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Italian Pages 249 Year 2007
Copyright © 2007 EGEA Università Bocconi Editore Copertina: mStudio, Milano Impaginazione: Imagine, Trezzo sull’Adda (Mi) Tutti i diritti riservati. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da: AIDRO - Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’Ingegno, Corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano [email protected] - www.aidro.org
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Prima edizione: settembre 2007 ISBN 978-88-8350-180-1 Stampa: Mediascan, Milano
Indice
Introduzione 1. Le difficoltà dell’azione collettiva Le interdipendenze indivisibili L’azione collettiva Il dilemma del cooperatore Quando il dilemma cambia forma Coercizione, sanzioni e metanorme Gli incentivi selettivi Appendice. La validità del dilemma del cooperatore Primo approfondimento. Una semplice formalizzazione del dilemma del cooperatore Secondo approfondimento. Implicazioni strategiche di scenari alternativi per l’azione collettiva 2. Beni privati di rete e beni pubblici specifici I beni privati di rete Le reti economiche Le reti sociali I beni pubblici specifici
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Un esempio: il formarsi della chiesa cristiana universale Terzo approfondimento. Benefici privati, beni pubblici specifici e beni pubblici universali 3. Perché votiamo? Perché c’indignamo? La scelta ragionata tra azioni, credenze, identità Perché si vota? L’indignazione e le norme universalistiche The social conflict view Tiriamo le fila 4. «Agire insieme» o «collaborare insieme»? L’opportunismo La disuguaglianza tra gruppi Le attività di coordinamento Il paradosso del potere Quarto approfondimento. Le interazioni miste conflitto-cooperazione e il «paradosso del potere» 5. Le minoranze attive Il dilemma della minoranza attiva Sul concetto di sviluppo Il mutamento della rappresentazione sociale Gettare ponti tra gruppi Sui «conflitti irrisolvibili» Sul concetto di pace 6. Le debolezze delle organizzazioni formali Un’unica spiegazione della crescita e della democrazia?
indice
Dalle minoranze organizzate alle organizzazioni formali Meccanismi d’indebolimento endogeno Meccanismi di rivalità con altre organizzazioni 7.
Dall’azione collettiva alla partecipazione politica I due significati di «politico» Le forme del conflitto politico Costituzione formale e Costituzione materiale I conflitti extraistituzionali Le istituzioni extraelettorali del contropotere In sintesi
Conclusioni Riferimenti bibliografici
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Introduzione Presso i popoli democratici tutti i cittadini sono indipendenti e deboli, non possono quasi nulla da soli e nessuno di loro può obbligare gli altri a prestargli aiuto. Quindi, se non imparano ad aiutarsi liberamente, cadono tutti nell’impotenza. Alexis de Tocqueville [1835-40, 2: 524]
Procediamo a un esperimento intellettuale. L’esercito guidato dagli Stati Uniti invade l’Iraq nella notte tra il 19 e il 20 marzo 2003. In circa tre settimane, incontrando una ridotta opposizione da parte delle forze militari di Saddam Hussein, entra a Baghdad. Il regime autocratico viene spazzato via e inizia il dopoguerra. Abbiamo da una parte venticinque milioni di iraqueni – divisi in etnie, ma eredi tutti di una comune antichissima civiltà – e dall’altra qualche centinaio di migliaia di occupanti. Tra gli iraqueni emerge una leadership nonviolenta, sotto la guida di un Gandhi arabo. La strategia politica adottata s’incentra sulla disobbedienza civile. Nessuno collabora con gli invasori, che sono ringraziati per avere abbattuto una tirannia crudele, ma che vengono fermamente invitati a lasciare subito l’Iraq agli iraqueni. Né il governatore americano, né il quisling che lo asseconda, ottengono alcun consenso popolare. L’apparato amministrativo e poliziesco sono alla paralisi. Gli affaristi stranieri giunti per concludere lucrosi affari incontrano intralci continui. I mercenari di supporto servono a ben poco e nessuno li paga più. I soldati americani s’imbattono in crescenti difficoltà
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logistiche e di rifornimento, mentre la loro attività consiste nel percorrere e presidiare un territorio che non controllano e tantomeno governano. Se qualcuno di loro spara per essere obbedito, i giornalisti indipendenti e gli attivisti del movimento ne danno conto all’opinione pubblica mondiale, documentando la gratuità dello spargimento di sangue. Dopo alcune settimane durante cui viene ostentatamente snobbato, Gandhi viene ricevuto dal governatore Paul Bremer, al quale illustra le condizioni di reciproca convenienza. All’Iraq importa decidere il proprio regime politico e le modalità del processo di ricostruzione socioeconomica. L’esercito occupante deve pertanto lasciare il paese entro tre mesi. In cambio si accettano volentieri businessmen, scienziati, cooperanti e giornalisti dal mondo occidentale. Soprattutto, ci s’impegna per i primi tre anni ad assegnare il 50 per cento dei contratti concernenti la ricostruzione a esponenti dei paesi che hanno sconfitto Hussein. Bremer accetta. Le truppe della «coalizione dei volenterosi» lasciano la terra iraquena nell’autunno del 2003. È importante chiedersi perché questo racconto è una favola. Accanto ad altri aspetti che qui trascuriamo [si rinvia a Bellanca 2005, cap. 22], l’ostacolo di gran lunga maggiore discende dall’idea che il gruppo – i venticinque milioni di iraqueni – riesca a pensare e agire «come un sol uomo», disponendo così di un’immensa capacità di pressione. Ciò in generale non accade, poiché, come notava drasticamente già David Hume [1740, 570], «è molto difficile e in realtà impossibile che [finanche] un migliaio di persone possano accordarsi su una intrapresa [comune], essendo arduo concertare un disegno complicato e ancora più arduo eseguirlo; mentre ciascuno cerca un pretesto per esimersi dal fastidio e dalla spesa e cerca di caricare l’intero one-
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re sugli altri». La cooperazione non è scontata quando genera vantaggi per tutti indipendentemente dal contributo di ciascuno. La logica dell’azione collettiva si propone di individuare sotto quali condizioni un gruppo sociale può operare per uno scopo comune, collaborando oppure competendo con altri gruppi. Questa logica è dunque una chiave importante per l’analisi realistica dei rapporti di potere nel mondo contemporaneo. L’approccio suggerito dall’analisi economica tende a semplificarla all’estremo: soggetti omogenei e informati operano con preferenze date e razionalità strumentale. Nella letteratura sociologica, specialmente in quella dedicata ai movimenti sociali, si enfatizzano invece gli aspetti riconducibili ai valori, alle norme e soprattutto alle identità di coloro che s’impegnano assieme1. I due filoni d’indagine dell’azione collettiva si sono notevolmente raffinati, rimanendo tuttavia reciprocamente separati2. In questo saggio elaboreremo una proposta organica di sintesi. Non procederemo, come sovente avviene, affiancando la solidarietà ai calcoli economici, gli incentivi morali a quelli materiali, individui prosociali a quelli egoisti, minoranze attive a maggioranze abuliche, casi speciali in cui la cooperazione affiora alle tante circostanze in cui s’inceppa. Proveremo piuttosto ad articolare modelli di azione collettiva nei quali la ricerca del personale miglioramento e quella della sociabilità, delle ragioni
1. Il paradigma della rational choice ha tra i suoi esponenti Mancur Olson, Russell Hardin e Todd Sandler, mentre quello identity-oriented annovera tra gli altri Alessandro Pizzorno, Alain Touraine e Alberto Melucci. 2. I volumi di Sandler [2004, capp. 2 e 3] e di Snow-Soule-Kriesi [2004] costituiscono fra le migliori rassegne, l’una sul versante degli economisti, l’altra sul versante della teoria sociologica. Basta scorrere queste sintesi, per rendersi conto di quante proposte di soluzione siano state avanzate. È una varietà che compone un ricchissimo repertorio di riflessione intellettuale, ma che, nel contempo, conferma quanto poco le linee d’indagine comunichino e s’influenzino l’una con l’altra.
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di guadagno e di quelle espressive, stiano insieme fin dall’inizio e rispondano agli stessi processi socio-economici. Lungo quest’impostazione, esamineremo come e perché può avviarsi un’iniziativa collettiva in gruppi ampi provvisti di mezzi (capitoli primo, secondo e terzo) e in gruppi ampi divisi da disuguaglianze e poveri di risorse (capitolo quarto); come e perché gruppi ristretti possano intraprendere l’organizzazione di gruppi maggiori (capitolo quinto) e la debolezza endogena che possono talvolta manifestare gli stessi gruppi ristretti ricchi di capacità organizzative e di risorse (capitolo sesto). Ci volgeremo infine al passaggio dall’azione collettiva alla partecipazione politica: uno snodo decisivo, perché l’azione collettiva può incidere sulle strutture date del potere soprattutto diventando azione politica. Se vogliamo esprimerci nella maniera più stringata e diretta, l’intero percorso di ricerca è sorretto da un unico proposito: provare a capire le possibilità di democratizzazione – di mobilitazione attiva dei gruppi precedentemente inerti ed esclusi – nelle situazioni sociali odierne più rilevanti. In questo senso, lo dichiaro fin dall’inizio, questa è un’indagine alimentata dalla passione per un problema politico. I ragionamenti svolti in queste pagine evitano i tecnicismi, per risultare comprensibili al lettore interessato di diversa provenienza disciplinare. Alcune semplici riflessioni analitiche sono rintracciabili nell’Appendice al primo capitolo e in quattro approfondimenti. Nel misurarmi con tematiche così centrali e transdisciplinari, ho ricevuto giovamento dalla vivacità intellettuale e dallo spirito critico di studenti, specializzandi e dottorandi di Firenze, Prato, Bologna e Roma: la loro voglia di capire e cambiare il mondo ha costituito la causa prossima della mia riflessione. Ringrazio Stefano Bartolini, Marco Bellandi, Luigino Bruni, Giovanni Canitano, Santina Cutrona, Rosario Pata-
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lano, Alessandro Pizzorno, Ernesto Screpanti, Carlo Trigilia, Franco Volpi, Danilo Zolo e due referees anonimi per aver discusso precedenti versioni di questo testo. Sono inoltre debitore di incoraggiamenti e stimoli verso Giacomo Becattini, Mario Biggeri, Giorgio Colacchio, Andrea Cornia, Renato Libanora, Mauro Lombardi, Andrea Noferini, Piero Tani, Vittorio Pelligra, Alberto Zanni e Luis Zemborain. Nessuno di loro è implicato nelle tesi sostenute. La mia affettuosa gratitudine va a Liliana, Federico, Luisa, Margherita, Angela e Silvio: loro sanno perché. Dedico il libro a Margherita.
1. Le difficoltà dell’azione collettiva
Le interdipendenze indivisibili Gli esseri umani, come molte altre specie animali, si riproducono dipendendo reciprocamente gli uni dagli altri. Se una caccia, una navigazione o una spedizione militare debbono riuscire efficaci – in grado di ottenere il risultato desiderato –, occorre quasi sempre che siano promosse da più uomini congiuntamente. Se un’unità produttiva deve puntare all’efficienza – alla capacità di generare benefici riducendo le risorse impiegate –, occorre quasi sempre che superi la dimensione alla quale un singolo individuo potrebbe attivarla. Se infine gli uomini cercano la convivialità – il partecipare gli uni ai limiti e alle possibilità degli altri –, occorrono attività come il gioco, l’amicizia, l’amore e la politica in cui ciascuno possa coltivare il proprio interesse (inter esse: stare tra gli altri). L’interdipendenza nella vita sociale costituisce dunque il concetto primitivo – che non richiede giustificazione – del nostro ragionamento. Ogni manifestazione d’interdipendenza si dispiega grazie a dei mezzi, che sono risorse e azioni, per ottenere dei risultati, in termini di beni acquisiti oppure di scopi realizzati. Una distinzione cruciale passa tra i fenomeni d’interdipendenza che impiegano mezzi e/o conseguono risultati divisibili, e quelli i cui
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mezzi e/o risultati sono indivisibili. Si pensi, considerando il versante dei mezzi, alla differenza tra un duello con le spade e una carica di cavalleria. In entrambi i casi più individui stabiliscono un’interdipendenza bellica. Ma i duelli sono scomponibili a coppie, mentre le cariche o avvengono da parte di schiere compatte e numerose, oppure perdono ogni efficacia. E si pensi, sul versante dei risultati, alla differenza tra uno scambio commerciale e una legge. Anche qui siamo davanti a casi che abbracciano più soggetti. Ma nella compravendita alcune unità di un bene passano di mano contro alcune unità di un diverso bene o di denaro, mentre la legge, entro un certo ambito, afferma un comando per tutti e per sempre. Tra gli economisti, la distinzione appena menzionata dà forma ai due concetti-limite di bene privato e di bene pubblico. L’uno gode di una perfetta divisibilità delle unità di output da consumare. Per l’altro, piuttosto, l’indivisibilità si presenta possibile e desiderabile: è possibile, in quanto appare difficile o costoso escludere qualcuno dal godimento dei benefici del bene; ed è desiderabile, in quanto la fruizione del bene da parte di un soggetto nulla sottrae alla fruizione da parte degli altri. Si pensi, per ricorrere a un esempio scolastico, all’illuminazione stradale fornita dai lampioni del Comune. Una volta attivato un lampione, tutti coloro che transitano in quella strada possono usufruirne: come potrebbe il gestore dell’illuminazione stradale ottenere un pagamento da ogni pedone che passa? Dovrebbe ricorrere a mezzi di natura extramercantile: per esempio, dotarsi di vigili con i quali intercettare ciascun cittadino per riscuotere il pedaggio. Inoltre il consumo di un soggetto non altera la possibilità di consumo di un altro: se dieci pedoni fruiscono dell’illuminazione, ciò non riduce il beneficio che un undicesimo passante può ottenere dal lampione.
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La divisibilità dei beni privati, e l’indivisibilità di quelli pubblici, scaturisce da fattori sia oggettivi che soggettivi. Che il consumo di un bene da parte tua ne riduca o annulli il consumo da parte mia, è una circostanza derivante principalmente dallo stato della tecnologia: al momento, non esistono per esempio tastiere di computer che possano venire usate simultaneamente da più utenti. D’altra parte la possibilità di escludere te dal mio uso di un bene si lega soprattutto a circostanze istituzionali: data la capacità tecnica di escluderti, diventano decisivi l’orientamento culturale, la decisione politica e il sistema legale. La collocazione dei beni nel comparto di quelli privati, o di quelli pubblici, o in comparti intermedi, è insomma un’eredità delle vicende storiche e, in un certo momento, va presa come tale1. L’azione collettiva L’azione collettiva è qualsiasi azione che produce e consuma interdipendenze indivisibili, e in particolare che provvede alla fornitura e all’uso di un bene pubblico2. Un’in-
1. Occorre pertanto evitare il fraintendimento, secondo cui i beni pubblici o collettivi sono quelli offerti dallo stato: «sono beni collettivi non soltanto i servizi tradizionalmente offerti dal governo, come la riduzione dell’inquinamento, il controllo degli argini dei fiumi, la legge e l’ordine, la difesa nazionale, ma pure i servizi forniti da qualsiasi associazione o gruppo informale non governativo o privato che si propone di raggiungere uno scopo comune. Ogni volta che gli abitanti di un quartiere cercano di migliorare la loro zona, o una lobby di commercianti cerca di elevare i profitti in un’industria, o un cartello cerca di elevare i prezzi o i salari in qualche mercato restringendo l’offerta, o un gruppo di paesi cercano di allearsi contro un nemico, o cercano di affrontare un problema ambientale transnazionale con un’organizzazione internazionale, è un bene collettivo che viene perseguito» [Olson 1992, viii]. Sulla nozione e sull’analisi dei beni pubblici, si veda CornesSandler [1996]. Per una discussione completa degli aspetti oggettivi e di quelli soggettivi dell’indivisibilità del bene, rimandiamo a Kaul-Mendoza [2003]. 2. Mentre l’aspetto della fornitura o produzione è cruciale, la dimensione del consumo può rimanere privata: quando per esempio un sindacato si batte per elevare il salario di un gruppo di lavoratori, punta alla fornitura di un bene comune, che però si traduce in retribuzioni individuali.
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divisibilità non esisterebbe senza l’iniziativa di un gruppo: un soggetto singolo non sarebbe in generale capace di formarla e accrescerla, in quanto essa ne supererebbe le possibilità produttive; né avrebbe la convenienza a offrirla, in quanto non potrebbe, consumandola, escludere altri dalla fruizione. Non basta dunque «fare qualcosa insieme», affinché si possa parlare di azione collettiva. Non basta imbattersi in una coppia di fidanzati, nei seguaci di una moda o di un’ideologia, in una squadra di colleghi d’ufficio o in un coro che intona una canzone, per rilevare un’azione collettiva. Occorre di caso in caso verificare se quelle attività danno forma a un’interdipendenza indivisibile che, in assenza dell’unione tra i soggetti nel gruppo, si realizzerebbe per nulla o in modi assai carenti. Poiché tuttavia, come abbiamo poco sopra notato, quasi mai siamo alle prese con accertamenti «puramente oggettivi» – essendo l’indivisibilità istituzionalmente codeterminata –, occorre altresì che un gruppo di uomini abbia la comune credenza di misurarsi con un’indivisibilità. Ma se questa peculiare credenza dev’essere comune ai membri del gruppo, occorre che, prima ancora, essi concepiscano sé stessi come genericamente interdipendenti, che cioè diano significato alla propria azione entro l’interazione con gli altri: è, questo, un processo di reciproca identificazione. Pertanto un’azione collettiva muove da un’identità personale – che è anche il riconoscimento della mia interdipendenza coi membri di un gruppo – e si stabilisce grazie a una credenza collettiva – la mia convinzione, condivisa nel gruppo cogli altri, che l’interdipendenza abbia un carattere indivisibile –. Così una coppia di fidanzati effettua un’azione collettiva non quando passeggia mano nella mano, ma quando inizia a coltivare interdipendenze indivisibili. Com’è stato argutamente
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osservato, è la condivisione dei «panni sporchi» – l’uso comune di una lavatrice – che conduce i partner ad agire collettivamente. Da quel momento simbolico, essi reidentificano sé stessi come un gruppo e elaborano ulteriori credenze comuni sui beni da produrre e consumare3. Oppure si confrontino un coro improvvisato e un coro a cappella: l’uno si limita a sovrapporre più voci per intonare un’armonia, laddove l’altro compone un’unità indispensabile affinché i pezzi di un certo repertorio musicale possano essere eseguiti. Ancora una volta, i due processi si distinguono tra loro, anzitutto, per come i soggetti pensano sé stessi e i mezzi a cui ricorrono. Senza una preliminare conformazione delle identità e delle credenze, i soggetti non potrebbero definire alcuna azione collettiva4. Il dilemma del cooperatore Immaginiamo un bene pubblico e dieci potenziali contribuenti. Ciascuna unità del bene fornisce 10 euro di benefici sia a chi la finanzia, sia, dato il requisito d’indivisibilità del bene, a quelli che non la finanziano. Se ogni unità del bene richiede 15 euro di contributo, il guadagno net-
3. «Che cos’è una “coppia”? Il sociologo francese Jean-Claude Kaufmann dà una risposta molto sofisticata: una coppia non si forma quando due persone vivono assieme o fanno sesso. È necessario aggiungere qualcos’altro: una coppia nasce quando due persone usano una sola lavatrice – non due! Perché? Perché allora cominciano le liti sui «panni sporchi». Chi lava, e per chi? Cosa dev’essere considerato sporco? E cosa pulito? Cosa accade, in ogni caso, se lui dice sì e lei dice no?» [Beck 2003, 201]. 4. Olson si accosta a questa prospettiva in uno dei suoi testi più sperimentali: «Cosa distingue una conoscenza da un’amicizia? Molte conoscenze non surrogano una “vera amicizia”, poiché questa include un reciproco impegno (commitment) e comporta quindi qualche grado d’indivisibilità» [Olson 1990, 219]. Qui l’indivisibilità viene ricondotta all’atteggiamento interdipendente dei soggetti, ossia al loro credersi/riconoscersi mutuamente coinvolti.
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to della partecipazione di un solo soggetto è –5 (10 – 15) euro, mentre il guadagno netto dell’astensione degli altri nove soggetti è pari a 10 euro per ciascuno. Indipendentemente da quanti soggetti contribuiscono, chi si astiene risparmia 5 euro e quindi s’avvantaggia. Se tutti i dieci soggetti sono nella stessa situazione, a nessuno conviene contribuire, il bene pubblico non viene prodotto e il benessere collettivo non migliora. Se invece tutti partecipassero al finanziamento, ognuno guadagnerebbe 85 euro derivanti dai 100 euro di benefici espressi dalle dieci unità di bene pubblico, meno i 15 euro del proprio versamento. La razionalità collettiva suggerisce a tutti di collaborare, mentre la razionalità individuale valuta più economica la defezione, come si può vedere nel primo approfondimento5. La centralità del dilemma del cooperatore è riconosciuta dagli scienziati sociali nella versione denominata «dilemma del prigioniero con n-giocatori». Per presentare intuitivamente questa versione, possiamo immaginare n giocatori che, indipendentemente l’uno dall’altro, scelgono tra due strategie: cooperazione o defezione. Supponiamo che Tizio si trovi a giocare contro gli altri n – 1 membri del gruppo per un bene pubblico, e che i costi unitari di offerta del bene superino per lui i benefici unitari. L’alternativa peggiore per Tizio è quella in cui solo lui collabora. Al terzo posto viene l’opzione in cui nessuno collabora. Al secondo posto troviamo l’alternativa per cui tutti collaborano incluso Tizio, mentre infine il caso migliore per il nostro individuo è quello in cui tutti collaborano tranne lui. Il ragionamento di Tizio è, tale e quale, svolto 5. [Sandler 2001, 70]. I valori numerici indicati in questo come nei successivi esempi, hanno l’obiettivo di rappresentare le conseguenze dei comportamenti, attribuendo pesi relativi al beneficio o all’onere di un esito. Essi non necessariamente indicano soldi o altre misure di significato pratico.
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altresì da Caio, da Sempronio e da tutti gli altri membri del gruppo. La logica strategica spinge dunque ciascuno a defezionare. L’opzione sulla quale si converge – quella in cui nessuno collabora – è però subottimale, dato che, se tutti partecipassero, tutti starebbero meglio [Hardin 1971]. Queste considerazioni si rafforzano a misura che il gruppo è ampio. Il contributo del singolo soggetto tende infatti, a parità d’importo, a incidere sempre meno sulla fornitura del bene pubblico: se, poniamo, il capitale di un’impresa è diviso in piccole quote uguali tra migliaia di azionisti, ciascuno di loro valuta ininfluente il proprio sforzo per spodestare il management, e tutti evitano di partecipare alle assemblee. Né appare robusto lo stimolo ad accollarsi un impegno maggiore, come sarebbe nel nostro caso l’acquisizione di un pacchetto azionario più consistente: mentre infatti chi effettua quell’impegno ne sostiene per intero il costo, gli eventuali benefici, in termini di migliori strategie manageriali, ricadono indivisibilmente su tutti gli azionisti [Olson 1965, 69]. Pertanto a ciascuno conviene non pagare i costi della cooperazione, pur concedendo che l’iniziativa corrisponda a un obiettivo comune a tutti. Ciò comporta che nessuno partecipa a un’azione collettiva a cui ciascuno avrebbe interesse che tutti partecipassero. Ma se nessun membro del gruppo è portato a cooperare, allora il gruppo in quanto tale non fa nulla per promuovere lo scopo che tutti i suoi membri condividono. Questo «dilemma del cooperatore», formulato classicamente da Mancur Olson, rappresenta una difficoltà che si colloca nel cuore dei principali paradigmi delle scienze sociali6. Se infatti consideriamo l’impostazione 6. A rigore, la logica del dilemma del cooperatore (o del bene pubblico) non coincide con quella del «dilemma del prigioniero», malgrado la struttura strategica del
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individualistica della scelta razionale, tale paradosso implica che gli agenti – se inseriti in un gruppo abbastanza ampio – non contribuiscono volontariamente all’azione del gruppo. Rimangono così non spiegati l’origine e il funzionamento delle maggiori organizzazioni sociali: da quelle formali e strutturate come lo stato, le chiese, le imprese, i partiti o i sindacati, fino a quelle più informali e temporanee come le associazioni, le correnti d’opinione o i movimenti ribellistici. Se d’altra parte consideriamo l’impostazione olistica che direttamente esamina macrosistemi aggregati, il dilemma del cooperatore appare altrettanto devastante, poiché mette in dubbio che soggetti storici come le classi sociali, le nazioni, le etnie, le ideologie, le civiltà o le culture, possano avere un’esistenza spontanea: se ammettiamo che gli individui che aderiscono a essi cercano di migliorare la propria condizione, l’iniziativa collettiva che conduce alla loro formazione risulta debole o addirittura assente7. secondo sia quella del primo con due giocatori e due azioni disponibili. Il dilemma del prigioniero è infatti esprimibile mediante queste condizioni: a) indipendentemente dal numero degli altri giocatori che cooperano, ogni giocatore guadagna di più non cooperando; b) la cooperazione universale sarebbe razionalmente preferita alla non-cooperazione universale. Il dilemma del cooperatore aggiunge una terza condizione, distinta dalle precedenti: c) il guadagno che si riceve non cooperando è tanto maggiore quanto più ampio è il numero di altri che cooperano. Ne deriva, tra l’altro, che: 1) se, entro un gruppo ampio, desidero godere del bene pubblico senza contribuirvi, posso occultare in vari modi la mia scelta; se invece tento la medesima condotta tra pochi, sarò colto facilmente in fragrante e punito (è per evitare ciò che la versione canonica del dilemma del prigioniero lo fa svolgere tra reclusi che non possono comunicare tra loro); 2) in gruppi numerosi, l’unica minaccia in assenza di coercizione è, da parte di quelli che contribuiscono, d’interrompere la produzione a meno che i defezionatori non paghino la loro parte; ciò tuttavia tende a fallire, in quanto, in un gruppo di n, n–1 perderebbero complessivamente una quantità molte volte superiore a quella perduta dal free-rider; 3) anche se la minaccia avesse successo, il free-rider accetterebbe di pagare solo la più bassa frazione possibile del costo totale del bene pubblico; ciò comporta che gli n–1, per attuare la loro minaccia mediante una temporanea non fornitura del bene, perderebbero molto più di quanto alla fine potrebbero ottenere [Olson 2000, 63-66]. 7. Poche righe di precisazione metodologica. In queste pagine si studia l’azione collettiva nella convinzione che «le regolarità della storia non appaiono in sequenze ripetute, strutture replicate e tendenze ricorrenti su grande scala, ma nei meccanismi
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Quando il dilemma cambia forma Come possiamo spiegare il sorgere e il riprodursi delle organizzazioni sociali ampie? Questo interrogativo è sempre stato al centro delle scienze sociali. Dopo il dilemma del cooperatore, esso ha però cambiato i suoi termini: si tratta adesso di mostrare i meccanismi tramite cui un’organizzazione si forma malgrado convenga a pochi o a nessuno promuoverla. Una prima risposta invoca situazioni che rendono possibile un esito cooperativo (si veda il secondo approfondimento). Immaginiamo per esempio, nell’assurance game, che due paesi debbano decidere se produrre un bene pubblico comune, che non dispiega i suoi benefici a meno che non siano fornite entrambe le unità. Ne segue che quando un paese coopera, all’altro conviene cooperare; mentre quando l’uno si astiene, anche l’altro ha ragione di astenersi [Sandler 1997, 35]. Oppure supponiamo, nel chicken game, che due paesi si trovino in una situazione in cui, come accade di fronte all’inquinamento ambientale, se non forniscono il bene pubblico il loro benessere peggiora sostanzialmente. Quando entrambi i soggetti s’impegnano, ricavano ognuno un vantaggio molto elevato. Ma la novità significativa riguarda la situazione even-
causali che collegano serie accidentali di circostanze» [Tilly 1993, 30]. L’obiettivo non consiste dunque in qualche «teoria generale» basata su «leggi nomologiche», bensì nel cogliere uno spettro di «meccanismi causali» idealtipici che – senza costituire la condizione necessaria e sufficiente, e talvolta nemmeno la condizione solo necessaria – siano condizioni di possibilità dell’azione collettiva. Tali meccanismi causali si pongono a un elevato livello di astrazione, che li rende individuabili in molte diverse circostanze e che giustifica una, pur temporanea, de-contestualizzazione dell’analisi. Avviene così allorché, davanti al medesimo sistema di equazioni, differiscono i parametri: la soluzione muta ogni volta, ma l’algebra resta unica. Quando piuttosto, nel capitolo settimo, esamineremo una forma di azione collettiva a un minore livello di astrazione, la concretezza storica apparirà talmente rilevante da richiedere meccanismi causali essi stessi in parte peculiari. Si veda, su questo approccio, Bellanca [2004].
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tuale in cui i due paesi dovessero astenersi: la conseguenza non sarebbe stavolta la semplice mancata produzione del bene pubblico, bensì il deteriorarsi della loro situazione. Lo status quo appare pertanto a ciascun paese peggiore rispetto al finanziare da solo il disinquinamento. L’impegno verso il bene pubblico emerge come l’opzione più conveniente: meglio perdere qualcosa agendo individualmente, che sopportare elevati costi defezionando [Ibid., 38-39]. Queste situazioni, tuttavia, non riescono a contestare la centralità teorica del dilemma del cooperatore. Nell’una la difficoltà della collaborazione si limita a mutare forma, diventando uno start-up problem, per il quale bisogna che i soggetti reciprocanti valichino una massa critica affinché si affermi l’azione collettiva; nell’altra ci si limita ad assumere una modalità d’interazione strategica che esclude il prevalere della defezione8. Il dilemma del cooperatore costituisce invece la situazione pura in cui la collaborazione né è una premessa, né emerge come un esito spontaneo. Esso rappresenta la pietra di paragone per ogni riflessione su scenari differenti. Non importa discettare se e quanto, nelle varie circostanze concrete, gli uomini siano «angeli» (che cooperano comunque) o «demoni» (che non collaborano mai). Un’analisi realistica procede dalla più semplice considerazione che, se agli uomini si presen-
8. Heckathorn [1996] ha mostrato che il dilemma del cooperatore si verifica in modo rigoroso quando la funzione di produzione del bene pubblico è lineare. Quando la funzione è concava ovvero decelera (l’apporto di ogni partecipante addizionale va declinando), siamo in un assurance game; mentre quando essa è convessa ovvero accelera, siamo in un chicken game. Si consideri per esempio un’impresa con 100 dipendenti. Fa poca differenza se scioperano in 5, 7 o 10. Tuttavia oltre un certo numero, poniamo 30, ogni scioperante che si aggiunge rafforza rapidamente la protesta. Fino a una cifra, poniamo di 80, oltre la quale un’adesione ulteriore cambia poco: il successo dello sciopero è comunque completo. È questa una funzione di produzione che prima decelera per un tratto; poi, oltre una soglia critica, accelera; infine tende ad appiattirsi: si vedano anche Marwell-Oliver [1993] e Ostrom [2003].
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ta l’opportunità di un vantaggio, possono decidere di coglierla: essi, per dirla con Machiavelli, non vanno pensati come necessariamente «corrotti», bensì come «corruttibili» in quanto tendono a rispondere al mutare degli incentivi e dei vincoli9. È questa la ragione per cui il dilemma di Olson non rappresenta un caso particolare. Se immaginiamo altri scenari nei quali i cooperatori hanno il problema di superare una certa soglia quantitativa, oppure sono motivati a non estinguersi, dobbiamo spiegare – proprio a partire dal dilemma del cooperatore – come quelle assunzioni si spiegano e si giustificano. Esaminiamo meglio quest’ultimo punto, sottolineando che la relazione tra un problema di bene pubblico e la sottostante forma strategica d’interazione dipende in parte dalle preferenze dei soggetti, e in parte dal modo con cui l’azione individuale contribuisce al livello complessivo del bene pubblico. Così, se i soggetti che trarrebbero vantaggio dal bene pubblico hanno, a parità della loro dimensione, curve di domanda differenti, può accadere che quelli con la più elevata domanda assoluta siano stimolati a finanziare e produrre qualche ammontare di bene pubblico anche qualora nessun altro membro del gruppo partecipi. Al limite, un «membro privilegiato» può razionalmente mobilitarsi perfino se è l’unico ad agire, qualora il guadagno che trae supera il costo complessivo del fornire una quantità positiva del bene pubblico. È questa, chiaramente, una situazione in cui l’azione collet-
9. Si veda l’interpretazione machiavelliana di Pettit [1997, 252-253], che osserva: «se progettiamo le istituzioni a partire dall’assunto realistico secondo cui chi detiene il potere è sempre corruttibile, dovremo progettare istituzioni che funzionano bene sia in presenza di agenti che non sono effettivamente corrotti, sia, come seconda linea difensiva, in presenza di agenti che lo sono. Una prospettiva che ci consenta di fare fronte a entrambe le eventualità non può che essere ritenuta valida, propongo pertanto di condurre la discussione a partire da questo assunto realistico».
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tiva non serve, bastando l’iniziativa di pochi membri del gruppo per fornire il bene pubblico. Un esito analogo può verificarsi sul versante dell’offerta. Finora abbiamo ipotizzato una tecnologia di offerta del bene pubblico di tipo additivo: tale cioè che ogni euro versato, non importa da chi, incide in pari misura sul livello totale del bene. Se invece passiamo alla «tecnologia del miglior tentativo», l’ammontare di bene pubblico dipende dal più grande tra i contributi versati. Consideriamo per esempio i tentativi per curare una malattia: qui vale, in definitiva, il solo sforzo di chi scopre la terapia. Il primo arrivato vince per tutti gli altri, e il contributo di un soggetto qualsiasi non costituisce un perfetto sostituto di quello di un altro soggetto. Poiché anzi le possibilità di successo sono di solito positivamente correlate alla quantità e qualità delle risorse, conviene a tutti trasferire sempre più risorse verso i pochi giudicati in grado di colpire il bersaglio: a che serve finanziare la ricerca di un laboratorio di Cosenza? Basta accentrare le risorse a Boston, che scoprirà il vaccino per tutti. L’altra principale modalità è rappresentata dalla «tecnologia dell’anello più debole», per cui è il minore tra i contributi a stabilire il livello di bene pubblico a disposizione dell’intero gruppo. Pensiamo stavolta alla profilassi di una malattia contagiosa: il suo contenimento dipende dal gruppo sociale che meno s’impegna. Anche qui sono i soggetti più forti a doversi far carico di quelli deboli: ai genitori dei bambini rom conviene non partecipare alle spese, poiché comunque i loro figli saranno vaccinati nell’interesse dell’intera comunità locale [Hirshleifer 1983; Sandler 2002]. Siamo davanti a situazioni che giustificano economicamente l’azione di pochi soggetti in gruppi numerosi.
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Nondimeno queste situazioni – come altre che si possono ipotizzare10 – appaiono poco generali, poiché lo stimolo a intervenire per un «membro privilegiato» tende a contrarsi man mano che il numero dei membri del gruppo aumenta. All’ampliarsi del gruppo crescono infatti i costi di fornitura del bene pubblico – la cui indivisibilità deve ora abbracciare più soggetti –, perfino quando non si riduce il beneficio che ricade su ciascuno e perfino quando l’espansione del gruppo avviene in regime di rendimenti costanti di scala, e dunque con costi di produzione invariati. Infatti il passaggio da un gruppo ristretto a uno via via più ampio corrisponde a cambiamenti della forma organizzativa: questo è un processo in sé costoso, comportando costi di coordinamento, elaborazione cognitiva, comunicazione e decisione, negoziazione e mediazione, influenza e monitoraggio11. Per rendercene conto esaminiamo il caso fittizio di un’invasione aliena volta a distruggere gli abitanti della Terra. Nello scenario iniziale due sole nazioni, tra loro nemiche, sanno che sconfiggeranno gli alieni alleandosi, mentre soccomberanno affrontandoli separatamente. È facile ritenere che una risposta coordinata non sarà difficile da raggiungere. Immaginiamo invece, in un secondo scenario, che le nazioni terrestri siano duecento. Non cambia per ognuna di loro la posta in palio: la vita dei suoi abitanti. Ognuna vuole quindi impegnar-
10. Tra le tecnologie di offerta dei beni pubblici vanno ricordate, oltre alle due menzionate nel testo, quelle del ‘colpitore migliore’ (il maggior contributo ha il più grande impatto marginale, seguito dal successivo più grande, e così via), dell’‘anello debole’ (il più piccolo contributo ha la più grande influenza marginale, seguito dal successivo più piccolo, e così via), delle ‘soglie critiche’ (il bene deve oltrepassare una certa dimensione affinché i suoi benefici siano fruibili) e della ‘somma ponderata’ (ogni contributo può avere un diverso impatto addizionale sul livello complessivo del bene pubblico). 11. Taylor [1987, 9]. Nell’Appendice a questo capitolo viene proposta una breve discussione sulla generalità della proposizione appena sostenuta.
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si. Ma perfino la tragedia incombente non può eliminare gli ostacoli al coordinamento: tanti soggetti debbono accettare regole comuni, rinunciando a diffidenze, resistenze e tentazioni di patteggiamento. Ciò può avvenire, ma richiede tempo; e il ritardo potrebbe comportare la sconfitta di tutti. Se aggiungiamo allo scenario difficoltà ulteriori del tutto generali, quali un’informazione incompleta che rende imprecisi i termini della risposta adeguata all’attacco alieno, o un’incertezza rispetto alle effettive intenzioni del nemico, aumenta la probabilità che alcune nazioni adottino un atteggiamento di aspetta-e-guarda, mentre altre cerchino un accordo separato con gli invasori. Se infine la tecnologia di offerta del bene pubblico indica che l’alleanza minima in grado di vincere è composta, poniamo, dalle sole nazioni più ricche, tutte le altre possono essere indotte a defezionare, favorendo così la penetrazione e la vittoria dei nemici12. Ovviamente, il rovescio delle argomentazioni svolte sta nel sostenere la superiorità dei piccoli gruppi nell’esercitare un’azione collettiva. Il minor numero di soggetti comporta che i benefici pro capite siano più elevati e/o che il contributo di ognuno non sia irrilevante e/o che le scelte di ciascuno dipendano da quelle degli altri, al punto che ogni membro è incentivato a contrattare con ogni altro; stabilisce contatti ravvicinati e ripetuti che incrementano le possibilità d’influenza reciproca positiva,
12. [Sandler 1997, xiv-xv]. Le situazioni in cui è decisivo un «membro privilegiato» si incontrano con particolare difficoltà nei paesi del Sud del mondo. In tali paesi un’elevata uguaglianza dei redditi verso il basso rende più plausibile l’ipotesi di una tecnologia di offerta del bene pubblico di tipo additivo, ovvero tende ad appiattire gli incentivi alla partecipazione. Inoltre occorre spesso assicurare una dimensione minima di offerta del bene pubblico, poiché l’ipotesi di un graduale adeguamento della sua dotazione appare impropria ove esso manchi del tutto. Infine, la modestia delle risorse istituzionali locali aumenta il costo della produzione e della transazione dei beni pubblici. Si veda Affuso-Arrighetti-Seravalli [2003, §5].
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anche mediante il conferimento a ciascuno di una reputazione; rende più semplici i canali interni d’informazione e comunicazione, riducendo i costi di coordinamento e di elaborazione cognitiva ed elevando la velocità di deliberazione delle linee d’azione; rende più circostanziato il calcolo di costi e benefici, più efficace il controllo e la punibilità per chi defeziona e migliore l’abilità del gruppo nel trattenere beni e informazioni rispetto a gruppi rivali13. Inoltre, nei gruppi ristretti selezionati su base volontaria, si riscontra sovente una maggiore omogeneità dei membri, la quale tende a facilitare la convergenza delle credenze e delle aspettative, l’apprendimento sui comportamenti altrui e quindi l’affiorare e il rafforzarsi di propensioni fiduciose e collaborative. Il risultato è che i gruppi ristretti esprimono una superiorità organizzativa rispetto ai gruppi vasti: la forza di qualsiasi minoranza è irresistibile di fronte a ogni individuo della maggioranza, il quale si trova solo davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo si può dire che questa è organizzata appunto perché è minoranza. Cento, che agiscano sempre di concerto e d’intesa gli uni cogli altri, trionferanno su mille presi a uno a uno e che non avranno alcun accordo fra loro; e nello stesso tempo sarà ai primi molto più facile l’agire di concerto e l’avere un’intesa, perché son cento e non mille [Mosca 1896, 65]. 13. Perfino in un gruppo ristretto e omogeneo possono esservi azioni difficili da monitorare: impegno, convinzione o entusiasmo non sono deducibili dalla mia presenza ai riti o dalle mie dichiarazioni ufficiali. Tuttavia, in un piccolo gruppo la partecipazione può venire controllata e rafforzata rendendo più costosi i comportamenti alternativi. Comportamenti «bizzarri» (teste rasate, diete particolari, vestiti arancioni, regole sessuali rigide), di «iniziazione estrema» (il picciotto che per entrare in Cosa nostra deve uccidere) o di «non reversibilità» (entrare in clandestinità, apprendere segreti con la consapevolezza che da essi dipende la libertà e la vita di altri membri del gruppo), sono tutti modi che innalzano il costo dell’exit e, quindi, che rendono più conveniente contribuire affinché il proprio gruppo perduri e funzioni bene. Si veda Iannaccone [1992].
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La capacità organizzativa dei gruppi ristretti costituisce, in definitiva, il fondamento del loro potere sui gruppi ampi. Il potere è strumento per ottenere altri beni sociali quali ricchezza, influenza e posizione sociale; ma d’altro canto quei beni diventano strumenti per rafforzare il potere. Percorrendo tale spirale, una minoranza – se anche la immaginiamo priva all’inizio tanto di potere quanto di risorse – acquisisce, mediante la sua superiorità organizzativa, così il potere come i beni sociali, aumentando a parità di condizioni la distanza tra sé e i gruppi ampi. Va rimarcato ancora che il comportamento del gruppo ristretto è dettato dalla logica dell’azione collettiva, non dalle motivazioni più o meno nobili o ciniche dei suoi membri. Consideriamo, quale esempio ultrasemplificato ma capace di cogliere l’aspetto fondamentale, un’assemblea politica nella quale tutti i cittadini desiderano partecipare attivamente al dibattito che precede e forma la decisione. Se la polis è composta da cento cittadini, e ciascuno ha diritto a prendere la parola per appena dieci minuti, occorrono 16 ore per esaurire la discussione; qualora il numero di iscritti sale a mille, le ore diventano 167; con diecimila oratori, dovrebbe svolgersi una riunione di 208 giornate di 8 ore ognuna. Per un verso, dunque, la vasta dimensione del gruppo rende inevitabile che molti deleghino l’autorità a pochi. Per l’altro verso, e soprattutto, nel gruppo ampio si alterano comunque i rapporti tra i cittadini a favore di una o più minoranze. Immaginiamo infatti che gli eletti siano animati dalle più nobili intenzioni nel rappresentare effettivamente i membri del loro collegio. Essi, anche volendolo, non possono però interagire coi rappresentati, senza ricreare il medesimo problema per cui sono stati nominati: se dedicassero dieci minuti a incontrare ciascuno dei diecimila cittadini del proprio collegio, dovrebbero impegnarsi in questa
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sola attività per oltre metà dell’anno [Dahl 1998, 112117]. Se ne conclude che un gruppo ristretto può mettere a frutto il proprio vantaggio organizzativo soltanto rendendosi autonomo dalla maggioranza: una minoranza in tanto è efficace, in quanto rinuncia a rappresentare la varietà e la complessità delle istanze del gruppo maggiore. Coercizione, sanzioni e metanorme Una seconda linea di risposta al dilemma del cooperatore – dopo quella che si concentra su casi in cui l’azione collettiva è resa possibile dall’assumere circostanze che… la rendono possibile – osserva che, quando vacilla l’apporto dei singoli al perseguimento di uno scopo comune, si può ricorrere alla coercizione. Quando uno stato esercita la tassazione obbligatoria per i suoi cittadini, oppure quando una grande impresa lega entro nessi gerarchici di obbedienza i suoi lavoratori, si realizza la coercizione in quanto tale. Quest’ultima però, applicandosi in maniera uniforme e permanente su un intero gruppo ampio, è molto costosa. Subentrano pertanto due meccanismi sociali, volti a alleviare gli oneri senza perdite eccessive di efficacia. Il primo meccanismo stabilisce delle sanzioni selettive, le quali vengono imposte unicamente a coloro che evitano di partecipare all’azione collettiva. Così, quando un cittadino evade le imposte, o un lavoratore è gravemente negligente, l’obbligatorietà del vincolo tra quell’individuo e l’organizzazione si manifesta imponendo, oltre all’effettuazione del comportamento omesso, una penalità (la multa o addirittura il carcere per l’evasore, il licenziamento per il lavoratore). L’altro meccanismo stabilisce una metanorma, secondo cui il gruppo applica l’obbligo e la sanzione selettiva non soltanto a chi si astiene dall’azione collettiva, ma pure a
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chi si astiene di denunciare all’organizzazione il lavativo [Axelrod 1986]. Immaginiamo per esempio che un medico specialista sia tentato, dopo avermi visitato, di evadere le tasse, non rilasciando la ricevuta fiscale. In qualità di paziente, potrei impedire il suo comportamento, insistendo per la ricevuta. Ma ciò avrebbe dei costi per me, sia monetari, dato che spesso in quel caso il medico mi applicherebbe una tariffa maggiorata, sia relazionali, in quanto potrei aspettarmi una sua minore disponibilità nei miei confronti in futuro. Propenderei dunque per la connivenza. Se però esiste una metanorma, in forza della quale un altro paziente che assiste all’episodio può denunciare me perché non ho denunciato il medico, diventa più probabile che io esiga la ricevuta e che quindi la norma collettiva iniziale – quella secondo cui tutti pagano le tasse – venga rispettata. Questo protocollo di virtuale denuncia reciproca sta alla base dell’elevata diffidenza e sfiducia con cui molti regimi autocratici imbrigliano la vita sociale, sebbene non di rado – proprio per la sua notevole efficacia – viene usato anche nelle democrazie. I tre livelli della coercizione, della sanzione selettiva e della metanorma non possono però autoriprodursi. Ciascuno di essi suscita infatti un «dilemma sociale di secondo (o di terzo) ordine»: le misure di autorità da imporre a un gruppo, altro non sono che un nuovo bene pubblico, il quale, come ogni bene, può essere ottenuto soltanto se si sostengono i suoi costi; ma, nei confronti di questi costi, si ripropone il dilemma del cooperatore, in quanto ciascun membro del gruppo, potendo fruire gratis del bene, non ha convenienza a contribuire [Oliver 1980; Heckathorn 1989]. Il classico interrogativo «chi controlla i controllori?» rimane del tutto pertinente. Se non vogliamo regredire all’infinito, appare necessario ipotizzare che,
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a un certo stadio, i controllori partecipino volontariamente, ossia che, almeno a quello stadio, il dilemma del cooperatore sia stato risolto14. Gli incentivi selettivi Siamo così giunti al vero punto di partenza: si tratta di spiegare cosa susciti e mantenga un’azione collettiva volontaria entro gruppi numerosi. Olson invoca al riguardo principalmente gli incentivi selettivi: qualcosa che viene attribuito ad alcuni individui se contribuiscono al perseguimento dello scopo comune. Questo «qualcosa» è rappresentato da importi di denaro, oppure da mezzi che entrano nella disponibilità del singolo. Ne segue che alcuni membri del gruppo partecipano non perché convenga loro collaborare alla fornitura del bene collettivo, bensì perché stimolati da pagamenti collaterali e beni privati. Si pensi a un partito politico: perché non riesce mai a reclutare un numero di militanti superiore a una quota assai modesta dei propri elettori? Se l’iscrizione e la militanza nel partito comportano costi in termini di tempo e di denaro, chiunque sia interessato agli scopi comuni perseguiti dal partito ha interesse a lasciar pagare il prezzo agli altri, considerando che il partito non può esercitare una coercizione sui suoi iscritti/militanti potenziali. La trascurabile minoranza d’iscrit-
14. Ciò vale perfino sotto le ipotesi più favorevoli all’azione collettiva. Così, supponiamo che bastino poche azioni dimostrative – che puniscono chi non segnala il trasgressore, e remunerano chi lo addita – per innescare la metanorma, la quale poi si alimenta da sola in quanto, finché è alta l’aspettativa che altri possano segnalare una mia defezione, sono incentivato a collaborare; ovvero, finché è alta l’aspettativa che una mia delazione venga adeguatamente ricompensata, sono stimolato a additare chi non collabora. Anche in questo caso, a ben vedere, essendo le aspettative all’interno del gruppo stabilmente convergenti, gli oneri della metanorma vengono sostenuti spontaneamente dai membri del gruppo, ossia è pur sempre un’azione collettiva volontaria che fonda la metanorma.
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ti/militanti si spiega invece, secondo Olson, col fatto che il partito fornisce anche obiettivi individuali: opportunità di guadagno, facilitazioni su alcuni mercati, posizioni di responsabilità entro l’organizzazione, nonché posizioni elettive nella vita politica15. Alcuni di questi obiettivi – quali il rispetto professionale, lo status sociale o la ricerca di nuove amicizie – possono apparire motivazioni extraeconomiche. Essi tuttavia, secondo Olson [1965, 75], non sfuggono alla logica degli incentivi selettivi: li si desidera in quanto potenziano la capacità dell’individuo di ottenere l’accesso a soldi e a beni16. Eppure nemmeno l’idea di Olson – secondo cui gli incentivi selettivi consistono esclusivamente in denaro e beni privati da usare da soli – riesce a chiarire il formarsi spontaneo dell’azione collettiva in gruppi ampi. Infatti un singolo soggetto prima valuta la possibilità di ottenere effettivamente il bene pubblico desiderato, e dopo calcola la possibilità di godere congiuntamente benefici personali: se il partito politico non esiste, come potrei mai diventarne uno stipendiato? Poiché tuttavia entro gruppi ampi ognuno è spinto a defezionare, ognuno prevede che il
15. Un’impostazione simile è proposta da Gary Becker [1996, cap. 11] nella spiegazione del rispetto volontario delle norme. Egli ipotizza che un gruppo dominante, abbastanza ristretto da non cadere sotto le difficoltà del dilemma del cooperatore, proponga norme di condotta a un gruppo subalterno, il quale le accetta traendo vantaggio dal consumo di beni privati che sono donati congiuntamente. 16. L’interpretazione potrebbe venire rovesciata, sostenendo che in definitiva si cercano denaro e merci per conseguire più rispetto da parte degli altri o un migliore status sociale. Come sottolineeremo nel capitolo terzo, sembra sterile addentrarci in questa eterna diatriba sui moventi ultimi dell’azione intenzionale. Quando proporremo di allargare il quadro degli incentivi, non procederemo per inserire la morale o il sociale nella sfera dell’economico – dato che non vi era stata alcuna esigenza logica ed epistemologica di escluderli –, bensì soltanto per meglio articolare uno schema esplicativo dell’azione collettiva: la quale non è economica, o sociale, o morale; è azione promossa, o non promossa, da soggetti razionali, che cioè tentano di migliorare la propria condizione secondo proprie «buone ragioni».
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bene pubblico non verrà offerto e che non potrà quindi nemmeno ricevere gli incentivi selettivi [Hechter 1990, 22]. Né vale assumere che già esista il bene pubblico, poiché – lo abbiamo visto – ciò equivale solamente a formulare un «dilemma sociale di secondo (o ennesimo) ordine». E comunque, se anche ammettiamo che un gruppo ampio già organizzato offra incentivi selettivi, questi non spiegano la partecipazione di massa, in quanto tendono a favorire i soli soggetti con potere di contrattazione. Pensiamo a una corporation transnazionale: qualora il livello di pressione fiscale in una nazione le appare elevato, minaccia di emigrare. La sua posizione di forza fa sì che l’erario provveda a incentivarla – riducendole le imposte, o fornendole servizi ausiliari gratuiti a parità di gettito –, mentre nessuna capacità negoziale è attribuibile ai tanti normali cittadini che dunque, se pagano il fisco, operano, non ricevendo incentivi selettivi, in maniera irrazionale [Levi 1988, 72-73]. Non basta. Immaginiamo, per amore d’ipotesi, che i leader di un gruppo già strutturato detengano risorse così abbondanti da poter destinare incentivi selettivi a una parte significativa dei membri ordinari, anziché soltanto ai membri con maggiore capacità di contrattazione. In tale situazione – proprio perché i potenziali beneficiari sono parecchi, e magari presentano caratteristiche eterogenee – diventa problematico accertare che chi riceve l’incentivazione partecipi effettivamente alla fornitura del bene pubblico. Infatti il beneficiario troverebbe più conveniente, non appena possibile, incassare il pagamento collaterale e defezionare. Occorrerebbe sostenere costi di raccolta d’informazione, di sorveglianza e di coercizione per ridurre questo pericolo; ma così, anche sorvolando sull’onerosità della procedura, gli incentivi selettivi si baserebbero ancora una volta su beni pubblici preesistenti.
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Coercizione, sanzioni selettive, metanorme, incentivi selettivi: sono tutti metodi importanti, sebbene parziali, per sostenere l’azione collettiva, una volta che essa sia stata innescata. Nessuno di essi spiega però come e perché quell’azione nasca. Nel prossimo capitolo sosterremo che, per compiere qualche passo avanti, occorre guardare alle classi di beni privati che traggono almeno parte del loro valore dall’essere collocati in «reti» economiche o sociali, nonché alla classe di beni pubblici che riguardano uno specifico sottogruppo. Chi desidera tali beni è direttamente interessato alla manutenzione e/o all’espansione complementare di quelle «reti», o dei beni pubblici per il gruppo maggiore, compiendo così un’azione collettiva.
Appendice. La validità del dilemma del cooperatore Il dilemma di Olson o del cooperatore dimostra che i gruppi ampi non sono in grado di provvedere spontaneamente i beni pubblici, ovvero che in essi l’azione collettiva si forma con difficoltà. Le condizioni sotto cui quel dilemma vale vengono discusse da decenni. La nostra tesi è che esse hanno un elevato livello di generalità. Aggiungiamo al riguardo poche osservazioni a quelle già svolte nel capitolo. Ogni volta che si approntano modelli in cui si aggiunge o si altera qualcosa rispetto allo scenario di base del dilemma del cooperatore, occorre, riteniamo, che le assunzioni da cui si procede rappresentino processi socio-economici sistematici e persistenti, non limitati e occasionali. A nostro avviso, tra tutte le congetture introdotte nella modellistica post-Olson, la principale che esprime questo requisito è quella di economie di scala. Essa suggerisce che, all’ampliarsi della dimensione del gruppo, il costo medio di fornitura del bene pubblico può non
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crescere, e addirittura ridursi, qualora le economie di scala alleggeriscano i costi di produzione e di transazione del bene in misura tale da almeno compensare l’appesantimento dei costi delle transizioni organizzative. Tale circostanza non basta ad assicurare l’azione collettiva, ma può significativamente facilitarla. Se il mondo socio-economico fosse retto principalmente da economie di scala tali da bilanciare i costi crescenti della partecipazione, potremmo concludere ottimisticamente che, anche in gruppi via via più ampi, il dilemma di Olson è risolvibile. Oggi incontriamo questo fenomeno soprattutto nelle attività imperniate sull’economia della conoscenza. Il lavoro cognitivo «genera significati che acquistano valore solo se altri li condividono e li fanno propri» [Rullani 2004, 120]. Il suo prodotto, che è la conoscenza, rientra tra quelli che nel prossimo capitolo chiameremo i beni privati di rete: e ciò, come vedremo, favorisce l’azione collettiva. Stavolta dovrebbe però esserci qualcosa in più, legato proprio alle economie di scala. La conoscenza non si consuma con l’uso e può venire impiegata infinite volte: ha grandi costi fissi iniziali e un costo di riproduzione quasi nullo. Ciò la rende socialmente non-scarsa, essendo possibile e conveniente – per sfruttare economie di scala virtualmente illimitate – dilatarne l’offerta fino a soddisfare qualsiasi domanda. Tuttavia, in gruppi ampi la conoscenza può diffondersi soltanto tramite mezzi artificiali di relazione: i mediatori cognitivi. Questi costano. Dunque gli aumenti di produttività conseguenti alla condivisione allargata della conoscenza, vanno considerati al netto dei costi e dei rischi affrontati per allestire i media cognitivi [Ivi, 29]. Inoltre a livello individuale la conoscenza rimane scarsa: il singolo produttore o possessore ne restringe infatti artificialmente l’impiego, per sostenerne il prezzo e, così, recuperare i costi fissi da lui sostenuti e ricavare un profitto [Ivi, 291]. Se ne conclude che perfino nell’economia della conoscenza – l’ambito effettivo più propizio alla tesi per cui la crescita dei vantaggi di scala supera quella dei costi – le economie di scala, essendo attenuate da costi collettivi e vincolate da razionamenti privati, non sempre
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elevano i benefici al crescere della dimensione del gruppo, né li elevano per tutti i membri del gruppo: quindi non sciolgono in modo generale il dilemma di Olson. Si possono naturalmente immaginare situazioni in cui le economie di scala siano decisive per la cooperazione [Lupia-Sin 2003]; ma va poi mostrato dove quei casi si stiano, almeno tendenzialmente, realizzando. Un’altra congettura non meno generale e rilevante, tra quelle presenti nella letteratura sul dilemma del cooperatore, è l’ipotesi di informazione incompleta. Le situazioni in cui si verifica tale ipotesi sono ovviamente la regola. In esse gli individui nutrono talvolta un interesse a rendere l’informazione meno lacunosa. Quando questa finalità può essere perseguita con un rapporto benefici/costi positivo, cioè quando si è «membri privilegiati», si può prescindere dall’altrui partecipazione. Quando, inoltre, qualcosa della maggiore informazione che mi sono procurato è fruibile anche da altri, essa migliora la complessiva informazione del gruppo, favorendo un’interazione reciprocamente controllata e quindi la collaborazione. Tuttavia le due condizioni indicate non sono affatto generali come la congettura che sorreggono: può anzi accadere che la cooperazione sia facilitata proprio da un aumento dell’incompletezza informativa, se quest’ultima offusca i vantaggi della defezione [Lichbach 1996, specie 78-80]. Una terza congettura generale riguarda l’eterogeneità dei consumatori del bene pubblico, specialmente in termini di (a) posizione sociale, (b) abilità a impegnarsi, (c) abilità a guadagnare, (d) disponibilità a uscire dal gruppo. Ciascuno di tali fattori esercita però un’influenza ambigua sull’efficienza collettiva: talvolta la facilita, talvolta la limita [Faysse 2005]. Ulteriori situazioni nelle quali anche in gruppi ampi potrebbe convenire l’intervento di un singolo o di pochi nascono infine da fenomeni economici particolari e/o contingenti. Un caso è quello in cui, del tutto irrealisticamente, i costi delle transizioni organizzative rimangono costanti o sono trascurabili. Altri
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casi scaturiscono – oltreché dalle assunzioni strategiche, dalla tecnologia di offerta del bene pubblico e dalla forma della funzione di utilità – dagli aspetti intertemporali delle interazioni e dalle regole del gioco [si vedano Hardin 1982, 126131; Sandler 1992, 49-54]. Tra i casi che tengono conto della dimensione temporale, spicca il «dilemma del prigioniero iterato»: se l’altro coopera, coopererò anch’io la volta successiva, altrimenti continuerò a non-cooperare. Esso però assume che i soggetti siano sufficientemente «pazienti» (ossia che abbiano un tasso di sconto piccolo) e, inoltre, presenta ridotta efficacia quando coinvolge un ampio gruppo [Hardin 1985; Olson 1986; Boyd-Richerson 1988; Hirshleifer-Martinez Coll 1988]; quest’ultimo limite è decisivo anche per il cosiddetto folk theorem [Bowles-Gintis 2003]. Tra i casi che considerano le regole del gioco, è molto dibattuta negli ultimi anni la «reciprocità forte», ossia una supposta predisposizione a premiare chi segue, e a punire chi viola, le norme che beneficiano il gruppo, anche quando ciò riduce la propria fitness rispetto agli altri membri del gruppo. Di tale comportamento rimane problematica l’origine: poiché le sanzioni altruistiche forniscono benefici a chi non le effettua, e oneri a chi le realizza, sotto quali condizioni si affermano? La risposta invoca la coevoluzione di una selezione culturale a livello di gruppo, con, a livello individuale, l’adesione a una metanorma, o al piacere della vendetta, o al mantenimento della reputazione, o al conformismo, o al segnale onesto di diverse qualità, o al desiderio di ridurre la disuguaglianza, o ad altro ancora. Tuttavia la «selezione culturale di gruppo» è un concetto pieno d’insidie, se applicato agli uomini quali soggetti intenzionali; se anche accogliamo tale spiegazione, e gli «esperimenti di laboratorio» che le forniscono il quasi esclusivo sostegno empirico, la reciprocità forte risulta non-adattativa secondo i criteri della moderna biologia evoluzionistica; infine, la capacità umana individuale d’interiorizzare le norme culturali sembra implicare modelli cognitivi molto esigenti [Trivers 2004; Burnham-Johnson 2005; Hagen-Ham-
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merstein 2006]. È ancora prematuro formulare valutazioni su questo impegnativo programma di ricerca, che appare alternativo a quello, qui seguito, avviato da Olson17.
17. Nel dibattito tra economisti, la principale critica al libro di Olson – accettata da Olson stesso – è consistita nel distinguere tra due proposizioni: (a) i gruppi ampi tendono a non fornire spontaneamente beni collettivi, poiché entro essi nessun individuo o coalizione tende a soddisfare la condizione, richiamata nel testo, di «membro privilegiato»; (b) più ampio è il gruppo, minore è il livello collettivo dell’offerta [Cornes-Sandler 1996, 325]. La (b) è stata dimostrata falsa per i «beni normali», cioè tali che la loro domanda aumenta al crescere del reddito, mentre la nostra esposizione si riferisce alla (a). Un’autorevole rassegna delle critiche di taglio sociologico e politologico ad Olson è Oliver [1993], aggiornata in Oliver-Myers [2002], mentre sintesi critiche dei dibattiti tra economisti scaturiti da Olson sono Lichbach [1996] e Sandler [2004, capp. 2 e 3].
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Primo approfondimento. Una semplice formalizzazione del dilemma del cooperatore Il fallimento dell’azione collettiva si caratterizza come un problema di fornitura sub-ottimale di un bene pubblico, dovuta al conflitto che si innesca tra la razionalità individuale e la razionalità collettiva. A sua volta, tale conflitto è esacerbato dall’interdipendenza che esiste tra i membri di un gruppo, per cui la contribuzione, o sottoscrizione, di ciascun membro influenza negativamente quella degli altri, sebbene ciò non sia percepito dai singoli agenti. Per illustrare formalmente tali aspetti, ricorriamo all’apparato analitico proposto da Cornes e Sandler [1985]. Il primo aspetto da mettere in luce è la sub-ottimalità della fornitura di un bene pubblico in un sistema economico decentrato, laddove ogni agente prende le decisioni in maniera indipendente dagli effetti che queste hanno sul benessere degli altri membri del gruppo. Si esprima l’utilità del generico agente i attraverso la seguente funzione: Ui = U(yi , Q)
(1)
L’equazione (1) indica che l’agente i-esimo trae beneficio dal consumo di un generico bene privato, yi, che funge da numerario, e dalla quantità aggregata del bene collettivo, Q, dato dalla somma dei contributi, o sottoscrizioni, individuali qi , tale n per cui Q = Σi=1 qi , dove n è il numero dei membri del gruppo. Ciascun agente affronta il problema di come allocare al meglio le proprie risorse totali, Ii , nell’acquisto dei due beni. Normalizzando a
zero il prezzo del bene privato, il vincolo di bilancio dell’agente iesimo può essere scritto come: Ii = yi + pqi
(2)
dove p è il prezzo relativo del bene pubblico, ossia il suo costo-opportunità. Più precisamente, si tratta del saggio marginale di sostituzione tra i due beni, MRSqy, vale a dire il numero di unità di bene privato cui occorre rinunciare per acquistare un’unità del bene pubblico. Tale prezzo è crescente rispetto alla quantità di bene pubblico sottoscritta, poiché la rinuncia al bene privato si fa via via maggiore. La razionalità individuale spingerà l’agente a contribuire al bene pubblico fin quando il costo-opportunità non eguaglierà il beneficio marginale, MBi, che egli deriva individualmente da un’unità aggiuntiva. In simboli: p = MRSqy = (∂U/∂qi)/ (∂U/∂yi) = MBi
(3)
La quantità aggregata di bene pubblico prodotta in un’economia decentrata sarà quindi pari alla somma delle sottoscrizioni individuali, qi, che soddisfano simultaneamente la (3). Tuttavia, la razionalità collettiva richiederebbe di fornire una quantità di bene pubblico maggiore, tale per cui il costo-opportunità della sottoscrizione sia uguale alla somma dei benefici marginali conseguiti da tutti i membri. Formalmente:
28
l’economia del noi n
p = MRSqy = Σi=1 MBi = MBs (4) Pertanto, poiché ciascun agente considera solo la frazione del beneficio sociale che egli ottiene individualmente, la sua disponibilità a contribuire al bene pubblico sarà inferiore a quella ottimale. Il secondo problema, relativo all’interdipendenza delle sottoscrizioni, ha a che fare con l’influenza della dimensione del gruppo sugli incentivi ~ individuali. Si definisca con Q ≡ Q – qi il contributo di tutti gli altri membri del gruppo, a eccezione dell’agente i-esimo. In tal modo, la (1) può essere riscritta come: ~ Ui = U(yi , qi + Q ) (5) Dalla (5) si nota che l’utilità di ogni agente dipende non solo dalla propria sottoscrizione, ma anche da quella degli altri. Pertanto, nella realtà le contribuzioni individuali sono intimamente collegate tra loro. Nondimeno, in assenza di coordinamento, ciascun agente considererà le sottoscrizioni degli altri come date, per cui riterrà la
propria sottoscrizione ininfluente sugli incentivi del resto del gruppo. Sono queste le congetture comportamentali chiamate di Nash-Cournot, in base alle quali per~ ciascun agente vale che (dQ /dqi )e = 0, dove la e sta a indicare un’aspettativa. Tali assunzioni comportamentali hanno una rilevante implicazione: all’aumentare della sottoscrizione del resto del gruppo, l’incentivo individuale diminuirà, per cui la risposta ottima dell’agente ~ i-esimo a un aumento di Q sarà negativa, cioè ~ dqi /dQ < 0. Questo è esattamente ciò che si verifica in un gruppo ampio: difatti, se in una collettività composta da due individui si ~ ha che Q = qi , nel caso di tre indi~ vidui si avrà che Q = 2qi , e così via, finché per n individui ciascuno ~ di essi assumerà che Q = (n – 1)qi . Da ciò deriva che, all’aumentare della collettività di riferimento, ciascun individuo congetturerà un aumento della sottoscrizione da parte del resto del gruppo, per cui i suoi incentivi individuali saranno proporzionalmente inferiori.
le difficoltà dell’azione collettiva
29
Secondo approfondimento. Implicazioni strategiche di scenari alternativi per l’azione collettiva Al fine di esaminare come le differenti configurazioni dei costi e dei benefici individuali, le preferenze degli agenti, le tecnologie di produzione e le istituzioni, possono influenzare l’esito atteso dell’azione collettiva, ricorriamo a delle semplici applicazioni della teoria dei giochi. In particolare, di seguito sono rappresentati alcuni giochi simultanei tra 2 agenti, ciascuno dei quali ha a disposizione un insieme di due strategie pure: cooperare e non cooperare. I giochi sono rappresentati in forma normale, mediante la costruzione di matrici dei pagamenti, o payoff, associati a ciascuna combinazione delle strategie. All’interno di ciascuna cella delle matrici, il primo numero indica il payoff dell’agente 1, mentre il secondo quello dell’agente 2. Inoltre, segnaliamo con un asterisco l’esito Pareto-efficiente, mentre con la lettera N l’esito incentivo-compatibile, l’equilibrio di Nash, vale a dire la combinazione di strategie dominanti, o incentivo-compatibili, rispetto alla quale nessun agente ha interesse a mutare individualmente il proprio comportamento. Prendiamo in esame dapprima il tipico scenario di riferimento, vale a dire il dilemma del prigioniero. Nella matrice sottostante, ciascuna unità del bene pubblico conferisce un beneficio pari a 5 a ogni agente, indipendentemente dal fatto che questi contribuisca o meno alla sua fornitura. La sottoscrizio-
ne di ogni unità ha un costo pari a 6. Se entrambi gli agenti cooperano, ciascuno ottiene un beneficio netto pari a 4 (= 5 × 2 – 6). Se, tuttavia, uno solo degli agenti coopera, questi percepisce una perdita pari a –1 (= 5 – 6), mentre chi defeziona gode dei benefici di 5 senza aver sostenuto alcun costo. Se nessun agente coopera, entrambi non percepiscono alcun beneficio. L’esito più efficiente è, chiaramente, quello in cui entrambi cooperano, poiché restituisce un payoff più elevato, pari a (4,4); tuttavia, tale strategia è fortemente dominata dalla defezione. Considerando per esempio l’agente 1, questi troverà sempre conveniente non cooperare, indipendentemente dal comportamento dell’agente 2. Ciò è evidente osservando che, se l’agente 2 cooperasse, l’agente 1 otterrebbe un payoff pari a 4 se cooperasse anch’egli, mentre il suo payoff sarebbe pari a 5 se defezionasse; analogamente, qualora l’agente 2 defezionasse, all’agente 1 converrebbe adottare lo stesso comportamento. Poiché 5 > 4 e 0 > –1, all’agente 1 conviene sempre defezionare. Essendo tale ragionamento valido anche per l’agente 2, la strategia incentivo-compatibile per entrambi gli agenti è la defezione. Si verifica così un fallimento dell’azione collettiva, in cui il bene pubblico non viene prodotto ed entrambi gli agenti non percepiscono alcun beneficio (payoff: 0,0).
30
l’economia del noi Agente 2 Coopera
Agente 1
Coopera Defeziona
L’esito dell’azione collettiva sarebbe completamente diverso qualora i costi che ciascun agente sostiene fossero minori dei benefici derivanti da un’azione unilaterale. Nella matrice in basso riportiamo il caso in cui un’unità del bene pubblico fornisce ancora un beneficio pari a 5 a entrambi gli agenti, ma ciascuno di essi sostiene un costo pari a 4 per la sua fornitura. In questo caso,
4,4
Defeziona
*
–1,5
5, –1
0,0
N
anche agendo unilateralmente, ciascun agente riceverebbe un beneficio netto positivo, pari ad 1 (= 5 – 4), per cui la strategia dominante è la cooperazione. Di conseguenza, l’esito incentivocompatibile dell’azione collettiva è anche Pareto-efficiente: entrambi gli agenti cooperano e ciascuno di essi riceve un beneficio pari a 6 (= 5 × 2 – 4). Il gruppo, in questo caso, è privilegiato. Agente 2 Coopera
Agente 1
Coopera Defeziona
Alternativamente, i costi dell’inazione potrebbero essere più elevati della perdita che un agente subirebbe qualora attuasse da solo una strategia cooperativa. La matrice che segue rappresenta il cosiddetto chicken game, nel quale, sebbene ciascun agente preferirebbe defezionare quando l’altro coopera, tale strategia risulta estremamente rischiosa: l’esito della mutua defezione è il peggiore possibile per entrambi. I benefici di ciascuna
6,6
*N 5,1
Defeziona 1,5 0,0
unità del bene pubblico sono pari a 5 per entrambi gli agenti, mentre i costi sostenuti da ciascuno sono pari a 6, come nel dilemma del prigioniero. La differenza risiede nei costi della mutua defezione, che in questo gioco sono particolarmente severi, pari per esempio a –5. Non esiste una strategia dominante, bensì due equilibri di Nash, nei quali uno dei due agenti coopera e l’altro defeziona. L’agente che defeziona si appropria gratui-
le difficoltà dell’azione collettiva tamente dei benefici pari a 5 derivanti da un’unità del bene pubblico. L’agente che coopera incorre in una perdita pari a –1 (= 5 – 6), ma preferirà strettamente tale strategia, rispetto alla prospettiva di sostenere i costi dell’inazione
31
(–1 > –5). In questo caso, sebbene la mutua cooperazione sia una strategia dominata, per cui il gruppo non sarà pienamente privilegiato, almeno un’unità del bene pubblico verrà comunque fornita. Agente 2
Agente 1
Coopera Defeziona
Altri scenari riconducibili alla necessità di intraprendere un’azione collettiva riguardano problemi di coordinamento. Contrariamente ai casi precedenti, in tali giochi è preferibile per gli agenti intraprendere la stessa azione, anche defezionare entrambi, piuttosto che attuare una defezione quando la controparte coopera. Così, nel cosiddetto assurance game, rappresentato nella sottostante matrice, ogni unità del bene pubblico conferisce sempre un beneficio indivisibile pari a 5, allo stesso costo individuale pari a 6; tuttavia, in questo caso si ipotizza che siano necessari entrambi i contributi
Coopera
Defeziona
4,4
–1,5 N
*
5, –1 N
–5, –5
affinché i benefici si materializzino, nel qual caso ciascun agente gode di un beneficio netto pari a 4 (= 5 × 2 – 6). Alternativamente, se entrambi gli agenti defezionano, il loro payoff è pari a 0. Ad ogni modo, entrambe le situazioni sono preferite a quella in cui uno solo dei due agenti coopera e l’altro defeziona, poiché in tal caso il primo sosterrebbe i costi della fornitura, ma nessuno dei due percepirebbe alcun beneficio. Tale gioco ammette due equilibri di Nash ma nessuna strategia fortemente dominante, sebbene la mutua defezione domini debolmente la mutua cooperazione. Agente 2 Coopera
Agente 1
Coopera Defeziona
Se, tuttavia, fosse possibile per gli agenti firmare un accordo vincolante con il quale si impegnano a
4,4
*N
0, –6
Defeziona –6,0 0,0 N
suddividere sempre i costi di fornitura, allora la mutua cooperazione potrebbe diventare la strategia
32
l’economia del noi
debolmente dominante. La seguente matrice illustra tale variazione dell’assurance game, derivante dall’introduzione di un’istituzione. In questo caso, qualora uno dei due agenti defezionasse, sarebbe costret-
to a rimborsare la metà dei costi sostenuti dalla controparte, per cui incorrerebbe in una perdita pari a –3. Sebbene è ancora possibile la mutua defezione, il gruppo è quasi privilegiato. Agente 2 Coopera
Agente 1
Coopera Defeziona
Anche una diversa tecnologia di offerta del bene pubblico influisce sulla distribuzione degli incentivi individuali alla fornitura. Il caso in cui è il «tentativo migliore» quello che consente di fornire il bene pubblico all’intero gruppo è rappresentato nella matrice in basso. Si suppone che la prima unità del bene pubblico fornisca benefici indivisibili pari a 10, ma che le unità aggiuntive non producano alcun beneficio addizionale. I costi individuali di fornitura sono sempre pari a 6. In tale gioco non esiste una strategia dominante, ma esistono due equilibri di Nash, allo stesso tempo anche Pareto-
4,4
Defeziona
*N
–3, –3
–3, –3
0,0 N
efficienti, in cui un agente coopera e l’altro defeziona. In particolare, l’agente che produce il bene pubblico ottiene un beneficio netto pari a 4 (= 10 – 6), mentre l’agente che defeziona gode dei benefici senza sostenerne i costi. Chiaramente, se nessun agente coopera, il bene pubblico non viene prodotto, per cui i payoff sarebbero pari a (0,0). Tuttavia, si noti che l’equilibrio in cui entrambi gli agenti cooperano non è Paretoefficiente: entrambi sosterrebbero i costi di produzione, ma i benefici totali resterebbero invariati, per cui in aggregato i benefici netti sarebbero inferiori. Agente 2
Agente 1
Coopera Defeziona
La situazione in cui, invece, è l’«anello più debole» quello che determina il livello aggregato del
Coopera
Defeziona
4,4
4,10 * N
4,10 * N
0,0
bene pubblico, presenta caratteristiche simili al chicken game. Quello che differenzia i due giochi è la
le difficoltà dell’azione collettiva conseguente implicazione strategica: in questo caso, la mutua cooperazione è una strategia fortemente dominante. Ciò emerge dalla matrice in basso, in cui ciascun agente sostiene un costo pari a 6 per la fornitura di un’unità del bene pubblico, ma i benefici di tale bene, pari a 10, si manifestano solo se entrambi gli agenti cooperano. Anche qui, inoltre, i costi dell’inazione sono severi, poniamo pari a –5. Ebbene, poi-
33
ché nessun beneficio si materializza finché non sono state fornite entrambe le unità del bene pubblico, qualora solo uno degli agenti cooperasse conseguirebbe una perdita netta, pari a –6, mentre l’agente che defezionasse non otterrebbe nessun beneficio. Visto che anche lo status quo implica una perdita per entrambi, la mutua cooperazione, che è l’equilibrio Pareto-efficiente, diviene la strategia dominante. Agente 2 Coopera
Agente 1
Coopera Defeziona
Infine, qualora gli agenti percepissero dei benefici privati dalla fornitura del bene pubblico, poniamo pari a 5, oltre che dei benefici indivisibili, pari anch’essi a 5 per unità prodotta, la prognosi per l’azione collettiva sarebbe ancora più favorevole. È questo il caso rappresentato nella seguente matrice, in cui il costo individuale di produzione è posto pari a 6. Se solo un agente
4,4
Defeziona
*N
–6,0
0, –6
–5, –5
contribuisce, ottiene comunque, grazie alla somma dei benefici privati e di quelli pubblici, un payoff positivo, pari a 4 (= 5 + 5 – 6), mentre l’agente che defeziona non percepisce nulla. Per entrambi gli agenti la strategia dominante è cooperare: entrambi percepiranno sia i benefici privati che la somma di quelli pubblici, ottenendo un payoff pari a 9 (= 5 × 2 + 5 – 6). Agente 2 Coopera
Agente 1
Coopera Defeziona
9,9
*N 0,4
Defeziona 4,0 0,0
2. Beni privati di rete e beni pubblici specifici
I beni privati di rete Abbiamo definito l’azione collettiva come qualsiasi azione che affronta interdipendenze indivisibili. La fornitura di un bene pubblico rappresenta un caso importante in cui l’azione collettiva si manifesta. Esistono nondimeno interdipendenze indivisibili che non sono beni pubblici. Una di queste, assai rilevante e oggi al centro di tanti dibattiti, è la «rete». Con questo termine ormai abusato qui intendiamo una qualsiasi struttura di interdipendenze (interazioni, relazioni o connessioni) che modifica, in quantità e in qualità, le prestazioni dei soggetti in essa inseriti. Le prestazioni dei singoli soggetti spesso migliorano grazie alla «rete», ma talvolta peggiorano. Alcune «reti» sono a libero accesso, altre escludono. Alcune sono formali e routinarie, altre creative e innovatrici. Alcune mettono in contatto persone, territori e conoscenze; altre connettono cose, luoghi virtuali e informazioni. Alcune sono paritetiche, altre gerarchiche. Alcune abbracciano gruppi ampi, altre gruppi ristretti. L’unico requisito comune a ogni «rete» risiede nel comporre una struttura di legami sociali che, in quanto struttura, è indivisibile. In questo senso, il singolo soggetto può magari intervenire sulla «rete», alterandola; ma non può suddividerla a piacimento
36
l’economia del noi
senza distruggerla. Soltanto un’azione collettiva o di gruppo può mantenere una «rete», o generarne un’altra. Esistono due principali modalità – distinguibili in astratto, sebbene mescolate di fatto – con cui le «reti» influenzano i processi economici. In primo luogo, si hanno le «esternalità di una rete economica» quando l’utilità o il profitto del bene non è stabilito soltanto dal prezzo di mercato a cui esso viene compravenduto, bensì anche dalla quantità di soggetti che lo consumano o producono. In secondo luogo, si hanno le «esternalità di una rete sociale» quando il valore del bene viene codeterminato, oltre che dal prezzo, dalla qualità sociale dei gruppi che lo utilizzano. Denominiamo «beni privati di rete» quei beni che percepiscono l’una o l’altra esternalità di rete. Esaminiamoli meglio. Le reti economiche Il precedente capitolo è iniziato discorrendo delle interdipendenze della vita sociale. Le interdipendenze sociali che comportano effetti economici, ma che non vengono valutate né compensate dal mercato, si chiamano esternalità. Esse comprendono gli effetti, positivi o negativi, che le azioni di un soggetto hanno sui livelli di benessere o di produzione di un altro soggetto e che non sono regolati dal meccanismo dei prezzi. Un «male» per altri cui non si può attribuire un prezzo rappresenta un’esternalità negativa, mentre un’azione non compensata che va a beneficio di altri costituisce un’esternalità positiva1. 1. Quella qui definita è l’«esternalità tecnologica», mentre non ci riferiremo mai al «confuso dibattito» [Laffont 1987, 264] sulle «esternalità pecuniarie». Il concetto di esternalità qui adottato richiede sia la condizione d’interdipendenza, sia quella per cui l’effetto è né valutato né compensato dai prezzi di mercato. Alcuni economisti tendono a sorvolare sul primo aspetto, come quando Carlton e Perloff
beni privati di rete e beni pubblici specifici
37
Nei casi classici di esternalità gli atti di un individuo influenzano direttamente l’utilità o il profitto di altri individui. Invece nelle situazioni con «esternalità di rete economica» l’utilità o il profitto di un bene per un individuo dipende dal numero degli altri individui che lo consumano o che lo producono [Katz-Shapiro 1985 e 1994]. La differenza è rilevante. Supponiamo per esempio che si riduca il prezzo di un bene che, come il telefono cellulare, tanto più si usa quanto più numerosi sono coloro che pure lo posseggono. Il minor prezzo comporta un aumento della quantità domandata, provocando un’espansione del numero degli utilizzatori della rete: è questo l’effetto prezzo. Ma si genera altresì una conseguenza positiva su coloro che già erano collegati alla rete, poiché, entro una rete più ampia, l’utilità o il profitto traibili da ciascun cellulare s’accrescono: è questo l’effetto di rete economica. Ne segue che anche ai vecchi utenti può convenire richiedere ulteriori unità del bene: elevano la quantità domandata quale reazione all’incremento degli acquisti altrui. Poiché le domande del bene privato di rete da parte degli individui non sono indipendenti le une dalle altre,
[1994, 108] scrivono: «i beni e i mali privi di prezzo vengono definiti esternalità»; possono tuttavia esservi beni e mali senza prezzo che si producono e consumano non generando, nel gruppo di soggetti in esame, interdipendenze. Altri economisti e parecchi scienziati sociali tendono invece a trascurare il secondo aspetto: identificando qualsiasi interdipendenza della vita sociale con un’esternalità, dilatano a dismisura la portata del concetto e lo rendono quasi superfluo. È quanto fa Coleman [1990, 321], distinguendo genericamente «tra eventi che hanno conseguenze soltanto per coloro che li controllano ed eventi che presentano conseguenze esterne (cioè esternalità) per attori che hanno nessun controllo su di loro». Coleman ne trae la tesi secondo cui la richiesta sociale di norme sorge quando esistono esternalità che occorre ridurre, ossia quando un gruppo di attori nutre l’interesse di controllare le azioni di altri attori [Ivi, cap. 10]. Data però la sua definizione di esternalità, quella tesi si rivela inutile per decifrare, poniamo, l’istituzionalizzazione dei mercati: mentre infatti essa vale, se vale, per qualsiasi contesto sociale, l’esternalità, correttamente concettualizzata, è storicamente qualificata e presuppone già l’esistenza dispiegata dei mercati.
38
l’economia del noi
l’esternalità di rete porta miglioramenti da cui non è possibile escludere chi, esprimendo una domanda del bene, sceglie di entrare o di rimanere nella rete. Poiché siamo nell’ambito di comportamenti volontari, non vale il contrario: chi sta in un network di consumo e/o di produzione può uscirne. Ma perché, se si tratta di un bene (e non di un «male»), qualcuno può razionalmente desiderare di non fruirne ancora? Proprio perché si tratta di un bene il cui rapporto benefici-costi varia al variare della dimensione della rete economica. L’intervallo significativo inizia con una dimensione minima, sotto cui la rete non esiste, e finisce con una dimensione massima, oltre la quale gli utenti sono così numerosi da provocare spesso una congestione nel consumo del bene. Il mercato può crescere con lentezza prima del raggiungimento della «massa critica», può allargarsi molto velocemente dopo, può infine all’improvviso restringersi. Quest’ultimo fenomeno si verifica ogni volta che troppi utenti frequentano una rete economica, come quando una rete ferroviaria o stradale è intasata; oltre quella «seconda massa critica», i soggetti abbandonano l’impiego del treno o di quelle strade uscendo dalla rete2.
2. Le esternalità di rete possono essere concepite come un’interdipendenza economica che, al variare del numero degli utenti, esprime caratteri ora più prossimi a quelli del bene pubblico, ora più prossimi a quelli della risorsa comune. La «risorsa comune» (o common), pur essendo disponibile gratuitamente per chiunque la voglia sfruttare (non-escludibilità), è tale che il suo uso da parte mia condiziona la capacità di goderne da parte vostra (rivalità). Mentre dunque i beni pubblici sono consumabili da tutti, ma il costo della loro fornitura cade soltanto sui contribuenti, le risorse comuni presentano oneri che riguardano tutti, ma benefici che toccano unicamente gli utilizzatori. La linea di confine tra i due tipi di beni è in continuo movimento: parecchi beni possono essere ora beni pubblici e ora risorse collettive. Come nell’esempio indicato nel testo, finché una strada è adeguata al traffico, il suo uso si basa sulla non rivalità; mentre quando la strada è congestionata, diventa risorsa collettiva. Va precisato che, nella letteratura recente, le esternalità di rete vengono spesso analizzate in riferimento all’economia dell’informazione. Si rileva in proposito che le economie di scala dal lato della domanda sono inesauribili, in
beni privati di rete e beni pubblici specifici
39
Vi sono casi in cui i soggetti che gestiscono una rete economica sono meno di quelli che la usano. Ciò può restringere l’azione collettiva ai soli gestori, mentre gli utenti svolgono una funzione passiva di consumo, pur godendo dei vantaggi addizionali del consumare entro una rete. Se guardiamo al mercato del software informatico, pochi produttori hanno una convenienza a espandere la rete per incrementare i benefici di una massa crescente di consumatori: è questo uno dei casi – discussi nel capitolo primo – in cui l’azione collettiva implode, a favore dell’iniziativa di pochi. Se consideriamo invece attività di autoassistenza (diecimila abitanti di un quartiere sorvegliano i comportamenti devianti, oppure undici calciatori si aiutano reciprocamente per ripartire al meglio lo sforzo fisico durante una partita), ci rendiamo conto che qui le esternalità di rete economica in tanto esistono, in quanto coloro che forniscono i servizi coincidono largamente con quelli che ne fruiscono, così che tutti i membri del gruppo, nel mentre perseguono i beni privati (passeggiare o fare affari nel quartiere, oppure giocare individualmente così bene da diventare famosi e ricchi), collaborano alla manutenzione e alla crescita della rete. Com’è naturale, tra i due casi estremi ne troviamo molti altri. Il punto decisivo è che anche quando consideriamo le situa-
quanto i consumatori preferiscono sempre reti di dimensioni maggiori, e che quindi l’assetto naturale è in questi mercati il monopolio. Ciò è bene espresso dalla cosiddetta legge di Metcalfe: «Se una rete è formata da n individui e se il valore che ciascuno di essi assegna alla rete è proporzionale al numero degli altri utenti in rete, allora il valore totale della rete (il valore assegnato da tutti gli individui) è proporzionale a n(n – 1) = n2 – n. Se ogni individuo valuta un dollaro ogni altro utente in rete, allora una rete composta da 10 individui ha un valore totale di circa 100 dollari. Per contro, una rete di dimensione 100, ha un valore totale di circa 10.000 dollari. Una rete dieci volte più grande, ha un valore complessivo mille volte superiore» [Shapiro-Varian 1999, 224]. Noi stiamo invece considerando anche situazioni, non meno diffuse, in cui a un certo punto l’aumento ulteriore della dimensione può non essere preferito.
40
l’economia del noi
zioni in cui tutti dovrebbero contribuire alla rete economica, e anche quando il gruppo è ampio, il dilemma del cooperatore s’indebolisce. Infatti per un verso, essendo la rete economica indivisibile, ciascuno è tentato di gestirla/usarla senza contribuire; ciò può rendere più vantaggioso arrestare, a un certo punto, l’allargamento della rete stessa, ripiegando sulla più facile cooperazione in gruppi di ridotte dimensioni. Per l’altro verso, tuttavia, ciascun individuo, nel valutare se gli conviene appartenere a una rete, tiene conto sia dei benefici diretti (come avviene per le esternalità positive tradizionali), sia del guadagno addizionale che, contribuendo con il suo ingresso all’allargamento della rete economica, genera per tutti gli insider (lui compreso, da quel momento in avanti). Ciò lo spinge due volte a partecipare alla rete: l’una in quanto così fruisce del bene; l’altra in quanto, acquisendo il bene privato, espande la rete stessa e accresce quindi i vantaggi anche del bene in suo possesso. In definitiva siamo dunque davanti a una classe di situazioni in cui nei gruppi ampi si è incentivati all’azione collettiva, quantomeno finché la rete economica nella quale il bene privato è collocato non si congestiona3.
3. Va sottolineato che la capacità, da parte dei beni privati di rete, di attenuare il dilemma del cooperatore non dipende dalla «massa critica». Esiste, è vero, una dimensione minima sotto cui la rete semplicemente non esiste; e può esistere una dimensione massima oltre cui la rete è troppo estesa/congestionata. Ma i beni privati di rete esercitano la loro capacità di mobilitazione dell’azione collettiva proprio nell’intervallo tra quel minimo oggettivo e quel massimo eventuale. Siamo dunque davanti a una soluzione non riconducibile a modelli – ritenuti ad hoc nella discussione del capitolo primo – in cui le soglie quantitative svolgono un ruolo esplicativo cruciale.
beni privati di rete e beni pubblici specifici
41
Le reti sociali Distinguiamo tra attività economiche intercambiabili e attività economiche specifiche. Immaginiamo che il primo premio di un concorso consista in mille gettoni d’oro. Non importa se lo vince Tizio, Caio o Sempronio. Né importa se il fortunato converte i gettoni in euro o in dollari. Né infine importa se egli spende quei soldi per una crociera intorno al mondo o per uno stabilimento industriale. Tutti i passaggi descritti sono intercambiabili, nel senso che l’identità del soggetto, della moneta e dei beni non modificano il fenomeno: si tratta di mere «etichette» sulle quali possiamo scrivere i nomi che vogliamo. Immaginiamo invece che un filantropo lasci un’eredità a un gruppo di poveri orfani, precisando che essa verrà divisa in parti eguali tra coloro che, nei dieci anni successivi, non avranno guai con la giustizia e conseguiranno un certo titolo di studio. Gli orfani sono stimolati a rispettare le indicazioni testamentarie, e sono inoltre spinti a verificare chi tra gli altri membri del gruppo effettivamente vi riesce. Stavolta siamo davanti a un’attività economica in cui conta chi sono io, chi sono gli altri coinvolti in essa, quali scelte io e loro compiamo. Ogni passaggio è qui specifico, nel senso che esso ha un nome o un significato che non sono sostituibili facilmente con diversi nomi o significati. Il caso appena suggerito è quello di un piccolo gruppo nel quale, controllandosi, ci si riconosce vicendevolmente. Ma le attività economiche specifiche possono realizzarsi anche entro gruppi ampi e anonimi. Ciò accade, per esempio, quando la soddisfazione che un bene mi conferisce si degrada al mutare della qualità sociale (e non individuale) dei suoi consumatori. Si pensi al piacere di recarsi durante l’estate sulle spiagge del litorale più vicino
42
l’economia del noi
alla propria città. Un paio di generazioni fa, ciò significava svolgere una vacanza elitaria e incontrare, nei pochi stabilimenti balneari, individui dei gruppi sociali con cui si aspirava a essere identificati. Oggi quelle stesse spiagge sono affollate, sporche e rumorose; ma, soprattutto, relazionano a gruppi dai quali si desidera mantenere una distanza sociale. Ne segue che il nostro soggetto volerà ai Tropici, o spenderà di più per soggiornare in località marittime, poste magari ancora lungo il litorale vicino, ma rese artificialmente esclusive. Qui il cambiamento nella condizione di uso del bene non dipende tanto dalla mera quantità degli altri utenti – come avviene per le esternalità di rete –, bensì dipende soprattutto da chi altro ne fruisce oltre me, o meglio ancora da chi non ne può fruire. Il godimento estraibile dalla spiaggia si deve alla qualità sociale dei bagnanti, che viene valutata sulla scorta di comparazioni tra il gruppo sociale da cui vorrei essere riconosciuto, o a cui sento d’appartenere, e gli altri4. Come per la spiaggia, molti beni hanno un’utilità o un profitto non soltanto nella misura espressa dal loro prezzo di mercato, bensì anche in funzione delle reti
4. Il concetto di «beni posizionali» [Hirsch 1976] manifesta alcuni tratti comuni con la nozione di bene-in-rete che stiamo illustrando. I beni posizionali, qualunque sia il livello di produttività media, sono godibili soltanto da alcuni membri di un gruppo sociale. Talvolta ciò accade in quanto tali beni sono scarsi in senso assoluto, come lo sono i quadri di Raffaello o i vini del Chianti: la loro offerta di lungo periodo è fissa, o assai inelastica, a qualsiasi livello di prezzo. Talvolta vi è una seconda ragione, riguardante la scarsità imposta socialmente: si pensi al divieto legale di compravendere organi umani per trapianti; qui è un vincolo artificiale che crea la carenza. La terza ragione che rende privilegiati i beni privati, infine, riguarda il deteriorarsi delle condizioni del loro uso per me al crescere del numero degli altri consumatori. I primi due aspetti non vengono tuttavia qui considerati, mentre il terzo si basa, nella nostra prospettiva, sulla qualità degli altri utenti, e non sul loro numero. Secondo Hirsch, all’aumentare della ricchezza degli individui la domanda di beni posizionali s’incrementa: nel caso in cui essi siano beni privati, il loro prezzo cresce; mentre nel caso in cui essi siano beni pubblici, il razionamento si realizza per mezzo della congestione.
beni privati di rete e beni pubblici specifici
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sociali alle quali l’uso di quel bene facilita o impedisce l’accesso. In questi casi l’«esternalità di rete sociale» del bene indica i gruppi nei quali, anche grazie al bene, il soggetto può collocarsi. L’esternalità di rete sociale deriva pertanto da una precisa circostanza: quando un bene viene prodotto e/o consumato entro una «cerchia di riconoscimento», esso ha più valore che fuori. Se a me piacciono i Beatles posso ascoltare la loro musica in una situazione strettamente privata; di solito, nulla della mia attività di consumo ricade su altri o richiede azioni altrui. Se invece mi batto per diventare uno «stilista di moda», ciò ha senso soltanto se i colleghi e i clienti accetteranno durevolmente il bene che offro loro, ossia se potrò disporre di una «cerchia di riconoscimento» entro cui la mia identità di stilista è e resta corroborata. «Lo status sociale si basa su valutazioni collettive, o meglio sul consenso delle opinioni dentro un gruppo. Nessuna persona può da sola conferire uno status a un’altra, e se la posizione sociale di un soggetto fosse classificata differentemente da ognuno che incontra, egli non avrebbe alcuno status sociale»5. I beni privati di rete sociale spettano a coloro che stanno in quella rete (o cerchia di riconoscimento) e a 5. [Marshall 1964, 198]. Che i beni privati siano spesso fruibili dentro o rispetto a un «gruppo» sociale, è illustrato, pur con differente terminologia, da Alessandro Pizzorno [1983, 166]: «Distribuire premi monetari, investimenti territoriali […] e aumenti salariali, significa distribuire benefici che possono essere utilizzati individualmente [sul] mercato, nel quale [gli agenti possono muoversi] in tutti i punti della sua area, con la certezza di essere riconosciuti, a condizione [di essere] portatori di beni scambiabili. Se invece si distribuiscono medaglie, diritti linguistici o posizioni di governo, gli interessati, per godere di questi benefici, debbono conservare un’identità sociale coerente con essi, cioè legata al fatto di appartenere all’entità collettiva che glieli riconoscerà. L’ex combattente deve rimanere membro della collettività patriottica (o di una che per altre ragioni apprezzerà il valore militare simbolizzato dalle medaglie); il parlante di minoranza dovrà restare a comunicare all’interno di quella minoranza; e l’operaio dovrà rimanere seguace di quel certo partito operaio che ha ottenuto le posizioni di governo».
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nessun altro al di fuori. Entrare o meno in quella rete sociale diventa perciò un privilegio, solo grazie al quale io posso ottenere quel bene. L’accesso a quella rete può inoltre costituire un privilegio perfino per chi, una volta entrato, non riesce a fruire del bene privato, poiché è la rete stessa a facilitare indirettamente il suo accesso ad altri beni privati. (Molti desidererebbero entrare nella casa del programma televisivo a premi Il grande fratello; tra coloro che vi accedono, soltanto uno vincerà il premio, ma alcuni dei restanti sfrutteranno la popolarità per ottenere beni e denaro, talvolta in misura perfino maggiore del vincitore.) L’implicazione principale per il nostro ragionamento è che, in presenza di esternalità di rete sociale, il dilemma del cooperatore, pur restando valido, appare reversibile. Ciascun individuo, nel valutare se gli conviene offrire o domandare un bene privato, deve tener conto sia dei benefici e dei costi di quel bene (come avviene per qualsiasi calcolo mercantile), sia del beneficio ulteriore che quel bene riceve dall’inserimento in una rete sociale. Infatti l’utilizzo del bene vale di più in quanto favorisce l’accesso a gruppi sociali (è il caso della spiaggia privilegiata), oppure in quanto addirittura il bene stesso riceve il proprio valore dal riconoscimento da parte di un gruppo (è il caso del mestiere dello stilista). In entrambi i casi, diventa interesse del singolo soggetto non soltanto usare il bene, ma pure assicurare il mantenimento della rete sociale che lo qualifica: il soggetto è così spinto a partecipare a una forma d’azione collettiva, perfino quando essa si svolge in gruppi ampi e anonimi6.
6. Una precisazione: la «rete» di cui abbiamo discorso è un «bene collettivo» (nonescludibile), sebbene non un «bene pubblico puro» (non-rivale, oltreché nonescludibile). L’impostazione di Olson richiede, in senso stretto, il primo e non il secondo. Pertanto, che un «bene di rete» sia non-rivale, rivale o anti-rivale (quando la sua utilità cresce all’entrata di un utente marginale nella rete), è importante per chiarire come variano gli incentivi dei soggetti, ma rimane un punto distinto.
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I beni pubblici specifici Il concetto di bene pubblico specifico non coincide con quello di bene di club, spesso denominato bene pubblico locale o joint good. Il bene di club puro è escludibile ma non-rivale. Il bene pubblico specifico è non-escludibile e non-rivale, come il bene pubblico puro, ma presenta altresì una terza caratteristica: l’utente può goderne appieno i benefici se sostiene costi peculiari; per esempio, conoscere un gergo tecnico è particolarmente utile per chi voglia scambiare idee in una comunità di tecnici che condivide tale linguaggio. Il linguaggio tecnico è pertanto un bene pubblico, perché nessuno da esso può escludermi, né esso ha problemi di congestione, ma non è universale, in quanto lo pratico se l’ho appreso onerosamente. In altri termini, che sia impossibile e indesiderabile razionare un bene pubblico, non implica che l’accesso alla sua fruizione risulti eguale per tutti; in particolare, che sia sempre e comunque gratuito. Pensiamo ai diritti di cittadinanza. Quando un emigrato diventa residente nel paese dove vive e lavora, acquisisce almeno parte di tali diritti, i quali costituiscono un bene pubblico per chiunque abiti nel territorio nazionale. Tuttavia l’emigrato deve di solito sopportare un costo individuale di accesso alla cittadinanza – ottenere il permesso di soggiorno, rispettare codici di condotta locali, attendere i tempi previsti dalla legge – che è superiore rispetto a quello di un indigeno. Ovviamente, chi sopporta gli oneri di accesso al bene pubblico lo fa per godere benefici differenziali: l’emigrato che diventa cittadino ha infatti più opportunità d’inserimento sociale ed economico rispetto al migrante precario o addirittura clandestino. Distinguiamo pertanto tra le spese di finanziamento del bene pubblico, che, come mostra il dilemma del coo-
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peratore, in gruppi ampi si è incentivati a non pagare; e i costi individuali di accesso al bene pubblico, che rappresentano spesso la precondizione per decidere se e quanto partecipare ai costi del bene pubblico. L’esistenza di costi di accesso comporta che non tutti possano o vogliano accedere. È questa un’importante ragione per cui un gruppo sociale vasto tende a frazionarsi in sottogruppi. Affinché però un certo sottogruppo si formi, occorre non soltanto che i suoi membri percepiscano un «beneficio netto», dato dallo scarto positivo tra vantaggi del bene pubblico e costi dell’accesso, ma pure che tale beneficio superi quello che i soggetti otterrebbero qualora si procurassero, se possibile, in via privata il bene. Qualora l’indivisibilità di un bene pubblico copre un’intera collettività, esso è universale; mentre qualora copre un sottogruppo di quella collettività, esso è specifico [Bellandi 2003, 158-159]. È importante notare che i due concetti di bene che stiamo mettendo a fuoco in questo capitolo – i beni privati di rete e quelli pubblici specifici – sono entrambi espressioni di interdipendenze indivisibili localizzate a sottogruppi di gruppi sociali più ampi. Tant’è che una «rete collettiva» – entro la quale dei beni privati vengono prodotti, scambiati e consumati – può essere presentata come la forma non pura di un bene pubblico specifico per un gruppo di utenti, ciascuno dei quali sostiene come «costo individuale di accesso» alla rete il prezzo di mercato del bene privato. Un bene pubblico specifico può a sua volta venire rappresentato come modalità-limite, o forma pura, di una rete collettiva in cui le esternalità positive (o negative, se sono «mali» pubblici) sono utilizzabili per l’intero loro valore da tutti. Infatti, com’è noto, tra beni pubblici ed esternalità passa una mera differenza di grado. Se per esempio un Comune costruisce, quale bene pubblico, un lampione di valore pari a F, nella funzione
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di utilità o di profitto dei passanti figura l’intero valore del lampione, F. Invece una «rete collettiva», suscitando esternalità per i beni privati usati nel suo ambito, entra nella funzione di utilità o di profitto dei soggetti solo per una frazione del proprio valore. Un esempio: il formarsi della chiesa cristiana universale Riassumendo, abbiamo esaminato classi di beni privati che traggono almeno parte del loro valore dall’essere collocati in «reti» economiche o sociali. Abbiamo osservato che, componendosi le «reti» assieme alla circolazione dei beni privati, chi aspira al bene non può che alimentare la «rete» collettiva. Lo stesso processo di co-produzione può verificarsi tra un bene pubblico specifico e un bene pubblico universale nei casi in cui i beni sono complementari, ossia tali che ciascuno incrementa il proprio valore se fornito assieme all’altro. Questa circostanza ha un rilievo cruciale per comprendere la genesi della partecipazione volontaria. Le difficoltà dell’azione collettiva per il gruppo più ampio possono infatti essere attenuate dalla facilità con cui la cooperazione avviene in gruppi ristretti che, nel mentre perseguono beni privati di rete o beni pubblici specifici, coltivano per complementarità anche le reti collettive o il bene pubblico che copre il gruppo maggiore. Presentiamo, mediante un esempio più dettagliato, la funzione esplicativa sia dei beni privati di rete, sia dei beni pubblici specifici. Riferiamoci alla vicenda del formarsi del movimento cristiano, avvertendo che, sotto il profilo squisitamente storico, la nostra ricostruzione altro non è che una «caricatura»: effettuiamo cioè un esperimento di pensiero col quale diamo rilievo ad alcuni attributi di un fenomeno complesso. Poiché desideriamo con-
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centrarci su incentivi che Olson trascura, immaginiamo che la coercizione non eserciti alcun ruolo, e che manchino anche sanzioni selettive, metanorme e incentivi selettivi: quando si forma una struttura gerarchica, l’obbedienza al superiore è solo carismatica, scaturendo dalla sua autorità e non dal suo potere o dai vantaggi collaterali che può procurare. Dopo che Gesù di Nazareth li ha lasciati, gli apostoli si trovano a svolgere attività di proselitismo in comunità molto diverse tra loro per cultura, etnia e precedente formazione religiosa. Il bene pubblico universale per tutti coloro che si autodefiniscono cristiani è (lo scopo comune di costruire) una chiesa unica con un capo supremo e un’organizzazione forte e centralizzata. Secondo il dilemma del cooperatore, se i membri dell’intero ampio gruppo cristiano tentassero direttamente di coltivare tale bene pubblico, sarebbero destinati al fallimento. Immaginiamo invece che il movimento cristiano proceda articolandosi in molteplici comunità locali, ognuna delle quali punti a un bene pubblico specifico: un certo modo di realizzare l’insegnamento di Gesù. Vale la pena di sottolineare che siamo davanti effettivamente a scopi comuni differenti. Come oggi tra il movimento dei focolarini e quello di rinnovamento dello spirito, o tra l’ordine dei missionari comboniani e quello dei gesuiti, corrono enormi differenze nello stile di vita religiosa – dai riferimenti teologico-dottrinari fino alle implicazioni di impegno mondano –, così accadeva a quei tempi da un movimento cristiano all’altro. L’accesso a ognuna di queste comunità è libero; sebbene, essendo il contesto politico-sociale poco favorevole, si può supporre che l’entrata non sia a costo individuale nullo. Da queste comunità locali, per gli stessi motivi appena invocati, si può uscire liberamente: l’appartenenza è una scelta che un individuo compie se, e
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finché, lo sorregge la fede. Poiché ciascun gruppo cerca di mantenersi in linea con il messaggio spirituale del fondatore, si può anche ipotizzare che i benefici netti dell’entrata consistano unicamente nella frequentazione della comunità, con l’intera valenza religiosa che questo comporta. Ogni comunità cristiana esprime inoltre – accanto al bene pubblico specifico, che è lo scopo comune agli adepti – un bene privato di rete sociale, costituito dalla conversione o grazia individuale, che conferisce ai membri un’identità mediante l’appartenenza e il riconoscimento da parte della comunità medesima. Ciascuna comunità di base opera insomma mediante due interdipendenze indivisibili: un bene pubblico specifico e una rete collettiva sociale in cui è collocato il principale bene privato ivi prodotto e consumato. Da entrambe queste indivisibilità si può entrare o uscire liberamente. Finché manca la rivalità nel consumo, entrambe possiedono una certa qualità e un certo onere; quando inizia a subentrare la congestione, la loro natura e i loro costi cambiano e alcuni decidono per l’exit. Ma cosa c’entra la dimensione del network con la scelta di restare o meno in una certa comunità religiosa? Al variare della dimensione dell’indivisibilità, e in particolare quando si oltrepassa la sua soglia di congestione, mutano gli incentivi dei soggetti razionali che a essa partecipano. Più l’indivisibilità si espande, minore è l’opportunità che io contribuisca alla sua offerta. Ma soprattutto: più forte è la spinta per ciascun soggetto a disinteressarsi dell’interesse del gruppo, più vigorosa è la tentazione di suscitare o mantenere l’azione collettiva mediante misure – quali il bastone e la carota, la coercizione e il denaro – che fino a quel momento non sono state introdotte sistematicamente. Se applichiamo questa logica a una comunità religiosa, l’impatto è deflagrante. Un cristiano dall’animo puro,
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man mano che si allarga il bene pubblico specifico o la rete collettiva sociale della sua comunità, si trova circondato sempre più da individui che – pur autodefinendosi cristiani come lui, e dunque dichiarando di perseguire lo stesso suo scopo – o sono poco impegnati nelle attività religiose, o, ancor peggio, sono dediti, anche grazie ai mezzi che il gruppo mette loro a disposizione, ad altre attività volte a fini personali. La decisione dell’exit può dunque prospettarsi come un’opzione diretta a restaurare altrove una comunità adeguata allo scopo comune. La vicenda storica del cristianesimo sarebbe poco comprensibile al di fuori di questa dinamica, che Bruno Frey [1997, 282] descrive in termini compatibili coi nostri: I monasteri benedettini applicarono con tale successo ed efficienza la regola «ora et labora», che si arricchirono notevolmente e videro declinare il loro slancio spirituale. Ciò portò alla nascita di un ordine riformato, i Circestensi. Ma dopo qualche tempo anche questo nuovo ordine ottenne un tale successo economico da minare la sua purezza di fede. Ecco dunque che al suo interno si formò un ordine riformato, i Trappisti, che tornarono, come ebbero a dichiarare, alle vere «regole» benedettine.
Mentre nel brano citato ci si arresta però alla contrapposizione tra incentivi estrinseci (quali il potere e il denaro) e incentivi intrinseci (come la purezza della fede), l’approccio qui suggerito permette di cogliere il meccanismo che fa sorgere la contrapposizione stessa: che porta all’ascesa degli oneri e al deteriorarsi della qualità delle condizioni di uso-consumo dei beni perseguiti dai membri di un certo gruppo cristiano7. 7. La distinzione tra le le «motivazioni estrinseche» (ispirate soprattutto ai compensi monetari) e le «motivazioni intrinseche» (per cui si fa qualcosa per il mero
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Non basta. Come abbiamo notato, una differenza basilare tra un bene privato ordinario e un bene posto in una rete sociale sta nella circostanza che, del primo, possono consumarne alcuni membri del mio gruppo ma pure alcuni che al gruppo non appartengono, mentre al secondo possono accedere esclusivamente alcuni soggetti del gruppo che stiamo esaminando. Questa differenza appare rilevante per il caso del movimento cristiano originario. Un’altra ragione, infatti, per cui esso si suddivide in tante comunità locali, è che in ognuna di esse possono generarsi beni privati – come la conversione e la grazia, ma pure, in modo riflessivo, come il prestigio derivante dal convertire gli altri e dal vivere nella grazia di Dio – il cui valore dipende in gran parte da una cerchia di riconoscimento. Se per esempio consideriamo il mio desiderio di ottenere prestigio come leader religioso, ciò ha ridotte possibilità di realizzarsi finché il movimento cristiano si pone come un unico ampio gruppo, dentro il quale possono emergere solo pochi capi carismatici. Se piuttosto si creano numerose comunità locali, ognuna darà spazio ad almeno un leader. Finché la dimensione del mio gruppo rimane appropriata, potrò dunque rimanere più facilmente in sella. Avrò buone probabilità di ottenere, nei conflitti interni al gruppo per la ripartizione, una quota significativa del bene privato privilegiato «prestigio carismatico», in quanto, se il gruppo è piccolo, i miei avversari sono relativamente pochi e soprattutto poco qualificati (dato che i migliori difficilmente si accontentano di
piacere di farla) sembra spiegabile come una risposta cognitiva razionale, davanti a processi sociali che si sovrappongono ambiguamente tra loro. Infatti l’agente, non essendo in grado di separare con nettezza un processo dall’altro, tende a non accoppiare un singolo processo a una singola retribuzione e a concepire il complesso dei processi come un’unica «scelta di vita» nella quale il piacere supera l’onere [Kreps 1997].
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un gruppo minore). All’espandersi invece del gruppo, la conquista della leadership diventa più appetibile e richiama i competitori più temibili. È da quel punto in avanti che potrà convenirmi, quale aspirante leader, di migrare altrove, magari fondando una nuova comunità religiosa di base. Concludendo, l’azione collettiva dell’intero movimento cristiano delle origini riceve un importante nuovo elemento di spiegazione dall’esistenza d’indivisibilità localizzate come i beni pubblici specifici e le reti collettive sociali. Tali indivisibilità comportano che gli incentivi individuali si autorganizzino in sottogruppi di dimensione limitata. Ciascuna delle comunità di base, peraltro, nel mentre persegue i propri incentivi, partecipa allo scopo comune a tutti i membri del gruppo maggiore. Infatti il bene pubblico coltivato dall’intera chiesa cristiana è definibile, in termini strumentali, come l’autoriproduzione della propria organizzazione; e, in termini di fini ultimi, come il proselitismo ovvero come la diffusione della parola di Dio. Tale bene appare in larga misura necessario anche alle singole comunità cristiane: soltanto raggiungendo una determinata dimensione critica, il movimento cristiano può interagire adeguatamente coi poteri politici e con gli altri movimenti religiosi; può incidere nella vita sociale ed economica di un territorio, e così via. I termini della soluzione possono pertanto venire così enunciati: il cristianesimo deve farsi chiesa per sopravvivere, ma può mobilitare l’azione collettiva richiesta da un gruppo ampio come la chiesa soltanto riuscendo a sollecitare l’azione individuale entro tanti sottogruppi tra loro eterogenei. Questo processo rappresenta una soluzione del dilemma del cooperatore, in quanto assistiamo a una coproduzione di beni pubblici specifici e di beni privati di rete per i sottogruppi, e del bene pubblico universale per il gruppo ampio: gli incentivi che alimentano l’azione nei
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gruppi minori, indirettamente promuovono l’azione collettiva nel gruppo maggiore. Così, se una comunità cristiana di base riproduce sé stessa, riproduce nel contempo la chiesa madre; oppure se un leader riafferma localmente il proprio ruolo carismatico, riafferma nel contempo la leadership della chiesa globale. Olson [1965, 77] coglie una parte di questa soluzione quando esamina i «gruppi federati», nei quali una serie di piccoli gruppi si associano per potere ciascuno godere dei servizi collettivi che l’organizzazione federata offre a tutti. Ma l’analisi monca e riduttiva degli incentivi selettivi gli impedisce di scorgere che si giunge alle federazioni mediante sottogruppi che operano inseguendo propri beni pubblici specifici o beni privati di rete, e che solo così procedendo possono (eventualmente) facilitare la fornitura del bene pubblico del gruppo maggiore8. Peraltro nulla esclude che tra l’una e l’altra comunità cristiana si abbiano rapporti anche conflittuali. Mentre la collaborazione concerne la co-produzione del bene pub-
8. Olson [1965, 62] suggerisce due argomenti che dovrebbero inficiare l’efficacia dell’impostazione dei «gruppi federati». Il primo annota che quanto più numeroso è il gruppo, tanto minore è la frazione del beneficio totale che spetta a un sottogruppo, il quale, pertanto, è poco stimolato ad agire. Il secondo argomento osserva che più il gruppo è ampio, più i costi organizzativi per compattare e rendere operativo un sottogruppo aumentano. Ma entrambe queste obiezioni cadono, o quantomeno si attenuano, se supponiamo che il sottogruppo stia già operando – o si organizzi per operare – per la fornitura del suo bene pubblico specifico e/o del suo bene privato di rete. È nel perseguire quel bene, che il sottogruppo indirettamente spinge anche all’offerta del bene pubblico del gruppo più ampio. In effetti, quando per esempio Olson esamina il modo con cui i capitalisti americani promuovono i loro interessi, sembra riconoscere il nostro punto. Per un verso «la comunità degli affari nel suo insieme non è un piccolo gruppo privilegiato o intermedio – è, invece, decisamente, un gruppo numeroso latente» [Ivi, 165]. Per l’altro verso, tuttavia, esiste – ed è ben organizzata – una costellazione di associazioni di settori industriali particolari. Ciascuna di tali associazioni persegue senza dubbio un bene pubblico (specifico, precisiamo noi) e uno o più beni privati di rete per i suoi aderenti. Resta dunque smentita la tesi olsoniana secondo cui gli incentivi selettivi sono costituiti unicamente da soldi o beni fruibili singolarmente dagli individui.
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blico universale, il conflitto riguarda il ruolo nella società e nell’intero movimento che ciascun gruppo si riesce a ritagliare. L’azione collettiva dunque «incorre nei costi addizionali (specialmente per i leader di qualunque organizzazione o collusione) di trovare un accomodamento e un compromesso tra le varie posizioni» [Olson 1982, 44]. Questo risvolto – che appare con notevole evidenza nella storia della chiesa cristiana, attraversata da correnti «eretiche» e da scissioni – dà luogo a livelli di offerta subottimali del bene pubblico universale: risorse che potrebbero venire impegnate per fornire quantità ulteriori del bene, sono distrutte in contese e negoziazioni. Inoltre, anche dentro ogni comunità di base, può sussistere una difficoltà di accordo sulla natura esatta dell’interdipendenza indivisibile, e su quanto e come finanziarla. Qui la tendenza alla sub-ottimalità nasce dal fatto che le interdipendenze indivisibili, come sappiamo, sono tali che, una volta che un qualsiasi componente del sottogruppo le impiega, non è possibile impedire che altri membri ne facciano uso. Qualcuno, è vero, può abbandonare il gruppo, rinunciando alla fruizione del bene privato nella rete, o del bene pubblico specifico, ma chi rimane o chi entra lo consuma come gli altri. Un singolo membro, quindi, dato che riceve solo parte dei benefici di ogni spesa che sopporta, smetterà di impegnarsi per implementare l’indivisibilità prima che venga raggiunto l’ammontare ottimale per il sottogruppo nell’insieme. È in questa chiave che possiamo spiegare l’importanza conferita dalla chiesa cristiana, in ogni sua articolazione, alla «santità», interpretabile come un comportamento di dedizione allo scopo comune della comunità che oltrepassa il livello a cui razionalmente il soggetto si arresterebbe, e che quindi spinge il sottogruppo che esprime i «santi» verso il livello ottimale di fornitura dello scopo medesimo.
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Terzo approfondimento. Benefici privati, beni pubblici specifici e beni pubblici universali Tra più i recenti sviluppi della teoria economica dell’azione collettiva assumono particolare rilievo, ai fini della presente analisi, quelli che hanno investigato gli effetti, sugli incentivi individuali, dell’esistenza di una molteplicità di benefici prodotti dai beni pubblici. Inoltre, come affermato nel testo, molte interdipendenze degli individui si manifestano a livello localizzato, solo all’interno del sottogruppo ben individuato di coloro i quali sostengono un costo di accesso a tali beni pubblici «specifici». In questa sede, si procede a una prima formalizzazione del possibile legame tra i due filoni di indagine, estendendo l’analisi al caso in cui i beni pubblici specifici producono anche benefici universali. Procediamo a estendere il modello esposto nel Primo approfondimento mediante l’introduzione, accanto ai benefici di natura pubblica, dei benefici «privati», vale a dire benefici direttamente appropriabili (escludibili e rivali) solo da parte degli agenti che sottoscrivono il bene pubblico. Il modello di co-produzione di Cornes e Sandler [1984] esemplifica il problema di sottoscrizione volontaria di un bene pubblico cosiddetto joint product. Da tale circostanza possono derivare risultati sensibilmente differenti dal punto di vista degli incentivi individuali. Il modello è, infatti, aperto alla possibilità che un aumento della sottoscrizione da parte di un agente non generi
spiazzamento, bensì stimoli una maggiore sottoscrizione del bene anche da parte del resto della collettività (effetto crowding in), attirata dalla possibilità di conseguire contemporaneamente maggiori benefici privati. Sia i l’agente rappresentativo, con i ∈ {1, …, n}, dove n è il numero di individui che compongono la collettività. L’utilità dell’agente iesimo è definita dalla funzione: Ui = U(yi, Z(Q), xi(qi))
(1)
Dove yi è la quantità di beni privati che funge da numerario; Z sono i benefici pubblici puri generati dalle sottoscrizioni del bene pubblico; xi sono i benefici privati che il bene pubblico procura a coloro i quali contribuiscono alla sua produzione. Dalla (1) è evidente che solo chi sottoscrive il bene pubblico può trarne dei vantaggi di natura privata; i free-rider, invece, si appropriano gratuitamente dei benefici pubblici. In particolare, si assuma che ogni unità di sottoscrizione individuale produca α unità di benefici pubblici e β unità di benefici privati, secondo una tecnologia lineare tale che Z(Q) = αQ e xi(qi) = βqi . Ne segue che, affinché l’utilità individuale venga massimizzata, dato un vincolo di bilancio del tipo Ii = yi + pqi , occorre che sia soddisfatta la seguente condizione: Q,y MRS q,y i = αMRS i + = p + βMRS x,y i
(2)
56 dove MRS Q,y e MRS ix,y sono i saggi i marginali di sostituzione di ciascun agente rispettivamente tra il bene privato e i benefici pubblici e tra il bene privato e i benefici privati del bene pubblico. Nell’equazione (2), la somma ponderata delle due valutazione marginali deve essere pari al prezzo relativo del bene pubblico. Al contrario, l’ottimalità Paretiana richiederebbe che il primo termine del lato destro dell’equazione (2) fosse sommato per tutti i membri della collettività, n x,y ossia che Σi=1 αMRS Q,y i + βMRS i = p. Pertanto, il first-best da un punto di vista collettivo non è raggiunto se non nel caso limite in cui α = 0 e β = 1, vale a dire quando il bene è interamente privato. Tuttavia, ricor~ ~ dando che Q ≡ qi + Q, dove Q è la sottoscrizione di tutti i membri della collettività a eccezione dell’agente i-esimo, la produzione congiunta implica che, a differenza del caso dei beni pubblici puri, la risposta ottima di un individuo al variare della quantità attesa di caratteristica pubblica prodotta dalla comunità, ~ Qe, può non essere la riduzione della propria sottoscrizione. In particolare, se un aumento esogeno della disponibilità aggregata della caratteristica pubblica Z incoraggia un maggior consumo della caratteristica privata, xi , aumentandone la desiderabilità, allora la maggiore domanda di caratteristica privata si traduce in un aumento della sottoscrizione qi, che a sua volta comporta un ulteriore aumento della produzione di benefici pubblici Z. Se ciò si verifica, i due tipi di benefici, pubblico e privato, sono complementari nel consumo. In questo caso, all’aumentare della sottoscri-
l’economia del noi zione altrui, l’agente i-esimo desidererà aumentare anch’egli la propria contribuzione, nel tentativo di percepire maggiori benefici privati, per ~ cui si avrà che dqi /dQ > 0. Se la relazione di complementarità si mantiene costante a prescindere dalla dimensione della collettività, allora il gruppo sarà pienamente privilegiato: i benefici privati fungono, nella terminologia di Olson, da incentivi selettivi. Tuttavia, è più ragionevole supporre che tale relazione sia decrescente: all’aumentare della quantità aggregata di bene pubblico, l’effetto crowding-in dei benefici pubblici sulla desiderabilità dei benefici privati tende a diminuire. Pertanto, al crescere della dimensione del gruppo, il comportamento opportunistico inizia a manifestarsi. A questo punto, ci si può interrogare in merito alle possibili conseguenze di una situazione in cui la dimensione della collettività dei sottoscrittori è naturalmente limitata a un sottogruppo. In letteratura, si definiscono beni pubblici specifici quelli che producono benefici pubblici puri percepiti solo da un sottogruppo di agenti, che devono sostenere un costo fisso iniziale per poterne fruire. Prendendo spunto da Bellandi (2003), che per primo ha definito le condizioni affinché un bene pubblico sia specifico, si denomini con m il numero di agenti che formano il sottogruppo, con m < n, e con k il costo fisso di accesso di accesso a tale bene. Un bene pubblico, S, sarà specifico quando gli agenti sono legati da un nesso soggettivo, cioè condividono un insieme di caratteri soggettivi, ed è contemporaneamente realizzata la seguente condizione:
beni privati di rete e beni pubblici specifici Uje (S) – k >> 0, ∀j ∈ {1, …, m} (3) Uje (S) – k ≤ 0, ∀i ≠ j La (3) esprime il fatto che, per il sottogruppo di m agenti, e per essi soltanto, l’utilità attesa derivante dalla fruizione di S, la quantità aggregata del bene pubblico specifico, al netto dei costi fissi di accesso (ma non di quelli di finanziamento), è strettamente maggiore di zero. Una volta che tale condizione è soddisfatta, il livello effettivo di utilità di ciascun agente, e quindi il problema degli incentivi al finanziamento del bene pubblico, possono essere ricondotti al medesimo quadro analitico proprio dei beni pubblici universali. La differenza negli incentivi a fornire un bene pubblico specifico, rispetto a quelli presenti nella produzione di un bene pubblico universale, è che nel primo caso la collettività è più piccola e ciò implica in linea di principio un livello medio di contribuzione più elevato, sebbene non necessariamente un livello aggregato proporzionalmente superiore. Tuttavia, nel caso dei beni pubblici specifici, la presenza di costi fissi di accesso implica un effetto reddito negativo che causa un peggioramento del vincolo di bilancio, per cui Ij – k = yj + pqj ; ciò tende a ridurre, ceteris paribus, l’incentivo individuale alla sottoscrizione. Pertanto, non è possibile inferire, a priori, il grado di sub-ottimalità nella fornitura di un bene pubblico specifico. Ciò che si può, invece, presumere è che, nel caso dei beni pubblici specifici, la quasi totalità degli agenti del sottogruppo percepisca dei benefici di natura anche privata. Ebbene, in base al suesposto modello
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di co-produzione, in presenza di benefici privati percepiti da un gruppo ristretto, il comportamento prevalente è quello cooperativo. Ne consegue che vi è un forte fondamento teorico a giustificazione dell’idea per cui la quantità di quei beni pubblici specifici, che producono congiuntamente benefici pubblici e privati, possa essere quella Pareto-efficiente. A sua volta, inoltre, tale bene pubblico specifico potrebbe produrre – accanto ai benefici di natura pubblica e privata per il sottogruppo di m agenti che sostiene i costi di accesso – anche dei benefici di natura pubblica pura, sebbene in misura inferiore, per l’intera collettività di n agenti, di cui il sottogruppo m fa parte. L’utilità dell’agente j-esimo potrebbe, quindi, essere scritta nel seguente modo: Uj = U(yj , Fm(S), xj(qi ), G(S)) (4) dove Fm(S) e G(S) sono rispettivamente i benefici pubblici specifici e i benefici pubblici universali derivanti dalla fornitura di S. Al contrario, l’agente i-esimo, che non rientra nel gruppo degli m agenti, percepirebbe solo i benefici pubblici di tale bene, per cui la sua utilità sarebbe del tipo: Ui = U(yj , G(S))
(5)
È evidente che solo l’agente j-esimo ha incentivi a fornire il bene pubblico. Quando i benefici pubblici universali sono scarsamente rilevanti, cioè se G(S) è di modesta entità, gli incentivi dell’agente i-esimo sono nulli. Ciò, tuttavia, evidenzia come, attraverso l’azione di un sottogruppo, si possano produrre anche dei benefici pubblici universali.
3. Perché votiamo? Perché c’indignamo?
La scelta ragionata tra azioni, credenze, identità Abbiamo argomentato, nel capitolo primo, come l’origine dell’azione collettiva in gruppi ampi non sia delucidata dalla teoria di Olson. Questa tesi può essere presentata nel modo più incisivo osservando che talvolta l’azione collettiva ha luogo in assenza sia di coercizione, sanzioni selettive e metanorme, sia di incentivi selettivi. Un caso paradigmatico è quello dell’elettore in un regime di democrazia rappresentativa. La probabilità che il mio voto influisca sull’esito di una consultazione popolare è quasi nulla; d’altronde recarmi a votare presenta un costo, seppur modesto, in termini di tempo impegnato e di spese di spostamento. Perché allora voto, assieme a milioni di altri cittadini1? Prima di proporre uno schema di risposta, dobbiamo esplicitamente allargare, rispetto ad Olson, la nozione di razionalità. Con «razionale» indichiamo «un’azione o una convinzione Y della quale Alter può dire: «Ego ha delle buone ragioni per fare (per credere) Y, poiché…»; e [segnaliamo]
1. Si vedano Green-Shapiro [1994, cap. 4], Dhillon-Peralta [2002] e Mueller [2003, cap. 14] quali rassegne dei tentativi di soluzione.
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come irrazionale ogni comportamento o credenza Z di cui Alter può dire: «Ego non ha alcuna ragione per fare (per credere) Z, ma…» [Boudon 1990, 382]. L’azione collettiva è dunque promossa, o non promossa, da soggetti che sono razionali nel senso che provano a migliorare la propria condizione secondo «buone ragioni» per il soggetto che li studia. In quest’accezione il termine «razionale» è sinonimo di «soggettivamente intelligibile»: Alter stabilisce un nesso tra la situazione di Ego e le sue motivazioni e azioni, tale da concludere che, nella stessa situazione, si potrebbe comportare nella medesima maniera. La definizione è ampia ma non vuota – qualunque cosa Ego fa, ha sempre e comunque i suoi motivi; quindi nulla va spiegato –, poiché le «buone ragioni» di Ego nella situazione in cui opera non sono che i propositi e gli atti che appaiono ad Alter provvisti di senso. È lo schema interpretativo dello studioso a stabilire quali azioni, tra quelle che non violano i principi dell’inferenza logica, sono razionali: così, poniamo, a uno schema novecentesco che interpretava come irrazionale una linea di condotta può subentrarne oggi, in base sia a conoscenze che a valori differenti, uno che ne ricostruisce le «buone ragioni», o viceversa2. Un soggetto razionale persegue quelli che crede siano i suoi «interessi». Egli orienta cioè la propria azione sociale rispetto a obiettivi, conseguendo i quali si attende di migliorare la propria condizione3. Questa definizione non
2. Il «viceversa» segnala che il processo di razionalizzazione di certe linee di condotta sociale non è mai irreversibile. Su questo punto ci distacchiamo dalla visione teleologica difesa da Boudon. 3. Alcuni studiosi, non favorendo la chiarezza concettuale, hanno definito «egoismo filosofico» l’individualismo metodologico per il quale, inevitabilmente, se prendiamo le mosse da un soggetto-individuo, consideriamo che siano individuali le cause ultime dei fenomeni sociali da spiegare, ossia che esse consistano nel comprendere le ragioni per cui gli attori sociali fanno e credono ciò che fanno e credono [si veda per esempio Hollis 1998]. Un secolo di dibattiti ha tuttavia mostrato
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nega, ovviamente, la multidimensionalità delle motivazioni umane: philia e altruismo, auto-espressione e regole morali, norme sociali e desiderio di piacere agli altri, dignità e convenienza a lungo termine [per una rassegna, Alkire-Deneulin 2002]. Nella prospettiva qui esaminata, tali motivazioni danno però forma a linee di condotta diverse a seconda della grandezza del proprio gruppo sociale. Quando il soggetto è immerso in relazioni diadiche oppure in piccoli gruppi, l’incidenza elevata del contributo di ciascuno alla vita collettiva è tale che egli può ritenere che il miglioramento di un altro soggetto sia un miglioramento anche per sé. Se tale è la sua valutazione, essa alimenta la reciprocità nella forma dell’empatia, dell’affetto o della fiducia. Ma supponiamo che quest’homo reciprocans cominci a operare in gruppi ampi, nei quali altri tendono a defezionare per ottenere di più per se stessi. Essendo il suo obiettivo una maggiore collaborazione e solidarietà tra tutti, egli vuole che sempre più membri del gruppo reciprochino con lui e tra di loro. Ma non può più ottenere questo risultato ricorrendo alla reciprocità. Se infatti coopera, rende in generale più vantaggioso agli altri non cooperare, spingendo così il gruppo più lontano dallo scopo ch’egli desidera. Inoltre, più il gruppo si estende e meno egli è in grado d’individuare la collaborazione dell’uno e la defezione dell’altro: non riesce quindi a escludere dai premi o dalle punizioni coloro che lo meritano, favorendo così, suo malgrado, la prevalenza di quelli che non cooperano. Riconoscere pertanto che numerose nostre azioni possono essere governate da motivazioni prosociali e da visioni ottimistiche della propensione umana alla cooperazione, non basta per scalfire la come quest’impostazione possa sia sfociare in un’analisi interazionista, anziché atomista, dei soggetti, sia in un’analisi di entità (e azioni) collettive [Boudon 1992, 33-36].
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centralità del perseguimento dell’interesse personale nelle interazioni ampie di gruppo4. Nell’orientare la propria azione verso certi scopi, il soggetto può stabilire nessi di varia natura, e molte polemiche tra scienziati sociali sono sorte dall’enfasi unilaterale su qualcuno di tali legami. In primo luogo, può accadere che il soggetto non compia una vera e propria scelta, adottando l’atto Y in forza della tradizione o di un principio normativo: di questi casi qui non ci occupiamo, poiché, come abbiamo sostenuto, una spiegazione del formarsi dell’azione collettiva non può che riferirsi ad atti intenzionali. In secondo luogo, il soggetto può scegliere Y perché costituisce il mezzo migliore, o più spesso uno dei mezzi appropriati, per raggiungere il fine: è questa la razionalità strumentale (ottimizzante oppure «soddisfacente») su cui insiste la scienza economica. In terzo luogo, il soggetto può basare il proprio «interesse» non direttamente sulla scelta tra azioni, bensì sulla scelta tra credenze intorno a quali sono per lui le azioni sociali concepibili: «una comprensione piena della mia razionalità deve considerare anzitutto le mie credenze e poi le azioni che 4. Un’illustrazione può essere tratta dal Gioco dell’Ultimatum, in cui due parti interagiscono anonimamente una volta sola: un giocatore propone all’altro come dividere una somma di denaro; se l’altro rifiuta la proposta, nessuno prende soldi. Esperimenti di laboratorio effettuati molte volte in contesti diversi mostrano che la somma offerta oscilla di solito tra il 20 e il 50 per cento dell’ammontare totale, e che se l’offerta del primo giocatore è «troppo» bassa, essa viene respinta dal secondo. Come interpretare questi risultati? Invocando afflati solidaristici e norme di equità? Non possiamo né vogliamo escluderlo. Tuttavia, come annota tra gli altri Battigalli [2004], la spiegazione più efficace e parsimoniosa affiora appena cambiamo la grandezza del gruppo: se il Gioco comprende non due bensì dieci giocatori che fanno simultaneamente e indipendentemente una proposta a Tizio, il quale deve decidere quale offerta accettare, costui sceglierà sempre l’offerta più alta, mentre la concorrenza spingerà i dieci a proporgli (quasi) tutta la somma disponibile. Dunque, Tizio è «egoista» quando s’incontra con dieci offerenti e «generoso» quando s’imbatte in un solo giocatore? Non sembra questo il punto. Piuttosto, già in questo semplice caso, è la mera numerosità del gruppo a modificare gli incentivi e le penalità.
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da quelle discendono» [Hardin 2002, 221]. Max Weber [1920-21, I, 240] ha espresso questo punto in maniera insuperata: «Gli interessi (materiali e ideali), non già le idee, dominano immediatamente l’agire dell’uomo. Ma le “immagini del mondo”, create per mezzo di “idee”, hanno molto spesso determinato le vie sulle quali poi la dinamica degli interessi continuò a spingere avanti l’agire». Infine l’«interesse» può riguardare l’identità, ovvero «il processo tramite il quale gli attori sociali si riconoscono – e sono riconosciuti da altri attori – come parte di collettività più ampie, e sulla base di tali appartenenze attribuiscono significato alle proprie esperienze e alle loro evoluzioni nel tempo» [della Porta-Diani 1997, 102]. Se desidero dare senso a me stesso, debbo collocarmi in un gruppo ed essere riconosciuto dal gruppo come suo membro. L’identità richiede quindi una corrispondenza tra me e voi: io entro nel vostro gruppo se mi riconoscete, e voi mi riconoscete se, entrando, vi riconosco. Non vi è un prima e un dopo, una causa e un effetto: io sono Uno perché il mio significato è stabilito dall’appartenere con altri a un gruppo, e voi siete Altri perché il vostro significato sorge dall’appartenere a un gruppo con me5. L’identità non è un requisito che qualcuno può assumere oppure perdere, produrre oppure scambiare. Essa è nulla al di fuori della relazione Uno-Altri-Uno. Il fondamento ultimo della mia soggettività non appartiene a me soltanto, ma è intersoggettivo: è un’interdipendenza indivisibile tra me e il gruppo. L’identità, quale risorsa su cui poggia la possibilità individuale di ottenere e gestire qualsiasi altra risorsa, è dunque espressa da un’azione collettiva.
5. La relazione è sempre bidirezionale, sebbene sia non simmetrica nei casi in cui il riconoscimento di qualcuno condiziona il riconoscimento di altri oltre la misura della reciprocità.
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Un mutamento di identità può essere analizzato mediante un mutamento nei fini del soggetto6. Quando infatti il soggetto non riesce più a specificare i fini verso cui orientare le azioni, ossia nutre incertezza sugli obiettivi realizzando i quali la propria condizione migliorerebbe, ha «buone ragioni» per (ri)dare un senso a se stesso, ossia per ridefinire la propria identità [Hargreaves Heap 1992, 39-40]. Poiché però l’identità dei soggetti riceve un significato soltanto quando essi interagiscono con altri soggetti, «l’idea di interesse va riferita non all’obiettivo di soddisfare desideri o preferenze o bisogni [già dati, da parte di un soggetto in se considerato], bensì all’obiettivo di avanzare, o difendere, la posizione relativa di un agente sociale (misurata secondo valori dati) in un sistema di relazioni» [Pizzorno 1983, 165-166]. In definitiva, l’insostituibile compito della spiegazione razionale sta nel rendere comprensibili molti comportamenti sociali ricostruendo le «buone ragioni» per cui talvolta ridefiniamo l’identità per stabilire i fini da perseguire, talvolta elaboriamo credenze sulle azioni praticabili, e infine talvolta scegliamo un legame tra certe azioni e certi fini. La razionalità è pertanto una scelta ragionata tra azioni, tra credenze o tra identità. Si tratta di una defini-
6. «Analizzata nei suoi passaggi l’operazione è la seguente. Osservo un’azione. La ipotizzo orientata a un certo fine, e quindi l’attribuisco a una serie di azioni entro la quale acquista un senso. In questo modo avrò identificato l’attore. Ma le cose non tornano, così inserita l’azione non sembra aver senso. La ipotizzo allora orientata ad altri fini e l’inserisco in una diversa serie di azioni. La serie di azioni costituisce l’elemento duraturo che è celato, per dir così, dietro l’azione osservata, e a esso corrisponderà una certa identità duratura di un soggetto d’azione che io osservatore posso ora determinare. Ho, quindi, reidentificato; ho riconosciuto in quel soggetto un’identità diversa da quella che gli avevo in un primo tempo attribuito. E ciò non meramente perché il fine di una particolare azione è risultato essere diverso da come l’avevo ipotizzato. Il diverso fine è soltanto una spia della diversa identità; dell’identità all’interno della quale quel determinato fine può ricevere significato» [Pizzorno 1989b, 11, secondo corsivo aggiunto; nonché Pizzorno 1989a, 164-168].
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zione più ampia e ricca di quella coltivata da molti economisti, pur mantenendo il progetto teorico avviato da Mancur Olson: una spiegazione razionale dell’azione collettiva basata sull’interesse dei soggetti coinvolti. Mostriamolo tornando al paradosso del voto. Perché si vota? Appare difficile, se non impossibile, scovare delle «buone ragioni» che sollecitino il singolo cittadino a votare, finché, come in Olson, la principale coppia di beni economici che si considera è composta da beni pubblici universali e da beni privati che vengono consumati per conto proprio. Sappiamo infatti che i beni pubblici rappresentano l’obiettivo di gruppi di varia grandezza; ma sappiamo altresì che la massa dei cittadini aventi diritto al voto è di milioni d’individui; risulta dunque forte, dentro un gruppo tanto vasto, la tentazione razionale di astenersi. Né giunge a soccorrerci qualche bene privato ordinario, dato che nessun premio è associato al voto e nessuna punizione al non-voto. La prospettiva cambia però notevolmente quando allarghiamo lo spettro degli incentivi ai beni pubblici specifici e ai beni privati di rete. Essendoci libertà di entrata e di uscita dal gruppo, non posso determinare direttamente quanti soggetti fruiscono del bene pubblico specifico, oppure quanti usano il bene privato nella rete; posso però esercitare un’importante influenza indiretta. Se torniamo un istante all’esempio delle comunità cristiane di base, possiamo immaginare che esista di volta in volta una dimensione (per me) ottimale della comunità alla quale appartengo. Qualora il mio gruppo si sta contraendo, sono incentivato a rafforzare la dedizione alla causa comune in quanto, se contribuisco ad attrarre nuovi adepti, miglioro la mia qualità di uso del bene
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(pubblico o privato che sia). Al contrario, qualora l’indivisibilità si sta dilatando troppo, sono spinto ad adottare condotte individuali di ostruzionismo – le quali non toccano, come tali, la libertà d’ingresso, rappresentando solo ulteriori costi individuali di accesso –, per evitare il verificarsi della congestione nell’utilizzo del bene pubblico specifico, o della rete entro cui si fruisce del bene privato. Ho la consapevolezza che il mio è un apporto significativo perché, fino a quel momento, il gruppo nel quale opero è relativamente piccolo, ossia si connota ai miei occhi appunto per una dimensione tale da non rendere ancora irrilevante la mia iniziativa. Il punto da sottolineare è che procedo effettuando linee di condotta specifiche; esse non sarebbero rimpiazzabili da altre – come quando acquisto un’arancia indifferentemente sull’uno o sull’altro banco del mercato –, nel senso che le scelgo affinché abbiano efficacia rispetto a quella indivisibilità che mi preme restringere o espandere. Immaginiamo per esempio che io appartenga a una comunità cristiana di base molto impegnata nel pacifismo, e che sia impegnato a mantenere coerenti i comportamenti diffusi nella comunità, quale strumento indiretto per regolare la dimensione del gruppo e dunque la qualità del consumo del bene pubblico specifico e dei miei beni privati di rete. Se, in questa situazione, si candida al Parlamento, nella circoscrizione in cui sono inserito come elettore, un cittadino credibilmente attento ai temi pacifisti, diventa difficile ch’io non mi rechi a votarlo. Effettuare quell’azione rappresenta un segnale che è mio interesse inviare al gruppo sul quale voglio influire. In termini appena diversi, possiamo rilevare l’importanza di una membership volontaria. Se scelgo di entrare in un sottogruppo, la mia autostima viene colpita se defeziono; mi è inoltre più facile accordarmi con gli altri membri, dato che ci siamo spontaneamente autoselezio-
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nati; so infine piuttosto bene cosa aspettarmi dagli altri membri. Tutto ciò conferisce una notevole rilevanza anche ad atti il cui fine maggiore consiste nell’inviare segnali interni al sottogruppo. Tendo pertanto a contribuire a un risultato collettivo in quanto curo l’offerta di un altro più mirato risultato collettivo. Queste notazioni diventano particolarmente stringenti per i beni usabili entro reti sociali: questi beni, pur essendo privati, richiedono, per essere consumati, un contesto intersoggettivo. Essi, come abbiamo visto, assumono valore economico soltanto entro o rispetto a una «cerchia di riconoscimento». Assicurarmi la durevole rispondenza della cerchia è ciò che rende bene privato una decorazione militare (che è in sé una stelletta di latta colorata) o un titolo notarile (che è in sé un foglio timbrato). Per entrare tra i pochi che si contendono un numero ancora minore di beni privati privilegiati, debbo ottemperare ai criteri che hanno determinato la scarsità sociale di quel bene: entrare nell’esercito e operare valorosamente, oppure raggiungere una certa laurea con un certo punteggio. Per preservare il diritto di concorrere a quel bene, o, se l’ho conquistato, per mantenere il riconoscimento della sua natura privilegiata da parte della «cerchia», non debbo agire in alcuna maniera che, direttamente o indirettamente, neghi il valore economico del bene stesso. Se desidero preservare il valore della mia medaglia, non posso propugnare l’abolizione dell’esercito e nemmeno l’indebolimento delle funzioni tradizionali dello stato. Votare per un partito o per un candidato che sostengano questi obiettivi, costituisce un segnale che è mio interesse inviare alla «cerchia di riconoscimento», affinché la cerchia possa riaffermare il mio diritto a competere per, o a detenere, un certo bene privato di rete. L’argomento proposto differisce dall’idea che l’astensione dal voto sia nociva alla reputa-
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zione dell’individuo. Quest’ultima chiave esplicativa appare fragile: «perché il pubblico dovrebbe vedere male l’astensionismo se è composto da singoli individui razionali che in quanto tali sono in grado di accorgersi che è inutile votare?» [Boudon 1999, 74]. Non è la mia immagine complessiva o reputazione che sto salvaguardando; mi importa soltanto che la «cerchia» continui (razionalmente) a riconoscermi quale aspirante o quale portatore di quel bene privilegiato. Il ragionamento può simmetricamente essere svolto dal lato di coloro che si presentano alle elezioni. Un candidato che s’impegni, pur credibilmente, a fornire, qualora eletto, un bene pubblico universale, coinvolge meno i potenziali votanti, sia in quanto essi possono ritenere ch’egli non eserciti un ruolo decisivo nell’offerta di un bene la cui indivisibilità è ampia, sia perché i benefici di quel bene vanno indiscriminatamente anche a gruppi rivali, sia infine perché per il singolo elettore è facile convincersi dell’ininfluenza della propria partecipazione. Se invece il candidato promette beni pubblici specifici o reti collettive per un gruppo relativamente ristretto e/o omogeneo, l’incentivo per i membri di quel gruppo a votarlo aumentano. Ciò può valere perfino se quel politico non ha elevate probabilità di vittoria, purché il suo partito detenga all’opposizione abbastanza potere rispetto al processo di fornitura del bene [Schwartz 1987, 106-107]. Fin qui abbiamo ipotizzato che i votanti ragionino classificando la loro azione (o non-azione) rispetto a nessi diretti con sottogruppi o con «cerchie di riconoscimento». Alcuni elettori, tuttavia, non investono significativamente in lealtà verso uno o più sottogruppi, né competono per il riconoscimento di una o più cerchie: sociologicamente essi si caratterizzano come individui anomici e marginali, e possiamo attenderci che sia questa la catego-
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ria di cittadini entro cui l’astensionismo è maggiore. Per comprendere le «buone ragioni» che conducono comunque una quota di tali soggetti al voto, dobbiamo evocare l’importanza dei legami sociali indiretti e delle aspettative che essi strutturano. «Sebbene la maggior parte dei votanti non interagiscono direttamente, molti elettori interagiscono direttamente con alcuni altri cittadini, alcuni dei quali possono avere altre ragioni (che includono benefici relazionali indiretti [quali il rafforzamento del senso di accettazione di, o di appartenenza a, un certo gruppo]) per essere attivi. Così, i benefici relazionali basati sul contatto diretto possono contare per un insieme sorprendentemente ampio di votanti, e possono esaudire un ruolo importante entro una rete d’influenze che incrementa la partecipazione»7. Immaginiamo per esempio una single non più giovane, con impiego e retribuzione fissi, pochi amici e ridotte attività sociali. Le elezioni costituiscono una delle poche occasioni nelle quali altri «rimettono a fuoco» la donna, che conoscono poco e male, ma che possono raggiungere in modi indiretti per indirizzarne la preferenza politica e, soprattutto, la scelta del candidato. La circostanza che quella cittadina, isolata e anonima, sia
7. Uhlaner [1989, 258-259, parentesi quadra aggiunta]. Questo contributo di Carole Uhlaner ha introdotto il concetto di «bene relazionale», poi impiegato in una discreta letteratura. L’obiettivo dell’autrice è il nostro: incorporare la sociabilità nella teoria dell’azione razionale. Ella tuttavia procede postulando che gli individui perseguano anche interessi legati all’identificazione e alla incorporazione nei gruppi: questa mera postulazione non viene a sua volta fondata, finendo per rinviare a basi normativistiche da noi criticate in questo capitolo. Trattandosi peraltro di una postulazione alquanto generica, sebbene ovviamente del tutto rilevante, l’autrice la riferisce indiscriminatamente a tanti tipi di beni e attività, inclusi gli incentivi selettivi. Nel nostro approccio, invece, si procede dalla constatazione che interdipendenze indivisibili diffuse si traducono in classi ben precisate di beni privati o pubblici il cui processo di fornitura stesso provoca, o quantomeno facilita, la sociabilità. Non esistono, in altri termini, «beni relazionali» quali componenti aggiuntive di tanti tipi di «beni non-relazionali»; bensì esistono classi precise di beni, privati o pubblici, che coproducono relazionalità.
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stata «identificata» per una sua capacità d’intervento sociale, basta non di rado a spingerla a votare. Infatti un individuo dotato di un’identità debole e sfocata, può talvolta, partecipando al voto, sperimentare un senso di appartenenza, un legame sociale pur indiretto e saltuario. Con ciò il soggetto mette alla prova sé stesso rispetto alla prospettiva più generale – realistica o illusoria che essa sia – di mobilitarsi per perseguire beni pubblici specifici o beni privati di rete. Questo passaggio, e le aspettative che esso può suscitare, rendono non di rado più utile, alla donna del nostro esempio, recarsi al seggio elettorale, pur sopportando qualche onere, che restare un’ennesima giornata per proprio conto. Rimane da menzionare, per completare la disamina del paradosso dell’elettore, un ultimo ma decisivo argomento. Il soggetto razionale aspira intenzionalmente a raggiungere scopi che dovrebbero migliorare la sua condizione. Questi scopi si possono ottenere – lo abbiamo visto – scegliendo adeguatamente mezzi, credenze e identità. Sovente accade però che l’individuo giudica irraggiungibili i mezzi che desidererebbe: gli servirebbero molti più soldi, avrebbe esigenza di essere più giovane di vent’anni, vorrebbe vivere in un paese differente, e così via. Che cosa succede in questi casi? Consapevole della propria impotenza, il soggetto dovrebbe essere motivato a non agire: perché fare qualcosa, se non lo approssima al traguardo? Egli dovrebbe razionalmente abbandonarsi alla passività: perché riempire la scheda elettorale, se è convinto che ciò non lo avvicina a un suo scopo? Nondimeno, una vasta letteratura empirica concorda che l’individuo, anche quando si sente incapace di ottenere i mezzi che vorrebbe, anziché rimanere inerte, elabora una forma alternativa di azione: la frustrazione quale «comportamento senza scopo» [Maier 1949; Eckstein 1991]. Un
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soggetto elabora la frustrazione quando, sfuggendogli i mezzi che persegue, l’unica maniera a sua disposizione per migliorare, o per non stare peggio, risiede nell’intervento sulle credenze e sull’identità. Se non agisse, subirebbe sic et simpliciter la propria inadeguatezza. Egli invece appronta un comportamento che conferisce un nuovo significato alla propria impotenza. È in questa prospettiva che talvolta sceglie di votare: non per ricavare qualcosa in termini di mezzi, bensì per alterare credenze e identità in maniere che compensino al meglio la frustrazione di non contare nulla. La sua è, possiamo aggiungere, una linea di condotta la cui finalità non riguarda il voto in quanto tale, bensì la riduzione di una «dissonanza cognitiva». Questa si verifica quando l’immagine che il soggetto ha di sé stesso è notevolmente difforme dai comportamenti praticati. Egli tende di conseguenza a percepire uno stato di disagio, la cui attenuazione può avvenire o cambiando il singolo comportamento, oppure riassestando il proprio mondo mentale per allineare maggiormente l’immagine con cui si autorappresenta alle azioni che compie [per tutti: Amerio 1982, cap. 7]. Il voto può in tali casi rispondere a una rielaborazione dell’impotenza in termini di protesta, di proposta, di militanza astratta, di migliore autostima o di mera abitudine: tutti comportamenti strumentalmente vacui, eppure razionali per ridurre la dissonanza cognitiva8.
8. Un’obiezione che si può rivolgere all’analisi proposta, è che essa non appare mai falsificabile: se il cittadino vota, procede così per minimizzare le conseguenze negative della frustrazione rispetto al perseguimento dei mezzi; se non vota, adotta tale comportamento per la medesima buona ragione. Si tratta di un rilievo che sarebbe pertinente se l’indagine fosse in grado di individuare le condizioni necessarie e sufficienti di un determinato esito. Ciò, nelle scienze sociali, non accade. Una spiegazione si presenta piuttosto come convincente quando seleziona, con argomentazioni giudicate valide, la «condizioni di possibilità» (che è talvolta la sola condizione necessaria, e talvolta la condizione più probabile) di un certo risultato. Quest’ultima non
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Riassumendo, in riferimento sia al bene pubblico specifico che al bene privato di rete economica io voto perché m’interessa inviare un segnale a chi sta nel gruppo, o potrebbe entrarvi, o potrebbe uscirne. Quel segnale fa parte di uno spettro di comportamenti coerenti tra loro, mediante cui tento di influenzare la dimensione del gruppo e quindi l’ammontare dei costi e la qualità delle condizioni di uso del bene che in esso avviene. Con particolare riferimento al bene privato di rete sociale, io voto perché mi preme inviare un segnale alla «cerchia di riconoscimento» che mi qualifica come candidato o come possessore di quel bene, affinché sia confermato da essa il mio ruolo, nonché affinché venga riaffermata la scarsità sociale che rende significativo (privilegiato) quel bene. Anche quando sono un cittadino marginalizzato, il voto può rappresentare un episodio in cui verifico come potrei meglio essere «reidentificato» da sottogruppi o cerchie che di solito mi trascurano. Infine, quando sono consapevole dell’inutilità totale del voto quale mezzo per avvicinare qualche mio scopo, posso nondimeno votare per rielaborare la mia impotenza, ovvero per modulare le mie credenze e la mia identità in forme che non alimentino la mia frustrazione. L’indignazione e le norme universalistiche La stessa struttura di ragionamento può venire estesa ad altri casi di azione collettiva nei quali sembra impossibile scorgere forme d’interesse strumentale – un mero calcolo privato di benefici e costi – da parte dei soggetti implicati. Si pensi alla rimostranza di gruppo contro il furbo che può tuttavia escludere né che lo stesso esito si raggiunga in maniere diverse, né che la stessa premessa non dia luogo a esiti differenti.
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scavalca una fila. Più la fila è lunga, minore è l’incidenza di quella furbizia sulla mia condizione. Eppure mi indigno; e, come me, altri protestano, fino magari a impedire l’effettuarsi del comportamento. «Perché una reazione del genere a fronte di un disagio di così scarsa entità?»9. In apparenza questi comportamenti sono plasmati da valori e norme, ideali e disposizioni etiche: in breve, da «ragioni non orientate a risultati». Essi vengono avanzati e mantenuti per rispettare un impegno socialmente interiorizzato che, come i precetti morali e religiosi, attiene non a un atto specifico («sono corretto oggi con mia moglie», oppure «oggi sono generoso, domani chissà»), bensì riguarda una classe di atti («sono corretto sempre verso tutti i miei concittadini», oppure «sotto certe condizioni, sono sempre generoso») indipendentemente dal vantaggio che in ciascuna occasione posso trarne [Elster 1989; Sen 1977, 157-161]. Ma a questa chiave interpretativa si può opporre quella basata sui percorsi di strutturazione identitaria. Indignarsi o esprimere rivendicazioni non negoziabili «segue lo stesso principio delle altre forme dell’agire: rispondere ad anticipabili riconoscimenti, non ottenere i quali comporterebbe esclusione, quindi attentato alla propria identità» [Pizzorno 2000, 216].
9. [Boudon 1998-2000, 237]. Ancora più estremo ed efficace è l’esempio della lotta contro l’aborto: «I partecipanti (specie se uomini) ai vari “movimenti per la vita” che lottano contro la facoltà per le donne di abortire entro i primi mesi di gravidanza, non rivendicano alcun diritto per sé, ovviamente: non è infatti minacciato il loro diritto a non abortire, e nessun loro personale interesse viene leso dalle legge contro cui protestano. Ciò che rivendicano è il diritto di impedire ad altri di compiere quell’atto. Perché? Perché la libertà di alcuni di compierlo rappresenta, per chi anche sia libero di non compierlo, un simbolo che stabilisce che la natura della società non è più quella in cui l’obiettore riteneva di avere diritto di vivere. Il diritto, insomma, per il quale costoro lottano (e anche uccidono, come è capitato in America) è quello di continuare a vivere in una società nella quale vigono determinate regole che ne segnano l’irrinunciabile identità, e che quindi non si vogliono negoziare» [Pizzorno 2001, 231].
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Quest’argomento non perde vigore nemmeno davanti ai valori e alle regole di condotta con valenza universalistica. Qui parrebbe evidente che li si rispetti non per un qualche interesse soggettivo, bensì per un impegno assiologico. In effetti, perché dovrei mobilitarmi per i diritti civili delle donne afghane, se non perché sono spinto ad affermare una norma universale prescindendo del tutto dal mio «interesse» (o, meglio, da qualsiasi «buona ragione» che abbia me come centro)? La risposta al quesito è affermativa finché concepisco l’interesse come la mia stretta e diretta convenienza. Posso nondimeno immaginare propositi o impegni che non siano orientati al risultato per me, eppure che vengano da me conseguiti o mantenuti in quanto penso che così otterrò buoni esiti per me o per il gruppo contribuendo al quale io stesso starò meglio [Hardin 1995, cap. 5]. Quest’ultima formulazione si riferisce a credenze/aspettative, a esiti futuri e soprattutto a iniziative per la vitalità di un gruppo, grazie al quale raggiungere i propri risultati: essa appare in grado di delucidare grande parte degli scopi e degli impegni collettivi durevoli, fino alle norme universalistiche. L’idea è che talvolta il mio interesse non misura lo stretto e diretto tornaconto, bensì un miglioramento relativo di uno o più sottogruppi in cui sono inserito. Anche una società nella quale decisioni cruciali si formano mediante la mobilitazione (più o meno adeguata) di grandi gruppi, è in effetti un luogo in cui le identità (e dunque le ragioni per credere e agire) di ciascuno di noi si strutturano nella logica dei sottogruppi. Io non mi qualifico, come soggetto, né in quanto individuo che calcola in isolamento i vantaggi e le perdite, né in quanto interiorizzo qualche identità astratta come quella di «cittadino del mondo», «italiano», «cristiano», «rispettoso delle file» o «difensore degli embrioni». La mia azione nasce piuttosto in riferimento
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prioritario a beni pubblici specifici e a beni privati di rete. È per conseguire uno o più di tali beni che debbo conferire importanza proprio al rispetto durevole di una linea di condotta che faciliti la mia appartenenza a un sottogruppo, cioè a una identità individuale collettivamente situata: senza l’inclusione stabile in quel sottogruppo non accederei all’indivisibilità del bene pubblico specifico, o della rete in cui usare un bene e in cui essere riconosciuto/distinto dagli altri mentre ne fruisco. La circostanza che io desideri accedere a una certa indivisibilità, connota il mio interesse come indiretto: non conta il calcolo immediato di benefici e costi, bensì la possibilità di concorrere a beni che, forse, non otterrò mai10. E le norme universalistiche volontarie? Talvolta l’adesione a esse appare sorretta da interessi – individuali o di gruppo – del tutto inadeguati. Si pensi al giudice onesto, che applica la legge nelle condizioni più difficili: così procedendo, è vero che egli conferma la propria identificazione con un gruppo di riferimento; qualora però i danni provocati dalla sua rettitudine superino grandemente i benefici traibili dalle ragioni identitarie, la spiegazione risulta poco soddisfacente. Si può tuttavia al riguardo osservare come non di rado si manifestano azioni collettive, deliberate o inconsapevoli, il cui interesse consiste nel
10. Anche Mark Granovetter conduce un’analisi della società basata sulla logica dei sottogruppi. La sua è però una posizione che, assai più della nostra, conferisce peso ai benefici e ai costi immediati, ossia, circostanza singolare per un esponente di spicco della nuova sociologia economica, alla strumentalità delle scelte individuali: «La fiducia che si accorda a un dato leader dipende in buona parte dall’esistenza di contatti personali intermedi che possano garantire, sulla base della loro personale conoscenza, che il leader è degno di fiducia, e che, in caso di bisogno, possano fungere da tramite per inoltrare richieste al leader stesso o ai suoi luogotenenti. La fiducia nei leader è integralmente collegata alla capacità di prevedere e di influenzare il loro comportamento. I leader, da parte loro, non hanno molte motivazioni per rispondere alle richieste e nemmeno alle aspettative di persone con cui non hanno un collegamento né diretto, né indiretto» [Granovetter 1973, 139].
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rendere effettivamente disinteressati certi comportamenti dei membri di un altro gruppo [Olson 2000, 32]. Un regime democratico, per esempio, si forma sulla base di un relativo equilibrio di potere tra i gruppi politici. Ciascun gruppo si preoccupa d’impedire a ciascun altro di prevalere stabilmente. Conviene dunque a tutti che a dirimere le controversie siano specialisti non coinvolti nelle questioni da giudicare: questi soggetti tendono al rispetto delle norme universalistiche del diritto in quanto, alla lettera, non hanno ragione di comportarsi diversamente. Si garantisce l’indipendenza del potere giudiziario poiché importa stabilire un dispositivo sociale nel cui ambito sia eliminato ogni interesse personale verso il contenuto della singola decisione o procedura. Quando dunque il giudice del nostro esempio emette una sentenza che presenta per lui alti costi personali, egli la controbilancia addizionando ai benefici che trae dal riconoscimento del suo gruppo, quelli legati all’essere riconosciuto come arbitro disinteressato da altri gruppi. Il distacco dalla prospettiva normativistica – che fonda parte dell’azione collettiva sull’adesione non razionale a valori socialmente approvati – può essere espresso anche ragionando sull’ovvia circolarità tra l’azione di un soggetto e i suoi processi di socializzazione. Chiunque riconosce che un certo contesto culturale e normativo condiziona i comportamenti individuali e dunque anche le identità. Se tuttavia poggiamo la teoria sull’introiettamento di valori sociali, non riusciamo a spiegare perché, qui e ora, voi e io ci scegliamo atei o monoteisti, riformisti o conservatori, egoisti o solidali, lettori o videodipendenti. Introducendo individui già carichi di orientamenti culturali e di derive ideali, possiamo soltanto trarne percorsi biografici congruenti. L’alternativa, a nostro avviso più convincente, sta nell’analizzare soggetti privi all’inizio di quelle regole sociali
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che ci proponiamo di spiegare [Coleman 1990, 50-51]. Ogni soggetto esordisce adottando un’identità, sebbene non nella stessa maniera con cui sceglierebbe un abito, bensì costruendosela dentro i vincoli e le opportunità offertegli dai gruppi sociali con i quali stabilisce interazioni. Il nesso causale appare rovesciato: «le norme vengono invocate dagli attori per dare un senso alla condotta, per costituire riflessivamente le circostanze e le attività a cui sono applicate. Ricorrendo alla metafora del gioco, si può dire non tanto che il gioco segue le regole, ma che le regole, attraverso le attività interpretative degli attori, seguono il gioco e rendono i suoi eventi normali e comprensibili» [Giglioli 1989, 124]. Così, se esaminiamo l’interesse di Giulio Cesare, Tamerlano e Gesù Cristo verso una guerra di sterminio di massa, non dobbiamo discettare in astratto sul ruolo della benevolenza e della malvagità nell’agire umano, e nemmeno sugli interi percorsi di socializzazione di quei personaggi. Rileviamo piuttosto come quei soggetti – interpretando in modi storicamente specifici la propria situazione e i fini della propria azione – edificano una specifica identità e la consolidano contribuendo alla costituzione di norme conformi. Ciò ci aiuta a ricostruire quale «geometria degli interessi» ognuno di loro si concede finché rimane «se stesso», e dunque a spiegare questo o quel suo comportamento. Lo studio delle «buone ragioni» di un certo individuo per credere e per agire nelle relazioni con gli altri, rappresenta pertanto una prospettiva con premesse meno esigenti rispetto a quella che procede anzitutto da valori e norme. The social conflict view L’impostazione svolta amplia ma non contraddice quella originaria di Olson. La maggiore innovazione concerne
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l’eterogeneità degli individui, la quale viene riconosciuta prima che essi effettuino scambi tra loro. Trattandosi, come abbiamo argomentato, di una differenza identitaria, essa non riguarda le dotazioni di risorse cognitive e fisiche: pertanto perfino ipotizzando individui eguali in termini di razionalità e di mezzi, possiamo non espungere le diversità intersoggettive. In questo quadro teorico più ricco, le principali assunzioni sotto cui vale il dilemma del cooperatore sono così riformulabili. La prima indica che, essendo gli uomini eterogenei, quando ciascuno di loro decide, lo fa da un punto di vista che è comunque parziale (diverso da quello adottato o adottabile da altri); ciò apre alla possibilità che la decisione s’ispiri a credenze e interessi particolari11. La seconda è l’asimmetria di potere: in contesti dinamici e incerti – e data ancora l’eterogeneità dei soggetti – i requisiti che qui e oggi favoriscono qualcuno, possono lì e domani privilegiare altri; ciò suscita differenti posizioni e percorsi nel controllo delle risorse cognitive e fisiche. La terza suggerisce che numbers matter: soluzioni la cui robustezza sia limitata a casi – esaminati magari con esercizi sul «dilemma del prigioniero», o in «esperimenti di laboratorio» – in cui i soggetti sono una coppia o un terzetto o gruppi ristretti, chiariscono poco il funzionamento della società. La quarta consiste infine nel fondare il dilemma su azioni individuali volontarie: se spiegassimo un’azione collettiva mediante l’esistenza di organizzazioni, istituzioni, norme e culture condivise, sposteremmo la difficoltà in quanto dovremmo ancora – affrontando un dilemma di secondo (o ennesi-
11. Come argomenta Zolo [1992, 58-72], quest’assunzione non implica – sebbene, nella storia delle idee, abbia spesso comportato – un pessimismo antropologico, secondo il quale i mercati e la politica sarebbero ambiti in cui si esprime drammaticamente la malvagità e l’egoismo degli uomini.
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mo) livello – delucidare come è nata l’azione collettiva che ha formato quel certo bene pubblico. Dal dilemma del cooperatore si dipana un’intera concezione del funzionamento della società, chiamata da Daron Acemoglu e altri the social conflict view. Essa si oppone all’idea che, sui mercati così come nell’agone politico, gli scambi mutuamente vantaggiosi tendano sempre a realizzarsi, ovvero che si pervenga a esiti cooperativi in quanto tutti gli attori constatano che con essi i vantaggi totali superano la somma dei costi individuali. Quest’idea è stata influentemente formulata nei termini del cosiddetto «teorema di Coase», per il quale, se i costi di transazione sono nulli, soggetti razionali raggiungeranno un’allocazione Pareto-efficiente mediante scambi volontari. Numerosi autori estendono tale teorema asserendo che i soggetti razionali effettuano contrattazioni tra loro – in beni privati così come in esternalità, beni pubblici e altri fallimenti del mercato – finché i guadagni netti sono positivi, ossia finché i ricavi superano i costi di transazione: essi pertanto convergono, salvo frodi o errori, verso un’allocazione paretiana quale che sia l’entità dei costi di transazione. In questa logica, se il governo appare un’organizzazione in grado, per taluni scambi sociali, di ridurre i costi di transazione relativamente al mercato, i soggetti razionali opteranno per le negoziazioni politiche. Il teorema sostiene, insomma, che le società scelgono sempre le istituzioni (economiche o politiche che esse siano) socialmente ottimali e che la struttura istituzionale non rileva per l’efficienza ma unicamente per la distribuzione dei guadagni12.
12. Per una presentazione di questo teorema, e per i riferimenti bibliografici, rimandiamo a Mueller [2003, 27-40] e ad Acemoglu-Johnson-Robinson [2005, §5.1].
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Non appena tuttavia riconosciamo che i soggetti producono e riproducono asimmetrie di potere, la tesi coasiana non vale, in generale, già in uno scambio sociale tra due soggetti. Infatti quel teorema presuppone la capacità delle parti di formulare enforceable contracts. Ciò può verificarsi, tra attori provvisti di diverso potere, soltanto grazie a un terzo che abbia strumenti e ragioni per verificare l’applicazione dell’accordo. Questo terzo può essere un’organizzazione pubblica come lo stato, oppure un’organizzazione privata alla quale le parti conferiscono adeguati mezzi. Sappiamo tuttavia che introdurre un’entità collettiva equivale a riproporre all’indietro lo stesso dilemma del cooperatore. In alternativa si possono individuare svariati meccanismi di self-enforcing agreement, ma nessuno elude un fondamentale problema di commitment: il soggetto più forte non può promettere credibilmente che non utilizzerà il suo potere per alterare il contratto; allo stesso modo, se il soggetto forte dovesse oggi cedere parte del proprio potere, contro l’impegno del soggetto debole a restituirgli vantaggi domani, sarebbe essa pure una promessa non credibile, poiché il primo non disporrà più della capacità di far applicare il contratto [Olson 2000, 52-54; Acemoglu 2003]. Se passiamo a considerare gruppi ampi di soggetti, il teorema di Coase appare ancora meno convincente. Per ottenere un bene privato, un soggetto dev’essere coinvolto nella transazione. Per un bene pubblico, invece, la posizione più vantaggiosa è essere esclusi dall’accordo: non si contraggono oneri mentre si fruisce lo stesso del bene. Se però, in conseguenza della ricerca del maggior guadagno da parte di ciascuno, il risultato è la mancata o subottimale produzione del bene pubblico, anche in situazioni prive di costi di transazione o di contrattazione, ciò contraddice il teorema di Coase [Dixit-Olson 2000].
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Pertanto, in opposizione all’approccio che ruota attorno al teorema di Coase, l’approccio del dilemma del cooperatore coglie aspetti rilevanti della «condizione umana» contemporanea. Esso non teorizza homines oeconomici gretti e avidi, unidimensionali e omogenei, immersi in situazioni prive di sociabilità e di valori; vale piuttosto per soggetti che, identitariamente eterogenei, coltivano punti di vista parziali, sono in grado di apprendere dalle opportunità e dai vincoli che incontrano, si differenziano in termini di potere, reagiscono al variare della numerosità delle aggregazioni, creano beni collettivi con proprie scelte e azioni conflittuali. Tiriamo le fila Abbiamo affrontato il dilemma del cooperatore mediante un riesame dei tipi di beni economici che, nelle condizioni contemporanee più diffuse, vengono offerti, scambiati e consumati. I beni economici sono strutture d’incentivi [Cornes-Sandler 1996, 9-10, 63-66]. Ricostruire dunque la catalogazione dei beni che i soggetti si contendono, equivale a delineare una parte cruciale del sistema dei loro incentivi13. Se il quadro dei beni si arricchisce, anche quello degli incentivi acquisisce nuovo spessore. Se poi i beni inseriti nel quadro presentano strutture d’incentivi tali da favorire il formarsi e la mobilitazione dell’azione collettiva in gruppi ampi, otteniamo una spiegazione del dilemma del cooperatore che, muovendo da processi
13. Consideriamo per esempio la non-rivalità. Finché un bene è altamente rivale, possiamo attenderci che i soggetti agiscano in maniera strumentale, in quanto puntano a una maggiore quota del bene scarso. Ma se esso è non-rivale, i comportamenti espressivi possono più facilmente fiorire. Le caratteristiche dei beni, che a loro volta si formano lungo processi d’istituzionalizzazione, condizionano potentemente gli incentivi individuali.
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socio-economici sistematici e persistenti, rispetta i requisiti di rilevanza e generalità prima ricordati. L’ipotesi che abbiamo svolto procede insomma da un’osservazione elementare: i «beni economici» solitamente considerati – privati, pubblici, di club e le risorse comuni, più ulteriori casi misti – non esauriscono le strutture d’incentivi oggi rilevanti. Per comprendere la «logica dell’azione collettiva», occorre conferire piena cittadinanza ad altre modalità d’incentivazione dell’azione sociale, ossia appunto ad altri concetti di bene. La nostra revisione è consistita nell’introdurre una coppia di concetti: i beni pubblici specifici e i beni privati di rete (a loro volta collocati in reti economiche, oppure in reti sociali). Questi beni ci permettono di chiarire perché nasce l’azione collettiva, in quanto, a differenza degli incentivi selettivi olsoniani, vengono coprodotti insieme a qualche interdipendenza indivisibile più estesa: un bene pubblico di un gruppo maggiore, o una rete collettiva di uso. Tale caratteristica ci consente altresì di spiegare meglio il permanere dell’azione collettiva. Finché infatti alcuni membri di un gruppo si mobilitano all’azione collettiva grazie a beni privati diversi dal bene del gruppo, come sostiene Olson, non appena l’erogazione di questi incentivi rallenta o s’interrompe, tende a esaurirsi anche la mobilitazione di quei soggetti. Non così accade per la coppia di beni discussa in queste pagine, dato che tali beni rientrano nel medesimo processo di produzione dell’indivisibilità. Come abbiamo argomentato, se, accanto ai beni privati ordinari, i membri del gruppo possono aspirare anche a beni pubblici specifici e a beni privati di rete, diventano più agevolmente decifrabili fenomeni di partecipazione collettiva – la vitalità di un gruppo ampio in cui sia la coercizione che i premi privati sono secondari; il paradosso del voto; le azioni individualmente disinteressate; le norme universalistiche – altrimenti poco chiariti.
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L’opportunismo A lungo tra gli economisti ha prevalso un’idea di concorrenza mercantile nella quale gli agenti perseguono il proprio massimo utile nell’ambito di una cornice esistente di diritti di proprietà, strutture di governance e regole di scambio1. Si tratta tuttavia chiaramente di una concezione idealizzata. Ogni volta che le opportunità di avvantaggiarsi sugli altri aumentano a misura che sui mercati qualcuno dei vincoli, delle consuetudini e delle norme può venire allentato o modificato, perché mai i soggetti autointeressati dovrebbero arrestare la loro caccia al guadagno? I soggetti sono costitutivamente opportunisti, nel senso che approfittano di qualsiasi opportunità che consenta loro di orientare l’imprevedibilità sistematica della
1. «I diritti di proprietà sono relazioni sociali che definiscono chi ha diritto al profitto dell’impresa […]. Le strutture di governance attengono alle regole generali in una società che definisce relazioni di competizione, cooperazione e specifiche definizioni di come le imprese dovrebbero essere organizzate. Queste regole stabiliscono le forme legali e illegali di come le imprese possono controllare la competizione. Esse presentano due forme: (1) leggi e (2) pratiche istituzionali informali. […] Le regole di scambio definiscono chi può transare con chi e le condizioni sotto cui le transazioni avvengono. Tali regole debbono riguardare [in particolare] l’assicurazione, il ruolo del credito bancario e i modi con cui far rispettare i contratti» [Fligstein 1996, 658].
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loro condizione2. L’opportunismo, quale discrepanza tra impegni ex ante e comportamenti ex post, si riveste di quattro principali modalità. In alcuni casi, il tornaconto è rafforzato dalla (meglio perseguito con la) slealtà. Si consideri una partita di calcio. Il regolamento stabilisce che se una squadra ha mandato il pallone fuori dal rettangolo di gioco, è l’altra squadra a rimetterlo in campo. Esiste nondimeno una consuetudine, dettata dallo spirito sportivo, secondo cui se una squadra sta conducendo il gioco mentre un avversario si fa male, essa interromperà l’azione, inviando fuori campo il pallone, per permettere di soccorrere l’infortunato; alla ripresa del gioco, la squadra rivale ricambierà la cortesia restituendole il pallone con la rimessa laterale. Se tuttavia un simile episodio si verifica in una fase particolarmente delicata dell’incontro, l’incentivo alla slealtà, ossia a non concedere la palla alla squadra che è stata gentile con noi, può spingere a violare la reciprocità, pur d’avviare un’offensiva di gioco. Talvolta il tornaconto è rafforzato dal contaminare un set dato di regole con altri set di regole. Immaginiamo che io, impegnandomi nella carriera politica, abbia ottenuto una carica amministrativa. Avrò convenienza a utilizzare l’influenza della mia carica non soltanto nell’ambito di sua stretta pertinenza, bensì, poniamo, per garantirmi una migliore assistenza medica, per far accedere i miei figli a scuole d’élite, oppure per avere notizia di buone occasioni imprenditoriali3. Va sottolineato che questa
2. Una brillante e serrata argomentazione della sistematica imprevedibilità in cui viviamo è svolta da MacIntyre [1981, cap. 8]. 3. Possiamo vedere questo fenomeno alla rovescia, immaginando una condizione astratta in cui sia sospesa ogni forma di opportunismo: «[In essa] la posizione di un cittadino in una sfera, o rispetto a un bene sociale, non può essere danneggiata dalla sua posizione in un’altra sfera, o rispetto a un altro bene sociale. Così il cittadino X può essere preferito al cittadino Y per una carica politica, e così X e Y
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seconda forma di opportunismo non coincide con la precedente: mescolare le regole istituzionali delle varie sfere sociali può dare vantaggi, ma non comporta necessariamente atti sleali4. In altri casi l’opportunismo si manifesta intervenendo sull’arbitro che verifica il rispetto delle regole da parte dei gruppi o dei singoli giocatori. Si pensi a un processo legittimo ed esplicito di lobbying, grazie al quale una squadra di calcio cerca di condizionare così la selezione dei giudici sportivi, come le decisioni che questi prendono. Ma si pensi più spesso a procedure illegittime e coperte, basate sulla corruzione e addirittura sulla violenza. Per esempio, specialmente nei paesi del Sud del mondo, si richiedono licenze, permessi e autorizzazioni per avviare gran parte delle attività – dall’apertura di un negozio, all’acquisto di un’automobile, all’ottenimento di un credito o di un passaporto. I funzionari pubblici che possono autorizzare le varie attività, detengono così un potere monopolistico che spesso usano per riscuotere tangenti [Tanzi 1998, 566]. Infine l’opportunismo può realizzarsi modificando direttamente le regole dell’attività che si sta conducendo. Il soggetto sceglie tra i differenti possibili giochi, ossia tra i possibili insiemi di regole, espandendo il suo spazio strategico e talvolta optando per alternative che non erano in precedenza accessibili. Il cambiamento delle regole:
saranno disuguali nella sfera della politica. Ma non saranno disuguali in generale finché la carica non procurerà a X dei vantaggi su Y in altre sfere […]. Finché le cariche non saranno un bene dominante, universalmente convertibile, i loro detentori staranno, o almeno potranno stare, in una relazione di eguaglianza con gli uomini e le donne che governano» [Walzer 1983, 30]. 4. La definizione corrente di «opportunismo», ripresa da Williamson [1975], indica esclusivamente il tornaconto rafforzato dalla slealtà. L’accezione qui proposta è dunque più ampia, non richiedendo necessariamente atti sleali.
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può coinvolgere uno o più dei seguenti aspetti: a) un mutamento del set dei giocatori (un governo decide tra legiferare per decreto o introdurre le nuove leggi mediante dibattito parlamentare); b) un mutamento nelle mosse ammissibili (una commissione parlamentare introduce un progetto di legge con regole aperte – gli emendamenti sono permessi – oppure con regole chiuse – nessun emendamento); c) un mutamento nella sequenza del gioco (un governo chiede il voto di fiducia prima al Senato che non alla Camera); d) un mutamento nell’informazione disponibile (un governo dichiara in Parlamento che il voto su una proposta di legge sarà considerato come un voto di fiducia) [Tsebelis 1990, 93-94].
L’opportunismo è insomma definibile – in riferimento ai quattro modi appena considerati di rafforzare il self-interest – come la ricerca soggettiva del massimo tornaconto anche mediante l’alterazione della cornice dei vincoli. Esso esiste soltanto finché viene esercitato, ossia finché dura il nesso intersoggettivo nel quale si dispiega. Detto altrimenti, l’opportunismo, esprimendosi in una relazione, non è una risorsa sociale accumulabile: non può venire immagazzinato, conservato e quindi impiegato in qualsiasi momento e circostanza. Al contrario – come altre risorse sociali quali l’amore e la fiducia –, esso esiste finché funziona una certa specifica relazione tra soggetti: si radica nel nesso peculiare tra Tizio e Caio, anziché valere in maniera astratta e impersonale. Così, se perseguo l’efficacia della mia condotta opportunistica, debbo interrogarmi su chi sono i soggetti sui quali cerco d’avvantaggiarmi: più li conosco nella loro precisa identità, più riesco a ricondurli alla prevedibilità e dunque a controllarli. Per contro, se coltivo un’identità multipla, basata sulla contemporanea appartenenza a cerchie sociali eterogenee, posso godere di un vantaggio strategico consistente nel rendere più difficile agli altri la decifrazione
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delle mie intenzioni5. Da ciò segue altresì che l’opportunismo è in molti casi intransitivo: se io guadagno rispetto a te, e tu guadagni rispetto a lui, non per questo io sono nella condizione di avvantaggiarmi anche rispetto a lui [Emerson 1962, 31]. Nei capitoli precedenti abbiamo discusso il dilemma del cooperatore, per il quale i soggetti – date certe regole d’azione collettiva – s’avvantaggiano defezionandole. Talvolta però quello che accade è che i soggetti negoziano attivamente le modalità con cui far parte del gruppo. Invece di uscire dal gioco esistente, provano a guadagnare modificando la struttura del gioco. Anziché limitarsi alla scelta – secca e statica – tra mobilitazione e astensione, «i giocatori scambiano risorse (comportamenti), ma cercano contemporaneamente di manipolare a loro vantaggio le condizioni o le “regole” che governano lo scambio» [Friedberg 1993, 96]. Essi sono opportunisti in quanto l’imprevedibilità sistematica del comportamento umano crea, e continuamente modifica, squilibri nella capacità di un soggetto di controllarne altri: se tale capacità fosse sempre e comunque simmetrica, nessuno tenterebbe d’avvantaggiarsi.
5. Possiamo chiederci perché gli uomini avviano la doppia strategia, consistente per un verso nel rendere indecifrabili le proprie azioni, e per l’altro verso – quale rovescio dello stesso atteggiamento – nel tentare d’imbrigliare i comportamenti altrui. La risposta è che ciò accade per governare le opportunità e i pericoli di un’imprevedibilità già esistente. Quando ignoro cosa potrà accadermi, e cosa potrà succedere a chi mi circonda, debbo cautelarmi. E il modo migliore per tutelarmi, sta nell’approfittare delle occasioni che mi si presentano, o che io stesso riesco a inventare. Ma, «nella proiezione del futuro, chi riesce a compiere, riguardo all’avversario, previsioni più numerose e migliori di quelle che l’avversario stesso riesce a compiere su di lui, si trova in una situazione di enorme vantaggio; pertanto, l’imperscrutabilità del proprio sistema di controllo è sempre nell’interesse di un agente» [Dennett 1996, 142].
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La disuguaglianza tra gruppi Ogni volta che una relazione intersoggettiva comporta maggiori vantaggi per alcuni, anche qualora ciò non porti danni agli altri, sorge una disuguaglianza. Proprio come la logica opportunistica suggerisce, coloro che subiscono una disuguaglianza provano ad attenuarla o a ribaltarla mediante strumenti che vengono mobilitati da differenti sfere relazionali: chi è fisicamente debole ricorre all’intelligenza, alla bellezza, alla simpatia o all’affettività; chi è individualmente svantaggiato, cerca occasioni di coordinamento con altri; chi soffre di una cattiva reputazione, supplisce spendendo di più in valori simbolici o in regalìe. D’altra parte, coloro che traggono vantaggi da una disuguaglianza provano a preservarla fissando regole che impediscano o almeno rendano più costoso impiegare risorse di altri ambiti per alterare la relazione asimmetrica, oppure stabilendo regole che conferiscano ad alcuni il controllo sull’uso e sui risultati delle risorse mobilitate da altri6. Un punto teorico cruciale è che le strategie per rendere durevole la disuguaglianza vengono di solito costruite intorno a disuguaglianze tra gruppi o orizzontali, non a disuguaglianze tra individui o verticali. Se infatti desidero mantenere nel tempo un privilegio rispetto a te, ma sono incapace sia di anticipare ogni tua mossa, sia di vincolarti stabilmente al rispetto di regole condivise, la mia aspirazione poggia su fragili fondamenta. Tali fondamenta si rafforzano notevolmente se le disuguaglianze sono tra gruppi: il gruppo privilegiato prova a preservare la condizione che lo avvantaggia, creando procedure che impediscano o almeno rendano più costoso non già a singoli individui per pro-
6. «Le istituzioni sociali sono il prodotto degli sforzi per vincolare le azioni di quelli con i quali interagiamo» [Knight 1992, 126].
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prio conto, bensì a individui in quanto appartenenti ad altri gruppi, occupare quella posizione sociale [Weber 1922, 34-35]. Se per esempio un nero, o un giovane studioso, o un lavoratore subalterno, è più qualificato di me e di te, che abbiamo la pelle bianca, o che siamo accademici, o manager, ognuno di noi deve contrastare la sua ascesa professionale. Ma se egli non può competere a posti come il mio o il tuo in quanto membro del gruppo di coloro che hanno la pelle nera o che non sono accademici o manager, allora né la sua bravura, né la mia o tua insipienza, contano più nulla: la disuguaglianza che viene fissata riguarda il nesso tra gruppi, non tra individui. Pertanto le procedure che rendono durevole una disuguaglianza orizzontale hanno, in senso lato, modalità di chiusura inter-gruppo, nel senso che ai membri di una collettività si offrono opportunità differenti in considerazione di caratteristiche del loro gruppo, a prescindere da capacità e meriti individuali. Quando le caratteristiche collettive si riferiscono a dimensioni individuali non modificabili socialmente – come il colore della pelle, l’origine etnica o il genere –, oppure ad aspetti che sfuggono del tutto al controllo dell’individuo – come l’età che permette certe azioni – parliamo in senso stretto di «discriminazione». Ma il meccanismo di chiusura è più generale, inglobando i tanti casi nei quali il soggetto può, ma soltanto a livello individuale, acquisire la promozione nei ranghi del gruppo privilegiato, o esserne cooptato. Vari meccanismi di chiusura inter-gruppo possono combinarsi, come nel Sud Africa dell’apartheid in cui la proprietà privata della ricchezza e l’appartenenza di razza rappresentavano criteri complementari per strutturare le «classi sociali» (in senso weberiano)7. 7. L’accezione weberiana del termine «classe sociale» è così sintetizzata da BergerBerger [1972, 173-174]: «La classe è intesa da Weber come un gruppo di persone
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Ovviamente, non occorre supporre che i protocolli di chiusura siano sempre processi deliberati; essi possono talvolta costituire esiti non previsti di tante azioni individuali che, tuttavia, vengono ex post stabilizzati in quanto vantaggiosi per il gruppo privilegiato. La competizione sociale, insomma, quasi mai si svolge come una contesa tra individui nella quale le azioni singole di ciascuno decidono l’esito; bensì si realizza nella forma di una gara nella quale tu e io ci avvaliamo delle opportunità, dirette e indirette, derivanti dall’appartenenza all’uno o all’altro gruppo. Se la chiusura intergruppo è il mezzo principale col quale si mantiene una disuguaglianza orizzontale, a sua volta lo strumento che realizza quel meccanismo consiste nell’introdurre identità «come una forma di etichettatura» [Kaldor 1999, 90]. I membri di due gruppi vengono cioè «etichettati» mediante opposizioni categoriche – manager/lavoratore, professore/studente, civile/barbaro, bianco/nero, maschio/femmina, cittadino/straniero o mussulmano/ebreo –, piuttosto che con differenze riguardanti attributi individuali8. Come annota Evans-Pritchard [1940, 120] a proposito dei Nuer, «un individuo di una tribù considera le persone appartenenti a un’altra al pari di un gruppo indifferenziato nei cui confronti adotta un modello di comportamento altrettanto indistinto, mentre considera se stesso come membro di un segmento specifico del proprio gruppo».
che hanno analoghe possibilità di vita. Ciò significa che, in virtù di una certa comune opportunità di accesso alle scarse risorse, è molto probabile che le persone che appartengono a una stessa classe abbiano delle storie analoghe per quanto riguarda ciò che possono di fatto conseguire in una certa società». 8. Si vedano al riguardo, tra i tanti, Tajfel [1978], Tilly [1998] e Akerlof-Kranton [2000]. Va sottolineata al riguardo la distinzione tra categorizzazione e identificazione. Il processo di categorizzazione costruisce e in definitiva impone dall’esterno un’identità, mediante criteri di appartenenza o di esclusione conformi all’ossificazione di un’asimmetria di potere.
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Stabilire quanto un individuo sia «dentro» o «fuori», «simile» o «dissimile», alla propria categoria è un artefatto culturale arbitrario. Tuttavia l’invenzione di confini intersoggettivi non è un gesto capriccioso, poiché allestisce una modalità fondamentale grazie a cui l’azione collettiva può emergere nei contesti di più aspra conflittualità. Robert Axelrod e altri hanno recentemente dimostrato che, nelle condizioni peggiori per la cooperazione9, una strategia di elevata efficacia e robustezza evolutiva consiste nel collaborare con quelli che sono simili, ma soltanto con loro. In una società segnata da anarchia e anomia, ciascuno tende ad aiutare coloro ai quali attribuisce almeno un «tratto» tollerabilmente simile al proprio, e a contrapporsi a coloro che di quel «tratto» sono privi. La discriminazione verso altri costituisce un formidabile strumento per cooperare tra noi. Ciò accade soprattutto in ragione dell’esigenza di tutela dei vantaggi differenziali: fissiamo una nostra identità, opponendola a identità altrui, per convergere come gruppo su alcuni comportamenti, i quali si vanno stabilizzando nel tempo a misura che rendono meno accessibili agli «estranei» le risorse che noi ci spartiamo. La logica di «etichettare» i gruppi per differenziarne in blocco i rispettivi membri e quindi per poter chiudere socialmente ciascun membro del gruppo «soggiogato», si afferma in varie maniere complementari. In primo luogo 9. Queste condizioni segnalano che: siamo in una collettività ampia; la collaborazione è individualmente costosa; sono assenti occasioni che favoriscano la reciprocità diretta o indiretta (in cui i beneficiari restituiscono il beneficio, o a chi lo ha erogato oppure a una terza parte); manca un’autorità centrale; mancano meccanismi decentralizzati di enforcement, incluse le norme sociali e la fiducia; manca la reputazione; le capacità cognitive dei soggetti sono elementari. Si vedano RioloCohen-Axelrod 2001; Axelrod-Hammond 2003; Hammond-Axelrod 2005. È importante ipotizzare tali condizioni, in quanto con esse mancano o sono fortemente carenti i beni pubblici. Si evita così il regresso all’infinito, per il quale il gruppo agirebbe collettivamente grazie all’esistenza di un bene pubblico, che a sua volta rimanderebbe a un qualche bene pubblico di secondo livello, e così via.
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l’«etichettatura» costituisce un metodo di divide et impera: essa segmenta il gruppo rivale in frazioni che si contendono le posizioni migliori tra quelle subalterne, per meglio mantenere il monopolio del controllo [Roemer 1979; Bowles 1985]. In secondo luogo un gruppo può venire «etichettato» in base alla frequenza con cui manifesta un comportamento, e non per le caratteristiche di questo o quel suo membro. Se per esempio v’è una probabilità doppia, rispetto agli uomini, che assumendo donne giovani e sposate, queste si assentino a lungo nei successivi cinque anni per fare figli, conviene assumere uomini anche se nei test di assunzione alcune donne del gruppo convocato hanno ottenuto i punteggi più elevati. La condizione che rende razionale questa condotta è che esista una differenza nella qualità media di un attributo dei due gruppi, e che una valutazione della qualità individuale sia abbastanza costosa [Arrow 1972; Phelps 1972]. In terzo luogo, una volta introdotta, l’«etichettatura» di gruppo può talvolta diventare una regola sociale. Poniamo che, con informazione incompleta o asimmetrica, un’impresa osservi un comportamento di chiusura verso certi gruppi sociali da parte di altre imprese, senza conoscerne le motivazioni. Essa non sa se quella condotta si attua per il minor rendimento dei soggetti penalizzati o per pregiudizi. Ma può, in queste circostanze, considerare meno rischioso non deviare dalla norma e confidare nella razionalità delle scelte altrui. Finché in prevalenza le altre imprese procedono come lei, si tratta di una linea di condotta che – perfino se sbagliata – riduce i costi: permette di ottenere un’identificazione aggregata e semplificata di coloro da cui diffidare e di quelli in cui confidare. In quarto luogo, e infine, l’«etichettatura» può essere spontaneamente mantenuta dagli stessi membri del gruppo sfavorito. Quando infatti un individuo sta riuscendo ad
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accedere a gruppi «superiori», può crearsi una peculiare interdipendenza negativa per gli altri membri del suo gruppo di provenienza: essi sentono insidiata la propria identità dal fatto che uno di loro la sta cambiando. Ne segue che i membri del gruppo colpito dalla chiusura sociale possono provare a ostacolare il miglioramento del membro che ha successo, conferendo così durevolezza alla struttura sociale [Akerlof-Kranton 2000, 725 e 739-745]. Riassumiamo. Se la competizione opportunistica esprime continui momenti di disuguaglianza individuale – cioè vantaggi differenziali contingenti e imprevedibili per l’uno o per l’altro –, il punto teorico riguarda le modalità tramite cui, governando l’imprevedibilità delle azioni umane, quei momenti vengono resi durevoli. Abbiamo argomentato che l’origine della disuguaglianza durevole sta nel processo di formazione di gruppi mutuamente escludentisi, i cui membri hanno – a prescindere da chi sono e dalle loro capacità – un set prestabilito di opportunità. Pertanto la possibilità del radicarsi della disuguaglianza si colloca nei processi di costituzione dei gruppi, ovvero nelle possibilità e nei limiti dell’azione collettiva. Abbiamo osservato, inoltre, che la disuguaglianza rivela una robusta efficacia nell’attenuare il dilemma del cooperatore: implementando la collaborazione tra i «simili», essa facilita la costituzione e la persistenza di un gruppo privilegiato. Naturalmente, la partizione della società in gruppi – sebbene si proponga di prolungare una disuguaglianza – non è indefinitamente stabile. Essa, soprattutto, viene rimescolata e scompaginata dalla stessa forza da cui proviene: dall’opportunismo dei membri sia dei gruppi avvantaggiati, sia di quelli sfavoriti10. Quale che sia la 10. Ciò scaturisce anzitutto dal dilemma del cooperatore, in quanto talvolta, come sappiamo, la convenienza alla defezione può superare, per il singolo, quella deri-
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durata di una disuguaglianza, il fatto stesso che quest’ultima venga strutturata nel tempo ne altera la natura: da percorso lungo il quale un soggetto, sgomitando, passa avanti a un altro, la disuguaglianza può diventare una posizione socialmente riconosciuta e salvaguardata. Passiamo qui dal potere come relazione al potere come struttura. Le due forme comportano differenti esigenze economiche: mentre infatti il potere-relazione può affermarsi anche con pochi mezzi materiali e organizzativi (si pensi al bullo che tormenta un passante inoffensivo), il poterestruttura richiede fin dall’inizio, per essere costruito e mantenuto, un adeguato e non occasionale reclutamento di risorse (si pensi a una fabbrica o a un ufficio). Nei prossimi paragrafi esamineremo questa differenza e alcune sue implicazioni. Le attività di coordinamento Vi sono attività economiche che per conseguire beni abbisognano di beni, e attività che per ottenere beni richiedono quasi soltanto una specifica forma di relazione tra i soggetti coinvolti. I processi produttivi appartengovante dal preservare la forza e la compattezza del proprio gruppo rispetto ad altri gruppi. In secondo luogo, «per l’individuo come consumatore, datore di lavoro o lavoratore è costoso discriminare. Il consumatore che discrimina contro negozi di proprietà di gruppi ch’egli trova sgradevoli deve pagare prezzi più alti o accettare una scelta minore comprando altrove. Il datore di lavoro che discrimina contro lavoratori di un gruppo disprezzato deve pagare costi di lavoro più elevati, e la sua attività può andare verso la bancarotta concorrendo con imprese che non consentono al pregiudizio d’intralciare la via del profitto. Allo stesso modo, il lavoratore che non accetta l’impiego migliore prescindendo dall’affiliazione di gruppo del datore di lavoro sostanzialmente agisce in modo da avere la paga decurtata. […] Il fatto che per gli individui la discriminazione sia onerosa significa che, se sono liberi d’intraprendere qualunque transazione essi preferiscano, la misura della discriminazione sarà soggetta a un vincolo» [Olson 1982, 226-227]. Ricordiamo che tra il meccanismo estremo della discriminazione, e quello più generale della chiusura inter-gruppo, corre soltanto una differenza di grado: l’osservazione di Olson vale dunque per entrambi i protocolli.
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no al primo tipo di attività: quando parliamo di «produzione di merci a mezzo di merci», stiamo sottolineando che il conseguimento di nuovi beni avviene mobilitando, in maniera ordinata e sistematica, beni esistenti. Al contrario, i processi espropriativi di ricchezze già disponibili possono realizzarsi mediante minime quantità di beni strumentali o finali: una massa di affamati può assaltare con successo un granaio anche a mani nude. Mancur Olson non pone questa distinzione ed esamina le attività espropriative negli stessi termini di quelle produttive. Più esattamente, quando discorre dei beni pubblici, considera quasi solo quelli che, per essere forniti, richiedono un finanziamento, un contributing together, per attivare un processo produttivo che trasformi input come il capitale, il lavoro e le risorse naturali in output mediante una tecnologia. Olson stesso [1965, 28] riconosce però che le caratteristiche del bene pubblico può esprimerle anche un qualsiasi scopo comune per un gruppo: anche nei riguardi di quello scopo, infatti, siamo davanti a un’interdipendenza indivisibile, poiché senza l’azione del gruppo lo scopo rimane irrealizzabile11. In tale evenienza ciò che 11. Parlare di «scopo comune» non implica adottare un qualche concetto di «identità collettiva». Osserva Serge Moscovici [1988, 11]: «Se un individuo va in giro per le strade di Parigi proclamando di essere De Gaulle, certo soffre di disturbi psichici. Ma se diecimila uomini lo acclamano gridando «Siamo gollisti!», nessuno dubita che si tratti di un movimento politico. È una verità certa che, quando siamo riuniti e formiamo un gruppo, qualcosa cambia radicalmente: pensiamo e sentiamo in maniera totalmente diversa da quando lo facciamo isolati. Si può discutere sul senso di questa differenza, ma non sulla sua esistenza». La difficoltà e l’insidia stanno proprio nel significato da conferire al fenomeno. Una posizione prevalente consiste nel sostenere che il singolo confluisce nel collettivo, che l’»io» diventa il «noi». La più importante tesi alternativa afferma piuttosto che accade per l’identità collettiva ciò che succede per le credenze: più soggetti le condividono come forma di esperienza, modificano pertanto i loro processi cognitivi e relazionali, nonché le proprie linee di condotta, senza tuttavia che smettano di essere soggetti autonomi. È questo l’approccio a nostro parere più convincente e, sulla sua base, appare meno equivoco parlare, come abbiamo scelto fin dal capitolo primo, di un’identità personale costruita intersoggettivamente, anziché di un’identità collettiva.
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si realizza è un acting together, per il quale non occorrono sistematici input produttivi [Hardin 1991]. Si immagini un gruppo di ribelli che conquista la Bastiglia: in quel momento i membri del gruppo stanno perseguendo senza dubbio un bene pubblico inteso come scopo comune, ma per fare ciò non abbisognano di organizzare alcun processo produttivo. Mentre insomma i beni pubblici a cui principalmente pensa Olson esigono di essere finanziati per attivare un processo produttivo, gli scopi comuni possono basarsi su afflussi più saltuari di risorse e talvolta possono, almeno temporaneamente, farne del tutto a meno. Che cos’è, allora, che consente la redistribuzione del grano o la presa della Bastiglia? «Mentre la forza è la qualità naturale di un individuo separatamente preso, il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono. […] Il solo fattore materiale indispensabile alla generazione di potere è il vivere insieme delle persone» [Arendt 1958, 147]. Si tratta di un potere che nasce direttamente dalle relazioni intersoggettive, affiorando quando individui e gruppi si coordinano tra loro. Questo concetto di potere rimane estraneo all’orizzonte teorico di Olson, segnandone un ulteriore limite. Un’azione collettiva di coordinamento, oltre a non richiedere un impiego preliminare e sistematico di risorse economiche, può prescindere, in buona misura, anche dalle risorse organizzative. Il coordinamento diventa infatti possibile quando si verificano situazioni in cui, compiendo una certa iniziativa comune, nessuno, dentro un dato gruppo, sta peggio di prima, e dunque nessuno ha motivo di opporsi. Questi contesti presentano un potenziale di cambiamento evidente e sono socialmente frequenti e importanti. Si pensi a come il coordinamento di più lavoratori, anche gerarchicamente eguali e impegnati nel-
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la stessa mansione, possa presentare una produttività «superadditiva», superiore cioè alla somma degli sforzi individuali coinvolti, come quando si trasportano oggetti lunghi o pesanti. Oppure si pensi al vantaggio per ciascuno di noi d’applicare le regole grammaticali di un certo linguaggio, d’impiegare una cartamoneta priva di valore intrinseco, di rispettare l’ora legale o la consuetudine di guidare la propria automobile sulla carreggiata destra della strada. Siamo davanti a regole d’azione collettiva che talvolta si presentano come accordi pratici tra milioni di soggetti, selezionati da processi di evoluzione culturale in larga parte inconsapevoli: una tradizione di studi risalente a David Hume e Adam Smith li definisce «ordini spontanei» [von Hayek 1973, 48-72]. Non meno significative appaiono però le circostanze in cui nuovi problemi di coordinamento richiedono che una regola da assecondare sia stabilita. In tali evenienze la regola è all’inizio, quando possibile, decretata da un’autorità12. 12. «L’uomo che inventò i segnali del traffico ebbe il genio della semplicità. Si accorse che dove due strade s’intersecano, vi è confusione e rallentamento perché ciascuno può imboccare ogni altra via; e scoprì, probabilmente per esperienza personale, che gli automobilisti non sono adeguatamente indirizzati dalla propria auto-disciplina e buona volontà, né dalla cortesia, con la quale si perde tempo attendendo che l’altro passi e si provocano tamponamenti quando si fraintende il proprio turno. Con formidabile efficacia egli divise tutti i guidatori in due gruppi, quelli che procedono da est a ovest e quelli che si muovono da nord a sud. Diede così al traffico un andamento altalenante. A nessuno servivano biglietti, multe o prenotazioni per attraversare un incrocio. Tutte le istruzioni necessarie potevano essere ridotte a un codice binario di luci rosse e verdi; tutti i guidatori coinvolti potevano vedere i segnali; e un unico meccanismo poteva attivare alternativamente le due luci. Il giorno dell’inaugurazione non occorse alcun piano: né gli automobilisti né i semafori andavano sincronizzati con qualche altra attività; e nemmeno occorse qualche obbligazione, poiché una volta che i guidatori iniziarono a usare i semafori, impararono che era pericoloso passare con un flusso di traffico proveniente dall’altra direzione. I semafori crearono il tipo di ordine in cui chi non si adegua si punisce da solo. E vi era una giustizia imparziale nel funzionamento dei semafori: incapaci di riconoscere i singoli automobilisti, non effettuavano alcun favoritismo» [Schelling 1978, 120-121].
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Che si tratti di una norma consensuale stabilita con gradualità, o di una norma (per ipotesi, vantaggiosa per tutti ma) imposta ex abrupto, si tratta comunque di una strategia tale che, una volta introdotta, ogni membro del gruppo è incentivato a seguire; in tal senso, essa è in grado di promuovere o rafforzare l’acting together. Inoltre la sua affermazione deriva poco o nulla da negoziazioni esplicite e comporta perciò costi organizzativi molto ridotti. Essa tende ad affiorare come un protocollo quasi simultaneo, il quale non richiede forme complesse di pre-coordinamento, bensì soltanto una rapida convergenza di credenze e aspettative, la quale, a sua volta, è facilitata dall’evidente potenziale di cambiamento espresso dalla situazione. Torniamo ancora all’esempio della presa della Bastiglia: Usualmente l’essenza di una rivolta popolare è che i partecipanti potenziali sappiano non soltanto dove e quando incontrarsi, ma anche come e quando agire tutti assieme. Una leadership manifesta risolverebbe il problema; ma essa può spesso essere identificata e soppressa dalle autorità che tentano di prevenire la sommossa. In questo caso si tratta di agire all’unisono trovando qualche segnale comune, tale da rendere ognuno convinto che, se lui lo segue, non procederà da solo. Gli «incidenti» possono pertanto avere una funzione di coordinamento; essi rimpiazzano la leadership e la comunicazione esplicita. Senza qualcosa come un incidente, sarebbe difficile avviare l’azione collettiva, […] al punto che in una città sprovvista di «ovvi» punti di ritrovo o luoghi simbolici [nei quali gli «incidenti» abbiano risalto], sarebbe più ardua l’aggregazione spontanea di una rivolta13.
13. [Schelling 1960, 105, traduzione nostra e parentesi quadra aggiunta]. «La ricostruzione di Parigi da parte del Barone Haussmann sotto il Secondo Impero, rappresentò la fine delle barricate come un’arma difensiva. Haussmann rimpiazzò i labirinti di strade nei vecchi quartieri della città con gli attuali ampi boulevards per rendere più difficili le future insurrezioni» [Tarrow 1994, 76].
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In questo brano il coordinamento emerge in quanto, per decidere di fare A anziché B, mi baso sull’aspettativa che tu farai A, sulla mia aspettativa che tu ti aspetti che io faccia A, sulla mia aspettativa che tu ti aspetti da me che io mi aspetti da te che faccia A, e così via [Ullmann-Margalit 1977, 88-89]. Tale reciprocità delle aspettative è esigente, presupponendo che l’intero gruppo già condivida un quadro informativo e interpretativo dal quale possano scaturire le comuni attese. Premesse così forti non sono però necessarie. Possiamo modellizzare un soggetto, appartenente a un reticolo sociale, dotato di una informazione locale sia della «soglia» (il numero di partecipanti oltre il quale si decide di partecipare) dei vari membri del reticolo, sia della misura in cui ciascuno sa delle soglie altrui: l’azione collettiva dipende da quanto sono basse le soglie, ma pure da come i vicini riescono a informarsi a vicenda, ossia principalmente dalla struttura del reticolo [Chwe 1999]. Possiamo assumere ancora meno: affinché il coordinamento si formi, basta che, entro un gruppo ampio, vi siano maggiori livelli d’interdipendenza tra i soggetti vicini. Se io cambio linea di condotta, i miei vicini ne vengono influenzati, poiché sono spiazzate in qualche misura le loro credenze e identità. Ciò li spinge ad agire essi pure, talvolta per ricomporre lo status quo ante, talaltra invece per imitare il mio comportamento. Questo elementarissimo meccanismo di stimolo-risposta può ingenerare una cascata di risonanze che, coinvolgendo i vicini dei vicini, compone un’articolazione di acting together ampia quanto il gruppo. L’intero processo si svolge anche senza incentivi o disincentivi privati: la tua risposta a una mia «qualsiasi» azione né dipende dalla natura della mia iniziativa (finalizzata, o meno, a ottenere scopi comuni), né dall’esigenza di recuperare o superare un mio guadagno. Immaginiamo per esempio che mi sia indignato davanti a un
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sopruso dell’autorità: se tu aderisci alla rimostranza, questo non implica un tuo calcolo strumentale, bensì anzitutto, dentro l’interdipendenza che ci lega, una forma di aggiustamento delle tue credenze e della tua identità [Kim-Bearman 1997]. Spesso le azioni di coordinamento che generano interdipendenze indivisibili sono asimmetriche. Situazioni importanti di questo tipo sono le gerarchie organizzative e la divisione sociale del lavoro: «per la produttività di un’impresa può cambiare poco chi sta sopra e chi sotto, mentre ciò è rilevante per ciascun individuo. Analogamente, una certa divisione del lavoro può risultare molto efficiente per tutti, ma collocare i soggetti in occupazioni più o meno desiderabili» [Hardin 1989, 115]. Per un esempio più concreto, pensiamo ai parcheggi gratuiti di un quartiere urbano residenziale. Nelle ore di punta sono sempre scarsi rispetto alla richiesta degli automobilisti. Se gli autisti di due vetture convergono assieme verso un unico posto vuoto, si tratta della scelta binaria (o vi colloco la mia vettura, oppure no) nei riguardi di un bene divisibile (i posti sono frazionabili). Il coordinamento asimmetrico rileva che converrà a entrambi stabilire un criterio di precedenza, per il quale l’uno posteggerà e l’altro eviterà comunque i danni maggiori che scaturirebbero da scontri o da litigi. Anche l’autista che è risultato penalizzato, trae peraltro beneficio dalla convenzione: se questa per esempio stabilisce che il parcheggio spetta alla vettura proveniente da destra, il nostro autista sa sotto quali condizioni potrà fruire del bene divisibile, senza incappare in ulteriori oneri14.
14. L’esempio del parcheggio urbano – ripreso da Grillo-Silva [1989, 53-54] – si basa su un’interdipendenza indivisibile. Sebbene infatti un singolo posto-auto sia frazionabile, la creazione e manutenzione di un parcheggio non è in genere operabile da un soggetto isolato.
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Un coordinamento asimmetrico comporta di solito variazioni delle posizioni relative: io miglioro (o peggioro) rispetto ad altri15. Può verificarsi un mio beneficio a parità della tua situazione; oppure un beneficio di entrambi, ma col mio più consistente del tuo. Si tratta di cosiddetti «miglioramenti paretiani», ossia di passaggi che tutti gli individui coinvolti potrebbero accettare volontariamente, dato che in essi, se qualcuno sta meglio, nessuno peggiora16. Le variazioni relative possono presentare un’asimmetria più o meno grande. Se, davanti a un solo parcheggio gratuito, si incontrano uno scooter e un furgone, è presumibile che l’autista del furgone converga aggressivamente verso il posto vuoto. Se un’autovettura staziona nel parcheggio un giorno intero, sfrutterà meglio l’occasione di quella che vi rimane pochi minuti. Infine, se il furgone effettua consegne di merci nel quartiere del parcheggio, conosce meglio la zona e acquisisce qualche vantaggio nel trovarsi al posto giusto al momento giusto. Il grado dell’asimmetria dipende pertanto dai mezzi del soggetto, dal modo in cui un vantaggio può venire sfruttato e dalla natura del contesto interattivo [Dawkins 1989, 83-86]. Peraltro, fin qui abbiamo ipotizzato un criterio per il quale chiunque proviene da destra ha diritto di entrata nel posto vuoto. Un tale criterio di solito non
15. In linea di principio, possono esservi anche variazioni delle posizioni assolute. In questi casi ogni soggetto si propone di realizzare il punteggio più alto, non preoccupandosi di avvantaggiarsi rispetto ad altri o di conferire loro un punteggio basso, e neppure di massimizzare la differenza tra il proprio punteggio e quello altrui. Ovviamente, la presunzione che il suo vantaggio sia del tutto indipendente dal procurare benefici o perdite ad altri soggetti, appare persuasiva soltanto in situazioni-limite: quando costui risiede sulla mitica isola deserta, e quindi gli altri non esistono, oppure quando dispone di vincoli stringenti sulle azioni altrui. 16. Rimane esclusa una terza modalità, quella in cui io miglioro mentre tu peggiori, dato che essa non risponderebbe più a un problema di coordinamento, risolvendo il quale, come sappiamo, tutti vanno a stare meglio o rimangono indifferenti.
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conferisce un vantaggio stabile ad alcuno: basta, con fortuna o abilità, trovarsi dal lato giusto, per fruire del parcheggio. Immaginiamo invece che la convenzione stabilisca che i guidatori coi capelli rossi hanno diritto alla precedenza nel parcheggio. In tal caso alcuni soggetti del gruppo possono avvantaggiarsi in modo stabile su altri, e, soprattutto, possono riuscirvi indipendentemente dalle scelte che gli altri elaborano e effettuano. Siamo adesso davanti a una fonte del potere sociale, poiché qualche membro del gruppo è posto nella condizione di inefficacia decisionale: se anche non gli viene impedito di scegliere, l’esito rimane il medesimo qualunque linea di condotta egli persegua. (Lo stesso accadrebbe, ovviamente, qualora il criterio della precedenza a destra fosse affiancato da un metacriterio, per cui i guidatori coi capelli rossi avrebbero il diritto di passare sempre dal lato destro). Qualora soltanto chi possiede capelli rossi gode del beneficio addizionale, si crea una scarsità sociale, che è una forma di scarsità artificialmente sovrapposta alla scarsità economica. Immaginiamo che i parcheggi urbani vengano assegnati assecondando la domanda solvibile: finché qualcuno è disposto a pagare per avere un posto, gli viene dato; rimangono gratuiti i posti che nessuno finanzia almeno tanto quanto costerebbe recintarli e sorvegliarli. Su questa scarsità economica, si impianta la scarsità sociale quando si stabilisce che i posti gratuiti vanno soltanto a chi ha i capelli di un certo colore. Ovviamente, in questo esempio siamo davanti a un requisito non trasmissibile: nessuno, escludendo comportamenti sleali, può cambiare il proprio colore dei capelli. Ma tale rigidità può essere o allentata direttamente – individuando requisiti che si possono passare dall’uno all’altro –, oppure aggirata indirettamente – poniamo, con l’autista rosso che «delega» uno coi capelli neri a par-
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cheggiare in sua vece –. La logica rimane la stessa: adesso non ci si contende più il parcheggio gratuito, ma il bene che a esso dà accesso. Tiriamo le fila. Denominiamo attività di coordinamento quelle interdipendenze indivisibili che non esigono un preliminare e sistematico impiego di risorse produttive e organizzative per essere fornite; che s’innescano grazie alla reciprocità delle aspettative, oppure mediante processi elementari di stimolo-risposta provocati dalla diversa densità dell’interdipendenza nei reticoli sociali che compongono un gruppo ampio; che si traducono in convenzioni, quali regole di comportamento che, dentro un dato gruppo, conviene a tutti rispettare; che, infine, sono spesso asimmetriche, generando e mantenendo ripartizioni ineguali. Il paradosso del potere La distinta concettualizzazione dell’acting together, svolta sopra, permette un’ulteriore soluzione al dilemma del cooperatore. Consideriamo il caso paradigmatico di una rivolta popolare. Finché quelli che trasgrediscono sono pochi, rischiano molto. Ma «una volta che la folla supera una certa numerosità, il singolo membro può trovarsi ad affrontare costi del tutto irrilevanti» [Hardin 1991, 367]. È qui centrale una struttura degli incentivi che rovescia la logica del dilemma di Olson: più «ampio» è il gruppo, più favorevoli diventano le condizioni dell’attività collettiva. La partecipazione, entro ampi gruppi sociali poco provvisti di mezzi e di capacità organizzative, può dunque scaturire da un’attività di coordinamento spontaneo, basata su condizioni, esse stesse poco esigenti e costose, che favoriscono l’auto-riconoscimento dei membri. Quest’azione collettiva è finalizzata a una redistribuzione del potere, che talvolta si riveste della forma di un’espropria-
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zione delle risorse materiali, e talvolta della forma di protesta politica radicale. Le dimostrazioni pacifiche iniziate a Lipsia il 9 ottobre 1989, e allargatesi ad altre città della ex-Germania dell’Est, sono un esempio recente ben studiato in cui il potere che nasce dal coordinamento innesca addirittura un processo rivoluzionario [Opp-Gern 1993; Pfaff 1996]. Nondimeno, finché rimane tale, il poterecoordinamento presenta un’energia destrutturante e non di rado distruttiva: per riuscire a riprodurre, e magari a espandere, risorse varie e considerevoli, esso dovrebbe gestire adeguatamente proprio le forme di associazione collettiva durevole che sta scompaginando. Il potere-coordinamento non è dunque in grado, come tale, d’impegnarsi in attività organizzate e istituzionalizzate, quali sono le azioni di regolare produzione e scambio dei beni. Quel potere può soltanto accaparrarsi ciò che altri gruppi hanno prodotto: può redistribuire, in termini di beni o di posizioni sociali. Nel corso della vicenda storica umana, il potere-coordinamento è sempre convissuto col potere-risorse, e dunque anche le azioni economiche di redistribuzione sono sempre state compresenti con quelle produttive17. Come si realizza tale coevoluzione? Immaginiamo che inizialmente il gruppo dei Gialli eserciti il potere-coordinamento (e dunque punti a redistribuire a proprio favore), mentre il gruppo dei Rossi eserciti il potere-risorse (e quindi
17. Per conseguire un obiettivo, il soggetto deve acquisire un’adeguata disponibilità di mezzi o beni. A sua volta, per ottenere mezzi o beni il soggetto dovrà svolgere attività che chiamiamo economiche. La scienza economica ci ha abituati quasi sempre a considerare il «lato luminoso» di tali attività: i processi di produzione e scambio dei beni. Molto spesso tuttavia ciò che occorre per i propri fini viene espropriato ad altri: è il «lato oscuro» comprendente la rapina, il crimine, la guerra e alcuni aspetti della politica. Come nota Hirshleifer [2001, 9], «appropriarsi, impadronirsi violentemente, confiscare ciò che vuoi – e, dall’altra parte, difendersi, proteggere, preservare quello che già hai – sono anch’esse attività economiche».
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punti a impiegare – «sfruttare» produttivamente i membri Gialli o, in alternativa, a espellerli dall’economia)18. Supponiamo che prevalgano i Rossi. L’idea di senso comune sostiene che ai membri Gialli non resta che accettare un collocamento subalterno: i Gialli sono infatti un gruppo che, sebbene ampio, ha meno mezzi e capacità organizzative dell’altro, e che, data la sua posizione di vinto, sembra destinato a disporre di mezzi ancora minori relativamente all’altro gruppo. La convinzione diffusa è che i Gialli non possano alterare questa condizione in circostanze normali, senza cioè che avvenimenti esogeni al nesso tra i due gruppi contribuiscano a indebolire i Rossi, favorendo così un moto sovversivo più o meno violento. Va invece rilevato che, sotto assunzioni notevolmente generali, questa tesi non risulta accettabile. La distribuzione finale del reddito, della ricchezza e delle posizioni sociali può, tra due gruppi, rivelarsi meno disuguale rispetto alla distribuzione iniziale: il gruppo originariamente svantaggiato può recuperare terreno nei confronti del gruppo economicamente più forte. Questo meccanismo, che è stato chiamato il paradosso del potere19, mostra che un gruppo meno dotato di risorse (economiche e
18. Inseriamo il termine «sfruttamento» tra virgolette in ragione del suo statuto altamente controverso. Non volendoci addentrare qui in questo dibattito – le argomentazioni cruciali del quale risalgono ormai ad alcuni decenni fa [le riassume efficacemente Vicarelli 1975, 121-139] –, impieghiamo tale termine nella sua accezione intuitiva: un soggetto si avvantaggia in maniere sistematiche e persistenti su un altro, all’interno dei processi economici, controllando l’uso e/o i risultati di quei processi. 19. Questo paradosso è stato analizzato da Hishleifer [1991]. Ne daremo qui un’esposizione semplificata e in parte diversa. Nella sua struttura logica il paradosso era già implicito nella teoria classica e neoclassica del commercio internazionale ed era stato analizzato nella letteratura sulla negoziazione bilaterale. Esso viene definito prendendo le mosse da gruppi già formati e attivi, per i quali cioè si presuppone che le difficoltà dell’azione collettiva siano state affrontate e in qualche maniera, pur in genere subottimale, risolte [Ivi, 46]. Si vedano anche Skaperdas [1992] e Skaperdas-Syropoulos [1997].
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organizzative) può redistribuire a proprio favore le risorse della collettività se dispone di un vantaggio comparato nell’esercizio del potere-coordinamento (si veda il Quarto approfondimento). Immaginiamo il caso più semplice: i due gruppi, Rossi e Gialli, si scambiano risorse mediante atti di produzione oppure mediante atti di redistribuzione. A ciascuno conviene praticare il tipo di azione per la cui realizzazione occorre un impiego relativamente più intenso dei fattori di cui ha una dotazione relativamente più abbondante: così i Gialli, più poveri di input produttivi quali il capitale o il lavoro qualificato, s’avvantaggiano praticando la redistribuzione, i cui input (il coordinamento e, talvolta, la violenza) posseggono in proporzione maggiore; ovvero è per essi conveniente privilegiare azioni economiche relativamente ad alta intensità di coordinamento, contro (i risultati di) azioni a intensità di capitale e lavoro relativamente più elevata. Entrambi i gruppi rifiutano qualsiasi accordo che li faccia stare peggio di come starebbero continuando a fronteggiarsi: i Rossi accettano di cedere parte delle proprie risorse ai Gialli finché gli svantaggi netti – i costi di opportunità – di una loro condotta alternativa di resistenza supererebbero l’entità dell’estorsione che subiscono; mentre ai Gialli conviene esercitare potere a fini redistributivi sui Rossi finché la spesa che ciò comporta non eguaglia al margine l’importo che da essa ricavano. Dunque, supponendo che i due gruppi siano uguali sotto il profilo della tecnologia e della domanda20, ciascuno
20. Le funzioni di produzione hanno produttività marginali sempre positive e decrescenti, presentano rendimenti costanti di scala e sono identiche per entrambi i gruppi, pur essendo ovviamente diverse per le due attività (produttiva ed estorsiva). I due gruppi presentano inoltre identità di gusti, tali che ognuno ordina nello stesso modo le preferenze tra i due tipi di azione economica, e che ciò avviene indipendentemente dal livello delle risorse. Si tratta di assunzioni semplificatrici consuete, grazie alle quali ci concentriamo sulle differenze delle dotazioni dei fattori.
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seleziona a quale attività principalmente dedicarsi sulla base della dotazione originaria di input in suo possesso. Una seconda condizione da considerare riguarda il grado di complementarità tra gli input dei Rossi e dei Gialli. Immaginiamo che esista la complementarità stretta, cioè una combinazione fissa di input con cui ottenere una certa merce, e che il lavoro dei Gialli entri in tale combinazione. Se i Gialli abbandonassero del tutto il loro impegno produttivo, per specializzarsi in azioni redistributive, i Rossi smetterebbero essi pure di produrre: col risultato che non vi sarebbero nuove risorse da spartire. Il saggio di sostituzione tra input può variare tra zero e uno: quanto più esso è basso, tanto più stretta è la complementarità, tanto meno è conveniente per i Gialli adottare un puro comportamento redistributivo, tanto più conta la dimensione cooperativa. Una terza e quarta condizione consistono in un’estensione del dilemma del cooperatore che, come sappiamo, scaturisce dai disincentivi individuali alla partecipazione in gruppi ampi. La logica olsoniana si ripropone anche a un livello sovraindividuale, quando un gruppo ormai attivato – e che quindi ha risolto il dilemma di Olson al suo interno – genera di nuovo il dilemma entrando in una relazione sociale con altri gruppi. Se infatti un gruppo opera, persegue i propri interessi così come li coltiva un individuo: agendo per procurare un bene collettivo alla società, è nella stessa posizione dell’individuo che concorre a realizzare un bene collettivo per il suo gruppo. La struttura degli incentivi non cambia, in quanto il soggetto – individuale o collettivo che esso sia – ottiene solo una parte (e spesso solo una minima parte) dei benefici della sua azione, pur sopportando tutto il costo di quell’azione. La forma specifica con cui il dilemma del cooperatore si conferma nel rapporto tra gruppi, fa riferimento al gra-
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do di disuguaglianza verticale entro ogni gruppo e al grado d’inclusività di ciascun gruppo nella società. Il primo aspetto riguarda le differenze individuali di reddito, ricchezza e posizioni sociali tra i membri di un gruppo: «forti disuguaglianze verticali nell’ambito di un gruppo tendono a ridurre il suo potenziale di conflittualità verso altri gruppi, per ogni dato livello di disuguaglianza orizzontale [o tra gruppi], essendo più difficile mantenere una coesione interna al gruppo quando, con una disuguaglianza inter-individuale elevata, i membri dell’élite tendono a identificarsi più coi membri delle élites di altri gruppi che con i membri poveri del proprio gruppo» [Stewart 2000, 253, parentesi aggiunta]. L’altro aspetto rileva che quanto più intensi ed estesi sono gli interessi che i Gialli hanno nella società, tanto più vigorosi diventano per loro gli incentivi ad «intraprendere azioni che aumentino la produttività o l’efficienza di quella società, o nell’evitare azioni che potrebbero danneggiarla» [Olson 1991, 49]. Se infatti i Gialli, effettuando puri atti di redistribuzione, ottengono una significativa frazione costante F – diciamo il 50 per cento – di qualsiasi incremento del reddito dei Rossi, i Gialli continueranno a espropriare i Rossi fin quando l’ultimo euro riscosso non determina una diminuzione del reddito collettivo pari a due euro. Oltre quel punto, infatti, un ulteriore prelievo causerebbe una perdita sociale maggiore dell’incasso aggiuntivo, riducendo quindi l’incasso totale. E vale il contrario: se, fornendo ai Rossi beni pubblici, si accresce la produttività e il reddito imponibile, ai Gialli conviene farlo finché l’ultimo euro speso determina una crescita del reddito collettivo nella misura del reciproco di F: se adesso F fosse uguale a un terzo, i Gialli si fermerebbero non appena il reddito aumentasse meno di tre
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euro21. Questa condizione plasma i comportamenti dei gruppi nella lotta per le risorse. Quando l’interesse di un soggetto, individuale o collettivo, è ristretto, le sue azioni redistributive sono nude e crude: arraffa tutto quel che trova. Ma quando un gruppo interagisce continuativamente con un altro, non gli conviene depredarlo del tutto: se gli toglie ogni risorsa, lo rende incapace almeno per qualche tempo di produrre altre risorse; in tal modo preclude però a sé stesso la possibilità di prelevare con continuità una tangente, un tributo o come altro lo si voglia denominare. L’entità e, ancor più importante, la natura (predatoria o riproduttiva) della redistribuzione a vantaggio dei Gialli viene insomma stabilita dalla misura della loro inclusività nel gruppo maggiore22.
21. McGuire-Olson [1996, 76-77]. Su questa «regola del reciproco», si veda pure la nota 1 del capitolo sesto. 22. Lo schema teorico di Olson appena richiamato nel testo, segnala una «buona ragione» per preferire le situazioni di convivenza di gruppi, rispetto a quelle di puro conflitto: infatti perfino un autocrate, provvisto di un potere senza limiti su altri individui o gruppi, trova conveniente passare dal puro conflitto a forme di cooperazione. Consideriamo un soggetto che esercita pura conflittualità verso altri, per esempio derubandoli. Se la società è ampia ed egli è un bandito singolo, il suo incentivo consiste, a parte il rischio del castigo, nel sottrarre ogni risorsa alla sua vittima giornaliera. Tanto sa che domani potrà trovare un’altra vittima, ossia che sopporta una quota infinitesima della perdita causata alla società con il suo comportamento. Se il soggetto è invece un’organizzazione monopolista della violenza in una certa area, non ha più interesse a rubare a piacimento. Appropriandosi di ogni risorsa di ogni vittima, danneggerebbe se stesso, poiché spingerebbe gli altri soggetti a non produrre più risorse e a migrare altrove. Già in questo caso, egli dunque ottimizza i propri vantaggi scegliendo una «situazione cooperativa», in cui rapina soltanto una «quota ragionevole» e cioè negozia una forma di collaborazione con le vittime. Se infine il soggetto controlla una società locale in modo durevole, i suoi incentivi cambiano ancora: non si appropria di ciò che gli altri possiedono, bensì si impegna ad accrescerlo per guadagnare di più. Egli investe quindi in beni pubblici, finché l’ultimo centesimo speso non eguaglia la quota dell’incremento di risorse, raggiunto grazie ai beni pubblici, di cui si appropria. La situazione è stavolta tale da renderlo un bandito-benefattore. Abbiamo dunque uno schema che analizza e prescrive i vantaggi dell’espansione dei contesti collettivi nei quali possa aversi una convivenza dei gruppi. Ma ciò vale sotto le condizioni assunte da Olson: che il soggetto disponga di un controllo monopolistico del territorio ove operano i soggetti rivali, e che possa talvolta anche godere di un adeguato orizzonte
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l’economia del noi
Infine, la quinta condizione che governa il nesso tra Rossi e Gialli riguarda il grado d’imprevedibilità degli eventi. Talvolta l’imprevedibilità è così radicale da impedirci di ordinare le nostre preferenze mediante una distribuzione di probabilità (oggettiva o soggettiva) sugli esiti della scelta o sugli stati del mondo. Quando per esempio siamo immersi in eventi complessi come una guerra, una crisi finanziaria o un’epidemia provocata da un virus non classificato, l’incertezza non deriva semplicemente da informazioni manchevoli o imprecise – intorno alle quali stimare la probabilità che siano così-o-così –, bensì dall’ignoranza sul grado di affidabilità delle informazioni che ci giungono dal contesto in cui operiamo e sul modo di utilizzarle al meglio23. Il caso estremo è quello in cui addirittura non siamo in grado di sapere se il feedback che ci proviene dall’ambiente sia corretto o meno: l’ulteriore informazione è un rumore ascoltando il quale potremmo allontanarci ancor più dalla cognizione degli eventi. Possiamo ritenere conveniente trascurare la nuova informazione e irrigidire la nostra linea di condotta adottando un comportamento retto dalla consuetudine, col quale rinunciamo alla nostra discrezionalità e riduciamo i nostri repertori d’azione. Questa linea di condotta pru-
temporale. Appena tali premesse si attenuano, non sembrano esistere ragioni decisive e stringenti per sostenere che, in generale, a un gruppo convenga passare da forme di puro conflitto verso forme di cooperazione. In questi casi l’analisi positiva lascia il posto ai giudizi di valore. È lo studioso a esprimere una sua valutazione, sulla base di argomenti normativi, magari assai solidi e rilevanti, ma comunque estranei alla logica della teoria. 23. Lane e Maxfield [2005] parlano al riguardo di «incertezza ontologica», la quale riguarda le entità che abiteranno il nostro mondo, quali tipi di interazioni queste entità potranno avere tra loro, ma anche in che modo le entità e i loro modi d’interazione cambieranno come risultato di queste interazioni. Si tratta di un’incertezza in cui gli effetti delle azioni di un soggetto potranno essere mediati da interazioni con entità che per un verso non esistono ancora, e per l’altro verso non possono essere previste nel momento in cui le azioni vengono compiute.
«agire insieme» o «collaborare insieme»?
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denziale consiste dunque nel ridurre la flessibilità, restringendo lo spettro delle opzioni tra cui scegliamo e affidandoci a regole semplici e collaudate. L’implicazione più rilevante è che in questo caso l’aumento dell’imprevedibilità del sistema accresce la prevedibilità del nostro comportamento, in quanto ci spinge a limitare la varianza dei nostri corsi d’azione [Heiner 1983]. Non appena tuttavia si profila qualche pur minima affidabilità dell’interazione tra noi e l’ambiente, diventa più adeguata una strategia che intervenga attivamente sugli eventi. In un orizzonte in cui quasi tutto può accadere ed è molto difficile formare aspettative stabili, ci conviene adottare comportamenti validi per il maggior numero di circostanze future. Così, se qualcuno è più rapido o più bravo di noi nel raccogliere e nell’elaborare le informazioni meno inattendibili, può prendere un vantaggio nei nostri confronti; ma se noi prediligiamo la condotta meno spiazzabile dai cambiamenti successivi, possiamo sperare di replicare efficacemente al vantaggio altrui. Stiamo rendendo massimo il nostro potere potenziale, quale controllo non specializzato sui margini d’incertezza, esercitabile nel numero maggiore di scenari immaginabili. Stiamo stavolta adottando una linea di condotta più flessibile: ampliamo il repertorio delle azioni tra le quali scegliere, per disporre di molti modi con cui modificare il nostro comportamento quando riceveremo nuove e migliori informazioni. Un aumento dell’imprevedibilità ci spinge insomma a passare dalla razionalità degli scambi in cui prevale il problema dell’allocazione di mezzi tra fini alternativi, a quella degli scambi in cui prevale il problema dell’acquisizione del controllo sui mezzi dell’azione per perseguire, idealmente, qualsiasi obiettivo [Lanzalaco 1995, 96-97]. La nostra è una tipica strategia del predatore: procurarci risorse di ogni genere in ogni
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modo. Realizzando la seconda risposta prevedibile all’imprevedibilità, diventiamo quindi «redistributori puri». Quasi sempre è la strategia del predatore a prevalere sull’altra. Si può immaginare una situazione nella quale confidiamo talmente poco nelle retroazioni che ci pervengono dall’ambiente, da farci presumere che qualsiasi iniziativa volta a migliorare può per se stessa drammaticamente portarci a stare peggio. Secondo alcune testimonianze, ciò avveniva nei campi di sterminio nazisti, ove il discostarsi degli aguzzini dai comportamenti standard verso i prigionieri di guerra era tale da spiazzare ogni piano delle vittime per ridurre la chance di essere cremati o gasati. Appariva più sensato assecondare l’obbligo ufficiale di totale accondiscendenza, sperando di appiattirsi nella massa dei reclusi e, così, quantomeno di non aumentare le chance individuali negative [Levi 1947, 20, 28, 104, 152]. Se però l’attestarsi su regole note può consentire di fronteggiare l’incertezza attuale, quasi mai permette di affrontare i successivi, ed essi stessi imprevedibili, cambiamenti. Con l’eccezione del caso in cui davvero la regola che si rispetta è la più affidabile: ma perché mai dovrebbe essere stata selezionata, in assenza di bussola, proprio la linea di condotta «giusta»? Se la condizione è d’imprevedibilità radicale, come stiamo supponendo, una regola valida in questo momento appare destinata a durare molto poco. Ciò accorcia l’orizzonte di pianificazione di ogni soggetto, individuale o collettivo, e rafforza ancor più la ragionevolezza della strategia predatoria, che massimizza il potere potenziale. Perfino un gruppo fortemente inclusivo – coinvolto in maniera forte e ampia negli interessi dell’intera società –, se ritiene di poter controllare un tempo breve, allestisce piani d’azione che difficilmente comprenderanno gli interessi di altri gruppi sociali. Un governo autocratico tenderà per esempio a confiscare le
«agire insieme» o «collaborare insieme»?
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proprietà, a non rispettare gli impegni assunti, a svilire la moneta [Olson 2000, 26].
L’idea che i più poveri stiano relativamente meglio in contesti conflittuali, avendo meno da perdere e più da guadagnare dallo scontro per spartirsi le risorse, si fonda sulla distinzione tra il potere derivante da azioni di coordinamento, e il potere che nasce dalla disponibilità di risorse. Poiché infatti il coordinamento richiede sovente costi ridotti e poche risorse iniziali, il potere di un gruppo capace di coordinarsi per realizzare un tumulto, una ribellione, uno sciopero o un movimento d’opinione, ha caratteristiche molto differenti dal potere di un gruppo stabilmente organizzato, che fornisce beni pubblici e che deve finanziarli. Il primo ha un vantaggio comparato sul secondo quando si dedica ad attività economiche di tipo redistributivo; mentre il secondo s’avvantaggia rispetto al primo quando s’impegna in attività economiche di stampo produttivo. Quando però i benefici addizionali del conflitto per il gruppo meno ricco superano i benefici addizionali che il gruppo più ricco trae dalla produzione, quest’ultimo gruppo comincia a replicare esso pure sul terreno dello scontro redistributivo; e, potendo far valere i maggiori mezzi a disposizione, di solito riesce a sovvertire l’esito della contesa. Un unico meccanismo esplicativo riesce dunque a dare conto sia delle situazioni di temporaneo vantaggio dei gruppi con meno risorse, sia di quelle di temporaneo rafforzamento dei gruppi maggiormente dotati. Esso si presenta come un meccanismo in grado di «rimescolare le carte»: ci aiuta a comprendere come gruppi che attingono a forme differenti di potere, e che hanno dunque caratteri molto diversi tra loro, possano avvantaggiarsi alternativamente l’uno rispetto all’altro. Ci
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aiuta altresì a capire perché il potere-coordinamento e il potere-risorse convivono persistentemente: un gruppo decide d’investire prevalentemente nel potere-coordinamento a fini redistributivi, oppure nel potere basato sulle risorse per fini produttivi e di crescita, in funzione di cinque condizioni. La prima riguarda la dotazione iniziale degli input coi quali alimentare la propria azione collettiva: il gruppo ha incentivo a specializzarsi nelle attività per cui dispone, in termini relativi, di più input. La seconda concerne la complementarità tra le attività economiche dei gruppi in contesa: più essa è forte, meno conviene che l’uno impoverisca l’altro. La terza condizione attiene alla disuguaglianza verticale dentro un gruppo: più essa è alta, minore è la coesione del gruppo e quindi si riduce la sua capacità di contrapporsi ad altri gruppi. La quarta si riferisce all’inclusività del gruppo nella società: più forte e ampio è il suo coinvolgimento sistemico, più è stimolato a beneficiare i membri dell’altro gruppo, affinché possano al meglio contribuire alla crescita. Importa infine il grado d’imprevedibilità, ovvero la lunghezza dell’orizzonte temporale controllabile: più elevata è l’incertezza, ovvero più corto è l’orizzonte, e maggiore è la tentazione di accaparrarsi tutto subito. Il nocciolo delle argomentazioni del capitolo è sintetizzato nella figura.
«agire insieme» o «collaborare insieme»?
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Competizione opportunistica
Disuguaglianza tra gruppi
Paradosso del potere
Acting together
Contributing together
Potere basato sul coordinamento
Potere basato sulle risorse
Redistribuzione
Produzione
Paradosso del potere
Nuova disuguaglianza tra gruppi
Quarto approfondimento. Le interazioni miste conflitto-cooperazione e il «paradosso del potere» Il «paradosso del potere» è stato formulato da Jack Hirshleifer [1991] per spiegare in che modo, e a quali condizioni, un gruppo sociale relativamente svantaggiato, in termini di dotazione iniziale di risorse, possa influenzare a suo favore la distribuzione del reddito attraverso interazioni miste di conflitto sociale e cooperazione nella produzione con un gruppo sociale più abbiente. Il modello si basa su alcune assun-
zioni semplificatrici, tra cui: esistenza di due soli gruppi sociali; assenza di problemi di azione collettiva all’interno di ciascun gruppo; invulnerabilità dello stock di risorse alle ripercussioni del conflitto e impossibilità per ciascun gruppo di appropriarsi delle risorse già in possesso della controparte; simultaneità delle decisioni e assenza di posizioni di vantaggio strategico.
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l’economia del noi
Si identifichino due gruppi sociali, il Gruppo 1 e il Gruppo 2. Ciascun gruppo ha una dotazione iniziale di risorse, R, che deve allocare tra attività produttive, E, e attività conflittuali, F, miranti a redistribuire la produzione ottenuta in ciascun periodo. Si definiscano le «equazioni di ripartizione delle risorse» nel seguente modo: E1 + F1 = R1 E2 + F2 = R2
(1)
La produzione aggregata dell’economia, I, è il risultato della combinazione delle risorse che ciascun gruppo destina a tale attività. In simboli, la «funzione di produzione aggregata», a rendimenti di scala costanti, è: 1/s s I = (E 1/s 1 + E2 )
(2)
Il parametro s gioca un ruolo determinante nell’analisi: si tratta di un «indice di complementarità» tra le risorse destinate alla produzione da ciascun gruppo sociale. A titolo di esempio, si immagini che i due gruppi sociali siano i datori di lavoro e i lavoratori, per cui ciascun gruppo ha bisogno dell’altro per poter produrre. Al crescere di s, aumenta l’interdipendenza tra i due gruppi. Le risorse destinate alle attività conflittuali servono a ciascun gruppo per influenzare la quota p del reddito nazionale di cui si appropria. Le «funzioni di successo nella competizione» sono: p1 = F1m/(F1m + F2m) p2 = F2m/(F1m + F2m)
(3)
Il parametro m è un altro elemento determinante del modello. Identifica la cosiddetta «decisività» del conflitto, vale a dire la misura in cui la quota relativa di risorse destinate alla lotta sociale si trasforma in successo nella distribuzione. Al crescere di m, aumenta l’efficacia del conflitto. Infine, le «equazioni di distribuzione del reddito» definiscono il reddito spettante a ciascun gruppo, come quota del prodotto nazionale: I1 = p1I I2 = p2I
(4)
Alla base dell’analisi di Hirshleifer vi è l’idea che, se i due gruppi raggiungessero un accordo cooperativo in merito all’allocazione del reddito, essi potrebbero destinare tutte le risorse alla produzione, in ciò massimizzando il potenziale produttivo. Tuttavia un accordo cooperativo non è, in genere, credibile: se un gruppo sociale destinasse tutte le proprie risorse alla produzione e l’altro si comportasse in maniera opposta, il rischio per il primo gruppo sarebbe quello di vedersi allocata una quota di reddito inferiore rispetto alla controparte. Pertanto, ciascun gruppo sceglierà in maniera indipendente dall’altro come allocare le proprie risorse tra produzione e conflitto, in maniera da massimizzare il reddito atteso. In questo processo, parte del reddito potenzialmente ottenibile attraverso la cooperazione andrà dissipato in attività conflittuali improduttive. Tale comportamento non cooperativo è rappresentato dalle con-
«agire insieme» o «collaborare insieme»? suete funzioni di reazione in un equilibrio di duopolio à la NashCournot, in cui ciascun agente prende come date le decisioni della controparte e ottimizza di conseguenza il proprio comportamento. In simboli, i gruppi affronteranno il seguente problema di massimizzazione: Max I1 = p1(F1|F2) × I(E1|E2), vincolato a E1 + F1 = R1 (5)
Max I2 = p2(F2|F1) × I(E2|E1), vincolato a E2 + F2 = R2
Le funzioni di reazione dei due gruppi saranno pertanto: F1E1(1–s)/s m(E11/s + E21/s ) = F1m + F2m F2m F2E2(1–s)/s m(E11/s + E21/s ) = F1m + F2m F1m
(6)
In base a tali funzioni di reazione, quante risorse saranno destinate alla produzione? Quante al conflitto? Come sarà distribuito il reddito nazionale? La tabella B1 presenta delle simulazioni numeriche del risultato di tale interazione, con differenti valori di R1, R2, s ed m. Nel caso limite in cui R1 = R2 (distribuzione egalitaria delle risorse), s = 1 (assenza di complementarità nella produzione) ed m = 1 (rendimenti costanti dell’investimento in conflitto), come nell’esempio 1 in tabella B1, i due gruppi si comporteranno in maniera identica. Essi divideranno equamente le proprie risorse tra produzione e conflitto e otterranno esattamente la metà del reddito pro-
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dotto. Di conseguenza, la metà delle risorse sarà dissipata in attività improduttive. Più interessante è il caso in cui un gruppo ha una dotazione di risorse maggiore dell’altro. Si assuma che il Gruppo 1 sia più ricco del Gruppo 2, per cui R1/R2 > 1. In queste circostanze, e a determinate condizioni che saranno chiarite in seguito, si verifica ciò che è stato chiamato il «paradosso del potere». Nella sua versione forte, tale paradosso afferma che, indipendentemente dalla distribuzione iniziale della ricchezza, i gruppi contendenti arriveranno a un’identica distribuzione del reddito corrente, per cui I1/I2 = 1. Nella sua versione debole, il paradosso del potere afferma che il conflitto sociale condurrà a una dispersione dei redditi correnti inferiore a quella della ricchezza iniziale, per cui R1/R2 > I1/I2 > 1. Finché s = m = 1 e la disparità iniziale si mantiene entro il rapporto R1/R2 = (2 + m)/m = ρ*, il problema di massimizzazione (5) ammetterà soluzioni interne e le funzioni di reazione (6) si intersecheranno laddove lo sforzo conflittuale è il medesimo. In questi casi, vale la versione forte del paradosso: i gruppi contendenti otterranno ciascuno la metà del reddito prodotto. Ma cosa succede all’allocazione relativa delle risorse? Con una dotazione iniziale maggiore, il Gruppo 1 vorrà sicuramente aumentare le risorse destinate a entrambe le attività. Sapendo ciò, il Gruppo 2 si troverà costretto a difendersi eguagliando lo sforzo conflittuale della controparte, ma ciò lo condurrà a ridurre lo sforzo
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l’economia del noi
zione di risorse. La conseguenza è che il gruppo meno dotato allocherà una frazione relativamente maggiore delle proprie risorse nelle attività conflittuali, al fine di ottenere un’eguale distribuzione del reddito corrente. Ciò è evidente dall’esempio numerico 2 in tabella B1. Pertanto, il risultato
rilevante di tale modello è che il conflitto rappresenta un’alternativa relativamente più attraente per il gruppo povero, rispetto alla produzione, che invece è relativamente preferita dal gruppo più ricco. Incidentalmente, si noti che in questo caso lo spreco di risorse è proporzionalmente aumentato.
Tab. B1 - Simulazioni numeriche del «Paradosso del Potere»
Es. 1 Es. 2 Es. 3 Es. 4 Es. 5 Es. 6
R1
R2
R1/R2
s
m
F1
F2
100 200 400 200 400 400
100 100 100 100 100 100
1 2 4 2 4 4
1 1 1 1,25 1 1
1 1 1 1 2 4
50 75 123,6 77,1 151,3 152,9
50 75 100 67,5 100 100
All’aumentare di R1 rispetto ad R2, il Gruppo 2 troverà conveniente aumentare proporzionalmente il proprio sforzo conflittuale, al fine di mantenere invariata l’allocazione del reddito corrente. Fino a quando continuerà tale processo? Quando l’ineguaglianza iniziale diviene maggiore del rapporto critico R1/R2 > ρ*, il problema di massimizzazione (5) ammette solo soluzioni d’angolo: il gruppo più povero spenderà interamente le proprie risorse in attività conflittuali, per cui F2 = R2. Tuttavia, al crescere di ρ* oltre tale soglia, il gruppo più povero, disponendo di un ammontare limitato di risorse, non potrà più eguagliare lo sforzo conflittuale della controparte, che pertanto si approprierà di una quota progressivamente maggiore del reddito corrente. Con m = 1, si avrà che ρ* = 3, per cui ogni qual-
E1
E2
I
p1
50 50 100 0,5 125 25 150 0,5 276,4 0 276,4 0,553 122,9 32,5 178 0,533 248,7 0 248,7 0,696 247,1 0 247,1 0,845
p2
I1
I2
I1/I2
0,5 50 50 1 0,5 75 75 1 0,447 152,8 123,6 1,236 0,467 94,9 83,1 1,42 0,304 173,1 75,6 2,288 0,145 208,9 38,2 5,465
volta R1/R2 > 3, p1 crescerà relativamente a p2. La versione forte del paradosso del potere non sarà più valida, ma la sua versione debole sì, come nell’esempio 3 in tabella B1. Le circostanze sin qui analizzate, in cui s = 1, sono tuttavia poco realistiche: un certo grado di complementarità nella produzione tra i due gruppi sociali è inevitabilmente presente in ogni società. Al crescere di s, il rendimento marginale dello sforzo produttivo sarà maggiore per entrambi i gruppi, rispetto al rendimento del conflitto. Ciascuna parte sarà, pertanto, incentivata a destinare maggiori risorse alla produzione, con conseguente aumento del benessere aggregato. Cosa accade, invece, alla distribuzione del reddito? Il problema di massimizzazione (5) ammetterà in questi casi solo soluzioni interne, per cui il gruppo più
«agire insieme» o «collaborare insieme»? povero continuerà a destinare parte delle proprie risorse alla produzione. La conseguenza è un aumento della disparità di reddito tra i due gruppi, come accade nell’esempio 4 in tabella B1. Si confronti tale esempio con l’esempio 2: un maggior grado di complementarità nella produzione aumenta il reddito disponibile, poiché meno risorse saranno sprecate in attività conflittuali improduttive. Tuttavia, tale circostanza opera comparativamente a favore del gruppo più benestante. Nondimeno, la versione debole del paradosso del potere sarà ancora valida: si avrà quindi I1/I2 < R1/R2. La situazione muta radicalmente se migliora la tecnologia del conflitto, ossia quando m = 1. Entrambi i gruppi avranno ora più incentivo a investire in attività conflittuali, ma il gruppo più abbiente potrà permettersi di farlo, mentre il gruppo più povero sarà limitato dalla propria dotazione di risorse. Difatti, con m > 1 il rapporto critico ρ* diminuisce rapidamente, per cui il problema di massimizzazione (5) ammetterà prevalentemente soluzioni d’angolo, laddove F2 = R2. La quota di reddito appro-
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priata dal Gruppo 1, p1, aumenterà rapidamente rispetto a p2. Pertanto, una maggiore efficienza della tecnologia conflittuale opera a favore del gruppo più abbiente. Ciò è chiaramente visibile in tabella B1 confrontando il precedente esempio 3 con l’esempio 5, in cui m = 2: il benessere aggregato è diminuito e il Gruppo 1 si è appropriato di una quota maggiore di reddito. Nondimeno, la versione debole del paradosso del potere continua a essere valida. A questo punto, la domanda centrale è: in quali circostanze il gruppo più abbiente troverà conveniente investire in attività conflittuali una quantità di risorse tale da sovvertire il paradosso del potere? Con s = 1, l’efficienza della tecnologia del conflitto deve essere sostanzialmente elevata affinché ciò avvenga. È questo il caso dell’esempio 6 in tabella B1, dove m = 4 e I1/I2 > R1/R2. Intuitivamente, al crescere di s, la condizione diviene meno stringente: poiché non conviene al Gruppo 2 specializzarsi nel solo conflitto, il Gruppo 1 si approprierà di quote ancora maggiori di reddito.
5. Le minoranze attive
Il dilemma della minoranza attiva Nel precedente capitolo abbiamo esaminato il «paradosso del potere», per il quale gruppi poveri di mezzi materiali e di capacità organizzative possono nondimeno, sotto condizioni ben individuabili, ottenere una redistribuzione delle risorse sociali a proprio favore. Quel paradosso ha natura statica: costituisce una valida ed efficace fotografia dei rapporti tra due (o più) gruppi, calcolando i vantaggi relativi sulla cui base a un gruppo può convenire specializzarsi nel potere-coordinamento, e quindi esercitare l’acting together, mentre l’altro si dedica al potererisorse, esercitando il contributing together. Ovviamente nulla ci impedisce d’immaginare che il rapporto benefici/costi – anziché essere fissato in ogni momento per ciascuno dei gruppi – evolva nel tempo in modo che il gruppo più povero valuti infine economicamente razionale passare al potere-risorse mediante la produzione e il finanziamento di beni pubblici. Si tratterebbe tuttavia di un’assunzione ad hoc. Se infatti il gruppo più povero è un movimento di lavoratori subalterni, esso ha una posizione reddituale e patrimoniale tale da non permettergli pressocché mai, in condizioni ordinarie, di competere sul terreno dell’organizzazione e della mobili-
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l’economia del noi
tazione di risorse con i manager capitalistici1. Se poi il gruppo più povero è composto da ribelli privi di armi adeguate, mezzi monetari, strumenti d’influenza politica, organizzazione collaudata, appare anche qui estremamente improbabile, in condizioni ordinarie, che esso possa avviare un processo politico di mobilitazione durevole e strategica, per ottenere rivendicazioni non limitate agli effetti immediati delle attività di rivolta, o addirittura per sostituire il gruppo più ricco. Il dilemma dello scioperante (quando i sindacati non esistono) o del rivoluzionario (quando si è poche decine di barbudos in montagna), presenta una logica estremamente stringente: Sul versante dei benefici (1) il successo [dello sciopero] o della rivolta è un evento con basso grado di probabilità, e quindi parteciparvi è altamente rischioso; (2) il successo è quasi indipendente dalla presenza di un singolo; (3) i vantaggi del successo sono essi pure quasi indipendenti dalla presenza di un singolo. Sul versante dei costi (1) [gli scioperanti o] i ribelli s’imbattono in numerose ragioni a cui dare la priorità – il loro costo opportunità include, per esempio, i salari perduti; (2) la partecipazione è spesso piuttosto onerosa e pericolosa, poiché [l’impresa sanziona o licenzia, e] il governo imprigiona o uccide chi si mobilita contro di loro. In breve, [scioperanti o] ribelli comparano costi privati possibilmente disastrosi con benefici pubblici incerti. Soprattutto, i benefici non forniscono alcun incentivo ad agire, mentre i costi propongono ogni incentivo a non agire» [Lichbach 1994, 386-387, parentesi aggiunte].
Siamo davanti alla stessa struttura di gioco del dilemma del cooperatore: essa è tale che, qualora ciascuno muova così da ricavare i maggiori benefici per ogni possibile mossa 1. «L’azione collettiva in gruppi ampi con una minima direzione centrale e minimi incentivi, sarà generalmente limitata a boicottaggi, cortei e forme molto semplici di astensione dal lavoro» [Popkin 1988, 19].
le minoranze attive
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altrui, si lasciano sul tavolo risultati migliori per tutti. La difficoltà è però qui resa più forte dall’improbabilità iniziale dei vantaggi, e dall’elevata probabilità e onerosità delle sanzioni. Sulla base delle analisi del capitolo primo, sappiamo che in generale non sarà l’intero gruppo più povero di mezzi e di organizzazione ad avviare questa forma di azione collettiva: si tratterà invece di una minoranza, più in grado di convergere su comportamenti condivisi, aspettative comuni e modi meno costosi di autorganizzazione. Chiamiamo dunque «dilemma della minoranza attiva» questa versione-limite del dilemma del cooperatore: come può una minoranza del gruppo sociale meno attrezzato, attivarsi così da competere stabilmente col gruppo dominante? Stavolta il potere-coordinamento non basta. Occorre passare dalla mobilitazione spontanea a quella organizzata, dalle adesioni estemporanee al consenso, da obiettivi puramente espropriativi o redistributivi a strategie riproduttive di lungo periodo. Una soluzione parrebbe risiedere nella figura dell’«imprenditore politico». Come abbiamo appena ricordato, nel dilemma del cooperatore (o del ribelle) il gruppo otterrebbe dal bene pubblico, se lo producesse, un valore superiore al costo. Questo surplus resta tuttavia potenziale finché i membri del gruppo defezionano. Se un «imprenditore» intervenisse per facilitare la fornitura del bene, migliorerebbe la condizione del gruppo: tutti riceverebbero, pur pagando a lui un compenso, una quota del surplus che altrimenti sarebbe rimasto virtuale [Frohlich-Oppenheimer-Young 1971]. Ma come può l’«imprenditore» favorire l’azione collettiva? In mancanza di incentivi e disincentivi selettivi, non riceverebbe adesioni volontarie2; mentre se
2. Mancando il leader di strumenti selettivi, nessuno avrebbe interesse a contribuire alla sua iniziativa. Questo interesse può sorgere, come si è esaminato nei capitoli secondo e terzo, in presenza di beni pubblici specifici e di beni privati di rete: tali
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l’economia del noi
fosse in grado di proporre premi e sanzioni, contratti e controlli, egli non costituirebbe più una risposta distinta, rispetto a quella proposta da Olson, al dilemma della partecipazione3. Per esaminare rigorosamente il problema, occorre piuttosto ipotizzare che il leader sia all’inizio completamente privo sia di incentivi selettivi, sia di beni pubblici già prodotti: egli non può procurare ad altri benefici individuali, né benefici collettivi, siano essi di carattere tangibile e immediato, oppure di natura immateriale e ottenibili in futuro. È questa la situazione idealtipica della quale va data spiegazione; ed è essa che, per differenza, ci aiuta a comprendere contesti meno estremi. Per ragionare sul dilemma della minoranza attiva, introdurremo, in primo luogo, una distinzione tra processi che perseguono soltanto alternative accessibili, e processi che puntano a opzioni che, oltre a essere realizzabili, sono anche ammissibili. L’entrata in scena di ciò che è, o non è, ammissibile, ci consentirà di dare enfasi alle credenze e alle identità dei soggetti sociali. In secondo luogo, distingueremo tra condizioni nelle quali il calcolo economico spinge a lasciare un certo esito per ottenerne un altro, e
strutture d’incentivi sono però indipendenti dall’operare di un imprenditore. Se infine l’iniziativa del leader fosse in grado da sola di raggiungere il risultato, verso di essa si formerebbe una volta ancora il dilemma del cooperatore: sarebbe antieconomico per chiunque altro diventare un seguace volontario di quel leader, essendo per lui preferibile fruire di quel risultato senza impegnarsi, e in generale non converrebbe nemmeno al leader procedere [Taylor 1987, 24]. 3. [Barry 1970, 38]. La partecipazione dei membri di un gruppo a un’azione collettiva può venire stimolata da organizzazioni sociali già esistenti, il cui obiettivo è inizialmente la fornitura di beni privati. Si pensi a un’organizzazione etnica che propone servizi religiosi, creditizi o assicurativi: davanti all’occasione di profitto e di potere suscitata dall’eventuale produzione di un bene pubblico, essa può impegnarsi a realizzarla [Hechter-Friedman-Appelbaum 1982, 423-424]. È facile tuttavia rendersi conto che, in simili casi, tale organizzazione non fa altro che svolgere la funzione di «imprenditore politico»: essa subisce pertanto le stesse obiezioni appena rivolte a quest’ultima linea di risposta.
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condizioni in cui si realizza un passaggio da una certa credenza o da una certa identità verso un’altra: il secondo percorso, a differenza del primo, può svolgersi in assenza di risorse sociali a esso dedicate. Infine, esamineremo come l’imprenditore-privo-di-risorse possa, cambiando credenze e identità proprie e altrui, intervenire sciogliendo il dilemma della minoranza attiva. Sul concetto di sviluppo Definiamo «sviluppo sociale» un’espansione sistematica dei mezzi o dei fini – in breve, delle alternative – ammissibili e accessibili per almeno un sottogruppo di una collettività. Col termine ampio di «alternative» ci riferiamo sia alla scelta tra mezzi molteplici, sia a quella tra fini plurali. L’opportunità di abbracciare con un unico termine i mezzi e i fini, deriva dal loro continuo interscambio: posso, per esempio, pormi quale fine di raggiungere una panchina, ma ciò costituisce un mezzo per riposarmi; a sua volta, essere riposato è un mezzo per il fine di raggiungere il supermercato, che rappresenta un mezzo per il fine di acquistare cibo, e così avanti. Le alternative accessibili sono l’insieme degli esiti (efficienti o meno, finali o strumentali a esiti ulteriori) socioeconomici che la collettività può realizzare coi mezzi attualmente a disposizione; esse possono diventare più numerose aumentando le risorse, migliorando la tecnologia disponibile o anche – in maniera non costosa – modificando le nostre conoscenze nel mentre svolgiamo altre attività (learning by interacting). Le alternative ammissibili rappresentano l’insieme degli esiti socioeconomici che almeno un sottogruppo della collettività accetta di considerare perseguibili; esse possono diventare più numerose se – per riprendere la terminologia del capitolo terzo – le «credenze», in
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riferimento ai mezzi, o le «identità», in riferimento ai fini, di almeno una parte della collettività rendono lecite opzioni che non lo erano. Nella definizione proposta le alternative collocate nel processo di sviluppo sociale sono sia accessibili che ammissibili. Collocarci nell’intersezione dei due insiemi significa lasciare fuori le opzioni praticabili ma non più accettate, come l’incesto nella cultura occidentale moderna, e le opzioni concepibili ma non ancora realizzabili, come il volare su qualcosa che assomiglia a un manico di scopa. Ma significa pure che l’intersezione dei due insiemi può variare quando l’uno si espande e l’altro si restringe, o più in generale quando, modificando entrambi la propria forma, modificano altresì l’area d’intersezione. Così, possiamo avere una significativa dilatazione dell’insieme delle alternative ammissibili a parità di quello delle alternative accessibili. Un processo sociale di sviluppo può infatti coltivare «le arti della vita non meno delle attività che oggi definiamo “impegnate”» [Keynes 1930, 283]. Accanto a fini «economici» tradizionali che esaudiscono i bisogni materiali, possono esservi azioni – dipingere o far l’amore, conversare con gli amici o leggere – che accrescono il nostro benessere, pur comportando costi ridotti o addirittura nulli. Tali attività possono aggiungersi – al variare delle «credenze», ma soprattutto delle «identità» individuali – senza alterare il livello e la composizione delle «forze produttive», ossia appunto lasciando invariato il set delle alternative accessibili4.
4. In questo senso, uno sviluppo sociale non si verifica esclusivamente – come accade per la crescita – quando l’«insieme delle possibilità produttive» si sposta verso l’esterno. Con quest’ultimo concetto ci si riferisce all’insieme dei beni che possono essere prodotti da un’economia: quando aumentano le risorse e/o migliorano le tecniche utilizzabili, diventano raggiungibili punti fino a quel momento posti al di fuori della frontiera.
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Può altresì succedere che, a parità del set delle alternative accessibili, le opzioni ammissibili si contraggano. Per esempio, quasi tutte le società note hanno fatto ricorso a sostanze inebrianti a fini ricreativi, tra cui spicca l’alcol; ma in molte di esse l’impiego di alcol è regolato così che ci si possa saltuariamente ubriacare senza diventare etilisti [Elster 1999, 121]. Qui assistiamo a un alternativa quasi sempre accessibile – l’etilismo –, ma sovente non ammissibile. Talvolta si verifica invece che, congiuntamente, si allarga l’insieme delle alternative accessibili e si restringe quello delle alternative ammissibili. Un esempio recente è il volontario ritorno al velo sul viso da parte di donne islamiche agiate e colte che vivono in Paesi occidentali: proprio in quanto dispongono adesso di alternative praticabili più numerose, esse conferiscono un rinnovato valore a vincoli cultural-religiosi già abbandonati nei Paesi di origine e nel primo periodo dopo l’emigrazione. Ricordiamo infine, pur senza svolgere una disamina esauriente, la possibilità che i confini dei due insiemi si amplino o si restringano periodicamente. Così, durante la seconda guerra mondiale tutti i partecipanti evitarono, pur tra campi di sterminio e bombe atomiche, il ricorso ai gas letali [Schelling 1960, 88] e la distruzione di «città aperte», mentre questi comportamenti sono tornati in auge in occasione di successive guerre locali. I gas e il rispetto di zone franche rappresentano dunque alternative belliche accessibili, le quali vengono talora espunte e talora reinserite nel set delle alternative ammissibili. La definizione di sviluppo sociale sopra enunciata non richiede che il processo di espansione delle alternative accessibili e ammissibili tocchi, pur in diversa misura e proporzione, tutti i membri della collettività in oggetto: ciò comporterebbe un requisito addizionale di inclusività, se non addirittura di eguaglianza, che può apparire desi-
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derabile ma non storicamente realizzato5. Un paese occidentale odierno disporrebbe per esempio dei mezzi per elevare l’istruzione di tutti i suoi abitanti fino all’università, e, quantomeno in linea di principio, quasi ogni cittadino di quel paese reputerebbe positiva una simile realizzazione. Che ciò tuttavia avvenga, dipende principalmente dalla logica dei gruppi – oggetto di questo libro –, mentre per connotare uno sviluppo sociale occorre e basta che certe ulteriori alternative diventino sceglibili dai membri di almeno un sottogruppo della collettività umana che stiamo considerando. L’accessibilità e l’ammissibilità delle alternative non garantisce che esse siano effettivamente scelte e attuate da ciascun membro del sottogruppo favorito: costui ne ha la possibilità, ma, per i più vari motivi soggettivi o per semplici errori, accade talvolta che la scelta non venga da lui adeguatamente formulata ed eseguita. La possibile incongruenza tra lo spettro delle opzioni e le realizzazioni effettive fa sì che la dilatazione delle scelte ammissibili e accessibili non assicura un miglioramento del well-being. Una seconda e più forte ragione per cui questo concetto comporta conseguenze indeterminate sul benessere individuale così come collettivo, si lega all’intera logica dell’azione collettiva, la quale mostra che ciò che favorisce il benesse-
5. Questa caratteristica esprime tuttavia un certo grado di realismo, nel senso che alcune forze storiche tendono a non confinarla nel puro reame delle speranze. In particolare, un processo di sviluppo sociale tende a permeare ogni soggetto della collettività per due ragioni. La prima, a lungo discussa nei precedenti capitoli, deriva dall’esigenza di ottenere beni collettivi e risorse comuni, che, essendo nonescludibili, riguardano tutti. La seconda nasce dalle interdipendenze, mercantili così come organizzative, che molte forme di allargamento delle alternative comportano. Le interdipendenze possono essere asimmetriche, collocando in modi diseguali nello sviluppo vari sottogruppi della collettività considerata; se però esse sono sistematiche, appare difficile immaginare circostanze nelle quali alcuni sottogruppi rimangano del tutto e persistentemente esclusi.
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re (comunque connotato) dell’individuo può danneggiare il benessere del gruppo di appartenenza, e viceversa; e che ciò che accresce il benessere (comunque connotato) di un gruppo può ridurre quello della collettività in cui il gruppo è inserito, e viceversa. In breve, lo sviluppo sociale (per come qui lo definiamo) è un processo d’allargamento tanto dei mezzi quanto dei fini accessibili e ammissibili per almeno alcuni gruppi di una collettività, senza garanzie di un più elevato benessere individuale o collettivo, né di maggiori capacità effettive di compiere le nuove scelte. Quando un soggetto modifica l’insieme dei mezzi – delle azioni sociali – che considera ammissibili, anche a parità dell’insieme dei mezzi che ritiene accessibili, sta riformulando la sua relazione di preferenza tra determinati fini e mezzi adeguati al loro raggiungimento. Infatti, fermi restando i fini, la sua gamma dei mezzi si dilata ed egli non soltanto può riconsiderare le priorità concesse a un fine rispetto a un altro, ma, in presenza di mezzi più numerosi, può scegliere combinazioni nuove e diverse di mezzi rispetto a quelle che avrebbe selezionato nella situazione iniziale. Si consideri una coppia di giovani fidanzati, che giudica cruciale vivere la propria intimità senza il pericolo di una gravidanza. L’ammissibilità di un metodo contraccettivo sicuro, prima pregiudizialmente condannato, altera sia i comportamenti amorosi della coppia (consentendo, per esempio, rapporti sessuali in qualsiasi giorno), sia il posto della sessualità tra i fini perseguiti da entrambi. Un altro esempio efficace viene suggerito da Downs [1957, 124, corsivo aggiunto]: «In un mondo d’incertezza […], anche se gli elettori hanno obiettivi costanti, le loro opinioni sul come raggiungerli sono malleabili e possono essere modificate con la persuasione. È possibile di conseguenza esercitare la leadership su qua-
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si tutte le questioni politiche, poiché quasi tutte le politiche sono mezzi per raggiungere obiettivi sociali più ampi, piuttosto che obiettivi in sé». Seguendo la terminologia del capitolo terzo, siamo qui davanti a processi di mutamento delle credenze. Assistiamo invece a un cambiamento delle identità, quando un soggetto ridefinisce durevolmente l’insieme dei fini – degli esiti socioeconomici – che considera ammissibili, anche a parità di quelli che giudica accessibili. Riprendendo l’esempio dei giovani fidanzati, immaginiamo stavolta che un membro della coppia sia incerto sullo scopo degli incontri: tenerezza o sesso? Qui ella/egli sta scegliendo come «dare un senso a sé stesso»: a definirsi è la sua identità. E riconsideriamo i cittadini-elettori della citazione di Downs. Se stavolta sono precari gli obiettivi, i comportamenti dei cittadini tendono all’erraticità: essi operano anzitutto per comprendere che cosa stanno facendo, non per ottenere un prefissato obiettivo. Si eleva così la possibilità, da parte di una leadership politica, di manovrarli, orientandone il senso. Abbiamo già osservato nel capitolo terzo che un’identità, più che «scelta», viene da me «costruita» dentro un’azione collettiva. Esaminiamo meglio questo snodo. Il processo di costruzione della mia identità individuale è razionale, in quanto la «buona ragione» per avviarlo sta nell’affiorare di un’incertezza sui fini. Finché a presentarsi imprevedibili sono le conseguenze di una scelta, nutro un’incertezza, anche radicale, sui mezzi. La mia identità non entra però in crisi: sono pur sempre e comunque io a restare incerto sui corsi di azione da innescare, ovvero sui mezzi da privilegiare. Quando piuttosto appaiono sfocati i contorni degli obiettivi a cui puntare, non so più se una qualsiasi azione abbia per me senso, in quanto essa potrebbe rivelarsi appropriata al raggiungimento di fini
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di cui oggi dubito e che domani potrebbero rivelarmisi estranei o addirittura negativi. L’incertezza sui fini richiede pertanto di rielaborare un senso durevole per le mie scelte e azioni. Ed eccoci alla seconda parte dello snodo: un’identità individuale non può che fondarsi sull’azione collettiva, in quanto «la nostra unità personale, che è prodotta e mantenuta attraverso l’auto-identificazione, si appoggia a sua volta sull’appartenenza a un gruppo, sulla possibilità di situarci all’interno di un sistema di relazioni. Nessuno può costruire la sua identità indipendentemente dalle identificazioni che gli altri gli rinviano. Ciascuno deve supporre che la sua distinzione dagli altri sia ogni volta riconosciuta da questi e che ci sia reciprocità nel riconoscimento intersoggettivo»6. Ma – e siamo all’ultimo passaggio – il riconoscimento intersoggettivo non è generico, avvenendo piuttosto, come abbiamo osservato fin dal capitolo secondo, entro una specifica «cerchia di riconoscimento». Quando infatti i miei scopi sono offuscati dall’incertezza, soltanto l’immersione delle azioni individuali in flussi delimitati di azioni collettive può restituirmi un qualche criterio autovalutativo persistente: «L’individuo è costituito da una successione di io che compiono le proprie scelte e questi possono avere qualcosa in comune solo se sono collocati in una comune cerchia di riconoscimento. L’identità personale consiste in una connessione intertemporale verti-
6. Melucci [1991, 37; 1982, 63]. Con straordinaria incisività, Lucien Lévy-Bruhl osserva: «non si danno prima gli uomini e poi la loro partecipazione. Perché possano essere dati, perché possano esistere, c’è già bisogno di partecipazione. Una partecipazione non è soltanto una fusione, misteriosa e inesplicabile, di esseri che al tempo stesso perdono e conservano la loro identità. Essa entra nella costituzione stessa di questi esseri: senza partecipazione, non sarebbero dati nella loro esperienza, non esisterebbero» [citato in Moscovici-Doise 1992, 74].
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cale tra gli io successivi di un essere umano, cosa che è possibile solo grazie a qualche connessione interpersonale orizzontale tra differenti io individuali» [Pizzorno 1986, 18]. Chiamiamo «ricollocazione» il mutamento delle credenze, ossia dell’insieme dei mezzi accessibili e ammissibili, e «reidentificazione» il cambiamento dell’identità, ovvero dell’insieme dei fini accessibili e ammissibili [Pizzorno 1989a]. Se uno sviluppo sociale avviene allargando le alternative accessibili e ammissibili, sia la ricollocazione che la reidentificazione rappresentano aspetti senza i quali quel processo non può verificarsi. Che l’insieme delle alternative accessibili resti invariato o si espanda, è infatti grazie ai percorsi della ricollocazione e della reidentificazione che una collettività allarga l’insieme delle alternative ammissibili, rendendo più complesso il mero aumento della quantità e dell’efficienza dei mezzi. Il mutamento della rappresentazione sociale Concentriamoci su una minoranza del gruppo più povero di mezzi e di capacità organizzative. Assumendo quale criterio il calcolo economico, nemmeno tale minoranza trova conveniente impegnarsi. Ciò però resta valido finché essa considera unicamente un insieme di alternative accessibili tra le quali scegliere. Ipotizziamo piuttosto, proseguendo il ragionamento del precedente paragrafo, che essa possa a un certo momento valutare opzioni che sono congiuntamente accessibili e ammissibili. Questo comporta, come sappiamo, che quando cambia il set di quello che si ammette, muta altresì in generale il rapporto benefici/costi. Ne discende che un’opzione prima non conveniente può adesso risultare appetibile, o viceversa. Ma sappiamo anche che i contorni del set delle alternative ammissibili dipendono dalle credenze e dall’identità
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dei soggetti della minoranza. Diventa pertanto esplicativamente rilevante introdurre una distinzione tra i fattori che portano a una «ricollocazione» e/o «reidentificazione» dei soggetti, e i fattori che conducono a modificare i termini del calcolo economico di convenienza. Se i fattori che regolano credenze e identità sono talvolta indipendenti dai fattori che regolano costi e benefici, può accadere che i membri della minoranza si attivino nonostante nel momento iniziale sia assente o negativo l’interesse economico7. Che cosa presiede al cambiamento di credenze e identità? Si tratta, ovviamente, di una tematica complessa e sfuggente che oltrepassa di gran lunga i propositi di queste pagine. Per completare la nostra argomentazione, non è però necessario risalire ai meccanismi causali che possono generare un processo di ridefinizione. Basta delimitare con chiarezza un requisito metodologico che la nostra spiegazione deve rispettare: a differenza della figura di «imprenditore politico», criticata all’inizio del capitolo, i membri della minoranza che stiamo esaminando devono essere nella condizione di intraprendere un’azione collettiva senza disporre di alcuna risorsa sociale aggiuntiva, rispetto a quelle in dotazione ai membri della maggioranza del gruppo. È la teoria dell’imprenditore di Israel Kirzner che – pur limitata alla competizione mercantile – ci aiuta a imposta-
7. Se entrano in scena i percorsi della «ricollocazione» delle credenze e della «reidentificazione», per la minoranza del gruppo subalterno diventa possibile «ricorrere a una forma di strategia collettiva che, oltre ad aggregare le risorse individuali dei membri del gruppo per perseguire un comune interesse, superi il calcolo individuale dei mezzi e degli oneri organizzativi, definendo un’identità collettiva sulla cui base la possibilità di cambiare le relazioni di potere esistenti non sia più determinata esclusivamente da quelle stesse relazioni. Pertanto i gruppi che stanno in posizione subalterna possono migliorare la propria potenzialità di cambiamento soltanto se reinterpretano i costi comparativamente più elevati della loro azione collettiva, modificando i criteri secondo cui quei costi vengono stimati dal loro gruppo» [Offe-Wiesenthal 1980, 78]. Si verifica pertanto il «paradosso per cui gli interessi possono venire realizzati a misura che sono almeno in parte ridefiniti» [Ivi, 79].
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re coerentemente l’analisi. Kirzner immagina una situazione originaria nella quale chi opera non riesce a imparare dalla propria esperienza. Introduce quindi un gruppo di soggetti che apprendono: gli imprenditori. Costoro si limitano a percepire e a elaborare cognitivamente informazioni già esistenti, ma di cui gli altri non erano adeguatamente consapevoli8: «l’imprenditorialità non consiste nel prendersi gratuitamente un biglietto da 10 dollari che ci siamo trovati nella mano; consiste nel rendersi conto che ce l’abbiamo in mano e che possiamo prendercelo» [Kirzner 1973, 90]. In questo senso «l’imprenditorialità pura si esercita solo in assenza di risorse iniziali» [Ivi, 49] e non modifica la configurazione produttiva data. Questo punto è cruciale. Kirzner suppone che nessun costo aggiuntivo, volto a procurare nuove informazioni o a mobilitare gli input produttivi, vada affrontato9. L’imprenditore modifica senza oneri la propria struttura percettivo-cognitiva o, per esprimerci con il linguaggio della psicologia sociale, cambia la propria «rappresentazione sociale» quale «modo specifico di comprendere e di comunicare ciò che già sappiamo» [Moscovici 1984, 38, corsivo aggiunto]. L’impostazione di Kirzner vale anche, con le differenze dei rispettivi processi sociali, per l’imprenditore delle
8. «Vedo l’imprenditore non come una fonte di idee innovative ex nihilo, ma come un individuo attento alle opportunità già esistenti, che stanno aspettando di essere notate. Anche nello sviluppo economico, l’imprenditore dev’essere visto come qualcuno che risponde alle opportunità, piuttosto che crearle; che coglie le opportunità di profitto, piuttosto che generarle» [Kirzner 1973, 123]. 9. Gli imprenditori «non forniscono alcun servizio produttivo; il profitto che essi lucrano non è un compenso richiesto per attirare nel processo produttivo un fattore necessario. La produzione può benissimo continuare a essere effettuata con gli input le cui remunerazioni sono già state computate, nel calcolo dei profitti puri, come costi. Il contributo dell’imprenditore è rappresentato soltanto dalla decisione pura di impiegare tali input nel processo selezionato anziché in altri processi» [Kirzner 1973, 131].
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azioni collettive. Sebbene priva di risorse, una minoranza – al limite, un individuo: si legga il magistrale saggio su Solzˇenicyn, in Moscovici [1976] – può esercitare un’influenza sul gruppo più ampio cui appartiene. Ciò avviene, in primo luogo, mediante un processo di cambiamento della «rappresentazione sociale» che, dandole gratuita consapevolezza di opportunità già presenti, la conduce a rendere ammissibili alternative che prima l’intero gruppo escludeva. Il secondo passaggio consiste nel tradurre quest’avvenuto cambiamento in un conflitto nei riguardi del gruppo dominante10. Talvolta lo scontro può riguardare la spartizione di risorse scarse, ma sempre, nascendo da un processo che altera la mappa percettivo-cognitiva, esso tocca le credenze e l’identità reciproche11. È mediante il conflitto che la minoranza cerca un triplice riconoscimento: se riesce a influenzare l’identità e le credenze del gruppo dominante, alterandone così gli stessi calcoli economici, essa ne viene di fatto riconosciuta; analogamente, se riesce ad avviare un percorso di ricollocazione e reidentificazione nel gruppo subalterno di cui fa parte, viene riconosciuta anche da questo; infine, ma non meno
10. Un esempio molto significativo di questi due passaggi è illustrato da Watzlawicz, Weakland e Fisch in un brano riportato da Weick [1969, 351]: «Durante una delle molte rivolte che hanno avuto luogo a Parigi nel diciannovesimo secolo, il comandante di un distaccamento dell’esercito ricevette l’ordine di ripulire una piazza sparando sulla canaille (plebaglia). Egli ordinò ai suoi soldati di mettersi in posizione, con i fucili puntati sulla folla, e mentre scendeva uno spaventoso silenzio, estrasse la spada e gridò con quanto fiato aveva in corpo: “mesdames, messieurs, ho ricevuto l’ordine di sparare alla canaille. Tuttavia, siccome davanti a me vedo un gran numero di onesti e rispettabili cittadini, chiedo che costoro se ne vadano affinché io possa sparare tranquillamente alla canaille”. La piazza si svuotò in pochi minuti». 11. «Al di là degli oggetti concreti, materiali o simbolici, che sono in gioco in un conflitto, ciò per cui ci battiamo è sempre la possibilità di riconoscerci e di essere riconosciuti come soggetti della nostra azione. [… Quando] non c’è più equilibrio tra la definizione che diamo di noi stessi e quella che ci viene data dagli altri, l’opposizione, lo scontro con l’altro, è un tentativo di affermare la relazione, che ha bisogno del reciproco riconoscimento» [Melucci 1991, 39 e 42].
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importante, essa, riflettendosi nei riconoscimenti altrui, meglio costruisce e rafforza l’auto-identificazione. Puntando al triplice riconoscimento, una minoranza attiva deve efficacemente marcare il proprio territorio: essa spesso accentua la divergenza rispetto all’ordine costituito, per scuotere, scandalizzare, attrarre l’attenzione. Deve mostrare a sé stessa e all’intero gruppo subalterno che le sue innovazioni nella propria «rappresentazione sociale» di alternative già accessibili, ma fin lì non ammissibili, possono provocare altresì trasformazioni nella «rappresentazione sociale» dei membri del gruppo dominante12. Se il gruppo dominante continua a valutare del tutto trascurabili tali innovazioni per la propria azione sociale, l’innesco del processo di mobilitazione si spegne. Pertanto la minoranza attiva dedica ogni sforzo iniziale per influire sulle credenze e sull’identità dei soggetti avversari, e ciò non di rado comporta azioni sconvolgenti, come quando «i fondatori di religioni si basano su miracoli che “diventano” sempre meno frequenti man mano che la religione è più stabile» [Moscovici 1976, 243], oppure come quando si ricorre a metodi di violenza estrema (che hanno l’ulteriore «pregio» di segnalare l’irrevocabilità della scelta conflittuale da parte di chi li effettua, poiché sarebbero troppo alti i costi del rientrare
12. La minoranza attiva, per riprendere i concetti del capitolo quarto, è opportunista. Infatti una delle forme più pervasive con cui l’opportunismo si manifesta è, come sappiamo, il valicamento di regole sociali date: laddove vige una regola, sorge spesso la possibilità di avvantaggiarsi aggirandola, svuotandola, contaminandola. Un sistema di credenze e un profilo identitario rappresentano appunto regole socialmente validate: le credenze sono le coordinate e i criteri mediante cui un soggetto effettua scelte tra mezzi; mentre le identità sono le coordinate e i criteri tramite cui egli compie scelte tra fini. Entrambe richiedono «confini» e «metodi di ricercaselezione»; in breve, entrambe sono modalità che ci aiutano a stabilire quali alternative ammettere, e come orientarci tra di esse. La minoranza attiva percepisce che può guadagnare se vìola le credenze o le identità del gruppo dominante, le quali sono, fino a quel momento, in buona misura le proprie stesse credenze e identità.
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nei ranghi)13. Si prenda per esempio «l’inizio della carriera sindacale di Jimmy Hoffa. Il giovane Hoffa era uno dei lavoratori in un deposito di Detroit in cui non vi era organizzazione sindacale. In un caldo giorno d’estate arrivò una grande nave carica di fragole che presto si sarebbero guastate; Hoffa persuase allora i suoi compagni di lavoro a scioperare. Il datore di lavoro preferì accettare le richieste di Hoffa che perdere il suo carico deperibile» [Olson 1982, 64]. Di solito le circostanze non sono così favorevoli, ma rimane il punto: il leader riesce a scorgere, a parità di costi e di risorse, un’opzione accessibile che altri non ammettono. Quando una minoranza attiva cerca il conflitto, il gruppo dominante – anche se i suoi membri in qualche grado subiscono un ricollocamento e una reidentificazione – può sempre tentare di escluderla. Ma, da parte sua, la minoranza può rompere con le regole condivise, uscendo dalle attività sociali che accomunano il gruppo dominante e quello subalterno; può, in tal modo, spezzare l’unanimità passiva dei comportamenti ed evidenziare agli altri uno spazio di dissenso e di differenziazione [Moscovici 1998, capp. 2 e 4]. Il gruppo dominante può, a que-
13. La violenza è un «appello al movimento sociale assente da parte di un attore che rifiuta così di limitare “ragionevolmente”, cioè all’interno […] di una relazione di potere, la sua rivendicazione. La violenza è controllata dal movimento sociale; essa non lo è più quando la formazione del movimento è impedita dalla repressione, dall’alienazione, dall’eterogeneità del gruppo. Il terrorismo è la violenza organizzata, destinata, attraverso la repressione che provoca, a fare apparire il conflitto, a lacerare l’ideologia integratrice del potere, a costringere a prender partito e a prender coscienza» [Touraine 1973, 467]. Questo punto è talmente importante, oggi come ieri, che vale la pena di aggiungere con Bobbio [1979, 161]: «Le lotte delle masse in tutte le loro forme sono state le più grandi manifestazioni di nonviolenza collettiva che siano state sinora sperimentate. Si osservi fra l’altro che quanto più cresce la forza di pressione della grande massa organizzata, tanto più cresce la diffidenza nei riguardi degli atti di violenza individuali o di piccoli gruppi, del cosiddetto terrorismo».
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sto punto, provare a reprimere ed eliminare la minoranza. Ma, come sappiamo dal capitolo primo, una minoranza sviluppa, con il semplice interagire nel tempo dei suoi pochi membri, una capacità di autorganizzazione superiore rispetto a gruppi grandi, e talvolta non inferiore a quella del sottogruppo dominante specializzato nella repressione. Ciò può in parecchie circostanze preservarla dagli attacchi letali. Se ciò non basta, diventa importante come la minoranza attiva viene spazzata via: se nel silenzio o pubblicamente, se tutta in una volta o in maniera dilazionata. Qualora, anche scomparendo, essa riesce a revocare in dubbio i fini del gruppo dominante, la sua iniziativa, sebbene confinata in spazi particolari, può, come un moltiplicatore simbolico, avere effetti di risonanza assai maggiori. Se infine, prima o dopo, il gruppo dominante effettua qualche pur minima concessione alle richieste conflittuali della minoranza attiva, ciò può amplificare ancor più, specialmente agli occhi dei membri del gruppo subalterno, la distanza tra il vecchio e il nuovo insieme delle opzioni accessibili e ammissibili. Gettare ponti tra gruppi Fin qui abbiamo discusso come e perché una minoranza d’imprenditori delle azioni collettive possa attivarsi e mobilitare frazioni più vaste del gruppo subalterno. Esaminiamo adesso un problema distinto ma connesso: come e perché una minoranza possa, anche senza disporre inizialmente di alcuna risorsa sociale, fornire buone ragioni ai membri di due (o più) gruppi per stabilire relazioni tra loro, ossia per creare un gruppo più ampio. Come ben si comprende, è questa un’ulteriore modalità – che affianca quelle analizzate nei precedenti capitoli – mediante cui può formarsi l’azione collettiva in gruppi ampi.
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Secondo la network analysis, l’imprenditore delle azioni collettive è un soggetto che può controllare legami tra sé e gruppi cui non appartiene. Questi legami possono essere diretti e indiretti, e possono stabilirsi con singoli membri di un gruppo, oppure col gruppo in quanto tale (come accade, per esempio, nel rapporto tra un cliente e un’impresa)14. Se il soggetto si connette a gruppi diversi che non hanno legami reciproci, e se fare ciò gli trasmette informazioni non ridondanti, le quali cioè non sarebbero altrimenti disponibili [Burt 1992, 17], allora gestisce relazioni potenzialmente vantaggiose15. Può infatti usare la nuova informazione per acquisire vantaggi diretti, quando approfitta di un’occasione che altri ignorano, oppure indiretti, quando la cede in cambio di ricompense attuali o future. In entrambi i casi il soggetto espleta un brokeraggio sociale la cui funzione ha natura imprenditoriale, mobilitando risorse altrui per svolgere attività che altrimenti non si sarebbero effettuate e, così, ottenere un guadagno16. Egli è un soggetto che aggiunge valore «creando ponti» fra gruppi chiusi.
14. Una parte dell’analisi di network usa come sinonimiche le espressioni «legami indiretti (diretti)» e «legami deboli (forti)». Non seguiamo questa linea, rinviando agli argomenti di Eve [1996, 548-553]. 15. Due soggetti ricevono e diffondono la stessa informazione se sono strutturalmente equivalenti, cioè se hanno rapporti con i medesimi soggetti terzi. Una connessione tra soggetti informativamente non ridondanti è denominata da Burt [1992] buco strutturale. I legami possono, ovviamente, trasmettere anche influenza, che è la capacità di modificare alcune scelte altrui. Ma ciò indica che dietro il contatto si dispiega un potere. Chi stabilisce il legame, lo fa strumentalmente all’imposizione di un suo potere. In tale evenienza, egli non è più un semplice broker, bensì un soggetto che prova a imporre le proprie scelte. Se dunque, come qui stiamo per fare, ci concentriamo sulla funzione del mediatore sociale, dobbiamo escludere l’«influenza» dall’analisi. 16. «Un mediatore sociale (social broker) mette le persone in comunicazione le une con le altre, sia direttamente che indirettamente, allo scopo di ottenere profitto. Egli colma lacune nella comunicazione tra persone, gruppi, strutture e anche culture. La gamma di mediatori è molto ampia e varia da coloro che controllano la comunicazione tra parenti e il cui motivo di profitto è più latente che manifesto,
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Per presentare lo stesso argomento dal punto di vista dei gruppi, essi hanno di solito risorse sociali differenti. Quando non sono socialmente connessi l’un con l’altro, spesso converrebbe loro scambiarsi risorse, se un terzo soggetto, individuo o gruppo esso stesso, li mettesse in relazione. Ma al terzo soggetto conviene «gettare ponti» se può controllare parte del flusso di risorse scambiate: l’informazione su un gruppo rispetto a un altro gruppo è lo strumento con cui il terzo riesce a ottenere vantaggi nel mentre stabilisce legami sociali mancanti17. Quanto più il tessuto sociale è attraversato dall’azione collettiva, tanti più gruppi – formali o informali – si formano per perseguire beni pubblici. Ciò accade in ambiti che denominiamo mercantili, burocratici, di cittadinanza, occupazionali, politici, confessionali, familiari, amicali, nazionali, etnici, regionali; e questa diversificazione permette (in vario grado) ad alcuni soggetti una cross-cutting membership, ossia di coltivare contemporaneamente molteplici appartenenze. Invece di aderire in maniera totale all’interesse di un singolo gruppo, tali soggetti elevano il numero delle loro opportunità di brokeraggio, essendo inseriti in reticoli di nessi diversi, ognuno dotato di risorse specifiche. Essi possono così avvantaggiarsi dentro un reticolo grazie a risorse impiegate o possedute in un altro reticolo:
agli intermediari politici, il cui mezzo di scambio sono servizi, informazioni e voti, fino a quegli specialisti, come i sensali di matrimonio e gli agenti immobiliari, le cui relazioni sono di carattere quasi esclusivamente commerciale, dal momento che la loro tariffa viene in larga misura pagata in contanti» [Boissevain 1974, 280, corsivo aggiunto]. 17. Quest’attività imprenditoriale è, a sua volta, favorita da un requisito «macro»: che i nessi sociali siano transitivi, ossia che se X ha un legame con Y e questi lo ha con Z, allora anche X può indirettamente averlo con Z. Questo requisito si riscontra al massimo grado in quella che Popper chiamò la «società aperta», e von Hayek la «grande società»; ma può essere presente anche in aree sociali dotate di elevato grado di coesione. Se al contrario «vi sono costi di trasferimento (o di brokeraggio), […] allora i membri della rete possono spesso assegnare una maggiore efficienza nel mantenere legami diretti tra loro» [Wellman 1988, 42].
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rafforzarsi sul mercato dei capitali grazie alla loro origine etnica; trovare lavoro grazie alle conoscenze fatte al club; entrare in politica grazie al loro ruolo religioso, e così via. Ma, soprattutto, essi possono diventare imprenditori delle azioni collettive quando mettono le loro potenzialità trasversali a disposizione di altri, generando transazioni mutuamente vantaggiose. Un aspetto va rimarcato. La network analysis, presentata in questo paragrafo, punta l’attenzione sulle informazioni inter-gruppo di cui l’imprenditore acquisisce il controllo. Sebbene possa accadere che certe informazioni vengano acquisite gratuitamente, si tratta in generale di una risorsa sociale onerosa. In tal senso l’imprenditore deve disporre fin dall’inizio di risorse, proprie o prese in prestito, da scambiare con l’informazione-risorsa. Al contrario, secondo l’approccio alla Kirzner che abbiamo espanso nel precedente paragrafo, questo requisito non è necessario: basta che, senza costo, cambi la «rappresentazione sociale», ovvero la struttura percettivo-cognitiva, del soggetto, affinché egli si accorga delle opportunità legate a informazioni già note. Un simile processo può prescindere da risorse relazionali e organizzative; può far insorgere il coordinamento o la cooperazione tra più gruppi, limitandosi a estendere ai loro membri la nuova consapevolezza sulle opzioni accessibili e ammissibili. Ovviamente, le due impostazioni hanno finalità differenti: mentre la network analysis spiega una forma di persistenza e diffusione dell’azione collettiva, l’imprenditore kirzneriano ne spiega una possibile origine. Sui «conflitti irrisolvibili» Abbiamo considerato interazioni tra soggetti nelle quali, come nel coordinamento, una parte può guadagnare soltanto se anche le altre parti coinvolte guadagnano; oppu-
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re in cui, come nella cooperazione, convivono elementi di conflitto e di coordinamento. Si hanno invece «conflitti puri» quando una parte può guadagnare soltanto se le altre parti perdono. Una forma non violenta di conflitto puro è il gioco del poker, mentre la principale sua modalità violenta è la guerra. Ma le guerre non sono tutte uguali, poiché non tutte hanno la medesima struttura conflittuale. Malgrado ogni guerra comporti la distruzione di vite umane – segnando in ciò la perdita più irrevocabile per il gruppo colpito –, possiamo distinguere tra gli scontri bellici per l’accesso e la ripartizione di risorse scarse del tipo «più-o-meno» o «questo-o-quello», e scontri del tipo «tutto-o-niente» o «aut-aut». Mentre nei primi, anche quando le parti sono inizialmente contrapposte, è in linea di principio possibile negoziare soluzioni di compromesso [Fearon 1995], nei secondi il conflitto raggiunge una radicalità estrema come manifestazione dell’inesistenza o dell’inadeguatezza di regole del gioco condivise, e non sembra quindi percorribile la negoziazione, né la mediazione. Le guerre del secondo tipo vengono definite «conflitti intrattabili» e non rappresentano affatto casi-limite puramente immaginari. Situazioni contemporanee nelle quali c’imbattiamo in conflitti intrattabili sono, per esempio, i conflitti identitari tra gruppi sociali in cui l’escalation giunge fino alla compiuta distruzione fisica dell’avversario, come è accaduto o accade in Burundi e Ruanda, Israele e Palestina, Bosnia-Erzegovina, Zaire, Sierra Leone, Liberia, Somalia, Mozambico, Sudan, Uganda o Cecenia [Kaldor 1999; Tilly 2003, cap. 3]. Quando un conflitto è, in quanto tale, irrisolvibile, può solamente venire trasformato [si veda, per tutti, ArielliScotto 2003, capp. 8 e 16]. Occorre dunque individuare metodi e forze endogene che siano in grado di cambiarne la struttura. Senza alcuna pretesa di completezza, possia-
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mo presentare un metodo – che Charles Sabel chiama il learning by monitoring – che è congruente con lo schema teorico qui elaborato, mostrando come l’imprenditore delle azioni collettive possa endogenamente applicarlo. Dentro un nesso di puro conflitto, a un soggetto non interessa ex ante acquisire più informazioni sull’avversario di quelle che gli servono a svolgere la sua strategia e, se possibile, a prevalere. Possono tuttavia presentarsi processi lungo i quali, mentre un soggetto ne controlla un altro per dominarlo, apprende inintenzionalmente notizie ulteriori su di lui. (L’inintenzionalità è due volte cruciale: sia perché costituisce una conseguenza non costosa di altri processi; sia perché, per definizione, non richiede un consapevole e favorevole calcolo economico). In questi protocolli diventa difficile separare la diffidenza, o addirittura l’ostilità, dalla conoscenza reciproca. I comportamenti del controllore sono infatti così intrecciati alle condotte di coloro che sta controllando, che l’interazione con costoro diventa una modalità importante per apprendere chi egli è e cosa gli conviene fare. Gli antagonisti sono cioé immersi in contesti nei quali l’apprendimento e il monitoraggio sono indistinguibili: il controllo su che cosa fa l’altro s’intreccia all’elaborazione di che cosa fare; e la verifica di come sono state ripartite le risorse oggetto del conflitto è inseparabile dal contrasto per alterare i criteri della ripartizione stessa. Questa contaminazione tra apprendimento e monitoraggio si rafforza a misura che interviene la sistematica imprevedibilità dei comportamenti umani. Il soggetto si accorge di non conoscere adeguatamente la propria posizione, attuale e futura, nella società, e quindi di non poter appropriatamente valutare l’utilità dello scontro rispetto a quella della collaborazione. È la precarietà delle prospettive che lo spinge ulteriormente verso un’interazione che non precluda in via defi-
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nitiva l’intesa, ossia che non prolunghi indefinitamente il conflitto puro. In breve: quando la dimensione del controllo si sposa con un incremento della conoscenza dell’altro, si apre la possibilità di un confronto costruttivo. Forme embrionali di coordinamento o addirittura di cooperazione talvolta emergono, in quanto scontri isolati tra avversari indipendenti diventano transazioni – anche violente, ma continue e congiunte – durante le quali le credenze e le identità dei partecipanti si ridefiniscono reciprocamente18. Il learning by monitoring, pur nascendo come analisi di qualcosa che succede, può tradursi in un metodo per l’azione, a misura che si cercano e valorizzano situazioni entro cui esso può applicarsi. È l’imprenditore dei movimenti collettivi il soggetto che cerca tali situazioni. Come sappiamo, il suo processo imprenditoriale non richiede significativi prerequisiti in termini di risorse relazionali e organizzative; esso può far insorgere il coordinamento o la cooperazione – prendendo le mosse da uno stato di puro conflitto – grazie alla circostanza che l’ambiente decisionale non è dato. Per i soggetti tra i quali l’entrepreneur media, le alternative di azione tra cui operare la scelta non sono del tutto predeterminate e conosciute. L’informazione incompleta non riguarda solamente i risultati della strategia, bensì anche l’insieme delle opzioni accessibili e ammissibili. L’unica risorsa attribuibile ai soggetti riguarda una qualche (anche nebulosa e asistematica) cognizione della posizione di ciascuno nei networks
18. Il criterio stesso con cui viene calcolato il proprio self interest cambia, poiché l’interazione con l’altro soggetto modifica via via lo spettro delle alternative ammissibili [Helper-MacDuffie-Sabel 2000, 473; Sabel 1994, 138]. Stiamo qui esponendo quest’idea con un linguaggio più generale di quello cui ricorre Charles Sabel, il quale la enuncia soprattutto in riferimento a problemi di controllo dell’opportunismo nelle imprese e di partecipazione democratica. Sabel è peraltro del tutto consapevole della portata del metodo che analizza.
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sociali. Se dunque è la forma stessa del gioco che si sta modificando, è difficile per ciascuno valutare oneri e vantaggi suoi e degli altri. Ma se nessuno conosce con relativa certezza i pro e i contro delle varie posizioni nelle reti sociali, si aprono spazi per l’imprenditore: minore è quella conoscenza, maggiori sono quegli spazi. Anche con ridotta fiducia negli interlocutori, e anche nell’impossibilità di elaborare calcoli strategici razionali, può nascere il dialogo e la collaborazione. Anzi, è proprio l’ignoranza intorno all’albero del gioco che, spiazzando le usuali linee di condotta, rende urgente imparare. Ma ciascun soggetto può imparare soltanto interagendo nella propria rete con gli altri utenti, ossia provando a controllarli, a renderli prevedibili. Di più: in presenza di una forte conflittualità, appare difficile che le interazioni si traducano direttamente in transazioni. Queste ultime infatti si compiono solo quando entrambe le parti hanno soppesato costi e vantaggi marginali dello scambio. Qui però tale valutazione è ambigua o ancora non affidabile. Occorre dunque, prima dell’eventuale scambio, la negoziazione o la mediazione: solo essa può contribuire alla scoperta della rispettiva convenienza. Il coordinamento o la cooperazione emergono insomma dall’esigenza del reciproco controllo e, su quella base, della trattativa. Ciò conferisce un ruolo prezioso a un imprenditore che proceda non promuovendo la mediazione in quanto tale, bensì mostrando agli attori così l’inaffidabilità delle proprie conoscenze, come le potenzialità di apprendimento insite nei vari possibili «ponti» tra l’un reticolo sociale e l’altro. È questa prestazione in negativo dell’imprenditore che può stimolare i soggetti a procurarsi nuove conoscenze nel modo principale a loro disposizione: interagendo non distruttivamente con gli altri soggetti grazie alla connessione indiretta procurata dall’entrepreneur.
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L’intervento imprenditoriale nei conflitti radicali riguarda principalmente quei beni che se venissero divisi – come accade per l’amore di un partner, o per un credo religioso – cambierebbero natura e perderebbero la facoltà di soddisfare chi li domanda. «Tuttavia sono suscettibili di compromesso anche lotte per oggetti indivisibili, quando questi sono sostituibili; cosicché il vero e proprio premio della lotta può sì spettare soltanto a uno, ma questo indennizza la controparte per la sua cedevolezza con un altro valore. Se i beni siano fungibili in questo senso non dipende naturalmente da qualche parità oggettiva di valore tra di essi, bensì dalla disponibilità delle parti a porre fine all’antagonismo mediante una concessione e un risarcimento»19. A sua volta tale «disponibilità a rendere fungibili i beni» – che non esisteva al momento iniziale, e che dunque rientra nel processo di trasformazione del conflitto puro – può venire creata e alimentata proprio da processi di allargamento o restringimento dell’arco delle alternative che si concepiscono in palio nel conflitto. Consideriamo per esempio beni privilegiati che, come tali, non contemplano una spartizione: un privilegio condiviso cessa infatti di essere tale. Questi beni si caratterizzano per un accesso razionato, e il loro valore non dipende dall’utilità diretta per chi ne fruisce ma dal posto che occupano in un dato ordinamento, e quindi dalla loro utilità relativa ad altri beni. Non necessariamente, tuttavia, i beni di privilegio alimentano durevol-
19. Simmel [1908, 283]. Si può constatare come la «sostituibilità» di cui discorre Simmel non sia la sostituibilità degli economisti: quella per cui se la domanda del bene x cresce all’aumentare del prezzo del bene y, allora diciamo che il bene x è un sostituto del bene y. Piuttosto, egli si riferisce a un processo intersoggettivo all’inizio del quale due beni non sono comparabili, mentre al suo termine i soggetti accettano che a un bene subentri l’altro. Si tratta di comprendere sotto quali condizioni si possa giungere ad una tale reciproca accettazione.
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mente frustrazione, tensione e conflittualità da parte degli esclusi. Immaginiamo anzitutto una situazione nella quale il bene privilegiato consista in un posto su una scala che va da un massimo a un minimo, e in cui non sono ammessi (o comunque non sono di equilibrio stabile) posti ex-aequo. Qui il bene ha un’offerta fissa e, se i soggetti che se lo contendono sono due, quando uno ne consuma una certa quantità, l’altro deve consumarne un’eguale quantità negativa. Pensiamo a beni come il prestigio o il potere: è impossibile che un soggetto ne fruisca, se non a detrimento dell’altro; se vi è un dominatore, abbiamo un dominato; se vi è qualcuno dallo status sociale superiore, abbiamo qualcun altro dallo status inferiore [Pagano 1999]. Immaginiamo, al contrario, che la scarsità sociale del bene venga ridotta con una strategia che modifica lo spettro delle alternative accessibili e ammissibili. È questo il caso di una promozione in palio tra dieci individui. Siamo alle prese con una situazione da «tanto peggio tanto meglio», in cui ognuno manovra per danneggiare gli altri e ottenere per sé solo il premio. Essa non ammette negoziazioni, né facili mediazioni da parte di arbitri esterni. L’unica possibilità consiste nel modificare la struttura del conflitto, allargando lo spettro delle poste in palio. Così se, accanto alla promozione, ci si contende un bonus, un trasferimento di sede e un riconoscimento simbolico, la strategia di ciascuno diventa più complessa e sfumata: il conflitto frontale può non convenire, a misura che, non ottenendo l’obiettivo prediletto, si può talvolta ripiegare su un altro traguardo, oppure se si possono scambiare i voti su un’opzione per raccogliere più voti su un’altra. Peraltro non è necessario disporre della capacità, tecnica ed economica, di accedere a nuove opzioni. Spesso basta frazionare un’alternativa già esistente, al fine di
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ridurre il coinvolgimento delle parti e attenuarne la diffidenza. Durante una guerra, per esempio, nessun contendente accetterebbe il rilascio di prigionieri contro una promessa di liberazione dei propri soldati. Se tuttavia si procede per gradi, cedendo un prigioniero alla volta, si sperimentano con pochi rischi i vantaggi della collaborazione, e si induce la controparte ad agire in eguale maniera. Se applichiamo questa logica del frazionamento al caso delle promozioni lavorative, essa può prendere la forma della sostituibilità sui posti ottenuti oppure della sostituzione delle gerarchie di posti. La prima modalità consiste nel rimettere in gioco più volte la stessa alternativa. Così, poniamo, nel primo round 1/3 dei soggetti vincono la promozione mentre 2/3 restano esclusi. Nel secondo round, tuttavia, i posti privilegiati vengono rimessi in palio e i 2/3 di soggetti al margine possono competere di nuovo, nutrendo la speranza (o l’illusione) di poter entrare. La seconda modalità sta invece nel modificare, diciamo in un terzo round, il bene posizionale stesso; la conflittualità si riduce non perché tutti riescono ad accedere a beni prima preclusi, bensì soltanto perché viene ri-collocato diversamente lo stesso bene fra gli altri beni. Così, per esempio, la medesima promozione può diventare assai meno appetita se il top management lascia capire che essa rappresenta un «vicolo cieco» o un «contentino», mentre una dura gavetta altrove può costituire la premessa per un avanzamento di carriera superiore. In tal caso vengono «spiazzati» coloro che hanno raggiunto quella promozione, rimettendo di nuovo in gioco i perdenti dei round precedenti. Lungo questo torneo, sia la scarsità sociale dei posti, sia la conflittualità legata (in vari modi) all’esclusione possono attenuarsi: l’una si attenua perché ognuno può rigiocare; l’altra in quanto i beni posizionali non sono a offerta fissa, ma vengono continuamente modifi-
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cati (anche se il loro numero non aumenta, al cambiare della loro natura essi diventano nuovi obiettivi per cui competere). Sul concetto di pace L’analisi dei conflitti estremi non può che sfociare in una riconsiderazione del concetto di pace. Abbiamo rimarcato come i conflitti radicali nascano spesso da beni per i quali è escluso un accordo mediante divisione: se ciò avvenisse, il bene perderebbe il suo significato per chi lo riceve. Analogamente, la pace viene concepita come costitutivamente indivisibile: in negativo, si presenta come una convivenza sociale in cui sia assente ogni conflitto armato tra gruppi politici organizzati; in positivo, implica un ordinamento politico che sia generalmente accettato come giusto. Entrambi sono esiti globali. Non si può parlare di una condizione di pace negativa se in parti del territorio considerato continuano azioni belliche, né di pace positiva se gruppi rilevanti delle popolazioni coinvolte valutano come iniquo lo status quo. Qui peraltro siamo alle prese non con l’indivisibilità per l’individuo considerata poco sopra, bensì con l’indivisibilità sociale caratteristica dei beni pubblici: la pace è il bene pubblico più esteso che una società possa produrre e usare. Di solito un bene pubblico può venire prodotto e consumato a differenti livelli di governo. Una città o una regione o una nazione possono fornire beni pubblici che saranno usufruiti dagli abitanti della città o della regione o della nazione. La pace costituisce invece, secondo la visione usuale, il bene pubblico globale per eccellenza: essa non è producibile da un governo locale (incluso un governo nazionale da solo, che, se vince la guerra, può imporre una pacificazione, ma non stabilire un accordo
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di pace, che si fa sempre almeno in due); richiede un’indivisibilità sociale più ampia, che al limite abbracci il pianeta intero, entro la quale più gruppi o più governi s’impegnano alla cessazione dello scontro violento, o addirittura alla condivisione di un’autorità e una legalità superiori a quelle di ciascuno. Ma quello richiamato è l’unico modo per pensare il concetto di pace? È un modo adeguato, di fronte ai conflitti intrattabili che stiamo esaminando? Ed è, col suo obiettivo di una «pace indivisibile», un modo politicamente utile? Per ragionare brevemente su queste domande, torniamo al concetto di identità quale capacità autoriflessiva di divenire oggetto a sé stessi. Io adotto/scelgo una serie di etichette che mi avvicinano a voi e mi distanziano da loro. La mia identità si afferma in quanto sono riconosciuto da voi: «l’individuo diventa ciò che lo chiamano le persone per lui importanti» [Berger-Luckmann 1966, 183]. Lo snodo delicato concerne il passaggio dalla categorizzazione dei gruppi sociali, e dalla loro interazione competitiva, al vero e proprio conflitto violento. Sotto quali condizioni la logica identitaria dei gruppi spinge allo scontro organizzato? Si tratta ovviamente di un problema con molte sfaccettature e che richiederebbe, per una disamina adeguata, di essere calato in situazioni storicamente specifiche. Crediamo tuttavia che un importante orientamento intellettuale possa derivare dall’approccio stilizzato e ultrasemplificato proprio degli economisti. La risposta si articola al riguardo in due tappe logiche. In primo luogo, va riconosciuto che quasi tutte le indivisibilità sociali non sono neutralmente oggettive, ovvero dettate da circostanze tecniche, bensì scaturiscono da preliminari credenze condivise. Senza una preliminare conformazione delle credenze, i soggetti non potrebbero definire alcuna azione di gruppo (si veda il capitolo primo).
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In secondo luogo, una condizione necessaria (sebbene non sufficiente) sotto cui le distinte e competitive etichettature dei gruppi sociali diventano contrapposizioni radicali e violente, sembra consistere nella credenza che vi è un’indivisibilità sociale che caratterizza la relazione tra gli scopi intermedi del gruppo e il suo obiettivo finale. Pensiamo per esempio all’ideologia comunista (secondo cui il controllo sui mezzi di produzione è un passaggio intermedio per raggiungere la società comunista), oppure a quella nazionalista (il controllo sul territorio è un momento intermedio per l’affermazione della patria), oppure a quella fondamentalista islamica (liberare la nazioni mussulmane da stranieri e da influenze secolarizzanti è un passaggio intermedio per giungere alla società islamica). Ogni conflitto tra un gruppo avente simili concezioni e altri gruppi (rispettivamente, le élites capitalistiche, altre nazioni con la stessa ambizione territoriale, i gruppi secolarizzati) tende subito a diventare uno scontro sui fini ultimi. Poiché infatti non appare suddivisibile la ricerca di traguardi tattici rispetto al perseguimento dell’esito strategico, la tensione si sposta direttamente dalle singole tappe alla totalità dell’obiettivo finale, eliminando la possibilità di negoziare o di mediare tappa per tappa. «Metaforicamente, in ciascuno di questi casi i leader dei gruppi sono nella posizione di qualcuno che si addentra in un esteso deserto al termine del quale vi è una montagna, e solamente quando la cima della montagna è raggiunta, il gruppo può ritenere di avere raggiunto il proprio traguardo. Più lungo è il deserto, più alta la montagna, maggiore la tentazione di ricorrere a metodi estremistici. Soprattutto, più grande è l’indivisibilità, più il gruppo tende a essere indifferente ai sacrifici di vite umane, sia delle vittime che dei propri membri, poiché i guadagni potenziali del raggiungimento del traguardo appari-
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ranno maggiori di qualsiasi perdita concepibile» [Wintrobe 2004, 21]. L’avversario diventa pertanto nemico, il conflitto diventa guerra assoluta, la contrapposizione tra gruppi diventa di vita-o-morte [Hassner 2003; Goddard 2006]. L’approccio analitico suggerito procede insomma dal processo di categorizzazione o etichettatura che forma i gruppi, per spiegare l’eventuale radicalizzazione dei nessi tra i gruppi mediante l’indivisibilità sociale che rende inestricabili, nella credenza del gruppo che scatena la violenza, i fini strumentali o immediati o tattici coi fini identitari o remoti o strategici. Quest’impostazione prevede che quando posizioni si presentano sulla scena politica come estremistiche, ma perseguono obiettivi finali divisibili – maggiore eguaglianza dei redditi, un ambiente più pulito, meno aborti, minori controlli sulle armi –, esse in generale non utilizzano metodi estremistici (violenti). Ciò comporta precise implicazioni operative. I percorsi di trasformazione dei conflitti estremi dovrebbero consistere nel ripristinare anzitutto la pensabilità di una scomposizione sociale delle opzioni intermedie da quelle ultime. La pace si realizza a misura che le parti ammettono una qualsiasi parcellizzazione dei loro scopi. L’economia keynesiana, rileva Wintrobe, ha rappresentato un esempio paradigmatico di questo atteggiamento: argomentando che la mano pubblica può risolvere il problema della disoccupazione senza fuoriuscire dal capitalismo, è stata storicamente in grado, rispetto all’ideologia comunista e ai comportamenti antagonistici a essa collegati, di applicare con successo il metodo (pacificante) della suddivisibilità sociale. L’idea tradizionale suggerisce che la pace si affermerebbe con un’organizzazione politica sovranazionale che renderebbe impossibile la guerra: come entro una nazione la pacificazione si realizza quando il governo acquisisce
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il monopolio delle armi, così al livello mondiale la pace diventerà praticabile allorché i governi nazionali affideranno il monopolio della violenza al governo sovranazionale [Gallie 1978]. Questo metodo d’instaurare e mantenere la pace mediante la coercizione, riflette il concetto di pace quale bene pubblico globale: si ritiene infatti che soltanto privando ogni soggetto, individuale o collettivo, del potere di esercitare violenza, si affermi la pace negativa, e la premessa per un’eventuale pace positiva. Anche il metodo della nonviolenza [sul quale si veda Bobbio 1990, 174 ss.], pur nascendo proprio dal rifiuto della coercizione quale mezzo di pacificazione, rientra in modo speculare nella stessa impostazione teorica: anch’esso adotta il concetto di pace come massima indivisibilità sociale e ritiene perciò che soltanto opponendo a un potere bellico globale un nonpotere altrettanto globale, si riuscirà a neutralizzare il primo. La nostra analisi sta da un’altra parte: avanza argomenti per i quali la pace è il percorso di disgregazione della particolare classe di indivisibilità sociali che, saldando fini strumentali e fini identitari di un gruppo, spinge ad azioni politiche violente. Alla pace si tende dunque lungo percorsi di learning by monitoring (si veda il paragrafo 5) che ammettano e sperimentino suddivisioni delle indivisibilità estremistiche.
Questo capitolo ha mostrato come la minoranza di un gruppo subalterno possa attivarsi in maniera sistematica e persistente, prendendo le mosse non dalla disponibilità di risorse sociali, né da nuove informazioni, bensì, a parità delle restanti condizioni, da mutamenti della propria «rappresentazione sociale». Ciò può spingerla, costruendo percorsi di ridefinizione delle proprie credenze e identità, a cogliere opportunità già esistenti ma prima non ammes-
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se, e ad adottare linee d’intervento che coagulino la partecipazione del gruppo più ampio e sollecitino cambiamenti nel gruppo dominante. Questa minoranza può, inoltre, gettare ponti tra più gruppi subalterni, favorendo sia la costituzione di gruppi grandi, sia processi di apprendimento collettivo con cui trasformare conflitti di per sé irrisolvibili, sia infine percorsi che, scomponendo le indivisibilità tra scopi prossimi e remoti, attenuino la violenza collettiva.
6. Le debolezze delle organizzazioni formali
Un’unica spiegazione del declino della crescita e della democrazia? I gruppi ristretti esprimono quasi sempre, rispetto ai gruppi ampi, una superiore coesione interna e una maggiore capacità e convenienza ad autorganizzarsi in modi durevoli ed efficaci. Ciò li conduce, perfino se all’inizio non dispongono di grandi mezzi, a soverchiare i gruppi ampi e a prelevare da essi risorse sociali che li rafforzano ulteriormente. Mancur Olson costruisce su questa logica dell’azione collettiva la sua opera più ambiziosa: Ascesa e declino delle nazioni. Alla constatazione del potere sproporzionato che le minoranze organizzate acquisiscono, egli aggiunge alcune poche tesi. In particolare, poiché l’autorganizzazione dei gruppi è costosa e richiede tempo, Olson ipotizza che più una società si mantiene stabile, maggiore è la probabilità che un gruppo giunga a strutturarsi: «una società stabile avrà una maggiore presenza di [gruppi ristretti] man mano che il tempo passa (a meno che, naturalmente, impedimenti istituzionali e legali all’azione collettiva, o all’azione delle lobbies nei confronti delle politiche pubbliche, non limitino il loro campo d’azione)» [Olson 1982, 66]. In secondo luogo, egli osserva che ciascun gruppo può perseguire i suoi scopi «o
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rendendo più grande la torta che la società produce, così che i membri possano avere fette maggiori anche con le stesse quote di prima, oppure ottenendo per essi quote o fette della torta sociale più grandi. […] Il primo metodo sarà scelto di rado» [Ivi, 68]1. Giunto a questo punto, Olson dispone degli elementi necessari a formulare la sua tesi: tanto i rallentamenti della crescita economica, quanto l’asimmetria di potere a favore di alcuni gruppi e il susseguente svuotamento della democrazia, si spiegano in base alla formazione di coalizioni redistributive le quali migliorano la propria posizione spingendo il governo, mediante pressioni lobbistiche, ad adottare politiche da cui traggono favori ma che sono socialmente svantaggiose, e ottenendo quote maggiori del reddito sociale dato mediante irrigidimenti dei prezzi, limitazioni dell’offerta e restringimenti della concorrenza. Nel modello olsoniano vanno distinti due momenti. Nel primo egli rileva il potere delle minoranze organizzate, appoggiandosi alla logica dell’azione collettiva: fin qui, si muove su un terreno assai solido. Nel secondo, piuttosto, egli congettura che quanto più dura la stabilità politica di una nazione, tanto più essa ossifica reti di gruppi 1. La ragione fondamentale della preminenza dei comportamenti redistributivi è così riassumibile: «Supponiamo, a titolo di esempio, che un’organizzazione rappresenti dei lavoratori che detengono l’uno per cento della capacità di reddito di un paese. Questa organizzazione dovrà sopportare interamente il costo di qualunque campagna allestisca per rendere la società più efficiente, ma i suoi membri tenderanno a ottenere soltanto l’uno per cento, in media, dei guadagni che ne risulteranno per la società. I membri dell’organizzazione trarrebbero profitto, in media, dal devolvere le loro risorse all’obiettivo di rendere la società più efficiente solo se quelle risorse producessero dei guadagni sociali almeno cento volte più grandi dei costi necessari a ottenerli. Più in generale, il rapporto costi-benefici dell’azione per rendere la società più efficiente deve essere uguale o superiore a 1/F, o al reciproco della frazione della capacità di reddito della società che l’organizzazione rappresenta» [Olson 1982, 69]. Di questa «regola del reciproco» abbiamo già trattato nel capitolo quarto.
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d’interessi particolari2. Quest’ultima proposizione, se valesse, costituirebbe una decisiva critica all’effettività della democrazia, in quanto la sua implicazione immediata è che alcune asimmetrie di potere tendono a diventare sistematiche e persistenti, marginalizzando ed escludendo dalle decisioni pubbliche la grande parte della popolazione. Quale caso paradigmatico di una minoranza provvista di grande capacità organizzativa, consideriamo la «comunità degli affari [che] è divisa in una serie di “industrie” (di solito oligopolistiche), ognuna delle quali comprende solo un numero abbastanza piccolo di imprese» [Olson 1965, 162]. Questo gruppo risulta straordinariamente avvantaggiato potendo, unico tra i gruppi della società, sistematicamente minacciare i governi che, se non sarà ascoltato, avrà insuccesso in una certa attività produttiva o finanziaria, il che a sua volta metterà a repentaglio gli obiettivi di crescita economica sostenuti dal governo stesso. Esso inoltre può controllare enormi somme per finanziare la propria attività, non soltanto in quanto dispone di grandi risorse, ma anche perché il suo successo come
2. Olson ipotizza inoltre che ciascun gruppo ristretto propende verso comportamenti redistributivi o rent-seeking (finalizzati alla rendita). Egli «utilizza tale argomento per spiegare le differenze nei tassi di crescita tra le democrazie avanzate nei primi 25 anni dopo la seconda guerra mondiale. Germania, Italia e Giappone soffrirono la maggiore devastazione delle loro istituzioni economiche e politiche e la loro prestazione, in termini di saggi di sviluppo, fu tra le migliori dei paesi considerati fino al 1970. I paesi continentali europei occupati videro anch’essi in una certa misura distrutti dalla guerra i loro gruppi d’interesse, la cui forza fu ulteriormente erosa dalla creazione del Mercato Comune; e mostrarono a loro volta notevoli tassi di crescita negli anni cinquanta e sessanta. Per ironia della sorte, furono i paesi le cui economie e strutture socio-istituzionali apparivano meno danneggiate dall’evento bellico (Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna, Stati Uniti) a realizzare una modesta crescita economica fino ai primi anni sessanta. Il valore della tesi di Olson consiste nello spiegare perché questa circostanza non vada osservata con sorpresa: in realtà, proprio in quanto le strutture dei gruppi d’interesse esistenti prima della guerra rimasero illese, i paesi anglosassoni funzionarono così male, rispetto sia alle nazioni sconfitte che a quelle che subirono l’occupazione» [Mueller 1989, 356-357]. Qui non discuteremo tale aspetto.
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lobby aumenterà i profitti dei membri del gruppo: mentre dunque, per esempio, una lobby di consumatori vegetariani deve, per autofinanziarsi, affrontare una spesa, i costi sostenuti dalla lobby degli allevatori di polli in batteria rappresentano per quest’ultima un vero e proprio investimento remunerativo3. Sulla scorta di simili argomenti, sembra realistico ammettere che alcune asimmetrie di potere sono diventate, nella vita sociale, talmente vigorose e durature da svuotare ex ante i processi della (eventuale) partecipazione democratica. Secondo la definizione che discende da Schumpeter [1942], la democrazia è un governo reversibile di più élites o minoranze, in opposizione all’autocrazia quale governo di una sola minoranza. I leader debbono conquistare il potere competendo per ottenere il sostegno dei non-leader, mentre questi devono essere in grado di spostare il loro appoggio dai leader che detengono il potere ai rivali: grazie a tale meccanismo, la democrazia appare come un metodo di alternanza al potere senza spargimento di sangue4. È facile rendersi conto che questa concezione rimane viabile se e finché la competizione tra gruppi si effettua in maniere bilanciate, ossia tali da non assicurare lo stabile prevalere di un gruppo su altri: 3. Stiamo rievocando un’analisi ormai classica risalente a Ralph Miliband [1969] e Charles Lindblom [1977]; si veda anche Crouch [2003, 23-24]. 4. L’originaria definizione schumpeteriana di democrazia è stata in seguito discussa e integrata in vari modi [si veda Sola 1996]. In particolare, al requisito della pluralità delle élites in concorrenza elettorale sono stati aggiunti almeno altri tre elementi: il carattere realmente alternativo dei programmi proposti dai diversi candidati; il carattere libero e pacifico delle procedure elettorali; la garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini come condizione dell’accountability e della responsiveness dei governanti. Pur senza sottostimare l’arricchimento concettuale così ottenuto, desideriamo rilevare come i requisiti menzionati si aggiungono a quello originario, per precisarlo e rafforzarlo. In assenza del primo, gli altri non posseggono autonomia teorica. È questo il motivo per cui ci concentriamo soltanto sul primo, il quale peraltro dipende più direttamente dalla logica dell’azione collettiva, e pertiene dunque più strettamente all’oggetto del libro.
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mancando tale requisito, viene meno la possibilità di rendere reversibile il governo – prescindendo da cambi formali di alleanze, tutte espressioni della stessa minoranza egemone – e quindi cade la differenza cruciale rispetto a un regime politico autocratico5. Eppure, si può forse essere meno pessimisti sull’evoluzione dei rapporti tra gruppi ristretti e gruppi ampi. Ciò, anzitutto, perché i tre modelli presentati nei capitoli precedenti hanno mostrato che le ragioni della partecipazione nei gruppi ampi sono più ricche di quelle individuate da Olson. In secondo luogo, perché le stesse minoranze organizzate manifestano debolezze endogene che spesso vengono poco indagate: vediamole da vicino. Dalle minoranze organizzate alle organizzazioni formali Come osserva James Coleman [1974, 49], le «organizzazioni formali […] sono gli attori più importanti nella struttura della società moderna». Il passaggio da un gruppo coeso e ben strutturato a un attore organizzativo è «tutt’al più una differenza di grado» [Friedberg 1993,
5. «Se un esame realistico del funzionamento delle istituzioni rappresentative entro le società postindustriali ci dovesse portare a riconoscere che il sistema dei partiti opera secondo regole incompatibili con quelle di una libera competizione pluralistica, che larga parte del potere politico viene esercitato entro “circuiti invisibili” al di fuori di una qualsiasi logica di mercato, che i cittadini sono in balia di forze incontrollabili, che essi sono incapaci di volizione politica, apatici e disinformati anche se fisicamente e giuridicamente liberi, allora diventerebbe lecito chiedersi dove risiederebbe la differenza, se non di principio almeno contingente e pragmatica, fra l’elitismo democratico e l’elitismo tout court, ovvero fra la democrazia e il suo contrario. Finirebbe infatti per non essere più chiaro in che cosa consistano quella “libertà per tutti” e quella “rispondenza” nei confronti delle domande politiche dei cittadini che la competizione dovrebbe imporre come side-effects democratici alla volontà di potere dei gruppi in lotta per il comando politico. E sarebbe ragionevole chiedersi, infine, quali possano essere i motivi che dovrebbero far preferire questo tipo di democrazia alle sue varianti apertamente non democratiche» [Zolo 1992, 120].
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116]. Più esattamente, l’organizzazione formale è una coalizione di gruppi che, mediante processi conflittuali interni, prova a riprodursi nel tempo per il raggiungimento di fini specifici. Come evidenzia questa definizione, l’organizzazione – uno stato o una chiesa, ma pure, a un livello più disaggregato, un’impresa, una scuola, un esercito, un partito, un sindacato, un ospedale o una prigione – presenta alcune differenze rispetto al gruppo. Anzitutto, essa è composta da una molteplicità di gruppi che in parte si coordinano ma in parte confliggono: in questo senso, i gruppi appartenenti alla coalizione organizzativa possono, a loro volta, comporre varie sottocoalizioni [Dewatripont-Tirole 1999]. In secondo luogo, il continuo processo di conflittualità assume talvolta la forma della negoziazione, e talvolta quella della politica, ove nel secondo caso «l’ambito della contrattazione non è considerato come un dato fisso dai partecipanti» [MarchSimon 1958, 163]. In terzo luogo, i conflitti tra i gruppi comportano che gli scopi comuni non siano nemmeno essi prefissati, ma possano venire ridefiniti. Siamo infine davanti a una forma di coordinamento che aspira alla durevolezza, ossia a ricostruirsi deliberatamente nel tempo mediante processi di formazione e di mantenimento di regole o routine. È rilevante precisare che l’organizzazione tenta, e soltanto tenta, di stabilizzarsi mediante regole: «il fatto che la maggior parte del comportamento sia guidato da routines non implica di per sé che la maggior parte del comportamento sia routine. L’ampiezza e la varietà di regole alternative fa in modo che uno dei fattori primari che influenzano il comportamento sia il processo mediante il quale in una situazione specifica vengono evocate alcune regole invece di altre» [March-Olsen 1989, 51]. Se però le regole appaiono ambigue, e se
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costituiscono un continuo oggetto di negoziazione o di politica, ciò si verifica in quanto nella coalizione organizzativa – immersa in un ambiente incerto – sono compresenti più gruppi in competizione tra loro. A sua volta, la differenziazione e la parziale conflittualità dei gruppi vengono provocate da processi endogeni, attinenti ai tre principali dilemmi che un’organizzazione deve affrontare sia per sopravvivere che per cambiare e svilupparsi [Blau-Scott 1962, 303-316]. Il primo dilemma si gioca sulle coordinate della decisione e del controllo. Il miglioramento della competenza decisionale richiede in genere processi di comunicazione e di discussione ampi che procedano anche dal basso verso l’alto. Viceversa, il miglioramento della capacità di controllo esige sovente accordi stabili su un unico piano generale d’azione e concatenazioni univoche di responsabilità. Inoltre, e soprattutto, un controllo diventa operativo quando i membri rinunciano a deliberare ogni giorno su ogni aspetto dell’organizzazione, favorendo «la riproducibilità della struttura attraverso i processi d’istituzionalizzazione e la creazione di routines altamente standardizzate» [Hannan-Freeman 1989, 130]. Vi è pertanto una relazione inversa tra la funzionalità decisionale e quella di controllo: per rendere più efficace l’una, si tende a peggiorare l’altra [Grandori 1999, 200]. Il secondo dilemma nasce dalla divaricazione tra amministratori e partecipanti. Un’organizzazione viene creata per realizzare certi fini. Essendo necessaria per quegli scopi, essa va preservata e rafforzata. Ma così facendo si forma un gruppo, gli amministratori, per cui il mantenimento e l’accrescimento dell’organizzazione diventano non più momenti strumentali, bensì il nuovo vero fine. Questo gruppo tende a opporsi al gruppo dei partecipan-
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ti, che rimane interessato all’ottenimento, grazie all’organizzazione, degli scopi originari6. Il terzo dilemma affonda le radici nell’incertezza. «Gli attori in grado di controllare l’incertezza la sfrutteranno nelle loro trattative con coloro che da essa dipendono. Ciò che nella prospettiva del problema è incertezza, è potere dal punto di vista degli attori. […] Prevalgono di conseguenza quei soggetti che riescono ad affermare e imporre il loro controllo sulle incertezze più cruciali» [Crozier-Friedberg 1977, 13-14]. Mentre un’organizzazione naviga in oceani d’incertezza sostantiva, riferita alla carenza d’informazioni e di conoscenze su eventi ambientali, i suoi gruppi interni e singoli membri si misurano con l’incertezza procedurale, che sorge quando l’effettuazione di scelte è vincolata dalle capacità cognitive e computazionali dei soggetti. Se interviene un comportamento innovativo, inteso come la generazione di nuove routines, esso appronta un trattamento più sintetico e generale di un particolare insieme di problemi, riducendo così l’incertezza procedurale di chi, nell’organizzazione, lo promuove. Nel contempo però, «se tutte le altre componenti rimangono invariate, le innovazioni aumentano l’incertezza procedurale di altri agenti [entro l’organizzazione], perché introducono continuamente eventi nuovi nell’am-
6. «L’individuo può identificarsi sia con l’obiettivo organizzativo in quanto tale, che con gli scopi di conservazione dell’organismo. Per esempio, la persona che assume una decisione può identificarsi con la funzione, o obiettivo, dell’istruzione, vale a dire può valutare le tante alternative secondo l’effetto che esse avranno sull’istruzione. D’altra parte, invece, egli potrà identificarsi con un particolare organismo educativo, e cioè opporsi, poniamo, al trasferimento di alcune funzioni ricreative da quell’organismo scolastico a qualsiasi altro ufficio municipale, ritenendo in tal modo di contribuire alla conservazione e allo sviluppo dell’organizzazione» [Simon 1947, 301-302]. Questo dilemma organizzativo risale, com’è noto, a Michels [1911, 465]: «Così l’organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa. L’organo finisce col prevalere sull’organismo».
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biente» [Dosi-Egidi 1991, 134, parentesi quadra aggiunta]. L’innovazione è pertanto un meccanismo ambivalente che suscita conflitto: abbassa l’incertezza per chi la introduce, accrescendone il potere; ma accresce congiuntamente l’incertezza degli altri gruppi. Si forma insomma un rapporto inverso tra il miglioramento di singoli processi o risultati, e la stabilità complessiva dell’organizzazione: migliorare i primi equivale a diminuire la seconda. Le tre forme di conflitto appena richiamate – decisione/controllo, partecipazione/amministrazione e innovazione/conservazione – scaturiscono dallo stesso processo di funzionamento di un’organizzazione. Questa circostanza rende quasi unanime, malgrado la differenza degli approcci e della terminologia, il consenso degli studiosi intorno al loro manifestarsi. Che dunque un’organizzazione si articoli in gruppi internamente in competizione sui mezzi da scegliere e sui fini da perseguire, appare una premessa solida da cui muovere. L’immagine dall’attore organizzativo che emerge è molto lontana da quella, monolitica, che Olson pone tra le premesse del suo modello. Il passo successivo della nostra argomentazione consiste nel chiederci quali scenari possano venire aperti dall’endemico manifestarsi dei conflitti tra gruppi entro un’organizzazione. Ci concentriamo su sei meccanismi possibili: alcuni emergono all’interno di un’organizzazione, mentre altri nascono anche dalla rivalità tra organizzazioni7. Il primo meccanismo si verifica quando, lungo i livelli della gerarchia verticale, i soggetti legati dal controllo di informazioni tra loro connesse, creano un’alleanza a svantaggio di altri soggetti. Il secondo sorge quando il conflitto orizzontale tra i gruppi dirigenti può tradursi, 7. La disamina non ha, ovviamente, pretese di completezza: si propone tuttavia di soffermarsi su scenari che appaiono oggi particolarmente diffusi e rilevanti.
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a seconda della struttura informativa dell’organizzazione, in un irrigidimento unilaterale, in una uscita parziale o in uno sdoppiamento. Il terzo meccanismo consiste nel fenomeno per cui un’organizzazione rende simile alla propria l’organizzazione di gruppi sociali rivali. Il quarto vede organizzazioni in reciproca competizione che, per avvantaggiarsi l’una rispetto all’altra, ammettono nel proprio campo di scontro gruppi o organizzazioni prima escluse, mentre il quinto coglie le condizioni sotto cui conviene al soggetto più forte cedere credibilmente il potere decisionale riguardante l’organizzazione al soggetto più debole. Infine, il sesto meccanismo considera le circostanze in cui un’organizzazione, internamente plurale, concentra in sé un potere con cui prova a controllare qualsiasi altra organizzazione. Esaminiamoli brevemente. Meccanismi d’indebolimento endogeno Abbiamo visto come una caratteristica fondamentale della coalizione organizzativa consista nello stabilire norme e routines per i membri dei gruppi che la compongono. Una norma o una routine non dovrebbe lasciare alcuna discrezionalità a chi la applica. In effetti, tuttavia, la logica opportunistica che, come sappiamo, è insita nell’azione collettiva spinge verso una continua divaricazione tra regole ufficiali e ufficiose, creando scambi di servizi informali. I subordinati possono assecondare o meno i fini dei superiori mediante tre principali strumenti: «1) alterazione del flusso d’informazioni e d’istruzioni che passa attraverso i livelli gerarchici; 2) variazioni nella quantità e qualità dell’informazione trasmessa agli organi di comunicazione sociale, ad altri uffici dell’organizzazione, a gruppi d’interesse particolare, a partiti d’opposizione o a organizzazioni concorrenti; 3) cambiamento della velo-
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cità di realizzazione delle politiche man mano che vengono poste in essere» [Breton-Wintrobe 1982, 69]. Una rappresentazione generale di questo fenomeno si ha ipotizzando che l’organizzazione presenti una struttura verticale o gerarchica almeno a tre livelli. Al livello più alto incontriamo il «principale», che può scegliere se e come trasferire alcuni diritti di decisione e di azione agli attori del secondo livello, i «sorveglianti», affinché spingano gli attori del terzo livello, gli «agenti», a operare nel suo interesse. Prendiamo per esempio una struttura aziendale nella quale i tre livelli sono: dirigente/caporeparto/impiegati. Il caporeparto riceve dal dirigente la delega a decidere qualcosa che influenza il benessere degli impiegati. Egli può procedere nell’interesse del dirigente, oppure in modo da favorire i subalterni. Da parte loro gli impiegati possono replicare alle scelte del caporeparto nascondendo, manipolando o evitando di creare informazioni. Possono così per esempio rallentare artificiosamente i ritmi lavorativi, per sabotare i risultati che il caporeparto è tenuto a ottenere; possono comunicare ai dirigenti le magagne, effettive o presunte, del caporeparto; possono omettere di far sapere opportunità migliorative e rischi peggiorativi per gli uffici gestiti dal caporeparto. Di fronte alla capacità di ritorsione dei subalterni, il caporeparto trova di solito conveniente – a meno di specifiche e credibili minacce o di adeguati incentivi per lui da parte dei dirigenti – formare una coalizione con loro contro l’interesse del principale. Infatti «la coalizione nasce naturalmente al livello del nesso delle parti informate, cioè all’interno di un gruppo capace di manipolare l’informazione ottenuta dal resto dell’organizzazione (in questo caso dal principale)» [Tirole 1986, 417]. Può verificarsi che la gerarchia organizzativa non rifletta la struttura informativa: in questi casi è la secon-
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da, non la prima, a orientare le coalizioni. Così, poniamo, la gerarchia giudice/poliziotto/imputato non riflette la struttura informativa dell’organizzazione giudiziaria, secondo cui – almeno in linea di principio – il principale è l’imputato, il sorvegliante è il giudice e l’agente è il poliziotto. «Con questa riclassificazione, l’agente può intraprendere un’azione che tocca il principale e il sorvegliante può verificare l’azione dell’agente. Si può dunque formare una coalizione fra il giudice e il poliziotto contro l’imputato, ossia fra i membri degli strati superiori della gerarchia» [Ivi, 421]. Quali che siano i livelli gerarchici nei quali sorge l’alleanza, il risultato generale e importante per il nostro ragionamento è che «le coalizioni diminuiscono senza alcun dubbio l’efficienza della struttura verticale» di un’organizzazione [Ivi, 433]8. Mentre col precedente meccanismo abbiamo esaminato le coalizioni verticali composte da agenti e sorveglianti, contro gli interessi dei principali, il secondo meccanismo contempla le coalizioni orizzontali tra gruppi di principali. Al riguardo Masahiko Aoki [2001, 98-106; ma si veda già Pondy 1967, 318] identifica tre principali modalità, basate sulla divisione delle attività che processano l’informazione. Immaginiamo che l’organizzazione sia, per semplicità, costituita solamente da due principali, P1 e P2. Nella prima modalità, denominata «decomposizione gerarchica», le informazioni provenienti dall’ambiente possono essere rece-
8. Ovviamente, la diminuzione di efficienza non sempre comporta una riduzione di stabilità. «La stabilità, per esempio, delle strutture burocratiche, può in parte spiegarsi con il fatto che una molteplicità di conflitti (tra vari uffici e ministeri, come pure tra diversi funzionari, lungo molte linee divergenti) impedisce la formazione di uno schieramento unitario (per esempio, degli strati inferiori contro gli strati superiori della gerarchia). Se, invece, un solo conflitto spacca il gruppo dividendone i membri in due campi opposti […], quella spaccatura investirà con molta probabilità le basi del consenso, mettendo così in pericolo l’esistenza del gruppo» [Coser 1956, 86]. Anche se a ridursi fosse soltanto l’efficienza, ciò costituirebbe comunque un indebolimento dell’organizzazione.
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pite solo da P1. Nella seconda forma, l’«assimilazione informativa», entrambi i soggetti monitorano l’ambiente. Infine nella terza modalità, l’«incapsulamento», l’ambiente è osservato indipendentemente dai due attori.
Ambiente organizzativo
P1
Ambiente organizzativo
P2
Decomposizione gerarchica
P1
Ambiente organizzativo
P2
Assimilazione informativa
P1
P2
Incapsulamento
La «decomposizione gerarchica» è una struttura rigida, nella quale P2 aggiusta i propri comportamenti sulla scorta di ciò che gli comunica P1. In essa i conflitti non trovano agevoli linee di soluzione, poiché un principale è sostituibile mentre l’altro non lo è. La sua scarsa flessibilità si rivela una debolezza a misura che l’ambiente cambia. L’«assimilazione informativa» compone una configurazione compartimentata: né P1 né P2 traggono da soli le informazioni dall’ambiente, e nessuno, a meno di oneri aggiuntivi, può farlo senza l’apporto dell’altro. In questo caso le tensioni possono perdurare – quando sia gli incentivi che i contributi degli attori sono asimmetrici –, ma ogni conflitto non può che rivelarsi costoso: finché P1 e P2 procedono congiuntamente, se l’uno infligge un danno all’altro, compromette altresì le sue stesse possibilità di accesso all’ambiente9. Questa modalità non esclude
9. Che vi sia un reciproco interesse a non condurre all’estremo la conflittualità interna, è così osservato da Collins [1975, 329, corsivo aggiunto]: «Più un’organizzazione è costituita da un insieme di attività associate (svolte attingendo dalle stesse
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una scissione organizzativa. Un principale tende all’exit quando, di fronte alla complessità e all’incertezza, decide di riprodursi «altrove» per migliorare le proprie chances di sopravvivenza. Stavolta però i costi sono alti. Chi decide di uscire deve riuscire a monitorare l’ambiente da solo. Deve inoltre sopportare i sunk costs: le spese già effettuate, immobilizzate e non più recuperabili10. Infine può accadere che il soggetto che esce abbia una capacità limitata di dotarsi di risorse. Ciò comporta ulteriori oneri, in quanto non gli consente di replicare subito la configurazione organizzativa che abbandona, né tantomeno di migliorarla. Possono peraltro verificarsi casi in cui è la stessa coalizione dominante di un’organizzazione a spingere qualche suo sottogruppo a scegliere l’exit quando la voice (il dissenso) sta diventando eccessivamente rischiosa o costosa: specialmente in una fase di trasformazione economica, le forze critiche e dissenzienti, che sono state tenute a freno da rigidi controlli, possono essere tanto potenti che, se sono incanalate in un’unica direzione (di solito, la voce), superano i livelli tollerabili o, in ogni caso, i livelli giudicati tollerabili dai governanti. […] Se non fosse stato possibile per milioni di persone emigrare negli Stati Uniti o altrove, la storia dell’Europa nell’Ottocento sarebbe stata probabilmente molto più turbolenta o repressiva e la marcia verso le democrazie rappresentative molto più incerta [Hirschman 1970, 132].
risorse organizzative e i cui prodotti fanno capo alla stessa organizzazione, ma indipendenti l’una dall’altra), minore sarà il potere che i dirigenti potranno esercitare l’uno nei confronti dell’altro». 10. «Creare un’organizzazione significa mobilitare numerosi tipi di risorse scarse. Coloro che danno vita a un’organizzazione hanno il compito di accumulare i capitali, di coinvolgere i potenziali membri e di accumulare le abilità imprenditoriali e la legittimità. Una volta che tali risorse sono state investite nella costruzione di una struttura organizzativa, diventa difficile che esse siano recuperabili per essere destinate ad altri scopi» [Hannan-Freeman 1989, 125-126].
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Infine, l’«incapsulamento» è un’organizzazione del tipo che i biologi chiamano «distribuito»: se la dividiamo, essa dà come risultato due (o più) unità aventi la stessa organizzazione [Maturana-Varela 1984, 72]. In questo caso diventa particolarmente facile che, di fronte a conflitti intensi o dall’esito incerto, un attore scelga di riprodurre l’organizzazione per proprio conto, sdoppiando quella originaria. Ciò dà luogo a uno sdoppiamento dell’organizzazione originaria specialmente quando due fazioni arrivano in essa a disporre all’incirca dello stesso potere, ma elaborano diverse strategie intorno alle alternative accessibili e ammissibili (si veda il capitolo quinto). Se poi, in una tale circostanza, l’incertezza condiziona le decisioni, diventa ancora più plausibile che le fazioni divergano intorno alle attuali e future linee di condotta. Perfino se il rendimento dell’organizzazione della quale entrambe le fazioni sono tra i principali è elevato, può convenire a ciascuna separare il proprio destino da quello dell’altra. Qui, a rigore, non si richiede nemmeno una mutua rivalità. Lo sdoppiamento può avvenire nelle maniere più consensuali e amichevoli. Ci si separa perché l’«incapsulamento» non rende costoso farlo e perché ognuno ritiene di poter agire meglio avanzando in una direzione diversa. Per menzionare un caso molto noto: nell’industria dei personal computer i problemi dei diritti di proprietà delle idee sono i più grandi. Qui, per parecchie ragioni, le idee sono facilmente trasportabili. I processi di produzione necessari a migliorare un’idea richiedono poco capitale e poche persone, così che una persona o un gruppo può dimettersi da un’impresa e avviarne senza difficoltà una nuova. Inoltre l’industria è composta da tante piccole imprese, e può pertanto verificarsi un fitto passaggio di gruppi di persone (assieme alle proprie idee) tra le imprese [Coleman 1990, ed. or. 440].
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Ovviamente ciascun nuovo attore organizzativo, anche se interviene nel medesimo ambiente dell’attore originario, lo altera già proprio introducendovisi. Possiamo pertanto concludere che, in generale, i processi di scissione contribuiscono a ridurre il potere egemonico dell’organizzazione iniziale: questa deve adesso competere con altri soggetti in un ambiente che è comunque mutato. Riassumendo, l’analisi delle coalizioni tra gruppi di principali ha messo a fuoco tre modalità basilari: mentre la prima si rivela vulnerabile perché, essendo non scomponibile, male si adatta ai cambiamenti, le altre permettono il dispiegarsi di tensioni interne che giungono a scissioni organizzative. Se collochiamo queste annotazioni a fianco di quelle, svolte subito prima, sulle coalizioni gerarchiche, ricaviamo un quadro della debolezza endogena degli attori organizzativi che Chester Barnard [1938, 89] sintetizza in un’unica frase: «l’organizzazione si disgrega se non può realizzare il suo scopo, ma si autodistrugge realizzando il suo scopo». In effetti tanto di fronte al proprio fallimento, quanto davanti al proprio successo, essa alimenta l’opportunismo dei suoi membri. Sono ben noti i percorsi mediante i quali l’organizzazione tenta di eludere questa morsa. Alcuni dei gruppi che la compongono possono provare a sostituire lo scopo originario, sia quando esso appare irraggiungibile o troppo oneroso, sia quando è già stato conseguito11. Alcuni dei gruppi possono selezionare scopi che si autoperpetuano senza limite, come il profitto, il potere o il dominio
11. Gross-Etzioni [1985, 43-45]: la sostituzione dei fini «è il fenomeno costituito dalla tendenza delle organizzazioni a trovare nuovi fini quando quelli originali siano stati raggiunti o diventi chiaro che non possono esserlo. […] Ancora più spesso le organizzazioni che si trovano nella situazione appena descritta, aggiungono fini nuovi a quelli originali o espandono questi ultimi».
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tecnico. Alcuni altri gruppi possono rafforzare la compattezza dell’organizzazione enfatizzandone la lotta contro altre organizzazioni12. E tuttavia ognuno di questi percorsi è esso stesso oggetto di controversia e di conflitto: mentre taluni gruppi dentro l’organizzazione lo promuovono, per altri può essere più conveniente opporvisi. In questo senso la tesi di Barnard appare illuminante e generale perfino esaminando i «rimedi» con cui si cerca di attenuarne la validità. Meccanismi di rivalità con altre organizzazioni Passiamo adesso ai meccanismi che indeboliscono un’organizzazione anche mediante la sua rivalità con altre organizzazioni. Il primo consiste nello spingere un altro attore collettivo, quando esso giunge a esprimere un adeguato potere di contrasto, ad assumere la propria stessa forma organizzativa. Al riguardo Lewis Coser [1956, 145-146, corsivo aggiunto] annota: Simmel avanza l’ipotesi che, dato che ogni parte desidera che la parte avversa agisca secondo norme identiche alle sue, essa possa giungere a desiderare l’unificazione, e forse la centralizzazione, oltre che di se stessa, anche dell’avversario. Il desiderio, che può apparire paradossale, che l’avversario abbia una forma più efficiente di organizzazione è spiegato da Simmel in questi termini: ogni contendente desidera di battersi con l’avversario a quel livello di tecniche conflittuali che ritiene più conforme alla propria struttura interna. A un esercito moderno riesce difficile fronteggiare la tattica di bande di guerriglieri; a una fede-
12. Coser [1956, 122]: «I gruppi di lotta, rigidamente organizzati, possono cercare nemici col deliberato proposito o coll’involontario risultato di mantenere la propria unità e coesione interna. […] Suscitare un nemico esterno o inventarlo rafforza la coesione sociale, quando essa sia minacciata da un pericolo interno».
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razione sindacale unificata riesce difficile portare avanti dei conflitti contro piccoli imprenditori disorganizzati. Inoltre una delle parti in lotta può volere che anche l’altra parte sia egualmente unita, al fine di facilitare la soluzione dei conflitti.
La tesi di Simmel-Coser va precisata e generalizzata. L’isomorfismo non affiora solamente nelle situazioni in cui si trascina l’avversario a essere più efficiente. Piuttosto qualsiasi organizzazione non è incentivata all’isomorfismo finché la rivale è molto più debole, mentre vi punta, quando la rivale diventa pericolosa, proprio come strumento per sottometterla compiutamente. Ciò succede in quanto, finché un attore collettivo detiene una specificità organizzativa, può riuscire, almeno in parte, a sfuggire all’egemonia altrui, e talvolta a ribaltarla: è quanto ci è stato spiegato, nel capitolo quarto, dal paradosso del potere. Quando invece due attori adottano le stesse modalità organizzative, lo scontro si consuma fino in fondo: soltanto allora emerge un vincitore. Ogni contendente prova dunque a enfatizzare la propria differenza finché non si sente in grado di battere l’altro; e viceversa spinge verso l’isomorfismo non appena si accorge di poter fare sua la partita. Eric Hobsbwam [1972, 207] lo osserva ponendosi, al contrario di Simmel e Coser, dal punto di vista dell’attore inizialmente più debole: La più grave limitazione della guerriglia è che non può vincere finché non si trasforma in guerra regolare, nel qual caso deve incontrare il nemico sul campo a lui più favorevole. Per un movimento guerrigliero che goda di un largo appoggio è relativamente facile eliminare il potere ufficiale dalle campagne, tranne che nei luoghi in cui vi è realmente la presenza fisica delle forze armate, e lasciare sotto il controllo del governo o degli occupanti soltanto città e guarnigioni isolate, collegate da alcune strade o ferrovie principali (e soltanto di giorno), e
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per via aerea o via radio. Il vero problema è superare questa limitazione.
Pertanto, quando lo valuta opportuno, un’organizzazione può riformare sé stessa per rendersi isomorfica all’avversaria, oppure può tentare di riformare l’avversaria per renderla isomorfica a sé. La scelta di uniformare sé stessa all’altra, o al contrario di assimilare l’altra a sé, dipende ancora dal paradosso del potere: da qual è la forma in cui si rivela il proprio vantaggio comparato. In entrambi i casi, l’organizzazione ricorre soprattutto a incentivi e sanzioni selettive, che eroga ad alcuni suoi membri, oppure ad alcuni membri dell’organizzazione rivale, per spingerli all’isomorfismo. L’altra organizzazione risponde sia strutturando un sistema alternativo di incentivi e penalità per i propri membri, sia provando essa pure a spingere la rivale verso quell’isomorfismo che giudica per sé più conveniente. Poiché siamo in un ambiente incerto per tutti i giocatori, può accadere che nel breve periodo il successo di un determinato isomorfismo rafforza l’organizzazione che ne è stata promotrice, mentre il risultato può rovesciarsi sulla lunga corsa, qualora l’organizzazione rivale impari a muoversi sul nuovo terreno meglio di chi l’ha sollecitata a farlo. In questo senso, siamo davanti a un meccanismo che contribuisce a ridurre la stabilità e la durata di una qualsiasi organizzazione: la forma che essa adotta oggi, e che magari impone trionfalmente alla rivale, può tradursi in un vantaggio per la rivale domani. Il secondo è un meccanismo denominabile «processo di democratizzazione». In senso stretto, tale espressione riguarda il passaggio da un regime politico autocratico a uno democratico. In un’accezione più ampia, si tratta di un processo di progressiva condivisione del potere da parte di organizzazioni in precedenza marginalizzate. Il
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momento iniziale consiste in un’apertura dell’organizzazione dominante verso soggetti a essa estranei13. A sua volta, la condizione che favorisce questa mossa è che dentro l’organizzazione si stanno svolgendo conflitti. «Se alcuni estranei posseggono risorse che potrebbero essere gettate sul campo di battaglia, il loro contributo potrebbe essere fondamentale per la vittoria di una fazione» [Dahl 1982, 43]. Supponiamo che gli «estranei» in oggetto siano dei sudditi. Essi possono ottenere un margine di autonomia politica giostrando fra le dispute interne all’organizzazione dei governanti. Quanto più essi vi riescono, tanto maggiori sono le risorse che controllano. Per esempio, nell’Italia settentrionale del XI e XII secolo le cittàstato conquistarono una notevole indipendenza, sia perché le principali organizzazioni politiche, il papato e l’impero, si combattevano fra loro, sia perché la loro formidabile capacità organizzativa, anche in campo economico, rese molto costoso il dominio esterno a ciascuna delle due autorità costituite [Ibid.]. Siamo all’inizio di un percorso che può ripetersi e allargarsi più volte. Supponiamo, per semplificare al massimo, che al termine della prima democratizzazione l’organizzazione dominante e quella in ascesa abbiano esattamente gli stessi mezzi organizzativi e produttivi. Ciò, impedendo che una di esse prevalga in via definitiva, attenua la competizione entro le nuove comuni «regole del gioco». Ma, come sappiamo, perfino dentro una cornice di regole condivise ciascun gruppo coltiva l’opportunismo: punta a defezionare o a mutare a proprio vantag13. «Perché le classi sociali proprietarie e privilegiate, e le loro espressioni politiche, a un certo momento accettano di trasformare i regimi oligarchici e liberali in democrazie di massa, ammettendo nell’arena politica le classi sociali inferiori e i partiti o i sindacati che ne esprimono la mobilitazione? Ovvero perché si sentono “costrette” ad accettare o addirittura a promuovere tale trasformazione?» [Morlino 2003, 198].
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gio quelle regole. In un sistema sociale nel quale esistono confini geopolitici rispettati14, e nel quale il potere degli attori organizzativi si bilancia, l’unico mezzo ulteriore al quale uno di questi soggetti può ricorrere per manifestare il proprio opportunismo e sorpassare l’altro risiede in un’alleanza con ulteriori attori collettivi, fino a quel momento estranei alla sfera politica: soltanto un appoggio alle risorse di coordinamento e di mobilitazione di un attore «estraneo» alla contesa può creare la differenza. Quest’occasione sta davanti a entrambi gli attori organizzativi; a misura che ci atteniamo all’assunzione di una parità dei due, nessuno può tuttavia fruirne senza che anche l’altro ne approfitti. Ciò scatena una corsa all’alleanza con l’attore «estraneo», della quale, ovviamente, sono anzitutto i membri di quest’ultimo ad avvantaggiarsi. In breve, l’ammissione [alla vita politica] di un gruppo escluso è agevolata dalla rivalità politica e dalla competizione fra le élite. Se i membri di un gruppo escluso dispongono di risorse politiche che possono tornare utili, come quasi sempre accade, alcuni membri della classe al potere troveranno vantaggioso chiederne l’ammissione in cambio del loro appoggio. […] Una volta concessa la cittadinanza a un gruppo, però, è difficile evitare che il principio si espanda a macchia d’olio [Dahl 1989, 345].
Anche il terzo meccanismo è un «processo di democratizzazione». Stavolta siamo però davanti al nesso tra un attore organizzativo forte e uno debole in cui esiste un ovvio e decisivo problema di commitment (impegno reciproca14. L’ipotesi del rispetto dei confini geopolitici, ovvero dell’unità nazionale, serve a escludere dal nostro idealtipo – volto all’indagine delle condizioni endogene della democratizzazione – una modalità pur storicamente importante: l’imposizione dall’esterno di questo processo. In particolare, la vittoria dell’alleanza occidentale nella seconda guerra mondiale ha provocato, in via diretta o per un’influenza politicomilitare indiretta, la formazione di democrazie in parecchi paesi europei e non.
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mente vincolante): ogni promessa che il soggetto forte assume verso quello debole non è attendibile, poiché manca un terzo soggetto effettivamente in grado di verificarne e imporne il rispetto. Ma, come più volte abbiamo considerato, non possiamo cavarcela assumendo che il terzo (di solito assimilato allo stato) esista, in quanto ciò presupporrebbe che il nesso forte-debole sia già istituzionalizzato, mentre l’enigma sta proprio nello spiegare come il terzo si forma e si afferma. Né, come argomentano Acemoglu e Robinson [2006, 133-136], appaiono soddisfacenti altre risposte, che invocano accordi in grado di autosostenersi o giochi sociali ripetuti. Il processo, piuttosto, si avvia quando l’attore forte ha, malgrado la sua superiorità, interesse a scendere a patti con l’attore debole. La ragione per la quale ciò tende ad accadere è stata l’oggetto del capitolo quarto: il soggetto debole non di rado dispone di un potere-coordinamento con il quale può insidiare il potere-risorse del soggetto forte. In un simile caso il «lupo» è interessato ad assicurare l’«agnello» che, se saliranno assieme sulla barca, non lo divorerà. Il «lupo» si misura al riguardo con il dilemma di Olson esteso a una prospettiva interperiodale. Il commitment è infatti una forma di bene che diventerà fruibile «domani» se le promesse di «oggi» saranno corroborate; ed è un bene pubblico poiché, mentre i benefici ricadranno indivisibilmente su tutte le organizzazioni coinvolte, ciascuna di esse è incentivata a defezionare sia adesso – lasciando agli altri i costi ex ante di negoziazione e redazione del contratto – sia in seguito – lasciando agli altri i costi ex post di esecuzione del contratto. La soluzione risiede nell’attribuzione, da parte del «lupo», delle decisioni intorno al (finanziamento e alla produzione del) bene pubblico interperiodale all’«agnello». Se cioé l’attore debole detiene e usa un potere politi-
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co de facto, all’attore forte può convenire conferirgli il potere de jure quale garanzia dell’applicazione delle promesse. La sostenibilità di impegni reciproci credibili richiede non mere concessioni (per quanto rilevanti) da parte dell’organizzazione forte, bensì che questa modifichi l’assetto istituzionale, passando (parte rilevante del)le decisioni pubbliche da sé al rivale. È questo un percorso di «democratizzazione» lungo cui gli attori organizzati stabiliscono regole condivisibili che riducono per tutti, rispetto a una prosecuzione del conflitto, l’onerosità. I meccanismi di «democratizzazione» appena evocati presentano una caratteristica comune: le organizzazioni formali con il maggiore potere politico de jure sono incentivate, in forme credibili e non facilmente reversibili, a consegnare quote di questo potere a organizzazioni detentrici di differenti forme di potere (di solito è un potere-coordinamento o potere politico de facto; talvolta, come nel caso dell’ascesa medioevale della borghesia, è un crescente potere-risorse). Lungo questi percorsi, essi stessi accidentati e conflittuali, l’organizzazione inizialmente egemone può guadagnare una propria maggiore durevolezza – se l’ordine politico che fa emergere è stabile – e può adottare la strategia del «meno peggio» – nel senso che le altre opzioni vanno razionalmente scartate. Malgrado ciò, essa perde posizioni relativamente alle organizzazioni che entrano nella politica democratica e, in tal senso, subisce un indebolimento. Infine, il quarto meccanismo è denominabile «processo di statizzazione». Esso inquadra il caso in cui un’organizzazione riesca a disporre di un tale vantaggio comparato sulle altre – in termini di potere-risorse o di poterecoordinamento; semplificando: in termini di ricchezza o di violenza – da aspirare a diventare l’organizzazione socia-
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le che possa controllare l’evoluzione di tutte le altre [North 1981]. La pretesa sarebbe di realizzare un’autonomia dello stato dai gruppi sociali, così che determinate regole istituzionali siano applicate uniformemente a prescindere dagli interessi particolari. Che lo stato riesca effettivamente a realizzare il suo progetto politico, nonché che riesca davvero a operare «al di sopra delle parti», sono tesi contestate con ottime ragioni da molti studiosi. Senza entrare in questo dibattito, ci basta precisare che, a rigore, lo stato non è una organizzazione: «anche chi si riferisca soltanto all’apparato amministrativo, non può non vedere in questo, nella migliore delle ipotesi, un insieme vasto e altamente diversificato, un complesso risultante da molteplici organizzazioni, ciascuna in buona misura autonoma e, per così dire, egocentrica»15. Anziché un singolo centro di comando, lo stato tende a diventare «il luogo principale nel quale gruppi in competizione tra loro si affrontano: […] la sua capacità di stabilizzare e applicare leggi, contratti e valute […] lo pone sempre più all’attenzione di gruppi della società civile che sperano di dirigerne l’azione per soddisfare i propri interessi» [Held 1995, 52 e 69]. Dentro e rispetto allo stato prosegue quindi la conflittualità tra movimenti sociali, élites in ascesa, altre organizzazioni formali, altri stati. Ne discende che per un verso lo stato contrasta i gruppi d’interesse, rendendoli più precari e deboli; ma, per l’altro verso, le tante forme dell’azione collettiva contrastano lo stato, lacerandolo internamente, modificandone gli scopi e, talvolta,
15. Poggi [1991, 276]. Ai nostri giorni questa concezione appare ancora più pertinente: «lo stato non sta scomparendo; si sta disaggregando» [Slaughter 2004, 31]. Si profila «un ordine internazionale in cui i principali attori non sono stati, bensì parti di stati; non organizzazioni internazionali, bensì parti di esse. Queste parti svolgono le funzioni di governance – legislative, esecutive, giudiziarie – connettendosi tra loro attorno al pianeta» [Ivi, 162].
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esautorandolo o distruggendolo16. Se comunque uno stato riesce, pur contraddittoriamente e provvisoriamente, a rafforzarsi rispetto alle singole organizzazioni private, riesce a «rendere ostico il radicamento di associazioni d’affari, sindacati o gruppi della società civile [quali] coalizioni a fini redistributivi»17. Ne segue che la statizzazione della società – prescindendo dalla forma democratica o autocratica di cui si riveste [Leftwich 1996] – rappresenta un ulteriore meccanismo per indebolire la stabilità anche delle più efficaci ed efficienti fra le organizzazioni formali. Riassumiamo. In riferimento agli ultimi tre meccanismi illustrati, la «democratizzazione» può definirsi come un processo – politico, ma anche sociale, economico o culturale – lungo il quale frazioni successive di una popolazione ben delimitata vengono coinvolti nel controllo di aspetti del decision making da cui erano esclusi, quale esito della reciproca convenienza dei vecchi gruppi dominanti e dei nuovi in ascesa18. La «statizzazione» si manifesta invece come un processo mediante cui un’organizzazione politica lotta per controllare ogni altro tipo di orga-
16. Limitiamoci, per brevità, a una notazione sulle organizzazioni formali: «La grande trasformazione dello stato che abbiamo sott’occhio consiste in una crescente estensione ed espansione della produzione giuridica sotto forma di accordi tra i grandi gruppi d’interesse all’interno dello stato [e, andrebbe aggiunto, transnazionalmente] e tra questi gruppi e lo stato, considerato da questi grandi gruppi […] come un partner» [Bobbio 1999, 413, parentesi aggiunte]. 17. Rose-Ackerman [2003, 172, parentesi quadra aggiunta]. L’autrice osserva – come pure altri hanno fatto [Tang-Hedley 1998, 301] – che questo mancato riconoscimento del ruolo dello stato come un attore collettivo (relativamente) indipendente dagli altri, costituisce una delle maggiori debolezze di Ascesa e declino delle nazioni di Olson. 18. L’analisi di Olson [2000, 13-30] sulle condizioni necessarie dell’avvento del regime democratico, quando compara il rendimento economico di autocrazia e democrazia, assume quale soggetto agente la «maggioranza» elettorale, trascurando il proprio stesso insegnamento, secondo cui ha ben poco senso elaborare modelli in cui s’immagina che operino soggetti fittizi quali la «massa dei votanti». Il suo principale coautore su questo tema, Martin McGuire, parla infatti di «una democrazia idealizzata, utopica e consensuale» [Azfar-McGuire 2002, 452].
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nizzazione sociale, venendo a sua volta indebolita sia da quella lotta che dai propri conflitti interni. Le organizzazioni – nonostante esprimano una strutturazione più formale rispetto a quella dei gruppi – incontrano anch’esse elevate e sistematiche difficoltà nel realizzare l’azione collettiva. Ciascun membro di un’organizzazione, infatti, per un verso ha interesse a preservare o a migliorare il proprio dominio su altri membri all’interno, e per l’altro verso è interessato affinché l’organizzazione alla quale appartiene domini nell’ambiente esterno e in particolare nei confronti di altre organizzazioni. Egli può realizzare il primo obiettivo lottando all’interno con altri membri, mentre può decidere di tralasciare il secondo obiettivo davanti a scambi più vantaggiosi con soggetti esterni. Pertanto ciascuna organizzazione inciampa due volte: i suoi membri creano e disfano coalizioni conflittuali al suo interno, e accettano accordi con, o controlli da parte di, diversi attori non appena ciò loro convenga. Anche per un’organizzazione l’unità e la solidarietà interna, l’efficacia e l’efficienza, sono conquiste precarie, non presupposti assodati.
7. Dall’azione collettiva alla partecipazione politica
I due significati di «politico» In questo capitolo finale cambiamo la prospettiva dell’analisi: dopo aver discusso i meccanismi astratti che rendono possibile l’azione collettiva, volgiamo adesso l’attenzione ai percorsi effettivi che, nella società contemporanea, traducono l’azione collettiva in partecipazione politica. Iniziamo richiamando e legando tra loro alcuni concetti-cardine. 1. L’azione collettiva è un’interdipendenza sociale indivisibile: un processo intersoggettivo che non può essere realizzato scomponendolo in azioni singole. 2. Per realizzarsi, un’azione collettiva richiede (almeno) un coordinamento dei soggetti implicati, ossia una regolazione della loro interdipendenza. Ciò comporta processi di modificazione reciproca dei comportamenti, ossia una mutua influenza. 3. L’influenza diventa potere se qualcuno ha «l’abilità d’imporre un costo» a qualcun altro [Barzel 2002, 18], ossia se l’influenza viene piegata in una direzione desiderata. 4. Nella sua forma idealtipica, il potere nasce se le risorse di A sono salienti per B; A detiene il mono-
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polio delle risorse salienti per B; B è privo di risorse salienti per A; B è nell’impossibilità di ricorrere alla violenza o alla coercizione contro A1. Quando i gruppi hanno interessi e credenze divergenti intorno alla gestione e ai fini dei processi sociali, nasce il conflitto per il potere: la lotta per spostare gli oneri su altri gruppi. Un potere è legittimo se viene accettato da tutte le parti, incluse quelle che lo subiscono, e riesce quindi a sospendere o almeno attenuare il conflitto. L’istituzione (l’organizzazione) è un insieme di regole inter-gruppo (infra-gruppo) che il potere legittimo cristallizza in tradizioni, convenzioni o leggi, e che rende effettiva una struttura di comportamento nei gruppi coinvolti. La politica è l’abilità di effettuare azioni collettive vincolanti. Per rendere vincolanti le azioni collettive, esse vanno inscritte in un’istituzione o in un’organizzazione.
Questa concatenazione di concetti ci ha portati alla definizione canonica della politica, quale «capacità di compiere scelte collettive vincolanti e di metterle in atto» [Offe 1996, vii]. La politica – misurandosi con la complessità delle decisioni e mediazioni – è in definitiva la gestione di un sistema in cui esistono credenze e interessi diversi in competizione. I soggetti che la praticano appaiono animati dal particolarismo dei loro obiettivi, nonché dal fine generale di conseguire e controllare il maggiore potere possibile. La politica, tuttavia, non si riduce a quest’accezione. Accanto allo scontro dei torna1. Stiamo seguendo un’impostazione che da Emerson [1962] e Blau [1964] giunge a Stoppino [1995] e Rajan-Zingales [1998].
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conti individuali o di gruppo, corre storicamente una sua forma quale processo di partecipazione collettiva entro il quale le nostre reciproche identità possono venire modificate. Se l’una è la politica degli interessi, l’altra è la politica della «conversione» identitaria, per ricorrere a un termine che Pizzorno [1993, 13-14] prende volutamente in prestito dal linguaggio religioso. Più esattamente, l’una è la politica dei fini immediati, contrattando i quali si persegue un proprio utile; l’altra è la politica dei fini di lungo periodo, dibattendo i quali si rimettono in gioco le identità individuali e quindi i confini dei gruppi sociali. Vi sono forme di azione orientate al raggiungimento di scopi che preesistono a esse: è il caso delle «preferenze date» della microeconomia standard. Tuttavia «gli individui entrano reciprocamente in relazione pratica non soltanto per realizzare scopi comuni, ma anche per scoprire chi sono e cosa diventeranno in quanto esseri sociali» [Bowles-Gintis 1986, 150]. Su questo secondo versante l’identità dei soggetti che agiscono non è data, poiché i soggetti se la costruiscono proprio durante e mediante l’azione, e dunque interagendo con altri. Prendiamo il caso di un’aula universitaria. Qui possono verificarsi azioni e discorsi mediante i quali i soggetti presenti «danno senso a sé stessi», alterando/costruendosi un’identità. Nonostante l’asimmetria del potere, che vede il docente in cattedra, nessun attore può agire se non in relazione agli altri, se non perché esistono e agiscono gli altri: dunque, in effetti, gli altri hanno potere anche su chi esercita il potere. Le dimensioni principali del potere del docente risiedono nel sapere ch’egli trasmette/impone e nel titolo di superamento dell’esame da lui conferito. Rispetto alla prima coordinata, il suo potere traballa a misura che gli studenti non recepiscono/accettano quel sapere: la sua funzione istituzionale e sociale viene svuotata e margina-
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lizzata. Rispetto alla seconda coordinata, il suo potere varia a seconda di quanti studenti scelgono la sua materia e quindi si sottopongono al suo esame; a seconda di quanti scelgono, a monte, il corso di laurea in cui quella materia è inserita; a seconda di quanti scelgono, più a monte ancora, la Facoltà o l’Ateneo in cui egli insegna/assegna titoli. Ogni re-azione o pro-azione, immediata oppure indiretta, degli studenti può modificare il senso che il docente dà a sé stesso e alla sua attività. La non recezione del sapere, la perplessità e la noia, la defezione subitanea o remota, il dibattito pubblico, la passività e la protesta, sono modalità con le quali ciascuno studente di fatto interagisce col docente, potendo modificare l’identità propria e dell’altro. È questo un processo di partecipazione politica, sebbene esso non si verifica nella gloriosa e mitizzata polis greca antica, né in qualche più prosaica assemblea rappresentativa moderna. Più esattamente, ciò che distingue la partecipazione politica da un’altra forma qualsiasi di azione collettiva è il suo riguardare i fini di lungo periodo dei soggetti, quei fini che, dando significato all’esistenza, plasmano per l’appunto l’identità, e «che sono tradizionalmente indicati come spirituali, cioè opposti a temporali, che vuol dire temporanei»2. In questo senso un concerto rock è un for-
2. Pizzorno [1993, 65]: «La dicotomia “spirituale/temporale” è quindi svincolata dal suo consueto riferimento alla dicotomia “religioso/politico”. Più analiticamente, il riferimento essenziale diventa: fini “ultimi” (o di lungo periodo) contro fini “prossimi”. Per il termine «temporale» questo riferimento è incluso nella radice linguistica di “temporaneo”. Allo stesso modo, per il termine “spirituale” il riferimento alla dimensione del tempo, della durata (se eterna o solo di lungo periodo è una questione di misura), illumina il solo significato accettabile ai non credenti. La conseguenza di questa analisi per la nostra indagine è di considerare la politica occidentale come composta, in vari modi, da questi due tipi di potere. […] Questi due tipi di potere, e le corrispondenti visioni della politica, normalmente coesistono e si completano l’un l’altro». Talvolta la distinzione tra le due dimensioni della politica diventa separatezza. Quando è la politica della conversione a dominare,
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midabile evento di massa, ma non esprime partecipazione politica. Se torniamo all’aula universitaria, il punto controverso – nel classificarne gli accadimenti come partecipazione politica, o come mera azione collettiva tra le tante – non è se e quanto potere in essa viene gestito, né se i soggetti realizzano o meno in essa «scelte collettive vincolanti», secondo la definizione usuale prima richiamata della politica. Piuttosto il punto controverso è se un certo corso di lezioni con esame finale riesce o meno a influenzare i «fini spirituali» del docente e degli studenti. Se l’Università fosse (unicamente) un luogo di passaggio in cui apprendere abilità e tecniche, essa non sarebbe (mai) sede di partecipazione politica. La natura – spirituale o temporale – dei fini dell’istituzione universitaria non sta scritta in anticipo, poiché le istituzioni, com’è noto, sono le «regole del gioco sociale» e non hanno fini propri. I fini sono quelli che noi decidiamo che siano, tenendo conto dei vincoli esistenti, ma pure della continua possibilità di cambiare quei vincoli. Ciò che abbiamo mostrato in riferimento all’Università, vale per ogni ambito istituzionale. In famiglia o sul luogo di lavoro, in un mercato concreto o in un’associazione privata, in chiesa o in un’organizzazione pubblica, quando l’azione collettiva mette in palio fini di lungo periodo dei soggetti coinvolti, diventa partecipazione politica. E diventa fonte di nuovo potere: nessun potere è superiore a quello suscitato dalla partecipazione politica, poiché questa solamente ha la capacità di modificare «chi» noi siamo e soprattutto d’influenzare «chi» possiamo diventare [Arendt 1958]. Alla luce dei due significati di «politica», interpretiamo le principali forme coeve di conflitto politico per il potere. ogni fatto sociale viene considerato sub specie politicae; quando è la politica degli interessi a prevalere, assistiamo al trionfo del particolarismo di corto respiro.
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Le forme del conflitto politico Le modalità del conflitto politico possono essere classificate lungo le coordinate dell’antagonismo e della distruttività sociale. Un conflitto è «antagonistico» quando il passaggio da un sistema istituzionale all’altro non può avvenire mediante le regole del sistema iniziale, mentre è «socialmente distruttivo» se, nel tentare un cambiamento delle regole, interrompe la riproduzione dell’assetto istituzionale iniziale. La figura illustra le quattro combinazioni. Ciascuna di esse richiede una breve disamina. Le forme del conflitto politico Distruttivo
Antagonistico
Non distruttivo
Scelte tragiche Lotta di classe Negoziato distributivo
Non antagonistico
Rifiuto della cittadinanza
Negoziato distributivo
Iniziamo dal conflitto politico nei termini del «negoziato distributivo», che nella casella in basso a destra appare privo sia di antagonismo che di distruttività. È questo il caso in cui idealmente si colloca la convivenza democratica. Infatti la democrazia contemporanea – in opposizione all’autocrazia, quale governo di una sola minoranza – costituisce un metodo pacifico di alternanza al potere dei gruppi dirigenti: un’élite conquista il potere competendo per ottenere il sostegno degli elettori, i quali a loro volta
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possono spostare il loro appoggio a un’élite rivale. Questa definizione formale descrive un sistema aperto di élites, ma non si chiede adeguatamente per chi il sistema è aperto: «anche in assenza di un’élite monolitica, esistono delle barriere strutturali di tipo sociale, come la disuguaglianza delle risorse, o di tipo politico, come i valori politici dominanti e le regole del gioco effettivamente prevalenti, che preselezionano le proposte e le istanze che possono accedere al vertice del sistema istituzionale. E spesso questa preselezione esclude dall’accesso settori più o meno vasti della popolazione. Per essi il sistema non è aperto, poiché i loro interessi e i loro orientamenti non trovano un’espressione significativa né attraverso il processo elettorale, né attraverso gruppi di pressione» [Stoppino 1974, 271-272]. La preselezione è condizione fondativa di ogni altra caratteristica della democrazia: il metodo democratico di cambiamento politico in tanto funziona, in quanto esclude i gruppi che tentino di non conformarsi alle linee di condotta delle élites; più esattamente, che effettuino divaricazioni «troppo» brusche da quelle linee di condotta. Per dirla alla rovescia, Seymour Lipset [1959, 83] osserva che la democrazia è una forma di collaborazione politica tra i gruppi sociali che – per essere effettuale, credibile e durevole – presuppone «una condizione moderata di lotta fra i gruppi» medesimi. Samuel Huntington [1991, 188] aggiunge che «lo scambio fra partecipazione e moderazione rimane il compromesso centrale nei processi di democratizzazione». È dunque la preselezione di comportamenti che non siano eccessivamente difformi dalle esigenze delle élites, che permette di realizzare il metodo per il quale «è meglio contare le teste che tagliarle», e che in parecchie circostanze spiega, con la sua «ragionevolezza disarmante», perché l’ideale democratico possa star bene a tutti (o qua-
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si) i gruppi sociali. Tuttavia, di fronte alla possibilità che la preselezione non funzioni appieno, la più autorevole teoria della democrazia tende a rispondere con una petitio principii che afferma l’estraneità dei conflitti antagonistici a questo regime politico. Hans Kelsen [1955-56, 372] espone il punto in maniera nitida: «la democrazia non funziona quando l’antagonismo tra maggioranza e minoranza è così forte da rendere impossibile ogni compromesso e la regola del gioco politico, la sottomissione della minoranza alla volontà della maggioranza, è messa in dubbio; quando il governo, a ragione o a torto, teme di essere rovesciato con la forza». Che si tratti di un’assunzione normativa, anziché di una procedura effettiva, lo si verifica quando il più celebrato filosofo politico contemporaneo, John Rawls, si misura col tema della coesistenza, in una liberaldemocrazia, di posizioni assiologiche inconciliabili tra loro. Egli non prova a individuare e percorrere un metodo (o più metodi) di trasformazione di conflitti inizialmente irriducibili: la sola risposta all’altezza della difficoltà. Si limita piuttosto ad argomentare che «una concezione liberale ragionevole [può] avere l’appoggio di un consenso per intersezione di dottrine ragionevoli» [Rawls 1993, 153]. Qui lo «scambio tra partecipazione e moderazione» si traduce nella partecipazione di tante prospettive valoriali – morali, filosofiche o religiose – in cambio del loro comune moderatismo. Ma così non si propone alcuna risposta, poiché il problema viene dissolto ex ante. Menzioniamo infine Giovanni Sartori, per il quale la democrazia è un sistema politico di concordia discors, in cui i gruppi arrestano i dissensi prima che si tramutino in conflitti: A livello di fundamentals, di principii fondamentali, occorre il consenso. E il consenso più importante di tutti è il consenso
dall’azione collettiva alla partecipazione politica 189 sulle regole di risoluzione dei conflitti (che è, in democrazia, la regola maggioritaria). Dopodiché, se c’è consenso su come risolvere i conflitti, allora è lecito «confliggere» sulle policies, sulla soluzione delle questioni concrete, a livello di politiche di governo. Ma è così perché il consenso di fondo, o sui fondamenti, ci autolimita nel confliggere, e cioè addomestica il conflitto, lo trasforma in conflitto pacifico. Per converso, e d’altro canto, il consenso non deve essere inteso come un parente prossimo della unanimità. Il consenso pluralistico si fonda su un processo di aggiustamento tra menti e interessi dissenzienti. Potremmo dire così: consenso è un processo di sempre mutevoli compromessi e convergenze tra persuasioni divergenti [Sartori 2002, 33].
La posizione à la Kelsen, Rawls o Sartori concepisce dunque il conflitto come un «solvente» sociale: soltanto addomesticandolo e attenuandolo, la politica democratica può fiorire. Esiste tuttavia un filone alternativo, che interpreta il conflitto politico come un «collante» per la società democratica3. Esso sottolinea l’inadeguatezza dell’approccio precedente quando, in una collettività, i conflitti, le contaminazioni e le migrazioni prevalgono sulle stabili interazioni pacifiche. Mentre infatti le interazioni pacifiche possono riuscire a stemperare e allineare i valori dei vari sottogruppi, cosa accade se le vicende ripropongono nel tempo soprattutto contrasti, frammentazioni e diaspore? Un primo elemento di risposta procede dalla constatazione di ciò che effettivamente avviene nei casi – tra i quali quello degli Stati Uniti è il più studiato – in cui la mancanza di comuni retroterra etnici, religiosi, lin3. Essa si colloca lungo un solco che inizia con Georg Simmel e prosegue, fra gli altri, con Ralf Dahrendorf e Bernard Crick. Ovviamente, riconoscere un comune atteggiamento di questi autori verso il conflitto sociale, non intende sminuire le tante distanze che corrono tra loro. Per una ricostruzione parziale di questo filone di analisi, si veda Hirschman [1994].
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guistici o nazionali viene rimpiazzato da pratiche politiche condivise: ebbene, la cittadinanza nasce «nel corso di una protratta attività politica [nella quale] uomini e donne che appena tollerano le rispettive differenze, riconoscono di condividere un impegno, quello dell’arena politica e della gente che vi è coinvolta» [Walzer 1992, 99]. Il fondamento di una patria in cui è assente una cultura civica preliminarmente condivisa, può paradossalmente risiedere proprio nella condivisione delle differenze e dei particolarismi4. L’argomento complementare – non meno importante – asserisce che, quando le opzioni in gioco sono ambigue, si può ottenere maggiore stabilità politica mediante il dissenso che non in presenza di un accordo generalizzato. «Quando una tesi non ha bisogno di essere difesa da una tesi contraria, diventa molto
4. «Spesso si pensa che, perché [la politica] possa funzionare, debba già esistere una certa idea di “bene comune” condivisa da tutti, un certo “consenso” o consensus juris. Ma questo bene comune è esso stesso il processo di riconciliazione pratica degli interessi […] dei gruppi che compongono lo stato; non è un cemento spirituale esterno e intangibile, o una “volontà generale” o “interesse pubblico” oggettivo. […] I gruppi diversi stanno insieme perché praticano la politica, e non perché concordano sui “valori fondamentali” o altri simili concetti troppo vaghi, troppo personali o troppo sacri per poter far politica in loro nome. Il consenso morale di uno stato libero non è qualcosa di misteriosamente superiore alla politica: è l’attività civilizzatrice della politica stessa» [Crick 1962, 22]. Se nel brano appena citato si menziona la prassi politica dei cittadini, analoghe considerazioni vanno svolte per altre sfere della vita sociale, cominciando dalle attività economiche. La qualità del tessuto civile e il senso del «bene comune» possono infatti talvolta scaturire più come esiti inintenzionali di rivalità tra gruppi, divisioni territoriali e valori normativi diversi, che non da una deliberata e cristallizzata integrazione sociale nazionale. Per esempio, in Italia «la solidarietà sociale è soprattutto presente sotto forma d’identificazioni territoriali a lunga gittata. […] In assenza di ogni cogente e ampiamente condivisa esperienza di solidarietà sociale fondata su di una “comunità immaginata” di livello nazionale, tale sistema di frammentate solidarietà sarà più funzionale di uno che dipenda da identificazioni generali. Nella misura in cui queste ultime sono presenti e attive, tenderanno a porsi in rapporto parassitario sul più dinamico, anche se più incoerente, sistema basato sulle appartenenze locali o settoriali» [Absalom 1995, 297]. Pertanto, comportamenti competitivi e finanche opportunistici possono suscitare non unicamente appartenenze esclusive e gretto attaccamento al particulare, bensì un autentico ethos collettivo.
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più facile cambiarla o capovolgerla. Intese ampie e del tutto consensuali sul nemico o sull’alleato portano agevolmente ad accettare il nemico di prima come alleato e viceversa, com’è accaduto alla fine della seconda guerra mondiale; le opinioni sull’aborto, invece, molto probabilmente rimarranno stabili» [Edelman 1988, 23]. Alternative in opposizione si chiariscono, delimitano e rafforzano reciprocamente, mentre un obiettivo isolato, che non debba contrastare alcuna opposizione, risulta più vulnerabile al mutare delle contingenze, provocando instabilità. Anche quest’ultima impostazione s’imbatte però in una seria difficoltà. Essa non riesce a giustificare e spiegare perché mai un insieme di conflitti sociali che siano genuini – non artificiosi e gestiti dall’alto – debbano altresì essere negoziabili. I conflitti benefici per la democrazia dovrebbero riguardare il «più-o-meno» e il «questoo-quello»; mai l’«aut-aut» e il «tutto-o-niente». Che cosa può assicurare che ci si impegni nei primi senza scivolare nei secondi5? La virtù civica? I vincoli costituzionali? Un contesto geopolitico già democratico? Si tratta di soluzioni che questi autori hanno scartato, in quanto presuppongono proprio ciò che andrebbe delucidato: come e perché gli individui accettano di diventare «cittadini virtuosi», di assoggettarsi a qualche «regola regolativa» o di far prevalere la democrazia tutt’intorno. E dunque? Una
5. È stimolante, ma rimane solo un suggerimento, l’idea di Hirschman [1994, 146 e 150] secondo cui la distinzione tra conflitti negoziabili e conflitti antagonistici è in effetti sfumata, poiché «i temi non negoziabili hanno in genere alcuni elementi che sono negoziabili, e viceversa»; e anzi può nutrirsi «il sospetto che la categoria dei conflitti non negoziabili […] sia sostanzialmente un’etichetta conveniente per una vasta gamma di problemi nuovi e non familiari che presentano gradi diversi di gestibilità». Qui di seguito, articolando maggiormente il concetto di conflitto antagonistico, tentiamo di procedere nella direzione indicata da Hirschman.
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maniera per ripensare questa difficoltà sta nel distinguere tra due forme di conflitto antagonistico: quello che distrugge la riproducibilità di un certo gioco sociale e quello che rifiuta le regole del gioco continuando a giocare. Si pensi per analogia alla differenza che corre tra colui che, rifiutando il gioco degli scacchi, spezza la scacchiera, e colui che fa muovere il cavallo come un alfiere. Siamo davanti a conflitti che, entrambi, rompono l’assetto delle compatibilità esistenti, muovendo dall’esigenza, riconosciuta o implicita che essa sia, di mutare le istituzioni in forme diverse, considerate più adeguate, rispetto ai protocolli autorizzati dalle istituzioni medesime. Se li consideriamo dal punto di vista dei soggetti detentori del potere, l’antagonismo distruttivo e quello non distruttivo appaiono egualmente deleteri e del tutto sovrapponibili. Se invece li valutiamo in una prospettiva sistemica, le implicazioni divergono sostanzialmente. La prima forma è il conflitto amico-nemico, dentro-fuori, che si dipana al fine di eliminare/espungere il termine al quale si oppone: a rigore per esso, quando si conclude la pace, non c’è più alcun altro con cui patteggiarla. La seconda forma è piuttosto il tentativo di cambiare il gioco: essa pure spezza lo status quo, in quanto viola la legalità esistente e rifiuta il significato e la configurazione dell’ordine politico; ma né il suo intento né i suoi mezzi sono necessariamente distruttivi. L’ambito delle relazioni sociali in cui si collocano i conflitti antagonistici non distruttivi è principalmente quello delle scelte tragiche. Vi sono decisioni sociali «facili», nelle quali si applica il processo razionale del calcolo economico, e vi sono scelte «difficili», che coinvolgono la vita e la morte (usare alcune forme di coercizione entro il proprio territorio, entrare in guerra, intervenire militarmente in un genocidio), oppure beni vitali (controllare
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una fonte di acqua o il debito estero di un paese in via di sviluppo, allocare un rene da trapiantare o alimenti in una carestia, gestire un rischio nucleare o cambiamenti climatici globali), oppure beni identitari (poter pregare pubblicamente un dio, indossare o meno il velo, consentire l’aborto o la fecondazione artificiale). Si definisce scelta tragica quella che – come accade per la vita, i beni vitali e i beni identitari – «nasce dal conflitto tra valori che si affermano in modo assoluto, nel senso che non ammettono compromessi» [Gerelli 1993, 22]. Quando le scelte sono tragiche, l’efficienza non è più l’unico criterio di allocazione delle risorse. Non esiste una soluzione ottimale, bensì «soltanto un’oscillazione da una soluzione che è compatibile con certi valori e incompatibile con altri, a un’altra soluzione in cui la situazione è cambiata o rovesciata» [Gerelli 1995, 77]. Questa ciclicità – per la quale in ogni momento della nostra esistenza perseguiamo alcuni obiettivi, che poi sostituiamo con altri – scaturisce intrinsecamente dal carattere della scelta: come raccontano le tragedie del teatro greco, il protagonista è immerso nel contrasto di possibili linee di condotta nessuna delle quali gli appare esaurire le sue esigenze e rispondere appieno ai suoi valori; egli pertanto non può che oscillare dall’una all’altra6. Questo alternarsi di posizioni è dila-
6. Il punto può essere espresso menzionando il noto dilemma dell’asino, impropriamente attribuito al logico del XIV secolo Jean Buridan. Di esso circolano due versioni, dal significato radicalmente differente. La prima, assai diffusa, racconta che l’asino, non riuscendo a decidere se mangiare la biada o il fieno, muore di fame. Qui abbiamo un soggetto che aspira a massimizzare il proprio piacere, ma che, posto davanti a opzioni molto simili, deve impegnarsi a raffinare la propria valutazione con un impegno tale da, nel frattempo, soccombere. La seconda versione racconta di un asino esausto che giunge a un bivio: da una parte scorge la biada; dall’altra parte vede l’acqua. Stavolta il soggetto si rende conto che – data la sua debolezza estrema – se riempirà la pancia, morirà di sete; e se invece si disseterà, morirà di fame. A quel punto, la sua razionalità lo fa decidere di… non decidere, aspettando al bivio l’inevitabile fine. Il dilemma attribuito a Buridan spinge
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niante se si verifica in maniera irrevocabilmente simultanea, ma diventa opportunità di apprendimento e di revisione dei propri comportamenti se si colloca lungo una freccia del tempo7. Pertanto se è vero che le scelte tragiche sono conflitti non negoziabili, in quanto la loro logica è sempre quella antinomica dello «aut-aut»o del «tutto-o-niente», esse tendono altresì a non essere distruttive della polarità opposta, in quanto ciascuna scelta è sentita come incompleta e inadeguata, e chi la effettua tende, anche grazie al fatto di averla compiuta, a evolvere verso le opzioni in precedenza rigettate e combattute8. La natura antagonistica, eppure non distruttiva, delle scelte tragiche viene ribadita anche sul versante oggettivo. Prendiamo il caso dell’allocazione di reni scarsi tra pazienti in attesa di trapianto. Per riprendere l’analogia con il gioco degli scacchi, posso decidere che il cavallo muova secondo le regole consuete, oppure come un alfieall’estremo una difficoltà che, nella realtà sociale, ha un’unica possibile soluzione: che l’asino riesca ad alternare diacronicamente la biada e l’acqua. Per l’asino nessuna opzione è ottimale, in quanto nessuna può bastargli: ciò a cui rinuncia è non meno necessario di quello che sceglie. Ne discende una linea di condotta basata sull’alternanza. Si veda al riguardo Bellanca [2007]. 7. «L’obiettivo di public policy deve essere la definizione, rispetto a ogni particolare scelta tragica, di quella combinazione di metodi [mercantili, politici, di sorteggio, consuetudinari] che più limita la tragedia e che tratta quel minimo irriducibile nel modo meno dannoso. Naturalmente, quella combinazione varierà non solo con il tempo, ma anche da società a società, dal momento che […] le società differiscono su ciò che considerano tragico e sui metodi ritenuti adatti per un miglioramento» [Calabresi-Bobbitt 1978, 159 e 177]. 8. Sembra questa la giustificazione profonda dei «cicli di attenzione» esaminati da Anthony Downs [1972]: egli documenta che la cittadinanza si preoccupa in ogni momento di un limitato numero di issues, le quali, dopo un certo periodo, passano in secondo piano, indipendentemente dalla loro gravità, e vengono rimpiazzate, anche se non sono state risolte, da qualcos’altro. In un’ottica non dissimile, Albert Hirschman, studiando il ciclo pubblico-privato nelle nostre società, annota [1982, 157]: «poiché ho cercato di rivivere sia le debolezze, sia i punti di forza dei due opposti stili di vita, man mano che la storia procedeva il mio punto di vista è cambiato: dapprima ho celebrato la ragione più forte che sono riuscito a trovare a favore del passaggio all’azione pubblica da parte di cittadini in precedenza orientati al consumo privato, e poi ho fatto lo stesso per lo spostamento nella direzione opposta».
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re, ma non posso spezzare la scacchiera: in quel caso, infatti, non avrei più il bene scarso vitale da allocare e l’oggetto stesso della scelta svanirebbe. Debbo comunque optare per un corno del dilemma; ma, quando lo faccio, la scelta si rivela costitutivamente incompleta, i termini del contrasto mutano e io stesso potrò riscegliere in una diversa maniera. In breve, la circostanza secondo cui manca un metodo di soluzione «ottimale», e in particolare secondo cui i metodi mercantili non possono vantare alcuna superiorità di principio su altri, alimenta l’esigenza di allargare e intensificare il conflitto su mezzi e su fini9. Essendo inoltre ciascun metodo decisionale di parziale validità, esso tende ad affermarsi provvisoriamente e a non distruggere gli altri. Esempi importanti di conflitti antagonistici non distruttivi sono la disobbedienza civile e la disobbedienza sociale. L’una è un’azione che, in modo pubblico e non violento, trasgredisce una legge, anche qualora questa sia stata stabilita secondo procedure democratiche, rispettando la conseguente sanzione10. L’altra è un’azione che pre-
9. È questo allargamento/intensificazione del conflitto su mezzi e fini che rende anacronistico il laicismo di radice francese, il quale confina il fattore religioso – e, in senso più lato, le scelte intorno alla vita, ai beni vitali e ai beni identitari – ai rapporti privati. Le scelte tragiche, infatti, non sono relegabili alla sfera privata di ciascun individuo; molte di esse direttamente concorrono ad azioni collettive, comportano effetti aggregati e attengono quindi alla sfera pubblica. 10. «Atti di disobbedienza civile intervengono quando un certo numero di cittadini ha acquisito la convinzione che i normali meccanismi del cambiamento non funzionino più o che le loro richieste non sarebbero ascoltate o non avrebbero alcun effetto – o, ancora, proprio al contrario, quando essi credono che sia possibile far mutare rotta a un governo impegnato in qualche azione la cui legittimità e la cui costituzionalità siano fortemente in discussione» [Arendt 1972, 57]. «Ha senso parlare di consenso se non si fa alcun riferimento alla possibilità del dissenso? Se la legittimità democratica richiede l’assoluta e incondizionata obbedienza del cittadino si può ancora parlare di democrazia? […] Cosa deve fare il cittadino perché la rappresentanza politica, strumentalmente necessaria, non significhi abdicazione alla libertà? Come può far intendere e rafforzare le sue opinioni, se queste non vengono prese in considerazione? […] È chiaro che, riconoscendo alla disobbedienza
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sidia, tutela, occupa, utilizza spazi e risorse sociali secondo criteri difformi da quelli imposti da convenzioni, consuetudini, norme culturali, rapporti di proprietà, rapporti contrattuali, secondo strategie che autodisciplinano forme e gradi di violazioni della legge e autoselezionano i metodi, in particolare escludendo alcune modalità di violenza o la violenza tout court. Per entrambi i tipi di disobbedienza il conflitto è radicale, non tanto perché l’uno respinge la coincidenza tra legalità e legittimità, mentre l’altro respinge il combaciare tra regole date e pratiche emergenti11, bensì perché entrambi contrappongono a una configurazione di potere, esigenze e diritti, interessi e identità, che non sono negoziabili entro le vigenti regole del gioco [Kellner 1975]. Se l’ambito delle scelte tragiche costituisce il più importante «territorio sociale» degli antagonismi non distruttivi, l’esperienza storica documenta che un’ampia quota dei
civile un posto legittimo nella cultura politica di una comunità, si modifica il concetto stesso di stato e del rapporto della politica con gli altri sistemi informativonormativi. Il fenomeno della disobbedienza, originariamente sorto su basi più morali che giuridiche, si è trasformato in fenomeno politico e tocca il problema istituzionale. La politicità del fenomeno lo ha elevato, infatti, al di sopra sia del semplice riferimento alla coscienza individuale e morale, che finirebbe col rendere assoluto, e quindi porre contro la società, l’atto di disobbedienza, sia dell’interesse economicistico particolare. La politicità comporta in qualche modo un riferimento alle opinioni altrui e, soprattutto, un riferimento a quella dialettica di opinioni che è necessariamente correlata alla democrazia» [Serra 2002, 79 e 92]. Come ricorda l’autrice, nell’articolo 50 del Progetto della Costituzione italiana, che non fu approvato dall’Assemblea costituente, leggiamo: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». 11. Non sempre infatti un’uscita dalla moderazione corrisponde a un’uscita dalla legalità. «I due aggettivi legale e moderato non si equivalgono. Si può parlare di un esercizio del potere conforme alle leggi, che non sia moderato, se le leggi stabiliscono in partenza tra i cittadini discriminazioni tali che la loro semplice applicazione comporta un elemento di violenza (per esempio nel Sudafrica [al tempo dell’apartheid]). Per converso, governi non legali possono essere moderati» [Aron 1965, 65, parentesi quadra aggiunta]. Analoga osservazione può formularsi rispetto al nesso tra regole date e pratiche emergenti.
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conflitti sociali riguarda la lotta distributiva: le ricchezze e i redditi, ma pure le risorse cognitive e simboliche, vengono di volta in volta ripartiti secondo criteri che favoriscono qualche gruppo a detrimento di altri. Rispetto alle scelte tragiche, tuttavia, i conflitti distributivi presentano due differenze. Per un verso, essi non sono sempre antagonistici, in quanto non di rado i mezzi in palio sono suddivisibili fino al punto da convertire il contrasto in una negoziazione: ci si colloca, in questi casi, nella casella in basso a destra della nostra figura. Per l’altro verso, nelle circostanze in cui assumono carattere antagonistico, può cadere il requisito della non distruttività sociale che connota le scelte tragiche: essi tendono a sfociare in scontri violenti e ultimativi, dei quali le insurrezioni sociali e le rivoluzioni politiche rappresentano le modalità più note [Tilly 2003]. Oggi nondimeno è la nozione stessa di rivoluzione, e la sua opposizione a quella di riforma, che appaiono inefficaci rispetto a percorsi di cambiamento sistemici assai variegati e complessi: di questo tema non possiamo qui occuparci; ci basta rilevarne l’esistenza, per evitare la mera corrispondenza biunivoca tra conflitti antagonistici e insurrezioni o rivoluzioni12.
12. Le rivoluzioni del modello giacobino-bolscevico – consistenti in sovvertimenti violenti dell’ordine politico – hanno attraversato la storia del mondo per circa due secoli; l’ultima di esse è probabilmente stata la rivoluzione iraniana del 1979, ideologicamente lontanissima – per una delle tante ironie della storia – dai fondatori del modello. Il tentativo cileno di Salvador Allende, concluso nel sangue del golpe militare dell’11 settembre 1973, con il suo esplicito e programmatico rifiuto dei mezzi politici violenti, è la prima «rivoluzione di velluto». Dopo la contraddittoria, ma essa pure poco violenta, «rivoluzione dei garofani» nel Portogallo del 1974, spetta, nell’agosto 1980, al sindacato polacco Solidarnos´c´ di sperimentare il modello di una rivoluzione coerentemente pacifica, autocontrollata e negoziata: quel processo viene represso nel dicembre 1981 con la legge marziale, ma riaffiora e prevale, nelle condizioni più favorevoli legate all’implosione dell’Urss, nel 1989. In quell’anno percorsi simili si realizzano a Praga e Berlino, seguiti – con modalità di caso in caso peculiari – da Serbia, Georgia, Filippine, Sud Africa e Ucraina. Si veda Fairbanks [2007].
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Rimane da menzionare la quarta modalità del conflitto politico: quella in cui il contrasto tra i gruppi, pur non essendo antagonistico, ha natura distruttiva per l’ordine sociale. Si pensi a luoghi in cui la sfiducia generalizzata nello stato quale «terza parte» mina tanto la coesione collettiva, quanto la possibilità stessa del formarsi e dell’operare di organizzazioni e istituzioni politiche [Hardin 2002a, cap. 4]. È questa una forma che abbiamo discusso nel capitolo quinto e sulla quale non torniamo. Tirando le fila, tra i quattro modi del conflitto politico, quello che appare più rilevante per l’approfondimento della vita democratica è l’antagonismo socialmente non distruttivo: esso consiste in una partecipazione politica critica e incisiva, impegnata a mutare le regole del gioco senza smettere di giocare, e grazie alla quale i soggetti coinvolti riescono sovente a ridefinire i loro fini ultimi e quindi le proprie identità. Nel resto del capitolo tenteremo di capire come i conflitti antagonistici non distruttivi possano rafforzare la politica democratica. Costituzione formale e Costituzione materiale Costantino Mortati ci aiuta a inquadrare la funzione dei conflitti antagonistici non distruttivi nella vita democratica con la distinzione tra Costituzione formale e Costituzione materiale. L’una è la codificazione giuridica espressa dall’organo costituente; l’altra l’effettivo assetto istituzionale dell’ordinamento, ovvero l’insieme delle decisioni prese dalle forze politiche, sociali e sindacali, dalla giurisprudenza, dagli organi costituzionali. In ogni momento storico si apre una divaricazione, più o meno ampia, tra le due: talvolta impegnata a restringere la portata interpretativa dei principi, talaltra ad allargarla; talvolta condotta con modalità implicite, talaltra capace di imporre
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profonde revisioni esplicite del testo costituzionale. L’intera vicenda dei regimi liberaldemocratici può essere riletta nei termini del dualismo tra patti costituzionali scritti e nuovi poteri costituenti: i primi quali fotografie di «scambi tra partecipazione e moderazione» avvenuti a un certo instante sotto determinate condizioni13; i secondi impegnati a rimettere in moto le forze fissate in quelle fotografie, per ridefinire contenuti e configurazione degli «scambi»14. Il punto cruciale è se questo dualismo può manifestarsi (sempre, spesso, mai) nei termini della concordia discors cara a Sartori. In un mondo ideale, razionalmente deliberativo, i gruppi si affrontano seguendo lealmente le regole regolative stabilite dalla Costituzione formale: ossia si mobilitano per cambiare la Carta soltanto mediante i criteri e i protocolli indicati dalla Carta medesima. Un importante gruppo di studiosi statunitensi – Ackerman, Michelman e Sunstein – ha in anni recenti elaborato una concezione per cui la democrazia sarebbe effettivamente
13. Si tratta peraltro spesso, va rimarcato, di fotografie ex post. Infatti la fase costituente esprime discontinuità politiche e giuridiche: «Se la guardiamo dal punto di vista dell’ordinamento giuridico allora vigente, la Costituzione [degli Usa] fu alla sua nascita illegale. Vi era un sistema di governa nazionale, gli Articles of Confederation, che non forniva alcuna base per qualcosa come la Constitutional Convention. Come il Governatore Morris osservò nel corso dei dibattiti a Filadelfia, “questa Convention è sconosciuta alla Confederazione”» [Fishkin 1997, 93]. 14. Costantino Mortati [1940, 116]: «la costituzione formale, essendo espressione di una situazione di equilibrio, tende a stabilizzarla e a garantirla, improntando a essa le particolari istituzioni giuridiche. Ma, anzitutto, la situazione di equilibrio cui si accenna può essere più o meno stabile: essa può esprimere la prevalenza di una forza omogenea, portatrice di interessi e di valori chiaramente determinati, o invece rappresentare solo un compromesso tra forze contrastanti. In quest’ultimo caso la costituzione formale è necessariamente reticente sui punti (come per es: nella determinazione dell’organo esercitante il potere supremo) sui quali l’accordo non potrebbe essere raggiunto se non affermando il predominio dell’una sulle altre delle varie forze concorrenti, e la stessa parte regolata è destinata a subire l’influenza delle oscillazioni di queste forze e quindi piegata nella sua attuazione, in modo da riflettere le esigenze della forza che riesca a prevalere. Onde la possibilità di un dissidio e di una deviazione più o meno ampia, fra il contenuto delle norme giuridiche positive e i presupposti di esse».
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in grado d’inglobare le spinte antagonistiche non distruttive al cambiamento15. Riferiamoci qui specialmente alle tesi di Bruce Ackerman [1991], che offre una ricostruzione stilizzata, ma a suo avviso non infedele, della vicenda storica del costituzionalismo liberale degli Stati Uniti. Lungo oltre due secoli, questa vicenda si svolge, a suo avviso, su un doppio binario legislativo. Il binario inferiore registra le conclusioni che prevalgono di volta in volta nelle negoziazioni ordinarie della politica pluralista, e che emergono da un intrico di pressioni di gruppi d’interesse, di elezioni regolari e di pratiche di policymaking. Il binario superiore è invece volto a integrare le discontinuità, grazie al ricorso a procedure speciali che stabiliscano quando e come va istituzionalizzato il sostegno di una maggioranza di cittadini a innovazioni politiche radicali. L’adeguatezza di una democrazia odierna non discende, suggerisce Ackerman, dal grado in cui è rappresentativa – magari sulla base di criteri sempre più indiretti e rarefatti come la responsiveness e l’accountability –, bensì per la capacità di riaprire il processo costituente quando lo scarto tra Costituzione formale e materiale appare significativo. In breve, per Ackerman – a differenza degli altri teorici finora considerati – i conflitti antagonistici non distruttivi, anche in un regime liberaldemocratico moderno, esistono e periodicamente occupano il centro della scena politica16;
15. Si veda il resoconto critico di Gerber [1994]. 16. «È fatuo supporre che tutti i problemi abbiano soluzioni istituzionali. La questione della schiavitù precipitò nella guerra civile, lasciando i parolai a disperarsi su aspetti marginali. Ma è egualmente fatuo supporre che non importino le strutture istituzionali, e la cultura civica che esse supportano. La Grande depressione e il Movimento per i diritti civili sarebbero potuti degenerare in insensate campagne di violenza senza le pratiche d’integrazione e le istituzioni che furono messe in campo. E se mobilitazioni di ampiezza simile appaiono piuttosto lontane mentre scriviamo queste righe, è fuori luogo immaginare che il Paese non avrà più esigenze di istituzioni integrative in futuro» [Ackerman-Fishkin 2004, 169].
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può tuttavia esistere e funzionare una forma di tale regime che assorbe le discontinuità entro il set dato di regole e ne stempera la carica eversiva. Le due parti della proposizione vanno valutate distintamente. L’efficacia di ricostruzioni storiche centrate sulla processualità conflittuale di progressi e regressi, allargamenti e restrizioni, del paradigma democratico, contribuisce, a nostro avviso, a corroborare la prima parte della tesi: in ognuno di questi percorsi si verifica uno scollamento tra Costituzione formale e Costituzione materiale che spinge a riconsiderare la cittadinanza senza arrestarsi alla sua codificazione giuridica, bensì tenendo in conto l’insieme delle pratiche, delle domande e dei movimenti sociali che pongono in questione quel profilo istituzionale. È piuttosto la seconda parte della posizione di Ackerman a sollevare maggiori perplessità: «se il potere costituente fosse vincolato da vincoli giuridici, non potrebbe pretendere di creare un “nuovo” ordine, ma si muoverebbe nell’ambito di un ordine preesistente e, perciò, sarebbe non costituente, ma costituito» [Pace 2002, 111]. La tensione conflittuale tra «formalità» e «materialità» non si consuma entro un set di regole date, bensì alterando, forzando, trasgredendo, riplasmando quelle regole: perché un certo soggetto collettivo dovrebbe costosamente e incertamente provvedersi di una stabile approvazione maggioritaria delle proprie rivendicazioni, quando ha la prospettiva di prevalere con una modifica delle regole del gioco? Perché cercare il consenso quando si dispone della forza? È una domanda ineludibile, a meno d’immaginare condizioni particolari, che esortino alla negoziazione in quanto nessuna fazione ha chiare aspettative sulla sorte del conflitto, oppure in quanto le fazioni condividono scopi e valori ultimi, o ancora in quanto un nemico esterno minaccia la sopravvivenza di tutte. Anche ammesse simili eventualità, rima-
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ne centrale l’idea che i conflitti assecondino una logica opportunistica, anziché una condotta d’inclusione graduale delle ragioni dell’altro. I conflitti extraistituzionali Dunque l’analisi di Ackerman, pur importante, è limitata dal suo totale collocarsi entro il quadro della politica giuridicamente istituzionalizzata. Egli considera un popolo che può sovvertire pacificamente quel quadro, ora mobilitandosi in piazza, ora partecipando più coscientemente17, ora selezionando i finanziamenti ai partiti e ai candidati18, ora garantendosi l’indipendenza materiale19, ora promuovendo referendum o altre procedure di revisione costituzionale. Ma che cosa accade se qualche attore collettivo, per la sua natura e per i suoi interessi, pratica una politica che è in grado di modificare quel quadro senza esservi incluso? Siamo davanti al capovolgimento di un’assunzione spesso data per scontata: quella secondo cui si ottiene tanta più democrazia, quanto più i vari attori della società vengono inclusi nei processi di decisione politica. Qui invece emergono soggetti collettivi che si autoriproducono rimanendo esterni, sebbene non estranei, al quadro politico istituzionale. Ogni tentativo di annetterli, anziché rafforzarli, ne cancellerebbe caratteristiche e esi-
17. Nel «giorno della deliberazione» i cittadini potrebbero riunirsi e discutere i programmi elettorali, mentre il lavoro è sospeso e l’impiego di tempo indennizzato: Ackerman-Fishkin [2004]. 18. Ad ogni cittadino è assegnato un buono, che usa anonimamente, per finanziare la campagna elettorale di un partito. Ogni partito deve scegliere tra i fondi privati che è in grado di raccogliere e i finanziamenti pubblici ottenuti dai cittadini simpatizzanti: Ackerman-Ayres [2002]. 19. Ogni cittadino riceve dallo stato, al compimento della maggiore età, una somma una tantum tale da consentirgli l’indipendenza economica di fronte alle scelte politiche: Ackerman-Alstott [1999].
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genze20. Una democrazia post-rappresentativa dovrebbe pertanto, su questo versante, respingere l’idea che un movimento collettivo possa sempre, dispiegando la propria dinamica antagonista, dare forma in proprio a un soggetto istituzionale: I conflitti e il potere non possono essere sostenuti dagli stessi attori. Il mito dei movimenti che trasformano sé stessi in un potere trasparente ha già provocato tragiche conseguenze. La distanza fra i processi mediante i quali si formano bisogni e conflitti e le strutture che assolvono all’integrazione e agli obiettivi sistemici è la condizione per rendere visibile, cioè negoziabile, il potere. L’allargamento dello spazio pubblico fra movimento e istituzioni è compito di un’autentica democrazia [post-rappresentativa], un compito che riguarda sia i movimenti che gli attori politici [Melucci 1987, 156, corsivo e parentesi aggiunti].
Un sistema politico dovrebbe quindi assicurare non soltanto la «libertà di rappresentanza» – esprimere l’identità dentro le istituzioni –, quanto altresì la «libertà di appartenenza» – la costruibilità di spazi sociali di riconosci-
20. Oggi infatti i conflitti sociali maggiori si collocano al livello dell’autonoma costruzione delle identità personali. Essi sono poco negoziabili, poiché non contrattano lo scambio di beni sul mercato politico, né il grado di partecipazione al sistema politico. Esibiscono invece bisogni radicali che «non si limitano a investire il processo produttivo in senso stretto, ma riguardano il tempo, lo spazio, le relazioni, il sé degli individui. Compaiono domande che hanno a che fare con la nascita, con la morte, con la salute e la malattia, che mettono in primo piano il rapporto con la natura, l’identità sessuale, le risorse comunicative, la struttura profonda, biologica e affettiva, dell’agire individuale» [Melucci 1982, 77]. Si tratta di esigenze antagoniste, in quanto attaccano lo statuto stesso delle regole sociali: i movimenti «chiedono dove stiamo andando e perché. La loro voce è difficile da ascoltare parlando da un punto di vista particolaristico, partendo da un luogo o da una condizione specifici (in quanto giovani, in quanto donne, e così via). Ciononostante, essi parlano all’intera società. I problemi che sollevano riguardano la logica complessiva dei sistemi contemporanei» [Melucci 1985, 152]; si veda anche [Melucci 1996].
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mento – ai più vari soggetti sociali21. Ma affinché i sistemi politici possano trasformarsi – da luoghi istituzionali chiusi in cui si decide mediante meccanismi di trasmissione autoritativa delle norme e del potere, e nei quali la rappresentanza è manipolazione o al massimo consultazione, a luoghi ove si moltiplicano procedure conflittuali e/o negoziali e ove la conoscenza si forma e circola anche dal basso verso l’alto –, occorre «che la definizione della democrazia […] comprenda altre due libertà: quella di “non appartenenza”, come possibilità di sottrarsi alle identità costituite per generarne di nuove; quella di “non rappresentanza”, come possibilità di rifiutare o modificare le condizioni date della rappresentanza» [Melucci 1982, 224]22. Le libertà di rappresentanza e appartenenza – nonché il rovescio di entrambe – compongono dunque, idealmente, un modo adeguato per affrontare oggi la dialettica partecipazione/integrazione, movimenti/sistema. Queste libertà «in positivo» ed «in negativo» permettono di pensare nuove forme di partecipazione popolare alla res publica. Il requisito essenziale che tali forme dovrebbero esprimere consiste nella loro capacità di gene21. «Si tratta di fondare una distinzione tra sistemi di rappresentanza che sono la condizione per l’espressione di domande collettive in società complesse, e i movimenti che di tali domande sono gli attori reali. La separazione e, al limite, l’opposizione, tra canali istituzionali e movimenti, tra sistemi di rappresentanza e di decisione (coi loro agenti istituzionali) e forme di aggregazione della domanda sociale, sono la condizione di una democrazia non autoritaria nei sistemi complessi» [Melucci 1982, 212]. 22. Riguardo al diritto di contrasto verso atti di dominio sentiti come arbitrari, Philip Pettit [1997, 223] osserva: «La democrazia, secondo l’opinione generale, ha a che fare con il consenso; di norma viene associata in maniera quasi esclusiva all’elezione popolare dei membri del governo, o quantomeno all’elezione popolare dei membri del parlamento. Ma, in modo altrettanto legittimo, si può concepire la democrazia alla luce di un modello centrato più sul conflitto e la contestazione che sul consenso. Alla luce di questo modello un governo apparirà democratico, costituirà cioè una forma di governo sottoposta al controllo popolare, se gli individui, singolarmente o collettivamente, godranno in maniera permanente della possibilità di contestare le decisioni prese dal governo».
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rare effetti significativi di potere sociale. Pur riconoscendo che la partecipazione è un valore in sé stessa, e che gratifica per il fatto stesso di praticarla, essa diventa una coordinata decisiva della vita democratica soltanto a misura che ha efficacia sulle strutture esistenti del governo politico. Pertanto nel considerare il processo democratico «dal basso», e anche se giudichiamo impraticabili forme di vera e propria «democrazia diretta»23, diventano centrali le dimensioni della contestabilità e della partecipazione efficace. Il primo criterio valuta quanto liberamente le opposizioni politiche hanno l’opportunità di contestare i governanti: esso concerne soltanto la «libertà» come non impedimento – per la quale l’opposizione X è libera rispetto al governo Y di fare o essere z – e non esamina sotto quali condizioni i soggetti all’opposizione sono anche in grado di effettuare la contestazione. Il secondo criterio riguarda piuttosto il «potere sociale» della contestazione – la capacità che l’opposizione X esercita sul governo Y affinché faccia o non faccia z –, e quindi l’efficacia della partecipazione o mobilitazione collettiva24. Se il primo criterio stabilisce la liberalizzazione e l’inclusività del regime politico – quanto le regole del gioco permettono di dissentire, e a quanti gruppi danno tale opportunità –, al secondo criterio spetta il compito di stabilire l’influenza dei non-governanti sul regime politico. È in definitiva il grado di questo potere sociale che riempie di sostanza l’idea di democrazia.
23. Vi sono tuttavia importanti autori i quali sostengono che oggi si stanno riaprendo le condizioni di praticabilità della democrazia diretta, e che ciò, paradossalmente, tende ad accadere non perché si torna verso comunità politiche più semplici e ristrette, bensì al contrario in quanto la crescente complessità, volatilità e varietà dei sistemi istituzionali rende inefficienti le gerarchie e i processi in cui la conoscenza si forma e circola dal principale all’agente. Si veda per esempio CohenSabel [1997]. 24. Un’approfondita discussione della libertà come non-impedimento e del potere sociale è in Panebianco [2005, cap. 2].
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Le istituzioni extraelettorali del contropotere Nel precedente paragrafo abbiamo discusso le forme di partecipazione popolare alla res publica che, per condizionare la struttura esistente del potere, si muovono e si riproducono extraistituzionalmente: si tratta essenzialmente dei movimenti sociali per la conquista di nuovi beni vitali e identitari. Tuttavia i conflitti scaturiscono anche da lotte distributive. Queste si effettuano sovente in modi più organizzati e sono finalizzate a incidere sul funzionamento delle maggiori istituzioni politiche ed economiche. Come possono dipanarsi questi conflitti senza essere svuotati, e nondimeno, se sono antagonistici, senza essere socialmente distruttivi? Una risposta deve anzitutto rimuovere un presupposto basilare delle dottrine liberaldemocratiche: «la presunzione che tutti i cittadini siano “uguali” e abbiano una generale influenza sulle istituzioni del governo» [McCormick 2001, 310]. Quella presunzione è debole in quanto, per rendere accountable un’élite, non basta la minaccia di non rieleggerne i membri alle successive elezioni: servono strumenti extraelettorali capaci di imporre all’élite degli impegni credibili. Si tratta al riguardo di allestire alcuni istituti politici volti all’esplicita tutela delle posizioni dei gruppi svantaggiati, rispetto a istituti già esistenti che propugnano principalmente gli interessi e le credenze dei gruppi dominanti. Questa posizione teorica fu sostenuta in modo insuperato da Niccolò Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio25. Egli offre una ricostruzione della repubblica romana che, sebbene non inappuntabile sotto il profilo storiografico, presenta implicazioni di ordine generale. In
25. Per una ricostruzione dei dibattiti sul tribunato prima e dopo Machiavelli, si vedano Catalano [1971] e Lobrano [1996].
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estrema sintesi, a Roma vi era una lotta di classe tra patrizi e plebei, tra l’élite politica ed economica e il popolo. Al fine di controllare il potere dell’élite, che si esprimeva attraverso il Senato e i Consoli, vennero creati il Consiglio della plebe e i Tribuni: due strumenti espressi in modo diretto dalle classi subalterne. L’assemblea del Consiglio eleggeva i Tribuni con un mandato non rinnovabile di un anno. Questi ultimi, protetti dalla legge e da una milizia popolare, potevano porre il veto alle leggi del Senato, aprire procedure giudiziarie d’inchiesta su cittadini accusati di corruzione o di abuso di potere e indire consultazioni referendarie (i plebisciti)26. Come commenta David Held [1996, 78]: se i ricchi e i poveri possono essere inseriti contemporaneamente nel processo di governo, e i loro interessi trovano una strada legittima di espressione tramite una divisione delle cariche, allora essi saranno costretti a cercare una qualche forma di reciproco accomodamento. Come guardiani delle rispettive posizioni, essi dovranno produrre grandi sforzi per garantire che le nuove leggi non incidano negativamente sui loro interessi. Il risultato di tali sforzi sarà probabilmente un corpo di leggi che ogni parte finirà per accettare. […] La base della libertà era proprio il conflitto e il disaccordo attraverso il quale i cittadini potevano promuovere e difendere i propri interessi.
L’idea del conflitto come collante della società riceve qui la sua declinazione politica27. I conflitti radicali possono
26. «Il rapporto tra potestates in senso proprio o stretto […] è di natura proibitoria, comporta che ogni titolare di potestas possa impedire determinate, o addirittura tutte, le azioni a un altro titolare di potestas pari o minore: non può invece, se non indirettamente, imporgli dei comportamenti». Lobrano [1982, 309-310]. 27. In una repubblica, nota Machiavelli [1513-19, I, 4, 137], «li buoni esempli nasc[o]no dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano; perché chi
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provocare innovazione, anziché disfacimento sociale, in quanto «se tu vuoi fare uno popolo numeroso o armato per potere fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi maneggiare a tuo modo: se lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta» [Machiavelli 1513-19, I, 6, 144]. Pertanto, «solo attraverso la concessione alla plebe di un ruolo importante nella politica della città, Roma ha potuto costruire la sua potenza» [Del Lucchese 2004, 196]. Più in generale, se un’élite progetta di edificare un potere – politico o economico – solido e duraturo, abbisogna di un popolo che collabori attivamente, condividendo il progetto e avendo opportunità e capacità di «armarsi» (a quel tempo, d’impugnare le alabarde; oggi, magari, di esibire un ricco e autonomo «capitale umano»). In tal maniera però il popolo partecipa sul serio, sfuggendo al controllo e al soggiogamento. In caso contrario, il popolo è obbediente ma inerte e imbelle: l’«impero» può essere eretto, ma difficilmente resterà in piedi e avrà vitalità. Ogni impresa collettiva complessa richiede insomma, per essere sostenibile, un’autentica partecipazione politica28.
esaminerà bene il fine d’essi, non troverà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà». 28. Il conflitto antagonistico intorno alla ripartizione dei maggiori beni sociali, può, secondo Machiavelli, diventare distruttivo e causare il declino della repubblica soltanto se, privo di bilanciamenti, lascia prevaricare i valori e gli interessi di un unico gruppo e dei suoi leader.«Il tumulto plebeo, l’iniziativa popolare, difendono la libertà e costituiscono la chiave di lettura del progresso delle istituzioni, ma essi vanno letti all’interno del bilanciamento dei poteri» tra patrizi e plebei [Negri 1992, 78]. «La via alla tirannide si apre non quando il conflitto si radicalizza, ma piuttosto dal momento in cui il popolo sceglie di affidare la protezione dei suoi interessi, e ancora più la vendetta sui suoi nemici, a un individuo potente. […] Machiavelli distingue insomma il conflitto che nasce dalla contrapposizione di
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John McCormick [2006] ha ripreso e attualizzato le indicazioni machiavelliane. Nella sua proposta, la Costituzione degli Stati Uniti andrebbe riformata prevedendo un’Assemblea di 51 Tribuni, nominati mediante sorteggio tra i cittadini che non abbiano ricoperto cariche pubbliche significative (sindaco di una città, o rappresentante a livello statale o federale, per due volte consecutive) e il cui patrimonio non li collochi nel 10 per cento più ricco della popolazione. I Tribuni starebbero in carica per un anno, non rinnovabile e non ripetibile, verrebbero remunerati e avrebbero la garanzia di mantenere il posto di lavoro. Entro il loro mandato annuale, i compiti dei Tribuni consisterebbero nell’esame dei bilanci del governo federale, anche invitando studiosi e politici esperti; nel porre il veto, con decisione a maggioranza, a un provvedimento legislativo, una decisione della Corte Suprema e un ordine esecutivo (l’istituzione che subirebbe il veto non potrebbe riproporre l’iniziativa se non un anno dopo il termine di quel mandato); indire, con decisione a maggioranza, un referendum nazionale su un qualsiasi tema; avviare, con decisione a maggioranza qualificata, un procedimento di impeachment contro un pubblico amministratore elettivo o un funzionario federale. Il disegno di istituzioni politiche classspecific and wealth-excluding è la premessa per un ordinamento entro cui la partecipazione politica possa esercitare la propria forza anche quando i membri del popolo siano singolarmente propensi alla delega, all’apatia o addirittura alla temporanea adesione ai partiti delle élites29. Il cardine
gruppi sociali ben definiti, da quello che si origina dalla ricerca del potere personale […]. Il primo è virtuoso e produce libertà, il secondo è patologico e conduce alla tirannide» [Baccelli 2003, 23-24]. 29. In presenza di opportunismo e incertezza, per i gruppi subalterni ogni avanzamento presenta un doppio taglio. Si consideri per esempio la conquista del voto segreto nel suffragio universale: «il motivo fondamentale dell’introduzione del voto
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di questo disegno sta nel «contropotere di classe»: l’insieme di coloro che non appartengono alle élites politiche ed economiche, allestiscono istituti la cui principale funzione consista nel controllare e limitare le decisioni degli istituti democratici egemonizzati dalle élites. Il maggiore strumento al riguardo è il potere di veto: a misura che il popolo riesce credibilmente a stabilire la propria possibilità di opporre resistenza, insegna Machiavelli, viene intaccato il carattere elitistico del regime politico. Siamo davanti a un’innovazione istituzionale diversa da quella, non meno decisiva, che divide e bilancia i poteri. Mentre infatti nell’equilibro dei poteri assistiamo alla limitazione reciproca di istanze tutte lato sensu «di governo» – e quindi agenti, per così dire, «in parallelo» –, con il tribunato viene introdotta una limitazione complessiva («assoluta») dei poteri, da parte di un potere ulteriore che è, nei loro confronti, di «segno» opposto31. segreto era di evitare sanzioni da parte dei superiori. [… Ma] la segretezza del voto poteva mettere l’elettore al riparo non soltanto dei suoi superiori, bensì pure dei suoi pari. Garantendo la totale anonimità del voto, divenne possibile non solo impedire la corruzione del dipendente da parte del superiore, ma anche ridurre le spinte all’unità e alla solidarietà in seno alla classe operaia» [Stein Rokkan, citato in Miliband 1969, 227]. 31. Lobrano [1982, 88]. L’istituzione di un tribunato della plebe è criticabile in quanto contravviene a un fondamentale principio delle moderne costituzioni democratiche: l’uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte allo Stato. Se una classe particolare di elettori detiene legalmente un diritto di veto sulle scelte del parlamento, quella eguaglianza viene meno. È vero che lo scopo del tribunato sta nel contrastare gli effetti di una disuguaglianza sostanziale (ricchezza, potere delle lobby, e così via). Ma – si potrebbe obiettare – non si riduce la democrazia formale per implementare quella sostanziale; altrimenti qualsiasi forma di dittatura «per il popolo» (fascista, populista, stalinista, e così via) sarebbe giustificata. La nostra risposta a questa critica si riferisce alle democrazie polietniche. In esse sono introdotti «diritti di rappresentanza speciale», quando gli svantaggi dovuti all’appartenenza a un gruppo minoritario vengano ritenuti sistematici. Sono inoltre previste regole – i cosiddetti metodi di power sharing – volte alla formazione di un sistema di governance nel quale tutti i gruppi «politicamente rilevanti» della società detengono permanentemente una parte del potere. Senza addentrarci in un dibattito dottrinario e in sperimentazioni pratiche ancora in corso, ci basta annotare che, nei casi più gravi e conflittuali di disuguaglianza dei cittadini e dei gruppi sociali,
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In sintesi Quando la partecipazione politica prova a incidere sui nessi di potere, nessun dispositivo e nessun soggetto sono in grado di assicurare che essa si svolga sempre e comunque nel rispetto degli esistenti accordi tra i gruppi. Quando i conflitti su beni vitali e identitari, oppure i conflitti distributivi, assumono forme antagonistiche, il passaggio da un sistema all’altro non può avvenire utilizzando le regole proprie del sistema precedente. In queste circostanze è possibile, pur evitando che venga distrutto l’assetto istituzionale, non svuotare il potenziale di cambiamento dell’azione politica, mediante due linee di soluzione: l’una che preservi politicamente il carattere extraistituzionale dei movimenti sociali; l’altra che appronti istituti extraelettorali in cui i gruppi sociali subalterni siano veto player [Tsebelis 2002] nelle decisioni degli istituti democratici ordinari. La democrazia è insomma, sotto il profilo ideale, un sistema politico costituzionale nel quale la partecipazione popolare dovrebbe produrre effetti di contestabilità e di efficacia. Tale requisito tende realmente a realizzarsi a misura che i movimenti sociali possono esprimere nuove identità senza essere inclusi nella politica istituzionalizzata, e i gruppi subalterni organizzati possono bloccare le scelte strategiche dell’élite. In questa definizione l’aspetto determinante, accanto al costituzionalismo, è il carattere di antagonismo non distruttivo della conflittualità. Mentre il costituzionalismo vincola staticamente i poteri –
appaiono opportuni istituti che, come il tribunato, limitino complessivamente un potere strabordante. Peraltro, in una prospettiva liberaldemocratica alla von Hayek, il punto decisivo non riguarda il rispetto dell’eguaglianza formale dei soggetti, bensì se un’istituzione, anche stabilendo una regole «sbilanciata», possa essere non-arbitraria, ossia se quella regola possa essere nota a tutti ex ante. Questo punto viene esaudito dalla proposta di McCormick.
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grazie a fondamentali meccanismi di separazione, specializzazione, controllo e bilanciamento –, l’antagonismo differenzia la democrazia dai regimi politici in cui le masse si mobilitano, o vengono mobilitate, magari con intensità e frequenza, ma senza generare conseguenze sensibili sull’assetto dei poteri. Soltanto in democrazia l’azione collettiva, nelle molteplici sue forme esaminate in questo libro, può avere il «potere costituente» di alterare le Costituzioni formali, di aprire il sistema politico a nuove esigenze non negoziabili, le quali, non potendo essere assorbite «un pezzetto alla volta», vanno incluse tramite una discontinuità delle regole. Quando le regole sono state traumaticamente cambiate, talvolta (non sempre) le esigenze diventano negoziabili: anzi, come abbiamo visto, la più rilevante conseguenza di un conflitto radicale sta proprio nella sua eventuale trasformazione.
Conclusioni
L’origine delle democrazie moderne, lo abbiamo sottolineato, non sta in un preesistente ampio consenso sui «valori fondamentali», bensì nella circostanza principale per cui «i vari gruppi, che s’erano per lungo tempo ferocemente combattuti, hanno dovuto riconoscersi incapaci d’imporre il proprio dominio: la tolleranza e l’accettazione del pluralismo sono state, alla fin fine, il risultato di uno stallo tra gruppi contrapposti aspramente ostili» [Hirschman 1991, 171]. La questione, intorno alla quale ruotano queste pagine, è se oggi possiamo aspettarci d’incontrare ancora quella speciale preziosa circostanza. Con amara lucidità, Bertrand Russell [1928, 240243] profetizzava tre quarti di secolo fa un futuro nel quale «un’autorità centrale avrà nelle sue mani il controllo del mondo intero». Essa non si presenterà nella forma di un governo planetario, bensì come «una società di finanzieri, persuasi che la pace è nel loro interesse», appoggiata ad «un unico stato dominante». Il suo dominio non contemplerà quasi mai un controllo politico diretto, ma «potrà essere assicurato anche soltanto da una supremazia finanziaria [… poiché] i maggiori finanzieri del mondo, se si assoceranno tra loro, potranno decidere [qualsiasi] questione col semplice negare o concedere prestiti». Le guerre verranno effettuate principalmente in
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relazione alla «distribuzione delle materie prime […], che saranno allocate da un’autorità che avrà un’invincibile forza al suo comando». Sono molti gli studiosi per i quali predizioni à la Russell si sono avverate: ai nostri giorni le asimmetrie di potere tra i gruppi sociali sarebbero talmente profonde, sistematiche e persistenti da impedire lo «stallo» tendenziale dal quale soltanto nasce la possibilità del mutamento istituzionale pacifico. In realtà le argomentazioni di questo libro, connesse in un quadro teorico unitario, suggeriscono una conclusione meno pessimistica. L’ipotesi iniziale è stata che una logica dell’azione collettiva ben articolata può aiutarci a capire che le asimmetrie di potere a favore delle minoranze organizzate possono essere indebolite/spiazzate da forze endogene. Questa congettura è stata introdotta adottando, quale premessa, un concetto di razionalità secondo cui vanno ricostruite le «buone ragioni» per cui qualcuno prima cambia identità («quali fini mi danno significato?») o credenze («quali mezzi mi appaiono ammissibili»?), e quindi rielabora i propri calcoli economici («quale rapporto tra benefici e costi è conveniente tra quelli accessibili»?). L’azione collettiva è stata esaminata come un processo nel corso del quale, entro una costellazione di soggetti, ciascuno riconosce sé stesso e quindi il suo interesse a realizzare o a mantenere con gli altri una certa interdipendenza indivisibile. Questo processo ha nulla di scontato. In esso le ragioni per fare da soli si scontrano con i vantaggi del coordinamento o della cooperazione. Le ragioni per escludere alcuni si scontrano con i vantaggi del chiederne la collaborazione. Le ragioni per imporre certe linee di condotta, e per sottomettervi altri, si scontrano con i vantaggi del consenso e dell’iniziativa paritaria. Le ragioni
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dell’espropriazione dei mezzi e dei fini altrui si scontrano con i vantaggi dell’ammettere le altrui identità e dell’interpenetrarle con la propria. L’azione collettiva si avvia e perdura quando, dentro il processo d’interdipendenza conflittuale, almeno un adeguato sottogruppo della popolazione coinvolta si assume l’impegno di formare o mantenere quell’indivisibilità sociale. Sotto quali condizioni ciò possa accadere, è stato discusso mediante cinque principali scenari. Nel primo modello la partecipazione volontaria a gruppi ampi, ossia la cooperazione, non scaturisce da incentivi selettivi (soldi e beni privati), bensì da una struttura in cui un gruppo ampio è formato da una molteplicità di gruppi ristretti, quando si possono perseguire insieme «beni collettivi specifici» per ciascun sottogruppo e «beni collettivi universali» per il gruppo intero, e quando questa co-produzione appare utile o addirittura necessaria per la fornitura così del bene specifico come di quello generale. In secondo luogo, si origina cooperazione anche in presenza di «beni privati di rete», i quali aumentano il proprio valore quando sono prodotti/fruiti con altri produttori o utenti. Ognuno spinge all’allargamento della «rete» poiché così accresce due volte il proprio beneficio: se offre un bene a un prezzo minore, ne vende di più sia ai nuovi utenti, attratti dal prezzo ridotto, sia ai vecchi, attratti perché adesso ognuno di essi ha maggior valore in una «rete» diventata più ampia. Inoltre parecchi beni in tanto esistono, in quanto dipendono da un’identità individuale stabilita collettivamente: chi vuole riprodurre-consumare tali beni, deve impegnarsi alla manutenzione-espansione della «rete» quale precondizione della propria identità. Nel secondo modello l’origine della disuguaglianza durevole si annida nella costituzione di gruppi mutuamente escludentisi, i cui membri hanno – a prescindere
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da chi sono e dalle loro capacità – un set prestabilito di opportunità: tale disuguaglianza si rivela efficace nell’affrontare il dilemma del cooperatore, poiché, rafforzando la collaborazione tra «simili», conduce al formarsi e allo stabilizzarsi del gruppo privilegiato. Nel terzo modello si è argomentato che movimenti finalizzati alla redistribuzione del potere e dei beni, possono insorgere e riuscire a prevalere su gruppi meglio organizzati e provvisti di mezzi. Si inizia distinguendo tra acting together e contributing together. Quest’ultimo – un’azione collettiva di finanziamento e produzione del bene pubblico – richiede capacità organizzative e risorse. Al contrario la prima è un «gioco di coordinamento» in cui ciascuno guadagna soltanto se tutti convergono su una condotta comune, quale che essa sia. È la struttura degli incentivi a cambiare: nel contributing together, più siamo più mi conviene astenermi; nell’acting together, più siamo e più mi conviene intervenire anch’io. Abbiamo applicato a questa distinzione la logica dei vantaggi comparati: davanti a due gruppi in lotta tra loro, il gruppo ampio, meno dotato di mezzi economici e di capacità organizzative, può redistribuire a proprio favore le risorse quando dispone di un vantaggio relativo nell’esercizio del coordinamento e dell’attività violenta/espropriativa. Il quarto modello si è chiesto come e perché può emergere un movimento di opposizione capace di autoorganizzarsi e di competere alla pari con gruppi elitari già strutturati, perfino nella situazione-limite in cui i nuovi leader non dispongono di alcuna risorsa. Si è iniziato dall’ipotesi che il rapporto benefici/costi sia fissato per ciascuno dei gruppi, e che sia tale da impedire razionalmente al gruppo più ampio di intraprendere attività che richiedono un’organizzazione stabile e risorse economiche riproducibili, abbandonando le attività puramente mobilitative e redistributive. Può tuttavia accadere che una frazione
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del gruppo, pur non avendo ancora convenienza ad agire, abbia già convenienza a trasformare cognitivamente le proprie credenze e/o identità. Ciò conduce in maniera indiretta a modificare i termini del calcolo economico, fino talvolta a far diventare quella frazione una «minoranza organizzata» in competizione con le altre già attive. Tale minoranza può a sua volta unire gruppi più ristretti, mostrando loro identità, credenze e quindi interessi reciproci prima ignoti o, più spesso, ignorati. Il quinto modello ha discusso i limiti delle organizzazioni. La logica del free riding – per cui l’individuo nella coalizione, e la coalizione nell’organizzazione, si comportano opportunisticamente – vale per le minoranze organizzate, non meno di quanto vale per i gruppi ampi. In primo luogo, la logica si applica allo scopo dell’organizzazione: se questo viene raggiunto, si confligge intorno alle nuove alternative; se non lo si riesce a raggiungere, sorgono contrasti intorno al fallimento. In secondo luogo, la logica indica che quanto più un’organizzazione acquisisce potere, tanto più ogni sua posizione interna diventa rilevante: ciò spinge gli individui a coalizzarsi per ottenere le migliori posizioni, e le coalizioni a competere tra loro, disgregando la compattezza dell’organizzazione. In terzo luogo, la logica mostra le condizioni sotto cui un soggetto ha convenienza ad aderire opportunisticamente a diverse coalizioni od organizzazioni, pur restando ancora membro di una precedente coalizione od organizzazione. Infine, la logica fa vedere quando un’organizzazione potente e ristretta, per avvantaggiarsi su rivali interni ed esterni, si allea con gruppi ampi meno organizzati e meno provvisti di mezzi, innescando condotte simili da parte dei rivali, fino a ridurre così il potere totale controllabile dalle organizzazioni, come quello assegnato a ciascuna di loro.
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Nell’ultimo capitolo ci siamo chiesti, sulla scorta dei modelli precedenti, se oggi si stiano formando processi di partecipazione collettiva, e specialmente di partecipazione politica, in grado di governare e riformare le configurazioni di potere nella società mondiale. Abbiamo iniziato rilevando che, mentre la democrazia rappresentativa considera unicamente i conflitti «ragionevoli», continuano ad affiorare forme di scontro che non accettano facilmente compromessi sulla base di regole vigenti. Come possono questi conflitti essere socialmente innovativi, pur conservando la propria intransigente radicalità? La risposta è stata articolata in due passaggi. Il primo ha distinto una modalità di conflitto antagonistico non distruttivo, individuando le pratiche sociali nelle quali esso tende ad affermarsi. Il secondo ha delineato le condizioni – extraistituzionali, così come di «contropotere» rispetto alle istituzioni esistenti – sotto cui gruppi sociali «che si trovavano, nell’ordine precedente, bloccati in un’ineguale situazione di passività» [Duso 1999, 178], possono far emergere una soggettività politica. In questa chiave la democrazia non rimanda più all’astrattezza della nozione di «popolo», bensì a processi storici effettivi in cui l’agire degli uomini si esprime nella capacità di modificare gli assetti di potere e di determinare nuove strutturazioni istituzionali. La democrazia è il «potere costituente» con cui l’azione collettiva, nelle sue molteplici forme, può modificare le Costituzioni formali date. Chiudiamo con l’autore con cui abbiamo aperto. Secondo una suggestiva tesi di Albert Hirschman [1963], nelle scienze sociali si scrivono due specie di libri. Vi sono quelli che muovono da un’idea-forte e tentano di mostrarne l’efficacia esplicativa in molte direzioni. E vi sono quelli che procedono da una domanda, cercando
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tanti elementi di risposta in molte direzioni. Gli uni sono libri monolitici, che tengono o cadono se e finché regge l’intuizione che li ha suscitati. Gli altri sono libri «a fisarmonica», che si allargano o stringono, piegano o raddrizzano, assecondando le pieghe del problema che inseguono. Gli uni sono libri teorici talmente coesi da soffocare ogni diversa sollecitazione. Gli altri sono libri che coordinano più angoli di riflessione, rischiando il sincretismo. La partizione di Hirschman è, ovviamente, troppo netta per riflettersi nei libri concreti che scriviamo o leggiamo. In effetti, ci piace credere, questo è un libro che la taglia trasversalmente. Esso nasce chiedendosi quali siano le possibilità dell’azione collettiva: per un verso cala la domanda in alcune situazioni tipiche; per l’altro verso esamina quando l’azione collettiva diventa azione politica. Va quindi in parecchie direzioni, ma prova a farlo mediante una «logica» i cui elementi di base, pur diversamente combinati, sono gli stessi. Mentre affronta numerose sfaccettature della risposta, elabora pochi «meccanismi sociali» [Barbera 2004] che ne diano conto. Soltanto il lettore potrà valutare se questa voluta ambivalenza ha prodotto un buon risultato.
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