54 0 2MB
Enrica Perucchietti Gianluca Marletta
Governo Globale LA STORIA SEGRETA DEL NUOVO ORDINE MONDIALE
www.ariannaeditrice.it
Avviso di Copyright © Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro digitale può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma tramite alcun mezzo elettronico, digitale, meccanico, fotocopie, registrazioni o altro, senza il preventivo permesso scritto dell’editore. Il file acquistato è siglato digitalmente, risulta quindi rintracciabile per ogni utilizzo illegittimo. Il file trasmesso è immodificabile, ogni alterazione dei contenuti è illegale. coordinamento editoriale
Sara Broccoli
revisione
Jeanne Cogolli
editing
Claudio Corvino,
Valentina Pieri
copertina
Matteo Venturi
I edizione eBook
gennaio 2013
Collana:
Un’Altra Storia ebook: ePubMATIC.com
ISBN 9788865880838 © Arianna Editrice 2013 è un marchio del Gruppo Editoriale Macro Sede: Viale Carducci 24, 40125 Bologna Telefono e fax: 051.8554602 Email: [email protected] - [email protected] Sito: www.ariannaeditrice.it
Gentile Lettrice, Gentile Lettore, i testi che ti proponiamo coinvolgono molte persone - traduttori, redattori di testi informativi e promozionali, correttori bozze, attività amministrative e burocratiche. Sono tutte persone appassionate e competenti che sono impegnate in questi lavori e ne ricavano le risorse economiche per vivere. Se i libri (cartacei o in forma di ebook) e Dvd che diffondiamo, invece di essere acquistati, vengono duplicati, riducendo le nostre entrate, per noi può risultare difficile compiere gli investimenti necessari alla produzione di nuovi materiali. Per questo, Gentile Lettrice e Lettore contiamo sulla tua solidarietà per appoggiare e favorire la diffusione dell’editoria indipendente. Restiamo a tua disposizione per ogni ulteriore chiarimento, puoi scriverci alla seguente email: [email protected]
..e Buona Lettura!!! Lo staff Gruppo Editoriale Macro
Indice Introduzione Che cos’è il Nuovo Ordine Mondiale? Parte Prima Alle radici di un’idea: dalla Riforma protestante alla “missione” della stirpe anglosassone Messianismo e Nuovo Ordine Mondiale La questione dei “poteri occulti” Dal popolo alla “massa”: tecniche e strategie per un dominio globale La creazione del Mondo Nuovo: droga, sesso, depopolazione e “nuova spiritualità” Parte Seconda Come abbattere un regime: da Wikileaks alla “Primavera araba”, il sogno di un Nuovo Medio Oriente Signoraggio e crisi economica: da Kennedy a Obama Il “trattamento” Milosevic e le guerre dell’Impero: dalla Serbia alla Libia 11 settembre 2001: le menzogne dell’Impero e la dottrina della guerra “preventiva” Guerra al terrorismo, ovvero gli interessi delle lobby in Iraq e in Afghanistan Le nove vite dello Sceicco del terrore: Osama bin Laden False flags e scandali di corte: dalla strage norvegese all’Eliseo Italia, Stato di banchieri: dalle profezie di Tremonti al tecnogoverno Monti L’ombelico del Nuovo Mondo: USA o Cina?
Appendice Intervista al Maestro Venerabile emerito Gioele Magaldi, leader di Grande Oriente Democratico: intervista rilasciata a Enrica Perucchietti il 2 luglio 2012 Note sugli autori Quarta di copertina
«Di qualunque cosa siano fatte le anime, certo la sua e la mia sono simili». A Sebastian Di Giovanni che, nonostante la distanza, mi ispira e sostiene con la sua saggezza e il suo spirito. A Barbara, Davide ed Emanuele, per il loro amore e la loro comprensione. A Enzo Pennetta, Mario Iannaccone e Marcello Pamio, per la loro collaborazione e l’amore della verità. E a tutti coloro che ancora hanno speranze su come andrà a finire.
«Ci sarà, in una delle prossime generazioni, un metodo farmacologico per fare amare alle persone la loro condizione di servi, e quindi produrre dittature, come dire, senza lacrime; una sorta di campo di concentramento indolore per intere società, in cui le persone saranno private di fatto della loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici». ALDOUS HUXLEY, (da un discorso tenuto nel 1961 alla “California Medical School” di San Francisco)
Introduzione
CHE COS’È IL NUOVO ORDINE MONDIALE? «Che vi piaccia o no, avremo un governo mondiale, o con il consenso o con la forza». (James Warburg, banchiere, alla Commissione Esteri del Senato USA, 17 febbraio del 1950) «Non si tratta soltanto di una piccola nazione, ma di una grande idea: un Nuovo Ordine Mondiale, nel quale nazioni diverse l’una dall’altra si uniscono in un impegno comune per raggiungere un traguardo universale dell’umanità: pace e sicurezza, libertà e Stato di diritto». (George H.W. Bush, 29 gennaio 1991, discorso davanti al Congresso) «Siamo davanti a una grave crisi globale che richiede forti risposte globali». (George W. Bush, 11 ottobre 2008) «Alcuni, ritenendo che facciamo parte di una setta segreta che manovra contro gli interessi degli Stati Uniti, definiscono me e la mia famiglia “internazionalisti”, e ci accusano di cospirare con altri nel mondo per costruire una più integrata struttura politico-economica globale, un nuovo mondo, se volete. Se questa è l’accusa, mi dichiaro colpevole e sono orgoglioso di esserlo». (David Rockefeller, Memorie) «C’è sintonia, tra me e Benedetto XVI, nel sostenere un Nuovo Ordine Mondiale». (Giorgio Napolitano, 31 dicembre 2006)
uovo Ordine Mondiale, Massoneria, Illuminati, Club Bilderberg, Commissione Trilaterale, Pilgrim Society, Aspen Institute, Bohemian Grove, signoraggio, 11 settembre, sinarchia: questi sono solo alcuni dei termini che ricorrono sempre più frequentemente nei siti, nei blog, nelle riviste, nei libri e nei film contemporanei, che strizzano l’occhio alle teorie del complotto. Alla base di tali studi – più o meno documentati – troviamo l’idea, sempre più diffusa, dell’esistenza di un progetto secolare atto a instaurare un governo oligarchico1, “di pochi”: un Nuovo Ordine Mondiale, appunto. Sull’ondata della profezia Maya in merito all’imminente fine dei tempi, la sensazione che la fine della nostra civiltà possa coincidere con l’instaurazione di un governo globale di stampo totalitario si è trasmessa a gran parte della popolazione mondiale. Le catastrofi naturali, le crisi economiche e il disincanto delle masse nei confronti della politica hanno insinuato il dubbio che qualcosa di tremendamente drammatico stia per accadere. I segni di una trasformazione generale della società e del mondo, così come lo conosciamo, vengono di volta in volta individuati nei più disparati settori. Prova ne sono i numerosi romanzi e film apocalittici che, facendo proprie le preoccupazioni del grande pubblico per l’imminente futuro, si sono riappropriati
N
dell’estetica e del linguaggio letterario del genere fantapolitico, il quale ha avuto i suoi massimi rappresentanti nel Novecento in opere come Il Tallone di ferro di Jack London, Mondo Nuovo di Aldous Huxley, Qui non può accadere di John Sinclair Lewis, 1984 di George Orwell, La Svastica sul Sole di Philip Dick, Farheneit 451 di Ray Bradbury. Da London a Dick, infatti, passando per autori “minori” come Richard Matheson, Harry Turtledove o Robert Harris, la narrativa ha coltivato il genere della distopia2, inventando sempre più nuovi scenari ambientati in un futuro prossimo, in cui le regole della democrazia si sono infrante contro lo scoglio dei totalitarismi. Dai classici al genere cyberpunk, i racconti e i romanzi narrano di società in cui le masse sono imbrigliate, manipolate e controllate da un governo di pochi. Questa forma di oligarchia è la stessa che viene riproposta oggi da film quali Equilibrium, Matrix, I figli degli uomini, Babylon AD, The Road, Timeline, Hunger Games. Non è un caso che Hollywood abbia rilanciato una serie di remake come Total recall (Atto di forza), tratto da un racconto di Philip Dick. Che cos’è, però, questo “Nuovo Ordine Mondiale” a cui, sempre più frequentemente, alludono anche politici, economisti, uomini di cultura e persino esponenti religiosi? Quanto c’è di vero, nella sensibilità letteraria di romanzieri e sceneggiatori che prevedono il crollo delle democrazie e l’avvento forzato di un governo globale? Che cosa si cela dietro questa espressione, sussurrata ormai pressoché di continuo nei palazzi istituzionali? Sull’onda della diffusione globale di internet, la cultura popolare si è sbizzarrita nel tentativo di rispondere a questa domanda, tanto che l’espressione Nuovo Ordine Mondiale – o NWO3, secondo la sigla inglese – è ormai una delle più cliccate del web. Nell’immaginario popolare, peraltro, questa espressione ha finito per identificarsi con l’idea che esista una mostruosa cospirazione universale guidata da “poteri forti”, finalizzata al dominio delle genti di tutta la Terra: “poteri forti” identificati, di volta in volta, con i Massoni, gli Ebrei, i Gesuiti, le grandi multinazionali, i satanisti, la Grande Babilonia dell’Anticristo (nelle versioni più religiose) e persino con fantomatiche razze aliene (per lo più i “rettiliani”, secondo la versione proposta da David Icke), che avrebbero preso il controllo del Pianeta fin dalla più remota antichità… Tutto questo gran parlare di NWO, naturalmente, se da una parte è sintomo di quel bisogno di comunicazione (e condivisione) che è uno degli aspetti più affascinanti della nostra epoca, si trasforma però molto spesso in una straordinaria forma di disinformazione, in cui troppo spesso notizie documentate e attendibili vengono accostate senza troppi scrupoli con illazioni indimostrabili,
con conseguente discredito su tutta la questione attinente all’argomento. Eppure, al di là delle confusioni generate dalla cultura web, il Nuovo Ordine Mondiale, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, è, al contrario, un argomento serio, che questo saggio vuole indagare trasversalmente, a partire dai dati e dalle informazioni che la ricerca storica e giornalistica può fornire, lasciando che a parlare siano i fatti ed evitando, nella misura del possibile, di cadere nella trappola del giudizio e dell’interpretazione soggettiva.
Alle radici dell’ideologia “mondialista” Per comprendere che cosa sia il Nuovo Ordine Mondiale, innanzitutto, è necessario ricostruire le tappe che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia mondialista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici (oltre che spirituali e teologici). Anche l’ideologia del NWO, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità, trova adesione e sostegno: un progetto nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo nel Nord Europa. L’ideologia mondialista, al tempo stesso, ha recepito, nei secoli, anche altri tipi di influssi; sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, s’innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica e occultista di matrice massonica e un certo neomessianismo di matrice ebraica. A dispetto dell’eterogeneità delle origini, tuttavia, le correnti destinate a generare l’ideologia mondialista sembrano avere avuto alcune caratteristiche comuni, che le renderanno, per così dire, naturalmente “convergenti” fra loro. Stiamo parlando, su tutte, dell’elitismo tipico di chi si percepisce come depositario di una volontà o di una ragione destinata a pochi e che si traduce, quasi necessariamente, nella pratica della dissimulazione, dell’azione da “dietro le quinte” e nell’ambiguo rapporto con una “massa” vista al contempo come “popolo da condurre” e “strumento da manipolare”.
Caratteristiche e finalità dell’ideologia mondialista Ma quali sarebbero, in definitiva, le caratteristiche e gli scopi ultimi del
NWO? Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, alcune costanti fondamentali sembrano essere: 1. l’evidente aspirazione a una res publica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite; 2. la diffusione o imposizione di un pensiero omologato tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di “pensiero unico globale”; 3. la lotta contro le “identità forti”, difficilmente omologabili alla cultura mondialista, come il Cristianesimo cattolico e ortodosso o l’Islam, ritenuti strutture “irriducibili” al progetto del NWO; 4. una strategia d’azione, privilegiante, come detto in precedenza, l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica4), così magistralmente descritto dal politico e premio Nobel per la pace Nicholas Murray Butler, per cui il mondo si dividerebbe in tre categorie: «un piccolissimo numero di persone che fanno produrre gli avvenimenti, un gruppo un po’ più importante che veglia sulla loro esecuzione e assiste al loro compimento e una vasta maggioranza, che giammai saprà ciò che in realtà è accaduto».
Un altro aspetto dell’ideologia mondialista è il suo rapporto stretto – quasi fino a una vera e propria identificazione – con i grandi potentati economici: a tal punto che, nell’immaginario di molti, il NWO ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali, che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile.
Esiste il Grande Complotto? Nell’affrontare il tema del NWO non si può naturalmente ignorare quella teoria del Grande Complotto, che secondo alcuni dirigerebbe le sorti del mondo da secoli. Questa tesi estrema nasce già a partire dal periodo successivo alla Rivoluzione Francese, quando autori come Augustin Barruel, ravvisando una “non spontaneità” negli eventi rivoluzionari in corso, ipotizzarono l’esistenza di una cospirazione in grande stile che guidasse da dietro le quinte gli accadimenti più drammatici del loro tempo. È su questa direttrice che degli autori, appartenenti soprattutto al mondo del conservatorismo cattolico (ma non solo)5, hanno sviluppato, tra il XIX e il XX secolo, una serie di ipotesi atte a dimostrare l’esistenza di un “progetto unico” di cospirazione mondiale, che presiederebbe agli eventi della modernità, con lo scopo finale di distruggere il “mondo tradizionale” e instaurare un potere unico di ispirazione “satanica”. Un “mito del complotto” che, negli ultimi decenni, è tracimato dal contesto originale di tipo conservatore per “contagiare” il mondo della cultura alternativa postmoderna che utilizza i mezzi di comunicazione di massa. Naturalmente, è chiaro che tale ipotesi di “complotto universale” ha il difetto
di essere indimostrabile in sede storica. Se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del NWO, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale, che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e di “poteri” in una complicità di interessi e di azioni: è la storia di questo processo sotterraneo e non sempre visibile a tutti, al tempo stesso ideologico e politico, che il nostro saggio vuole descrivere, dalle origini agli ultimi eventi di cronaca, che scorrono oggi davanti agli occhi di noi tutti. Enrica Perucchietti Gianluca Marletta NOTE 1. Già Aristotele nella sua Politica condannava l’oligarchia come degenerazione dell’aristocrazia, considerata, invece, una forma di governo “retta”. 2. Per “distopia” s’intende una società indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Il termine è stato coniato come opposto di “utopia” ed è soprattutto utilizzato in riferimento alla rappresentazione di una società fittizia (spesso ambientata in un futuro prossimo), nella quale le tendenze sociali sono portate a estremi apocalittici. 3. New World Order. 4. L’autore italiano Silvano Panunzio suddivideva la Politica in tre grandi filoni: criptopolitica, politica e metapolitica. La criptopolitica è il regno oscuro e sotterraneo dei complotti e dei ricatti, dominato da forze nascoste e occulte che, per ragioni di puro potere economico e di dominio sulle coscienze individuali e collettive, conducono una guerra che non ha mai tregua, nemmeno nei periodi di apparente pace, al fine di impedire il provvidenziale e armonico cammino dell’umanità. Secondo la definizione di Panunzio, la criptopolitica comprenderebbe, al suo estremo inferiore, la criminalità organizzata; al livello intermedio, i Servizi segreti di tutti i Paesi; al livello superiore, le consorterie finanziarie di ogni genere. 5. Tra questi, possiamo ricordare i cattolici Leon de Poncins o Emmanuel Malynski, autori del saggio La guerra occulta (trad. it., editrice Ar di Padova), o l’esoterista con tendenze neopagane Julius Evola.
PARTE PRIMA A cura di Gianluca Marletta
«Conoscerete la verità, e la verità vi renderà folli». (Aldous Huxley) «Il nuovo padrone della terra [l’Anticristo; N.d.A.] è anzitutto un filantropo, pieno di compassione, amico non solo degli uomini, ma anche degli animali. Personalmente era vegetariano, proibì la vivisezione e sottopose i mattatoi a una severa sorveglianza; le società protettrici degli animali furono da lui incoraggiate in tutti i modi. La più importante di queste sue opere fu la solida instaurazione in tutta l’umanità dell’uguaglianza che risulta essere la più essenziale: l’uguaglianza della sazietà generale. […] [Egli; N.d.A.] ha un nobile rispetto per tradizioni e simboli antichi con un vasto e coraggioso radicalismo negli affari sociali […], una smisurata libertà di pensiero con una profonda comprensione di tutte le realtà mistiche, un assoluto individualismo con una totale dedizione al bene comune». (Vladimir Soloviev)
ALLE RADICI DI UN’IDEA: DALLA RIFORMA PROTESTANTE ALLA “MISSIONE” DELLA STIRPE ANGLOSASSONE «Il Tribunale della Pace dovrà vegliare sulla saggezza umana. […] Questo collegio potrebbe anche chiamarsi Direttorio delle potenze del Mondo, Senato del mondo o Areopago del mondo». (Ian Amos Comenius) «[…] il gran giorno, nel quale piacerà a Dio chiamare la vostra Maestà, o i vostri eredi o gli altri principi riformati, a quella grande riforma universale e distruzione di quella città e di quel trono anticristiano: Roma». (John Napier, matematico, al re d’Inghilterra Enrico VI)
li antichi popoli credevano che ogni terra possedesse un cuore, un centro fondante, dov’è l’anima stessa di un luogo: forse anche il più grande sovrano della dinastia dei Tudors, Enrico VIII, colui che ha plasmato l’Inghilterra nel modo in cui la conosciamo oggi, doveva credere a questa tradizione quando, con un atto senza precedenti, decise di sradicare il simbolo stesso del passato della sua nazione: l’Abbazia di Glastonbury nel Somerset, il cuore della Britannia. Glastonbury Hill, la collina che i Celti chiamavano Inis Vitril (l’Isola Trasparente), era il luogo in cui la tradizione pagana e quella cristiana si erano incontrate e in cui la leggenda poneva la tomba di re Artù, il mitico artefice di questa straordinaria sintesi fra due mondi. Le ossa di Arthur Pendragon e quelle della sua regina vennero rubate e disperse, Glastonbury fu rasa al suolo e il suo ultimo abate Withing fu condannato a morte. Queste erano le misure volute dal potente sovrano, per distruggere fin nelle radici il vecchio ordine e potere così inserire in quella terra ricca di storia i germi del suo Nuovo Ordine. Il progetto di Enrico VIII, che nel XVI secolo portò alla progressiva appropriazione da parte della Corona di proprietà e poteri fino a quel momento appannaggio dei monasteri inglesi, gallesi e scozzesi, tuttavia, non costituisce un caso isolato, nell’Europa dell’epoca.
G
La “svolta” della Riforma La Riforma Protestante rappresenta la chiave di lettura per comprendere la “svolta”, che il mondo occidentale ha conosciuto a cavallo dell’Età Moderna e costituisce, inoltre, un elemento fondamentale per capire come si sia sviluppata, nel corso dei secoli successivi, l’idea di un Nuovo Ordine Mondiale da imporre a
tutti i popoli. Ben al di là delle intenzioni di Martin Lutero, infatti, la rivoluzione iniziata con la Riforma rappresenta un vero e proprio “punto di non ritorno”, per la civiltà cristiana. Con la sua rottura e la “demonizzazione” di Roma e del Cattolicesimo, Lutero mette di fatto fine all’era medievale, ovvero a un’intera civiltà, fiorita dall’incontro tra la rivelazione cristiana e la tradizione classica e arricchitasi, nel corso dei secoli, dei contributi delle più svariate culture. Il crollo della civiltà medievale e l’insorgere e il diffondersi della Riforma Protestante, peraltro, avranno il risultato di “mettere in moto” tutta una serie di energie e di tendenze culturali e spirituali, che erano rimaste, fino a quel tempo, sopite. Il gesto di ribellione di Lutero, infatti, assume anche il significato simbolico del «non riconoscere, al di fuori dell’individuo e della sua “ragione”, alcun tipo di principio superiore», alcuna autorità1, generando una critica feroce, rivolta innanzitutto contro le antiche istituzioni, che avevano incarnato lo spirito del Medioevo; ovvero, oltre alla Chiesa di Roma, il Sacro Romano Impero, detenuto all’epoca dalla casata degli Asburgo. Ed è proprio nell’ambito della critica protestante contro Roma e l’Impero che sorge a poco a poco l’aspirazione a realizzare un Nuovo Ordine del mondo, che possa sostituirsi al vecchio.
I Rosa Croce e l’utopia del “rinnovamento del mondo” Abbiamo visto, dunque, come la Riforma, in una sorta di effetto domino, abbia avuto anche l’effetto di “liberare” una serie di energie destinate, con il tempo, a prendere forma in quello che una storica come Frances Yates ha definito «movimento trasversale»2: uno spirito di rinnovamento, aspirante a trasformare i destini del mondo. Tali idee, all’epoca considerate ancora estremiste e relegate ai margini dallo stesso “mondo riformato”, si svilupperanno inizialmente all’interno della complessa galassia di sette e di movimenti, che allo spirito di ribellione tipico del Protestantesimo uniranno anche suggestioni e idee prese in prestito da antiche dottrine magiche e da tradizioni esoteriche. Sarà in questo tipo di ambiente, ad esempio, che prenderà forma il fenomeno enigmatico rappresentato dall’apparire sulla scena della cosiddetta Fraternità dei Rosa Croce. Della vicenda dei Rosa Croce, in realtà, non tutto può essere ricostruito in sede storica: la maggior parte degli studiosi è addirittura propensa a vedere in questa enigmatica Fraternità unicamente una rappresentazione ideale delle aspirazioni di un certo mondo culturale dell’epoca, imbevuto di passioni esoteriche e, al tempo stesso, di aspirazioni riformatrici.
Di fatto, gran parte di quello che sappiamo sui Rosa Croce proviene da una serie di testi anonimi e da alcuni manifesti, affissi sulle mura di Parigi e di Francoforte a partire dall’anno 1614. Secondo tali documenti, la Fraternità dei Rosa Croce sarebbe stata una congrega di antichissima origine, provvista di immensa sapienza e di poteri inesauribili. Il nome della Fraternità, dall’evidente rimando simbolico3, viene fatto risalire a un mitico personaggio di nome Christian Rosenkreutz, che sarebbe vissuto a cavallo fra XIV e XV secolo e le cui vicende di vita sono anch’esse simboliche4. Più interessante, nella nostra ottica, è invece constatare quale sarebbe stato il fine ultimo della misteriosa Fraternità: inaugurare un generale rinnovamento dell’umanità, ovvero creare un nuovo ordine valido per tutti i popoli. Fin dal primo manifesto rosacrociano, apparso nel 1614 nella città tedesca di Kassel, in effetti, l’intento rivoluzionario e politico viene richiamato addirittura dal suo titolo: Comune e generale Riforma di tutto il vasto mondo, seguito della Fama Fraternitatis del lodevole ordine dei Rosa Croce rivolta a tutti sapienti d’Europa. Nello stesso documento, che è diviso in tre parti, viene proposta una trasformazione della società basata sulla redistribuzione della ricchezza e l’abolizione dell’uso della moneta. In realtà, è opinione della maggior parte dei critici che i principali documenti “rosacrociani” non siano altro che un parto della fantasia di Johann Valentin Andreae, personaggio di spicco della cultura luterana tedesca dell’epoca, ma anche cultore (e indubbio conoscitore, almeno in una certa misura) di dottrine cabalistiche ed esoterico-cristiane, che il nostro, inaugurando una moda tipicamente moderna, “rielaborerà” ingegnosamente in chiave politico-sociale. Lo stesso Andreae, ormai malato, indirizzerà nel 1632 una lettera all’allora vescovo dei Fratelli Moravi – gruppo religioso, nato in Boemia dalla fusione del luteranesimo con le dottrine degli hussiti locali – Jan Amos Kominsky (detto in latino Comenius), designandolo di fatto come suo ideale successore, ed è a Comenius che dobbiamo la prima rappresentazione ideale di un Governo Unico Mondiale, destinato a soppiantare tutti i poteri e gli Stati e a estendersi a tutta la Terra.
Comenius: ideologo del Governo Mondiale L’opera del filosofo Comenius è indispensabile per comprendere le radici dell’idea moderna di un Nuovo Ordine Mondiale. Da questo punto di vista, non ci sembra un caso che proprio l’UNESCO – il “braccio culturale” dell’ONU – abbia curato direttamente la traduzione e la pubblicazione di alcuni passaggi scelti dalla sua opera, riconoscendogli il ruolo di “precursore ideale”:
«Comenius deve dunque essere considerato come un grande precursore degli attuali tentativi di collaborazione internazionale […]. E per questo l’UNESCO e il Bureau International d’Education gli debbono il rispetto e la riconoscenza che merita un grande antenato spirituale»5. «Uno dei primi propagatori delle idee alle quali si è ispirata l’UNESCO fin dalla sua fondazione»6.
La vita di Comenius è una grande avventura: fuggito dalla Boemia nel 1628, dopo la vittoria degli Asburgo cattolici contro l’insurrezione dei Fratelli Moravi, egli viaggia attraverso tutta l’Europa protestante, fino a giungere in Inghilterra e poi in Olanda, conoscendo e frequentando gli ambienti più all’avanguardia del mondo riformato e rimanendo fortemente influenzato dalle suggestioni rosacrociane e dalle idee di “rinnovamento globale del mondo”, che pervadevano le frange estreme del Protestantesimo dell’epoca. Proprio in Olanda, morì il 15 novembre del 1670. L’opera politica più significativa di Comenius è certamente la Panorthosia (traducibile come “Diritto Universale”); in essa l’autore elabora la sua avveniristica visione di un’autorità mondiale la cui funzione sarebbe quella di riformare l’educazione (anche a partire dalla creazione di una neolingua universale), trasformare e unificare le religioni e vegliare sulla pace globale prevenendo i conflitti. A questo scopo, Comenius auspica la creazione di tre “comitati universali”, a cui siano sottoposte rispettivamente la cultura, la religione e la politica: «Sarà utile distinguere quei tribunali con appellativi diversi, chiamando Consiglio della Luce il tribunale dei dotti, Concistoro il tribunale ecclesiastico e Tribunale della Pace il tribunale politico»7. Un simile progetto di rinnovamento e riunificazione universale non potrà però realizzarsi, secondo Comenius, prescindendo dall’eliminazione dei due grandi poteri, che a questa riforma si sarebbero naturalmente opposti, ovvero la Chiesa di Roma e gli Asburgo. Ed è a questo punto che il pensiero di Comenius manifesta tutto l’ardore della sua visione apocalittico-profetica. Nella prefazione di una delle sue ultime opere, Lux in tenebris8, si leggono quelle che, secondo l’autore boemo, saranno le fasi salienti che condurranno all’instaurazione del nuovo mondo: «Il Papa è il grande Anticristo e la Meretrice di Babilonia. La Bestia, che porta la Meretrice, è il Romano Impero: particolarmente la Casa d’Austria. Dio non tollererà più a lungo questo stato di cose: anzi distruggerà infine il mondo degli empi in un diluvio di sangue. Perciò metterà in tumulto il Cielo e la Terra, cioè metterà gli uni contro gli altri i Popoli per provocare un caos mai visto. L’esito di queste guerre sarà la morte del Papa e della Casa d’Austria. Ciò avverrà per mezzo dei Popoli provocati dalla loro tirannide, che si precipiteranno dalle quattro parti del mondo».
Il riferimento più immediato è, naturalmente, al testo dell’Apocalisse di Giovanni, frequentemente soggetto a spregiudicate interpretazioni presso le frange più estreme della Riforma. Nella sua visione, però, Comenius sembra contemplare quelle che, di lì a poco, diventeranno le tappe di un processo politico e rivoluzionario destinato realmente a cambiare la faccia del mondo.
L’Inghilterra, nuovo popolo eletto Questo insieme di suggestioni e di idee cominceranno a prendere forma concreta in un solo Paese d’Europa: l’Inghilterra. È lì, infatti, che le tendenze rinnovatrici e l’odio contro il “vecchio ordine”, rappresentato dal Cattolicesimo e dall’Impero, troveranno una straordinaria accoglienza, non solo a livello popolare, ma anche all’interno della Corte reale di Enrico VIII. L’identificazione tra l’Inghilterra, il suo regno e il Nuovo Ordine del mondo sognato dai filosofi protestanti più estremi, tuttavia, diventerà un fatto solo con l’ascesa al trono della figlia di Enrico VIII, quell’Elisabetta I sotto la quale il movimento trasversale che permea il mondo protestante di allora prende finalmente forma. Elisabetta è una donna di larghe vedute, appassionata di occulto e circondata da maghi e astrologi (il mago e alchimista John Dee su tutti) ma animata al tempo stesso da una sincera fede nella Bibbia: sarà lei a incoraggiare la nascita di quei presupposti non solo politici, ma anche ideologici, su cui si baseranno secoli di imperialismo britannico: primo su tutti, l’identificazione dell’Inghilterra come “nuovo Israele” e “nuovo popolo eletto” destinato al dominio sul mondo, che rappresenta un caso unico e senza precedenti nell’intera storia del Cristianesimo. Secondo l’ideologia politica elisabettiana, infatti, quello dell’Inghilterra sarebbe stato il popolo scelto da Dio per “rinnovare l’umanità” e distruggere i vecchi poteri rappresentati dalla Chiesa di Roma e dall’Impero asburgico. Questo mito sarà subito condiviso dal popolo britannico, dagli uomini di Corte e dalle infiammate folle di ardenti predicatori, che percorrevano in lungo e in largo l’isola. È del 1587, ad esempio, la lettera indirizzata dal (ex) pirata Francis Drake – divenuto nel frattempo Sir – il cui incipit recita: «Che Dio sia glorificato, la sua Chiesa e la sua Regina preservate, i nemici della verità vinti e si possa avere ininterrotta pace in Israele». Il termine “Israele”, naturalmente, indica il Regno di Elisabetta, identificando di fatto il Regno d’Inghilterra con l’antico popolo eletto della Bibbia. Nello stesso periodo, il mago di corte John Dee «disegna, in quello che egli
definirà un “geroglifico britannico”, una regina Elisabetta che salpa su una nave chiamata “Europa” per diventare, con la sua monarchia imperiale, la guida della Cristianità»9. Sono suggestioni, che verranno riprese con maggior forza, negli anni successivi al regno di Elisabetta, anche da letterati come John Milton «per il quale il popolo inglese era paragonabile a quello ebraico: un popolo eletto, che doveva guidare l’Europa contro l’Anticristo incarnato dal Papa»10. Tornando al XVI secolo elisabettiano, tuttavia, se questa era l’ideologia di corte, una forma analoga – ma animata da un più focoso fanatismo – prendeva piede presso le classi più popolari: «Era scoppiata d’improvviso in Inghilterra una febbre religiosa straordinaria. Si cominciò a diffondere la convinzione profonda che l’Inghilterra avesse una missione speciale da compiere»11. Era, in parte, l’effetto della diffusione della cosiddetta Genevre Bible, la Bibbia di Ginevra, prima traduzione delle Scritture in lingua inglese compiuta nella città elvetica e opera in gran parte dell’esule William Whittingham, profondamente ispirato dal suo amico e riformatore Calvino, con cui si era anche imparentato avendo sposato la sorella della moglie di lui. Di questa Bibbia, che ebbe una diffusione senza precedenti in Inghilterra, particolare importanza rivestivano le note, il cui tono era spesso «di aspra polemica nei confronti della Chiesa cattolica. Il Papa era il nemico, l’Anticristo, la bestia che viene fuori dall’abisso senza fondo»12. Il movimento estremistico che ne deriverà, quello dei cosiddetti Puritani, spesso animati da un profondo disprezzo verso coloro che consideravano “noneletti”, ovvero predestinati da Dio alla dannazione, penetrerà anche le gerarchie della Chiesa anglicana, in continua lotta contro le rimanenti abitudini popish (papiste), mantenute nel rito dalla stessa Elisabetta. L’aspetto più importante, tuttavia, sarà la grande importanza che avranno le frange estreme del Puritanesimo nella colonizzazione dell’America del Nord e nella creazione di quella mentalità che caratterizzerà per sempre la percezione degli Stati Uniti di se stessi e l’idea di “missione universale”, che l’America si attribuirà nei confronti di tutto il mondo. Ma questa, almeno per il momento, è un’altra storia.
Dal “Collegio Invisibile” alla Royal Society (fino all’UNESCO): la scienza al servizio del potere Quello che sarebbe divenuto il più straordinario strumento di potere al servizio della Corona britannica, tuttavia, era ancora lungi dal venire, quando Elisabetta I gettava le basi dell’ideologia imperialista inglese. Se ne trovano però già i prodromi sotto il regno di Giacomo I, nell’opera utopistica del filosofo
Francis Bacon, Nova Atlantis (Nuova Atlantide), in cui, secondo i canoni della letteratura fantastica del tempo, viene descritta un’immaginaria isola dei mari del sud, Bensalen, al cui centro si trova la Casa di Salomone, nella quale un gruppo di illuminati scienziati vive separato dalla massa concependo teorie e studiando la natura. Questa visione utopica risente, con tutta evidenza, delle suggestioni rosacrociane e del modello del Consiglio della Luce di cui aveva parlato Comenius, ma non passerà molto tempo che tali auspici diventeranno realtà. Già nel 1646, Robert Boyle, geniale rampollo di una delle più ricche famiglie protestanti d’Irlanda, descriveva le riunioni di un gruppo denominato Collegio invisibile. Il Collegio invisibile era una sorta di “club” di pensatori e uomini colti: il termine “collegio” derivava probabilmente dal medesimo termine utilizzato dai “nemici” cattolici Gesuiti, mentre “l’invisibilità” sarebbe rimasta tale solo fino all’auspicato riconoscimento da parte della Corona inglese; riconoscimento, che giungerà il 28 novembre 1660 con la fondazione della Royal Society – i cui membri fondatori erano, molto simbolicamente, dodici come i discepoli di Cristo ed è con la fondazione della Royal Society che si assisterà alla creazione della forma più perfetta di utilizzo della cultura come strumento a sostegno di un potere. Del resto, si tratta della medesima epoca in cui il filosofo inglese Thomas Hobbes, nel suo Leviathan, affermava che una delle condizioni indispensabili per la sopravvivenza stessa dello Stato risiedeva nel controllo delle opinioni delle masse13; mentre Christofer Wren, uno dei fondatori della Royal Society, nel preambolo all’atto costitutivo «ne indicava gli scopi, tra cui quello di stabilire le teorie filosofiche corrette con le quali avrebbe servito la Corona»14. In pratica, la Royal Society nasceva non con lo scopo di far progredire le scienze, ma con quello di utilizzare esplicitamente la scienza stessa a sostegno del potere politico e ideologico dell’Inghilterra. Bisognerà, tuttavia, attendere quel XIX secolo che vedrà l’espansione planetaria del potere britannico, perché la lobby rappresentata dalla Royal Society diventi la più potente ed efficace stampella ideologica dell’Impero di Sua Maestà. Uno degli esempi più noti di questa scienza al servizio del potere, sarà l’opera del pastore anglicano Thomas Malthus, membro di spicco della Royal Society e autore di quel An essay of the principle of the population as it affects the future improvement of society, a cui si rifanno, ancora oggi, tutti i teorici del denatalismo e della necessità di contenere o ridurre la popolazione mondiale. Secondo Malthus, infatti, poiché la popolazione tenderebbe a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti,
che aumenterebbero invece in progressione aritmetica, bisognerebbe fare di tutto per evitare il moltiplicarsi della popolazione stessa (soprattutto della sua parte più povera). A questo scopo, secondo Malthus, andavano rimossi quei “sussidi per i meno abbienti” – noti in Inghilterra, fin dal Medioevo, come Poor Laws – per evitare che le famiglie fossero invogliate a riprodursi eccessivamente, e bisognava anche mantenere i salari delle classi più povere a un livello minimo di sussistenza. Da buon religioso, naturalmente, Malthus vedeva nella castità e nella continenza il rimedio più accettabile, moralmente, per ridurre la popolazione, ma da “scienziato” non negava che «i mezzi attraverso i quali tale limitazione si attuava in natura o nelle società erano più spesso di carattere repressivo o preventivo: le vie repressive contemplavano, in un caso, l’azione della mortalità per mezzo di epidemie, guerre, carestie ecc; nell’altro, una diminuzione della natalità mediante la diffusione di tutti quei comportamenti, tra cui l’adulterio, la sodomia ecc., che causano una diminuzione delle nascite»15.
D’altronde, l’ipotesi malthusiana non faceva altro che tradurre in forma “scientifica” un sentimento classista e razzista fortemente diffuso nella società inglese dell’epoca. Il Malthusianesimo, però, se è l’antenato più o meno diretto di quei veri e propri dogmi del pensiero mondialista che saranno il denatalismo e l’eugenetica, è anche l’ispiratore di un altro “mito scientifico” anglosassone, via via imposto a tutto il mondo: il Darwinismo. Darwin stesso ne riconobbe l’apporto, specie nell’aspetto così tipico della sua ipotesi che riguarda la lotta per l’esistenza e la sopravvivenza del più “adatto”. D’altronde, anche la vicenda dell’affermazione del Darwinismo, a partire dal XIX secolo, è piuttosto significativa del ruolo fortemente politico assunto dalla scienza nella cultura britannica. Senza entrare troppo nel merito del dibattito scientifico, infatti, è evidente che l’ipotesi darwiniana, specie nella sua prima formulazione, andava incontro a contraddizioni e incongruenze difficilmente risolvibili16, delle quali lo stesso Darwin era cosciente. Nel suo L’Origine delle specie, egli riconosce: «Non ho alcuna speranza di convincere gli abili naturalisti, che hanno la mente preoccupata da una moltitudine di fatti considerati, per molti anni, da un punto di vista direttamente opposto al mio […]. Chiunque propende ad annettere un peso maggiore alle difficoltà non spiegate che alla dimostrazione di un certo numero di fatti, respingerà senza dubbio la mia teoria»17.
All’atto pratico, infatti, chi impose il Darwinismo alla società inglese e, attraverso di essa, alla cultura mondiale, non fu certo Darwin, ma un personaggio brillante e astuto, vero “capostipite” di una dinastia di intellettuali, di cui ci troveremo spesso a parlare: Thomas Henry Huxley. Presidente della Royal Society dal 1883 al 1885, Thomas Huxley fu anche il
promotore di un gruppo più ristretto ed esclusivo, l’XClub, che ebbe un influsso enorme sulla cultura britannica e la spinse all’accettazione del Darwinismo e dei suoi presupposti. Il Darwinismo, d’altro canto, con la sua idea di lotta per la sopravvivenza e di dominio del più forte ed evoluto, poteva divenire una meravigliosa stampella a sostegno dell’imperialismo inglese (ed europeo in generale); nell’ottica dell’epoca, infatti, era scontato immaginare che l’essere più evoluto al mondo fosse l’uomo bianco europeo (inglese, in particolare), destinato quindi, dalla Natura stessa, a dominare le altre culture e razze. Con la sua idea di evoluzione “casuale”, che estrometteva di fatto qualsiasi intervento divino sulla realtà, il Darwinismo diveniva inoltre uno straordinario strumento di lotta contro le “religioni tradizionali” e, in ogni caso, contro tutte quelle eredità del passato che, in un modo o nell’altro, sembravano opporsi all’affermazione globale del nuovo mondo liberal-capitalista. Alla fine dell’Ottocento, infatti, l’Inghilterra non era più quel nido di “fanatici religiosi” che era stata secoli prima, ma era divenuta, al contrario, la fucina ideologica di ogni tipo di materialismo, dell’esaltazione del potere tecnologico della macchina e del progresso, inteso come “conversione” del mondo intero alla cultura e alla civiltà moderne. Sarà solo a partire dal secondo dopoguerra, tuttavia, che il modello covato per secoli in ambiente anglosassone potrà finalmente essere imposto al mondo intero. Toccherà al nipote di Thomas, Julian Sorel Huxley – darwinista di ferro, neomalthusiano e convinto assertore dell’eugenetica – a dare forma globale a questa idea secolare. Con la nascita dell’ONU, infatti, si svilupperanno anche agenzie parallele a esso collegate, come la United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation (UNESCO), il cui primo direttore fu proprio Julian Huxley. È la realizzazione globale di ciò che Comenius aveva sognato e che la Royal Society aveva concretizzato in ambito britannico: l’idea cioè che un piccolo gruppo di illuminati detentori della verità abbia il diritto di “indirizzare” l’umanità verso scopi e fini ignoti alle moltitudini; del resto, lo stesso Julian Huxley, nel programma della Commissione preparatoria dell’UNESCO dal titolo Unesco its purpose and its philosophy18, lo afferma esplicitamente. Nel documento si legge: «Il progresso non è automatico o inevitabile, ma dipende dalla scelta umana e dallo sforzo di volontà. Prendendo le tecniche di persuasione e informazione e vera propaganda, che abbiamo imparato ad applicare come nazione in guerra, e deliberatamente unendole ai compiti internazionali di pace, se necessario utilizzandole, come Lenin previde per superare la resistenza di milioni verso il cambiamento desiderabile»19.
Propaganda di guerra utilizzata in tempo di pace per manipolare l’opinione delle masse: questo è dunque uno degli scopi programmatici delle Nazioni Unite! E questo spiega forse, almeno in parte, alcuni clamorosi e solo apparentemente “spontanei” cambiamenti, culturali e sociali, vissuti dall’umanità negli ultimi decenni. Ma se queste sono le ricadute più recenti che il pensiero imperialista maturato in ambito britannico ha avuto sul mondo globalizzato, per capire le radici del Nuovo Ordine Mondiale è necessario conoscere anche altre “correnti” che, parallelamente e spesso a stretto contatto con queste, hanno contribuito a generare l’ideologia mondialista. NOTE 1. A. Terranova, La Riforma come origine della modernità, Rimini 2000, p. 29. 2. Cfr. F. Yates, L’illuminismo dei Rosacroce, Torino 1976. 3. La rosa è, fin dal Medioevo, simbolo dell’uomo spiritualmente realizzato (i cui cinque sensi sono ridestati e messi al servizio del Centro spirituale). 4. Le vicende di Christian Rosenkreuz sono narrate nel manifesto dal titolo Allgemeine und generale Reformation der gantzen weiter Welt, apparso in Germania nel 1614. Rosenkreuz, cavaliere tedesco, trascorre dodici anni in monastero, prima di abbandonare l’Europa per un viaggio in Oriente alla ricerca della saggezza. Tornato in Germania, Rosenkreuz si ritira in una grotta, che diverrà anche la sua tomba. 5. Giovanni Amos Comenio, 1592-1670. Pagine scelte a cura dell’UNESCO, Firenze 1960, p. 31. 6. Ivi, p. 6. 7. Ivi, p. 196. 8. Una copia dell’opera è custodita nella Biblioteca Nazionale di Roma; la traduzione italiana del testo è presente in Epiphanius, Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, Controcorrente, pp. 63-64. 9. E. Pennetta, Inchiesta sul Darwinismo. Scienza e potere dall’imperialismo britannico alle politiche ONU, Siena 2011, p. 27. 10. Ibidem. Idee che d’altronde, nelle loro formulazioni più estreme, daranno origine fino al XIX-XX secolo a curiosi movimenti di pensiero quali il British Israel – ovvero la tesi per cui il popolo inglese discenderebbe direttamente dalle tribù perdute di Israele, in particolar modo da quella di Efraim – che giustificheranno certe paradossali alleanze tra il sionismo politico e il potere anglo-americano, che sono, a tutt’oggi, una delle chiavi di lettura dello scenario strategico mondiale. 11. M. Nese, Gli eletti di Dio. Lo spirito religioso dell’America, cit., p. 23. 12. Ivi, p. 22. 13. T. Hobbes, Leviatano, Roma-Bari 2009, p. 149. 14. E. Pennetta, Inchiesta sul Darwinismo, cit., p. 25. 15. Ivi, p. 40. 16. Di fatto, le stesse critiche rivolte dal paleontologo a precedenti “visioni evoluzionistiche” come quella di Lamarck possono tranquillamente essere applicate all’ipotesi di Darwin (incongruenze come la totale assenza di testimonianze fossili, che avvalorassero l’idea di gradualismo evolutivo da lui sostenuta e la “correlazione” degli organi di cui sono costituiti gli esseri viventi, che sembrava invalidare del tutto l’idea di una lenta evoluzione dovuta a mutazioni “casuali”). Cfr. E. Pennetta, op. cit., pp. 53-63.
17. C. Darwin, Sull’origine delle specie per selezione naturale (prima trad. ital.), Bologna 1864, p. 381. 18. J.S. Huxley, Unesco its purpose and its philosophy, 1946. Il testo è scaricabile in inglese, in formato pdf dal sito ufficiale dell’UNESCO: http://unesdoc.unesco.org/images/0006/000681/068197eo.pdf. 19. Ivi, p. 60.
MESSIANISMO E NUOVO ORDINE MONDIALE «Dio avendo stretto un patto con noi [gli americani; N.d.A.] ci ha dato l’eredità del mondo!». (John Cotton, pastore congregazionista americano) «Voi oggi state respingendo le forze del male, che vorrebbero estinguere la luce che noi abbiamo custodito per 2000 anni». (Ronald Reagan alle truppe americane) «Quando una guerra scoppia nel mondo, la forza del Messia si risveglia… L’attuale guerra mondiale [la prima; N.d.A.] comporta una grande, temibile e profonda attesa […] per il fatto dell’insediamento in Eretz Israel». (Rabbi Abraham Kook) «Sono molti, oggi, gli evangelici per i quali il moderno Stato di Israele, nella sua forma politica, acquista valenza biblica e che quindi lo sostengono acriticamente e incondizionatamente. Per molti, questo è diventato tratto determinante e distintivo, come pure primario strumento apologetico ed evangelistico. […] Il movimento sionista cristiano è diventato così forte da determinare esso stesso la moderna politica internazionale e produrre gli avvenimenti che crede di vedere profetizzati nella Bibbia». (Stephen Sizer, in «Evangelicals Now», gennaio 2005)
olendo usare un termine che potrebbe apparire azzardato, potremmo dire che l’idea di un Nuovo Ordine Mondiale da proporre-imporre a tutta l’umanità rappresenta la forma più clamorosa di messianismo che abbia partorito la modernità. In realtà, il termine “messianismo”, nella storia delle religioni, indica l’attesa, da parte dei fedeli di un qualsiasi culto, di un aiuto divino, come può essere, per i cristiani, l’attesa del secondo avvento di Cristo; eppure, questo termine è stato utilizzato, molto spesso, anche per indicare fenomeni moderni del tutto “laici”, quando, negli ultimi secoli della storia, sono sorte forme sempre nuove di “attese” messianiche, annuncianti di volta in volta “nuove ere”, “soli dell’avvenire” o “mondi perfetti” per l’umanità. Il comunismo e il nazismo (ma non solo) sono stati, ad esempio, dei perfetti “messianismi laici” basati sull’attesa dell’avvento di una società perfetta – o di una società di perfetti, nel caso del nazismo – in cui tutti i limiti dell’umanità storica sarebbero stati superati. C’è però una differenza fondamentale, tra l’antico messianismo delle religioni tradizionali e quello moderno; infatti, mentre nel mondo tradizionale, nessun fedele di qualsivoglia confessione avrebbe mai osato concepire l’idea di “anticipare” il giorno della venuta del Salvatore “forzando la mano a Dio” o immaginando di creare qui in terra il Paradiso, in età moderna non è più così:
V
nei secoli della modernità, al contrario, è l’uomo che si vuole protagonista della storia e del suo divenire, e anche quando Dio continua a essere tirato in ballo lo è, molto spesso, solo come utile maschera per coprire i sogni titanici di un certo tipo di umanità, la quale, progressivamente, tende a “esautorare” il Creatore per erigere se stessa a Dio. È quello che gli antichi avrebbero chiamato hýbris (dal greco antico )1, l’atto di superbia contro il Divino; ma è in questo atteggiamento di fondo che risiede la chiave di lettura di gran parte della cultura moderna, ivi compresa l’idea – in fondo più che mai messianica e apocalittica – di un Nuovo Ordine Mondiale, che possa mettere fine alla storia.
Americani, popolo di Dio Se esiste oggi un popolo profondamente convinto di costituire una sorta di “messia collettivo”, destinato a diffondere – con le buone o con le cattive – i propri valori in tutto il mondo, questo è, senza ombra di dubbio, quello americano. Per capire qualcosa di più di questo atteggiamento, tuttavia, bisogna risalire ancora una volta all’infuocato clima dominante l’Inghilterra del XVI e XVII secolo, in cui a margine della Riforma, il movimento estremista dei Puritani si ricava uno spazio importante nella società e nella Chiesa dell’epoca. Poi questi uomini determinati e pratici, convinti assertori di un predestinazionismo che vedeva nella dannazione o nella salvezza una decisione a priori presa da Dio prima della creazione, il puritanesimo era anche un movimento rigidamente settario e profondamente convinto della propria differenza dal resto del genere umano. «John Manningham li descriveva come persone che amano Dio con tutta l’anima, ma odiano i vicini con tutto il cuore»2, ed è proprio dal desiderio di edificare una nuova Terra Promessa, una società di puri, che nasce la spinta che porterà questi energici pionieri a sciamare sulle coste del Nord America, nel sogno di creare il Regno di Dio sulla Terra. Uno dei grandi ispiratori del puritanesimo, e dello spirito che forgerà i futuri Stati Uniti, è il teologo tardo elisabettiano William Perkins, uno studente di Cambridge dal passato travagliato che, dopo una folgorante conversione, si trasforma in un predicatore di straordinario carisma oltre che d’implacabile durezza. Il suo pensiero, sul solco del riformatore elvetico Calvino, è rigidamente predestinazionista3, ma questo non deve fare pensare di avere a che fare con una visione passiva dell’agire umano sulla Terra: tutt’altro! Il segno della predestinazione di Dio verso certi uomini, infatti, secondo Perkins, sarebbe riscontrabile nella capacità di questi di plasmare e forgiare il mondo circostante,
soprattutto attraverso l’accumulazione di denaro e di ricchezze: «È l’esaltazione del lavoro. […] Per dimostrare a se stessi e agli altri che erano favoriti da Dio, molti lavoravano duramente e accumulavano grandi ricchezze. “Siate parchi, producete molto e consumate poco, accumulate per soddisfazione morale, – raccomanda Perkins – perde tempo chi guadagna uno scellino e potrebbe guadagnare una sterlina”. Ci sono già tutti i valori di una civiltà borghese che vedrà il suo trionfo in America»4.
Sarà poi William Ames, uno dei più fedeli discepoli di Perkins e vera guida spirituale per i primi coloni partiti alla ricerca della Terra Promessa oltreoceano, a elaborare la Covenant Theology, la Teologia del Patto, secondo cui Dio avrebbe scelto come suo nuovo “popolo eletto” i puri e duri abitanti delle colonie nordamericane. L’atteggiamento, tipico delle frange estreme della Riforma, di attribuire un’importanza maggiore all’Antico rispetto che al Nuovo Testamento, inoltre, favorirà una continua identificazione tra la vita dei Puritani e le vicende bibliche del popolo d’Israele, che porterà a elaborare l’idea di una vera e propria “nuova alleanza”, un foedus, un patto stretto da Dio con la Nuova Inghilterra (il popolo dei coloni americani) a somiglianza dell’antico patto fra Dio e Mosé. Essere il nuovo popolo di Dio, naturalmente, comportava tutta una serie di obblighi e privilegi speciali, per il nascente popolo americano, che se da un lato s’impegnava a rispettare la Legge di Dio, dall’altro poteva attribuirsi un diritto illimitato sulla “nuova” Terra e sui suoi abitanti. La differenza di mentalità fra gli spregiudicati borghesi venuti dall’Inghilterra e gli arcaici popoli del continente sarebbe divenuta, infatti, quasi da subito il pretesto per un disprezzo radicale, che sarebbe poi, culminato nel genocidio. Similmente agli americani di oggi, esportatori di democrazia al mondo, infatti, «i Puritani non si sentivano invasori, ma portatori di progresso. Non riuscirono mai a capire quegli individui mezzo nudi che preferivano stare con la pancia al sole e vivere in misere capanne, invece di arricchirsi e costruirsi belle case di legno e pietra. […] Dio aveva concesso i beni della terra e l’uomo doveva servirsene. Chi rinunciava era sospetto di appartenere al diavolo. […] Messa così, lo sterminio di quegli “agenti di Satana” diventava un omaggio a Dio»5.
Si tratta, in sostanza, di quell’idea di crociata continua, che ha sempre contraddistinto l’America nella sua storia, portandola a distruggere o ad assimilare qualsiasi forma di civiltà non omologabile al suo frenetico modello culturale ed economico. Ma se il mondo austero e fanaticamente religioso degli antichi Puritani ha ormai da tempo lasciato il passo, anche e soprattutto in America, al culto del consumismo più sfrenato, l’idea messianica di “essere portatori del migliore dei
mondi possibili” sembra invece essere rimasta come marchio indelebile dello spirito made in USA. Proprio l’identificazione messianica tra l’America e il “popolo eletto da Dio” offre, peraltro, una possibile chiave di lettura per una parte di quei simbolismi impressi sul vessillo stesso del potere economico americano, ovvero quel biglietto da un dollaro (il leggendario The One), su cui molti studiosi hanno speso fiumi d’inchiostro. In realtà, prescindendo per il momento dall’interpretazione della famosa Piramide dall’Occhio Onniveggente (che rimanda più direttamente a influssi di tipo massonico), è interessante vedere come nel Grande Sigillo degli USA presente sulla banconota si trovi un’aquila imperiale sormontata da una curiosa stella di Davide formata a sua volta da tredici stelle. La spiegazione di tale simbolo, evidentemente, è quella di un’identificazione degli USA – indicati dalle tredici stelle simbolo delle iniziali tredici colonie – con il popolo d’Israele, ergo con il popolo eletto da Dio. Gli Stati Uniti, di fatto, s’identificano in tal modo – come già accaduto nell’Inghilterra elisabettiana – con la nuova Israele, destinata a fare trionfare nel mondo la giustizia (coincidente con l’American Way of Life); così come l’aquila imperiale sembrerebbe rimandare a un preciso e significativo passo biblico (Esodo, 19, 4-6), nel quale Dio elegge Israele fra tutti i popoli: «Voi avete visto cosa ho fatto agli Egiziani, e come vi ho portato su ali di aquila. […] Per questo adesso […] voi sarete per me una nazione santa».
David Humphreys, amico e protetto di George Washington, nella premessa al suo Poema sulla futura gloria degli Stati Uniti d’America affermava: «L’America, dopo essere rimasta nascosta per molti anni al resto del mondo, fu probabilmente scoperta, nella maturità del tempo, per diventare il teatro in cui rivelare i più illustri disegni della Provvidenza, nei suoi doni alla razza umana»6.
Da notare, per altro, il sapore apocalittico dell’espressione «nella maturità [o pienezza; N.d.A.] del tempo», che presenta la nascita dell’America come il vero e proprio incipit di una Nuova Era del mondo e riecheggia addirittura le espressioni evangeliche, in cui si pone la nascita di Gesù “nella pienezza dei tempi”. Ed è sempre in quest’ottica che può interpretarsi un’altra cosa presente sul dollaro: quella curiosa espressione latina posta in calce al sigillo americano, Novus Ordo Seclorum, in cui il riferimento più immediato è alla IV Egloga delle Bucoliche di Virgilio, quella che lo scrittore latino compose per profetizzare la nascita del misterioso Fanciullo, il Puer, che, secondo le attese del mondo antico
all’epoca di Ottaviano Augusto, avrebbe rinnovato l’umanità aprendo l’avvento di una Nuova Età dell’Oro: «Ultima Cumaei venit iam carminis aetas; magnus ab integro saeclorum nascitur ordo: iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; iam nova progenies caelo demittitur alto. Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet ac toto surget gens aurea mundo, casta fave Lucina: tuus iam regnat Apollo»7.
L’America, dunque, è indicata non solo come “nuovo popolo eletto”, ma anche come “nuovo Cristo”, vero e proprio “messia collettivo” detentore di una missione universale che deve riguardare, per forza di cose, tutta l’umanità.
Un paradiso sulla Terra: evoluzione e derive del neomessianismo ebraico Una disamina delle suggestioni messianiche che hanno animato e generato l’idea del Nuovo Ordine Mondiale non può però fermarsi solo ai filoni d’origine protestante-anglosassone. Un altro grande filone religioso e culturale, infatti, ha avuto importanza in questo processo: il neomessianismo ebraico. È bene, tuttavia, mettere in evidenza che in questa sede tratteremo solo alcune correnti ebraiche, spesso rifacentesi a frange eterodosse e fortemente devianti dell’ebraismo stesso. Parlando di messianismo ebraico, non si può prescindere da quello che è stato, senz’ombra di dubbio, lo spartiacque della storia d’Israele e delle sue speranze messianiche, ovvero il periodo a cavallo dell’Era volgare. Un’epoca di avvenimenti e sconvolgimenti che avrebbero avuto innumerevoli conseguenze sul destino del popolo ebraico e del mondo intero: intorno a quest’epoca, infatti, l’attesa messianica in Israele era particolarmente forte e il popolo era generalmente convinto che proprio quella fosse l’Era destinata da Dio per l’avvento dell’atteso Messia8. Gli avvenimenti accaduti in tale periodo sono noti: da una parte, infatti, si assiste alla nascita, dal seno stesso dell’ebraismo, di un messianismo – incentrato sulla figura di Gesù di Nazareth – rifiutato dalle autorità giudaiche ma destinato alla lunga ad affascinare e conquistare i popoli non ebrei; dall’altra, nel 70 d.C., in seguito alla rivolta degli estremisti ebrei Zeloti contro la dominazione romana, si assiste alla distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito, con la conseguente dispersione degli Ebrei – la cosiddetta Diaspora – in tutto il mondo allora conosciuto. La delusione per le mancate attese messianiche e il trauma per la distruzione di Gerusalemme non spengono la fede di Israele, portano piuttosto a una sorta di “rielaborazione” delle speranze del popolo. Il mancato avvento messianico viene
così giustificato come una punizione per i peccati di Israele9, e al tempo stesso, la condizione di dispersione del popolo ebraico, lontano dalla sua patria, porta all’elaborazione di una vera e propria teologia dell’esilio, in cui sempre più forti si fanno le aspirazioni e le attese dell’avvento di una Nuova Era per Israele e per tutta l’umanità. Il Messia, in quest’ottica, viene visto come colui che metterà fine alla situazione di esilio instaurando un Regno universale, in cui la giustizia avrà stabile dimora e anche l’esilio materiale degli Ebrei avrà termine: nella riflessione rabbinica, infatti, il Messia è anche colui che radunerà le tribù d’Israele nella terra promessa e ricostruirà il Tempio di Gerusalemme, il luogo più santo dell’ebraismo, distrutto dai Romani. La tradizione ebraica, tuttavia, ha generalmente accettato l’idea che il compito di affrettare il tempo della redenzione non toccasse al popolo di Israele, ma solo a Dio stesso o al suo Messia10. Questo è il motivo, ad esempio, per cui una parte dell’ebraismo più ortodosso e conservatore ha condannato la creazione stessa del moderno Stato d’Israele11, interpretandola come un atto di hyvbris: un prepotente tentativo umano di attribuirsi un’azione – ovvero la redenzione di Israele e il suo ritorno dall’esilio – che spetterebbe invece solo al Signore. Questa visione del messianismo non è comunque l’unica: esistono infatti, nel mondo ebraico, altre chiavi di lettura secondo le quali, ad esempio, la figura del Messia andrebbe interpretata in maniera ben diversa. In alcune forme estreme, il Messia tanto atteso s’identificherebbe con l’insieme collettivo del popolo d’Israele, che sarebbe, quindi, esso stesso un messia collettivo. Le sofferenze del Messia, pertanto non sarebbero altro che le sofferenze del popolo in esilio, che contribuirebbero alla redenzione dell’umanità; ma anche l’opera attiva, concreta e politica di Israele avrebbe un valore letteralmente divino. In questa prospettiva, già di per sé fortemente politicizzata e “materializzata”, l’Era messianica verrebbe identificata, sic et simpliciter, con un’epoca di progresso e di unione dell’umanità (un Nuovo Ordine Mondiale), in qualche maniera presieduta dal popolo eletto di Israele. È un’idea, questa, che è riecheggiata più volte nella bocca di leader israeliti anche profondamente laici, e persino atei, come il fondatore di Israele David Ben Gurion12 che, in un noto discorso a seguito della presa di Gerusalemme da parte israeliana, così descriveva (con toni messianici e apocalittici) il nuovo mondo da lui sognato: «Tutti gli eserciti saranno aboliti e non ci sarà più la guerra. A Gerusalemme, le Nazioni Unite costruiranno un santuario dei Profeti, che assisterà l’unione federale di tutti i continenti; là siederà la Corte Suprema dell’Umanità, che provvederà a dirimere tutti i contrasti e le contese fra la federazione dei continenti»13.
Estremamente interessante, d’altronde, è che proprio tali “miti” abbiano conosciuto una straordinaria fortuna e un sorprendente adattamento anche in ambiti assolutamente laici. Non è un caso, del resto, se molti studiosi non riconoscono, nel comunismo di tipo marxista, altro che una “traduzione” in chiave ateo-materialista del messianismo giudaico, l’annuncio di un paradiso in Terra, in cui «[…] la classe operaia è il vero Messia che porta la redenzione del mondo, lottando e soffrendo contro i figli delle tenebre, i borghesi. Lo sfruttamento del lavoratore è il peccato originale. La società socialista del futuro è il Regno escatologico, dove il lupo pascolerà con l’agnello e la terra non darà più spine, ma frutti in abbondanza. L’organizzazione proletaria, il Partito, è il popolo di Dio in marcia verso questo Regno messianico. La fabbrica è il tempio, dove il lavoro è la nuova preghiera. Il leader proletario è il profeta che guida il resto d’Israele. La scienza è la vera teologia»14.
D’altronde, è noto che Karl Marx discendeva da una famiglia di antiche radici ebraiche. Quest’idea di una “redenzione” ottenibile con mezzi umani e attraverso un processo storico puramente umano, d’altro canto, non è affatto svanita con il fallimento del marxismo e delle ideologie del XX secolo; essa sta anzi conoscendo, in questi ultimi anni, un nuovo successo, sotto forma di un originale mix che fonde elementi laici e religiosi in una sorta di messianismo politicoreligioso il quale, contrariamente a quel che immaginano i più, ha ricadute di enorme peso anche sull’attuale situazione internazionale. È il caso, ad esempio, di movimenti molto diffusi e popolari nell’Israele contemporaneo quali il Gush Emunim15, che unisce suggestioni nazionaliste – nate inizialmente in ambito laico – a elementi religiosi, identificanti, di fatto, il “messia” con lo Stato d’Israele in quanto tale: «Il Gush Emunim ritiene che la redenzione avvenga nel quadro degli eventi naturali e della storia umana. Insiste sulla colonizzazione di tutta la Terra di Israele in quanto fase decisiva attuale nella realizzazione della redenzione, e le zone fondamentali sono quelle che hanno un significato religioso per gli Ebrei, anche se oggi sono popolate principalmente da Arabi»16.
È facile immaginare quale effetto dirompente possano avere simili dottrine nello scenario già incandescente del Vicino Oriente e come tali “suggestioni” possano condizionare gli eventi dell’attualità molto più di quanto normalmente si sia disposti ad ammettere. Solo per fare un esempio, quando nel settembre del 2000 l’allora premier israeliano Ariel Sharon compì, insieme alla sua scorta armata, la famosa “camminata sulla spianata del Tempio” a Gerusalemme, che come conseguenza scatenò la rabbia dei palestinesi culminata nella Seconda Intifada, furono ben
pochi i commentatori occidentali che compresero il vero senso di quel gesto (e le conseguenti ragioni della rivolta araba). In realtà, con quella camminata nel luogo su cui sorgeva il Tempio ebraico (e dove oggi sorgono alcuni fra i più importanti luoghi sacri dell’Islam), Sharon voleva lanciare un messaggio, inequivocabile per chi aveva orecchie per comprendere: «Questo luogo, il luogo più sacro dell’ebraismo, prima o poi tornerà nostro… con le buone o con le cattive».
Il Sionismo cristiano, ovvero l’alleanza dei due messianismi Uno dei fenomeni più paradossali e francamente inattesi venuti alla ribalta negli ultimi decenni è la curiosa alleanza fra il messianismo politico-religioso ebraico e le correnti più estremiste del protestantesimo anglosassone. Che non si tratti affatto di un fenomeno da sottovalutare, lo si evince dai dati che vedono “l’evangelismo fondamentalista” (un tipo di Protestantesimo contemporaneo, basato su una versione “selvaggia” del principio del libero esame della Bibbia e da una spiritualità di tipo miracolistico e sensazionalistico) in fortissima crescita negli Stati Uniti, Paese in cui esso ha di gran lunga superato per numero di fedeli, e soprattutto per ascendente sulla popolazione, le vecchie confessioni religiose. Questa sorta di nuova teologia viene spesso definita Sionismo cristiano. Alcuni prodromi di questa strana teologia giudaizzante sono presenti, nel mondo anglo-protestante, anche in tempi piuttosto remoti, se «già nel 1621 Sir Henry Finch, avvocato e membro del Parlamento britannico, poteva scrivere un appello al governo di Sua Maestà perché favorisse l’insediamento degli Ebrei in Palestina, onde compiere le profezie bibliche»17. I tempi in cui tale “profezia” si sarebbe avverata erano ancora lontani, tuttavia non può non sorprendere, per l’incredibile somiglianza di toni, un’intervista rilasciata nel 1952, a quasi tre secoli di distanza, dal conservatore britannico Sir Oliver Locker-Sampson, in cui egli afferma esplicitamente: «Winston [Churchill; N.d.A.], Lloyd George, Balfour e io siamo stati allevati come protestanti integrali, credenti nell’avvento di un nuovo Salvatore quando la Palestina tornerà agli Ebrei»18. Una dottrina “carsica” e nascosta, dunque, quella del Sionismo cristiano, eppure periodicamente riaffiorante nel mondo protestante anglosassone. Ma quali sarebbero le dottrine a cui si rifarebbe questa curiosa forma di teologia? Essenzialmente, si tratta di un recupero, in ottica cristiana, del ruolo del popolo di Israele, il cui ritorno in Palestina è visto come un evento preparatorio al ritorno di Cristo stesso sulla Terra. Cristo sarebbe, dunque,
identificato con il Messia atteso da Israele e come il riedificatore dell’antico regno giudeo da cui, successivamente, il suo dominio dovrebbe estendersi su tutto il mondo. Un Cristo visto, pertanto, come “signore terreno” e fautore di un NWO, che avrebbe come sede Gerusalemme. Nell’ambito di questa teologia, inoltre, un’importanza tutta particolare viene attribuita all’evento – considerato ormai prossimo dai fondamentalisti evangelici – della ricostruzione dell’antico Tempio di Gerusalemme, che dovrebbe tuttavia sorgere dove oggi si trovano le moschee di al-Aqsa e di Omar, due fra i luoghi più sacri dell’Islam. Da qui, l’appoggio incondizionato che gli evangelici anglosassoni danno alle politiche antiarabe e antislamiche di Israele. L’aspetto curioso di questa faccenda, peraltro, è che il Cristianesimo tradizionale ha sempre visto nel segno del ritorno del popolo di Israele in Palestina, e soprattutto in quello della ricostruzione del Tempio, un evento apocalittico tutt’altro che fausto, se non addirittura il prodromo più certo della venuta dell’Anticristo19; però il protestantesimo, soprattutto nelle sue forme più estremiste, non ha mai attribuito, come si sa, particolare importanza alla tradizione, preferendo un’interpretazione individuale delle Scritture. Naturalmente, quella tra fondamentalismo evangelico e fondamentalismo ebraico è pur sempre un’alleanza “strategica”, per certi aspetti ambigua e non priva di tensione, eppure nella sostanza essa risulta estremamente efficace: «I due gruppi concordano su certi punti apocalittici – come il segno del ritorno degli Ebrei in Terrasanta – ma per motivi opposti: i fondamentalisti cristiani credono che con ciò Israele acceleri la seconda venuta di Cristo […], gli Ebrei vi vedono l’intronamento di Israele come messia-redentore di se stesso e l’inizio del Regno mondiale giudaico»20.
Non si pensi, inoltre, che tali curiose dottrine siano relegate al livello di semplice “opinione pubblica popolare”: esse, al contrario, risuonano da decenni con una certa frequenza dalle bocche di leader e persino di capi di Stato. Già negli anni Ottanta, ad esempio, un Ronald Reagan poteva arringare le truppe USA con queste apocalittiche affermazioni: «Tutte le altre profezie che si dovevano realizzare prima di Armageddon sono avvenute. Nel trentesimo capitolo del profeta Ezechiele si dice che Dio raccoglierà i figli di Israele dalle lande pagane in cui sono stati dispersi, per riunirli di nuovo nella terra promessa. Dopo 2000 anni, questo momento è finalmente giunto. Per la prima volta nei tempi, ogni cosa è pronta per la battaglia di Armageddon»21.
Un fervore talmente smaccato e diplomaticamente imbarazzante da spingere un giornalista come Ronnie Dugger ad affermare in un articolo pubblicato sul «The Guardian» il 21 aprile 1984, che «gli americani potrebbero giustamente chiedersi se il loro Presidente […] sia personalmente predisposto dalla teologia
fondamentalista ad attendersi un qualche Armageddon, che inizi con una guerra nucleare in Medio Oriente». Affermazione invero piuttosto insolita, per un periodo storico come quello degli anni Ottanta, in cui il Medio Oriente era ancora un’area relativamente periferica della grande scacchiera della “guerra fredda”. È solo a partire dagli anni Novanta, tuttavia, che il Sionismo cristiano si afferma in maniera dilagante nella società americana, sull’onda dello straordinario successo dei “telepredicatori” evangelici, in singolare sintonia con l’emergere della dottrina dello “scontro di civiltà”22 prospettante un conflitto epocale tra mondo occidentale “cristiano” e Islam. Naturalmente, è evidente che una parte della destra israeliana più estrema ha compreso (e sfruttato) questo straordinario potenziale di consenso. Soprattutto il partito di destra del Likud ha da tempo scoperto come utilizzare questa forza politico-religiosa fondamentale da un punto di vista elettorale per pilotare a favore di Israele la politica estera americana. Così, ad esempio, quando il presidente “moderato” Jimmy Carter volle indire una Conferenza per la pace in Medio Oriente che riunisse attorno a un solo tavolo, rappresentanti israeliani e palestinesi, in tutti i maggiori giornali americani apparvero inserzioni a piena pagina che affermavano: «Per i cristiani evangelici è venuto il tempo di mostrare la loro fede nella profezia biblica e nel diritto di Israele alla sua terra […]. Noi vediamo con il più grave allarme ogni tentativo di insediare in terra ebraica un’altra nazione»23.
Questa alleanza è divenuta ancora più forte dopo l’11 settembre e la presidenza di George W. Bush (anch’egli evangelico fondamentalista), sposandosi con gli interessi delle grandi compagnie petrolifere americane e dell’industria degli armamenti, che hanno enormi interessi in Medio Oriente. Un formidabile mix di poteri economici, suggestioni escatologiche e volontà politica di potenza che, saldandosi con gli interessi del sistema militare industriale e con certi poteri massonici, rappresenta oggi quel volto “duro” del mondialismo così spesso biasimato e condannato dall’opinione pubblica “alternativa” sul web o in piazza (esiste, infatti, anche un volto apparentemente più affabile e “progressista” del NWO, che gli indignados di tutte le latitudini trovano più difficile da riconoscere e condannare…). Un blocco di potere, che dichiaratamente non disdegna di contemplare il ricorso alla guerra per raggiungere i propri obiettivi; una via “guerriera” al Nuovo Ordine Mondiale in nome del petrolio, del potere della “stirpe eletta” – sia essa quella ebraica o anglosassone – e dell’apocalisse.
NOTE 1. Hýbris significa letteralmente “tracotanza”, “eccesso”, “superbia”, “orgoglio” o “prevaricazione”. È una “colpa” dovuta a un’azione che vìola leggi divine immutabili. 2. M. Nese, Gli eletti di Dio, cit., p. 35. 3. I riformatori protestanti come Martin Lutero, Ulrico Zwingli e Giovanni Calvino sostengono la predestinazione: la vera Chiesa è formata dagli eletti, la servitù della volontà. Per Calvino, Dio ha predestinato dall’eternità chi sarebbe stato oggetto della grazia salvifica, indipendentemente da qualsiasi merito, per solo Suo insindacabile e giusto beneplacito. L’elezione divina è però riscontrabile nel “successo” mondano: gli eletti, cioè, sono in grado di forgiare il mondo circostante e dunque di ricavarne ricchezza. Da qui lo stretto rapporto tra l’etica protestante e il capitalismo. Si veda: Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Nell’opera, pubblicata nel 1904, Weber identifica nel lavoro, come valore in sé, l’essenza del capitalismo e riconduce all’etica della religione protestante, in particolare calvinista, lo spirito del capitalismo. 4. Ivi, pp. 120-121. 5. Ivi, pp. 252-253. 6. Cit. in R. Gobbi, Figli dell’Apocalisse, Milano 1993, pp. 220-221. 7. «È arrivata l’ultima età dell’oracolo cumano: il grande ordine dei secoli nasce di nuovo. E già ritorna la vergine, ritornano i regni di Saturno, già la nuova progenie discende dall’alto del cielo. Tu, o casta Lucina, proteggi il fanciullo che sta per nascere, con cui finirà la generazione del ferro e in tutto il mondo sorgerà quella dell’oro: già regna il tuo Apollo». 8. Lo scrittore ebraico Giuseppe Flavio, nel suo La Guerra Giudaica (cap. 5), racconta che proprio la certezza dell’arrivo del Messia spinse gli Ebrei a ribellarsi contro i Romani, verso il 66 d.C.: «Ma quello che incitò maggiormente alla guerra fu un’ambigua profezia, ritrovata ugualmente nelle Sacre Scritture, secondo cui in quel tempo “Uno” proveniente dal loro popolo sarebbe diventato il dominatore del mondo». Anche Tacito, nelle Historiae (V, 13), conferma questa voce, molto diffusa nel mondo antico: «I più erano persuasi trovarsi nelle antiche scritture dei sacerdoti che, verso questo tempo, l’Oriente sarebbe salito in potenza. E che dalla Giudea sarebbero venuti i dominatori del mondo». 9. Così, un saggio ebreo del III secolo poteva affermare che «tutte le date [calcolate per la venuta del Messia; N.d.A.] sono già trascorse. L’evento non dipende più che dal pentimento e dalle buone azioni» (D. Banon, Il messianismo, Firenze 2000, p. 18). 10. Vayikrà Rabbà 9, 7; Bemidbàr Rabbà 13, 2. Scrive Ràshi: «Le tue mani hanno eretto il Santuario di Hashèm» (Shemòt 15, 17). 11. Ancora oggi, il gruppo ultraortodosso ebraico dei Nathurei Karta (i Guardiani della Città) rifiuta lo Stato d’Israele come creazione puramente umana basata sulla violenza e maturata in un contesto laico estraneo a Dio e alla Torah. 12. David Ben-Gurion (in ebraico ), un politico israeliano, è stato fondatore di Israele e la prima persona a ricoprire l’incarico di primo ministro di quel Paese. 13. David Ben-Gurion in own Words, New York 1968, pp. 109-110. 14. Cit. in V. Messori, Ipotesi su Gesù, Torino 2001, p. 90. 15. Letteralmente, “Blocco della Fede”. 16. D. Banon, Il messianismo, cit., p. 112. 17. M. Blondet, Chi comanda in America?, cit., p. 146. 18. Cit. in G. Cosco, Le radici del fondamentalismo protestante: l’”Israele britannico”, in AA.VV., Fondamentalismi. Parodie moderne della religione, Rimini 2005, p. 88. 19. Nell’evento della futura ricostruzione del Tempio ebraico, i Padri della Chiesa hanno sempre visto un segno escatologico non del ritorno di Cristo, ma… dell’avvento della sua parodia diabolica, ossia
l’Anticristo! Come il Cristo, infatti, è figlio della stirpe eletta di Israele, così – secondo l’esegesi cristiana – lo sarà anche l’Anticristo. Ireneo di Lione e Ippolito Romano, in particolare, affermano che egli avrà origine dalla tribù ebraica di Dàn, che già nell’Antico Testamento si distingueva sovente per la sua infedeltà all’Alleanza e per la sua propensione all’idolatria (Ireneo di Lione, Adv. Haer., 5, 30; Ippolito Romano, De Anticristo, 14, 2); in particolare, aggiungono che l’antimessia ingannatore «trasferirà in essa [Gerusalemme; N.d.A.] il suo trono e sederà nel tempio di Dio». Ippolito insiste anche sul fatto che egli stesso «resusciterà il tempio di pietre a Gerusalemme», imponendosi come re di questo mondo, lì dove Gesù ha affermato, al contrario, la trascendenza del suo Regno spirituale (Ireneo di Lione, op. cit., V, 25, 4; Ippolito Romano, 6, 2). 20. M. Blondet, Chi comanda in America?, cit., p. 149. 21. Cit. in M. Valcarenghi, I. Porta, Operazione Socrate, Firenze 1995, p. 101. 22. L’espressione Clash of Civilizations fu coniata dal politologo americano Samuel P. Huntington, seguace della dottrina politica neoconservatrice. Secondo questa visione, esisterebbero attualmente al mondo nove tipi di civiltà: occidentale, cristiana orientale (ortodossa), latino-americana, islamica, indù, cinese, giapponese, buddista, africana. La più refrattaria ad accettare i valori dell’Occidente sarebbe quella islamica che, come tale, sarebbe destinata a entrare irrimediabilmente in contrasto con esso. 23. Cit. in M. Blondet, Chi comanda in America?, cit., p. 149.
LA QUESTIONE DEI “POTERI OCCULTI” «Il mondo è governato da personaggi ben diversi da quelli creduti da coloro i quali non sanno guardare dietro le quinte». (Benjamin Disraeli, primo ministro britannico) «Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera… e la storia segreta, nella quale si trovano le cause vere degli eventi, una storia vergognosa». (Honoré de Balzac, Illusions perdues)
no studio sul Nuovo Ordine Mondiale non può prescindere, naturalmente, dall’aspetto che più colpisce l’immaginario collettivo, ovvero la realtà di quei cosiddetti “poteri occulti” che, secondo alcuni, gestirebbero da dietro le quinte gli avvenimenti della storia. Poteri occulti che, a loro volta, sarebbero spesso legati a pratiche e a dottrine altrettanto occulte quando non addirittura a un satanismo tout court. Secondo questa particolare visione degli avvenimenti, infatti, la storia (soprattutto quella moderna) sarebbe letteralmente pilotata da “forze”, che avrebbero come fine ultimo l’instaurazione di un potere unico mondiale di ispirazione luciferina; ciò sarebbe dimostrato non solo dall’influsso di certe società segrete nella realizzazione di determinati eventi storici, ma anche dal profluvio di “simboli occulti”, che questi poteri amerebbero disseminare ovunque, a partire dalle bandiere degli Stati fino ai loghi di certe pubblicità. Sono “poteri forti” che, a livello popolare, vengono definiti come illuminati e che spesso sono collegati al variegato mondo delle massonerie e delle lobby. Questa visione della storia, d’altronde, non è affatto recente: fin dall’epoca della Rivoluzione Francese e degli stravolgimenti politico-sociali del XIX secolo, infatti, la sensazione e l’idea – nonché, a volte, la constatazione – che certi eventi non siano solo il risultato di fenomeni “spontanei” ha portato alcuni spiriti a ipotizzare l’esistenza di progetti e complotti dietro gli accadimenti dei propri tempi. Nell’affrontare questo delicato tema, tuttavia, alcune precisazioni sono necessarie:
U
innanzitutto, è nostra intenzione affrontare il tema dei “poteri occulti” alla luce dei processi storici che li hanno generati. Anche il complesso mondo delle cosiddette “società segrete”, infatti, vede la luce in un preciso contesto e le loro origini sono, almeno in alcuni casi, ricostruibili storicamente; è poi necessario ricordare che gli eventi della storia, al di là di ogni condizionamento, sono pur sempre dei “sistemi complessi” risultanti da una moltitudine di cause, in cui la stessa libera scelta dei singoli può, più spesso di quel che si creda, rivoluzionare gli scenari; è indispensabile, infine, resistere alla tentazione di volere per forza immaginare l’esistenza di una “Grande Cupola” dei poteri occulti perché, se è pur vero che certe finalità sembrano a volte
accomunare forze diverse verso un unico obiettivo, resta comunque il fatto che tali forze sono e rimangono quanto mai eterogenee sia per origini che per caratteristiche.
Alle origini della Massoneria moderna Parlando di poteri occulti e di organizzazioni segrete che “controllerebbero” gli accadimenti storici, è impossibile, naturalmente, non partire dalla realtà dalla Massoneria. Anche in questo caso, tuttavia, sarà necessario discernere ciò che è storicamente dimostrabile dai miti, siano essi positivi o negativi, nati intorno alla cosiddetta Libera Muratoria. Per cercare di capire meglio la realtà della Massoneria è preferibile, piuttosto, tentare di scoprirne le radici storiche, ripercorrendo, dove possibile, una vicenda quanto mai ricca di colpi di scena e di impensabili trasformazioni. Paradossalmente, infatti, per capire cosa sia stata e cosa sia invece divenuta quella realtà che oggi chiamiamo Massoneria è necessario abbandonare per un istante il mondo moderno – di cui pure la Massoneria è stata una delle forze generatrici – e rievocare un universo culturale spiritualmente lontanissimo: il Medioevo cristiano e tradizionale. È in quel mondo, infatti, in cui tutto è considerato sacro e ogni realtà e attività sono viste come strumento per avvicinarsi al Divino, che prendono corpo le corporazioni muratorie, vere e proprie confraternite unite non tanto dalla mera condivisione di un mestiere quanto da un medesimo patrimonio spirituale. Nelle società tradizionali, infatti, anche il lavoro manuale può possedere un risvolto sacro e un valore spirituale, finalizzato alla “liberazione” del lavoratore stesso dal mero orizzonte della materialità, e trasformare la fatica in arte, ossia in imitazione di Dio. Fra tutte le arti, in particolare, proprio quella architettonica e muratoria poteva assumere dei significati mistici e anche – se il termine non avesse assunto ai nostri giorni un significato del tutto improprio – esoterici. Questi significati, immortalati nella selva di cattedrali che tuttora ricopre di meraviglia l’Europa intera, permettevano la trasformazione del lavoro del singolo in qualcosa di diverso, un’occasione di liberazione dalla grossolanità dell’evento, nel punto di partenza per un cammino spirituale, in cui la materia e la fatica acquistavano un valore trasfigurativo. Julius Evola scrive che «la “costruzione del Tempio” poteva divenire sinonimo della stessa Grande Opera iniziatica, lo sgrossamento della pietra grezza in pietra squadrata poteva alludere al compito preliminare di formazione interna»1 offrendo all’operaio (colui che compie l’opera) la possibilità di innalzarsi fino a identificare simbolicamente la sua azione con quella di Dio, il Grande Architetto dell’Universo. Questo mondo sacralizzato, tuttavia, conoscerà una veloce e definitiva
decadenza già a partire dal Basso Medioevo: il prevalere di una visione mercantile della società e dell’esistenza, il progressivo affermarsi di un razionalismo teologico incapace di comprendere gli aspetti più profondi della tradizione cristiana, la riforma protestante, allergica a ogni aspetto contemplativo e soprattutto l’estinzione dell’arte sacra cristiano-occidentale, sostituita prima dalle forme neo-pagane del Rinascimento e poi dagli orpelli teatrali del barocco, riducono l’universo delle antiche corporazioni a realtà residuali, mere sopravvivenze di un mondo che non esiste più. È in questa situazione che avviene quella trasformazione che porterà ciò che rimaneva delle antiche Società di Mestiere a divenire la Massoneria moderna. Il teatro di questa trasformazione è, ancora una volta, l’Inghilterra dei secoli XVII e XVIII, in cui le vecchie corporazioni sopravvivono formalmente, conservando – almeno nell’aspetto più esteriore – tutto il loro affascinante patrimonio simbolico, ed è in questo contesto che ciò che rimane di quel mondo comincia ad attirare l’attenzione di personaggi e “forze”, che nulla hanno a che vedere con l’universo degli antichi costruttori. Figura paradigmatica di questo periodo è quella del nobile inglese Elias Ashmole, protestante erudito, appassionato collezionista, uomo politico e cofondatore della Royal Society, ma anche grande cultore di scienze occulte; letteralmente ossessionato dal sogno della ricerca dei Rosa Croce e dal loro progetto di “riforma universale”. Egli riesce, nel 1646, a essere ammesso in un’antica loggia di tagliapietre, presso la quale riteneva potessero sussistere le chiavi di un sapere esoterico antico e nascosto2. Sono proprio personaggi come Ashmole a dare inizio a quel processo di radicale cambiamento, che gli stessi massoni anglofoni chiamano The Transition3 e che porterà gradualmente il gotha del mondo intellettuale britannico a impadronirsi del patrimonio rituale e simbolico delle antiche società corporative, reinterpretandolo in maniera spesso lontanissima dagli intenti originari delle corporazioni medievali. È il passaggio dalla Massoneria operativa – costituita cioè da persone che operano, esercitando anche il mestiere muratorio – alla Massoneria cosiddetta speculativa, la quale accetta al suo interno delle persone, che nulla hanno da spartire con il mestiere in quanto tale, ma vedono nelle logge – con il loro culto del segreto – il luogo ideale per elaborare e dare forma alle proprie aspirazioni religiose, culturali e politiche. Questa trasformazione culminerà nella riorganizzazione delle logge inglesi – messa in atto, nel 1717 a Londra dal pastore anglicano Anderson e dal matematico di origine ugonotta Desaguliers – con il passaggio dalle antiche corporazioni alla moderna Massoneria può oramai dirsi concluso. Un passaggio tutt’altro che automatico se, come afferma René Guénon, furono necessari
cambiamenti non da poco, specie per eliminare ogni riferimento a quel mondo cattolico-medievale, che nella società anglosassone era visto come “il nemico” per eccellenza. Così – scrive Guénon – una volta morto nel 1702, Christopher Wren, l’ultimo Gran Maestro dell’antica Massoneria inglese, «i 15 anni trascorsi da questa data fino alla fondazione della Grande Loggia d’Inghilterra (1717) furono utilizzati dai protestanti per operare un lavoro di deformazione che sfociò nella redazione delle Costituzioni pubblicate nel 1723; i revv. Anderson e Desaguliers, autori di queste Costituzioni, fecero sparire tutti gli antichi documenti (Old Charges) che riuscirono a trovare, per impedire che ci si accorgesse delle innovazioni da loro introdotte ed anche perché questi documenti contenevano delle formule da loro stimate molto imbarazzanti, come l’obbligo di fedeltà “a Dio, alla Santa Chiesa e al Re”, segno incontestabile dell’origine cattolica della Massoneria»4.
The Transition non fu, tuttavia, solo un semplice cambiamento formale: lo strappo con il mondo medievale che le aveva generate, infatti, avrebbe portato a poco a poco le logge a divenire molto spesso lo strumento e i contenitori di “forze” opposte a quelle che, in origine, le avevano ispirate. Complice la legge del segreto e il complesso simbolismo ereditato dal passato, le massonerie moderne divengono, a poco a poco, l’incubatrice di quasi tutti i movimenti e i processi rivoluzionari della modernità, il luogo in cui potere creare e gestire il potere, tessere reti di interessi e generare quelle élite che, di fatto, realizzeranno quasi tutti i cambiamenti politici, sociali e culturali dei secoli successivi. E se nel mondo anglosassone, in fin dei conti, il mondo massonico rimarrà in buona parte legato, se non sottomesso al potere che lo aveva generato – ovvero quello dell’imperialismo prima britannico e poi americano – è soprattutto nelle nazioni non anglosassoni che esso produrrà gli effetti dirompenti, che la storia testimonia. Lo spirito anticattolico ereditato dal mondo protestante inglese, infatti, sommandosi ad altri elementi, diverrà uno straordinario agente corrosivo all’interno della società “continentale”: un potere antagonista, che avrà, come principale obiettivo, quello di “scardinare” gli antichi ordinamenti sociali per sostituirli con il potere delle nuove élite; un potere che saprà cavalcare – e a volte persino “creare” – quell’ondata di rivendicazioni dei diritti delle classi subalterne o del nazionalismo utilizzandole in funzione strumentale e sovversiva5. Uno degli aspetti, infatti, in cui la trasformazione della Massoneria tradizionale in quella moderna è più visibile, sarà proprio quello dell’inversione di tendenza da una prospettiva spirituale ed esoterica a una direzione molto più “politica” ed esteriore. La Grande Opera, che esotericamente è la trasmutazione interiore dell’uomo, verrà sempre più spesso interpretata come l’opera di
trasformazione dell’umanità attraverso un intervento “dietro le quinte”, da attuare suscitando suggestioni nelle masse ed eventi caotici generatori di un nuovo ordine, secondo progetti e finalità ignoti “ai più”.
Ordo ab chao: Massoneria e NWO Che rapporto diretto esisterebbe tra la Massoneria e l’ideologia del Nuovo Ordine Mondiale? Innanzitutto, è evidente come la Massoneria moderna – non a caso sviluppatasi in Inghilterra – erediti tutta una serie di aspirazioni e suggestioni di tipo “mondialista” che, come abbiamo visto, erano già presenti da un secolo e mezzo presso certe frange del mondo riformato; un certo atteggiamento sincretistico presente da subito nella “nuova” Massoneria – in cui tradizioni spirituali fra le più disparate vengono liberamente rielaborate in forme quanto meno eclettiche e spesso bizzarre6 – favorisce inoltre l’affermarsi di una mentalità che, dietro lo “slogan” dell’universalismo e dell’apertura a tutti i popoli e a tutte le fedi, si propone in realtà di realizzare nel mondo una sorta di melting pot, in cui le tradizioni, l’identità e le culture vengano considerate viste quasi come un ostacolo da superare, in vista del raggiungimento di un ideale di unione (in realtà, sarebbe meglio chiamarla omologazione) universale.
Non a caso, l’azione politica di certi ambienti massonici andrà quasi sempre nella direzione di colpire o ridimensionare i nuclei a “identità forte”, ritenuti inassimilabili al progetto mondiale, specie quelle identità di tipo religioso universalistiche o comunque egemonizzanti una parte importante del mondo (come un tempo era il Cattolicesimo e come oggi sono l’Islam e il mondo slavoortodosso). Di certo, c’è che il sogno di un potere unico universale è sempre stato in cima alle aspirazioni della parte più politicizzata della Massoneria, se è vero che, appena vent’anni dopo la data ufficiale della nascita della Gran Loggia di Londra, un “grembiulino” di alto livello come De Ramsay poteva pubblicamente affermare che «il mondo intero non è che una grande repubblica»7. Aspirazioni che non erano affatto utopistici sogni, ma progettualità concrete, se è vero che, già nel 1756, la gendarmeria asburgica sequestrava a Milano del materiale propagandistico, in cui si leggevano frasi come: «L’oggetto principale della Società [la Massoneria; N.d.A.] è diretto a estinguere, quando sarà arrivata a forza sufficiente, tutti i principati e ridurre il mondo a una repubblica universale»8. L’azione della Massoneria nella società moderna sarà, tuttavia, quasi sempre indiretta, tendente cioè – in sintonia con le caratteristiche “segrete” delle logge – a influenzare gli eventi, più che a prenderne direttamente parte, nella consapevolezza che il vero potere appartiene a chi sa condizionare e manovrare
l’immaginario e i sogni delle masse. Naturalmente, però, chi vuole proporre e diffondere idee “nuove”, finalizzate alla creazione di un “nuovo ordine”, deve sempre, in linea preliminare, creare quel caos iniziale e quel disordine indispensabili per distruggere le strutture precedenti. È l’applicazione in chiave politica dell’antico motto esoterico Ordo ab Chao9, come illustrava a metà del Novecento il 33° grado italiano Gorel Porciatti: «Il motto Ordo ab Chao rappresenta la sintesi della Dottrina massonica e ne rappresenta il Segreto fondamentale. Significa che la Grande Opera non può prodursi se non attraverso uno stato di putrefazione e dissolvimento e insegna che non si può giungere all’ordine nuovo se non attraverso un disordine sapientemente organizzato»10.
Ancora, un autorevole massone francese, a cavallo fra le due guerre mondiali: «La Massoneria è un’associazione… un’istituzione… Non è così! È più di così! Solleviamo tutti i veli a rischio di provocare le proteste. La Massoneria è una Chiesa: l’anti-Chiesa, l’anticattolicesimo, l’altra Chiesa»11.
Traducendo in termini più generali, la Massoneria è lo strumento, attraverso il quale dissolvere il vetus ordo delle antiche istituzioni politiche e religiose, allo scopo di dare vita al novus ordo del mondo. Passando dalla teoria alla concretezza della storia, ad esempio, possiamo constatare come questa prospettiva si sia realizzata, specie nel corso del XIX e del XX secolo, attraverso l’appoggio costante e coordinato a tutti quei fermenti di tipo dissolutivo – fossero essi di carattere sociale, culturale o nazionalistico – tendenti a distruggere le grandi strutture statali e religiose, che costituivano l’asse portante del “vecchio mondo”. Sarebbe piuttosto difficile spiegare il perfetto coordinamento e l’estensione geografica capillare di quei moti rivoluzionari, che infiammarono tutta l’Europa negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo, senza considerare l’influsso esercitato dalle idee e dalle reti massoniche su quell’alta borghesia, che costituì, concretamente, il braccio armato dei sommovimenti; un processo che culminerà in quella grande catastrofe della prima guerra mondiale e che avrà, come conseguenza diretta – ma in certi ambienti auspicata e voluta – l’annientamento dei grandi imperi multinazionali di Austria, Germania, Russia e Turchia, e la nascita di quel primo abbozzo di Nuovo Ordine Mondiale che sarà la Società delle Nazioni. Così scriveva il Gran Maestro Nathan in una circolare dell’epoca: «È ben chiaro a tutti, ma giova ripeterlo altamente, che questa guerra noi auspicammo e volemmo, non solo in nome delle rivendicazioni nazionali, ma ancora per i fini democratici che essa si proponeva, per gli
effetti rinnovatori che ne sarebbero scaturiti»12.
Piuttosto interessante, in particolare, è proprio quel tipico riferimento massonico all’eterogenesi dei fini, per cui diverse sono le motivazioni che vengono proposte alle masse (rivendicazioni nazionali, sociali ecc.) da quelle che percepiscono le élite (gli “effetti rinnovatori”, ovvero, nel caso specifico, l’annientamento dei secolari imperi “per diritto divino”); ossia, per dirla con le parole ancor più dirette del Gran Maestro del Grande Oriente portoghese Magalhaès Lima, pronunciate nel 1917: «La vittoria degli alleati deve essere il trionfo dei principi massonici»13. Sempre nel 1917, il massone André Lebey, del Grande Oriente di Francia, delineava in maniera ancora più concreta il modo in cui si sarebbe inverato il progetto cullato dalla logge: «La Francia in armi per l’abolizione del militarismo va più avanti. Essa non si arresterà nel suo apostolato. Essa rivendica la Società delle Nazioni che diviene lo scopo stesso della guerra. […] Se c’è una guerra santa essa è questa, e dobbiamo ripeterlo senza sosta»14.
I termini utilizzati non lasciano spazio agli equivoci: la guerra santa per instaurare il Nuovo Ordine internazionale era vista, in certi ambienti, come una missione letteralmente “religiosa”; la stessa missione che, dopo la seconda guerra mondiale, verrà perseguita dai grandi organismi internazionali, espressioni, in ultima analisi, delle medesime forze “occulte”. Ma questa è una storia sulla quale avremo in seguito occasione di ritornare.
Gli Illuminati di Baviera tra realtà e mito Un’altra delle società “occulte” più famose sorte nel periodo convulso a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo è quella dell’Illuminatenorden, l’Ordine degli Illuminati, meglio noto al grande pubblico come Ordine degli “Illuminati di Baviera”: una realtà, sulla quale la letteratura “complottista” ha speculato, a tal punto che è ormai difficile distinguere la verità storica degli Illuminati bavaresi del Settecento dalla dimensione “mitica” sviluppatasi nella cultura popolare. Uno degli studi più attendibili e documentati sulla vicenda storica degli Illuminati di Baviera è il saggio Storia segreta – Adam Weishaupt e gli Illuminati dello studioso italiano Mario Arturo Iannaccone. La storia reale degli Illuminati di Baviera è inscindibile da quella del suo fondatore, lo studente bavarese Adam Weishaupt, e dal clima rivoluzionario degli ultimi decenni del XVIII secolo (che prepareranno la strada alla
Rivoluzione Francese). Weishaupt è essenzialmente un giovane idealista, quando l’1 maggio del 1776 vincola a sé, con un giuramento solenne, un gruppo di giovani universitari e fonda una società segreta, che chiamerà prima “Società dei Perfettibili”, poi “Società delle Api” e solo qualche tempo dopo “Ordine degli Illuminati”. Di fatto, però, il nome scelto da Weishaupt è tutt’altro che originale: il termine Illuminati era piuttosto ricorrente nella cultura dell’epoca (specie nella sua versione francese Illuminès) e indicava al tempo stesso sia i razionalisti convinti di avere «vinto la superstizione religiosa con la luce della ragione», sia gli “occultisti” maggiormente sedotti dall’idea spiritualistica di una Conoscenza occulta. Anche la data dell’1 maggio, scelta da Weishaupt per la fondazione, è carica di significati simbolici: antichissima ricorrenza della festa celtica di Beltaine, in cui si celebrava la fecondità ma anche l’esplosione primaverile delle potenze della natura, essa aveva assunto nei primi secoli della modernità il significato ambiguo di festa primaverile ma persino, specie nel mondo di lingua tedesca, di “notte delle streghe” – la celebre Walpurgisnacht, Notte di Walpurga – in cui le potenze sfrenate e dissolutrici del mondo infero erano considerate libere di vagare e di manifestarsi nel nostro mondo. Forse era questo il significato più caro a Weishaupt, il quale vedeva nella sua organizzazione uno strumento dissolutivo, che avrebbe condotto alla “rivoluzione universale”. La vera svolta nella storia della società segreta bavarese avverrà, di fatto, con l’entrata in gioco di un altro e ben più illustre personaggio: il barone Adolph von Knigge, brillante e facoltoso uomo di cultura, appassionato di alchimia e affascinato dal mondo dei “poteri occulti”, che a partire dal 1781 comincia la sua opera di riforma della società segreta riorganizzandola secondo un modello paramassonico attraverso dodici gradi di affiliazione e un’accentuazione maggiormente spiritualistica. È in coincidenza con questo nuovo ingresso che l’Ordine comincia a conoscere un’espansione straordinaria, attirando uomini di cultura, principi, militari e persino ecclesiastici, ma anche, al tempo stesso, i sospetti delle polizie dell’epoca, che attraverso l’opera di informatori e delatori si rendono via via conto dei fini eminentemente sovversivi della setta. Di fatto, a partire dal 1786, l’intera struttura dell’Illuminatenorden si sfaldò e gli stessi capi furono arrestati o costretti all’esilio: Adam Weishaupt, in particolare, condusse i rimanenti quarant’anni della sua vita in maniera ben poco rivoluzionaria, come devoto impiegato del duca di Sassonia-Gotha, umiliato dalle rivelazioni che mettevano in luce come il suo Ordine fosse stato solo una mera invenzione e non certo quell’organizzazione “antichissima e potente” da lui millantata.
La fine dell’Ordine degli Illuminati e del suo fondatore coincisero, tuttavia, con la nascita di un mito che ha attraversato i secoli: un mito favorito dall’esplosione, di lì a poco, di quella Rivoluzione Francese che sembrò in un certo senso inverare gli ideali sovversivi e antireligiosi dell’Illuminatenorden, e nella quale l’intervento di “poteri occulti” e società segrete era innegabile. Fu così che, sull’onda emozionale del momento, dei polemisti cattolici, come l’abate francese Augustin Barruel nel suo celebre Mèmoires pour servir à l’histoire du Jacobinism, additarono gli Illuminati di Baviera, accanto alla Massoneria, come i veri autori occulti della Rivoluzione: un’esagerazione inutile, dato che la Francia dell’epoca era, già di per sé, pullulante di sedicenti “illuminati” e di società segrete d’ogni sorta. L’unica cosa che si può affermare con ragionevole certezza è che gli Illuminati di Baviera – al pari, del resto, di altre organizzazioni e società segrete – hanno contribuito alla creazione di un diffuso “stato di spirito” che ha pervaso l’immaginario collettivo, influenzando movimenti e ideologie. Scrive lo storico Michel Lamy: «Weishaupt può essere considerato in pratica come il vero padre del marxismo. Bakunin fu un suo discepolo, e nelle note dei fondatori degli Illuminati di Baviera si è ritrovata una frase che si può leggere testualmente in una sua opera: “Dobbiamo distruggere tutto, ciecamente, con un solo pensiero in mente: il più possibile e il più presto!”»15.
L’iniziato agli Illuminati, inoltre, doveva proclamare che era «necessario distruggere la religione e la proprietà privata. Una volta appreso tutto ciò era degno di indossare il berretto frigio»16. Del resto, nel clima convulso e complesso del XIX secolo, il mondo occulto e “magico” delle società segrete sembra essersi, fin troppo spesso, mescolato con la politica delle magnifiche sorti e progressive, tanto che persino Karl Marx, il “sacerdote” del materialismo più puro e ortodosso, avrebbe avuto, secondo alcuni, dei contatti con il mondo dell’occultismo17. Più discutibile appare invece la convinzione, così diffusa negli ambienti “complottisti”, che i simboli presenti sulla banconota da un dollaro (il celebre Great Seal degli Stati Uniti) traggano direttamente origine dalla simbologia dell’Illuminatenorden. L’unica analogia potrebbe essere nel simbolismo della Piramide – visto che gli Illuminati utilizzavano nel loro gergo l’espressione “edificare la Piramide” al posto del più massonico “edificare il Tempio” – tuttavia, sia la simbolica del numero 13 (evidentemente legata alle 13 Colonie fondatrici degli USA), sia quella dell’Occhio Onniveggente (All-seeing Eye) non compaiono nel patrimonio simbolico dell’Illuminatenorden e sono invece spiegabili a partire dal messianismo tipicamente americano e dall’idea della
“missione escatologica” e apocalittica dell’America (il tutto “rielaborato” in salsa massonica, con l’immagine della Piramide che rimanda a quell’iconografia “egizia” molto diffusa nel mondo delle logge). In realtà, sembra che nella cultura popolare vi sia stata una vera e propria confusione e sovrapposizione fra l’Ordine degli Illuminati e il termine Illuminati (peraltro preesistente a Weishaupt e alla sua setta), con cui si è voluto genericamente indicare quelle “forze” occulte, che così grande importanza hanno avuto (e hanno ancora) nella storia moderna e contemporanea. Per dirla con le parole di Iannaccone, a partire dal primo dopoguerra «gli Illuminati avevano ormai perso le loro caratteristiche specifiche, settecentesche, diventando sinonimo di élite che dominano il mondo, le potenze oscure che modellano storia e guerre. Per lo più, la parola “Illuminati” viene oggi intesa con questo significato vasto e sfumato, che allude al mondo della finanza, ai poteri forti, agli organismi sovranazionali o non (dall’ONU al Bilderberg, alla Trilaterale), alle società segrete di ogni genere (massonerie superiori, società segrete superiori)»18.
Dall’esoterismo all’occultismo: la “religione del potere” La realtà dei poteri occulti e delle società segrete che agiscono dietro le quinte, decise a gestire la storia non solo per motivi economico-strategici, ma anche per ragioni “ideali” che trascendono il razionalismo di facciata del nostro mondo moderno, pone quasi sempre allo studioso come al semplice curioso una serie di paradossali interrogativi sulla realtà in cui viviamo. In effetti, chi come noi è cresciuto con l’idea che l’economia sia l’unico e vero motore della storia, non può non fare proprio lo stupore di un giornalista come Giuseppe Cosco che, da grande indagatore qual era dei processi più profondi della contemporaneità, scriveva: «Una realtà inimmaginabile si apre agli occhi di chi era convinto di vivere in un mondo laico, aperto, secolarizzato e democratico, sottoposto alle leggi dell’economia e alle scoperte della scienza, dove tutto ciò che viene chiamato “magia” sembrava essere irrilevante nel guidare l’azione politica. Invece, non è affatto così»19.
In realtà, questo rapporto, solo in apparenza paradossale, tra la dimensione occulta o parareligiosa e quella per definizione “concreta” e “realista” del potere, sorprende unicamente nella misura in cui si rimanga legati a quegli schemi ideologici del materialismo storico ormai decisamente superati. L’idea del Nuovo Ordine Mondiale, ad esempio, è incomprensibile a prescindere dalle filosofie, dalle “teologie” e dalle dottrine più o meno occulte ed “elitarie” che l’hanno generata. D’altronde, il costante connubio tra l’occultismo, i poteri forti e il progetto di
un Nuovo Ordine Mondiale trova ampia spiegazione a partire da una serie di fattori storici e umani: 1. innanzitutto, come abbiamo visto, è l’idea stessa di Nuovo Ordine Mondiale a trarre origine in ambienti imbevuti di pulsioni apocalittiche e messianiche; 2. in secondo luogo, è un dato di fatto che il fascino dell’occulto costituisce da sempre un aspetto caratterizzante, per ogni élite che si consideri tale. Se il materialismo nella sua forma più orizzontale, infatti, può facilmente attecchire tra le “masse”, lo stesso non può dirsi per chi, magari per esperienza diretta, ha potuto constatare come la Realtà sia qualcosa di ben più complesso del semplice “mondo” percepibile con i cinque sensi.
A costituire l’aspetto che maggiormente colpisce, di questa sorta di “religiosità dei poteri forti”, tuttavia, sono certe caratteristiche, come l’abitudine alla dissimulazione e all’inganno e persino alcune “coloriture” luciferine, che maggiormente toccano la fantasia di massa e che hanno dato origine all’idea del NWO come “complotto satanico” ai danni dell’umanità. Queste interpretazioni popolari, però, persino quando si avvicinano ad alcune verità, mancano purtroppo dei mezzi intellettuali atti a comprendere correttamente certe realtà, il che finisce per creare equivoci e incomprensioni anche gravi. Nel linguaggio di massa, ad esempio, termini come “satanismo”, “luciferismo” e “occultismo”, vengono frequentemente confusi e accostati ad altri, come “esoterismo” o “spiritualismo”, che nel loro significato originale nulla hanno a che vedere con essi. Si può affermare che sia sempre esistito, in tutte le religioni, un aspetto “esoterico”, ovvero profondo e “interiore” della dottrina, ma questo non va affatto confuso con quel fenomeno, tipicamente moderno che è l’occultismo. A partire dall’età moderna, infatti, all’esoterismo di tipo tradizionale si sostituiscono sempre più delle realtà artificiose le quali, spesso fuori da ogni legittimità, propongono eclettiche “vie”, in cui antichi elementi di origine realmente esoterica vengono singolarmente ricombinati secondo i propri interessi o scopi: è il caso, almeno in una certa misura, del fenomeno rosacrociano o delle origini della Massoneria moderna. Si tratta, in sostanza, di realtà che, avendo perso ogni contatto con un’autentica tradizione, ne elaborano una artificiale, non di rado millantando “nobili e remote” origini e attingendo a idee, concetti, “tecniche” e simboli di origine eterogenea, di cui, in sostanza, si percepisce quasi sempre solo l’aspetto più superficiale, “magico” o a volte esclusivamente folkloristico. Lo scopo dell’occultismo, in realtà, è quanto di più divergente vi possa essere da quello dell’esoterismo tradizionale; a differenza delle vie esoteriche, infatti, l’occultismo non mira a spogliare l’ego, affinché nulla più si ponga a ostacolo
rispetto alla luce divina, ma ha un fine esattamente opposto: “divinizzare l’io”, ampliarne i “poteri”, realizzare nella maniera più esatta possibile l’invito del “serpente” nel Giardino dell’Eden: «Allora il serpente disse alla donna: voi non morrete affatto; ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno e sarete come Dio, conoscendo il bene e il male»20. Ecco perché l’occultismo, nelle sue varie forme, è divenuto di fatto la vera “religione” dei “poteri forti”, adattandosi a meraviglia alla particolare antropologia di chi si sente “eletto” a trasformare e dominare il mondo a sua immagine e somiglianza. Un occultismo che, non di rado, può assumere anche le forme estreme, eppure consequenziali, del luciferismo e del satanismo.
Che cos’è realmente il “satanismo”? Lungi dall’essere limitato alle sue forme più note, folkloristiche e “acide”, il “satanismo” è un fenomeno che appare ben diffuso e radicato nelle élite sociali moderne e che anzi, nelle sue varie manifestazioni, sembra percorrere e influenzare una parte consistente della cultura degli ultimi secoli. Nella sua essenza più profonda, in effetti, il “satanismo” è prima di ogni altra cosa una religione dell’io e del potere spinta all’ennesima potenza; sembra essere, al limite, una costante di buona parte della cultura moderna; una sorta di modernità senza retorica, allo stato puro, che rigetta l’ipocrisia dei “valori laici”, riducendosi a mera affermazione di dominio dell’ego su tutto. Così, già l’Illuminismo «è percorso da correnti sataniche, e se di giorno combatte le superstizioni clericali ed oscurantiste, negando la realtà metafisica del Diavolo, di notte pratica le scienze occulte evocando demoni, spiriti ed entità oscure. Il rapporto con il demoniaco fu emblema di libertà dalla legge e di trionfo dell’Io. L’adorazione di Satana inizia nell’epoca dei Lumi» 21.
Con la modernità, dunque, Satana e il “satanismo” riemergono dalle profondità infere in cui erano stati relegati, per divenire vessilli di una “nuova visione del mondo”, simboli di un dominio sulla natura e sul prossimo, che si vuole totale: atteggiamento, questo, che può avere una sua sfumatura quasi “mistica”, come traspare dalle parole dell’illuminista e libertino Marchese De Sade, che nella Nouvelle Justine (vol. 1, p. 220), sospira sulla «impossibilità di oltraggiare la natura che è il più grande supplizio che sia stato inflitto all’uomo». D’altro canto, per ridurre ancor più le cose alla loro essenza, è interessante capire come per la maggior parte, i “satanismi” siano in realtà dei satanismi di fatto, che in quanto tali potrebbero anche rifiutare l’esistenza di un’entità
“satanica” così come intesa dalle tradizioni monoteistiche. È noto, ad esempio, che il “satanista” e mago inglese Aleister Crowley, le cui dottrine hanno esercitato un enorme influsso sulla cultura rock degli anni Settanta, riteneva “Satana” non tanto un’entità personale, quanto piuttosto un simbolo del proprio ego. Così, di fatto, la filosofia occultistica di Crowley è, per certi versi, definibile come una sorta di ateismo magico, che rifiuta, oltre all’esistenza di Dio, anche quella di un Satana inteso come persona22. Nel sistema magico di Crowley, Satana è solo il simbolo di una visione libertaria e superomista, un ideale di autodivinizzazione e di libertà assoluta, che risulterebbe gradito, se non fosse per i riferimenti occultistici e magici, anche a un qualunque ateo materialista. Così, ad esempio, si esprime Crowley nel suo Hymne to Lucifer: «Non c’è altro dio che l’uomo. L’uomo ha diritto a vivere secondo la sua legge, di vivere come vuole, […] di morire quando e come vuole. […] L’uomo ha diritto di amare come vuole: prenditi tutto l’amore che vuoi, quando, dove e con chi vuoi. L’uomo ha diritto a uccidere coloro che volessero negargli questi diritti» 23 .
Su queste basi, come negare che la cultura dominante del mondo moderno non sia, nel senso più profondo del termine, impregnata di satanismo? Il culto del potere, dell’io onnipotente che deve cancellare Dio dai cieli e dalla terra è infatti l’evidente punto d’arrivo di un percorso secolare di emancipazione dai valori tradizionali, che inizia alla fine del Medioevo e inculca una cultura economicistica e mercantile, fino a giungere alla definitiva affermazione dell’individualismo in ogni aspetto della vita. In questa prospettiva, anche l’idea di un Novus Ordo da proporre-imporre al mondo ha conosciuto, nei secoli, una trasformazione, passando dall’idea di un fideistico Regno di Dio su “questa terra”, da diffondere nel mondo intero, a quella di un “regno dell’uomo” autodivinizzatosi ormai in fase avanzata di realizzazione. Un “regno dell’uomo” da intendere, probabilmente, come “regno di alcuni uomini”: esseri autoconsideratisi specialissimi ed eletti, potenti non solo per denaro o per prestigio sociale, ma anche in quanto veicoli di “forze” che trascendono la banale materialità, nella quale vive imprigionata la maggior parte dei loro simili; uomini che si percepiscono come superuomini e il cui rapporto con la “massa” dell’umanità potrà essere solo cinico e strumentale. NOTE 1. J. Evola, Il mistero del Graal, Mediterranee, Roma 1989, pp. 189-190. 2. Sul ruolo avuto da Elias Ashmole nell’evoluzione dalle corporazioni antiche alla moderna Massoneria,
cfr. F. Yeats, L’illuminismo dei Rosacroce, Torino 1976, p. 245. 3. Sulle radici britanniche della prima Massoneria moderna, cfr. D. Stevenson, The Origins of Freemasonery. Scotland’s Century 1590-1710, Cambridge 1988. Sul problema tuttora aperto dell’origine della Massoneria e sulle sue “ascendenze mitiche”, cfr. A. A. Mola, Storia della Massoneria dalle origini ai nostri giorni, Milano 1994; L. Sessa, La Massoneria. L’antico mistero delle origini, Foggia 1997. 4. R. Guénon, Il teosofismo. Storia di una pseudo-religione, vol. 1, Torino 1987, p. 46. 5. Da questo punto di vista, non sembra casuale che le uniche monarchie d’Europa sopravvissute fino al giorno d’oggi siano, fatta eccezione per la Spagna, solo quelle dei Paesi di tradizione protestante. 6. Il giudizio più duro, in tal senso, è quello dell’esoterista Julius Evola, che definisce la Massoneria moderna uno zibaldone pseudo iniziatico a «carattere inorganico e sincretistico» (J. Evola, Il mistero del Graal, cit., p. 191), proprio a causa di questo atteggiamento, tendente fin dall’origine a mescolare fra loro “tradizioni” eterogenee (ebraiche, egizie, cristiane, cavalleresche, muratorie ecc.), segno evidente, secondo Evola, del suo carattere artificioso. 7. Cit. in S. Gianfermo, Settecento fiorentino erudito e massone, Ravenna 1986, p. 19. 8. Cit. in «Chiesa Viva», n. 206, aprile 1990, p. 13. 9. Letteralmente, “ordine dal caos”. 10. U. Gorel Porciatti, Simbologia massonica. Gradi scozzesi, Roma 1948, p. 303. 11. Cit. in F. Giantulli, L’essenza della Massoneria italiana: il naturalismo, Firenze 1973, p. 47. 12. Il libro del massone italiano, Torino 1922, cit. in M. Di Giovanni, Indagine sul mondialismo, Milano 2000, p. 41. 13. Riportato nel quotidiano tedesco «Neue Zurcher Nachrichten», il 28 luglio 1917. 14. Cit. in Les documents maçonniques, Parigi 1986, p. 24. 15. M. Lamy, Jules Verne e l’esoterismo, Roma 2005, p. 166. 16. Ivi, p. 166. 17. Secondo gli studi del pastore protestante Richard Wurmbrand, Marx avrebbe coltivato un segreto interesse per un occultismo di tipo luciferino. Wurmbrand è l’autore di una ricerca, pubblicata in Italia con il titolo L’altra faccia di Carlo Marx, (Marchirolo, 1984) l’originario titolo inglese, Was Karl Marx a Satanist? (Karl Marx era un satanista?), è però più significativo. Wurmbrand raccoglie in questo saggio una serie di testimonianze e di lettere autografe, che potrebbero far pensare a un legame di Marx con alcune correnti sataniste della sua epoca. Le prove esibite da Wurmbrand, tuttavia, non sempre appaiono incontestabili: alcune di queste “testimonianze”, infatti, consisterebbero in una serie di citazioni di sapore “satanico” tratte da lettere giovanili, ma queste potrebbero anche essere interpretate come semplici metafore, tipiche del linguaggio dei rivoluzionari ottocenteschi. Ben documentata, al contrario, è la predilezione di Marx per il genero Edward Aveling, amico intimo della teosofista Annie Besant e membro dell’Ordine Riformato di Memphis, una frangia della Massoneria “egiziana” (cfr. R.Wurmbrand, op. cit., pp. 42-43; C. Gatto Trocchi, Storia esoterica d’Italia, cit., p. 23). 18. M. A. Iannaccone, La vera storia degli Illuminati di Baviera (scaricabile dal sito: http://mikeplato.myblog.it/archive/2010/04/15/ la-vera-storia-degli-illuminati-di-baviera.html). 19. G. Cosco, Stregoneria e potere, in «Il segno del soprannaturale», anno XIII, n. 156, p. 32. 20. Genesi 3, 4. 21. C. Gatto Trocchi, Affare magia, cit., pp. 63-64. 22. «Il Diavolo non esiste. È un falso nome inventato dai Fratelli Neri per implicare un’Unità nella loro ignorante confusione» (A.Crowley, Magick, New York Beach 1974, p. 296). 23. A. Crowley, Hymne to Lucifer, ripubblicato in «The Equinox», vol. III, n. 10, p. 144.
DAL POPOLO ALLA “MASSA”: TECNICHE E STRATEGIE PER UN DOMINIO GLOBALE «C’era una volta un mago ricco e avaro che possedeva molte mandrie di montoni. Non assoldava pastori né recingeva i pascoli. I montoni si sperdevano nei boschi, cadevano nei burroni e soprattutto scappavano all’avvicinarsi del mago, poiché avevano sentore di quel ch’egli faceva della loro carne e del loro vello. Cosicché il mago trovò il solo rimedio efficace. Ipnotizzò i montoni […]. E così il mago visse senza preoccupazioni. I montoni rimanevano sempre accanto alle mandrie e aspettavano con serenità il momento in cui il mago li avrebbe tosati e sgozzati». (Georges Ivanovič Gurdjieff) «Tu affermi che il marxismo è l’antitesi stessa del capitalismo, ma per noi sono sacri entrambi in egual modo. È proprio per questo che sono l’uno opposto all’altro: così facendo ci consegnano i 2 poli di questo pianeta e ci permettono di esserne l’asse». (Otto Kahn, investment della Kuhn, Loeb & Co. Bank)
na caratteristica comune a tutte le élite propugnanti l’instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale è certamente quella di autopercepirsi come una categoria di “eletti” distaccati dal resto dell’umanità. Che si caldeggi la missione “divina” della razza anglosassone o la rivelazione di un “messia blasfemo”, il progetto di una loggia o di un gruppo di “illuminati”, il trionfo della Nuova Era o del “Lucifero” simboleggiante l’ego (auto)divinizzato di un gruppo di “perfetti”, l’atteggiamento nei confronti del resto del genere umano rimane pressoché identico ed è fatalmente contraddistinto da un rapporto strumentale e spesso freddamente cinico; per un paradosso solo apparente, infatti, proprio quella modernità che ha fatto della “democrazia” un vessillo da sbandierare, ha conosciuto, al tempo stesso, una elitizzazione del potere senza precedenti, in cui il divario tra chi gestisce realmente il potere e crea le idee e chi le subisce e le consuma è pressoché invalicabile.
U
L’invenzione della “massa” Certamente non si può negare che nella storia sia sempre esistita una differenza fra élite e popolo, che è forse, per molti versi, un aspetto antropologico ineliminabile. È pur vero, tuttavia, che in molte civiltà tradizionali questo iato veniva in qualche misura colmato dai corpi intermedi (corporazioni, collegia, confraternite, gruppi familiari ecc.), ma anche, e soprattutto, da una spiritualità condivisa che, pur con sfumature e gradi di comprensione differenti, univa ciò che stava in alto a ciò che stava in basso in un corpo unico, che
possiamo, a buon diritto, definire popolo. Con lo sviluppo della modernità, al contrario, questa continuità si spezza: i corpi intermedi vengono via via rimossi – per ultima, in questi ultimi decenni, anche la cellula-base rappresentata dalla famiglia naturale – lasciando l’individuo solo davanti alle sfide e alle domande dell’esistenza, semplice monade perduta in una realtà indistinta e informe chiamata “massa”. Lo stesso termine “massa” spiega di cosa stiamo parlando: questa parola, che ha origine dal so stantivo greco maza (maza) ovvero “impasto”, a sua volta derivato dal verbo mavssein (massein, “impastare” o “manipolare”), rende fin troppo bene l’idea di una “materia prima” informe e quindi ma nipolabile da chi, con opportune tecniche, è capace di indirizzarne e ca nalizzarne i mutevoli stati emotivi. È per un paradosso solo apparente, dunque, che nella “democratica” modernità sia nata anche quella vera e propria “scienza del consenso”, tendente a pilotare e indirizzare le masse possibilmente a loro insaputa: una “scienza” usata a tutti i livelli, da quello più semplice della propaganda pubblicitaria fino a quello, ben più raffinato, della creazione degli “stati di spirito” e dei grandi cambiamenti di paradigma e di mentalità, che solo all’apparenza appaiono “spontanei”. Il vero potere, infatti, tende, in età moderna, a nascondersi e ad agire “da dietro le quinte”, non dovendo più manifestarsi pubblicamente a un popolo in cui si è uniti da valori condivisi. Per dare un’idea del modo di percepire il rapporto con il popolo-massa caratteristico di certi “poteri”, è interessante osservare come nel rituale della Massoneria tedesca, al IV grado detto del Maestro segreto, si narri un significativo mito legato alla figura di Hiram1, il costruttore del Tempio di Gerusalemme, che avrebbe sedato con il suo “potere” le masse del popolo (das Volk) lì dove non era riuscito il re Salomone, figura del re sacro di tipo tradizionale. Uno dei segreti di Hiram, l’eroe cultuale delle logge massoniche, sarebbe stato dunque quello di saper esercitare un potere persuasivo su un popolo visto come “massa”, ovvero come strumento utilizzabile per fini ad esso sconosciuti.
La creazione degli “stati di spirito” e la “convergenza degli opposti” Forse non esiste un altro autore, che sia in grado di descrivere con la stessa efficacia di René Guénon il processo di persuasione occulta delle masse da parte delle élite. Legatosi in età matura all’Islam ed entrato in una tarīqa2 sufica, ma
conosciuto anche per la sua prolungata frequentazione giovanile di logge massoniche e gruppi occultisti nella natia Francia, Guénon ritorna più volte, all’interno delle sue opere – da esperto del “mestiere” – sul concetto di stato di spirito, espressione indicante un’atmosfera culturale che può essere indotta nelle masse attraverso il sapiente utilizzo di mezzi appropriati. Da un certo punto di vista, l’analisi di Guénon sull’origine degli “stati di spirito” che muovono le masse in una direzione anziché in un’altra non dovrebbe sorprendere: si tratta, in effetti, di un processo che può facilmente essere percepito, in molti aspetti della nostra vita quotidiana, a partire da un certo tipo di pubblicità fino a certe tecniche di informazione (o disinformazione) giornalistica. Quello che l’analisi di Guénon tuttavia suggerisce è l’idea che tali mezzi, utilizzati in maniera ben più estesa, possano addirittura forgiare l’opinione di interi popoli, imporre paradigmi culturali e persino preparare eventi destinati a cambiare intere pagine di storia. Un altro aspetto, che rende la questione piuttosto inquietante, è l’idea che, in certi ambienti, si possa fare utilizzo, nella maniera più spregiudicata, della “menzogna sistematica” come strumento per raggiungere dei “fini” noti solo a pochi “iniziati”. Scrive l’esoterista francese: «È noto l’adagio: “Vulgus vult decipiti”, che alcuni commentano: “Ergo decipiatur!” […]. Si può così tenere per sé la verità e diffondere nello stesso tempo errori che si sanno essere tali, ma che si ritengono opportuni»3.
Egli, dal canto suo, depreca simili atteggiamenti, ma aggiunge laconicamente: «Altri però possono giudicare le cose diversamente»4. La “menzogna sistematica”, inoltre, potrebbe anche prendere la forma di una singolare coincidentia oppositorum5 o, per dirla all’inglese, balance of power in cui, come scrive sempre Guénon, «si può ritenere che la coesistenza di due errori opposti, limitatisi per così dire reciprocamente, sia preferibile alla libera espansione di uno solo degli errori. Così può anche darsi che molte correnti di idee, per quanto totalmente divergenti, abbiano avuto un’origine analoga e siano state destinate a favorire quella specie di gioco d’equilibrio che caratterizza una particolarissima politica; in quest’ordine di cose, si commetterebbe un grave errore fermandosi alle apparenze»6.
Una balance of power, in cui tra i “due litiganti” c’è un terzo – più potente e posto al di sopra degli altri – che trae frutto dallo scontro, ma anche, volendo, in cui i due contendenti giocano a loro insaputa un ruolo finalizzato a uno scopo, che sfugge alla loro capacità di percezione. In quest’ottica, forse, molti dei dualismi politico-culturali, che dividono i popoli fra “destra” e “sinistra”, tra
progressismo e conservatorismo, tra ricchi e poveri, e che tanto “accalorano” e dividono le masse, potrebbero non avere che poca importanza, rispetto ad altri e ben più ambiziosi fini. Un’altra forma ancora più raffinata di controllo sociale, del tutto compatibile con le precedenti, è quella dell’identificazione di un pubblic enemy: un pericolo pubblico comune (non importa se reale o immaginario) sul quale incanalare lo sdegno collettivo onde rafforzare il consenso verso un certo potere. Quando nel suo profetico romanzo 1984, George Orwell immagina un mitico personaggio, Emmanuel Goldstein, identificato dal Gran Fratello come il “nemico del sistema” e divenuto oggetto di un “odio ritualizzato” da parte della popolazione, il grande scrittore non fa altro, in fondo, che spingere al paradosso un processo di massa indotto che si è ripetuto innumerevoli volte nella storia moderna e di cui si sono visti esempi clamorosi anche negli ultimi anni… Tornando alla balance of power di cui parlava Guénon, sarebbe a nostro parere indispensabile capire come molti dei “dualismi” caratterizzanti la nostra esperienza di comuni cittadini – nell’ambito della politica come della cultura o dei cosiddetti “valori” – possano avere, a livelli ben più alti, un’importanza relativa e puramente strumentale. Noi italiani, ad esempio, non possiamo dimenticare quell’esempio di particolarissima politica che fu – nel ristretto ambito della nostra dimensione nazionale – la cosiddetta “strategia degli opposti estremismi” degli anni Settanta, che attraverso la demonizzazione della sinistra e della destra estreme – con il necessario ausilio di provocazioni, infiltrazioni e sanguinosi, quanto apparentemente insensati, attentati, i cui veri mandanti sono sempre rimasti ignoti – ha favorito una paradossale “stabilità politica” convergente sui partiti di maggioranza e sulla ferrea adesione del Paese alla NATO. Esistono anche esempi di processi indotti e gestiti “dall’alto” decisamente più clamorosi e storicamente determinanti; processi capaci di influenzare non solo la semplice politica di un singolo Stato ma, più o meno direttamente, tutta l’umanità: è il caso di certe “grandi rivoluzioni”, che hanno letteralmente stravolto la storia moderna e contemporanea.
Rivoluzioni (poco) spontanee Vi sono eventi rivoluzionari, nella storia degli ultimi secoli, che possono a buon diritto essere considerati epocali, proprio perché caratterizzanti non solo un periodo o un’area geografica più o meno ristretta, ma, in definitiva, tutto il mondo. Eventi che, riuscendo a trasformare, oltre al piano delle istituzioni, anche, e soprattutto, la cultura e l’immaginario, hanno costituito un vero e
proprio “punto di non ritorno” della storia umana. Nella vulgata ufficiale (quella dei libri di storia), tali accadimenti vengono normalmente derubricati come fenomeni “spontanei”, ma è davvero credibile che degli eventi capaci di rivoluzionare la storia e la cultura del mondo intero siano spiegabili solo a partire dal cieco agire delle masse? In realtà, è evidente che una grande rivoluzione, qualunque essa sia, ha bisogno quantomeno di una lunga preparazione alle spalle e ancor più di mezzi economici, che certamente non possono provenire dagli strati più “disagiati” della popolazione. Naturalmente, una rivoluzione ha sempre bisogno, per garantirsi il successo, dell’aggancio con una realtà sociale critica, ma è altrettanto evidente che la mera forza bruta della “folla” non può in alcun modo spiegare le modalità, gli esiti e gli sviluppi che hanno avuto, ad esempio, le grandi rivoluzioni della modernità, i cui esempi più clamorosi sono la Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Russa del 1917. Per quanto riguarda la “madre di tutte le rivoluzioni”, ovvero quella francese, notiamo come siano ormai pochi gli storici disposti a negare l’influsso determinante di certi “poteri occulti” dell’epoca in tutte le fasi dell’evento rivoluzionario; evento che, come tutti i sommovimenti sociali, è stato preceduto dalla diffusione di una propaganda capillare, tesa alla creazione dello “stato di spirito” adatto. Scrive lo storico Bernard Fay: «Gli storici che vedono nella Rivoluzione l’esito fatale degli abusi del vecchio regime, si compiacciono nel mostrare le ragioni che potevano avere il popolino, i contadini e gli operai per sollevarsi contro il governo di Luigi XVI; e per spiegare questi fenomeni trovano dei motivi economici, sociali, politici, che li soddisfano. Ma di solito toccano appena la parte avuta dall’alta nobiltà, senza la quale la Rivoluzione non avrebbe mai potuto mettersi in moto. L’impulso rivoluzionario, i fondi rivoluzionari, durante i primi due anni della Rivoluzione, provengono dalle classi privilegiate. […] Ora, tutti questi nobili che abbracciarono alla prima la causa delle idee nuove […] tutti erano massoni, e non si può scorgervi un caso fortuito, a meno di voler negare l’evidenza»7.
Se la “forza bruta e cieca” della massa, spinta dalla crisi economica, può giustificare, infatti, l’intensità iniziale dell’evento rivoluzionario, ben più difficili da spiegare, in termini socio-economici, sono gli esiti di una rivoluzione come quella del 1789, con il suo corollario ideologico-simbolico di chiara derivazione massonica, i suoi culti alla “Dea Ragione” o la spietata persecuzione anticristiana (divenuta vero e proprio genocidio in regioni come La Vandea o la Bretagna). Altrettanto (o forse ancor più) evidente, è l’intervento di Poteri Forti nell’altra grande rivoluzione moderna: quella bolscevica in Russia. Anche in questo caso, certamente, la miserabile condizione del popolo coinvolto nella prima guerra
mondiale e l’incapacità a governare dell’ultimo zar Nicola II hanno costituito la “scintilla” della Rivoluzione, ma essa difficilmente avrebbe avuto l’esito che conosciamo senza l’appoggio concreto e deciso di certi potentati economici stranieri. Stiamo parlando, soprattutto, dell’enorme sostegno economicofinanziario che alcuni grandi potentati occidentali hanno fornito ai bolscevichi, senza il quale, l’esito della rivoluzione “proletaria” del 1917 non sarebbe stato lo stesso. Lo stesso Lev Trotsky8, uno dei capi rivoluzionari poi fatto uccidere in esilio da Stalin, «nelle sue memorie, fa riferimento a prestiti di finanzieri inglesi fin dal 1907, mentre a partire dal 1917 [ovvero dall’anno in cui hanno inizio i moti rivoluzionari; N.d.A.] i maggiori aiuti finanziari della rivoluzione furono organizzati da Sir George Buchanan e da Lord Alfred Milner (dell’alleanza MorganRothschild-Rhodes)»9.
Tuttavia, non solo i grandi potentati economici britannici, ma buona parte del mondo della finanza e dei “poteri forti” occidentali sembra essere stato coinvolto, in quel periodo, da questa frenetica attività di finanziamento a quel bolscevismo leninista che, almeno in apparenza, si presentava come il più feroce avversario del capitalismo. Persino su un quotidiano come il «New York Journal-American» queste curiose operazioni furono all’epoca messe in luce10 in particolare, i finanziamenti a “fondo perduto”, che la banca “Khun&Loeb” aveva elargito ai bolscevichi nella persona del presidente Jacob Schiff, per una cifra complessiva di 20 milioni di dollari. Le stesse autorità americane, diligentemente, non mancarono di registrare questo enorme movimento di denaro, la cui documentazione è conservata in una raccolta di atti diplomatici pubblicati dal Dipartimento di Stato USA (Paper Relations of the United States – 1918 – Russia – Three Volumes, United States, Government Printing Office, Washington 1931), in uno dei quali, a titolo d’esempio, si può leggere: «Sig. Raphael Scholnickan – Haparanda. Caro amico, l’ufficio della banca Warburg ha, in seguito al telegramma del sindacato Westphalo-Renano, aperto un credito al compagno Trosky. L’incaricato si è procurato delle armi […]»11.
Alla luce di queste e altre testimonianze, il minimo che si possa dire è che, al di là d’ogni ragionevole dubbio, le vere motivazioni della politica internazionale non sembrano sempre essere quelle che appaiono sui libri di storia. Nel caso specifico della Russia, possiamo azzardare l’ipotesi che dietro il desiderio di distruggere il dominio zarista (che pure fu legato agli Alleati durante la prima guerra mondiale!) ci fosse l’atavico odio del mondo anglosassone verso
il “mondo” slavo ortodosso, euroasiatico e arcaico situato in quella che i geopolitici britannici indicavano come la Heartland (Cuore del mondo12), inassimilabile a ogni sorta di progetto “mondialista” e per questo identificato, presso certi “ambienti” occidentali, come il Nemico per eccellenza. A tale scopo – ovvero annientare quel nucleo etnico-religioso che era la Russia – anche una carta estrema come quella del bolscevismo poteva forse apparire “un rischio accettabile”, agli occhi di certi “poteri forti”. Sostituire lo zar con un manipolo di rivoluzionari ideologicamente “estremisti”, ma comunque legati economicamente ai “poteri forti” occidentali, era una possibilità che evidentemente rientrava nei progetti di certe élite: un progetto, (forse) sfuggito di mano quando ai primi rivoluzionari come Lenin o Trovsky si sostituì il gelido e determinato Stalin che, abbandonando l’idea utopistica di fare della Russia il centro della “rivoluzione comunista mondiale”, optò per una svolta nazionalistico-patriottica. Che i “poteri forti” occidentali e mondialisti, d’altronde, avessero tutto l’interesse, dalla loro prospettiva, a distruggere l’Impero russo lo conferma, a posteriori, l’attualità: oggi, infatti, dopo avere superato il purgatorio di settant’anni di comunismo e la ancor più disastrosa fase postdittatoriale, la nuova Russia identitaria e ortodossa è tornata a essere forse l’unico, concreto ostacolo all’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale. L’unico, vero “potere” capace di opporsi al NWO sia militarmente che ideologicamente.
I “poteri visibili” Se le “forze” che giocano con la storia tendono essenzialmente a rimanere dietro le quinte, questo però non significa che esse non acquistino alla lunga una qualche “visibilità”. Dal mare magnum inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione, impegnati da tempo a promuovere il progetto del Nuovo Ordine Mondiale, emergono infatti, con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere, che, in qualche maniera, potremmo definire il volto visibile del NWO. Queste realtà, che ricorreranno di continuo nel corso del nostro saggio, rappresentano in qualche modo gli “attori” maggiormente in vista del mondialismo; però la loro stessa visibilità, per altri versi, non ci assicura di essere al cospetto dei veri “protagonisti” di questo processo di portata universale, che sono probabilmente destinati a rimanere invisibili almeno finché il “fine ultimo” non sia giunto a compimento. Nel concreto, come abbiamo visto, il progetto mondialista nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati
Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito da quella “colonia” in Medio Oriente che è lo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, non intendiamo riferirci alle politiche dei singoli governi – che, per definizione, vanno e vengono – e nemmeno ai popoli o alle genti che le abitano, ma a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo. In alcuni casi, si può addirittura parlare di vere e proprie dinastie mondialiste, il cui potere, trasversale a ogni governo e duraturo nel tempo, si estende a macchia d’olio a partire non solo dal controllo sull’economia, ma anche dall’ascendente che tali gruppi hanno saputo esercitare nell’ambito del modus vivendi dei popoli. Su questo argomento, peraltro, esiste già una letteratura ben sviluppata ed esaustiva, a cui rimandiamo13; in questa sede, ci limiteremo solo a ricordare le più importanti di queste realtà.
La dinastia dei Rothschild Di origine ebraico-tedesca (il nome significa Scudo Rosso), ha però ramificazioni in tutt’Europa fin dai primi anni del XIX secolo. Il più importante ramo dei Rothschild è stato quello insediatosi in Inghilterra, da dove, già al tempo delle guerre napoleoniche, Nathan Mayer Rothschild riuscì a finanziare la vittoria britannica contro Bonaparte. I Rothschild possono considerarsi come i veri e propri fondatori della finanza internazionale moderna e già a partire dalla seconda metà del XIX secolo gran parte degli Stati d’Europa, dall’Impero asburgico al Regno di Napoli e dalla Francia allo Stato pontificio era indebitata con loro. A tale proposito, lo storico Paul Johnson scrive: «[…] a differenza dei tribunali ebrei dei secoli precedenti, che avevano finanziato e gestito le casate nobili europee, ma che spesso perdevano la loro ricchezza attraverso la violenza o l’espropriazione, il nuovo tipo di banca internazionale creata dai Rothschild era impenetrabile agli attacchi locali. I loro beni furono tenuti negli atti finanziari, circolanti attraverso il mondo come azioni, obbligazioni e debiti. Le modifiche apportate dai Rothschild permisero loro di isolare la loro proprietà dalla violenza locale: d’ora in avanti la loro ricchezza reale era al di là della portata della folla, quasi al di là della portata degli avidi monarchi»14.
Molte delle guerre che hanno cambiato il corso della storia moderna devono il loro esito al potere finanziario della dinastia, nel caso della guerra russogiapponese – vinta dai nipponici contro l’Impero degli zar anche grazie ai prestiti ricevuti dal ramo britannico dei Rothschild, ammontanti a circa 11,5 milioni di sterline dell’epoca15 – che diede il primo serio colpo al prestigio
dell’immenso Impero euroasiatico. Inoltre, secondo quanto affermava nel 1906 la Jewish Encyclopedia (v. cap. Finance), l’esempio dei Rothschild è stato trainante per tutta la finanza ebraica: «La pratica avviata da Rothschild di avere più fratelli in una stessa impresa e di istituire filiali in diversi centri finanziari è stata seguita da altri finanzieri ebrei, come i Bischoffsheims, Pereires, Seligmans, Lazards e altri, e questi finanzieri con la loro integrità e capacità finanziaria ottenevano credito non solo con i loro confratelli ebrei, ma con la fraternità bancaria in generale. In tal modo i finanzieri ebrei ottennero una quota crescente della finanza internazionale durante il secondo e ultimo quarto del diciannovesimo secolo. La guida è stata la famiglia Rothschild».
La famiglia Rockefeller Di incerta genealogia (forse derivati da una famiglia protestante francese riparata in Germania e poi emigrata negli Stati Uniti), i Rockefeller assurgono a notorietà con il rampollo John Davison Rockefeller, fondatore di un impero economico senza precedenti a partire dallo sfruttamento del petrolio (Standard Oil). Un potere economico sconfinato che, come vedremo, è stato utilizzato molto spesso allo scopo di influenzare non solo la politica americana, ma anche il modus vivendi e persino i costumi di mezzo mondo. La Rockefeller Foundation, fondata da John Davison e da suo figlio John Davison junior con lo scopo di promuovere il benessere del genere umano in tutto il mondo, è stata infatti, come vedremo, la più grande sostenitrice delle politiche denataliste e abortiste in tutto il mondo, un vero baluardo del pensiero eugenetico e mondialista. L’ultimo rampollo ancora vivente della dinastia, David Rockefeller, è stato tra i fondatori dei famosi gruppi internazionali del Bilderberg e della Trilateral Commition, oltre che dell’influentissimo CFR (Council on Foreign Relations), il cui ascendente sulla politica internazionale americana è stato ed è, di fatto, incalcolabile. Come scriveva già negli anni Trenta il cronista americano Walter Cronkite, «i Rockefeller sono la personificazione del potere permanente della nazione; i governi cambiano, l’economia fluttua, le alleanze si spostano, i Rockefeller restano»16.
Oltre a questi nomi, ricorrono di frequente quelli di altre dinastie di banchierioligarchi, come gli ebreo-tedeschi Warburg o la famiglia ebraico-americana degli Schiff, fondatori della banca Khun&Loeb, cui abbiamo accennato in riferimento ai finanziamenti ricevuti dalla Rivoluzione bolscevica, ma anche dinastie di aristocratici lobbisti come i britannici Huxley hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione culturale del progetto mondialista.
Una funzione particolare, inoltre, è quella ricoperta da organizzazioni parareligiose o paraesoteriche, il cui influsso nella creazione di mode culturali quali la New Age – vera e propria “religione postmoderna” relativista e sincretica – è stato notevolissimo. Anche in questo caso, sarebbe impossibile qui offrire una panoramica sufficientemente esaustiva delle forze in gioco. Dalla galassia di sette, gruppi e logge, più o meno implicate nel “grande gioco” mondialista, emergono tuttavia alcune sigle sulle quali vale la pena soffermarsi. Uno dei nomi che più ricorrono è quello della società magica inglese Golden Dawn o più precisamente Hermetic Order of the Golden Dawn, creata a cavallo tra il XIX e il XX secolo dai massoni britannici William Robert Woodman, William Wynn Westcott e Samuel Liddell McGregor Mathers. Accanto ad essa, ricordiamo anche l’Ordo Templis Orientis (OTO), società fondata da massoni tedeschi, che verrà anch’essa presa in mano da Crowley, il quale la trasformerà profondamente, utilizzandola come veicolo per quella sua filosofia “magico-libertaria”, che così grande influsso avrà negli anni SessantaSettanta sulla cultura “alternativa”, degli hippie e della nascente New Age. Tuttavia, la più nota fra le realtà neospiritualiste che hanno ispirato il pensiero mondialista è la Società Teosofica.
La Società teosofica La storia del Teosofismo è piuttosto nota ed è inscindibile da quella della sua fondatrice, Elena Petrovna Blavatsky, nata in Russia nel 1831 da genitori tedeschi e fuggita a 16 anni da quel Paese (e dal matrimonio con un ufficiale). La Blavatsky vagabonda attraverso Grecia, Turchia, Egitto ed Inghilterra, e diventa amica di rivoluzionari (e occultisti) come Mazzini, che a Londra le apre le porte dell’associazione carbonara Jeune Europe (Giovane Europa). Di certo vi è che la sua vita sarà costantemente costellata da contatti con personaggi di varia e spesso enigmatica provenienza, tra cui non mancheranno molti frequentatori di logge massoniche. Massone, ad esempio, era il colonnello americano Henry S. Olcott17, con il quale la Blavatsky mise in piedi a New York, nel 1873 la Società teosofica, una sorta di parareligione sincretistica, che univa elementi d’Oriente e d’Occidente in una sorta di melting pot spiritualista. Questa funzione “strumentale” della Blavatsky, all’interno di complesse vicende dai risvolti non sempre chiari, sembra evidenziarsi soprattutto a partire dai suoi primi viaggi in India (1878), che all’epoca dei fatti era ancora il fiore all’occhiello dell’Impero britannico. In India, la funzione della Società teosofica sarà non solo quella di elaborare una sorta di neo-orientalismo esportabile in
Occidente, ma anche, quella di occidentalizzare l’Induismo. Lo storico indiano R. Mukerjee inserisce la Società teosofica fra le quattro organizzazioni che maggiormente hanno lavorato per trasformare la tradizione indù in una forma più in sintonia con la mentalità occidentale, elaborando una sorta di “protestantesimo indù”18. Non a caso, uno dei più stretti collaboratori della Società teosofica in India, Dayananda Saraswati, sarà noto nella sua Terra con il soprannome di Lutero indiano19. Un’operazione culturale, questa, che sembra avere goduto dell’aiuto diretto dello stesso governo britannico, allora padrone del subcontinente e interessato alla creazione di una “forma di spiritualità” che potesse essere condivisa dagli occupanti e dai colonizzati20. In Occidente, invece, il ruolo della Società teosofica sarà, a detta della stessa fondatrice, quello di costituire un elemento disgregatore nei confronti del Cristianesimo: «Il nostro scopo non è di restaurare l’Induismo, ma di cancellare il Cristianesimo dalla faccia della Terra»21. Lo stesso obiettivo, verrà ribadito anche dal “successore” della Blavatsky, Annie Besant, che nel discorso di chiusura al Congresso dei Liberi Pensatori tenutosi a Bruxelles nel 1880, affermerà: «Innanzitutto combattere Roma e i suoi preti, lottare ovunque contro il Cristianesimo e scacciare Dio dai Cieli!». La stessa Alice Bailey, vera e propria “voce profetica” del NWO, è stata la fondatrice, nel 1920, dell’associazione Lucifer Trust, il cui nome è stato poi cambiato in Lucis Trust, affinché il riferimento a Lucifero (che per il Teosofismo è un’entità positiva, presiedente “all’evoluzione” dell’umanità) non ferisse la sensibilità dei “profani”. Oggi la Lucis Trust è membro del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, il cui debito ideologico è stato pubblicamente riconosciuto nel 1948 dall’allora assistente del Segretario generale delle Nazioni Unite, il belga Robert Muller. Alice Bailey è stata anche la promotrice di quell’ideologia dell’Età dell’Acquario che, a partire dalla cultura hippie degli anni Sessanta fino alla New Age, ha costituito un vero e proprio annuncio profetico del nuovo mondo. Secondo la Bailey, infatti, l’Età dell’Acquario sarebbe destinata a sostituire la vecchia Età dei Pesci (dominata dal Cristianesimo) con una Nuova Era di unione fra i popoli e fra le religioni, sotto il controllo delle organizzazioni internazionali. Questo obiettivo si realizzerà, secondo la Bailey, con un’opera volta a trasformare la coscienza di massa: «Segno della magia del settimo grado sulla coscienza di massa, è l’uso crescente di slogan per ottenere certi risultati e spingere gli uomini a certe azioni collettive»22. Tutte queste realtà “visibili”, tuttavia, sembrano essere più che altro la punta dell’iceberg di un mondo complesso e sotterraneo, di cui è difficile farsi un’idea.
In definitiva, per quanto riguarda le organizzazioni e i gruppi “visibili” a cui abbiamo fatto riferimento, rimane valido il giudizio, che René Guénon diede in specifico sulla Blavasky e che ci sembra significativo: «Si può legittimamente concludere che M.me Blavatsky fu soprattutto, nel bel mezzo delle circostanze, un “oggetto” o uno strumento nelle mani di individui o di gruppi occulti che si facevano scudo della sua personalità, allo stesso modo di altri che a loro volta furono strumenti nelle sue mani»23.
NOTE 1. Cfr. J. Evola, Il mistero del Graal, cit., pp. 192-193. 2. Confraternita islamica. 3. R. Guénon, L’errore dello spiritismo, Milano 1998, p. 36. 4. Ibidem. 5. Coincidenza degli opposti. 6. Ibidem. 7. B. Fay, Massoneria e Rivoluzione Francese, in «I quaderni di Avallon», n. 20-21, Rimini 1989, p. 196. 8. Lev Trotsky (in russo: , “Lev Trockij”), pseudonimo di Lev Davidovic Bronštejn (in russo: ) è stato un politico e un rivoluzionario. 9. C. Skousen, Il capitalista nudo, Roma 1978, p. 74. 10. «New York Journal-American», 3 febbraio 1949. 11. Paper Relations of the United States, doc. n. 9, vol. 1, pp. 375-376. 12. Il primo a coniare il termine Heartland fu il politico britannico, membro della Royal Society, Halford John Mackinder. La sua teoria era che chi avesse avuto il controllo sul cuore della Terra, cioè l’area geografica euroasiatica, sede dei grandi imperi intercontinentali (prima mongolo e poi russo), avrebbe di fatto detenuto la chiave per il dominio del mondo intero. Secondo tale dottrina, compito dell’imperialismo anglosassone doveva essere, in primo luogo, quello di contenere e poi dissolvere l’Impero russo, allo scopo di assicurarsi il dominio incontrastato sul “vecchio mondo”. 13. I testi consigliabili sono soprattutto i già citati: Epiphanius, op. cit.; M. di Giovanni, Indagine sul mondialismo. La prospettiva dei due autori è strettamente confessionale e di tipo cattolicotradizionalista – il che nuoce a volte all’obiettività dei temi trattati – ma il materiale informativo contenuto nei due saggi è enorme. 14. P. Johnson, A History of the Jews, New York 1987, p. 317. 15. L’articolo di Richard Smethurst, Takahasi Korekiyo, the Rothschilds and the Russo-Japanese War, 1904-1907, con le fotografie degli atti dell’epoca, è consultabile sul link: http://www.rothschildarchive.org/ib/articles/AR2006Japan.pdf. 16. Cit. in S. Gozzoli, Sulla pelle dei popoli, Milano 1988, p. 17. 17. Ivi, pp. 24-25. 18. Cfr. R. Mukerjee, Storia e cultura dell’India, Milano 1966, p. 381. 19. Questo soprannome gli fu affibbiato dal giornalista L. Gupta, in un articolo comparso su «Indian Review», Madras nel 1913. 20. Sul ruolo avuto dal governo britannico nella diffusione del Teosofismo in India, cfr. M.V. Dharmamentha, L’occupazione inglese dell’India, in Idem, Lo yoga e il neospiritualismo contemporaneo, cit., pp. 159-165. 21. Dichiarazione pubblicata sulla rivista «The Medium and Daybreak», London 1893, p. 23. 22. A. A. Bailey, Il destino delle nazioni, Roma 1971, p. 135.
23. R. Guénon, Il Teosofismo, vol. 1, cit., p. 32.
LA CREAZIONE DEL MONDO NUOVO: DROGA, SESSO, DEPOPOLAZIONE E “NUOVA SPIRITUALITÀ” «Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi». (George Orwell, 1984) «[…] se per qualche disgraziata evenienza un crepaccio s’apre nella solida sostanza delle loro distrazioni, c’è sempre il soma, il delizioso soma, mezzo grammo per il riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un’escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per un’oscura eternità nella luna […]». (Aldous Huxley, The Brave New World) «L’unificazione politica in una qualche sorta di governo mondiale sarà necessaria […]. Così come si crede che una politica eugenetica radicale sarà per molti anni politicamente e psicologicamente impossibile, sarà importante per l’UNESCO fare in modo che la questione eugenetica sia esaminata con la massima cura, […] affinché ciò che oggi è inimmaginabile possa alla fine diventare immaginabile». (Sir Julian Huxley, UNESCO. Its purpose and its philosophy) «Gli uomini continuano a vivere sul Pianeta come sulla carogna. […] E questi vecchi che ci sono in più? Dobbiamo rivalutare la morte!». (Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma) «Così gli scopi delle Nazioni Unite infine matureranno, e una nuova Chiesa di Dio, tratta da tutte le religioni e da tutti i gruppi spirituali, metterà fine alla grande eresia della separatività». (Alice Bailey, Il destino delle Nazioni)
ome visto nel capitolo precedente, ogni grande rivoluzione ha bisogno, innanzitutto, di creare il giusto “stato di spirito” nelle masse; potremmo dire, addirittura, che ha la necessità di fabbricare il tipo d’uomo adatto, affinché la rivoluzione abbia buon esito. Per questo motivo, la prima fase di ogni grande cambiamento non è mai quella “politica” (che verrà dopo), ma quella antropologica. Anche la “grande rivoluzione” che sta portando oggi all’instaurazione del NWO ha avuto bisogno, specie a partire dal secondo dopoguerra, di una preparazione a livello umano, senza la quale, oggigiorno, nessun progetto “mondialista” sarebbe pensabile. Era di questo parere anche il fondatore dell’UNESCO Julian Huxley, quando affermava la necessità di utilizzare anche in tempo di pace «le tecniche di persuasione e informazione e vera propaganda che abbiamo imparato ad applicare come nazione in guerra […] se necessario utilizzandole, come Lenin previde, per superare la resistenza di milioni verso il cambiamento desiderabile». Questo cambiamento, destinato a «superare la resistenza di milioni», ha
C
conosciuto anche i suoi profeti: uomini di cultura che, con le loro opere, hanno anticipato i tempi, mostrando in maniera più o meno esplicita quali sarebbero state le “tappe” del grande cambiamento umano, che avrebbe trasformato il mondo. Uno di questi profeti è stato Aldous Huxley – fratello del fondatore dell’UNESCO e nipote di Thomas – che nel 1932 pubblica il suo capolavoro letterario The Brave New World, titolo solitamente (e un po’ grossolanamente) tradotto in italiano come Il Mondo Nuovo. Quello che è certo è che questo romanzo futuristico rimane, a tutt’oggi, l’opera più profetica della letteratura contemporanea. In essa Huxley descrive un mondo in cui un potere unico mondiale ha realizzato una forma perfetta di dittatura dolce, sviluppatasi a partire da una sconcertante trasformazione antropologica dell’umanità; gli esseri umani del Mondo Nuovo, infatti, si riproducono ormai in maniera esclusivamente artificiale e vengono condizionati, fin dallo stato embrionale, attraverso un bombardamento a base di sostanze chimiche e slogan; il numero stesso e le caratteristiche dei nascituri vengono stabiliti a seconda delle esigenze dello Stato. In tale società il controllo totale sull’individuo non avviene, tuttavia, attraverso mezzi violenti, quanto attraverso una spersonalizzazione attuata tramite la soddisfazione degli istinti più elementari. L’uomo del Mondo Nuovo, infatti, è assolutamente ignaro del suo passato («La storia è una sciocchezza!» è uno dei mantra più presenti nel romanzo), non ha aspirazioni né sogni, ma può dedicarsi illimitatamente a ogni sorta di pratica sessuale (visto che la famiglia non esiste più) e, se lo desidera, può attingere svago e diletto dall’utilizzo della droga perfetta, il soma, che ha «tutti i vantaggi del Cristianesimo e dell’alcool, ma nessuno dei difetti»1 e permette di annegare ogni dolore e anche ogni aspirazione superiore in un sogno chimico privo di controindicazioni sanitarie. Il fatto che Aldous Huxley abbia scritto questo capolavoro nel cuore degli anni Trenta del secolo scorso, peraltro, rende la sua opera ancora più profetica: all’epoca, infatti, i totalitarismi, ben lungi dall’avvicinarsi alle raffinatezze descritte nel romanzo, preferivano optare per metodi di coercizione sociale ben più grossolani e violenti. Ma Aldous Huxley non era un uomo qualunque. Personaggio dalla vita ambigua e spesso indecifrabile, protagonista nel secondo dopoguerra di oscure “operazioni” di lobbying tendenti a creare ben determinati “stati di spirito” nelle masse, paladino della libertà ma anche abilissimo manipolatore, egli era, per così dire, un privilegiato: un membro eletto della ristretta categoria di coloro che sanno.
Quando anni dopo, nel 1958, Aldous Huxley pubblicherà un saggio di commento al suo romanzo The Brave New World Revisited (Ritorno al Mondo Nuovo), infatti scriverà che «se ci sarà questa rivoluzione, essa dipenderà in parte dall’opera di forze sulle quali i più possenti fra i governanti hanno scarsissimo controllo»2, indicando, forse, con questa sibillina espressione, quelle “potenze inconsce” grazie alle quali è possibile, per sua stessa ammissione, controllare le masse, indirizzandole verso cambiamenti epocali e persino spingerle nelle braccia di una dittatura scientifica inconcepibile in passato. Scrive infatti Huxley: «Gli antichi dittatori caddero perché non sapevano dare ai loro soggetti sufficiente pane e circensi, miracoli e misteri. E non possedevano un sistema veramente efficace per la manipolazione dei cervelli […]. Ma sotto un dittatore scientifico l’educazione funzionerà davvero e di conseguenza la maggior parte degli uomini e delle donne crescerà nell’amore della servitù e mai sognerà la rivoluzione»3.
Negli anni Trenta questo tipo di totalitarismo dolce sembrava però ancora fantascienza, perché non esistevano che in minima parte quelle caratteristiche umane sulle quali un tale sistema di potere poteva attecchire. In realtà, è evidente che un mondo come quello immaginato da Huxley necessitava, prima d’ogni altra cosa, di un’umanità composta da “individui” disgiunti da quei corpi intermedi, come la famiglia e le identità comunitarie, che avrebbero reso impossibile la nascita dell’universo, al tempo stesso collettivista e cupamente individualista, descritto nel romanzo. Nei primi decenni del secondo dopoguerra, tuttavia, l’immagine del mondo vagheggiata da Huxley diventerà improvvisamente molto più attuale: un’enorme mutazione antropologica, infatti, era in atto; una trasformazione radicale e profonda, dalla quale sarebbe uscita, nel giro di pochi anni, un’umanità trasformata. Stiamo parlando di quella straordinaria “rivoluzione culturale” partita dalla seconda metà degli anni Cinquanta, che conoscerà il suo culmine negli anni Sessanta (The Fabulous Sixties) e che dai Paesi anglosassoni si espanderà a macchia d’olio, suscitando speranze e utopie, mode e imitazioni, suggestioni e delusioni. Uno tsunami culturale, che lascerà sulla spiaggia della storia relitti e sogni spezzati, l’illusione (coltivata dai reduci) di avere perduto “un’occasione inimitabile”, ma soprattutto un tipo di uomo nuovo diversissimo da quello dei decenni precedenti. Un uomo individualista e sradicato da ogni identità di tipo tradizionale; un uomo sostanzialmente solo, privo di radici, ma anche di rapporti umani non “precari”, ipnotizzato da sempre nuovi bisogni e pertanto soggetto più che mai a chiunque sappia agire nella sfera delle suggestioni emotive; un uomo che non ha più un passato, ma non riesce a immaginare un futuro: il cosiddetto uomo postmoderno. Un tipo d’uomo
certamente non somigliante all’essere libero sognato dai guru della cultura degli anni Sessanta, ma probabilmente più simile alla tipologia, che sembra essere stata progettata in vitro da “forze potenti e nascoste”, a cui solo in parte è possibile dare un volto. Anche la rivoluzione culturale che ha trasformato l’Occidente nella seconda metà del XX secolo, infatti, una volta denudata dalla perenne retorica che la vorrebbe frutto della “spontanea evoluzione” della società, sembrerebbe mostrare i segni di un’azione dall’alto, di una volontà che pare avere avuto “intenzioni e finalità” completamente ignorate dalle masse. Non è forse un caso questa rivoluzione ha avuto origine proprio a partire dai due elementi di controllo sociale, che Huxley indica come gli ingredienti perfetti del futuro totalitarismo dolce: la droga e la “libertà sessuale”.
Chi ha diffuso la “cultura della droga”? Non esiste alcun rito di tipo magico-evocativo che possa prescindere da tre elementi: il ricorso a ritmi ossessivi e ipnotici, l’uso di droghe allucinogene e, spesso, l’utilizzo della sessualità. Da questo punto di vista, si può affermare che i “favolosi anni Sessanta” – l’era degli hippy e dell’LSD, del rock e del “libero amore” – abbia a tratti assunto la forma di un vero e proprio “rito magico” di massa, di un’immensa evocazione collettiva. Del resto, anche alcuni tra i più seguiti leader di quegli anni lo sostenevano. Jim Morrison, lo straordinario leader dei Doors4 affermava, ad esempio, che la nuova musica che stava invadendo il mondo era, anche e soprattutto, evocazione di potenze e di poteri, apertura verso il mondo “sotterraneo”, sede delle pulsioni sessuali e dei poteri posseduti dagli stregoni: «Il mio è anche un invito rivolto ai poteri oscuri, alle forze del male, perché escano allo scoperto»5. Ma come nasce realmente la “rivoluzione culturale” degli anni Sessanta? E soprattutto, da dove scaturì quel fiume di droghe allucinogene, che costituì la chiave per “scardinare le coscienze” di un’intera generazione? Per tentare di rispondere ad alcune di queste domande, bisogna cercare indizi in ambienti lontanissimi dal colorato mondo dei grandi raduni rock o delle comuni hippie di San Francisco, e tornare indietro almeno agli anni Cinquanta, al contesto dei grandi esperimenti sul controllo mentale finanziati dalla CIA o dai Servizi britannici – quello dell’MK-Ultra è solo il caso più noto – in cui molto spesso allucinogeni come l’LSD venivano utilizzati insieme a tecniche di deprivazione sensoriale o, come si usava dire all’epoca, di brainwashing (lavaggio del cervello). Si trattava di progetti che sarebbero venuti alla luce solo molti anni dopo, come successe nel caso dell’MK-Ultra, che suscitò un autentico
scandalo nell’opinione pubblica americana quando fu reso pubblico, durante un’audizione speciale del Senato USA, nell’agosto del 19776. È proprio da questo contesto semisegreto ed elitario, tuttavia, che emergeranno quelle grandi figure di profeti degli allucinogeni che, negli anni successivi, diverranno veri e propri guru della cosiddetta “controcultura”: personaggi come lo stesso Aldous Huxley o come il leader psichedelico Thimothy Leary, ma anche figure misconosciute ai più, come il diplomatico britannico Michael Hollingshead, l’enigmatico agente della CIA Oscar Janiger o il misterioso trafficante Ronald Stark, di cui si ignora il vero nome e persino la data di morte. Figure, personaggi e vicende, che gettano più di un’ombra sulle radici della “rivoluzione” degli anni Sessanta e soprattutto sulle autentiche finalità, che muovevano, all’insaputa dei più, i “padrini” del movimento. Aldous Huxley è certamente uno dei punti di riferimento, di questa storia sotterranea e per certi versi incredibile, pur essendo la sua austera figura di compassato aristocratico britannico l’antitesi perfetta dell’hippie che andrà di moda negli anni Sessanta. Eppure il rapporto fra Huxley e gli allucinogeni sembra essere stato di lunga data, se dovessero risultare autentiche le notizie che lo vorrebbero iniziato all’uso della mescalina dal “satanista” inglese Aleister Crowley già nella Berlino degli anni Trenta, dove il nobile rampollo sarebbe stato anche introdotto nella Golden Dawn7. È però negli Stati Uniti del secondo dopoguerra che Huxley, convinto di essere investito di una sorta di “missione” tesa alla trasformazione dell’umanità, diventerà un vero e proprio banditore degli psichedelici. Fedele alle tradizioni elitarie di famiglia, peraltro, egli era convinto che ogni vera rivoluzione dovesse nascere dall’alto e che «fosse necessario convertire prima di tutto le élité artistiche, filosofiche ed economiche», che lui indicava con «una locuzione di Oxford, i Bright&Best»8. Uno dei primi discepoli di Huxley e della sua “congiura per il progresso dell’umanità” fu Timothy Leary, un funambolico professore di psicologia appassionato di sciamanesimo, che per il suo carisma e la sua teatrale capacità di seduzione diverrà un vero e proprio “evangelista della droga”. Lo stesso Leary, tuttavia, ancor prima di frequentare Huxley, era stato “iniziato” agli allucinogeni, nel 1959, da un oscuro personaggio di nome Frank Barron, poi risultato collaboratore della CIA e legato al Berkeley Institute for Personality Assessment and Research, un istituto che molti anni dopo si rivelerà un’ennesima copertura del progetto MK-Ultra9. Se Huxley e Leary sono stati, per molti versi, i “profeti” del movimento psichedelico, è ad altre figure meno “colorite” che si deve invece la diffusione
materiale della droga fra le masse, specie di quel vero e proprio soma della seconda metà del XX secolo che è stato l’LSD. Uno di questi personaggi, Michael John Hollingshead, definito da alcuni l’uomo che convertì il mondo all’acido, era ufficialmente un semplice impiegato del Consolato inglese a New York, con probabili legami con i servizi segreti di Sua Maestà, ma fu il primo a introdurre il nuovo allucinogeno nei salotti bene e fra gli artisti all’avanguardia d’oltreoceano. In quegli anni, d’altronde, Hollingshead non fu l’unico spacciatore d’alto borgo, potente e inafferrabile, che permise l’avvento della rivoluzione psichedelica: persino il poeta Allen Ginsberg, uno dei “mostri sacri” della beat generation, confessava candidamente di essere costantemente “rifornito” di LSD dal cugino Oscar Janiger, che risulterà anch’esso legato alla CIA e al progetto MK-Ultra. Così commenta, un po’ ironicamente, Iannaccone: «Il carburante per il fuoco del poeta antisistema proveniva direttamente dalle fornaci della CIA»10. Ancora più ambigua e a tratti decisamente inquietante è la figura di un altro dei grandi manovratori di quegli anni: il misterioso spacciatore internazionale, noto con il nome, quasi sicuramente falso, di Ronald Stark; un uomo che era in grado di offrire, in una sola volta, l’incredibile quantità di un chilo di LSD alle comuni psichedeliche californiane e che sembrava poter contare, oltre che su nomi diversi e coperture di altissimo livello, anche su una sorta di “invulnerabilità penale” sia negli USA che in Inghilterra. Secondo le fonti citate da Iannaccone11, Ronald Stark, sarebbe stato in origine solo un piccolo criminale newyorkese; poi durante una detenzione per reati minori, sarebbe stato contattato dalla CIA e utilizzato sia per gli esperimenti dell’MK-Ultra, sia – una volta uscito dal carcere – per analoghi studi sul controllo mentale nell’istituto Tavistock di Londra. La vita di Stark, peraltro, è anche la dimostrazione tangibile di come non sempre il potere visibile – quello rappresentato dalle Forze dell’Ordine e dai governi democraticamente eletti – coincida ipso facto con i poteri invisibili: negli Stati Uniti, ad esempio, Stark riuscì a sfuggire a una retata della DEA12 grazie all’aiuto della CIA e in Inghilterra fu l’MI513 a salvarlo da un’operazione antidroga messa in atto dalla polizia londinese14. L’unico Paese in cui il chimerico Stark riuscì a farsi tre anni di galera fu, stranamente, proprio l’Italia, dove fu arrestato nel 1975 con l’accusa di traffico internazionale di droga sotto il nome di Terence Abbot. Identificato dalla Giustizia italiana come agente della CIA e successivamente rilasciato su cauzione, Stark-Abbot fu nuovamente arrestato (e subito rilasciato) in Olanda nel 1982, e da lì fece perdere le sue tracce. Nel 1984, infatti, un giudice italiano di Bologna chiese la sua
estradizione, ma si vide recapitare dagli USA un certificato di morte, al quale, com’era immaginabile, pochi credettero15. Le testimonianze numerose e ben circostanziate, sul ruolo avuto da quelli che genericamente chiamiamo Poteri Forti nella diffusione della droga e della “cultura psichedelica” negli anni Sessanta-Settanta, suscitano naturalmente la questione del cui prodest, ossia del “perché” di questa inquietante operazione, che sembra essere stata compiuta “sulla pelle” di milioni di persone. Una delle spiegazioni normalmente addotte è che la diffusione della droga sarebbe stata messa in atto dal Potere allo scopo di indebolire i “movimenti rivoluzionari” che, all’epoca, lottavano per una riforma radicale della società: la droga, con il suo corteo di idee “paramistiche”, sarebbe stata, pertanto, una sorta di alternativa antipolitica per distogliere i giovani dall’impegno sociale. Questa spiegazione, tuttavia, se può risultare accettabile da un certo momento storico in poi – specie per quanto riguarda la diffusione dell’eroina negli anni Settanta, durante i quali realmente la droga sembra avere avuto la funzione di “addormentare” le tensioni politiche dell’epoca – non sembra potere spiegare la nascita della “cultura psichedelica”, un fenomeno che, come abbiamo visto, rimanderebbe a progetti risalenti almeno agli anni Cinquanta, quando nessun movimento politico di massa sembrava mettere in pericolo la tenuta del “sistema”. L’ipotesi a questo punto più sconcertante è che, in realtà, la “cultura della droga” abbia fatto parte di un progetto di trasformazione della società ben più ampio e profondo di quel che si è portati a immaginare; uno dei primi a suscitare questo inquietante sospetto fu un ex-discepolo del “guru” Timothy Leary: il giornalista Walter Bowart. Dopo lo scoppio, nel 1973, dello scandalo legato all’MK-Ultra, infatti, l’arguto ricercatore cominciò a indagare e a raccogliere materiale sulla figura di Leary e sulle sue non sempre chiare frequentazioni, e infine, nel 1978, pubblicò uno sconcertante documento dal titolo Operation Mind Control. Secondo Bowart, in sostanza, il progetto MK-Ultra non sarebbe affatto fallito e sarebbe stato ampiamente utilizzato da quella che lui definiva “criptocrazia” (i poteri occulti che controllerebbero gli stessi governi “visibili”), per mettere in atto un piano di controllo mentale delle masse. Le conferme più sconvolgenti sarebbero giunte a Bowart direttamente da un colloquio avuto con Thimoty Leary nel 1977 a Tucson, dove, a margine di una conferenza, l’ex guru della psichedelica avrebbe confessato candidamente di essere stato per anni agli ordini di un gruppo molto elitario interno alla CIA16: «Bowart andò subito al sodo […]: “Pensi che gente della CIA fosse infiltrata nel tuo gruppo, negli anni Sessanta?”. “Naturalmente. Direi
addirittura che l’80% dei miei movimenti e delle mie decisioni mi è stato suggerito da gente della CIA […]”. Bowart non poteva credere alle sue orecchie: dunque la CIA aveva creato la psichedelica negli anni Sessanta con l’aiuto di Leary? “Ti facevi consapevolmente usare dalla CIA […], cosa facevi per loro?”. “La CIA aveva riconosciuto qualcosa che tu ancora non hai realizzato. Cioè che io ero un’importante risorsa nazionale… che ci posso fare? […] Mi sono comportato come un agente dei servizi segreti a partire dal 1962, quando ho compreso che la prossima guerra per il controllo di questo pianeta avrà a che fare con il controllo delle coscienze, volevo fosse la mia parte a vincere la guerra […] incremento l’intelligenza di un’élite… un gruppo molto elitario di americani” […]».
Il contenuto dell’intervista era talmente sconvolgente che non pochi, specie fra i fan di Timothy Leary, la respinsero istintivamente come una “bufala”; ma fu lo stesso Leary, un anno dopo, dalle pagine della rivista «High Times» a ribadire, in maniera solo un po’ più accorta, tali affermazioni: «Se ti guardi indietro, molte cose che noi pensavamo fossero casuali non lo erano. Lo stesso intero movimento dell’LSD, originariamente, fu sponsorizzato dalla CIA, che devo ringraziare moltissimo. Non sarei arrivato a questo punto oggi se non fosse stato per la lungimiranza e il prestigio degli psicologi della CIA, e così porgiamo il nostro tributo alla CIA per essere davvero un’agenzia d’intelligenza»17.
Quando Leary rilasciava quest’intervista si era ormai alla fine degli anni Settanta, e lontana era l’epoca dei raduni “acidi” con le loro commoventi illusioni di trasformare il mondo in un Giardino dell’Eden chimico. Ormai, lo scopo per cui la rivoluzione psichedelica era stata indotta dai gruppi élitari a cui accenna Leary era stato raggiunto: il cambiamento antropologico, infatti, c’era stato e in poco meno di dieci anni l’uomo occidentale era stato trasformato nella sua mentalità, nei suoi usi, costumi, credenze e aspirazioni. Le antiche religioni, le istituzioni come la famiglia, gli arcaici concetti del pudore e l’idea stessa di “persona” erano stati fortemente messi in crisi e, in una sorta di effetto domino, la “rottura della diga” aveva finito per coinvolgere quasi ogni aspetto del vivere. L’ultima “ventata” di stupefacenti “alla moda” a investire l’Occidente sarà, infine, agli inizi degli anni Ottanta, quella dell’ecstasy: la “pillola della felicità” – più adatta a un’epoca edonista e disimpegnata quale quella “uscita” dagli anni Settanta – che qualcuno ribattezzò efficacemente lo psichedelico degli Yuppie. Anche la storia dell’ecstasy e della sua diffusione mondiale, tuttavia, conserva degli aspetti interessanti da raccontare. La scoperta della sostanza, in realtà, risale addirittura al 1966, quando un curioso personaggio di nome Alexander “Sasha” Shulgin18 la sperimentò nella massiccia dose di 120 mg, registrando sensazioni di euforia e di intenso e coinvolgente benessere. Shulgin, ebreo osservante e devoto, aveva inizialmente chiamato la nuova droga “Adam”, perché convinto che avesse il potere di riportare l’uomo alla condizione edenica
primordiale. Solo all’inizio degli anni Ottanta, quando la sostanza cominciò a essere prodotta e diffusa tra le masse, qualcuno la ribattezzò con il nome più commerciale di ecstasy. Ancora una volta, tra il 1984 e il 1985, «centinaia di articoli pubblicizzarono la nuova droga in termini positivi, presentandola come una sostanza priva di effetti negativi e adatta alla gente impegnata nel lavoro […]. Circa dieci anni dopo il tramonto della psichedelica, sembrava che gli orfani di quella stagione potessero contare su una nuova sostanza che manteneva alcune caratteristiche dell’acido lisergico consentendo però di vivere una vita attiva»19.
“Sasha” Shulgin ha continuato negli anni a sperimentare sempre nuove droghe, nella convinzione che l’umanità potrà grazie ad esse “liberarsi dal dolore”, come avviene con il soma nel racconto di Huxley, di cui Shulgin è stato sempre un grande ammiratore. Tutta questa attività, viene portata avanti dal ricercatore in assoluta tranquillità, potendo egli contare, ancora una volta, su amicizie e collaboratori potenti. “Sacha” Shulgin, infatti, non è affatto un sognatore solitario, ma un attivo e ricercato frequentatore di alcuni fra i più elitari circoli d’America, come il Bohemian Groove20. Ancora oggi, dunque, il rapporto tra droga e potere è più saldo e vivo che mai.
La “rivoluzione sessuale” Nel suo Ritorno al Mondo Nuovo, Huxley scrive: «La società descritta nel Mondo Nuovo è uno Stato mondiale […]: primo scopo dei governanti è impedire a ogni costo che i soggetti diano fastidio. Per far questo essi, fra le altre cose, legalizzano una certa misura di libertà sessuale (possibile dopo l’abolizione della famiglia) che in pratica salvaguardi tutti i cittadini del mondo nuovo da ogni forma di tensione emotiva (o creativa)»21.
Anche sul piano della “liberazione sessuale” o, per meglio dire, della sessualizzazione della società, il periodo degli anni Sessanta ha costituito uno spartiacque formidabile: il “salto di coscienza” realizzato attraverso la diffusione della psichedelica, infatti, ha avuto come primo risultato quello di rimuovere principi morali e tabù. Uno degli effetti immediatamente riscontrabili in quegli anni, oltre ai noti slogan del tipo ”Make love not war”, che accompagnavano le grandi orge di massa a base di sesso, droga e musica “acida”, fu infatti la straordinaria impennata dell’industria della pornografia, che trovava nelle masse di giovani “liberati” dall’LSD una quantità enorme di “materia prima” da utilizzare. Scrive Iannaccone: «La pornografia organizzata come un’industria era il fenomeno nuovo di quei mesi. C’era bisogno di soldi.
Non era difficile organizzare produzioni perché la droga aiutava a superare le inibizioni e c’era abbondanza di studenti di cinema disoccupati e di ragazze che avevano tagliato i contatti con le loro famiglie»22.
La “rivoluzione sessuale”, tuttavia, affonda le sue radici in periodi precedenti ai Fabolous Sixties; certi “poteri forti”, in realtà, sembrano avere avuto da sempre la consapevolezza che un cambiamento radicale nella percezione del sesso avrebbe potuto trasformare la società. In un carteggio del 3 aprile 1824, a firma del carbonaro italiano Nubius, si legge: «Il cattolicesimo […] non teme la punta di un pugnale ben affilato, ma […] la corruzione. Non stanchiamoci dunque mai di corrompere, […] non facciamo dunque dei martiri, ma rendiamo popolare il vizio nelle moltitudini. […] Fate dei cuori viziosi e non avrete più cattolici»23.
Stesso contenuto si ritrova in un documento di un secolo più tardo, proveniente dall’ambiente massonico elvetico e risalente al 1928: «La religione non teme la punta di un pugnale, ma può cadere sotto il peso della corruzione. Non stanchiamoci, dunque, mai di corrompere, magari servendoci del pretesto dell’igiene, dello sport, della stagione ecc. […] Per corrompere bisogna che i nostri figli realizzino l’idea del nudo»24.
I primi, concreti passi verso quella che sarà la “rivoluzione sessuale” risalgono tuttavia all’America, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, e, come sempre accade in questi casi, la rivoluzione “sociale” sarà preceduta (e preparata) da quella “culturale”. Fu chiamata la “bomba Kinsey”, la pubblicazione di due studi sul comportamento sessuale degli americani, opera dello psicologo Alfred Kinsey, che sconvolsero l’opinione pubblica statunitense. I due saggi, Sexual Behavior in the Human Male (1948) e Sexual Behavior in the Human Female (1953), ebbero un successo straordinario, anche perché furono pubblicati e pubblicizzati a spese della Rockefeller Foundation e del suo fondatore John D. Rockefeller senior. In particolare, quello che risultò sconvolgente agli occhi della puritana società americana dell’epoca, furono l’insistenza del dottor Kinsey sulla “normalità” dei rapporti extraconiugali e, soprattutto, i dati sulla diffusione dell’omosessualità e sull’esistenza di una pedo-sessualità nei bambini (che ritroviamo descritta come pratica “comune” in Mondo Nuovo). In realtà, i dati del “rapporto Kinsey” furono raccolti con metodi scientificamente poco attendibili; secondo Judith Reisman, ad esempio, gli studi che dimostravano l’omosessualità del 10% della popolazione americana erano del tutto falsati:
«Kinsey ha tirato fuori il suo 10% da un unico campione, dando per buona la valutazione di intervistatori omosessuali o bisessuali che decidevano che un soggetto era da considerarsi omosessuale sia se aveva avuto delle esperienze apertamente omosessuali, sia se aveva avuto un qualsiasi pensiero omosessuale […]. Pertanto, anche chi pensava in maniera negativa o ricordava un’aggressione omosessuale entrava a far parte di quel 10% […]»25.
Come in altri casi del genere, tuttavia, l’attendibilità scientifica di tale ricerca era destinata a rimanere in secondo piano, rispetto all’effetto che tali studi finirono per produrre, ovvero un “cambiamento di mentalità” nella massa della popolazione. A rendere ancora più efficace il lavoro di Kinsey, in quegli anni, fu il parallelo svilupparsi della prima stampa porno-soft di massa: la rivista «Playboy», edita da un amico e collaboratore di Kinsey, Hugh Heffner. Il titolo stesso scelto per la patinata rivista rimandava alla “nuova visione ludica della sessualità”, in cui l’uomo era appunto un “playboy” destinato a giocare con le “playthings” (le donne). Dalle pagine di «Playboy», e soprattutto dal settore riservato alle “lettere al direttore”, Heffner e il suo gruppo condussero un’incessante campagna di ridicolizzazione dei “valori tradizionali” e dell’istituzione familiare, che di lì a poco raggiungerà anche il Vecchio Continente, a partire dalla Francia, dove «Playboy» verrà pubblicato dal gruppo editoriale Filippacchi (gestito da Edmund de Rothschild e dal magnate Rupert Murdoch26). Un passo ulteriore verso una visione “fluida” della sessualità, che sdoganasse e supportasse socialmente quelle che fino a un certo momento erano state considerate come “perversioni”, furono gli studi di John Money, inventore della cosiddetta “identità di genere”. Secondo questa ideologia, il concetto di “uomo” o “donna” sarebbe solo una convenzione sociale, e la sessualità una realtà cangiante con “anelli intermedi” costituiti dall’omosessualità, dal lesbismo o dalla bisessualità. Convinto assertore della sessualità infantile, Money riteneva che una sessualità vissuta più precocemente possibile sarebbe stato l’unico rimedio contro l’aggressività umana: «A suo modo di vedere, bisognava erotizzare l’umanità da subito in modo da privarla della sua componente aggressiva e ottenere così un mondo perfetto […]. Sex by eight or it too late (Sesso entro gli otto anni sennò è troppo tardi)»27.
Nell’umanità perfetta e rabbonita sognata da Money è difficile non cogliere l’eco o perlomeno la comunanza d’ispirazione con quel Mondo Nuovo e ipersessualizzato fantasticato da Huxley, nel quale anche i rapporti tra adolescenti e fanciulli sarebbero stati finalmente considerati normali.
Progetto denatalità
Progetto denatalità La “rivoluzione sessuale” ha avuto, in primo luogo, l’effetto di trasformare la visione della vita e il sistema valoriale delle masse, colpendo i punti di riferimento tradizionali e religiosi e minando i corpi intermedi naturali come la famiglia; tuttavia, essa è stata anche un valido strumento per andare incontro a un altro dei “punti fermi” dell’ideologia mondialista: la riduzione delle nascite. Già Malthus aveva “realisticamente” riconosciuto che, per arrivare a una diminuzione della popolazione – specie nelle “classi inferiori” – poteva risultare utile anche «la diffusione di tutti quei comportamenti, tra cui l’adulterio, la sodomia ecc., che causano una diminuzione delle nascite». La storia contemporanea ha dimostrato quanto Malthus avesse “la vista lunga”, dato che una delle conseguenze più tangibili della “rivoluzione sessuale” parallelamente al crollo delle relazioni affettive “stabili”, è stato, il tracollo della natalità, che ha raggiunto, in molti Paesi ricchi, un livello ben al di sotto della soglia di ricambio generazionale. La riduzione e il rigido controllo delle nascite sembrano essere stati, d’altronde, una costante ossessione per le élite mondialiste. Nel Mondo Nuovo di Huxley il problema è risolto alla radice attraverso la dissociazione totale tra riproduzione e sessualità: la popolazione mondiale è fissata per legge a una cifra di meno di 2 miliardi di individui e garantita da avveniristiche (allora) tecniche di fecondazione artificiale. Del resto, già decenni prima, negli anni Venti, quando il boom demografico del dopoguerra era ancora ben lontano e “l’incubo della sovrappopolazione” non aveva alcuna base fattuale, un altro pensatore mondialista dichiarava, in maniera esplicita, la necessità di una radicale riduzione delle nascite nell’ottica della costruzione di un nuovo ordine mondiale. Stiamo parlando dello scrittore inglese H.G. Wells, più noto come autore de La Guerra dei Mondi e di altri successi di fantascienza, ma meno conosciuto per la sua adesione alla Golden Dawn e per il suo convinto assenso a un futuro Stato Mondiale. Scriveva infatti Wells: «La comunità mondiale che noi desideriamo, la comunità mondiale organizzata che conduce e assicura il proprio progresso, esige quale condizione principale un controllo deliberato della popolazione»28. La grande svolta, tuttavia, si avrà solo nel 1952, con la fondazione a New York del Population Council e a Bombay dell’IPPF (International Planned Parenthood Federation), ambedue voluti da John Davidson Rockefeller III, che concretizzerà in tal modo quel costante “interesse per la demografia”, che la sua dinastia sembra avere avuto fin dall’origine: «Il direttore generale del Council, Bernard Berelson, nelle sue Memorie, precisa che John Davidson
Rockefeller III si era interessato ai problemi demografici ben prima del secondo conflitto mondiale. In realtà, la demografia risulta una passione di famiglia […]. Da un lato il fondatore della dinastia, John Davidson I, appare come la personificazione stessa del “sogno americano” […], dall’altro Rockefeller I mostrò tutt’altri interessi, che evidentemente rimandavano a “sinergie” con centri di potere non solo economico. Egli fonda a New York nel 1901 il Rockefeller Institute for Medical Research per favorire ricerche […] che presero subito e univocamente la direzione del controllo delle nascite e dell’etica sessuale»29.
Comunque sia, con la nascita di queste grandi organizzazioni, la politica denatalista si afferma, a partire dagli USA, in tutto il mondo, potendo contare su una disponibilità economica pressoché illimitata. In particolar modo, il denatalismo si è concretizzato nella propaganda e diffusione dell’aborto; secondo i bilanci consultivi del Council, ad esempio, solo negli anni dal 1953 al 1972, la propaganda abortista ha potuto contare sulla cifra di ben 140 milioni di dollari “a fondo perduto” stanziati dalla Rockefeller Foundation e dalla Ford Foundation30. L’influenza di tali gruppi di pressione sulle istituzioni statali e internazionali è stata inoltre fortissima; nel 1968, l’allora presidente della Banca Mondiale Robert McNamara proclamava addirittura la necessità di vincolare gli aiuti al Terzo Mondo all’accettazione delle politiche denataliste: «Noi dobbiamo esigere che i governi che chiedono il nostro aiuto adottino nello stesso tempo una ferma politica per bloccare il tasso di crescita della popolazione»31. Anche in questo caso, peraltro, le politiche di cui sopra sono state applicate con assoluta determinazione ideologica, senza tenere alcun conto dei dati demografici reali32. Nel 1975, ad esempio, i vescovi boliviani denunciarono che i milioni di dollari “donati” dagli USA e destinati allo sviluppo del Paese andino erano stati tutti impiegati per sterilizzazioni e aborti (in un Paese grande 4 volte l’Italia, ma con soli 7 milioni di abitanti; potenzialmente ricchissimo, ma mancante di sufficiente manodopera). Negli stessi Stati Uniti, la propaganda abortista raggiunse il suo culmine negli anni Settanta, quando già nel 1972 le proiezioni demografiche avvertivano che si stava andando, in prospettiva, al di sotto della soglia del “ricambio generazionale”. La propaganda denatalista e abortista, per molti anni non si è affatto curata di giustificare il suo operato a partire da dati scientifici, ma non ha fatto mistero, al contrario, del significato eminentemente ideologico delle proprie scelte. Nel “dossier” del giugno 1978 del MFPF (Mouvement Français pour le Planning Familial), la branca francese dell’IPPF, riconosce candidamente che lo scopo più profondo della propaganda abortista e denatalista è quello di “trasformare” il modus vivendi e la mentalità delle masse: «Noi combattiamo per la contraccezione e per l’interruzione volontaria della gravidanza non per malthusianesimo né per migliorare lo stato sanitario della popolazione. Noi facciamo la scommessa di
credere che se una donna o un uomo possono modificare il proprio comportamento su questo aspetto essenziale della vita, potranno in altri campi […] contestare comportamenti e situazioni tradizionali»33.
Tuttavia, allo scopo di offrire una veste più “scientifica” alle politiche denataliste, nel 1968 viene creato, presso l’Accademia dei Lincei di Roma, il Club di Roma, tra i cui fondatori spiccano il direttore generale dell’OCSE Alexander King e il dirigente FIAT Aurelio Peccei. L’iniziativa partirà dall’italiana Fondazione Agnelli, che assicurerà il necessario apporto economico insieme alla Fondazione Rockefeller e alla tedesca Volkswagen34. Il Club di Roma commissionerà nel 1972 al MIT (Massachussets Institute of Tecnology) una ricerca dal titolo The Limits to Growth (I limiti della crescita), che diverrà più nota al grande pubblico come Rapporto Meadows; in essa si “pronosticava” l’esaurimento delle risorse minerarie ed energetiche del Pianeta in un lasso di tempo di massimo 20-40 anni35, ragione per cui, sarebbe stata urgente una severissima politica demografica. Le catastrofiche previsioni del Rapporto Meadows sono state via via smentite dai fatti, nei decenni successivi, ma quello che conta, in questi casi, è che, a partire da quel periodo, sia la comunità scientifica che l’opinione pubblica abbiano finito per far propria l’idea che la crescita demografica dell’umanità fosse il vero nemico del Pianeta, un incubo da combattere con qualsiasi mezzo: idea, questa, che ha finito per sposarsi, negli ultimi anni, con un certo ecologismo new age e neopaganeggiante, che vede nell’umanità il nemico della Terra (o Gaia, come viene personificata in tali ambienti). Famosa, in tal senso, è rimasta l’affermazione shock del principe Filippo d’Inghilterra (consorte della regina Elisabetta e fondatore, con Julian Huxley e con il principe Bernardo d’Olanda, del WWF – World Wildlife Fund): «Se rinascessi, vorrei essere un virus letale per eliminare la sovrappopolazione; la crescita dell’uomo è la più grave minaccia per il Pianeta». L’allarme catastrofista legato alla “crescita” dell’umanità, tuttavia, é mutato negli anni in certe sue forme, pur rimanendo in sostanziale continuità di ispirazione e di intenti con il passato. Nella sua versione più recente e sofisticata, ad esempio, l’ecologismo più catastrofista ha assunto la forma dell’ipotesi dell’origine antropica del Global Warming, ossia di quel presunto processo di “surriscaldamento globale”, che una parte degli scienziati vorrebbe attribuire all’attività umana. Ora, pur non essendo questo il luogo adatto per approfondire un dibattito scientifico, che vede gli scienziati molto più divisi di quanto i massmedia lascino intendere, è interessante constatare come, anche in questo caso, l’ipotesi sia divenuta, presso l’opinione pubblica, una sorta di “dogma”, un dato considerato come acquisito.
Ci sono poi alcuni episodi che, seppur passati sotto silenzio dai mass-media (specie in Italia), hanno gettato una pesante ombra sulla credibilità dell’ipotesi del global warming o, quantomeno, sull’onestà di molti ricercatori. Stiamo parlando, su tutti, dello scandalo del Climategate venuto alla luce quando, nel 2009, ignoti hackers penetrarono i file del Centro per la Ricerca Climatica dell’East Anglia University, uno dei bastioni per i sostenitori dell’origine antropica dei mutamenti climatici. Molti dei file piratati contenevano, in realtà, imbarazzanti e-mail fra i ricercatori, in cui si ingiungeva esplicitamente di vietare lo scambio di dati con altri ricercatori “critici” verso l’ipotesi dominante o addirittura esplicite ammissioni di avere “aggiustato” o manipolato dei dati climatici, per renderli più coerenti con l’ipotesi stessa36. Il fatto, poi, che i dati piratati siano stati pubblicati da un server russo37 ha fatto sospettare un intervento diretto dei servizi segreti della grande potenza euroasiatica in questa clamorosa operazione di debunking a uno dei più diffusi e condivisi “miti” della cultura contemporanea.
Mondo Nuovo, Nuova Era, Nuova Spiritualità I “mitici anni Sessanta” non sono stati solo l’era della droga, della “rivoluzione sessuale” e di un cambiamento culturale e persino demografico senza precedenti, ma anche la culla di un “nuovo modo” di intendere il rapporto con la spiritualità. Il Mondo Nuovo, infatti, non è solo il luogo in cui l’uomo ha fatto a pezzi la tradizione e la famiglia e l’individuo diviene parte di “un tutto” impersonale, ma anche quello in cui l’umanità si “libera” dalle religioni: essa stessa, infatti, diviene la propria religione e l’uomo il suo dio. È l’avvento dell’Età dell’Acquario sognata da Alice Bailey, in cui il vecchio mondo dominato dal Cristianesimo lascerà il posto a una spiritualità polimorfa e senza dogmi, grazie a un “salto di coscienza”, in seguito al quale ognuno sarà illuminato e non avrà più bisogno di mediazioni o di gerarchie; però è anche l’avvento dell’Eone di Horus sognato da Aleister Crowley (le cui visioni, al tempo stesso libertarie e occultiste, ispirarono profondamente la “controcultura” degli anni Sessanta38), con l’arrivo dell’Anticristo, che altro non sarebbe che il “liberatore dell’uomo”, l’Anarca Divino, portatore della nuova legge, così come indicato da Crowley stesso nel Book of the Law, che gli sarebbe stato ispirato al Cairo, nel 1904, da un’entità evocata di nome Aiwass: «Non vi è altra legge oltre il “fai ciò che vuoi”».
Tutta la cosiddetta “controcultura” degli anni Sessanta è dominata, in realtà,
da questa fede “messianica” nell’avvento di una nuova spiritualità destinata a cancellare le vecchie tradizioni religiose. Lo stesso Leary, il guru degli acidi, fonda una sorta di confraternita, in cui LSD diventa l’acrostico di League of Spiritual Research e la droga è proposta come “il nuovo sacramento”, che aprirà le porte della coscienza. Il periodo dei grandi raduni e dei “viaggi” (fisici o lisergici) della “generazione arcobaleno”, come ben sappiamo, sarebbe di lì a poco tramontato, ma avrebbe lasciato sulla strada il seme di quel fenomeno che, negli anni successivi, sarebbe stato chiamato New Age. La New Age, in realtà, non è tanto una religione, quanto piuttosto uno “stato di spirito” diffuso, un modo di intendere il rapporto con il “sacro” dominato da un individualismo assoluto, in cui elementi ripresi da antiche tradizioni vengono riassemblati in forme sempre diverse e possibilmente compatibili con il “gusto” dell’uomo postmoderno. L’atteggiamento di fondo, infatti, è quello di un tipo umano che non segue più “la Via” – la quale implica necessariamente il combattimento contro il proprio “ego” e il perseguire una “regola” – ma si “costruisce una via” a misura del proprio “ego”. Il cuore del pensiero New Age, peraltro, non è né recente né originale: si tratta, essenzialmente, di una forma molto “volgarizzata” di Teosofismo, in cui elementi presi in prestito dalle tradizioni orientali vengono immersi in un melting pot dove suggestioni maya e sufiche, celtiche o pellirossa, possono trovarsi a stretto contatto con tracce di Cristianesimo oppure con “rivelazioni” ricevute da esseri extraterrestri39 o attraverso “autoiniziazioni” di vario tipo. Anche l’espressione New Age (Nuova Era) precede di molto l’epoca dei “figli dei fiori”: la si ritrova nelle “rivelazioni spiritiche” ricevute nel 1848 dalle sorelle Fox40 (le creatrici dello Spiritismo moderno), ed è stata usata come titolo della rivista ufficiale del Supremo Consiglio del Rito Massonico Scozzese Antico e Accettato negli Stati Uniti. A partire dagli anni Trenta, infine, l’espressione fu adottata definitivamente dalla teosofista Alice Bailey, a cui più direttamente si rifaranno i guru della controcultura negli anni Sessanta. Sta di fatto che questo nuovo spiritualismo “chimerico” si è rivelato uno straordinario agente dissolutivo sia rispetto al vecchio materialismo che riguardo alle religioni tradizionali. Secondo Michel Lacroix, docente di filosofia e ricercatore presso l’università di Evry nonché autore di un discusso saggio dal titolo L’ideologia della New Age41, il fenomeno New Age, apparentemente libertario e individualista, nasconderebbe in realtà una tendenza “totalitaria” proprio in questa sua tendenza ad “annichilire” e distruggere le identità, annegandole in un amalgama relativistico, che sarebbe, secondo lo studioso, la
forma spirituale “ideale” per chi volesse imporre un potere unico mondiale. D’altronde, persino il prudente documento ufficiale vaticano sulla New Age, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul New Age42, lascia spazio per tale chiave di lettura: «Alcuni gruppi hanno reagito al New Age muovendogli generiche accuse di cospirazione […]. Tuttavia è sufficiente sottolineare che il New Age condivide con alcuni gruppi di influenza internazionale lo scopo di soppiantare e superare le religioni particolari per far spazio a una religione universale in grado di unire tutta l’umanità. Strettamente legato a questo fine è lo sforzo concertato da parte di molte istituzioni di inventare un’Etica Globale, una cornice etica che rifletterebbe la natura globale della cultura, dell’economia e della politica contemporanee»43.
Di fatto, oggi come oggi non si può più parlare di moda New Age né tantomeno di “movimento New Age”, e questo per il semplice motivo che le tematiche e gli atteggiamenti tipici New Age sono ormai divenuti patrimonio collettivo. Qualcuno ha ribattezzato, con un po’ di fantasia, Next Age questa seconda fase, ma, al di là delle definizioni dei sociologi, ciò significa semplicemente che la New Age ha vinto almeno in parte la sua sfida. Solo alcune roccaforti del vecchio pensiero materialista e scientista, in realtà, si ergono come cattedrali isolate a difesa di una visione del mondo, che resiste ormai solo all’interno di qualche “isola accademica”; mentre, almeno in Occidente, le religioni istituzionali arrancano.
Dalla creazione dell’“uomo nuovo” all’imposizione del Mondo Nuovo Una realtà sembra dunque emergere con evidenza: l’epoca che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta è stata quella in cui, più che in precedenza, le centrali del Potere hanno operato allo scopo di realizzare una mutazione nella coscienza di massa quanto più possibile radicale e profonda. Al termine di questo breve periodo, infatti, l’uomo occidentale si ritrova a vivere una realtà di coscienza e un mondo completamente trasformati. Dare un giudizio morale a questo tipo di cambiamento non compete, naturalmente, al presente saggio: è però inequivocabile che esso, in qualche modo, abbia avuto come effetto evidente quello di “generare” il tipo umano più adatto a quello che oggi chiamiamo il NWO: un essere individualistico, disilluso e spesso privo del supporto, che poteva essere offerto un tempo dall’appartenenza familiare, sociale o religiosa. È un’operazione che, almeno in Occidente, sembra avere sortito degli effetti straordinari e decisamente irreversibili sulla coscienza di massa, avvicinando
sempre più la realtà all’utopia di quel Brave New World paventato – o auspicato? – da Aldous Huxley negli anni Trenta. L’Uomo Nuovo, però, è solo il primo passo verso la realizzazione del Mondo Nuovo, e alla fase culturale e spirituale è evidente che, nel progetto del NWO, faccia seguito l’azione politica più diretta. Una politica articolata e di respiro universale, le cui principali “tappe” saranno l’oggetto dei prossimi capitoli. NOTE 1. A. Huxley, Il Mondo Nuovo/Ritorno al Mondo Nuovo, Mondadori, Milano 1991, p. 50. 2. Idem, Ritorno al Mondo Nuovo, p. 339. 3. Ivi, p. 340. 4. The Doors prendevano il nome proprio da un saggio di Aldous Huxley dal titolo The Doors of Perception, in cui si affermava l’idea di potere utilizzare le droghe allucinogene come strumento per “aprire” l’essere verso superiori stati di coscienza. 5. Cit. in W. Mandel, Lo sciamano e il peyote, Milano 1990, p. 104. 6. Il progetto MK-Ultra si riferisce a una serie di attività svolte dalla CIA tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che aveva come scopo quello di influenzare e controllare il comportamento di determinate persone (il cosiddetto “controllo mentale”). 7. La notizia è riportata in: J. Webb, Il sistema occulto, Milano 1989, p. 303; F. King, Il cammino del serpente. Storia, riti e misteri della Magia Sessuale, Roma 1979, p. 169. 8. M.A. Iannaccone, Rivoluzione Psichedelica. La CIA, gli hippie, gli psichiatri e la rivoluzione culturale degli anni Sessanta, Milano 2008, p. 88. 9. Ivi, p. 356. 10. Ivi, p. 109. 11. Ivi, p. 367. Il nome di Stark fu tirato in ballo anche nelle inchieste sulle Brigate Rosse e sul rapimento Moro. 12. La Drug Enforcement Administration (DEA) è un’agenzia federale antidroga statunitense facente capo al Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti, volta a combattere il traffico di sostanze stupefacenti e a fare rispettare la legge sul controllo delle sostanze (Controlled Substances Act) del 1970. 13. Il Security Service, spesso indicato come MI5 (Military Intelligence, Sezione 5), è l’agenzia per la sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito. Si occupa della protezione dalle minacce alla sicurezza nazionale, mentre il MI6 si occupa della sicurezza esterna. 14. Iannaccone, op. cit., p. 336. 15. Ivi, p. 367. 16. Ivi, pp. 352-353. 17. «High Times», febbraio 1978. 18. La vicenda di Alexander “Sasha” Shuglin e della diffusione dell’ecstasy è descritta in M. A. Iannaccone, op. cit., pp. 370-375. 19. Ivi, p. 372 20. Cfr. D. Romero, Sasha Shulgin, Psychedelic Chemist, in «Los Angeles Times», 5 settembre 1995. Il Bohemian Club, un’organizzazione fondata nel 1872 a San Francisco da un gruppo di giornalisti, è divenuto un club elitario con evidenti venature di tipo occultistico. Il Bohemian Club organizza dal 1899 un elitario campo estivo di due settimane, a cui partecipano anche migliaia di invitati, prevalentemente personaggi rilevanti del mondo politico ed economico. In questi incontri si partecipa a
“rituali”, conferenze e spettacoli di intrattenimento. Il primo sabato del campo estivo si compie il curioso rito “Cremation of Care” (traducibile con “cremazione dell’affanno”): è una processione funebre a lume di torcia, con uomini vestiti di rosso e con legni appuntiti addosso, che concludono il rito con l’apertura di una bara contenente uno scheletro nero di legno vestito da donna, rappresentante appunto il “Care”. Tra i manufatti presenti nel Bohemian Grove, quello più rilevante è un enorme gufo stilizzato alto circa 15 metri, attorno al quale si svolgono tutti i riti. Il gufo, chiamato Moloch, è presente anche nel logo del Bohemian Club. Moloch era un’antica divinità pagana, a cui era dedicato un culto che prevedeva anche sacrifici umani. Il Bohemian Groove è oggi una delle occasioni in cui i “grandi d’America” sono soliti riunirsi. Si veda anche: Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama, Uno Editori, Torino 2011. 21. A. Huxley, Ritorno al Mondo Nuovo, cit., pp. 257-258. 22. M. A. Iannaccone, Rivoluzione Psichedelica, cit., p. 296. 23. Cit. in H. Delassus, Il problema dell’ora presente. Antagonismo fra due civiltà, Roma 1907, pp. 248249. 24. Cit. in Révue Internationelle des Sociétes Secrétes, Paris 1928, p. 262. 25. D. Nerozzi, L’Uomo Nuovo. Dallo scimpanzé al bonobo, Soveria Mannelli, 2008, pp. 22-23. 26. Cfr. Y. Moncomble, La politique, le sexe et la finance, Paris 1989, p. 51. 27. D. Nerozzi, L’Uomo Nuovo, cit., p. 36. 28. Cit. in Epiphanius, Massoneria e sette segrete, cit., p. 349. 29. M. di Giovanni, Indagine sul mondialismo, cit., p. 158. 30. Ivi, p. 161. 31. Ivi, p. 163. 32. Ivi, pp. 164-165. 33. Cit. in Ivi, p. 171. 34. Cfr. Y. Moncomble, Le vrais responsables de la Troisiéme Guerre mondiale, Chiré-en-Montereuil 1982, p. 149. 35. In particolare, secondo il rapporto, il mondo poteva contare al massimo su questi periodi di tempo: petrolio, dai 20 ai 31 anni; gas naturale, dai 22 ai 38; rame, dai 21 ai 36; zinco, dai 18 ai 23 anni ecc. 36. Alcuni dei carteggi in cui si discutono le “strategie” per non fornire i dati ai ricercatori “non allineati” e nei quali risalta maggiormente l’atteggiamento al limite della frode tenuto dai ricercatori britannici sono consultabili al link: http://climateaudit. org/2010/01/01/sent-loads-of-station-data-to-scott/. 37. http://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-2064826/New-leak-hacked-globalwarming-scientistemails-A-smoking-gun-proving-conspiracy--just-hot-air.html. 38. Crowley è una figura molto popolare nel panorama dei cantanti rock e può, a buon diritto, essere considerato una vera e propria “musa ispiratrice”, per molti di loro, a partire dai Beatles, fino a Marilyn Manson. 39. Sul mito extraterrestre e sull’origine (tutt’altro che aliena) dei fenomeni UFO e di quella che sta diventando una delle più diffuse e condivise “religioni” post moderne (ovvero, l’attesa del salvatore extraterrestre) abbiamo già segnalato i seguenti saggi: E. Pennetta, G. Marletta, Extraterrestri. Le radici occulte di un mito moderno, Rubbettino, 2011; Enrica Perucchietti, Il Fattore Oz. Alieni, sciamanesimo e multidimensionalità, Xpublishing, Roma 2012. 40. Le tre sorelle statunitensi Kate Fox (1837-1892), Leah Fox (1814-1890) e Margaret (Maggie) Fox (1833-1893) giocarono un ruolo fondamentale nella nascita e nella diffusione del movimento spiritualista nei Paesi anglosassoni. Una delle prime “rivelazioni” ricevute dalle Fox annunciava esplicitamente l’avvento di una Nuova Era (New Age): «Cari amici, dovete proclamare questa verità al mondo. Questa è l’alba di una Nuova Era; non dovete nasconderla oltre» (cit. in U. Dettore, Fox, in L’uomo e l’ignoto. Enciclopedia di parapsicologia e dell’insolito, cit., p. 510) 41. Trad. ital. Milano 1998.
42. Il documento, a cura del Pontificio Consiglio per la cultura e il dialogo interreligio-so, è interamente scaricabile dal link http://www.vatican.va/roman_curia/ pontifical_councils/interelg/ documents/rc_pc_interelg_doc_20030203_new-age_it.html. 43. Gesù Cristo portatore dell’acqua viva, cit., 2, 5.
PARTE SECONDA A cura di Enrica Perucchietti
«Siamo sull’orlo di una trasformazione globale. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la “giusta” crisi globale e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale». (DAVID ROCKEFELLER)
COME ABBATTERE UN REGIME:DA WIKILEAKS ALLA “PRIMAVERA ARABA”, IL SOGNO DI UN NUOVO MEDIO ORIENTE «La rivoluzione è sempre per tre quarti fantasia e per un quarto realtà». (Michail Bakunin) «È proprio vero che la libertà è preziosa; così preziosa che dovrebbe essere razionata». (Vladimir Ilic Ul’Janov Lenin) «Un sistema basato sulla corruzione dei personaggi pubblici non è tenero con coloro che rifiutano di farsi corrompere». (John Perkins1) «[…] a che cosa mi servirebbero le guardie del corpo? Pensa che potrebbero salvarmi la vita, se il suo Paese [USA; N.d.A.] decidesse di sbarazzarsi di me?». (Omar Torrijos2) «I giornalisti ti battono continuamente la mano sulla spalla: sempre alla ricerca del punto dove conficcare il pugnale più facilmente». (Robert Lembke) «Basta pagare insomma e si possono creare movimenti politici virtuali, condizionare i media e suggestionare i cittadini». (Alfredo Macchi3) «Stiamo fronteggiando un piano di distruzione, una vera aggressione orchestrata dall’estero». (Bashar Assad4)
rima delle rivoluzioni in Medio Oriente, prima del contributo cybernetico di Anonymous e delle proteste degli Indignados, gli occhi dei media si sono concentrati sul novello Robin Hood cibernetico, Julian Assange che con il suo Wikileaks avrebbe “rubato” dei cablogrammi top secret per rendere pubblici i vizi e le manovre dei Servizi e dei governi. Eppure, a mesi di distanza, nonostante il mandato d’arresto e la sua rocambolesca fuga presso l’Ambasciata ecuadoriana a Londra, le rivelazioni di Wikileaks si sono rivelate meno importanti di quanto potesse sembrare. Perché? A proporre una spiegazione controcorrente è stato l’ex agente del KGB, Daniel Estulin, noto per le sue inchieste sul Club Bilderberg: «Nel mondo dello spionaggio sappiamo tutti che cos’è Wikileaks». Nel suo libro, Desmontando a Wikileaks, Estulin rivela i retroscena: l’organizzazione sarebbe una creazione
P
non di Assange, ma del NSA e della CIA. Il Cablegate avrebbe scosso solo in apparenza le fondamenta dei servizi segreti e dei maggiori governi al mondo, ponendosi invece come strumento di disinformazione nelle mani dell’Agenzia. Estulin ricorda infatti che si deve sempre diffidare di tutto e dei personaggi di ombre e fumo, che periodicamente si affacciano sugli scenari mondiali.
Assange pedina della CIA? Sul quarantenne Assange si è detto tutto e il contrario di tutto, dato che della sua biografia esistono pochissime e frammentarie tracce. Sembra una creatura combattuta tra ascetismo e paranoia, con un’intelligenza sopra la media e una rigorosa devozione per la giustizia. Per Estulin5, Assange è un “burattino” della CIA: lavorerebbe per l’Agenzia, senza però esserne minimamente cosciente. In questo senso, Wikileaks sarebbe soltanto un espediente per gettare fumo negli occhi alla popolazione e rendere evidente la debolezza dei sistemi informatici governativi per limitare e controllare l’accesso libero a Internet. All’interno di questa operazione di cover up6, si può anche presumere che le notizie pubblicate da Assange siano state selezionate ad hoc, come avviene in tutte le operazioni di disinformazione. Quasi tre anni fa, il giurista Lawrence Lessing aveva avvisato del pericolo di un imminente “11 settembre di Internet”, un pretesto che avrebbe permesso ai governanti di modificare radicalmente le norme che regolano la Rete. Il terreno è stato infatti preparato nel 2009 con l’emanazione di un Patrioct Act cybernetico. Wikileaks avrebbe così offerto, secondo Estulin, una buona ragione per premere il pulsante e oscurare il web: «Se puoi controllare Internet, controlli l’informazione e la conoscenza», ha ricordato. Concorda a distanza il giornalista investigativo Webster Tarpley, il quale è convinto che il prossimo passo del Pentagono sarà «un ripulirsi generale di Internet, chiudendo tanti siti critici, utilizzando come pretesto i segreti spifferati da Assange», che – prosegue Tarpley – avrebbe dimostrato di lavorare per la CIA, non solo parlandone bene, ma facendo il gioco dell’Agenzia: in questo senso, Wikileaks avrebbe rivelato soltanto delle notizie scomode ridicolizzando i nemici americani, Putin e Berlusconi in primis. Estulin ricorda che i documenti pubblicati da Wikileaks sembrano invece non toccare Israele e concentrarsi contro il Pakistan, l’unico Paese musulmano dotato di armamento nucleare. Anche il co-fondatore di Wikileaks, John Young, ha accusato l’ex collega di fare gli interessi di gruppi “occulti” e di essere addirittura “pilotato” dalla CIA. Come vedremo tra poco, infatti, Internet e i social network, in particolare,
hanno giocato un ruolo chiave nella promozione delle proteste in Medio Oriente.
Il Nuovo Medio Oriente L’inviato di Mediaset Alfredo Macchi ha seguito in prima linea le rivoluzioni in Tunisia, Egitto e Libia nel 2011 e ha documentato, nel suo Rivoluzioni S.p.A., come dietro la “Primavera araba” – e prima ancora le proteste in Serbia, Georgia, Ucraina, Kirghizstan fino alla Russia – ci siano in realtà la regia, il finanziamento e l’addestramento di Washington: «Negli ultimi trent’anni a Washington è cresciuta una rete capillare di organizzazioni governative e non governative, società ed enti, che costituiscono una vera e propria diplomazia parallela, e in buona parte privata, che il Dipartimento di Stato e la CIA utilizzano per portare a buon fine i propri piani strategici senza comparirvi ufficialmente»7.
In particolare, Macchi dimostra, documenti alla mano, che «diverse fondazioni e organizzazioni private a Washington, a Belgrado e a Doha, hanno offerto assistenza agli attivisti. Alcuni di loro sono stati addestrati da associazioni dietro le quali si possono intravedere la CIA o altri servizi segreti»8.
Con questa strategia – simile a quella utilizzata dalle organizzazioni legate e Stay Behind – il governo americano avrebbe manipolato le insurrezioni degli ultimi decenni, cambiando gli equilibri geopolitici in base agli interessi di Washington, tanto che nel 2008 Condoleeza Rice coniò l’espressione Nuovo Medio Oriente, per indicare l’ultimo tassello per la costituzione del NWO: una regione, che avrebbe dovuto assumere i connotati richiesti dai poteri occulti, in modo da ridisegnare un’area di importanza strategica in vista dell’accerchiamento della Russia; ma soprattutto una regione pronta ad aprirsi in maniera compatta al libero mercato e alla globalizzazione: «Sacrificare vecchi amici come Ben Alì, Mubarak, Saleh e tradizionali nemici, come Gheddafi e Assad, in nome del libero mercato, è una scelta obbligata, per Washington. Un cambio di rotta, per gli Stati Uniti, nei confronti dei loro tradizionali alleati, non privo di rischi, ma che doveva essere affrontato prima che lo facessero frange estremiste più ostili»9.
Dalla Tunisia all’Egitto Presente dal principio delle sommosse egiziane, Macchi osserva: «I ragazzi del Cairo sono preparati e organizzati per la battaglia; nulla sembra scelto a caso, dall’abbigliamento alle scarpe. Molti hanno addirittura maschere antigas e occhialetti da piscina per proteggersi dai lacrimogeni. Alcuni in motorino si muovono avanti e indietro per segnalare la posizione dei poliziotti. Quasi tutti hanno macchine fotografiche e smartphone pronti a riprendere gli abusi degli
agenti»10.
Non a caso, a partire proprio dalla Tunisia, i leader deposti credevano di essere protetti da Washington e di godere, con esso, dell’appoggio dei Paesi occidentali11. Come fanno, invece, i manifestanti, a essere talmente “preparati” ed esperti di tecniche di disobbedienza civile e protesta non violenta da riuscire a portare al crollo dei regimi in così poco tempo? I manifestanti, spiega Macchi, sono entrati in possesso di manuali di “tattica di guerriglia urbana” con tanto di figure e schemi in arabo e in inglese. I capi dei movimenti sono stati arruolati e addestrati in America e, una volta tornati a casa, hanno potuto insegnare le tecniche di protesta civile per fare crollare i governi in maniera veloce, ma “pacifica”, ovvero senza l’uso della forza. Al centro di questa rete di movimenti di protesta si pone l’Otpor!, «il movimento di protesta civile lontano dai tradizionali partiti, che diverrà in breve protagonista della rivolta contro il dittatore serbo Slobodan Milosevic. Il gruppo studentesco sceglie come simbolo un pugno chiuso stilizzato su fondo nero e si dota dell’ironia come arma principale»12.
Queste tecniche sono state teorizzate da Srdja Popovic e prima ancora dal politologo americano Gene Sharp, autore di Come abbattere un regime. Quest’ultimo è stato duramente attaccato, nel 2007, dal presidente venezuelano Hugo Chavez e nel 2008 dal regime iraniano, che in un video di propaganda l’ha definito «un agente della CIA». Sharp parte dal presupposto «che sia possibile prevenire la tirannia e lottare con successo contro le dittature, senza ricorrere a colossali bagni di sangue, e che sia possibile estirpare i regimi dittatoriali in modo che dalle loro ceneri ne sorgano di nuovi»13, ben sapendo che «la caduta di un regime non sfocia nell’utopia. Piuttosto apre la strada a un duro e faticoso lavoro per costruire relazioni sociali, economiche e politiche, sradicare altre forme di ingiustizia e oppressione»14. Da questa speranza, l’autore desume le azioni di ribellione nonviolenta da intraprendersi in vista di una sommossa, che elenca come segue: dileggio dei funzionari di regime; marce, parate, cortei motorizzati; boicottaggio da parte dei consumatori; non collaborazione personale generalizzata; ritiro totale dei depositi bancari; disobbedienza civile contro leggi illegittime.
Queste azioni costituiscono la base della protesta non violenta, in quanto «la guerriglia non è una soluzione scontata, soprattutto se si considera la sua tendenza a incrementare paurosamente la quantità di vittime nella popolazione stessa. […] Persino quando ha successo la guerriglia comporta conseguenze strutturali negative»15. Per questo, Sharp è chiaro: «Per abbattere una dittatura nel modo più efficace e con perdite minime, bisogna intervenire subito su quattro fronti: rafforzare la determinazione, la sicurezza nei propri mezzi e la resistenza della popolazione oppressa; rafforzare i gruppi sociali indipendenti e le istituzioni di quella stessa popolazione; creare una potente forza di resistenza interna; sviluppare e implementare un piano di liberazione»16.
Otpor! Il libro nasce clandestino ma viene diffuso velocemente su Internet in quasi trenta lingue. Nel 1993 esce in Thailandia e due anni dopo il regime birmano cerca inutilmente di contrastarne la diffusione: nel 2005, chiunque venga trovato in possesso di una copia del libello viene arrestato e condannato a sette anni di prigione. Durante il governo di Milosevic, una copia arriva anche a Belgrado; viene tradotta in serbo e adottata dal movimento locale di resistenza, Otpor!. Il movimento giovanile di Belgrado diventerà poi il punto di riferimento per il gruppo di protesta egiziano, nel 2011. Ma in entrambi i casi, spiega Macchi, troviamo «finanziamenti milionari a questi gruppi studenteschi, che arrivano direttamente da Washington e da società di consulenza, che insegnano agli aspiranti rivoluzionari di ogni Paese attraverso veri e propri workshop». Così il fondatore di Otpor! e poi dell’istituto Canvas (Center for applied nonviolent action and strategies) con sede a Belgrado, Srdja Popovic, spiega: «Noi non insegniamo quando o perché fare la rivoluzione, ma forniamo gli strumenti utili per organizzarla». Costoro infatti insegnano agli aspiranti attivisti «un modus operandi, basato sulla non violenza, la guerra psicologica e la manipolazione mediatica, che possiamo chiamare “metodo Canvas”». Come per la rivoluzione bolscevica e prima ancora per quella francese, dietro alle sommosse organizzate di piazza troviamo una regia occulta, che muove le proteste come pedine per scopi ben diversi da quelli civili di libertà e uguaglianza. Qualcosa di ben diverso, dunque, dall’idea romantica di rivoluzione che abbiamo appreso sui banchi di scuola, perché, come osserva Macchi, «le insurrezioni però non nascono quasi mai dal nulla, soprattutto in zone con un controllo poliziesco capillare come il Nord Africa e il Medio Oriente. Dietro a cortei e proteste c’è il lavoro faticoso, rischioso
e spesso ricco di delusioni di pochi attivisti. E c’è anche lo zampino di chi, dall’interno e dall’esterno, li aiuta, li finanzia e li indirizza. Qualcuno insomma che ha interesse a soffiare sul fuoco del malcontento, ad alimentarlo e a spingerlo verso esiti in certi casi ben diversi da quelli che sogna chi manifesta»17.
Nel caso della rivolta contro Milosevic, «il piccolo e combattivo gruppo studentesco Otpor! riceve anche importanti finanziamenti da benefattori negli Stati Uniti per centinaia di migliaia di dollari, confermati da alcuni ex leader della formazione serba. I soldi arrivano a Belgrado attraverso una rete inestricabile di fondazioni e organizzazioni americane, finanziate a loro volta dal governo di Washington. Andando a spulciare i bilanci ufficiali si scopre, per esempio, che il National Endowment for Democracy, diretta emanazione del Congresso degli Stati Uniti, ha effettuato donazioni a Otpor! per 237mila dollari nel 2000. Una delle varie associazioni non governative coinvolte nel sostegno all’opposizione serba in nome della “democrazia” ha un nome evocativo, Freedom House, e dopo la caduta di Milosevic assume due attivisti di Otpor!, Alexander Maric e Stanko Lazendic come consulenti per i movimenti in Ucraina e Bielorussia»18.
Arriviamo così alle insurrezioni in Medio Oriente del 2011 e ancora alle proteste degli Indignados e di Occupy Wall Street, tra i quali si infiltrano e confondono proprio gli attivisti di Otpor!. Anche questi ultimi due gruppi, infatti, hanno utilizzato in maniera massiccia i social network per organizzare le proteste e attirare il più vasto numero possibile di partecipanti. Il ricercatore e scrittore Leo Lyon Zagami rivela inoltre la manipolazione del gruppo degli Indignados, su scala globale, per mano dell’élite mondialista, «[…] coinvolgimento che abbiamo scoperto grazie alla ricerca di un blogger americano poi ripresa da un sito italiano che, a proposito della Manifestazione mondiale degli indignati del 15 ottobre 2011, dichiara: “Il 5 ottobre 2011 cominciò l’azione globale. Per la prima volta nella storia, fino a 15 milioni di persone in sessanta Paesi hanno marciato insieme per un ‘cambiamento globale’. Il loro sito ufficiale è: http://15october.net”»19.
Quando però ci si è domandati di chi fosse il dominio del sito, da cui era partita l’organizzazione dell’evento, si è arrivati a scoprire che risultava essere tale Paulina Arcos, 866, United Nations Plaza, Suite 516 New York 10017 United States ovvero, come spiega meglio Zagami, «la moglie di Francisco Carrion Mena, rappresentante permanente dell’Ecuador alle Nazioni Unite e
presidente del Comitato Speciale per la Decolonizzazione. Una “indignata” a dir poco sospetta, la signora Arcos, essendo una che fa parte dei vertici del sistema»20.
Dietro la Freedom House Tra i progetti, invece, della già citata Freedom House, «c’è un programma mirato a diffondere tra gli attivisti pro democrazia le opportunità offerte dai media digitali e dalla rete web. Si tratta di un network globale, dove scambiarsi esperienze e conoscenze, parlare di tecnologie per aggirare la censura e confrontarsi sugli ultimi software in grado di superare i controlli messi in atto sul web dai vari regimi. Alla guida del progetto c’è Robert Guerra, personaggio molto attivo su Twitter durante la rivolta tunisina, accusato dai giornali cubani di essere vicino alla CIA, per la sua partecipazione all’“Operazione surf”, nel gennaio 2007, il tentativo di introdurre nell’isola caraibica parabole satellitari per collegarsi clandestinamente a Internet, camuffate da tavole per cavalcare le onde. Iniziativa fallita a causa del doppio gioco di un agente dell’Avana»21.
È da notare inoltre che, tra «le fondazioni e organizzazioni americane finanziate a loro volta da Washington» citate da Macchi, troviamo: la Fondazione Adenauer, la United States Agency for International Development e l’Open Society Institute del miliardario speculatore George Soros, già sostenitore di Obama. Lo scopo di questi ingenti finanziamenti, che risalgono – come vedremo tra poco – all’amministrazione Reagan «è quello di diffondere una “democrazia aperta al libero mercato” e di creare una classe “amica” nei Paesi strategicamente rilevanti. Se nei primi anni l’attenzione è rivolta soprattutto al Sud America, nell’ultimo decennio spazia ovunque»22.
Queste organizzazioni possono così operare alla luce del sole anche nel finanziare i movimenti di protesta contro i governi ostili a Washington o semplicemente ostili al libero mercato e alla costituzione del NWO. La Freedom House riceve la maggior parte dei suoi finanziamenti dal NED (National Endowment for Democracy), «una società privata e senza scopo di lucro, una sorta di cassa deposito con sede al 1025 F Street NW, Suite 800 di Washington, con una dote annuale che attualmente sfiora i 100 milioni di dollari, da destinarsi al sostegno della democrazia (americana) nel mondo». L’operato occulto di queste organizzazioni dimostra come la teoria che sta alla base della dottrina della guerra preventiva non sia nata esattamente con G.W. Bush e soprattutto non sia finita con la sua amministrazione. Anzi, a partire dal governo democratico Obama, le tecniche per promuovere la “democrazia” americana nel mondo si sono semplicemente affinate: invece di basarsi sulla forza, prediligono ora i finanziamenti, le pressioni, le manipolazioni
di massa. Il progetto degli aiuti internazionali in questa forma risale infatti a Ronald Reagan: grazie alla costituzione di una rete di associazioni non governative, che si suppone erroneamente essere indipendente da Washington, il governo americano controlla attivamente dal 1981 la politica estera, senza dovere più ricorrere ai fondi neri della CIA. Alcuni grossi scandali, infatti, avevano portato alla luce «decenni di manipolazioni e operazioni non convenzionali svolte all’estero, in particolare in Sud America e in Asia, dalla più importante agenzia spionistica di Washington, la CIA. La diffusione di queste carte segrete ha creato non pochi malumori tra gli stessi alleati degli Stati Uniti e una valanga di critiche sulla stampa»23.
Dal 1982, la NED distribuisce il suo budget a quattro grandi organizzazioni: IRI, vicino al partito Repubblicano; NDI, vicino al partito Democratico; ACILS, che fa riferimento ai sindacati; CIPE, affiliato alla Camera di Commercio statunitense. In questo modo, tutti i fronti sono finanziati e quindi “coperti”, a dimostrazione della virtualità degli schieramenti politici. L’ACILS, tra l’altro, lavorando a stretto contatto con i sindacati venezuelani CTV, è stato coinvolto nel fallito golpe contro il presidente Hugo Chavez. Il fallimento del colpo di stato militare ha reso pubblico il coinvolgimento, seppur ufficioso, della Casa Bianca nella destituzione del leader venezuelano, creando non pochi imbarazzi a Washington, dove era stata sottovalutata la fedeltà dell’Esercito e del popolo a Chavez.
La CIA in America Latina Nei primi anni Ottanta, infatti, i finanziamenti si concentrarono sulle strategie da adottare per intervenire sui già delicati equilibri in America Latina, che nel 1989, sfociarono nell’invasione di Panama e nell’arresto di Noriega. Prima dell’arresto e della deportazione di Noriega c’erano state le morti “accidentali” di Roldos, di Torrjios e poi di Allende, di Arbenz e di Mossadeq, che avevano incrementato i sospetti sull’operato della CIA. L’ex banchiere ed economista John Perkins, amico di Roldos, è convinto che si sia trattato di un omicidio organizzato dalla CIA: «Capivo che era stato giustiziato in modo così plateale per mandare un messaggio. La nuova amministrazione Reagan, con il facile richiamo dell’immagina da cowboy di Hollywood, era il veicolo ideale per trasmettere un simile messaggio».
Il messaggio dedicato a Torrijos non venne raccolto, anzi quest’ultimo si
oppose alle richieste di Washington di rinegoziare il Trattato sul Canale, e due mesi dopo la morte di Roldos anche il leader panamense perse la vita in un “incidente” aereo: le voci insinuarono l’esistenza di una bomba a bordo o addirittura che il velivolo fosse teleguidato da terra. Durante le udienze del 1973 sul caso Watergate, John Dean rivelò, davanti al Senato degli Stati Uniti, l’esistenza di un complotto per uccidere Torrijos, mentre due anni dopo, nel 1975, alla Commissione d’inchiesta del Senato sulla CIA vennero presentate ulteriori testimonianze e documentazioni sui piani per uccidere sia Torrijos che Noriega. La morte di Torrijos suscitò scalpore: «Torrijos era noto in tutto il globo; era rispettato come l’uomo che aveva costretto gli Stati Uniti a cedere il Canale di Panama ai suoi legittimi proprietari e aveva continuato a tenere testa a Ronald Reagan. Era un campione dei diritti umani, il Capo di Stato che aveva aperto le braccia ai rifugiati di ogni appartenenza politica, compreso lo scià dell’Iran, una voce carismatica a favore della giustizia sociale che secondo molti sarebbe stato candidato al Nobel per la pace. E ora era morto. “Un assassinio della CIA” titolavano di nuovo editoriale e articoli»24.
L’invasione di Panama Il “discepolo” e amico di Torrijos, Manuel Antonio Noriega, divenne però presto un’icona internazionale della corruzione, grazie anche a una massiccia campagna di diffamazione, ancora una volta orchestrata da Washington. In ogni caso, Noriega non era Torrijos. Come ricorda ancora Perkins, «non aveva il carisma né l’integrità del suo ex capo. Col tempo, si fece la nomea di politico corrotto e trafficante di droga e fu persino sospettato di aver organizzato l’assassinio di un avversario politico, Hugo Spadafora. […] Il colonnello aiutò anche la CIA a infiltrarsi nei cartelli della droga in Colombia e altrove»25.
Nonostante fosse il pupillo corrotto di William Casey, allora capo della CIA, Noriega si rivelò presto la nemesi di George H.W. Bush, il suo “fattore di debolezza”. Quando Noriega, forse convinto di essere “invincibile” grazie alla protezione di Casey, «si rifiutò recisamente di prendere in considerazione un prolungamento di quindici anni della permanenza della School of the America sul territorio panamense», le relazioni con Washington precipitarono. Come raccontò in seguito lo stesso Noriega nelle sue memorie dal carcere, «per quanto fossimo determinati e fieri nel portare avanti l’eredità di Torrijos, gli Stati Uniti non volevano che ciò accadesse. Volevano che rinegoziassimo o prolungassimo la permanenza nella struttura [la School of the Americas; N.d.A.] affermando di averne ancora bisogno per via dei venti di guerra che soffiavano in America Centrale. Ma quella School of the America era per noi motivo di imbarazzo. Non volevamo sul nostro suolo un campo di addestramento per squadroni della morte e militari repressivi di destra»26.
Come reazione, il 20 dicembre 1989 gli Stati Uniti attaccarono Panama «con quella che fu descritta come la più grande offensiva aerea contro una città dall’epoca della seconda guerra mondiale. Fu un’aggressione non provocata contro una popolazione civile. Panama e il suo popolo non rappresentavano alcuna minaccia per gli Stati Uniti nè per nessun altro Paese. Politici, governi e giornali di tutto il mondo denunciarono quell’azione unilaterale degli Stati Uniti come una chiara violazione del diritto internazionale»27.
L’aggressione fu una violazione del diritto internazionale, in quanto Panama «aveva semplicemente osato opporsi ai desideri di un manipolo di politici potenti e di dirigenti di grandi aziende. Aveva insistito che il Trattato sul Canale fosse rispettato, aveva dialogato con i riformatori sociali e aveva sondato la possibilità di costruire un nuovo canale utilizzando finanziamenti e società di costruzioni giapponesi. Le conseguenze furono devastanti»28.
Per giustificare l’atto di forza, ancora una volta, Washington fece affidamento sulla diffamazione del nemico di turno, Noriega, che venne, a torto o a ragione, dipinto come «un essere malvagio, il nemico del popolo, un mostruoso narcotrafficante, e che come tale forniva all’Amministrazione un pretesto per la massiccia invasione di un Paese di due milioni di abitanti che, guarda caso, si estendeva su una delle aree più preziose al mondo»29.
Come riporta Perkins, il giornalista e saggista David Harris, collaboratore del «New York Times Magazine», nel suo libro Shooting the Moon del 2001 osserva: «Di tutte le migliaia di governanti, potentati, uomini forti, giunte militari e signori della guerra con cui gli americani hanno avuto a che fare in ogni angolo della Terra, il generale Manuel Antonio Noriega è l’unico col quale se la siano presa a quel modo. Soltanto una volta, nei loro duecentoventicinque anni di esistenza ufficiale, gli Stati Uniti hanno invaso un altro Paese e trascinato il governante negli Stati Uniti per processarlo e incarcerarlo in seguito a violazioni delle leggi americane perpetrate sul suolo nativo, e dunque straniero»30.
Noriega fu infatti arrestato e condotto in aereo a Miami, dove venne condannato a quarant’anni di carcere. L’invasione illegittima di Panama precedette di soli due anni l’invasione – altrettanto illegittima – ma simile del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam. Mentre non erano state pronunciate condanne ufficiali da parte di qualcuno – ma solo, al massimo, alcune parole di sdegno – contro Washington, la reazione contro il raiss fu invece violenta e sfociò nel primo intervento in quella regione: Desert Storm. La guerra in Iraq distolse in qualche modo l’attenzione dal Venezuela dove invece Chavez si era macchiato dell’ennesimo sgarbo agli USA con la
sostituzione ai vertici della compagnia petrolifera statale di persone di sua fiducia, indipendenti dagli intrighi di Washington. Dopo il fallito tentativo di golpe, infatti, Chavez tornò al potere in meno di settantadue ore, strinse la morsa del governo sui dipendenti della compagnia petrolifera e cacciò dal Paese i suoi oppositori.
Da Panama al Nuovo Medio Oriente Con l’insediamento di Reagan, la politica estera americana, come abbiamo visto, imboccò una strada più vicina alle lobby, inaugurando una politica estera di facciata all’insegna dell’intrigo e della corporatocrazia: «Reagan, viceversa, era senz’altro un costruttore dell’impero globale, un servitore della corporatocrazia. Quando fu eletto, mi sembrò appropriato che fosse un attore hollywoodiano, un uomo abituato a seguire gli ordini dei grandi produttori, uno che sapeva obbedire»31.
La costituzione dell’impero globale è passata così attraverso la strada dei finanziamenti di organizzazioni e fondazioni non governative, legate però in modo occulto a lobby finanziarie e alla Casa Bianca: «Ne risulta un complesso intreccio tra fondazioni private, spesso finanziate dal Congresso, ai cui vertici siedono personaggi di primo piano della vita pubblica, ed istituzioni direttamente create da Washington, con alla testa privati cittadini ma sovvenzionate da gruppi industriali. Una sorta di gioco delle scatole cinesi, nel quale è facile smarrire la via dei dollari»32.
Si comincia in Serbia con Otpor! nell’ottobre del 2000 e si esporta il modello di finanziamento dei gruppi rivoluzionari negli altri Paesi, con le rivoluzioni avvenute dal 2000 al 2008 nell’ex Unione Sovietica, fino al Medio Oriente in Tunisia, Egitto, Yemen, Libia, Iran, Siria, nella primavera del 2011 e infine in Russia. I movimenti giovanili di ognuno di questi Paesi hanno ricevuto ingenti finanziamenti, secondo un metodo che si ripete in modo costante e che vede l’adozione, da parte dei leader delle proteste, di tecniche non violente ispirate alle opere di Gene Sharp, «che insegnano a screditare il potere, a spingere i cittadini all’azione civica e alla resistenza pacifica. Innanzitutto vi è la comparsa di movimenti giovanili simili per organizzazione e modalità d’azione. Il movimento deve presentarsi come apolitico e fare perno soprattutto sugli indecisi. Inoltre, il gruppo deve usare una comunicazione basata su messaggi semplici ed efficaci, connotandosi di un aspetto romantico e libertario. Infine, gli attivisti devono cercare l’appoggio del circuito internazionale dei media, filtrandosi e selezionando le informazioni in modo da presentare le manifestazioni come eventi spontanei di una gioventù che aspira alla libertà e alla democrazia e che intende collaborare con la comunità internazionale. Più o meno quello che è accaduto in Tunisia e in tutti i Paesi scossi dalla “Primavera araba”»33.
Come ha spiegato in un’intervista al «New York Times» il direttore esecutivo del Project on Middle East Democracy di Washington, Stephen McInerney, la rivoluzione è stata «una loro scelta. Noi non li abbiamo finanziati e aiutati per scatenare la protesta, li abbiamo sostenuti nello sviluppare le capacità organizzative di mobilitazione», il che in fondo è la stessa cosa. Non a caso sul sito del POMED troviamo teorizzata la “priorità strategica” di apportare delle riforme democratiche in Medio Oriente. Se l’esito delle precedenti rivoluzioni colorate è stato «quasi sempre quello di rafforzare la politica americana e della NATO ai confini di Mosca, assicurando a Washington importanti basi militari in posizione strategica e l’accesso ai corridoi energetici nel cuore dell’Eurasia», quello delle rivoluzioni arabe ha visto operare la strategia della tensione, che ha portato a destabilizzare gli equilibri della regione in vista di nuovi insediamenti vicini a Washington, ma soprattutto aperti al libero mercato e all’impero globale, di cui parlava Perkins. L’elenco è lungo e aveva simili finanziamenti in Libia, nello Yemen e in Iran. Alla luce di queste cifre, Macchi commenta: «Forse i veri dittatori, che di fronte alle ribellioni delle piazze denunciano “ingerenze straniere” nei loro affari, non hanno poi tutti i torti. Che succederebbe se gli Stati Uniti scoprissero che Paesi stranieri finanziano organizzazioni impegnate nel vigilare il rispetto dei diritti umani o blogger e attivisti per addestrarli ad aggirare i loro sistemi di sicurezza?»34.
Dai social network ad Anonymous Un elemento comune al nuovo paradigma di protesta è la presenza costante di cellulari e smartphone in grado di riprendere le manifestazioni o gli atti di disobbedienza civile e le conseguenti reazioni delle Forze dell’Ordine. Così si può dire che le recenti rivolte o proteste come quelle degli Indignados e di Occupy Wall Street hanno avuto come colonna portante un uso capillare dei social network – Facebook e Twitter su tutti – per veicolare immagini e video e dare appuntamenti o informazioni utili ai manifestanti. Il passaggio delle proteste dal mondo virtuale dei social network è facile e utile per convogliare il più alto numero di persone. Così «un interessante studio dell’Università di Washington, che ha preso in esame tutto quello che è passato in rete nei giorni delle rivolte tunisina ed egiziana, compresi tre milioni di tweet, è arrivato alla conclusione che i social media sono stati fondamentali. Secondo i ricercatori, si riscontra un picco nelle conversazioni politiche on line prima di ogni manifestazione di rilievo e il web ha favorito il propagarsi delle idee democratiche oltre le frontiere»35.
Un aspetto, che però, lo studio in questione non rivela, è l’attenzione che i
Servizi segreti rivolgono al mondo del web e dei social network: da un lato vi è il controllo dei post o tweet antiregime, che può sfociare nella censura; dall’altro, la possibilità, per i governi di fare disinformazione e manipolare le masse attraverso il ricorso a notizie false o a profili fittizi. Nel mondo virtuale di oggi possiamo rimanere ingannati da facili “bufale” di cyberattivisti o semplici blogger, come nel caso di Amina, la fantomatica blogger lesbica iraniana che, una volta divulgata la notizia del suo arresto, si è rivelata un’identità falsa orchestrata da Tom MacMaster, un quarantenne americano che postava il diario virtuale di Amina da Edimburgo… Benché le motivazioni che avrebbero spinto MacMaster a inscenare questa messinscena non siano state chiarite fino in fondo, risulta evidente il rischio che può implicare un uso distorto dei social network, dove chiunque può assumere qualsiasi identità e scrivere qualsiasi cosa spacciandola per vera. In un articolo pubblicato su «Nawaat», Sami Ben Gharbia ha espresso la sua perplessità, riguardo all’utilizzo dei social network come strumento di mobilitazione sociale, dichiarando: «Il mantra della libertà sulla rete diffuso a partire da Washington, non è che una copertura per l’agenda geopolitica e strategica. Il fatto che il Governo degli Stati Uniti sia tra i maggiori fautori della libertà su Internet, può diventare un rischio reale per gli attivisti che accettano il suo sostegno e i suoi finanziamenti»36.
Un altro fenomeno assurto a fama mondiale, durante e dopo le rivolte arabe, è stato il gruppo collettivo di hacker denominato Anonymous, noto per avere come simbolo la maschera di Guy Fawkes, il cospiratore inglese del XVII secolo, indossata anche dal protagonista del film dei fratelli Wachowski, V per Vendetta. Questa quinta colonna cybernetica ha offerto in diverse occasioni il proprio sostegno alla “Primavera araba”, attaccando i siti governativi tunisini ed egiziani nei giorni più caldi delle proteste e diffondendo in rete i manuali di autodifesa e di guerriglia urbana in diverse lingue, tra cui anche l’arabo. I rappresentanti dei Fratelli Musulmani non solo hanno beneficiato di ingenti finanziamenti, ma, come riferito il 6 novembre 2011 da «Al Diyan», si sarebbero incontrati numerose volte – a partire dall’11 settembre – con uomini della CIA. A uno di questi incontri sarebbe stato presente il numero uno dei Servizi segreti americani, David Petraeus, allo scopo di convincere la Fratellanza a contrastare i gruppi estremisti. Questo genere di incontri – e l’insediamento recente della Fratellanza al potere in Paesi come la Libia – dimostra come «tra Washington e l’organizzazione islamica non ci sarebbe poi tutta questa distanza. L’ideologia dei Fratelli Musulmani, da una parte vicina ai movimenti salafiti e sunniti,
dall’altra ostile ai gruppi estremisti sciiti, ismailiti e alawiti, è un’occasione per farne un potenziale alleato nella lotta all’estremismo»37. Il pericolo di una manipolazione, da parte dei Servizi dei diversi Paesi, esiste ed è stata accertata da diversi ricercatori: in questo senso, il controllo dei social network – attraverso la manipolazione o, all’opposto la censura – sta diventando fondamentale, per i regimi autoritari. Come vedremo meglio nei prossimi capitoli, per mettere in cattiva luce un regime, diffondere il malcontento e spingere l’opinione pubblica ad abbracciare un certo tema non c’è nulla di meglio dell’utilizzo congiunto di media (TV in primis) e social network, che richiede però del personale altamente specializzato. Già Lenin sosteneva che i rivoluzionari dovevano essere dei “professionisti della politica”, cioè degli esperti organizzatori di movimenti di massa, e per tale ragione, riteneva che dovessero esercitare le loro mansioni – agitazione, propaganda, attività culturale, politica e sindacale ecc. – a tempo pieno, stipendiati in un certo senso dalle stesse masse che, grazie a questa leadership competente, sarebbero dovute andare al potere. Dal giornalismo spettacolo e dalla virtualità del web nasce così un altro fenomeno, quello delle agenzie di comunicazione, che – come è accaduto nella guerra del Golfo e poi in Serbia – vengono utilizzate da un determinato governo per diffondere e mettere in risalto la tesi di una delle due parti del conflitto. Queste società di pubbliche relazioni ibride si occupano, cioè, di creare in modo virtuale l’informazione, rendendo verosimile la realtà e offrendo così degli spaccati unilaterali e addirittura fittizi degli avvenimenti, in modo da influenzare l’opinione a sostegno di una delle due parti del conflitto; inoltre sono disponibili a organizzare mobilitazioni sui social network, con profili fittizi o tramite una rete di blogger e utenti a libro paga, utilizzando anche dei software sofisticati in grado di generare migliaia di contatti, adesioni o tweet, dimostrando ancora una volta la virtualità del sistema mediatico e la facilità con cui – tramite i giusti finanziamenti – si può manipolare e influenzare l’opinione pubblica.
Siria: le quattro mosse per fare cadere Damasco Dennis Ross, l’ex inviato in Medio Oriente sotto cinque amministrazioni democratiche e repubbliche, già assistente speciale di Obama nella zona regione e per un anno consigliere speciale del Segretario di Stato Hillary Clinton sull’Iran, ha chiarito la strategia di Washington per fare cadere Assad senza ricorrere all’intervento militare. Ross ha chiarito infatti che
«un intervento militare sul modello della Libia non è praticabile, per varie ragioni. La Russia si oppone, e questo impedisce il consenso su una risoluzione all’ONU. La Siria ha difese aeree molto più attrezzate e sofisticate, e quindi l’operazione sarebbe più difficile. L’Europa in Libia ha quasi esaurito le sue scorte di armi di precisione, e in sostanza rischieremmo di provocare una lunga guerra civile»38.
Partendo da queste premesse, Ross ha contemplato quattro mosse, per accelerare la fine del regime di Damasco: «Primo, spingere Mosca ad abbandonarlo, offrendo a Putin la possibilità di rivendicare il merito della caduta, e chiedendo agli arabi di porre il Cremlino davanti alla scelta netta tra la loro amicizia e quella con Assad. Secondo, fare capire agli alawiti che hanno un futuro anche senza Assad e che quindi lui ha torto quando dice che devono combattere col regime fino alla morte perché non esistono alternative. Terzo, costituire una zona di sicurezza nel Nord del Paese con l’appoggio della Turchia. Quarto, costringere l’opposizione a prendere una posizione unitaria»39.
Ross riconosce che invece, sul fronte Iran, tutto dipende dalla volontà di Israele di bruciare le tappe per dichiarare guerra a Teheran, decisione che trascinerebbe inevitabilmente anche gli USA e l’Europa nel conflitto: «Noi americani possiamo aspettare più a lungo, per vedere se le sanzioni funzionano […] gli israeliani hanno più fretta, e per evitare la guerra bisogna ottenere risultati prima. […] La chiave, da parte americana, è parlare con gli iraniani, offrire loro una via d’uscita per salvare la faccia, ma essere molto chiari sul fatto che non accetteremo mai l’atomica»40.
Ross ammette, cioè, che Israele avrebbe spinto per l’intervento già nell’ottobre del 2012, mentre Washington avrebbe cercato di frenare l’impazienza sionista attraverso forme di mediazione diplomatica. Gli interessi di Israele sembrano inoltre avere armato i ribelli anti-Assad. Secondo fonti “bene informate” in Siria, «i gruppi armati siriani anti-Assad a Homs hanno ricevuto missili israeliani di ultima generazione utili “contro i carri armati T-72” in dotazione all’esercito siriano»41. La fonte rivela inoltre che «più di 400 combattenti di al-Qaeda, addestrati da Washington in un Paese europeo, sono entrati in Siria attraverso l’Iraq e la Turchia»42. Se Washington si ritrova dunque a cercare di frenare la bellicosità di Israele, il nodo più complesso da sciogliere, per la Casa Bianca, rimane l’opposizione della Russia all’interventismo. Putin, infatti, si oppone con forza all’intervento in Iran e in Siria e, come vedremo più avanti, al progetto di instaurazione del NWO.
Assad denuncia il complotto
Assad ha approfittato di queste indiscrezioni a suo favore per denunciare l’esistenza di un vero e proprio complotto, finalizzato a screditare a livello internazionale il suo regime. Il 3 giugno 2012 il leader siriano ha denunciato durante un intervento in tv – che la strage di Hula – in cui hanno perso la vita 108 persone, tra cui 49 bambini – sarebbe avvenuta per mano di mercenari stranieri. Premesso che «si tratta di un massacro brutale, che neppure dei mostri avrebbero compiuto», Assad ha escluso che vi sia stata la regia del suo governo: «Le maschere sono cadute e il ruolo internazionale, e quanto sta accadendo in Siria, è chiaro. Non siamo di fronte a un problema politico, ma un progetto di distruzione del Paese»; e ancora: «Stiamo fronteggiando un piano di distruzione, una vera aggressione orchestrata dall’estero». Spiega Francesca Paci dalle pagine del quotidiano «La Stampa»: «Gli indizi a cui allude il Presidente sono diversi. C’è la triade Turchia-Arabia Saudita-Qatar, additata da Teheran come mandante del caos siriano. C’è quella fetta d’Occidente, capitanata da Washington e Parigi, che preme con insistenza su Putin perché scarichi l’antico alleato avallando un coinvolgimento diretto. C’è infine la Lega araba, che sabato [2 giugno 2012; N.d.A.] ha chiesto alle Nazioni Unite un intervento non armato a difesa dei civili»43.
Di sicuro, sulla strage di Hula non c’è nulla di accertato. La difficoltà a raccogliere informazioni per ricostruire la dinamica della tragedia resterà sepolta con i suoi 108 morti, prestandosi così a molteplici interpretazioni. Concorda con Assad, invece, Djerrad Amar, che sostiene: «La destabilizzazione di questo Paese [Siria; N.d.A.] entra nel quadro di un progetto di smembramento del mondo arabo su basi etniche, tribali o confessionali, ispirato dal Piano Yinon del 1982. […] La disinformazione costituisce il metodo terribile per manipolare le coscienze. Tutti i loro [dell’opposizione guidata indirettamente da Washington; N.d.A.] articoli, reportage, rendiconti e “info” ci svelano, ogni giorno di più, i dettagli e i segreti della loro cospirazione. La Siria, Paese della resistenza contro il sionismo e l’egemonia USA, è dunque bene immunizzata, dalla propria esperienza, nei confronti della manipolazione e della sovversione, tanto più che gli obiettivi dei nemici sono chiari e dichiarati e i loro mezzi individuati. Il suo esercito è forte e coerente, il popolo unito e istruito. […] Dopo avere utilizzato, senza successo, ogni possibile astuzia, eccoli usare la loro ultima carta politica prima del suono della campana che annuncerà il fallimento di ogni loro strategia in questa regione e oltre»44.
Il “progetto di distruzione del Paese”, cui alludeva Assad, troverebbe conferma nella manipolazione mediatica di notizie relative al regime siriano e alle stragi commesse in questa regione: a conferma, il fatto che i media occidentali prendono notizie dall’Osservatorio Siriano per i Diritti dell’Uomo (OSDH), che secondo Amar sarebbe in realtà una creazione della CIA45.
Si è rotto il vaso di Pandora
La missione degli osservatori ONU è ben presto fallita con le dimissioni di Kofi Annan46 da inviato speciale per la Siria: «Era una concessione a Mosca, che non è stata sfruttata, e la sua chiusura lascia poche alternative all’uso delle armi»47. Armi, torture e barbarie, che hanno coinvolto però entrambe le fazioni, “buoni” e “cattivi”, “ribelli” e “lealisti”. Come nel caso della Libia, anche i ribelli siriani – sostenuti ufficialmente dalla CIA su mandato di Obama48 – si sono macchiati di quegli stessi crimini, di cui è accusato il Governo di Damasco. Se Damasco è stata accusata di “genocidio”, i ribelli non sono stati da meno con i loro rastrellamenti: è ciò che emerge da numerose testimonianze di civili siriani, che nulla hanno a che fare con i lealisti di Assad. L’orrore della guerra, che non risparmia alcuno, è emerso da testimonianze e video, che hanno fatto il giro di tutto il mondo, per chi voleva guardare: «Si è rotto il vaso di Pandora. E adesso c’è solo sangue. Dappertutto. La Siria è un macello in cui non si salva nessuno e dove nessuno è al sicuro. L’Esercito di Liberazione e i militari governativi usano gli stessi metodi selvaggi, mentre le fosse si riempiono di cadaveri, e i jihadisti calati dall’Europa e dall’Africa aggiungono violenza a violenza nella certezza incrollabile che quando il tiranno Bashar Al Assad sarà cancellato toccherà alla sharia riportare ordine e pace»49.
Proprio com’è accaduto in Libia. I ribelli “buoni” non erano poi così buoni e sulle macerie del governo di Gheddafi si è imposta la sharia. Come riporta Maurizio Blondet, la scrittrice siriana Nadia Khost ha raccontato che i ribelli avevano delle liste con i nomi delle persone da eliminare: «Hanno assassinato uomini d’affari e professori d’università. Ora sappiamo che ciascuno di noi può morire, in caso di attacco delle bande armate, se il suo nome figura in quelle liste»50. La “normalità del male”, che in guerra scardina le leggi morali, si traduce nella violenza ripresa da un video che, grazie al «Los Angeles Times», ha fatto il giro del web: «Un filmato in cui si mostra la ferocia degli autoproclamatisi “eroi di Al Bab”. Sono soldati dell’Esercito di Liberazione che assalgono cinque uomini, che perdono la vita. Cecchini di Assad. I ribelli esultano. Lanciano i cadaveri nel vuoto. La folla che si è radunata sotto grida estasiata il loro nome»51.
Evidentemente supportati dalla CIA, tra i ribelli vi sarebbero anche numerosi terroristi di al-Qaeda, sostenuti ancora una volta per ragioni di forza maggiore da USA e Arabia Saudita. Il copione si ripete. Se nel 1979 Washington supportava i mujaheddin afghani contro le armate sovietiche, ora punta sui diretti discendenti dei mujaheddin – i combattenti di al-Qaeda, appunto – per rovesciare il governo di Assad. Stando alle dichiarazioni di uno dei leader yemeniti di al-Qaeda, gli
USA e l’Arabia Saudita sarebbero scesi a patti per l’invio dei jihadisti in Siria a fianco dell’Esercito di Liberazione: «L’informazione è stata rivelata da diversi mezzi di comunicazione in Medio Oriente, tra cui l’agenzia di stampa iraniana Alalam e la rivista digitale yemenita “AdenAlghad.net”. È stato riferito che Tariq alFadhli, un addestrato militante jihadista che ha combattuto a fianco di Osama bin Laden, ha concordato con funzionari di Stati Uniti e Arabia Saudita, attraverso la Turchia, l’invio da città meridionali yemenite, di 5000 militanti in territorio siriano per “aiutare i ribelli nella guerra per porre fine al regime di Assad”. Il fatto, evidenziato dai mezzi di comunicazione, “spiega l’improvviso ritiro di uomini armati dalla regione yemenita di Abyan”. È stato riferito che i militanti, che fanno riferimento a se stessi come “difensori della sharia“, si uniranno con altri gruppi di combattenti di al-Qaeda che sono stati infiltrati in Siria da Libia, Iraq e Turchia, con l’aiuto della NATO e degli Stati del Golfo»52.
Anche il quotidiano britannico «The Guardian»53 ha rivelato che i combattenti di al-Qaeda sono al comando dei “ribelli” siriani, a cui avrebbero insegnato tecniche di guerriglia e come costruire bombe… NOTE 1. John Perkins, ex banchiere, economista e saggista americano, in Confessioni di un sicario dell’economia, Minimun Fax, 2005, p. 159. 2. Leader di Panama, morto in un incidente aereo il 31 luglio 1981. Famoso per i trattati Torrijos-Carter del 1977 fra Panama e Stati Uniti, che sancivano il diritto di controllo per i centramericani del Canale di Panama a partire dal 2000. Morì prematuramente nel 1981 a causa di un misterioso incidente aereo. Versioni non ufficiali affermano che i sistemi di bordo erano controllati da terra. John Perkins lascia intendere che fu la CIA a eliminarlo, perché Torrijos si era rivelato un personaggio troppo scomodo e difficile da controllare. 3. Alfredo Macchi, Rivoluzioni S.p.A. Chi c’è dietro la Primavera Araba, Alpine studio, 2012, p. 150. 4. 3 giugno 2012. 5. Quanto segue è frutto di un’intervista di Enrica Perucchietti a Daniel Estulin: http://ildemocratico.com/2011/07/15/inchiesta-wikileaks-assange-agente-della-cia/. 6. Per Cover Up s’intende l’insabbiamento, l’occultamento o in generale il tentativo di coprire le fonti da cui proviene una violazione legislativa (o un crimine), che può coinvolgere un’intera organizzazione o solo i suoi responsabili. 7. Alfredo Macchi, op. cit., p. 59. 8. Ivi, p. 261. 9. Ivi, p. 263. 10. Ivi, p. 94. 11. Ivi, p. 32. 12. Ivi, p. 41. 13. Gene Sharp, Come abbattere un regime, Chiarelettere, Milano 2011, p. 7. Titolo originale: From Dictatorship to Democracy, traduzione di Massimo Gardella. 14. Ivi, p. 8. 15. Ivi, p. 15. 16. Ivi, p. 19.
17. Ivi, p. 17. 18. Ivi, pp. 47-48. 19. Leo Lyon Zagami, Confessioni di un illuminato, volume II, Uno editori, Torino 2012, pp.217-218. 20. Ibidem. 21. Ivi, p, 52. 22. Ivi, pp. 56-57. 23. Ivi, p. 53. 24. John Perkins, op. cit., pp. 225-226. 25. Ivi, p. 247. 26. Manuel Noriega in John Perkins, op. cit., p. 248. 27. Ivi, p. 247. 28. Ivi, p. 248. 29. Ivi, p. 249. 30. David Harris, in John Perkins, op. cit., p. 250. 31. Ivi, p. 222. 32. Alfredo Macchi, op. cit., pp. 61-62. 33. Ivi, pp. 80-81. 34. Ivi, pp. 58-59. 35. Ivi, p. 134. 36. Sami Ben Gharbia, 1 marzo 2011, Nawaat.org. 37. Alfredo Macchi, op. cit., p. 230. 38. Intervista di Paolo Mastrolilli a Dennis Ross, «La Stampa», 4 giugno 2012. 39. Ibidem. 40. Ibidem. 41. http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/articoli/1050306/israele-arma-i-ribelli-siriani.shtml. 42. http://www.informarexresistere.fr /2012/06/10/138297/ #axzz1yc8HNIlw. 43. Francesca Paci, Assad al contrattacco. ‘A Hula killer stranieri, in «La Stampa», 4 giugno 2012. 44. http://www.ossin.org/siria/piano-onu-siria-yinon-generale-gouraud.html. 45. Ibidem. L’OSDH ha sede a Londra e secondo Alexandre Loukachevitch, il portavoce del Ministero russo degli Affari Esteri, questo osservatorio è costituito da due sole persone: il direttore e il suo segretario-interprete. 46. Ecco la dichiarazione con cui Annan ha rinunciato al suo incarico: «L’aumento della militarizzazione sul terreno e la chiara assenza di unità nel Consiglio di Sicurezza hanno cambiato fondamentalmente le circostanze per l’esercizio efficace del mio ruolo». 47. Paolo Mastrolilli, in «La Stampa», 3 agosto 2012. 48. Ibidem. 49. Andrea Malaguti, in «La Stampa», 14 agosto 2012. 50. http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&view=article&id=77 681:siria-ecco-chiviola-i-diritti-umani&catid=29&Itemid=135. 51. Andrea Malaguti, in «La Stampa», 14 agosto 2012. 52. http://www.vocidallastrada.com/2012/09/la-nuova-alleanza-usa-al-quaeda-5000. html. 53. http://www.guardian.co.uk/world/2012/jul/30/al-qaida-rebels-battle-syria.
SIGNORAGGIO E CRISI ECONOMICA: DA KENNEDY A OBAMA «Una nazione che non si indebita fa rabbia agli usurai». (Ezra Pound) «Mi si consenta di emettere e controllare la moneta di un Paese e non m’importa più dei suoi governanti». (Amschel Mayer Bauer Rothschild) «Dare alle banche la possibilità di creare moneta è come darsi in schiavitù e pagarsela pure». (Sir Josiah Stamp1) «Un governo può sopravvivere con il signoraggio quando non può sopravvivere con nessun altro mezzo». (John Maynard Keynes) «È bene che la gente non sappia come funziona il nostro sistema monetario, perché se lo sapesse farebbe una rivoluzione entro domani mattina». (Henry Ford) «[…] Oggi nessuno agisce liberamente; siamo tutti prigionieri degli ingranaggi della macchina industriale». (Jack London, Il Tallone di ferro, 19082) «L’unica sorpresa della crisi economica del 2008 è che abbia colto così tante persone di sorpresa». (Joseph Stiglitz3) «Faccio politica da quarant’anni e ho vissuto molte crisi, ma non ho mai avuto tanta paura come ora». (Donald Tsang4) «Diffondete la verità: le leggi economiche sono come le leggi dell’ingegneria. Un solo insieme di leggi funziona dovunque». (Larry Summers5)
l 12 novembre 1963, durante un discorso alla Columbia University, il presidente John Fitzgerald Kennedy svelò l’esistenza di un complotto che coinvolgeva la Casa Bianca e che avrebbe rischiato di distruggere la libertà del popolo americano. Kennedy sembrava determinato a scoprire le trame di questa cospirazione prima di concludere il proprio mandato:
I
«Popolo americano, [esordì; N.d.A.] «qualcuno in passato ha usato la massima carica dello Stato per fomentare un piano atto a distruggere la libertà dell’America e, prima di lasciare questo incarico, devo informare i cittadini di questa piaga. Io impedirò che quel piano venga realizzato, con tutte le mie forze».
Esattamente dieci giorni dopo, il 22 novembre 1963, il Presidente venne
ucciso a Dallas, in Texas, da tre colpi d’arma da fuoco, sparati, secondo la ricostruzione ufficiale, da Lee Harvey Oswald, che due giorni dopo venne a sua volta ucciso da Jack Ruby. La Commissione Warren avrebbe archiviato il mistero della morte di Kennedy, individuando in Oswald l’unico responsabile del delitto e dipingendolo come il protagonista squilibrato di un gesto solitario di violenza. Nel 1979, però, la United States House Select Committee on Assassinations dichiarò che l’atto di Oswald era stato probabilmente frutto di una cospirazione, come aveva tanto tenacemente sostenuto il procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison6, che era stato incaricato nel 1966 delle indagini sull’omicidio del Presidente. L’inchiesta del magistrato era sfociata nel clamoroso processo del 1967 contro l’imprenditore Clay Shaw7, nel corso del quale Garrison aveva cercato inutilmente di dimostrare che il delitto era il frutto di una cospirazione, che la Commissione Warren si ostinava invece a insabbiare. Secondo l’ipotesi di Garrison e del giornalista Jim Marss, il complotto sarebbe stato studiato e pianificato dai più alti vertici dei Servizi segreti statunitensi in collaborazione con la mafia americana e con l’estrema destra e con l’avallo dell’allora vicepresidente in carica Lyndon Johnson, per fare proseguire la guerra del Vietnam a vantaggio delle gerarchie militari e dei fornitori di armi. Nel 1963, Kennedy aveva infatti cominciato a pianificare la ritirata di alcune migliaia di soldati dal Vietnam: l’escalation militare sarebbe stata solo opera di Johnson. L’allora segretario della Difesa, poi presidente della Banca Mondiale8, Robert McNamara ammise successivamente, nel film The Fog of War, che Kennedy non aveva alcuna intenzione di impegnarsi nella guerra in Vietnam: in un memorandum, datato 11 ottobre 1963, Kennedy avrebbe infatti ordinato il ritiro di mille uomini dal Vietnam; decisione, questa, immediatamente annullata da Johnson appena divenne presidente dopo la morte di JFK. In base a quanto emerso dalle ricerche di Garrison e Marss – così come dall’inchiesta ordinata dalla stessa famiglia Kennedy – vi sarebbero state diverse concause, che avrebbero portato all’eliminazione di un presidente divenuto ormai scomodo per le élite di Wall Street, il Pentagono, la CIA e la mafia. Oltre alla politica estera e alla posizione contro la ricerca sull’energia nucleare9, per alcuni ricercatori il decreto presidenziale 11110, con il quale JFK intendeva nazionalizzare l’emissione di moneta, sarebbe stato una di queste cause. Secondo il ricercatore Marco Saba10, i sette presidenti americani che hanno cercato di fare ritornare la sovranità monetaria nelle mani del popolo americano sono deceduti di morte violenta:
«Pare che, a causa della questione monetaria, siano stati assassinati sette presidenti statunitensi: quattro con armi da fuoco – Abraham Lincoln nel 1865, James Abram Garfield, nel 1881, William McKinley, nel 1901 e Kennedy nel 1963 – e tre per avvelenamento – William Henry Harrison nel 1841, Zachary Taylor nel 1850, Franklin Delano Roosevelt nel 1945. Così sostiene l’investigatore di Chicago Sherman Skolnick. Sempre secondo Skolnick, ogni tanto i Kennedy meditano di ritirar fuori politicamente la questione monetaria e a questo sarebbero dovuti gli attentati in cui morirono Robert Kennedy, nel 1968, e John F. Kennedy Junior11, nel 1999, a seguito di una simulazione di un incidente aereo»12.
Signoraggio bancario Fare ritorno alla nazionalizzazione della moneta avrebbe comportato infatti la fine del signoraggio bancario. Per “signoraggio”, si intende la differenza tra il valore nominale e il valore intrinseco di una moneta. La moneta viene stampata da banche private – come la Federal Reserve, che di federale ha però solo il nome – le quali la “prestano” ai governi caricando gli interessi. In tal modo, i governi, invece di pagare il valore corrispettivo della moneta, pagano alle banche private un determinato tasso d’interesse deciso dalle banche stesse. Questo è ciò che viene definito “signoraggio” e che viene inutilmente denunciato da anni da molti ricercatori. L’economista e scrittore Salvatore Tamburro spiega: «Il signoraggio rappresenta una truffa fatta dal sistema di banche centrali e banche commerciali a danno dello Stato e quindi del popolo. In sostanza, indica il guadagno dell’ente che emette moneta. Attualmente, in Europa come negli USA, a emettere moneta sono le banche centrali, quali BCE e Federal Reserve, che sono nelle mani di privati, e non nazionalizzate come molti erroneamente pensano»13.
Il reddito da signoraggio, infatti, va a chi emette moneta, ovvero – come spiega Tamburro – alle banche private. Le uniche banche attualmente ancora pubbliche e immuni da signoraggio sono le banche pubbliche in Iran, in Siria e in Cina. Anche la Banca libica di Gheddafi era pubblica e prestava gratuitamente denaro al governo, ma dopo la morte di Gheddafi uno dei primi provvedimenti dei “ribelli” è stato quello di privatizzarla sul modello della FED e della BCE. Il premio Nobel per l’Economia 1988 Maurice Allais14 ha spiegato con sarcasmo il senso del signoraggio: «L’attuale creazione di denaro dal nulla, operata dal sistema bancario, è identica alla creazione di moneta da parte dei falsari. La sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto»; l’economista John Maynard Keynes ha liquidato invece la questione, osservando che «un governo può sopravvivere con il signoraggio quando non può sopravvivere con nessun altro mezzo». Senza andare molto lontano, basta prendere come esempio lo Stato italiano: quando ha bisogno di euro, si fa prestare una certa cifra da Bankitalia15 a un determinato tasso di interesse. Per pagare gli interessi, lo Stato dovrà farsi
prestare altro denaro, andando ovviamente ad aumentare così il debito pubblico. Per colmare il debito, lo Stato non potrà far altro che svendere il proprio patrimonio pubblico attraverso opere di privatizzazione o attraverso la leva fiscale, ovvero aumentando le tasse dei contribuenti, ignari dell’esistenza di questo sistema. Ciò avviene perché non sono gli Stati a stampare direttamente la moneta: sono le banche private a prestare moneta dietro interesse. Così, gli istituti bancari privati si arricchiscono alle spalle dei cittadini. Allo stesso modo, le banche che appartengono alla Federal Reserve «non sono istituzioni americane. Sono monopoli di credito privati che si basano sul popolo statunitense per arricchire se stessi e i propri clienti stranieri, gli speculatori e predatori interni e stranieri, e i ricchi predatori usurai»16. La FED – il cui contratto con il Governo americano scade nel 2013 – funziona allo stesso modo della BCE, la Banca Centrale Europea: «Il Governo [USA; N.d.A] ha garantito il potere di emettere moneta alle banche della FED. Queste creano moneta, poi la prestano al Governo caricando gli interessi. Il Governo preleva la tassa sul reddito per pagare gli interessi sul debito». In ogni caso, le monete più in uso – come i dollari, gli euro, gli yen e le sterline – non sono più convertibili in argento od oro: il cambio di valuta si può fare solo da un tipo di moneta all’altro, ma non si può ottenere il corrispettivo in oro o argento dalle banche centrali o banche commerciali. Ciò spiega perché comunemente la moneta venga indicata come “carta straccia”. Non essendo convertibile in oro, infatti, la maggior parte delle monete non ha alcun valore. La moneta emessa in varie forme vale quanto il pezzo di carta o il metallo usato. Questo discorso è valido per il contante, perché la maggior parte del denaro in realtà si basa su transazioni virtuali e non su carta moneta: il suo valore, in questo caso, equivale all’impulso elettronico che lo ha originato: nulla, dunque. A questo punto, ci si può chiedere cosa attribuisca alla moneta di Stato il valore che le è riconosciuto. La risposta è semplice: il fatto che gli Stati e le banche centrali (e commerciali) riconoscono solo la moneta da essi stessi emessa come pagamento valido nelle transazioni e nelle tasse, che i cittadini devono corrispondere agli Stati. Il valore della moneta, cioè, si basa unicamente sul riconoscimento, che di essa ne fanno lo Stato e le banche. In base a queste premesse, Tamburro spiega nel suo saggio Non è crisi, è truffa, che «per fermare la truffa del signoraggio c’è un solo modo: il potere di emettere moneta deve passare dalle banche private allo Stato. Oggi lo Stato ha il potere di emettere soltanto monete metalliche, tramite la cosiddetta Zecca di Stato, mentre tutta la restante massa monetaria, che si tratti di moneta cartacea o creditizia, viene emessa dalle banche»17.
Coloro che in passato hanno proposto o cercato di nazionalizzare l’emissione di moneta e di reintrodurre una valuta che avesse in sé un valore, come ricorda Saba, sono infatti stati fortemente osteggiati o addirittura eliminati fisicamente: a partire da Abramo Lincoln e da Kennedy.
Il decreto presidenziale 11110 Franklin Delano Roosevelt un ventennio prima dell’insediamento di JFK, dichiarò: «La verità […] è che elementi della finanza sono proprietari del Governo nei suoi cardini principali sin dai giorni di Andrew Jackson». Proprio Jackson chiamava i banchieri «covo di vipere» e aveva promesso di distruggerli. Come i suoi predecessori, John Kennedy si oppose a questo sistema con una sorta di “colpo di Stato”, che ricalcava il tentativo di Lincoln di fare stampare direttamente dal Dipartimento del Tesoro la moneta. Lincoln venne ucciso nel 1865 poco dopo la creazione delle banconote Greenbacks, che avrebbero dovuto essere “prive” di interessi bancari; quegli interessi, che avrebbero invece ingrassato i Rothschild di Londra – finanziatori del Nord – e i Rothschild di Parigi – finanziatori del Sud – durante la guerra civile americana, creando così il debito pubblico. Per arginare il debito causato dal signoraggio, Kennedy intendeva ridare la proprietà della moneta agli USA. Il Presidente sapeva che l’uso delle banconote della FED come presunta valuta legale era contrario alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Già Andrew Jackson aveva svelato l’inganno del signoraggio bancario, invitando a sottrarre alla FED il diritto di stampare moneta: «Il debito nazionale è una frode perpetrata verso gli USA dagli interessi dei banchieri internazionali. La migliore soluzione per il debito nazionale e per la sicurezza sociale è che gli USA smettano di permettere a una società privata di stampare la moneta e di caricarci sopra gli interessi. La Federal Reserve dovrebbe essere abolita come punto di partenza per liberare gli USA da una falsa dipendenza».
Il 4 giugno del 1963, un decreto presidenziale virtualmente sconosciuto, l’Ordine Esecutivo 11110, fu firmato da JFK con l’obiettivo di impedire alla Federal Reserve Bank di prestare soldi a interesse al Governo federale degli Stati Uniti. Con un colpo di penna, il presidente Kennedy decretò che la Federal Reserve, proprietà di privati, sarebbe presto fallita. Dopo la firma, l’Ordine passò al Dipartimento del Tesoro, che acquisì così il potere di «emettere certificati sull’argento contro qualsiasi riserva d’argento, o dollari normali che erano nel Tesoro». Per ogni oncia di argento custodita nella cassaforte del Ministero del Tesoro, il Governo poteva mettere moneta in circolazione,
basandosi fisicamente sui lingotti d’argento. JFK aveva previsto che le nuove banconote, emesse direttamente dal Governo in base alle riserve argentee, si sarebbero diffuse e avrebbero progressivamente eliminato la richiesta delle banconote emesse dalla FED. Come risultato, più di 4 miliardi di dollari in banconote degli Stati Uniti furono messi in circolazione in tagli da 2 e 5 dollari. Le banconote da 10 e 20 dollari degli Stati Uniti non circolarono mai, ma furono comunque stampate dal Dipartimento del Tesoro. Kennedy fece apporre dal Ministero del Tesoro sulle banconote, al posto di “Federal Reserve Note”, la dicitura “United State Note”, cioè banconote degli Stati Uniti d’America e non della FED. Alla sua morte, le banconote furono immediatamente tolte dalla circolazione: così le vecchie banconote stampate dalla Federal Reserve continuarono a fungere da valuta legale della Nazione, senza che i cittadini americani fossero venuti a conoscenza del tentativo di ribellione del Presidente. L’Ordine esecutivo 11110 avrebbe evitato al debito nazionale di raggiungere il livello attuale (virtualmente, quasi tutti i 9000 miliardi del debito federale si sono prodotti dal 1963 in poi), se Lyndon Johnson e ogni presidente successivo lo avessero applicato. Il Governo degli Stati Uniti avrebbe avuto il potere di cancellare il debito senza passare per la mediazione delle Federal Reserve Bank e senza l’aggravio di interessi per creare nuovi soldi. L’ordine esecutivo 11110 dette agli Stati Uniti la possibilità di creare i suoi soldi basandosi sul vero. Solo cinque mesi dopo l’assassinio di Kennedy, la serie dei “Certificati Argentei” non fu più emessa e gli attestati furono tolti dalla circolazione. L’ordine esecutivo, però, non venne mai cancellato, nemmeno in seguito: paradossalmente, dunque, il decreto 11110 è ancora valido. Kennedy aveva osato sfidare i poteri “occulti” celati dietro il Governo degli Stati Uniti e la finanza mondiale, quegli stessi poteri che più volte egli aveva accusato di rappresentare un “pericolo imminente” per la società.
Omicidio massonico? Ai dubbi sollevati da Garrison e Marss sui possibili mandanti dell’omicidio Kennedy si aggiungono le indiscrezioni di alcuni affiliati alla Massoneria, che hanno rivelato ulteriori dettagli su quello che sostengono essere stato non solo un’esecuzione, frutto di un complotto, ma addirittura un sacrificio rituale. Dietro l’assassinio del Presidente, secondo costoro, non vi sarebbero solo MassoneriaIlluminati invischiati nei segreti della Mafia e della CIA, ma addirittura un simbolismo, che farebbe di JFK una vittima rituale. Come riportato da Leo Lyon Zagami18, il produttore, attore e regista
statunitense Damian Chapa19, ha evidenziato numerosi dettagli, passati inosservati ai più: « Kennedy è stato ucciso a Dallas in Dealey Plaza, nello storico distretto West End. Qua era stato eretto il primo tempio massonico, poi distrutto, ma un’epigrafe lo ricorda. La piazza, dunque, funge ancora come tempio “all’aperto”. Alla morte del Presidente, la Massoneria fece erigere un obelisco sormontato da una fiaccola accesa, entrambi noti simboli massonici. Anche al cimitero di Arlington a Washington, dove è stato sepolto JFK, è stata eretta una fiaccola in suo ricordo. JFK è stato ucciso con il sole allo zenit. La data della morte, 22/11, dà come somma 33, numero sacro per la Massoneria come il grado massimo del Rito scozzese. L’autista della Lincoln, William (Bill) Greer, era un massone del 33° grado, come Warren che si occupò delle indagini sulla morte del Presidente (da qui il nome “Rapporto Warren”), e l’allora direttore dell’FBI J. Edgar Hoover».
Inoltre – come emerge dalla controinchiesta segreta della famiglia Kennedy, sfociata poi nel dossier di James Hepuburn The Plot, pubblicato per la prima volta nel 1968 con il titolo Farewell America – Bill Green, cinquantaquattro anni, di cui trentacinque di servizio, al momento del primo sparo non accelerò né cambiò in alcun modo la velocità della Lincoln, quasi ad attendere che l’attentato si compisse come da copione.
La controinchiesta della famiglia Kennedy Il 9 agosto 2011 i quotidiani di tutto il mondo pubblicarono con stupore la notizia che Jackie Kennedy era convinta che Lyndon Johnson avesse architettato l’omicidio di suo marito. Lo sfogo della first lady era stato raccolto nel 1964, a soli quattro mesi dall’attentato di Dallas, dall’amico e principale consigliere del Presidente, Arthur Schlesinger. La conversazione, della durata di quattro ore, venne registrata e conservata nella cassaforte della John F. Kennedy Presidential Library di Boston. Fu resa nota nell’estate del 2011 dalla figlia di Jackie e John, Caroline, decisa a pubblicare il contenuto dei nastri in cambio della soppressione della miniserie The Kennedys da parte della rete ABC. Jackie condivideva i dubbi del cognato Robert che, all’indomani dell’omicidio del fratello John, nascose dei documenti in una cassaforte, in modo che neppure la Commissione Warren – di cui evidentemente non si fidava – potesse accedervi. Bob era convinto, infatti, del coinvolgimento dei poteri forti, mafia (in particolare, Jimmy Hoffa) e servizi segreti. Quando la Commissione informò il mondo che JFK era morto per mano di un pazzo solitario, Lee Harvey Oswald, Bob Kennedy decise di affrontare l’inchiesta con mezzi indipendenti e incaricò un amico fidato, Daniel Moynihan, di indagare sulle trame che avevano portato alla morte del Presidente.
Nacque così un dossier in forma di libro che, grazie anche all’aiuto dell’intelligence francese su mandato personale del presidente Charles De Gaulle, sconfessava i risultati della Commissione Warren, che nel 1976 vennero infatti contraddetti dal Congresso statunitense, che istituì l’HSCA, (House of Representative Select Committee on Assasinations) per investigare sulle reali circostanze della morte di JFK e di Martin Luther King. Come ricorda Stefania Limiti, nell’introduzione della versione italiana di Farewell America edita con il titolo Il Complotto, grazie alla HSCA, «ci fu un piccolo passo in avanti sul golpe di Dallas: la commissione lavorò per due anni, fino al 1978, e poi nel 1979 rese noto il suo rapporto finale nel quale affermava che il presidente Kennedy era stato ucciso da Lee Harvey Oswald ma che un gruppo di uomini legati alla CIA e alla mafia avevano complottato per ottenere quel risultato»20.
Il dossier della famiglia Kennedy, invece, va ben oltre i risultati ottenuti dalla HSCA, ipotizzando il ruolo di pedina inconsapevole di Oswald: costui sarebbe stato addirittura all’oscuro dell’attentato, o forse avrebbe pensato di dovere prendere parte a un’esercitazione. Nel 2003 anche l’avvocato di Lyndon Johnson, Barr McLellan, si disse convinto che il suo cliente avesse partecipato alla cospirazione che aveva portato all’omicidio di JFK, e descrisse il suo assistito come un uomo ricattabile, «senza pietà e violento», disposto a tutto pur di ottenere il potere. Secondo James Hepburn, l’autore di Farewell America, infatti, «Kennedy fu fatto fuori da un “Comitato” costituito da esponenti dei grandi monopoli industriali, essenzialmente miliardari petroliferi texani che controllavano polizie, quadri militari, servizi segreti: niente di nuovo, se non fosse che Hepburn nel 1968, alla vigilia dell’assassinio di Robert Kennedy, fa nomi e cognomi. Indica in Haroldson Lafayette Hunt ed Edwin Walker […] i massimi dirigenti del Comitato che ha pensato e portato a termine l’operazione dell’uccisione di JFK e rivela pure che Edgar Hoveer, capo dell’FBI – e anche di una struttura parallela costituita da killer professionisti e addetta ai lavori sporchi; ad esempio, fa sparire i testimoni scomodi dell’assassinio di Dallas, secondo il racconto di un ex agente alle sue dipendenze, Michael Milan – era al corrente del complotto, così come lo stesso vicepresidente Lyndon Johnson»21.
Le confessioni di John Hunt Ad accreditare ulteriormente la controinchiesta della famiglia Kennedy intervenne Howard Hunt22, ex agente operativo della CIA, personaggio chiave dell’amministrazione Nixon, dello scandalo Watergate e della Baia dei Porci, che in punto di morte raccontò al figlio Saint John le modalità della complotto, rivelando i nomi dei corresponsabili dell’omicidio del Presidente 23:
1. Il vicepresidente Lyndon B. Johnson. Subentrato alla morte di JFK, Johnson si sarebbe in seguito occupato di “riparare” ai danni commessi da Kennedy; eliminò infatti dalla circolazione le banconote emesse dal Dipartimento del Tesoro e fu responsabile dell’ostilità con il Vietnam del Nord nel 196424. 2. J. Edgar Hoover. Direttore FBI durante il mandato di otto presidenti per ben 48 anni, dal 1924 al 1972, già massone del 33° grado, avrebbe dato ordine a un gruppo di fuoco guidato dall’Agenzia di uccidere Kennedy, e in seguito avrebbe organizzato l’insabbiamento del complotto da parte della Commissione Warren offrendo ai media la storia del killer solitario (Lee Oswald). 3. Cord Meyer. Agente della CIA, direttore del dipartimento di disinformazione dell’operazione “Mockingbird”25, era il marito della pittrice Mary Pinchot Meyer, una delle amanti di Kennedy, che venne uccisa un anno dopo la morte di JFK e due anni dopo il “suicidio” di Marylin Monroe. Mary Meyer venne uccisa il 12 ottobre 1964, mentre faceva jogging, con due colpi di pistola, ma sia il movente, sia l’autore del crimine non furono mai accertati26. 4. David Atlee Philips. Veterano della CIA e della Baia dei Porci. Reclutò William Harvey (CIA) e l’esule cubano militante Antonio Veciana. 5. William Harvey. Veterano della CIA e della Baia dei Porci. Collegato ai personaggi della mafia Santos Trafficante e Sam Giancana. 6. Antonio Veciana. Esiliato cubano, fondatore del gruppo appoggiato dalla CIA Alpha 66 appoggiato dalla CIA. 7. Frank Sturgis (vero nome Frank Angelo Fiorini). Agente operativo della CIA, mercenario, veterano della Baia dei Porci e in seguito protagonista dello scandalo Watergate. 8. David Morales. Killer della CIA, veterano della Baia dei Porci. Morales, secondo Hunt, sarebbe stato coinvolto anche nell’omicidio di Robert Kennedy. 9. Lucien Sarti. Assassino corso e trafficante di droga; probabilmente il “cecchino francese”, il secondo a sparare dalla Grassy Knoll.
Riguardo all’ultimo punto, infatti, video amatoriali e altre prove materiali – per quanto censurate dalla Commissione Warren – hanno dimostrato la presenza di un altro cecchino, oltre a Oswald, presente sulla collinetta che avrebbe sparato con un fucile in direzione frontale rispetto a JFK, facendolo così schizzare all’indietro al momento dell’impatto.
Un piano per eliminare Ron Paul Come ipotizzato da Saba, chi ha tentato e tenta ancora di osteggiare l’operato della FED e delle lobby in generale finisce duramente osteggiato, se non addirittura ucciso. Così, il 14 dicembre 2007 il giornalista investigativo, ed ex agente KGB, Daniel Estulin rivelò di essere stato messo al corrente, da fonti interne ai Servizi segreti statunitensi, dell’esistenza di un piano per eliminare il candidato repubblicano Ron Paul. Estulin spiegò che l’esponente della Destra Libertaria si stava spingendo troppo oltre, rischiando di diventare una vera e propria minaccia per i gruppi di potere americani. Uno dei motivi dell’avversione delle lobby per Paul sarebbe stato il suo impegno a sostegno dell’eliminazione della Federal Reserve e del ritorno al sistema aureo: in estrema sintesi, Paul stava cercando di
“resuscitare” il decreto presidenziale 11110, continuando così la battaglia iniziata da Lincoln e portata avanti da JFK. Un’operazione simile alla “pazza idea” proposta, sul serio o per scherzo, in Italia da Berlusconi. L’ex premier italiano, l’1 giugno 2012, dicendosi preoccupato per la crisi economica dell’Italia e per l’andamento del centrodestra, davanti a un centinaio di parlamentari del PDL riuniti in assemblea a Montecitorio, aveva espresso la sua “pazza idea” di chiedere al governo Monti di fare pressione sulla Banca Centrale Europea, affinché diventasse prestatore di ultima istanza; altrimenti, aveva continuato il leader del PDL, l’Italia avrebbe potuto stamparsi l’euro da sola: «Monti deve chiedere che l’Europa stampi moneta. Se così non fosse, sarebbe meglio uscire dall’euro, pur restando nell’Unione europea […]. La Banca centrale o diventa di ultima istanza o si deve porre il problema dell’Europa o meglio della Germania in Europa».
Queste dichiarazioni hanno fatto velocemente il giro del Paese per essere poi ritrattate dallo stesso Berlusconi, che ha parlato di una “battuta”. Se le esternazioni di Estulin riguardo a Paul erano vere, saremmo allora tenuti a credere che le lobby siano state costrette a cambiare strategia una volta reso pubblico il rischio di un attentato, adottando un atteggiamento di censura, come dimostrato dall’esclusione da parte di «Fox News», di Paul dal dibattito tra i candidati avvenuto il 6 gennaio 2008, benché egli fosse indicato come uno dei protagonisti delle primarie nel New Hampshire, che si sarebbero tenute due giorni dopo. La censura incontrata nel 2008 si è ripresentata nei primi mesi del 2012, in merito alle nuove primarie repubblicane, fino all’uscita di scena volontaria di Paul. Nonostante l’uscita di scena dalla campagna presidenziale, secondo il giornalista Jim Tucker, nell’ultima riunione del Gruppo Bilderberg, tenutasi a Chantilly (Virginia) nel giugno del 2012, alcuni membri, seppure di secondo piano, avrebbero espresso il desiderio di eliminare fisicamente Paul e i suoi sostenitori con toni piuttosto coloriti27. Non a caso, la campagna presidenziale 2012 è stata contraddistinta più dagli scandali legati agli affari di Mitt Romney (accusato dai democratici di essere un evasore fiscale e uno speculatore senza scrupoli) e dalle accuse di fallimento mosse a Obama che da proposte elettorali convincenti. Come ha ben scritto Maurizio Molinari ancora nel pieno della propaganda, «su entrambi i fronti, la strategia elettorale è basata sull’esaltazione dei difetti dell’avversario»28. NOTE
1. Governatore della Banca d’Inghilterra dal 1928 al 1941. 2. Jack London, Il Tallone di ferro, Newton&Compton 2012, p. 66. Titolo originale: The Iron heel, 1908. 3. Ex presidente della Banca Mondiale (1997-2000) e premio Nobel per l’Economia. 4. Capo del governo locale di Hong Kong; discorso tenuto a Davos il 28 gennaio 2012. 5. Larry Summers, già economista capo della Banca Mondiale, citazione del 1991. 6. Jim Garrison, JFK, sulle tracce degli assassini, Sperling & Kupfer edizioni, Piacenza 1992. Titolo originale: On the Trail of the Assassins, 1988. Dal saggio di Garrison, Oliver Stone trasse il film con Kevin Kostner, JFK. Un caso ancora aperto, 1991. 7. Shaw venne giudicato non colpevole. 8. Nel 1968, dopo sette anni passati al Pentagono. 9. Nel 1963 JFK firmò gli accordi contro i test nucleari. Alcuni ricercatori sostengono che JFK venne traumatizzato dall’aborto della moglie Jackie avvenuto in seguito alla visita a una centrale. 10. Membro dell’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata di Ginevra e dell’Advisory Board di IDUST. 11. John John aveva espresso l’intenzione di scendere in politica seguendo le orme del padre e dello zio. 12. Marco Saba, Bankenstein, 2006, Nexus edizioni, p. 65. 13. Intervista di Simone Leoni a Salvatore Tamburro, in «XTimes», n. 43, pp. 42 e ss. 14. Maurice Allais, La crisi mondiale dei giorni nostri, 1961-1968. Allais, fisico ed economista francese, premio Nobel per l’Economia nel 1988, ha denunciato il signoraggio bancario in La crisi mondiale dei giorni nostri. http://www.signoraggio.com/ volantini/la_crisi_mondiale_dei_giorni_nostri.pdf 15. I soci della Banca d’Italia con relative partecipazioni, sono i seguenti gruppi: Gruppo Intesa-San Paolo, Gruppo Capitalia, Gruppo Unicredit, Assicurazioni Generali, INPS, Banca Carige, BNL, Monte dei Paschi di Siena, Gruppo La Fondiaria, Gruppo Premafin, Cassa di Risparmio di Firenze, RAS. 16. Marco Saba, op. cit., p. 68. 17. «XTimes», 43, 2012. 18. Leo Lyon Zagami, Confessioni di un Illuminato, volume I, Uno editori, Torino 2012, pp. 192-193. 19. Chapa aveva già rivelato, alla morte di David Carradine, un possibile movente dietro quella che sarebbe stata una vera e propria esecuzione: Carradine – trovato morto il 4 giugno 2009 nella sua stanza d’albergo a Bangkok – secondo Chapa stava “indagando” su alcune società segrete orientali legate all’OTO e alla “via della mano sinistra” (che praticano il tantrismo). Le indiscrezioni di Chapa sono state confermate da altri amici di Carradine, ma la motivazione della sua scomparsa, “passata” come un “incidente” causato da una pratica sessuale estrema, rimane oscura. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=6000 20. Stefania Limiti in: James Hepburn, Il complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull’omicidio di JFK, a cura di Stefania Limiti, Nutrimenti 2012, p. 23. Titolo originale: James Hepburn, Farewell America, 1968. 21. Ivi, pp. 13-14. 22. Ivi. pp. 15 e ss. http://www.comedonchisciotte.net/modules.php?name=News&file =article&sid=908 23. Erik Hedegaard, The Last Confession of E. Howard Hunt, in «Rolling Stone», aprile 2007. 24. http://it.wikipedia.org/wiki/Lyndon_B._Johnson 25. Con l’operazione Mockingbird, promossa dall’allora direttore della CIA Allen Dulles, l’Agenzia, dal 1953 al 1970 circa, pagò dei giornalisti americani e stranieri per manipolare e disinformare l’opinione pubblica. Il programma aveva infatti come scopo quello di influenzare psicologicamente la popolazione americana, per mezzo di propaganda mirata su pubblicazioni come «Selezione» (Reader’s Digest), «Life», «Time» e altri media statunitensi. 26. Ben Bradlee, il futuro direttore del «Washington Post», che avrebbe denunciato lo scandalo Watergate nel 1972, era il cognato di Mary, avendone sposato la sorella Tony. Nel suo libro di memorie ha raccontato che la notte della morte di Mary ricevette due telefonate «che conferirono al delitto una
nuova dimensione». La prima, del tutto inaspettata, da Parigi, fu di Pierre Salinger, l’ex portavoce del presidente Kennedy; la seconda, invece attesa, da Tokio, fu di Anne Truitt, una scultrice, la migliore amica di Mary. La Truitt gli chiese di recarsi d’urgenza a casa di Mary per recuperare «un importante diario». Scossi, Ben e Tony Bradlee lo fecero la mattina successiva, e vi trovarono, con loro sorpresa, James Angleton, il direttore del controspionaggio della CIA: i tre rinvennero il diario, lo lessero, si resero conto del rapporto segreto tra Mary e John Kennedy, ne giudicarono il contenuto delicato e lo distrussero. Come accadde per la Monroe, la tragica e misteriosa scomparsa di Mary generò teorie opposte: tra le varie ipotesi, la più accreditata sosteneva che l’omicidio della Meyer fosse stato commissionato per eliminare le prove a sostegno del coinvolgimento della CIA nell’omicidio di JFK. Come amante del Presidente e moglie del Direttore del Dipartimento di Disinformazione, la donna sarebbe stata al corrente di segreti scottanti. 27. Secondo Blondet si potrebbe trattare del neocon Richard Perle. Si veda: Maurizio Blondet, Rothschild lascia l’Europa. Il Guscio Svuotato, 3 giugno 2012, su www.effedieffe.com e http://www.infowars.com/insider-bilderberg-members-share-ronpaul-death-wish/ 28. Maurizio Molinari, in «La Stampa», 3 settembre 2012.
IL “TRATTAMENTO” MILOSEVIC E LE GUERRE DELL’IMPERO: DALLA SERBIA ALLA LIBIA «I sicari dell’economia sono professionisti ben retribuiti che sottraggono migliaia di miliardi di dollari a diversi Paesi in tutto il mondo. […] I loro metodi comprendono falso in bilancio, elezioni truccate, tangenti, estorsioni, sesso e omicidio. Il loro è un gioco vecchio quanto il potere, ma che in quest’epoca di globalizzazione ha assunto nuove e terrificanti dimensioni. Lo so bene: io ero un sicario dell’economia». (John Perkins1) «Io non odio l’America. Mi oppongo alla politica internazionale americana perché è contraria a una pace globale, contro la libertà della gente e dei piccoli Stati. E soprattutto si oppone alla stabilità del mondo». (Muhammar Gheddafi2) «In questi quindici anni io ho avuto modo di incontrare più volte Gheddafi e di legarmi a lui con una vera e profonda amicizia: al leader riconosco una grande saggezza». (Silvio Berlusconi3) «A che cosa servono le Nazioni Unite, se 5 Stati hanno il diritto di vita e di morte? A cosa serve che noi veniamo a fare i nostri discorsi una volta l’anno alle Nazioni Unite, se nella sala accanto ci sono 5 Stati che decidono per voi che siete seduti qui. Voi 191 Stati siete solo un ornamento in questa sala». (Muhammar Gheddafi all’ONU) «I rapporti che l’Italia ha con Gheddafi non li ha nessun altro Paese […] puntando il dito contro la Libia non si ottiene nulla. Noi non l’abbiamo mai fatto, e anche per questo possiamo raggiungere dei risultati. Gheddafi ci apre le porte di tutta l’Africa». (Franco Frattini4) «La conferma del CNT sulla morte di Gheddafi è un dato estremamente importante. Ascolteremo le parole del presidente Abdul Jalil. Credo che se questa fosse davvero la soluzione sarebbe una grande vittoria del popolo libico». (Franco Frattini5)
La “non guerra” in Libia Se nella gestione della crisi economica Obama è dovuto scendere a compromessi con le lobby che ne avevano finanziato la prima campagna elettorale, privilegiando Wall Street e salvando così le grandi Banche dal fallimento a discapito dei consumatori6, sotto il suo primo mandato abbiamo assistito anche a incomprensibili scelte in politica estera: prime tra tutte, l’intervento in Libia (che lo stesso Obama ha definito una “non guerra”) e la conseguente uccisione del colonnello Muhammar Gheddafi. Sebbene – come vedremo più avanti – alcuni ricercatori abbiano additato il ruolo da doppiogiochista che il Colonnello avrebbe svolto in virtù delle sue
origini ebraiche, fino all’ultimo egli si è mostrato un risoluto oppositore del capitalismo occidentale e dell’integralismo islamico, ed è stato al contempo accusato di antisemitismo. Gheddafi nell’ultimo ventennio ha rappresentato, sia sotto il governo di centrosinistra, che sotto quello di centrodestra, un partner importante per l’Italia. Fu infatti il centrosinistra a promuovere la “normalizzazione” dei rapporti con la Libia. Non solo. Il Colonnello portava petrolio, gas, affari, con le opere infrastrutturali da costruire nel suo Paese, e ingenti capitali che, attraverso la finanziaria di famiglia o il fondo sovrano libico confluivano in Italia per acquisire quote di Unicredit, Finmeccanica o Juventus, com’era accaduto in passato con la FIAT. Nel bene e nel male, quell’uomo preso a calci e ucciso con un colpo alla tempia sinistra, è stato uno dei protagonisti assoluti della storia del XX secolo.
La cospirazione della CIA parte da… Londra Quasi trent’anni fa, in un’intervista video rilasciata alla principessa giapponese Kaoru Nakamaru, Gheddafi prevedeva che la politica espansionistica angloamericana avrebbe portato alla militarizzazione non solo della Libia, ma dell’intero Medio Oriente: «L’America vuole eliminare il Terzo Mondo e sottomettere l’intera zona sotto la sua influenza. […] Lo puoi vedere chiaramente, la CIA organizza cospirazioni in continuazione, contro i regimi nazionalisti o populisti, contro l’indipendenza e la libertà della povera gente, dappertutto»7.
Le trame cospirative della CIA avrebbero avuto inizio, secondo Gheddafi, nel 1984 a Londra. L’episodio cui si fece riferimento vide l’uccisione di una poliziotta e il ferimento di una decina di persone a causa di alcuni spari provenienti dall’ambasciata libica. Secondo la versione ufficiale, ai diplomatici libici non sarebbe andata giù la manifestazione di protesta contro Gheddafi organizzata dal Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia. Questo episodio e molti altri, negli anni a seguire, fecero teorizzare a Gheddafi l’esistenza di una cospirazione internazionale, ordita dalla CIA, a favore dell’imperialismo americano e della causa sionista. La strategia americana, che avrebbe trascinato nel suo piano anche il Regno Unito, sarebbe stata quella di tenere “sotto assedio” permanente il governo libico, in modo da separare la rivoluzione libica dagli altri Paesi e impedire le relazioni del raiss con la diplomazia internazionale.
Il “trattamento” Milosevic
Bisogna ora capire perché l’ex alleato Gheddafi, accolto soprattutto da Italia e Francia nel lusso più sfrenato, sia diventato all’improvviso un nemico da eliminare: perché gli sia stato applicato lo stesso “trattamento” riservato al presidente serbo Slobodan Milosevic. La motivazione dei diritti umani come scopo primario per l’intervento non regge, alla prova dei fatti, in quanto agli alleati europei Gheddafi faceva comodo, quando “i suoi squadroni della morte” uccidevano decine di esuli – a partire dagli anni Ottanta – in Europa, negli Usa e in Medio Oriente, quando il Paese praticava la pena di morte, quando i dissidenti venivano arrestati senza processo e le manifestazioni studentesche erano represse nel sangue. Quali interessi si nascondono realmente, dietro i proclami umanitari sbandierati dai media per mesi? La strategia del ribaltamento della diplomazia8 ha precedenti nel conflitto nei Balcani, quando la “guerra giusta” era contro la Serbia e il “nemico dell’anno”9 era il presidente Slobodan Milosevic. Come ha fatto notare Enrico Mentana, il modello adottato contro Gheddafi è stato proprio quello del cosiddetto «“trattamento Milosevic”, usato dodici anni fa precisi: improvvisamente si decise che il presidente serbo era da rimuovere, ed esplose l’emergenza Kosovo. Sto ancora aspettando un resoconto reale delle fosse comuni, che dovrebbero documentare la pulizia etnica di Milosevic ai danni dei kosovari. Intanto, però, con il beneplacito della comunità internazionale, al vertice del nuovo Kosovo ci sono trafficanti di armi e droga»10.
Similmente, in Iraq, dopo l’uccisione di Saddam si è insediato un governo fantoccio, che garantisce la “democrazia” a corrente alternata secondo la formula decisa dagli USA; ovvero, gli appalti e i contratti per la ricostruzione e lo sfruttamento dei campi petroliferi avvengono dietro le direttive di Washington. Come fa ancora notare Mentana, le risorse irachene, al pari di quelle serbe, sono ora “in “buone mani”. Stessa dinamica in Libia, dove la Banca Centrale pubblica è stata privatizzata dai ribelli, il progetto del dinaro oro, è stato abbandonato, le risorse del suolo libico (petrolio, gas, acqua) sono state ripartite “equamente” tra i Paesi invasori, il governo è passato nelle mani dei Fratelli Musulmani.
Perché mentiamo Come insegnava Aldous Huxley, in democrazia non importa la realtà in sé, quanto l’immagine veicolata dall’alto di essa, ovvero la forma che i manipolatori impongono alle masse tramite i mezzi di informazione, la televisione in primis.
In questo senso, il saggio Massoneria e sette segrete11 offre un’inquietante quanto documentata interpretazione alternativa alla guerra nei Balcani: «È ad esempio interessante rilevare come nella guerra del Kosovo si sia fatto ampio ricorso all’impiego della tecnica televisiva di eliminazione di ogni piano generale a favore della polarizzazione ripetitiva su un piano particolare, in modo da massimizzare l’importanza di quest’ultimo e indurre nello spettatore la sostituzione dei due piani. La ben collaudata teleguidabilità delle reazioni delle folle ha fatto seguire, nella fattispecie, una mobilitazione massiccia di sostegno ai kosovari, mentre tragedie di dimensioni ben maggiori, come il Sudan o il Rwanda rientravano, quasi inosservate, nel rumore di fondo»12.
Su questo punto concorda addirittura lo stratega polacco Zbigniew Brzezisnki, il quale a proposito della politica estera dell’amministrazione Clinton, ha notato che «il contrasto tra il coinvolgimento statunitense in Iugoslavia e la reticenza in Africa non passò inosservato. L’impressione di indifferenza da parte dell’America per l’Africa venne aggravata dalla prolungata passività di fronte al genocidio che devastò il Rwanda dal 1994 al 1995. La comunità internazionale di fatto rimase a guardare. […] Per contro, Clinton reagì con grande risolutezza ed efficienza alla crisi nei Balcani, questione che nella fase iniziale ereditò da Bush»13.
La strategia di Washington nei Balcani complicò addirittura i rapporti con la Russia, già aggravati dall’espansione della NATO. Nel 2004, quando Clinton fu costretto a lasciare la presidenza, il comando delle forze NATO in Bosnia passò dagli Stati Uniti all’Europa, a riprova che «la decisione di Clinton di inviare le truppe in Bosnia, compiuta a dispetto della risoluzione del Congresso a maggioranza repubblicana, e poi di usare la forza per costringere la Serbia a ritirarsi, fu un elemento critico per la stabilizzazione della ex Iugoslavia»14.
Epiphanius analizza ampiamente la progressiva demonizzazione della Serbia attraverso una guerra altrettanto violenta, fatta di “bombardamenti” e di notizie anche false e pilotate a senso unico «ricorrendo anche a diffusione di immagini, come quelle riprese da un satellite del “massacro” sul campo da calcio di Srebenica nel 1995, funzionale in quel momento a distogliere l’attenzione dall’esodo forzoso dei serbi dalla Krajina manu militari a opera dei croati»15.
Secondo l’autore, la manipolazione a senso unico dei media avverrebbe dietro specifiche disposizioni governative, in modo da creare, in base alle esigenze, un clima di pregiudizio e di odio razziale, culturale ed etnico contro il nemico di turno. A occuparsi di questo genere di indottrinamento sarebbero delle «società private specialistiche che, su incarico del governo americano, nella vicenda jugoslava hanno
operato in direzione di “influssi” pilotati sulla popolazione occidentale. Si tratta principalmente della Hill&Knowloton e della famosa Ruder&Finn, legate (il solito caso) a centri di potere come il CFR, il World Affairs Council, i Circoli Bilderberg e la Rockefeller Foundation, oltre, naturalmente, alla CIA o alla DIA (versione militare della CIA), strutture tutte in grado di influenzare in modo efficacissimo l’opinione pubblica attraverso un accurato orientamento di giornalisti, uomini politici, club, università ecc. Fu una di queste società, la Ruder&Finn, a creare il montaggio dei “campi serbi di pulizia etnica” accostandoli abilmente a quelli nazionalsocialisti, in un transfert di valenze che permise di porre Milosevic e compagni sul piano di Hitler, e di far propendere l’influente comunità ebraica americana ad allinearsi a fianco di bosniaci e albanesi»16.
Ad ammettere il ricorso a tecniche di condizionamento psicologico per indirizzare l’opinione pubblica verso le direzioni “indicate” dal governo americano è stato lo stesso ex direttore della sezione Affari pubblici della Ruder&Finn, il quale ha spiegato che, una volta diffuse notizie negative sul conto di qualcuno, anche se sfacciatamente false, la smentita non sortisce quasi alcun effetto. Così, per fare andare l’opinione pubblica verso una certa direzione basta creare dei pregiudizi attraverso la diffusione di notizie pilotate, che facciano presa sul lato emotivo delle persone, perché, come ha ammesso James Harff, «noi sappiamo perfettamente che la prima affermazione è quella che conta. Le smentite non hanno alcuna efficacia». Una volta innescato il meccanismo di diffamazione, la smentita non serve a cancellare l’impressione emotiva e il dubbio suscitati nei confronti della vittima della denigrazione. Il titolare della Ruder&Finn, David Finn, si è spinto ancora oltre, scrivendo, nell’articolo Perché mentiamo: «Dire la verità non è uno dei dieci comandamenti». Si può ben comprendere come, sulla base di queste premesse “morali”, l’etica giornalistica di questi signori non solo si sconfessi da sé, ma getti ulteriori dubbi sull’arte dell’informazione. Milosevic non è stato in grado – anche per la mancanza, allora, di mezzi adatti quali Internet – di difendersi pubblicamente e si è dovuto arrendere alla potenza dei media internazionali. Pochi mesi prima della sua misteriosa morte17, durante il processo, egli dichiarò, con feroce realismo: «[…] se questo Tribunale per quanto illegale, riesce anche a ignorare le falsità clamorose contenute negli atti di incriminazione, tanto vale che leggiate la sentenza contro di me; la sentenza, che siete stati ammaestrati ad emettere. Se la Corte non si rende conto dell’assurdità del rinvio a giudizio letto ieri in aula, dove si sostiene che la Jugoslavia non è stata vittima di un attacco della NATO, ma ha aggredito se stessa, è consigliabile risparmiare tempo e passare direttamente alla sentenza. Leggetela e non annoiatemi […]»18.
Questo avveniva nel 2005. Le requisitorie dell’ex Presidente serbo si persero nell’etere, così come il suo timore espresso al Ministro degli Esteri russo, che lo
stessero avvelenando in carcere. Neppure il referto positivo al Rifampicin portò a un maggiore controllo: Milosevic era stato scaricato molto tempo prima.
Un criminale… a dorso d’asino Fino a quel momento, infatti, avevano viaggiato notizie a senso unico. In Serbia si arrivò addirittura a parlare di “atti di cannibalismo”: a ribattere la notizia fu l’Associated Press. I serbi si sarebbero dovuti trasformare secondo la volontà di Washington in famelici cannibali. Il caso più emblematico di notizie sfacciatamente false, create e diffuse ad arte, però, è stato documentato da Srpska Mreza e poi da Alexandre Del Valle in Guerres contre l’Europe19. Senza preoccuparsi di confermare le testimonianze, rigorosamente non serbe, il Tribunale Penale Internazionale20 spiccò il mandato di cattura per il famigerato criminale di guerra, meglio conosciuto come “Gruban”. Il Tribunale si era appellato al principio secondo il quale «non si esigono prove per ciò che è di pubblica notorietà». Tale principio, tutt’altro che dogmatico avrebbe rischiato di creare un tragico precedente, se non si fosse scoperto che Gruban, in realtà, non era mai esistito: era semplicemente un personaggio del romanzo poliziesco di Miodrag Bulatovich Un eroe a dorso d’asino21. Il tutto era stato architettato dal giornalista di guerra Nebojsa Jevric, come dimostrato da Srpska Mreza22. Ora, come abbia fatto un personaggio, frutto della fantasia di uno scrittore, a sgusciare fuori dalle pagine di un libro – anche se per la burla di un giornalista – per assumere consistenza e infestare con la sua presenza il Tribunale Penale Internazionale, è un bel dilemma. Lo è, ancora più se si tiene conto che Gruban era stato collocato al 21° posto della lista dei criminali di guerra… Commentando questo aneddoto, Epiphanius invita il lettore a riflettere su come, nell’era dell’informazione digitale, qualsiasi bufala può prendere forma, alimentarsi delle paure collettive, essere presa per buona ed essere pilotata per manipolare le coscienze; soprattutto se quelli che dovrebbero essere i “controllori” non si curano – per malizia o ingenuità – di accertare le fonti e le testimonianze riguardanti le notizie che vengono diffuse tra la popolazione.
Tra realtà e manipolazione Come non si è tenuto conto delle testimonianze serbe in merito all’esistenza di Gruban, così sono state scartate anche le informazioni che provenivano dagli stessi comandanti ONU o ex NATO, semplicemente perché considerate “scomode”.
Non sono state prese, ad esempio, in considerazione le testimonianze dirette di comandanti ONU della zona di Sarajevo come il generale britannico Sir Michael Rose o il generale MacKenzie, che sostenevano «le pesantissime responsabilità assunte dai miliziani musulmani bosniaci nell’assassinio, mediante cecchini e mortai, di centinaia di loro compatrioti, con l’unico fine di farne ricadere la responsabilità sui serbi». Un tipo di sacrificio “necessario” per legittimare la guerra. Allo stesso, modo «il giudice trentino Giovanni Kessler, presente a Pristina all’inizio dei bombardamenti in veste di vicecapo della commissione italiana dell’OCSE23 in Kosovo, aveva pubblicamente dichiarato che nessuna strage – e men che meno genocidio – era stata fino a quel momento segnalata». Una delle testimonianze realistiche più dure da digerire è quella del generale tedesco Heinz Loquai – già capo dei consiglieri militari tedeschi dell’OCSE di Vienna – che in un’intervista, pubblicata nel maggio del 2000 da «LiMes» dichiarava: «Conosco bene i rapporti sulla situazione provenienti dagli Esteri e dalla Difesa tedeschi: prima del 24 marzo 1999, prima dell’inizio della guerra non si fa affatto cenno a pulizie etniche di massa o a genocidio in atto […]. La catastrofe umanitaria è iniziata dopo gli attacchi aerei della NATO. E le catastrofi umanitarie sono state due: prima quella degli albanesi durante la guerra e poi quella dei serbi, cacciati dal Kosovo dopo la fine della guerra. In breve: la NATO ha impedito una catastrofe umanitaria e fittizia, provocando due catastrofi umanitarie reali»24.
Versione, questa, confermata dallo stesso Lord Peter Carrington, ex Segretario NATO (1984-1988) e fervente sostenitore del mondialismo.
La strategia della “cintura verde” Secondo il ricercatore geopolitico Alexandre Del Valle, che ha raccolto numerose autorevoli testimonianze in merito, dietro i conflitti in Serbia e Iraq vi sarebbe la cosiddetta strategia della “cintura verde”, ovvero il tentativo di frenare la crescita strategica della Russia, secondo uno schema di accerchiamento dell’Eurasia e dei suoi alleati che ritroviamo teorizzato nella Grande Scacchiera di Brzezisnki. In questo senso, il bombardamento della Serbia sarebbe servito, a Washington, da “contenimento” dell’ex blocco comunista-slavo-ortodosso in una vera e propria guerra fredda sotterranea, che si giocherebbe ancora oggi tra la Casa Bianca e il Cremlino (e Pechino) per il controllo delle “vie del petrolio”. Così, nel 2001, Del Valle argomentava che «anche la guerra in Cecenia è in gran parte il risultato di una guerra molto più complessa e planetaria, la guerra tra Washington e Mosca per il controllo delle vie del petrolio, il “nuovo Grande gioco” del secolo
XXI. […] Questa strategia chiamata anche della “cintura verde” ha come scopo di impedire alla Russia di ridiventare un attore geostrategico maggiore nel mondo e farle perdere i suoi punti d’appoggio in particolare nel Caucaso, in Asia Centrale e nei Balcani»25.
Alla vigilia dell’11 settembre, Del Valle prevedeva che i segnali di distensione lanciati dall’amministrazione Bush jr. fossero solo di facciata e che da lì a poco «l’arroganza americana»26 avrebbe trovato nuovi obiettivi per continuare la «nuova guerra fredda», che sarebbe scoppiata proprio con la guerra del Kosovo, «vero schiaffo per Mosca e avvertenza per Pechino, che continua a credere che il bombardamento dell’ambasciata cinese in Serbia non fu un errore e che non ha dimenticato “l’offesa”»27.
Ma la Russia non ci sta «Se dovesse scoppiare un conflitto [gli USA; N.d.A.] potrebbero attaccare rapidamente e impunemente il territorio della Russia, e la Russia non avrebbe i mezzi per montare una risposta. […] È finita l’epoca della Mutua Distruzione Assicurata (MAD), […] infatti, la quantità di bombardieri strategici russa è crollata del 39%, quella dei missili balistici intercontinentali e dei sottomarini con missili balistici dell’80%. […] Anzi, lo scadimento dell’arsenale russo è anche peggiore di quel che dicono le cifre».
Questa riflessione è stata pubblicata nel 2006 in un articolo del prestigioso periodico «Foreign Affairs» 28 – organo del Council on Foreign Relations, il think tank finanziato dai Rockefeller dal quale sono uscite figure come Brzezinsky, Kissinger e l’ideologo dello “scontro di civiltà” Samuel Huntington – e lascia percepire, al di là del gelido tono geopolitico e militare, il radicato odio dei Poteri Forti mondialisti verso quello che, sempre di più, appare essere il maggior ostacolo strategico all’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale: la Russia postcomunista. Eppure, ancora a metà degli anni Novanta, sembrava davvero che il vecchio sogno anglosassone della conquista dell’Heartland – la piattaforma euroasiatica, da cui potere dominare il mondo, mediante la dissoluzione o il ridimensionamento definitivo della Russia – fosse vicinissimo a realizzarsi, complice la crisi politica, sociale e soprattutto spirituale, che il mondo postcomunista stava attraversando. Al momento del crollo dell’impero sovietico, infatti, il risveglio delle “nazionalità” e l’implosione della struttura federale avevano portato la Russia a perdere non solo l’Asia Centrale e gran parte della regione caucasica, ma anche quell’Ucraina che, oltre a essere un Paese di quasi 60 milioni di abitanti, è anche la culla d’origine della Rus. Come affermava, già nel 1997, Zbigniew Brzezinsky ne La Grande Scacchiera, «la Russia senza l’Ucraina […] diverrà un impero sostanzialmente
asiatico, probabilmente trascinato in conflitti usuranti con le nazioni dell’Asia Centrale»29. Il Grande Gioco dell’Occidente, pertanto, sembrava giunto a buon punto. Per questo motivo, da parte occidentale, la pressione per staccare dall’area d’influenza russa le regioni dell’ex-Impero è stata incessante, e ha inaugurato di fatto, proprio in questo contesto, quell’efficace strategia delle “rivoluzioni” controllate poi largamente utilizzata, più di recente, per rovesciare i vecchi regimi arabi. Come abbiamo visto, già a partire dal 2003, grazie ai fondi e alle cosiddette ONG come la Open Society, sponsorizzate dal magnate americano George Soros, ma anche da altre fondazioni “private” come il National Endowment For Democracy o la tedesca Konrad Adenauer Foundation, le cosiddette “rivoluzioni colorate” consegnavano all’Occidente sia la Georgia che l’Ucraina, in prospettiva di una futura adesione dei due Paesi ex sovietici alla NATO30. Ancora più drammatico è stato, durante l’era del “presidente alcolizzato” Boris Eltsin, quel vero e proprio saccheggio delle risorse nazionali russe messo in atto da ex oligarchi comunisti attivamente finanziati dall’Occidente per consegnare al “grande capitale” cosmopolita i “gioielli di famiglia” del Paese euroasiatico. Il più noto fra costoro, quel Mikhail Khodorkovsky31 poi condannato nell’era Putin per frode ed evasione fiscale, è stato, negli anni Novanta, il protagonista della privatizzazione del gigante petrolifero nazionale Yukos, nonché della svendita del patrimonio minerario russo, grazie alla creazione di società fantasma domiciliate in paradisi fiscali esteri e al supporto finanziario dei Rothschild. In cambio dell’aiuto occidentale, naturalmente, Khodorkovsky ha finanziato la nascita a Londra, nel 2001, di una Open Russia Fondation – sul modello della Open Society di Soros – finalizzata all’esportazione della “democrazia” nell’immenso Paese euroasiatico. Al tempo stesso, altri oligarchi (tutti successivamente messi sotto processo da Putin) svendevano altre risorse nazionali: Berezovsky (Aeroflot), Abramovich (Banca Most) o Chernoy (Trans World Metals); regolarmente fuggiti qualche anno dopo dalla Russia, per riparare in Gran Bretagna o (in virtù della loro, spesso lontana, ascendenza ebraica) in Israele. Intanto, mentre la svendita delle risorse economiche proseguiva indisturbata, esplodeva puntuale nel Caucaso il terrorismo ceceno di ispirazione salafita (quello, per intenderci, imparentato con la chimerica e onnipresente al-Qaeda) che avrebbe insanguinato per 15 anni tutta la Russia: un terrorismo, le cui connivenze esterne e interne alla Russia stessa non sono state mai del tutto chiarite. Di certo, sia le Autorità che l’opinione pubblica del Paese euroasiatico hanno
sempre puntato l’indice contro alcune figure di oligarchi (spesso in combutta con la mafia), che sembrano avere avuto un ruolo tutt’altro che marginale nell’insorgere del fenomeno terrorista ceceno. In particolar modo, l’attenzione delle autorità russe si è spesso concentrata sulla figura di Boris Berezovsky, oligarca dell’epoca Eltsin, poi riparato a Londra e in Israele per sfuggire alla giustizia moscovita, il cui ex capo delle guardie del corpo è stato, per lungo tempo, il superterrorista Aslan Maskhadov, responsabile, tra l’altro, della strage nella scuola di Beslàn32. È a partire dal 1999, tuttavia, che la situazione della Russia comincia a mutare fino a raggiungere obiettivi letteralmente inimmaginabili anche solo fino a qualche anno prima. Il 1999, infatti, è l’anno in cui il logorato presidente Eltsin offre la carica di Primo Ministro a un personaggio allora semisconosciuto di nome Vladimir Putin.
Vladimir Putin Putin, divenuto presidente della Federazione russa solo un anno dopo (2000), è una figura dal passato complesso (ex agente del KGB), che si è però dimostrata capace di giocare le sue fortune politiche scommettendo sul rimanente orgoglio del popolo russo: un popolo umiliato e prostrato, ma ancora memore del suo destino di superpotenza e – particolare non di secondo piano – atavicamente avverso all’Occidente e al suo espansionismo. In politica estera, tuttavia, Putin dimostra una notevole astuzia: dopo l’11 settembre, si presenta come alleato dell’Ovest nella “guerra al terrorismo”, e ha così la possibilità di scatenare una spietata rappresaglia contro la guerriglia cecena: sarà una guerra combattuta all’asiatique e contrassegnata da episodi di barbara ferocia da ambedue le parti, ma che, di fatto, annichilirà il fenomeno terrorista attirando sulla figura di Putin la riconoscenza del popolo russo, che lo riconfermerà, nelle elezioni del 2004, alla carica di presidente della Federazione. Pur strizzando l’occhio all’Occidente, Putin si è dimostrato però da subito ben cosciente di quali siano i veri nemici della nuova Russia: egli, contrariamente ai capi di Stato europei costretti dalla loro strategica debolezza ad assecondare ogni volere delle lobby mondialiste, ha avuto dietro di sé un Paese immenso e ricchissimo di risorse, con un popolo che, lentamente ma inesorabilmente, ha conosciuto una resurrezione economica, identitaria e spirituale senza precedenti. In pochi anni, infatti, Putin si riappropria dei “gioielli di famiglia” strappandoli dalle mani degli oligarchi (oligarchi, che i media occidentali eleveranno subito al rango di martiri della democrazia, vittime del “nuovo zar”). Approfittando del rialzo del prezzo del petrolio, inoltre, Putin riesce persino
nell’impresa di saldare gli enormi debiti contratti dalla precedente amministrazione Eltsin, rifondendo nel 2005 quasi 15 miliardi di dollari al Club di Parigi (un gruppo di circa una dozzina di Paesi occidentali debitori). Con l’estinzione del debito, di fatto, la Russia diventa uno dei pochi Paesi realmente sovrani del mondo contemporaneo. Questo processo, naturalmente, non può essere tollerato dai poteri occidentali e mondialisti, che cominciano a vedere nella Russia un pericolo senza precedenti per i loro piani. Di fatto, questa crescente “divaricazione d’intenti” porta inevitabilmente all’implosione dell’innaturale “alleanza” tra Russia e Occidente, con il Paese euroasiatico divenuto protagonista di una politica del tutto indipendente da quella della NATO, specie nel vicino “giardino di casa” di Mosca, ovvero il Medio Oriente e l’Asia Centrale. Già nel 2005, infatti, Putin comincia a fornire tecnologie militari alla Siria (gli altamente tecnologici e difensivi missili Iskander), suscitando le ire di Israele, e, sempre nello stesso anno, procura i micidiali missili difensivi TORM1 all’Iran (con l’evidente obiettivo di rendere la vita difficile a Israele e agli USA, nel caso di un attacco alla Persia). È sempre la Russia, inoltre, a supportare il piano nucleare iraniano (soprattutto la costruzione del reattore di Bushehr), che viene sempre più sbandierato da Israele e dall’Occidente come possibile casus belli per giustificare un attacco al Paese mediorientale, divenendo di fatto il “grande protettore” di tutti quei Paesi che, per un motivo o per l’altro, si oppongono al progetto mondialista occidentale. A rendere però unica (e ancora più pericolosa, nell’ottica del NWO) la politica russa degli ultimi anni è, paradossalmente, un qualcosa che ha poco a che fare con la geopolitica: l’opera di resurrezione identitaria della Russia, intrapresa per volontà stessa del governo moscovita. A differenza dei politici occidentali, infatti, Putin e il suo entourage comprendono molto bene che la forza di una nazione non è costituita solo dal suo potenziale militare o economico, ma anche dalla sostanza morale del popolo33. Il centro di questa resurrezione identitaria risiede, tuttavia, nel rapporto di collaborazione stretto da Putin con le tradizioni religiose del continente-Russia, a partire da quella Chiesa ortodossa, senza il cui secolare influsso spirituale è, di fatto, impossibile anche solo concepire un’anima russa. Ed è in questa direzione che va letta la crescente collaborazione tra il Patriarcato ortodosso di Mosca e il Cremlino che, riproponendo – con tutti i suoi pregi e i suoi limiti – certi tratti del cesaro-papismo bizantino, ha avuto comunque l’effetto di costituire un “fascio di forze” politico-spirituali e un “centro” di riferimento per tutta la nazione.
L’influsso dell’Ortodossia, infatti, permea da secoli il mondo slavo in maniera molto diversa da come le chiese occidentali attraggono i propri fedeli; a differenza di quanto accade in Occidente, infatti, per l’anima russa il legame con l’Ortodossia è, prima ancora di un’adesione “razionale” a una morale o a un catechismo, un senso di appartenenza a un universo di simboli, che per certi versi trascende la sfera dogmatica: si tratta, in sostanza, come ha efficacemente detto qualcuno, di un «influsso spirituale veicolato dal latte materno». Al di là del giudizio di valore sui metodi e sulla figura di Putin, va tuttavia riconosciuta all’attuale nomenclatura russa la capacità di comprendere la natura non solo economico-strategica, ma anche spirituale del conflitto che oggi cova nel mondo; cosa che, peraltro, non sfugge nemmeno ai fautori del Nuovo Ordine Mondiale. Sono forse da leggere in questo senso – ovvero quello di un attacco ai “simboli” della spiritualità cristiano-orientale – certe “manovre” tese a screditare il clero ortodosso, orchestrate, sebbene in misura minore rispetto agli scandali che hanno devastato la Chiesa cattolica, negli anni passati soprattutto ai danni di quella Chiesa di Grecia che, al di là della consistenza numerica, rimane pur sempre il “centro spirituale” dell’universo ortodosso.
Le Confessioni di John Perkins Ma sulla scacchiera del mondialismo non preoccupa solo la Russia. Stando alla strategia della “cintura verde”, tutti i Paesi “non allineati” finirebbero nel mirino di Washington: in questo senso, anche la Polonia e la Norvegia potrebbero essere state aggredite ufficiosamente all’interno della “nuova guerra fredda”. La Polonia, inoltre, si offre come un inaspettato parallelo, per spiegare le ragioni che hanno spinto l’Europa, guidata dalla Francia, e gli USA a dichiarare guerra all’ex alleato Gheddafi: un modo per comprendere meglio le strategie geopolitiche degli architetti del NWO e quali provvedimenti vengono adottati in caso di ostacoli o di mancata adesione di Capi di Stato alle iniziative dell’impero. Per far questo, si deve comprendere il meccanismo di perpetuazione del processo di espansione dell’impero globale e di asservimento delle masse attraverso la figura del “sicario dell’economia”. I “sicari dell’economia” sono costituiti da un’élite di economisti ben retribuiti, che hanno il compito di trasformare la modernizzazione dei Paesi in via di sviluppo in un progressivo e continuo processo di indebitamento e asservimento agli interessi delle multinazionali, delle lobby e dei governi più potenti al mondo, quello USA su tutti: sono i principali artefici dell’Impero, di cui sono chiamati a disegnare la vera struttura politica e sociale. Il lavoro di questi professionisti avviene
ovviamente dietro le quinte, e consiste nel falsare bilanci e proiezioni per portare i Paesi in via di sviluppo all’indebitamento cronico, e dunque all’asservimento. John Perkins era uno di essi. Reclutato giovanissimo dall’NSA entrò a far parte della MAIN come consulente o, meglio, come “sicario dell’economia”, arrivando ai vertici dell’azienda. Prima di iniziare la graduale presa di coscienza, che lo avrebbe poi portato alle dimissioni, Perkins ha lavorato per dieci anni all’interno di questo sistema. Da insider, ha rivelato in numerosi scritti, autobiografici documentati e attendibili, i meccanismi della globalizzazione. Egli ha infatti toccato con mano il lato più oscuro della globalizzazione in Indonesia, in Iraq, in Arabia Saudita, a Panama, rendendosi protagonista delle macchinazioni e delle conseguenze che hanno avuto luogo in detti Paesi. Si è dunque reso conto, sul campo e in prima persona, che la vecchia repubblica americana stava assumendo i contorni del “nuovo impero globale” di cui i vari Kissinger, Rockefeller, Brzezinski, Bush, e gli alleati europei facevano un gran parlare, auspicando la creazione di un Nuovo Ordine Mondiale. Con l’uccisione, nel 1981, di Omar Torrjios, Presidente di Panama, e di Jaime Roldós, Presidente dell’Ecuador, la successiva invasione statunitense di Panama nel 1989 e l’arresto di Manuel Noriega, Perkins si è allontanato da quel mondo e ha denunciato progressivamente la corruzione e le dinamiche di asservimento della corporatocrazia, che decide il destino dell’umanità per la realizzazione di un impero globale. Perkins stimava Roldós e Torrjios, le cui morti in terribili incidenti furono, a suo dire, tutt’altro che accidentali: «Vennero assassinati perché si opponevano a quella congrega di signori delle multinazionali, dei governi e delle banche che si prefiggono l’impero globale. Noi sicari dell’economia non eravamo riusciti a persuadere Roldós e Torrjios, perciò erano intervenuti sicari di un altro tipo, gli sciacalli della CIA che avevamo sempre alle spalle»34.
Queste considerazioni e i sensi di colpa per il suo lavoro lo hanno portato a comprendere che «da dieci anni ero l’erede di quei negrieri, che penetravano nelle giungle africane per trascinare uomini e donne sulle navi in attesa. Il mio era stato un approccio più moderno, più sottile: non avevo mai dovuto assistere all’agonia dei corpi, odorarne la carne marcia o ascoltarne le grida. Ma ciò che avevo fatto era altrettanto sinistro e poiché potevo starne alla larga, poiché potevo evitare il coinvolgimento personale, i corpi, la carne e le grida, forse, in ultima analisi, il mio peccato era ancora più grande»35.
Un sicario dell’economia Come spiega Perkins, lo scopo di un “sicario dell’economia” (SDE) è quella
di giustificare, con cifre alla mano, grossi finanziamenti a Paesi stranieri, volti alla realizzazione di progetti di ingegneria e di lavori pubblici, i cui appalti vengono pilotati e fatti vincere a multinazionali legate al governo statunitense. Lo scopo ultimo del sicario, però, non è quello di arricchire le grosse imprese americane e i politici collusi con esse – come la famiglia Bush, Cheney, Rumsfeld, Rice ecc. – ma quello di mandare sull’orlo della bancarotta queste nazioni proprio attraverso l’eccessivo indebitamento. In tal modo si avvia un meccanismo di indebitamento e di dipendenza economica tra questi Paesi, gli Stati Uniti e il FMI, che nel tempo assume i contorni del ricatto mafioso: ogni qualvolta Washington ha bisogno di “favori”, come l’apertura di basi militari sul loro territorio e il voto all’ONU, i Paesi indebitati non possono fare altro che accondiscendere alla volontà del creditore. Come sintetizza Loretta Napoleoni, «l’arma del debito è dunque potentissima, più forte ed efficace delle armi convenzionali, perché è sconosciuta al mondo e si insinua nelle maglie più nascoste della quotidianità»36. La tutor di Perkins, Claudine, nel 1971 lo informò del ruolo che stava per intraprendere, imponendogli l’assoluta segretezza e avvisandolo che «una volta dentro, ci sei per tutta la vita». Come ricorda Perkins, «Claudine non andava per il sottile, quando descriveva ciò che sarei stato chiamato a fare. Il mio compito, diceva, era incoraggiare i leader mondiali a divenire parte di una vasta rete che favorisce gli interessi degli Stati Uniti. Alla fine, questi leader restano intrappolati in una trama di debiti che ne garantisce la fedeltà. Possiamo fare affidamento su di loro in qualsiasi momento lo desideriamo, per soddisfare le nostre esigenze politiche, economiche o militari. A loro volta, questi rafforzano la propria posizione politica fornendo infrastrutture industriali, centrali elettriche e aeroporti alle popolazioni. I proprietari delle aziende di progettazione e di costruzione statunitensi si arricchiscono meravigliosamente».
Anche il premio Nobel per l’Economia 1988, Maurice Allais, nel suo libello La crisi mondiale dei giorni nostri, spiegava la causa del “gigantesco” indebitamento, che i Paesi in via di sviluppo avevano contratto, a partire dal 1974, anno di una crisi globale dall’economista paragonata a quella del 1929: «È principalmente grazie alla creazione monetaria che i Paesi in via di sviluppo sono stati portati ad attuare piani di sviluppo troppo ambiziosi, o meglio irragionevoli, e a ritardare le soluzioni del caso. È tanto facile acquistare che ci si può accontentare di pagare con promesse di pagamento. La maggior parte dei Paesi debitori ha dovuto procurarsi, attraverso nuovi prestiti, le risorse necessarie per finanziare gli ammortamenti e gli interessi dei propri debiti e per realizzare nuovi investimenti. Un po’ alla volta, tuttavia, la situazione è diventata insostenibile. Parallelamente a questa situazione, l’indebitamento percentuale del prodotto nazionale lordo e il peso percentuale delle spese pubbliche delle pubbliche amministrazioni dei Paesi sviluppati hanno raggiunto livelli insostenibili».
Questi “livelli insostenibili”, però, non potendo essere retti, come ricorda Perkins conducono a forme di ricatto da parte dei Paesi creditori, che possono assumere, come abbiamo visto, diverse tipologie. Quando i sicari falliscono nel loro obiettivo, quando cioè non riescono a piegare un Paese alla loro cupidigia – in questo senso, Perkins fa gli esempi di Panama, dall’Ecuador e dall’Iraq – subentrano gli sciacalli della CIA, che hanno il compito di sopprimere fisicamente il soggetto considerato “scomodo” dai gruppi di potere. L’eliminazione fisica viene fatta passare per lo più come “incidente” o suicidio. La lista di statisti, politici e pensatori, che secondo Perkins e altri ricercatori sarebbero stati eliminati dagli sciacalli della CIA, è lungo: Salvador Allende, Torrjios, Roldós, Olof Palme, Lech Kaczynski, Jörg Haider, Roberto Calvi ecc.
Olof Palme, il Giano svedese Un caso tanto emblematico quanto misterioso è l’assassinio di Olof Palme, leader del Partito Socialdemocratico e primo ministro di Svezia al momento dell’omicidio, avvenuto la sera del 28 febbraio 1986 a Stoccolma. L’assassinio di Palme, seguito poi nel 2003 da quello di Anne Lindh, ricorda per diversi motivi gli assassinii di John Kennedy e di suo fratello Robert. Nessuno in Occidente, e tanto meno in Svezia, fu applaudito od osteggiato appassionatamente quanto Olof Palme. Salutato come un novello John Kennedy, Palme concentrò su di sé emozioni e giudizi diametralmente opposti, al limite del comprensibile, come se la sua figura potesse sfuggire, in realtà, a qualsiasi classificazione. Il leader svedese sapeva sfruttare al meglio i media e nessuno, neppure gli stranieri, rimase immune al suo carisma. Su Palme, così come su JFK, è stato detto tutto e il contrario di tutto, al limite della schizofrenia: che fosse un idealista o, all’opposto, un pragmatico; un riformatore o, al contrario, un burocrate; un utopista o un opportunista. I suoi sforzi, per rendere concreta l’idea che aveva in serbo per il suo Paese, hanno fatto dire ad alcuni che avrebbe realizzato in Svezia, invece, una distopia, in cui si sarebbe infiltrato il collettivismo burocratico. Grande oratore, proprio come Kennedy, Palme è stato anche additato come un uomo ossessionato dai media, dal temperamento appassionato o, all’opposto, come un politico dimesso e sostanzialmente vuoto; uno stratega lungimirante o un amministratore di corte vedute; al soldo della CIA o agente del KGB. Nessuno, in Occidente, ha concentrato su di sè pareri così contrastanti, rimanendo sempre in balia di forti passioni e proiettando un’immagine di sé
simile a quella del Giano bifronte, così sfuggente e incomprensibile da farlo sembrare doppio.
Chi era Olof Palme Di origini agiate, Palme si distinse dai suoi colleghi svedesi per il piglio pragmatico, ruvido ma pacifista, lungimirante e soprattutto coraggioso, nonché per le nette scelte di campo: già Primo Ministro dal 1969 al 1976, egli fu l’unico, nell’Europa occidentale, a opporsi alla guerra in Vietnam, a denunciare aspramente la politica dell’apartheid in Sud Africa e le complicità dei Paesi “democratici” e infine, a chiedere la cessazione della proliferazione nucleare. Successivamente, si batté per impedire l’esportazione di armi, da parte delle aziende svedesi, in Medio Oriente per il conflitto Iran-Iraq. Nel 1972, durante il discorso radiofonico di Natale, Palme tenne un breve ma memorabile intervento contro il bombardamento di Hanoi, che egli equiparò alle maggiori atrocità della storia: «Bisognerebbe chiamare le cose con il loro nome. Quello che sta accadendo in Vietnman è una forma di tortura. Non possono esserci ragioni militari per i bombardamenti […] quello che gli americani fanno è infliggere sofferenze alle persone e ferire una nazione, per umiliarla e costringerla alla capitolazione di fronte al linguaggio della forza. Per questo, i bombardamenti sono un crimine».
Questa sua presa di posizione pubblica fece infuriare Nixon, che dedicò al leader svedese un epiteto non ripetibile in questa sede. Palme non ricorreva a giri di parole, per esprimere le sue idee. La passione che metteva nel lavoro traspariva nei suoi discorsi, divenuti, per gli addetti ai lavori, mitici quanto quelli di Kennedy. Nel corso della sua carriera, Palme non risparmiò critiche per alcuno, rendendosi così pericoloso agli occhi dei governi “totalitari”.
L’agguato L’omicidio, il primo del genere nella storia della Svezia moderna, provocò un grande trauma nazionale e politico; avvenne nel pieno centro di Stoccolma, in via Sveavägen, mentre Palme stava rientrando a casa insieme alla moglie Lisbeth dopo essere stato al cinema. La scorta, in quel momento, non c’era: «Olof amava la sua libertà; spesso mandava via la scorta armata e facevamo una vita uguale a quella degli altri», ammise più tardi la moglie, per giustificare quell’assenza che fece tanto discutere e sospettare l’esistenza di un infiltrato all’interno della cerchia di amicizie del leader svedese. La morte di Palme venne ufficialmente dichiarata l’1 marzo, appena sei minuti dopo la mezzanotte. Anche la moglie fu
ferita, ma senza riportare gravi conseguenze. L’istruttoria processuale per il suo assassinio fu la più lunga e la più costosa portata avanti in Svezia. Un sospettato, Christer Pettersson, fu processato per omicidio e condannato all’ergastolo dalla Pretura di Stoccolma, ma venne successivamente prosciolto nel 1998 dalla Corte d’Appello per mancanza di prove; morì, per problemi di droga, nel 2004. Tra le diverse ipotesi riguardanti il movente e il mandante dell’omicidio, lo scrittore portoghese Luís Miguel Rocha, nel suo libro La morte del Papa, avanzò la teoria del complotto orchestrato dalla P2 insieme al Vaticano – allora il pontefice era papa Giovanni Paolo I – e al primo ministro portoghese Francisco Sa Carneiro. In Italia, invece, un’inchiesta del TG137, curata da Ennio Remondino e andata in onda nell’estate del 1990, si occupò di accertare la pista dell’intrigo internazionale, che portava alla CIA, alla P2 e al traffico internazionale di armi.
L’inchiesta di Remondino Il 25 febbraio, tre giorni prima dell’omicidio di Palme, infatti, un collaboratore di Licio Gelli aveva inviato, dal Brasile, un telegramma a Washington, a Philip Guarino – un alto esponente del Partito repubblicano vicino a Bush – in cui faceva riferimento “all’albero svedese” che sarebbe stato abbattuto. Il testo era: «Di’ al nostro amico che l’albero svedese sarà abbattuto». Secondo l’interpretazione del giornalista svedese Olle Alsen, del quotidiano «Dagens Nyheter», il telegramma avrebbe fatto riferimento proprio all’omicidio di Palme; Gelli, cioè, avrebbe avvertito Guarino, in modo da comunicare alla Casa Bianca che l’attentato sarebbe avvenuto tre giorni dopo. Socondo la pista che dalla CIA portava in Italia alla P2, il movente dell’omicidio sarebbe stato rintracciabile nel pacifismo di Palme che, opponendosi al rifornimento occulto di armi per il conflitto Iran-Iraq, rischiava di intralciare non solo il traffico di armi verso il medio Oriente, ma anche la strategia della tensione in quella regione, che aveva, tra i suoi obiettivi, l’abbattimento del prezzo del petrolio. Questa pista riguardava le forniture d’armi dell’industria svedese Bofors-Nobel sia a Teheran (nella guerra Iran-Iraq) che all’India, attraverso tangenti versate al leader indiano Rajiv Gandhi, amico di Palme. Secondo alcune fonti, Palme sarebbe venuto a conoscenza di tali “movimenti” proprio la mattina del giorno dell’omicidio, ma la sua eliminazione, nel caso in cui egli avesse scoperto tali movimenti cui era fermamente contrario, era stata programmata già da tempo. Un ex agente della CIA, Ibrahim Razin, si sarebbe rivelato l’uomo chiave al
centro della pista, come indicato da Alsen. Razin, avvicinato da Remondino fece il nome del faccendiere italiano Francesco Pazienza, vicino all’ambiente dei servizi e coinvolto in molte inchieste giudiziarie, tra le quali lo scandalo del Banco Ambrosiano. Intervistato a La Spezia, Pazienza svelò la vera identità di Razin: agente “Y”, alias Oswald Le Winter, ex generale di brigata dell’Esercito americano e supervisore della Gladio europea e dell’operazione Phoenix. Razin si era sottoposto a un intervento di chirurgia plastica e, quando si fece intervistare da Remondino in un hotel di Ginevra, per precauzione si coprì il volto con la federa di un cuscino. Razin, davanti alle telecamere di RAI 1 raccontò: «Nell’estate del 1985 interrogai un capo molto influente della mafia americana, di cui non posso rivelare il nome38, il quale mi disse che il telegramma fu inviato da Gelli a Philip Guarino, che all’epoca era tra gli esponenti più in vista del circolo repubblicano di Bush […] l’FBI ha aperto un’indagine in questione […] è stato inoltrato da una regione meridionale del Brasile da un uomo di nome Ortolani39 su indicazione di Licio Gelli».
Razin raccontò inoltre che l’americano Michael Tawney, killer della CIA, era arrivato a Stoccolma una settimana prima dell’omicidio di Palme, proprio per predisporre i dettagli dell’operazione; spiegò anche il movente dell’omicidio: Palme era contrario al traffico di armi e al finanziamento del conflitto Iran-Iraq. Si inseriva in quel periodo, inoltre, la mancata liberazione degli ostaggi americani, sotto Khomeini, che secondo Razin sarebbe avvenuta per spingere l’opinione pubblica a “scaricare” Carter ed eleggere al suo posto il repubblicano Reagan. In cambio, una volta insediatosi il nuovo Presidente alla Casa Bianca, agli iraniani furono concesse delle armi. Da ricordare che il Consigliere nazionale per la Sicurezza, sotto Carter, era Zbigniew Brzezisnki… Dopo l’incontro con Razin, Remondino e il suo operatore Claudio Speranza raggiunsero l’ex contractor della CIA, Richard Brenneke, nella sua casa nascosta nei boschi dell’Oregon. Brenneke mise a disposizione della troupe intere casse di documenti scottanti, che Remondino fotocopiò e, di ritorno dagli USA, consegnò alla magistratura. Dalle carte sarebbero emersi i nomi di banchieri svizzeri e di alcuni dirigenti della NATO, che avrebbero avuto un ruolo nella cospirazione per l’omicidio di Palme. Brenneke, come Razin, accreditò la pista che dalla CIA portava alla P2 di Gelli; affermò di conoscere quest’ultimo molto bene, anche se in realtà Gelli non sarebbe mai stato il vero capo della P2, ma avrebbe ricevuto ordini dalla Svizzera e dagli USA. L’ex collaboratore della CIA spiegò inoltre che l’Agenzia sovvenzionava clandestinamente la P2, arrivando a consegnare all’organizzazione italiana fino a 10 milioni al mese: ciò rientrava nella strategia
della tensione, destabilizzare per stabilizzare, in modo da allineare i Paesi europei alla politica statunitense. La CIA, secondo Brenneke, dalla fine degli anni Sessanta agli anni Novanta, avrebbe utilizzato la P2 per contrabbandare armi e droga e per destabilizzare i Paesi europei; ad esempio, in Italia, creando il terrorismo, che fece cadere i governi giudicati “scomodi” da Washington. Al ritorno della troupe in Italia, la RAI fu denunciata da Licio Gelli, mentre l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga protestò mandando una lettera40 di fuoco al Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Come conseguenza il direttore del TG1 Nuccio Fava venne licenziato e Remondino vide la sua carriera compromessa. Nonostante la mole di prove e di documenti raccolta da Remondino, lo scandalo non portò a nulla. In seguito spuntarono nuove tesi, per l’omicidio Palme; tra questa la pista curda (favorita dal KGB) e poi, nel 1996, la pista sudafricana: in una seduta della “Commissione per la verità e la giustizia”, Eugene de Kock, ex funzionario della polizia sudafricana, sostenne che Craig Williamson, un agente dello spionaggio del suo Paese, aveva ucciso Palme all’interno dell’Operation Longreach per punire il Primo Ministro svedese per la sua pubblica battaglia antiapartheid. Anche questa tesi non è stata però suffragata da prove.
Verità in caduta libera «Quanta verità può sopportare una società democratica?», si domanda invece il criminologo e romanziere svedese Leif G.W. Persson nella trilogia noir La caduta dello Stato sociale, dedicata all’omicidio di Olof Palme. Grazie alla sua posizione di ex poliziotto, infatti, Persson ha potuto leggere una quantità di dossier riservati, come ha raccontato in un’intervista, nel settembre del 2008 a Mantova, a margine del Festival della Letteratura: «Ho potuto consultare il materiale del caso Palme perché ho lavorato per più di trent’anni con la Polizia di Stato; è un materiale che non sarà mai accessibile al pubblico. E sì, una parte del libro è verità documentata, una parte è invenzione; volevo esprimere la mia opinione su quanto accaduto. Una terza parte, infine, non so se sia vera o falsa, è una possibilità. È così che funziona un romanzo: prendi la verità e la mescoli con le invenzioni»41.
Ha poi continuato: «“È il caso più complesso e ancora irrisolto che mai si sia presentato”, ha continuato ed è raro che non si trovi la soluzione, quando la vittima è una persona di quel livello. Ero curioso del caso, volevo scriverne per scrollarmelo dalla mente. Fu un crimine estremamente semplice, ma talmente perfetto che la verità non
è stata ancora scoperta. Il fatto che proprio quella sera Palme avesse “licenziato” le guardie del corpo è quello che mi fa pensare a una cospirazione. Palme fu ucciso per motivi politici, da persone che avevano buone informazioni sui suoi giri e sapevano come prenderlo».
Persson ha dedicato all’omicidio di Palme l’ultimo volume della sua trilogia, In caduta libera come in un sogno, in cui spicca la seguente osservazione, che dà il titolo al romanzo: «Quando ti trovi di fronte a una verità importante […] puoi avere un effetto più devastante di quando scopri una grande menzogna. La verità ti colpisce molto di più di una menzogna. E quando la vedi davanti a te, puoi andare in caduta libera come in un sogno. Come in uno di quei sogni orribili»42.
È per questo che Persson, conscio dei meccanismi di manipolazione che operano in maniera sotterranea a diversi livelli nella società, arriva a domandarsi: «Quanta verità può sopportare una società democratica?». Anche Persson svela poco sul possibile sicario, facendosi assertore di una cospirazione partita però “vicino” alla famiglia di Palme, ovvero abbracciando la “pista interna” alla Polizia, o meglio alla Sapo, i servizi di sicurezza svedesi: l’omicidio di Palme sarebbe avvenuto per “ragion di Stato”, in un ambiente a lui avverso e pronto da tempo a eliminare il premier. Se neppure nell’opera di Persson si raggiunge una certezza, in merito al movente, l’autore si dimostra tutto lucido nel ritrarre l’ambiente politico e sociale in cui si è consumato l’omicidio e le sue conseguenze: «Quando, nel 1986, Palme fu assassinato, fu la crisi dello Stato Sociale – dopo ci furono dei governi conservatori-liberali. Se sei dell’idea che la solidarietà sia importante, ti mette tristezza vedere oggi la gente che dorme per strada. La Svezia ha imboccato la strada materialista, quella della soddisfazione individuale, del raggiungimento di obiettivi individuali. Oggi la Svezia è simile agli Stati sulla costa orientale d’America»43.
Un altro romanziere – più famoso di Persson a livello internazionale, ma dal destino meno fortunato – si è occupato delle indagini sulla morte di Palme: Stieg Larsson.
Stieg Larsson indaga sulla morte di Palme L’autore della trilogia Millenium era infatti collaboratore di Scotland Yard e consulente del Ministero della Giustizia svedese: dopo l’omicidio di Olof Palme, i Servizi segreti chiesero la sua collaborazione per le indagini, che stavano portando a un nulla di fatto. Come ha notato l’avvocato Paolo Franceschetti, esperto di Massoneria e di omicidi rituali,
«i suoi romanzi dimostrano infatti una buona conoscenza del sistema dei servizi segreti (ad esempio, viene ben descritto, nel terzo romanzo, il sistema dei suicidi in ginocchio e degli incidenti, di cui noi abbiamo parlato nei nostri articoli sull’omicidio massonico) e del sistema giudiziario in genere. Probabile quindi che si sia spinto troppo in là nel descrivere i dettagli di alcune operazioni segrete; probabile che i suoi romanzi abbiano attinto troppo dalla realtà»44.
Sulla prematura morte di Larsson per infarto, sulle scale della redazione, infatti, alcuni ricercatori hanno sollevato il dubbio di una regia occulta. Franceschetti si dice convinto che Larsson non sia morto per cause naturali, ma sia stato ucciso: «Non tanto per quello che ha scritto, ma per quello che avrebbe potuto scrivere: la verità sul sistema in cui viviamo». Larsson, effettivamente aveva ricevuto numerose minacce per la sua attività contro gli estremismi di destra, non a caso in Svezia legati proprio al mondo delle massonerie. Gli indizi avanzati da Franceschetti45 a sostegno dell’assassinio sono, in realtà, deboli, ma la pista massonica facente capo alla famigerata Rosa Rossa non manca di fascino e accredita il senso di mistero che circonda la Svezia, terra di logge massoniche, Illuminati e morti misteriose46…
Gli sciacalli all’opera Indipendentemente dai mandanti, gli omicidi politici di Palme e della Lindh recano la firma degli sciacalli di cui parla Perkins: nessuno ha infatti mai creduto al gesto di un folle. Anche nel caso della Polonia, alcuni ricercatori hanno sollevato il dubbio che, non essendo bastate le pressioni dei sicari per asservire il Paese alla politica monetaria europea, potrebbero essere subentrati gli sciacalli e avere causato l’incidente aereo, nel quale hanno perso la vita il Presidente polacco, dei ministri e gran parte del governo. Diversamente – nel caso di Panama, dell’Iraq e della Libia, tra tutti – è dovuto invece scendere in campo l’Esercito. Un caso a sé stante è rappresentato dal Venezuela di Chavez: il leader ha resistito al golpe del 2002 ed è ritornato al potere grazie alla fedeltà del suo esercito; non si è piegato alle minacce e alle intimidazioni e ha retto alla campagna diffamatoria contro di lui. Non potendo giustificare un intervento militare in Venezuela, come accaduto a Panama, Chavez al pari di Lula, Dilma Roussef, Christina Kirchner, Lugo e Castro – si è ammalato misteriosamente di cancro. Il leader venezuelano ha accusato indirettamente la CIA di avere inoculato il cancro a lui e ai suoi colleghi. L’accusa, per quanto difficile da accettare, rientrerebbe nelle macchinazioni tipiche della corporatocrazie descritte da Perkins, che racconta:
«Nella loro smania di far progredire l’impero globale, le corporazioni, le banche e i governi (ovvero la corporatocrazia) usano il loro potere economico e politico per assicurare che le nostre scuole, aziende e mezzi d’informazione sostengano quell’idea ingannevole e il suo corollario. […] La corporatocrazia non è un complotto, ma i suoi membri promuovono valori e scopi comuni. Una delle sue principali funzioni è perpetuare, espandere e rafforzare progressivamente il sistema. […] Persone come me guadagnano stipendi scandalosamente alti per fare il gioco del sistema. Se perdiamo colpi, entra in azione una forma più maligna di sicario, lo sciacallo. E se lo sciacallo fallisce, la palla passa all’esercito»47.
Polonia: la morte di Kaczynski Il 10 aprile del 2010 il presidente Lech Kaczynski morì a bordo di un aereo, insieme ad altre 132 persone, nei pressi di Smolensk, nella Russia occidentale, dove era diretto. Tra le vittime, vi erano anche il governatore della Banca Centrale, Slawomir Skrzypek, e diversi membri del Governo. Secondo la ricostruzione ufficiale, la causa dello schianto sarebbe stata la fitta nebbia. L’assenza di una Commissione internazionale non ci ha però permesso di sapere altro: il colonnello Mikolaj Przybyl, vice capo della Procura militare di Poznan, si è sparato il 9 gennaio 2012, al termine di una conferenza stampa sullo scandalo relativo all’inchiesta sull’incidente aereo del 2010. Stava indagando sulle fughe di notizie, poi pervenute ai giornalisti. Przybyl, nel corso della conferenza stampa, aveva sostenuto che le accuse rivoltegli erano state manipolate, denunciando numerosi ostacoli incontrati durante le sue indagini: aveva dichiarato di avere subito, nei mesi precedenti, delle intimidazioni, tra cui danneggiamenti alla macchina ed effrazioni al proprio domicilio. Il suo atteggiamento non ha fatto che addensare le nubi di sospetto che già aleggiavano sull’incidente aereo. Stranisce inoltre che un militare non sia stato in grado di suicidarsi, ma sia riuscito solo a ferirsi di striscio alle tempie, a meno che il suicidio non fosse realmente nelle sue intenzioni o il gesto fosse una messinscena per potere abbandonare le indagini. Nel video, infatti, si nota Przybyl che abbandona il tavolo della conferenza, fa uscire velocemente i giornalisti e si reca in una stanza attigua, da dove si sente echeggiare lo sparo. Non ci sono immagini né testimoni del tentato omicidio; sappiamo soltanto che il rimbombo dello sparo ha allertato la Sicurezza che ha chiamato immediatamente l’ambulanza. In una vicenda intricata e fumosa come questa, come insegna il noto giornalista ed ex funzionamento del KGB Daniel Estulin, si dovrebbe sospettare di tutto e di tutti. Esiste però un video autentico, che è stato trasmesso dalle emittenti russe – anche se censurato – visibile su Internet, che dimostra chiaramente che la “fitta nebbia”, accreditata come motivo dell’incidente aereo, al momento del crash non c’era. La visibilità era di almeno 500 metri; quello che si vede, semmai, è il
fumo che si leva dai rottami. Un’ora prima, infatti, era decollato senza alcun problema l’aereo che trasportava i giornalisti al seguito. Si vedono, invece, i rottami dell’aereo e delle persone russe che si aggirano sul luogo dell’incidente; i detriti sono sparsi nel raggio di un chilometro, e secondo alcuni specialisti, i danni sarebbero compatibili con un’esplosione. Si odono distintamente quattro colpi di arma da fuoco e delle frasi in russo48: Voce in sottofondo: «Andate via!». Persona che fa le riprese: «Oh, maledizione!». Voce in sottofondo: «Lasciate questo posto! Andate via tutti!». E anche: «Questa persona non si muove». A metà filmato, si odono delle voci supplicare: «Non ci ammazzate».
A questi tasselli si aggiunga che una prima ANSA aveva dichiarato che tre persone erano ancora vive, dopo lo schianto, ed erano state trasportate in ospedale. Sei corpi mancarono all’appello: semplicemente non vennero trovati. Le tre scatole nere rimasero invece in mano ai Russi. Il Governo polacco di transizione non richiese né l’autopsia sui corpi delle vittime, né una Commissione nazionale o internazionale che valutasse le reali cause dell’incidente. Ora, senza ipotizzare la possibile modalità di manomissione dell’aereo, cerchiamo di chiarire il movente esterno per azzerare il governo polacco. Dalle ipotesi diffuse sul web da alcuni ricercatori emergono tre suggerimenti: 1. il Governo aveva puntato appena pochi giorni prima sulla svalutazione dello zloty, per contrastare la crisi contando sull’esportazione. Ciò avrebbe significato un ritardo nell’ingresso dell’euro. Il 31 maggio 2011, il viceministro degli Esteri Mikolaj Dowgielewicz invece comunicava le priorità di Varsavia, tra cui l’allargamento all’UE49. 2. Nell’incidente aveva perso la vita anche un importante membro della Commissione anticorruzione. Eliminati il Presidente, i due candidati alla presidenza, l’intero comando militare e la leadership finanziaria e dei Servizi segreti polacchi, era rimasto Donald Tusk, pro OMS, pro FMI, filo-Unione Europea e strenuo sostenitore dell’euro. Il premier Tusk inseriva, nell’agenda del suo esecutivo, come immediata “priorità”50 proprio l’adozione dell’euro. Non solo. Il ministro della Sanità Ewa Kopacz, nonostante la sua appartenenza al partito di Tusk favorevole ai poteri forti, aveva rifiutato, in novembre, il vaccino contro quella che si è poi rivelata essere una falsa epidemia di influenza suina. La Kopacz era stata l’unico Ministro, in tutta Europa, a rifiutare il vaccino nonostante la pressione dell’OMS e delle multinazionali farmaceutiche. 3. Infine, i gemelli Kaczynski avevano dato vita all’Istituto per la Memoria Nazionale, presieduto da Janus Kurtyka, morto anch’esso nell’incidente. L’istituto, indipendente da pressioni politiche, era entrato in possesso di documenti importanti, riguardanti anche la caduta del regime sovietico. Ciò aveva sollevato le critiche di Tusk, che aveva cercato di rendere l’Istituto dipendente dal Governo, quindi controllabile. Cosa che è avvenuta subito dopo l’incidente.
Sulla fine dell’operatore video Adrij Mendierej51, invece, i rumors si
confondono con leggende metropolitane e controsmentite. La notizia della sua morte si era diffusa qualche settimana dopo l’incidente; si disse che era stato trovato ancora in vita il 15 aprile a Kiev, con un coltello piantato in pieno petto, che era stato portato in ospedale e che era, deceduto l’indomani. Certo è che alcuni dettagli, come quello che sarebbe stato trovato il giorno seguente con il respiratore staccato e altre tre pugnalate nel petto, fanno sorridere. Un’altra fonte infatti – wolmenemedia(dot)net – ha smentito il suo omicidio. Fatto sta che l’uomo è sparito nel nulla. Come se non fosse mai esistito.
Verso un’Unione Europea sovrana È stato il giornalista polacco Andrei Talaga uno dei primi a lanciare l’allarme sul pericolo di un processo di trasferimento della sovranità nazionale dei Paesi membri dell’Unione proprio in favore dell’UE e della nascita di un gruppo economico comune. I Primi Ministri europei, Monti compreso, non hanno mai nascosto la “necessità” di rinunciare a parte della sovranità nazionale a favore dell’UE: un passaggio iniziato proprio con la ratifica del Fiscal Compact che, per la conseguenza che impone, non è stato recepito dai cittadini italiani ed europei. Il 2 giugno 2011 Jean Claude Trichet presidente della Banca Centrale europea, ha dichiarato, al momento del suo passaggio di consegne al nostro Mario Draghi, che l’UE dovrebbe avere un solo Ministro delle Finanze. Non solo. Trichet ha anche auspicato la trasformazione dell’Unione in una confederazione di Stati con una politica di bilancio comune. Per Talaga, «una visione del genere rappresenta un duro colpo alla sovranità nazionale». Un “superministro” delle Finanze controllerebbe le politiche di bilancio e la competitività di tutti gli Stati membri e disporrebbe di un veto su alcune decisioni in materia di spesa pubblica. Il settore finanziario dell’UE sarebbe interamente sottoposto alla regolamentazione comunitaria. In sostanza – spiega Talaga – «si avrebbe un controllo dei bilanci nazionali, almeno per i Paesi che hanno adottato l’euro. Secondo i termini della formula proposta da Trichet, gli Stati diventerebbero semi-indipendenti. Forse si potrebbe arrivare a parlare di semplici autonomie territoriali. Una condizione che nessun dizionario politico definisce in modo chiaro»52. Una condizione che sembra però fare gola al Gruppo Bilderberg e a coloro che mirano a una Banca Mondiale come corollario di un Nuovo Ordine Mondiale. Tra costoro, ci sono gli ex senior advisor della Goldman Sachs o della FED e della BCE. E qui torniamo al colonnello Gheddafi.
Gheddafi finanzia Sarkozy Diversamente da quello che è stato raccontato dai media, le motivazioni che hanno condotto a dichiarare guerra alla Libia sarebbero prettamente “economiche” e intuibili dalle stesse dichiarazioni dei promotori del conflitto, Sarkozy e Obama in prima linea. Il Colonnello si era arrischiato a seguire le orme di Saddam Hussein, pensando non solo di potere rimanere indipendente a livello politico e soprattutto economico, ma di poter anche attuare una riforma, che avrebbe avuto degli effetti devastanti sull’economia statunitense ed europea. Il suo atto di hýbris53 o “peccato originale” doveva essere talmente grave da fare dimenticare la collaborazione con gli altri Paesi europei, Italia e Francia in primis, ma soprattutto la vendita da parte del governo francese di equipaggiamenti militari a Gheddafi per ben dieci miliardi di euro!54. A ciò si aggiunge lo scoop di «Mediapart»55, che il 12 marzo 2012 ha reso pubblica la notizia di un presunto finanziamento in nero di Gheddafi di 50 milioni di euro alla prima campagna presidenziale di Sarkozy56: fondi trasferiti su un conto svizzero e uno panamense grazie alla mediazione di un trafficante d’armi, Ziad Takiedine. Primo Paese occidentale ad accogliere il leader libico, la Francia ha onorato l’evento con ricevimenti ufficiali e ben due incontri a tu per tu con Sarkozy, all’epoca deciso a diventare il «principale sponsor del ritorno della Libia nel novero dei Paesi frequentabili e a far approfittare le imprese francesi dei rapporti privilegiati instaurati con Tripoli». In Italia, abbiamo fatto un gran parlare della “personalizzazione” del rapporto tra Berlusconi e Gheddafi; del baciamano, del rimborso tributato al Colonnello, delle follie che gli sono state concesse, come la lezione di Corano alle biondissime hostess pagate dai contribuenti italiani; ma ci siamo dimenticati della tenda beduina personale di Gheddafi installata nel giardino dell’Hotel de Marigny, della residenza degli ospiti d’onore dell’Eliseo, dei dispositivi di sicurezza eccezionali, della visita privata a Versailles, della battuta di caccia. Ci siamo dimenticati, in particolare, dell’accordo da 10 miliardi di euro, stipulato per la «cooperazione nel settore dell’energia nucleare a uso civile», ma soprattutto per i «negoziati esclusivi con la Francia per l’acquisto di equipaggiamento militare». Traduzione: a parte la «fornitura di uno o più reattori nucleari […] per il sostegno alle attività di prosperazione e sfruttamento dei giacimenti di uranio», la Libia ha acquistato dalla Francia 14 caccia Rafale e 35 elicotteri da combattimento francese, per un valore di 5,4 miliardi di euro; per non parlare dell’acquisto di 21 aerei di linea della Airbus, per altri 3,2 miliardi di
euro. La Francia prima ha armato Gheddafi e poi lo ha scaricato. Perché?
Il peccato del Colonnello: il dinaro oro Come accaduto in precedenza con la Serbia – e come sarebbe successo due anni dopo con la Siria – i media hanno iniziato a diffondere notizie su stragi di ribelli libici e su ipotetiche fosse comuni. L’appello ai diritti umani fa sempre presa sulla cittadinanza “globale”, anche quando sembra focalizzarsi con un mirino di precisione sui Paesi che si vogliono rivoluzionare. Perché, però, Washington agì con risolutezza nei Balcani – a dispetto della risoluzione del Congresso – e poi in Libia, tralasciando di fatto le altre crisi umanitarie? Perché a Gheddafi venne applicato il cosiddetto “trattamento Milosevic”? Che cosa aveva realmente commesso, Gheddafi, per attirarsi contro la comunità internazionale? Se teniamo fede alle rivelazioni dell’agente disertore del MI-5 David Shayler, anche nel caso di Gheddafi sarebbero intervenuti prima i sicari e poi gli sciacalli; Shayler parlò infatti di un fallito attentato alla vita del leader libico, avvenuto nel 1995, per il quale il MI-6 britannico aveva pagato 100.000 sterline, destinate a una filiale di al-Qaeda. Il fallimento dei sicari avrebbe anche in questo caso comportato l’intervento dell’Esercito. Il momento sarebbe stato scelto in base agli ultimi provvedimenti del Colonnello in campo monetario. Sugli interessi economici celati dietro i proclami umanitari che hanno spinto la Francia, la Gran Bretagna e gli USA a dichiarare guerra a Gheddafi, si è espresso chiaramente Noam Chomsky: «L’attacco militare alla Libia da parte del triumvirato imperiale di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti e dei riluttanti “volenterosi” non ha nulla di “umanitario”. È una guerra, punto e basta. Le motivazioni addotte da leader politici e opinionisti per questo intervento, invocando scopi “umanitari”, sono inesistenti, perché ogni ricorso alla violenza militare viene da sempre giustificata, anche dai peggiori mostri come Hitler, per autoconvincersi della verità di quanto asseriscono»57.
Le risorse del suolo libico La Libia, oltre a essere classificata come la nona regione al mondo con 42 miliardi di barili di petrolio, sembra avere una potenzialità non sfruttata ben maggiore consistente in grosse quantità di gas. «Controllo del petrolio e si controllano le nazioni, controllo alimentare e si controllano le persone» dichiarava quarant’anni fa Henry Kissinger. E chi controlla ora il petrolio libico? La British Petroleum, la francese Total e l’americana Chevron, mentre l’ENI ha perso le concessioni a favore di BP, Total e Chevron.
Gheddafi, inoltre, aveva rifiutato la proposta di costituire una Banca unita africana; al contrario, aveva avviato una gold standard, facendo ricorso all’uso di dinari d’oro ed emancipandosi così dalla Federal Reserve e dalla BCE. Proprio dopo che la Cina aveva annunciato il conio dello Yaun d’oro58. La banca pubblica di Gheddafi stampava moneta e prestava denaro allo Stato, senza interessi, per finanziare delle opere pubbliche, tra cui il famoso fiume sotterraneo artificiale, che utilizza le acque fossili del Sahara per irrigare l’area agricola del Nord della Libia, la quale tra l’altro è esentasse. Una banca pubblica, prestando denaro a interesse zero, può ridurre il costo dei progetti pubblici di investimento, fino al 50%. Stando infatti ai dati del FMI, la Banca centrale libica di Gheddafi aveva 144 tonnellate di oro nei suoi forzieri. In Libia, l’educazione e l’assistenza medica erano gratuite. Le coppie che si sposavano ricevevano l’equivalente di 50mila dollari a fondo perduto. Ciò che confonde è infatti la decisione dei ribelli, ancora prima di costituire un governo provvisorio, di istituire una Banca centrale di Libia privata e non pubblica come quella di Gheddafi. Quasi come se dietro la decisione dei ribelli di privatizzare la Banca centrale ci fosse stata la regia del mondialismo finanziario. La politica adottata da Gheddafi era infatti l’opposto, rispetto al sistema occidentale e americano che è stato adottato ora (oltre alla reintroduzione della sharja). Il mondo occidentale fa pagare la maggior parte dei servizi – vedasi gli USA – e ha inoltre privatizzato le banche centrali, che fanno pertanto pagare gli interessi allo Stato cui forniscono i fondi. Per questo la Libia sotto Gheddafi, a differenza degli altri Paesi africani, non era indebitata con la Banca Mondiale o con il FMI: in questo senso, come ha fatto notare Marcello Pamio, Gheddafi poteva dettare le regole e non subirle. Gheddafi aveva inoltre proposto di creare una moneta unica africana, il dinaro oro, come valuta dei Paesi aderenti all’Unione Europea. La moneta d’oro in sostituzione della moneta cartacea. Una moneta dal valore indicato dalla quantità d’oro, non legata a un ipotetico valore come le banconote. Un po’ come il dirham d’argento della Malesia. Una moneta dal valore reale.
La rovina del dollaro e dell’euro Il dinaro oro avrebbe rischiato di mettere al bando e di svalutare il dollaro americano e l’euro, divenendo la moneta più apprezzata nel mondo africano e arabo per gli scambi commerciali. Come metalli preziosi con un valore intrinseco, l’oro e l’argento sono necessariamente più resistenti alle fluttuazioni del mercato e alla svalutazione, in confronto al dollaro e all’euro59. Nel progetto del Colonnello c’era anche l’idea di utilizzare la nuova valuta
per i pagamenti delle risorse energetiche, prima tra tutte il petrolio. In questo modo, il dinaro d’oro avrebbe impoverito l’economia di quelle nazioni che ancora utilizzano dollari ed euro negli scambi. In sintesi, il dinaro d’oro avrebbe sovvertito il signoraggio, basato su un criterio monetario fasullo e non più in mano agli Stati ma a super banche sopranazionali e private. A commentare il progetto a lungo caldeggiato da Gheddafi è il dottor James Thring, del Ministry of Peace and Legal Action Against War: «È una di quelle cose che devi progettare in gran parte al segreto perché, appena dirai che hai intenzione di passare dal dollaro a qualcos’altro, sarai considerato un obiettivo da colpire. […] Ci sono state due conferenze che avevano questo come oggetto, nel 1986 e nel 2000, organizzate da Gheddafi. Tutti erano molto interessati, la maggior parte degli Stati africani era entusiasta».
Avrebbero infatti venduto petrolio e le altre risorse in dinari d’oro, spostando l’ago della bilancia dell’economia mondiale, perché il valore di una nazione sarebbe dipeso dall’oro conservato nei propri forzieri e non dal numero delle banconote scambiate. Ciò avrebbe costretto i Paesi occidentali a dotarsi di una scorta di dinari d’oro, mentre la Libia con i suoi 3,3 milioni di abitanti ne possiede 144 tonnellate. Il Regno Unito ne ha il doppio, ma ha pure una popolazione dieci volte superiore. Anche il fondatore del «Daily Bell», Anthony Wile, ha posto l’accento sui rischi ai quali andava incontro Gheddafi con questa rivoluzione monetaria: «Se Gheddafi avesse l’idea di riprezzare il petrolio o qualsiasi altra cosa il Paese riesca a vendere sul mercato globale e accettare qualsiasi altra divisa o addirittura lanciare una moneta d’oro, una mossa del genere non sarebbe certo bene accetta dall’élite al potere, che è responsabile del controllo delle banche centrali mondiali».
Wile ha concluso la sua disamina con una profezia, che sembra essersi avverata: «Sì, sarebbe certamente un qualcosa che potrebbe provocare una sua immediata deposizione e la ricerca di altre ragioni che possano giustificare la sua [di Gheddafi; N.d.A.] rimozione dal potere». E le ragioni sono state trovate proprio grazie ai venti che spiravano dalla Primavera araba. Venti, come abbiamo visto, sobillati da agenti della CIA presenti sul territorio già mesi prima delle sommosse e diretti all’instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale che, per compiersi, deve ora puntare verso la Siria e l’Iran.
Il patto tra USA e Arabia Saudita Per comprendere il vero potere del sistema bancario americano, è bene
tornare indietro di qualche anno e prendere come esempio la “fine”, politica e fisica, di Saddam Hussein; ovvero le ragioni dei due conflitti che si nascondono dietro i falsi moventi dell’invasione irachena del Kuwait, della presenza di armi di distruzione di massa o, ancora, dei legami con al-Qaeda. La ricchezza di petrolio è sempre stata la motivazione sotto gli occhi di tutti, ma perché, di punto in bianco, gli USA avrebbero dovuto architettare – per di più male – la menzogna delle armi di distruzione di massa, per colpire in modo fulmineo l’Iraq? Che cosa non si poteva tollerare? Qual era il peccato dell’Iraq all’origine del conflitto? A differenza dell’Arabia Saudita, l’Iraq non accettò mai un compromesso con la MAIN e con i sicari dell’economia. Mentre la famiglia reale approvò il contratto miliardario proposto dalle multinazionali americane, Saddam non abboccò mai al tranello dell’impero globale. Osservava Thomas Lippman, nel 2003: «Gli americani hanno trasformato un paesaggio vasto e inospitale di tende e di capanne di fango dei contadini, a propria immagine con tanto di caffè Starbucks agli angoli delle strade e rampe per i disabili negli edifici pubblici all’avanguardia. Oggi l’Arabia Saudita è un Paese di superstrade, computer, centri commerciali dotati di aria condizionata e pieni degli stessi negozi sfavillanti che si ritrovano nelle prospere periferie americane, hotel eleganti, fast food, moderni ospedali, palazzi per uffici e luna park con tanto di ottovolanti»60.
Da una parte l’impero globale era riuscito a stringere un patto con la famiglia Saud, innovando il Paese e anzi modellandolo a propria immagine e somiglianza; dall’altra, la famiglia saudita poteva riciclare il proprio denaro nelle opere infrastrutturali. L’affare riciclaggio di denaro saudita e la Commissione congiunta crearono anche dei veri e propri precedenti per il Diritto internazionale; come nel caso dell’ospitalità al sanguinario dittatore dell’Uganda, Idi Amin. Ricorda Perkins: «Quando il famigerato dittatore dell’Uganda andò in esilio nel, 1979, gli fu concesso asilo in Arabia Saudita. Sebbene fosse considerato un despota sanguinario responsabile della morte di centinaia di migliaia di persone (tra le cento e le trecentomila), poté ritirarsi a vita privata nel lusso, con automobili e domestici forniti dalla Casa di Saud. Gli Stati Uniti fecero qualche obiezione a bassa voce, ma non vollero esercitare pressioni per paura di pregiudicare il proprio accordo con i Sauditi»61.
In questo caso, il flebile lamento della Casa Bianca era motivato dagli accordi miliardari con la dinastia dei Saud: i diritti umani venivano dopo i petrodollari. Il sistema dei due pesi e delle due misure valse anche per il finanziamento, da parte dell’Arabia Saudita, al terrorismo internazionale: gli Stati Uniti non fecero mistero del proprio desiderio che la Casa di Saud finanziasse la guerra di Osama
bin Laden in Afghanistan contro l’Unione Sovietica, negli anni Ottanta; si stima che Riyadh e Washington insieme abbiano versato ai mujaheddin tre miliardi e mezzo di dollari. Dietro i finanziamenti della CIA troviamo ancora una volta il mentore di Obama, lo stratega polacco Zbigniew Brzezinski: sono note le fotografie, che lo immortalano insieme a un giovane Osama che gli mostra i kalashnikov donati dall’intelligence americana. È da notare, infatti, come lo stratega russo abbia difeso il sostegno della CIA, a partire dal 1979, ai mujaheddin durante lo scontro tra URSS e Afghanistan: «D – E nessuno di voi è pentito di avere supportato l’integralismo e il terrorismo islamico con armi e addestramento? Brzezinsky – Cosa è più importante, per la storia del mondo? I talebani o il collasso dell’impero sovietico? Qualche musulmano esaltato o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?»62.
Gli USA, infatti, abbandonarono il territorio afghano solo nel 1991, con il crollo dell’URSS: a quel punto, la presenza in Medio Oriente era tanto scomoda quanto pericolosa, a causa di un integralismo islamico da lei stessa precedentemente armato. Da quel momento, i rapporti furono “economici” fino al rifiuto del leader dei talebani, il Mullah Omar, di appaltare la costruzione del gasdotto alla multinazionale californiana UNOCAL, al cui interno figuravano azionisti del calibro di Cheney, Bush, Rice, Karzai…
The Saudi Connection Il 15 dicembre del 2003, però, «U.S. News and World Report» pubblicò un’inchiesta intitolata The Saudi Connection, nella quale si passavano in rassegna migliaia di pagine di atti processuali, rapporti della CIA e altri documenti. Tra i risultati dell’indagine emergeva quanto segue: «La prova era inconfutabile: l’Arabia Saudita, un’alleata di lunga data dell’America e la maggior produttrice di petrolio al mondo, era divenuta, per dirla con le parole del funzionario anziano del Ministero del Tesoro, “l’epicentro” del finanziamento del terrorismo»63.
Lo studio dimostrava infatti che gli istituti di beneficenza dell’Arabia Saudita erano divenuti i principali finanziatori del jihad: «In una ventina di Paesi il denaro fu impiegato per gestire campi di addestramento paramilitari, acquistare armi e reclutare nuovi membri»64. Inoltre agli atti vi erano delle intercettazioni telefoniche, che dimostravano come la famiglia saudita fosse diventata il fulcro del sostegno non solo ad al-Qaeda, ma anche ad altri gruppi terroristici. Il Pentagono era a conoscenza di tutto ciò, ma fu costretto a chiudere un occhio in
virtù dei rapporti commerciali e finanziari con la famiglia reale. Non stupì neppure il trattamento di favore riservato ad alcuni componenti della famiglia Saudita quando, all’indomani degli attacchi al World Trade Center, costoro vennero allontanati segretamente e riportati in Medio Oriente per farli sfuggire ai controlli: «A pochi giorni dall’11 settembre, alcuni facoltosi cittadini dell’Arabia Saudita, tra cui qualche membro della famiglia bin Laden, sono stati fatti uscire di soppiatto dagli Stati Uniti a bordo di jet privati. Nessuno vuole ammettere di aver autorizzato quei voli e i passeggeri non sono stati interrogati. Il lungo rapporto della famiglia Bush con i sauditi ha forse contribuito a far sì che una cosa del genere potesse accadere? »65.
Questa domanda emergeva nell’incipit dell’inchiesta Saving the Saudits di Craig Unger, pubblicata nell’ottobre 2003 dalla rivista «Vanity Fair». Il servizio conteneva informazioni mai rese pubbliche sui legami tra la famiglia Bush, la Casa di Saud e la famiglia bin Laden. Unger dimostrava che la mattina del 13 settembre 2001, mentre gli spazi aerei americani erano ancora chiusi, in entrata e in uscita – cosa che aveva costretto politici del calibro di Bill Clinton e Al Gore a rimandare i propri voli – il poliziotto Dan Grossi e l’agente dell’FBI Manuel Perez, su richiesta del Dipartimento di Polizia dell’aeroporto internazionale di Tampa, si occuparono della “fuga” dei sauditi dal territorio statunitense, nonostante il divieto di volo e la loro importanza in veste di possibili testimoni. Unger concludeva l’articolo rivelando l’esistenza di un conflitto di interessi tra Casa Bianca, i Saud e la famiglia bin Laden: «La famiglia Bush e la Casa di Saud, le due dinastie più potenti al mondo, hanno stretti legami personali, politici e d’affari da più di vent’anni. […] Nel settore privato, i sauditi hanno sostenuto l’Harken Energy, una compagnia petrolifera in difficoltà nella quale aveva investito George W. Bush. In tempi più recenti, l’ex presidente George H.W. Bush e l’ex segretario di stato James A. Baker III, suo alleato di lunga data, si sono presentati ai sauditi a raccogliere fondi per il Carlyle Group, probabilmente la società a capitale privato più grande del mondo. Oggi l’ex presidente Bush continua a fungere da consulente della società, tra i cui investitori pare figuri un saudita accusato di legami con gruppi che sostengono il terrorismo»66.
Su questo punto si è espresso anche Gore Vidal, notando: «I compromessi di Bush junior col Male risalgono per lo meno al 1979, quando il suo primo tentativo, fallito, di giocare da titolare della grande serie A del petrolio texano lo portò a mettersi in affari con un certo James Bath di Houston, un amico di famiglia, che diede a Bush junior 50.000 dollari per la quota del 5% di una società di proprietà di Bush, la Arbusto (l’equivalente spagnolo di Bush). In quel periodo, secondo Wayne Madsen67 […] Bath era il “solo rappresentante negli Stati Uniti per gli affari di Salem bin Laden, capofamiglia e fratello (uno dei diciassette) di Osama bin Laden”».
Vidal continua ricordando però che alle spalle di G.W. Bush c’è ovviamente
il padre: «Bush il vecchio con la sua redditizia posizione all’interno del Carlyle Group, che possiede quote di almeno centosessantaquattro società in tutto il mondo, suscitando così l’ammirazione del «Wall Street Journal», quel fedele amico dei ricchi e potenti che già il 27 settembre 2001 faceva notare: “Se gli Stati Uniti aumentano il budget destinato alla Difesa nel tentativo di bloccare le presunte attività terroristiche di Osama bin Laden, ci potrebbe essere un beneficio inaspettato: la famiglia dello stesso bin Laden […] il facoltoso clan saudita […] è uno degli investitori di un fondo creato dal Carlyle Group, una finanziaria di New York con ottime connection, specializzata nella liquidazione di società del settore della difesa e in quello aerospaziale”».
Sulla base delle stesse considerazioni del quotidiano newyorkese, Vidal conclude, ironizzando: «Il “Wall Street Journal” avrebbe potuto aggiungere che un altro beneficiario della guerra in Afghanistan doveva essere, come spiegato da “Judicial Watch”68 (28 settembre 2001), “George H. W. Bush, il padre del presidente Bush, che attraverso il Carlyle Group, una società di consulenza internazionale, cura gli affari della famiglia bin Laden in Arabia Saudita. Bush senior si è incontrato con la famiglia bin Laden almeno due volte”».
In pratica, già all’indomani dell’11 settembre i maggiori quotidiani e riviste statunitensi rivelano il legame, e dunque il conflitto di interessi, tra la famiglia Bush e il clan saudita dei bin Laden e, aspetto ancora più inquietante, il “beneficio inaspettato”, che sarebbe derivato da una nuova guerra, per le due potenti dinastie, nella loro qualità di investitori del Carlyle Group, legato ai settori della Difesa e dell’Aerospazio. NOTE 1. John Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia, Minimum Fax, 2005; titolo originale: Confessions of an Economic Hit Man, San Francisco, USA, 2004. 2. Intervista video, rilasciata dal colonnello Gheddafi nel 1973 alla principessa Kaoru Nakamaru, e gentilmente concessami da lei tramite Leo Lyon Zagami. 3. Silvio Berlusconi, 11 giugno 2009. 4. Franco Frattini, ministro degli Esteri sotto il governo Berlusconi, in «La Stampa», settembre 2010. 5. Franco Frattini, citazione del 20 ottobre 2011. 6. Per approfondimenti, si veda: Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama. Ombre dal passato e promesse disattese, Uno Editori, Torino 2011. 7. Da intervista video rilasciata al colonnello Gheddafi nel 1984 alla principessa Kaoru Nakamaru nell’ambito della sua rubrica televisiva Following the Sun. 8. Su questo punto, si veda: Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama, cit., pp. 174 e ss. 9. Cit. in Zbigniew Brzezinski, L’ultima chanche. La crisi della super potenza americana, Salerno editrice, 2008, p. 71. Titolo originale: Second Chance, Three Presidents and the Crisis of American Superpower, 2007. Traduzione di Amedeo Romeo. 10. Enrico Mentana, Kosovo, Saddam, Libia: se la guerra ci fa comodo, in «Vanity Fair», 30 marzo 2011.
11. Epiphanius, op. cit. 12. Ivi, p. 795. 13. Zbigniew Brzezinski, p. 87. 14. Ivi, p. 89. 15. Epiphanius, op. cit., p. 796. 16. Ibidem. 17. Milosevic è morto l’11 marzo 2006. Il decesso, avvenuto per “attacco cardiaco”, seguì alle dichiarazioni di Milosevic, il quale sostenne che lo si stava avvelenando. Il 12 gennaio 2006, due mesi prima della morte, era infatti scoppiato uno scandalo in quanto nelle analisi del sangue dell’ex Presidente serbo, erano state rilevate tracce dell’antibiotico Rifampicin, usato generalmente per la tubercolosi e la lebbra e capace di neutralizzare l’effetto dei farmaci che egli assumeva per la pressione alta e la cardiopatia di cui soffriva. Della presenza di tale farmaco nel suo sangue, Milosevic si era lamentato in una lettera inviata al Ministro degli Esteri russo. 18. Discorso in aula del 30 ottobre 2005. 19. http://www.alexandredelvalle.com/. 20. http://www.icty.org/. 21. http://en.wikipedia.org/wiki/Gruban_Mali%C4%87. 22. http://www.srpska-mreza.com/WarCrime/gruban/index.html. 23. OCSE, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. 24. I Balcani senza Milosevic, in «LiMes», n. 5/2000, p. 206. 25. http://blog.alexandredelvalle.com/archives/45-Guerre-contro-l8217;Europa-Bosnia,-Kosovo,-Cecenia,Macedonia-Italien.html. 26. Espressione coniata da Samuel Huntington e utilizzata anche da Henry Kissinger. 27. http://blog.alexandredelvalle.com/archives/45-Guerre-contro-l8217;Europa-Bosnia,-Kosovo,-Cecenia,Macedonia-Italien.html. 28. K. Lieber, D. Press, The rise of US nuclear primacy, in «Foreign Affairs», marzo-aprile 2006. 29. Cit. in M. Blondet, Stare con Putin?, Milano 2007, p. 15. 30. Ivi, p. 17. 31. Ivi, pp. 79-84. 32. Cfr. M. Blondet, Stare con Putin?, cit., p. 25. 33. Le politiche di Putin sono riuscite a portare la Russia, il Paese con la natalità più bassa del mondo, ad avere nel 2011, per la prima volta, un tasso di crescita in positivo. Su questo argomento, cfr. anche il divertente articolo di Anna Mazzone: http://blog.panorama.it/mondo/2011/04/26/russia-zar-putinpunta-tutto-sui-bambini/. 34. Ibidem. 35. Ivi, pp. 215-216. 36. Prefazione di Loretta Napoleoni, a John Perkins, op. cit. 37. http://video.moglik.com/t/remondino-rai.htm. 38. Probabilmente Paul Barrio. 39. L’avvocato Ortolani si disse estraneo alla faccenda. 40. Qua si trova la lettera di Cossiga: http://www.scribd.com/doc/38017292/I-Legami-Tra-La-CIA-e-LaLoggia-Massonica-P2-Licio-Gelli-e-Francesco-Cossiga-Brenneke-Droga-Terrorismo-in-Italia. 41. http://mondosvezia.forumattivo.com/t908-leif-gw-persson. 42. Leif Persson, In caduta libera come in un sogno, Marsilio, 2008. 43. Ibidem. 44. http://paolofranceschetti.blogspot.it/2010/10/il-mistero-dellassassinio-di-stieg.html. 45. Ibidem.
46. Non dimentichiamo l’assassinio di Anna Lindh, morta l’11 settembre 2003. La politica svedese venne accoltellata il 10 settembre da Mijailo Mijailović, mentre faceva la spesa in un negozio di Stoccolma e morì l’indomani. Pacifista come Palme, la Lindh, nella sua veste di presidente del Consiglio d’Europa, nel 2003 si era espressa con forza contro la guerra in Iraq. 47. John Perkins, op. cit., p. 17. 48. puntodiorigine.splinder.com e www.tennesseeonsofliberty. 49. www.presseurop.eu. 50. www.tmnews.it. 51. forum.pravda.com.ua/read.php, www.chechencenter.info. 52. www.presseurope.eu. 53. Orgoglio. 54. Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama, cit., pp. 178 e ss. 55. http://www.mediapart.fr/journal/international/ 120312/presidentielle-2007-kadhafi-aurait-financesarkozy. 56. La notizia di un presunto finanziamento libico durante la campagna presidenziale francese è stata diffusa a 40 giorni dal primo turno delle presidenziali del 22 aprile 2012. A diffonderla, il sito Mediapart, che ha pubblicato i documenti da cui risulta che un trafficante d’armi fece da tramite tra Brice Hortefeux, poi ministro di Sarkozy, e Saif el Ismal, secondogenito del Colonnello. Nel testo si parla di un presunto passaggio «di 50 milioni di dollari» tra i libici e lo staff di Sarkozy «su un conto svizzero e uno in una banca panamense». Il mediatore tra Parigi e Tripoli sarebbe stato il trafficante di armi Ziad Takiedine. Sarkozy ha subito seccamente smentito l’accusa. Intervistato da Tf1, ha bollato come “grottesche” le accuse. 57. http://www.eddyburg.it/article/articleview/168307/0/397/?. 58. Marcello Pamio, Gheddafi, Finmeccanica, petrolio, aqua e Dinaro…, in www.disinformazione.it, 30 marzo 2011. 59. Elizabeth Thawne, Morning Gold Fix, in www.zerohedge.com. 60. Thomas W. Lippman, Inside the Mirage, 2003, p. 162. 61. John Perkins, op. cit., p. 147. 62. http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=afghanistan 63. The Saudi Connection, in «U.S. News And World Report», 15 dicembre 2003, p. 21. 64. Ibidem. 65. Craig Unger, Saving the Saudits, in «Vanity Fair», ottobre 2003: «Just days after 9/11, wealthy Saudi Arabians, including members of the bin Laden family, were whisked out of the U.S. on private jets. No one will admit to clearing the flights, and the passengers weren’t questioned. Did the Bush family’s long relationship with the Saudis make it happen?». http://www.wesjones.com/saudi1.htm. 66. Ibidem. 67. Giornalista investigativo, noto per avere anche reso pubbliche le relazioni della famiglia materna di Obama, i Dunham, e dello stesso padre kenyota del Presidente, Barack Obama senior, con la CIA. 68. http://www.judicialwatch.org/.
11 SETTEMBRE 2001: LE MENZOGNE DELL’IMPERO E LA DOTTRINA DELLA GUERRA “PREVENTIVA” «L’11 settembre è il punto di svolta. E nient’altro. Bush non aveva le stesse idee, il 10 settembre». (Robert Kagan) «Dopotutto quest’uomo [Saddam Hussein; N.d.A.] ha cercato di uccidere mio padre!» (George W. Bush) «Iraq first, Iran next»1. (Gore Vidal2) «La tecnica del false flag operation è vecchia quanto la lotta per la conquista del potere sulla Terra. L’11 settembre fu, nel bene e nel male, un evento catastrofico e catalitico. Fu uno psyop, un’operazione per influenzare le masse». (Andreas Von Bülow3) «La sicurezza dell’America ha bisogno che tutti gli americani […] siano pronti ad agire preventivamente». (George W. Bush4, 1 gennaio 2002) «Quanta verità può sopportare una società democratica?». (Leif G. W. Persson) «Come il prigioniero terrorizzato che rivela i nomi dei compagni e abiura la sua fede, capita che le società sotto shock si rassegnino a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti». (Naomi Klein5) «Per noi, la paura e il disordine offrivano promesse concrete». (Mike Battles, ex agente della CIA)
Il fallimento dei sicari in Iraq Sulla scia del successo ottenuto con la famiglia Saud, la presenza degli SDE a Baghdad negli anni Ottanta fu molto forte. Come ricorda Perkins, gli SDE erano concordi nel ritenere che anche Saddam avrebbe ceduto e seguito l’esempio dell’Arabia Saudita: «Dopotutto, se l’Iraq avesse raggiunto con Washington un accordo simile a quello dei Sauditi, Saddam avrebbe potuto dettare le proprie condizioni per il governo del Paese e magari espandere la sua influenza in tutta quella parte del mondo»6.
A Washington, infatti, non importava che Saddam fosse un despota sanguinario; interessavano solo i vantaggi che sarebbero potuti scaturire da un
accordo: «L’Iraq era estremamente importante per noi, molto più importante di quanto potesse sembrare. Al contrario di ciò che comunemente si pensa, il valore dell’Iraq non sta soltanto nel petrolio. Sta anche nell’acqua e nella geopolitica. […] Oggi è risaputo che chi controlla l’Iraq possiede la chiave per il controllo del Medio Oriente»7.
Alla fine degli anni Ottanta, tuttavia, era ormai evidente il fallimento degli SDE: Saddam non aveva intenzione di farsi “abbindolare” da Washington, né di sottoscrivere alcuna forma di contratto. Ciò non poteva che suscitare imbarazzo alla Casa Bianca, contribuendo a diffondere un’immagine di debolezza dell’allora presidente G.H. Bush, alla luce delle ripercussioni mediatiche successive all’invasione di Panama. Il Pentagono, inoltre, non poteva permettersi di invadere un altro Paese senza un motivo valido: non poteva permettersi un’altra Panama. Mentre i falchi americani cercavano una via d’uscita, fu lo stesso ra‘īs a fare un autogol, invadendo il 2 agosto 1990 il Kuwait: il 17 luglio precedente, in diretta televisiva, aveva accusato gli Emirati Arabi e il Kuwait di superare deliberatamente i tetti di estrazione del greggio, al fine di danneggiare economicamente l’Iraq. Bush reagì accusando pubblicamente Saddam di violazione del diritto internazionale. Pochi si resero conto dell’ipocrisia di quell’atto d’accusa: meno di un anno prima, il Pentagono aveva fatto la stessa cosa, invadendo illegalmente e in modo unilaterale Panama; eppure, quando Bush ordinò di attaccare l’Iraq e inviò cinquecentomila soldati statunitensi come parte della Forza internazionale per liberare il Kuwait, l’indice di gradimento di Bush schizzò al 90%, segno che gli americani avevano la memoria breve ed erano facilmente manipolabili. Era iniziata la prima Guerra del Golfo8, la più potente azione militare alleata dal 1945 in poi. Le perdite tra le milizie irachene furono incalcolabili, tra le 20 mila e le 100mila unità. Per timore che la situazione sul suolo iracheno degenerasse, Bush si mantenne al mandato ONU, senza rovesciare il regime di Saddam. Per questo Brzezinski, nel suo saggio L’ultima Chanche, in cui stila le pagelle dei tre presidenti americani Bush I, Clinton e Bush II, per quanto promuova a pieni voti solo Bush padre, sottolinea l’errore strategico di non aver fatto capitolare subito Saddam nel 1991, quando ve n’era l’occasione: in tal modo, la Casa Bianca avrebbe potuto sfruttare al meglio, a suo favore, l’intervento in Iraq. Brzezinski infatti osserva: «La decisione di andare in guerra all’inizio del 1991, di annoverare perdite tra le proprie truppe, di
ottenere con la forza un risultato, alla fine rappresentò un test cruciale sul personaggio Bush e sulla sua leadership. Ma le conseguenze geostrategiche di questo personale trionfo si rivelarono più problematiche. Saddam fu sconfitto e umiliato, ma non privato del proprio potere. Il malessere della regione continuò a crescere»9.
“Desert Storm” viene inoltre considerata dallo stratega polacco il “peccato originale” e il fardello, che Bush padre tramandò al figlio passando per l’amministrazione Clinton: «Lo sfortunato risultato [della guerra in Iraq; N.d.A.] fu che il successo imperfetto di Bush in Iraq divenne il peccato originale della sua eredità: il coinvolgimento americano in Medio Oriente fu considerato inconcludente, autolesionista e divenne sempre di più oggetto di risentimento. Nella dozzina d’anni che seguirono, la percezione che si diffuse riguardo agli Stati Uniti nella regione, a ragione o meno, fu che non solo gli americani avevano indossato il manto imperialista britannico, ma agivano anche sempre di più a favore di Israele, professando la pace ma impegnandosi in tattiche di disturbo che facilitano l’espansione degli insediamenti»10.
Come asserisce Paolo Garimberti, la più grande vittoria “militare” di Bush si è però rivelata anche «il più inconcludente dei suoi esiti politici»11. Saddam era stato sconfitto e umiliato, ma non era stato detronizzato e tantomeno ucciso. Anzi, «lo stesso Bush ricorda di essersi sorpreso quando apprese che Saddam aveva ancora più di venti divisioni a sua disposizione, compresa la Guardia Repubblicana (le unità d’élite). Ammise anche di essere rimasto “contrariato” dal fatto che Saddam fosse ancora al potere, ma questo non ci dice molto riguardo a quale sforzo – se ce ne fu uno – sia stato impiegato per ottenere un esito differente. In ogni caso, la questione di Saddam ancora al potere infastidiva gli americani, ed esiste un tragico legame tra ciò che non accadde nell’inverno del 1991 e ciò che accadde nella primavera del 2003. Se l’esito della prima Guerra del Golfo fosse stato differente, non sarebbe stato necessario che un altro presidente americano andasse in guerra in Iraq»12.
La dottrina della guerra “preventiva” Gli eventi sarebbero precipitati all’indomani dell’11 settembre: George W. Bush avrebbe deciso di inviare una seconda coalizione, nel 2003, in Iraq per rovesciare il regime di Saddam, ufficialmente per la presenza di armi di distruzione di massa che, come la storia ha confermato, non esistevano affatto. Anche in questo caso, come sarebbe accaduto successivamente con Gheddafi, le motivazioni che spinsero gli USA a invadere l’Iraq erano ben diverse da quelle sbandierate dal Pentagono. Inoltre, i piani di invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq erano già pronti dal 2000 e l’attacco al World Trade Center venne semplicemente considerato “un’occasione” come ammisero senza tanti giri di parole Bush, Cheney, Rice e Rumsfeld. Lo ha spiegato ampiamente David Ray Griffin:
«Quando si verificarono gli attacchi dell’11 settembre, vennero trattati come una Pearl Harbor. David Rumsfeld disse che l’11 settembre aveva creato “il genere di opportunità offerto dalla seconda guerra mondiale per rimodernare la guerra”. Anche il presidente Bush e Condoleeza Rice parlarono dell’11 settembre in termini di opportunità. E in effetti si creò l’opportunità di soddisfare quelle che per i neocon erano le condizioni essenziali per costruire la Pax americana: l’11 settembre permise all’amministrazione Bush-Cheney di attaccare l’Afghanistan e l’Iraq, dare inizio alla trasformazione tecnologica dell’esercito, ottenere un enorme incremento delle spese belliche e dichiarare, con scarsa opposizione, la nuova dottrina della guerra preventiva, divenuta nota come “dottrina Bush»13.
Bush avrebbe alluso alla nuova teoria della guerra preventiva nel giugno del 2002 quando, a margine della consegna dei diplomi a West Point, affermò che «la sicurezza dell’America ha bisogno che tutti gli americani […] siano pronti ad agire preventivamente» 14. Eppure quella che sarebbe poi diventata una vera e propria “dottrina” della forza, era già stata anticipata nel Programma per la sicurezza nazionale, pubblicato nel settembre del 200215, che si tramutò in breve nella politica estera ufficiale adottata dagli USA. Tale programma, noto come NSS 2002, sosteneva infatti la necessità di «agire contro […] le minacce emergenti prima che prendano piena forma»16 e, per la precisione, spiegava la necessità del ricorso all’azione, in quanto «i nostri nemici hanno dichiarato apertamente di stare cercando di procacciarsi armi per la distruzione di massa, e abbiamo prove per ritenere che lo stiano facendo con determinazione. Gli Stati Uniti non permetteranno che questi loro tentativi riescano. Costruiremo difese antibalistiche e altri mezzi difensivi. Coopereremo con altre nazioni per bloccare, contenere e vanificare i tentativi, da parte dei nostri nemici, di acquisire tecnologie pericolose. E, come dicono i principi del senso comune, oltre a quelli dell’autodifesa, l’America agirà concretamente contro tali minacce emergenti prima che esse abbiano preso pienamente forma. Non possiamo difendere l’America e i suoi amici semplicemente sperando che vada tutto bene. Dobbiamo quindi essere preparati a sgominare i piani dei nostri nemici, utilizzando i migliori servizi di intelligence e procedendo con fermezza. La storia giudicherà duramente quanti avranno visto questo pericolo imminente, ma non avranno agito. Nel nuovo mondo, su cui ci siamo affacciati, l’unica strada per la salvezza è la strada dell’azione»17.
Alla luce degli intenti espressi dal documento, non ci si deve meravigliare se nel NSS 2002 troviamo sottolineato che «gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno cambiato sostanzialmente il contesto delle relazioni tra gli Stati Uniti e gli altri centri principali del potere globale, aprendo nuove e vaste opportunità»18.
Un evidente conflitto di interessi: Philip Zelikow Un altro celebre sostenitore della guerra preventiva è Philip Zelikow, il quale si è occupato nientemeno che della direzione esecutiva della Commissione d’indagini sull’11 settembre. Le posizioni dottrinarie di Zelikow aiutano a
comprendere meglio quella che da molti ricercatori è stata giudicata un’opera di insabbiamento, da parte della Commissione, della verità riguardo agli attentati. Fu proprio Zelikow, su esplicito mandato di Condoleeza Rice, a riscrivere il testo del Programma per la sicurezza nazionale, in un primo tempo redatto da Richard Haas, responsabile della programmazione politica del Dipartimento di Stato. Stando alla testimonianza di James Maan, la Rice si aspettava infatti «qualcosa di più audace»19 e per questo affidò al suo “vecchio collega” Zelikow il compito di riscrivere completamente il documento. Come ha dimostrato David Ray Griffin, la «vicinanza personale e ideologica di Zelikow con la Casa Bianca di Bush-Cheney-Rice»20 emerge, ancora prima che nelle indagini della Commissione sull’11 settembre, in un saggio sul “terrorismo catastrofico”, di cui fu coautore nel 1998. In questo saggio, pubblicato dunque tre anni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, Zelikow e i suoi colleghi Ashton Carter e John Deutch scrivevano: «Se il dispositivo che esplose nel 1993 sotto il World Trade Center fosse stato un ordigno nucleare, o avesse realmente diffuso un virus letale, l’orrore e il caos che ne sarebbero derivati avrebbero trasceso la nostra capacità di descrizione. Un tale atto di terrorismo catastrofico avrebbe rappresentato uno spartiacque, nella storia americana. Avrebbe comportato perdite di vite umane e danni alle cose senza precedenti in tempo di pace e avrebbe minato il fondamentale senso di sicurezza degli Stati Uniti, come accadde con i test nucleari sovietici nel 1949. Come per Pearl Harbor, questo evento avrebbe diviso il passato e il futuro in un prima e un dopo. Gli Stati Uniti avrebbero potuto rispondere con misure draconiane, ridurre le libertà civili, inasprire le misure di sorveglianza nei confronti dei cittadini, ricorrere alla detenzione preventiva dei sospetti e utilizzare la violenza fino in fondo»21.
Esattamente quello che è stato fatto da Washington con l’introduzione del Patriot Act, confermato ancora nel 2011 da Obama22. In ogni caso, le affermazioni di Zelikow avrebbero dovuto sollevare dei dubbi più che motivati sulla sua obiettività, come direttore della Commissione sull’11 settembre. Egli citava indirettamente La Grande Scacchiera di Brzezisnki prevedendo che uno scenario simile a Pearl Harbor avrebbe potuto consentire alla Casa Bianca di introdurre delle restrizioni sulla privacy e, più in generale, delle misure “draconiane” per inasprire la sorveglianza sui cittadini e su tutti coloro che si fossero apprestati a entrare sul suolo americano. Per questo evidente conflitto di interessi, Griffin si è spinto addirittura a sostenere che Zelikow «sarebbe potuto rientrare tra le fila dei responsabili»23 dell’11 settembre, concludendo che «sia come sia, considerati i trascorsi di Zelikow, dovremmo avere ottime ragioni a priori per sospettare che, se l’amministrazione Bush fosse stata responsabile degli attacchi, questo fatto sarebbe stato coperto dal rapporto della Commissione sull’11 settembre. E se analizziamo nel dettaglio il rapporto in relazione ai fatti accertati in maniera indipendente, è evidente che tali sospetti siano abbondantemente confermati. La
mia conclusione è che il rapporto della Commissione sull’11 settembre altro non è che una menzogna di 571 pagine»24.
Una nuova Pearl Harbor Già nel 1997 Brzezinski aveva capito che era necessario impadronirsi delle risorse dell’Afghanistan e dell’Iraq. Ciò avrebbe però richiesto una massiccia militarizzazione della politica estera e un’ampia opera di propaganda. Se aveva compreso come l’America avrebbe dovuto muoversi sullo scacchiere geopolitico, Brzezinski aveva anche predetto in che modo avrebbe dovuto essere armata la mano del Pentagono: creando una minaccia nemica talmente enorme da sconvolgere l’opinione pubblica e piegarla alla propria sete di conquista, come era successo con l’attacco di Pearl Harbor. Il popolo americano si era infatti dimostrato non solo favorevole, ma addirittura ansioso di partecipare alla seconda guerra mondiale, dopo l’attacco di Pearl Harbor, che aveva provocato un vero e proprio shock collettivo. Quattro anni prima25 dell’attentato al World Trade Center, Brzezinski invocava così la necessità di creare una nuova Pearl Harbor, in modo da raccogliere il consenso pubblico necessario per la mobilitazione imperialista. Nel 1997, Brzezinski aveva anche previsto che la progressiva integrazione multiculturale sul suolo americano avrebbe reso sempre più difficile compattare l’opinione pubblica contro un “nemico” esterno: «In più bisogna considerare che l’America sta diventando sempre più una società multiculturale e, in quanto tale, può essere più difficile creare il consenso su questioni di politica estera, tranne che in presenza di una minaccia nemica enorme, diretta, percepita a livello di massa».
«Così è stata armata la mano che ha coperto di fumo nero Manhattan e il Pentagono»26, sostiene Vidal, spiegando che l’amministrazione Bush avrebbe adottato il piano di conquista definito da Brzezinski per invadere l’Iraq e l’Afghanistan. Per legittimare “la lunga guerra” era però necessario che avvenisse un altro attacco come Pearl Harbor. L’11 settembre – che sia stato organizzato dai massimi vertici governativi e militari degli USA, oppure semplicemente “lasciato accadere” – avrebbe offerto l’opportunità che la junta attendeva. Persino «USA Today» il 23 novembre 2001 scrisse: «Il comandante delle truppe americane in Afghanistan ha dichiarato giovedì che la cattura di Osama bin Laden non è uno degli scopi dell’operazione Enduring Storm»27. Ed è ancora Brzezisnki a osservare, nel 2007: «Gli eventi dell’11 settembre rappresentarono un’epifania per Bush [figlio; N.d.A.]. Il nuovo Presidente
riemerse trasformato, dopo un solo giorno di isolamento. Da quel momento in poi sarebbe stato il leader risoluto di una nazione in guerra, che affrontava una minaccia al contempo immediata e mortale, il comandante in capo dell’unica superpotenza mondiale. L’America avrebbe agito per proprio conto, senza alcun rispetto per il punto di vista degli alleati. Scossa dal crimine e preoccupata per la propria insicurezza, l’opinione pubblica si strinse intorno al leader»28.
Fu proprio G.W. Bush a fare pressioni – dopo un identico intervento di Dick Cheney – affinché le indagini sull’11 settembre venissero limitate il più possibile. A darne notizia fu la CNN, che il 29 gennaio 2002 annunciò: «Il presidente Bush in persona ha chiesto al leader della maggioranza in Senato, Tom Daschle, di limitare le indagini del Congresso sugli eventi dell’11 settembre»29. La motivazione addotta da Bush e da Cheney, secondo quanto dichiarato dallo stesso Daschle, fu che «si sarebbero così sottratti fondi e personale» alla guerra contro il terrorismo. Nell’intento della Commissione d’indagine vi era, infatti, la mera constatazione che la passività dell’Amministrazione fosse stata una conseguenza della «carenze delle agenzie federali», per attribuire così indirettamente la colpa delle evidenti falle, nell’apparato di sicurezza in atto l’11 settembre, all’operato dell’FBI e dell’Aeronautica. A commentare questo tentativo di manipolazione delle indagini fu Gore Vidal, che nel settembre del 2002 si scagliò contro la junta Bush-Cheney in tal modo: «Così, per ragioni che non conosceremo mai, queste “carenze” devono fare da capro espiatorio. Che probabilmente non si sia trattato di carenze, ma di ordini di non reagire, non sta a noi investigare. Chiaramente, un ritardo di un’ora e venti nell’inviare in cielo i caccia da combattimento non può essere stato causato da una carenza di tutta l’Aeronautica militare della Costa Est. Qualcuno aveva dato l’ordine di bloccare e disattivare la procedura operativa standard obbligatoria. Nel frattempo, ai media è stato assegnato il consueto compito di istigare l’opinione pubblica contro Osama bin Laden, che non è ancora provato sia la mente delle operazioni. Questi blitz dei media somigliano al classico trucco dei prestigiatori per distrarti: mentre tu fissi i colori luminosi e sgargianti del fazzoletto di seta nella sua destra, ecco ti infila un coniglio in tasca con la sinistra»30.
Questo tentativo di limitare e addirittura ostacolare le indagini è anche uno dei motivi che hanno spinto, nel decimo anniversario della tragedia, la portavoce dei parenti delle vittime dell’11 settembre a denunciare l’insabbiamento della verità31 da parte della Casa Bianca. La voce di Monica Gabrielle risuonava colma di amarezza, nell’intervista rilasciata a Paolo Mastrolilli per «La Stampa». Ma non è la prima volta che la donna si è scagliata contro la versione ufficiale dell’11 settembre dichiarando, a nome del comitato di cui è rappresentante: «Non voglio passare per una lunatica, che farnetica di cospirazioni; però la Commissione d’inchiesta
sull’11 settembre ha posto domande rimaste senza risposta, e si è lamentata che molti testimoni hanno mentito. Ad agosto erano suonati campanelli d’allarme, che nessuno ha ascoltato: possiamo credere a Condoleeza Rice, quando dice che gli attentati ci hanno colti di sorpresa?»32.
Anche l’ex ministro degli Esteri egiziano Mohammed Hekal ha dichiarato, il 10 ottobre 2001, a «The Guardian»: «bin Laden non ha possibilità di mettere in piedi un’operazione di questa grandezza. Quando sento Bush che parla di al-Qaeda come se fosse la Germania nazista o il partito comunista dell’Unione Sovietica, mi viene da ridere perché so chi sono veramente. Bin Laden è stato posto sotto sorveglianza per anni; ogni sua telefonata veniva registrata, e in al-Qaeda c’erano agenti infiltrati dei servizi segreti statunitensi, pakistani, sauditi ed egiziani. Non avrebbero potuto tenere segreta un’operazione, che richiedeva un tale grado di organizzazione e di sofisticazione».
Mentre l’ex presidente del Servizio segreto nazionale tedesco, Eckart Wertherback ha alternato che l’attacco richiedeva una «pianificazione di anni» e che la scala degli attentati dimostra che questi erano il prodotto di «attività organizzate a livello statale»33, senza però specificare quale Stato avrebbe attaccato il cuore di Manhattan e il Pentagono…
Cui prodest? A più di dieci anni da quella tragedia, il mondo non ha ancora potuto alzare il sipario sulle vere ragioni che causarono la morte di tremila innocenti. Per questo, il giornalista investigativo Patrick Martin ha cercato di spostare l’attenzione non tanto sulle modalità degli attentati, quanto sul loro movente, adducendo il dubbio che ha sfiorato la mente della maggior parte degli americani, ovvero che i responsabili della tragedia possano essere stati la Casa Bianca, il Pentagono, l’FBI e la CIA: «Quando si indaga su un delitto, è necessario porsi la domanda: “A chi giova?”. I principali beneficiari della distruzione del World Trade Center sono qui negli Stati Uniti: l’amministrazione Bush, il Pentagono, la CIA e l’FBI, l’industria delle armi, l’industria del petrolio. È ragionevole chiedersi se coloro che hanno ricavato dei benefici di tale portata dalla tragedia abbiano contribuito a farla accadere»34.
Sotto accusa le “carenze” strutturali dei sistemi, che quel giorno, inspiegabilmente, non funzionarono in maniera sistematica. L’assenza di risposta aerea, quando era evidente che i voli erano stati dirottati, ha spinto i ricercatori a dubitare del fatto che si sia trattato soltanto di falle del sistema: non vi sarebbero state cioè, “carenze”, ma ordini di non procedere partiti dall’alto. L’indagine dettagliata della cronologia degli eventi di quell’11 settembre getta ombre oscure sui veri responsabili dietro il fallimento delle agenzie federali, del Pentagono e dei servizi militari.
Per questo, l’analista politico inglese Naafez M. Ahmed, in una delle opere più complete e documentate sui retroscena dell’11 settembre, nelle conclusioni finali osserva, con lucidità e amarezza: «In base ai fatti documentati, la loro migliore spiegazione, a parere di chi scrive, è quella che mette in risalto la responsabilità dello Stato americano per quanto accaduto l’11 settembre 2001. Un esame dettagliato dei fatti non chiama in causa soltanto Kabul, ma anche Ryadh, Islamabad e, soprattutto Washington. Inoltre, secondo chi scrive, la documentazione presentata in questo lavoro suggerisce con forza, anche se non necessariamente in modo definitivo, che componenti di primo piano del governo degli Stati Uniti, delle forze armate e delle agenzie di intelligence sapessero che ci sarebbero stati gli attacchi dell’11 settembre e ne siano stati, in vari modi, complici. Questa deduzione certo non mi rallegra, ma è quella che meglio può spiegare i dati disponibili. È emerso chiaramente […] come una guerra in Afghanistan – che sarebbe dovuta cominciare nell’ottobre del 2001 – fosse stata pianificata da almeno un anno; e come, più genericamente, visti gli interessi strategici e regionali, questa guerra costituisse in realtà la conseguenza di almeno quattro anni di pianificazioni strategiche. Questi piani, a loro volta, rappresentano il culmine di un decennio di ampio respiro strategico. Tutto quel che serviva per far scattare il piano di guerra era un detonatore, e a questo fine nulla poteva funzionare meglio dei tragici eventi dell’11 settembre»35.
Il depistaggio prima e dopo la tragedia, da parte dell’amministrazione Bush, suffraga l’ipotesi di Ahmed, che ricorda: «È un fatto assodato, inoltre, che l’amministrazione Bush ha sistematicamente bloccato, prima dell’11 settembre, le indagini sui terroristi, quelli coinvolti e quelli seriamente sospettati di esserlo, incluso Osama bin Laden, la sua famiglia e i reali sauditi che l’avrebbero sostenuto. Ma anche dopo l’11 settembre l’amministrazione Bush ha continuato a depistare le indagini e a bloccare le inchieste, mentre l’FBI si concentrava in inutili sforzi in Germania invece che nell’Arabia Saudita, dove, secondo l’ex vicedirettore dell’FBI, John O’ Neill, si trovavano le vere radici della rete di bin Laden. In particolare, è documentato come l’amministrazione Bush abbia reso impossibile ogni indagine sulla complicità dell’ISI (i Servizi segreti pakistani) e gli attacchi dell’11 settembre. In realtà esistono motivi per ritenere che attraverso l’ISI36 che ha “stretti legami” con la CIA e svolge il ruolo di strumento degli interessi americani a livello regionale, elementi dell’intelligence militare americana possano essere stati complici diretti nel finanziare e fiancheggiare i terroristi dell’11 settembre»37.
Naomi Klein, nel suo Shock Economy, ha invece denunciato gli interessi privati, che la famiglia Bush e alcuni membri del suo team, come Cheney e Rumsfeld, ebbero nell’invasione irachena, insistendo dunque sul carattere economico-imprenditoriale del piano di espansione globale degli USA, il cui fine sarebbe di “privatizzare il governo”, inserendo le multinazionali, a cui fanno capo gli stessi politici-imprenditori, nelle massime operazioni intraprese dal governo stesso. Nel caso dell’11 settembre, «l’amministrazione Bush usò fin da subito la paura generata dagli attacchi non solo per lanciare la cosiddetta “Guerra al terrore”, ma per assicurarsi che essa fosse un’impresa quasi completamente volta al profitto, una nuova e fiorente industria, che avrebbe soffiato nuova vita nella stagnante economia
americana. Lo si comprende meglio, se lo si chiama “complesso del capitalismo dei disastri”: possiede tentacoli molto più lunghi, rispetto al complesso militare-industriale contro cui Dwight Eisenhower aveva messo in guardia alla fine della sua presidenza. Questa è una guerra globale combattuta a ogni livello da aziende private il cui coinvolgimento è pagato con denaro pubblico, con un mandato vitalizio per proteggere la patria americana in eterno, eliminando il “male” oltreconfine, in ogni sua forma. Nel giro di pochi anni, il complesso ha già espanso il suo mercato potenziale, dalla lotta al terrorismo al peacekeeping internazionale, alle amministrazioni locali, alla risposta ai sempre più frequenti disastri naturali. Il fine ultimo delle grandi imprese al centro del complesso è riportare il modello di governo for-profit, che avanza così rapidamente in circostanze straordinarie, entro il funzionamento ordinario e quotidiano dello Stato. Il fine ultimo è privatizzare il governo»38.
Una sfortunata serie di eventi per O’ Neill I francesi Jean Charles Brisard e Guillame Dasquie, nel loro saggio inchiesta bin Laden: The Forbidden Truth39, hanno ricostruito i rapporti tra le famiglie Bush e bin Laden. Brisard è un consulente privato dei Servizi segreti che nel 1997 si occupò di redigere una relazione per l’intelligence francese su al-Qaeda, mentre Dasquie è redattore di «Intelligence Online». Dalla loro ricostruzione emerge che Osama poté utilizzare le strutture economiche e finanziarie dell’Arabia Saudita, mantenendo contatti con almeno dodici dei suoi fratelli e con vari ufficiale sauditi. Brisard e Dasquie hanno rivelato anche la storia del vicedirettore John O’ Neill40, che nel luglio del 2001 rassegnò le dimissioni perché il Dipartimento di Stato, su volere del presidente Bush, stava bloccando le indagini sull’attentato in Yemen all’USS Cole; attacco, che era stato ricondotto allo Sceicco del Terrore. Brisard riporta quanto gli era stato confidato dallo stesso O’ Neill in due incontri: «Gli ostacoli maggiori alle indagini sul terrorismo islamico erano gli interessi petroliferi statunitensi e il ruolo ricoperto in quest’ambito dall’Arabia Saudita»41. Secondo la ricostruzione di O’ Neill, Washington non intendeva incriminare, e tantomeno catturare, bin Laden in virtù dei legami con i sauditi. Per lo stesso motivo – “il petrolio” – non aveva intenzione di prendere provvedimenti nei confronti dei Paesi che nascondevano bin Laden e la sua cellula del terrore. Come racconta David Icke, O’ Neill venne “premiato”, per il coraggio dimostrato nel dare le dimissioni dall’FBI, con un nuovo impiego di tutto rispetto: venne assunto come capo della sicurezza al World Trade Center, dove morì l’11 settembre 2001. Era il suo primo giorno di lavoro42. Le rivelazioni di O’ Neill43 vennero anche pubblicate in un’intervista on line, in cui Brisard spiegava a Nina Burleigh che, secondo l’ex vicedirettore dell’FBI
«tutto ciò che ha a che fare con bin Laden e al al-Qaeda può essere ricondotto all’Arabia Saudita»44.
Le conclusioni di Ahmed Un altro “cospirazionista” di tutto rispetto, come anticipato, è Naafez Ahmed45. Le conclusioni delle sue ricerche si riassumono nei seguenti punti: gli Stati Uniti e la Russia hanno la responsabilità di avere fomentato l’estremismo religioso in Afghanistan nell’ambito della loro guerra geostrategica. Gli USA, inoltre, sono direttamente responsabili per avere indotto una distorta visione del jihad che, insieme al finanziamento, alla fornitura di armi e all’addestramento dei mujaheddin, ha portato alla nascita del terrorismo. Per proteggere e garantire i propri interessi strategici ed economici46, la Casa Bianca ha tacitamente sostenuto l’ascesa dei talebani. In virtù di considerazioni geostrategiche legate all’accerchiamento dell’Eurasia, il Governo e le Forze Armate americane avevano progettato almeno un anno prima dell’11 settembre il piano di invasione dell’Afghanistan. Il governo statunitense non solo ha cercato di insabbiare il più possibile la verità sull’11 settembre ma ha protetto i reali sauditi e la famiglia bin Laden dalle indagini. Il governo statunitense ha impedito l’incriminazione e l’arresto di Osama, mettendo così in atto una forma di “protezione diretta”. Washington ha permesso che, per anni, sospetti terroristi legati allo Sceicco si addestrassero non solo nelle scuole di volo americane, ma anche in vere e proprie strutture militari finanziate dall’Arabia Saudita. Il piano di un attentato previsto per l’11 settembre era stato segnalato con largo anticipo ai vertici del governo americano, alle agenzie federali e militari e, ovviamente, all’intelligence; eppure, questi impedirono la messa in sicurezza dei possibili obiettivi: il livello di sicurezza al WTC, al contrario, venne abbassato, mentre è noto il fallimento dello scudo aereo al momento dell’attacco. I vertici non solo erano al corrente che qualcosa stava per accadere e non fecero nulla per impedirlo, ma si comportarono anche in modo talmente scellerato e incapace da permettere che i dirottatori (o chi per loro, nel caso di demolizione controllata o di missili teleguidati) si schiantassero contro gli obiettivi. L’11 settembre è mancata totalmente la risposta immediata dell’Air Force: «Si sono così violate le precise regole che, di norma, vengono seguite alla lettera»47. Questo atteggiamento passivo non lo si può spiegare, secondo Ahmed, in base a una semplice “carenza”, ma «solo come risultato di un blocco deliberato delle procedure operative standard, che stabiliscono come si debba agire nelle situazioni d’emergenza»48. Il governo statunitense ha protetto l’ex capo dell’ISI, Mohamoud Ahmad, che si era occupato di finanziare in dollari americani il capo dei dirottatori, Mohammed Atta. Rispondendo alla domanda posta da Patrick Marten: “A chi giova tutto ciò?”, Ahmed risponde chiaramente, puntando il dito contro l’amministrazione Bush, che ha di fatto beneficiato di un consolidamento del potere, dei profitti delle lobby legate alle multinazionali della Difesa, del petrolio e della possibilità di procedere con il piano di espansionismo dell’impero americano, in virtù della costituzione di quell’ordine mondiale tanto caro a Bush padre. I tragici fatti dell’11 settembre sono infatti serviti, da un lato, ovvero in patria, per schiacciare le libertà civili grazie all’introduzione del Patriot Act (confermato da Obama) e dall’altra, ovvero all’estero, per invadere l’Afghanistan e l’Iraq in vista di appalti di ricostruzione miliardari, in modo da conquistarne il
controllo in funzione geostrategica.
L’espansione dell’egemonia militare americana sull’Eurasia, come teorizzato da Brzezinski, imponeva una militarizzazione della politica estera senza precedenti insieme a una creazione capillare di consenso nazionale ed europeo intorno a questa campagna di militarizzazione per la costituzione del NWO. L’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq rientra in questo scenario. Come spiega Vidal, «Osama è stato ritratto, sembrerebbe in modo accurato, come un fanatico islamico. Al fine di portare di fronte alla giustizia (vivo o morto) questo peccatore, l’Afghanistan, obiettivo dell’esercitazione, è stato reso un luogo sicuro non solo per la democrazia, ma anche per la californiana Union Oil, il cui progetto per un oleodotto [respinto dal Mullah Omar; N.d.A.], che partendo dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan e il Pakistan giungesse, fino al porto di Karachi nell’Oceano Indiano, era stato abbandonato sotto il caotico regime dei talebani. Al momento [settembre 2002; N.d.A.], il progetto di costruzione dell’oledotto ha ottenuto l’approvazione, grazie all’insediamento da parte della junta di un impiegato della UNOCAL come inviato americano alla democrazia appena nata, il cui presidente [Amid Karzai; N.d.A.] è anche lui un ex impiegato della UNOCAL. Una volta che l’Afghanistan sembrava essere stato messo nel sacco, la junta, che se l’era cavata con successo nel mettere a segno un colpaccio diplomatico-militare, ha rimpiazzato in un baleno Osama, la personificazione del Male, con Saddam Hussein. Questo, per la junta, è stato difficile da spiegare, dal momento che non c’è nessuna connessione tra l’Iraq e l’11 settembre. Senza dubbio le “prove” le stanno fabbricando proprio in questo momento [settembre 2002; N.d.A.]. Ma è un lavoro arduo, reso ancora più impervio dalle storie, riportate dai media americani, riguardo ai ricchi giacimenti petroliferi dell’Iraq che – in nome della salvezza del mondo libero – devono essere riassegnati al controllo degli USA e dei suoi consorzi petroliferi»49.
La «minaccia nemica enorme, diretta, percepita a livello di massa» teorizzata da Brzezinski si sarebbe così incarnata, all’indomani dell’11 settembre nell’improbabile asse del Male Iraq-Afghanistan: ciò avrebbe reso possibile la “lunga guerra” agognata dall’amministrazione Bush che, come dimostrato da numerosi ricercatori, ha beneficiato anche a livello economico dell’invasione e degli appalti di ricostruzione di due Paesi che sono stati schiacciati e ridotti alla polvere dalla potenza americana.
Un false flag? Stando alle numerose ed evidenti anomalie50, molti ricercatori – come von Bülow, ex ministro della Difesa tedesco negli anni Settanta e poi ministro per la Tecnologia, ex relatore, nel 1993, della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Stasi, la polizia politica della Repubblica Democratica Tedesca – hanno espresso i loro dubbi sulla ricostruzione degli attentati, lasciando intendere, o denunciando pubblicamente, che si sarebbe potuto trattare di una false flag operation messa in atto dai Servizi. Ma pure nel caso di un false flag, in cui la
vera portata e l’obiettivo dell’azione e i veri autori e mandati vengono tenuti segreti e «occultati con estrema cura», tuttavia, «anche per le operazioni pianificate in maniera eccellente e che si consumano segretamente emergono prove e negligenze che potrebbero rivelare il colpevole. Per questo esistono forze di intervento rapido che, di norma, subito dopo il misfatto, raggiungono il luogo del crimine per cancellare ogni traccia»51.
In questo senso, Giulietto Chiesa52 osserva il metodo con cui il mainstream ufficiale distrugge coloro che indagano su una verità alternativa alla versione ufficiale dei fatti, e cita numerosi casi, anche di ex ministri o ricercatori affermati, a partire da Thierry Meyssan, «primo tra gli europei a indagare sull’11 settembre, primo in assoluto a indagare il mistero del volo AA 77, sparito – letteralmente – dentro il Pentagono. E a concludere che non si trattava di un aereo, ma di “qualche cosa d’altro”»53. Destino simile per von Bülow, le cui analisi sono state semplicemente “ignorate”, a partire da un’intervista rilasciata nel 2002 al giornale berlinese «Der Tagesspiegel», in cui egli faceva notare quanto segue: «Esistono negli USA ventisei agenzie di controspionaggio, che costano trenta miliardi di dollari l’anno; più dell’intero bilancio tedesco della Difesa. E non sono state capaci di prevenire gli attacchi […]. Non un sospetto, prima. Per sessanta decisivi minuti, le agenzie militari e di intelligence hanno lasciato a terra i caccia. Quarantotto ore dopo, però, l’FBI presenta una lista completa dei dirottatori suicidi, ma dieci giorni dopo risulta che sette di loro sono ancora vivi».
Von Bülow, tra l’altro, faceva notare l’assurdità delle tracce lasciate ovunque proprio dai dirottatori; un comportamento, questo, difficilmente comprensibile, per terroristi di “professione” che vogliano restare nell’ombra e non essere rintracciati né prima né dopo l’attentato: «Pagano con le loro carte di credito, danno i loro veri nomi agli istruttori di volo. Si lasciano dietro auto noleggiate con manuali di volo in arabo. Portano con sé, nel loro viaggio verso il suicidio, ultime volontà e lettere di addio, che cadono nelle mani dell’FBI perché le hanno messe nel posto sbagliato, con indirizzi sbagliati. Suvvia, sono segnali lasciati sul percorso come in una caccia al tesoro per bambini»54.
Al contrario, per la Commissione, l’attentato sarebbe stato un capolavoro, dal punto di vista tecnico e organizzativo, nonostante le oltre duecento plateali omissioni, incongruenze o falsità contenute nel Rapporto della Commissione d’inchiesta sull’11 settembre, come documentato da David Ray Griffin. NOTE 1. Traduzione: «Prima tocca all’Iraq, poi all’Iran».
2. Citazione raccolta da Elido Fazi. Si veda, in merito: Elido Fazi, La terza guerra mondiale? La verità sulle banche, Monti e l’euro, Fazi editore 2012, p. 80. 3. Andrea von Bülow, ex ministro tedesco per la Ricerca e la Tecnologia, in Zero. Perché la versione ufficiale sull’11/9 è un falso, Piemme, 2007. 4. Discorso del presidente G. W. Bush per i diplomi a West Point, 1 giugno 2002: http://www.whitehouse.gov/news/releasese/2002/06/20020601-3.html. 5. Naomi Klein, Shock Economy, BUR, Milano 2007, p. 25. Titolo originale: The Shock Doctrine. 6. John Perkins, op. cit., p. 257. 7. Ivi, pp. 258-259. 8. Operation Desert Storm, 2 agosto 1990 - 28 febbraio 1991. 9. Zbigniew Brzezinski, L’ultima chanche. La crisi della superpotenza americana, Salerno editrice, 2008, p. 59. Titolo originale: Second Chance, Three Presidents and the Crisis of American Superpower, 2007. Traduzione di Amedeo Romeo. 10. Ivi, p. 63. 11. Ivi, p. 59. 12. Ivi, p. 59. 13. David Ray Griffin, in Zero. Perché la versione ufficiale sull’11/9 è un falso, a cura di Giulietto Chiesa, pp. 48-49, PIEMME. 14. 1 giugno 2002, West Point. 15. Si veda http://georgewbush-whitehouse.archives.gov/nsc/nss/2002/ e il sito con la traduzione italiana http://www.cooperweb.it/societaeconflitto/dottrina_bush.html. 16. Lettera di presentazione del presidente Bush al Programma per la sicurezza nazionale del 17 settembre 2002. http://georgewbush-whitehouse.archives.gov/nsc/nss/2002/nssintro.html. 17. http://www.cooperweb.it/societaeconflitto/dottrina_bush.html. 18. Ibidem. 19. James Maan, Rise of the Vulcans: the History of Bush’s War Cabinet, Viking, New York 2004, pp. 316 e ss. 20. David Ray Griffin in Zero, cit., 2007. 21. Ashton Carter, John Deutch, Philip Zelikow, Catastrophic Terrorism: Tackling the New Danger, in «Affari Esteri», 1998, pp. 80-94. Disponibile traduzione italiana in Zero, cit., p. 51. 22. Il 27 maggio 2011, mentre gli occhi del mondo erano puntati su Deauville, sulla generosità dell’Occidente per finanziare le “democrazie” nascenti dalla Primavera Araba, il Presidente americano ha dato il via libera, in sordina, alla conferma del contestato Patriot Act (legge tutt’ora molto discussa, concepita con il preciso scopo di ridurre gli attacchi terroristici negli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001), estendendo il pacchetto di limitazioni alla privacy fino al 2015. Obama che durante la prima campagna elettorale aveva espresso aspre critiche nei confronti del Patriot Act, si è difeso dalle accuse di ipocrisia, definendo la legge «uno strumento importante per tutti noi». 23. David Ray Griffin in Zero, cit., p. 51. 24. Ibidem. 25. Siamo nel 1997. 26. Gore Vidal, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità. Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l’Iraq e altri saggi, Fazi editore, 2002, p. 17. 27. «USA Today», 23 novembre 2001. 28. Zbigniew Brzezinski, L’ultima chanche. La crisi della superpotenza americana, cit., p. 100. 29. http://articles.cnn.com/2002-01-29/ politics/inv.terror.probe_1_daschle-houseand-senate-intelligenceintelligence-committee?_s=PM:ALLPOLITICS. 30. Gore Vidal, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità…, cit., pp. 25-26.
31. Si veda l’articolo di Enrica Perucchietti, 11/9: ancora lontani dalla verità. Anche la portavoce dei parenti delle vittime denuncia l’insabbiamento, in http://ildemocratico.com/2011/09/11/ 119-ancoralontani-dalla-verita-anche-la-portavoce-dei-parenti-delle-vittime-denuncial%E2%80%99insabbiamento/. 32. «La Stampa», 11 settembre 2011. 33. «American Free Press», 4 dicembre 2001. 34. Citazione di Patrick Martin: in Naafez M. Ahmed, Guerra alla libertà. Il ruolo dell’amministrazione Bush nell’attacco dell’11 settembre, Fazi editori, 2002, p. 251. 35. Naafez M. Ahmed, op. cit., p. 251. 36. Seguendo questa pista, già indicata dall’ex premier pakistana Benazir Bhutto un mese prima del suo omicidio, non sarebbe un caso che lo Sceicco del terrore (o chi per lui) sia stato catturato dai Navy Seals proprio in Pakistan. 37. Ibidem. 38. Naomi Klein, op. cit., p. 19. 39. Jean Charles Brisard e Guillame Dasquie, Bin Laden: The Forbidden Truth, Paperback, 2002. 40. http://www.nationalcorruptionindex.org/pages/profile.php?profile_id=274. 41. http://www.salon.com/2002/02/08/forbidden/. 42. Si veda David Icke, Alice nel Paese delle meraviglie e il disastro delle Torri Gemelle, Macro Edizioni, Cesena 2003, p. 111. 43. http://www.hereinreality.com/johnoneill.html. 44. http://www.salon.com/2002/02/08/forbidden/. 45. http://en.wikipedia.org/wiki/Nafeez_Mosaddeq_Ahmed. 46. Ovvero fino al rifiuto del Mullah Omar di appaltare la costruzione dell’oledotto alla statunitense Union Oil. 47. Ivi, p. 253. 48. Ivi, pp. 253-254. 49. Gore Vidal, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità, cit., pp. 17-18. 50. Dal WTC7, il terzo grattacielo del World Trade Center che collassò senza essere però stato colpito dagli aerei, al foro d’impatto dell’oggetto schiantatosi contro il Pentagono, che – al di là dell’improbabile virata estremamente ardua da compiere anche da parte di piloti professionisti – fa pensare si trattasse di un missile teleguidato. In questo caso, l’ex ministro von Bülow fece notare che non si erano trovati i resti del velivolo, così come quelli dei passeggeri e dei bagagli. Il profilo dell’impatto non corrispondeva alle misure esterne dell’aereo, e tantomeno al posizionamento e alla forza di impatto dei due propulsori. Persino Hosni Mubarak, l’ex presidente egiziano con un passato da pilota militare, intervistato al riguardo da un giornalista della CNN avanzò l’ipotesi che, per poter compiere quelle manovre, dovevano essere stati fatti numerosi sopralluoghi aerei: «Nessun servizio segreto al mondo avrebbe potuto dire che i terroristi hanno preso aerei di linea con passeggeri a bordo per schiantarsi contro le Torri Gemelle e contro il Pentagono. Quelli che l’hanno fatto, dovevano avere prima sorvolato a lungo la zona, per esempio. Il Pentagono non è molto alto e un pilota che vuole prenderlo di mira per colpirlo deve avere sorvolato spesso la zona, per rendersi conto degli ostacoli cui sarebbe andato incontro, volando a una quota così bassa con un grosso aereo di linea per colpire l’obiettivo da una posizione ben precisa. Qualcuno ha studiato molto bene la cosa, qualcuno ha sorvolato spesso quella zona». Incalzato dal giornalista della CNN, Mubarak cercò di non sbilanciarsi troppo – altrimenti avrebbe dovuto ammettere ufficialmente la possibilità che si fosse trattato di un false flag – lasciando abilmente che, dalle sue premesse “tecniche” da ex pilota, fosse il pubblico a dedurre una conclusione… 51. Ibidem. 52. http://lists.peacelink.it/pace/2006/09/msg00101.html Prefazione di Giulietto Chiesa a: Philip J. Berg,
William Rodriguez, L’11 settembre Bush ha mentito – Il documentato atto d’accusa del guardiano delle Twin Towers, Editori Riuniti, 2006. 53. Si vedano i suoi due libri, L’incredibile menzogna, Fandango, 2002 e Il Pentagate, Fandango, 2003. 54. Intervista rilasciata a «Der Tagesspiegel», il 13 gennaio 2002.
GUERRA AL TERRORISMO, OVVERO GLI INTERESSI DELLE LOBBY IN IRAQ E IN AFGHANISTAN «Ogni dieci anni, all’incirca, gli Stati Uniti devono prendere per la gola qualche piccolo riottoso Paese e scaraventarlo contro un muro, così, tanto per mostrare al mondo ciò che noi intendiamo per affari». (Michael Leeden) «In Iraq non ci sono più armi di distruzione di massa». (Silvio Berlusconi, 16 ottobre 20021) «Sappiamo che ci sono prove certe sulle armi di Saddam su cui siamo però tenuti alla riservatezza». (Silvio Berlusconi, 23 gennaio 2003) «Ora che tutto è stato svelato, vorrei che voi, iracheni, chiedeste agli invasori: “Dove sono le armi, che voi avete rimproverato all’Iraq di nascondere e che voi avete usato come pretesto per portare la guerra e l’aggressione contro il nostro Paese?”». (Saddam Hussein, luglio 20032) «[L’attuale guerra in Iraq; N.d.A.] costituisce una rara opportunità di muoversi verso un periodo storico di cooperazione. Da questi tempi difficili può emergere. un nuovo ordine mondiale». (George H.W. Bush, discorso al Congresso Americano, 11 settembre 1990) «L’Afghanistan di oggi non è che il prodotto di una guerra combattuta da altri sul suo territorio». (Matt Freii3) «Strano che Bush e Cheney siano così elettrizzati all’idea di mandarci in guerra, quando, ai tempi del Vietnam, erano entrambi quelli che si definiscono imboscati […]». (un veterano di guerra a Gore Vidal4) «Non andiamo in Iraq per costruire una nazione. Andiamo a creare una nazione». (Thomas Friedman5)
Le altalenanti dichiarazioni di Berlusconi sull’Iraq Se i piani per l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq esistevano dal 2000, la ragione del secondo conflitto in Iraq non poteva essere dunque una “reazione” all’11 settembre, né la presenza delle armi di distruzione di massa (ADM), che si sarebbe presto rivelata una bufala architettata per giustificare l’intervento bellico. Ad ammettere che non esistevano pericoli sul fronte iracheno fu l’ex premier italiano Silvio Berlusconi che il 16 ottobre 2002, durante una visita a Mosca, in presenza di giornalisti russi, dichiarò: «In Iraq non ci sono più armi di distruzione di massa». Il polverone suscitato dalle sue dichiarazioni spinse il
Presidente del Consiglio, una volta rientrato in Italia, a minimizzare, ricorrendo al solito trucco consistente nel rivolgere ai giornalisti l’accusa di avere maliziosamente travisato quanto dichiarato. Si deve dare atto a Berlusconi dell’impegno6, per quanto irrisorio, da altri definito invece ipocrita, a favore del non intervento: posizione che subì una virata il 23 gennaio 2003, due mesi prima dello scoppio del conflitto, quando, per motivi che ci sfuggono, egli dichiarò: «Sappiamo che ci sono prove certe sulle armi di Saddam, su cui siamo tenuti alla riservatezza». Eppure, appena quattro giorni prima, il 19 gennaio, il premier italiano aveva invitato l’opinione pubblica e gli alleati ad avere pazienza e a dare agli Ispettori ONU «tutto il tempo che ritengono necessario»7.
Per il ministro Meacher la guerra al terrorismo è una “fandonia” E che dire delle dichiarazioni dell’ex ministro dell’Ambiente britannico in carica dal maggio 1997 al 2003, Michael Meacher che, in un articolo pubblicato su «The Guardian» il 6 settembre 2003 col titolo This war on terrorism in bogus8, «spiegò ai suoi concittadini inglesi, essendo egli ancora in carica, che la guerra al terrorismo era, testualmente, il prodotto di un progetto di “pace americana globale” che “era stato tracciato da Dick Cheney (Vicepresidente), da Donald Rumsfeld (Segretario della Difesa), da Paul Wolfowitz (vice di Rumsfeld), Jed Bush (fratello minore di Bush) e da Lewis Libby (Capo di Gabinetto di Cheney) nel settembre del 2000”9. Cioè ben prima dell’11 settembre»10.
Meacher esordiva, nel suo articolo scrivendo che la versione ufficiale dell’11 settembre era falsa e che la conseguente decisione di entrare in guerra era motivata da ben altre ragioni da quelle sbandierate dall’amministrazione Bush e dal solidale governo Blair: «Questa versione non si adatta a tutti i fatti. La verità potrebbe rivelarsi molto più oscura»11 e, ancora; «il piano [di invasione dell’Iraq; N.d.A.] dimostra che l’amministrazione Bush intendeva impadronirsi del controllo militare dell’area del Golfo indipendentemente dal governo di Saddam»12. Ovvero, anche se non ci fosse stato Saddam al potere, si sarebbe trovata un’altra motivazione per invadere l’Iraq, che serviva per scopi strategici. Ovviamente, queste riflessioni costarono il posto a Meacher, che fu prontamente silurato da Blair. Giulietto Chiesa ricorda inoltre che una delle conseguenze dell’11 settembre e della guerra al terrorismo è stata l’introduzione del Patriot Act, la cui bozza esisteva già da un anno. Fino al quel momento era mancata l’occasione giusta per potere introdurre una così drastica riduzione della privacy dei cittadini senza
sollevare una protesta di massa: «Esiste un nesso tra l’11 settembre, il Patriot Act, che era già pronto prima che avvenisse l’11 settembre, e questa pratica “contraria allo stato di diritto e al nostro sistema costituzionale della separazione dei poteri”13? Negarlo appare difficile. Ma non appena si cerchi di approfondire il tema, ecco riapparire l’accusa di “complottismo”»14.
L’appoggio incondizionato a Israele Secondo lo storico Webster Tarpley, la strategia elaborata dal Pentagono all’indomani dell’11 settembre «risultò un mix tra le formulazioni più imperialiste espresse nella bozza di documento sulla sicurezza preparato nel 1991 dai funzionari del Dipartimento della Difesa dell’amministrazione del primo Bush (molti dei quali erano tornati come consiglieri del secondo), e le nozioni militanti della visione del mondo dei neoconservatori, con una preoccupazione particolare per il Medio Oriente. Dal punto di vista strategico, la “guerra al terrore” rifletteva le tradizionali smanie imperialiste riguardo al controllo delle risorse del Golfo Persico, oltre al desiderio dei neocon di incrementare il livello di sicurezza in Israele con l’eliminazione della minaccia irachena»15.
Abbiamo il massimo stratega americano, l’ebreo di origine polacca Zbigniew Brzezinski, il quale ammette il ruolo che Israele ha avuto nel decretare la seconda invasione irachena. Il conflitto del 2003 assunse anche un tono apocalittico, fanatico, di “divina vocazione”, attraverso le parole dello stesso Bush, mentre «la guerra al terrorismo sempre di più assunse i toni minacciosi di una collisione con il mondo islamico nel suo complesso»16. Il neoconservatorismo manicheo di Bush figlio e l’islamofobia sfacciata della Casa Bianca confermavano che la missione speciale degli USA era anche quella di proteggere preventivamente Israele. L’opposizione di Washington alle armi di distruzione di massa (motivo ufficiale dell’intervento in Iraq) è infatti nota, ma non dobbiamo dimenticare che è stato invece chiuso un occhio sui 200 ordigni nucleari nella disponibilità di Israele. Perché una politica di due pesi e due misure? Avanzano un’ipotesi John Mearsheimer e Stephen Walt in La Israel lobby e la politica estera americana: «Il governo americano si è opposto a lungo alla proliferazione delle armi atomiche e ha esercitato pressioni su decine di Stati affinché firmassero il Nuclear non Proliferation Treaty (NPT), ma i leader americani hanno fatto ben poco per indurre Israele a interrompere il suo programma nucleare e a firmare l’accordo»17.
Inoltre, invece di sopprimere o ridimensionare i propri finanziamenti e prestiti a fondo perduto per Israele, in modo da convincere il Paese ad abbandonare il
nucleare, gli USA li hanno aumentati in maniera capillare e incondizionata18! Israele, infatti, continua a ricevere miliardi di dollari all’anno anche quando intraprende delle azioni, che gli stessi leader USA non condividono e che addirittura possono ritorcersi contro la politica americana, incrementando l’astio dei Paesi arabi e musulmani: «Israele continua a ricevere aiuti nonostante il rifiuto di firmare l’NPT e nonostante i suoi vari programmi ADM19. Riceve aiuti quando costruisce insediamenti nei territori occupati (perdendo soltanto una quota marginale per la riduzione delle garanzie di prestito), anche se si tratta di una politica che il governo americano non approva. E riceve aiuti anche quando si annette territori conquistati (come è avvenuto con le alture del Golan e con Gerusalemme), quando vende tecnologia militare a un potenziale nemico come la Cina, quando effettua operazioni di spionaggio in territorio statunitense, o quando usa armi americane secondo modalità che violano le leggi USA (come l’impiego di proiettili a frammentazione in aree civili in Libano). Quando collabora al processo di pace riceve aiuti extra, ma raramente perde il supporto degli USA per aver compiuto azioni che ne ostacolano il conseguimento. Riceve aiuti persino quando i suoi leader si rimangiano le promesse fatte ai presidenti americani»20.
Difficile non vedere il lato “ironico” della geopolitica americana: «Washington ha insistito per convincere molti altri Stati ad aderire all’NPT, ha imposto sanzioni contro Paesi che, sfidando le richieste americane, si sono dotati di armi nucleari, nel 2003 è scesa in guerra per scongiurare il pericolo che l’Iraq si procurasse ADM, e per lo stesso motivo ha preso in considerazione l’ipotesi di attaccare l’Iran e la Corea del Nord. E, nonostante ciò, gli Stati Uniti sovvenzionano da tempo un alleato [Israele; N.d.A.], di cui si sa che persegue programmi ADM e i cui arsenali nucleari hanno offerto ad alcuni Stati limitrofi un notevole incentivo ad applicarsi per entrare in possesso di ADM»21.
Evidentemente, la politica americana si basa su due pesi e due misure. Ma allora, quali erano i veri motivi dietro la guerra in Iraq, fermo restando che il Paese non aveva ADM?
La Israel lobby dietro la guerra «Finirò nella tomba senza conoscere la risposta», lamentava Richard Haass22, direttore della pianificazione politica al Dipartimento di Stato nella prima amministrazione Bush e presidente del CFR. Haass, nonostante il ruolo che ricopriva, lamentava l’incomprensione in merito alle vere ragioni che avevano convinto il Pentagono a organizzare l’invasione dell’Iraq. L’ignoranza delle cause reali del conflitto derivava dall’indeterminatezza di una guerra inutile e disastrosa. Le sue stesse manie tiranniche rendevano Saddam incompetente su più fronti, primo tra tutti quello bellico: il suo esercito era stato inoltre indebolito dalla prima Guerra del Golfo nel 1991 e dal successivo decennio di sanzioni ONU. Nel 2003, anno del secondo conflitto, la potenza militare dell’Iraq era ridotta a nulla.
Come attestano John Mearsheimer e Stephen Walt, «accurate ispezioni delle Nazioni Unite avevano reso inefficace il programma nucleare iracheno e, alla fine, indotto lo stesso Saddam a smantellare il proprio arsenale batteriologico e chimico. Non esistevano prove convincenti di un legame tra Saddam e Osama bin Laden (anzi, i due erano reciprocamente ostili), e il terrorista arabo, con i suoi accoliti, aveva trovato rifugio in Afghanistan o in Pakistan, non in Iraq»23.
Allora, perché l’amministrazione Bush dopo l’intervento in Afghanistan decise di intervenire anche in Iraq, invece di concentrarsi su al-Qaeda? Secondo numerosi ricercatori, tra cui John Mearsheimer e Stephen Walt, dietro questa decisione ci sarebbero state le pressioni delle lobby ebraiche e dei politici americani filoisraeliani: «Affermiamo che la guerra è stata motivata, almeno in buona parte, dal desiderio di rendere più sicuro Israele. […] Per essere chiari: gli individui e i gruppi che hanno promosso la guerra erano convinti che ne avrebbero tratto beneficio tanto gli Stati Uniti quanto Israele, e certamente non prevedevano la débâcle che si è invece verificata».
Su questo punto Mearsheimer e Walt sono stati molto chiari: il loro saggio è ben documentato e si avvale di prove inconfutabili. Tra le persone considerate degne di fede che hanno dichiarato apertamente che la guerra era motivata dalla sicurezza di Israele troviamo infatti numerosi giornalisti, dirigenti di Stato, militari, agenti CIA; ecc; ecco, di seguito, i nomi di alcuni di loro: Philip Zelikow, che il 10 settembre 2002 ha dichiarato, davanti alla platea della University of Virginia che Saddam Hussein non rappresentava una minaccia diretta per gli Stati Uniti. La «vera minaccia, invece, è quella contro Israele […] ma questa è una minaccia di cui non si osa fare il nome perché gli europei non se ne sono particolarmente occupati […] e il governo americano non vuole farvi riferimento troppo apertamente, perché non sarebbe facile farla accettare»24. Wesley Clark, ex comandante NATO e allora candidato alla Presidenza, nell’agosto del 2002 ha ammesso che «anche chi è favorevole a un attacco immediato vi direbbe candidamente, ma in privato, che è probabilmente vero che Saddam Hussein non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti. Ma esiste il timore che, una volta procuratosi un ordigno nucleare, lo possa usare contro Israele»25. Il giornalista Joe Klein, sul settimanale «Time», una settimana prima dell’inizio del conflitto scriveva: «Il rafforzamento di Israele è un elemento imprescindibile della giustificazione di una guerra con l’Iraq. È parte di un’argomentazione che non si osa rivelare pienamente, di una fantasia nutrita dalla fazione neoconservatrice nell’amministrazione Bush e da molti leader della comunità ebraica americana»26. L’ex senatore Ernest Hollings ha adottato un’argomentazione simile a quella di Klein nel maggio del 2004, asserendo che la ragione dell’invasione dell’Iraq «tutti la conoscono»: è «perché volevamo rendere più sicuri i nostri amici israeliani»27. Per questa dichiarazione, Hollings è stato bollato come antisemita da svariati gruppi ebraici. Il giornalista Michael Kinsley, nell’autunno del 2002, quando si faceva più chiara l’imminente invasione dell’Iraq, scrisse che «la mancanza di un dibattito politico sul ruolo di Israele […] è
come il proverbiale elefante nella stanza: tutti lo vedono, ma nessuno ne parla»28. Nathan Guttman, due settimane prima dell’inizio del conflitto, riferì che sulle pagine di «Haaretz» «le voci che collegano Israele alla guerra si fanno sempre più insistenti. Si afferma che il desiderio del presidente Bush di aiutare Israele sarà una delle ragioni principali dell’eventuale invio di militari americani a combattere una guerra superflua nel Golfo Persico. E queste voci vengono da ogni direzione»29. Bill Keller, direttore esecutivo del «New York Times», pochi giorni dopo le esternazioni di Guttman, scrisse: «L’idea che questa guerra riguardi Israele è persistente e assai più diffusa di quanto si pensi». Altri personaggi pubblici come Patrick Buchanan, Arnaud de Borchgrave, Maureen Dowd, Georgie Anne Geyer, Ruth Wedgwood, Bill Keller, Gary Hart, Chris Matthews, l’esponente dle Congresso James P. Moran, Robert Novak, Tim Russert e il generale Anthony Zinni «hanno detto esplicitamente o lasciato chiaramente intendere che i filoisraeliani americani più radicali sono stati fra i principali suggeritori dell’invasione dell’Iraq». A costoro si aggiungono i funzionari neoconservatori dell’amministrazione Bush come Paul Wolfowitz e Douglas Feith (rispettivamente numero due e tre del Pentagono), Richard Perle, Kenneth Adelman, James Woolsey, “Scooter” Libby (a capo dello staff del Vicepresidente), John Bolton, David Wurmser, Elliot Abrams. “Scooter” Libby all’inizio del 2003 contribuì alla stesura dell’informativa sulla minaccia irachena, che fu passata a Colin Powell per la presentazione al Consiglio di Sicurezza all’ONU. Secondo la testimonianza del giornalista premio Pulitzer Bob Woodward, allora vice di Powell, Richard Armitage «era stupefatto per quelle che considerava esagerazioni e iperboli. Libby traeva solo le peggiori conclusioni da frammenti di notizie inconsistenti e non verificate». Libby rappresentava il tipico esempio di manipolazione delle informazioni di intelligence. Powell dovette poi ammettere che la sua presentazione era costellata di errori. Wolfowitz, invece, in un incontro con Bush avvenuto a Camp David il 15 settembre 2001, espresse con decisione la necessità di attaccare l’Iraq prima dell’Afghanistan, benché non esistessero prove di un coinvolgimento di Saddam con al-Qaeda. Wolfowitiz insisteva talmente tanto sulla necessità di rovesciare Saddam che Cheney si infastidì e gli chiese di «smetterla di agitarsi tanto per imporre quell’obiettivo»30. Secondo un membro repubblicano del Congresso, Wolfowitz ripeteva di continuo, come un pappagallo, che era necessario invadere l’Iraq.
L’impegno degli israeliani nel convincere l’amministrazione Bush a entrare in guerra contro l’Iraq avrebbe avuto inizio almeno nella primavera del 2002, se non prima: «L’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si recò negli Stati Uniti alla metà di aprile di quell’anno [2002; N.d.A.] per incontrare, fra gli altri, alcuni senatori e giornalisti del «Washington Post», e avvertirli che Saddam stava sviluppando ordigni nucleari, celati in valigie o borse, in grado di colpire obiettivi sul territorio degli Stati Uniti. […] Alla metà di maggio [2002; N.d.A.], l’ex primo ministro di Israele Shimon Peres, in quel momento responsabile del dicastero degli Esteri, apparve alla CNN, dove dichiarò che “Saddam Hussein è pericoloso quanto bin Laden” e che gli stati Uniti “non possono stare seduti a guardare” mentre si dota di un arsenale nucleare. Anzi, Peres suggerì di rovesciare il leader iracheno. […] Il 12 agosto 2002 Sharon dichiarò alle commissioni Affari esteri e Difesa della Knesset che l’Iraq “è il maggior pericolo che Israele deve affrontare”»31.
Ancora Peres, nel settembre del 2002, facendosi partecipe della preoccupazione di Israele per l’eventualità di un mancato intervento in Iraq –
date le indecisioni da parte della Casa Bianca – dichiarò ai giornalisti: «La campagna [bellica; N.d.A.] contro Saddam Hussein è un obbligo», mentre alla fine di settembre, durante una visita a Mosca, Sharon tentò di convincere Putin, uno dei maggiori sostenitori di una nuova tornata di ispezioni dell’ONU, che ormai era troppo tardi perché fossero “efficaci” e che l’unica strada percorribile era la guerra. Ad affiancare Peres e Sharon, nella loro campagna di convincimento, ci si misero anche gli ex primi ministri Barak e Netanyahu. Il primo scrisse un articolo per il «New York Times» all’inizio del settembre 2002, nel quale sosteneva che «il programma di armamento nucleare di Saddam Hussein ci mette nell’urgente necessità di rimuoverlo», adducendo come motivazione la presenza di un vero e proprio “pericolo”. Netanyahu, invece, sul «Wall Street Journal», due settimane dopo, pubblicò un promemoria – in cui erano spiegate le ragioni di Israele per convincere Washington a entrare in guerra – dal titolo inequivocabile: I motivi per rovesciare Saddam. Riassumendo le dichiarazioni capillari dei mesi precedenti utilizzate per eliminare i dubbi dell’amministrazione Bush sull’entrata in guerra, Netanyahu scriveva che «oggi non serve altro che rovesciare quel regime» e che era convinto «di rappresentare la maggioranza degli israeliani nel sostenere un attacco preventivo contro il regime di Saddam», a suo dire, «febbrilmente intento a dotarsi di armi nucleari». La febbre da nucleare non venne mai comprovata, anzi, fu dimostrata l’assenza delle armi di distruzione di massa addotte per giustificare l’intervento: un intervento, che rappresentava semmai il desiderio della parte ultraconservatrice e sionista di Israele, ma non quello degli USA né tantomeno dell’Europa. Non a caso, la classe militare e la CIA avevano al loro interno numerosi scettici sull’intervento in Iraq.
Il “marchio di fabbrica” dei Bush: il NWO A supporto delle “teorie del complotto”, vi sono le dichiarazioni di un consigliere di Bush figlio che, come riferito da Ron Suskind nell’ottobre del 2004 sul «New York Times», si sarebbe vantato della capacità manipolatrice della Casa Bianca: «Ora siamo un impero, e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi studierete quella realtà – giudiziosi, come siete soliti essere – noi agiremo ancora, creando altre realtà, che potrete ancora studiare, ed è così che vanno le cose. Noi siamo i protagonisti della storia […] e voi, tutti voi, non potrete fare altro che studiare ciò che noi facciamo».
In questo delirio d’onnipotenza è riscontrabile il sogno a occhi aperti
dell’amministrazione Bush di plasmare l’opinione pubblica, e dunque la “storia”, per portare a compimento il progetto già auspicato da Bush padre, nel lontano 11 settembre 1990 quando, riprendendo l’auspicio di Michail Gorbaciov, aveva dichiarato: «Ha inizio una nuova collaborazione tra le nazioni, e noi oggi ci troviamo di fronte a un momento unico e straordinario […] da quest’epoca agitata […] può emergere un nuovo ordine mondiale […] nel quale le nazioni del mondo, a oriente e a occidente, a nord e a sud, potranno prosperare e vivere in armonia».
Il collaboratore di Bush figlio aveva sintetizzato quello che Brzezisnki definisce ironicamente il “marchio di fabbrica” di Bush padre, ovvero l’istituzione del “nuovo ordine mondiale”. Una visione del mondo che Bush avrebbe ufficialmente “tratto” da Gorbaciov, il quale, il 7 dicembre 1988 presso l’Assemblea generale dell’ONU, aveva dichiarato: «Siamo entrati in un’era in cui il progresso si baserà sugli interessi di tutta l’umanità. Tale nozione richiede che le politiche mondiali siano determinate ponendo davanti a tutti i valori dell’umanità intera […] Un progresso ulteriore è possibile solo tramite la ricerca del consenso di tutta l’umanità, in movimento per un nuovo ordine mondiale».
Come abbiamo visto, però, la priorità di istituire un “nuovo ordine mondiale” ha origini ben più remote, ancora più vecchie di quelle del “mondo unico”, auspicato nel 1945 da Franklin Delano Roosevelt al termine della seconda guerra mondiale… Inoltre la riunione annuale del Club Bilderberg del 1991, che si tenne a Baden Baden, non solo auspicava la liquidazione progressiva dell’ONU in modo da sostituire l’organismo internazionale con un NWO, ma stabiliva anche le tappe future per la costituzione del mondialismo, in modo che l’accentramento del potere politico finisse una volta per tutte concentrato nelle mani di non più di 300 multinazionali, a loro volta controllate da una manciata di superbanche. Nel 1995, lo speculatore miliardario ebreo e sionista George Soros, già responsabile del crollo della lira nel 1992 e poi finanziatore di Obama, proclamava a gran voce il manifesto del NWO: «Occorre un Governo mondiale: un’esigenza tanto più sentita ora, dopo il fallimento delle Nazioni Unite, avvenuto proprio quando la fine dell’Unione Sovietica aveva creato le condizioni per far funzionare l’organizzazione secondo i principi originari»32.
L’errore di Saddam A parte l’influenza di Israele sull’amministrazione Bush, si contano anche altre ragioni per avere affrettato un intervento tanto inutile quanto disastroso. Il
piano di invasione dell’Iraq era già stato organizzato a grandi linee dal Pentagono ben prima dell’11 settembre. Oltre al petrolio, infatti, si annoverano altre cause, che potrebbero avere spinto Washington a decidere di rovesciare il ra‘īs. Per cominciare, Saddam aveva proposto all’OPEC33 di abbandonare l’utilizzo del dollaro per la compravendita del petrolio. Ciò avrebbe sicuramente comportato, se non il tracollo del dollaro – come è stato addirittura ipotizzato da alcuni ricercatori – almeno la sua svalutazione. Il dittatore iracheno stava inoltre trascinando nel suo progetto – come avrebbe fatto in seguito Gheddafi – i Paesi dell’OPEC appartenenti all’area del Medio Oriente: Iran, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi. Anche la Libia apparteneva, dal 1962, all’OPEC e la decisione di Gheddafi di abbandonare il dollaro avrebbe portato alle stesse conseguenze del progetto di Saddam. Quest’ultimo aveva già iniziato ad accettare altre valute per la compravendita del petrolio e aveva dato il via alla conversione in euro delle sue riserve: ciò per tutelarsi dall’andamento del dollaro. In caso di perdita di valore del dollaro, i Paesi membri dell’OPEC avrebbero avuto minori entrate per il loro petrolio. Così, non appena entrò in vigore la nuova valuta europea, le intere riserve irachene «ammontanti a 10 bilioni di dollari»34 furono convertite in euro. È facile immaginare quanto seriamente la decisione del ra‘īs di accettare pagamenti in euro avrebbe potuto danneggiare l’economia americana. Come ricorda Elido Fazi, «nel 2000 il ra‘îs di Baghdad, Saddam Hussein, fece una mossa che gli osservatori internazionali, i pochi che ne parlarono, definirono giustamente politica: convertire in euro il fondo iracheno gestito dalle Nazioni Unite, nel quadro del programma Oil for Food. Tale piano di finanziamenti era stato attuato nel 1995 dalle Nazioni Unite – e fortemente voluto dall’amministrazione Clinton – per ridurre gli effetti sul popolo iracheno delle sanzioni internazionali imposte dopo l’invasione del Kuwait, consentendo così al Paese di vendere il proprio petrolio sul mercato mondiale in cambio di cibo, medicine e altri aiuti umanitari destinati alla popolazione, senza che tuttavia il denaro ricavato potesse essere usato dal regime per ricostruire il proprio arsenale militare».
Evidentemente, la scelta della conversione in euro era l’ennesimo segnale politico di sfida al governo Bush, giudicato da alcuni come una «punizione alla linea dura delle sanzioni di Washington»35 e al contempo un segnale d’incoraggiamento lanciato all’Unione Europea per contrastarle. Charles Recknagel previde che la scelta politica di Saddam sarebbe però costata «milioni di euro in mancati guadagni»36 all’Iraq. Le due mosse irachene puntavano probabilmente all’ennesimo atto di sfida contro gli USA per contrastare l’embargo e favorire una nuova politica europea volta al ridimensionamento o all’abolizione delle sanzioni. Ovvio che il dittatore
andasse fermato velocemente, prima che anche gli altri Paesi si unissero nell’impresa: «L’economia statunitense è strettamente legata al ruolo del dollaro come moneta d’interscambio internazionale e qualora questo ruolo venisse meno all’improvviso l’intero suo funzionamento andrebbe in crisi»37. In questo senso, la militarizzazione costante dell’area del Golfo Persico fino alla Libia avrebbe la funzione di un “monito permanente” per altri Paesi membri dell’OPEC in particolare l’Iran e l’Arabia Saudita. Non a caso, il piano energetico di sviluppo petrolifero varato dall’allora vicepresidente Dick Cheney tendeva a favorire i Paesi che non appartenevano all’OPEC; ma, per attuare il disegno era necessario «il controllo del territorio afghano, insostituibile via per il trasporto del greggio. Dopo la rottura delle trattative con il governo dei talebani, portate avanti ignorando le sanzioni dell’ONU e la tragedia dell’11 settembre, bin Laden veniva additato come il nemico più pericoloso e iniziava l’attacco contro l’Afghanistan»38. La seconda guerra del Golfo, il rovesciamento del regime e l’uccisione del ra‘īs rientrerebbero in questo contesto: il tentativo prometeico di Saddam di emanciparsi dal dollaro e dalla longa manus USA. Il fatto che nel 2002 anche la Banca Centrale Iraniana e la Corea del Nord abbiano, anche se solo in parte, convertito le proprie risorse dal dollaro all’euro, può gettare una nuova luce sui propri rapporti esteri.
La trappola afghana Se la tragedia dell’11 settembre si tradusse in una “opportunità” per gli affari privati della Casa Bianca, gli interessi di USA e URSS in Medio Oriente si concentrarono molto – prima ancora che in Iraq – in Afghanistan. Verso la fine degli anni Settanta, entrambe le superpotenze, infatti, ambivano a inglobare il Paese nella propria sfera di influenza, anche se in modi diversi: l’Unione Sovietica finanziava il regime filosovietico del PDPA, mentre gli Stati Uniti, all’opposto, finanziavano i ribelli musulmani. Il controllo della regione era infatti un punto cruciale a livello geostrategico, come spiega Elie Krakowski, già assistente speciale del Vicesegretario alla Difesa per l’International Security Policy: «L’Afghanistan deve la sua importanza al fatto di essere collocato alla confluenza delle principali vie di comunicazione. Come terra di frontiera che dà la possibilità di controllare le grandi aree dell’interno e lo sbocco al mare, l’Afghanistan è il punto d’incontro tra forze conflittuali più grandi di lui. […] Con il crollo dell’Unione Sovietica, è diventato un importante sbocco potenziale verso l’oceano per i nuovi Stati dell’Asia centrale, che sono privi di accesso al mare. La presenza in quell’area di grandi depositi di petrolio e di gas ha attratto l’attenzione degli altri Paesi e delle società multinazionali. […] Dato che l’Afghanistan è un centro di grande importanza strategica, quel che accade lì finisce per riguardare il resto
del mondo»39.
La rivalità tra USA e URSS portò così, solo alcuni mesi dopo il colpo di Stato afghano del 1978, a uno degli ultimi scontri violenti della Guerra Fredda. Come avrebbe ammesso solo in seguito, nel 1998, Zbigniew Brzezinski – che, in veste di consigliere per la Sicurezza Nazionale, sotto Jimmy Carter si occupò dell’armamento dei mujaheddin nella lotta contro le milizie sovietiche – l’intervento americano in Afghanistan avvenne molto prima dell’invasione dell’URSS datata 27 dicembre 1979, anzi ne fu in qualche modo la “causa”; gli USA, infatti, lavorarono “consapevolmente” in modo da spingere la potenza avversaria a invadere l’Afghanistan e potere così reagire. Come avrebbe poi confermato Brzezinski, l’America istigò l’intervento militare sovietico facendo temere alla rivale che la destabilizzazione messa in atto da Washignton potesse portare a un cambio di regime di stampo filoamericano. L’operazione di infiltrazione sul territorio afghano da parte dei Servizi americani avvenne però, in modo clandestino, almeno sei mesi prima dell’invasione da parte delle milizie sovietiche, esattamente com’è capitato nel 2011 con lo scoppio della “primavera araba”, nel cui ambito si è parlato di infiltrati dei Servizi americani, che avrebbero avuto il compito di suscitare le rivolte accerchiando inoltre la Russia. L’agenzia France Press ha dichiarato, in merito: «Nonostante i formali dinieghi, secondo un ex alto funzionario americano gli Stati Uniti avevano lanciato un’operazione clandestina, per appoggiare i guerriglieri anticomunisti dell’Afghanistan almeno sei mesi prima che avvenisse l’invasione sovietica del Paese, nel 197940.
L’AFP ha citato, inoltre, la conferma di Brzezinski: «È vero, abbiamo fornito aiuti ai mujaheddin prima dell’invasione […]. Non abbiamo spinto i russi all’invasione, ma abbiamo consapevolmente accresciuto la possibilità che la compissero»41. Per il geostratega polacco, quella mossa fu «un’idea eccellente. L’effetto fu di attirare i russi nella trappola afghana». Anche Robert Gates, ex direttore della CIA, ha ammesso a posteriori, nel suo memoriale From the Shadows, che l’operazione dell’intelligence americana aveva avuto inizio sei mesi prima dell’invasione sovietica. L’URSS cadde nella “trappola”: per contrastare l’opera di destabilizzazione avviata dagli USA e prevenire così l’insediamento di un nuovo regime filoamericano, l’URSS procedette a una vera e propria invasione militare. Come spiega Nafeez Mossadeq Ahmed in Guerra alla verità, «la CIA, coadiuvata dai servizi di informazione dell’Esercito pakistano, fornì segretamente ai ribelli
afghani aiuti militari, addestramento e istruzione. Per l’operazione sponsorizzata dagli Stati Uniti era fondamentale il tentativo di dare vita a un’ideologia religiosa estremista derivata dalla commistione di tradizioni feudali locali e di concetti propri della retorica islamica. […] Gli USA intervennero in molti, modi perché l’estremismo raggiungesse il livello desiderato. Per esempio, versarono fondi per milioni di dollari per pubblicare e distribuire nelle scuole afghane libri che promuovevano i bellicosi ideali del fanatismo e dell’uccisione dell’avversario. Da allora, riferisce il «Washington Post», “questi manuali – zeppi di riferimenti al jihad e di immagini con fucili, proiettili, soldati e mine – sono alla base del programma scolastico nazionale. Anche i talebani hanno usato i libri pubblicati con soldi americani”»42.
Gli USA promuovono l’estremismo religioso L’inasprimento dell’estremismo religioso, intrecciato alle leggi e ai valori tribali, ha generato un sistema “islamico” distorto, che ha portato alla creazione di al-Qaeda, ma anche alla formazione dell’ultima generazione di talebani, la cui condotta violenta è stata più volte biasimata dallo stesso Mullah Omar, consapevole del divario culturale che gli americani avevano contribuito a creare tra la sua e l’ultima generazione. Non a caso, solo in seguito all’invasione americana è nato sul suolo afghano il fenomeno del terrorismo, fino a quel momento estraneo alla cultura del luogo e anzi fortemente osteggiato dai “vecchi” leader del movimento in quanto contrario alle norme del Corano. I fondamentalisti religiosi prodotti dalla manipolazione americana nei programmi di addestramento patrocinati dalla CIA sono diventati addirittura motivo di imbarazzo, per i vicini fondamentalisti musulmani. Ciò lo si deve alla brama di potere di entrambe le superpotenze che, invece di aiutare un Paese in via di sviluppo quale era l’Afghanistan, l’hanno destabilizzato, invaso, distrutto e smembrato pur di attrarlo nella propria sfera di influenza, finendo addirittura prigioniere dell’inferno afghano dopo dieci anni di inutile quanto disastrosa guerra. Ahmed, in merito al sostegno degli USA all’estremismo afghano, ricorda: «Un aspetto particolarmente importante della crisi afghana è stato il ruolo degli Stati Uniti nel fomentare la crescita dell’estremismo all’interno della rete di combattenti afghani che avrebbero poi costituito le varie fazioni in guerra. Com’è già stato osservato, l’appoggio offerto dagli Stati Uniti ai mujaheddin comportava che venisse inculcato un fanatismo religioso funzionale alla guerra espresso in chiave islamica. Selig Harrison del Woodrow Wilson International Center for Scholars, profondo conoscitore dell’Asia Centrale, sottolinea: “Li ho avvertiti che stavamo creando un mostro. Mi hanno detto che quella gente era fanatica e che, più diventavano feroci, più ferocemente avrebbero combattuto i sovietici”. Quindi il governo statunitense sapeva bene che razza di mostro avesse creato»43.
I talebani, sostenuti da esponenti di primo piano della comunità internazionale, avrebbero in seguito sconfitto e cacciato i rappresentanti dell’Alleanza del Nord nel 1996, dopo essere entrati trionfanti a Kabul. Le fazioni dell’Alleanza del Nord si resero complici di omicidi sommari, saccheggi,
violenze e stupri, per rendere la popolazione stremata e accondiscendente alla presa del potere da parte dei talebani. Ha ricordato Robert Fisk dalle pagine dell’«Independent»: «L’Alleanza, una confederazione di signori della guerra, patrioti, stupratori e torturatori che controlla una piccola porzione dell’Afghanistan settentrionale, ha compiuto [la sua parte di; N.d.A.] massacri nei territori controllati»44.
La UNOCAL sostiene i talebani Benché abbia negato gli evidenti interessi statunitensi nella regione, l’allora Vicesegretario di Stato americano Robin Raphel – che durante la guerra fredda aveva definito l’Afghanistan un «crocevia di interessi strategici» – avrebbe invece fatto personalmente «un intenso giro di incontri diplomatici di collegamento tra le autorità» almeno stando a quanto pubblicato dall’agenzia France Press la quale ha dedotto che, dietro gli incontri, ci fosse il progetto dell’UNOCAL per la costruzione dell’imponente oleodotto. Secondo l’AFP, il progetto dell’UNOCAL «serviva a un obiettivo strategico di primo piano per gli USA: isolare un nemico giurato, l’Iran, liquidando, dicono gli esperti, la tanto discussa ipotesi di un oleodotto rivale appoggiata da Teheran»45. Ancora il 7 ottobre 2001 l’agenzia francese ricordava che «il motivo fondamentale dell’interesse per i talebani era una conduttura da quattro miliardi e mezzo di dollari, che un consorzio petrolifero guidato dagli Stati Uniti [l’UNOCAL; N.d.A.] progettava di costruire attraverso l’Afghanistan devastato dalla guerra»46. France Press riferisce soprattutto le pressioni di Washington su Pakistan e Arabia Saudita per “sostenere” e “patrocinare” la presa del potere dei talebani nel 1996. Il benestare americano «si gingillava con l’idea, poi fallita, di un nuovo Big Game da giocarsi nell’Asia centrale. Ansiosa di vedere l’Afghanistan in mano a un potere forte centrale per consentire a un gruppo guidato dagli Stati Uniti di costruire un oleodotto e gasdotto da molti miliardi di dollari, Washington sollecitò i suoi alleati chiave, il Pakistan e l’Arabia Saudita, a sostenere nel 1996 il tentativo della milizia di conquistare il potere»47.
L’agenzia spiega inoltre che il sostegno degli USA ai talebani era dovuto alla speranza che il loro regime sarebbe riuscito a riportare l’ordine – anche se con la violenza – in un Paese ancora straziato dal conflitto della guerra fredda, che si era giocato l’ultimo colpo di coda proprio sul territorio afghano. L’interesse dei funzionari di Washington, in vista della costruzione dell’oleodotto, promosse il
fitto confronto tra costoro e i talebani per tutti gli anni Novanta. L’antropologo William Beeman48, direttore dell’Istituto di Studi sul Medio Oriente alla Brown University, ha sottolineato come l’appoggio statunitense al regime talebano49 fosse motivato dal controllo del petrolio e dal progetto di costruire un oleodotto senza dovere passare per il Paese nemico, l’Iran: «Il governo americano ha una tale ostilità verso l’Iran da essere pronto a fare qualsiasi cosa per prevenire questa possibilità, ossia il passaggio del gasdotto su territorio iraniano»50. Concorde con quanto teorizzato da Brzezinski in merito all’importanza geostrategica del Pakistan, Ahmed ricorda invece che «a parte la questione del petrolio, l’Afghanistan rimane per gli Stati Uniti una regione strategica anche sotto un altro aspetto, connesso al primo. Il fatto di creare in quel Paese uno Stato forte e legato agli interessi statunitensi avrebbe dovuto consolidare l’influenza americana in questa importantissima regione, rafforzando innanzitutto il Pakistan – a quel tempo primo sostenitore dei talebani – che è la principale base del potere americano nella regione. Naturalmente ciò avrebbe giovato anche alla causa della costruzione dell’ambito oleodotto e gasdotto verso il Mar Caspio, scavalcando la Russia e aprendo la Comunità di Stati Indipendenti (CSI) – le repubbliche dell’Asia centrale che confinano con la Russia – al mercato globale dominato dagli Stati Uniti»51.
Ancora più che impressioni sui Paesi limitrofi, l’appoggio al regime talebano è consistito in cospicui aiuti materiali da parte dell’UNOCAL, sostenuto dal governo americano. Solo nell’estate del 1998, dopo che il Mullah Omar aveva stracciato l’accordo con il mediatore Bill Richardson e si era rifiutato di consegnare Osama bin Laden in seguito agli attentati del 7 agosto alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, l’azienda californiana sospese i finanziamenti, continuando però a fare pressioni sul governo afghano per la costruzione dell’oleodotto ed entrando così in aperto conflitto con un’altra concorrente, la ENRON52. Le pressioni internazionali ebbero però un effetto contrario: il diffondersi di sentimenti antioccidentali, che prima non esistevano. Come osserva Massimo Fini, «le pressioni aumenta[va]no e a ogni pressione i talebani, quasi per ripicca, da[va] nno un’interpretazione ancora più stretta della sharia». Di lì a poco, la decisione del Mullah di vietare la coltivazione dell’oppio avrebbe segnato la fine dei rapporti con Washington e l’inizio della campagna mediatica contro i talebani, che nel dicembre del 2001 avrebbe condotto all’invasione dell’Afghanistan.
L’errore del Mullah: l’UNOCAL Se negli anni Novanta l’ONU e l’Occidente si erano rifiutati di riconoscere il
governo talebano, Washington era però certa che il Mullah non avrebbe avuto il coraggio di rifiutare l’appalto alla multinazionale californiana, nel cui consiglio di amministrazione c’erano Donald Rumsfeld, Condoleeza Rice, la famiglia Bush e persino Hamid Karzai, nominato poi Presidente in Afghanistan dopo l’invasione americana. Il coinvolgimento di funzionari governativi nell’UNOCAL insospettì invece il Mullah, che preferì trattare con l’argentina BRIDAS, diretta dall’italiano Carlo Bulgheroni. I rapporti con gli americani s’incrinarono quando, dopo avere a lungo tergiversato, Omar decise di affidare la costruzione del gasdotto alla BRIDAS. Per gli americani fu davvero una sorpresa. Per non far perdere la commessa all’UNOCAL, si ridussero a corteggiare il nemico di sempre, l’Iran, al quale venne proposto un progetto alternativo: il passaggio del gasdotto attraverso il territorio iraniano, per arrivare alla Turchia senza dovere passare dall’Afghanistan. È in questo periodo che gli USA iniziarono ad affidarsi ai media per screditare il regime talebano e alzare il velo sui soprusi commessi nel Paese, che fino a quel momento avevano invece tollerato per comodità. Su questo punto è stato chiaro Vidal, che ha osservato: «La conquista dell’Afghanistan non aveva niente a che vedere con Osama, che era un semplice pretesto per rimpiazzare i talebani con un governo relativamente stabile in grado di permettere alla Union Oil of California di impiantare il suo oleodotto in modo che ne potesse trarre profitto, tra gli altri, la junta Cheney-Bush»53.
Nel dicembre del 1997, i rappresentanti del governo talebano erano stati invitati nella sede texana della UNOCAL, a Sugarland. La notizia non era sfuggita alla «BBC», che il 4 dicembre constatava: «Un portavoce della compagnia, l’UNOCAL, ha dichiarato che i talebani dovevano fermarsi qualche giorno presso la cede centrale [in Texas; N.d.A.] della società […] un corrispondente regionale della «BBC» sostiene che la proposta di costruire un oleodotto attraverso l’Afghanistan fa parte di un piano internazionale per trarre profitto dallo sviluppo delle ricche risorse energetiche del Mar Caspio»54.
All’epoca, dunque, il governo americano ammetteva uno scambio per motivi economici con il regime dei talebani. Il 6 ottobre 1996 la CNN aveva infatti ammesso: «Gli Stati Uniti vogliono buoni rapporti [con i talebani; N.d.A.], ma non possono dar mostra di cercarli apertamente mentre il loro regime continua a opprimere le donne»55. Dunque, sotto banco si intrecciavano buoni rapporti con il regime del Mullah Omar che aveva persino adottato come responsabile delle pubbliche relazione Leili Helms, nipote di Richard Helms, ex direttore della CIA. Quando ancora sembrava che l’UNOCAL avrebbe vinto l’appalto per
l’oleodotto, il «Wall Steet Journal» si spingeva a difendere il regime afghano sostenendo: «Che vi piaccia o no, i talebani sono la parte in causa meglio in grado di far regnare la pace in Afghanistan, in questo momento storico». Eppure, appena quattro anni dopo, l’Afghanistan avrebbe rappresentato, insieme all’Iraq, l’Asse del Male; almeno secondo le parole di uno degli azionisti della UNOCAL, G.W. Bush. Che cosa era cambiato? Una cosa di sicuro: la UNOCAL aveva perso l’appalto. Come se non bastasse a inimicarsi le lobby statunitensi, il Mullah propose di eliminare la coltivazione del papavero e il traffico di oppio in cambio del riconoscimento del Governo talebano. L’Occidente, ancora una volta, rifiutò. Omar abbracciò comunque l’eliminazione della coltivazione del papavero, facendo precipitare quasi a zero la produzione di oppio. Un ennesimo schiaffo all’Occidente, che sul traffico di stupefacenti macina un business a sette zeri. Il leader dei talebani venne così sottoposto a una campagna mediatica di diffamazione ed equiparato a bin Laden; eppure, all’indomani dell’11 settembre, sfuggì alla stampa il messaggio di cordoglio, che il Mullah fece trasmettere al Governo USA: «Noi condanniamo formalmente i fatti avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center e al Pentagono. Condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari in questi incidenti. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia. Noi vogliamo che siano puniti e ci auguriamo che l’America sia paziente e prudente nelle sue azioni».
La condanna dei talebani all’attacco passò inosservata. Anche la prudenza invocata dai talebani, preoccupati per possibili imminenti ritorsioni, non era nei piani del Pentagono che, avendo già pronto il progetto per l’invasione dell’Afghanistan, attaccò Kabul nell’ottobre del 2001. Il resto è storia. Da quel momento, il Mullah Omar si è dato alla macchia, diventando irreperibile. La taglia che pende sulla sua testa, di 25 milioni di dollari, non ha spinto alcun talebano a consegnarlo alle forze nemiche. Nessuna cifra potrebbe giustificare un tradimento, per una cultura che, seppur basata sulla violenza e su una rigida osservanza della legge, dimostra di avere anch’essa qualcosa da insegnare all’Occidente: l’onore e la fedeltà non si comprano con il denaro. Gli attacchi aerei effettuati dall’autunno del 2001 – che hanno mietuto più vittime tra i civili che tra i talebani veri e propri – hanno avuto, come reazione, il risultato di compattare l’odio generalizzato della popolazione nei confronti dell’invasore, spingendo i civili ad accogliere la guerriglia talebana pur di liberare il Paese dagli americani. Un decennio di guerra si è inoltre rivelato una tragedia, per gli USA, dal punto di vista economico.
Andrei J. Bacevich, professore di Relazioni Internazionali e Storia alla Boston University, ha affermato che, la guerra ai talebani «non serve ad alcun fine strategico e i suoi costi sono proibitivi»56, e ha poi concluso: «C’è qualcosa di fondamentalmente assurdo nel fatto che una nazione a corto di denaro spenda più di 100 miliardi all’anno nella speranza di pacificare un Paese, che manca di un governo legittimo e considera gli americani non graditi». La ragione che muove le intenzioni degli Stati Uniti è «lo zelo nel portare agli altri i valori che definiscono l’identità nazionale americana»57. È per seguire questi alti ideali che, come ha ricostruito lo storico David Schmitz, «lungo quasi tutto il ventesimo secolo, gli Stati Uniti hanno sostenuto dittature di estrema destra, in violazione degli ideali politici americani» e del loro impegno a «promuovere la democrazia e i diritti umani».
Warfare, ovvero la guerra come antidoto È il sistema del warfare, la guerra come antidoto alla recessione. Gli USA sono notoriamente in bancarotta e il rischio di default, reso pubblico nell’estate del 2011, è stato il culmine ufficiale di un lungo processo di indebitamento, che va avanti in silenzio da anni. In un incontro privato con il leader venezuelano Hugo Chavez, l’allora presidente G.W. Bush aveva criticato le misure “socialiste” – il Piano Marshall venezuelano – intraprese dal collega e aveva cercato inutilmente di convincerlo che l’unico modo per assicurare la ricchezza a un Paese era la guerra, proprio come hanno fatto e fanno gli USA58. Quando un Paese con ambizioni coloniali come gli USA intravede il declino del proprio impero basato sul modello capitalistico, si trova davanti a un bivio: può scegliere di tramontare o di espandersi, facendo della guerra l’unico modo per sopravvivere e prosperare. Prima degli USA il metodo del warfare era stato utilizzato dal suo nemico numero uno, l’URSS. Come spiega lo storico Bruno Bongiovanni59, l’ex impero sovietico utilizzò una dispendiosa guerra fredda di movimento, che sfociò nel 1979 nell’invasione dell’Afghanistan, contro cui lottarono sia bin Laden che il Mullah Omar, armati dalla CIA. L’URSS, infatti, dal punto di vista strutturaleeconomico e territoriale-militare, era già arrivata al punto di rottura alla fine del secondo dopoguerra, ovvero aveva raggiunto il limite estremo delle proprie possibilità espansive. Quello stesso limite, oggi, è stato raggiunto dagli USA, che però si ostinano a espandersi per costituire quel Nuovo Ordine Mondiale auspicato dai vertici di Washington.
Tutta colpa dell’Afghanistan L’esaurirsi dell’espansione territoriale sovietica con la sconfitta nello scontro con i mujaheddin afghani diede il via alla decolonizzazione del Paese e al suo declino. Sarebbe stato proprio il conflitto in Afghanistan a segnare in parte il disfacimento imperiale dell’Unione Sovietica, che fece sostenere a Bongiovanni: «Mai un sistema imperiale di potere ha avuto così drammaticamente ravvicinati il momento dell’apogeo e quello del declino»60. Infatti il risultato della politica espansionista sovietica fu, con l’invasione afghana, “catastrofico”: «Nessuno avrebbe potuto sospettare che all’URSS restavano solo dodici anni di vita (Natale 1979-Natale 1991). Gli esiti di questa politica si rivelarono subito disastrosi. Il prestigio internazionale dell’URSS fu scosso e ben presto si esaurì quel che restava dell’enorme capitale accumulato a Stalingrado e già in buona parte consumato nell’oppressione pluridecennale dell’Europa orientale»61. Con la guerra in Afghanistan, l’URSS si inimicò «le popolazioni islamiche, disponibili nella presente congiuntura ad abbandonare il nazionalismo laico di ispirazione nasseriana, in auge negli anni precedenti, e a infervorarsi […] per le nuove e più appaganti tentazioni fondamentalistiche». Il conflitto avrebbe consegnato alla storia anche un personaggio come Osama bin Laden, all’epoca sostenuto dalla CIA e dall’amministrazione Carter, dietro la quale vigilava la longa manus di Zbigniew Brzezinski, che ora continua le sue strategie all’ombra di Obama. Il metodo del warfare si sarebbe così ritorto contro l’URSS, che non si dimostrò in grado di «difendere in modo accettabile la propria identità politica e sociale, diventata irriconoscibile in un impero smisurato che non le era più possibile tenere sotto controllo»62.
Ora tocca agli USA Oggi abbiamo infatti gli Stati Uniti, che si sono imposti come l’ago della bilancia degli equilibri mondiali, come l’unico e vero centro di potere e al contempo disturbatore della pace globale. Con questo ruolo, l’America non può che prevenire l’affermarsi di Paesi forti come la Cina, anticipandone le mire espansionistiche e invadendo il Medio Oriente per il controllo delle risorse energetiche. Per questo, gli USA hanno bisogno del sistema della “guerra infinita”: non per attuare una pace perenne, ma per continuare a esistere e a estendere il proprio potere imperiale. Le mosse sulla grande scacchiera63 non si possono però compiere, senza giustificarne il fine di fronte all’opinione pubblica. A questo serve la rete di informazioni che, da obiettivo sistema di
notizie, si è trasformata in propaganda al soldo dei governi, per piegare e manipolare il consenso delle masse. L’utilizzo e il controllo di Internet da parte di Obama fungono da corollario. Come insegnava Aldous Huxley nel lontano 1932, per evitare che l’inganno venga svelato, si deve piegare l’informazione di massa ai propri bisogni, educando le persone a credere a ciò che si vuole far credere. Non si può dire che non vi siano precedenti storici accertati, che mostrano come crimini sponsorizzati o addirittura pilotati dal Pentagono servano a giustificare colpi di Stato o dichiarazioni di guerra. Nascono così le menzogne come: l’incidente del golfo del Tonchino che permise agli USA di entrare in guerra contro il Vietnam; la minaccia delle armi di distruzione di massa, spauracchio per invasione dell’Iraq; l’affare Iran-Contras, che permise il colpo di Stato in Nicaragua; l’11 settembre e la richiesta al regime talebano di consegnare bin Laden, come pretesto per l’invasione dell’Afghanistan. In mancanza delle prove richieste e in virtù dell’ospitalità, considerata ancora sacra in Afghanistan, il Mullah Omar avrebbe infatti deciso di non consegnare bin Laden al governo americano neppure all’indomani dell’11 settembre: «Per difendere non Osama bin Laden, a cui nulla lo legava e di cui ancora meno gli importava, ma la sovranità e la dignità dello Stato afghano»64. L’attaccamento a un valore sacro per un afghano si ritorse contro l’intera nazione, offrendo a Washington una buona ragione per invadere il Paese. NOTE 1. Le dichiarazioni di Berlusconi vennero raccolte dai giornalisti russi, durante il suo viaggio a Mosca, il 16 ottobre 2002, cinque mesi prima dell’invasione dell’Iraq nell’ambito della missione Iraqui freedom. 2. Messaggio audio registrato da Saddam Hussein nel luglio del 2003 e rivolto al popolo iracheno. 3. Corrispondente BBC. Matt Frei, Hell on Earth: Afghanistan, in «Evening Standard», 20 febbraio 2001. 4. Gore Vidal, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità, cit., p. 30. 5. Giornalista americano, tre volte vincitore del premio Pulitzer. Citazione contenuta in Naomi Klein, Shock Economy, BUR, Milano 2007, p. 377. Titolo orginale: The Shock Doctrine. 6. Su www.margheritaonline.com, http://www.repubblica.it/online/politica/ italiairaqdieci/onupremier/onupremier.html troviamo le 16 dichiarazioni di Silvio Berlusconi, messe agli atti del Parlamento da Francesco Rutelli, durante il suo intervento alla Camera nel corso del dibattito parlamentare sulla crisi irachena. 7. Roma, 19 gennaio 2003: «Agli ispettori ONU va dato tutto il tempo che loro stessi riterranno necessario». 8. Questa guerra al terrorismo è una fandonia. http://www.guardian.co.uk/politics/2003/ sep/06/september11.iraq. 9. http://www.guardian.co.uk/politics/2003/sep/06/september11.iraq. 10. Giulietto Chiesa, Pino Cabras, Barack Obush, Ponte alle Grazie, 2011, p. 24. http://www.guardian.co.uk/politics/2003/sep/06/september11.iraq.
11. However this theory does not fit all the facts. The truth may be a great deal murkier. 12. The plan shows Bush’s cabinet intended to take military control of the Gulf region whether or not Saddam Hussein was in power. 13. Dichiarazione dell’american Bar Association, IHT. 14. Webster Griffin Tarpley, 9/11 Syntetic Terror, Progressive Press, 2006, p. 339. 15. Ivi, pp. 100 e ss. 16. Ibidem. 17. John Mearsheimer, Stephen Walt, La Israel lobby e la politica estera Americana, Mondadori, Milano 2007, pp. 50 e ss. Titolo originale: The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy, 2007. 18. Ivi, pp. 36 e ss. L’assistenza diretta, che Israele ha ricevuto dagli USA dal 1948 a tutto il 2005, ammonta complessivamente a 154 miliardi di dollari, costituiti in massima parte da sovvenzioni e non da prestiti. 19. Armi di distruzione di massa. 20. Ivi, p. 52. 21. Ivi, p. 51. 22. Le dichiarazioni di Haass sono state raccolte da George Paker in The Assassins’ Gate: America in Iraq. 23. John Mearsheimer-Stephen Walt, op. cit., pp. 279-280. 24. Ivi, p. 282. 25. Ibidem. Corsivo mio. 26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. Ibidem. 30. Ivi, p. 300. 31. Ivi, pp. 285-286. 32. Da «Il Sole 24 Ore», 20 settembre 1995. 33. The Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC), l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio. Fondata nel 1960, comprende 12 Paesi esportatori che formano un cartello economico, il cui scopo è concordare la quantità e il prezzo del petrolio esportato. 34. www.nwo.it/conflitto.html. 35. Articolo di Charles Recknagel, pubblicato l’1novembre 2000 sul sito web dell’emittente americana Radio Free Europe con il titolo Iraq: Baghdad Moves to Euro. http://www.rferl.org/content/article/1095057.html. 36. Ibidem. 37. www.nwo.it/conflitto.html. 38. Ibidem. 39. Elie Krakowski, The Afghan Vortex, in «IASPS Research Papers in Strategy», Institute for Advanced Strategic and Political Studies, aprile 2000. 40. AFP, 12 dicembre 2000. 41. Ibidem. 42. Naafez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla verità, cit., p. 15. 43. N.M. Ahmed, op. cit., 2004, pp. 18-19. 44. Robert Fisk, in «The Independent», 3 ottobre 2001. 45. AFP, 7 ottobre 2001. 46. Ibidem. 47. Ibidem. France Press riferisce sulle pressioni di Washington a un mese dall’attacco al World Trade Center, ricordando così come appena pochi anni prima il governo statunitense avesse sostenuto la presa
del potere talebano. 48. http://dornsife.usc.edu/conferences/iran/documents/286959.pdf. 49. «Non è un segreto, specialmente nella regione, che per un certo tempo gli Stati Uniti, il Pakistan e l’Arabia Saudita abbiano aiutato i fondamentalisti talebani nella loro guerra per il controllo dell’Afghanistan. Gli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto pubblicamente questo legame, che però è stato confermato sia da fonti dell’intelligence, sia da istituzioni assistenziali del Pakistan». William O. Beeman, Follow the Olil Trail, in «Jinn Magazine». http://www.pacificnews.org/jinn/stories/4.17/980824-afghanistan.html. 50. http://www.pacificnews.org/jinn/stories/4.17/980824-afghanistan.html. 51. N. M. Ahmed, Guerra alla verità, cit., p. 26. 52. Si veda Massimo Fini, Il Mullah Omar, Marsilio, 2011. 53. Gore Vidal, op. cit., 2002, p. 31. 54. «BBC News», 4 dicembre 1997. 55. CCN, 6 ottobre 1996. 56. Intervista di Glauco Maggi a Andrei J. Bacevich, in «La Stampa», 26 giugno 2011. 57. Noam Chomsky, op. cit., p. 63. 58. Il racconto di Chavez si trova nel film documentario di Oliver Stone, A Sud del confine, 2009. Titolo originale: South of the Border. 59. Bruno Bongiovanni, Storia della guerra fredda, Laterza, 2005; Idem, La caduta dei comunismi, Garzanti, 1995. 60. Bruno Bongiovanni, La caduta dei comunismi, cit. 61. Ibidem. 62. Ibidem. 63. Riferimento a La grande scacchiera, saggio di Zbigniew Brzezinski. 64. Massimo Fini, Il Mullah Omar, cit., p. 76.
LE NOVE VITE DELLO SCEICCO DEL TERRORE: OSAMA BIN LADEN «Osama, se pure è stato lui e non un’intera nazione, ci ha semplicemente fornito lo shock necessario per poter mettere mano alla guerra di conquista». (Gore Vidal) «Osama bin Laden e i talebani avevano ricevuto minacce relative a una possibile azione militare americana nei loro confronti due mesi prima degli attentati terroristici contro New York e Washington. […] Esiste quindi la possibilità che quella di bin Laden fosse un’azione preventiva contro quelle che erano percepite, da parte sua, come minacce americane». («The Guardian»1) «Ritengono francamente che [bin Laden; N.d.A.] sia morto, dato che è un paziente gravemente ammalato di reni». (Pervez Musharraf, 20022) «Come molti miei colleghi professionisti nel mondo, ritengo, sulla base di informazioni serie e verificate, che al-Qaeda sia morta, sul piano operativo, nelle tane di Tora Bora nel 2002». (Allain Chouet3) «Il blitz dei Navy Seals ad Abbottabad è una farsa totale, una finta. Siamo in un teatro americano dell’assurdo». (Steve Pieczenik4) «La ragione per cui l’11 settembre non compare nella pagina di Osama bin Laden è che l’FBI non ha prove inconfutabili per collegare bin Laden all’11 settembre». (Rex Tomb5)
Luglio 1989. L’inviato della BBC John Simpson6 e la sua troupe televisiva si avventurano fino alla base dei mujaheddin nei pressi di Jalalabad, nell’Afghanistan orientale, per riprendere i combattimenti contro le truppe sovietiche. Diversamente da quello che si potrebbe pensare, non hanno difficoltà a filmare i mujaheddin. A un tratto compare però un’alta figura vestita di bianco; sembra quasi un gigante, dall’alto dei suoi due metri di altezza; ha un kalashnikov a tracolla e costosi stivali di pelle di camoscio ai piedi7. Con fare autoritario intima ai guerriglieri di sparare a Simpson e ai suoi colleghi. I combattenti rimangono interdetti. esterrefatti per la richiesta, che ha il sapore del disonore, decidono di metterla al voto. Sono in guerra contro i sovietici invasori, ma quegli inglesi sul suolo afghano sono da considerarsi ospiti e l’ospite, si sa, è sacro. Il voto decreta che non si possono toccare. L’alta figura si rivolge allora all’autista di un camion di
munizioni, offrendogli 500 dollari perché investa Simpson e compagni; è un bel gruzzolo di soldi, per la povera gente della provincia di Nangarhar, ma l’autista scoppia a ridere e se ne va. Non c’è bisogno di una seconda votazione. La troupe della BBC è salva. L’arabo vestito di bianco ha una crisi di nervi: non è abituato a vedersi disobbedire. Si rifugia su una branda da campo, posta poco più in là e comincia a piangere e a battere i pugni, in preda alla frustrazione. Quell’arabo è Osama bin Laden. A raccontarlo, in seguito, sarà lo stesso John Simpson, a cui allora non rimase altro che chiedere ai suoi colleghi di riprendere la scena.
Bel lavoro Mentre Obama si trovava vittima del fuoco incrociato dei birthers, la Casa Bianca riusciva a spostare l’attenzione dal mistero legato al certificato di nascita presidenziale al successo internazionale per la cattura e l’uccisione di Osama bin Laden: il “nemico numero uno” era stato catturato e ucciso ad Abbottabad. La testa al Serpente era stata tagliata. L’eliminazione dello Sceicco sarebbe tornata utile durante la campagna elettorale del 2012, grazie al kolossal firmato da Katherine Bigelow proprio sul blitz di Abbottabad. Gli americani erano talmente presi dal successo dell’operazione, dall’uccisione del “nemico numero uno“ che aveva infestato i loro incubi, da non prestare neppure la dovuta attenzione a un’altra notizia di cronaca, comparsa di lì a poco: in estate, quegli stessi eroici Navy Seals – tra i pochi al mondo a sapere cosa fosse realmente successo ad Abbottabad – morirono misteriosamente, vittime di un razzo talebano, portandosi il segreto sottoterra. La gente era infatti tornata a sperare, a riversarsi nelle strade intonando Yes We Can!, mentre nelle tribune televisive di ogni angolo del Pianeta ci si chiedeva come sarebbe stato il mondo senza lo Sceicco; la risposta che serpeggiava ovunque era la medesima: migliore. Il mondo senza bin Laden sarebbe stato più sicuro. «Job well done» (Bel lavoro), aveva dichiarato Obama agli eroi senza salma. Eppure, alcuni ricercatori si resero subito conto delle anomalie del blitz, delle contraddizioni dell’operazione, del misterioso blackout che aveva interrotto le comunicazioni con la Casa Bianca proprio nel momento della cattura. Pochi – anche tra gli addetti ai lavori – rifletterono, invece, sul fatto che era la nona volta, dal 2001, che un capo di Stato o un alto funzionario governativo annunciava la morte di Osama bin Laden. Avendo gli USA mentito più volte nel passato lontano e in quello recente – per esempio, in merito alle armi di distruzione di massa, che hanno portato a
dichiarare guerra all’Iraq e che non sono mai esistite – perché si sarebbe dovuto credere alla Casa Bianca e non a uno degli altri dirigenti o presidenti non americani?
Anomalie e contraddizioni Che cosa sappiamo veramente dell’uccisione di Osama? La notizia è stata diffusa in modo lapidario, insieme a una vecchia foto ritoccata che ritraeva la salma sfigurata del terrorista. Nel giro di poche ore si sono avvicendate versioni contrastanti dell’accaduto. Si è detto tutto e il contrario di tutto. Senza smentite ufficiali. Si è lasciato che il mondo divorasse i dettagli più fantasiosi dell’operazione dei Navy Seals, lasciando che il verosimile venisse travolto e fagocitato da un mucchio di fandonie. Come ha fatto notare Giulietto Chiesa, il verosimile è stato sostituito con l’inverosimile dando adito a ricostruzioni variopinte e dimostrando il carattere virtuale dell’intero sistema mediatico. Non era nulla di nuovo, però: nel corso dell’inchiesta sui Servizi segreti delle Commissioni del Senato e della Camera dei Rappresentanti alla fine della guerra in Vietnam, la CIA8 aveva ammesso di avere assoldato e inviato in tutto il mondo un migliaio di giornalisti, a cui venivano passate informazioni alterate ad hoc dall’Agenzia, allo scopo di manipolare e controllare l’opinione pubblica non solo statunitense, ma mondiale. Non è difficile, sostiene Chiesa, immaginare che oggi, come allora, decine, o forse centinaia, di insiders governativi lavorino con e nei mezzi di informazione, per manipolare l’opinione pubblica e fare del giornalismo un mezzo di propaganda politico. La realtà, come ha scritto Robert Fisk, corrispondente del quotidiano britannico «The Independent» in Medio Oriente, «è che ci siamo persi da molto tempo nel cimitero degli imperi e abbiamo trasformato la caccia a un ormai irrilevante inventore del jihad globale in una guerra contro decine di miliardi di taliban, che hanno poco interesse per al-Qaeda, ma che non vedono l’ora di cacciare gli eserciti occidentali dal loro Paese».
Il blitz Quali sono state le modalità del raid? Se teniamo conto della legge giornalistica delle prime ventiquattro ore teorizzata da Roberto Quaglia, ne emerge un bel pasticcio. Quando esce una notizia, i cronisti dovrebbero fare attenzione ai dettagli diffusi a caldo dalle varie agenzie e dai testimoni che, si presume, non possano essere stati ancora
influenzati o dissuasi dal rivelare la propria versione dei fatti. Nella frenesia del momento vengono battute anche notizie “scappate” dalla censura governativa, che solo successivamente saranno epurate. Sono proprio le prime notizie che hanno la probabilità di attenersi alla verità9. Ora, nel caso di bin Laden, nelle 24 ore successive al blitz, si è detto tutto e il contrario di tutto: Osama ha opposto resistenza alla cattura; ha fatto fuoco e ha usato come scudo umano la giovane moglie ventinovenne; Osama dormiva ed è stato sorpreso nel sonno; era già morto da due giorni, secondo il suo medico personale; è ancora vivo, stando a un’intercettazione pubblicata da un quotidiano egiziano. Questo balletto di contraddizioni è il frutto non di ipotesi sparate a caso dai giornalisti, ma delle molteplici versioni ufficiali che hanno accompagnato la notizia della morte del “nemico numero uno” degli USA, battute dalle agenzie di stampa e riprese dai giornalisti di tutto il mondo. Le modalità effettive del blitz, in ogni caso, non le conosceremo mai. In assenza di video o di fotografie ufficiali, i giornalisti si sono dovuti accontentare dei filmini amatoriali trovati all’interno del compound. I filmati in questione hanno contribuito a “smitizzare” il capro espiatorio degli attentati dell’11 settembre: riportato alla cruda realtà, lo Sceicco è stato mostrato in tutta la sua fragilità, come un uomo vecchio e malato. Le fotografie e i filmati successivi al 2002 che ritraevano bin Laden erano già passati al vaglio degli esperti di computer grafica e morphing, i quali avevano dimostrato che l’uomo di quelle immagini non era affatto Osama; qualcuno di molto simile, certo, ma non lui: naso e tratti del viso erano troppo diversi per coincidere. Forse avevano fatto ricorso semplicemente a un sosia, come ci avevano abituato Saddam e Gheddafi.
Per un figlio, Osama è ancora vivo Sulla vicenda c’è ancora molto da dire, con o senza cadavere, prove del DNA o foto ritoccate. Esistono infatti decine di anomalie, che andrebbero analizzate e che spingono a dubitare della versione “ufficiale” della Casa Bianca, partendo da quella meno probabile: uno dei figli di Osama bin Laden sostiene, ad esempio, che il leader di al-Qaeda sia “ancora vivo”. A rivelarlo, il giornale egiziano «al-Wafa» citando fonti della famiglia di bin Laden. La mattina del 2 maggio 2011, un martedì, Samy bin Laden avrebbe telefonato a “due fratelli” di Osama, Khalid e Abdelaziz assicurando agli zii che «il loro fratello è ancora vivo e sta bene e quello che sostengono i media è falso». La possibilità, invece, che il Pentagono abbia orchestrato un inganno per
insabbiare, da un lato la già avvenuta morte – forse meramente accidentale – del leader di al-Qaeda e dall’altro, per far risalire Obama nei sondaggi, risulta la più probabile e accreditata da numerosi ricercatori di tutto il mondo e ricorda che qualcosa di simile era già successo in seguito agli attacchi dell’11 settembre. I presunti dirottatori che, secondo il rapporto ufficiale della Commissione chiamata a investigare sull’attentato, avrebbero agito su ordine di bin Laden, non solo non erano per nulla dei “fanatici”, come si era cercato invece di farli passare, ma alcuni di loro furono addirittura avvistati, ancora vivi, dopo l’11 settembre, smentendo così le informazioni del Pentagono…
L’uomo che morì nove volte Negli anni, l’ipotesi che bin Laden fosse un agente della CIA – a partire dal coinvolgimento dell’Agenzia nella guerra dei mujaheddin contro i sovietici – è stata sollevata più volte, criticata, negata e ancora riportata in auge senza prove definitive in un senso o nell’altro. La versione ufficiale del Pentagono sostiene che lo Sceicco sia stato la mente di numerosi attentati, compresi quelli dell’11 settembre, e che solo dopo dieci anni di ricerche sia stato individuato in Pakistan e ucciso dai Navy Seals. Poi ci sono le versioni, più o meno attendibili, di premier, servizi segreti, informatori e giornalisti freelance, che raccontano un’altra verità; a partire dalla FOX, la quale il 26 dicembre 2001 rivelava che, secondo i talebani afghani, bin Laden era morto all’inizio del mese ed era stato sepolto in una tomba senza alcun contrassegno, come prescritto dalla pratica dei sunniti wahabiti. Il 17 luglio 2002, Dale Watson, all’epoca capo dell’antiterrorismo dell’FBI, dichiarò, nel corso di una conferenza dei funzionari incaricati dell’applicazione della legge: «Personalmente, penso che bin Laden non sia più con noi»; poi aggiunse con cautela: «Non ho però alcuna prova per supportare questa mia affermazione», lasciando però trapelare che forse qualche prova ce l’aveva. Nell’ottobre del 2002 il presidente afghano Hamid Karzai dichiarò alla CNN: «Giungerei a credere che bin Laden sia morto». La CBS, nei reportage di Jim Stewart, che abbiamo presentato poc’anzi, aveva divulgato diverse testimonianze sul grave ferimento di bin Laden a Tora Bora, al quale sarebbe seguita la morte nel periodo compreso tra la fine del 2001 e la primavera del 2002. Nel novembre del 2005, il senatore Harry Reid rivelò che gli era stato detto che bin Laden poteva essere deceduto nel corso del terremoto avvenuto in Pakistan nell’ottobre dello stesso anno. Nel settembre del 2006 i Servizi segreti francesi fecero trapelare un rapporto
che suggeriva che bin Laden fosse stato ucciso in Pakistan. Il 2 novembre 2007, l’ex primo ministro pakistano Benazir Bhutto dichiarò all’inviato di al-Jazeera, David Frost, che Omar Sheikh aveva giustiziato Osama bin Laden. Infine, nel maggio del 2009 il presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, confermò che le sue «controparti nelle agenzie dei Servizi segreti americani» non erano venute a sapere più nulla su bin Laden negli ultimi sette anni e aggiunse: «Non penso che sia vivo». Invece, secondo la versione “ufficiale” americana, bin Laden avrebbe trovato rifugio proprio in terra pakistana.
Per i Servizi segreti francesi al-Qaeda non esiste I Servizi segreti francesi sostengono, dal 2010, che al-Qaeda non esiste più dal 2002. Lo aveva dichiarato il capo dei Servizi segreti francesi al Senato della Repubblica francese il 29 gennaio 2010. In quella data, Allain Chouet, già capo della DGSE (Direction Générale de la Sécurité Extérieure, il controspionaggio francese) sostenne: «Come molti miei colleghi professionisti nel mondo, ritengo, sulla base di informazioni serie e verificate, che al-Qaeda sia morta, sul piano operativo, nelle tane di Tora Bora nel 2002 […] sui circa 400 membri attivi dell’organizzazione che c’erano nel 2001, meno di una cinquantina di seconde scelte (a parte Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri che non hanno alcuna attitudine sul piano operativo) è riuscita a scampare e a scomparire in zone remote, vivendo in condizioni precarie, e disponendo di mezzi di comunicazione rustici o incerti».
E concluse l’intervento come segue: «Non è con tale dispositivo che si può animare una rete coordinata di violenza politica su scala planetaria. Del resto, appare chiaramente che nessuno dei terroristi autori degli attentati post 11 settembre (a Londra, Madrid, Sharm el-Sheik, Bali, Casablanca, Bombay ecc.) ha avuto contatti con l’organizzazione.
Il colpo di coda è stato l’accusa diretta ai media di fomentare l’odio verso i musulmani: «A forza d’invocarla di continuo, certi media o presunti “esperti”, di qua e di là dell’Atlantico, hanno finito non già per resuscitarla, ma per trasformarla come quell’Amedeo del commediografo Eugene Ionesco, un morto il cui cadavere continua a crescere e a occultare la realtà, e di cui non si sa come sbarazzarsi».
Dalla relazione di Chouet, al-Qaeda appare sempre più come lo spauracchio evocato da governi o giornalisti, quando occorre, per giustificare una “guerra infinita” in Medio Oriente, che è costata agli USA 2mila miliardi di dollari, ma è sempre più necessaria per accaparrarsi le risorse energetico-petrolifere del Nord Africa, cercando di battere sul tempo la Cina.
Pubblicato dossier francese dei segreti classificati Tre anni prima delle dichiarazioni di Chouet, nell’aprile del 2007, qualcuno, probabilmente un hacker, pubblicò un dossier contenente centinaia di segreti classificati: «Ogni pagina era contrassegnata dai timbri rossi “confidenzialdifesa” e “uso strettamente nazionale”. In alto a sinistra, un logo blu: quello della DGSE». Ben 238 pagine, dedicate ad al-Qaeda, ai suoi capi, ai luoghi di addestramento e ai sostegni finanziari. L’allora capo di Gabinetto, Emmanuel Renoult, fu costretto a confermare a «Le Monde» l’autenticità di quei documenti. Uno di questi, datato 24 luglio 2000, descriveva le condizioni critiche di Osama: «Vive da svariati anni in condizioni precarie, spostandosi di continuo, di campo in campo; soffre comunque di problemi renali e dorsali […]. Voci ricorrenti danno per certa la sua morte a breve, ma non sembrerebbe, attualmente, avere cambiato le sue abitudini di vita».
La verità di Benazir Bhutto Secondo quanto dichiarato alla BBC da Benazir Bhutto, lo sceicco del terrore sarebbe morto invece almeno quattro anni prima del blitz ad Abbottabad10. La prima premier donna pakistana, morta in un terribile attentato il 27 dicembre 2007, ebbe infatti il coraggio, o forse la sfrontatezza, di dichiarare, in un’intervista televisiva condotta da David Frost, che Osama bin Laden era stato ucciso da Omar Sheik. L’intervista, visibile su internet, va in onda il 2 novembre 2007. Al centro del confronto con Frost, i motivi e i probabili responsabili del fallito attentato alla Bhutto, avvenuto pochi giorni prima, il 18 ottobre. Nel denunciare i responsabili del terrorismo in Pakistan, la premier, dopo appena 5’ e 30’’ di intervista, nomina Omar Sheik, ex collaboratore dell’ISI, il Servizio segreto pakistano, aggiungendo, per descriverlo: «The man who murdered Osama bin Laden» (l’uomo che ha assassinato Osama bin Laden). Benazir Bhutto si lancia in una dichiarazione del genere e David Frost, celebre per la sua intervista fiume a Richard Nixon in merito allo scandalo Watergate e con quarant’anni di esperienza alle spalle… non interviene. Lascia continuare la premier senza interromperla o correggerla – nel caso si fosse trattato di un lapsus – e continua con altre domande, incurante della rivelazione del secolo. Se fosse stato un errore (la Bhutto avrebbe nominato Osama bin Laden intendendo però riferirsi a un’altra vittima di Sheik, il giornalista David Pearl),
come ha cercato di far credere, in seguito, la redazione dell’emittente televisiva, Frost avrebbe dovuto almeno interromperla con garbo abbozzando una battuta o qualcosa di simile. Invece nulla. Rivedendo il filmato dell’intervista, si nota che Benazir parla con calma e cita i nomi con precisione. Non sembra, almeno in apparenza, che possa trattarsi di un lapsus. In ogni caso, il comportamento più strano è stato quello di Frost, che ha cercato di soprassedere alla rivelazione o svista che fosse. Inoltre, l’Omar Sheik indicato dalla Bhutto è lo stesso che, secondo la versione ufficiale USA, avrebbe consegnato 100mila dollari a Mohammed Atta qualche giorno prima dell’11 settembre e che si trattenne a Wasghington lo stesso 11 settembre per incontrare i colleghi americani e i membri del Congresso. Da lì e con costoro seguì l’accaduto in televisione. Il capo dell’ISI, dopo qualche mese, sostenne che i 19 fondamentalisti accusati di avere organizzato l’attentato non avrebbero in realtà avuto niente a che fare con gli attentati di New York e di Washington; questo, sulla base delle informazioni dei Servizi segreti pakistani, di cui era a capo. Sheik venne immediatamente sollevato dall’incarico su pressione del Pentagono. Forse la Bhutto aveva avuto accesso a informazioni riservate, quand’anche sbagliate. Un mese e mezzo dopo l’intervista con Frost, Benazir Bhutto moriva in un attacco suicida a Rawalpindi, a circa 30 km da Islamabad, vicino al luogo dove, secondo le fonti USA, Osama avrebbe vissuto dal 2003; ma al-Qaeda, accusata di avere organizzato l’attentato, negò con risolutezza il proprio coinvolgimento, nonostante un’intercettazione telefonica di un colloquio del leader dei talebani Baitullah Mehsud con gli uomini che avrebbero pianificato l’omicidio. Possibile che Mehsud fosse così ingenuo da congratularsi al telefono con Maulvi Sahib per quello che definisce soltanto «l’assassinio della donna», senza fare il nome della Bhutto, ma dichiarando che «è stata una prova formidabile. Sono stati veramente dei bravi ragazzi, quelli che l’hanno uccisa», riferendosi a tali Ikramullah e Bilal. Dei militanti così inesperti da parlare dei dettagli di un attentato, con tanto di nomi, al telefono non potrebbero andare molto lontano, e con essi l’intera organizzazione terroristica. Il presidente Musharraf, indicato invece come il mandante dell’omicidio dal marito della Bhutto, si è visto costretto a dimettersi in diretta nazionale il successivo 28 agosto 2008. Qualcosa, però, deve saperla anche lui, dato che a quel tempo Sheik lavorava per i Servizi segreti pakistani e soltanto l’anno prima, il 2006, nelle sue Memorie, Musharraf aveva ammesso di sospettare che Omar Sheik avesse lavorato per i Servizi segreti britannici, il MI6; il che ci condurrebbe verso un’altra pista, molto più inquietante, secondo la quale, dietro
la strage delle Torri Gemelle, potrebbe esservi stata la regia occulta di Gran Bretagna e USA per giustificare l’intervento in Iraq e in Afghanistan. Ipotesi, questa, avvalorata dalle cariche di esplosivi piazzate in vari piani dei grattacieli, le cui tracce sarebbero state viste da numerosi testimoni.
Malato sì, malato no A giudicare dai farmaci trovati nella sua abitazione ad Abbotabad, non sembra che Osama bin Laden fosse gravemente malato, come invece era noto da tempo. Nel 2001, proprio alla vigilia degli attentati, egli era stato ricoverato in una clinica in Pakistan ed era stato sottoposto a dialisi. A riferirlo, nel 2002, era stata la CBS citando fonti dell’intelligence pakistana, secondo le quali il leader di alQaeda si sarebbe trovato nell’ospedale militare di Rawalpindi, la notte tra il 10 e l’11 settembre 2001. In questo senso, il presidente Pervez Musharraf si sarebbe detto convinto della morte di bin Laden per problemi renali. L’ex Presidente pakistano già nel 2002 alla CNN aveva dichiarato: «Ritengono francamente che [bin Laden; N.d.A.] sia morto, perché è un paziente ammalato di reni», spiegando che le autorità pakistane erano al corrente che lo Sceicco si era procurato due apparecchi per la dialisi e li aveva portati in Afghanistan, e concludendo: «Non so se si sia sottoposto a tutti i trattamenti in Afghanistan, ora. Nelle immagini che ci sono state presentate in televisione appare estremamente debole. Ritengo molto probabile che sia morto». Anche la CBS, all’inizio del 2002, nei reportages di Jim Stewart, aveva raccolto e divulgato alcune testimonianze riguardo al ferimento di bin Laden durante gli attacchi di Tora Bora, cui sarebbe seguita la morte. Era della stessa opinione il presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai, che alla fine del 2002 rafforzava questa convinzione dicendosi certo della morte dello Sceicco: bin Laden sarebbe morto perché, costretto alla fuga dopo l’attacco al World Trade Center, non sarebbe stato più in grado di sottoporsi costantemente alla dialisi. Sembra infatti che, dal momento del ricovero non avesse potuto più fare a meno dei macchinari per la dialisi, di cui, però, non c’è traccia nel compound ad Abbottabad. Dalla ricostruzione dei Navy Sails e dalle poche medicine trovate, si deduce che poteva al massimo avere dei problemi di stomaco, forse di ulcera e la pressione alta, ma niente di cronico o di preoccupante. Il che contrasta con le informazioni date per certe su bin Laden. Un’altra ombra sulle operazioni USA, che ripropone il dubbio su chi ci fosse realmente in quel villino. Per mettere a tacere i dubbi sempre più numerosi che
rimbalzavano sul web, il Pentagono faceva sapere che la giovane moglie di Osama aveva ammesso – non potendolo negare – che il marito era stato sottoposto a un’operazione ai reni nel 2001 in Pakistan, ma che la riabilitazione era avvenuta senza l’ausilio di dialisi, semplicemente mangiando delle fette di melone!
Osama è morto nel 2001 Ospite da Alex Jones, Pieczenik ha affermato che Osama bin Laden, affetto dalla sindrome di Marfan, è morto nell’autunno del 2001, data su cui sembra concordare la maggior parte degli analisti dei servizi segreti (dicembre 2001, massimo primavera 2002). A corollario della rivelazione, ha spiegato che l’attacco alle Torri Gemelle sarebbe stato soltanto «a part of a false flag operation», condotta dal Pentagono. Questa informazione gli sarebbe stata data da un generale maggiore – di cui sarebbe pronto a fare il nome davanti al Grand Giurì – appartenente allo staff di Paul Wolfowitz. La novità dell’intervento di Pieczenik è il suo ruolo all’interno del Governo. Come abbiamo visto, egli ha infatti occupato numerose posizioni influenti sotto Nixon, Ford e Carter e ha inoltre lavorato come consulente anche per Reagan e Bush. Oggi lavora ancora come consulente per il Dipartimento della Difesa. Nel 2002, sempre ospite dello show di Alex Jones, Pieczenik aveva già dichiarato che bin Laden era morto da tempo e che il Governo stava aspettando il momento “politico” più adatto per rendere pubblica la notizia. Certo, in quel periodo diffondere la notizia della morte del “nemico numero uno” avrebbe ostacolato la guerra all’Afghanistan, il cui unico motivo “ufficiale” era proprio la cattura dello Sceicco e dei suoi seguaci. In questo senso, la scena della cattura ad Abbottabad sarebbe stata, per Pieczenik, «una farsa totale, una finta. Siamo in un teatro americano dell’assurdo». Una farsa, una fandonia. L’ennesimo bogus.
Sindrome di Marfan In merito alle cause del decesso, Pieczenik ha ribadito che bin Laden sarebbe morto nel 2001, non in seguito alla cattura da parte delle forze speciali, «ma perché era stato visitato da un’équipe della CIA, e dai loro registri risulta che era afflitto dalla sindrome di Marfan», un disturbo degenerativo che colpisce ossa, legamenti, occhi, cuore, vasi sanguigni e polmoni. Secondo la testimonianza dello psichiatra, il governo americano conosceva
esattamente tutti i movimenti di bin Laden ed era dunque a conoscenza della sua morte prima dell’invasione in Afghanistan. Non solo: nel luglio del 2001, la CIA lo avrebbe visitato presso l’ospedale americano di Dubai. Le sue condizioni apparivano già allora disperate: «Era molto malato e stava morendo, non c’era bisogno che qualcuno lo uccidesse». Il Califfo sarebbe infatti deceduto nell’autunno del 2001, poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Questa versione coincide con quanto dichiarato da Chouet, dai Servizi segreti iraniani e dal presidente Musharraf e con quanto trapelato più volte in questi dieci anni, da insider e media. L’unica differenza, rispetto a quanto trapelato nel passato, riguardo alla precarietà delle condizioni di bin Laden, è proprio la patologia. Accertata la sua degenza in una clinica pakistana il 10 settembre 2001, si era diffusa la voce che Obama avesse una patologia renale e che necessitasse della dialisi. Pieczenik insiste invece nell’indicare la sindrome di Marfan come causa della morte dello Sceicco. La patologia – incurabile – era già stata attribuita a bin Laden dieci anni or sono (www.salon.com): dallo studio delle foto e dei video in cui appariva e dai registri dall’FBI, lo Sceicco venne identificato come un probabile candidato per la diagnosi della Marfan. Questa malattia genetica non colpisce i reni, ma il sistema scheletrico, oculare, cardiovascolare e infine i polmoni: il gene deputato alla produzione della proteina fibrillina risulta alterato. Un individuo affetto dal morbo di Marfan appare alto, magro, con articolazioni sciolte e flessibili, e braccia e gambe che possono apparire lunghe rispetto al tronco; il volto può essere lungo e stretto, il palato è generalmente arcuato e i denti sono storti. Caratteristiche, queste, che si attagliano alla figura di bin Laden – in particolare, la magrezza, insolita per il clan dei bin Laden, e l’utilizzo costante di un bastone per camminare – ma che non dimostrano che fosse affetto dalla patologia. A sostegno della diagnosi, si espresse il dottor Richard Devereux – medico del Weil Cornell Medical Center di New York, che tratta pazienti affetti da sindrome di Marfan – il quale, dopo avere studiato le immagini dello Sceicco concluse: «He’s a Marfanoid»11 («è affetto dalla sindrome di Marfan»). Il dottor Devereux spiegò: «Sembra che abbia lunghe dita e lunghe braccia. Anche la testa appare allungata e la faccia stretta. E utilizza un bastone, forse a causa di problemi del tessuto connettivo o per problemi alla schiena. Altre informazioni sul leader di al-Qaeda suggeriscono che possa avere problemi al cuore. La sua struttura facciale assomiglia a quella dei pazienti affetti da sindrome di Marfan».
All’indomani dell’11 settembre, mentre si diffondevano le voci riguardo alla possibile malattia del leader di al-Qaeda, Yossef Bodansky, direttore dello staff
della Task Force contro il terrorismo della Casa Bianca, dichiarò al «New York Post»: «A detta di tutti, bin Laden non è un uomo in salute ed è sottoposto a forte stress», senza specificare i tratti della presunta malattia. Interpellato dalla stampa, il genetista Darwin Prockop, direttore del Centro di Terapia Genetica presso la Tulane University, profetizzò, nell’autunno del 2001 il pericolo che correva bin Laden nel caso fosse stato colpito da tale sindrome: «Se bin Laden è affetto da Marfan, rischia che l’arteria aorta si rompa improvvisamente portandolo alla morte». La patologia può portare infatti alla dissezione dell’aorta e persino alla sua lacerazione e dunque, soprattutto se si è sotto stress, a morte improvvisa. Il rifugio nel complesso di Tora Bora sotto i bombardamenti avrebbe potuto rivelarsi fatale, per lo Sceicco. Se la versione della malattia di Osama, della sua degenza prima a Dubai e poi in una clinica pakistana e dell’invio di medici a Jalalabad trova numerose conferme, nella testimonianza di Pieczenik emerge il ruolo che la CIA avrebbe continuato ad avere negli anni con il terrorista. Se ciò fosse vero, dimostrerebbe il coinvolgimento dell’Agenzia nella formazione di al-Qaeda e nell’11 settembre, che sarebbe stata un’operazione false flag per mobilitare l’attenzione pubblica americana contro un nemico immaginario, ovvero al-Qaeda. La tragedia del World Trade Center avrebbe così coalizzato americani ed europei sulla base di falsi presupposti contro un nemico creato a tavolino, per giustificare l’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq. Pieczenik ha infatti spiegato che quella dell’11 settembre sarebbe stata un’operazione, in cui si erano deliberatamente bloccate le reazioni della Difesa, e ha continuato accusando Dick Cheney, Paul Wolfowitz, Stephen Hadley, Elliot Abrams e Condoleeza Rice di avere «guidato gli attacchi». Incalzato da Jones, Pieczenik ha spiegato che la decisione di inscenare l’uccisione di bin Laden sarebbe stata presa da Obama, il cui consenso stava crollando ai minimi storici. L’insistenza di Donald Trump nel richiedere la pubblicazione del certificato di nascita del Presidente e l’uscita del saggio di Corsi, che dimostrerebbe che Obama non è nato alle Hawaii, stavano rivelandosi davvero pericolosi, per la Casa Bianca. La notizia dell’uccisione di bin Laden ha così distolto l’attenzione pubblica non solo dalle questioni sulle reali origini di Obama, ma anche dal disastro in Afghanistan e dall’aumento della disoccupazione in USA. Alla luce di queste variegate informazioni, viene spontaneo chiedersi: in quel compound viveva davvero Osama bin Laden con la famiglia oppure un sosia? O ancora, non essendo egli mai uscito e non essendo mai stato visto da alcuno, nel luogo, vi abitava una famiglia che doveva “sostituire” il reale Osama, morto
invece da almeno quattro anni (se non addirittura dieci), come alcune fonti autorevoli suggeriscono da tempo?
Osama è morto il 26 giugno 2006 Berkan Yashar è un politico turco ceceno e al contempo un agente segreto al servizio della CIA. Conoscendolo da tempo, e avendo già collaborato con lui, è stato lo stesso Yashar a contattare il giornalista russo per offrirgli un’esclusiva, che si sarebbe rivelata davvero una “bomba”. La prima domanda che sorge spontanea è perché mai un ex agente della CIA, invischiato in terrorismo, segreti e guerre sporche, abbia deciso di contattare un giornalista per rivelare al mondo le informazioni in suo possesso su bin Laden. Berkan ha detto all’amico giornalista di essere in pericolo, di temere per la propria incolumità e di essere cosciente che l’unico modo per proteggersi dalla CIA è quello di rivelare quanto possibile al mondo. In tal modo, la sua morte, qualora avvenisse, porterebbe la firma ufficiale dei Servizi segreti statunitensi. Ciò non esclude che Yashar sia un debunker, un doppiogiochista al soldo di chissà quale altro Servizio segreto e che le sue informazioni servano soltanto a intorpidire le acque. Questi dubbi devono sempre essere presenti, quando ci si approccia a personaggi del calibro di Yashar. Detto ciò, Yashar ha dichiarato, in diretta russa, che secondo le informazioni in suo possesso, bin Laden sarebbe morto il 26 giugno 2006. Già gravemente malato e dializzato, Osama sarebbe riuscito a scampare ai bombardamenti di Tora Bora per poi morire di malattia e finire seppellito sulle montagne, alla frontiera tra il Pakistan e l’Afghanistan: «Osama bin Laden è morto di morte naturale quasi cinque anni fa» ha dichiarato Yashar nell’intervista «prima di quando è stato dichiarato eliminato dal commando statunitense»12.
Il soggiorno di Osama in Cecenia Yashar aveva avuto modo di incontrare Osama nei primi anni Novanta in Cecenia. Secondo il suo racconto, lo Sceicco avrebbe soggiornato in Cecenia vent’anni fa, intorno al 1992, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando le truppe sovietiche erano state costrette ad abbandonare l’Afghanistan. Una rivelazione clamorosa, perché nessuno aveva mai parlato prima del soggiorno di bin Laden in Cecenia: «Nel settembre del 1992 mi trovano in Cecenia, e in quel momento ho conosciuto bin Laden. Tale incontro si svolse in una casa a due piani nella città di Groznij. Al piano superiore vi era la famiglia di
Gamsakhurdia, il Presidente georgiano che poi fu cacciato dal suo Paese. Ci incontrammo al piano inferiore. Osama viveva nello stesso palazzo».
Senza però spiegare il motivo della presenza di Osama a Groznij. Riguardo ai suoi incontri con lo sceicco, Berkan si è limitato a dire: «Voleva solo parlare». A quell’epoca, tuttavia, Yashar aveva un nome operativo, datogli dalla CIA: Abu Bakar. Lavorava per i ribelli ceceni con il nickname di Abu Bakar e contemporaneamente per la CIA. Secondo l’intervistato, dopo quel viaggio nella strettissima cerchia di bin Laden apparvero alcuni cittadini ceceni, che non avrebbero però partecipato «direttamente agli attentati terroristici». Costoro avevano il compito di proteggere bin Laden, che si fidava di loro e sapeva che non lo avrebbero mai tradito. Anche la CIA e i Servizi segreti russi ne erano a conoscenza. Alla domanda se credesse che i Navy Seals avessero ucciso bin Laden ad Abbottabad, Yashar ha risposto: «Anche se il mondo intero ci crede, io non potevo crederci […] conosco personalmente i ceceni che lo proteggevano, sono Samy, Ayub e Mahmud e sono restati con lui [Osama; N.d.A.] fino alla fine. Ricordo quel giorno molto bene, il 26 giugno 2006: erano tre su sei. Queste persone, così come altre due di Londra e due americani, tutti e sette, lo videro morto. Era molto malato, era pelle e ossa, molto magro; lo hanno lavato e poi seppellito».
Soltanto i tre ceceni, però – ha sottolineato Yashar – erano presenti al funerale dello Sceicco: «Lo seppellirono secondo la sua volontà». In una montagna, tra il Pakistan e l’Afghanistan. Berkan, che avrebbe avuto il telefono sotto controllo da parte della CIA, ha inoltre raccontato: «Sono stato il primo che ha annunciato la data della sua morte, nel novembre del 2008, in una conferenza a Washington, senza fare alcun nome; e così sembra che allora gli americani abbiano iniziato a monitorare i miei contatti». Da qua la paura di Yashar per la propria incolumità. Per concludere, egli ha specificato che l’ultima guardia del corpo di bin Laden, Sami, sarebbe stata rapita dai Servizi segreti americani qualche giorno prima del fatidico 2 maggio 2011. L’ultima telefonata che egli ricevette da Sami proveniva dal Pakistan. Yashar ha spiegato che, per imbastire la finta uccisione ad Abbottabad, la CIA si sarebbe fatta rivelare da Sami, mettendolo alla tortura, il luogo esatto della tumulazione di bin Laden: «Conosco le operazioni statunitensi dall’interno: hanno trovato la tomba, hanno tirato fuori bin Laden e lo hanno detto a tutti. Hanno bisogno di mostrare che i servizi di sicurezza funzionano tecnologicamente, che ogni passo è controllato, e quindi presentarla come una grande vittoria, per dimostrare ai contribuenti che
non pagano le tasse per niente».
Alla ricerca della salma A non credere alla versione ufficiale è anche Bill Warren13, ricco imprenditore californiano con la passione della musica e dell’archeologia subacquea. Il suo curriculum vitae parla del ritrovamento di almeno duecento relitti, anche se il suo nome è noto più che altro tra gli appassionati del settore. È un personaggio eccentrico, ma non è uno sprovveduto. Repubblicano, si definisce un “patriota” non si fida dell’amministrazione Obama e si schiera con coloro che non credono alla morte di bin Laden. Intervistato dal «Mail on Sunday», Warren ha espresso l’intenzione di organizzare una spedizione, per recuperare la salma di Osama bin Laden o meglio, per dimostrare che essa non esiste. Egli è infatti convinto che bin Laden sia ancora vivo e che il Presidente abbia ingannato il mondo intero: «Faccio questo perché non credo al mio Governo né a Obama e perché sono un patriota», ha spiegato. Non usa mezzi termini, Bill Warren, per esprimere il proprio pensiero sull’amministrazione Obama: «Come molti altri cittadini americani, non credo e non ho fiducia nel Presidente. Obama ha un ego smisurato. […] Non è leale nei confronti dell’America. È un impostore, un disgustoso truffatore. […] Ha fatto molte promesse in campagna elettorale che non ha mantenuto. Ci aveva promesso lavoro, un migliore sistema sanitario, infrastrutture ecc. Invece ha fallito miseramente mentre sempre più americani perdono casa, macchina, lavoro»14.
Warren, però, invece di scambiare elucubrazioni politiche in chat o nei salotti californiani, ha deciso di attivarsi. Cavalcando la mancanza di prove a sostegno della morte dello “Sceicco del terrore”, ha organizzato una spedizione subacquea nel Mar Arabico, sostenuto da una fitta campagna pubblicitaria in modo che la spedizione venisse “battezzata” davanti alle telecamere di mezzo mondo. Ora, qua nasce il dilemma: se Warren crede che bin Laden sia ancora vivo, che cosa spera di trovare, la sua squadra, nei fondali del Mar Arabico? I resti di un sosia? I suoi dicono di avere localizzato il punto in cui si troverebbe la salma, ma in tal caso dovrebbero riuscire a dimostrare che il corpo gettato in mare non appartiene a bin Laden. Nel caso non riuscissero a individuarne i resti, la spedizione potrebbe essere variamente intesa come un successo o un fallimento. Il Pentagono potrebbe dichiarare che il corpo è stato sbranato dagli squali, mentre Warren potrebbe gridare al complotto, data l’assenza di tracce del corpo. È il cosiddetto cul de sac. Se si dovesse invece trovare il corpo del vero Osama
bin Laden – Warren è già attrezzato per la prova del DNA15 e si è offerto di restituire la salma alla famiglia bin Laden per una degna sepoltura – egli rischierebbe ritorsioni da parte del Pakistan e di al-Qaeda e, nel migliore dei casi, il pubblico ludibrio in Patria. Perché, allora, un imprenditore che non ha bisogno di soldi né di pubblicità come Warren ha deciso di imbarcarsi in un’impresa così pericolosa? Ce lo spiega lui stesso, raccontando, con slancio patriottico, di essersi indignato per «le bugie di Obama», che «ha guadagnato consensi con la supposta morte di bin Laden, nonostante la totale assenza di prove a supporto».
Una gola profonda tra i marines Nelle sue ricerche, Warren venne avvicinato da diverse “fonti”. A fine giugno 2011 l’imprenditore californiano venne contattato da un militare dei marines, pronto a “vendergli” informazioni; in seguito, riuscì a incontrare un alto funzionario dei marines, Seth, proveniente dalla base californiana di Camp Pendleton. Seth gli rivelò, per prima cosa, che bin Laden non sarebbe stato ucciso dai Navy Seals. Semplicemente, al posto dello “Sceicco del terrore”, sarebbe stato ucciso un sosia e il suo corpo sarebbe stato gettato in mare. Seth e altri commilitoni di Camp Pendleton avrebbero partecipato alla missione a bordo dell’USS Carl Vinson, da dove avrebbero gettato in corpo la salma dell’ipotetico bin Laden. Avendo preso parte alla missione, il marine ha potuto testimoniare a Warren la truffa ordita dal Pentagono e offrire le coordinate del luogo in cui Bill avrebbe potuto ritrovare il corpo, in fondo al Mar Arabico. Raccontandogli i dettagli a sua disposizione, Seth ha più volte menzionato il film The Bourne Identity, richiamando l’attenzione sul personaggio di Jason Bourne, creato dal romanziere Robert Ludlum nel 1980. A proposito del suo film The Bourne Ultimatum, il regista Greengrass aveva infatti dichiarato: «Non c’è un solo cattivo, c’è un sistema cattivo. Esiste questa dicotomia tra l’eroe che si muove alla luce del giorno e il sistema che è corrotto». Se, in questo caso, Greengrass si riferiva alla nuova organizzazione segreta voluta dal Dipartimento della Difesa – BlackBriar – le sue dichiarazioni possono essere evidentemente estrapolate dal contesto del film per dipingere la situazione in cui lavorano le agenzie legate alla CIA e al Pentagono. Le rivelazioni di Seth possono alludere anche al pericolo, che corrono le fonti interne alle Agenzie governative nel divulgare notizie o nel tentare di uscire dai “programmi” istituiti dalla Difesa, e al coinvolgimento di Osama – a dire di molti – con la CIA anche dopo il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan.
Abbattuti i Navy Seals del Team 6
Abbattuti i Navy Seals del Team 6 Neppure un mese dopo il primo contatto intercorso tra Warren e Seth, parte del commando che il 2 maggio 2011 avrebbe ucciso lo Sceicco del terrore ad Abbotabad è stato abbattuto. Come confermato da fonti militari USA alla CNN, i 22 militari appartenevano al Team 6, lo stesso che aveva partecipato all’uccisione di bin Laden. Poche ore dopo le prime fughe di notizie, il Pentagono ha chiarito che non si sarebbe però trattato degli stessi uomini. Dato il loro anonimato per questioni di sicurezza, la notizia non è verificabile. La strage delle forze speciali americane a bordo del Chinook è stata definita la “peggiore tragedia della guerra in Afghanistan”, almeno per le forze americane, perché non si conta il numero dei civili abbattuti, per sbaglio o per leggerezza insieme agli obiettivi talebani. L’inchiesta sulla dinamica dell’incidente del Chinook è destinata a chiudersi con la conclusione “colpa dei talebani”, che avrebbero immediatamente rivendicato l’abbattimento. Non c’è modo di verificare e la rivendicazione fa comodo a entrambe le parti: ai talebani, che in tal modo guadagnano punti con la popolazione locale, e al Pentagono, che può sbattere i nuovi martiri in prima pagina e puntare il dito contro le milizie del Mullah Omar, giustificando in tal modo la militarizzazione dell’Afghanistan. Il presidente Obama si è affrettato a definire la morte dei 38 militari uno dei tanti “sacrifici straordinari” compiuti per la sicurezza del Paese – l’America, non l’Afghanistan, che in dieci anni di conflitti è raso al suolo – e per difendere i valori che esso “impersona”. Per coloro che rimangono, ciò potrebbe servire da lezione.
Terrorismo in franchising Sebbene il declino dell’organizzazione sia stato confermato a partire dal 2005, si deve rivedere il concetto generale che si aveva di al-Qaeda alla vigilia dell’11 settembre. Gli esperti di intelligence hanno dovuto fare i conti con un cambiamento nell’operato del gruppo dopo l’invasione dell’Afghanistan: «Essendo impossibile replicare le stesse modalità operative dopo aver perso il santuario afghano, l’organizzazione adottò un approccio diverso: piuttosto che eseguire direttamente gli attentati, prese a sostenere attacchi compiuti da altri gruppi. Detto altrimenti, al-Qaeda si è evoluta in un franchising del terrore, una rete decentrata che fornisce marchio, supporto logico e finanziario alle attività terroristiche altrui. Gli attentati di Bali del 2002, ad esempio, furono finanziati da al-Qaeda ma compiuti da altri. La stessa tattica fu replicata in Marocco, Arabia Saudita, Kenya e ovviamente Iraq»16.
Seguendo questo cambiamento del modus operandi, gli esperti hanno
suddiviso la struttura dell’organizzazione, di per sé già decentrata, in tre livelli: «Il primo è il “nucleo di al-Qaeda”, termine usato in riferimento a bin Laden e ai suoi fedelissimi. Il secondo si compone di gruppi legati al primo da canali personali e finanziari diretti […] il terzo livello consiste in gruppi che dichiarano la loro fedeltà all’ideologia e agli obiettivi di al-Qaeda ma non interagiscono in alcun modo con il nucleo dell’organizzazione».
Gli studiosi hanno inoltre constatato che il “regicidio” – con l’eccezione del PKK e di Sendero Luminoso – raramente mina alle fondamenta le organizzazioni insurrezionali o terroristiche. In primis perché, come già avvenuto nel caso di al-Qaeda, l’uccisione o la cattura del leader causa una recrudescenza, che solo la “miopia geostrategica” americana poteva non prevedere. Il desiderio di vendetta nei confronti dell’Occidente ha già ricompattato le cellule jihadiste spingendo gli USA a investire nuovi miliardi di dollari nella struttura di sicurezza. In questo senso, il passaggio di consegne all’ex medico egiziano Ayman al-Zawahiri si è configurato come una successione naturale, scontata, sebbene al-Qaeda rimanga «una struttura fortemente decentrata» in quanto «le sue diverse componenti sono legate al centro in modo estremamente lasco, o non lo sono affatto e possono quindi operare in piena autonomia». NOTE 1. «The Guardian», 22 settembre 2001: http://www.guardian.co.uk/world/2001/sep/22/ afghanistan.september113. 2. Ex presidente del Pakistan, in un’intervista del 2002 alla CNN. 3. Allain Chouet, capo dei Servizi segreti francesi in una interrogazione al Senato della Repubblica francese, 29 gennaio 2010. 4. Dichiarazione di Pieczenik, del 3 maggio 2011, durante un’intervista radiofonica con Alex Jones. 5. Uno dei portavoce ufficiali dell’FBI. I dubbi sul coinvolgimento di bin Laden negli attacchi dell’11 settembre non appartengono solo a coloro che vengono bollati come “complottisti”: anche l’FBI – a differenza della CIA – dubitava della responsabilità dello Sceicco. Non potendo dimostrare che fosse stato bin Laden a pianificare, e neppure a ordinare, l’attentato, il Federal Bureau non ha mai potuto inserire gli attacchi dell’11 settembre tra i crimini per cui bin Laden risultava ricercato. 6. John Simpson, A Mad World, My Masters: Tales from a Traveller’s Life, Mac Millan, London 2000, pp. 82 e ss. www.telegraph.co.uk/news/worldnews/asia/afghanistan/1340688/ Simpson-on-SundayThe-Day-Osama-bin-Laden-put-a-price-on-my-head.html. 7. Michael Burleigh, In nome di Dio. Religione, politica e totalitarismo. Da Hitler ad al-Qaeda, Rizzoli, Milano 2007, p. 531. 8. Andreas von Bulow, Il Governo Bush prima, durante e dopo gli attacchi dell’11 settembre rispetto a quattro possibili ipotesi di complotto, in Zero, a cura di Giulietto Chiesa, Piemme. 9. Come ci spiegano Giulietto Chiesa e Pino Cabras nel loro Barack Obush: «Sono infatti le prime notizie che si raccolgono quelle che contengono il maggior grado di verità e, quindi, permettono di scoprire il maggiore grado di falsità. E proprio qui si può misurare il livello di asservimento, la totale mancanza di
professionalità, il grado di falsificazione, di viltà del mainstream nel quale il Pianeta è stato imbozzolato negli ultimi decenni e in cui si trova ora imprigionato come la mosca nella tela del ragno». 10. http://www.lettera43.it/video/14673/bin-laden-e-morto-ma-era-il-2007.htm. 11. www.salon.com, articolo di Mark Francis Cohen. 12. www.silviacattori.net. 13. Quanto segue è frutto di lunghe comunicazioni intercorse tra Bill Warren ed Enrica Perucchietti. 14. Intervista di Enrica Perucchietti. 15. Su questo fronte, il genetista Ryan Lehto, specializzato nelle analisi anche su frammenti antichi o corrotti di DNA, si è offerto di svolgere gratuitamente le analisi, in caso di ritrovamento del corpo. Lehto si è distinto per aver effettuato le analisi sui ritrovamenti dell’equipaggio del Titanic. 16. Ibidem.
FALSE FLAGS E SCANDALI DI CORTE: DALLA STRAGE NORVEGESE ALL’ELISEO «Non si fa un governo mondiale redigendo una splendida costituzione. Lo si fa all’interno di un processo storico, maturando fino a essere pronti». (Reinhold Niebuhr) «Noi avremo un Governo Mondiale, che vi piaccia o no, per conquista o per consenso». (James Paul Warburg1) «[…] lo stregone non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate». (Karl Marx, Friedrich Engels2) «Fate in modo che la gente ami la propria schiavitù». (Aldous Huxley) «Andremo insieme verso questo Nuovo Ordine Mondiale e nessuno, insisto, nessuno, potrà opporvisi». (Nicolas Sarkozy3)
Dalla Libia alla Norvegia Il Far West del petrolio non si gioca soltanto in Medio Oriente sulla terraferma: la corsa a greggio e gas si concentra anche negli abissi del mare. Le dispute marittime stanno tenendo banco, nelle relazioni internazionali; non solo per le controversie tra Israele e Libano, ma anche per quanto riguarda Cina, Russia, Giappone, Filippine, Malaysia, Brunei e Vietnam nell’Oceano Indiano e Mare della Cina del Sud. La diplomazia aveva registrato, nel 2010, l’accordo storico raggiunto tra Norvegia e Russia sulle acque del Mare di Barents, che aveva creato malcontento a Washington. Quest’asse strategico getta un ponte tra Norvegia e Libia nella geopolitica globale: il duplice attentato del 22 luglio 2011 a Oslo e Utoja potrebbe avere una matrice ricollegabile alla stessa geostrategia che ha portato al conflitto in Libia e, in precedenza, in Iraq e in Afghanistan. Esistono infatti almeno dieci ottime ragioni per rivedere la versione ufficiale, che le autorità e i media hanno diffuso in merito alle stragi norvegesi4. Di queste, almeno sei valgono come moventi, che potrebbero avere spinto coloro che sostengono un NWO ad attaccare la Norvegia, in modo che il sangue fungesse da monito per il futuro. Propedeutico a ciò, l’entrata della Norvegia nell’Unione Europea. In estrema sintesi, le dieci ragioni sono:
1. la mancata adesione all’UE; 2. lo storico accordo di cooperazione siglato nel 2010 con la Russia ed entrato in vigore nell’estate del 2011; 3. un’autonomia che si rispecchia in un Governo e un’economia forte che ha resistito alla crisi; 4. una politica pronta a riconoscere ufficialmente la Palestina; 5. le risorse di petrolio e di gas e gli appalti ventennali sui pozzi iracheni; 6. la decisione di ritirare anticipatamente le truppe dalla Libia; 7. la spaccatura interna alla NATO, facente capo a una politica filorussa; 8. la presenza di una loggia massonica deviata e fondamentalista di culto svedese; 9. le esercitazioni militari del governo norvegese, che “avrebbero” – come nel caso dell’11 settembre e di Londra 2005 – coperto l’operato dei terroristi; 10. la testimonianza di numerosi sopravvissuti sull’isola di Utoja sul fatto che un vero e proprio commando avrebbe affiancato Behring Breivik nella sua follia omicida.
La Norvegia non è nell’UE Partiamo dall’evidenza: la mancata adesione della Norvegia all’Unione Europea. In due occasioni, un referendum popolare ha bocciato l’ipotesi di entrare a far parte dei Paesi membri. Il no definitivo è arrivato nel 1994. Non solo; secondo un sondaggio, il 66% della popolazione sarebbe contrario all’annessione. Su questa decisione influirebbe la crisi, che hanno attraversato diversi Stati membri una volta entrati nella UE. Se da un lato pesa la recente indipendenza conquistata nel 1905 dal Paese dopo secoli di unione con Svezia e Danimarca, dall’altro il controllo delle acque territoriali con la pesca e l’accesso a risorse quali petrolio e gas votano a sfavore dell’adesione: in questo caso, le sue acque potrebbero, da una parte, essere sfruttate anche da altri Paesi europei per la pesca, e dall’altra ricevere dure sanzioni per la caccia alle balene. Avendo sottoscritto il trattato di Schengen, la Norvegia non ha problemi con gli scambi economici, mentre un’eventuale adesione all’UE sarebbe controproducente, per un Paese che ha degli standard ben al di sopra di quelli richiesti per l’annessione. La Norvegia si è dimostrata una Nazione autonoma, ricca e forte, e ha retto la caduta dei mercati e la conseguente crisi economica. Questa indipendenza non può che intralciare l’opera di coloro che vogliono Stati deboli per creare un’Europa forte che sostituisca le singole autorità nazionali. Nel progetto di costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale la mancata adesione al primo step rappresentato dall’UE non può che essere vista come un ostacolo da eliminare. Nella geostrategia disegnata dagli USA e professata da Brzezinski emerge infatti un rigurgito di Guerra Fredda, che vede l’America come il pilastro politico ed economico degli equilibri mondiali a cui si contrappongono l’Eurasia e quei Paesi indipendenti, che sembrano non avere bisogno della guida e della protezione degli USA5.
L’accordo con la Russia Sulla scacchiera degli equilibri geopolitici, la Norvegia si stava dimostrando troppo indipendente, per gli interessi di quelle stesse élite che avevano appoggiato l’intervento in Libia. La decisione di porre fine alla propria partecipazione sul territorio libico a partire dall’1 agosto 2011 ha portato il Ministro della Difesa britannico ad accusare il governo norvegese – così come quello olandese – «di non fornire sufficienti forze aeree per la campagna in corso». A ciò si aggiunge l’accordo storico stipulato con la Russia, destinato a riscrivere gli equilibri economici mondiali. Il Trattato, firmato a Murmansk il 15 settembre 2010 dal primo ministro norvegese Jens Stoltemberg e dall’allora presidente russo Dimitri Medvedev, definisce la linea di demarcazione delle zone di influenza economica nel Mare di Barents, secondo un criterio che assegna alle due nazioni parti ritenute uguali, per regolare svariate attività, che vanno dalla pesca del merluzzo allo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti di petrolio e di gas naturale in un bacino di 175 mila chilometri quadrati. Si può capire come tale asse strategico metta a rischio gli interessi e il controllo americano sul nostro continente. Oltre ai giacimenti di gas e di petrolio, la Norvegia e la Russia si sono aggiudicate, tramite la Statoil Hydro e la Lukoil, l’assegnazione degli appalti ventennali su uno dei maggiori giacimenti petroliferi nel Sud dell’Iraq: una riserva di 13 miliardi di barili di petrolio. La Statoil aveva già fatto tremare le lobby americane dopo essere entrata in un partneriato con la Gazprom, per il maxigiacimento di gas a Shtokman; inoltre, la Norvegia si sarebbe compromessa, secondo una fonte di «Haaretz», per avere escluso, nel 2010, per ragioni etiche, due imprese israeliane dalla partecipazione dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio nel Mare del Nord6.
Una politica che appoggia la causa palestinese Veniamo ora alla politica estera. La Norvegia non si è solo compromessa, agli occhi americani, per la volontà di ritirare le sue forze aeree dalla Libia mentre il conflitto era ancora in corso, ma si è anche contraddistinta per una politica giudicata da alcuni “anti NATO”. Come riportato da Gianluca Freda7 secondo il Cablegate di Wikileaks, questo Paese sarebbe stato accusato di fare parte della cosiddetta “banda dei cinque” insieme a Francia, Germania, Olanda e Spagna. Le cinque nazioni avrebbero adottato una politica filorussa, creando così una frattura interna alla NATO. Il secondo peccato della Norvegia in politica estera sarebbe l’appoggio alla
causa palestinese. Il Ministro degli Esteri norvegese, Jonas Gahr Stoere, ha dichiarato, in una conferenza stampa tenutasi a Ramallah, che il suo Paese era pronto a riconoscere il futuro Stato palestinese. Il Partito Socialista di Sinistra di Kristin Halvorsen si è spinto oltre, fino a chiedere di fare votare una mozione di azione militare contro Israele nel caso di un’azione violenta contro Hamas a Gaza. A ciò si aggiunge l’esclusione delle due imprese israeliane dalla partecipazione allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e l’accusa di adottare politiche di antisemitismo, che il Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Liebermann ha mosso alla Norvegia: allora Liebermann, durante una riunione ONU a New York, puntò il dito proprio contro il ministro norvegese Jonas Gahr Store accusandolo di connivenza con Hamas! I sostenitori dell’interpretazione dell’attentato come “monito” al governo norvegese hanno inoltre fatto notare una “coincidenza”: il paladino della causa palestinese, il ministro Gahr Store, aveva chiesto la fine dell’occupazione israeliana il giovedì precedente all’attentato proprio dalla stessa isola di Utoja, presso il campo estivo della gioventù laburista. Il Ministro degli Esteri non è stato il solo a rischiare la pelle, nel duplice attentato; si pensi che il primo ministro Jens Stoltenberg aveva mandato i figli proprio al campo estivo di Utøya: sia i ragazzi che Gahr Store si sono salvati.
L’ennesimo false flag? Un’anomalia storica, su cui si è troppo poco discusso, in merito all’11 settembre, è stata l’esercitazione condotta dal NORAD e dal Consiglio di Stato Maggiore riguardo alla simulazione di un ipotetico attentato aereo. Il caso volle che l’attentato avvenisse poco dopo l’esercitazione, senza che NORAD, FBI e CIA riuscissero ad abbattere gli aerei, che ebbero il tempo di virare verso i loro obiettivi con tutta calma sorvolando diverse basi militari. Numerosi caccia vennero invece mandati fuori rotta sull’Oceano Atlantico, nell’ambito di questa fantomatica simulazione. La stessa dinamica si è ripetuta prima a Londra, negli attentati della metropolitana del 2005, e poi in Norvegia. Nel caso di Oslo, la polizia antiterrorismo norvegese ha intorpidito le acque, inscenando la tipica esercitazione, con tanto di scoppio di esplosivi, all’insaputa dei cittadini. L’esercitazione potrebbe essere servita a fare agire indisturbati i veri responsabili degli attentati, in modo che potessero piazzare gli esplosivi. Così avvenne a New York, poi a Londra, infine a Oslo. Come hanno documentato numerosi ricercatori, sono infatti centinaia le testimonianze di cittadini americani – tra cui giornalisti e vigili del fuoco – che
l’11 settembre sentirono e videro esplodere delle cariche all’interno del World Trade Center: la stessa cosa sembra sia accaduta anche a Oslo. L’esercitazione militare, tenuta 48 ore prima in prossimità del teatro dell’Opera, può avere benissimo coperto e permesso il piazzamento dell’esplosivo, che non si è ridotto soltanto a un’autobomba ma ha colpito diversi edifici governativi. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato il coinvolgimento del Mossad in quella che viene ritratta come una false flag. Così Gianluca Freda: «Il Mossad opera in Norvegia in cooperazione con i Servizi segreti locali, sotto la copertura del cosiddetto “Kilowatt Group”, una rete d’intelligence che vede la partecipazione, oltre che di Israele e Norvegia, anche di altri Paesi quali Svizzera, Svezia e Sudafrica e che si maschera – manco a dirlo – sotto la finalità di facciata della “lotta al terrorismo”».
Sul Kilowatt Group quel poco che si sa è emerso da alcuni documenti della CIA; è stato fondato nel 1977 e opererebbe a stretto contatto con il Mossad: «The group is dominated by Israel because of its strong position in the information exchange on Arab based terror group in Europe and the Middle East» («Il gruppo è dominato da Israele grazie alla sua predominanza nello scambio di informazioni nei gruppi terroristi arabi in Europa e in Medio Oriente»). Infine è stato dimostrato, dalla ricostruzione di alcuni ricercatori e dalla testimonianza dei sopravvissuti, che il duplice attentato non può essere stato commesso da un’unica persona, che avrebbe agito indisturbata per un’ora e mezza spostandosi a piedi per l’isola di Utoja con l’attrezzatura in pugno. Per questo, si è supposta l’esistenza di almeno un complice, forse anch’egli appartenente alla Massoneria deviata di rito svedese.
I testimoni parlano di un commando In questo senso, può avere qualche rilevanza il fatto che Breivik appartenesse, come ricorda il ricercatore Leo Lyon Zagami, «a una ricca famiglia dell’élite illuminata norvegese: il padre era un ex diplomatico e lui un ragazzo che a soli diciannove anni ha perso in borsa la bellezza di 369.556 dollari, una somma che pochi diciannovenni hanno la fortuna di avere»8. Anche Zagami, però, ammette che «quasi sicuramente ha agito con l’aiuto e il supporto di altri massoni, estremisti di destra e membri dei Servizi segreti norvegesi e di altri Paesi, e sarebbe auspicabile che da parte delle autorità norvegesi venisse condotta un’indagine più approfondita, in merito al possibile coinvolgimento della Massoneria e delle comunità dell’intelligence negli attentati in questione, guidata, se possibile, da qualcuno che non abbia alcun legame né con il mondo massonico, né con quello dei Servizi segreti».
Dello stesso parere è anche lo storico Webster Tarpley: «La stampa mondiale e i media della scuola angloamericana si sono immediatamente fissati su Breivik come un caso esemplare di assassino solitario dello stesso stampo di Lee Harvey Oswald, Sirhan Sirhan e tanti altri. Il problema, per i mitografi del terrore, è che, nella maggior parte di questi casi, vi sono credibili se non schiaccianti prove che queste figure non avrebbero potuto agire da sole. Tra i più recenti assassini solitari, Breivik potrebbe essere paragonato al maggiore Nidal Hasan di Fort Hood, in Texas, la cui sparatoria con carneficina risale al novembre 2009. Hasan è accusato di aver ucciso sette persone. A quel tempo, si ritenne degno di nota che Hasan fosse riuscito a uccidere così tanti soldati armati nella base militare. Ma i primi rapporti suggerivano che c’era un altro se non altri due sparatori oltre a Hasan. Come accade di solito, questi tiratori supplementari furono presto cancellati dalla versione dominante nei media»9.
I testimoni dell’Isola di Utøya hanno infatti raccontato di avere sentito provenire gli spari da diverse parti, avvalorando la pista di un commando o almeno di un secondo attentatore. Molti dei giovani che erano presenti al momento della sparatoria hanno detto al quotidiano norvegese «VG» di essere convinti che ci debba essere stato più di un esecutore. Marius Helander Roset la pensa così: «Sono sicuro che si sparava da due diversi punti dell’isola, contemporaneamente». I testimoni intervistati da «VG» hanno parlato di almeno un altro esecutore materiale, non vestito come Breivik da poliziotto, alto circa 1,80 metri, dall’aspetto nordico ma con i capelli scuri, quindi facilmente distinguibile dal biondissimo Breivik. Anche la polizia norvegese la mattina dopo l’attentato, aveva dichiarato che esisteva l’eventualità che vi fossero più attentatori. Che poi sia o siano stati liberi di agire per tutto questo tempo è un’altra questione, che coinvolge la responsabilità dell’autorità. Non a caso, il lunedì pomeriggio successivo alla strage, Behring Breivik è stato costretto a confessare di avere agito insieme a “due cellule” sulle quali sono state versate fiumi di inchiostro, impedendo che la verità affiorasse tra le versioni “ufficiali”.
L’Istituto Tavistock Esiste un altro precedente con una dinamica simile a quella della strage di Oslo e Utøya: il massacro commesso dal pluriomicida australiano Martin Bryant. Anche Bryant – fisicamente simile a Behring: biondo, con carnagione chiara, occhi chiari e sguardo spiritato – è stato accusato di avere ucciso da solo, il 28 aprile 1996, trentacinque persone nella carneficina tristemente più nota della storia australiana. Emotivamente fragile, narcisista, violento, all’età di 31 anni Bryant è stato arrestato come unico colpevole della strage di Port Arthur. Che abbia agito da solo, anche in questo caso, è improbabile. Bryant, inoltre, era stato
sottoposto, da adolescente, a cure psichiatriche da uno dei responsabili in Tasmania del progetto Tavistock, una sorta di MK-Ultra inglese. L’Istituto Tavistock di Londra avrebbe agito da copertura per esperimenti sulla psiche di giovani malati, proprio come, a partire dagli anni Cinquanta, il progetto di manipolazione mentale MK-Ultra poi Monarch, portato avanti dalla CIA, ha sperimentato che gli abusi possono creare personalità multiple in cavie umane, così da dar vita a super soldati o a semplici sicari mentalmente manipolabili, inconsapevoli di tale controllo mentale ma attivabili sulla base di semplici ordini vocali o visivi. Come spiega Epiphanius, «l’Istituto Tavistock di Londra nacque nel 1920 in Tavistock Square come clinica psichiatrica. […] Nel 1932 divenne direttore del Tavistock un fuoriuscito tedesco, Kurt Lewin, specialista in “dinamiche di gruppo”, ovvero tecniche di manipolazione del singolo inserito in un gruppo, tese a fargli acquisire una nuova personalità e nuovi valori. […] Nell’immediato dopoguerra, il problema al quale il Tavistock intendeva dare efficace risposta era la trasposizione nella società civile di quella branca della psichiatria sociale applicata con successo nel corso della seconda guerra mondiale. […] Il progetto era ambizioso: applicare nientemeno che al corpo sociale i risultati di quegli studi sul “punto di rottura”, messi a punto nel corso delle due guerre mondiali, per distruggere ogni resistenza psicologica nell’individuo e metterlo alla mercé del Nuovo Ordine Mondiale»10.
Per quanto riguarda il coinvolgimento dell’Istituto con lobby e think tank americani nel progetto di instaurazione del NWO, «a titolo di saggio, nel 1989 venne tenuto presso l’Istituto Tavistock un ciclo di conferenze sul tema “Il ruolo delle Organizzazioni Non Governative nell’indebolire gli Stati Nazionali”, i cui atti vennero pubblicati nel 1991 sulla rivista Human Relations. Il Tavistock Institute si appoggia a portavoce come la Dichtely Foundation, fin dalla sua fondazione, a società di pensiero come il Club di Roma e ai Circoli Bilderberg con i quali collabora strettamente»11.
L’MK-Ultra ha avuto un suo “braccio” anche in Norvergia, così come il Tavistock in Australia. Il 4 settembre 2000 il «Norway Post» ha rivelato che il governo norvegese iniettò LSD e altre droghe a bambini e pazienti adulti in cura psichiatrica.
Massoneria deviata di Rito svedese Le tecniche di manipolazione mentale in stile Monarch sono state utilizzate anche da logge deviate della Massoneria: in tal caso, si parla di Masonic Mind Control. La loggia a cui apparteneva Behring Breivik è la St Johannes Logen St Olaus di rito svedese. L’illuminato Leo Lyon Zagami, che ha messo a repentaglio la
sua vita per denunciare gli abusi e le pratiche occulte e sataniche di questa frangia deviata della Massoneria, è stato costretto a riparare all’estero, dopo essere stato arrestato per spionaggio dalle autorità norvegesi. Egli aveva fondato, nel 2006, il progetto “Aker Lux” e il “Club of Now”, con lo scopo di opporsi allo strapotere di questa frangia fondamentalista della Massoneria di rito svedese. In questo senso, Zagami porta avanti da anni la denuncia del Rito svedese e del suo legame con l’OTO e con il satanismo in generale. Zagami sostiene così la possibilità che Behring Breivik, che era soltanto un iniziato al terzo grado, possa essere stato plagiato e manipolato dalla Loggia a cui apparteneva: «Questi gruppi occulti […] sono stati usati in passato come risorsa importante nella strategia della tensione, a causa della loro segretezza e alla susseguente impossibilità di essere realmente investigati da qualsiasi outsider che non conoscesse il loro linguaggio segreto, i loro modi di riconoscimento, i loro simboli e i loro insegnamenti»12.
In questo senso, come spiegato da Zagami, il Rito svedese della Loggia deriverebbe dal Rito della Stretta Osservanza Templare, fondato nel 1756 dal barone Karl Gotthelf von Hund, la cui frangia tedesca influì nel retroterra esoterico che diede vita al nazismo. All’interno del simbolismo massonico, sembrerebbe non essere stata scelta a caso neppure la data della strage: il 22 luglio, infatti, festa di santa Maddalena, è uno dei giorni più sacri per i Cavalieri Templari. Breivik, inoltre, si autodefinisce Comandante “cavaliere giustiziere” dei Cavalieri Templari d’Europa e ha ammesso che lo scopo dell’attacco era quello di salvare la Norvegia dalla conquista dell’Islam. Su questo punto Zagami è stato chiaro, nello spiegare la connessione tra la Loggia a cui Behring apparteneva e la politica reazionaria da lui sostenuta: «Anders si definisce un Cavaliere della cellula 8: questo perché è membro di una loggia registrata come St. Johannesloge n. 8 del Den Norske Frimurerorden, una loggia tra le molte presenti in questa Obbedienza, con una forte tradizione Neotemplare che affonda le proprie radici nel Rito di Stretta Osservanza templare, prima di essere trasformata in una “loggia blu” di S. Giovanni che pratica i tre gradi dell’Arte»13.
Dopo avere ripercorso la storia di questa Loggia, Zagami spiega che il Rito svedese riformato dal duca Karl, poi divenuto re Karl III, in 11 gradi, «opera in realtà come un gruppo fondamentalista cristiano, pronto ad arrestare ogni volta che qualcuno provi a opporsi alle loro maniere naziste e al loro sistema corrotto». Dai Diari di Breivik emerge infine come costui fosse un sostenitore fervente del sionismo e di Israele e affermasse di odiare, per questo, non solo l’Islam e i musulmani, ma anche Hitler:
«Quando qualcuno mi chiede se sono nazionalsocialista, io mi sento profondamente offeso. Se c’è una figura storica e un leader tedesco del passato che io odio, quello è Adolf Hitler. Se potessi viaggiare in una macchina del tempo a Berlino nel 1933, sarei la prima persona ad andarci […] ma con lo scopo di ucciderlo! Grazie alla sua folle campagna e al susseguente genocidio di 6 milioni di ebrei fu creato il multiculturalismo dell’odio antieuropeo […]».
In questo senso, Breivik dimostrerebbe di appartenere a quel pensiero massonico deviato che sostiene la necessità dell’abbattimento del multiculturalismo e del nazionalismo, per dare vita al Nuovo Ordine Mondiale.
Chi si ribella muore Quando i “moniti” non servono, come insegna Perkins, entrano in scena gli sciacalli, pronti a eliminare o a “suicidare” anche chi fino a un attimo prima apparteneva al sistema: Kennedy è solo l’esempio più famoso14. Tra i recenti esempi di politici che – sebbene appartenenti a schieramenti opposti – hanno denunciato gli eccessi del sistema bancario internazionale e delle lobby, si stagliano Jörg Haider e Dominique Strauss Kahn. Il primo è morto in un incidente che ha lasciato più dubbi che certezze sulla sua dinamica; il secondo è stato distrutto da uno scandalo sessuale, orchestrato molto probabilmente dalle lobby contro le quali aveva osato ribellarsi, proprio alla vigilia della sua candidatura all’Eliseo contro l’avversario sionista Sarkozy. Ma come abbiamo visto il fil rouge che lega la fine di Saddam, di Gheddafi, di Strauss Kahn, di Haider e del governo polacco è il peccato originale, il tentativo “prometeico” di ribellarsi a Washington o, più in generale, al sistema bancario. Nel caso specifico di Haider, secondo alcuni ricercatori, si sarebbe trattato di una donchisciottesca battaglia contro le Banche: un’impresa impossibile anche per un Governatore.
Se si accusa la Banken Mafia L’ex Governatore della Carinzia morì in un incidente stradale, nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 2008, a Rosenthal, la Valle delle Rose. Sulla disgrazia15 sono però mancate analisi serie e approfondite, mentre la stampa scandalistica ha preferito spostare l’attenzione sulle frequentazioni gay del Governatore. Il fango del gossip ha così sviato l’attenzione dalle anomalie delle indagini, che avrebbero dovuto invece spingere gli inquirenti a investigare anche le piste estranee all’incidente: Non esistono testimoni che possano confermare la dinamica dello schianto, neppure i residenti nei pressi del luogo dello schianto. I soccorritori raccontarono, in seguito, di avere trovato Haider ancora vivo, mentre il referto
dell’autopsia parla di “morte sul colpo”. L’autopsia è stata fatta a Graz e non a Klagenfurt, dove si sono svolte le indagini. Non vi era alcuna traccia di sangue nel luogo dell’incidente. La scena del delitto è stata alterata; prova ne sono le foto scattate la notte e l’indomani mattina: non coincidono. Qualcuno ha cancellato, inavvertitamente o volontariamente, delle “tracce” che si sarebbero potute rivelare fondamentali per risolvere il caso. L’indomani alcuni quotidiani stranieri titolarono Haider killed in a crash additando, per l’omicidio del Governatore, una prima pista, che sembrava condurre alle minoranze slovene. Alcune notizie trapelate ai quotidiani stranieri suggerivano dunque che la morte di Haider fosse stata in realtà un omicidio, e non un incidente, come si affrettarono, invece, a chiarire le autorità austriache.
Pochissimi giorni prima dell’incidente, Haider aveva rilasciato un’intervista durissima, nella quale si scagliava ancora una volta contro quella che definiva la Banken Mafia16: un sistema bancario ormai incontrollato, di stampo mafioso, corrotto e generante prodotti nocivi, che avevano indotto la bolla americana e la crisi globale. Come già altre volte in passato, Haider aveva promesso di ripulire il sistema, di mandare a casa i manager corrotti. Aveva promesso, cioè, di «ripulire il fango delle manipolazioni bancarie». Il governatore della Cariniza non era infatti nuovo ad accuse del genere. Strenuo oppositore nel NWO, dell’Unione Europea e della globalizzazione in generale, nel 2002, come racconta Massimo Raffanti, «nel corso di un’intervista rilasciatami, già denunziava una “Banken Mafia” e non più le strategie di una “Europa dei Popoli” ricca delle sue tradizioni, della sua cultura, delle sue abitudini religiose e di vita: lo statista denunciava, già allora, la disgregazione portata contro i popoli, da una globalizzazione al soldo stesso del “Capitale”».
Successivamente, il 27 settembre 2008, durante un talkshow in onda sul canale ORF, Haider tornò a utilizzare il termine “mafia” per indicare i manager dei più noti istituti bancari del mondo. Il Governatore invocò inoltre la creazione di nuove norme penali per punire i crimini finanziari; proposta, questa, che riprese nella sua ultima intervista, pubblicata proprio l’11 ottobre sul quotidiano «Kleine Zeitung»17. L’intervista venne infatti pubblicata “per pura coincidenza” il giorno stesso della sua morte: nelle morti rituali, come ci insegna l’esperto di massoneria Paolo Franceschetti, infatti, nulla è mai lasciato al caso e luoghi, circostanze, nomi e numeri rivestono un fondamentale significato simbolico. Eppure anche il nome di Haider sarebbe finito in un’inchiesta su un giro di soldi sporchi – si parla di 12 conti bancari intestati all’ex governatore della Carinzia, per un totale di almeno 45 milioni di euro – provenienti addirittura dalla Libia e dall’Iraq. Aveva infatti destato scalpore la sua amicizia con Saddam Hussein e, in particolare, con Gheddafi, con i quali condivideva l’avversione per il mondialismo18.
Per depistare le indagini e distogliere l’attenzione pubblica dalle anomalie dell’incidente, i media focalizzarono l’attenzione sulle frequentazioni gay del Governatore e sul suo tasso alcolico al momento dello schianto, rivelando, per chi ancora non ne fosse al corrente, un aspetto sconosciuto del governatore. Un diverso scandalo sessuale avrebbe investito tre anni più tardi anche l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Dominique Strauss-Kahn.
L’affaire Strauss-Kahn Questo è uno dei rari casi in cui anche le autorità hanno dovuto ammettere che si è trattato di un complotto: forse Dominique Strauss-Kahn aveva imparato la lezione e poteva essere “riabilitato”, anche se solo in parte, agli occhi dell’opinione pubblica. Strauss-Kahn, nonostante la conferma della sua innocenza, è stato allontanato dal FMI e sostituito da Christine Lagarde (lobbista, membro del Club Bilderberg e intima amica di Brzezinski), ha dovuto abbandonare la corsa all’Eliseo come avversario di Sarkozy e ammettere comunque di avere una dipendenza sessuale, che si sarebbe occupato di curare. Il 21 febbraio 2012 egli è stato nuovamente arrestato, all’interno delle indagini sul giro di prostituzione all’Hotel Carlton di Lille. Questa seconda inchiesta era puntata su una rete di prostituzione, organizzata all’Hotel Carlton di Lille, di cui Strauss-Kahn avrebbe beneficiato tra il 2010 e il 2011. Evidentemente, Strauss-Kahn è uomo dipendente dal sesso e su questo punto facilmente ricattabile. Molti uomini di potere vengono manipolati e ricattati per i loro punti deboli: sesso, denaro, droga. Vengono addirittura “scelti” in base alle loro inclinazioni e ai loro lati più oscuri, in modo da poterli indirizzare e prevederne le scelte19. Un politico o un economista dal passato integerrimo e senza trasgressioni è difficile da “sedurre”; può, cioè, sfuggire alle trame delle lobby, non scendere a compromessi, non piegarsi all’autorità. Invece un uomo capace, ma altrettanto corruttibile e ambizioso, fa gola alle élite che in qualsiasi momento possono decidere di scaricarlo creando ad hoc un “incidente”. Lo scandalo del 2011 è scoppiato proprio a New York dove Strauss-Kahn si era recato per incontrare, tra gli altri, l’economista premio Nobel, Joseph Stiglitz. Kahn, agli occhi dei colleghi dei Circoli Bilderberg, si era già macchiato della colpa di avere pubblicamente invitato il FMI a virare a sinistra per andare incontro ai bisogni dei cittadini, e aveva raccolto la stima di Stiglitz – noto per le sue teorie “antiglobaliste”20 – che lo aveva definito un “sagace” leader del FMI. In un articolo dal titolo La svolta del FMI21, precedente di pochi giorni lo scandalo sessuale, Stiglitz tesseva le lodi di Dominique Strauss-Kahn per
l’orientamento imposto al FMI: «La riunione annuale di primavera del Fondo Monetario Internazionale è stata notevole nel demarcare gli sforzi del Fondo per distanziarsi dai suoi dogmi di lunga data sul controllo dei capitali e sulla flessibilità del mercato del lavoro. Sembra che un nuovo FMI stia gradualmente, e cautamente, emergendo sotto la leadership di Dominique Strauss-Kahn»22.
Come ha fatto notare Mike Whitney, Strauss-Kahn stava infatti cercando di indirizzare il FMI verso «una direzione più positiva, che non richiedesse alle nazioni di lasciare libero l’ingresso alle devastazioni del capitale straniero che entra con rapidità – per spingere in alto i prezzi e creare le bolle speculative – e se ne va altrettanto velocemente, lasciando alle spalle il flagello dell’elevata disoccupazione, del crollo della domanda, delle industrie in bilico e della recessione»23.
Il direttore del FMI aveva infatti esposto le sue linee guida per cambiare il paradigma del FMI nel discorso tenuto presso la Brookings Institution: «Il lavoro e l’uguaglianza sono le fondamenta della stabilità economica e della prosperità, della stabilità politica e della pace. Questo deve essere il cuore del mandato del FMI. Deve essere posto al centro dell’agenda politica». La colpa più grave di Strauss-Kahn sarebbe stata però l’esortazione ad abbandonare velocemente il dollaro, per evitare che i conflitti interni al sistema finanziario mondiale travolgessero il mondo intero24: «Non solo è necessario abbandonare il dollaro, ma occorre anche agire con urgenza perché i conflitti all’interno del sistema finanziario mondiale potrebbero trascinare nel caos il mondo intero».
I russi o l’Eliseo, dietro il complotto? È praticamente impossibile rintracciare i mandanti del complotto, sebbene i sostenitori di Strauss-Kahn abbiano anche evidenziato «le molteplici e sorprendenti connessioni tra il gruppo francese Accor, proprietario della catena alberghiera Sofitel, il Gabinetto del [allora; N.d.A.] Presidente della Repubblica [Sarkozy; N.d.A.] e i funzionari di polizia dipendenti da Claude Gueant suscitano interrogativi tra i cittadini francesi», gettando ulteriori ombre sulle vicine elezioni presidenziali francesi. Che fosse una macchinazione non lo credeva solo la vittima, ma anche i compagni di partito e numerosi giornalisti. Le chiacchiere che si erano diffuse come sempre sul web, all’indomani dell’arresto, si sono consolidate fino al proscioglimento ufficiale. Il comportamento paranoico di Strauss-Kahn, nelle settimane precedenti l’arresto aveva messo in allarme i colleghi e gli amici intimi. In primavera, egli
aveva iniziato ad avere dei presentimenti su un possibile attacco orchestrato «da Guéant» e aveva preso l’abitudine di fare le telefonate personali usando una scheda telefonica criptata. Il 28 e il 29 aprile, mentre era a colazione con due giornalisti di «Liberation», Strauss-Kahn si era lasciato andare a fare delle confidenze, sostenendo di temere che volessero “eliminarlo” politicamente simulando uno stupro in un parcheggio: ad accusarlo avrebbe potuto essere una donna «cui si prometterebbero 500 mila euro o 1 milione per inventare la storia». Il presentimento si sarebbe poi rivelato esatto, con l’eccezione del luogo: una suite d’albergo invece di un parcheggio. Il 30 aprile egli si sarebbe confidato anche con un altro deputato socialista, Claude Bartolone, al quale avrebbe detto di volere lasciare l’incarico non appena risolta la crisi greca; temeva che “qualcuno” lo volesse eliminare: forse i russi, essendo «Putin vicino a Sarkozy». Il collega uscì da quell’incontro “traumatizzato”, pensando che Strauss-Kahn stesse diventando paranoico; non poteva immaginare che il “copione” immaginato dal candidato all’Eliseo si sarebbe avverato da lì a poco.
Se il nemico fosse Washington Alla pista russa per eliminare un candidato forte, scomodo per “Sarkò”, si aggiunge quella americana, che trova appigli nella conversione politica di Strauss-Kahn e nel suo successore, Christine Lagarde. Washington – con gli USA sull’orlo della bancarotta – avrebbe avuto interesse a sabotare la nuova politica del FMI, in particolare per gli aiuti alla Grecia e all’euro. All’America e a Londra fa cioè comodo che l’euro non sia forte. Ha spiegato Webster Tarpley, profetizzando l’attacco speculativo ai mercati italiani: «L’unica strategia, per evitare il crollo del dollaro, era di provocare preventivamente un crollo dell’euro e quindi far apparire il dollaro come un porto sicuro nella tempesta generale. E quindi hanno cominciato a ragionare: come si fa per attaccare l’euro? Il fatturato tra l’euro e le altre monete ogni giorno è di circa mille miliardi di euro, e quindi è difficile incidere lì con manovre bancarie e con lo scatenamento degli hedge funds. Perciò hanno identificato un punto debole cioè le obbligazioni dello Stato greco, in cui il deficit è molto elevato, e anche le obbligazioni del Portogallo e della Spagna»25.
A confermare la tesi di Tarpley un articolo pubblicato dal «Wall Street Journal»26 che l’8 febbraio 2010 riportava la notizia di un incontro «riservatissimo in un’abitazione di Manhattan – l’area elegante, l’area delle grandi banche di New York – della ditta finanziaria Monness, Crespi, Hardt & Co. Gli ospiti, che hanno discusso cenando a base di pollo incrostato al limone e filet mignon, erano i rappresentanti dei più grandi (i “titani”, li definisce il Journal) hedge funds. In particolare, c’erano il rappresentante del Soros Fund Management LLC, David
Einhorn, presidente della Greenlight Capital Inc.; Donald Morgan, presidente dell’hedge-fund Brigade Capital; il rappresentante di SAC Capital Advisors LP e altri. I commensali si sono trovati d’accordo nel dire che era iniziata una fase di crisi non solo del debito pubblico, non solo della Grecia, ma di tutti i Paesi. Voglio porre l’accento sul “tutti”. Questo vuol dire la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina. Nessuno escluso. Nessuno è immune da questo attacco. L’intenzione è quella di fare della Grecia il primo esempio e poi di generalizzare allargando questo contagio ad altri, anche a zone degli Stati Uniti come la California, New York e a entità tipo il Port Authority, l’agenzia che gestisce il porto di New York. L’intenzione è quella di favorire un cannibalismo speculativo generalizzato […]»27.
Il Club Bilderberg, dietro il complotto? Il tentativo di salvare la Grecia e di stabilizzare l’euro da parte di StraussKahn può avere scombinato le carte delle lobby di Wall Street, portandole a orchestrare un complotto per screditare il direttore del FMI? Ma, oltre alle lobby finanziarie di Manhattan, chi si cela dietro questa strategia di «cannibalismo speculativo generalizzato» cui allude Tarpley? Lo storico indica i vertici delle maggiori banche d’affari angloamericane che, attraverso il crollo indotto dei mercati, intenderebbero provocare la bancarotta degli Stati sovrani in Europa. Non a caso, Tarpley equipara il cannibalismo dei colossi bancari ai signori feudali, che potevano disporre a proprio piacere della libertà dei sottoposti. L’idea dei vari Soros, Rothschild, Rockefeller, JP Morgan Chase, Bank of America, Goldman Sachs ecc. sarebbe quella di schiacciare finanziariamente gli Stati sovrani, in modo da poterli dominare dall’interno: è il metodo utilizzato dalle cosiddette zombie banks. Costoro vogliono che la crisi induca sul baratro i vari Stati sovrani che per salvarsi necessiteranno degli “aiuti” delle Banche centrali; quando si saranno indebitati con tassi di interessi altissimi, diventeranno le ennesime vittime dei sicari dell’economia, questa volta al seguito non dei governi, ma delle stesse Banche. L’arresto di Strauss-Kahn è avvenuto il 14 maggio 2011, quasi un mese prima dell’incontro a Saint Moritz del Club Bilderberg, che avrebbe dato la sua “benedizione” alla cattolica sionista Christine Lagarde come successore al FMI. Già ministro sotto il governo Sarkozy dal 2007, e membro fisso del Gruppo Bilderberg, la Lagarde si è distinta negli anni passati per la sua teorizzazione della necessità di introdurre una nuova moneta unica di scambio, un tassello fondamentale all’interno del processo per la costituzione del NWO28. La Lagarde occupa il quinto posto nella lista delle donne di affari europee, secondo il «Wall Street Journal», ed è entrata a fare parte, più volte, della classifica delle donne più potenti del mondo, secondo la rivista «Forbes». Non è però nel suo curriculum come avvocatessa o imprenditrice che va rintracciata l’origine del suo potere all’interno delle lobby globaliste. La Lagarde, infatti, militava nel
Center for Strategic & International Studies (CSIS). Nel seno di questo think tank, copresiedeva, insieme a Brzezinski, la commissione Action USA/UE/Polonia, che si occupava in modo particolare del gruppo di lavoro Industrie della Difesa USA-Polonia (1995-2002) e delle questioni riguardanti la liberalizzazione degli scambi polacchi. Nel 2003 divenne, inoltre, membro, dentro il CSIS, della Commissione per l’Amplificazione della Comunità EuroAtlantica insieme all’amico Brzezinski. Il 4 agosto 2011, un tribunale francese ha avviato un’inchiesta su di lei per abuso d’ufficio, ma, contrariamente a Strauss-Kahn, la Lagarde non ha rassegnato le dimissioni dalla guida del FMI. NOTE 1. Discorso del 17 febbraio 1950 davanti al Senato americano. 2. Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito comunista, 1848. 3. Discorso all’Eliseo, 16 gennaio 2009. 4. Si veda l’inchiesta di Enrica Perucchietti: http://ildemocratico.com/2011/07/24/ inchiesta-lombra-delnuovo-ordine-mondiale-nwo-dietro-la-strage-di-oslo/. 5. Zbigniew Brzezinski, The Great Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives, 1997: «Dal primo momento in cui i continenti hanno cominciato a interagire politicamente, circa cinquecento anni fa, l’Eurasia è stata il centro del potere mondiale». Con il termine “Eurasia” Brzezinski intende tutti i territori a est della Germania: Russia, Medio Oriente, Cina e parte dell’India. http://www.haaretz.com/print-edition/business/ norway-government-run-pension-fund-drops-africaisrael-group-shares-1.309874. 6. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&s id=8665. 7. Leo Lyon Zagami, Confessioni di un illuminato, vol. II, Uno editori, Torino 2012, p. 327. 8. http://tarpley.net/2011/07/24/norway-terror-attacks-a-false-flag/. 9. Epiphanius, op. cit., p. 886. 10. Ivi, p. 888. 11. Leo Lyon Zagami, Confessioni di un Illuminato, cit., vol. 1, p. 376. 12. Ivi, p. 389. 13. Ivi, p. 391. 14. Si veda, per ulteriori approfondimenti: Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama, Uno editori, Torino, 2011. 15. http://paolofranceschetti.blogspot.com. Paolo Franceschetti ipotizza che non sia stato un incidente, ma che la macchina di Haider, computerizzata, sia stata manomessa in precedenza o pilotata a distanza in tempo reale. 16. http://wn.com/j%C3%B6rg_haider_banken_mafia__bank_mafia. 17. http://en.wikipedia.org/wiki/J%C3%B6rg_Haider. 18. http://www.lettera43.it/economia/1121/il-tesoro-di-haider.htm. 19. Lo spiega John Perkins in op. cit., pp. 38 e ss. 20. «Solo pochi anni fa una potente ideologia – la fede nei mercati liberi e non regolati – ha portato il mondo sull’orlo del baratro […]. Speravo che la crisi avrebbe insegnato qualcosa […] Tutt’altro! Il ritorno in auge delle teorie economiche della destra […] minaccia ancora una volta l’economia
globale […]. In Europa, mentre la Grecia e altri Paesi vanno in crisi, la medicine du jour è costituita da nuove dosi di austerità, che riducono la crescita e mettono in crisi i bilanci pubblici. [Perciò; N.d.A.] crolla anche la fiducia: un circolo vizioso senza fine», così Joe Stiglitz su http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/08/neo-liberismo-il-tempo-e-scaduto/144000/. 21. http://www.counterpunch.org/whitney05162011.html. 22. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=print&sid=8312. 23. Ibidem. 24. http://www.stavrogin2.com/2011/06/fondo-monetario-internazionale.html. 25. http://www.picusonline.it/notizia/Assalto+politico+ben+preparato+contro+l%92Eur opa.+Che+diavolo+aspettiamo+…-Assalto+politico+ben+preparato+contro+l%92E uropa.+Che+diavolo+aspettiamo+…/22513. 26. Hedge Funds Pound Euro, in «Wall Street Journal», 26 febbraio 2011. 27. http://www.picusonline.it/notizia/Assalto+politico+ben+preparato+contro+l%92Eur opa.+Che+diavolo+aspettiamo. 28. In vista di questo progetto, la cui fase iniziale non può che comportare un ulteriore caos economico e finanziario, si può forse spiegare il motivo per cui George Soros ha convertito dei titoli finanziari del valore di 100 milioni di dollari in lingotti d’oro… Un modo per investire su un “bene” dal valore incrollabile, proprio come l’oro?
ITALIA, STATO DI BANCHIERI: DALLE PROFEZIE DI TREMONTI AL TECNOGOVERNO MONTI «[…] quella della globalizzazione è stata preparata da illuminati, messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre». (Giulio Tremonti1) «Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare dei passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario. È chiaro che il potere politico e anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata». (Mario Monti2) «È un massone e ha avuto una duplice affiliazione, una inglese e una mista anglo-francobelga. Monti appartiene al corpo d’élite della massoneria». (Gioele Magaldii3) «Chi si oppone al Nuovo Ordine va eliminato, per primi i vecchi complici come Boss(ol)i. Chi sarà il prossimo?». (Beppe Grillo4) «Benvenuti nello Stato sovietico dei Banchieri». (Maurizio Blondet5)
La globalizzazione e gli Illuminati A concordare a grandi linee con la visione di Webster Tarpley è l’ex ministro delle Finanze italiano Giulio Tremonti, noto per essere anche membro fisso del Club Bilderberg e presidente dell’Istituto Aspen Italia6. Da sempre critico acerrimo della globalizzazione7, dopo avere accusato a più riprese, in diretta TV, la “setta” degli Illuminati di tramare per costituire un Nuovo Ordine Mondiale, si è più recentemente espresso a favore del mondialismo, pur se da un punto di vista “sinarchico”, socialista. Nell’intervento del settembre 2007 a Cernobbio, Tremonti ammise che «all’economia globale manca un governo globale dell’economia»8. Così, nell’autunno del 2008, nella bozza di proposte per il G7/G8 per uscire dalla crisi egli aveva inserito al punto 5 un invito ad allargare la rappresentanza della governance a livello globale, come segue: «L’attuale status quo del processo G8 è sempre meno sostenibile. Se l’economia è globale, un’efficace struttura di governance deve essere anch’essa globale. L’attuale G8 rappresenta meno della metà
dell’economia mondiale».
Nel 2007, nel saggio La paura e la speranza, Tremonti, dopo aver accusato nell’incipit che «la globalizzazione è stata preparata da illuminati e messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre»9.
si esponeva a favore di un “nuovo ordine sociale”, morale, economico e politico, tanto da far scrivere all’ex governatore della Banca del Giappone, Toshihiko Fukui, nell’introduzione al saggio: «Come dimostrano altri suoi scritti prodotti a latere della sua attività politica (Rischi fatali, 2005; Il fantasma della povertà, 1995), il ministro Tremonti è una persona che crede fortemente in una sorta di Nuovo Ordine a livello mondiale»10.
Bisogna capire perché Tremonti spenda così tante pagine e parole sferzanti per criticare il mercatismo11 e la globalizzazione, gli eccessi della finanza e gli interessi delle lobby12, per fare poi rientrare il progetto di un nuovo ordine mondiale “dalla finestra”. Una strategia ben pianificata, o una graduale presa d’atto che il mondialismo è inevitabile? Il mondialismo, per Tremonti, ha come tappa obbligata la costruzione di un’Europa politicamente forte, come imposto dai vari Draghi, Monti, Merkel ecc. Secondo Tremonti, infatti, «l’Europa che c’è ora non è né carne né pesce, siamo tra la fine del giorno e il principio della notte. Non abbiamo più la vecchia macchina politica nazionale, ma non abbiamo ancora una macchina politica europea. La vecchia politica nazionale è stata infatti erosa dalla globalizzazione e, al contempo, devoluta verso l’alto in nuovi contenitori europei, a loro volta sempre più allargati. Contenitori che, non avendo un’identità politica propria, non hanno neppure forza propria»13.
Nei saggi e negli interventi dell’economista italiano spiccano ricorrenti profezie, destinate ad avverarsi nel giro di poco tempo. Così nel novembre del 2006 dalle pagine del «Corriere della Sera»14, Tremonti avvertì che vi era il rischio in America, di un’imminente crisi “strutturale” (e non congiunturale) paragonabile a quella del 1929, mentre pochi mesi dopo, nel 2007, previde che la prossima “rivoluzione industriale” sarebbe avvenuta in Cina e che avrebbe coinvolto gli “organismi geneticamente modificati” (OGM): «La prossima rivoluzione industriale non sarà più la rivoluzione delle macchine o dei computer, ma la rivoluzione della “genetica” applicata ai prodotti agricoli e all’uomo. A favore della Cina, un decisivo
fattore di successo in questa strategia dovrebbe essere costituito dal fatto che, a differenza dell’Occidente, la Cina non ha in questo campo vincoli, remore o limiti di tipo morale o legale»15.
Non a caso, negli USA, Obama ha dimostrato di ricorrere a due pesi e due misure, anche nel campo degli OGM. Da un lato, sua moglie si è esposta mediaticamente, a sostegno della necessità di adottare una sana alimentazione, spingendosi a coltivare un orto biologico nel giardino della Casa Banca; dall’altro, il Presidente ha ricambiato il finanziamento milionario delle multinazionali degli OGM – la Monsanto16 su tutte – alla campagna elettorale, concedendo loro un occhio di riguardo e confermando un alto dirigente della multinazionale, l’avvocato e vicepresidente per le relazioni pubbliche Michael Taylor, all’interno della FDA, l’organo che dovrebbe invece vigilare sui comportamenti speculativi di aziende come la Monsanto e sulla sicurezza dei consumatori. Negli anni Novanta, Taylor convinse la FDA ad autorizzare il Posilac, l’ormone per la crescita geneticamente modificato per le vacche da latte e i vitelli da carne, che poi si scoprì essere altamente cancerogeno17…
OGM in Europa L’influenza della Monsanto, però, non si limita all’America, dove un disegno di legge della democratica Rosa de Lauro – sposata con Stan Greenberg, dirigente della multinazionale – intende punire quegli agricoltori che utilizzano ancora il concime naturale (letame) e mettere al bando non solo gli alimenti biologici ma anche le sementi, costringendo così gli agricoltori a utilizzare semi OGM18; la multinazionale, infatti, come ricorda il politico francese Dominique de Villepin, «ha molto denaro per pesare [anche; N.d.A.] sulle decisioni di questa Europa, che sembra particolarmente aperta all’influenza finanziaria delle lobby e degli interessi privati in genere». Nel 2009, la Commissione Europea, su pressione della multinazionale, aveva imposto il paradossale “divieto di vietare” la coltivazione di OGM all’Austria e all’Ungheria: questi due Paesi, infatti, si erano opposti all’introduzione del mais genetico MON810 della Monsanto. Con un colpo di mano, l’UE intendeva così fare accettare la coltura anche all’Austria e all’Ungheria, allineandole al resto d’Europa, nonostante l’evidente disconoscimento della loro sovranità nazionale. Così Blondet commenta il decreto dell’UE: «Era il cavallo di Troia escogitato per poi estendere il “divieto di vietare” a tutti gli altri Paesi europei. Il colpo di mano era stato messo a segno in una riunione riservata di ministri dell’Ambiente (buoni, questi ambientalisti-Monsanto) a Bruxelles, che rappresentavano il 40% dei voti della UE. Il golpetto commissariale era stato però vanificato: una quantità di governi (fra cui Germania e Francia) con il 75% dei voti era riuscita a mettersi di traverso, bloccando il “divieto di vietare”.
A questo punto, il potente ufficio legale della Monsanto s’è appellato alla Corte Europea di Giustizia, il cosiddetto tribunale supremo eurocratico, con sede nel paradiso fiscale del Lussemburgo, ben sapendo che vi avrebbe trovato orecchie amichevoli. Difatti (chi poteva dubitarne?) detta Corte ha decretato illegale il divieto francese (stavolta la causa era contro la Francia) di seminare MON810 sul proprio territorio nazionale. Fatto molto istruttivo sul tipo di “diritto” favorito dall’eurocrazia, la Corte motivava la sua decisione citando la decisione della Commissione Europea, bocciata come s’è visto dai due terzi dei voti europei. Si noti che, senza l’opposizione dei due terzi dei voti, la Commissione poteva far passare ed imporre il suo diktat: la maggioranza semplice non basta, secondo le regole che la stessa Commissione s’è data e ha imposto a tutti gli Stati. Questo per dire quale “democrazia” sia rispettata nella UE»19.
La Nuova Alleanza secondo Tremonti Se a Washington la rivoluzione “genetica” sembra realizzarsi in modo graduale, ma inarrestabile, arrivando silenziosamente fino a noi, che cosa potrà accadere in Cina, dove – come nota Tremonti – non esistono regole al riguardo? Il timore di Tremonti si concretizza nell’allarme sull’ascesa della Cina, il cui sviluppo potrebbe oscurare l’Occidente modificando così lo scenario geopolitico. Per questo, spiega l’economista italiano, serve una svolta morale e politica: un “nuovo patto”. In Uscita di sicurezza, il “nuovo patto” auspicato dall’ex ministro Tremonti, benché ricordi in prima battuta Keynes, viene descritto ricorrendo a toni e formule dedotte dal linguaggio religioso: così se l’incipit dell’introduzione affronta il tema dell’alleanza umano-divina dopo il Diluvio, la proposta di Tremonti per uscire dalla crisi viene indicata come una Nuova Alleanza, ovvero “l’uscita di sicurezza” che dà il titolo al saggio. La Nuova Alleanza s’impone alla luce del “cambio di paradigma” che stiamo vivendo e prevede, secondo Tremonti, «una politica tanto ambiziosa e difficile quanto necessaria: non cercare di “gestire” una realtà, che tanto non si può gestire perché genera crisi a catena, ma provare a cominciare a scrivere un nuovo contratto sociale»20.
Ovvero un «comune disegno politico e morale, cucendo le stelle per una nuova bandiera, tanto simile a quella che per decenni, con orgoglio, abbiamo visto battere in tutto l’Occidente».
Questo nuovo disegno politico e morale s’impone, in quanto, secondo l’autore, nessuna ideologia o forma di totalitarismo sarebbero in grado al giorno d’oggi di “ricostruire il mondo”. Per instaurare questa palingenesi terrena è però necessario avere “fede” e avere come obiettivo la costruzione di una Gerusalemme celeste in terra. Le citazioni hegeliane si mescolano infatti a un
linguaggio profetico, che richiede ai futuri firmatari del nuovo patto sociale una forma di “fede”, in perfetto accordo con la dottrina laica mondialista di stampo teosofico, che si tramanda da almeno tre secoli nei circoli massonici e nei gruppi di potere. A quale tipo di “fede” fa riferimento l’ex Ministro, quando insiste sul bisogno di avere fede? Lo spiega l’Autore: «Dobbiamo, però, e possiamo avere una fede, religiosa o laica. Per chi crede, fede nella capacità di adeguare la città dell’uomo alla città di Dio. Comunque fede nella nostra capacità di adeguare, progressivamente, il reale all’ideale. Non facendolo solo per atti singoli di singoli, ma per atti comuni ispirati da un comune disegno […] [che; N.d.A.] promuova l’idea del bene comune […]»21.
In Uscita di sicurezza, da cui sono tratte queste citazioni, l’economista italiano sferra infatti un duro attacco alla globalizzazione e ai colossi finanziari che hanno pilotato o “semplicemente” causato la crisi, lanciando l’allarme sulla presa di potere da parte del “fascismo bianco” o “finanziario”, che anche in Europa sta insediando, come in una rete ben congegnata, i suo tecnocrati al potere. Il riferimento ai tecnogoverni di Monti e di Papademos (al momento della stesura del saggio ancora premier greco) è evidente. La critica alla tecnocrazia era già stata sviluppata ne La paura e la speranza, come si può vedere nel brano qui sotto riportato. «In ogni caso il principio della soluzione della crisi europea non sta nella tecnica, non sta nella supposta forza salvifica della tecnocrazia, sta nella politica e nel potere. Non si può dunque iniziare un nuovo corso partendo dall’economia – dai “valori secondi”, ma dai “valori primi” di un nuovo ordine morale. Un nuovo ordine morale porta infatti con sé e naturalmente anche progresso economico, ma senza un nuovo ordine morale ci sono solo declino generale e conflitto sociale»22.
L’ex Ministro, però, dopo avere messo in guardia dalle insidie che i tecnogoverni, come dei veri e propri Cavalli di Troia, nasconderebbero, si lascia andare a quanto segue: «Se non si vuole rinunciare alla moneta comune, è chiaro che la crisi è superata solo con l’introduzione di una diversa e più comune gestione della moneta, a partire dall’estensione delle funzioni della BCE e a partire dagli Eurobond; ma questa a sua volta è possibile solo passando, in tutta Europa e per tutta l’Europa, attraverso un nuovo patto politico. […] Un nuovo trattato, un’interpretazione estensiva del Trattato di Unione, magari basata sulla cosiddetta “regolamentazione derivata”, un nuovo accordo intergovernativo, una “cooperazione rafforzata”»23.
E ancora: «Ciò che dunque è ora soprattutto importante è che per fare una vera riorganizzazione costituzionale, per salvare l’Europa che conosciamo, è necessario un forte scambio politico: sopra, una maggiore disciplina di
bilancio, basata su una governance comune, con impegni, controlli e sanzioni; sotto, una comune, più integrata e più mutualistica gestione della moneta, con emissioni di comuni titoli pubblici nella forma degli Eurobond eccetera. In ogni caso, non la prima senza la seconda, la seconda senza la prima»24.
Chi paga le agenzie di rating? Secondo numerosi ricercatori internazionali – in Italia, su tutti, Chiesa e Blondet – per “commissariare” la politica e introdurre i tecnogoverni, era necessario indurre uno shock, come sostenuto dalla dottrina economica di Milton Friedman: le conseguenze strutturali della crisi del 2007 si sono abbattute come uragani, trascinando anche i Paesi dell’UE nella bancarotta. Se l’Islanda ha mostrato un coraggio fuori dal comune, nel dichiarare il default25, altre nazioni come la Grecia e la Spagna si sono dovute arrendere alle regole imposte dall’Unione accettando passivamente le proposte di Draghi, che invitava a una parziale cessione della “sovranità nazionale” in cambio del salvataggio. Anche l’Italia ha subito uno shock, che ha portato a un cambio di governo e all’entrata in scena della squadra di tecnocrati capeggiati da Mario Monti. In questo caso, da Tarpley a Blondet si sono levate grida di allarme contro le lobby statunitensi ree, secondo loro, di avere deliberatamente aggredito il mercato italiano e l’eurozona in generale. L’epitaffio sarebbe stato celebrato dalle agenzie di rating che – grazie anche alla cassa di risonanza mediatica – hanno effettivamente creato un clima di terrore a livello finanziario. L’economista Salvatore Tamburro ha chiarito il conflitto di interessi che sussiste fra le tre maggiori agenzie di rating – denominate le “tre sorelle”, ovvero Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch – e le principali banche del Pianeta, dimostrando, dati alla mano, che «le tre sorelle […] non sono solamente l’espressione dell’intreccio dominante delle multinazionali, ma, in particolar modo, sono una struttura organizzata delle principali banche del Pianeta, che controllano il sistema finanziario e debitorio delle nazioni e tutti i settori dell’economia sia privata che pubblica. Tuttavia, la cosa che si vuole con precisione sottolineare, è l’influenza determinante esercitata sulle tre sorelle da quella finanzia altamente speculativa, che è responsabile della gigantesca bolla in derivati finanziari che ha precipitato il mondo intero in un processo di crisi sistemica»26.
Per spiegare il conflitto di interessi, quindi, Tamburro pone il quesito: “Chi paga le agenzie di rating?”, e risponde: «Il loro capitale finanziario è in mano a fondi di investimenti o emanazioni di banche d’affari, ma a remunerarle sono gli stessi soggetti (aziende, banche, fondi, Stati), che aspirano a immettere obbligazioni sul mercato finanziario. Un po’ come se uno studente universitario pagasse il suo professore prima di sostenere l’esame»27.
Per questo, Tamburro definisce le agenzie di rating «le “prostitute” del sistema bancario». Perché addirittura la Cina si è esposta, per esprimere i propri dubbi sulla credibilità di Standard & Poor’s in merito al declassamento dell’Italia, della Francia e di altri sette Paesi dell’Europa? Ad accogliere in Italia i dubbi sollevati dalla Cina è stato il PM di Trani, Michele Ruggiero, «che aveva già aperto un’inchiesta sulle agenzie di rating nel passato, l’ha ampliata anche alla possibile speculazione avvenuta tra giugno/luglio 2011: la Procura pugliese dal giugno 2010 indaga su Moody’s, a causa del report diffuso nel maggio 2010, su denuncia di Adusbef e Federconsumatori, e dal maggio 2011 ha aperto un’indagine anche su Standard & Poor’s. Ruggiero, che intende coordinarsi anche con le Procure di Milano e Roma, alle quali Adusbef e Federconsumatori avevano fatto recapitare analoghi esposti e denunce, sta cercando di fare luce sull’intera vicenda e capire se dietro le manovre speculative su Piazza Affari esista un disegno preciso di hedge fund e di altri soggetti non identificati, che possa collegarsi in qualche modo ai giudizi negativi espressi sui conti pubblici italiani dalle agenzie di rating»28.
La “terza guerra mondiale” secondo Vitale Il 15 gennaio 2012 il banchiere italiano Guido Roberto Vitale, in un’intervista pubblicata sul «Corriere della Sera» ha parlato chiaramente di una “terza guerra mondiale”, che si starebbe consumando da mesi a livello finanziario: «Stiamo in qualche modo vivendo una terza guerra mondiale che per ora, per fortuna, non ha fatto morti né distruzioni fisiche. Poi per ragioni di opportunità si può dire che non è vero, che è solo la poca buona volontà dell’Europa di darsi istituzioni comuni. Ma in realtà questa è la terza guerra mondiale»29.
Vitale, appoggiando così le teorie del complotto, che individuano nel declassamento di questi Paesi una regia programmata statunitense, si domandava con sarcasmo: «Perché proprio in questo momento, in cui l’Italia cerca di rimettersi a posto, cerca di fare le riforme rinviate da decenni, le agenzie di rating ci sparano addosso?»30.
La domanda era ovviamente retorica, perché il banchiere concludeva proponendo il suo punto di vista, ovvero che le agenzie di rating fossero eterodirette e che tale strategia fosse ispirata «da certi ambienti americani, conservatori in politica estera e interna, che continuano ad avere una concezione imperialista degli USA e che malvolentieri vedono la nascita di una moneta forte in Europa ed evitano così che ci sia una moneta di riserva, nel mondo, diversa dal dollaro»31.
Incalzato dal giornalista Fabrizio Massaro su quale potesse essere la via
d’uscita, Vitale però rispondeva in linea con Tremonti – ma anche con Monti, Draghi e gli altri fautori del mondialismo – propugnando la creazione di un’Europa forte: «Accelerare l’unificazione politica, economica, fiscale e finanziaria, avere una banca centrale prestatrice di ultima istanza e creare un’agenzia di rating per valutare aziende e istituzioni del Nord America e dei Paesi nei quali vuole investire. Ma non a scopo di lucro, perché un funzionario che vende rating non deve pensare al bonus, come invece avviene con S&P, Moody’ s e Fitch. I cinesi, che sono intelligenti e lungimiranti, per prima cosa si sono creati una loro agenzia di rating»32.
I sicari puntano l’Italia Forse, però, dietro questa speculazione, evidente agli addetti ai lavori e ai banchieri su tutti, si potrebbero celare anche altri motivi, oltre a quelli illustrati da Vitale. Come predetto nell’estate del 2011 in un’inchiesta della Perucchietti pubblicata su ildemocratico.com33, l’attacco speculativo dei mercati italiani potrebbe infatti avere avuto, come scopo, il crollo del governo Berlusconi – reo di avere privilegiato, nella sua politica estera, la Russia e la Libia – per insediare una più fedele pedina della Casta americana. A pochi giorni dall’identica caduta di Papandreu e dalla conseguente nomina di Lucas Papademos, abbiamo assistito infatti all’insediamento del governo tecnico di Mario Monti. L’incarico è stato proposto a sorpresa proprio dal presidente Giorgio Napolitano che, a margine dei festeggiamenti del 4 novembre 2007, aveva auspicato, in una conferenza stampa tenuta al Quirinale, la creazione di un NWO: «Per fronteggiare le nuove, potenziali crisi che si affacciano all’orizzonte, si richiede un nuovo sforzo di coesione nazionale e un concreto impegno per garantire la pace anche al di fuori dei confini della stessa Europa e contribuire alla costruzione di un Nuovo Ordine Mondiale»34.
Sia Papademos che Monti sono subentrati per realizzare delle misure, che non sono state né dibattute dalle istituzioni, né sottoscritte dal consenso popolare. I loro rispettivi governi non sono stati votati democraticamente dai cittadini, ma insediati dalle lobby finanziarie. Tra gli addetti ai lavori serpeggiava già da tempo una convinzione, sull’attuale crisi dell’euro, alternativa a quella che ci viene trasmessa ogni giorno. La sensazione, fin dalla primavera del 2011, era che potesse avvenire a breve una manovra destinata a fare crollare l’euro e, forse, a fare fallire il progetto dell’unione monetaria europea, per aprire le porte, al caos e a interventi sovranazionali; il che ha portato l’ex premier Silvio Berlusconi a dichiarare che
l’uscita dell’Italia dall’euro non sarebbe «una bestemmia»35. A ciò si aggiunga la pressione sulla situazione del debito in Italia, che ha avuto però inizio nel febbraio del 2010, con un attacco speculativo nei confronti del nostro Paese e che è continuata nel 2012 con il declassamento dell’Italia, passata così da A2 ad A3 da parte di Moody’s. Che possa esservi un’intelligence di matrice angloamericana, dietro il crollo finanziario attuale, è sostenuto da politici di diversi schieramenti e da vari giornalisti, per lo più stranieri. A lanciare l’allarme sulla crisi finanziaria che si sarebbe abbattuta sull’Italia e sul governo Berlusconi è stato, in tempi ancora non sospetti, lo storico Webster Tarpley, che ha vissuto in Italia per molti anni e conosce bene la situazione del nostro Paese. Da un lato, la strategia per rivalutare il dollaro passerebbe attraverso l’attacco e la svalutazione trasversale dell’euro; dall’altro, il nostro Paese potrebbe avere pagato l’alleanza con la Russia di Putin, strenuo oppositore, come abbiamo visto, del mondialismo.
Attacco speculativo all’Italia Che esista una vera e propria intelligence che ha orchestrato il piano speculativo per svalutare l’euro e fare crollare i mercati è la convinzione di Tarpley, il quale ricorda la cena cospiratoria che si tenne l’8 febbraio 2010 nella sede di una piccola banca d’affari specializzata, la Monness Crespi and Hardt, come rivelato dal «Wall Street Journal»: «In quell’occasione, si cercavano strategie per evitare un’ondata di vendite di dollari da parte delle banche centrali e il conseguente crollo del dollaro. L’unica maniera per rafforzare il biglietto verde passava attraverso un attacco all’euro». Data però la difficoltà ad attaccare una moneta forte come l’euro «gli sciacalli degli hedge funds di New York – fra cui anche certi protagonisti della distruzione di Lehman Brothers – hanno cercato i fianchi più deboli del sistema europeo e li hanno individuati nei mercati dei titoli di Stato dei piccoli Paesi del meridione europeo e comunque della periferia – Grecia e Portogallo – in cui era possibile contare sulla complicità di politici dell’Internazionale Socialista al servizio della CIA e di Soros»,
o, più in generale, delle lobby di Wall Street e delle famiglie che detengono il potere finanziario negli USA: Soros, Rothschild, Rockefeller ecc., anche se Soros ha più volte pubblicamente dichiarato la necessità di metterli al bando. A questo punto, l’attacco speculativo sarebbe stato affiancato da una campagna diffamatoria e di stampo terrorista, accompagnata da pessime valutazioni delle agenzie di rating: «Un mix, che può comportare i tracolli dei prezzi e un vero e proprio panico». Non a caso, il declassamento italiano di
Moody’s è arrivato nel febbraio del 2012, a sei mesi di distanza dal crollo dei mercati: un modo per mantenere stabile la tensione. A tutto ciò si aggiunga il ricorso ai famigerati credit default swaps o derivati di assicurazione, già definiti dal terzo uomo più ricco del mondo, Warren Buffett, come «armi finanziarie di distruzione di massa».
Il tecnogoverno Monti Il 15 novembre 2011 Giulietto Chiesa lanciava l’allarme su Monti, definendolo una trappola: «Governerà l’Italia eseguendo gli ordini che arrivano dall’Europa. Gli Italiani non devono accettarlo. Il debito italiano è un bluff creato ad arte per sottrarci la nazione: in realtà stiamo solo svendendo le nostre ricchezze a un gruppo di speculatori»36.
L’insediamento di Monti e di Papademos nello stesso periodo e in condizioni simili aveva infatti messo in allerta alcuni pensatori, che nei due tecnocrati ravvisavano l’impronta della plutocrazia mondiale cui appartengono, quell’oligarchia eurocratica che, come ricorda Maurizio Blondet, «ha costruito l’Europa nell’ombra, trascurando apposta di fabbricarne la porta d’uscita»37. Entrambi sono membri della Commissione Trilaterale dei Rockefeller e del Club Bilderberg: la formazione consolidata da una lunga permanenza negli Stati Uniti, ha permesso loro di entrare in contatto con l’alta finanza e con Brzezinski. Papademos ha lavorato alla Federal Reserve Bank di Boston nel 1980 prima di diventare l’economista capo della Banca Nazionale greca, poi vicegovernatore nel 1993 e governatore l’anno successivo; è stato proprio lui a traghettare la Grecia dalla dracma all’euro. Dal 2002 al 2010 è stato anche vicepresidente della BCE. È inoltre cavaliere di Malta. Richiamato per sanare i danni che lui stesso ha contribuito a creare, ha visto però, la sua esperienza alla guida del Paese naufragare in fretta. Seguendo invece le orme di Mario Draghi, Monti è entrato nel 2005 alla Goldman Sachs come international advisor, nonché come presidente di un’altra lobby, la belga Bruegel. Quest’ultimo think thank, fondato nel 2005, è un gruppo di comando composto da esponenti di spicco di 16 Stati e da 28 multinazionali, tra le quali troviamo le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Barack Obama o che meritano uno scranno nelle riunioni blindate del Club Bilderberg: Microsoft, Google, Goldman Sachs, Samsung, la Borsa di New York (Nyse), l’italiana Unicredit ecc. Sarà per questa esterofilia che ha portato Monti a entrare come advisor anche nella Coca Cola company. Con il senno di poi si chiarisce che cosa intendevano alcune mosche bianche
– come Tarpley – quando cercavano di allertare la popolazione sul rischio che ci fossero Goldman Sachs e soci dietro l’ondata di speculazioni, che ha innalzato lo spread del nostro Paese causando così la caduta del governo Berlusconi. Per questo Blondet ha osservato che in Italia «i media, così pronti a denunciare i conflitti d’interesse di Berlusconi, non notano il conflitto enorme d’interesse, per cui oggi, a capo della Banca Centrale Europea, hanno messo un dirigente di Goldman Sachs». Anche Giulietto Chiesa ha denunciato il rischio concreto di svendere le nostre ricchezze a un gruppo internazionale di «speculatori», una «trentina di farabutti» dietro i quali si celerebbero «i grandi gruppi della finanza internazionale, guidati dalle grandi banche di investimento, tra cui la più famosa, ma non l’unica, si chiama Goldman Sachs; ma ce ne sono anche altre: Citigroup, Bank of America, Deutsche Bank ecc., tutte le banche che, tra il 2007 e il 2010, sono tecnicamente fallite, ma hanno recuperato fantasticamente dopo essere state ricapitalizzate dalla Federal Reserve, che ha erogato 16 trilioni di dollari inesistenti, inventati per tenerle in piedi»38.
A denunciare con amarezza le trame dell’oligarchia eurocratica è stato anche il più importante giornale inglese, «The Telegraph», che in un articolo a firma di Janet Daley ha sostenuto: «Questo super Stato transnazionale è dello stesso genere delle follie utopistiche, innaturali e astoriche che si tentò di imporre alle generazioni precedenti d’Europa. La sua dottrina di “cooperazione” è solo coercizione con altri mezzi. Essa si fonda su un credo inflessibile e una conformità obbligata, come tutti gli inizi dei movimenti politici che sono sfociati, in passato, nel totalitarismo e nel terrore. La sola speranza è che i popoli, per la maggior parte, contrariamente ai loro leader politici, sembra capirlo. Resta da vedere se dovranno scendere nelle strade per farsi ascoltare»39.
La Daley ha inoltre anticipato il nodo del Fiscal Compact, che induce alla perdita di sovranità nazionale in favore dell’UE: «I Parlamenti che hanno il mandato diretto dalle loro popolazioni, e rispondono ad esse, non controlleranno le più essenziali funzioni di governo: le decisioni di tassare e spendere […]. Ogni potere effettivo sulla politica fiscale sarà sottratto dalle mani dei capi nazionali. E se, in quanto elettore, non puoi influenzare le politiche di tassazione e di spesa, per che cosa, precisamente, voti? »40.
Monti e la Massoneria Il 20 gennaio 2012, ospite alla trasmissione serale Otto e mezzo41, Monti si è sentito domandare in diretta da Lilli Gruber se potesse confermare la sua affiliazione alla Massoneria. Il premier, dopo qualche secondo di incertezza, ha negato, aggiungendo di non conoscere la massoneria e di non sapere riconoscere un “fratello”: «Confesso: è sicuramente una lacuna, non so bene cosa sia la
Massoneria, certamente non sono massone e non saprei nemmeno come accorgermi che uno è massone. [La Massoneria; N.d.A.] è una cosa un po’ evanescente». Forse Monti voleva liquidare la domanda con una freddura tipicamente british, ma il suo sostenere di non conoscere la Massoneria, essendo ufficialmente un membro fisso del Club Bilderberg e responsabile europeo all’interno della Trilaterale, ha suscitato ilarità nella popolazione e, in particolare, nell’ambito della Massoneria. Monti dovrebbe infatti conoscere quel mondo dai tempi dell’Università, essendosi specializzato in economia, grazie a una borsa di studio, proprio a Yale, sede della Skull and Bones42. Nel 1965, durante la sua permanenza a Yale, Monti seguì le lezioni dell’economista e premio Nobel James Tobin43, già consigliere di John F. Kennedy. Monti non può essere stato affiliato alla Società del Teschio e Ossa in quanto non è uno WASP (White AngloSaxon Protestant)44, ovvero un anglosassone discendente dalle famiglie puritane inglesi (i Pilgrims) giunte in America tra il 1630 e il 1660: ciò però non esclude un suo coinvolgimento con i membri della Società segreta. La smentita del premier ha irritato numerosi “fratelli”, che da tempo avevano confermato la sua affiliazione alla Massoneria; il primo a rivelarla, all’indomani della carica attribuitagli da Napolitano, era stato il venerabile maestro Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico – corrente eterodossa del GOI (Grande Oriente d’Italia) – che aveva rivolto una lettera aperta al “fratello” Mario Monti per congratularsi con lui e dargli alcuni “consigli”. Magaldi rispondeva virtualmente al “fratello” Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la principale loggia massonica, che un paio di giorni prima aveva cercato di liquidare le teorie che accreditavano l’esistenza di cospirazioni massoniche dietro la salita al potere del nuovo governo. Se Raffi aveva riso dei complottismi, Magaldi si esponeva con parole di elogio per Monti, ricordando che il neo premier poteva sempre «contare anche sul robusto e ufficiale viatico di un altro illustre fratello massone come il presidente Obama»45. Come ha evidenziato il giornalista Marco Gorra dalle pagine di «Libero»46: «nella missiva [di Magaldi; N.d.A.], la parola “fratello” ricorre diciassette volte: undici riferita a Monti, che stacca Obama con tre e Draghi con due (Berlusconi resta fermo al palo con un solo “fratello”). Il senso dell’appello del Magaldi è il seguente: fratello Monti, per uscire dalla crisi il rigore e le tasse non bastano, ci vogliono eurobond e riforma del debito sovrano. Altrimenti tutta l’Europa sarà aggredita dalla speculazione, che intende approfittare (con profitti quotidiani di portata colossale) dell’attuale (e pianificata, tu sai anche bene da quali gruppi e oligarchie) e strutturale debolezza dell’eurozona».
Magaldi è stato il primo, ma non l’unico, a sollevare il velo di omertà
sull’affiliazione di Monti. Perché il premier dovrebbe essere associato a una o più logge massoniche dagli stessi affiliati? Perché, come si chiede Gorra, «la massoneria avrebbe interesse a inguaiare un confratello? La faccenda non torna, deve esserci qualcosa sotto». Ad Affaritaliani.it, però, è intervenuto nuovamente Raffi, che ha deriso la missiva di Magaldi: «Sono convinto che certi personaggi si sveglino la mattina in cerca di notorietà. Non bisogna dare corda a questo individuo, che tra l’altro è stato espulso dal Grande Oriente. Cui prodest? Solo a Magaldi, che è in cerca di visibilità. Come diceva Troisi: “Non ci resta che piangere”»47.
Raffi non nega direttamente l’affiliazione di Monti, ma devia l’attenzione colpendo la credibilità di Magaldi. In tal modo nega, ma solo indirettamente, l’affiliazione del premier. L’errore di Raffi, semmai, sta nel dichiarare che «la massoneria non si occupa di politica del quotidiano. Si occupa dei grandi valori, dei grandi temi». L’affermazione è assurda: la storia ci ha mostrato il coinvolgimento dei confratelli nella politica italiana e internazionale degli ultimi tre secoli. Magaldi ha risposto a sua volta a Raffi, ribadendo il coinvolgimento di Monti all’interno della Massoneria e parlando per la prima volta della presunta duplice affiliazione di Monti: «È un massone e ha avuto una duplice affiliazione: una inglese e una mista anglo-franco-belga. Monti appartiene al corpo d’élite della massoneria». Intervistato da La Zanzara su Radio 24, Magaldi è sceso nei dettagli: «Quella inglese è un corpo d’élite con tre gradi. Riguardo alla questione dell’affiliazione di Monti, che è venuta in anni lontani, parlerò nel mio libro». Magaldi ha inoltre sottolineato il coinvolgimento di altri ministri e sottosegretari: «C’è un alto tasso di “grembiulini”, nel nuovo governo; ci sono molti massoni, è un Governo ad alta concentrazione di massoni».
Monti e il Club Bilderberg Costui è anche un membro del consiglio direttivo del Club Bilderberg. Il Consiglio, che viene eletto ogni quattro anni e non prevede limiti al numero dei mandati per i singoli consiglieri, si occupa di organizzare l’incontro annuale e di selezionarne i partecipanti. L’1 dicembre 2011 l’europarlamentare leghista, Mario Borghezio e il ricercatore ex KGB Daniel Estulin hanno tenuto una conferenza stampa congiunta a Bruxelles, per denunciare il ruolo da «insider dei poteri forti e occulti»48 ricoperto proprio da Monti. Borghezio ha chiesto pubblicamente che
«Monti riveli ciò che si è deciso, lui presente, nell’ultima riunione del Bilderberg a Saint Moritz, specie per quanto riguarda l’Italia». Daniel Estulin ha invece spiegato che il sistema finanziario globale sarebbe al collasso per volere di un ristretto gruppo di oligarchi, che starebbero distruggendo ogni parvenza di sovranità nazionale con i loro piani di austerità. A costoro apparterrebbe anche Monti: «Stiamo parlando non di un governo mondiale, ma di una Società per Azioni a livello globale controllata da un “movimento sinarchico”, che gestisce gli Stati nazionali con i suoi uomini-fantoccio. Il piano di salvataggio voluto dagli eurocrati va verso una dittatura gestita da dittatori non eletti, come Van Rompuy, Barroso e lo stesso Monti».
Per “Bilderberg” s’intende una specie di club privato – composto esclusivamente da capi di stato, primi ministri, banchieri internazionali, economisti di punta, editori delle maggiori testate internazionali – all’interno del quale i membri si ritrovano per fare il punto della situazione politica, economica e militare e per discutere delle linee guida dell’Europa e dell’America in particolare. Estulin la definisce per questo «l’organizzazione più segreta al mondo»49. Il «Times», nel 1977, descrisse i membri del Gruppo come «una congrega dei più ricchi, dei più economicamente e politicamente potenti e influenti uomini nel mondo occidentale, che si incontrano segretamente per pianificare eventi, che poi sembrano accadere per caso». Secondo Estulin, ogni cambiamento di regime, ogni riforma che possa avere ripercussioni a livello globale e ogni candidatura politica di rilievo internazionale verrebbero prima discussi e decisi nei meeting assolutamente segreti e blindati del Gruppo. Il luogo dei loro incontri viene deciso e comunicato ai partecipanti soltanto una settimana prima della data, e i giornalisti, così come i normali cittadini che non compaiono sulla lista degli invitati, non possono avvicinarsi agli alberghi di lusso in cui questa élite si ritrova. Solo grazie ad alcune fughe di notizie e a giornalisti investigativi come Jim Tucker e Daniel Estulin sono emerse alcune notizie in merito alle decisioni, che il Gruppo si troverebbe a prendere. Analizzando i punti del programma del Gruppo a partire dal 1954 a oggi, appare chiaro come sostiene Estulin, «l’intento di armonizzare le ideologie delle élite europee e statunitensi, allo scopo di dominare il mondo insieme. […] A partite dal 1954, il Bilderberg ha rappresentato l’élite politica ed economica delle nazioni occidentali: speculatori finanziari, capi di multinazionali, industriali, Presidenti, Primi Ministri, Ministri Economici, Segretari di Stato, rappresentanti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, presidenti di holding dell’informazione e capi militari»50.
Il fine dei membri di questo Gruppo sarebbe dunque quello di creare una “comunità di intenti” tra Europa e Stati Uniti per “governare insieme il mondo”. La segretezza dei loro incontri è necessaria, secondo Estulin, perché «i membri del Bilderberg gestiscono le banche centrali, così si trovano nella posizione di poter stabilire i tassi di interesse, i livelli di emissione della moneta, il costo del denaro e quello dell’oro, e la quantità di prestiti da erogare a un determinato Paese. Manipolando l’emissione del denaro e gestendo la rete degli affari mondiali, creano per il loro interesse guadagni di diversi miliardi di dollari. Sono guidati solo dalla volontà di accaparrarsi denaro e potere»51.
Monti e la Trilaterale Monti è stato anche membro della Commissione Trilaterale, per la quale ha ricoperto persino l’incarico di presidente per l’Europa nel triennio 2010-2012. Nulla di occulto: sul sito ufficiale www.trilateral.org campeggiava, fino al febbraio del 2012, una lettera di presentazione con allegata fotografia, sottoscritta dallo stesso Monti come European Chair, da Joseph S. Nye Jr., come North American Chair e da Yotaro Kobayashi come Pacific Asian Chair. Dopo numerose critiche di “conflitto di interessi” per il ruolo svolto all’interno della Trilaterale contemporaneamente a quello di premier italiano, il nome di Monti è stato cancellato dall’home page, senza però specificare se in effetti egli avesse rinunciato all’incarico o fosse semplicemente “in sonno”. Solo successivamente è stato pubblicato il seguente annuncio di “dimissioni” sull’home page del sito: «Mario Monti has resigned as European chairman of the Trilateral Commission after being elected president of the Italian Council of Ministers on November 16, 2011». Il suo nome, però, è rimasto nella lista interna della sezione onoraria intitolata Former Members in Public Service (ex membri ora passati al servizio pubblico), come si può controllare all’indirizzo http://www.trilateral.org/download/file/TC%20list%202-12%20%282%29.pdf. Ufficialmente, la Commissione Trilaterale è un gruppo di studio, con sede a New York, fondato nel 1973 da David Rockfeller e da altri dirigenti, tra cui Henry Kissinger e Brzezinski. Molti degli stessi individui che appartengono al Bilderberg e al CFR (Council on Foreign Relations) appartengono anche alla Trilaterale. Il CFR, però, coinvolge solo membri americani e al Bilderberg partecipano solo personalità degli USA, del Canada e dell’Europa Occidentale. La Trilaterale, invece, coinvolge il potere finanziario di tutto il mondo. Nel 1979 l’ex governatore repubblicano Barry Goldwater descriveva la Trilaterale come «un abile e coordinato sforzo per prendere il controllo e consolidare i quattro centri di potere – politico, monetario, intellettuale ed ecclesiastico – grazie alla creazione di una potenza economica mondiale
superiore ai governi politici degli Stati coinvolti». Lo scrittore francese Jacques Bordiot, inoltre, sosteneva che, per fare parte della Trilaterale, era necessario che i candidati fossero «giudicati in grado di comprendere il grande disegno mondiale dell’organizzazione e di lavorare utilmente alla sua realizzazione», e precisava che il vero obiettivo della Trilaterale era quello «di esercitare una pressione politica concertata sui governi delle nazioni industrializzate, per indurle a sottomettersi alla loro strategia globale». Il canadese Gilbert Larochelle, professore di filosofia politica presso l’Università del Quebec, nel suo saggio L’imaginaire technocratique, pubblicato a Montreal nel 1990, ha definito più semplicemente la Trilaterale come una privilegiata élite tecnocratica: «La cittadella trilaterale è un luogo protetto, in cui la téchne è legge e delle sentinelle, dalle torri di guardia, vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla competenza non è affatto un lusso, offre la possibilità di mettere la società di fronte a se stessa. Il maggiore benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano dei criteri per poi inviarli verso il basso».
Un altro membro italiano della Trilaterale – che ha preso parte per la prima volta alla riunione del Club Bilderberg nel giugno del 2012 a Chantilly, in Virginia – è l’esponente del PD Enrico Letta, che si è distinto, il 18 novembre 2011, per un biglietto mandato a Monti durante il dibattito sulla fiducia in aula e ripreso dalle telecamere: «Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente (Bersani mi chiede, per es., di interagire sulla questione dei vice), sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!»52.
Al ritorno dal meeting in Virginia, Letta si è giustificato con i giornalisti, difendendo, dal suo profilo su Facebook53, il suo coinvolgimento con il Club con la nota, pubblicata il 5 giugno, qui di seguito riportata. «Molti in questi giorni mi fanno domande sul meeting Bilderberg al quale sono stato invitato a Washington lo scorso fine settimana. […] Si è discusso dei principali temi in materia di economia e di sicurezza al centro dell’agenda globale. Ed è stata per me un’occasione interessante e utile per ribadire la fiducia nei confronti dell’Euro e per rilanciare con grande determinazione l’invito a compiere i passi necessari (e indispensabili) verso gli Stati Uniti d’Europa. Nulla di queste discussioni, e del franco e “aperto” dialogo tra i partecipanti, mi ha fatto anche solo per un momento pensare a quell’immagine di piovra soffocante che decide dei destini del mondo, incurante dei popoli e della democrazia, descritta da una parte della critica sul web e sulla stampa. È vero: la discussione era a porte chiuse. Ma la presenza dei direttori di alcuni dei principali giornali internazionali (di tutte le tendenze politico-culturali) mi pare possa “rassicurare” i sostenitori di una lettura complottistica del meeting».
L’interrogazione al Parlamento UE
Il 4 aprile 2003, l’eurodeputata Patricia McKenna depositò un’interrogazione parlamentare in cui chiedeva chiarimenti in merito alla partecipazione di Mario Monti – allora commissario UE alla competitività – alle conferenze del Gruppo Bilderberg e al suo incarico all’interno della Commissione Trilaterale. Ecco un passaggio del testo depositato al Parlamento UE: «Può la Commissione indicare il nome dei Commissari che parteciperanno alle prossime riunioni del Gruppo Bilderberg e della Trilaterale, precisare se essi parteciperanno a nome della Commissione o a titolo apparentemente privato e se beneficeranno di indennità giornaliere o di altri rimborsi per le spese associate a tali riunioni? Può la Commissione assicurare che tali adesioni vengano menzionate nella dichiarazione di interessi finanziari di ogni Commissario?» 54.
Il 15 maggio, Romano Prodi, allora presidente della Commissione stessa, rispose come segue: «Numerosi membri della Commissione sono stati invitati e hanno partecipato alle riunioni del Gruppo Bilderberg, alcuni durante il loro mandato alla Commissione, altri sono stati invitati e hanno partecipato prima di essere membri della Commissione e non hanno più partecipato durante il loro mandato. È necessario precisare che la qualità di membro del Gruppo non è prevista dallo statuto di tale gruppo. Esiste solo la figura di “membro dello Steering Committee”. Nessun membro della Commissione è membro dello Steering Committee. Persone non appartenenti allo Steering Committee del Gruppo Bilderberg possono essere invitate alle sue riunioni. La partecipazione occasionale a una riunione non giustifica una citazione sulla dichiarazione d’interessi prevista dal Codice di condotta applicabile ai Commissari. Infatti, la partecipazione occasionale a una conferenza e il fatto di ricevere informazioni sulle attività di un gruppo non implicano necessariamente l’appartenenza o la qualità di membro di un gruppo. […] Per quanto riguarda la Commissione Trilaterale, il suo statuto esclude la partecipazione di un membro che esercita una funzione pubblica. Nessun Commissario è quindi membro della Commissione Trilaterale e nessun Commissario ha manifestato, fino a oggi, la sua intenzione di partecipare a una delle prossime riunioni della Commissione trilaterale» 55.
Prodi sostiene che l’unico organo ufficiale del Gruppo Bilderberg è il Comitato Direttivo (Steering Committee), in quanto la qualifica di membro ufficiale non esiste. Nel 2003, la risposta di Prodi poteva valere come giustificazione al coinvolgimento suo e di Monti, ma quest’ultimo nel 2010, è stato nominato membro del Direttivo; inoltre, Prodi ci informa che nello statuto della Commissione Trilaterale vige il divieto, per i membri, di esercitare una funzione pubblica: per questo, il nome del premier è stato cancellato dalla home page del sito.
Monti e la Goldman Sachs La Goldman Sachs è una delle più grandi e importanti banche di affari del mondo. Ha sede legale negli Stati Uniti ed è quotata alla borsa di New York;
offre consulenze a migliaia di società, che la utilizzano per gestire i loro investimenti, per ristrutturarsi e per effettuare nuove acquisizioni. La banca si occupa anche degli investimenti a rischio e derivati, e amministra fondi previdenziali. Considerata la sua enorme influenza, è stata spesso criticata per avere condizionato l’andamento dei mercati o avere favorito delle speculazioni spregiudicate, che hanno contribuito alla progressiva crisi finanziaria di questi ultimi anni. Mario Monti, nel 2005 è diventato consulente internazionale della Goldman Sachs International. Da allora si è occupato di politica internazionale e mercati di capitali, offrendo la propria consulenza al Goldman Sachs Global Markets Institute. Ha realizzato rapporti e analisi, sostenendo le proprie teorie economiche in materia di stabilità dei conti pubblici e liberalizzazioni. Il 16 novembre 2011 – giorno dell’investitura di Monti a capo del Governo – «Le Monde» ha pubblicato una reprimenda contro la potente banca d’affari intitolata La “franc-maçonnerie” européenne de Goldman Sachs, del giornalista Marc Roche, corrispondente da Londra. Si tratta di una vera e propria requisitoria contro la potente banca d’affari, dall’incipit particolarmente duro: «Ils sont sérieux et compétents, pesant le pour et le contre, étudiant les dossiers à fond avant de se prononcer. L’économie est leur péché mignon. Ils ne se découvrent que très rarement, ces fils de la Lumière entrés dans le Temple après un long et tatillon processus de recrutement. C’est à la fois un groupe de pression, une amicale de collecte d’informations, un réseau d’aide mutuelle. Ce sont les compagnons, maîtres et grands maîtres amenés à “répandre dans l’univers la vérité acquise en loge”».
Per Roche la Goldman Sachs funziona come una Massoneria, in cui ex dirigenti, consiglieri e anche trader della banca d’affari americana, si ritrovano oggi al potere nei Paesi chiave europei per la gestione della crisi finanziaria: «Confratelli, maestri e gran maestri chiamati a “spandere nell’universo la verità acquisita nella loggia”». In Europa la Goldman Sachs si sarebbe fatta fautrice di una forma di “capitalismo delle relazioni”, e punterebbe a piazzare i suoi uomini senza mai lasciar cadere la maschera. Non a caso, oltre a Monti, anche Papademos, Prodi, Gianni Letta e Draghi sono uomini della Goldman Sachs. Per questo Marine Le Pen, durante la campagna elettorale del 2012 per l’Eliseo, ha definito senza mezzi termini Monti un “banchiere”, motivando così l’appellativo: «Io credo proprio che lo sia [un banchiere; N.d.A.], avendo lavorato per Goldman Sachs come il premier greco Papademos e come Draghi. Queste persone hanno lavorato per le grandi istituzioni finanziarie e oggi l’Unione Europea li ha messi al posto di coloro che sono stati eletti dal popolo per cercare di recuperare quanti più soldi possibili, soldi che non vengono usati a beneficio della gente, ma per rimborsare i nostri usurai»56.
Mentre il ricercatore Marcello Pamio ritiene Monti – in virtù dei suoi legami con multinazionali, banche e think tank – uno degli uomini più potenti d’Italia, forse secondo solo a Mario Draghi: «[…] il nuovo capo del governo italiano, accettato da destra57 e sinistra [Monti; N.d.A.], è indiscutibilmente uno degli uomini più potenti d’Italia, forse subito dopo Mario Draghi (chiamato Mr. Britannia negli ambienti che contano), e il portavoce dell’ultraliberismo anglo-ebraico-statunitense. Sotto la brillante immagine del brizzolato rettore e professore di economia, sotto la tunica del senatore, porterà avanti, forse come non mai, la svendita definitiva dell’Italia e di quello che rimane del nostro Paese. Il tutto a beneficio dei soliti poteri forti internazionali. Dalle vergognose leggi ad personam, per la pace di molti, passeremo alle leggi ad massonam […]».
Vaticano e Nuovo Ordine Mondiale: un rapporto ambiguo Uno dei temi più scottanti che stanno venendo alla ribalta in questi ultimi anni è quello del rapporto tra Chiesa cattolica e NWO, specie dopo alcune sconcertanti dichiarazioni rilasciate dagli ultimi pontefici. In passato, il giudizio del Vaticano sul progetto mondialista era sempre stato chiaro e inequivocabile; già Leone XIII, nell’Enciclica Humanum Genus, dedicata in particolare all’azione della Massoneria nella società del tempo, affermava esplicitamente: «L’ultimo e il principale dei suoi intenti [della Massoneria; N.d.A.] è […] quello di distruggere dalle fondamenta tutto l’ordine religioso e sociale nato dalle istituzioni cristiane e creare un nuovo ordine».
Il progetto del NWO, del resto, è nato e si è sviluppato in contesti ferocemente anticattolici (protestantesimo radicale, massonerie, organizzazioni occultiste ecc.) ed era quindi normale che la Chiesa ne percepisse il pericolo e l’ostilità. Negli ultimi anni, tuttavia, qualcosa sembra essere cambiato. In un’omelia degli ultimi mesi del pontificato di Giovanni Paolo II (1 gennaio 2004), il Pontefice affermava per la prima volta che «le persone stanno diventando sempre più consapevoli della necessità di un Nuovo Ordine Mondiale».
Si trattava, certamente, di un Papa stanco e logorato dalla malattia, ma le cui parole dovevano necessariamente riflettere il suo pensiero (o più probabilmente quello di una parte del suo entourage). Tali affermazioni si sono infatti moltiplicate durante il pontificato di Benedetto XVI. Proprio Ratzinger, durante la sua prima benedizione Urbi et Orbi, il 25 dicembre 2005, in un discorso ormai celebre che ha lasciato di stucco non pochi cattolici, ha affermato testualmente: «Uomo moderno, adulto eppure talora debole nel pensiero e nella volontà, lasciati prendere per mano dal Bambino di Betlemme; non temere, fidati di Lui! La forza vivificante della sua luce ti incoraggia a
impegnarti nell’edificazione di un Nuovo Ordine Mondiale, fondato su giusti rapporti etici ed economici. Il suo amore guidi i popoli e ne rischiari la comune coscienza di essere “famiglia” chiamata a costruire rapporti di fiducia e di vicendevole sostegno. L’umanità unita potrà affrontare i tanti e preoccupanti problemi del momento presente: dalla minaccia terroristica alle condizioni di umiliante povertà in cui vivono milioni di esseri umani; dalla proliferazione delle armi alle pandemie e al degrado ambientale, che pone a rischio il futuro del Pianeta».
Il Nuovo Ordine Mondiale sarebbe, pertanto, l’unica possibile risoluzione delle crisi globali, che affliggono (o affliggerebbero) il Pianeta; lo stesso concetto è stato ribadito più di recente (2011) e in forma ancora più ufficiale nel documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale58, in cui si afferma la necessità della costituzione di un’Autorità Pubblica Mondiale. Il punto di partenza del documento è l’attuale crisi economica globale, che viene attribuita, molto genericamente, all’assenza di un controllo da parte di un’autorità riconosciuta. A tale scopo, si auspica la creazione progressiva di un potere unico globale, che possa “unificare la famiglia umana”. L’auspicio è che ciò possa avvenire a partire dalle stesse istituzioni sovranazionali oggi esistenti (ONU, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale ecc.): «Un lungo cammino resta però ancora da percorrere, prima di arrivare alla costituzione di una tale Autorità pubblica a competenza universale. Logica vorrebbe che il processo di riforma si sviluppasse avendo come punto di riferimento l’Organizzazione delle Nazioni Unite, in ragione dell’ampiezza mondiale delle sue responsabilità, della sua capacità di riunire le Nazioni della terra e della diversità dei suoi compiti e di quelli delle sue Agenzie specializzate. […] A un Governo mondiale non si può pervenire, se non dando espressione politica a preesistenti interdipendenze e cooperazioni».
Prima di salire al soglio pontificio, mentre era ancora cardinale, nell’introduzione al libro Nuovo Disordine Mondiale59 di Michel Schooyans – autorevole professore dell’Università Cattolica di Loviano – Ratzinger affermava: «Le tesi portate avanti da Schooyans, oltre a essere un autentico pugno nello stomaco, esprimono dunque una linea interpretativa che potremmo definire autorevolissima della posizione della Chiesa riguardo a un problema, quale quello della “vita” e della sua strumentalizzazione, che è preconizzato come un tentativo di “dittatura mondiale” perseguito dai Paesi più ricchi e che si avvale, nella visione proposta, di importantissimi strumenti politici quali l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), l’ONU, le ONG, la Banca Mondiale e tutte le organizzazioni a esse collegate. Secondo l’Autore, il Nuovo Ordine Mondiale altro non è che il tentativo di imporre la “filosofia dell’egoismo” dei Paesi ricchi ai Paesi poveri o in via di sviluppo e il dominio di pochi su tutti gli altri».
La differenza tra queste parole e le dichiarazioni rilasciate negli anni successivi è talmente stridente da lasciare basiti! Com’è possibile che nel giro di
soli quattordici anni un modello di potere, stigmatizzato come tentativo di dittatura mondiale possa diventare invece una possibilità auspicabile e sostenibile? Alcuni cattolici, per “salvaguardare” la buonafede della “gerarchia”, pongono sul banco degli imputati l’indubbia decadenza spirituale e dottrinale, che avrebbe travolto la Chiesa negli ultimi decenni e avrebbe reso la “gerarchia” incapace di “cogliere i segni dei tempi” e di interpretare efficacemente lo scenario del mondo contemporaneo; altri affermano che, in qualche modo, la Chiesa è costretta dagli eventi a prendere atto dello status quo di un NWO, che appare ormai trionfante, nella speranza (forse utopistica) di potere “limitare i danni”; altri, ancora, infine, vedono l’appoggio della Chiesa al NWO come un “tradimento” o, perlomeno, come il sintomo di una profonda infiltrazione nella Chiesa stessa di “forze” anticattoliche. Vi è anche chi parla apertamente di un possibile ricatto, cui la Chiesa cattolica sarebbe sottoposta da parte di alcuni “poteri forti” mondialisti. C’è però un altro aspetto di cui tenere conto, ovvero quello della diffusione, negli ultimi anni, di una nuova ideologia made in USA, che sembra fatta apposta per arruolare ciò che resta del “cattolicesimo politico” e portarla sul grande vascello del mondialismo: il neoconservatorismo. Se esiste, infatti, un pensiero mondialista con caratteristiche che, in un’ottica profana, potremmo definire di “sinistra” (denatalismo, ecologismo estremo, New Age ecc.), si è però sviluppato anche, negli ultimi decenni un mondialismo “di destra”, che persegue il progetto di un NWO a partire da categorie diverse: ultraliberismo economico, militarismo, esaltazione identitaria dell’”Occidente”, nonché uso strumentale di ciò che rimane delle religioni tradizionali. Negli ultimi anni, il mondialismo “di destra” ha assunto la forma del neoconservatorismo: una lobby di pensiero nata negli USA, che, specie dopo lo shock dell’11 settembre, ha guadagnato sempre più spazio. Personaggi come Richard Perle, Paul Wolfowitz, Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Condoleeza Rice, tanto per citare degli esempi, sono tutti cresciuti all’ombra del pensiero neocons. La convergenza d’interessi fra i neocons e alcuni gruppi religiosi protestanti – specie i “sionisti cristiani” – è stata pressoché automatica, soprattutto dopo l’11 settembre. La strategia di “arruolamento” si è sviluppata tuttavia anche in direzione del mondo cattolico, attraverso una rete di gruppi di pressione e di “pensatoi”, che hanno esercitato un grande influsso negli ultimi anni. In cambio di un sostegno de facto o de iure alla grande “crociata” filoccidentale contro l’Islam, infatti, i neocons fanno proprie le parole d’ordine di un “recupero dei
valori” etici in una forzata identificazione fra Cristianesimo e civiltà occidentale. In Italia, ad esempio, si è formata, sotto l’influsso neocons, quella corrente di cristianisti o “atei devoti” (composta da personaggi come Giuliano Ferrara, Marcello Pera ecc.), che hanno avuto grande credito anche presso le più alte gerarchie ecclesiastiche, quasi incredule di poter trovare una sponda “in campo laico” alle proprie rivendicazioni. Nella logica del “male minore”, infatti, una parte del mondo cattolico può avere ritenuto strategicamente utile il proprio arruolamento sul “carro dei vincitori”, specie se ciò è avvenuto a partire da posizioni apparentemente meno ostili alla religione rispetto al mondialismo “di sinistra”. Certamente, la Chiesa di oggi, di fronte all’opera di forze che umanamente appaiono quasi invincibili, si sente messa con le spalle al muro e forte diventa, in una situazione simile, la tentazione di scendere a patti. Solo il tempo, tuttavia, ci dirà se l’implicita alleanza tra Chiesa cattolica e “fronte occidentale” sarà realmente utile per assicurare alla Chiesa quello spazio minimo d’azione e di sopravvivenza istituzionale cui essa aspira. NOTE 1. Giulio Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori 2007. 2. Discorso di Mario Monti tenuto il 22 febbraio 2011 alla Luiss. 3. Magaldi su Mario Monti. 4. Beppe Grillo sulle dimissioni di Umberto Bossi in seguito allo scandalo dei finanziamenti pubblici al partito utilizzati invece dalla famiglia Bossi: http://www.beppegrillo.it/2012/04/bossi_fora_di_ball/index.html. 5. Maurizio Blondet, Monti, il totalitario pro-banchieri, 9 dicembre 2011: http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&view=article&id=69983:montiiltotalitario-pro-banchieri-&catid=13:politica-interna&Itemid=136. 6. http://www.giuliotremonti.it/curriculum.html. 7. «Procedendo per inevitabili linee di rottura, la globalizzazione ci ha dunque già presentato il suo primo conto con lo shock sui prezzi e con il carovita. Ma questo è solo l’inizio. Perché la globalizzazione sta cominciando a presentare anche altri conti: il conto della crisi finanziaria; il conto del disastro ambientale; il conto delle tensioni geopolitiche che, pronte a scatenarsi, si stanno accumulando nel mondo», cit. in Giulio Tremonti, La paura e la speranza, cit., p. 7. «Il legame tra crisi e globalizzazione è infatti un legame doppio: non solo la crisi è globale, ma come già notato ha essa stessa la sua origine proprio nella globalizzazione. Il rapporto tra crisi e globalizzazione non può in specie essere ridotto a una pura giustapposizione basata sulla classica fallacia logica del post hoc, ergo propter hoc», cit. in Giulio Tremonti, Uscita di sicurezza, Rizzoli, 2012, p. 212. 8. Intervento dell’on. Giulio Tremonti, venerdì 7 settembre 2007, Villa d’Este di Cernobbio. 9. Giulio Tremonti, La paura e la speranza, cit., pp. 5-6. 10. Introduzione di Toshihiko Fukui a: Giulio Tremonti, La paura e la speranza, cit. 11. «Mercato unico, errore unico. Mai nella storia dell’umanità un processo politico della portata di quello attivato con il WTO l’apertura del mondo al mercato, è stato consentito e avviato con tanta istantanea e
superficiale precipitazione. Nel 1994 (quasi) tutti in realtà pensavano, se pure a vario titolo, che il segno della globalizzazione fosse comunque e per sempre positivo, (quasi) tutti ignoravano la reale estensione della nuova geografia economica e sociale che si apriva. E agivano dunque senza una serie e reale simulazione e prospettazione sulla tempistica e sulla magnitudine delle onde di ritorno. È stato proprio così che gli apprendisti stregoni del WTO hanno aperto di colpo il “vaso di Pandora”. Qualcosa che ancora ricorda Il Manifesto di Marx-Engels: «Lo stregone non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate […]», cit. in: Giulio Tremonti, La paura e la speranza, cit., pp. 43-44. 12. In La paura e la speranza sono ricorrenti le accuse dirette alla tecnofinanza e alle lobby finanziarie: «Le “megabanche” hanno applicato in forma radicale e su scala globale la forma nuova della tecnofinanza, l’OTD (Originate-to-Distribute Model). L’OTD non è solo una nuova tecnica operativa che permette la “distribuzione” del rischio sul credito, con il trasferimento del rischio stesso dalla banca originaria, a sua volta a un tipo nuovo di banca: la banca che è insieme “universale” e “irresponsabile”. È così che universalità e irresponsabilità sono diventate i caratteri terminali propri della “megabanca”, un tipo di industria assolutamente nuovo», «[…] la nuova tecnofinanza non è stata di fatto solo un mezzo per realizzare in forma aggiornata le classiche speculazioni finanziarie. È stata qualcosa di assolutamente nuovo. Qualcosa che non si era mai visto nella storia in questa dimensione. Creando effetti, ricchezza e domande artificiali, la nuova tecnofinanza ha infatti e fondamentalmente concorso a finanziare il “miracolo” quasi istantaneo della globalizzazione». 13. Giulio Tremonti, La paura e la speranza, cit., p. 63. 14. Idem, L’America ora rischia una crisi stile ’29, in «Corriere della Sera», 12 novembre 2006. 15. Ivi, p. 33. 16. La Monsanto è la multinazionale leader mondiale nella produzione degli OGM. È al contempo una delle aziende più controverse della storia industriale contemporanea, avendo accumulato numerosi processi a suo carico a causa dell’alta tossicità dei prodotti che, grazie alla connivenza dei governi americani, impone sul mercato mondiale da più di un secolo. 17. La Monsanto sapeva che il Posilac aveva causato leucemia e tumori nei ratti da laboratorio, ma ciò non le impedì di metterlo sul mercato. Si veda F. William Engdahl, I semi della distruzione. Agri-business. Dal controllo del cibo al controllo del mondo, Arianna Editrice, 2010. 18. Si veda: Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama, cit., pp. 396 e ss. 19. Maurizio Blondet, L’eurocrazia al servizio di Monsanto, 27 gennaio 2012, http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&view=article&id=73548:leurocrazia-alservizio-di-monsanto&catid=27&Itemid=133. 20. Giulio Tremonti, Uscita di sicurezza, cit., p. 153. 21. Ivi, p. 156. 22. Giulio Tremonti, La paura e la speranza, cit., p. 75. 23. Idem, Uscita di sicurezza, cit., p. 144. 24. Ivi, p. 145. 25. Bancarotta. 26. Salvatore Tamburro, Non è crisi è truffa. Come i banchieri ci stanno truffando, Edizioni Sì, 2012, p. 21. 27. Ivi, p. 22. 28. Ibidem. 29. Intervista di Fabrizio Massaro a Guido Vitale, nel «Corriere della Sera», 15 gennaio 2012. http://archiviostorico.corriere.it/2012/gennaio/ 15/obiettivo_nascosto_indebolire_Europa_ America_co_8_120115027.shtml. 30. Ibidem. 31. Ibidem. 32. Accelerare l’unificazione politica, economica, fiscale e finanziaria, avere una banca centrale prestatrice di ultima istanza e creare un’agenzia di rating per valutare aziende e istituzioni del Nord America e dei
Paesi nei quali si vuole investire. Ma non a scopo di lucro: perché un funzionario che vende rating non deve pensare al bonus, come invece avviene con S&P, Moody’ s e Fitch. I Cinesi, che sono intelligenti e lungimiranti, per prima cosa si sono creati una loro agenzia di rating. 33. Enrica Perucchietti, http://ildemocratico.com/2011/08/08/ inchiesta-attacco-speculativo-allitalia-chivuole-eliminare-berlusconi/. 34. Su http://www.youtube.com/watch?v=g-mNpS8V9v8 si trova il video integrale delle dichiarazioni di Napolitano. 35. «L’Italia fuori dall’euro? Non è una bestemmia», dichiarazione di Silvio Berlusconi, 20 giugno 2012. 36. http://www.cadoinpiedi.it/2011/11/15/monti_e_una_trappola.html. 37. http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&view=article&id=65 323:litalia-sottoamministrazione-controllata&catid=27&Itemid=133. 38. http://www.cadoinpiedi.it/2011/11/15/monti_e_una_trappola.html. 39. Janet Daley, This was the week that European democracy died. The plan to tackle the eurozone crisis will only render ordinary people more powerless, in «The Telegraph», 29 ottobre 2011. http://www.telegraph.co.uk/finance/financialcrisis/8857533/This-wasthe-week-that-Europeandemocracy-died.html. 40. Ibidem. 41. http://www.youtube.com/watch?v=VPD9d8BeTJc. 42. Non abbiamo prove di una sua affiliazione alla Skull and Bones, la celeberrima e potente società segreta, che dal 1832 ha sede presso quel prestigioso ateneo statunitense. 43. Tobin è noto per la sua proposta di tassazione sulle transazioni internazionali, denominata Tobin tax. 44. Epiphanius, Massoneria e sette segrete, Controcorrente, Napoli 2008, p. 143. Prima edizione 1990. 45. Come dimostrato in Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama, cit., Obama è membro della massoneria americana Prince Hall, loggia 459 Boston, con il 32° grado. 46. http://www.liberoquotidiano.it/news/876188/Auguri-massoni-a-Fratello-Monti-Cos%C3%AC-laLoggia-imbarazza-Mario.html. 47. http://affaritaliani.libero.it/ politica/la-massoneria-appoggia-monti251111.html. 48. http://www.danielestulin.com/wp-content/uploads/Comunicato-Stampa-Estulin-e-Borghezio.pdf. 49. Daniel Estulin, Il Club Bilderberg, Arianna editrice, Bologna 2007, p. 37. Titolo originale: The True Story of the Bilderberg Group, 2005, traduzione di Manuel Zanarini. 50. Ivi, p. 39. 51. Ivi, p. 40. 52. http://www.unita.it/italia/la-gaffe-di-monti-svela-br-biglietto-di-deputato-pd-1.353930? localLinksEnabled=false. 53. https://www.facebook.com/notes/enrico-letta/a-proposito-di-bilderberg/10151776431455411. 54. http://www.byoblu.com/post/2012/01/19/Linterrogazione-UE-contro-Mario-Monti-sul-Bilderberg-esulla-Trilaterale.aspx. 55. Ibidem. 56. Intervista di Maria Latella a Marine Le Pen, in «A», febbraio 2012. 57. L’8 settembre 2012 Pierferdinando Casini ha sottolineato, da Chianciano Terme, il sostegno dell’UDC a un Monti bis dichiarando: «Per noi, dopo Monti c’è solo Monti». http://www.tgcom24.mediaset.it/politica/articoli/1059452/casinicon-noi-chi-crede-a-europa.shtml. 58. Il documento è scaricabile in pdf presso il sito: http://www.pcgp.it/dati/2011-10/24999999/RIFORMA-MONETARIA-italiano.pdf. 59. Trad. ital., Cinisello Balsamo 1999. Sottotitolo La grande trappola per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità.
L’OMBELICO DEL NUOVO MONDO: USA O CINA? «Per la prima volta nei tempi, ogni cosa è pronta per la battaglia di Armageddon». (Ronald Reagan) «Soltanto una crisi – reale o percepita – produce un vero cambiamento […] finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile». (Milton Friedman1) «Il mondo è un luogo incasinato e qualcuno deve rimetterlo a posto». (Condoleeza Rice2) «Siamo al potere e nessuno potrà smentirlo. E in virtù di questo potere, noi rimarremo al potere»3. (Jack London, Il Tallone di ferro, 1908) «Il mondo è giunto ormai a un estremo! Se lo si fosse mostrato alle generazioni precedenti, avrebbero esclamato unanimi: l’Apocalisse!». (Vladimir Soloviev)
I Rothschild lasciano l’Europa Una “partnership strategica”: così è stato definito il nuovo accordo tra le due dinastie finanziarie più famose e potenti al mondo, Rothschild e Rockefeller. Il matrimonio è stato celebrato in contemporanea alla riunione 2012 del Gruppo Bilderberg, impedendo dunque a uno dei fondatori del Club, Rockefeller, di parteciparvi. Mentre in Italia, come ha fatto notare Blondet, la notizia dell’accordo è stata accolta quasi come una nota “di colore”, il «Financial Times» «in un’intervista in ginocchio a Lord Jacob Rothschild (“filantropo, mecenate”) almeno fa capire molto di più. La RIT Capital Partners – la holding finanziaria del vecchio Rothschild di Londra, un “trust d’investimento” da 1,9 miliardi di sterline – prende una quota del 37% della Rockefeller Financial Services, la holding d’investimento della storica dinastia americana del petrolio e delle banche: “I due gruppi collaboreranno in acquisizioni e fondi d’investimento terzi”. Il perché, si degna di spiegarlo Jacob Rothschild al (suo) giornale: “Gli Stati Uniti sono in vantaggio. Avere una forte presenza in USA è di estrema importanza”. Sono in vantaggio (has an edge) sulla vecchia Europa, naturalmente: gli USA, continua Jacob Rothschild, “hanno avuto la grandissima fortuna di quelle grandi risorse in scisti bituminosi e gas, e possono diventare la nuova Arabia Saudita dei prossimi cinquant’anni”. Perché il vecchio pensa che l’Europa non possa dare più molto all’alta finanza: “Sappiamo tutti che l’Europa attraverserà un periodo nero per i prossimi cinquedieci anni”. E diciamo pure venti o trenta».
La fusione delle due dinastie suscita anche il quesito su quale sarà il centro dell’impero finanziario e politico mondiale. In base a quanto confermato da Lord
Rothschild, il centro dovrebbe rimanere negli USA, scalzando così di fatto l’ormai vecchia city londinese: «I Rothschild, come l’astro che tutti ci illumina, tornano al punto di partenza, avendo completato la loro rivoluzione orbitale: uniscono la famiglia e da “europei” diventano globali facendosi “americani” perché l’America “has an edge”, un vantaggio in più rispetto alla vecchia Europa».
Anche per questo, i Rockefeller avrebbero evitato, nel 2012, di presenziare alla riunione del Gruppo Bilderberg. Esso, in quanto alleanza atlantica, «perde importanza: dopotutto, è un consesso “atlantico”, e la fusione Rothschild-Rockefeller ha già un piede in Cina. Non c’è più niente da guadagnare, dal vecchio continente. Del resto, lo lasciano nelle mani di persone fidate; non sono i più intellettualmente acuti – come Mario Monti, o Draghi, o gli eurocrati – ma devono solo gestire il declino storico del guscio ormai vuoto, badando che non nasca qualche “dittatura populista”».
Semmai, quindi, si dovrebbe cercare di prevedere se tale centro sia destinato a rimanere a Washington o piuttosto a trasferirsi in Cina. Per il “vecchio” mondo che rimane, «“The End is nigh”, la fine è vicina: così il sito ZeroHedge interpreta la storica fusione. Certo è che, loro, sono pronti ad affrontare il nuovo mondo, l’inimmaginabile mondo che resterà dalle macerie dell’Occidente, del suo capitalismo terminale suicida e perfino della finanza speculativa con la sua forza selvaggia, indomabile. Un mondo diverso da tutto quel che abbiamo conosciuto».
I motivi di questa preoccupazione sono stati elencati da Raoul Pal, un creatore di edge funds; in sintesi, egli ha previsto l’entrata dell’Occidente nella «seconda recessione nel corso dell’attuale depressione», con un effetto domino che dovrebbe trascinare una serie di Paesi alla bancarotta. Pal parla, perciò, di un “grande reset” che si starebbe per abbattere a livello globale e non esclude neppure il coinvolgimento della Cina e del Giappone in questo caos economico. Per questo Blondet conclude la sua arringa ironizzando: «Se sopravviverete, vedrete che i Rothschild e i Rockefeller saranno già lì ad attendervi. Più ricchi di prima». Il destino della Cina, però, non dovrebbe essere scontato perché non tutto è ancora stato scritto. In ogni caso, il confronto-scontro tra USA e Cina non può essere in alcun modo paragonato al tentativo di scalata delle Borse mondiali effettuato dal Giappone durante gli anni Ottanta e, proprio per questo, non dovrebbe essere sottovalutato. Come ricorda Federico Rampini, «la Cina ha il quadruplo della popolazione americana, una forza militare in aumento, una classe dirigente che rigetta i valori delle liberaldemocrazie occidentali. E per duemila anni è vissuta nella certezza di essere il vero centro del mondo».
Ma il centro di quale mondo? Quello “globale” a livello economico e politico secondo l’agenda degli architetti del NWO? Oppure, come predetto da Brzezinski, la Cina si alleerà con la Russia, per contrastare il piano di espansionismo mondialista di Washington?
Da che parte starà la Cina? Se nel dicembre 2007 il presidente Bush era dovuto intervenire per rassicurare gli americani nell’acquisizione cinese del 10% della Morgan Stanley, ora serpeggia il dubbio che l’inizio di quella scalata finanziaria abbia potuto celare altre strategie, persino il tentativo di un’alleanza con le lobby americane. Nel 2007, il terrore dell’invasione finanziaria cinese era palpabile: «Pochi giorni prima di entrare in Morgan Stanley, proprio il presidente della China Investment Corporation aveva lanciato un avvertimento minaccioso: “I governi occidentali non usino pretesti di sicurezza nazionale per fare del protezionismo o li boicotteremo”. Chi cerchi di frenare il rullo compressore degli investimenti cinesi ne pagherà le conseguenze. Non se lo può permettere, l’ America. Il fondo sovrano presieduto da Lou Jiwei è l’emanazione della banca centrale di Pechino, il più ricco creditore di Washington. A furia di deficit commerciali, gli Stati Uniti hanno consentito alla Repubblica popolare di accumulare 1500 miliardi di dollari di riserve valutarie. 800 di quei miliardi sono investiti in titoli del Tesoro USA: il finanziamento del debito pubblico americano dipende dagli eredi di Mao Zedong. Con questa ricchezza la Cina finanzia il suo espansionismo mondiale. Secondo Li Yang, direttore dell’Accademia cinese delle Scienze sociali, “il fondo sovrano gestirà la strategia delle risorse cinesi su scala globale”»4.
La Cina, infatti, non è solo, come ricorda Rampini, il maggior creditore degli USA, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per «l’assalto alle roccaforti del capitalismo USA»5. Nell’estate della bolla finanziaria6, la Repubblica popolare cinese ha infatti colto l’occasione per «una serie di blitz nei templi della finanza occidentale. In rapida successione, il fondo d’investimento Blackstone (maggio), la banca d’affari Bear Stearns e l’inglese Barclays (ottobre), e la Morgan Stanley (dicembre) devono accogliere come “salvatori” degli azionisti di Stato cinesi. Riprende anche l’assedio alle tecnologie avanzate. Il colosso delle telecomunicazioni Huawei – fondato anche quello da un militare – insidia la società 3Com. […] L’espansione si dispiega su tutti i continenti. Già alla fine del 2006, il Ministero del Commercio di Pechino censiva diecimila grandi imprese presenti con investimenti diretti in 160 Paesi7.
Si starebbe dunque avverando il timore espresso da Tremonti: «Uno dei criteri delle acquisizioni all’estero è accaparrarsi le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole. Canada e Australia, Brasile e Indonesia, tutti i grandi produttori di materie prime sono invasi da investitori cinesi. Emerge una visione geostrategica, la Repubblica popolare insidia zone d’influenza che appartenevano all’Occidente. […] Nell’espansionismo cinese c’è l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica»7.
Pechino blocca l’alleanza con i Rothschild L’espansionismo finanziario cinese si è spinto, nel 2008, fino a tentare l’acquisizione del 20% della Compagnie Financiere Edmond de Rothschild (LCFR) per 236,3 milioni di euro (US $ 340 milioni), dando così vita a un’attività di private banking e asset di gestione dei servizi8. L’operazione, che avrebbe richiesto al gruppo cinese un investimento pari a 2,2 miliardi di yuan (circa 236 milioni di euro), è stata accompagnata da un partenariato, che prevedeva la creazione, da parte della storica banca d’affari francese, di prodotti per il colosso asiatico, da distribuire sul mercato cinese9. L’accordo, siglato il 18 settembre a Parigi è stato però bloccato nell’aprile del 2009 dal governo cinese10, impedendo così alla Cie financiere de Rothschild, ramo francese della LCFR group guidato dal barone Benjamin de Rothschild e specializzato nella gestione di patrimoni e di attivi, di beneficiare dei canali distributivi della Bank of China: l’accordo avrebbe permesso ai banchieri di avere accesso ai 130 milioni di clienti cinesi. A gettare un ponte tra i banchieri angloamericani e le lobby italiane è stata invece la presenza di Carlo De Benedetti, presidente del gruppo Cir che da anni ha rapporti stretti con la famiglia dei Rothschild. Proprio De Benedetti era stato chiamato in causa da Tarpley come uno dei fautori dell’attacco speculativo ai mercati italiani, che, secondo lo storico americano, avrebbe causato il crollo del governo Berlusconi, reo, a suo dire – come abbiamo visto nel precedente capitolo – di rapporti preferenziali con la Russia e la Libia.
La Cina investe sul debito straniero Lo stesso Bill Clinton avrebbe dovuto ammettere, tre anni dopo, dal salotto di David Letterman, che la Cina è proprietaria del debito americano. La Cina starebbe investendo anche nel debito pubblico europeo: «Così, il Governo di Pechino ha previsto di creare due nuovi fondi di investimento per investire in Europa (il cosiddetto Hua Ou) e negli Stati Uniti (lo Hua Mei) con 223,5 miliardi di dollari gestiti dalla Banca popolare cinese, diretta da Zhou Xiaochuan. L’obiettivo di questa operazione è quello di fare uscire le riserve di valute internazionali della Banca centrale cinese, che ammontano a 2,4 trilioni di euro. L’assillo dei mercati per la credibilità del proprio debito ha spinto il Governo italiano a chiedere alla Cina “un acquisto significativo del proprio debito” […]. Le buone relazioni tra Spagna e Cina sono state confermate nell’aprile di quest’anno [2012; N.d.A.] quando Wen Jiabao, primo ministro cinese, ha asserito che continuerà a comprare il debito spagnolo. Ha poi parlato di una spesa di 9,300 miliardi di euro da parte di un fondo di investimento cinese in Spagna, una somma che è stata negata dalla China Investment Corporation. È comunque certo che la Cina possiede il 20% del debito spagnolo detenuto all’estero e che ha aperto una succursale della maggiore banca cinese e mondiale, la ICB, a Madrid. La Spagna, inoltre, può avvantaggiarsi dall’essere il Paese europeo che commercia maggiormente con l’America latina, luogo fondamentale per gli interessi della Cina»11.
Previsioni per il futuro Un documento di 54 pagine della Fondazione Rockefeller12, dal titolo Scenari per il futuro della tecnologia e dello sviluppo internazionale, pubblicato nel 2010 in pdf sul sito della Fondazione, delinea una situazione catastrofica per il prossimo ventennio. Stando alle stime del documento, lo scenario apocalittico previsto sembra assomigliare più alla distopia di 1984 di George Orwell che alla società immaginata da Aldous Huxley in Mondo Nuovo. A colpire il lettore è la cifra esorbitante di morti che attenderebbe l’umanità, a partire da una misteriosa pandemia, che sarebbe stata «anticipata da anni al mondo». Stando alle previsioni contenute nel documento, il contagio colpirà il «20% della popolazione, uccidendo almeno 8 milioni di persone in soli sette mesi». Proprio a causa di questa epidemia i popoli saranno costretti a cedere la propria sovranità a un governo più autoritario di stampo mondialista, il che comporterà un più stretto controllo su tutti gli aspetti della vita, incluso un chip biometrico ID (di identificazione) per tutti i cittadini, come già previsto, tra l’altro, dalla riforma sanitaria di Obama13 e confermato dal Congresso americano. Il tutto dovrebbe avere inizio con la crisi del settore terziario e il crollo del commercio e di tutte le attività pubbliche: negozi, uffici e sedi istituzionali saranno costretti a chiudere per mesi. Ovviamente, il virus si diffonderà con maggiore violenza in Africa, in Asia e in America centrale, Paese in cui i protocolli per il contenimento saranno meno efficaci, se non addirittura assenti. Unica eccezione, la Cina, il cui governo riuscirà a mettere in quarantena la popolazione instaurando un rigido controllo delle masse. Restrizioni simili verranno adottate anche da altri Paesi. Il regime di controllo di stampo orwelliano sfocerà nel 2025, anno in cui ormai non saranno più i cittadini a decidere democraticamente, ma i governanti per loro. Questo clima di totalitarismo causerà ovviamente numerosi contrasti e focolai di guerriglia in diversi Paesi. Il documento predice inoltre: «Gli anni dal 2010 al 2020 saranno definiti “Decennio della Distruzione”14 per diversi motivi: le bombe ai giochi olimpici del 2012 – che uccideranno 13.000 persone – saranno seguite subito dopo da un terremoto in Indonesia, che ne ucciderà 40.000, da uno tsunami che spazzerà via il Nicaragua, e dallo scoppio di una carestia nella Cina occidentale a causa di una siccità di quelle che capitano una volta in mille anni, dovuta ai cambiamenti climatici».
Si noti innanzitutto che le Olimpiadi di Londra non sono state cornice di
alcun attacco terroristico o sbarco alieno, come avevano invece paventato numerosi ricercatori. Alla vigilia dei Giochi si erano infatti diffuse notizie di imminenti catastrofi che si sarebbero abbattute su Londra, voci confermate dallo stesso Memorandum. Smentita l’uccisione di “13.000 persone” prevista dal documento, sorge spontaneo il dubbio che si possa trattare di un mezzo di disinformazione atto a spaventare o semplicemente confondere la popolazione con notizie del tutto fantasiose allegate a notizie veritiere.
La fine dei Tempi L’espressione Doom Decade, che viene utilizzata a pagina 34 del documento e che è stata tradotta dai siti italiani come “Decennio della Distruzione”, letteralmente, però, significa “Decade del Giudizio” e rimanda in tal modo ai toni apocalittici della dottrina religioso-occulta del mondialismo, che abbiamo analizzato nei primi capitoli di questo saggio. Ciò dovrebbe prospettare un intento di simulazione del testo, mirante forse a mischiare una forma di terrorismo psicologico, teso a condizionare e a impaurire le masse, con le aspettative stesse di coloro che si sono occupati di redigerlo. L’espressione Doom Decade potrebbe fare indirettamente riferimento al periodo di tribolazione, di cui si parla nell’Antico e nel Nuovo Testamento sotto nomi diversi: “il giorno del Signore” (Isaia 2, 1215; 13, 616; Gioele 1, 1517; 2, 1618; 3, 419; Tessalonicesi 5, 220); “angoscia”, “tribolazione” o “grande tribolazione” (Matteo 24, 2121)”, “il tempo dell’angoscia” (Daniele 12, 122) ecc.23, concetto questo, che viene ampiamente sviluppato nell’Apocalisse di Giovanni. I toni apocalittici rientrano infatti, come abbiamo visto, nella dottrina degli architetti del NWO, che attendono la seconda venuta di Cristo o, meglio, l’arrivo del Messia (qualunque esso sia, nella loro accezione). Ora, affinché ciò avvenga, si devono avverare le profezie contenute nei testi biblici: deve cioè compiersi un evento apocalittico, come previsto da Giovanni. Perché si realizzi questo “avvento”, si devono anche compiere i “segni” indicati dall’Apocalisse. In questo senso, si spiegano numerose anomalie altrimenti senza significato, come ad esempio la decisione di inserire un microchip sottocute nella mano destra e sulla fronte; perché proprio in questi due posti? Perché non nella mano sinistra o nel braccio? A parte la possibilità di agire a distanza, alterando il livello ormonale sulla popolazione inserendo un chip in fronte in prossimità dell’ipofisi – come già spiegato da numerosi ricercatori e scienziati – la scelta della mano destra si spiega ulteriormente, facendo proprio riferimento a uno dei passi più noti dell’Apocalisse di Giovanni:
«[la Bestia; N.d.A.] faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della Bestia o il numero del suo nome»24.
In tal modo, il chip diventerebbe il marchio descritto da Giovanni: non a caso, servirebbe non solo come identificativo dotato di GPS e dei dati personali, ma anche come sostituto della moneta. Presto, cioè, si effettueranno solo pagamenti e transazioni virtuali con l’uso di supporti telematici e chip appunto già previsti dall’Obamacare.
Tecnologia RFID25 A sostegno di questa interpretazione è l’ultimo prodotto dell’azienda leader di bioingegneria, la SOMARK26, che ha sviluppato un tatuaggio basato sulla tecnologia RFID con numeri e codici a barre, che dovrebbero sostituire il chip ed essere appunto inseriti sulla mano e sulla fronte, adempiendo così in toto quanto ammonta dalle Scritture. Il tatuaggio della SOMARK27 – testato a partire dal 2007 sui ratti – è invisibile, ma leggibile attraverso una strumentazione specifica28. L’applicazione avviene in meno di tre secondi e non reca problemi alla pelle29. Con esso, così come con il VERICHIP30, la popolazione potrà essere controllata in ogni suo movimento. Chip e tatuaggio possono contenere infatti dati personali, cartella clinica, coordinate bancarie ecc., oltre a un dispositivo di localizzazione GPS. Ora si deve però comprendere che non sono le Scritture a compiersi in modo deterministico, senza lasciar spazio al libero arbitrio, ma è un gruppo di “credenti” ad agire in modo che esse si compiano, senza neppure nascondere l’origine delle proprie intenzioni. Le interpretazioni “messianiche” o “apocalittiche” che si stanno diffondendo sul web rispecchiano soltanto la lettura originale del fenomeno, ovvero l’intenzione di queste lobby che, come abbiamo visto, mischiano teosofia e politica, tecnologia e messianismo per i loro scopi. Proseguendo, il documento della Fondazione Rockefeller sostiene che, alla volta del 2015, una larga parte delle Forze Armate USA sarà richiamata da Paesi quali l’Afghanistan per stabilirsi lungo i confini americani: i talebani, infatti, dovrebbero riacquistare potere. Il documento – che, ricordiamo, è stato redatto nel 2010 – annuncia che le nazioni perderanno progressivamente il potere sui propri bilanci a causa dei debiti – come sta accadendo ora – consegnando pertanto la propria sovranità finanziaria nelle mani dei tecnocrati; ciò sarebbe confermato, come abbiamo visto, dal MES, sottoscritto proprio dai Paesi aderenti all’UE. La Fondazione Rockefeller anticipa anche la crescente sfiducia nei vaccini, affermando che, a
causa della corruzione degli enti predisposti al loro controllo, dei vaccini adulterati porteranno a vere e proprie stragi di massa. Nel 2021, in Costa d’Avorio, almeno 600 bambini moriranno a causa di un vaccino contro l’epatite B; di conseguenza, un gran numero di genitori, in ogni parte del globo, preferirà non fare vaccinare i figli e questo farà salire la mortalità infantile a livelli mai visti dagli anni Settanta: «Nel contesto di un sistema sanitario indebolito, di corruzione e di disattesa degli standard – sia per cause interne alle nazioni che per colpa di istituzioni mondiali come l’OMS – nel sistema sanitario pubblico di numerose nazioni africane, entreranno dei vaccini avariati. Nel 2021, 600 bambini moriranno a causa di un vaccino per l’epatite B avariato, il che sembrerà nulla a confronto delle morti di massa che avverranno pochi anni dopo causate da un farmaco antimalarico avariato. Le morti, e gli scandali che ne deriveranno, mineranno la fiducia nelle vaccinazioni; i genitori – non solo in Africa, ma anche altrove – inizieranno a non far vaccinare i propri figli e non ci vorrà molto prima che i tassi di mortalità infantile e neonatale schizzino a livelli che non si vedevano più dagli anni Settanta».
Con il dilagare della tecnologia e delle biotecniche (quella degli OGM su tutte) in particolare, il mondo occidentale inizierà a precipitare nel caos, in una forma di feudalesimo, e la distanza fra ricchi e poveri raggiungerà livelli che non si vedevano da centinaia di anni, mentre la classe di mezzo, già falciata dalla crisi economica, si estinguerà. I ricchi si rifugeranno dentro strutture simili a fortezze, mentre i poveri si ritroveranno nei ghetti. Il documento prosegue preannunciando che, alla volta del 2030, non sarà più rilevante – né evidenziabile – la differenza fra nazioni sviluppate e nazioni in via di sviluppo.
Oltre le distopie del XIX secolo Il rapporto della Fondazione Rockefeller dipinge un quadro apocalittico, che supera di gran lunga le distopie immaginate da autori quali London, Huxley e Orwell. Se costoro hanno precorso i tempi prevedendo dei cambiamenti dei e una deriva totalitaria, che solo dopo decenni si sono imposti agli occhi dell’opinione pubblica, il Memorandum sembra volere destabilizzare coloro ai quali è rivolto, condizionandoli, attraverso il terrore, a ritenere che ciò che è stato previsto si possa realmente avverare, oppure, all’opposto, offrendo uno spaccato possibile sul futuro, ma in modo talmente surreale e asciutto nella narrazione da non poter essere preso sul serio. La manipolazione della realtà, come abbiamo visto, porta a fare bollare come bogus, fandonie, degli eventi reali e, al contrario, a scambiare per veritiere delle opere di condizionamento create ad hoc (false flag operation) per manipolare l’opinione pubblica o creare dei “traumi” in modo da garantire e giustificare
interventi politici o militari, che in altre situazioni non sarebbero mai accettati a livello internazionale. In questo gioco di fumo e di specchi, come lo definisce l’ex agente del KGB Daniel Estulin, emerge univoco l’intento dell’oligarchia di acquisire maggior potere attraverso degli “shock”, indotti ciclicamente per destabilizzare la popolazione, introdurre nuove strette sulla privacy attraverso misure coercitive e garantire il consenso a quello che gli stessi lobbisty definiscono un passo necessario per il futuro dell’umanità: la costituzione del Nuovo Ordine Mondiale. Ora, essendo entrati nel periodo che viene definito da numerosi ricercatori e dagli stessi autori del documento come il “Decennio della Distruzione” o “del Giudizio”, se si taglia il tono profetico che accompagna, come abbiamo visto, la nascita e lo sviluppo del mondialismo, rimane di fondo la battaglia meno epica già narrata da Jack London nel 1908 nel suo Il Tallone di ferro: la lotta continua, feroce, addirittura sanguinosa, tra l’oligarchia e il sottoproletariato urbano, che oggi potremmo identificare con quel 99% della popolazione a cui alludevano gli Indignados nei loro slogan. La forza di quel 99% sta proprio qui: nel numero. Brzezinski, in una riunione privata a Montreal del Club Bilderberg, invitò i colleghi lobbisty ad affrettare la costituzione del NWO proprio per questo, perché un numero sempre maggiore di persone stava acquisendo “consapevolezza” nei confronti dei meccanismi occulti dell’oligarchia, delle ingiustizie globali dello sfruttamento e della disuguaglianza: «Per la prima volta in tutta la storia umana, l’opinione pubblica si è politicamente risvegliata – questa è una nuova realtà globale»31. Affrettare però l’agenda del mondialismo potrebbe rivelarsi anche fatale, per gli architetti del NWO: una rapida accelerazione del progetto potrebbe svelare prima del previsto le trame occulte, spingendo proprio quel 99% della popolazione a ribellarsi, quando invece la costituzione del mondialismo necessita di “consenso”. Come recita l’immortale eroe rivoluzionario della distopia di London, Ernest Everhard, l’alzare il sipario sulle cospirazioni dell’oligarchia, per introdurre un sistema totalitario globale, potrebbe spingere quelle “masse” create proprio dall’élite a prendere coscienza e a ribellarsi alla propria condizione di passività, abbracciando attivamente il rifiuto democratico per i provvedimenti futuri, se non addirittura la rivoluzione: «Voi avete fallito nella vostra amministrazione, avete fatto scempio della modernità. Siete stati ciechi e ingordi. Vi siete alzati in piedi (come fate anche oggi) nelle vostre assemblee legislative, e senza alcuna vergogna avete dichiarato che era impossibile realizzare profitti senza il lavoro dei ragazzi e dei bambini.
[…] Avete cullato le vostre coscienze con le chiacchiere sui vostri cortesi ideali e sulla vostra amabile moralità. Siete satolli di potere e ricchezza, ubriachi di successo, ma contro di noi non avete più speranze di quante ne abbiano i fuchi, raggruppati intorno all’alveare, quando le api operaie si avventano contro di loro per porre fine alla loro comoda esistenza. Avete fallito nell’amministrare la società, e questo potere vi sarà strappato via. Un milione e mezzo di uomini della classe operaia affermano che presto tutti gli altri lavoratori si uniranno a loro per strapparvi il potere. Questa è la rivoluzione, miei cari dirigenti. Fermatela, se potete!»32.
NOTE 1. Economista, premio Nobel nel 1976, fondatore della scuola monetarista. È stato più volte definito l’anti Keynes, per il suo rifiuto verso qualsiasi intervento dello Stato nell’economia e il suo sostegno convinto a favore del libero mercato. Ha lavorato anche come consigliere del dittatore cileno Augusto Pinochet. 2. Dichiarazione di Condoleeza Rice a supporto della necessità degli USA di invadere l’Iraq, settembre 2002. 3. Queste parole sono messe in bocca da London a un esponente dell’oligarchia, tale Mr. Wickinson, in risposta a un intervento del rivoluzionario socialista Ernest Everhard, il protagonista de Il Tallone di ferro, di Jack London, cit., p. 88. Titolo originale: The Iron Heel, 1908, traduzione di Daniela Paladini. 4. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/ archivio/repubblica/2007/12/21/il-padrone-cinese-se-la-cinasi.html. 5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Ibidem. 8. http://www.chinadaily.com.cn/ business/2008-09/19/content_7041977.htm. L’accordo è stato siglato il 18 settembre 2008 a Parigi e poi ritirato su costrizione del governo cinese. 9. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/ repubblica/2008/09/20/bank-of-china-entra-inrothschild-de.html. 10. http://www.agichina24.it/notiziario-cina/notizie/200904021032-cro-rt11042-art.html. 11. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&s id=9648. 12. http://www.rockefellerfoundation.org/uploads/files/bba493f7-cc97-4da3-add6-3deb007cc719.pdf. 13. Sull’introduzione del microchip sottocutaneo, si veda: Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama, cit. 14. Doom Decade, letteralmente significa “Decade del Giudizio”. 15. «Poiché vi sarà un giorno del Signore degli eserciti […]». 16. «Urlate perché è vicino il giorno del Signore; esso viene come una devastazione da parte dell’Onnipotente […]». 17. «È infatti vicino il giorno del Signore e viene come uno sterminio dall’Onnipotente». 18. «Tremino tutti gli abitanti della regione, perché viene il giorno del Signore; per è vicino giorno di tenebra e caligine, giorno di nube e oscurità». 19. «Il sole cambierà in tenebre e la luna in sangue, prima che venga il giorno del Signore, grande e terribile». 20. «[…] voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore». 21. «Poiché vi sarà allora una tribolazione grande quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà». 22. «Vi sarà un tempo di angoscia, come non v’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo […]». 23. Si veda Leo Lyon Zagami, op. cit., vol. 2, pp. 66 e ss.
24. Ap 13, 16-17. 25. RFID (o Radio Frequency IDentification o Identificazione a radio frequenza) è una tecnologia per l’identificazione e/o la memorizzazione dati automatica di oggetti, animali o persone, basata sulla capacità di memorizzazione dei dati da parte di particolari dispositivi elettronici (detti tag o transponder) e sulla capacità di questi di rispondere all’”interrogazione” a distanza da parte di appositi apparati fissi o portatili chiamati per semplicità “lettori” (in realtà, sono anche “scrittori”) a radiofrequenza, comunicando (o aggiornando) le informazioni in essi contenute. 26. http://www.somarkinnovations.com/. 27. Il tatuaggio della Somark ha destato delle polemiche, perché ricorda i marchi sui prigionieri dei campi di concentramento nazisti. Invisibile a occhio umano, è simile al tatuaggio di cui è dotata l’intera umanità nel film di fantascienza del 2011 In time, di Andrew Niccol, con Justin Timberlake e Amanda Seyfried. 28. Si veda anche: http://www.soluzioni-applicazioni-rfid.it/. 29. http://www.marcovuyet.com/ALARMA%20MARCHI%204.htm. 30. VeriChip è l’unico chip RFID approvato dalla Food and Drug Administration, che può essere impiantato sulle persone. Commercializzato dalla PositiveID (ex VeriChip corporation), sussidiaria della Digital Angel Inc., ha ottenuto l’approvazione nel 2004. Possibili applicazioni del VeriChip riguardano il controllo di detenuti in libertà vigilata, di pazienti psichiatrici, di immigrati clandestini e di cittadini senza fissa dimora. 31. Si veda Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama, cit. 32. Jack London, op. cit., p. 83.
Appendice1 Intervista al Maestro Venerabile emerito Gioele Magaldi, leader di Grande Oriente Democratico: intervista rilasciata a Enrica Perucchietti il 2 luglio 2012. D: Lei è stato il primo a rivelare la presunta affiliazione di Monti alla massoneria all’indomani della carica attribuitagli da Napolitano, rispondendo virtualmente a Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, che un paio di giorni prima aveva cercato di liquidare le teorie che accreditavano cospirazioni massoniche dietro la salita al potere del nuovo governo. Perché ha deciso di parlare pubblicamente di questi temi? R: In realtà, non fui io personalmente a rivelare per primo la (non presunta, ma certissima) affiliazione di Mario Monti alla massoneria, bensì un articolo redazionale del 22 novembre 2011, pubblicato sul sito ufficiale di Grande Oriente Democratico (www.grandeoriente-democratico.com ), movimento massonico d’opinione che ho contribuito a fondare. L’articolo redazionale in questione, tuttora consultabile, era intitolato Grande Oriente Democratico ricorda al Fratello Monti che ora ha ricevuto anche l’avallo del Fratello Obama per contrattare in Europa EUROBOND, un nuovo ruolo della BCE, una trasformazione politica della UE. Sul pellegrinaggio europeo tra Bruxelles e Strasburgo si gioca la credibilità e il futuro del Governo Monti, oltre che la possibilità di uno storico rilancio dell’Italia per contribuire a costituire gli Stati Uniti d’Europa. In seguito, tra 23 e 24 novembre, la notizia fu rilanciata da diversi organi mediatici (il quotidiano “Libero” in prima pagina, Dagospia, il TG7 con un ampio servizio, rassegne stampa italiane ed internazionali, etc.). Infine, intervistato sulla questione il 25 novembre 2012 da Radio 24, il sottoscritto confermava direttamente la duplice appartenenza di Mario Monti alla Libera Muratoria, accennando ad una primitiva iniziazione inglese (perfezionata nella cosiddetta “Massoneria del Marchio”), cui aveva poi fatto seguito la cooptazione in un consesso massonico sovra-nazionale (anglo-franco-belga) molto elitario, trasversale a diverse Obbedienze latomistiche nazionali. Naturalmente, sia il sottoscritto che i Fratelli di G.O.D. hanno deciso di parlare
pubblicamente di questi temi coerentemente con un’opera ormai pluriennale di pedagogia storico-ermeneutica sul passato e sul presente della Libera Muratoria italiana ed internazionale. Per quel che concerne l’esatta tempistica dei nostri interventi, è evidente che, di fronte alle consuete dissimulazioni mistificatorie di Gustavo Raffi e dei suoi cortigiani (ma anche di altri soggetti individuali e collettivi interessati a turbare una corretta informazione su questi argomenti), Grande Oriente Democratico non può che tentare di restituire acribia e rigore al dibattito mediatico che interessa la pubblica opinione. D: Dopo il Suo intervento, ad Affaritaliani.it è intervenuto nuovamente Raffi, che ha cercato di “liquidare” la Sua missiva come segue: «Sono convinto che certi personaggi si sveglino la mattina in cerca di notorietà. Non bisogna dare corda a questo individuo, che tra l’altro è stato espulso dal Grande Oriente. Cui prodest? Solo a Magaldi che è in cerca di visibilità. Come diceva Troisi: non ci resta che piangere2». Che cosa risponde? R: In effetti, sembra di assistere, da parte di Raffi, ad una sorta di proiezione psicoanalitica di natura freudiana. E’ proprio Gustavo Raffi, sublime ciambellano della mistificazione retorica finalizzata alla notorietà spicciola e alla dissimulazione degli affarismi e dei neo-piduismi da lui stesso coltivati all’interno del Grande Oriente d’Italia (GOI), il campione di un uso spregiudicato, cinico e falsificatorio dei mezzi di comunicazione. Grande Oriente Democratico (GOD), che ora raccoglie simpatie presso tutto il network massonico progressista internazionale, è nato originariamente come movimento massonico d’opinione interno al GOI proprio con la finalità di denunciare e combattere la fasulla retorica raffiana (intonata alla finta trasparenza e ad un ancor più fasullo e inesistente rinnovamento in senso libertario e democratico di Palazzo Giustiniani), comoda e spregiudicata foglia di fico impegnata a coprire autoritarismi interni, intrallazzi e giochi di potere inconfessabili. Prova provata del carattere truffaldino, ambiguo e omissivo delle dichiarazioni raffiane, il riferimento alla presunta espulsione del sottoscritto dal GOI. La Corte Centrale di Palazzo Giustiniani, sulla base di presunti reati di opinione e di libera espressione del dissenso, ha comminato- novello Tribunale Inquisitorio massonico- l’espulsione al sottoscritto (dopo che svariati provvedimenti censori e inquisitori analoghi erano stati annullati dai Tribunali civili della Repubblica), ma la questione è attualmente pendente presso il Tribunale civile di Roma, dove siedono giudici di ben altra stoffa e onestà intellettuale di quelli della Corte Centrale GOI.
Inoltre, posso ben dire di non coltivare alcun interesse alla notorietà mediatica per la mia persona, ma di impegnarmi con tutti i simpatizzanti di Grande Oriente Democratico per rendere edotta l’opinione pubblica delle nostre battaglie per una rigenerazione complessiva del GOI e della massoneria italiana e internazionale tutta. Esattamente il contrario del comportamento di Gustavo Raffi, il quale piega e strumentalizza quotidianamente ogni questione civile e culturale di pertinenza massonica per promuovere la propria vacua e insignificante personalità, il proprio infecondo e ingombrante narcisismo. Diceva bene Troisi (in coppia con Benigni): non ci resta che piangere! E a piangere, in verità, sono tutti quei massoni e/o cittadini profani della penisola che si aspettavano proprio da Gustavo Raffi un significativo contributo per il rinnovamento della più grande Comunione libero-muratoria italiana (il GOI). Un sogno di rinnovamento utile per tutta la nazione (per i benefici immensi che una Massoneria autorevole, trasparente e impegnata socialmente con incisività potrebbe arrecare al comune tessuto civile della collettività) che, invece, nelle mani subdole e ciniche di Raffi, nell’arco di quasi un quindicennio si è trasformato in un incubo di malaffare e neo-piduismo. Neo-piduismo ancora più grave del piduismo classico, in quanto abilmente dissimulato dalla retorica bonacciona e pseudo-risorgimentale del Gran Maestro di Bagnacavallo. D: Alcuni ricercatori e giornalisti di controinformazione sostengono che vi sia stato un attacco speculativo contro l’Italia la scorsa estate per far crollare il governo Berlusconi e far insediare il tecnogoverno Monti. A sostegno di ciò Webster Tarpley ricorda la cena cospiratoria che si tenne l’8 febbraio 2010 nella sede di una piccola banca d’affari specializzata, la Monness Crespi and Hardt, come rivelato dal “Wall Street Journal”: «In quell’occasione si cercavano strategie per evitare un’ondata di vendite di dollari da parte delle banche centrali ed il conseguente crollo del dollaro. L’unica maniera per rafforzare il biglietto verde passava attraverso un attacco all’euro». Lei che cosa ne pensa? R: Bisogna distinguere le questioni che lei pone nella sua domanda. E’ verissimo che la scorsa estate 2011 c’è stato un attacco speculativo (preparato da tempo) contro l’Italia per far definitivamente crollare il governo Berlusconi (già lavorato ai fianchi da mesi) e far insediare il “tecnogoverno Monti”, come lei lo definisce. Di come e perché ciò sia avvenuto parlo, tra le tante cose, fornendone testimonianza documentale, nel mio libro di imminente uscita MASSONI.
Società a responsabilità illimitata. Il Back-Office del Potere come non è stato mai raccontato. Le radici profonde e le ragioni inconfessabili della crisi economica e politica occidentale del XXI secolo, Chiarelettere Editore. In questa sede posso tuttavia anticipare che non si è trattato né di una cospirazione a favore del dollaro e ai danni dell’euro, né di una qualche artificiosa contrapposizione tra interessi statunitensi ed europei. Piuttosto, il golpe bianco che ha imposto Mario Monti al governo dell’Italia, Lucas Papademos come premier greco e una serie di direttive recessive e depressive a fondamento della politica suicida della UE nell’ultimo anno, va rintracciato in un preciso progetto di natura politica prima che economica, partorito in riservate sedi sovranazionali euro-atlantiche. Mi riferisco ad ambienti massonici e paramassonici di estrazione reazionaria e conservatrice e di straordinaria influenza in ambito finanziario, politico e mediatico, il cui obiettivo di breve e medio termine è la cinesizzazione dei popoli europei (ridotti ad una massa di lavoratori a buon mercato abbrutiti e disinteressati della res publica), da conseguire mediante: aumento della disoccupazione e conseguente diminuzione del costo della manodopera e logoramento dei diritti dei lavoratori; destrutturazione/proletarizzazione della classe media e schiavizzazione della classe proletaria; acquisto a prezzi stracciati di beni e aziende pubbliche e private degli stati in presunta crisi da debito sovrano; commissariamento tecnocratico dei paesi del Sud Europa prima e di tutti gli altri in seguito; distruzione progressiva del welfare state europeo; tagli drastici alla spesa pubblica e riduzione dello Stato a quella condizione minima descritta dal primo Robert Nozick. Ma questo è soltanto l’obiettivo di breve e medio periodo. Sul lungo periodo, invece, il progetto prevede scientemente una involuzione oligarchica, anti-democratica, illiberale e tecnocratica della governance di tutte e ciascuna delle singole nazioni europee, che si vorrebbero dominate in futuro da una nuova aristocrazia spirituale e finanziaria sovra-nazionale, di cui i politici tradizionali rappresenterebbero poco più che una coorte di servitori in livrea. Esattamente il contrario di quegli Stati Uniti d’Europa (legittimati democraticamente con un costante rendiconto politico-parlamentare da offrire alla sovranità popolare, cui siano costrette le singole istituzioni esecutive della UE) per i quali ci battiamo tanto noi del movimento massonico d’opinione Grande Oriente Democratico, quanto le cittadine e i cittadini del movimento politico meta-partitico “Democrazia Radical Popolare” (sito ufficiale: www.democraziaradicalpopolare.it ), che ho egualmente l’onore e il piacere di presiedere e coordinare. D: Ritiene che ci sia un conflitto di interessi per il coinvolgimento del Premier
in think tank del tipo Club Bilderberg, Commissione Trilaterale, etc., oppure il suo ruolo di primo piano a livello internazionale potrebbe essere un punto di forza per il nostro Paese? R: Vorrei essere chiaro sul punto, e forse lo sarò ancora di più nel citato libro che sto ultimando in questi ultimi giorni, MASSONI. Società a responsabilità illimitata. Il problema non sono think tank come il Club Bilderberg, la Trilateral Commission -cui si potrebbero aggiungere il Council on Foreign Relations, il Royal Institute of International Affairs/Chatam House e altre associazioni mondialiste consimili-. In queste istituzioni di natura para-massonica, infatti, brulicano individui e sottogruppi (specie massonici, ma anche di estrazione profana) di diverso orientamento strategico sul piano politico ed economico. E’ pertanto illusorio e fuorviante (come spesso viene fatto con eccessiva semplificazione complottistica/cospirazionista) attribuire a tali consessi una progettazione coesa e univoca in grado di condizionare la macropolitica e la macroeconomia. Si tratta, in questo caso, di grandi ed eterogenee lobbies globali che non sono tuttavia in grado, in quanto tali, di darsi una direzione coerente e condivisa. D’altra parte, all’interno di queste associazioni operano anche individui appartenenti a più ristretti e occulti cenacoli (specificamente massonici) che hanno i mezzi materiali e la omogeneità ideologica e filosofico-spirituale per condizionare in modo coerente e pianificato determinati eventi di rilevanza internazionale. Nello specifico di Mario Monti (fino a poco tempo fa chairman europeo della Trilateral Commission e tradizionalmente membro del Bilderberg Group), abbiamo a che fare con un soggetto pienamente coinvolto in quei progetti massonici (reazionari) di involuzione oligarchica e tecnocratica dell’Europa e dell’Occidente cui accennavo sopra. C’è stato un momento (fine novembre/inizi dicembre 2011) in cui sembrava che sia il Fratello Monti che il Fratello Mario Draghi (personaggio anch’egli molto influente dell’establishment massonico sovranazionale anti-democratico di cui sto parlando) fossero pronti a tradire la causa (per varie ragioni complesse che mi riservo di spiegare altrove) dei loro originari mandanti oligarchi e conservatori, e fossero disponibili ad allearsi a quegli spezzoni di Massoneria progressista e democratica di cui, pur con qualche mediocrità e contraddizione, Barack Obama e François Hollande sono epifenomeni in servizio attivo. Ma, in definitiva, per come si sono messe le cose, appare evidente che il ruolo di primo piano di Mario Monti sullo scenario internazionale non è stato di alcun aiuto per le sorti italiche, visto che il nostro Paese – al pari di altre nazioni europee- sta sprofondando ogni giorno di più in una recessione devastante foriera di una successiva ed epocale depressione
europea ed occidentale al cui confronto quella dei primi anni Trenta del Novecento sembrerà essere stata una passeggiata di salute. D: Siamo a inizi luglio 2012, che idea si è fatto del Governo Monti? R: In continuità con la risposta alla precedente domanda, voglio dire con chiarezza e fermezza che l’attuale governo Monti (composto di diversi massoni non sgraditi anche in Vaticano e di uomini comunque vicini alle diverse anime della curia romana) annovera al suo interno persino personaggi in (stolta) buona fede che credono sinceramente (e alquanto ingenuamente) di ben operare al servizio dell’Italia. Il problema è proprio nel presidente del consiglio, Fratello Monti, e in alcuni suoi fidati e più stretti collaboratori fraterni, i quali, scientemente, volontariamente e con grande abilità dissimulatoria, stanno mandando l’Italia a picco con politiche (alta tassazione, aumento dell’iva, tagli alla spesa pubblica, dismissione imminente di aziende, servizi e beni dello stato, etc.) che sono l’esatto contrario di quello che servirebbe al rilancio economico della nazione. Il paradosso diabolico e allucinante è che Monti & Fratres/Sorores (da Roma a Francoforte, passando per Berlino, Bruxelles, la City di Londra e altre piazze) sanno benissimo di aver imboccato un tunnel auto-distruttivo e recessivo/depressivo. Questo era il loro obiettivo sin dall’inizio, da mascherare con il conforto di raffinate strategie mediatiche manipolatorie e terrorizzanti per l’opinione pubblica (mamma lo spread…attenti, altrimenti finiamo come la Grecia, etc.). E sono persino stupiti della generale stupidità e dabbenaggine del circuito politico-mediatico italiota (e non solo italiota) mainstream (fino a pochi giorni fa ormai anch’esso disilluso sulle capacità di azione del sedicente governo tecnico montiano), il quale, dopo l’inconcludente sceneggiata del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012 a Bruxelles, si è bevuto la panzana che Mario Monti avesse messo a segno chissà quale vittoria tattica a dispetto di Angela Merkel (principale corifea europea dei cenacoli massonici reazionari di cui sopra) e in favore dell’avvenire del popolo italiano ed europeo. I prossimi giorni e le prossime settimane dell’estate e dell’autunno 2012 si incaricheranno di smentire questa ennesima grande mistificazione ai danni dei cittadini della penisola e dell’intero vecchio continente. Ma ormai sarà troppo tardi per sfiduciare in Italia il governo Monti, che avrà avuto modo di mettere impunemente in atto altre politiche recessive (a partire dalla cosiddetta spending review) o vantaggiose per amici e amici degli amici (privatizzazione di servizi pubblici, dismissioni di aziende e beni pubblici, etc.) e nemiche dell’interesse
collettivo, per di più facendo perdere tempo prezioso ad una reale e lucida controffensiva contro la crisi e in favore della ripresa, sempre annunciata e mai concretizzata. Nel frattempo, sperano Monti, Draghi, Merkel, Schaeuble, Van Rompuy e molti altri meno noti ma non meno influenti che lavorano a distruggere la prosperità europea, magari Hollande si rammollirà del tutto facendosi cooptare nel gruppo di guastatori occulti i quali guastano anche semplicemente rimanendo inerti (che fine ha fatto la baldanzosa proposta degli Eurobond?) e magari Mitt Romney sconfiggerà Barack Obama (reduce da un quadriennio molto modesto e solo tardivamente più battagliero e consapevole), mettendo per altri quattro anni una pietra tombale rispetto a qualunque efficace reazione dei circuiti massonici progressisti contro i progetti di involuzione oligarchica pianificati da qualche decennio da parte dei fratelli più reazionari ed elitari. La verità è che, sul breve, medio e lungo periodo, l’unica speranza realistica per i popoli occidentali è l’emersione (negli USA o in Europa) di personaggi dello spessore del Massone Franklin Delano Roosevelt, i quali possano mettersi alla guida della Libera Muratoria democratica e libertaria e respingere questo ennesimo attacco alle conquiste di civiltà, benessere e sovranità popolare maturati faticosamente attraverso gli ultimi due secoli e mezzo e difesi dalla barbarie nazi-fascista, sovietica e integralista/tradizionalista (di matrice sia cristiana che islamica) proprio grazie al coraggio e all’impegno dei Massoni progressisti. Servono personaggi dello spessore del Massone F.D. Roosevelt e occorre un grande progetto economico-sociale come il NEW DEAL, congruente con le dottrine di quell’altro grande Massone progressista che fu John Maynard Keynes. Servono personaggi come il Massone progressista Harry Truman, il quale, in continuità con il suo predecessore e Fratello Roosevelt, di concerto con il Massone progressista George Marshall, diede vita in Europa, nel Secondo Dopoguerra, allo European Recovery Program, volgarmente noto come Marshall Plane. Servono, proprio per mantenere in vita la cosiddetta classe media (nucleo di qualsivoglia sistema democratico) e assicurare dignità e sicurezza ai ceti più disagiati, politiche economiche di stampo keynesiano, anche radicale, come ad esempio nella versione della Modern Money Theory (MMT) propugnata da esperti di fama mondiale come James Galbraith, L. Randall Wray, Warren Mosler, Alain Parguez, Stephanie Kelton, Marshall Auerback, Micheal Hudson, Pavlina Tcherneva, William Black, etc.
Serve un nuovo, grande paradigma insieme politico ed economico mondiale, che metta al primo posto la tenuta della democrazia liberale e l’espansione globalizzata della giustizia sociale e dello stato di diritto, in luogo di caratterizzare la globalizzazione soltanto come libera e anarchica diffusione deregolata di merci e capitali. Si alla libera economia di mercato, contro nuovi mercantilismi e protezionismi, ma che essa sia accompagnata dalla globalizzazione di diritti sindacali, politici e culturali tipici delle società più avanzate. No al paradigma fideistico e irrazionale del neoliberismo, sempre più somigliante ad una torva, intollerante e intransigente teologia dogmatica d’altri tempi. I Fratelli di Grande Oriente Democratico e il network latomistico internazionale (progressista) di cui GOD costituisce parte attiva non si tireranno indietro in questa battaglia cruciale per i destini non soltanto dell’Italia e dell’Europa, ma di tutta la civiltà planetaria, senza dimenticare che stato di diritto e democrazia liberale abitano soltanto in Occidente, come un’anomalia storica potenzialmente espansiva e di cui andar fieri, mentre ovunque, nel Mondo, imperano e perdurano da secoli regimi ierocratici, oligarchici e/o comunque autoritari (i quali, pur avendo cambiato più volte maschera e giustificazione ideologica, conservano attraverso apparenti mutazioni il loro nocciolo duro dispotico, ferocemente gerarchico e anti-democratico). Come cittadino dell’ecumene globalizzata contemporanea, in conclusione, mi auguro che anche la post-modernità possa trovare nella Massoneria di tradizione democratica e liberal-socialista quella straordinaria avanguardia meta-politica, civile e culturale che sconfisse in Occidente l’Ancien Règime, edificando progressivamente la cosiddetta Società Aperta, laica, secolarizzata (ma non despiritualizzata), pluralista, equa e tollerante. Una Società ispirata al classico trinomio massonico LIBERTA’, FRATELLANZA, UGUAGLIANZA3. 1
L’editore e gli autori declinano ogni responsabilità in merito alle dichiarazioni rilasciate dal Maestro Venerabile emerito Gioele Magaldi. 2 http://affaritaliani.libero.it/politica/la-massoneria-appoggia-monti251111.html 3 Maestro Venerabile emerito Gioele Magaldi, leader di Grande Oriente Democratico: intervista rilasciata a Enrica Perucchietti il 2 luglio 2012.
Gli autori Enrica Perucchietti vive e lavora a Torino come giornalista e scrittrice. Laureata col massimo dei voti in Filosofia, seguendo un indirizzo esotericoreligioso, abbandona la carriera universitaria per diventare giornalista televisiva. Divenuta presto un volto noto nel panorama del Nord Italia, si mette in luce come presentatrice di programmi di politica, sport e attualità. Gianluca Marletta, vive e lavora a Roma come professore di Lettere e studioso di antropologia. E’ autore di numerosi saggi di successo: Il Neospiritualismo L’altra faccia della modernità, La riscoperta del Graal, Apocalissi, Extraterrestri e Quando accadranno queste cose?
Enrica Perucchietti - Gianluca Marletta
Governo Globale Che cosa si cela dietro il rischio di crollo dell’Eurozona, la cosiddetta “Primavera Araba”, l’uccisione di Osama bin Laden, la guerra in Libia, i cablogrammi di Wikileaks, l’attentato di Oslo e Utoja e l’insediamento del governo Monti? Che cosa lega l’omicidio di John Kennedy all’assassinio di Olof Palme? Come fanno eventi in apparenza così diversi e distanti ad avere un’origine comune? In questo saggio si svela per la prima volta in modo chiaro, completo e documentato, la storia segreta del Nuovo Ordine Mondiale, dalle sue origini a oggi: la genesi, l’ideologia e le tappe storiche, dalle origini della modernità all’attuale sfida militare che vede come terreno di battaglia il Medio Oriente. Chi ha coniato il termine e chi perpetua in segreto il disegno di instaurazione di un governo globale? Quali interessi si nascondono dietro questo progetto? Che ruolo hanno i membri di affiliazioni e gruppi occulti che riuniscono i protagonisti della vita politica, economica e finanziaria globali? Quale disegno si nasconde dietro la diffusione della tossicodipendenza di massa, fenomeni inquietanti e criminali come il satanismo, certi movimenti “culturali”, o di “controcultura”, come la “rivoluzione” psichedelica? In questo gioco di equilibri, quale obiettivo nasconde il progetto di instaurazione di un Governo Globale che lungo il suo cammino assoggetta i Popoli, fa cadere nazioni e governi come pedine di un complesso domino di cui non si riesce a vedere il disegno complessivo?