Don Vito: Le relazioni segrete tra stato e mafia nel racconto di un testimone d'eccezione 9788807171925 [PDF]


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Table of contents :
Premessa......Page 6
Personaggi......Page 8
1 La perdita dell'innocenza......Page 17
2 Palermo da bere......Page 39
3 La casa madre......Page 67
4 I tic di don Vito......Page 91
5 America, Vaticano e misteri italiani......Page 113
6 La caduta......Page 139
7 1992, la fine degli equilibri......Page 173
8 La Trattativa, parte prima......Page 193
9 La Trattativa, parte seconda......Page 216
10 I nuovi mediatori......Page 238
11 Don Vito, addio......Page 259
12 La fine dell'avventura......Page 267
Appendice......Page 295
Cronologia......Page 311
Indice......Page 333

Don Vito: Le relazioni segrete tra stato e mafia nel racconto di un testimone d'eccezione
 9788807171925 [PDF]

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MASSIMO CIANCIMINO

FRANCESCO LA LICATA

DON VITO

LE RELAZIONI SEGRETE TRA STATO E MAFIA

NEL RACCONTO DI UN TESTIMONE D'ECCEZIONE

Con la testimonianza di Giovanni Ciancimino

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Giangiacomo Feltrinelli Editore Prima edizione in "Serie Bianca" aprile 2010

Milano

Stampa Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche - BG ISBN 978-88-07-17192-5

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www.feltrinellieditore.it Libri in uscita, interviste, reading, commenti e percorsi di lettura. Aggiornamenti quotidiani

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A Vito Andrea e Carlotta,

ragioni della mia vita M.C. Grazie, Maddalena F.L.L.

A mio figlio Marco G.C.

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Premessa

Ho incontrato Massimo Ciancimino all'inizio del 2008. Mi venne a trovare alla redazione della "Stampa" , a Roma, e aveva tanta voglia di parlare delle sue `disgrazie", cioè dei suoi guai giudiziari. Era finito in carcere, a suo dire, per il solo fatto di essere il figlio di don Vito, il sindaco mafioso di Palermo. Contestava una serie di anomalie del suo processo e temeva contraccolpi sul rapporto con la moglie, Carlotta. Te­ meva di perdere "l'unico bene della mia vita": il figlio­ letto, Vito Andrea, che allora non aveva ancora quattro anni. Incurante del mio scetticismo sulle sue reali moti­ vazioni "collaborative" e sulle riserve legate al nome che porta, cominciò a raccontarmi la sua vita sperico­ lata accanto al padre. Tirò fuori episodi che sembravano tratti dalla sceneggiatura di un film americano e chiese se tutto questo potesse diventare un libro, come si riprometteva di fare con il padre scomparso. Non nascondo che riuscì ad accendere un lampo nella mia testa. La sua storia era di per sé un romanzo: la mafia, i servizi segreti, la politica corrotta, la Sicilia. E la rico­ struzione del rapporto, persino patologico, con il pa­ dre-padrone cui il figlio non riusciva a opporsi se non attraverso un ribellismo autolesionistico che non in­ 6

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taccava il meccanismo della coazione ripetitiva. Non male come traccia per un bel racconto. Ma c'era un problema: Massimo narrava fatti accaduti nella realtà, parlava di personaggi veri e di reati anche gravi. Gli spiegai che, prima di pensare a un libro, sarebbe stato corretto "liberarsi" di tanto fardello nella sede giusta: la magistratura. Onestamente non pensavo che ciò sarebbe avvenuto. Fui smentito tra la fine di febbraio e l'inizio di aprile, quando Ciancimino avviò la sua collaborazione con le Procure di Palermo e Caltanissetta. Così è nato il libro che avete tra le mani. Le storie, i personaggi che contiene sono il risultato di una con­ fessione in presa diretta, ma anche disseminata tra i fascicoli di tre o quattro Procure e confortata dal pre­ zioso apporto del fratello Giovanni, precisa, metico­ losa memoria storica di tutto ciò che ha preceduto il coinvolgimento di Massimo. Non tutto è ancora pub­ blico e non tutto, probabilmente, sarà confortato da sentenze giudiziarie. Ma un fatto rimane: la forza emotiva di un racconto che, sottratto proprio alla frammentazione burocratica della legge, si impone come drammatica testimonianza di un pezzo della nostra storia recente. Questo libro non deve essere dunque letto solo co­ me un mero elenco di circostanze che Massimo Cian­ cimino afferma essersi verificate poiché vi ha perso­ nalmente partecipato, oppure per averle apprese di­ rettamente dal padre Vito, ma anche come un grande affresco della realtà siciliana e italiana che, com'è no­ to, a volte supera anche la più negativa delle rappre­ sentazioni. Ed è in tale chiave, anche critica, che si invita il lettore ad affrontare quanto qui narrato. F.L.L.

Roma, 11 marzo 2010

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Personaggi

ALAMIA, FRANCESCO PAOLO

Imprenditore siciliano molto in voga negli anni settanta. È stato socio in affari e prestanome di Vito Ciancimino. Per un certo pe­ riodo ha investito molto a Milano. BADALAMENTI, GAETANO

Boss mafioso del mandamento di Cinisi, alle porte di Palermo. Ben legato alla mafia americana, ha ricoperto ruoli di vertice dentro Cosa nostra. È stato condannato per l'uccisione di Peppino Impastato, giovane militante di Democrazia proletaria, as­ sassinato nel 1978. È morto in carcere negli Usa. BANDA DELLA MAGLIANA

Organizzazione criminale romana degli anni settanta e ottanta. La sua attività è stata descritta come una sorta di service in fa­ vore di poteri forti: mafia, massoneria, servizi segreti, terrori­ smo nero e finanza (Calvi, Banca vaticana). BIONDINO, SALVATORE

Mafioso del mandamento di San Lorenzo, fu catturato il 15 gen­ naio del 1993 alla rotonda della circonvallazione di Palermo in­ sieme con Salvatore Riina. Biondino era alla guida dell'auto che conduceva il capo a una riunione di mafia.

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BONTADE, STEFANO

Capo della mafia palermitana negli anni settanta. Figlio di don Paolino, boss di grande influenza nella politica siciliana, si schierò contro la gestione corleonese e fu tra i primi a cadere, nel 1981, quando scoppiò la guerra di mafia. BONURA, FRANCO

Costruttore edile a Palermo, socio occulto di Vito Ciancimino nel grande affare della cementificazione della città degli anni sessanta e settanta. Successivamente è rimasto coinvolto nell'operazione antimafia "Gotha": è in carcere dal 2006. BRUSCA, GIOVANNI

Ex mafioso del mandamento di San Giuseppe Jato (Palermo), oggi collaboratore di giustizia sotto protezione. Uomo di fiducia di Totò Riina, fu tra i primi a parlare - una volta divenuto pentito - della cosiddetta "Trattativa" col Ros e del famoso "papello". BIJSCEMI, ANTONINO E SALVATORE

Fratelli, palazzinari importanti di Palermo molto intimi del gruppo di potere di Salvo Lima e Vito Ciancimino. Entrambi mafiosi, sono morti per cause naturali mentre scontavano dure condanne. Salvatore era stato condannato per omicidio. BUSCETTAA, TOMMASO

Pentito storico della mafia palermitana: raccontò Cosa nostra al giudice Falcone e le sue dichiarazioni diedero vita al primo maxi­ processo. Nemico di Riina e rappresentante della cosiddetta "ala moderata" della mafia. È morto di malattia a Miami. CALÒ, GIIJSEPPE DETTO PIPPO

Il "cassiere" della mafia, in un certo momento (anni settanta) si spostò a Roma per curare gli interessi finanziari di Cosa nostra. È entrato nei misteri più aggrovigliati della Repubblica, fino alla condanna per l'attentato "nero" al Rapido 904. È in carcere. CALVI, ROBERTO

Il "Banchiere di Dio", così chiamato per i suoi legami con lo Ior

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e le vicende riconducibili a monsignor Marcinkus, presidente della Banca vaticana, fu trovato impiccato sul ponte dei Frati neri a Londra. Vito Ciancimino lo frequentò attraverso lo Ior. CANNELLA, TOMMASO DETTO MASINO

Capomafia del territorio delle Madonie in rapporti con gli amministratori di Palermo degli anni settanta e ottanta. Partecipava alla spartizione del cosiddetto "tavolino degli appalti" per conto della mafia corleonese. CASSINA, ARTIJRO

Imprenditore, titolare per lunghi lustri — sin dalla fine degli anni cinquanta — dell'appalto comunale per la manutenzione stradale a Palermo. Gestiva grande potere, anche per l'influenza esercitata attraverso l'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro. CINA, ANTONINO

Medico e mafioso della "famiglia" dei corleonesi. Massimo Ciancimino afferma che sarebbe stato il mediatore della "Tratta­ tiva" fra Stato e mafia nel 1992 e avrebbe consegnato la busta contenente il "papello" con le richieste di Totò Riina. È detenuto dal 2006. COSTANZO, CARMELO

Uno dei "cavalieri del lavoro" di Catania all'epoca della lottizza­ zione degli appalti gestita da Lima e Ciancimino. D'ACQUISTO, MARIO

Democristiano della corrente andreottiana, è stato presidente della Regione siciliana negli anni della "mattanza mafiosa" ('81­ 85), ma ha anche ricoperto incarichi di governo nazionale. DE DONNO, GIUSEPPE

Ufficiale del Ros, avrebbe proposto a Vito Ciancimino di aiutare i carabinieri a cercare un contatto con la mafia corleonese per interrompere la stagione stragista. Per questa iniziativa la Pro­ cura di Palermo lo ha messo sotto inchiesta.

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DELL'IJTRI, MARCELLO

Senatore e fondatore di Forza Italia, è stato condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. È in corso il processo di appello. DI MICELI, PIETRO

Commercialista e perito, è stato processato e assolto per vicende legate a presunte collusioni con ambienti mafiosi nell'ambito delle inchieste su beni sequestrati. FERRARO, LILIANA

Aveva preso il posto di Giovanni Falcone al ministero della Giu­ stizia: sarebbe stata informata da Mori e De Donno che si cercava la collaborazione di Vito Ciancimino. La sua testimonianza è centrale nell'indagine sul comportamento dei due ufficiali. FIDANZATI, GAETANO

Boss mafioso di primissimo piano, a Palermo tenuto in gran considerazione, negli "anni ruggenti", anche nei salotti buoni. Per un buon periodo curò il grande affare del traffico interna­ zionale della droga. È in carcere. GIAMMANCO, PIETRO

Magistrato, capo della Procura di Palermo quando viene assas­ sinato Giovanni Falcone. Nei suoi diari, il giudice ucciso lo indica come uno dei responsabili del proprio isolamento. Dopo la strage di Capaci, viene allontanato dalla Procura in seguito alle proteste dei sostituti. GIOIA, GIOVANNI

Democristiano della corrente di Fanfani, è stato fra i protagonisti della stagione dell'abbraccio fra mafia e politica. La Commissione antimafia, nata dopo la strage di Ciaculli del 1963, scrisse una relazione molto critica su quel momento storico. GRECO, LEONARDO

Capomafia di Bagheria, titolare della I.c.re., industria per la

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produzione del tondino di ferro i cui uffici funzionavano come base logistica per le riunioni della cupola di Cosa nostra funzio­ nali alla spartizione delle tangenti e degli appalti. LIGGIO, LUCIANO

Padrino della mafia corleonese e predecessore di Totò Riina al vertice di Cosa nostra. Tentò, senza successo, di liberarsi di una condanna all'ergastolo con l'aiuto di politici e magistrati. È morto nel carcere di Nuoro nel 1993. LIMA, SALVATORE DETTO SALVO

Capo della corrente andreottiana a Palermo. Fu sindaco della città e sottosegretario al governo nazionale. Sospettato di connivenza con la mafia, ma mai condannato. Concluse tragicamente la sua carriera, assassinato nel '92, mentre era europarlamentare. LIPARI, GIIJSEPPE DETTO PINO

Geometra dell'Anas e fedele consigliere di Bernardo Provenzano, per anni ha coperto la latitanza dell'amico boss, favorendolo negli spostamenti e nella "corrispondenza" clandestina. Ha finito di scontare la sua pena per associazione mafiosa e oggi è libero. MANCINO, NICOLA

Vicepresidente del Csm, secondo Massimo Ciancimino era - in quanto ministro dell'Interno nel '92 - uno dei politici che sapeva della trattativa tra Stato e mafia. Ha sempre respinto ogni coin­ volgimento. MANNINO, CALOGERO DETTO LILLO

Agrigentino, è uno dei politici più importanti della Prima Re­ pubblica. È finito sotto inchiesta sull'onda delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Dopo un processo durato più di quindici anni, è stato assolto definitivamente. MARTELLI, CLAIJDIO

Era ministro della Giustizia nel periodo delle stragi e della co­ siddetta "Trattativa". Anche la sua, come quella di Liliana Ferrar°,

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è una testimonianza chiave delle indagini ancora in corso. MERCADANTE, GIOVANNI

Medico, oggi in carcere. Secondo le accuse, era uno dei punti di riferimento di Provenzano per via della sua parentela con Masino Cannella, luogotenente del boss. Per i giudici è un esponente della cosiddetta "borghesia mafiosa". MESSINA DENARO, MATTEO

Capomafia della provincia di Trapani. Latitante da quasi ven­ t'anni, rappresenta l'ultimo superstite di una generazione di pa­ drini uccisi o finiti in galera. Nella sua "corrispondenza" con Provenzano, scrive più d'una volta di Vito Ciancimino. MORI, MARIO

Prefetto ed ex generale dei carabinieri, ha concluso la sua car­ riera da direttore del servizio segreto civile. Con De Donno è sospettato di aver "trattato" con la mafia, quando era al Ros, attra­ verso la mediazione di Vito Ciancimino. NAVARRA, MICHELE

Boss di Corleone degli anni quaranta e cinquanta ucciso dagli emergenti (Liggio, Riina e Provenzano) nell'agosto del 1958. Si dice abbia fatto uccidere un bambino testimone dell'omicidio del sindacalista Placido Rizzotto. NICETA, MARIO

Uno dei più noti e benestanti commercianti di Palermo. Nei locali dei suoi uffici, secondo Massimo Ciancimino, sarebbero avvenuti incontri tra Provenzano e Vito Ciancimino. NICOLETTI, ROSARIO

Democristiano, testimone della terribile stagione della mattanza palermitana e dello strapotere mafioso sulla politica. È morto suicida nel 1984, dopo aver assistito impotente alla fine tragica del segretario provinciale Reina e di Piersanti Mattarella. PAPPALARDO, SALVATORE

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Cardinale di Palermo, nel 1982 pronunciò un'omelia durissima ("Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata") contro il potere politico, durante i funerali del generale Dalla Chiesa. La mafia, in risposta, disertò la sua messa pasquale all'Ucciardone. POZZA, MICHEL

Avvocato italo-canadese, faccendiere e amico di mafiosi. Curò an­ che gli investimenti immobiliari, a Montréal, di Vito Ciancimino, poi scoperti dalle indagini di Giovanni Falcone. Il legale-consu­ lente fu ucciso in Canada nel 1982. PURPI, PIETRO

Funzionario della squadra mobile di Palermo e poi dirigente del secondo distretto di polizia. È stato un personaggio molto di­ scusso e indicato da qualche collaboratore di giustizia come vicino alla mafia di Santa Maria di Gesù. PURPIJRA, SEBASTIANO

Andreottiano molto legato al capocorrente di Palermo, Salvo Lima. ROGNONI, VIRGINIO

Democristiano, ex ministro della Difesa. Secondo la ricostruzione di Massimo Ciancimino, sarebbe l'altro politico a conoscenza della "Trattativa" avviata dopo la strage di Capaci. Anche lui, come Nicola Mancino, ha escluso ogni cedimento a qualsiasi tipo di trattativa. ROS

Raggruppamento operativo speciale, nato nel 1990, con compiti di contrasto al terrorismo e alla criminalità. È opera sua la cattura di Totò Riina, che ha lasciato uno strascico polemico e giudiziario per la mancata perquisizione del covo del boss. RUFFINI, ATTILIO

Democristiano, più volte ministro, sembra essere stato in ottimi rapporti con il gruppo prevalente di Lima e Ciancimino. Fu lui,

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secondo Massimo, a informare Vito Ciancimino sulle cause del disastro aereo a Ustica. SALVO, NINO E IGNAZIO

I cugini esattori di Salemi, entrambi processati per mafia. Grandi finanziatori della Dc di Lima e Ciancimino, per anni hanno incarnato il simbolo degli intoccabili. Ignazio è stato assassinato nel '92. Nino era morto di cancro nel 1986. SCAGLIONE, PIETRO

Procuratore capo della Repubblica a Palermo, venne assassinato il 5 maggio del 1971 con un grande impiego di uomini e mezzi. Delegittimato e poi "riabilitato", la sua fine fu spiegata da Buscetta: "Liggio lo volle morto". SCIACCHITANO, GIIJSTO

Magistrato, oggi in servizio presso la Procura nazionale antimafia. È stato a lungo sostituto procuratore a Palermo. Massimo Ciancimino lo indica come giudice vicino agli ambienti politici del padre. TERESI, GIROLAMO DETTO MIMMO

Boss mafioso cognato di Stefano Bontade. Costruttore edile nel periodo del "sacco di Palermo". Scomparve nel nulla, nel

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1981, vittima della lupara bianca, attirato in una trappola dai corleonesi. TESSITORE, BENIAMINO

Magistrato del Tribunale per le misure di prevenzione. Nelle di­ chiarazioni di Massimo Ciancimino è nel gruppo di persone che viene mobilitato per le esigenze processuali di Vito Ciancimino, specie nella vicenda del sequestro dei beni. ULTIMO, CAPITANO

Il suo nome è Sergio De Caprio. Da capitano dei carabinieri ar­ restò Totò Riina. Fu trasferito ad altre mansioni lontane dalla lotta alla mafia. VASELLI, ROMOLO

Conte romano, imprenditore e grande amico di Vito Ciancimino che gli garantì perennemente l'aggiudicazione dell'appalto per la manutenzione stradale a Palermo. Trasferitosi a Roma, don Vito lo frequentò praticamente fino alla fine dei suoi giorni. VASSALLO, FRANCESCO DETTO CICCIO

Ex carrettiere e palazzinaro di grande successo, sull'onda delle licenze facili del Comune di Palermo degli anni sessanta e set­ tanta. Costruì quasi tutta la Palermo nuova e fu ospite fisso delle riunioni in casa Ciancimino. VIOLANTE, LIJCIANO

Quando era presidente della Commissione antimafia, Vito Cian­ cimino avrebbe voluto incontrarlo in privato e avrebbe mandato in avanscoperta, nel 1992, Mori e De Donno. Ma lui rifiutò invi­ tandolo a chiedere una pubblica audizione. ZANGHÌ, ENZO

Cugino di Vito Ciancimino, gli faceva da factotum e segretario ricevendo in cambio favori e prebende, come la presidenza del­ l'Acquedotto comunale.

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MASSIMO CIANCIMINO: Era estate e, come tutti i pa­ lermitani ricchi, felici e "perbene", stavamo in villeg­ giatura a Baida nella vecchia casa dei nonni Attilio e Adele, in via Falconara Baglia. Mio padre, Vito Cian­ cimino, era una star della politica, odiato, temuto e riverito. Attaccato sui giornali di sinistra, ma accettato da quella parte della città, la più grande, abituata a convivere con i potenti per interesse o per amore del quieto vivere. In sostanza perché da loro, da chi co­ mandava, a cascata potevano arrivare soldi e benes­ sere: di più alle classi alte, di meno al popolino, come si definiva il ceto povero. Mio padre non amava radersi, preferiva il rito del barbiere che frequentava quasi ogni giorno. Il "salo­ ne" del signor Lo Piccolo era in via Sciuti, nel cuore della metropoli nuova sorta sull'onda dell'espansione edilizia degli anni sessanta e settanta, a due passi dal­ l'attico dove abitavamo, proprio di fronte al portone di casa nostra al numero 85R. Quella mattina d'estate, all'inizio degli anni ottanta, perciò, me ne stavo seduto nel salottino d'attesa del signor Lo Piccolo, mentre mio padre si faceva insaponare il volto. È bene sapere, a questo punto, che un destino ti­ ranno mi ha costretto, sin da ragazzino, a recitare il ruolo di accompagnatore ufficiale di mio padre. Certo, avrei preferito starmene in libertà a fare le cose dei giovani. Ma lui aveva deciso in modo diverso: ero, diceva, troppo irrequieto, troppo ribelle, incapace di gestire la mia libertà. E allora, per poter esercitare su di me il suo asfissiante controllo, mi teneva accanto a sé. Una pacchia, per un ragazzo che non aveva anco­ ra diciotto anni e doveva tagliarsi i capelli perché quel giorno li tagliava anche il padre. L'accompagnata dal barbiere faceva parte dei miei doveri e non chiedetemi che senso avesse star lì solo per ubbidire a ordini insulsi: "Passami la borsa, anzi, prendi le carte... non queste, testa di cazzo! Dammi gli

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occhiali, quelli con la toppa, però". Una tragedia, gli oc­ chiali. Lui non vedeva da un occhio per le conseguenze di un ictus e dunque aveva bisogno di occhiali con una lente oscurata. Eppure ci avevo fatto il callo. Perciò, come accade quando si aspetta il turno dal barbiere, ingannavo 1 attesa sfogliando una rivista illustrata, forse un nu­ mero del settimanale "Epoca". A un certo punto la mia attenzione si fermò su un servizio dedicato ai grandi latitanti della mafia siciliana, i luogotenenti di Luciano Liggio, allora ritenuto ancora il capo del clan dei corleonesi. C'erano foto vecchie di Totò Rii­ na, ma in particolare ricordo che il giornale cercava di ricostruire al computer il volto di uno dei mafiosi più celebrati e nello stesso tempo sconosciuti. Par­ tendo dall'unica foto esistente che ritraeva il boss. Dall'immagine di Bernardo Provenzano giovanissimo - una faccia squadrata sotto un ciuffo di capelli biondi - si giungeva, grazie agli aggiornamenti del computer, al disegno virtuale di un uomo ormai avanti con l'età. Un ovale inconfondibile, la barba incolta, i capelli corti, insomma una sagoma che credetti di ri­ conoscere. Già, io quel signore lo conoscevo, e lo co­ noscevo da tempo: per me era l'ingegner Lo Verde, un uomo che mio padre frequentava da anni, che era stato più volte a casa mia, che era stato anche a pran­ zo con mio padre, che veniva a trovarlo pure a casa dei nonni, a Baida. Un amico, una persona di fami­ glia di cui mio padre, politico democristiano, asses­ sore e sindaco, si fidava come un consigliere con cui scambiare impressioni e ragionamenti che coinvolge-

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vano persino l'attività amministrativa della città. Possibile che quel Lo Verde, quell'uomo mite che mi dava buffetti sulle guance e mi invitava a essere ub­ bidiente con papà, fosse il terribile, feroce assassino descritto dalle cronache? Rimuginai a lungo sulla mia "scoperta": guardavo dallo specchio la faccia assorta di mio padre che in­ seguiva i suoi pensieri mentre il signor Lo Piccolo lo massaggiava e cercavo di immaginare quale sarebbe stata la sua reazione quando gli avrei chiesto se il mio sospetto fosse giustificato. Cosa che accadde puntualmente sulla strada di ritorno, in macchina. Tenendo fede alla mia indole di provocatore, affrontai il discorso: "Hai visto le foto su 'Epoca'? Dimmi la verità, papà, ma quello non è identico all'ingegner Lo Verde? Anzi, non è proprio lui?". Rimase immobile come una sfinge, muto senza neppure degnarmi di uno sguardo. Un lungo silenzio, forse necessario per trovare la risposta giusta, che arrivò dopo un'interminabile pausa. Non disse né sì, né no, ma era chiaro che mi stava dando ragione. Poi sentì il bisogno di aggiungere un monito, un avvertimento a mantenere il silenzio assoluto vista l'enorme pericolosità dell'argomento, perché "ricordati che non è concesso sbagliare, da queste cose non ti posso proteggere neppure io". Evidentemente temeva il mio carattere impetuoso. Mi considerava, e forse non a torto, un tantino sbruffone e pronto di lingua, perciò temeva che potessi in qualche modo vantarmi - magari durante una lite con qualche coetaneo - della vicinanza di mio padre con uno dei capi di Cosa nostra. D'altra parte funzionava così Palermo: i picciotti si annacavano", si atteggiavano a piccoli boss, borghesia e mafia si mescolavano nelle discoteche e nei salotti, tutti vantavano amicizie normalmente inconfessabili per acquisire considerazione e rispetto. Ecco perché temeva che anch'io potessi in qualche modo "vantarmi": del resto, 19 "

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se venivano sbandierate amicizie con personaggi davvero terra terra, perché non avrei potuto incenerire tutti rivelando che mio padre aveva la bomba atomica in casa ed era fraternamente legato a "don Binnu" Provenzano? Barricato nel suo rifugio di Bologna, le guardie del corpo in piedi dietro alla porta, Massimo Ciancimino racconta così la sua "perdita dell'innocenza". Era an­ cora ragazzino quando la sosta forzata nella barberia del signor Lo Piccolo gli aprì un mondo sconosciuto. Fino a quella mattina Massimo aveva guardato al pa­ dre come un normale figlio che ha il tradizionale con­ flitto generazionale con un genitore possessivo, an­ che violento, autoritario, discusso e politicamente di­ scutibile ma, tutto sommato, "conveniente" per i pri­ vilegi che proprio il suo sistema politico riusciva ad assicurare ad amici e parenti. Oggi Massimo ha quarantasette anni ed è a sua volta padre di un bambino che ha voluto chiamare Vito come il nonno (Vito Andrea, per la verità), tra­ dendo - malgrado le vicissitudini e le incomprensioni - tutto il suo attaccamento al padre e le conse­ guenze di un'educazione sicilianissima e, alla fine, accettata. Sono passati quasi trent'anni da quella sconvolgente lettura di "Epoca" che gli ha stravolto la vita fino a trasformarlo, adesso, in un testimone privilegiato di una stagione più volte descritta sui giornali, ma nella realtà molto più malsana di quan­ to si sia immaginato e verificato. Da quando ha scoperto la vera identità dell'inge­ gner Lo Verde, Massimo si è via via identificato nel ruolo di muto esecutore della strategia del padre, del­ le indicazioni che erano frutto della sinergia politico­ mafiosa di Ciancimino e Provenzano. Da accompa­ gnatore si è fatto "postino" tra i due e le peregrinazioni pericolose lo hanno portato a toccare con mano le inconfessabili commistioni tra mafia e politica: i boss 20

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palazzinari, i signori dei grandi appalti, i burocrati corrotti, i capi di Cosa nostra che, latitanti, vanno a discutere a casa del padre il futuro dei lavori pubbli­ ci, le cene per festeggiare un successo economico ille­ gale. Lima, i cugini Salvo, i Cassina, i Vaselli, il costruttore Vassallo e i "gemelli del mattone" Bonura e Buscemi. E i grandi capimafia seduti al tavolino della spartizione. Insomma, il "sistema Ciancimino" e la Palermo felicissima degli anni ruggenti che, da mi­ crocosmo periferico, si irradiava fino a Roma e più su con una tela di ragno capace di irretire anche i Pa­ lazzi della capitale e inquinare i potentati economici dell'operoso Nord. Improvvise fortune che vedremo sbocciare e spingersi a Zurigo, o anche negli Usa e in Canada, come rivela il racconto di Massimo Ciancimino, ma anche del fratello Giovanni, preziosa me­ moria della vita familiare. Tutto questo però rappresenta solo l'antefatto di una storia che non si è ancora conclusa, una storia torbida che attraversa innumerevoli lutti nazionali, le stragi di mafia per fermare la repressione dello Stato e la "Trattativa" per farle cessare. Una partita mortale giocata da Vito come mediatore e messaggero di Pro­ venzano e Riina, ma anche da Massimo, testimone e tramite di contatti licenziosi tra personaggi che sem­ brano partoriti dalla fantasia dell'autore di un grande thriller: gli agenti sotto copertura, il fu signor Lo Verde nei panni di "capomafia moderato", Riina il san­ guinario. E il misterioso "signor Franco", regista oc­ culto della partita, una sorta di grande vecchio che, dopo anni di vicinanza e di un qualche ruolo nel "si­ stema Ciancimino", segue passo dopo passo la nascita e l'evolversi della "Trattativa", attento a non turbarne la stabilità. Ecco perché è cambiata la vita di Massimo Ciancimino, ancora perseguitato dall'ombra di Lo Verde, ma per nulla rassicurato dalla presenza di un signor Franco sempre senza identità. Il suo sarà un racconto estraniato, quasi non riguardasse se stesso ma 21

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un'altra persona. Senza coinvolgimenti di sorta né sentimentalismi o emozioni, nascosti - se esistessero dall'ironia che ogni tanto vince ogni precauzione. Preciso, fino alla pignoleria, invece, Giovanni, anche lui attento a non cedere al particolare troppo rischioso.

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Amici per la pelle MASSIMO: Il rapporto di mio padre con la mafia ruo­ tava soprattutto intorno all'amicizia con Bernardo Provenzano. Questo non vuol dire che non frequen­ tasse altra gente di quell'ambiente, per esempio un tale don Pino Abbate che ricordo perché ci mandava a casa - nella convinzione delle proprietà taumatur­ giche di arance e limoni - tonnellate di agrumi utili a prevenire un'annunciata e mai avvenuta epidemia di colera. Aveva molte conoscenze e pochissime amici­ zie. Si può dire che i contatti da lui intrattenuti con diversi esponenti di Cosa nostra fossero in qualche modo imposti da quello che potremmo chiamare il condizionamento ambientale che regolava la politica e l'attività amministrativa. Con Bernardo Provenzano era tutta un'altra storia: si scambiavano pareri e con­ sigli. Nelle loro "operazioni" si concretizzava una specie di efficace divisione del lavoro. Mentre mio pa­ dre si preoccupava di mettere d'accordo le diverse e spesso litigiose aspettative - ovviamente soprattutto pecuniarie - dei politici, l'altro bonificava il territo­ rio, garantendo il consenso preventivo della mafia a ogni progetto imprenditoriale. Naturalmente stiamo parlando di appalti pubblici. Mio padre e Provenzano erano paesani, nati en­ trambi a Corleone (anche se a distanza di una decina d'anni), e abitavano non lontano l'uno dall'altro. Il ceto sociale era diverso: Provenzano figlio di contadini poveri, mio padre figlio di commercianti che avevano fatto studiare i figli. Mio nonno si chiamava Giovan­ ni ed era emigrato negli Stati Uniti, da dove era dovuto tornare in seguito alla morte per malattia del fratello più grande. All'inizio la sua famiglia non navigava nell'oro: la svolta sarebbe arrivata con lo sbarco degli americani, quando a mio nonno - a Corleone forse l'unica persona in grado di parlare e capire l'inglese ­ fu offerto il ruolo di interprete del comando alleato. 23

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Solo interprete? E qui mi torna un cattivo pensiero riguardo ai mo­ tivi che hanno poi indotto mio padre a frequentare per anni, fino alla famigerata "Trattativa", strani per­ sonaggi come il "signor Franco", identità evanescente, inafferabile. Uomo delle istituzioni o che altro? Mi rendo conto, per esempio, quanto possa risultare incredibile che io, in più di vent'anni di contatti col "signor Franco", non sia mai riuscito a conoscerne la vera identità. Eppure è così, non potevo fare domande a mio padre perché si guardava bene dal rispondere e tantomeno potevo rivolgermi direttamente a lui che dell'anonimato, della circospezione, sembrava fare la sua religione. Capivo che non poteva rivelarsi per quello che era e facevo finta di niente, come nelle spy stories. Per questo non mi sono stupito più di tanto nel rileggere un appunto, ritrovato insieme con tutta la documentazione consegnata ai magistrati, con il quale mio padre sembra affermare di aver fatto parte della Gladio. I rapporti con gli americani consentirono a mio nonno di riprendere l'attività di import-export interrotta durante la guerra. Tutto ciò cambiò anche la vita di mio padre, perché i guadagni furono così consistenti da permetterne l'impiego in attività imprenditoriali importanti, come costruzioni edili e stradali, idrauliche, ponti, trasporti e attività commerciali nelle quali si inserì bene. Altro che barbiere di Corleone, come mio padre è stato a lungo definito dai giornali. Una favola dovuta al fatto che uno dei locali di sua proprietà era dato in affitto a un barbiere. Bernardo Provenzano era più giovane di mio padre. A scuola non andava benissimo e così finì che i suoi genitori si rivolsero allo studente dell'istituto per geometri, Vito Ciancimino, perché desse al ragazzino un "aiutino" in matematica, materia dove il piccolo Binnu stentava. Nasce così quel legame, divenuto nel tempo fortissimo. 24

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Io queste cose le apprenderò in seguito diretta­ mente da papà, perché dopo la scoperta dell'identità del signor Lo Verde cominciò a rispondere, anche se a monosillabi, a qualche domanda. Sempre con molta cautela, fino all'apertura totale, o quasi, che avverrà all'epoca del contatto con i carabinieri, dopo la strage di Capaci e dopo l'assassinio dell'amico-nemi­ co Salvo Lima, ma soprattutto dopo essergli stato vi­ cino in carcere, al confino e, alla fine, agli arresti do­ miciliari. Insomma, col tempo il suo rapporto con me cambiò, si convinse a parlare per scrivere "in un libro tutta la verità", ovviamente la sua verità. Ecco come ho saputo tante cose. Mi raccontò di quando dava lezioni a Binnu. Mi disse divertito che si era permesso di dargli anche qualche scappellotto sulla nuca quando sbagliava. E lo rimproverava a modo suo, dicendogli "cornutaz­ zo". "Sono uno dei pochi in vita," scherzava, "ad aver dato del cornuto a Provenzano." Non l'ho mai sentito parlare con altri di questi argomenti. Mai un accenno, neppure con gli amici più fidati, ammesso che ne avesse. Il suo rapporto con Provenzano era stretto ma riservatissimo ed esclusivo, esattamente nello stile del suo alter ego. Si vantava del fatto che nessun mafioso lo avesse mai incontrato con l'inge­ gnere. Già, perché a volte Lo Verde godeva anche di questo "titolo". Mi ricordo le visite a casa, a cadenza quasi siste­ matica, in via Sciuti, a Baida, in via Danae a Mondel­ lo. Era di statura piccola, Lo Verde. Arrivava sempre da solo, a piedi, un po' curvo, con la solita andatura lenta e il borsello stretto fra le mani. Lasciava la mac­ china non vicinissimo alla villa dove abitavamo, non si sa mai e la prudenza non è mai troppa. Una volta, proprio in via Danae, arrivò senza scorta, anzi con il ragioniere Pino Lipari - i giornali sono pieni di articoli su questo personaggio considerato di provata fede corleonese - che doveva assistere all'incontro. Mio pa­ 25

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dre quindi mi mise in preallarme - trovava sempre il modo di impartire istruzioni a modo suo strategiche ­ disponendo che aprissi il cancello per far entrare gli ospiti e l'auto. Ma Provenzano preferì parcheggiare al­ l'esterno, malgrado i dubbi espressi da mio padre sulla sicurezza della strada. "Ma chi vuole che la tocca, la macchina?" tagliò corto Binnu. All'uscita trovò la ca­ pote del Maggiolone squarciata e l'alloggiamento dello stereo inesorabilmente vuoto. Avevano fottuto l'autoradio al padrino di Cosa nostra, proprio davanti a casa mia. Non scordo il mefistofelico sorrisetto sfottente di mio padre, accompagnato dalla battuta sulla "strari­ pante potenza della mafia". Ci rimase male, Lo Verde. Tanto che in una successiva visita si presentò con un'autoradio, a suo dire, "riconsegnata con tante scuse". Mio padre non resistette e chiese sarcastico: "Dimmi la verità, quanto l'hai pagata?". Se le poteva permettere, le battute, lui che Provenzano l'aveva visto crescere fino a ritrovarselo padrino di Corleone. Passavano ore a parlare i due. Quasi sempre da soli, senza altre orecchie che ascoltassero: era quella, avrei poi imparato con il tempo, la naturale cautela corleonese che consisteva soprattutto nel non far sapere a nessuno - perché di nessuno ci si deve fidare -quello che passava per le loro menti. Ma non mancavano anche i momenti di relax, davanti a un buon piatto siciliano oppure andando su e giù per il campo di bocce della casa di Mondello, posto ideale, all'aperto, per parlare senza timore di essere ascoltati.

11 bambino Provenzano Anche il fratello maggiore di Massimo, Giovanni, è testimone di questa antica amicizia tra il padre e "don Binnu". Il suo è un racconto suggestivo, tanto più perché fatto attraverso il ricordo del primo incontro fra don Vito e un altro grande capomafia, Stefano Bontade. 26

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Un "gioiello" di antropologia mafiosa, una scena che oggi Giovanni prova a raccontare nei minimi particolari, dialoghi compresi. GIOVANNI CIANCIMINO: Eravamo a metà degli anni sessanta e trascorrevamo le vacanze alle terme di Sal­ somaggiore. Nello stesso nostro albergo alloggiavano alcune famiglie palermitane, sicuramente benestanti a giudicare dalle loro auto. Si faceva colazione in una grande sala e una mattina mio padre fu avvicinato da un signore che aveva dato l'impressione di aspettarlo per poterlo agganciare. Era un uomo sulla trentina, magro, alto ed elegante. Quando capì che mio padre stava per alzarsi gli si presentò: "Mi scusi se la disturbo. Lei sicuramente non mi co­ nosce, io invece sì. Lei è Vito Ciancimino, il politico". Tagliò corto, mio padre, dando una delle sue solite risposte odiose e arroganti nelle quali era maestro. Anche con l'espressione del volto manifestò tutto il suo disappunto per essere stato infastidito: "Ha detto due cose esatte, io sono Vito Ciancimino e non la conosco". Il suo interlocutore, invece, continuò a parlare in modo garbato, come se non avesse colto l'irritazione di mio padre, dicendo di avere un amico in comune, don Pino Abbate. Continuò: "Mi chiamo Stefano Bontade, mi occupo di costru­ zioni e conosco anche i suoi paesani. Non sono amico con loro come con Abbate, però ho buoni rapporti". Sfuggente la replica: "Chi intende per i miei paesani?". "Intendo Salvatore Riina e Bernardo Provenzano." Mio padre non abbandonò la difensiva: "Io all'età di diciotto anni ho lasciato Corleone per studiare Ingegneria a Palermo e loro erano ancora ra­ gazzini perché molto più giovani di me. Riina non lo

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ho mai conosciuto, Provenzano sì e le voglio raccon­ tare in che modo. Un pomeriggio piovoso d'inverno, mentre ero in casa a studiare, dalla finestra mi accorsi di un bambino che, forse per una caduta, non riusciva a camminare ed era bagnato fradicio. Scesi con un ombrello per dargli soccorso e metterlo al riparo, in casa. Raccontò di essere caduto mentre inseguiva un cane. Si esprimeva in un italiano stentato, come se non avesse frequentato la scuola, però aveva lo sguardo acuto di uno che conosce il fatto suo, abituato a cavarsela in ogni circostanza. Gli chiesi chi fosse e lui rispose: Provenzano Bernardo, però mi chiamano Binnu'. Gli diedi una tazza di latte caldo, chiese del pane che ottenne anche con della marmellata di ciliegie. Lo riaccompagnai a casa in bicicletta. L’indomani si presentò con un mastello di ricotta: era il suo modo di ringraziarmi. Ecco, questo è stato il mio unico incontro con Provenzano". Dopo aver ascoltato in silenzio, Stefano Bontade, tradendo una nota di scetticismo: "E a Palermo non l'ha mai visto?". "No, gliel'ho già detto. Lui non mi ha mai cercato e io non ho cercato lui." "Quello che mi sta dicendo mi stupisce, però non ho motivo di non crederle perché lei ha fama di non dire bugie. Mi permetto, comunque, di darle un consiglio: con Provenzano si può parlare, ma con Riina è meglio non averci a che fare. E testardo e irascibile e difficilmente cambia idea. Io e lui abbiamo avuto più di un contrasto, ma Provenzano ci ha sempre messi d'accordo." L'incontro tra mio padre e Bontade si concluse con la richiesta di quest'ultimo di un appuntamento a Palermo "per una faccenda che mi sta molto a cuore". Precisò che avrebbe preferito vederlo nella casa di Baida, "perché non amo frequentare le segreterie dei politici". L'approccio garbato di Bontade aveva avuto successo, perché a mio padre quell'uomo era piaciuto, anche se 28

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non aveva per nulla gradito che, a sua insaputa, lasciando l'albergo avesse pagato anche il conto della famiglia Ciancimino. Ne fece una tragedia, soprattutto con il direttore delle terme a cui impose di accettare un assegno per l'importo del conto, intimandogli di rimborsare Bontade. "E qui non mi vedrà più": questo fu il burrascoso commiato.

Liggio il prepotente GIOVANNI: Quella estate Bontade venne parecchie volte nella casa di via Falconara Baglia, a Baida. E la prima volta si scusò della gaffe del conto dell'albergo di Salsomaggiore. Sempre elegantissimo, arrivava con un'Alfa di grossa cilindrata guidata dall'autista. I due si appartavano in una piccola terrazza dove nes­ suno poteva accedere e mio padre addirittura chiudeva a chiave il cancelletto d'ingresso. Mi chiedevo il perché di tanta riservatezza per parlare con un co­ struttore. Altri imprenditori erano di casa da noi, an­ che più famosi come Ciccio Vassallo, ma stavano tranquillamente seduti in compagnia. Non sapevo, allora, che Bontade era sì un impresario, ma anche uno dei capi della mafia. Un giorno si presentò senza appuntamento, ac­ compagnato da don Pino Abbate e da un altro signore alto, magro, con i capelli chiari vestito in maniera molto ricercata che si chiamava Mimmo Teresi. Poi avrei appreso che era cognato di Stefano Bontade. Mio padre, però, non era in casa e i tre furono co­ stretti ad aspettare a lungo. Quando arrivò, dopo cir­ ca due ore, era in compagnia di tre consiglieri comu­ nali del suo partito, prontamente congedati alla vista del gruppo in attesa. L'incontro si aprì con la rituale presentazione di Teresi, che mio padre non aveva mai visto. Il resto si svolse nel solito terrazzino. Si trattava di un'emergenza: Bontade e il cognato

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avevano fatto un compromesso sulla parola per l'ac­ quisto di un terreno dove "si poteva edificare una trentina di ville" ed era stata pagata una caparra, in attesa del perfezionamento dell'affare. Ma all'improv­ viso il proprietario aveva cambiato idea. Si era pre­ sentato agli acquirenti con fare baldanzoso, resti­ tuendo loro l'anticipo maggiorato del 20 per cento perché, diceva, "voglio costruire io". Né Bontade né Teresi credevano che quello fosse il vero motivo del ripensamento. "Figurarsi," intervenne Teresi, "se un cacauova come quello sarebbe venuto da noi con quell'aria da padreterno. Il fatto è, come abbiamo scoperto, che quel terreno lo vogliono Luciano Liggio e i suoi compaesani Riina e Provenzano." Mio padre chiese cosa potesse entrarci lui con quella storia. Secondo loro avrebbe dovuto parlare con Liggio per convincerlo a rinunciare al terreno. Cosa che lui escluse categoricamente, visti i pessimi rappor­ ti pregressi con il capo dei corleonesi. Per risultare più convincente, confidando nel fatto che stava parlando con "uomini di rispetto" che mai avrebbero tradito il segreto, raccontò loro la storia di suo cugino Pietro Maiuri, ucciso a Corleone ai tempi della guerra fra Liggio e il dottor Michele Navarra. "Lo uccisero," svelò mio padre, "sebbene Liggio in persona mi avesse garantito, in un incontro segreto nel centro di Palermo, che mio cugino avrebbe potuto campare pure cent'anni, per quel che importava a lui. Avevo garantito che Pietro si sarebbe trasferito a Palermo e Liggio era d'accordo: fa bene, Corleone non è più un paese adatto a lui. Mi salutò baciandomi sulle guance. Per questo non andrò più e per nessun motivo a parlare con Luciano Liggio."

Il papà potente MASSIMO:

Eppure nei miei ricordi Baida è un'isola 30

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felice. In quella casa, la casa degli amatissimi nonni Attilio e Adele che hanno cresciuto me e i miei fratelli, riempiendo il vuoto dei genitori assenti, ho trascorso i giorni più belli della mia vita. Quella era la casa della villeggiatura estiva: si andava subito dopo la chiusura delle scuole, e ci si restava fino ai primi di ottobre. Vivevamo in piena libertà, quasi allo stato brado, in strada, giocando con semplicità. Bastava un pezzo di legno e un copertone d'auto lanciato e rincorso. Si mangiava in terrazza, bella, ampia, un belvedere sul mare di Palermo, e avevamo una gebbia, una vasca di irrigazione, che spesso diventava piscina. Il mare era lontano, ma non irraggiungibile. Ci an­ davamo il sabato e la domenica e spesso i preparativi cominciavano sin dal mercoledì. Un elaborato menu prevedeva pasta al forno, uova sode, cotolette e frittata. Il giorno della gita era una festa. Ricordo la 128 rossa e mia madre, Epifania, alla guida. A Giovanni spettava gerarchicamente il posto davanti, noialtri stavamo ammucchiati dietro con mia sorella Luciana, la piccola, in braccio. Una tragedia, la scelta della colonna sonora. Giovanni aveva gusti davvero barbari, prediligeva mode deprimenti e malinconiche: Battisti, I Giganti, Lauzi e via piangendo. Noi, io e Roberto, tifavamo per ritmi più abbordabili ma etichettati come "tacci", oggi diremmo nazional-popolari. Le nostre perle erano: I cugini di campagna, Franco i e Franco iv, il primo Celentano. Su tutti svettava mio fratello Sergio, da sempre dissociato, che ci flagellava con le canzoni, anche quelle lamentose, di Demis Roussos, uno strano santone sovrappeso perennemente in caftano. Destinazione: la spiaggia di Mondello Valdesi, dove ogni estate la Società Italo-Belga dell'ingegner Ca­ stellucci, concessionaria da secoli di tutto il litorale di Mondello, allestiva lo stabilimento balneare, com­ pleto di zona vip. La nostra capanna stava nel cuore di questa "riser­ va", completa di terrazzino e di parcheggio privato 31

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nello spazio dell'Hotel Palace. Nel settore dei politici potenti ovviamente nessuno pagava. Lo vedevo poco, mio padre, nel periodo di Baida. Di lui ho ricordi poco felici. Ero piccolo, ma comin­ ciavo a capire che era un uomo particolare, sia per il carattere rude, introverso e prepotente, sia per il ruolo che esercitava e per come veniva percepito dagli altri. L'unione con mia madre non era delle più tranquille perché lui si concedeva molte distrazioni. Gli piacevano le donne e, con quel suo carattere, ciò che voleva tendeva a prendere: fosse un affare come anche una bella donna. Ricordo la prima volta in cui cominciai a intuire il peso che aveva in città. Mia madre era ossessionata dal pericolo rappresentato dalla velocità con cui le auto passavano davanti alla villa dove noi bambini giocavamo. Litigavano per questo problema e la mamma gli rinfacciava di non occuparsi dei suoi fi­ gli. Era un tormento continuo che finì solo quando lui non poté più ignorare le contestazioni per via di un incidente avvenuto proprio davanti a casa. Mia madre avrebbe preteso la presenza fissa di un vigile che multasse gli automobilisti indisciplinati. Ma lui fece di più: convocò a Baida il capo dei vigili urbani, gli assessori competenti e il conte Cassina, che cono­ scevo già perché veniva spesso a casa nostra. Noi ragazzi lo avevamo notato per le sue splendide automo­ bili e per il suo inconfondibile pizzo alla Pirandello. Ma che c'entrava il conte con i vigili e con gli assessori? Non molto tempo dopo lo avrei capito. Cassina era il titolare dell'impresa che sistematicamente si era aggiudicata l'appalto per la manutenzione stradale, insomma era uno degli abituali partecipanti al "sistema Ciancimino". Il giorno seguente al meeting dell'unità di crisi di Baida, la borgata fu invasa da operai di Cassina e vigili urbani. A tempo di record, due giorni, furono costruiti 32

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alcuni dossi a cinquanta metri l'uno dall'altro con l'obiettivo di limitare la corsa delle auto. Ma le cunette" - così le definivano gli abitanti di Baida -, non segnalate, provocarono una serie di incidenti che costrinse gli assessori, i vigili, il sindaco a inventarsi cartelli adatti e, fino a quel momento, sconosciuti. Non potrò dimenticare un altro episodio avvenuto a Baida. C'era un cane randagio che aveva morso più d'un bambino e, un pomeriggio, mio padre lo trovò nel giardino di casa. Con estrema semplicità, prese la sua rivoltella e lo uccise davanti a noi ragazzi, con l'assistenza di due imperturbabili vigili urbani. Un avvenimento particolare, come anche la morte del nonno Giovanni, di cui ricordo soltanto il carattere aspro che deve aver trasmesso al figlio. Ma, come ho detto, risalgono al periodo di Baida anche le prime percezioni delle "stranezze" di mio padre, che col tempo avrebbero trovato spiegazione nella sua attività e nelle sue relazioni pericolose. E a Baida che colloco i miei primi ricordi delle visite dell'ingegner Lo Verde e del signor Franco, avvenute sempre in quel clima circospetto che alimentava la mia curiosità. "

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In alto il giovane Vito Ciancimino negli anni cinquanta a capotavola in un pranzo organizzato dalla Dc di Corleone, in cui annunciò il suo ingresso in politica. In basso la tavolata al completo. Don Vito è il secondo da sinistra.

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Vito Ciancimino e signora a una prima del Teatro Massimo a Palermo.

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In alto Congresso provinciale Dc nel 1981. Nell'ordine da sinistra Salvo Lima,

Vito Ciancimino, Ernesto Di Fresco, Giovanni Gioia.

In basso Ciancimino al congresso provinciale Dc, sempre nel 1981.

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In alto Ciancimino in tribunale, come parte lesa nel 1970, in un'udienza del processo scaturito dalla querela seguita alla pubblicazione da parte del quotidiano "L'Ora" di una vignetta di Bruno Caruso.

In basso Ciancimino dopo l'arresto, a metà degli anni ottanta.

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2.

Palermo da bere

Un potere praticamente assoluto inglobava negli anni sessanta e settanta l'intera città di Palermo, comprese le istituzioni preposte all'azione di controllo e di contrasto al malaffare. Polizia e carabinieri an­ naspavano in mezzo a guerre di mafia e rare indagini su cattiva amministrazione e corruzione. Le investi­ gazioni sulla criminalità economica, prerogativa della guardia di finanza, semplicemente non esistevano. Il Palazzo di giustizia era un mausoleo immobile, inadatto (o forse refrattario) a cogliere i sintomi pa­ tologici di una società infettata. Erano gli anni in cui veniva messa in discussione l'esistenza stessa della mafia. Chi pronunciava quel nome veniva additato come un "denigratore della Si­ cilia". I discorsi dei procuratori generali, durante le cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario, si incartavano sulle parole per evitare quel bisillabo. Si scomodavano illustri antropologi del passato per cer­ tificare che la mafia, come organizzazione criminale, era parto della fantasia di comunisti ed esaltati e che, semmai, si poteva parlare di "modi d'essere" e di "pensare" abbastanza diffusi. Si potevano mandare alla sbarra le tradizioni di una comunità? Con gli anni si era giunti così all'impunità del potere politico­ 39

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mafioso. Anche di fronte a fortunate quanto "acci­ dentali" evenienze che avrebbero potuto squarciare il velo che nascondeva quello spettacolo indecente. Come sarebbe cambiata Palermo se, nel 1972, la magi­ stratura avesse dato retta a Leonardo Vitale, un giovane mafioso convertito da una profonda crisi religiosa? Voleva pentirsi e firmò un memoriale. Ma a quei tempi era impensabile tradire l'omertà: solo un malato, un pazzo poteva provarci. Finì al manicomio criminale. E poi in carcere e al confino. Fu l'unico a pagare. E dire che aveva spiegato Cosa nostra nei dettagli: gli uomini, i capi, l'organizzazione, la politica. Aveva già fatto i nomi di Riina, di Pro­ venzano e del sindaco dei corleonesi, Vito Ciancimino. Tutto gettato al vento: per riparlare dei corleonesi è stato necessario attendere Giovanni Falcone, quasi quindici anni dopo. Ma forse non si trattava soltanto di ritardo culturale, di miopia innocente. Forse anche dentro il Palazzaccio si riproduceva quel cancro che avvelenava la convivenza civile. Di fatto la città si reggeva sul­ l'esistenza di un blocco di potere "scandaloso", capace di neutralizzare ogni controllo di legalità. E la giustizia, lenta e ovattata, stava attenta a non turbare i delicati equilibri che regolavano un sistema accettato e condiviso. Di quel blocco di potere Vito Ciancimino fu perno e motore. Assessore ai Lavori pubblici del Comune di Palermo dal 1959 al 1964, nel 1970 diventerà addirittura sindaco della città, sia pure per poche settimane, costretto a dimettersi dal clamore di quella nomina e da una martellante campagna di stampa del giornale "L'Ora". Anni dopo, parlando con i figli, attribuirà la responsabilità di quello smacco alle pressioni ricevute da Riina e soci: "Mi hanno costretto a fare il sindaco solo per delirio di onnipotenza, solo per poter vantarsi di avere un corleonese sulla poltrona di primo cittadino. 40

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Ma io lo sapevo che non potevo reggere". Già allora era totalmente screditato: lo scandalo delle tremila licenze edilizie concesse in una sola notte a prestanome che nascondevano l'identità di pochi amici costruttori, le proteste per la distruzione delle ville liberty del "boulevard della Libertà", la "miniera" della raccolta dei rifiuti affidata ai privati (Vaselli) e della manutenzione stradale (Cassina), e ancora gli acquedotti e l'Azienda del gas gestiti letteralmente in famiglia. Eppure per anni continuerà a mantenere e alimentare quel sistema fondato sulla corruzione e sul malaffare. Un terreno di coltura, quello del malaffare e della corruzione, su cui la vicenda di don Vito si intreccerà per anni con quella dell'altro grande protagonista della vita politica siciliana: Salvo Lima. Insieme a Giovanni Gioia, segretario provinciale della Dc e più volte deputato nazionale e ministro, saranno loro ad animare la corrente fanfaniana in Sicilia e a inaugurare la cosiddetta "strategia delle tessere", trasformando la Dc siciliana in un partito degli affari capace di gestire saldamente le leve del potere locale. Sono gli anni della cementificazione e del cosiddetto sacco di Palermo": la speculazione sui terreni della Conca d'oro che passa velocemente dal giallo delle arance al grigio del cemento. Sono gli anni in cui si definisce il profilo di una città ostaggio della mafia e di una politica fortemente condizionata dal malaffare. Una sinergia tra amministratori e politici da un lato, e capi di Cosa nostra dall'altro, che Tommaso Buscetta descriverà in questi termini: "Nella politica locale, i nostri due punti di riferimento principali erano Salvo Lima e Giovanni Gioia, segretario della Dc. Ho conosciuto Lima e l'ho incontrato più volte. In municipio, quando lui era sindaco di Palermo, e anche a casa sua... Non si è potuta sviluppare tra noi una vera amicizia... Io consideravo Lima in base alla sua carica ufficiale: era il sindaco della mia città. Lui mi considerava un grande capomafia. I nostri rapporti assomigliavano a quelli tra ((

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due istituzioni e avevano perciò un certo sapore di ufficialità. Non mi sorpresi perciò quando, verso il 1961 o 1962, apprestandosi ad andare negli Usa quale componente di una delegazione del Comune di Palermo, Lima mi disse che desiderava incontrare qualche importante autorità mafiosa d'oltreoceano. Convenimmo assieme che era necessario osservare un certo protocollo. Scrissi allora per lui una formale lettera di presentazione in-

Una pagina del verbale di Leonardo Vitale del 1972, in cui già si accenna­ va ai grandi nomi della struttura di Cosa nostra.

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dirizzata a Joe Bonanno e Charles Gambino, i capimafia di New York. Al ritorno dal viaggio andai a tro­ varlo nel villino di Mondello dove egli abitava d'estate e ricevetti i suoi ringraziamenti per l'accoglienza calorosa che aveva ricevuto dagli uomini d'onore americani... Lima era al corrente della mia passione per la lirica e mi mandava in omaggio un blocchetto di biglietti per tutta la stagione lirica a Palermo. Era un uomo intelligente, serio e poco loquace. Parlava pochissimo, come un vero figlio di uomini d'onore, e manteneva gli impegni che prendeva". La carriera di Lima sarà in effetti più lineare di quella dell'amico e rivale Ciancimino: vicesindaco dal 1956 al '58, sotto la segreteria nazionale di Fanfani, è primo cittadino dal 1959 al '63 e poi di nuovo dal 1965 al '68, quando cambia corrente e confluisce negli andreottiani con tutto il bagaglio di amicizie e alleanze, anche mafiose, accumulate nel corso degli anni. Nella corrente del "divo Giulio" don Vito lo seguirà otto anni più tardi, nel 1976, dopo un incontro a Palazzo Chigi: entrò da dissidente e uscì dalla stanza del presidente del Consiglio con la casacca di an­ dreottiano. Nei suoi proverbiali e prolissi diari appuntò che "la convocazione giunse attraverso gli andreottiani siciliani". In quel frangente Ciancimino era in disaccordo con la linea del segretario nazionale Zaccagnini a proposito della "solidarietà nazionale" con i comunisti, ed esplicitò il suo dissenso in una lettera. La mediazione, poi risultata vincente, la fece Andreotti in persona, alla presenza della sua corrente palermitana: Lima, D'Acquisto e Matta. E per fargli ingoiare il rospo dell'intesa coi comunisti, disse: "Si ricordi, caro Ciancimino, che i nostri abbracci sono sempre mortali". Fu questa frase che fece cedere don Vito: "Presidente, mi ha convinto". Iniziò così la collaborazione tra cianciminiani e andreottiani. I tempi lunghi della giustizia consegneranno con grande ritardo il film dell'incredibile abbraccio mor­ 43

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tale fra politica e illegalità. Bisognerà aspettare gli anni ottanta: Ciancimino in carcere, la rovinosa ca­ duta dei cugini Nino e Ignazio Salvo, gli esattori celebrati per un ventennio come i padroni di Palermo, Salvo Lima sbattuto in prima pagina alla stregua di "ca­ pobastone" del sistema andreottiano alle dipendenze di Cosa nostra e poi ucciso come un volgare boss, i nomi della classe imprenditrice cittadina sempre più associati alle indagini sulla corruzione mafiosa e sui meccanismi che hanno permesso a pochi "amici", sempre gli stessi, di mungere per anni la mucca delle risorse pubbliche e della speculazione edilizia privata. Era un quadro che tutti sapevamo reale, ma difficile da contrastare per le protezioni di cui godeva quel sistema. Protezioni istituzionali a livelli alti, come sembra emergere oggi dalla misteriosa figura del signor Franco (o Carlo), evocato da Massimo Ciancimino, infido suggeritore e padrone assoluto della zona grigia, la terra di nessuno che sta fra l'illegalità e gli apparati di contrasto. E poi la protezione, sul territorio periglioso della Sicilia mafiosa, di Lo Verde/Provenzano e della compagine corleonese. Esiste traccia, nella storia recente della lotta alla mafia, un'ampia traccia dell'esistenza del "sistema Ciancimino". Sentirlo adesso raccontare in presa diretta da testimoni privilegiati, come i suoi figli Massimo e Giovanni, suona come una conferma per il passato e un allarme per un presente forse non immune dalle metastasi. La palude MASSIMO: Negli anni sessanta e settanta la mafia godeva di un grandissimo consenso sociale: si andava da una teorizzata neutralità a una vera e propria corsa per accreditarsi come amici dei boss. Fior di professionisti non nascondevano di sentirsi gratificati se potevano

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essere utili ai capi di Cosa nostra e i politici vedevano in questo consenso sociale un'inesauribile riserva di voti. Tra i giovani, poi, risultava ancora più appetibile la vicinanza con i "padroni di Palermo". Guardavamo con invidia alla tracotanza di quei coetanei che viaggiavano su auto e moto stupende e la sera spendevano cifre iperboliche. Il desiderio di emularli sovrastava qualsiasi remora morale. Ricordo benissimo uno di questi rampolli: si chia­ mava Guglielmo ed era il figlio di Gaetano Fidanzati, detto Tanino, un boss famosissimo a Palermo. Abitava all'Arenella in una strada rinomata per la presenza del Mago del gelato, i migliori coni della città. E sotto casa sua c'era sempre una processione di ragazzi della cosiddetta "Palermo bene" che andavano a chiedergli qualche "favore": la maggior parte delle richieste riguardava un intervento per poter recuperare un motorino o una macchina rubati. Guglielmo non de­ ludeva mai e celebrava, poi, la sua fama nelle discote­ che, dove - la notte - questo mondo si mescolava e conviveva perfettamente. Un classico, le sceneggiate in cui si esibivano i figli del "re della droga" Masino Spadaro, sui divani dello Speak Easy, allora la disco­ teca più di moda a Palermo, o il figlio del palazzinaro Rosario Spatola. Non facevano altro che riproporre, in piccolo, lo schema imparato dai genitori. E perciò facevano da pacieri, mettevano alla porta scocciatori, sedavano risse non gradite ai proprietari dei locali, in modo da poter accampare poi dei crediti nei loro confronti. Per questo spesso non pagavano la costosa coreografia messa su con champagne e whisky di gran marca.

La torta da spartire MASSIMO: Gli adulti si mescolavano nei circoli e nei salotti. Io stesso frequentavo il Country e il più titolato 45

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Lauria. Ma ero parte integrante della buona bor­ ghesia: le feste, le cene a casa dei Tasca o di Giorgio Inglese, nobili e rispettati. O nelle case degli impren­ ditori di successo: i Cassina, i Maniglia, gli esattori Salvo, proprietari di una barca che era un transatlan­ tico. Le gite sullo yacht di Benny D'Agostino, dove potevi incontrare professionisti o politici affermati: li guardavo e li rivedevo in situazioni diverse, nell'altro abbraccio - certamente meno elegante - con i rudi boss, mentre si discuteva e si distribuivano soldi e appalti. Penso alla fine atroce del professor Sebastiano Bosio, angiologo di fama e docente all'Università di Palermo. Io e i miei fratelli eravamo amici delle figlie e perciò rimanemmo sconvolti quando lo uccisero a revolverate nel cuore della città nuova, davanti al Cuba, il bar di Villa Sperlinga. Era il novembre del 1981 e la guerra di mafia aveva già dato il via alla mattanza senza fine. Rimanemmo attoniti di fronte a tanta ferocia che ritenevamo ingiustificata. Perché avevano ammazzato Bosio? Cosa poteva avere a che fare lo studioso con i motivi di quella catena di sangue? Sul momento non ci furono risposte: le voci spiegarono frettolosamente che forse il professore aveva curato uno dei mafiosi perdenti rimasto ferito in un agguato. Altre voci affermavano il contrario, e cioè che forse si era rifiutato di curare qualcuno. Ma niente di certo, infatti il delitto è rimasto senza spiegazione. Qualche settimana fa l'inchiesta stava per essere archiviata quando una delle figlie di Bosio, Silvia, ha suggerito ai giudici di "sentire la famiglia Ciancimino che potrebbe sapere qualcosa sulla morte di mio padre". Ha raccontato che una sera si trovava nella discoteca che gestivo a Monte Pellegrino, il Brasil, e incontrò mio padre. Cominciarono a parlare e il discorso cadde sulla vicenda di Bosio. Dice Silvia che mio padre le fece capire di conoscere qualche retroscena di quella storia ma non aggiunse altro perché certe cose è meglio non saperle. Ecco perché ora vorrebbe capire se il resto della 46

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famiglia Ciancimino sa qualcosa. E non è sbagliata la sua idea. Mio padre mi accennò qualcosa nel 2000, quando lavoravamo al libro. I miei ricordi sono confusi, ma rammento di avergli sentito dire che in qualche modo c'entrava il mafioso Giacomo Giuseppe Gambino e un trattamento "sgarbato" ricevuto dal medico a cui era stato "raccomandato". Ma non credo fosse questo il movente vero. Mio padre mi parlò anche di dissapori col direttore sanitario (allora era Giuseppe Lima, fratello del più famoso Salvo), di gelosie professionali durante il periodo in cui si dovevano decidere nomine e primariati. Bosio non aveva un carattere facile e minacciava continuamente di rivolgersi alla magistratura. Chissà quali interessi è andato a intralciare, povero professore. Mio padre non aveva grande considerazione per la buona borghesia palermitana, visto che ne conosceva ogni intimo vizio. La tollerava, come tollerava l'inva­ denza dei mafiosi, conscio com'era che, per funzionare, il "sistema" non poteva fare a meno di nessuna delle sue componenti: le imprese, la politica, la mafia. Era notevole, la torta da spartire. In una sola riu­ nione, ricordo, si stabilì una lunga lista di lavori pub­ blici da assegnare. Erano gli inizi degli anni ottanta e mio padre era già il collettore di questo fiume di affari che gestiva in sinergia con l'uomo che era ormai il suo alter ego: Bernardo Provenzano. Una mattina, dunque, mio padre licenzia l'autista e mi dice di preparare la macchina perché bisognava andare. Quando parlava così significava che si appre­ stava a partecipare a uno dei soliti incontri riservati. Tanto riservati da dover spesso ricorrere all'ausilio di un "apripista". Questa funzione più d'una volta fu svolta dal boss Nino Madonia, che ci precedeva con la sua Peugeot 205 rossa. Per seminare eventuali pe­ dinatori entrava in alcuni cantieri e ne usciva da cancelli secondari, grazie ai telecomandi messi a disposizione da 47

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amici. Concedetemi una digressione sul rituale degli spo­ stamenti, che mio padre affrontava come una vera e propria impresa: si trattava di tirar fuori l'auto, un'Alfa GT di colore grigio metallizzato, posizionarla all'interno dello spiazzo condominiale e attendere il suo arrivo. Quindi andargli incontro per sottrargli il peso della borsa piena di numerosi occhiali, da vicino, da lontano, con o senza toppa all'occhio offeso, di carte di lavoro e delle immancabili musicassette, supplizio sadico inferto a chiunque viaggiasse in sua compa­ gnia. Il mio posto era accanto a lui, che si ostinava a guidare malgrado l'occhio incerto che metteva a re­ pentaglio le insegne dei benzinai e qualunque sito stradale che non fosse un rettilineo. Si partiva in seconda perché "la prima serve solo per le salite ripide e per far arricchire i benzinai e i meccanici". Così andò anche quella mattina, con qualche im­ previsto. La destinazione era Bagheria, negli uffici dell'impresa I.c.re. di proprietà del boss Leonardo Greco, detto Nardo. Purtroppo quattro chilometri prima la nostra Alfa aveva cominciato a mandare fumo dal cofano anteriore. Sarebbe stato logico fermarsi e controllare il guaio, ma lui non volle perché temeva sapendo la delicatezza dell'incontro a cui ci apprestavamo - di "dare nell'occhio" e attirare l'at­ tenzione. Motivazione fragile, dal momento che era­ vamo certamente più visibili con tutto quel fumo. Ma era inutile cercare di farlo ragionare. Mentre percorrevamo il tratto che ci separava dalla I.c.re. pensavo a quanto sarebbe stato facile sorprendere tutto il Gotha di Cosa nostra, in conclave. Sarebbe bastato seguire, come i Re magi la cometa, la scia di fumo che lasciavamo. C'erano davvero tutti ad attenderci: negli uffici Provenzano che, quando amministrava e distribuiva soldi, veniva definito "il ragioniere", e il suo fido Pino Lipari. Poi Totò Riina, Masino Cannella, mafioso e 48

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sedicente impresario delle Madonie, il capo della mafia catanese Nitto Santapaola, di quella trapanese Ciccio Virga, Benedetto Spera, il padrone di casa Leonardo Greco e Masino Scaduto che conoscevo per averlo già incontrato in precedenti riunioni a casa dell'architetto Sam Scardina, uomo dei Salvo. Tra gli ultimi fece il suo ingresso Nino Salvo con il genero, il medico Tani Sangiorgi, oggi all'ergastolo per aver partecipato all'omicidio di Ignazio Salvo, cugino del suocero. Infine arrivò anche Salvatore Greco, detto il Senatore, fratello di don Michele in quel momento capo della cupola mafiosa, su una Golf guidata da un giovane. Neanche scese dalla macchina né si tolse il sigaro dalla bocca: parlò con Nardo e si diedero appuntamento a pranzo al ristorante di Porticello, da Franco il pescatore. Gli argomenti di quella riunione, come mi è stato raccontato in seguito da mio padre, erano molteplici e riguardavano fondamentalmente le gare d'appalto per l'aggiudicazione di importantissime opere pub­ bliche, finalmente giunte per l'approvazione nell'agenda politica del Comune di Palermo. Non le ri­ cordo neppure tutte, ma sicuramente si trattava di grosse opere: dalla sistemazione del litorale nel tratto da Palermo a Termini Imerese, al raddoppio della cir­ convallazione di Palermo, alla costruzione del Palazzo dei congressi e del cosiddetto "Palazzo di vetro", alla sopraelevata stradale, alla realizzazione di discariche e all'ammodernamento di zone portuali in tutta la Sicilia. Un pacchetto da diverse centinaia di miliardi di vecchie lire. All'ordine del giorno c'era anche la discussione su un'ennesima spaccatura che si era creata tra mio padre e Riina. I due, l'ho detto, non si amavano, ma erano condannati a convivere. Qual era il problema? Ri­ guardava il conte Cassina e la sua sopravvenuta vici­ nanza con i corleonesi. L'accordo politico, consolidatosi nel tempo, prevedeva che gli appalti li prendesse una grossa impresa amica, scelta perché in possesso di 49

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ogni requisito richiesto dal bando, con il patto di "aprire" poi, attraverso il ricorso ai subappalti, alle imprese locali controllate dal "sistema", che senza re­ quisiti non avrebbero potuto gareggiare. Ma Cassina aveva fatto uno "sgarro": ignorando la prassi aveva acquisito un'impresa milanese, la Farsura S.p.a., per aggiudicarsi in proprio alcuni grossi appalti. Ovviamente, dopo le discussioni e le contestazioni, tutto finì a tavola. I posti deputati al desco, a Baghe­ ria, erano sostanzialmente tre: Franco il pescatore, Nello il greco e Don Ciccio, una trattoria con cucina casalinga allora proprio attaccata al passaggio a livello che segnava l'entrata in paese dalla statale 113. Quel giorno andammo a Porticello, da "Franco". Come ogni volta, il locale fu monopolizzato dal nostro gruppo. Dentro c'erano già Salvatore Greco e altre due persone che non conoscevo. A un cenno del Senatore, il proprietario abbassò la saracinesca e non fece entrare più clienti. Qualcuno, però, veniva ricevuto. Anzi, era quasi una processione di postulanti. Come nel film Il Padrino, ognuno aveva una richiesta da fare: chi chiedeva "giustizia" per uno sgarro subìto, chi l'esenzione del figlio dal servizio militare, chi agevolazioni per l'acquisto di materiale edile... E Nardo, il boss del luogo, mandava a chiamare persone, tranquillizzava, chiedeva sacrifici, insomma aveva una parola per tutti. Non fu, quella, l'unica riunione a Bagheria. Molti anni dopo avrei appreso che la I.c.re. funzionava non soltanto come centro decisionale di affari, ma anche come tribunale mafioso che emetteva sentenze di morte. Questa seconda attività veniva riservata soltanto agli uomini d'onore, ma mi si drizzano ancora i capelli pensando a quel luogo che i pentiti hanno descritto, negli anni, come la "Auschwitz di Cosa nostra". Allora avevo diciotto anni e non capivo bene cosa girasse attorno a quel mondo ambiguo che trovavo affascinante per il senso di potere che emanava. Un mondo che ti 50

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dava sicurezza e ti faceva sentire forte e rispettato: bastava soltanto essere visti accanto a quella gente per ottenere considerazione e privilegi. Era questo il meccanismo perverso, lo stesso che indeboliva le difese morali di tanti rispettabili professionisti e imprenditori che oggi si defilano e giudicano.

L'aeroporto sbagliato Nulla sfuggiva alla famelica attenzione del "sistema Ciancimino": tutto era perfettamente pianificato e studiato in direzione delle aspirazioni e degli interessi degli amici e degli "amici degli amici". Le riunioni "in stile I.c.re." erano un metodo: il solo - stando a Massimo e Giovanni Ciancimino - che garantisse il tranquillo svolgimento del "tavolino". La politica decideva le priorità, le chiamava "linee di sviluppo", in relazione alle "necessità" che emergevano dai contatti fra le varie componenti del gruppo di potere. MASSIMO: Mio padre era definitivamente entrato nel mondo dell'imprenditoria. Subito dopo lo sbarco degli Alleati mio nonno Giovanni - l'abbiamo già visto - era riuscito a ottenere la gestione di una impresa di trasporti, in società con Rosario Maniglia, capostipite di un'importante famiglia di imprenditori, utilizzando camion del comando americano. Nel 1950, però, trasmette a mio padre le risorse per chiedere e ottenere dalle Ferrovie una concessione per i trasporti ferroviari a domicilio: una rivoluzione per quei tempi. Si trattava di utilizzare una tecnica nuova che consentiva di caricare l'intero vagone, e il materiale pesante che conteneva, su particolari carrelli in grado di viaggiare sull'asfalto. Una tecnica simile a quella che sarebbe poi stata sperimentata con le motrici dei Tir. Non doveva essere stato semplice aggiudicarsi quella concessione 51

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che faceva gola a numerose imprese del Nord. Un aiuto fondamentale dev'essere arrivato a mio padre dal suo primo padrino politico, che fu il ministro Bernardo Mattarella, democristiano come mio padre e suo referente nazionale in quel periodo. Così spiccò il volo, fino ad "allargarsi" - come si dice nel gergo - ai lavori stradali in proprio, alle co­ struzioni in società con Buscemi e Bonura, di cui fu il finanziatore occulto, alla gestione di un deposito di medicinali a Palermo e anche un distributore di ben­ zina intestato alla suocera, mia nonna Adele. Era il "sistema" a produrre benessere. E per questo non conosceva sosta. Illuminante, a cavallo tra i sessanta e i settanta, la vicenda della chiusura del vecchio aeroporto di Boccadifalco e la costruzione del nuovo scalo di Punta Raisi. Mio padre, assessore, era consapevole - come d'altra parte tutti i tecnici ra­ gionevoli - che sarebbe stato giusto scegliere un'area nella direttrice verso Termini Imerese. Lo suggerivano la morfologia del territorio, pianeggiante, e la col­ locazione geografica, più vicina alle province di Enna e Caltanissetta costrette ad appoggiarsi a Catania. Ma questi argomenti non bastarono a far prevalere la logica, perché sull'altro piatto della bilancia c'erano gli interessi di due boss potenti come Gaetano Ba­ dalamenti e Totò Riina. Il primo, interessato, oltre che alla valorizzazione di quei terreni, alla presenza di un aeroporto nel cuore del traffico internazionale degli stupefacenti. L'altro, mosso dalla certezza che l'espansione edilizia verso l'aeroporto, con i relativi servizi, dall'autostrada a tutte le altre infrastrutture, avrebbe fatto salire alle stelle il prezzo di quelle aree su cui aveva messo le mani. Il calcolo non era sba­ gliato, a giudicare dai chilometri di cemento che hanno poi invaso quel territorio, da via Lazio all'aeroporto, appunto.

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Il Palazzo dei congressi MASSIMO: Per la realizzazione di quest'opera - dal nome pretenzioso ma alla fine mai realizzata - si rischiò uno scontro cruento. Era il 1981. Ancora una volta il disaccordo si manifestò tra mio padre e Totò Riina, che - forse anticipando tempi più recenti -pretendeva di prevalere, da mafioso, anche sugli accordi politici. Mio padre, sempre affiancato dalla mediazione di Provenzano, faticava molto a tenere l'equilibrio. I pretendenti in campo erano tanti e tutti ben piazzati: intanto c'era Salvo Lima, che rappresentava Andreotti in Sicilia, e c'era, accanto a lui, tutto un mondo variegato che si spiegava dai Salvo ai Maniglia e a tutta una pletora di maneggioni e simil imprenditori che da quell'affare si attendevano lauti guadagni. Come se non bastasse, avevano manifestato interesse anche i catanesi, sia i costruttori sia i mafiosi, nelle persone dei Costanzo e del boss Nitto Santapaola, come sappiamo presente alla riunione dell'I.c.re. a Bagheria. Secondo la rigida lottizzazione del "sistema", l'appalto del Palazzo dei congressi doveva andare - sosteneva mio padre - a un'impresa di Palermo. Totò Riina, invece, brigava perché uscisse vincitore l'imprenditore Carmelo Costanzo di Catania, sponsorizzato dal boss Nitto Santapaola, grande amico del corleonese. L'affare restò in ballo per diverso tempo, durante il quale ognuno, a modo suo, cercava di forzare i tempi. Era talmente determinato a spuntarla, Riina, che un giorno si presentò persino a casa, in via Sciuti. Per nulla impressionato, mio padre lo ricevette come rice­ veva abitualmente: in pigiama, comodamente sdraiato a letto. Riina invece si era messo in tiro: cappotto blu, borsello delle grandi occasioni e pacco dono tra le mani. Era in compagnia di Pino Lipari, il ragioniere dell'Anas collaboratore a tempo pieno dei boss cor­ leonesi, e si sforzava di apparire di buonumore. Ma

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papà non gradì la visita, vissuta come un'imposizione. Non nascose il suo disappunto ed esordì elogiando sarcasticamente la "bellezza" del Rolex d'oro esibito dal padrino. Ovviamente quell'altro non colse il sorriso beffardo di mio padre, né volle capire l'aria di sufficienza con cui accolse il regalo, senza neppure scartarlo. Fu Riina a cominciare: "Caro ingegnere, sono qui perché convinto che la so­ luzione più adatta sia quella che le ho già anticipato". Mio padre non lo fece neppure finire: "Mi dispiace, caro Totò, ma non se ne discute. È stato già deciso, con soddisfazione unanime, che l'ap­ palto va ai palermitani". "Non mi aspettavo una negativa, glielo devo con­ fessare. Comunque per il momento non insisto. Me ne vado, ma le devo dire che rimango convinto che la cosa va fatta come penso io." I saluti furono freddi, Riina non era abituato a es­ sere contraddetto e doveva essere davvero furibondo. Ce lo conferma Pino Lipari in un verbale in cui rac­ conta cosa accadde mentre scendevano in ascensore: "Mi afferrò per il bavero e mi disse, con gli occhi fuori dalle orbite: se impazzisco e ti dico di portarmi ancora da Ciancimino, e tu mi ci porti, io ti ammazzo!". Questo mentre mio padre scopriva che nel pacco dono c'era un lingotto d'oro, prontamente smistato a Franco Bonura che, oltre a costruire, aveva a che fare con un'industria argentiera e quindi poteva fonderlo e lavorarlo. Devo dire che l'incidente destò qualche apprensione, insomma si temeva che le cose potessero precipitare. Per questo fu scelto di non scegliere e Palermo non ha ancora un suo Palazzo dei congressi. I regali erano un'usanza consolidata, tranne che con Provenzano, con cui il rapporto andava oltre le forme di rito. Non fu, quella, la sola volta che Riina venne a casa, anche se latitante, e tutte le volte arrivava con un dono. Ricordo un lume d'argento offerto in presenza di don Pino 54

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Abbate che lo accompagnava. E ricordo un orologio d'oro, ancora un Rolex, offerto da Gioacchino Pennino, democristiano e medico. Anche la storia del Palazzo di vetro fu al centro di una complessa lottizzazione. Era, quella costruzione moderna inserita nel liberty di via Libertà, un'icona della megalomania dell'impresa Maniglia, delirio di onnipotenza che sarà la causa della sua rovinosa caduta. Fino al fallimento, dopo gli sfarzi degli uffici a Roma, degli investimenti hard, degli aerei privati e di altri simili sprechi. Ma non si poteva consentire che il patrimonio andasse disperso. Per questo anche il fallimento dell'impresa fu gestito, come si dice, in "famiglia". Il Palazzo di vetro, allora non ultimato, fu acquistato per 14 miliardi e mezzo degli anni ottanta - in osservanza alle decisioni prese in una riunione presieduta da mio padre - dalla Gei-Sicilia (Gruppo Costanzo) in concorrenza con il Fondo pensioni della Sicilcassa. La Gei lo ha poi rivenduto alla Sicilcassa per 26 miliardi: la banca, dunque, ha pagato 26 ciò che non era riuscita ad acquistare per 14. La successiva inchiesta di Giovanni Falcone porrà l'attenzione sul particolare che le imprese Costanzo erano clienti privilegiati della Sicilcassa e, dunque, si sarebbe dovuta verificare qualche frizione tra i partecipanti all'asta di acquisto. E invece nulla, anzi lo stesso istituto di credito aveva concesso alla Gei un finanziamento di 15 miliardi per il completamento dell'immobile.

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Il "sistema" Ciancimino Una montagna di soldi nelle mani di un gruppo di persone. Un gruppo ristretto, pochi amici e selezio­ nati. Una cabina di comando cui non sfuggiva prati­ camente nulla, non solo a Palermo ma nell intera Si­ cilia e, come vedremo, nelle propaggini continentali dell'isola. Impresari e palazzinari dalla doppia faccia, un po' imprenditori, un po' mafiosi in quanto organici a Cosa nostra. Nino e Ignazio Salvo, mafiosi della "famiglia" di Salemi, grandi esattori e finanziatori della corrente andreottiana in Sicilia, amici di Salvo Lima, hanno rappresentato la punta più evidente di questo groviglio. Basti ricordare la pluridecennale gestione, in regime di monopolio, della riscossione delle imposte in Sicilia, con un aggio che sfiorava il triplo di quello in uso nel resto d'Italia. E poi gli affari: la trasformazione industriale della produzione agricola, il vino, gli agrumi, le dighe, i lavori pubblici. Una grande dynasty quella dei Salvo: barca di lusso con i Monet e i Van Gogh alle pareti, i ricevimenti e le amicizie politiche, l'assessore "personale" fatto eleg­ gere alla Regione per i bisogni del gruppo. Si favoleggia ancora, a Palermo, del matrimonio della figlia di Nino con ricevimento all'Hotel La Zagarella: fontana che zampillava Veuve Clicquot e le aragoste "pescate a vista" da un enorme vivaio-esposizione. MASSIMO: Ma il gruppo proprio di famiglia era un altro, erano i "gemelli Bo.Bu". Mio padre aveva il vezzo di appiccicare soprannomi a tutti. Pino Lipari per esempio - era "il tenente" perché "si crede un generale ma più in là di tenente non arriverà mai". 'Iolanda", invece, era il medico Nino Cinà, lo stesso che nella cosiddetta "Trattativa" fra Stato e mafia del '92 e '93 - di ciò avremo di che parlare - fu il por­ tavoce ufficiale di Totò Riina; mio padre lo chiamava

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così perché abitava a Mondello, in via Principessa Iolanda. I "gemelli" erano Franco Bonura e Antonino Buscemi, due palazzinari molto addentro a Cosa nostra. Un altro Buscemi, Salvatore fratello di Nino, è stato poi arrestato, dopo un duplice omicidio, ancora con la pistola fumante tra le mani. Reggevano il mandamento mafioso di Boccadifalco e Passo di Rigano, fino a Uditore, quartiere in cui avevano costruito molto. Ma allora questo noi non lo sapevamo, per noi erano amici che frequentavano casa nostra. Indimenticabili i pranzi, la domenica, al ristorante La Scuderia, spesso con la partecipazione straordinaria del signor Lo Verde, prima e dopo la rivelazione della sua vera identità. Tutto ciò mentre i bollettini delle ricerche lo ponevano al secondo posto nella lista dei latitanti più gettonati. Al primo ci stava Totò Riina, che si muoveva anche lui come un uomo libero. Ma a Palermo tutto era possibile a quei tempi. Buscemi era un uomo alto, corpulento, di un'eleganza ostentata e di poche parole. Mentre Bonura, biondo, più basso e perennemente occultato da occhiali da sole, era un tipo spiritosissimo, gioviale, e si intendeva con mio padre ancor meglio del suo socio. Si presentavano a casa nostra sempre insieme, da qui il nomignolo di "gemelli". Chissà se avrà mai saputo, mio padre, che noi figli - a nostra volta - avevamo appioppato anche a lui un soprannome: "Baffo". GIOVANNI: Tra i palazzinari amici di mio padre, il più famoso era Francesco Vassallo, detto Ciccio. Era un signore di mezza età, abbastanza robusto, con qualche eccesso nell'abbigliamento, inevitabile per uno che, prima dei salotti, fino al dopoguerra, aveva battuto le trazzere di Palermo a bordo del suo carretto. A vederlo potevi scambiarlo per un impiegatuccio, invece era il più importante costruttore di Palermo. Sembrava proprio David lo Sciccoso negli Angeli con !e pistole, e come lui si 57

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sputava sulle scarpe per poi lustrarsele sul retro della gamba dei pantaloni oppure alitava sul rubino al dito per poi farlo risplendere dopo il rituale strofinamento sulla giacca. Mio padre diceva che, benché non avesse una grande istruzione, era di una intelligenza e una capacità imprenditoriale eccezionali. Capiva più lui che non "gli ingegneri capaci solo di saccenterie partorite da cervelli di gallina". In queste parole c'era tutta la sua avversione verso gli ingegneri, che odiava per invidia, visto che lui non era riuscito a completare il corso di laurea in Ingegneria. Anche Romolo Vaselli, discendente della nobiltà romana, frequentava abitualmente casa nostra ed era fra i pilastri del cosiddetto "gruppo Ciancimino". Per anni ha gestito l'impresa per la raccolta dei rifiuti a Palermo. Era davvero in confidenza con mio padre, che poteva chiedergli tutto. Una volta lo pregò di "fare qualcosa" per Gaspare, un padre di famiglia che aveva tentato il suicidio in una cava di pietra perché rimasto senza lavoro. Uno dei miei zii, il mitico Mimì, aveva preso a cuore la storia di Gaspare e chiesto a mio padre se poteva aiutarlo. Bastò una telefonata al conte Vaselli e Gaspare trovò un posto, il giorno dopo, a uno stipendio superiore al precedente. Inutile spiegare quanto Gaspare sia rimasto riconoscente e legato a mio padre. E poi c'era il conte Cassina, raffinato gentiluomo d'altri tempi. Era una delle poche persone a cui veniva risparmiata l'anticamera. Sicuramente mio padre lo considerava l'imprenditore più influente della città, probabilmente anche per l'appartenenza all'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, potentissima istituzione religiosa molto vicina alla curia di Monreale. In tanti anni non ho mai sentito mio padre alzare con lui il to­ no della voce, come faceva sistematicamente con chiunque, soprattutto quando veniva contraddetto. Anche dei "gemelli" ho un ricordo netto. Un giorno si presentarono a casa nostra con una maxibottiglia 58

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di champagne e con un enorme vassoio d'argento, stracolmo di dolci. In quella occasione erano partico­ larmente contenti, tanto che pensai avessero qualcosa da festeggiare insieme. Non mi sbagliavo: stavano brindando all'ingresso di mio padre nella società di costruzioni Lu.Ra.No. Ovviamente una partecipazione occulta, visto il ruolo politico che ricopriva, nell'imminenza della sua elezione a sindaco. Da quel brindisi i "gemelli" furono più assidui in casa nostra. Spesso uscivano con mio padre che, in quelle occa­ sioni, rinunciava all'autista.

Investimenti milanesi e il rapporto con Calvi MASSIMO: Molti anni dopo, quando il rapporto con Baffo è diventato più aperto, ho appreso il retroscena legato alla società Lu.Ra.No. di Bonura e Buscemi. Mio padre mi raccontò com'era andata. Nel 1970 aveva investito 150 milioni di lire in alcune operazioni immobiliari dell'impresa. Dopo sei o sette anni, il ri­ torno fu notevole: circa un miliardo e mezzo di lire e alcuni appartamenti a Palermo, nella zona di via don Orione. Era preventivato che tutti gli ammezzati di questi edifici diventassero sede di un grande poliam­ bulatorio privato. Socio occulto di questa iniziativa avrebbe dovuto essere Bernardo Provenzano. Non so come né perché ma la cosa alla fine non ebbe seguito. Su indicazione e per tramite di Buscemi il miliardo e mezzo di ritorno venne allora depositato nella Banca Rasini e nella Banca del Gottardo, perché fosse poi in­ vestito nelle società Edilnord e Immobiliare San Martino per la realizzazione di Milano 2. Si trattava di acquistare numerosi appartamenti in corso di costruzione e poi rivenderli a prezzi maggiorati. Questo tipo di accordo economico venne definito a Roma in via San Nicola da Tolentino, sede dell'Immobiliare San Martino. In questa operazione non ci fu alcuna ingerenza

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mafiosa: era solo un normale investimento imprendi­ toriale nel Nord Italia. In seguito, quando ci eravamo riavvicinati e volevamo fissare i suoi ricordi in un libro, mio padre mi raccontò, però, che parallelamente alle sue operazioni anche Stefano Bontade e Mimmo Teresi avevano investito poco più di tre miliardi di lire su Milano 2. Secondo quanto mi riferì, il tramite era stato Marcello Dell'Utri. Quasi contemporaneamente mio padre investì circa 300 milioni sulla Inim Immobiliare. Questa società era nata in via Ariosto a Palermo, negli stessi locali che ospitavano il suo comitato elettorale. I 300 milioni erano i proventi di una tangente non riscossa da mio padre e lasciata all'imprenditore Francesco Paolo Alamia affinché la utilizzasse come capitale nella Inim stessa. In questo momento mio padre, anche se non ufficialmente, diventa socio di fatto dei proprietari di quella società, che sono Alberto Rapisarda, i fratelli Alberto e Marcello Dell'Utri e ovviamente lo stesso Alamia. Dopo un primo periodo di successi la Inim andrà incontro al fallimento, anche a causa di una serie di speculazioni sbagliate di Alamia. Al fallimento seguì un'inchiesta giudiziaria per bancarotta e truffa, che si concluse però un paio di anni dopo con l'assoluzione generale. Mio padre non ammetterà maipubblicamente un suo coinvolgimento ufficiale nella Inim e giustificherà la sua presenza in quell'ambiente solo nella veste di consulente. Era, quello, un momento di "grandi frequentazioni" anche al di là della Sicilia. Parte dei soldi ricavati dagli investimenti su Milano 2, per esempio, arrivò a mio padre per il tramite di Roberto Calvi, il famoso "Banchiere di Dio" suicidato sotto il ponte dei Frati neri, a Londra. Mio padre conosceva Calvi. Glielo aveva presentato, chissà per quali vie, uno dei fratelli Buscemi. Fu proprio il banchiere che si preoccupò di prelevare circa tre miliardi di lire, parte del profitto 60

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degli investimenti "siciliani" a Milano, consegnandoli a mio padre a Losanna, dove teneva un conto e una cassetta di sicurezza presso la Ubs. Alcuni investitori, però, pretesero il rientro dei soldi in brillanti: l'opera­ zione fu compiuta con l'assistenza del più grande esperto di diamanti dell'epoca, Leos Gluths, un ebreo molto famoso nel suo ramo. Una foto di Leos l'ho consegnata ai magistrati di Palermo. La frequentazione di mio padre con Calvi non fu sporadica. So che si sono incontrati più volte nel tempo e sempre per ricevere o consegnare cospicue somme di denaro in contanti. Questo tipo di compensazioni finanziarie avveniva prevalentemente all'interno della Banca vaticana, lo Ior. Allo Ior mio padre aveva accesso a due cassette di sicurezza. In una custodiva il denaro che incassava a Roma, provente di tangenti pagate a politici e uomini di Cosa nostra. Questo denaro, non suo, era una sorta di risorsa da distribuire, e infatti lo teneva nella cassetta comune chiamata da lui "pignatone", cioè pentolone. Lì sistemava il 6 per cento delle tangenti sui grandi appalti, il cui 4 per cento era destinato al finanziamento della politica. Il restante 2 per cento andava fisso per la "messa a posto" nei confronti di Cosa nostra. Una bella somma che finiva al signor Lo Verde, l'altro collettore delle tangenti, il quale lo ridistribuiva all'interno della mafia. I politici erano il terminale di un sistema che mio padre definiva dell'"equa parte". Ciascun partito in­ cassava una percentuale proporzionale al peso elettorale. Ovviamente la parte del leone spettava alla Dc, capace di un consenso elettorale che superava il 40 per cento. Poi i più piccoli, ognuno con i propri voti. Ricordo 50 milioni destinati a Giacomino Murana, socialdemocratico ma più cianciminiano di tutti gli altri. Ai comunisti, mi disse mio padre, non andavano soldi, ma si provvedeva con l'assegnazione di lavori alle imprese di sinistra. Nell'altra cassetta, gemella del "pignatone", andavano 61

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le risorse personali di mio padre che poi lui provvedeva a rendere invisibili attraverso i rivoli bancari, in Italia e all'estero. Io stesso in più occasioni lo ho accompagnato, a guardia della sua borsa gonfia di denaro, fino alla farmacia del Vaticano. Lì lo attendevano uno o più prelati che poi lo conducevano all'interno dello Ior. Gli stessi prelati gli avevano procurato una delle due cassette di sicurezza, l'altra gli era stata messa a disposizione dal conte Romolo Vaselli. Perché lo Ior? Mi spiegò che il vantaggio consisteva nell'impossibilità di accertamenti da parte delle autorità giudiziarie italiane, impotenti di fronte alla tutela extraterritoriale dello Stato del Vaticano.

Questa è la sintesi scritta di pugno da Vito Ciancimino relativa agli investimenti da lui fatti nel Nord Italia e all'estero. I nomi della prima riga (M. Dell'Utri, Alamia) si rifanno agli investimenti compiuti da Alamia, di fatto in quell'operazione prestanome di Vito Ciancimino, con la società Inim Immobiliare, di cui era socio anche Marcello Dell'Utri. La seconda riga (Calvi, Buscemi, Dell'Utri) evocherebbe il percorso del denaro proveniente da Roberto Calvi e destinato a Dell'Utri per il tramite di Buscemi, prestanome e intermediario di Vito Ciancimino. La terza riga (Canada, Bono, Pozza) si riferisce all'investimento fatto a Mon­ tréal, attraverso i mafiosi Bono e Pozza. La quarta riga (Ior, Vaselli, 5 miliardi) riporta in sintesi una complessa ope­ razione finanziaria fatta attraverso lo Ior. Su suggerimento del conte Romolo Vaselli una parte dei guadagni ottenuti dagli investimenti su Milano 2 (circa

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5 miliardi) da diversi investitori fu reinvestita in brillanti. Chiude la lista Milano 2, fonte del guadagno ottenuto.

La prima riga di questo appunto è il "titolo" di un capitolo che i Ciancimino,

padre e figlio, si accingono a scrivere.

Il resto si riferisce a persone a vario titolo coinvolte nel processo del 1981.

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Scritto dalla segretaria di don Vito per il figlio Massimo, questo schema era finalizzato alla stesura del libro che entrambi dovevano realizzare sul finire degli anni novanta. Si tratta di un canovaccio sintetico che riassume gli ar­ gomenti da affrontare nella scrittura. Di notevole in questo appunto sicuramente la sua conoscenza con Calvi e Gardini avvenuta attraverso il tramite di due mafiosi importanti: Buscemi e Bono. Anche l'investimento milanese della fine degli anni settanta, riassunto come rapporto tra Alamia e Dell'Utri, sembrerebbe avere come matrice la mediazione ancora di Buscemi, questa volta affiancato dal costruttore palermitano Bonura. Mentre gli altri punti rimandano in sostanza a quanto già indicato nelle didascalie precedenti, l'ultima riga si riferisce a una riunione avvenuta in un locale di San Nicola a Palermo, con tema l'investimento di Ciancimino in Canada.

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Questa pagina fa parte delle carte processuali dell'inchiesta sull'Inim.

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Appunto scritto da Vito Ciancimino in cui si commenta la sentenza di asso­ luzione nel processo a carico di Dell'Utri.

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3. La casa madre

Nel 1965 la Commissione antimafia, presieduta dal senatore democristiano Donato Pafundi, chiude una relazione e la invia al Parlamento. Rimarrà inedita fino al giugno del 1971, quando si conosceranno i risultati di quell'indagine compiuta sul territorio. Risultati sorprendenti, perché dimostrano che "l'attività edilizia e quella dell'acquisizione delle aree fabbricabili ha costituito, con il concorso determinante dell'irregolarità amministrativa rilevata nel settore dell'urbanistica e della concessione delle licenze di costruzione, un terreno quanto mai propizio per il prosperare di attività illecite e di un potere extralegale esercitato da gruppi di pressione in forma di intermediazione parassitaria e di una pratica di favoritismi riscontrabile con notevole frequenza ed evidenza". "Nello sviluppo dell'attività edilizia - aggiungeva la relazione Pafundi - sono emersi, nel breve giro di anni, elementi di oscura provenienza, rapidamente arricchitisi in modi quanto meno sospetti. Non poche tra le pratiche irregolari, in particolare sul campo delle licenze edilizie, sono andate a beneficio di elementi indicati come mafiosi dai rapporti di polizia o dai successivi eventi delinquenziali e giudiziari." Non è la sceneggiatura del capolavoro di Francesco 67

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Rosi, Le mani sulla città, ma la semplice realtà della Palermo di quegli anni. Una realtà che l'immaginario collettivo ha fissato nella memoria con una sigla: Va.Li.Gio., le iniziali dei titolari di una società che nell'edilizia l'ha sempre fatta da padrona. Secondo l'ex presidente della Commissione provinciale di controllo, Ferdinando Umberto Di Blasi, sentito dall'Antimafia nel 1964, i nomi sarebbero quelli di Vassallo, il palazzinaro frequentatore di casa Ciancimino, Lima e Gioia. Così Carlo Alberto Dalla Chiesa scriverà, nel 1971, di Ciccio Vassallo: "L'interessato non fu soltanto quel modesto e anonimo 'carrettiere' assurto a posizioni economiche e sociali vieppiù consistenti, mercé solo una condotta intelligente e astuta, qualora si consideri che la famiglia di origine, pur non poten­ dosi definire di stampo mafioso, ha sempre vissuto a contatto di un ambiente dominato da cosche mafiose, fino ad affiancarle e stringere legami di parentela con una famiglia di pericolosi mafiosi". Il quadro della Commissione antimafia, di cui fa parte anche la relazione di Dalla Chiesa, si conclude così: "Alcuni dei protagonisti delle più clamorose vi­ cende delinquenziali della zona di Palermo figurano nei passaggi di proprietà delle aree edificabili e ven­ gono in alcuni rapporti indicati come elementi capaci di esercitare una notevole influenza sugli organi di amministrazione della città". Un giro di parole che non riesce a nascondere la realtà di una Palermo completamente in mano alla mafia. E a don Vito Ciancimino, in quella realtà, viene assegnato un posto di rilievo, come si intuisce dalla lettura di un ritratto tracciato ancora da Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel 1971 comandante della Legione dei carabinieri di Palermo. Scrive Dalla Chiesa: "Il suo temperamento vivace, intraprendente, anche spregiudicato, lo portò quasi istintivamente al fianco di quella che allora in Palermo venne considerata una vera e propria conte­ 68

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stazione contro i notabili Dc del Parlamento regionale e nazionale; contestazione che a vasto raggio e con l'etichetta di corrente molto vicina all'onorevole Fanfani portò prepotentemente alla ribalta il noto duo politico Giovanni Gioia e Salvo Lima. A questo punto è difficile stabilire se a una corrente di 'nuova mafia' sia succeduta una corrente di 'nuovi uomini politici' o viceversa; certo è che il fenomeno si è registrato quasi contemporaneamente sia sulla scena della mafia che su quella della politica e non certamente in termini di contrapposizione" (cfr. Salvo Palazzolo, / pezzi mancanti. Viaggio nei misteri della mafia, Laterza, Roma-Bari 2010). Quelle di Dalla Chiesa sono parole pesanti, eppure non isolate visto che già nel 1963 i protagonisti di quella stagione erano finiti nel mirino della commis­ sione d'inchiesta presieduta dal prefetto Tommaso Bevivino, inviata a Palermo per indagare sugli insa­ ziabili appetiti rivelati dalla scoperta delle irregolarità che avevano favorito una speculazione immobiliare selvaggia, ma anche sugli appalti per la manutenzione stradale, la raccolta dei rifiuti e la riscossione dei tributi, concessi rispettivamente alle ditte Cassina, Vaselli e Trezza. Abbiamo già incontrato i nomi di alcuni di questi imprenditori: in particolare Vaselli non ha mai smesso di essere legatissimo a don Vito, fino a finire in carcere con lui nelle inchieste sugli appalti del 1990. Sull'affidamento dell'appalto a Vaselli, il prefetto Bevivino scrive: "Si affidò a trattativa privata un servizio che nella realtà dei dieci anni non costerà sedici miliardi, come apparirebbe dalla delibera, ma trenta". A Cassina andò invece il regalo di un rinnovo per nove anni, mentre alla Trezza la concessione di un aggio senza precedenti per la riscossione delle imposte di consumo: "Per riscuotere cento lire ne trattiene cinquanta". E incredibile il quadro di quegli anni. Incredibile 69

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dover constatare come un grande puzzle politico-af­ faristico, con ramificazioni in diverse città italiane e straniere, abbia avuto la sua cellula originaria a Pa­ lermo, dentro una piccola comunità e dentro un si­ stema di potere di pochi uomini, neppure dotati di particolari doti intellettuali, ma sicuramente furbi e rapaci. Una galleria di personaggi, a volte mediocri ma forti di un vincolo tenacissimo, teneva unite realtà apparentemente distanti come la politica e il malaffare, le professioni e la corruzione. "Siamo la stessa cosa": con questa formula avveniva la presentazione di rito degli affiliati a Cosa nostra. E anche nel calderone palermitano avveniva così, solo che nessuno ­ specialmente nella buona società - voleva vedere il filo sottile che teneva insieme buoni e cattivi, guardie e ladri. Quante volte si è assistito al rito del finto sbigottimento di fronte all'arresto di un boss fino a qualche ora prima osannato e riverito: "È sempre stata una persona squisita, così graziosa e gentile! Chi poteva immaginare che fosse un mafioso...". Erano bugie ipocrite: tutti sapevano chi comandava, tutti sapevano se un candidato alle elezioni apparteneva al "sistema". MASSIMO: Sia la casa di Baida sia quelle di Mondello e Palermo sono state punti di incontro per decisioni importanti. Protagonisti o semplici messaggeri si alternavano nel riferire pareri e richieste di convitati di pietra che non sempre si muovevano agevolmente perché latitanti. Eppure bisognava ascoltare anche loro in quanto parte in causa. Ci fu un momento che a Palermo bastava dire "via Sciuti" per indicare il cuore e la testa del motore economico della città. Che viavai continuo da quell'attico! Abbiamo visto la parte "nobile", i ricchi signori e anche quella meno pre­ sentabile con in testa Provenzano, Riina, Abbate e soci. A questi aggiungerei personaggi come il dottor Antonino 70

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Cinà, medico, ma anche vicino alla mafia di Corleone, come dimostrerà la vicenda della "Trattativa" che racconterò in seguito.

Liggio a Sirmione MASSIMO: Mio padre conosceva Cinà da un bel po' di anni. Si erano incontrati negli anni settanta, quando era stato ambasciatore di una richiesta molto par­ ticolare avanzata direttamente da Luciano Liggio. In sostanza Cinà, preceduto dalla presentazione-racco­ mandazione di uno dei cugini Salvo, portò a mio padre l'intero incartamento del processo che era costato l'ergastolo a don Luciano. La richiesta, neppure troppo velata, era di sondare la magistratura per verificare la possibilità di ottenere la revisione del processo. I Salvo conoscevano il rapporto stretto che mio padre intratteneva con l'alto magistrato Salvatore Palazzo-lo, in quel momento presidente del Tribunale superiore delle acque. Mio padre cercò di sottrarsi a quella proposta irrituale, consapevole del disagio in cui si sarebbe trovato, insieme con l'amico magistrato. E infatti - mi racconterà - Palazzolo in un primo momento si rifiutò persino di accettare il fascicolo. Solo dopo le insistenze dell'amico esaminò le carte, ma dopo qualche giorno diede un parere decisamente negativo. L'ergastolo era il chiodo fisso di Liggio. Quella condanna lo riduceva al ruolo di capo dimezzato perché costretto alla latitanza. Prima ancora della comparsa di Cinà, infatti, mio padre era stato avvicinato direttamente da don Luciano, in un modo abbastanza insolito. Eravamo, tutta la famiglia e gli amici stretti, in vacanza sul Lago di Garda, in un albergo di Sirmione, Il Giardino, una delle consuete località amene scelte da Baffo. Una mattina il gruppo fu preso dall'agitazione e vennero date disposizioni all'al­

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bergatore perché si approntasse "una bella stanza" per un ospite di riguardo ma senza identità. Ricordo persino una lite - non che non fossero frequenti - tra i miei genitori per la scelta della camera, da lui consi­ derata inadatta. Quella mattina arrivò il personaggio atteso, che si attardò a confabulare in privato con mio padre. Nessuno seppe mai più di quell'ospite. Io avevo circa sette anni e poco mi curai dell'evento. Sarà mio padre, in seguito, a confidarmi che quel signore era Luciano Liggio, allora latitante a Milano, ed era venuto per parlargli del suo processo. In quella occasione venne indicato nel medico Cinà colui che gli avrebbe fatto avere i documenti relativi. I tentativi di "aggiustare" l'ergastolo di Liggio, comunque, furono diversi. Mio padre ne parlò anche col procuratore Pietro Scaglione, con cui era in ottimi rapporti. Ma il risultato fu identico: solo un intervento più che imbarazzante avrebbe potuto rimettere in discussione quella sentenza. Il rapporto con Cinà, tuttavia, continuò e si inten­ sificò. Io stesso vedevo il medico a casa mia, sia in via Sciuti che a Mondello, nella villa di via Danae. In un'occasione chiese a mio padre, già assessore, di in­ tervenire per la realizzazione di una presa d'acqua e la sistemazione di una strada dissestata in una zona tra Palermo e Altofonte. Lui sospettò che si trattasse di favorire la latitanza di qualcuno, rendendone più agevole la permanenza in qualche rifugio della zona. Il sospetto era rafforzato dallo stesso Cinà che rassi­ curava mio padre: "Se ha bisogno dei suoi paesani si può rivolgere direttamente a me". Chissà se quell'in­ tervento richiesto riguardava la villa di Borgo Molara, territorio di Altofonte-Monreale, dove — si saprà in seguito dai pentiti — Riina si nascondeva alla fine degli anni settanta. Masino Cannella, imprenditore originario delle Madonie, che rappresentava la volontà di Riina e dei 72

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corleonesi, era un altro che conoscevo bene, per averlo visto anche in via Sciuti. Mio padre lo chiamava "Sicarro", per via del sigaro perennemente in bocca, che tuttavia doveva spegnere prima di entrare in casa nostra in ottemperanza al diktat paterno che non tol­ lerava il puzzo del sigaro. Lo incontravo spesso quando si vedeva con mio padre, parlavamo di macchine e di orologi di lusso e mi stava simpatico. L'ultima volta l'ho visto al matrimonio della figlia del dottor Mer­ cadante. Cannella aveva un'impresa che fabbricava pali per l'elettrificazione e aveva un ampio giro di af­ fari grazie alle protezioni mafiose. Veniva spesso a casa mia, Masino. Pur essendo tra quelli meno noti, cioè meno citati dai giornali, aveva un certo peso nella lottizzazione degli appalti. Vito Ciancimino era nato e cresciuto a Corleone, conosceva dunque direttamente l'intero gruppo di mafia che per decenni spopolò, prima in paese, poi nella Palermo conquistata a suon di lupara e "trentoto". Liggio, Riina e Provenzano: la triade che si era guadagnata l'eloquente soprannome di "Padre, Figlio e Spirito Santo". Abbiamo visto che con Riina il rapporto non era idilliaco, sappiamo che Vito si intendeva solo con Provenzano e nel corso di questa storia avremo modo di tornare su questo vincolo strettissimo. Quello che lui temeva seriamente e disprezzava per il suo approccio patologico all'esercizio violento del potere era Luciano Liggio. Ciancimino evitò più volte di averci a che fare direttamente, memore proprio del passato corleonese. Illuminante, in proposito, la ricostruzione narrativa del figlio Giovanni. GIOVANNI: Era una delle volte che lo accompagnavo in Svizzera, a Losanna, per la periodica visita medica. Passeggiavamo dopo la tradizionale cena, spesso da lui 73

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come l'ultima prima del trapasso. affrontata Comprensibile, dunque, che si abbandonasse a qualche ricordo di gioventù. Mi confidò che, quando aveva diciotto anni, aveva rischiato la vita. "Per una malattia?" gli chiesi. "No, quella volta non c'entrava la malattia." E cominciò il racconto: "Ero a un ballo molto importante, con la meglio gioventù di Corleone. Nella villa di un facoltoso com­ paesano si festeggiava l'ingresso in società della figlia diciottenne. Gli invitati in abito scuro, fiori, addobbi, luci, camerieri in guanti bianchi e l'orchestra col can­ tante in smoking. Una cosa simile l'avevo vista solo al cinema. A un certo punto, nel vivo della festa, si pre­ sentò alla porta un giovane, più o meno della nostra età. Era in abiti dimessi ma dimostrava grande sicu­ rezza. Il cameriere dell'ingresso lo bloccò garbata­ mente per chiedergli di esibire l'invito. La risposta fu boriosa: 'Io non ho bisogno di invito, vado dove voglio'. E con uno spintone si fece largo raggiungendo il salone. "Neppure l'intervento della padrona di casa, che intimava al ragazzo di andarsene, ebbe l'effetto spe­ rato. Anzi, con un ghigno di sfida, l'intruso rincarò la dose: L'ho già detto al cameriere che vado dove vo­ glio, senza bisogno di inviti e non ho la benché mini­ ma intenzione di andarmene da una così bella festa, piena di ragazze. Anzi, visto che sei la padrona di casa, vammi a prendere qualcosa da mangiare perché mi è venuta fame'. E con la mano afferrò il braccio della mia amica. "A quel punto mi feci avanti e, prima che potesse andare oltre, gli sferrai un cazzotto in pieno viso. Il giovane cadde a terra, col sangue che gli colava dal labbro, ma non poté reagire per l'intervento dei pre­ senti. Riuscì solo a spargere minacce, urlando come un ossesso: 'So chi sei e dove abiti, te la farò pagare cara'. Gli risposi per le rime, ma lui se ne andò mi­ nacciando praticamente tutti gli invitati. 74

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"Quel ragazzo era Luciano Liggio, lo conoscevo di vista, l'avevo notato gironzolare in piazza, vicino al bar. Ma me lo ricordavo, in particolare, per uno strano episodio avvenuto qualche tempo prima. Eravamo sulla corriera, di ritorno da Palermo verso Corleone. La strada era stretta e tortuosa e il conducente non trovava modo di dare spazio a una macchina dei ca­ rabinieri che segnalava la necessità di sorpassare il pullman. A quel punto Liggio, che se n'era rimasto sempre in disparte nell'ultima fila, attraversò di corsa l'intero corridoio dell'autobus fino a raggiungere l'au­ tista, in difficoltà su quella strada. Gridando come un matto, Liggio pretendeva che il conducente impedisse in ogni modo di far passare i carabinieri: 'Così escono fuori strada e si vanno a schiantare'. Come se non bastasse, cercò di strappargli il volante dalle mani, causando una pericolosa sbandata. L'autista bloccò il mezzo mentre i carabinieri finalmente passavano. Si alzò manifestando tutta la propria possanza fisica. Lo puntò col dito e, inferocito per il rischio corso, lo costrinse a scendere dalla corriera, malgrado mancassero ancora dieci chilometri all'arrivo". Passeggiavamo in quel viale di Losanna, che lui chiamava "viale delle Rimembranze", e io ero com­ pletamente affascinato dai ricordi di mio padre. Allora mi sembrò naturale chiedergli: "Ma come mai un tipo così rinunciò alla vendetta contro di te per l'affronto subìto alla festa?". "Raccontai," fu la risposta, "l'accaduto a tuo nonno Giovanni che si preoccupò e ne andò a parlare con un amico, il medico Michele Navarra, capace di tenere a bada quello scapestrato. Così la questione venne risolta."

Il medico tradito 75

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MASSIMO: Cannella me lo ricordo anche per una vi­ cenda che ho potuto vivere in prima persona per il ruolo che mio padre fu costretto a recitare per "aggiu­ stare" un dramma familiare esploso in casa di Gisella Mercadante, la ragazza con cui stavo quando avevo vent'anni. Lei, il mio primo grande amore. La ricordo ancora con grande dolcezza. Il padre di Gisella, Gio­ vanni, era un medico radiologo abbastanza noto in città, ma era anche il cugino di Masino Cannella. Non vedeva di buon occhio la mia presenza nella vita della figlia. C'erano sempre problemi, anche perché la ra­ gazza era molto giovane. In fondo, però, credo che tanta avversione fosse motivata dal fatto che non gli piacevo, anche per il nome che portavo. Stavamo per entrare nel periodo più burrascoso della storia di mio padre, finita poi con l'arresto del 1984, e i giornali co­ minciavano a picchiare duro su Ciancimino. Quello era anche il periodo del grande affare della sanità, un filone privilegiato da Cosa nostra e in par­ ticolare da Provenzano che lo controllava attraverso una serie di uomini fidati, tra cui il nipote Carmelo Gariffo e il fedele Pino Lipari. Proprio quest'ultimo, a sua volta, era riuscito a inserire nel mercato delle for­ niture ospedaliere un suo nipote, Enzo D'Amico, che prese gli uffici nello stesso complesso di via Sciuti. Questa intromissione di D'Amico aveva creato qual­ che dissapore tra Lipari e Cannella. Contrasti che si aggravarono per una situazione spiacevole, privata, venutasi a creare tra il professor Mercadante e lo stesso D'Amico. Un vero "affare di Stato" per una relazione amorosa alla quale aveva ceduto la moglie di Mercadante, la signora Bice, a quanto pare sensibile alle attenzioni del giovane D'Amico. Masino Cannella ne fece una questione di rispetto e pretendeva una "riparazione" per il comportamento del nipote di Lipari, tra l'altro definito "poco profes­ sionale" perché aveva mescolato il lavoro con i rap­ porti privati. Nulla di tragico, in una società normale. 76

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Ma a Palermo nulla era normale, specialmente se i protagonisti della storia erano amici e parenti di boss. E allora Cannella fece ricorso al tribunale supe­ riore, cioè si rivolse a Binnu Provenzano per "avere soddisfazione". Si decise di affidare la pratica alla mediazione di mio padre, in quanto amico sia di Cannella sia di Li­ pari. Provenzano raccomandò: "Vedi di far in modo di sedare gli animi. Tu li conosci bene e sai quali ar­ gomenti usare per convincerli a non arrivare alle con­ seguenze estreme". Fui testimone oculare dei prepa­ rativi del rito della "paciata". Ero già diventato da un pezzo il factotum di mio padre e perciò mi illustrò at­ tentamente quello che dovevo fare. I contendenti dovevano essere convocati, ma non dovevano incontrarsi prima di essere stati sentiti se­ paratamente. Il "Sinedrio" fu approntato nella villa di Mondello. Io avevo il compito di ricevere e introdurre i testi. Arrivarono puntuali, ognuno in orario diverso e li collocai in stanze diverse. Quando entrò il primo rimasi a tenere compagnia all'altro. Poi si trattava di accomiatare il primo e introdurre il secondo, senza farli sfiorare. Un successivo incontro, il giorno dopo, avrebbe contemplato anche la presenza del "reo", Enzo D'Amico. Ma questo voleva dire che già un accordo era stato raggiunto, con reciproca soddisfazione dei litiganti. D'Amico si sarebbe cosparso il capo di cenere, ma non gli sarebbe stato torto un capello. La pena", che nel codice d'onore poteva prevedere per­ sino l'esecuzione capitale, fu commutata in un periodo d'esilio in Brasile, per tre anni. Pena neppure scontata interamente per via di un successivo "indul­ tino" che la ridusse a poco più di un anno. Il racconto di Massimo Ciancimino, documentato e diretto, è una delle numerose versioni che girano sull'affare Mercadante. C'è chi ha raccontato della tracotante faccia tosta di Provenzano che, per non "

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esporsi - come suo costume - né con Cannella né con Lipari, avrebbe ipocritamente invocato la pace in nome dell'ideologia mafiosa improntata alla difesa dell'unità della famiglia. Soluzione incruenta giustificata anche dal fatto che Mercadante aveva "perdonato" la moglie e la famiglia si era ricomposta. In questa motivazione c'è tutta la pantomima della morale mafiosa: se il marito non avesse commesso la "debolezza" di scegliere l'unità familiare, allora sarebbero scattate le aggravanti per D'Amico e la massima pena.

La Società del mutuo soccorso "Palermo felicissima" fu quella arabo-normanna: la città delle arti, degli intellettuali, di Federico "Stupor mundi". Palermo che non soffriva la sete perché sede degli studi di grandi ingegneri idraulici. Ma felicissima, a modo suo, era anche la città di Ciancimino, di Salvo Lima e di tutti quei piccoli e grandi pescecani che si ingrassavano senza molto dare. Neppure l'acqua per bere e per lavarsi, che arrivava due volte a settimana. Ma nessuno, tranne i soliti disfattisti (sindacati e comunisti), protestava più di tanto. Tutto filava liscio e anche quando le strade si coloravano del rosso sangue delle guerre di mafia nessuno si allarmava sul serio. I ricchi facevano la loro vita, come se vivessero su un altro pianeta, per nulla sfiorati dal lezzo dei cadaveri e della corruzione. I poveri raccoglievano le briciole e sopravvivevano. Come se ogni voltauna gigantesca macchina del mutuo soccorso si mettesse in moto per dispensare salvezza. Non c'era limite a quello che si poteva chiedere alla "Provvidenza": una invalidità inesistente, un ricovero in un ospedale senza più posti letto, un certificato taroccato, un contributo per lavori mai eseguiti. E nei salotti buoni la protezione del mutuo soccorso interveniva a livelli più alti, come nei seguenti, agghiaccianti racconti. 78

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MASSIMO: Ho già detto delle prime volte in cui, da bambino, mi sono reso conto dell'onnipotenza di mio padre. Ma non sono nulla, quegli episodi di Baida, ri­ spetto ad altre vicende vissute negli anni successivi. Ho impresso nella mente un racconto che mi fece a proposito del soccorso prestato a un docente del­ l'Università di Palermo, uno dei suoi amici della buona società. Il professore era incappato in una "disgrazia": aveva ucciso il rapinatore che lo stava aggredendo. La scena si svolge di sera, in un parcheggio buio. Il docente sta per aprire lo sportello dell'auto quando viene affrontato da un rapinatore armato. È armato pure lui, spara e l'ammazza. Poi sopravviene la pre­ occupazione che possa essere incriminato o arrestato per eccesso di legittima difesa. Eventualità terrificante, soprattutto perché in carcere avrebbe potuto im­ battersi in qualche delinquente desideroso di vendi­ care il "collega" ucciso. E allora chiama mio padre, che - come sempre - non si tira indietro quando c'è da aiutare un amico, anche a rischio personale. Così viene interpellato un altro amico, il questore dell'epoca (non ricordo il nome), che offre una soluzione: il professore si liberi dell'arma, poi vada a trovarlo in questura per sottoscrivere la denuncia (ovviamente retrodatata) di furto o smarrimento della pistola, in­ fine sposti l'auto lontano dal cadavere dell'aggressore. Quale altra sinergia di amici potenti avrebbe potuto risolvere in modo così brillante un problema che ai comuni mortali sarebbe apparso insuperabile? Dopo qualche giorno l'omicidio fu archiviato come un re­ golamento di conti tra bande rivali. Quel questore non era il solo poliziotto amico di mio padre. Per qualche tempo frequentò anche il di­ rigente del secondo distretto di polizia, il vicequestore Pietro Purpi. Il commissariato si trovava in via Libertà, all'angolo con via Giusti, vicino all'abitazione dei miei nonni, in una posizione eccellente, cioè, perché mio padre potesse entrare e uscire senza dare troppo 79

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nell'occhio. Lui era solito accedere dal cancelletto che dava nel giardino del commissariato e così raggiungeva direttamente la stanza dell'ufficio del dirigente, senza dover dare conto al piantone. Non so quali situazioni avessero in comune, lui e Purpi. So con certezza, però, che l'ufficio di via Libertà fu scelto più d'una volta per incontri riservati col signor Franco, percepito da Purpi come una sorta di collega superiore, che già allora quando la storia della "Trattativa" era ancora nella mente di Dio - vedeva sistematicamente mio padre. Così funzionava la solidarietà di casta. Anche per cose non trascendentali, che si sarebbero potute ri­ solvere per vie normali. E invece no, il privilegio era una specie di status symbol. La mia patente, per esempio, ha una storia pure lei. Io guidavo già tran­ quillamente prima dei diciotto anni. Mio padre lo sapeva e me lo rimproverava continuamente, grazie anche alle delazioni dei miei preziosi fratelli che gli riferivano come io usassi spesso la macchina di mia madre a sua insaputa. "Se t'arrestano - gridava Baffo - ti faccio marcire in galera, non credere che muoverò un dito per salvarti." Quando compii diciotto anni, però, lui si diede da fare per farmi ottenere subito la patente. Un giorno mi chiamò per darmi uno dei suoi soliti ordini: "Vai immediatamente alla Motorizzazione. Ho chiamato personalmente e ti aspettano. Mi raccomando, non fare la testa di cazzo e sii puntualissimo". Alla Motorizzazione furono molto comprensivi e il giorno stesso ottenni la patente. La mostrai a tutti i miei amici e ognuno di loro mi chiese come avessi potuto sostenere gli esami di teoria e pratica nello stesso giorno. Ma il burbero Baffo era capace di arrivare in soc­ corso anche di persone che neppure conosceva fisica­ mente. Ciò che contava era la presentazione. Una volta promise un'assunzione come operaio, nei cantieri del Comune, a un giovane che gli era stato raccomandato, 80

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credo, dallo stesso Provenzano. Per entrare bisognava sostenere una specie di prova pratica di fronte a una commissione, designata dalle autorità comunali, di cui faceva parte mio cugino, Enzo Zanghì. Il giorno della prova mio padre chiamò Zanghì e si fece assicurare che sarebbe stato presente all'esame perché il suo raccomandato "doveva passare a qualun­ que costo". Chissà quante altre volte Enzo, una delle vittime preferite di mio padre, aveva ricevuto simili missioni. Ovvio, perciò, che avesse dato ampie garanzie di successo. Nella mattinata, però, mio padre ricevette una telefonata da Zanghì: "Vito, ascoltami. Ma l'hai vista quella persona che hai raccomandato? Vito, gli manca un braccio, hai capito? Come fa uno con un braccio a collocare un palo?' . "E allora?" fu la risposta secca e addirittura irritata. "Vuol dire che il palo lo metti tu al posto di quello sfortunato! Enzo mio, se era una cosa normale che chiamavo a te? Bastava il nome e cognome, se era una cosa normale!"

Passioni inopportune Ma non era a senso unico il mutuo soccorso. Poteva pure accadere che fosse il potente sindaco ad avere bisogno di qualcuno dei suoi adepti, anche per emergenze molto private e personali. Si sa della pas­ sione di don Vito per le signore, passione inopportuna, addirittura da sedare se l'oggetto del desiderio faceva parte dell'ambiente familiare. L'episodio che racconta Giovanni riguarda una tresca del padre con la cognata, la "moglie di zio Aldo". E descrive il modo rocambolesco con cui gli amici di don Vito si adope­ rarono per toglierlo da un guaio. MASSIMO: I "gemelli", Bonura e Buscemi, mettevano a disposizione di mio padre un piccolo appartamento 81

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arredato di tutto punto per i suoi incontri galanti. In questa casa, un pomeriggio - durante il periodo in cui era sindaco - stava per consumarsi una tragedia familiare. Lì mio padre incontrava la moglie di mio zio Aldo, che era diventata la sua amante. La relazione clandestina non aveva mai ingenerato sospetti in mia madre, mentre la sopravvenuta indifferenza di mia zia Franca verso il marito fece nascere in lui il sospetto di essere tradito. Così lo zio Aldo si prese un periodo di ferie e iniziò a pedinare la moglie per giorni, finché un pomeriggio la vide entrare in quel palazzo. Rimase fuori a osser­ vare. Dopo pochi minuti vide arrivare una macchina blu con autista dalla quale, di fretta, scese il sindaco. Lo zio aveva quasi la certezza di essere tradito, ma mai si sarebbe aspettato che l'intruso fosse suo cognato. La reazione fu immediata: senza perdere di vista l'ingresso dell'edificio andò in un bar e telefonò alla sorella: "Mia moglie e tuo marito sono amanti, si sono dati appuntamento in un appartamento in periferia, prima ho visto entrare mia moglie, poi tuo marito. Vieni immediatamente". Mia madre non credeva a quella storia, ma andò anche per placare lo zio Aldo. Queste manovre, però, non erano sfuggite all'autista, che si era defilato ma stava attento e si guardava intorno. Immediatamente telefonò a mio padre, segna­ landogli la presenza dello zio. Dopo qualche minuto lo avvisò che al cognato si era aggiunta sua moglie. Gli amanti rimasero prigionieri e indecisi sul da farsi, oltre che terrorizzati di dover affrontare i ri­ spettivi coniugi. In basso mia madre continuava a tartassare lo zio chiedendogli se fosse proprio certo di quello che aveva visto. Il tempo passava inesorabile, infine mio padre ebbe il lampo di genio. Si ricordò che quell'appartamento comunicava con un altro che aveva l'uscita in una strada diversa. Ma come raggiungerlo? Bisognava abbattere una parete. Baffo chiamò i "gemelli" Bonura e Buscemi, co­ 82

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struttori di quel complesso. Dopo neppure mezz'ora nel palazzo confinante fecero il loro ingresso alcuni operai muniti di tutti gli attrezzi necessari ad appron­ tare l'evasione. La parete si aprì quel tanto che bastava per far passare una persona, così mio padre fu prelevato dall'autista e portato alla sua poltrona di sindaco. La zia Franca, con atteggiamento serafico, uscì da dove era entrata, subito investita dal marito inferocito che le chiedeva dove fosse il suo amante. Con grande sicurezza, la zia si inventò di essere in quel posto per visitare un appartamento in vendita per conto di una sua amica. Mia madre, a quel punto, rinfacciò allo zio di aver preso un abbaglio, ma quello insisteva proponendo di aspettare anche tutta la notte, per vedere uscire mio padre. Fu allora che mamma decise la cosa più logica: telefonò in municipio e chiese di parlare con il sindaco, che le fu prontamente passato. Inferocita, affrontò il fratello dandogli del visionario. Il povero zio Aldo dovette subìre il trionfo della moglie e pure il sospetto che si fosse abbandonato a un cattivo pensiero su mio padre.

Era mio padre MASSIMO: Ormai, l'avrete capito, non aveva un buon carattere mio padre. Aveva un temperamento violento, arrogante e prepotente anche in famiglia. Ne sa qualcosa mia madre e lo sappiamo noi figli. E soprattutto io che, sin da ragazzino, l'ho contestato disubbidendo sistematicamente a ogni imposizione e sistematicamente subendone le pesanti conseguenze. Ero il ribelle, gli davo più grattacapi io che gli altri quattro fratelli insieme. Giovanni, Sergio e Roberto seguivano la legge del Baffo, anche se poi sotto sotto godevano delle mie bravate, e dunque studiavano con profitto, tanto che si sono laureati bene e subito dopo hanno trovato la loro strada. Io e Luciana ci siamo 83

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fermati alla maturità. GIOVANNI: Tutti noi figli abbiamo frequentato l'asilo e le elementari al Sacro Cuore, prestigioso istituto di suore. Ma solo Massimo è riuscito a farsi espellere per sempre mentre frequentava la terza. Era una bel­ lissima scuola con un ampio parco per la ricreazione e al centro campeggiava una grande gabbia con un maestoso pavone. Quell'anno Massimo, nell'approssimarsi del Carnevale, aveva ottenuto un costume da pellerossa. Ma non quello che voleva. Lui desiderava un copricapo più ricco di penne, adatto a un grande condottiero. Il nonno Attilio si diede da fare, ma non riuscì a trovarlo. Massimo sembrava rassegnato, ma in realtà non faceva altro che guardare con cupidigia le meravigliose e multicolori piume del pavone in gabbia. Il problema era impossessarsene senza essere vi­ sto. Dunque il momento più adatto era quello della messa del mattino. Così un giorno si allontanò dalla cappella senza essere notato (in questo facilitato dalla sua statura, anche allora minima) e andò ad attaccare la gabbia del pavone. Scavalcò la recinzione ed entrò. Quando tornò in chiesa, col suo faccino incolpevole, nascondeva in tasca una dozzina di preziosissime penne. Fu scoperto perché, durante la ricreazione, dime­ nandosi appresso a una palla perse il bottino che gli scivolò a terra. Provò senza successo a inventarsi giu­ stificazioni improbabili, ma non fu creduto. La ma­ dre superiora fu irremovibile: finisce l'anno e non torna più. Per punizione non partecipò a nessuna festa di Carnevale e gli fu "confiscato" pure il costume da in­ diano già acquistato. Una fine ingloriosa, per un ca­ potribù.

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Un altro episodio indimenticabile delle gesta di Massimo risale a quando aveva dodici anni. Un giorno telefonò a casa il direttore della Standa di via Sciuti dicendo che un ragazzino era stato sorpreso con alcuni oggetti di cancelleria non pagati e sosteneva di essere il figlio di Vito Ciancimino. "Sto arrivando," rispose mio padre, ma prima di andare telefonò alla direzione generale di Milano della Standa per farsi precedere da una segnalazione. Lo accompagnai e, quando arrivammo, il direttore della filiale ci accolse gentile e conciliante, "consapevole che si era trattato di un equivoco". Era persino disposto a considerare il maltolto un' "gentile omaggio alla sua persona". Questo sembrò troppo pure a mio padre, che pagò e prese per il braccio il serafico Massimo, in un

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modo che lasciava presagire ciò che sarebbe avvenuto dopo a casa. MASSIMO: Ma non era la scuola l'assillo di mio pa­ dre. Lui temeva fortemente che, col carattere che mi ritrovavo, un giorno o l'altro avrei potuto finire in guai grossi. Certo, non ero un soggetto semplice. Mi è capitato di falsificare la firma di mio padre sul suo blocchetto di assegni e di acquistare la moto che lui non mi avrebbe mai comprato. Ecco, anche quando diventai il suo segretario tuttofare e tenevo rapporti delicati col suo mondo, viveva nel terrore che potessi combinare l'irreparabile. Sapeva che uno sgarro, in quell'ambiente, avrebbe comportato conseguenze gravi. Oggi che lui non c'è più devo confessare che più d'una volta sono uscito fuori binario, senza - per fortuna ­ essere scoperto. Avevo tredici anni, quando ho potuto toccare con mano la violenza delle sue punizioni. Frequentavo il Gonzaga, terza media, ed ero riuscito a farmi riman­ dare. Eravamo a Mondello, nella casa di villeggiatura di via Danae, e ricordo ancora gli schiaffoni a ripeti­ zione. Ma ricordo ancora meglio quello che accadde subito dopo: Baffo diede l'ordine a mio fratello Gio­ vanni di andare a comprare una catena di diciannove metri e due lucchetti resistenti. Mi diede due mandate a entrambe le gambe, i restanti sedici metri bastavano a coprire esattamente la distanza che mi separava dal bagno. Quello era il mio carcere. Non scorderò mai l'umiliazione, il senso di vergogna e di mortificazione nel sentire le voci degli amici dei miei fratelli che, sorpresi, commentavano il mio stato. E la rabbia, quando, per vendicarmi, mi affacciavo all'esterno mostrando lo strumento della mia tortura ai pochi passanti e accusando mio padre. Eppure non era, quello, il primo episodio in cui per punirmi mi privava della libertà: una cosa che mi

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faceva letteralmente andare fuori di testa. Ho ancora nel naso e nella mente l'odore di chiuso e il puzzo di scarpe usate che respiravo quando mi segregava nello sgabuzzino adibito a spogliatoio del personale di servizio, sempre per punirmi dei brutti voti, soprat­ tutto in italiano. A volte ci rimanevo un'intera setti­ mana, col permesso solo di mangiare a tavola in soli­ tudine e di andare a dormire la sera nel mio letto. Per una sorta di contrappasso, visto che ero scarso in ita­ liano, mi rinchiudeva in compagnia del libro Cuore. Che ovviamente ho detestato per tutta la vita. La nostra era una contrapposizione continua. Tanto lui era amante del basso profilo, della prudente non ostentazione, quanto a me piaceva la bella vita. Mi piacevano gli orologi, tanto che per un periodo ho preso la rappresentanza della Rolex, una marca che ha finito per diventare, a Palermo, il mio secondo nome. Mi piacevano le belle auto e le moto e non capivo per quale motivo mio padre, invece, si negava e ci negava il lusso pur avendone le possibilità economiche. Per questo rientravo a pieno titolo nella classificazione che dava alla quasi totalità del genere umano, liquidato come accozzaglia di "teste di minchia". E ovviamente nessuno più di me ne meritava l'appartenenza. Anzi, di quella genia, ai suoi occhi rappresentavo l'astro nascente. Del resto, si sa, io sono sempre stato soltanto il numero quattro. Quattro squilli di campanello e Massimo accorreva. Un trattamento riservato anche a tutti gli altri della famiglia: Giovanni, il primogenito, uno squillo, poi via via a seconda dell'ordine di nascita. Luciana era fuori quota in quanto donna. Alla servitù era riservato uno squillo prolungato. Pure nella classifica del campanello stavo all'ultimo posto. D'altra parte sono stato sempre il più piccolo, per questo mi ero conquistato il nomignolo di "Nano", che mi è rimasto per sempre. Ma me ne sono fatto una ragione, fino a riuscire a scherzarci su dicendo che ero stato 87

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fatto con gli scarti e per questo ero il più piccolo. Era proprio un padre-padrone, conscio del suo potere e sempre pronto a esercitarlo. Padrone di una famiglia per nulla unita, tenuta insieme dalla presenza di nonno Attilio e nonna Adele, i genitori di mia madre e supporto affettivo dei nipoti. Una non-famiglia l'ho sempre considerata. Mia madre era troppo debole per opporsi all'onnipotente capofamiglia, anche di fronte ai suoi evidenti tradimenti. Erano tempi diversi, e quella generazione viveva ancora il mito dell'unità familiare a qualunque costo. Separazioni e divorzi erano ancora oggetto di scandalo. A lui, al Moloch, ho anche provato a volergli bene, a capirlo, a giustificare, specialmente da ragazzino, molti dei suoi gesti incomprensibili. Giuro, nono­ stante tutti i miei sforzi non ci sono mai riuscito. La cosa più triste è che ancora oggi non riesco ad avere nostalgia di un solo giorno trascorso insieme. Non ri­ cordo un abbraccio spontaneo, una parola dolce e così, in assenza di queste parole, sono riuscito a consolarmi persino con il suo "testa di cazzo". Comunque era mio padre, e dunque mi toccava giustificarlo all'esterno, riuscendo a nascondere la consapevolezza amara di un figlio che non sentiva di essere amato. È triste più di quanto si possa immaginare il senti­ mento di rabbia che ho provato quando è morto: non riuscire ad aggrappare il proprio dolore a un solo epi­ sodio di vera gioia condivisa. Non avere nulla per col­ mare un vuoto di anni. E pensare che siamo stati sempre fisicamente vicini, prima quando lo scorrazzavo per Palermo e dintorni, inseguendo Lo Verde e compagnia di turno, poi al confino. E poi i colloqui in carcere, l'assistenza durante gli arresti domiciliari, fino alla morte. Una vita a contatto senza mai essere stati veramente insieme. Non ricordo anniversari, né compleanni, né feste di Natale. Ma quale albero o presepe o addobbi natalizi! Al massimo il rito della Vigilia, quando ci chiamava uno per uno nella sua 88

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stanza, con il solito rituale del campanello, per darci un regalo. Anche qui senza molto impegno affettivo: una delle prime volte che ricordo mi mise in mano una banconota da diecimila lire. Ma d'altra parte meglio così, visto che nelle rare sue presenze a cena il finale era sempre lo stesso: mia madre in lacrime e lui a bestemmiare. Qualche volta mi ero addirittura consolato nel vedere come la sua rudezza non fosse rivolta soltanto a noi. Ricordo il rapporto con sua madre, nonna Pietrina, che vedeva soltanto alle feste comandate. Anche con lei era praticamente anaffettivo e tradiva la sua arroganza e il suo egoismo quando la mortificava nel darle dei soldi facendoglielo pesare. Mi sono sempre chiesto il perché di tale atteggiamento. La spiegazione sta forse nella storia della morte del fratello maggiore di mio padre, Vincenzo. Entrambi furono colpiti dalla difterite, una malattia a quei tempi mortale. I due fratelli furono separati e forse questo salvò mio padre. Vincenzo, invece, non ce la fece. Mia nonna Pietrina era legatissima al figlio maggiore e il dolore le fece perdere la ragione. Mio padre la sentì imprecare contro il cielo: "Dio mio, se mi dovevi punire, perché ti sei preso proprio lui?". Forse neppure lui è stato un uomo felice. Chissà, a suo modo probabilmente ci voleva anche bene e non trovava il modo giusto per dimostrarlo, tutto preso dalla passione per il potere. GIOVANNI: È vero. Baffo non riusciva a trasmettere i suoi sentimenti. Era come prigioniero di una corazza. Si contano sulle dita di una mano i momenti in cui si è lasciato andare al ruolo di padre amorevole. Di uno di questi sono stato testimone e riguarda la morte di Lampo, l'adorato cagnolino mio compagno dei giochi d'infanzia che ero riuscito a far accettare, col fondamentale aiuto del buon nonno Attilio e anche di

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nonna Adele, malgrado le sue manie igieniste contrarie a ogni contatto con gli animali. Quando Lampo si ammalò gravemente e si rese necessario abbatterlo, lo portammo dal veterinario. Sono ancora riconoscente a mio padre per aver scelto di starmi vicino in quel momento. Ero ragazzino e la fine di Lampo la vivevo come una vera tragedia. Baffo per una volta rinunciò ai suoi impegni politici per sostenermi. Mentre il medico preparava l'iniezione letale, mio padre mi accarezzò il capo con grande te­ nerezza. Cosa rara per lui che non esternava mai con i gesti il suo affetto. "Questo - mi sussurrò - per te sarà un grande dolore. Mentirei se dicessi che nella vita non ti potrà capitare di averne, anche di peggiori. Però sono questi i momenti in cui i veri uomini si riconoscono, nel saper sopportare il dolore con dignità. Ricordati, Giovanni: il dolore va tenuto dentro, non va offerto agli occhi degli estranei. Io alla tua età ho perso un fratello, ma nessuno mi ha mai visto piangere. Lo facevo nel chiuso della mia stanza. Fatti forza, mi raccomando." Eppure una volta l'hanno visto piangere, il granitico Baffo. Me l'hanno raccontato persone che per anni gli sono state accanto. La storia risale ancora a quando ero bambino, all'incidente domestico che mi ridusse in fin di vita. Mio padre non sapeva l'entità del danno che avevo subìto, così quando arrivò in ospedale non s'aspettava di trovarmi addirittura in coma. I presenti temevano una delle sue solite reazioni aggressive, invece si portò le mani al viso e cominciò a piangere.

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I tic di don Vito

A guardarlo superficialmente sembrava una roccia, Vito Ciancimino. Invece anche lui aveva i suoi problemi esistenziali, ben nascosti sotto quello sguardo di "uomo che non deve chiedere". Il suo autentico punto debole sembra fosse la paura della morte, il terrore delle malattie. Naturalmente si rifiutava, almeno finché non poté farne a meno, di mettere piede su un aereo. Diceva che gli provocava agitazione e temeva che fosse preso da un infarto mentre stava, indifendibile, ad alta quota. Una paura che gli veniva dalla sorte toccata a un suo amico. Già, era un ipocondriaco don Vito. E un supersti­ zioso, sempre a esorcizzare il "luttuoso evento". Se capitavano discorsi su mali incurabili o improvvisi decessi, non esitava ad abbandonarsi agli scongiuri più impresentabili. La sua esistenza spericolata, forse, lo aveva abituato a convivere con la consapevolezza della caducità della vita. GIOVANNI: Mio padre era ipocondriaco come pochi al mondo. Accusava sintomatologie di ogni tipo, ov­ viamente inventate: cardiopatie irreversibili, immi­ nenti ictus cerebrali e tumori in fase avanzata. Per 91

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questo si sottoponeva a controlli semestrali, natural­ mente in Svizzera, presso l'unico medico di cui si fidava veramente, il professor Raul De Preux. Mi è capitato di accompagnarlo e ogni volta il viaggio di andata è stato un'esperienza devastante. Spesso si faceva trovare in albergo, disteso sul letto in uno stato di prostrazione totale. A sentire lui, il giorno dopo il professore gli avrebbe dato sicuramente pochi mesi di vita, forse addirittura poche settimane. A cena, poi, si andava sempre allo stesso ristorante e con un preciso e immutabile rituale scaramantico che prevedeva l'identico menu: un brodino e un pezzetto di formaggio magro, nella certezza che il suo fisico non avrebbe retto altro. A tavola si affrontava un solo tema: quello della sua dipartita e, di conseguenza, quello che io avrei dovuto fare per occuparmi dei miei fratelli, in particolare di Massimo, "che è quello che mi preoccupa di più". Io cercavo di controbattere e gli chiedevo: "Ma quale malattia pensi di avere?". Lui non rispondeva, ma muoveva entrambe le mani per spiegare che "non c'era più nulla da fare". Di questo psicodramma si faceva partecipe anche il proprietario del ristorante, coinvolto dall'atmosfera plumbea che aleggiava al nostro tavolo. La mattina successiva davanti al medico svizzero perdeva tutta l'arroganza, la sicurezza del suo carat­ tere. E, dopo l'accurata visita, arrivava il responso di sempre: "Signor Ciancimino, lei è sano come un pe­ sce. Ci vediamo tra sei mesi". Parole taumaturgiche, capaci di dissolvere malinconie e inappetenze. La tappa successiva e immediata era il ristorante, per ri­ farsi di tutto quello a cui aveva dovuto rinunciare la sera prima. Si può immaginare quanto diverso fosse il viaggio di rientro a Palermo. Era il suo dispensatore di vita, il suo guru, la sua panacea, quel medico. Senza di lui si sarebbe sentito perduto e indifeso. È facile, dunque, immaginare la 92

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tragedia che ci piombò addosso quando mia madre, un giorno, entrò nella sua stanza, dove abitualmente dimorava quando era a casa, e gli disse: "Vito, una notizia tremenda. Giorni fa è morto il professor De Preux, me lo ha detto una mia amica. Ha avuto un in­ farto fulminante". Ero presente a quel colloquio e vidi mio padre sbiancare come un morto. Il volto gli si imperlò di su­ dore, mentre scivolava sempre di più nel letto, fino ad assumere la postura del cadavere. Anch'io restai im­ mobile e muto, non sapendo cosa dire. L'unica che ri­ maneva imperturbabile era mia madre: "Ma perché fai così? Puoi sempre trovare un altro medico, la Svizzera è piena di luminari, non credo sia difficile mettersi nelle mani di uno bravo come lui". Baffo andò su tutte le furie e, irritato per la suffi­ cienza con cui mia madre valutava quell'evento, gridò che nessun medico avrebbe mai potuto sostituire il professore. Ci invitò a uscire dalla sua stanza e a chiudere bene la porta perché non stava bene e voleva rimanere solo. Per tutta la settimana successiva annullò gran parte degli impegni politici, lavorando lo stretto necessario e rimanendo quasi sempre chiuso in camera da letto in uno stato di profonda depressione. Nello stesso tempo cominciarono le ricerche del nuovo taumaturgo. La selezione fu lunga, fino a quando sembrò conquistato da un medico di Lugano. Si preparava al nuovo pellegrinaggio, per nulla rasserenato, semmai rassegnato alla crudeltà della vita. Poco prima di partire ricevette la visita dell'amico Pino Mirisola, anche lui con qualche problema di salute che lo aveva indotto a chiedere l'intervento del professor De Preux, di cui aveva sentito molto parlare. La visita era avvenuta a Losanna, due giorni prima. Appena glielo sentì dire mio padre strabuzzò gli 93

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occhi e si fece ripetere più d'una volta, incredulo, il racconto. Mirisola confermò aggiungendo di aver ri­ cevuto l'incarico di portargli i saluti e che, anzi, il professore si meravigliava che ancora non avesse preso il consueto appuntamento. Tutto senza nascondere lo stupore per la reazione di mio padre al quale ripeté: "Sì, proprio il professore svizzero, quello che mi hai segnalato tu. Ma perché ti agiti tanto?". Come una furia mio padre afferrò il telefono e dopo tre secondi aveva già preso l'appuntamento con De Preux. Ma non finiva lì, il conto in sospeso era con mia madre. Aspettò che rincasasse e la convocò nella sua stanza, dove si svolse un vero e proprio interrogatorio. "Mi devi dire chi è questa tua amica che ti ha dato la notizia della morte di De Preux." "Ma che importanza vuoi che abbia? Non ti tor­ mentare più, son cose che succedono." "Già, però questa non è successa. De Preux è vivo e vegeto." "Impossibile, la mia amica non può essersi sba­ gliata su una cosa tanto grave." "Certo, allora io ho appena preso appuntamento con un fantasma. Mi devi dire chi è questa tua amica perché io in casa mia non ce la voglio mai più." "Non te lo dico, perché saresti capace di farle una sfuriata." "Secondo me ti sei inventata tutto da sola, per ven­ dicarti di non so che cosa." Con queste parole, urlando come un ossesso, la cacciò dalla camera, ma mia madre se ne andò proprio di casa, per alcuni giorni, presso una cugina. Quello fu il primo grosso litigio tra i miei genitori che incrinò per sempre il loro rapporto. Anche dopo essersi riappacificati, a ogni alterco lui le ripeteva: "Tu sei quella che ha fatto morire Raul De Preux per vendicarti di me". 94

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GIOVANNI: Ci siamo già imbattuti nel pessimo carattere di mio padre. Era irascibile, scontroso, maschilista: insomma, incarnava tutto il peggio dell'autoritarismo patriarcale. Ma pure mia madre è un bel tipo, con i suoi voli pindarici, le sue astrazioni che la distraggono dalla realtà. È una cattolica praticante, fermamente convinta che dopo la morte esista un'altra vita e che quella che viviamo con il nostro corpo sia soltanto una breve parentesi. Baffo non la pensava così e, sebbene militasse nel partito cattolico per antonomasia, i suoi rapporti con la religione si limitavano alle cerimonie ufficiali - battesimi, matrimoni, cresime - che sono pane quotidiano per un politico. Dentro di sé, comunque, rimaneva un miscredente. Lei, Epifania chiamata Silvia, invece, allora non si limitava alla fede. Credeva nell'esistenza di persone dotate di poteri particolari, capaci di comunicare con i defunti e, tramite questi, indicare ai vivi le vie da seguire. In sintesi, mia madre credeva nella parapsicologia, nell'esoterismo e nei loro derivati. Questi spiriti eletti, lei li frequentava almeno una volta alla settimana. In famiglia tutti sapevamo e la prendevamo in giro, suscitando le sue vivaci reazioni. Tutto sarebbe rimasto nei limiti della quasi nor­ malità se lei non fosse stata la moglie di Vito Ciancimino e se il diavolo non ci avesse messo lo zampino. La sua superstizione, infatti, finì per essere addirittura indagata. Successe che durante l'estate del 1984 mia madre comprò una nuova rubrica telefonica con la copertina rossa. Quando cominciò a trasferirvi a poco a poco i numeri vecchi, pensai bene di farle uno scherzo e scrissi i nomi di alcuni maghi e stregoni famosi del passato, come Simon Mago, Merlino, Nostradamus e perfino il moderno Othelma, seguiti da numeri inventati. Lei non si accorse mai dei numeri "intrusi" e anelli() me ne dimenticai, distratto dalle nubi che co­ minciavano ad addensarsi sulla nostra casa, fino al­ 95

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l'arresto di mio padre. I poliziotti impegnati nella mi­ nuziosa perquisizione sequestrarono anche l'agenda rossa di mia madre. I giornali diedero per mesi le versioni più incredibili delle vicende di mio padre. Ma l'articolo che mi lasciò senza parole lo lessi sull'"Espresso". Parlava di una misteriosa rubrica con la copertina rossa dove erano scritti dei nomi in codice con numeri cifrati che probabilmente si riferivano a conti esteri. Mio padre, interrogato sull'agenda, si avvalse della facoltà di non rispondere visto che non sapeva nulla di quei numeri frutto del mio scherzo. Sul momento non trovai il coraggio di spiegare quella storia. Ma poi ne parlai con il legale di mio padre, il professor Orazio Campo, che mi consigliò di correre dal giudice Falcone e chiarire, visto che un esercito di investigatori riteneva quella rubrica uno dei documenti più interessanti sequestrati a casa mia. Fortunatamente il giudice mi credette e dell'agenda rossa rimase solo l'articolo sull'"Espresso".

I sacchetti di zio Mimì GIOVANNI: D'altra parte era, la superstizione, un ter­ reno comune non solo all'interno della coppia, ma anche nella cerchia degli amici. Per mio padre era l'antidoto a tutti i suoi mali. Era capace di dimostrare tutta la sua insofferenza per le persone tristi, per gli sfigati, oggi diremmo, per quelli che portavano "attasso", cioè sfortuna. Allo stesso modo credeva a ogni favola che riguardasse le persone positive, quelle con capacità soprannaturali: fossero santoni o ciarlatani che predicevano il futuro. In fondo aveva bisogno di rassicurazioni. Avevamo un parente, un vero personaggio, che ri­ spondeva perfettamente alle necessità partorite dalle manie di mio padre. Era lo zio Mimì, nostro vicino di 96

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casa a Baida. Un uomo benestante, che godeva fama di guaritore e veggente oltre a essere riconosciuto come un bravo rabdomante. Ricordo la fila di persone, a casa sua, che si sottoponevano all'imposizione delle mani per ogni sorta di malessere. Mio padre, che non aveva mai creduto in niente, teneva invece in grande considerazione lo zio Mimì. Quando stavamo a Baida, in estate, tornava dalle riunioni politiche e andava a trovarlo, ogni sera. Parlavano per ore, perché per lui le parole di zio Mimì erano unguento, lo rassicuravano. E questo perché il taumaturgo gli aveva predetto che lo avrebbe "preceduto di molto nell'aldilà" e quindi poteva stare tranquillo". Potrà sembrare incredibile, ma tale certezza sosteneva mio padre nella depressio­ ne. Quando credeva di star male o quando comincia­ rono le sue disavventure giudiziarie, si consolava sem­ pre con la "promessa di zio Mimì": "Vivrai a lungo, ma quando sarà il momento verrò io a prenderti mentre dormi e non ti accorgerai di nulla". Se sopravveniva qualche contrarietà, anche in politica e nel suo lavoro, mio padre era portato a crede­ re che si trattasse di disgrazie mandategli da qualcuno attraverso il malocchio. E allora sentiva il bisogno di ricaricare il suo talismano-portafortuna. La ricarica consisteva nell'aprire un piccolo sacchetto che portava sempre con sé, eliminarne il contenuto, cioè sale grosso mischiato a una specie di farina, e riempire nuovamente il sacchetto con gli stessi ingredienti, ma freschi. Forse pensando che quelli precedenti avessero perso la loro efficacia. Questa operazione, apparentemente banale, per risultare efficace doveva essere eseguita da una sola persona al mondo: lo zio Mimì. La sceneggiata prevedeva un preciso rituale: lo svuotamento del sacchetto e la dispersione del suo contenuto nel giardino, accompagnato da preghiere e novene; l'imposizione delle mani su quelle di mio padre che stringevano il nuovo sacchetto. Solo allora il "miracolato" poteva rimetterlo in tasca, sicuro dei 97 "

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futuri effetti benefici. Ovviamente, Baffo non si separava mai dal prezioso talismano, anzi più d'una volta ne ha fatto confezionare qualcuno per gli amici più fidati.

Quanta bella gente Già, gli amici fidati. Perché c'era chi frequentava casa Ciancimino "per lavoro", per affari, insomma per dovere professionale, e c'erano gli amici più stretti, quelli con cui il politico accentratore condivideva il tempo libero e le giornate di riposo. Da Massimo e Giovanni abbiamo già avuto un quadro della mappa del potere cianciminiano: i padroni del vapore, i Cassina, i Salvo, i Vassallo, i mafiosi Provenzano, Riina e Bontade. Di questi, soltanto Bernardo Provenzano, come sappiamo, ha occupato un posto fisso nella gerarchia dell'amicizia, secondo don Vito. Ma poi c'erano gli altri: i fedelissimi e in un certo senso anche le vittime della permalosità e della pre­ potenza di Ciancimino. Una galleria di personaggi 'devoti" al loro nume tutelare, che si muovono nei litica e nel suo lavoro, mio padre era portato a credere che si trattasse di disgrazie mandategli da qualcuno attraverso il malocchio. E allora sentiva il bisogno di ricaricare il suo talismano-portafortuna. La ricarica consisteva nell'aprire un piccolo sacchetto che portava sempre con sé, eliminarne il contenuto, cioè sale grosso mischiato a una specie di farina, e riempire nuovamente il sacchetto con gli stessi ingredienti, ma freschi. Forse pensando che quelli precedenti avessero perso la loro efficacia. Questa operazione, apparentemente banale, per risultare efficace doveva essere eseguita da una sola persona al mondo: lo zio Mimì. La sceneggiata prevedeva un preciso rituale: lo svuotamento del sacchetto e la dispersione del suo contenuto nel giardino, accompagnato da preghiere e novene; 98

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l'imposizione delle mani su quelle di mio padre che stringevano il nuovo sacchetto. Solo allora il "miracolato" poteva rimetterlo in tasca, sicuro dei futuri effetti benefici. Ovviamente, Baffo non si separava mai dal prezioso talismano, anzi più d'una volta ne ha fatto confezionare qualcuno per gli amici più fidati.

Quanta bella gente Già, gli amici fidati. Perché c'era chi frequentava casa Ciancimino "per lavoro", per affari, insomma per dovere professionale, e c'erano gli amici più stretti, quelli con cui il politico accentratore condivideva il tempo libero e le giornate di riposo. Da Massimo e Giovanni abbiamo già avuto un quadro della mappa del potere cianciminiano: i padroni del vapore, i Cassina, i Salvo, i Vassallo, i mafiosi Provenzano, Riina e Bontade. Di questi, soltanto Bernardo Provenzano, come sappiamo, ha occupato un posto fisso nella gerarchia dell'amicizia, secondo don Vito. Ma poi c'erano gli altri: i fedelissimi e in un certo senso anche le vittime della permalosità e della pre­ potenza di Ciancimino. Una galleria di personaggi 'devoti" al loro nume tutelare, che si muovono nei luoghi più familiari a don Vito, nella casa di via Sciuti, a Baida, a Mondello: "burattini in mano al puparo", li definisce Massimo. MASSIMO: Mio padre, in sostanza, era il capo di un clan. E parenti e amici erano lo strumento che gli consentiva di ottenere un controllo quasi totale su tutto ciò che gli interessava. Lavorava a casa proprio perché era il luogo dove si sentiva più sicuro e padrone, lontano da orecchie e sguardi indiscreti. Il segreto era l'arma più potente del sistema di potere che aveva 99

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costruito. D'altra parte era impensabile che per consultare il suo amico Lo Verde, uno dei capi della mafia, latitante da sempre, lo facesse andare in segreteria o in Comune. Come gli amici fidati, Lo Verde aveva accesso alle case più defilate di Baida e Mondello, soprattutto quando riusciva particolar­ mente difficile organizzare i soliti appuntamenti nei luoghi messi a disposizione dalla rete degli amici, in­ sospettabili rappresentanti della Palermo opulenta. Ma un filo perennemente attivo, Baffo Io teneva. Vi­ cino al suo letto c'erano quattro telefoni, come sul ta­ volo di un dirigente d'azienda. Era bravissimo a indi­ viduare la provenienza di ciascuno squillo, non alzava mai la cornetta sbagliata. La notte, visto che aveva bisogno di silenzio fino a dover usare i tappi, staccava la linea su tre dei quattro apparecchi. Ne lasciava in funzione soltanto uno. Una linea molto riservata, ripetuta anche nella villa di Mondello, ne ricordo an­ cora il numero, 454279. Allora non serviva il prefisso. Due sole prese in tutta la casa, una nella camera da letto, l'altra nel salone per dargli la possibilità di telefonare anche durante le sue riunioni. Era un nu­ mero conosciuto da pochissimi privilegiati, i soli che potessero disturbarlo a qualunque ora: innanzitutto il signor Lo Verde, poi Salvo Lima, il suo amico-ne­ mico della politica, e ancora il ministro Giovanni Gioia, il ministro Attilio Ruffini, l'onorevole Franz Gorgone, ovviamente Enzo Zanghì e il signor Franco, eterna figura immanente. Uno dei più preziosi collaboratori aveva addirittura il ruolo di segretario di mio padre: era Enzo Zanghì, un cugino di secondo grado. Faceva politica all'ombra del suo protettore, ovviamente nelle fila della Democrazia cristiana. Rappresentava il collettore di tutti gli impegni quotidiani: se volevi un appuntamento con l assessore Ciancimino, dovevi parlare con lui. Era il maestro di casa della corrente politica che aveva eletto la propria sede nelle nostre abitazioni. 100

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In via Sciuti c'era la tradizione della riunione del mercoledì. Il fido Enzo convocava uno per uno i com­ ponenti del sodalizio e provvedeva ad accoglierli man mano che arrivavano. Quella casa era, diciamo, pre­ disposta come se fosse un ministero. Ricordo ancora la tristezza della sala riunioni fatta disegnare apposi­ tamente dall'architetto Aldo Rappelli: il tavolo di vetro da venti posti al centro e, in fondo, il divano enorme che correva lungo la parete, capace di altri quindici posti. Quello era il salotto della politica, l'altro, il salotto buono, mia madre non l'avrebbe mai concesso a quella turba di consiglieri comunali, provinciali e chissà chi altri. Erano riunioni interminabili, che potevano durare dalle cinque del pomeriggio a mezzanotte, spesso con discussioni animate. E quando finiva la riunione grande, rimanevano quelli che contavano di più a confabulare con mio padre, fino a tarda notte. Certo, rimaneva Zanghì, a un certo punto nominato presi­ dente dell'Acquedotto comunale, ma anche Totuccio Castro, uno dei fedelissimi che nelle giunte di Palermo ha ricoperto incarichi importanti, l'assessore Totò Midolo, l'onorevole Franz Gorgone e il medico Gino Pennino. Di lui si parlerà molto negli anni novanta, quando - arrestato - si convincerà a collaborare coi magistrati. E infine c'era il gruppo del poker, completamente succube degli umori di mio padre. Persino le vacanze decideva per tutti, periodo e località. Non ho mai capito se fossero davvero contenti di trascorrere le ferie a Salsomaggiore o a Sirmione. D'altra parte ogni de­ cisione di Baffo era insindacabile. Anche quella di portarsi in vacanza l'amante e il marito di lei o di vietare il fumo, ma solo quando lui fu costretto a smettere. Amici del tavolo da gioco, ma anche graditi commensali nei pranzi a La Scuderia, di cui abbiamo detto: lo zio Aldo, il costruttore Piazza, il dottor Galbo, il capo dell'ufficio tecnico, l'ingegner Biondo, il nostro parente Pino Lisotta che abitava nello stesso stabile di 101

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via Sciuti. Che destino atroce, il suo. Nato a Corleone, demo­ cristiano come mio padre, in paese era anche stato eletto consigliere comunale. Faceva il medico della mutua. Poteva vantare anche una discreta carriera perché a un certo punto fu nominato, mentre mio padre era in auge, presidente dell'Ospedale dei Bianchi, a Corleone. Lo ricordo sempre timoroso di aver potuto, anche involontariamente, commettere un atto contrario alla legge. Negli anni che seguirono l'arresto di mio padre da parte del dottor Falcone, questo timore diventò ossessione. Per capire quanto fosse perseguitato dalla paura di poter fare la stessa fine del cugino, basti pensare a quando - addirittura in preda all'ira - mandò indietro un regalo - un vassoio d argento - inviatogli da un costruttore che aveva ristrutturato l'ospedale di Corleone. Un gesto che l'imprenditore non riusciva a capire perché assolutamente inedito nel panorama delle sue relazioni. Tanto che interpretò quel rifiuto come la pretesa di qualcosa di più sostanzioso. E allora gli fece recapitare un enorme vaso d'argento, molto più costoso. Pino andò su tutte le furie e rimandò indietro, senza molto garbo, anche quel dono. Fu allora che l'imprenditore si preoccupò e chiese lumi a mio padre che scoppiò in una risata fragorosa, conoscendo bene il cugino e le sue paure. L'episodio, comunque, servì a scoraggiare definitivamente qualsiasi generosità o richiesta di favori nei suoi confronti. Il giorno dell'arresto, Baffo fu colto da malore e Pino fu chiamato per assisterlo. A guardarlo, però, capimmo che era lui a stare peggio, tanto da dover convincerlo a desistere e a tornarsene a casa. Da quel momento nella sua mente si insinuò, come una goccia che scava la pietra, il terrore di finire in galera e di perdere tutti i suoi beni. Si riprese un po' quando fu nominato direttore sanitario dell'Asl più importante di Palermo. 102

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Durò poco, perché prima la morte della moglie, poi la pensione lo ricacciarono nella depressione. Tornò a vivere nella paura, somatizzata in una improvvisa magrezza: la notte si svegliava per una inesistente citofonata della polizia venuta ad arrestarlo, di giorno stava lontano da casa nel timore di trovare gli agenti dietro la porta. Eppure non ricevette mai, in quel guazzabuglio palermitano, neppure una comunicazione giudiziaria. Una mosca bianca nel panorama amministrativo della Sanità. Più che un cugino, per noi ragazzi Pino Lisotta era un secondo padre: potevamo sempre contare sul suo aiuto per qualunque cosa. Quando cominciò la mattanza della seconda guerra di mafia e venne ucciso l'ex sindaco andreottiano ed europarlamentare dc, Salvo Lima, Pino raccolse l'angoscia di Nando Liggio, un docente universitario testimone diretto dell omicidio e quindi ossessionato dalla possibilità di fare la stessa fine di Lima. Identico terrore gli aveva trasmesso Sebastiano Purpura, braccio destro del parlamentare ucciso, timoroso di poter subire conseguenze per la conoscenza dei segreti del suo capo, ma soprattutto di diventare anch egli testimone scomodo e quindi bersaglio. Lisotta non poteva reggere a quello stress, convinto com'era che, di lì a poco, si sarebbe alzato il coperchio che nascondeva il marciume di un'epoca. Certezza che gli giunse dal secondo arresto di mio padre. Lo trovarono impiccato nella sua stanza da letto: si era ucciso con la corda della serranda. Ma per tutti Pino è deceduto per un infarto, come risulta dal certificato di morte. Per nascondere i segni della corda, lo "vestirono" con un maglione a dolcevita. Lo abbiamo rimpianto tutti, specialmente noi ragazzi. Ma c'era un altro modo di ricevere gli ospiti, a via Sciuti 85R. Ci siamo imbattuti già nella scena insolita del capo di Cosa nostra in piedi davanti al letto dove mio padre accoglieva i visitatori. Quella camera era il 103

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suo vero ufficio: carte e giornali sparsi sulle coperte e per terra, penne, matite, il posacenere stracolmo di mozziconi lasciati anche da chi occupava la poltrona davanti al letto. Un buon ufficio, sicuro e affidabile, doveva d'al­ tronde avere una cassaforte o degli ottimi nascondigli. Il denaro contante mio padre lo teneva in una cassetta metallica murata nella parte bassa della parete di un camerino, nascosta dietro tre finte prese di corrente che si toglievano esercitando una lieve pres­ sione con la mano. La chiave della cassetta veniva mimetizzata in una ciotola, insieme con molte altre chiavi sul comodino della camera da letto. Poi c'era il nascondiglio per i documenti e, in par­ ticolare, per i libretti bancari. La scatola di metallo non era molto affidabile perché rilevabile da un even­ tuale metal detector. E allora mio padre si rivolse a un artigiano ebanista, il signor Pellerito, che gli era stato messo a disposizione sempre dai suoi amici Bo­ nura e Buscemi. Un bravissimo falegname che aveva inventato un sistema eccezionale e lo aveva già speri­ mentato nelle abitazioni di molti capimafia, Totò Riina compreso. In sostanza Pellerito aveva costruito una cassetta di legno stretta e lunga, a misura dei documenti e dei libretti bancari intestati a nomi di fantasia, e la na­ scose in una parete della cucina. Ogni volta che mio padre doveva versare somme non giustificabili, si do­ veva rivolgere al falegname. Arrivava alle 13, orario di chiusura della portineria e, silenzioso e professionale, si dirigeva in cucina. Toglieva sei piastrelle, identificate solo da lui e dal padrone di casa. Alle 14.30 mio padre andava in banca dove aveva già un appuntamento con il direttore. Versava, la banca ag­ giornava i libretti che venivano prontamente rimessi al loro posto dal signor Pellerito, tanto scrupoloso da mimetizzare l'operazione sporcando il cemento fresco con una scarpa di mia madre. Questa prassi veniva 104

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ripetuta ogni due-tre mesi e ogni volta noi figli e mia madre eravamo cortesemente invitati a pranzare in salotto.

Vivere pericolosamente Un sistema politico-affaristico, come quello creato da Vito Ciancimino, naturalmente non poteva reggersi soltanto sulle "buone maniere" celebrate dall'iconografia mafiosa del bacio sulla guancia, della parola d'onore o del tanto strombazzato primato della politica. No, il sistema era qualcosa di più complicato e la pacifica convivenza fra i due poteri - la mafia e la politica - poggiava soprattutto sulle garanzie offerte da singoli personaggi capaci di una mediazione continua che assicurava un percorso senza eccessivi momenti di crisi, foriera di ricchezza e solidità economica. Secondo il racconto dei figli, consegnato anche ai magistrati, tutto ciò era possibile soprattutto perché il padre si faceva garante di una "equa lottizzazione", ma anche per la provvidenziale presenza di un calmierante come Lo Verde/Provenzano e per i saggi suggerimenti - in direzione della difesa di uno stabile "status quo" ­ dell'ineffabile signor Franco. Ma se la politica accetta un innaturale dialogo con la mafia, è pure possibile che alle strette - magari davanti a una qualsiasi turbolenza - si possa verificare un problema di comunicazione, di diversità di linguaggio. E che il malaffare finisca per fare ricorso all'unica lingua conosciuta: quella della violenza e della sopraffazione. Anche don Vito, nonostante tutte le precauzioni e le protezioni di cui godeva, si trovò ad affrontare la rude comunicazione di Cosa nostra. GIOVANNI: Ero ancora un ragazzino di quindici anni, quando ho potuto toccare con mano che mio padre - in quel momento sindaco - faceva un mestiere tutt'altro 105

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che tranquillo. Come ogni domenica mattina, dopo la rituale visita alla tomba del nonno, al cimitero dei Cappuccini, ci stavamo dirigendo in macchina al solito bar per il solito gelato al cioccolato. La strada era stretta ma un'auto di grossa cilindrata, sgommando, riuscì lo stesso a sorpassarci. Dallo sportello fece capolino una paletta della polizia, mentre un'altra macchina scura si appiccicava al nostro paraurti posteriore. Sembrava un normale controllo. Si avvicinò un uomo che indossava un giubbotto marrone scamosciato con cui mio padre iniziò uno scambio di battute: "Ecco i documenti, è tutto in regola". "A noi i documenti non interessano, non siamo delle forze dell'ordine, l'abbiamo fermata perché c'è una persona che vuole parlarle con urgenza." "Forse lei non mi conosce, io sono il sindaco e se c'è un signore che vuole parlarmi, gli dica di prendere un appuntamento con la mia segretaria e forse troverò il modo di riceverlo. Ora dica ai suoi amici di spostare le auto perché non ho altro tempo da perdere." "Lo sappiamo benissimo chi è lei e la prego di non crearmi problemi. Abbiamo ricevuto l'ordine di portarla da questa persona e, mi creda, non sono ammesse disubbidienze." "I suoi problemi non mi riguardano, dite a chi vi manda che non ho nessuna intenzione di parlare con lui, anche a causa di questa presentazione..." La nostra macchina, intanto, veniva accerchiata da facce poco rassicuranti. Un omaccione fece anche la mossa di intervenire, ma fu messo a posto da quello che sembrava il leader: "Signor sindaco, la prego venga con noi. Non ci co­ stringa a usare metodi che non ci sono congeniali, siamo tutti armati. Io sono un tipo tranquillo, ma ri­ spondo solo di me stesso. I miei amici, invece, si po­ trebbero innervosire". Mio padre capì che non era aria, tentò di ottenere la 106

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mia liberazione, ma riuscì soltanto a convincere il mediatore a guidare la nostra macchina con me a bordo, mentre lui accettò di andare con gli altri. Il viaggio durò poco più di mezz'ora, fra stradine sterrate di una borgata in aperta campagna. La casa dove eravamo stati invitati era una costruzione agricola a due piani del tutto anonima, con un grande baglio pieno d'attrezzi. Mio padre fu introdotto, mentre io venni portato nella cucina, al pianoterra, e lì lasciato tra bibite e gelati. Rimasi da solo quasi un'ora, finché non resistetti alla tentazione di uscire. Non l'avessi mai fatto: mi trovai faccia a faccia con un cagnone, un autentico molosso, che mi puntava. Mentre sudavo freddo per la paura, calcolavo mentalmente la possibilità di successo di raggiungere la porta della cucina senza essere azzannato. Presi a correre come un disperato, inseguito dal mostro ringhiante che arrivò a mordermi l'indice, proprio mentre gli chiudevo la porta sul muso. Il dito sanguinava copiosamente e il dolore mi stordiva. Tamponai la ferita con zucchero abbondante, come avevo visto fare in caso di incidenti casalinghi. Ma l'attesa non finiva. Il dito non sanguinava più, uscire non potevo per via del cane e allora, per ingannare il tempo, cominciai a rovistare nei cassetti. Con grande sorpresa, vidi che in uno era custodita una serie completa di ferri da chirurgo, tutti puliti e sistemati in modo ordinato. In un altro c'erano due pistole lucide e fiammanti: una automatica, l'altra a tamburo. La presi e stavo per premere il grilletto in direzione del lampadario, quando arrivò l'uomo dal giubbotto di camoscio che, con la solita flemma, mi disse di consegnare immediatamente l'arma, "che è carica". "E poi," disse, "ricordati che quando si impugna una pistola bisogna anche sparare, altrimenti si rischia di fare una brutta fine." Fu lui a curarmi la ferita, con una perizia degna di un medico. 107

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Raggiunsi mio padre che era già tornato alla guida della nostra macchina. Aveva un'espressione tetra, neppure il giorno della morte di suo padre l'avevo visto così scuro in volto. Sulla strada del ritorno cercai di farmi dire chi lo aveva convocato in quel modo. Rimase in silenzio, poi cercò uno slargo per fermarsi e potermi parlare mentre mi guardava negli occhi: "Stammi bene a sentire, tu non sei più un bambino. Devi farmi la promessa che non racconterai a nessuno, dico a nessuno, parenti compresi, quello che è successo oggi. Dimenticati di questa storia e non farmi più domande. Quando io non ci sarò più, farai come ti pare". Passò circa un anno quando, a una festa, aperta ai non soci, presso un circolo nautico di antiche tradizioni sul lungomare di Mondello rividi l'uomo dal giubbotto di camoscio. Lo riconobbi subito e mi avvicinai per salutarlo e ricordargli l'occasione in cui ci eravamo conosciuti. "Ricorda? Lei mi ha curato la ferita al dito, ricorda il morso del cane? Guardi, la cicatrice è ancora visibile." "Mi dispiace, non ho il piacere di conoscerla. Forse mi scambia con un'altra persona." Mi salutò e si mescolò con gli altri invitati. Raccontai l'incontro a mio padre che si turbò forse più della volta precedente: "Spero avrai finto di non averlo mai visto". "Al contrario, papà. È stato lui a fingere di non avermi mai conosciuto." "Figlio mio, sei stato un pazzo. Non avresti mai dovuto farlo. Io ti avevo raccomandato di cancellare quell'episodio dalla tua mente e tu intavoli una di­ scussione con quell'uomo, dicendogli di averlo rico­ nosciuto? Quella è gente pericolosa, capace di tutto, come hai avuto modo di verificare. Ti ordino per l'ultima volta di scordarti di tutta questa storia." Non ho mai saputo chi aveva disposto di condurci in 108

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quella casa, né il contenuto del colloquio con mio padre. Intuisco che deve essersi trattato di una richiesta non usuale, che andava al di là dei normali contatti, anche problematici, del politico. Quella, comunque, non fu l'unica occasione di frizione dura con quegli ambienti. La metà degli anni settanta offrì diversi altri momenti difficili e fu teatro di una pericolosa vicinanza con quel mondo, diciamo, imprenditoriale, popolato da discutibili palazzi-nari, maneggioni delle opere pubbliche e costruttori mafiosi, come Stefano Bontade, Mimmo Teresi e don Pino Abbate. Intorno al 1976, prima di Ferragosto, si svolse nella nostra casa di via Danae, a Mondello, una riunione segretissima, più lunga e concitata del solito. L'oggetto dell'animata assemblea era la costruzione di un grande centro residenziale alla periferia di Palermo, con tanto di abitazioni, scuole, negozi e palestre. Malgrado la mediazione di mio padre, non si trovava un accordo sulla spartizione degli appalti ed era risultato inutile un primo tentativo di conciliazione svoltosi a casa di don Tano Badalamenti, il boss di Cinisi. La riunione finì a tarda notte, dopo un gran vociare. Poco tempo dopo sentii una brusca frenata davanti a casa nostra e una ripartenza molto rumorosa. La mattina successiva, davanti alla porta d'ingresso, Pina, la cameriera, trovò un pacco e una busta con un biglietto che portò in cucina. Mia madre diede uno sguardo alla lettera e capì che non era arrivato il pacco della spesa. Sul biglietto c'era scritto a stampatello: "Questo è un regalo per il signor Ciancimino. Prima di gettarlo, lo guardi con attenzione e rifletta". Distratta come sempre, disse alla cameriera di aprirlo e si allontanò. Fu l'urlo di Pina a richiamarci in cucina. Dentro al pacco c'era una testa mozzata di capretto, che ancora grondava sangue. Per rendere ancora più macabro il messaggio gli avevano cavato gli occhi, sostituiti da pezzi di legno 109

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acuminati poco più piccoli di quello che era stato ficcato nella bocca del povero animale. Pina urlava, mia madre si dovette distendere sul divano e recuperare i sensi con un bicchiere di acqua e zucchero. Neanch'io stavo molto bene, ero davvero turbato da quella scena truculenta. Mi chiesero di chiamare mio padre, ma io memore del casino che aveva fatto l'ultima volta che lo avevamo svegliato per passargli una telefonata dell'onorevole Mario D'Acquisto - me ne guardai bene. Tanto, pensavo, la testa mozzata non scapperà. Ma il trambusto era tale che Baffo si svegliò lo stesso, pronto come sempre - a rimproverarci. Non si era neppure accorto del cadeau in bella vista sul tavolo della cucina. Quando la mamma gli indicò la testa mozzata non sembrò impressionarsi molto: lesse il biglietto e ci tranquillizzò con un "Ci penso io". Dopodiché si chiuse in camera sua e parlò a lungo al telefono. Il giorno stesso mi chiese di accompagnarlo a un appuntamento. Guidava lui, ma come sempre voleva qualcuno accanto per il timore di sentirsi male. Mentre percorrevamo l'autostrada ad andatura da corteo funebre, gli chiesi spiegazioni sul significato di quel pacco dono. La risposta fu un giro di parole: "Devi sapere che fare politica in Sicilia, e special­ mente a Palermo, è fra le cose più complicate del mondo. Si ha a che fare, oltre che con gli altri politici, con imprenditori impazienti di realizzare le loro aspettative e con quelli dell'altra sponda che sono i più pericolosi e i più pretenziosi. Tutto era pronto per la realizzazione di un grande insediamento residen­ ziale e sembrava che l'accordo fosse raggiunto, quando all'improvviso un elemento esterno manda tutto a scatafascio". "Ma che intendi per 'quelli dell'altra sponda'?" "Non c'è motivo che tu lo sappia perché si tratta di persone che creano soltanto guai e con le quali è dif­ ficile dialogare. Quella testa di capretto ne è la chiara dimostrazione." 110

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Una macchina ci prelevò all'entrata di Cinisi e ci condusse a una villa vicino al mare. Ci accolse un si­ gnore elegante in giacca scura e cravatta, salutò mio padre dandogli del lei ma baciandolo su entrambe le guance. Anche me baciò, presentandosi come Gaetano Badalamenti. Accennò anche a comuni conoscenti americani che avevo recentemente incontrato a New York, durante una spericolata missione, sempre su ordine di mio padre, di cui parleremo più avanti. C'era la tavola imbandita e tante persone vestite tutte uguali, da grande occasione, che cominciarono a discutere con mio padre. Devo confessare che mi sentivo sul set de Il Padrino. L'atmosfera non era delle più serene, si straparlava piuttosto che pranzare. La scena madre arrivò quando Badalamenti, che non si spogliava mai di questo atteggiamento mellifluo ma minaccioso, si rivolse all'ospite di riguardo tenendo fra le mani bottiglia e cavatappi. "Le farò bere," disse, "uno dei migliori vini rossi della mia cantina. Questa bottiglia ha aspettato degli anni prima di essere aperta e oggi è arrivato il suo momento. Come per gli uomini, quando arriva l'ora nessuno può sottrarsi al proprio destino." Queste parole, la faccia seria, i gesti lenti e studiati con cui faceva uscire il tappo dalla bottiglia, provocarono il silenzio di tutti gli astanti. "È un gran vino, questo bicchiere è per lei." Il primo bicchiere, osservato alla luce che ne esaltò la limpidezza, venne offerto a mio padre che, pur essendo astemio, non poté far altro che bere e apprezzare. Il resto fu un disastro: nessun ragionamento riuscì ad appianare i contrasti insorti, con evidente disappunto del boss. Così quando due degli ospiti, per nulla contenti della piega che prendeva la discussione, troncarono il dibattito, il padrone di casa indicò la porta senza accompagnarli. La riunione era praticamente sciolta, ma Badalamenti chiese a mio padre di rimanere ancora qualche minuto. Quando lasciò la casa aveva la faccia 111

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delle cattive notizie. Non so come sia finita la questione. So di un piccolo seguito, anche questo inquietante. E so che, pochi giorni dopo, nella cassetta delle lettere della nostra casa fu trovata una busta senza timbro postale indirizzata al signor Vito Ciancimino, ma in qualche modo riguardante la mia persona. Fui convocato in camera sua e lo trovai, ovviamente a letto, che ascoltava melodie della sua gioventù. Non fu un dialogo, ma un soliloquio: "Certamente tua madre, che non sa stare zitta, ti avrà informato della lettera che abbiamo ricevuto. Gli autori sono le stesse persone che hanno confezionato il pacco con la testa di capretto. La lettera, tra le altre cose deliranti, contiene anche vaghe minacce nei confronti del mio figlio primogenito che saresti tu. Ancora non ho avuto modo di verificare se si tratta di gente veramente pericolosa o di sbruffoni che cercano di intimidirmi. Nel dubbio, però, sei pregato di limitare allo stretto indispensabile le tue uscite serali. Non ho altro da dirti, se vuoi puoi andare". Avrei avuto tanto da chiedere, ma la sua faccia non mi induceva alle domande. Era impaurito? Non so, ma è sintomatico che, subito dopo, mi fece anticipare una delle mie trasferte americane.

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5.

America, Vaticano e misteri italiani

A differenza di tutti gli altri big dei partiti - dai Lima ai Gunnella, ai Purpura, che negavano l'esistenza di qualsiasi relazione pericolosa - Vito Ciancimino era solito giustificare le sue discutibili frequentazioni con la mafia facendo ricorso a metafore. Se sei nato nella giungla," diceva, "è in quell'ambiente che devi imparare a muoverti. Sennò che fai, ti chiudi in casa e non esci più?" Ecco, don Vito sosteneva che il con­ dizionamento ambientale faceva parte del gioco e che non era possibile aggirarlo: nessun atteggiamento di opposizione diretta alla mafia - "che è come il leone nella giungla" - avrebbe avuto possibilità di successo. E, dunque, avanti con gli ammiccamenti e i compromessi, che era, d'altra parte, la scelta condivisa da una maggioranza sociale abituata a fare di necessità virtù, sempre in nome del "quieto vivere". È evidente, tuttavia, come una simile azione politica a sovranità limitata rappresentasse una sorta di spada di Damocle sospesa sulla testa di amministratori e "strateghi" delle alleanze nei partiti. Lo stesso Vito Ciancimino, nei suoi appunti, ripete ossessivamente una serie di argomenti per cercare di spiegare la logica, se ve ne fosse stata una condivisibile, della scelta politica "disinvolta". Non faceva che sottolineare, a ogni 113 "

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occasione, la natura "difficile" del mestiere della politica: "Bisogna accontentare tutti e dare conto anche a quelli che manderesti volentieri a quel paese". E i mafiosi, poi. Certo, c'era Lo Verde/Provenzano con cui si trovava in sintonia nella vocazione alla mediazione continua, "democristianamente", appunto. Ma c'erano anche gli altri, invasivi, ingordi, insaziabili. E "vastasi", cioè senza educazione e senza cervello, capaci di violenze senza senso, anzi controproducenti per i guai giudiziari che puntualmente provocavano. Ecco, questi don Vito li definiva, come spiegava al figlio Giovanni minacciato, "quelli dell'altra sponda". È incredibile la capacità di Ciancimino di sdop­ piarsi: metà consigliori e sodale con "l'altra sponda", metà censore critico delle loro scelte, specialmente quando doveva subirle, iracondo per l'ottusità di "quelle teste di cazzo". Lo stesso Totò Riina, con la sua arroganza, finiva per risultare tra i più colpiti da quel­ l'epiteto. Ma il mestiere risultava "difficile" anche per altri motivi. C'era il pericolo delle indagini: degli "sbirri" non ci si può mai fidare e, peggio, dei carabinieri. Con la magistratura il discorso era diverso e tra poco vedremo perché. C'era poi tutto un mondo - un variegato mondo ­ che impensieriva quella perfetta macchina del consenso: i poveracci delusi dalle promesse, i sindacati con quella pretesa dei diritti, i partiti dell'opposizione coi loro giornali. Quanto fastidio dava quel foglio del pomeriggio, "L'Ora". Ogni giorno un titolo contro, una denuncia, una critica e quel martellamento continuo sulla mafia e sulle collusioni con la politica che avevano già provocato l'insediamento di una apposita commissione parlamentare piena di curiosità pericolose. La longa manus dei comunisti: così gli amici del "sistema" giudicavano i cronisti squattrinati del quotidiano. Neppure sospettando lontanamente che la tessera del Pci l'aveva solo la metà di quella redazione. 114

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Già, i comunisti, il pericolo rosso, erano l'altra vera ossessione di don Vito e di tanti di quella simpatica congrega. Preoccupati non tanto di perdere la propria onorabilità, quanto dell'avanzata dei "cosacchi" pronti a privarli delle ricchezze accumulate. Allarme, questo, alimentato anche da persuasori più o meno occulti, come quel "signor Franco" che Ciancimino frequenta già negli anni settanta, facendo tesoro delle sue analisi e dei suggerimenti sempre tesi - racconterà poi al figlio Massimo - al mantenimento della stabilità politica e imprenditoriale, garanzia massima contro il pericolo comunista. Nel corso degli anni quei suggerimenti porteranno Ciancimino e la politica siciliana al centro del grande puzzle ritagliato da forze oscure che hanno ripetuta­ mente messo a repentaglio la tenuta democratica del paese. È sorprendente seguire i movimenti dell'ex sindaco, sfiorato persino dall'ombra della Gladio, che si sposta in continuazione e viene in contatto con i principali protagonisti dei misteri italiani: da Calvi a Gelli, al cassiere della mafia Pippo Calò, un cocktail di soldi, mafia, corruzione e congiure politi­ che - sulle quali svetta il caso Moro - giustificato dalla necessità dell'americanismo anticomunista. Lo stesso Vito spiegherà ai magistrati, nel 1991, durante una delle istruttorie che lo hanno riguardato, i motivi che lo avevano indotto a investire in Canada. "Tutto è nato," dice, "dal successo elettorale che nelle amministrative del '75 ha avuto il Partito comunista in Italia. Questo pose tutto il mondo imprenditoriale in apprensione perché si temeva che, se questo suc­ cesso si fosse ripetuto maggiorato alle elezioni politi­ che dell'anno successivo, ci poteva essere un cambio della guardia. Perciò in quel periodo si verificò un esodo di circa 35.000 miliardi di lire, che mise in dif­ ficoltà il governo, tanto da dover emanare la famosa legge del '76 sull'esportazione di capitali, oggi depe­ 115

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nalizzata. Nacque allora l'idea di acquistare immobili all'estero, per salvaguardare il patrimonio. Uno dei paesi che ci venne indicato per investire era il Canada. E lì andammo." GIOVANNI: Ancora prima della svolta immobiliare, a Palermo si cominciò a frequentare l'estero attraverso le banche. La Svizzera appariva come una specie di paradiso perché irraggiungibile per le autorità italiane. In effetti, il segreto bancario apposto da quegli istituti di credito - in quel momento davvero inviolabile ­ rappresentava la garanzia più concreta che né il fisco né la finanza avrebbero mai avuto la possibilità di accesso ai conti siciliani aperti in quel paese. Ci fu un momento della mia adolescenza che, in seguito all'incidente che mi aveva fatto andare in corna, si rese necessario il ricovero in una clinica specializzata di Lugano. Poteva essere il 1970. Mio padre si prese il compito di accompagnarmi in treno. Come al solito facemmo tappa prima a Roma, per due giorni, poi a Milano. Qui mio padre ebbe numerosi incontri con persone a me sconosciute. Uno di loro gli consegnò, il giorno prima di proseguire per Lugano, una valigetta di pelle nera e una piccola chiave. Da quel momento e per tutto il viaggio mio padre dimostrò una grande ansia e non si volle mai separare da quel bagaglio. Arrivò a decidere di cenare in camera, per non perderlo d'occhio. Anche in treno non era tranquillo e, quando arri­ vammo alla frontiera, aspettandosi il controllo dei doganieri, nascose la valigetta tra il sedile e la parete dello scompartimento, coprendola anche col cappotto. Gli agenti in effetti arrivarono e uno era anche ab­ bastanza pignolo, tanto da chiederci di aprire i bagagli. Mio padre non abbandonò la seraficità che si era imposto e motivò il viaggio con i problemi di salute che mi riguardavano, versione accreditata dalle cartelle 116

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cliniche intanto trovate dai doganieri. L'ispezione, così, si interruppe e gli agenti se ne andarono dopo avermi offerto anche una carezza consolatoria. Superato il confine, mio padre cambiò espressione. Divenne raggiante e, sempre con la valigetta accanto, mi disse: "Oggi è un gran giorno, ricordatelo. Voglio subito andare a festeggiare in un buon ristorante e farò uno strappo alla regola, ordinando una fetta di torta al cioccolato". Alla stazione di Lugano ci venne a prendere un si­ gnore alto e allampanato, tutto vestito di nero. Dopo l'annunciato pranzo, tutti e tre ci recammo all'entrata di un austero edificio su cui campeggiava la scritta: "Union de Banques Suisses". L'uomo in nero chiese se anch'io dovessi entrare e mio padre confermò: "Mio figlio viene con noi, è un ragazzino ma mi sem­ bra giusto che cominci a capire le cose della vita". Poi, rivolto a me, aggiunse all'orecchio: "Io mi sto fi­ dando di te, però tutto quello che vedi e senti deve ri­ manere un segreto fra noi. Non dovrai dirlo neppure a tua madre". Fummo accolti da un direttore ossequioso che ci fece accomodare attorno a un tavolo dove mio padre aprì la valigetta comunicando con grande aplomb: "Questo è un milione di franchi svizzeri". I soldi pre­ sero la strada della cassaforte, a mio padre fu data una ricevuta e una raccomandazione: "Non dimentichi il numero del conto perché per noi quello fa testo, essendo il deposito completamente anonimo". Uscim­ mo da una porta secondaria che dava in un vicolo la­ terale. Al momento dei saluti, altri suggerimenti pre­ cauzionali: "La prossima volta entri da qui, al citofono non dica il cognome, ma soltanto il numero del conto. Meglio non usare l'ingresso principale, è capitato che la polizia italiana abbia fotografato i clienti e lei è un personaggio pubblico che non sfuggirebbe". Quello fu il primo conto corrente che mio padre aprì all'estero. 117

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L'avventura americana Il ponte con Brooklyn e i cugini americani, i "broc­ colini" di Cosa nostra, servì a molti siciliani per aprirsi la strada della fortuna. Ognuno usava le proprie re­ lazioni: gli onesti lavoratori andavano a bussare alle porte di amici e conoscenti sbarcati a New York e già integrati per le loro qualità, gli altri andavano a cer­ care appoggi tra i "paisà" che avevano in sostanza esportato il discutibile sistema dei favori, delle amicizie da clan e delle raccomandazioni. Il racconto degli investimenti immobiliari in America che fa Giovanni è un gustoso siparietto, il quadro preciso di una men­ talità, di una cultura, di un mondo forse ancora non del tutto tramontato: l'accoglienza nella comunità italoamericana, la disponibilità assicurata da persone mai conosciute, ma mosse dal vincolo dell'appar­ tenenza. E lui, Michel Corrado Pozza, "il risolutore", l'avvocato - un po' amico, un po' gangster, conosciuto da Vito a Milano, quando il legale investiva per conto di imprese del Nord - che supervisiona l'intera operazione. GIOVANNI: Negli anni che seguirono si radicò nella sua mente la fissazione dell'avvento del comunismo e della fine della proprietà privata. Ne parlava continuamente e con tutti: guai a contraddirlo, andava su tutte le furie soprattutto quando a farlo erano i suoi stessi compagni di partito. Nella sua ipotesi di futuro c'era la fuga negli Usa di tutta la famiglia e così cominciò a pianificare investimenti immobiliari in Canada, a Montréal, come gli era stato suggerito da alcuni amici milanesi. L'operazione appariva complicata perché realizzata senza che lui mettesse piede sul posto. Mai e poi mai, in quel periodo, avrebbe preso un aereo. E allora ero io che dovevo sostituirlo. Avevo poco più di vent'anni quando presi il volo per Montréal. Lì Michel Pozza aveva già individuato due

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immobili da comprare: un centro commerciale e un edificio abitativo. Era già allenato un notaio amico che registrò il rogito: i soldi erano già stati trasferiti dall'Ubs a un conto corrente aperto da Pozza a mio nome, presso la Canadian Bank of Commerce di Montréal. L'avvenimento fu celebrato nel corso di una grande cena a casa di Pozza e della fidanzata che si apprestava a divenire la sua terza moglie. Michel era diverso da come me l'aveva descritto mio padre. Non era né grassoccio né malandato e calvo, ma - al contrario - snello e con un vistoso ciuffo di capelli. Il "miracolo", a sentire lo stesso Pozza, era opera di Liz, la bella fidanzata con la quale sognava una felice vecchiaia. Ma il progetto sarebbe restato un sogno, perché Pozza non sarebbe riuscito a invecchiare, ucciso da qualcuno di quel mondo pericoloso. Lo stesso che avevo avuto modo di conoscere la sera del mio arrivo, durante una cena in mio onore. C'erano più di trenta invitati: colleghi avvocati di Pozza, imprenditori dell'edilizia e pure due giudici federali. Michel mi presentò al capotavola, un uomo enorme, obeso. Si chiamava Sam e, seppi poi, era l'uomo economicamente più potente della città. Gli porsi la mano, ma Sam disse: "La mano si offre agli estranei", quindi si alzò dalla sedia e mi baciò su entrambe le guance. La missione ebbe una coda insolita. Mio padre mi aveva dato, alla partenza, una telecamera per riprendere gli acquisti e mostrarli poi a lui e alla famiglia. A causa dell'inadeguatezza dello strumento datomi da Baffo, fui costretto a ricorrere alle più moderne tecnologie americane. Tornai in Italia, dunque, con una videoregistrazione decente, nella quale io stesso ero immortalato, sullo sfondo dello Shop Center appena acquistato, mentre ne decantavo i pregi. La "visione" avvenne di sera, in presenza dell'intero nucleo fami­ liare, schierato in salotto. Nello stesso viaggio, mi fermai a New York dove 119

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mio padre aveva affittato un piccolo appartamento. Anche qui entrai in contatto con una serie di perso­ naggi di rilievo, tra cui Frank Ferro, suo buon amico. Secondo quanto mi aveva anticipato Sam a Montréal, Frank era genero della "buonanima di Charles Gam­ bino", il capo delle "famiglie" di New York. In effetti ebbi la possibilità di verificarne la potenza, una sera che mi imbattei in qualche problema in una discoteca di New York. Ero al tavolo con un amico e due ragazze, quando tre energumeni che facevano paura ci invitarono ad andare via, ma dopo aver lasciato a loro le nostre amiche. Non so come, riuscii a telefonare a Frank, che mi rispose: "Stai tranquillo, non fare nulla. Prendi tempo che al resto ci penso io". Passarono pochi minuti che non scorderò più. Poi arrivarono due soggetti: uno piccolo e con una grande pancia, l'altro secco con dei baffetti sottili. Probabilmente in un'eventuale lite le avrebbero prese più di noi. Ma non andò così. Il più basso si avvicinò senza degnare i tre di uno sguardo: "Mi ha detto Frank che hai qualche problema, forse non ti piace la musica, il whisky non è buono? Non posso immaginare che i tuoi problemi derivino dalla presenza di questi tre idioti". Mentalmente mi rassegnavo all'idea che la mia vita finisse in una discoteca di New York, a migliaia di chilometri da casa. E infatti il più brutto degli ener­ gumeni si avvicinò minaccioso. Ma il piccoletto lo fermò: "Non ti agitare, se vieni con me ti spiego perché sei un idiota, poi farai quello che ti pare". Si appartarono e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Qualcosa che trasformò il lupo in agnello. "Ti chiedo scusa, ma non potevo immaginare che fossi amico di Frank. Se la cosa non ti offende, vorrei offrirti da bere." Per me rispose l'angelo con la pancia: "Non abbiamo voglia di bere con voi, per colpa vostra 120

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sono stato svegliato nel cuore della notte mentre facevo un bel sogno. Sparite tutti e tre". L'altro angelo, quello magro e baffuto, fino a quel momento silenzioso, si accostò all'energumeno capo e, prendendolo per un orecchio, gli disse: "Non avete sentito il mio amico? Andatevene e ricor­ datevi di questa data, perché per voi è stata una giornata fortunata".

Calvi, lo Ior, Gelli MASSIMO: La decisione di esportare fondi all'estero non fu né casuale né estemporanea. Mi raccontava mio padre che si trattava di una strategia pianificata a tavolino. L'operazione in Canada, per esempio, nacque da una precisa decisione presa sulla scorta di esperienze già vissute da altri amici. Nel 1976 a Mon­ tréal si celebravano le Olimpiadi ed era in atto una grande espansione edilizia insieme a ottime opportunità di accedere a mutui bancari a tassi agevolatissimi. Mio padre ne aveva ricevuto notizie, a Roma, in un incontro con Caltagirone e Nino Salvo. La ricerca del sistema migliore per occultare i soldi, d'altra parte, era il suo chiodo fisso. C'erano, come sappiamo, i nascondigli artigianali e i libretti al por­ tatore murati dentro le pareti di casa. C'erano bancari compiacenti che gli consentivano di versare e prelevare denaro contante senza lasciare tracce delle operazioni. Un primo salto di qualità, nell'occulta­ mento dei soldi illeciti, lo raggiunse quando riuscì a entrare nel meccanismo - fino a un certo punto riser­ vato a pochi privilegiati - che gli permise di utilizzare la grande copertura dello Ior, la Banca vaticana di cui abbiamo già raccontato qualche episodio. A introdurlo nelle segrete stanze fu il conte Romolo Vaselli, che gli mise a disposizione una prima cassetta di sicurezza. L'imprenditore disse che aveva imparato a 121

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usare lo Ior da un noto e potente politico romano, a suo dire proprietario di più cassette che usava per soldi e documenti. Questi particolari erano stati confermati a mio padre da Salvo Lima, a quanto pare introdotto in Vaticano ancora prima di lui. Mio padre, così mi disse successivamente, quando cominciammo a lavorare al suo libro di memorie, aveva incontrato più volte Lima all'interno dello Ior. Lì avvenivano consegne e scambi di soldi e si movimentava il conto del cosiddetto "pignatone". Io non sono mai andato fin dentro la banca. Lo accompagnavo, vedevo che entrava dalla farmacia con la scusa dell'acquisto del Tonopan, una medicina per mia madre, e mi fermavo ad aspettarlo fuori. Anche con Calvi si erano visti più volte, sia allo Ior sia nel Nord Italia. Di uno di questi incontri fui testi­ mone nel giugno o luglio del 1980. Ero stato, al solito, mobilitato per accompagnarlo alla visita semestrale presso lo studio del professor De Preux, a Losanna, dove - alla Ubs - teneva una cassetta e un conto bancario. La gita, dunque, forse aveva il duplice scopo di controllare il suo stato di salute e quello delle sue finanze. Le cinque o sei volte che l'ho accompagnato, il percorso non è mai cambiato: partivamo da Palermo con il treno verde Peloritano, prima tappa Roma e pernottamento all'Hotel Mediterraneo di via Cavour. Successivamente, con il Settebello ci recavamo a Milano dove soggiornavamo all'Hotel Duomo. Proprio qui avvenne l'incontro del 1980. Fui io ad accogliere sulla porta dell'hotel Roberto Calvi, di cui ignoravo ogni retroscena, e a farlo accomodare in attesa che scendesse mio padre. Parlarono per più di un'ora, dandomi l'impressione, da come si erano salutati, di conoscersi già da prima. Me ne stavo in disparte, ma a vista e pronto a esaudire eventuali richieste. Dopo un paio di giorni continuammo il viaggio verso Losanna e verso De Preux e l'Ubs. In quella città mio padre avrebbe 122

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incontrato un intermediario. Altre volte, mi disse poi mio padre, lui e Calvi si erano visti all'interno della Banca vaticana, sempre per questioni di soldi. Anzi, mi precisò, durante uno di questi appuntamenti Roberto Calvi gli consegnò somme ingenti provenienti da quello che era il grosso erogatore di finanziamenti occulti ai partiti, l'Eni e in particolare l'Enipetronim, nel 1980. Si trattava di risorse che andavano ripartite tra mio padre e altri politici. Mio padre lasciò il contante nella sua cassetta romana - non amava viaggiare con molto denaro - ripromettendosi di distribuire le tangenti ai "colleghi" usando i suoi depositi a Palermo. Lo stesso meccanismo fu utilizzato per la famosa tangente Enimont, la madre di tutte le tangenti, alla fine degli anni ottanta. All'interno dello Ior mio padre ricevette circa 800 milioni che poi per mano dell'onorevole Lima redistribuì ai politici siciliani. Vidi poi Calvi, ma in televisione, quando fu trovato assassinato a Londra. Era l'anno dei Mondiali di calcio del 1982 e io ero costretto, immobile, a letto nella villa di via Danae, a Mondello. Un incidente con la moto mi aveva spezzato il femore e altre ossa, tant'è che guardavo il calcio pur non essendo particolarmente appassionato di questo sport. Vidi la foto del banchiere e mi venne in mente l'incontro all'Hotel Duomo di due anni prima. Quando commentai la notizia, mio padre non mi sembrò particolarmente sorpreso e fece cadere l'argomento. Solo anni dopo, al momento della stesura delle me­ morie, mi disse che Roberto Calvi era stato ucciso perché aveva azzardato operazioni finanziarie con soldi non suoi, investimenti occulti di Cosa nostra. Anche in Licio Gelli mio padre si imbatté durante il suo peregrinare politico-affaristico, specialmente quando si trovò nelle condizioni di dover cercare riparo e protezioni che potessero attenuare, se non vanificare, le conseguenze delle sue disavventure giudiziarie successive all'inchiesta messa in moto dal giudice 123

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Giovanni Falcone. L'ho accompagnato due volte ad appuntamenti con Licio Gelli, all'inizio degli anni novanta, prima del suo secondo arresto avvenuto a dicembre del 1992. La prima volta l'occasione fu data da un con­ gresso organizzato per la fondazione di una lega che unificasse le spinte separatiste del Nord e del Sud. L'assemblea si svolse a Roma, in un albergo sull'Aurelia, in prossimità della clinica privata dove avvenne uno dei ricoveri di mio padre. Un secondo incontro si svolse a Cortina, nell'estate del 1991, in un hotel o in una baita. Ricordo bene quell'anno perché mio padre, oltre che da me, fu accompagnato da mia sorella Luciana, allora incinta della figlia Adele, e da una sua amica, Roberta Alongi. Era una tappa obbligata dei palermitani che contavano, il negozio di abiti Alongi. Una vetrina sempre in ordine, con gli ultimi arrivi in evidenza, in pieno salotto di Palermo: quella via Ruggero Settimo, sede del lusso di ogni tipo, dai diamanti agli otto fili di cachemire, ai Rolex e Vacheron. Lui, il signor Giovanni Alongi, era stato un bravo commesso nell'altra cattedrale della moda palermitana, il Battaglia Esquire Fashion. Poi aveva spiccato il volo e avviato la concorrenza dieci vetrine più avanti. Fu un gran successo, perché si accaparrò la quasi totalità dei clienti in grado di acquistare i cachemire a dozzine, uno per colore, a seconda della stagione. Credo che sull'incontro a Cortina tra mio padre e Gelli siano stati già espletati accertamenti che confer­ mano la presenza dei Ciancimino all'Hotel Savoia e quella di Gelli in un famoso convento di suore. I due si incontrarono in una saletta riservata del famoso ristorante Il Caminetto.

Pippo Calò e il caso Moro 124

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Don Pippo Calò era l'uomo dei corleonesi a Roma. Aveva lasciato Palermo durante la prima guerra di mafia, culminata con la strage di via Lazio del 1969 e con il sequestro e la soppressione del giornalista de "L'Ora" Mauro De Mauro nell'anno successivo. Poi era scomparso, inghiottito dai buchi neri della capitale, in quegli anni ostaggio dei mille tentacoli che mafia, camorra e servizi segreti infedeli muovevano a loro piacimento. Sono gli anni settanta dei sequestri di persona con cui Luciano Liggio e Calò, divenuto il cassiere delle "famiglie", finanziavano Cosa nostra reinvestendo nella speculazione edilizia e nel grande traffico di stupefacenti. Sono gli anni, fino alla metà degli ottanta, della inedita sinergia tra mafia e banda della Magliana, come emerge da una serie di indagini che assegna alla banda il ruolo di vero e proprio "service" degli apparati della sicurezza. Una trama che attraversa alcuni degli episodi più inquietanti di quegli anni: dagli attentati al tritolo di stampo camorristico (Roma, gennaio 1983, Vincenzo Casillo, uomo di fiducia di Raffaele Cutolo nella capitale), al coin­ volgimento mafioso nelle congiure stragiste del­ l'estremismo nero (per l'attentato al Rapido 904 del dicembre 1984 Pippo Calò veniva condannato all'er­ gastolo), al noir della scomparsa di Emanuela Orlandi (giugno 1983) e della strana "vicinanza" dei cattivi ragazzi della Magliana con le alte sfere del Vaticano. MASSIMO: Mio padre conosceva perfettamente Pippo Calò. I loro rapporti erano naturalmente soprattutto di natura finanziaria, lo so perché me ne parlò direttamente quando pensavamo di scrivere il libro delle memorie. C'è un preciso momento in cui ricordo di averli visti insieme, a Roma. Era il 1984 e su mio padre si addensavano nubi nere: erano in pieno svolgimento le indagini del giudice 125

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Falcone e già il pentito Tommaso Buscetta aveva in­ dicato mio padre come un politico "nelle mani dei corleonesi". Durante quell'estate decidemmo di fare un viaggio, prendendo spunto dalla solita ricorrenza della visita medica a Losanna dal professor De Preux. Rimanemmo per quasi un mese tra Losanna e Saint Vincent. In questa località abbiamo soggiornato a lungo presso l'Hotel Billia, direttamente collegato, at­ traverso un tunnel, con il casinò. Quella lunga permanenza non era una vacanza or­ ganizzata, né un capriccio. Mai e poi mai Baffo si sa­ rebbe allontanato da Palermo per tanto tempo senza motivo. Il fatto è che gli era stato suggerito di allontanarsi perché si profilavano provvedimenti giudiziari, anche gravi. Sempre dall'amico signor Franco, che risultava informato anche dei più reconditi segreti del Palazzo di giustizia, era stato messo in guardia sulla possibilità di venir colpito da un mandato di cattura, dal ritiro del passaporto o dall'ordine di sequestro dei beni. Nel corso del viaggio non mancò la solita tappa ro­ mana all'Hotel Mediterraneo. Ciò avveniva alla fine del mese di luglio. Ricordo che in via Veneto, di fronte alla gioielleria Capuano, mio padre incontrò una persona. Usciva dal negozio di preziosi, lo salutò e, insieme, si incamminarono verso Porta Pinciana. Parlarono fitto per più di un'ora. Molto tempo dopo mio padre mi rivelò che quell'uomo era Pippo Calò e che lo aveva incontrato altre volte, sempre a Roma, al Mediterraneo e, in qualche occasione, nell'appartamento romano di Salvo Lima, credo di ricordare in via Campania, una traversa di via Veneto. Calò dava e riceveva soldi, sempre in contanti, come d'abitudine. Fondi provenienti dalle tangenti che andavano poi distribuiti, come sappiamo, tra i partiti e alcuni boss di Cosa nostra. Altri ancora potevano ri­ manere in Svizzera. Per il pagamento della cosiddetta "messa a posto" (leggasi pizzo) si ricorreva alle cassette dello Ior. 126

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Ma non era solo un rapporto finanziario, il loro. Ho saputo da mio padre che aveva avuto contatti con Calò anche durante il sequestro di Aldo Moro. La storia è ingarbugliata, ma si può riassumere. Per cercare la liberazione dello statista fu interessata anche una parte della mafia: in particolare questa iniziativa fu presa mi raccontò mio padre - dai cugini Ignazio e Nino Salvo, d'accordo con una parte della Dc siciliana, in particolare il segretario Rosario Nicoletti e Salvo Lima. A svolgere una specie di istruttoria fu chiamato proprio Pippo Calò, che conosceva bene l'ambiente romano. In effetti la fiducia era ben riposta perché, attraverso i suoi contatti con la banda della Magliana, sembra fosse riuscito a individuare il covo di via Gradoli dove Moro era tenuto prigioniero dai brigatisti. Ma improvvisamente accadde qualcosa. Mi rac­ contò mio padre che i vertici nazionali della Demo­ crazia cristiana intervennero per fermare quell'inte­ ressamento. Mi disse di aver ricevuto il contrordine per il tramite dell'onorevole Attilio Ruffini, che, a sua volta, era intervenuto in seguito a una richiesta del segretario nazionale Benigno Zaccagnini. Un atteggiamento che non coinvolgeva soltanto l'ambiente politico. Anche i tradizionali punti di rife­ rimento di mio padre dimostrarono contrarietà al progetto di liberazione di Aldo Moro. Lui aveva con­ diviso le notizie in suo possesso sia col signor Franco sia con l'amico Lo Verde/Provenzano. Entrambi gli consigliarono di non andare oltre e di fermare l'ope­ razione. Analogo consiglio gli giunse da ambienti della Gladio, organizzazione di cui probabilmente faceva parte. Il terminale del contrordine, Pippo Calò, fu allenato - in un incontro appositamente preparato ­ proprio da mio padre, che gli trasmise le decisioni prese. [Sul tema dell'interessamento della mafia alla liberazione di Aldo Moro, poi stoppata, esistono nu­ merose testimonianze di collaboratori di giustizia, tra cui quella più accreditata è del pentito Francesco 127

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Marino Mannoia.]

Ustica e l'assassinio di Parisi Non è, il caso Moro, l'unica vicenda in cui don Vito si trova coinvolto nell'ambigua veste di uomo politico in rapporti stretti con ambienti dei servizi di sicurezza. Sarà la magistratura a cercare eventuali conferme circa l'appartenenza di Ciancimino al controspionaggio della Gladio. Quello che racconta Massimo fa parte di ricordi di vita vissuta: siamo nel giugno del 1980. MASSIMO: Una sera eravamo a Mondello e stavamo andando a cena al Circolo Lauria, verso le 21.30. A un certo punto veniamo raggiunti da un signore che dice di essere latore di un messaggio urgente da parte del­ l'onorevole Attilio Ruffini, fino a qualche settimana prima ministro della Difesa. Il messaggero comunica a mio padre che Ruffini ha bisogno di un incontro ur­ gentissimo. Il ministro era suo grande amico e nella Dc siciliana aveva grande peso. Cosa era accaduto quella sera? La sciagura di Ustica: il DC9 dell'Itavia disintegrato in volo con ottantuno persone a bordo. In sostanza mio padre veniva mobilitato per controllare e vigilare affinché non di­ venisse pubblica la notizia della reale causa di quella sciagura, e cioè che l'aereo era stato abbattuto nel corso di una "operazione di guerra" tra servizi segreti stranieri. Poi si apprenderà della pista del Mig libico e dei servizi francesi, cosa che mio padre aveva saputo in tempo reale. Ma questa storia ha anche un risvolto privato e ri­ guarda l'ingegner Roberto Parisi, presidente della Icem - l'impresa che deteneva, anche grazie a mio padre, l'appalto per l'illuminazione pubblica a Palermo - e proprietario della squadra di calcio cittadina. Su 128

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quell'aereo viaggiavano Elvira, la moglie, e Alessandra, sua unica figlia. Ricordo la tristezza che provò mio padre quando si convinse a raccontare all'amico com'erano andate le cose, quella sera, sul cielo di Ustica. Fu sincero, ma anche fermo nell'imporgli di non pensare neppure lontanamente a gesti clamorosi. Che destino atroce, quello dell'ingegner Parisi. Trovò la morte, una fredda mattina di febbraio del 1985, a due passi dalla sede della sua impresa, a Par­ tanna Mondello. Cinque killer lo accerchiarono e lo finirono, insieme al povero Giuseppe Mangano che si guadagnava da vivere facendogli da autista. Mio padre era in carcere da tre mesi e Parisi si era trovato così senza protettore. Se mio padre fosse stato libero, magari avrebbe potuto salvarlo anche questa volta come in passato, quando la mafia ne aveva chiesto la testa per punire l'inosservanza di accordi presi con la semplice parola d'onore. La morte di Parisi provocò il terrore nell'ambiente politico e in special modo nel suo socio, Pierluigi Matta, amico d infanzia di mio fratello Giovanni. Proprio a Giovanni si rivolse per poter comunicare urgentemente con mio padre e chiedergli consigli su cosa fare nella conduzione della Icem, considerata la causa della morte di Parisi. Sembrava impazzito: disse a mio fratello e a me, che ero appena arrivato da Roma, che era disposto a vendere tutto pur di non fare la fine del socio. Disse pure che era andato a parlare con Salvo Lima e che quello gli aveva con­ sigliato: "Rivolgiti a Vito, parlane coi figli". Era davvero fuori di sé. Lo ,rassicurai dicendogli che avrei anticipato il col­ loquio in carcere con mio padre. Quando lo vidi a Rebibbia, capii che aveva già intuito il motivo di quel­ l'anticipo. La risposta fu netta: "Di' a Pierluigi di stare tranquillo e di continuare a gestire normalmente la Icem, perché non sta lì l'origine del problema. Ma mi raccomando di non prendere alcuna decisione in merito 129

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al recente acquisto dell'acquacoltura di Mozia". Mi raccontò dell'affare "Icemare": un'azienda ittica, situata nello "Stagnone" di Marsala, che Parisi aveva rilevato con l'accordo sulla parola di rivenderla non appena Mario Niceta avesse risolto i suoi problemi di liquidità e di riassetto societario. Quando venne il momento di "regolare" la finta vendita, Parisi avanzò pretese non concordate con la parola d'onore. Rimarcò di aver sostenuto investi­ menti e spese che avevano contribuito ad accrescere il valore dell'impresa e che voleva gli fossero riconosciuti. Forse non aveva tutti i torti, ma con quella gente non valgono le ragioni. Vale la forza brutale, povero ingegner Parisi.

Tutti insieme, appassionatamente L'altro "Grande Capo" politico di questa brigata che riusciva a tenere in mano le redini di un'intera comunità e degli interessi, anche esterni, a essa collegati era Salvo Lima. A differenza di Vito Ciancimino, questi era il classico democristiano bonaccione, sorridente e - a modo suo - generoso, nel senso che sapeva gestire sapientemente la distribuzione delle "risorse", avendo cura che qualche "avanzo" arrivasse anche in basso dove i politicanti raramente guardavano. "Mangia e fai mangiare" era la sua religione, una filosofia che stava alla base dell'immenso sistema clientelare capace di assicurare sopravvivenza anche ai meno fortunati e una poderosa forza elettorale al suo partito. Questa è stata la macchina del consenso per quasi mezzo secolo: Lima e Ciancimino all'apice della piramide, grandi dispensatori di ricchezza, favori e impunità anche agli "amici" degli altri partiti più piccoli, in particolare repubblicani e socialdemocratici, sempre pronti a sostenerli anche nelle situazioni più difficili. Ciò che 130

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legittimava i due leader nel ruolo di capi era, oltre all'appartenenza alla grande famiglia democristiana, la facilità di accesso al "gran bazar" di Cosa nostra. Già, perché anche Lima, Salvuccio, aveva i suoi santi in paradiso, avendo cura, però, di mantenere maggior di­ stanza con i fili dell'alta tensione e di rimanere quanto più possibile nell'ambito della cosiddetta ' formale correttezza istituzionale". Ciò riusciva a ottenere facendo ricorso a una politica esercitata quasi nelle retrovie e certamente senza clamori o gesti che potessero accendere i riflettori della comunicazione. Poche parole pubbliche, molti contatti privati. Si contano sulle dita di una mano i comizi in piazza di Salvo Lima. Preferiva i ricevimenti, dove non era necessario parlare agli invitati-elettori, o le convention negli alberghi, come quelli messi a disposizione dai suoi supporter e finanziatori: i cugini Ignazio e Nino Salvo in testa, seguiti dalla miriade di imprenditori e palazzinari da noi conosciuti attraverso i racconti di Massimo e Giovanni. No, non era esattamente quel che si potrebbe definire un politico brillante. Non restano agli atti interventi fondamentali per la storia dei siciliani. L'abbiamo detto: la sua grande abilità era quella di accontentare quanta più gente poteva e i clientes non andavano certo a chiedergli trattati di filosofia politica. A Palermo i voti d'opinione sono stati espressione di una minoranza condannata a rimanere sempre tale. Anche quando la stella di Salvo Lima cominciò a tramontare, perché diventava problematico continuare a difendere quel sistema sempre più scandalosamente compromesso con la mafia, lui non si discostò dal suo cliché. A metà degli anni ottanta la Dc lo defilò verso il Parlamento europeo, ma Salvo non aveva chiaro quali potessero essere i grandi temi, il grande respiro da off' ire agli elettori, e allora sintetizzò: "La Sicilia ha bisogno dell'Europa e l'Europa ha bisogno della Sicilia". Fine del programma politico. 131

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Tommaso Buscetta, il pentito che, con i suoi ricordi, ha imbastito gran parte delle accuse confluite nel processo contro il senatore a vita Giulio Andreotti (per decenni capocorrente di Lima e poi anche di Ciancimino), ha raccontato ai giudici che Salvo era figlio di un uomo d'onore della giudici di Palermo Centro, ma questa appartenenza non ha trovato ri­ scontri. Sulle amicizie e le frequentazioni dell'uomo che è stato più volte sindaco e assessore, a Palermo, però, si nutrono meno dubbi. Anche perché a "parlare" è la sua stessa storia politica. Un luogo comune, tuttavia, va sfatato: non è stata la corrente andreottiana a portare la mafia dentro la Dc. L'abbraccio era precedente, sin da quando il partito non aveva le correnti, ma si reggeva sulla coesistenza di detentori di voti, allora chiamati "maggiorenti". Il sodalizio tra don Vito e Lima era solido e, almeno in alcuni periodi, non accusava contraccolpi. C'era continuità quasi fisica in quel blocco di potere. C'era un meccanismo collaudato che andava bene per ogni situazione. I privilegi, per esempio. È, casuale che l'abitazione di Lima, nella cosiddetta "via Roma Nuova", fosse stata comprata dal costruttore Ciccio Vassallo, lo stesso che abbiamo visto in casa di Ciancimino? E ancora: Lima trascorreva buona parte dell'anno, grazie alla clemenza del clima palermitano, nella villa estiva di Mondello, in via Danae. Un'autentica icona del potere politico quella strada, che racchiudeva in pochi metri le abitazioni dei leader più celebrati: Ciancimino, Lima, Lauricella e Rosario Nicoletti, i due segretari del Psi e della Dc. Ma anche il simbolo della disfatta, poi, la stessa strada, quando il 12 marzo del 1992 Cosa nostra deciderà di chiudere i conti con il passato e aprire una nuova strategia del terrore, cominciando proprio a due passi da via Danae, con l'assassinio di Lima. C'era il rito del caffè in via Danae. Ciancimino ci andava ogni domenica mattina, poco prima di mez­ 132

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zogiorno. Parlavano tranquillamente, senza la fretta delle giornate feriali. Un clima più adatto per stringere accordi, ma anche per commentare fatti e avvenimenti e cercare di capire, soprattutto. Nel 1982, per esempio, l'argomento principe era l'annunciato arrivo a Palermo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con la temuta funzione diprefetto antimafia. Una iat- tura, la presenza di un ufficiale dei carabinieri, mandato - così diceva il capo del governo Spadolini - per bonificare la politica siciliana. Vito Ciancimino ha lasciato dei ricordi: "La paura dell'arrivo di Dalla Chiesa sfociò in una vera e propria psicosi collettiva". Si mise in moto tutta una fronda che avrebbe poi portato il prefetto senza poteri a una solitudine mortale. "Il generale," continua don Vito, "era così isolato che tutti ci aspettavamo le sue dimissioni. Ricordo che Mario D'Acquisto [allora presidente della Regione] informava tutti di aver saputo da Spadolini che il generale non avrebbe avuto poteri speciali perché aveva tutti contro". Dalla Chiesa, infatti, non ebbe i poteri speciali promessi e venne ucciso cento giorni dopo il suo arrivo a Palermo. Vito Ciancimino ha raccontato cosa si dissero in quell'occasione lui, Lima e Nino Salvo: "Io non capivo la logica di quell'omicidio. Mi sembrava inutile dato che Dalla Chiesa, in quelle con­ dizioni, non avrebbe potuto fare un soldo di danno. Lima, con gli occhi arrossati dall'odio, venendo meno al suo proverbiale riserbo mi rispose che 'per certi romani era più pericoloso da pensionato in malo modo che non da prefetto con poteri speciali' ". Secondo don Vito, sarebbe stato proprio Lima a fargli intendere che la fine di Dalla Chiesa sarebbe tornata utile soprattutto a Roma. MASSIMO: Dal 1983 al 1985 mio padre fu nell'occhio del ciclone di indagini che riguardavano i beni accumulati nel tempo e in particolare gli investimenti immobiliari in Canada. Si trattava di un'inchiesta condotta da Giovanni Falcone, molto informato sul funzionamento 133

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del sistema politico-mafioso dalle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. In quel momento mio padre si trovò in grande dif­ ficoltà perché quel giudice istruttore non rientrava nei canoni che per anni avevano caratterizzato l'attività del Palazzo di giustizia. Era molto diverso, prima di Falcone, l'andazzo a Palermo. Mio padre - mi dirà dopo il secondo arresto e mentre combatteva ancora per bloccare il sequestro dei suoi beni - era abituato a un rapporto palese con i capi degli uffici giudiziari. Diceva mio padre che quei tempi, quelli dove tutto avveniva alla luce del sole, erano stati i migliori. Si creava una consuetudine e una vicinanza quasi familiare con le alte sfere della magistratura, fatta di viaggi, cene, feste e incontri a casa di Salvo Lima. Mi fece tanti nomi, mio padre, alcuni dei quali ancora oggi impegnati in ruoli di vertice nella magistratura. Li definiva "avvicinabili", ciascuno con la propria storia, le parentele, le proprie debolezze e i bisogni. Negli anni ottanta, tuttavia, molte certezze comin­ ciavano a venire meno, anche perché pian piano la magistratura stava cambiando pelle. E allora bisognava predisporre strategie e contromisure per tentare di vanificare la repressione, alimentata soprattutto dalla piega violenta che Cosa nostra aveva scelto nel delirio di onnipotenza che la vedeva contrapposta allo Stato. Cadevano vittime eccellenti, il vicequestore Boris Giu­ liano, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il giudice Rocco Chinnici, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre e tanti altri. Di fronte alla mattanza, in mio padre si rafforzava sempre più la convinzione che tutto quel sangue non poteva che provocare guai. Si rifugiava, forse, nelle giustificazioni consolatorie di Lo Verde/Provenzano, che continuava a vedere regolarmente. Provenzano si mostrava sempre pronto a criticare "la linea di Riina il pazzo", ma mai 134

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deciso a opporvisi. Simili consultazioni avvenivano col signor Franco, anch'egli abbastanza immobile e cinico tanto da osservare senza mai intervenire. Ho chiesto a mio padre chi fossero i magistrati in qualche modo ritenuti "amici" e ciò che mi ha detto ho trasferito, oggi, ai pm che mi interrogano. Il quadro del passato è nella descrizione dei rapporti privati che abbiamo visto. Ma non era tutto. All'inizio degli anni ottanta si sviluppò un'inchiesta sugli investimenti fatti in Canada. Falcone era riuscito a risalire ai movimenti tra l'Ubs e la banca canadese e quindi a individuare gli immobili che erano stati comprati a Montréal. Aveva trovato anche tracce della presenza palermitana di Michel Pozza. L'avvocato aveva soggiornato all'Hotel Palace a Mondello e il conto era stato pagato da mio padre. Falcone preparò la rogatoria per il sequestro di quei beni. Ma mio padre riuscì a sapere per tempo ciò che si preparava a Palazzo di giustizia ed ebbe modo così di vendere frettolosamente gli immobili, sottraendoli al provvedimento del giudice istruttore. Secondo il racconto di mioadre, sarebbe stato il pm Giusto Sciacchitano a informarlo. Anche l'inchiesta sul cosiddetto "Palazzo di vetro", raccontava, sarebbe stata in qualche modo "aggiustata". La storia è nota: si trattava di un'asta giudiziaria truccata. I Salvo trescarono per favorire sottobanco gli amici di Andreotti. Il clamore sulla vicenda portò a un'inchiesta dei magistrati che - è storia - si concluse sorprendentemente con un'archiviazione. Poi arrivò l'indagine cosiddetta "Mafia e appalti". Siamo a cavallo fra gli anni ottanta e novanta. Il rapporto era dei carabinieri, ma non venne mai sviluppato come si sarebbe dovuto dal procuratore Pietro Giammanco e dal suo staff. Quello era anche il periodo in cui maturava, dopo che mio padre era stato inviato al confino a Rotello, in Molise, l'indagine a supporto della richiesta di misure di 135

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prevenzione e, ancora, del sequestro dei beni. Mio padre si consigliò con l'amico Lo Verde/Provenzano a cui chiese una strada per bloccare le indagini. "Adesso si tratta dei soldi," diceva, "e non si può sbagliare. Bisogna muoversi bene." Incontrò Provenzano anche per contestargli la delusione nei confronti del giudice delle misure di prevenzione Beniamino Tessitore. Lo Verde gli rispose che in quel momento tutti avevano paura di esporsi aggiungendo che "i rapporti li teneva Masino Cannella". Quel particolare colpì mio padre che rimase sorpreso del prestigio acquisito da Sicarro: "Minchia, si 'nnacchianò Masino". Pochi giorni dopo Masino Cannella lo convocò e mio padre ricevette assicurazioni che c'era una strada sicura, "già sperimentata con successo per il dissequestro dei beni dell'amico Giovanni Pilo, che sembrava completamente cunsumatu" . Bisognava, però, seguire una strada ben precisa, coinvolgere alcuni amici. Uno di questi era il professor Di Miceli, noto commercialista di Palermo che conoscevamo soltanto di nome e di cui si diceva essere vicino ad ambienti massonici e ai servizi di sicurezza. Naturale, dunque, che mio padre cercasse di sa­ perne di più rivolgendosi al signor Franco, che con­ fermò la validità di quella scelta e i buoni rapporti del commercialista coi magistrati palermitani. Di Miceli, così, fu invitato a un incontro che avvenne a Roma, nella nostra casa di piazza di Spagna, e servì a stabilire i criteri da adottare per ottenere un risultato inattaccabile. Successivamente Pietro Di Miceli comunicò che aveva parlato con Tessitore ricevendo l'esortazione ad andare avanti e l'incarico formale dello stesso tribunale di svolgere una perizia per accertare l'origine dei beni di mio padre. Era fatta, tanto che Di Miceli — in una delle numerose riunioni romane — commentò: "Abbiamo il pupo, ora lo dobbiamo rendere presentabile, lo dobbiamo vestire". Anche sui periti di parte si intervenne, perché ai 136

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due già esistenti Di Miceli impose il nome di un terzo a lui vicino. Al momento di depositare le perizie, quasi pronte, il commercialista suggerì a mio padre il tocco di genio che mancava: sensibilizzare l'attenzione del presidente Tessitore con qualche iniziativa. Fu lo stesso Di Miceli a informare mio padre di aver ricevuto, poco tempo prima, una richiesta di Tessitore circa 1 indicazione di una banca amica cui poter chiedere un mutuo, molto agevolato, per l'acquisto di un appartamento, nella zona di via Principe di Paternò. A quel punto mio padre, che di questo tipo di attenzioni era molto esperto, capì e chiese un paio di giorni di tempo per risolvere il problema. Dopo qualche settimana, fu depositata la perizia. L'eccellente lavoro dei periti riconosceva a mio padre una capienza di beni di lecita provenienza, pari al doppio della cifra oggetto del sequestro.

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Rapporto della Criminalpol di Roma sulle indagini svolte in Canada su Pozza e Ciancimino.

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6. La caduta

È lunga e laboriosa la strada che condurrà Vito Ciancimino verso una lenta ma inarrestabile e disa­ strosa discesa. Il personaggio non era di quelli facil­ mente arrendevoli ed era inserito in un gruppo politico detentore di un forte consenso sociale ed elettorale. Basterebbe ricordare semplicemente la guerra privata che ingaggiò addirittura con Angelo Vicari, capo della polizia dell'epoca, quando lo querelò per le parole usate da Vicari in occasione della sua elezione a sindaco di Palermo. "Nomina scandalosa," disse Vicari e don Vito lo trascinò in tribunale facendo, forse, il peggior affare della sua vita, visto che anche il "caso Vicari" contribuì ad accelerarne le dimissioni. La potenza di Giovanni Gioia e Salvo Lima fu al­ l'inizio lo scudo che gli offrì riparo in quanto garante dell'equilibrio mafioso che andava a modificarsi con l'irruzione, a Palermo, dei corleonesi: la mafia contadina rappresentata universalmente come gruppo criminale mosso da fame atavica che si faceva arrogante e rapace per "rivalersi" dei torti subìti nel passato, quando la spocchia del potere politico-mafioso di "Palermo Capitale" aveva emarginato Liggio e i suoi "viddani". Don Vito riesce a mediare, a tenere a bada - in qualche modo - gli appetiti smodati dei corleonesi, 139

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imponendo l'"equo sistema" che già conosciamo, basato su una percentuale fissa appannaggio di Cosa nostra e sulle tangenti per il finanziamento della politica. Una pratica che l'ex sindaco non ha mai considerato una colpa, come dimostrano alcuni manoscritti da lui stesso consegnati al procuratore Giancarlo Caselli quando, nel 1993, andò a interrogarlo a Rebibbia nel-l ipotesi che Ciancimino potesse avviare una collabo­ razione trasparente, dopo la tumultuosa parentesi della cosiddetta "Trattativa" avviata all'indomani della strage di Capaci. Chiara, la filosofia delle tangenti, attuale come non mai ancora oggi: "Neanche mi sento colpevole per le tangenti — scriveva don Vito — perché io le ho avute e le ho contabilizzate sostanzialmente ai mie RIFERENTI [Sic] POLITICI (Ministri) che erano LO STATO. LO STATO,

ALLORA, FUNZIONAVA COSÌ E LO SAPEVANO PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA A SCENDERE".

TUTTI,

DAI

Questo poteva scrivere un politico passato per trent'anni di malaffare vissuti da protagonista di un blocco di potere che sembrava inattaccabile, malgrado le denunce giunte anche ai piani alti delle istituzioni, Commissione antimafia compresa. Ecco come un rapporto del Pci del 1963 (La mafia a Palermo) descriveva il sistema mafioso-politico-familista siciliano: "E così troviamo Brandaleone Giuseppe, assessore al Comune, e il fratello Ferdinando assessore alla Provincia; Vito Ciancimino assessore al Comune e Filippo Rubino, cognato di Vito Ciancimino, assessore alla Provincia. Molto len' collocata la famiglia Gioia: i due cognati Gioia e Sturzo, sposati a due figlie del defunto senatore Cusenza, ex presidente della Cassa di risparmio, uno deputato, l'altro assessore alla Provincia. Barbaccia, fratello dell'onorevole, assessore al Turismo. 'Pieno impiego' per la famiglia Guttadauro: un fratello consigliere comunale, un altro fratello, Egidio, rappresentante della Provincia all'Ente provinciale del turismo; il figlio dello stesso Guttadauro consigliere provinciale, anche lui democristiano 'aggregato' al 140

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gruppo Reina. E ancora, Vito Giganti, legione straniera al Comune, il fratello Gaspare, delegato alla Provincia alle scuole professionali".

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La morte di Michele Reina Per decenni il sistema è sopravvissuto a qualunque denuncia. Più difficile, però, è resistere alla dialettica interna che non parla il linguaggio rassicurante delle istituzioni, ma quello cruento delle "coppole" sempre più interessate al banchetto delle speculazioni e dei soldi pubblici. Dentro Cosa nostra si agitano venti pericolosi, venti di guerra: lo scontro fra "palermitani" e "corleonesi" raggiunge il punto di non ritorno. È l'inizio della "mattanza" che sin da subito si rivela indirizzata anche verso la politica, con gli omicidi del segretario provinciale della Dc, Michele Reina (allora la faccia presentabile della Dc) nel 1979, e del presidente della Regione, Piersanti Mattarella, l'anno dopo. L'assassinio del primo, nell'immaginario collettivo, fu considerato diretta conseguenza della "politica in­ timidatoria" di don Vito. La vedova del politico assas­ sinato, Marina Pipitone, non fece mistero dell'avversione per Ciancimino e una voce, mai confermata uf­ ficialmente, raccontò di un incontro al vetriolo tra i due, durante la visita di condoglianze interrotta da un invito perentorio della signora Marina: "Vai via, con quale coraggio osi presentarti?". Nei ricordi scritti di don Vito manca qualsiasi riferimento alla vicenda Reina. C'è soltanto uno scialbo ritratto del collega assassinato, presentato come un politico assoluta­ mente dipendente da Salvo Lima. Don Vito ricorda di averlo sentito la mattina del giorno in cui venne ucciso: "Era molto allegro e ricordo che scherzammo molto al telefono. La stessa sera avvenne l'assassinio. Rimanemmo costernati". Il figlio maggiore di don Vito, Giovanni, sostiene che l'atteggiamento ostile della vedova Reina fu conseguenza della "campagna di stampa che la condizionò convincendola a considerare mio padre la causa della morte di Michele". 143

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GIOVANNI: "Giovanni, hanno ucciso il segretario provinciale della Democrazia cristiana, Michele Reina." Seppi da un'amica la notizia. Lei guardava la tv; io giocavo a carte in casa di comuni amici. Lasciammo immediatamente la partita e ci incollammo davanti alla televisione che dava l'edizione straordinaria di un tg. Conoscevo Michele Reina perché lo avevo visto più volte a casa mia. Era un ragazzone gioviale e mi colpì vederlo nelle immagini televisive riverso sul sedile dell'auto con il volto sfigurato e coperto di sangue. Pensavo che al suo posto avrebbe benissimo potuto esserci mio padre, visto che erano compagni di partito e ricoprivano cariche della stessa importanza. Corsi a casa, dove trovai mio padre in vestaglia che andava avanti e indietro, al buio, per il grande salone, con le mani dietro la schiena, come faceva sempre quando qualcosa lo preoccupava. Mi disse: "Lo hanno ammazzato come un cane, il povero Michele. Lo avevo visto appena due giorni fa ed era allegro come al solito, ora invece è sul marmo dell'obitorio. Il delitto è stato rivendicato dai terroristi rossi, figuriamoci, roba da ridere, non ci crederebbe nemmeno lo scemo del mio paese". Come parlando tra sé, commentò: "E nemmeno è stato ucciso per il suo ruolo politico. Lo sanno tutti che Michele dipendeva completamente da Salvo Lima: quante volte gli ho sentito dire di non poter dare risposte definitive prima di aver consultato Salvo. E allora è Lima, il suo capo, che avrebbero dovuto colpire, non

lui".

"Ma allora perché l'hanno ucciso?" gli chiesi. "Per me," rispose, "sono stati i suoi prestanome. Per impossessarsi dei soldi di Michele che neppure la moglie saprebbe quantificare. Alla povera Marina, vedrai, daranno solamente le briciole e loro si terranno la fetta più grossa." Era talmente convinto della sua tesi che non 144

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adottò alcuna precauzione e continuò a vivere se­ condo le sue abitudini. Molto diversa la spiegazione dell'omicidio Reina fornita ai magistrati da Massimo Ciancimino. MASSIMO: Mio padre rimase scioccato quando seppe da Lo Verde/Provenzano che Michele Reina era stato ucciso per fare un favore a lui. "A me?" si chiedeva. Ma non volle neppure approfondire l'argomento perché, diceva, gli aiuti di certa gente a volte sono disastrosi e portano solo guai. Il fatto vero è che Totò Riina considerava inaffidabile e incontrollabile Michele Reina e sosteneva che si stava allontanando dalla corrente di Salvo Lima. Non passava giorno, infatti, che Reina non si consultasse con mio padre. Nella vicenda di un appalto mio padre aveva fatto passare un paio di grosse delibere con l'aiuto dei consiglieri di Reina, con la conseguente incazzatura di Salvo Lima. Tutto ciò non piaceva a Totò Riina. A questo c'è da aggiungere che, venuto meno Michele Reina, diceva mio padre, si poteva lanciare l'astro nascente di Mario D'Acquisto. Questa è una versione. Provenzano, invece, avallò la tesi che l'omicidio Reina era stato fatto nell'interesse di mio padre perché Michele era entrato in contatto con l'onorevole Rosario Nicoletti e, insieme, si apprestavano a costituire una nuova corrente di apertura verso la sinistra che avrebbe messo in difficoltà il gruppo di mio padre. Questa versione non lo convinceva perché, diceva, c'era già un accordo, un'amicizia con Reina e avevano già cominciato a lavorare insieme.

La morte di Piersanti Mattarella 145

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Il presidente della Regione venne assassinato il 6 gennaio del 1980, sotto gli occhi della moglie. Questo omicidio è stato sempre inquadrato come uno degli episodi di terrorismo mafioso della storia criminale siciliana. In sostanza le indagini, condotte anche da Giovanni Falcone, hanno consegnato un quadro non nitido della vicenda, fino a delineare una trama am­ bigua in cui convivono un possibile movente ancorato agli interessi politico-mafiosi (gli appalti) e la sug­ gestione, forse anche più di una suggestione, della presenza di forze oscure - i servizi, il terrorismo fascista ­ che tendono a spostare il movente verso ipotesi più articolate, come per esempio la volontà di interrompere la politica di apertura ai comunisti avviata da Piersanti Mattarella. Sorprendente la spiegazione che Vito Ciancimino ne dà nel 1992, all'epoca del suo rapporto con i carabinieri, durante la fase della cosiddetta "Trattativa", quando cioè è ancora indeciso se fidarsi o meno delle istituzioni. Già allora, però, don Vito lascia nero su bianco una traccia inquietante nel libro Le Mafie che allora stava scrivendo: "Mattarella nella vita politica siciliana è stato quello che è stato Moro nella vita politica nazionale. Una volta, di fronte a una delle tante sue intuizioni mirabili, gli dissi che solo De Gasperi e Moro potevano reggergli il confronto. Sorridendo, bonario rispose: 'Non lo dire a nessuno e semmai ti dovesse capitare di dirlo devi aggiungere: Si licet parva componere magnis'. Era sicuramente destinato ad assumere ruoli di grande rilievo politico in campo nazionale. E io sono stato testimone del grande travaglio che Piersanti Mattarella ha subìto per l'assassinio di Aldo Moro; sono certo che, in qualunque incarico di responsabilità, non avrebbe mai trascurato di cercare i mandanti o gli ispiratori di quel delitto. Ecco, secondo me, la matrice dell'assassinio di Mattarella. Era pericoloso per il Palazzo (quello grande), anzi era bene che non vi entrasse e così è stato. Forse vi hanno contribuito Gladio 146

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o i 'deviati' ". Nello stesso brano, don Vito mostra scarsissima attenzione per la pista mafiosa delle tangenti, perché convinto della tenuta del "sistema" dal quale nessuno si allontanava completamente: "La spartizione degli utili a Milano dura dai tempi dei celti, e a Palermo dai tempi dei fenici". Era un rapporto complesso, quello di Ciancimino con la famiglia Mattarella. Un rapporto antico, che risale all'origine della sua fortuna politica ed economica, quando avviò l'attività del trasporto su carrelli ferroviari grazie a una concessione statale, quando era ministro Bernardo Mattarella, il papà di Piersan ti e Sergio. Ma con quest'ultimo non c'è mai stato un buon feeling, soltanto con l'altro c'era una buona intesa, anche se una vox populi (recepita dalle indagini) seminerà il sospetto di una qualche "colpa" di don Vito e delle sue amicizie pericolose nella tragica sorte toccata al giovane "presidente del buon governo" in Sicilia. A dimostrazione di questo rapporto particolare tra i due, anche di solidarietà oltre che di vicinanza, c'è un appunto di Ciancimino, a proposito di una vignetta di Bruno Caruso comparsa sulla prima pagina del giornale "L'Ora" del primo dicembre 1970. Si trattava di una composizione di volti di notabili accostati all'effigie del "noto bandito" Liggio e, sotto, un enorme titolo Evviva la Sicilia. "Nella vignetta pubblicata dal giornale 'L'Ora'," scrive don Vito, "vi erano raffigurati l'on. Giovanni Gioia, l'on. Bernardo MATTARELLA, l'Avv. Girolamo Bellavista, il Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione e me (Vito Ciancimino). Sullo sfondo campeggiava la figura del noto bandito LUCIANO LIGGIO. Gioia, Bellavista e gli eredi di Scaglione (frattanto assassinato) e me abbiamo promosso querela contro il giornale 'Ora' ed il pittore Caruso, autore della vignetta. Gli eredi di Mattarella (frattanto morto) non hanno ritenuto opportuno proporre querela. Per la mancata querela dei Mattarella, l'on. Gioia ebbe un alterco telefonico col più autorevole dei figli di 147

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appunto l'on. Pier Santi, per indurlo a presentare querela assieme agli altri, ma ottenne solo risposte evasive... Dati i notori rapporti di amicizia tra i MATTARELLA e me, l'on. Gioia si rivolse a ME per INSISTERE su Pier Santi. Parlai con Pier Santi e questi mi convinse che né poteva fare né doveva fare quella querela. Riferii a Gioia che Pier Santi aveva RAGIONE a non fare la querela. Gioia mi chiese la ragione. In maniera decisa gli risposi che non lo avrei mai detto né a lui né a nessuno. E così è stato e sarà per sempre. Debbo però presumere che l'on. Sergio Mattarella sappia la VERITÀ del colloquio tra il fratello Pier Santi e me". Dieci anni dopo, mentre si accinge a scrivere "tutta la verità di Ciancimino" con il figlio Massimo, di silluso da tutti e da tutto, al termine di sette anni di carcere tornerà sulla dolorosa e oscura fine di Mattarella, sollecitato dal figlio a raccontare i suoi rapporti coi servizi segreti e in particolare col signor Franco, che abbiamo già incontrato più volte. MATTARELLA,

MASSIMO: Mio padre aveva saputo dal signor Franco che i killer di Mattarella non erano mafiosi siciliani ma presi dalla "manovalanza" romana, un po' delin­ quenti un po' terroristi... rossi... neri... non ricordo.

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Questo è un commento di Vito Ciancimino alla lunga lista di delitti eccellenti avvenuti a Palermo dal 1971 al 1988. Con il suo consueto stile — fatto di ammiccamenti, messaggi, detti e non detti — l'ex sindaco fornisce la sua interpretazione. Rimarchevole il parallelismo fra gli omicidi di Piersanti Mattarella e Aldo Moro, accomunati entrambi da una linea politica che, per la prima volta, ufficialmente apriva al Partito comunista.

L'appunto di Vito Ciancimino a proposito della vignetta di Bruno Caruso apparsa su "L'Ora".

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Una vera anomalia per le abitudini di Cosa nostra che non delega mai a nessuno le operazioni importanti. Così ebbe la certezza di un coinvolgimento dei servizi, ma continuava a non capire l'assenza di killer di fiducia di Cosa nostra. Così chiese a Lo Verde/Provenzano, come mai in occasione di un omicidio così eclatante, così feroce, non si fosse adoperata la solita prudenza di tenere tutto riservato nel territorio, e si fosse arrivati a condividere importanti segreti con organizzazioni che hanno fini completamente diversi da quelli della mafia. Gli fu risposto che si era trattato di uno scambio di favori. Questa fu la risposta di Provenzano e mio padre non approfondì, perché così si era ripromesso sin dai tempi dell'omicidio del procuratore Pietro Scaglione. Allora, era il 1971, mio padre aveva chiesto a Lo Verde se era stata Cosa nostra a uccidere il suo caro amico magistrato, ma quello era stato evasivo e anche imbarazzato. Da quel momento giurò che non avrebbe mai più fatto domande. Anche il signor Franco, in più di un incontro, aveva parlato a mio padre di uno scambio di favori per l'omicidio Mattarella e lui aveva cercato conferme in ambienti delle forze dell'ordine che gli confermarono il coinvolgimento dei servizi segreti.

Risponderemo con le armi È curioso, ma è così: proprio nel periodo antece­ dente alla stagione di sangue Vito Ciancimino si defila e sbandiera ai quattro venti il disinteresse per la politica e una smodata attrazione per gli affari. "Mi do alla finanza," dichiara ai giornali. E qualcosa di vero forse c'era, a giudicare dai racconti di Massimo sugli asseriti investimenti milanesi attraverso la società di Marcello Dell'Utri, Francesco Paolo Alamia e il contatto 151

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con Roberto Calvi. Una frequentazione documentata anche dai giornali dell'epoca, quando Ciancimino fu indicato come socio di Francesco Paolo Ala-mia. La successiva smentita di don Vito negava la partecipazione finanziaria ma confermava comunque una collaborazione: "Sono un consulente". Ma all'inizio degli anni ottanta don Vito è di nuovo scalpitante e fresco di adesione alla corrente dorotea del ministro Attilio Ruffini. Sono passati meno di tre anni dagli infamanti giudizi dell'Antimafia che lo avevano marchiato come l'icona vivente dei rapporti tra mafia e politica. L'ex sindaco crede forse di poter risalire la china. Non è così: nel partito si è messo in moto il meccanismo che lo porterà all'emarginazione e alla caduta finale, fino al carcere, come conseguenza dell'isolamento politico che sarà sancito nel 1984 da una dichiarazione ai giornali del segretario nazionale, Ciriaco De Mita. Ai cronisti, che gli contestano lo strapotere di cui ha potuto godere l'ex sindaco dentro la Dc, il segretario risponde secco: "Ciancimino l'abbiamo fatto fuori noi". L'ultimo tentativo di rialzare la testa, prima del suo affondamento al congresso regionale democri­ stiano di Agrigento, don Vito lo fa il 15 novembre del 1981 nel salone dell'Hotel La Zagarella, quando lancia una palese intimidazione mafiosa all'intero partito, pronunciata per conto di Cosa nostra, quella mafia preoccupata di perdere l'appeal sulla politica e di conseguenza, il controllo dei "piccioli", dei soldi. Ciancimino, per minacciare, fa ricorso alla metafora sul terrorismo: "Qualcuno sostiene," scandisce con voce ferma, "che le Brigate rosse avrebbero intenzione di lanciare un'offensiva in Sicilia. A questo punto, noi autentici interpreti della coscienza, della dignità, della passione, della storia, ma soprattutto del coraggio del popolo siciliano, annunciamo con chiarezza che non accettiamo provocazioni. Questa è una guerra bieca e 152

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vile. E chi ci chiama a combattere con le armi, troverà armi. E chi intende seminare morte troverà morte". Chiara l'allusione, anche perché pronunciata dal personaggio di un territorio, la Sicilia, completamente estraneo all'interesse politico e strategico del terrorismo rosso. Una regione che non è mai stata teatro di azioni brigatiste, forse per una valutazione politico-militare del territorio, che non consentiva la compresenza di due strutture "militari" con una così forte connotazione egemonica. Ma la minaccia si limitò a creare clamore mediatico, senza influire sul destino di Ciancimino, ormai segnato.

Il congresso di Agrigento Sarà lo stesso don Vito a individuare nel congresso della Dc di Agrigento del 1983 l'inizio della propria fine: "Esattamente da Agrigento comincia l'odissea che mi avrebbe portato in galera". Il clima in cui si svolgeva l'assise regionale del partito non poteva lasciarlo tranquillo: non era ancora rimarginata la ferita profonda lasciata dalle polemiche innescate dalle relazioni della Commissione antimafia, dalle dichiarazioni dello stesso presidente e dalle risultanze della Commissione Bevivino. Salvo Lima continuava a navigare al riparo del grande ombrello andreottiano, mentre Ciancimino non aveva protezioni simili all'interno del partito. Solo era, solo rimase. Nessuna corrente accettò di accoglierlo nelle proprie liste e, con le sue sole forze, il gruppo di don Vito non avrebbe mai superato il quorum richiesto per ottenere la rappresentanza nel governo del partito. Neppure Lima, che nel 1976 lo aveva portato nella grande famiglia andreottiana, riuscì a salvare il vecchio amico-nemico che in qualche occasione gli era tornato utile. Per descrivere il "rigore", mai registrato prima, di quell'assemblea bastano le parole scritte dallo stesso 153

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don Vito: "Il congresso di Agrigento si svolse all'insegna della moralizzazione della vita di partito e si decise addirittura che il tesseramento sarebbe stato controllato dai notai. Cioè avevano sancito che non ci sarebbero state più tessere false, notoriamente quantificabili nel 95 per cento dell'intero numero degli iscritti". Con il suo solito sarcasmo dissacrante commenta: "Si erano rinnovati tutti, una bella farsa, non c'è che dire". Il suo isolamento politico segnò la fine di Vito Ciancimino, una specie di via libera anche per la magistratura che già incalzava con le indagini sugli ultimi quindici anni di amministrazione comunale. Prima la comunicazione giudiziaria, l'avviso di ga­ ranzia di allora, di Giovanni Falcone, conseguenza ineluttabile delle rivelazioni del collaboratore Tom­ maso Buscetta, l'ex mafioso amico di Lima che indica Ciancimino come uno dei perni del sistema illegale radicato a Palermo. E, insieme, una prima perquisizione che Massimo ricorda avvenuta nella villa di via Danae a Mondello. Un effetto domino che don Vito sa benissimo dove può andare a parare: al carcere e al sequestro dei beni. E cosciente che sta per iniziare una battaglia per la vita - per lui i soldi sono vita -, una battaglia ben più difficile di quelle combattute negli anni precedenti. Gli amici si assottigliano per timore di essere coinvolti nell'offensiva giudiziaria, i complici si defilano, gli attacchi del giornale "L'Ora" riducono al lumicino la ormai instabile immagine dell'uomo politico. Già sulla scia dell'inchiesta della Commissione antimafia, il direttore del quotidiano, Vittorio Nisticò, aveva titolato: "Questo è un personaggio pericoloso". Figurarsi cosa possa essere stato detto e scritto, quando Ciancimino ­ non ancora incriminato - viene inviato al soggiorno obbligato a Patti Marina, sotto i flash dei fotografi delle maggiori testate nazionali. La santabarbara esplode all'inizio di novembre del 1984, con l'arresto per associazione mafiosa, reato introdotto nel Codice da 154

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appena due anni, sull'onda degli assassinii di Dalla Chiesa e di Pio La Torre, segretario regionale del Pci, che anche da morto ha fatto male a Cosa nostra, determinando l'accelerazione della legge sulla confisca dei beni che da lui prende il nome.

L'arresto "Sono stato arrestato," scrive Vito Ciancimino, "il 3 novembre del 1984. Ero rientrato dal mio soggiorno obbligato a Patti, in provincia .di Messina, in attesa del giudizio che si sarebbe celebrato il 5 novembre. Quel giorno è tra i miei ricordi più nitidi. Erano le 15 quando un commissario di Ps venne a casa mia e mi disse che il questore voleva parlarmi. Tentai di controbattere, ma l'intuito mi fece desistere e lo seguii. In questura mi venne notificato il provvedimento del giudice e da quel momento tutto divenne velocissimo. Alle 20 mi trovavo già sul treno per Roma, destinazione casa circondariale di Rebibbia. Sono rimasto in isolamento fino al 25 novembre, data del secondo interrogatorio del giudice." Avrà avuto tutto il tempo di ripensare e riflettere per capire dov'era che aveva sbagliato. Il suo cavallo di Troia Falcone l'aveva trovato in Canada, nella storia che abbiamo sentito raccontare, con dovizia di particolari, da Giovanni. Il viaggio a New York e in Canada, lo spostamento dei soldi per gli acquisti a Montréal, ricordate lo shop center e i franchi svizzeri all'Ubs? Ecco qual era stata la traccia giusta. "Segui i soldi, troverai il mafioso" era il motto di Falcone. Solo e abbandonato, don Vito tuttavia non finisce di sperare nei miracoli. Chissà, qualcosa può sempre accadere. L'incontro con Giovanni Falcone non è ter­ ribile: il magistrato coltiva la segreta speranza di in­ durlo alla collaborazione e quindi non chiude la porta, 155

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anzi si mostra cordiale. Gli parla del suicidio di Rosario Nicoletti, nell'84 deputato nazionale dopo un passato odiato, ma raramente rinnegato, trascorso in mezzo ai "giovani turchi". E gli comunica anche l'arresto di Nino e Ignazio Salvo, forse proprio per farlo riflettere sulla portata di quegli avvenimenti, ormai paragonabili a una vera e propria disfatta del sistema che sembrava invincibile. Ma ciò che don Vito annota sul suo quaderno non fa pensare a un uomo rassegnato alla fine. Come anche il racconto che farà ai magistrati, negli anni successivi, in occasione del suo secondo arresto del 1992. "Quando stavo a Rebibbia nel 1984 - dirà a verbale nel 1993 ai pm Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia che lo interrogavano - era previsto il divieto di in­ contro fra me e i cugini Salvo. Dallo spioncino li vedevo passare e ci scambiavamo qualche parola di saluto. Poi li scorgevo, da lontano, nella sala colloqui. Ma una volta, per sbaglio o perché la cosa era stata pilotata da Nino Salvo, questi e io ci trovammo insieme alla doccia. Subito mi disse: 'Hai capito di quali romani ci parlò Salvo Lima allora, sull'omicidio di Dalla Chiesa?'. 'Forse si riferiva ai comunisti,' risposi. E lui: 'Non hai capito niente, ti comunico che a decidere l'assassinio di Dalla Chiesa e La Torre è stato Giulio Andreotti'. Vedendomi sconvolto, Nino mi ribatté che Dalla Chiesa sapeva molto sui cadaveri nell'armadio di Andreotti". La versione di don Vito, in qualche parte, potrebbe apparire reticente. A cominciare dalla facilità con cui casualmente" si ritrova, in carcere, sotto la doccia insieme con Nino Salvo malgrado l'espresso divieto prescritto dal giudice. Casualità, negligenza degli agenti di custodia? Secondo Massimo Ciancimino, le cose andarono in modo diverso. "

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MASSIMO: Da quando è cominciata la "caduta" di mio padre, abbiamo sempre assistito a un movimento continuo attorno a lui: investigatori, ma anche personaggi che con difficoltà colloco nel panorama istituzionale. Uno dei più assidui frequentatori di Rebibbia, in quel periodo, era il signor Franco. Durante gli anni che hanno preceduto l'arresto, abbiamo visto come sia lui sia Lo Verde/Provenzano abbiano funzionato da veri e propri consiglieri di mio padre. Per la prima volta, però, questa funzione il signor Franco avrebbe dovuto svolgerla nei confronti non più di un uomo libero e potente, ma di un detenuto ormai propenso alla depressione e, dunque, alla tentazione di collaborare. Io stesso ho cercato di convincere mio padre a parlare coi giudici. Questi tentativi sono andati avanti per molto tempo, fino agli anni novanta. Non hanno avuto successo non per l'indisponibilità di Giovanni Falcone, che anzi ha sempre mantenuto la parola, come per esempio sulla concessione degli arresti domi-ciliari a Roma, ma per l'indecisione di mio padre. Era timoroso, aveva paura di coinvolgere noi figli nelle conseguenze di una sua eventuale collaborazione. Ecco perché - anche quando stava a Rebibbia - il signor Franco non gli ha mai fatto mancare assistenza. Ho appreso poi da mio padre, anzi, che l'incontro con Nino Salvo non era per niente fortuito, ma in qualche modo favorito dall'amico, nella certezza che la possibilità di comunicare con un vecchio sodale gli avrebbe dato carica e forza per resistere al carcere in silenzio, senza compromettere nessuno. E infatti ciò che gli veniva raccomandato era "assoluta tranquillità e silenzio, perché le cose si aggiusteranno, senza la necessità di coinvolgere nessuno '.

La fuga di Giovanni 157

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Le peripezie giudiziarie di don Vito hanno lasciato il segno anche nei figli, specialmente in Giovanni e Massimo. Il primo è stato anche indagato ed è sfuggito per miracolo all'arresto, l'altro ha dovuto cambiare la sua vita, piegandola alle esigenze del padre. Indimenticabile, per Giovanni, quel pomeriggio terribile del 3 novembre 1984. Il padre in manette e lui costretto a una fuga senza futuro. GIOVANNI: Quando rincasai, c'era già la polizia. La casa era un campo di battaglia perché era in corso una devastante perquisizione. Veniva risparmiata sol­ tanto la stanza della nonna Adele, da tempo malata a letto. Lui sbraitava contro il questore che non c'era: "Se vuole vedermi, venga a casa come fanno gli altri, compreso qualche suo predecessore. È lui che vuole parlare con me, non io con lui". Mi feci carico di in­ terpellare gli agenti, per capire cosa stava accadendo, ricorrendo alla mia qualità di avvocato. Mi fu detto, senza mezzi termini, che c'era un mandato di cattura e gli sarebbe stato notificato in questura. Glielo riferii e capì che doveva andare. Ricordo che entrò nella stanza della nonna per salutarla: le era molto affezionato perché riconosceva alla suocera il merito di aver sempre assistito i nipoti, sin dalla nascita. Davanti alla questura c'era una folla di giornalisti, fotografi e operatori della tv. Ci facemmo strada a fatica, ovviamente senza riuscire a evitarli. Venne data a mio padre copia del mandato di cattura e lui lo cominciò a leggere con attenzione. A un certo punto lo vidi sbiancare: impallidì e gli si imperlò la fronte di sudore. Quindi si accasciò su una panca. Si riprese poco dopo e depositò il mandato di cattura in borsa, guardandomi fisso negli occhi come se volesse comunicarmi qualcosa che non poteva dire pubblicamente, sotto gli occhi dei poliziotti vicini.

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Uno di questi gli spiegò che quella sera stessa sarebbe stato trasferito nel carcere romano di Rebibbia. In quei minuti mi passarono per la mente una serie infinita di pensieri strani o, forse, ridicoli visto il momento che stavo vivendo. Non ricordavo di essere mai stato da piccolo al circo con mio padre e nemmeno al cinema o al luna park e non lo avevo visto neppure il giorno della mia laurea, tra gli amici e i parenti. Pensai che si era perso molte occasioni di stare con me. Ci guardavamo e non riuscivo a capire cosa volesse comunicarmi. A un tratto mi sembrò fuori di testa perché disse: "Giovanni, allontanati". Pensavo che volesse stare più comodo e mi spostai un po'. Ma lui: "Ho detto allontanati". Ero ormai sul bordo della panca, ma non pareva ancora soddisfatto. E allora aggiunse: "Per favore, prendimi le pillole dalla borsa, cerca bene, potrebbero stare in fondo, forse tra le pagine del documento che m'hanno dato". Quando ebbi in mano il provvedimento del giudice, notai che un foglio era piegato, come se avesse voluto lasciare un segno. Lessi e capii che ero accusato di concorso in esportazione di valuta, come formale proprietario degli immobili di Montréal. Un reato che prevedeva l'arresto. Il suo "allontanati" non poteva che avere un solo significato: "Vattene, fuggi dall'Italia". Me ne andai dicendo ad alta voce che c'era la mamma da accudire: "Ci vediamo a Roma, quando daranno il colloquio". Non era una bugia la preoccupazione per mia madre. La trovai distesa sul divano e le cugine badavano affinché non svenisse. Il colpo di grazia glielo diedi io: "Devo partire immediatamente altrimenti andrò a fare compagnia a papà". Andai di corsa al nascondiglio dei soldi, quello dietro le tre finte prese elettriche. Aveva resistito alle ricerche degli agenti. Come pure l'altro nascondiglio dei libretti, quello dietro le mattonelle della cucina. Presi tutto il denaro 159

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che potevano contenere le tasche dei pantaloni e del giubbotto, scesi a precipizio, proprio mentre da una fessura del cancello vedevo arrivare le auto della polizia. Mi dileguai dal retro e presi un taxi al volo per l'aeroporto, in tempo per salire su un aereo per Roma. Durante la traversata notai la presenza di due politici palermitani, due che avevo spesso visto a casa mia, nelle famose riunioni di mio padre. La notizia dell'arresto era già arrivata attraverso i notiziari del pomeriggio. Ma loro, pur riconoscendomi chiara­ mente, fecero finta di non vedermi: cominciavano a manifestarsi i primi effetti tangibili della bufera giu­ diziaria che si abbatteva sui Ciancimino. Da Roma, la stessa sera, riuscii a spostarmi a Milano e, intorno alle 22, presi il treno per la Svizzera, indicatomi dal ca­ meriere di una triste pizzeria milanese come uno di quelli dove i controlli alla dogana non erano ferrei. In effetti andò bene, malgrado l'infausta presenza, nello scompartimento, di un impiccione che arrivò alla raf­ finatezza di chiedere ai doganieri come mai non ci avessero ancora controllato i documenti. Me la cavai grazie alla mia faccia cadaverica e per intercessione dello stesso impiccione che disse ai controllori: "La­ sciamolo in pace, quello, sta male e va a curarsi". Il mio calvario in Svizzera fu lungo e faticoso. Nel tentativo di approntare una difesa e fornire materiale documentale ai miei legali dovetti persino andare in Canada per cercare di recuperare gli atti di quella compravendita. L'unico che poteva aiutarmi era Michel Pozza, a suo tempo organizzatore dell'intera operazione, scelta del notaio compresa. Andai a casa di Pozza, ma la moglie, Liz, mi comunicò che il marito era stato assassinato l'anno precedente. Chiesi di poter parlare con Sam, il boss che avevo conosciuto a cena con Pozza. Era morto anche lui, ma perché "mangiava come un bue pur essendo obeso", mi spie- gò Liz, consigliandomi pure di andare via dal Canada 'ma 160

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subito, perché qui corri seri rischi". Non mi rimaneva che tornare in Svizzera, ma il primo volo utile era l'indomani e così mi toccò dormire in aeroporto perché l'albergo era troppo rischioso. Il mio esilio svizzero durò parecchi mesi, il necessario perché il giudice Falcone studiasse le carte sequestrate a Montréal (era arrivato prima di me!) e fissasse la data del mio interrogatorio. Fu mia madre a comunicarmi quella data con la buona notizia che il magistrato aveva dato assicurazione che tutto sarebbe avvenuto senza un solo giorno di carcere. Come sempre Falcone fu di parola. Raccontai quel poco che sapevo, ma con molta precisione: spiegai che mio padre era stato consigliato da alcuni imprenditori milanesi e riconobbi in foto l'uomo che aveva gestito tutto in Canada: la buonanima di Michel Pozza. Falcone capì che ero sincero e fu molto paterno. "Hai visto?" disse. "Ora ti sei tolto un grande peso e starai meglio. I tuoi consiglieri dovevano avere più fiducia nella giustizia e non costringerti a stare così a lungo fuori dall'Italia." La battuta imbarazzò i miei legali, presenti all'interrogatorio. Prima di congedarmi mi autorizzò il primo colloquio in carcere, ma "quando torni da Roma vienimi a trovare per una chiacchierata informale". Con i tempi tecnici necessari, uscii dalla vicenda giudiziaria che, da quel momento, riguardò solo mio padre. Ma quanto era cambiata la mia vita, quanto diversa divenne la scansione delle giornate. Appena rientrato a casa quello che più mi colpì fu lo strano silenzio che la avvolgeva. Specialmente il grande salone, un tempo pieno di gente che andava e veniva e vociava. Dopo I arresto di Baffo non si era visto più nessuno. I politici, gli imprenditori e tutte le persone che venivano a chiedere favori sembravano essersi volatilizzati. Alcuni, oltre a dileguarsi, fecero di più. Come nel caso dell'ex ministro Calogero Mannino, arrestato per mafia nel 1995 e in seguito definitivamente assolto. In quello stesso periodo mio padre stava di nuovo a Rebibbia, 161

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carcere dove fu portato anche Mannino. Mi ferì, e la ricordo ancora, la frase con cui abbozzò la sua difesa con i giornalisti autorizzati a intervistarlo in cella: "La cosa che più mi angoscia è l'essere costretto a stare nello stesso luogo dove si trova Vito Ciancimino. Questa è una umiliazione troppo forte da digerire". Leggendo quelle frasi ebbi un senso di nausea e mi chiedevo come mai questo ex ministro non avesse provato identica umiliazione quella volta che io, con i miei occhi, lo avevo visto ridere e scherzare con mio padre, in grande armonia, a casa nostra. Mi resi conto, così, del grande isolamento in cui eravamo precipitati. Anche mia madre raccontava tristemente che per le feste di Natale non si era visto nessuno, tranne il buon Gaspare, l'uomo cui mio padre aveva trovato un posto di lavoro.

Impuniti in manette Fu una data storica, per i palermitani, l'arresto di don Vito. Nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo sull'eventualità di poter guardare in televisione il potente in manette. Lo stesso Massimo racconta con un senso di incredulità il giorno della prima per­ quisizione: "Avvenne nella casa di Mondello e in con­ temporanea in via Sciuti, per ordine del giudice Gio­ vanni Falcone. Eravamo nello stesso stato di un pugile che ha ricevuto un micidiale diretto al mento' . Passeranno solo nove giorni e lo spettacolo della disfatta sarà completo: il 12 novembre 1984 anche Nino Salvo, l'icona dell'impunito (sin dagli anni ses­ santa), varcherà i cancelli di Rebibbia. Era, quello, il tempo della rinascita, della speranza degli onesti. Una speranza offerta da un gruppo di magistrati bar­ ricati nel fortino del Palazzo di giustizia e da un manipolo di investigatori che, per una volta, obbedivano alla legge e non ai protettori di turno. Quanto sem­ 162

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brava lontano, in quel momento, il tempo in cui si di­ batteva - negli uffici di polizia e carabinieri - se l'in­ terrogatorio di un politico, meglio se con incarichi pubblici, dovesse spettare a uno "sbirro" oppure al procuratore della Repubblica in persona, per una sorta di osservanza di un galateo istituzionale non scritto. E così, mentre si sviluppava il dibattito su regole astruse, i migliori servitori dello Stato, scelti in quel gruppo di "matti" senza collare di cui s'è detto, se ne andavano nel corso di una mattanza che non trova eguale nella storia contemporanea della civilissima Europa. Il fatto è che, per uno di quegli imprevedibili ac­ cidenti che cambiano il corso della storia, si erano venute a trovare nello stesso momento, nello stesso luogo, persone "speciali" capaci di imporre svolte eccezionali. La posta in palio era altissima: in di­ scussione c'era la stessa sopravvivenza del collauda­ tissimo "sistema" che aveva posto ai vertici della pi­ ramide i famelici affaristi della politica e i macellai di Cosa nostra. Le date della strage continua ràppresentano le tappe fondamentali di un percorso contrassegnato dal sangue: il giornalista Mauro De Mauro (1970), il pro­ curatore Pietro Scaglione (1971), il colonnello dei ca­ rabinieri Giuseppe Russo (1977), il segretario dc Mi­ chele Reina (1979), il giornalista Mario Francese (1979), il capo della squadra mobile Boris Giuliano (1979), il giudice Cesare Terranova (1979), il presi­ dente della Regione Piersanti Mattarella (1980), il ca­ pitano dei carabinieri Emanuele Basile (1980), il pro­ curatore Gaetano Costa (1980), il segretario del Pci Pio La Torre (1982), il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982), l'agente Calogero Zucchetto (1982), il giudice Rocco Chinnici (1983), il capitano dei carabinieri Mario D'Aleo (1983), il commissario Giuseppe Montana (1985), il vicequestore Antonino Cassarà (1985), l'ex sindaco dc Giuseppe Insalaco (1988), 163

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l'imprenditore Libero Grassi (1991), l'ex sindaco dc Salvo Lima (1992). Fino al "botto" finale delle stragi di Capaci e via D'Amelio che chiusero il conto con i più rappresentativi esponenti del pool di Palermo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uno degli aspetti della vicenda è rappresentato dalla lotta senza quartiere che Vito Ciancimino con­ dusse, replicando colpo su colpo, con Giovanni Fal­ cone. Ebbe la peggio, l'ex sindaco. Abbiamo visto come l'isolamento politico che il giudice riuscì a ritagliare addosso a don Vito diede spazio all'iniziativa giudiziaria, un tempo frenata dal condizionamento ambientale di una società malsana. E così il potente Ciancimino in manette aprì la strada a una sorta di li­ berazione: da quel momento anche i Salvo e lo stesso Salvo Lima non erano più intoccabili.

Rotello E, come un volgare mafioso, don Vito conosce l'onta del soggiorno obbligato, prima, e del divieto di soggiorno a Palermo, dopo. La sede del confino viene fissata - dopo un anno di detenzione fra Rebibbia e i Cavallacci di Termini Imerese preceduto da un mese in albergo a Patti, in attesa di giudizio - nel paesino di Rotello, in Molise, non vicinissimo a Campobasso. Un vero trauma, per il politico corleonese abituato a ben altri trattamenti giudiziari: "Fui scarcerato il 22 novembre del 1985 e al commissariato mi fu conse­ gnato un foglio di via, con l'ingiunzione a lasciare la Sicilia entro la mezzanotte del 24 novembre, con de­ stinazione Rotello, dove sono rimasto in soggiorno obbligato fino al 4 ottobre del 1988. Trascorsi la giornata del 23 in casa, dopo una notte nel mio letto, tra confusione e stupore: tutto mi sorprendeva come se vedessi intorno a me le cose e la vita stessa per la prima volta. Il giorno appresso, accompagnato da due dei 164

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miei figli, partii da Palermo per Rotello, dove mi stabilii presso la pensione La Rustica. Qui rimasi fino al gennaio del 1987, quando mi trasferii in un piccolo appartamento nel centro storico del paese. Ricordo la signora che gestiva la pensione come una donna di una bellezza procace e di una intelligenza acuta, una di quelle che fanno da marito agli uomini". Dai ricordi di don Vito si intuisce chiaramente che era riuscito a legare bene con gli abitanti di Rotello. Un legame alimentato da lunghe chiacchierate al­ l'aperto e interminabili partite a carte. "Di quegli anni ­ scrive nel suo diario - vissuti nella tranquillità di Rotello, ricordo l'obbligo giornaliero della firma, il divieto di uscire dopo le ore 20, la nostalgia di Palermo." A Rotello don Vito è continuamente assistito dai figli che si danno il cambio ogni quindici giorni e, con meno frequenza, dalla moglie. MASSIMO: La pena del soggiorno obbligato l'ho scontata anch'io, pur non avendo - almeno allora ­ nessun precedente penale. All'inizio tutta la famiglia si mobilitò con turni di quindici o venti giorni. Anche mia madre, che pure non poteva vantare un matrimonio felicissimo, venne più volte a Rotello e familiarizzò con molte persone del paese. Ero io, comunque, il preferito. O sarebbe più giusto dire il predestinato? Come al solito pagavo la colpa di essere il più piccolo e il meno impegnato dei fratelli. Per questo Baffo mi sceglieva. Ma anche perché, diceva lui, gli altri fratelli "non erano di compagnia". Si annoiavano presto e davano segni di insofferenza. Come se io, invece, nella mia vita non avessi cercato altro che stare in quel buco di duemila abitanti e trascorrere intere giornate leggendo romanzoni e guardando la tv. Ma ero utile, anzi indispensabile per le sue necessità. Facevo la spola con Palermo e tenevo i rapporti con gli avvocati e con quelli che si erano mobilitati, in quel 165

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momento, per neutralizzare le iniziative giudiziarie per il sequestro dei beni. Anche lui andava e veniva spesso. Ricordo che si tennero decine di riunioni, a Palermo, autorizzate dal giudice per le misure di prevenzione. Anche qui c'era un trucco che, rammento perfettamente, aveva insospettito il giudice Falcone. Ogni volta che mi vedeva, infatti, il magistrato si informava se c'era anche mio padre e, alla risposta affermativa, commentava: "Ma che, sta sempre a Palermo?". E di ciò si lamentò ufficialmente. Il fatto era che Di Miceli, in qualche modo, aiutava mio padre a ottenere i permessi. Era lui, infatti, nella veste di perito, l'alibi per ottenere le numerose autorizzazioni accordate. Ufficialmente mio padre veniva quasi sempre a Palermo per incontrare periti e avvocati, ma nello stesso tempo si vedeva e si consultava con l'amico Lo Verde/Provenzano. In sostanza continuava a governare i suoi affari, a dirigere il sistema da Rotello, in perfetta sintonia ancora con Lo Verde e col signor Franco. Non ricordo di aver mai visto Lo Verde in Molise, anzi posso escludere che sia mai venuto a trovare mio padre a Rotello. Ma posso confermare con assoluta certezza che più d'una volta ho visto arrivare a bordo della sua Alfa con autista l'elegantissimo signor Franco. Ogni volta che ciò accadeva, mio padre si inventava un incarico per farmi allontanare durante il colloquio. Mi ha segnato, il confino a Rotello. Quello fu, credo, il periodo di maggior conflitto con mio padre. Forse perché eravamo nella condizione di due carcerati "condannati" a stare insieme e non per scelta. Questo contatto stretto probabilmente esaltava le nostre contraddizioni, con un accumulo di aggressività che solo a lui - ovviamente - era concesso di scaricare, sempre su di me. Io ero il figlio e dovevo subire senza fiatare. Erano un incubo, quei viaggi in macchina da Rotello a Palermo. Al volante c'ero io, ma pretendeva di essere 166

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lui a guidare. Aveva sperimentato una tabella di marcia e quella doveva essere. Si ripeteva il consueto canovaccio palermitano: "Prepara la macchina". E ciò significava, al solito, che dovevo far sì - tra aria condizionata e posteggio all'ombra - che non fosse né troppo calda né troppo fredda. Poi aveva stabilito che durante il tragitto non dovevo mangiare, perché "il cibo appesantisce e rallenta i riflessi". La sosta negli autogrill, dunque, era solo per caffè e pipì. E, regola ferrea, mantenere la velocità di crociera che lui aveva calcolato dopo accurati studi sui vari tipi di impatto possibili. Ogni macchina che ci sorpassava era guidata da una testa di cazzo, ovviamente come me. A un certo punto si addormentava, pur mante­ nendo in funzione quel terribile strumento di tortura che era "il mangianastri" dispensatore di musiche mortifere. Quello era il momento ideale per spingere un po' il piede sull'acceleratore altrimenti bloccato sotto i cento. Si svegliava a Villa San Giovanni, quando eravamo in attesa dell'imbarco sul traghetto per Messina. Lì accadeva quello che temevo: guardava l'orologio e cominciava ad agitarsi perché realizzava che non avevo rispettato il "suo" limite di velocità. La sfuriata cominciava sempre allo stesso modo: "Ma quanto hai corso, testa di cazzo?". "No, papà, mai sopra i cento, come vuoi tu." "Pensi davvero che io sia una testa di cazzo come te?" Prendeva carta e penna e cominciava un complicatissimo calcolo che si con­ cludeva così: "Abbiamo percorso tanti chilometri in tot ore: ergo abbiamo realizzato una media di 120 all'ora. Ma per mantenere questa media vuol dire che hai toccato punte di 150. Ergo sei una perfetta testa di cazzo. Tu mi vuoi uccidere". E poi, la conclusione canonica: "Perché tu sei il mio nemico, non Giovanni Falcone".

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GIOVANNI: Rotello era davvero piccola e sperduta. Un unico ristorante nell'unica locanda fornita di una sola stanza con bagno: quella prese mio padre. Il mio primo turno di assistenza cadde verso la fine di novembre. Ero arrivato con la mia macchina, ma non la usavo, infatti Baffo mi impediva di allontanarmi perché la sua ipocondria si era aggravata in seguito alla detenzione e non c'era Raul De Preux a rassicurarlo, ma soltanto un giovane medico di paese. Allora non mi restava altro da fare che starmene per ore al bar a guardare gli anziani che giocavano al biliardo. L'unica mia vera compagnia era un ragazzo della mia età, un fenomeno del tavolo verde, con cui ogni tanto conversavo. Mancavano ormai solo un paio di giorni all'atteso cambio e me ne stavo al bar a guardare un film in tv che aspettavo da giorni. Era appena iniziato quando venne a chiamarmi la proprietaria della locanda per conto di mio padre. Tentai di prendere tempo: "Dica a papà che verrò subito dopo il film". Ma lei rispose che mi voleva subito. Conoscendo il soggetto, andai immediatamente. Pensavo, anche per la perentorietà della convoca­ zione, di andare incontro a una delle solite sfuriate. Invece lo trovai insolitamente di buonumore e persino premuroso: "Dimmi la verità, ti sei molto annoiato in questi giorni trascorsi a farmi compagnia?". La mia risposta fu diplomatica: "Certo non mi sono divertito, però trascorrere quindici giorni in questo posto non è poi una grande tragedia. Si può fare". "E allora ascolta: ho visto in tv che domani farà bel tempo. Mi hanno detto che c'è un posto di mare, non lontano da qui, ottimo per mangiare del buon pesce. Prendi la macchina e vai, potresti partire verso le 10. Ecco, proprio così: domani prendi la macchina e vai al mare. Ora, se lo desideri, puoi tornare a guardare la tv."

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Mi sembrò strano quell'invito, visto che nei giorni precedenti non mi aveva permesso di allontanarmi neanche per andare in un supermercato che distava soltanto pochi chilometri e ora, invece, potevo mancare per quasi tutta la giornata. Ma la sorpresa maggiore fu vederlo, l'indomani mattina, vestito di tutto punto: pantaloni grigi, giacca blu e cravatta intonata. Feci finta di niente e non chiesi nulla. Mi ripeté che potevo stare fuori anche fino al pomeriggio. Non andai al mare, che era troppo lontano, ma in un borgo medievale più vicino di cui mi avevano parlato. Questo cambiamento di programma fece sì che tornassi molto prima del previsto. Arrivato davanti alla locanda notai posteggiata un'auto blu di grossa cilindrata, mai vista prima e inconsueta per quel posto. Ebbi come un flashback che mi fece tornare in­ dietro con la memoria, a una sera di pochi mesi prima, all'Hotel Plaza di Roma. Mio padre era appena stato arrestato e io ero in attesa dell'autorizzazione per un secondo colloquio a Rebibbia. Lo avevo visto quello stesso giorno ed ero rimasto un po' turbato. Non riuscivo a dormire e mi apprestavo a rivestirmi, pur essendo passata la mez­ zanotte, per fare quattro passi distensivi. Ma all'im­ provviso squillò il telefono e il portiere dell'albergo mi passò qualcuno. Una voce maschile, con garbo ma decisamente, mi chiedeva di scendere per un veloce colloquio. "Ma lei chi è?" gli chiesi infastidito. "So chi è lei, lei è Giovanni Ciancimino e stamattina ha avuto un colloquio in carcere con suo padre. La prego, scenda, le farò perdere solo qualche secondo." Uscii dall'albergo e non vidi nessuno, fino a quando una macchina blu si accostò a pochi centimetri dalle mie gambe. Scorsi l'uomo alla guida dopo che si abbassò il vetro del finestrino. Non doveva aver superato la quarantina, chiaro di carnagione indossava un cappotto blu ed enormi occhiali da vista. 169

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"Su salga, non mi va di parlare per strada." Riconobbi la voce che avevo sentito al telefono, ma avevo qualche perplessità. "Avanti, salga. Se avessi voluto farle del male l'avrei già fatto." Entrai in macchina mentre lo sconosciuto si avviava, e, conciliante, mi offriva una sigaretta. "Veramente," risposi, "prima della sigaretta do­ vrebbe presentarsi.' Mi rispose che non avevano alcuna importanza il suo nome e la sua professione, ma quello che doveva far sapere a mio padre. Si premurò di precisare che non apparteneva ad ambienti criminali e che lo con­ tattava per conto di "capi", personaggi molto influenti. Costretto dalla mia reazione brusca fu più preciso: "Quando andrà di nuovo a trovare suo padre dovrà dirgli di stare tranquillo e di non preoccuparsi, perché la sua situazione potrà sensibilmente migliorare, l'importante - però - è che non faccia sciocchezze. Non chieda altro, capirà perfettamente: è una persona molto intelligente e non servono altre parole. Gli riferisca quello che le ho appena detto, ovviamente usando le dovute cautele, stando attento a evitare eventuali intercettazioni". Al successivo colloquio raccontai tutto a mio padre, avvicinandomi e parlandogli all'orecchio. Diventò una furia e mi disse di riferire solo queste parole: "Per nessun motivo desidero che ci si serva come in­ termediari dei miei figli. Che questo non accada mai più. Le persone che lui rappresenta non avranno alcun problema a contattarmi anche qui dentro". Rividi lo sconosciuto, riferii e non ci vedemmo più. Fino a Rotello, perché quella macchina parcheggiata sotto la locanda era la stessa della sera al Plaza. Capii che stava accadendo qualcosa di oscuro e non entrai nella pensione. Mi misi ad attendere al bar, osservando chi entrava e usciva. A un certo punto vidi uscire un signore maturo, vestito di scuro con cappello e sciarpa, 170

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che andò a sedersi in macchina, accanto al posto di guida. Poco dopo apparve lui. Lo riconobbi immediatamente e senza ombra di dubbio: era l'uomo del Plaza. Si guardò attorno, montò in mac­ china e partì. Era intuibile che non era lui l'interlocutore di Baffo, ma l'altro. Affrontai mio padre rivelandogli la verità, che avevo riconosciuto in paese l'uomo che gli aveva mandato il messaggio a Rebibbia e, dunque, pretendevo di conoscere ciò che stava accadendo intorno a me, visto che non ero più il ragazzino testimone del sequestro di quindici anni prima. Lui mi rispose: "Non è una questione di età. Anche se avessi cin­ quant'anni non ti direi mai chi erano quelle persone e che cosa sono venute a fare in questo paese sperduto. Ti basti sapere che c'è gente a cui sta a cuore la mia situazione perché non trova giusto che sia soltanto io a pagare per tutti". Ritornai a Palermo amareggiato, convinto che la bufera giudiziaria che si era abbattuta su mio padre non avesse minimamente modificato il suo carattere. MASSIMO: L'esilio a Rotello, tuttavia, finì con un anno di anticipo rispetto alla condanna perché già dall'ottobre del 1988 mio padre beneficiò della legge che aboliva il soggiorno obbligato, sostituendolo con il divieto di soggiorno. Motivo per cui, una volta lasciata Rotello, non poté andare a Palermo e si trasferì a Roma. Prima all'Hotel Plaza, in seguito nell'appartamento di piazza di Spagna. Questa provvidenziale riforma legislativa non era caduta dal cielo. Mio padre non perdeva mai occasione per sollecitare i vecchi amici a cercare rimedi alla sua condizione. Più di una volta ne aveva parlato con Salvo Lima e proprio a casa dell'amico aveva incontrato il suo compagno di corrente Mario D'Acquisto, allora 171

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sottosegretario alla Giustizia. In quella sede decisero di non percorrere la solita strada del Tribunale delle misure di prevenzione di Pa­ lermo - che avrebbe attirato curiosità e critiche - e puntarono sulla via del provvedimento nazionale.

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7. 1992, la fine degli equilibri

Dal 1989 al 1993 l'Italia fu attraversata da un'ondata di violenza mafiosa di un'intensità e di "qualità" mai conosciute prima. Sì, è vero: c'erano state due guerre di mafia, negli anni sessanta e poi negli ottanta, e c'era stata, in mezzo, la "mattanza" che aveva sterminato il meglio dei servitori dello Stato, della classe politica siciliana, degli imprenditori, dei giornalisti impegnati nella resistenza contro lo strapotere di Cosa nostra. Per la prima volta nella storia siciliana, i boss oseranno alzare il tiro persino sulla "Santa Madre Chiesa", assassinando padre Pino Puglisi, il parroco del quartiere di Brancaccio, a Palermo, molto impegnato contro la mafia e i capiclan della zona, anche per dare "adeguata risposta" al discorso di papa Wojtyla contro Cosa nostra, pronunciato ad Agrigento il 5 maggio del 1993. In passato si erano limitati all'intimidazione incruenta, ma plateale, del cardinal Pappalardo, quando tutti i detenuti dell'Ucciardone avevano disertato la messa per il precetto pasquale del 1983. Il massimo della violenza distruttiva la mafia lo raggiunge tra l'estate del 1992 e quella del '93, quando Totò Riina indossa i panni di stratega di un'inedita versione identitaria di Cosa nostra, quella di orga­ nizzazione politico-terroristica, che non esita a seminare 173

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morte e terrore - con sistemi che avremmo poi imparato a conoscere come propri di al Qaeda – per raggiungere lo scopo di condizionare le leggi dello Stato, piegandole alle necessità di impunità dell'orga­ nizzazione mafiosa. È incredibile la metamorfosi subìta, in quel breve periodo, da Cosa nostra siciliana, che rinnega i princìpi fondamentali della propria "ideologia" - la violenza come rimedio estremo e sempre esercitata in modo chirurgico, senza il coinvolgimento di "innocenti" - per approdare alla rappresaglia indiscriminata dello stragismo bombarolo di stile "libanese". Una metamorfosi che, finora, nessuna indagine è riuscita a spiegare compiutamente, malgrado la gran messe di notizie e testimonianze di numerosi collaboratori di giustizia. Una qualche ricostruzione, anche pro­ cessuale, è stata fatta, ma non tutti i buchi neri delle varie fasi di quella stagione sono stati colmati. E ciò perché ogni volta è intervenuto un agente esterno che ne ha confuso i contorni. Ecco, quello che si può dire con certezza è che questa storia brutta, ormai consegnata al grande pubblico sotto l'etichetta della "Trattativa fra Stato e mafia", non può essere archiviata come una vicenda di mera criminalità. Si intravede, oltre la montagna di carte processuali, oltre le ricostruzioni dei testimoni, oltre gli indizi scanditi nel corso degli estenuanti dibattimenti, la presenza inquietante di forze che spingono in direzione opposta a quella della ricerca della verità. Probabilmente si dovrà convenire con quanti so­ stengono l'inadeguatezza dello strumento giudiziario, per sua natura poco percorribile in assenza della prova provata, nella comprensione degli eventi: non sempre, si dice, la verità processuale coincide con la verità dei fatti. Ma uno sforzo per capire, anche attraverso i canoni della storia, della morale e della politica, non andrebbe negato. Gli archivi del Parlamento sono in possesso dei documenti necessari per avviare un percorso di 174

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rivisitazione storica. Anche alla luce di quanto si sospetta e si teme: e cioè che la "Trattativa" non sia affatto archiviata, né potrà esserlo nel breve periodo, almeno fino a che esisterà il problema dei carcerati di Cosa nostra, tutta gente a cui sarebbe stata promessa all'origine del patto innaturale fra guardie e ladri" la via dei benefici in cambio della tregua stragista. La moratoria c'è stata e dura ormai da sedici anni, ma gli ergastoli rimangono tutti confermati in Cassazione e il carcere duro sta sempre lì, seppure affidato alle singole interpretazioni normative che non lo rendono uguale per tutti. È trascorso un ventennio, ormai, da quando Cosa nostra aveva avviato la sua battaglia per la sopravvi­ venza, affidata al potere di ricatto verso una classe istituzionale e politica storicamente compromessa dalla precedente lunga e impunita convivenza. Nel 1989 era Giovanni Falcone l'anomalia che aveva messo in crisi il meccanismo della coesistenza pacifica fra Stato e mafia. Il giudice vedeva lontano e capiva che quello era il momento buono, se si voleva sferrare la battaglia finale contro la mafia. La congiuntura internazionale era irripetibilmente favorevole: la caduta del comunismo agevolava, nell'Occidente, la fine del pericolo rosso e rendeva pressoché inutile quella pregiudiziale anticomunista nel cui nome era stato giustificato ogni inconfessabile connubio con i boss, percepiti come argine all'avvento dei cosacchi. E così Falcone ci provò, forte della copertura di un ministro - Claudio Martelli - determinato a liquidare un convitato di pietra impresentabile come la mafia degli affari, e addirittura di un presidente del Consiglio ­ Giulio Andreotti - che si accingeva a liberarsi dei lacci mafiosi di Lima e Ciancimino per intraprendere la scalata che avrebbe potuto portarlo al Quirinale. Ma di queste strategie a Totò Riina poco interessava. Aveva i suoi problemi, don Totò: i pentiti avevano massacrato Cosa nostra, la legislazione antimafia fi­ 175 "

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nalmente si indirizzava verso la battaglia alle ricchezze illegali e, soprattutto, si era capito che il maxiprocesso di Giovanni Falcone reggeva a tutti gli attacchi della politica garantista: la sentenza di primo grado aveva creato il panico tra gli uomini di Cosa nostra, mentre prendevano corpo il "maxibis", il "maxiter" e i processi ai politici compromessi. Bisognava, dunque, disinnescare Falcone. Ci pro­ varono prima con la delegittimazione, poi con le bombe. Il giudice fu oggetto di una campagna a suon di lettere anonime, poi passata alle cronache come "l'estate del Corvo", con la quale lo si accusava di aver consentito al pentito Salvatore Contorno di rientrare a Palermo per uccidere dei propri nemici. Accuse che dovevano servire anche per "giustificare" la vendetta cruenta di Cosa nostra. Era il giugno del 1989 quando tentarono di far saltare, con settantacinque candelotti di dinamite, la casa al mare del giudice, sulla scogliera dell'Addaura. L'attentato fu sventato, si disse, per un colpo di fortuna: gli uomini della scorta, durante un'ispezione, trovarono il borsone con l'esplosivo. Questa la versione accreditata, per anni, anche a livello processuale. Una verità smentita in questi ultimi mesi, una verità negata da sorprendenti testimonianze venute alla luce a vent'anni dai fatti, che lascia trasparire una regia - già in quel giugno dell'89 - di strane presenze istituzionali nella ragnatela mortale che andava stringendosi attorno a Giovanni Falcone. Bisognerà attendere la chiusura delle indagini della Procura di Caltanissetta per sapere se il gran movimento dei servizi segreti, nel giugno dell'89 a Palermo, abbia avuto a che fare con le manovre di delegittimazione del giudice oltre che con il tentativo di farlo saltare in aria. C'è un filone di indagine che, addirittura, porterebbe a descrivere nell'attentato dell'Addaura una sorta di "guerra dei servizi" sviluppatasi nell'ombra. Una vera e propria spy story con i cattivi che tentano di far fuori Falcone e i buoni che intervengono per sventare 176

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l'attentato. Come nei film americani, dove c'è la Cia perfida e cinica e i federali fedeli alla Costituzione. Falcone, si sa, fu costretto poi a lasciare Palermo. Ottenne asilo politico da Claudio Martelli che lo nominò direttore degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia. Ciò non bastò a salvargli la vita. Arrivò a Roma il 13 marzo del 1991, proprio mentre - ma questo si saprà negli anni seguenti - Cosa nostra si muoveva per sferrare l'attacco finale allo "Stato che non rispettava i patti". Totò Riina in persona ci aveva rimesso la faccia per quegli accordi non mantenuti. Per anni aveva rassicurato il popolo di Cosa nostra con la certezza che "tutto si sarebbe aggiustato" e che, dopo la bufera, sarebbe ritornato il sereno dei bei tempi andati, quando la mafia godeva dell'impunità totale. I fatti, però, lo smentirono. Fu la Cassazione a mettere la pietra tombale sulla "direzione strategica" di Cosa nostra, con la conferma definitiva dei diciannove ergastoli comminati ai capi e le centinaia di anni di carcere a grossi e piccoli "quadri" dell'organizzazione. Il "colpevole" di tutto ciò fu individuato in Giovanni Falcone, anche perché dal suo nuovo ufficio di via Arenula aveva varato l'ultima micidiale contromisura per vanificare ogni tentativo di sabotaggio del maxiprocesso. Aveva stravolto il collaudato mec­ canismo che permetteva alla Prima sezione penale della Cassazione di occuparsi praticamente di tutti i processi di mafia e terrorismo. Istituì un principio di rotazione che tolse a quella sezione l'esclusiva dell'in­ tervento sui processi di mafia. Il maxiprocesso, infatti, non andò al collegio presieduto dal giudice Corrado Carnevale, il cui formalismo, in passato, aveva provocato l'annullamento di importanti processi.

La fine di Falcone Ma la buona notizia della sentenza della Corte su­ 177

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prema fu anche l'inizio della fine di Giovanni Falcone. Nel momento stesso della vittoria definitiva del giudice, si crearono le condizioni per la controffensiva di Totò Riina, padrone assoluto di Cosa nostra anche per via del ruolo dell'altro capo, Bernardo Provenzano, sempre prudente e mai disponibile a esporsi nei confronti del socio, neppure con un timido accenno di disaccordo. Don Binnu non condivideva quella scelta suicida di Riina — lo racconterà benissimo Massimo Ciancimino — e, anzi, la riteneva controproducente, contraria alla natura "consociativa e democristiana" di Cosa nostra. Ma al suo compare non lo disse mai. Ne ha invece condiviso formalmente ogni decisione, fino a quando - stando al racconto di Massimo - ha potuto liberarsene (collaborando con Vito Ciancimino e i carabinieri alla cattura del capo-dittatore) per prendere il comando dell'organizzazione e indirizzarla nuovamente nell'alveo rassicurante della "collaborazione" con lo Stato. Nel giorno della sentenza della Cassazione Falcone cominciò a morire. Era il 30 gennaio del 1992 e addosso a Totò Riina crollava il mondo intero, perché quegli ergastoli certificavano il fallimento di una "linea' che aveva portato al tracollo l'intera organizzazione, in quel momento prigioniera delle scelte sbagliate del capo. E Riina era un re nudo, senza più quelle protezioni che in passato avevano qualificato il potere mafioso: non solo nessun potente, politico, magistrato o altro era riuscito ad "aggiustare' - come promesso - il processo storico alla mafia, ma diventavano verità acclarate tutte le confessioni dei pentiti che avevano svelato i segreti di Cosa nostra e soprattutto le miserie dei suoi capi, ingordi, bugiardi e spergiuri. Era la fine del mito degli uomini d'onore "giusti" e "difensori degli oppressi". Nel 1992 Vito Ciancimino - nel frattempo incappato nell'ennesima indagine su mafia e appalti, arrestato e scarcerato nel 1990 per intervento della Cassazione che 178

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annulla il mandato di cattura - vive a Roma in un appartamento di salita San Sebastianello, con vista su piazza di Spagna. Per via della sentenza non definitiva del processo per mafia (quello istruito da Falcone), gode della libertà provvisoria in attesa del giudizio finale. Che la sua buona stella sia in declino lo dimostra la continua attenzione che gli riserva la magistratura e lo scarso credito che seguita a conce­ dergli la politica. La più grande aspirazione della Dc è quella di riuscire a rimuovere definitivamente il suo nome dalla storia del partito. L'ex sindaco ha conosciuto l'umiliazione del carcere già nel 1984 e ha speso ogni sua energia, ogni amicizia - presentabile o no -nel tentativo di sfuggire ai tentacoli giudiziari che mirano al "tesoro" illegale di cui si favoleggia, scoperto solo in piccola parte (fra Svizzera e Canada) dalle indagini di Giovanni Falcone. Ha scontato, in solitudine, più di tre anni di soggiorno obbligato a Rotello, confortato soltanto dall'amicizia - mai venuta meno -del signor Lo Verde/Provenzano, dalla presenza rassicurante del signor Franco/Carlo (come abbiamo visto sempre pronto a dargli suggerimenti e consigli) e dalla costante attenzione dei figli, in particolare quella di Massimo che via via va assumendo il ruolo di "tutore" del padre. A piazza di Spagna, infatti, nell'inverno del 1992, troviamo quasi sempre il ragazzo che allora non aveva ancora ventinove anni. Don Vito si dedica ormai esclusivamente alla realizzazione del suo memoriale: uno sterminato diario scritto con il palese intento di difendere il proprio onore attaccando i giudici, i gior­ nalisti e "tutti quelli dell'antimafia delle cazzate'. Un amarcord spregiudicato, infarcito di reticenze e ri­ mozioni tese a dimostrare che il sistema rende tutti uguali, che non c'è destra né sinistra e non ci sono eroi. Definisce Falcone un giudice scorretto, considera l'assassinio di Dalla Chiesa un regolamento di conti all'interno delle istituzioni e ne indica come )

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mandante il senatore Giulio Andreotti, il politico che il generale teneva nel mirino non solo per le sue pericolose amicizie periferiche (Salvo Lima in particolare), ma anche per i grandi affaires romani. Sfacciata, poi, la difesa ideologica del sistema delle tangenti. Ancora prima dell'esplosione di Mani pulite, ancora prima ­ dunque - del famigerato discorso autoassolutorio ("Così fan tutti") di Craxi in Parlamento, Vito Ciancimino rivendica quasi il diritto della politica al finanziamento illecito, con la teoria oggi di gran moda che "se così fan tutti" il reato non c'è più. Quanto saranno diverse le reazioni e le spiegazioni che darà al figlio Massimo negli anni duemila, poco prima della morte, una volta convinto a "dire tutto", anche per le insistenze del ragazzo che comincia a sentire il peso del cognome che porta e intuisce che l'unico modo per alleggerire quel fardello sarebbe una col­ laborazione vera del padre con i magistrati.

La fine di Salvo Lima Senza volerlo, don Vito conduce i propri interlocutori (gli ipotetici lettori del suo diario, inutilmente offerto a case editrici, giornalisti e investigatori) nel clima che sta per determinare lo scossone della Prima Repubblica, devastata dall'azione concentrica delle inchieste sulla corruzione al Nord e su mafia e politica al Sud. Una deflagrazione quasi contemporanea prodotta da due inneschi micidiali: a Milano le inchieste di Antonio Di Pietro, al Sud l'inizio della stagione di sangue con l'assassinio di Salvo Lima, il proconsole di Andreotti in Sicilia, l'uomo della mafia, l'inseparabile alter ego di Vito Ciancimino nato politicamente all'ombra della saggia e lungimirante mafia palermitana e transitato, poi, verso una convivenza coatta col corleonese Totò Riina. E Provenzano? Resterà sempre abbarbicato al "suo" don Vito, l'amico conosciuto e apprezzato quando 180

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era bambino, che mai lo avrebbe deluso. Salvo Lima viene ucciso la mattina del 12 marzo 1992 in via delle Palme, a due passi da quella via Danae, a Mondello, che abbiamo imparato a conoscere come la location della rappresentazione del potere palermitano. Lo sorprendono in auto mentre, insieme ai compagni di partito Alfredo Li Vecchi e Nando Liggio, con cui aveva compiuto il rito quotidiano del caffè, si dirige verso l'Hotel Palace per definire gli ultimi dettagli dei preparativi in vista dell'arrivo a Palermo di Giulio Andreotti, nell'ambito della campagna elettorale per le elezioni politiche già fissate per il 4 e 5 aprile. Una scena terribile, una morte atroce giunta alla fine di una caccia all'uomo, culminata davanti a un cassonetto della spazzatura. L'ex sindaco ed eurodeputato tenta una carta disperata: ferma l'auto in mezzo alla strada e fugge a piedi, inseguito dai due centauri coi volti nascosti dai caschi integrali. La sua corsa termina dopo pochi passi, quando cade bocconi e i capelli d'argento gli si colorano di rosso, proprio ai piedi del contenitore maleodorante. I killer si sincerano che il lavoro sia stato fatto bene e si allontanano a bordo della loro Enduro rossa, senza degnare di uno sguardo i due uomini in macchina che, a occhi chiusi per il terrore, aspettano il peggio. Ma sono salvi, Lima li ha salvati scegliendo di abbandonare l'auto. La notizia della morte dell'ex sindaco è una bomba atomica. Ancora più di Ciancimino, l'eurodeputato che come slogan politico aveva scelto ambiguamente "Un amico a Strasburgo" - incarna l'icona dell'intoccabile. Nessuno era mai riuscito a sfiorarlo con un'accusa di mafia, neppure Falcone che da Bu­ scetta aveva appreso la sua origine: "Figlio di Vin­ cenzo, uomo d'onore di Cosa nostra". Ma, senza ri­ scontri, quella notizia valeva zero. E proprio Falcone, per primo, intuisce la gravità del momento: telefona a Paolo Borsellino, a Palermo, e gli dice che "sono saltati tutti gli equilibri, adesso può 181

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accadere di tutto". Già, gli equilibri: Lima morto, Ciancimino "out" in attesa di giudizio. Nessuno può più garantire per nessuno, mentre il mondo politico si avvita su se stesso, senza saper decidere una via d'uscita. L'uccisione di Lima, inequivocabilmente mafiosa, appare da subito come una frattura tra Cosa nostra e la politica: basta dare uno sguardo alle facce terree della nomenclatura statale accorse a Palermo e schierate sulle prime panche della basilica di San Domenico, durante i funerali celebrati un po' in sordina e con l'assenza del capo dello Stato, Francesco Cossiga. Questo quadro appare del tutto chiaro a Vito Cian­ cimino, barricato nella sua prigione dorata di piazza di Spagna. "Adesso può accadere di tutto," rimugina ossessivamente Giovanni Falcone dal suo ufficio co­ razzato di via Arenula, a un tiro di schioppo dalla celebre scalinata di Trinità dei Monti, a fianco del rifugio romano di don Vito. In effetti è proprio così. Da quella tragica mattina di marzo, accade l'inimmaginabile per un paese evoluto dell'Occidente europeo: un'organizzazione criminale lancia un'offensiva militare per costringere lo Stato italiano ad allentare la repressione contro la mafia. Dichiara la guerra per contrattare una pace, come spiegheranno poi i colla­ boratori di giustizia raccontando la strategia, "non tutta farina del proprio sacco", del "comandante su­ premo" Totò Riina - trent'anni e più di latitanza -, il 'padrino" di Cosa nostra. La mafia bombarda l'auto­ strada di Capaci per liberarsi di quel Falcone incon­ trollabile e irriducibile, cinquantasei giorni dopo si ripete in via D'Amelio, con Borsellino, proprio mentre don Vito cerca - ascolteremo nel dettaglio il racconto del figlio Massimo - una difficile mediazione, accettando un rapporto con i carabinieri del Ros. Don Vito ripensa all'origine della sua avventura di politico costantemente imbrigliato nella rete dell'ap­ partenenza mafiosa, sapientemente tesa e mantenuta per 182

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decenni da quel signor Lo Verde/Provenzano scoperto da Massimo su una rivista sfogliata dal barbiere. Non è un bilancio esaltante quello che, nel marzo del 1992, si presenta agli occhi di Ciancimino. Persino i suoi guai giudiziari diventano poca cosa di fronte a quei capelli grigi intrisi di sangue visti alla tv nei servizi degli inviati accorsi in via Danae, a Palermo. Va indietro con la memoria, don Vito, e fissa sul suo diario ricordi sparsi: "Conobbi Lima quando entrai a far parte della grande famiglia' (si fa per dire) della Democrazia cristiana. A proposito debbo dire che proveniente da famiglia socialista rigorosamente educato alla cultura laica (uno zio mio, Calogero, nell'elogio funebre... di Bernardino Verro, sindaco socialista di Corleone, assassinato dalla mafia, concluse il suo intervento affermando: Tu non andrai nel 'paradiso' dei preti, ma andrai nel 'paradiso' dei giusti) ritenevo che tutti i democristiani credessero in Dio e che applicassero rigorosamente i dieci comandamenti. Sono stato, subito, deluso e arrivai alla conclusione (se vogliamo arrogante) che io ero di gran lunga migliore di loro. Tuttavia... mi trovavo nel 'ballo e continuai a 'ballare' e la colpa è solamente ed esclusivamente mia. Mio padre mi consigliò di restare rigorosamente fuori dalla politica. Io non gli ubbidii e i risultati si vedono, eccome!". Secondo la sua abituale tendenza ad autoassolversi, scaricando sul destino o su altre persone i disastri della propria vita, Vito Ciancimino offre una versione fatalistica delle passate scelte più che discutibili, quasi a voler sottolineare che non v'era altro modo di fare politica. L'assassinio di Lima, comunque, apre un capitolo inedito nella vita di don Vito. Intuisce che quel corpo abbandonato sotto i cassonetti, a Mondello, è un messaggio terribile per l'intera classe politica, soprattutto quella siciliana, che con i "bravi ragazzi" aveva convissuto felicemente. Capisce che si avvicina una sorta di resa dei conti e che nulla sarà come prima, 183

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perché stanno cambiando le regole del gioco e la mafia non ha più intenzione di dipendere dai tempi e dai bizantinismi della politica. È assai irrequieto, preoc­ cupato. Ne danno testimonianza i figli. MASSIMO: Eravamo a Roma e la notizia la appren­ demmo dalla televisione. Mio padre ne rimase scon­ volto, non lo avevo mai visto in quello stato. Andava su e giù per le stanze, come se non riuscisse ad afferrare un filo che gli sfuggiva. Il telegiornale proseguiva con le edizioni straordinarie e lui era già oltre e cercava una chiave per decrittare quegli avvenimenti. "È impazzito, ma che senso ha tutto ciò? Dove vuole arrivare? Questo è un segnale per Andreotti, certi rapporti sono pericolosi... Io più volte lo avevo allenato... Non me lo aspettavo... Chi poteva immaginare tutto questo?" Quindi si rivolse a me, come se si fosse accorto solo in quel momento della mia presenza: "Prendimi una pillola di Ansiolin, chiudi la porta e non ti muovere di casa". Si chiuse nella sua stanza e per più di due ore non ne uscì. Infine mi ordinò: "Domani vai a Palermo, parla con tuo fratello Giovanni. Spiegagli la situazione e digli di comunicare ai familiari di Salvo che la mia presenza al funerale non è opportuna. Di qualunque cosa avessero bisogno, però, che non esitino a comuni­ carmelo". Affidava a Giovanni questo compito perché lui era molto amico dei figli di Lima, in particolare di Susanna e del marito.

GIOVANNI: Di tutti gli uomini politici che frequentavano casa nostra, Lima era quello che conoscevo meglio. Era una persona estremamente gentile e ospitale. Pur essendo uno dei siciliani più potenti, non faceva pesare la sua condizione a differenza di tanti altri che, meno potenti di lui, si dimostravano superbi e arroganti. 184

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Anche mio padre, che per carattere non era tenero con gli esseri umani, considerava Lima un avversario intelligente e arguto. Lo rispettava perché - diceva - a differenza della media degli altri politici, "manteneva la parola data". Certo, anche lui aveva un grande difetto, quello di appartenere alla corrente di Giulio Andreotti. Quando mio padre cadde in disgrazia per le sue vicende giudiziarie, Salvo Lima - a differenza di tanti codardi - non gli voltò mai le spalle. Appena seppi cosa era accaduto a Mondello, chiamai mio padre. Aveva una voce funerea, già sapeva tutto e mi liquidò con poche parole: "Salvo non meritava di fare questa fine. Sono dei macellai". Dopo i funerali, ai quali non partecipò per evitare pettegolezzi dei giornali e strumentalizzazioni, andai a trovarlo a Roma. Lo avevo visto qualche tempo prima insolitamente pimpante e pieno di voglia di vivere. Ma dopo la brutale fine di Lima sembrava un'altra persona, tanto che - prima di ogni cosa - mi chiese a che punto fossero i lavori per la costruzione della cappella al cimitero dei Cappuccini. Poi volle sapere se ai funerali di Lima avesse partecipato molta gente e quali uomini politici fossero intervenuti. Ebbi l'impressione che, nella sua mente, quell'elenco lo aiutasse a capire meglio quale direzione prendeva la vicenda. Cominciò a camminare su e giù nel corridoio di casa col viso cupo e pensieroso. Assunse la posizione che prendeva quando meditava: con una mano si toccava la barba, mentre teneva l'altra dietro la schiena. Si fermò e disse: "Lo hanno ammazzato nel peggiore dei modi, lasciandogli tutto il tempo di comprendere che stava per morire. Spero che, quando toccherà a me, mandino persone più efficienti e veloci". Poi, sempre camminando per il corridoio, continuò: "Una volta Salvo mi chiese, con fare ironico, aspirando il fumo di una sigaretta dall'immancabile bocchino, cosa pensassi dei mafiosi. Io gli risposi subito, senza neanche riflettere, perché la risposta a questa domanda me l'ero già data 185

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da tempo. Gli dissi che secondo me i mafiosi erano delle teste di cazzo, ma avevano -purtroppo l'abitudine di sparare. Salvo rise di cuore e cambiammo argomento". Ebbi la sensazione che, per la prima volta nella sua vita, aveva veramente paura di essere ucciso, di fare la stessa fine del suo amico Salvo Lima.

Ecco il signor Lo Verde "È impazzito," dice don Vito ai figli, commentando quella che con estrema certezza considera una iniziativa di Totò Riina. Solo lui, infatti, avrebbe potuto decretare la fine eclatante di Salvo Lima. Era avvenuto così in passato, quando la mafia aveva aperto la sua "campagna politica" con una serie di delitti eccellenti: prima Michele Reina, poi Piersanti Mattarella e, quindi, il comunista Pio La Torre, il rappresentante dell'opposizione che più di tutti si era esposto nella battaglia contro Cosa nostra. Rimugina, don Vito, ben conoscendo i metodi della "linea corleonese" di Totò Riina, che gli avevano procurato il soprannome di "Belva". Che fare? Non è difficile la scelta, quasi obbligata. La racconta il figlio piccolo. MASSIMO: Il

giorno dopo l'assassinio di Lima, ubbidii alle disposizioni di mio padre e partii alla volta di Palermo. Ricordo ancora la folla di cronisti, fotografi e operatori che "scendevano" inviati dalle rispettive testate. C'erano anche parecchi politici, traumatizzati eppure coscienti e decisi a ostentare una sicurezza che pure gli orbi percepivano come vacillante. Palermo sembrava impazzita: una città sotto assedio militare, un po' perché lo Stato solo questo tipo di risposta, più coreografica che di sostanza, era abituato a contrapporre alla mafia, un po' per necessità, vista la 186

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presenza numerosa di personalità a Palermo per quell'eccezionale avvenimento. Andai a casa, in via Sciuti, da mia madre e dai miei fratelli. C'era anche il cugino Pino Lisotta, che abitava proprio al piano inferiore. Sappiamo già quanto vulnerabile fosse, per via del carattere timo­ roso. Immaginate la sua faccia di fronte a quell'evento enorme e terrificante. Mi chiamò in disparte per mettermi al corrente dei timori, suoi e dei tanti amici di Salvo Lima, paralizzati per quanto poteva loro accadere. Mi disse che era stato contattato, con molta circospezione e cautela, dal dottor Nando Liggio - uno dei testimoni oculari sopravvissuti all'agguato di via Danae - e dall'onorevole Sebastiano Purpura, notoriamente considerato il braccio destro di Salvo Lima e, dunque, partecipe di ogni retroscena che lo riguardava. Entrambi avevano motivo di temere per la propria incolumità e per questo erano in cerca di sicurezza e di consigli su quale atteggiamento assumere. I colpi di pistola di Mondello avevano già ottenuto lo scopo prefisso: intimidire l'intera classe politica. "Quei due - mi riferì Pino, pre­ occupatissimo - sono terrorizzati, non sanno cosa fare e non escono più di casa per nessun motivo. Vor­ rebbero poter incontrare tuo padre per avere consigli e informazioni sull'origine di una tale disgraziata vi­ cenda. Non capiscono da dove possa essere arrivata la bomba, se si tratta di cose maturate nell'ambiente degli amici comuni o se la mano è partita da altri contesti". "Quelli - concluse - sarebbero disponibili a gettarsi su un aereo e venire a Roma per parlare con tuo padre." Tornato nella casa di piazza di Spagna, trovai Baffo più calmo, ma per nulla rasserenato. Gli riferii, per filo e per segno, il discorso avuto con Pino, ma lui non volle sentire ragioni: "Non c'è motivo, in questo particolare momento, che qualcuno non della famiglia venga a trovarmi a Roma. Se vuole, al massimo può venire Lisotta". 187

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Pur essendo, lui, libero di muoversi come voleva (era in libertà provvisoria in attesa della sentenza de­ finitiva per mafia), rimarremo immobili per quasi una settimana: il tempo necessario perché valutasse a freddo, senza l'ansia dell'emozione incontrollata, quale fosse la cosa migliore da fare. Alla fine, quando si erano un po' placati il clamore e l'attenzione dei media, decise di andare a Palermo, con la motivazione ­ platealmente pretestuosa - di dover incontrare i propri avvocati. Ma il motivo vero era un altro: andava a Palermo a chiedere consiglio al suo amico e protettore, il signor Lo Verde/Provenzano. L'incontro avvenne tranquillamente, fatte salve le solite, collaudate cautele per prendere l'appuntamento. Binnu e mio padre si videro, dopo qualche giorno, in uno dei posti che in passato aveva ospitato il mafioso latitante dal 1963: via Cannolicchio, a Mezzomonreale, proprio all'ombra del duomo normanno. Non so cosa si dissero esattamente in quell'occa­ sione. So, però, cosa mi racconterà mio padre alcuni anni dopo, una volta convinto a riversare la sua storia in un libro. In quel frangente venne a conoscenza di ciò che stava maturando dentro Cosa nostra, dei progetti pazzeschi di Riina, della nuova linea dura che si accingeva a perseguire dopo l'esordio dell'omi­ cidio Lima. Il discorso di Provenzano servì a rivelare, se non nei particolari, certo per grandi linee, il progetto folle di Riina, sicuramente alimentato e suggerito - come lo stesso don Binnu non nascose -da ' qualcuno che gli sta montando la testa". Parlò proprio di "follia", il signor Lo Verde, che non poteva o non voleva in nessun modo opporsi a quella strategia sanguinaria. Ma una precauzione la prese: rispedì a Corleone la moglie e i due figli, met­ tendoli al riparo dalle conseguenze giudiziarie di quanto stava per accadere. E non era, quello, l'unico motivo di tale scelta. Rimanendo solo, senza obblighi di assistenza ai familiari, Provenzano conquistava 188

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spazi di libertà di movimento. Da allora, infatti, co­ minciò a muoversi con più autonomia, fino a farsi vedere più d'una volta a Roma, specialmente quando la "follia" di Riina prese a concretizzarsi nelle stragi. In seguito ho capito che i loro incontri servivano soprattutto a monitorare e decrittare l'evoluzione di quei momenti critici. Veniva a casa oppure in via Vittoria, una traversa di via del Babbuino a due passi da piazza di Spagna, in un appartamento messo a disposizione di mio padre dall'amico imprenditore Romano Tronci. Mio padre aveva addirittura dato le chiavi di quell'appartamento a Lo Verde. E anche al signor Franco/Carlo, che dopo l'omicidio Lima aveva instaurato di nuovo un contatto abbastanza frequente. Si confrontavano spesso, per cercare di valutare la piega che via via prendevano gli avvenimenti. A Franco, come a Lo Verde, mio padre esponeva i propri dubbi sulla "genuinità" di quanto accadeva. Non si dava pace, non capiva perché all'improvviso Cosa nostra avesse deciso di tradire la propria natura, che era di non belligeranza con le istituzioni, per avventurarsi sulla strada del terrorismo politico sempre evitato in passato. Non si spiegava il motivo di scelte, in fin dei conti, autolesionistiche. Più d'una volta chiese a Provenzano secondo quale calcolo irrazionale si era deciso di uccidere Lima. Di una cosa era certo: che la morte di Salvo Lima non rientrava negli interessi di Cosa nostra e, dunque, la mafia stava facendo favori a realtà esterne. Quali? Non credo abbia ricevuto certezze dal suo interlocutore, al massimo riferimenti evasivi sulle solite ombre che a Riina "gli stanno riempiendo la testa di fesserie".

È terrorismo I giorni trascorsero veloci, senza che don Vito ve­ nisse a capo di quanto si muoveva. Percepiva soltanto 189

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che il peggio doveva ancora arrivare e nessuno poteva considerarsi al sicuro. Il 23 maggio del 1992 arrivò come un terremoto: cinquecento chili di tritolo per uccidere Giovanni Falcone. Insieme al giudice nemico giurato di Cosa nostra trovano la morte Francesca Morvillo, la moglie anche lei giudice, e tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Nell'immaginario collettivo Capaci resterà per sempre il nostro 11 settembre. Ancora oggi, a diciotto anni di distanza, le immagini dell'autostrada di Punta Raisi sventrata e di quelle auto sbalzate a centinaia di metri provocano un'emozione in­ controllabile. Ancora oggi ci interroghiamo sull'entità del danno provocato dall'assenza di un uomo, di un giudice come Giovanni Falcone. Per don Vito quella è la certezza che qualcosa di oscuro sta avvenendo dentro Cosa nostra e nel paese, che si sta delineando uno scontro violento tra poteri (politico-economici) dietro il paravento della lotta alla mafia. L'interpretazione che Ciancimino dà della strage di Capaci, vista come ulteriore tappa di una strategia avviata con l'assassinio di Salvo Lima, viene affidata al diario. Secondo lui, il potere di Giovanni Falcone sarebbe diventato inarrestabile se il giudice fosse arrivato al vertice della Procura nazionale anti­ mafia, il nuovo strumento legislativo già approvato dal ministro guardasigilli Martelli e in fase avanzata di attuazione. Falcone, scrive don Vito, "si muoveva come se fosse stato incaricato di formare un nuovo governo della Repubblica... E secondo noi voleva formare il vero governo della Repubblica, cioè il vero potere della Repubblica, cioè il comando della Repubblica attraverso la Superprocura". Per questo, prosegue Ciancimino, "ha preoccupato tutti i magistrati d'Italia, compresi quelli del suo pool... ma soprattutto ha preoccupato quella parte del potere politico che diffidava di lui e dei suoi padrini (Andreotti e Martelli certi, e gli altri? Non lo so). Forse questa la chiave di 190

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lettura per l'assassinio del dottor Falcone. A questo punto mi sovviene la frase che pronunciò il magistrato, dottor Vito D'Ambrosio, quando Falcone subì l'attentato alla sua villa [la bomba all'Addaura]: `Se non è stata la mafia, sono stati i servizi. Non c'è alternativa'. Ma al 'servizio' di chi?". Gli stessi dubbi, identica oscura ricostruzione sono alla base di frequenti confronti coi suoi "consiglieri", il signor Franco e il signor Lo Verde. Due personaggi che, nel corso di quella stagione non del tutto decifrabile, recitano il ruolo ambiguo di fonti che, però, raramente dispongono di risposte certe. Fonti attente a non scoprirsi eccessivamente. E così don Vito, sempre più preoccupato, fa di tutto per suggerire una visione un po' più complessa della strage, attribuita esclusivamente alla responsabilità di Cosa nostra. MASSIMO: "Questo è terrorismo, non è mafia." Così andava ripetendo mio padre, sempre più convinto del­ l'esistenza di qualcuno o qualcosa che faceva muovere i corleonesi nella direzione del bagno di sangue. Aveva anche accettato di parlarne sui giornali, ben sapendo che quelle ipotesi sarebbero state accolte come tentativi di sviare l'attenzione da Cosa nostra da parte di un mafioso che proteggeva la propria congrega. Diceva chiaramente di intuire, dietro quei delitti, una regia diversa da quella mafiosa, pur riconoscendone il ruolo di base logistica per l'esecuzione. Non si spiegava né la scelta del momento in cui era stato ucciso Falcone né la necessità di un attentato compiuto in quella maniera inutilmente spettacolare. Sosteneva che non era nelle corde mafiose un tale di­ spendio di forze per ottenere un risultato facilmente raggiungibile nel più tradizionale dei modi. "Falcone ­ sottolineava mio padre - spesso girava per Roma e spesso anche senza scorta. Io l'ho incontrato più volte al ristorante La Carbonara, a Campo dei Fiori, e loro lo

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sapevano. Perché allora questa sceneggiata?" Secondo lui - come ripeteva in continuazione dopo l'omicidio di Salvo Lima e, ancor più, dopo la strage di Capaci - "altre entità stanno armando la mano dei mafiosi". Quante volte gli ho sentito dire: "Questa non è farina del loro sacco . Ricordo anche un ultimo incontro, quasi uno scherzo del destino, fra mio padre e Giovanni Falcone. Il magistrato aveva con me un buon rapporto e sapeva che in passato - quando indagava e cercava i suoi beni ­ avevo più volte tentato di spingere mio padre alla collaborazione. Impresa difficile, perché non tutti noi figli eravamo convinti che quella fosse la strada migliore. Lui stesso era sempre molto riluttante ed è comprensibile se pensiamo che, fino alla fine, è stato in stretto contatto con Provenzano, certamente contrario a ogni ipotesi di pentimento, e con il signor Franco/Carlo, anche lui un freno a qualunque spinta collaborativa. L'incontro fu casuale e avvenne a metà maggio del 1992 su un volo Alitalia, Palermo-Roma, l'ultimo preso da Falcone, visto che il viaggio di ritorno, il sabato della strage del 23 maggio, l'avrebbe compiuto su un aereo della presidenza del Consiglio. Un po' meno confidenziale pensavo fosse il suo rapporto con Falcone. Invece quella volta ci fu uno scambio di battute significative, anche se pronunciate bonariamente e col sorriso sulle labbra. "Buongiorno, signor Ciancimino." "Buongiorno, dottore. Come sta? Vedo che non si fa mancare la buona cucina romana, forse sta esagerando con gli spaghetti alla carbonara... Come procede la convivenza con Andreotti?" "Io ho scelto il male minore... a Palermo era diventato difficile lavorare..." Chissà, se avessero avuto modo di parlare più spesso, forse la vita di mio padre sarebbe cambiata. E forse anche la mia. 192

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8.

La Trattativa, parte prima

Il tritolo di Capaci fa tremare l'intero paese e provoca un'ondata di sdegno e di opposizione alla mafia senza precedenti. La Sicilia scende in piazza, il gradimento verso i politici è al minimo storico. I funerali, con le terribili invettive della vedova dell'agente capo-scorta Vito Schifani, commuovono il mondo. Si snodano i racconti sulle vicissitudini del pool antimafia di Palermo, sulla solitudine di Falcone osteggiato, oltre che dalla politica, persino da colleghi e superiori: il suo diario è un atto d'accusa contro il procuratore Pietro Giammanco, una delle cause che avevano indotto il magistrato a lasciare Palermo. Sarà rimosso in pochi giorni, anche in seguito alla dura presa di posizione della quasi totalità dei pubblici ministeri palermitani. Nello stesso tempo cominciano a profilarsi tutti i presupposti che puntualmente hanno inquinato le inchieste sulle più ingarbugliate vicende siciliane. C'è sempre un depistaggio, un pezzo mancante, una prova scomparsa. Per esempio il computer di Falcone: manomesso e ridotto a una memoria parziale. In questo clima prendono il via le indagini sulla strage di Capaci. Non è quello adatto per una risposta ferma alla mafia. Lo Stato sembra annaspare, anche se con uno scatto di dignità il Parlamento riesce a superare 193

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le precedenti paralizzanti divisioni e gli interessi di bottega, eleggendo alla Presidenza della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. È comprensibile lo sbandamento generale: gli stessi investigatori confes­ sano di non sapere "dove sbattere la testa". Mai, prima di allora, si erano trovati a dover fronteggiare un attacco così massiccio e virulento della mafia. Di fronte allo sconcerto dell'opinione pubblica e all'inconfessato smarrimento del potere politico, era chiaro che biso­ gnava fare qualcosa, qualunque cosa. Si muovono, perciò, i corpi speciali. Si muovono i carabinieri del Ros, con il colonnello Mario Mori e il suo fidatissimo collaboratore, il capitano Giuseppe De Donno. Decidono di "ricercare fonti, spunti, noti­ zie", tutto ciò che possa "portare proficuamente gli investigatori all'interno della struttura mafiosa". Che, detto più semplicemente, significa trovare una qualche fonte di buon livello per cercare di "interloquire col nemico". Comincia così la storia della cosiddetta "Trattativa", anche se i carabinieri non la considerano tale e rifiutano la tesi che li ha visti, durante il periodo stra­ gista, protagonisti della ricerca di un "accordo" con la mafia per il conseguimento di una tregua. L'intricatissima vicenda, degna delle migliori sce­ neggiature spionistiche, si snoda da anni, esattamente dal 1992, ed è raccontata sostanzialmente in due processi: quello sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, che ha visto imputati e assolti Mario Mori e il capitano Ultimo, prima eroi nazionali per aver catturato il capo di Cosa nostra e, subito dopo, alla sbarra accusati di aver con lui trattato fino a evitargli una perquisizione che, a detta di molti, avrebbe potuto portare alla luce qualcosa di inconfessabile. Forse anche il famigerato "papello", la lista delle richieste di Cosa nostra allo Stato: agevolazioni e benefici per i 194

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detenuti, l'abolizione del carcere duro, garanzie per il recupero dei beni confiscati e, insieme a tutto quello che vedremo, persino la revisione del maxiprocesso di Falcone. Il primo a pronunciare il fatidico nome del "papello" fu il pentito Giovanni Brusca, quando svelò resistenza della "Trattativa" e disse che Totò Riina aveva, appunto, "presentato il papello allo Stato". L'altro palcoscenico è quello del secondo processo al colonnello Mori, divenuto generale, imputato - in­ sieme al colonnello Mauro Obinu - di favoreggia­ mento nei confronti della latitanza di Bernardo Pro­ venzano. Il dibattimento, originato sostanzialmente dalla denuncia di un altro ufficiale dell'Arma, il co­ lonnello Michele Riccio, è ancora in corso a Palermo. I due imputati hanno sempre negato ogni addebito, ma in questa sede ha fatto irruzione il colpo di scena delle rivelazioni di Massimo Ciancimino, mentre la Corte si avviava a giudicare i due ufficiali imputati sulla base delle accuse di Riccio: "Mi è stato impedito, nel 1995, di catturare Bernardo Provenzano, latitante da quarant'anni". Ma perché Mori, che aveva catturato Riina, avrebbe dovuto frapporsi all'arresto del numero 2 di Cosa nostra? In questa domanda è racchiuso il cuore del grande affaire della "Trattativa". La risposta, implicita, è che Provenzano - gran burattinaio di Vito Ciancimino - fu parte integrante del patto con la mafia e, dopo il "provvidenziale" arresto di Riina, che fece tramontare il primato della linea dura, diventò garante e mediatore di una "pax mafiosa" ancora oggi vigente. Questa suggestiva trama romanzesca, inserita nel contesto di un realissimo e scivoloso processo giudi­ ziario, viene oggi raccontata da Massimo Ciancimino, che si serve della memoria del padre, ma anche di pezze d'appoggio ritrovate fra le migliaia di carte che don Vito riempiva ossessivamente con l'intento di allegarle, come prove, al libro-verità in cantiere a partire dagli anni 195

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duemila con la collaborazione del figlio piccolo, con cui - finalmente - aveva intrecciato un rapporto affettivo e più confidenziale. Gran parte di questo racconto, dunque, va collocato temporalmente indietro, a partire dalla strage di Capaci, ma verrà appreso da Massimo solo una decina di anni dopo. MASSIMO: Incontrai il capitano Giuseppe De Donno una mattina, all'aeroporto di Fiumicino, cinque o sei giorni dopo la strage di Capaci. Era una mia vecchia conoscenza perché era stato lui, all'epoca della prima indagine su mio padre, quella di Falcone del 1984, a eseguire le perquisizioni. In quella occasione si creò un certo feeling per i modi gentili da lui usati verso la mia famiglia. Eravamo al check-in e ci salutammo. Mi chiese se andavo a Palermo e se ero sul suo stesso volo. "Magari se sarà possibile ci sediamo accanto," disse alla fine. In effetti viaggiammo seduti vicini, dopo l'intercessione di una hostess che ci trovò i posti. L'argomento principe della discussione fu, naturalmente, la strage di Capaci e il ricordo di Giovanni Falcone. Gli riferii quello che mio padre pensava di tutta quella storia, gli dissi anche le sue obiezioni a quella strategia che non gli sembrava solo mafiosa. Mi ricordò il buon rapporto che avevo instaurato con il giudice, quando mi occupavo di tutte le necessità di mio padre, e del tentativo di convincerlo a collaborare. Prese spunto da questi ricordi per introdurre una proposta: la possibilità di incontrare informalmente mio padre. Sul momento non capii e gli risposi che i carabinieri avevano tutto lo spazio per arrivare a lui: "Basta che gli mandiate il solito cartoncino d'invito a comparire". Ma lui replicò: "Non è questo che vogliamo. Un eventuale incontro dovrebbe avere un'altra veste, non ufficiale ma riservata". Mi sembrava una cosa difficile, anche se De Don-no mi aveva già fatto intendere che l'operazione avrebbe potuto mandarla avanti direttamente il suo 196

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comandante, il colonnello Mori. Gli risposi, "renditi conto della mentalità di un uomo come mio padre. Nella sua forma mentis non c'è la possibilità di rice­ vere carabinieri se non dopo essere stato da loro convocato. Ti dico solo che mi evitò il servizio militare esclusivamente perché avevo manifestato l'intenzione di fare la leva nell'Arma. Perché mai doveva esistere un carabiniere in famiglia? Ma posso sapere almeno il motivo per cui lo volete vedere?" "Per cercare di metter fine - fu la risposta - a questa carneficina che anche tuo padre definisce più terrorismo che mafia. E poi lui, per i suoi trascorsi e per la sua esperienza, è senz'altro un canale privilegiato per tentare un approccio". Lo rividi, a Palermo, nel pomeriggio. Appuntamento al chiosco Ribaudo, vicino al Teatro Massimo e vicino alla caserma Carini, sede del reparto operativo dei carabinieri. Cominciammo a passeggiare e a discutere più in profondità. Mi spiegò che, all'interno dell'Arma e in sintonia con alcune cariche istituzionali, si voleva cercare di intraprendere anche una strada alternativa a quelle ufficiali, per fermare l'escalation criminale mafiosa culminata, fino a quel momento, con Capaci. Lui affrontò il tema della cattura dei grandi latitanti, anche se si trovò d'accordo con me nel considerare insufficiente, per la vittoria finale, la sola carcerazione dei capi ancora liberi. Presi tempo e gli assicurai che avrei parlato con mio padre. Lui mi raccomandò la massima riservatezza e mi diede i suoi recapiti telefonici e anche il numero di casa della madre, dove si apprestava ad andare. Tornai a Roma quasi subito, dopo il fine settimana. Quando mio padre apprese i particolari di quel mio strano incontro, che a pensarci adesso dubito sia stato casuale, non mi sembrò particolarmente sorpreso, né pregiudizialmente contrario. Forse per via del riferimento che De Donno aveva fatto alla sua posizione giudiziaria, per cui mio padre aveva già attivato i suoi tradizionali 197

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canali di amicizie eccellenti. Probabilmente pensava alla possibilità che un contatto istituzionale potesse giovare alla sua causa personale. Mi disse che ci avrebbe pensato e, a breve, mi avrebbe dato una risposta. Credo avesse già in animo di consultarsi, more solito, con i suoi punti di riferimento: Provenzano e il signor Franco. Il primo lo incontrò dopo uno o due giorni. Venne a casa nostra, in piazza di Spagna. Lo stesso accadde con il signor Franco/Carlo. Arrivò la mattina successiva, alle 11.45, come sempre preciso, poche ore prima dell'appuntamento già preso con De Donno. Abito di lino, scarpa sportiva ma elegante, cravatta, nessuna borsa, soliti occhiali. Mio padre mi aveva fatto accendere l'aria condizionata nel salone e mi aveva ordinato di non uscire. Il rito fu rispettato: accolsi il signor Franco sulla porta, lo feci accomodare in salone e gli tenni com­ pagnia, con la vana speranza - tra una chiacchiera e l'altra - di capire qualcosa di questo strano perso­ naggio. Parlammo di mafia e di Tangentopoli che tanta apprensione spargevano a livello istituzionale. Cercavo di strappargli un commento alle reazioni di Andreotti su un presunto coinvolgimento dei servizi russi nella strage di Capaci. Mi rispose con un sorriso, proprio mentre arrivava mio padre. Il colloquio andò avanti, senza di me, per mezz'ora, poi si diedero appuntamento per l'indomani. Non è necessario l'intuito di Sherlock Holmes per dedurre che mio padre aveva ottenuto il via libera, sia da Lo Verde che da Franco, per sentire cosa avevano da proporre i cara­ binieri. L'incontro col capitano era fissato per le 15 e io, mezz'ora prima, scesi da casa per andargli incontro a piazza di Spagna. Credevo che arrivasse con la me­ tropolitana e, invece, lo vidi giungere a bordo di una Fiat bianca con targa civile, sebbene la piazza fosse interdetta al traffico normale. 198

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Prendemmo un espresso al bar, anche per evitargli il supplizio della famigerata tazzina di casa Ciancimino. Nessuno di noi prendeva il caffè e quindi si usava raramente la Moka: il risultato era peggio di un calcio in pancia. Non volevo che Giuseppe facesse la fine di altri ospiti che avevo visto trasformarsi in volto al primo sorso o di quelli che, memori di passate esperienze, declinavano l'invito dichiarando di aver smesso di prendere il caffè per motivi di salute.

Chi non muore... MASSIMO: Il primo appuntamento tra mio padre e i carabinieri avvenne, dunque, alle ore 15 di quel caldo pomeriggio della prima settimana di giugno del 1992. iggio non muore si rivede" fu il saluto d'esordio rivol­ to a De Donno. L'ultima volta si erano incontrati esat­ tamente due anni prima, quando l'ufficiale gli aveva notificato un provvedimento di misura cautelare in­ vitandolo a seguirlo al comando. Il tempo trascorso era poco, ma lo scenario completamente diverso: il capitano nervoso, anche se ostentava sicurezza, e mio padre sicuro di sé come a voler rimarcare che a suo tempo aveva visto giusto, predicendo all'ufficiale che con quelle indagini sugli appalti "non sarebbero andati da nessuna parte". Si divertiva a pungolare i suoi interlocutori, mio padre. Così al "Come sta? La trovo bene" di De Don-no ribatté acido: "Fosse per voi starei male". Mi allontanai e li lasciai soli per un paio d'ore. Alla fine accompagnai il capitano per un tratto di strada, anche per informarmi sull'esito dell'incontro. "È andata - mi disse - meglio del previsto. Si è preso due giorni per riflettere. La pensa come noi: bisogna cercare una soluzione per evitare altro sangue." I due giorni diventarono tre, il tempo di rivedere sia Lo Verde che il signor Franco. L'incontro col primo era 199

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già stato programmato per discutere cosa fare per alcuni appalti di opere pubbliche, tra cui la costruzione di una sopraelevata a Palermo e la rete di distribuzione del gas metano a Caltanissetta. Avvenne nell'appartamento di via Vittoria, dove mio padre era solito ricevere anche gli "ambasciatori" di Provenzano e di Pino Lipari, tecnici che avevano la "delega" per il settore dei Lavori pubblici. Al numero 5, al secondo piano, una specie di foresteria dai soffitti scuri, casso-nati in legno e dalla mobilia in tono. Una casa piccola, tutto sommato: ingresso, salone, camera da letto e bagno nel soppalco. Seppi l'ora dell'appuntamento solo qualche minuto prima. Questa era una precauzione sempre usata da mio padre: mi disse di far rinfrescare la casa e di aspettare Lo Verde nel caso non si fosse portato le chiavi. Invece le chiavi le aveva: arrivò a piedi, da solo, dalla parte di via del Corso e, dopo il rituale buffetto affettuoso, mi invitò ad avvisare mio padre. A casa lo trovai intento alla vestizione, attività che mi coinvolgeva pesantemente. "Prendimi i pantaloni chiari appesi all'armadio... Fai attenzione a non far cadere nulla dalle tasche..." Volle il portapillole in oro con una pietra turchese incastonata sul coperchio, regalo del vecchio amico Bernardo Mattarella, che portava sempre con sé. Gli porsi anche il fermasoldi d oro regalatogli dalla mamma e opportunamente passato per le mani miracolose dello zio Mimì, angelo sterminatore di ogni malocchio. Mi ordinò di "prendere la divisa", con questo indi­ cando l'abito scuro, su cui era solito alternare camicie di lino bianche o azzurre, e la borsa di cuoio con i suoi numerosi occhiali e un paio di matite e notes per appunti. Era sempre teso quando doveva incontrare Lo Verde: cambiava continuamente percorso, anche allungando per confondere eventuali pedinatori. Davanti al portone era compito mio aprire e consegnargli le chiavi. Quella volta mi disse: "Aspettami a casa, perché a 200

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seconda delle risposte che avrò, dovrai chiamare il tuo amico capitano". Rientrò dopo circa tre ore, senza dire verbo. Mi chiese solo di essere aiutato a spogliarsi e volle riposare perché si sentiva stanco. Dopo un po' mi chiamò mentre teneva fra le mani uno o due foglietti di carta e mi disse di convocare De Donno per il pomeriggio dell'indomani. Ubbidii seguendo le istruzioni precise datemi da lui, ma anche dal capitano: telefonai da una cabina non vicina alla nostra abitazione. L'appuntamento fu fissato per le 14.30, orario che consentiva di accedere senza essere visti, dato che la portineria stava chiusa dalle 13 alle 15.30. Aspettai De Donno sotto casa, come al solito lo feci entrare in salotto dove avevo chiuso le finestre, accesa l'aria condizionata e selezionata una musica di sottofondo capace di disturbare eventuali intercettazioni. Era l'ossessione di mio padre, quella delle cimici, dei mi­ crofoni nascosti e degli spioni che ascoltano. A ben pensarci, sarà stato merito dei buoni consigli del signor Franco, bisogna riconoscere che gli unici a non essere mai stati intercettati sono mio padre e Bernardo Provenzano. Questa volta il capitano si intrattenne per circa un'ora e mezza. Non so cosa si siano detti esattamente, so però - che dopo quell'incontro fu necessaria una trasferta immediata. Mio padre mi comunicò che bisognava andare a Palermo, ma mi raccomandò di non preannunciare quel viaggio, nemmeno ai familiari. Anzi, decise che avremmo alloggiato in albergo e precisamente all'Astoria Palace di via Monte Pellegrino, anche per l'ottima climatizzazione di cui disponeva. Qui arrivammo l'indomani, dopo un non facile viaggio funestato dall'eccessivo caldo e dalla paralisi del traffico sull'autostrada danneggiata dalla bomba di Capaci. In albergo arrivò anche mio fratello Roberto che portò una busta lasciata a mio nome nella portineria di -

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via Sciuti. Era una lettera del signor Lo Verde che fissava il giorno del prossimo appuntamento con mio padre. Nello stesso tempo, con Roberto - che è avvocato - mio padre discusse dei guai giudiziari legati alle misure di prevenzione. L'argomento si concentrò sui contatti con il commercialista Pietro Di Miceli, il misterioso personaggio che abbiamo già incontrato nella veste di "risolutore", attraverso le amicizie con il Palazzo di giustizia, di diversi problemi relativi al sequestro dei beni di mio padre. Io stesso lo avevo visto più volte a Roma e avevo anche cucinato per lui. Mio padre lo teneva in grande considerazione e, quando ebbe bisogno di un appartamento nella capitale, glielo trovò in una traversa di via Veneto, nell'edificio dove Salvo Lima aveva la residenza romana. Ma tante attenzioni non mi stupivano, perché era enorme lo spiegamento di forze messo in campo da mio padre per evitare la confisca dei beni: uomini di Cosa nostra, dei servizi segreti e fiumi di tangenti elargite ai magistrati. Questo chiodo fisso, d'altra parte, era stato anche la motivazione principale del­ l'accettazione avventurosa del contatto con i carabinieri. Oltre, forse, alla segreta aspirazione a rimettersi in gioco politicamente. Come nella richiesta del "pizzino", l'incontro con Lo Verde avvenne mercoledì 17 giugno 1992, in piazza Unità d'Italia in un ufficio di Mario Niceta, comune conoscente di Provenzano e di mio padre. Si trattava dei locali di una finanziaria, all'ammezzato dello stesso palazzo in cui abitava, al sesto piano, mio fratello Giovanni. Lo Verde aveva proposto due date: il 16 o il 17 giu­ gno. Si preferì la seconda che cadeva di mercoledì, giorno di mercatino rionale in piazza Unità d'Italia. La folla avrebbe giocato in favore dell'anonimato di Lo Verde e soprattutto di mio padre, che era quello più riconoscibile, visto che l'altro era da tempo, a Pa­ 202

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lermo, un fantasma. Queste precauzioni, comunque, erano abituali: appuntamenti negli orari di chiusura delle portinerie o degli uffici, negli studi medici o in ville isolate facilmente controllabili. All'ora convenuta lasciammo l'appartamento di mio fratello, in vacanza, e scendemmo negli uffici della "Parabancaria" dove già attendeva Lo Verde/ Provenzano. Dopo i saluti tornai su e aspettai circa tre ore. Seppi poi che tra gli argomenti in ballo, e cioè i carabinieri, Riina e le proposte di mediazione, par­ larono anche della possibilità che io andassi a lavorare proprio in quegli uffici. Eventualità fortunatamente scongiurata.

Cinà, l'intermediario È questo il momento in cui prende forma quella che sarà la "Trattativa". Il primo "pizzino" era servito a comunicare a don Vito, oltre alla data dell'incontro, una generica apertura: "Se lei pensa che parlare con questa gente ci porti qualcosa di buono a Lei non manca...". Una volta faccia a faccia, Ciancimino e Lo Verde si dicono davvero tutto quello che c'era da dire. E don Vito - saprà Massimo negli anni duemila ­ espone chiaramente la sua idea, e cioè che l'unico modo di far finire quella mattanza sarebbe stata la fine della latitanza di Riina. Ma Provenzano non la vede allo stesso modo oppure preferisce, fedele al suo inguaribile ottimismo della ragione, credere che esistano soluzioni meno drastiche. Forse considera Riina più ragionevole di quanto non sia e non tanto sprovveduto da lasciar cadere la mano tesa dei carabinieri. "In sostanza," spiega Massimo, riportando i discorsi del padre, "Provenzano ingenuamente riteneva che il Riina potesse considerare già un successo per la sua nuova strategia, la volontà delle istituzioni di aprire un tavolo per una trattativa." 203

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MASSIMO: Passò la linea di Provenzano che pratica­ mente gli chiese di avviare un contatto con Riina. Ma mio padre rifiutò categoricamente l'ipotesi di mediare direttamente con lui. Lo Verde aveva sempre una soluzione per tutto e allora propose come tramite tra Riina e mio padre una vecchia conoscenza: il medico Antonino Cinà, l'uomo scelto da Luciano Liggio quando, attraverso i buoni uffici di Ciancimino, tentò la carta della revisione del processo che gli aveva comminato una condanna all ergastolo. Provenzano organizzò pure il meccanismo per entrare in contatto con il dottore. Tramite la moglie di Pino Lipari, avrei appreso dove e quando vedere Cinà e fissare un appuntamento con mio padre. Il giorno dopo mi fu detto di andarlo a trovare, alle 15.30, nell'ambulatorio di San Lorenzo. Dissi all'infermiera di informare il dottore che era arrivato Massimo. Fui ricevuto subito, malgrado vi fosse molta gente in attesa. Stabilimmo che sarebbe venuto a incontrare mio padre, dopo le 20, in piazza Unità d'Italia, a casa di mio fratello ancora in vacanza. Cinà arrivò puntuale, alle 20.15, parlarono per circa mezz'ora e stabilirono di rivedersi l'indomani all'ora di pranzo. Il giorno dopo Cinà comunicò l'assenso di Riina ad andare avanti coi carabinieri, cercando, però, di carpirne le reali intenzioni e di sincerarsi se per caso non stessero preparando trappole o giocando su tanti tavoli. Il dottore ricevette le assicurazioni necessarie e la certezza che il passo successivo sarebbe stato quello di parlare anche con il colonnello Mori, per ascoltare come intendevano impostare il dialogo e cosa avrebbero potuto offrire in cambio. Rientrammo a Roma e, con le consuete cautele (mai la stessa cabina telefonica e sempre lontana da casa), mi misi in contatto con De Donno invitandolo a un incontro alla presenza del suo comandante.

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Timeo Danaos... MASSIMO: Arrivarono in piazza di Spagna in un po­ meriggio di un giorno successivo al 20 giugno 1992. Ne sono certo perché non era trascorsa più di una settimana dall'incontro del 18 con il dottor Cinà. Li aspettavo per strada e li vidi giungere a piedi. Il co­ lonnello indossava una polo rossa infilata dentro pantaloni leggeri. Li accompagnai in casa e li feci ac­ comodare nel salone già opportunamente preparato: aria condizionata, musica e acqua fresca. Poi andai ad avvisare mio padre. "Ma com'è vestito il colonnello?" mi chiese. ' Ha la giacca o no?" Quando seppe che indossava una normalissima polo, scelse l'abbi­ gliamento conseguente: camicia di lino a maniche corte, occhiali senza la toppa come prescriveva la presenza di un ospite non confidenziale, borsa, matita e notes. "Buongiorno colonnello." "È un piacere, grazie per averci ricevuto." "Vorrei poter condividere questo piacere, ma forse è un po' prematuro: Timeo Danaos et dona ferentes. Anche se le sembrerà strano, lei non è il primo cara­ biniere che frequenta casa mia. Le dirò di più: persino con un generale sono stato in confidenza e, col mio consenso, poteva vantarsi di essere mio grande amico." Tanta aggressività nascondeva l'intento di intimi­ dire i suoi interlocutori per poi porre la domanda cruciale: "Parliamoci chiaro, colonnello. Primo, no­ nostante le buone intenzioni del nostro amico capitano, vorrei sapere chi vi manda, fino a che punto siete accreditati perché, come ben potrà immaginare, non è la prima inziativa di questo genere che conduco, ma potrebbe essere l'ultima, vista la delicatezza degli argomenti sul tavolo. Non mi venga a proporre cazzate sulla vostra reale capacità di influenza sulla Procura di Palermo, perché al momento non vi vedo fortissimi, a

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giudicare dai risultati ottenuti dal vostro rapporto sugli appalti". Mori e De Donno allora giocano la carta, debole, del coinvolgimento nell'operazione di un alto ufficiale del Ros.

Rognoni e Mancino Il colloquio sarà ricostruito negli anni successivi. Nel ricordo di Massimo è rimasta una schermaglia che lascia trasparire tutta la "buona volontà" e poco altro dei carabinieri e il tentativo di Ciancimino di appurare se l'iniziativa dei militari fosse autonoma o godesse di reali coperture politiche. Don Vito mette in guardia gli interlocutori circa la buona fede di "quelli dell'altra sponda" e sulla possibilità di successo delle offerte possibili. Confessa al colonnello di non credere molto in quello che sta facendo e lascia intendere che lo fa perché quella strada gli è stata "suggerita come la sola in grado di poter ottenere risposte rapide e possibili risultati". Ovviamente, non cita il suggeritore ma si capisce che è Provenzano. E chi altri sennò? Su Riina non fa affidamento: "Quello al posto della testa ha una rivoltella". Ma ciò che più gli preme è la copertura politica: "Perché, caro colonnello, 'un ci pigghiamu pi' fissa, questo tipo di operazioni o hanno l'avallo in alto o non avete dove andare. Non pretendo risposte, quelle me le trovo da solo". In effetti, così avviene. Dopo aver congedato gli ufficiali con l'impegno di risentirsi presto, la stessa sera riceve la visita del signor Franco.

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MASSIMO: Non ho mai saputo il contenuto dei loro discorsi. Posso solo immaginare che mio padre ne sia uscito in qualche modo rassicurato. Probabilmente aveva ottenuto le risposte che cercava. Molti anni dopo, mentre raccoglievamo i ricordi per il libro, mi confermò di aver ricevuto assicurazioni sull'esistenza di una copertura all'iniziativa dei carabinieri. Fu proprio il signor Franco a dirgli che "ne sono al corrente gli onorevoli Rognoni e Mancino". [I due politici hanno categoricamente smentito la circostanza.] Appena il signor Franco se ne andò, mi disse di prepararmi a partire l'indomani per Palermo e che mi avrebbe dato una busta da far avere ai familiari di Pino Lipari. La missione contemplava anche un messaggio e un incontro con il dottor Cinà nella sua abitazione di Mondello. Fu da quel momento che gli fu appioppato il nomignolo di Iolanda, dal nome della strada dove abitava: via Principessa Iolanda.

Operazione "papello" Siamo al cuore della "Trattativa". La lettera inviata da Ciancimino a Cinà è soltanto il preludio, l'invito a Cosa nostra a entrare nel dettaglio degli accordi che gli uomini d'onore ritenevano indispensabili per far cessare le stragi. E forse la fase più delicata dell'intera vicenda: dal tenore della risposta sarebbe dipesa la prosecuzione, o meno, del contatto. Dall'entità delle richieste dipende la possibilità che reggano le offerte dei carabinieri, fino a quel momento abbastanza vaghe perché incentrate - oltre che sulla promessa di un aiuto a Ciancimino "per le sue cose" - sulla "resa incondizionata" dei grossi latitanti, quindi anche Riina e Provenzano, in cambio di un "trattamento umanitario" nei confronti dei familiari. Condizione affiancata da un ben più appetibile riferimento ad "applicazione di leggi più favorevoli nel campo dei processi sul sequestro 207

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dei beni". Proprio questo spiraglio avrebbe aperto il varco alla lista contenuta nel cosiddetto "papello". MASSIMO: Tutto si svolse nell'ultima settimana di giugno del 1992. A Palermo incontrai due volte il medico Cinà e, proprio durante il secondo appuntamento, mi riconvocò per l'indomani alle 13 anticipandomi che mi avrebbe dovuto consegnare una lettera da far avere subito a mio padre. La notizia non mi riempì di gioia, perché andava a sconvolgere i piani già prestabiliti per il mio fine set­ timana, che doveva svolgersi a Panarea, come ogni anno, in occasione della festa di San Pietro e Paolo, il 29 giugno. Nell'isola la ricorrenza è celebrata con grande dispendio di fuochi artificiali ed è proprio uno spettacolo da vedere in barca con gli amici. Appuntamento all'ora dell'aperitivo davanti al bar Caflish di Mondello. Cinà non poté neppure parcheggiare a causa del gran traffico e mi diede al volo la busta chiusa destinata a mio padre. Mi raccomandò di fare presto e di salutarlo affettuosamente. Il giorno dopo consegnai a mio padre la lettera, che ora sappiamo conteneva il "papello". Mi disse di poggiarla sul letto, tra le altre numerosissime carte che lo facevano somigliare a una scrivania ministeriale. Lo lasciai ai suoi riti e me ne andai al mare - dopo aver allertato, come da precise disposizioni, sia De Donno che il signor Franco. Mi recai a Fregene, col rimpianto nel cuore per l'altro mare che non avevo potuto raggiungere, quello di Panarea. È stato l'oscuro oggetto del desiderio di tutti gli appassionati delle spy stories all'italiana, il famigerato 'papello". Un termine addirittura entrato nel lessico quotidiano, un po' come per i "pizzini", anche grazie all'enorme clamore mediatico suscitato. Per anni ci siamo chiesti - ma anche investigatori e magistrati hanno lavorato sodo - se davvero esistesse un "pezzo di 208

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carta" che, in qualche modo, dimostrasse il "legame indecente" tra Stato e mafia. Lo stesso Massimo Ciancimino è stato attaccato e definito "fanfarone" ogni volta che riferiva di essere in possesso di quel "pezzo di carta". Sembrava quasi una millanteria, finalizzata a lanciare in giro messaggi oscuri e intimi­ datori. Attacchi che si concludevano puntualmente con la sfida a esibire le prove. D'altra parte i due processi al colonnello Mario Mori non avevano per nulla diradato l'alone di mistero sul "papello", a suo tempo introdotto dal pentito Giovanni Brusca che ne aveva evocato l'esistenza con quel termine azzeccato, anche se familiare soltanto ai siciliani. Il papello, infatti, era una pergamena contenente filastrocche oscene scritte in latino maccheronico, che veniva conferita alle giovani ma­ tricole degli atenei siciliani in cambio del pagamento di una "tassa" che finiva nelle tasche degli "anziani" organizzatori della festa degli esordienti nelle varie facoltà. Nel caso nostro, la "tassa" l'avrebbe dovuta pagare lo Stato alla mafia, in cambio della convivenza civile senza stragi. La sua esistenza, d'altra parte, viene ancora oggi negata dai carabinieri coinvolti in quella vicenda del '92. Nel senso che continuano a sostenere di non aver mai ricevuto, tramite Ciancimino, alcuna proposta scritta. Questo dichiarò il colonnello Mori quando Brusca ne rivelò l'esistenza, questo continua a sostenere al processo che lo riguarda. Anzi, neppure la "Trattativa' , secondo il Ros, è mai esistita, visto che il contatto avviato si sarebbe limitato al tentativo di "trovare fonti, notizie, spunti investigativi" per catturare i vertici di Cosa nostra e interrompere la catena di sangue. Tanto che, a sentire gli ufficiali del Ros, furono proprio loro i primi a stupirsi per la disponibilità di Ciancimino a fare da tramite addirittura con l'interno di Cosa nostra. Massimo ebbe fra le mani il "papello" custodito in una busta chiusa, ma non ne lesse il contenuto. Questo 209

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poté farlo esattamente dieci anni dopo, mentre lavorava col padre all'idea del "libro della verità". MASSIMO: Si trattava di ricostruire nei particolari gli avvenimenti del '92 e allora gli chiesi cosa contenesse quel foglio. Mi guardò e fece un sorrisetto dei suoi, dicendo: "Prendi il m volume dell'Enciclopedia della Storia della Sicilia che sta nel salone". Erano i soliti libri d'arredamento, in bella mostra. Gli portai il libro in camera da letto, lui lo aprì e andò a colpo sicuro fra due pagine, a circa metà del volume. Ne estrasse un foglio e me lo mostrò: dodici righe numerate, dodici punti: lo riconobbi subito, lo stesso che avevo intravisto, ecco il famigerato "papello". "Ma scusami," ?li chiesi, "da quanto tempo questa roba si trova qui?' E lui: "Dal giorno del mio arresto, dal dicembre del 1992". Eravamo nel 2002, impegnati a disseppellire i suoi segreti, i "pizzini" con Provenzano del '92, ma anche quelli degli anni duemila con il seguito della "Trattativa" di cui lui non era stato più protagonista, perché portata avanti da nuovi soggetti politici. I punti del "papello" erano scritti a stampatello, non so se la grafia fosse quella di Riina. So per certo, però, che quel documento veniva da lui:

1) Revisione sentenza maxiprocesso 2) Annullamento decreto legge 41 Bis 3) Revisione legge Rognoni-La Torre 4) Riforma legge pentiti 5) Riconoscimento benefici dissociati Brigate Rosse per condannati di mafia 6) Arresti domiciliari dopo 70 anni di età 7) Chiusura supercarceri 8) Carcerazione vicino le case dei familiari 9) Niente censura posta familiari 10) Misure prevenzione sequestro non familiari 11) Arresto solo fragranza [sic] reato

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Levare tasse carburanti come Aosta

A questo foglio era attaccato un post-it di colore giallo manoscritto da mio padre: "Consegnato, SPON­ TANEAMENTE, al Colonnello dei Carabinieri MARIO MORI dei R.O.S.".

Mi spiegò come alcune di queste richieste erano quasi doppioni, altre erano improponibili e forse poche magari con qualche "ritocco" - avrebbero potuto trovare accoglienza. Gli chiesi se il riferimento alla defiscalizzazione dei carburanti, sul modello della Valle d'Aosta, fosse stato un suo suggerimento, conse­ guenza di un soggiorno in quella regione che aveva provocato nella sua mente qualche recriminazione. "Questi qui hanno ottenuto," commentava, "la con­ cessione del casinò e la detassazione della benzina. A noi, che siamo pure a statuto speciale, hanno chiuso, invece, il casinò di Taormina e negato la defiscalizza­ zione." Mi è rimasto il dubbio che l'argomento potesse essere contenuto nella lettera inviata a Cinà, quella che precedette l'arrivo del "papello". Ma è bene tornare a quei giorni di fine giugno del 1992, giorni frenetici di consultazioni e aspettative. Una triangolazione perfetta, sull'asse Roma-Palermo, tra lui, Lo Verde/Provenzano e Franco, entrambi co­ stantemente informati sull'evolversi dei contatti. Credo addirittura esistesse un doppio meccanismo di co­ municazione: diretto fra mio padre e Franco, fra mio padre e Lo Verde; diretto, anche se non ufficialmente, tra Franco e Lo Verde, ma "mediato" tra Franco e il Ros: il primo riversava su mio padre la parte che i ca­ rabinieri non manifestavano palesemente, com'era avvenuto quando si trattò di conoscere l'identità isti­ tuzionale che offriva copertura politica all'iniziativa del Ros. O nel caso del "pinzino" con il quale Proven­ zano/Lo Verde avvertiva mio padre che "gli stessi con cui parliamo adesso", cioè i carabinieri, "hanno affittato un appartamento di fronte a casa sua; hanno piazzato 211

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un ufficio per sentire e guardare". È incredibile: Provenzano sapeva le stesse notizie riservate (il monitoraggio poliziesco di casa Ciancimino, a Palermo, da un edificio di via Sciuti) che mio padre apprendeva da Franco. Gli incontri si intensificarono. Dopo che gli portai il "papello" a Roma, ce ne fu certamente uno con Franco in via Vittoria. Mi chiese le chiavi e le ripose nella tasca interna della borsa. Mi ordinò di attendere in casa e non uscire "perché forse dovrai chiamare il capitano per un nuovo appuntamento". "Domani, inoltre, credo sia utile tu vada ancora a Palermo."

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I dodici punti del famoso "papello". In basso l'appunto scritto dallo stesso Vito Ciancimino su un post-it allegato al documento.

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"Come mai?" mi scappò di chiedere. Mi fulminò: "Perché hai impegni, grandissima testa di minchia?". Rientrò dopo un paio d'ore, abbastanza affaticato. Mi confermò immediatamente che l'indomani sarei dovuto tornare a Palermo: "Organizzati un volo per le dieci. Devo consegnarti una busta ma ci penso stasera, adesso sono troppo distrutto". Lo rassicurai che avrei fatto tutto come lui desiderava, compresa la prenotazione col nome storpiato, come mi consigliava pure De Donno. Mi anticipò anche che saremmo tornati a Palermo subito dopo il mio rientro a Roma, perché doveva andare, come ogni anno, al cimitero dei Cappuccini nell'anniversario della morte di nonno Giovanni. L'indomani irruppe nella mia stanza, alle 7, di­ cendomi: "La busta è pronta e sta sul tavolo del sa­ lone. Ora prendi carta e penna che ti detto le istru­ zioni: passa dallo studio del dottor Cinà, questa let­ tera la deve leggere davanti a te e poi restituirla; questa, invece, falla avere al tenente [Pino Lipari] e quando avrai la risposta torna. Evita di farti vedere in giro, specialmente se devi incontrare il tuo amico capitano . Tutto avvenne secondo le sue previsioni. Decise di prendere l'aereo del sabato 11 luglio per evitare diffi­ coltà lungo l'autostrada ancora interrotta. Il pro­ gramma era fitto di impegni e, al di là dell'anniversario del nonno, si trattava di incontrare ancora sia Franco sia Lo Verde. Per primo si dedicò all'amico Provenzano, con cui non aveva ancora avuto modo di confrontarsi sul "pa­ pello". Io stesso avevo consegnato la lettera a Pino Lipari con la richiesta di appuntamento e, nel giro di poche ore, avevo ritirato la risposta in un "pizzino" dello stesso Provenzano. L'incontro avvenne ancora in piaz- za Unità d'Italia, negli uffici dell'amico Mario'. In quell'occasione Lo Verde condivise le perplessità di mio padre sulle "proposte inaccetabili [sic]" del "papello". 214

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Tuttavia lo invitò ad andare avanti e cercare dei punti di mediazione possibili, concetto che aveva anticipato nella lettera di conferma dell'appuntamento: "Credo che è il momento che tutti facciamo uno sforzo...". Nello stesso "pizzino" Lo Verde rivela che Riina è stressato: "Il nostro amico è molto pressato; speriamo che la risposta ci arrivi per tempo...". Con ciò volendo augurarsi di riuscire a "parlarne insieme", prima di qualche brutta novità. Questo incontro potrebbe essere avvenuto intorno alla metà di luglio. Contemporaneamente mio padre vide anche Franco: lo incontrammo - era su una Mercedes blu accompagnato da un'altra persona - davanti al cancello della casa che avevamo preso in affitto, sempre a Mondello, sulla strada che porta al santuario di Santa Rosalia, dopo aver lasciato la villa di via Danae. Si fermarono qualche attimo a parlare e vidi che il signor Franco gli consegnava un foglio: era il "papel- lo'. Mi sono sempre chiesto il motivo di questo passaggio: era certamente una copia perché lui la strappò e la mise in tasca, segno che aveva poco valore. Ho sempre avuto il dubbio che Franco l'avesse portata a Palermo su input di mio padre, che non aveva nessuna voglia di viaggiare con una tale "bomba" in tasca.

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9.

La Trattativa, parte seconda

Quanti sorrisetti, quante ironie sono stati sprecati sulla "Trattativa". I rappresentanti istituzionali coinvolti - citati dai collaboratori di giustizia già prima di Massimo Ciancimino - hanno sempre respinto sde­ gnosamente il sospetto di essere stati al corrente di un dialogo esistente nel '92 fra Stato e mafia. Lo stesso processo di Firenze sulle stragi mafiose del 1993 nella penisola ha ammesso la presenza di anomalie nella ricostruzione di quel periodo. Ma attribuiva l'at­ teggiamento dei carabinieri del Ros a una normale ansia di risultati di fronte a uno Stato impotente sotto i colpi feroci di Cosa nostra. La scoperta, poi, del "papello" ha reso ancor più dietrologica la storia mafiosa dell'ultimo ventennio, caratterizzata da un'inedita trama fra criminalità or­ ganizzata e poteri oscuri: bombe, stragi, spioni, pentiti e picciotti a mezzo servizio. E invece qualcosa di veramente inusitato deve essere accaduto: troppi gli indizi coincidenti, comprese numerose testimonianze, anche qualificate, che danno forza alle ipotesi in­ vestigative dei processi in corso. Il figlio di don Vito, per esempio. È stato denigrato, indicato come una sorta di "cantastorie" che fa parlare il padre morto. Ma non è il solo ad aver raccontato 216

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quell'intrigo. In tempi non sospetti, lo sappiamo, ma anche recentemente, altre voci hanno preceduto e si sono aggiunte. Prendiamo questa storia del "papello". Conosciamo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, che, però, non sono le sole. Anche Giovanni, uomo misurato e poco propenso al protagonismo, ha testimoniato sotto giuramento. Il suo racconto è più di una conferma al fratello. GIOVANNI: Dopo la strage di Capaci e certamente prima di via D'Amelio, mi recai a Roma a trovare mio padre. Nel corso di un lungo colloquio, manifestandosi particolarmente fiducioso, mi disse testualmente: "Forse riesco a risolvere le mie cose, si è aperta una strada importante. Sono stato incaricato da persone altolocate di trattare con alcuni personaggi dell'altra sponda per evitare che questa sia una mattanza. È una cosa che può agevolare tutti". Litigai furiosamente con lui, anche perché capii che quando, fin dai tempi di Rotello, mi aveva ripetutamente assicurato di essere una vittima della mafia e di non averci nulla a che fare, aveva mentito. Dopo qualche tempo, dopo la strage di via D'Amelio, andai a trovare mio padre all'Addaura, dove in quel momento abitava. Mi chiese di portarlo in macchina a fare una passeggiata a Monte Pellegrino e, nello stesso tempo, mi chiese alcuni pareri di natura legale. Voleva sapere in generale quali fossero i presupposti per ottenere la revisione di un processo e poi, riferendosi alla legge Rognoni-La Torre, chiedeva quali fossero i meccanismi che regolavano la retroattività o meno delle norme penali. Più in particolare era interessato a sapere che possibilità vi fossero per una revisione del maxiprocesso o per una interpretazione della RognoniLa Torre che impedisse la confisca di quei beni posseduti prima della sua entrata in vigore. Fu in quel 217

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frangente che mio padre, riferendosi alla trattativa di cui mi aveva parlato a Roma, mi spiegò: "Quella cosa è andata avanti, sono state fatte delle richieste dall'altra sponda a questi personaggi altolocati". Contestualmente tirò fuori dalla tasca un manoscritto a stampatello che consultò mentre mi chiedeva spiegazioni e che - seppure in condizioni di scarsa visibilità e per pochi attimi - anch'io ebbi modo di vedere. Mio padre non mi disse mai chi fossero questi per­ sonaggi altolocati, ma era certamente convinto di quello che stava facendo, tanto da arrabbiarsi quando gli assicurai che erano praticamente irrealizzabili le ipotesi prospettate. Devo aggiungere che sono al corrente dei buoni e confidenziali rapporti che mio fratello Massimo intrattenne con il capitano De Don-no dei carabinieri fin dall'epoca successiva all'arresto di mio padre, nel 1990. Nel corso del '92 seppi da Massimo che il capitano, insieme a un colonnello, doveva andare a trovare nostro padre a Roma. Seppi successivamente, ancora da Massimo, che ciò era av­ venuto, ma quando ne parlai con mio padre, lui fu molto evasivo.

Indizi e testimoni Altre testimonianze, giunte solo recentemente, concorrono alla ricostruzione del contatto esistito tra il Ros e Vito Ciancimino. Ne hanno dato conferma l'ex guardasigilli Claudio Martelli, e Liliana Ferraro che, nel 1992, aveva preso al ministero della Giustizia il posto di Giovanni Falcone nell'ufficio degli Affari penali. Entrambi hanno testimoniato al processo Mori, confermando l'interessamento del Ros, nel periodo successivo alla strage di Capaci, per un intervento di Vito Ciancimino. In particolare la Ferraro ha raccontato di aver ricevuto, non ricorda la data esatta, la visita di 218

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De Donno al ministero. "Mi disse - riferisce - che aveva preso contatti con il figlio Massimo e che, attraverso questi, pensava di poter agganciare o aveva già agganciato, non ricordo bene, Vito Ciancimino. Mi chiese, infine, se fosse il caso di accennare la vicenda al ministro Martelli, poiché chiedeva anche un sostegno politico per l'iniziativa che stavano intraprendendo. Risposi che ritenevo non praticabile il coinvolgimento del ministro, ma opportuno che informassero prontamente il dottor Borsellino, aggiungendo che sarei stata anche io, comunque, a informarlo. De Donno, tuttavia, mi parlò di una possibile collaborazione di Ciancimino e mai di una trattativa. Aggiunse che l'iniziativa era anche del reparto cui apparteneva". Un'ulteriore ricerca di "copertura politica", poi, riguarda Luciano Violante, all'epoca presidente della Commissione antimafia. Vito Ciancimino chiese a Mori di poterlo incontrare perché le altre "coperture" indicate (Mancino e Rognoni, secondo quanto avrebbe riferito a don Vito il signor Franco) non gli sembravano troppo affidabili e - soprattutto - perché per le proprie necessità (cioè i guai giudiziari) riteneva essenziale un intervento di Violante come "l'unico che potesse dare garanzie in quel momento storico" (era l'inizio di Tangentopoli) e l'unico in grado di "intervenire sulla magistratura". Ma il presidente declinò l'invito di Mori per un incontro informale con Ciancimino, suggerendo di percorrere la via ufficiale, cioè una richiesta scritta di audizione. La richiesta venne inoltrata, ma, quando avrebbe dovuto essere presa in considerazione, Ciancimino era già stato arrestato. Questa, dunque, la lunga e intricata trama della "Trattativa", punteggiata dai ricordi di Massimo Ciancimino, ma anche dai documenti oggi in possesso delle Procure di Palermo e Caltanissetta. Appunti scritti 219

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a penna dal padre, carte giudiziarie, un interminabile diario (lo abbiamo già scoperto) che rappresenta la traccia di un memoriale, di una "confessione postuma" pensata da don Vito ormai prossimo alla fine. Sfiancato fisicamente, debilitato da sette anni e mezzo di detenzione (1992-99), deluso persino dall'amico Provenzano e dal fantomatico Franco, il potente decaduto pensa a esercitare la sua piccola vendetta sul cinismo della politica scrivendo, con l'aiuto del figlio, la "sua verità politica Ed esibendo le carte: certo, il "papello", ma anche quei "pizzini" che sono serviti ai magistrati per decrittare i cinquantasei giorni - da Capaci a via D'Amelio - che non bastarono a evitare il peggio. Per anni ben nascosti, stavano nella casa di piazza di Spagna, nel nono volume dell'Enciclopedia Treccani in uno spazio appositamente creato incollando l'ultima pagina alla copertina rigida. Eccoli, compresi errori di ortografia e strafalcioni in stile provenzaniano: Carissimo Ingegnere, ho saputo che ha fatto avere le mie analisi al Professore, se ritiene che ci posso andare a trovarlo melo faccia sapere, e ache come; Se lei pensa che parlare con questa gente ci porti qualcosa di buono a Lei non manca; M; mi ha detto che potremmo vederci il 16 o il 17; sarebbe piu prudente il mecoledi. Mi faccia sapere per tempo;

Il messaggio è del giugno '92: Provenzano chiede una visita medica al "Professore" indicato dall'amico Vito. Quindi dichiara la propria disponibilità a che Ciancimino continui a parlare con i carabinieri. M. (Massimo) prenderà un appuntamento. Carissimo Ingegnere, ho ricevuto la notizia che ha ritirato la ricetta dal caro Dottore. Credo che é il momento che

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tutti facciamo uno sforzo, come gia ci eravamo parlati al nostro ultimo incontro il nostro amico é molto pressato; speriamo che la risposta ci arrivi per tempo, se ci fosse il tempo per parlarne noi due insieme; Io so che é buona usanza in lei andare al cimitero per il complaenno del Padre suo. Si ricorda me ne parlo lei; Potremmo vederrci per ri­ volgere insieme una preghiera a Dio; O come l'altra volta per comodità sua, da nostro amico Mario. Bisogna saperlo perché a noi ci vuole tempo per orga nizzarci. Questo risale al luglio '92. La ricetta ritirata è il papello" e il "Dottore" è Cinà. Lo sforzo richiesto è quello di rendere accettabili le proposte indecenti di Riina, descritto come "molto pressato" da chi gli sta montando la testa di "mischiate". "

Carissimo Ingegnere, mi é stato comunicato che gli stessi con cui parliamo adesso hanno affittato un appartamento difronte casa sua; Hanno piazzato un ufficio per sentire e guardare. Ho visto che l'ultina volta ha ddormito in albergo volevo saper se anche lei era già stato informato. Dobbiamo essere prudenti, anche per il giorno del prossimo appuntamento farò sapere io a M. Non mi è arrivato alcuna notizia sul Gas; Se il problema é risolto, ci faccia sapere come;

Il "pizzino" è della prima metà di luglio. Lo Ver­ de/Provenzano avverte Vito che la sua casa di Palermo è controllata dai carabinieri. Chiede prudenza, anche nella scelta delle modalità del prossimo appuntamento. Carissimo Ingenere, M. mi ha detto che visto i fatti accaduti non e prudente incontrarci giovedi 23 come ci eravamo detto lultima volta che ci siamo visti; Ho parlato con amici comuni mi hanno detto che M; quando viene a palermo non

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é solo;

so che il ragazzo si guarda; secondo me ce qualcosa che non

funziona e se lei continua a parlarci con-questa gente.

Mi faccia sapere; Che il buon Dio ci protegga.

Con questo siamo al dopo Borsellino. Don Vito e Lo Verde, nel precedente incontro si erano dati ap­ puntamento per il 23 luglio. Ovviamente, la strage di via D'Amelio lo manda a monte. Tuttavia Provenzano avverte l'amico che il figlio (M.) quando si sposta è seguito. Il vecchio boss avverte qualcosa che non quadra e gli chiede se, dopo via D'Amelio, ha ancora intenzione di proseguire nei contatti coi carabinieri. Che il clima non sia dei migliori è sottolineato dalla frase finale. MASSIMO: Che fatica la gestione della corrispondenza clandestina di mio padre. Mi consegnava una busta chiusa, contenente di solito un mezzo foglio con un messaggio criptico. Il destinatario quasi sempre era il signor Lo Verde; a volte poteva essere consegnata a Pino Lipari, altre volte andava data personalmente a lui e allora bisognava chiedere che Lipari mi combinasse un appuntamento. Il rito era sempre uguale: la busta andava aperta davanti a me dopo aver accertato che non fosse stata aperta da nessuno, me compreso. Per questo le buste venivano sigillate con nastro adesivo. Davanti a me la leggevano e dopo averla strappata me la riconsegnavano per riportarla indietro a mio padre, insieme alla risposta che mi veniva recapitata il giorno stesso. C'era un codice segreto per individuare il mittente, ma non ho mai capito quale fosse. È certo, però, che mio padre prima di aprire la busta sapeva già da chi era stata scritta. Quando gli ridavo il "pizzino" che era stato letto e strappato, il più delle volte lo bruciava in cucina. Ma se attendeva ospiti, per evitare l'odore di bruciato, se ne liberava nel water con diversi tiri di sciacquone. Le lettere in entrata, quindi non sue, venivano 222

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trattate con attenzione chirurgica: le apriva dopo aver indossato guanti di lattice, leggeva il contenuto e subito dopo ne faceva una copia. Aveva il terrore delle impronte digitali. Mi controllava mentre facevo la copia, la ritagliava e quindi si liberava dell'originale bruciandolo.

Via D'Amelio Domenica 19 luglio 1992: anche questa data è en­ trata nel nostro immaginario collettivo. L'attentato al giudice Paolo Borsellino rimbalza da Palermo e in­ chioda tutti gli italiani davanti alle immagini di via D'Amelio che sembra una strada di Beirut. I corpi del magistrato e dei ragazzi che lo scortano - Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina - vengono ridotti in brandelli sparsi anche sugli alberi. Una scena apoca­ littica che riporta il paese indietro nel tempo, a quella strategia della tensione che credevamo sepolta insieme alle vittime di Milano, di Bologna, di Brescia, della strage dell'Italicus, per citare gli episodi che più sono entrati nella pelle degli italiani. Mentre ci si interroga sull'origine di quell'attacco bestiale, c'è qualcuno che possiede la chiave giusta per decifrare ciò che sta accadendo. Tra questi, certamente, i protagonisti di quella mediazione sotterranea affidata all'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Non sfugge a nessuno, tantomeno a don Vito che aveva già manifestato tutto il suo pessimismo sulla riuscita dell'operazione, che con la strage di via D'Amelio si mette una pietra tombale sull'impossibile dialogo tra mafia e Stato. Appena qualche giorno prima del 19 - ricorda Massimo Ciancimino - "...tornato da Palermo mi disse di chiamare il capitano De Don-no per fissare un incontro anche con Mori, perché doveva dare una risposta al colonnello". I contatti palermitani di 223

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don Vito non avevano sortito l'effetto sperato di ammorbidire in qualche modo le richieste di Riina. Neppure il lavoro di "limatura" sul testo consegnato dal dottor Cinà, a quanto intuisce Massimo, produce l'auspicato effetto di riportare Cosa nostra alla ragione. E dire che il vecchio Ciancimino ci aveva riflettuto parecchio, anche con l'aiuto del signor Franco, cercando di individuare i punti su cui poter intervenire lasciando intendere qualche possibilità di modifica. C'è un appunto [vedi p. 209], affidato da Massimo ai magistrati, scritto di pugno da don Vito e presentato al figlio come un "allegato" per il libro-memoriale messo in cantiere negli anni duemila. Don Vito prende nota dei nomi di Rognoni e Mancino, considerandoli una copertura politica alla "Trattativa" (come sembra aver saputo dal signor Franco), ma aggiunge "ministro guardasigilli", quasi a indicare la figura istituzionale senza il cui contributo era impossibile azzardare qualunque manovra per il conseguimento delle richieste contenute nel "papello". Spiega che la revisione del maxiprocesso era possibile solo passando per il Tribunale di Strasburgo e ipotizza una riforma della giustizia "all'americana" con il "sistema elettivo". Azzarda la possibilità di varare una norma che abolisca la carcerazione preventiva "se non in flagranza di reato" e, in questo caso, "rito direttissimo' . Insomma, un "pacchetto" che avesse un abito politicamente presentabile, corredato dall'immancabile riferimento a un "Partito del Sud", lo storico miraggio di Cosa nostra. MASSIMO: Le reazioni che mio padre aveva raccolto a Palermo non erano entusiasmanti. Ne ebbi la conferma già in aereo, mentre tornavamo a Roma. "Vedrai - mi disse - che manderanno affanculo tutti perché le proposte sono inaccettabili, improponibili. Lo vedevo particolarmente nervoso, perché l'intransigenza della 224

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controparte avrebbe dovuto di lì a poco trasmetterla al colonnello Mori. Eravamo ancora a prima di via D'Amelio, ma già Provenzano aveva manifestato tutta la sua freddezza per il "contropapello" illustratogli da mio padre durante gli incontri palermitani. In un secondo appuntamento rese ancor più chiare le posizioni ufficiali di Riina, assolutamente inamovibili rispetto al "papello". Un oltranzismo che mio padre si spiegava solo alla luce di quanto aveva notato Provenzano quando scriveva: "Il nostro amico è troppo pressato". C'era, cioè, chi soffiava sul fuoco per tenere alta la temperatura e non disinnescare "la pistola che Riina teneva al posto della testa". Di fronte al muro contro muro, questo il commento di mio padre: "O sono completamente impazziti o hanno le spalle ben coperte". La terribile fine del dottor Borsellino chiuse ogni canale di comunicazione. L'ultimo, fugace incontro con il colonnello Mori e con De Donno era avvenuto uno o due giorni prima del 19 luglio: pochi minuti, e solo per riaggiornarsi se fossero intervenute buone nuove. Ma l'unico fatto nuovo venne da via D'Amelio. E non era certamente una buona notizia.

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Le osservazioni ai dodici punti mino. Il ministro Rognoni e il spensabili per la realizzazione "papello", don Vito avanza un i s t i t u z i o n i .

del "papello" scritte in risposta da Cianciministro guardasigilli vengono ritenuti indi­ delle proposte. Rispetto al vero e proprio percorso politicamente più accettabile dalle

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Fu la conferma, qualora ve ne fosse stato bisogno, delle convinzioni di mio padre: con Riina non era possibile nessun approccio e il "papello" era la dimo­ strazione più evidente - con quelle richieste inaccet­ tabili - della non volontà di trattare. I contatti coi ca­ rabinieri, ovviamente, si interruppero. Ma non quelli con Provenzano e col signor Franco. Un lavoro ai fianchi, quello portato avanti special­ mente in direzione del signor Lo Verde, che rappre­ sentava per mio padre l'unica strada percorribile per sottrarre Cosa nostra all'imperio di Totò Riina e in­ trodurre una "leadership" moderata. In poche parole, si trattava di neutralizzare Riina, facendolo arrestare, e trasferire il comando sul "ragionevole" signor Lo Verde/Provenzano. Non era un'impresa facile, ma riuscì per i buoni argomenti offerti da mio padre. Secondo quello che mi ha raccontato, gli incontri avvenuti a luglio e ad agosto furono aspri e diretti: "È arrivato il momento di prendersi qualche responsabilità, non funziona più la tecnica di mettere la testa sotto la sabbia. Anche tu, Binnu, hai contribuito a creare questo mostro e hai il dovere di porre rimedio".

Una nuova strategia Anche il signor Franco, stando a Massimo Ciancimino, negli incontri con don Vito finì per convincersi che quella prospettata fosse la strada buona. In fondo un ritorno alla convivenza pacifica tra Stato e Cosa nostra rientrava perfettamente nel Dna mafioso e Ber­ nardo Provenzano rappresentava l'uomo più adatto a gestire un ritorno alla vecchia politica di sommersione e di riconquista del consenso sociale, pregiudicato dalla dissennata strategia stragista. Ma perché don Binnu avrebbe dovuto accettare di collaborare alla cattura di Riina? Massimo lo spiega 227

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con le parole del padre: "Non era d'accordo sulle stragi. Auspicava di tornare a una politica di vecchio stampo, alla sommersione che facilita gli affari e, soprattutto, tendeva a ottenere la garanzia a poter agire, a muoversi e spostarsi tranquillamente malgrado fosse latitante". Il famoso salvacondotto che tanto scandalo ha creato. MASSIMO: Il 25 agosto mio padre mi chiese di ricon­ tattare il capitano De Donno e il colonnello Mori, per un incontro che, poi, avvenne a casa nostra in piazza di Spagna. La sintesi, raccontatami dopo, è che cambiò completamente la natura del rapporto con il Ros. Cambiò l'offerta di mio padre: non più "consegna dei latitanti", ma collaborazione per la cattura di Totò Riina. Era, quello, l'estremo tentativo di rientrare nel gioco da cui si aspettava la soluzione dei suoi problemi giudiziari. Quale fu l'argomento che usò per convincere i suoi interlocutori? Mio padre spiegò ai carabinieri come qualsiasi personaggio di Cosa nostra, tranne Proven­ zano, sarebbe stato pericolosissimo in una eventuale successione a Riina. E comunque Provenzano era l'unico in grado di condurli al covo dove si nascondeva don Totò. Per cui la sola salvezza possibile, a garanzia della fine dell'aggressione allo Stato, era l'impunità di Binnu, da lui ritenuto "unica testa pensante" all'interno dell'organizzazione. Questo fu detto ai carabinieri, questo fu detto a Provenzano e di questo fu tenuto costantemente informato anche il signor Franco.

Le settimane successive scivolano via senza grandi sussulti, in perfetta sintonia con la strategia di don Vito che non ha nessun interesse ad accelerare senza prima aver avuto segnali chiari circa l'andamento delle "sue cose". Settembre e ottobre se ne vanno con 228

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don Vito che, piano piano, intreccia la sua rete - tra Franco e Provenzano - attorno a Totò Riina. Essenziali risultano i contatti con il vecchio amico corleonese, la fonte primaria e unica capace di individuare il nascondiglio del "padrino di Cosa nostra". È una partita a scacchi che gioca su due tavoli: prende da Provenzano e Franco per riversare - ma con attenzione ai propri interessi - sui carabinieri a mano a mano che da loro arriveranno segnali positivi per lui. MASSIMO: E i segnali arrivano con la notizia che il commercialista Pietro Di Miceli, perito della Procura di Palermo nel processo per il sequestro dei beni di mio padre, è in procinto di chiudere la sua indagine con una conclusione ampiamente favorevole alla difesa, non solo per i beni sequestrati, ma anche per quelli individuati all'estero. Ricordo esattamente, poi, che il capitano De Donno mi telefonò per segnalarmi un articolo del settimanale "Panorama" della metà di di­ cembre intitolato: "Prossimo il dissequestro dei beni di Ciancimino". Fu questo l'evento che convinse mio padre a entrare nel vivo dell'operazione. Precedentemente, nel mese di novembre, aveva ri­ cevuto da Provenzano più di una indicazione sulla zona dove avrebbe potuto trovarsi Riina. Si trattava di un territorio, abbastanza esteso, che andava da Monreale verso il porto. Mio padre, allora, aveva chiesto a De Donno di procurargli delle mappe topo­ grafiche di quella zona, insieme all'elenco delle utenze telefoniche, del gas, dell'acqua e della luce e delle piantine catastali, con l'intento di analizzarle insieme a Provenzano. Il successivo screening ragionato portò all'individuazione di un'area molto più limitata che andava da Baida a via Leonardo da Vinci. La mappa, originariamente contenuta in una custodia, un tubo di plastica giallo, fu ridotta a due fogli formato A3 che mio padre mise in una grande busta, insieme a un

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biglietto, dicendomi che bisognava andare a Palermo per farla visionare a Lo Verde. La busta tornò indietro con la notizia: fu mio padre a farmi vedere la mappa su cui Provenzano aveva cerchiato con un pennarello una zona ben precisa ed evidenziato alcune utenze di luce, acqua, telefono e gas. A quel punto tutto era pronto: si trattava di trasferire quelle informazioni ai carabinieri. Era stata anche convenuta una sorta di protocollo sulle modalità della cattura, in modo che fosse concesso alla famiglia di non essere coinvolta nell'operazione e di raggiungere Corleone, dopo aver provveduto a "ripulire" la casa di quanto vi era di "pericoloso": tracce scritte, documenti, appunti ed eventuali impronte digitali. Ma c'era anche un altro motivo per ricorrere a quel protocollo: c'era la volontà di rendere sopportabile la cattura, di mandare un messaggio per comunicare a Riina che non era stato venduto, ma che si trattava di un "sacrificio necessario" per salvare il salvabile. Un riconoscimento, quasi l'onore delle armi.

La trappola Il rapporto di don Vito con i carabinieri del Ros fila apparentemente tranquillo: Mori e De Donno sono in attesa delle mappe che dovrebbero metterli in condizione di stringere la morsa sul nascondiglio di Totò Riina. E il vecchio Ciancimino la tira per le lunghe, con il chiaro intento di acquisire segnali incoraggianti - se non addirittura garanzie - di un interessamento generoso dei militari in direzione delle misure di prevenzione che mettono a repentaglio i suoi "piccioli", i soldi. Siamo nell'autunno del 1992, e per il salvataggio dei beni di don Vito non c'è più tanto tempo a disposizione. Ovviamente è una ricostruzione, questa, riferibile al racconto offerto ai magistrati da Massimo. Non è detto che le cose siano andate proprio così, anzi - a sentire gli 230

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ufficiali del Ros - andarono proprio diversamente, a cominciare dalla cattura di Totò Riina "alla quale Vito Ciancimino fu completamente estraneo ', anche per via del suo improvviso arresto, avvenuto il pomeriggio del 19 dicembre mentre si preparava per andare a una cena. Ma è proprio l'inaspettato arresto, provocato da un provvedimento della Procura generale che revocava così la libertà provvisoria (malgrado la condanna per associazione mafiosa), a suo tempo concessa in attesa della sentenza definitiva della Cassazione, a gettare un'ombra sinistra sulla conclusione della 'convivenza forzata" fra Ciancimino e i carabinieri. C'è una scuola di pensiero, non minoritaria, che so­ stiene la tesi secondo cui l'ex sindaco finisce a Rebibbia non casualmente e proprio in quel momento. Come se qualcuno avesse voluto "toglierlo di mezzo". MASSIMO: Mio padre - me lo confermò lui stesso - fu attirato in una trappola nel momento in cui lo convin­ sero a chiedere la restituzione del passaporto che gli era stato ritirato quando erano cominciate le indagini per il reato di associazione mafiosa. È una storia strana, piena di coincidenze e suggestioni inspiegabili. Inizia con la comunicazione del signor Lo Verde/Provenzano che, in seguito, una volta che sarà andata in porto la cattura del "pazzo" [Riina], forse avrebbero dovuto incontrarsi lontano dall'Italia, sia per garantirsi un vero margine di sicurezza, sia per limitare il rischio di essere visti da persone che avrebbero potuto mettere in relazione la loro vicinanza col "tradimento" nei confronti di Totò Riina. Questa eventualità, inoltre, piaceva a mio padre, al quale non sembrava vero di poter rientrare nella sua piena libertà. Poter muoversi senza limiti o adempi­ menti burocratici, per lui, rappresentava la vera li­ bertà. In questo senso, si considerava limitato se non 231

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disponeva di un passaporto. Per questo accettò I offerta del Ros che gli propose di adoperarsi per fargli ottenere il documento. Ricordo bene quel momento e ricordo quanto tutti quelli che lo circondavano fossero contrari a una simile iniziativa, che prestava il fianco al sospetto che si stesse preparando a una fuga all'estero. Erano contrari grandi avvocati come i professori Campo e Siracusano, era contrario il legale, Giorgio Ghiron, e i figli, tre dei quali laureati in Legge. Insomma, sembrava un suicidio. Ma lui volle andare avanti lo stesso, affidando l'incarico di presentare l'istanza all'avvocato Ghiron, che pure nutriva molti dubbi. In seguito, quando in carcere prese coscienza dell'errore, definì una trappola il suggerimento dei carabinieri. Secondo lui il Ros lo aveva spinto all'imprudenza per farlo arrestare e toglierlo dalla circolazione, una volta ottenute da lui le informazioni che cercavano. Eppure ne aveva di documenti, se avesse voluto scappare. Era in possesso di una carta d'identità valida per l'espatrio e anche di un passaporto di copertura, non a suo nome. Gliel'aveva procurato il signor Franco, subito dopo l'assassinio di Salvo Lima nel marzo 1992 nell'eventualità che si presentasse la necessità di allontanarsi, anche per motivi di sicurezza. Era un passaporto, non so bene se tunisino o turco, di cui i carabinieri non conoscevano l'esistenza. A una falsa identità era stata abbinata una fotografia, molto curiosa, di mio padre. Non me lo scordo quel pomeriggio in cui si fece fotografare. Prima uscì per andare da un parrucchiere vicino a casa, in piazza di Spagna, che lo conciò a dovere. Rimasi scioccato nel vederlo rientrare con un parrucchino e una barba finta, molto più folta della sua naturale. A casa lo aspettava un fotografo mandato personalmente dal signor Franco. Ma il passaporto falso non fu mai utilizzato: l'avrebbe fatto solo in caso di vera emergenza per la sua incolumità. Già nell'immediatezza dell'omicidio Lima ripeteva ossessivamente: "Siamo tutti in pericolo". 232

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GIOVANNI: Successivamente all'omicidio di Ignazio Salvo, in occasione di un incontro a Palermo o a Roma, non ricordo, mio padre ebbe a dirmi: "Mi hanno fatto capire che devo richiedere il passaporto". Rimasi perplesso perché ritenevo inopportuna e pregiudizievole una simile richiesta mentre si era in attesa della sentenza d'appello contro la condanna in primo grado per associazione mafiosa. Tuttavia, per la sua insistenza, chiesi a uno dei suoi difensori di fiducia, il professor Orazio Campo, di scrivere l'istanza. Ma l'avvocato si rifiutò categori­ camente perché non la riteneva opportuna e, oltretutto, non sarebbe stata accolta. Per quanto mi consta, venne poi presentata da un altro legale romano, incaricato direttamente da mio padre. Quando lo arrestarono, il 19 dicembre, più volte ebbi modo di ricordargli le nefaste conseguenze di quella iniziativa e più volte mi disse con rabbia che era stato tradito e venduto.

Questa vicenda del passaporto e dell'interessamento del Ros in direzione delle misure di prevenzione per Ciancimino è stata oggetto di una vera e propria miniistruttoria della Procura di Caltanissetta, in seguito ad alcune dichiarazioni rese alla trasmissione Annozero dall'ex guardasigilli Claudio Martelli, che ricordava una sua "sollecitazione del '92 relativa alla confisca dei beni di Vito Ciancimino". L'ex ministro, sbagliando, la collocava nel giugno '92. In effetti, come ha chiarito a Caltanissetta Liliana Ferraro (all'epoca la collaboratrice più stretta di Martelli), l'intervento del ministro fu dell'ottobre successivo. Ha testimoniato la Ferraro che si trattava di "una vicenda che si collegava ai beni di Vito Ciancimino e a un intervento del Ros". "Gli rammentai," prosegue la testimonianza, "che il problema di cui parlava era invece emerso nell'autunno del 1992, poco prima che lui stesso come ministro presentasse alla Commissione parlamentare antimafia le ulteriori 233

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proposte a completamento del disegno di contrasto a Cosa nostra. In relazione a questo ricordo dell'onorevole Martelli, ripetuto oggi, mi è sovvenuto un altro ricordo, nel senso che mi pare di rammentare che nello stesso autunno del 1992, in occasione di uno o più incontri col colonnello Mori in cui si parlò sicuramente dei colloqui investigativi, delle modalità di espletamento e di un'eventuale estensione di coloro che potevano essere ammessi allo stesso, emerse nuovamente la figura di Vito Ciancimino e di un desiderio dello stesso di disporre di un passaporto. Per quel che ricordo e per quel che mi riguardava la cosa non ebbe alcun seguito, non avendo io una competenza diretta sul tema, ma ovviamente ne informai immediatamente il ministro della Giustizia". Le fa eco Martelli: "Ricordo che quando la dottoressa Ferraro mi informò di questi colloqui mi indignai all'idea che si potesse dare il passaporto a Vito Ciancimino, del quale anzi si dovevano confiscare i beni. Informatomi che per il rilascio del passaporto era necessaria l'autorizzazione della Procura generale di Palermo, sono intervenuto, credo direttamente, colloquiando con il procuratore Siclari". Quando don Vito viene arrestato, Massimo non è con lui. È ancora a Palermo con le mappe già conse­ gnate, direttamente al padre, dal signor Lo Verde/Pro­ venzano. La busta rimane nelle sue mani, mentre don Vito parte con l'accordo che si sarebbero rivisti a Roma, dopo un paio di giorni. Ma la polizia arriva prima. La notizia dell'arresto coglie Massimo a Palermo. MASSIMO: Non mi aspettavo nulla di simile, perciò rimasi parecchio frastornato. Per saperne di più chiamai il capitano De Donno che mi sembrò più confuso di me. Mi disse: "Non ne so niente, ti giuro. Io stesso stavo andando a casa sua perché avevamo un appuntamento e non sono riuscito ad arrivare perché mi sono accorto che c'era un'operazione in corso. Tutto intorno era pieno di 234

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polizia... Non so altro, io non c'entro niente". Raggiunsi Roma immediatamente, anche per pre­ disporre con gli avvocati le richieste per i colloqui. Mi dissero che non c'era problema perché avrei potuto vederlo subito, visto che l'arresto era conseguenza di una condanna e non di un'indagine ancora in piedi che avrebbe previsto un periodo di isolamento. Ma prima ancora di poter andare a trovarlo in carcere, sentii la sua voce sul mio telefonino. Era mio padre che mi chiamava utilizzando il cellulare di De Donno, seduto accanto a lui, a Rebibbia. Aveva uno scopo, quella telefonata: i carabinieri non rinunciavano a entrare in possesso delle famose mappe e mi facevano dire da mio padre che dovevo darle al capitano. Le ho consegnate dopo un giorno o due. Veramente mi sarebbe piaciuto conservarne una copia, ma De Donno obiettò che era più prudente disfarsi di tutto. Mi convinsi quando me lo chiese anche mio padre.

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Alcuni "pizzini" spediti da a Ciancimino durante la fase della "Trattativa"

Provenzano

Con questo pizzino Provenzano comunica all'amico don Vito di aver appreso che il "papello" ("la ricetta") era stato consegnato, "il nostro amico" di cui parla è invece Totò Riina, descritto come uno "molto pressato". Malgrado le perplessità sull'insieme delle richieste del "papello", Provenzano invita Ciancimino a uno sforzo per non lasciar cadere l'occasione. La probabile data per l'appuntamento successivo potrebbe coincidere con l'annuale visita di don Vito alla tomba del padre nel mese di luglio.

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Provenzano allarma don Vito e gli comunica che il suo appartamento di via Sciuti a Palermo è costantemente controllato dalle stesse persone con cui parlavano, cioè i carabinieri. Con "Gas" Provenzano intende l'azienda di distribuzione sul territorio e le relative tangenti, la cui vendita nel 2005 sarà causa dell'incriminazione e dell'arresto di Massimo Ciancimino.

Questo pizzino è successivo alla strage di via d'Amelio (19 luglio), infatti "visto i fatti accaduti" Provenzano non trova prudente mantenere l'appuntamento preso per il 23 di luglio. Avverte Ciancimino che il figlio Massimo è pedinato. È preoccupato ("Che il buon Dio ci protegga") e intuisce che non tutto va come avrebbe dovuto.

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1 O. I nuovi mediatori

Totò Riina viene catturato a Palermo la mattina del 15 gennaio 1993. Era appena uscito, su un'utilitaria guidata dall'amico Salvatore Biondino, dalla sua abitazione segreta di via Bernini. Non erano ancora le nove e il suo autista di fiducia lo stava conducendo a una riunione importante della "cupola" di Cosa no­ stra. Dirà, poi, il pentito Giovanni Brusca ai magi­ strati che all'ordine del giorno della discussione c'era la ripresa dell'attività sanguinaria del capo, dopo il "fermo" imposto per verificare le reazioni istituzionali al "macello" di via D'Amelio. Don Totò non arrivò mai a quell'assemblea: il blitz del capitano Ultimo fu veloce e perfetto. In meno di due minuti il boss fu costretto faccia a terra e caricato su un'auto civetta dei carabinieri, mentre gli automo­ bilisti che affollavano la rotonda del Motel Agip - sulla circonvallazione - pensavano di assistere a un se­ questro di persona. Sorpreso, frastornato, traumatiz­ zato, ma anche un po' sollevato, una volta certo di essere nelle mani dei carabinieri e non di qualcuno dei suoi nemici mafiosi, Riina fu portato in una stanzetta della caserma Bonsignore e fotografato sotto il ritratto di Carlo Alberto Dalla Chiesa, in memoria del quale Ultimo 238

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gli aveva stretto i polsi. Vito Ciancimino era in carcere da quasi un mese, certificando con la propria detenzione il definitivo tramonto della mediazione a suo tempo richiesta dai carabinieri del Ros. Osservava gli eventi, don Vito. E capiva che doveva cercare di salvare il salvabile di quell'ambizioso progetto iniziale. Il faccione di Riina dietro le sbarre dava linfa ed euforia all'iniziativa isti­ tuzionale e, di contro, marginalizzava il suo ruolo. L'unico modo di "rimanere in piedi" era quello di for­ malizzare una collaborazione con la magistratura. Proprio questo chiede ai carabinieri che, in qualche modo, provano a condurlo nel recinto protettivo dei testimoni di giustizia.

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Il covo di don Totò Secondo Massimo Ciancimino don Vito concordò con i carabinieri una ricostruzione dei fatti tale da non far emergere la fase della trattativa iniziale portata avanti prima della strage di via D'Amelio. Dice il figlio che approntò una specie di memoriale manoscritto che offre la "versione concordata" delle varie tappe dall'incontro in aereo con De Donno fino all'arresto - e la fissa in un documento volontariamente fatto trovare ai magistrati (in quel momento iniziava a parlare con i pm Ingroia e Caselli) nel corso di una perquisizione in carcere. È per questa reciproca diffidenza che la magistratura non riterrà di dover mai formalizzare l'ennesimo tentativo di collaborazione di don Vito? Chissà, Massimo non la pensa così quando, in più di una occasione, sottolinea la scarsa attenzione dei giudici per le vicende raccontate dal padre. Una cosa, comunque, non è inventata e riguarda tutta l'indagine relativa alla mancata perquisizione, da parte dei carabinieri, del covo di via Bernini. Cosa era accaduto? Semplicemente che la casa dove Riina viveva con la moglie e i quattro figli, due maschi e due femmine, non fu perquisita per diciotto giorni e, anzi, a poche ore dal blitz furono tolte le telecamere che monitoravano, giorno e notte, l'ingresso del residence di via Bernini. Questo, che i carabinieri hanno sempre motivato come un "disguido", ha dato luogo a interminabili polemiche e, soprattutto, a un processo (contro Mori e Ultimo, poi assolti) quando alcuni collaboratori di giustizia hanno rivelato che Cosa nostra "ripulì il covo di Riina" e che la moglie del boss ebbe l'opportunità di raggiungere Corleone con assoluta calma e dopo aver prelevato il contenuto della cassaforte. L'aspetto curioso dell'intera vicenda è che né a Caltanissetta, ai processi per Capaci e via D'Amelio, né a Firenze (stragi del '93 a Roma, Milano e 241

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Firenze), né tantomeno al dibattimento per scoprire la "verità" sul covo, don Vito fu mai convocato in nota Massimo nessuna veste. In sintesi, Ciancimino: "È stato celebrato un processo per accertare l'esistenza o meno di una trattativa fra mafia e istituzioni senza che fosse mai interrogato il mediatore della trattativa stessa. C'è qualcosa che non funziona, in tutto questo?". MASSIMO: Chiuso nella sua cella, il "G8" di Rebibbia, mio padre continuava a osservare l'evolversi degli avvenimenti e non poteva non cogliere l'attendibilità dei suoi sospetti circa il "gioco" che era stato portato avanti sulla sua testa. Tutto quello che aveva previsto si verificava puntualmente: la zona dove abitava Riina era quella che il signor Lo Verde aveva segnato col cerchietto sulle mappe che io stesso avevo consegnato al capitano De Donno. Ma i giornali riportavano la notizia del fondamentale apporto, alla cattura del boss, del pentito Balduccio Di Maggio, un mafioso (poi pentito) di San Giuseppe Jato consegnatosi ai carabinieri di Borgomanero, in Piemonte, per dichiararsi disponibile alla collaborazione espressamente finalizzata all'arresto di don Totò. Tutto questo veniva preso da mio padre come un "diversivo", un paravento per nascondere e proteggere il "tradimento" di Provenzano nei confronti di Riina e il coinvolgimento di mio padre. Il filo con i carabinieri, per un certo periodo, con­ tinua. Lo dimostrano i frequenti colloqui investigativi con mio padre in carcere e la presenza di Mori e De Donno durante gli interrogatori ufficiali di Caselli e Ingroia seguiti alla cattura di Riina e propedeutici al­ l'ipotesi di collaborazione, poi fallita senza che nessuno ne abbia spiegato i motivi, al di là di generiche giustificazioni circa la contraddittorietà e l'inaffidabilità delle sue prime ammissioni. E dire che, per rendersi appetibile ai magistrati, aveva già accettato di rivelare 242

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l'identità del mediatore che gli riportava il verbo di Riina e cioè il dottor Antonino Cinà. Bastò poco, in ogni caso, perché maturasse la con­ vinzione di essere stato "fottuto" scientificamente. Certezza che si rafforzò ulteriormente quando si venne a sapere della mancata perquisizione del covo: tutto era stato fatto secondo gli accordi a suo tempo presi coi carabinieri. E allora, pensava, ci deve essere qualcuno che mena le danze al posto mio. Nello stesso tempo si faceva strada un altro ragionevole dubbio: che la sua estromissione fosse stata, in qualche modo, accettata anche dai suoi amici Lo Verde e Franco, entrati in contatto con nuovi soggetti politici. Più in là mio padre avrebbe capito, così diceva, che la sua "eliminazione" (attraverso l'arresto con l'espediente del passaporto) fosse, in sostanza, un cambio imposto in corso d'opera. La sostituzione di un "cavallo sfiancato" (per l'immagine compromessa dai guai giudiziari, specie nel momento storico seguente alla scoperta del "mariuolo" Mario Chiesa e di Tangentopoli) con "forze fresche". Ma è possibile anche che, nel lungo periodo, la "Trattativa" - nata come accordo "artigianale" con due ufficiali, seppure politicamente "coperti" - abbia cambiato fisionomia fino ad abbandonare i suoi con­ notati originari: non più una mediazione per un do ut des, ma l'appoggio a un progetto politico per salvare quel patrimonio elettorale che rischiava di essere pol­ verizzato dagli scandali sulla corruzione. Anche questa era stata un'idea di mio padre, com'è facile dimostrare dalla semplice analisi del cosiddetto "contro-papello" e dai successivi interventi dalla sua cella, favoriti dal signor Franco e dai suoi uomini che entravano e uscivano da Rebibbia.

Un nuovo traghettatore? 243

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Eccolo, dunque, don Vito che non tralascia di dia­ logare come un uomo libero, anche dal fondo di una cella. Franco e Lo Verde continuano a essere i suoi referenti. Ma chi è il misterioso "traghettatore" che ha preso in mano le redini di questo magma incandescente, la cui inquietante presenza accompagnerà l'esordio della "Seconda Repubblica"? Una risposta è stata data da Massimo Ciancimino attraverso i discorsi trasmessi dal padre, ma soprattutto attraverso le carte di don Vito: gli appunti, i messaggi provenienti da Lo Verde e recapitati in carcere dallo stesso Massimo. Queste nozioni Ciancimino jr. ha riversato alla magistratura e adesso fanno parte dei processi. Al dibattimento in corso che vede imputati il generale Mori e il colonnello Mauro Obinu (la mancata cattura di Provenzano), quel nome è stato fatto: "È il dottor Marcello Dell'Utri, il senatore... l'onorevole. Si tratta del personaggio che ha messo in piedi il partito poi diventato del presidente del Consiglio. Di questo mio padre era convinto non per averlo dedotto o per sua immaginazione. No, la fonte di mio padre era Lo Verde, che con la 'nuova politica' di Silvio Berlusconi in qualche modo era entrato in contatto". Lui, il senatore, ha liquidato la testimonianza di Massimo come "spazzatura", annunciando imminente controffensiva giudiziaria. Ai media ha dichiarato: "Sono tutte cazzate, tutte mischiate. È un delirio, come si fa a difendersi da accuse che non hanno nessun contatto con la realtà?". Don Vito probabilmente non ha mai avuto fre­ quentazione con Dell'Utri. "Ma mio padre," ha testi­ moniato Massimo, "sapeva benissimo chi era e da dove veniva, pur nutrendo per lui scarsa considerazione e nessuna stima. Le vicende del passato, gli investimenti su Milano 2, l'amicizia con Francesco Paolo Alamia e con i costruttori Buscemi e Bonura, la società immobiliare Lu.Ra.No.: sono questi i precedenti che 244

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rendevano perfettamente identificabile Dell'Utri." Su questo tema il figlio di don Vito ha consegnato ai magistrati alcune pezze d'appoggio. Ma sentiamo il suo racconto. MASSIMO: Ci sono dei documenti che risalgono al 1994 o al 1995, non ricordo bene, che restituiscono uno spaccato eloquente del mondo istituzionale di allora e dell'intreccio, duro a districarsi, con gli ambienti di Cosa nostra. Si tratta di vere e proprie lettere intimidatorie che mio padre intende inviare a Dell'Utri, ma l'autentico destinatario finale è Silvio Berlusconi, in quanto responsabile dell'esecutivo e quindi delle iniziative governative giudicate "deludenti" sul piano dei provvedimenti legislativi che avrebbero dovuto venire incontro alle aspettative della mafia, ancora nelle secche delle inchieste e ostaggio dei giudici. Era, insomma, una vera e propria contestazione politica, ma naturalmente non posso affermare che quelle lettere siano poi state effettivamente spedite. Ricordo comunque che le critiche di mio padre ri­ guardavano non soltanto la delusione per la scarsa iniziativa politica in favore dell'organizzazione. C'era una vera e propria rabbia per l'inadeguatezza a saper sfruttare il potenziale ottenuto con le elezioni del '94.

Forse è il caso di dare uno sguardo alle minute in­ complete, secondo Massimo ispirate da Provenzano e da indirizzare a Dell'Utri e "p.c. al Presidente del Consiglio dei Ministri On. Silvio Berlusconi...". "...anni di carcere — vi si legge — per questa mia posizione politica, intendo dare il mio contributo (che non sarà modesto) perché questo triste evento non abbia a verificarsi Sono convinto che se si dovesse verificare questo evento (sia in sede giudiziaria che altrove) l'On Berlusconi metterà a

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disposizione una delle sue reti televisive Se passa molto tempo ed ancora non sarò indiziato del reato di ingiuria, sarò costretto ad uscire dal mio riserbo, che dura da anni e pertanto convocherò una conferenza stampa non solo per questo modesto episodio ma soprattutto per dimostrare la inettitudine che dura da quando io ho...".

Questi testi sono attualmente in mano ai magistrati. Ma affidiamoci all'interpretazione di Massimo Ciancimino. MASSIMO: Devo premettere che io non avevo mai fatto cenno di tutto ciò ai magistrati. Non avevo proprio voglia - visto che mi trovavo già sotto processo per la storia dell'Azienda del gas, di cui parleremo fra poco - di andarmi a cacciare nel tritacarne delle vicende di Dell'Utri e Berlusconi. D'altra parte avevo ricevuto assicurazioni da Franco, anche attraverso un suo emissario, che questi documenti non sarebbero mai venuti alla luce. E Franco raramente si sbagliava. Infatti è stato un caso a farli riemergere dal dimenticatoio e vi racconterò più avanti come. A quel punto ho deciso di dire tutto, ne andava della mia credibilità. Ma per il momento proseguiamo con i documenti. Uno di questi rielaborava senza dubbio una lettera che mio padre aveva ricevuto da Provenzano, lo so per certo perché ero andato io stesso a prenderla, nell'estate del 1994 a casa di Pino Lipari a San Vito Lo Capo. Ma avevo il problema di non poterla dare direttamente a mio padre, perché non è consentito passare carte ai detenuti. E allora ho dovuto leggergliela mentre lui prendeva appunti e, con lo stesso sistema, mi trasmetteva le sue considerazioni. Il tutto ho dovuto consegnare anche al signor Franco che sapeva già e si era messo in contatto con me. Confermo: si trattava di vere e proprie contestazioni, di minacce all'onorevole Berlusconi. Si faceva ri­ ferimento a un "triste evento" per evitare il quale mio 246

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padre offriva il suo "contributo... perché non abbia a verificarsi"... Che triste evento? Mio padre mi disse di temere per l'incolumità fisica del figlio di Berlusconi. Lo ricordo perché mi colpì la spiegazione e ribattei: "Ma che c'entra il figlio?' . Poi il riferimento a "l'on. Berlusconi" che "metterà a disposizione una delle sue reti televisive". E la minaccia: se ciò non accadrà "...sarò costretto ad uscire dal mio riserbo...". La storia della rete televisiva, mi spiegò poi mio padre, era una forma di memo per il premier e si riferiva a una sua vecchia intervista, quando aveva dichiarato di essere disponibile a mobilitare i suoi mezzi di comunicazione se qualcuno dei suoi amici ne avesse avuto bisogno o fosse entrato in politica. Ecco,

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La bozza di lettera di Vito Ciancimino a Dell'Utri e Berlusconi.

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Una seconda parte della bozza di lettera di Vito Ciancimino.

quello era il momento di mantenere gli impegni presi, altrimenti mio padre minacciava di "uscire dal riserbo". Ma tutto ciò era un film che lui si era fatto nella sua mente, una sceneggiatura inesistente. La verità era che Vito Ciancimino stava in un cono d'ombra da cui non sarebbe più uscito. Mio padre è l'unico politico di un certo livello che abbia scontato l'intera pena per il reato di associazione mafiosa: non ho proprio la minima intenzione di difenderlo perché in vita è stato davvero indifendibile. Ma davvero crediamo che sia stato l'unico mafioso infiltrato nella politica e nella 249

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buona società siciliana? Le cose, comunque, andarono avanti senza che mio padre abbia avuto più alcuna capacità di interferenza: la sua detenzione si prolungò per sette lunghi anni tra rimpianti, malattie e la rabbia per aver preso coscienza della dura sconfitta. Il legame con Lo Verde, per ovvie ragioni, si era allentato: attrezzati per quanto si possa essere alle difficoltà, è davvero arduo poter pensare a una frequente comunicazione tra un detenuto e un latitante. Senza contare che Ciancimino immobile in carcere non serviva più a nessuno, neppure al signor Franco, ormai propenso a delegare i contatti a un suo uomo di fiducia, col compito più che altro di monitorare il suo umore e calmarlo ogni volta che partiva per la tangente, minacciando plateali dichiarazioni. Io stesso cominciai a vederlo meno spesso e a dividere con gli altri fratelli l'onere dei colloqui settimanali.

Vecchi amici, nuovi amici Vito Ciancimino fu scarcerato nel novembre del 1999. Ottenne gli arresti domiciliari dopo aver scon­ tato per intero la parte della condanna per mafia, reato che non consentiva, prima di quella data, la con­ cessione di nessun beneficio attenuante. Quando, però, gli rimase la pena per i reati comuni allora fu possibile chiedere e ottenere i domiciliari per motivi di salute. Don Vito non stava benissimo. Era stato fotografato addirittura sulla sedia a rotelle, all'epoca di una brutta frattura al femore. Ma era preoccupato per la prostata e l'ipertensione, già causa, in passato, di ischemie e ictus. Il suo rientro a casa significò, per il figlio Massimo, il ritorno al vecchio ruolo di assistente e factotum. Esattamente com'era avvenuto nei lunghi anni delle battaglie processuali dell'ex sindaco e degli inconfessabili contatti tra mafia e uomini del servizio 250

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segreto. Del periodo dell'ultima detenzione non si sa molto. Lo stesso Massimo ammette di aver allentato i con­ tatti col padre. Si intuisce la delusione di don Vito per il suo stato di carcerato "dimenticato" dagli amici, ma anche la sua incrollabile pertinacia nel cercare una via d'uscita definitiva ai problemi giudiziari e, in particolare, alla spada di Damocle del sequestro dei beni. È, chiaro che vuole tornare nella pienezza della sua libertà, per esorcizzare il pericolo che aveva sempre temuto: morire da detenuto. Ma il ritorno a casa di Ciancimino, in qualche modo, riapre anche la vecchia consuetudine dello scambio continuo con Franco e Lo Verde. Gli arresti domi-ciliari, di certo, non potevano costituire un valido impedimento agli incontri col primo. Più articolata la problematica che riguardava la ripresa degli antichi rapporti con l'altro. I due si erano allontanati in modo traumatico: Vito arrestato a sorpresa nel pieno di una "trattativa" e dubbioso sul ruolo che l'amico Lo Verde aveva avuto nella decisione di metterlo fuori gioco. Eppure bisognava ritrovarsi. MASSIMO: Lo Verde aveva appreso dalla stampa della scarcerazione. Mandò una persona per avere notizie sullo stato di salute di mio padre, ma anche sulle modalità che regolavano gli arresti domiciliari e sul­ l'affidabilità del personale di servizio. Rassicurai il suo tramite che non c'erano limiti ai domiciliari, se non il divieto di ricevere pregiudicati. Non era un problema, quello, per Lo Verde, libero di muoversi con identità false. Non avrebbe altrimenti potuto spaziare, anche con lunghi spostamenti in auto, tra studi medici e strutture sanitarie per fronteggiare la sua prostatite ormai prossima all'ineluttabilità dell'operazione. Venne un giorno di fine anno del 1999, nel periodo 251

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natalizio. Non ricordo se la visita fosse stata prean­ nunciata, certamente io non ne sapevo nulla e mio padre non mi sembrò sorpreso più di tanto. Era la prima volta che i due amici si rivedevano dopo la trappola del passaporto. Erano passati esattamente sette anni, dal dicembre del 1992. Sul volto di mio padre leggevo una grande rabbia, ma anche l'orgoglio, la presunzione di sentirsi protagonista e ispiratore della nuova strategia mafiosa attecchita in quegli ultimi anni: la sommersione, i nuovi contatti, i nuovi referenti politici. In fondo, pensava, tutto questo era frutto anche delle intuizioni che aveva condiviso con Lo Verde: se Cosa nostra aveva cambiato linea, tornando all'antica scelta della pax, se ciò era stato affidato a Provenzano — pensava mio padre — il merito era anche suo. Volle riceverlo nel salone e si agghindò con giacca e cravatta, quasi a voler rimarcare la distanza che si era creata con l'amico di sempre, ma anche per ostentare una vitalità non piegata dagli anni trascorsi in carcere. Certo, non era più quello del '92. Si muoveva solo col bastone, ma per non mostrare quell'handicap si fece accompagnare a braccetto da me. Le scarpe non erano più i mocassini in coccodrillo fatti a mano, né quelle di marca delle vetrine di Napoleone, in piazza Politeama: avevano lasciato spazio a uno scarponcino ortopedico meno elegante, ma sicuramente più consono alle sue esigenze. Si baciarono sulle guance stringendosi la mano, ma lo sguardo era freddo. Feci sedere mio padre sulla sua poltrona ortopedica, dotata di uno speciale di­ spositivo elettrico che ne facilitava l'alzata in piedi. Ero curioso, tanto curioso, ma uscii dalla stanza Il mio rapporto con lui era cambiato: da quando era di nuovo a casa e non in buona salute non mi vedeva più come il ragazzo scapestrato, la testa di cazzo inaffidabile. L'idea di scrivere un libro insieme era servita a riavvicinarci e a indurlo ad aprirsi a molte confidenze. Ma neppure per un attimo pensai di poter assistere a 252

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un simile incontro. Parlarono per più di tre ore. Non ho mai saputo cosa si fossero detti nel dettaglio. Certo, in evidenza c'era lo stato di salute di entrambi e il nemico comune da combattere: l'invincibile prostatite. Mi disse, poi, di aver molto parlato di politica con Lo Verde: di un Parlamento intimidito che si era consegnato nelle mani del partito dei giudici. Mi spiegò il senso delle frasi suggerite da Provenzano in quella bozza di lettera che avevo letto a mio padre a Rebibbia: doveva essere un invito a intervenire immediatamente (siamo tra il '94 e il '95) per normalizzare una magistratura che si era spinta fino a recapitare al premier un avviso di garanzia mentre presiedeva un vertice internazionale. "Gli interventi più seri e importanti - amava ripetere - vanno fatti nei primi cento giorni di legislatura, quando il consenso elettorale è ancora integro." Ma poi si dedicarono al presente. La visita di Lo Verde era un po' anche il tentativo di riparare a un comportamento, quello del '92, in seguito vissuto con un certo senso di colpa. E perciò eccolo qui, seduto di fronte al vecchio amico, come a volergli dire: che posso fare? Il problema era sempre lo stesso: trovare una "so­ luzione politica" che consentisse a mio padre di tornare a essere un uomo libero. In quel momento le soluzioni non erano tante: indulto o amnistia, ma era indispensabile fare in fretta. E allora bisognava spronare gli amici, i nuovi amici di Lo Verde, perché quello era il momento buono. Era l'anno del Giubileo e un provvedimento di clemenza sarebbe stato ben accolto anche dai cattolici e dal Vaticano. Mi spiegò, mio padre, che sarebbe stato perfetto se la proposta per un'amnistia o per l'indulto fosse venuta dal cen­ trosinistra perché, diceva, "i magistrati ai comunisti gli fanno fare quello che vogliono". Si trattava poi di trovare un'intesa fra schieramenti e andare veloci verso l'approvazione. Fu molto acido su Dell'Utri, ma gli riconosceva, 253

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comunque, la capacità di esercitare un grande potere su Berlusconi: "Lo tiene per le palle".

Speriamo che fa cciano in tempo .

Seguirono altri incontri prevalentemente incentrati sui loro problemi di salute, ma di questi poco si sa. La risposta agli argomenti posti sul tavolo in quel primo colloquio, comunque, non si fece attendere. Fu Massimo, nell'agosto del 2000, a recuperare diretta­ mente dalle mani di Lo Verde/Provenzano un "pizzi-no" diretto al padre: "Carissimo Ingegnere, con l'augurio che vi troviate in uno stato di salute migliore di quando vi ho visto il mese scorso; ho riferito i suoi pensieri al nostro amico sen. Ho spiegato che loro non possono fare prov vedimenti come questi dell'amnistia quando governano loro, eche é cosa giusta spingere per fare approvare la legge; L'amico mi ha detto che é stata fatta una riunione e sarebbero tutti in accordo; ho visto che anche il Buon Dio con il Cardinale ha chiesto la stessa cosa".

Interrogato in aula, Massimo Ciancimino ha ribadito che il "sen." è Marcello Dell'Utri, sebbene a quell'epoca fosse ancora deputato. Per quel che riguarda la parte centrale del messaggio, l'interpretazione che ne ha dato descrive un "Provenzano che ha trasferito ai suoi nuovi amici i suggerimenti del padre sull'opportunità che fosse la sinistra a varare il provvedimento di clemenza". L'argomento dell'amnistia fu ripreso alla fine del­ l'estate del 2001. Lo si desume da un altro messaggio, sempre di Lo Verde, anche questo spiegato ai magi­ strati da Massimo Ciancimino. Il testo, con i soliti strafalcioni, con la consueta anarchia della punteg­ giatura e con gli errori di battitura, è un sommario di argomenti all'ordine del giorno: 254

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"Carissimo Inge gnere, ho letto quello che mi badato M. ma a scanso di equivoci ho riferito che ne parlero quando ci sara possibile vederci; Mi e stato detto dal nostro Sen; e dal nuovo Pres; che spigeranno la nuova soluzione per la sua sofferenza; appena ho notizie velifaro avere; Sò che la avv. e ben intenzonato; Il nostro amico Z; hachiesto di incontrare il SEn; Ho letto che a lei non ha piacere e bisogna prendere tempo. Si tratta di nomine nel gas; M; mi ha detto che vi trovate in ospedale,che la salute vi ritorni presto e che il buon Dio ci assista;"

Anche qui, secondo Massimo, il "Sen." è Marcello Dell'Utri, che si sarebbe impegnato a spingere "la nuova soluzione per la sua sofferenza". "Il nostro amico Z" sarebbe invece Enzo Zanghì, cugino di don Vito, che avrebbe voluto incontrare Dell'Utri per esprimergli il desiderio di candidarsi in Forza Italia. MASSIMO: Il biglietto è del settembre del 2001. Anche questo mi fu consegnato nel corso di uno dei soliti rituali che si dovevano intrattenere con Pino Lipari o con qualcuno dei suoi familiari. "Ho letto quello che mi dato M." è un depistaggio perché in effetti c'era poco da leggere, avendogli io consegnato una busta contenente 50 milioni in contanti di vecchie lire. Era la "messa a posto" (la tangente) pattuita per i lavori eseguiti nella zona del trapanese dalla Società del gas, secondo quanto stabilito nel lontano 1984 da accordi intercorsi fra mio padre e lo stesso Provenzano. Una cifra che si era tenuta bassa grazie al rapporto diretto tra i due, anche se la mafia del luogo, e in particolare Messina Denaro, puntualmente avanzava vivaci lamentele. I 50 milioni, comunque, li avevo consegnati - la mattina dell'8 o del 9 settembre - direttamente a Lo Verde, dopo avere ritirato la busta coi soldi nello studio del professor Lapis. Prima di congedarmi, Lo Verde mi invitò a ripassare nel pomeriggio perché aveva da darmi 255

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un messaggio per mio padre. Dopo qualche ora tornai allo stesso indirizzo di via Leonardo da Vinci 111, dove abitava un parente di Pino Lipari e dove, in passato, diverse volte mio padre e Provenzano si erano incontrati. Aveva fretta di risposte, mio padre. Era in ansia e, forse, non era davvero convinto dell'interessamento degli amici di Lo Verde. "Sono certo," andava ripe­ tendo, "di morire da detenuto." E per questo cominciava a pensare di tornare a vivere a Palermo. Questi discorsi glieli sentivo fare per la prima volta: "Se non posso morire," diceva, "da uomo libero, almeno muoio nella mia terra". Aspettava il "pinzino" del suo amico Lo Verde e una speranza per l'amnistia. Già l'anno precedente le sue aspettative erano andate deluse, malgrado l'avvenimento del Giubileo avesse aperto ampi spazi con la chiara richiesta di papa Wojtyla al governo "per la concessione di un atto di clemenza". In quel settembre 2001 mio padre si trovava rico­ verato alla clinica Paideia, nella zona della Collina Fleming, per sottoporsi a un intervento di diverticoli-te. Il signor Franco, anch'egli sempre presente nella sua vita, gli aveva da poco consegnato copia di un disegno di legge in discussione nella Commissione giustizia della Camera. Andai a trovarlo in clinica subito dopo pranzo. Mi chiese di prendere i soliti guanti di lattice e aprì la busta di fronte a me. Ne lesse attentamente il contenuto e commentò: "Speriamo che facciano in tempo, sennò io ci muoio prima". Mi ricordo, mi chiese se avessi visto di recente il cugino Enzo Zanghì e capii che me lo chiedeva perché nella lettera si parlava di lui in relazione alla sua richiesta di incontrare Marcello Dell'Utri. Gli riferii il malumore del cugino per "la continua presa in giro", malgrado il suo impegno profuso in favore di Forza Italia, sin dal 1994. Si lamentava di non aver ricevuto nulla, pur avendo sempre contribuito 256

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all'elezione di un sacco di gente, fino al recentissimo strabiliante risultato che aveva portato il centrodestra a vincere in tutti i sessantuno collegi elettorali della Sicilia. Mi disse pure che aveva già chiesto ap­ puntamento a Dell'Utri, stanco delle balle che gli rac­ contava Miccichè. Non poteva immaginare, il povero Enzo, che la causa del suo mancato successo fosse di fatto proprio mio padre, che lavorava sotto traccia per impedire che ottenesse qualsiasi incarico pubblico, temendo che questo potesse essere considerato un ritorno alla politica di Ciancimino. Insomma, una candidatura, un incarico a Zanghì, avrebbe potuto pregiudicare - secondo mio padre - l'approvazione dei benefici di legge in discussione e l'accoglimento, da parte dei giudici, della richiesta di sospensione della pena che i suoi legali si accingevano a presentare. Mentre si accalorava per Zanghì, la tv - accesa per disturbare eventuali intercettazioni - cominciò a man­ dare le immagini dell'attentato dell'11settembre

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Questo "pizzino" segue un incontro tra Provenzano e Ciancimino avvenuto a Roma dopo la scarcerazione di don Vito. In quell'incontro Provenzano aveva promesso di trasmettere ai suoi nuovi referenti politici la necessità di lavorare all'ipotesi di una amnistia che potesse risolvere i problemi giudiziari di Ciancimino. Nel "pizzino" Provenzano si dichiara d'accordo affinché, per essere certi del successo dell'iniziativa, sia il centrosinistra a proporre la riforma.

Le prime righe si riferiscono alla "messa a posto" di una tangente relativa all'Azienda di distribuzione del gas. Il "Sen" in questione — secondo Massimo Ciancimino — sarebbe Marcello Dell'Utri. "Il nostro amico Z" sarebbe Enzo Zanghì, cugino di don Vito, che avrebbe voluto incontrare il senatore. Il motivo della richiesta sarebbe stato il desiderio di Zanghì di candidarsi in Forza Italia.

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11.

Don Vito, addio

Gli ultimi tre anni di vita Ciancimino li dedica dunque alla battaglia per la riconquista della libertà. Battaglia difficile, se non addirittura disperata, com'è dimostrato dai vani tentativi messi in atto da Lo Ver­ de/Provenzano in favore del vecchio amico. Anche il signor Franco è abbastanza presente, ma il suo ruolo stando a quanto racconta Massimo - sembra più quello di consolatore che di suggeritore di strategie efficaci. Consolatore e controllore: già, la sua preoc­ cupazione di garante dello status quo era soprattutto quella di prevenire e stoppare eventuali colpi di testa di don Vito, sempre più deluso dai suoi improbabili salvatori e, quindi, esposto alla tentazione di vuotare il sacco, trascinando tutti nel vortice di una confessione che vedeva anche come una vendetta: muoia Sansone con tutti i filistei. Il sintomo più evidente di questa tentazione è la de­ cisione di mettersi a frugare, insieme al figlio più pic­ colo, nel suo passato e nello sterminato archivio, in parte catalogato e conservato alla luce del sole, in parte occultato nei più reconditi nascondigli, come i volumi della Treccani o della Storia della Sicilia da dove salteranno fuori il "papello" e i "pizzini". 259

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MASSIMO: In passato aveva scritto una specie di me­ moriale intitolato Le Mafie e lo aveva sottoposto ad avvocati, giudici, giornalisti, politici e poliziotti. Nes­ suno aveva preso in considerazione quel lavoro: in ef­ fetti, aveva il limite di apparire soltanto un'autodifesa, reticente, cavillosa e astiosa. Persino offensiva nei confronti di persone come Falcone o Dalla Chiesa, veri e propri eroi nazionali, ma anche nei confronti di politici potenti e intoccabili come Andreotti. Eppure qualcosa da prendere c'era anche in quelle pagine, tanto che molti dati e considerazioni confluiranno nel "Paradigma di collaborazione" [vedi Appendice p. 275], una sorta di dichiarazione programmatica su tutti gli argomenti che aveva in animo di spiegare. Tornato a casa, riprese in mano quel progetto ma con uno spirito diverso. Erano passati dieci anni, molti dei quali trascorsi in carcere, e non vedeva più un granché da salvare. Attenuate le cautele, pensava - come aveva suggerito già da tempo nella lettera a Berlusconi - di "uscire dal riserbo". È allora che co­ minciamo a ripercorrere, attraverso i documenti spie­ gati con i suoi ricordi, praticamente tutta la sua vita politica. Cambiava anche il mio ruolo: non più ignaro e involontario braccio destro, ma depositario dei suoi racconti. E cambiava anche il nostro rapporto. Per la prima volta comincio a conoscere Vito Cian­ cimino non più nella veste di padre, del resto limitata, ma in quella di uomo e di politico. Scopro un uomo solo rinchiuso nei suoi ricordi e nei suoi sensi di colpa. Disponibile, per la prima volta, a condividere il peso enorme delle sue memorie, del suo passato e della solitudine malgrado la presenza di ben cinque figli. Lo guardavo disteso sul suo famigerato letto che era stato icona del potere e dell'arroganza, e in quel momento si trasformava semplicemente nel simbolo del suo disfacimento fisico, complici la frattura del femore e i postumi della lunga carcerazione.

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Mi sembrava combattuto tra l'istinto del vecchio leone, pronto a ricominciare, e la consapevolezza che ormai il tempo fosse scaduto per cercare ancora im­ probabili interventi di senatori, allenati dall'amico Lo Verde. Era da un bel pezzo, d'altra parte, che en­ trava e usciva dalla depressione, che associava la privazione della libertà all'assenza della vita. Sfogliando la montagna di carte sopravvissutegli, ho trovato un foglio scritto a mano che conclude un lungo appunto sugli sforzi — vani — compiuti per difendersi nei processi. Alla delusione per l'ennesima sconfitta, si lascia andare: "Che fare, arrivati a questo punto? Quali pro­ spettive mi si aprono se non quelle di assistere impo­ tente alla mia condanna? Alla mia fine? Già sono stato condannato (senza prove) per un reato abolito dal Parlamento. Perché devo aspettare? Cosa devo aspet­ tare? La lenta agonia della morte? Perché? Per che cosa, per chi? Aspettare la giustizia di Dio? Non esi­ ste né Dio né la sua giustizia, purtroppo. Allora me­ glio farla finita. Quando? E con quale mezzo? Ecco il problema che deve essere risolto al più presto". Per un gioco crudele del destino, Baffo è morto da solo, mentre mi trovavo a Palermo. Io, che per anni ero stato la sua ombra, quella notte non c'ero: pro­ prio mentre imparavo a conoscerlo, lui se ne andava di nuovo e per sempre, senza permettermi di pren­ dergli la mano. L'ho vissuta come una colpa, quell'as­ senza. GIOVANNI: L'ultimo ricordo che ho di mio padre risale al mese di ottobre. Andai a trovarlo a Roma, con mio figlio Marco a cui Baffo era molto legato. Furono giornate serene e anche il suo stato di salute era buo­ no. Passeggiava a lungo, col nipote, per le vie del centro e la sera cenavamo nel suo ristorante preferito, a Campo dei Fiori. Dopo più di un mese, era il 18 novembre, squillò il 261

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telefono di casa mia, a Palermo. Erano circa le 23 e lui chiamava perché voleva parlare con Marco. Gli dissi che dormiva già e gli chiesi se dovevo svegliarlo. Mi rispose che lo avrebbe richiamato l'indomani e cominciò a parlare della condanna di Andreotti al processo di Perugia, pur rimanendo dell'idea che Belzebù anche quella volta se la sarebbe cavata. Non aveva gran simpatia per il senatore, di lui diceva: "La sincerità è tutto: una volta che hai imparato a fingerla, tutto il resto è facile". Parlò quasi sempre lui e mi sembrò di umore par­ ticolarmente allegro e pimpante. Ci salutammo dopo qualche minuto con l'intento di risentirci. Ma verso le 6.30 del mattino giunse la telefonata di mia sorella Luciana che, in modo concitato, mi informava che era successo qualcosa a mio padre: "Mi hanno chiamato i russi, non so, non capisco, sta male e hanno chiamato l'ambulanza". Mi alzai per prepararmi e, per riflesso condizionato, accesi la tv sintonizzandomi sui notiziari. Rimasi di sasso quando, durante il Tg5, cominciò a scorrere la striscia con l'ultim'ora: "Morto a Roma Vito Cian­ cimino". Sono passati otto anni e non riesco a scor­ darmi quelle immagini. Luciana mi richiamò subito dopo: "È morto". "Lo so," risposi, "l'ho visto al tg." Mi disse che bisognava assolutamente andare a casa di Massimo perché non rispondeva al telefono e che lei doveva correre a Roma. Trovammo Massimo nella disperazione più totale: urlava, prendeva a pugni le pareti e si chiedeva perché mai, lui che stava sempre a Roma, proprio quel giorno non c'era. Non si dava pace. Tutti e tre prendemmo il primo aereo per Roma re­ stando in silenzio, assorti nei nostri pensieri. Mi tornava in mente l'ironia con cui esorcizzava la paura della morte, aiutandosi con frasi celebri. In particolare gli piaceva quella dell'imperatore Aureliano: "Io so che un giorno morirò, ma non riesco a crederlo". 262

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E mi chiedevo se lo zio Mimì, morto da tempo, avesse mantenuto la promessa fattagli una volta che stava male: "Non ti preoccupare - lo aveva rassicurato quando verrà la tua ora verrò io a prenderti nel sonno e così te ne andrai senza soffrire". La casa di piazza di Spagna era chiusa e sigillata con due sbarre di ferro. Quattro agenti in borghese presidiavano l'ingresso e ci informarono che il corpo si trovava all'obitorio per l'autopsia. Davanti alla porta sprangata mia sorella Luciana ebbe una crisi isterica. Lei aveva una promessa da mantenere: mio padre l'aveva incaricata di vestirlo in un certo modo, al momento dell'addio definitivo. Le aveva indicato dove trovare gli indumenti, appesi nell'armadio e protetti dalle custodie di plastica: un abito gessato blu, una camicia bianca e una cravatta, regalatagli dal padre, mio nonno Giovanni, il giorno della promozione agli esami di maturità. In quei momenti di confusione e di rabbia, nessuno di noi fece caso all'assenza della coppia di moldavi - i famosi russi - che badavano a mio padre e sembravano spariti nel nulla. Luciana e Massimo andarono a vederlo all'obito­ rio. Io no, preferivo ricordarlo vivo e sorridente, come nei giorni di ottobre. Ai miei fratelli non fu concesso un contatto diretto: videro mio padre attraverso un vetro, come in carcere. Mi riferirono che sembrava sereno. Subito dopo ci venne data l'autorizzazione a entrare in casa. Mentre Luciana si adoperava per trovare gli abiti, io notai che dalla cucina era stato portato via tutto il commestibile, comprese le numerose bottiglie di acqua minerale. Probabilmente avevano anche perquisito velocemente la casa, a giudicare dal disordine in cui erano disposti i volumi sugli scaffali e dai cassetti semichiusi, posizione nella quale mio padre mai li avrebbe lasciati, prigioniero com'era della mania di perfezione. 263

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MASSIMO: "Vito Ciancimino ha fatto bene nella vita e nella politica." Queste le parole pronunciate da pa­ dre Antonio Di Pasquale, parroco della chiesa di San Michele Arcangelo dove furono celebrati - il 23 no­ vembre 2002 - i funerali di mio padre. Quelle parole mi sorpresero, tanto che sussurrai all'orecchio di mio fratello Giovanni, anche per rompere il clima di cor­ doglio ipocrita che ci circondava: "Sicuramente sa­ prà qualcosa che noi non sappiamo". Trattenendo l'accenno a un sorriso che sarebbe stato inopportuno, sibilò: "Sei una testa di cazzo". Ricordo le facce degli astanti, non c'erano i big della politica, quegli stessi che facevano la fila a casa nostra per essere ricevuti. Qualche amico: Ferruccio Barbera, Gianfranco Vizzini, fratello del più famoso senatore Carlo di Forza Italia, l'editore Giorgio Pa­ lumbo, l'ex assessore Giacomino Murana, l'avvocato Vito Gigante, uomo della corrente di mio padre. In prima fila mia madre che piangeva, non so se per la morte del marito o per la pena nel vedermi così af­ franto ad abbracciare la bara con l'uomo che tante volte avevamo insieme contrastato.

GIOVANNI: Al funerale c'erano molte più donne che uomini, i politici che lo conoscevano avevano preferito mandare le proprie mogli. A mio padre questo non sarebbe dispiaciuto. Il prete fece una lunga e appas­ sionata omelia, pur non sottacendo gli errori da lui commessi. Peccati condivisi con tanti altri che avevano la fortuna di non essere stati - come si dice in Sicilia ­ "incocciati". Sono passati otto anni da quel funerale e ci saremmo aspettati qualche risposta agli interrogativi allora avanzati agli investigatori. Abbiamo ricevuto soltanto silenzi. Malgrado il cadavere di mio padre sia stato sottoposto ad autopsia e a numerosissimi accerta­ menti tossicologici, ancora nessuno ha comunicato a 264

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noi familiari la causa della morte. MASSIMO: Io l'ho detto ai magistrati che sulla morte di mio padre mi restano molti dubbi. Lui stava bene in quel periodo, era in forma e intellettualmente vivace. Lo avevo sentito due o tre giorni prima e aveva scherzato sulla notizia della recente condanna a Giulio Andreotti. In tempi passati aveva sempre sostenuto che il senatore non sarebbe mai stato condannato a un solo giorno di carcere, tanto da augurarsi di morire solo dopo un simile evento. Il 17 novembre la Corte d'assise di Perugia condannò "il Divo" a una pena grave e allora mio padre mi disse: "Forse è giunto il momento...". Ma subito dopo aggiunse, per esorcizzare: "Vedrai che anche questa volta la farà franca", riferendosi forse ai miracoli della Cassazione. Non voglio farmi prendere dalle suggestioni, ma ho trovato strana questa successione dei fatti. Soprat­ tutto non sono riuscito a spiegarmi un piccolo mistero: la mattina del 19, sul mio cellulare ho trovato una chiamata persa di mio padre, intorno alle due. Prima domanda: se mi chiamava perché si sentiva male, co­ me mai non si è rivolto alle due persone di servizio che dormivano in casa? Per quello che ne sappiamo, infatti, i moldavi si sono accorti della morte di mio padre solo la mattina successiva. Seconda domanda: perché la telefonata notturna risulta fatta alle due, cioè un'ora dopo che mio padre - secondo le poche notizie ufficiali - era morto? Terza domanda: che fine hanno fatto gli unici testimoni di quella notte, scom­ parsi nel nulla? È lecito chiedere gli esiti delle perizie sul corpo? I giudici che mi interrogano da quando ho accettato di collaborare mi hanno chiesto chi frequentasse mio padre in quell'ultimo scorcio di vita. Ho detto che erano sempre gli stessi, i suoi interlocutori: Lo

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Verde/Provenzano, con la frequenza lenta, imposta dalla sua clandestinità, e il famigerato signor Franco (o qualcuno dei suoi emissari), molto più invasivo perché investito - penso - del ruolo di "risolutore di problemi". E l'irrequietezza di mio padre poteva rien­ trare tra le cose da seguire e, eventualmente, placare. Già, il vecchio Franco. Mi ha inquietato la sua pre­ senza in tutta la vicenda che parte con la "Trattativa" e si chiude con la scomparsa fisica di mio padre. Non riesco ad afferrare il senso del suo ruolo, specialmente per quello che è diventato dopo il 19 novembre del 2002. Lo vedremo tra un po', quando parleremo del mio processo e delle interferenze istituzionali che lo hanno caratterizzato, ma ho come la sensazione che la sua presenza abbia cambiato finalità. Che i suoi consigli, alla fine, prendessero sempre più le forme di minacce subdole. Persino nello stesso giorno dei funerali ho avuto la percezione netta dell'ambiguità del personaggio. Eravamo al cimitero dei Cappuccini, a Palermo, quando mi si avvicinò. Ebbe parole di conforto per me e di apprezzamento per mio padre che avevo appena seppellito. Ma, a un certo punto, tirò fuori dalla tasca una busta e me la consegnò. Rimasi di stucco quando la aprii e potei leggere il biglietto che conteneva: in­ credibile a dirsi, si trattava di un "pizzino" di condo­ glianze, per me e per la mia famiglia, inviatomi dal si­ gnor Lo Verde, questa volta attraverso un postino davvero particolare.

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12. La fine dell'avventura

È proprio stupefacente la figura del signor Franco, presenza continua, burattinaio sfuggente e occulto dell'intera attività politica e imprenditoriale di Vito Ciancimino. Massimo racconta di averlo visto "sempre accanto a mio padre", anche andando molto indietro nel tempo. MASSIMO: Non ricordo neppure il momento esatto dell'incontro col signor Franco. Il fatto è che io me li rammento sempre insieme. Esattamente come per il signor Lo Verde: due presenze con il tempo divenute proprio familiari. Nell'ultimo periodo di confidenza, mio padre mi parlò dell'origine avventurosa di questo personaggio. Mi disse che nel mondo esistono le persone fortunate e Franco, secondo lui, lo era stato. Come sempre, non raccontava tutto in modo completo e comprensibile. Quasi sempre teneva qualcosa per sé, rendendo poco chiaro il suo racconto. Per quel che ho capito, legava la "fortuna professionale" di Franco alla tragedia di Montagnalonga, una sciagura aerea avvenuta all'aero­ porto di Punta Raisi nel 1972. Il bilancio delle vittime, secondo la sua ricostruzione, 114, riservò un giallo

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mai risolto: il numero dei corpi recuperato non coin­ cideva con quello della lista ufficiale dei passeggeri: 115. In sostanza all'appello mancava un nome, quello ­ sembra - di un agente dei servizi segreti specializzato nelle vicende siciliane. Il ruolo di questo alto funzionario, mai identificato, sarebbe stato trasferito al signor Franco, allora giovane in carriera. Questo raccontava mio padre, aggiungendo che la sua fre­ quentazione con lo 007 si intensificò all'epoca in cui Franco Restivo era ministro dell'Interno.

Mister Franco MASSIMO: Ma tutto era cominciato all'epoca della strage di via Lazio (1969), quando Bernardo Provenzano conquistò Palermo a suon di lupara. Si consumò in un cantiere della "nuova Palermo", icona della speculazione edilizia, una strage senza precedenti. Obiettivo dei corleonesi era Michele Cavataio, boss di Palermo, sospettato di voler vendere agli investigatori l'organigramma della mafia corleonese. Ma per uccidere lui, il commando travestito da squadra di polizia non esitò a uccidere anche altri tre suoi fedelissimi. Fu un vero e proprio conflitto a fuoco, Cavataio sparò con la sua Colt Cobra e uccise Calogero Bagarella. L'avvenimento turbò parecchio i responsabili del­ l'ordine pubblico che, come spesso è accaduto nella nostra storia, cercarono di correre ai ripari con ogni mezzo. Mio padre fu così convocato a Roma, per un incontro ad altissimo livello con i ministri Restivo e Ruffini, e motivato a cercare un contatto durevole con il nuovo gruppo dei corleonesi. È così che nasce il rapporto con i servizi. Un rap­ porto che verrà ulteriormente rafforzato un anno dopo, nel 1970, in occasione del tentato golpe di Junio Valerio Borghese, che vedeva pesantemente coinvolta 268

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l'organizzazione mafiosa, e Luciano Liggio in par­ ticolare. Anche allora mio padre dovette riferire sulle strategie progettate durante i preparativi del golpe che ebbero come momento organizzativo un incontro a Roma tra il comandante Borghese e il capo della cupola regionale di Cosa nostra, che in quel momento era Giuseppe Calderone. Mi sono sempre chiesto se Franco fosse il suo vero nome. Così lo avevo memorizzato sul cellulare su indicazione di mio padre, anche se - devo dire ­ qualche volta lo sentivo chiamare Carlo, specialmente quando mi avvicinavo alla fine dei loro incontri. Ecco perché io stesso non so quale dei due nomi sia quello vero. Ma li ricordo bene, i due amici. A Roma Franco veniva a prenderlo spesso per la passeggiata quotidiana. Arrivava con la sua auto blu, elegante, con i capelli grigi ben pettinati, gli occhiali da vista, gli abiti impeccabili. Parlavano e parlavano, mentre percorrevano le stradine tra piazza di Spagna e piazza del Popolo. Avevano anche qualche amico in comune, per esempio il conte Romolo Vaselli. Ed è stato sempre lui a manovrare, nel bene e nel male. Non ha mai perso d'occhio mio padre, anche quando finì in carcere. Ho riconosciuto, tra le foto mostratemi dai magistrati, due tra i suoi collaboratori: quello che gli faceva da autista e un altro che entrava e usciva da Rebibbia per "governare" la detenzione di mio padre. Lui non c'era tra le foto mostratemi. L'autista aveva il volto del "capitano", quello che mi avvicinò mentre stavo agli arresti domiciliari per raccomandarmi di non parlare di "argomenti scottanti" e, l'anno scorso, venne a minacciarmi a Bologna, direttamente a casa mia. L'ultima volta che ho visto Franco era il 2006: mi invitò ad allontanarmi dall'Italia, perché dovevano accadere 269

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alcuni eventi che in qualche modo potevano coinvolgermi: con la mia famiglia e l'avvocato di fiducia partimmo allora per Sharm el Sheik. Dopo qualche giorno arrestarono Bernardo Provenzano e tra i pizzini ne trovarono uno che mi riguardava.

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1980: il 6 gennaio viene ucciso Piersanti Mattarella. Il 13, Attilio Ruffini,

allora ministro degli Esteri, rilascia un'intervista al quotidiano "L'Ora" di Palermo in cui difende se stesso e il suo partito, la Democrazia cristiana, da ogni possibile accusa di contiguità con la mafia. "Non ho amici tra i mafio­ si" titola il giornale. Vito Ciancimino, allora dirigente degli enti locali della Dc, non resiste alla tentazione di trasmettergli la sua vibrata opinione. Pun­ tuale la ricevuta di ritorno che testimonia l'avvenuto recapito della missiva.

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L'erede La spericolata avventura terrena di Vito Ciancimino, lo abbiamo visto, si conclude con l'ennesimo mistero che avvolge gli ultimi attimi del sindaco dei corleonesi, sorpreso a tradimento, nella notte, dall'ipertensione, un killer molto più infido di quelli conosciuti in vita. Nessuna indagine è stata fatta per cercare di ricostruire la notte in cui don Vito se n'è andato e, dunque, sarà difficile riuscire a dare risposte ai tanti interrogativi su quella ipertensione che sembrava ormai sotto controllo. Quello che, invece, si può dire -anche semplicemente seguendo la cronologia degli avvenimenti successivi al novembre del 2002 è che, scomparso il padre, una serie di conti da pagare (mai presentati prima) sono stati richiesti al figlio Massimo. Sarà lui a ereditare, nel bene e nel male, il peso non indifferente del lascito paterno, fatto di risorse economiche certamente, ma anche di un fardello in­ sopportabile di ricordi, tanto ingombranti da non poter essere condivisi con nessuno. Un peso che lo ha portato al ruolo di sospettato e condannato, in qualche modo, nella veste di "continuatore" del potere paterno. Potere che non poteva non arrecargli anche conseguenze sgradevoli. -

MASSIMO: Finché mio padre rimase in vita non si aprì, per me, nessuna prospettiva di autonomia, di li­ bertà personale o anche di spazi per realizzarmi pro­ fessionalmente. La sua presenza, nella mia vita, era totalizzante: dedicarsi alle sue necessità - l'assistenza durante la lunga carcerazione e poi la malattia - non lasciava spazio a nulla. Persino il matrimonio ha dovuto attendere. Conoscevo Carlotta da alcuni anni e mi sarebbe anche piaciuto accelerare i tempi e mettere su famiglia. Ma questo fu possibile solo dopo la morte di mio padre, appunto perché in primo piano c'erano solo 273

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lui e i suoi problemi. Fu scarcerato alla fine del 1999 e praticamente subito mi monopolizzò, esattamente come era successo nel 1992, durante la "Trattativa". Una volta a casa (lo abbiamo visto) si tuffò nella revisione dell'enorme mole di documenti che aveva intenzione di utilizzare come pezze d'appoggio al libro che ormai aveva deciso di scrivere per lasciare traccia di tutto ciò che aveva vissuto in prima persona. E contemporaneamente ­ anche questo abbiamo visto - intraprese una nuova battaglia per riconquistare la libertà completa (attra­ verso l'amnistia) con la fondamentale collaborazione del vecchio amico Lo Verde, dei suoi nuovi amici politici e del signor Franco. Potevo mai pensare a sposarmi in una situazione simile, correndo persino il rischio di finire coinvolto pesantemente nei suoi guai giudiziari o addirittura in conseguenze più cruente? Per questo continuavo a sorvolare sulle sacrosante richieste di Carlotta, che premeva perché ci sposassimo. Quando Baffo se ne andò, aveva un bellissimo rapporto con la mia fidanzata e lei con lui, che trovava ironico e divertente. Scherzava feroce su di me, come quando scrisse di essere attraversato dal seguente dubbio: "Le mie umane possibilità mi impediscono di comprendere cosa possa spingere una ragazza bella, intelligente e istruita come Carlotta a stare con uno come mio figlio. Questo fatto mi dà la misura degli imprescrutabili disegni divini dei quali non capisco niente". Quello era il suo modo di dimostrarmi le sue attenzioni. Era una vita che andava così, sin da quando mi aveva scelto come suo alter ego, incurante dei rischi che correvo: "Tanto," ironizzava, "non sai fare altro e comunque in galera ci andresti per cose molto più banali". Ma in fondo si capiva che si fidava di me, altrimenti non avrebbe impartito quella volontà al proprio legale: "Revoco ogni disposizione precedentemente data e nomino mio figlio Massimo Ciancimino e Luciana 274

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affinché congiuntamente possano avere accesso e controllo a quanto di mia proprietà". Con queste poche righe mio padre mi consegnava i documenti e il ricordo della sua vita scandalosa - una "non" vita dico io -, ma soprattutto, sorprendendo i miei fratelli, decideva di affidarmi quello che di più caro aveva avuto al mondo: non gli affetti familiari né i ricordi, bensì i famigerati "piccioli". Il tesoro, quel maledetto oscuro oggetto del suo desiderio che ancora oggi mi toglie credibilità nel giudizio degli altri e mi costringe a una continua difesa. Carlotta e io ci siamo sposati a Bologna, in Comune, il 19 settembre del 2003. Baffo era morto dieci mesi prima e, appena un anno dopo il matrimonio, nel novembre 2004, sarebbe nato quel nipote che avrebbe tanto voluto conoscere, non foss'altro che per trovare conforto nella certezza di aver lasciato "qualcosa di buono". Non ci sperava più nell'arrivo di un altro nipote maschio che rappresentasse la conti­ nuazione di sé. Quanto gli sarebbe piaciuto accoglierlo, specialmente nell'apprendere che si sarebbe chiamato Vito, Vito Ciancimino, un marchio indelebile. In vita ci aveva scherzato su questa eventualità: "Sei pazzo... già è tanto se trovi qualcuna che ti sposa e decide di fare un figlio. Ma trovare un'altra pazza che accetta di chiamare il figlio con un nome così ingombrante...". Lui non c'era più quand'è arrivato Vito, Vito Andrea. Perché l'ho chiamato così? Forse per contraddirlo, anche da morto, come avevo sempre fatto.

La Società Gas Ma la morte di don Vito non interruppe il legame con il figlio più piccolo. L'eredità dei "piccioli" lasciò la sua traccia indelebile. L'ex sindaco era stato appena seppellito, il signor Franco aveva consegnato il "pizzino" di condoglianze di Provenzano/Lo Verde e 275

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già le curiosità della magistratura cominciavano ad addensarsi su Massimo, iscritto nel registro degli in­ dagati (ipotesi di reato: associazione mafiosa) alla fine del 2002. Un'indagine comunque mai decollata, probabilmente perché la morte di don Vito funzionò da "bianchetto' per cancellare anche quanto aveva scritto e detto in più occasioni, specialmente alla luce del ruolo che aveva assunto nella controversa vicenda della cosiddetta "Trattativa" con la mafia. Questo precedente rimase nell'ombra fino al 2005, anno in cui Massimo Ciancimino entrò nell'inchiesta sul Gruppo Gas, una società per la distribuzione del metano in Sicilia. L'indagine prese corpo da alcuni "pizzini" trovati addosso al boss di Caccamo, Antonino Giuffrè, al momento del suo arresto avvenuto a Roccapalumba nel 2002. Vecchia storia, questa della Gas, che risale al 1983, quando Vito Ciancimino si lanciò nell'impresa della distribuzione del metano. Un business andato a gonfie vele, almeno fino all'inizio del 2000, ma poi trasformatosi nel prologo di quello che Massimo chiama "il mio tunnel prologo non solo per la controversa vicenda giudiziaria che lo porterà al carcere e alla condanna, ma per i retroscena di minacce, suggerimenti e consigli che evidenzieranno pesanti anomalie delle indagini e intromissioni dell'ineffabile signor Franco, nelle vesti di eminenza grigia - così ha detto Massimo alle Procure - in grado di orientare il processo. MASSIMO: La

società nacque a Mondello, a casa nostra, nell'estate del 1983. Vennero a trovare mio padre, accompagnati dal fido Enzo Zanghì, cugino-segretario tuttofare, l'ingegnere Ezio Brancato e il professor Gianni Lapis, il primo, funzionario dell'assessorato regionale all'Agricoltura, l'altro, sindaco del consiglio d'amministrazione della Sicilcassa. L'idea di entrare nell'affare dell'energia fu dell'in­ 276

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gegner Brancato che ne aveva parlato con Zanghì, a sua volta promotore della proposta presso mio padre. Così nacque la Siciliana Gas, che prese il controllo di una buona fetta della distribuzione del metano nell'isola. Come accadeva spesso, l'iniziativa fu condivisa con altri politici. Non potendo comparire ufficial­ mente, questi erano rappresentati da amici prestanome. Di fatto si profilarono due gruppi: da un lato quello della famiglia Brancato che deteneva, oltre alle quote di mio padre, anche quelle di Lima, dell'onorevole Calogero Pumilia, del costruttore Fiore e di Zanghì in piccola parte. L'altro comprendeva il professor Lapis e le famiglie Campodonico, Mulè e Alia. La presenza di personalità forti, come Vito Ciancimino e Salvo Lima, garantiva margini maggiori di successo. Ma era mio padre il vero architetto dell'im­ presa. Fu lui, infatti, a dover intervenire, direttamente e attraverso il signor Lo Verde/Provenzano, per spianare la strada alla Gas, contrastata anche dalla mafia locale che "lavorava" per un'altra azienda. Fu indispensabile un difficile accordo con il capo di Cosa nostra nissena, Piddu Madonia, siglato direttamente da Provenzano. Il patto prevedeva che non vi fossero rapporti diretti tra la mafia e l'azienda appaltatrice. I vantaggi per Cosa nostra e la gestione delle messe a posto (il pagamento delle tangenti) venivano affidati alle imprese locali, titolari dei subappalti. Mio padre riuscì anche a strappare una regola non scritta: a parità di condizioni il subappalto sarebbe andato alla ditta da lui segnalata. Insomma, questa Gas si rivelò una miniera, addirittura senza il rischio dell'investimento del capitale iniziale che, nella mi­ gliore tradizione siciliana, proveniva da denaro pub­ blico. Tramite i buoni uffici del professor Lapis, infatti, la società godeva di grosse anticipazioni, fino al 90 per cento del totale del finanziamento regionale. È ovvio che, a queste condizioni che escludevano 277 "

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praticamente ogni concorrenza, la parte del leone la recitava Cosa nostra. Le imprese del subappalto, infatti, fatturavano un 3 per cento in più destinato alla famosa "messa a posto". Neppure mio padre inizialmente investì soldi. La sua quota di partecipazione, in sostanza, fu stabilita in un 15 per cento circa, una sorta di compenso per i suoi interventi risolutori. Questa, in sintesi, la storia della Società Gas. I pro­ blemi per Massimo nacquero alla vendita dell'impresa, decisa dagli eredi dell'ingegner Brancato (nel frattempo scomparso). Invece di scegliere la strada del­ l'accorpamento con altre aziende estere, i Brancato decisero di vendere. MASSIMO: La vendita della Gas avvenne in un mo­ mento forse poco fortunato, visto che per un equivoco finì per incrociare altre indagini nel frattempo nate dai "pizzini" trovati addosso a Giuffrè. Si parlava di una "impresa Lapis" e furono messi sotto controllo i telefoni del professor Lapis che con quell'impresa non c'entrava nulla. L'ascolto dei colloqui telefonici ovviamente questa è la mia versione - ingenerò equivoci tali da indurre i giornali a titolare su "ope­ razioni finanziarie per mille miliardi di vecchie lire" da investire persino nella realizzazione del ponte sullo Stretto. Comprensibilmente il mio cognome era tra quelli più appetibili: Ciancimino, questa volta il figlio, continuava a fare notizia. Non voglio seguire le orme di tanti che gridano continuamente alla congiura. Dico semplicemente che una vendita alla luce del sole - la Gas ceduta agli spagnoli della Gas Natural, una sorta di Eni iberica - si è trasformata in un'inchiesta partita addirittura con il sospetto della matrice mafiosa. Quando è diventato chiaro che la mafia c'entrava poco, i magistrati di Palermo non hanno ritenuto di dover rivedere le loro posizioni e allora si sono aggrappati al mio nome per mantenere alto 278

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l'interesse mediatico. In tutto questo sono svanite nel nulla posizioni processuali (per esempio gli eredi di Brancato). Così la penso io e non posso non osservare come la sentenza che mi ha condannato - seppure dopo aver depennato per inconsistenza i reati infamanti di associazione mafiosa e di estorsione - sancisca in pratica che una società è per metà sospetta e per l'altra metà immacolata. È ancora vivo il ricordo di quando entrai nel tunnel. Sotto processo Il processo per riciclaggio che vede Massimo oggi condannato in appello a tre anni e quattro mesi rap­ presenta l'ultima tappa della sua romanzesca avventura. Uno dei momenti più importanti, la svolta che gli ha cambiato la vita conducendolo su un percorso di non ritorno. Il racconto che fa degli impetuosi sviluppi di questa storia testimonia la metamorfosi avvenuta dentro di sé. Un cambiamento quasi naturalmente indotto dagli eventi che lo hanno incalzato in questi ultimi tre anni in cui ha potuto verificare l'inganno racchiuso nei miti inseguiti dal padre, anche a scapito di cose importanti come l'amore per i figli. Ha potuto guardare il vero volto di uomini come Lo Verde o il signor Franco e riconoscervi i tratti del cinismo del potere. E racconta il suo approdo alla difficile scelta della collaborazione. MASSIMO: Il 6 di giugno del 2006, alle 6.45 del mattino, suonò il citofono di casa mia a Palermo, al numero 5 di via Torrearsa, nel cuore del quartiere "nobile" di via della Libertà. Fu Carlotta a sentirlo e a rispondere. "Buongiorno signora, ci scusi per l'orario, siamo

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ufficiali dei carabinieri e della guardia di finanza. Avremmo bisogno di parlare col signor Massimo Ciancimino. È in casa?" Non me la scorderò più quella mattina, dovessi campare mille anni mi rimarrà sempre addosso, fino a diventare una sindrome patologica: il senso d'angoscia del citofono che ti strappa al sonno tranquillo. E non dimenticherò neppure lo sconcerto nel vedere verificarsi qualcosa che mi era stato preannunciato non come profezia, ma come previsione certa. Me lo aveva detto, il signor Franco, che mi avrebbero arrestato. Il ritrovamento dei "pizzini" (in alcuni si parlava di me) nel covo di Provenzano rendeva più facile il ricorso al provvedi­ mento restrittivo, seppure limitato dalla concessione degli arresti domiciliari. Aveva mandato la solita persona ad avvertirmi: il "capitano" che non era tale, ma sembrava essere diventato il suo alter ego. Mi aveva detto anche di disfarmi dei documenti e del denaro che tenevo in casa e io avevo prontamente eseguito. Avevo trovato pure il modo di preparare all'evento Carlotta e il mio bambino, che si erano abituati alla mia detenzione in famiglia. Sei mesi più tardi, in piena atmosfera natalizia, in­ tervenne però uno sconvolgimento inaspettato. La Procura aveva infatti impugnato la decisione del giudice che stabiliva i domiciliari e mi vennero a prendere per portarmi all'Ucciardone. Cercai di mantenermi lucido e di trovare forza nelle parole rassicuranti del signor Franco, che continuava a sostenere le sue tesi ottimistiche. Ma tutto ciò non servì a frenare la mia disperazione di fronte alla solitudine, allo smarri­ mento di quella cella che improvvisamente diventava tutto il mio mondo. Portai con me il libro di John Grisham Innocente, una storia vera, ma mi servì più per scrivere che per leggere. Non avevo carta e utilizzai ogni spazio bianco del volume per sfogarmi: "...vengo portato via - scrissi alle 12 del 14 dicembre ­ da quello che ho di più caro al mondo, Carlotta e Vito 280

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Andrea... Ore 16 ingresso in carcere, all'Ucciardone, dopo rituali tristissimi: matricola, perquisizione, visita medica. Vengo assegnato alla Terza sezione di massima sicurezza, terzo piano cella numero due. Non ce la faccio più a trattenermi e scoppio in un pianto liberatorio... Tutto è peggio di ogni immaginazione, niente riscaldamento, niente acqua calda, letto senza lenzuola: solo due coperte...". E l'indomani: "Primo risveglio in carcere... alle 7.30 mi preparo per l'udienza in tribunale, perquisizione di nuovo e il freddo, la vergogna delle manette ai polsi... Penso che in carcere si perda la propria identità: non sei più nessuno, sei solo un numero..." Al Palazzo di giustizia giunsi mentre, credo il pm, diceva di me: "Massimo Ciancimino, a differenza dei suoi fratelli, sapeva dove il padre occultava i suoi beni di provenienza illecita e dunque ne era complice...". Chiesi di poter uscire e andai a vomitare. Rimasi in carcere poco più di una settimana che mi sembrò un secolo. Non avrei resistito senza il pensiero di Vito Andrea e Carlotta. Era passato più di un anno dall'avviso di garanzia, notificato il 17 febbraio del 2005. E anche allora il signor Franco era stato premuroso, informandomi in tempo reale degli sviluppi dell'inchiesta ma sempre attraverso i medesimi emissari (due), invitandomi a stare buono e calmo, ché le cose tanto "si aggiustano". Mi fu consigliato di dire il falso, di non parlare del coinvolgimento di mio padre nel Gruppo Gas. Così feci, almeno all'inizio. Vedevo aumentare il castello delle accuse, ma vedevo anche - e ciò in qualche modo mi rassicurava -come puntualmente entrassero in scena strane coincidenze che finivano per creare argini all'invadenza della magistratura. Come se un angelo protettore vegliasse per neutralizzare gli sviluppi delle inchieste. Così avveniva, ancora prima del mio arresto del 2006. Prendiamo, ad esempio, la perquisizione, anzi le per­ 281

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quisizioni nel giorno della notifica dell'avviso di ga­ ranzia, avvenute a Palermo e a Roma contempora­ neamente. Era il febbraio del 2005 e ci trovavamo, io e Carlotta, a Parigi a festeggiare il mio compleanno e il primo san Valentino dopo la nascita di Vito Andrea. Gli uomini di Franco mi avevano informato su cosa maturava, ma al solito avevano aggiunto che si poteva stare tranquilli, "che tutto si sarebbe sgonfiato", l'importante era stare calmi e zitti. In effetti ciò che accadde quel giorno dava forza all'ottimismo degli emissari del signor Franco. Mi chiamò da Palermo, dalla casa di Mondello, Vittorio, il collaboratore che in mia assenza si occupa di tutto: casa, bollette, le piante, la corrispondenza, insomma tutto. Mi comunicò che c'erano i carabinieri con un ordine di perquisizione da eseguire immediatamente. Chiesi di parlare con chi comandava l'operazione e mi fu passato un ufficiale, il capitano Angeli. Fu molto gentile al telefono, mi rassicurò sul fatto che non c'era nessun provvedimento restrittivo da notificarmi ma soltanto da perquisire la casa. Aggiunse che in contemporanea si doveva ispezionare anche la mia abitazione romana. Ero certamente in apprensione, ma non avevo nessuna voglia di sottrarmi alla legge. Chiesi più volte se era il caso che lasciassi Parigi per tornare a Palermo, ma mi fu detto che non c'era fretta e avrei potuto presentarmi in Procura per l'interrogatorio anche dopo qualche giorno. Allora parlai ancora con Vittorio, dandogli tutte le indicazioni necessarie per ottemperare alle disposizioni dei carabinieri. Gli chiesi di chiamare mio fratello Roberto per farlo assistere alla perquisizione, in dualità di legale. Praticamente seguivo al telefonino 1 evolversi degli eventi: ribadii all'ufficiale che poteva chiedere a Vittorio tutto ciò che gli serviva. Comunicai che era lui a custodire le chiavi della cassaforte, certamente - pensavo - da ispezionare. Lo stesso feci 282

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con i carabinieri di Roma, ai quali cominciai col rettificare il mio indirizzo, visto che non abitavo più in salita San Sebastianello. Misi a loro disposizione tutto ciò che serviva, attraverso un amico avvocato. Ma con un certo stupore appresi poi che i carabinieri si erano disinteressati del tutto delle due casseforti, sia a Roma sia a Mondello. Vittorio mi disse di aver dato le chiavi al capitano, ma quello aveva risposto che non era interessato. Peccato, perché avrebbe trovato molte cose importanti, molti documenti soltanto oggi in mano alle Procure, a cominciare dal famigerato "papello" (che gli investigatori cercavano, senza successo, da almeno dieci anni), la cui esistenza era sempre stata negata da Mori e De Donno. La perquisizione, tuttavia, andò avanti a lungo, fino a raggiungere gli scantinati della villa che fungevano da deposito della Chateau d'Ax, la ditta di divani di cui avevo la rappresentanza. Proprio lì vennero sequestrati alcuni scatoloni pieni di documenti: tra questi la minuta di lettera intimidatoria che mio padre aveva scritto per inviarla a Marcello Dell'Utri e al presidente Berlusconi. E ovvio che quel ritrovamento mi dava molta apprensione, perché mai e poi mai avrei voluto trovarmi nelle condizioni di dover spiegare il senso di quella missiva. Senza contare, poi, che tra le carte se­ questrate c'erano pure alcune schede sim di una certa importanza. Una, in particolare, quella del mio numero storico (335252648) conteneva nella rubrica il recapito telefonico del signor Franco: anche su quello mi sarebbe dispiaciuto dover rispondere. Perciò, al­ larmatissimo, lo informai dell'avvenuto ritrovamento. Ma lui non si scompose: mi consigliò di non fare colpi di testa, di tacere e soprattutto di non fare parola della vicenda della trattativa. Replicai che mi sembrava fantascienza solo pensare che tutto ciò potesse rimanere segreto. E la lettera a Berlusconi? E la carta sim con il suo recapito? "Tranquillo," mi rispose, "non uscirà fuori nulla e il processo si sgonfierà." 283

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In effetti le cose sembrarono andare in quella dire­ zione visto che, incredibilmente, si persero le tracce sia della lettera a Dell'Utri e Berlusconi che della sim, dimenticate negli uffici dei carabinieri e ritrovate (senza il recapito di Franco) solamente in seguito, quando - dopo l'inizio della mia collaborazione - se­ gnalai l'anomalia ai sostituti Ingroia e Di Matteo. Quelle coincidenze, però, mi avevano in qualche modo convinto dell'affidabilità delle assicurazioni fornite da Franco e soci. Tutto ciò che annunciavano, d'altra parte, si verificava puntualmente. Avevo avuto tutto il tempo di trasferire, indisturbato, il "papello" di Riina, i documenti più compromettenti e anche i soldi che stavano in cassaforte. Come da istruzioni, avevo portato il "pacco" all'estero presso una società di Hong Kong che deteneva, tra l'altro, un conto e una cassetta di sicurezza in Liechtenstein. Ecco una delle cause principali della lentezza con cui ho potuto consegnare ai pm il materiale che mi veniva richiesto. A un certo punto, però, ho dato ogni in­ dicazione necessaria per accedere al conto. Per tutto questo mi sono convinto a seguire le voci che mi invitavano a mentire. Accadevano cose che mi facevano sentire infinitamente piccolo e indifeso, ri­ spetto alla potenza di quanti riuscivano a prevenire e a indirizzare gli eventi. Ancora Franco, sempre lui, mi aveva avvertito che stava per "accadere qualcosa per cui è meglio che te ne stai un po' fuori". Era aprile 2006, due mesi prima del mio arresto, e andai in vacanza in Egitto, a Sharm el Sheik. Portai Carlotta e Vito Andrea ma, siccome temevo il peggio, convinsi il mio avvocato a seguirmi: al mare con il legale di fiducia, in attesa degli eventi. Che arrivarono il giorno 11 con l'arresto di Bernardo Provenzano. Ancora una volta aveva avuto ragione Franco, nella sua ansia di coprire eventuali tracce della trattativa. Non sapendo cosa avrebbero trovato nel covo del boss, riteneva 284

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prudente farmi allontanare. E in effetti qualcosa che mi riguardava c'era, tra i "pizzini" di Lo Verde.

La collaborazione Ha ricevuto molte critiche, Massimo Ciancimino, per ciò che ha raccontato sulla cassaforte ignorata e sull'atteggiamento dei carabinieri, a partire dalla vi­ cenda della trattativa con Mori e De Donno. Oggi la situazione è leggermente diversa: le indagini della Procura sembrano giunte a una svolta con gli avvisi di garanzia a carico di alcuni, tra ufficiali e sottoufficiali, che presero parte all'inchiesta confluita nel processo sul Gruppo Gas. Il capitano Angeli è indagato, per la storia della perquisizione, insieme ad altri, alcuni dei quali sembra abbiano accettato di collaborare con la magistratura. E sul fronte della trattativa sono stati scoperti nuovi documenti, appunti scritti di pugno da Vito Ciancimino che denuncerebbero "la falsa testimonianza di Mori e De Donno al processo di Firenze" [il dibattimento sulle stragi di Roma, Milano e Firenze]. Gli stessi ufficiali (Mori è in attesa della sentenza al processo per la mancata cattura di Provenzano) sono oggi iscritti sul registro degli indagati, insieme ai mafiosi coinvolti nella trattativa (Riina, Provenzano e Cinà) e ad altri rappresentanti delle istituzioni. Ma oggi la posizione di Massimo Ciancimino non è più quella del 2006: pur essendo lui un imputato condannato, è anche teste d'accusa in altri processi (Calvi, Mori, ma non Dell'Utri perché la Corte d'appello lo ha escluso rilevando la "progressività" delle sue dichiarazioni). E in altri ancora lo sarà, quando arriveranno a conclusione le istruttorie avviate con le sue dichiarazioni. Queste le conseguenze della sua scelta di collaborare con i giudici, maturata dopo il traumatico arresto e la condanna in primo grado. 285

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L'appunto in cui Vito Ciancimino dichiara che Mori e De Donno "hanno reso falsa testimonianza al processo di Firenze".

MASSIMO: Chi mi conosce sa perfettamente quanto io sia l'opposto di quello che suole definirsi una testa mafiosa. Penso che uno come me la mafia non l'avrebbe mai affiliato: troppo superficiale, incapace di prendersi sul serio come, invece, fanno lorsignori ogni volta che si accingono a una qualche impresa, anche di quelle assolutamente ridicole. Li vedevo muoversi, quando accompagnavo mio padre, nella loro rozza ignoranza, goffi ma con l'aria di chi si sta 286

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caricando sulle spalle i destini del mondo. Tutto l'op­ posto dell'ironia incosciente con cui, quasi sempre, riesco a esorcizzare avventure pericolose. In verità anche mio padre, seppure molto attento a non urtare la suscettibilità di nessuno, dimostrava scarsa consi­ derazione per i mammasantissima. Fa testo il modo in cui li riceveva: a letto, in pigiama, dando del tu a tutti e quasi pretendendo il "lei ingegnere". Ma questo faceva parte della sua indole: disponibile, ma da posizioni di supremazia, perché la politica doveva stare più in alto. Riusciva a essere addirittura sfottente, senza tuttavia oltrepassare il limite: la sua specialità era quella di irridere Riina per il suo abbigliamento, facendogli però credere di ammirarlo e persino di volerlo imitare. Il giorno che venne a casa con il lingotto d'oro - ricordate? - non fece neppure cenno a un ringraziamento e lo prese in giro con false adulazioni sulla cravatta e sull'orologio, costosissimo e inguardabile. Ecco, forse per questo non mi piaceva quel mondo lì. Potevo essere attratto dalla facilità con cui spendevano i loro soldi i figli dei boss, dalle belle auto, dalle barche, dalle moto, ma l'idea di una riunione con queste mummie, che non dicevano mai tutto quello che pensavano, bastava a tenermi lontano da loro. E fu proprio il carcere a rafforzarmi in questa convinzione. Sono stato all'Ucciardone solo pochi giorni, sufficienti per comprendere che quello del mafioso non è mestiere mio. In carcere io sarei capace di confessare colpe mai commesse: troppo malessere mi provoca l'impossibilità di potermi muovere a mio piacimento. La cella "numero due" dell'Ucciardone è stata per me meglio di una seduta psicoanalitica. Lì ho capito quali erano le cose a cui tenevo veramente: mio figlio e mia moglie, perché rappresentano tutto quello che è mancato nella mia fanciullezza. So che voglio essere un marito e un padre diverso da quello che ho avuto io. Ed è stato per loro, per Carlotta e Vito Andrea, che ho 287

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preso la decisione di cambiare musica. Non è stato facile, perché le pressioni che mi arri­ vavano erano davvero tante. Ero combattuto, anche se mi ero formato le idee nei due anni trascorsi con mio padre a scavare nella sua memoria, alla ricerca della trama di un libro che considerava liberatorio. Avevo chiaro l'inganno, e lui pure, di cui si erano serviti per imprigionarlo in una rete dalla quale non era più uscito. La stessa cosa stava succendo a me: anni e anni di vita spericolata all'ombra di un uomo perennemente in bilico, sull'orlo del precipizio e poi - rimasto solo - la resa dei conti. Tutto divenne più evidente quando, tornato agli arresti domiciliari, colsi come cambiava sempre più l'atteggiamento del signor Franco nei miei confronti. I suoi fedelissimi mi stavano sempre intorno, ma non li sentivo più protettivi come prima. È vero che una volta il "capitano" si presentò in via Torrearsa per recapitarmi del buon pesce e delle aragoste per conto di Franco. Ma è pur vero che un'altra volta si presentò a casa per consigliarmi vivamente di astenermi da qualunque accenno ai carabinieri, trattative e verità nel processo sulla Gas. Fu, quella, una delle prime volte che ebbi un brivido di paura. Ma la vera molla per fottermene dei saggi (e inte­ ressati) consigli dei vecchi amici, fu la reazione di Carlotta, ormai stanca delle mie cautele nei confronti degli altri: "Basta Massimo, adesso devi pensare solo a te stesso e alla tua famiglia. Non sopporto più di vederti in queste condizioni. E poi perché? Per proteggere una serie di lestofanti? Basta, adesso vai e dici tutta la verità, succeda quel che succeda". Presi tempo, e continuai a rimuginare dentro di me. Temevo la perdita delle protezioni, ma riconoscevo più d'una ragione a Carlotta. Gliela dovevo, a mia moglie, una scelta coraggiosa. Il nostro incontro era stato lungo ed elaborato, l'esordio non felice, neppure mi guardava. 288

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Già, perché avrebbe dovuto interessarsi a me, visto che stava con il rampollo - alto, porschedotato, bello ed elegante - erede di un grande industriale del caffè? Ecco lei era messa così, mentre io per i miei stessi fratelli ero e continuo a essere semplicemente "Nano". Frequentavo Cortina, i locali e i tavoli che contavano. È stata, quella avvenuta intorno al Duemila, l'unica mia vera azione di riciclaggio. Ma il solo obiettivo era quello di "lavare" il marchio dei Ciancimino, gettandolo nella mischia della bella vita di Cortina. Tutti ragazzi e ragazze alti sopra il metro e settantasei: pensate che fatica per uno come me che per giunta si chiama Ciancimino. Ma non mi arrendevo: ricordo quando chiesi il numero di telefono a Sonia, alta una volta e mezzo me. Mi guardò, scoppiò a ridere e mi disse: "Ma ti sei visto?". Siamo stati insieme tre anni. Era Carlotta, comunque, il mio chiodo fisso. Dolce, buona, viziata, allegra e depressa. Ci siamo messi insieme nel 2001 ed è stata una vera sorpresa, anche per le attenzioni che riusciva a riservare a mio padre con cui faceva lunghe passeggiate a Roma. A lei avevo parlato chiaro, le avevo detto che non avrei mai avuto la mia libertà con un padre così inva­ dente. Non spiegai nei dettagli, ma lei sapeva bene i pericoli insiti nelle sue frequentazioni, innanzitutto Franco e Lo Verde. Fu amorevole e comprensiva, ecco perché le dovevo tanta riconoscenza. Non mi ha fatto mancare mai il suo appoggio, nep­ pure dopo la scelta di collaborare apertamente con i magistrati, scelta che da un lato mi metteva in condi­ zione di potermi meglio difendere al mio processo, ma contemporaneamente apriva un nuovo capitolo della nostra vita. Improvvisamente cambiò tutto: quello che avevo detto ai pm di Palermo e Caltanis­ setta ebbe conseguenze immediate. A metà maggio del 2009 mi fu assegnata la scorta e così a Carlotta non poté più sfuggire il guaio in cui ero andato a cac­ 289

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ciarmi. Fu un momento difficile, perché cominciò l'apprensione per Vito Andrea che non avrebbe potuto più starmi vicino come prima. Da allora non vado più a prenderlo a scuola. Ma abbiamo superato anche quello scoglio e poi, ancora, lo choc per le novità da me rivelate. Chissà se il signor Franco o Lo Verde hanno condiviso la scelta finale di dire tutto fino in fondo. Certo, qualcuno scontento dev'esserci a giudicare dai messaggi che, ancora oggi, mi giungono. Il "capitano" è venuto fino a Bologna, al citofono, a ricordarmi che il silenzio fa b e n e a l l a s a l u t e . Quante critiche ho dovuto sopportare. Come accade nel paese della logica capovolta, il problema non è chi si avvale della facoltà di non rispondere e tace, ma chi parla e dice tutto. Certo, ci ho messo del tempo. Quello necessario a vincere le mie paure, a recuperare e interpretare l'enorme materiale documentale lasciato da mio padre. Mi hanno accusato di nascondere i nomi del signor Franco e dei suoi collaboratori e io rispondo che sfido chiunque ad affrontare nemici così subdoli, senza poter contare neppure su un consiglio amichevole. Ogni volta che pensavo di spingermi un po' mi chiedevo, per riflesso condizionato: "Chi mi aiuta? I carabinieri che non hanno voluto aprire la cassaforte col "papello"? Il signor Franco che mi dice di tacere o i suoi messaggeri minacciosi?". E mi tornavano alla mente tutti i magheggi" di quella allegra brigata: il passaporto al neonato Vito Andrea, il "pizzino" di condoglianze al cimitero dei Cappuccini, la soffiata prima dell'arresto di Provenzano, quella sulle coperture politiche della "Trattativa", la lettera di Provenzano recapitata a mio padre a Rebibbia, il "casuale" incontro, sempre in carcere, con i Salvo, le aragoste in via Torrearsa e tanti altri interventi risolutori. C'era di che temere, ma alla fine questi non sono più personaggi senza volto. Il "capitano" l'ho ricono­ 290

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sciuto in foto e anche l'altro. Mi hanno mostrato un album con delle facce senza nomi, come prevede la prassi per l'identificazione degli agenti dei servizi di sicurezza. Ho indicato due "numeri", due persone le cui identità sono coperte dal segreto. Spetterà ai ma­ gistrati svelare il mistero. Anche sul signor Franco ho fornito elementi utili all'identificazione. So bene che tutto il mondo è convinto che io ne conosca nome e cognome: ai giudici ho dato numerosi spunti per individuarlo. Una sua foto certamente non mi è stata ancora mostrata, ma qui posso aggiungere un altro particolare: quando mi consigliò di allontanarmi dall'Italia, alla vigilia della cattura di Provenzano, lo fece personalmente. Ci incontrammo a Roma, mi diede appuntamento davanti all'ambasciata americana presso la Santa Sede da cui lo vidi uscire. Ma in fondo è anche per lui, per Baffo, che ho scelto la strada della collaborazione. Ricordo come nel 1993 ci avesse provato a "passare il Rubicone" e non scordo con quanta sufficienza la sua offerta di collaborazione fosse stata archiviata. Anche con Falcone avevo provato a farlo parlare, ma forse era troppo presto per un simile "evento". Una cosa ho potuto toccare con mano: che dalla fine del 1999 alla sua morte ha lavorato per lasciare una specie di manuale per la ricostruzione delle vicende di mafia e politica. Se fosse rimasto vivo e fosse riuscito a scrivere la sua storia, più di un magistrato lo avrebbe chiamato. Io ho riferito quello che lui avrebbe voluto scrivere. È come se mi avesse affidato il compito di sanare il nostro vecchio conflitto e giungere a una nuova intesa. Ci penso spesso a mio padre. Con rabbia, è vero, ma anche con la compassione che un figlio non può negare a chi l'ha messo al mondo. Certo non gli per­ dono di avermi tarpato le ali, come quella volta che avevo aperto una discoteca a Monte Pellegrino, il Brasil, e lui fece di tutto per farmi chiudere. E incre­ dibile: prima mi mandò i mafiosi a chiedere il pizzo e 291

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poi una squadra della guardia di finanza che fu im­ placabile e letale. Perché si comportò così? Semplice­ mente perché aveva intuito che quell'attività mi avrebbe procurato l'autonomia economica. E lui questo non lo voleva, preferiva prendermi per bisogno. Ma non scordo neppure la sua severità, 1 eccessivo at­ taccamento ai "piccioli". E la catena con cui mi im­ mobilizzava, lo sgabuzzino al buio dove scontavo le mie pene, l'ironia con cui liquidava ogni mia iniziativa personale e di lavoro, sminuendola con l'esaltazione dei successi di altri. Quanto mi piacerebbe, oggi, ri­ petergli la mia battuta più riuscita: "Quando accom­ pagnavo mio padre capitava spesso di attenderlo in macchina insieme ad altri giovani aspiranti al successo. Io ero il suo autista, il presidente Schifani, oggi seconda carica dello Stato, guidava l'auto di Peppino La Loggia e il presidente Totò Cuffaro faceva l'autista di Calogero Mannino. Loro sì che hanno fatto carriera, vero papà?". E mi piacerebbe anche poter tornare indietro, quella mattina nella sala da barba del signor Lo Pic colo. Cosa pagherei per potergli dire: "Fanculo papi Fottiti tu e il signor Lo Verde. Sai che c'è? Che se I vedo un'altra volta a casa nostra o se mi costringi incontrarlo chiamo i carabinieri...". No, forse loro non sarebbero indicati... La polizia? Il signor Franco Ma che ne so, è tutto così ambiguo... E oggi ho paure

Un uomo solo Ma poi lo rivedo, fragile com'era negli ultimi du anni e mi fa quasi tenerezza. Rivedo un uomo soli rinchiuso sotto il peso dei suoi ricordi e dei suoi sensi di colpa, desideroso per la prima volta di condivider la fatica di vivere. Sembra lontana mille anni l'intn prendenza sfacciata di un'avventura strana capitata Roma e scritta in due fogli, che ho trovato durante I mie quotidiane 292

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ricerche in quel pozzo di san Patrizi a cui attingono numerosi magistrati: Una mattina dell'estate scorsa, alle 4, non potevo dormire e decisi di fare la consueta passeggiata quotidiana a quell'ora, attorno a piazza di Spagna. Ritorno a casa, da via Condotti, quando due ragazzi (venticinquenni, ho saputo dopo) mi vengono lentamente incontro e, con aria spavalda, uno rivolto a me, che sostengo in maniera decisa il loro sguardo, dice: "Noi ci conosciamo, ma dove ci siamo incontrati?". Rispondo "di botto": "Certamente a Rebibbia!" (si tratta del carcere romano dove sono stato "ospite" per circa sei mesi). I ragazzi si guardano attoniti tra loro e all'unisono esclamano: "Impossibile! Noi siamo stati solo a Regina Coeli" (per chi non lo sapesse altro carcere romano). Il ghiaccio, come si usa dire, si era rotto e i ragazzi mi "circondano", manifestando grande cortesia ed attenzione. Uno di loro (sempre lo stesso, il "capo" presumo), osserva: "Ma Lei, data la sua personalità (non capisco da che cosa abbiano derivato la "personalità", tranne il fatto che ero vestito con giacca e cravatta e camicia, come di solito) e la sua età, non può essere stato 'dentro' che per 'associazione mafiosa' ". Colpito da tanta perspicacia, ridendo rispondo: "È proprio così". A questo punto, guardandoli in viso, ho la certezza di essere diventato "qualcuno" per loro e chiedo autorevolmente":

"Ma voi cosa fate?".

"I ladri," rispondono assieme.

Stabilitasi la "familiarità" uno (sempre lo stesso) incalza: "Eppure noi la conosciamo, ma Lei chi è?". Rifletto per qualche attimo, e penso: "Ora mi butto". "Mi chiamo Vito Ciancimino," sillabo. Ho, netta, la sensazione di aver pronunciato una parola magica. Mi rimane, tuttora, impressa nella mente l'immagine dei loro volti. Erano, attoniti, sbigottiti e increduli. Ricordo che il "capo" afferrò l'altro, lo trascinò di una ventina di metri, ai piedi della scalinata di piazza di Spagna e lì ((

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confabularono per alcuni minuti, io vedevo solo i gesti che

erano molto ampi.

Di ritorno, con grande deferenza e umiltà dissero:

"Noi siamo sbalorditi e le chiediamo, per carità, ci può mostrare un documento di identità personale?". Nei momenti in cui loro parlottavano, divertito e distrattamente avevo pensato di tutto, tranne che mi avrebbero fatto una simile richiesta. Decisi di aderire e porgendo la carta di identità, con aria faceta dissi: "Voi avete più la 'vocazione' di poliziotti che non quella di `ladri"' . Accertata la mia identità, si chinarono, mi afferrarono le mani nell'intento manifesto di baciarmele; mi sottrassi con decisione a simili effusioni (che non tollero) e loro umili, in coro, chiesero: "Come è possibile che `vossia', alle 5 di mattina, cammina 'solo' in piazza di Spagna?". Io, autorevole, rispondo: "Chi ve lo dice che sono solo?". I ragazzi si guardarono attorno, non videro nessuno e sconsolati affermarono: "Siamo degli imbecilli, non vediamo nessuno eppure siamo circondati da decine di picciotti". Mi allontanai da "Dio", tale ero diventato ai loro occhi. Avevo contribuito ad alimentare la "mia leggenda". Sono stato "peggio" (ed è quanto dire) di un giornalista.

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Appendice

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Paradigma di collaborazione*

1 Sulla scorta di quello che mi ha confidato Nino Salvo, ho detto che il mandante degli omicidi Dalla Chiesa, La Torre e forse Mattarella era Andreotti (verbali del 17/3/1993, ore 9.30 e ore 16.30). 2 Ho dimostrato che Nino Salvo era in rapporti di cono­ scenza concreta con Andreotti (nonostante le smentite di quest'ultimo) citando il pranzo offerto da Salvo alla Zagarella durante le elezioni Europee del 1979. Dai giornali pare che le mie affermazioni siano state corroborate dagli Onorevoli Ruffini e Fasino, da me citati durante la deposizione col dott. Caselli (Verbali 11/6/1993). Sono stato il primo tra tutti a smentire Andreotti (confrontare date).

* Il testo è una trascrizione

perfettamente conforme al documento originale.

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Questo documento in sostanza costituisce la sintesi di tutto quello che don Vito aveva scritto nel libro Le Mafie e riferito ai magistrati nei primissimi interrogatori del 1993, quando si profilava una sua collaborazione con la magistratura, che alla fine non si è concretizzata.

3 Finanziamento al mio gruppo del finanziere Gaetano Cal­ tagirone su disposizione di Andreotti, a partire dall'incontro avvenuto il 06/11/1976 con lo stesso Andreotti. Di una parte modesta di questi finanziamenti (40 milioni) elargitimi per tutto il periodo che rimasi con la corrente An­ dreotti (6 anni) vi è traccia di due assegni sulla perizia del mio processo (416 bis) disposto dal Dott. Falcone. Il resto dei finanziamenti mi venivano regolati, in contanti, dall'On. Salvo Lima (Verbale 11/6/1993). 4 Ho parlato dell'asta giudiziaria effettuata per la vendita del palazzo (in atto di proprietà della Cassa di Risparmio, sito in Via Libertà) a seguito del fallimento di una Società di Caltagirone. Dissi che mi sembrò di captare che i Salvo si adoperarono per aggiudicarsi l'asta, per favorire sottobanco il Caltagirone, amico di Andreotti. Aggiunsi che per quella asta vi fu un intervento delle Au­ torità Giudiziarie che si concluse con una archiviazione. Io fui presente alla gioia espressa da Lima e Salvo in quella occasione ed ebbi netta la sensazione che c'era stato un in­ tervento sulla Autorità Giudiziaria da parte di Andreotti (mi parve di capire anche se non ricordo che fu pronunciato il nome) (Verbale 11/6/1993). È l'esempio più classico di consociativismo diffuso cioè tangenti e vantaggi elettorali per la scelta pilotata dai beneficiari degli appartamenti, che la legge consentiva di vendere a prezzi vantaggiosi con mutui appropriati. Tutto pilotato dai partiti mentre le cosche [sottolineato] secondo criteri consolidati da decenni avevano i subappalti [sottolineato] (A me consta dal 1944 - Maniglia) (Verbale 5/3/1993).

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6 Ho denunziato gli abusi della Giunta Martellucci che pos­ sono riassumersi: a) Proroga illegittima dell'appalto di illuminazioni alla Icem ed affidamento alla stessa di consistenti lavori in regime di proroga che se appaltati regolarmente sarebbero costati la metà all'Amministrazione Comunale (350 milioni invece di 700 milioni); b) Perdita di finanziamenti per 150 miliardi [cancellato milioni] perché non si sono forniti in tempo i progetti relativi, alla Cassa Depositi e Prestiti; c) Mutuo al Banco di Sicilia di cui si pagavano gli inte­ ressi senza usufruire delle somme chieste in prestito; d) Distrazione di 3 miliardi su un mutuo concesso dalla Regione per fini diversi da quelli prescritti nel finanziamento regionale; e) Case acquistate, di cui non si riscuoteva l'affitto; f) Disparità di trattamento nelle esecuzioni dei provvedi­ menti giurisdizionali. A Cassina si è applicato subito il P.T.C. (Piano Territoriale di Coordinamento). (Vaselli dopo 4 cause vinte in sede giurisdizionale (ed una tentata concussione di Orlando [sottolineato]) è stato pagato (solo dopo 12 anni) con provvedimento sostitutivo regionale (Sindaci, Scoma, Mantione, Martellucci, Pucci, Insalaco ed Orlando) (Verbale del 23/2/1993 ore 15.30) 7 Risanamento [sottolineato]: Ho denunziato che negli anni in cui i Sindaci furono Martellucci, Pucci, Insalaco ed Orlando hanno, senza alcun motivo (e ancora oggi) ritardato l'at­ tuazione del risanamento al punto che ho scritto che questi

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personaggi hanno il "volto" della mafia (L'argomento in forma più analitica è scritto [aggiunto a penna] nel libro "LE MAFIE" (da pag. 215 a pag. 217) e faccio accuse pesanti possibili [sic] di codice penale (bloccando il centro aumenta il costo delle aree periferiche) (Verbale 4/3/1993). 8 PRG (Piano Regolatore Generale della città di Palermo). Ho denunciato le vicende del PRG, non trascurando che fu redatto mentre furono Assessori gli Onorevoli Lima, Muratore e Di Liberto. Ho denunziato che i tentativi di boicottaggio vennero dalla Regione siciliana che lascò sguarnito il PRG della legge di salvaguardia in due periodi dal 10/02/1961 al 31/12/1961 e dal 28/06/1962 al 23/02/1963, mentre io ero Assessore. Nonostante questa grande lacuna il Piano fu salvaguardato (salvato) con una delibera (illegittima) da me proposta ai Capi Gruppo e nessuna, dico nessuna, licenza venne rilasciata in contrasto con questi vincoli, contro le pretese di speculatori di professione [aggiunto a penna] o speculatori mafiosi. Per dimostrare la chiarezza con la quale operammo al Co­ mune, nel libro "LE MAFIE" faccio la comparazione con al­ cune grandi metropoli italiane e dimostro che i veri imbrogli che si facevano in quelle città (Roma, Milano, Torino, Bolo­ gna). All'uopo basta leggere quanto ho scritto nel libro "LE MAFIE" da pag. 48 a pag. 57 dove sono pure denunziate alcune vergogne della Commissione Parlamentare Antimafia [sot­ tolineato]. Il fatto più esecrabile avvenuto nel PRG resta la distruzione delle bellissime Ville di Via Libertà. Erano un bellissimo esempio di architettura ottocentesca di raffinato gusto che ornavano i due lati della Via Libertà, che, come noto, ancora oggi è la via più centrale di Palermo. Ebbene, durante la redazione del PRG, col cambio imposto [sottolineato] di una norma regolamentare fu consentito di abbatterle e di sostituirle con palazzoni di altissima densità edilizia.

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ALLA "OPERAZIONE" [sottolineato]: Interessati in prima persona l'On. Restivo, che fu Presidente della Regione, Mini­ stro dell'Interno, della Difesa e Presidente della Cassa di Ricomunisti avrebbero esercitato l'opposizione e come io avrei "dovuto" rispondere secondo l'accordo preso da Cassina con gli stessi comunisti. Ovviamente l'appalto era consociato e "tangenziato" con l'accordo di tutti. Il copione è stato rispettato (Verbale 4/3/1993). 11 Ho ricordato che lo stesso rituale si è svolto per il rinnovo della raccolta dei rifiuti solidi urbani ai Vaselli (sempre a trattativa privata). Ovvie le tangenti. 12 Ho ricordato che lo stesso rituale si è svolto per il rinnovo (sempre a trattativa privata) delle Imposte di Consumo alla Soc. Trezza. Ovvie le rituali tangenti. 13 Ho denunziato con riferimenti a documenti e date che la proroga dei lavori di manutenzione della illuminazione pub­ blica alla Soc. Icem è stata condivisa da tutti i partiti e pilotata da Lima (ho indicato nominativamente i beneficiari delle tangenti). Sostanzialmente con vari trucchetti i Sindaci Mar­ tellucci, Pucci ed Insalaco hanno "pilotato" le proroghe ap­ punto perché la Ditta Icem dell'Ing. Parisi non era in grado di pilotare l'appalto e restarne l'aggiudicatario. Tutti ci siamo prestati a questo gioco però il processo è "arrivato" solo per me - l'olocausto [sottolineato]. 14

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Lo stesso rituale si è ripetuto per il rinnovo dell'appalto alla LESCA (Cassina). Si prorogava, anche con scuse ridicole, per­ ché non c'era l'accordo tra le imprese. 15 Ho denunziato gli imbrogli (cioè reati) di Orlando. Come ha dilapidato 16 miliardi e 300 milioni del Comune (peculato, oggi chiamato abuso di potere). L'analisi di questi fatti è contenuta a pag. 217, 218 e 219 del mio libro "LE MAFIE". 16 Ho raccontato che durante il periodo in cui fui Assessore ai LLPP sono stato oggetto di una lettera di minacce [sottoli­ neato] che ho trasmesso subito all'allora Questore di Paler­ mo. Il Questore d'accordo con il Gen. Paolantonio Comandante dei Virgili Urbani ed ex Colonnello dei Carabinieri convennero di farmi accompagnare da un Maresciallo dei VV.UU. (Notarianni) che era stato Carabiniere con Paolantonio quando questi, da Capo di Stato Maggiore del Generale dei Carabinieri Luca, era impegnato nella lotta contro il bandito Giuliano. L'altro tutore dell'ordine, fu deciso dal Questore nella per­ sona del Maresciallo di P.S. Lenin Mancuso, (si tratta di quel tale Lenin Mancuso vilmente assassinato assieme al Giudice Cesare Terranova. In atto il figlio di Mancuso Carmine è Se­ natore della Repubblica). Mancuso e Notarianni mi hanno "tutelato" per circa due anni assieme, poi rimase il solo Notarianni per molto tempo ancora. [sottolineato] Se Mancuso avesse notato mafiosi attorno a me certa­ mente lo avrebbe detto tanto ai suoi superiori quanto al G.I. Terranova. Invece, in un processo, ha dichiarato di non avere mai visto i mafiosi che poi aveva visto interrogare dal Giudice Terranova,

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quando vi fu il primo grande processo di mafia, gestito dallo stesso Terranova, Giudice Istruttore. 17 Buscetta solo [sottolineato] il 16/12/1992 ha "svelato" che qualcuno "(Entità)" voleva fare assassinare il Gen. Dalla Chiesa, molto tempo prima che questi venisse inviato come Prefetto a Palermo. Io ho scritto che secondo il [sic] "mormorii" Dalla Chiesa [sic] non è stato ucciso per determinazione della cosiddetta Mafia. Questo mio scritto sta nel libro "LE MAFIE" di cui una prima edizione (sotto altro titolo) è stato depositato alla SIAE di Roma 1'8/09/1992 e la seconda edizione sotto il titolo "LE-MAFIE" è stato depositato presso la SIAE di Roma 1'01/10/1992. Come si nota, in tutti e due i casi, prima [sottolineato] che Buscetta facesse la "rivelazione". ERGO Ognuno di questi episodi [sottolineato] (mi riferisco come diciottesimo all'incontro del 21/01/1994 tra il Procuratore Di­ strettuale Caselli, il Col. Mori e me. Di questo incontro (21/01/1994) non si è redatto il vero verbale ma un altro (inutile) consensualmente per evitare che potesse influire sulla incolumità della mia famiglia, se reso pubblico) da solo [sottolineato] dimostra la univoca determinazione di avere collaborato e di volere continuare, in maniera più incisiva e decisiva come ho detto al Dott. Caselli proprio il 21/01/1994. Alcuni di questi episodi sono di tale portata da conferire ogni beneficio di legge, presente, passata e futura [sottolinea­ to].

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INVECE Mappe Appalti idem coop

mai

(1) ???

(1) a) 7 anni, due mesi e 70 giorni di carcere b) 2 anni, 10 mesi e 10 giorni a Rotello (CB) più circa un mese a Patti (ME) ottobre 1984 più 1 anno 1 mese e 20 giorni a ??? c) dall 11-3-1999 detenzione domiciliare a Roma (sull 2000 ??? e continua) [in corsivo: aggiunta in calce manoscritta] Il manoscritto che segue è una bozza che troveremo poi corretta e modificata nel suo libro, mai pubblicato, Le Mafie. Vito Ciancimino ricostruisce la propria storia politica e quella della Democrazia cristiana siciliana. Con il suo consueto sarcasmo, don Vito condanna l'ipocrisia "cattolica" dei dirigenti che si sono sempre serviti dei soldi delle tangenti senza mai riconoscerne la realtà. È impietoso con il segretario nazionale Dc del dopo Tangentopoli, Mino Martinazzoli, che con ironia bolla come "uomo puro" al quale — dice — "io non credo affatto". Ovviamente, non manca la solita stilettata nei confronti di Giulio Andreotti che "ho subito e so quanto pesa". La conclusione del documento è drammatica, tanto da lasciare intravedere la sua idea di farla finita.

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La frase finale del libro Le Mafie prima del suo arresto nel 1992. La apprensione da don Vito, tanto da giungere scaramanticamente "degli

scritto da Vito Ciancimino parola "fine" è vissuta con sentire la necessità di ag­ altri".

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Cronologia

1924 APRILE

Nasce a Corleone Vito Ciancimino.

1956 MAGGIO

La Dc vince le elezioni amministrative comunali di Palermo che segnano il dominio della corrente di Giovanni Gioia (Fanfani). Nascono le stelle Salvo Lima e Vito Ciancimino.

1957 OTTOBRE

Summit mafioso al Grand Hotel et des Palmes: Cosa nostra sici­ liana incontra i "cugini" americani. Si decide il nuovo assetto in­ ternazionale della grande distribuzione degli stupefacenti.

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1958 FEBBRAIO

Cosa nostra si struttura: nasce la "commissione provinciale", una sorta di consiglio d'amministrazione alla guida di una cin­ quantina di "famiglie" sparse sul territorio. MAGGIO

Salvo Lima è sindaco di Palermo, Ciancimino assessore alle Mu­ nicipalizzate.

1959 NOVEMBRE

Approvato dal Comune di Palermo il piano regolatore: Ciancimino assessore ai lavori pubblici.

1960 APRILE

Segnali di guerra: sta per scoppiare lo scontro dentro Cosa no­ stra. Morti e sparatorie per le strade di Palermo.

1962 GENNAIO

Muore Lucky Luciano, a Napoli. DICEMBRE

Esplode la prima guerra di mafia con l'omicidio del trafficante Calcedonio Di Pisa.

1963

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FEBBRAIO

1116 febbraio nasce Massimo, il penultimo dei cinque figli di Vito Ciancimino. APRILE

Cominciano gli attentati con le "giuliette al tritolo". A Cinisi (Pa­ lermo) muore il capomafia Cesare Manzella. MAGGIO

Arrestato a Milano il boss Angelo La Barbera. GIUGNO

L'apice della guerra di mafia a Palermo: strage con autobomba a Ciaculli. Muoiono sette servitori dello Stato fra carabinieri, poli­ ziotti e artificieri.

1964 MAGGIO

Luciano Liggio arrestato a Corleone. 1965 DICEMBRE

Il processo dei 114, praticamente tutta la mafia palermitana, si conclude a Catanzaro con una serie di assoluzioni.

1969 GIUGNO

Assolti a Bari i 64 imputati della guerra mafiosa di Corleone (1958­

1963), tra questi Totò Riina e Luciano Liggio.

Totò Riina viene di nuovo arrestato.

LUGLIO

Riina condannato al soggiorno obbligato e scarcerato. Si dà alla

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latitanza e non raggiungerà mai la sede assegnatagli: San Gio­ vanni in Persiceto (Firenze). NOVEMBRE

Rocambolesca fuga di Luciano Liggio dalla clinica Margherita di Roma, mentre i carabinieri stanno per notificargli un nuovo provvedimento di arresto. DICEMBRE

Strage di via Lazio: un commando di corleonesi travestiti da agenti massacra il boss Michele Cavataio e tre dei suoi uomini. 1970 SETTEMBRE

Scompare il giornalista de "L'Ora" Mauro De Mauro. Il processo è ancora in corso a Palermo. OTTOBRE

Vito Ciancimino è sindaco di Palermo e chiama in giunta Giu­ seppe Trapani, mafioso di Santa Maria del Gesù. Eserciterà i po­ teri solo per dodici giorni, a causa delle polemiche, nel dicem­ bre successivo sfociate nelle dimissioni. DICEMBRE

Liggio condannato in appello a Bari: ergastolo per l'omicidio di Michele Navarra e i delitti Corleone.

1971 MAGGIO

Assassinato a Palermo il procuratore Pietro Scaglione e il suo autista Antonino Lorusso. È il primo magistrato ucciso da Cosa nostra. GIIJGNO I corleonesi

rapiscono il giovane Pino Vassallo, figlio del co­

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struttore Francesco, detto Ciccio, amico di Lima e Ciancimino.

1972 APRILE

La Commissione parlamentare antimafia compila 164 schede di sospetti mafiosi, tra cui molti politici. Verranno secretate. AGOSTO

Palermo: rapito dalla mafia corleonese Luciano Cassina, figlio dell'imprenditore Arturo titolare dell'appalto per la manuten­ zione delle strade. Pagato un riscatto di un miliardo e trecento milioni. 1973 MARZO

Leonardo Vitale confessa e descrive alla polizia l'organizzazione di Cosa nostra. Per la prima volta in un rapporto di mafia e po­ litica compaiono i nomi di Totò Riina e Vito Ciancimino. Non verrà creduto. MAGGIO

Assoluzione generale per i 75 accusati dell'omicidio del procura­ tore Scaglione.

1974 MAGGIO

Arrestato a Milano, dalla guardia di finanza, Luciano Liggio. Vi­ veva una tranquilla latitanza da commerciante di vini. DICEMBRE

Nasce la primogenita di Totò Riina e Ninetta Bagarella, mentre vivono in clandestinità. Malgrado ciò il parto (sarà così anche

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per gli altri tre figli) avviene in una rispettabilissima clinica privata

di Palermo, dove la puerpera era registrata col proprio nome.

1975

LUGLIO

I corleonesi sequestrano l'esattore Luigi Corleo, suocero di Nino

Salvo. È uno sfregio al gruppo di potere mafioso palermitano.

L'ostaggio muore e il suo corpo non verrà mai trovato.

1977

AGOSTO

Il colonnello Giuseppe Russo, comandante del nucleo investiga­

tivo di Palermo, cade in una imboscata a Ficuzza (Corleone) in­

sieme all'insegnante Filippo Costa. I killer erano Riina, Bagarel­

la, Pino Greco e Giovanni Brusca, ma saranno condannati tre

pastori poi riconosciuti innocenti.

1978

MAGGIO

Peppino Impastato, giovane militante della sinistra, viene ucciso

a Cinisi (Palermo). Il suo corpo fu dilaniato da una bomba: una

messinscena per far passare la vittima come un terrorista. Il

cadavere dello statista Aldo Moro, sequestrato dalle Br 55

giorni prima, viene fatto trovare a Roma, in via Caetani, a due

passi dalle sedi della Dc e del Pci.

1979

GENNAIO

Ucciso a Palermo, dai corleonesi, il giornalista Mario Francese.

MARZO

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Ucciso a Palermo il segretario provinciale della Dc, Michele Rei­

na. Comincia la stagione dei delitti politici.

A Roma assassinato il giornalista Mino Pecorelli. Per questo de­

litto verrà rinviato a giudizio, nel 1993, il senatore Giulio Andre­

otti, poi assolto nel 1999.

LIJGLIO

Il capo della squadra mobile di Palermo, Giorgio Boris Giuliano,

assassinato dentro il bar Lux. Le indagini accuseranno Leoluca

Bagarella.

AGOSTO

Il bancarottiere Michele Sindona nascosto a Palermo, tra ma­

fiosi e massoni, mentre viene dato per prigioniero negli Usa di

un gruppo terroristico di sinistra.

SETTEMBRE

il consigliere istruttore Cesare Terranova e la sua tutela, il maresciallo di Ps Lenin Mancuso. Il magistrato era stato mem­ bro della Commissione antimafia.

Uccisi

1980 GENNAIO

Assassinato a Palermo il presidente della Regione, il dc Piersanti Mattarella. MAGGIO

Ucciso a Monreale il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. GIUGNO

La tragedia di Ustica: cade il DC9 Itavia, 81 vittime di cui solo 38 ritrovate. Una delle inchieste ha ipotizzato che l'aereo sia stato abbattuto casualmente durante un'azione di servizi segreti stranieri. AGOSTO

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Agguato mortale a Palermo per il procuratore della Repubblica

Gaetano Costa. Aveva firmato da solo, dopo il rifiuto dei suoi so­

stituti, 60 ordini di cattura contro mafiosi e trafficanti di stupe­

facenti.

1981

APRILE

Ucciso a Palermo il boss Stefano Bontade: parte l'offensiva della

mafia corleonese contro i palermitani.

NOVEMBRE

Ucciso a Palermo il professor Sebastiano Bosio, angiologo.

1982

MARZO

Catturato a Roma il mafioso del gruppo dei "perdenti", Salvatore

Contorno. Diventerà uno dei pentiti storici di Giovanni Falcone.

APRILE

Assassinato a Palermo il segretario regionale del Pci, Pio La Torre,

e il suo autista Rosario Di Salvo. Il parlamentare aveva presentato,

insieme al dc Virginio Rognoni, un disegno di legge sulla confisca

dei beni ai mafiosi. Il generale Dalla Chiesa viene immediatamente

nominato prefetto di Palermo.

GIUGNO

Il banchiere Roberto Calvi viene trovato impiccato sotto il Ponte

dei Frati neri, a Londra.

AGOSTO

Ucciso a revolverate il professor Paolo Giaccone, medico legale.

Aveva rifiutato di "aggiustare" una perizia sulle impronte di un

imputato della mafia corleonese.

SETTEMBRE

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Un supercommando di Cosa nostra uccide il prefetto Dalla

Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'autista Domenico

Russo.

Comincia la mattanza contro i familiari del pentito Tommaso

Buscetta: scompaiono i due figli maggiori, poi saranno uccisi il

fratello e il nipote, il genero e altri due nipoti, il cognato e persino

il testimone delle sue nozze.

NOVEMBRE

Ucciso in un bar di Palermo l'agente di Ps Calogero Zucchetto.

Si preparava alle nozze. Era uno degli investigatori di punta della

squadra del commissario Ninni Cassarà.

1983

GENNAIO

Assassinato a Valderice (Trapani) il sostituto procuratore Giacomo

Ciaccio Montalto.

GIIJGNO

Il capitano dei carabinieri, Mario D'Aleo, viene massacrato in­

sieme all'appuntato Bonmarito e al militare Marici. L'ufficiale

aveva ereditato il comando di Emanuele Basile.

LUGLIO

Il consigliere istruttore Rocco Chinnici assassinato con un'auto­ bomba nella strage di via Pipitone Federico, a Palermo. Muoiono anche due carabinieri di scorta — il maresciallo Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta — e Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile dove abitava il magistrato. OTTOBRE

Tommaso Buscetta arrestato a San Paolo del Brasile. Collaborerà con Giovanni Falcone nell'istruttoria del maxiprocesso a Cosa nostra.

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1984 GENNAIO

Assassinato a Catania lo scrittore e giornalista Giuseppe Fava. APRILE

Catturato a Madrid il boss Gaetano Badalamenti estradato negli

Usa.

SETTEMBRE

Scatta il blitz di Falcone contro la mafia: 366 mandati di cattura,

nasce il maxiprocesso.

OTTOBRE

Strage di Cortile Macello. Scontro dentro la mafia: sul terreno

restano 8 cadaveri.

Vito Ciancimino viene mandato al confino a Patti (Messina), per

"pericolosità sociale".

NOVEMBRE

Vito Ciancimino viene arrestato, a Palermo, su mandato di Gio­ vanni Falcone. È a partire da questa data che cambia la vita diMassimo, obbligato ad accudirlo costantemente. Nove giorni dopo, il 12, l'arresto tocca a Nino e Ignazio Salvo. Si uccide, lanciandosi nel vuoto, il deputato ed ex segretario re­ gionale della Dc Rosario Nicoletti. DICEMBRE

Il pentito Leonardo Vitale, prima delegittimato come matto, viene assassinato a Palermo quando Riina avvia la campagna contro i collaboratori di giustizia. Bomba sul rapido 904 Napoli-Milano: 16 morti. Verranno con­ dannati Pippo Calò, il "cassiere" di Cosa nostra, e un gruppo di camorristi. Mai spiegato il movente.

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1985 FEBBRAIO

L'imprenditore Roberto Parisi, titolare della Icem (appalto co­ munale dell'illuminazione pubblica) e presidente della squadra di calcio cittadina, viene ucciso insieme all'autista Giuseppe Mangano. APRILE

Strage di Pizzolungo (Trapani): Barbara Asta e i suoi due gemel­ lini, Salvatore e Giuseppe, muoiono spazzati da una bomba de­ stinata al giudice Carlo Palermo. MAGGIO

Arrestato a Roma Pippo Calò, il "cassiere" di Cosa nostra. LIJGLIO

Assassinato a Porticello (Palermo) il capo della squadra cattu­ randi, Beppe Montana. AGOSTO

Il vicedirigente della squadra mobile di Palermo Antonino Cassa­ rà viene trucidato in un agguato sotto casa. Insieme a lui trova la morte l'agente Roberto Antiochia che, pur essendo in ferie, gli fa­ ceva da scorta. NOVEMBRE

Vito Ciancimino spedito al soggiorno obbligato a Rotello, in Molise. 1986 GENNAIO

Muore in una clinica di Bellinzona, in Svizzera, l'esattore Nino Salvo. FEBBRAIO

Comincia nell'aula bunker di Palermo il maxiprocesso a Cosa

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nostra: alla sbarra 476 imputati.

1987 DICEMBRE

Sentenza di primo grado del maxiprocesso: 19 ergastoli e 2265 anni di carcere.

1988 GENNAIO

Muore ucciso dalla mafia l'ex sindaco dc di Palermo, Giuseppe Insalaco. Assassinato il poliziotto Natale Mondo: era sopravvissuto all'ag­ guato contro Ninni Cassarà. SETTEMBRE

Ucciso a Trapani il magistrato Alberto Giacomelli.

Assassinati, lungo la strada Canicattì-Palermo, il presidente della

Corte d'appello Antonio Saetta e il figlio disabile.

Muore ucciso a fucilate, a Trapani, il giornalista Mauro

Rostagno, operatore della comunità Saman per il recupero dei

tossicodipendenti.

1989

MAGGIO

Ucciso il

funzionario regionale Giovanni Bonsignore.

GIUGNO

Viene trovato un ordigno (75 candelotti) sulla scogliera dell'Ad­

daura (Palermo) dove il giudice Falcone era in vacanza.

1990

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MARZO

Scompare a Palermo Emanuele Piazza, ex poliziotto poi divenu­

to collaboratore del servizio segreto civile.

GIUGNO

Viene arrestato Vito Ciancimino, verrà scarcerato dopo nemmeno

un mese.

SETTEMBRE

Ucciso in un agguato lungo la strada Canicattì-Agrigento il "giu­

dice ragazzino" Rosario Livatino.

1991

FEBBRAIO

Rapporto dei carabinieri del Ros su "Mafia e appalti". Gli uffi­

ciali Mario Mori e Giuseppe De Donno denunciano 45 persone.

L'inchiesta si chiuderà con soli 5 provvedimenti giudiziari.

AGOSTO

Ucciso, mentre era in vacanza in Calabria, Antonino Scopelliti,

sostituto procuratore in Cassazione. Si apprestava a sostenere

l'accusa nel dibattimento definitivo del maxiprocesso.

Assassinato a Palermo l'imprenditore Libero Grassi. Era andato

in televisione a denunciare il racket del pizzo.

1992

GENNAIO

La Cassazione conferma l'esito del maxiprocesso.

MARZO

Assassinato a Mondello l'eurodeputato dc Salvo Lima, capocor­

rente a Palermo degli andreottiani.

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APRILE

Ucciso, ad Agrigento, il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli. MAGGIO

Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo - anche lei ma­ gistrato - e tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani, trovano la morte in un terrificante at­ tentato sull'autostrada Punta Raisi-Palermo. ,

GIIJGNO

Parte la cosiddetta "Trattativa" tra Stato e mafia: secondo il rac­ conto di cui ha riferito ai magistrati, Massimo Ciancimino "viene incontrato" dal capitano De Donno in aereo. LIJGLIO

Si pente il mafioso Gaspare Mutolo. Autobomba in via D'Amelio. Spazzati il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, e cinque della scorta: Agostino Cata­ lano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. A Catania viene assassinato l'ispettore Giovanni Lizzio. SETTEMBRE

Ucciso, in un agguato a Santa Flavia (Palermo), l'esattore Ignazio Salvo, già condannato per associazione mafiosa. DICEMBRE

Inaspettato, nuovo arresto di Vito Ciancimino mentre fa da me­ diatore tra i carabinieri e Totò Riina. Verrà mandato a Rebibbia. Arrestato per mafia il numero tre del Sisde, Bruno Contrada.

1993 GENNAIO

Assassinato a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) il giornalista Beppe Alfano.

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Arrestato a Palermo Totò Riina, latitante da trent'anni. Ancora non chiare le modalità della cattura. FEBBRAIO

Arrestato il neurologo Antonino Cinà, intermediario di Riina nella mediazione condotta da Vito Ciancimino. MARZO

Giulio Andreotti accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. MAGGIO

Autobomba in via Fauro, a Roma, contro il giornalista Maurizio Costanzo e la moglie Maria De Filippi che rimangono illesi. Au­ tobomba a Firenze, in via dei Georgofili. Cinque morti: Caterina Nencioni, Nadia Nencioni, Dario Capolicchio, Angela Fiume e Fabrizio Nencioni. I feriti furono 48. LIJGLIO

Autobomba a Milano, in via Palestro. Muoiono in cinque: il vigile urbano Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno e il cittadino marocchino Driss Moussafir. Doppia autobomba, per fortuna senza vittime, a Roma: nella se­ de del vicariato a San Giovanni in Laterano e nella chiesa del Velabro. SETTEMBRE

Uccidono don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio, a Palermo. I suoi interventi sui giovani non piacevano ai boss del quartiere. NOVEMBRE

Muore in carcere, a Sassari, Luciano Liggio. Viene sequestrato Giuseppe, dodici anni, figlio del pentito Santino Di Matteo, teste al processo per la strage di Capaci. L'intento della mafia è di indurre il collaboratore a ritrattare quanto aveva dichiarato. Il bambino sarà strangolato per ordine di Brusca e Bagarella e sciolto nell'acido.

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1994 GENNAIO

Giuseppe e Filippo Graviano arrestati a Milano. 1995 SETTEMBRE

Comincia a Palermo il processo a Giulio Andreotti. 1996 GIIJGNO

Viene ucciso a Catania il mafioso Luigi Ilardo, alla vigilia del suo ingresso nel programma di protezione per i pentiti. 1997 NOVEMBRE

Arrestato il carmelitano don Mario Frittitta, accusato di celebrare

messa nel covo del latitante Pietro Aglieri.

In carcere l'imprenditore Benny D'Agostino. Per i giudici gestiva

patrimoni mafiosi.

1998

LIJGLIO

Condannati all'ergastolo Riina, Provenzano, Aglieri e Ganci per

l'omicidio di Salvo Lima.

OTTOBRE

Assassinato a Caccamo (Palermo) il sindacalista Domenico

Geraci.

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1999 LIJGLIO

Assassinato Filippo Basile, funzionario dell'assessorato regionale

all'Agricoltura.

Giancarlo Caselli va a dirigere il Dap (Dipartimento ammini­

strazione penitenziaria). Alla guida della Procura di Palermo va

Pietro Grasso.

SETTEMBRE

Andreotti, Vitalone, Calò, La Barbera e Carminati assolti dall'ac­

cusa di aver assassinato il giornalista Pecorelli.

Vito Ciancimino viene scarcerato e posto agli arresti domiciliari

nella sua casa di Roma.

OTTOBRE

Giulio Andreotti assolto dall'accusa di associazione mafiosa. A

incassare la sconfitta in aula Pietro Grasso, appena succeduto a

Giancarlo Caselli.

NOVEMBRE

Don Mario Frittitta assolto in appello.

2000 GENNAIO

Salvatore Riina e Giuseppe Graviano condannati all'ergastolo

per le stragi del '93 a Roma, Firenze e Milano.

APRILE

Tommaso Buscetta muore negli Stati Unti.

GIUGNO

Il magistrato di Cassazione, Corrado Carnevale, viene assolto

dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

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2001 GENNAIO

Si riapre l'inchiesta sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro.

2002 FEBBRAIO

Sequestrato al boss Tommaso Cannella un patrimonio di circa

15 milioni di euro.

APRILE

Gaetano Badalamenti condannato all'ergastolo per l'omicidio di

Peppino Impastato.

MAGGIO

Archiviata l'inchiesta sui mandanti occulti delle stragi di Capaci

e via D'Amelio. Erano indagati Dell'Utri e Berlusconi.

Condannato all'ergastolo Bernardo Provenzano per l'omicidio

del giornalista Mario Francese.

AGOSTO

Confiscati beni per 250 milioni di euro all'imprenditore Antonino

Buscemi, poi condannato all'ergastolo per omicidio.

NOVEMBRE

Sequestrati al costruttore Zummo, ex socio di Vito Ciancimino,

beni per 150 milioni di euro.

Muore, nella sua casa di piazza di Spagna, a Roma, Vito Cianci-

mino. Mai chiarite le ragioni della sua morte.

2003 MAGGIO

Il colonnello Mario Mori ascoltato in Procura, a Palermo, per la mancata perquisizione del covo di Riina.

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2004 GIIJGNO

Arrestato il boss Nardo Greco, favoreggiatore di Provenzano. OTTOBRE

La Cassazione conferma la sentenza d'appello di Palermo per

Giulio Andreotti: prescrizione per il reato commesso fino al

1980 (associazione per delinquere semplice) e assoluzione per

l'associazione mafiosa.

DICEMBRE

Il senatore Marcello Dell'Utri viene condannato in primo grado,

a Palermo, a nove anni per concorso in associazione mafiosa.

2005 FEBBRAIO

Massimo Ciancimino, il professor Gianni Lapis e altri quattro,

fra imprenditori e commercialisti, indagati per riciclaggio.

Rinviati a giudizio, a Palermo, il generale Mario Mori e il tenente

colonnello Sergio De Caprio (capitano Ultimo) per la mancata

perquisizione del covo di Riina in via Bernini.

2006 APRILE

Arrestato a Corleone, in una masseria di Montagna dei Cavalli,

Bernardo Provenzano, latitante dal 1963.

GIUGNO

Arrestati Massimo Ciancimino e il legale Giorgio Ghiron, accu­

sati di riciclaggio.

LIJGLIO

Arrestato per mafia il primario di radiologia dell'Ospedale civico

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di Palermo Giovanni Mercadante, deputato regionale di Forza

Italia.

2007

MARZO

Condannati a 5 anni Massimo Ciancimino, Giorgio Ghiron e

Gianni Lapis.

SETTEMBRE

Arrestato per la quarta volta, a Palermo, il geometra dell'Anas,

Pino Lipari, consigliere e "postino" di Provenzano.

2008

GENNAIO

Si dimette il governatore della Sicilia, Totò Cuffaro. Era stato

condannato a 5 anni per favoreggiamento aggravato di singoli

mafiosi. Le dimissioni causate da una foto che lo ritraeva a fe­

steggiare con cannoli una sentenza più mite di quella temuta.

FEBBRAIO

Esplode lo scandalo per la scomparsa dell'agenda rossa di Bor­

sellino. Indagato il colonnello Arcangioli dei carabinieri, succes­

sivamente prosciolto.

Muore in ospedale, a Roma, Michele Greco, il primo capo della

cupola di Cosa nostra.

Massimo Ciancimino conferma l'esistenza del famigerato "pa­

pello" e della trattativa fra Stato e mafia. È l'inizio della sua col­

laborazione coi magistrati.

SETTEMBRE

Palermo: comincia il processo contro il generale Mori e il colon­

nello Mauro Obinu, imputati di aver favorito la latitanza di Pro­

venzano.

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OTTOBRE

mafioso Gaspare Spatuzza collabora con il procuratore nazio­ nale Pietro Grasso e offre una versione alternativa sulla strage di via D'Amelio.

Il

DICEMBRE

Al processo "Gotha" il medico Antonino Cinà ammette di aver incontrato Provenzano.

2009 FEBBRAIO

Le mani della mafia sull'eolico. Nella veste di sindaco di Salemi, cittadina che diede i natali agli esattori Salvo, Vittorio Sgarbi denuncia la strana commistione di politici locali e imprenditori del Nord attorno al business dell'energia alternativa. MAGGIO

Il Comitato per l'ordine e la sicurezza assegna la scorta a Massi­ mo Ciancimino. LIJGLIO

Gaspare Spatuzza, boss mafioso di Brancaccio (Palermo), ac­ cetta di collaborare e offre una versione alternativa della strage di via D'Amelio, già "archiviata" con una sentenza della Cassa­ zione. Il pentito apre anche l'altro scottante capitolo delle stragi mafiose del '93, chiamando in causa Forza Italia, Berlusconi e Dell'Utri. NOVEMBRE

Viene arrestato, in una palazzina di Camporeale (Palermo), il boss Mimmo Raccuglia, l'ultimo grande latitante della mafia pa­ lermitana. La squadra mobile gli trova addosso armi, "pizzini" e tanti soldi. Probabilmente stava accingendosi a pianificare de­ litti eccellenti. DICEMBRE

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Nella rete anche il capomafia della vecchia guardia, Gaetano Fi­ danzati, preso a Milano dal capo della mobile Alessandro Giulia­ no, figlio di Boris, il vicequestore ucciso dai corleonesi a Palermo nel 1979. Nella stessa operazione, a due passi dal tribunale di Pa­ lermo, viene catturato Gianni Nicchi, giovanissimo, ma lanciato già verso un'inarrestabile carriera mafiosa. L'anno si chiude con la sentenza d'appello a carico di Massimo Ciancimino. La Corte gli riduce la condanna a 3 anni e quattro mesi per riciclaggio. In primo grado era stato condannato a 5 anni e sei mesi.

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Indice

6 Premessa 8 Personaggi 17 1. La perdita dell'innocenza 39 2. Palermo da bere 67 3. La casa madre 91 4. I tic di don Vito 113 5. America, Vaticano e misteri italiani

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139 6. La caduta 173 7. 1992, la fine degli equilibri 193 8. La Trattativa, parte prima 216 9. La Trattativa, parte seconda 238 10. I nuovi mediatori 259 11. Don Vito, addio 267 12. La fine dell'avventura 295 Appendice

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311 Cronologia

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Questo libro è un viaggio senza ritorno nei gironi infernali della storia italiana più recente. Racconta infatti quarant'anni di relazioni segrete, occulte e inconfessabili, tra politica e criminalità mafiosa, tra Stato e Cosa nostra. Perno della narrazione è la vicenda di Vito Ciancimino, "don Vito da Corleone", uno dei protagonisti assoluti della vita pubblica siciliana e nazionale del secondo dopoguerra, personaggio discutibile e discusso, amico personale di Bernardo Provenzano, già potentissimo assessore ai Lavori pubblici di Palermo, per una breve stagione sindaco della città, per decenni snodo cruciale di tutte le trame nascoste a cavallo tra mafia, istituzioni, affari e servizi segreti. A squarciare il velo sui misteri di "don Vito" è oggi un testimone d'eccezione: Massimo, il penultimo dei suoi cinque figli, quello che per anni gli è stato più vicino e lo ha accompagnato attraverso innumerevoli traversie e situazioni pericolose. Il suo racconto — che il libro riporta per la prima volta in presa diretta, senza mediazioni, arricchito dalla riproduzione di documenti originali e fotografie — riscrive pagine fondamentali della nostra storia: il "sacco di Palermo", la nascita di Milano 2, Calvi e lo Ior, Salvo Lima e la corrente andreottiana in Sicilia, le stragi del '92, la "Trattativa" tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, la cattura di Totò Riina, le protezioni godute da Provenzano, la fondazione di Forza Italia e il ruolo di Marcello Dell'Utri, la perenne e inquietante presenza dei servizi segreti in ogni passaggio importante della storia del nostro paese. Attualmente la testimonianza di Massimo Ciancimino è vagliata con la massima attenzione da cinque Procure italiane e non è possibile anticipare sentenze. Non c'è dubbio però che i fatti e i misfatti qui raccontati arrivino dritti al "cuore marcio" del nostro Stato, accompagnandoci in una vera e propria epopea politicocriminale che per troppo tempo le ipocrisie e le compromissioni hanno mantenuto nascosta.

Art director: Cristiano Guerri.

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