso (ovvero gli fu costruito un sepolcro mentre era ancora in vita) per aver divulgato il procedimento di costruzione del dodecaèdro, una figura solida di 12 facce (un’altra versione ipotizza, in modo assai meno evocativo, che per questo il povero Ippàso sia stato ucciso anche di fatto, e non solo metaforicamente). È in ogni caso molto poco verosimile che qualcuno, anche nella generazione successiva a Pitàgora, potesse essere realmente a conoscenza del procedimento di costruzione di un dodecaèdro. D’altra parte, anche il teorema che porta il suo nome ben difficilmente poté essere realmente dimostrato da Pitàgora: forse Pitàgora ne conosceva l’uso (come per altro già i Babilonesi), ma quasi certamente non disponeva degli strumenti logici necessari per la sua vera e propria dimostrazione (è stato forse Proclo, nel V secolo d.C., a dar vita all’equivoco). È comunque fuor di dubbio che, al di là delle scoperte e delle competenze di Pitàgora stesso, la matematica fosse fondamentale all’interno della sua scuola. Aristotele attribuisce ai “pitagorici” la dottrina secondo cui i numeri costituiscono i prin-

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cìpi e l’essenza di tutte le cose. La radice remota di questa convinzione sta forse nella scoperta che determinati accordi musicali (come le consonanze di quarta, quinta e ottava) corrispondono ai rapporti di 4/3, 3/2 e 2/1: diveniva così plausibile pensare che tra tutte le cose si dessero proporzioni matematiche (designate in greco anch’esse come lògoi, plurale di lògos) analoghe a quelle degli accordi consonanti musicali, ovvero che tutta la realtà fosse scritta in un linguaggio matematico e risultasse decifrabile attraverso rapporti numerici. Erano soprattutto i quattro numeri compresi nei rapporti appena citati (1, 2, 3, 4) a essere venerati dai pitagorici come fondamentali, ovvero a essere considerati, potremmo dire, come l’alfabeto basilare della realtà: la sequenza 1-2-3-4 esprime in effetti, dal punto di vista geometrico, il passaggio dal punto (1) alla linea (2), alla superficie (3), ai solidi (4), mentre dal punto di vista aritmetico dà origine alla decade, il numero “perfetto” (il numero 10 risulta in effetti dalla somma di 1, 2, 3 e 4). La tetrade/decade rappresentava così una sorta di compendio dell’Universo, «la fonte e la radice dell’eterno corso della natura» [DK 58, B 15]. Dieci erano per altro, per i pitagorici (o almeno per Filolào), anche i corpi celesti, e cioè, a partire dal Fuoco centrale verso la periferia dell’Universo: l’Antiterra (non osservabile, così come il Fuoco centrale, dalla Terra), la Terra stessa, la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e il Cielo delle stelle fisse. Il movimento dei cieli, nella sua regolarità matematica, produceva secondo i pitagorici una musica o un’armonia celeste, fondata appunto sui rapporti aritmetici di consonanza, ma non percepibile dagli uomini. Un ultimo elemento che merita di essere ricordato è la dottrina del limite e dell’illimitato: se tutta la realtà dipende dai numeri, i numeri dipendono a loro volta da due princìpi fondamentali, e cioè appunto il limite (o l’uno, fondamento di ogni numero successivo) e l’illimitato (l’àpeiron, qui fatto coincidere con il molteplice). Ogni numero è infatti una molteplicità limitata, ovvero una molteplicità sottoposta e vincolata a un limite: e questa coppia di princìpi permetteva a Filolào di spiegare anche la genesi e la stessa composizione fisica dell’Universo.

1. I pitagorici identificano nei numeri il principio del reale perché:

a. ritengono che tale principio debba essere un’entità astratta, diversa dagli elementi naturali concreti, come l’aria o l’acqua. b. riprendono la teoria orfica secondo la quale la scienza del numero conduce alla purificazione dell’anima. c. estendono all’intera realtà i risultati degli studi sulla musica e gli esiti delle osservazioni sulle regolarità dei fenomeni naturali. d. scoprono le grandezze incommensurabili, confermando la visione dell’Universo come cosmo.

6 La critica alle interpretazioni mitiche: Senofane L’interazione tra Asia Minore e Magna Grecia è ben attestata, oltre che dalle vicende dei pitagorici, anche da quelle di Senòfane. Nato a Colofòne, appunto in Asia Minore, nella prima metà del VI secolo a.C., Senòfane se ne allontanò dopo la conquista persiana intorno al 540 a.C. Si mosse quindi tra diverse città della Magna Grecia (tra cui Elèa, dove nacque Parmènide), prima di morire intorno al 480. Diògene Laèrzio colloca Senòfane tra coloro che fecero filosofia in versi, accostandolo a Esìodo, e sembra che in effetti Senòfane abbia vagato tra le città dell’Italia meridionale esercitando anche il mestiere di rapsòdo, ovvero di cantore di poemi epici. I frammenti che ci sono pervenuti (da due scritti intitolati Sulla natura e Dileggi) mostrano tuttavia una marcata polemica contro i grandi poeti, come Omero e appunto Esìodo, a proposito della rappresentazione antropomorfica degli dèi, ovvero dell’usanza di rappresentare il divino in base alla natura e alle azioni umane:



Omero e Esìodo hanno attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente. [DK 21, B 11]



La stessa critica riguarda l’abitudine di immaginare gli dèi come dotati di sembianze o fattezze umane. In base ad essa, è inevitabile che i diversi popoli si immaginino gli dèi in base alle proprie caratteristiche etniche: «Gli Etiopi camusi e neri, i Traci che sono

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cerulei di occhi e rossi di capelli» [DK 21, B 16]; ma allora, come osserva Senòfane ironicamente, anche le diverse specie animali, se potessero disegnare, si rappresenterebbero dèi simili a loro:



Ma se i buoi e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò appunto che gli uomini fanno, i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come di loro è foggiato. [DK 21, B 15]



Quello di Senòfane può così essere considerato come il primo tentativo filosofico di procedere direttamente a un’interpretazione razionale del divino, in modo non solo da eliminare le interpretazioni mitiche, ma di tenere anche conto dei limiti del sapere umano:



Il certo nessuno mai lo ha colto né alcuno ci sarà che lo colga relativamente agli dèi e relativamente a tutte le cose di cui parlo. Infatti, se anche uno si trovasse per caso a dire, come meglio non si può, una cosa reale, tuttavia non la conoscerebbe per averla sperimentata direttamente. Perché a tutti è dato solo l’opinare. [DK 21, B 34]



In assenza di una rivelazione, è insomma per Senòfane normale che gli uomini possano avere solo opinioni, più o meno fondate, sugli dèi. Compatibilmente con questo limite, Senòfane non rinuncia a proporre una propria concezione filosofica del divino, libera da qualsiasi presupposto antropomorfico. In un testo attribuito ad Aristotele (Su Melìsso, Senòfane e Gorgia) si afferma per esempio che, secondo Senòfane, dio dovrebbe essere considerato ingenerato e privo di corruzione: se così non fosse, in un caso come nell’altro si verrebbe infatti a ipotizzare un passaggio dal nulla all’essere, e viceversa. Di conseguenza, dio dovrebbe essere ritenuto sempre uguale, eterno, immobile, privo di parti, perfettamente uniforme e unico: una specie di sfera compatta, sottratta ad ogni forma di dispersione e mutabilità, che richiama in qualche modo la concezione parmenidea dell’essere di cui ci occuperemo subito. Per questo, Senòfane appare per certi versi vicino ad alcuni temi del pensiero parmenideo, se non come il vero e proprio iniziatore della cosiddetta tradizione “eleatica”.

7 L’essere come unità: Parmenide Parmènide nacque a Elèa (nel Cilento, in Campania) nella seconda metà del VI secolo a.C. (probabilmente intorno al 540 a.C.). Compose un poema in esametri omerici, poi intitolato Sulla natura, di cui ci sono pervenuti una ventina di frammenti (per un totale di circa 160 versi) di assai difficile interpretazione. Nel proemio del poema, Parmènide racconta di essere stato condotto su un carro trainato da dodici cavalle e guidato da alcune fanciulle (indicate come «figlie del Sole») a una porta che divide i sentieri della notte e del giorno. La dea Giustizia gli avrebbe aperto la porta consentendogli di intraprendere il sentiero del giorno; quindi una dea non specificata (ma presumibilmente la stessa Giustizia) lo avrebbe accolto benevolmente, dicendogli:



Bisogna che tu impari a conoscere ogni [cosa, sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede [legittima credibilità. Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le [apparenze bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i [sensi tutto indaghi. [DK 28, B 1, vv. 28-32]



In questo modo la dea espone di fatto il programma del poema. Tenendo conto del fatto che non possiamo più leggerlo nella sua totalità, potremmo immaginarlo come suddiviso in tre parti: 1. l’esposizione della verità; 2. l’esposizione delle opinioni dei mortali; 3. un tentativo di spiegazione delle apparenze (cioè di ciò che credono appunto i mortali). La prima parte è quella più estesa e più nota. La dea continua a rivolgersi a Parmènide in questo modo:



Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le [mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili: l’una che è e che non è possibile che [non sia,

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è il sentiero della Persuasione (giacché questa [tien dietro alla Verità) l’altra che non è e che non è possibile [che non sia, questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto [inindagabile: perché il non essere né lo puoi pensare (non è [infatti possibile), né lo puoi esprimere. [DK 28, B 2]



Il passo è problematico ed è ancora oggi oggetto di innumerevoli interpretazioni differenti. Le due vie potrebbero coincidere con i sentieri, prima menzionati, del giorno e della notte, che vengono ora presentati nell’alternativa tra il pensare «che è» e il pensare «che non è». Purtroppo, il soggetto di questi due enunciati non è espresso – non è cioè indicato quel che è, e che non è possibile che non sia, e quel che non è, ed è necessario che non sia: potrebbe trattarsi del mondo, della natura, dell’essere stesso. N on è neppure chiaro in che modo Parmènide intenda qui il verbo “essere”, se cioè in senso esistenziale (quando il verbo “essere” indica il fatto di esistere: x è, ovvero x esiste), o in senso predicativo (quando il verbo “essere” connette un soggetto e un predicato: x è y), o, come è più probabile, sovrapponendo questi due sensi. Quest’ultima lettura sembra essere confermata dal fatto che in un verso successivo Parmènide afferma che «è la stessa cosa pensare ed essere» [ T1], una tesi che può essere intesa nel senso che pensare secondo verità significa in generale pensare l’essere, mentre il non-essere non può essere pensato. Per Parmènide, in altri termini, qualsiasi enunciato vero comprende comunque il verbo “essere”, sia che questo abbia un valore esistenziale assoluto, sia che abbia una funzione predicativa (in effetti, soprattutto in greco, qualsiasi altro verbo potrebbe essere espresso attraverso il verbo essere: “io parlo” potrebbe per esempio essere reso con “io sono parlante”). Al contrario, ciò che non può in alcun modo venire espresso attraverso il verbo “essere”, non solo non è, ma non è neppure pensabile (perché non potrebbe ricevere alcun predicato). Come ancora afferma la dea: «è necessario dire questo e pensare questo: che l’essere è; poiché è possibile [solo] che [l’essere] sia, mentre non è possibile [che sia] il niente.» [DK 28, B 6; trad. di E. Berti].

Da questa opposizione Parmènide deriva le caratteristiche fondamentali dell’essere; se infatti, secondo l’ammonimento della dea, occorre evitare qualsiasi commistione tra essere e non-essere, bisogna riconoscere che l’essere è: a. ingenerato e incorruttibile, perché altrimenti ci sarebbe un momento in cui l’essere non sarebbe stato o in cui potrebbe non essere; b. tutto intero e omogeneo, perché altrimenti per una parte sarebbe in un certo modo, e per un’altra no, e dunque di nuovo l’essere si mischierebbe al non-essere; c. immobile, perché muovendosi non sarebbe più in un luogo; d. eterno, perché altrimenti non sarebbe in un dato tempo (Parmènide per altro sembra intendere per la prima volta l’eternità come assenza di tempo, pura atemporalità, più che come durata infinita, onnitemporalità); e. uno, continuo e indivisibile, perché, se fosse divisibile, una parte non sarebbe l’altra; f. finito, perché se fosse in-finito sarebbe ancora manchevole, cioè qualcosa potrebbe sempre aggiungersi, e dunque ancora non sarebbe. Se l’essere possiede in verità tutte queste caratteristiche, si capisce che tutte le espressioni che indicano invece mutabilità, alterazione, divisione, movimento sono solo “nomi” adoperati dai mortali, che non corrispondono alla verità. Tutto il movimento e tutto il molteplice (ovvero, tutti i cambiamenti, tutto il divenire) sono così relegati nell’ambito delle apparenze che gli uomini, che seguono per la maggior parte la via dell’errore, prendono per vere. L’errore degli uomini (dei “mortali”) è insomma quello di operare, senza accorgersene, un’indebita commistione tra essere e non-essere. In realtà – come anticipato – nella parte finale di ciò che ci è giunto del poema Parmènide propone anche una possibile spiegazione, in base al programma prima enunciato, dell’origine di tali apparenze, abbozzando una cosmologia (ovvero un’interpretazione complessiva dell’Universo o cosmo) basata sulla mescolanza di due princìpi contrapposti (la luce e la notte oscura). Proprio perché tale spiegazione ammette una mescolanza, essa non corrisponde alla verità, ma è comunque quella più plausibile per giustificare le apparenze, cioè la molteplicità e la mutabilità di cui sembriamo far

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esperienza. In questo modo, Parmènide non può fare a meno di porre due distinti livelli: quello della vera realtà, in cui non c’è alcuna mescolanza di essere e non-essere, e quello dell’apparenza, che si spiega invece proprio ricorrendo all’ipotesi della mescolanza di princìpi opposti. N asce qui una prima lacerante divaricazione tra il mondo dell’esperienza e quella che viene presentata come l’autentica descrizione filosofica (“scientifica”) di una realtà vera, ma inapparente. Buona parte della tradizione filosofica successiva, almeno fino ad Aristotele, cercherà di sanare questa cesura, aggirando o attenuando, con soluzioni diverse, il divieto parmenideo di operare qualsiasi commistione o qualsiasi passaggio tra l’essere e il non-essere. Proprio gli attacchi mossi a Parmènide per questa sua presa di distanza dall’esperienza comune hanno determinato l’intervento, in difesa del maestro, di alcuni dei suoi seguaci, tra i quali spicca, per la radicalità degli argomenti, Zenòne di Elèa. 1. Nella riflessione filosofica di Parmènide vengono affrontati i seguenti problemi: a. il problema dell’essere delle cose. b. il problema di dimostrare la staticità infinita dell’essere. c. il problema dell’adeguatezza del linguaggio ad esprimere l’essere. d. il problema del rapporto tra il pensiero e l’essere.

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2. Parmènide delinea una terza via possibile. In che cosa consiste? a. Nell’esplicito divieto di passare dall’essere al non-essere e viceversa. b. Nell’identificazione di essere, pensiero e linguaggio. c. In una cosmologia fondata sulla mescolanza dei princìpi opposti. d. Nella distinzione tra realtà vera e realtà apparente.

8 La dialettica dei paradossi: Zenone Nato anch’egli a Elèa intorno al 490 a.C., Zenòne deve la sua fortuna proprio agli argomenti elaborati in difesa delle tesi parmenidee. Per Aristotele, Zenòne doveva essere considerato il vero e proprio inventore della dialettica (nel senso che chiariremo subito). Ma già il dialogo di Platone intitolato Parmenide, in cui viene inscenata una

conversazione tra un anziano Parmènide, un giovane Socrate e Zenòne stesso (conversazione di fatto impossibile, per ragioni cronologiche), è ricco in proposito di spunti interessanti. Socrate cerca infatti di comprendere il senso degli argomenti di Zenòne che mirano a offrire una “prova” del fatto che gli enti non sono molteplici: tale prova è ottenuta mostrando che la tesi opposta (ovvero, che gli enti siano davvero molteplici) conduce a conseguenze impossibili o contraddittorie. Zenòne così chiarisce a Socrate che egli non ha voluto dire cose nuove rispetto a Parmènide, ma solo offrirgli un aiuto, opponendosi agli avversari di Parmènide stesso:



I miei argomenti, opponendosi a coloro che sostengono il molteplice, rendono loro la pariglia con gli interessi, dimostrando che, se si accetta la loro ipotesi che esiste la molteplicità, ne conseguono effetti ancora più ridicoli che dalla tesi dell’esistenza dell’unità, qualora si sia capaci di sviluppare adeguatamente il ragionamento. [Parmenide, 128 D]



La dialettica di Zenòne consiste dunque nel dimostrare una certa tesi mostrando l’impossibilità della tesi opposta. Incontriamo qui un altro elemento caratteristico della filosofia greca, quello di saper rendere ragione delle proprie tesi – uno scopo che qui è ottenuto in modo negativo e indiretto, portando all’assurdo la tesi opposta, e tuttavia non per il puro gusto della discussione, ma per stabilire la verità delle cose. Gli argomenti di Zenòne in difesa del cosiddetto monismo parmenideo, cioè della tesi secondo cui l’essere è uno (mònos significa ‘unico’, ‘solo’) e immutabile, mentre il molteplice e il divenire sono illusori, sono in effetti veri e propri paradossi (ragionamenti cioè che sovvertono l’opinione comune) fondati sulla dimostrazione per assurdo e, in buona parte, sul regresso all’infinito (cioè su quel meccanismo logico che rimanda sempre a qualcosa di ulteriore, senza che si possa pervenire a un termine primo). L’argomento forse più celebre è quello solitamente indicato come “Achille e la tartaruga”. Esso sostiene in definitiva che chi è più lento non sarà mai raggiunto da chi è più veloce (tradizionalmente, l’argomento viene esemplificato dicendo che Achille, noto per la sua grande velocità, non potrà mai raggiungere la tartaruga): infatti, chi insegue deve prima raggiungere il punto in

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cui era in precedenza colui che fugge, ma nel frattempo questi avrà percorso un tratto ulteriore, e così all’infinito. L’argomentazione poggia sul postulato dell’infinita divisibilità del continuo, un presupposto di fondo dell’intera geometria greca, che come tale sarà ripreso per altro anche dallo stesso Aristotele: data una qualsiasi linea, essa potrà essere sempre divisa all’infinito, senza mai pervenire a un elemento minimo o ultimo. Ma mentre l’uso aristotelico del postulato riguarda solo le realtà geometriche (divisibile all’infinito è soltanto appunto la linea matematica, non un qualsiasi ente reale), Zenòne ne fa invece un uso applicato al reale: è insomma lo spazio fisico ad essere assunto come divisibile all’infinito. Una dinamica analoga si ritrova anche in un altro argomento, detto della “dicotomìa”, che è riferito in questi termini da Simplìcio:



ciò che si muove deve percorrere una certa distanza: ma essendo ogni distanza divisibile all’infinito, ciò che si muove deve prima attraversare la metà della distanza che percorre e poi il tutto. Ma prima di aver percorso tutta la metà della distanza, deve attraversare la metà di quella e di nuovo la metà di quest’ultima: ma se le metà sono infinite per il fatto che di ogni tratto preso è possibile prendere la metà, è impossibile percorrere in un tempo finito infiniti tratti. [Simplìcio, Commento alla Fisica, 1013, 4 ss.; trad. di G. Arrighetti]



L’intento è in questo caso quello di negare il movimento, più che la molteplicità, ma il senso è simile a quello dell’argomento precedente: ogni grandezza fisica ammette divisioni infinite, ma è impossibile percorrere l’infinito in un tempo finito, dunque il movimento è impossibile. Altro celebre argomento è quello della “freccia”: nessuno potrebbe in apparenza dubitare

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che una freccia scoccata compia un movimento. Ma Zenòne osserva che una cosa non può dirsi in movimento se occupa uno spazio uguale a sé. Ora, in ciascuno degli istanti in cui la freccia è in volo, essa occupa uno spazio uguale a sé: dunque è ferma, ed è impossibile che una serie di istanti in cui la freccia è ferma possa produrre un movimento. Questo paradosso sfrutta un postulato opposto a quello della divisibilità del continuo – presuppone cioè che il tempo di un movimento sia composto realmente di istanti. E tuttavia, come il punto non è una realtà fisica, ma solo il limite della linea, così anche l’istante (nel modo in cui lo intende per esempio Aristotele) non è qualcosa di reale, che possa essere considerato separatamente, come esistente in sé, ma solo il limite (inesteso) di un qualsiasi lasso di tempo considerato. Emerge qui con ancor più chiarezza la rottura che già citavamo a proposito di Parmènide: l’esperienza quotidiana, per Zenòne, ci attesta qualcosa di contraddittorio o impossibile. Questa convinzione è ben espressa in un altro frammento, che potremmo sintetizzare così: ciò che si muove, non si muove né nel luogo in cui è, né nel luogo in cui non è. Non si muove nel luogo in cui è perché (come nel caso della freccia), nel luogo in cui ogni cosa è, è ferma; non si muove nel luogo in cui non è perché appunto non è in quel luogo, e nulla può muoversi dove non è. Zenòne argomenta in modo analogo contro l’esistenza dello spazio:



Se esiste lo spazio, deve trovarsi in qualche cosa; ora, ciò che è in qualche cosa è in uno spazio; per conseguenza lo spazio dovrà trovarsi in uno spazio, e così all’infinito. Dunque non esiste lo spazio. [Simplìcio, Commento alla Fisica, 562, 1 ss.; trad. di G. Reale]



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1. Secondo Aristotele, Zenòne è l’inventore della dialettica. Questa consiste, nel caso di Zenòne, in un metodo consistente nel: a. dimostrare la verità della tesi opposta a quella che si vuole sostenere. b. dimostrare una tesi riducendo all’assurdo la tesi opposta. c. dimostrare che la tesi opposta a quella che si vuole affermare conduce a conseguenze possibili. d. dimostrare che la tesi opposta a quella che si vuole affermare conduce a conseguenze non-contraddittorie.

2. L’argomento di “Achille e la tartaruga” poggia: a. sul postulato della divisibilità infinita dello spazio reale. b. sul postulato della divisibilità infinita del solo spazio geometrico. c. sul postulato della divisibilità finita del continuo. d. sull’utilizzo dell’argomento del regresso all’infinito.

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9 Essere e natura: Melisso Accanto a Zenòne, tra i difensori o sostenitori di Parmènide figura Melìsso di Samo, nato intorno al 485 a.C. e autore di uno scritto Sulla natura o Sull’essere. Melìsso sembra compiere il passo ancora assente in Parmènide (o almeno, in ciò che conosciamo del suo poema), e cioè quello dell’identificazione dell’essere con la natura in quanto tale. Quest’ultima riceve così tutti i tratti che Parmènide aveva attribuito all’essere, con una sola fondamentale differenza: mentre l’essere di Parmènide è sì eterno (nel senso dell’atemporalità), ma limitato e finito, esso è per Melìsso infinito nel tempo e nello spazio. L’essere è infatti uno, per Melìsso, in quanto costituisce una totalità illimitata, e ciò che è illimitato e infinito (àpeiron) non ammette nulla al di fuori di

sé, perché altrimenti ne verrebbe limitato. Questa totalità illimitata sempre è, sempre era e sempre sarà, perché niente può generarsi dal nulla, e niente può passare dall’essere al nulla: l’eternità parmenidea come assenza di parti, e dunque di tempo, diventa così permanenza in un tempo infinito e in uno spazio infinito. 1. Melìsso attribuisce all’essere il carattere dell’infinità perché: a. l’essere coincide con la natura. b. il carattere finito dell’essere implica il fatto che esso non sia unico, ma l’essere non è molteplice. c. niente si genera dal nulla e niente passa dall’essere al nulla. d. ciò che è finito è limitato da altro, ma non vi è nulla oltre l’essere.

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Altri argomenti ancora, basati per esempio sulla possibile infinità nell’ambito delle cosiddette quantità discrete (le grandezze matematiche), mirano allo stesso risultato, quello di mostrare l’impossibilità del molteplice e del mutamento: la loro natura paradossale, quindi, non dipende soltanto dall’adozione della tecnica confutatoria, ma dalla convinzione che la realtà, nel modo in cui appare, sia ingannevole e contraddittoria, e debba perciò rimandare, sotto il velo dei fenomeni, ad un livello unico, immobile ed eterno.

10 La molteplicità e il divenire: i “pluralisti” Tutti i pensatori “pluralisti”, coloro che ammettono cioè una pluralità di princìpi primi, cercano di non violare l’assunto parmenideo, per cui è impossibile qualunque passaggio dal nonessere all’essere (ovvero la tesi per cui nulla si genera o si corrompe in senso assoluto); essi tuttavia, a differenza di Parmènide, intendono “salvare i fenomeni”, cioè giustificare le apparenze, senza relegarle nell’ambito della pura illusione. In altri termini, per i pluralisti i princìpi primi non si generano e non si corrompono, come richiesto da Parmènide, ma la molteplicità e il divenire del reale non sono fittizi e ingannevoli: sono invece l’effetto, il risultato reale della composizione di questi elementi primi. I pluralisti prendono tuttavia strade distinte: alcuni, come (in modi differenti) Empèdocle e Anassàgora, preferiscono ipotizzare elementi primi qualitativamente diversi; altri, come gli “atomisti”, scelgono di far ricorso a elementi ritenuti differenti soltanto dal punto di vista geometrico-quantitativo (gli atomi, appunto). 1. I fisici “pluralisti”: a. a differenza di Parmènide ammettono una pluralità di princìpi nella spiegazione della realtà. b. a differenza di Parmènide vogliono difendere la non-illusorietà del divenire e della molteplicità. c. conciliano la concezione parmenidea dell’essere e quella eraclitea. d. a differenza di Parmènide ammettono il passaggio dal nulla all’essere.

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10.1 La teoria degli elementi: Empedocle N ato ad Agrigento intorno al 490 a.C., Empèdocle fu un aristocratico che, a quanto sembra, parteggiò sempre per i democratici; morì forse per questo in esilio nel 425: una leggenda vuole che si sia gettato nel cratere dell’Etna per accreditare la sua fama quasi divina, e in effetti la sua figura, come quella di Pitàgora, si è presto circondata di tratti leggendari. Compose due opere in versi intitolate Sulla natura e Purificazioni, di cui ci sono pervenuti alcuni frammenti. Empèdocle è un pluralista, ammette cioè – a differenza di Parmènide – sia il movimento che la molteplicità. Tutti i fenomeni fisici dipendono da quattro radici fondamentali – acqua, aria, terra e fuoco – in seguito chiamati elementi (stoichèia): la teoria degli elementi, ripresa da Aristotele, avrà una lunghissima fortuna, fino in pratica alla scienza moderna. Si tratta in effetti della prima, semplice e plausibile classificazione del reale: tutto ciò che percepiamo potrebbe infatti essere riportato a elementi solidi (terra), liquidi (acqua), gassosi (aria), e a luce e calore (fuoco). Gli oggetti che cadono sotto i nostri sensi sono mescolanze dei quattro elementi in proporzioni diverse. La mescolanza è determinata dal movimento, che a sua volta è prodotto da due princìpi: amore e contesa, o amicizia e inimicizia (discordia). Essi agiscono tanto sull’Universo nel suo complesso quanto sulle singole cose. N el tempo talvolta prevale uno, talvolta l’altro, ovvero s’impone la forza disgregatrice. Come noterà poi Aristotele, ciò significa che la contesa non è solo principio di corruzione, ma anche di generazione, perché altrimenti tutto rimarrebbe fermo e immobile: se prevalesse sempre e solo l’amore, avremmo in effetti qualcosa di simile alla sfera di Senòfane o all’essere parmenideo; invece, per Empèdocle, nessuno stato prevale in modo definitivo. Anche gli uomini sono prodotti da questa mescolanza, ovvero dalle stesse radici e dagli stessi princìpi da cui sono formate tutte le altre cose. Per questo Empèdocle può affermare che conoscere è in realtà riconoscere il simile con il simile:



Con la terra infatti vediamo la terra, l’acqua [con l’acqua,

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con l’aria l’aria divina, e poi col fuoco il fuoco [distruttore, con l’amore l’amore, e la contesa con la contesa [funesta. [DK 31, B 109]



Empèdocle sembra suggerire anche una spiegazione quasi fisiologica di questa teoria, ipotizzando che dalle cose emanino degli effluvi (che rappresentano la loro mescolanza), e che tali effluvi penetrino in noi attraverso i pori, dando avvio al processo conoscitivo propriamente inteso. D’altra parte, l’ipotesi dell’omogeneità ontologica tra gli uomini e tutte le altre cose presuppone inversamente che anche queste ultime, in qualche misura, siano dotate di pensiero e conoscenza. Come Pitàgora, Empèdocle ammette la trasmigrazione delle anime, o meglio la trasmigrazione del dàimon, ovvero del dèmone che è in ciascuno di noi (l’anima è in effetti solo il soffio che assicura le funzioni vitali, mentre il dàimon è il nostro carattere, la nostra personalità:  3.7). Ma Empèdocle sembra prestarsi anche a un’interpretazione più strettamente materialistica: le stesse proporzioni di cui è fatto ora un vivente, potrebbero riproporsi in un altro, e in questo caso si potrebbe dire che la vita del primo è passata (o si è riprodotta) nell’altro. Un corollario importante della dottrina della metempsicòsi è la scelta di essere vegetariani: in caso contrario, in effetti, si rischierebbe di praticare il cannibalismo, perché in ogni vivente animato potrebbe essere presente un’anima umana. 1. La tesi di Empèdocle secondo cui conoscere è riconoscere «il simile con il simile» si giustifica: a. per il fatto che le cose emanano effluvi. b. in base al fatto che gli uomini sono costituiti da radici diverse da quelle che costituiscono le altre cose. c. in base alla dottrina della trasmigrazione delle anime. d. in base alla omogeneità ontologica fra gli uomini e le cose.

10.2 L’intelletto e i “semi” del reale: Anassagora Anassàgora nacque a Clazòmene (in Asia Minore) tra il 500 e il 496 a.C.; intorno al 462 abbandonò la città natale per stabilirsi ad Atene. Qui strinse amicizia con Pèricle e la sua cerchia, e anche con Eurìpide. Intorno al 438-

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437 a.C. fu accusato di empietà, e sottoposto a processo per aver sostenuto che il Sole è una pietra incandescente e la Luna un corpo terroso (svilendo così la natura divina dell’uno e dell’altra). È questo forse il primo vero conflitto tra filosofia e credenze mitico-religiose: indubbiamente giocarono qui un ruolo molti aspetti squisitamente politici, ma si tratta comunque di un contrasto in sé significativo, così come altrettanto significativo è il fatto che Atene fosse ancora in questi anni meno sviluppata e meno aperta delle colonie dell’Asia Minore. Anassàgora lasciò comunque Atene per recarsi a Làmpsaco, dove morì intorno al 428 a.C. Compose un libro Sulla natura, che ebbe un certo successo: Platone ricorda che ai suoi tempi si poteva comprare ancora, ad Atene, a buon prezzo. A differenza di Empèdocle, Anassàgora non ammette solo quattro radici, ma tanti “semi” quante sono le qualità che possiamo percepire (ovvero, un numero infinito di semi). Aristotele ha poi chiamato tali semi omeomerìe, cioè ‘parti uguali’. L’idea di Anassàgora è che tutte le qualità siano ugualmente originarie e tutte si scompongano in parti uguali e omogenee (omeòmere, appunto). La differenza rispetto all’impostazione empedoclea si potrebbe chiarire in questo modo. Per Empèdocle, scomponendo un qualsiasi oggetto, troveremmo alla fine una mescolanza delle quattro radici; solo le radici stesse alla fine sarebbero divisibili in parti dello stesso tipo, qualitativamente uguali, cioè omeòmere. Per fare un esempio, la complessità del corpo umano sarebbe pur sempre riducibile a una determinata mescolanza di terra, aria, acqua e fuoco; e lo stesso varrebbe per tutti gli altri corpi. Solo le quattro radici sarebbero divisibili in parti della stessa natura (la terra in terra, il fuoco in fuoco, ecc.). Per Anassàgora, scomponendo un corpo si ritroverebbero non quattro radici, ma infiniti princìpi in grado di produrre ogni cosa. Le differenza tra le diverse nature sarebbe così data dal prevalere dei semi di un dato principio. Poiché comunque i semi non si troverebbero mai puri, ma sempre commisti ad altri, vale per Anassàgora il principio del tutto in tutto: nell’acqua, per esempio, non ci sono solo i semi dell’acqua (che, prevalendo, fanno dell’acqua ciò che è), ma anche quelli di tutte le altre cose.

Il motivo di fondo che potrebbe aver spinto Anassàgora a una soluzione di questo tipo è esposto in un altro frammento:



Anassàgora, trovato l’antico principio che niente nasce da niente, soppresse la nascita e introdusse la divisione al posto della nascita. Farneticava che tutte [le cose] sono mescolate tra loro e che crescendo si dividono. E infatti anche nel germe ci sono capelli e unghie e vene e arterie e nervi e ossa, ma si trovano ad essere invisibili per la piccolezza delle parti, mentre crescendo a poco a poco si dividono. «In effetti – egli dice – come potrebbe nascere capello da non-capello e carne da noncarne?» E non solo dei corpi predicava tali cose, ma anche dei colori: in realtà nel bianco c’è il nero e il bianco è nel nero: lo stesso poneva per i pesi, immaginando che il leggero è mescolato al grave e questo a quello. [DK 59, B 10]



Ciò di cui ci nutriamo diventa in noi capelli e tante altre parti che (almeno in apparenza) non sono invece presenti in quel che mangiamo. Ora, se così fosse, ci troveremmo di fronte, per Anassàgora, a una violazione palese del principio secondo cui non ci può essere passaggio dal nonessere all’essere: i capelli non erano nel cibo, ma sono ora in noi. Per evitare questo inconveniente occorre allora ipotizzare che i capelli siano contenuti, come semi, anche nel cibo, e che siano proprio tali semi a svilupparsi in noi. In questo senso, tutti i processi di trasformazione del mondo fisico si spiegano con il fatto che semi prima minoritari diventano prevalenti. Ma niente nasce o muore in generale, ovvero niente passa mai veramente dal non-essere all’essere e viceversa, così come Parmènide e Melìsso avevano insegnato. Un altro frammento sembra confermare che questa fosse appunto la preoccupazione principale di Anassàgora:



Del nascere e del perire i Greci non hanno una giusta concezione, perché nessuna cosa nasce né perisce, ma da cose esistenti [ogni cosa] si compone e si separa. E così dovrebbero propriamente chiamare il nascere comporsi, il perire separarsi. [DK 59, B 17]



La condizione originaria del cosmo è una sorta di caos primordiale, in cui tutti i semi si trovano mescolati: da qui è stato formato il nostro mondo,

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ma forse anche altri. Il processo di differenziazione e di produzione dei mondi dipende dal nùs, ovvero da un intelletto che imprime un impulso originario al movimento vorticoso che porterà alla differenziazione dei semi e alla formazione dei mondi. Il nùs è dunque la causa principale che conduce all’ordinamento del mondo. Non è facile tuttavia comprendere se il nùs stesso sia un principio separato dai semi, o sia semplicemente una cosa, ugualmente composta di semi, ma più sottile e pura: la prima ipotesi sembra più plausibile (altrimenti il nùs stesso sarebbe coinvolto nel processo), e tuttavia ciò non vuol dire che il nùs possa immediatamente essere identificato con il divino. Di fatto, il processo di ordinamento del mondo non sembra caratterizzato da alcun intento finalistico (ovvero non è diretto a realizzare dei fini prestabiliti e esterni all’ordinamento stesso) o provvidenziale (non prevede cioè l’intervento di una divinità). Comunque stiano le cose a proposito del nùs cosmico, Anassàgora sembra avere fiducia nelle capacità dell’intelletto umano: se l’uomo risulta superiore agli altri animali, pur essendo fisicamente più debole, è proprio perché può contare sull’esperienza, sulla memoria, sulla sapienza e sulla tecnica. Quest’ultimo aspetto sembra avere una particolare rilevanza: secondo Aristotele, Anassàgora avrebbe detto che l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani; per Aristotele, che ha invece una concezione finalistica o teleologica della natura, è ragionevole il contrario, e cioè che l’uomo ha le mani perché è il più sapiente. 1. Per Anassàgora il nùs: a. è un impulso originario che determina la differenziazione dei semi. b. è il principio ordinatore del mondo. c. è la condizione originaria e caotica del mondo in cui tutti i semi si trovano mescolati. d. è un principio assolutamente divino, finalistico e provvidenziale.

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10.3 Gli “atomisti”: Leucippo e Democrito Leucìppo nacque a Milèto nei primi decenni del V secolo a.C.; si recò poi, come sembra, a Elèa e ad Abdèra (in Tracia), dove fu forse maestro di Demòcrito. Sappiamo tuttavia molto poco di lui: anche gli scritti che gli sono stati attribuiti potrebbero in realtà risultare da una

confusione o sovrapposizione con quelli di Demòcrito. Aèzio gli ascrive la tesi – dal carattere fortemente razionalistico – secondo cui «nulla si produce senza motivo, ma tutto con una ragione e necessariamente» [DK 67, B 2]. Demòcrito nacque intorno al 460 a.C. proprio ad Abdèra, per passare poi forse ad Atene; la data di morte non è conosciuta. Gli vengono attribuiti una Grande cosmologia, una Piccola cosmologia e una Cosmografia, di cui possediamo solo frammenti. La tesi di fondo dell’atomismo democriteo è che le cose non siano divisibili all’infinito: alla base della realtà ci sono elementi primi non ulteriormente scomponibili – gli atomi appunto (àtomos significa ‘indivisibile’) – ingenerati e indistruttibili, inframmezzati dal vuoto. Tutte le cose si producono a partire dalla composizione e scomposizione degli atomi. Questi ultimi sono tutti uguali se non per tre sole differenze fondamentali, e cioè quelle relative alla forma, all’ordine e alla posizione. È Aristotele a offrirci un buon esempio in proposito utilizzando le lettere dell’alfabeto (le lettere in greco sono chiamate anche stoichèia, come appunto gli elementi). Gli atomi si differenziano per la loro forma, al modo in cui la A si distingue dalla N (le due lettere hanno una forma del tutto diversa); per la loro posizione, al modo in cui N e Z si distinguono tra loro (N e Z hanno in effetti sostanzialmente la stessa forma, ma in una posizione diversa: se si ruota la N di 90 gradi, si ottiene la Z); infine, gli atomi si distinguono per l’ordine relativo all’interno di un aggregato, al modo in cui la sillaba AN differisce da quella N A, pur essendo composta dagli stessi elementi. In sostanza, le differenze di fondo tra gli atomi sono tutte di ordine geometrico, sono cioè relative alla forma e alla loro posizione nello spazio vuoto. Tutto il resto ha invece una natura puramente convenzionale, dipende cioè solo dalla nostra percezione:



Opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi e il vuoto. [DK 68, B 9]



Gli atomi in quanto tali (e ancor più il vuoto) non sono percepiti dai sensi, anche se le sensazioni dipendono dagli effluvi, ovvero da piccoli agglomerati di atomi che riproducono negli

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organi di senso la configurazione degli oggetti da cui provengono. Tuttavia, il nostro intelletto può andare al di là dei sensi, e riconoscere l’esistenza degli atomi. La scelta di Demòcrito è per certi versi simile a quella di Anassàgora – quella cioè di rispettare l’ammonimento parmenideo a non mescolare l’essere e il nulla, sacrificando tuttavia l’unità dell’essere stesso: i princìpi delle cose sono in effetti ingenerabili e incorruttibili, ma sono molteplici. Rispetto ad Anassàgora, tuttavia, la soluzione atomista permette di ridurre drasticamente le differenze qualitative tra i princìpi stessi, facendo ricorso a poche differenze di carattere essenzialmente geometrico. Un’altra differenza di fondo riguarda il moto degli elementi: per Demòcrito non c’è bisogno di un principio agente o ordinatore esterno, come il nùs, perché il moto è assunto come una caratteristica intrinseca degli atomi. Gli atomi si muovono incessantemente in ogni direzione, e perciò s’incontrano o si scontrano tra loro: se le forme risultano compatibili si aggregano, altrimenti si respingono. Per questo il vuoto è un presupposto fondamentale della teoria atomista: in uno spazio pieno e continuo, gli atomi non avrebbero la possibilità di incontrarsi. È nel vuoto che si creano infiniti mondi, tra cui il nostro. Ed è sempre nel vuoto che, in base alla medesima dinamica, si forma anche la nostra anima, composta di atomi di forma sferica, particolarmente mobili. Finché si è in vita, la respirazione serve a reintegrare gli atomi che si disperdono all’esterno; la morte non è altro se non la fine di questo continuo processo di rigenerazione. A Demòcrito sono infine attribuiti molti frammenti di carattere etico, in buona parte incentrati sul concetto-chiave di euthymìa, ‘tranquillità d’animo’, ‘distacco’, ovvero, come riporta Diògene Laèrzio, quello «stato in cui l’animo è calmo ed equilibrato, non turbato da paura alcuna o da superstizioso timore degli dèi o da qualsiasi altra passione» [DK 68, A 1]. Molte massime tra quelle ascritte a Demòcrito ripropongono l’ideale del filosofo antico come colui che esercita un severo autocontrollo, pratica l’esame di sé e coltiva la virtù per sé stessa, e non per timore del giudizio altrui:



Valoroso non è soltanto colui che vince i nemici, ma anche quegli che sa dominare i propri desideri [DK 68, B 214];

Vera bontà è non il semplice fatto di non commettere azioni ingiuste, ma il non voler neppure commetterne [DK 68, B 62]; Non ci si deve vergognare più dinanzi agli uomini che dinanzi a sé stessi; e non si deve fare il male più facilmente quando nessuno verrà a saperlo che quando lo sapranno tutti; ma bisogna vergognarsi soprattutto dinanzi a sé stessi ed imprimersi nell’anima questa norma, onde non far nulla di sconveniente [DK 68, B 264]; Astieniti dalle colpe non per paura, ma perché si deve [DK 68, B 41].



Altre massime sembrano invece rispecchiare le simpatie filodemocratiche di Demòcrito e il suo cosmopolitismo (la convinzione cioè che il vero sapiente sia cittadino del mondo):



La povertà sotto un governo democratico è tanto preferibile al cosiddetto benessere che offrono i governi tirannici, quanto è da preferirsi la libertà alla servitù [DK 68, B 251]; Ogni paese della Terra è aperto all’uomo saggio: perché la patria dell’animo virtuoso è l’intero Universo [DK 68, B 247].



È possibile che Demòcrito abbia concepito la formazione delle società sulla base del proprio modello delle aggregazioni atomiche: come gli atomi compatibili si aggregano tra loro, così anche nelle società il simile si aggrega con il simile. Le società sono ovviamente un prodotto umano, ma ciò che è caratteristico dell’uomo è d’altra parte la capacità di procurarsi un sapere tecnico, artificiale, proprio a partire dall’osservazione e dall’imitazione delle abilità degli altri animali. I progressi dell’umanità sono insomma il frutto del lavoro dell’uomo, e non dipendono né da un privilegio precostituito né da un dono divino. Ancor più che in Anassàgora, non c’è in Demòcrito nessuna ipotesi di tipo provvidenziale, nessun intervento divino: gli uomini si muovono in un ambiente che non è stato predisposto apposta per loro, e che risulta anzi spesso ostile, ma che essi riescono a piegare alle proprie esigenze grazie allo sviluppo delle capacità tecniche. 1. Per Demòcrito il movimento: a. costituisce un principio ordinatore esterno alla materia. b. costituisce un principio intrinseco agli atomi. c. presuppone l’assenza del vuoto. d. è incessante ma segue sempre una medesima direzione.

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11 Dalla filosofia alla “scienza”: il sapere medico Ai suoi inizi, la filosofia non è distinta da quelle che oggi consideriamo come scienze autonome, ma le include in sé. Molti dei pensatori presi in considerazione in questo capitolo ne offrono una riprova: i loro interessi sono molteplici e si estendono all’astronomia, alla geometria, alla medicina. Solo gradualmente questi vari saperi cominciano a distaccarsi e ad autonomizzarsi, per costituire scienze o discipline a sé. Uno dei primi saperi a rendersi autonomo è proprio la medicina. Già nel V secolo a.C. si assiste in effetti alla nascita di una produzione di carattere strettamente medico, così come attesta la costituzione del cosiddetto Corpus hippocraticum, una raccolta di una settantina di scritti attribuiti a Ippòcrate di Cos, ma in realtà di provenienza diversa. Particolarmente interessanti sono a questo proposito le questioni di statuto epistemologico, quelle cioè che riguardano la costituzione di una nuova disciplina scientifica consapevole della sua autonomia. I destinatari degli scritti del Corpus sono ovviamente, in primo luogo, i medici stessi: gli scritti mettono a loro disposizione numerosi quadri terapeutici (farmacologici, chirurgici, ma anche e soprattutto dietetici), analisi di casi di singoli pazienti, descrizioni di sintomi e del decorso tipico di ogni malattia, con l’intento di ampliare e consolidare l’esperienza dei medici, nella misura in cui proprio l’esperienza è ciò su cui si basa la loro attività. Non è così un caso che il Giuramento ippocrateo (quello che prestano i medici ancora oggi, seppure con delle differenze, prima di iniziare la loro professione) imponga a ciascun medico di trasmettere gli insegnamenti orali e scritti di cui è in possesso ai propri figli, ai propri condiscepoli e ai propri discepoli. Tuttavia, gli scritti del Corpus si rivolgono anche a un pubblico colto, non interessato esclusivamente alle questioni professionali, ma più in generale alla natura dell’uomo. È a questo livello che le questioni sulla natura del sapere medico si fanno più immediatamente percepibili: gli scritti del Corpus segnano da una parte il distacco della medicina dalle pratiche magiche (come emerge, per esempio, a proposito dell’epilessia, nella Malattia sacra) e

dall’altra una certa perplessità nei confronti dell’attitudine generalizzante o universalistica propria della filosofia in senso stretto. È per esempio ovvio che se si prendono sul serio le tesi parmenidee nella versione realistica, fisica, di Melìsso, tutte le alterazioni e i mutamenti di questo mondo risulteranno puramente illusori e apparenti: tale sarebbe dunque anche il dolore, e tali tutte le terapie suggerite per la guarigione. Alla medicina, in effetti, non interessa né l’essere in generale, né l’uomo in generale, ma la molteplicità degli individui umani, con i loro casi particolari. L’irriducibile individualità dei soggetti di cui si occupa la medicina è ribadita con forza, per esempio, nel testo La medicina antica (in cui s’incontra anche una delle prime esplicite occorrenze del termine “filosofia”); in esso è aspramente criticata l’illusione che possa esistere un’unica terapia ugualmente valida per tutti. Se la medicina deve raggiungere una sempre maggiore calibrazione sugli individui, si comprende l’importanza fondamentale attribuita alla dietetica, come possibilità di intervenire in modo mirato sull’equilibrio individuale. Ciò non vuol dire che la medicina non abbia un suo quadro teorico di riferimento (come mostra per esempio La natura dell’uomo). Un tratto essenziale a questo proposito potrebbe essere rinvenuto nella dottrina degli umori. L’uomo è considerato come un insieme costituito da quattro umori fondamentali: il sangue, la bile gialla, la bile nera, e il flegma; il giusto equilibrio (o isonomìa) tra tali umori determina la salute, la rottura dell’equilibrio coincide con la malattia. Si tratta di una teoria di straordinaria, secolare fortuna, tanto più che i quattro umori saranno messi in rapporto con le quattro radici o i quattro elementi della tradizione empedoclea. D’altra parte, il Corpus comincia a fissare come elementi standard della pratica medica i momenti dell’anàmnesi, cioè della ricostruzione della storia personale di ciascun paziente, della diagnosi, ovvero dell’individuazione della malattia (in cui fondamentale diventa la capacità di leggere o interpretare i sintomi come segni in virtù dei quali inferire il male da cui dipendono), e della prognosi, ovvero della previsione del decorso della malattia stessa. Ma non è solo l’equilibrio interno di ciascun individuo ciò che il medico deve prendere in esame. Altrettanto importante è la considera-

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SINTESI CAPITOLO 2

zione del contesto ambientale, della situazione geografica e climatica e di quella igienica di ogni città, perché è ovvio che tutti questi elementi esercitano un’influenza non secondaria sulla salute. Lo scritto intitolato Le arie, le acque e i luoghi è particolarmente significativo a questo riguardo, non solo sotto il profilo più strettamente professionale (esercitando la loro attività in più città, i medici dovevano essere attenti alle differenze ambientali), ma anche per considerazioni più generali su come il clima possa determinare attitudini diverse in

Un quadro d’insieme: le origini della filosofia nelle colonie greche. La filosofia nasce nel VI secolo a.C. nelle colonie fondate dai Greci nella Ionia e nella Magna Grecia e in Sicilia. In primo luogo perché le colonie erano caratterizzate da una maggiore apertura e permeabilità nei confronti di altri influssi culturali; in secondo luogo perché il processo di democratizzazione delle città-Stato qui fu più rapido e costituì un terreno favorevole per la pratica della filosofia. Il minore peso delle tradizioni e delle consuetudini in ambito religioso-culturale, inoltre, consentì ai pensatori ionici di indagare la natura svincolandosi dalle narrazioni tradizionali mitico-religiose. I primi pensatori greci di cui ci sono giunti frammenti, notizie o testimonianze, vengono chiamati “presocratici”: questa etichetta può risultare ambigua sia perché alcuni di essi sono in realtà contemporanei di Socrate, sia perché non tutti si sono limitati ad indagare la natura, ma, anzi, hanno proposto un vero e proprio modello di vita filosofica. Le testimonianze e i frammenti: la questione delle fonti. Molti fra i primi filosofi non hanno scritto nulla, o comunque gli scritti originali non sono giunti fino a noi, pertanto si deve far riferimento ad una tradizione indiretta che ci ha trasmesso testimonianze e frammenti. È quindi opportuno tenere presenti la distanza tem-

popoli diversi, fino a suggerire un possibile motivo della superiorità dei Greci sui barbari. E tuttavia anche le norme e le consuetudini sociali tendono a modificare la natura umana, indebolendola o rafforzandola: la stessa superiorità dei Greci sugli orientali (i Persiani, soprattutto) viene per esempio spiegata ugualmente in base al fatto che i primi combattono per la loro libertà, mentre i secondi non hanno forse sufficienti motivazioni per combattere esclusivamente agli ordini e nell’interesse di un sovrano assoluto.

porale e il contesto in cui sono state prodotte tali testimonianze. Alla ricerca di un principio: i “fisici ionici”. La prima figura di filosofo è quella di Talète. Le fonti gli attribuiscono sia un sapere di tipo matematico e scientifico, sia uno di tipo tecnico-pratico. Secondo Aristotele, coloro che per primi si dedicarono alla filosofia ritennero che i princìpi delle cose fossero materiali: Talète, considerato il fondatore di tale forma di filosofia, ha indicato tale principio nell’acqua (hy`dor), basandosi sull’osservazione che il nutrimento di tutte le cose è umido e l’acqua è il principio di tutto ciò che è umido. Anche Anassimàndro cerca di ricondurre la pluralità del reale a un unico principio di fondo che identifica nell’illimitato (àpeiron), ciò che è privo di limiti. Il processo di formazione del mondo e delle cose è spiegato come distacco dei contrari (caldo, freddo, umido, secco) dall’infinito a causa di un movimento eterno. Anassìmene individua il principio di tutte le cose nell’aria (aèr). L’aria rappresenta il principio vitale dell’intero Universo. I processi di condensazione e rarefazione producono e differenziano le cose. Il lògos universale: Eraclito. Eraclìto afferma che l’intera realtà è dominata da un lògos unico e universale. Questo termine indica sia la razionalità che pervade tutto il reale, sia la

comprensione che gli uomini possono averne, sia il discorso che essi possono costruire per esprimere tale comprensione. Compito di ogni uomo è di indagare sé stesso e di rinvenire in sé una chiave di accesso al lògos cosmico. Gli uomini che preferiscono sviluppare discorsi particolari, si precludono la possibilità di scorgere la vera unità e la vera armonia che regna al di là dei contrasti. Il tema del divenire, tradizionalmente attribuito al filosofo, è solo accennato nei frammenti eraclitei, laddove più urgente è la necessità di mostrare la simultaneità degli opposti. Il contrasto costituisce la vera legge del reale: il segreto dell’unità sta proprio nel perenne conflitto e nella trasformazione di un contrario nell’altro. Per questo il lògos come ordine universale è identificato con un fuoco sempre vivo. L’armonia dei numeri: Pitagora e la tradizione pitagorica. Pitàgora fondò a Crotone una comunità politico-religiosa di impostazione aristocratica. Egli incarna il prototipo del “filosofo antico” in quanto propone ai suoi discepoli uno stile di vita, un bìos, fondato, oltre che sull’esame di coscienza, su una serie di pratiche di purificazione, di prescrizioni e divieti alimentari la cui origine è da rintracciarsi nella dottrina della metempsicòsi o trasmigrazione delle anime. Il modello di esistenza era insegnato e praticato secondo gradi diversi:

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SINTESI CAPITOLO 2

I princìpi, la natura, l’essere: le origini della filosofia in Asia Minore e nella Magna Grecia capitolo 2 ad un primo livello c’erano gli acusmàtici, o “ascoltatori”, coloro ai quali era concesso di ascoltare gli insegnamenti del maestro e praticare le sue regole di vita; ad un livello superiore si collocavano i matematici, che venivano ammessi alla conoscenza di dottrine più profonde e nascoste, di carattere appunto matematico. Per i pitagorici i numeri costituiscono i princìpi e l’essenza di tutte le cose. La dottrina del limite e dell’illimitato afferma che i numeri dipendono a loro volta da due princìpi fondamentali: il limite (o l’uno, fondamento di ogni numero successivo) e l’illimitato (l’àpeiron, qui fatto coincidere con il molteplice). La critica alle interpretazioni mitiche: Senofane. Senòfane propone il primo tentativo filosofico di interpretazione razionale del divino: dio dovrebbe essere considerato ingenerato e privo di corruzione, altrimenti si dovrebbe ipotizzare un passaggio dal nulla all’essere e viceversa. L’essere come unità: Parmenide. Parmènide afferma che «è la stessa cosa pensare e essere e pertanto ciò che non è, non è neppure pensabile». Da ciò derivano le caratteristiche fondamentali dell’essere che è ingenerato e incorruttibile, tutto intero e omogeneo, immobile, uno, continuo, indivisibile e finito. Tutto il movimento e tutto il molteplice (ovvero tutti i cambiamenti, tutto il divenire) sono soltanto apparenze che gli uomini, che seguono per la maggior parte la via dell’errore, prendono per vere. L’errore degli uomini è insomma quello di operare, senza accorgersene, un’indebita commistione tra essere e non-essere. La dialettica dei paradossi: Zenone. Zenòne è considerato l’inventore della dialettica, un procedimento che egli fa consistere nel dimostrare una certa tesi mostrando l’impossibilità della tesi opposta. Gli argomenti di Zenòne sono veri e propri paradossi, cioè ragionamenti che sovvertono l’opinione comune fondati sulla dimostrazione per assurdo e, in buona parte, sul regresso all’infinito. L’argomento più celebre è quello di “Achille e la tartaruga”. Esso

sostiene che chi è più lento non sarà mai raggiunto da chi è più veloce: infatti, chi insegue deve prima raggiungere il punto in cui era in precedenza colui che fugge, ma nel frattempo questi avrà percorso un tratto ulteriore, e così all’infinito. Altro celebre argomento è quello della “freccia”: in ciascuno degli istanti in cui la freccia è in volo, essa occupa uno spazio uguale a sé e dunque è ferma; ed è impossibile che una serie di istanti in cui la freccia è ferma possa produrre un movimento. Essere e natura: Melisso. Melìsso di Samo compie l’identificazione dell’essere con la natura in quanto tale. Tuttavia mentre l’essere di Parmènide è sì eterno, ma limitato e finito, per Melìsso è infinito nel tempo e nello spazio. La molteplicità e il divenire: i “pluralisti”. Per i filosofi pluralisti i princìpi primi non si generano e non si corrompono, come richiesto da Parmènide, ma la molteplicità e il divenire del reale non sono fittizi e ingannevoli: sono invece l’effetto, il risultato reale della composizione di questi elementi primi. Empèdocle ammette sia il movimento che la molteplicità: tutti i fenomeni fisici dipendono da quattro radici fondamentali: acqua, aria, terra e fuoco. La loro mescolanza è determinata dal movimento, che a sua volta è prodotto da due princìpi: amore e contesa, o amicizia e inimicizia (discordia). N el tempo talvolta prevale uno, talvolta l’altro, ovvero s’impone la forza disgregatrice. Anche gli uomini sono prodotti da questa mescolanza da cui sono formate tutte le altre cose. Empèdocle afferma che conoscere è riconoscere il simile con il simile. Anassàgora ammette tanti “semi” quante sono le qualità che possiamo percepire, ovvero un numero infinito di “semi”. Aristotele ha chiamato tali semi omeomerìe, cioè ‘parti uguali’. Le differenza tra le diverse nature è data dal prevalere dei semi di un dato principio. Poiché i semi sono sempre commisti ad altri, vale per Anassàgora il principio del tutto in tutto. La condizione originaria del cosmo è una sorta di caos primordiale, in cui

tutti i semi si trovano mescolati: da qui è stato formato il nostro mondo, e forse anche altri. Il processo di differenziazione e di produzione dei mondi dipende dal nùs, ovvero da un intelletto che imprime un impulso originario al movimento vorticoso che porterà alla differenziazione dei semi e alla formazione dei mondi. La tesi di fondo dell’atomismo di Demòcrito è che le cose non sono divisibili all’infinito: alla base della realtà ci sono elementi primi non ulteriormente scomponibili, gli atomi, ingenerati e indistruttibili, inframmezzati dal vuoto. Tutte le cose si producono a partire dalla composizione e scomposizione degli atomi. Questi ultimi ammettono tre sole differenze: la forma, l’ordine e la posizione. Per Demòcrito il moto è una caratteristica intrinseca degli atomi: questi si muovono incessantemente in ogni direzione, e perciò s’incontrano o si scontrano tra loro, aggregandosi e disgregandosi. N el vuoto si forma anche la nostra anima, composta di atomi di forma sferica, particolarmente mobili. A Demòcrito sono attribuiti molti frammenti di carattere etico, incentrati sul concetto-chiave di euthymìa, tranquillità d’animo, distacco, che ripropongono l’ideale del filosofo antico come colui che esercita un severo autocontrollo, pratica l’esame di sé e coltiva la virtù per sé stessa. Dalla filosofia alla “scienza”: il sapere medico. Originariamente la filosofia non era distinta da quelle che oggi consideriamo scienze autonome. Uno dei primi saperi a rendersi autonomo fu la medicina. Risale al V secolo a.C. il Corpus hippocraticum, attribuito a Ippòcrate di Cos: si tratta della prima raccolta di scritti destinati ai medici, contenente numerosi quadri terapeutici e analisi di casi di singoli pazienti, descrizioni di sintomi e del decorso tipico di ogni malattia, con l’intento di ampliare e consolidare l’esperienza dei medici. Vi è contenuta la dottrina degli umori, secondo la quale il giusto equilibrio tra gli umori determina la salute, la rottura dell’equilibrio coincide con la malattia. Il Corpus inoltre comincia a fissare come elementi standard della pratica medica i momenti dell’anàmnesi, della diagnosi e della prognosi.

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BIBLIOGRAFIA Fonti Salvo le eccezioni indicate, tutte le traduzioni delle testimonianze o dei frammenti relativi ai “presocratici” sono tratte (talora con qualche modifica) da: • I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 voll., a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863. • Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Laterza, RomaBari 20057; Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, con la collaborazione di G. Girgenti e I. Ramelli, Bompiani, Milano 2005. Le traduzioni citate di Berti (§ 7), Arrighetti e Reale (§ 8) sono tratte rispettivamente da: • E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2007; • G. Reale, Storia della filosofia antica. I. Dalle origini a Socrate, Vita e Pensiero, Milano 19929 (ed. or. dell’opera in 5 voll.: 1975-80); poi Storia della filosofia greca e romana. I. Orfismo e presocratici naturalisti, Bompiani, Milano 2004.

ESERCIZI

Il passo del Parmenide platonico citato è tratto da:

• Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, poi Bompiani, Milano 2000 (la traduzione del Parmenide è di M. Migliori).

Opere L’edizione di riferimento per i “presocratici” rimane: H. Diels - W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, 3 voll. Weidmann, Berlin 1951-526 (e successive ristampe). Di essa esistono due traduzioni italiane: la già citata I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 voll., a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863 e I presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006.

Studi critici Sulla formazione del pensiero dei cosiddetti “presocratici” si veda il recente volume collettivo: • M.M. Sassi (a cura di), La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, Scuola Normale Superiore, Pisa 2006. Un testo classico, riproposto di recente, è quello di Marino Gentile (in cui l’etichetta di “presofisti” veniva preferita a quella di “presocratici”):

1. Spiega le ragioni per le quali la filosofia si è sviluppata prima nelle colonie e solo in seguito nelle città della Grecia, facendo riferimento ai fattori (intellettuale, economico, politico e religioso) che ne hanno favorito la nascita (max 15 righe). 2. Esplicita la differenza tra i tre tipi di fonti da cui sono state tratte le informazioni sui primi filosofi (max 15 righe). 3. Spiega perché i due frammenti di Platone e Aristotele non si contraddicono nel delineare gli scopi e la natura del sapere indagato da Talète (max 8 righe). 4. Dopo aver letto il frammento di Anassimàndro, riportato da Simplìcio, a p. 16, spiegane il senso soffermandoti sui termini seguenti: espiazione, ingiustizia, ordine del tempo, necessità (max 8 righe).

• M. Gentile, La metafisica presofistica. Con un’appendice su “Il valore classico della metafisica antica”, introd. di E. Berti, Petite Plaisance, Pistoia 2006. Per i primi “fisici ionici” si può continuare a fare riferimento a: • R. Laurenti, Introduzione a Talete, Anassimandro, Anassimene, Laterza, Roma-Bari 20036. Sulle differenti interpretazioni del frammento di Eraclìto «la natura ama nascondersi» (o forse, più propriamente, «ciò che nasce tende a morire») si veda la suggestiva ricostruzione di: • P. Hadot, Il velo di Iside, Einaudi, Torino 2006. Su Pitàgora e la tradizione pitagorica è da poco disponibile anche in italiano: • C. Riedweg, Pitagora. Vita, dottrina e influenza, Vita e Pensiero, Milano 2007. Per un originale approccio a Empèdocle, contro ogni interpretazione unilateralmente razionalistica, si veda: • P. Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, Milano 2007.

7. Descrivi brevemente l’organizzazione interna e i precetti della scuola pitagorica (max 8 righe). 8.Esplicita il rapporto tra la dottrina dei numeri come princìpi ed essenze di tutte le cose e la dottrina del limite e dell’illimitato (max 8 righe). 9. Presenta le due vie di ricerca delineate da Parmènide nel suo poema. Nella tua esposizione: a. chiarisci il senso della formulazione della prima via «l’una dice che è...» e spiega perché è definita «il sentiero della Persuasione»; b. spiega perché la seconda via «l’altra che dice che non è...» è considerata «un sentiero del tutto inindagabile». 10. Ricostruisci sinteticamente l’argomento della “freccia” utilizzato da Zenòne per confutare la possibilità del movimento (max 8 righe).

5. Illustra i significati che il termine lògos assume nel pensiero di Eraclìto (max 8 righe).

11. Esplicita la differenza tra la teoria delle radici di Empèdocle e quella dei semi di Anassàgora (max 8 righe).

6. Esplicita le due possibili interpretazioni del frammento eracliteo «la natura ama nascondersi», partendo dai significati del termine natura (max 8 righe).

12. Utilizzando i seguenti concetti, spiega il divenire e la molteplicità secondo la dottrina degli atomi di Demòcrito: atomo, forma, ordine, posizione, vuoto (max 15 righe).

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capitolo 3

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La filosofia ad Atene: i sofisti e Socrate

1 Un quadro d’insieme: i sofisti, “intellettuali” di professione

Il termine “sofista” (così come l’aggettivo corrispondente, “sofistico”) ci appare oggi contrassegnato da una valenza negativa, ma occorre sapere che, in sé, il vocabolo greco non ha affatto un senso spregiativo: sophistès vuol dire anzi ‘esperto nel sapere’, essendo formato a partire da sophòs (‘sapiente’). L’epitaffio sulla tomba di Trasìmaco, uno dei sofisti, nella città di Calcedònia, recitava: «Il mio mestiere è la sophìa». Questa autodefinizione è interessante per due ragioni: essa ci mostra come sophìa coprisse ancora, tra V e IV secolo a.C., un ambito di significati assai ampio, tale da includere diversi saperi e diverse arti (in questo caso, il riferimento è con ogni probabilità all’arte oratoria, ovvero all’arte di tenere discorsi); inoltre, attesta un processo consapevole di professionalizzazione della sophìa stessa: la sophìa può essere un mestiere. È proprio questa professionalizzazione che viene subito percepita come un pericolo da alcuni settori della società ateniese. La sofistica,

infatti, è essenzialmente un fenomeno ateniese, perché sono proprio le condizioni della vita politica cittadina, in cui è fondamentale sapersi guadagnare il consenso nelle assemblee e nei vari organi giuridici e di governo, a far maturare la necessità di una formazione specifica nell’arte di tenere discorsi. Quelli che chiamiamo “sofisti” sono appunto maestri di tale arte, che giungono ad Atene da altre parti della Grecia per cominciare a insegnare a pagamento. I sofisti sono così, almeno per certi aspetti, i primi intellettuali di professione nella storia dell’Occidente: una novità destinata a suscitare diffidenza, se non aperta ostilità. Platone fa esprimere con grande chiarezza questa situazione al sofista Protàgora, nel dialogo che porta il medesimo titolo:



Un forestiero che va nelle grandi città e in esse persuade i giovani migliori a lasciare la compagnia degli altri, sia dei familiari sia degli estranei, sia dei più giovani sia dei più vecchi, e a frequentare lui solo per poter diventare migliori, appunto in virtù della sua compagnia, deve essere molto cauto. Intorno a queste cose nascono invidie, inimicizie e ostilità non di poco conto. [Protagora, 316 C-D]



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I luoghi della vita di Socrate e dei sofisti

Questo è dunque il primo grande problema posto dall’arrivo ad Atene dei sofisti: la rottura della continuità dell’educazione familiare, come trasmissione controllata di un sistema tradizionale di valori. Ma questo è anche ciò che suscita sospetto da parte di coloro che chiamiamo semplicemente “filosofi”. Tuttavia, l’opposizione tra filosofi e sofisti è in realtà più una divisione interna al nascente sapere filosofico che un conflitto tra quest’ultimo e qualcosa di esterno, ed è una divisione che riguarda il modo di concepire il sapere. Se è diventato oggi un luogo comune contrapporre Socrate ai sofisti, perché tale è l’antitesi che Platone ci rappresenta nei suoi dialoghi (nel Sofista si dice per esempio che la sofistica assomiglia alla filosofia come il lupo al cane), la percezione di questa differenza da parte dei contemporanei era molto meno netta: Socrate era anzi considerato uno dei sofisti, come testimonia una celebre (e divertente) commedia di Aristòfane, Le nuvole. E proprio Le nuvole documentano il modo in cui veniva percepito il cambiamento del sistema educativo: la crisi della trasmissione tradizionale viene fatta coincidere con il rovesciamento di tutti i valori, così che alla fine sembri giusto e legittimo che siano i figli a picchiare i padri. La commedia in effetti si chiude con la decisione di Strepsìade, padre malmenato dal

Abdera

Corinto Atene Lentini

Mar Mediterraneo

Fra il V e il VI secolo a.C. Atene diviene il centro della filosofia greca. Ad Atene nasce Socrate [ 3.5] intorno al 469 a.C. e qui si trasferiscono per svolgere la loro attività i principali esponenti della sofistica: Protàgora [ 3.3.1] nato ad Abdèra nel secondo decennio del V secolo a.C.; Senìade [ 3.3.1] del quale abbiamo poche testimonianze; Gòrgia [ 3.3.2] nato a Lentini intorno al 485 a.C.

figlio Fidìppide, di appiccare il fuoco alla scuola del “sofista” Socrate per evitare che faccia altri danni, corrompendo altri giovani. La denuncia che compare nella satira di Aristòfane è quella rivolta anche nella realtà ai sofisti e che figurerà parimenti nei capi d’accusa mossi a Socrate, cioè di essere “cattivi maestri”. Esiste, quindi, una resistenza sociale complessiva nei confronti del nuovo sapere, e da questo punto di vista sofisti e filosofi stanno dalla stessa parte – da quella cioè di coloro che vengono accusati (come già Anassàgora:  2.10.2) di sconvolgere il sistema di valori tradizionale; ma esiste poi un’opposizione interna, che contrappone quelli che sono per noi filosofi in senso stretto ai sofisti e che riguarda piuttosto il metodo: i sofisti non ammettono un perfetto isomorfismo, ovvero una perfetta corrispondenza, tra sapere e realtà, e dunque il loro sapere non si occupa del vero in sé (ovunque tale verità sia poi collocata dai filosofi), ma di ciò che appare vero. Agli occhi dei filosofi, quello dei sofisti è dunque un sapere apparente, più che reale, e una buona riprova di ciò è data da quel che Aristotele dichiara, per esempio, nelle sue Confutazioni sofistiche: «La sofistica è un sapere apparente ma non reale, e il sofista è un trafficante di sapienza apparente, ma non reale» [Confutazioni sofistiche, 1]. Ed è altresì significativo che nella Metafisica (IV, 2) Aristotele stesso ponga la differenza tra sofisti e filosofi proprio nell’“intento”, e cioè nel modo di vita, nella scelta/decisione intorno alla propria vita: i sofisti ingannano perché, difendendo un sapere solo apparente, pretendono di essere filosofi, senza praticare fino in fondo questo stile di vita. 1. La novità introdotta dalla sofistica ad Atene consiste: a. nel rendere la sophìa oggetto di insegnamento, a pagamento, ai giovani. V b. nell’affermare la stretta coincidenza tra realtà e sapere. V c. nella trasmissione dell’arte oratoria, propedeutica alla carriera politica. V d. nel rivalutare il sistema educativo tradizionale, preservandolo da ogni possibile cambiamento. V

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2. L’opposizione tra filosofi e sofisti riguarda: a. la differente concezione del sapere esistente all’interno del mondo filosofico. b. la differente percezione che l’intera società ateniese aveva degli uni e degli altri. c. il differente rapporto tra l’educazione e il sistema di valori tradizionali. d. uno stile di vita improntato alla dimensione politica.

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La filosofia ad Atene: i sofisti e Socrate capitolo 3

I sofisti

2 La realtà e le apparenze Il corto circuito tra conoscenza e realtà che si ritrova al fondo di buona parte della riflessione dei sofisti condivide lo stesso punto di partenza (ma non le stesse conclusioni) delle dottrine eraclitee, e in particolare la contrapposizione tra il lògos comune e la contingente dispersione dei saperi [ 2.4]. Ma soprattutto esso condivide un presupposto di fondo dell’eleatismo [ 2.7]: in effetti, Parmènide aveva sì difeso una perfetta coincidenza tra essere e pensare, ma aveva d’altra parte riconosciuto che questa via – che pure era stata presentata come l’unica veramente praticabile – non era quella seguita dai mortali, abituati a mescolare essere e non-essere. L’ideale parmenideo, in particolare così come era stato radicalizzato da Melìsso [ 2.9], auspicava dunque un passo avanti dal livello dell’opinione (della dòxa) a quello del sapere autentico. In altri termini, già gli eleati ed Eraclìto avevano introdotto una rottura tra il sapere fenomenico e la realtà, invocando un superamento o la soppressione del primo. I pluralisti [ 2.10], al contrario, avevano tentato di salvare i fenomeni, continuando però a ipotizzare l’esistenza, al di sotto dei fenomeni stessi, di un livello ingenerabile e incorruttibile in cui realtà e verità potessero tornare a coincidere: a differenza degli eleati, tale livello non era però più concepito come unico e unitario, ma come molteplice. In modo ben più radicale, i sofisti ritengono che questa coincidenza sia in generale impossibile: proprio perché la realtà è intrinsecamente e irriducibilmente molteplice, è illusorio pensare che possa esserci una verità assoluta e valida per tutti. Per essere più precisi, i sofisti non mettono in dubbio l’esistenza della realtà, ma la possibilità di conoscere qualcosa di diverso dalle apparenze, da ciò che si manifesta a noi. Le apparenze non sono né un semplice velo, né un rimando a qualcosa di ulteriore (come per Anassàgora), ma sono tutto ciò che possiamo conoscere ed esprimere.

Da qui l’importanza fondamentale che per i sofisti rivestono il discorso e il linguaggio: il linguaggio diventa l’unico ambito in cui sia possibile ottenere, o costruire, un consenso intorno alla realtà. Tale consenso, quindi, non si fonda più sul riferimento a un livello oggettivo, ma dipende dal linguaggio stesso, ovvero, in ultima analisi, dalla capacità di persuasione. I sofisti insegnano dunque a tenere discorsi convincenti, persuasivi, perché sono i discorsi a forgiare la realtà (in quanto conoscibile). Ciò vale in misura ancora maggiore per la realtà delle azioni umane, e cioè per la politica, che viene fatta pertanto dipendere in modo essenziale dalla retorica (cioè appunto dall’arte di saper persuadere gli interlocutori attraverso i propri discorsi e i propri scritti). Detto questo, si danno almeno due errori di prospettiva da cui occorre guardarsi. Il primo è che i sofisti siano stati i primi a occuparsi della sfera propriamente umana, e si siano occupati solo di essa. In realtà, da una parte preoccupazioni di tipo etico e sociale erano già presenti nei cosiddetti “presocratici”, e dall’altra i sofisti si sono occupati anch’essi della phy`sis e delle questioni ad essa collegate: Gòrgia scrisse per esempio un trattato in risposta a Melìsso, e Protàgora viene descritto come un appassionato studioso dei fenomeni celesti. Per di più, i sofisti contribuirono in modo decisivo alla circolazione e divulgazione della fisica ionica, e questo è un altro elemento che dovrebbe smentire ogni semplice e frettolosa contrapposizione tra la sofistica e la filosofia propriamente intesa. Si può dire, più correttamente, che i sofisti non si occuparono soltanto dell’uomo nel contesto della natura in generale, ma nel contesto della pòlis, o della società, e che anzi il vero tema di fondo delle loro riflessioni è proprio il rapporto tra phy`sis e nòmos, ovvero tra la ‘natura’ e le ‘leggi’ istituite dagli uomini stessi. Il secondo errore da evitare è quello di ritenere che la sofistica sia un movimento sostanzialmente uniforme e indifferenziato: al contrario, le caratteristiche della sofistica sono talmente ampie da poter includere agli occhi dei contemporanei (suo malgrado) anche Socrate. Di fatto,

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i singoli sofisti hanno posizioni politiche diverse [ 3.4], e spesso sostengono tesi contrastanti proprio a proposito del rapporto tra le convenzioni e le norme umane da una parte e l’ambito della phy`sis dall’altra. 1. Il punto di partenza della riflessione dei sofisti è rintracciabile: a. nell’eleatismo e nell’eraclitismo. V b. nella contrapposizione tra un sapere assoluto e le mutevoli opinioni dei mortali. V c. nel tentativo, comune a quello dei filosofi pluralisti, di saldare tanto la molteplicità dei fenomeni mutevoli quanto l’esistenza di una realtà immutabile. V d. nella saldatura tra essere e linguaggio affermata da Parmènide. V

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3 La critica all’oggettività del reale 3.1 «L’uomo misura di tutte le cose»: Protagora e Seniade A Protàgora, nato nel secondo decennio del V secolo a.C. ad Abdèra, una colonia greca in Tracia (la parte oggi compresa tra la Grecia nord-orientale, la Turchia europea e il Sud della Bulgaria), è attribuito un detto particolarmente famoso:



Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono. [DK 80, B 1]



Questa tesi potrebbe essere interpretata in due sensi: uno debole e uno forte. Stando al primo, si potrebbe supporre che Protàgora si riferisca qui non a ogni singolo uomo, ma alla natura umana in generale: il frammento alluderebbe allora semplicemente al fatto che le cose diventano comprensibili e giudicabili solo in rapporto alla ragione umana. N el senso più forte, si può invece intendere che ogni uomo, preso singolarmente, è giudice delle proprie esperienze conoscitive: per usare lo stesso esempio adoperato da Platone nel Teeteto (che è il dialogo che ci ha trasmesso la massima protagorea), il vento è caldo per colui che lo sente caldo, e freddo per colui al quale sembra

freddo. Ciò significa che non esiste una verità, unica e oggettiva, indipendente dai singoli individui, dalle loro opinioni, dai loro gusti e dalle loro condizioni: vero è invece ciò che appare tale a ognuno. E se non è possibile far riferimento a un livello oggettivo esterno, l’unica possibilità di trovare un accordo nel definire le cose (senza il quale la vita associata sarebbe impossibile) è quella offerta dal linguaggio e dal discorso. Se questo è davvero ciò che Protàgora ha inteso sostenere, ci troviamo di fronte alla prima tesi radicalmente relativistica nella storia del pensiero occidentale: ognuno si forgia la sua verità. Da qui la grande importanza attribuita da Protàgora al linguaggio: se la verità è relativa, è essenziale saper argomentare e difendere il proprio punto di vista, fino a farlo prevalere sugli altri. Anzi, il buon retore possiede perfino la capacità di rendere più forte il discorso più debole. Così, il discorso apparentemente peggiore, quello che sembra in contrasto con l’evidenza o con le consuetudini, potrebbe rivelarsi il migliore, se meglio argomentato. Protàgora non è comunque l’unico sofista ad aver preso una posizione così radicale sulla portata della conoscenza umana. Al relativismo protagoreo potrebbero anzi essere accostate tesi dal carattere ben più marcatamente scettico (tali cioè da negare la possibilità di pervenire a una conoscenza affidabile delle cose in sé stesse). Senìade di Corinto, su cui non abbiamo molte testimonianze, si sarebbe per esempio spinto fino al punto di dichiarare false tutte le cose e fallaci tutte le opinioni (a riportarci questa informazione è tuttavia proprio uno scettico più tardo, e cioè Sesto Empìrico). Senìade avrebbe inoltre sostenuto che tutto ciò che si produce, si produce dal non-essere, e tutto ciò che si annulla, si annulla nel non-essere, infrangendo così non solo il divieto parmenideo di parlare del nonessere, ma anche la più generale tendenza del pensiero greco a ritenere inammissibile qualsiasi passaggio tra l’essere e il nulla, e viceversa.

3.2 Gorgia e la negazione dell’essere Gòrgia, uno dei sofisti più celebri (nativo di Leontini, oggi Lentini, in Sicilia, intorno al 485 a.C.), avrebbe invece sostenuto, in uno scritto intitolato Sul non essere o Sulla natura, tre tesi fondamentali:

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1. nulla esiste; 2. se anche qualcosa esistesse, non sarebbe comprensibile; 3. se anche fosse comprensibile, non sarebbe comunicabile. Le tre tesi comportano così una negazione progressiva dell’essere, della sua pensabilità e della sua dicibilità. Si potrebbe dire che così come Zenòne impiega la dialettica [ 2.8] a sostegno delle tesi parmenidee, Gòrgia se ne avvale per rovesciarle. In effetti, la conclusione secondo cui nulla esiste si deduce per Gòrgia dal fatto che non esiste né il non-essere, né l’essere, né l’uno e l’altro insieme. Che il non-essere non esista è evidente, altrimenti la formulazione sarebbe contraddittoria. Ma neppure l’essere esiste, come Gòrgia si sforza di mostrare attraverso una serie di argomenti. Per citarne solo il primo: se l’essere è, o è eterno o generato. Ma se fosse eterno, non avrebbe un principio, e in quanto privo di un principio dovrebbe essere illimitato: ora, ciò che è illimitato non è in nessun luogo, e ciò che non è in nessun luogo non esiste. Se invece fosse generato, dovrebbe generarsi o dall’essere o dal non-essere: ma entrambi i casi sono assurdi, perché nel primo ci sarebbe già essere prima dell’essere, e nel secondo si ammetterebbe che il nulla possa produrre qualcosa. E poiché l’essere non può darsi neppure come eterno e generato insieme, non resta che ammettere che l’essere non è. Infine, non possono esistere l’essere e il non-essere insieme, perché se il non-essere esistesse, sarebbe identico all’essere, con esiti evidentemente contraddittori. La seconda tesi di Gòrgia è diretta contro l’identità di essere e pensiero. Gòrgia argomenta, tra l’altro, in questo modo: se solo l’essere può essere pensato, il non-essere non dovrebbe poter essere pensato; ma di fatto noi possiamo pensare molte cose false o inesistenti, per esempio esseri mitologici come Scilla o la Chimera, o immaginare una gara di carri sul mare. In quanto pensabili, tali cose dovrebbero anche essere, il che è manifestamente falso:



se si ammette che il pensato esiste, si deve anche ammettere che l’inesistente non può esser pensato; poiché i contrari hanno predicati contrari; e il contrario dell’essere è il non essere. E

perciò in via assoluta, se dell’esistente si predica l’esser pensato, dell’inesistente si deve predicare il non esser pensato. Il che è assurdo, perché per esempio e Scilla e Chimera e molte altre cose inesistenti sono pensate. E dunque, ciò che non esiste non è pensato. [DK 82, B 3]



Infine, se anche fosse pensabile, l’essere non potrebbe comunque essere comunicato, perché le parole sono diverse dalle cose che intendono comunicare: la parola che comunica un colore è diversa dal colore stesso, come prova il fatto che l’una e l’altro sono percepiti da sensi diversi (il colore dalla vista, la parola dall’udito). Questa eterogeneità ontologica impedisce che le parole possano comunicare la realtà. Gòrgia trascura qui del tutto il valore semantico e semiotico delle parole, e cioè il fatto che si tratta di segni che veicolano altre informazioni. Ma l’argomento, che è inevitabilmente un po’ forzato, ha lo scopo di mettere in dubbio che anche il linguaggio, come il pensiero, corrisponda fedelmente e perfettamente alla realtà. Gòrgia quindi non intende negare davvero l’esistenza di qualcosa, ma negare l’esistenza di un essere pieno e completo – nel senso di Parmènide, e ancor più di Melìsso – e soprattutto che esso risulti sempre perfettamente e naturalmente trasparente al pensiero e al linguaggio. Ora, se il linguaggio non esprime di per sé la realtà, esso serve a esprimere correttamente l’opinione e a raggiungere la persuasione: il discorso migliore non è pertanto quello più vero (nel senso di più rispondente alla realtà, perché proprio tale corrispondenza è ciò che Gòrgia demolisce), ma quello meglio argomentato e più convincente. La straordinaria importanza o potenza che il linguaggio (o meglio il lògos, nella sua duplice valenza di linguaggio e capacità argomentativa) assume in questa prospettiva è rivendicata da Gòrgia in un testo che è un piccolo capolavoro dell’arte retorica, l’Encomio di Elena. Si tratta di una specie di esercitazione («ho voluto scrivere questo discorso come encomio per Elena, come divertimento per me»), volta ad assolvere Elena dall’accusa di aver scatenato la guerra di Troia abbandonando il marito. Tra le altre giustificazioni addotte, si legge appunto che non può essere giudicato colpevole chi è vittima della

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potenza della parola (in questo caso, del discorso seducente di Paride):



Se poi fu la parola [o il discorso: lògos] a persuaderla e a illuderle l’animo, neppur questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. [DK 82, B 11]



Essendo professionisti della parola, i sofisti tendono a enfatizzarne l’efficacia, mostrando come si possa argomentare anche a favore delle tesi a prima vista meno plausibili. Da qui l’impressione di una certa carica provocatoria che sembra caratterizzare molte delle loro prese di posizione: un’attitudine d’altra parte anche dovuta al fatto che i sofisti erano comunque in concorrenza e competizione tra loro (per assicurarsi più allievi/clienti), e le argomentazioni più provocatorie erano senza dubbio quelle che potevano permettere di mostrare più abilità, e attirare più potenziali clienti.

4 La natura e la legge Anche nell’ambito della politica i sofisti non si muovono alla ricerca della verità (o della giustizia) in quanto tale, ma del consenso che renda possibile la vita della pòlis. Intanto, la stessa virtù viene presentata non come qualcosa di innato, secondo l’opinione dominante, ma come qualcosa che si può insegnare: anche questo suscitava scandalo, e cioè che si pretendesse di insegnare a pagamento ciò che fino ad allora si era solitamente considerato innato. È ancora Platone a offrirci una presentazione degli scopi, per esempio, dell’insegnamento di Protàgora:



il mio insegnamento concerne l’accortezza, sia negli affari privati, ossia il modo migliore di amministrare la propria casa, sia negli affari della città, ossia il modo di diventare in sommo grado abile nel governo della città, negli atti e nelle parole. [Protagora, 318 E - 319 A]



4.1 La vita associata secondo Protagora Platone fa anche esporre a Protàgora, sempre nel dialogo che da lui prende il nome, un significativo mito sulle origini e sulla necessità della vita associata (della vita “politica”). Non sappiamo in effetti se e in che misura il racconto possa essere effettivamente fatto risalire a Protàgora (nella raccolta di Diels e Kranz il passo figura tra le imitazioni:  2.2), ma certamente esso ben si adatta ad altri tratti del pensiero protagoreo. Il mito in questione è quello di Promèteo che ruba il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, ma nel racconto (ipotetico) di Protàgora la vicenda assume un andamento diverso e una connotazione più marcatamente politica. Il mito racconta che, dopo un primo periodo in cui esistevano solo gli dèi, giunse il momento di far comparire sulla Terra tutti gli esseri mortali: Promèteo ed Epimetèo furono incaricati di distribuire a tutti gli esseri le diverse facoltà in modo conveniente; Epimetèo pregò Promèteo di lasciare a lui questo compito e di verificarne alla fine gli esiti. Epimetèo fece un buon lavoro con tutti gli animali, bilanciando le varie facoltà concesse alle diverse specie, ma fece male i conti, perché alla fine non gli rimasero più facoltà naturali per il genere umano. Quando sopraggiunse Promèteo, si accorse che gli altri animali erano stati ben provvisti, mentre l’uomo era nudo (senza pelliccia), scalzo (senza zoccoli) e completamente sprovvisto di armi naturali (denti, artigli, ecc.). Per compensare queste mancanze rubò a Efèsto (il dio del fuoco e dei vulcani) e ad Atena (dea della sapienza e delle arti) il fuoco e la sapienza tecnica, perché proprio tramite il sapere tecnico l’uomo potesse compensare la mancanza di adeguate doti naturali, e anzi sopravanzare di gran lunga tutti gli altri animali. Nella versione “standard” il mito si fermerebbe qui: ma il Protàgora platonico aggiunge che ciò si rivelò ancora insufficiente, perché agli uomini mancava ancora la sapienza politica (politikè sophìa) custodita presso Zeus. Vivendo separatamente, nonostante il sapere tecnico, gli uomini non riuscivano a difendersi adeguatamente; se cercavano di associarsi, entravano immediatamente in conflitto tra loro, si separavano e andavano incontro alla rovina. Fu allora che Zeus decise, per evitare l’estinzione della

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razza umana, di far sì che gli uomini fossero dotati di rispetto e giustizia, e cioè degli elementi fondamentali della sapienza politica: queste due facoltà non furono destinate solo ad alcuni, ma a tutti, perché le città potessero formarsi e sopravvivere. La conclusione del mito così come viene integrata nella raccolta di Diels e Kranz è simile a quella classica: «quanti affermano che l’uomo non è costituito bene, ma che addirittura è tra tutti gli animali quello costituito nel modo peggiore – perché è scalzo, nudo, senz’armi per difendersi – non parlano in modo corretto» [DK 80, C 1]. La sua conseguenza implicita è tuttavia particolarmente significativa: la superiorità dell’uomo rispetto alle altre specie non sta nel solo sapere tecnico (inefficace al di fuori della vita associata), ma nella sua sapienza politica, e cioè appunto nella possibilità di vivere in modo associato. Protàgora sembra così prefigurare la caratterizzazione dell’uomo come animale politico (che trova il suo compimento nella società) che sarà propria poi di Aristotele. A differenza di tutti gli altri animali, l’uomo non può vivere isolato. Il che significa che la natura o phy`sis dell’uomo deve trovare compimento nel nòmos, cioè in quell’insieme di leggi, convenzioni, consuetudini che non permette soltanto la sopravvivenza, ma anche il dispiegamento delle proprie potenzialità (del proprio sapere tecnico). Nella prospettiva di Protàgora l’utile del singolo e quello della comunità vengono così a coincidere: il rispetto dei nòmoi, delle ‘leggi’, favorisce anche il singolo, e non solo lo Stato in quanto tale. Non a caso, a Protàgora sono state attribuite simpatie democratiche: la tesi per cui «l’uomo è la misura di tutte le cose» rende validi e ugualmente degni, in linea di principio, tutti i discorsi, e ciò sembra saldarsi perfettamente con uno dei cardini della democrazia ateniese – il diritto di tutti a esprimere la propria opinione nelle assemblee. 1. Il mito di Promèteo contenuto nel Protagora di Platone è finalizzato a mostrare che: a. la superiorità dell’uomo sulle altre specie risiede nel sapere tecnico. V F b. nella sapienza politica sta il compimento della natura umana. V F c. il compimento della natura umana non risiede nel nòmos. V F d. la superiorità dell’uomo sulle altre creature risiede nella phy`sis. V F

4.2 L’antitesi tra legge e natura Ma altri sofisti nutrono convinzioni assai meno ottimistiche sul rapporto tra legge e natura. Ìppia di Èlide, per esempio, secondo il racconto riportato da Platone ancora nel Protagora, sembra ritenere che gli uomini siano accomunati dalla natura, mentre la legge impone disuguaglianza e differenze:



O uomini qui presenti, io considero tutti voi consanguinei, parenti e concittadini per natura [phy`sei], non per legge; perché per natura il simile è parente del suo simile, mentre la legge, tiranna degli uomini, commette molte violenze contro natura. [Protagora, 337 C-D; DK 86, C 1]



A differenza di Protàgora, phy`sis e nòmos qui né coincidono né si completano a vicenda, ma si oppongono. E l’uguaglianza di natura a cui si fa riferimento non sembra neppure avere implicazioni veramente democratiche: piuttosto, ciò che Ìppia intende è che i simili (per esempio, gli aristocratici) si riconoscono tra loro senza bisogno della legge. In tal senso, la legge sembra piuttosto rappresentare una coercizione o un limite. Una valutazione ancor più negativa della legge è quella che Càllicle espone nel Gorgia platonico (anche se è probabile che Càllicle sia una creazione di Platone, più che un vero sofista esistente): l’umanità è per natura divisa in forti e deboli, e le leggi sono soltanto un’invenzione di questi ultimi per cercare di rovesciare o arginare il giusto dominio dei forti. Chi pertanto rinuncia a soddisfare le proprie passioni e tutti i propri desideri per rispetto della legge è fondamentalmente, per Càllicle, uno stupido che non può e non merita di essere felice. Sempre Platone (questa volta nella Repubblica) attribuisce a un altro sofista, Trasìmaco, la tesi opposta: la giustizia è solo l’utile del più forte, e tutte le leggi riflettono unicamente gli interessi di chi di volta in volta detiene il potere. Trasìmaco e Càllicle condividono in realtà lo stesso presupposto di fondo, e cioè che ciò che è sancito come giusto dalla legge non deve affatto essere inteso come giusto in senso assoluto (o per natura), ammesso che quest’ultimo esista. Il tema dell’uguaglianza di tutti per quel che riguarda la phy`sis, la natura, si ritrova invece in Antifònte di Atene:

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per natura in tutto tutti egualmente siamo fatti per essere e barbari e Greci. È possibile vedere che le cose appartenenti all’ambito della natura sono necessarie in tutti gli uomini e procurate per mezzo delle stesse facoltà per tutti; e in queste stesse cose nessuno di noi viene distinto né come barbaro né come Greco. Respiriamo infatti nell’aria tutti con la bocca e con le narici, e ridiamo rallegrandoci nell’animo o piangiamo soffrendo, e con l’udito riceviamo i suoni, e grazie alla luce della vista vediamo, e con le mani operiamo, e con i piedi camminiamo. [DK 87, B 44B; si segue tuttavia qui l’ed. Bastianini/Caizzi, in cui il frammento figura come 44 A] PHY`SIS E NÒMOS



L’uguaglianza e il cosmopolitismo (con la parziale abolizione della distinzione tra Greci e barbari) non sembrano qui fondarsi tanto sul comune possesso della ragione, quanto sulla comune struttura fisico-naturale e sulla condivisione di alcune necessità primarie. D’altra parte, neppure Antifònte sembra veramente interessato alle possibili conseguenze democratiche dell’universalismo, ma – di nuovo – al conflitto tra phy`sis e nòmos che esso sottende: «le disposizioni delle legge sono infatti accessorie, quelle della natura necessarie; […] la maggior parte di ciò che è giusto secondo la legge si trova a essere ostile alla natura» [DK 87, B 44A; ed. Bastianini/Caizzi B44 B].

• La legge completa la natura: Protàgora di Abdèra

La natura o phy`sis dell’uomo deve trovare compimento nel nòmos; il rispetto delle leggi favorisce tanto lo Stato quanto i singoli.

Tendenza filodemocratica

Ìppia di Èlide

Gli uomini sono accomunati dalla natura, mentre la legge impone disuguaglianza e differenze; la legge rappresenta una coercizione o un limite.

Tendenza forse antidemocratica

Càllicle

L’umanità è per natura divisa in forti e deboli, e le leggi sono soltanto un’invenzione di questi ultimi per cercare di rovesciare o arginare il giusto dominio dei forti.

Tendenza antidemocratica

Trasìmaco

La giustizia è solo l’utile del più forte e tutte le leggi riflettono unicamente gli interessi di chi di volta in volta detiene il potere; ciò che è sancito come giusto dalla legge non deve affatto essere inteso come giusto in senso assoluto (o per natura).

Tendenza individualistica (implicitamente antidemocratica)

Antifònte di Atene

Le disposizioni delle leggi sono accessorie, quelle della natura necessarie; ciò che è giusto secondo la legge risulta in generale ostile alla natura.

Tendenza forse antidemocratica

Alcidamànte di Èlide

La natura non prevede la schiavitù, che è dunque una consuetudine o legge umana.

Tendenza implicitamente democratica

• La legge si oppone alla natura:

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Il nòmos non protegge affatto dai conflitti sociali: anzi esso da una parte vincola la natura, cioè pone dei limiti ai bisogni primari, dall’altra non tutela coloro che decidono di attenersi ad esso. La legge privilegia il cittadino sull’individuo, antepone l’interesse collettivo a quello privato: ma gli interessi sono di fatto individuali e non collettivi. Antifònte disarticola così quel che Protàgora fa sostanzialmente coincidere. Conseguentemente, l’uomo non è di per sé un animale politico, e lo Stato non è il necessario e naturale compimento e completamento della condizione umana. Pare in effetti che anche in Antifònte, come in Trasìmaco, la critica del nòmos abbia condotto a vere e proprie posizioni antidemocratiche. C’è forse un solo sofista che potrebbe invece essersi spinto a difendere, in nome della natura, l’uguaglianza di tutti gli uomini al di là della divisione tra liberi e schiavi (mai veramente messa in discussione in tutta la società greca). Si tratta di Alcidamànte di Èlide, allievo di Gòrgia, a cui viene attribuito il seguente frammento:



Il dio ha lasciato tutti gli uomini liberi: la natura non ha fatto schiavo nessuno. [la citazione si trova in uno scolio – cioè in un’annotazione – relativa a un passo della Retorica aristotelica: Schol. ad Arist. Rhet., I, 13, 1373 b 18 = fr. 4 Nestle]



Possiamo ipotizzare che Alcidamànte attribuisse quindi l’origine della schiavitù e della divisione sociale alla sfera del nòmos, come sembrerebbe confermare un secondo frammento («La filosofia è una barriera contro le leggi scritte») ma purtroppo non ne sappiamo di più.

La critica sofistica nei confronti dei valori tradizionali e delle convenzioni sociali si estende anche al campo della religione. Un buon esempio a questo proposito è Crìzia, uno dei Trenta Tiranni, ovvero degli ateniesi che, dopo la sconfitta con Sparta nella guerra del Peloponneso nel 404 a.C., abolirono l’assemblea dei cittadini ateniesi e instaurarono un regime oligarchico (in cui il potere è detenuto da pochi) basato sulla violenza. Crìzia afferma esplicitamente che gli dèi furono inventati dagli uomini come strumenti di potere, per esercitare un controllo sulle azioni umane anche là dove le leggi non sarebbero potute arrivare. Come riporta Sesto Empìrico:



Anche Crìzia, uno dei tiranni di Atene, sembra appartenere al gruppo degli atei, per aver detto che gli antichi legislatori finsero dio come una specie di ispettore delle azioni umane, sia buone sia cattive, con lo scopo che nessuno recasse ingiuria a tradimento al suo prossimo per paura d’un castigo degli dèi. [DK 88, B 25]



Anche Pròdico di Ceo sembra aver fornito un’interpretazione molto razionale, se non addirittura “laica” (cioè priva di qualsiasi connotazione strettamente religiosa), del divino, suggerendo che «furono considerati e onorati come dèi prima i nutrimenti e le cose utili e successivamente quelli che avevano inventato i cibi, i ripari e le altre tecniche» [DK 84, B 5]. In altri termini, gli uomini avrebbero divinizzato prima ciò che serviva alla loro sopravvivenza e, in seguito, coloro che contribuirono al progresso dell’umanità, come diremmo oggi, con le loro scoperte o le loro invenzioni.

Socrate 5 I dati sulla vita di Socrate È difficile scrivere di qualcuno che non ha mai scritto. Ricostruire la figura e il pensiero di Socrate pone problemi ancora maggiori di quelli che abbiamo considerato a proposito dei cosid-

detti “presocratici”, che nella maggior parte dei casi avevano scritto qualcosa, e di cui pertanto ci sono giunti alcuni frammenti. Abbiamo tuttavia alcuni dati certi sulla vita di Socrate, che nacque intorno al 469 a.C. e visse quasi sempre ad Atene, partecipando attivamente ad alcune campagne militari (nel 432 contro Potidèa, nel 424 a Delo, nel 422 ad

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Anfìpoli). N el 406 a.C. fece parte dei prìtani (coloro ai quali spettava decidere quali problemi sottoporre all’assemblea cittadina, il Consiglio) e fu implicato in un caso delicato: si oppose alla decisione di processare i generali che avevano vinto la battaglia delle Arginùse, non curandosi tuttavia di raccogliere i naufraghi. Socrate fu di fatto l’unico a opporsi al procedimento, non perché poco interessato alla sorte dei naufraghi, ma perché il procedimento stesso risultava legalmente poco corretto. Questa scelta lo pose in conflitto con la fazione democratica, favorevole al processo e alla condanna. N on si può dire che Socrate abbia in qualche modo appoggiato il colpo di Stato oligarchico dei Trenta Tiranni [ 3.4.2], ma è certo che, una volta restaurata la democrazia nel 403, i suoi rapporti con alcuni esponenti della fazione oligarchica come Alcibìade e Crìzia abbiano destato più di un sospetto. Nel 399 a.C., almeno tre elementi della fazione democratica (Melèto, Licòne e soprattutto Anìto) sostennero contro Socrate l’accusa di essersi rifiutato di riconoscere gli dèi della città, sostituendoli con nuove divinità, e di aver corrotto i giovani – due accuse tipicamente rivolte ai sofisti: l’aggravante, in questo caso, era rappresentata dal fatto che Socrate, a differenza della maggior parte dei sofisti, era ateniese e aveva partecipato (e poteva in linea di principio continuare a partecipare) attivamente alla vita politica della città. Protàgora aveva subìto un’accusa simile, e in precedenza più o meno lo stesso era accaduto ad Anassàgora [ 2.10.2]: in tutti e due i casi il procedimento si era concluso con l’allontanamento volontario da Atene dei due accusati. Socrate, al contrario, rifiutò la fuga e l’esilio e decise di sottoporsi al processo, difendendosi da solo. Condannato a morte a maggioranza, venne giustiziato mediante la somministrazione di un estratto di cicuta (una pianta velenosa). Socrate è dunque il primo filosofo di cui abbiamo notizia che sia stato messo a morte, e, come sembra, proprio in ragione delle sue idee. O forse, più ancora che per le sue idee, per la sua pratica di vita: perché è la stessa pratica di vita del filosofo a entrare, con Socrate, in conflitto con la vita comune. La vita filosofica viene percepita per la prima volta fuori posto, fuori luogo nella città. L’atopìa (l’‘essere fuori luogo’, e dunque l’essere estraneo, inclassificabile) diventa il tratto fondamentale che designa Socrate e il vero filosofo.

6 Le principali fonti sulla figura e il pensiero di Socrate Potremmo certamente comprendere meglio i motivi di questo conflitto e della sua tragica conclusione, se avessimo a disposizione gli scritti di Socrate, se cioè Socrate avesse scritto qualcosa. Ma poiché così non è, dobbiamo far riferimento ai resoconti di altri, e al modo in cui i suoi contemporanei ci hanno presentato la sua figura. Queste fonti tuttavia ci offrono una serie di informazioni non propriamente coincidenti e anzi ci propongono immagini piuttosto divergenti. Quando Socrate era ancora in vita, furono messe in scena ad Atene almeno tre commedie che lo vedevano come protagonista; fra queste, si è conservata la seconda stesura (databile tra il 423 e il 417 a.C.) delle Nuvole di Aristòfane. Socrate appare qui da una parte come un sofista e un retore, e dall’altra come un “fisico” o un naturalista. Questa doppia caratterizzazione contrasta con alcuni giudizi successivi, e cioè tanto con l’interpretazione di Platone, nei cui Dialoghi Socrate si contrappone sempre esplicitamente ai sofisti, quanto con quella di Aristotele, secondo cui Socrate non si sarebbe sostanzialmente occupato di questioni naturali, ponendo al centro della sua attenzione solo l’uomo. Nelle Nuvole, Socrate appare in effetti al centro di una vera e propria scuola in cui si svolgono indagini di carattere scientifico (astronomico, geografico, geometrico), circostanza esclusa da altre fonti. Ironicamente Aristòfane chiama la “scuola” socratica «pensatoio» e fa comparire Socrate per la prima volta nella commedia sospeso in una cesta, per poter meglio pensare sollevato da terra. Aristòfane lascia anche intendere che proprio attraverso tali indagini Socrate sia pervenuto a negare le antiche divinità, sostituendole con princìpi naturali: le nuvole, il vortice e così via. Inoltre, la commedia attacca gli artifici retorici e la sfida educativa dei sofisti, immaginando che, proprio per il ribaltamento dei ruoli reso possibile dalla capacità di far prevalere l’argomento più debole contro quello più forte (o il discorso “peggiore” su quello “migliore”:  3.3.1), un figlio si senta in diritto di picchiare il padre. Entrambi i capi di accusa per cui Socrate sarebbe stato condannato circa venti anni dopo sono quindi già

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esplicitamente presenti, sia pure in chiave parodistica, nella commedia di Aristòfane. Le altre fonti principali sulla figura di Socrate sono invece in generale successive alla sua morte; l’intero corpus degli scritti cosiddetti “socratici” (non perché scritti direttamente da Socrate, ma perché Socrate ne è il protagonista) può anzi essere considerato come una reazione alla sua condanna – un episodio che ha segnato in modo profondo la vita politica e intellettuale di Atene. L’intento di fondo di questa produzione è quello di mostrare l’infondatezza delle accuse rivolte a Socrate, evidenziando proprio la diversità di quest’ultimo rispetto a coloro con cui era stato confuso: i sofisti. Tale intento è perseguito attraverso una duplice strategia: o affermando che Socrate era sempre rimasto fedele, al contrario dei sofisti, ai valori tradizionali; o sottolineando al contrario la sua assoluta originalità, tanto rispetto ai sofisti quanto ai canoni tradizionali della vita cittadina. La prima strada è quella che ci è attestata soprattutto da Senofònte (vissuto tra il 430 e il 355 a.C.) in particolare nei Memorabili, ovvero nel resoconto dei dialoghi tenuti da Socrate con interlocutori diversi su temi diversi; la seconda è invece quella seguita da Platone nei suoi Dialoghi, specie in quelli della prima fase. Senofònte, vicino all’esperienza oligarchica forse molto più dello stesso Socrate, ci presenta dunque un Socrate piuttosto conservatore, molto legato alla tradizione, rispettoso delle consuetudini e delle divinità tramandate. L’aspetto principale dell’insegnamento socratico – portato avanti attraverso il dialogo con ogni tipo di interlocutori nella vita cittadina, e non attraverso una scuola a pagamento – sarebbe stato rappresentato dall’insistenza sull’autarchia o autosufficienza: il giusto, o saggio, non ha bisogno di altro, perché possiede già in sé quel che gli è necessario. I Dialoghi di Platone sono assai più ricchi di informazioni strettamente filosofiche, ma la difficoltà che essi pongono è un’altra, ovvero quella di distinguere, all’interno di tali scritti, ciò che appartiene originariamente a Socrate e ciò che è invece proprio di Platone. È tuttavia possibile individuare almeno alcuni nuclei di fondo del pensiero socratico, specie per quel che riguarda le modalità di insegnamento e di indagine, facendo riferimento soprattutto a due scrit-

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ti, l’Apologia (il discorso che Socrate avrebbe pronunciato davanti ai suoi giudici) e il Simposio. Questi nuclei possono essere individuati in tre temi principali: quello dell’ignoranza e dell’ironia, quello della maieutica, e quello del cosiddetto “intellettualismo etico”. 1. L’intento del corpus degli scritti “socratici” è quello di: a. affermare l’originalità del pensiero di Socrate sia rispetto ai sofisti, sia rispetto ai valori tradizionali della città. V F b. mettere in luce, anche se in chiave parodistica, V F i capi di accusa contro il filosofo. c. sottolineare la fedeltà di Socrate ai valori tradizionali della città. V F d. mettere in luce l’infondatezza dei capi di accusa contro il filosofo. V F

7 Ignoranza e ironia Nell’Apologia, Socrate ricorda che uno dei suoi amici (Cherefònte) aveva chiesto all’oracolo di Delfi se esistesse un uomo più sapiente di Socrate. La risposta era stata negativa. Socrate cerca allora di capire il senso di questo responso e si mette alla ricerca di qualcuno più sapiente di lui, interrogando tutti coloro che sembrano possedere una qualche sophìa. All’epoca dei sofisti e di Socrate, il termine non significa ancora esclusivamente la sapienza di tipo filosofico, ma, in maniera non dissimile da tèchne, indica ogni tipo di “saper fare” (quello degli artigiani, quello degli oratori o dei retori, quello dei poeti, quello degli uomini di Stato) e può dunque rappresentare un mestiere [ 3.1]. Ma, proprio interrogando coloro che credono di essere sapienti, Socrate verifica che essi non sanno in realtà molto, o non sanno proprio nulla. Ne deduce quindi che secondo l’oracolo egli è il più sapiente perché sa di non sapere, ovvero perché non presume di sapere e di essere sapiente. Da qui la definizione della filosofia che Platone suggerisce anche nel Simposio: il filosofo non sa, ma è consapevole del suo non sapere, e perciò desidera la sapienza (al contrario, colui che «non ritiene di essere bisognoso, non

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L’ironia di Socrate consiste dunque essenzialdesidera ciò di cui non ritiene di aver bisogno» mente nel fingere di apprendere qualcosa dall’in[Simposio, 204 A]). Il filosofo è – come un terlocutore, per mostrargli che in realtà egli non dèmone mediatore [ Il dèmone] – a metà strada tra l’ignoranza e la vera sapienza, perché sa nulla di ciò di cui pretende di essere sapiente. nasce dalla prima e tende verso la seconda, ma Su questo aspetto, la descrizione di Senofònte solo, appunto, se sa riconoscere le sue origini, si accorda perfettamente a quella di Platone. Nei cioè l’ignoranza da cui muove. Memorabili, è Ìppia il sofista a riprendere Socrate Il compito del filosofo sarà allora non solo in termini molto vicini a quelli del Trasìmaco quello di tendere personalmente verso la saplatonico: pienza, ma anche quello di rendere coscienti gli È ora che tu la smetta di prenderti gioco degli altri uomini della loro insipienza o ignoranza, altri interrogando e confutando tutti, mentre non perché possano intraprendere un cammino vuoi riconoscere ragione a nessuno e non riveli il simile. tuo pensiero su nessun problema. Per assolvere a tale compito, Socrate mantie[Senofònte, Memorabili, IV, 4, 9] ne, nel confronto con i propri interlocutori, la posizione di colui che non sa nulla: non si tratIn effetti, se Socrate desse subito le sue risposte ta di una finzione, ma di una strategia dialettica o le sue opinioni, mostrerebbe di essere in posprecisa. Confessando di non sapere, Socrate sesso di un sapere che non ha – un sapere inteinterroga i suoi interlocutori chiedendo di indiso come insieme di conoscenze che potrebbero care il “che cos’è” – l’essenza, come sarà chiamaessere comunicate, trasmesse o addirittura venta in seguito – di ciò che di volta in volta è dute (come nel caso dei sofisti). Egli preferisce oggetto di discussione: che cos’è il giusto? che invece fare domande perché attraverso la confucos’è il bello? che cos’è il buono? Succestazione dialettica può condurre i suoi interlocusivamente, procede confutando minuziosamentori a prendere consapevolezza dell’illusorietà te tutto ciò che essi asseriscono di conoscere in proposito. A questo punto, egli è in grado di smascherare la presunta sapienza altrui, ovvero la sapienza apparente di chi ritiene di sapere qualcosa. Il dèmone Insomma, Socrate non finge di essere ignorante per pura dissimulazione, ma perché vuole (dàimon) che gli altri si mettano alla ricerca della vera I dèmoni, nella mitologia greca, sono essere semi-disapienza attraverso il medesimo percorso, vini, che svolgono una funzione di mediazione tra gli dèi riconoscendo cioè di non sapere. propriamente detti e gli uomini. Questa funzione viene attriNon stupisce dunque che il Socrate dei buita anche alla filosofia in un dialogo di Platone, il Simposio. dialoghi platonici (e in particolare dei In questo testo, il filosofo è paragonato al dèmone Eros (Amore), primi dialoghi) preferisca porre doman- figlio degli dèi Penia (Povertà) e Poros (Espediente): così come Eros de, piuttosto che dare risposte. Questo è media tra il sensibile (la povertà) e l’intelligibile (le risorse), il filosoquanto gli rimprovera, per esempio, il fo è intermedio tra la sapienza e l’ignoranza. sofista Trasìmaco nella Repubblica pla- In senso più tecnico, il termine dàimon sta anche a indicare ciò che tonica, identificando in tale aspetto il guida l’anima nelle sue scelte: qualcosa di simile all’angelo custode tratto essenziale della cosiddetta ironia della tradizione cristiana o anche ciò che la stessa anima umana possiede di divino. Il dèmone di ciascuno viene così a designare il suo socratica:





carattere, la sua indole. In questa gamma di significati, i dèmoni continueranno a svolgere a lungo una funzione nella filosofia Per Eracle! Eccoci come al solito alle greca. Con la definitiva affermazione del cristianesimo, le fiprese con la famosa ironia socratica. Ma già gure di mediazione tra il divino e l’umano saranno chialo sapevo e l’avevo pur anticipato a questa mate “angeli” (“messaggeri”, sulla base del lessico gente che tu ti saresti rifiutato di rispondere, delle Sacre Scritture), mentre “dèmoni” saranavresti assunto la maschera dell’ironia, facendo no chiamati, in negativo, solo gli angeli di tutto pur di non dare risposte a chi te le avescaduti e le creature maligne.





se chieste. [Repubblica, I, 337 A]

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del loro sapere e a prendersi cura di sé per aspirare alla vera sapienza. N el Simposio, quando Agàtone gli chiede di sedersi accanto a lui perché possa, quasi per contatto, acquisire la sua sapienza, Socrate risponde: «Sarebbe davvero bello, Agàtone, se la sapienza fosse tale da scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, quando ci accostiamo l’uno all’altro» [Simposio 175 D].

1. Per Socrate il sapere di non sapere è: a. la consapevolezza della propria ignoranza che apre alla possibilità di conseguire la vera sapienza. b. la consapevolezza di non sapere che porta l’uomo a non ricercare la sapienza. c. la consapevolezza socratica che la maggior parte degli uomini vive nell’opinione. d. la conclusione a cui giunge la strategia dialettica di Socrate. 2. Per Socrate l’ironia consiste: a. nel generale atteggiamento di non prendere sul serio l’interlocutore. b. nel simulare inizialmente di aderire alla tesi dell’interlocutore per poi confutarla. c. nel tentativo di mettere in ridicolo la cultura dominante. d. nell’atteggiamento di distacco del filosofo dai presunti sapienti.

8 L’arte maieutica e l’esortazione a prendersi cura di sé Quest’ultima affermazione spiega un altro aspetto caratteristico del modo in cui Socrate intendeva e praticava la filosofia: poiché la verità non può essere trasmessa, ma deve generarsi all’interno di ciascuno, l’arte di Socrate è vicina alla maieutica, ovvero all’arte dell’ostetrico o della levatrice (Socrate era per altro figlio proprio di una levatrice, Fenarète). In altri termini, l’interrogazione socratica mira a far sì che ciascuno possa generare o “partorire” da sé la verità, così come egli stesso dichiara nel Teeteto platonico:



La mia arte di ostetrico possiede tutte le altre caratteristiche che competono alle levatrici, ma ne differisce per il fatto che fa da levatrice agli uomini e non alle donne, e che si applica alle loro anime partorienti, e non ai corpi. […] Poiché questo, almeno, è comune a me e alle levatrici: non posso generare sapienza; quello che già molti mi hanno

rinfacciato, che io, sì, interrogo gli altri, ma poi io stesso non manifesto nulla su nessun argomento, adducendo come causa il mio non essere sapiente in nulla, è un rimprovero che risponde a verità. […] Quanto a me, dunque, non sono affatto sapiente in qualche cosa, né ho alcuna sapiente scoperta che sia come un figlio generato dalla mia anima. Ma di quelli che mi frequentano, alcuni appaiono dapprima ignoranti, ed anche molto, ma poi tutti, continuando a frequentarmi, almeno quelli ai quali il dio lo conceda, fanno progressi così straordinari, che se ne rendono conto essi stessi, ed anche gli altri. E questo è chiaro: da me non hanno mai imparato nulla, ma sono loro che, da sé stessi, scoprono e generano molte belle cose. [Teeteto, 150 B-D]



Il passo mostra che ciò che più conta, per Socrate, non sono tanto o soltanto i contenuti che l’interlocutore apprenderà, quanto i progressi che quest’ultimo potrà fare, a partire dal riconoscimento della propria ignoranza. Nel dialogo socratico la vera posta in gioco non è ciò di cui si parla, ma coloro che parlano. Questo è quanto Socrate stesso afferma nella sua Apologia (o, almeno, è quanto Platone gli fa dire):



io ho imparato nella vita a non avere mai tranquillità, ma, non prendendomi cura di quelle cose delle quali si curano i più – ossia della casa e dell’amministrazione dei guadagni, dei comandi militari e dei discorsi per accattivarmi il popolo, né di altri poteri, o di coalizioni e di fazioni politiche […] non mi sono intromesso in quelle cose in cui non avrei potuto essere di giovamento né a me né a voi, e invece, mi sono impegnato in privato a procurare il più grande beneficio a ciascuno – come vi ho detto –, cercando di persuadere ognuno di voi, che non deve prendersi cura delle proprie cose prima di sé medesimo, per diventare il più buono e il più saggio possibile. [Apologia, 36 B-C; trad. lievemente modificata]



In un altro dialogo platonico, il Lachete, lo stesso aspetto viene sottolineato da un altro personaggio, Nicia:



Ho l’impressione che tu non sappia che chi è abituale interlocutore di Socrate e ha familiarità con lui, anche se, precedentemente, ha cominciato a discutere intorno ad altro, non può evitare di farsi condurre quasi per mano da lui nel di-

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scorrere, fintanto che abbia dato ragione di sé, del modo in cui vive e del suo passato. [Lachete, 187; trad. lievemente modificata]



Socrate costringe dunque i suoi interlocutori a rendere conto di sé e del modo in cui hanno scelto di vivere; nell’Apologia, egli ribadisce chiaramente che questa è la sua missione:



E se qualcuno di voi dissentirà su questo e sosterrà di prendersene cura [della saggezza, della verità e della propria anima], io non lo lascerò andare immediatamente, né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo sottoporrò ad esame e lo confuterò. [Apologia, 29 E]



Un’insistenza che rende inevitabilmente Socrate inopportuno, eccentrico, spaesante, fuori posto. In ciò consiste l’atopìa di Socrate a cui facevamo riferimento in precedenza: Socrate è fondamentalmente àtopos. Platone lo fa dire ad Alcibìade, nell’elogio che quest’ultimo fa di Socrate nel Simposio (Socrate non è simile a nessuno degli uomini, per i suoi discorsi), e lo fa dire a Socrate stesso nel Teeteto: «dicono di me questo […] che sono totalmente sconcertante [àtopos] e metto in imbarazzo gli altri» [Teeteto, 149 A; trad. lievemente modificata]. Socrate intende pertanto la filosofia come una scelta di vita, o come l’arte di vivere bene, e cerca di spingere gli altri a filosofare non trasferendo in essi un sistema di conoscenze, ma mostrando la pratica stessa del suo vivere. In un altro passo dell’Apologia, Socrate ammette di essere perfettamente consapevole del fatto che questo scopo – ovvero mettere continuamente alla prova sé stesso e gli altri – possa non essere facilmente accettato da tutti e riconosciuto come il bene più grande:



Se, poi, vi dicessi che il bene più grande per l’uomo è fare ogni giorno ragionamenti sulla virtù e sugli altri argomenti intorno ai quali mi avete ascoltato discutere e sottoporre ad esame me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta; ebbene, se vi dicessi questo, mi credereste ancora di meno. [Apologia, 38 A]



Una vita che non si mette in discussione, che non si mette alla prova, non è degna di essere vissuta: è questa la massima che forse più di ogni altra dà il senso del progetto socratico (ma potrebbe appli-

carsi anche a buona parte della filosofia antica). Possiamo anche supporre che sia proprio questa convinzione a indurre alla fine Socrate ad affrontare il processo e la condanna a morte. In effetti, sempre nell’Apologia, Socrate immagina che qualcuno possa accusarlo di aver scelto deliberatamente un genere di vita che, in quanto inaccettabile ai più, lo avrebbe comunque condotto alla morte. In altri termini, Socrate avrebbe scelto lui stesso, vivendo in quel modo, di morire. Questa obiezione non ha alcun senso, per Socrate, per due ragioni fondamentali. In primo luogo, la morte andrebbe temuta solo se sapessimo cosa essa sia; ma non lo sappiamo, e, come abbiamo visto, non c’è ignoranza peggiore di quella di chi pretende di conoscere ciò che ignora del tutto. N on sappiamo dunque se la morte sia un bene o un male. Sappiamo però per certo, continua Socrate, che commettere ingiustizia è un male. Ora – e questa è la seconda ragione – è insensato fuggire qualcosa che si ignora e commettere invece ciò che si sa essere un male, sottrarsi cioè alla giustizia. Dunque, l’ignoranza socratica ha in realtà un punto fermo, che consiste nella certezza che non bisogna commettere ingiustizia. Il mettere in discussione sé stessi e gli altri non è mai fine a sé stesso, e non serve solo a scuotere false certezze: serve invece fondamentalmente a prendere una decisione intorno a ciò che si è e ciò che si vuole essere.

La filosofia come pratica di vita: il modello socratico secondo Plutarco In uno dei suoi scritti morali dal titolo Se un anziano debba fare politica, Plutarco di Cheronèa (scrittore, erudito e filosofo vissuto tra la seconda metà del I secolo d.C. e i primi decenni del II secolo) ci ha lasciato una delle descrizioni più efficaci della figura di Socrate e del suo modo di intendere e praticare la filosofia.

Ma, al di là di tutti questi ragionamenti, occorre ricordare che fare politica non è soltanto esercitare una carica, andare in ambasceria, gridare forte nell’assemblea, dibattersi sopra la tribuna a fare discorsi o a presentare progetti di legge, cose che i più intendono per fare politica, così come la maggior parte delle persone immagina che la filosofia consista nel dibattere dall’alto di una cattedra e nel fare corsi su alcuni testi. Ciò che sfugge a persone del genere sono quella politica e

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La filosofia ad Atene: i sofisti e Socrate capitolo 3 1. Per Socrate la maieutica è: a. l’arte di far partorire dall’animo stesso dell’interlocutore la verità che Socrate vi ha immesso. b. l’arte di far partorire dall’animo stesso dell’interlocutore la coscienza della propria ignoranza. c. l’arte di far partorire dall’animo dell’interlocutore la verità. d. la strategia dialettica che mira a far partorire le false convinzioni all’interlocutore. 2. Nell’Apologia Socrate dichiara che la missione del suo continuo dialogare consiste nel: a. fare da levatrice alle anime partorienti degli uomini. b. provocare sconcerto e imbarazzo negli interlocutori. c. mostrare l’ignoranza dell’interlocutore. d. portare gli interlocutori a rendersi conto del modo in cui trascorrono la vita.

9 L’“intellettualismo etico” Abbiamo visto come la vera ignoranza stia per Socrate nel presumere di sapere ciò che invece si ignora. Qui è anche la radice del male: il male si compie soltanto perché non si conosce il bene. Il cosiddetto “intellettualismo etico” consiste precisamente in questa convinzione di fondo: nessuno può davvero commettere il male volontariamente; chi sbaglia, lo fa soltanto perché ignora quello che è il suo vero bene. Mettendosi in discussione, abbandonando le false certezze, si comincia invece gradualmente

quella filosofia che continuamente e in modo uniforme si può cogliere di giorno in giorno nelle opere e nelle azioni. […] Fare politica è cosa identica al fare filosofia. Socrate dunque faceva filosofia senza disporre banchi e senza sedersi su una cattedra, senza badare all’orario stabilito per la disputa o la passeggiata con i discepoli, ma quando capitava, anche mentre scherzava, o beveva in compagnia, o prendeva parte a una spedizione militare, o si trovava in piazza con alcuni di loro, e infine quando si trovò in carcere e bevve il veleno. Egli è stato il primo a mostrare che la vita, da qualsiasi parte e in ogni momento, in tutto ciò che ci accade e in tutto quel che facciamo, ovvero semplicemente in tutto, ci dà la possibilità di praticare la filosofia.

a comprendere quello che è meglio per sé stessi, e si progredisce nella conoscenza del bene. Ma nel corso di tale ricerca è comunque opportuno rimettersi a coloro che sono già pervenuti alla conoscenza del bene, sottomettendosi alle leggi della città e obbedendo a chi è migliore di noi. L’obbedienza è un valore fondamentale per Socrate, e come tale viene sottolineato da Senofònte. Ma questa opzione è una diretta conseguenza del fatto che bisogna riconoscere il proprio non sapere e seguire coloro che hanno raggiunto il sapere. In questo senso, nonostante Socrate abbia sempre deciso di prendersi cura dei singoli, il bene ha anche una dimensione collettiva, che riguarda la città. Per questo Socrate aveva combattuto più volte per Atene, e per questo sceglie di morire, perché il tradimento della città (cioè il fatto di sottrarsi alla sua giustizia) sarebbe comunque una colpa e un’ingiustizia. Possiamo supporre che con la propria morte Socrate si auguri di contribuire al cambiamento e al miglioramento della città, cosa che non avrebbe potuto aver luogo se fosse fuggito. Se Socrate ha mostrato la possibilità di filosofare nel quotidiano [ La filosofia come pratica di vita] è perché egli si è dedicato al bene della città, attraverso la trasformazione non delle istituzioni ma dei singoli, credendo nella giustizia al di là di ogni interesse personale:



non sembra umanamente possibile che io abbia trascurato tutti i miei affari, sopportando ormai da tanti anni che vengano lasciati da parte i miei interessi, per occuparmi, invece sempre dei vostri, frequentando in privato ciascuna e ciascuno di voi come un padre o un fratello maggiore, al fine di convincervi a prendervi cura della virtù. [Apologia, 31 B; trad. lievemente modificata]



La morte di Socrate è stata interpretata e vissuta da Platone come il fallimento del rapporto tra filosofia e politica; ma possiamo anche ritenere, e sempre sulla base dei testi platonici, che Socrate pensasse il contrario, e cioè che la sua morte potesse mostrare proprio ciò che è essenziale nel rapporto del filosofo con la città: perché il compito del filosofo – sgradevole, difficile, e tale da esporlo alla parodie così come alle accuse e alla condanna a morte – è appunto quello di essere fuori luogo nel luogo per eccellenza (nella città), di essere spaesato e spaesante nel mondo e nella vita di ogni giorno, e non all’esterno di essa.

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Le cosiddette “scuole socratiche minori” Ad alcuni degli allievi più o meno diretti di Socrate – e precisamente a Euclìde di Mègara, Antìstene di Atene e Aristìppo di Cirène – si fanno risalire le origini della scuola megarica, di quella cinica e di quella cirenaica, che vengono comunemente indicate come “scuole socratiche minori”. Questa definizione rischia però di risultare almeno in parte fuorviante, in primo luogo perché non si tratta di scuole in senso stretto, con un insegnamento definito, e in secondo luogo perché la qualificazione di “minori” è una pura convenzione storiografica; essa si fonda infatti sulla scelta di considerare il platonismo come l’unico sviluppo naturale e principale (“maggiore”) dell’esperienza socratica. In realtà, queste “scuole” furono, per certi versi, quelle più vicine al modo in cui Socrate aveva inteso la pratica della filosofia, come continua messa in discussione della propria esistenza in vista del raggiungimento della virtù e della felicità.

10 Le strategie dialettiche dei “megarici” Euclìde di Mègara, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., fu uno dei primi a offrire rifugio e ospitalità agli altri discepoli di Socrate (tra cui Platone) fuoriusciti da Atene dopo la condanna di quest’ultimo. N on conosciamo molto della sua attività. Da Socrate, Euclìde sembra riprendere soprattutto i temi strettamente etici, in particolare l’ideale dell’autosufficienza e dell’apatia (ovvero del controllo che il saggio può esercitare sulle passioni e sui dolori) e la convinzione che il bene sia unico, per quanto spesso indicato con nomi diversi: tutte le virtù sono quindi fondamentalmente unite nella sapienza. Ma è caratteristica dei megarici anche una marcata attenzione alla dialettica e alle tecniche di argomentazione, che riprendeva l’interesse socratico (e sofistico) per le strategie di confutazione, sviluppandolo fino a esiti in qualche modo paradossali. Ad un allievo di Euclìde, Eubùlide di Milèto, è per esempio attribuita una serie di celebri paradossi, come per esempio quello del “men-

titore”: se qualcuno dice di mentire e dice che questo è vero, mente o dice il vero? O ancora quello del “sorìte” o mucchio: quanti granelli di grano fanno un mucchio? Qualsiasi cifra si indichi, si potrà sempre dire che togliendone un granello il mucchio non viene meno, ma così si potrebbe procedere fino a quando del mucchio non rimarrebbe più niente. O infine il paradosso del “cornuto”: si possiede tutto ciò che non si è perso; se dunque uno non ha perso le corna, vuol dire che è cornuto. A un altro filosofo annoverato tra i megarici, Diòdoro [o Diodòro] Crono (morto intorno al 307 a.C. e dunque più o meno contemporaneo di Aristotele), viene attribuito un argomento che abbiamo già incontrato in Zenòne a proposito della negazione del movimento: ogni cosa o si muove nel luogo in cui è, e allora di fatto non si muove, o nel luogo in cui non è, e allora non c’è. Inoltre, gli viene attribuito un argomento noto sotto il nome di “dominatore”: in base a quest’ultimo si deve ritenere possibile solo ciò che è o sarà, con il risultato di far coincidere così l’ambito di ciò che è possibile con quello di ciò che esiste effettivamente (o è in atto), ovvero di far coincidere la possibilità con l’effettività o attualità, o addirittura con la necessità, se “possibile” è in fin dei conti ciò che prima o poi necessariamente avverrà. L’argomento è tuttavia riferito, e in modo un po’ oscuro, da Aristotele, che per altro polemizza esplicitamente con questa posizione sostenendo una tesi opposta: la possibilità è un ambito più vasto dell’attualità, poiché gli eventi futuri, a differenza di quelli passati e quelli presenti, restano indeterminati (pertanto, possibile è ciò che può essere o non essere).

11 Gli sviluppi del rigorismo socratico: Antistene, Diogene e i “cinici” Antìstene, vissuto tra il 444 a.C. e il 365 a.C., rappresenta per certi versi la tendenza più lontana da Platone nell’ambito dell’eredità socratica, almeno per quanto riguarda l’interpretazione della dialettica. Secondo Antìstene, alle domande

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tipicamente socratiche sul “che cosa” non è possibile rispondere con una vera e propria definizione che comprenda nozioni diverse (per esempio, dicendo che l’uomo è un “animale razionale”), perché in tal modo verrebbe incrinata l’identità delle cose stesse. Il “che cosa” è invece espresso, tautologicamente (cioè attraverso la semplice ripetizione), dal solo nome (l’uomo è “uomo”): l’individuazione dei nomi appropriati è così in generale il principio che consente di cogliere similarità e dissomiglianze tra le cose. Se dunque le cose possono essere espresse solo attraverso il loro nome, non ha senso far appello a qualcosa di esterno ad esse, come saranno poi le “idee” o “forme” platoniche. In effetti è attribuita ad Antìstene anche una celebre affermazione antiplatonica: «vedo il cavallo, non la cavallinità» [Decleva Caizzi, frr. 50 A-C = Giannantoni v A 149], cioè la “forma” o “idea” del cavallo separata dai cavalli reali. N ell’ambito etico, Antìstene sembra aver accentuato in modo drastico il rigorismo socratico che abbiamo già parzialmente ritrovato in Euclìde: solo la virtù conduce alla felicità e non ha bisogno di altro. L’autosufficienza del saggio consiste così nel dominio e nella soppressione delle passioni attraverso una serie di tecniche di autodisciplinamento (esercizi fisici ed esercizi mentali o “spirituali”). Si dice a tal proposito che Antìstene sarebbe giunto ad affermare: «preferirei impazzire piuttosto che provare piacere» [Decleva Caizzi, frr. 108 A-F = Giannantoni, v A 122]. Lo stesso rigorismo avrebbe condotto Antìstene alla scelta di una povertà radicale e al disprezzo per tutte le convenzioni del vivere civile. Antìstene non può essere considerato il fondatore di una vera e propria scuola, ma al massimo come l’antesignano di un indirizzo che avrebbe trovato il suo vero iniziatore in Diògene di Sìnope (IV secolo a.C.; Sìnope è una città dell’attuale Turchia), e altri suoi esponenti in Cratète, Mètrocle e, nel II secolo a.C., in Menedèmo e Menìppo. Sono state avanzate diverse ipotesi sull’origine del nome “cinici”, che secondo alcuni sarebbe derivato dal ginnasio ateniese di Cinosàrge, e secondo altri, più plausibilmente, dal modo di vita proposto, simile a quello dei cani (ky`on, kynòs in greco vuol dire appunto ‘cane’), in quanto sciolto da vincoli familiari e sociali. Diògene riprende in effetti e radicalizza la pole-

mica di Antìstene contro le leggi e le convenzioni sociali, fino al vero e proprio rifiuto di alcune regole elementari della convivenza civile: egli avrebbe sostenuto la legittimità del furto, l’abolizione del matrimonio, l’inopportunità di tutti i divieti alimentari (ammettendo per esempio il consumo di carne cruda, e perfino, secondo alcuni, di carne umana). In questo senso, è comprensibile che i cinici abbiano rinunciato a qualsiasi possibilità di partecipazione alla vita politica: se ciò che realmente conta è l’esercizio individuale della virtù, esso deve avere come orizzonte appropriato non la pòlis ma il mondo intero.

12 Aristippo e i “cirenaici” Aristìppo di Cirène (città africana, nell’odierna Libia) – vissuto fra gli ultimi decenni del V secolo a.C. e la prima metà del IV, è considerato l’iniziatore della scuola chiamata appunto “cirenaica”. Egli sembra rompere, almeno in apparenza, con il rigorismo etico di Socrate e della maggior parte degli altri suoi discepoli, attribuendo grande importanza alla componente edonistica, e cioè al piacere. In realtà, ci troviamo qui di fronte a una diversa interpretazione di alcuni temi socratici: se il bene è ciò che attrae, come proprio Socrate aveva mostrato, tutto ciò che attrae – e dunque anche, se non soprattutto, il piacere – è bene. Ciò che il sapiente o saggio deve ricercare è dunque il piacere, e il piacere presente, identificabile con un movimento “lieve” dei sensi (mentre il dolore sembra presentarsi come un movimento “forte”, cioè come uno sconvolgimento incontrollabile dei sensi). Anche in questo caso restano essenziali il controllo e il dominio di sé: il vero saggio non è mai passivo nei confronti del piacere. Diògene Laèrzio riferisce a questo proposito che Aristìppo avrebbe risposto, a chi gli chiedeva di rendere conto dei suoi rapporti con una cortigiana: «Domino, non son dominato» [Vite dei filosofi, II, 75]. N ell’ambito della teoria della conoscenza, i cirenaici avrebbero difeso una forma di sensismo o, come si potrebbe dire, di fenomenismo: non possiamo conoscere le cose esterne così come sono, ma solo così come si presentano ai nostri sensi – anzi, più radicalmente: non cono-

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SINTESI CAPITOLO 3

sciamo le cose esterne, ma solo le nostre stesse sensazioni. Da qui anche una certa sfiducia nei confronti della possibilità di condurre indagini di tipo matematico, fisico o logico: l’unica vera scienza rimane per i cirenaici la condotta virtuosa, ovvero la ricerca controllata dei piaceri attualmente disponibili alla sensazione. Ma a testimonianza del fatto che anche in questo caso sia impossibile parlare di una vera e propria “scuola”, con una dottrina ben definita e omogenea, è opportuno ricordare che altri cirenaici successivi sembrano aver sostenuto posizioni ben più pessimistiche: Egèsia di Cirène (vissuto tra la fine IV secolo a.C. e gli inizi del III), per esempio, avrebbe considerato la felicità come un ideale impossibile, perché nella nostra esistenza i dolori tendono a prevalere (e per questo motivo la morte risulterebbe preferibile, per il sapiente, alla vita).

Un quadro d’insieme: i sofisti, “intellettuali” di professione. Il termine greco “sofista” (sophistès) originariamente significava ‘esperto nel sapere’. Con l’avvento della sofistica, la sapienza in generale e l’arte oratoria in particolare cominciarono ad essere oggetto di insegnamento. La sofistica fu fenomeno ateniese, in quanto le condizioni della vita politica cittadina rendevano necessaria una formazione specifica nell’arte di tenere discorsi. I sofisti, maestri di tale arte, giungevano ad Atene da altre parti della Grecia per cominciare ad insegnare a pagamento. Ciò determinò la rottura della continuità nell’educazione familiare e costò loro l’accusa di rovesciare i valori tradizionali. Questa denuncia figurerà anche tra i capi d’accusa mossi a Socrate nel processo di cui fu oggetto. L’opposizione tra filosofi e sofisti costituisce, pertanto, una divisione interna al nascente sapere filosofico e riguarda il modo di concepire il sapere. La differenza tra i “filosofi” in senso stretto e i sofisti riguarda il metodo: i sofisti non ammettono un perfetto isomorfismo, una corrispondenza, tra sapere e realtà, il loro sapere non si occupa del vero in sé, ma di ciò che appare vero. Aristotele afferma che i sofisti ingan-

È inoltre riscontrabile anche nei cirenaici una certa tendenza al ripiegamento e alla chiusura nei confronti della vita della pòlis, accompagnata dall’indifferenza o addirittura dal disprezzo per le norme della convivenza civile. Ciò che Diògene Laèrzio attribuisce a Teodòro di Cirène, detto l’Ateo (vissuto anch’egli tra IV e III secolo a.C.) ne offre una riprova evidente:



La patria è il mondo a suo parere. All’occasione si dovrebbe rubare, commettere adulterio e saccheggiare templi: infatti, nessuna di queste azioni è turpe per natura, una volta eliminata l’opinione che vi è connessa, la quale sta lì allo scopo di condizionare gli stolti. E apertamente, senza alcuna apprensione, il sapiente avrà rapporti sessuali con i suoi amati. [Vite dei filosofi, II, 99]

nano perché, difendendo un sapere solo apparente, pretendono di essere filosofi senza praticare fino in fondo questo stile di vita. La realtà e le apparenze. I sofisti ritengono che la realtà sia intrinsecamente e irriducibilmente molteplice, pertanto non c’è per loro una verità assoluta e valida per tutti. Essi non mettono in dubbio l’esistenza della realtà, ma la possibilità di conoscere qualcosa di diverso dalle apparenze. Di qui l’importanza del discorso e del linguaggio: i sofisti insegnano a tenere discorsi convincenti, persuasivi, perché sono i discorsi a forgiare la realtà, soprattutto la realtà delle azioni umane, la politica, che dipende dalla retorica (l’arte di saper persuadere gli interlocutori attraverso i propri discorsi e i propri scritti). Occorre però precisare che i sofisti non sono stati i primi ad occuparsi della sfera propriamente umana, né si sono occupati solo di essa. Il tema di fondo delle loro riflessioni era costituito dal rapporto tra phy`sis e nòmos, ovvero tra la natura e le leggi istituite dagli uomini stessi. Inoltre la sofistica non era un movimento uniforme e indifferenziato: i singoli sofisti avevano posizioni politiche diverse e sostenevano tesi contrastanti.



La critica all’oggettività del reale. La tesi di Protàgora, «l’uomo è misura di tutte e cose», può essere interpretata in due sensi: uno debole e uno forte. Se Protàgora si riferisse alla natura umana in generale, il frammento alluderebbe al fatto che le cose diventano comprensibili e giudicabili solo in rapporto alla ragione umana. Oppure si potrebbe intendere che ogni singolo uomo sia giudice delle proprie esperienze conoscitive. Ciò significa che vero è ciò che appare tale a ognuno: in tal caso l’unica possibilità di trovare un accordo nel definire le cose sarebbe offerta dal linguaggio e dal discorso. Si tratta della prima tesi relativistica nella storia del pensiero occidentale: ognuno si forgia la sua verità. Protàgora attribuisce molta importanza al linguaggio: il buon retore possiede la capacità di rendere più forte il discorso più debole e migliore il discorso apparentemente peggiore. Una tesi dal carattere scettico è quella di Senìade di Corinto che ha dichiarato false tutte le cose e fallaci tutte le opinioni. Egli ha anche infranto il divieto parmenideo di parlare del non-essere e la tendenza del pensiero greco a ritenere inammissibile qualsiasi passaggio tra l’essere e il nulla, e viceversa.

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SINTESI CAPITOLO 3

La filosofia ad Atene: i sofisti e Socrate capitolo 3 Gòrgia ha sostenuto tre tesi fondamentali (1. nulla esiste; 2. se anche qualcosa esistesse, non sarebbe comprensibile; 3. se anche fosse comprensibile, non sarebbe comunicabile) che comportano una negazione progressiva dell’essere, della sua pensabilità e della sua dicibilità: egli non intende negare davvero l’esistenza di qualcosa, ma negare l’esistenza di un essere pieno e completo, nel senso di Parmènide e Melìsso, e che esso risulti trasparente al pensiero e al linguaggio. Al contrario di Zenòne, che ha impiegato la dialettica a sostegno delle tesi parmenidee, Gòrgia se ne avvale per rovesciarle. Dopo aver demolito la corrispondenza tra essere, pensiero e linguaggio, egli esalta la potenza divina del linguaggio e la sua forza di seduzione. La natura e la legge. Nell’ambito della politica i sofisti non si muovono alla ricerca della verità o della giustizia, essi fondano sul consenso la vita della pòlis. Diversamente dalla tradizione che considerava la virtù come qualcosa di innato, essi ritengono, suscitando scandalo, che la si possa insegnare a pagamento. Secondo il mito di Promèteo raccontato da Protàgora nell’omonimo dialogo di Platone la superiorità dell’uomo rispetto alle altre specie animali non risiede solo nella sapienza tecnica, ma nella sapienza politica. A differenza di tutti gli altri animali, infatti, l’uomo non può vivere isolato: ciò implica che la natura o phy`sis dell’uomo, deve trovare compimento nel nòmos, nell’insieme di leggi, convenzioni, consuetudini che permettono la sopravvivenza e lo sviluppo del proprio sapere tecnico). Per Protàgora l’utile del singolo e quello della comunità vengono così a coincidere: il rispetto dei nòmoi, delle leggi, favorisce il singolo e lo Stato. A Protàgora sono state attribuite simpatie democratiche. La tesi per cui «l’uomo è la misura di tutte le cose» rende validi e degni, in linea di principio, tutti i discorsi: ciò è in linea con uno dei cardini della democrazia ateniese, il diritto di tutti ad esprimere la propria opinione nelle assemblee. Altri sofisti hanno interpretato il rapporto tra legge e natura in modo assai diverso rispetto a Protàgora. Per Ìppia di Èlide, phy`sis e nòmos si

oppongono: gli uomini sono accomunati dalla natura, mentre la legge impone disuguaglianza e differenze. Per Càllicle l’umanità è per natura divisa in forti e deboli, e le leggi sono soltanto un’invenzione di questi ultimi per arginare il giusto dominio dei forti. Trasìmaco sostiene la tesi opposta: la giustizia è solo l’utile del più forte, quindi le leggi riflettono unicamente gli interessi di chi di volta in volta detiene il potere. Antifònte di Atene riprende il tema dell’uguaglianza fondata sulla phy`sis: l’uguaglianza e il cosmopolitismo non si fondano tanto sul comune possesso della ragione, quanto sulla comune struttura fisiconaturale e sulla condivisione di alcune necessità primarie. Il nòmos non protegge affatto dai conflitti sociali: esso antepone l’interesse collettivo a quello privato. Alcidamànte di Èlide è l’unico sofista ad affermare la naturale uguaglianza tra gli uomini; egli attribuiva l’origine della schiavitù e della divisione sociale alla sfera del nòmos. Con Crìzia la critica sofistica si estende anche al campo della religione. Questi afferma che gli dèi furono inventati dagli uomini per esercitare un controllo sulle azioni umane anche là dove le leggi non sarebbero potute arrivare. Per Pròdico di Ceo gli uomini avrebbero divinizzato prima ciò che serviva immediatamente alla loro sopravvivenza, cibi e tecniche, e in seguito coloro che contribuivano al progresso dell’umanità con le loro scoperte o le loro invenzioni. I dati sulla vita di Socrate. Socrate nacque ad Atene nel 469 a.C. e visse quasi sempre in questa città. Partecipò ad alcune campagne militari ricoprendo un ruolo di rilievo nella vita politica ateniese. In seguito alla sua posizione su una vicenda processuale perse il favore della fazione democratica, finché nel 399 a.C. venne processato e condannato a morte con l’accusa di non aver riconosciuto gli dèi della città e di aver corrotto con i suoi insegnamenti i costumi dei giovani. Le principali fonti sulla figura e il pensiero di Socrate. Socrate non ha mai scritto nulla. Le fonti sulla sua figura e sul suo pensiero ci propon-

gono immagini piuttosto divergenti. La prima fonte risale a quando il filosofo era ancora in vita ed è costituita dalla commedia le Nuvole di Aristòfane. Socrate appare qui da una parte come un sofista e un retore, e dall’altra come un “fisico” o un naturalista. Le altre fonti principali sulla figura di Socrate sono successive alla sua morte: Senofònte nei Memorabili ci presenta un Socrate piuttosto conservatore, molto legato alla tradizione, rispettoso delle consuetudini e delle divinità tramandate; Platone, nei suoi Dialoghi, riprende tre nuclei di fondo del pensiero socratico: l’ignoranza e l’ironia, la maieutica e l’intellettualismo etico. Ignoranza e ironia. Secondo l’oracolo di Delfi Socrate è il più sapiente, ma solo perché, come egli interpreta, sa di non sapere, ovvero perché non presume di essere sapiente. Il compito del filosofo consiste, dunque, oltre che nel tendere personalmente alla sapienza, nel rendere coscienti gli altri uomini della loro insipienza o ignoranza, perché possano intraprendere un cammino simile. Per assolvere a tale compito, Socrate si serve dell’ironia: questa consiste nel fingere di apprendere qualcosa dall’interlocutore, per mostrargli che in realtà egli non sa nulla di ciò su cui pretende di essere sapiente. Attraverso continue domande e la confutazione dialettica delle risposte, Socrate può condurre i suoi interlocutori a prendere consapevolezza dell’illusorietà del loro sapere, e a prendersi cura di sé per aspirare alla vera sapienza. L’arte maieutica e l’esortazione a prendersi cura di sé. La sua arte è la maieutica, ovvero l’arte di far partorire le anime: Socrate non demolisce il sapere apparente degli interlocutori per sostituirlo con proprie verità, ma per aiutarli a “partorire” o generare da sé la verità. L’“intellettualismo etico”. L’“intellettualismo etico” consiste nella convinzione secondo cui nessuno commette il male volontariamente: chi sbaglia, lo fa soltanto perché ignora il suo vero bene. Mettendosi in discussione, abbandonando le false certezze, si comincia invece gradualmente a comprendere quello che

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita è meglio per sé stessi e si progredisce nella conoscenza del bene. Nel corso di tale ricerca è comunque opportuno affidarsi a coloro che sono già pervenuti alla conoscenza del bene, sottomettendosi alle leggi della città e obbedendo a chi è migliore di noi.

bene indicato con nomi diversi: tutte le virtù coincidono con la sapienza. È caratteristica dei megarici l’attenzione alla dialettica e alle tecniche di argomentazione. Essi sono autori di numerosi paradossi (del mentitore, del cornuto, ecc.).

Le strategie dialettiche dei “megarici”. Le origini della scuola megarica, di quella cinica e di quella cirenaica, che vengono comunemente indicate come “scuole socratiche minori”, risalgono agli allievi più o meno diretti di Socrate. Queste “scuole” furono quelle più vicine al modo in cui Socrate aveva inteso la pratica della filosofia, come continua messa in discussione della propria esistenza in vista del raggiungimento della virtù e della felicità. Euclìde di Mègara riprende i temi strettamente etici del pensiero di Socrate, in particolare l’ideale dell’autosufficienza e dell’apatia (ovvero del controllo che il saggio può esercitare sulle passioni e sui dolori) e sostiene che il bene sia unico, seb-

Gli sviluppi del rigorismo socratico: Antìstene, Diògene e i “cinici”. Antìstene, in ambito etico, afferma che la virtù conduce alla felicità e non ha bisogno di altro. L’autosufficienza del saggio consiste così nel dominio e nella soppressione delle passioni attraverso una serie di tecniche di autodisciplinamento (esercizi fisici ed esercizi mentali o “spirituali”). Diògene riprende e radicalizza la tesi di Antìstene giungendo al rifiuto di alcune regole elementari della convivenza civile: egli avrebbe sostenuto la legittimità del furto, l’abolizione del matrimonio, l’inopportunità di tutti i divieti alimentari (ammettendo per esempio il consumo di carne cruda, e perfino, secondo

alcuni, di carne umana). I cinici rinunciavano a qualsiasi partecipazione alla vita politica, in quanto ritenevano che contasse unicamente l’esercizio individuale della virtù. Aristìppo e i “cirenaici”. Aristìppo di Cirène, iniziatore della scuola cirenaica, mitiga il rigorismo etico di Socrate e della maggior parte degli altri suoi discepoli, attribuendo grande importanza alla componente edonistica, e cioè al piacere. Ciò che il sapiente o saggio deve ricercare è il piacere presente, identificabile con un movimento lieve dei sensi, mentre il dolore sembra presentarsi come un movimento forte. Restano essenziali il controllo e il dominio di sé: il vero saggio non è mai passivo nei confronti del piacere. È inoltre riscontrabile anche nei cirenaici una certa tendenza al ripiegamento e alla chiusura nei confronti della vita della pòlis, accompagnata dall’indifferenza o addirittura dal disprezzo per le norme della convivenza civile.

BIBLIOGRAFIA Fonti • Platone, Protagora, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. • Aristofane, Le nuvole, a cura di A. Grilli, Rizzoli, Milano 2001. • Aristotele, Confutazioni sofistiche. Organon VI, a cura di P. Fait, Laterza, Roma-Bari 2007. • Protagora, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. II, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863. • Gorgia, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. II, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863. • Antifonte, in G. Bastianini F. Decleva Caizzi, Antipho, in Corpus dei papiri filosofici greci e latini, I. 1*, Olschki, Firenze 1989, pp. 176-222. • Alcidamante di Elide, in W. Nestle, Die Vorsokratiker, deutsch in Auswahl mit Einleitungen, Diederichs, Düsseldorf-Köln 19564, rist. Scientia, Aalen 1969; VMA-Verlag Wiesbaden 1978. • Crizia, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. II,

a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863. • Prodico, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. II, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863. • Platone, Simposio, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. • Platone, La Repubblica, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, trad. di R. Radice, Bompiani, Milano 2000. • Senofonte, Memorabili, testo greco a fronte, a cura di A. Santoni, con un saggio di A. Labriola, Rizzoli, Milano 1989, 20065. • Platone, Teeteto, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. • Platone, Apologia di Socrate, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. • Plutarco, Se un anziano debba fare politica, in Consigli ai politici, a cura di G. Giardini, Rizzoli, Milano 20053. • Platone, Lachete, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, trad. di M.T. Liminta, Bompiani, Milano 2000. • Antistene, in F. Decleva Caizzi,

Anthistenis fragmenta, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano-Varese 1966 e G. Giannantoni, Socrates et Socraticorum reliquiae, II, Bibliopolis, Napoli 1990 («Elenchos», 18). • Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Laterza, RomaBari 20057; Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, con la collaborazione di G. Girgenti e I. Ramelli, Bompiani, Milano 2005.

Opere L’edizione di riferimento per i frammenti dei sofisti rimane: H. Diels W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, 3 voll. Weidmann, Berlin 1951-19526 (e successive ristampe). Di essa esistono due traduzioni italiane: la più volte citata I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 voll., a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863 e I presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006. Ma sempre sui sofisti è ugualmente preziosa la raccolta, con traduzione italiana, I sofisti. Testimonianze e

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La filosofia ad Atene: i sofisti e Socrate capitolo 3 frammenti, a cura di M. Untersteiner e A. Battegazzorre, 4 voll., La Nuova Italia, Firenze 1949-1962. Su Socrate (e sulle scuole socratiche) sono fondamentali i già citati volumi di G. Giannantoni, Socrates et Socraticorum reliquiae, 4 voll., Bibliopolis, Napoli 1990 («Elenchos», 18). Alcune delle principali testimonianze su Socrate sono ora raccolte anche in Socrate tra personaggio e mito, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2007.

Studi critici

ESERCIZI

Per un’interpretazione della sofistica è opportuno fare riferimento innanzi

tutto alle traduzioni italiane disponibili, e cioè, oltre a quella citata di Untersteiner: • I sofisti, testo greco a fronte, a cura di M. Bonazzi, Rizzoli, Milano 2007. Utili indicazioni di base (anche sul contesto) in: • M. Untersteiner, I sofisti, Bruno Mondadori, Milano 2008 (1a ed.: Einaudi, Torino 1949; 2a ed. ampliata: Lampugnani Nigri, Milano 1967); • G.B. Kerferd, I sofisti, il Mulino, Bologna 1997.

1. Spiega perché Socrate era considerato dai contemporanei uno dei sofisti facendo riferimento alla denuncia contenuta nella commedia di Aristòfane Le nuvole (max 8 righe). 2. Chiarisci la posizione dei sofisti rispetto al rapporto tra verità, linguaggio ed essere (max 8 righe). 3. Perché non è corretto affermare che i sofisti si sono occupati esclusivamente della sfera umana? Chiarisci qual è stato il tema di fondo della loro riflessione (max 8 righe). 4. Esplicita le due possibili interpretazioni del motto protagoreo: «Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono» (max 8 righe). 5. Chiarisci la differenza tra relativismo e scetticismo facendo riferimento alla posizione di Senìade di Corinto (max 8 righe). 6. Completa il seguente brano inserendo i termini appropriati tra quelli di seguito elencati (considera che uno stesso termine può ricorrere più volte): essere • non-essere • infinito • eterno • nulla • generato Gòrgia dimostra che .......................... esiste nel seguente modo: se qualcosa esiste, sarà o l’ .......................... o il .......................... o l’essere e il non-essere insieme. Ma il ............................... non è; neppure l’essere è. Infatti, se l’ .......................... fosse, sarebbe o .......................... o generato, o eterno e generato insieme. Ma se è eterno non ha nessun principio e, quindi, sarà .........................., ma ciò che è .......................... non è in nessun luogo e se non è in nessun luogo, non esiste. D’altra parte se fosse .........................., lo sarebbe o dall’essere o dal non-essere. Ma non può essere generato dall’essere poiché se è .......................... non è generato; né è generato dal .......................... poiché il non-essere non può generare. 7. Esplicita qual è la finalità del linguaggio per Gòrgia e, più in generale, per i sofisti (max 8 righe). 8.Chiarisci il rapporto tra phy`sis e nòmos in Protàgora.

Per la ricostruzione della figura di Socrate si vedano: • F. Adorno, Introduzione a Socrate, Laterza, Roma-Bari 200812; • G. Vlastos, Socrate. Il filosofo dell’ironia complessa, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1998. Per il ruolo svolto da Socrate nello sviluppo della concezione della dialettica del giovane Platone è fondamentale: • G. Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Bibliopolis, Napoli 2005.

9. Dal mito di Promèteo esposto da Platone nel Protagora si evince una concezione dell’uomo come animale politico: esplicitane il senso facendo riferimento al rapporto tra sapienza tecnica e sapienza politica (max 8 righe). 10. Nella riflessione sofistica sul rapporto tra phy`sis e nòmos emergono posizioni differenti. Associa a ogni tesi l’autore corrispondente tra quelli presenti nell’elenco: Protàgora • Gòrgia • Trasìmaco • Antifònte • Alcidamànte • Ìppia • Càllicle a. Le leggi hanno un carattere meramente accessorio, mentre gli uomini risultano accomunati dalle disposizioni della natura. ................................ b. Il nòmos legittima l’utile del più forte, pertanto le leggi non incarnano la giustizia assoluta. ................................ c. Gli uomini sono diseguali per natura e il nòmos è un’invenzione dei più deboli per dominare i più forti. ................. d. Gli uomini sono uguali per natura, il nòmos introduce la disuguaglianza. ................................ 11. Spiega perché il filosofo Socrate è stato condannato a morte chiarendo il concetto di atopìa (max 8 righe). 12. Dopo aver definito i concetti di “sapere di non sapere”, “ironia” e “arte maieutica”, elabora un testo filosofico ricostruendo i momenti fondamentali del metodo socratico. 13. Spiega il senso della massima socratica contenuta nell’Apologia: «una vita che non mette alla prova sé stessa non merita di essere vissuta» (max 8 righe). 14. Che cosa ha spinto Socrate ad affrontare il processo e la condanna a morte? (max 8 righe) 15. Quali conseguenze ha determinato la morte di Socrate nel rapporto tra filosofia e politica? Prova a fare delle considerazioni personali tenendo conto dell’atopìa del filosofo e del modo in cui egli ha inteso la filosofia (max 15 righe). 16. Esplicita le principali caratteristiche delle “scuole socratiche minori” (max 15 righe).

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capitolo 4

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Platone

1 Un autore “assente” Se Socrate non ha mai scritto nulla, Platone si è in qualche modo nascosto, o eclissato, dietro i suoi scritti. In tutti i dialoghi che ha composto il suo nome non compare quasi mai; e in una delle tre sole occasioni in cui ciò accade, è per segnalare la sua assenza. Nel Fedone, un dialogo ambientato il giorno dopo l’esecuzione di Socrate, Platone fa ricostruire da uno dei suoi personaggi, Fedòne appunto, l’ultimo incontro di Socrate con i suoi discepoli o amici prima della morte – un momento cruciale, dunque. Fedòne elenca tutti i presenti nella cella di Socrate, aggiungendo alla fine, laconicamente, «Platone, credo, era ammalato» [Fedone, 59 B]. È in qualche modo singolare che Platone, nel momento in cui mette per iscritto (o forse inventa) il testamento spirituale di Socrate, si chiami quasi fuori, autodenunciando la sua assenza. Non si tratta solo di uno straordinario espediente letterario, ma anche di una strategia precisa: a Platone, evidentemente, non interessa comparire direttamente come l’autore di ciò che

scrive. Ciò dipende soprattutto dal fatto che Platone non sembra essersi veramente preoccupato di esporre una compiuta teoria filosofica, ma piuttosto di presentare la filosofia nel suo stesso farsi, come una pratica che coincide con una scelta di vita, e che si sviluppa nel confronto, nel dialogo, nella capacità di argomentare – in circostanze concrete e sempre diverse – intorno al proprio punto di vista e intorno a quello degli interlocutori. Così, ogni pretesa di ridurre le dottrine platoniche a un sistema perfettamente coerente e compiuto, quando non si è semplicemente rivelata impossibile, ha finito con il produrre un’immagine artificiale di Platone. È probabile, infatti, che Platone stesso intendesse sottrarsi a ogni forma di lettura sistematica, riprendendo l’essenziale, da questo punto di vista, del progetto socratico. L’atopìa (l’‘essere fuori luogo’, lo spaesamento), che abbiamo visto caratterizzare Socrate, definisce in effetti il fulcro stesso della definizione di filosofia che Platone propone nel Simposio – e d’altra parte dobbiamo sempre ricordare che l’atopìa di Socrate è pur sempre una qualificazione inventata da Platone. Ciò rende la lettura dei testi platonici, e la loro rico-

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Platone capitolo 4

I luoghi della vita di Platone

struzione, particolarmente delicata: ci si attenderebbero molti più punti fermi, molte più tesi ben definite, e invece le domande prevalgono sulle risposte, esattamente secondo l’insegnamento socratico. Nel leggere Platone occorre dunque aspettarsi qualcosa di più di una serie di dottrine precise sul mondo, sull’anima e sullo Stato; vuol dire rendersi disponibili, secondo la lezione socratica, a ricercare, attraverso il dialogo, la sapienza. Socrate aveva dichiarato (ma, ancora una volta, è pur sempre Platone a farglielo dichiarare) di aver anteposto il confronto dialogico e la cura degli altri alla cura di sé; Platone perfeziona questo gesto, dilatandone enormemente l’efficacia (una volta messo per iscritto, il dialogo non è più confinato agli interlocutori di quel momento) e addirittura facendosi riassorbire in esso. L’assenza di Platone dai suoi scritti – e il fatto che egli stesso si sia permesso quasi di giocare su di essa – potrebbe allora essere considerata quasi come l’equivalente letterario, formale (anche se assai meno drammatico) della morte di Socrate: un sacrificio necessario, in qualche modo, perché la posta in gioco dei Dialoghi potesse essere percepita in quanto tale, indipendentemente dalla figura del loro autore.

Atene Siracusa

Mar Mediterraneo

Platone nacque ad Atene intorno al 428/427 a.C. Si recò per tre volte a Siracusa, verisimilmente nel 388/387 a.C., nel 366/365 a.C. e nel 361 a.C.

2 La vita e l’esperienza politica Ciò che abbiamo detto finora riguarda in effetti i Dialoghi. C’è invece un’altra parte della produzione tradizionalmente associata al nome di Platone in cui l’autore appare in modo molto più diretto, scrivendo anzi in prima persona: si tratta di un corpus di tredici lettere. Tuttavia, per almeno dodici di esse l’attribuzione è quasi sicuramente falsa. Solo a proposito di una – la Lettera VII (per altro, quella comunemente giudicata come la più importante) – la situazione è più incerta: essa sembra essere costruita facendo costante riferimento ai Dialoghi e, per quanto alcuni suggeriscano che sia stata composta da un discepolo di Platone (Speusìppo) subito dopo la morte del maestro, potrebbe in realtà essere in buona parte autentica. Questa lettera è anche preziosa per ricostruire la biografia di Platone, a parte qualche altro elemento che possiamo desumere, a questo proposito, anche da Diògene Laèrzio, soprattutto per quel che riguarda l’estrazione familiare. Cominciamo proprio da queste ultime informazioni: Platone, che in realtà si chiamava Arìstocle (il nome con cui è invece universalmente conosciuto deriva dall’aggettivo platy`s, ‘largo’, ‘ampio’, in riferimento o allo stile, o alle dimensioni fisiche, o anche alla sola ampiezza della fronte), nacque ad Atene intorno al 428427 a.C. da una famiglia prestigiosa, che risaliva per parte paterna a Codro, ultimo leggendario re di Atene, e per parte materna a Solòne, legislatore degli inizi del VII secolo. Ma Platone era imparentato anche con Crìzia e Càrmide, due dei Trenta Tiranni, ovvero dei protagonisti del colpo di Stato oligarchico del 404 a.C. Da Aristotele, che fu a lungo alla sua scuola, apprendiamo invece che non ebbe come maestro solo Socrate, ma anche Cràtilo, un eracliteo [ 2.4.1]. Per tutti gli altri dati successivi, le fonti dipendono poi, di fatto, appunto dalla Lettera VII. Qui Platone racconta che da giovane aveva nutrito, come molti suoi coetanei e concittadini, l’ambizione di entrare nella vita politica. L’occasione gli si presentò con il colpo di Stato del 404, tanto più che Platone (come del resto Socrate) era appunto imparentato con alcuni dei Trenta. Ma questi ultimi impostarono fin dall’inizio il loro potere sulla sopraffazione e sulla vio-

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

lenza: in particolare, Platone rimase disgustato quando gli oligarchi cercarono di guadagnarsi la complicità di Socrate (che comunque rifiutò) coinvolgendolo nell’arresto illegittimo di un loro avversario. Dopo appena un anno, l’uccisione di Crìzia segnò l’inizio della restaurazione democratica: il nuovo regime si mostrò inizialmente più tollerante, fino all’episodio del processo e dell’esecuzione di Socrate (399 a.C.). Questa nuova tragica delusione si rivelò più decisiva della precedente: Platone, che era considerato molto vicino a Socrate, lasciò Atene per paura di ulteriori ritorsioni, e soprattutto vide naufragare ogni possibilità di un coinvolgimento diretto nella vita politica della sua città. Da questo momento, tuttavia, il tema del rapporto tra filosofia e politica, e più in particolare del modo in cui la prima possa servire a correggere o a guarire la seconda, diventò assolutamente centrale nella riflessione platonica, come testimonia uno dei passaggi centrali della Lettera VII:



Ad un certo punto mi feci l’idea che tutte le città soggiacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia. [Lettera VII, 326 A-B]



Se solo la filosofia (in quanto capace di discernere la vera giustizia) è in grado di guarire la città malata, e redimere la politica, si danno dunque due possibili modi per ottenere questo risultato: o che i filosofi arrivino al potere, o che chi è al potere decida di dedicarsi alla filosofia. N el dialogo forse più ambizioso di Platone, la Repubblica, viene delineato un preciso programma che, nelle speranze dell’autore, avrebbe dovuto rendere percorribile la prima via; ma nella sua stessa vita, come il prosieguo della Lettera VII attesta, Platone ha piuttosto provato a seguire la seconda, cercando dei so-

vrani interessati a praticare la filosofia e a farsi guidare da essa nell’esercizio del governo. Nel 388/387 a.C. Platone decise infatti di partire alla volta di Siracusa – città che all’epoca godeva di una posizione di assoluto prestigio nel mondo greco – forse con la remota speranza di coinvolgere nel suo progetto teorico il tiranno Dionìsio I. Non è in realtà chiaro se Platone sia stato invitato direttamente da quest’ultimo, o abbia piuttosto ceduto all’insistenza del suo allievo Diòne, nativo appunto di Siracusa. Il viaggio in ogni caso si caricò di una valenza ideologica ben precisa, poiché la città siciliana era manifestamente ostile ad Atene, e nel 386 appoggiò la pace che Sparta e Persia siglarono imponendo ad Atene condizioni piuttosto dure. Ma a Siracusa, come già ad Atene, Platone andò incontro a una nuova delusione, determinata non solo dal malgoverno del tiranno, ma anche dalla generale corruzione dei costumi. Tornato ad Atene si dedicò alla fondazione di una scuola, chiamata Accademia (dal nome dell’adiacente giardino pubblico, dedicato all’eroe

Le opere di Platone Il corpus degli scritti tramandati sotto il nome di Platone comprende 34 dialoghi, a cui si aggiungono l’Apologia di Socrate e 13 lettere. L’ordinamento degli scritti dipende dall’edizione curata da Trasillo di Alessandria, un medioplatonico dell’età di Tiberio (per medioplatonismo s’intende la principale corrente di autori di ispirazione platonica tra la metà del I secolo a.C. e i primi decenni del III secolo d.C.), che probabilmente si basò su una suddivisione già esistente. In base a tale ordinamento (che non è di tipo cronologico:  4.3.2) gli scritti platonici sono distribuiti in gruppi di quattro (tetralogie), e precisamente: I 1. Eutifrone; 2. Apologia di Socrate; 3. Critone; 4. Fedone; II 5. Cratilo; 6. Teeteto; 7. Sofista; 8. Politico; III 9. Parmenide; 10. Filebo; 11. Simposio; 12. Fedro; IV 13. Alcibiade maggiore; 14. Alcibiade minore; 15. Ipparco; 16. Amanti; V 17. Teagete; 18. Carmide; 19. Lachete; 20. Liside; VI 21. Eutidemo; 22. Protagora; 23. Gorgia; 24. Menone; VII 25. Ippia maggiore; 26. Ippia minore; 27. Ione; 28. Menesseno;

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Academo). Nel 367 a.C. (anno in cui Aristotele arrivò all’Accademia) morì a Siracusa Dionìsio I e gli succedette il figlio Dionìsio II. Diòne, l’allievo siracusano di Platone, convinse quest’ultimo a ripartire per Siracusa, suggerendogli che era il momento di tentare la conversione filosofica del nuovo tiranno con una specie di missione ufficiale dell’Accademia. Platone accettò, come scrive, per non apparire «un uomo buono solo a parlare e incapace di tradurre in atto le proprie idee» [Lettera VII, 328 C], e la nuova spedizione ebbe luogo tra il 366 e il 365 a.C. Il tentativo di conversione dovette essere piuttosto goffo: nella sua Vita di Dione, Plutarco racconta, non senza ironia, che il palazzo del tiranno siracusano si riempì della polvere sollevata da un nugolo di accademici intenti a disegnare figure geometriche nella sabbia, e che Platone stesso avrebbe tentato di convincere Dionìsio a smantellare esercito e flotta (pilastri della potenza siracusana) per raggiungere la felicità attraverso lo studio della geometria. Sospettando una congiura ai suoi danni, Dionìsio II decise di bandire Diòne e di trattene-

VIII 29. Clitofonte; 30. Repubblica; 31. Timeo; 32. Crizia; IX 33. Minosse; 34. Leggi; 35. Epinomide; 36. Lettere. L’autenticità di quasi tutte le Lettere è assai dubbia; anche alcuni dialoghi sembrano tuttavia spuri: questo è certamente il caso dell’Epinomide, dovuto con ogni probabilità a Filippo di Opùnte, che fu uno dei più stretti collaboratori di Platone almeno nella fase più tarda e portò a termine la stesura finale delle Leggi. Molto dubbi appaiono anche gli Amanti, il Teagete, l’Alcibiade II e il Minosse, mentre si discute ancora intorno all’autenticità dell’Ipparco e dell’Alcibiade I. È convenzione citare i dialoghi platonici fornendo il riferimento all’impaginazione dell’edizione curata da Henricus Stephanus a Ginevra nel 1578 – impaginazione che è sempre riportata in tutte le edizioni e le traduzioni più recenti. Quando si legge per esempio un rimando a Fedone, 81 A, il numero si riferisce alla pagina dell’edizione Stephanus, la lettera al fatto che, per rendere più facile la divisione del testo, ogni pagina di tale edizione era divisa in 5 sezioni, segnalate in margine appunto da una lettera (A, B, C, D, E).

re Platone con le buone o con le cattive. Platone fu poi “liberato”, per così dire, solo grazie all’intervento del tiranno di Taranto Archìta, di formazione e ispirazione pitagorica. Intorno al 361 a.C., su invito di Dionìsio II (forse questa volta supportato da Archìta) e ancora di Diòne (che sperava in un suo intervento per essere richiamato dall’esilio), Platone intraprese un terzo viaggio per Siracusa: l’esito fu peggiore dei precedenti e Platone fu di nuovo salvato dall’intervento di Archìta (che inviò perfino una nave da guerra a Siracusa). Le vicende della città siciliana avrebbero comunque continuato a intrecciarsi con gli sviluppi dell’Accademia: nel 357 Diòne organizzò – anche con l’aiuto di alcuni accademici, come Speusìppo (nipote di Platone, destinato poi a succedergli nella guida della scuola) – l’insurrezione che pose fine al regime di Dionìsio II e gli permise di esercitare il potere esattamente nello stesso modo che aveva contestato ai suoi predecessori, prima di essere ucciso a sua volta da un altro accademico, Callìppo. L’Accademia si presenta così, almeno nelle sue fasi iniziali, non solo come una scuola, ma come un vero e proprio laboratorio politico, a cui prendono parte consiglieri e avversari di tiranni, tiranni e tirannicidi. Quanto a Platone stesso, egli trascorse gli ultimi anni della sua vita – fino alla morte avvenuta nel 347 a.C. – ad Atene lavorando ai dialoghi più tardi, tra cui le Leggi, la cui redazione definitiva si deve al discepolo Filippo di Opùnte.

3 Scrivere la filosofia: la forma dialogica 3.1 Le riserve sulla scrittura Platone si è nascosto dietro i suoi scritti, ma ha sempre dichiarato un’aperta sfiducia nei confronti della possibilità di mettere la filosofia per iscritto. Questo paradosso viene spesso spiegato facendo riferimento al fatto che Platone si trovò a vivere in un’epoca di transizione, ovvero nel momento del passaggio dalla cultura strettamente orale a quella scritta. Ora, ciò è senz’altro vero, se si tiene conto che molti dei concittadini più importanti di Platone non si

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servirono della scrittura: Pèricle – il protagonista della fioritura di Atene – e Socrate stesso non avevano scritto nulla. Non si può tuttavia dimenticare che proprio la filosofia aveva invece già una tradizione consolidata di scritti alle spalle (è Platone stesso a informarci, per esempio, che i libri di Anassàgora si potevano trovare, ad Atene, a buon mercato:  2.10.2), e che i sofisti avevano rafforzato questa tendenza affidando spesso i loro discorsi alla scrittura. Inoltre, si rischierebbe di perdere uno dei tratti più importanti della concezione socratica del filosofare, se si ritenesse che la scelta di non scrivere fosse dovuta semplicemente all’appartenenza a una cultura che privilegiava l’oralità, e non a una decisione consapevole: infatti, a differenza di molti sofisti suoi contemporanei, Socrate sceglie deliberatamente di non scrivere, perché concepisce prevalentemente la filosofia come una pratica di vita – come qualcosa che dev’essere vissuto, più che tramandato. N on si tratta insomma per Socrate, di consegnare agli altri delle dottrine già confezionate, ma di spingerli a fare un esame di sé – ciò che a Socrate appare possibile soltanto nel dialogo vivo e personale. Platone sembra a più riprese condividere questa stessa interpretazione del filosofare, ma lo fa appunto scrivendo: tutte le riserve nei confronti della scrittura della filosofia sono espresse attraverso la scrittura stessa. Il dialogo più importante a questo riguardo è il Fedro. Qui Platone fa raccontare a Socrate una storia ambientata nell’antico Egitto. Theuth, il dio-uccello, presenta al re Thamous tutta una serie di arti e saperi da lui inventati: il numero, il calcolo, la geometria e l’astronomia, giochi come i dadi e qualcosa di simile al backgammon, e soprattutto la scrittura, presentata esplicitamente come un farmaco (un rimedio) per la memoria e la sapienza. Le cose apprese solo oralmente tendono infatti a essere dimenticate e dunque a perdersi. La scrittura, argomenta Theuth, aiuterà invece gli uomini a conservare memoria dei discorsi, permettendo così la crescita del sapere. La risposta di Thamous è invece molto meno ottimista e va in direzione opposta:



La scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro da sé medesimi:

dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti. [Fedro, 275 A-B]



Ci sono almeno due elementi tipicamente socratici da sottolineare in questa risposta:

I filosofi all’asta: Platone visto da Luciano Luciano di Samosata, che ha vissuto e operato nel II secolo d.C., nel fiorire della seconda sofistica, fu scrittore e sofista egli stesso. Il suo I filosofi all’asta, è uno scritto che, in tono semi-serio e con finalità critiche, descrive la successione dei filosofi messi all’asta, al mercato, da Zeus e Hermes. Quando viene il turno di Socrate, questi risponde al compratore interessato al suo acquisto prima come il vero e proprio Socrate storico e poi come portavoce delle dottrine platoniche, che vengono riassunte ironicamente da Luciano nel modo che segue.

Compratore […] Ma raccontami come vivi. Socrate Abito in una città che mi sono costruito per me, ho adottato una costituzione straniera1, e le leggi me le faccio da solo. Compratore Vorrei sentirne una, di questi leggi. Socrate Senti questa, è la più importante, quella che riguarda le donne: nessuna di loro appartiene ad un solo uomo, e tutti coloro che vogliono possono godere delle loro grazie. Compratore Cos’è questa cosa che vai dicendo? Che le leggi sull’adulterio sono abrogate? Socrate Sì, per Dio, completamente, e con tutti i cavilli relativi. Compratore E cosa decreti sui giovincelli in fiore? Socrate Anche costoro saranno dati come premio d’amore ai migliori che avranno compiute splendide e temerarie imprese.

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1. uno è quello espresso nelle ultime righe, ed è il fatto che tutti coloro che presumono o pretendono di essere sapienti per aver acquisito qualche conoscenza particolare, sono in realtà ignoranti; 2. l’altro è invece quello formulato nelle prime righe: la scrittura è soltanto un mezzo per acquisire conoscenze dall’esterno. Ma lo scopo della filosofia, anzi del filosofare, è un altro: quello di mettere in gioco sé stessi e generare, a partire da sé, una forma autentica di conoscenza. Al termine del racconto del mito di Theuth, sempre nel Fedro, il Socrate platonico aggiunge altre due cautele nei confronti della scrittura. La

Compratore Accidenti, che generosità! E dimmi un po’, la tua filosofia, su cosa si basa? Socrate Sulle idee e i modelli della realtà. Tutto ciò che vedi, la terra, tutto quanto sta sopra la terra, il cielo, il mare, hanno degli archetipi invisibili al di fuori del tutto. Compratore E dove si trovano? Socrate Da nessuna parte, perché se fossero in qualche luogo non esisterebbero. Compratore Ma io non li vedo quelli che chiami modelli. Socrate È naturale, gli occhi della tua anima sono ciechi! Io invece vedo gli archetipi di ogni cosa, vedo sia te invisibile che un altro me stesso, e tutto rigorosamente doppio2. Compratore Beh, allora ti devo proprio comprare perché sei sapiente e hai lo sguardo acuto. Vediamo un po’, che prezzo mi farai per lui? Hermes Dammi due talenti. Compratore Affare fatto. Il denaro però lo sborserò più tardi. Hermes Come ti chiami? Compratore Diòne di Siracusa. Hermes Portatelo via e buona fortuna. 1. La città perfetta di Platone riprendeva, agli occhi degli ateniesi, alcuni aspetti della costituzione spartana. 2. Si tratta di una delle critiche di fondo rivolte da Aristotele alla dottrina platonica delle idee, che rappresenterebbero degli inutili doppioni esterni delle cose realmente esistenti.

prima è che un testo scritto non sa come difendersi. Una volta resosi autonomo rispetto al suo “padre” (l’autore), un testo scritto gira indifeso per il mondo, incapace di rispondere alle obiezioni, di controbattere agli interlocutori – in altri termini, di proseguire il dialogo:



Perché, Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: infatti le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi [scritti]. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa […]. E se [a uno di questi discorsi] gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo. [Fedro, 275 D-E]



Dunque, uno scritto non solo non è in più in grado di difendersi autonomamente, ma, rigido com’è, non è neppure capace di adattarsi ai differenti interlocutori. E questa è appunto l’altra riserva; un testo scritto si rivolge a tutti indifferentemente, e in questo modo rischia addirittura di produrre effetti nocivi, rivolgendosi anche a coloro verso i quali converrebbe forse parlare diversamente, o addirittura tacere:



E una volta che un discorso sia scritto, rotola dappertutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. [Fedro, 275 E]



Il discorso orale – «fratello legittimo del discorso scritto» – presenta insomma tutte le caratteristiche che mancano invece alla scrittura: è «il discorso di chi sa, vivo e animato», è il discorso «che viene scritto con la scienza nell’anima di chi apprende, capace di difendere sé stesso, e in grado di sapere di fronte a chi bisogna parlare oppure invece tacere» [Fedro, 276 A]. Ancora una volta, il problema non è di contenuto, ma di forma, di tecnica: il filosofare mira infatti alla trasformazione di coloro che decidono di partecipare al dialogo, e questo è quanto lo scritto sembra incapace di fare.

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C’è poi un ultimo aspetto essenziale: il dialogo non mira solo alla trasformazione dell’altro, ma anche alla trasformazione di sé. Nel dialogo, può accadere di cambiare la propria opinione (in linea di principio, ciò dovrebbe sempre essere possibile, altrimenti la ricerca della vera sapienza sarebbe inutile): ma uno scritto non muta parere («il loro significato è uno solo, sempre lo stesso»), e dunque preclude non solo ai lettori, ma anche all’autore stesso la possibilità di raggiungere il vero scopo del filosofare – il prendersi cura di sé, lo sforzo di trasformare sé stessi. Da presunto rimedio, la scrittura rischia così, se non sapientemente utilizzata, di trasformarsi in un veleno. 1. La sfiducia di Platone nella scrittura è imputabile: a. al periodo storico in cui vive, segnato dal passaggio dalla cultura orale a quella scritta. V b. alla condivisione dell’idea socratica di filosofia come pratica di vita. V c. al fatto che la scrittura offre a chi legge la possibilità di giungere a nuove conclusioni. V d. al fatto che la scrittura offre agli uomini solo la presunzione della sapienza e non la verità. V

F F F F

3.2 Platone e la scrittura della filosofia Detto ciò, resta il dato di fatto da cui siamo partiti, e cioè che Platone ha comunque deciso di scrivere. Perché allora questa decisione? In primo luogo, si potrebbe osservare che la sua scelta non è stata isolata: molti degli allievi più o meno diretti di Socrate hanno di fatto composto dialoghi (chiamati appunto “socratici”), mettendo per iscritto conversazioni in cui Socrate figura come protagonista. Platone si allinea dunque a una scelta di questo tipo. In questa tradizione, i dialoghi scritti servono soprattutto come strumenti rammemorativi: non si sostituiscono al dialogo vivo e non assolvono direttamente alla stessa funzione, ma servono a far sì che, richiamando alcune discussioni (reali o ricostruite ad arte), ognuno possa proseguire nel proprio percorso di cura e trasformazione del sé. Il dialogo scritto è una specie di riflesso di quello orale, e tuttavia ne permette la sopravvivenza, perché non lo sopprime, ma fa anzi sì che l’esperienza che ne sta alla base possa essere ripetuta da chiunque prenda sul serio la scelta di praticare la filosofia – dunque, di prendersi cura di sé.

Avremo modo di affrontare più oltre il delicato problema delle dottrine non scritte di Platone, ovvero l’ipotesi che Platone abbia insegnato, solo a livello orale, dottrine diverse e più importanti di quelle consegnate per iscritto nei Dialoghi. Ma già una prima considerazione, a questo proposito, è possibile avanzarla: il vantaggio dell’oralità sulla scrittura non sembra risiedere per Platone nel fatto che solo la prima permetterebbe di presentare quelle dottrine fondamentali che sarebbe invece impossibile o pericoloso affidare alla scrittura, ma soprattutto nel fatto che solo il dialogo orale permette di praticare davvero la filosofia in prima persona, mentre quello scritto è piuttosto un’occasione perché ciascuno possa fare altrettanto. La differenza non è dunque nei contenuti, ma nella diversa pratica che oralità e scrittura rappresentano. Sulla base di ciò, possiamo cogliere anche altre caratteristiche della produzione platonica. In primo luogo, non si deve dare per scontato che, in tutti i dialoghi, il punto di vista di Platone venga espresso unicamente dal personaggio di Socrate. È vero che Socrate compare quasi sempre (ad eccezione delle Leggi), ma è anche vero che in alcuni dialoghi il suo personaggio è marginale. Infine, lo stesso Socrate non mostra, in tutti i dialoghi, la medesima attitudine, non ha cioè sempre le stesse caratteristiche. In alcuni di essi (Lachete, Protagora, Carmide, Teeteto) è una figura simile a quella che abbiamo presentato nel capitolo precedente: parte sempre dall’ammissione della propria ignoranza, e mantiene un atteggiamento fondamentalmente aporetico, volto a confutare le opinioni degli interlocutori. In altri (soprattutto nel Fedone, nel Filebo e nella Repubblica) Socrate procede esponendo le proprie tesi e conclusioni, in modo più costruttivo. Al di là di questa differenza di atteggiamento, le tesi esposte da Socrate in tutti i dialoghi in cui è il protagonista non sono perfettamente sovrapponibili, o riducibili a una visione strettamente unitaria: nei Dialoghi platonici non ci sono praticamente mai rimandi interni, e talvolta è possibile registrare anche qualche divergenza tra l’uno e l’altro. Per rendere conto di queste differenze, gli studiosi di Platone hanno suggerito un’ipotesi di tipo evolutivo, dividendo i dialoghi in tre gruppi principali, corrispondenti a tre diversi periodi: uno più giovanile, in cui prevalgono i dialoghi di tipo con-

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futatorio, più vicini e fedeli alla pratica del Socrate storico; uno maturo, a cui apparterrebbero gli scritti in cui Platone espone, attraverso Socrate, le tesi di fondo del proprio pensiero; e uno ancora più tardo, in cui Platone avrebbe ripensato criticamente i suoi stessi capisaldi, avvalendosi in questo caso di figure diverse da Socrate [ La cronologia delle opere di Platone]. Questo schema non risolve tutto, perché sappiamo poi poco o nulla della cronologia relativa dei dialoghi all’interno di ciascuno di questi gruppi, e perché risulta comunque assai arduo ridurre a poche tesi unitarie anche i dialoghi appartenenti allo stesso gruppo. Ciò dipende non solo dalla difficoltà di collegare tra loro, in modo diretto, i vari dialoghi come se fossero tante parti di un’unica opera, ma anche dal fatto che all’interno di un singolo dialogo non è sempre facile individuare quale sia la reale posizione platonica.

Platone è infatti l’autore di tutti i suoi personaggi (anche di quelli che ci appaiono, per così dire, “negativi”, come Polo e Càllicle nel Gorgia o Trasìmaco e Glaucòne nella Repubblica), esattamente come l’autore di una tragedia (o, oggi, lo sceneggiatore o il regista di un film) è l’autore di tutti i suoi caratteri – degli “eroi” come dei loro avversari, dei “buoni” come dei “cattivi”. E come nella tragedia greca l’intreccio o lo sviluppo degli eventi è qualcosa di più dell’identificazione con un singolo carattere, così anche nei Dialoghi platonici la presentazione della pratica filosofica – ovvero della filosofia nel suo stesso farsi, nel confronto aperto tra scelte di vita e argomentazioni differenti – è qualcosa di più dell’identificazione con le tesi di un solo personaggio. Se tutti i personaggi concorrono a questa messa in scena della filosofia, tutti parlano in qualche modo per Platone – o almeno tutti lavorano al suo servizio. Pur con tutte queste cautele, è possibile individuare alcune costanti che attraversano l’intera produzione platonica. Una di La cronologia queste è la ferma opposizione al delle opere di Platone relativismo filosofico (ed eticopolitico) dei sofisti: la teoria Non è facile stabilire una cronologia esatta degli scritti di delle idee o forme (la teoria Platone, per la mancanza di informazioni certe. Possiamo però cioè che pone l’esistenza di disporre di alcune indicazioni fornite dalla cosiddetta analisi stilometriun mondo di modelli ca, cioè dall’analisi dello stile di un autore: ognuno di noi, scrivendo, usa le ideali stabili ed eterni parole con frequenza diversa nei vari periodi della propria vita; l’analisi statisticome fondamento inca di queste differenze permette di accomunare, in linea di massima, gli scritti appartenenti a un medesimo periodo. Nel caso di Platone, si è preso come punto di telligibile delle cose riferimento le Leggi, che rappresentano l’ultima opera platonica: la distribuzione cronosensibili) – uno dei logica degli altri scritti è stata quindi proposta, a ritroso, in base alla maggiore o minore punti più noti del prossimità a questo dialogo. Naturalmente, un’analisi di questo tipo presuppone che pensiero platonico – Platone non sia mai intervenuto in epoche diverse sui suoi stessi testi – cosa che invece risponde precisaalmeno in qualche occasione (la Repubblica) sappiamo essere avvenuta: i risultati vanno mente all’esigenza di dunque sempre presi con una certa cautela. In ogni caso, secondo la cronologia oggi più trovare dei punti di comunemente accettata, avremmo una suddivisione in tre gruppi. riferimento stabili tanto nell’ambito del1. Il gruppo dei dialoghi giovanili che comprenderebbe, oltre all’Apologia di Socrate, la conoscenza quanto Critone, Carmide, Lachete, Liside, Ione, Protagora, Alcibiade I, e il I libro della in quello dell’agire praRepubblica (Trasimaco). Altri dialoghi, come l’Eutidemo, il Menone, il Gorgia e i due Ippia, segnerebbero invece già la transizione verso la fase successiva. tico. Ad essa si ricol2. Il gruppo dei dialoghi della maturità, comprendente il Fedone, il Simposio, il legano tuttavia altre dotFedro, i restanti libri della Repubblica (II-X), il Cratilo. Anche qui si potrebbero trine ugualmente carattepoi individuare dei dialoghi di transizione, come il Teeteto e forse il ristiche del pensiero plaParmenide e il Filebo, che altri studiosi considerano invece già appartonico nel suo complesso, tenenti alla fase finale. relative all’organizzazione dello 3. Il gruppo degli scritti più tardi comprendente (oltre al Stato e alla politica, alla natura e Filebo e al Parmenide, se si accetta la loro collocaalle divisioni dell’anima, alla strutzione in questo ambito) il Sofista, il tura del cosmo, alle diverse modalità di Politico, il Timeo, le Leggi. conoscenza applicabili al mondo delle idee

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e al mondo sensibile, e all’esigenza di rinvenire delle possibili mediazioni tra l’uno e l’altro. 1. Pur criticando la scrittura Platone di fatto decide di scrivere perché: a. la scrittura consente la prosecuzione e la sopravvivenza del dialogo orale. b. la scrittura diventa uno strumento rammemorativo in grado di sostituirsi al dialogo vivo. c. la scrittura assolve alla stessa funzione del dialogo orale. d. la scrittura consente di prendere sul serio la scelta di praticare la filosofia. 2. La suddivisione dei Dialoghi platonici in dialoghi giovanili, della maturità e tardi si rifà al criterio: a. di evidenziare la costante presenza di Socrate in tutti gli scritti. b. di stabilire una unitarietà di tesi presenti nel personaggio Socrate. c. di rendere conto delle differenze di atteggiamento e di tesi filosofiche del personaggio Socrate. d. di mostrare come il motivo dominante di tutti gli scritti sia la figura storica di Socrate. 3. La teoria delle idee, una delle costanti della produzione platonica, è finalizzata: a. a superare il relativismo sofistico in ambito V F conoscitivo. b. ad avallare su base scientifica la sofistica. V F c. a superare il relativismo sofistico in ambito morale. V F d. a trovare modelli relativi e contingenti a fondamento delle cose sensibili. V F

4 Il valore politico delle idee: la città malata e la giustizia Platone sembra essere stato condotto a formulare la teoria delle forme o idee a partire da due ragioni convergenti: 1. una di carattere etico e politico: nella sfera delle azioni umane, e in particolar modo della vita politica, deve essere possibile far riferimento a dei parametri o a dei valori oggettivi e assoluti, che sia possibile definire senza ambiguità; 2. una di carattere strettamente gnoseologico, legata cioè al problema della conoscenza: se tutte le cose sensibili mutano incessantemente, ogni verità appare ugualmente mutevole; perché la conoscenza possa essere certa, devono darsi dei paradigmi, dei modelli eterni delle cose, che non siano sottoposti al cambiamento e alla corruzione.

Nell’uno come nell’altro caso, si tratta dunque di contrapporre alla molteplicità e alla mutabilità che sembrano caratterizzare la nostra esperienza quotidiana (e che potrebbero legittimare il relativismo) il richiamo a qualcosa di stabile ed eterno, che possa servire a ricondurre all’unità ciò che sembra frammentato e disperso.

4.1 Che cos’è la giustizia? Per quanto riguarda la motivazione etica e politica, le profonde delusioni patite da Platone nelle sue personali esperienze politiche lo avevano convinto che le città – Atene soprattutto, ma anche Siracusa – fossero ormai gravemente malate, e cioè dominate dall’ingiustizia. La città sana – ovvero, più in generale, lo Stato sano, data l’identificazione greca tra la pòlis e lo Stato – non può invece che reggersi sulla giustizia. Ma che cos’è la giustizia? Porre una domanda di questo tipo, in cui ci s’interroga sul che cosa, significa ricercare l’essenza della giustizia, la sua definizione immutabile e universale, al di là delle diverse situazioni o azioni contingenti. Queste ultime sono tutte più o meno giuste: ma questo ha senso solo in riferimento a un criterio assoluto, che deve appunto essere rappresentato dal “giusto” in quanto tale. Da questo punto di vista, Platone non fa che proseguire la polemica di Socrate contro la pretesa dei sofisti di poter insegnare l’arte politica, la tèchne politikè. Tanto Socrate quanto Platone considerano in effetti la politica come una tèchne (un’arte, un sapere), al pari della medicina: come quest’ultima è in grado di guarire il corpo malato, così la politica deve mirare al benessere della città cercando di guarire la città malata. Ma una tèchne di questo tipo, per Socrate come per Platone, presuppone il possesso di un sapere. Al contrario, ciò che i sofisti pretendono di insegnare, spacciandolo per una vera tèchne, è in realtà un sapere apparente: essi insegnano a tenere abili discorsi in modo da guadagnarsi il favore e il consenso nelle assemblee, ma non sanno nulla dei veri rimedi necessari per guarire la città, non conoscono (e neppure ricercano) l’essenza o la definizione della giustizia. La retorica, che è in definitiva ciò che i sofisti insegnano, non è una vera e propria tecnica, fondata su un sapere stabile e universale: essa si lega piuttosto all’esperienza, alla pratica,

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e per questo non supera mai i limiti di ciò che è mutevole e contingente. La tecnica politica, [ T25] per essere davvero tale, presuppone dunque una conoscenza autentica e certa, non apparente. Anche questo è un motivo essenzialmente socratico: se infatti ogni errore morale dipende per Socrate dall’ignoranza (si sbaglia perché non si sa cosa sia il bene), la capacità di agire rettamente, e di governare altrettanto rettamente la città, non può che dipendere essenzialmente dalla conoscenza del bene. Ma mentre il Socrate storico si era mosso principalmente sul campo della trasformazione degli individui, Platone sceglie di concentrarsi sulla trasformazione della città in quanto tale: il problema platonico non è insomma solo quello del retto e giusto agire individuale, ma quello della giustizia in quanto tale. Il dialogo più importante, da questo punto di vista, è la Repubblica, nel quale il problema della giustizia è subito posto al centro dell’attenzione: si tratta di capire cosa sia e se valga effettivamente la pena rispettarla. Nel I libro (la cui stesura risale alla fase giovanile), il Socrate platonico sembra in difficoltà rispetto al radicalismo del suo interlocutore Trasìmaco, che definisce senza mezzi termini la giustizia come l’utile del più forte. Il ragionamento di Trasìmaco è semplice: la giustizia consiste nel rispetto delle leggi, ma le leggi possono essere ricondotte alla forza o agli interessi di chi di volta in volta detiene il potere. Qualsiasi tipo di governo, dall’oligarchia – cioè dalla concentrazione del potere nelle mani di pochi – alla democrazia – in cui il potere appartiene ai molti –, promulgherà sempre leggi utili ai propri interessi e alla conservazione del potere. Una posizione che sembra essere confermata dal fatto che le città appaiono appunto malate. Come dar torto allora a Trasìmaco? Le stesse esperienze negative vissute da Platone sembrerebbero corroborare questa tesi. Ma non è questo l’unico inconveniente. Nel II libro un altro dei protagonisti del dialogo, Adimànto, introduce un ulteriore argomento: il fine dell’agire umano, e dunque il bene supremo, è la felicità. E tuttavia, nella vita concreta, chi vive in modo disonesto, o chi commette ingiustizia, sembra molto spesso essere più felice di chi si sforza di vivere secondo giustizia, o in modo onesto. L’ingiustizia, specie se dissimulata, sembra garantire ricchezza, potere, rispetto, dunque

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tutti i principali elementi della felicità in questo mondo; e poiché chi è ricco può permettersi sacrifici sfarzosi agli dèi, chi ha accumulato più ricchezze, seppure ingiustamente, potrebbe comunque assicurarsi anche un maggior favore da parte degli dèi (se questi ultimi sono così come li descrivono i poeti). Gli uomini tendono in realtà alla sopraffazione: se rinunciano alla pura ingiustizia, è solo per il timore di essere scoperti e condannati. Di fatto, il sistema delle leggi che regolano la convivenza nasce solo per porre un freno a questa tendenza generale alla prevaricazione, in modo da incutere, con il timore delle pene, un limite all’ingiustizia che altrimenti si rischierebbe di subire da parte degli altri. 1. Per Platone l’arte politica: a. deve essere in grado di guarire la città malata. b. poggia sull’insegnamento della retorica. c. poggia su un sapere stabile e universale. d. mira essenzialmente alla trasformazione dell’agire individuale. 2. Nella Repubblica, la giustizia per Adimànto: a. consiste nel rispetto delle leggi utili a coloro che detengono il potere. b. nasce dal timore degli uomini di fronte all’applicazione delle pene. c. coincide con la felicità. d. è qualcosa di innaturale che nasce soltanto dalle leggi di convivenza civile atte a frenare la sopraffazione tra gli uomini.

V F V F V F V F

V F V F V F V F

4.2 La suddivisione dei compiti e la forma ideale del “giusto” Per replicare a queste interpretazioni particolarmente disincantate della giustizia (che renderebbero del tutto vano lo stesso tentativo socratico di intervenire sui singoli per trasformarli), Platone propone in primo luogo la propria ricostruzione di come gli uomini siano pervenuti alla vita associata. Alla base di questo processo, c’è il riconoscimento, da parte degli individui, di non poter essere autosufficienti – di non riuscire cioè a provvedere singolarmente a tutte le proprie esigenze – e la conseguente decisione di procedere a una divisione delle diverse attività (a una divisione del lavoro, diremmo oggi) per rispondere meglio alle necessità dell’esistenza.

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Incontriamo qui un elemento tipicamente platonico, quello della cosiddetta oikeiopragìa, il fatto cioè che, nella comunità o nello Stato, ognuno sia chiamato ad occuparsi solo delle proprie cose, non nel senso di curare esclusivamente i propri affari, ma nel senso di fare ciò che gli compete, ciò che gli è più proprio o appropriato, senza pretendere di svolgere mansioni che spettano invece ad altri. Tuttavia, questa forma primitiva di comunità (di città-Stato), fondamentalmente autosufficiente grazie alla suddivisione dei compiti tra i propri membri, tende gradualmente a degenerarsi e a corrompersi per la crescita eccessiva dei bisogni: i cittadini cominciano man mano a chiedere più di quel che è necessario al solo soddisfacimento dei bisogni primari, per arrivare alla domanda di veri e propri beni di lusso, che determina un incremento della produzione. Questa espansione dei bisogni mette in crisi l’equilibrio sociale della città e la spinge inevitabilmente a cercare nuove risorse, a conquistare nuovi territori, a impadronirsi delle ricchezze delle città vicine. Per questo motivo, nasce al suo interno un nuovo gruppo sociale che si aggiunge a quello originario dei lavoratori/produttori, e cioè quello dei guerrieri. Ma è proprio da qui che bisogna ripartire, per Platone, per correggere le deformazioni della vita associata e provare a guarire la città. Occorre innanzi tutto educare adeguatamente questi soldati, o custodi (phy`lakes), attraverso un percorso formativo basato essenzialmente sulla ginnastica e sulla musica, ma non sulla poesia, perché tanto l’epica (cioè i poemi che narrano le vicende degli eroi e degli dèi) quanto la tragedia (cioè le rappresentazioni sceniche destinate a suscitare pietà o paura) “rovinano” per Platone gli animi: la prima perché fornisce un’immagine distorta delle divinità; la seconda perché, inducendo gli spettatori a identificarsi con i personaggi, rischia di produrre una vera e propria scissione della personalità. La prima condanna platonica della poesia è dunque essenzialmente etica. Ad essa se ne aggiungerà poi, nella stessa Repubblica, una di carattere gnoseologico o conoscitivo. Questo sistema educativo serve anche a suddividere il gruppo dei custodi in due classi distinte: quella di chi è adatto al comando, i reggitori o comandanti (àrchontes, ma il termine significa anche ‘re’ o ‘magistrati’, ‘governanti’), la cui formazione viene integrata dalle discipline matema-

tiche, propedeutiche alla dialettica, che in Platone indica la conoscenza delle forme ideali; e quella di chi deve semplicemente obbedire e eseguire, i soldati veri e propri (epikùroi). Questa divisione non avrebbe nulla di particolarmente originale se i comandanti fossero caratterizzati solo dalla capacità di prendere decisioni nell’interesse collettivo: è questo, in definitiva, ciò che si richiede ad ogni ufficiale. L’elemento tipicamente platonico è che i reggitori devono esercitare la loro funzione, che è appunto quella di guidare la collettività verso il bene, sulla base di un requisito preciso: la conoscenza stessa del bene. Il privilegio dei reggitori non dipende da altro se non appunto dal fatto che essi conoscono il “giusto in sé” e il “bene in sé”, e cioè le idee o forme del giusto e del bene, e non solo ciò che da essi dipende, ovvero le singole cose o le singole azioni giuste e buone. Per questo, solo i reggitori sono in grado di valutare correttamente se quanto accade nella città e le decisioni da prendere siano conformi a tali forme ideali oppure no [ T25]. Questa è dunque l’esigenza politica o pratica di postulare le idee: perché la città possa essere giusta, deve esistere un modello stabile, eterno di giustizia; perché i governanti possano esercitare correttamente la loro funzione, devono poter far riferimento a un criterio assoluto del bene e della giustizia, che essi devono imparare a conoscere. La risposta al relativismo sofistico sta dunque nel ricorso ai modelli ideali: la giustizia non è solo un nome fittizio per la legge del più forte, come sostenuto da Trasìmaco, né, secondo la tesi speculare e complementare espressa da un altro sofista, Càllicle, nel Gorgia, un’invenzione dei più deboli per cercare di sottrarsi alla legge del più forte, ma qualcosa di oggettivo ed esistente, valido in ogni tempo e in ogni luogo – un modello eterno, un paradigma, una forma ideale, appunto. Ma d’altra parte, perché questo modello ideale separato dalle realtà materiali e mutevoli possa essere efficace, c’è bisogno di una mediazione, ovvero di qualcuno che sulla base della conoscenza di tali paradigmi possa introdurre qualcosa della loro perfezione nel mondo sensibile: sono appunto i reggitori – e cioè, come possiamo ora dire esplicitamente, i filosofi, perché solo chi è filosofo può arrivare a conoscere le idee – ad assicurare questa mediazione tra mondo ideale e mondo sensibile.

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Platone capitolo 4 1. Il concetto di oikeiopragìa indica: a. il fatto che in una comunità ciascuno curi i propri affari. b. il fatto che in una comunità ciascuno attenda al compito che gli è più proprio.

c. il fatto che in una comunità si dia una espansione crescente dei bisogni, da quelli primari a quelli secondari.

d. il fatto che in una comunità nasca il gruppo sociale dei guerrieri per far fronte all’espansione dei bisogni.

2. La classe sociale dei custodi nasce: a. dall’allargamento dei bisogni della comunità. b. dalla messa in crisi dell’equilibrio sociale della forma primitiva di comunità.

c. dalla volontà di conquista di nuove terre e ricchezze da parte della comunità primitiva.

d. dall’autosufficienza della comunità primitiva che necessita della sicurezza.

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3. Nella comunità platonica l’educazione: a. svolge un ruolo centrale per la classe dei soldati. b. svolge un ruolo centrale per la classe dei comandanti. c. svolge un ruolo centrale per la classe dei custodi. d. svolge un ruolo centrale per l’intera popolazione. 4. Per Platone i comandanti devono: a. prendere decisioni nell’interesse di tutti. b. guidare la collettività verso il bene, conoscendo il bene e il “giusto in sé”.

c. prendere decisioni, sapendo quali sono volta per volta le singole azioni giuste e buone.

d. guidare la collettività verso ciò che è più utile in una determinata situazione.

5 La tripartizione della società e la comunanza dei beni Abbiamo così in Platone una tripartizione della città in tre gruppi: 1. quello di chi produce (contadini, artigiani, commercianti); 2. quello dei militari; 3. quello dei reggitori o “politici” (o filosofi-re). Per Platone è essenziale che solo il primo di questi gruppi possieda beni propri, mentre la proprietà privata dovrebbe essere vietata ai militari e ai politici, perché il desiderio di ricchezza, o comunque gli interessi personali, rappresentano la principale causa di corruzione delle strutture politiche di una città. Se invece i politici non potranno, per legge, possedere beni, non avranno neppure il desiderio o l’intenzione di procurarsene, e perciò non baderanno tanto al loro interesse personale ma a quello collettivo.

In questo modo, Platone può finalmente neutralizzare nei suoi stessi presupposti la tesi radicale di Trasìmaco, che aveva inizialmente messo in evidente imbarazzo Socrate: può darsi che nella città malata la giustizia corrisponda agli interessi di chi detiene il potere, ma nella città sana ben organizzata, e cioè nel modello che Platone suggerisce, questo rischio è scongiurato, perché chi è al potere è anzi privato di ogni bene o proprietà personale (il che non vuol dire che non avrà affatto beni, ma che avrà solo beni comuni, e non personali). Per questo stesso motivo, Platone suggerisce anche di abolire i tradizionali vincoli familiari: anche in questo caso, i legami di parentela potrebbero essere d’ostacolo al perseguimento dell’interesse comune. Governanti e militari dovrebbero dunque avere, secondo una delle tesi più note (e criticate) di Platone, donne e figli in comune. Essenziale è anzi per Platone che i figli dei membri di tali gruppi siano sottratti fin dalla nascita alla loro famiglia d’origine, per essere sottoposti a quel preciso programma educativo a cui si è fatto riferimento [ 4.4.2]. Queste condizioni rendono il potere qualcosa di non particolarmente appetibile, e non a caso Platone insiste sul fatto che i governanti debbano essere in qualche modo obbligati ad assumere la loro carica, rinunciando in pratica per il periodo di governo a tutti gli altri piaceri. Platone ha dunque scorto nella proprietà privata, e in generale nella sfera degli interessi privati, il pericolo maggiore per la giustizia e per la coesione della città-Stato. La città ideale è quella che non solo pensa e agisce, ma anche soffre e gioisce come un solo uomo:



Ora consideriamo come possibile base d’accordo l’eventuale definizione del più grande bene immaginabile per la costituzione di uno Stato, un bene al quale il legislatore è tenuto a guardare nel momento in cui fissa le leggi. Parimenti chiediamoci quale sarà il male maggiore […]. E crediamo che possa esistere un male peggiore per lo Stato di quello che lo frantuma e che da uno qual era lo rende molteplice? E quale bene maggiore può esserci di quello che lo tiene unito e lo rende uno? – Non l’abbiamo. – Ora, il fatto di mettere in comune piaceri e dolori non è forse potente forza di coesione, soprattutto quando la totalità dei cittadini si rallegra e si rattrista insieme per gli stessi eventi felici o infausti? […] Quella città in cui i citta-

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dini possono dire a proposito dello stesso bene, e nel medesimo senso, “questo è mio” e “non è mio”, non è forse la città meglio di tutte amministrata? – E di gran lunga. – E questa non è anche la condizione che più assomiglia a quella particolare unità in cui consiste l’uomo? [Repubblica, V, 462 A-C]



Platone stesso sembra tuttavia essere consapevole della radicalità e della difficoltà di mettere in pratica il suo modello. Nelle Leggi, che costituiscono il suo ultimo scritto, Platone ammette che l’ideale di una società fondata sulla rinuncia agli interessi privati (almeno per quel che riguarda le classi dei governanti e dei militari) appartiene forse più agli dèi che agli uomini:



Lo Stato primo, la costituzione e le leggi più perfette si trovano là dove l’antico detto “i beni degli amici sono davvero beni comuni” trova la sua più completa realizzazione in tutto lo Stato, sia che essa avvenga oggi, in qualche posto, sia che avvenga nel futuro. Con questo mi riferisco alla comunanza delle donne, dei figli e di ogni ricchezza, grazie alla quale con ogni mezzo e in ogni modo la cosiddetta sfera privata viene del tutto estromessa dal vivere civile […]. Ora, se tali leggi riusciranno a rendere in massimo grado unitario lo Stato, si stia pur certi che a proposito della elevazione verso la virtù, nessuno potrebbe formulare un’altra definizione più calzante e più precisa di questa. Sia dunque così lo Stato. Ma se per caso in esso trovassero dimora dèi o figli di dèi in un certo numero, essi, vivendo in conformità con queste norme, vi abiteranno godendo di autentica felicità. […] In primo luogo si proceda alla distribuzione della terra e delle abitazioni, ma non alla collettivizzazione dell’agricoltura, perché questa riforma sarebbe al di sopra della comprensione della presente generazione e di quello che si è riconosciuto essere il suo livello di formazione ed educazione. [Leggi, V, 739 B - 740 A; corsivi nostri]

Repubblica, e cioè che l’ideale di una città retta da filosofi è certamente difficile, ma non impossibile da realizzare. Platone, in altri termini, non considera affatto il suo modello come una mera utopia:



Dicevamo che né una Città, né una costituzione e neppure un uomo avrebbero potuto diventare perfetti, prima che questi, che sono i rari filosofi, che sono oggi giudicati non malvagi, ma inetti, non vengano costretti dalla sorte, sia che lo vogliano sia che non lo vogliano, a prendersi cura della Città, e la Città non sia costretta a ubbidire a loro; oppure finché nei figli dei potenti o dei re di oggi, se non addirittura in loro stessi, non sorgesse vero amore di vera filosofia per qualche divina ispirazione. […] Dunque, sia che la forza della necessità abbia costretto i filosofi più elevati a prendersi cura della Città nell’infinito tempo che è trascorso, sia che ora accada in qualche luogo barbarico lontano e al di fuori della nostra vista, sia che ciò debba accadere in futuro, noi siamo pronti a difendere col ragionamento questa tesi: che la Città di cui abbiamo detto c’è stata, c’è e ci sarà, quando questa Musa della filosofia diventi signora di essa. Infatti, né è impossibile che avvenga, e neppure noi affermiamo cose impossibili; ammettiamo, però, che queste non sono cose facili da realizzare. [Repubblica, 499 B-D; corsivi nostri]



1. L’abolizione della proprietà e dei vincoli familiari risponde all’esigenza di: a. realizzare l’interesse collettivo e non personale da parte dei custodi. b. far coesistere pacificamente le tre classi sociali, superando la smania di ricchezza di ciascuna di esse. c. superare la posizione di Trasìmaco sulla giustizia come l’utile del più forte. d. costituire un modello utopistico di società.

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Platone concede così nelle Leggi una parziale reintroduzione dell’òikos, cioè della ‘casa’ come sfera di affetti e di proprietà, ma sempre in modo limitato. La conclusione del passo appena citato («Ma ciò eccede il modo attuale di generare, di allevare e di educare gli uomini») non solo non si oppone, ma si salda anzi perfettamente a ciò che Platone afferma già nella

6 La corrispondenza tra l’anima e la città C’è una ragione precisa per cui Platone non considera il suo modello irrealizzabile, ed è data dal fatto che esso si fonda, in ultima analisi, sul modo stesso in cui è costituita l’anima umana.

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La corrispondenza tra anima e città Principio dominante nell’anima

Gruppo sociale

Virtù corrispondente

Principio concupiscibile

lavoratori/produttori

temperanza

Principio irascibile

militari/guerrieri

coraggio

Principio razionale

reggitori/filosofi

sapienza

La tripartizione della società in lavoratori deputati alla produzione, guerrieri, e governanti (uno schema teorico destinato ad avere una lunghissima storia) non è infatti per Platone casuale, ma rispecchia, così come viene precisato nel VI libro della Repubblica, un’analoga distinzione esistente nell’anima: si dà cioè un preciso parallelismo tra anima e città [ La corrispondenza tra anima e città]. L’anima, secondo Platone, non ha soltanto una dimensione razionale: essa possiede anche una doppia componente irrazionale, poiché comprende sia un principio irascibile (o volitivo, collerico, impetuoso), che spinge verso l’affermazione di sé e il riconoscimento sociale, sia un principio concupiscibile o desiderante che spinge verso il soddisfacimento dei desideri legati al cibo e alla sessualità. L’appartenenza di un individuo a un determinato gruppo sociale si giustifica in base alla predominanza di uno dei tre princìpi: coloro in cui è dominante il principio razionale (e cioè, fondamentalmente, i filosofi), apparterranno al gruppo dei reggitori; quelli in cui prevale il principio irascibile, al gruppo dei guerrieri; tutti gli altri (ovvero quelli in cui prevale l’elemento concupiscibile) faranno parte del terzo gruppo, quello dei lavoratori/produttori [ T25]. In questa distribuzione (sempre sulla base della oikeiopragìa), è essenziale che ciascun membro coltivi la virtù che gli è propria: la sapienza (sophìa) sarà così la virtù dei governanti, il coraggio la virtù dei guerrieri, la temperanza, cioè la capacità di moderare e contenere i propri desideri, la virtù dei lavoratori/produttori. Mentre nei primi due casi la virtù si accorda con il principio dominante dell’anima, e sviluppa ciò che gli è proprio, nell’ultimo svolge in realtà una funzione di contrasto o limitazione del principio stesso. Per altro, la temperanza è richiesta, in forme diverse, anche

dagli altri due gruppi: nei governanti essa comporta l’accettazione del proprio ruolo (con tutte le limitazioni e i vincoli che esso comporta); nei guerrieri, equivale all’obbedienza, cioè alla disponibilità a eseguire fedelmente gli ordini impartiti dai reggitori. A questo punto è anche più semplice comprendere cosa sia concretamente la giustizia, cioè il benessere della città: se il benessere dell’anima è dato dall’armonia tra i princìpi, quello della città sarà dato dall’equilibrio e dall’armonia tra i tre gruppi. La giustizia sta così, ancora una volta, nel fatto che ognuno deve fare ciò che gli è proprio, ciò che risponde alla propria natura, ovvero al principio che è in lui dominante. In un certo senso, la sfera psichica e quella sociale, più che essere meramente parallele, finiscono qui per sovrapporsi, perché la dimensione politica, pubblica, può sopperire alle mancanze individuali: è in effetti impossibile che tutti possano far prevalere in sé stessi il principio razionale ed essere sapienti (e dunque conoscere veramente il bene), e tuttavia, se coloro che non ci riescono (la grande maggioranza, per Platone) si rimettono alle decisioni dei governanti, possono far sì che il principio razionale che non prevale in essi a livello individuale possa invece imporsi a livello generale. Anche questa è una forma di giustizia: è giusto che chi non conosce il bene (chi non è filosofo, e dunque neppure veramente “politico”) si rimetta a chi lo conosce, e si limiti a eseguire correttamente ciò che gli compete. Con ciò è risolto anche il problema posto da Adimànto nel II libro della Repubblica, e che avevamo lasciato in sospeso [ 4.4.1]: non è vero che chi vive in modo ingiusto è più felice, perché in realtà è schiavo delle sue passioni, della voglia di potere o della brama di ricchezze e piacere. La sua anima è squilibrata, malata, perché il principio razionale, invece di subordi-

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nare a sé gli altri due, si trova di fatto a essere Il Politico caratterizza da una angolazione diversubordinato ad essi. La felicità di chi pratica sa la figura di colui che è in possesso della tèchne l’ingiustizia è così puramente illusoria, e coinpolitikè: egli non deve soltanto disporre realmencide di fatto con un’alterazione del corretto te di un sapere di cui gli altri uomini sono invece equilibrio, con una malattia [ T53]. privi, ma anche della capacità di mediare tra esiPlatone è sufficientemente realista per riconogenze diverse, poiché la politica è anche arte della scere che la città perfetta, laddove venisse realizmediazione, ovvero dell’accordo tra caratteri e zata, sarebbe pur sempre sottoposta al processo temperamenti diversi – un’arte che viene esplicidi decadenza e corruzione che riguarda tutto ciò tamente paragonata a quella della tessitura: che si genera (essa si ispira a un modello ideale, Diciamo, allora» [spiega nel dialogo lo ma ovviamente si realizza sempre, se e quando si Straniero di Elèa ad un altro personaggio] che dovesse realizzare, nel mondo delle cose sensibiquesto è il compimento del tessuto, rettamente li). Platone propone a questo proposito, nella intrecciato, dell’azione politica: quando l’arte reseconda parte della Repubblica [ T25], uno schema preciso di questo processo di degeneragia prende il carattere degli uomini valorosi e zione, che coincide anche con la prima presentaquello degli uomini temperanti, e, conducendozione filosofica delle diverse tipologie possibili di li alla vita comunitaria in concordia e in amiciregime o costituzione, poi riprese e rielaborate da zia, realizzando il più sontuoso e il più prezioso Aristotele. di tutti i tessuti, e avvolgendo tutti gli altri, schiaIl modello ideale, la città sana, corrisponde vi e liberi, che vivono negli Stati, li tiene insieme per Platone all’aristocrazia, al governo dei in questo intreccio, e governa e sovrintende, senmigliori (àristoi sono appunto i “migliori”), za trascurare assolutamente nulla di quanto si cioè di coloro che, secondo la tripartizione preaddice a uno Stato felice. [Politico, 311 B-C] cedente, sono più adatti a governare. Essa tuttavia è destinata a cedere il passo alla timocrazia, ovvero al regime fondato sull’onore o sull’impulso all’autoaffermazione (thymòs): in La successione questo caso, è il principio collerico o delle diverse tipologie irascibile a prendere il sopravvento di regime secondo Platone su quello razionale. Alla timocraaristocrazia zia segue l’oligarchia, in cui il governo dei migliori (reggitori/filosofi) potere è in mano a pochi ricchi prevalenza del principio razionale (olìgoi sono i “pochi”): qui, è  l’elemento desiderativo, nella timocrazia forma della brama di ricgoverno fondato sul desiderio di onori e sull’impulso all’autoaffermazione chezze, a prevalere sugli prevalenza del principio irascibile altri due. Seguono poi la  oligarchia democrazia, che è carattegoverno nelle mani di pochi ricchi rizzata dalla compresenza prevalenza del principio concupiscibile (brama di ricchezze) delle varie forme di deside ri, e infine la forma peggiodemocrazia re, la tirannide, dove a pregoverno dei molti valere è il puro desiderio prevalenza del principio concupiscibile (compresenza di vari desideri) sessuale [ La successione 





delle diverse tipologie di regime secondo Platone].

tirannide governo fondato sull’arbitrio di chi è servo delle passioni prevalenza del principio concupiscibile (brama sessuale)

Nei dialoghi politici successivi alla Repubblica, e cioè nel Politico e nelle Leggi, Platone ha cercato di attenuare in senso ancora più realistico il suo progetto, senza tuttavia rinunciare alle linee di fondo.

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La sostanza del discorso platonico non è al fondo mutata: colui che sa, e risponde al principio razionale, deve guidare e armonizzare coloro che si lasciano guidare dagli altri princìpi, riprendendone e conciliandone le virtù (il coraggio dei guerrieri e la temperanza dei produttori). Ma, più che insistere direttamente sull’ideale del re-filosofo, come nella Repubblica, Platone descrive qui le caratteristiche del vero e proprio professionista – del “tecnico”, nel senso letterale del termine – della politica. Si tratta di un individuo che sulla base della propria arte (del proprio sapere) sa ciò che è meglio per la città, senza neppure bisogno di norme scritte, così come il pilota di una nave, basandosi sulla sua sola arte (e senza doverla codificare) è in grado di portare in salvo tutti i suoi passeggeri. Chi risponde meglio a questa figura è pur sempre il reggitore sapiente, che non ha bisogno di sottomettersi alla legge, e si pone al di sopra di essa e delle altre forme di governo, come un vero e proprio dio si distingue dagli uomini. Ma poiché trovare buoni politici di questo tipo è raro, è meglio far riferimento a costituzioni scritte. È tuttavia interessante notare come, al di là del perfetto ordinamento fondato sulla sapienza dei politici, Platone precisi qui che, in presenza di leggi, la monarchia è la forma di governo migliore; in assenza di leggi, essa diventa invece dura e insopportabile, ed è la democrazia a divenire di gran lunga preferibile. Il ricorso a leggi scritte diventa centrale nel dialogo ad esse dedicato, e cioè appunto nelle Leggi: se la città ideale (kallipòlis) sembra propria più degli dèi, negli uomini le spinte provenienti dai princìpi non razionali devono essere tenute a freno con una minuziosa legislazione per limitare i desideri, gli egoismi e le passioni. E se in precedenza il progetto politico di Platone si fondava in definitiva sull’educazione dei cittadini, ora l’accento cade soprattutto sul controllo sociale dei loro comportamenti. Ciò a cui Platone non rinuncia affatto è invece il nesso tra tecnica politica e sapere autentico, questa volta tuttavia fatto coincidere con l’astronomia più che con la conoscenza del bene o del “buono in sé” (non a caso il dialogo è stato completato da un astronomo, e cioè Filippo di Opùnte).

1. Per Platone la comunità da egli stesso descritta nella Repubblica: a. è del tutto irrealizzabile, perché appartiene più agli dei che agli uomini. b. è realizzabile, perché fondata sulla costituzione dell’anima umana. c. è irrealizzabile, perché l’uomo possiede una parte irascibile dell’anima che lo spinge all’affermazione di sé. d. poggia sul parallelismo fra la sfera sociale e quella politica. 2. Associa ad ogni definizione il modello di Stato corrispondente. a. Stato in cui prevalgono l’onore e l’ambizione: ................... b. Stato in cui il potere è concentrato nell’arbitrio di uno solo: ........................... c. Stato in cui prevale il desiderio di ricchezza: ..................... d. Stato in cui predominano la libertà eccessiva e i desideri: ............................... 3. Platone nel Politico: a. insiste sulla figura del re-filosofo. b. insiste sulle caratteristiche del politico come tecnico. c. connota la politica come arte della mediazione. d. connota il politico come colui che possiede unicamente un sapere che gli altri non hanno.

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7 Il valore conoscitivo delle forme o idee: contro il relativismo Abbiamo considerato finora la strada che, a partire dalla riflessione politica, conduce Platone a postulare l’esistenza delle forme ideali, o idee. Ma un cammino simile può essere percorso anche dal punto di vista della teoria della conoscenza.

7.1 Le caratteristiche delle forme Nel Teeteto Platone si confronta con la tesi protagorea dell’uomo principio di tutte le cose e con la dottrina eraclitea dell’incessante divenire di tutte le cose. Le due posizioni sembrano convergere in un relativismo che rende di fatto impossibile ogni conoscenza stabile:



è diventato evidente che, se tutto si muove, ogni risposta, su qualunque argomento si risponda, è del pari corretta, dire sia che è così, sia che non è così, e, se vuoi, che diviene così o non così, per non fermare con la parola proprio loro. [Teeteto, 183 A]



Per essere certa e universale la conoscenza deve avere come oggetti appropriati delle entità eter-

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ne, ingenerate, immutabili. È facile rendersene conto se si considerano gli enunciati delle scienze, per esempio quelli della matematica: le proprietà di un triangolo devono potersi applicare a qualsiasi triangolo esistente. Più in generale, le idee garantiscono la possibilità di comprendere in modo univoco e coerente l’uso di uno stesso predicato in riferimento a soggetti diversi. Per intenderci: noi diciamo per esempio “belle” molte cose del tutto diverse tra loro (una statua, un libro, un cane, un uomo o una donna). Su cosa si fonda l’unità, o meglio l’univocità, di queste predicazioni? Non sull’unità dei soggetti, perché evidentemente una statua o il mio cane, per quanto assai belli, non coincidono di fatto con la donna o l’uomo di cui sono innamorato: dunque, per Platone, non resta che fare appello a un unico modello o a un’unica forma della bellezza applicabile a cose diverse. Tutto ciò che diciamo bello, in altri termini, si dice tale in riferimento al “bello in sé”, e cioè alla forma o idea della bellezza. Questa forma unica e assoluta non può a sua volta appartenere al nostro mondo sensibile (altrimenti ne condividerebbe le stesse caratteristiche di mutevolezza, molteplicità e contingenza), ma deve essere collocata in un mondo che è precluso alla visione sensibile, e cioè un mondo intelligibile, accessibile alla sola visione intellettuale (i termini idèa e èidos, che Platone ha adoperato per designare ciò che noi chiamiamo appunto ‘idea’ o ‘forma’, rimandano entrambi, nella loro radice, al verbo idèin, ‘vedere’, ma qui appunto nel senso della visione intellettuale). L’idea è dunque il fondamento intelligibile, stabile e unitario di ciò di cui facciamo esperienza in questo mondo sensibile. In effetti, noi rinveniamo, tra le distinte e sempre diverse realtà del nostro mondo, alcuni tratti comuni; questi tratti devono, per Platone, essere riportati all’esistenza di un’unica forma, che si colloca al di sopra della molteplicità e del divenire, e risulta pertanto perfettamente conoscibile in modo assoluto. Lo sguardo di chi pratica la filosofia è propriamente quello di colui che è in grado di ricondurre ciò che è corporeo, molteplice e mutevole (temporale) a un’unica essenza intelligibile e atemporale. Nel Simposio – uno dei dialoghi più celebri di Platone – questo percorso di risalita dalla molteplicità del sensibile all’unità dell’intelligibile viene proposto proprio in riferimento alla bel-

lezza. La sacerdotessa Diotìma di Mantinèa (un personaggio con ogni probabilità inventato da Platone) illustra a Socrate una vera e propria scala gerarchica dei gradi di amore, che prende avvio dall’amore per la bellezza dei corpi, procede per quello nei confronti della bellezza delle anime (che per Platone si ritrova soprattutto nelle relazioni omosessuali, in quanto svincolate da ogni legame con la riproduzione corporea), delle attività umane, delle leggi e delle conoscenze, per culminare infine nell’amore per il “bello in sé”, cioè per la forma ideale della bellezza. La sintesi conclusiva del discorso di Diotìma illustra proprio il compito di passare dai particolari all’universale, dal molteplice al fondamento unitario:



la giusta maniera di procedere da sé o di essere condotto da un altro nelle cose d’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere quel Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è bello in sé. [Simposio, 211 B-C]



Ma lo stesso dialogo ci offre anche una presentazione delle caratteristiche del bello in sé, e dunque in generale delle forme ideali (è sempre Diotìma a parlare):



Chi sia stato educato fino a questo punto rispetto alle cose d’amore, contemplando una dopo l’altra e nel modo giusto le cose belle, costui, pervenendo ormai al termine delle cose d’amore, scorgerà immediatamente qualcosa di bello, per sua natura meraviglioso, proprio quello, o Socrate, a motivo del quale sono state sostenute tutte le fatiche di prima: in primo luogo, qualcosa che sempre è, e che non nasce né perisce, non cresce né diminuisce, e inoltre non è da un lato bello e dall’altro brutto, né talora bello e talora no, né bello in relazione ad una cosa e brutto in relazione ad un’altra, né bello in una parte e brutto in altra parte, né in quanto bello per alcuni e brutto per altri. E neppure il bello si mostrerà a lui come un volto, o come delle mani, né co-

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me alcun’altra delle cose di cui il corpo partecipa; né si mostrerà come un discorso e come una scienza, né come qualcosa che è in qualcos’altro, per esempio in un essere vivente, oppure in terra o in cielo, o in qualcos’altro, ma si manifesterà in sé stesso, per sé stesso, con sé stesso, come forma unica che sempre è. Invece, tutte le altre cose belle partecipano di quello in un modo tale che, anche se esse nascono e periscono, quello in nulla diventa maggiore o minore, né patisce nulla. [Simposio, 210 E - 211 B]



Questo passo contiene un vero e proprio elenco delle proprietà delle forme ideali. Riassumendo, il “bello in sé” – così come ogni altra idea – è: eterno («qualcosa che sempre è»); ingenerato («non nasce»); incorruttibile («né perisce»); inalterabile («non cresce né diminuisce»); pienamente omogeneo («non è da un lato bello e dall’altro brutto»); f. immutabile nel tempo («né talora bello e talora no»); g. assoluto e non relativo («né bello in relazione ad una cosa e brutto in relazione ad un’altra», «né in quanto bello per alcuni e brutto per altri»); h. privo di parti e perciò indivisibile («né bello in una parte e brutto in altra parte»); i. sottratto alla visione sensibile («neppure il bello si mostrerà a lui come un volto, o come delle mani, né come alcun’altra delle cose di cui il corpo partecipa»); j. separato, autosufficiente e non commisto a nessuna delle cose di questo mondo, per quanto nobili e astratte («né si mostrerà come un discorso e come una scienza, né come qualcosa che è in qualcos’altro»); k. del tutto impassibile, anche rispetto ai cambiamenti che ineriscono a ciò che partecipa di esso («anche se esse [le singole cose belle] nascono e periscono, quello [il “bello in sé”] in nulla diventa maggiore o minore, né patisce nulla»). a. b. c. d. e.

Nella Repubblica, Platone sintetizza questa descrizione affermando che solo le idee sono in senso stretto, godono cioè di un essere pieno, mentre i particolari molteplici e sensibili allo stesso tempo sono e non sono. Quel che Platone intende dire è che solo l’idea possiede in modo

assoluto la natura che le è propria (la sua essenza, il suo contenuto), mentre le cose sensibili possiedono quella stessa natura in modo relativo e parziale. Per restare sempre al medesimo esempio, solo l’idea del bello esprime il bello in senso assoluto, e perciò è il bello in quanto tale; le singole cose belle sono belle in senso relativo, e perciò sono e non sono belle: l’idea è ciò che tutte le altre cose hanno solo in parte, e solo in virtù dell’idea stessa. Analogamente, Platone afferma anche che le idee sono per sé, cioè appunto complete in sé stesse e autosufficienti, mentre le singole cose sono solo in rapporto alle idee. La separazione delle idee – il nucleo di fondo della dottrina platonica, che sarà poi il principale bersaglio delle critiche aristoteliche – sta a indicare proprio questo: porre le idee come separate significa essenzialmente che esse godono di un’esistenza autonoma e indipendente; viceversa, le singole cose non sono separate proprio perché non possono esistere o essere pensate indipendentemente dalle idee.

7.2 Il rapporto tra le forme ideali e il mondo sensibile Il rapporto tra le molteplici cose sensibili e le loro forme o idee viene espresso da Platone attraverso una serie di nozioni fondamentali. Possiamo distinguerne almeno quattro: 1. partecipazione (mèthexis); 2. imitazione (mìmesis); 3. comunanza (koinonìa); 4. causa (aitìa). Nel primo senso, si può dire che le cose partecipano delle idee (è quanto per esempio veniva suggerito nelle linee conclusive del passo del Simposio prima riportato). Partecipare vuol dire “prendere parte”, ma questo “prendere parte” non dev’essere inteso in senso fisico, materiale, perché l’idea non è mai materialmente presente in individui diversi. Se infatti una forma fosse presente tutta intera in cose diverse, essa sarebbe separata da sé, e potrebbe ricevere predicazioni contraddittorie. Per esempio, se la forma della bellezza fosse presente tutta intera sia in un corpo bello sia in un discorso bello, in primo luogo non sarebbe

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più unica e unitaria, e in secondo luogo dovrebbe possedere insieme tutto ciò che è proprio di un corpo e tutto ciò che è proprio di un discorso, il che è evidentemente assurdo. Se invece fosse presente in cose diverse secondo parti diverse (una parte dell’idea di bellezza in un corpo bello, e un’altra parte in un bel discorso), allora sarebbero irrimediabilmente compromesse la sua semplicità e la sua indivisibilità: ma le idee sono indivisibili, e non ammettono parti. La partecipazione, come viene detto nel Parmenide, è piuttosto da intendere al modo del rapporto che sussiste tra la luce del giorno e le cose che ne vengono illuminate: la luce si diffonde sulle cose, senza perdere nulla di sé e senza moltiplicarsi in senso reale; e tuttavia, è solo grazie alla luce che le cose si presentano ai nostri occhi per ciò che sono. La partecipazione esprime dunque il fatto che ciò che ogni singola cosa è (la sua natura o il suo contenuto) dipende dalla natura della forma o idea corrispondente: una cosa è bella perché partecipa della natura della bellezza, ovvero perché ciò che essa ha di bello dipende da ciò che è il bello in sé. Un secondo modo, non troppo dissimile, in cui Platone descrive il rapporto tra le cose e le idee è quello dell’imitazione. Le cose imitano le idee, cioè possiedono in forma imperfetta e derivata ciò che le idee possiedono invece in sé e in modo assoluto. Questo rapporto può essere espresso dicendo che le cose di questo mondo sono copie dei loro modelli (o paradigmi) ideali. In quanto tali, le copie non eguagliano mai i modelli da cui derivano, e non raggiungono la stessa perfezione e la stessa consistenza ontologica (cioè la stessa pienezza d’essere); tuttavia, ciò che in essi c’è di positivo, dipende pur sempre dal modello. Un terzo modo è quello definito dalla comunanza. Anche in questo caso possiamo far riferimento a quanto visto in precedenza: ciò che vi è di comune in più cose sensibili può essere riportato al fatto che tutte dipendono dalla medesima forma. Quest’ultima è in definitiva ciò che fonda la possibilità dell’attribuzione univoca di un medesimo predicato al di là della differenza dei soggetti: nelle proposizioni “questo corpo è bello” e “questo discorso è bello”, il senso univoco di “bello” non dipende dai soggetti, ma dal comune riferimento alla forma assoluta del bello.

Rimane il problema della causalità. Dire che le idee sono cause delle cose può voler dire che esse sono princìpi esplicativi delle cose stesse (le cose belle si spiegano in base a ciò che è “bello in sé”) o, in senso più forte, che sono princìpi ontologici delle cose, sono ciò che producono l’essere delle cose. Se non ci sono dubbi sulla prima valenza (le idee sono introdotte da Platone proprio per definire l’essenza o natura delle singole cose), ci potrebbe essere qualche esitazione a proposito della seconda. Aristotele stesso ne offre una riprova, quando osserva piuttosto seccamente: «Dire che le idee sono “modelli” e che le cose “partecipano” di esse è parlare a vuoto e usare metafore poetiche» [Metafisica I, 9]. Tuttavia, è più che plausibile che Platone abbia effettivamente ritenuto [ 4.14] che le idee producano nelle diverse cose sensibili i caratteri propri di ciascuna di esse: il “bello in sé” sarebbe in tal senso non solo ciò che permette di pensare la bellezza di una singola cosa, ma ciò che di fatto la fonda e la produce.

L’argomento del “terzo uomo” Nel Parmenide è prospettato il famoso argomento del “terzo uomo”, che ritroveremo in Aristotele, e che fa leva sul rapporto di comunanza (koinonìa). Come già ribadito, l’idea è ciò che fonda l’unità di una predicazione comune a più individui: se posso dire che Socrate e Platone sono entrambi uomini, è solo perché, secondo la tesi platonica, essi possono essere riportati alla medesima idea di uomo. Quest’ultima è distinta e separata dai singoli uomini, si colloca a un secondo e diverso livello, e potrebbe perciò essere indicata come un “secondo uomo”, per distinguerla dagli uomini concretamente esistenti in questo mondo. Ma se per esprimere tutto ciò che è comune occorre un’idea, allora avremo bisogno di un’ulteriore idea per esprimere proprio il rapporto (ciò che vi è di comune) tra i singoli uomini e l’idea di uomo, ovvero tra i singoli individui e il “secondo uomo”. In effetti, o tra gli individui e l’idea non c’è alcun rapporto e nulla di comune, e allora l’idea non potrebbe in alcun modo indicare ciò che è comune a quegli individui, o, se c’è un rapporto (e dunque qualcosa di comune), esso dovrebbe essere espresso e reso possibile da un’altra idea. Questa ulteriore idea sarebbe appunto il “terzo uomo”. Ma secondo questo procedimento si potrebbe andare avanti all’infinito, perché avremmo bi-

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Se per noi il nome di Platone è praticamente indissociabile dalla dottrina delle idee, egli stesso non sembra averla ritenuta come un caposaldo sottratto a ogni possibile discussione. Alcuni dialoghi, come il Parmenide, mettono anzi in campo una serie di obiezioni contro la teoria delle idee o forme, il che testimonia da una parte come la posizione platonica al riguardo non fosse di chiusura dogmatica, dall’altra come all’interno stesso dell’Accademia si fosse con ogni probabilità sviluppato un acceso dibattito sullo statuto delle idee. Perfino le critiche aristoteliche in proposito potrebbero in realtà essere scaturite da un’evoluzione critica all’interno della scuola [ L’argomento del “terzo uomo”]. Il Parmenide, per esempio, è un dialogo aperto, in cui le difficoltà che Platone stesso solleva contro le idee, nell’immaginario confronto tra un autorevole Parmènide e un intimorito Socrate, rimangono sostanzialmente senza risposta: Parmènide si limita a riconoscere la necessità delle idee come punto di riferimento

per il pensiero, ma soprattutto esorta Socrate a un serrato esercizio o allenamento dialettico che lo renda in grado di affrontare i problemi e ripensare adeguatamente lo statuto delle idee. 1. Per Platone le idee sono: a. entità eterne, ingenerate, immutabili, oggetto della conoscenza sensibile. V b. modelli intelligibili che consentono di predicare la medesima cosa di oggetti diversi tra loro. V c. forme uniche e assolute immanenti al mondo sensibile. V d. il fondamento intelligibile e stabile che assicura unità alla molteplicità in divenire del mondo sensibile. V

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2. Con il termine partecipazione Platone intende:

a. una modalità del rapporto tra cose sensibili e idee per cui queste sono materialmente presenti nelle cose.

b. una modalità del rapporto tra cose sensibili e idee per cui la natura delle cose dipende dalle idee corrispondenti.

c. una modalità del rapporto tra cose sensibili e idee per cui le prime possiedono in forma imperfetta ciò che le idee possiedono in modo perfetto. d. una modalità del rapporto tra cose sensibili e idee per cui queste consentono di attribuire un medesimo predicato alla molteplicità differente delle cose.

8 I modi della conoscenza: scienza e opinione sogno di un’ulteriore forma (un “quarto uomo” e così via) per spiegare la comunanza o il rapporto tra tutte le idee postulate e gli individui iniziali, il che è assurdo. Il senso dell’argomento è allora che, se non abbiamo bisogno di un’idea per esprimere il rapporto tra un’altra idea e gli individui che ad essa fanno riferimento, non avremo in realtà bisogno neppure di nessuna idea per indicare e spiegare ciò che vi è di comune tra più individui. Dal punto di vista di Platone, si potrebbe rispondere che questo regresso all’infinito non è necessario, così come non è necessario ammettere una forma ulteriore per spiegare il rapporto tra gli individui e la loro forma: noi raduniamo più individui sotto la stessa forma o idea di uomo perché, per ciascuno di essi, diciamo che è uomo (“Socrate è uomo”, “Platone è uomo”, “Callia è uomo”, ecc.). Ma quando diciamo che l’idea di uomo è uomo non intendiamo la stessa cosa: nel primo caso la copula “è” esprime il rapporto di partecipazione (Socrate è uomo perché partecipa dell’idea di uomo), mentre nel secondo caso esprime solo l’autoidentità (la forma di uomo è uomo non nel senso che partecipa di altro – di un ipotetico “terzo uomo” – ma perché è identica a sé, e esprime in modo pieno e compiuto ciò che è proprio dell’uomo in senso assoluto).

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Questo appello alla dialettica ci introduce alla questione di come sia possibile conoscere le idee. Prima conviene, tuttavia, esaminare la teoria platonica della conoscenza in generale. Anche in questo caso è la Repubblica il dialogo che offre le indicazioni più esplicite in proposito, istituendo una relazione precisa tra i diversi tipi di oggetti conoscibili e i modi di conoscenza (in altri termini, è la natura degli oggetti a determinare il tipo di conoscenza). Platone introduce qui una prima grande divisione tra l’ambito di ciò che è intelligibile (noetòn) e quello di ciò che è sensibile, ovvero di ciò che si offre alla visione corporea o sensibile (il visibile). A queste due distinte regioni ontologiche (cioè a questi due grandi ambiti dell’essere) corrispondono due tipologie diverse di conoscenza: di ciò che è intelligibile si può avere propriamente conoscenza, mentre di ciò che è sensibile e in divenire si può avere soltanto opinione (dòxa). Ma ciascuno di questi due ambiti fondamentali può essere a sua volta ulteriormente suddiviso:

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l’ambito della conoscenza sensibile comprende sia gli oggetti sensibili, che sono oggetto di credenza (pìstis), sia le copie di questi ultimi, conosciute soltanto attraverso la rappresentazione sensibile (eikasìa). Anche l’ambito intelligibile può essere distinto tra ciò che è oggetto in senso stretto di intellezione (noèsis), e cioè le idee, e ciò che è oggetto di pensiero discorsivo (diànoia); discorsivo si dice quella forma di pensiero che passa in modo deduttivo o argomentativo – “discorre”, appunto – da un contenuto a un altro), e cioè gli enti matematici. Volendo riassumere, avremo quindi: a. la rappresentazione sensibile (eikasìa) relativa alle copie degli oggetti sensibili (quando cioè conosciamo le cose di questo nostro mondo sensibile non direttamente, ma appunto attraverso le loro rappresentazioni o immagini); b. la credenza (pìstis), relativa agli oggetti sensibili in quanto tali; c. il pensiero discorsivo (diànoia), relativo agli enti matematici; d. l’intellezione in senso stretto (noèsis), relativa alle idee. Questi quattro gradi procedono da ciò che è più instabile (dal punto di vista dell’essere) e incerto (dal punto di vista della conoscenza) a ciò che è più stabile e certo. Se le cose di questo mondo sono già copie dei loro modelli ideali, le rappresentazioni di tali cose non saranno che copie di copie, e per questo occupano il gradino più basso nella gerarchia delle possibili forme di conoscenza. Per questo stesso motivo, Platone dà dell’arte un giudizio sostanzialmente negativo anche dal punto di vista noetico (cioè conoscitivo): le produzioni artistiche (Platone non si riferisce solo alle arti figurative, ma anche alla poesia) sono copie di secondo grado, ovvero copie di copie, imitazioni di imitazioni. Quanto alla conoscenza diretta degli oggetti sensibili, essa non potrà mai eccedere l’ambito dell’opinione per diventare scienza in senso stretto, perché gli oggetti stessi mancano di quella stabilità e immutabilità che caratterizza la scienza vera e propria. E come gli enti matematici sono intermedi tra quelli sensibili e le idee, così la matematica si pone al di sopra della dòxa, ma al di sotto della scienza propriamente detta che verte sulle idee, e

cioè la dialettica. Questo scarto dipende da diversi fattori. In primo luogo, la matematica muove sempre a partire da assiomi o postulati, cioè da ipotesi che vengono semplicemente ammesse o presupposte, mentre la dialettica è in grado di risalire a ciò che fonda ogni ipotesi (annullando così il loro stesso carattere ipotetico). In secondo luogo, mentre la scienza delle idee rimane sempre nell’ambito intelligibile (cioè, non esce mai dall’ambito delle idee stesse), la matematica non è completamente priva di riferimenti alle visione sensibile, come appare soprattutto nelle dimostrazioni geometriche. Infine, la matematica procede sì razionalmente, ma in modo discorsivo, mentre le idee sono oggetto di intellezione. Tutto ciò non significa che la matematica non abbia conservato agli occhi di Platone un’importanza fondamentale: essa è una componente essenziale dell’educazione dei reggitori-filosofi; rappresenta comunque la migliore preparazione o propedeutica possibile alla dialettica, o alla scienza delle idee, e infine offre (nei dialoghi più tardi e nelle dottrine non scritte) una possibilità di interpretare i rapporti reciproci tra le idee. Non a caso si dice che sul frontone dell’ingresso all’Accademia fosse posta un’iscrizione che vietava l’accesso a chi non fosse provvisto di un’adeguata formazione geometrica. È possibile che questa notizia sia un’invenzione posteriore, ma è comunque più che plausibile che all’Accademia fossero insegnate tutte le discipline matematiche: aritmetica, geometria, stereometria (geometria dei solidi), astronomia e musica (considerata appunto sotto l’aspetto matematico dei rapporti armonici e non nella sua valenza estetica).

1. Per Platone i diversi tipi di conoscenza sono determinati: a. dalla natura del mondo sensibile. b. dalla natura del mondo intelligibile. c. dalla natura degli oggetti indagati. d. dalla natura dell’intelletto umano. 2. Per Platone la matematica è una conoscenza:

a. intermedia fra la dòxa e la dialettica. b. superiore alla dialettica e inferiore alla dòxa. c. superiore alla dòxa e inferiore alla dialettica. d. superiore alla dòxa e alla dialettica.

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9 La dialettica Resta da determinare meglio la natura della dialettica, ovvero il modo in cui si procede alla conoscenza delle idee. Anche a questo riguardo, tuttavia, non è semplice ritrovare nei testi platonici una posizione perfettamente definita. In effetti, taluni passaggi suggeriscono che le idee possano essere l’oggetto di un’apprensione intellettuale diretta, mentre altri pongono esplicitamente che alle idee si pervenga attraverso un procedimento complesso, volto a ottenere la definizione della loro essenza. Tale procedimento sembra appunto coincidere con la dialettica, così come per esempio Platone la definisce nel VII libro della Repubblica:



non esiste altro procedimento che possa pretendere di cogliere sistematicamente e universalmente l’essenza di ciascun essere individuale. [Repubblica, VII, 533 B]



Il dialettico è di conseguenza colui che è in grado di trovare la definizione di ciascuna cosa, conoscendone il vero essere (quello ideale). Si tratta di una caratterizzazione della dialettica evidentemente diversa da quelle che abbiamo incontrato prima di Platone: la tecnica dialettica non è più intesa qui né come semplice arte della discussione (volta principalmente alla confutazione delle opinioni degli avversari), come nel caso dei sofisti, né come interrogazione mirante a eliminare il sapere apparente degli interlocutori e a far sì che questi ultimi possano generare in sé il sapere autentico, come in Socrate. Essa è invece indicata come il procedimento privilegiato, se non esclusivo, per pervenire alla conoscenza del mondo ideale. Certamente, la domanda intorno all’essenza delle cose era già propria di Socrate, ma Platone ne muta il significato: in altri termini, Platone non si accontenta di chiedere “che cos’è la bellezza?” o “che cos’è la giustizia?” al solo scopo di smascherare il sapere illusorio degli interlocutori, ma intende pervenire a un’effettiva e positiva conoscenza di ciò che definisce essenzialmente la bellezza e la giustizia (o almeno di ciò che delimita queste idee, attraverso un’analisi minuziosa di ciò che le distingue da tutte le altre).

Il problema è che la dialettica è appunto descritta come intellezione/noèsis in contrapposizione alla razionalità discorsiva (diànoia) propria della matematica, e tuttavia sembra presentarsi anch’essa come un procedimento razionale e proposizionale che consiste nel riportare ciò che è ipotetico e dipendente a ciò che è incondizionato e fondante. Per usare gli stessi termini che Platone fa dire a Socrate nel VI libro della Repubblica:



Sappi, dunque, che io considero l’altra parte dell’intelligibile [rispetto alle scienze matematiche] quella che il ragionamento stesso attinge con la potenza della dialettica, non trasformando i postulati in princìpi, ma procedendo dai postulati per quello che essi sono, ossia dei punti di appoggio e di partenza, per arrivare a ciò che non è più solo un postulato, al principio di tutto. Raggiunto questo e attenendosi a ciò che da esso consegue, il ragionamento procede verso il termine e, senza fare uso in nessun modo di alcuna cosa sensibile, ma solo delle idee stesse con sé stesse e per sé stesse, termina nelle idee. [Repubblica, VI, 511 B-C]



Il passo dev’essere inteso proprio nel contesto del confronto tra la dialettica e le scienze matematiche: queste ultime partono da postulati, o ipotesi, per arrivare alle loro conclusioni. Tutta la procedura è qui condizionata dalle ipotesi di partenza, che non sono mai provate, ma semplicemente accettate: per questo, la matematica è di fatto un sapere fondato sulla convenzione, cioè sull’accettazione di determinati princìpi ipotetici. La dialettica invece intende dar conto, dar ragione (Platone usa proprio l’espressione lògon didònai:  1.2) di tutte le ipotesi, sopprimendole in quanto tali. La soppressione delle ipotesi consiste o nella loro confutazione (e quindi nel loro abbandono) o nella loro dimostrazione: in quest’ultimo caso, esse cessano comunque di essere ipotesi, per essere ricondotte a un principio superiore che non è più ipotetico, ma incondizionato. È proprio questo snodo a spiegare l’ambiguità prima rilevata: se il procedimento dialettico di soppressione delle ipotesi culmina nell’apprensione intellettuale delle idee, la conoscenza di queste ultime è sia di tipo discorsivo sia di tipo noetico-intuitivo. Ci si può tuttavia chiedere se, pervenuti a questo risultato, il procedimento possa dirsi conclu-

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so. In realtà, esso appare ancora aperto tanto verso l’alto, quanto verso il basso: verso l’alto, perché sia il passo prima citato che altri passaggi paralleli suggeriscono che ci si possa spingere ulteriormente verso un principio ancora più elevato, e cioè a un principio delle stesse idee, identificato con l’idea del “buono in sé”; verso il basso, perché dopo questo movimento ascendente, la dialettica è chiamata a compierne anche uno discendente, in direzione delle forme inferiori di conoscenza – un gesto necessario, se è vero che il filosofo ha il dovere di mettere il suo sapere al servizio della comunità politica, e dunque di tutto ciò che appartiene al mondo dell’opinione. Dovremo dunque ora considerare separatamente entrambe queste prospettive, partendo dalla prima e dalle sue implicazioni, per tornare più oltre sulla seconda. 1. Per Platone la dialettica è il procedimento che mira: a. a confutare nella discussione le opinioni degli avversari. b. a generare nella discussione il sapere autentico dall’animo dell’interlocutore. c. ad evidenziare l’illusorietà del sapere comune. d. alla conoscenza effettiva e positiva delle idee. 2. Il procedimento dialettico: a. è finalizzato a rendere conto delle ipotesi. b. mette capo all’individuazione dei princìpi, discutendo gli assiomi stessi. c. pone capo alla conoscenza delle idee, sia tramite apprensione intellettuale, sia tramite dimostrazione. d. è finalizzato ad individuare i postulati di partenza.

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10 Il “buono in sé” e le dottrine non scritte In alcuni passaggi della Repubblica il movimento di “risalita” della dialettica sembra culminare nella possibilità di cogliere il “buono in sé”, ovvero l’idea del bene (come si suole ormai dire: ma di fatto, per indicare le idee, Platone tende sempre a usare aggettivi sostantivati – il “bello in sé”, il “giusto in sé”, il “buono in sé” – più che i sostantivi astratti corrispondenti – la “bellezza”, la “giustizia”, il “bene”). Per limitarci a un solo significativo esempio:



uno può giungere fino al vertice dell’intelligibile solo quando, per mezzo del procedimento dialettico e prescindendo totalmente dall’appor-

to delle sensazioni, incomincia, con la sola forza della ragione, a tendere a ciò che è l’essere di ciascuna realtà, senza cedere mai, almeno finché non ha colto con la pura intelligenza l’essenza stessa del buono. [Repubblica, VII, 532 A-B]



Allo stesso modo, nel passo ancora precedente, il termine del processo dialettico veniva collocato in un non meglio specificato “principio del tutto”, che potrebbe alludere proprio al “buono in sé”. Il buono non sembra dunque un’idea come tutte le altre, ma sembra godere di uno statuto particolare; esso si rapporta alle altre idee come il Sole: «ciò che il buono è nel mondo intelligibile rispetto all’intelletto e agli intelligibili, così è il Sole nel visibile rispetto alla vista e ai visibili» [Repubblica, VI, 507 B-C]. Abbiamo già incontrato una metafora simile, a proposito del rapporto tra le idee in generale e le cose sensibili: le prime sono come la luce del giorno, che illumina tutte le cose senza perdere nulla. Ma qui si parla di un livello ulteriore, perché l’idea del buono sembra essere la causa della visibilità (intelligibile, e non fisica) delle idee stesse, e non semplicemente delle cose che dalle idee dipendono. Ciò significa che il buono è superiore alle altre idee, ed è in qualche modo causa del loro essere (della loro usìa). È infatti il bene che fornisce alle altre idee ciò che le rende tali, cioè tutte le caratteristiche prima ricordate. E se è causa dell’essere sostanziale delle altre idee, il bene sarà superiore all’essere, secondo una nota formula ripresa poi dai neoplatonici, e in particolare da Plotino [ 8]. N aturalmente, la superiorità rispetto all’essere non vuol dire che il buono non esista, anche perché “essere” è qui inteso come essere sostanziale, come ciò che fa di un’idea un’idea, e dunque come l’intelligibilità stessa delle idee. Dire che il buono è al di là dell’essere sostanziale vuol dunque dire che esso è in qualche modo inconoscibile. Il buono ha tuttavia uno statuto ambiguo, perché è superiore alle altre idee, pur restando esso stesso un’idea, e perché pur essendo un’idea, esso sembra di fatto privo (sia pur per eccesso) della caratteristica principale di tutte le idee, il fatto di essere intelligibili. Tutti gli altri testi platonici sono avari di ulteriori informazioni a riguardo. Si è però ipotizzato che questa particolare concezione del buono

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come vertice del mondo ideale fosse il contenuto principale delle dottrine non-scritte (agràpha dògmata) di Platone, di quelle dottrine cioè che Platone non avrebbe affidato alla scrittura e ai dialoghi, ma avrebbe riservato al solo insegnamento orale. Sulla corretta interpretazione del significato e dell’importanza di tali dottrine si è discusso a lungo e si continua a discutere anche oggi. Gli studiosi della cosiddetta scuola di Tubinga (Krämer, Gaiser, Szlezák) e di quella di Milano (Giovanni Reale) ritengono che le dottrine orali siano il vero nocciolo del pensiero platonico, ciò che terrebbe insieme tutte le altre tesi; Platone avrebbe rifiutato di scriverle proprio per non consegnare alla scrittura le dottrine più elevate. Secondo molti altri interpreti, tali dottrine avrebbero certamente una loro importanza, ma pur sempre in rapporto alle discussioni interne all’Accademia: si tratterebbe, in altri termini, di dottrine non ancora definitive, e quindi ancora oggetto di discussione nella scuola, che proprio per il loro carattere provvisorio non sarebbero ancora state messe per iscritto. La fonte principale intorno a tali dottrine è costituita da Aristotele, il quale tuttavia è tutt’altro che neutrale, prendendo una posizione fortemente critica nei confronti di esse. Quel che si può ricavare da Aristotele è che Platone avrebbe identificato il “buono in sé” con l’Uno, facendo di quest’ultimo il principio primo di tutto il mondo intelligibile: l’Uno sarebbe causa dell’unità di tutte le idee e dunque della loro semplicità omogeneità, autoidentità, ecc. Tuttavia, per spiegare la molteplicità delle idee – se infatti le idee fossero derivate soltanto dall’Uno, non potrebbero essere molteplici – Platone avrebbe ammesso anche un altro principio, la diade (o dualità) indefinita. In altri termini, l’Uno (il bene) e la diade avrebbero svolto le funzioni di principio formale e di principio materiale per tutte le altre idee: tutte le idee risulterebbero composte da un sostrato (materia incorporea), radice della loro molteplicità, e da un elemento formale, principio dell’unità e autoidentità di ogni idea. Platone avrebbe anche diviso le idee in varie classi, ammettendo una classe di numeri ideali (o idee-numeri). Così come viene presentata da Aristotele la dottrina dei princìpi (Uno e diade), presenta in

effetti diversi inconvenienti. Innanzi tutto, le idee non sarebbero più assolutamente semplici, ma composte (sia pure solo a livello intelligibile); in secondo luogo, se l’Uno fosse identico al bene, la diade (la molteplicità) dovrebbe ricevere una connotazione negativa: ora, se così fosse, non solo non si comprenderebbe perché, come commenterà poi Aristotele, la molteplicità debba essere il male, ma soprattutto il platonismo si mostrerebbe assai simile a una setta dualistica, postulando l’essenza di un principio coeterno all’Uno come origine del male (“dualistiche” sono appunto definite tutte quelle posizioni che ammettono due princìpi originari, uno del bene e uno del male). Per quanto il dibattito tra gli interpreti sia ben lungi dall’essere sopito, si può dire che il contenuto delle dottrine non scritte (la cui esistenza non può in ogni caso essere messa in dubbio) rispecchia alcune esigenze comunque riscontrabili nei dialoghi del Platone maturo: per esempio quella – di cui ci occuperemo subito – di considerare i rapporti interni al mondo ideale (più che quelli tra le idee stesse e le cose sensibili); o quella di dare una veste sempre più matematica al proprio pensiero e ricercare una prospettiva unitaria, al di là della molteplicità, nell’ambito delle idee. Ciò non implica tuttavia necessariamente che Platone, nei suoi insegnamenti orali, abbia detto cose del tutto diverse, e superiori, rispetto a quelle messe per iscritto. Se così fosse, anzi, ne risulterebbe una singolare scissione tra un Platone sostanzialmente aperto, e poco dogmatico, a livello essoterico (cioè nelle opere scritte, destinate a circolare anche fuori dalla scuola – exo in greco vuol dire appunto ‘fuori’), e un Platone assai più sistematico, o addirittura rigido e dogmatico, a livello esoterico (cioè nell’ambito della scuola – eso in greco vuol dire ‘dentro’). È in effetti più plausibile ipotizzare che le dottrine orali siano il tentativo di sviluppare, nelle discussioni interne all’Accademia, alcune delle posizioni già prospettate nei dialoghi: una specie di “laboratorio teorico”, certamente prezioso per una più completa interpretazione del pensiero platonico, ma non per questo tale da poter essere considerato come la chiave segreta per attribuire ad esso quella veste sistematica assente (e forse volutamente assente) nei dialoghi.

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita 1. Il “buono in sé” costituisce: a. la causa della visibilità fisica delle altre idee. b. la causa dell’essere di tutte le altre idee. c. un’idea superiore alle altre fornite di intelligibilità. d. la causa dell’idea del “tutto”. 2. Secondo Aristotele nelle dottrine non-scritte di Platone: a. il “buono in sé” è il principio del mondo delle idee e corrisponde all’Uno. b. la diade spiega l’unità del molteplice delle idee. c. l’Uno spiega il principio formale delle idee. d. la diade spiega il principio materiale delle idee.

V V V V

F F F F

11 Le relazioni interne al mondo ideale e i “generi sommi” L’attenzione nei confronti delle relazioni interne al mondo intelligibile – e cioè nei confronti dei rapporti che le idee hanno tra loro, e non soltanto con i particolari sensibili – diviene in effetti centrale nella più tarda produzione platonica, in dialoghi come il Sofista, il Filebo, in parte il Teeteto. Ma già la seconda parte del Parmenide mette in scena un grandioso esercizio dialettico, in cui, date alcune ipotesi iniziali, si cerca di dedurre da esse tutte le conseguenze possibili. Lo scopo di questo esercizio è anch’esso da sempre oggetto di differenti interpretazioni. È comunque lo stesso Platone a presentare questa ampia sezione del dialogo appunto come una gymnasìa, un ‘esercizio’, un allenamento propedeutico alla vera e propria filosofia. Le due ipotesi principali prese in considerazioni riguardano l’Uno, che può essere considerato o in sé, isolatamente e in senso assoluto (come Uno che è solo Uno), o in relazione ad altro (come Uno che è). La prima ipotesi porta a una serie di negazioni, che di fatto conducono all’impercorribilità dell’ipotesi stessa (se l’Uno è solo Uno, non vi si può aggiungere nulla, né dirne nulla); la seconda fa sì che l’Uno possa assumere tutti i predicati possibili: sarà allora cura di chi conduce l’esercizio dialettico evitare che l’Uno riceva predicati contraddittori. Quel che vale qui per l’Uno potrebbe allora essere applicato a tutte le idee, che non dovrebbero pertanto essere considerate in sé stesse, ma in una rete di relazioni.

Il tema è sviluppato nel Filebo. Certo le idee sono unità (ènadi) in relazione ai molteplici particolari. Ma in sé stesse possiedono una loro molteplicità, che è data dalla rete di relazioni in cui ognuna è inserita, dal momento che l’essenza di ogni idea si costituisce proprio in questa rete o trama. Prendiamo per esempio l’idea di uomo; in sé, essa è certo qualcosa di unitario, eppure per la sua definizione è necessario far riferimento ad altre idee o forme: l’uomo è infatti anche un animale, dunque la forma di uomo implica in qualche modo quella di animale. Ma l’uomo è anche razionale e bipede: dunque, nell’idea di uomo è implicita anche la relazione verso queste forme. Platone allude allora a un “dono divino” che permetterebbe (al dialettico) di concepire le idee come costituite da unità e molteplicità, e come strutturate da limite e illimite: è facile vedere in questi temi una grande affinità con le dottrine non scritte. L’unità è ciò che appartiene a ogni idea in sé; la molteplicità è invece data dal sistema di relazioni che è compito del dialettico determinare con precisione. In altri termini, ogni idea è unica e unitaria in sé, e tuttavia, considerata insieme alle altre, essa forma evidentemente una molteplicità. La coppia concettuale limite/illimite serve a significare più o meno la stessa cosa: il primo termine esprime il carattere di “chiusura”, o compiutezza, di ogni idea considerata in sé (ogni idea è identica a sé e distinta dalle altre: questo è il suo limite, o il suo essere-limitata); il secondo esprime il carattere di “apertura” di ogni idea (il suo essere il-limitata), quando viene considerata in tutte le possibili relazioni che può intrattenere con le altre. L’essenza propria di ciascuna idea sarebbe così definita dall’azione dell’Uno/limite sull’indeterminato/illimitato. In altri termini, la molteplicità illimitata e aperta delle possibili relazioni che un’idea potrebbe avere nei confronti delle altre viene fissata e contenuta ad opera dell’Uno/limite in una sola essenza compiuta. A ciò si ricollega anche un’espressione platonica destinata a divenire celebre: la «battaglia (di giganti) intorno all’essere» (gigantomachìa perì tès usìas) del Sofista. Abbiamo visto come anche le idee, e non solo i particolari, partecipino di altre idee. Ma si è detto anche che è necessario appurare i rapporti di compatibilità e

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inclusione o incompatibilità e esclusione tra le idee stesse. Sono questi rapporti a farci comprendere se determinati giudizi sulle cose o sugli eventi siano (formalmente) veri o falsi. Per esempio: poiché l’idea di uomo è compatibile con quella di correre, l’affermazione “Socrate corre” ha i requisiti formali per essere vera (naturalmente è poi necessario che nella realtà Socrate effettivamente corra); poiché invece l’idea di uomo è incompatibile con quella di volare, l’affermazione “Socrate vola” non potrà mai essere vera. In questo modo, Platone arriva a individuare alcune idee massimamente generali, di cui tutte le altre in qualche modo partecipano. Queste idee dotate della più ampia estensione sono chiamate “generi sommi” [ T2]. Una di queste idee è quella di essere, poiché ogni idea (così come ogni altro ente), in quanto è, deve partecipare dell’essere. Altri generi sono l’identico e il diverso: ogni idea è infatti identica a sé, e perciò partecipa dell’idea di identico, e diversa dalle altre, e perciò partecipa del diverso. Quest’ultimo genere merita una particolare attenzione, perché consente di trovare una prima soluzione teorica al problema, posto da Parmènide, dell’impossibilità di qualsiasi commistione tra essere e non-essere, che sembrava condurre all’impossibilità di qualsiasi predicazione negativa: se del non-essere non si può dire proprio nulla, non sarebbe in senso stretto possibile neppure un’innocua proposizione del tipo “Socrate non è un musico”. L’idea di “diverso” consente di ovviare a questa difficoltà: il non-essere implicato in un enunciato come quello appena citato, non è assoluto (non è il nulla), ma indica solo, appunto, una diversità. Ciò vale per le singole cose sensibili (Socrate è qualcosa di diverso dall’essere musico), ma anche per le idee stesse (ogni idea non è le altre, ovvero è diversa dalle altre, senza per questo essere nulla). Platone può compiere così quello che è stato definito metaforicamente un “parricidio”: con l’introduzione del “diverso” e il superamento della contrapposizione assoluta tra essere e nulla, Platone uccide metaforicamente il padre («venerando e insieme terribile») Parmènide, rompendo con la sua ontologia forzatamente monistica (basata cioè sulla negazione della molteplicità e del divenire e sulla riduzione del reale a un essere unico e compatto) [ T2].

Inoltre, Platone attribuisce alle idee anche il carattere del movimento (kìnesis), ovvero di una certa attività. Tale attività si spiega in base al fatto che le idee rientrano da una parte nella dinamica conoscitiva, come ciò che viene conosciuto (ovvero come termini di conoscenza), e dall’altra nella trama dinamica dei rapporti di partecipazione reciproca: la partecipazione è una forma di contatto, di interazione tra le idee, e dunque di movimento (intendendo ovviamente il movimento non in senso fisico o temporale). Anche movimento e quiete (la considerazione stabile delle idee in sé, al di fuori della trama di relazioni) saranno pertanto generi supremi, assieme all’essere, all’identico e al diverso.

12 La ridiscesa del filosofo e il mito della caverna Per quel che riguarda l’altra questione prima sollevata – se cioè il dialettico, dopo essere pervenuto, nel suo procedimento “ascendente”, alla definizione delle essenze ideali, debba curarsi anche di procedere in senso inverso, cioè di “ridiscendere” – vale la pena di ricordare che tutta questa discussione sulla dialettica figura, nella Repubblica, subito dopo l’introduzione di uno dei miti più celebri utilizzati da Platone, quello della caverna. Occorre però chiarire la duplice funzione che le narrazioni mitiche svolgono in Platone (che sembra a prima vista distaccarsi da molti dei suoi predecessori, i quali presentavano spesso le proprie dottrine in aperta contrapposizione ai miti teologici o cosmologici dei poeti [ Il mito, p. 7]: talvolta esse servono unicamente a illustrare o rendere più facilmente comprensibile ciò che viene dimostrato per via razionale; talaltra suppliscono alla mancanza di una vera e propria spiegazione o dimostrazione, suggerendo indirettamente una soluzione plausibile o verosimile. Il mito della caverna è del primo tipo, perché illustra la differenza tra la conoscenza del mondo sensibile e quella del mondo intelligibile, e allude proprio al dovere, per i filosofi, di “ridiscendere” nel mondo dell’opinione per assolvere alla funzione di guida della comunità.

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N el mito in questione, la condizione degli uomini è paragonata a quella di alcuni prigionieri incatenati nel fondo di una caverna. Alle loro spalle c’è un muro, dietro al quale alcuni passano facendo sporgere delle piccole statue. Un fuoco collocato dietro il muro proietta sul fondo della caverna le ombre delle statue: i prigionieri, che guardano verso il fondo, credono che tali ombre costituiscano la vera realtà. Queste ombre rappresentano ciò che per noi è il mondo sensibile, e la conoscenza che se ne può avere. A causa della condizione in cui sono tenuti, i prigionieri non riescono a immaginare una realtà differente, e anche una volta liberati farebbero forse fatica a convincersi di essersi illusi fino a quel momento, così come non riuscirebbero a sopportare la luce diretta del Sole. Se poi qualcuno, una volta liberato, tornasse indietro e cercasse di spiegare la realtà ai compagni di prigionia, sarebbe con ogni probabilità preso per pazzo. Questo è appunto il destino dei re-filosofi, che sono pervenuti alla conoscenza delle realtà intelligibili, ma non sono tenuti nella giusta considerazione da parte dei concittadini. E tuttavia i filosofi sono comunque tenuti a tornare indietro: invece di dedicarsi alla pura speculazione (cioè alla pura attività di pensiero), essi devono farsi carico del compito di cercare di liberare gli altri. È questa l’eredità socratica a cui Platone è rimasto fedele: i filosofi, per quanto sconcertanti e “fuori luogo”, per quanto incompresi dai loro concittadini, non possono rinunciare al tentativo di trasformare gli altri. C’è nel Gorgia un esempio meno noto del mito della caverna, ma certamente più immediato, che rende bene l’idea della difficoltà del compito del filosofo e dell’inevitabile incomprensione che l’accompagna (pur sottolineandone, al contempo, anche la sua necessità). È così difficile immaginare chi sceglierebbero i bambini tra un medico – il filosofo che conosce la cura, per quanto amara – e un pasticciere?



Io sarò giudicato come potrebbe essere giudicato un medico se lo accusasse un cuoco davanti ai fanciulli! […] Che cosa credi che il medico potrebbe rispondere, se si trovasse in questi frangenti? Se dicesse la verità, ossia se dicesse: “Tutto quel che ho fatto, l’ho fatto per la vostra salute”, te le immagini le urla che lancerebbero questi giudici? [Gorgia, 521 E – 522 A]



13 L’anàmnesi e l’immortalità dell’anima Oltre alla dialettica, Platone allude ad un altro possibile accesso al mondo ideale, e cioè quello fornito dall’anàmnesi o reminiscenza. Si tratta di una dottrina dalla probabile origine pitagorica, riproposta da Platone in alcuni dei suoi dialoghi, ma in verità senza quella centralità che le viene spesso attribuita.

13.1 Il ruolo dell’anàmnesi nel processo conoscitivo Gli elementi più importanti di tale dottrina si ritrovano nel Fedone e nel Menone. Nel Fedone, la teoria viene introdotta a partire dalla constatazione per cui ciascuno di noi fa uso di nozioni che non sembrano poter risultare da un’esperienza diretta. Prendiamo per esempio la nozione di uguaglianza: non è possibile che essa derivi da un’esperienza sensibile, perché nel mondo sensibile non troviamo casi reali di uguaglianza perfetta. Bisogna allora supporre che l’anima abbia appreso tale nozione in una vita precedente, e che l’esperienza sensibile serva unicamente a risvegliare nell’anima tali conoscenze, in qualche modo obliate. L’apprendimento viene così trasformato nel ricordo di conoscenze pregresse. Nel Menone il tema della reminiscenza si lega invece alla maieutica socratica [ 3.8]. Platone immagina qui che Socrate conduca uno schiavo completamente sprovvisto di conoscenze matematiche alla soluzione di un problema geometrico preciso – la duplicazione dell’area di un dato quadrato. Sotto la guida di Socrate, lo schiavo riesce a individuare nella diagonale del quadrato dato il lato su cui costruire il quadrato di area doppia. Ora, se la soluzione in senso stretto non è stata trasmessa da Socrate (il quale dichiara sempre che la conoscenza non si “travasa”) e non è stata dedotta dal servo in base ad altre conoscenze matematiche, si può solo concludere che quest’ultimo fosse già in possesso di tali conoscenze, ma in modo inconsapevole. Rispetto al Fedone, l’occasione che dà origine al ricordo non è qui l’esperienza sensibile, ma l’interrogazione socratica.

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Perché l’anima possa ricordare qualcosa che sembra aver appreso prima della vita presente, si deve presupporre che essa preesista in qualche modo al corpo e possa pertanto vivere anche in assenza del corpo stesso. Platone in effetti concede non solo la preesistenza delle anime, ma anche la loro immortalità, che viene difesa soprattutto nel Fedone [ T13]. In realtà, gli argomenti addotti a questo proposito da Platone non appaiono particolarmente autorevoli o convincenti, perché o sono in una qualche misura tautologici (circolari), o presuppongono in qualche modo proprio ciò che intendono mostrare (ciò che tecnicamente va sotto il nome di “petizione di principio”). Al di là di quanto implicato dalla teoria dell’anàmnesi, Platone suggerisce per esempio che l’anima è principio di vita, e perciò non può accogliere in sé il contrario della vita, la morte, se non al prezzo di perdere la sua auto-identità (e dunque di non essere più anima). L’anima inoltre, essendo affine alle idee, è caratterizzata dall’incorruttibilità che è propria di queste ultime. O ancora (nel Fedro) l’immortalità viene dedotta dalla capacità di automovimento che è propria dell’anima: ciò che muove sé stesso, senza bisogno di un principio esterno, è in grado di muoversi sempre, e dunque non ammette un principio di corruzione. Platone stesso sembra non concedere troppo a tali argomenti: «ho ferma speranza che per i morti ci sia qualcosa», esclama Socrate nel Fedone, per poi concludere che è comunque opportuno «arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello!» [Fedone, 114 B].

13.2 La filosofia come preparazione alla morte L’immortalità dell’anima sembra così rappresentare, agli occhi di Platone, soprattutto un’esigenza etica – perché sia possibile che venga ricompensata l’anima di chi, pur vivendo virtuosamente, patisce l’ingiustizia in questo mondo – più che un vero e proprio oggetto di dimostrazione. Non è però un caso che Platone consideri come compito specifico del filosofo la considerazione della morte, o meglio ancora la concentrazione sulla propria morte, come distacco da ciò che è corporeo, apparente e mutabile (il corpo conserva in effetti uno statu-

to ambiguo in Platone, perché talvolta è descritto come carcere o tomba dell’anima, talvolta come sua custodia o “segno” – il termine sòma, ‘corpo’, è accostato nel Cratilo a sèma, che può valere appunto sia ‘tomba’ che ‘segno’). La filosofia, secondo una definizione che avrà lunghissima fortuna, è fondamentalmente meditazione sulla morte o preparazione alla morte:



Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. [Fedone, 64 A]



Alla dottrina dell’anàmnesi fa poi riferimento un altro dei più celebri miti platonici, quello del carro alato proposto nel Fedro [ T13]. In breve, l’anima è paragonata a un carro a due cavalli, condotto da un aurìga (o cocchiere). Dei due cavalli, che simboleggiano le parti irrazionali dall’anima, uno è docile e bello, l’altro più recalcitrante. Finché le anime conservano le loro ali, possono partecipare a una sorta di grande processione cosmica, guidata da Zeus, che comprende tutti gli dèi e i dèmoni. Arrivando alla sommità del cielo, tali anime possono contemplare ciò che si colloca al di sopra del cielo (l’iperurànio, che letteralmente indica appunto ciò che è al di sopra del cielo) dove è situato «l’essere che veramente è», cioè il mondo ideale che può essere colto soltanto dall’intelletto (nel caso dell’anima umana, si tratta dell’aurìga che guida il carro). Può tuttavia capitare che, in coda a questo affollato corteo di dèi e dèmoni, le anime abbiano qualche difficoltà a procedere, soprattutto a causa del cavallo recalcitrante: esse finiscono così con l’accalcarsi, con lo spingersi e con l’urtarsi, danneggiandosi o perdendo del tutto le ali e quindi precludendosi un pieno accesso alla regione della verità Così, le anime che riescono a contemplare qualche verità ideale sono ammesse a un secondo giro (al termine del quale, se saranno rimaste illese, avranno guadagnato la definitiva immunità); le altre sono costrette a entrare in un lunghissimo ciclo di reincarnazioni, in corpi più o meno nobili (a seconda del grado di conoscenza acquisito), della durata di ben 12 000 anni (il tempo necessario perché possano rispuntare le ali). Solo chi sceglie la vita filoso-

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fica ha diritto a un ciclo più breve: sono infatti sufficienti tre cicli di mille anni (ovvero scegliere per tre volte consecutive di praticare lo stile di vita della filosofia) per poter lasciare i corpi terreni e tornare a far parte del corteo celeste. E ciò perché il filosofo, in questo mondo, è colui che meglio conserva il ricordo di ciò che ha contemplato – ovvero, fuori dal mito, conserva la capacità di restare in contatto con il mondo intelligibile. Ma fino a che punto si è veramente liberi di scegliere la vita filosofica? La vita che si conduce, nel ciclo delle reincarnazioni, non dipende forse solo dalla sorte, dopo la caduta iniziale? A questi interrogativi risponde il mito di Er, nel decimo libro della Repubblica [ T13]. Er, un soldato della Panfìlia (una regione dell’Asia Minore), dopo esser morto in battaglia, ha la ventura di tornare dall’oltretomba e può così raccontare che ciò che ciascuno è in ognuna delle reincarnazioni successive alla caduta dipende da ciò che egli ha scelto di essere: poste al cospetto della moira Làchesi (le moire, figlie di N ecessità, sono le personificazioni mitiche del destino, equivalenti alle parche della mitologia romana), le anime devono sì sottostare a un sorteggio, ma solo per determinare l’ordine della scelta; una volta stabilito l’ordine, ciascuna anima sceglie, tra i tanti modelli o paradigmi di vita che le vengono proposti (e che sono sempre superiori al numero delle anime), quello che più le piace, ovvero il dàimon, il ‘dèmone’ o ‘carattere’ che contraddistinguerà la vita seguente [ Il dèmone, p. 46]. Commenta la stessa Làchesi, nel racconto:



Non sarà il dèmone a scegliere voi, ma voi il dèmone. Il primo estratto sceglierà per primo la vita alla quale sarà tenuto di necessità. Non ha padroni la virtù; quanto più ciascuno di voi l’onora tanto più ne avrà; quanto meno l’onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità è di chi sceglie. Il dio non ha colpa. [Repubblica, X, 617 E]



Come è allora possibile che, pur potendo scegliere, alcune anime facciano proprio un modello di vita oscuro o malvagio? Per il semplice fatto di non avere una preparazione sufficiente a valutare e soppesare il vero bene e il vero male. Anche qui, fuori dal racconto mitico, si può rinvenire un’altra traccia dell’intellettuali-

smo etico socratico [ 3.9]: chi sbaglia, sbaglia fondamentalmente per non aver saputo riconoscere il bene. La vera colpa sta dunque sempre in una forma di ignoranza. Si deve in definitiva ritenere che l’anàmnesi o reminiscenza sia davvero un modello alternativo alla dialettica? In realtà, i due aspetti possono convivere, nella misura in cui l’anàmnesi rappresenta in qualche modo un presupposto perché il filosofo possa poi procedere dialetticamente. Ciò che è veramente essenziale nella dottrina dell’anàmnesi è la convinzione di una strutturale affinità tra l’anima e le idee: l’anima ha un accesso naturale al mondo ideale, e proprio per questo può, attraverso gli strumenti messi a disposizione della dialettica, ripristinare questa connessione. Lo iato tra mondo sensibile e mondo ideale – ciò che normalmente si indica come dualismo platonico – è in realtà meno marcato di quel che si potrebbe credere, perché Platone non mette mai veramente in dubbio che l’anima abbia la possibilità di accedere al mondo delle idee. Anàmnesi e dialettica condividono così, ancora una volta, la fondamentale lezione socratica secondo cui la conoscenza non è qualcosa di estrinseco, che proviene dall’esterno, ma un evento che deve generarsi nell’anima di chi vuole diventare sapiente (filo-sofo). 1. Per Platone nel Fedone la conoscenza è: a. un apprendimento che avviene attraverso i sensi. b. fondamentalmente ricordo. c. ciò che si genera dal metodo dell’interrogazione socratica. d. è un ricordo di esperienze accumulate nel corso della vita.

14 La cosmologia:

il “discorso verosimile” del Timeo

Le tesi di Platone sulla struttura e l’origine del mondo sono esposte soprattutto in uno dei dialoghi più tardi, il Timeo, che per molti secoli è stata anche l’unica opera platonica parzialmente accessibile al di fuori del mondo greco. Il personaggio principale che dà il nome al dialogo è con ogni probabilità fittizio, ma è significativo che egli venga qualificato come un pitagorico. Tutto il discorso di Timèo dev’essere letto alla luce della formula cautelativa con cui

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si apre: poiché esso non verte su una realtà immutabile (come quella del mondo ideale), ma generata e mutevole (il nostro mondo sensibile), non può aspirare a un’assoluta esattezza scientifica e non deve pertanto essere considerato come vero in senso stretto, ma solo come verosimile o plausibile. Nulla di sorprendente, se ricordiamo che per Platone ogni tipo di conoscenza corrisponde sempre allo statuto ontologico delle realtà considerate: non si può dunque pretendere il vero assoluto, che riguarda solo ciò che è eterno e immutabile, in rapporto a ciò che appartiene invece al divenire. Il mondo è presentato da Timèo come il risultato di due cause: una intelligente, l’altra necessaria e in sé indeterminata. La “generazione” del mondo è in effetti un processo di determinazione o ordinamento, da parte del principio razionale, di ciò che è cieco e indeterminato o, alla lettera, un’opera di “persuasione” dell’intelligenza nei confronti del necessario. Il principio intelligente coincide con il mondo ideale: le idee sono pertanto qui presentate come viventi – non sono cioè solo intelligibili in senso passivo, ma sono anche intelligenti in senso attivo, nella misura in cui agiscono su altro – e come cause in senso forte (cioè in senso ontologico e non soltanto esplicativo) delle cose del mondo sensibile, degli enti in divenire. Questa causalità non si esercita tuttavia in modo diretto. La particolarità del Timeo è infatti data dall’introduzione di una nuova figura di mediazione, quella del demiurgo, il quale provvede a far sì che l’ordine ideale possa imprimersi sull’indeterminato [ T33]. Il suo ruolo non va enfatizzato, come faranno poi alcuni pensatori della stessa tradizione platonica (in particolare, i cosiddetti medioplatonici) e molti interpreti interessati in qualche modo a cristianizzare Platone, attribuendogli l’elaborazione di una dottrina simile a quella cristiana della creazione. Il demiurgo si colloca in posizione subordinata rispetto ai princìpi o alle idee, e ha appunto solo una funzione di mediazione: non crea, dunque, ma trasferisce i modelli ideali sulla materia informe, più o meno allo stesso modo in cui, nell’ambito politico, il filosofo-re cerca di modellare sulle forme ideali la vita effettiva della città. In modo ancora più radicale, il demiurgo può anche essere interpretato come un’immagine o una figura semi-mitica, introdotta per rendere più comprensibile la stessa azione causale delle idee.

Quest’ultima è descritta da Platone anche attraverso un esempio concreto, quello dell’impronta lasciata in un blocco di cera: i corpi sensibili sono paragonati appunto alle impronte che le idee producono in una materia indeterminata, come la cera, che Platone chiama spazio (chòra: ‘spazio indifferenziato’) o ricettacolo. La generazione platonica del mondo non può, dunque, neppure da questo punto di vista essere assimilata alla creazione dal nulla: piuttosto, essa consiste nell’in-formazione (cioè nell’organizzazione formale) di una “materia” (la chòra, appunto, lo ‘spazio’) indipendente rispetto al mondo ideale. Ma il demiurgo non è neppure l’unica forma di mediazione a cui Platone ricorre nel Timeo. Una funzione simile è svolta per esempio dall’anima del mondo (un concetto che avrà una lunga storia dal neoplatonismo al Rinascimento fino ancora a Schelling, in pieno XIX secolo), a cui spetta il compito di guidare dall’interno, per così dire, il mondo sensibile. Il mondo è infatti – in quanto copia di un mondo ideale vivente – anch’esso un organismo vivente, e come l’anima individuale è il principio di vita dei corpi individuali, così l’anima cosmica o anima del tutto sarà il principio di vita del mondo intero: anch’essa assolve alla funzione di garantire la continuità tra essere vero e divenire, tra mondo ideale e mondo sensibile. Un terzo livello di mediazione è dato infine dagli enti matematici, ovvero dai numeri e dalle figure geometriche: tutta la realtà sensibile può infatti essere analizzata in termini matematici e ridotta ad alcune figure geometriche di base (Timèo è appunto, almeno nella finzione, un pitagorico). Così i quattro elementi della tradizione empedoclea [ 2.10.1] vengono scomposti in figure geometriche: ottaedri (poliedri a otto facce) per l’aria; icosaedri (poliedri a venti facce) per l’acqua; tetraedri, cioè piramidi, per il fuoco; cubi per la terra. Tutte queste figure risultano a loro volta scomponibili in triangoli scaleni e isosceli. Questa struttura geometrica permette di rendere ragione sia delle proprietà fisiche dei corpi (mobilità, peso, solidità) sia dei processi di trasformazione reciproca: le cose possono trasformarsi l’una nell’altra (ad eccezione della terra) perché in definitiva risultano formate dagli stessi componenti. L’aspetto più interessante a questo proposito non sta nell’astratta e piuttosto artificiosa corrispondenza istituita tra elementi fisici e solidi

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geometrici, ma piuttosto nel fatto che la presenza dell’intelligibile nel sensibile si rivela e può essere colta nella struttura geometrico-matematica inerente al sensibile stesso: la matematica (in generale) viene così proposta come l’autentico linguaggio in cui è scritto il libro del mondo, secondo un tema destinato a riaffacciarsi, per vie traverse, agli albori della scienza moderna.

15 L’Accademia L’attenzione alla matematica, insieme a quella per la politica, caratterizza gli sviluppi più immediati della “scuola” platonica, l’Accademia. L’Accademia fu concepita come una comunità scientifica di amici interessati a continuare a praticare la forma dialogica del filosofare e a impegnarsi nella trasformazione di sé e degli altri (attraverso appunto l’impegno politico): proprio il necessario connubio tra sapere teoretico (filosofia e scienze) e politica è in effetti l’esigenza fondamentale a cui la scuola intendeva rispondere. L’accesso all’Accademia non era vincolato né a requisiti di cittadinanza (moltissimi degli accademici non furono ateniesi) né al possesso di competenze specifiche in un campo determinato del sapere. Così, non è sorprendente trovare tra gli accademici sia alcuni che si dedicarono alla filosofia nel senso ampio del termine (Speusìppo, Senòcrate, lo stesso Aristotele), sia alcuni che coltivarono in modo particolare la matematica e l’astronomia (Eudòsso di Cnido, Teetèto, Filippo di Opùnte, Eraclìde Pòntico), sia infine alcuni che si impegnarono soprattutto nell’attività politica (come consiglieri o legislatori, come organizzatori di veri e propri colpi di Stato contro tiranni, ma anche come tiranni essi stessi). È plausibile che, almeno in alcuni casi, dietro i dialoghi platonici e i loro personaggi vi siano i dibattiti effettivamente sviluppatisi all’interno dell’Accademia, con interlocutori reali. Gli sviluppi storici dell’Accademia proseguono d’altra parte le diverse direzioni o tendenze presenti negli scritti platonici. Dopo la morte di Platone (nel 347 a.C.), la direzione della scuola fu assunta, fino al 339/338

a.C., da Speusìppo, il quale radicalizzò appunto la tendenza matematizzante a cui accennavamo qui inizialmente: Speusìppo considera gli enti matematici come l’unica vera realtà intelligibile esistente, rinunciando invece ad attribuire una consistenza ontologica alle idee. Senòcrate di Calcedònia, successore di Speusìppo, preferì invece tentare la strada parallela dell’identificazione tra idee e numeri, proponendo così comunque un’interpretazione matematica del mondo intelligibile. Si attribuisce a Senòcrate, ma con più di una cautela, anche la decisione di far coincidere il primo principio delle dottrine non scritte (l’Uno) con il demiurgo introdotto nel Timeo, con la conseguenza di fare di quest’ultimo non più una figura di mediazione, ma il vero e proprio principio divino all’origine del mondo ideale e di quello sensibile. In questo modo, Senòcrate avrebbe anticipato un modello teorico destinato ad avere fortuna nei secoli successivi: quel modello cioè in cui le idee non costituiscono più un livello ontologico autonomo (e “divino” in sé), ma diventano piuttosto i pensieri di Dio (il contenuto dell’intelletto divino). Decisamente contrario all’identificazione in senso stretto tra matematica e filosofia fu invece Aristotele, interessato piuttosto, come vedremo, a salvaguardare l’autonomia di fondo dei singoli saperi e delle singole discipline. Ciò non impedì evidentemente ad Aristotele di servirsi dei risultati scientifici raggiunti in sede accademica: tra questi, è opportuno ricordare le teorie astronomiche elaborate da Eudòsso di Cnido (391-338 a.C.) per spiegare le apparenti anomalie dei moti dei pianeti. Considerando, secondo le concezioni astronomiche dell’epoca, la Terra fissa al centro dell’Universo, con il Sole e i pianeti che le girano intorno secondo orbite circolari, è in effetti inevitabile che i moti planetari appaiano piuttosto irregolari, sia per quel che riguarda la velocità (i pianeti sembrano talvolta accelerare, talvolta rallentare) sia per quel che riguarda la direzione (talvolta i pianeti sembrano addirittura tornare indietro, cioè avere un moto retrogrado): fenomeni che dipendono dal fatto che, nella realtà, i pianeti ruotano intorno al Sole, e non con orbite circolari, ma ellittiche. Ma l’irregolarità dei fenomeni osservati contrastava con l’idea dell’armonia e del perfetto ordinamento del cosmo. Eudòsso elaborò allora un sistema sofisticato che permetteva di salvare l’ipotesi di fondo

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secondo cui il Sole e i pianeti ruotavano intorno alla Terra all’interno di sfere perfettamente concentriche e omocentriche (dotate cioè dello stesso centro – la Terra appunto): il movimento di ciascun pianeta doveva essere considerato come il risultato della composizione di più movimenti, tutti perfettamente circolari, ma diversi per movimento e direzione. In altri termini, per ogni pianeta bisognava ipotizzare più sfere mobili (a noi invisibili), dotate di movimenti diversi, ma tutti assolutamente regolari se presi individualmente: la sovrapposizione dei movimenti di tali sfere (oggetto di calcolo, non di osservazione) avrebbe prodotto il movimento, apparentemente irregolare, per noi osserva-

bile. Questa dottrina giocherà un ruolo importante non solo nella cosmologia, ma nella stessa metafisica aristotelica. A partire da Arcesilào di Pìtane (vissuto fra il 315 e il 240 a.C., scolarca – cioè caposcuola – intorno al 265 a.C.) e poi, soprattutto, con Carnèade di Cirène (ca. 215-130 a.C.), l’Accademia assunse invece una piega decisamente scettica, per lo spazio di almeno due secoli [ 6.12]. Potrebbe sembrare sorprendente che dall’originario progetto platonico siano scaturite tendenze così diverse: un’impostazione scientificomatematica, una di carattere più metafisico e teologico, una di tipo scettico. Ma proprio per questo occorre ribadire che l’Accademia non è da intendere come una scuola di pensiero in senso stretto, con vincoli di fedeltà alle tesi del fondatore, ma come un luogo di dibattito caratterizzato da un’ampia libertà intellettuale. Letture così diverse possono essersi originate a partire dalle tensioni presenti in alcune coppie di fondo del pensiero platonico (essere/divenire, verità/apparenza, intelligibile/sensibile, anima/corpo), nella misura in cui ogni interprete poteva attribuire una valenza e un peso diversi ai singoli termini di queste coppie e al loro equilibrio. Ma questo è d’altra parte ciò che Platone ha sempre ricercato in prima persona: Platone, insomma, non è tanto il teorico della cesura assoluta tra l’intelligibile e il sensibile, quanto il filosofo-dialettico impegnato nella costante ricerca di tutte le possibili mediazioni (la filosofia, si dice nel Simposio, è, come Eros, un dèmone mediatoL’Accademia di Platone, I sec. a.C. re), nell’ontologia come nella teo[Museo Archeologico Nazionale, Napoli] ria della conoscenza, nella cosmoScoperto alla fine dell’Ottocento a Pompei, il mosaico raffigura una riunione accademica. Tutti, eccetto uno, indossano un mantello, la caratteristica veste degli ora- logia come nella politica. E soprattori e dei filosofi greci. Al centro, Platone (rappresentato con una grande testa e tutto, Platone non ha mai abbanun’ampia fronte) tiene un bastone nella mano destra e traccia sul terreno qualche fi- donato la convinzione che la filogura geometrica. Gli altri personaggi sono intenti ad ascoltare, oppure dialogano tra di loro. Nel primo da sinistra si potrebbe riconoscere Eraclìde Pòntico, nel secondo sofia debba essere una scelta perLìsia, nel penultimo sulla destra Senòcrate, mentre l’ultimo sulla destra, in atto di an- sonale, un’opzione per uno stile di dare via tenendo nella mano sinistra un rotolo, potrebbe essere Aristotele. Sullo vita – e l’idea stessa di scelta si sfondo, l’acropoli di Atene con il Partenone. In basso è rappresentata una sfera celeste, probabilmente in riferimento all’argomento di carattere astronomico oggetto oppone a qualsiasi forma di dogmatismo astratto. della discussione tra i filosofi.

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita Un autore “assente”. Platone non si è preoccupato di esporre una compiuta teoria filosofica, ma ha presentato la filosofia nel suo stesso farsi, come una pratica che coincide con una scelta di vita e si sviluppa nel confronto, nel dialogo, nella capacità di argomentare. Egli risulta assente nei suoi Dialoghi; tale scelta rappresenta l’equivalente letterario della morte di Socrate: un sacrificio necessario perché la posta in gioco dei Dialoghi potesse essere percepita in quanto tale, indipendentemente dalla figura del loro autore.

confutatorio, più vicini e fedeli alla pratica del Socrate storico; uno maturo, a cui apparterrebbero gli scritti in cui Platone espone, attraverso Socrate, le tesi di fondo del proprio pensiero; e uno ancora più tardo, in cui Platone avrebbe ripensato criticamente i suoi stessi capisaldi. Alcune costanti attraversano l’intera produzione platonica: per esempio, la ferma opposizione al relativismo filosofico (ed etico-politico) dei sofisti a cui risponde la teoria delle idee o forme in tutte le sue declinazioni e implicazioni.

La vita e l’esperienza politica. Oltre ai Dialoghi, esiste un corpus di tredici lettere in cui il pensiero dell’autore si rivela in modo molto più diretto. Per almeno dodici di esse l’attribuzione è quasi sicuramente falsa; solo la Lettera VII, comunemente giudicata come la più importante, potrebbe essere in buona parte autentica. Questa lettera è anche preziosa per ricostruire la biografia di Platone.

Il valore politico delle idee: la città malata e il problema della giustizia. La teoria delle idee risponde a due ragioni convergenti: una di carattere etico e politico e l’altra di carattere gnoseologico. In entrambi i casi si tratta di contrapporre alla molteplicità e alla mutabilità che caratterizzano la nostra esperienza quotidiana il richiamo a qualcosa di stabile ed eterno. Per quanto riguarda il primo aspetto, le profonde delusioni patite da Platone nelle sue personali esperienze politiche lo avevano convinto che le città fossero ormai gravemente malate, in quanto dominate dall’ingiustizia. La città sana non può che reggersi sulla giustizia. Ma che cos’è la giustizia? Platone ricerca l’essenza della giustizia, la sua definizione immutabile e universale, al di là delle diverse situazioni o azioni contingenti. In tal senso non fa che proseguire la polemica di Socrate contro la pretesa dei sofisti di poter insegnare l’arte politica, la tèchne politikè. Al contrario del sapere apparente che i sofisti pretendono di insegnare, la tecnica politica, per essere davvero tale, deve presupporre una conoscenza autentica e certa, e non apparente. Tuttavia, mentre il Socrate storico si era mosso principalmente sul campo della trasformazione degli individui, Platone sceglie di concentrarsi sulla trasformazione della città. Il dialogo più importante, da questo punto di vista, è la Repubblica. Contro le interpretazioni della giustizia di alcuni sofisti, Platone propone in primo luogo la propria ricostruzione di come gli uomini siano pervenuti alla vita associata. Alla base di questo processo, c’è il riconoscimento, da parte degli individui, di non poter essere autosufficienti e la conseguente decisione di procedere a

Scrivere la filosofia: la forma dialogica. Platone, pur avendo scritto molte opere, ha sempre dichiarato un’aperta sfiducia nei confronti della possibilità di mettere la filosofia per iscritto. Questo paradosso si spiega considerando sia il fatto che egli si trova a vivere nel momento del passaggio dalla cultura orale a quella scritta, sia il fatto che condivide la concezione socratica della filosofia come pratica di vita. Il dialogo più importante a questo riguardo è il Fedro, in cui Platone dichiara che la scrittura è soltanto un mezzo per acquisire conoscenze dall’esterno. Ma lo scopo della filosofia è un altro: mettere in gioco sé stessi e generare, a partire da sé, una forma autentica di conoscenza. Ma perché Platone ha comunque deciso di scrivere? Evidentemente perché molti degli allievi di Socrate misero per iscritto in funzione rammemorativa conversazioni in cui Socrate figurava come protagonista. Una delle caratteristiche della produzione platonica è che il punto di vista di Platone non è sempre riconducibile a una visione strettamente unitaria. Gli studiosi di Platone hanno diviso i Dialoghi in tre gruppi principali, corrispondenti a tre diversi periodi: uno più giovanile, in cui prevalgono i dialoghi di tipo

una divisione delle diverse attività per rispondere meglio alle necessità dell’esistenza. Tuttavia, questa forma primitiva di comunità tende gradualmente a degenerarsi e a corrompersi per la crescita eccessiva dei bisogni, che mette in crisi l’equilibrio sociale della città spingendola a cercare nuove risorse e a conquistare nuovi territori. Nasce così all’interno della comunità cittadina il nuovo gruppo sociale dei guerrieri. Per correggere le deformazioni della vita associata occorre innanzi tutto educare adeguatamente questi soldati, o custodi, attraverso un preciso percorso formativo che serve anche a suddividere il gruppo dei custodi in due classi distinte: quella di chi è adatto al comando, i reggitori o comandanti, e quella di chi deve semplicemente obbedire ed eseguire, i soldati veri e propri. I reggitori devono guidare la collettività verso il bene sulla base di un requisito preciso: la conoscenza del bene. Questa è dunque l’esigenza politica o pratica di postulare le idee: perché la città possa essere giusta, deve esistere un modello stabile, eterno di giustizia. Ma perché questo modello ideale separato dalle realtà materiali e mutevoli possa essere efficace, c’è bisogno di una mediazione, ovvero di qualcuno che sulla base della conoscenza di tali paradigmi possa introdurre qualcosa della loro perfezione nel mondo sensibile: tali sono appunto i reggitori e cioè i filosofi. La tripartizione della società e la comunanza dei beni. La società platonica è divisa in tre gruppi: quello di chi produce (contadini, artigiani, commercianti); quello dei militari; quello dei politici, o “re-filosofi”. Solo il primo di questi gruppi può possedere beni propri, mentre la proprietà privata è vietata ai militari e ai politici, perché rappresenta la principale causa di corruzione. Platone suggerisce anche di abolire i tradizionali vincoli familiari. Ma egli stesso è consapevole della difficoltà di mettere in pratica tale modello di società, tanto che, nelle Leggi, ammette che l’ideale di una società fondata sulla rinuncia agli interessi privati appartiene più agli dèi che agli uomini e concede una parziale reintroduzione dell’òikos, cioè della ‘casa’ come sfera degli affetti e delle proprietà.

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Platone capitolo 4 La corrispondenza tra la città e l’anima. Tale modello di città si fonda sul modo stesso in cui è costituita l’anima umana. Questa, accanto alla componente razionale, possiede una doppia componente irrazionale: un principio irascibile, che spinge verso l’affermazione di sé e il riconoscimento sociale, e un principio concupiscibile o desiderante, che spinge verso il soddisfacimento dei desideri legati al cibo e alla sessualità. L’appartenenza di un individuo a un determinato gruppo sociale si giustifica in base alla predominanza di uno dei tre princìpi: nei reggitori prevale il principio razionale, nei guerrieri il principio irascibile e nei produttori/lavoratori l’elemento concupiscibile. Inoltre ciascun membro deve coltivare la virtù che gli è propria: la sapienza (sophìa) è la virtù dei governanti, il coraggio la virtù dei guerrieri, la temperanza, cioè la capacità di moderare e contenere i propri desideri, la virtù della terza classe. La giustizia consiste nel fatto che ognuno deve fare ciò che risponde alla propria natura, ovvero al principio che è in lui dominante. N elle Leggi Platone sostiene che negli uomini le spinte provenienti dai princìpi non razionali devono essere tenute a freno con una minuziosa legislazione. N ella seconda parte della Repubblica, Platone propone anche uno schema preciso del processo di degenerazione della forma politica ideale. Se la città sana corrisponde all’aristocrazia, al governo dei migliori (arìstoi), essa è destinata a cedere il passo alla timocrazia, ovvero al regime fondato sull’impulso all’autoaffermazione (thymòs) dove il principio irascibile prende il sopravvento su quello razionale. Alla timocrazia segue l’oligarchia, in cui il potere è in mano a pochi ricchi (olìgoi): in questo caso è l’elemento desiderativo, nella forma della brama di ricchezze, a prevalere. Seguono poi la democrazia, che è caratterizzata dalla compresenza delle varie forme di desideri, e infine la forma peggiore, la tirannide, dove a prevalere è il puro desiderio sessuale. Il valore conoscitivo delle forme o idee: contro il relativismo. Nel Teeteto Platone si confronta con la tesi protagorea dell’uomo misura di tut-

te le cose e con la dottrina eraclitea dell’incessante divenire dell’essere, posizioni che convergono in un relativismo che rende impossibile ogni conoscenza stabile. Ad essi egli oppone la conoscenza basata sulle idee, in quanto entità eterne, ingenerate, immutabili. Queste garantiscono la possibilità di comprendere in modo univoco e coerente l’uso di uno stesso predicato in riferimento a soggetti diversi. Su che cosa si fonda l’unità di queste predicazioni? Su un’unica forma applicabile a cose diverse. Essa non può appartenere al nostro mondo sensibile, ma deve essere collocata in un mondo intelligibile, accessibile alla sola visione intellettuale. L’idea è dunque il fondamento intelligibile – stabile e unitario – di ciò di cui facciamo esperienza in questo mondo sensibile. Il rapporto tra le molteplici cose sensibili e le loro forme o idee viene espresso da Platone attraverso quattro nozioni: partecipazione (mèthexis), imitazione (mìmesis), comunanza (koinonìa) e causa (aitìa). Le cose partecipano delle idee nel senso che ciò che ogni singola cosa è (la sua natura) dipende dalla natura della forma o idea corrispondente. Le cose imitano le idee, cioè possiedono in forma imperfetta e derivata ciò che le idee possiedono in sé e in modo assoluto, ovvero le cose di questo mondo sono copie dei loro modelli ideali. La comunanza esprime il fatto che ciò che vi è di comune in più cose sensibili dipende dalla medesima forma. Le idee sono cause delle cose in quanto sono princìpi esplicativi e ontologici delle cose stesse. I modi della conoscenza: scienza e opinione. La teoria platonica della conoscenza parte dalla divisione tra l’ambito di ciò che è intelligibile, di cui si può avere propriamente conoscenza, e quello di ciò che è sensibile, di cui si può avere soltanto opinione. Ciascuno di questi due ambiti è a sua volta ulteriormente suddiviso: l’ambito della conoscenza sensibile comprende sia gli oggetti sensibili che sono oggetto di credenza (pìstis), sia le copie di questi ultimi, conosciute soltanto attraverso la rappresentazione sensibile (eikasìa). L’ambito intelligibile è distinto in ciò che è oggetto in senso stretto di intellezione (nòesis), cioè le idee, e ciò che è oggetto di pensiero discorsivo (dià-

noia), cioè gli enti matematici. Se le cose di questo mondo sono già copie dei loro modelli ideali, le rappresentazioni di tali cose sono copie di copie, e per questo occupano il gradino più basso nella gerarchia delle forme di conoscenza. Per questo motivo, Platone dà dell’arte un giudizio negativo anche dal punto di vista conoscitivo: le produzioni artistiche sono copie di secondo grado, ovvero imitazioni di imitazioni. La matematica si pone al di sopra della dòxa, ma al di sotto della scienza propriamente detta che verte sulle idee, e cioè la dialettica. Questo scarto dipende da diversi fattori: in primo luogo, la matematica muove sempre a partire da assiomi o postulati, cioè da ipotesi che vengono semplicemente ammesse o presupposte, mentre la dialettica, è in grado di risalire a ciò che fonda ogni ipotesi. In secondo luogo, mentre la scienza delle idee rimane sempre nell’ambito intelligibile, la matematica non è completamente priva di riferimenti alle visione sensibile. Infine, la matematica procede sì razionalmente, ma in modo discorsivo, mentre le idee sono oggetto di intellezione. La dialettica. Come si procede alla conoscenza delle idee? Attraverso la dialettica di cui Platone non fornisce una definizione univoca. Taluni passaggi suggeriscono che le idee possano essere l’oggetto di un’apprensione intellettuale diretta, mentre altri evidenziano che alle idee si pervenga attraverso un procedimento complesso, volto a ottenere la definizione della loro essenza. La tecnica dialettica non è più la semplice arte della discussione come nei sofisti, né interrogazione mirante a eliminare il sapere apparente degli interlocutori come in Socrate: essa è il procedimento privilegiato per pervenire alla conoscenza del mondo ideale. Il “buono in sé” e le dottrine non scritte. Il movimento della dialettica culmina nella possibilità di cogliere il “buono in sé”, ovvero l’idea del bene. Il buono non è un’idea come tutte le altre, ma gode di uno statuto particolare: è la causa della visibilità intelligibile delle idee stesse e non semplicemente delle cose che dalle idee dipendono. Ciò significa che il buono è superiore alle altre idee, ed è in qualche

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lusi fino a quel momento. Se poi qualcuno, una volta liberato, tornasse indietro e cercasse di spiegare la realtà ai compagni di prigionia, sarebbe con ogni probabilità preso per pazzo. Questo è appunto il destino dei re-filosofi, che sono pervenuti alla conoscenza delle realtà intelligibili, ma non sono tenuti nella giusta considerazione da parte dei concittadini. E tuttavia i filosofi sono comunque tenuti a tornare indietro: invece di dedicarsi alla pura speculazione (cioè alla pura attività di pensiero), essi devono farsi carico del compito di liberare gli altri. L’anàmnesi e l’immortalità dell’anima. Oltre alla dialettica, Platone indica un altro possibile accesso al mondo delle idee, quello fornito dall’anàmnesi o reminiscenza. Nel Fedone, tale teoria viene introdotta a partire dalla constatazione per cui ciascuno di noi fa uso di nozioni che non sembrano risultare da un’esperienza diretta, come nel caso della nozione di uguaglianza: bisogna allora supporre che l’anima abbia appreso tale nozione in una vita precedente. L’apprendimento viene così trasformato nel ricordo di conoscenze pregresse. N el Menone il tema della reminiscenza si lega alla maieutica socratica: Platone immagina qui che Socrate conduca uno schiavo completamente sprovvisto di conoscenze matematiche alla soluzione di un problema geometrico preciso. Per Platone quindi l’anima è immortale e prima di incarnarsi ha potuto contemplare le idee. Alla dottrina dell’anàmnesi fa riferimento un altro celebre mito platonico, quello del carro alato proposto nel Fedro. L’anima è paragonata ad un carro a due cavalli, condotto da un aurìga. Dei due cavalli, che simboleggiano le parti irrazionali dall’anima, uno è docile e bello, l’altro più recalcitrante. Finché le anime conservano le loro ali, possono partecipare a una sorta di grande processione cosmica, guidata da Zeus; arrivando alla sommità del cielo, esse possono contemplare ciò che si colloca al di sopra del cielo, l’iperurànio, dove è situato «l’essere che veramente è». Può tuttavia capitare che le anime abbiano qualche difficoltà a procedere, soprattutto a causa del cavallo recalcitrante: esse finiscono così con il precludersi un pieno accesso alla regione della verità. Le anime che rie-

scono a contemplare qualche verità ideale sono ammesse a un secondo giro; le altre sono costrette a entrare in un lunghissimo ciclo di reincarnazioni, in corpi più o meno nobili, della durata di ben 12 000 anni. Solo chi sceglie la vita filosofica ha diritto a un ciclo più breve. La cosmologia: il “discorso verosimile” del Timeo. Il mondo è il risultato di due cause: una intelligente, l’altra necessaria e in sé indeterminata. La “generazione” del mondo è un processo di determinazione o ordinamento, da parte del principio razionale, di ciò che è cieco e indeterminato. Il principio intelligente coincide con il mondo ideale, il demiurgo provvede a far sì che l’ordine ideale possa imprimersi sull’indeterminato. Il demiurgo, pertanto, non crea, ma trasferisce i modelli ideali sulla materia informe. Inoltre l’anima del mondo ha il compito di guidare dall’interno il mondo sensibile. Il mondo, infatti, in quanto copia di un mondo ideale vivente, è anch’esso un organismo vivente, e come l’anima individuale è il principio di vita dei corpi individuali, così l’anima cosmica è il principio di vita del mondo intero. Un terzo livello di mediazione è dato infine dagli enti matematici: tutta la realtà sensibile può infatti essere analizzata in termini matematici e ridotta ad alcune figure geometriche di base. L’Accademia. Fu concepita come una comunità scientifica di amici interessati a continuare a praticare la forma dialogica del filosofare e a impegnarsi nella trasformazione di sé e degli altri. Dopo la morte di Platone, la direzione della scuola fu assunta da Speusìppo, il quale radicalizzò appunto la tendenza matematizzante del suo pensiero. Senòcrate di Calcedònia preferì invece tentare la strada parallela dell’identificazione tra idee e numeri, proponendo comunque un’interpretazione matematica del mondo intelligibile. Decisamente contrario all’identificazione in senso stretto tra matematica e filosofia fu invece Aristotele, interessato piuttosto a salvaguardare l’autonomia di fondo dei singoli saperi e delle singole discipline. A partire da Arcesilào di Pìtane e poi soprattutto con Carnèade, l’Accademia assunse invece una piega decisamente scettica.

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BIBLIOGRAFIA Fonti • Le traduzioni dei passi platonici citati sono tratte (con qualche modifica) da Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, poi Bompiani, Milano 2000 (in particolare, le traduzioni del Fedone, del Simposio, del Fedro e del Gorgia si devono a G. Reale, quella del Politico a C. Mazzarelli, quelle della Repubblica, delle Leggi e delle Lettere a R. Radice). • Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1978, poi Bompiani, Milano 2000 (nella serie «Testi a fronte») e 2004 (nella serie «Il pensiero occidentale»). • Luciano di Samosata, I filosofi all’asta. Il pescatore. La morte di Pellegrino, introd. di D. Del Corno, premessa, trad. e note di C. Ghirga e R. Romussi, Rizzoli, Milano 2004. • Plutarco di Cheronea, Vite parallele. Dione e Bruto, Rizzoli, Milano 2000.

Opere L’edizione critica delle opere di Platone ancora oggi maggiormente utilizzata è quella curata da J. Burnet, Platonis Opera, 5 voll., Clarendon Press, Oxford 1900-1907 (e numerose successive ristampe). Un rifacimento di questa edizione è stato avviato, sempre a Oxford e sempre presso il medesimo editore, nel 1995. Un’altra edizione di riferimento

è Platon, Œuvres complètes, 14 tomi (alcuni in più volumi), Les Belles Lettres, Paris 1924-1960 (e successive ristampe). Anche di questa edizione è attualmente in corso un aggiornamento. Per le principali traduzioni italiane complessive cfr., oltre a quella a cura di G. Reale già citata nelle fonti, Platone, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari 1971 (e successive ristampe). Sia Laterza che Bompiani hanno pubblicato numerosi dialoghi in edizione separata, con testo greco a fronte.

Studi critici All’interno della vasta letteratura disponibile, l’introduzione forse più chiara e istruttiva, in Italia, all’insieme del pensiero platonico, è rappresentata da: • M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003. È per altro Vegetti ad aver sottolineato significativamente l’“assenza” di Platone nei suoi scritti e ad aver suggerito la politica come via d’accesso privilegiata alla lettura delle opere platoniche. Allo stesso Vegetti si deve, tra l’altro, una fondamentale traduzione commentata, in sette volumi, della Repubblica platonica (Bibliopolis, Napoli 1998-2007). Un’altra presentazione complessiva particolarmente raccomandabile è: • F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 1998.

Per una messa in questione del (presunto) rigido dualismo platonico tra mondo delle forme e mondo sensibile cfr. per esempio: • G. Casertano, Paradigmi della verità in Platone, Editori Riuniti, Roma 2007. Un’interpretazione che privilegia il ruolo delle dottrine non-scritte (sulla scia della cosiddetta scuola di Tubinga, e cioè di autorevoli studiosi di Platone come Hans Krämer, Konrad Gaiser e Thomas Szlezák) è quella di Reale. Cfr. in proposito: • G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano 200321; • G. Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle «Dottrine non scritte», Bompiani, Milano 2008. Per una valutazione forse più equilibrata del rapporto, in Platone, tra oralità e scrittura si veda invece: • F. Trabattoni, La verità nascosta. Oralità e scrittura in Platone e nella Grecia classica, Carocci, Roma 2005. Dal punto di vista teoretico, e non storiografico, il filosofo francese del Novecento Jacques Derrida ha scritto pagine molto belle sul ruolo ambivalente della scrittura in Platone (farmaco e veleno ad un tempo): • J. Derrida, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 2007.

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita 1. Nella VII Lettera Platone affronta uno dei temi centrali della sua riflessione: il rapporto tra politica e filosofia e delinea due vie possibili per redimere la politica e guarire la città malata. Quali sono? (max 8 righe) 2. Ricostruisci le posizioni di Theuth e Thamous su scrittura e oralità (max 8 righe). 3. Chiarisci le ragioni che hanno spinto Platone a scrivere di filosofia ed esplicita la differenza tra dialogo orale e dialogo scritto (max 8 righe). 4. Qual è l’elemento che accomuna, pur nella diversità, l’intero corpus dei Dialoghi platonici? (max 5 righe) 5. Quali ragioni hanno spinto Platone a formulare la dottrina delle idee? Illustrale facendo riferimento alle vicende biografiche del filosofo (max 10 righe). 6. Ricostruisci la concezione della giustizia di Trasìmaco e Adimànto riportata da Platone nella Repubblica (max 10 righe). 7. Costruisci un breve testo filosofico sulla concezione platonico-socratica dell’arte politica in opposizione a quella dei sofisti. Aiutati utilizzando i seguenti concetti: arte politica, medicina, guarigione, retorica, rimedi, sapere autentico e inautentico. 8.Ricostruisci il processo, descritto da Platone nella Repubblica, che porta gli uomini da forme primitive di comunità alla degenerazione della vita associata indicando quali rimedi il filosofo propone per guarire la città. Utilizza i seguenti termini: oikeiopragìa, crescita dei bisogni, educazione, custodi, comandanti, conoscenza del bene, filosofi, giustizia (max 15 righe). 9. Qual è l’esigenza politica che spinge Platone a formulare la dottrina delle idee? (max 8 righe) 10. Spiega perché nella Repubblica Platone afferma che la città ideale deve vietare la proprietà privata ed abolire i vincoli familiari per i filosofi e i militari (max 10 righe). 11. Utilizzando il seguente schema sinottico, illustra in un breve testo la struttura della città ideale descritta da Platone nella Repubblica (max 15 righe). Nel testo esplicita i seguenti aspetti: a. la corrispondenza tra anima e città; b. il rapporto tra gruppi sociali e virtù; c. la soluzione al problema della giustizia. Classi sociali

Principio dominante nell’anima

Virtù

Lavoratori Guerrieri Governanti

Anima concupiscibile Anima irascibile Anima razionale

Temperanza Coraggio Sapienza

12. Completa lo schema sinottico seguente e riproduci in un breve testo filosofico il processo di degenerazione

della città ideale descritto da Platone nella seconda parte della Repubblica (max 15 righe). Tipo di Stato

Governanti

Principio su cui si fonda

Aristocrazia ................... Oligarchia ................... ...................

.......................... Militari .......................... Governo dei molti ..........................

Sapienza Onore e virtù ................... ................... Passioni e brama sessuale

13. Chiarisci in che senso la dottrina delle idee consente a Platone di superare il relativismo conoscitivo di Protàgora e il relativismo ontologico di Eraclìto (max 15 righe). Utilizza le seguenti espressioni: mondo intelligibile, visione intelligibile, immutabile e atemporale, mondo sensibile, visione sensibile, molteplice e mutevole. 14. Perché, come Platone afferma nella Repubblica, solo le idee sono in senso stretto, sono per sé e sono separate? (max 8 righe) 15. Elabora un breve testo sul rapporto idee/cose sensibili utilizzando i seguenti concetti: partecipazione, imitazione, comunanza e causa (max 15 righe). 16. Completa il testo, inserendo i seguenti concetti negli spazi opportuni: idee • separate • indivisibili • inalterabili • forme ideali • cose sensibili • incorruttibili • esistenza • pensate • ingenerate Per Platone le .......................... sono eterne e, non nascendo e perendo, .......................... e ........................... Poiché non crescono e non diminuiscono sono ..........................; inoltre, poiché sono prive di parti, risultano ........................... . Le .......................... sono forme eterne e .......................... giacché godono di una .......................... autonoma e indipendente, al contrario le .......................... non sono .......................... perché non possono esistere ed essere .......................... indipendentemente dalle idee. 17. Completa il testo inserendo i concetti seguenti negli spazi opportuni: causalità • l’essere • modelli • le idee • ontologica • imitazione • comunanza • copie • esplicativi • ontologici • predicato • perfezione Platone con il termine ...................................... intende esprimere un modo in cui si dà il rapporto tra le cose e .............................................., in quanto le prime sono .......................... dei .......................... ideali. Le copie non possiedono mai la stessa .......................... e consistenza ...................................... delle idee. Anche il concetto di .......................... spiega questo rapporto: essa è ciò che consente di attribuire in modo univoco uno stesso .......................... a più soggetti diversi. Infine, il concetto di .......................... può assumere una doppia valenza:

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ESERCIZI

Platone capitolo 4

................................................ possono essere princìpi .......................... delle cose o princìpi .........................., cioè i modelli che producono .......................... delle cose. 18. Attribuisci a ciascun oggetto il corrispondente tipo di conoscenza: eikasìa (rappresentazione sensibile) • pìstis (credenza) • diànoia (pensiero discorsivo) • noèsis (intellezione) a. La mela di fronte a me: ................................................ b. La raffigurazione di un tramonto: ................................ c. Una retta: .................................................................... d. L’idea di uguaglianza: ................................................. e. Questo albero: ............................................................ f. La Venere di Botticelli: ................................................. g. Il quadrato: .................................................................. h. Il “bene in sé”: ............................................................. 19. Metti a confronto la matematica e la scienza delle idee, attribuendo a ciascuna le caratteristiche fondamentali tra quelle sotto elencate: metodo intuitivo • rimane agganciata al sensibile • risale al fondamento delle ipotesi • metodo discorsivo • si muove nell’ambito dell’intelligibile • parte da ipotesi presupposte Matematica Dialettica ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... ......................................... 20. Chiarisci le motivazioni etiche e gnoseologiche della condanna dell’arte in Platone (max 10 righe). 21. Esplicita la differente interpretazione della dialettica in Platone, Socrate e i sofisti (max 10 righe).

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22. Nelle dottrine non scritte Platone affronta il problema del rapporto tra il “buono in sé” e le altre idee. Esplicita la questione aiutandoti con la metafora del Sole (max 10 righe). 23. Spiega perché la dottrina dei generi sommi consente a Platone di compiere il “parricidio” di Parmènide (max 8 righe). 24. A quali aporie si va incontro ammettendo la dottrina dell’Uno e della diade così come Aristotele la presenta? (max 5 righe) 25. Nei dialoghi della tarda maturità Platone affronta il problema dell’unità/molteplicità delle idee. Ripercorrilo in una sintesi personale, utilizzando i seguenti concetti: unità/molteplicità, reti di relazioni, limite/illimite, generi (max 15 righe). 26. Qual è la funzione del mito nei Dialoghi platonici? (max 5 righe) 27. Secondo il mito della caverna, qual è la condizione degli uomini nel mondo sensibile? Quale il destino dei filosofi? (max 10 righe) 28. Quale funzione attribuisce Platone al processo dell’anàmnesi? In che modo esso si origina? (max 8 righe) 29. Dopo aver letto i paragrafi 9 e 13 chiarisci il rapporto tra anàmnesi e dialettica (max 10 righe). 30. Spiega perché le dottrine della reminiscenza e dell’anàmnesi, in un certo senso, mitigano il dualismo platonico (max 10 righe). 31. Esponi la teoria sulla struttura e l’origine del mondo contenuta nel Timeo utilizzando i seguenti concetti: demiurgo, principio razionale, principio indeterminato, anima del mondo, enti matematici, materia informe, modelli ideali (max 15 righe).

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capitolo 5

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Aristotele

1 Il «maestro di color che sanno» La straordinaria fortuna di Aristotele all’interno della storia del pensiero è attestata dal fatto che una lunga tradizione lo ha eletto a modello assoluto del sapere filosofico: per il filosofo arabo Averroè [ 15.11-14] – che nel XII secolo portò a termine una serie di fondamentali commenti a quasi tutte le opere aristoteliche – Aristotele è per esempio un dono dato dagli dèi all’umanità per permetterle di apprendere tutto ciò che era possibile; per tutti i maestri delle Università medievali egli è il “Filosofo” per eccellenza, tanto che diventa perfino superfluo indicarlo con il suo nome proprio; per Dante è il «maestro e duca de la ragione umana» o, ancor più semplicemente, il «maestro di color che sanno» [Inferno, IV, 131]. Questa ammirazione non è casuale: la preferenza accordata per così tanti secoli ad Aristotele rispetto a tutti gli altri filosofi greci si è anzi fondata su fattori precisi. In primo luogo, il pensiero di Aristotele viene esposto, nei suoi scritti, sotto una veste almeno in apparenza più

coerente e organica di quella, per esempio, dei dialoghi platonici, e perciò più facile da insegnare. In secondo luogo, l’insieme delle opere aristoteliche presenta un’impostazione metodologica e scientifica chiaramente definita: gli Analitici secondi di Aristotele possono in effetti essere considerati come il primo vero trattato di epistemologia, ovvero il primo tentativo di definire cosa sia proprio di una scienza e come debba essere costruito un discorso strettamente scientifico. Infine, la produzione aristotelica copre un vastissimo ambito di saperi, che include non solo la filosofia in senso stretto, ma anche, per esempio, la biologia, l’astronomia, la zoologia. Aristotele è stato insomma il primo a lasciarci una vera e propria enciclopedia del sapere, cioè una raccolta organica del sapere conseguito nelle diverse discipline. Il fatto che gli scritti aristotelici siano risultati più adatti all’insegnamento dipende per altro da una circostanza effettiva: di Aristotele si sono conservati infatti solo gli scritti destinati principalmente agli uditori che frequentavano le sue lezioni, ovvero gli scritti di scuola, e non le opere rivolte a un pubblico più vasto. In realtà, anche Aristotele, come Platone, scrisse dialoghi, ma di

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Aristotele capitolo 5

I luoghi della vita di Aristotele

essi ci sono giunti solo i titoli, o pochi frammenti. Negli scritti di scuola, per altro, Aristotele non mostra affatto quella rigidità concettuale che, dopo il Medioevo (e forse proprio per effetto dell’uso ripetitivo delle sue dottrine ai fini dell’insegnamento), gli è stata talora rimproverata. Ciò che è peculiare di Aristotele è piuttosto la sua straordinaria curiosità, che lo spingeva per esempio, per le sue ricerche sugli animali, ad andare sul campo, interrogando pescatori, pastori, allevatori, insomma tutti coloro che, sulla base della loro esperienza, avrebbero potuto rivelargli qualcosa di utile. La stessa curiosità intellettuale lo induceva a leggere il più possibile e a procurarsi tutti i libri disponibili su un argomento (quella di Aristotele, insieme a quella di Eurìpide, è la prima significativa raccolta privata di testi di cui abbiamo notizia): sembra che per questo Platone avesse denominato Aristotele «il lettore», e non è detto che questa qualificazione fosse dal suo punto di vista del tutto positiva, date le riserve platoniche sulla scrittura. Aristotele amava, in generale, raccogliere e catalogare i dati: la sua raccolta di costituzioni delle città greche ne contava, semMar Nero

Pella

Stagira Asso Calcide

Mitilene Atene

Mar Mediterraneo

Aristotele nacque a Stagìra nel 384 a.C. Nel 367 si recò ad Atene ed entrò nell’Accademia platonica dove rimase per circa un ventennio, prima di trasferirsi ad Asso e fondarvi, con altri due filosofi accademici (Eràsto e Corìsco) una scuola. Intorno al 345 si recò a Mitilène, nell’isola di Lesbo, e nel 343 venne chiamato a Pella come precettore di Alessandro, figlio del re macedone Filippo II. Dopo un breve soggiorno a Stagìra tornò, nel 335, ad Atene ormai sotto il dominio macedone, e iniziò il suo insegnamento presso il Liceo. La crescita dell’ostilità antimacedone lo costrinse, infine, a rifugiarsi a Càlcide dove morì nel 322.

bra, ben 158. Questa stessa passione si estendeva perfino a ciò che oggi potremmo definire sport: quand’era ancora in vita, infatti, fu celebrato non tanto come fondatore di una qualche disciplina filosofica, ma, come attesta un’iscrizione ritrovata a Delfi, per aver composto il catalogo più completo dei vincitori dei giochi pitici (gare che si tenevano a Delfi in onore del dio Apollo) – un’opera che sfortunatamente, assieme forse a un catalogo dei vincitori dei giochi olimpici, è andata perduta.

2 La vita e gli scritti Aristotele nacque a Stagìra, città nella Penisola calcidica (Macedonia greca), nel 384 a.C., da famiglia agiata: il padre Nicòmaco, in particolare, era medico di corte dei sovrani macedoni. Alcune delle fonti lo descrivono come ricco, bello e attento al suo aspetto, contrariamente allo stereotipo che vuole ogni filosofo antico piuttosto trasandato: secondo quanto riferisce Diògene Laèrzio, portava per esempio i capelli corti (contrariamente all’uso corrente del tempo), molti anelli e abiti appariscenti. Nel 367 si recò ad Atene ed entrò nella scuola di Platone, dove rimase per circa un ventennio, fino alla morte di Platone stesso. Lasciata Atene, si recò da Èrmia, tiranno di Atarnèo (in Asia Minore), e si stabilì nella città di Asso, che Èrmia aveva donato a due filosofi accademici, Eràsto e Corìsco. Insieme a questi ultimi e a Senòcrate, Aristotele fondò qui una scuola, prima di passare, intorno al 345, a Mitilène, nell’isola di Lesbo; in questo stesso periodò sposò la sorella (o forse la nipote) di Èrmia, Pìzia. N el 343 fu chiamato da Filippo, re di Macedonia, come precettore del figlio Alessandro, il futuro Alessandro Magno. Dopo un probabile soggiorno nella sua città natale, Stagìra (fatta ricostruire per riconoscenza dallo stesso Alessandro, dopo che era sta distrutta dal padre Filippo), ed essersi legato, in seguito alla morte di Pìzia, a una nuova donna (Erpìlli o Erpìllide), tornò ad Atene nel 335, quando la città era già sotto il dominio macedone. Qui Aristotele prese a insegnare presso il ginnasio cittadino chiamato Liceo. La scuola fu poi

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chiamata peripatètica, dal nome della passeggiata, perìpatos, presente nel ginnasio stesso. Così come per l’Accademia platonica, non bisogna immaginare il Liceo come una struttura formale, simile a ciò che noi oggi chiamiamo “liceo” o alle nostre Università: il Liceo era insieme anche un santuario e una palestra, insomma un luogo pubblico in cui ci si poteva recare per trascorrere il tempo libero. Aristotele vi teneva delle lezioni rivolte a un pubblico più ristretto la mattina, e degli incontri destinati a un pubblico più ampio la sera. A differenza di Socrate e Platone, Aristotele non era un cittadino ateniese, ma veniva annoverato tra gli “stranieri” (metèci). Questa condizione gli creò non poche difficoltà, soprattutto a causa della sua vicinanza ai sovrani macèdoni. Dopo la morte di Alessandro, nel 323, quando l’ostilità verso i Macèdoni ad Atene crebbe ulteriormente, si rifugiò a Càlcide, nell’Eubèa, dove morì nel 322 a.C. La produzione di Aristotele si divide (o, meglio, si divideva) in due grandi gruppi: gli scritti essoterici, destinati a un pubblico più vasto, e quelli esoterici, ovvero gli scritti di scuola. Il primo gruppo era costituito principalmente (ma non esclusivamente) da dialoghi, come in Platone: sappiamo che Aristotele fu l’autore di scritti intitolati Sul bene, Sulle idee, Eudemo o Sull’anima e Sulla filosofia. Per molto tempo queste furono le sue opere più lette, ma sono poi andate perdute; possiamo solo farci un’idea, grazie ai frammenti, conservati dal più tardo filosofo Giàmblico, del Protreptico (Esortazione alla filosofia), composto tra il 353 e il 352 a.C., in cui Aristotele delineava l’ideale della vita filosofica – una vita che tuttavia non prevedeva la rinuncia all’attività pubblica o politica. I lettori antichi di Aristotele ne avevano dunque un’immagine molto diversa dalla nostra: Aristotele era essenzialmente l’autore di dialoghi, anche pregevoli dal punto di vista letterario. Sono invece giunte fino a noi solo le opere del secondo gruppo. Questi scritti, detti anche acroamàtici (esposti a voce), erano riservati all’uso interno della scuola e perciò caratterizzati da uno stile molto sobrio, se non proprio secco: talvolta si ha in effetti l’impressione di trovarsi di fronte a semplici appunti che Aristotele stesso avrebbe sviluppato nel corso delle sue lezioni. Dunque, noi leggiamo oggi scritti che l’Autore non aveva in realtà destina-

to alla pubblicazione. Ma una difficoltà ancora maggiore è data dal fatto che questi stessi scritti non sono poi giunti a noi così come Aristotele li aveva concepiti, ma così come sono stati assemblati da editori successivi, e soprattutto da Andronìco di Rodi, che nel I secolo a.C. portò a termine un’edizione di tutti gli scritti di scuola di Aristotele – un’edizione il cui successo contribuì forse alla scomparsa delle opere essoteriche. L’Aristotele che leggiamo oggi è dunque, essenzialmente, l’Aristotele che ci è stato consegnato da Andronìco.

3 Un accademico critico di Platone Aristotele è stato per vent’anni – dunque per la parte più consistente della sua biografia intellettuale – all’Accademia di Platone, ma d’altra parte gli scritti che si sono conservati mostrano

Le opere di Aristotele Le opere di scuola di Aristotele ci sono state tramandate secondo un ordine preciso. Aprono la serie sei scritti di logica, riuniti poi sotto il nome complessivo di Òrganon, ovvero ‘strumento’, nella misura in cui la logica fornisce gli strumenti di cui si avvalgono tutte le altre scienze (va tuttavia precisato che questa denominazione non è aristotelica, e che Aristotele si è anzi servito del termine analitica per indicare ciò che noi chiamiamo logica). Questi scritti sono: Categorie, Sull’espressione (Perì hermenèias, quasi sempre citato con il titolo latino De interpretatione), Analitici primi (in due libri), Analitici secondi (in due libri), Topici (in otto libri), Confutazioni sofistiche. Seguono le opere di filosofia naturale (di cui ricordiamo qui solo quelle principali e quasi sicuramente autentiche): Fisica (in otto libri), Sul cielo (in quattro libri), Sulla generazione e corruzione (in due libri), Meteorologici (in quattro libri), Sull’anima (anch’esso quasi sempre citato con il titolo latino De anima, in tre libri), Parva naturalia (raccolta di piccoli trattati naturali, tra cui spiccano quelli Sul senso e i sensibili, Sulla memoria e la reminiscenza, Sul sonno e la veglia, Sui sogni, Sulla lunghezza e brevità della vita, Sulla giovinezza e la vecchiaia, Sulla vita e sulla morte), Le ricerche sugli animali (citate con il titolo latino Historia animalium; in dieci libri, dei quali gli ultimi due sono di dubbia autenticità), Le parti degli animali (in quattro libri), Il

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un Aristotele molto critico nei confronti di alcune tesi fondamentali dello stesso Platone, e Citare Aristotele in primo luogo nei confronti della teoria delle Nonostante siano oggi disponibili accurate ediidee. Si è cercato di mettere d’accordo quezioni critiche dei testi aristotelici, è consuetudine citasti due dati ipotizzando un’evoluzione re le opere di Aristotele facendo sempre riferimento all’edinel pensiero stesso di Aristotele, che si zione in cinque volumi curata dall’Accademia delle Scienze di sarebbe gradualmente distaccato da Berlino tra il 1831 e il 1870: in particolare, le opere principali sono una fase di giovanile adesione al placontenute nei primi due volumi, curati da Immanuel Bekker nel 1831; il tonismo, per elaborare una sua terzo contiene traduzioni latine rinascimentali; il quarto gli scolii desunti posizione autonoma e, per certi dai commentatori greci; il quinto i frammenti raccolti da Valentin Rose, versi, contrapposta a quella di alcuni supplementi agli scolii, e un indice tematico curato da Hermann Platone: è questo il caso sopratBonitz. Le opere di Aristotele si citano indicando il titolo (intero o abbreviato) tutto della cosiddetta lettura in latino (così come si usa fare, in ambito scientifico, per tutti i testi filosofici greci), l’indicazione del libro (in numeri romani) e del capitolo (in numeri “genetica” o appunto “evoluzioarabi), il numero della pagina dell’edizione Bekker seguito dalla lettere “a” o nista” di Aristotele. “b” (che indicano rispettivamente la prima e la seconda colonna, ovvero la Ora, che Aristotele abbia modicolonna di sinistra e quella di destra, di ogni pagina dell’edizione Bekker), ficato e progressivamente affinato e i numeri delle righe in cui si trova il passo a cui si vuole fare riferimento. alcune posizioni nel corso della Così quando si legge Metaph., IV, 1, 1003 a 20-21 ci si intende riferire alla sua produzione, è un fatto assoluMetafisica, quarto libro, capitolo primo, pagina 1003 dell’edizione tamente innegabile, ma non è per Bekker, prima colonna del testo, righe 20 e 21. Una ristampa questo necessario ipotizzare due fasi aggiornata dell’edizione Bekker è stata portata a termine da ben distinte del suo pensiero, una accaOlof Gigon per W. de Gruyter, Berlin 1960-1961. Il terzo demica, e una più autonoma dopo il volume di questa nuova edizione, curato dallo distacco dall’Accademia. stesso Gigon, comprende ora i frammenti delle opere perdute di Aristotele. In realtà, l’Accademia platonica non era affatto una scuola dogmatica, e probabilmente la teoria delle forme o idee era stata oggetto di movimento degli animali, La locomozione degli profonde e accese discussioni già all’interno di animali, La riproduzione degli animali (in cinque essa: nulla vieta così di ipotizzare che libri) e altri scritti minori, di incerta autenticità. Aristotele abbia maturato posizioni fortemente Seguono poi la Metafisica (in quattordici libri), e le opere etiche: Etica Nicomachea (in dieci libri), divergenti da quelle del suo caposcuola già Grande etica (Magna moralia; non si tratta tuttavia di quando la frequentava. Una conferma in tal un’opera effettivamente aristotelica), Etica Eudemia senso ci è offerta dal fatto che le Categorie, la (in otto libri). Chiudono il corpus degli scritti la Politica prima opera dell’Òrganon, sviluppano già (in otto libri), un Trattato di economia (citato anch’esso un’ontologia del tutto incompatibile con i prequasi sempre con il titolo latino Oeconomica), la supposti platonici e che la stessa posizione era Retorica (in tre libri) e la Poetica. sostenuta da Aristotele già nel perduto Aristotele fu anche autore di ricerche archivistiche e di Eudemo, che fu composto nel 354 a.C., e quincataloghi: a parte gli elenchi dei Vincitori pitici e dei di durante, e non dopo, il periodo accademico. Vincitori olimpici (il cui scopo non era meramente cronachistico: ricostruire la storia dei giochi voleva dire fissare dei termini cronologici precisi, dal momento che il principale punto di riferimento cronologico, nel mondo greco, erano appunto i giochi, e in particolare quelli olimpici), si segnala soprattutto la raccolta di 158 Costituzioni delle città greche: un papiro egiziano del British Museum (ritrovato nel 1891) ci ha conservato la Costituzione di Atene. Già solo questo elenco testimonia l’enorme interesse di Aristotele per ogni campo del sapere e ogni ambito del reale – un interesse che distingue in modo marcato la concezione aristotelica del sapere e della filosofia da quella platonica.

4 La logica come “strumento” della scienza: l’Òrganon

Come si è detto, va sotto il nome di Òrganon (‘strumento’) la raccolta di sei testi di Aristotele (Categorie, De interpretatione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche) che hanno, come oggetto, problematiche di logica, e la cui impostazione sarà destinata a segnare per lungo tempo gli sviluppi di questa disciplina.

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4.1 Classificare i predicati: le Categorie Di che cosa si occupano le Categorie? L’opera verte sui rapporti di predicazione, ovvero su ciò che può essere predicato di un determinato soggetto (l’espressione “questa rosa è rossa” esprime per esempio un rapporto di predicazione, in cui il predicato “rosso” è attribuito al soggetto “questa rosa”). Aristotele distingue le cose che vengono dette «in una determinata connessione» da quelle che vengono dette «senza connessione». Queste ultime, delle quali si occupano principalmente le Categorie, sono i termini che hanno un determinato significato a prescindere dalla loro combinazione in una proposizione: per esempio “uomo” e “correre”, al di fuori della proposizione “uomo corre”. Le categorie sono fondamentalmente i predicati, e ciò che Aristotele si propone è di classificare i tipi di predicati. Questa classificazione viene ricavata dalle domande che possiamo porci a proposito di un qualunque ente. Intorno a una determinata cosa, possiamo infatti chiederci: a. Che cosa è? “Un uomo”, “un cavallo”, ecc. b. Quant’è, ovvero: quanto è grande? “Due cùbiti”, “tre cùbiti” (il cùbito era un’antica unità di misura pari a circa 44 centimetri; noi potremmo dire: “alto due metri”, “pesante 80 chili” e via dicendo). c. Com’è, ovvero: che qualità possiede? “Bianco”, “grammatico” (o “sapiente”), ecc. d. Che relazione ha con altre cose? “È figlio di Nicòmaco”, “è il doppio di qualcos’altro”, ecc. e. Dov’è? “Nel Liceo”, “in piazza”, ecc. f. Quando? “Ora”, “ieri”, “l’anno scorso”, ecc. g. Come si trova? “Sta disteso”, “è seduto”, ecc. h. Cosa ha o possiede? “Ha i calzari” (“porta le scarpe”), “è armato”, ecc. i. Cosa fa, ovvero: che tipo di azione compie? “Tagliare”, “bruciare”, ecc. j. Cosa patisce, ovvero: che tipo di azione subisce? “Essere tagliato”, “essere bruciato”, ecc. A questi diversi tipi di domande si risponde attraverso predicati ugualmente diversi, che possono essere raggruppati in classi corrispondenti proprio alle domande, e cioè: a. sostanza b. quantità c. qualità

d. relazione e. dove (luogo) f. quando (tempo) g. giacere h. avere/possedere i. azione j. passione Tradizionalmente, sono proprio queste dieci classi a essere state (ed essere tuttora) chiamate “categorie”, anche se per Aristotele il termine si riferisce in primo luogo ai predicati stessi raccolti nelle classi: ma non è sorprendente che tutti i predicati dello stesso tipo siano stati accomunati sotto la medesima etichetta. “Categoria” è così diventato un nome collettivo per indicare tutti i predicati di una stessa classe, e per questo si è ormai soliti dire che Aristotele abbia individuato dieci categorie. In altre opere, comunque, Aristotele non menziona tutte e dieci queste classi (spesso a esserne ricordate sono solo otto, omettendo “giacere” e “avere”, che in effetti sembrano riducibili ad altre categorie, come il

Aristotele nei Filosofi all’asta Riportiamo qui di seguito un altro passo tratto da I filosofi all’asta di Luciano di Samosata [ I filosofi all’asta: Platone visto da Luciano, pp. 60-61]: quello relativo alla “trattativa” che ha per oggetto proprio Aristotele.

Zeus Non perdere tempo. Chiamane un altro, il peripatetico. Hermes Ehi, dico a te, il bello, il ricco. Su, comprate il più intelligente, colui che conosce davvero tutto. Compratore Che tipo è? Hermes Equilibrato, ragionevole, di buon carattere, e, ciò che è più importante, doppio. Compratore Cosa vuoi dire? Hermes Una cosa è come appare esternamente, un’altra è come sembra internamente. Così, se lo comprerai, ricordati di chiamare il primo essoterico e il secondo esoterico. Compratore E quali sono le sue idee più importanti? Hermes Che esistono tre tipi di beni, quelli dell’anima, quelli del corpo e quelli esterni.

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“dove” e la “qualità”), né d’altra parte nelle Categorie egli fornisce una spiegazione precisa del perché il numero debba essere fissato proprio in dieci. Ciò che più gli interessa è che i predicati possano essere effettivamente distribuiti, senza ambiguità, in classi diverse. Le categorie non hanno soltanto una funzione o un significato logico-linguistico – non servono cioè soltanto a definire le differenti forme di attribuzione di un predicato a un soggetto – ma forniscono anche i diversi significati dell’essere, tanto che (nella Fisica) Aristotele le chiama anche «classi delle cose esistenti». Il fatto è che, per Aristotele, classificando i predicati possibili, noi classifichiamo anche le cose e gli stati di cose che corrispondono a tali predicati. Se diciamo “Socrate è in piazza”, attribuendo a Socrate un predicato che rientra nella categoria “dove”, in realtà noi esprimiamo uno stato di fatto (l’essere di Socrate in un luogo) e intendiamo anche che la piazza è qualcosa, e cioè, appunto, un luogo. Le categorie esprimono dunque i molteplici significati dell’essere, come Aristotele stesso ribadirà nel IV

Compratore Ragiona in modo umano. E quanto costa? Hermes Venti mine. Compratore Ma è molto! Hermes Ma no, bello mio. Anzi, pare che abbia del denaro con sé, e non fosse che per questo dovresti sbrigarti a comprarlo. Inoltre saprai subito da lui quanto viva una zanzara, fino a che profondità il mare è illuminato dal Sole e come sia l’anima delle ostriche. Compratore Dio mio, che precisione di notizie! Hermes E che cosa diresti allora se ascoltassi altre osservazioni molto più sottili relative alla riproduzione, alla nascita e alla membrana che avvolge il feto all’interno dell’utero, e come l’uomo è una creatura che ride, mentre l’asino non ride, né costruisce né naviga? Compratore Giù il cappello di fronte ad insegnamenti tanto utili! Lo compro senz’altro per venti mine.

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libro della Metafisica [ T3]. In questo modo, l’essere cessa definitivamente di essere inteso in modo univoco e omogeneo come nell’ontologia parmenidea [ 2.7]. L’essere non è cioè una cosa singola, compatta, con un solo significato, ma un predicabile che comprende una molteplicità di significati. Anche le qualità, le relazioni, le determinazioni spaziali e temporali sono tutti significati legittimi dell’essere: trovarsi ora da qualche parte (alle 11, in quest’aula) è uno stato effettivo di cose, che rappresenta appunto uno dei molteplici significati dell’essere. Questi significati, per di più, sono irriducibili tra loro, cioè non possono essere riportati a una sola classe superiore. In altri termini, non bisogna commettere l’errore (di Platone) di considerare l’essere come un unico genere supremo che si divide poi in dieci categorie o possibili significati, ma come qualcosa che è in sé irriducibilmente molteplice, che possiede sempre e necessariamente significati diversi. Emerge così una delle caratteristiche di fondo del pensiero aristotelico: se una delle tendenze di Platone è il tentativo di riportare il molteplice all’unità (i particolari sensibili alle idee, e la molteplicità delle idee ai princìpi), Aristotele non solo non sembra affatto intimorito o “scandalizzato” dalla molteplicità, ma cerca di interpretarla come tale. Questa attitudine si manifesta nel rifiuto delle idee, nella difesa dell’autonomia delle singole scienze o dei singoli saperi, e anche, appunto, nella rivendicazione dell’irriducibile molteplicità dei significati dell’essere. 1. Per Aristotele i termini: a. sono tutte quelle cose dette in una certa connessione. b. hanno un certo significato indipendentemente dalla combinazione in una proposizione. c. coincidono fondamentalmente con i predicati. d. esprimono un rapporto di predicazione.

V F V F V F V F

2. Con il termine categoria Aristotele intende: a. l’insieme dei predicati afferenti ad una medesima classe. b. l’insieme delle classi di tutti i predicati. c. l’insieme dei predicati e delle classi. d. l’insieme dei predicati che si riferiscono alla classe “sostanza”. 3. Per Aristotele le categorie propriamente: a. definiscono in modo univoco l’essere. b. definiscono soltanto le diverse forme di attribuzione di un predicato ad un soggetto. c. hanno una funzione logico-linguistica e temporale. d. hanno una funzione logico-linguistica e ontologica.

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4.2 Sostanze prime e sostanze seconde Se tutte le categorie sono significati legittimi, e non riconducibili a un unico significato supremo, esse non sono però tutte sul medesimo piano: una riveste infatti una priorità nei confronti delle altre – ovvero, come potremmo anche dire: l’essere si dice in molti modi, ma c’è un significato principale che pur non annullando o riassorbendo tutti gli altri, funge però da punto di riferimento o, come è stato detto, da fuoco prospettico per essi (il fuoco prospettico è il punto verso cui convergono, per esempio in un quadro, tutte le linee della prospettiva; ovviamente, l’espressione non è aristotelica, perché Aristotele non conosceva la prospettiva, ma rende bene l’idea di ciò che Aristotele stesso intendeva esprimere). Questa categoria principale è la prima dell’elenco, ovvero la sostanza (usìa). Sono infatti i predicati che rientrano nella categoria della sostanza a dirci che cosa sia un dato ente, e questa determinazione è quella su cui poggiano tutte le altre: per un uomo, il fatto di essere in piazza (dove/luogo) o quello di portare i calzari (avere/possedere) presuppongono comunque che egli sia un qualcosa, cioè un uomo, e quel determinato uomo [ T3]. Se dunque la sostanza dice il che cos’è di un ente, le altre categorie esprimono ciò che inerisce o appartiene a quello stesso ente, ovvero ciò che accade o si aggiunge ad esso: per questo, tutte le categorie vengono anche dette accidenti. In questo contesto il termine “accidente” non indica, come accade altrove in Aristotele, le determinazioni fortuite o casuali (ciò che non è né sempre, né nella maggior parte dei casi), ma appunto ciò che accade o s’aggiunge alla sostanza, e inerisce ad essa. Tuttavia, a proposito delle sostanze, occorre distinguere tra l’aspetto logico-linguistico e quello strettamente ontologico. Ci sono infatti termini, all’interno della categoria del genere sostanza, che possono fungere sia da soggetto che da predicato. Prendiamo “uomo”: nell’enunciato “l’uomo è un animale”, funge da soggetto; nell’enunciato “Socrate è un uomo” funge da predicato. Altri termini possono invece fungere solo da soggetto e non anche da predicato. Prendiamo un singolo uomo, per esempio Socrate: posso dire appunto “Socrate è un uomo”, prendendolo come soggetto (e potrei fare così per tutte le altre

classi di predicati, e cioè per tutte le altre categorie: “Socrate è bianco”; “Socrate è alto”, “Socrate è in piazza”, ecc.), ma non posso utilizzarlo come predicato di altro. Gli individui, in altri termini, possono essere solo soggetti di predicazione (ciò di cui si predica qualcosa) e non ciò che viene predicato di altro. Diventa perciò necessario distinguere tra le sostanze prime, gli individui concretamente esistenti, e le sostanze seconde, cioè i concetti universali che permettono di collocare gli individui in classi comuni più o meno ampie e in tal modo di definirli: i generi e le specie. Socrate (l’individuo) è una sostanza prima, “animale” e “uomo” sono sostanze seconde, cioè concetti universali che permettono di definire Socrate. Il primo di questi concetti (“animale”) ne indica il genere: Socrate, al pari di tutti gli altri uomini, rientra nel genere degli animali. Il secondo (“uomo”) ne indica la specie. La specie “uomo” si ottiene dividendo il genere in base alle cosiddette differenze specifiche, quelle cioè che danno appunto vita a specie diverse. Anche il cane Rex è in effetti un animale, e dunque rientra nello stesso genere “animale”, ma la sua collocazione specifica dipende dal fatto che “animale” viene per esempio diviso dalle differenze “razionale” e “irrazionale”: la prima differenza costituisce la specie “uomo”, la seconda, tutte le specie di animali sprovvisti di ragione, che si distingueranno a loro volta tra essi in base ad ulteriori differenze (“quadrupedi”,“bipedi”, ecc.). Le sostanze prime, e cioè gli individui, sono per Aristotele il fondamento delle sostanze seconde, i concetti universali. In altri termini, non potremmo avere il concetto di “uomo” se non esistessero individui concreti come Socrate, Platone, Callia, ecc.; e non potremmo avere il concetto di “animale” se, accanto agli individui umani concreti, non esistessero singoli cani concreti (Argo, Pluto, Rex, ecc.). Troviamo qui un altro fondamentale punto di distacco da Platone: per quest’ultimo, l’universale – cioè la forma o idea – è il fondamento degli individui, ed è più importante di questi ultimi; per Aristotele, gli individui sono il fondamento degli universali, e sono più importanti di questi ultimi. In altri termini, per Platone il significato principale di essere è quello che spetta alle idee, mentre gli individui sensibili possiedono l’essere solo in forma derivata (per partecipazio-

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ne o mimesi); per Aristotele, il significato principale di essere è quello che spetta agli individui, mentre i concetti (che per Aristotele non hanno alcuna sussistenza o autonomia ontologica, ma stanno solo nella mente umana) hanno un essere derivato: non potremmo formarci il concetto di “uomo”, se non incontrassimo tanti singoli uomini esistenti. 1. La sostanza: a. è la categoria prima cui ineriscono tutte le altre determinazioni. b. è la categoria che indica il che cos’è di un ente. c. è la categoria detta anche accidente. d. è la categoria che esprime ciò che accade o si aggiunge agli enti.

V F V F V F V F

2. La differenza tra sostanze prime e sostanze seconde: a. dipende dal fatto che le prime si identificano con gli individui concretamene esistenti e le seconde con i concetti universali. V b. riguarda la differenza fra termini che possono fungere solo da soggetto nella predicazione e termini che possono fungere da soggetto e oggetto di predicazione. V c. implica che i concetti universali si fondano sull’esistenza degli individui concreti. V d. riguarda il fatto che le prime si identificano con la specie e le seconde con il genere. V

F F F F

4.3 Dai termini alle proposizioni: il De interpretatione Se le Categorie si occupano dei termini senza connessione, il De interpretatione si occupa dei termini connessi nella proposizione. Lo scritto stabilisce innanzi tutto il rapporto che esiste tra il linguaggio, l’anima (il pensiero) e la realtà esterna. Le parole sono simboli delle affezioni o modificazioni dell’anima (cioè dei concetti) che a loro volta sono immagini delle cose esterne. Il rapporto tra le affezioni dell’anima e le cose è per Aristotele naturale, il che vuol dire sostanzialmente che, in presenza delle stesse cose, tutti gli uomini si formano naturalmente gli stessi concetti. Il rapporto tra i concetti e le parole è invece convenzionale e storico: per indicare la stessa cosa, per esempio un uomo, chi parla in greco dirà in effetti ànthropos, e chi parla in latino homo.

Solo quando le parole sono connesse tra loro in proposizioni, cioè solo a livello di discorso, ha senso porsi il problema della loro verità o falsità. D’altra parte, ciò non vale neppure per tutti i discorsi, ma solo per quelli apofàntici, cioè dichiarativi, enunciativi, che descrivono stati di cose. In effetti, ci sono proposizioni, come i comandi o le preghiere, che di per sé non sono né veri né falsi: l’enunciato “Socrate corre” può essere vero o falso (a seconda che Socrate stia ora effettivamente correndo o meno). Ma se dicessi a Socrate: “corri”, questa proposizione non sarebbe in sé né vera né falsa. Il discorso apofàntico, nella sua forma di base, è dato proprio dalla connessione tra un soggetto e un predicato: “Socrate corre” o “Socrate è bianco”. Queste proposizioni sono vere quando congiungono ciò che nella realtà è effettivamente congiunto (“Socrate corre” è vera appunto se e solo se Socrate sta effettivamente correndo) o quando disgiungono ciò che nella realtà è effettivamente disgiunto, separato (“Socrate non è nero” è vera se effettivamente Socrate è bianco – esempi di questo genere, frequenti in Aristotele, fanno riferimento al colore dei capelli). Di conseguenza, una proposizione è falsa quando congiunge ciò che nella realtà è disgiunto, o disgiunge ciò che nella realtà è congiunto. Finora abbiamo parlato di verità e falsità rispetto a proposizioni affermative e negative. Ma accanto all’aspetto della qualità (affermativa o negativa, appunto), è importante tenere conto anche della quantità delle proposizioni. Un predicato può infatti essere detto (o negato) di tutti i soggetti, di alcuni di essi, o di uno solo. N el primo caso, avremo proposizioni universali, come “tutti gli uomini sono razionali”, o, in negativo, “nessun uomo vola”; nel secondo caso, proposizioni particolari (“qualche uomo è bianco”, “qualche uomo non è bianco”); nel terzo, proposizioni singolari (“questo uomo è bianco”, “questo uomo non è bianco”). Che rapporti possono darsi tra questi tipi di proposizione, quando riguardano gli stessi termini? Due proposizioni universali, una affermativa e l’altra negativa, potrebbero essere entrambe false, come nel caso delle proposizioni “tutti gli uomini sono bianchi” e “nessun uomo è bianco”: non è infatti vero né che tutti gli uomini abbiano i capelli bianchi, né che nessun uomo abbia i capelli bianchi. Ma nel caso in cui almeno una

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Universale

Particolare

Singolare

Qualità

Forma

Esempio

affermativa

Tutti gli S sono P

Tutti gli uomini sono mortali

negativa

Nessun S è P

Nessun uomo è mortale

affermativa

Qualche S è P

Qualche uomo è mortale

negativa

Qualche S non è P

Qualche uomo non è mortale

affermativa

Questo S è P

Questo uomo è mortale

delle due è vera, una proposizione universale affermativa e una universale negativa non possono essere entrambe vere: se la proposizione “tutti gli uomini sono razionali” è vera, la proposizione “nessun uomo è razionale” non può essere anch’essa vera. Due proposizioni di questo tipo si dicono per Aristotele contrarie. Il rapporto che si dà invece tra un’universale affermativa (“tutti gli uomini sono bianchi”) e una particolare negativa (“qualche uomo non è bianco”), ovvero tra un’universale negativa (“nessun uomo è bianco”) e una particolare affermativa (“qualche uomo è bianco”) è invece di contraddizione: tra due proposizioni contraddittorie, una sola può essere vera. La differenza tra proposizioni contrarie e proposizioni contraddittorie sta dunque per Aristotele nel fatto che le prime potrebbero anche essere entrambe false, mentre nelle seconde necessariamente una è vera e l’altra è falsa. Invece, una proposizione particolare affermativa e una particolare negativa possono essere entrambe vere: in effetti, dire che “qualche uomo è bianco” implica anche che “qualche uomo non è bianco”. Ciò non vale però per gli enunciati di tipo singolare, relativi cioè a un singolo individuo: in questo caso, la proposizione affermativa e quella negativa sono tra loro contraddittorie (“Socrate è bianco”/“Socrate non è bianco”; occorre tuttavia precisare che, nella propria teoria dei sillogismi, Aristotele ha di solito evitato l’uso di termini e di proposizioni singolari).

1. Per Aristotele il rapporto fra i concetti e le cose: a. è un rapporto convenzionale, che varia da cultura a cultura. b. è un rapporto innato, poiché i concetti sono da sempre contenuti nell’animo umano. c. è un rapporto costruito dall’uomo, poiché fra concetti e cose non esiste alcuna omogeneità. d. è un rapporto naturale, perché in presenza di cose uguali tutti gli uomini si formano il medesimo concetto. 2. I discorsi apofàntici sono: a. tutte le proposizioni in cui vi è una connessione fra soggetto e predicato. b. quelli per cui è possibile stabilire la verità o la falsità del contenuto enunciato. c. quelle proposizioni che indicano un comando o una preghiera. d. soltanto quelle proposizioni che congiungono ciò che nella realtà è congiunto. 3. Le proposizioni contrarie e quelle contraddittorie, che riguardano gli stessi termini, si distinguono in base al fatto che: a. le prime potrebbero essere entrambe vere e, delle seconde, una è vera e l’altra è falsa. b. le prime potrebbero essere anche tutte e due vere, e le seconde tutte e due false. c. le prime potrebbero essere anche tutte e due false e, delle seconde, una è vera e l’altra è falsa. d. le prime potrebbero essere tutte e due false e le seconde anche.

4.4 I sillogismi: gli Analitici primi Così come i termini possono essere connessi tra loro per formare proposizioni, anche le proposizioni possono essere connesse tra loro per dar vita a ragionamenti conclusivi, ovvero a sillogi-

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smi. Aristotele ha definito il sillogismo, nei Topici, come:



un discorso in cui, posti alcuni dati, ne risulta di necessità qualcosa di diverso da essi, precisamente in virtù di quelli che sono stati posti. [Topici, I, 1, 100 a 25-27]



Dunque, un sillogismo è in generale qualsiasi deduzione o inferenza; in senso più tecnico e ristretto, è il ragionamento deduttivo perfetto. Dei sillogismi in quest’ultima accezione si occupa, in particolare, la terza opera dell’Òrganon, e cioè gli Analitici primi. Un sillogismo, nella sua forma tipica, si compone di due proposizioni, che fungono da premesse, e di una terza proposizione, la conclusione, che si trae dalle premesse stesse. Sia le proposizioni che fungono da premesse, sia la conclusione sono costituite da due termini che fungono da soggetto e predicato. Il meccanismo deduttivo (cioè il modo in cui si perviene dalle premesse alla conclusione) è semplice: un termine che compare in entrambe le premesse – e che si indica come medio – permette di collegare tra loro, nella conclusione, gli altri due termini – chiamati estremi – che comparivano ciascuno in una delle premesse. Per esempio: a. ogni uomo è mortale (I premessa, o premessa maggiore);

La struttura sillogistica in Aristotele Aristotele non presenta la struttura sillogistica nel modo esposto, per noi più semplice, ma ponendo il predicato logico come soggetto grammaticale e il soggetto logico come predicato grammaticale: in altri termini, Aristotele formula ciò che noi abbiamo indicato come “ogni B è A” in questo modo: “A appartiene a ogni B”; per esempio: invece di “ogni uomo è mortale”, Aristotele scriverebbe “mortale appartiene ad ogni uomo”. Questa inversione grammaticale, che non altera la struttura logica, fu probabilmente scelta da Aristotele perché più adatta a esprimere ogni possibile rapporto di predicazione, al di là delle forme più semplici in cui si dice che un soggetto è (o non è) un determinato predicato.

b. ogni greco è uomo (II premessa, o premessa minore); c. ogni greco è mortale (conclusione). In questo caso, il termine medio è dato da “uomo”, che compare in tutte e due le premesse, e permette di collegare tra loro gli altri due termini (“mortale” e “greco”) che compaiono invece ciascuno in una delle premesse. Schematicamente, la forma di questo sillogismo è dunque la seguente: a. ogni B è A; b. ogni C è B; c. ogni C è A. È stato Aristotele stesso ad adoperare le lettere dell’alfabeto per indicare in generale i termini che compaiono nelle proposizioni, dando così di fatto inizio alla logica formale, in cui ciò che conta è appunto la forma degli enunciati, e non i contenuti, che possono essere sostituiti da variabili (come appunto le lettere dell’alfabeto) [ La struttura sillogistica in Aristotele]. I sillogismi si diversificano tra loro in base alla posizione e alla funzione che il termine medio assume nelle premesse. I diversi tipi di sillogismi così distinti – i diversi “modi” – possono essere raccolti in classi denominati figure (schèmata). L’esempio precedente si riferisce a un sillogismo di prima figura, in cui il termine medio funge da soggetto nella premessa maggiore e da predicato nella minore. Nella seconda figura, il termine medio funge invece da predicato in entrambe le premesse. Per esempio: a. nessun uomo è immortale; b. ogni dio è immortale; c. nessun uomo è dio. Nella terza figura, il medio funge invece da soggetto in entrambe le premesse: a. ogni greco è bianco; b. ogni greco è uomo; c. qualche uomo è bianco. Aristotele ha trascurato la trattazione dei sillogismi che solo successivamente sono stati designati di quarta figura, quelli cioè in cui il termine medio funge predicato nella premessa

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maggiore, e da soggetto in quella minore. D’altra parte, per Aristotele solo i sillogismi di prima figura sono di per sé veramente perfetti, perché sono quelli che permettono nel modo più immediato di comprendere il perché di qualcosa; inoltre, le conclusioni dei sillogismi di seconda figura sono sempre negative, mentre quelle dei sillogismi di terza figura sono sempre particolari. Tuttavia, i sillogismi delle altre figure possono essere ricondotti alla prima attraverso alcuni accorgimenti, come quello di modificare, laddove possibile, la posizione delle premesse, ovvero, di “convertire” una premessa. Prendiamo, per esempio, il sillogismo di seconda figura prima considerato: la premessa maggiore (“nessun uomo è immortale”) può essere invertita (“nessun immortale è uomo”), dal momento che in una proposizione universale negativa soggetto e predicato possono essere cambiati di posto senza problema. Così modificato, il sillogismo è riportato a uno di prima figura, dal momento che il termine medio (“immortale”) funge ora da soggetto nella prima premessa, e da predicato nella seconda. Le figure rappresentano soltanto gli schemi più generali di ragionamento sillogistico. Le premesse, infatti, possono variare in base alla qualità (possono essere cioè affermative o negative) e alla quantità (possono essere affermative e negative): tenendo conto delle diverse combinazioni che si possono ottenere incrociando premesse di qualità e quantità differente, Aristotele distingue così all’interno di ciascuna figura, diversi modi validi (quattro per la prima figura, quattro per la seconda, sei per la terza), cioè diverse possibilità di costruire ragionamenti conclusivi formalmente corretti. La validità di un sillogismo non va tuttavia confusa con la sua verità: la validità si riferisce solo al fatto che l’inferenza è corretta, ma la verità della conclusione dipende pur sempre dalla verità delle premesse, che non è né provata né messa in discussione nel sillogismo stesso. D’altra parte, non spetta alla logica (o meglio, all’analitica) di occuparsi della validità delle premesse: l’analitica ha solamente il compito di mostrare quali sono le condizioni valide di inferenza che possono essere utilizzate in qualsiasi dimostrazione scientifica; spetta al contrario alle singole scienze appurare la verità delle premesse.

1. Per Aristotele la funzione del sillogismo è quella di: a. stabilire la verità delle sue premesse. b. stabilire la validità dell’inferenza logica. c. provare la verità delle premesse. d. provare la verità delle conclusioni. 2. Il sillogismo “tutti gli uomini sono biondi, tutti i bambini sono uomini, tutti i bambini sono biondi” è: a. valido e vero. b. valido e falso. c. non valido e vero. d. non valido e falso.

4.5 La teoria aristotelica della scienza: gli Analitici secondi Passiamo così alla teoria aristotelica della scienza, che è esposta prevalentemente negli Analitici secondi. Se gli Analitici primi si occupano dei sillogismi in generale, gli Analitici secondi si concentrano in particolare sul sillogismo scientifico o dimostrazione in senso stretto, che rappresenta il procedimento proprio di ogni scienza:



Riteniamo di conoscere scientificamente qualcosa in senso proprio, e non accidentalmente alla maniera sofistica, quando riteniamo di conoscere la ragione per la quale la cosa è, che essa è la ragione di quella cosa, e che ciò non può essere altrimenti. […] Se vi sia anche un altro modo di conoscere scientificamente lo diremo in seguito; per il momento diciamo che conoscere scientificamente è sapere per dimostrazione. Chiamo dimostrazione il sillogismo scientifico e chiamo scientifico quel sillogismo grazie al possesso del quale conosciamo scientificamente. Se allora conoscere scientificamente è quello che abbiamo stabilito, è anche necessario che la conoscenza scientifica ottenuta per dimostrazione proceda da premesse vere, prime, immediate, più note, anteriori e tali che siano ragioni della conclusione. [Analitici secondi, I, 2, 71 b 9-22]



Questo passo sintetizza il punto di partenza dell’epistemologia aristotelica. In primo luogo, Aristotele distingue la scienza vera dal sapere apparente, proprio dei sofisti – e questo è tutto sommato un elemento di continuità con l’esperienza platonica. In secondo luogo, precisa che la conoscenza scientifica consiste nel conoscere la ragione o il perché di una determinata

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cosa. In terzo luogo, chiarisce che il modo in cui avviene la conoscenza scientifica è appunto la dimostrazione o sillogismo scientifico. Infine, enumera le caratteristiche essenziali del sillogismo scientifico, ovvero ciò che differenzia un sillogismo scientifico da un sillogismo in generale. Le premesse di un sillogismo scientifico: a. devono essere vere (in questo caso non conta soltanto la correttezza o validità formale dell’inferenza); b. devono essere prime e immediate, cioè non devono essere a loro volta oggetto di dimostrazione; c. devono essere anteriori alla conclusione, e più note di esse; d. devono essere la causa della conclusione (come accade principalmente nei sillogismi di prima figura). Risulta quindi chiaro che ogni dimostrazione (e dunque ogni scienza) deve procedere a partire da princìpi primi, cioè da premesse prime e immediate. Ma tali princìpi sono in realtà di due tipi; possiamo infatti distinguere: 1. gli assiomi, ovvero quei princìpi primi e indimostrabili che sono comuni a tutte le scienze o almeno a più scienze. Tra i princìpi comuni a tutte le scienze figurano regole fondamentali come quella di non-contraddizione («A non può essere B e non-B») e quella del terzo escluso («A dev’essere o B o non-B»). Un principio comune a più scienze, ma non a tutte, è una proposizione evidente del tipo “se da uguali [cioè da quantità uguali] si tolgono uguali rimangono uguali”: tale principio vale in effetti solo per le scienze che hanno a che fare con la quantità; 2. i princìpi propri di ogni scienza, ovvero le premesse che riguardano l’ambito determinato (il genere, nel lessico aristotelico) su cui ciascuna scienza verte. Tali princìpi si suddividono a loro volta in ipotesi – le premesse relative all’esistenza di qualcosa – e in definizioni. In altri termini, ogni scienza deve presupporre l’esistenza di ciò intorno a cui essa verte (il suo “soggetto”, secondo la terminologia poi introdotta dai commentatori arabi) e le definizioni di tutti i termini che in essa figurano. In questo modo, Aristotele difende l’autonomia dei saperi, contro l’ipotesi di un sapere generale: ciascuna scienza infatti muove dai princìpi propri di un determinato genere.

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Dunque, ogni scienza si regge su un preciso equilibrio tra ciò che dev’essere presupposto e ciò che dev’essere dimostrato: devono essere presupposti l’esistenza del soggetto, i princìpi comuni della dimostrazione e le definizioni dei termini; devono essere dimostrate le proprietà (le affezioni) che appartengono al soggetto. Lasciando da parte le definizioni (che si legano a ciò che dev’essere dimostrato), potremmo così dire che in ogni scienza si devono considerare tre aspetti fondamentali: 1. ciò intorno a cui essa verte (il soggetto), la cui esistenza dev’essere presupposta e non dimostrata all’interno di quella stessa scienza (altrimenti si cadrebbe in una specie di circolo): dunque, ogni scienza o assume l’esistenza del proprio soggetto come evidente, o la ricava da un’altra scienza, in cui può essere dimostrata; 2. ciò in base a cui si può procedere nella dimostrazione, ovvero gli assiomi comuni a tutte le scienze o comunque a più scienze; 3. ciò che dev’essere dimostrato, ovvero tutte le proprietà che appartengono al soggetto di una scienza. Per dirlo con le parole di Aristotele:



ogni scienza dimostrativa ha a che fare con tre cose, ossia con quelle cose che sono poste essere (ed esse sono il genere del quale la scienza considera le affezioni per sé), con quelli che sono chiamati assiomi comuni, le cose prime a partire dalle quali si dimostra, e in terzo luogo con le affezioni, di ciascuna delle quali la scienza assume che cosa significhi. [Analitici secondi, I, 10, 76b11-16]



1. Per Aristotele la conoscenza scientifica: a. poggia sulla conoscenza della ragione per cui una cosa è. b. utilizza il metodo del sillogismo scientifico. c. deve avere un soggetto presupposto, dei princìpi comuni e ciò che va dimostrato. d. deve presupporre il sapere dei sofisti.

V F V F V F V F

4.6 La conoscenza dei princìpi: il nùs Se i princìpi costituiscono il punto di partenza delle dimostrazioni, ma non possono venire dimostrati essi stessi, si pone il problema di sta-

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bilire come si possa pervenire alla loro conoscenza. Aristotele affronta la questione nel capitolo conclusivo degli Analitici secondi e la risolve postulando un abito conoscitivo, cioè una disposizione conoscitiva, anteriore a quello propriamente scientifico – una conoscenza che egli designa con il nome di intelletto (nùs) o intellezione:



siccome nessun altro genere all’infuori dell’intellezione è più preciso della conoscenza scientifica e, d’altra parte, i princìpi sono più noti delle dimostrazioni e ogni conoscenza scientifica è accompagnata dal ragionamento, non può esserci conoscenza scientifica dei princìpi, e poiché non ci può essere nulla di più vero della conoscenza scientifica se non l’intellezione, l’intellezione deve avere per oggetto i princìpi. Ciò risulta da queste indagini ed anche perché principio della dimostrazione non è la dimostrazione e quindi la conoscenza scientifica non è principio della conoscenza scientifica. [Analitici secondi, II, 19, 100 b 8-14]



I princìpi della conoscenza scientifica non possono essere dimostrati a loro volta dalla conoscenza scientifica: essi sono colti invece dall’intellezione, che dunque precede la scienza propriamente detta. Ma cosa si deve intendere qui esattamente per nùs, intelletto o intellezione? Nonostante il termine nùs sia stato spesso tradotto, in questo contesto, anche con ‘intuizione’, Aristotele non ipotizza un vero e proprio coglimento intuitivo dei princìpi, quanto, piuttosto, un procedimento induttivo-astrattivo, un procedimento cioè, che muove verso l’universale a partire dall’osservazione di più casi particolari (induzione), spogliando gradualmente quel che viene percepito dai sensi dalle sue caratteristiche individuali e accidentali (astrazione). Tale procedimento si fonda dunque sulle informazioni provenienti dai sensi: è vero che i sensi colgono sempre realtà singolari, ma l’uomo ha la capacità di trattenere le sensazioni nel ricordo; il ricordo ripetuto genera esperienza, e l’esperienza di oggetti appartenenti alla stessa specie induce, attraverso l’eliminazione di tutte le caratteristiche individuali e materiali (l’astrazione, appunto), a cogliere i tratti universali comuni a questi medesimi oggetti fino a cogliere gli universali che possono fungere da princìpi (come le definizioni dei termini).

Per esempio: osservo ora un determinato uomo (Socrate); posso ricordarmi di questa sensazione anche quando lo stesso uomo non è più presente davanti a me, e posso richiamare alla mente tale ricordo più volte; comincio così ad avere una certa esperienza nel riconoscere quell’uomo, e gli uomini in generale, e grazie a questa esperienza sono in grado di comprendere le caratteristiche universali che definiscono ogni uomo: il fatto di essere un animale mortale, razionale, bipede. Questo passaggio graduale dal particolare all’universale è paragonato da Aristotele, con un’immagine particolarmente felice e fortunata, alla riorganizzazione di un esercito in rotta, che si ottiene facendo fermare, l’uno dopo l’altro, i singoli soldati in fuga (i particolari colti dai sensi e trattenuti nella memoria), fino a ripristinare lo schieramento complessivo originario (l’universale). Per Aristotele, non è possibile fissare in astratto il numero dei casi particolari che devo osservare per poter pervenire all’universale. Ciò dipende soprattutto dalla natura stessa degli oggetti considerati; in alcuni casi, come a proposito delle realtà matematiche, all’intelletto è sufficiente un solo esempio o individuo: mi è sufficiente togliere la materia, nella considerazione, da una cosa triangolare per arrivare alla forma universale del triangolo; in altri, là dove è più difficile astrarre dalla materia (cioè provare a isolare mentalmente la forma), è necessaria una serie ben più numerosa di particolari. 1. I princìpi della conoscenza scientifica: a. si ricavano tramite la dimostrazione. b. sono meno noti della dimostrazione. c. sono colti dall’intellezione. d. sono a loro volta oggetto di una conoscenza scientifica.

4.7 La dialettica e le fallacie: i Topici e le Confutazioni sofistiche Nei Topici, Aristotele accenna anche a un’altra strada per giungere ai princìpi – quella rappresentata dalla dialettica. I Topici non si occupano in effetti né del sillogismo in generale, come gli Analitici primi, né del sillogismo scientifico, come gli Analitici secondi, ma del sillogismo dialettico:

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In primo luogo, è necessario dire che cos’è un sillogismo e quali sono le sue differenze, onde cogliere la natura del sillogismo dialettico: è quest’ultimo, infatti, a essere indagato nel presente trattato. Il sillogismo è un discorso in cui, posti alcuni dati, ne risulta di necessità qualcosa di diverso da essi, precisamente in virtù di quelli che sono stati posti. Si ha una dimostrazione quando il sillogismo procede da premesse vere e prime o tali, almeno, che la conoscenza che ne abbiamo abbia avuto origine per il tramite di conoscenze vere e prime. Il sillogismo dialettico è invece quello che conclude a partire da opinioni generalmente ammesse. Vere e prime sono le affermazioni che traggono la loro credibilità non da altre affermazioni, bensì da sé stesse (dinanzi ai princìpi delle scienze non si deve cercare ulteriormente il perché; è necessario, invece, che ciascun principio sia degno di fede di per sé stesso). Opinioni generalmente ammesse sono invece quelle che appaiono accettabili o a tutti, o alla grande maggioranza, o ai sapienti, e tra questi o a tutti, o alla grande maggioranza, o a quelli particolarmente noti e illustri. [Topici, I, 1, 100 a 21 - b 23]



Dunque, le premesse di un sillogismo dialettico non sono prime e vere per sé, ma sono opinioni condivise o da tutti o dai sapienti. Le conclusioni non saranno pertanto necessarie e universali, come nei sillogismi scientifici o apodittici (dimostrativi), ma comunque plausibili, perché tratte da premesse plausibili (si dice spesso che il sillogismo dialettico muove da premesse probabili per giungere a conclusioni probabili, ma è corretto parlare di plausibilità, più che di probabilità). Ora, la dialettica può servire in generale per esercitarsi (come nella seconda parte del Parmenide platonico:  4.11) o per sostenere una conversazione; nell’ambito più specifico della filosofia, essa è invece utile per esaminare i pro e i contro di una questione e per pervenire ai princìpi, partendo appunto dalle opinioni comunemente ammesse (gli èndoxa):



se si parte dai princìpi propri della scienza in esame è impossibile dire alcunché su di essi, dal momento che i princìpi sono ciò che è primo. È allora necessario parlare di essi mediante le opinioni generalmente ammesse

riguardanti ciascun oggetto. Questa attività è propria della dialettica, o in ogni caso è quella che più le si addice: la dialettica, infatti, essendo atta all’indagine, accede ai princìpi di tutte le ricerche. [Topici, I, 1, 101 a 36 - 101 b 4]



La dialettica non è dunque per Aristotele in senso stretto una scienza (o addirittura il sapere più elevato, come in Platone), ma un metodo che insegna ad argomentare intorno a qualsiasi problema, e ad accedere ai princìpi: esaminando criticamente le opinioni condivise dai più, o dai più competenti, è possibile giungere alle definizioni, e da queste la scienza procederà sillogisticamente per ottenere le proprie conclusioni. Ciò ci permette di comprendere un aspetto particolare dell’opera aristotelica, e cioè il fatto che egli, nelle sue ricerche scientifiche, non sembra di fatto seguire il metodo proposto negli Analitici secondi – quello cioè fondato sui sillogismi scientifici e sulla conoscenza intellettuale dei princìpi. Piuttosto, Aristotele sembra adottare nella maggior parte dei casi un procedimento dialettico, che parte dall’esame critico delle opinioni correnti e delle posizioni dei predecessori. In effetti, la forma sillogistica pura sembra essere utilizzata non tanto per la costruzione stessa della scienza, quanto per l’organizzazione e la presentazione di essa, ovvero per la sua esposizione (anche in chiave didattica). La ricerca scientifica muove quasi sempre in Aristotele dalla raccolta dei dati disponibili, che comprendono sia le osservazioni empiriche dirette, sia appunto gli èndoxa, le opinioni comuni. Queste ultime, tuttavia, vengono sempre misurate sui fatti, cioè vagliate in base all’effettiva esperienza disponibile. Aristotele è e rimane dunque fondamentalmente un empirista: è l’esperienza (propria o tramandata nelle opinioni) a condurre, attraverso l’intelletto o la dialettica, ai princìpi universali che sono propri di ogni scienza. Così, seppure in modo assai diverso da Platone, anche in Aristotele la dialettica svolge un ruolo fondamentale, e si configura come un sapere trasversale, perché – non avendo un genere proprio – entra nella costituzione di tutte le scienze. Si comprende in questo modo anche come l’interesse di Aristotele per la raccolta di dati (dalle osservazioni sugli animali alle costituzioni politiche, fino ai vincitori dei giochi pitici o

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olimpici) non fosse semplicemente una passione, ma una precisa scelta metodologica. L’ultimo scritto compreso nell’Òrganon, le Confutazioni sofistiche, è una specie di appendice dei Topici e ha come scopo principale quello di smascherare le fallacie (ovvero gli errori logici) presenti negli argomenti con cui i sofisti usavano confutare le posizioni dei loro interlocutori o avversari (e che potevano portare al successo del discorso peggiore su quello migliore:  3.2). Aristotele denuncia e smonta le ambiguità linguistiche che stanno al fondo dei paradossi sofistici, e lo fa perché anche questo (l’essere capaci di render ragione) è uno degli scopi principali della filosofia:



È compito di chi conosce qualche soggetto da un lato astenersi dall’impiegare argomenti fallaci in relazione a ciò che sa, e dall’altro riuscire a smascherare chi invece ne faccia uso. Tale duplice compito consiste così nell’essere capaci di rendere ragione come pure nel farsela dare. [Confutazioni sofistiche, 165 a 25-28]



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Al pari del De interpretatione, l’opera testimonia la grande attenzione rivolta da Aristotele alla sfera del linguaggio umano, che è anche una delle ragioni della fortuna di cui il pensiero aristotelico continua a godere nella filosofia contemporanea. 1. Il sillogismo dialettico: a. parte da premesse prime o vere. b. parte da premesse plausibili e giunge a conclusioni plausibili. c. parte da premesse condivise o da tutti o dai sapienti e giunge a conclusioni universali e necessarie. d. è utile per argomentare su una questione e pervenire ai princìpi.

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5 La filosofia naturale: la Fisica 5.1 I princìpi degli enti in movimento Se gli Analitici secondi forniscono i criteri formali che permettono di definire una scienza, la suddivisione effettiva delle varie scienze è espo-

sta in altri luoghi, e soprattutto nel VI libro della Metafisica. Qui Aristotele distingue innanzi tutto tra: a. scienze teoretiche o speculative, in cui la conoscenza è perseguita per sé stessa, e non in vista di altro; b. scienze pratiche, in cui la conoscenza è finalizzata all’azione; c. scienze poietiche o produttive, in cui la conoscenza è orientata alla produzione di qualcosa. Scienze produttive sono per esempio la medicina (che mira a produrre la salute), la scultura, l’architettura, ma anche la poetica e la retorica (che mirano a produrre testi tragici o discorsi efficaci). Scienze pratiche sono invece l’etica e la politica. Le scienze teoretiche si suddividono a loro volta in fisica o filosofia naturale, matematica e filosofia prima o scienza divina (quella che successivamente andrà sotto il nome di metafisica). Sulle ragioni di quest’ultima tripartizione avremo modo di tornare in seguito, occupandoci della Metafisica. La logica non rientra in questa classificazione perché ha un valore principalmente strumentale, e serve a tutte le scienze [ La suddivisione delle scienze in Aristotele]. N ella conoscenza, è naturale per Aristotele procedere da ciò che è primo per noi – e cioè i dati sensibili – a ciò che è primo per natura – ovvero ciò che è universale e permette di spiegare questi stessi dati sensibili, ma essendo perciò più lontano dai sensi, è accessibile per noi solo in un secondo momento. Da questo punto di vista, è dunque in qualche modo naturale che lo studio della fisica preceda la filosofia prima. La fisica si occupa essenzialmente di ciò che è in movimento o mutamento, e cioè dell’ente in quanto mobile o in quanto mutevole, cioè sottoposto al mutamento. L’esistenza del mutamento è un fatto evidente, che tutti possono constatare, e che perciò non necessita di nessuna dimostrazione. Si tratta invece di trovare i princìpi che possano spiegare il movimento o mutamento: questi princìpi sono la materia o sostrato, la privazione e la forma. I princìpi sono intesi da Aristotele in modo assai diverso non solo rispetto ai fisici ionici [ 2.3], ma anche rispetto a Platone. Per Aristotele, in effet-

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ti, i tre princìpi appena citati non sono identici per tutte le cose e perciò universali in senso assoluto, ma sono universali in senso funzionale o analogico, ovvero sono intesi come funzioni, più che come realtà a sé: in qualsiasi processo naturale (in qualsiasi mutamento o movimento) avremo cioè sempre qualcosa che funge da materia, qualcosa che funge da privazione e qualcosa che funge da forma, ma la materia, la forma e la privazione saranno poi in concreto diversi nei diversi processi. I princìpi di Aristotele forniscono in altri termini la griglia concettuale utile per comprendere qualsiasi processo; in ogni mutamento, si devono insomma poter distinguere:

1. Materia, privazione e forma: a. sono princìpi della fisica. b. sono princìpi che spiegano l’ente mobile o mutevole. c. sono princìpi identici e universali in senso assoluto. d. sono princìpi da intendersi in senso funzionale.

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5.2 Potenza e atto

Per comprendere questa interpretazione funzionale dei princìpi è sufficiente un esempio: un blocco di marmo non è ancora una statua; dunque esso funge da sostrato o materia nel processo in cui da uno stato di privazione, il non-essea. un sostrato che non muta e che possa accore statua, il marmo stesso assumerà la forma di gliere i contrari, e tale è appunto la materia; una statua. Ma all’inizio del processo il blocco b. uno stato iniziale, in cui non è ancora presendi marmo è pur sempre qualcosa in sé; non è te la forma che verrà acquisita durante il procesinsomma materia pura, ma materia già organizso, e che corrisponde alla privazione di tale zata sotto una determinata forma, e cioè sotto la forma; forma del marmo. Aristotele descrive questa c. uno stato finale, in cui la forma prima non situazione dicendo che il blocco di marmo è “in ancora presente risulta acquisita. potenza” a diventare una statua “in atto”, ma è già in atto, all’inizio, appunto come marmo. Tutti i processi di mutamento sono così passaggi da uno stato potenziale a uno attuale, La suddivisione ovvero da una potenza (dy`namis) all’atto (enèrdelle scienze gheia), il che vuol dire: questi cambiamenti in Aristotele non sono mai passaggi dal nulla assoluto all’essere, ma dal non-essere una determiScienze teoretiche o speculative nata cosa (essere in potenza) all’essere la conoscenza è perseguita per sé stessa, quella determinata cosa (essere in e non in vista di altro atto). Potenza e atto sono così, in  Aristotele, concetti strettamente • fisica o filosofia naturale correlativi, che si implicano a vi• matematica cenda e non possono essere defini• filosofia prima (poi chiamata metafisica) ti separatamente. La potenza non è mai il nulla, perché il fatto che una Scienze pratiche data cosa non sia un’altra determila conoscenza è finalizzata all’azione nata cosa non vuol dire che non sia  • etica nulla in sé stessa (il fatto che il • politica blocco di marmo non sia ancora una statua, non vuol dire che sia Scienze poietiche o produttive nulla, ma solo che non è una statua). la conoscenza è orientata alla produzione di qualcosa In questo modo, Aristotele rompe  ancora più radicalmente di Platone con • medicina il monismo ontologico di Parmènide, • scultura secondo il quale non erano logicamente am• architettura missibili nessuna commistione e nessun pas• poetica saggio tra il non-essere e l’essere, con la conse• retorica, ecc. guente negazione del divenire: perfezionando

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quello che Platone aveva intravisto nel Sofista (in cui, come si ricorderà, il non-essere veniva inteso come essere diverso) Aristotele relativizza completamente il concetto di non-essere. Il divenire – nel lessico aristotelico, il mutamento – non è mai un passaggio dal non-essere all’essere, ma un passaggio tra stati diversi dell’essere, dall’essere in potenza all’essere in atto. Per questo ogni cambiamento presuppone un sostrato: perché ogni processo non comporta la creazione dal nulla di qualcosa di nuovo, ma la trasformazione di qualcosa che prima esisteva sotto un’altra forma. Questa impostazione chiarisce anche come per Aristotele nessuna cosa abbia una potenza indeterminata: proprio perché tutto ciò che è in potenza ad essere altro, è già qualcosa in atto sotto un’altra forma (quella che verrà perduta nel processo), la sua potenzialità è comunque ristretta, determinata. Un blocco di marmo può diventare una statua, una colonna o una serie di lastre pavimentali, ma non può certo diventare una nave, o un aquilone. Ogni privazione è dunque privazione di una forma determinata, e ogni potenza è potenza rispetto a una forma determinata. 1. Nei processi di mutamento: a. la potenza indica il non essere ancora quella cosa determinata. V b. la potenza indica la materia non ancora organizzata secondo alcuna forma. V c. potenza e atto sono strettamente correlati. V d. occorre presupporre un sostrato che non muta. V

F F F F

5.3 Le quattro cause Se torniamo all’esempio del blocco di marmo che diventa una statua, ci accorgiamo che il passaggio dalla potenza all’atto non dipende dalla cosa stessa: nessun blocco di marmo si trasforma da solo nella statua di Venere o di un discobolo (cioè nella statua di un atleta che sta per lanciare un disco). Accanto ai princìpi intrinseci a ogni processo (materia, forma e privazione) sarà perciò necessario, per spiegare i processi naturali, fare appello a cause estrinseche, e in primo luogo a un agente, ovvero a una causa motrice che produca o renda possibile il mutamento stesso. Inoltre, possiamo anche verifica-

re come molti mutamenti avvengono in vista di un fine: accanto all’agente, sarà quindi opportuno introdurre anche la nozione di causa finale dei processi. Arriviamo così alla dottrina aristotelica delle quattro cause (materia, forma, agente e fine) che Aristotele espone sia nella Fisica che nella Metafisica [ Le quattro cause secondo Aristotele]. I tre princìpi prima esposti e le quattro cause non sono in alternativa tra loro: si potrebbe dire che due dei tre princìpi (materia e forma) esprimono le cause intrinseche di ogni processo, mentre agente e fine esprimono le cause in qualche modo estrinseche. Ma questa ripartizione non è così rigida o scontata: in tutti gli enti di natura, per esempio, il fine coincide di fatto con l’acquisizione della forma (il fine di una pianta è quello di essere pianta, a partire dal seme), mentre l’idea di causa finale estrinseca vale soprattutto per gli enti artificiali (un artigiano trasforma un pezzo di legno in sedia perché ci si possa sedere). In apparenza, la dottrina delle quattro cause riassorbe allora due dei tre princìpi (materia e forma), lasciando fuori la privazione che, in realtà, da una parte esprime una determinazione puramente potenziale, e dall’altra è pur sempre pensabile, sia pure in negativo, all’interno della causa formale: la privazione indica esattamente quella forma che una data materia non possiede all’inizio, ma alla fine del processo. Le quattro cause aristoteliche, come già i tre princìpi, non sono pertanto paragonabili alle cause indicate dai fisici ionici, o alle idee platoniche, nella misura in cui anch’esse fungono da princìpi esplicativi funzionali, più che da princìpi ontologici. In altri termini, esse corrispondono alla griglia degli aspetti che occorre prendere in considerazione per comprendere qualsiasi processo. Rispetto a un qualunque mutamento o processo, dovrò infatti considerare qualcosa che funge da sostrato del cambiamento (materia), qualcosa che funge da forma (e potrò qui distinguere tra la privazione e la forma acquisita), l’agente che rende possibile la sostituzione delle forme e il mutamento stesso, e il fine in vista del quale il cambiamento stesso accade (fine che può tuttavia coincidere con la stessa forma acquisita, fatto che rende ancor più evidente che stiamo parlando qui di funzioni e princìpi esplicativi, e non di princìpi ontologici).

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5.4 I diversi tipi di mutamento o movimento I mutamenti non sono tutti dello stesso tipo, perché si differenziano a seconda delle categorie. Potremo così distinguere: a. un mutamento secondo la sostanza: i processi di generazione e corruzione, in cui le forme che cambiano sono le forme che conferiscono un determinato essere sostanziale alle cose (tuttavia Aristotele include questi processi tra i movimenti nel III libro della Fisica e li esclude invece nel V, osservando che, più propriamente, essi manifestano un cambiamento istantaneo, che non ha luogo tra contrari, più che un vero e proprio movimento); b. un mutamento secondo la quantità: i processi di accrescimento e diminuzione; c. un mutamento secondo la qualità: i processi di alterazione, quando la forma che cambia non è quella sostanziale, ma una accidentale (per esempio il colore); d. un mutamento secondo il luogo, o movimento locale. Quest’ultimo è il tipo di mutamento principale e più esteso, intanto perché sembra

Le quattro cause secondo Aristotele Materiale indica il sostrato del mutamento Formale indica la forma che il sostrato assume al termine del processo di mutamento (e di cui era privo inizialmente) Motrice o agente indica ciò che rende possibile il mutamento, cioè la sostituzione delle forme nel sostrato Finale indica ciò in vista di cui accade il mutamento (può coincidere con la stessa nuova forma acquisita)

essere implicato in tutti gli altri (tutti i processi di mutamento sembrano implicare un spostamento locale, anche minimo) e poi perché si ritrova in tutti gli enti fisici, cioè in tutto ciò che è mobile: i corpi celesti, infatti, non sono soggetti al mutamento sostanziale (non sono sottoposti a processi di generazione e corruzione), né a quello di accrescimento e diminuzione, né a quello di alterazione, e tuttavia si muovono eternamente di moto circolare (sono cioè caratterizzati dal solo movimento locale).

5.5 Il luogo e il vuoto Accanto e in connessione al concetto di movimento, Aristotele considera nella Fisica altre nozioni fondamentali, a partire appunto da quella di luogo (tòpos). Non è facile comprendere cosa sia il luogo, e anche i predecessori (cioè i filosofi precedenti), in questo caso, non sono per Aristotele riusciti a fornire indicazioni utili in proposito. Che il luogo esista, è provato proprio dal movimento, che non può che verificarsi nel luogo; è tra l’altro evidente che ci sono corpi che si muovono scambiandosi di posto, un fenomeno che Aristotele chiama antiperìstasi. Se per esempio verso dell’acqua in un vaso, essa occupa il luogo prima occupato dall’aria. Ora, in questo caso il luogo è lo stesso, mentre i corpi contenuti in esso cambiano, il che ci permette di capire due cose: 1. che il luogo è qualcosa di indipendente rispetto ai corpi contenuti in esso; 2. che si rapporta ai corpi che si muovono come una specie di recipiente o contenitore. Ma di che tipo di contenitore si tratta? Si può escludere che il luogo sia qualcosa di puramente intelligibile (cioè una specie di forma immateriale) perché anzi possiede dimensioni determinate (alto, basso, ecc.), che non hanno evidentemente senso in ciò che è intelligibile; esso, tuttavia, non può essere neppure un corpo, perché altrimenti in uno stesso luogo ci sarebbero due corpi – il luogo stesso e il corpo che si trova in esso – il che è altrettanto evidentemente impossibile. Il luogo è dunque ciò che contiene

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un corpo mobile non in senso materiale, ma delimitando la sua posizione. Aristotele definisce così il luogo come primo limite immobile del contenente. La formulazione, apparentemente misteriosa, dev’essere intesa in senso funzionale; per comprenderla meglio, dobbiamo ricordare che “limite” è in Aristotele un concetto predicativo (derivato soprattutto dalla geometria) e cioè qualcosa che si predica di altro, e non una realtà ontologicamente autonoma o qualcosa che sussista indipendentemente da ciò di cui si predica: il punto, per esempio, è limite della linea, non nel senso che sia una realtà fisica a sé (nella realtà non esiste alcun punto), ma come ciò che permette di interrompere, concettualmente, la continuità di una linea, e di considerarla finita. Una linea è a sua volta il limite di una figura piana: anche qui, nulla di corporeo (il lato di un quadrato, inteso come figura geometrica, non ha nessuna dimensione reale determinata), ma una delimitazione concettuale che appartiene alla figura stessa. Una superficie è il limite di un corpo solido. Nel caso del luogo, esso è un limite non del corpo contenuto, come abbiamo visto, ma del corpo contenente, dunque il limite (concettuale) che separa quest’ultimo da ciò che è collocato in esso. Ritorniamo all’esempio del vaso che contiene dell’acqua: il luogo non coincide con il vaso in quanto corpo (il vaso e l’acqua sono infatti due corpi distinti, e dove è uno non può essere l’altra), ma con il primo limite interno del vaso, che delimita l’acqua che si versa in esso (potremmo dire, con la superficie interna del vaso, ma intesa non in senso fisico, ma in senso concettuale). Il luogo del vaso, a sua volta, è il limite del corpo che contiene il vaso stesso, e cioè dell’aria che lo circonda. In quanto limite predicativo e concettuale, il luogo non occupa a sua volta nessun luogo ed è immobile: il vaso, come corpo, potrà anche essere spostato (e dunque cambierà il suo luogo), ma il luogo dell’acqua in esso contenuta non si sposterà affatto. Se così è, si comprende anche come per Aristotele tutto si trovi in un luogo, ad eccezione dell’Universo intero, poiché non si dà alcun corpo al di fuori dell’Universo che possa contenere l’Universo stesso, e dove non c’è un corpo contenente, non ci può neppure essere un suo limite. Questo non vuol dire che per Aristotele si dia un vuoto cosmico. In realtà il vuoto, per Aristotele, non esiste affatto: non esiste all’in-

terno dell’Universo, perché tutto è pieno (non bisogna cadere nell’ingenuità di confondere l’aria con il vuoto), né al di fuori dell’Universo, perché l’Universo stesso è finito, e non c’è nulla al di là di esso – dunque, neppure uno spazio vuoto. La negazione del vuoto sarà uno dei presupposti della fisica aristotelica più duramente contestati dalla scienza moderna. 1. Per Aristotele il luogo: a. dipende dallo spazio occupato dai corpi. b. è una forma immateriale o concetto intelligibile perché non possiede dimensioni determinate. c. è il limite materiale del corpo contenente. d. è il limite concettuale che separa il corpo contenente dal corpo contenuto. 2. La definizione aristotelica di luogo ha come conseguenza che: V F a. l’Universo non è in alcun luogo. b. tutti i corpi si trovano in un luogo. V F c. l’Universo si trova nel vuoto cosmico. V F d. tutti i corpi si trovano nel vuoto. V F

5.6 L’infinito e il tempo Insieme al vuoto, Aristotele nega anche l’esistenza dell’infinito in atto, cioè l’esistenza effettiva, attuale, di qualcosa di infinito. L’infinito non è insomma per Aristotele una cosa, una realtà, ma un processo. Tale processo può essere o di accrescimento (nell’ambito delle quantità discrete, e cioè delle grandezze numeriche: dato un qualsiasi numero, infatti, è sempre possibile prenderne, all’infinito, uno maggiore); o di divisione (nell’ambito delle quantità continue, ovvero delle grandezze dotate di estensione: data una linea, è sempre possibile dividerla all’infinito, senza mai arrivare a un punto effettivamente esistente). L’infinito esiste così sempre e solo in potenza, come appunto un processo teoricamente senza termine, ma di cui esistono di volta in volta sempre e solo gradi finiti. Quantità continue, e dunque infinitamente divisibili, sono per Aristotele sia il movimento, perché ha luogo su un’estensione continua (fa eccezione solo il cambiamento sostanziale, cioè i processi di generazione e corruzione, in cui una forma si sostituisce ad un’altra, non in modo graduale, ma istantaneo), sia, nel suo aspetto materiale, il tempo, che oggettivamente non è altro se non la successione inerente al

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movimento stesso: il fatto che, in momenti diversi, il mobile si trovi in posizioni diverse, e cioè prima in una posizione e poi in un’altra. Tuttavia, il tempo rappresenta una realtà più complessa, perché il suo essere dipende non solo dal movimento, ma anche dall’anima che misura il movimento stesso. In effetti, se il movimento o mutamento non fosse percepito e misurato dall’anima, non verrebbe percepito neppure il tempo: questo è il motivo per cui, al risveglio da un lungo sonno, non siamo per esempio in grado di percepire il tempo effettivamente trascorso. Il tempo è così, secondo la definizione aristotelica, il «numero del movimento secondo il prima e il poi» [Fisica, IV, 11, 219 b 2-3]. “N umero” sta qui per misura, misurazione. Ciò che viene numerato, o misurato, è il movimento; ciò che numera, o misura, è invece l’anima. La numerazione consiste appunto nel segnare un prima e un poi, cioè nel segnare due limiti (che, come sempre, sono il risultato di un’operazione mentale) nella continuità del movimento: solo così la successione spaziale del movimento (il fatto che un corpo mobile si trovi in punti diversi), diventa anche una successione temporale (il fatto che il mobile si trovi prima nel punto a e poi nel punto b). Pertanto, se non ci fosse la nostra anima, il tempo esisterebbe solo in potenza, e coinciderebbe con il movimento stesso [ T34]. Tra tutti i movimenti che possono essere numerati e misurati, ce n’è uno che, secondo Aristotele, gode di un privilegio speciale: è quello del cielo (o per meglio dire dell’ultima delle sfere, quella più esterna, che compongono – come vedremo subito – il cosmo aristotelico), poiché si tratta del moto circolare più veloce, uniforme e perfetto. Il tempo di questo movimento (cioè il numero o la misurazione di questo movimento primo) può così servire da misura per tutti gli altri movimenti. 1. Aristotele ammette l’infinito come: a. ciò che esiste attualmente. b. un processo di accrescimento. c. un processo di divisione. d. lo spazio che contiene l’Universo.

V V V V

2. Per Aristotele il tempo dipende: a. dal movimento e dall’anima che misura il movimento. b. dalla successione inerente al movimento stesso. c. dalla sola successione temporale del movimento. d. dalla sola anima che contiene in modo innato tale nozione.

F F F F

5.7 Il mondo sublunare e quello celeste Questo accenno al movimento celeste ci permette di cogliere un altro aspetto di fondo della fisica o filosofia naturale di Aristotele, e cioè la separazione del mondo sublunare (la Terra, in quanto ciò che sta sotto il cielo della Luna) dalla regione celeste. Le cose del mondo sublunare sono per Aristotele composte dai quattro elementi che abbiamo cominciato a conoscere a partire da Empèdocle [ 2.10.1]: fuoco, aria, acqua, terra. Ma Aristotele rielabora profondamente la dottrina empedoclea. In primo luogo, i quattro elementi non sono, a suo parere, realmente primi: essi presuppongono un sostrato comune, indicato come materia prima. La necessità di presupporre questo ulteriore sostrato dipende dal fatto che gli elementi sembrano potersi trasformare l’uno nell’altro (come quando l’aria, raffreddandosi, diventa acqua e l’acqua, evaporando, diventa aria) e, in base ai princìpi della fisica aristotelica, qualsiasi processo presuppone un sostrato che permane. Ma se la materia prima funge da sostrato, occorre poi indicare qualcosa che si unisca ad essa, differenziandola e dando vita ai quattro elementi (che, pertanto, non sono in sé assolutamente semplici). Questa funzione è svolta per Aristotele da alcune qualità fondamentali – caldo, freddo, secco, umido – che si combinano in coppie diverse: così, quando la materia prima è unita alle qualità del caldo e del secco si ha il fuoco; quando è invece unita al caldo e all’umido si ha l’aria; quando è unita al freddo e all’umido si ha l’acqua, e quando infine è unita al freddo e al secco si ha la terra. La materia prima, essendo puro sostrato, non si presenta mai priva di una di queste combinazioni, e perciò, di fatto, non s’incontra mai come tale nella realtà. Secondo Aristotele, tutti gli elementi si muovono di moto rettilineo e tendono verso il loro luogo naturale, dovuto al loro peso: l’aria e ancor più il fuoco verso l’alto, l’acqua e ancor più la terra verso basso. Gli elementi tendono così a disporsi, sempre nel mondo sublunare, in quattro sfere concentriche: più in alto, quella del fuoco, poi quella dell’aria, poi quelle dell’acqua e della terra. Ma le quattro sfere non sono rigidamente separate tra loro, come tutti i fenomeni atmosferici e i processi di condensazione e di evaporazione dimostrano. Tutti gli altri

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corpi che conosciamo, compresi quelli degli esseri viventi, dipendono invece da una combinazione, in percentuali diverse, dei quattro elementi: in modo corrispondente, i corpi in cui prevale l’elemento terra saranno più pesanti e tenderanno verso il basso, e così via. Tutto ciò riguarda il mondo sublunare; i corpi celesti sono invece composti da un quinto elemento, diverso da quelli con cui abbiamo a che fare nel nostro mondo, e che Aristotele, nel suo trattato Sul cielo, chiama etere. L’etere non ammette tutti e quattro i tipi di mutamento che abbiamo distinto in precedenza [ 5.5.4], ma solo il moto locale. Ciò significa che i corpi celesti sono ingenerabili e incorruttibili (perché non hanno il cambiamento secondo la sostanza), immutabili e inalterabili (perché non sono sottoposti né al mutamento secondo la quantità, né a quello secondo la qualità). D’altra parte, anche il moto locale dei corpi celesti si differenzia da quello degli elementi e dei corpi del mondo sublunare: i corpi celesti non tendono infatti, in modo rettilineo, verso un luogo naturale, ma si muovono, in modo assolutamente uniforme e regolare, in modo circolare. Per la verità, gli astri si muovono insieme alla sfera in cui sono infissi. L’Universo di Aristotele è così fatto da una serie di sfere omocentriche, ovvero aventi un unico centro, immobile, che coincide con la Terra, anch’essa sferica. Le sfere

La regione sublunare fuoco

aria

acqua terra

non corrispondono tuttavia, nel loro numero, a quello dei corpi celesti visibili (Luna, Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e il cielo delle stelle fisse). La necessità di inserire altre sfere aggiuntive (per noi invisibili perché prive di corpi celesti), ciascuna dotata di un suo movimento, va riportata all’intento di spiegare le apparenti irregolarità dei movimenti celesti. In effetti, i corpi celesti dovrebbero muoversi di moto perfettamente circolare e uniforme intorno alla Terra, mentre le osservazioni astronomiche mostrano una realtà ben diversa: i pianeti sembrano procedere ora più velocemente ora più lentamente, e sembrano talora perfino procedere a ritroso (fenomeni dovuti al fatto che i pianeti compiono in realtà il loro moto di rivoluzione intorno al Sole, non alla Terra, e per di più secondo orbiti ellittiche, e non circolari). Per ovviare a questo inconveniente, salvaguardando invece l’idea delle sfere omocentriche e quella dei moti circolari perfetti, Aristotele si avvale del modello elaborato da due accademici, Eudòsso e Callìppo: i movimenti a noi visibili risultano in questo modello dalla combinazione di più movimenti e più sfere, che girano a velocità e in direzioni diverse [ 4.15]. Esisteranno dunque nell’Universo tante sfere quanti sono i movimenti che è necessario introdurre per spiegare le anomalie dei moti di rivoluzione dei singoli corpi celesti. Poiché queste sfere rimangono per noi invisibili, il loro calcolo è frutto delle congetture matematiche legate all’interpretazione dei moti necessari per spiegare l’apparente irregolarità dei moti osservabili: Aristotele, nella Metafisica, ipotizza che tali movimenti – e dunque le sfere – possano essere 47 o 55. Resta da chiedersi quale possa essere la causa del movimento delle sfere e dei corpi celesti in esse infissi. N on essendo composti degli elementi che costituiscono il mondo sublunare, i cieli non si muovono verso un luogo naturale. Bisognerà pertanto ipotizzare, come in qualsiasi altro processo fisico, che esista una causa del movimento, un agente o un motore, distinto dal corpo mosso. La natura divina di questi motori è difesa da Aristotele non solo nell’VIII libro della Fisica, ma anche e soprattutto nel XII libro della Metafisica: ci torneremo più oltre. Ma si può notare fin d’ora che se è necessario porre un motore per dar conto di ogni movimento, il loro numero sarà uguale a quello delle sfere. Anche su questo punto, Aristotele si distacca in

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Il cielo di Aristotele       

 Stelle fisse

Marte

Mercurio

 Saturno

Sole

Luna

 Giove

 Venere

modo molto marcato da Platone, da cui non riprende la figura del demiurgo (che per altro neppure in Platone giocava un ruolo davvero essenziale): come detto, l’Universo aristotelico è eterno e imprincipiato; i motori si limitano a causare, eternamente, il movimento dei cieli. Oltre all’eternità, altre caratteristiche del cosmo aristotelico sono la finitezza (ma ciò non ci sorprende di certo, poiché sappiamo che un infinito in atto non può esistere, e che al di fuori dell’ultima sfera non c’è proprio nulla, neppure il vuoto) e l’unicità (non sono possibili più universi, né simultaneamente né successivamente). A dispetto dell’eterogeneità ontologica che sussiste tra le due regioni del cosmo, i movimenti celesti non sono senza influsso nel mondo sublunare: anzi, tutti i fenomeni del mondo sublunare sono in realtà regolati dai moti celesti, che determinano la successione delle forme, e dunque tutti i processi di generazione e corruzione. Questa idea trae probabilmente origine dal fatto che la regolarità dei processi naturali nel nostro pianeta (i cicli della vegetazione, o quelli della riproduzione negli animali) sembra essere collegata all’alternarsi delle stagioni, e queste ultime sembrano dipendere dai movimenti celesti. Da questo punto di vista, il Sole – che pure non è né

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il centro dell’Universo, né il corpo celeste dal moto più regolare e uniforme – gioca un ruolo essenziale: muovendosi lungo l’eclìttica (il cammino circolare apparentemente descritto dal Sole nel suo moto relativo intorno alla Terra), esso determina più direttamente i processi di trasformazione degli elementi e quelli di generazione e corruzione dei viventi. La diversità tra il nostro mondo e quello celeste non implica dunque che tra essi non ci sia alcun rapporto: al contrario, tutto quel che vi è di regolare nel nostro mondo dipende dai moti celesti. Aristotele rifiuta invece l’idea pitagorica dell’armonia musicale dei cieli, cioè l’ipotesi di una musica celeste prodotta dai movimenti delle sfere. Con un pizzico di ironia, Aristotele osserva che, date le dimensioni delle sfere, se tale musica esistesse davvero, manderebbe in frantumi tutto ciò che è sulla Terra. Se, infine, i movimenti delle sfere sono eterni, eterni sono anche i loro effetti sulla Terra, ed eterne tutte le specie viventi del mondo sublunare, che attraverso il succedersi degli individui cercano per così dire di imitare proprio l’eternità dei movimenti celesti. 1. Per Aristotele il cosmo è costituito: a. dal mondo sublunare, composto dai quattro elementi, che si muove di moto rettilineo, e dal mondo celeste, fatto di etere e dotato di moto circolare uniforme. V b. dal mondo sublunare, composto dal caldo, freddo, secco e umido, e dal mondo celeste, composto V dai quattro elementi e l’etere. c. dal mondo sublunare finito nello spazio e nel tempo e dal mondo celeste infinito nello spazio e nel tempo. V d. da una serie di sfere omocentriche, aventi il centro coincidente con la Terra. V

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2. Nel cosmo aristotelico la materia prima: a. coincide con la combinazione dei quattro elementi di Empèdocle. b. spiega l’esistenza di un sostrato che permane, pur nella trasformazione degli elementi. c. serve a dimostrare la trasformazione degli elementi l’uno nell’altro. d. serve a dimostrare la teoria dei luoghi naturali.

6 Le tre facoltà dell’anima: il De anima

6.1 L’anima vegetativa e quella sensitiva Aristotele mostra un’attenzione particolare, in qualche modo sconosciuta ai predecessori, nei confronti delle specie viventi. Certo esisteva

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già una consolidata tradizione medica, ma in Aristotele l’indagine assume uno spettro molto più ampio, che va ben al di là della considerazione dei soli uomini, e include le piante e gli animali. Le specie viventi presentano la stessa struttura ilemorfica, cioè la composizione di materia e forma, che caratterizza l’intero Universo aristotelico. La forma è in questo caso data dall’anima. Occorre qui però non lasciarsi condizionare dalle valenze che il termine ha assunto successivamente ad Aristotele, nelle grandi religioni rivelate (e soprattutto nella tradizione giudaico-cristiana). L’anima è per Aristotele principio di vita; anzi, la definizione corretta è «atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza», oppure «atto di un corpo naturale organico». La seconda definizione non fa che specificare la prima, poiché possiedono la vita in potenza soltanto i corpi naturali dotati degli organi necessari per le funzioni vitali. Queste definizioni sottolineano che l’anima non è in realtà concepibile indipendentemente dal corpo. Si tratta di un ulteriore elemento di distacco dal platonismo, che aveva visto anima e corpo come realtà distinte, a volte in conflitto tra loro. Al contrario, per Aristotele, l’una è sempre in funzione dell’altra. Per altro, poiché è atto di un corpo, ed è in funzione del corpo, l’anima non sopravvive in generale alla morte del corpo: solo a proposito dell’intelletto produttivo, come vedremo, Aristotele sembra aver forse nutrito un’opinione diversa. Aristotele non riprende neppure la rigida tripartizione platonica tra una parte razionale e due componenti irrazionali dell’anima, limitandosi ad ammettere invece tre distinte facoltà, che non sono presenti in ogni vivente, ma che, quando lo sono, non ne compromettono l’unità. Queste facoltà sono quella vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva [ T14]. L’anima vegetativa presiede alle funzioni della nutrizione, della crescita e della riproduzione. L’anima sensitiva presiede alle sensazioni, cioè ai processi attraverso cui gli organi di senso percepiscono le forme delle cose sensibili senza la materia in cui si trovano. La sensazione è fondamentalmente un processo di assimilazione, perché il senso e l’oggetto percepito giungono a identificarsi: non certo realmente, ma intenzionalmente, ovvero in quanto il senso viene informato dalla forma sensibile

dell’oggetto percepito, cioè riceve come forma e atto la forma dell’oggetto percepito. Relativamente al sensibile proprio (cioè a ciò che è oggetto di sensazione per ciascun senso: i colori per la vista, i suoni per l’udito, gli odori per l’olfatto, i sapori per il gusto, e le qualità tangibili per il tatto) i sensi non sbagliano mai. La vista non s’inganna nel vedere il bianco: ci si può ingannare nell’identificare la figura che si vede bianca, oppure ci si può ingannare a proposito di quei sensibili che sono comuni a più sensi. Oltre ai sensi esterni, Aristotele ammette in effetti anche un senso comune (collocato nel cuore), che ha proprio la funzione di unificare tutte le informazioni che provengono da sensi diversi. L’anima sensitiva, oltre che alle sensazioni, presiede anche alla funzione appetitiva: quando si percepisce qualcosa, si associa a ciò che è percepito anche gioia e dolore, e a ciò si collega la tendenza a evitare l’uno e cercare l’altra (che è appunto proprio della funzione appetitiva). Di conseguenza, l’anima sensitiva assicura anche la locomozione, che permette agli animali più complessi di muoversi localmente alla ricerca di ciò che appetiscono o desiderano. Infine, appartiene a quest’anima anche la funzione immaginativa (la “fantasia”), ovvero la capacità di rappresentarsi gli oggetti desiderati anche in assenza di essi, e di produrre movimento sulla base di queste stesse immagini. In ciò, secondo Aristotele, si trova la radice della conoscenza umana (per Aristotele, non è possibile il pensiero senza le immagini): le immagini lasciate dalle percezioni vanno a costituire la memoria, da cui – come abbiamo visto negli Analitici secondi – si può poi pervenire all’universale. Ciò significa che la prima parte del processo conoscitivo è in realtà comune agli uomini e a (molti) animali; solo la parte conclusiva (l’astrazione dell’intelligibile dalle immagini sensibili) è propria solo dell’uomo.

1. Nella concezione aristotelica l’anima: a. è principio immortale di vita. b. è l’atto di un corpo naturale. c. è composta da una parte razionale e da due parti irrazionali. d. possiede tre distinte facoltà presenti tutte in ogni vivente.

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6.2 Intelletto potenziale e intelletto produttivo L’uomo ha in comune con altri animali la percezione e perfino la memoria; mentre è la terza facoltà o terza anima, quella razionale o intellettiva, ad essere una sua prerogativa esclusiva. Ciò non vuol dire che l’uomo abbia solo questa funzione, e non le altre: in realtà tra facoltà (o anime) si dà un rapporto gerarchico di inclusione, per cui l’anima intellettiva include quella vegetativa e quella sensitiva; la sensitiva (propria degli animali) include la vegetativa, mentre la vegetativa non include le altre, ed è propria solo dei vegetali. L’anima intellettiva ammette a sua volta due funzioni, che vengono brevemente analizzate nei capitoli 4 e 5 del III libro del De anima. Aristotele ammette in primo luogo un intelletto potenziale, che può «diventare tutte le cose». Per poter diventare tutte le cose, cioè per poter accogliere le varie forme intelligibili delle cose, dev’essere in sé vuoto, come una tavoletta di cera su cui non è ancora scritto nulla (una tabula rasa, come diranno poi i latini). In quanto tale, non può essere corporeo, altrimenti condizionerebbe con le proprie qualità sensibili la ricezione degli intelligibili. Ma per altri versi questo intelletto può essere descritto come (metaforicamente) simile alla materia, perché appunto è in potenza a diventare tutte le cose. In effetti, il processo della conoscenza intellettuale è descritto da Aristotele in analogia con quello della sensazione: come l’organo di senso passa dalla potenza all’atto quando è informato dalla forma della cosa sensibile, identificandosi con essa, così l’intelletto potenziale passa dalla potenza all’atto quando riceve la forma intelligibile, e s’identifica intenzionalmente con essa. Questo intelletto potenziale è propriamente quello con cui l’uomo pensa, ed è un intelletto corruttibile, mortale, come mostra proprio la sua dipendenza dalle sensazioni, e dunque dal corpo: in assenza dei dati trasmessi dai sensi, non potrebbe pensare nulla. È dunque indubbio che l’intelletto potenziale, l’intelletto con cui pensiamo, non sopravviva alla morte del corpo [ T14]. Ma accanto a questo intelletto che può diventare tutte le cose, Aristotele introduce un intelletto che può produrre tutte le cose, tutti gli intelligibili, e che perciò viene denominato intelletto produttivo o attivo (nùs poietikòs).

La sua azione è paragonata al ruolo della luce nella visione. Per vedere qualcosa ci vogliono tre elementi: l’organo di senso (la vista, negli occhi), delle cose colorate (sono i colori, per Aristotele, gli oggetti propri della vista) e qualcosa che illumini i colori perché questi possano essere percepiti. In effetti, se fossimo in una stanza buia, pur disponendo degli occhi e della vista, e pur essendo presenti molti oggetti colorati, non vedremmo nulla: è la luce che fa sì che ciò che è visibile solo in potenza (per Aristotele, i colori stessi), diventi visibile in atto. Se applichiamo questa analogia all’intelletto, dovremmo dire che, perché sia dia un processo intellettivo, ci vuole una facoltà in grado di pensare (l’intelletto potenziale), dei contenuti da pensare (le forme intelligibili ricavate dalle immagini sensibili) e qualcosa che permette a queste ultime di imprimersi, o di essere ricevute, nell’intelletto stesso, facendo sì che le immagini ricavate dai sensi (che sono intelligibili in potenza) diventino intelligibili in atto. Questa è appunto la funzione dell’intelletto agente, che è pertanto una condizione della conoscenza intellettuale [ T14]. Aristotele aggiunge che questo intelletto, per poter produrre tutti gli intelligibili, deve possederli tutti e non è che possa talvolta pensarli talvolta no: deve pensarli sempre in atto. Da qui la convinzione, poi sviluppata dal più acuto commentatore antico di Aristotele, Alessandro di Afrodìsia [ T17], che questo intelletto non sia nostro, ma una sostanza separata: il motore immobile, o uno dei motori. L’intelletto attivo è in effetti descritto come immortale, eterno, separato, impassibile, non commisto: caratteristiche non adatte alla descrizione aristotelica dell’uomo. Ma d’altra parte questo intelletto è comunque introdotto da Aristotele quando si parla delle facoltà umane, e sembra essere in noi, lasciando così aperto uno spiraglio per ritenere che almeno una parte dell’anima umana possa essere immortale. Di che cosa si tratta dunque? Di una sostanza separata o divina, o della parte immortale della nostra anima? Resta difficile da stabilire, e la stessa tradizione aristotelica non ha mai trovato un accordo su questo punto. Però anche in questo caso non bisogna lasciarsi sviare dalle concezioni sull’immortalità dell’anima e sulla divinità successive ad Aristotele: per quest’ultimo il pensare stesso è divino; quando dunque pensia-

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mo, siamo in qualche modo partecipi della divinità, non perché entriamo in contatto con un dio provvidente e personale e attento a ciò che dipende da lui, ma perché esercitiamo un’attività divina. Più che la sopravvivenza individuale, ciò che sembra contare veramente, per Aristotele, è il pensare (e dunque l’attività speculativa, la pratica della filosofia) come forma di divinizzazione in questa vita. 1. L’intelletto potenziale per Aristotele: a. ha la potenzialità di accogliere le forme intelligibili delle cose. b. è una tabula rasa. c. ha bisogno dell’intelletto attivo per far sì che le immagini ricavate dai sensi diventino intelligibili in atto. d. è tale per cui, pur avendo bisogno del corpo, è immortale.

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7 La ricerca delle cause

e dei princìpi primi: la Metafisica

Una prima ipotesi rimanda a una ragione puramente redazionale (o bibliografica): i 14 libri raggruppati da Andronìco avrebbero ricevuto questo nome per il semplice fatto di essere collocati, nella sequenza editoriale, dopo (metà, in greco) le opere di fisica. Alessandro di Afrodìsia fa invece appello a considerazioni di tipo didattico: nell’ambito delle discipline teoretiche, è per noi necessario iniziare dalla fisica (e cioè dall’esame degli oggetti a noi più vicini, e più direttamente accessibili all’esperienza) per passare solo dopo a questa scienza, che verte sulle cose meno note per noi, ma più note in sé. Quanto ad Aristotele stesso, egli adopera, per designare la nuova scienza, i termini sapienza, filosofia prima e “scienza cercata”. Il problema del titolo si lega a quello dell’ambito o del soggetto di tale scienza: essa viene indicata in luoghi diversi come ricerca delle cause e dei princìpi primi, come scienza dell’ente in quanto ente (ovvero come “ontologia”, anche se il termine sarà coniato solo nel Seicento), come teologia (scienza del divino) e come indagine sulla sostanza.

7.1 L’origine dell’opera e del titolo

7.2 La filosofia prima come scienza dell’ente in quanto ente

Sotto il titolo di tà metà tà physikà – ‘le cose o i libri dopo le cose o i libri di fisica’ – (neutro plurale in greco, trasformatosi gradualmente in femminile singolare in latino: metaphysica) è stato tramandato un insieme di trattati di Aristotele la cui unità originaria è tutt’altro che scontata. La denominazione non risale ad Aristotele, anzi si può ben dire che Aristotele non ha mai saputo di aver scritto un’opera chiamata in questo modo (e neppure, forse, composta in questo modo): l’espressione non compare mai nelle altre opere aristoteliche, e non è mai attestata nei manoscritti. La forma attuale dell’opera (in 14 libri) si deve con ogni probabilità a un editore antico, con ogni probabilità a Andronìco di Rodi [ 5.2], responsabile, intorno alla metà del I secolo a.C., della più importante edizione delle opere aristoteliche; Andronìco avrebbe in questo caso raggruppato in un unico scritto alcuni lògoi originariamente distinti (libri isolati o più probabilmente gruppi di libri), seguendo un criterio di affinità tematica. L’origine stessa del titolo non è chiara, ed è da tempo al centro di molte discussioni.

L’opera si apre con la celebre affermazione secondo cui «Tutti gli uomini tendono per natura al sapere», e nello stesso I libro (Àlpha), la sapienza viene descritta come quella che ha un compito direttivo o “architettonico” rispetto alle altre scienze, dal momento che solo il sapiente conosce il perché (tò diòti), ovvero la causa in virtù della quale ogni cosa è ciò che è. La sapienza viene dunque inizialmente caratterizzata come conoscenza delle cause e dei princìpi primi, e, attraverso una rassegna delle posizioni dei suoi predecessori (che è anche l’occasione per una lunga e serrata critica della dottrina platonica delle idee: proprio in quanto separate, esse non possono servire da princìpi esplicativi del reale), Aristotele ripropone le quattro cause che già conosciamo [ 5.5.3]. N ell’ordinamento attuale seguono a questo punto un altro libro introduttivo (chiamato significativamente Àlpha èlatton, ovvero àlpha ‘minuscolo’) e un elenco di questioni o aporie (ne vengono contate di norma quindici), che rappresentano una specie di programma o di agenda di lavoro di Aristotele (III libro, Bèta).

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Nel libro IV (Gàmma) viene invece introdotta per la prima volta l’idea di una scienza dell’ente in quanto ente, e delle proprietà che gli competono in quanto tale. L’ente, come abbiamo già visto considerando le Categorie [ 5.4.1] possiede molteplici significati, ovvero si dice in molti modi e tuttavia sempre in riferimento a un’unità e a una natura determinata, che è la sostanza (usìa): alcune cose si dicono enti perché sono sostanze, altre perché affezioni della sostanza, o qualità, o privazioni, o corruzioni (e così via) della sostanza. Ma lo stesso libro IV ci dice anche che è proprio di questa scienza occuparsi anche dei princìpi primi e comuni di ogni dimostrazione, come per esempio quello di non-contraddizione. Quest’ultimo, essendo assolutamente primo, e perciò implicitamente utilizzato in qualsiasi dimostrazione, non può essere a sua volta dimostrato direttamente, ma solo per via confutativa e indiretta; è insomma sufficiente che un ipotetico negatore del principio di non-contraddizione dica qualcosa, e che attribuisca un numero finito di significati ai termini che usa, per mostrargli che egli sta comunque facendo uso, almeno implicitamente, del principio stesso: se infatti non dicesse nulla, sarebbe un vegetale, e se attribuisse un significato arbitrario, sempre cangiante e indifferente, ai termini, allora dovrebbe anche comportarsi di conseguenza. Per esempio andare a Mègara o in un’altra città o non andarvi, gettarsi in un pozzo o evitare di cadervi dovrebbero essere, per chi nega il principio di non-contraddizione, scelte tutte ugualmente indifferenti.

7.3 La filosofia prima come teologia o scienza divina N el libro VI (Èpsilon) viene tuttavia proposta una tripartizione delle scienze teoretiche che complica notevolmente il quadro: si dice infatti che la fisica si occupa di ciò che non è separato, ma in movimento; che la matematica si occupa di ciò che non è separato, ma immobile, e che la scienza teologica o divina si occupa di ciò che è separato e immobile. Questa presentazione della metafisica ha sempre sollevato molti problemi, a partire per esempio dal significato da attribuire qui all’aggettivo “separato” [ Il significato di “separato” nella suddivisione aristotelica delle scienze, p. 120].

Al di là di ciò, colpisce il fatto che la nuova scienza cercata da Aristotele non sia più descritta solo come un’ontologia generale, quindi come una scienza dell’oggetto più generale o universale, ma soprattutto come una scienza dell’oggetto più elevato: il divino (è per altro sorprendente anche l’uso stesso dell’espressione “scienza teologica”, perché di solito Aristotele riserva la qualifica di “teologi” agli autori di cosmogonie o poemi mitologici, come Omero e Esìodo). Aristotele sembra tuttavia mettere in relazione i due aspetti (quello “ontologico” e quello “teologico”) affermando piuttosto enigmaticamente che tale scienza è universale proprio perché prima.

7.4 L’analisi della sostanza Sempre nel libro VI, Aristotele riprende la questione dei significati principali dell’essere, e cioè: a. l’essere come accidente (il termine non indica qui le categorie diverse dalla sostanza, ma ciò che non è né sempre né per lo più [ 5.4.2]); b. l’essere come vero (e il non-essere come falso); c. l’essere secondo la tavola delle categorie; d. l’essere come potenza e come atto. Messi da parte, come meno importanti, i primi due significati, i libri centrali sono invece dedicati all’analisi degli ultimi due, e in particolare della sostanza. Ci sono almeno due criteri di fondo che la sostanza deve possedere: 1. deve essere soggetto o sostrato, deve cioè ricevere predicazioni e non essere predicato di qualcos’altro; 2. deve essere un qualcosa di determinato e capace di sussistere autonomamente (tòde tì, ‘questa cosa qui’). Abbiamo vari pretendenti a ricoprire il posto di sostanza. Per esempio, in tutti gli enti (e si comprende che Aristotele sta parlando qui degli enti sensibili) è possibile distinguere la materia, la forma, e il composto di materia e forma (il sìnolo). A questi potremmo aggiungere il genere e la specie, cioè i concetti che sono predicabili di più realtà e che vengono comunemente chiamati

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“universali”. Cosa può dunque propriamente nell’Universo aristotelico le specie sono eterne: essere chiamato sostanza? Genere e specie possonon c’è stato mai un primo uomo, ma esiste da no essere subito esclusi perché si predicano di sempre, in atto, la specie umana). altro, violando il primo criterio: di conseguenza, gli universali non possono per Aristotele essere sostanze. La materia risponde invece benissimo 7.5 Il divino come pensiero di pensiero al primo requisito, perché è il sostrato che riceve ogni forma e che sottende ogni cambiamento, ma Il libro XII (Làmbda) – l’unico in cui si parla del non soddisfa invece il secondo, perché la materia divino – è tradizionalmente considerato come il non può sussistere senza forma, ed è in sé indeculmine della Metafisica aristotelica, ma esso finita e indeterminata. Restano quindi la forma e sembra avere in realtà una datazione molto alta, il composto: entrambi per Aristotele potrebbero e comunque tale da risultare anteriore a molti essere definiti sostanza, ma poiché ogni sìnolo o altri libri della Metafisica, e forse al progetto composto è ciò che è in virtù della propria forma, stesso dell’opera. N on ci si può forse spingere allora la forma potrà essere considerata sostanza fino al punto di giudicare l’inserzione di con maggior diritto del composto stesso (nelle Làmbda come una decisione arbitraria di Categorie, in verità, Aristotele aveva identificato Andronìco (o di un editore precedente) estrapiù strettamente la sostanza con il singolo comnea alle intenzioni aristoteliche, ma è tuttavia posto di materia e forma). lecito concepire qualche dubbio sull’effettiva Il cuore della Metafisica aristotelica è proprio portata della componente teologica all’interno l’analisi della sostanza (e della sostanza sensibidel progetto aristotelico. Aristotele arriva le), di cui materia e forma costituiscono appunto comunque a parlare del divino a partire da un i princìpi intrinseci. Aristotele perfeziona così la dato fisico, e cioè dal moto eterno dei cieli. sua ontologia essenzialmente alternativa a quella Poiché tutto ciò che si muove è sempre mosso platonica: il livello della vera realtà non è dato da da altro, è necessario indicare delle cause di idee o forme separate (nel senso platonico del questo movimento e tali cause non possono termine), ma da sostanze “separate” nel senso essere infinite: bisognerà pertanto fermarsi a un aristotelico, cioè capaci di sussistere individualmente in modo determinato. Anzi, Aristotele esclude che le forme possano essere comuni a più individui in senso reale. La comunanza delle forme è puramente analogica o funzionale: ogni Il significato di “separato” ente ha una materia e una forma che gli sono nella suddivisione aristotelica proprie, e dunque ciò che è comune alle varie delle scienze sostanze è che qualcosa funga da principio materiale e qualcosa da principio formale. Il filologo tedesco Albert Schwegler propose, nell’Ottocento, Dopo essersi soffermato soprattutto sulla di correggere il testo aristotelico relativo alla suddivisione materia e sulla forma, Aristotele considera delle scienze nel VI libro della Metafisica così da intendere che la la coppia potenza e atto, ovvero i princìpi fisica si occupa di ciò che è separato, ma non immobile: la sepafondamentali che gli consentono di supera- razione in questione, qui, non sarebbe quella del lessico platonico re definitivamente Parmènide: non si regi- – ovvero, la separazione dalla materia – ma quella a cui fa riferistra mai, nella realtà, un passaggio dal nulla mento Aristotele nella propria caratterizzazione delle sostanze all’essere, ma dall’essere in potenza all’essere [ 5.7.4]: separato sarebbe cioè ciò che è capace di sussistere in atto. Tuttavia, l’anteriorità temporale autonomamente, come qualcosa di determinato e a sé, come appunto le sostanze rispetto agli accidenti. Accogliendo la cordella potenza sull’atto ha senso solo se si rezione proposta da Schwegler (come molti editori della considera l’individuo, che è prima in potenza Metafisica hanno fatto) si avrebbe così che la fisica si e poi in atto, mentre in generale è sempre vero occupa delle sostanze in movimento, la “teologia” il contrario: è l’atto a precedere la potenza, sia a delle sostanze immobili, e la matematica di realtà livello logico-ontologico (poiché nulla si porta sì immobili, ma accidentali (non “separate” nel senso aristotelico del termine), e da sé dalla potenza all’atto, nessun processo cioè delle quantità. potrebbe aver inizio dalla pura potenza), sia per quel che riguarda la specie (come sappiamo,

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primo motore immobile, che muova cioè senza essere mosso da altro. E poiché l’effetto (il moto celeste) è appunto eterno e continuo, il motore dovrà essere pura attività o puro atto (enèrgheia) scevro di potenza (perché altrimenti non sarebbe in grado di muovere sempre) [ T42]. Questa attività eterna e continua, priva di potenza, è identificata da Aristotele con il pensiero. Esso non può tuttavia avere un contenuto diverso da sé, perché in tal caso sarebbe in potenza nei confronti di questo possibile oggetto di conoscenza, e abbiamo già escluso la presenza nel divino di qualsiasi forma di potenzialità. Il divino può dunque solo pensare sé stesso, ovvero essere pensiero di pensiero (nòesis noèseos), perfetta coincidenza tra intelletto e intelligibile. Resterebbe da chiarire come questa pura attività del pensare muova il cielo, ma Aristotele non è molto chiaro al riguardo, osservando che esso muove al pari di un oggetto di desiderio e intellezione, e dunque come causa finale. In altre opere, tuttavia, Aristotele afferma che qualcosa può muovere come oggetto di amore solo nel campo dell’agire pratico, cioè di ciò che può essere desiderato e realizzato dagli uomini: Aristotele non ha dunque intenzione, nel XII libro della Metafisica, di porre i motori come semplici cause finali, negando invece il loro ruolo come cause motrici o princìpi del cambiamento, ma si limita forse a suggerire solo un esempio tratto dall’agire umano per mostrare come un oggetto immobile possa muovere altro (l’oggetto del nostro amore ci attrae, e per questo può causare il nostro movimento senza che esso stesso debba muoversi o debba esercitare un’azione diretta su di noi). Per Aristotele – come conviene ricordare [ 5.5.7] – non esiste per altro un solo motore immobile, ma tanti quanti sono richiesti per spiegare i movimenti celesti. Tuttavia, Aristotele stesso concede che tali motori possiedono una forma di ordinamento gerarchico: il primo motore ha così un primato paragonabile a quello del comandante di un esercito (ma il bene di un esercito, come viene precisato, sta tanto nel comandante quanto nell’ordine dell’esercito stesso).

7.6 La metafisica aristotelica tra ontologia e teologia Anche indipendentemente dal fatto che Aristotele potrebbe non aver concepito egli stesso un simile ordinamento dei libri che compongono la Metafisica come noi la leggiamo, resta da chiedersi se l’opera possa in definitiva essere considerata dotata di una sua intrinseca unità. La gran parte della tradizione interpretativa ha ritenuto di sì: la metafisica o sapienza è conoscenza delle cause e dei princìpi della realtà, ovvero dell’essere, e questo spiega perché essa venga successivamente definita scienza dell’ente in quanto ente. Ora, il significato principale dell’ente è la sostanza, e tra le sostanze alcune sono sensibili e in movimento, altre sono eterne, immobili e sempre in atto: queste ultime potrebbero dunque rappresentare le cause e i princìpi delle prime. Ciò permetterebbe di spiegare perché Aristotele abbia definito questa scienza «universale perché prima», fondando la scienza dell’ente in quanto ente sulla teologia. Dalla parte opposta, si può osservare che la componente teologica ha uno spazio estremamente limitato nel complesso dell’opera, e sembra difficile assumere in senso stretto il divino (che esercita una causalità diretta solo sui cieli) come causa o principio esplicativo di tutte le sostanze sensibili. Il fatto che nell’opera, così come noi la leggiamo oggi, l’istanza “ontologica” e quella “teologica” si presentano in qualche modo come semplicemente giustapposte è stato spiegato in modi differenti, per esempio ricordando che nella Metafisica sono confluiti testi di datazione diversa. Ma l’oscillazione aristotelica (per quanto forse inconsapevole) determina di per sé il destino della metafisica classica: si potrebbe anzi dire che la storia di quest’ultima, almeno fino a Kant, è essenzialmente la storia dei differenti tentativi di trovare un oggetto certo, proprio e adeguato per quella che pure si presentava come la disciplina filosofica più importante ed eccellente.

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8 Vivere secondo “virtù”: l’Etica 1. Nel XII libro della Metafisica Aristotele ritiene che il primo motore immobile: a. muove essendo mosso da altro. b. si identifica con un atto puro privo di potenza. c. muove come causa efficiente. d. è necessario ammetterlo a partire da un dato metafisico.

Nicomachea e l’Etica Eudemia

Sono tre le trattazioni di etica attribuite ad Aristotele: l’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemia e la Grande etica (Magna moralia). Quest’ultima non è

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autentica e fu probabilmente composta non molto tempo dopo la morte di Aristotele. Le altre due opere devono il loro nome a quello del loro editore, ovvero a chi ne curò la pubblicazione: N icòmaco, figlio di Aristotele, nel primo caso; Eudèmo di Rodi, un discepolo, nel secondo (non deve stupire che, ben prima della scoperta della stampa, si possa parlare di edizione o pubblicazione: anche nell’Antichità esisteva una distinzione molto netta tra gli scritti privati, a circolazione ridotta, e quelli che, rifiniti dall’Autore stesso o da un editore, venivano resi pubblici per essere ricopiati e venduti).

8.1 Etica della felicità e descrizione dei caratteri La trattazione più completa – e in ogni caso quella storicamente più celebre e fortunata – è quella dell’Etica Nicomachea. La scopo dell’etica, come già abbiamo avuto modo di vedere occupandoci della divisione delle scienze, è eminentemente pratico; in altri termini, essa non serve semplicemente a conoscere, ma a renderci migliori, come dichiara lo stesso Aristotele:



La presente trattazione non è, come le altre, intrapresa a fini teorici – perché conduciamo questa indagine non per sapere cos’è il bene, ma per diventare uomini buoni. [Etica Nicomachea, II, 2, 1103 b 26-28]



La filosofia pratica possiede lo stesso orientamento teleologico, cioè finalistico, che abbiamo già riscontrato nella filosofia naturale, e che in realtà contraddistingue l’intero pensiero aristotelico: ciò verso cui tutto tende è il bene, anche se occorre determinare con maggior precisione questo fine. I fini umani sono infatti molteplici, e Aristotele si mostra una volta di più riluttante a ridurre immediatamente il molteplice all’unità. Per questo, egli sottopone a una critica particolarmente severa l’idea platonica del bene: intanto perché le idee, in generale, non esistono, e poi perché, se anche mai esistesse il bene come realtà autonoma e sussistente, non sarebbe comunque realizzabile o con-

seguibile da parte dell’uomo. Ad Aristotele interessa invece il bene umano, il bene che è appunto alla portata dell’uomo. Una prima chiara indicazione che possiamo trarre da questa impostazione è che l’etica aristotelica non è fondata su un’idea oggettiva, assoluta e universale di bene. Il fatto che esistano molteplici fini e molteplici beni non significa tuttavia che non esista un fine principale, a cui tutti gli altri in qualche modo si orientano. Il discorso aristotelico è simile a quello portato avanti a proposito dell’ente e della sostanza: l’ente si dice in molti modi, ma sempre in riferimento a un significato primario, o “prospettico”. In effetti, ogni azione si compie in vista di altro, ma poiché non si può andare mai all’infinito nella serie delle cause, tutte le nostre azioni convergeranno verso un fine principale, che orienta ma non annulla gli altri. Questo fine è per l’uomo la felicità [ T54]. Anche questo è un tratto distintivo dell’etica aristotelica, il fatto cioè di non essere fondata sul dovere, ma sulla ricerca della felicità: tutta la filosofia pratica è incentrata sul concetto di felicità. A ciò si collega un altro elemento fondamentale: proprio perché non fa appello al dovere, l’etica aristotelica non è prescrittiva (non prescrive cioè cosa si debba fare), ma fondamentalmente descrittiva, descrive cioè i vari comportamenti possibili per raggiungere il fine principale dell’uomo, indicandone quelli che sono più appaganti, e possono meglio orientare gli altri. L’etica non ha dunque per Aristotele lo stesso significato che noi oggi attribuiamo al termine, ma è collegata all’èthos, e cioè ai costumi, alle indoli: essa consiste fondamentalmente nell’analisi dei caratteri o delle indoli umane. Per questo, l’etica non può aspirare allo stesso grado di certezza che compete alla filosofia naturale, che si occupa delle cose che sono sempre o per lo più: i comportamenti umani non sono prevedibili in senso assoluto, possono solo essere osservati e classificati in tipologie generali. 1. Aristotele nell’Etica Nicomachea: a. vuole fornire soltanto la conoscenza di ciò che è il bene. b. elabora un’indagine essenzialmente pratica più che teoretica. c. individua un’idea oggettiva di bene a fondamento dell’etica. d. propone un’analisi descrittiva dei comportamenti umani.

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8.2 La felicità come attività dell’anima secondo la virtù Se la felicità è il fine ultimo (o primo, a seconda dei punti di vista) di ogni azione umana, bisogna determinare in che cosa essa consista. A questo proposito, osserva Aristotele, ci sono opinioni diverse, che corrispondono ai diversi possibili generi di vita: la felicità potrebbe per esempio essere fatta consistere nel piacere, o negli onori politici, o nell’attività speculativa. Ma proprio perché il bene non ha caratteristiche oggettive, Aristotele esclude subito che la felicità possa essere il possesso di qualcosa: il semplice possesso è un atto passivo, che non sembra poter procurare nessuna felicità. In effetti, rileva Aristotele, quando si è passivi è come se si dormisse, e quando si dorme non si è né felici né infelici. Se la felicità non ha che fare con il possesso, o con oggetti, non può che essere un’attività (enèrgheia). Da qui la definizione proposta da Aristotele: la felicità o il bene è attività dell’anima secondo la virtù [ T54]. Questa definizione potrebbe trarci in inganno, perché potremmo leggerla sulla base di ciò che noi oggi intendiamo per virtù, e interpretarla nel senso che felice è colui che agisce in modo virtuoso. Ma il termine aretè, ‘virtù’, non indica qui il modo di agire conforme a norme morali: aretè indica l’eccellenza nello svolgere una funzione, nel fare qualcosa. La virtù di un buon chitarrista (Aristotele si riferisce in realtà a un suonatore di cetra, ma l’esempio può essere aggiornato senza problemi) è quella di sapere suonare bene la chitarra, e la virtù di un buon atleta, per esempio di un buon velocista, è quella di saper correre in modo eccellente. N on c’è nulla di “etico”, nel senso moderno del termine, in questa accezione della virtù: la virtù sta appunto nel compiere nel modo migliore la funzione o l’opera (èrgon, che non a caso si ricollega a enèrgheia) che ci si è proposti, e per cui si è portati. Poiché le opere che si possono compiere sono tante, tante saranno anche le forme di felicità. Per individuare la forma prioritaria e prospettica di felicità, quella che è più propriamente umana, bisogna dunque guardare a quello che è l’èrgon specifico dell’uomo (l’opera o la funzione che appartiene all’uomo in quanto specie, e non in quanto singolo individuo). Ora, cosa distingue l’uomo, in quanto specie, dagli altri

viventi? Il fatto di avere un’anima razionale. Ecco perché la felicità è definita un’attività dell’anima, intendendo qui per anima quella propriamente intellettiva. Resta da chiedersi quale possa essere l’attività principale dell’anima intellettiva. E la risposta non può che essere: il pensare. Ecco dunque individuata la vera felicità umana: la felicità dell’uomo sta nell’esercitare nel modo più eccellente [kat’aretèn – ‘secondo la virtù’] l’attività che gli è più propria: pensare [ T54]. Si possono notare qui almeno tre aspetti della felicità speculativa. In primo luogo, nel pensare l’uomo non realizza solo ciò che gli è più proprio, ma in qualche modo partecipa della stessa natura divina, dal momento che il divino in Aristotele non è che il puro atto di pensare: l’attività più umana è dunque già divina. Aristotele lo dichiara esplicitamente osservando che questa condizione di felicità è continua e senza interruzione per il divino, e limitata e temporanea per noi. La coincidenza tra sfera umana e sfera divina nell’attività del pensare getta forse una luce diversa su come si debba intendere l’esitazione aristotelica intorno all’intelletto agente: esso da una parte ci appartiene (nella misura in cui, pensando in atto, riusciamo a parteciparne), e dall’altra no, in quanto tale attività risulta comunque eccedente rispetto a noi. Aristotele ribadisce comunque in più occasioni che «il pensare è il divino in noi». In secondo luogo, per quanto questa felicità sia quella più umana (e anzi divina), essa non annulla le altre. Di fatto, la felicità a cui Aristotele allude è quella dei filosofi: non a caso, tutti gli interpreti medievali, arabi e latini, di Aristotele, ne ricaveranno la convinzione incrollabile che i filosofi siano in assoluto gli esseri umani più felici. Ma Aristotele sa perfettamente che nella società non tutti possono o debbono essere filosofi. In realtà, il bìos filosofico, la vita filosofica, è una scelta possibile tra tante altre forme di vita bìoi, ognuna delle quali avrà una sua felicità corrispondente, nella misura in cui viene condotta in modo eccellente: il nostro chitarrista, per esempio, sarà davvero felice, se saprà suonare bene. La felicità speculativa, la felicità del filosofo, è solo quella più piena ed elevata, ma non è affatto l’unica. Immediatamente dopo di essa (ma non senza qualche ambiguità, tanto che secondo diversi interpreti Aristotele avrebbe perfino esitato a proposito

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della vera gerarchia) si colloca la felicità politica. Anche questo non deve stupirci: vedremo subito come un altro tratto distintivo dell’uomo all’interno del genere dei viventi (o animali) è, secondo Aristotele, il fatto di essere un animale politico; anche la vita o il bìos di chi si dedica a questa attività risponde dunque a una finalità tipicamente umana, esattamente come il pensare. Se la felicità speculativa risulta comunque superiore, è perché essa è più autosufficiente, ovvero meno legata (rispetto alla politica, ma anche alle altre attività umane) alle condizioni esteriori: i progetti politici possono in effetti essere frustrati dalle condizioni oggettive, ma la speculazione, per Aristotele, basta in generale a sé stessa. Tuttavia, anche se il sapiente vive la vita del filosofo secondo il divino che è in lui, egli vive pur sempre secondo le virtù morali e politiche, in quanto è anche sempre animale politico. Infine, nonostante l’insistenza sull’autosufficienza della vita speculativa, Aristotele ha sufficiente buon senso per rendersi conto anche del fatto che per dedicarsi alla speculazione c’è comunque bisogno di alcune condizioni minimali esterne: a. non bisogna essere indigenti (chi deve preoccuparsi della sopravvivenza, difficilmente potrà trovare il tempo per darsi alla speculazione in modo disinteressato); b. non bisogna avere preoccupazioni familiari (un matrimonio infelice o altri guai familiari guasterebbero la serenità speculativa di molti); c. bisogna avere un minimo di ricchezze e di schiavi; d. bisogna poter contare su buoni amici. Aristotele recupera in questo modo, ricollegandole alla propria visione, le opinioni comuni su ciò che può procurare la felicità: si potrebbe così dire che, a suo parere, è comunque innegabile che la ricchezza, la salute e i piaceri concorrano alla felicità, ma pur sempre in modo subordinato a forme maggiori di felicità. N on è propria di Aristotele nessuna forma di disprezzo delle condizioni materiali; anzi, si tratta di cose che fanno parte dell’umano, e perciò contribuiscono a far sì che ci si possa dare alla speculazione:



Perciò la scelta o il possesso dei beni naturali – il fisico, la ricchezza, gli amici e qualunque

altro bene – che favorirà la contemplazione da parte del divino [del divino in noi, del nostro intelletto] è migliore ed è la scelta che più si addice; e tutto ciò che, sia per difetto che per eccesso, ci impedisce di coltivare il divino [l’intelletto] e la contemplazione è cattivo. [Etica Eudemia, VIII, 3, 1249 b 16-21]



Non c’è insomma in Aristotele nessuna condanna a priori, in nome di un rigorismo etico, delle passioni o delle ricchezze, ma solo il loro riposizionamento prospettico verso la forma più specificamente umana, nel senso prima indicato, della felicità. Insomma, la formula “i soldi non fanno la felicità”, non verrebbe interpretata da Aristotele nel senso che se ne può allora fare del tutto a meno, ma nel senso che tutto dipende da come li si usa, perché la felicità sta nell’agire, e non nel possesso: accumulare ricchezze in vista della ricchezza stessa, per Aristotele, non procura la felicità; spendere le ricchezze per garantirsi la possibilità di portare a termine in modo eccellente le opere corrispondenti alla propria virtù o disposizione, può procurare molta felicità, e ancor più quando la ricchezza assicura la condizione ideale per dedicarsi alla vita speculativa. Questo è dunque quanto Aristotele intende, dicendo che se ci sono più virtù, la felicità più piena riguarda la virtù migliore, più perfetta. 1. Per Aristotele la felicità consiste: a. nel possedere una qualche cosa. b. in una sorta di atto passivo. c. in un’attività che realizza lo svolgimento eccellente di una funzione. d. in un’attività dell’anima secondo una regola etica. 2. La vera felicità dell’uomo consiste nel pensare. Ciò perché: a. il pensiero è ciò che più propriamente appartiene all’uomo come individuo. b. è motivo di distinzione fra l’uomo e gli altri esseri viventi avere un’anima razionale. c. il pensiero è l’unica cosa che annulla tutte le altre forme di felicità. d. il pensare procura spesso condizioni ottimali nella vita materiale.

8.3 Virtù etiche e virtù dianoetiche Le virtù dell’anima razionale (al di là di tutte le virtù operative) sono anch’esse molteplici. Aristotele le suddivide in due gruppi:

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1. quelle che appartengono all’anima razionale nel senso più stretto, ovvero le virtù dianoetiche (diànoia indica pensiero, ragione); 2. quelle che appartengono alla parte appetitiva dell’anima, ovvero le virtù etiche, o del carattere. Esse si riferiscono indirettamente all’anima razionale perché la parte appetitiva segue ciò che la ragione le indica. In generale, secondo Aristotele, noi scegliamo tra ciò che la ragione ci propone: l’etica aristotelica, dunque, è una forma di intellettualismo. Una virtù etica è per Aristotele «è uno stato abituale [una disposizione] che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, [stato] determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio» [Etica Nicomachea, II, 6, 1106 b 36 - 1107 a 2]. Virtù di questo tipo sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magnanimità, la giustizia: alla loro analisi Aristotele dedica di fatto la maggior parte dei libri dell’Etica Nicomachea e dell’Etica Eudemia. Per Aristotele, la virtù non è innata, ma è frutto delle abitudini e dell’educazione, fin dall’infanzia: è infatti la ripetizione abituale di determinati atti a creare quella data disposizione che è la virtù. Potremmo così dire che le virtù sono per Aristotele disposizioni stabili del carattere (èthos, come abbiamo già ricordato, vuol dire carattere). Ogni virtù, inoltre, presuppone una medietà, ovvero si colloca fra l’eccesso e il difetto. Questa tesi, destinata ad avere un lungo successo, è spesso condensata in un abusato adagio latino: in medio stat virtus. Essa non va tuttavia banalizzata: Aristotele non intende affatto dire ingenuamente che la virtù sia sempre al mezzo tra due vizi opposti, ma semplicemente che non esistono modelli assoluti di virtù e che il comportamento corretto va sempre valutato in base alle circostanze effettive. Prendiamo il caso della liberalità (o generosità), che è media tra l’avarizia e la prodigalità: se gli estremi da scartare sono per esempio il fatto di negare qualsiasi donazione, o di donare tutti propri averi, la virtù non consisterà nel donare la metà esatta dei propri averi. La virtù consiste invece nella capacità di dare risposte adeguate, misurate, calibrate sugli eventi: uno stesso atto (per esempio ritirarsi durante una battaglia) può essere un vizio (una manifestazione di viltà) o una scelta saggia, a seconda delle cir-

costanze. Proprio perché l’etica di Aristotele non fa riferimento a norme oggettive, il criterio del comportamento è dato dall’ipotizzare come si comporterebbe, con equilibrio, un saggio, in quella data circostanza. In questo contesto Aristotele distingue anche fra la saggezza (phrònesis) e la sapienza (sophìa). La loro differenza dipende dagli oggetti: nel secondo caso si ha a che fare con la conoscenza disinteressata delle realtà, oggetto di conoscenza teoretica; nel primo, con la conoscenza di ciò che può essere fatto dall’uomo. La sapienza è superiore – è anzi divina, come visto – ma anche il sapiente non potrebbe essere tale senza la saggezza, perché mancherebbe di quella capacità di fare scelte equilibrate che assicura la serenità necessaria per potersi dedicare alla speculazione. Il ruolo della saggezza è quindi fondamentale: essa permette di deliberare in modo corretto rispetto ai beni che possono essere conseguiti con l’azione, e perciò permette il compimento e il perfezionamento di ogni altra virtù. Anche la saggezza, come la sapienza, si apprende: in parte tramite l’insegnamento, ma soprattutto attraverso l’esperienza di vita, ovvero la frequentazione di altri uomini saggi. Il vero fulcro dell’etica aristotelica è dunque il saggio, colui che sa come comportarsi nelle varie situazioni. Si tratta probabilmente di un riflesso della classe sociale a cui Aristotele apparteneva (quella dei piccoli proprietari), ma anche di una conseguenza coerente della scelta antiplatonica di fare a meno delle idee e di modelli stabili e assoluti anche nel campo delle azioni umane, così come in quello della conoscenza.

9 Lo Stato e la realizzazione dell’individuo: la Politica

Abbiamo già visto come la felicità politica sia seconda solo a quella speculativa, e d’altra parte Aristotele stesso dichiara che il fine dello Stato è in definitiva analogo a quello di ciascun individuo – e cioè la riuscita, la piena realizzazione di sé:



È chiaro perciò che lo Stato non è una semplice comunanza di luogo per difendersi vicendevolmente dai pericoli e per promuovere i commerci. Queste cose devono essere necessaria-

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mente presenti perché lo Stato esista; ma la loro presenza non fa sì di per sé che lo Stato esista. Piuttosto, uno Stato è una comunità di stirpi e famiglie nel vivere bene, per condurre una vita pienamente realizzata e indipendente. [Politica, III, 9, 1280 b 29-34]



Anche se il sapiente vive, come ogni altro uomo, in società, Aristotele non crede che gli debba essere attribuito un ruolo direttivo: in altri termini, non crede all’ideale platonico dei “re-filosofi”. Ciò non toglie che, da un altro punto di vista, Aristotele cerchi come Platone una profonda connessione tra etica e politica – una connessione che egli recupera attribuendo allo Stato la funzione di educare i cittadini alla virtù.

9.1 Lo Stato come comunità naturale La Politica aristotelica ci è pervenuta in modo non troppo dissimile dalla Metafisica: l’opera che noi oggi leggiamo sotto questo nome riunisce scritti o gruppi di scritti composti in periodi diversi. I libri in cui Aristotele si sofferma sulla funzione educativa dello Stato (VII-VIII), sarebbero quelli più antichi, e dunque più vicini al clima accademico; in seguito, Aristotele si sarebbe interessato principalmente all’analisi delle forme costituzionali esistenti, ovvero delle forme di governo (libri II-VI). Lo Stato, o più in generale la società, ha per Aristotele un’origine naturale, e non convenzionale o contrattualistica: l’uomo è appunto per natura un animale sociale, o politico [ T26]. Si potrebbe obiettare che anche altri animali, come le api e le formiche, vivono in comunità, ma in realtà solo l’uomo dispone della ragione e del linguaggio, che gli permettono di sviluppare un’autentica virtù politica:



Ciò che è peculiare all’uomo, rispetto agli altri animali, è che lui solo sa percepire il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, e il resto – ed è la comunanza in queste cose che fa una famiglia o uno Stato. [Politica, I, 1, 1253 a 15-18]



Lo Stato è dunque qualcosa di più di una semplice forma di vita associata: presuppone la condivisione di certe scelte, di certi criteri di comportamento, e del fine prima ricordato (la piena

riuscita di sé per ogni individuo). D’altra parte, è pur vero che lo Stato è sempre il risultato storico di forme crescenti di aggregazione, che partono dalla famiglia (o meglio dall’oikìa, l’insieme di coloro che vivono in una casa, e che include anche gli schiavi) e passano per il villaggio. Ma le dimensioni che Aristotele ha in mente nel descrivere questa progressione sono ben diverse da quelle che potremmo ipotizzare: se dieci persone sono poche per fare uno Stato, centomila, per Aristotele, sono troppe («uno Stato non può essere costituito da dieci uomini – e se lo è da centomila non è più uno Stato» Etica N icomachea, IX, 10, 1170 b 31-32). L’orizzonte di riferimento della riflessione di Aristotele è quindi la pòlis, la città-Stato, sebbene egli vi faccia riferimento proprio quando questo modello di organizzazione della vita sociale stava ormai entrando in crisi, spazzato via dalle conquiste macedoni. Anche rispetto al tema della schiavitù, Aristotele non eccede affatto i limiti del suo tempo: essa viene giustificata sulla base dell’assunto per cui gli schiavi sono incapaci di deliberare razionalmente per quel che li riguarda, e devono perciò dipendere (anche per la loro stessa realizzazione) dal loro padrone. Questa argomentazione, che sarà utilizzata in Europa fino al XVII secolo e negli Stati Uniti d’America fino al XIX, si applica per Aristotele soprattutto ai “barbari”, ovvero ai non-greci (il termine “barbaro” indica in greco ‘colui che non è in grado di articolare un linguaggio compiuto’). Aristotele ammette tuttavia, in base al medesimo criterio (e cioè che non debba essere ridotto in schiavitù chi sia in grado di deliberare razionalmente), che possa esistere una schiavitù ingiusta, come quando sono ridotti in tale stato i prigionieri di guerra. Anche nell’ambito della politica il pensiero di Aristotele si differenzia da quello di Platone. I più evidenti punti di dissenso riguardano la proprietà privata e la famiglia. Platone aveva proposto l’abolizione di entrambe almeno per quel che concerneva i guerrieri e i reggitori-filosofi. Aristotele difende invece la proprietà privata, sulla base della tesi per cui i beni comuni vengono di norma ritenuti beni di nessuno, e in quanto tali vengono abbandonati appunto all’incuria e alla trascuratezza. Per quanto riguarda la famiglia, abbiamo già visto come essa costituisca per Aristotele il nucleo naturale di sviluppo dello Stato.

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9.2 Le forme di governo Risulta invece più vicina a Platone la classificazione delle forme di governo, o costituzioni. Per Aristotele esse sono sostanzialmente sei, divise in tre coppie a seconda del numero di coloro che esercitano il potere (uno, pochi, molti). Ogni coppia è poi costituita da una forma corretta, in cui il potere è esercitato nell’interesse comune, e da una forma degenerata, o almeno meno corretta, in cui il potere è esercitato nell’interesse di chi lo detiene. Schematicamente, queste forme sono: Governo di uno solo monarchia

tirannide

Governo di pochi

aristocrazia

oligarchia

Governo dei molti

politèia

democrazia

La monarchia è il governo del singolo che governa nell’interesse di tutti; la tirannide il regime di un singolo che governa nel proprio interesse; analogamente, l’aristocrazia è il governo di pochi, nell’interesse comune, l’oligarchia è il governo di pochi, nell’interesse di quegli stessi pochi; infine, la politèia (in mancanza di un termine specifico, Aristotele adopera quello corrente per indicare la costituzione) è il governo dei molti per l’interesse comune, la democrazia il governo di molti per il vantaggio di quegli stessi molti che lo detengono. Aristotele è in generale sempre piuttosto restio a stabilire, in ogni campo, criteri rigidi e oggettivi, e per questo non indica quale costituzione possa essere la migliore in astratto, ovvero in ogni tempo. Tutte le forme potrebbero in realtà funzionare, a patto che il singolo o i gruppi che detengono il potere esprimano la parte migliore (per educazione, soprattutto) di quello Stato. Le preferenze di Aristotele andrebbero in linea teorica per l’aristocrazia, ovvero per quel regime in cui pochi, e cioè i migliori, governano nell’interesse di tutti; ma egli stesso riconosce che è estremamente difficile che ciò accada. Rimane allora preferibile, in concreto, il regime costituzionale, la politèia, che ha in comune con la democrazia la partecipazione di tutti i cittadini alle assemblee o all’esercizio del potere giudiziario, e con l’aristocrazia il principio che, tra tutti i cittadini, solo quelli migliori debbano

essere chiamati alle cariche di governo, e comunque a turno. Anche qui l’attenzione di Aristotele verso le situazioni concrete è evidente: se il Socrate platonico chiedeva che il governo fosse affidato a degli specialisti, sapendo che essi non avrebbero goduto del favore popolare; se Platone aveva optato per i “re-filosofi”, disprezzando la democrazia, Aristotele ritiene che le assemblee possano in realtà prendere decisioni corrette, e spesso migliori di quelle dei singoli. In questo caso, l’unione delle virtù (delle disposizioni, dei caratteri) supplisce alle mancanze individuali:



L’opinione che la moltitudine, piuttosto che pochi uomini buoni, debba essere sovrana […] sembra che si possa sostenere. Perché, anche se non ogni membro della moltitudine è un uomo buono, è tuttavia possibile che, quando si riuniscano assieme, debbano essere migliori – non come singoli, ma collettivamente, proprio come i pranzi in comune sono migliori di quelli offerti da una singola persona. [Politica, III, 11, 1281 a 40-b3]



Quest’ultimo esempio non è forse dei più felici (di solito, più si è, peggio si mangia), ma illustra comunque efficacemente la distanza aristotelica dalla sfiducia e dal sospetto che Platone aveva invece nutrito per la democrazia.

10 La Retorica e la Poetica Nella suddivisione aristotelica delle scienze che abbiamo già considerato, retorica e poetica rientrano tra le tecniche o le scienze poietiche, quelle cioè finalizzate alla produzione di qualcosa. La retorica si ricollega in realtà alla politica. Il suo scopo è quello di produrre discorsi persuasivi, che sono fondamentalmente di tre tipi: 1. quelli deliberativi, i discorsi da tenere nelle assemblee; 2. quelli giudiziari, i discorsi da tenere nei tribunali; 3. quelli epidittici, i discorsi celebrativi di personalità o eventi della città.

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Per ottenere la persuasione, servono fondamentalmente argomenti convincenti o risorse persuasive, come per esempio la capacità dell’oratore di esibire un carattere degno di fede o la capacità di suscitare emozioni nell’uditorio. Ma oltre che alla politica, la retorica è legata alla dialettica, poiché l’oratore deve esibire un impianto logico coerente, partendo da premesse condivise da coloro ai quali si rivolge, e avvalendosi di esempi ed entimèmi (ovvero sillogismi retorici). La Poetica ci è invece giunta incompleta: ci è pervenuto il I libro sulla tragedia, ma non quello sulla commedia, ammettendo che sia stato effettivamente scritto. Aristotele concorda qui con Platone nel dire che in generale l’arte è imitazione, ma differisce drasticamente nel valutare quest’ultima; l’imitazione è infatti per Aristotele del tutto naturale, e ha un valore cognitivo fondamentale: fin da piccoli, impariamo moltissimo attraverso l’imitazione, e in generale l’imitazione è una forma di apprendimento che procura piacere, così come ogni altra forma di conoscenza:



Chiunque apprezza l’imitazione. Una prova di ciò è ciò che succede abitualmente; perché noi amiamo osservare l’apparenza riprodotta accuratamente di cose che in sé stesse sono disgustose da vedere – per esempio, le forme degli animali più immondi, e dei cadaveri. La ragione di questo è che l’apprendere è molto piacevole non solo per i filosofi ma anche per gli altri uomini, pur se condividono con minore intensità tale piacere. Questa è la ragione per cui amiamo vedere un’apparenza somigliante – guardandola, impariamo e inferiamo cosa sia ciascuna cosa, dicendo “È proprio così”. [Poetica, 4, 144 b 8-17]



Anche l’imitazione più propriamente artistica ha pertanto un valore cognitivo. La forma artistica più perfetta, da questo punto di vista, è la tragedia: se costruita in modo unitario e coerente, essa è in grado di individuare e riprodurre ciò che è universale nella vita umana, evidenziandone le tensioni fondamentali e omettendo invece tutto ciò che è inessenziale e quotidiano. La tragedia è «imitazione di azioni e vita», cioè presenta i caratteri di fondo che s’incontrano nell’esistenza reale, e il modo in cui essi agiscono. I personaggi della tragedia mirano

infatti, così come fa nella realtà ogni uomo, a conseguire la felicità; dall’esame dei caratteri di volta in volta esibiti gli spettatori potranno comprendere quali possibilità effettive essi abbiano di conseguirla, e come superare gli ostacoli e gli equivoci che devono affrontare in questa ricerca. Ma accanto al valore cognitivo, la tragedia ha anche una valenza più strettamente etica, perché, oggettivando le passioni sulla scena, contribuisce a purificare e riequilibrare le emozioni negli spettatori: si tratta della celebre teoria della catarsi (purificazione), in base alla quale la rappresentazione scenica delle passioni e l’identificazione con i diversi caratteri permettono agli spettatori di esprimere le loro passioni, in modo da moderarle o controllarle. 1. La retorica: a. è una scienza poetica volta a persuadere. V b. si avvale di strategie persuasive e argomenti convincenti. V c. produce discorsi deliberativi, giudiziali ed epidittici. V d. è una scienza poetica, al pari della politica, ma da questa del tutto slegata. V 2. Per Aristotele l’arte: a. ha una valenza eticamente positiva. b. ha una valenza cognitiva. c. inquina le emozioni di chi ne fruisce. d. è espressa in modo più elevato nella commedia.

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11 Aristotele e il piacere della conoscenza Aristotele ha composto numerosi altri trattati su diversi aspetti della realtà e in particolare sugli animali (Storia degli animali o Ricerche sugli animali, Le parti degli animali, Il movimento degli animali, La locomozione degli animali, La riproduzione degli animali). Non è possibile qui entrare nel dettaglio del contenuto di questi scritti. Ci si può però chiedere almeno perché Aristotele abbia nutrito tutto questo interesse per gli animali e per tanti altri campi dello scibile, e cosa possano avere in comune tali ricerche con la filosofia o la speculazione intesa come scelta di vita per il conseguimento della felicità.

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Almeno in apparenza, Aristotele si presenta più come un erudito, un uomo di scienza nell’accezione moderna del termine, che come un sapiente preoccupato di trovare uno stile di vita in grado di assicurargli la felicità in questo mondo. Ma così non è, e una delle pagine più belle dello stesso Aristotele, tratta da Le parti degli animali, ce ne spiega il motivo: certo, la considerazione delle cose divine e incorruttibili (Aristotele si riferisce qui ai corpi celesti) procura un piacere e una felicità maggiori, ma le cose di questo mondo costituiscono il nostro ambiente naturale. È con esse – per esempio con gli animali più comuni – che condividiamo il mondo, e anche esse, per quanto apparentemente di minor valore, procurano gioie incommensurabili allo studioso. Il passo rappresenta così una sorta di autoritratto che ci dà, in conclusione, il senso e la misura delle ricerche aristoteliche:



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Delle realtà che sussistono per natura, alcune, ingenerate e incorruttibili, esistono per la totalità del tempo, altre invece partecipano della generazione e della distruzione. Circa le prime, che sono nobili e divine, ci tocca di aver minori conoscenze, giacché pochissimi sono i fatti accertati dall’osservazione sensibile a partire dai quali si possa condurre l’indagine su tali realtà, cioè su quanto aneliamo di sapere. Quanto invece alle cose corruttibili, piante e animali, la nostra conoscenza di esse è più agevole grazie alla comunanza di ambiente: molte conoscenze relative a ciascun genere può infatti ottenere chi voglia adoperarvisi adeguatamente. Ma entrambi i campi di ricerca hanno la loro Il «maestro di color che sanno». N ella storia del pensiero una lunga tradizione ha eletto Aristotele a modello assoluto del sapere filosofico. Infatti, egli è stato il primo a lasciarci una vera e propria enciclopedia del sapere. La vita e gli scritti. Nato a Stagìra nel 384 a.C., nel 367 si recò ad Atene ed entrò nell’Accademia di Platone dove rimase per circa vent’anni. N el 343 a.C. divenne precettore del futuro Alessandro Magno, figlio di Filippo, re di Macedonia, finché nel 335 tornò ad Atene per insegnare presso il Liceo, un ginnasio pubblico dove si

bellezza. Per quanto poco noi possiamo attingere delle realtà incorruttibili, tuttavia, grazie alla nobiltà di questa conoscenza, ce ne viene più gioia che da tutto ciò che è intorno a noi, così come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose per quanto importanti esse siano. Le altre realtà, però, grazie alla possibilità di conoscerle in modo più profondo e più esteso, danno luogo a una scienza più vasta; inoltre, giacché sono più vicine a noi e più familiari alla nostra natura, ristabiliscono in qualche modo l’equilibrio con la filosofia vertente sulle cose divine. Poiché di queste ultime abbiamo già trattato, dichiarando quanto a noi appariva, resta da parlare della natura vivente, per quanto possibile non trascurando nulla, umile o elevato che sia. E perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili, tuttavia, al livello dell’osservazione scientifica, la natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo. […] N on si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali vi è qualcosa di meraviglioso. Si narra che Eraclìto abbia detto a dei forestieri che desideravano fargli visita, ma esitavano vedendolo scaldarsi vicino alla stufa: «Venite, non vergognatevi, anche qui ci sono dèi». Allo stesso modo dovremo senza vergogna affrontare lo studio di qualunque animale; perché in ciascuno di essi c’è qualcosa di naturale e di bello. [Le parti degli animali, I, 5, 644 b 22 - 645 a 23; trad. modificata]

poteva trascorrere il tempo libero. La scuola fu poi chiamata peripatetica dal nome della passeggiata presente nel Liceo. Inviso agli ateniesi per la sua vicinanza con i sovrani macedoni, dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), si rifugò a Càlcide dove morì nel 322 a.C. La produzione di Aristotele si divide in due gruppi: gli scritti essoterici, un insieme di dialoghi destinati a un pubblico più vasto, e quelli esoterici (o “acroamàtici”) riservati all’uso interno alla scuola. Questi ultimi ci sono stati tramandati da Andronìco di Rodi secondo un ordine preciso: prima gli scritti di logica (o analitica),



poi le opere di filosofia naturale, la Metafisica, le opere etiche e infine gli scritti di politica, economia, retorica e poetica. Un accademico critico di Platone. Pur essendo stato per vent’anni presso l’Accademia di Platone, gli scritti di Aristotele contengono un’aspra critica nei confronti della teoria delle idee di Platone. Lo “strumento” della scienza: l’Òrganon. I sei scritti di Logica sono stati denominati Òrganon (‘strumento’), perché la logica si occupa degli strumenti (categorie, proposizioni,

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita sillogismi) di cui si avvalgono tutte le altre scienze. Il primo, le Categorie, verte sui termini o concetti che si predicano di un determinato soggetto, denominati categorie. Le categorie costituiscono i predicati fondamentali dell’essere che Aristotele classifica in dieci classi: sostanza, quantità, qualità, relazione, dove, quando, giacere, avere, azione, passione. Esse hanno due significati: uno logico-linguistico, in quanto costituiscono le differenti forme di attribuzione di un predicato a un soggetto; uno ontologico, in quanto esprimono i molteplici significati dell’essere. Con Aristotele l’essere cessa di essere inteso in modo univoco e omogeneo come nell’ontologia parmenidea, in quanto è in sé irriducibilmente molteplice e possiede significati diversi. La sostanza è la categoria principale perché dice il che cos’è di un ente, mentre le altre categorie esprimono ciò che appartiene a quello stesso ente, ciò che accade o si aggiunge ad esso, e per questo vengono dette anche accidenti. Aristotele chiama sostanze prime gli individui concretamente esistenti e sostanze seconde i concetti universali che permettono di collocare gli individui in classi comuni più o meno ampie e in tal modo di definirli. Le sostanze prime, gli individui, sono per Aristotele il fondamento delle sostanze seconde, i concetti universali. Questo è un punto di fondamentale distacco da Platone, secondo il quale l’universale, la forma o idea, è il fondamento degli individui e questi possiedono l’essere solo in forma derivata; per Aristotele, al contrario, gli individui sono il fondamento degli universali. Il De interpretatione si occupa dei termini connessi nelle proposizioni. Per Aristotele il problema delle verità o falsità riguarda solo i discorsi apofàntici, dichiarativi o enunciativi, che descrivono stati di cose. Il discorso apofàntico tipico è dato dalla connessione tra un soggetto e un predicato (es. “Socrate corre”). Aristotele distingue vari tipi di proposizioni: affermative o negative (secondo l’aspetto della qualità); universali, particolari o singolari (secondo l’aspetto della quantità). Egli studia i rapporti esistenti tra le proposizioni universali delle due qualità e le corrispondenti pro-

posizioni particolari, distinguendo tra proposizioni contrarie e proposizioni contraddittorie. Negli Analitici primi Aristotele si occupa del sillogismo inteso come ragionamento deduttivo perfetto. Questo si compone di due proposizioni che fungono da premesse e di una terza proposizione, la conclusione. Il meccanismo deduttivo con cui si perviene dalle premesse alla conclusione poggia sul termine che compare in entrambe le premesse (termine medio), e permette di collegare tra loro, nella conclusione, gli altri due termini (estremi) che compaiono ciascuno in una delle premesse. I sillogismi cambiano in base alla posizione e alla funzione che il termine medio assume nelle premesse, formando classi denominate figure. Gli Analitici secondi trattano del sillogismo scientifico o dimostrativo in senso stretto. Qui Aristotele precisa che la conoscenza scientifica consiste nel conoscere la ragione o il perché di una determinata cosa ed enumera le caratteristiche essenziali del sillogismo scientifico. Le premesse di un sillogismo scientifico devono essere vere, prime e immediate, anteriori alla conclusione, più note di essa e causa di essa. Tra i princìpi primi, Aristotele distingue gli assiomi, princìpi primi e indimostrabili che sono comuni a tutte le scienze (come i princìpi di non-contraddizione e del terzo escluso) o a più scienze, dai princìpi propri di ogni scienza che si suddividono in ipotesi e definizioni. Come si perviene alla conoscenza dei princìpi propri di ogni scienza? Attraverso un procedimento induttivo-astrattivo che consiste in un passaggio graduale dal particolare all’universale: partendo dall’osservazione di più casi particolari (induzione), tale procedimento consente di eliminare tutte le caratteristiche individuali e materiali (astrazione) fino a cogliere gli universali. Nei Topici Aristotele si occupa del sillogismo dialettico, che parte da premesse che coincidono con le opinioni condivise o da tutti o dai sapienti (cioè che non sono prime e vere per sé) e giunge a conclusioni plausibili (e non universali e necessarie). Aristotele afferma che la dialettica non è una scienza in senso stretto, ma un metodo che insegna ad argomentare, esaminando i pro e i

contro, intorno a qualsiasi problema, e ad accedere ai princìpi. L’ultimo scritto dell’Òrganon, le Confutazioni sofistiche, si propone di smascherare le fallacie (o errori logici) presenti negli argomenti con cui i sofisti confutavano le posizioni degli avversari, smontando le ambiguità linguistiche che ne stanno al fondo. La filosofia naturale: la Fisica. Nel VI libro della Metafisica Aristotele suddivide le scienze in: scienze teoretiche o speculative (filosofia naturale, matematica e filosofia prima o «scienza divina»), in cui la conoscenza è perseguita per sé stessa e non in vista di altro; scienze pratiche (etica e politica), in cui la conoscenza è finalizzata all’azione; scienze poietiche o produttive (medicina, scultura, architettura, poetica e retorica ) in cui la conoscenza è orientata alla produzione di qualcosa. La Fisica si occupa dell’ente in quanto mobile o mutevole, cioè sottoposto al mutamento. L’esistenza del mutamento è un fatto evidente per Aristotele, si tratta solo di trovare i princìpi che possano spiegarlo. Questi princìpi sono la materia o sostrato, la privazione e la forma. In qualsiasi processo naturale (o movimento) avremo sempre: un sostrato che non muta e che può accogliere i contrari (la materia); uno stato iniziale, in cui non è ancora presente la forma che verrà acquisita durante il processo (la privazione); uno stato finale, in cui la forma risulta acquisita. Per spiegare il mutamento Aristotele introduce anche i concetti di potenza (dy`namis) e atto (enèrgheia): tutti i processi di mutamento consistono nel passaggio da uno stato potenziale a uno attuale. Questi cambiamenti non sono mai passaggi dal nulla assoluto all’essere, ma dal non essere una determinata cosa (essere in potenza), all’essere quella determinata cosa (essere in atto). Aristotele rompe così definitivamente con il monismo ontologico di Parmènide. Ogni cambiamento presuppone un sostrato: perché ogni processo non comporta la creazione dal nulla di qualcosa di nuovo, ma la trasformazione di qualcosa che prima esisteva sotto un’altra forma. Per spiegare il passaggio dalla potenza all’atto è necessario fare riferimento anche ad una causa motrice, che produca o renda possibile il mu-

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Aristotele capitolo 5 tamento, e ad un fine in vista del quale esso avviene. La dottrina aristotelica delle quattro cause (materia, forma, agente e fine) è contenuta sia nella Fisica che nella Metafisica. I tre princìpi (materia, forma e privazione) e le quattro cause non sono in alternativa tra loro. Se in tutti gli enti di natura il fine coincide di fatto con l’acquisizione della forma (il fine del seme è quello di diventare pianta), per gli enti artificiali la causa finale è estrinseca (un artigiano trasforma un pezzo di legno in sedia al fine di sedere). Le quattro cause aristoteliche non sono paragonabili né alle cause indicate dai fisici ionici, né alle idee platoniche, in quanto non fungono da princìpi ontologici. Aristotele distingue quattro tipi di mutamenti: 1. mutamento secondo la sostanza, come nei processi di generazione e corruzione; 2. mutamento secondo la quantità, come nei processi di accrescimento e diminuzione; 3. mutamento secondo la qualità, come nei processi di alterazione; 4. mutamento secondo il luogo, o movimento locale. Quest’ultimo è il tipo di mutamento principale e più esteso, sia perché tutti i processi di mutamento implicano uno spostamento locale, sia perché si ritrova in tutti gli enti fisici, inclusi i corpi celesti che si muovono eternamente di moto circolare. Aristotele nega l’esistenza del vuoto sia all’interno dell’Universo che al di fuori di esso. Allo stesso modo nega l’esistenza dell’infinito in atto: l’infinito non è una cosa, una realtà, ma un processo (di accrescimento o di divisione) che come tale esiste sempre e solo in potenza. Se non ci fosse la nostra anima che lo misura, anche il tempo esisterebbe solo in potenza, e coinciderebbe con il movimento stesso. Un aspetto fondamentale della filosofia naturale di Aristotele è dato dalla separazione tra mondo sublunare (la Terra, in quanto ciò che sta sotto il cielo della Luna) e mondo celeste. Le cose del mondo sublunare sono composte dai quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra) e da un sostrato comune, indicato come materia prima. I quattro elementi si muovono di moto rettilineo e tendono verso il loro luogo naturale, determinato dal loro peso, formando quattro sfere concentriche. Tutti gli altri corpi derivano da una combinazione dei quattro elementi. I corpi celesti sono invece

composti da un quinto elemento, l’etere, che è sottoposto solo al mutamento secondo il luogo. I corpi celesti si muovono in modo circolare, uniforme e regolare, insieme alla sfera nella quale sono infissi. L’Universo di Aristotele risulta composto da una serie di sfere omocentriche, aventi come unico centro, immobile, la Terra. Le sfere non corrispondono, nel loro numero, a quello dei corpi celesti visibili e questo per spiegare le apparenti irregolarità dei movimenti celesti. La causa del movimento delle sfere e dei corpi celesti è ricondotta a degli agenti o motori divini, in numero uguale a quello delle sfere. L’Universo aristotelico è eterno, impricipiato, finito ed unico. Tutti i fenomeni del mondo sublunare sono regolati dai moti celesti, che determinano la successione delle forme e dunque tutti i processi di generazione e corruzione. Le tre facoltà dell’anima: il De anima. L’anima è per Aristotele principio di vita, ovvero «atto di un corpo naturale organico», ma non è mai separata dal corpo: essendo atto di un corpo, perisce col corpo. Aristotele distingue nell’anima tre diverse facoltà: vegetativa, sensitiva ed intellettiva. L’anima vegetativa presiede alle funzioni della nutrizione, della crescita e della riproduzione. L’anima sensitiva presiede alle sensazioni, cioè ai processi attraverso cui gli organi di senso percepiscono le forme delle cose sensibili senza la materia in cui si trovano. L’anima sensitiva presiede anche alla funzione appetitiva, alla locomozione ed alla funzione immaginativa che, secondo Aristotele, costituisce la radice della conoscenza umana. L’uomo ha in comune con altri animali la percezione e la memoria; mentre è la terza facoltà, razionale o intellettiva, che costituisce una sua prerogativa esclusiva. Aristotele attribuisce all’anima intellettiva due funzioni: quella di «diventare tutte le cose», propria dell’intelletto potenziale, e quella di produrre tutte le cose (gli intelligibili), propria dell’intelletto produttivo o attivo. L’intelletto potenziale è corruttibile e mortale, in quanto legato alle sensazioni e al corpo: in assenza dei dati trasmessi dai sensi, non potrebbe pensare nulla. L’intelletto attivo svolge una funzione simile a quella della luce nella visione: fa sì

che ciò che è conoscibile solo in potenza, diventi conoscibile in atto. È descritto come immortale, eterno, separato, impassibile, non commisto, ma Aristotele non ha mai chiarito se si tratti di una sostanza separata o divina, oppure della parte immortale dell’anima umana: resta il fatto che per il filosofo il pensare è già, di per sé, un’attività divina della quale l’uomo partecipa. La ricerca delle cause e dei princìpi primi: la Metafisica. Sotto il titolo Metafisica (‘le cose o i libri dopo le cose o i libri di fisica’) si raccoglie un insieme di 14 libri raggruppati, secondo un criterio di affinità tematica, da Andronìco di Rodi nel I secolo a.C. Questi libri si occupano di quella che Aristotele designa con i termini di sapienza, filosofia prima e scienza cercata. Il “soggetto” o l’ambito d’indagine di tale scienza è costituito: dalla ricerca delle cause e dei princìpi primi; dalla scienza dell’ente in quanto ente (“ontologia”); dalla teologia (scienza del divino); e dall’indagine sulla sostanza. Nel libro I (Àlpha) la sapienza viene inizialmente definita come conoscenza delle cause e dei princìpi primi. Nel libro IV (Gàmma) viene introdotta per la prima volta l’idea di una scienza dell’ente in quanto ente e delle proprietà che gli competono in quanto tale. N el libro VI (Èpsilon) Aristotele sostiene che la scienza teologica o divina si occupa di ciò che è separato e immobile. Il cuore della Metafisica è dedicato all’analisi della sostanza. In tutti gli enti è possibile distinguere la materia, la forma, e il composto di materia e forma (il sìnolo). Ma cosa propriamente può essere chiamato sostanza? La materia possiede il primo requisito, perché è il sostrato che riceve ogni forma e che sottende ogni cambiamento, ma non soddisfa invece il secondo, perché la materia è in sé indefinita e indeterminata. La forma e il composto potrebbero essere definiti entrambi sostanza, ma poiché ogni sìnolo è ciò che è in virtù della propria forma, solo quest’ultima potrà essere considerata sostanza in senso pieno. Al contrario di Platone, nell’ontologia aristotelica il livello della vera realtà non è dato da idee o forme separate, ma da sostanze “separate” solo in quanto capaci di sussistere individualmente in modo determinato.

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita Nel libro XII (Làmbda) Aristotele si occupa del divino a partire da un dato fisico: il moto eterno dei cieli. Tutto ciò che si muove è sempre mosso da altro e poiché le cause del movimento non possono essere infinite, bisognerà fermarsi a un primo motore immobile, cioè a qualcosa che muova senza essere mosso da altro. Inoltre, poiché l’effetto (il moto celeste) è eterno e continuo, il motore dovrà essere pura attività o puro atto (enèrgheia), privo di potenza. Questa attività eterna e continua è identificata da Aristotele con il pensiero. Il divino si configura come pensiero di pensiero (nòesis noèseos), perfetta coincidenza tra intelletto e intelligibile. Vivere secondo “virtù”: l’Etica Nicomachea e l’Etica Eudemia. Lo scopo dell’etica è eminentemente pratico: essa non serve a conoscere, ma a renderci migliori. L’etica aristotelica non è fondata su un’idea oggettiva, assoluta e universale di bene: i fini umani sono, infatti, molteplici, e molteplici sono i beni. Tuttavia esiste un fine principale, a cui tutti gli altri si orientano. Questo fine è la felicità definita da Aristotele come l’attività dell’anima secondo la virtù. Il termine virtù indica l’eccellenza nello svolgere una funzione, nel fare qualcosa. Poiché ciò che distingue l’uomo, in quanto specie, dagli altri esseri viventi è l’anima razionale, la felicità consisterà nell’attività dell’anima intellettiva, il pensare. N el pensare l’uomo non realizza solo ciò che gli è più proprio, ma partecipa della stessa natura divina. Aristotele suddivide le virtù dell’anima razionale in due gruppi: 1. le virtù dianoetiche, che appartengono

all’anima razionale; 2. le virtù etiche che appartengono alla parte appetitiva dell’anima (coraggio, temperanza, liberalità, magnanimità, giustizia). Per Aristotele, la virtù non è innata, ma è frutto delle abitudini e dell’educazione: essa è una disposizione stabile del carattere. Ogni virtù si colloca fra l’eccesso e il difetto e coincide con la scelta del saggio. Tra le virtù dianoetiche, Aristotele distingue la saggezza dalla sapienza. La prima coincide con la conoscenza di ciò che può essere fatto dall’uomo; la seconda con la divina e disinteressata conoscenza teoretica. Anche le virtù dianoetiche si apprendono tramite l’insegnamento, ma soprattutto attraverso la frequentazione di uomini saggi. Lo Stato e la realizzazione dell’individuo: la Politica. Nella Politica Aristotele dichiara che il fine dello Stato è analogo a quello di ciascun individuo: coincide con la piena realizzazione di sé. Lo Stato ha un’origine naturale (l’uomo è per natura un animale sociale, o politico) ma è anche il risultato storico di forme crescenti di aggregazione che partono dalla famiglia e passano per il villaggio sino alla pòlis. Al contrario di Platone, Aristotele ammette la proprietà privata e la famiglia. Per quanto concerne la classificazione delle forme di governo, o costituzioni, Aristotele ne individua sei, divise in tre coppie a seconda del numero di coloro che esercitano il potere (uno, pochi, molti). In ogni coppia (monarchia/tirannide; aristocrazia/oligarchia; politèia/democrazia) egli distingue una forma corretta, nella quale il potere è esercitato nell’interesse comune, ed una forma de-

generata, in cui il potere è esercitato nell’interesse di chi lo detiene. Il regime preferibile è la politèia che ha in comune con la democrazia la partecipazione di tutti i cittadini e con l’aristocrazia il principio che solo i migliori debbano essere chiamati, a turno, alle cariche di governo. Scienze poietiche: la Retorica e la Poetica. Retorica e poetica rientrano tra le tecniche o le scienze poietiche, finalizzate alla produzione di qualcosa. La retorica riguarda la politica: il suo scopo è di produrre discorsi persuasivi. Ma è legata anche alla dialettica in quanto l’oratore deve esibire un impianto logico coerente, avvalendosi di sillogismi retorici. Nella Poetica Aristotele definisce l’arte come imitazione e forma di apprendimento. La tragedia è la forma artistica perfetta; in quanto «imitazione di azioni e vita». Accanto al valore cognitivo, essa possiede una valenza etica, perché, oggettivando le passioni sulla scena, contribuisce a purificare e riequilibrare le emozioni negli spettatori (catarsi). Aristotele e il piacere della conoscenza. Aristotele ha composto numerosi altri trattati, rivolgendo la propria curiosità conoscitiva a diversi aspetti della realtà, e in particolare agli animali. Nelle Parti degli Animali ci spiega il perché di questo interesse: anche se la conoscenza delle cose divine e incorruttibili procura allo studioso una felicità maggiore, le cose di questo mondo sono fonte di gioie incommensurabili perché «in tutte le realtà naturali vi è qualcosa di meraviglioso».

BIBLIOGRAFIA Fonti

• Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Laterza, RomaBari 20057; Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, con la collaborazione di G. Girgenti e I. Ramelli, Bompiani, Milano 2005. • Luciano di Samosata, I filosofi all’asta. Il pescatore. La morte di Pellegrino, introd. di D. Del Corno, premessa, trad. e note di C. Ghirga e R. Romussi, Rizzoli, Milano 2004.

• Aristotele, Topici, in Opere, vol. II, a cura di G. Giannantoni, trad. di G. Colli, Laterza, Roma-Bari 19944. • Aristotele, Analitici secondi. Organon IV, a cura di M. Mignucci, introd. di J. Barnes, testo greco a fronte, Laterza, Roma-Bari 2007. • Aristotele, Confutazioni sofistiche. Organon VI, a cura di P. Fait, testo greco a fronte, Laterza, Roma-Bari 2007.

• Aristotele, Dell’anima, in Opere, vol. IV, trad. di A. Russo, R. Laurenti (la traduzione del De anima si deve in particolare a Laurenti), Laterza, Roma-Bari 20078. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1978, poi Bompiani, Milano 2000 (nella serie «Testi a fronte») e 2004 (nella serie «Il pensiero occidentale»). Aristotele, Etica Nicomachea, trad., introd. e note di C. Natali,

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Aristotele capitolo 5 Laterza, Roma-Bari 20075 («Classici della filosofia con testo a fronte»). Aristotele, Etica Eudemia, trad., introd. e note di P. Donini, Laterza, Roma-Bari 20052 («Classici della filosofia con testo a fronte»). Aristotele, Politica, in Opere, vol. IX, trad. di R. Laurenti, Laterza, RomaBari 20045. Aristotele, Poetica, in Opere, vol. X**, trad. di M. Valgimigli, a cura di P. Donini, Laterza, Roma-Bari 19926. Aristotele, Le parti degli animali, in Opere, vol. V, trad. di M. Vegetti, D. Lanza, Laterza, Roma-Bari 20013.

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Opere

ESERCIZI

L’edizione classica di riferimento per le opere aristoteliche rimane come detto quella curata da Immanuel Bekker per la Reale Accademia Prussiana delle Scienze: Aristotelis Opera edidit Academia Regia Borussica, Reimer, Berlin 18311870, 5 voll. [ Citare Aristotele, p. 97]; rist. a cura di O. Gigon, W. de Gruyter, Berlin 1960-1961. A O. Gigon si deve anche la curatela del terzo volume che ha sostituito il precedente, e che ora contiene i frammenti delle opere perdute (Librorum deperditorum fragmenta, W. de Gruyter, Berlin 1987). Le edizioni critiche più recenti e affidabili di quasi tutte le opere aristoteliche sono invece disponibili nelle serie «Oxford Classical Texts» (Clarendon Press, Oxford) e «Collections des Universités de

France» (Les Belles Lettres, Paris, con trad. francese). La traduzione italiana più completa degli scritti aristotelici è tuttora: Aristotele, Opere, a cura di G. Giannantoni, 11 voll., Laterza, RomaBari 1984 (e successive ristampe dei singoli volumi). Sia Laterza che Bompiani hanno pubblicato numerose traduzioni di opere aristoteliche in edizione separata, con testo greco a fronte (ad alcune di esse abbiamo già fatto riferimento nella sezione “Fonti”).

cati dallo stesso Berti ad Aristotele, e ora in parte raccolti nei volumi: E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I. Epistemologia, logica, dialettica, Morcelliana, Brescia 2004; II. Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, Brescia 2005; III. Filosofia pratica, Morcelliana, Brescia 2008.

Studi critici

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La presentazione senza dubbio più agile del pensiero aristotelico, che ha inoltre il grande merito di mettere in evidenza la grande curiosità intellettuale di Aristotele più che gli aspetti sistematici che gli sono stati tradizionalmente attribuiti, è quella di: J. Barnes, Aristotele, Einaudi, Torino 2002.

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Un’illustrazione analitica del contenuto delle singole opere aristoteliche si trova invece in: A. Jori, Aristotele, Bruno Mondadori, Milano 2008.

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I diversi aspetti del pensiero aristotelico sono analizzati con cura nel volume collettivo: Guida ad Aristotele. Logica, fisica, cosmologia, psicologia, biologia, metafisica, etica, politica, poetica, retorica, a cura di E. Berti, Laterza, Roma-Bari 20074; nonché nei numerosi contributi dedi-

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1. Su quali fattori si fonda la fortuna di Aristotele nella storia del pensiero? (max 10 righe) 2. Qual è la differenza fra gli scritti essoterici e gli scritti esoterici? (max 8 righe) 3. In che cosa consiste la lettura “genetica” o “evoluzionista” del pensiero di Aristotele? (max 5 righe) 4. Dopo aver chiarito perché gli scritti di logica vanno sotto il nome di Òrganon, rispondi alle seguenti domande. a. Di che cosa si occupa Aristotele nelle Categorie? b. Quali funzioni hanno le categorie? (max 10 righe) 5. Metti a confronto la concezione dell’essere esposta da Aristotele nelle Categorie e nella Metafisica con quella esposta da Platone nel Sofista. Come si rapportano al problema della molteplicità i due autori? (max 15 righe)

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Per quanto riguarda più in particolare la Metafisica, si danno ovviamente letture diverse, se non contrapposte. L’unità e coerenza dell’opera è difesa per esempio da Reale in: G. Reale, Il concetto di “filosofia prima” e l’unità della Metafisica di Aristotele. Con due saggi sui concetti di potenza-atto e di essere, Vita e Pensiero, Milano 19946; G. Reale, Guida alla lettura della Metafisica di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 20074.

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Al contrario, un punto di riferimento ineludibile per cogliere le discontinuità, le stratificazioni, le difficoltà filologiche e contenutistiche dell’opera è rappresentato da: P. Donini, La Metafisica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2007.

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Sulla filosofia pratica aristotelica, si veda poi in particolare: C. Natali, La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1989.

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Infine, sulle interpretazioni e la fortuna di Aristotele nel Novecento cfr.: E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2008.

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6. Dopo aver chiarito la natura del rapporto tra sostanze prime e sostanze seconde, spiega perché questo costituisce un punto di distacco da Platone (max 10 righe). 7. Esplicita il nesso posto da Aristotele nel De interpretatione tra linguaggio, concetti e realtà esterna (max 10 righe). 8.Formula, per ciascuna tipologia, una proposizione: Universale affermativa: . .................................................. ......................................................................................... Universale negativa: ........................................................ ......................................................................................... Particolare affermativa: ................................................... ........................................................................................ Particolare negativa: ....................................................... ........................................................................................

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita Singolare affermativa: .................................................... ........................................................................................ Singolare negativa: ......................................................... ........................................................................................

Poietiche

9. Spiega che cos’è il sillogismo, come si compone e quali sono le differenze tra i diversi tipi studiati da Aristotele (max 8 righe).

18. Dopo aver chiarito qual è l’oggetto della Fisica, esponi la dottrina aristotelica del divenire utilizzando i seguenti concetti: materia, privazione, forma, potenza e atto, causa agente, formale, materiale e finale (max 15 righe).

10. Esplicita la differenza tra validità e verità di un sillogismo servendoti di un esempio (max 8 righe). 11. Spiega in che cosa consiste il sillogismo scientifico, riferendoti alle caratteristiche delle premesse (max 5 righe). 12. Completa il seguente brano, inserendo i termini appropriati tra quelli proposti: terzo escluso • scientifico • premesse • ipotesi • dimostrazione • sillogismo • conclusione • princìpi primi • assiomi • immediate • non-contraddizione • definizioni • causa Un sillogismo ............................ si distingue da un .......................... generale perché le sue ........................ devono essere vere, prime ed ............................ poiché non sono oggetto di ............................, anteriori alla ............................ e ........................... della conclusione. Il sillogismo scientifico parte da ................................. . Questi sono gli ............................... come per esempio il principio di ........................................ e quello del ............................ e i princìpi propri di ciascuna scienza, ovvero ............................ e ........................................... . 13. Dopo aver ricordato come si perviene alla conoscenza dei princìpi primi, descrivi nei suoi passaggi fondamentali il procedimento induttivo-astrattivo, utilizzando i seguenti concetti: astrazione, induzione, tratti universali, nùs, esperienza, intuizione, ricordo (max 15 righe). 14. Qual è la differenza fra sillogismo scientifico e sillogismo dialettico? (max 5 righe) 15. Chiarisci la differente concezione della dialettica in Platone e Aristotele (max 10 righe). 16. Innatismo ed empirismo: esplicita la differenza fondamentale fra questi due approcci gnoseologici mettendo a confronto la posizione di Platone e quella di Aristotele con opportuni riferimenti alle opere dei due filosofi (max 15 righe). 17. Dopo aver completato il seguente schema, esponi in un testo l’articolazione delle scienze secondo Aristotele (max 15 righe). Scienze Oggetto Scopo Teoretiche

Pratiche

1. ........................................................ 2. ....................................................... 3. ....................................................... 1. ........................................................ 2. .......................................................

1. ........................................................ 2 ........................................................ 3. ....................................................... 4. .......................................................

19. Perché lo studio della fisica precede quello della filosofia prima? (max 5 righe) 20.Perché Aristotele identifica l’intelletto attivo con una sostanza separata? Quali sono le sue caratteristiche? (max 8 righe) 21. Attribuisci ad ogni concetto la definizione appropriata: per causa materiale si intende ........................................ ........................................................................................ per causa formale si intende ........................................... ........................................................................................ per causa agente si intende ............................................ ........................................................................................ per causa finale si intende .............................................. ........................................................................................ 22.È possibile paragonare la dottrina delle quattro cause di Aristotele alla dottrina delle idee di Platone? Motiva la tua risposta (max 10 righe). 23. Definisci i quattro tipi di mutamento per Aristotele. 24.Perché il movimento locale è il tipo di mutamento più importante? (max 5 righe) 25. Chiarisci il senso della definizione aristotelica del tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (max 8 righe). 26.Inserisci nella tabella i concetti corrispondenti ed elabora un testo sulla fisica aristotelica esplicitando i seguenti punti (max 15 righe): a. caratteristiche dell’Universo; b. rapporto tra mondo celeste e mondo sublunare. Elementi Movimento Mondo sublunare ......................... .......................... Mondo celeste

........................

..........................

27. Perché l’Universo aristotelico comprende un numero di sfere omocentriche maggiore rispetto al numero dei corpi celesti visibili? Di quale modello si avvale il filosofo? (max 8 righe) 28.Completa lo schema attribuendo a ciascuna facoltà dell’anima le funzioni e gli esseri viventi corrispondenti.

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ESERCIZI

Aristotele capitolo 5 Al termine elabora un testo filosofico sulla concezione aristotelica dell’anima precisando (max 15 righe): a. il rapporto tra le tre funzioni; b. il rapporto tra intelletto passivo e intelletto attivo. Funzioni Esseri viventi Anima vegetativa ................. Anima sensitiva ................. Anima intellettiva .................

................. ................. .................

29.Completa il brano inserendo i termini appropriati tra quelli elencati: nutrizione • sensazioni • razionale • vegetativa • le forme • funzioni • immaginativa • appetitiva L’anima ............................ presiede alle funzioni della ......................., della crescita e della riproduzione; l’anima sensitiva presiede alle ......................., ovvero ai processi grazie ai quali gli organi percepiscono ....................... delle cose sensibili, e alle funzioni ............................... e ....................... . Tali ....................... sono comuni all’uomo e all’animale. Solo la funzione .......................... è prerogativa esclusiva dell’uomo.

34.Sottolinea ciò che, per Aristotele, rientra nella categoria di sostanza e barra ciò che ne è escluso: ricevere predicazioni • materia • forma • essere predicato di qualcos’altro • specie • universale • forma e materia • sussistenza autonoma • genere • individuo 35. Nel libro XII della Metafisica, Aristotele enuclea le caratteristiche dell’essere divino. Completa lo schema spiegando il significato di ciascuna di esse ed elabora un testo sulla dottrina dei motori immobili (max 15 righe). 1. Primo motore immobile = ............................................ 2. Puro atto = .................................................................. 3. Pensiero di pensiero = ................................................ 4. Causa finale = .............................................................. 36.Secondo la tradizione i 14 libri della Metafisica, pur essendo stati composti in tempi diversi, sono dotati di una intrinseca unità. Spiega su che cosa si fonda questo giudizio (max 8 righe). 37. Spiega qual è e in che cosa consiste il fine ultimo dell’agire umano (max 8 righe).

30.Riassumi brevemente qual è l’origine dell’opera in 14 libri che ci è stata tramandata come Metafisica e spiega i possibili significati del termine (max 8 righe).

38.Esplicita in un breve testo quale nesso intercorre fra i seguenti concetti: felicità, virtù perfetta, anima intellettiva, pensare (max 15 righe).

31. Quali sono i “soggetti” d’indagine della sapienza o filosofia prima? (max 8 righe)

39.Elabora un testo sulla virtù in Aristotele utilizzando i termini seguenti: virtù etiche, virtù dianoetiche, intellettualismo, medietà, disposizioni, saggezza, sapienza (max 15 righe).

32. Riassumi la tripartizione delle scienze teoretiche contenuta nel libro VI della Metafisica e sviluppa i seguenti punti: a. indica qual è l’ambito di indagine di ciascuna; b. chiarisci il differente significato che l’aggettivo “separato” assume nel lessico aristotelico rispetto a quello platonico; c. spiega perché la filosofia prima coincide con la scienza teologica o divina (max 15 righe). 33. L’indagine sulla sostanza costituisce il cuore della Metafisica di Aristotele. Elabora un breve testo su questo argomento sviluppando i seguenti punti: a. il rapporto tra i significati dell’essere e la sostanza; b. le caratteristiche della sostanza; c. il rapporto sussistente tra i concetti di sostanza, materia, forma e sìnolo; d. la differenza fra l’ontologia platonica e quella aristotelica (max 20 righe).

40.Qual è la differenza fra etica descrittiva ed etica prescrittiva? (max 5 righe) 41. Qual è l’origine e il fine dello Stato per Aristotele? Dopo aver risposto a questa domanda evidenzia i punti di distanza tra il pensiero politico di Aristotele e quello di Platone (max 10 righe). 42.Elenca le forme sane di governo e quelle degenerate, e chiarisci quale criterio le distingue. Esiste, fra tutte, una costituzione migliore? (max 8 righe) 43.Perché la tragedia ha un valore, oltre che conoscitivo, etico? (max 5 righe) 44.Confronta le tesi di Platone e Aristotele sull’arte (max 15 righe).

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capitolo 6

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La filosofia ellenistica

1 Un quadro d’insieme: la cultura ellenistica Il termine “ellenismo” è diventato di uso corrente a partire dalla prima metà del XIX secolo, ovvero da quando lo storico tedesco Johann Gustav Droysen lo adoperò per designare il periodo storico compreso fra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e la battaglia di Azio (31 a.C.), l’evento che, con la conquista dell’Egitto, segnò l’inizio dell’Impero romano. Da allora, “ellenistica” viene definita la civiltà derivante dall’estensione delle conquiste greche verso l’Oriente, e non riconducibile a una sola delle sue componenti – quella greca o quella orientale. Nel periodo ellenistico, l’asse della vita politica si spostò gradualmente dalle pòleis ai più vasti Stati territoriali, ma tale spostamento da un lato non impedì alle città-Stato di mantenere una propria (sia pur limitata) autonomia, e dall’altro favorì lo sviluppo di un clima ideologico nuovo, improntato essenzialmente all’universalismo (cioè all’adozione di una prospettiva universale, e non cittadina o locale, come dimensione appropriata per la vita sociale): le

pòleis venivano infatti inglobate ora nell’oikumène, o ‘mondo comune abitato’, che raccoglieva in sé etnie, tradizioni e culture profondamente diverse. Simbolo, nonché veicolo, di questo nuovo universo culturale fu la koinè, la lingua comune greca: essa facilitò gli scambi commerciali, che si intensificarono con il progressivo ampliarsi dell’orizzonte geografico, e diventò ben presto la lingua d’uso, finendo con il soppiantare i vari dialetti locali. Venne così ad attenuarsi ogni rigida distinzione fra Greci e barbari, perché “elleni” potevano ora considerarsi tutti coloro che appartenevano al mondo greco e parlavano greco, qualunque fosse la loro origine effettiva. Da un punto di vista storico-politico, la morte di Alessandro Magno aprì una fase di lotte intestine e di alleanze instabili fra i suoi successori (i diàdochi), che condusse prima alla spartizione dell’Impero in cinque grandi regni (Macedonia, Egitto, Babilonia, Tracia e Asia Minore), e poi, nel 280 a.C., a una nuova divisione in tre monarchie: il Regno di Egitto con Tolomeo II, il Regno d’Asia con Antìoco I e il Regno di Macedonia con Antìgono Gonata.

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La filosofia ellenistica capitolo 6

La filosofia durante l’ellenismo

Gli scontri che segnarono l’età ellenistica furono provocati, tuttavia, non solo dalla competizione per il potere esplosa tra i diàdochi, ma anche dai reiterati tentativi da parte delle pòleis di riconquistare un maggiore margine di indipendenza. Nacquero a tal fine leghe regionali, e cioè organizzazioni confederali fra più pòleis, che nelle intenzioni delle città contraenti avrebbero dovuto garantire loro più forza e autonomia. Le conseguenze di questi cambiamenti sul tessuto sociale e sulla pratica stessa della filo-

Mar Nero

Elide

Atene

Samo

Cipro

Mar Mediterraneo

Alessandria d’Egitto

Nel periodo convenzionalmente chiamato ellenismo (323 a.C.31 a.C.) nacquero tre nuove scuole o tradizioni filosofiche: epicureismo, stoicismo e scetticismo. L’epicureismo ha origine nel pensiero di Epicuro, nato a Samo (341 a.C.) e trasferitosi ad Atene nel 307/306. Il fondatore dello stoicismo, Zenòne di Cizio, nacque in una città dell’isola di Cipro (333 a.C.) così come il cosiddetto secondo fondatore dello stoicismo, Crisìppo (ca. 281 a.C.). Entrambi si trasferirono poi ad Atene. Il primo degli scettici è considerato Pirròne, nato ad Èlide nel 365 a.C. Lo scetticismo penetrò nell’Accademia platonica di Atene nel corso del III secolo a.C. Insieme ad Atene, il più grande centro di ricerca scientifico-filosofica del periodo ellenistico fu Alessandria d’Egitto, sede del Museo e della Biblioteca.

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sofia sono facilmente intuibili. Mutò innanzi tutto il rapporto degli individui con l’attività politica: dal momento che la singola città non rappresentava più, in generale, l’orizzonte di riferimento della vita politica, le possibilità di un impegno personale diretto vennero a ridursi considerevolmente. Parallelamente, la filosofia radicalizzò la sua tendenza a presentarsi come un’opzione esistenziale in grado di procurare – anche al di fuori dell’impegno politico – rassicurazione e felicità. Significativamente, proprio in questo periodo storico nacquero (venendo così a convivere con l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico) nuove scuole filosofiche, che rappresentarono – ciascuna con i propri dogmi e i propri princìpi – primariamente un modello di vita [ 1]. L’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo (in realtà, in quest’ultimo caso, una tradizione, più che una vera e propria scuola) si caratterizzano in effetti in primo luogo per la proposta di una serie specifica di “esercizi spirituali” che, come una sorta di allenamento o una terapia, avrebbero dovuto assicurare il progresso verso la saggezza. In termini generali, queste pratiche di addestramento dello spirito consistevano nel controllo delle passioni e nella concentrazione su di sé, attraverso l’affrancamento dalle (pre)occupazioni quotidiane. Come già ai suoi inizi, e anzi in misura ancora maggiore, la filosofia nel periodo ellenistico non è soltanto un insieme di dottrine o una determinata visione del mondo, ma investe più direttamente la “sfera del sé” e impegna tutta l’esistenza di colui che vi si dedica: una vera e propria conversione che trasforma radicalmente la vita del singolo e gli offre la possibilità di raggiungere la pace interiore, l’autonomia e la serenità a cui aspira.

1. La cultura ellenistica fu caratterizzata: a. dallo spostamento dell’interesse politico dalle pòleis agli Stati territoriali.

b. da un nuovo clima ideologico improntato all’universalismo.

c. da una marcata distinzione tra Greci e barbari. d. da una radicalizzazione della concezione della filosofia come scelta esistenziale.

V F V F V F V F

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

Epicuro

Nelle Vite dei filosofi, Diògene Laèrzio racconta che Epicuro intraprese fin da giovanissimo (appena quattordicenne) lo studio della filosofia. A spingerlo a questa scelta fu il desiderio di riuscire a comprendere i versi di Esìodo sull’origine del Caos, che il maestro di grammatica non era stato in grado di spiegargli [ Il mito, p. 7]. Tra i filosofi ai quali si affidò, vengono indicati il platonico Pànfilo e il democriteo Nausifànte, che con ogni probabilità gli fece conoscere per primo i fondamenti dell’atomismo.

2 Dal Caos al Giardino: la vita e gli scritti di Epicuro Epicuro nacque a Samo nel 341 a.C. da genitori ateniesi. Trasferitosi a sua volta ad Atene nel 307-306, vi acquistò una casa e un giardino, in cui fondò la scuola che di lì trasse il suo nome: il Giardino raccolse attorno alla figura di Epicuro – venerato come guida, se non addirittura come vero e proprio salvatore – un gruppo di amici e seguaci (di cui fecero parte sia donne che schiavi) che praticavano la filosofia in comune. In conformità con i princìpi professati, Epicuro visse frugalmente nella scuola con i suoi discepoli, fino alla morte, avvenuta nel 271 a.C. Delle circa trecento opere che, stando ancora a Diògene Laèrzio, furono composte da Epicuro, è rimasto ben poco: tre lettere indirizzate ad amici e destinate a compendiare le dottrine sui princìpi della fisica (A Erodoto), sui fenomeni celesti (A Pitocle) e sulla morale (A Meneceo); una doppia raccolta di massime e sentenze (le Massime capitali e le cosiddette Sentenze vaticane) e una serie di frammenti, alcuni dei quali recuperati dai papiri ritrovati a Ercolano nella villa di un ricco romano epicureo. Informazioni essenziali sul pensiero di Epicuro provengono poi dal De rerum natura di Lucrezio (98 a.C.-55 a.C.) [ 7.5.1], che fu tra i principali sostenitori dell’epicureismo a Roma.

3 La canonica e la fisica La filosofia di Epicuro è stata tradizionalmente suddivisa in tre parti: canonica, fisica ed etica; sembra tuttavia più corretto (e cioè più rispettoso delle intenzioni dello stesso Epicuro) considerare la canonica non tanto come una parte a sé stante, quanto piuttosto come un’introduzione alla fisica e, più in particolare, alla dottrina atomistica. Si legge, infatti, nell’introduzione alla Lettera a Erodoto (concepita per esporre i princìpi della fisica):



Primariamente, o Eròdoto, conviene renderci conto del significato fondamentale delle parole, per poterci ad esso riferire come criterio nei giudizi, o nelle indagini o nei casi dubbi: se no senza criterio procederemo all’infinito nelle dichiarazioni, o useremo parole vuote di senso. [Lettera a Erodoto, 37]



La canonica (dal greco kànon: il ‘filo a piombo’ dei muratori e, per traslato, il criterio di valutazione della verità) è così fondamentalmente una teoria del linguaggio e della conoscenza. Per Epicuro la conoscenza si fonda sulla sensazione, che è di per sé necessariamente vera, nella misura in cui riproduce sempre un oggetto esterno. Quello che viene riprodotto o rappresentato, tuttavia, non è propriamente l’oggetto, ma una sua immagine o simulacro (èidolon), che, come un effluvio fatto di atomi sottilissimi e assai veloci, procede dall’oggetto stesso fino agli organi di senso. In questo passaggio dall’oggetto all’organo percipiente l’immagine può subire alterazioni o deformazioni, così come quando, per esempio, consideriamo rotonda, guardandola da lontano, una torre che da vicino risulta invece essere a pianta quadrata. Da che cosa dipende un errore di questo tipo? Per Epicuro, esso non si colloca propriamente nella sensazione, che consiste solo in una registrazione passiva dell’èidolon, ma nel giudizio che sulla sensazione viene formulato. L’unico modo che si ha per

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La filosofia ellenistica capitolo 6

LA GNOSEOLOGIA EPICUREA

evitare giudizi ingannevoli è, in questo senso, quello di selezionare criticamente le immagini: valutare, cioè, il loro essere o meno corrispondenti all’oggetto sulla base dell’evidenza che le accompagna. Bisogna, inoltre, fare in modo che l’organo percipiente sia nelle condizioni migliori per esercitare la sua funzione: per tornare all’esempio precedente, occorre insomma avvicinarsi alla torre, in modo tale da constatare la sua forma effettiva. Memorizzando le sensazioni e le immagini evidenti si giunge alla progressiva formazione

delle anticipazioni, la cui funzione è appunto quella di anticipare i concetti già noti o gli oggetti individuali già percepiti, senza doverne fare nuovamente esperienza [ La gnoseologia epicurea]. Al di là di ciò che è controllabile o immediatamente evidente, esistono per Epicuro cose che restano inaccessibili o nascoste. Rientra in quest’ultima categoria ciò che non può essere direttamente controllato (i fenomeni celesti e atmosferici), e ciò che, pur rappresentando una componente fondamentale del mondo fisico (il

I termini del processo conoscitivo SENSAZIONE

È il fondamento di ogni conoscenza: in quanto semplice registrazione di uno stimolo esterno, è di per sé necessariamente sempre vera.

IMMAGINE

È ciò che dell’oggetto esterno viene effettivamente riprodotto o rappresentato.

GIUDIZIO

È ciò che viene formulato intorno alla sensazione. Può di fatto essere ingannevole, se non si dà una perfetta corrispondenza tra l’immagine e l’oggetto.

ANTICIPAZIONE

È ciò che, in seguito alla memorizzazione di sensazioni, consente di anticipare quello che è già noto, senza doverne fare nuovamente esperienza.

Schema del processo conoscitivo Oggetti immagini

effluvi di atomi sottilissimi e veloci sensazioni (sempre vere)

organi di senso

giudizi (ingannevoli se non si dà corrispondenza fra immagini e oggetti) anticipazioni

dagli oggetti si staccano gli effluvi di atomi sottilissimi e veloci gli effluvi producono le immagini gli organi di senso producono le sensazioni le sensazioni producono le anticipazioni

le immagini colpiscono gli organi di senso le sensazioni sono all’origine dei giudizi (i giudizi vengono cioè formulati a partire da esse)

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

vuoto e gli atomi), non può essere colto dai sensi, ma solo ricavato per induzione, ovvero inferendo dalle cose di cui i sensi attestano l’evidenza quello che non sarebbe altrimenti percepibile. In questo modo Epicuro giunge a postulare: a. l’esistenza del vuoto a partire dall’esistenza del movimento (il movimento, infatti, non sarebbe ammissibile, se tutto fosse pieno); b. l’esistenza degli atomi a partire dal fatto che, se nulla può nascere dal nulla e nulla può risolversi nel nulla, deve necessariamente esserci qualcosa di corporeo e indivisibile, l’atomo, da cui tutto si forma e in cui tutto si risolve. L’Universo epicureo si compone, pertanto, di atomi e vuoto; o, più precisamente, di un numero infinito di corpi indivisibili, che si muovono in uno spazio vuoto infinito. Una delle principali novità apportate da Epicuro alla teoria atomistica democritea [ 2.10.3] sta nel fatto che, a suo giudizio, gli atomi non costituiscono l’unità estesa più piccola: essi stessi constano di parti minime indivisibili, i minima, che determinano, a seconda del loro numero e della loro disposizione, rispettivamente la grandezza e la forma degli atomi. A differenziare fra loro i corpi indivisibili non è, tuttavia, solamente questo: occorre infatti aggiungere alla grandezza e alla forma anche il peso, che è all’origine del movimento. L’unica direzione ammissibile del movimento dell’atomo è quella verso il basso (sebbene esso vada inteso come qualcosa di ideale o relativo: non esistono, infatti, nel vuoto infinito, un alto e un basso assoluti). Per questo motivo appare inevitabile ipotizzare che, nella caduta, alcuni atomi subiscano una deviazione (seppur minima) dalla perpendicolare: se così non fosse, se cioè tutti gli atomi cadessero sempre perpendicolarmente, essi non potrebbero mai incontrarsi (o scontrarsi), e non si avrebbero le aggregazioni, che derivano invece proprio dall’incontro di un atomo con gli altri. Questa dottrina, detta della “declinazione”, cioè della deviazione degli atomi rispetto alla loro linea ipotetica di caduta perpendicolare, inserisce un fattore di indeterminazione (se non di casualità) nella costituzione del mondo. Per la verità, di tale dottrina non c’è traccia alcuna nella produzione di Epicuro giunta fino a noi:

essa si ritrova piuttosto in Lucrezio, a cui si deve tanto la sua compiuta esposizione, quanto il nome latino che l’ha resa nota, e cioè quello di clinamen. Ma se fosse già stata elaborata o almeno prospettata da Epicuro, così come ci viene detto dallo stesso Lucrezio, l’ipotesi della declinazione troverebbe comunque un riscontro nella sua etica, in quanto confermerebbe, contro ogni forma di rigido determinismo (contro cioè la tesi secondo cui tutto avviene in modo necessario), la possibilità, da parte dell’uomo, di scegliere e di orientare in vario modo i propri comportamenti. 1. Nella canonica di Epicuro, l’errore nella conoscenza dipende:

a. dalla sensazione che non registra passivamente le immagini.

b. dalle immagini stesse, deformate dagli oggetti da cui sono prodotte.

c. dal giudizio interno alle sensazioni. d. dal processo di memorizzazione delle sensazioni e delle immagini.

2. L’esistenza del vuoto e degli atomi per Epicuro: a. è attestata dai sensi. b. è frutto di un’induzione. c. è attestata dal ragionamento deduttivo. d. è ricavata dalla dottrina della declinazione.

4 L’anima e gli dèi Un passo, tratto dalla Lettera a Erodoto, sintetizza nel modo più efficace la teoria epicurea sull’anima:



Noi non possiamo pensare di per sé stesso esistente nulla di incorporeo, se non il vuoto; però il vuoto non è suscettibile di attività né di passività alcuna, ma solamente dà modo ai corpi di muoversi attraverso sé stesso. Perciò, vaneggiano coloro che sostengono che l’anima è incorporea, perché se fosse incorporea, come affermano, non potrebbe essere né attiva né passiva; mentre è chiaro che l’anima la concepisci fornita di queste contingenze. [Lettera a Erodoto, 67]



La capacità di agire e patire (ovvero: subire azioni da parte di altro) – afferma qui Epicuro –

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La filosofia ellenistica capitolo 6

è propria solo dei corpi: a tutto ciò che non è corpo non si possono pertanto in alcun modo attribuire l’azione e la passione. L’anima però agisce e patisce, come dimostrano le sensazioni e le affezioni (il fatto cioè che l’anima provi gioia o dolore). Si dovrà pertanto concludere, contro l’intera tradizione platonica, che l’anima non solo è legata al corpo al punto tale da essere (proprio come quest’ultimo) mortale, ma è essa stessa un corpo composto di atomi [ T15]. Più precisamente: nella sua composizione entrano atomi leggeri e sottili, come quelli che costituiscono il fuoco, l’aria non mossa, il vento, nonché, per Epicuro, anche una quarta natura senza nome. Se gli atomi di quest’ultima natura non meglio specificata sono all’origine della sensazione, gli altri mettono l’anima rispettivamente nelle condizioni di conferire calore vitale all’organismo e di funzionare da principio del suo movimento e della sua quiete. Ora, è proprio la tesi della natura corporea dell’anima – con la convinzione che essa scompaia assieme al corpo – ciò che secondo Epicuro può liberare definitivamente l’uomo dalla paura della morte: «Il più orribile dei mali, la morte, non è dunque nulla per noi; poiché quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa c’è, allora noi non siamo più» – scrive Epicuro in un celebre passo della Lettera a Meneceo. Con la dispersione finale degli atomi, non c’è più nulla di sensibile che possa esperire in un qualunque modo la morte, provando angoscia o dolore per essa. Altrettanto insensato è in quest’ottica il timore degli dèi: basandosi sul consenso universale (la nozione di dèi è comune a tutti gli uomini), è lecito secondo Epicuro affermare che gli dèi esistono (e una tale nozione comune a tutti gli uomini proviene in effetti dagli atomi sottilissimi ed eterei di cui gli dèi stessi sono composti); essi hanno come proprietà essenziali l’immortalità e la felicità, ma vivono beati negli spazi compresi fra gli infiniti mondi, affrancati da qualsiasi passione e assolutamente incuranti del mondo e degli uomini. Come si legge in un altro celebre passo della stessa Lettera a Meneceo:



Gli dèi certo esistono: evidente infatti n’è la conoscenza; ma non sono quali il volgo li crede; perché non li mantiene conformi alla nozione

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che ne ha. Non è perciò irreligioso chi gli dèi del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi. [Lettera a Meneceo, 123-124]



Ritenere, pertanto, che gli dèi intervengano con premi e castighi nelle vicende umane non è – esattamente come la paura della morte – niente di più che una credenza fallace, o un’inutile fonte di turbamento, da cui è opportuno liberarsi proprio attraverso la pratica filosofica. 1. Per Epicuro l’anima: a. possiede la capacità, propria dei corpi, di agire e patire. b. ha una natura immortale. c. è costituita da atomi leggeri e sottili. d. è costituita da atomi di natura spirituale.

V V V V

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5 Implicazioni etiche e politiche Il tema della liberazione dalle false credenze intorno all’anima e agli dèi esprime già un tratto di fondo dell’etica epicurea. Quest’ultima, tuttavia, non si propone soltanto di rimuovere i timori che paralizzano l’uomo (quelli appunto relativi alla morte e all’intervento divino), ma comprende una parte più propositiva, fondata sulla convinzione che non sia difficile né conseguire il bene, né affrontare il dolore: quest’ultimo, in effetti, se è lieve, è per ciò stesso facilmente sopportabile; se è invece acuto e intollerabile, o è di breve durata o conduce rapidamente alla morte, che segna al contempo la fine di ogni dolore. N el complesso, ciò che si ricava da questa sistemazione è il celebre tetrafarmaco [ T55], ovvero un quadruplice rimedio in grado di assicurare di per sé la felicità: a. non aver timore degli dèi; b. non aver paura della morte; c. considera il piacere facilmente conseguibile; d. considera il dolore fisico facilmente tollerabile, o tale da scomparire con la morte stessa.

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

Una sintetica ma compiuta formulazione di questo schema si trova nella sezione conclusiva della Lettera a Meneceo:



Chi stimi superiore a colui che ha opinione reverente degli dèi, ed è impavido sempre di morte e fermamente conosce qual è il fine secondo natura, e sa come il limite del bene ha facile compimento ed agevole abbondanza, il limite dei mali invece ha piccol tempo o doglia; e quel potere che alcuni considerano signore supremo del mondo, proclama vano nome e senza soggetto, il destino o fato? E saggio appunto è chi in noi ripone la causa principale degli avvenimenti. [Lettera a Meneceo, 123-124]



Saggio è dunque colui che, applicando l’ideale del tetrafarmaco alla sua stessa esistenza, raggiunge lo stato di atarassìa (imperturbabile tranquillità dell’anima) e di aponìa (assenza del dolore), con il risultato di fruire in modo durevole del massimo bene che si possa concepire, e cioè il piacere. Il piacere a cui Epicuro fa riferimento non è quello intenso dei sensi e delle emozioni; anzi, Epicuro distingue espressamente fra piacere cinetico (o dinamico) e piacere catastematico (o statico): solo quest’ultimo, che è il frutto di una totale assenza di turbamento e sofferenza, garantisce una vita autenticamente e stabilmente felice, mentre il primo è meramente transitorio, e deriva dalla soddisfazione di alcuni bisogni elementari. A monte della condizione felice o piacevole, c’è secondo Epicuro un «sobrio calcolo razionale», ovvero una valutazione comparativa dei desideri che consenta di allontanarsi dalle false opinioni e di orientarsi in modo adeguato nelle singole scelte. I desideri, infatti, potrebbero essere classificati in: a. naturali e necessari, ovvero quei desideri che (come la filosofia e l’amicizia) vengono perseguiti in vista della felicità o (come il mangiare, il bere e il ripararsi) in vista del benessere del corpo; b. naturali, ovvero quei desideri che possono essere soddisfatti per lo più occasionalmente (l’amore, per esempio); c. vuoti, ovvero quei desideri che non possono essere mai pienamente soddisfatti, e perciò degenerano nella morbosa ricerca di qualcosa di ulteriore (è il caso della ricchezza, della fama e del potere).

Per essere felici occorre, secondo Epicuro, operare una scelta per così dire “economica” dei propri desideri, evitando di inseguire quelli naturali (b) e ancor più quelli vuoti (c), ma cercando di soddisfare solo quelli naturali e necessari (a). Ciò che aiuta in questa scelta è la saggezza: è da essa infatti che dipende il calcolo misurato e, dunque, il conseguimento del piacere. La saggezza insegna che non si può vivere piacevolmente se non si vive anche secondo virtù, e cioè, in definitiva, che piacere e virtù non solo non si oppongono, ma di fatto coincidono. Ma la saggezza non opera da sola: tutte le altre virtù (che da essa traggono comunque origine) sono altrettanti mezzi in vista di un unico fine. Così, per esempio, la temperanza permette di accontentarsi del poco; il coraggio fa sì che sia possibile affrontare il dolore e le sofferenze senza esserne turbati; la giustizia è un’indispensabile fonte di sicurezza. Il riferimento alla giustizia, quale strumento che, assieme alle altre virtù, contribuisce a raggiungere il piacere, ci permette di considerare le implicazioni socio-politiche del discorso di Epicuro. N elle Massime capitali l’ambito della giustizia è così delimitato:



La giustizia non è qualcosa che esista per sé, ma solo nei commerci reciproci, e in quei tempi e luoghi dove sia patto alcuno di non recare o ricevere danno. [Massime capitali, XXXIII]



Della giustizia vengono proposte una definizione in negativo (si dice che cosa essa non sia) ed una in positivo (le si attribuisce un preciso contenuto): la giustizia non è, come per la tradizione platonica, un valore a sé stante o autonomo; nata dal naturale bisogno di sicurezza – che aveva già indotto gli uomini primitivi ad unirsi contro gli animali feroci e i nemici – essa è piuttosto un accordo che viene stipulato affinché nessuno rechi offesa, o possa essere a sua volta offeso. L’origine convenzionale (cioè appunto fondata su un accordo, su un patto o una convenzione) della giustizia implica che le leggi non siano le stesse ovunque, né tanto meno che esse siano immodificabili; la loro validità è, in altri termini, di volta in volta funzionale a garantire la sicurezza dei contraenti.

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Epicuro non condanna dunque l’aggregazione sociale e neppure, in senso stretto, l’attività politica che ad essa si rapporta, a patto che quest’ultima sia finalizzata a procurare e preservare la tranquillità e la sicurezza; ciò che condanna è, invece, la prassi politica che consiste nell’inseguire in maniera affannosa e competitiva i vani desideri del potere, dell’onore e della fama: è in relazione a questa prassi (e non nel senso di un invito ad astenersi in generale dalla vita sociale), che deve essere letto il celebre motto epicureo «vivi appartato» (o ‘nascosto’, làthe biòsas).

1. Il raggiungimento della felicità per Epicuro: a. si ottiene applicando alla propria vita l’ideale del tetrafarmaco. b. implica la capacità dell’uomo di annullare il piacere. c. passa attraverso lo stato di atarassìa e aponìa. d. implica il ricorso alla saggezza che opera una scelta corretta dei desideri.

V F V F V F V F

2. Per Epicuro le virtù della temperanza, del coraggio e della giustizia determinano: a. il conseguimento della felicità. b. il conseguimento della saggezza. c. la realizzazione dei desideri. d. la realizzazione dell’aponìa.

Gli stoici

6 La lunga tradizione della Stoà La storia della scuola stoica si estende in un vasto orizzonte temporale e spaziale: copre infatti quasi cinque secoli (dal III secolo a.C. al II secolo d.C.), e da Atene giunge fino a Roma. A tale ampiezza temporale e spaziale corrisponde poi quella dei contenuti, che finirono per coprire tutte le maggiori aree del discorso filosofico: la logica, la fisica e l’etica. Proprio in ragione dell’ampiezza della tradizione stoica, si tende a suddividerla in tre periodi, generalmente noti con i nomi di stoicismo antico, stoicismo di mezzo e stoicismo romano, con i quali si indicano rispettivamente il periodo che va dal fondatore Zenòne di Cizio (333263 a.C.) a Panèzio di Rodi (ca. 185-ca. 110 a.C.), quello compreso fra Panèzio e Posidònio di Apamèa (ca. 135-ca. 50 a.C.), e quello legato principalmente alle figure di Seneca, Epittèto e Marco Aurelio. Soltanto degli stoici romani sono sopravvissuti documenti originali. Le opere degli stoici antichi e degli stoici del periodo di mezzo sono andate, invece, quasi interamente perdute: se si eccettua l’Inno a Zeus di Cleànte di Asso (secondo maestro dello stoicismo antico) [ T43], ciò che resta sono per lo più frammenti, testimonianze dossografiche e notizie indirette, che permettono comunque di ricostruire, almeno

nelle linee fondamentali, il pensiero dei maestri più antichi. Com’è naturale, ciò implica tuttavia un certo livellamento delle differenze individuali, e la tendenza a considerare lo stoicismo antico come un insieme sostanzialmente omogeneo dal punto di vista dottrinale (ciò che per altro potrebbe effettivamente aver avuto luogo in ragione del carattere “dogmatico” ben presto assunto dalla scuola stoica, in contrasto con le tradizioni precedenti). Uno dei frammenti che si sono conservati ricostruisce l’origine, assolutamente informale, della scuola stoica:



Volendo pure garantirsi un luogo lontano dalla folla, [Zenòne] teneva le sue lezioni, su e giù per il “portico dipinto” [...]. In seguito i suoi discepoli si unirono a lui, e proprio per questo furono detti stoici – dapprima però ebbero il nome di Zenoniani, come attesta anche Epicuro, nelle sue Lettere […], e il nome si trasmise ai successori, che divennero un numero considerevole. [Frammenti, [A]2]



In base a questa ricostruzione, fu proprio il Portico dipinto – in greco Stoà poikìle – in cui Zenòne teneva le sue lezioni, a dare il nome alla scuola “stoica”. La scuola raccolse ben presto numerosi adepti, fra i quali si distinse soprattutto Crisìppo (ca. 281-ca. 208 a.C.), autore, secondo la tradizione, di più di settecento testi: per l’ampiezza e la precisione delle sue argo-

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mentazioni, venne riconosciuto, quando ancora era in vita, come il secondo fondatore dello stoicismo, colui senza il quale non ci sarebbe stata più la Stoà. È essenzialmente a Crisìppo, ancor più che a Zenòne, che si deve la tematizzazione della filosofia come sistema unitario di logica, fisica ed etica – tre parti che non possono mai darsi separatamente l’una dall’altra, ma sono anzi talmente unite da legittimare l’assimilazione del tutto a un essere vivente, composto di ossa e nervi (logica), carne (etica) e anima (fisica). Ciò che garantisce la profonda unità del sistema è il lògos, ovvero il principio razionale che, diffondendosi ovunque, determina tanto la verità dei discorsi di cui si occupa la logica, quanto la realtà del mondo fisico, ispirando al tempo stesso il comportamento morale dell’uomo virtuoso. 1. La scuola stoica: a. occupa un orizzonte temporale di quasi cinque secoli.

b. deve il suo nome al giardino in cui Zenòne teneva le sue lezioni.

c. si è soliti dividerla in tre periodi. d. deve a Zenòne la costruzione della filosofia come sistema unitario di logica, fisica ed etica.

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7 La logica stoica e la rappresentazione catalettica La logica stoica ammette un’ulteriore suddivisione, al suo interno, fra retorica e dialettica: la prima, secondo la definizione fornita dagli stoici stessi, è la scienza del ben parlare; la seconda è invece la scienza del discutere correttamente attraverso una serie di domande e risposte e, in quanto tale, comprende argomenti non solo genuinamente logici, ma anche gnoseologici e linguistici. Centrale nella dialettica stoica è il concetto di lektòn, alla lettera ‘ciò che viene detto’, oppure ‘ciò che si veicola dicendo’, e cioè il significato. Il lektòn è – al pari del vuoto, del luogo e del tempo – un incorporeo che, nelle espressioni linguistiche, sussiste accanto al corpo dei significanti (le parole in quanto suoni proferiti) e ai corpi esterni (gli oggetti ai quali si riferiscono i significanti e il significato).

Un significato può essere poi completo o incompleto, a seconda che il verbo sia dotato o meno del suo soggetto (“Socrate cammina” o, in alternativa, “cammina”). Solo a partire dai significati di primo tipo, quelli completi, si ottengono però i vari tipi di proposizioni: le esortazioni (“Studia!”), le preghiere (“Ah, volesse il cielo che studiassi!”), le domande (“Stai studiando?”) e le asserzioni (“Il tavolo su cui studi è quadrato”; in tutti questi esempi il soggetto implicito, che li rende proposizioni complete, è “tu” ). Fra queste, le asserzioni sono le uniche delle quali si possa dire se siano vere o false, nella misura in cui descrivono cose o stati di fatto singolari. Le asserzioni si suddividono a loro volta in semplici e composte. Le prime sono proposizioni che contengono solo un predicato; le seconde, invece, sono costituite dal collegamento di più proposizioni. Le asserzioni semplici possono essere classificate, sulla base del loro soggetto, in: definite, quando il soggetto è immediatamente indicato come presente (“Questo uomo qui cammina”); indefinite, quando il soggetto è espresso appunto in forma indefinita (“Qualcuno cammina”); medie, quando il soggetto è espresso per esempio attraverso un nome proprio (“Socrate cammina”). Le asserzioni composte sono le proposizioni impiegate nelle argomentazioni dimostrative, e cioè le proposizioni ipotetiche o condizionali (che si compongono di un antecedente e di un conseguente, al modo di: “Se è giorno, c’è luce”), e le proposizioni che congiungono o disgiungono le cose [ La logica stoica]. Utilizzando esattamente le varie classi di proposizioni composte, gli stoici elaborano cinque forme di sillogismi fondamentali, detti anapodittici (o indimostrabili), a cui sono di fatto riconducibili tutti gli altri ragionamenti: 1. Se il primo, allora il secondo; ma il primo, allora il secondo. 2. Se il primo, allora il secondo; ma non il secondo, allora non il primo. 3. Non il primo e il secondo; ma il primo, allora non il secondo. 4. O il primo o il secondo; ma il primo, allora non il secondo. 5. O il primo o il secondo; ma non il secondo, allora il primo. Gli schemi fondamentali su cui si basano gli anapodittici sono i sillogismi condizionali

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La logica stoica Logica

DIALETTICA

dialettica = scienza del discutere correttamente

retorica = scienza del ben parlare

incompleto = se il verbo manca del soggetto (“Cammina”) lektòn = significato completo = se il verbo ha il soggetto (“Socrate cammina”) esortazioni preghiere domande semplici (contengono un solo predicato) definite (“Questo uomo cammina”)

asserzioni composte (collegano più proposizioni)

medie (“Socrate cammina”)

indefinite (“Qualcuno cammina”) si distingue/distinguono in è/sono all’origine di

anapodittici (o indimostrabili)

(impiegati nei primi due anapodittici, che si basano appunto sullo schema Se p allora q), la negazione di una congiunzione di proposizioni I cinque anapodittici (nel terzo anapodittico, che si basa sullo (o indimostrabili) schema Non p e q), e i sillogismi disgiuntivi (negli ultimi due, che si basano 1. Se il primo, allora il secondo; ma il primo, sullo schema O p o q). Ciò che accodunque il secondo muna tutti e cinque gli anapodittici se p, allora q; ma p; dunque q. è il fatto di essere intrinsecamente Es.: “Se è giorno, allora c’è luce; ma è giorno; dunque c’è luce”. evidenti e di non richiedere pertanto (come indica il loro stesso 2. Se il primo, allora il secondo; ma non il secondo, nome) alcuna dimostrazione dunque non il primo [ I cinque anapodittici]. se p, allora q; ma non q; dunque non p. Ma che cosa garantisce la Es.: “Se è giorno, allora c’è luce; ma non c’è luce; dunque non è giorno”. corrispondenza tra il significa3. Non il primo e il secondo; ma il primo, allora non il secondo to delle proposizioni e l’oggetnon p e q; ma p; dunque non q. to a cui esso si riferisce? Che Es.: “Non è giorno ed è notte; ma è giorno; dunque non è notte”. cosa, in altri termini, permette di dire che sono veri i lektà 4. O il primo o il secondo; ma il primo, allora non il secondo (plurale di lektòn) completi (“È o p o q; ma p; dunque non q. giorno”, per esempio) implicati Es.: “O è giorno, o è notte; ma è giorno; dunque non è notte”. nelle asserzioni? Il criterio di verità suggerito dagli stoici si 5. O il primo o il secondo; ma non il secondo, allora il primo fonda sulla rappresentazione catao p o q; ma non q; dunque p. lettica o comprensiva. Proviamo a Es.: “O è giorno, o è notte; ma non è notte; dunque è giorno”. chiarirne i termini: (1) una rappresentazione è in generale l’impressione che gli organi di senso ricevono dall’esterno e trasmettono alla parte superiore (“dirigente”) dell’ani-

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LA GNOSEOLOGIA STOICA

ma. Ma per poter essere considerata vera, una rappresentazione deve (2) essere oggetto di assenso (nel senso che l’anima deve riconoscere che essa corrisponde a una cosa esterna) e (3) di comprensione (nel senso che l’anima deve poter afferrare pienamente la cosa esterna per mezzo di essa). Per comprendere questi tre distinti livelli o momenti possiamo adoperare lo stesso esempio proposto da Zenòne, quello della mano aperta che si chiude in un pugno: la rappresentazione che si imprime nell’anima è come il palmo aperto della mano; l’assenso concesso ad essa corrisponde alla contrazione delle dita; il pugno equivale invece alla comprensione. La rappresentazione catalettica è dunque quella rappresentazione che l’anima ha fatto sua e ha riconosciuto corrispondente all’oggetto esterno: in quanto tale (in quanto cioè vagliata e approvata dall’anima) essa è veritiera e permet-

te di accedere al vero. Si può aggiungere, completando l’esempio precedente, che solo stringendo il pugno con l’altra mano si ottiene infine la scienza, che è una conoscenza salda, incrollabile e assolutamente incapace di essere scossa. La comprensione non coincide dunque in senso stretto con la scienza (concetto che gli stoici esprimono anche dicendo che il “vero” – cioè ciò che viene colto dalla rappresentazione catalettica intorno a un singolo oggetto – non è ancora la “verità”); essa è una tappa verso la scienza, ovvero ha un carattere intermedio fra l’ignoranza e la scienza: tutti, anche gli stolti, possono infatti avere rappresentazioni comprensive e, fondandosi su queste, dire e pensare il “vero”; ma la verità resta di fatto un possesso esclusivo del sapiente (sophòs), che perviene alla scienza integrando i singoli frammenti di “vero” in un sistema perfettamente coerente di proposizioni (si potrebbe paragona-

I termini del processo conoscitivo È l’impressione che gli organi di senso ricevono dall’esterno e poi trasmettono alla parte dirigente dell’anima.

È il riconoscimento da parte dell’anima che la rappresentazione corrisponde ad un oggetto esterno.

È il momento in cui effettivamente l’anima “com-prende”, afferra la cosa esterna.

È la conoscenza salda e non suscettibile di essere più scossa da niente.

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re la scienza alla volta di una stanza e i “veri” oggetto di comprensione alle singole pietre che la compongono) [ La gnoseologia stoica]. 1. La rappresentazione catalettica: a. è il criterio che garantisce la corrispondenza fra il significato e l’oggetto cui si riferisce.

b. consiste nell’impressione che gli organi di senso ricevono dall’esterno.

c. implica la ricezione delle impressioni, l’assenso e la comprensione date dall’anima.

d. coincide con la conoscenza scientifica, ossia la verità.

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8 Lògos e materia: la fisica stoica Secondo gli stoici, esiste in generale solo ciò che agisce e patisce, e tale (cioè agente e paziente) è esclusivamente il corpo. Entrambi corporei, i princìpi che gli stoici pongono per spiegare la totalità dell’essere sono dunque uno attivo, e cioè dio o il lògos (la ‘ragione’), e uno invece passivo, la materia, che in sé è assolutamente informe e priva di qualità. I due princìpi non si danno come entità separate se non nella mente, dove vengono impiegati per render conto dei singoli cambiamenti e movimenti; ma nel mondo si danno di fatto sempre e solo i corpi costituiti da un sostrato materiale già interamente compenetrato dal principio divino. Più precisamente, i corpi di cui facciamo esperienza si compongono dei quattro elementi tradizionali (fuoco, acqua, terra, aria), che derivano a loro volta dai princìpi primi appena citati. Tale derivazione costituisce la vicenda essenziale della formazione e dello sviluppo del cosmo. La storia del mondo comincia infatti per gli stoici con il fuoco primordiale (o, secondo la variante di Crisìppo, con il soffio caldo, lo pneuma), in cui si realizza la prima compenetrazione del lògos e della materia: dal collassare del fuoco si origina per condensazione l’umidità; una parte di quest’ultima genera, per effetto di un’ulteriore condensazione, la terra, un’altra – quella più rarefatta – evapora in aria, per poi farsi nuovamente fuoco. Riproponendo l’antitesi originaria dio/materia, due degli elementi così formatisi – l’acqua e la terra – vengono pensati come passivi

e gli altri due – il fuoco e l’aria – come attivi: è così la compenetrazione dei primi ad opera dei secondi a produrre i vari corpi naturali organici e inorganici. Ciò che poi determina la coesione interna dei corpi è l’equilibrio tra il movimento centripeto dell’aria e quello centrifugo del fuoco. Questo stato dell’Universo non è tuttavia destinato a durare per l’eternità: secondo gli stoici, infatti, il mondo segue un percorso ciclico, che si conclude ogni volta con una conflagrazione finale, una specie di incendio cosmico che riporta le cose al fuoco “artefice” delle origini. Inizia a questo punto un nuovo ciclo, che ripercorre le stesse tappe di quello appena terminato; e i cicli si succedono così all’infinito, dispiegando le ragioni seminali (lògoi spermatikòi), e cioè i princìpi generatori di tutte le cose che originariamente erano contenuti nel fuoco primordiale, ovvero nella mente divina. Ci sono almeno due cose da notare a proposito di questa ipotesi cosmogonica (cioè relativa alla generazione del mondo). La prima è che essa implica che il mondo sia circondato da un vuoto infinito: è in effetti il vuoto a permettere che il mondo, al momento della sua esplosione o conflagrazione, si espanda. La seconda, è che, ammettendo un’intelligenza divina che dispone fin dal principio la storia del mondo, essa implica altresì l’esistenza di un ordine inderogabile in base al quale si succedono gli avvenimenti di ogni ciclo. Ma se tutto rientra in un disegno divino e razionale, come si spiega il male? E quale spazio rimane alla libera iniziativa dell’uomo? La soluzione proposta alla prima questione è quella dell’impossibilità che i contrari esistano l’uno in assenza dell’altro: dunque, è impossibile che il bene si dia senza il male, così come ha senso parlare di giustizia solo in rapporto all’ingiustizia e di sapienza in rapporto alla stoltezza. Quanto, invece, al problema della libertà umana, si tratta di riconoscere che, come un cono e un cilindro posti al bordo di un piano inclinato cominciano a rotolare a seguito di una spinta, ciascuno secondo il movimento che gli è più proprio, così gli uomini agiscono dietro lo stimolo di una rappresentazione da perseguire o da fuggire, ciascuno secondo la propria natura individuale. Viene in questo modo concesso un certo margine di libertà all’uomo, pur all’interno di una visione fortemente deterministica; una visione in cui tutto ciò che accade ha cause tal-

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mente precise e necessarie da indurre solo per ignoranza a parlare di “eventi casuali”: appaiono “casuali”, infatti, in una prospettiva di questo tipo, solo quegli eventi dei quali la ragione non riesce a riconoscere le cause. 1. Nella fisica stoica il lògos e la materia: a. sono entrambi princìpi corporei. b. sono entità separate nelle cose esistenti. c. rappresentano il primo, il principio attivo, il secondo quello passivo.

d. rappresentano, il primo, il principio incorporeo, il secondo quello corporeo.

2. Secondo gli stoici, la generazione del mondo: a. ha una natura fondamentalmente ciclica. b. implica l’esistenza di un vuoto infinito. c. implica l’esistenza di un ordine necessario. d. determina l’assoluta negazione della libertà umana.

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9 La concezione dell’anima e l’etica Per accostarsi all’etica stoica, occorre muovere da un suo presupposto, e cioè dalla concezione dell’anima [ T16]. Nell’anima (degli animali così come dell’uomo) è possibile distinguere secondo gli stoici otto parti: i cinque sensi, la facoltà della generazione, quella del linguaggio e la parte dirigente (hegemonikòn). Quest’ultima è a sua volta composta da quattro poteri: quello della rappresentazione, quello dell’impulso, quello dell’assenso e quello della ragione. Non bisogna tuttavia pensare, sulla base di questa distinzione, che l’anima non costituisca un nucleo unitario; essa somiglia piuttosto a un polipo, di cui lo hegemonikòn rappresenterebbe la testa, e le restanti sette parti i tentacoli. Per quel che riguarda più nello specifico l’anima dell’uomo, anch’essa, in quanto parte dello pneuma (il ‘soffio’ che sta all’origine del mondo e a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza, a proposito di Crisìppo), è corporea e perciò mortale; ma la sua dissoluzione non avviene sempre negli stessi tempi, come si può evincere dal passo seguente:



Sostengono [gli stoici] che l’anima è generata e corruttibile, e tuttavia che essa non andrà di-

strutta subito dopo la sua separazione dal corpo, essendo destinata a sussistere autonomamente per qualche tempo: o meglio, per un tempo definito permane l’anima degli stolti, invece quella dei sapienti dura fino alla dissoluzione del tutto nel fuoco. Configurano [gli stoici] in questo modo la sopravvivenza dell’anima: noi sussistiamo come anime separate dal corpo, finché la sostanza dell’anima non decade ad un livello inferiore. Tuttavia le anime degli animali bruti o privi di ragione vanno perdute insieme coi corpi. [Frammenti, [B.f] 809]



Il frammento testimonia il coimplicarsi, tipico dello stoicismo, di etica, logica e fisica. Dalle considerazioni sulla sopravvivenza delle anime, si ricava infatti che la distinzione fra stolti e sapienti ha sì un valore morale, ma si stabilisce anche su un piano fisico: se le anime dei virtuosi sopravvivono più a lungo al distacco dal corpo è perché hanno guadagnato, grazie alla loro virtù, una maggiore “tensione” rispetto alle anime degli stolti. Questa tensione, di fatto, altro non è se non la verità (intesa come perfetta coerenza logica) che definisce la sostanza stessa dell’anima del sapiente. D’altra parte, la natura ha dotato la parte dirigente dell’anima di un potere, l’impulso (uno dei quattro poteri dello hegemonikòn), che esplica la propria funzione fin dal primo momento della generazione: l’impulso, infatti, spinge immediatamente gli uomini e gli animali a prendersi cura di sé stessi o – per rendere in modo più fedele il termine impiegato dagli stoici, che è quello di oikèiosis – ad ‘appropriarsi di sé come di una cosa cara’. Ma se negli animali questo iniziale livello di autoconservazione non viene in alcun modo superato, per gli uomini la natura ha invece previsto l’emergere della razionalità; e poiché la perfezione della razionalità si realizza solo attraverso la virtù, non può che essere quest’ultima, per l’appunto, il fine ultimo dello sviluppo naturale dell’uomo, l’unico bene da perseguire. Ciò che ne consegue è una coincidenza fra virtù e bene talmente perfetta da non ammettere – almeno in linea di principio – eventuali gradazioni di virtù e di bene: il solo bene è la virtù; il solo male è il vizio e tutto ciò che non è né vizio né virtù è moralmente “indifferente” (cadono nella categoria degli indifferenti la salute e la malattia, la povertà e la ricchezza, la bellezza e la bruttezza, e persino la vita e la morte).

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Questa alternativa così radicale, tuttavia, è funzionale alla costruzione del modello del saggio ideale; allorché gli stoici intendono riferirsi alla condizione normale, effettiva, degli individui, essi ammettono in realtà un possibile percorso di progresso e crescita in vista dell’acquisizione della virtù. Questo percorso presuppone la nozione di kathèkon (plurale kathèkonta), ovvero della ‘funzione’ o ‘compito’ proprio di ciascuno (degli esseri umani, ma anche degli animali e perfino, forse, delle piante). Il kathèkon (poi tradotto in latino con il termine officium) definisce, in altri termini, l’attività o la funzione appropriata alla costituzione naturale di ciascuno, e dunque, nel caso dell’uomo, ciò che, una volta compiuto, si può giustificare ragionevolmente. Il progresso consiste nel portare a compimento prima le proprie funzioni e i propri compiti più elementari, per poi estenderli e arricchirli (aumentando così la razionalità del proprio comportamento) fino a compiere la ‘funzione’ o ‘azione perfetta’ detta katòrthoma. Per fare un esempio: un dovere elementare per un padre è quello di sfamare e educare i figli, ma una volta assolta questa funzione (kathèkon), egli può svolgere quello relativo al proprio ruolo pubblico o sociale, e passare poi a occuparsi disinteressatamente degli altri, fino ad avere come orizzonte l’umanità stessa, conseguendo infine la virtù con l’adempimento della funzione o azione perfetta (katòrthoma). Naturalmente, sulla base di quel che si è visto, i gradi intermedi di questo percorso, corrispondenti ai vari kathèkonta, non sono ancora virtuosi, e anzi fanno ancora parte del vizio, se la virtù è acquisita soltanto con l’azione perfetta: quest’ultimo passo (dall’ultimo kathèkon al katòrthoma) non è un semplice mutamento quantitativo, ma un vero e proprio salto di qualità, con il possesso della vera sapienza. A dare un contenuto alla virtù è comunque sempre, secondo gli stoici, la sapienza: sapiente e saggio (e quindi assolutamente virtuoso) è colui che conosce tutto ciò che serve ad agire rettamente, ponendosi così in perfetta sintonia con la razionalità cosmica. Si spiega in questo modo anche il fatto che egli accetti serenamente qualunque cosa gli sia riservata dal destino: il sapiente/saggio, infatti, riconduce ogni azione alle cause prime che l’hanno determinata e, senza curarsi degli esiti, compie istantaneamente ciò che gli viene dettato dall’impulso.

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Come per altro emerge da una testimonianza di Crisìppo:



fino a quando gli siano oscure le conseguenze, il saggio si attiene a ciò che è più idoneo per realizzare le cose secondo natura, perché il dio stesso ha voluto fare di lui così; ma se sapesse che ora gli è destinato di ammalarsi, impulsivamente vorrebbe anche questa malattia. [Frammenti, [C.e]191]



1. L’etica stoica: a. presuppone la concezione dell’anima quale distinta in otto parti. V b. si basa sull’assunzione di gradi intermedi fra la virtù e il bene. V c. consiste nell’adeguarsi del saggio alla razionalità cosmica. V d. presuppone la distinzione fra kathèkon e katòrthoma per ciò che riguardi esclusivamente il saggio. V

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10 Lo stoicismo di mezzo: Panezio e Posidonio Avremo modo di tornare sugli sviluppi dello stoicismo nel mondo romano nel prossimo capitolo; qui è opportuno, invece, accennare alle ultime importanti figure stoiche in età propriamente ellenistica (ca. 135-50 a.C.). Panèzio di Rodi sembra aver cercato di attenuare, senza tuttavia tradirne lo spirito, l’ideale del saggio-virtuoso: pur senza considerare veramente virtuosi i vari kathèkonta, ha attribuito una certa dignità a questi sforzi verso la virtù accessibili alle persone normali nel semplice svolgimento dei loro propri compiti. Per questo stesso motivo, egli non sembra aver trascurato neppure il modo in cui la virtù si rapporta alle qualità naturali e al carattere di ciascuno. Per quanto riguarda la fisica, sembra che egli abbia rinunciato alla dottrina della conflagrazione e abbia invece ripreso da Aristotele la tesi dell’eternità del mondo. Anche per quel che riguarda la concezione dell’anima, Panèzio sembra incrinare la rigida visione unitaria stoica, tornando a concedere una contrapposizione di fondo tra una componente impulsiva e una componente razionale. Questo stesso tema sembra essere stato ripreso anche dal suo discepolo Posidònio di Apamèa

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(in Siria), che avrebbe anzi fatto ancor più direttamente ritorno alla tripartizione platonica dell’anima: in questo modo, sarebbe stato possibile giustificare il sorgere del vizio all’interno dell’anima, e non solo per effetto delle circostanze esterne. Dunque, sia Panèzio che Posidònio, contrariamente ai loro predecessori, ammettono l’esistenza di una componente irrazionale nell’anima, con ovvie conseguenze sul piano etico. Posidònio coltivò, per altro, numerosi interessi scientifici, occupandosi di geografia, storia, astronomia, matematica, fisica, con un atteggiamento non troppo dissimile da quello aristotelico (la ricerca delle cause dei fenomeni). Ciò che sembra caratterizzare gli ultimi esponenti dello stoicismo propriamente ellenistico è

il loro interesse nei confronti delle dottrine platoniche e aristoteliche – un fenomeno che in qualche modo anticipa l’incontro/scontro che avrà luogo in età imperiale, quando proprio il ritorno dell’aristotelismo e il riemergere di un platonismo più dogmatico, affrancato dall’esperienza scettica, costringeranno lo stoicismo ad accettare alcuni presupposti teorici degli avversari, o a ripiegare sul solo terreno della pratica e degli orientamenti di vita. 1. Panèzio e Posidònio appartengono: a. allo stoicismo antico. b. allo stoicismo di mezzo. c. allo stoicismo romano. d. il primo allo stoicismo di mezzo, il secondo a quello romano.

Gli scettici

Il termine “scetticismo” deriva dal greco skèpsis, che significa ‘ricerca’, ‘indagine’. Sembra che in un primo tempo esso sia stato adoperato in riferimento ai filosofi in generale, in quanto dediti appunto alla ricerca della verità, e che soltanto a partire dal II secolo d.C. sia stato utilizzato in senso tecnico per indicare una precisa posizione filosofica – quella di coloro che dubitavano della possibilità di riuscire mai a trovare effettivamente la verità.

fondò mai nessuna scuola, né tanto meno scrisse qualcosa, forse proprio al fine di non rendere dogmatiche le proprie posizioni. A conservare memoria del pensiero di Pirròne – per esempio nei Silli, poesie satiriche contro altri filosofi – fu Timòne di Fliùnte (ca. 320-230 a.C.); se si considera, tuttavia, che dei suoi stessi scritti non restano se non testimonianze posteriori, le uniche informazioni accessibili sulle dottrine pirroniane risultano essere di seconda e di terza mano. Una di queste testimonianze appare particolarmente significativa:

11 L’imperturbabilità:

1. quello inaugurato da Pirròne di Èlide; 2. quello proprio di una determinata fase dell’Accademia; 3. il cosiddetto neopirronismo.

Pirròne mostra che le cose sono egualmente senza differenze, senza stabilità, indiscriminate, perché né le nostre sensazioni, né le nostre opinioni sono vere o false. Non bisogna quindi dar loro fiducia, ma essere senza opinioni, senza inclinazioni, senza scosse, su ogni cosa dicendo “è non più che non è”, oppure “e è e non è”, oppure “né è, né non è”. A coloro che si troveranno in questa disposizione Timòne dice che deriverà per prima cosa l’afasìa, poi l’imperturbabilità. [Testimonianze, 53]

Tradizionalmente considerato il primo degli scettici, Pirròne di Èlide (365-275 a.C.) non

Se la reale natura delle cose è instabile e indiscriminata, le determinazioni che l’uomo speri-

Pirrone di Elide Nella storia dello scetticismo antico si possono individuare tre distinti filoni:





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menta con i sensi e su cui elabora i suoi giudizi non si riducono ad altro se non a semplice apparenza: il mondo esterno diventa, insomma, inutilizzabile come evidenza a partire dalla quale riuscire in qualche modo ad inferire “ciò che è”. L’intrinseca indeterminatezza delle cose, unita alla corrispondente inadeguatezza e inconcludenza degli strumenti conoscitivi a disposizione dell’uomo, conduce innanzitutto all’afasìa (letteralmente, ‘incapacità di parlare’, ‘mancanza di parola’), ovvero alla rinuncia a esprimere giudizi sulla realtà delle cose, e quindi all’assoluta imperturbabilità, intesa come la capacità di non farsi turbare dal mondo esterno, così come esso è attestato dai sensi o dalla ragione. A tal proposito, altre testimonianze aggiungono che Pirròne perseguì con estrema coerenza, e con esiti quasi paradossali, l’ideale di imperturbabilità che professava: il suo «non concedere nulla ai sensi» l’avrebbe infatti portato a non curarsi davvero di nulla, e quindi a non cercare di scansare i fossati o i carri, e a non prestare soccorso quando necessario. 1. Per gli scettici è impossibile giungere alla verità perché: a. le cose sono intrinsecamente instabili e mutevoli. V F b. l’uomo non possiede adeguati strumenti conoscitivi. V F c. quest’ultima è colta soltanto da pochi uomini, cioè i sapienti.

d. la conoscenza sensibile coglie una porzione parziale della realtà.

V F

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12 La curvatura scettica dell’Accademia Nel corso del III secolo a.C., come anticipato [ 4.15], alcune istanze scettiche penetrarono nell’Accademia, ad opera prima di Arcesilào di Pìtane (vissuto all’incirca tra il 315 e il 240 a.C.) e poi di Carnèade di Cirène (ca. 215-130 a.C.) e Filòne di Larìssa (fine del II secolo-inizi del I secolo a.C.). Più che l’influenza dello scetticismo di Pirròne, a determinare la nuova curvatura dell’Accademia furono con ogni probabilità la ripresa e lo sviluppo di quegli aspetti dialettici e aporetici (cioè problematici e volti soprattutto a confutare le opinioni degli interlo-

cutori) che erano già presenti nella tradizione socratica e platonica [ 4.3.2], e che andavano d’altra parte a saldarsi con la sostanziale sfiducia platonica nei confronti della conoscenza sensibile e dell’opinione. Un’operazione di questo tipo fu forse motivata anche dalla necessità di confrontarsi con le nuove tendenze dogmatiche degli stoici e gli epicurei, cioè dalla loro pretesa di poter raggiungere una conoscenza sufficientemente stabile e certa. Contro di essa gli Accademici “scettici” decisero di fare appello al principio della sospensione del giudizio: l’epochè. Tale sospensione – ovvero la rinuncia a formulare giudizi definitivi sulle cose e sugli eventi – non è tanto dettata qui, come nel caso di Pirròne, dalla convinzione dell’assoluta indeterminatezza del mondo esterno, quanto dalla constatazione che per ogni tesi avanzata fosse in generale possibile indicarne un’altra contraria, e ugualmente fondata. In questo senso, non stupisce che, secondo una testimonianza di Cicerone, Arcesilào avesse radicalizzato l’atteggiamento socratico, fino al punto di affermare di non sapere neanche l’unica cosa che Socrate aveva invece riservato a sé stesso, e cioè di sapere di non sapere. Muovendo da alcuni presupposti di fondo propri degli stoici (è indegno per un saggio avere opinioni – cioè giudizi incerti o infondati; occorre sempre distinguere fra ciò a cui si dà e ciò a cui si nega l’assenso), Arcesilào sembra capovolgerli a proprio vantaggio, giungendo alla conclusione che, non essendoci niente che possa essere veramente oggetto di comprensione piena e certa, il saggio debba sempre negare o trattenere l’assenso, ripiegando cautamente sulla sospensione del giudizio (epochè). In altri termini, non si danno, secondo Arcesilào, rappresentazioni veramente catalettiche o comprensive, a cui concedere l’assenso e su cui costruire la scienza (come sostenuto dagli stoici), perché nessuna rappresentazione ritenuta vera è tale da non poter essere ritenuta (almeno potenzialmente) anche falsa. Ora, se la rappresentazione vera è del tutto simile a quella falsa, non si ha evidentemente alcun mezzo per discernere l’una dall’altra: di fronte a due gemelli, per esempio, che cosa potrebbe permettere di distinguere l’uno dall’altro? Questo stesso argomento sarà poi ripresentato da Carnèade nella forma del sorìte (un argo-

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mento che abbiamo già visto utilizzato, nel III capitolo, dai megarici, e in particolare da Eubùlide di Milèto:  3.10): proprio come è impossibile indicare un criterio quantitativo che consenta di definire con precisione che cosa sia o non sia un “mucchio”, così è impossibile indicare caratteristiche precise per differenziare, in una serie di rappresentazioni, una rappresentazione comprensiva da una non comprensiva. Ma se la possibilità di accordare l’assenso ad una rappresentazione falsa è di fatto ineliminabile, solo la sospensione del giudizio si offre al saggio come l’unica via concretamente percorribile per non cadere in errore. La dottrina dell’epochè suscitò numerose reazioni: una delle obiezioni principali che le venne mossa fu che l’inesistenza di un criterio certo di verità e la conseguente necessità di sospendere il giudizio avrebbero paralizzato ogni forma d’azione, rendendo in qualche modo impossibile la vita stessa. La soluzione proposta a questo riguardo da Arcesilào si fonda sulla categoria dell’èulogon, e cioè della ‘ragionevolezza’: se è vero che la prassi quotidiana ha sempre bisogno di qualcosa che la guidi, la semplice ragionevolezza (senza la pretesa di disporre di verità salde e dogmatiche) può servire allo scopo, può cioè fornire un criterio efficace perché le azioni risultino appropriate e corrette e possano garantire, in quanto tali, la felicità. Carnèade, di fronte alla stessa obiezione, propone una più articolata distinzione tra: a. rappresentazione persuasiva; b. rappresentazione persuasiva e non contraddetta da altro; c. rappresentazione compiutamente esaminata. La prima è la rappresentazione che appare vera semplicemente in quanto dotata di una sua chiarezza distintiva; la seconda è quella che in una catena di rappresentazioni non viene contraddetta dalle altre che si accompagnano ad essa; la terza è la rappresentazione che ha invece la massima forza persuasiva, perché è già stata esaminata da più parti, assieme alle rappresentazioni concomitanti e concorrenti. N ella vita pratica, dunque, ci si può orientare seguendo il criterio del pithanòn, ovvero di ‘ciò che risulta più persuasivo o plausibile’: si tratterà, in altri termini, di farsi guidare dalle rap-

presentazioni più convincenti, senza per questo ritenerle davvero certe e senza perciò accordare ad esse – come preteso invece dagli stoici – un vero e proprio assenso. 1. La curvatura scettica dell’Accademia nel III secolo a.C.: a. fu massimamente determinata dall’influenza del pensiero di Pirròne.

b. fu favorita dalla ripresa degli aspetti aporetici del pensiero di Socrate e Platone.

c. trovò un facile aggancio nella sfiducia di Platone verso la conoscenza sensibile.

d. si concretizzò nella sospensione del giudizio o epochè.

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2. Il ricorso all’epochè di Arcesilào si spiega: a. in base all’impossibilità di ottenere rappresentazioni catalettiche.

b. in base all’argomento dell’assoluta indeterminatezza del mondo esterno.

c. in base al fatto che solo il saggio può ottenere una comprensione piena e certa, gli altri uomini no.

d. in base al fatto che l’uomo è paralizzato nell’azione. 3. I concetti di èulogon e pithanòn spiegano: a. l’impossibilità di individuare un qualsiasi criterio guida nell’azione secondo Arcesilào.

b. i criteri con cui per Carnèade si giunge alla felicità. c. la cosiddetta rappresentazione persuasiva. d. rispettivamente in Arcesilào e in Carnèade il criterio guida dell’azione, pur in assenza della verità.

13 I neopirroniani: contro il dogmatismo negativo Al di là di questa stagione dell’Accademia, una forma di ritorno allo scetticismo pirroniano – più noto come “neopirronismo” – si registra invece nel I secolo a.C. soprattutto ad opera di Enesidèmo di Cnosso e ben più tardi, in piena età imperiale (tra la seconda metà del II secolo e i primi anni del III secolo d.C.) di Sesto Empìrico. I neopirroniani rimproverano agli accademici di esser caduti in una sorta di dogmatismo negativo, di aver cioè negato per così dire a priori la possibilità di apprendere il vero, tradendo in tal modo il vero senso dell’epochè: la sospensione del giudizio non comporta, di per sé, nessuna opzione né in positivo né in negativo, e proprio per questo rimane l’unico rimedio effettivo nei confronti di ogni forma di dogmatismo.

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13.1 I “tropi” e la sospensione del giudizio: Enesidemo di Cnosso

13.2 L’equivalenza delle posizioni: Sesto Empirico

Un buon pirroniano – così come spiega Enesidèmo nei suoi Discorsi pirroniani – si astiene dunque tanto da tutte quelle affermazioni che pretendono di definire stabilmente le cose, quanto dalle negazioni che ne dichiarano l’assoluta e definitiva incomprensibilità: anche un giudizio di questo tipo, infatti, suona in effetti dogmatico, pretendendo comunque di definire, sia pur in negativo, la realtà. Sulla base degli insegnamenti di Pirròne stesso, Enesidèmo non parla assolutamente né di vero né di falso, né di essere né di non essere, né di probabile né di improbabile, limitandosi piuttosto a dire, intorno alla medesima cosa, che non è in un modo più che in un altro, o che è a volte in un modo e a volte in un altro, senza mai definire nulla. A conferma dell’impossibilità di pronunciare giudizi definitivi sulle cose, i neopirroniani elaborano nove “tropi”, o schemi di ragionamento, che riconducono i diversi modi in cui le cose appaiono:

Dal punto di vista strettamente cronologico, sarebbe più corretto collocare Sesto Empìrico tra i pensatori di età imperiale [ 7]. Tuttavia, Sesto porta a compimento la polemica contro le grandi scuole dogmatiche del periodo ellenistico, e può quindi essere letto in continuità con quanto visto finora. Sesto Empìrico è senza dubbio il pensatore scettico più acuto e coerente dell’Antichità, e a suo vantaggio si dà anche il fatto che se ne sono conservate le opere: Contro i matematici (in sei libri: Contro i grammatici; Contro i retori; Contro i geometri; Contro gli aritmetici; Contro gli astrologi; Contro i musici); Contro i dogmatici (in cinque libri: Contro i logici, 1; Contro i logici, 2; Contro i fisici, 1; Contro i fisici, 2:  T35; Contro i moralisti; tutti gli undici libri di queste due raccolte sono spesso indicati con il titolo unitario di Contro i matematici, dove “matematici” sta per tutti coloro che presumono di possedere una qualunque forma di sapere); Schizzi pirroniani (o Ipotipòsi pirroniane, in tre libri). La strategia di fondo dispiegata da Sesto contro i dogmatici (cioè, contro tutti coloro che ritengono si possa conoscere qualcosa in modo certo) si fonda sulla tesi dell’isosthenèia o del perfetto bilanciamento o dell’equipollenza: dire, per ogni cosa, che non è più questo che quello, mostrando una serie di ragioni, del tutto equipollenti, a sostegno dei due aspetti contrapposti di ciascuna questione (per questo fine Sesto Empìrico utilizza spesso diverse dottrine alternative avanzate dai filosofi precedenti sul medesimo problema – il che rende la sua produzione una fonte assai preziosa per la ricostruzione di parti importanti della filosofia antica). L’equipollenza comporta così l’impossibilità di decidere sulla natura di qualunque cosa, e ciò giustifica l’esigenza di sospendere il giudizio. La rinuncia ad avere opinioni investe tuttavia – come già per Enesidèmo – soltanto il piano dell’essere, consentendo di “continuare nella ricerca” per quel che riguarda l’apparire: lo scettico non nega, in altri termini, che il miele gli appaia dolce, ma non afferma in alcuna occasione che esso sia effettivamente dolce. Il risvolto della posizione di Sesto Empìrico è anche (se non soprattutto) pratico: accettando

1. alle differenze che esistono tra gli animali; 2. alle differenze che esistono tra gli animali tra gli uomini; 3. agli usi e alle tradizioni; 4. alla debolezza delle sensazioni; 5. alle circostanze esterne, come la distanza, la dimensione e il movimento; 6. alle condizioni del soggetto, come l’età e la salute; 7 alle condizioni dell’oggetto, come la mescolanza; 8. alla confusione tra le cose; 9. e alla loro relatività.

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Con il ricorso ai tropi, dunque, Enesidèmo formalizza in modo compiuto i motivi che rendono necessaria la sospensione del giudizio. 1. I neopirroniani rimproverano agli Accademici: a. di essere essi stessi caduti in giudizi stabili, sebbene in negativo.

b. di aver tradito il senso vero dell’epochè. c. di non aver tenuto in debito conto l’instabilità della realtà.

d. di non aver fornito nessuna opzione, né in positivo né in negativo.

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che le cose appaiono in un certo modo, l’uomo ha un criterio più che efficace su cui fondare la propria azione, che è quello di attenersi ai fenomeni, alle tradizioni correnti e agli impulsi naturali che gli indicano cosa cercare o cosa rifuggire; per questa via, rinunciando alle opinioni che distinguono le cose buone dalle cattive e generano in questo modo passioni e sofferenze, egli raggiungerà quasi naturalmente, senza averlo intenzionalmente cercato, il fine

riconosciuto da tutte le scuole filosofiche dell’età ellenistica, e cioè l’imperturbabilità. 1. La tesi dell’isosthenèia avanzata da Sesto Empìrico: a. rende ragioni equipollenti a sostegno dei due aspetti contrapposti di ogni questione.

b. si applica al piano dell’apparire. c. fornisce un criterio pratico nell’azione. d. non riesce a far guadagnare all’uomo il fine dell’imperturbabilità.

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Il quadro delle scienze

Le scienze conoscono in età ellenistica uno sviluppo senza precedenti: i processi di relativa autonomizzazione dalla filosofia, per un verso, e di specializzazione dei campi di indagine, per l’altro, danno origine a un fenomeno di tutto rilievo nella storia intellettuale, che riguarda anche i luoghi della ricerca del sapere.

14 I centri del sapere: Atene e Alessandria La separazione fra filosofia e scienze passa anche per la progressiva distinzione delle loro rispettive sedi di ricerca: se Atene conserva il primato della ricerca filosofica, Alessandria di Egitto si qualifica ben presto come il principale centro dell’indagine scientifica, da cui traggono un forte e decisivo impulso tutta una serie di discipline quali la filologia, la geografia, l’astronomia, le scienze matematiche e la medicina. A favorire lo sviluppo di tali indagini specialistiche, permettendo al tempo stesso una almeno parziale professionalizzazione della figura dello scienziato, fu il Museo (da Musèion, letteralmente ‘casa delle Muse’), che i sovrani della dinastia dei Tolomei fondarono ad Alessandria. Con le varie sale di lettura, un osservatorio astronomico, un orto botanico, un giardino zoologico e un comparto per la dissezione anatomica, il Museo si tramutò in poco tempo in un vero e proprio

laboratorio scientifico, in cui erano messi a disposizione degli studiosi di tutto il mondo ellenistico gli strumenti necessari alla ricerca. Un discorso a parte merita in questo contesto la Biblioteca. Collocata all’interno del Museo, raccoglieva più di mezzo milione di volumi: in pratica, tutta la produzione letteraria e filosofica in lingua greca, nonché le traduzioni in greco dell’Antico Testamento. Questo gigantesco patrimonio librario rese ben presto necessaria la presenza di studiosi esperti (tra cui i poeti Callìmaco e Apollònio Ròdio, e il cartografo Eratòstene) in grado di procedere alla catalogazione e all’attribuzione dei testi: nasceva così una nuova disciplina a sé, la filologia.

15 Le nuove tesi cosmologiche Uno degli ambiti in cui ebbero luogo consistenti progressi nel mondo ellenistico è quello della cosmologia. Osservazioni astronomiche sempre più accurate portarono infatti a formulare visioni del cosmo che fino ad allora non erano state prese in considerazione, e a proporre modelli che, confutando o anche solo implementando le dottrine fisiche e astronomiche del passato, potessero dare ragione di fenomeni apparentemente anomali. Aristàrco di Sàmo (III secolo a.C.), per esempio, oltre a calcolare le grandezze del Sole e della Luna e le relative distanze dalla Terra (nell’unica

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sua opera giunta fino a noi: Sulle dimensioni e le distanze del Sole e della Luna), mise a punto un modello eliocentrico (tale cioè da presupporre il Sole, e non la Terra, come centro dell’Universo) che gli è valso in epoca moderna il titolo di «precursore di Copernico nell’Antichità», ma, ai suoi tempi, una condanna per empietà e corruzione. Secondo Aristàrco, il Sole costituiva il vero centro della sfera delle stelle fisse (cioè la sfera più esterna dell’Universo, anch’essa concepita come immobile); la Terra, da parte sua, ruotava non solo attorno al Sole, ma anche attorno al proprio asse. Il duplice movimento attribuito alla Terra consentiva ad Aristàrco di giustificare da una parte, attraverso il movimento annuale della Terra attorno al Sole, l’apparente moto a ritroso del Sole, e dall’altra, attraverso il movimento quotidiano della Terra attorno al proprio asse, l’alternanza del giorno e della notte. Più tardi, nel II secolo a.C., Ippàrco di Nicèa introdusse la teoria degli epicìcli (cerchi sulla cui circonferenza è collocato un pianeta) e degli eccentrici (cerchi con centro diverso da quello della Terra), per dar conto in questo modo dei movimenti apparentemente irregolari dei pianeti, che il precedente modello delle sfere perfettamente omocentriche [ 4.15], non sembrava in grado di spiegare. L’ipotesi degli epicicli permetteva al contrario di leggere come il risultato della somma di moti circolari uniformi (ma su orbite non più tutte perfettamente concentriche e omocentriche) sia le anomalie, in termini di velocità, del moto dei singoli pianeti lungo l’eclittica, sia i fenomeni di retrogradazione (le inversioni periodiche del moto apparente visto dalla Terra), sia infine le variazioni della distanza dei pianeti stessi dalla Terra. In base a tale modello, infatti, ciascun pianeta avrebbe continuato a muoversi di moto circolare uniforme sul proprio epiciclo; allo stesso tempo, il centro dell’epiciclo stesso si sarebbe mosso lungo un’altra circonferenza, detta deferente, attorno al centro rappresentato dalla Terra. L’impiego di sfere eccentriche, inoltre, permetteva di spiegare la variazione di velocità del moto del Sole lungo l’eclittica, ipotizzando appunto orbite circolari con un centro diverso da quello terrestre: le irregolarità apparenti dei moti planetari dipenderebbero in quest’ottica dalla maggiore o minore distanza del centro dell’eccentrico dal centro della Terra, e dalle maggiori o minori lunghezze del suo raggio.

1. La teoria degli eccentrici e degli epicicli avanzata da Ippàrco di Nicèa:

a. permetteva di calcolare la grandezza del Sole e della Luna.

b. permetteva di dare ragione dei movimenti irregolari dei pianeti.

c. spiegava la retrogradazione dei pianeti. d. poneva il Sole come centro della sfera delle stelle fisse.

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16 Le scienze matematiche Importanti risultati furono raggiunti anche nel campo delle scienze matematiche. L’esempio più significativo e storicamente importante del nuovo assetto dato all’aritmetica e alla geometria è l’opera di Euclìde (367-283 a.C.): i suoi Elementi propongono in tredici libri un modello di scienza deduttivo-inferenziale, in cui cioè ogni proposizione è dimostrata a partire da quella immediatamente precedente. Tutti i libri iniziano con proposizioni prime, o indimostrabili, alle quali fanno seguito altre, che richiedono invece di essere provate. L’insieme delle scienze matematiche comprende così da una parte definizioni (hòroi), postulati (aitèmata) e assiomi (koinaì ènnoiai, letteralmente ‘nozioni comuni’), che introducono verità geometriche ed aritmetiche assolutamente prime (senza tralasciare – anzi, è questo più propriamente l’oggetto degli assiomi – ciò che ha una validità più generale come, per esempio, “Il tutto è maggiore di ogni sua singola parte”), e dall’altra teoremi o soluzioni a problemi, che vengono elaborati esattamente sulla base delle proposizioni prime o elementari assunte in precedenza. Le scienze matematiche vengono così a costituire un vero e proprio sistema, nella misura in cui è possibile ricavare per via inferenziale (cioè attraverso una serie di deduzioni) tutte le dimostrazioni a partire da un numero di princìpi non ulteriormente dimostrabili. Ulteriori, significativi, contributi alla matematica vennero – seppur in forma non così organica come in Euclìde – anche dai teoremi di Archimède di Siracusa (287-212 a.C.) e dallo studio delle sezioni coniche di un suo contemporaneo appena più giovane, Apollònio di Perge (262-180 a.C.).

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17 Il sapere geografico Può essere collocato nell’ambito dello sviluppo delle scienze anche il crescente interesse per la geografia. Fu Eratòstene di Cirène (276-194 a.C.) – che per altro diresse anche la Biblioteca di Alessandria – a coniare il termine “geografia”, indicando con tale termine il disegno cartografico in grado di restituire una descrizione d’insieme della Terra conosciuta. N ei suoi Geographikà, egli delineò una carta complessiva dell’oikumène per dar conto delle effettive proporzioni del mondo. Usò a tal fine uno dei primi sistemi di coordinate sferiche costituito da latitudine e longitudine: scelse come principale linea est-ovest del suo reticolato la retta passante per Rodi e le colonne di Ercole (ovvero lo Stretto di Gibilterra), retta che avrebbe dovuto dividere il mondo in due parti di uguale estensione; e indicò invece come linea di riferimento nord-sud la perpendicolare che passava per Rodi, tracciando poi altre linee parallele ad essa. Il nome di Eratòstene non è legato tuttavia soltanto alla cartografia: egli riuscì infatti a calcolare il diametro della Terra, avvicinandosi con grande approssimazione al suo valore effettivo. Osservò che il Sole a mezzogiorno del solstizio d’estate raggiungeva una diversa altezza in due città che egli aveva ipotizzato fossero sullo stesso meridiano, e cioè Syene (l’odierna Assuan, in Egitto) e la stessa Alessandria di Egitto: mentre su Syene, prossima al Tropico, il Sole arrivava allo zenith, su Alessandria era più basso di circa 7°. Una volta calcolata la distanza fra le due città, e stabilito che essa, pari a 5000 stadi, corrispondeva a 1/50 della circonferenza espressa in gradi, non restava che calcolare la circonferenza della Terra, moltiplicando questo risultato per 50, e ricavando così il valore di circa 250 000 stadi, ossia poco più di 40 000 chilometri, straordinariamente vicino a quello effettivo.

18 La medicina: razionalisti ed empiristi Anche il sapere medico, che già nel V secolo a.C. aveva cominciato a rendersi autonomo dalla filosofia [ 2.11], compie in età ellenistica un ulte-

riore passo verso la specializzazione. A questo processo contribuì in modo decisivo – a partire presumibilmente dalla seconda metà del III secolo a.C. – una più marcata divisione interna tra l’indirizzo razionalistico e quello empirico. Il primo fondava la pratica medica sul possesso di un’adeguata teoria intorno alla natura del corpo umano. Nell’elaborare questa base teorica, il ruolo fondamentale veniva affidato appunto alla ragione e alla sua capacità di inferire dagli effetti visibili cause non apparenti. Al contrario, gli empiristi ritenevano che la medicina si potesse acquisire solo tramite l’esperienza attraverso due criteri: in primo luogo attraverso l’osservazione personale diretta di ciò che procurava beneficio (o danno) ai malati, e non in una solo circostanza ma ripetutamente, e in secondo luogo attraverso i resoconti degli altri. Alcune fonti attribuiscono agli empiristi anche un terzo criterio, quello del passaggio al simile, cioè l’applicazione a casi ancora non considerati, in assenza di esperienza specifica, di rimedi adoperati per casi simili. A questi due indirizzi se ne sarebbe aggiunto più tardi, nel I secolo d.C., un terzo, quello dei “metodici”, secondo cui la medicina si sarebbe potuta apprendere e praticare in tempi più brevi facendo riferimento alla conoscenza di tre caratteristiche comuni a tutte malattie, e cioè la costrizione, la dilatazione, o la compresenza di entrambe. Questi indirizzi sembrano aver avuto collegamenti (sia pure indiretti) con le scuole filosofiche del tempo. Ciò vale in particolare per gli empiristi, le cui posizioni collimavano almeno in parte con quelle degli scettici, soprattutto a proposito della necessità di sospendere il giudizio sulle cose oscure o inapparenti, e di concentrarsi solo sui fenomeni (come appunto sostenuto, per non citare che un esempio, da Sesto Empìrico). Ovvio che, d’altra parte, gli empiristi non abbiano ripreso dagli scettici i dubbi relativi all’attendibilità della conoscenza sensibile (dubbi invece sollevati dai razionalisti contro gli empiristi). Non bisogna certo immaginare che i rapporti siano stati particolarmente stretti e documentabili: resta tuttavia il fatto che i dibattiti medici sulle cause e sul valore dei segni (un sintomo ci conduce davvero verso una causa nascosta, o ci aiuta solo a ricordare quel che già sappiamo?) hanno contribuito a far sorgere un dibattito epistemologico di cui si ritroverà traccia, in età imperiale, nell’opera di Galèno.

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SINTESI CAPITOLO 6

La filosofia ellenistica capitolo 6 Un quadro d’insieme: la cultura ellenistica. Il termine “ellenismo” designa il periodo storico compreso fra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e l’inizio dell’Impero romano. In questo periodo l’asse della vita politica si spostò dalle pòleis agli Stati territoriali determinando lo sviluppo di un clima culturale improntato all’universalismo. La cifra culturale fu la koinè: la lingua greca diventò ben presto la lingua d’uso; cadde, così, ogni rigida distinzione fra Greci e barbari. Questi cambiamenti incisero profondamente sul rapporto degli individui con l’attività politica e, parallelamente, sulla pratica della filosofia. Nacquero tre nuove scuole o tendenze filosofiche: l’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo, che proponevano un modello di vita improntato alla saggezza, conseguibile attraverso pratiche di addestramento dello spirito, come il controllo delle passioni, la concentrazione su di sé, l’affrancamento dalle preoccupazioni quotidiane. La filosofia si configurava come una via per raggiungere la pace interiore, l’autonomia e la serenità. Epicuro. Epicuro fondò ad Atene una scuola, il Giardino, dove un gruppo di suoi amici e seguaci praticavano la filosofia in comune. La sua filosofia è stata suddivisa in tre parti: canonica, fisica ed etica. La canonica si occupa della teoria del linguaggio e della conoscenza: Epicuro distingue tra sensazione (che è di per sé necessariamente vera), giudizio (che può essere falso, quando non poggia su sensazioni evidenti) e anticipazioni (i concetti già noti). Per quanto concerne la fisica, l’Universo si compone di atomi che constano di parti minime indivisibili e si muovono in uno spazio vuoto infinito. N ella loro caduta verso il basso, gli atomi subiscono una deviazione dalla perpendicolare incontrandosi e aggregandosi nei vari corpi (dottrina della declinazione o clinamen). Partendo dalla tesi della natura corporea e mortale dell’anima, l’etica epicurea si propone di liberare definitivamente l’uomo dai timori infondati (per esempio, la morte e gli dèi) e di condurlo alla felicità attraverso un quadruplice rimedio (tetrafarmaco). La felicità consiste in uno stato di atarassìa (‘imperturbabile tranquillità dell’anima’) e di aponìa (‘assenza del dolore’) nel quale è pos-

sibile fruire del piacere. Ma solo la virtù della saggezza, attraverso un calcolo razionale dei desideri, consente di raggiungere il piacere. Gli stoici. La storia della scuola stoica si divide in tre periodi: il primo va dal fondatore Zenòne di Cizio a Panèzio di Rodi (ca. 185-ca. 110 a.C., stoicismo antico), il secondo da Panèzio a Posidònio di Apamèa (stoicismo di mezzo, ca. 135-ca. 50 a.C.), l’ultimo legato alle figure di Seneca, Epittèto e Marco Aurelio (stoicismo romano). Il suo nome deriva dal portico dipinto (Stoà poikìle) in cui Zenòne teneva le sue lezioni. Crisìppo, esponente dello stoicismo antico, presenta la filosofia come un sistema unitario di logica, fisica e etica, fondato sul lògos, il principio razionale che determina la verità dei discorsi, la realtà del mondo fisico, e ispira il comportamento morale degli uomini. La logica stoica è divisa in retorica (la scienza del ben parlare) e dialettica (scienza del discutere correttamente). Centrale nella dialettica è il concetto di lektòn (‘ciò che viene detto’, il significato): esso è alla base delle asserzioni (le uniche proposizioni delle quali si può dire se sono vere o false) che compongono i sillogismi. Il criterio di verità suggerito dagli stoici si fonda sulla rappresentazione catalettica o comprensiva. Nell’ambito della fisica, essi pongono due princìpi corporei per spiegare la totalità dell’essere: uno attivo, dio o il lògos (la ‘ragione’), e uno passivo, la materia informe. Da questi derivano i quattro elementi (fuoco, acqua, terra, aria), di cui si compongono tutti i corpi. L’Universo segue un percorso ciclico che si ripete all’infinito. L’intelligenza divina implica l’esistenza di un ordine necessario, in base al quale si succedono gli avvenimenti di ogni ciclo, pur garantendo un certo margine di libertà all’uomo. L’anima è corporea e mortale, ma la sua dissoluzione non avviene sempre negli stessi tempi: le anime dei virtuosi sopravvivono più a lungo al distacco dal corpo rispetto alle anime degli stolti. L’etica stoica si fonda sulla perfetta coincidenza perfetta fra virtù e bene: il solo bene è la virtù; il solo male è il vizio e tutto ciò che non è né vizio né virtù è moralmente indifferente. La virtù coincide con la sapienza: sapiente e saggio è colui che conosce

tutto ciò che serve ad agire rettamente, ponendosi così in perfetta sintonia con la razionalità cosmica. Lo stoicismo di mezzo è caratterizzato da un marcato interesse nei confronti delle dottrine platoniche e aristoteliche. Gli scettici. Il termine scetticismo, dal greco skèpsis che significa ‘ricerca’, a partire dal II secolo d.C. è stato utilizzato per indicare coloro che dubitavano della possibilità di conoscere la verità. Lo scetticismo antico diede vita a tre filoni: quello inaugurato da Pirròne di Èlide; quello dell’Accademia, e il neopirronismo. Il primo degli scettici, Pirròne di Èlide (365-275 a.C.), sosteneva che la natura instabile e indeterminata delle cose, unitamente alla corrispondente inadeguatezza degli strumenti conoscitivi dell’uomo, conduce all’afasìa (‘incapacità di parlare’), ovvero alla rinuncia a esprimere giudizi sulla realtà delle cose, e quindi all’assoluta imperturbabilità. N el III secolo a.C. alcune istanze scettiche penetrarono nell’Accademia: contro le tendenze “dogmatiche” di stoici ed epicurei che affermavano di poter raggiungere una conoscenza stabile e certa, gli Accademici “scettici” decisero di fare appello al principio della sospensione del giudizio, o epochè. La dottrina dell’epochè suscitò numerose obiezioni: la principale fu che la necessità di sospendere il giudizio avrebbero paralizzato ogni forma d’azione, rendendo impossibile la vita stessa. Arcesilào rispose a questa obiezione con il criterio della ragionevolezza, ritenuta sufficiente a supportare le azioni e a garantire la felicità; Carnèade con il criterio del pithanòn, ovvero di ciò che risulta più persuasivo o plausibile. Nel I secolo a.C. si verificò un ritorno allo scetticismo pirroniano, noto come “neopirronismo”, ad opera di Enesidèmo di Cnosso e, in età imperiale, di Sesto Empìrico (II-III secolo d.C.). I neopirroniani accusavano gli accademici di dogmatismo negativo: la sospensione del giudizio non comporta, per essi, nessuna opzione né in positivo né in negativo, e proprio per questo rimane l’unico rimedio effettivo nei confronti di ogni forma di dogmatismo. Per Enesidèmo una medesima cosa, non è in un modo più che in un altro, o è a volte in un modo e a

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita volte in un altro. Contro i dogmatici, Sesto Empìrico introduce il concetto dell’equipollenza (dell’isosthenèia): l’impossibilità di decidere sulla effettiva natura di qualunque cosa giustifica l’esigenza di sospendere il giudizio, ma non esclude la ricerca per quel che riguarda l’apparenza delle cose. Per fondare le proprie azioni è sufficiente attenersi ai fenomeni, alle tradizioni correnti e agli impulsi naturali che indicano la via verso l’imperturbabilità. Il quadro delle scienze. In età ellenistica si verifica un processo di autonomizzazione delle scienze dalla filosofia, e di specializzazione dei campi di indagine. Questa separazione tocca anche i luoghi della ricerca del

sapere: Atene conserva il primato nella ricerca filosofica, Alessandria di Egitto diviene il principale centro dell’indagine scientifica. In questo contesto maturarono nuove teorie cosmologiche: Aristàrco di Sàmo (III secolo a.C.) mise a punto un modello eliocentrico; Ippàrco di Nicèa (II secolo a.C.) introdusse la teoria degli epicìcli e degli eccentrici per dar conto dei movimenti apparentemente irregolari dei pianeti. Importanti risultati furono raggiunti nel campo delle scienze matematiche grazie all’opera di Euclìde (367-283 a.C.) che proponeva un modello di scienza deduttivoinferenziale. Lo sviluppo della scienza geografica si ebbe con Eratòstene di Cirène (276-194 a.C.) che delineò

una carta complessiva dell’oikumène e riuscì a calcolare il diametro della Terra, avvicinandosi al suo valore effettivo. Il sapere medico, nella seconda metà del III secolo a.C., conobbe una divisione interna tra l’indirizzo razionalistico e quello empirico. Il primo fondava la pratica medica sul possesso di un’adeguata teoria intorno alla natura del corpo umano, alla sua struttura e alle sue funzioni, affidando alla ragione il compito di inferire dagli effetti visibili le cause non evidenti. Gli empiristi ritenevano, invece, che la medicina si basasse sull’esperienza e distinguevano tra l’osservazione personale diretta di ciò che procurava beneficio (o danno) ai malati, e i resoconti degli altri.

Opere

• K. Hülser, Die Fragmente zur Dialektik der Stoiker. Neue Sammlung der Texte mit deutscher Übersetzung und Kommentaren, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987-1988.

BIBLIOGRAFIA Fonti

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Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Laterza, RomaBari 20057; Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, con la collaborazione di G. Girgenti e I. Ramelli, Bompiani, Milano 2005. Epicuro, Lettera a Erodoto, in Opere, Frammenti, Testimonianze, trad. di E. Bignone, Laterza, Roma-Bari 20072. Epicuro, Lettera a Meneceo, in Opere, Frammenti, Testimonianze, trad. di E. Bignone, Laterza, RomaBari 20072. Epicuro, Massime capitali, in Opere, Frammenti, Testimonianze, trad. di E. Bignone, Laterza, RomaBari 20072. Tutte le citazioni relative agli stoici sono tratte da: Stoici antichi - Tutti i frammenti, a cura di R. Radice, presentazione di G. Reale, Bompiani, Milano 2002 (il volume comprende l’edizione von Arnim; cfr. la sezione “Opere”). Pirrone, Testimonianze, a cura di F. Decleva Caizzi, Bibliopolis, Napoli 1981

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L’edizione classica dei testi di Epicuro è: H. Usener, Epicurea, Teubner, Leipzig 1887 e successive ristampe; trad. di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007.

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Alcuni testi epicurei, come le Sentenze vaticane, furono scoperti dopo l’edizione di Usener; si può fare riferimento tuttavia a: Epicuro, Opere, a cura di G. Arrighetti, Einaudi, Torino 19732.

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L’edizione classica di riferimento per i frammenti degli stoici è invece: Stoicorum veterum Fragmenta, a cura di H. von Arnim, 3 voll., Teubner, Leipzig 1903-1924; trad. it. Stoici antichi - Tutti i frammenti, a cura di R. Radice, presentazione di G. Reale, Bompiani, Milano 2002. Un’altra traduzione italiana è quella, in 2 voll., curata da M. Isnardi Parente, Utet, Torino 1989.

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Per i frammenti relativi alla dialettica si veda anche:

Per Panèzio e Posidònio si vedano: Panezio di Rodi, Testimonianze, a cura di F. Alesse, Bibliopolis, Napoli 1997; Posidonius, The Fragments, edited by L. Edelstein and I.G. Kidd, 4 voll., Cambridge University Press, Cambridge 1972-1999; Posidonio, Testimonianze e frammenti, introd., trad., commentario e apparati di E. Vimercati, presentazione di R. Radice, Bompiani, Milano 2004.

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Per quanto riguarda gli autori di orientamento scettico si può fare riferimento a: Pirrone, Testimonianze, a cura di F. Decleva Caizzi, Bibliopolis, Napoli 1981; Scettici antichi, a cura di A. Russo, Utet, Torino 1978 (anche

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La filosofia ellenistica capitolo 6 per quel che riguarda gli accademici di tendenza scetticheggiante).

Stoici, epicurei, scettici, il Mulino, Bologna 1997.

L’edizione di riferimento per Sesto Empìrico è: Sextus Empiricus, Opera omnia, a cura di H. Mutschmann e J. Mau, 3 voll., Teubner, Leipzig 1912-1952 (a cui si aggiunge un volume di indici curato da K. Janacek nel 1954). In traduzione italiana si vedano: Contro i matematici, a cura di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1975; Schizzi pirroniani, trad. di O. Tescari, a cura di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1988, 20044; Contro i fisici. Contro i moralisti, trad. di A. Russo, a cura di G. Indelli, Laterza, Roma-Bari 1990; Contro gli etici, a cura di E. Spinelli, Bibliopolis, Napoli 1995; Contro gli astrologi, a cura di E. Spinelli, Bibliopolis, Napoli 2000.

Più in particolare sugli stoici, cfr.: M. Isnardi Parente, Lo stoicismo ellenistico, Laterza, Roma-Bari 20044, e un classico come: • M. Pohlenz, La stoà. Storia di un movimento spirituale, Bompiani, Milano 2005, che ripercorre tutte le vicende del Portico da Zenòne, Cleànte, Crisìppo fino a Seneca, Epittèto e Marco Aurelio, interrogandosi sui rapporti dello stoicismo con l’ebraismo ellenistico (in particolare con Filòne di Alessandria), lo gnosticismo, il neoplatonismo e il cristianesimo.

Studi critici

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Un’efficace presentazione d’insieme della filosofia ellenistica rimane: A.A. Long, La filosofia ellenistica.

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Sul problema della conoscenza scientifica e in particolare del confronto, a questo proposito, tra il “dogmatismo” stoico e le istanze scetticheggianti dell’Accademia si veda: A.M. Ioppolo, Opinione e scienza: il dibattito tra stoici e accademici nel III e II secolo a.C., Bibliopolis, Napoli 1986.

Per quanto riguarda l’epicureismo, sarà sufficiente rinviare a: Epicureismo greco e romano, atti del Congresso Internazionale (Napoli, 19-26 maggio 1993), a cura di G. Giannantoni e M. Gigante, 3 voll., Bibliopolis, Napoli 1996.

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Sullo scetticismo antico (tanto quello dell’Accademia, quanto quello pirroniano e neo-pirroniano) si vedano: M.L. Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Einaudi, Torino 2003; E. Spinelli, Questioni scettiche. Letture introduttive al pirronismo antico, Lithos, Roma 2005. In quest’ultimo caso, il punto di riferimento privilegiato è Sesto Empìrico, di cui Spinelli è uno dei massimi esperti a livello internazionale.

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Per un inquadramento prospettico dello scetticismo antico nella storia complessiva delle tendenze scettiche cfr.: Scetticismo. Una vicenda filosofica, a cura di M. De Caro e E. Spinelli, Carocci, Roma 2007.

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita 1. Dopo aver chiarito l’origine del termine “ellenismo”, esplicita: a. le caratteristiche politiche di questo periodo; b. le conseguenze che queste produssero sulla pratica della filosofia; c. la cifra di fondo della cultura ellenistica (max 15 righe). 2. Presenta la teoria della conoscenza di Epicuro utilizzando i seguenti concetti: sensazione, canonica, giudizio, immagine, anticipazioni, induzione (max 10 righe). 3. Qual è la novità introdotta da Epicuro nella teoria atomistica di Demòcrito? (max 8 righe) 4. Sintetizza la teoria epicurea dell’anima chiarendo: a. su quale argomento si fonda la tesi della natura corporea dell’anima; b. quali ricadute ha questa teoria sulla paura della morte (max 10 righe).

Lektòn = .................................

Incompleto (......................) .................. (con soggetto) ................................. ............... preghiere

.................. asserzioni (......................)

.................. (un predicato) .............. (più proposizioni) Definite

..................

..................

12. Secondo l’ipotesi cosmogonica dello stoicismo, l’Universo è retto da un’intelligenza divina e razionale: a. come si spiega, allora, la presenza del male? b. come si conciliano la presenza di un ordine divino e la libertà degli uomini? (max 10 righe)

5. Presenta la concezione etica di Epicuro utilizzando il seguente schema (max 15 righe): 1. timore degli dei 2. paura della morte Filosofia = 3. il piacere è raggiungibile Tetrafarmaco 4. il dolore è tollerabile e breve

13. Chiarisci in che senso la dottrina stoica dell’anima testimonia la stretta connessione tra etica, logica e fisica (max 10 righe).

Felicità = Saggezza + Virtù

15. Esplicita le due accezioni del termine scetticismo.

1. Aponìa 2. Atarassìa

6. Confronta la concezione epicurea della giustizia con quella platonica e metti in luce qual è l’origine e il fine di essa per i due filosofi (max 10 righe). 7. Chiarisci la differenza tra piacere cinetico e piacere catastematico (max 8 righe). 8.Che rapporto intercorre tra dialettica, lektòn ed asserzioni nella logica stoica? (max 8 righe) 9. Chiarisci il rapporto tra filosofia e lògos nella sistemazione di Crisìppo (max 8 righe) 10. Per gli stoici, la corrispondenza tra il significato della proposizione e l’oggetto esterno si fonda sulla rappresentazione catalettica. Chiarisci il rapporto tra questa e la scienza aiutandoti con l’esempio del palmo della mano di Zenòne (max 10 righe). 11. Completa lo schema seguente inserendo i seguenti concetti: indefinite • vere o false • proposizioni • senza soggetto • completo • esortazioni • incorporeo • medie • composte • domande • semplici

14. Esplicita su che cosa si fonda la distinzione tra stolti e sapienti nell’etica stoica e spiega qual è l’atteggiamento del saggio rispetto al destino (max 10 righe).

16. Esplicita il nesso che intercorre tra la natura instabile delle cose, l’afasìa e l’imperturbabilità secondo Pirròne (max 10 righe). 17. Riprendendo la polemica degli Accademici “scettici” contro il dogmatismo degli stoici e degli epicurei, indica: a. qual è il limite del dogmatismo; b. quale principio gli scettici oppongono ad esso. 18. Confronta la soluzione di Arcesilào e quella di Carnèade rispetto alle critiche suscitate dalla dottrina dell’epochè (max 10 righe). 19. Chiarisci su che cosa si fonda la critica di Sesto Empìrico ai dogmatici ed evidenzia le conseguenze della sua dottrina sulla vita pratica (max 10 righe). 20.Quale importante fenomeno interessò le scienze in età ellenistica? (max 10 righe) 21. Riassumi le caratteristiche principali dei due più importanti modelli astronomici elaborati nell’età ellenistica (max 15 righe). 22.Chiarisci le differenze fra i tre principali indirizzi della medicina dell’età ellenistica (max 10 righe).

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capitolo 7

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La filosofia in età imperiale

1 Un quadro d’insieme: la filosofia nel mondo latino Gli inizi della filosofia a Roma possono essere fatti risalire a un episodio determinato, e cioè all’arrivo in città, nel 155-156 a.C., di una specie di ambasciata di filosofi, a cui presero parte i rappresentanti delle tre scuole che non si sottraevano, in base ai loro princìpi, a qualsiasi impegno pubblico o politico: Carnèade per gli accademici, Critolào per i peripatetici (cioè per la scuola aristotelica) e Diògene di Babilonia per gli stoici. La missione si concluse con un esito piuttosto contrastato: alcuni rimasero affascinati, o quanto meno impressionati, dai discorsi contrapposti che Carnèade tenne, nell’occasione, sulla giustizia; altri ne furono invece sconcertati, e si adoperarono perché il soggiorno romano dei tre filosofi fosse il più breve possibile – cosa che in effetti accadde, dal momento che essi furono in qualche modo costretti a far ritorno in Grecia prima del previsto. N on fu questo il primo contatto in assoluto tra il mondo latino e la filosofia greca: nelle città dell’Italia meridionale, progressivamente con-

quistate dai Romani, erano talora ancora attive alcune comunità o scuole filosofiche. Ma la prima attitudine della società romana nei confronti della filosofia rimase nel complesso caratterizzata da una certa diffidenza, se non da un vero e proprio sospetto: alcuni filosofi (soprattutto epicurei) erano stati banditi pochi anni prima dell’arrivo della delegazione ricordata in precedenza (nel 161 a.C.) e altri lo furono subito dopo (nel 154 a.C.); prima ancora (intorno al 180 a.C.) erano stati condannati ad essere distrutti col fuoco alcuni scritti pitagorici. Il rogo dei libri è un fenomeno inquietante che accompagna fin dalle origini il cammino della filosofia, e attesta una volta di più come essa sia stata spesso percepita come una minaccia rispetto al sistema di volta in volta vigente di norme e consuetudini di vita. Una delle ragioni di fondo di questa iniziale avversione del mondo romano nei confronti della filosofia può essere individuata nel fatto che (se si eccettuano le dottrine pitagoriche sopravvissute) le scuole con cui esso si trovò a venire in contatto furono soprattutto quelle che si erano sviluppate e diffuse nel periodo ellenistico. Queste ultime [ 6] non facevano leva

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

sulla dimensione pubblica dell’uomo, sul fatto cioè che ogni individuo avesse una precisa serie di obblighi e doveri nei confronti della comunità, ma proponevano un percorso di affrancamento interiore che sembrava in qualche modo implicare una cesura tra il cittadino e lo Stato. Al contrario, la morale e la cultura romane si erano sviluppate soprattutto intorno all’ideale del civis, del buon cittadino, tenuto a prendere parte alla vita pubblica e pronto (almeno in linea di principio) ad anteporre l’interesse dello Stato e il rispetto dei costumi e delle leggi alla propria felicità individuale. Non stupisce, in tal senso, che a essere considerati indesiderati o addirittura pericolosi (fino a decretarne appunto l’espulsione) fossero soprattutto gli epicurei, nella misura in cui questi ultimi professavano esplicitamente il loro disinteresse per la cosa pubblica. Tuttavia, questo atteggiamento era destinato a mutare profondamente già nell’arco di alcuni decenni, per effetto della progressiva assimilazione della cultura ellenistica a seguito delle conquiste romane (e in particolare dopo la presa di Atene da parte di Silla nell’86 a.C.). Il possesso di una dignitosa formazione filosofica (quasi sempre associata a una più strettamente retorica) finì così per diventare un requisito essenziale per ogni cittadino romano di buona famiglia. Tale formazione poteva essere conseguita o frequentando scuole locali, o compiendo una sorta di viaggio d’istruzione in Grecia, o chiamando un maestro presso la propria casa. Cicerone (106-43 a.C.) è un buon esempio di tutte e tre queste diverse possibilità: sappiamo infatti che egli frequentò le lezioni di Filòne di Larìssa a Roma, seguì quelle di Antìoco di Ascalòna ad Atene, e tenne per un certo periodo a casa sua lo stoico Diòdoto, perché gli insegnasse la dialettica della sua scuola. N onostante tale graduale assorbimento nel sistema culturale latino, la filosofia continuò comunque ad essere percepita come qualcosa di forestiero, di straniero, di “greco” (nel senso ampio del termine): i maestri di filosofia, dovunque tale formazione avesse luogo, erano quasi sempre “greci”, cioè di lingua e cultura greca, indipendentemente dalla loro effettiva provenienza geografica. Si potrebbe così dire che, pur avendo cominciato ad apprendere la filosofia, per un certo tempo i Romani non l’abbiano praticata direttamente, ovvero non l’abbiano considerata

come l’impegno principale della propria esistenza. Cicerone, per esempio, a dispetto dei suoi interessi e della sua stessa formazione, non può essere considerato in senso stretto un filosofo a tutti gli effetti: egli si dedicava all’attività filosofica nel tempo libero (nell’otium) dagli impegni politici e forensi (e non a caso ha scritto le sue opere di maggiore spessore filosofico, per così dire, nella fase più infelice della sua carriera politica). Seneca (4-65 d.C.), che pure ha una statura e una produzione filosofica più significative, scrive anch’egli le sue opere più importanti soprattutto dopo il ritiro dalla vita pubblica.

2 Filosofi “di scuola” e filosofi “domestici” Dal punto di vista più strettamente filosofico, il fenomeno più interessante dell’età imperiale – il cui inizio si colloca convenzionalmente o nel 31 a.C. con le già ricordata battaglia di Azio o ancor più propriamente nel 27 a.C., con la proclamazione di Ottaviano come Augusto – è la divaricazione della figura del filosofo: abbiamo visto come, per un lungo periodo che va dagli albori all’età ellenistica, il filosofo fosse allo stesso tempo sia un maestro di vita che un ricercatore, preoccupato di costruire il suo interrogare (e le sue soluzioni) in rapporto ai suoi predecessori, ovvero alla tradizione filosofica precedente. Queste due componenti potevano essere di volta in volta presenti in misure diverse (a seconda delle tendenze di scuola e delle opzioni personali), ma risultavano comunque difficilmente dissociabili. È invece appunto in età imperiale che si scindono in modo sempre più marcato la figura del maestro “di scuola” – del vero e proprio professore, che interpreta e insegna i testi di una determinata tradizione – e quella della guida spirituale, che assume sempre più le vesti del consigliere personale, del “filosofo domestico”. La linea di confine di questa divaricazione trova una precisa corrispondenza con l’appartenenza a scuole diverse: a essere interessati principalmente agli aspetti speculativo-dottrinali sono gli artefici della rinascita del platonismo (dopo la curvatura scettica dell’Accademia) e

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La filosofia in età imperiale capitolo 7

I principali centri di studio in età imperiale

dell’aristotelismo; più inclini a presentarsi come consiglieri spirituali sono soprattutto gli stoici (e in qualche caso, i cinici, non a caso spesso descritti come rappresentanti di una variante popolare dello stoicismo). Di molti filosofi di questo secondo gruppo conosciamo appena il nome: è d’altra parte probabile che non abbiano scritto nulla, perché ritenevano appunto il compito di guida morale e orientamento delle coscienze più importante di qualsiasi attività strettamente dottrinale o teoretica. Si potrebbe dire che questi filosofi abbiano di fatto incarnato il ruolo di confessori laici, praticando qualcosa di simile a ciò che ai nostri giorni va sotto il nome di counseling o consulenza filosofica: la capacità di offrire assistenza nel risolvere i problemi della vita e imprimere una direzione d’insieme all’esistenza di chi si rivolgeva loro. Si tratta tuttavia di un ruolo che non va sottovalutato, perché è proprio la fortuna di questa figura sociale a spiegare il prevalere sostanziale, nel mondo romano, dello stoicismo, che giungerà ad annoverare tra i suoi adepti perfino un imperatore.

L’altra linea – quella più strettamente speculativa o dottrinale – segna in qualche modo la nascita definitiva della filosofia così come essa si presenta ancora oggi nel sistema scolastico e universitario, cioè come una pratica esegetica o ermeneutica, fondata sulla capacità di leggere e interpretare i testi dei filosofi precedenti e di costruire le proprie posizioni nel confronto con questa tradizione. Dal punto di vista istituzionale, all’inizio dell’età imperiale le scuole sono ancora nella maggior parte private, con insegnanti pagati direttamente dagli studenti o talvolta non pagati affatto (in quelle scuole in cui l’adozione di uno stile di vita comune veniva ritenuta più importante della trasmissione di determinati contenuti). Col tempo, saranno soprattutto le autorità locali ad aprire scuole di carattere pubblico, mentre l’intervento diretto delle autorità imperiali si registra assai più tardi. La distribuzione geografica dei principali centri di studio riflette questo andamento: nella parte orientale dell’Impero, ad Alessandria (che,

Mar Nero

Marsiglia

Napoli Ege Pergamo Smirne Tarso

Cipro

Mar Mediterraneo

Alessandria d’Egitto

M

I principali centri di studio erano: a oriente, Alessandria, Tarso, Ege, Smirne e Pèrgamo; a occidente, Napoli e Marsiglia.

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

con la Biblioteca e il Museo, rimane comunque un centro vitale per la ricerca), si affiancano gradualmente Tarso (nell’attuale Turchia), Ege (nella Macedonia greca) e, a partire soprattutto dal II secolo d.C., Pèrgamo e Smirne (entrambe in Asia Minore, nell’attuale Turchia). Atene non ha un ruolo predominante, anche se nel II secolo vi risulta attivo un importante esponente del medioplatonismo di cui ci occuperemo più oltre [ 7.3.4], Tauro. Analogamente, nella parte occidentale, la capitale Roma non sembra avere un posto di preminenza, mentre le scuole più attive si ritrovano a Napoli e a Marsiglia. Il primo vero intervento diretto degli imperatori può essere fatto risalire a Marco Aurelio, che nel 176 d.C. decise di istituire in modo stabile ad Atene quattro cattedre assegnate a platonici, aristotelici, stoici ed epicurei, una ripartizione forse già in uso in altre città (quasi certamente a Pèrgamo) e diventata poi di fatto un modello per tutte le altre scuole. Va tuttavia precisato che la suddivisione delle cattedre (almeno quelle di istituzione imperiale) privilegiava la competenza professionale dei maestri (dei diàdochi, ovvero i ‘successori’ di coloro che per primi furono designati ad occupare le cattedre), più che la mera fedeltà di scuola. Dal punto di vista dei contenuti, l’elemento più degno di nota del periodo imperiale è il ritorno di un vivo interesse per le dottrine platoniche e aristoteliche, anche se la necessità di competere con le grandi filosofie ellenistiche portò ad attribuire loro una sistemazione dogmatica di cui esse erano in realtà originariamente prive. In particolare, il confronto con lo stoicismo fece sì che anche le altre scuole dovessero riadattare le dottrine dei fondatori sulla base della tripartizione stoica in logica, fisica ed etica: un compito evidentemente difficile, non solo in riferimento a Platone, ma anche allo stesso Aristotele. Non deve perciò sorprendere che la produzione filosofica del periodo, pur nella grande diversità delle posizioni, presenti una sostanziale uniformità lessicale, fatto dovuto all’adozione della terminologia stoica da parte delle altre scuole. Ciò non significa che esistesse anche una reale consonanza dei contenuti: anzi, si può dire che, a questo livello, platonismo e aristotelismo abbiano di gran lunga prevalso su stoicismo ed epicureismo. In questo senso, l’accusa di eclettismo (ovvero di praticare metodi e sostenere dottrine derivanti da

scuole e tradizioni filosofiche diverse) che è stata talora rivolta a molti dei filosofi di età imperiale risulta in buona parte infondata. 1. La caratteristica più rilevante dell’età imperiale consiste: a. nella scissione fra filosofi di scuola e filosofi consiglieri. V F b. nell’assoluta ignoranza di ogni dottrina filosofica presso i Romani. V F c. nell’essere gli stoici consiglieri e i platonici e gli aristotelici filosofi di scuola. V F d. nella prevalenza dello stoicismo nel mondo romano. V F 2. L’uniformità lessicale della produzione filosofica dell’età imperiale è imputabile: a. all’adattamento delle dottrine platoniche e aristoteliche al modello della filosofia stoica. b. al ritorno di un vivo interesse per le dottrine platoniche e aristoteliche. c. al sostanziale eclettismo dei filosofi di quest’epoca. d. alla nascita della filosofia come pratica esegetica.

3 Le trasformazioni del platonismo Dopo Carnèade [ 6.12], l’Accademia comincia lentamente a muovere in direzione di un’interpretazione meno aporetica (cioè problematica, come se lo scopo dei dialoghi fosse principalmente quello di demolire le certezze degli avversari) e più positiva (cioè attenta alle reali proposte di contenuto) di Platone, sia pure attraversando una fase istituzionale assai travagliata.

3.1 Da Filone di Larissa ad Antioco di Ascalona In occasione della conquista di Atene da parte di Silla, la sede dell’Accademia fu seriamente danneggiata; Filòne di Larìssa, che era diventato scolarca (caposcuola) intorno al 110 a.C., aveva tuttavia già fatto riparo a Roma nell’88 (quando Atene si era rivoltata contro Roma passando a sostenere Mitridate). Filòne si era già avviato verso un parziale indebolimento delle posizioni di Carnèade, ammettendo la possibilità di un assenso provvisorio, e dunque estendendo il criterio di ciò che è più persuasivo o plausibile (pithanòn) dalla sola applicazione

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pratica a un possibile uso teoretico. Secondo Sesto Empìrico, egli avrebbe continuato a rifiutare le tesi stoiche sulla rappresentazione comprensiva [ 6.13.2], senza tuttavia negare che, al di là di questo criterio dogmatico, le cose potessero essere comprensibili in sé, cioè quanto alla loro stessa natura. Uno dei suoi allievi principali, Antìoco di Ascalòna (Ashqelon, in Palestina; ca. 120-67 a.C.), procedette ben oltre, prendendo definitivamente congedo dalle posizioni scetticheggianti della precedente Accademia, e di fatto allontanandosi dallo stesso Filòne. La rottura con le posizioni del maestro ci è stata documentata da Cicerone che ebbe modo, nella sua formazione, di seguire sia l’uno che l’altro, e che di fatto è l’unica vera fonte disponibile per la ricostruzione delle posizioni di Antìoco. Quest’ultimo sembra dunque tornare a proporre una possibile interpretazione positiva di Platone che risente da una parte dello stoicismo, e dall’altra, forse in misura ancora maggiore, di Aristotele: ad eccezione della teoria delle idee, Aristotele avrebbe – secondo Antìoco – colto l’essenziale di Platone. Questa maggiore prossimità ad Aristotele risulta percepibile anche in campo etico, in cui Antìoco non difende l’ideale stoico dell’autosufficienza assoluta della virtù, ma fa spazio alla considerazione dei beni, anche esteriori, necessari per l’esercizio della virtù stessa. Proprio perché discepolo o almeno uditore, in momenti diversi, sia di Filòne che di Antìoco, potremmo accostare ai nomi di questi ultimi anche quello di Cicerone. Sebbene sia difficile ritrovare nei suoi scritti filosofici elementi veramente originali, gli si possono riconoscere comunque due meriti non di poco conto: quello di aver compiuto un’ampia opera di divulgazione delle dottrine ellenistiche nel mondo romano, e quello di aver dato un primo fondamentale contributo alla formazione di un lessico propriamente filosofico in lingua latina. Il fatto di aver seguito maestri diversi (fra i quali non bisogna dimenticare lo stoico Diòdoto) accentua, nel caso specifico di Cicerone, l’impressione di un certo eclettismo: egli appare in effetti più vicino a Filòne nell’ambito della gnoseologia, mentre in campo etico si colloca in qualche modo a metà strada tra Antìoco e lo stoicismo. In particolare, Cicerone potrebbe aver ricavato alcuni tratti di fondo del suo De officiis – e in particolare l’idea

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che la virtù possa consistere, per ciascuno, anche nell’esercizio delle funzioni che gli sono proprie o gli vengono attribuite – dallo stoico Panèzio [ 6.10].

3.2 Caratteri generali del medioplatonismo La stagione del platonismo compresa tra Antìoco e Plotino (e dunque tra il I secolo a.C. e gli inizi del III secolo d.C.) viene convenzionalmente definita medioplatonismo. Come tutte le etichette storiografiche, anche questa raccoglie sotto di sé esperienze di pensiero assai diverse e non perfettamente assimilabili tra loro. Si potrebbero tuttavia provare a isolare, per comodità, alcune caratteristiche generali di questo insieme di autori: a. il ritorno inequivocabile a una lettura “positiva”, se non addirittura sistematica, del pensiero platonico, con il definitivo accantonamento di ogni riserva di carattere scettico o aporetico; b. una maggiore attenzione per gli aspetti per così dire “metafisici” o anche strettamente teologici del platonismo (lo statuto del mondo intelligibile e i suoi rapporti con quello sensibile, la produzione del mondo), rispetto all’interesse riservato dai precedenti accademici alla teoria della conoscenza e all’etica; c. la scelta di fare del Timeo il dialogo-chiave intorno a cui ricostruire il pensiero platonico, con l’ovvia conseguenza di dedicare ampio spazio alle questioni relative per esempio all’anima del mondo o al ruolo del demiurgo; d. la tendenza (per altro non unanime) a fare delle forme o idee i pensieri stessi di dio; e. l’uso piuttosto frequente, ma contrastato – talora in un’ottica costruttiva, talora in chiave fortemente critica – di temi e concetti aristotelici, anche per effetto della rinnovata circolazione degli scritti di scuola di Aristotele in seguito all’edizione realizzata, nel I secolo a.C., da Andronìco di Rodi. 1. Il medioplatonismo si caratterizza per: a. un frequente uso di temi e concetti stoici. b. la maggiore importanza attribuita al Timeo. c. un forte disinteresse per gli aspetti metafisici del platonismo. d. una sostanziale riproposizione degli aspetti aporetici del platonismo.

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3.3 Tendenze platonizzanti ad Alessandria: Eudoro e Filone In ambiente alessandrino [ 6.14], uno dei primi filosofi che si potrebbero far rientrare in questa tendenza medioplatonica è Eudòro di Alessandria, attivo nell’ultimo quarto del I secolo a.C. A Eudòro è attribuito uno dei primi tentativi di recuperare e rielaborare la coppia di princìpi proposta da Platone nelle sue dottrine non scritte: l’Uno e la diade (significativamente, la stessa coppia veniva ripresa, più o meno nello stesso periodo, anche in una serie di trattati pseudopitagorici, segnando così un terreno comune tra il medioplatonismo e la stessa tradizione pitagorica). Al di sopra di questa coppia, Eudòro collocava tuttavia un principio ancora più elevato (definito anch’esso Uno), delineando così un’originale prospettiva monistica, tale cioè da dedurre la totalità del reale da un solo principio. In altri termini, Eudòro pone un primo Uno assolutamente trascendente da cui fa derivare i princìpi delle dottrine non scritte (un secondo Uno e la diade) e, attraverso questi, il resto del reale. N on disponiamo di molte altre informazioni in proposito, ma sono qui già evidenti da una parte il netto distacco dal materialismo stoico, e dall’altro un nuovo interesse per la struttura del mondo intelligibile. A questo proposito, Eudòro ripropone anzi esplicitamente, come fine ultimo dell’uomo, l’invito del Teeteto secondo cui occorre «farsi simili al dio per quanto è possibile» [Teeteto, 176 B] – una formula destinata ad avere largo successo in tutto il platonismo successivo. Sempre all’ambito alessandrino va riportata l’attività di Filòne di Alessandria (vissuto tra il 25 a.C. e il 40 d.C.), che non può essere considerato un medioplatonico in senso stretto, perché si tratta in realtà di un ebreo che impiega la propria conoscenza del pensiero greco al servizio dell’interpretazione dei libri dell’Antico Testamento (in particolare del Pentateuco, di cui scrisse ampi commenti allegorici, cioè finalizzati all’interpretazione del senso profondo delle Scritture, al di là di quello letterale:  T4). È tuttavia il platonismo a giocare un ruolo predominante all’interno della sua formazione filosofica, e questo legittima, almeno entro certi limiti, l’accostamento ad altri autori medioplatonici: si ritrovano in effetti in Filòne il tema dell’assoluta trascendenza e ineffabilità

divina, la reinterpretazione delle forme o idee come pensieri divini, e l’esigenza di porre più intermediari tra Dio e il mondo sensibile (il lògos e le dynàmeis – ‘potenze’ – attraverso cui Dio crea il mondo). Questo breve riferimento a Filòne di Alessandria ci permette anche di accennare, altrettanto brevemente, alla questione del cosiddetto giudaismo ellenizzante, cioè di quel fenomeno socio-culturale prodotto (specie ad Alessandria) dall’incontro di una parte dell’élite colta ebrea (cioè della classe culturalmente più elevata del popolo ebraico) con la cultura ellenistica. In effetti, il mondo greco e quello giudaico o ebraico si erano sostanzialmente ignorati fino alle conquiste di Alessandro Magno, quando nel III secolo a.C. la Giudea (cioè il territorio abitato dagli Ebrei in Palestina) passò sotto l’amministrazione macedone; in seguito, soprattutto a partire dal III secolo a.C., le classi colte cominciarono ad apprendere il greco e diventare bilingui: si arrivò così alla traduzione in greco, forse a partire dal secondo quarto del II secolo, del Pentateuco e degli altri libri dell’Antico Testamento (nella versione nota come Bibbia dei Settanta). Per comprendere l’importanza e la novità dell’evento, sarà sufficiente considerare che i grandi testi sacri delle religioni orientali non erano stati – in linea generale – mai tradotti, o quanto meno mai tradotti in greco, e qualcuno si è spinto ad affermare che il giudaismo sia diventato una “religione del Libro” (cioè fondata essenzialmente sulla rivelazione contenuta nell’Antico Testamento) proprio in virtù della traduzione in greco dei suoi testi sacri. Questo incontro avrà tuttavia una storia tutto sommato breve, perché dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dei Romani, nel 70 d.C., il giudaismo interromperà di fatto i rapporti con la cultura greco-romana, e dunque anche con la tradizione filosofica.

1. Eudòro di Alessandria: a. rivisita i princìpi dell’Uno e della diade contenuti nelle dottrine non scritte di Platone. V b. elabora una concezione filosofica monistica. V c. reinterpreta le idee platoniche come pensieri divini. V d. si occupa del tema dell’ineffabilità divina. V

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3.4 Il medioplatonismo del II secolo I medioplatonici non hanno un atteggiamento uniforme nei confronti di Aristotele. Uno dei testi più concilianti nei confronti dell’aristotelismo – oltre che più rappresentativi di molte tendenze di fondo del medioplatonismo – è il Discorso di ammaestramento (Didaskalikòs), una specie di manuale platonico attribuito ad Alcinoo (un autore non altrimenti conosciuto, il che ha fatto a lungo dubitare della correttezza dell’attribuzione). Da Aristotele, più in particolare, Alcinoo riprende la dottrina delle forme immanenti, la teoria dei sillogismi, l’interpretazione delle virtù; solo per quel che riguarda la fisica, egli si attiene maggiormente al Timeo. È soprattutto la teologia compendiata nel Didaskalikòs a presentare aspetti interessanti: Alcinoo ammette un primo dio assolutamente trascendente, che è descritto (aristotelicamente) come pensiero di pensiero; questa attività di pensiero produce le idee, che pertanto non godono più, come originariamente in Platone, di un’esistenza indipendente ed esterna; al di sotto di questo dio si colloca l’anima del mondo, che è altrettanto eterna e non è strettamente creata, ma solo portata dal primo dalla potenza all’atto, così da attivare il proprio intelletto: a quest’ultimo viene attribuita la funzione demiurgica di mettere ordine nel mondo, ispirandosi alle idee contemplate nel primo (dio). Un complesso simile si ritrova in Numènio di Apamèa (in Siria), ugualmente attivo nel II secolo d.C. (per quanto non si conosca la cronologia relativa rispetto all’autore del Didaskalikòs): anche in questo caso viene postulata la coincidenza tra il demiurgo e il secondo intelletto divino, mentre il primo viene considerato del tutto “inoperoso”. A N umènio viene poi attribuito uno scritto Sul dissenso degli accademici da Platone, in cui sono evidenziati tutti gli scarti operati dai vari platonismi nei confronti delle originarie teorie platoniche: ad essere chiamati in causa non sono soltanto Aristotele e gli esponenti dell’Accademia Nuova (quella scettica), ma anche gli accademici antichi, accusati di aver già inquinato il pensiero platonico con dottrine di altra provenienza. D’altra parte, anche N umènio sostiene una visione piuttosto sincretistica (tale cioè da fondere insieme dottrine e orizzonti culturali differenti). Platone stesso è da una parte collocato nell’al-

veo della tradizione pitagorica, e dall’altra è definito un «Mosè che parlava attico» (attico fa riferimento al principale dialetto greco, quello parlato per esempio ad Atene), presupponendo così un sostanziale accordo di fondo tra Pitàgora, Platone, la tradizione giudaica, e ancora quella indiana e quella egiziana. Numènio è stato spesso definito un “neopitagorico”, ma, proprio per effetto di questo sincretismo, i confini tra il medioplatonismo e il neopitagorismo sono in realtà assai labili. A tendenze neopitagoriche possono essere associati Moderàto di Gades (I secolo d.C.) e N icòmaco di Gerasa (in Giordania, I-II secolo d.C.). Il primo, sviluppando la tendenza a moltiplicare i livelli dell’Uno (sempre in riferimento alle dottrine non scritte di Platone), ne avrebbe ammessi tre: un primo Uno assolutamente trascendente; un secondo Uno, coincidente con le idee, e dunque con il mondo intelligibile; e un terzo Uno, coincidente con l’anima (la mancanza di sufficiente documentazione ci impedisce di verificare fino a che punto questa dottrina possa essere considerata un’anticipazione di quanto ritroveremo, nel capitolo successivo, in Plotino). N icòmaco fu invece l’autore di un’Introduzione all’aritmetica e di una Teologia dell’aritmetica: se la seconda è un trattato sui numeri di carattere teologico (nello spirito della tradizione pitagorica), la prima venne compendiata in latino agli inizi del VI secolo da Severino Boezio, e costituì di fatto l’unico manuale di matematica accessibile, per molti secoli, nel mondo latino. Pur essendo un autore originale e difficilmente classificabile, può essere accostato al medioplatonismo più incline ad accettare alcune posizioni aristoteliche anche Plutarco di Cheronèa (ca. 50-ca. 125), l’autore delle Vite parallele (ventitré coppie di biografie di personaggi greci e latini, più quattro biografie isolate) e dei Moralia (una raccolta di una settantina di scritti di carattere prevalentemente etico). È proprio nel campo dell’etica che Plutarco si mostra vicino alla dottrina aristotelica della virtù e della medietà, in contrapposizione allo stoicismo. Se Numènio aveva cercato di evidenziare gli scarti interni alla tradizione platonica, Plutarco ne rivendica la sostanziale unitarietà, reintegrando perfino l’esperienza dell’Accademia scettica: la sospensione dell’assenso è una strategia valida nell’ambito della conoscenza sensibile, da cui, in termini genuinamente platonici, non ci si può attendere certezza

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assoluta. A differenza di molti pensatori medioplatonici, Plutarco non sembra ipotizzare una gerarchia nell’ambito del mondo intelligibile, e ritiene che dio sia direttamente coinvolto tanto nella produzione dell’anima quanto nell’ordinamento demiurgico del mondo. A proposito di quest’ultimo, Plutarco si schiera a favore di un’interpretazione in senso temporale del Timeo: quando Platone afferma che il mondo è stato generato, intende – secondo Plutarco – che è stato realmente prodotto nel tempo. Su questo punto i medioplatonici del II secolo prendono in effetti strade diverse: alcuni, tra cui Albino e Tauro, propendono per l’idea di una generazione eterna, ritenendo che Platone avesse usato un lessico “creazionistico” (tale cioè da indurre a ritenere che il mondo fosse stato creato nel tempo) esclusivamente a fini didattici; altri (come Severo, Attico e Arpocrazione) adottano invece una posizione simile a quella di Plutarco. Decisamente più avversi ad Aristotele sono altri medioplatonici del II secolo d.C. come Lucio e Nicòstrato (entrambi critici della dottrina delle Categorie), Severo e soprattutto Attico, autore di uno scritto intitolato esplicitamente Contro coloro che pretendono di interpretare Platone mediante Aristotele: le principali critiche che egli rivolge all’aristotelismo riguardano la negazione delle idee, della provvidenza e dell’immortalità dell’anima, la tesi dell’eternità del mondo e la dottrina della felicità, a cui Attico sembra preferire l’ideale stoico dell’autosufficienza della virtù.

4 La tradizione aristotelica: da Andronico ai commentatori Aristotele gioca, in positivo o in negativo, un ruolo importante nelle trasformazioni del platonismo in età imperiale. Uno dei motivi di fondo di questo rinnovato interesse per il suo pensiero è rappresentato dalla grande edizione delle opere di Aristotele portata a termine intorno alla metà del I secolo a.C. da Andronìco di Rodi [ 5.2]. Andronìco radunò in opere di più ampie dimensioni scritti sparsi e note di corsi, fondandosi sul criterio dell’affinità tematica, e completando l’edizione con indici che ne resero assai più agevole la consultazione sistematica.

N acque così l’Aristotele che leggiamo ancora oggi, non solo per quel che riguarda le singole opere (la Metafisica soprattutto, derivata come detto dall’assemblaggio di scritti diversi), ma anche per il loro insieme: l’edizione di Andronìco segnò infatti la scomparsa dei dialoghi o di tutti gli altri scritti non destinati all’insegnamento all’interno della scuola. L’edizione di Andronìco rese possibile l’elaborazione di diversi commenti alle opere aristoteliche (a partire dall’età imperiale, il commento comincia così a imporsi come un nuovo genere di scrittura filosofica): Andronìco stesso, per esempio, scrisse una parafrasi delle Categorie, e forse anche del De anima; Adràsto commentò ugualmente le Categorie, e forse altre opere; Aspàsio (nella prima metà del II secolo) compose un importante commento all’Etica N icomachea, poi in parte ripreso in età bizantina. Ma il commentatore più noto, acuto e importante è Alessandro di Afrodìsia (in Asia Minore, nell’odierna Turchia), attivo tra la seconda metà del II secolo e i primi anni del III, e nominato, sotto Settimio Severo e Caracalla, titolare di una delle cattedre imperiali di filosofia (presumibilmente, quella di filosofia aristotelica). Alessandro commentò quasi tutto il corpus aristotelico, ma ci sono pervenuti solo i primi cinque libri del commento alla Metafisica (gli altri trasmessi sotto il suo nome sono un completamento dovuto al commentatore bizantino del XII secolo Michele di Efeso), il primo libro del commento agli Analitici primi, e i commenti al De sensu, ai Topici, e ai Meteorologici. Il principio di fondo a cui egli si attenne fu quello di interpretare Aristotele con lo stesso Aristotele, cercando cioè di spiegare i passaggi dubbi e ambigui di un’opera attraverso il ricorso a passi paralleli. Ad Alessandro si deve così anche un primo tentativo di offrire un’interpretazione coerente della Metafisica aristotelica, al di là dei suoi problemi testuali: la metafisica è sì scienza dell’essere in quanto essere, ma anche – nella misura in cui la sostanza è il significato principale dell’essere – scienza delle sostanze; ora, tra tutte le sostanze, le più nobili sono quelle divine, e per questo la metafisica è anche, essenzialmente, teologia, ed è scienza di ciò che è universale (l’essere) solo in quanto scienza di ciò che è primo (il divino). Alessandro fu anche autore di alcuni trattati originali (in parte conservati grazie alla loro suc-

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cessiva traduzione in arabo) tra cui spiccano quelli Sulla mescolanza (contro la dottrina stoica della commistione totale), Sul fato (o Sul destino) e L’anima, oltre a una raccolta di Questioni in quattro libri. Anche a proposito del fato Alessandro polemizza contro il determinismo stoico, trovandosi tuttavia in una situazione delicata, poiché anche Aristotele si prestava ad essere interpretato in senso deterministico, sia per quel che riguarda l’influenza dei corpi celesti sui processi del mondo sublunare, sia – e ancor più – per la teoria degli “abiti morali” (ognuno agisce sulla base della disposizione abituale – dell’abito, appunto – che si è consolidato in lui). Alessandro si mantiene fedele all’impostazione aristotelica, concedendo che il destino di ogni individuo è in qualche modo iscritto nella sua costituzione naturale, ma riconoscendo al contempo che tale costituzione non sia veramente immodificabile:



In questo senso uno avrebbe ragione di dire che la natura propria di ciascuno è il suo principio e la causa della regolarità dei fenomeni naturali che in lui avvengono. Da qui deriva quella logica che governa il vivere e il morire degli uomini. […] Chi è di natura audace o temerario per lo più fa una fine violenta: ecco il “destino” di questa natura; per l’intemperante di natura passare la vita tra i piaceri e condurre l’esistenza dei dissoluti, a meno che un sentimento migliore destatosi in lui non lo sottragga al vizio; chi per natura è forte a sopportare fatiche e sofferenze: di costoro anche il termine della vita va secondo il destino. [Sul destino, 6, 170, 9-171, 1 B]



N el suo scritto maggiore, L’anima (in effetti, Alessandro compose anche un trattatello più breve sul medesimo tema, poi definito Mantissa, le cui dottrine non coincidono perfettamente con l’altro), Alessandro sembra radicalizzare l’interpretazione naturalistica e funzionalistica dell’anima già presente in Aristotele, facendo dell’anima stessa la forma che consegue da una determinata mescolanza degli elementi nel corpo: in altri termini, l’anima (senza essere essa stessa materiale) risulterebbe comunque dalla costituzione materiale del suo corpo [ T17]. Alessandro offre un’interpretazione ugualmente naturalistica anche dell’intelletto potenziale (“materiale”, non perché realmente corporeo, ma perché in potenza, come la materia, a

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ricevere gli intelligibili) destinato a corrompersi con la morte del corpo. Al contrario, l’intelletto produttivo o agente descritto da Aristotele nel capitolo 5 del III libro del De anima viene identificato da Alessandro – con una scelta gravida di conseguenze – con il dio-pensiero puro del XII libro (Làmbda) della Metafisica: nel pensare in atto le sostanze separate, l’uomo si identifica momentaneamente con esse, e consegue così – sia pure in modo assolutamente transitorio – l’unica forma di immortalità e divinizzazione che gli è possibile. Per il resto, l’attività dell’intelletto è naturale e mortale e si salda perfettamente, attraverso il procedimento astrattivo, alla conoscenza sensibile [ T17]. Alessandro distingue a questo proposito tre gradi della conoscenza intellettuale, che saranno poi largamente utilizzati nelle discussioni medievali (arabe e latine) sullo statuto dell’intelletto: 1. il già ricordato intelletto materiale o potenziale, ovvero la semplice disposizione a ricevere le forme astratte dalle immagini sensibili; 2. l’intelletto come abito, ovvero la disposizione ormai formata a concepire gli universali tramite la percezione, l’esperienza e lo studio; 3. l’intelletto in atto, la capacità perfettamente dispiegata di pensare. 1. Il criterio utilizzato da Andronìco di Rodi per sistemare gli scritti di Aristotele fu: a. cronologico. b. logico. c. tematico. d. linguistico. 2. Alessandro di Afrodìsia fu: a. uno fra gli studiosi che si occuparono di sistemare gli scritti aristotelici. b. uno fra i più acuti commentatori di Aristotele. c. il filosofo che suffragò pienamente il determinismo stoico. d. colui che distinse fra intelletto potenziale e intelletto agente.

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5 Epicureismo e stoicismo in età imperiale Rispetto alla ripresa del platonismo e dell’aristotelismo, le grandi scuole ellenistiche, con la parziale eccezione dello scetticismo (soprattutto grazie alla figura di Sesto Empìrico:  6.13.2), sembrano in qualche modo arretrare.

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5.1 L’epicureismo a Roma: Lucrezio Per quanto riguarda l’epicureismo, non si può evidentemente fare a meno di menzionare, nel mondo latino, un espositore di grande suggestione, Lucrezio (98 a.C.-55 a.C.), autore del poema De rerum natura in sei libri: in esso viene esposta per la prima volta la teoria del clinamen [ 6.3], ovvero della ‘deviazione’/‘inclinazione’ (o, in senso tecnico, ‘declinazione’) degli atomi dalla loro linea perpendicolare di “caduta” verso un basso relativo. Colpisce anche la grande deferenza e ammirazione con cui Lucrezio presenta la figura di Epicuro, come colui che avrebbe infine liberato l’umanità dal timore della morte e degli dèi, sostituendo alle superstizioni religiose spiegazioni fondate sulle sole cause naturali. A testimonianza della diffusione delle dottrine epicuree nel mondo latino, vale la pena anche di ricordare che la villa dei Pisoni a Ercolano (sepolta dall’esplosione del Vesuvio nel 79 d.C.) ospitava una ricca biblioteca di papiri di scuola epicurea, alcuni dei quali sono stati recuperati e sono ancora oggetto di studio e interpretazione.

5.2 Lo stoicismo a Roma: Seneca Lo stoicismo, che rappresenta il principale obiettivo polemico dei medioplatonici e degli aristotelici (e dello stesso Sesto Empìrico), sembra incapace di opporre una difesa teorica di grande spessore: alla grande fortuna che gli stoici hanno come guide spirituali e “filosofi domestici” non si accompagna un’altrettanto rilevante vitalità teorica (per quanto ovviamente anche gli stoici abbiano continuato ad avere le loro scuole, più strettamente dottrinali, in cui si leggevano i testi dei predecessori, e in particolare di Crisìppo). La figura più significativa, ma anche più problematica, dello stoicismo romano è certamente Lucio Annèo Seneca. Nato a Cordova intorno al 4 d.C., fu precettore e poi consigliere di Nerone, dal quale si allontanò nel 62: tre anni dopo, nel 65, fu accusato di essere implicato nella congiura dei Pisoni e costretto al suicidio. Prima del suo congedo dalla vita pubblica, Seneca aveva composto numerosi Dialoghi di impostazione appunto stoica, dedicati a temi morali quali la

tranquillità della vita, l’accettazione del destino, il dominio delle passioni, la fermezza, la clemenza [ T56]. Dopo il 62 furono invece composte le Lettere a Lucilio e le Questioni naturali. Le prime propongono in generale massime di conforto o consolazione morale, non discostandosi troppo dalla pratica stoica dei filosofiguide spirituali; in due lettere (la 58 e la 65), tuttavia, Seneca espone invece le idee di fondo delle posizioni medioplatoniche a lui contemporanee, e si spinge fino a invertire il rapporto tra la vita speculativa e l’impegno etico-pratico, a tutto vantaggio della prima:



Mi vorresti proibire di contemplare la natura? […] Non dovrei cercare i princìpi dell’Universo? Non cercherò chi ha dato forma agli esseri, separando gli elementi già immersi e confusi insieme in una massa inerte? Non cercherò chi è l’artefice di questo mondo, né come l’immensità dell’Universo abbia ricevuto una legge e un ordine? [Lettere a Lucilio, 65]



Le Questioni naturali sviluppano appunto ricerche di questo tipo (trattando in successione dei fuochi celesti, delle folgori, delle acque, delle nubi e del fiume Nilo, dei venti, dei terremoti e delle comete), e segnano uno scarto netto nei confronti dello stoicismo, nella misura in cui la ricerca speculativa è ormai, anche di fatto, anteposta alla ricerca pratica della tranquillità d’animo. Al di là dei singoli temi scientifici (vale tuttavia la pena di ricordare che Seneca intuisce che le comete non sono fenomeni meteorologici, come ipotizzato da Aristotele, ma autonomi corpi celesti), le Questioni esprimono una visione cupa e pessimistica dell’agire umano, che introduce disordine e irrazionalità in una natura che pure dovrebbe riflettere l’ordinamento prodotto da un dio immateriale e trascendente (e dunque anche in questo caso interpretato secondo gli schemi medioplatonici e aristotelici, più che stoici) Lo stesso tema emerge per altro con grande drammaticità anche in alcune delle Lettere a Lucilio, in cui non è più coltivato l’ideale stoico del rimettersi al reale e alla sua razionalità immanente (nel senso che, per gli stoici, tutto il cosmo è compenetrato dal lògos divino:  6.8), ma viene anzi raccomandato il suicidio come possibilità di sottrarsi al disordine e all’insensatezza, e dunque come suprema manifestazione di libertà.

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5.3 Lo stoicismo a Roma: Epitteto e Marco Aurelio Se l’esperienza intellettuale di Seneca mostra una sorta di superamento dall’interno dello stoicismo, diverso è il caso di figure più tarde quali quelle di Epittèto e Marco Aurelio. Epittèto (ca. 50-ca. 125) fu, secondo la tradizione, di origine servile; liberato, poté seguire lo stoico romano Musònio Rufo; fu quindi espulso da Roma dall’imperatore Domiziàno e riparò a N icòpoli in Epiro, dove trascorse il resto della sua vita. Le Diatribe che sono state tramandate sotto il suo nome sono in realtà le conversazioni avute con lui e messe per iscritto dallo storico Arriano di N icomedia, a cui si deve anche la compilazione del Manuale. Si tratta di testi interessanti per avere un’idea dell’autoconsapevolezza di un saggio stoico; i temi principali riguardano l’autonomia morale, la capacità di sopportare le avversità, e la distinzione tra ciò che è in nostro potere (la sfera dell’anima) e ciò che non lo è, e di cui non bisogna pertanto curarsi troppo: il mondo esterno, il nostro corpo, e perfino l’esito delle nostre azioni, che dipendono dal fato (espressione e strumento dalla volontà divina). Il successo “sociale”, più che speculativo, dello stoicismo nel mondo romano è provato dal fatto che ad esso poterono aderire tanto un ex-schiavo, come appunto Epittèto, quanto un imperatore, come Marco Aurelio (121-180 d.C.) autore di una raccolta intitolata A sé stesso (scritta in greco). Come Seneca, anche Marco Aurelio sottolinea la precarietà dell’esistenza, aggiungendo a ciò tutta una serie di considerazioni sulla difficoltà di rispettare le responsabilità derivanti dal proprio incarico e di avere rapporti umani genuini. A differenza di Seneca, tuttavia, Marco Aurelio conserva una fiducia profonda nell’unità e nella razionalità del tutto, senza distaccarsi dalle coordinate di fondo dello stoicismo.

6 Due scienziati dell’età imperiale: Tolomeo e Galeno 6.1 Gli sviluppi dell’astronomia: Tolomeo Gli sviluppi più importanti dell’astronomia e della cosmologia in età imperiale si devono a

Claudio Tolomeo. Di Tolomeo non sappiamo in realtà molto, se non che condusse osservazioni tra il 127 e il 141 d.C. (sotto gli imperatori Adriano e Antonino), quasi sicuramente in ambito alessandrino [ 6.15] (il Museo aveva ricevuto una particolare protezione da parte di Adriano e avrebbe goduto di una relativa stabilità e prosperità fino a Caracalla). I suoi scritti hanno tuttavia avuto una fortuna immensa, in particolare l’Almagèsto (il nome deriva dalla traslitterazione araba di he megìste, cioè ‘la grandissima’, sottintendendo “compilazione”); il Tetrabiblos (un trattato di astrologia, in cui viene presa in considerazione l’influenza fisica dei corpi celesti sulla vita umana); l’Ottica, e una monumentale Geografia (con indicazione della latitudine e longitudine dei luoghi del mondo conosciuto, e accurate proiezioni cartografiche). L’Almagèsto (in tredici libri) è stato per molti secoli, prima nel mondo arabo e poi in quello latino-occidentale, il vero e proprio testo di riferimento sull’astronomia. L’opera conteneva un catalogo ragionato di 1022 stelle, suddivise in 48 costellazioni e alcune nebulose. Ritroviamo qui il problema del moto retrogrado, che abbiamo sfiorato nei capitoli precedenti. Possiamo forse ora scendere un po’ più nel dettaglio: gli antichi si erano resi conto che i pianeti conosciuti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno), pur muovendosi nel senso del Sole, sembravano a volte arrestare il loro corso rispetto al cielo delle stelle fisse, invertire la direzione del loro moto per breve tempo (per questo si parla appunto di moto retrogrado) per poi tornare a muoversi nel senso del Sole. Tale fenomeno dipende dal fatto che la loro traiettoria generale segue la direzione opposta a quella della rotazione diurna, e noi osserviamo questi moti dalla Terra che gira intorno al Sole. La teoria degli eccentrici e degli epicicli [ 6.15] suggeriva un modello plausibile, ma ancora non del tutto perfetto, per spiegare le apparenze. Tolomeo vi introdusse un’ultima decisiva correzione. Tutta la cosmologia greca aveva sempre cercato di salvaguardare l’ipotesi che le sfere celesti si muovessero di moto circolare uniforme: dunque, si presumeva che gli epicicli si muovessero sui deferenti a velocità costante. Tolomeo ipotizzò invece che il movimento potesse apparire costante e uniforme agli occhi di un osservatore non situato né sulla

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Terra né al centro del cerchio deferente, ma in un punto equante intermedio. Inoltre, non si limitò solo a spiegare i movimenti osservabili, ma mise a disposizione importanti strumenti per rendere più agevoli i calcoli, quali le tavole ricomprese nello stesso Almagèsto e altre Tavole Manuali. Se per secoli il sistema tolemaico, che continuava a porre la Terra al centro dell’Universo, prevalse sulle varie ipotesi eliocentriche che pure furono avanzate, non fu né per l’ingenuità di cedere all’osservazione del moto apparente del Sole (già gli astronomi greci, come poi quelli arabi, sapevano che il moto apparente del Sole intorno alla Terra poteva spiegarsi anche in base

al moto di rotazione della Terra), né per la sola opposizione, dopo l’avvento del cristianesimo, delle autorità religiose, ma anche per il fatto che per lungo tempo (fino all’astronomia moderna, e cioè a Copernico, Tycho Brahe e Keplero) mancò una base matematica ugualmente solida e sofisticata.

1. Nell’Almagèsto Tolomeo: a. avanza l’ipotesi eliocentrica dell’Universo. b. fornisce un’adeguata base matematica agli studi astronomici.

c. corregge la teoria degli eccentrici ed epicicli. d. introduce la teoria degli eccentrici ed epicicli.

A

P P

A

C

B

Terra

B

T

D

Eccentrico di Tolomeo. Il pianeta P si muove uniformemente intorno a C posto sulla linea che unisce il centro della Terra al Sole.

P

D

A

F

E C

T

B

Equante di Tolomeo. Il pianeta P percorre angoli uguali in tempi uguali rispetto al punto equante E, non corrispondente al centro C dell’eccentrico, né al centro della Terra ma tale che EC= CT.

D

Epiciclo di Tolomeo. Il pianeta P si muove intorno ad A, posto sul cerchio deferente ABD. Quando l’epiciclo si trova in A il suo moto si somma a quello del deferente, mentre in D si sottrae. In basso: il moto retrogrado apparente di un pianeta che si muova su un epiciclo posto su un deferente.

autoverifica

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6.2 Medicina, scienza, filosofia: Galeno Nato a Pèrgamo nel 129 a.C. circa da una famiglia aristocratica, Galèno acquisì ben presto una completa preparazione filosofica, che gli derivò dall’aver potuto frequentare tutte e quattro le principali scuole filosofiche dell’età imperiale: Pèrgamo, infatti, era un centro di assoluto rilievo dal punto di vista dell’attività filosofica, e Galèno ebbe ulteriormente la possibilità di recarsi a Smirne per seguire il medioplatonico Albino. Trascorse quindi un periodo ad Alessandria per apprendere la pratica della dissezione anatomica, prima di passare a Roma, una prima volta nel 161, e poi nel 169 come medico militare e medico di corte sotto Marco Aurelio. Tornato quindi a Pèrgamo, morì intorno al 200. La preparazione filosofica così vasta e differenziata permise a Galèno di sviluppare una grande autonomia dottrinale. Ne è un buon esempio il fatto che, quando egli si trovò, nel compendio al Timeo, a dover prender posizione nella questione della generazione o dell’eternità del mondo – vero terreno di scontro nell’ambito del medioplatonismo – si schierò non tanto dalla parte di Albino, quanto da quella di Attico, Severo, Plutarco e Arpocrazione, ovvero di coloro che sostenevano che la generazione del mondo fosse da intendere in senso temporale. Per altro, buona parte della produzione di Galèno è pervasa dalla convinzione che un buon medico abbia altrettanto diritto (se non maggior diritto) di chiamarsi filosofo rispetto ai filosofi in senso stretto, ovvero ai maestri delle scuole, spesso sprovvisti di una strumentazione logica adeguata e incapaci di sottrarsi a dispute sterili e scientificamente irrilevanti. Da un certo punto di vista, si può ritenere la presa di posizione di Galèno come il primo vero e proprio attacco, da parte di una scienza specialistica, nei confronti della filosofia generale (o della prima polemica, per così dire, tra “scienziati” e “filosofi”). Alla filosofia non-scientifica, che sembra non poter trarsi fuori dall’ambito di ciò che è meramente probabile, Galèno contrappone appunto l’ideale dello scienziato-filosofo, o meglio del medico-filosofo, perfettamente rappresentato da Ippòcrate (non a caso, uno scritto di Galèno è intitolato Il miglior medico è anche filosofo). La filosofia “scientifica” è fondamentalmente la logica, ma una logica talmente dilatata da ricomprendere in sé anche l’intera fisica, e tale

da presentarsi come una vera e propria teoria della dimostrazione scientifica, in grado di spiegare adeguatamente i processi naturali. Ed è proprio da Ippòcrate che Galèno muove nella sua rielaborazione della scienza medica, secondo un preciso sistema di corrispondenze: agli elementi (aria, acqua, terra e fuoco) e alle qualità (caldo, freddo, secco e umido) corrispondono gli umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera), e agli umori i temperamenti (sanguigno, flemmatico, bilioso, melanconico), dai quali dipendono – a seconda del loro equilibrio o squilibrio – la salute o la malattia. Le cause ultime dei cambiamenti fisici sono da rintracciare per Galèno nelle facoltà naturali – una sorta di codice che riproduce regolarmente (salvo deviazioni patologiche) il lògos della natura. Il discorso sulle facoltà naturali si iscrive appieno nell’impostazione teleologica o finalistica del galenismo: la scienza non si limita al che (cioè alla mera registrazione dei fatti), ma mira al perché, cioè alla ricerca delle cause, e fra tutte le cause quella principale è rappresentata dal fine. Spiegare un fatto o un processo vuol dire così individuare ciò in vista di cui esso è o accade – cioè, appunto, individuarne il fine. Ogni manifestazione della natura vivente sembra essere in tal senso una parte del disegno divino e, in quanto tale, pensata in vista del meglio (le dita, per esempio, avrebbero anche potuto muoversi senza ossa, come accade per i polipi, ma non ci sarebbe stata saldezza nelle azioni). In uno dei suoi ultimi scritti (Le facoltà dell’anima seguono i temperamenti del corpo), Galèno giunge ad attribuire al medico – più che al filosofo o al politico – la funzione di correttore dei costumi, ovvero di direttore o guida della salute mentale e morale dell’umanità. Combinando la tripartizione platonica dell’anima con la tradizione aristotelica, egli interpreta ciascuna delle parti dell’anima come il temperamento (ovvero l’equilibrio) dell’organo in cui quella parte risiede: l’anima razionale, che si trova nel cervello, controlla la percezione e i sensi; l’anima passionale, che ha sede nel fegato, regola il metabolismo; e dall’anima irascibile, che è nel cuore, dipende infine la temperatura corporea. Il medico può dunque influire sul temperamento dei singoli individui, calibrando in modo mirato per ciascuno determinate prescrizioni igieniche e dietetiche, fino a trasformare, almeno in parte, il suo comportamento personale e sociale.

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SINTESI CAPITOLO 7

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita La filosofia nel mondo latino. Gli inizi della filosofia a Roma risalgono all’arrivo in città, nel 155-156 a.C., di un’ambasciata di filosofi greci. La risposta del mondo romano all’incontro con la filosofia fu caratterizzata da una iniziale avversione: le scuole ellenistiche con cui esso venne a contatto proponevano un percorso di affrancamento interiore che implicava una cesura tra il cittadino e lo Stato. Di contro, la morale e la cultura romane erano incentrate sull’ideale del civis, tenuto a partecipare alla vita pubblica e pronto ad anteporre l’interesse dello Stato e il rispetto dei costumi e delle leggi alla propria felicità individuale. Ma con la progressiva assimilazione della cultura ellenistica, a seguito delle conquiste romane, il possesso di una dignitosa formazione filosofica diventò un requisito essenziale per ogni romano di buona famiglia pur continuando, la filosofia, ad essere percepita come qualcosa di straniero. Filosofi “di scuola” e filosofi “domestici”. Il fenomeno più interessante dell’età imperiale fu la scissione tra la figura del maestro “di scuola”, che interpreta e insegna i testi della tradizione, e quella della guida spirituale, che assume le vesti del “filosofo domestico”. Questa separazione si tradusse nell’appartenenza a scuole diverse: gli artefici della rinascita del platonismo e dell’aristotelismo si concentrarono più sugli aspetti speculativo-dottrinali; gli stoici e i cinici si proposero come consiglieri spirituali. Dal punto di vista dei contenuti, gli elementi più significativi furono il ritorno alle dottrine platoniche e aristoteliche ed una sostanziale uniformità lessicale, determinata dal prevalere della terminologia stoica. Le trasformazioni del platonismo. Dopo Carnèade, l’Accademia si orientò verso un’interpretazione meno aporetica dei dialoghi platonici. Fu Antìoco di Ascalòna a proporre un’interpretazione positiva di Platone che risentiva da una parte dello stoicismo e, dall’altra, di Aristotele. Cicerone, suo discepolo, favorì la divulgazione delle dottrine ellenistiche nel mondo romano, e contribuì alla definizione di un lessico filosofico in lingua latina. Il medioplatonismo,

ovvero la stagione del platonismo compresa tra Antìoco e Plotino (dal I secolo a.C. agli inizi del III secolo d.C.) presenta le seguenti caratteristiche generali: 1. il ritorno a una lettura positiva del pensiero platonico e il definitivo abbandono del carattere scettico o aporetico; 2. una maggiore attenzione per gli aspetti metafisici o teologici del platonismo; 3. l’importanza del Timeo e delle questioni relative all’anima del mondo e al ruolo del demiurgo; 4. la tendenza a fare delle idee i pensieri stessi di dio; 5. il ricorso a temi e concetti aristotelici. La tradizione aristotelica: da Andronico ai commentatori. Il rinnovato interesse per il pensiero di Aristotele fu determinato dalla grande edizione delle sue opere, realizzata da Andronìco di Rodi (I secolo a.C.). Egli, fondandosi sul criterio dell’affinità tematica, radunò in opere scritti sparsi e note di corsi. L’edizione di Andronìco rese possibile l’elaborazione di diversi commenti alle opere aristoteliche: a partire dall’età imperiale, il commento si impose come un nuovo genere di scrittura filosofica. Il più acuto commentatore di Aristotele fu Alessandro di Afrodìsia (II-III secolo d.C.). Quest’ultimo interpretò Aristotele con Aristotele stesso, cercando cioè di spiegare i passaggi dubbi e ambigui di un’opera attraverso il ricorso ai passi paralleli. N el suo scritto maggiore, L’anima, Alessandro riaffermò l’interpretazione naturalistica e funzionalistica dell’anima e dell’intelletto potenziale, considerato materiale e destinato a corrompersi con la morte del corpo. Al contrario, l’intelletto produttivo o agente fu identificato da Alessandro con il diopensiero puro. Alessandro distinse tre gradi della conoscenza intellettuale: 1. l’intelletto materiale o potenziale, ovvero la semplice disposizione a ricevere le forme astratte dalle immagini sensibili; 2. l’intelletto come abito, ovvero la disposizione ormai formata a concepire gli universali; 3. l’intelletto in atto, cioè la capacità perfettamente dispiegata di pensare. Epicureismo e stoicismo in età imperiale. L’esponente più importante dell’epicureismo nel mondo latino fu Lucrezio (98 a.C.-55 a.C.),

autore del poema De rerum natura dove viene esposta, per la prima volta, la teoria del clinamen ovvero della deviazione/inclinazione degli atomi dalla loro linea perpendicolare di “caduta” verso un basso relativo. Lucrezio presenta la figura di Epicuro come colui che avrebbe liberato l’umanità dal timore della morte e degli dèi, sostituendo alle superstizioni religiose spiegazioni fondate sulle sole cause naturali. L’esponente più significativo, e problematico, dello stoicismo romano fu Lucio Annèo Seneca (4-65 d.C.). Egli compose numerosi Dialoghi dedicati a temi morali di derivazione stoica (la tranquillità della vita, l’accettazione del destino, il dominio delle passioni, la fermezza, la clemenza). Le Questioni naturali segnano uno scarto netto nei confronti dello stoicismo, in quanto la ricerca speculativa su temi scientifici è anteposta alla ricerca pratica della tranquillità d’animo. Esse contengono anche una visione cupa e pessimistica dell’agire umano. Nelle Lettere a Lucilio il suicidio viene presentato come possibilità di sottrarsi al disordine e all’insensatezza, e dunque come suprema manifestazione di libertà. Due scienziati dell’età imperiale: Tolomeo e Galeno. Gli sviluppi più importanti dell’astronomia e della cosmologia in età imperiale si devono a Claudio Tolomeo. Nell’Almagèsto, per molti secoli il testo di riferimento sull’astronomia, egli apportò una correzione alla teoria degli eccentrici e degli epicicli introducendo il sistema degli equanti. Galèno, fautore dell’ideale dello scienziato-filosofo, rielaborò la scienza medica del suo tempo secondo un preciso sistema di corrispondenze: agli elementi (aria, acqua, terra e fuoco) e alle qualità (caldo, freddo, secco e umido) fece corrispondere gli umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera), e a questi i temperamenti (sanguigno, flemmatico, bilioso, melancolico), dai quali dipendono la salute o la malattia. Ritenendo che la scienza non dovesse limitarsi alla mera registrazione dei fatti, ma alla ricerca delle cause, Galèno considerava ogni manifestazione della natura vivente parte del disegno divino.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

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Platone, Teeteto, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, poi Bompiani, Milano 2000 (trad. di C. Mazzarelli, qui lievemente modificata). Alessandro di Afrodisia, Sul destino, a cura di A. Magris, Ponte alle Grazie, Firenze 1995. Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, introd. di L. Canali, trad. e note di G. Monti, cronologia di E. Bertelli, Rizzoli, Milano 200723.

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Opere Sul platonismo in età imperiale si può far riferimento a: H. Dörrie - M. Baltes, Der Platonismus in der Antike, in particolare i volumi II (Der hellenistische Rahmen des kaiserzeitlichen Platonismus: Bausteine 36-72. Text, Übersetzung, Kommentar, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1990) e III (Der Platonismus im 2. und 3. Jahrhundert nach Christus: Bausteine 73-100. Text, Übersetzung, Kommentar, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1993). Sui filosofi medioplatonici del II secolo si veda la raccolta curata da Gioè, citata qui di seguito nella sezione “Studi critici”.

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I testi dei commentatori di Aristotele sono editi nei Commentaria in Aristotelem Graeca, Reimer, Berlin 1883-1909 (i commenti di Alessandro di Afrodìsia sono editi nei voll. I, II/1-2, III/1-2, e nel vol. II del Supplementum). In traduzione italiana si vedano: L’anima, a cura di P. Accattino e P. Donini, Laterza, Roma-Bari 1996; Il destino, a cura di C. Natali, Rusconi, Milano 1996 (oltre alla trad. di Magris citata in precedenza); La provvidenza. Questioni sulla provvidenza, a cura di S. Fazzo e M. Zonta, Rizzoli, Milano 1998. Per la traduzione della Metafisica si veda la sezione “Studi critici”.

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Dei Moralia di Plutarco è in corso la pubblicazione, in più volumi, del testo greco con traduzione italiana presso l’editore D’Auria, Napoli. Numerosi scritti singoli sono apparsi per la Rizzoli.

Per i testi filosofici di Cicerone cfr.:

· Marco Tullio Cicerone, Opere politiche e filosofiche. Vol. I: Lo Stato; Le

leggi; I doveri, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Utet, Torino 19742; vol. II: I termini estremi del bene e del male. Discussioni tusculane, a cura di M. Marinone, Utet, Torino 20033; vol. III: De natura deorum; De senectute; De amicitia, a cura di D. Lassandro e G. Micunco, Utet, Torino 2007. Per lo stoicismo romano cfr. Epitteto, Manuale, testo greco a fronte, a cura di P. Hadot, trad. A. Taglia, Einaudi, Torino 2006; Marco Aurelio, Pensieri, testo greco a fronte, a cura di C. Cassanmagnago, Bompiani, Milano 2008; di Seneca, oltre all’edizione citata delle Lettere a Lucilio, si segnalano, sempre in edizione bilingue, Le ricerche sulla natura, a cura di P. Parroni, Mondadori, Milano 2002 e Questioni naturali, a cura di R. Murgellesi, Rizzoli, Milano 2004. Solo in traduzione italiana cfr. Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.

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Di Tolomeo è disponibile Le previsioni astrologiche. Tetrabiblos, a cura di S. Feraboli, Mondadori, Milano 1985. L’edizione critica delle opere di Galèno è in via di completamento nell’ambito del «Corpus medicorum graecorum» (CMG) presso l’Akademie Verlag, Berlin. Alcune Opere scelte sono state edite in italiano da I. Garofalo e M. Vegetti, Utet, Torino 1978. Si veda anche: Galeno, Le passioni e gli errori dell’anima: opere morali, a cura di M. Menghi e M. Vegetti, Marsilio, Venezia 1984.

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Studi critici Un volume esemplare e insuperato sulla filosofia imperiale è: P. Donini, Le scuole, l’anima, l’impero: la filosofia antica da Antioco a Plotino, Rosenberg & Sellier, Torino 1982.

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Ad esso si possono aggiungere i volumi curati da Brancacci: La filosofia in età imperiale. Le scuole e le tradizioni filosofiche,

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a cura di A. Brancacci, Bibliopolis, Napoli 2000. • Antichi e moderni nella filosofia di età imperiale, atti del II colloquio internazionale (Roma, 21-23 settembre 2000), a cura di A. Brancacci, Bibliopolis, Napoli 2001. Per quanto riguarda la questione del “giudaismo ellenizzante”, un valido punto di riferimento rimane: M. Hengel, Giudaismo ed ellenismo. Studi sul loro incontro, con particolare riguardo per la Palestina fino alla metà del II secolo a.C., Paideia, Brescia 2001.

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Più in particolare su Filòne, una ricostruzione dettagliata dei commenti allegorici è offerta in: R. Radice, Allegoria e paradigmi etici in Filone di Alessandria. Commentario al Legum allegoriae, Vita e Pensiero, Milano 2000.

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Un’utile rassegna delle posizioni dei medioplatonici del II secolo, che permette tra l’altro di percepire alcune divergenze intorno a punti essenziali della tradizione platonica (come per esempio l’interpretazione del Timeo) è offerta da: A. Gioè, Filosofi medioplatonici del II secolo d.C. Testimonianze e frammenti. Gaio, Albino, Lucio, Nicostrato, Tauro, Severo, Arpocrazione, Bibliopolis, Napoli 2003.

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Su Alessandro di Afrodìsia cfr.: M. Bonelli, Alessandro di Afrodisia e la Metafisica come scienza dimostrativa, Bibliopolis, Napoli 2001, in cui, analizzando soprattutto il commento al libro Gàmma, si mostra come per Alessandro la Metafisica aristotelica risponda a tutti i requisiti epistemologici della scienza dimostrativa, e la recente traduzione dell’opera curata da Movia: Alessandro di Afrodisia, Commentario alla Metafisica di Aristotele, a cura di G. Movia, Bompiani, Milano 2007.

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Sulla scienza in età ellenistica e imperiale, si vedano i capitoli inclusi nei due volumi curati da G.E.R. Lloyd e J. Brunschwig, Il sapere greco. Dizionario critico, e citati nella bibliografia relativa al capitolo 1.

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ESERCIZI

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita 1. Quale episodio segna l’inizio della filosofia a Roma e quale reazione ebbe la società romana di fronte ad essa? Evidenzia l’evoluzione e motivane le ragioni (max 10 righe). 2. Quale importante fenomeno caratterizza la filosofia nell’età imperiale? (max 5 righe) 3. Descrivi brevemente le caratteristiche di fondo delle scuole a cui fanno capo i due modelli di filosofo dell’età imperiale (max 10 righe). 4. Dopo la morte di Carnèade, quale importante trasformazione si verificò all’interno dell’Accademia? Chi furono i principali protagonisti di questa importante svolta? (max 8 righe) 5. Completa il seguente brano, inserendo i concetti e i nomi: Filòne di Larìssa • Platone • Aristotele • stoicismo • pithanòn • Antìoco di Ascalòna • Carnèade Dopo ......................... , l’Accademia si orienta verso una lettura meno problematica e più positiva di ................... . In particolare, ............................................ estende il ......................................... ad un possibile uso teoretico. .........................., procedendo oltre il suo maestro Filòne, propone un’interpretazione positiva di Platone che risente dello ................................... e di ............................... . 6. Sintetizza le caratteristiche generali del medioplatonismo (max 10 righe). 7. Spiega in che cosa consiste e quali importanti esiti ha prodotto il fenomeno del giudaismo ellenizzante (max 8 righe). 8.Il Timeo e il problema della generazione del mondo nell’interpretazione dei medioplatonici (max 10 righe).

9. Associa a ciascun autore la dottrina più importante di cui si è occupato: 1. Alcinoo a. moltiplicazione dei livelli dell’Uno 2. Numènio di Apamèa b. interpretazione teologica dei numeri 3. Moderàto di Gades c. rielaborazione della teologia aristotelica 4. Nicòmaco di Gerasa d. dottrina dell’accordo fra Pitàgora, Platone, 5. Plutarco di Cheronèa tradizione indiana ed egiziana e. rilettura della dottrina etica di Aristotele 10. Che cosa ha determinato il rinnovato interesse per la filosofia di Aristotele in età imperiale? (max 5 righe) 11. A quale principio fondamentale si attenne il più grande commentatore di Aristotele, Alessandro di Afrodìsia? 12. La differenza tra intelletto attivo e intelletto passivo secondo Alesssandro di Afrodìsia e i gradi della conoscenza intellettuale (max 10 righe). 13. Spiega perché la figura di Seneca rappresenta un caso problematico nell’ambito dello stoicismo romano. 14. Spiega in che cosa consiste il moto retrogrado dei pianeti e quale soluzione offrì ad esso la cosmologia di Tolomeo (max 10 righe). 15. Perché il sistema tolemaico prevalse sulle ipotesi eliocentriche sino all’età moderna? (max 5 righe) 16. Chiarisci i motivi di opposizione fra i maestri delle scuole e il medico-filosofo secondo Galèno (max 8 righe).

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capitolo 8

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Plotino

1 Un filosofo “imperiale” Plotino è considerato unanimemente l’iniziatore del neoplatonismo, la più importante stagione di ripresa e rielaborazione delle dottrine platoniche nel mondo antico. Ma occorre sempre saper utilizzare in modo critico e flessibile le etichette storiografiche: come (quasi) tutte le correnti del mondo antico, il neoplatonismo non è una tradizione unitaria, ma una famiglia composita, eterogenea, in cui coesistono posizioni non così facilmente assimilabili fra loro, e anzi spesso profondamente differenti. Vero è, tuttavia, che Plotino rappresenta – al pari di Platone e di Aristotele – uno snodo fondamentale e profondamente originale (al di là delle sue stesse, ripetute affermazioni di modestia) nel complesso della filosofia antica. Un altro aspetto di cui è opportuno tenere conto è che il neoplatonismo, almeno per quel che riguarda proprio Plotino, non può essere considerato come un fenomeno di rottura radicale nei confronti della filosofia di età imperiale. Si potrebbe anzi dire che in Plotino

si ritrovano entrambi i tratti che definiscono l’essenziale dell’attività filosofica in questo periodo. Per Plotino, infatti, l’uomo deve in qualche modo «scolpire la propria statua» [Enneadi, I, 6 [1], 9, costruire e plasmare sé stesso, e ciò si ricollega all’idea di fondo della filosofia come cura e trasformazione di sé che caratterizza le diverse vicende della filosofia antica e che, in età ellenistica e imperiale, assume la forma specifica del distacco da ciò che è quotidiano ed esteriore. Ma, d’altra parte, Plotino riprende anche l’altro aspetto di ciò che la filosofia era diventata nei primi due secoli d.C. e cioè un confronto sempre più fitto con la tradizione, attraverso la lettura, l’interpretazione, il commento dei testi di Platone e Aristotele, e dei loro interpreti più recenti. Porfirio, il filosofo neoplatonico che ha curato l’edizione degli scritti di Plotino (le Enneadi) e ci ha lasciato un accurato ritratto biografico di quest’ultimo (la Vita di Plotino), ci fornisce una lista accurata dei testi che Plotino utilizzava nella sua “scuola”:



Nelle lezioni venivano letti sia i commentari [i commenti] di Severo, di Cronio, di Numènio, di

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita

Gaio e di Attico, sia quelli di peripatetici, vale a dire di Aspàsio, di Alessandro [di Afrodìsia], di Adràsto e di altri occasionali. [Vita di Plotino, 14]



I luoghi della vita di Plotino

Quest’elenco ci dice molte cose: in primo luogo, ci conferma appunto che Plotino – senza fare alcun torto alla sua grande originalità – dev’essere pur sempre considerato a partire dal contesto dei pensatori di età imperiale (del II secolo d.C. soprattutto), perché è sulla base di questi ultimi che, nelle sue “lezioni”, egli sviluppava le sue tesi. In secondo luogo, ci mostra come gli interessi di Plotino non fossero affatto unilaterali: l’elenco comprende certo pensatori di tendenza medioplatonica (Severo, Cronio, Gaio, Attico, lo stesso Numènio, se non si dà troppo peso alla distinzione storiografica tra medioplatonismo e neopitagorismo), ma anche pensatori di tradizione aristotelica (Aspàsio, Alessandro e Adràsto). Si può aggiungere che Plotino conosceva molto bene lo stesso Aristotele (e in particolare la Metafisica), come attesta esplicitamente ancora Porfirio. Il “ritorno a Platone” propugnato da Plotino non è dunque ignaro delle alternative al platonismo stesso e delle critiche a Platone. Si potrebbe anzi dire che i neoplatonici sono in generale dei platonici post-aristotelici (e post-stoici); cioè dei platonici che

sono in grado di proporre una nuova lettura di Platone proprio sulla base delle critiche che gli erano state mosse dal più brillante e originale dei suoi discepoli: Aristotele. Se Plotino sembra talora criticare in modo molto deciso Aristotele, ciò non significa che non tenga poi conto di molti dei suoi rilievi nell’elaborazione delle proprie dottrine. In terzo luogo, questo lavoro intenso e costante di Plotino sulla tradizione filosofica precedente e a lui contemporanea ci serve già da subito a eliminare un possibile, frequente equivoco che si lega talora al suo pensiero, e cioè che si tratti di una sorta di mistica o di ascesi (cioè un percorso di ricongiunzione al divino) di matrice quasi irrazionale o comunque non strettamente filosofica; al contrario, Plotino è e rimane un filosofo, nel senso ampio che abbiamo visto svilupparsi nelle pagine precedenti, e cioè qualcuno che mira alla trasformazione di sé e degli altri, cerca di dar ragione del mondo e delle cose attraverso argomenti razionali (anche se ammette un livello supremo inattingibile razionalmente) e lo fa riferendosi alla tradizione stessa della filosofia. Infine, un ulteriore elemento che fa di Plotino un pensatore dell’età imperiale è la sua grande vicinanza alla corte imperiale romana: tutta l’attività di insegnamento di Plotino si colloca a

Mar Nero Roma

Antiochia

Mar Mediterraneo

Alessandria d’Egitto

o ss Ro

Plotino nacque intorno al 204 d.C. in Egitto, forse a Licopoli, e si trasferì ad Alessandria per studiarvi filosofia. Nel 242 decise di seguire l’imperatore Gordiano III nella sua campagna militare in

ar

M

Licopoli

Persia per poi rifugiarsi prima ad Antiochia e infine a Roma, presso la casa di una ricca matrona. Qui cominciò a tenere le sue lezioni. Ammalatosi, si trasferì in Campania dove morì nel 270.

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L’ordinamento delle Enneadi Diamo di seguito l’elenco completo dei trattati plotiniani così come sono stati suddivisi nelle sei Enneadi, con l’indicazione, tra parentesi quadre, del loro ordine cronologico. I Enneade 1. Che cosa sono il vivente e l’uomo? [53] 2. Le virtù [19] 3. La dialettica [20] 4. La felicità [46] 5. Se la felicità si accresca col tempo [36] 6. Il bello [1] 7. Il primo bene e gli altri beni [54] 8. La natura e l’origine del male [51] 9. Il suicidio razionale [16] II Enneade 1. Il mondo [40] 2. Il movimento circolare [14] 3. L’influenza degli astri [52] 4. La materia [12] 5. Il potenziale e l’attuale [25] 6. Sostanza o qualità [17] 7. La mescolanza totale [37] 8. La visione, ovvero perché gli oggetti lontani sembrano piccoli [35] 9. Contro gli gnostici [33] III Enneade 1. Il destino [3] 2. La provvidenza, libro I [47] 3. La provvidenza, libro II [48] 4. Il demone che ci è toccato in sorte [15] 5. Eros [50] 6. L’impassibilità degli esseri incorporei [26] 7. L’eternità e il tempo [45] 8. La natura, la contemplazione e l’Uno [30] 9. Considerazioni varie [13] IV Enneade 1. L’essenza dell’anima, libro I [4]

Roma, dove ha stretti rapporti con numerosi membri dell’aristocrazia senatoria, ma anche con l’imperatore Gallieno e sua moglie Salonina. E prima ancora di arrivare a Roma, Plotino aveva partecipato alla sfortunata spedizione militare dell’imperatore Gordiano III contro i Parti: i motivi di questa scelta non sono ben chiari (Porfirio cita in proposito il desiderio di “sperimentare” la filosofia dei Persiani e degli

2. L’essenza dell’anima, libro II [21] 3. Problemi dell’anima, libro I [27] 4. Problemi dell’anima, libro II [28] 5. Problemi dell’anima, libro III, o della visione [29] 6. Sensazione e memoria [41] 7. L’immortalità dell’anima [2] 8. La discesa dell’anima nei corpi [6] 9. Se tutte le anime siano un’anima sola [8] V Enneade 1. Le ipostasi primarie [10] 2. Genesi e ordine delle cose che sono dopo il Primo [11] 3. Le ipostasi che conoscono e ciò che è al di là [49] 4. Come ciò che è dopo il Primo deriva dal Primo. Ancora sull’Uno [7] 5. Gli oggetti intelligibili non sono fuori dell’Intelligenza. Ancora sul bene [32] 6. Ciò che è al di là dell’essere non pensa. Il pensante di primo e di secondo grado [24] 7. Se esistano idee anche delle cose individuali [18] 8. Il bello intelligibile [31] 9. L’Intelligenza, le Idee, l’Essere [5] VI Enneade 1. I generi dell’essere, libro I [42] 2. I generi dell’essere, libro II [43] 3. I generi dell’essere, libro III [44] 4. L’Essere uno e identico è tutto intero dappertutto, libro I [22] 5. L’Essere uno e identico è tutto intero dappertutto, libro II [23] 6. I numeri [34] 7. Come è nata la molteplicità delle idee. Il bene [38] 8. Volontà e libertà dell’Uno [39] 9. Il bene o l’Uno [9]

Indiani, ma ciò è una specie di luogo comune nelle biografie dei filosofi antichi), e se appare assai improbabile che Plotino sia mai stato un soldato o un combattente (come Socrate, prima di lui, per la sua città, o come Cartesio, molti secoli dopo, al seguito di un esercito di professione), resta invece plausibile che egli abbia seguito l’imperatore in qualità, appunto, di filosofo di corte.

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita 1. La speculazione di Plotino si colloca in continuità con la filosofia di età imperiale: a. perché concepisce la filosofia stessa come cura e trasformazione dell’uomo. b. perché riprende l’attitudine al confronto con la tradizione platonica e aristotelica. c. perché può concepirsi come un percorso di ricongiunzione al divino. d. perché ammette un livello filosofico superiore inattingibile alla razionalità umana.

V F V F V F V F

2 La vita e le Enneadi Secondo la biografia porfiriana, Plotino (nato intorno al 204 d.C. in Egitto, forse a Licòpoli) cominciò a coltivare il proprio interesse per la filosofia piuttosto tardi, a ventotto anni, e decise a tal fine di recarsi ad Alessandria. Qui fu colpito soprattutto dall’insegnamento di Ammonio Sacca (un maestro di cui sappiamo in realtà poco) e si trattenne presso di lui per undici anni. Quindi, nel 242, decise di seguire l’imperatore Gordiano III nella sua campagna militare, conclusasi in modo drammatico (l’imperatore fu ucciso dai suoi stessi soldati). Plotino stesso, a quanto pare, si salvò piuttosto avventurosamente, per rifugiarsi prima ad Antiochia, in Siria, e poi a Roma, dove si stabilì a casa di una ricca matrona, Gemina, e cominciò a tenere le sue lezioni. Il pubblico – che includeva una presenza femminile abbastanza significativa – doveva essere molto eterogeneo, per quel che riguarda la preparazione filosofica (accanto a semplici uditori interessati, Plotino aveva dei collaboratori più esperti e più stretti, che si fermarono presso di lui per più anni, come lo stesso Porfirio e Amelio), la provenienza geografica (oltre a Romani o latini, anche egiziani, siriani, arabi – occorre forse ricordare che anche molti degli imperatori romani di questo periodo hanno un’origine mediorientale), l’età (Plotino fu anche tutore, come sembra, di molti ragazzi e ragazze) e le convinzioni religiose (Porfirio riferisce che le lezioni di Plotino furono frequentate anche da alcuni cristiani e gnostici:  La gnosi). I rapporti personali con l’imperatore Gallieno e sua moglie Salonina portarono Plotino – sempre secondo il racconto di Porfirio – a concepire la possibilità di fondare una città filosofica

(dal nome non particolarmente originale o creativo, per la verità: Platonopolis) in Campania, ispirata al modello platonico della Repubblica; il progetto in realtà non ebbe corso per l’opposizione, forse, proprio di alcuni ambienti di corte. Il fatto tuttavia di aver almeno concepito una comunità filosofica ideale permette di ridimensionare il giudizio secondo cui Plotino sarebbe un “Platone senza politica”; resta tuttavia vero che la politica non è per Plotino una componente decisiva o essenziale per la propria visione del mondo (sensibile e intelligibile), al contrario di quel che accade in Platone. Ammalatosi, Plotino si trasferì comunque in Campania, dove morì nel 270 d.C., pronunciando, secondo quanto viene riferito, un monito rimasto La gnosi celebre: «Cercate di Con il termine gnosi si indicano ricondurre il divitutte quelle correnti o quei movino che è in noi al menti, spesso eterogenei fra loro, divino che è nelche collocano la verità e la salvezl’Universo» [Vita za in una rivelazione accessibile di Plotino, 2]. solo a pochi eletti, attraverso È degno di nota uno specifico percorso di il fatto che, a diffeiniziazione. renza di molti neoplatonici posteriori (e di

Le Enneadi Gli scritti di Plotino sono stati raccolti, sotto il titolo di Enneadi, dal suo allievo Porfirio. Porfirio riferisce di essere arrivato da Plotino nel 263, quando questi aveva già composto ventuno trattati; sempre stando al suo racconto, durante la sua permanenza nella scuola (circa sei anni), Plotino ne scrisse poi altri ventiquattro, e nove glieli inviò dopo la sua partenza, per un totale di 54 trattati. Desiderando combinare – come scrive – la perfezione del numero 9 (ultimo numero primo nella serie da 1 a 10) con quella del numero 6 (che risulta insieme da 1+2+3 e da 1x2x3), Porfirio scelse di raggruppare i trattati in 6 gruppi di 9 trattati: da qui il nome Enneadi (cioè, appunto, ‘gruppi di 9’) con cui si designa ancora oggi la raccolta dei trattati plotiniani. Porfirio decise tuttavia di non seguire un criterio cronologico, ma uno tematico, così come Andronìco di Rodi aveva fatto nella propria edizione degli scritti di Aristotele, delineando un percorso che ha inizio dall’etica (I Enneade), procede poi ai temi relativi al

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una certa immagine tradizionale), Plotino non sembra aver coltivato nessuna particolare simpatia per la religione pagana (e ancor meno per le religioni rivelate, come il cristianesimo). Un passo della biografia di Porfirio è significativo a questo proposito:



Amelio che amava i sacrifici e seguiva le cerimonie durante i noviluni e gli altri riti, un giorno cercò di portare con sé Plotino, ma egli disse: «Questi devono venire da me, non io da loro». Non riuscimmo a capire per quali ragioni parlò in modo così altisonante e neppure osammo chiederglielo. [Vita di Plotino, 10]



Le lezioni plotiniane avevano sempre inizio con la lettura di passi di autori medioplatonici e/o peripatetici del II secolo; esse proseguivano poi in modo piuttosto estemporaneo, ma molto interattivo, come riferisce ancora Porfirio: «la discussione, dato che stimolava i suoi discepoli a porre domande, era disordinata e piena di molte divagazioni». Certamente Plotino amava far filosofia discutendo, più che scrivendo, come mostra il fatto che non si sia preoccupato troppo della versione definitiva dei suoi scritti.

mondo sensibile e alla natura (Enneadi II e III), per poi passare, nelle ultime tre Enneadi, alla considerazione del mondo intelligibile, e cioè dell’anima (IV Enneade), dell’intelletto (V Enneade) e dell’Uno (VI Enneade). Dalla sistemazione porfiriana dipende anche il modo corrente con cui si citano i singoli trattati di Plotino: l’indicazione Enneadi IV, 8, per esempio, rimanda all’ottavo trattato della IV Enneade, mentre l’eventuale numero aggiuntivo (per esempio, IV, 8, 1) si riferisce alla suddivisione in paragrafi introdotta da Marsilio Ficino (XV secolo) nella sua versione latina dell’opera. È tuttavia ora consuetudine citare tra parentesi quadre, dopo la collocazione porfiriana, anche il numero effettivo del trattato nell’ordine cronologico: per restare all’esempio precedente, l’indicazione completa dovrebbe essere pertanto Enneade IV, 8 [6], 1, perché l’ottavo trattato della quarta Enneade è in realtà il sesto trattato composto da Plotino in ordine di tempo.

Fu invece proprio Porfirio a farsene carico raggruppandoli, secondo un criterio tematico, nelle Enneadi [ Le Enneadi]. Il fatto che le Enneadi siano il frutto della risistemazione di Porfirio pone il problema di come sia più opportuno e appropriato accostarsi all’opera plotiniana. Si danno in effetti diverse possibilità. 1. La prima è quella di seguire l’ordinamento proposto da Porfirio, così come nel caso di Aristotele è diventato più o meno comune seguire l’ordinamento proposto da Andronìco. Questa via presenta tuttavia numerose difficoltà. In primo luogo, Plotino affronta spesso temi diversi all’interno di un medesimo trattato, per cui non sempre la distribuzione porfiriana risulta perfettamente omogenea. Sappiamo inoltre che Porfirio è intervenuto frammentando (forse proprio per raggiungere il numero di 54, che – a dispetto di quel che riferisce – non doveva all’inizio essere tale) alcuni trattati che in origine dovevano essere unitari (per esempio, Plotino aveva probabilmente composto un solo, grande trattato anti-gnostico, che Porfirio ha invece suddiviso in quattro diversi trattati che figurano ora in Enneadi diverse: II, 9; III, 8; V, 5 e V, 8). Infine, l’ordinamento porfiriano presenta una veste sistematica precisa, che può darsi vada al di là delle intenzioni plotiniane, e che è insomma già un’interpretazione, suggerendo in modo molto forte l’idea di un progressivo distacco dal sensibile e dalle vicende di questo mondo (sappiamo, per esempio, che l’interesse per i temi etici, che Porfirio colloca nella I Enneade, fu coltivato da Plotino soprattutto negli ultimi anni della sua vita). 2. Una seconda possibilità è quella di considerare i trattati plotiniani secondo l’ordine effettivo di composizione: si tratta della via sicuramente più indicata e sicura per seguire l’evoluzione di un singolo tema o un singolo aspetto, perché permette di cogliere anche gli scarti o i ripensamenti che Plotino ha avuto nei vari momenti in cui se ne è occupato, ma presenta lo svantaggio di rendere molto complessa un’esposizione d’insieme. 3. Un’altra possibilità ancora è quella (molto comune) di prendere le mosse dallo stesso principio primo indicato da Plotino (l’Uno), per dedurre da esso tutto ciò che ne segue, direttamente o indirettamente (l’intelletto, l’anima, il mondo) e

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considerare quindi eventualmente i modi con cui tutte le cose aspirano a tornare verso l’Uno stesso. Questa strada è indubbiamente assai comoda, ma anche in questo caso si rischia di imporre agli scritti plotiniani un carattere sistematico che essi non hanno, e soprattutto se ne fa un insieme chiuso, già dato, che impedisce talora di interrogarsi sul perché di alcune scelte teoriche e sul modo in cui Plotino vi perviene. Proveremo allora qui a seguire un percorso, per così dire, misto, cercando di evidenziare dall’interno l’emergere dei problemi di fondo a cui Plotino tenta di dar soluzione nei suoi differenti trattati e, soprattutto, di non isolare la sua riflessione dal contesto dottrinale in cui ebbe luogo: abbiamo già sottolineato come Plotino possa senza dubbio essere considerato, a posteriori, come il fondatore del neoplatonismo, ma rimane in sé un pensatore dell’età imperiale, che costruisce le sue posizioni nel confronto (talora polemico, talora costruttivo) con quelle delle grandi scuole ellenistiche (lo stoicismo, in primo luogo), con il medioplatonismo, con le nuove correnti gnostiche e cristiane e, soprattutto, con il rinato aristotelismo.

3 Il rapporto tra mondo intelligibile e mondo sensibile Porfirio inizia la sua biografia di Plotino con un’espressione molto forte: «Plotino, il filosofo del nostro tempo, sembrava vergognarsi di essere in un corpo» [Vita di Plotino, 1]. Questa immagine potrebbe farci credere che Plotino abbia radicalizzato il dualismo tra intelligibile e sensibile tipico di un certo platonismo, portandolo alle conseguenze più estreme. Ciò corrisponde solo in parte alla verità, e anzi rischia di tradire quello che è uno dei tratti più originali del modo in cui Plotino rielabora l’eredità platonica a proposito delle idee o forme. Se uno dei tratti di fondo del neoplatonismo è quello di ripensare Platone dopo Aristotele (e dopo le filosofie ellenistiche), era evidentemente difficile riproporre la teoria delle idee senza tener conto delle critiche aristoteliche in proposito, e facendo finta di ignorare che le grandi scuole ellenistiche (lo stoicismo in

primo luogo) avevano addirittura sostanzialmente abolito un mondo intelligibile distinto e trascendente rispetto a quello dei corpi. Ripensare dunque lo statuto delle idee, e soprattutto il rapporto tra queste ultime e il mondo sensibile, è uno dei primi compiti che Plotino si propone. Il primo trattato in ordine di tempo composto da Plotino (I, 6) riguarda il problema della bellezza, che era stato spesso utilizzato da Platone per marcare la differenza tra mondo ideale e mondo sensibile [ 4.7]. Plotino sembra adottare a prima vista una posizione che non solo è assai simile, ma che anzi si richiama esplicitamente alla “scala della bellezza” presentata nel Simposio di Platone:



Il bello risiede soprattutto nella vista, ma non manca neppure nell’udito, quando le parole si connettono in un certo modo, e poi anche nella musica in tutti i suoi generi, per cui sono belli tanto i canti quanto i ritmi. Se ci si eleva al di sopra delle sensazioni si incontra la bellezza delle attività, delle azioni, delle disposizioni, delle scienze e infine delle virtù […]. Per quanto concerne i corpi, questi talora appaiono belli, talaltra no, perché un conto è l’essere del corpo, un conto quello della bellezza. Quale è dunque la natura di questa bellezza che inerisce ai corpi? […] Che cos’è, dunque, ciò che attrae lo sguardo del contemplante, lo volge su di sé quasi a viva forza e per via della visione lo allieta? Se riusciremo a trovarlo, potremo forse “servircene come scala” per la contemplazione di tutte le altre forme di bellezza. [Enneadi, I, 6 [1], 1]



Conosciamo già la soluzione platonica a cui Plotino sta facendo qui riferimento: i corpi sono belli perché rimandano a (o “partecipano” di) una forma ideale che è il “bello in sé” – dunque una forma (o un’idea) distinta da tutte le altre forme. Non c’è dubbio che anche per Plotino la bellezza stia nella forma, e tuttavia la sua analisi prende subito una direzione lievemente diversa. Ciò che interessa a Plotino non è tanto, immediatamente, la distinzione oggettiva, estrinseca, tra il piano sensibile e quello intelligibile, ma il modo in cui l’anima si rapporta al mondo intelligibile, al mondo delle forme:



[La bellezza nei corpi] è un qualcosa che salta all’occhio e l’anima ne tratta come se ne aves-

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se esperienza, e, una volta conosciutolo, l’accetta mettendosi quasi in sintonia con esso. Invece, quando incappa in ciò che è brutto, “si ritrae”, lo respinge e lo rifiuta, perché non trova alcuna sintonia con esso e lo sente come estraneo. Ecco dunque che, a nostro avviso, l’anima, non appena scorge qualcosa che le è affine – e talora ne basta una semplice traccia! –, si rallegra, anzi resta sbigottita e, ritornando in sé, si ricorda del suo essere e delle sue proprietà; e tutto ciò in ragione del fatto che per natura è quello che è, e si orienta verso realtà appartenenti a un ordine superiore di esseri. [Enneadi, I, 6 [1], 2]



La bellezza sta dunque nel fatto che l’anima riconosce nelle cose belle qualcosa di affine a sé – qualcosa di familiare, potremmo dire – e ne rimane colpita; per effetto di questa esperienza, l’anima si ricorda insomma della sua stessa natura, e cioè dell’appartenenza al mondo intelligibile. Riconoscere l’intelligibile nelle cose, riconoscere cioè le forme di cui le cose partecipano, diventa così per l’anima un’occasione o un modo per ricordarsi della propria natura intelligibile. In tal modo, pur in un contesto che apparentemente è di assoluta fedeltà alle posizioni platoniche, si è già consumato un piccolo ma duplice scarto rispetto a Platone. 1. In primo luogo, dicendo che l’anima si ricorda della sua natura, Plotino non intende riferirsi alla dottrina platonica dell’anàmnesi o della reminiscenza (al fatto cioè che l’anima potrebbe aver contemplato la forma del bello prima di essersi incarnata in questo corpo sensibile), ma intende sottolineare che l’anima appartiene sempre al mondo intelligibile (anche quando è in un corpo) e deve solo ricordarsi della sua vera natura: in altri termini, non deve ricordarsi di ciò che ha visto in un altro mondo, ma deve ricordarsi di sé e del suo mondo, del mondo a cui sempre (e anche ora) appartiene. 2. In secondo luogo, la bellezza che l’anima scorge nei corpi non è legata alla sola forma del “bello in sé”, ma alle idee in generale, cioè alla connessione con il piano intelligibile: per essere più espliciti, per Plotino una cosa non è bella semplicemente perché partecipa della forma del bello, ma perché riflette in generale una struttura intelligibile; riconoscendo tale struttura, l’anima vi ritrova qualcosa di familiare appunto perché

anch’essa appartiene al mondo intelligibile, e si rallegra, si compiace, di questa familiarità. Ciò che conta, in definitiva, è questa appartenenza alla struttura formale o intelligibile del reale:



Diciamo che questi [i corpi] sono belli per partecipazione alla forma. Infatti, tutto ciò che è informe, ma è capace di ricevere configurazione e forma, se non partecipa alla ragione e alla forma, è brutto e fuori dal lògos divino. E ciò è appunto assolutamente brutto. […] Ecco dunque spiegato come il corpo acquisisce la bellezza: perché condivide la ragione formale che viene dal lògos divino. [Enneadi, I, 6 [1], 6; trad. modificata]



E se è questo essere in-formati, cioè questa appartenenza alla struttura formale o intelligibile del tutto, ciò che rende belli i corpi, lo stesso sarà anche ciò che rende belle le anime:



L’anima infine, raggiunta la sua purezza, si riduce a forma e a ragione formale, e diviene un essere del tutto incorporeo, intellettuale, totalmente partecipe dell’ordine divino da cui il bello e tutto ciò che gli è affine zampillano come da una fonte. Così, ricondotta all’intelletto [nùs], essa diventa sempre più bella, dato che la sua bellezza altro non è che l’intelletto [nùs] e il suo mondo, e questi essa sente come suoi e niente affatto estranei, perché solo con essi è realmente anima. [Enneadi, I, 6 [1], 6; trad. modificata]



Siamo così già in possesso di una prima indicazione essenziale, che abbiamo ricavato dalla sola esperienza della bellezza: l’anima può essere qualcosa di più che semplice spettatrice della bellezza esteriore; può coltivare la sua stessa bellezza ricordandosi della sua natura intelligibile, e anzi cercando di identificarsi sempre più all’intelletto – al nùs – che definisce la struttura intelligibile, formale, del cosmo. Cominciamo così a comprendere che non si dà soltanto una distinzione (che è anche e soprattutto un rapporto, non una cesura) tra mondo intelligibile e mondo sensibile, ma che esiste un’articolazione all’interno dello stesso mondo intelligibile, in cui per adesso abbiamo distinto due gradi o livelli (al terzo, ancora più elevato, perverremo solo in seguito): quello dell’anima, e

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quello del nùs/intelletto, dove l’anima è certo di casa, senza tuttavia coincidere con esso. Per insistere con la stessa metafora, potremmo dire che l’anima non è sempre “a casa”, ma può rientrarci quando vuole, a patto di ricordarsi quale sia la sua vera casa, e di prepararsi, rendersi degna di farvi ritorno (un’anima “ubriacata” dal sensibile potrebbe in effetti perdere la via di casa, o tornarvi in condizioni impresentabili). Come un’artista colloca nelle sue produzioni artistiche quell’elemento formale, intelligibile, che le rende belle, così l’anima deve sempre plasmare sé stessa, deve – per usare ancora questa espressione – «scolpire la propria statua»:



Rientra in te stesso e guarda: se ancora non ti vedi bello di dentro, fa’ come lo scultore di una statua che deve venire bella, il quale a volte toglie e a volte leviga, a volte liscia e a volte raffina, fin quando sulla statua non affiori un bel volto. Dunque, comportati anche tu come lui, togliendo il superfluo, raddrizzando ogni stortura, purificando ciò che è scuro per renderlo lucente, non smettendo mai di “scolpire [ritoccare] la tua propria statua”, fino a quando non riluce per lo splendore divino della virtù. [Enneadi, I, 6 [1], 9; trad. lievemente modificata]



Ritroviamo qui esplicitamente quel che avevamo anticipato: fare filosofia significa per Plotino in primo luogo trasformare sé stessi, lavorare su di sé. Ci ritorneremo ancora. Ma prima di congedarci dal tema della bellezza (che Plotino affronta anche in un trattato successivo – Enneadi V, 8, [31] – dedicato esclusivamente alla bellezza intelligibile), vale forse la pena di annotare un altro piccolo scarto rispetto a Platone: quest’ultimo, come si ricorderà, aveva fornito una valutazione sostanzialmente negativa dell’arte, in quanto imitazione di secondo grado, ovvero imitazione di cose sensibili che a loro volta dovevano essere considerate come copie o imitazioni delle forme intelligibili. Pur collocando la bellezza – come visto – sul piano intelligibile (e concedendo di conseguenza che la bellezza degli oggetti materiali risulti necessariamente depotenziata, inferiore), Plotino non segue affatto Platone su questa via così radicale; anzi, nel successivo trattato dedicato alla bellezza intelligibile, rovescia l’argomento platonico: proprio perché le cose naturali sono imitazioni dell’intelligibile, le riproduzioni artistiche delle cose naturali

rimandano anch’esse all’intelligibile, e sono perciò belle. Per di più, i veri artisti producono i loro capolavori, per Plotino, non imitando le cose esterne, ma volgendo direttamente lo sguardo dell’anima alle forme intelligibili:



Se, poi, qualcuno non apprezza le arti perché nelle loro opere imitano la natura, bisogna in primo luogo riconoscere che anche la natura a sua volta imita qualcos’altro. In secondo luogo, si deve capire che le arti non si limitano a imitare la realtà visibile, ma si elevano alle ragioni formali dalle quali proviene la natura, molti particolari producendoli da sé e colmando con adeguate aggiunte le eventuali mancanze, grazie alla bellezza che posseggono. Del resto, anche Fidia scolpì il suo Zeus senza rifarsi ad alcun modello sensibile, ma cogliendolo come egli sarebbe stato se, di sua iniziativa, si fosse rivelato ad occhi umani. [Enneadi, V, 8 [31] 1]



Questo passaggio giocherà un ruolo importante nella valutazione dell’arte, e ancor più dello statuto dell’artista, nel Rinascimento, dopo che le Enneadi saranno state nuovamente rese accessibili in latino grazie alla traduzione di Marsilio Ficino.

1. Uno dei compiti più importanti nella speculazione di Plotino è:

a. radicalizzare il dualismo platonico fra mondo sensibile e mondo intelligibile.

b. riproporre la dottrina delle idee di Platone, eliminando le critiche aristoteliche.

c. criticare l’eliminazione del dualismo fra mondo sensibile e mondo intelligibile operata dalle scuole ellenistiche.

d. rivisitare il rapporto fra mondo sensibile e mondo intelligibile.

2. Per Plotino un corpo è bello perché: a. semplicemente partecipa dell’idea di bello. b. l’anima riconosce nelle cose belle la sua stessa natura intelligibile.

c. l’anima si ricorda della forma di bellezza vista in un altro mondo.

d. è ontologicamente creato bello. 3. La rivalutazione dell’arte in Plotino si giustifica: a. sulla base di un totale accordo sulla posizione di Platone.

b. perché le riproduzioni artistiche delle cose naturali sono imitazioni dell’intelligibile.

c. perché la vera arte guarda direttamente all’intelligibile.

d. perché l’arte è un’imitazione di secondo grado.

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4 Il rapporto anima-corpo L’esperienza della bellezza, così come Plotino la descrive fin dal suo primo trattato, ci ha già offerto alcune indicazioni essenziali sul complesso del suo pensiero, e cioè: a. che l’anima è in stretto rapporto con il nùs, con il mondo delle forme, ma non coincide con esso; b. che ciò che conta nelle cose sensibili non è tanto o soltanto il rapporto con una singola forma, ma con le forme in generale; c. che l’anima non deve tanto ricordarsi della contemplazione delle forme di cui ha potuto godere prima di essere incarnata in un corpo, ma della sua appartenenza attuale al mondo intelligibile; d. infine, e in modo ancor più importante, che l’anima stessa offre una via privilegiata per cercare di meglio comprendere e interpretare il rapporto tra le cose sensibili e le forme (o tra mondo sensibile e mondo intelligibile). In effetti, abbiamo visto come Plotino continui a utilizzare il lessico platonico della partecipazione: le cose sono belle in quanto partecipano delle forme intelligibili. Ma non era stato proprio il concetto platonico di partecipazione ad essere messo pesantemente in discussione dalle critiche aristoteliche? La partecipazione, aveva osservato Aristotele, è un parlare vuoto: se le forme sono assolutamente separate dalle cose sensibili – come appunto sostenuto da Platone – non possono servire da cause né in senso ontologico né in senso gnoseologico (come princìpi esplicativi) delle cose stesse. E per di più, lo stesso Platone, nel Parmenide, si era confrontato con la difficoltà di spiegare in che modo una medesima forma potesse essere presente in più cose diverse (o potesse essere partecipata da più cose diverse) senza essere essa stessa moltiplicata e divisa. Plotino cerca di aggirare queste difficoltà proprio a partire dalla sua concezione dell’anima, e del rapporto anima-corpo. In altri termini, ciò che preme a Plotino è la possibilità di superare ogni contrapposizione rigida, statica, tra mondo sensibile e mondo intelligibile, così come era stata intesa da alcuni interpreti di Platone, e

anche dai medioplatonici (Alcinoo, Attico, Apuleio, lo stesso N umènio). Ma cosa ci può essere di meglio, per cercare di comprendere in modo dinamico il rapporto tra i corpi e le forme, che considerare noi stessi? La possibilità di ripensare la distinzione platonica tra sensibile e intelligibile, anche alla luce delle critiche aristoteliche, può dunque per Plotino essere offerta proprio dall’esperienza di sé, dal fatto che noi stessi siamo in definitiva composti da un elemento intelligibile (l’anima) e un elemento sensibile (il corpo). Porfirio stesso, nella sua biografia, ci racconta di aver tormentato per tre giorni Plotino con domande relative al modo in cui l’anima è presente nel corpo, provocando l’irritazione di altri discepoli (infastiditi dal fatto che Plotino fosse costretto a dedicarsi a questa sola questione), ma cogliendo quello che, in Plotino, è un vero punto nevralgico. Già il secondo trattato composto in ordine di tempo da Plotino riguarda l’immortalità dell’anima. Il punto di partenza polemico è dato dal confronto con gli stoici, e in particolare dalla tesi della corporeità dell’anima. Per Plotino, si può agevolmente dimostrare che se – come tutti concedono – l’anima è principio di vita nei corpi, essa non può essere a sua volta un corpo. Ma analogamente Plotino prende le distanze dalla tesi aristotelica secondo cui l’anima è la forma di un corpo organico (cioè, dotato di organi) ed esiste soltanto in funzione di un corpo di questo tipo. Ci sono infatti funzioni dell’anima che non dipendono da alcun organo corporeo, e in ogni caso la nozione di anima si estende ben al di là del solo ambito dei corpi organici: l’anima è anche (se non soprattutto) una funzione cosmica (l’anima del mondo ammessa da Platone nel Timeo e dagli stoici). Ma sono soprattutto i trattati 4-5 della VI Enneade (i trattati 22-23 nell’ordine cronologico, ovvero proprio i primi composti da Plotino dopo l’arrivo di Porfirio alla sua scuola) quelli che si soffermano maggiormente sul tema della presenza dell’anima nei corpi. L’errore sta, per Plotino, nel fatto che si è spesso portati a intendere la presenza dell’intelligibile nel sensibile secondo un modello fisico, come se, in altri termini, l’intelligibile fosse anch’esso sensibile (questo stesso motivo è quello che conduce Plotino, nei trattati VI, 1-3 [42, 43, 44], a una critica particolarmente severa delle categorie aristoteliche, la cui validità è limitata al mondo sensibile). In effetti, è

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senz’altro vero, per un corpo, che esso non può essere presente in luoghi diversi senza dividersi, ma l’intelligibile, proprio in quanto incorporeo, non è soggetto a queste limitazioni di ordine quantitativo e spaziale. È insomma proprio dei corpi essere mutevoli, estesi e divisibili, mentre è proprio di ciò che è intelligibile essere sempre raccolto presso di sé, indivisibile, stabile, inalterabile e immutabile. La presenza dell’intelligibile non è mai presenza in altro, come nel caso dei corpi, ma presenza a sé, auto-presenza:



Se, dunque, l’essere che veramente è permane sempre nel medesimo stato – mai separato da sé, ingenerato, e, come si diceva, non situabile in alcun luogo –, bisogna che, nella condizione in cui è, sia sempre in compagnia di sé stesso, mai diviso da sé con una parte di qua e una di là, ma tale da non lasciar fuoriuscire niente da sé. In questo caso, l’essere autentico sarebbe in un’altra cosa e di un’altra cosa e, in senso generale, starebbe in un luogo, non per sé e non senza affezioni. Infatti, esso patirebbe affezioni solo essendo in un altro, e quindi, se vorrà essere in uno stato di impassibilità, non dovrà trovare posto in altro. [Enneadi, VI, 5 [23], 3]



La domanda su come sia possibile la partecipazione è così per Plotino in realtà mal posta: non ha senso chiedersi come sia presente l’anima nel corpo, e più in generale l’intelligibile nel sensibile, perché non è proprio dell’intelligibile trovarsi fisicamente in qualcosa. Piuttosto, se l’intelligibile è sempre presente a sé, mentre i corpi possono trovarsi in altro, allora ha più senso rovesciare completamente la prospettiva, e ipotizzare che i corpi siano in qualche modo presenti, contenuti o precontenuti nell’intelligibile. N on si tratta, evidentemente, di una presenza fisica: il precontenimento sta invece ad indicare che i corpi dipendono dall’intelligibile. È sempre il caso del rapporto anima-corpo a guidare Plotino in questo tentativo. Per quanto nel linguaggio comune (e perfino, spesso, in quello filosofico) si parli della presenza dell’anima nel corpo, o del venire dell’anima al corpo, o ancora della “discesa” dell’anima nel corpo, sarebbe più corretto dire che è il corpo che viene all’anima:



Partecipare di quella natura non significa che essa [l’anima], staccandosi da sé, se ne sia venuta nel nostro mondo, ma, al contrario, vuol dire

che questa nostra natura si colloca in quella e ne partecipa. Pertanto, è evidente che quando certuni dicono “venire” si deve intendere che la natura del corpo è lassù e partecipa della vita e dell’anima, e quindi che, in generale, non si tratta di un venire con riferimento allo spazio, ma a un modo d’essere di siffatta comunanza. Per lo stesso motivo la “discesa” significa l’essere in un corpo, nel significato in cui diciamo che l’anima è in un corpo, quando è essa a dare al corpo qualcosa pur non divenendo proprietà del corpo. [Enneadi, VI, 4 [22], 16]



L’anima non è nel corpo, per quanto sia più facile o più comodo esprimersi così; piuttosto, il corpo è nell’anima, nel senso che dipende dall’anima per il suo stesso essere. E ciò vale tanto a livello cosmico quanto a livello individuale: l’anima cosmica è la causa da cui dipende il corpo del mondo; le nostre anime individuali sono le cause da cui dipendono i nostri corpi individuali. La strategia di Plotino è di utilizzare questa dinamica anima-corpo, di cui possiamo fare esperienza anche in noi stessi, per spiegare più in generale il rapporto tra l’intelligibile e il sensibile (tra le forme e le cose di questo mondo). In questo modo, diventa possibile salvare sia la separazione, sia la causalità delle forme, aggirando le critiche aristoteliche: non si tratta infatti di immaginare che le forme “scendano” sulle cose, rendendosi così molteplici e divisibili (come se le cose preesistessero all’attività delle forme), ma che le forme agiscano sulle cose, producano le cose, rimanendo separate, inalterabili e sempre presenti solo a sé stesse. In tal modo, per neutralizzare una potente critica aristotelica al platonismo, Plotino adopera a suo vantaggio, almeno implicitamente, proprio un altro presupposto aristotelico: non è forse Aristotele ad affermare che l’atto precede in generale la potenza? Dunque, tutti i processi e le cose del mondo fisico – che, in quanto mutevoli, implicano sempre una certa potenzialità – dipendono necessariamente da un atto o da un’attività anteriore – quella del mondo intelligibile. Abbiamo così visto in che modo Plotino ripensi l’apparente dualismo platonico (apparente, perché comunque già in Platone era evidente la ricerca di mediazioni) tra mondo sensibile e mondo intelligibile, impostando il rapporto tra essi non in termini statici, ma dinamici, e sce-

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gliendo di interpretare questa relazione sul modello di quella che intercorre tra l’anima e il corpo. Ma l’anima in Plotino non va intesa solo come una via o un esempio per arrivare a capire l’attività dell’intelligibile; essa gioca un ruolo ben più rilevante, perché è l’effettivo anello di congiunzione tra il mondo delle forme (il nùs, l’intelletto) e le realtà sensibili. In altri termini, l’anima traduce e realizza nel mondo sensibile le forme che appartengono al nùs, in cui, come detto, essa è “di casa”, ma con cui non coincide. È allora il momento di considerare più da vicino il rapporto tra l’anima e l’intelletto. 1. Il ripensamento del rapporto anima-corpo effettuato da Plotino risponde all’esigenza di:

a. superare la contrapposizione rigida fra mondo sensibile e mondo intelligibile.

b. superare le difficoltà connesse al concetto platonico di partecipazione.

c. reintrodurre nella filosofia il concetto di nùs. d. mettere tra parentesi le difficoltà presenti nel Parmenide di Platone.

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2. Per Plotino l’anima: a. è un principio corporeo. b. è la forma dei corpi organici. c. è un principio indipendente dagli organi corporei. d. è fondamentalmente mortale. 3. Plotino risolve le difficoltà connesse alla presenza dell’anima nel corpo:

a. considerando la presenza dell’intelligibile nel sensibile secondo un modello fisico.

b. rimarcando la natura indivisibile e immutabile dell’anima, poiché anch’essa intelligibile.

c. facendo dipendere l’intelligibile dai corpi. d. considerando che è il corpo ad essere nell’anima.

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5 Al di là dell’anima: il nùs Di una possibile articolazione tra l’intelletto (divino) e l’anima (cosmica) avevano già parlato alcuni medioplatonici. In particolare Alcinoo, nel Didaskalikòs [ 7.3.4], aveva identificato le forme con i pensieri di un intelletto divino trascendente, mentre aveva attribuito all’anima il compito di ispirarsi a tali forme per dare ordinamento al mondo. In apparenza, la soluzione plotiniana sembra assai simile. Ma in realtà essa trae molti elementi non solo dal medioplatonismo,

ma anche dall’aristotelismo, per arrivare a conclusioni che di fatto divergono da quelle delle scuole o tendenze appena citate, e perfino da quelle strettamente platoniche. Plotino è sostanzialmente d’accordo con i medioplatonici e gli aristotelici nell’ammettere – contro gli stoici – un intelletto trascendente, cioè separato rispetto al mondo. Tuttavia, egli ritiene – e qui si distacca sia dai medioplatonici che dalla tradizione aristotelica – che l’intelletto coincida con le forme stesse. In effetti, l’intelletto/motore di Aristotele è pensiero che coincide con sé stesso (è pensiero di pensiero), ma non coincide certo con le forme, per il semplice fatto che Aristotele non ammette in generale le forme, e non attribuisce all’attività divina del pensare altro contenuto che non sia il pensare stesso. Quanto ai medioplatonici (o, almeno, ad alcuni di essi), essi si spingono a ipotizzare che le forme siano i pensieri dell’intelletto divino, senza porre con ciò che l’intelletto coincida con le forme stesse, cioè con i suoi contenuti. Questa è invece un’altra parziale novità plotiniana: il nùs è allo stesso tempo soggetto e oggetto di intellezione, è l’insieme delle forme e l’intelletto che le pensa; è insomma insieme intelletto e intelligibile. Prima di tornare su questo punto, occorre forse chiedersi perché sia necessario ammettere tale intelletto. La ragione non è difficile da scorgere: abbiamo visto come all’anima spetti l’attività di organizzare/produrre il mondo. Questa attività dev’essere evidentemente consapevole, altrimenti sarebbe impossibile dare ordinamento al mondo e ai corpi. L’organizzazione/produzione del mondo implica dunque la sapienza. Tuttavia, noi facciamo esperienza del fatto che l’anima (la nostra anima, almeno) non è sempre sapiente: la sapienza è qualcosa che si acquisisce e, al limite, si può anche perdere. Se applichiamo anche a questo caso lo schema aristotelico già precedentemente utilizzato da Plotino – e cioè che tutto ciò che è in qualche modo potenziale dev’essere preceduto da ciò che è pienamente in atto, o attività pura – allora dovremo dire che prima dell’anima (intendendo questo prima non in senso temporale, ma in senso logico e ontologico) dev’esserci una sapienza sempre in atto, e questa sapienza sempre in atto è appunto quella del nùs. Possiamo a questo punto sollevare più direttamente la questione di come si rapporti tale

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intelletto alle forme. Si danno a questo proposito diverse possibilità: le forme potrebbero essere intese come indipendenti dal nùs (più o meno come, nel Timeo platonico, le forme sono anteriori e indipendenti rispetto al demiurgo); oppure come posteriori all’intelletto divino. Plotino scarta entrambe queste possibilità e procede invece fin da subito (in Enneadi, V, 9 [5]) più risolutamente sulla via dell’identificazione tra l’intelletto e le forme: l’intelletto e le forme non possono che coincidere, perché, se così non fosse, l’intelletto si troverebbe ad essere in potenza verso contenuti distinti da sé, mentre abbiamo già concesso che dev’essere attualità pura:



Dobbiamo ora comprendere come l’intelletto, nella sua vera accezione, non sia ciò che si trova in potenza, e neppure ciò che diviene da ignorante intelligente – altrimenti saremmo di nuovo costretti a cercare un altro principio originario –, ma è una realtà in atto, cioè sempre intelletto. Però, la capacità di ragionare non gli viene da fuori, e quindi, se pensa qualcosa, lo pensa da sé, e se ha qualcosa, lo ha da sé. E se pensa da sé e partendo da sé, esso stesso è oggetto del suo pensare. Inoltre, se la sua sostanza e quello che pensa fossero diversi da esso, la sua stessa sostanza sarebbe priva di pensiero, e allora di nuovo sarebbe in potenza piuttosto che in atto. Non bisogna, quindi, separare l’una cosa dall’altra, anche se nel nostro ambito d’esperienza, mentalmente, siamo portati a fare queste distinzioni. Se vogliamo supporre che l’intelletto stesso è l’oggetto dei suoi pensieri, in che cosa dovrà consistere la sua attività di intelletto e quale dovrà essere il suo oggetto? Non c’è dubbio che, in qualità di intelletto in senso proprio, non solo pensa gli esseri, ma anche li fa essere: in tal modo coincide con gli esseri. [Enneadi, V, 9 [5], 5; trad. modificata]



Questa coincidenza (l’intelletto è le idee) non deve essere intesa in senso statico, ma in senso dinamico: le forme o idee non sono oggetti inerti di conoscenza, sono realtà viventi, attive, intelligenti esse stesse. L’intelletto è così un insieme vivente di pensieri viventi, ciascuno dei quali è a sua volta intelligente (in Platone, invece, le forme sono modelli stabili ed eterni, ma non sono collocate in un intelletto, e non sono intelligenti in sé stesse).

È facile immaginare a quale tipo di obiezioni una soluzione di questo tipo possa andare incontro. In primo luogo: ammettere che l’intelletto coincida con i suoi contenuti, e cioè con le forme, e che queste ultime siano viventi e intelligenti in sé, non significa forse compromettere l’unità dell’intelletto stesso, e suddividerlo nella molteplicità reale dei suoi contenuti? E tuttavia, per Plotino, non dobbiamo di nuovo essere tratti in errore dalla nostra abitudine a considerare le realtà intelligibili sulla scorta della nostra esperienza del mondo sensibile. L’intelletto non è diviso in senso spaziale: tutti i contenuti intelligibili non sono distinti come cose diverse in luoghi diversi, ma come aspetti diversi, e tuttavia simultanei e coappartenentesi, di una medesima totalità. Il nùs è un’uni-totalità, ovvero l’unità dinamica che risulta dalla compenetrazione degli intelligibili. L’esempio più felice che Plotino offre a questo proposito è quello dell’unità complessiva di una scienza, che risulta dalla compenetrazione dei suoi teoremi (ciascuno dei quali, evidentemente, ha un valore e un contenuto scientifico in sé):



L’intelletto nel suo complesso è la totalità delle forme e, d’altra parte, ciascuna forma corrisponde a ogni intelletto singolo, come la scienza nella sua interezza è tutti i teoremi, mentre ciascuno di questi è una parte dell’intero, però non separata spazialmente, ma perché ciascuna ha la sua funzione nel complesso. [Enneadi, V, 9 [5], 8]



Questa è anche, per Plotino, la garanzia ultima della verità: se gli argomenti degli scettici possono avere un loro valore in rapporto alla conoscenza sensibile, non si può mettere in alcun dubbio che, a livello puramente intelligibile, l’intelletto sia assolutamente certo dei suoi contenuti, dal momento che esso è i suoi stessi contenuti, è perfetta auto-identità e auto-trasparenza. E poiché l’intelletto è ciò che guida l’attività dell’anima nell’organizzazione del mondo (e dei corpi), l’anima stessa conserva sempre la possibilità di accedere alla verità e rimanere in contatto con essa. 1. Per Plotino il rapporto fra l’intelletto e le forme è tale che: a. le seconde sono posteriori al primo. b. le seconde sono indipendenti dal primo. c. coincide con una piena identificazione. d. il primo è un insieme di forme in potenza.

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6 Al di là del nùs : l’Uno L’intelletto è uni-totalità (Plotino stesso scrive che esso è uno-molti; non semplicemente uno, ma neppure uno e molti, come l’anima, che non possiede simultaneamente tutti i contenuti di pensiero), ovvero, come potremmo dire con una specie di paradosso, è una molteplicità unitaria. Fino a questo momento, abbiamo considerato il modo in cui Plotino si preoccupa a più riprese di sottolineare l’aspetto unitario di questa molteplicità intelligibile. Tuttavia, egli stesso riconosce che se questa molteplicità ideale o intelligibile, messa a confronto con la molteplicità sensibile, non può essere considerata dispersa e divisa, essa non può neppure essere descritta come assolutamente semplice in sé. In primo luogo, in effetti, i contenuti intelligibili sono comunque (sia pure nel modo in cui si è detto) molteplici; se l’intelletto fosse una pura unità indifferenziata, come Plotino osserva in uno dei suoi ultimi trattati, non potrebbe né pensare né conoscere nulla:



L’intelletto, pertanto, apprende sé stesso come occhio oggetti svariati o dai multiformi colori; ma se si accosta a ciò che è unitario e senza parti, allora si troverebbe privo di pensiero. E infatti cosa avrebbe da dire o che cosa da cogliere di un tale oggetto? […] Necessariamente, ciò che pensa deve cogliere le cose separatamente, e il pensato, in quanto tale, non può che essere molteplice, altrimenti di esso non sarà possibile intellezione, ma solo un contatto, come un toccamento senza parola e privo di pensiero. [Enneadi, V, 3 [49], 10; trad. modificata]



In secondo luogo, l’attività intellettuale presuppone pur sempre, anche nel caso della perfetta autotrasparenza del nùs, una polarità almeno teorica tra intelletto e intelligibile, tra conoscente e conosciuto: «esso pure è un oggetto di intellezione, ma nello stesso tempo è anche soggetto intelligente: e, pertanto, è duplice» [Enneadi, V, 4 [7], 2]. Al di là di ciò che è tale, occorre allora porre un livello ulteriore, qualcosa che sia puramente e semplicemente uno:



Prima di tutto deve esserci il semplice, diverso da ciò che segue, esistente di per sé, senza commistione con le realtà che lo seguono, e tuttavia in grado di essere presente negli altri esseri in un modo particolare. Esso è il vero Uno, quello che non è uno essendo prima un’altra cosa: nel suo caso è falsa l’espressione “essere Uno”, perché di lui non c’è discorso, né scienza, tant’è vero che lo si dice “al di là dell’essere”, e, in ragione della sua semplicità, assolutamente autonomo, e prima di ogni essere; infatti, se non fosse semplice, almeno da ogni relazione e combinazione, e se non fosse veramente uno, non potrebbe essere principio. [Enneadi, V, 4 [7], 1; trad. modificata]



La posizione dell’Uno al di là dell’intelletto segna un ulteriore scarto rispetto all’aristotelismo (in cui il motore immobile coincide con l’intelletto), e anche rispetto ai principali medioplatonici del II secolo, che, come Alcinoo e Numènio, identificavano la causa prima con l’intelletto [ T5]. Ci si potrebbe allora chiedere cosa abbia indotto Plotino a una scelta di questo tipo. Da una parte, vi è una ragione puramente teorica. Tutte le cose hanno una loro unità: questa sedia, questo tavolo, questo edificio, questo individuo possiedono una loro propria unità; appare dunque necessario postulare un’unità assoluta [ T44], al di là dell’uni-molteplicità dell’intelletto, senza di cui le cose non potrebbero essere quella determinata unità, e dunque non potrebbero essere affatto (ciò che non è unitario o uno, non è):



Tutti gli esseri devono il loro essere all’Uno, tanto quelli che sono primi, quanto quelli che rientrano fra gli esseri per un qualche carattere che si attribuisce loro. Del resto, quale cosa potrebbe essere, se non fosse una? Infatti se la privi dell’uno che le si attribuisce non sarebbe più quella che è. Per esempio, un esercito non esisterebbe neppure se non fosse uno, e così dicasi di un coro o di un gregge. Ma non ci sarebbero neanche una casa o una nave se non godessero di unità; infatti, tanto l’una quanto l’altra sono una, e se perdessero questa loro unità non sarebbero più né casa né nave. [Enneadi, VI, 9 [9], 1]



Altre ragioni dipendono invece dal modo in cui Plotino ricostruisce la tradizione platonica, sovrapponendo almeno tre istanze diverse, e cioè:

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1. l’Uno menzionato da Aristotele, insieme alla diade indefinita, come il principio fondamentale del mondo intelligibile a cui Platone avrebbe fatto riferimento nelle dottrine non scritte (la stessa coppia Uno/diade era stata riutilizzata anche dai neopitagorici, prima di Plotino:  7.3.4); 2. l’idea del bene che Platone colloca, nella Repubblica, al di là delle altre idee, come principio di esse (Plotino stesso definisce l’Uno come bene, anche se la forma del bene rimane per Platone appunto una forma, mentre per Plotino l’Uno/bene si colloca al di là delle forme); 3. l’Uno che è oggetto di differenti ipotesi nell’esercizio dialettico che occupa la seconda parte del Parmenide (con la distinzione tra l’Uno che è solo Uno e l’Uno che è, che viene reinterpretata non come mero esercizio logico, ma in senso ontologico/teologico: qualcuno ha anzi osservato che l’idea di interpretare in tal modo la seconda parte del Parmenide potrebbe essere considerata come il vero e proprio atto di nascita del neoplatonismo). In ogni caso, ciò che Plotino ricava da queste indicazioni, per lui convergenti, è la necessità di porre un principio unico del mondo intelligibile, e dunque, mediatamente, dell’anima e del mondo sensibile. Siamo così ora in grado di ricostruire la struttura di fondo dell’Universo plotiniano, nel modo in cui abbiamo visto delinearlo: Uno  nùs  anima  mondo sensibile La novità, rispetto alla tradizione precedente, sta nella descrizione di ciò che si colloca al di sopra del mondo sensibile, e che viene ora articolato in tre distinti livelli o ipòstasi: l’Uno, il nùs e l’anima [ T18]. Dovremo ora chiarire meglio i rapporti tra questi livelli, ed esaminare alcune possibili ulteriori sottodivisioni a proposito dell’anima, ma qualcosa può già essere notato: Plotino non è certamente l’unico pensatore greco-pagano ad aver ipotizzato e sostenuto una forma di monismo (l’idea cioè che il primo principio sia soltanto uno, e che tutto il

reale derivi da esso), ma è certamente quello che l’ha esposta nel modo più rigoroso e, a dispetto della sua stessa scrittura, sistematico. 1. Plotino pone l’Uno al di sopra dell’intelletto perché: a. l’uni-totalità dell’intelletto non coincide con V un’unità indifferenziata. V b. i contenuti intelligibili non sono molteplici. c. l’intelletto non è teoricamente un’unità V pura e semplice. V d. l’intelletto è unico.

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7 Parlare dell’ineffabile Per definire l’Uno, Plotino fa riferimento all’espressione già adoperata da Platone, nella Repubblica, a proposito dell’idea di bene, e cioè «al di là dell’essere» (epèkeina tès ousìas). Ora, l’essere in questione è qui, per Plotino, quello intelligibile, quello del nùs: possiamo quindi dire che l’essere equivale qui alla pensabilità delle cose. Dire che l’Uno è «al di là dell’essere» non vuol dire quindi che l’Uno non esiste, ma che non è pensabile, non è un possibile oggetto di pensiero. E se non può essere pensato, non può neppure essere espresso con parole. Assolutamente trascendente, l’Uno appare dunque del tutto ineffabile. Questa impossibilità (che, occorre riconoscerlo, non è un tratto assolutamente originale, essendo già stata suggerita, per esempio, nel Didaskalikòs di Alcinoo) dev’essere intesa nel suo senso radicale: essa non dipende da un limite delle nostre possibilità conoscitive (nel senso che una mente superiore e meno limitata potrebbe invece avere accesso all’Uno), ma è una caratteristica intrinseca dell’Uno stesso. In altri termini, l’Uno non è una cosa (un essere), e come tale non può essere in sé, in alcun modo, né conosciuto né pensato:



l’Uno non è neppure una data cosa, ma ciò che precede ogni cosa e, dunque, non è neppure essere. Infatti, l’essere ha una sua specie di forma – appunto la forma dell’essere –, mentre l’Uno non ha forma, neppure quella intelligibile. [Enneadi, VI, 9 [9], 3]



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Ora, se l’Uno è impensabile e ineffabile, non se ne dovrebbe – per coerenza – parlare affatto. Ma se non se ne può parlare, non si può neppure presentarlo come il vero principio primo. Questa difficoltà coincide con uno dei temi più delicati dell’intera tradizione neoplatonica, e nasce dall’esigenza di tenere assieme due esigenze in contrasto tra loro: da una parte, quella di garantire la massima trascendenza e alterità del primo principio, mostrandone l’assoluta irriducibilità ad ogni forma di comprensione e conoscenza; dall’altra, quella di attribuirgli comunque una forma di causalità, il fatto cioè di riconoscerlo come la causa o il principio di tutto ciò che è altro da lui. Insomma, se l’Uno è veramente ineffabile, è impossibile perfino dire che esso è la causa o il principio di ciò che deriva da lui, ed è impossibile farne oggetto di riflessione filosofica. Ma di fatto, nelle Enneadi, Plotino parla a più riprese dell’Uno. Come uscire dunque da questa aporia o da questo paradosso? Plotino stesso solleva esplicitamente la questione:



E allora, come parlare dell’Uno? Qualcosa si può ben dirne, tuttavia noi non esprimiamo esso stesso, perché non ne abbiamo né conoscenza né intellezione. E come potremo parlare , se non riusciamo a possederlo? In verità, noi possediamo l’Uno in modo tale che possiamo parlare di esso, pur senza poterne esprimere : e infatti diciamo quello che non è, e non quello che è; e così parliamo di esso a partire da quello che viene dopo. [Enneadi, V, 3 [49], 14]



I nostri discorsi sull’Uno non riguardano dunque l’Uno in sé, ma ciò che dipende da esso, ciò che deriva da esso. Plotino stabilisce qui l’essenziale di ciò che, in seguito, sarà denominato teologia negativa: l’unico modo corretto per parlare dell’Uno (o di Dio) è quello di dire ciò che esso non è (qualsiasi affermazione sull’Uno fa riferimento in realtà a ciò che segue l’Uno), e non ciò che esso è. Lo stesso vale anche per la nozione di causa; quando attribuiamo all’Uno la causalità, in realtà parliamo di noi (in quanto effetti), più che dell’Uno stesso:



riferirgli la funzione di causa non significa attribuire un carattere accidentale a esso, ma a noi: invero, noi siamo portatori di qualcosa che viene dall’Uno, ma l’Uno se ne sta in sé stesso. Insomma,

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per essere precisi, non dovremmo chiamarlo né “quello”, né “essere”; ma il fatto è che noi, quasi correndogli intorno dal di fuori, ci sforziamo di dare espressione alle impressioni che abbiamo quando siamo vicini a lui, o anche quando ce ne allontaniamo, inciampando nei problemi che insorgono sul suo conto. [Enneadi, VI, 9 [9], 3]



Tutto quel che diciamo dell’Uno, perfino quando lo definiamo “bene”, riguarda in realtà noi stessi; parlando dell’Uno, parliamo di noi, di ciò che manifestiamo in quanto dipendiamo (indirettamente) da esso, o anche di ciò che desideriamo o di cui abbiamo bisogno, in generale di tutto ciò che esprime il nostro rapporto di dipendenza nei confronti dell’Uno, piuttosto che qualcosa di intrinseco all’Uno stesso. Ma ciò riguarda pur sempre la sfera della comprensione e del discorso: Plotino concede invece che l’anima possa attingere l’Uno più direttamente (per quanto sempre negativamente) per altra via, e cioè attraverso il silenzio e l’unione. 1. Il fatto che per Plotino l’Uno sia ineffabile vuol dire che: a. esso non possiede nessuna realtà ontologica. b. è una realtà immanente. c. non è oggetto di pensiero. d. le facoltà conoscitive umane non sono in grado di coglierlo.

8 La derivazione del nùs dall’Uno Stabilito entro quali limiti si possa parlare dell’Uno, resta da interrogarsi sul processo di derivazione o emanazione delle cose dall’Uno. Possiamo porci a questo proposito due distinte domande, e cioè: 1. Perché l’Uno lascia fluire le cose da sé? 2. In che modo ha luogo tale derivazione, emanazione o flusso? Per quanto riguarda la prima questione, Plotino chiama in causa due ragioni principali. La prima è di sapore aristotelico: tutti i viventi, quando raggiungono la maturità o la perfezione della loro natura, procreano, ed è dunque plausibile che ciò valga anche per l’Uno (per quanto non

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sia possibile porre nell’Uno alcun processo di evoluzione o maturazione). La seconda è data dal fondamentale assioma neoplatonico per cui il bene tende di per sé a comunicarsi, a uscire da sé per diffondersi (i maestri scolastici latini diranno in proposito: «bonum est diffusivum sui»). In caso contrario, il bene sarebbe invece geloso o invidioso, cioè vorrebbe tenere il bene solo per sé, e così non sarebbe in definitiva davvero buono. Questa argomentazione mostra come la processione delle cose dall’Uno non debba essere vista in termini di allontanamento o caduta, e dunque come una perdita, ma come un processo di trasmissione, diffusione, espansione del bene. In ciò consiste anche una delle principali accuse rivolte da Plotino agli gnostici [ La gnosi, p. 180]. Per gli gnostici, il mondo è in definitiva il risultato dell’azione di un demiurgo malvagio, e dunque qualcosa di fondamentalmente negativo in sé, da cui liberarsi e fuggire. Per Plotino, tutto dipende, almeno remotamente, dalla causalità dell’Uno/bene, e reca perciò il segno della positività originaria. Gli gnostici propongono così una versione deteriore e infedele, oltre che filosoficamente assai rozza, del vero platonismo. Più difficile è invece comprendere come abbia luogo il processo di emanazione. Plotino propone a tal riguardo una serie di immagini o metafore: l’Uno produce le cose come il fuoco produce calore, come il Sole produce la luce, o come la neve produce il freddo. Il ricorso al linguaggio metaforico appare in questo caso praticamente inevitabile, se è impossibile parlare dell’Uno in sé, ma solo della nostra dipendenza nei suoi confronti. Si può però provare a comprendere il meccanismo concettuale che sottende tali immagini, e cioè il fatto che ogni sostanza, nel nostro mondo, possiede un’attività intrinseca e primaria e una estrinseca e secondaria, così come appunto il fuoco (attività primaria) produce il calore (attività secondaria). Dunque (sempre sulla base del nostro modo di pensare), potremmo immaginare che l’Uno, come attività primaria, dia origine a un’attività secondaria, che Plotino fa corrispondere alla diade indefinita, ovvero all’elemento passivo ammesso da Platone nelle sue dottrine non scritte per spiegare la generazione del mondo intelligibile. Anche Plotino sembra fare di tale attività un principio “passivo” (con tutte le cautele che l’adozione di una simile terminologia comporta nel caso dell’Uno), e cioè la potenzialità intelligibile destinata a essere attualizzata

da un oggetto intelligibile (al modo in cui, per Aristotele, il nostro intelletto è in potenza rispetto ai suoi oggetti ed è attualizzato da essi nel momento in cui li conosce). Ma nulla potrebbe attuare questa potenzialità se non l’Uno stesso: la diade, che è ancora interna all’Uno, si volge verso quest’ultimo (e cioè verso sé come possibile oggetto di intellezione) e lo pensa come pensabile (ciò che, di per sé, esso non è). Questa sorta di auto-intuizione, o di tentativo di auto-pensarsi, comporta uno sdoppiamento tra soggetto e oggetto di pensiero che non può che collocarsi al di fuori di ciò che è puramente e assolutamente Uno e costituisce appunto il nùs, ciò che è insieme intelligente e intelligibile. Certo, non si tratta di un processo perfettamente definito e comprensibile: non è chiaro, in questa descrizione, come emerga la diade come attività secondaria, né come questa si converta o si rivolga verso l’Uno. Si tratta pur sempre di concetti e termini inadeguati per esprimere ciò che si colloca al di sopra di ogni possibilità di comprensione ed espressione. Ciò di cui non si può dubitare è che l’Uno sia comunque causa, e produca ciò che viene dopo di esso. Restano però almeno due cose da precisare. La prima è che tutto questo processo si svolge al di fuori dal tempo, che si genera solo con la produzione della terza ipostasi, e cioè dell’anima. La seconda riguarda la modalità intrinseca di questa processione, se cioè essa debba essere considerata libera o necessaria. La questione non è di poco conto. Spesso, infatti, l’emanazione plotiniana, a differenza per esempio della creazione cristiana, è intesa come inconsapevole (l’Uno non è in sé né oggetto né soggetto di pensiero, non è cioè né pensato né pensante), e dunque come cieca, necessaria. Ma per Plotino libertà e necessità sono concetti che si applicano solo alla sfera umana, e non hanno alcun senso in riferimento all’Uno: se si pretendesse di utilizzare in senso stretto questi termini per ciò che si colloca completamente al di là di essi si cadrebbe dunque nell’antropomorfismo, cioè nell’immaginare in forme umane ciò che trascende completamente l’uomo. Se tuttavia si volesse usare anche in questo caso una trasposizione da ciò che è appropriato per le realtà inferiori all’Uno stesso, non si potrebbe fare a meno di affermare che, se la libertà è assenza di limitazioni e condizionamenti, l’Uno è assolutamente e massimamente libero, e la stessa produzione del mondo è un atto di volontà libera:

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L’Uno sarà esattamente quello che ha voluto essere e l’affermare che esso vuole e agisce conformemente alla sua natura equivale ad affermare che la sua essenza è come lui vuole e come agisce [Enneadi, VI, 8 [39], 13]; [l’Uno] racchiude in sé, tutte insieme, le cause dell’intelletto che da esso verranno, attuando una generazione che non è per caso, ma è come esso vuole. Una tale volontà non è affatto priva di ragione e non dipende dal caso e neppure costituisce un carattere accessorio dell’Uno, ma è come doveva essere, perché nulla lassù è affidato al caso [Enneadi, VI, 8 [39], 18].

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1. L’emanazione dall’Uno del nùs si spiega: a. in base alla contemplazione che quest’ultimo

V fa dell’Uno. b. in base ai concetti di attività primaria e secondaria. V c. in base al pensare l’Uno come pensabile da parte V della diade. V d. in base alla necessità intrinseca all’Uno stesso.

F F F F

9 La derivazione dell’anima dal nùs Il processo con cui l’intelletto deriva dall’Uno si ripete anche per quel che riguarda la derivazione dell’anima dall’intelletto: l’intelletto, in quanto perfezione vivente, è intrinsecamente produttivo, così come l’Uno; anch’esso ha un’attività primaria e un’attività secondaria che, volgendosi verso l’intelletto stesso, viene definita e attualizzata da esso dando origine all’anima [Enneadi, V, 1 [10], 7]. In un caso come nell’altro, il meccanismo si regge sulla convinzione che la produzione del livello successivo del reale sia definito da un atto di contemplazione: l’intelletto si produce in quanto contemplazione dell’Uno, l’anima si produce in quanto contemplazione dell’intelletto, e ulteriormente la natura si produce in quanto contemplazione (minimale, quasi dormiente) dell’anima, dando origine al mondo fisico. Anche a proposito della derivazione dell’anima ci sono tuttavia due precisazioni da fare. Innanzi tutto, l’anima come ipostasi (cioè come terzo livello generale del reale) ammette a sua volta un’articolazione tra l’anima cosmica (l’anima del mondo) e le anime individuali:

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“anima” in generale è tutto ciò che si prende cura di un corpo, ma il corpo in questione può essere quello dell’Universo, o quello più particolare dei vari individui viventi. In secondo luogo, nella derivazione dell’anima dall’intelletto si deve tener conto di una circostanza aggiuntiva, e cioè del fatto che è l’anima stessa a voler in qualche modo fuoriuscire o procedere dall’intelletto in cui è precontenuta. La vera distinzione, all’interno del mondo intelligibile, tra anima e intelletto, è data in definitiva dal fatto che l’anima ha una specie di istinto materno a generare qualcosa di cui prendersi cura: per questo, essa non si accontenta di rimanere nella pura auto-identità dell’intelligibile, ma desidera produrre qualcosa da organizzare, curare e accudire: il corpo. Anche a questo proposito, quindi, la distanza di Plotino dalle correnti gnostiche, per le quali la corporeità è il risultato di un’operazione demiurgica malvagia, non potrebbe essere maggiore. Questa stessa inquietudine è quella che dà origine al tempo: non contenta di restare in contemplazione nella quiete dell’intelletto, l’anima esprime il proprio atto contemplativo attraverso un movimento che rappresenta una specie di dilatazione o distensione della vita unitaria (atemporale, eterna) dell’intelletto. Si può così dire che se l’eternità è la vita dell’intelletto, il tempo è la vita dell’anima [ T36]. 1. Individua, fra le seguenti, le affermazioni corrette. a. Il nùs deriva dall’anima. b. La natura si produce come contemplazione dell’anima. c. L’uno si produce come contemplazione del nùs. d. L’anima si produce come contemplazione dell’intelletto.

10 I corpi, la materia, il male Come dev’essere valutata, in definitiva, questa inquietudine dell’anima, questa tendenza ad abbandonare la quiete e la pienezza dell’intelletto? Il tema è affrontato da Plotino in uno dei trattati più interessanti della sua intera produzione (Enneadi, IV, 8, il sesto nell’ordine cronologico). Il trattato si apre con la descrizione di quell’esperienza assolutamente peculiare in cui la nostra stessa anima si accorge di appartenere

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ad un altro mondo, quello intelligibile, e si meraviglia invece di trovarsi in un corpo:



Molte volte, destandomi dal corpo a me stesso e divenendo esterno alle altre cose, interno invece a me stesso, nel vedere tanta straordinaria bellezza ed avendo la certezza di appartenere alla parte migliore soprattutto allora, trovandomi ad esercitare il più nobile genere di vita, fattomi tutt’uno con il divino e stabilito in esso il mio fondamento, avendo proceduto verso quell’atto e collocato al di sopra di ogni altro intelligibile me stesso, una volta che sono disceso dopo tale sosta nel mondo divino dell’intelletto alla ragione discorsiva, non so spiegarmi come discenda ancora una volta, e in che modo mai l’anima mi sia venuta a trovare all’interno del corpo, se essa è quella stessa cosa che è apparsa essere in sé e per sé, benché si trovi in un corpo. [Enneadi, IV, 8 [6], 1]



Insomma, per tornare a ciò da cui siamo partiti: se l’anima appartiene al mondo intelligibile, è “di casa” in esso, perché rinuncia a tale appartenenza per “discendere” nei corpi? Questa “discesa” è un male (una caduta, come nei miti gnostici) o in definitiva un bene, nonostante l’anima stessa si allontani dalla sua dimora più appropriata? Plotino sottolinea che c’è a questo proposito una “dissonanza” anche nello stesso Platone, perché in alcuni dialoghi il corpo è presentato come “carcere” dell’anima, mentre nel Timeo l’invio dell’anima nel corpo (del mondo) è considerato come un atto provvidenziale destinato a portare avanti il più possibile la propagazione del bene e dell’intelligibilità. La risposta di Plotino presuppone innanzi tutto quanto già visto, e cioè che è fondamentalmente il corpo a sopravvenire all’anima, e non viceversa (il termine “discesa” ha quindi soprattutto una valenza metaforica); e in secondo luogo che il corpo in sé non è male, perché altrimenti si ricadrebbe di fatto nello stesso errore degli gnostici. Prova ne è il modo in cui l’anima del mondo regge appunto il mondo (corporeo) senza alcuna fatica, e senza alcuna resistenza da parte di quest’ultimo. Ora, finché le anime individuali restano con l’anima del mondo, partecipano anch’esse del governo del mondo (del corpo del mondo) senza fatica o sofferenza. Ma accade anche che le anime vogliano particolarizzarsi ulteriormente, vogliano prendersi cura di un corpo tutto loro, e per questo

“discendono” in corpi individuali, cioè si forgiano corpi individuali, con tutti i limiti che tali corpi necessariamente portano con sé. N ell’ottica complessiva dell’espansione e propagazione del bene, anche questo non è in sé un male, perché permette di portare qualcosa del mondo intelligibile fino alla materia più instabile; tuttavia, l’anima sconta comunque inevitabilmente le conseguenze della sua decisione, trovandosi legata a un corpo instabile e corruttibile. Quest’ultimo la ostacola nelle sue operazioni più elevate, soprattutto quando l’anima stessa è portata ad assecondarlo, piuttosto che reggerlo e governarlo. Si può insomma dire che l’anima si imprigiona da sola in un corpo quando si prende eccessivamente cura di esso, e in questo caso la colpa coincide già, sostanzialmente, con la pena. La dinamica generale di “discesa” dell’anima contribuisce a spiegare anche l’ipotesi più verosimile sull’origine della materia nell’Universo plotiniano – e cioè che essa non sia un principio eterno, increato e dunque semplicemente in-formato dal mondo intelligibile per il tramite dell’anima, ma sia piuttosto il risultato stesso della produzione dell’anima-natura (cioè del livello inferiore dell’anima in quanto tale) e dunque, remotamente, dell’Uno. La materia è sì indeterminazione assoluta, ma pur sempre come limite o termine ultimo del processo di derivazione dall’Uno, quando la forza produttiva, scendendo lungo i gradi del reale, si è ormai illanguidita, e le forme intelligibili cedono il passo alle immagini senza vita dell’anima [ T18]. Il fatto che la materia non sia un principio esterno, e che tutto dipenda, in modo più o meno diretto, dalla causalità dell’Uno, pone il problema di spiegare da dove provenga allora il male. Plotino torna in più occasioni sulla questione, e in particolare in uno degli ultimi trattati (Enneadi, I, 8 [51]): se il bene è indipendenza, misura, forma, il male è assenza di forma, privazione, non-essere (non evidentemente nello stesso senso in cui l’Uno non è: l’Uno infatti non è per eccesso rispetto alle forme, la materia non è per difetto rispetto alle forme), e coincide dunque con la materia. Ma in quanto tale, il male non ha alcuna sussistenza, nessuna consistenza ontologica: è solo il residuo dell’inevitabile depotenziamento del bene, il limite estremo della sua attività di espansione. Non c’è infatti male nei gradi più alti del reale: non c’è male nell’Uno, non c’è male nel nùs, non c’è male nell’anima che rimane ancorata

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al nùs. Il male si dà soltanto nelle anime (e per le anime) che si particolarizzano rispetto all’intelletto e “discendono” nei corpi di questo mondo sensibile. Si dà così un singolare circolo, a proposito del male, tra la materia e l’anima; la prima è prodotta dalla seconda, ma è anche ciò che rovina, corrompe chi la produce:



La materia, pertanto, è la causa della fragilità dell’anima e del vizio; quindi la materia è malvagia già da prima, anzi è il primo male: e non importa che sia stata proprio l’anima, al seguito di una certa sua passione, a dare alla luce la materia. [Enneadi, I, 8 [51], 15]



Ovvero: la materia, e cioè il male metafisico (l’imperfezione o privazione di un bene superiore), è il risultato dell’attività ormai illanguidita e depotenziata dell’anima; e tuttavia essa è anche ciò che rende possibile il male morale, nella misura in cui l’anima decide di immergersi nella materia e nei corpi [ T57]. Ma in generale prevale in Plotino (come poi in gran parte del neoplatonismo) un deciso ottimismo metafisico, imperniato sul riconoscimento della bontà generale del tutto:

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A motivo della natura e della forza del bene, il male non si presenta solo come male, ma è forzato a mostrarsi stretto in belle catene, quasi noi uomini fossimo prigionieri avvinti in catene d’oro. [Enneadi, I, 8 [51],15] 1. Per Plotino la materia: a. rappresenta un principio eterno ed increato. b. è il risultato della produzione dell’anima-natura. c. è l’assoluta indeterminazione. d. dipende dalla causalità dell’Uno.

livelli inferiori di “convertirsi” e tornare verso l’Uno. Comincia così a delinearsi in Plotino una struttura fondamentale del pensiero neoplatonico, e cioè la scansione del reale nei momenti: a. della manenza (monè, ovvero l’autopresenza o autoidentità delle ipostasi); b. della processione (pròodos, ovvero il procedere delle ipostasi inferiori da quelle superiori, in base al principio della diffusività e comunicabilità del bene); c. della conversione o ritorno (epistrophè, ovvero il movimento in cui ciò che è proceduto dall’Uno tende a riguadagnare l’unità). Sono soprattutto le anime individuali a essere protagoniste di quest’ultimo movimento, perché sono solo le anime individuali ad essersi spinte troppo in là nella processione. Ciò che esse devono fare è semplicemente riguadagnare il loro contatto naturale con l’anima del mondo e, ancor più, con l’intelletto. Si tratta di un compito non impossibile perché, secondo una delle dottrine più originali di Plotino, in ogni anima c’è sempre una parte “indiscesa”, cioè una parte che non si proietta nei corpi, ma rimane sempre collegata al nùs:

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V V V V

F F F F

2. Il male per Plotino: a. si dà nell’Uno. b. è privazione di essere. c. è un principio autonomo esistente accanto all’Uno. d. è presente tanto nei gradi più alti del reale che in quelli più bassi.

11 Il ritorno e l’anima “indiscesa” Il fatto che nulla, nell’Universo, sfugga fino in fondo alla causalità dell’Uno e del nùs testimonia la positività del reale, e la possibilità per i

Se poi bisogna avere l’audacia di affermare più chiaramente il nostro parere contro l’opinione altrui, neppure la nostra anima si è immersa completamente, ma esiste una sua parte che sta sempre nell’intelligibile; se però la parte che si trova nel sensibile domina (o meglio, se è dominata e turbata), non ci consente di avere sensazione di ciò che la parte superiore dell’anima contempla. [Enneadi, IV, 8 [6], 8]



C’è dunque in noi una parte dell’anima che permane indipendente dal corpo (e immune dai turbamenti che questo può indurre) ed è perennemente in contatto con gli intelligibili del nùs. Paradossalmente, però, noi non ce ne accorgiamo, nel senso che le potenze inferiori dell’anima – quelle che sono impegnate nel governo del corpo e che sembrano definire il nostro livello di coscienza – tendono a dimenticare questo livello superiore. Questa dottrina – destinata a suscitare un vivace dibattito tra i successivi pensatori neoplatonici, ma anche a esercitare una duratura influenza nel mondo arabo e in quello latino – ha un risvolto gnoseologico e uno etico. Dal primo

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punto di vista, tramite la sua parte “indiscesa”, l’anima ha sempre la possibilità di accedere agli intelligibili, a condizione che si ricordi di sé (e questo è il modo in cui Plotino rielabora la dottrina platonica dell’anàmnesi o reminiscenza); dal secondo, l’anima conserva sempre un punto di ancoraggio su cui far leva per tornare a innalzarsi interamente al livello del nùs. Ci si può tuttavia chiedere, in conclusione, se l’anima sia in grado di risalire ancora più oltre, fino a (ri)attingere l’Uno. Plotino non nega affatto questa possibilità e anzi la indica esplicitamente come lo stesso fine ultimo dell’uomo: la hènosis, l’‘unione’, il farsi uno con l’Uno. Ma si tratta di un gesto che va al di là di ogni conoscenza, e si fonda invece sulla purificazione, sull’oltrepassamento di tutti i contenuti della conoscenza (dalle immagini sensibili alle stesse forme intelligibili), sul silenzio. L’unico modo di congiungersi con l’ineffabile è quello di tacere, e l’unico modo di raggiungere ciò che è al di sopra delle forme, è quello di spogliarsi degli intelligibili stessi:



SINTESI CAPITOLO 8

In verità, come a proposito della materia si diceva che essa deve mancare di ogni qualità se vuole recepire le impronte di tutte le cose, così, a maggior ragione, l’anima non deve accogliere alcuna forma, se non vuole che, in essa, un qualche ostacolo si opponga alla pienezza di luce della prima natura. A queste condizioni l’anima deve spogliarsi di ogni realtà esterna per rivolgersi totalmente in sé stessa, senza nulla concedere al mondo esteriore; bisogna pure che rinunci a conoscere ogni

Un filosofo “imperiale”. Plotino è l’iniziatore del neoplatonismo, una importante stagione di ripresa e rielaborazione delle dottrine platoniche alla luce delle critiche mosse da Aristotele e dalle scuole ellenistiche. In Plotino ritroviamo l’idea della filosofia come cura e trasformazione di sé e un confronto sempre più fitto con la tradizione, tratti caratteristici della filosofia di età imperiale. Porfirio ha curato l’edizione degli scritti di Plotino, le Enneadi, raggruppandoli secondo un criterio tematico. La vita e le Enneadi. Porfirio è anche autore di una Vita di Plotino, fonte privilegiata di dati biografici sul filosofo. Nato in Egitto intorno al 204 d.C., Plotino visse per alcuni anni ad Alessandria per coltivare il proprio

realtà a partire da quelle sensibili fino alle forme intelligibili, e addirittura a sè stessa, per ritrovarsi nella contemplazione dell’Uno. [Enneadi, VI, 9, 7]



Si deve allora concludere che tutto il pensiero plotiniano tende verso una specie di esperienza mistica, ovvero verso una forma di sacrificio dell’intelletto? Per quanto Porfirio riferisca che Plotino abbia avuto, nel corso della sua esistenza, forse quattro esperienze di questo tipo, non sembra possibile ridurre tutta la filosofia plotiniana a esiti puramente irrazionali o sovrarazionali (cioè superiori alle capacità della ragione). Plotino sembra piuttosto suggerire un percorso preciso che si fonda sulla filosofia (anche come pratica di trasformazione di sé) e perviene solo da ultimo al riconoscimento che l’Uno è al di là non solo del mondo sensibile, ma anche di quello intelligibile. Se l’anima non riconquista il suo legame con il nùs – se dunque non porta a compimento il suo cammino di recupero degli intelligibili – non può neppure prepararsi per l’ultimo passo. Ciò che forse più conta è la decisa interiorizzazione di tutto questo percorso: è innanzi tutto guardando dentro di sé che l’anima può iniziare la sua ascesa verso l’intelletto e oltre di esso. 1. L’anima individuale tende a ritornare all’Uno perché: a. vuole svincolarsi dal corpo. b. esiste sempre una parte di essa in perenne contatto con il nùs.

c. ha coscienza delle potenze inferiori che la legano al corpo. d. vuole vincere il male metafisico.

interesse per la filosofia. Dopo aver partecipato a una spedizione militare dell’imperatore romano Gordiano III, conclusasi tragicamente con la morte dell’imperatore stesso, si stabilì a Roma dove cominciò a tenere le sue lezioni, rivolte a un pubblico ampio ed eterogeneo. Plotino amava far filosofia discutendo, per questo non si curò personalmente dalla sistemazione dei suoi scritti. Morì in Campania nel 270 d.C., dopo aver concepito un progetto, che però non venne realizzato, di una città ideale ispirata al modello platonico. Il rapporto tra mondo intelligibile e mondo sensibile. Plotino si propone di ripensare lo statuto delle forme e il rapporto tra queste e il mondo sensibile. Il problema della bellezza

fornisce per esempio una via a tal riguardo. Secondo Plotino l’esperienza della bellezza è per l’anima un’occasione per ricordarsi della propria natura intelligibile. La grande novità di Plotino risiede nell’articolazione del mondo intelligibile in tre distinti livelli o ipostasi: l’Uno, il nùs e l’anima. Il rapporto anima-corpo. Plotino ripensa il dualismo platonico tra mondo sensibile e mondo intelligibile alla luce del rapporto anima-corpo. L’anima costituisce l’anello di congiunzione tra il mondo delle forme, il nùs, e la realtà sensibile. Rivisitando il concetto platonico di partecipazione, egli afferma che non è l’anima ad essere presente nel corpo, ma è il corpo che dipende dall’anima per il suo stesso essere: il corpo, quindi, è nell’anima.

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SINTESI CAPITOLO 8

Plotino capitolo 8 Al di là dell’anima: il nùs. L’intelletto è trascendente rispetto al mondo sensibile e coincide con le forme intelligibili: esso è insieme intelletto e intelligibili. Il rapporto tra l’anima e il nùs si configura in questi termini: l’anima ha il compito di organizzare/produrre il mondo; questa attività implica la sapienza (conoscenza degli intelligibili) che essa riceve dal nùs. Il nùs è un’uni-totalità, ovvero l’unità dinamica degli intelligibili, esso è uno-molti, cioè non è semplicemente uno, ma neppure uno e molti. Al di là del nùs: l’Uno. Ad un livello superiore rispetto all’intelletto, Plotino pone l’Uno, l’unità assoluta, il principio unico del mondo intelligibile e, attraverso di esso, dell’anima e del mondo sensibile. Parlare dell’ineffabile. L’Uno non può essere né pensato, né espresso con parole. È assolutamente trascendente e del tutto ineffabile. Allora è anche impossibile dire che esso è la causa o il principio dell’essere. Come uscire dunque da questa aporia? Per Plotino l’unico modo corretto per parlare dell’Uno è dire ciò che esso non è, e non ciò che esso è.

La derivazione del nùs dall’Uno. La processione delle cose dall’Uno non va vista in termini di allontanamento o caduta, ma come un processo di trasmissione, diffusione, ed espansione del bene. Contro gli gnostici, ai quali il mondo appariva il risultato dell’azione di un demiurgo malvagio, e dunque negativo, Plotino ritiene che tutto rechi il segno della positività originaria dell’Uno. Per esprimere come abbia luogo il processo di emanazione, Plotino ricorre a delle metafore: l’Uno produce le cose come il fuoco produce il calore, o come il Sole produce la luce. La derivazione dell’anima dal nùs. Il processo di emanazione procede dall’Uno all’intelletto, da questo all’anima e da essa al mondo fisico e coincide con un atto di contemplazione. L’anima è tutto ciò che si prende cura di un corpo, che può essere quello dell’Universo (anima cosmica) o quello più particolare dei singoli individui viventi (anima individuale). Essa vuole fuoriuscire dall’intelletto in cui è precontenuta, perché desidera produrre qualcosa da organizzare, curare e accudire: il corpo. Questa inquietudine dà origine al tempo.

I corpi, la materia, il male. Per Plotino la “discesa” dell’anima nel corpo del mondo non è un male, perché permette di portare qualcosa del mondo intelligibile fino alla materia più instabile. La stessa materia dei corpi non è un principio eterno e increato, ma il risultato della produzione dell’anima e dunque, remotamente, dell’Uno. Pertanto il male non ha alcuna consistenza ontologica: è solo il residuo dell’inevitabile depotenziamento del bene, il limite estremo della sua attività di espansione. Il ritorno e l’anima “indiscesa”. La scansione del reale avviene in tre momenti: la manenza (l’autopresenza delle ipostasi); la processione (il procedere delle ipostasi inferiori da quelle superiori) e la conversione o ritorno (il movimento in cui ciò che è proceduto dall’Uno tende a riguadagnare l’unità). Il ritorno riguarda le anime individuali che si sono spinte troppo in là nella processione. Esse devono riguadagnare il loro contatto naturale con l’intelletto attraverso la parte “indiscesa”. Ma il fine ultimo dell’uomo è il farsi uno con l’Uno, attraverso la purificazione dell’anima da tutti i contenuti della conoscenza e il silenzio.

BIBLIOGRAFIA Fonti Tutti i passi citati dalle Enneadi plotiniane e dalla Vita di Plotino di Porfirio sono tratti da: Plotino, Enneadi, testo greco a fronte, trad. di R. Radice, saggio introduttivo, pref. e note di G. Reale; Porfirio, Vita di Plotino, a cura di G. Girgenti, Mondadori, Milano 2002 («I meridiani»).

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Opere Le edizioni di riferimento delle Enneadi plotiniane sono quelle (maior e minor) curate da Henry e Schwytzer: Plotini Opera, ed. P. Henry - R.H. Schwytzer, 3 voll., Desclée de Brouwer, Paris-Bruxelles 1951-1973 (editio maior); Plotini Opera, ed. P. Henry - R.H. Schwytzer, 3 voll., Clarendon Press («Scriptorum Classicorum Bibliotheca Oxoniensis»), Oxford 1964-1982 (editio minor).

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Si segnala anche, tra le traduzioni italiane: Plotino, Enneadi, a cura di M. Casaglia, C. Guidelli, A. Linguiti, F. Moriani, prefazione di F. Adorno, 2 voll., Utet, Torino 1997.

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• R. Chiaradonna (a cura di), Studi sull’anima in Plotino, Bibliopolis, Napoli 2005.

Studi critici

Sulla concezione plotiniana della filosofia come pratica di vita cfr.: P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi, Torino 1999.

Il modo più serio di accostarsi a Plotino è quello di considerare il suo confronto critico con la tradizione filosofica – con l’aristotelismo e lo stoicismo in particolare – piuttosto che enfatizzarne i presunti aspetti mistici o irrazionali. Un ottimo esempio di questo approccio storicamente più corretto e proficuo è: R. Chiaradonna, Sostanza, movimento, analogia. Plotino critico di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 2002.

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Lo stesso Chiaradonna ha curato un ricco volume collettivo sulla psicologia plotiniana:

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Sulla concezione plotiniana della felicità e sulla dottrina del tempo cfr.: La felicità e il tempo. Plotino, Enneadi, I, 4 - I, 5, a cura di A. Linguiti, Led, Milano 2000.

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Sul tema dell’“anima indiscesa”, a cui facciamo riferimento, ma anche sull’influsso esercitato da Plotino nell’ambito della filosofia in lingua araba si veda: Plotino, La discesa dell’anima nei corpi (Enn. IV 8[6]). Plotiniana arabica (Pseudo-teologia di Aristotele, capitoli 1 e 7; «Detti del sapiente greco»), a cura di C. D’Ancona, il Poligrafo, Padova 2003.

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ESERCIZI

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parte I La filosofia antica: una scelta di vita 1. Quali elementi fanno di Plotino un pensatore dell’età imperiale? (max 8 righe)

9. Come si configura, secondo Plotino, il rapporto fra l’intelletto e le forme? (max 8 righe)

2. Possiamo considerare i neoplatonici dei platonici postaristotelici. Perché? (max 5 righe)

10. In che modo Plotino respinge lo scetticismo? (max 8 righe)

3. La soluzione di Plotino al problema della bellezza segna uno scarto rispetto a Platone: evidenzia i punti di distacco fra i due autori (max 10 righe).

11. Illustra la dottrina plotiniana dell’Uno utilizzando i seguenti concetti: nùs, unità assoluta, molteplicità unitaria, ipostasi, mondo sensibile, anima, monismo, al di là dell’essere (max 15 righe).

4. In che modo Plotino rovescia la condanna platonica dell’arte? (max 8 righe) 5. Illustra come Plotino risolve il rigido dualismo platonico tra mondo intelligibile e mondo sensibile. Nella tua esposizione sviluppa la seguente scaletta (max 15 righe): a. concetto di partecipazione; b. rapporto anima/corpo; c. rapporto atto/potenza. 6. Quale rapporto sussiste fra l’intelligibile, l’anima e il mondo sensibile secondo Plotino? (max 8 righe) 7. Che cosa accomuna e in che cosa differisce la concezione dell’intelletto di Plotino rispetto a quella di Aristotele e dei medioplatonici? (max 10 righe) 8.Inserisci le seguenti espressioni, riferite al nùs, nella tabella comparativa sottostante: separato e trascendente pensiero di pensiero diverso dalle forme immanente pensa le forme coincidente con le forme

·

· ·

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Aristotelici

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Medioplatonici

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Stoici

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Plotino

.....................................................

12. Quali istanze della tradizione platonica confluiscono, in una sintesi originale, nella dottrina dell’Uno di Plotino? (max 8 righe) 13. Chiarisci i motivi teorico-storici che hanno spinto Plotino a porre l’Uno al di sopra del nùs (max 8 righe). 14. Come supera Plotino l’aporia legata all’assoluta ineffabilità dell’Uno? (max 8 righe) 15. Descrivi il processo di derivazione dall’Uno del nùs, spiegando perché e come avviene (max 10 righe). 16. Descrivi il processo di derivazione dell’anima dal nùs (max 8 righe). 17. Qual è il senso della seguente affermazione: “l’eternità è la vita dell’intelletto, il tempo è la vita dell’anima” (max 8 righe). 18. Qual è l’origine del male per Plotino? Rispondi alla domanda evidenziando i seguenti punti (max 15 righe): a. il rapporto tra la materia, i corpi e l’anima; b. il rapporto tra male metafisico e male morale. c. l’ottimismo metafisico. 19. Ripercorri tutto il processo di emanazione dell’essere, teorizzato da Plotino, utilizzando i seguenti concetti: Uno, materia, anima, corpi, manenza, ipostasi, espansione del bene, conversione, nùs, processione, purificazione (max 15 righe).

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L’ETÀ TARDO-ANTICA: GLI INIZI DEL PENSIERO CRISTIANO E L’ULTIMO NEOPLATONISMO

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1 Atene e Gerusalemme: l’opposizione tra filosofia e cristianesimo La storia dei contatti tra filosofia e cristianesimo è inizialmente soprattutto la storia di una reciproca incomprensione. Da una parte, i filosofi pagani – con rare eccezioni – trovavano del tutto irrazionali e incomprensibili molti punti cruciali della nuova fede, dalla Trinità all’Incarnazione, dalla creazione dal nulla alla resurrezione dei corpi. Dall’altra, diverse espressioni delle Lettere dell’apostolo Paolo (Paolo di Tarso, I secolo d.C.) denunciavano esplicitamente come follia e vana menzogna la “sapienza di questo mondo” e cioè appunto la filosofia:



Dove il sapiente di questo mondo? N on ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? [Prima lettera ai Corinzi, 1, 20-21]; Badate che nessuno vi faccia sua preda con la “filosofia”, questo fatuo inganno che si ispira alle tradizioni umane, agli elementi del mondo e non a Cristo [Lettera ai Colossesi, 2, 8].



La prima letteratura apologetica (cioè l’insieme dei primi scritti in difesa della fede cristiana) mostra così in generale un atteggiamento di sostanziale rifiuto nei confronti della filosofia pagana, accusata anche di essere all’origine – con la propria suddivisione in scuole – di tutte le sette e le eresie che ostacolano il cammino iniziale della nuova Chiesa. Il risultato in qualche modo paradossale di questo atteggiamento è che proprio l’eresiografia, cioè la trattatistica cristiana contro gli eretici, rappresenta oggi per noi una delle fonti più utili per ricostruire, sia pure per così dire in negativo, alcune dottrine filosofiche su cui non saremmo diversamente molto informati. Il caso insieme più noto e più emblematico di questa marcata presa di distanza dalla filosofia è quello di Tertulliano (ca. 155-ca. 220), che per primo ha utilizzato a questo proposito l’immagine della contrapposizione tra Atene (il mondo greco, e dunque la filosofia) e Gerusalemme (il mondo giudaico-cristiano, fondato sulla rivelazione, e cioè sulle Scritture):



Medesime sono le questioni rimuginate dagli eretici e dai filosofi, medesime sono le considera-

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zioni che essi aggrovigliano […]. Ma che cosa hanno in comune, dunque, Atene e Gerusalemme? L’Accademia e la Chiesa? Gli eretici e i cristiani? […] Non abbiamo bisogno della curiosità, dopo Gesù Cristo, né della ricerca dopo il Vangelo. Quando crediamo, non sentiamo il bisogno di credere in altro, giacché noi crediamo prima questo, non esserci motivo di dover credere in altro. [Contro gli eretici (La prescizione degli eretici), VII; trad. lievemente modificata]



E analogamente nell’Apologetico:



Così pure, in che cosa sono simili il filosofo e il cristiano, i discepoli della Grecia e quelli del Cielo, coloro che trafficano per la gloria o per la vita, coloro che agiscono a parole o coi fatti, chi edifica o chi distrugge, chi falsifica o chi ristabilisce la verità, chi se ne appropria o chi la custodisce? [Apologia del cristianesimo, 46, 18]



Filosofia e cristianesimo

In un altro trattato ancora, La resurrezione della carne, lo stesso Tertulliano difende e anzi rivendica con grande enfasi retorica (e forse con un pizzico di gusto per il paradosso) l’incomprensibilità, agli occhi della ragione greca, di alcune fondamentali tesi cristiane:

Nazanzio Cesarea Atene

Nablus Alessandria d’Egitto

La carta illustra i luoghi di nascita di alcuni dei primi pensatori cristiani. Origène nato ad Alessandria nel 185. I cosiddetti “Padri cappadoci”, cioè Gregorio nato a Nazanzio nel 330 ca., Basilio il Grande e Gregorio di Nissa, nati entrambi a Cesarèa il primo nel 330 e il secondo fra il 332 e il 335, Clemente Alessandrino nato forse ad Atene nel 150 ca. e Giustino nato probabilmente a Nablus.



che il Figlio di Dio sia morto è veramente credibile perché è assurdo. E che, sepolto, sia risuscitato, è certo perché è impossibile. [La carne di Cristo, 5, 4; trad. modificata]



Credibile perché assurdo, certo perché impossibile: difficile immaginare espressioni più lontane dalla mentalità filosofica greca. Per quanto Tertulliano possa essere considerato un esempio forse troppo radicale, l’avversione nei confronti della filosofia e della razionalità è nei primi secoli dell’età cristiana piuttosto diffusa. Tale ostilità, inoltre, non si limitò soltanto alle invettive o alle polemiche letterarie: una volta terminata la brutale stagione delle persecuzioni dei cristiani nell’Impero romano, e una volta ribaltati, dopo la conversione dell’imperatore Costantino e i decreti di Teodosio del 391-392, i rapporti di forza tra cultura pagana e cristianesimo, si registrarono vere e proprie forme di intolleranza nei confronti di coloro che praticavano la filosofia, alcune delle quali sfociarono nell’aggressione fisica. L’episodio forse più drammatico è quello che vide vittima la filosofa di orientamento neoplatonico Ipàzia (autrice, come sembra, di lavori scientifici, a noi non pervenuti, sulle Coniche di Apollònio di Perge, sull’Almagèsto di Tolomeo e sull’Aritmetica di Diofànto di Alessandria), linciata ad Alessandria nel 415 d.C. da un gruppo di fanatici cristiani. Ma, più in generale, si possono citare i molti altri interventi censori da parte delle autorità cristiane, dal divieto di tenere lezioni di filosofia alla distruzione di libri filosofici. D’altra parte, occorre non dimenticare che fino a Costantino e alla cristianizzazione dell’Impero non si erano certo sviluppate le condizioni più favorevoli per una pacifica integrazione tra il sapere pagano e la nuova fede: le persecuzioni non avevano affatto risparmiato gli intellettuali cristiani. Un caso emblematico è quello di Giustino, uno dei Padri della Chiesa (ovvero di quegli autori le cui dottrine furono considerate i fondamenti della tradizione e della fede cristiana) forse più interessati alla filosofia, messo a morte tra il 162 e il 168 proprio sotto l’imperatore-filosofo Marco Aurelio. Tuttavia, è ugualmente un dato di fatto che, in parallelo a questi fenomeni di vero e proprio scontro, cominciò a maturare anche la possibilità, se non di un dialogo, almeno di un incontro, ovvero dell’utilizzazione o assimilazione di determinate dottrine filosofiche da parte dei Padri cri-

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stiani (è più difficile trovare traccia di autori cristiani nelle opere dei filosofi pagani – il che tuttavia non significa che non ci siano state invece conversioni spettacolari di filosofi pagani al cristianesimo). È però opportuno distinguere a questo proposito due livelli: quello relativo al piano puramente dottrinale e quello relativo agli stili di vita, cioè alle pratiche necessarie per conseguire la felicità e la salvezza (salvezza intramondana – cioè in questo stesso mondo – nel caso della filosofia, e ultraterrena nel caso della religione cristiana). Ci occuperemo prima di quest’ultimo aspetto. 1. L’opposizione fra filosofia e cristianesimo nei primi secoli dell’età cristiana si evidenzia: a. nella cosiddetta letteratura apologetica. V F b. nella contrapposizione fra la razionalità

del mondo greco e l’assurdità dei contenuti delle Scritture. c. nell’utilizzazione da parte dei Padri della Chiesa cristiana di alcune dottrine filosofiche pagane. d. nella distinzione fra il piano dottrinale della filosofia e quello relativo allo stile di vita.

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2 La vita cristiana come vera “filosofia” Il confronto sul piano delle scelte di vita è stato in qualche modo cruciale per l’avvicinamento tra filosofia e cristianesimo: se i Padri della Chiesa hanno cominciato a utilizzare il termine “filosofia” per designare la stessa religione cristiana, ciò è dipeso dal fatto che il cristianesimo si è presentato non tanto o non solo come un complesso dottrinale, ma soprattutto come una pratica o un modo di vita, come una “saggezza vissuta”, più o meno allo stesso modo in cui anche buona parte della filosofia pagana intendeva sé stessa. Non è così un caso che, nonostante tutta la diffidenza iniziale, siano gradualmente filtrati nel cristianesimo molti degli “esercizi spirituali” già elaborati dalla filosofia pagana: la ricerca dell’imperturbabilità e della pace dell’anima; la concentrazione su di sé attraverso la pratica, già largamente in uso in alcune scuole filosofiche, dell’esame di coscienza; il controllo severo delle passioni; il distacco dal quotidiano; l’impegno a vivere in conformità al lògos. Tutte queste prati-

che sono poi diventate proprie soprattutto della scelta di vita del monaco cristiano, ed è per questo che il termine “filosofia” è passato a designare il modello di vita monastico quale perfezione della vita cristiana. Il monaco cristiano, al pari del filosofo antico, ha fatto una scelta esistenziale che lo distingue (e talvolta lo separa fisicamente) dal resto della società; l’uno e l’altro vivono in comunità sotto la guida di un maestro; l’uno e l’altro praticano gli stessi “esercizi spirituali” e lo stesso tipo di ascetismo. Queste analogie, tuttavia, valgono solo entro certi limiti e a determinate condizioni. In primo luogo, il parallelismo tiene se si prendono in considerazione i filosofi ellenistici, e in particolare gli stoici, ma è assai meno proponibile in riferimento ad altre impostazioni filosofiche o ai filosofi in quanto maestri di una scuola o titolari di una cattedra. In secondo luogo, al di là degli aspetti comuni, il monaco cristiano (e il cristiano in generale) coltiva determinate virtù che sono specifiche della sua fede e sono sostanzialmente sconosciute al mondo greco: per esempio, l’umiltà, l’obbedienza, la speranza nella grazia e nel valore redentivo della morte di Cristo. Ciò non toglie che il termine “filosofo” (philòsophos) sarà effettivamente e per lungo tempo utilizzato, nel mondo bizantino (cioè nei territori dell’Impero romano d’Oriente, con capitale Bisanzio – quella che prima era Costantinopoli, e ora Istanbul), per indicare il monaco, e lo stesso accadrà in qualche misura nel mondo latino: anche espressioni come philosophia Christi o philosophia Pauli serviranno a designare non tanto delle dottrine esposte da Cristo o dall’apostolo Paolo, ma il modello di vita proposto da Cristo e Paolo. Il significato dei termini “filosofo”/“filosofia”, dunque, non deve mai essere dato per scontato, ma ha avuto, nella storia intellettuale dell’Occidente, significati diversi e più ampi di quelli che si è soliti attribuire loro. Anche molte delle massime morali dei Padri della Chiesa ricalcano spesso quelle dei filosofi ellenistici: “vivi ogni giorno come se dovessi morire proprio in quel giorno” (come ammonisce per esempio Atanàsio di Alessandria); “non desiderare ciò che non può accadere, ma cerca di volere soltanto ciò che può accadere, così da essere felice” (tesi tipicamente stoica che compare per esempio in Dorotèo di Gaza); “abìtuati a separarti definitivamente dal corpo e dalle passioni”, e cioè, secondo la nota espres-

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sione platonica, “preparati a morire, perché in questo consiste la vera filosofia” (Clemente Alessandrino). Ora, se i monaci sono i veri “filosofi”, e se solo il cristianesimo è la vera “filosofia”, ne segue, reciprocamente, che quei filosofi pagani che prima della rivelazione (cioè dell’annuncio del messaggio divino prima attraverso i profeti, e poi direttamente attraverso Cristo) hanno comunque condotto una vita giusta e pura, potrebbero essere considerati dei cristiani ante litteram. E tuttavia sempre in modo limitato e parziale, perché la vera novità del cristianesimo è, agli occhi dei Padri della Chiesa, quella di riuscire a realizzare effettivamente, e su grande scala, ciò che i filosofi pagani si proponevano di fare, ovvero essere felici: anche i filosofi avevano cercato la vita felice, ma, senza la rivelazione e la grazia di Cristo, non erano stati in grado di pervenirvi. 1. La prima conciliazione fra filosofia e cristianesimo si è data sul piano: a. dottrinale. b. esegetico. c. pratico. d. linguistico. 2. La progressiva compenetrazione fra filosofia e cristianesimo si è inizialmente realizzata grazie soprattutto: a. alle filosofie ellenistiche. b. all’epicureismo. c. allo scetticismo. d. allo stoicismo. 3. Per i Padri della Chiesa: a. il cristianesimo porta una verità diversa

rispetto a quella della filosofia pagana. b. il cristianesimo realizza più diffusamente la medesima felicità cercata ma non ottenuta dai filosofi pagani. c. i filosofi pagani, dediti alla saggezza pratica, sono cristiani ante litteram. d. la novità del cristianesimo consiste nel perseguire la vita felice.

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3 L’appropriazione cristiana della filosofia Al di là dell’aspetto relativo allo stile di vita e alle pratiche di salvezza, l’incontro/confronto tra cristianesimo e filosofia ha luogo, come detto, anche sul piano dei contenuti.

3.1 Il rapporto con lo stoicismo Dal punto di vista teorico-dottrinale, è proprio l’esigenza polemica di rispondere alle accuse dei filosofi pagani a spingere inizialmente alcuni autori cristiani a muoversi sullo stesso terreno dei loro avversari, e dunque a non rifiutare del tutto una formazione filosofica e ad assimilare alcune dottrine determinate (spesso con l’intento ultimo di confutare, attraverso di esse, altre posizioni filosofiche ritenute più erronee o pericolose). Giustino, autore di due Apologie indirizzate rispettivamente agli imperatori Adriano e Marco Aurelio e di un Dialogo con Trifone, espone due ragioni fondamentali per giustificare lo studio della filosofia, e per riconoscere ad essa una certa legittimità: in primo luogo, tutto il sapere filosofico è in realtà derivato da Mosè e dalle Scritture; in secondo luogo il lògos universale a cui si sono ispirati i migliori filosofi prima della venuta di Cristo non è altro che il Verbo, e dunque Cristo stesso. In un caso come nell’altro, la filosofia può essere (almeno in parte) salvata perché deriva fondamentalmente dalla rivelazione. Clemente Alessandrino (ca. 150-ca. 215) condivide questa stessa fiducia, e aggiunge che, oltre ai due modi citati, la filosofia potrebbe essere stata trasmessa ai pagani dagli angeli, ma sempre all’interno di un disegno provvidenziale, cioè di un piano voluto da Dio stesso. Clemente dà prova di un atteggiamento ancora più ottimistico rispetto a Giustino: se la filosofia è servita per preparare i Greci a ricevere la rivelazione, allora è possibile farne uso anche adesso allo stesso scopo, cioè per prepararsi meglio a ricevere e intendere la rivelazione. Ciò non toglie che egli ritenga che la filosofia pagana rimanga comunque in una posizione subordinata rispetto al cristianesimo: è infatti quest’ultimo a incarnare ora la vera e perfetta filosofia, come dottrina e come stile di vita. Sono soprattutto lo stoicismo e il platonismo a costituire l’orizzonte di riferimento per quegli autori cristiani che decidono di aprirsi alla filosofia pagana. Dello stoicismo, in realtà, interessano solo gli aspetti etico-pratici: l’autosufficienza della virtù per la felicità; l’interpretazione della virtù come disposizione conforme al lògos; il rigore morale; il sentimento di appartenenza cosmica e di fratellanza universale. Alcuni di questi elementi si ritrovano anche in

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Filòne [ 7.3.1] e nel medioplatonismo; perfino il tema dell’autosufficienza della virtù era stato fatto proprio, in chiave antiaristotelica, da un medioplatonico come Attico [ 7.3.4]. Ad ogni modo, le figure di Seneca [ 7.5.2] e ancor più di Epittèto [ 7.5.3] sono generalmente ricordate con rispetto da molti autori cristiani. Al di là degli insegnamenti morali, ci sono poi almeno due elementi strettamente speculativi dello stoicismo che suscitano un certo interesse in ambito cristiano. Uno è la distinzione tra discorso interiore (lògos endiàthetos) e discorso pronunciato o espresso (lògos prophorikòs), utilizzata per esprimere la relazione tra il Padre e il Figlio nella Trinità. L’altro, inaspettatamente, è il materialismo universale, che sembra essere ripreso in Atenàgora (II secolo), e soprattutto in Tertulliano: per quest’ultimo, come per gli stoici, tutto ciò che esiste è un corpo, mentre ciò che è incorporeo non esiste. Dunque, anche Dio dev’essere ritenuto corporeo, benché sia spirito: anche lo spirito è infatti un corpo, sia pure di genere particolare. Se una tesi di questo tipo può apparire sorprendente all’interno del pensiero cristiano, occorre tuttavia considerare il contesto della sua utilizzazione, e cioè l’intento di correggere, attraverso la difesa della corporeità, il dualismo platonico. Secondo Tertulliano, infatti, esso avrebbe potuto facilmente condurre al rigetto assoluto del mondo sensibile e dunque a una forma di gnosticismo [ La gnosi, p. 180]. Inversamente, coloro che ritengono il materialismo un pericolo più grande di quello connesso alla svalutazione del mondo sensibile (e cioè la grande maggioranza dei cristiani) fanno appello ai platonici per confutare risolutamente gli stoici. 1. L’accettazione della filosofia da parte di Giustino si giustifica in base al fatto che: a. la filosofia prepara gli uomini ad intendere meglio la rivelazione. b. la filosofia rientra in un piano provvidenziale. c. la filosofia ha attinto il suo sapere dal lògos universale coincidente con il Verbo divino. d. la filosofia coincide con lo stile di vita cristiano. 2. Lo stoicismo costituisce la filosofia a cui guardano gli autori cristiani per: a. il tema della derivazione della filosofia

pagana dalla rivelazione. b. gli aspetti etico-pratici. c. l’idea del materialismo universale. d. il tema dell’ineffabilità di Dio.

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3.2 Il rapporto con il medioplatonismo e il neoplatonismo È così soprattutto alla tradizione platonica che gli autori cristiani (a partire da Giustino e Clemente Alessandrino) guardano per ricavare elementi da utilizzare ai fini delle proprie riflessioni teologiche. Molti di questi elementi derivano dalla struttura di fondo del medioplatonismo; la caratterizzazione di Dio, per esempio, corrisponde in linea di massima al primo intelletto divino dei medioplatonici [ 7.3.4], su cui cominciano gradualmente a innestarsi alcuni tratti dell’Uno neoplatonico: Dio è inconoscibile e ineffabile, e se ne può parlare soltanto attraverso le negazioni. Per altro, l’inizio del Vangelo di Giovanni («In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo», dove Verbo rende il greco lògos) si prestava a essere interpretato o alla luce della distinzione medioplatonica tra un primo e un secondo intelletto, o alla luce di quella plotiniana tra l’Uno e il nùs. Comincia così gradualmente a imporsi l’idea di interpretare la Trinità sulla base delle articolazioni del mondo intelligibile già ammesse dai medioplatonici, e ancor più (successivamente) delle tre ipostasi plotiniane e neoplatoniche. Per esempio, Clemente Alessandrino distingue tre livelli del lògos: 1. la mente di Dio che comprende in sé le idee; 2. il lògos che procede come ipostasi distinta (ovvero come totalità del mondo intelligibile) e produce il mondo; 3. il lògos immanente alla creazione, ovvero l’anima del mondo platonica. In questa operazione di sovrapposizione, qualche aggiustamento si rende necessario: la produzione del mondo sensibile viene attribuita alla seconda ipostasi (piuttosto che, come nella tradizione platonica, all’anima), e si cerca di attenuare la distanza gerarchica tra l’Uno (o il primo intelletto medioplatonico) e le ipostasi successive, per non introdurre alcuna vera gerarchia all’interno delle Trinità (conclusione che risulterebbe eretica). 1. Le tradizioni medioplatonica e neoplatonica sono richiamate dagli autori cristiani per esplicitare: a. gli aspetti morali del cristianesimo. b. la natura di Dio. c. la svalutazione del mondo sensibile. d. il tema della Trinità.

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3.3 La dottrina dell’apocatàstasi: Origene di Alessandria Una tesi largamente condivisa, mutuata tanto dal medioplatonismo (e Filòne) quanto dal neoplatonismo, è che la creazione intelligibile preceda quella sensibile. Questa dottrina si ritrova in Origène (nato ad Alessandria intorno al 185, morto presumibilmente nel 253, forse in seguito alle torture subite durante una persecuzione), il più importante neoplatonico cristiano di lingua greca. Non è chiaro se Origène sia stato allievo di Ammonio Sacca, il maestro di Plotino ad Alessandria: in effetti, nella Vita di Plotino, Porfirio allude, tra i condiscepoli di Plotino, a un Origène che è stato a lungo identificato con il pensatore cristiano. Tuttavia, alcuni elementi cronologici rendono poco plausibile questa eventualità e inducono a pensare a un caso di omonimia tra un Origène neoplatonico cristiano e un Origène neoplatonico pagano. Il fatto che esistano due figure dallo stesso nome non esclude per altro che l’Origène che qui più ci interessa – quello cristiano – abbia comunque potuto frequentare ad Alessandria le lezioni di Ammonio in un’epoca diversa (e cioè, prima di Plotino), come testimonia la sua profonda conoscenza della filosofia e in particolare del medioplatonismo. Origène fu autore di uno scritto Contra Celso (Celso era stato a sua volta autore di un trattato anticristiano, di cui ci occuperemo poco oltre) e di un trattato Sui princìpi, che ci è giunto soltanto nella versione latina, piuttosto intricata e forse non del tutto fedele, di Rufino (De principiis). Riprendendo e rielaborando la tesi dell’anteriorità della creazione intelligibile su quella sensibile, Origène si spinge a ipotizzare che la prima creazione abbia riguardato solo sostanze intelligenti e dotate di libertà. Proprio in quanto libere, alcune di esse sarebbero decadute dal loro stato puramente intelligibile, acquisendo un corpo e dando così origine al mondo sensibile. Più precisamente: ogni essere razionale fu creato da Dio libero e dotato della capacità di progredire o regredire; la scelta che ciascuno ha fatto di sé nell’esistenza puramente intelligibile determina la condizione nell’esistenza attuale. Le anime, dunque, sono cadute o discese nei corpi per effetto di una loro decisione, il che significa che il male non proviene né da Dio né dalla materia, ma esclusivamente dall’uso del libero arbitrio da parte delle creature razionali.

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Altri elementi degni di nota del pensiero origeniano sono l’idea che la resurrezione non riguardi il corpo in quanto tale (fisico), ma solo la forma che ne è il principio, e la dottrina della cosiddetta apocatàstasi, ovvero della redenzione di tutte le creature con il ritorno e il compiuto riassorbimento del mondo sensibile in quello intelligibile – una concezione in cui si fondono il tema stoico della conflagrazione finale e quello neoplatonico del “ritorno” (epistrophè). Non sorprende, alla luce di questi presupposti, che il pensiero di Origène sia stato guardato con sospetto da parte dell’ortodossia cristiana (anche per quel che riguarda l’interpretazione puramente metaforica dell’inferno), fino all’esplicita condanna nel concilio di Costantinopoli del 553. 1. La tesi secondo cui la creazione intelligibile precede quella sensibile si ritrova in: a. Tertulliano. b. Origène. c. Giustino. d. Clemente Alessandrino.

3.4 I Padri cappadoci: Gregorio di Nazanzio, Basilio il Grande, Gregorio di Nissa La condanna subita non impedì a Origène di esercitare una profonda influenza sulla tradizione successiva, e in particolare sui cosiddetti Padri cappadòci (Gregorio di N azanzio, Basilio il Grande, Gregorio di N issa), le figure di maggior rilievo nella teologia orientale del IV secolo (la denominazione deriva dalla Cappadòcia, regione dell’Anatolia centrale, nell’attuale Turchia). Gregorio di Nazanzio (Nenizi, nell’attuale Turchia; ca. 330-ca. 390) è l’autore di una raccolta di 45 Discorsi, di cui cinque più strettamente teologici rivolti contro l’ariano Eunomio, che faceva ampio ricorso alla filosofia (in particolare, alla logica) per mostrare l’impossibilità della generazione eterna del Figlio dal Padre nella Trinità (l’eresia ariana ritiene in effetti il Figlio inferiore e non coeterno al Padre). In questo contesto, Gregorio difende la semplicità della fede contro la pretesa della filosofia di voler spiegare tutto: in definitiva, non bisogna concedere alla razionalità più di quanto le sia dovuto («questi sono i guadagni di coloro che combattono in difesa del lògos più di quanto piaccia al lògos: essi sono nelle stesse condizioni dei pazzi, che di-

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struggono con il fuoco le proprie case» [Discorsi, 27, 6]). Gli stessi filosofi – osserva Gregorio – insegnano che Dio è ineffabile e incomprensibile: occorre allora restare fedeli a questo monito, e limitarci a credere ciò che Dio dice di sé. A partire dall’ordinamento razionale del mondo, infatti, possiamo riconoscere che Dio esiste, ma non possiamo sapere cosa sia – o meglio, potremo saperlo solo quando saremo uniti a Dio, secondo l’ideale neoplatonico della “unificazione” (hènosis): «questo mi sembra essere l’oggetto principale della nostra riflessione filosofica: un giorno noi conosceremo nella misura in cui siamo conosciuti» [Discorsi, 28, 10]. A Basilio il Grande (nato a Cesarèa, città di cui divenne anche vescovo – ca. 330-379) si deve la formulazione della concezione della Trinità come unica essenza (usìa, ovvero l’insieme delle proprietà comuni) in tre persone (hypostàseis; si tratta dello stesso termine adoperato dai neoplatonici per indicare i tre livelli principali del cosmo intelligibile). Questa formulazione sarà poi ufficialmente imposta come ortodossa da Gregorio di Nazanzio nel concilio di Costantinopoli del 381. Basilio fu autore di un Discorso ai giovani sul modo di trarre profitto dalle lettere greche, poi tradotto in latino in età umanistica da Leonardo Bruni, che lo interpretò come una sorta di invito a utilizzare la letteratura pagana in ambito cristiano: in realtà, Basilio subordinava di fatto l’uso della filosofia (e anzi solo di una certa filosofia – platonismo e stoicismo) a ciò che poteva essere funzionale all’accettazione dei misteri della rivelazione. Tra le opere di Basilio figura anche una raccolta di Omelie sui sei giorni della creazione, che permette di istituire un primo confronto tra la nuova cosmologia cristiana e la cosmologia greca. Lo scarto principale è dato dalla dottrina della creazione dal nulla: il mondo non ha avuto inizio da una materia coeterna a Dio perché quest’ultimo non ha bisogno, come gli uomini, di fabbricare le cose a partire da una materia preesistente. Se tutto il mondo, senza residui, è creato da Dio, non c’è spazio in esso per il male (fisico, sostanziale), che non ha quindi alcuna sussistenza ontologica: l’unico male presente nell’Universo è quello (morale) prodotto dall’uomo. Sul male come privazione insiste anche il fratello minore di Basilio, Gregorio di Nissa (nato anch’egli a Cesarèa tra il 332 e il 335, e morto dopo il 394):



Il male, anche se sembra assurdo dirlo, possiede il suo essere nel non-essere, perché l’origine del male non è altro che la privazione dell’essere. Ora, la natura del bene consiste in quello che realmente è, perché quello che non è nell’essere è senza dubbio nel non-essere. [L’anima e la resurrezione, c. 45]



Autore di un trattato Sulla formazione dell’uomo, Gregorio di Nissa sembra particolarmente interessato agli aspetti antropologici. Anch’egli riprende il tema della doppia creazione (intelligibile e sensibile) dell’uomo, ipotizzando che prima della caduta non fosse presente neppure la differenza dei sessi. Ma anche dopo la caduta l’uomo rimane nella sua essenza pur sempre immagine di Dio, e può (e deve) pertanto risalire verso la sua origine (e verso la sua vera natura) attraverso un percorso graduale, che comprende la purificazione (battesimo), l’annullamento delle passioni (ascesi) e infine la tensione verso l’unione con Dio: tensione infinita – e questo è l’aspetto forse più innovativo – perché infinita è la natura divina. 1. L’idea della Trinità come unica essenza in tre persone: a. è di derivazione stoica. b. è avanzata da Gregorio di Nissa. c. è formulata per la prima volta da Gregorio di Nazanzio. d. appartiene a Basilio il Grande.

4 Il neoplatonismo cristiano latino: Calcidio e Mario Vittorino Per quel che riguarda l’ambito del neoplatonismo cristiano latino, ci limiteremo a considerare le due figure più rilevanti dal punto di vista filosofico – quelle di Calcidio e Mario Vittorino – lasciando da parte sia la letteratura apologetica sia le discussioni strettamente teologiche. Di Calcidio non si conosce in realtà assolutamente nulla, neppure la collocazione cronologica: probabilmente, fu attivo intorno alla metà del IV secolo (o, secondo alcuni, alla fine del IV secolo). Gli si può però attribuire il merito fondamentale di aver tradotto in latino una parte del Timeo. Si tratta di un dato particolarmente importante: dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente (nel 476), infatti, quando in pratica nes-

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suno nel mondo latino sarà più in grado di leggere il greco (con rare eccezioni), la porzione del Timeo tradotta da Calcidio rimarrà ancora per molti secoli l’unico testo platonico accessibile direttamente. Tutto il mondo latino nel Medioevo ha di fatto ignorato Platone, all’infuori di questa sola versione. Calcidio accompagnò alla traduzione anche un commento, ispirato probabilmente allo stoico Posidònio [ 6.10] o, anche, al Commento alla Genesi di Origène. Calcidio sembra ammettere tre princìpi: dio, l’idea, e la materia (la h`yle, il caos primordiale descritto appunto da Platone nel Timeo). La struttura del mondo intelligibile delineata da Calcidio richiama una tripartizione ancora più medioplatonica che neoplatonica. Al vertice si colloca un dio supremo, assolutamente trascendente, ma già intelligente e intelligibile, e aristotelicamente oggetto di amore e desiderio universale. Seguono quindi le idee che, secondo il classico schema medioplatonico, sono prodotti del primo dio (sono pensieri divini) e costituiscono nel loro insieme un intelletto. Tale intelletto (chiamato anche provvidenza) contempla il primo dio e conferisce a ciò che segue la sua perfezione: da esso dipende il fato, la legge divina che regge il mondo. Al terzo livello si colloca un secondo intelletto, ovvero l’anima del mondo che organizza e vivifica dall’interno il corpo dell’Universo. Calcidio introduce tuttavia anche altre entità intermedie, sempre al servizio del primo intelletto, e cioè la natura, la fortuna, il caso e i dèmoni. In questa struttura, non è perfettamente chiaro il rapporto tra il primo dio e il secondo, che potrebbe essere interpretato o come nùs a sé o come disposizione provvidenziale già immanente all’Universo. D’altra parte, occorre secondo Calcidio distinguere tra le idee in sé e le forme immanenti alle cose, derivate dalle prime, che organizzano la materia dall’interno. Ma ciò che più colpisce, in questo caso, è la sostanziale assenza di elementi strettamente cristiani. Diverso è il caso di Mario Vittorino. Nato in Africa intorno al 300, fu un celebrato professore di retorica a Roma fino alla decisione di convertirsi al cristianesimo intorno alla metà del secolo – un evento che suscitò grande scalpore sia per l’importanza del personaggio, sia perché forse egli stesso si era in precedenza impegnato nella polemica anticristiana. Della sua vasta produzione, che comprendeva opere di grammatica, retorica, dialettica, teologia ed esegesi, si sono con-

servati alcuni commenti alle lettere paoline (i primi in latino), uno scambio di epistole con l’ariano Candido Sulla generazione del Verbo e un trattato Contro Ario. Tradusse anche in latino alcuni testi neoplatonici, anche se è difficile stabilire con esattezza quali: forse le Enneadi plotiniane (o parte di esse) e alcuni scritti porfiriani. È soprattutto il confronto con l’ariano Candido a risultare particolarmente interessante per le sue implicazioni ontologiche. A sostegno delle proprie tesi, Candido aveva utilizzato un argomento di questo tipo: Dio è essere pieno; tutto ciò che è essere pieno, è immutabile, e quindi né genera né può essere generato; dunque una generazione nell’ambito di Dio (della Trinità) è impossibile. La risposta di Vittorino fa appello, almeno implicitamente, a Plotino; Dio non è propriamente essere, poiché è l’Uno al di là dell’essere:



Prima di tutte le cose che sono pienamente vi fu l’Uno, unità o uno in sé, Uno prima di possedere l’essere. Bisogna, infatti, dire e intendere quell’Uno che non possiede nessuna idea di alterità, l’Uno che è solo, l’Uno semplice, l’Uno che ci concede di chiamarlo così, l’Uno anteriore ad ogni esistenza, ad ogni esistenza in sé e soprattutto ad ogni cosa inferiore, anteriore all’essere stesso; quest’Uno, infatti, è anteriore all’essere; quindi è anteriore ad ogni essenza in sé, sostanza, sussistenza e anche a tutte le realtà più potenti; è Uno senza esistenza, senza sostanza, senza intelligenza (infatti è al di sopra di tutto questo. [Mario Vittorino, Contro Ario, Libro primo, parte seconda, 49; corsivi nostri]



Anche la scelta di collocare l’Uno al di sopra del pensiero (dell’intelligenza) è chiaramente plotiniana, e segna un’evidente rottura con il medioplatonismo. Poiché l’essere di cui si parla è l’essere intelligibile, l’Uno non può essere né oggetto né soggetto di pensiero. Ora, se il livello dell’essere intelligibile è rappresentato in Plotino dal nùs, per il cristiano Vittorino è il Verbo, Cristo. La generazione del Verbo è dunque possibile perché non è un cambiamento interno all’essere immutabile, ma produzione dell’essere a partire dal non-essere, ovvero da ciò che è anteriore all’essere, e tuttavia, come causa, lo precontiene. Dio è dunque non-essere rispetto a tutto ciò che segue da Lui, ma è comunque essere in quanto è causa della generazione dell’essere:

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Ebbene, che cosa diremo che Dio sia? L’esistente o il non esistente? Certamente lo chiameremo ‘l’esistente’, perché è il padre di tutte le cose che sono. Ma il padre di tutte le cose che sono non è l’esistente, perché le cose delle quali egli è il padre non sono ancora, e non è lecito affermare ed è empio pensare poter chiamare ‘esistente’ la causa delle cose che sono. Infatti la causa viene prima delle cose delle quali è causa. Di conseguenza Dio è al di sopra dell’esistente e, siccome è al di sopra, Dio è detto ‘non esistente’, non per privazione di tutto quello che è, ma perché è un esistente diverso, e cioè il non esistente in rapporto alle cose che dovranno esistere, mentre in rapporto al fatto che è la causa, in funzione delle cose che sono, è l’esistente. [Mario Vittorino, Epistola a Candido, 4; ‘esistente’ e ‘non esistente’ stanno qui per ‘essere’ e ‘non essere’: pur scrivendo in latino, Vittorino usa in effetti a questo proposito le espressioni tò òn e mè òn]



Questo strano paradosso, per cui Dio al tempo stesso è non-essere e essere, nasce dal grande problema dei neoplatonici di tenere assieme, in riferimento all’Uno, le esigenze contrapposte della trascendenza e dalla causalità [ 8.7]. Per salvaguardare la trascendenza, si deve dire che Dio non è; ma se si vuole mantenere anche che l’Uno o Dio è causa di ciò che segue (dell’essere) bisogna pure dirne qualcosa, e così lo si fa rientrare, come causa, nell’ambito dell’essere. Ciò che costituisce una difficoltà in più per i neoplatonici cristiani rispetto a quelli pagani, è che la seconda persona della Trinità non è un’ipostasi distinta e inferiore, ma è Dio al pari della prima persona. Se dunque risulta più facile comprendere come l’Uno possa essere al di sopra dell’essere e causa di questo, diventa assai più difficile – nel neoplatonismo cristiano – comprendere come la stessa e identica essenza divina possa presentarsi come non-essere e essere.

5 La reazione filosofica anticristiana Uno dei documenti più rappresentativi della reazione dei filosofi nei confronti delle tesi cristiane è rappresentato dal Discorso vero o Discorso di verità del medioplatonico Celso, composto intorno

al 180. Da una parte Celso denuncia le contraddizioni tra l’Antico e il Nuovo Testamento, rimarcando tra l’altro che il Dio dell’Antico Testamento si macchia esattamente della stesse cose che i cristiani rimproveravano agli dèi pagani; dall’altra sottolinea gli elementi a suo dire irrazionali del cristianesimo: l’idea della creazione dal nulla; la redenzione attraverso l’Incarnazione; la resurrezione dei corpi; il giudizio finale. Ma Celso sembra preoccupato anche delle conseguenze sociali dell’avanzata del cristianesimo, che rischia di travolgere le strutture della società imperiale, a partire dalla famiglia. L’accusa di irrazionalismo si ritrova in molti altri filosofi e scienziati: un buon esempio è Galèno [ 7.6.2], che mal sopporta l’idea di un dio che viola le leggi del mondo fisico, mentre sembra più ben disposto nei confronti dell’etica cristiana, ovvero del cristianesimo come pratica di vita. Plotino non ha scritto trattati esplicitamente rivolti contro i cristiani, ma è molto probabile che considerasse il cristianesimo una delle tante varianti della gnosi (anche perché sappiamo che le sue lezioni furono effettivamente frequentate da gnostici cristiani) da lui duramente contestata. Porfirio, al contrario, scrisse tra il 270 e il 300 un trattato Contro i cristiani, che però è andato perduto, forse anche in seguito a un provvedimento ufficiale di distruzione. Ci rimangono poco meno di cinquanta frammenti certi, desunti in gran parte dalle citazioni di avversari cristiani, anche se alcuni ritengono che tali frammenti possano anche derivare da un altro scritto, la Filosofia degli oracoli. Porfirio sembra propenso a considerare Cristo come uno degli eroi della tradizione pagana, senza riconoscergli una natura divina. Altre obiezioni, per come possiamo ricostruirle, riguardano l’Incarnazione e la resurrezione. Può infine essere considerata parte della reazione neoplatonica al cristianesimo, per certi versi, anche la vasta campagna di restaurazione del paganesimo avviata dall’imperatore Giuliano (poi chiamato l’Apostata), nipote di Costantino. In effetti, prima di diventare imperatore, Giuliano aveva studiato filosofia a Pergamo, Èfeso e anche ad Atene, con il neoplatonico Prisco. Lasciando da parte i complessi fattori politico-sociali del tentativo di Giuliano, si deve tuttavia osservare che la sua reazione non può più essere

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autoverifica

caratterizzata come una difesa delle istanze della ragione contro ciò che era stato considerato una pericolosa deriva irrazionalistica: il neoplatonismo difeso da Giuliano è già a sua volta intriso di componenti religiose e teurgiche (per teurgia s’intende un insieme di pratiche volte a guadagnarsi il favore degli dèi, o a evocarne la presenza durante i riti). La competizione tra neoplatonismo e cristianesimo si spostava così più direttamente sul terreno dei riti e delle pratiche di salvezza. Nel suo breve periodo a guida dell’Impero, Giuliano emanò nel 363 un decreto che vietava ai cristiani di poter insegnare le loro dottrine. La proibizione fu tuttavia di breve durata, perché nello stesso anno Giuliano morì in una campagna contro i Persiani (evento festeggiato come provvidenziale da Gregorio di Nazanzio, che pure era stato per un certo periodo compagno di studi del futuro imperatore) e il suo successore Gioviano provvide immediatamente ad abrogare tutti i decreti anticristiani del predecessore. 1. La reazione filosofica anticristiana si concretizzò: a. nella preoccupazione per le conseguenze

sociali del cristianesimo. b. nell’elaborazione di un concetto paradossale di Dio visto contemporaneamente come non-essere ed essere. c. nell’accusa di irrazionalismo rivolta al cristianesimo. d. nel tentativo di restaurazione del paganesimo avviata dall’imperatore Giuliano.

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6 Un platonismo “rivelato”: Oracoli caldaici e Corpus hermeticum Mentre alcuni filosofi medioplatonici e soprattutto neoplatonici si impegnano in una polemica contro una religione che sembra far appello alla rivelazione più che alla ragione, nell’ambito dello stesso platonismo cominciano a diffondersi, a partire dal II secolo d.C., alcuni scritti che fanno anch’essi riferimento a una rivelazione (di tipo pagano). Una di queste opere è rappresentata dagli Oracoli caldaici, confezionati nella seconda metà del II secolo d.C. e definiti una specie di

“platonismo del proletariato”. Essi furono composti o da Giuliano il Caldeo, o da suo figlio Giuliano il Teurgo (“mago” collegato in qualche modo alla corte di Marco Aurelio), o forse dall’uno e l’altro insieme. Gli Oracoli si presentano come responsi degli dèi che vengono riferiti o da spiriti catturati in oggetti magici o da un medium, e che riguardano principalmente i rituali da compiere per assicurarsi felicità e salvezza, inframmezzati da qualche dottrina medioplatonica o neopitagorica. Quanto al Corpus hermeticum, si tratta di scritti che fingono di contenere la rivelazione fatta dal nùs supremo al dio egizio Theut (Hermes) e da questi ritrasmessa a personaggi diversi. Anche in questo caso, l’impianto è decisamente medioplatonico (con la distinzione per esempio tra nùs e demiurgo), sia pure con molte commistioni gnostiche. Ciò che della gnosi viene rifiutato è comunque il dualismo, che produce un’eccessiva svalutazione del mondo sensibile. L’Asclepius, per esempio, il trattato che apre la raccolta – e che è stato a lungo attribuito allo scrittore-filosofo Apuleio, senza evidenze oggettive –, difende senza esitazioni la positività, la bellezza, l’orientamento teleologico dell’Universo. Il Corpus hermeticum potrebbe dunque rappresentare il tentativo di divulgare e rendere più facilmente accessibili alcuni contenuti (come quelli medioplatonici) piuttosto tecnici e ostici, presentandoli per di più come rivelazione di qualche divinità. A una esigenza simile, sia pure in una veste letteraria e concettuale di ben più notevole spessore, rispondeva pure il romanzo – autentico capolavoro del genere nel mondo romano, e forse in quello antico in generale – L’asino d’oro di Apuleio (autore per altro anche di trattati più strettamente filosofici, di chiara impostazione medioplatonica: Sul dio di Socrate, Intorno a Platone e alla sua dottrina, Sul cosmo). Un documento esemplificativo di un clima in cui i confini tra pratica filosofica, pratica religiosa e pseudo-sapere magico tendono a farsi sempre più labili è l’opuscolo Sulla magia dello stesso Apuleio, ovvero la sua apologia dopo essere stato accusato di magia per essere riuscito a sposare una ricca vedova. Ma tra i capi d’accusa che gli vengono mossi figurano anche quello di usare il dentifricio e soprattutto quello di essere un philosophus formosus – un filosofo di bell’aspetto – una dote evidentemente incompatibile con l’immagine tradizionale del filosofo.

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parte II L’età tardo-antica: gli inizi del pensiero cristiano e l’ultimo neoplatonismo Atene e Gerusalemme: l’opposizione tra filosofia e cristianesimo. I primi contatti tra la filosofia e il cristianesimo furono segnati della reciproca diffidenza e incomprensione: da una parte, i filosofi pagani trovavano irrazionali i punti cruciali della nuova fede; dall’altra, la letteratura apologetica accusava la filosofia pagana di ostacolare il cammino della nuova Chiesa. Per rimarcare la distanza dalla filosofia, Tertulliano, contrappone ad Atene (il mondo greco, e dunque la filosofia) Gerusalemme (il mondo giudaico-cristiano, fondato sulla rivelazione e sulle Sacre Scritture). Con la conversione di Costantino e i decreti di Teodosio del 391-392, i rapporti di forza tra cultura pagana e cristianesimo si ribaltarono e si registrarono vere e proprie forme di intolleranza e di censura nei confronti della filosofia. Nel contempo cominciò a delinearsi un processo di assimilazione, da parte dei Padri cristiani, dello stoicismo e del neoplatonismo. La vita cristiana come vera “filosofia”. Il confronto sul piano delle scelte di vita ha favorito l’avvicinamento tra filosofia e cristianesimo: infatti, il cristianesimo non si è presentato solo come un complesso dottrinale, ma soprattutto come una pratica o un modo di vita, come una “saggezza vissuta”. Il termine “filosofia” è passato a designare nel mondo bizantino, e poi in quello latino, il modello di vita del monaco cristiano, in analogia con i filosofi stoici. Molte delle massime morali dei Padri della Chiesa ricalcano spesso quelle dei fi-

losofi ellenistici. La vera novità del cristianesimo è, agli occhi dei Padri della Chiesa, quella di riuscire a realizzare effettivamente ciò che i filosofi pagani si proponevano: i filosofi cercavano la vita felice, ma, privi della rivelazione e della grazia di Cristo, non erano riusciti a procurarsela. L’appropriazione cristiana della filosofia. L’esigenza di rispondere alle accuse dei filosofi pagani spinge alcuni autori cristiani ad assimilare diverse dottrine con l’intento di confutare le posizioni filosofiche più erronee o pericolose. Secondo Giustino la filosofia può essere in parte salvata, perché deriva fondamentalmente dalla rivelazione. Per Clemente Alessandrino (ca. 150-ca. 215) è possibile fare uso della filosofia per prepararsi meglio a ricevere e intendere la rivelazione, ma sempre in una posizione subordinata rispetto al cristianesimo. Lo stoicismo e il platonismo costituiscono l’orizzonte di riferimento per gli autori cristiani che si aprono alla filosofia pagana. Dello stoicismo interessano solo gli insegnamenti morali e il materialismo universale, ripreso da Tertulliano con l’intento di correggere il dualismo platonico. Alla tradizione medioplatonica e neoplatonica gli autori cristiani guardano per le proprie riflessioni teologiche. La caratterizzazione di Dio corrisponde al primo intelletto divino dei medioplatonici, o all’Uno neoplatonico, inconoscibile e ineffabile. La Trinità viene interpretata utilizzando la dottrina delle tre ipostasi plotiniane. Di ispirazione stoico-neoplatonica è la dottrina dell’apocatàstasi,

di Origène secondo cui la redenzione coincide con il compiuto riassorbimento del mondo sensibile in quello intelligibile. Anche i Padri cappàdoci (Gregorio di Nazanzio, Basilio il Grande, Gregorio di Nissa), esponenti di maggior rilievo nella teologia orientale del IV secolo, subordinano l’uso della filosofia (platonismo e stoicismo) all’accettazione dei misteri della rivelazione. Il neoplatonismo cristiano latino: Calcidio e Mario Vittorino. Le figure più rappresentative del neoplatonismo cristiano latino furono Calcidio e Mario Vittorino. Calcidio ebbe il merito di tradurre in latino parte del Timeo; Mario Vittorino affermò che Dio al tempo stesso è non-essere e essere per giustificare il dogma della Trinità. La reazione filosofica anticristiana. Accanto all’accusa di irrazionalismo (Celso, Galèno), la competizione tra neoplatonismo e cristianesimo si consumò sul terreno dei riti e delle pratiche di salvezza. Un platonismo “rivelato”: Oracoli caldaici e Corpus hermeticum. N el platonismo del II secolo d.C., comparvero alcuni scritti che facevano riferimento a una rivelazione (di tipo pagano): gli Oracoli caldaici e il Corpus hermeticum. Quest’ultimo rappresenta il tentativo di divulgare e rendere più accessibili contenuti piuttosto tecnici e ostici, presentandoli come rivelazione di qualche divinità. A una esigenza simile risponde pure il romanzo L’asino d’oro di Apuleio.

BIBLIOGRAFIA Fonti

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Tertulliano, Contro gli eretici, a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 2002. Tertulliano, Apologetico, in Tertulliano, Opere apologetiche, vol. I, a cura di C. Moreschini e P. Podolak, Città Nuova, Roma 2006. Tertulliano, La resurrezione della carne, a cura di P. Podolak, Morcelliana, Brescia 2004. Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, a cura di I. Ramelli,

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testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2007. Mario Vittorino, Opere teologiche, a cura di Claudio Moreschini, con la collaborazione di C.O. Tommasi, Utet, Torino 2007.

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Opere Le edizioni dei testi dei Padri greci e latini sono reperibili in collezioni quali la Patrologia graeca e la Patrologia latina, a cura di J.-P. Migne, il Corpus

Christianorum, Series Graeca e Series Latina (Brepols, Turnhout), il CSEL (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum), e Sources Chrétiennes, Les Editions du Cerf, Paris. Tra le traduzioni italiane segnaliamo (oltre a quelle già citate nella sezione “Fonti”): Giustino, Dialogo con Trifone, a cura di G. Visonà, Paoline Editoriale Libri, Cinisello Balsamo 1988; • Giustino, Apologie, a cura di G. Girgenti, Rusconi, Milano 1995;

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Filosofia e cristianesimo capitolo 9 • Clemente Alessandrino, Gli stromati. Note di vera filosofia, a cura di M. Rizzi, trad. di G. Pini, Paoline Editoriale Libri, Cinisello Balsamo 2006; Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, a cura di M. Paparozzi, Città Nuova, Roma 1993; Atanasio, Vita di Antonio, Paoline Editoriale Libri, Cinisello Balsamo 2007; Origene, I princìpi, a cura di M. Simonetti, Utet, Torino 1968 e successive ristampe; Origene, Contro Celso, a cura di P. Ressa, Morcelliana, Brescia 2000 (un’edizione italiana delle Opere complete di Origene è in corso per Città Nuova, Roma); Gregorio di Nazanzio, Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, trad. di C. Sani e M. Vincelli, Bompiani, Milano 2000; Basilio, Apologia. Contro Eunomio, a cura di A. Negro e D. Ciarlo, Città Nuova, Roma 2007; Gregorio di Nissa, Teologia trinitaria, a cura di C. Moreschini, Rusconi, Milano 1994;

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ESERCIZI

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• Calcidio, Commentario al Timeo di Platone, testo latino a fronte, a cura di C. Moreschini, Bompiani, Milano 2003; • Oracoli caldaici, a cura di A. Tonelli, Rizzoli, Milano 1995. • Corpus hermeticum, con testo greco, latino e copto, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2005.

Studi critici Sulla filosofia dei Padri della Chiesa si veda il classico, ma ancora valido: • H.A. Wolfson, La filosofia dei Padri della Chiesa. I. Spirito, Trinità, Incarnazione, Paideia, Brescia 1978; e più recentemente: • C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Morcelliana, Brescia 2004. Allo stesso Moreschini si deve ora una presentazione unitaria dei Padri cappadoci (tra cui Gregorio di Nazanzio, Basilio il Grande, Gregorio di Nissa): • C. Moreschini, I Padri cappadoci. Storia, letteratura, teologia, Città Nuova, Roma 2008.

Sull’influsso del platonismo sulla nascente tradizione cristiana cfr.: • W. Beierwaltes, Platonismo nel cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2000. Le tensioni e i punti di contatto tra neoplatonismo pagano e neoplatonismo cristiano sono analizzati nel volume collettivo: • Neoplatonismo pagano vs neoplatonismo cristiano. Identità e intersezioni, a cura di M. Di Pasquale Barbanti e C. Martello, Cuecm, Catania 2006. Sul caso specifico di Mario Vittorino si veda invece soprattutto: • P. Hadot, Porfirio e Vittorino, Vita e pensiero, Milano 1993; nonché la recente traduzione delle opere teologiche curata ancora da Moreschini: • Mario Vittorino, Opere teologiche, a cura di C. Moreschini con la collaborazione di C.O. Tommasi, Utet, Torino 2007.

1. Che cosa ha ostacolato, sino alla conversione di Costantino, la pacifica integrazione fra filosofia e cristianesimo? (max 10 righe)

9. Con quale argomentazione Mario Vittorino confuta la tesi dell’ariano Candido sulla Trinità? A quale autore egli si ispira nella sua risposta? (max 10 righe)

2. Che cosa ha reso possibile l’assimilazione, da parte dei Padri cristiani, di alcune dottrine filosofiche? Di quali si tratta? (max 10 righe)

10. Associa ad ogni autore i temi di cui si è occupato. a. Dio come ciò che è al di là dell’essere 1. Calcidio b. la tripartizione del mondo in Dio, idee, materia c. la presenza nel mondo 2. Mario Vittorino del caso e dei dèmoni d. l’essere intelligibile coincide con Dio

3. Perché, secondo i Padri della Chiesa, alcuni filosofi pagani potrebbero essere considerati dei cristiani ante litteram? (max 5 righe) 4. Perché Giustino e Clemente giustificano lo studio della filosofia? (max 8 righe) 5. Che cosa ha reso possibile l’apertura cristiana alla filosofia? (max 5 righe)

11. Quali aspetti del cristianesimo furono oggetto di critica da parte dei filosofi medioplatonici e neoplatonici? (max 10 righe)

6. Di quali dottrine filosofiche si è nutrita la teologia cristiana delle origini? (max 10 righe)

12. A quale esigenza rispondono gli Oracoli caldaici e il Corpus hermeticum? (max 8 righe)

7. Riassumi le dottrine fondamentali di Origène (max 10 righe).

13. Descrivi in un breve testo come si è passati, nell’ambito del cristianesimo delle origini (I-IV secolo d.C.), dall’iniziale diffidenza e avversione alla progressiva assimilazione della filosofia? Quali dottrine filosofiche hanno reso possibile questa integrazione? (max 15 righe)

8.Chi sono i Padri cappadoci e come interpretano il rapporto tra filosofia pagana e teologia cristiana? (max 10 righe)

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Agostino d’Ippona

1 Un teologo africano fondatore della teologia della grazia Dal periodo ellenistico alla Tarda Antichità (ovvero dal III secolo a.C. agli inizi del V secolo d.C.) il Mediterraneo rappresentò uno spazio molto più omogeneo e unitario di quanto lo sia oggi. Molti dei filosofi che abbiamo considerato nei capitoli precedenti erano greci di lingua, ma mediorientali o nordafricani di origine, e nativi del Medio Oriente o dell’Africa settentrionale furono anche diversi imperatori romani del periodo. Questo dato di fatto ci ricorda non solo che i Romani (eredi in questo della cultura ellenistica) non coltivarono mai nessun ideale di purezza etnica, ma soprattutto che si sarebbe in errore nel ritenere Roma o l’Italia come l’unica parte vitale (o la più vitale) dell’Impero. Al contrario, nei primi secoli dopo Cristo, le province africane e mediorientali conobbero un grado di sviluppo economico e culturale decisamente superiore a quello di gran parte dei territori europei. Agostino – che non è solo africano di origine, ma trascorre in Africa quasi tutta la sua vita (ad eccezione di soli cinque anni di permanenza in Italia) – ce ne offre una piccola

riprova quando, durante appunto il suo soggiorno in Italia, si lamenta dell’impossibilità di poter continuare a leggere e a lavorare anche di notte, per la scarsezza di olio da utilizzare nelle lampade – una difficoltà che non aveva mai incontrato in Africa. Di questa sua collocazione occorre tener conto per comprendere in concreto l’ambiente sociale e culturale con cui Agostino si trovò a dover fare i conti, specie nelle controversie che scandirono la sua biografia intellettuale. Tuttavia, proprio l’abolizione dei confini culturali che prima l’ellenismo e poi l’Impero e la diffusione del cristianesimo riuscirono a realizzare, consentirà ad Agostino di avere un’eco immensa, tanto da farne uno degli autori più letti e influenti nell’intera storia del pensiero occidentale. Inevitabilmente, gli autori che s’impongono come punti di riferimento per un’intera tradizione sono anche quelli che danno maggiormente adito a interpretazioni diverse e a possibili fraintendimenti. Così è stato anche per Agostino soprattutto a partire dal XVI secolo, quando la sua dottrina della grazia [ La grazia] fu interpretata in modi assai diversi dai cattolici fedeli alla Chiesa romana e dai protestanti.

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Per effetto proprio di queste controversie, l’intera problematica della grazia in Agostino viene oggi spesso accantonata, o perché ritenuta sostanzialmente estranea o marginale rispetto ad altri temi più strettamente filosofici, o perché relegata soltanto nell’ultima fase della sua produzione, quando Agostino, ormai anziano e intimorito dai segni dell’imminente crollo della civiltà romana, si sarebbe lasciato andare a considerazioni un po’ troppo pessimistiche sulla condizione umana. Ma in realtà Agostino stesso ha sempre individuato nella dottrina della grazia il vero nòcciolo di tutta la sua esperienza di pensiero, l’autentica chiave per comprendere tutte le altre sue tesi di fondo (specie se si tiene conto che la posizione definitiva sulla grazia è stata maturata e esposta da Agostino anteriormente alla stesura di tutte le opere maggiori e quasi trentacinque anni prima della morte). Agostino è soprattutto il pensatore della grazia, e la sua dottrina in proposito è (in tutti i suoi aspetti) la più radicale novità che egli introduce nei confronti dell’intero orizzonte del pensiero greco: trascurare questo dato significa di fatto non solo tradire in qualche modo le intenzioni agostiniane, o non prenderle sufficientemente sul serio, ma anche precludersi forse l’essenziale del suo modo di intendere la filosofia, il suo ruolo e il suo scopo.

La grazia Per grazia s’intende, in generale, il dono gratuito (cioè non dovuto) con cui Dio concede agli uomini la sua misericordia e la sua salvezza. La grazia è un concetto sostanzialmente sconosciuto al mondo greco (almeno in questa accezione teologica) perché presuppone la nozione cristiana di peccato e, più in particolare, di peccato originale (cioè del peccato commesso, secondo le Scritture, dai primi uomini – Adamo ed Eva – e trasmesso a partire da questi all’intero genere umano). Solo la grazia divina può infatti liberare l’uomo dallo stato di peccato in cui inevitabilmente si trova fin dalla nascita.

2 Da retore a vescovo: una vita di cambiamenti e contrasti Ci sono alcuni autori in cui l’esperienza di pensiero si lega intimamente, più che in altri, alle vicende biografiche, e Agostino è certamente uno di questi.

2.1 Dagli studi di retorica alla conversione al cristianesimo Aurelio Agostino nacque a Tagaste, in Numidia (l’odierna Souk Ahras, nella parte orientale dell’Algeria), nel novembre del 354, da Patrizio, un piccolo possidente, e da una madre cristiana di nome Monica, che avrà un ruolo di assoluto rilievo nella sua vita. Dopo la morte del padre, si recò a Cartagine per i suoi studi superiori; qui si legò a una donna, mai citata per nome, da cui ebbe nel 372 un figlio, Adeodàto. In questo stesso periodo aderì al manicheismo, una setta religiosa che si rifaceva all’insegnamento di Mani di Babilonia (216-277) e che postulava l’esistenza di due distinti princìpi della totalità del reale: uno all’origine della luce o del bene, l’altro – identificato con il Dio dell’Antico Testamento – all’origine delle tenebre o del male. Nella prospettiva manichea, il mondo era considerato come una mescolanza di luce e tenebre, ovvero di spirito e materia, dovuto al conflitto dei princìpi: l’impegno del credente manicheo, in tal senso, doveva essere quello di liberarsi il più possibile dai vincoli materiali per ricongiungersi al mondo spirituale. Più o meno negli stessi anni, Agostino ebbe tuttavia l’opportunità di leggere l’Ortensio di Cicerone, un opuscolo di esortazione alla filosofia (a noi non pervenuto) che suscitò in lui grande curiosità e interesse per quest’ultima. Agostino, tuttavia, non fu mai veramente in grado di leggere autonomamente il greco e neppure ebbe la possibilità di frequentare, in Numidia, qualche scuola di filosofia: le sue conoscenze iniziali del pensiero filosofico dovettero essere perciò estremamente limitate. Tornato a Tagaste, cominciò a insegnarvi grammatica, prima di aprire una scuola di eloquenza a Cartagine nel 375. Qualche anno più tardi, tra il 382 e il 383, decise di trasferirsi a Roma, in cerca di condizioni di insegnamento migliori e più tranquille: gli studenti di Cartagine si erano infatti rivelati partico-

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parte II L’età tardo-antica: gli inizi del pensiero cristiano e l’ultimo neoplatonismo

I luoghi della vita di Agostino

larmente turbolenti. Ma Agostino rimase fortemente deluso anche dall’esperienza romana (e soprattutto dal fatto che gli studenti avevano l’abitudine di cambiare all’improvviso maestro per evitare di pagare il conto). Passò quindi, nel 384, a Milano, dove, grazie anche all’appoggio di amici manichei (nonostante Agostino avesse già preso le distanze dalla setta), ottenne una cattedra di retorica – posto particolarmente prestigioso perché Milano era in quel momento sede imperiale. Dal punto di vista intellettuale, sono questi gli anni decisivi: in primo luogo perché, forse anche guidato dalle prediche del vescovo Ambrogio, Agostino fu finalmente in grado di superare un’interpretazione puramente letterale delle Scritture (come quella in uso presso i manichei) e di riavvicinarsi così gradualmente alla fede cristiana alla quale era stato educato, nella sua infanzia, dalla madre (che nel frattempo lo aveva raggiunto a Milano); in secondo luogo perché entrò in contatto con i circoli neoplatonici (cristiani) attivi a Milano e poté leggere alcuni “libri dei platonici”: con ogni probabilità, le versioni latine delle Enneadi e di alcuni scritti di Porfirio [ 11.2] (forse, Il ritorno dell’anima) portate a termine da Mario Vittorino. In seguito a un grave problema di salute (forse un’angina), Agostino lasciò nel 386 l’insegnamento e si ritirò con la madre e un gruppo di

amici e parenti a Cassiciàco, in Brianza (probabilmente l’attuale Cassago Brianza), dove compose le sue prime opere, soprattutto in forma di dialogo: Contro gli accademici, La vita felice, L’ordine, e i Soliloqui (che è in realtà un dialogo con la ragione stessa). In questo periodo maturò anche la definitiva conversione al cristianesimo, che quindi in qualche modo coincise con quella alla filosofia (o forse, per meglio dire, la seguì). Ricevuto il battesimo nell’aprile del 387 a Milano, decise di ripartire per l’Africa, dopo un breve nuovo soggiorno a Roma nel 388, dove cominciò a redigere i primi trattati contro i manichei. Dopo aver trascorso un paio di anni nella sua città natale, nel 391 fu ordinato sacerdote a Ippona (l’odierna Annaba, città costiera dell’allora Numidia, oggi nel N ord-est dell’Algeria), per essere poi consacrato vescovo per acclamazione popolare, quattro anni più tardi, nella stessa città. 1. La dottrina del manicheismo: a. vede nel progressivo ricongiungimento al mondo

materiale lo scopo della vita del credente. b. concepisce il mondo come segnato dalla lotta fra il principio del bene e quello del male. c. combatte l’interpretazione letterale delle Sacre Scritture. d. è accolta da Agostino e poi combattuta soprattutto attraverso una più accurata indagine sul senso della creazione.

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2. La definitiva conversione di Agostino al cristianesimo si ebbe: a. durante il suo primo soggiorno a Roma. b. durante il periodo dell’insegnamento a Milano. c. ad Ippona, quando fu ordinato sacerdote. d. dopo aver abbandonato l’insegnamento per una malattia.

Milano

Roma

2.2 Agostino polemista: le controversie contro i manichei, i donatisti e i pelagiani

Ippona

Cartagine Tagaste

Aurelio Agostino nacque a Tagaste nel 354. Dopo la morte del padre si recò a Cartagine per i suoi studi superiori. Qui aprirà nel 375 una scuola di grammatica. Tra il 382 e il 383, deluso dagli studenti cartaginesi, decise di trasferirsi a Roma e infine nel 384 a Milano dove ottenne una cattedra di retorica e incontrò il vescovo Ambrogio. In seguito a un problema di salute si ritirò in Brianza e infine decise di ripartire per l’Africa dopo un breve soggiorno a Roma nel 388. Fu prima a Tagaste e infine a Ippona dove fu ordinato sacerdote nel 391 e consacrato vescovo nel 395. Morì a Ippona nel 430.

A partire da questo momento, nonostante gli impegni pastorali, Agostino non solo mise mano ai suoi progetti più impegnativi (dalle Confessioni alla Città di Dio), ma fu coinvolto in prima persona in tre aspre e importanti controversie: contro i manichei, contro i donatisti e contro i pelagiani (e semi-pelagiani). La polemica antimanichea non faceva che proseguire l’offensiva dottrinale già avviata da Agostino, negli anni precedenti, contro i suoi compagni di un tempo: per dimostrare che il mondo non è un carcere materiale da cui occorre cercare

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di fuggire, Agostino decise di indagare a fondo il significato della creazione, dedicando grande attenzione all’interpretazione del libro della Genesi. La polemica antidonatista fu per certi versi la più drammatica dal punto di vista ecclesiologico (cioè in riferimento alla concezione stessa della Chiesa e alla sua struttura), poiché riguardava l’atteggiamento da tenere nei confronti di quei cristiani (i cosiddetti lapsi, i ‘caduti’) che, per sfuggire alle persecuzioni, avevano in un primo momento rinnegato ufficialmente la propria fede, e in seguito chiesto di essere riammessi nella Chiesa. In occasione del concilio di Elvira (in Spagna), nel 305-306, la Chiesa aveva adottato una linea di tolleranza, incoraggiando il ritorno degli apòstati (di coloro che appunto avevano rinnegato la fede) purché sufficientemente pentiti. Ma proprio in Numidia il problema era riesploso nel 311 quando fu consacrato vescovo di Cartagine Ceciliano, che durante le persecuzioni di Diocleziano aveva addirittura consegnato le Sacre Scritture alle autorità romane. Indignato, un altro vescovo locale, Donato, diede allora vita a un movimento che, tra l’altro, negava la validità dei sacramenti amministrati da coloro che avevano tradito la Chiesa e imponeva di battezzare nuovamente tutti coloro che volevano farvi ritorno. In realtà, il movimento aveva anche un preciso disegno politico, e cioè la difesa dell’autonomia della Chiesa africana rispetto al potere romano, papale e imperiale (il che spiega anche perché alcuni imperatori cristiani si siano poi impegnati a fondo, con vere e proprie campagne di persecuzione, nel contrastare i donatisti). Agostino intervenne risolutamente nella questione con un nutrito gruppo di scritti, ma anche partecipando attivamente, per esempio, alla disputa del 411 (a Cartagine) che segnò di fatto la vittoria del partito filoromano e antidonatista. Le opere antidonatiste possono suscitare nel lettore moderno una strana impressione: da una parte, Agostino contesta ai donatisti che non è compito loro separare, nella storia, il grano dalla zizzania (ovvero distinguere i buoni dai cattivi), perché solo Dio può leggere nei cuori delle persone e giudicare della sincerità di una conversione; dall’altra, egli stesso chiede poi l’intervento dello Stato per estirpare il donatismo con misure coercitive molto forti (è questo, forse, uno dei primi casi nella storia in cui la Chiesa chiede l’intervento del potere civile per reprimere un’eresia). Di fatto, nel 412, l’imperatore Onorio condannò ufficialmente i donatisti, confiscò i loro beni e co-

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strinse all’esilio i vescovi legati al movimento. E tuttavia la posizione di Agostino risulta forse più comprensibile alla luce della sua concezione del peccato, che proveremo a considerare più oltre. A questo tema si ricollega anche la terza grande controversia, quella contro i pelagiani e i semi-pelagiani: i primi, richiamandosi alle posizioni del monaco britannico Pelagio, negavano sia la trasmissione del peccato originale di Adamo a tutta l’umanità sia la predestinazione, ritenendo che l’uomo potesse evitare il peccato e conseguire la salvezza sulla base della propria volontà, delle preghiere e delle opere. Il grande avversario di Agostino fu in questo caso Giuliano, vescovo di Eclàno (oggi Mirabella Eclàno, in provincia di Avellino), che impegnò duramente Agostino fino agli ultimi anni della sua vita. Con il nome di “semi-pelagiani” si indica invece un gruppo di monaci provenzali del monastero di San Vittore, a Marsiglia, i quali – a differenza dei pelagiani e in accordo con Agostino – concedevano che l’uomo non potesse salvarsi senza la grazia divina, ma ritenevano altresì – e questa volta contro Agostino – che Dio concedesse la grazia solo a coloro che avessero deciso, con il proprio volere, di vivere in modo virtuoso. Questa lunga e complessa polemica permise ad Agostino di ribadire e affinare una decisione teorica presa già molti anni prima, e cioè che la grazia divina è assolutamente gratuita e perciò indipendente da qualsiasi merito umano. La morte lo colse il 28 agosto 430 mentre lavorava ancora su questo tema – il grande tema di tutta la sua riflessione – e mentre la città di cui era vescovo, Ippona, subiva con angoscia un terribile assedio da parte dei Vandali di Genserico. 1. La dottrina del donatismo affermava: a. l’intransigenza assoluta della Chiesa di fronte

all’autorità civile. b. la negazione della capacità di amministrare i sacramenti da parte di coloro che avevano tradito la Chiesa pur essendosi pentiti. c. l’assoluta separazione fra la validità dei sacramenti e la purezza del cuore di coloro che li amministrano. d. un generale atteggiamento di tolleranza nei confronti degli apostati.

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2. La negazione della trasmissione del peccato originale da Adamo a tutta l’umanità: a. costituisce il nucleo fondamentale del pelagianesimo. b. si unisce in Pelagio all’idea che l’uomo possa conseguire la salvezza tramite la grazia divina. c. è una dottrina del vescovo Donato. d. è una dottrina di un gruppo di monaci di Marsiglia.

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3 Filosofia e felicità: la prima fase del pensiero agostiniano Le vicende biografiche ci permettono di distinguere due fasi fondamentali nel pensiero agostiniano: a. una compresa tra il 386 e il 396-97, in cui Agostino, soprattutto sotto l’influenza delle letture neoplatoniche, nutre una grande fiducia nella filosofia, ipotizzando una sostanziale coincidenza tra “vera filosofia” e “vera religione”; b. l’altra compresa tra il 397 e la morte (430), in cui Agostino, per effetto della svolta intorno al tema della grazia, rinuncia del tutto alla possibilità di far coincidere l’essenziale della vita religiosa con la pratica della filosofia (pur conservando, dal punto di vista strettamente dottrinale, numerosi elementi tratti dal neoplatonismo e anche dal medioplatonismo) per pervenire a conclusioni forse meno ottimistiche, ma certamente più originali. Questo percorso si gioca intorno a un concetto fondamentale, quello di felicità, e intorno ai mezzi di cui l’uomo può disporre per raggiungerla. Secondo Agostino, la felicità rappresenta l’ideale supremo, perché non c’è dubbio che qualsiasi uomo, in qualunque condizione si trovi, aspiri sempre esattamente a questo: a essere felice. La svolta intorno al tema della grazia, da questo punto di vista, non rappresenta semplicemente un evento personale della e nella biografia di Agostino, ma qualcosa di più: è una vera e propria cesura epocale, destinata a influenzare in modo marcato, se non decisivo, il senso e la funzione della filosofia nella successiva tradizione occidentale. Quando Agostino arriva in Italia dall’Africa intorno al 383 sembra avviato a una promettente carriera di retore. Ma una serie di eventi, tra cui il già ricordato malessere fisico, lo costringono ad abbandonare tale prospettiva per una scelta di vita diversa. Prima ancora di (ri)convertirsi al cristianesimo, o almeno parallelamente a questa decisione, Agostino decide quindi di convertirsi alla filosofia: il termine “conversione” non è affatto fuori luogo qui, sia perché corrisponde alla conversione neoplatonica (o ‘ritorno’, epistrophè) [ 8.11], sia perché la filosofia antica era essenzialmente uno stile di vita a cui bisognava dedicarsi, convertirsi. Ed è esattamente quanto fa il

giovane Agostino, abbandonando la vita sociale, abbandonando l’insegnamento e abbandonando anche la povera compagna da cui aveva avuto il figlio Adeodàto, per ritirarsi in una villa e coltivare un ideale di vita filosofica che risponde, in linea di massima, a quello elaborato in età ellenistica e imperiale. Nel primo dei dialoghi composti nel ritiro di Cassiciàco, Contro gli Accademici (386) – così intitolato perché vi vengono confutate le posizioni dell’Accademia scettica – Agostino ricorda di aver confidato con passione all’amico Romaniano le sue aspettative relative all’esercizio della filosofia libero dalle preoccupazioni mondane (l’otium philosophandi); nessuna prospettiva gli sembrava più allettante, nessun’altra vita, o nessun altro stile di vita, più felice:



Difatti in alcuni colloqui intimi io ti ho manifestato i miei movimenti interiori, ho confidato spesso e con passione che nessuna eventualità mi sembrava favorevole se non quella che mi consentisse l’ozio del filosofare e che nessuna vita mi sembrava felice se non quella trascorsa nella filosofia; ma che ero trattenuto dal peso notevole dei miei familiari, la cui vita dipendeva dalla mia professione e da vari impedimenti sia di vergogna come dall’inettitudine dei miei a guadagnare. [Contro gli Accademici, II, 2, 4; corsivi nostri]



Preoccupato dagli impegni e dalle incombenze familiari, Agostino viene liberato da questi affanni grazie all’intervento dello stesso Romaniano, che gli procura le condizioni materiali dell’otium e della vita filosofica. N on sorprende pertanto che, quando nella Felicità o La vita felice (De beata vita, composto verso la fine del 386) il giovane Agostino affronta il tema della felicità, non esiti a farla dipendere dalla filosofia: solo il porto della filosofia, secondo una metafora ricorrente nei suoi primi scritti, permette di sbarcare sulla terra della felicità, a patto di saper evitare le insidie del monte dell’orgoglio e della presunzione, che alcuni scambiano per la regione stessa della beatitudine. Se qualche riserva viene espressa nei confronti dell’esercizio filosofico, essa riguarda principalmente il suo carattere elitario, il fatto cioè che lo stile di vita filosofico sembra poter essere abbracciato solo da un numero esiguo di persone. Questo numero, per altro, sarebbe destinato a essere ancora inferiore se la scelta della vita filosofica dipendesse solo dalla ra-

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gione e dalla volontà, e non anche da qualche “tempesta” o evento fortuito, come appunto nel caso dello stesso Agostino:



se il tragitto indicato dalla ragione e la sola volontà conducessero al porto della filosofia, dal quale si può sbarcare nella regione e terraferma della felicità, non so se possa risultare azzardato dire che gli uomini che vi potrebbero giungere sarebbero ancora molti meno, per quanto anche adesso, come osserviamo, ve ne giungono assai rari e pochi. [La vita felice, I, 1; corsivi nostri]



Le conclusioni del dialogo sono particolarmente significative: essere felici vuol dire non soggiacere a privazione, perché i beni di cui possiamo essere privati non possono mai renderci veramente felici, non foss’altro – appunto – che per il timore di perderli. Ma non essere privi di nulla, non avere bisogno di nulla, significa essere sapienti:



È stato quindi dimostrato che essere felici non significa altro se non non aver bisogno di nulla, cioè essere sapienti. [La vita felice, IV, 33]



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È infatti la sapienza ciò che non ci può mai essere sottratto. Essa non è altro che il perfetto modus animi, la perfetta misura che permette all’animo di evitare ogni squilibrio per eccesso o per difetto, ovvero di dilatarsi nella lussuria, nella volontà di dominio, nella superbia, o di restringersi nella cupidigia, nell’avarizia, nel timore, nella tristezza. Anche in questo caso, siamo di fronte all’immagine del filosofo antico come colui che sa dominare le passioni, e sa conservare, in qualunque circostanza esteriore, un perfetto controllo di sé. Essere felici, ovvero essere sapienti, significa possedere la misura di sé: «Chiunque è felice, possiede pertanto la sua misura, e cioè la sapienza» [La vita felice, IV, 33]. 1. Nel giovane Agostino la felicità si realizza mediante la conversione alla filosofia perché: a. quest’ultima garantisce la sapienza, cioè la misura di sé. V b. la felicità consiste nel non aver bisogno di nulla come insegna lo stile di vita della filosofia. V c. la filosofia è uno stile di vita di per sé riservato a pochi. V d. la filosofia consente di ottenere quei beni materiali indispensabili alla vita quotidiana. V

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4 “Vera religione” e “vera filosofia” Questo modello che identifica vita filosofica, sapienza e felicità si ritrova in tutti gli scritti giovanili. Ciò che, tuttavia, distingue secondo Agostino il cristianesimo dalla filosofia (e soprattutto dal neoplatonismo) è il tema dell’efficacia, cioè della capacità rispettiva dell’uno e dell’altra di condurre alla felicità un maggior numero di persone. In altri termini, la contrapposizione tra filosofia e vita cristiana non è, in questa fase, impostata né in termini di contenuto, né in termini di finalità, ma solo appunto in termini di incidenza o popolarità: la liberazione e la felicità promesse dalla filosofia riguardano pochissimi uomini; la fede cristiana (l’auctoritas, nel lessico di Agostino) ha invece il potere di liberare popolazioni intere. Questo è il senso di un celebre passaggio del dialogo L’ordine (anch’esso del 386), in cui Agostino mette in parallelo la ragione e la fede (la ratio e l’auctoritas):



Duplice è la via che seguiamo quando ci pone nel dubbio l’oscurità dell’oggetto: la ragione o certamente l’autorità. La filosofia promette la ragione e ne libera a stento pochissimi, che tuttavia vengono da essa (e solo da essa) indotti non soltanto a non disprezzare questi misteri, ma anzi a comprenderli così come debbono essere compresi. La vera e, per così dire, sincera filosofia non ha altra funzione se non quella di insegnare l’esistenza di un principio impricipiato del mondo, e quanto vasto sia l’intelletto che è in esso e cosa provenga da esso per la nostra salvezza, senza alcuna degenerazione; questo stesso principio è quel che i venerandi misteri, che con fede sincera e inconcussa liberano popoli interi, chiamano (né in modo confuso, come alcuni, né in modo offensivo, come molti) unico Dio onnipotente, e insieme tripotente Padre, Figlio e Spirito Santo. [L’ordine, II, 5, 16; corsivi nostri]



In questo testo si può per altro notare la sovrapposizione tra le ipostasi neoplatoniche (principio impricipiato del mondo = Uno; intelletto che è in esso = nùs; ciò che ne proviene per la nostra salvezza = anima; l’integrazione dell’intelletto nel principio è evidentemente un retaggio medioplatonico con cui Agostino corregge Plotino) e le persone della Trinità.

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In un passaggio appena più tardo della Vera religione (390-391), Agostino afferma che Dio ha già persuaso tutti i popoli di due verità fondamentali: la necessità di distaccarsi da questo mondo sensibile e quella di purificare l’anima con la virtù (attraverso gli “esercizi spirituali”). Ora, questo è ciò che si proponevano anche i filosofi, o, per meglio dire, ciò che avrebbero dovuto fare:



Di certo, lo farebbero anche i filosofi, se ne fossero capaci; oppure, se non lo facessero, non potrebbero evitare l’accusa di essere invidiosi. Prendano atto della loro inferiorità rispetto a chi è stato capace di farlo; la curiosità e la vana presunzione non impediscano loro di riconoscere la differenza che c’è tra le timide congetture di pochi e la manifesta salvezza e rigenerazione dei popoli. [La vera religione, IV, 6; corsivi nostri]



Se gli antichi filosofi tornassero in vita, prosegue Agostino, non potrebbero non riconoscere che ciò che il cristianesimo realizza non è affatto diverso da ciò che essi propugnavano, ma non avevano avuto il coraggio di diffondere:



Se infatti ritornassero in vita quegli illustri uomini dei cui nomi costoro si gloriano e trovassero le chiese gremite e i templi deserti, e il genere umano che, non più attratto dalla cupidigia dei beni temporali e caduchi, corre verso la speranza della vita eterna e verso i beni dello spirito e dell’intelletto, forse direbbero (se fossero tali quali si tramanda siano stati): «Queste sono le verità di cui non abbiamo osato persuadere i popoli; abbiamo ceduto ai loro costumi di vita invece di condurli alle nostre convinzioni e ai nostri propositi». [La vera religione, IV, 7]



La differenza non sta dunque né nei contenuti, né nelle finalità, ma nello scarto che si dà, per riprendere l’espressione dello stesso Agostino, tra le «timide congetture di pochi» e la «salvezza e la correzione manifesta dei popoli». La fede cristiana procura, insomma, più facilmente ciò che i filosofi si proponevano, ma non erano riusciti a realizzare. Possiamo così riassumere l’essenziale di questa prima fase del pensiero agostiniano in due punti fermi principali: 1. Agostino non considera la vita filosofica e la vita cristiana come pratiche irriducibilmente in-

compatibili o conflittuali: la differenza è più quantitativa che qualitativa, nel senso che il cristianesimo raggiunge più persone di quante ne raggiunga la filosofia; 2. Agostino ritiene che la felicità sia un ideale ancora concretamente perseguibile nella vita terrena, nella misura in cui, in questa vita, è già possibile liberarsi dal peso delle passioni e dei condizionamenti sensibili, purificare il proprio animo, e pervenire alla sapienza e al possesso di Dio. 1. Per il giovane Agostino la differenza fra filosofia e fede consiste: a. in un oggetto d’indagine essenzialmente diverso. b. in una diversa finalità perseguita dall’una e dall’altra. c. in una differenza quantitativa. d. nel fatto che la filosofia riesca a realizzare più efficacemente ciò che la fede esprime per via irrazionale.

5 Felicità e salvezza In modo piuttosto repentino, intorno al 396-397, questo scenario muta radicalmente. La felicità viene sempre più esclusa dall’orizzonte terreno, e risospinta verso quello celeste; non è una più una “cosa” concretamente attingibile qui e ora (una res), ma una “speranza” (una spes). Ma chi spera di essere felice, evidentemente non è ancora felice. Prima di tornare ad occuparci di ciò che accade intorno al 396-397, e cioè di esaminare le radici o le ragioni di questo mutamento, cerchiamo di comprenderne il senso. In questo orizzonte, cioè nella nostra condizione mortale, la vita beata è irrealizzabile, perché la felicità richiede che si possa vivere come si desidera e si possa avere ciò che si vuole: ciò che appunto ora non accade mai, nella misura in cui l’uomo o si trova a desiderare ciò che gli manca, o si trova ad esser privo di ciò che desidera. L’ideale filosofico diventa a questo punto pura presunzione, come viene esplicitamente affermato nel De Trinitate: i filosofi, ciascuno a suo modo, si sono costruiti la loro propria vita beata, come se potessero, con la loro propria virtù, ottenere quel che è impossibile nella comune condizione di mortali, e cioè vivere come si vuole. Lo scarto con la posizione precedente non potrebbe essere più evidente: il limite della filosofia non è più quello di proporre una via accessibile solo a pochi, in modo poco efficace ed elitario, ma è quello ben

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più radicale di proporre un ideale impossibile, e perciò illusorio e ingannevole – che sia cioè possibile raggiungere la felicità in questa vita attraverso l’esercizio della virtù. Non si può più dire che la filosofia coincida con la vera religione, liberando tuttavia solo pochi uomini: la verità è che la filosofia non libera proprio nessuno, e dunque è sterile e improduttiva non in quanto dottrina, ma proprio in quanto pratica, in quanto stile di vita. Si può percepire la portata di questo cambiamento mettendo a confronto i differenti modi in cui, in fasi diverse della propria produzione, Agostino utilizza e commenta alcuni versi tratti da un’antica commedia latina, l’Andria di Terenzio: «Poiché non può realizzarsi ciò che vuoi, desidera ciò che puoi», ovvero: «Se non puoi fare ciò che vuoi, cerca di volere ciò che puoi». Questi versi esprimono l’essenziale dell’atteggiamento del filosofo antico (e, in particolare, dello stoico). Quando Agostino cita per la prima volta questi versi nella Vita felice, sembra tutto sommato approvarli: come potrà essere infelice, commenta infatti Agostino, un uomo a cui nulla accade contro il suo volere, se è vero che egli s’impegna a non volere ciò che non potrà avere? Ciò che un tale uomo (il sapiente) desidera è il bene più certo e sicuro: agire solo secondo virtù e secondo la divina legge della sapienza, un bene che in quanto tale non può essergli tolto. Come nell’etica stoica, il sapiente basta a sé stesso: può essere felice perché la sua felicità non dipende da altro, se non dall’esercizio stesso della sua vita e delle virtù. Ma nel De Trinitate il giudizio è molto meno benevolo, e assai più sarcastico: questa è la felicità, osserva ora Agostino, – non si sa se ridicola, o piuttosto degna di compassione – di alcuni orgogliosi mortali, che si vantano di vivere come vogliono, perché sopportano volontariamente, con pazienza, quei mali e quelle sventure che tuttavia non vorrebbero dover affrontare. I versi di Terenzio sono certo belli, ma è solo un consiglio dato ad un infelice, perché non sia maggiormente infelice. A chi è infatti veramente felice non si può dire: peccato, non può realizzarsi ciò che vuoi. Al contrario, se qualcuno è veramente felice, è tale soltanto perché può realizzare ciò che vuole; ma questa condizione, conclude Agostino, non è propria di questa vita mortale, e si realizzerà solo nell’immortalità. Nella Città di Dio il rovesciamento viene portato ancora più oltre: solo chi è felice vive come vuole, ma nessuno, neppure il giusto, può vivere

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come vuole se non avrà raggiunto quella condizione che non conosce più la morte, l’errore, la sofferenza – e cioè l’immortalità. Nessuno può invece essere ritenuto davvero felice – come lascerebbero intendere i versi di Terenzio – solo perché accetta con pazienza la sua infelicità. Ecco in che cosa si è trasformato l’ideale della vita filosofica: non nel conseguimento della felicità, ma nell’accettazione paziente della propria ineluttabile infelicità. Tutte le scuole filosofiche, ovunque collochino nello specifico la felicità, sono accomunate dallo stesso errore, dalla vana presunzione di poter essere felici in questa vita e di procurarsi da soli la felicità:



Come può essere felice la vita che ancora non è salva? […] Come dunque siamo stati salvati nella speranza, così siamo divenuti felici nella speranza; come non è ancora presente la nostra salvezza, così non lo è la nostra felicità, che attendiamo nel futuro con pazienza. Siamo infatti in mezzo ai mali che dobbiamo tollerare nella pazienza, sino a quando raggiungeremo quei beni che ci procureranno gioie ineffabili e non ci faranno più sopportare niente. Tale salvezza che si conseguirà nel mondo futuro sarà anche la felicità suprema. Questi filosofi non vogliono credere a questa felicità, perché non la vedono, e si sforzano di fabbricarsene una assolutamente falsa, grazie ad una virtù che è tanto più orgogliosa, quanto più è menzognera. [La città di Dio, XIX, 4; corsivi nostri]



Anche in questo caso lo scarto rispetto alla concezione precedente non potrebbe essere più marcato, ed è appunto uno scarto rispetto all’intera stagione della filosofia greca ed ellenistica: la vita virtuosa autosufficiente del sapiente è inutile e falsa. Ovvero: non è più la virtù a poter assicurare la salvezza e dunque la felicità, perché nessuno è felice se non è salvo. Ma la salvezza di cui si parla qui non è più quella puramente intramondana propria dell’etica filosofica pagana. 1. Dal 396/397 nel pensiero agostiniano la filosofia non realizza più la felicità perché: a. soltanto la virtù realizza la felicità. b. la felicità ha come condizione il soddisfacimento del desiderio. c. la filosofia porta l’uomo a vivere come vuole. d. la filosofia insegna a non procurarsi da soli la salvezza.

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6 Grazia, predestinazione e merito Cosa è accaduto in questa traiettoria dalla Vita felice alla Città di Dio? Qual è il motivo reale di questo brusco cambiamento di posizione? Agostino stesso ci offre un indizio importante al riguardo in un’opera molto particolare, le Ritrattazioni, composte intorno al 426/427, in cui egli ripercorre a ritroso tutta la sua produzione, correggendo dove necessario quanto sostenuto nelle opere precedenti. A proposito della Vita felice, Agostino si rammarica esplicitamente di aver affermato che la felicità risiede soltanto nell’animo del sapiente, poiché non aveva allora sufficientemente considerato l’ostacolo della corporeità nella condizione mortale. Se l’ideale filosofico antico prevedeva l’assoluto controllo del corpo e delle passioni, è proprio questo che, da un certo punto in poi, Agostino considera di fatto impossibile; solo quando il corpo sarà veramente disciplinato e sottomesso, quando sarà cioè il corpo glorioso di cui i beati potranno disporre dopo la resurrezione, allora si potrà essere felici:



Mi rammarico però di avere in quella sede […] affermato che durante questa nostra vita la felicità alberga solo nell’animo del sapiente, qualunque sia la condizione del suo corpo; affermazione, quest’ultima, in contrasto con le parole dell’Apostolo, il quale manifesta la speranza che la compiuta conoscenza di Dio, nella forma cioè più alta concessa all’uomo, si avrà nella vita futura, la sola che possa essere definita felice, quando anche il corpo, reso incorruttibile e immortale, sarà sottomesso al suo spirito senza difficoltà o contrasto. [Ritrattazioni, I, 2; corsivi nostri]



Ma non è il corpo in sé la vera ragione dell’impossibilità di ottenere la felicità (altrimenti si tornerebbe a una posizione molto vicina a quella manichea, in cui la materia è di per sé il male perché non prodotta da Dio, ma da un principio malvagio). Il corpo è un ostacolo solo perché è un corpo corruttibile, mutevole e mortale, ed è tale in conseguenza del peccato. Lo scacco dell’ideale filosofico antico è così reso possibile dall’ingresso nella riflessione, non solo di Agostino ma più in generale dell’Occidente, di un concetto del tutto nuovo: quello di peccato originale – il peccato

commesso dal primo uomo e trasmessosi ineluttabilmente, attraverso la generazione biologica, all’intera umanità. È in conseguenza di tale peccato che l’uomo ha perso l’immortalità che lo avrebbe reso felice; è in conseguenza di tale peccato che il corpo è diventato un peso e un impedimento; è in conseguenza di tale peccato che l’uomo ha di fatto perso la sua libertà e, dunque, la possibilità effettiva di fare il bene. Se prima del peccato l’uomo disponeva della libertà relativa di poter non peccare, adesso si trova nella costrizione di non poter non peccare, ovvero, di dover necessariamente continuare a peccare. Solo coloro che saranno salvi, quando saranno salvi, riacquisteranno, insieme a un corpo incorruttibile, la libertà piena come capacità di non poter peccare. Il peccato di Adamo ha compromesso la libertà e, con essa, la capacità autonoma dell’uomo di poter raggiungere la salvezza. Ed è proprio per questo che Agostino è costretto a ripensare il ruolo della grazia divina come unica possibilità di sottrarsi a tale stato. In effetti, Agostino perviene alla propria concezione della grazia per cercare di interpretare alcuni luoghi delle Sacre Scritture particolarmente delicati, e soprattutto un passo della Lettera ai Romani in cui l’apostolo Paolo s’interrogava su come fosse possibile che, tra i due figli gemelli di Isacco e Rebecca, Dio avesse “amato” Giacobbe e “odiato” Esaù prima ancora che questi fossero nati e avessero compiuto nulla di bene o di male. Come intendere questa preferenza? Si deve forse ritenere – come Paolo sembra suggerire – che Dio predetermini o predestini qualcuno alla salvezza indipendentemente dalle sue opere, e dunque indipendentemente dai suoi meriti? Quando Agostino si sofferma per la prima volta su questo passaggio, in un tentativo incompiuto di commentare l’intera Lettera ai Romani (tra il 394 e il 395, e dunque prima della svolta del 396397), si muove ancora con molta cautela. Si tratta soprattutto di allontanare anche il solo sospetto che Dio possa agire ingiustamente nella concessione della sua misericordia. Com’è dunque possibile che, prima ancora della nascita, Dio abbia amato Giacobbe e odiato Esaù? La soluzione che Agostino adotta in questo primo tentativo si fonda sulla prescienza, e cioè sul fatto che Dio può prevedere, dall’eternità, il modo in cui gli uomini si comporteranno nel tempo, e regolarsi di conseguenza, ma in anticipo, nelle sue scelte. Tuttavia, non è possibile chiamare in causa, in

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questo caso, la prescienza delle opere, perché queste ultime, sulla base dello stesso testo paolino, devono essere considerate come un effetto dell’amore che riceviamo per grazia, e non come il motivo dell’elezione o scelta. Si può però ritenere che Dio decida di premiare coloro che crederanno in Lui: è dunque la fede ciò che Dio sceglie nella prescienza. Il primo tentativo agostiniano cerca, dunque, di rinvenire un delicato equilibrio fra tre esigenze che non sembrano così facilmente conciliabili: 1. mantenere l’assoluta gratuità della grazia, per cui le opere sono meritorie (cioè, rappresentano un merito) solo in quanto provengono dalla grazia, e non in quanto ne sono la ragione; 2. scongiurare l’ipotesi di una possibile ingiustizia da parte di Dio, individuando un possibile motivo della scelta divina (e dunque un possibile motivo per la salvezza e per la condanna) nella condotta umana; 3. conservare ancora un ruolo importante al libero arbitrio, con cui l’uomo sceglie in prima istanza se aderire o meno alla chiamata per grazia, e con cui in seguito coopera alla realizzazione delle opere. Ma Agostino rimane insoddisfatto di questo suo primo tentativo di spiegazione e, nel giro di pochi anni, cambia decisamente posizione. N elle Questioni a Simpliciano, databili tra il 396 e il 397, Agostino esclude che la fede possa essere un merito umano, perché anch’essa dev’essere piuttosto inclusa tra i doni divini:



Nessuno infatti crede se non è chiamato. Ora, è Dio nella sua misericordia a chiamare, e lo fa indipendentemente dai meriti della fede, perché i meriti della fede seguono e non precedono la chiamata. […] Se la misericordia di Dio non precede chiamando, nessuno può credere per iniziare da qui a essere giustificato e ottenere la facoltà di bene operare. Dunque la grazia viene prima di qualunque merito. [Questioni a Simpliciano, I, 2, 7; corsivo nostro]



In altri termini, coloro che credono in Dio, credono soltanto perché Dio ha concesso loro di credere: la fede non è un merito dell’uomo, ma un dono divino. Ma se sia le opere che la fede provengono da Dio, ovvero se sia le une che l’altra derivano dalla grazia, e non sono quindi una

causa dell’attribuzione della grazia, cosa rimane nell’uomo che Dio possa scegliere? Nulla, evidentemente, ed è per questo che Agostino rinuncia a fare della prescienza la radice della predestinazione: Dio non basa la sua scelta sulla base del fatto che conosce già, in anticipo, quel che faranno gli uomini. Dio sceglie e decide in senso assoluto, senza tener conto dei comportamenti umani che pure conosce dall’eternità, per il semplice motivo che tali comportamenti, almeno per quel che riguarda la fede e le opere buone, provengono dalla sua scelta, e non la precedono. La conclusione è che non c’è nessuna azione umana che possa essere sufficiente, da sola, a raggiungere la salvezza o anche solo a meritare la salvezza: la salvezza è un dono gratuito di Dio (la grazia è gratis, e gratis è ciò che non si dà in cambio di qualcosa). Questa soluzione presenta però l’inconveniente di lasciare apparentemente senza motivo, per analogia con il caso degli eletti (di coloro che vengono scelti e salvati senza alcun merito da parte loro), anche quello dei dannati, che è tuttavia assai più difficile da comprendere e accettare. Se non è infatti la risposta dell’uomo alla chiamata divina a giustificare la scelta, cosa determina il fatto che alcuni vengano abbandonati alla condanna? La prescienza delle opere malvagie non può più evidentemente essere chiamata in causa, perché con uguale diritto si potrebbe allora invocare la prescienza delle opere buone per giustificare l’elezione. E lo stesso vale anche per la prescienza della fede. La dannazione ha in realtà un motivo o una causa – il peccato originale; ma il fatto che ai dannati non venga concessa la grazia non ha nessun’altra spiegazione se non l’imperscrutabile volontà divina. Certo, bisogna qui procedere con cautela: Dio non destina nessuno al male (perché altrimenti Egli stesso sarebbe, in fin dei conti, l’autore del male), non infonde in nessuno la perversione o la malizia, né tanto meno spinge qualcuno al peccato; tuttavia, Egli impartisce solo ad alcuni la sua misericordia, lasciando gli altri alla loro “giusta” condanna. Qui la simmetria tra il caso degli eletti e quello dei dannati si rompe definitivamente: i primi non potranno mai attribuire a sé o ai propri meriti il fatto di essere eletti, ma solo alla grazia divina; i secondi, al contrario, non possono attribuire a Dio la ragione della loro condanna, ma unicamente a sé e alle proprie colpe.

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In questa divaricazione, non c’è – per Agostino – nessuna ingiustizia: la pena è la giusta retribuzione delle colpe e del peccato, e tutti gli uomini si trovano in stato di peccato, per effetto del peccato originale. Lo “scandalo” del cristianesimo sta invece, per Agostino, nel fatto che, anche se tutti gli uomini meritano di per sé soltanto la condanna, l’infinita misericordia di Dio fa sì che alcuni possano sfuggirle. La sfida che Agostino lancia qui è proprio quella di invertire il comune approccio al problema: l’anomalia sta nel fatto che alcuni vengano (immeritatamente) salvati, non nel fatto che molti siano condannati. L’eccezione – incomprensibile – sono gli eletti, non i dannati. Ma perché, all’interno del genere umano, in cui tutti si trovano senza distinzione nella medesima condizione di peccato (quaedam massa damnata), proprio alcuni vengano abbandonati alla loro pena mentre altri – determinati altri – siano invece salvati rimane per Agostino incomprensibile. Qui non si può che rispondere con le parole dell’apostolo Paolo: «O uomo, chi sei tu per disputare con Dio?» [Lettera ai Romani, 9, 20]. Come il vasaio può fare dalla stessa pasta vasi riservati ad una funzione dignitosa e altri destinati a un uso assai meno nobile, senza nessuna ragione particolare da parte dell’argilla stessa, così Dio può salvare alcuni e lasciare gli altri alla loro giusta condanna senza nessuna ragione particolare da parte degli uomini, e tuttavia – appunto – senza ingiustizia da parte di Dio. A questo modello Agostino si manterrà sostanzialmente fedele in tutte le opere successive, nella polemica antipelagiana così come negli interventi contro i semi-pelagiani (i monaci provenzali). Proprio in questi ultimi scritti – e soprattutto nella Predestinazione dei santi – è evidente la ferma convinzione che neppure la fede costituisca in alcun modo un merito per l’elezione. Certo, ci si salva unicamente per mezzo della fede, perché solo per la fede ci è concesso di compiere opere buone, ma la fede stessa è a sua volta un dono di Dio, riservato fin dal principio soltanto agli eletti. A proposito del suo primo tentativo, quello che faceva ancora riferimento alla prescienza della fede, Agostino precisa, nelle Ritrattazioni, che all’epoca non aveva ancora indagato a fondo il significato dell’elezione e della grazia, che «non è tale» – come viene ribadito – «se è preceduta dai meriti: in tal caso infatti un bene concesso non per grazia, ma perché dovuto, sarebbe un compenso dei meriti, non un dono» [Ritrattazioni, I, 23, 2].

Agostino rimprovera anzi ai monaci di Marsiglia (i semi-pelagiani, appunto) di essere rimasti fermi alle sue posizioni iniziali, senza “progredire” con Agostino stesso e prendere nota del cambiamento avvenuto nelle Questioni a Simpliciano:



Voi vedete quale fosse allora la mia opinione sulla fede e sulle opere, benché fosse già presente da parte mia la preoccupazione di dar rilievo alla grazia: ma ora mi accorgo che questi nostri fratelli sono rimasti a quella opinione; evidentemente si sono curati di leggere i miei libri, ma non di progredire insieme con me. Infatti se si fossero presi questa cura, avrebbero trovato tale questione risolta secondo la verità delle divine Scritture nel primo dei due libri che proprio al principio del mio episcopato ho indirizzato a Simpliciano. [La predestinazione dei santi, 3, 7]



La tesi fondamentale di Agostino può quindi essere sintetizzata in questo modo: crederanno soltanto coloro che sono stati predestinati a credere; questi ultimi potranno poi compiere opere buone e, perseverando (e solo nella perseveranza rimane un margine per la volontà umana), essere sottratti all’inevitabile condanna determinata dal peccato originale. 1. L’impossibilità di conseguire la felicità nella vita terrena dipende: a. dalla componente corporea e passionale dell’uomo. V F b. dall’eccessivo controllo che l’uomo può esercitare sulle passioni. V F c. dal peccato originale. V F d. dalla possibilità dell’uomo di poter non peccare. V F 2. In Agostino il ripensamento del ruolo della grazia di Dio: V F a. si connette al tema della sapienza filosofica. b. nasce dall’esigenza di intendere meglio un passo della Lettera ai Romani di san Paolo. V F c. si connette al tema della prescienza divina. V F d. si spiega perché Dio possiede soltanto la prescienza delle opere. V F 3. Nelle Questioni a Simpliciano, Agostino: a. pensa che la fede sia una conquista

dell’uomo che compie opere buone. b. crede che la predestinazione affondi le sue radici nella prescienza divina. c. ritiene che fede e salvezza siano doni gratuiti di Dio. d. ritiene che la dannazione sia determinata dalla libera scelta di Dio che destina alcuni uomini al male.

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7 La non universalità della salvezza Siamo ora in grado di comprendere perché, per l’Agostino maturo, la filosofia prometta solo un’illusione di felicità: non tanto perché essa è erronea nei contenuti, ma, ben più semplicemente e radicalmente, perché qualunque pratica umana, anche la più virtuosa, è di per sé inefficace ad assicurare felicità e salvezza. La felicità e la salvezza sono solo un dono gratuito di Dio: non c’è un’attività esclusivamente umana che possa condurre a esse, o anche solo che ci possa rendere meritevoli di essere felici e salvi. Se così l’Agostino della prima fase poteva ancora dire che la filosofia ha come limite il fatto di riuscire a liberare solo pochi uomini, mentre il cristianesimo è in grado di liberare interi popoli, lo scenario, dopo la svolta nella concezione della grazia, diventa assai più restrittivo: la filosofia non può liberare assolutamente nessuno, ma anche il cristianesimo, a sua volta, non libera tutti, e neppure le grandi masse – ma solo i predestinati. Occorre in effetti prestare attenzione al risvolto forse più inquietante della dottrina agostiniana della grazia: anche la salvezza cristiana non è più universale, non è più alla portata di tutti, ma è riservata solo agli eletti. Poiché la chiamata di Dio è irresistibile (non si può infatti immaginare, secondo Agostino, che Dio non sappia come richiamare a sé le proprie creature, e non sia sufficientemente potente da salvare davvero chi vuole), si deve concludere che la chiamata cristiana, l’appello alla fede, non è in sé veramente universale, ma è rivolta fin dal principio solo agli eletti, ai predestinati. Per sostenere questa tesi, Agostino non esita a proporre un’esegesi piuttosto ardita di un altro versetto paolino: Dio «vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità» [Prima lettera a Timoteo, 2, 4]. In realtà, per Agostino, Dio salva tutti coloro che vuole salvare, il che vuol dire che tutti coloro che si salvano, si salvano solo attraverso la volontà divina (ovvero: non c’è salvezza al di fuori del volere divino). L’esempio che Agostino porta a sostegno della sua interpretazione è significativo: se in una città c’è un solo maestro di lettere o grammatica, si potrà dire che egli insegna a tutti gli abitanti

di quella città, non perché davvero tutti questi ultimi studino lettere o grammatica, ma perché quelli che lo fanno, lo fanno solo con quel maestro. O ancora, si dovrà attribuire al termine “tutti” un valore relativo: Dio non salva tutti gli uomini, ma salva uomini appartenenti a tutti i ceti e tutte le classi. I testi di Agostino lasciano pochi dubbi in proposito:



Quando perciò noi leggiamo e sentiamo nelle sacre Lettere che è volontà di Dio che tutti gli uomini siano salvi, benché sappiamo con certezza che non tutti gli uomini lo sono, non per questo dobbiamo però sottrarre alcunché alla volontà di Dio onnipotente. Dobbiamo piuttosto intendere ciò che sta scritto: «Egli vuole che tutti gli uomini siano salvi», come se si dicesse che nessun uomo è salvato, all’infuori di quelli che Egli ha voluto salvi; non che ci sia nessun uomo all’infuori di chi Egli vuole salvo, ma che nessuno si salvi all’infuori di chi Egli vuole [Enchiridion, 27, 103]; E l’affermazione della Scrittura: «Egli vuole che tutti gli uomini siano salvi» [Prima lettera a Timoteo, 2, 4], mentre invece non tutti si salvano, si può certo intendere in molte maniere e ne abbiamo ricordate diverse negli altri nostri opuscoli. Ma qui ne presenterò una. È detto: “Vuole che tutti gli uomini siano salvi”, ma si deve intendere tutti i predestinati, perché in essi c’è ogni genere di uomini [La correzione e la grazia, 14, 44].



Dio non vuole che tutti si salvino (altrimenti, tutti si salverebbero davvero): ma quelli che si salvano, si salvano solo per il volere divino e la mediazione di Cristo. Senza la grazia non c’è salvezza, e senza salvezza non c’è felicità. Questo è ciò che i filosofi non sono stati in grado di riconoscere: contando di poter fare affidamento sulle sole proprie forze, tutti i filosofi si mostrano per quel che sono: dei pelagiani che non riconoscono la gratuità della grazia, e perciò la svuotano di ogni valore. Come Agostino scrive esplicitamente in una delle sue lettere (la 186), difendendo la natura e il libero arbitrio, i filosofi hanno fatto di tutto per persuadere sé stessi e gli altri che ci si possa procurare la felicità con le sole forze della propria volontà, condannandosi così alla condizione opposta: a un’ineluttabile infelicità. Da qui un malinconico, inutile, ma suggestivo appello postu-

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mo a Porfirio, il filosofo neoplatonico che pure aveva giocato un ruolo così importante nella formazione di Agostino:



Se avessi invece conosciuto la grazia di Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo e potuto vedere la sua incarnazione, per cui Egli prese un corpo e un’anima umana, esempio più alto della sua grazia! Ma che cosa posso fare? So di rivolgermi inutilmente a un morto, anche se in cose che ti riguardano; ma forse non è inutile per coloro che ti stimano e ti amano, o per un certo amore della sapienza, o per la curiosità delle arti che tu non avresti dovuto apprendere; è in realtà a loro che mi rivolgo quando ti biasimo. [La città di Dio, X, 29]

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1. Per l’Agostino maturo la salvezza del cristianesimo non è universale perché: a. dipende dalla natura delle azioni compiute dai singoli cristiani. b. Dio salva tutti quelli che vuole salvare. c. coinvolge determinati gruppi sociali. d. l’uomo non può con le sole proprie forze raggiungere la salvezza.

8 Credere per comprendere Proprio perché la presa di distanza riguarda complessivamente la filosofia come pratica di salvezza, ovvero la sua finalità, ciò non impedisce ad Agostino di continuare ad avvalersi di molti elementi dottrinali ricavati dalla filosofia, e in particolare dal neoplatonismo e dal medioplatonismo. Il gesto agostiniano, ovvero la sua scelta di rinunciare alla filosofia come mezzo di salvezza, ha una portata epocale: perché da questo momento in poi, nella tradizione cristiana, la filosofia sopravvivrà solo (o quasi) come disciplina, come un insieme di dottrine (come la concepiamo principalmente ancora oggi), e non come stile di vita. Occorre però precisare che la dottrina della grazia non conduce a un esito di tipo irrazionalistico: Agostino non mette mai veramente in dubbio il valore della conoscenza razionale. Tutto dipende invece dal fine a cui tendono le nostre conoscenze. Per questo Agostino da una parte condanna la curiositas, la pura curiosità intellettuale, vale a dire ogni attività conoscitiva svincolata dalla

fede, e dall’altra ritiene comunque indispensabile porre il problema della formazione culturale del cristiano – di una formazione, cioè, che garantisca la possibilità di controbattere alle affermazioni dei pagani, di difendere la fede contro le deviazioni degli eretici e di contribuire adeguatamente alla diffusione della fede stessa. S’incontrano così negli scritti agostiniani affermazioni solo in apparenza difficili da conciliare. Agostino invita spesso a non soffermarsi sulle questioni relative «a questo mondo»: esse possono procurare certamente «qualche soddisfazione», ma rappresentano una perdita di tempo in vista della ricerca più essenziale, quella della vita beata. N ell’Enchiridion (che significa ‘manuale’), per esempio, arriva a sostenere che non bisogna temere più di tanto una scarsa conoscenza delle questioni naturali o dell’astronomia, giacché per un cristiano è sufficiente credere che la causa di tutte le creature, celesti e terrene, è la divina bontà del Creatore. Ma in un senso opposto, nel Commento letterale alla Genesi (composto tra il 401 e il 414), Agostino osserva invece che un cristiano che intende attenersi alle Scritture, ma che pronuncia assurdità sulla natura, diventa poco credibile, e getta discredito sull’attendibilità delle Scritture stesse: è dunque necessario, per reggere il confronto con i pagani, non essere del tutto ignoranti in filosofia naturale. Questa oscillazione si scioglie tenendo conto del fatto che ciò che più importa nella conoscenza è il fine: dunque, risulta futile, se non addirittura dannosa, ogni conoscenza perseguita per sé stessa, ma ha una sua legittimità ogni esercizio intellettuale coltivato in vista dell’acquisizione di quell’unico sapere superiore che è in grado di assicurare la felicità. Fin da giovane (per esempio, nei Soliloqui) Agostino ha individuato questo sapere come quello che si riferisce a due soli oggetti: l’anima e soprattutto, attraverso quest’ultima, Dio. Non si tratta così in nessun modo, per Agostino, di rinunciare alla ragione in quanto tale, perché ciò equivarrebbe a rinunciare a quel che vi è di più propriamente umano:



Lungi da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione, in virtù della quale ci ha creato superiori agli altri esseri animati. Lungi da noi credere che la fede ci impedisca di trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, perché non potremmo neppure credere, se non avessimo un’anima razionale. [Epistole, 120]



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La fede e la rivelazione, in questo senso, non si sostituiscono alla ragione, ma le conferiscono una funzione diversa, quella appunto di portare alla comprensione ciò che la fede stessa propone. Da qui l’uso, da parte di Agostino, di una formula tratta dalla versione latina del profeta Isaia (in realtà non presente come tale nell’originale ebraico): «se non crederete, non comprenderete» (nisi credideritis, non intelligetis). 1. Per Agostino conoscenza razionale e fede: a. si escludono a vicenda. b. si sostengono l’un l’altra se il fine

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della conoscenza è la curiosità intellettuale. c. non collidono fra loro, purché il fine del conoscere sia il conseguimento della felicità. d. si completano, perché la ragione porta a comprendere ciò che la fede propone.

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9 Scienza e sapienza In questa stessa prospettiva dev’essere collocata anche la distinzione che Agostino pone tra scienza e sapienza, per quanto non sempre la sua terminologia mantenga la coerenza desiderata. Sapienza (sapientia) indica da una parte uno dei nomi divini (e più in particolare il Verbo, Cristo, ovvero la seconda persona trinitaria), dall’altra, in riferimento all’uomo, «l’intelligenza delle realtà immutabili e spirituali» [De Trinitate, XII, 12, 17], ovvero la contemplazione delle verità eterne. Molto meno facile è definire con precisione che cosa sia la scienza (scientia): talvolta il termine indica la certezza fondata sulla sola ragione, a differenza tanto della fede, quanto della conoscenza empirica; talvolta esso racchiude insieme tutti questi ambiti e definisce l’insieme delle conoscenze disponibili intorno ad un determinato soggetto. N el suo primo significato, quello di conoscenza puramente razionale, la scientia rappresenta un uso inferiore della ragione rispetto alla sapientia: essa non mira alla contemplazione delle realtà eterne, ma alla «conoscenza delle realtà temporali e mutevoli necessarie per svolgere le attività di questa vita» [De Trinitate, XII, 12, 17]. Ciò non significa tuttavia

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che essa abbia una connotazione immediatamente e irrimediabilmente negativa. Al contrario, la scienza ha anche una sua valenza positiva, che consiste appunto nell’insegnare ad usare le cose temporali in conformità al bene, indirizzando la nostra stessa ricerca all’approfondimento e alla difesa dei contenuti della fede. In altri termini, la scientia è da condannare solo quando assume ciò che è temporale e mutevole non come punto di partenza verso ciò che è eterno e immutabile, ma come proprio orizzonte esaustivo. È la presunzione dell’autosufficienza, che rappresenta agli occhi di Agostino una vera e propria perversione della finalità della ragione, il pericolo maggiore da cui deve guardarsi l’attività scientifica: non a caso, egli cita volentieri a questo proposito il versetto paolino secondo cui «la scienza gonfia, la carità edifica» [1 Cor., 8, 1]. Il valore della scienza sta dunque tutto nel suo uso strumentale: la scienza è sempre e solo un mezzo da mettere al servizio della sapientia, della caritas e della fides. 1. Il termine scienza in Agostino indica: a. la certezza fondata sulla sola ragione empirica. V F b. la conoscenza puramente razionale. V F c. la totalità delle conoscenze intorno ad un oggetto. V F d. l’intelligenza delle realtà immutabili. V F

10 Le cose e i segni Il manifesto che riassume l’atteggiamento di Agostino nei confronti del sapere è rappresentato dal trattato Sulla dottrina cristiana, iniziato nel 397 ma concluso solo pochi anni prima della morte, nel 427. Ogni insegnamento, ovvero ogni forma di conoscenza – osserva Agostino – ha per oggetto o cose o segni. I due termini si implicano in realtà a vicenda: le cose si apprendono tramite i segni, ma i segni sono a loro volta cose. Una cosa, in senso stretto, è ciò che non serve per significare un’altra cosa (un pezzo di legno, una pietra, una pecora); un segno è invece una cosa che serve a significare un’altra cosa.

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Più precisamente, un segno è una cosa che «oltre l’aspetto esterno che presenta ai sensi, fa venire in mente qualcos’altro a partire da sé» [Sulla dottrina cristiana, II, 1, 1]: per restare ai casi citati da Agostino, una traccia rimanda all’animale che l’ha lasciata; il fumo rimanda al fuoco; una voce ci permette di comprendere lo stato d’animo di colui a cui appartiene, e lo squillo di una tromba significa per i soldati in battaglia un ordine ben preciso. Come questi esempi mostrano, alcuni segni sono naturali – fanno cioè conoscere altro da sé senza alcuna intenzionalità o consapevolezza (così come il fumo è segno del fuoco) –, altri sono intenzionali, e sono quelli «che gli esseri viventi si scambiano gli uni con gli altri per far conoscere, per quanto è possibile, le emozioni del loro animo, i sentimenti, i pensieri» [Sulla dottrina cristiana, II, 2, 3]. Lo studio dei segni diventa così essenziale per comprendere e interpretare le Sacre Scritture, e per dare conto delle possibili ambiguità che in esse si possono incontrare. Le cose, invece, si dividono in quelle di cui godere (frui) e quelle di cui servirsi (uti) per raggiungere le prime. Ora, l’unico vero fine in vista di cui tutto deve essere orientato è quello supremo, perché se esiste un bene il cui possesso colma tutti i nostri desideri, è insensato fermarsi ad altro; dunque, così come tutte le cose vanno ricondotte a Dio, tutte le nostre conoscenze vanno poste direttamente al servizio della rivelazione, e non ha senso indugiare negli studi propriamente filosofici considerati in sé stessi. Semplificando i termini della questione, si potrebbe dire che se per il primo Agostino la scientia è propedeutica all’acquisizione della filosofia come sapienza (nel senso tradizionale, greco del termine), per l’Agostino maturo ogni sapere profano, inclusa la filosofia, è al servizio di una diversa e più alta sapientia intrinsecamente cristiana: lo studio delle Sacre Scritture. Ciò che serve al cristiano non è una preparazione generica per poter accedere alla filosofia e all’intelligibile, ma gli strumenti necessari per leggere e interpretare le Sacre Scritture (strumenti che includono la grammatica, lo studio delle lingue – il latino, ma possibilmente anche l’ebraico e il greco –, tutto ciò che può servire a interpretare i segni, ma anche la stessa filosofia, intesa appunto come mezzo e non come fine).

11 Dall’anima a Dio Se lo scopo che Agostino si propone è quello di conoscere Dio e l’anima, quest’ultima sembra essere espressamente indicata come la via di accesso al mondo intelligibile e al divino. Questo “privilegio dell’interiorità” come accesso a ciò che la trascende è evidentemente un punto di contatto con le posizioni di Plotino. Agostino muove innanzi tutto dalla convinzione che il mondo sensibile, pur non essendo in sé ingannevole, non sia in grado di condurre alla piena verità, per la sua instabilità e incessante mutevolezza:



Tutto ciò che il senso corporeo percepisce è detto sensibile ed è soggetto a continuo mutamento: così avviene, per esempio, nella crescita dei capelli del nostro capo, o nell’invecchiamento del corpo o nello sviluppo della giovinezza. Tutto ciò si verifica continuamente senza interruzione del movimento. Ora, ciò che non sta fermo non può essere percepito: si percepisce infatti solo ciò che può essere colto dalla scienza, e non si può conoscere ciò che muta incessantemente. Non si deve dunque aspettare dai sensi del corpo la verità autentica. [83 diverse questioni, q. 9]



Anzi, poiché in generale è impossibile che l’inferiore agisca sul superiore, non si può neppure ritenere che la sensazione derivi da un’azione reale degli organi di senso e dei corpi esterni sull’anima. Piuttosto, poiché l’anima vigila su tutto il corpo, ad essa non sfugge alcuna modificazione del corpo stesso: la sensazione consiste dunque proprio in questa attenzione o consapevolezza, che induce l’anima a elaborare da sé (e non a ricavare dall’esterno) le immagini delle cose sensibili. L’anima dunque è sempre attiva, e non passiva, nelle sensazioni. L’anima tuttavia si rende conto anche che, a dispetto della mutabilità delle cose sensibili, essa ritrova in sé delle verità intelligibili (come quelle matematiche) assolutamente stabili ed eterne [ T19]. Da dove provengono tali verità? Non dall’anima stessa, perché è anch’essa mutevole, sia pure in misura minore dei corpi: questi ultimi infatti sono mutevoli nel tempo e nello spazio, l’anima solo nel tempo. Dunque queste verità provengono da (e si trovano in) qualcosa che trascende la ragione.

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Da qui il doppio movimento raccomandato nella Vera religione, per il quale occorre prima rientrare in sé stessi, e poi trascendere sé stessi in direzione del lume stesso della ragione:

un ricordo amoroso e il rimpianto, per così dire, dei profumi di una vivanda che non potevo ancora gustare. [Confessioni, VII, 17, 23]



Questo passo richiama molto da vicino un’esperienza descritta da Plotino [ 8.11], con una differenza fondamentale: Plotino parla infatti del contatto dell’anima con il nùs, Agostino del contatto con Dio stesso. Questa è in effetti la caratteristica che distingue maggiormente (dal punto di vista strettamente dottrinale) Agostino dal neoplatonismo, e lo riallaccia più al medioplatonismo (o forse a Porfirio, qualora Porfirio fosse davvero l’autore di un commento al Parmenide, in cui è ipotizzata la coincidenza tra l’essere e Uno): Dio è visto come essere puro, stabile, sussistente (anche sulla base dell’interpretazione del modo in cui Dio si autonomina in Esodo 3, 14: l’espressione «Io sono colui che sono» viene intesa nel senso “Io sono l’essere stesso”). Vicina al medioplatonismo è anche la tesi secondo cui le idee non sono indipendenti da Dio, ma sono nel Verbo, e cioè comunque in Dio. D’altra parte, questa soluzione appare in qualche modo inevitabile, nella misura in cui, nei neoplatonici cristiani, la seconda ipostasi [ 8.6] è inglobata, come seconda persona della Trinità, nella sfera stessa di Dio [ T6]. Ci sono poi altri tre aspetti da notare a questo riguardo. Il primo è che proprio a partire dal riconoscimento della presenza, nell’anima, di contenuti intelligibili eterni (come le verità matematiche) Agostino propone, nel II libro del Libero arbitrio, una vera e propria prova dell’esistenza di Dio [ T45]. Noi vediamo i contenuti intelligibili in una verità ideale che è necessariamente superiore alla mente stessa, e questa verità non può che essere Dio:

non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che trascendi l’anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. [La vera religione, 39, 72]



Nelle Confessioni questo stesso movimento (dai corpi sensibili all’anima razionale, e dall’anima a ciò che la illumina) viene illustrato in modo ancor più dettagliato:



Nel ricercare infatti la ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi sia celesti sia terrestri, e i mezzi di cui dovevo disporre per formulare giudizi equi su cose mutevoli, allorché dicevo: «Questa cosa dev’essere così, quella no»; nel ricercare dunque la spiegazione dei giudizi che formulavo giudicando così, scoprii al di sopra della mia mente mutabile l’eternità immutabile e vera della verità. E così salii per gradi dai corpi all’anima, che sente attraverso il corpo, dall’anima alla sua potenza interna, cui i sensi del corpo comunicano la realtà esterna, e che è la massima facoltà delle bestie. Di qui poi salii ulteriormente all’attività razionale, al cui giudizio sono sottoposte le percezioni dei sensi corporei; ma poiché anche quest’ultima mia attività si riconobbe mutevole, ascese alla comprensione di sé medesima. Distolse dunque il pensiero dalle sue abitudini, sottraendosi alle contraddizioni della fantasia turbinosa, per rintracciare sia il lume da cui era pervasa quando proclamava senza alcuna esitazione che è preferibile ciò che non muta a ciò che muta, sia la fonte da cui derivava il concetto stesso d’immutabilità, concetto che in qualche modo doveva possedere, altrimenti non avrebbe potuto anteporre con certezza ciò che non muta a ciò che muta. Così giunse, in un impeto della visione trepida, all’Essere stesso. Allora finalmente scorsi quanto in te è invisibile, comprendendolo attraverso il creato; ma non fui capace di fissarvi lo sguardo. Quando, rintuzzata la mia debolezza, tornai fra gli oggetti consueti, non riportavo con me che





Ora, tu avevi concesso che, se io avessi mostrato che esiste qualcosa al di sopra delle nostre menti, avresti riconosciuto che si tratta di Dio, se non esiste nulla di ancora superiore. Accettando questa tua concessione, avevo detto che sarebbe bastato che dimostrassi questo. Se infatti esiste qualcosa di più eccellente, è questo a essere piuttosto Dio; se invece non esiste, già la verità stessa è Dio. Sia dunque che quello esista sia che non esista, non potrai comunque negare che Dio esiste. [Il libero arbitrio, II, 15, 39, trad. modificata]



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parte II L’età tardo-antica: gli inizi del pensiero cristiano e l’ultimo neoplatonismo

Un secondo punto da notare è che, se le sensazioni non sono affidabili e se le nostra mente mutevole non può essere la causa di verità immutabili ed eterne, non resta che ammettere che tali verità provengano in noi direttamente dalla verità assoluta, sono cioè elargite dal lume stesso della ragione. Questo lume è Cristo, che opera quindi in noi come un maestro interiore, illuminando la nostra mente e comunicandole – appunto tramite questa “illuminazione” – le verità intelligibili (si tratta di una tesi esposta da Agostino soprattutto nel dialogo Il maestro, composto tra il 388-390, che avrà poi grande fortuna nel pensiero medievale, in alternativa alla teoria aristotelica dell’astrazione). Infine, si deve osservare che l’anima ci permette di giungere a Dio essenzialmente perché è immagine di Dio. Secondo quanto Agostino sottolinea soprattutto nella Trinità, l’anima umana reca in sé i segni della Trinità divina, come mostrano, per esempio, sia la triade essere/conoscere/volere sia la triade mente/conoscenza/amore. Agostino suggerisce questo tipo di analogia: in primo luogo, l’anima è, come il Padre; in secondo luogo, dal suo essere genera l’intelligenza di sé, esattamente al modo in cui il Padre genera il Figlio, il Verbo; in terzo luogo, il rapporto tra essere e intelligenza si esprime come vita e volontà, al modo in cui lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio. Oppure: l’anima è pensiero (mens) da cui scaturisce la conoscenza (notitia) e dal rapporto tra questi due termini si origina l’amore per sé (amor). La presenza in noi di questi segni dimostra, in ultima analisi, che Dio è radicato al centro di noi stessi, anche se non ne siamo consapevoli, ed è anzi qualcosa di più intimo di noi stessi, che possiamo perciò (e anzi dobbiamo) riattingere a partire da noi stessi. Le confessioni sono proprio il racconto (in una forma letteraria innovativa) di questa scoperta, del fatto cioè che Dio è ciò che vi è di più intimo in noi, ma sono contemporaneamente il riconoscimento dell’azione in noi della grazia irresistibile (della grazia cioè che non può trovare nessuna resistenza da parte umana), ovvero del modo in cui Dio ci trasforma dall’interno. In questo senso, è impossibile considerare Le confessioni come una semplice autobiografia, perché le vicende biografiche dell’autore sono sempre inserite in una più ampia prospettiva teologica: la storia di Agostino esemplifica la storia generale della redenzione dell’umanità (o, meglio, di parte dell’umanità) dal peccato per l’intervento della grazia.

1. Per Agostino l’anima: a. non può costituire una via d’accesso

al mondo intelligibile e a quello divino. b. elabora le immagini delle cose sensibili attraverso l’azione dei corpi esterni su di essa. c. elabora da sé le verità intelligibili. d. è mutevole.

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2. Il tema dell’anima in Agostino trova maggiori punti di contatto con: a. il neoplatonismo. b. Plotino. c. il medioplatonismo. d. il tema della grazia. 3. Essere, conoscere e volere sono segni dell’anima che dimostrano propriamente: a. l’esistenza di Dio. b. la natura attiva dell’anima. c. l’azione sull’uomo della grazia irresistibile di Dio. d. la sostanziale fattura divina dell’anima umana.

12 Il tempo Il libro XI delle Confessioni contiene un’originale e celebre trattazione del tempo. In realtà, il tema non rappresenta una digressione occasionale, ma si inserisce nell’ambito dell’esegesi della Genesi che occupa gli ultimi tre libri dell’opera. Agostino intende qui salvaguardare la dottrina della creazione dal nulla e contemporaneamente evitare ogni possibile commistione di piani tra l’immutabilità divina e la temporalità del creato. La domanda di coloro che mettono in dubbio la creazione dal nulla – “cosa faceva Dio prima di creare il mondo?” – è, così, mal posta (al di là della risposta sarcastica che Agostino si diverte a citare, ma non fa propria: «Non rispondo come quel tale, che, dicono, rispose, eludendo con una facezia l’insidiosità della domanda: “Preparava la geenna [e cioè l’inferno] per chi scruta i misteri profondi”» [Le confessioni, XI, 12, 14]). Dio non è pensabile al di fuori della sua eternità, così come il complesso della creazione non è pensabile al di fuori della sua mutabilità. Dunque, non ha senso alcuno interrogarsi sull’attività di Dio prima della creazione, perché prima della creazione non poteva esserci tempo alcuno: il tempo è il modo di essere delle creature, non del Crea-

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Agostino d’Ippona capitolo 10

tore. Detto ancora altrimenti, il tempo è anch’esso una creatura, che non preesisteva alla creazione. Ma resta da comprendere cosa esso sia:



Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere. [Le confessioni, XI, 14, 17]



Il tempo sembra introvabile, inesistente: il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora, e il presente non può che ridursi a un istante impalpabile, inesteso, e dunque altrettanto introvabile e inesistente. Il presente, infatti, sconfina sempre nel passato e nel futuro (è il continuo trapassare del futuro nel passato), ma poiché questi ultimi non sono, sconfina sempre nel nulla, annientandosi. Questa labilità ontologica del tempo si salda alla concezione generale che Agostino ha del mondo sensibile, secondo cui le cose, in quanto mutevoli, propriamente non sono o sono quasi nulla, sono sempre frammiste di essere e nulla. Eppure noi percepiamo il tempo, lo misuriamo nell’anima: e come potremmo misurare quel che non esiste? Tutto ciò che si può misurare deve essere, cioè deve avere una sua estensione, deve essere presente. Dunque, dovremo dire che non misuriamo il passato e il futuro in quanto tali, ma qualcosa che è presente del passato, qualcosa che è presente del futuro, e, per quanto paradossale possa sembrare, qualcosa che è presente del presente. Ma non esiste un altro luogo (non fisico) in cui passato e futuro possano essere presenti se non l’anima: è infatti nella memoria che il passato continua a esser presente, è nella visione che il presente permane, ed è nell’attesa che

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il futuro si fa già presente. Da qui la conclusione agostiniana: il tempo è una «distensione dell’anima» [ T37], nel senso che l’anima offre al passato, al presente e al futuro quell’estensione che nella realtà esterna non hanno né possono avere:



È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti