Dominio Saba Sardi [PDF]

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Zitiervorschau

Francesco Saba Sardi

Dominio Potere Religione Guerra

Tutti i diritti riservati ISBNH8-8H764-28-3 www.bevivinoeditore.it [email protected] © Copyright 2004 Francesco Bevivino Editore srl - Milano GOD - grandi opere e Dizionari Copertina e impaginazione di Alessio Scordamaglia www.pickwick.it Il magazine elettronico dedicato al mondo del libro

Nessuna opera può sorgere senza l'interlocutore e senza l'Altro. Ringrazio mia  moglie Gabriela Landini, indispensabile copartecipe nella costruzione di  Dominio 

Indice

INTRODUZIONE 



PROLOGO IL MITICO E IL PARLANTE 

14 

POTERE RELIGIONE GUERRA 

50 

RELIGIONE POTERE GUERRA 

102 

GUERRA RELIGIONE POTERE 

148 

CONCLUSIONE 

169 

GLOSSARIO 

170 

BIBLIOGRAFIA 

191 

TEATRINO All'alzarsi del sipario, si vedrà una collina sulla quale è intento ad arare un grassone in abito da dirigente di varie epoche, e dunque con giacca grigio scuro a doppio petto dalla quale spunta l'orlo di un colorato peplo ricamato. In testa, una bombetta ornata da una lunga piuma cangiante. Antico e moderno insieme, calza agili scarpe da ginnastica. A seguirlo solco per solco, i suoi caudatari, anch'essi pasciuti, vuoi coperti di corazza, vuoi in giacca e cravatta. Ai piedi del colle, transita, solo e magro, un itinerante con un perizoma di pelle. Impugna arco e frecce e si guarda attorno come in cerca di animali da cacciare. (all'itinerante, gridando) Ódimi, straccione. Io qui sono il signore supremo. Tutto il resto non è che un mio riflesso e un mio strumento. Il tuo scopo è obbedirmi agendo secondo lucidità, sempre e ovunque. Non ti è concessa l'ebbrezza né la contemplazione di sogni segreti e indecifrabili, perché sarai cittadino della città di cui traccio con l'aratro la pianta quadrata. Erigerò un agglomerato di cause concomitanti, nelle quali sarai al sicuro come in fondo a un labirinto. Il filo che unisce i moventi alle conseguenze è inestricabile. Tu, uomo selvatico, rassegnati alla mia città. È una calamità che passa di nazione in nazione. Crescerà su sé stessa, nessuna forza, né tempesta né nemici potrà mai più cancellarla dalla faccia della terra. Obbedirà alla legge dei numeri, avrà archi di pietra candida e cieli azzurri, scalinate di marmo e finestre di cristallo. Non vi si avrà mai né troppo caldo né troppo freddo. In essa saranno abolite le stagioni. In essa tutto sarà artificiale. Sarà macchina in perenne funzionamento. CAUDATARI Avaro, arruffone, sfruttatore! Te beato! Fortissimo! ARATORE

Bellissimo! Potentissimo! Carogna! Amato! (Si inchinano deferenti.

Chiedono) Andiamo a prenderlo per chiuderlo in un museo? In uno zoo? (Impugnano, frugando nel mucchio ai limiti del campo, lance, scudi, fucili, mitragliatori, pistole). ARATORE

Dico a

te,

straccione! Sto costruendo una macchina che,

copulando con sé stessa, si generi continuamente dalle proprie macerie. Orsù, da bravo, vieni a rendermi omaggio. ITINERANTE

(in pronta fuga, blatera quelli che possono interpretarsi

soltanto quali insulti e cachinni). ARATORE (ai

caudatari) Se l'è voluta! Andate, sterminatelo! Trionfi la

civiltà e la stanzialità! Occorre sì un sacrificio umano, sia pure di un inferiore, condannato dalla storia, per edificare la città! CAUDATARI (scendono

urlando dal colle, sparando, avventando lance

e giavellotti). ITINERANTE (trafitto, ARATORE

esegue un poco decoroso decesso).

Tornate pure, miei prodi. Guardate! (Traccia, con

straordinaria perizia, un elegante spigolo). Ma com’è bravo! Ma che bel rettangolo, quadrato, rettilineo, angolo diedro! Da strangolarlo! Evviva, evviva il capo! In

CAUDATARI

attesa che uno lo sopprima, quel porco, e si impossessi dell'aratro! Mai non sia! Tu, eterno capo! Sarai sempre nei nostri cuori, maledetto, fetente, sublime!

INTRODUZIONE

La tripartizione qui proposta non vuole sottolineare una diversità. Potere, religione e guerra sono infatti riconducibili a un nucleo unitario, a una fase del divenire umano nella quale non erano ancora diversificati né diversificabili agli occhi dei loro stessi inventori. Poiché di invenzione si trattò, e fu un processo di lunga durata: parecchi millenni, quanti ne occorsero perché si verificasse quello che a suo tempo l'antropologo e preistoriologo Gordon Childe (1892-1957) ha voluto denominare «rivoluzione neolitica». Un periodo nel corso del quale entro il nucleo unitario di cui si è testè detto (ed evito di definirlo originario per le ragioni che andrò esponendo più avanti) si delineò una diramazione, una ancora imprecisa distinzione fra le tre componenti, potere, religione e guerra, che andarono via via specializzandosi, a volte convergendo, altre divergendo e anzi entrando in aperto conflitto tra loro. Contemporaneamente andava prendendo forma quella che oggi usiamo chiamare società, nome collettivo con cui designiamo formazioni di vario tipo e diverso genere, ma aventi tutte in comune la struttura gerarchica, vale a dire la subordinazione dei più ad autorità superiori e a ordinamenti piramidali. La proposta che qui espongo è di distinguerle dai gruppi itineranti preneolitici (ne ignoriamo l'entità, possiamo solo ipotizzarne la distribuzione, gli spostamenti, le fusioni e le scissioni, e le zone in cui per lo più preferivano muoversi), privi comunque di strutture gerarchiche, cioè di poteri nell'accezione attuale del termine (più avanti distinguerò tra forme di repressione e instrumenta regni). Ancora oggi gruppi del genere, seppure ridotti a sparuti rappresentanti della tipologia, sono dediti alla caccia e alla raccolta, in quanto esperti nella ricerca, scoperta e utilizzazione di ciò che l'ambiente circostante offriva e offre spontaneamente. Le loro tecniche si riducevano e si riducono all'organizzazione di cacce collettive, alla preparazione dei relativi strumentari, comprese le armi

da caccia, alla fabbricazione di oggetti d'uso d'altro genere, in pietra, in legno, in osso oppure derivanti da scheletri di pesci, e alla preparazione del cibo. Tutto lascia supporre che la specializzazione, differenziazione e autonomizzazione dei tre rami del tronco iniziale, potere, religione e guerra, abbia comportato una definizione di ambiti e funzioni sempre più precisi e rigidi, corrispondenti al tracciamento, inizialmente simbolico ma un po' alla volta tradotto in rappresentazione, nel “come se”, cioè in concretezza gelosamente affermata, di limiti e confini. È da supporre anche che gli agenti, a questo punto ormai societari, che hanno costituito le categorie — caste, classi, affiliazioni — portatrici del potere nell'accezione attuale siano stati, all'inizio, gli elementi più validi, più robusti, più abili o più autorevoli (distingueremo più avanti tra autorevolezza e autorità sia di uomini che di donne) e che siano stati loro assegnati o si siano attribuiti compiti di difesa, di distribuzione più o meno coattiva delle mansioni, determinazione e sistematizzazione delle attività produttive, principalmente agricole, e di fabbricazione di arnesi, strumenti, armi... A un altro insieme di componenti di quella che a questo punto può senz'altro definirsi società, è ipotizzabile sia stato assegnato o, ancora una volta, sia stato auto attribuito, il compito di interpretare i segni del cielo, della terra, delle acque, della vegetazione, della fauna. A un altro insieme ancora sarebbe stato riservato il compito di dilatare l'ambito dell'intorno, considerato proprietà esclusiva di quella particolare versione di società, vale a dire l'attività bellica consistente nella conquista di nuovi territori da sottoporre a sfruttamento e nella sottomissione di altri esseri umani e animali già addomesticati, oppure delle zone di pascolo o predazione di animali ancora selvatici. Questa breve premessa ne comporta, e anzi ne presuppone, un'altra: l'affermazione iniziale e coeva di stanziamento, agricoltura, invenzione delle divinità, alle quali va senz'altro aggiunta brama di potere e accettazione del potere stesso da parte dei sudditi. Contemporaneamente all'affermazione del potere inteso come

struttura gerarchica di sopraffazione — a proposito della quale più avanti sarà necessario soffermarsi sul significato di sadismo e masochismo intesi in un'accezione sociologica, non già strettamente sessuale - è andata affermandosi l'economia, cioè la produttività agricola e tecnica che esigeva, come ancora oggi, divisione del lavoro, assegnazione prescrittiva delle mansioni, distribuzione programmatica di risorse e strumenti. Allo stesso modo, i presunti rapporti con le divinità, una volta affermata la loro “reale” presenza (non dunque una presenza soltanto supposta, bensì proclamata, imposta, dogmaticamente prescrittiva), in altri termini una volta operata la scissione tra aldiquà e aldilà, tra mondo delle concretezze terrene e sfera metafisica trascendente, vale a dire zona del sacrum, la scissione in questione non poteva non trasformarsi in religione vera e propria, darsi insomma una struttura, una gerarchia, obbligatorie credenze, un sacerdozio, regole cultuali da seguire con rigida esattezza, un pantheon. A conferma della contemporaneità dell'affermarsi di potere come gerarchia, di religione come strutturazione del sacrum e di guerra, è facile notare che quest'ultima non poteva venire in essere senza il duplice strumentario del potere e della religione. Il primo, perché assegnava ai guerrieri, che in tal modo diventavano soldati obbedienti a comandanti, i mezzi e gli uomini (a volte anche le donne) con cui trasformare la violenza, sempre esistita e ineliminabile in ogni collettività umana, ma non ancora diventata strumento consapevole cioè grammatica e sintassi della violenza, in sistematica organizzazione e finalizzazione della violenza stessa; la seconda, la religione, era altrettanto indispensabile in quanto giustificava e legittimava, come del resto accade ancora oggi, l'azione bellica. D'altra parte, il potere non avrebbe avuto stabilità, durata e trasmissibilità senza l'opportunità e necessità della guerra e senza la supposta approvazione e autorizzazione della divinità. In altre parole, una volta diramatesi le tre componenti iniziali del dominio, potere, religione e guerra, esse si sono condizionate, rafforzate, convalidate a

vicenda. Questo libro non aspira alla sistematicità. Il lettore può anzi saltare a piacimento da un paragrafo all'altro, l'autore confidando di aver messo in opera, più che un testo, una sorta di montaggio (in senso cinematografico) in cui tout se tieni. Rifuggo dai modi dell'accademia, e ho cercato di evitare designazioni troppo rigorose, attenendomi, nei limiti del possibile, al presupposto che tutto è simbolico ma, dal momento che un saggio (per restare alla ben nota, tanto deplorevole quanto difficilmente evitabile, classificazione degli scritti in generi) pertiene alla logico-discorsività, mi è stato giocoforza servirmi di rappresentazioni. Con il rischio del letteralismo ma con la cognizione che la Parola, come il simbolismo, punta al silenzio, al linguaggio nascosto nel linguaggio. La conseguenza è una frammentazione in paragrafi di varia lunghezza, obbedienti a un ordine fluttuante. Grosso modo, l'esposizione si articola in un Prologo e tre Capitoli, quegli stessi del sottotitolo: potere, religione, guerra, con continui rimandi, e sovrapposizioni, dall'uno all'altro. Vasta parte è riservata, nella struttura generale, al passaggio dal Paleolitico al Neolitico inteso quale universo della legge, della produttività, della tecnologia, della storia: il mondo in cui è prevalso il Discorso con l'inerente tentativo di relegare mito e tabù nel ctonico [quelle divinità generalmente femminili legate ai culti di dei sotterranei e personificazione di forze sismiche o vulcaniche]. Il trionfo celebrato di continuo dal Discorso — senza che esso possa togliere di mezzo quello che chiamo residuo indecomponibile, ed è l'ombra del mito — è consistito nello stravolgimento della Parola, ciò che ha fatto dell'uomo d'oggi un parlante che rilutta a essere mitico, e tutt'al più ammette che lo siano gli aspiranti alla traduzione dal silenzio in parole. Chiamiamoli artisti - per quanto io ignori che cosa si designi con il termine arte. In questo libro si descrive dunque ciò contro cui il dominio — potere, religione, guerra — si accanisce nel tentativo di nasconderlo, esorcizzarlo, reprimerlo, sopprimerlo. Ma l'uomo non potrebbe vivere neppure un giorno senza mito, senza follia, senza abbandono e senza

sogno. Un paragrafo conclusivo di questa breve, nient'affatto sistematica esposizione, contrappone l'azione del dominio — cultura della morte - all'altra dimensione che è la possibilità, solo accennata, solo intravista della gioia (escludendo di poterla tradurre nei tetri ritmi militareschi della marciante Gioia dell'inno conclusivo della Nona di Beethoven). Parola È senza origine, è originaria. E senza rimando a una realtà extralinguistica. Non è inscrivibile nel sistema del significabile e nel principio di padronanza. Non c'è padronanza della parola esercitata attraverso il linguaggio. Non valgono le categorie della logica classica (tempo, spazio, luogo, non-contraddizione). Discorso II Discorso è ciò che inscrive la parola all'interno di un sistema che presume l'esistenza di una causa prima. Si ha così Discorso archeologico, speleologico, sintattico-grammaticale, letterario, editoriale, eccetera. Il Discorso si fonda su alcuni cardini che riguardano il terzo escluso, il principio di non-contraddizione. Parola La Parola è mistero, sfugge alla presa, soprattutto a quella, continuamente, testardamente tentata, della linguistica. Poiché non è possibile una padronanza del linguaggio, non abbiamo facoltà, capacità, competenza che ci faciliti il percorso, restiamo consegnati al viaggio, impervio, di esistere in combutta con il mito. Che il Discorso si sforza di mettere al bando. E anche per questo il Discorso è una costrizione, una catena di cause ed effetti che pretende di imporre l'adesione a una coerenza precostituita, riconducibile a un sapere dato in partenza. Il Discorso presuppone un'origine al di fuori della Parola, nutre la speranza di trovare in un'invariabilità pre-Babele la conferma di una lingua adamitica, il germe iniziale e la scaturigine dell’origine dell'universo dalla quale far dipendere la genealogia del bene e del male, dell'aldiquà e dell'aldilà, del mondano e del divino. Il Discorso è gnosi, episteme, funeraria riduzione all'uno. Mi rendo tuttavia conto che è difficile intendere che è ciascun atto

di parola in quanto tale a essere originario e che il nostro esistere in esso si situa. Essendo impossibile dare in poche righe di aggiunta a un testo (comunque inconcluso e inconcludente) una definizione esaustiva del termine Discorso perché riguarda quanto è già stato elaborato in filosofia e nella logica classica, mi limito a pochi accenni, alternando e contrapponendo Parola e Discorso. Parola II termine deriva dal greco parabàllo, io lancio; donde parabola, discorso per similitudine: “lancio” parole usate come discorso per avvicinarmi come un bersaglio alla Parola che mi fluisce dentro. Discorso II trasporto di un oggetto, la parola da un ambito linguistico a un altro, da una cultura a un'altra, è possibile. Si chiama traduzione. Permette di fornire oggetti, cioè testi, approvati dall'editoria e dall'accademia. Il traduttore lavora per la traduzione, in una di quelle attività senza le quali morirebbe di fame. Parola Persino il bambino traduce. La traduzione è universale e perenne. Il bambino balbetta, e l'informe balbettio dev'essere traslato in termini indicali per rendere possibile la comunicazione in questo o quell'ambito di parlanti. E come se tutti quanti fossimo sulle rive di un fiume nel quale fluiscono le parole; immaginiamoci di essere pescatori sulla sua riva, intenti a trarre le parole, che sono quelle non volute, non programmate, le stesse Parole del sogno (il fiume è a livello inconscio, per usare un termine della psicoanalisi), a ripulire le parole e a metterle in circolazione. È questo il principio dello scambio anche economico. Discorso Ma nel bambino c'è una lingua più profonda, un linguaggio prenatale, tale che i dispersi sulla faccia della terra, costretti dai diversi contesti in cui sono alle prese — baobab anziché querce, tigri anziché elefanti, mari anziché fiumi — gli esseri umani si sono dati designazioni diverse. Tuttavia, essi tendono a tornare all'origine, cioè a ricuperare una lingua universale con cui comunicare a tutti i livelli e ovunque.

Parola Questo significa l'uniformità, l'omologazione, l'identificazione. Un nome, un codice di riconoscimento per tutti, e depositi di conoscenze accessibili a tutti. Discorso Ma dicendo “io”, io sono in quanto io. A furia di analizzare si scopriranno le strutture complesse, e in realtà semplicissime, che stanno alla base del linguaggio naturale. Babele, insomma, prima della discesa del dio geloso dell'umana unità, e che ha distrutto uniformità e identità. Il pensiero infatti ha un'esistenza reale anteriore o esteriore alle parole. Parola Non ci sono oggetti che non siano stati prima denominati, inventati verbalmente o figurativamente o musicalmente perché esistano. Noi-Parola muoviamo e trasformiamo il mondo- Parola dopo averlo istituito. Parliamo perché non parliamo della Parola. La parolatempo per noi-Parola abitanti della parola-scrittà (essendo impossibile separare la città dalla scrittura e la scrittura dalla città) si svolge linearmente perché la scritta si svolge linearmente. Tempo sintattico, in successione orizzontale o verticale, non paratattico come le figure — in disordine, per noi — spesso sovrapposte l’una all'altra, delle grotte e dei ripari sotto roccia, prima della parola-rivoluzione neolitica, della parola- agricoltura, della parola - apotrópaion contro l'abisso, la sylva, la selvaggeria ciclica o addirittura senza topoi, la parola-uomo casualmente itinerante. Discorso Anche i selvaggi usano i tempi verbali, danno ordine al discorso, distinguono passato, presente e futuro. Parola La memoria si plasma sull'esempio del passato del verboparola. E il quando questo-questa ha creato il mondo. Non dal nulla, che è parola, ma appunto dalla Parola che si staglia nel tutto-nulla. Discorso Ma è la psicotecnica (psicoanalisi e psichiatria) che fa risorgere il ricordo. Parola La psicoanalisi classica (ormai superata) parte dal presupposto che il tempo sia una realtà concreta. Lo psicoanalista e più ancora lo psichiatra “classico” è uno storico, cioè un traduttore (per lo più

pessimo, dal momento che pretende che il “matto” si esprima secondo i suoi cliché psicotecnici) che aspira al letteralismo. Discorso La storia serve a orizzontarci nel mondo, e lo storico ricerca attendibili documenti, verbali o d'altro genere, e li presenta parafrasandoli. Parola La sua attività è quella stessa dell'interprete di sogni. Al quale il sognatore riferisce ciò che ha udito, visto, toccato, gustato, annusato, ma limitandosi — altro non può fare — ai fatti, alla cronaca. Manca, in quel suo riferire, la forma, che è irriferibile. Discorso La funzione del linguaggio fu e sarà sempre la stessa. Parola Nessuna parola resta inalterata nei tempi da essa stessa istituiti. Nessuna parola, nessuna lettura, nessuna traduzione potranno prescindere da questi presupposti. I sinonimi, intesi come perfetti equivalenti, non esistono. Discorso L'uomo è continuamente alla ricerca del senso, ed è questa la premessa e lo stimolo per una possibile salvezza. Parola La salvezza, se mai esistesse, sarebbe una rappresentazione della disperazione. È comprensibile l'esigenza intima di ritrovare il nucleo del mondo, ma la condizione in cui viviamo ci rivela che la questione del senso del mondo è negata persino a livello scientifico.

PROLOGO IL MITICO E IL PARLANTE Noi siamo Parola. Siamo nella Parola. Parola sono i nostri pensieri, che sono dialoghi con noi stessi; Parola i nostri gesti; Parola tutte le nostre forme di comunicazione interiore (con le varie “personalità” che ci compongono o scompongono) o esteriore; Parola le figurazioni, i canti, le danze; Parola la scrittura: Parola verbale, dipinta, recitata, eseguita, trasferita, cioè tradotta, dal dialogo interno alla sua ripulitura, correzione, revisione, per essere messa in commercio come rappresentazione figurata o gestuale oppure parola verbale, insomma presentata in maniera accettabile agli altri, a loro volta maschere dell'Alterità. Scongiuro. A giudizio dei semantologi la parola è sempre usata. L'antisemantologo si avvede di primo acchito (non per niente fabula, scrive, danza, dipinge, compone musica, trova fruttuoso quell'ininterrotto racconto che è il sogno) che è la parola a usare e che sostenere il contrario attiene alla metafisica. Con la metafisica ha attinenza l'invenzione della città che è, propriamente e innanzitutto, apotrópaion, scongiuro contro i metafisici terrori della sylva, il non edificato, il non programmato (e programmabile solo in prospettiva), il selvatico, il disordine, il caotico. Che è, dichiaratamente, luogo della sicurezza, ed è il luogo della scrittura, il luogo del testo. Scrittura, cioè fester Schrift, testo ovvero testimone saldo, incontrovertibile della verità, al quale non si sfugge, diventato com'è pietra, fatto oggetto. Città, sede del letteralismo. Città che subito si sdoppia: è una forma simbolica ma anche un insieme di norme e regole, e si avvia subito a diventare organismo, riferibile al biologico, e manufatto. E da questa crisi originaria che deriva l'occultamento e l'eclisse della città come reticolo di desideri mentre sul proscenio si fa, occupandolo in apparenza senza residui, la città macchina; ma è solo un'illusione ottica. La città non cessa mai di essere un non-io che parla e decreta la crescita, che impone le vicende storiche e l'estinzione di questa e altre città.

Il potere ha un volto non poi tanto enigmatico. Ha tanti volti quanti ne ha la città. Ma nella sua molteplicità, la città contiene in sé le ragioni dell'oblio. Al pari della moneta, dello scambio con un mezzo calcolabile che è posto in essere dalla città, in origine forma simbolica; al pari dell'oro, metafora della regalità, diventato metro della ricchezza che tutto acquista, tutto può far suo, tutto ridurre; al pari della parola usata per comunicare, che si identifica allora col mezzo di scambio, e poi col denaro, la città dimentica le proprie origini, che sono non solo quelle di luogo di raduno e facilitazione degli scambi, ma anche e soprattutto di fungere da esorcismo contro la colpa commessa, colpa originaria e inevitabile, l'abbandono della Madre o Antenata (Ituri, antenato/a, è detta dai pigmei la foresta): esorcismo contro la selva, il luogo non soggiogabile, l'incalcolabile che sfugge alla previsione. Per questo la città si dà mura, non solo contro i nemici, venuti da altre città, abituati anch'essi al saccheggio del suolo — e perché non anche dei centri abitati? — ma anzitutto per affermarsi quale luogo della salvezza dai terrori del non cartografabile, mappa dei tentativi di non perdersi nel mondo. Ma ecco che ci si perde nella città. Vicoli, cunicoli, viali sterminati, luoghi malfamati e pericolosi, sentine del vizio, spazi deliranti, stratificazioni, crescita in senso verticale e dunque vertigine, alloggi da capogiro e luoghi panoramici dai quali si tenta di ricostruire la topografia urbana: la città è una moltiplicazione dei pericoli che vorrebbe escludere. La città che si suppone esorcismo contro l'informe, l'insensato, il proliferante che sgorga improvviso, che fruscia subdolo, che non ha confini; la città chiusa da mura o descritta e iscritta in un pian de ville che è un pian de vie-, la città che pretende di rifare il cosmo all'interno di limiti scelti, che si propone quale riassunto del cosmo, specchio rassicurante del cosmo, è in effetti uno specchio frantumato: mille specchietti, mille cosmi rovesciati. Il labirinto con il filo d'Arianna, tale vuole essere la città. Ma essa non sfugge alla labirinticità; anzi, la moltiplica e la esaspera. Da Leon Battista Alberti in poi, l'architetto è un programmato- re,

evoca a sé tutto lo spazio dell'immaginario, assurge a demiurgo della propositività e positività, della preveggenza, veggenza e reggenza, è il portatore dell'utopia e del riformismo, ignora ormai il pericolo insito nella creazione parallela a quella originaria. L'architetto, una delle ipostasi del codificatore, si immagina titanico, e titanica vuol essere l'opera che edifica. L'architetto-codificatore continua l'orgoglio del fondatore e del sovrano. La città, luogo della sicurezza, luogo della scrittura, luogo del testo. Scritta, dunque. Nulla deve sfuggire alla programmazione, e quanto non è programmabile viene relegato fuori dalle mura. Il delirio della Sibilla non ha più posto nella città. La forma urbana medievale è caratterizzata dalla cinta di mura: non solo e non tanto per motivi di difesa, quanto per bandire da sé, metaforicamente, l'informe. Per inciso, agricoltura e industria (fatte nascere o sviluppate, e comunque monopolizzate dal potere, impossibili senza il potere, senza la divisione del lavoro) hanno per effetto di far crescere la complicazione in basso, pianura nella quale si è alle prese con innumerevoli problemi d'ordine pratico (aratri, fienagione, semine, parassiti, canali di irrigazione; manutenzione, fresatura, guida, contrailo, bullonatura, conti da pagare...), rafforzando la stabilità delle vette del potere (non di un potere: del potere); agricoltura e indù- stria sono di per sé l'alienazione (tale non è la fatalità di nascere, vivere, perire, avvertirsi sessuati con la “mancanza d'essere” che ne deriva e l'aspirazione all'ermafroditismo come negazione dell'Altro — il desiderio di avere una fica se si è maschi, un cazzo se si è femmine, desiderio che nulla ha a che fare con l'«invidia» di cui fabula Freud): intendiamo infatti riferirci all'alienazione indotta, intesa come espropriazione. Ed è certo maggiore l'alienazione dell'industria rispetto a quella dell'agricoltura: il potere ne è reso infatti ancora più saldo, inamovibile, ineliminabile, dalla stessa complicazione dei processi produttivi. Il mito si dà così vesti “naturali”; si identifica con il sole, con la luna, con il mare e le loro vicende, ma non è affatto il ricalco di questi

grandi fenomeni celesti o terreni. Il mito-tabù è il sorgere dentro di noi. Cultura è sinonimo pertanto di mito-tabù. Ogni atto umano esprime il sorgere - e ogni atto umano lo blocca e cancella, come ogni parola blocca e cancella, cristallizza e uccide, il pensiero- parola preverbale. Ma, come non si può non parlare, così non si può non dire mito e tabù (o recitarli, o viverli). Il mito-tabù fissato, congelato, espresso, è il germe del potere; la parola è la potenzialità del potere. Dove accada che lo sciamano possa ridarle fluidità, ricondurre il senso al nonsenso, la potenzialità non si realizza; ma per questo occorre un gruppo “minimo”, in cui lo sciamano- memento, lo sciamano che vive il mitotabù per “incarico” della comunità, sia sempre visibile. Appena lo si nasconde — appena la società supera una certa soglia quantitativa, numerica, quella per cui lo sciamano si eclissa — il potere “esplode”. Così accade che, in certe fasi protostoriche, si formino e si disfino società gerarchiche, come ad esempio quelle mesoamericane almeno fino a epoca tolte- ca e olmeca. L'aggregazione numerica è ancora insufficiente a provocare l'“esplosione” del potere seguita da un'inarrestabile espansione. (Si noti che questa ha la tendenza a diffondersi, a “infettare” gli ambiti circostanti. Il potere è diffusionistico, tale per imitazione o imposizione.) È vano il tentativo di pensare a un al di là della Parola. Ci si imbatte sempre e comunque nella Parola, nostra felicità, nostra libertà, nostra schiavitù, nostro approdo. Il religioso monoteista che cerchi dio si arenerà sulla parola-dio; il buddista che cerca di sondare il mistero del samsara, la reincarnazione, la ruota degli esseri, e di superarla attingendo al nirvana, si imbatterà nella parola “essere” con l'aggiunta di sostantivizzazioni, come karma, Grandi Esseri, eccetera, e finirà per trovarsi di fronte a nomi oltre ai quali potrà magari illudersi di andare, ma solo servendosi di una successione di altre parole per giungere all'apparente conclusione della serie - anche se in realtà le parole non hanno numero — cioè alla parola “fine”; e il politeista non potrà andare oltre la sfilata di dèi, semidei, Spiriti che compongono il suo pantheon o il suo Olimpo e che sono nomina insuperabili.

Lo ripeto: e la Parola a istituire gli oggetti fisici (albero, pietra, nuvola, strumento...), non gli oggetti fisici a replicarsi nella Parola verbale, dipinta, danzata, cantata, mimata... È un concetto sul quale e Opportuno insistere di continuo perché è centrale nello svolgimento del mio discorso. Il capovolgimento della Parola significò che l'oggetto fisico fu interpretato quale conferma della Parola-usata. È però innegabile che ben pochi accettano l'inesorabile impossibilità di scoprire quale sia la fonte di luce che, nella caverna della favola platonica, proietta ombre sul fondo. Le religioni, al pari della Scienza, vogliono infatti andare al di là; le religioni, descrivendo divinità e spiriti e imponendone il culto; la scienza, in primo luogo U cosmologia e la cosmografia, pretendono per via unicamente razionale — e senza dunque poterne fornire una validazione — di pervenire al punto zero, il momento del Big Bang che avrebbe dato origine all'universo. Le religioni non meno della scienza (in fin dei conti loro legittima rampolla) mirano a definire la creazione, cioè l'edificazione dell'universo a partire dal nulla, per opera di un'entità estranea — un dio o un gruppo di dèi — o implicita, nel senso che “la creazione è la creazione”. Al pari della storia — che più avanti definiremo - la scienza è genealogica. «Io Credo in Dio padre onnipotente», recita il Credo cristiano. Impossibile, per i post neolitici, concepire una divinità suprema che non sia fallocrate. La speranza che esista una certezza ultima, e che la traduzione sia giustificata e valutata col metro di misura della favolistica invariabilità pre- Babele, è solo paura del labirinto senza via d'uscita che è la Parola. La morte non è che lo spegnersi della parola, e dunque della speranza di accedere all'Alterità che è simboleggiata dall'altro, oggetto animato o inanimato. Al pari degli antichi stoici, l'odierno semantologo ritiene che tutto l'accadere sia preordinato da una provvidenza o da un destino o da una norma, comunque la si voglia definire, e quindi che le solite, magnifiche sorti marcino progressivamente verso lo svelamento

definitivo. Il semantologo non si arrende a nessun racconto mitico, lo considera un indovinello, tutt'al più uno strumento, non già una parola che parla e non certo nella forma della logico-discorsività, id est della enunciazione esplicativa; pensa che la Parola (parlata, cantata, dipinta...), che è il mito, la si possa spiccare dal ramo, che essa sia ciò che si pensa prima della parola stessa, e dunque che la si possa rigirare tra le mani, farla a fettine, e le fettine metterle sotto la lente del microscopio. Insomma, non sa distaccarsi dal metodo dell'Occidente, della Scuola, del Sapere. E non si accorge che la parola discorsiva è la salma, la spoglia, lo scheletro della Parola che scorre, irrefrenabile, in tutti, in me e in te, la parola che te pensa, che me parla. Anche Benedetto Croce ha anteposto pensiero a parola. Ma la parola è increata. Non ha origine. È essa a creare. Non c'è un al di là della parola: Tal di là avviene in quanto parola. Aggiungo che la Parola nelle sue metamorfosi inventa le proprie trappole e scissioni. Veste i panni della follia, si improvvisa perversione, si atteggia a filosofia, ben sapendo — e lamentando la propria incapacità di uscirne — che sono altrettanti frammenti di essa stessa, della Parola. Ciò che l'auspicata completezza della parola — quella che è un frammento della parola, il frammento etnografico che descrive e cataloga - chiama “parola poetica delle origini”, non sfugge a codeste prevaricazioni operate su sé stessa dalla Parola impaurita di fronte all'idea del suo stesso spegnersi, cioè della morte, dell'incapacità di designarsi, di oggettuarsi. Ed essa si è fatta agricoltura, industria, commercio, produzione: per possedere designazioni, per ancorarsi a parole-oggetti. La Parola è pertanto autoinganno, menzogna, sragione, illusione e delusione, perenne fluidità e sfuggevolezza, continua metamorfosi, ed è per questo che si traduce ben sapendo che nulla è traducibile, che si scrive ben sapendo che nulla è scrivibile. È mito. Tutto però si traduce, cioè si fa parola che trasferisce sé stessa, restando fluidità e sfumatezza, oppure trasformandosi, mascherandosi da oggetto: per scoprire, subito dopo o a distanza di anni, che la sfumatezza di allora non è abbastanza duttile adesso o che quell'oggetto è ormai inservibile. E tutto, per

questo, è inesorabilmente racconto: avventura della Parola nel suo farsi oggetto o rifiutarsi all'oggettificazione; e la Parola è dunque presenza o assenza, auto accettazione o autorifiuto. È ciascun oggetto è racconto, tracciato di un nostos, di una fuga della Parola dalla Sirte sciagurata, da Scilla e Cariddi, da isole abitate da imprigionanti dee e ninfe, per riapprodare alla sicurezza banale di Itaca, e poi riprendere al più presto il mare onde non restare arenata, confitta nella reificazione. Perché c'è un residuo indecomponibile, che nessun tentativo di cristallizzazione potrà mai risolvere: nessuna legge, e dunque nessuna religione, potrà mai cristianizzarlo o comunque convertirlo. Nessuna legislazione riuscirà mai a chiudere in una definizione la traduzione, che è perennemente all'opera: ininterrottamente trasferiamo parole, gesti, forme, dal flusso che ci percorre senza soste alla comunicabilità che comporta la riduzione del flusso a poche istanze, ben inferiore al profluvio del dialogo con noi stessi. Va però detto, a questo proposito, che l'Essere si rivela nascondendosi, e più avanti dovremo tornare sul concetto. La Parola, inevitabilmente sospesa nel vuoto in quanto fine a sé stessa, in quanto nulla designante ma istitutrice di rappresentazioni, di sé stessa prigioniera, ha partorito l'anti-Parola. «Dìo disse: “Sia la luce!"» (Genesi, 1,3). Incapaci di non attribuire un'origine alla Parola, le religioni (la cristiana pars prò roto,) inventano comunque un'origine e la collocano in una dimensione per principio incontestabile. Bisogna anche supporre che la Parola si sia, in un certo senso, impaurita di se stessa, che si sia sentita appunto sospesa nel vuoto, non bastandole avere inventato i mammut dipinti sulla parete della grotta di Rouffìgnac, gli orsi, i Tchurunga australiani, gli struzzi africani, i “pitoti” della Valcamonica, gli stambecchi che il paleolitico itinerante, dedito alla venagione, lasciava a memoria del suo passaggio o temporanea dimora, essendo egli insieme homo faber, homo ludens,

homo mythologicus, costruttore di utensili, dedito alla pittura, alla danza, all'affabulazione, inventore di mitemi e proiezioni della propria presenza nel mondo. È stato più volte ripetuto che le ideologie e le credenze non sono suscettibili di fossilizzazione, e ne conseguirebbe l'impossibilità di provarne l'esistenza presso i Paleantropi, gli “uomini antichi”, i nostri progenitori preistorici. Parecchi studiosi preferiscono pertanto non dire nulla sull'argomento, limitandosi a ricostruire la vita materiale degli uomini del Paleolitico sulla scorta dei reperti. Ma è un atteggiamento che rischia di incoraggiare l'opinione che all'epoca l'attività spirituale si limitasse alla conservazione e alla trasmissione della tecnologia. Non è comunque ammissibile che l'uomo di allora fosse soltanto homo faber, cioè costruttore di oggetti: doveva, non poteva non essere anche homo ludens, cioè dedito anche ad attività non esclusivamente pratiche, al divertimento di vario genere e ad attività “artistiche”, e non poteva non essere anche homo mythologicus, cioè “creatore” — in quanto Parola — del mondo. Stanno a dimostrarlo, se non altro, le figurazioni di vario genere che ha lasciato sulle pareti delle grotte e dei ripari sotto roccia, oltre ai prodotti dell'arte mobiliare. E ci inducono a pensarlo tale le analogie con le culture dei residui popoli cacciatori, che in comune con i nostri antenati hanno per lo meno la tendenza alla rappresentazione pittorica rupestre, molte pratiche funerarie e il manifesto uso di strumenti non dissimili da quelli usati migliaia di anni fa dai nostri progenitori. Gli sparuti popoli cacciatori e raccoglitori odierni possono essere definiti come popoli preistorici o preneolitici, sopravvissuti fino a oggi senza agricoltura e senza animali domestici fuorché cani, anche se esistono casi che sono quasi sempre eccezioni. Così per esempio gli indiani Tiglit (costa nordoccidentale dell'America Settentrionale coltivano o almeno coltivavano fino a tempi recenti il tabacco, considerandolo però non già un alimento o un prodotto commerciale, bensì una droga; e alcuni gruppi di Ainu (isola di Hokkaido nell'arcipelago giapponese) da qualche decennio coltivano il miglio

che serve a preparare la birra, anch'essa come tutte le bevande inebrianti da considerare più droga che alimento. Per lo meno questa assenza di agricoltura accomuna i cacciatori odierni ai Paleantropi. È dunque lecito, ripetiamo, proporre analogie, pur con il dubbio che si possa riuscire a ricostruire oltre limiti ristretti il modo di vivere (? dunque di pensare) dei nostri antenati. La Parola paleolitica è stata stravolta, suppostamente spiccata dal ramo, affermata ciò che si presunse esistere prima della Parola, e pertanto oggetto da rigirare tra le mani, da fare a pezzi, da reificare; e la Parola sarebbe così stata ridotta esclusivamente a verbo, non più invenzione ma creazione in senso teologico — cioè supposta- mente apparsa dal nulla per intervento esterno del Pormai concepita divinità Cosa con la quale si potesse descrivere e riprodurre resistente. La Parola avrebbe così cessato di essere l'istituzione dell'albero, del fiume, del giorno e della notte, per diventare supposto specchio, eco, ricalco della realtà. Perché gli uomini si sono stanziati? Sull'evento consistito nell'assunzione da parte degli uomini del controllo dell'ambiente naturale, atteggiamento che ha cambiato radicalmente la loro e la nostra posizione nel mondo, sono state avanzate molte ipotesi. Si è trattato di un processo recentissimo se commisurato sulla scala della presenza antropica sulla terra: ha avuto luogo infatti non più di 15.000 anni fa, nella cosiddetta Mezzaluna Fertile, la regione del Vicino Oriente che comprende Egitto, Anatolia Meridionale, Palestina, Siria e una parte della zona compresa fra il Tigri e l'Eufrate. «Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» (Genesi, 4,4-5). Il dio, che è il potere neolitico, apprezzai il nomadismo e condanna la stanzialità agricola: Caino ara, stupra la terra (che si vendica dandogli scarsi, faticati frutti), ma non può non assolverlo perché è lui stesso frutto della stanzialità che ha inventato la divinità («Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato» Genesi, 4,15). E Caino di fatto prospera e diviene

costruttore di città (Genesi, 4,17). Gli aspetti positivi della rivoluzione neolitica. Le risorse divennero regolarmente prodotte anziché restare legate all'aleatorietà della loro spontanea presenza nell'ambiente, e fu dunque possibile accumulare scorte in vista di periodi di scarsa produttività vegetale e animale. Si ebbe pertanto, rispetto al Paleolitico, una disponibilità di quantitativi maggiori di prodotti alimentari. L'allevamento sistematico degli animali, prescelti inizialmente specie gregarie e itineranti, assicurò fin dagli esordi del Neolitico na certa padronanza dello spazio, ripresa, sviluppata e moltiplica- dalia pastorizia, sinonimo di nomadismo. Alla sylva, come fu poi denominata dai romani la natura selvaggia, si sostituì la crescente divorazione dei suoli. Ebbe inizio il processo di conquista e colonizzazione degli spazi, dapprima i viciniori, successivamente quelli più lontani e, in tempi a noi prossimi, persino oltre mari e oceani. Il graduale passaggio dai piccoli villaggi del Neolitico iniziale ad altri di ben maggiore estensione, alle città e alle conurbazioni, si accompagnò alla sostituzione del mito-tabù con la metafisica (si veda il Glossario). La metafisica consistette essenzialmente, lo ripetiamo, nella convinzione che la Parola potesse diventare sempre usata, anziché essere Parola-in-cui- siamo. La metafisica vuole per principio ignorare che noi siamo mitici e solo secondariamente parlanti, come a dire che il perenne scambio che abbiamo con noi stessi cioè con l'Alterità — e che precede la comunicazione plurivocale - non è una scelta ma è parte integrante e anzi condizione del nostro esser-ci inteso come parte, frazione, ombra dell'Essere. La metafisica comportò l'invenzione della scrittura. La Parola usata venne intesa quale cosa, oggetto di scambio e anzi quale esordio e modello iniziale dell'attività economica, dapprima nella forma di scambio, di baratto via via accompagnato da lucro in sostituzione delle non-regole precedenti, del periodo cioè in cui la comunicazione materiale prendeva la forma di dono senza l'obbligo della reciprocità, anche se questa era ovviamente bene accetta.

Tabù. Il noto antropologo francese Lévi-Strauss vorrebbe ricondurre il tabù a un primum, e sarebbe la proibizione dell'incesto a sua volta riconducibile alla necessità dello scambio delle donne. La proibizione dell'incesto sarebbe «una regola di reciprocità», destinata a escludere l'endogamia e a garantire l'esogamia. In ultima analisi, LéviStrauss riduce il tabù al proposito di evitare che ci si unisca tra congiunti. Il tabù viene dunque da lui riferito a una regola, che pertanto preesisterebbe al divieto. Ma l'antropologo dimentica che i faraoni egizi sposavano la sorella, o addirittura la madre o la figlia, che lo stesso facevano i sovrani incaici, e che l'incesto è largamente praticato in molte vallate alpine che, d'inverno, restano bloccate, isolate dalla neve. Dimentica anche che le madri degli aborigeni centro australiani, in particolare i Pitjentara, iniziavano i figli maschi alla sessualità, ponendosi su di essi a cavalcioni nella posizione detta alknarintja, e che tra i Kaingang dell'Altipiano brasiliano la prassi era, e forse è ancora, missionari permettendo, altrettanto diffusa che tra gli sparuti gruppi abitanti le zone interne della foresta amazzonica. Il tabù dell'incesto “funziona” insomma per conto proprio: il tabù copre tutto ciò che allude alla simbologia dell'origine. Il tabù, al pari del mito, non presuppone affatto un'origine. Né l'uno né l'altro fanno di un'assenza una presenza. Non pongono domande, non forniscono risposte. Si rivelano, ecco tutto. Si pongono quali riti di passaggio, insituabili cippi confinari attraverso i quali tuttavia si transita per ritrovarsi nell'aldilà e rientrare nell'aldiqua. Sono, appunto, Parola: Parola che ci ritroviamo in bocca, in mano, nei piedi, nel pennello. Appena sbocciati, mito e tabù si affermano come perenne ripetizione, onda che viene a frangersi sulla spiaggia, non latrice di un senso definito e definitivo, ma sempre sfuggente e tuttavia avvertito — come un sentimento, se si vuole — e allora il mito-tabù, verso e recto della medaglia, ci appare come un as if, un “come se”, non tangibile ma avvertito e ineludibile. Come nostra origine, non di esso, il mito-tabù che origine non ha, che non è corso d'acqua da risalire alla sorgente, ma è corso d'acqua che, appunto, scorre, quel fiume

sommerso di cui ho parlato sopra. L'incesto è uno dei luoghi deputati del tabù. E tale diventa a posteriori, quando non ci si accontenti di indicarne la presenza, ma li voglia sottoporlo a biopsia. Molti sono i luoghi deputati in cui il tabù, il senza tempo, il senza spazio, si manifesta, si evidenzia, multiforme Proteo senza un'unica faccia. Sono, per esempio, la morte, l'agonia, lo spargimento di sangue, la guerra, il sacrificio, l'erotismo perché in esso, con esso, ci si “perde”, si smarrisce la propria presunta individualità, e senza un nome ci si abbandona alla parola dei Corpi, non meno molteplice di quella verbale, assai più eloquente di quella di scambio. Tabù è dunque la violenza in ogni sua manifestazione, tabù il grembo materno, visto come luogo del cruento e lacrimante prorompere, è la breccia nel muro dentro la quale forse li celano le penne da restituire alla Fenice: luogo del manifestarsi iniziale della Parola-esserci. E che, in quanto tale, egregiamente simboleggia il nascere e il perire, l'apparire e lo scomparire. «Tabù. Un sistema di proibizioni religiose e socialile più famose e fondamentali delle istituzioni sociali della Polinesia». M. Leach, J. Fried et alii, a cura di, Standard Dictionary of Folklore, NewYork, 1949.

Impossibile, per gli antropologi, non concepire il tabù come divieto religioso e sociale. Se il sovrano arcaico, e come lui il “selvaggio”, il “primitivo” — e anche il cosiddetto “pervertito” — praticano e recitano l'incesto, è, nel caso del primo, perché è immune dalle punizioni che il “sacro”, il sito dell'introvabile origine, comporta per chi ne sfiora i confini, per chi lo aufhebt, per dirla con Hegel. Nel secondo caso, perché comunque il tabù è per essere superato, sbarra di confine che torna ad abbattersi appena si sia compiuto il rite depassage. Il tabù, il sentimento del nascere-perire, cioè dell'indescrivibile sgorgare e sprofondare della parola — quello che dai greci era denominato il Phanes, l'Apparso — viene facilmente tramutato, da assenza, in presenza, gli si fa assumere forma di legge, lo si esprime

come proibizione o divieto. Va detto ancora che il tabù ha ovunque un interprete, ed è il mito, e sono la Sibilla e il suo portavoce. Il mito è l'altra faccia di un'unica medaglia. Dal punto di vista etimologico, il mito è, sì, racconto, mythos greco, ma il termine deriva, a quanto pare, da una radice indoeuropea, mn, donde memoria, mnemonico, mind inglese, e via dicendo. Il mito-racconto commenta di continuo la continua aurora del tabù, ne decreta il tramonto e ne preannuncia il risorgere. E descrive o rievoca di preferenza le conseguenze dell'incesto, della guerra, la nascita (l'apparizione, l'Epifania), le avventure del pene e della vulva, il viaggio, il repentaglio. E per questo che tanto spesso assume la forma del mito solare - ma perché tenta di dar voce all'inesprimibile, all'indecidibile, e predilige pertanto quei simboli esteriori che più immediatamente corrispondono alla ruota degli esseri-parole vorticante dentro di noi. Al posto del mito-tabù con il Neolitico è intervenuta la prescrizione, il divieto, in altre parole la legge. Ogni legge si scriveva e si scrive, dapprima nella specie di semplici simboli, su lastre di pietra, su papiri, su tavolette di legno, cera, argilla, in libri, su fogli e schermi, allo scopo sempre di farne un oggetto fisico. Lo stanziale del Neolitico si suppose parlante e relegò in una duplice dimensione la Parola-parlato: un mondo estraneo, paradisiaco o ctonico, di dèi e demoni dotati di volontà propria e identificabili appunto con la Parola; e un mondo terreno ma non utilitaristico, quello in cui in processo di tempo i post neolitici avrebbero confinato i cosiddetti artisti. Il processo di stanziamento comportò l'invenzione del villaggio e della città, e soprattutto il passaggio dal modulo circolare (ciclicità dei ritmi naturali, forma delle capanne, visione complessiva del mondo e dei suoi fenomeni) al modulo, oggi onnidominante, della “quadratità” che, va detto subito, non fu dettato da ragioni di praticità e comodità, ma fu inevitabile frutto di una diversa visione del reale. Gli svantaggi, a breve, a medio e a lungo termine, del passaggio dal Paleolitico alla rivoluzione neolitica. In primo luogo, l'istituzione

della sfera della ratio, ritenuta lo strumento principe dell'affermazione nel mondo, e della sfera ben delimitata — cittadella murata - del rimosso, dell'inconscio, dell'Es o come si voglia chiamarlo. Il mondo fu “civilizzato” e rimodellato dall'attività e dallo sfruttamento umani, al punto che oggi nulla più somiglia a ciò che dovette essere un tempo la natura extraumana. Cosa questa che comportò la distruzione sempre più rapida delle foreste, delle savane, delle praterie, persino dei deserti e dei mari, per permettere l’instaurazione di campi, vie, fabbriche, centri abitati, apertura delle risorse idriche al sistematico sfruttamento ittico, eccetera. Stanziamento, agricoltura, allevamento, industria e produzione sistematica, vale a dire frammentazione del reale in un'infinità di Oggetti utilizzabili e contemporanea urbanizzazione, hanno promosso la moltiplicazione degli esseri umani. Se alla fine del Paleolitico su tutta la terra si contavano forse 200.000 esseri umani, Oggi sono più di sei miliardi in rapido avvicinamento ai dieci e forse più, a quello che è generalmente considerato l'estremo limite sopportabile dalle risorse terrestri. L'agricoltore e l'allevatore hanno dovuto conquistare il mondo anziché accontentarsi di ciò che veniva loro dato, e praticarono non Soltanto la domesticazione, e dunque sottomissione degli animali, ma anche la schiavitù. Avevano e hanno necessariamente una visione gerarchica non solo della società, ma anche degli dèi e degli spiriti. Erano e sono dediti a sacrifici, sia cruenti, sia simbolici (messa della religione cristiana), non di rado umani, anche se per lo più animali (ancora oggi, nei templi della dea Kalì in India). Agricoltori e allevatori devono infatti “pagare" il loro stesso esistere agli dèi ai quali si considerano sottomessi, partendo dal presupposto che dall'aldilà vengono vita e morte, buoni raccolti o carestie, pioggia abbondante o siccità... Anzi, si presume che nell'aldilà si nasca, nel- l'aldiqua si viva e nell'aldilà si muoia. All'inizio, l'agricoltore ha concepito ancora il tempo come ciclico (eterno ritorno delle stagioni: non aveva una precisa visione “storica”,

di destinazione e di causalità), organizzando comunque le sue attività in base a un rigoroso calendario. La fertilità della terra gli appariva simbolicamente solidale con quella della donna; la donna fu considerata responsabile dell'abbondanza dei raccolti, poiché “conosceva” il “mistero” della creazione in quanto capace di partorire, e dunque di dare insieme vita e morte (il nuovo nato è destinato comunque al decesso) e il nutrimento (latte, attività domestiche: la donna prepara da mangiare, custodisce la dispensa). Se in un primo momento si credette che la terra si ingravidasse da sola, per partenogenesi, con l'invenzione dell'aratro il lavoro agricolo venne assimilato all'atto sessuale, e dunque alla fecondazione della terra a opera di agenti esterni. Il mistero della terra partenogenetica è però restato a lungo, come residuo, nelle società agricole: si conoscono, in tutte le religioni, decine, centinaia di madri vergini che vengono ingravidate da spiriti, angeli, dei, senza intervento umano (in Grecia, Era concepisce da sola e dà alla luce Efesto e Ares). Suppostamente nato dalla terra, l'uomo morendo tornava alla madre. Sul ritmo delle stagioni, si costruì poi il ritmo dell'eterno ritorno, della continua rigenerazione del mondo dopo una catastrofe (morte sotto forma di diluvio, di apocalisse eccetera); il mondo rinascente era considerato migliore del precedente, la cui rovina era stata generalmente causata da errori o peccati, commessi dagli uomini o dalle loro proiezioni celesti o sotterranee, dèi superni o inferi. Nel Neolitico, trionfò il diritto del più forte. Cessò l'uguaglianza delle società “selvagge”, in cui uomini e donne avevano e hanno uguali diritti; la società divenne maschilista, fallocratica. Ancora, mentre tra i cacciatori le ossa erano considerate il ricettacolo della vita, da quando, nel Neolitico, per gli agricoltori la terra assunse importanza fondamentale (da essa dipendeva la vita della società), furono le “ossa della terra” a essere considerate l'elemento stabile, eterno, indistruttibile. Le ossa della terra erano le rocce, i massi, e soprattutto le loro repliche erette dall'uomo: i dolmen, i menhir, i betili, i cromlech

e, a mano a mano che l'organizzazione sociale i diveniva più complessa e che le tecniche si perfezionavano, le cosiddette costruzioni megalitiche. È diffusa la convinzione che il passaggio dalla vita itinerante (caccia e raccolta) allo stanziamento abbia comportato un progresso. Rifugiati in vari angoli del globo, ancora oggi sussistono gruppi isolati e minacciati che vivono secondo il ritmo delle stagioni, in I una condizione atemporale rispetto alla cronologia misurata dagli Orologi. Vivevano e vivono meglio o peggio degli stanziali? I cacciatori hanno opposto ferma resistenza ai tentativi, ripetuti costantemente nei millenni dagli agricoltori, di “civilizzarli” o di sopprimerli fisicamente o almeno cancellare la loro cultura. Questi gruppi si rifiutavano e si rifiutano di cambiare il proprio sistema di vita, e le ragioni ne sono evidenti: l'attività venatoria e la raccolta assicuravamo tutto il cibo (animali terrestri e marini, frutti e radici) di cui avevano bisogno, consentendo loro di vivere in modo ideale in piedi gruppi uniti da intimi rapporti. Il cacciatore era ed è libero dal [io della routine, e le sue attività quotidiane sono eccitanti. Va a leda solo quando ha bisogno di cibo: e perché sgobbare nei campi pei ricavarne messi, quando le donne possono estrarre dal terreno ignami e altri rizomi? L'agricoltura ha comportato nuovi rapporti umani che hanno alterato f antichissimo equilibrio tra uomo e natura e tra i membri dei gruppi. Non si può certo parlare di un'insufficienza di capacità intellettuali che avrebbe impedito ai cacciatori di far proprio quello che ben merita il nome di “nuovo mito”. Né si può proporre l'immagine del buon selvaggio, puro e innocente. Anche tra i cacciatori avevano e hanno corso la violenza e la crudeltà, anche la loro esistenza è lungi dall'essere paradisiaca. D'altra parte, com’è comprovato dalle testimonianze pittoriche e plastiche che hanno lasciato, i paleolitici, itineranti, non-agricoltori, avevano e hanno capacità espressive e, più genericamente intellettuali, non inferiori alle nostre. Conclusioni? Difficile trarne. A mio giudizio, tuttavia, il Neolitico di cui siamo gli eredi ha comportato un'enorme, irrimediabile perdita del bene più

prezioso per l'essere umano: la piena disponibilità delle proprie capacità, insomma una cospicua diminuzione della libertà. L'umanità post neolitica ha costruito opere immani, ma ha migliorato davvero la propria condizione esistenziale? Ha acquisito dimensioni morali, creative, espressive, che giustifichino la terribile dipendenza dalla tecnologia che devasta il mondo e minaccia la sua stessa sopravvivenza? È inutile chiedersi se, dal punto di vista materiale, fosse meglio la vita dei cacciatori paleolitici rispetto all'odierna esistenza urbanizzata. Importa piuttosto dire che la mutazione verificatasi nel Neolitico non riguardò soltanto la produzione di sussistenza e le conseguenti trasformazioni e antropizzazioni dell'ambiente, ma coinvolse tutte le manifestazioni della vita umana, dalle materiali alle simboliche. E molto difficile stabilire in quale sequenza si siano verificate le relative manifestazioni: difficoltà resa maggiore, e forse insuperabile, dal fatto che la neolitizzazione delle varie regioni del mondo ha avuto luogo in maniera assai complessa e discontinua. Se infatti si ebbero dapprima cambiamenti decisivi localizzati in alcuni, limitati centri di irradiazione, in seguito si verificarono acquisizioni simili in zone anche molto lontane dai focolai promotori. Il Neolitico fu, in sintesi, l'introduzione, in parte spontaneamente accettata, in parte imposta, di una nuova dimensione mitica, e poi la negazione-superamento di ogni visione mitica in nome della ratio e del cogito. Tutti gli elementi e i principi provenienti da luoghi spesso remoti, agricoltura, allevamento, nuovi procedimenti (levigazione della pietra, ceramica, invenzione della possibilità di servirsi dei metalli, organizzazione sistematica della produzione eccetera) sono apparsi ovunque in rispondenza al trionfo di una nuova Weltanschauung. E ovunque si verificò - si ripetè, modificandosi in combinazioni con preesistenze culturali e locali e stilemi autonomi - la rivoluzione simbolica, la transazione dalla Parola- mito alla Parolaparlante. Se è possibile seguire il decorso della neolitizzazione secondaria

(cioè dei meccanismi di diffusione delle idee del Neolitico iniziale) almeno in Europa, non altrettanto si può dire dell'origine della ì rivoluzione neolitica. Converrà dunque soffermarsi sulle ipotesi avanzate in merito. I Mentre il cacciatore si sente parte integrante dell’intorno, e non Opera una netta distinzione tra sé e la natura, il postneolitico tende a farsi rigidamente pratico, a rinunciare ai rituali con cui il cacciatore chiede scusa all'ambiente di cui è parte integrante per averne Ucciso un componente (così, per esempio, i pigmei depongono foglie e fronde sugli animali uccisi): non si considera più partecipe del mondo, ma suo legittimo proprietario e sfruttatore; ha imparato a misurare meticolosamente il tempo, lo spazio e le cose, a costruire macchine e ordigni di distruzione di massa; mira alla conquista degli astri e a bruciare più ossigeno di quanto possa essere sostituito dalla vita vegetale; e soprattutto, lavora, produce, accumula, prolifica, desertifica, inquina. Tra i modelli proposti per spiegare il sorgere del Neolitico, a predominare in larga misura è quello materialista, la cui forza è legata alla possibilità che esso offre di formulare domande senza per lo più fornire risposte. È un modello che può sintetizzarsi nella domanda: che cosa ha spinto l'uomo a cessare di dipendere dalle alcatorietà della caccia e della raccolta per affidarsi, ai fini della sopravvivenza, all'agricoltura, all'allevamento, alla produzione tecnologica? È implicita, nella domanda precedente, una concezione della cultura come insieme di mezzi materiali usati per adattarsi all'ambiente. In altre parole, le mutazioni culturali in generale, e più strettamente sociali, sarebbero immediatamente connesse alle trasformazioni che hanno luogo nella natura oltre che, beninteso, ai cambiamenti che si verificano al livello della nostra biologia e dunque dei nostri bisogni alimentari. Com'è ovvio, questa spiegazione sottovaluta l'apporto della cultura umana non materiale (quella non pertinente agli oggetti d'uso, secondo la definizione dell'antropologia) e in particolare la capacità inventiva; e fa dell'essere umano e delle sue esplicazioni un mero

effetto di realtà che subisce, sia pure adattandovisi e in parte plasmandole, attenuandole, deviandole. L'ipotesi può sembrare giustificata dalla constatazione che circa 20.000 anni fa si verificò un miglioramento delle condizioni climatiche in tutta l'Europa: a causa del crescente riscaldamento generale, si verificarono migrazioni di varie specie di animali verso zone più fredde, con conseguente spostamento dei cacciatori che inseguivano gli armenti. L'ipotesi però non risponde a due domande: perché la trasformazione ebbe luogo solo in una zona limitatissima del nuovo contesto climatico, precisamente la Mezzaluna Fertile già designata in precedenza? E ancora: come si spiega che il passaggio da cereali selvatici a cereali coltivati nella Mezzaluna Fertile, dal Mar Morto all'Altipiano iranico, abbia avuto luogo successivamente agli stanziamenti e persino alla fondazione di villaggi, come Gerico e altri? Gli stanziamenti precedettero infatti le invenzioni delle fonti alimentari, vegetali e animali, destinate ad assicurare la sopravvivenza. Villaggi di cacciatori-raccoglitori sono comprovatamente sorti nella valle del Giordano almeno 2000 anni prima di ogni forma di agricoltura e di allevamento. Un villaggio di cacciatori-raccoglitori è stato individuato nel 1955 a Mahalla appunto nella valle del Giordano; i suoi abitanti non erano dediti all'agricoltura e non praticavano nessuna forma di allevamento. D'altra parte, è assai probabile che gruppi di itineranti si stanziassero, almeno provvisoriamente, all'imboccatura di grotte e in ripari sotto-roccia, e sono stati infatti rinvenute tracce di opere di sistemazione di questi ricoveri, come muretti di protezione all'ingresso delle grotte oppure rozze forme di lastricatura o l'apertura di sentieri che conducevano alle dimore provvisorie. La scoperta si deve a Bar Yosef, O. e Valla, F.R., a cura di, The Natufian Culture in thè Levant, International Monographs..., Archaeological Series, 1, Ann Arbor 1991.

La conclusione inevitabile è che quella che è stata giustamente definita rivoluzione dei simboli ha preceduto l'inizio dell'economia

agricola, e ancora che le trasformazioni culturali non rientrano nelle cosiddette sovrastrutture derivanti dai mutamenti economici, come vorrebbe invece la ben nota vulgata marxista. L'idea dello stanziamento è insomma sorta e si è imposta prima che lo stanziamento si accompagnasse alle altre manifestazioni dianzi indicate, le quali pertanto non si inscriverebbero in un rapporto di causa-effetto. Se ne deve in generale concludere che i raggruppamenti in questione non furono conseguenza dell'economia di produzione, ma precedettero considerazioni di ordine razionale. La produzione agricola e Tallevamento furono in altri termini l'esito di una rivoluzione dei simboli, di un'invenzione delle nuove modalità di produzione e sopravvivenza. La Parola dunque disse il mondo, gli uomini furono parlati, e solo una volta compiuta la nuova scelta, ratificata la loro stessa invenzione, cambiarono sé stessi, divennero cioè parlanti e iniziarono la trasformazione del mondo in termini neolitizzanti. Invenzione del quadrato. Una delle manifestazioni di maggiore evidenza del Neolitico è l'imporsi di forme geometriche applicate all'abitazione che non avevano precedenti, e quindi sono da ritenere invenzioni vere e proprie. L'abitazione venne considerata imago mundi: del neomondo, il mondo concepito dal Neolitico. Le forme geometriche sono ordine, sono sintassi, sono grammatica, e rispondono all'ordine cosmologico, quello attribuito ai fenomeni celesti e atmosferici, ai quali con ogni probabilità i paleolitici dovevano essere piuttosto indifferenti; le forme geometriche prevalsero nelle tecniche dell'agricoltura come nelle disposizioni dei coltivi e nelle recinzioni destinate a tenere gli animali domesticati nei pressi della dimora. Quanto all'abitazione e alla sua moltiplicazione, villaggio e città, i costruttori obbedirono, e tuttora obbediscono, a un preciso vocabolario simbolico, quello della “quadratità”, cioè spigoli, strutture rettangolari, forme che comunque si sottraggono al predominio della sfericità e del cerchio, le forme che si impongono spontaneamente nella tana, nella cavità naturale, grotta o capanna che sia. La “cerchialità” designa infatti ciò che trascende l'uomo e resta al di là della sua portata (sole,

luna, totalità cosmica, divinità, sacrum). Nel Neolitico prevalse, come si dirà più avanti, una sorta di rifiuto della sottomissione al destino, una hybris che si tradusse in nuove concezioni cosmologiche e nell'affermazione del dominio dell'uomo sul mondo. La curvilinearità ha correlazione immediata con la proliferazione, con la maternità, con la placenta, con le cavità del corpo della donna. La rettilinearità, ha correlazione con la virilità, con il phallus. Parlando specificamente di religioni, vedremo come la donna sia stata correlata direttamente alla morte; se i paleolitici a volte davano sepoltura ai cadaveri, non di rado accompagnandoli con conchiglie e altri ornamenti e coprendoli a volte con cumuli di pietre, a contrassegnare il sito dell'inumazione, ciò non significa però che immaginassero una vita dell'aldilà, e ancora oggi non mancano popolazioni “primitive”, come i nomadi Masai viventi tra Kenya e Tanzania, che riservano la copertura di cumuli di pietra a salme di uomini particolarmente degni di nota e dunque di essere designati con memoriali, mentre gli altri defunti vengono gettati nella savana a nutrire gli animali saprofaghi. I neolitici invece istituirono regolari culti della morte; sono note così le tombe in foggia di vulve: serie di pietre che convergono, in guisa di simboliche gambe, verso un'apertura, scavata per esempio sul declivio di una collina e che ha palesemente la forma di un'apertura vaginale. Un'altra invenzione neolitica è il dolmen, sepolcreto consistente di cavità fatte di lastre di pietra verticali sovrastate da una o più lastre orizzontali; sulla superficie delle pareti interne compaiono assai spesso incisioni che sono simboli femminili (seni, vulve schematiche, gli occhi della “dea degli occhi” di cui parleremo a proposito di religione). Tombe “a cortile” (Neolitico irlandese: Ballyglass, Contea di Mayo; Creevykell, Sligo, tra V e VI millennio a.C.), “a corpo di madre” (Sardegna, San Andrea Priu, Bonova, 4000 a.C.), “a lungo tumulo” (Lepenski Vir, nei pressi di Belgrado, 6000 a. C. circa), eccetera.

Mentre le forme irregolari e quelle sferiche sono frequentissime in natura, la pietra cubica o rettangolare è tale soltanto se la si lavora.

Quadrato, rettangolo, forme cuspidali, blocchi squadrati sono frutto di imposizione della ragione umana alla natura informe. Il quadrato, il rettangolo, lo spigolo designano pertanto il frutto del lavoro, la realizzazione, Xopus. Come si è già detto, la curva è femminile, il diritto e l'angoloso sono maschili, evidente riflesso della virilizzazione del mondo. Ne consegue che la tana o la capanna consistente in uno scavo nel terreno coperto da ramaglie o pelli, oppure semplicemente frutto di un accumulo di vegetali, agli occhi dei neolitici dovevano apparire atteggiamenti primitivi, espressione di un legame immediato, ormai ritenuto sorpassato, con la natura. La forma circolare cessò di rispondere alla funzione simbolica dell'abitare ormai divenuta tutt'uno con il dominio del mondo. Al bisogno basilare, quello di avere un riparo, quello che abbiamo definito nuovo mito neolitico rispose imponendo una forma nuova, artificiale, frutto di concettualizzazione. E se in un primo momento gli stanziali si accontentarono di addossare una struttura di pietre o legno alle pareti preesistenti del ricovero scavato nella terra, successivamente la copertura venne estesa a rivestire e celare l'intera cavità. Per la prima volta al mondo, l'architettura delle forme rettangolari comparve nel periodo detto Mureybetiano del “nucleo levantino”, cioè la zona dell'Eufrate, verso il 9000 a.C. L'uomo ormai sedentario aveva abbandonato la cavità dei primordi e la rotondità materna dei suoi antichi ricoveri, affermando al loro posto la coscienza della propria capacità di dominio del mondo, in rispondenza a una simbologia decisamente virilizzante. Durante il Neolitico, a partire da circa 5000 anni fa per l'Europa e in altre regioni del mondo tra loro coerenti e comunicanti, emersero edifici di tipo megalitico (Spagna, Bretagna, Gran Bretagna, Irlanda, Sardegna, Corsica, Portogallo, Italia peninsulare, Nordafrica, Caucaso, India) quali i dolmen, i menhir, i cromlech, gli allineamenti (tipici quelli di Carnac in Bretagna) e altre costruzioni litiche elementari che non esauriscono, riducendolo alla sola dimensione architettonica o plastica, il significato del fenomeno. E giocoforza porsi in una

prospettiva più radicale dell'analisi storico descrittiva, facendo ricorso ai parametri essenziali ed esistenziali del pensiero arcaico. Termine che va inteso nell'accezione di arché, forma primigenia, quello che costituisce l'ambito neomitico, cioè neolitico, dell'eterno ritorno. Per i gruppi di cacciatori, l'osso simboleggiava e tuttora simboleggia l'essenza della vita e insieme il legame più evidente con l'animalità, unico tangibile elemento, provvisoriamente stabile, che riveli la Carne. L'animale è in un certo senso oggetto di invidia in quanto è la “verità”, cioè non muore perché non ha coscienza della morte e, in epoca postpaleolitica, nel Neolitico, è l'iniziale veicolo verso la sacralità, intermediario con l'informe. L'immediatezza del rapporto privilegiato che il cacciatore istituisce con la bestia, si traduce, nelle società stanziali del Neolitico, nell'immediatezza della pietra. La cratofania litica, la manifestazione di forza del masso con la sua durezza, permanenza, scabrosità, sostituisce la partecipazione all'essere tramite gli ossami. Non è che si cessi di onorare lo scheletro (anzi, le pratiche funerarie diventano sempre più numerose ed estensive), ma è con la terra, sorgente di vita (agricoltura, pastorizia, cicli stagionali), che si istituisce il rapporto privilegiato, tuttavia dominandola e pagandole il prezzo, per l'abuso che se ne fa, con sacrifici di animali per lo più domesticati (già domati), e non di rado di esseri umani. La pietra si impone con la sua inerzia, le sue proporzioni, la sua estraneità all'umano. Ma le si impone il dominio umano: la si svelle, cioè la si toglie all'informe; la si drizza, cioè si partecipa dell'informe e insieme lo si domina; la si contempla e adora, cioè si scopre la sua qualità di appartenenza all'alterità; la si lavora, cioè se ne riconosce il significato di simbolo del divenire terrestre e umano; la si integra in complessi, cioè si scopre quel qualcos'altro che la pietra incorpora ed esprime come elemento, come fonte della forma, come struttura elementare, come luogo dell'architettura, esempio dell'edificio cosmico a somiglianza del quale si membra il villaggio e cresce l'edificio terreno. In questa prospettiva, la pietra appare organica non meno

dell'ossame; il villaggio si struttura come corpo, o meglio come scheletro, e i suoi limiti e i suoi centri sono stabiliti da luoghi di pietra (mura, nuraghe, poi fortezza, palazzo...), oggetti sacri che incorporano e rivelano l'aldilà con la forma, con la forza, con l'imponenza, con la duttilità e con la durezza: un aldilà dal quale si ottiene il “permesso” di imporre alla pietra l'umana superiorità. La pietra protegge contro il mondo esterno, predoni e animali, ma soprattutto contro la morte, in pari tempo richiamando all'inevitabile caduta nell'indifferenziato; simbolo di incorruttibilità, e dunque anche scongiuro. Le pietre funerarie divengono case della morte, ospitano gli spiriti degli antenati in esse “pietrificati”, tengono lontani gli spiriti estranei, esercitano influssi benefici o malefici sui campi e i pascoli, sulla fertilità animale e umana (pietre fertilizzanti dell'Armenia; cippi di guardia ai campi: Giano era all'origine un cippo, un betilo, un menhir, informe e insieme itifallico, espressione di dominio virile). La pietra, la roccia, il dolmen, la stele-divinità e ogni altra espressione litica si affermano dunque come ierofanie, rivelatrici di un'empatia con l'irraggiungibile Essere. Si noti che la pietra è sempre reimpiegata dal Neolitico, è realtà appartenente alla montagna e pertanto sempre elemento della struttura del cosmo. Pietre sacre sono per il Neolitico già quelle conformazioni naturali che rivelano assetti spaziali di eccezione, in quanto trasfigurano, esprimono, significano con straordinaria pregnanza. Rifare la dimensione tellurica è la norma dei costruttori megalitici: i templi- montagna (Messico, Perù, Egitto, eccetera), la fortezza-collina (la Saxahuamàn di Cuzco), la roccia intera inserita, previo sbozzamento, nel colosso architettonico (tempio della valle della piramide di Cheops in Egitto), le imponenti terrazze agricole incaiche, insieme luogo di difesa e monumento. Di grande momento è la differenza delle strutture artificiali neolitiche con la non-architettura dei gruppi venatori, con le grotte del Paleolitico e i loro spettacolosi affreschi. Mentre queste rispondono a un principio paratattico, l’edificio neolitico, pur rispondendo tuttora alla tendenza a cogliere la spontaneità e immediatezza del materiale

lapideo, tende però a inserirlo in una razionalità geometrica, quella della vittoria sull'informe. Per quanto la terra sia pur sempre equiparata a un ventre materno da cui nascono gli uomini, il ricorso alla pietra contiene un elemento di artificialità: la montagna è riprodotta, la grotta rifatta (dolmen, alice couverte eccetera). La pietra è sempre lavorata, è sfidata, e in pari tempo onorata e ornata, a sottolinearne, sì, la dignità e la forza, ma tanto più la vittoria riportata dall'uomo sulla sua possanza. La pietra del Neolitico è domata, è l'equivalente liteo dell'agricoltura e dell'allevamento degli animali. Un progresso. Vero o presunto? Il criterio determinante della neolitizzazione sarebbe, secondo Gordon Childe, la produzione di sussistenza che, continuando ad aumentare e a sostituirsi alla nonproduzione, avrebbe enormemente accresciuto la potenza dell'umanità, culminante nei risultati della nostra modernità. Si sarebbe cioè verificato un continuo progresso, dovuto essenzialmente alla convinzione che l'aumento della produttività fosse e sia tuttora destinato a migliorare le condizioni di vita, aprendo la porta a ulteriori avanzamenti. Si tratterebbe dunque di un processo unidirezionale, una Freccia temporale rettilinea. 1 preistoriologi sono in larga misura portati a ricondurre le ragioni del “progresso” (cioè, ripetiamo, la concezione della temporalità rettilinea, preceduta dall'invenzione di tempo e spazio) a interpretazioni biologistiche. Non potendo d'altra parte negare l'incidenza di cambiamenti d'ordine simbolico, molti autori, soprattutto di scuola inglese e americana, hanno tentato di attribuire lo stanziamento a una tendenza insita nell'uomo, l'innato rifiuto del “selvatico” e dell’imprevedibilità a favore appunto della domesticità: il desiderio di intimità, di horne, di focolare domestico. 11 controllo della flora e della fauna sarebbe da interpretare, in questa luce, come un ampliamento della casa, una sua proiezione all'esterno.

Hodder, 1., 7he Domestication in Europe, Londra, 1990; Watkins, T., The origins of House and Home, in World Archaeology, n. 21/3.

L'aspirazione all'intimità della home andrebbe vista quale un movimento di ritiro, una reclusione dalla quale si uscirebbe soltanto perché costretti da eventi esterni, catastrofi naturali, alterazioni climatiche, epidemie, guerre, invasioni... Soprattutto queste due ultime rispondono però a istanze espansionistiche, a manifestazioni di estroversione, non certo di riduzione spazio-temporale. Bisogna dunque supporre l'intervento di atteggiamenti nuovi e diversi, gli unici capaci di spiegare la dilatazione, non di rado violenta, degli stanziamenti locali e di loro aggregati. Non sono infatti rilevabili tracce documentarie di aumenti delle tensioni sociali all'interno degli stanziamenti iniziali, tali da avere indotto una parte delle società (ripetiamo: non più gruppi) a cercare fortuna altrove. Né d'altra parte nel Neolitico sembra si siano verificate penurie o carestie tali da causare scissioni di vasto momento delle popolazioni locali. Le riprove ne sono fornite dai cosiddetti kidkkenmdddigen, termine di origine olandese con cui vengono designati gli accumuli, le discariche soprattutto di avanzi alimentari, reperibili presso molti se non tutti gli stanziamenti neolitici. La diffusione di piante alimentari domesticate è continuata in misura via via crescente per migliaia d anni; un po' alla volta le colture si sono estese e moltiplicate coprendo, ben al di là delle zone di origine dell'agricoltura, cioè la Mezzaluna Fertile, altre zone vicine e via via sempre più lontane, prima nel Vicino Oriente, poi nel Sinai, nel Sahara settentrionale, in tutta la Mesopotamia, quindi in zone dell'Europa a partire dal sud per risalire fino agli estremi limiti del continente, e ancora in Asia e nelle Americhe (trasmissione per “racconti”, per “sentito dire”, o trasmigrazioni per lo Stretto di Bering, un tempo coperto da terre?). La trasformazione avviata dal Neolitico fu di enorme entità. Non si trattò solo di aggiungere nuovi elementi a quelli preesistenti: l'invenzione dell'agricoltura si accompagnò, con ogni evidenza, non

solo alla costruzione di villaggi, ma anche e soprattutto all'assegnazione di coltivi, all'introduzione di nuovi strumentari e nuove tecnologie; vennero costituiti depositi e ricoveri — granai, fienili, stalle — prima inesistenti. Soprattutto si verificò, non già una mutazione religiosa, cosa che presupporrebbe la preesistenza di manifestazioni di culto del sacrum già in epoca paleolitica, bensì l'invenzione della divinità. L'ipotesi di una presunta religiosità del Paleolitico appare assai poco convincente — non sono immaginabili culti che non rispondano a ordini e a strutture sintattiche, in pieno contrasto dunque con le figurazioni parietali, che come si è detto sono sempre paratattiche. E tuttavia possibile proporre, per esse, una visione ispiratrice mitica, di racconto per episodi svolgendosi lungo tutta la grotta, suddivisi in zone come altrettanti capitoli: vicende di “personaggi” che possono essere mammut, uro, cacciatori, quelli che possono essere interpretati come sciamani, cioè persone capaci di immedesimarsi con gli animali. Il Neolitico fu un nuovo modo di concepire il rapporto dell'uomo con il mondo, con la vita e con la morte. Se, come si è detto, nel Paleolitico a volte particolari defunti erano considerati degni di essere ricordati, è però impossibile parlare di culto dei morti, di obbedienza a pratiche e costumanze rigorose e cogenti, queste sì legate a una visione religiosa, all'invenzione di una sfera superiore, inattingibile all'uomo o con cui si potessero stabilire contatti di tipo particolare, mediante particolari culti, con preghiere e con l'istituzione di intere categorie di persone incaricate di mettersi in contatto con divinità e spiriti. La diffusione neolitica non fu l'improvvisa risposta a nuove necessità, a stati di crisi, a contingenze favorevoli, ma fu un fenomeno che si tradusse in un'inconciliabile contraddizione con i modi di vivere del Paleolitico, anzi fatti oggetti di esclusione, persecuzione, aperta condanna, in primo luogo quella dell'itineranza con tutto ciò che essa comportava. Neolitico: una dieta diversa. Mentre i paleolitici avevano a disposizione enormi riserve di “carne itinerante” (le mandrie in

continuo spostamento), di esemplari della fauna ittica (pesci, mammiferi acquatici, molluschi...), di alghe e di piante selvatiche (frutti, ignami, rizomi d'ogni genere...) i neolitici passarono a un'alimentazione in cui prevalevano i cereali e altre piante eduli, mentre le riserve di carne e di prodotti ittici erano regolamentate dalle norme di distribuzione e assegnazione locali. Sotto il profilo quantitativo, l'alimentazione neolitica certamente non subì diminuzioni rispetto alla paleolitica, ed è anzi probabile che la disponibilità di cibo in generale sia aumentata, grazie anche e forse soprattutto all'invenzione della ceramica, e quindi all'introduzione di recipienti per la conservazione delle cibarie. Si ebbe però un cospicuo cambiamento qualitativo, e lo dimostrano i resti ossei degli agricoltori, allevatori, pastori, edificatori, guerrieri neolitici. Da un'alimentazione nel Paleolitico basata in larga misura su lonti di proteine animali e vegetali, queste ricavate da piante e rizomi spontanei, si passò a un maggior consumo di vegetali coltivati, certamente più ricchi di proteine di quelli selvatici ma usati in larga misura anche, e soprattutto, a vicariare la minor disponibilità di proteine animali. La suddivisione dei territori in spazi di proprietà di singoli o di comunità e la sempre più frequente permanenza in centri abitativi impedivano od ostacolavano in larga misura l'accesso ad altre fonti, ed è probabile che le percentuali di animali ancora oggetto di caccia fossero controllate e sottoposte a regolamentazioni di accesso e usufrutto. Lo stesso evidentemente valeva per fiumi, laghi, torrenti, spiagge marine. La ricerca degli alimenti divenne pertanto un'industria rispondente a precisi ordinamenti gerarchici. Basti pensare allo sfruttamento degli animali domestici: la proprietà di greggi e armenti anch'essi residenziali, cioè tenuti allo stato brado o in recinti, nei pressi dei villaggi, limitava drasticamente il prelievo di capi e soprattutto impediva che venissero uccisi come bestie oggetto di caccia. Facile supporre che si siano imposti nuovi atteggiamenti nei confronti di oggetti, animali, dimore, campi, boschi, acque, e in primo

luogo una possessività sempre più esasperata, simultaneamente alla divisione via via più netta tra abbienti e non abbienti, tra ricchi (possessori di mandrie, greggi, coltivi) e poveri: due categorie che è impossibile reperire ancora oggi tra i residui gruppi “primitivi”. Non esistono Pigmei ricchi e Pigmei poveri, dal momento che non ci sono zone di foresta, corsi d'acqua, pascoli di animali selvatici, zone prevalentemente battute da predatori che siano rivendicati da questo o quel gruppo, del resto poco più che singole famiglie. Le conseguenze a livello somatico furono notevoli. Come risulta dalla documentazione ossea, per esempio dal confronto con i resti paleolitici del sito di Logerie Basse in Dordogna, la struttura scheletrica degli stanziali è più piccola, e sono frequenti le lesioni ossee frutto di lavoro: l'agricoltore deve spesso mettersi in ginocchio e deve frequentemente restare curvo per seminare o raccogliere, donde lesioni articolari e deformazioni degli arti e della spina dorsale. Anche la muscolatura evidentemente si ridusse, tant'è che le inserzioni dei tendini alle ossa appaiono di dimensioni assai minori. Si ricordi che il cacciatore era in continuo movimento, e ancora oggi è ben diversa la forza e la robustezza di un pigmeo o di un inuit rispetto ai suoi contemporanei stanziali, sebbene questi siano per lo più di statura maggiore. Va sfatata la leggenda che i cacciatori-raccoglitori vivessero e vivano meno a lungo dei loro contemporanei stanziali: gli scheletri di paleolitici rinvenuti qua e là appartenevano molto spesso ad adulti, non di rado ultraottantenni, e con minore frequenza a bambini o adolescenti. Nel Neolitico si verificò una trasformazione a livello psichico, anche se è pensabile che molte innovazioni del Neolitico siano state frutto del caso anziché di volontaria programmazione. Per riprendere quanto si è detto prima a proposito della Parola divenuta parlata, non è da escludere che qualcuno ne abbia tentato un po' per gioco un rovesciamento, quasi a scoprire cos'era che reggeva la Parola stessa, in rispondenza a una visione neolitica generale consistente nel tentativo

di risalire alle origini. La Parola, che aveva inventato l'agricoltura, cioè la sottrazione alla natura di una porzione del suolo, minima all'inizio ma comunque inevitabilmente ordinata, strutturata, comportava una frammentazione, il che equivale a dire: riduzione del pezzo di terra a un insieme di oggetti. Sovvertire la Parola può darsi che abbia significato, se si vuole tentare una sorta di anamnesi della preistoria, la presunta rivelazione a sé stessa quale insieme di oggetti, di singoli suoni, come alcunché di composito, contenente un inizio, una parte mediana e una conclusione. La Parola sarebbe stata dunque grammaticalizzata, e la fine che conteneva in sé può darsi sia apparsa proveniente dall'esterno della Parola stessa. (Ma è una pura ipotesi, e già formulandola mi rendo conto della sua labilità.) Sembrerebbe che la morte quale spegnersi della Parola nel Neolitico sia stata comunque considerata di provenienza esterna, esattamente come l'attacco di animali selvatici alla parcella di suolo sottratta alla sylva, come l'invasione di cinghiali, di uccelli, di insetti. E non può darsi che la trasformazione della Parola in parlata sia consistita nella sua interpretazione come alcunché di composito? Non più considerata intatta, unitaria, insondabile, semplicemente presente, comparsa, Phanes, tale per cui il suo spegnersi era implicito, endogeno, fu forse immaginata soggetta all'azione disgregatrice di forze esterne? E se così si spiegasse per esempio la costruzione di mura di difesa attorno a villaggi in zone in cui non esistevano altre società capaci di muovere guerra, come nel caso della cultura di Kirokitia a Cipro? Parola-villaggio minacciata da parole fantasmatiche? Non vi fate sedurre: / non esiste ritorno. / Il giorno sta alle porte, / già è vento di notte. / Altro mattino non verrà. / Non vi lasciate illudere / che è poco, la vita. / Bevetela a gran sorsi, / non vi sarà bastata / quando dovrete perderla. / Non vi date conforto: / vi resta poco tempo. / Chi è disfatto, marcisca. / La vita è più grande: / nulla sarà più vostro. J Non vi fate sedurre / da schiavitù e da piaghe: / che cosa vi può ancora spaventarci / Morite con

tutte le bestie e non ce niente, dopo. Bertolt Brecht, Contro la seduzione, in Libro di devozioni domestiche (1927).

L'isola di Cipro dista dalla costa meridionale della Turchia circa cento chilometri. 10.000 o 12.000 anni fa un gruppo umano si insediò in una terra in mezzo al mare che ospitava punti o pochi altri esseri umani e in cui non si trovavano animali feroci. Pure, i fondatori del sito di Kirokitia eressero capanne a pianta circolare, isolate dal mondo esterno da un robusto muro di difesa rettilineo. Ma difesa da che cosa? 1 kirokitiani avevano portato con sé dalla terraferma asiatica di provenienza alcuni animali già domesticati, ovini e bovini, oltre a cani che, discendenti da lupi, avevano scelto di convivere già con cacciatori paleolitici. Evidentemente i kirokitiani immaginavano pericoli di carattere metafisico, provenienti da quella che per i latini sarebbe divenuta, come si è già detto, la sylva, il mondo extraumano. L'abitato murato, dunque, come apotrópa-ion, scongiuro contro l'ignoto. Un atteggiamento mentale che in epoche successive, per esempio in Grecia, produsse mostri marini (sirene, pistridi, orche), mostri volanti (arpie), spiriti infernali. In altre parole, i kirokitiani avevano compiuto quello che a mio parere è il fondamento stesso del Neolitico e di tutta la società moderna: il tentativo, lo ripeto, di impossessarsi della Parola, e l'angoscia derivante dall'impossibilità di compiere questo gesto, un po' alla volta apparso blasfemo. La Parola dal Neolitico è stata concepita come avente un'origine, e quest'origine era il mondo del sacrum; e trafficare con la Parola non poteva che essere considerato un atto di ribellione al divino. Le religioni permettono, anzi sollecitano, gli stati di abbandono mistico, di presunta uscita-da-sé (dell'anima). E l'abbandono nella spe-eie di totale obbedienza (la Kadavergehorsamheit, l'ubbidienza del cadavere, richiesta dalla tradizione militare prussiana) e una regola fondamentale di ogni esercito. In altri contesti, tuttavia, lo stato di ek-stasis, di abbandono, di ebbrezza, può apparire riprovevole, e oggi viene infatti condannato

nella specie dell'uso di droghe, della follia, della “perversione”, di tutte quelle “tecniche” che permettono il “contatto”, e le quali troppo spesso sono scambiate per ciò che conta davvero: così, si discetta sul suicidio (cause, statistiche, condizionamenti psicologici e ambientali, eccetera), senza rendersi conto che l'atto violento è un pretesto, un mezzo, una via la quale conduce al luogo senza rappresentazioni, senza sensazioni, senza volontà. «L'inconscio non conosce il tempo e non conosce la morte». Sigmund Freud IL POTERE E IL SUO DESTINO

Il potere cresce sulla radice della violenza esattamente come l'albero della religione sul rizoma del mito. Per capire come possa essersi imposto il potere (non è un gioco di parole: sarebbe impossibile dirlo in altri termini) non resta che ricorrere a ipotesi e probabilità. Se è vero che la sostanza di quello che vien detto progresso è consistita nel rovesciamento e nella scomposizione della Parola, resterebbe da stabilire perché il potere si sia manifestato in certe forme anziché in altre. Parlando di invenzione, non si vuole escludere la possibilità che gli inventori abbiano tratto spunti da osservazioni del mondo circostante. Può darsi per esempio che la continua vicinanza e familiarità con animali domesticati sia stata fonte di continue scoperte e sorprese: i neolitici si sarebbero per esempio avveduti che tra molti tipi di animali sussistevano precise strutture gerarchiche. Tra i volatili, per esempio, non di rado vige il cosiddetto “ordine della beccata”, e molti quadrupedi, oltre a formare comunità simili a organismi compatti, solidali, seguono un capobranco, maschio o femmina che sia. Com'è ovvio, affrontando queste problematiche, non solo è necessario rifarsi a ipotesi spesso non documentabili, ma si deve tener conto della necessità di servirsi di termini attinenti a realtà odierne, senza poter attingere a un bagaglio linguistico ormai scomparso come sono scomparsi i nostri progenitori neolitici, e tanto più i paleolitici, spariti senza lasciare documenti, evidenze concrete al di là di immagini che comunque in parte almeno ci permettono di risalire alla loro

“mentalità”. A parte il fatto che il ricorso al paragone con i “primitivi'' per esemplificare la vita del Paleolitico è sempre aleatorio, già rifarsi alle lingue parlate dai “primitivi" odierni è fallace: quanto ne sappiamo, ci deriva sempre e soltanto da registrazioni e interpretazioni di studiosi, interpreti, esploratori occidentalizzanti, che le “leggono" nei termini delle loro strutture sintattiche e grammaticali: traduzioni, dunque, sempre incerte e contestabili. Per l'uomo del Paleolitico, la natura era palesemente spettacolo, e bisonti, stambecchi, orsi, leoni, mammut, lungi dall'essere semplicemente prede, erano forme rilevabili, desumibili, distinguibili dall'intorno, che il paleolitico riproduceva sulle pareti delle grotte e che quindi gli “dicevano”, avevano cioè una signifìcanza non minore di ogni altra esplicitazione della Parola: la parola, voglio dire, si inscriveva immediatamente nel mito, concetto sul quale è necessario soffermarsi ancora, dicendo subito che il linguaggio del potere è il Discorso, presunto esautoratore del mito e negatore della dimensione poietica, dell'invenzione fine a se stessa, sotto il profilo utilitaristico inutile come sempre l'arte. Nelle figurazioni paleolitiche, nelle grotte o nei ripari sottoroccia, non c'è gerarchia. La cavalla gravida non è sottomessa allo stambecco o all'orso speleo. Il Neolitico, invece, ha messo in scena fin dal VII millennio a.C. il toro enorme dell'affresco di fiatai Hiiyiik in Turchia, circondato da uomini oranti e danzanti, e a Kasar el Ahram, nel Sahara, ha rappresentato un uomo in posizione di orante davanti a un poderoso bovide divinizzato. Il tabù si colloca alla presunta sorgente, tale perché invisibile, insituabile, del fiume di parole che ci sembra, e che anzi sentiamo scorrere dentro di noi. Il divieto, la legge, interviene successivamente. Sostituisce il tabù. Tutte le parole-culture, dalle più antiche a noi note alle odierne, hanno conosciuto l'orrore e il disgusto, e insieme la meraviglia, per ciò che è o crediamo che sia (che parliamo sia) la morte. L'inumazione, il bruciamento o l'esposizione o il divoramento dei

cadaveri umani testimoniano di un atteggiamento “sacrale” - uso sempre questa parola per evitare gli equivoci insiti nel termine “religioso” — rispetto ai resti inanimati dei propri simili. La parola-esistenza oscilla così di continuo tra sacro e profano, fra l'attrazione per l'immondo, il nauseante, il terribile, il tremen-dum, e il mondo in cui si costruiscono-parlano oggetti che sono, in primo luogo, scongiuri contro il soffio imprevedibile, ora gelido, ora infuocato, che alita da mille spiracoli, da boschi, acque, pozzi, città, vicoli, angoli bui, stanze, camini, finestre, fogne, lavandini, da noi stessi e dagli animali, dalle macchine e dal cielo stellato, dai fiori e dalle tempeste, dalle rupi e dalle acque. È assurda la domanda che suona: che cos'è il tabù? Ed è mal posta perché presuppone un oggetto della conoscenza, appunto il tabù, e un soggetto, segnatamente quello dell'uomo moderno, che del tabù si sarebbe sbarazzato o starebbe liberandosene o per lo meno potrebbe contemplare il fenomeno dal di fuori, con scientifico distacco. Né l'ostacolo viene superato con il tentativo, compiuto ad esempio dalla psicoanalisi di rigida (e malintesa) osservanza freudiana, di «pensare il soggetto della conoscenza». Non va dimenticato che il soggetto è solo il termine complementare dell'oggetto, ed è assolutamente inafferrabile, a meno di non ridurlo al nome (che ci è imposto), al ruolo sociale (anch'esso impostoci), laddove teorie come certe correnti psicoanalitiche presuppongono la sostanzialità del soggetto, una sua “realtà” - che poi si riduce, oggi, alla descrizione (oggettiva) di “strutture” psichiche, termine che inevitabilmente rimanda a realtà fisiologiche e comunque oggettive (cervello, sistema nervoso, oppure residui filogenetici di situazioni protoumane, di tappe dell'ominazione). La discesa dello Spirito Santo, la Pentecoste, di cui si narra negli Atti degli Apostoli 2, 1-13, è una narrazione favolistica la quale in realtà nasconde alcunché di assai meno banale. Favola, intendo, perché trasforma in evento concreto, letteralistico, episodizzato, l'attesa dell'ispirazione. Chi scrive o dipinge ha il preciso sentimento che

l'opera si faccia a sua insaputa, e costui esperisce l'essere parlato. Il presunto fiume sommerso di parole che scorre in noi trabocca, e la comunicazione, l'enunciazione esplicativa, si sospende, lo schema concettuale ne risulta travalicato: sempre che, beninteso, l'autore o, se si vuole, il parlante in lui sia intento davvero all'opera, ne sia posseduto interamente, sia dedito, senza sottintesi di nego-tia, all'otium che è fecondo, e non abbia di mira successo o denaro. Se si preferisce: che ignori il senso e lo scopo di quell'arrogante definizione che è “autore”. I discepoli sono riuniti e «venne all'improvviso un rombo, come di vento che si abbatté gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come dì fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». La folla cosmopolita di Gerusalemme «si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la sua propria lingua... Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l'un l'altro: “Che significa questo?”. Altri invece li deridevano e dicevano: “Si sono ubriacati di vin dolce”». Racconto travestito di religiosità, che è l'opposto e la negazione di sacrum, della felicità di essere parlati. Ma la Sibilla, è notorio, era ormai relegata fuori dalle mura, ormai si cercavano spiegazioni della sua “ebbrezza”, si voleva dar ragione della sua “follia”. Ecco, la fatica dello scrittore è in quest'attesa, come è dello scultore nero africano o del boscimano del Kalahari. Ci sono lingue in cui la differenza tra io (Ich) ed Es, è meno sentita che in quelle occidentali: tanto per darne un esempio, quelle del gruppo africano kwa della sottofamiglia detta sudanese occidentale della famiglia linguistica nigero-congolese. Per gli Ewe, il soggetto, l'Ich che va ad attingere l'acqua, non è immobile. Gli Ewe non sanno, ma sanno, che il soggetto è una degradazione dell'oggetto. La Parola, in Occidente “timorosa” di non avere radici nella fattualità da essa stessa istituita più di quanto avvenga in altri ambiti e continenti, ha fatto del soggetto un'entità immutabile. E il soggettoverbo-oggetto è la triade che domina la nostra concezione del mondo,

la trinità religiosa e sociale. Il soggetto è ciò che nell'India vedica sarebbe stato il brahmano, il verbo la seconda casta, l'oggetto la casta inferiore, il lavoratore, il sudra figlio dei piedi di Brahma, il fango dell'inferiorità. Il soggetto muove e determina; è, nel gioco degli scacchi, lo shah, il re. La parola ewe, meno presuntuosa, non gli concede questo privilegio. Laddove da noi il re resta sempre re, tra gli Ewe se accende il fuoco diventa accendi-fuoco-regale: lo iato tra soggetto e oggetto è assai ridotto.

POTERE RELIGIONE GUERRA Solo per comodità di esposizione, ho distinto i paragrafi dedicati esplicitamente al potere da quelli riservati alla guerra e alla religione. Ma potere, guerra e religione sono accidenti della sinonimia: differenziazioni legalistiche, e infatti gli addetti all'una e all'altra funzione rivendicano — e difendono con ogni mezzo — un proprio monopolio. È un'illusione che la cultura abbia un senso. La cultura-mito cresce su sé stessa, coerente solo con se stessa, secondo la propria interna necessità. Si riferisce unicamente a sé stessa, all'iniziale visione e rappresentazione del mondo. Non c'è nessuna ragione perché l'albero si chiami albero, ma i nomi istituiscono il mondo. L'illusione è di credere che l'aldiqua abbia un senso, che i segni di cui è composto si riferiscano ad alcunché di concreto — non il generico reale, bensì le “cose”. Ciò che vale anche per l'aldilà, del pari supposto. La culturamito si fonda sul nulla - o sul reale, che è effetto del linguaggio. E per questo che la mathesis costituisce il culmine dell'interpretazione del mondo fondata sul Sapere, cioè sull'attribuzione di un senso, cioè sulla metafisica; ed è per questo che la cultura, coerente con sé stessa, esclude e mette al bando tutto ciò che con essa non è coerente. In una cultura in cui l'accento cada sull'onirico anziché sulla lucidità della veglia, la minaccia è rappresentata da un eccesso di ratio, laddove gli “spiriti” sono (anche) rassicuranti; nella cultura postneolitica, che redime le tenebre, che s'aggrappa al giorno, la sovranità spetta alla ratio. Ne consegue che il Testo può rivelare la propria inconsistenza, dimostrarsi prolegómeno “a ogni futura metafisica che vorrà porsi come scienza”, col ricondursi, svelandolo, al nulla sotteso alla cultura-mito; ma il Testo di per sé è cieco e sordo. È figlio della cultura che “rimanda a qualcosa”, che rinvia il Logos alla Verità, è chiuso in questo cerchio che si salda su sé stesso, serpe che si morde la coda. Deve cedere il passo alla follia e alla poesia per infrangere la corazza che lo serra. Deve rassegnarsi ad assistere da

spettatore alla calata agli inferi: di per sé, ne è incapace. Per i pigmei Bambuti del Congo la foresta non e luogo di terrori. E l'antenato- antenata, Ituri, di cui sono parte integrante, non già tenebrosa sylva da cui scindersi timorosi e angosciati. E’ certo più rassicurante ritenere che il senso abbia un'equivalenza. E, fedele a questo scongiuro, lo psichiatra e lo psicoanalista rifiutano il nonsenso proposto loro dal matto e intravisto dal nevrotico, che ne è affascinato ma ne rilutta. Uno degli equivoci in cui più di frequente si incorre è di mettere sempre la violenza sotto segno negativo. In effetti, la si condanna ma assai spesso la si subisce senza riconoscerla. Questo avviene perché l'Occidente soprattutto ma, anche se in misura minore, ogni società gerarchica, opera una distinzione tra Bene e Male, tra Giorno e Notte, Luce e Tenebre. La desacralizzazione del mondo comporta che, negato il carattere di consumazione, di pericolosità, del sacro, si attribuisca in esclusiva la violenza al potere e al destino, a salvaguardarsene delegando la propria difesa a sovrani, sacerdoti, governanti, cioè al potere stesso. Il suddito è così privato dell'accesso alla violenza; ma alienazione significa appunto esclusione dall'universo che è indicato e descritto dal mito ridotto a racconto, l'universo dell'aldilà, la sfera del sacro, della violenza, dell'ebbrezza, del presunto uscire da sé. Tutto è simbolico, ma quasi tutto può tradursi in rappresentazione, a volte rassicurante, altre fantasmatica e orripilante. La differenza tra quanto qui si dice e le concezioni psicoanalitiche e, in generale, biologistiche (antropologiche), consiste in questo: di fronte alle stesse evidenze, agli stessi “fatti”, io mi limito a registrarli, a tentarne una descrizione diciamo fenomenologica, il più possibile “neutrale”, mentre le scienze umane ne danno subito un'interpretazione, li collocano immediatamente, col semplice prenderli in considerazione e catalogarli, nel contesto di una visione metafisica, li riconducono cioè a un primum, a un pregiudizio di fondo, quello dell'uomo “naturale”. Deriva da questo la confusione, reperibile forse anche in Freud, tra violenza e odio.

Riappropriarsi della violenza è un atto rivoluzionario — il presupposto stesso della rivoluzione. La coscienza orripilata dimentica o ignora che il potere è un “gioco” il cui rischio è obbligatoriamente condiviso dai sudditi persuasi di fare, così, il proprio tornaconto e di servire il Bene, ma in effetti sedotti dalla sovranità, ipotesi e adito della sacralità, e dalla prospettiva della violenza resa lecita, giustificata dal “sollevamento”, XAufhebung, del tabù — battaglia, massacro, atto di coraggio, audacia, avventura, cameratismo, uscita dai limiti angusti del quotidiano... -, che è il nucleo irradiante della mobilitazione. Il potere sussiste a patto che si riconosca il principio della separazione e la possibilità dell'immedesimazione. Al sacro si applicano così le maschere degli dèi; è proibito farsi tomba vivente: l'unico sepolcro ammesso è quello freddo e morto dell'inumazione alla quale nulla è sottratto; è la terra a consumare ogni resto, muscoli, ossa, cervello, cuore, fegato; oppure è la fiamma, purificatrice per eccellenza. Chi si identifica con la morte viene dichiarato necro- mante — e messo a morte. Eppure, è il potere la morte. Il potere non tollera la chiaroveggenza estatica od orgiastica. Ma, per ciò stesso, spalanca l'abisso dell'alienazione: ogni atto che si discosti dalla norma imposta dal potere ne diviene la negazione, e dunque se ne porta dietro la scoria, la lebbra; ogni atto di devianza è un atto non permesso, una rottura di bando, e dunque limitato, specializzato, soffocato; alienato. Dalla parte del potente. Messo di fronte all'impossibilità di “impadronirmi” dell'altro per mezzo dell'amore, in altre parole di assumere come mia la coscienza altrui una volta superata la soglia del mio essere oggetto ai suoi occhi, sono prontamente indotto, incappando in un interlocutore muto, al tentativo di trasformare questi in oggetto. Presumo cioè di mantenere intatta la mia singolarità, opponendola alla sua e schiacciandola. Affermo così la mia libertà a ogni costo. Non tento di far miei gli occhi altrui, di far mia la libertà dell'altro; non seguo la direzione indicatami dallo sguardo altrui, e dalla quale potrei forse arguire come dovrei fare per impossessarmi a mia volta del mio essere, manifestato all'altro ma celato a me; erigo anzi, per così dire,

un blocco stradale, il “di qui non si passa”. Mi chiudo in un guscio, mi isolo, rifiuto l'altrui giudizio, non ammetto di adeguarmi a esso. Il mio programma diviene insomma quello di possedere l'altro, di obbligarlo a riconoscere la mia libertà. Posso impormi all'altro con l'autorità o la forza: posso indurlo a scorgere in me la condizione della sua (parziale) libertà. Egli non mi rivela la sua libertà più di quanto non faccia la pianta, il sasso. È il simbolo, il prolungamento della mia libertà: ma il suo essere — la sua libertà — mi sfuggono. Mi ritrovo solo, ma è un prezzo da nulla rispetto alla moltiplicazione di me stesso che ricavo dal rispecchiarmi in molti altri, quelli che mi conferiscono il mio esser-ci. e nessun buffone, saltimbanco, menestrello, è in grado di farlo ridere; a costoro, il sovrano fa tagliare la testa. Sono i suoi sudditi, i suoi oggetti; egli esige da loro una certa libertà, sì, ma collaterale e corollaria: siano liberi di scegliere il mezzo per farlo divertire, ma obbligati a operare la scelta. Di fronte al sovrano, sta così il buffone, tremante all'idea di non riuscire nel suo obbligatorio intento. È morta la sua spontaneità, e il sovrano, semmai ride, lo fa per un caso strano e imprevedibile, non perché divertito da una costrizione. Il sovrano, infatti, esige l'amore dei suoi sudditi, segno della sua totale vittoria; ma, si noti, i sudditi sono obbligati (persuasi, convinti, resi consenzienti, impauriti, ricattati...) ad amarlo. In caso contrario, il sovrano insisterà nel tentativo di affermare la propria condizione privilegiata, di trovare la libertà altrui passando per la porta dell'oggetto in cui l'altro si è trasformato. Vuole anche la leggenda che, se il sovrano incappasse nel caso che lo fa divertire, nella persona che non ha paura di lui e agisce in piena spontaneità, nella situazione non voluta, non programmata, in qualcosa insomma che finalmente equivalga alla rivelazione della libertà, il regno diverrebbe un paradiso sul cui trono siede l'amore. Un principe era pieno d'irritazione per non essersi mai adoperato ' ad altro che alla perfezione di generosità volgari. Prevedeva stupefacenti rivoluzioni dell'amore e sospettava le sue donne di essere capaci di j meglio che di quella compiacenza abbellita di cielo e di fasto. Egli voleva vedere la verità, l'ora del desiderio e della soddisfazione essenziali. Fosse o no aberrazione di

pietà, egli volle. Possedeva almeno un potere assai vasto. Tutte le donne che l'avevano conosciuto furono assassinate: che saccheggio, nel giardino della Bellezza! Rimbaud

Lungo la strada che porta alla condizione del sovrano (e alla istituzione del rapporto padrone-servo), si danno stadi intermedi, in primo luogo l'indifferenza alla presenza altrui. Io ignoro gli altri, non li vedo neppure, mi tengo alla loro scorza, non li ascolto, li considero mere funzioni: sono strumenti anche se non ancora miei oggetti. E strumento il soldato che conquista per me quella posizione; strumento il domestico. Nei loro riguardi, uso espressioni tali per cui essi si vedono presi in considerazione dal di fuori, come collettivo: “così si deve trattare col personale di servizio”, “con gli inferiori”, “con i subalterni”. Tuttavia, dell'altro mi accorgo mio malgrado, sia pure come attraverso una lastra di vetro semiopaco: sono imbarazzato dalla sua presenza - a meno che non abbia fatto, dell'indifferenza, la mia norma esclusiva, che non abbia escogitato la tecnica dell'isolamento che mi permette di non avvertire la presenza altrui: un sistema rigoroso di autocontrolli, punizioni, barriere. Altrimenti, la presenza dell'altro mi rende edotto della mia solitudine, del mio ineliminabile bisogno di comunicare, ma la solitudine mi fornisce la chiave per altri piaceri; mi apre dinnanzi la landa del silenzio. Intravedo, in fondo al deserto, una luce, una sorta di luminosità uguale, senza traccia di colorazioni. L'indifferenza è una condizione incerta e per lo più provvisoria: corro continuamente il rischio di vedere l'altro divenire tale, il rischio di vedere il mendico, che ho sfiorato appena con lo sguardo, scoprirsi le piaghe, agitare il moncherino, mettermelo sott'occhio. Ammetto questa possibilità — una sorta di sottofondo inquietante — e con ciò riconosco la sostanziale libertà dell'altro, che mi guarda (e mi obbligo a non reagire). Ma sono turbato: freddo e distante, misurato e impenetrabile, e con questo atteggiamento voglio invitare iconicamente l'altro a rinunciare al giudizio, allo sguardo. Il servitore

dovrebbe essere cieco; molto spesso era (ed è ancora) considerato eunuco. Va fatta una distinzione tra l'altro e l'Alterità. L'altro è il simbolo dell'Alterità. La sua presenza significa che non sono solo, che ho la possibilità di unirmi, di fondermi e con-fondermi. Vedo la mia esistenza riflessa. Assieme all'altro, nell'amore, sfuggo alla distruttività - la quale tuttavia è implicita nell'altro che mi svela anche la mia finitezza in quanto riflette la mia esistenza. L'altro contiene l'immagine della mia morte. L'altro è la mia (possibile) salvezza ma anche la mia (ineluttabile) perdizione. Tuttavia, l'altro si colloca nel tempo e nello spazio, è un esser-ci (l'esser qui e ora) dietro il quale si suppone che baleni l'Essere. L'altro è l'accenno al trapasso del tempo nell'Atemporale; per usare i termini del pensiero buddista: dall'esistente nello spazio - tempo alla Buddità o Corpo di potenzialità assoluta. Ai miei occhi, è come se questo Corpo di potenzialità assoluta non sapesse ritrovare sé stesso se non attraverso il farsi diverso da sé, diventando spazio-tempo per poi annullare tale dicotomia e risorgere uno e intatto nella sua immobile, inalterata e inalterabile luminosità. L'Alterità, cioè, deve farsi altro per riuscirmi percepibile. Sicché, nel momento stesso in cui io mi riposo nell'altro, ho la sensazione di una minaccia: la fusione è precaria, la fine dell'amore e la morte stanno all'agguato. L'amore non mi assicura il paradiso, non mi garantisce l'eternità. Il flusso indistinto si impossessa, prima o poi, della creatura, anzi è dentro di essa; nascere è cominciare a perire. L'amore è moltiplicazione; dall'amo- l re, nell'amore, si suppone che abbia origine la proliferazione j umana. L'atto sessuale non è che la condizione fisica - e spesso riprovata e rinnegata - della proliferazione. Si concepisce “nell'amore”. Ma la gara con la morte è perduta in partenza. Il cadavere è un veicolo, non è l'Alterità. Ad esempio, il Libro tibetano dei morti prescrive che nello stato di bardo, cioè di “esistenza intermedia”, il lama, con le parole sussurrate all'orecchio del moribondo o del già morto, può evocare nel suo principio cosciente le istruzioni e le esperienze avute in vita, da mettere a profitto in quel

momento di rischio enorme e decisivo. Il bardo, che secondo certe dottrine dura poche ore, per altri tre giorni e mezzo o addirittura quarantanove, è un temporaneo sopravvivere alla morte: una luce abbagliante splende, per brevi istanti, dinanzi al principio cosciente, il quale o la riconosce per quella che è, e il velo della maya, il mondo con le sue varie apparenze, si dissipa di colpo, o non la riconosce, e allora può soccorrere la recitazione del trattato, che aiuta la “trasferenza” del principio cosciente, cioè il passaggio da un piano di esistenza a un altro {bhavasankratì), e l'illusione dell'io si dissolve nella luce incolore, impassibile, immobile, della coscienza essenziale; oppure, il riconoscimento non avviene: la creatura appartiene agli “infimi”, destinati al processo samsarico a meno che il divenire, grazie a una ulteriore manifestazione della luce (che avviene quando il principio cosciente, pur restando in una lucidità serena non turbata dai sensi in quel momento inoperosi, esce dal corpo e lo guarda) non sia riassorbito dall'essere. In Tibet, il cadavere veniva bruciato o abbandonato agli uccelli da preda. Il decesso era inteso come l'inizio di una nuova vita o come definitiva scomparsa dell'effimera personalità. A trasmigrare dal corpo non era e non è l'anima, che per i buddisti non esiste, ma la coscienza, sintesi dell'essere psico-fisico, il centro morale della persona, che ha come supporto il respiro: un'entità morale, una sostanza rarefatta, capace di agire a distanza. Qualcosa di fisico, dunque, che può entrare, come un fluido, nel corpo altrui, sostituendo una personalità con un'altra. E nel cadavere, feretro di sé stesso, che si gioca la sorte finale: nirvana o samsara. Ma anche nell'antico Egitto la carne era un veicolo: essenziale al perdurare del soffio vitale, il ka, la forza generatrice e conservatrice che, dopo il decesso, riassorbiva la vita in se stessa, ed era dunque concepita come l'energia costitutiva (con l'andar dei secoli sempre più individualizzata e spiritualizzata) di una numinosità onnicomprensiva. Il cadavere è sempre un luogo deputato, mai un ammasso informe. Può essere la soglia per la sopravvivenza individuale, vale a dire della

medesima creatura che continua a esistere nell'aldilà con le stesse parvenze e lo stesso nome. Era la concezione egizia, e ne conseguiva la necessità di preservare il cadavere dalla corruzione: l'integrità del corpo era necessaria alla continuazione della vita nell'oltretomba. Essa implicava che l'accesso all'aldilà fosse una chiave in mano ai potenti; il cadavere veniva imbalsamato ad libitum, e qualora i sacerdoti o la corte rifiutassero l'autorizzazione, il defunto era condannato alla vera e definitiva morte. Anche i paleolitici seppellivano a volte i defunti. E il cannibale che divora la salma ne riconosce, per ciò stesso, la diversità dall'oggetto inanimato. Nelle esperienze mistiche e vitali, come fa notare Volhard, «le ragioni vengono sempre dopo»: prima parla quello che, con termine ambiguo, si usa definire il subconscio. È necessario insistere sul rapporto con la morte, perché altrimenti sfuggirebbe il rapporto tra erotismo e violenza, che finora abbiamo solo sfiorato, e la cosiddetta perversione apparirebbe in una prospettiva distorta, si dà dar ragione a coloro che ne affermano l'esistenza autonoma, come di un'entità maligna, e a coloro che vi scorgono uno stato di incapacità e insufficienza (incapacità di amare secondo Ludwig Binswanger e Medard Boss). Volhard, Ewald, Kannibalismus, Stoccarda, 1936 (trad. it. Il cannibalismo, Torino, 1949). Binswanger, Ludwig, Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins, Zurigo, 1942. Boss, Medard, Sinn und Gestalt der sexuellen Perversionen, Zurigo, 1951.

È indispensabile indicare, sia pure per approssimazione, il significato di “darsi in olocausto” ovvero di “darsi come cibo”, dell'incorporazione cruenta. Le “ragioni” (sacrificio come redenzione: colui che si offre per salvare vite o anime altrui) vengono, ripetiamo, dopo. Né basta l'osservazione che la civiltà, sostituendosi alla cultura, ha permesso di partecipare della carica emozionale connessa all’immagine del darsi in pasto, con maggiore pacatezza e distacco,

attraverso l’immedesimazione con vivande (pane, carne dell'agnello) e bevande (vino o altri liquidi inebrianti); non è la stessa cosa: il barbaro, si spiega, offre semplicemente in pasto quel poco che ha, quel possibile cibo con cui già siamo immediatamente immedesimati, e cioè il proprio corpo. Non basta, per la semplice ragione che città e villaggi sono costellati di monumenti ai caduti in guerra. Il cannibalismo è passato in retaggio agli insaziabili poteri, e per essi alla Patria. Il potere si è impossessato dell'immedesimazione-cibo. Non è dunque che presso i “primitivi” le cose, non essendo filtrate da remore sociali, vadano più per le spicce. Il potere esige da noi, all'occorrenza (del potere stesso), la consumazione totale; il “primitivo” la esige da sé stesso. È avvenuto uno spostamento di sede: dall'interiorità alla delega. «Il sacerdote era coadiuvato, nel corso dei sacrifici umani, da quattro vecchi chiamati Chac in onore del Dio della Pioggia (a rievocazione del ruolo sacrificale della divinità [del periodo Classico] della pioggia, Xib Chac) i quali immobilizzavano le braccia e le gambe della vittima mentre il petto veniva aperto da un altro individuo che portava il titolo di Nachom (quello stesso del capo in guerra)». Michael E. Coe, The Maya, Londra, 1993 (trad. it., I Maya, Roma, 1998). Che cosa significa dunque darsi come cibo? Che cosa significa olocausto? E c'è un rapporto tra questo e l'amore? Ci si dà, insomma, ai corpi amati? La risposta al quesito è, ai fini dei nostri assunti, importantissima. La cosiddetta perversione a nostro giudizio attiene alla sfera del sacrificio, imposto o subito. Incomprensibile, pertanto, per la coscienza accecata dai fantasmi egoici. Essere consumato significa precipitarsi nell'oceano dell'esistere, nell'assoluto, per illusorio che sia, nel comune denominatore della vita: la condizione dell'Alterità, l'immersione nella voluttà dello “stato secondo”, nell'indifferenza al singolo, al concreto, al divenire individuale; significa accedere all'estasi definitiva, alla vertigine senza scampo, senza ritorni, cadere vittima del fascino senza

volto, dello sguardo vuoto di cui si trovano le immagini, ad esempio, nelle grotticelle funebri artificiali sarde, le domus de janas (case delle fate) risalenti alla prima età enea. Sono consapevolezze che non sfuggono, anche se non le articola esplicitamente, al mobilitatore, al produttore di soldati obbedienti. «Ildovere di uccidere... risulta come importante elemento costitutivo delle comunità virili cui spettava il diritto di partecipare al banchetto di vittoria e di mangiare carne umana» [Gli eserciti sono appunto comunità virili che a volte accettano “personale” femminile a patto, beninteso, che si comporti in maniera “virilmente” accettabile]. Ewald Volhard, Il cannibalismo, Torino, 1949.

Essere divorati da un proprio simile, ed essere divoratori della vittima, significa pertanto erompere, con un atto di violenza, dalla corazza di angoscia che serra l'esistenza intellettiva del singolo, dell'individuo limitato e finito. Significa affrontare l'illimitato. Significa compiere, con un taglio netto del nodo gordiano, quell'atto il solo - che permette di varcare l'abisso che, nelle società gerarchiche, sembra separare vittima da carnefice, cristallizzandone perennemente i ruoli e facendoli apparire inconciliabili. Si tratta di optare per il rischio estremo o per l'accettazione della sorte imposta; le società gerarchiche sono quelle in cui il rischio è, in apparenza, cancellato: per poterne raccogliere la sfida, in esse occorre il consenso dei poteri. E i poteri proteggono i sudditi, così sostengono, dal rischio. I compiti sono pertanto divisi: da un lato i poteri-carnefici in potenza, dall'altro i sudditi-vittime in potenza. Per uscire dalla condizione di vittima, non resta allora che correre incontro all'angoscia suprema, che scegliere la furia, che rompere i lacci dell'incantesimo in cui il potere tiene prigionieri i sudditi. Questi possono farlo a diversi livelli; con il suicidio, con la cosiddetta follia, riducendosi al rango di “barboni” e ratés, con il crimine, con il masochismo... In quest'ultimo caso almeno, con quella che merita il nome di “corsa in avanti”. Non è che il ribelle-masochista non tema la sofferenza o ne ricavi piacere: ma essa diventa, paradossalmente, il mezzo della sua vittoria. Tuttavia, richiamando su di sé l'ira dei

carnefici, il ribelle- masochista riconosce de-factu la separazione gerarchica dei due ambiti: la sua è una provocazione, non un atto egualitario; e del resto, nella società gerarchica parte non indifferente della violenza è consumata nello sforzo di opposizione al potere; è pertanto limitata (mentre è illimitata quella cui fa ricorso il potere) e vuole giustificazioni: diventa gioco solo al di là dei pretesti che offre a se stessa. «Il momento è vicino in cui sarà fatta la luce, ed io potrò mostrarle che io sono tra quei martiri che nelle grandi occasioni dei popoli sono necessari». Tito Speri, uno dei martiri di Belfiore, in una lettera all'amico Pilati, 1853. Atto egualitario è quello per cui divoro il nemico o la vittima consenziente, sapendo che a ogni istante posso divenire la vittima consenziente, il nemico catturato e divorato. E un rapporto di reciprocità che cessa nel momento in cui ammetto che qualcuno o qualcosa mi rappresenti: nel momento in cui cesso dall'atteggiamento mitico, cioè dal riconoscimento dell'Alterità, che è quanto dire la sfera del sacro, e trasformo il numinoso in religioso: in cui antropomorfizzo — credo insomma di poter cartografare e addirittura conquistare l'indicibile, e poi lo storicizzo. Avviene nel momento in cui la vittima si riduce a una sola, esemplare di tutte le altre, in cui il regime rappresentativo si incarna ad esempio nel Cristo, e questi è immaginato come storico, come uomoevento che chiude definitivamente l'era dell'intercambiabilità di vittima e carnefice, e in cui a sua volta il carnefice, lungi dall'essere anonimo e collettivo (l'intera tribù), diviene un uomo- Giuda, un giudice, un soldato — sul quale sono lecite indagini “storiche”. In quel momento accetto definitivamente la gerarchia. O altri l'accettano per me, che io lo voglia (e li deleghi) o meno, e mi obbligano a sottostare alla regola della scissione dei due ambiti. Mi costringono alla sfida ai poteri, qualora io non intenda rassegnarmi a questa limitazione. La cosiddetta perversione sessuale è il rifiuto, alienato, del mondo della limitazione alienante. Ma non può non essere alienato.

Conosciuti a Roma fin dal IX secolo, gli agnus Dei (medagliette ovali di cera, recanti sulla faccia l'impronta dell'agnello, simbolo del Cristo, e sul rovescio un'effigie di santo) ebbero origine dall'uso di rompere in pezzi, il sabato santo, il cero pasquale dell'anno precedente e di distribuirli come oggetto di devozione sacramentale ai fedeli. «Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi». (Vangelo di Giovanni 1,29).

Il potere come dolce carnefice. Nella sua doppia natura, il potere legittima concede, tollera, proibisce, educa, nutre, legifera, decreta, bandisce, accoglie, purifica, maledice, scomunica, santifica, accende roghi, edifica carceri, inaugura campi di concentramento, grazia, libera, assolve. Al suddito è prescritto senza che glielo si dica esplicitamente — fa presto a rendersene conto — il masochismo, d'altra parte deplorato dal potere che lo considera una perversione. Come sono simili, nel mondo postneolitico, e soprattutto in Occidente, l'amore e la guerra! Marte e Venere, e loro figlia è Armonia, il perno, la sintesi della triade hegeliana e marxista. «Un mondo razionale e pratico... in cui gli oggetti — materiali e umani — che servono ai piaceri sono strumenti senza mistero». Simo ne de Beauvoir, Faut-il bruler Sade, Parigi 1955. «“Quel che Dio ha congiunto, l'uomo non separi”. Io sono il marito, e tutta l'isola è mia legittima moglie; io sono la testa ed essa è il mio corpo» (Giacomo I re d'Inghilterra [1566-1625]).

Il locus in cui l'indissolubilità di potere e religione si manifesta con la massima evidenza è il sovrano - il capo in generale — come immagine della divinità, suo rappresentante in terra. Principio basilare della religione come del potere è l'accesso al palcoscenico della storia: i loro rappresentanti si fanno sul proscenio. La rappresentanza politica come la religiosa sono diramazioni del modello archetipo che sottende entrambe, la sovranità divina. Il dominio, ogni dominio, è regale, e la regalità è sempre per grazia della divinità o del suo equivalente nella presunta laicizzazione del potere: la natura che apparentemente detta la

supremazia del “meritevole” o del più adatto secondo le varie vulgate darwiniane e biologistiche. Il capo recita la parte del dio. Non può esserci potere che non si incarni. Il corpo rappresentato nel Neolitico è un corpo politico, risponde a un ordinamento, quello che la psicoanalisi chiama “organizzazione genitale” o “geni- talità”: ordinamento che si esplica nella concentrazione della sessualità in una sola parte del corpo, gli organi genitali. E stato così anche nel Paleolitico? Può darsi, ma è impossibile provarlo. Va comunque detto che presso i cosiddetti primitivi si compiono rituali della separazione: il nesso tra l'adolescente e la madre viene scisso, ed è scissione dell'esserci dall'ambiente. (Forse è questa l'esca da cui è derivata la concezione religiosa dell'esserci come anima divisa dal corpo.) È il trauma della nascita ripetuta simbolicamente. L'iniziazione è rinascita che annulla la nascita dalla madre “vera”. «Il regno di Dio è uno stato civile, in cui Dio stesso è sovrano in virtù prima dell'antico e poi del nuovo patto, e nel quale egli regna tramite il suo vicario o luogotenente». Thomas Hobbes, Il Leviatano, cap. XXXV.

Il capo-sovrano, sacerdote, presidente, tiranno, despota, manager, comandante... - è eretto. Rex Erectus est. Il corpo politico, che è sessuale, si drizza in una sua parte, che ciò avvenga “spontaneamente” (scelta, elezione) o per via di “maneggi” (eccitazione indotta, corpo voyeuristico che contempla sé stesso, con se stesso copula). Il suddito voyeur ha piaceri orgasmici, pronto tuttavia a decapitare — a castrare — il suo sovrano, obbedendo a segni celesti indicatigli-impostigli dalla stessa sovranità. Il re viene consacrato con l'unzione rituale che ha probabilmente preceduto le sue funzioni pratiche nella vita profana. Significa, in tutte le religioni, il passaggio del soggetto da una condizione a un'altra. E gli dèi sono ovunque ghiotti di sostanze grasse, liquide o semisolide. (A loro spettano le carni più grasse, bruciate sugli altari sacrificali, il cui fumo j ascende alle loro nari).

Il cronista gallois Giraldus Cambrensis fornisce interessanti indicazioni circa le modalità dell'elezione dei sovrani in ambito celtico: «Tutta la popolazione essendosi radunata nello stesso luogo, si conduce nel centro dell'assemblea una giumenta bianca. Ed ecco che colui [il sovrano da eleggere], lungi dall'elevarsi alla dignità di principe, si abbassa all'obbrobrio della bestia: non quale un re, bensì quale un fuorilegge. Perché s'avanza al cospetto di tutti a guisa di bestia e, con non minore sfacciataggine che ignoranza, si esibisce a guida di animale in calore. [Dopo il congiungimento], la giumenta viene subito uccisa e cotta a pezzi nell'acqua, e al sovrano si prepara in quest'acqua un bagno. Egli vi si immerge, mangia i pezzi di carne che gli vengono offerti, circondato dal suo popolo che con lui se ne ciba. Del brodo in cui si lava, non già con un recipiente né con la mano, ma direttamente con la bocca tutt'attorno a sé sorbe e trangugia. Secondo tale rito, non però secondo dignità, eccone consacrate regalità e autorità». Giraldo il Gallese (Cambria era detto il Galles), teologo e cronista (11471223), fu vescovo di Menevia.

È stata avanzata, da Raymond Christinger, l'ipotesi che questo testo inequivocabile getti luce su un'incisione (circa cm 28 x 18) della Valcamonica, precisamente di Coren del Valento, forse del terzo millennio a.C., che rappresenta l'unione di un uomo con una giumenta. L'uomo avvicina il membro eretto al posteriore della bestia che tocca con una mano, alzando l'altra al cielo con tre dita tese. Ora, l'unione del re con una dea o con il rappresentante di un altro mondo - spesso, appunto, una bestia —, lo ha per millenni collocato ipso facto in una posizione chiave, intermedia tra il suo popolo e il mondo invisibile: il congiungimento con un animale gli conferiva potenza, legittimità, statuto di intermediario tra l'aldiqua e l'aldilà. La piattaforma di sostegno del tempio di Matageshivara a Khajuraho, nello stato indiano del Madhya Pradesh, è ornata da una

serie di raffigurazioni tra cui spicca l'immagine di un personaggio di dimensioni maggiori degli altri, intento a congiungersi con un equide, probabilmente una cavalla, anche in questo caso simbolo di regalità e di dominio sulla natura. (Il complesso templare di Khajuraho, opera della dinastia Chandella, fu costruito nell'XI secolo d. C.). Mai si danno dominatori, sovrani, grandi capi, sommi sacerdoti che rinuncino al serraglio in cui sono rinchiuse belve, come le zeribà dei potentati orientali e africani, a sottolineare il loro dominio sulla natura bruta; e siccome nel processo di virilizzazione del mondo (ne parleremo più diffusamente nei paragrafi sulla religione) gli uomini provvidero a domesticare, forse prima degli animali, le donne, era coerente che i dominatori istituissero serragli anche per le concubine, cioè le donne con cui dedicarsi a piacimento e a capriccio al concubito, l'unione carnale. Il potere è il sacrum. E il sacrum ha un duplice volto: terribilità e dolcezza. Così il potere si propone come redentore, bonario padre, tenera madre fallica. La rappresentazione che offre di sé è, non già quella di una giustapposizione di cose separate, ma del due-in-uno, è l'oggetto combinato, la sconfitta del terzo escluso — ma anche l'unico caso in cui il terzo escluso è accettato nell'universo della discorsività, per il quale è uno dei principi fondamentali (stando a esso, un giudizio affermativo e uno negativo non possono essere contemporaneamente veri). Il sacrum — e il potere — fanno infatti eccezione. Dal sacrum provengono vita e morte, dall'albero dell'aldilà ruscella il miele ma anche il ciclone e la pestilenza, e le religioni insegnano che la madre partorisce il figlio a cavallo di una tomba. 11 dio supremo o unico, che è sempre fallocratico — menhir, betilo, fallo di pietra, sintesi di ogni regalità — e che è rappresentato da un Unga in India, dal palo custode dei campi a Roma, dal crocifisso drizzato nel cristianesimo, è però anche una vagina. E il cerchio della tana, la casa di Adamo in paradiso, è diventato il quadrato della domus neolitica e della urbs che è sempre quadratità materializzata, letteralizzata (fra gli etruschi, il mondo dei defunti, il cimitero, ideale

continuazione del luogo dei viventi, sta ai piedi del colle ed è circolare: presunta sede della rinascita, luogo di supremo valore, ctonico residuo della femminilità non soggiogata dal fallo). Duplicità che sfugge - deve sfuggire - al suddito - credente. È il mistero, al quale gli è lecito affacciarsi sbigottito: sfugge alla sua ragione, deve meravigliarlo e sgomentarlo. «Ixcbel, dea della luna nella mitologia maya, era temuta, insieme al serpente del cielo, come responsabile di disastrose inondazioni e delle tempeste tropicali. Pure, era considerata la protettrice delle donne durante il parto e delle tessitrici. Era assai vicina a Ixtah, la dea del suicidio, che pendeva da un albero in stato di parziale decomposizione. Il suicidio era considerato un modo dignitoso di accedere al paradiso, e Ixtah accompagnava le anime di coloro che morivano impiccati verso l'eterno riposo sotto l'albero del mondo Yaxche, dove radunava anche le anime dei guerrieri caduti, delle vittime dei sacrifici, dei sacerdoti e delle donne morte di parto». Arthur Cotterell, The Illustrated Encyclopaedia of Myths and Legends, Londra 1989.

Al suddito si chiede soprattutto di offrirsi all'obbedienza. Gli si prescrive la passività o per lo meno il disinteresse a ciò che vien fatto, spesso a sue spese, dai grandi; al mobilitato si prescrive in più fattivismo. Il mobilitato, l'inquadrato, deve aver già accettato la sudditanza. Questa permette pur sempre qualche evasione; il suddito può illudersi di esser stato lui a scegliere la propria condizione, e insieme consolarsi con lo spettacolo offertogli dai sovrani; nella libertà del privilegio ad essi accordata, egli legge una concreta possibilità umana di cui si sente partecipe per interposta persona, l'assoluta libertà, e l'imprevedibilità del sacro; il membro della società primitiva si ritiene anch'egli in grado di istituire, grazie a tali intermediari, il colloquio con la divinità. «Da tale isolamento derivano, tra i molti altri, tre principali van- taggi: il primo è che, nell'isolarsi da molti amici e conoscenti, e così pure da molte non ben ordinate incombenze, si acquista non poco merito agli occhi della divina maestà... Quanto più la nostra anima si trova sola e isolata, tanto più essa è in grado di accostarsi e arrivare al suo Creatore e Signore...».

Ignacio de Loyola, «Note...», in Esercizi spirituali, Mondadori, Milano, 1984.

Coloro che erano e sono designati a incarnare la divinità, si prendevano e prendono cura dei sudditi, proteggendoli, assolvendoli, consigliandoli e guidandoli: in quanto uomini avevano, e hanno tuttora, funzione di padre, anche se, nel caso di etnie “primitive”, in quanto dèi com'erano per l'altra loro metà, potevano mostrarsi spietati, imprevedibili, intolleranti, sanguinari, implacabili, e sempre una volta assolti gli obblighi cruenti connessi a questa loro negatività. «Lo scrittore Cipani... lo trovò insieme a due moretti che aveva portato con sé in Italia e ci riferisce questa scena commovente. — Vedete là — disse Monsignor Comboni additando i due moretti — allorché li ho raccolti, sapete, erano selvaggi». Bice Foresi, Missionari in Africa, La Scuola, Brescia, s.d.

Con l'osservanza delle norme (lavoro e obbedienza), il suddito oppone una barriera al sacro, alla rovina. Questa gli piomba addosso ogni qualvolta egli si ribelli alla regola; la sua porzione di diritti è proporzionale alla sua libertà, cioè alla capacità - acquisita a priori, conferita o conquistata per mezzo di particolari imprese, che sono di per sé altrettanti riti d'iniziazione — di trattare col sacro. Il mondo è insomma immaginato come un edificio costruito obbedendo a precise regole d'ordine razionale, in cui esista però — come si favoleggia in tutto il mondo - un locale segreto, nel quale sia contenuto l’innominabile. Chi sa come ci si deve comportare col divino, saprà usare coi dovuti criteri la chiave che dà accesso alla stanza; chi ignori quest'arte, può provocare con la sua curiosità la fuoriuscita dell'innominabile, ciò che può significare la distruzione sua e di molti altri. Lo schiavo, fatto prigioniero in guerra, ha dimostrato di non saper maneggiare la violenza: gli dèi non sono dalla sua, ed egli può essere quindi privato dei diritti; accanto alla sua utilità, ciò spiega perché lo schiavo, dono degli dèi, possa essere trattato come un oggetto: l'uomo vale in quanto abbia la capacità di imporsi al sacro, di dettar regole al

sacro; è vero, lo schiavo lavora: ma egli non crea, cioè non si impone al sacro, non si sostituisce alla Creazione; lo schiavo esegue, non comanda, non organizza, non programma il lavoro. Il suo valore è quindi puramente fisico, egli vale né più né meno del manzo, del bufalo, dell'asino. La donna, che assicura la sopravvivenza della tribù; che partorendo crea; che getta, con il prorompere del figlio dal suo utero, il ponte tra il non essere e l'essere, vale sempre più dello schiavo, e anche nelle società in cui la supremazia maschile è più accentuata, gode pur sempre di un certo rispetto e di determinati privilegi; schiava o libera, nel momento delle doglie è tabù. «La nostra condanna non sembra severa. Al condannato viene scritta la norma che ha infranto, mediante l’erpice. A questo condannato, per esempio» - £ 'ufficiale indicò l'uomo — «sarà scritto sul corpo: Onora i tuoi superiori!». Franz Kafka, Nella colonia penale (1915).

Quanto al guerriero, è chiaro che il suo valore non lo si giudica solo sulla scorta dei benefìci apportati alla tribù dal suo braccio e dalla sua lancia, ma anche in rapporto alla sua audacia, alla sua forza, al numero di teste di nemici uccisi che ne decorano la capanna, cioè in base agli in-sé che lo caratterizzano, per le qualifiche del suo essere guerriero al di fuori e al di sopra del risultato degli atti impliciti in tale condizione. A patto di assolvere ai doveri nei confronti del mondo profano (utilitaristico) e di quello sacro, il suddito era così relativamente al sicuro. Al di là della zona dei suoi doveri, egli poteva dedicarsi ai suoi piaceri, riposi e fantasticherie. La condizione del mobilitato, dell'inquadrato, è invece sostanzialmente diversa. In primo luogo, al mobilitato si nega quasi completamente una zona personale, di rifugio. Trasponiamo quanto si è detto a proposito del suddito in termini moderni: la classe dominante nelle antiche società era immediatamente il sacro; non lo è più ai giorni nostri, ha cessato definitivamente dall'esserlo con il 1789. Essa tuttavia per sostenersi deve ammantarsi di sacralità o per lo meno degli attributi

della sacralità, soprattutto l’intoccabilità. Il principio autoritario si fonda su questo: per il suddito, in un certo senso è lo stesso se la punizione per chi osi levar la mano contro i grandi piomba dal cielo o viene inflitta dal braccio secolare senza accompagnamento di scomuniche o esorcismi. Il risultato finale è identico: l'audace è distrutto o incarcerato o messo al bando. La differenza consiste semmai in ciò, che nel primo caso il suddito aveva a che fare con un assoluto, che nulla lo giustificava nella sua ribellione; e, se questa riusciva ad abbattere il tiranno, il rivoltoso doveva affrettarsi a cercare i crismi del sacerdozio che lo santificassero, cioè lo ponessero, a posteriori, sullo stesso piano del sovrano abbattuto. Il rivoluzionario d'oggi ha coscienza della relatività delle posizioni: la giustificazione del suo operato verrà dalla riuscita della sua impresa. La progressiva profanizzazione della società rende così sempre più difficile il compito delle classi dominanti: esse devono provare la propria utilità, più non basta che dichiarino la propria volontà sovrana; anzi, lo spettacolo dei grandi, lungi dal soddisfare le folle, non fa che amplificarne i ruggiti di collera. Quanto più ampia quindi la porzione di privilegio, quanto maggiore la percentuale di beni che la classe dirigente pretende di riserbare a se stessa senza dover provare il proprio diritto al beneficio, senza cioè accettare di vederselo messo in discussione, tanto maggiore sarà il suo ricorso alle istanze dell'irrazionale. «Vi fu. uno dei precipitati [dalle finestre del castello] che... si aggrappò a un ramo e non voleva più abbandonarlo, il che vedendo gli furono tirati infiniti colpi di archibugio e di pietre sulla testa senza che si riuscisse a colpirlo. Del che il Barone si meravigliò e gli salvò la vita, e ne uscì come per miracolo...». Richard Verstegan, Théatre des cruautés des hérétiques de nostre temps, Anversa, 1588.

Lo sperimentiamo ogni giorno: quanto più la classe dirigente è casta dominante, quanto più predatrice essa è, tanto più ricercherà benedizioni, assoluzioni, conforti e giustificazioni per bocca del clero

locale. Ma essa, così facendo, continua a proporsi ai sudditi; questi sono chiamati a fare una scelta, si fa leva sulla loro impreparazione o disorganizzazione, per esercitare a loro spese un inganno. Tra la casta e i sudditi si interpone un sottile velario di pregiudizi, antiche paure, ancestrali terrori. Altrimenti, la casta si fa classe ragionante: al posto del balenio degli stendardi processionali, della solen- ruta dei cantici, accetterà come propria corazza la convinzione; il suo scudo non sarà più la croce, bensì la stampa e gli altri media. Ma la discussione implica l'ammissione della fondamentale uguaglianza dell'interlocutore: ed ecco il suddito farsi sindacalista, progettare la rivoluzione, minare l'autorità della classe al potere. Questa, è vero, può ricorrere alla repressione, la quale però è un rischio: i fatti - e le barricate - lo provano. Oppure può ricorrere alla mobilitazione, all'inquadramento, e cioè rivolgere l'energia che minacciava di rivolgersi contro da un momento all'altro, di scatenarsi e travolgerla, in un'altra direzione, contro un nemico interno o esterno; la classe dominante esegue uno scarto di fianco, e il suddito-toro vede apparire un nuovo obiettivo, che gli si configura quale di maggior momento del primo. «E chi mai ti credi di essere tu, merda che non saresti neppure capace di schiacciare, sedendotici sopra, un riccio?». I cosacchi zaparozhi al sultano che pretendeva la loro sudditanza. Il mobilitato, l'inquadrato, si lascia così togliere di mano le sue prerogative di suddito, in vista della lotta contro questo nemico: alla discussione sostituisce l'obbedienza, all'autonomia la dipendenza, alla protesta lo schiamazzo delle folle deliranti, allo scetticismo l'entusiasmo, all'opinione personale la fede, alla convinzione il fanatismo, al dubbio l'incrollabile certezza, al rispetto per l'autorità la conversione; egli indossa un'uniforme, e non accade più che sia troppo stretto lo stivale rifilatogli dal furiere: è il suo piede che è diventato troppo grande; l'appello alla ragione, fulcro della pedagogia liberal-democratica, cede il posto a istanze assai più primitive e immediate: è il cuore, che conta; è la fede, ad avere il sopravvento.

Il mobilitato è l'uomo pronto a gettarsi nel fuoco per il suo capo. Laddove il suddito si riserbava un'ultima istanza, all'inqua- drato ripugna la semplice idea di fare di testa sua; per il suddito è l'opinione pubblica: in essa il suddito è immerso; l'opinione pubblica è un mare le cui ondate si scontrano tuonando, e sono gli appelli delle diverse ideologie. Per l'inquadrato, la problematica ha infinitamente meno valore della marcia forzata, dell'adunata, degli squilli di tromba e del rullare dei tamburi: l'istanza d'ordine spirituale ai suoi occhi diviene un terreno viscido, un trabocchetto che porta direttamente nelle regioni della infamia sociale e politica. Ciò che vale per il soldato, vale, in termini assai meno espliciti (e anzi ammantati di "diritti umani", ma sostanzialmente non diversi), per il miles della produzione industriale, operaio, impiegato, quadro, inserito nelle file dell'azienda. Anche questa commina infamia sociale sotto forma di espulsione dal mondo del lavoro e di disoccupazione. Al suddito è democraticamente lecito conservare per sé stesso una frazione più o meno cospicua del proprio essere. Nel corso di un lungo processo storico, il suddito è stato in grado di porre precisi limiti all'entità della punizione: almeno dopo la caduta dei regimi assolutistici, la sua eventuale rivolta all'ordine costituito, per quanto considerata illegittima, non comporta però misure punitive tali da togliergli una volta per tutte la voglia di riprovarcisi. Il suddito “umanizza” — o ci si prova — la pena, vuole renderla ragionevole, aspira a una proporzione tra atto criminale e punizione. L'antico sovrano non glielo avrebbe permesso, tutto teso com'era — una sua fondamentale prerogativa - a esercitare la giustizia come arbitrio, senza proporzione tra delitto e pena, unica intervenendo, a mitigarla, la clemenza dettata da simpatia, capriccio, ragioni di stato, estranee alla validità universale della legge. Il mobilitato militare, anche nelle odierne società, torna ad accettare questa condizione, alla quale il suddito moderno ormai si rassegna solo in casi eccezionali, indottovi soprattutto da istanze populistiche. Il soldato non oppone invece resistenza; se lo fa, è un “lavativo” o, peggio, un disertore, un

traditore. Non discute la punizione: il tribunale militare non fa processi, ma prende decisioni. Non ha più nulla di suo: le idee, i pochi effetti personali, i panni che ha indosso, gli sono conferiti dall'altoparlante e dalla fureria. L'inquadrato militare non discute: la discussione viola il regolamento; non ha iniziative: ne andrebbe della disciplina. L'inquadrato non conserva più, per sé, alcuna frazione del suo essere: o meglio, fa di tutto per sbarazzarsene, si obbliga a mettere il bavaglio al proprio io. Il suo è, nel senso di Heidegger (pure da questi rifiutato), «essere-per-la-morte» {Sein zum Todé). BUCHKNWALD, UN MODELLO

Vi era un'incredibile, illogica, assurda civetteria della sofferenza. I segni d'ignominia erano trasformati in una sorta di lurido trionfo. Era con orgoglio che colui il quale aveva subito la punizione ti mostrava sui glutei le orme azzurrastre del nerbo di bue, non diversamente dal mendico mutilato che ti agita sott'occhio il suo moncherino: era la rappresentazione della propria miseria, la lode e la proclamazione della propria sofferenza. Era un dire ai carnefici: “ecco, vedete come mi avete ridotto!”. Il rischio cui era sottoposto chi si desse a questa pantomima, conferiva d'altra parte alla sofferenza colore di volontarietà: il tormento veniva aumentato, portato perfino oltre i limiti previsti dai regolamenti; e il guardiano non riusciva a impedire questo spostamento in una zona per così dire negativa rispetto all'equilibrio ideale, all'assoluta obbedienza delle disposizioni disciplinari. Non penso che i “carnefici” fossero agenti di un metafisico “Male”. Erano dei mobilitati, militari ai quali era ovviamente fatto obbligo della ferocia e dell'implacabilità. E il mobilitato potrebbe sottrarvisi? Non è che il detenuto di Buchenwald - continuiamo con l'esempio — non tema la punizione; non è che ricavi piacere dalla sofferenza: è che questa è divenuta, paradossalmente, il mezzo della sua vittoria. Lo spettatore, presente o lontano, reale o fantasticato, di questo mondo o dell'altro, è invitato a toccare con mano il fallimento, la miseria, la debolezza, l’inferiorità della vittima. Questa è un tremulo essere che a

stento si regge in piedi, è priva di coraggio, esangue, inetta al lavoro, stupefatta, preda al panico: è un nulla. Il suo atteggiamento è paradossale: se evitasse di aggrapparsi piangendo ai piedi dell'SS, non appena questi le si avvicina, l'SS forse non si accanirebbe su di essa, ci sarebbe una probabilità di cavarsela; ma si direbbe che proprio a questo la vittima intenda rinunciare, che il suo intento sia di bruciarsi i ponti alle spalle, di penetrare definitivamente nel regno dell'assoluta sofferenza. Egli è una sorta di Tersite che, anziché col lazzo e la derisione, provoca l'ira degli eroi in divisa nera col masochistico sfoggio della sua negatività. Quando l'SS penetrava in un ghetto o metteva piede nella baracca di un campo di concentramento, sapeva che poteva essere accolto al suo solo apparire da lugubri grida, da un coro di ululati, da bocche belanti e occhi sbarrati in un terrore che in parte era così evidentemente recitato, da costituire una provocazione. Accadeva allora che fosse l'SS a sentirsi insultato e mortificato, e che egli si affannasse a picchiare le sue vittime, strillando, quasi singhiozzando: «Per causa vostra, ebrei maledetti e impestati, per causa vostra ho perduto tre anni della mia vita, già da tre anni noi soffriamo qui, cani che non siete altro!» (Diario di Abramo Lewìn, compilato a Varsavia, 1943). Il meccanismo del sadismo che era stato messo in moto era — ed è tuttora — tale, per cui le vittime forzano i carnefici a tormentarle. Da un lato sta l'impossibilità, per la vittima, di comportarsi altrimenti; dall'altro, l'impossibilità del carnefice di resistere alla provocazione. Chiamiamo questo rapporto col suo nome: è il rapporto tra sadismo e masochismo nelle loro forme sociali, l'uno indispensabile alla manifestazione dell'altro. Il masochismo non può rinunciare alla platealità: ha bisogno, per attuarsi, della presenza altrui, che può essere il suo vicino, il foro interiore, Dio. Come il masochista sessuale espone il proprio deretano alla agognata punizione inflittagli da una prostituta, cosi il masochista sociale sfoggia la propria nudità psichica. Ancora Buchenwald (ma vale per ogni campo di concentramento, per ogni gulag, per ogni Guantànamo).

Anziché lasciare la scelta al carnefice, la vittima gli si offre; ciò che essa teme è provocato intenzionalmente; più che l'atto di violenza, è l'ansia e l'attesa che lo precede ad essere oggetto di paura. In tal modo, la passività viene trasformata in una paradossale attività, la minaccia futura diviene alcunché di presente; così l'atto è fatto mio, sono io a comandare i gesti del carnefice, io sono la sua mano, io i suoi occhi, io i suoi muscoli. Così facendo, ancora, io domino l'ignoto, cesso di essere alla mercé di avvenimenti, di forze più possenti di me. Sono io a stabilire il ritmo con cui gli avvenimenti si susseguiranno, anziché essere abbandonato a un ritmo estraneo e sconosciuto. E così che io trionfo: non cerco, io ebreo, io prigioniero, io sospetto talebano, la sofferenza — tento anzi di diminuire la sofferenza, di dominarla e imbrigliarla facendola scoccare al mio comando. Allo stesso modo, il masochista sessuale si libera dalle inibizioni, dal senso di colpa che gli viene dalla trasgressione che è ogni atto sessuale in quanto tentativo di uscire dai limiti individuali, di confondersi e degradarsi — o sublimarsi — facendosi infliggere in partenza la punizione, l'umiliazione: la prostituta lo colpirà sulle natiche ed egli pertanto avrà, simbolicamente e concretamente, la punizione “alle spalle”, e si vedrà spalancato davanti, di diritto e di fatto, il mondo del godimento. Il movimento del potere è sempre lo stesso: un contesto che comporta casi limite, come questi or ora citati, ma la cui struttura di fondo resta pur sempre la stessa. Con la massima facilità — e lo si è detto più volte — il timido impiegato si trasforma in obbediente carnefice. Nel Neolitico, inteso come visione unitaria (invenzione dello stanziamento, dell'agricoltura, del potere, della religione) al di là delle variazioni temporali e spaziali sul tema, le singole manifestazioni rispondono sempre a un comune denominatore. Al tempo concepito come rettilineo, quale successione di momenti verso una finalità inizialmente non espressa, corrisponde quella che in un altro paragrafo ho chiamato “quadratità”, cioè una spazialità definita da pareti uniformi, in fuga dalla circolarità e dalla paratassi. L'itinerante non

aveva bisogno di specifiche designazioni orientative, non doveva definire specificamente luoghi e momenti (Stonehenge e i cerchi di pietre fitte di Carnac compaiono migliaia di anni dopo l'esordio del Neolitico), indispensabili invece allo stanziale per il quale numero e geometria sono i presupposti per la comprensione del reale e l'orientamento nel mondo. La nuova mentalità del Neolitico comporta, tra l'altro, un atteggiamento inedito verso l'uccisione degli animali. Nasce la caccia come esercizio fine a se stesso, atteggiamento che ha tuttora corso (caccia alla volpe, istituzione di riserve come proprietà ed esclusione, cattura di animali usati come ornamento e conferma del potere). E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Genesi, 1,26).

Il suddito è cieco. Si può negare fa-logicità della parola; si può affermare che il mito è l'espressione (ingenua) di concretezze. In tal modo, si fa nascere la parola dal bisogno, mentre è il bisogno che nasce dalla parola: è impossibile individuare nell'uomo istinti, cioè modalità di soddisfazione di bisogni, che non siano rivestiti, replicati, interpretati, dalla cultura. La parola dice i nostri bisogni, e solo allora li fa esistere. Ma si può tentare il rovesciamento. Proclamare, ad esempio, che è il re o il sacerdote a fare sbocciare le parole, a istituire il mondo. In tal modo, si privano i sudditi della loro sapienza: questa diviene retaggio esclusivo della classe egemone. I sudditi sono indotti a dimenticare ciò che in loro “appare”: divengono ciechi, insensibili ai sogni, sordi e muti. Soltanto il re o il sacerdote hanno diritto di sognare: soltanto il loro sogno rivela e significa. Soltanto essi hanno un'anima; soltanto chi sta dalla loro parte ne acquista una; soltanto i loro fedeli possono aspirare alla salvezza eterna. Agli altri toccherà in sorte un mondo incolore, senza immagini, senza visioni beatificanti: il nero, il buio, lo Sheol. A tale scopo, bisogna che i mille miti, i mille sogni di ognuno,

siano convogliati in un mito solo, e che questo sia accuratamente codificato. Indagare sulla “struttura” dei miti è altrettanto vano che indagare sulle strutture profonde della lingua: si può però individuarne grammatica e sintassi, le quali non sono la fonte della lingua. Al pari della cultura tutta quanta, sono l'incanalamento della lingua, la traduzione degli “eterni” del sogno, un'interpretazione alla quale tende a sottrarsi il nonsenso. Il potere si impone a livello sintatticogrammaticale: re e sacerdoti proclamano di possedere le “chiavi”. Devono, ovviamente, comprovarlo (ma già quest'affermazione, apodittica, è sconvolgente, stupefacente: basterebbe di per sé, almeno in un primo momento, a raccogliere attorno a loro le “turbe”). Diverse sono le modalità, dagli atti magici alla forza. Una prima persuasione si trasforma così in esercito. Chi possiede le “chiavi”, possiede il mondo: lo dice a suo piacimento, è il signore della parola, l'incarnazione del verbo. Possesso, tuttavia, insicuro: di continuo bisogna riproclamarlo, riaffermarlo. La conquista non si ferma mai: la sottomissione costituisce la riprova che il mondo è quale è stato detto dal sovrano. E per questo che regni e imperi sono obbligati ad aggredire e assoggettare territori altrui, per comprovare che il mondo è davvero quale essi dicono. Il mito organizzato, la sintassi e la grammatica del mito, ha nome religione, che è sinonimo di potere. Nella fase dell'organizzazione del mito, se ne staccano sottoprodotti, leggende, saghe, fiabe, che conservano la tendenza all'infinita proliferazione degli “eterni” del sogno: la loro raccolta e sistematizzazione, la civilizzazione di queste espressioni, di queste sacche “dialettali”, è un lungo, faticoso processo. Occorre che favole e saghe divengano vere, cioè che trovino l'equivalente nei gesta regum. Occorre che gli eterni del sogno divengano personaggi in carne e ossa, dèi esattamente connotati e connotabili, e anzi che, come il complesso delle “invenzioni fantastiche” si inserisce nel solco dell'unico mito, cosi gli dèi si sottomettano a una gerarchia: un dio supremo, spesso unico, comanda i suoi dèi-sudditi. Sovente l'unico dio è trans-divino: il Fato dei Greci,

per esempio. Chiamo questo processo millenarizzazione: gli eterni del sogno si calano nel millennio, nel secolo. Inaugurano (i sovrani inaugurano), sortendo dalle regioni in cui «vagavano» — e cioè fondando la città, un nuovo eone, aprono l'epoca, istituiscono il tempo misurato, cronologico, la cui esattezza è comprovata mediante gli eventi naturali. Gli dèi rivendicano il trono. Il dio della tradizione cristiana nasce in una grotta o mangiatoia o stalla, secondo le versioni: particolare che di per sé ne rivela il carattere di eroe mitico, di “apparso”. La grotta è uno dei luoghi deputati delle fanie, di quegli eventi, cioè, che ripetono il presunto processo cosmogonico. Né diverso è il caso della mangiatoia o della stalla, luoghi “alimentari”, grembi nutrizi. Nato nella mangiatoia, tra il fieno, il Phanes-Cristo è terrae filius, e in Romania ancora oggi il bastardo - il “figlio di nessuno”, e dunque di una “madre immediata” (quella che vede vicino a sé) ma anche di un “ignoto”, di un lontano — è detto “figlio di fiori”. Il potere sazia le turbe. Non appena l'“esplosione” avvenga, il processo di cristallizzazione del mito-tabù subisce una rapidissima accelerazione. Il mito-tabù si “incarna” nella società. Il mito-tabù è del resto sempre carne, ultima istanza alla quale possiamo ridurci, ultimo veicolo, estrema soglia. La carne è l'equivalente della parola; la carne “incarna” (non è un gioco di parole) il mito-tabù. L'animale, fonte alimentare del cacciatore, è appunto carne; ne consegue che i mitemi preistorici si articolano attorno al perno costituito dall'animale, porta ospitata in immagine dentro quella porta, quell'accesso, che è la grotta. La contemplazione dell'animale è contemplazione del possibile; uccidere l'animale significa chiudere l'accesso, sbarrare la porta. Per riaprirla, occorre ottenere il “perdono”, non già dell'animale, ma della carne; occorre pagare un “tributo” all'Alterità, imporsi una perdita, gettare al di là (sprecare) qualcosa di utile, negarne il carattere appunto utilitaristico. Bisogna, come i Sioux, andare a caccia muniti di statuine o altre immagini che venivano deposte sul corpo dell'animale ucciso, che in tal modo diventava “altare”; un po' di “erba buona” (tabacco, un

vegetale allucinogeno) era sparsa al vento o bruciata. L'anima” dell'animale, cioè la carne, veniva così placata, l'accesso, il poros, tornava pervio. Il potere moderno si fonda sull'affermata negazione del mitotabù, sulla sua sostituzione - che si fa credere totale e definitiva - con la norma- proibizione. Per i regimi moderni è indispensabile che il mito non esista. Al suo posto, trionfano la Scienza, il Sapere - gli strumenti di dominio dello spirito occidentale. Il modo di essere meccanico è il più imbecille e crudele finora proposto ai (e accettato dai) sudditi: e per modo d'essere meccanico intendo non solo il produrre tecnologico, ma anche il guardare (televisione), il percepire il mondo tramite intermediari (Baedeker, atlanti, scritture...), il congiungersi carnalmente (in nome della produttività ancora in un passato recentissimo, e oggi della riduzione dell'erotismo a “funzione ”), il delegare ogni nostra scelta a specialisti, a “meccanici” (medici, psichiatri, professionisti dell'angoscia, ecc). Gli schiavi del mondo meccanico (quasi tutti, eccezion fatta forse per i potenti e, in misura più o meno velleitaria e anch'essa alienata, per emarginati, ribelli, freaks, folli, artisti, drogati, ratés e simile “genia”), tali sono non perché calpestati dal capitalismo o dallo pseudosocialismo o da residui feudali, ma perché vivono, lavorano, si divertono, producono, mangiano, defecano, guerreggiano, ammazzano e si ammazzano, copulano, in maniera meccanica. L'estrema astuzia del potere consiste nell'introiettarsi: e gli schiavi meccanici si suppongono liberi, difesi, sicuri, indipendenti sindacalizzati, in grado di decidere del proprio destino, cioè di aumentare e organizzare meglio la produttività. E, quanto più ci si invischia nelle reti del potere, quanto più cioè ci si “libera” (dalla fatica, con l'idiota moltiplicazione delle macchine idiote), e meno liberi si è. Più si ha, meno si è: nozione, come è facile constatare, nota al mistico medievale (a un Maestro Eckhart), assai più confusamente allo psicoanalista in semi-rottura di bando (Fromm) ma, prima ancora, ai filosofi antichi che voltavano le spalle alla filosofia come gnoseologia

(gli Stoici); probabilmente, nota dacché esiste il potere. Riteniamo, d'altronde, che tutti lo “sappiano”. Ma ammetterlo, in primo luogo con se stessi, significherebbe mollare la zattera del potere. E chi sa più nuotare? Chi è disposto a riconoscere che qualsiasi “selvaggio” è infinitamente più libero di ciascuno di noi? Chi è disposto ad abbandonare il “mondo”, a rinunciare alla Meccanica, a tornare alla caverna? Al deserto? Alla steppa? Alla canoa? Alla caccia al bisonte? Erich Fromm, Il mondo di Sigmund Freud, Milano, 1962. La conquista non si limita allo spazio, ma investe anche il tempo. In un primo momento, nell'ambito della città stessa resta traccia di questa “storia”. Così a Uargla, in Mesopotamia, i quartieri corrispondono ai diversi, successivi sviluppi della cosmogonia, dall'Idea alla Creazione, dallo Scambio al Verbo. Le mura chiudono la città-rappresentazione del (nuovo) mondo in un cerchio di sacrifici e riti, tracciati sul suolo come un'invocazione ai celesti. Le porte, spalancate sull'ignoto esterno, hanno nomi simbolici protettori; gli uomini che Le custodiscono sanno che la loro vigilanza sarebbe vana, non fosse per la presenza di portinai invisibili, coloro i cui giovani corpi sacrificati sono stati mischiati con l'argilla fresca dei mattoni, sepolti sotto le pietre di fondazione. Tutte le città sono state costruite, a partire almeno dal terzo millennio a.C., con l'intento esplicito, dichiarato nelle iscrizioni, di fissare il tempo nello spazio, strutturando le mura e persino la pianta degli edifici in modo da radicarli nell'eternità. Oggetto della conquista allora non è più il mondo barbarico, ormai domato, ma lo sono quasi esclusivamente le altre città, gli altri imperi. Il tempo non è più uno stagno immobile; i sovrani non ripetono più, tradotti nei riti urbani, gli arcani dei cicli eterni, fatali. La città non è più soltanto l'espressione topografica della cosmogonia, ma risponde a una rigida gerarchia: ogni città ha ora un ruolo preciso nella cosmogonia, non ne è più il riflesso passivo, ma un membro attivo, partecipe: la cosmogonia si realizza attraverso la città, gli dèi hanno bisogno degli uomini. Il tempo si snoda, si scioglie dai lacci del labirinto che lo costringono a girare su sé stesso: si proietta in avanti,

verso un fine di cui la città è il veicolo. La religione cittadina cessa di essere la replica di quella agricola arcaica o, più in là, della preistorica (neolitica). Gli dèi si urbanizzano; i Grandi Ritorni, se avvengono, hanno come perno le Gerusalemme terrene; i profeti, trombe annunciatrici della Rinascita, si trasferiscono in città e si scagliano contro Ninive e Babilonia. Il sovrano non è più signore unico: ha attorno a sé, non solo una corte, una costellazione, ma classi capaci di contestarlo, sulle quali non esercita più un potere dispotico, ma che lo condizionano. Il potere cresce su se stesso e si diffonde come i cerchi nell'acqua di uno stagno, sempre più remoti dal centro. Il potere (e il sacro) vanno in città. A partire dal 2500 a.C. circa, quando ormai, almeno in ambito mediterraneo, esiste un diffuso tessuto urbano (non più assediato dai “selvaggi”, minacciato dai nomadi, ma che anzi li assedia, li richiama con i traffici, li stanzia a viva forza), compaiono città di tipo nuovo. Il loro esordio corrisponde a una riforma del pantheon primitivo. Così Marduk, protettore di Babilonia, la nuova capitale, diviene signore degli dèi e demiurgo, successore dei re mitici, erede dei cicli passati; Marduk impone il proprio nome, cancellando il loro, ai protettori invisibili delle città sottomesse. I molti dèi tendono a confederarsi, a eleggere un signore degli dèi, e poi a confluire in un dio unico, più “razionale” e compatibile, in quanto astratto, con la meditazione filosofica. La prima città mesopotamica, nel disegno della cosmogonia - un disegno che adesso è teleologico, che obbedisce a un'inarrestabile progressio ad — era stata Eridu, residenza del dio-pesce Ea, il maestro delle scienze e delle tecniche di lavorazione dei materiali, da lui rivelate all'uomo. Era un'epoca in cui la regalità “passava” ancora, fatalmente, da una città all'altra, le dinastie si riconoscevano provvisorie, le capitali si sostituivano l'una all'altra, secondo il decreto imperscrutabile dei cicli cosmici, dei Grandi Anni, intervallati da catastrofi come il Diluvio; e ogni volta la regalità ridiscendeva dal cielo, si posava in un nuovo luogo eletto: Kish, Erech, Nippur, Ur. La durata del regno dei sovrani è divenuta via via minore: se

Ubardudu re di Shuruppak aveva regnato ottomilaseicento anni, Mesannepada re di Ur occupa il trono solo per ottant'anni, ed è seguito da quattro sovrani che in totale regnano per soli centosettantasette anni: il racconto mitologico, come si vede, cede via via il passo alla storia, la durata delle dominazioni confluisce con la durata “reale”. Da Ur la sovranità passa ad Awan, poi è la volta di Erech con il regno di Gilgamesh nella cui saga mito e storia si confondono ormai indissolubilmente. Il periodo “arcaico”, protostorico, è inteso, dai cronisti coevi, dagli autori di “storie” regali o sacre, come un grande e definitivo rito di passaggio, una porta varcata per sempre: al di Là si può ancora tomare, certo, ma il richiamo di Itaca è ormai imperioso. Il concetto di “patria” si è capovolto: se quella vera era collocata, prima, nel Grande Tempo, fuori dello spazio, ora si colloca nel tempo e nello spazio, e sempre più a fatica i sacerdoti richiamano l'attenzione sulla patria celeste. Ormai è pronto lo scenario per la nuova rivelazione, quella del dio unico e astratto, il dio-concetto (del Bene). È significativo che l'idea dell'Eterno, il dio di Abramo al quale si inchinerà Hiram, re di Tiro, il Dio Unico con cui l'uomo quasi da pari a pari pattuisce l'Alleanza, sia stata diffusa, in ambito occidentale (e non solo occidentale) principalmente dai mercanti. Da Ezion a Mileto, da Clazomene a Efeso, da Cartagine alla penisola arabica, all'Africa (Etiopia), è venuta lentamente prendendo forma una nuova concezione, “moderna”, del divino, e insieme una nuova visione del posto dell'uomo nel mondo e del lavoro produttivo nella sorte umana. Sono occorsi ovviamente secoli perché questa concezione nuova si sostituisse ai Baal, agli dèi-bestie di Ninive, al pantheon dei faraoni, ai trentamila dèi del Basso Impero, ma oggi abbiamo sott'occhio gli effetti della “vittoria” del Dio Unico e del suo retaggio, il Sapere occidentale. Il Dio Unico cancella definitivamente il passato, né viene in terra per essere a sua volta sostituito da altre divinità. La sua Rivelazione è definitiva. Egli cancella la divinazione: i magi gli si inchinano, lo

adorano, lo riconoscono, tramite i doni — le offerte —, re, dio, immortale, insostituibile. La divinazione nella fase proto-storica ha una funzione di primissimo piano. Il tempo mitico è stato dunque una prefigurazione del tempo degli uomini; e questi adesso procedono verso un loro destino, l'attuazione del quale esige la razionalizzazione del mondo. Si inaugura così l'età della ragione, dei matematici, degli astronomi, dapprima intenti a calcolare il ritorno dei Grandi Cicli, nell'epoca in cui il sovrano è ancora rassegnato, in cui sa che il suo regno sarà travolto da un nuovo Ritorno. Poi, però, la sua angoscia personale acquista il sopravvento: perché mai devono, egli o i suoi successori, cedere il trono? No: la razionalizzazione del tempo, preparata dalla quantificazione, dalla volontà di misurare e pesare il cosmo, di valutare l'infinito con la scala dei sensi umani e la loro durata, sembra promettere la possibilità di influire sui cicli, di regolamentarne il ritorno. Non si sfugge forse, con la previdenza, alle carestie? La programmazione (canali, granai, allevamento del bestiame, sfruttamento delle miniere) esclude in parte almeno l'aspetto distruttivo implicito nel ciclo, lo esorcizza. Misurare il cosmo significa prevedere inondazioni o siccità, tant'è che lo si misura con i metri utilizzati per depositi e granai. La base della numerazione va senza dubbio ricercata nel mito più che nell'ambito di ipotetiche concretezze, ma ben presto si verifica la rottura con il mito: l'apparato matematico diviene strumento, e come tale via via perfezionato. L'astronomia cessa di essere la conferma della fatalità: diviene previsione positiva; si possono “salvare” i regni, la terra tutta. La matematica non è più immagine del cosmo: serve alla conquista e definizione del cosmo. Il mondo urbano non è più una “caduta”; certo, l'Età dell'oro, il paradiso da cui l'uomo è stato cacciato era perfetto, vi regnavano la pace e l’immortalità. Ancora nel Genesi (4,16-18) è Caino, cioè il “cattivo”, a fondare una città, Enoc; se la divinità “vera” ha dunque ancora sede nei boschi, nei mari, tra i monti, in fondo ai deserti, ben presto sarà la città a rivendicare la sacralità, anzi la santità. La città sarà

il luogo dove si giocano le sorti del Bene e del Male: basta, perché trionfi il primo, che il dio celeste scacci dal trono il dio abusivo, il sovrano servo di Satana. Le dinastie non intendono più scomparire, travolte dall'ineluttabilità dei cicli. Anzi, si nega o relega nei santuari la ciclicità. Il potere abolisce la fatalità: promette, persino, la vittoria sulla morte. Più di ogni altra religione antico-classica il cristianesimo è stato, fin dalle origini, una religione urbana solo secondariamente, e successivamente, diffusasi-impostasi nelle campagne. Il cittadino è ormai animato dalla certezza che il meglio “ha da venire”; il futuro ha preso il posto del passato. Si tratta, ecco tutto, di prevedere esattamente, e pertanto di dirigere e condizionare il futuro: prevedere ciò che la fatalità avrebbe in serbo; dirigere e condizionare il destino per gabbarlo. La sorte dell'uomo è nelle mani dell'uomo o per lo meno dei suoi rappresentanti, di “coloro che sanno”: ancora sacerdoti e sovrani, ma ben presto soprattutto astro- logi, astronomi, agronomi, architetti, scienziati, medici, filosofi, e poi anonime biblioteche, impersonali depositi di conoscenze. Se la divinità vuole sopravvivere, dovrà adeguarsi a questa visione profana, semplificarsi, unificarsi, astrattizzarsi, rendersi remota, concedere il libero arbitrio all'uomo, starsene alla larga dal mondo, accontentarsi di averlo creato. L'esclusione del diverso. Il potere non sfugge, come nulla di ciò che è umano, alla contaminazione del mitico. Recita la sua favola, che esteriormente consiste nel rivendicare la propria legittimità: ogni potere che voglia sostituirsi a un altro, ne contesta la legittimità. Ma che cosa significa legittimità? Significa che il potere contestato ha perduto la capacità di migliorare le sorti umane, che è lo scopo che esso, dichiaratamente, sempre si prefigge; che, in altre parole, quel potere non ha più dalla sua il futuro. Ma questo vuol dire che esso non possiede più le chiavi dell'inesistente (il futuro non c'è ancora, si crea a ogni istante); e, come si è visto, nell'ottica del potere il futuro ha preso il posto dell'Età dell'oro. Insomma, il potere non ha più dalla sua le valenze mitiche che continuano a essere fondative, ancorché stravolte

e negate. Il nuovo potere è la Promessa, il Grande Ritorno (agli Ideali). Chiunque intenda sostituire un potere con uri altro potere, contesta la legittimità del primo, ma la contestazione della legittimità in quanto tale, come concetto, esclude il rifiuto del potere. Perché questo sia possibile (perché, voglio dire, in noi sorga e metta radici la negazione del potere), è necessario seguire una sorta di via iniziatica: procedere, razionalmente, al controllo delle carte del potere, leggerle criticamente. L'ideologia è costruita a tavolino: è una fredda razionalizzazione, un abile artificio. E la ragione, l'intelligenza, hanno il compito di smontare tale castello di carte. La critica — la «teoria critica» — può servire esclusivamente a questo; e può servire, a patto di farsi ancella dell'aldilà cui pretende invece di sovrapporsi e imporsi. Nella lotta contro il potere non soccorre l'ebbrezza né la follia; non è la festa, la nemica del potere. Bisogna sapere che cos'è il potere. Il potere è un gioco, ma per smascherare il baro occorre un altro gioco condotto con non minore perfidia e con lo stesso autocontrollo. L'antipotere deve essere altrettanto spietato e lucido del potere. Ma non deve semplicemente contestarne la legittimità. Deve dichiarare inaccettabile il potere. Bisogna, a tale scopo, operare con maniacale minuzia da topografi; trasformarsi in esploratori che raccolgono indizi con chiarezza e ordine; togliere, con indefessa pazienza, le bende che coprono e mascherano la veneranda mummia; soffiar via la polvere, la cipria onde si è imbellettata per nascondere la propria sostanza mitica. Ché negare il potere significa riaffermare il mito, o meglio la sua assenza. Significa richiamarsi a quell'Altrove la cui impossibilità è, a parole oltre che con l'accumulo di oggetti e la nuda forza, negata dal potere. Il quale afferma invece di averlo attuato, qui, ora. La macchinazione contro il potere richiede la sua approfondita conoscenza. Il potere è una fabbrica da smontare, un complesso sipario al di là del quale sta un fantasma. Pazienza da meccanici, dunque, che bisogna imparare, infliggersi, senza mai perdere di vista che si tratta solo di un espediente, poiché la verità (intesa come opposto della

realtà) sta, appunto, altrove - cioè in nessun luogo. Dagli anni Sessanta del secolo scorso, si è sentito più volte ripetere che la follia sarebbe, di per sé, l'avversaria del potere. Purtroppo, non è così. La follia appartiene a quegli ambiti di diversità che il potere stesso ha istituito, e in cui ha confinato, oltre alla follia, la prostituzione e l'osceno, la perversione e le esperienze “marginali” (droga, delirio, rifiuto puro e semplice del mondo consociato), e quanti semplicemente riluttano all'integrazione. Lo stesso accade con la follia, aspirazione all'estasi bloccata, indirizzata, alienata dalla società mediante i suoi istituti; manicomi, intesi come “asili” singoli o estesi a interi territori oggi, ieri — in epoca preilluministica - chiese, frati, repressori di vario genere, esorcismi. 11 folle che, al pari dell'ebbro, vuole recuperare il presente, uscire dal tempo, da Kronos che si precipita davanti a sé stesso, è così inserito in canali prescrittivi: la follia, o è “malattia”, e come tale viene “curata”, o è un'“inferiorità” frutto di scarso interesse per la razionalità oppure di incapacità ad accedervi. I mezzi per accedere all'immaginario hanno subito la stessa sorte. La festa è divenuta monopolio del potere, che ne ha escluso i sudditi, ammettendoli a suo beneplacito, di tanto in tanto, alla festa organizzata e controllata, celebrazione, sempre, del potere (festa del sole, genetliaco di Sua Maestà, carnevale seguito da quaresimamemento...). Ma, in tal modo, ha chiuso anche sé stesso alla partecipazione, alla con-fusione. Festa alienata per tutti, insomma. Così come alienato è, in partenza, il mezzo per procurarsi l'ebbrezza: la droga, l'alcol, si comprano, hanno un prezzo, sono controllati da organizzazioni economiche, condizionati dal potere e dalla sua alleata, la pubblica opinione (ammessi ma deprecati, proibiti ma concessi, tollerati ma oggetto di indignazione, pubblicizzati ma indicati come fonte di guai — riducono, per lo meno, l'uomo “in cenere”); le sensazioni che procurano sono prescritte dalla letteratura scientifica e d'intrattenimento, e insieme ostacolate, limitate, incanalate negli ambiti ristretti, circondati dall'occhiuta vigilanza

fatta di riprovazione e punizione, in cui possono aver luogo. L'ebbrezza è così condannata al sospetto, alla solitudine; ha carattere catacombale, mutilo, negativo. Il potere ha istituito il porneion, l'ambito della prostituta/o e della loro letteratura, della loro subcultura oscena. L'erotismo è rivelazione; e il potere non poteva non soffocarla. A tale scopo, ha specializzato l'ambito, istituendo dapprima la prostituzione sacra (sacerdotesse di Ishtar, eccetera), poi desacralizzando il ghetto così posto in essere. Se la prostituta sacra vendeva non se stessa, ma la sacralità che impersonava (già tuttavia divenuta anch'essa un bene, una merce), la prostituta profana vende se stessa come mera funzione erotica. Si inserisce nella sfera della mercificazione - ma può farlo perché la sfera esiste, ed esiste dacché ha luogo il commercio (non il baratto), c La società borghese moderna non ha fatto che realizzare un'antica aspirazione della borghesia, comunque la “classe media” di ogni tempo e luogo: fare di tutto il mondo un unico mercato. \

I poteri sciamanici sono latenti in tutti: vengono a galla nei momenti di crisi o tensione (così ad esempio, il cacciatore tunguro che entra nell'areale della tigre siberiana le “parla”, le espone le sue pacifiche intenzioni, e la tigre “capisce”: il linguaggio degli anima- , li, accessibile allo sciamano, lo diviene anche, nel momento del pericolo, al partecipe della cultura sciamanica); ma il potere fa : oggetto di disprezzo gli “estatici”, nei confronti dei quali pure, per [ secoli, ha continuato a provare timore reverenziale - finché, con il suo trionfo all'epoca dell'illuminismo, si è sentito in grado di non j prenderli più sul serio, di decretarli malati da isolare. Lo stesso è j accaduto con l'ambito delle perversioni. Il quale è stato prima istituito, e poi deprecato. Il “pervertito” è costretto alla sua perversione, come il matto alla sua follia. I neoagricoltori, gli stanziali del Neolitico, tracciarono concretezze, solchi, confini, limiti dei campi; eressero dimore stabili; imposero alla terra di fornire cibo e metalli. È ben nota la favola raccontata nel Genesi, primo e fondativo libro della Bibbia, della faida

fra Caino, agricoltore e dunque stanziale, e Abele, pastore e quindi nomade. Caino, racconta la Bibbia, uccise il fratello Abele. Il leggendario riflette la lotta, che ancora oggi perdura, tra stanzialità, trionfatrice ma in qualche modo considerata pur sempre peccaminosa - l'aratro squarcia il ventre della Madre - e itineranza o nomadismo. È una lotta che continua tutt'oggi: la società organizzata non ammette che i Pigmei vivano tranquillamente nella foresta del Flturi, che i Koisan (boscimani) continuino a cacciare nel deserto del Kalahari e si abbeverino ai punti d'acqua: la stanzialità non tollera l'idea stessa dell'itineranza e mal sopporta il nomadismo. Nelle nostre città, assai difficilmente sono tollerati gli zingari che possono essere considerati in un certo senso itineranti. L'oralità cedette il posto alla scrittura. La legge, che si sostituì al mito- tabù, doveva avere la stessa concretezza dei solchi in cui si gettava il seme. La legge fu scritta, divennefester Schrift, con l'andar del tempo si tradusse nei codici di Hamurabi, nelle sequenze di geroglifici tracciati ovunque in Egitto, soprattutto nelle tombe in modo da collegare immediatamente sopravvivenza dell'anima e legalità; divenne, col tempo, le leggi iscritte dall'imperatore indiano Ashoka vissuto nel I secolo a.C. - sulle colonne drizzate in tutto l'impero. La scrittura è tutt'uno con il potere. Ma il potere stesso non sfugge all'impalpabilità della Parola, al suo non avere un'origine acchiappabile, imprigionabile. Il potere oscilla esso stesso nel vuoto. E il potere, che è di natura mitologica, si regge sull'escamotage, sul tentativo di nascondere il fatto di contenere un nucleo di residuo indecomponibile, non sintattizzabile, non giustificabile, non razionalizzabile; il potere vuole negare di essere monopolizzazione del mito-tabù, due facce di una stessa medaglia; e per rendere invisibile questo nucleo, inventa gli strumenti della convinzione e del castigo per i curiosi che vogliono cacciare il naso nel suo segreto. La scrittura in altre parole è indispensabile al potere. Parlo anzi di Scrittà, di città e scrittura come un tutt'uno, rispettivamente sede ed espressione del potere. La città non potrebbe esistere senza la scrittura; né la scrittura potrebbe aver luogo se non dove sussista la stanzialità, dove sussista l'ordinamento dello spazio e del tempo, dove anzi spazio

e tempo siano stati inventati. Basta, per convincersene, un'occhiata alle figurazioni paleolitiche e un confronto con le figurazioni neolitiche. La scrittura avvolge ormai il mondo. La scrittura è una sequenza ordinata, sistematica di segni. Ma segni sono anche i meridiani e i i paralleli che percorrono i globi terracquei e li chiudono in una rete. La scrittura è codici, strutture scolastiche, istituzioni scientifiche, chiese, libri sacri, condanne e redenzioni; ma nessuna delle mille e mille scritture esistenti riesce a chiudere il mondo in una definizione. La scrittura si rivela così una delle tante versioni della Parola, e di questa segue la sorte, quella di non potersi riflettere in se stessa, di non potere essere Parola che si impossessa della Parola: l'incapacità di essere definitiva, di rivelarsi estrema, insuperabile limite, confine, verità incontrovertibile. La stessa matematica, che è fatta di segni, muove da principi indiscutibili solo perché indiscussi. 11 numero, àrithmos in greco, non corrisponde a concretezze, non è designazione, ma è la determinazione delle concretezze assiomatiche. Il numero corrisponde alle sequenze temporali e spaziali, segna, determina e istituisce. È tempo e spazio, ma non è né può essere un'entità preesistente a tempo e spazio. Il tentativo compiuto dai pensatori tardoclassici come Plotino, di far derivare tutto dall' Jno, corrisponde esattamente al progetto di pervenire a un ori- tine fissa, incontrovertibile, all'assoluto. Giorno per giorno l'uomo, abbandonato al caso e al rischio, precariamente vivo in quanto s'afferma di continuo di contro al mondo del non-essere, alla natura, alla morte, è ossessionato da un'originaria continuità (presunta, sì, presunta), da un'identità col tutto o per lo meno con un ermafroditismo che valga ad ancorarlo al mondo dell'essere, cui l'uomo spera di addivenire definitivamente o per brevi istanti di ebbrezza, assoluta indifferenza, assenza di desideri e di respiro, estasi, abbandono alle maree. In quest'aspirazione risiede il segreto dell'erotismo, immenso regno da sempre avvolto nell'oscurità e per questo vigilato da occhiuti divieti. Ma nemmeno allora sfuggiamo alla Parola. Il vuoto mentale? La cessazione del pensiero? Ma sotto l'albero pipai anche il Buddha dorme e sogna, e il suo sogno è popolato di

parole-dette, di parole-colori, di parole-suoni, di parole-odori. Il suicida? Fino all'ultimo parla con la corda che lo strangolerà, col veleno che lo fulminerà, con la pallottola che lo spegnerà. Parla con la Carne che è racchiusa nella sua carne, inattingibile, e come il samurai che compie il seppuku aspira per un istante a vederla, a toccarla tramite spada affilata, finalmente, definitivamente trascendendosi, proiettandosi al di là della Parola: né mai ci riuscirà. Sottrarsi al tempo: “sottrarsi”, “al”, “tempo”, sono parole.

RELIGIONE POTERE GUERRA

Impossibile distinguere il momento religioso da quello del potere, ed entrambi dalla sessualità (ma, come si dice altrove, lo stesso accade con la guerra). Ogni Nuovo Dio, ogni Natale, dovrà dunque apparire in carne e ossa: sarà il Phanes, F Apparso. E il potere si affermerà, sul proscenio della storia - inaugurata dal potere stesso, a sua volta ipostasi del Neolitico — quale concentrazione della politica-sessualità in una parte sola del corpo: il capo, che nel simbolo semplificato (menhir, betilo) è il pene, sta a rappresentare il tutto. Le apocalissi svelano il potere del dio e del sovrano: li mostrano nudi, liberi dai veli che li celano abitualmente (le cose sacre vanno ammantate, e la copertura è ciò che di esse — che sono il Nulla — ' appare al fedele-suddito). Ma lo svelamento rivela la terribilità del re immagine del dio (o del dio immagine del re), e comporta dunque distruzione e morte. Il Cristo muore sulla croce (svela cioè la propria carnalità) e il velo del tempio si squarcia: «il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomerìggio» (Vangelo di Luca 23,44). D'altronde, il bambino viene sempre da luoghi sconosciuti, caverne, zone sotterranee, sorgenti, foreste... La madre si limita a riceverlo e portarlo, ma il figlio reca in sé il segreto cosmo-biologi- co inattingibile alla conoscenza: è “carne” ed è “cordone” (e quello ombelicale ha dunque enorme importanza nelle produzioni simboliche). Il grembo materno è porta, transito; la nascita è intesa come rito di passaggio non meno liminare della morte. La madre — l'utero — quindi non fa che completare o reiterare l'opera della Madre Terra, Utero e Tomba (alla quale la tomba sta come l'altro all’Alterità). La greppia è, per così dire, la terra appena sollevata dal suolo: ne contiene l'immediato prodotto, il figlio (paglia, fieno, erba), e nascere dalla mangiatoia equivale al parto per terra (humi posino), rituale

reperibile in vastissimi ambiti d'ogni continente. L'epifania ha luogo soltanto se si accetta di porsi di fronte al mondo in modo dolce e violento, se si accetta di poter cessare, immergendosi in una parte del mondo, e attraverso di essa - il fratello che mi divora - nell'anima di tutto il mondo: il risveglio del Buddha, lo sguardo che si spinge al di là del velo illusorio e angoscioso dell'esistenza apparente, è possibile a patto che si cessi dalla posizione “dirimpetto”, per trapassare alla posizione “interiore” (non alla conoscenza o all'approfondimento — puramente conoscitivo — del soggetto, inteso in senso moderno come sostanza o anche soltanto quale specchio). L'immersione di cui parlo (e mi servo di mere indicazioni, di semplici accenni, mancando di un linguaggio che non sia, esso stesso, il frutto dell'arbitraria scissione di res extensa e res cogitans), equivale a quella tentata dal mistico e attuata da parte del poeta che abbia raggiunto “1'abbandono” e cali fino alle soglie: consiste nel farsi l'interno dell'oggetto contemplato. «E vano lo sforzo di appropriarsi dell'abbandono [Gelassenheit], dal momento che non e in nostro potere risvegliare in noi stessi l'abbandono. Non lo si produce: lo si lascia essere». Martin Heidegger, Gelassenheit, Monaco, 1937. Il carattere di luogo di transito dell'utero è rivelato dalla nascita verginale. La divinità ha deposto il proprio seme in una matrice; e, poiché la terra è assimilata alla madre, ecco che la matrice è inesauribile, e dunque sempre vergine, incorruttibile, eterna. Si potrebbe continuare nell'elenco dei caratteri mitici dell'Apparso-Cristo. Notare, ad esempio, che la sua “sorte” puntualmente ricalca quella di innumerevoli rampolli di dèi (di innumerevoli uomini nati, vissuti e morti: i rampolli degli dèi ne sono la sintesi e la proiezione). Il Phanes-Cristo rivela la morfologia dell'elezione: illuminazione e visione interiore, mutamento dello stato sensoriale, poteri extramentali, capacità di estasi, potenza miracolosa, e soprattutto il carattere di termine: gli dèi del Grande Tempo, dell'Età antecedente la morte (antecedente la coscienza della morte: il tempo dell'estasi

perenne, paradiso passato o a venire), hanno abbandonato la terra. Essi, che in ilio tempore vivevano assieme agli uomini, quando sogno e veglia, vita e morte non si distinguevano, sono ormai saliti in alto (o discesi in basso): ormai gli dèi sono gli dèi, l'uomo è l'uomo, come dicono i Fant dell'Africa equatoriale: il tempo cronologico, in cui la festa è solo un'immagine dell'eterno e il lavoro scandisce la sofferenza, l'allontana e ne è un'immagine — il tempo che è la coscienza della nascita e della morte, ha avuto il sopravvento. Nulla può salvarcene: solo, di tanto in tanto, la catastrofe ce ne redime (ci ricorda l'Altro Tempo, illud tempus, ci distoglie dalle concretezze, dall'immediato). Le due forme trascendentali di Kant, spazio e tempo, non sono universali, bensì storiche, culturali. Kant ha già commesso l'errore di Freud: ha dilatato al mondo intero la storia dell'Occidente, dimenticando l'antistoria che anche nell'Occidente è nascosta nelle viscere della terra, che emerge nella cosiddetta follia, nell'inaccettabile abnorme. Tentare di capire ■ (descrivere, controllare) nascita e morte, vuol dire inventare passato, presente, futuro: sforzarsi di comprenderle per Einsicht, per improvvisa rivelazione, significa abbandonarsi al perenne presente. Non si può non tentare anche di capirle; non si può non tentare di spiegarsi il mondo. Ne consegue la necessità perenne di ripetere — rivivere — la cosmogonia: di rinascere. Il potente, monarca, presidente o sommo sacerdote che sia, impersona l'eccesso, lo spreco e il godimento della comunità. Ma in potenza è il capro espiatorio, redentore di tutti i mali ma colpevole di tutte le calamità. Sarà dunque esaltato sul patibolo. Il dio sintesi e proiezione, a intervalli (corrispondenti alle grandi catastrofi, alle grandi perdite di senso, ai grandi tramonti dei valori, ai crolli dei regni, alle trasformazioni sociali...) appare, muore, rinasce. A perseguitarlo e ucciderlo sono le “forze del male”, quelle cioè che, nei periodi di oblio, si impossessano del cielo, della terra e del sottosuolo. Potenze o dèi “inferiori”, che gli uomini frequentano quando solo la routine, il rituale, ricorda loro il sacro, ma nulla di specifico accade, nessun prodigio li richiama alla profondità. Sono periodi di stasi: gli

stati sono immobili, i sovrani quotidianamente benevoli o crudeli, la caccia abbondante o scarsa, la terra ferace o povera, ma tutto “dura”; le “forze del male” sono quelle dell’abitudine. L'antichità aveva fatto di Priapo un dio. Il Medioevo, non potendo ancora cancellarlo relegandolo nel mondo ctonico, cominciò a farne un santo che, in Provenza, si adorava sotto il nome di Saint-Foutin. A Varailles, le immagini di cera degli organi dei due sessi, dedicate al santo, erano appese al soffitto della cappella e si muovevano scontrandosi a ogni alito di vento. Richiamare a un senso diverso, alla “vera” Alterità, è - nelle società, le comunità gerarchizzate - il compito dei profeti. Le potenze che davvero la costituiscono, e che è come se avessero delegato il dominio a rappresentanti, a governatori i quali se ne sono approfittati, d'un tratto lo reclamano. D'un tratto si verifica un'Epifania. Ritorna, dove si sia formata una “religione”, l'Essere Supremo, il Padre Universale, lo Dzingbe degli Ewe, il Ndyambi degli Erero, lo Jahvè degli Ebrei. La siccità, la pestilenza, la carestia, le situazioni limite, insomma, inducono a invocarlo. Ci si ricorda di lui. E può darsi che l'Essere Supremo realizzi il prodigio, che si incarni e ristabilisca il proprio dominio. (Nelle società non completamente gerarchizzate, è lo sciamano che, nei momenti di crisi, interpreta i bisogni collettivi e cade in estasi, ha una visione clamorosa, particolarmente rivelatrice.) Alla base del rapporto tra il cristiano e il Cristo sta la Comunione dell'ultima Cena: nei Vangeli, il Cristo pronuncia frasi inequivocabili: «Avendo preso del pane, rese grazie e lo ruppe e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, il quale è dato per voi...”» (Luca 22,19); «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo... Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue...» (Matteo 26,26- 28). L'invito rivela una volontà di olocausto che trova precisi paralleli nello stato di estasi, immerse nel quale le vittime di molti riti cannibalici andavano incontro alla morte. Il cannibalismo ha avuto, e in certe circostanze (ad esempio, come segno di estremo odio o amore) ha tuttora diffusione

praticamente universale. Del pari universali erano altre pratiche che alla nostra coscienza odierna possono apparire orripilanti: il sacrificio umano, la tortura dei prigionieri, la caccia alle teste, la guerra praticata come “gioco” oppure al solo scopo di procurarsi uomini, donne o bambini da sacrificare, come erano soliti fare i Maya del “periodo classico”. La coscienza orripilata dimentica tuttavia che l'orrore, nella nostra cultura, è monopolio del potere, il quale ne preserva i sudditi in pari tempo tuttavia privandoli delle sue delizie, alienandoli alla violenza. Il potere si è appropriato della violenza, che scatena a suo piacimento e godimento. L'ensarcosi, l'avvento del Cristo in carne umana, non poteva non venire accolta alla lettera dai pittori del Rinascimento, periodo di riaffermazione della carnalità dopo la lunga parentesi medievale. Il Cristo venne rappresentato come dotato di attributi virili, per esempio in croce ma in stato di erezione (simbolo di rinascita) anche se a volte celata da un panneggio sventolante; o, ancora infante, “stuzzicato” da Maria, Giuseppe e una o più sante, appunto allo scopo di provocare l'erezione, evento notoriamente presente nei bambini, e constatare così la totale umanazione. «Nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce di nuovo» [Giovanni 2,3-4 e 3,3). E siccome dio è il sovrano, e il sovrano è dio, deve rinascere da se stesso, figlio di madre che è figlia di lui stesso che è Dio («Vergine Madre, figlia di tuo figlio», Paradiso, XXXIII, 1), e l'erede al trono sarà legittimo figlio del sovrano, non di rado (Egitto faraonico e moltissime società tribali) frutto del suo congiungimento con la propria madre o sorella, il sovrano essendo “immune” dal tabù. Se il dio-potere è carne, il sanctum sanctorum in cui si compie il connubio tra il sovrano terreno e il sovrano celeste non può che essere una camera nuziale. Il faraone Amenofis IV, marito di Nefertiti, il quale assunse il nome di Ekhnaton e tentò di introdurre in Egitto il culto di un unico dio, Aton, il Sole occidentale (Amon, padre degli uomini, era il Sole orientale), venne raffigurato gravido, quale maschio

femminilizzato la cui luce era “per tutte le etnie”: gravidanza frutto del suo congiungimento con il dio monocrate nella cella sacramentale e segretissima (che nulla contiene di concreto: l'unione col dio è mistica, simbolica). L'esperienza cannibalica ha un valore immedesimante: attraverso l'olocausto della mia vita alla vita altrui, nella consapevolezza che la vita altrui può esser data in olocausto alla mia, mi con-fondo con la vita totale che tutti fa essere. Di più: ascendo o discendo al di là della vita, mi tuffo nell'oceano della proliferazione incontrollata, da cui gli artifici della coscienza illusoriamente e provvisoriamente mi isolano. È per questo che il cannibalismo è ammesso, dalla coscienza antropologica, solo nelle società “primitive” e che uno dei primi decreti dei poteri costituiti nell'ambito delle società gerarchiche consiste nell'abolizione del cannibalismo: cessa così la reciprocità assoluta, totale, incondizionata, ha fine la vicendevole disponibilità del proprio corpo, del proprio essere-cibo, e interviene la dicotomia del divoratore che non è divorato e del divorato che non è autorizzato a farsi divoratore. Aggiungiamo un'altra considerazione: coerente con quella tra reciprocità e gerarchia, è la differenza tra guerriero e soldato. Il soldato è un “autorizzato”. La chiave di volta della mobilitazione militare è il gioco, tessuto per millenni da regolamenti militari, del rapporto tra masochista e sadico. La Patria, cioè i tanti Io che la compongono o si illudono di comporla, è minacciata. Sono stato aggredito: posso farmi aggressore; sono stato vittima: posso iscrivermi (marginalmente, nei confronti del nemico esterno, e a patto di dimenticare che il nemico più implacabile è quello interno, il potere che mi sovrasta) al rango dei carnefici. «I Lacandon (Lacandones e Chol Cholos), da che gli Spagnoli hanno impedito loro di divorare uomini, mangiano grandi scimmie cui hanno dato il nome di “piccoli uomini del bosco”». Richard Andrée, Die Anthropophagie, Lipsia, 1887. Compiere l'atto del cannibale e del guerriero significa dunque abolire lo spazio che separa me, divorato, ucciso, dall'altro vivente, il

divoratore, l'uccisore, che mi sta davanti come negazione del mio io, rifiuto dei miei limiti, e quindi accettare di farmi quell'altro essere e tutti gli esseri, non più immagine esteriore e corpo delimitato, muscoli, ossa, nervi, sangue, quale io lo vedo con i sensi individuali destinati a spegnersi e sparire, ma nell'intimo della sua stessa tensione vitale, del brulichio che lo possiede, dell'esuberanza che ne trascende la persona, vale a dire come “anima”. È per questo che, io guerriero, non odio né amo il mio avversario: il duello, lo scontro dei guerrieri, è una danza seria, cupa, controllata e frenetica, e chi affonda l'arma nella carne altrui, con l'arma entra in lui, si trasforma in lui, e ha pertanto diritto alle sue spoglie, è legittimato a divorarne i resti: non come atto d'odio ma di impossessamento. L'odio è semmai a monte dello scontro fisico, nel corso del quale l'altro, individuo, si annulla, e anch'io, individuo, mi annullo. Lo scontro è la dedizione alla violenza. «I principi mongoli avevano chiesto che il nominato Fuchu Li, colpevole di assassinio nella persona del principe Ashan Wan, fosse bruciato vivo, ma l'imperatore trovò questo supplizio troppo crudele e condannò Fuchu Li alla morte lenta mediante il lengché, cioè il taglio in cento pezzi, in segno di rispetto». Dal giornale Cheng-Pao, 25 marzo 1905. Il condannato aveva ricevuto un'abbondante dose d'oppio che lo rendeva estatico e largamente insensibile. Il cannibalismo si configura — al pari del duello o del lutto, della caccia o del sacrificio — quale sacra rappresentazione: il sacrificante vive il dramma della vittima nel momento in cui le toglie l'alterità e la consegna all'Alterità. Cade così l'illusione del singolo di essere soltanto quel corpo isolato, escluso dall'incommensurabilità, dal «questo è quello-questo è nient'altro che quello» (Brhad-Aranyaka Upanishad). Il sacrificato si fa schiavo, cosa in balia della sterminata vita del mondo. La Voluttà va cercata in questa possibilità: e la voluttà erotica ne è solo una rappresentazione. L'umiliazione dell'essere, straziato in cibo, lo universalizza. La negazione violenta, attraverso la morte, del singolo come il mortale e il finito delle apparenze fenomeniche e frammentarie, è la comunione. L'atto cannibalico è dunque efferato.

Visto dal di fuori, offende: giustifica l'intervento di repressori, sovrani, funzionari coloniali, preti, conquistadores, legiferatoti. I quali sono costretti anche a reprimere l'altro aspetto sempre concomitante il rito cannibalico: l'orgia erotica.

Sotto il nome di “divino”, di “sacro” (in chiave postneolitica), l'uomo intravede una sorta di animazione interna e segreta, un brulichio, una frenesia, negatrici del mondo costituito da oggetti ben delimitati. Quel che gli appare è alcunché di contagioso, capace di trasmettersi come un miasma letale; attingere a questa zona è pericolosissimo: ciò che fermenta nell'aldilà assume l'aspetto del favoloso drago pronto a trascinare l'imprudente, per sbranarvelo, nella sua caverna. La religione si sforza di glorificare l'oggetto sacro, di fare del principio della rovina l'essenza del potere, la base di tutti i valori, ma il risultato che cosi si ottiene è principalmente quello di ridurre il sacro e i suoi effetti a una zona ben definita - quella fausta — e di instaurare un limite invalicabile tra il sacro e il mondo organizzato dal lavoro, il mondo profano. L'aspetto violento e deleterio del divino è manifestato dal rito del sacrificio, che spesso è crudelissimo, appunto per marcare con totale evidenza il senso della cerimonia, la rivelazione dell'aldilà. «Quando il calore ebbe largamente Bruciato e arrostito un lato Interpellando un giudice dal patibolo Il martire disse con voce tranquilla e concisa: Volta adesso il mio corpo sull'altro lato; Questo è già abbastanza bruciato E dev'essere risparmiato». Clemente Aurelio Prudenzio, Cathemerinon, «Inno in onore di San Lorenzo», 1400 circa.

Il divino è tutelare solo una volta soddisfatta la sua fame di consunzione e rovina; il sacro ha una duplice polarità, di cui tuttavia quella negativa rappresenta il principio primo. Il sacro è il mondo della morte, del disordine; ad esso ci si accosta nell'orgia, nella pletora sessuale che è fusione con l'altro-da-sé, momentanea rinuncia all'individualità; ad esso si attinge nell'ebbrezza e nell'estasi, ad esso ci si consegna nel corso del combattimento, che svela nell'aldiqua la violazione costitutiva dell'aldilà. Al suddito, però, l'azione della polarità negativa, infausta, del sacro veniva, e viene tuttora, in gran parte risparmiata: ad assorbirla, erano e

sono sovrani e sacerdoti, rispettivamente lo spettacolo, la neghittosità, la possibilità di astrarsi dalla fatica, l'estraniazione al mondo del lavoro; e il compito di assumersi il carico, e le conseguenze nei riguardi degli altri raggruppamenti umani, di istituire il colloquio con gli dèi, di riservarsi la visione dei terrificanti misteri dell'aldilà. Di questi al suddito-fedele si annuncia la presenza invitandolo a “star contento al quia”, e a farlo erano i sacerdoti, i sovrani, i guerrieri della tribù, e tuttora sono grandi personaggi, illustri prelati, filosofi accreditati. Attraverso la sua obbedienza a sovrani e sacerdoti, mediante la partecipazione a scorrerie, massacri e simili rituali cruenti (caccia alle teste, atti di cannibalismo, ecc), placando gli dèi col sacrificio, il suddito pagava, e metaforicamente ancora paga, il suo scotto alla divinità. Per tutto il resto, questa — egli sperava e spera - l'avrebbe risparmiato, non avrebbe avanzato altre pretese nei suoi confronti. «In verità, ce un regno nel quale non esiste né solido né fluido, né calore né moto, né questo né alcun altro mondo, né sole né luna... Se non ci fosse questo Non-nato, Nonoriginato, Noncreato, Nonformato, sarebbe impossibile evadere dal mondo del nato, dell'originato, del creato, del formato». Detto attribuito al Buddha, secondo il Divyadavana tibetano. Il cadavere è il simbolo della morte, dalla quale siamo costretti a trovare scampo: almeno il nostro corpo, indefinibile ma presente e greve, vuole a ogni costo vivere. La morte è spesso intesa come un contagio che parta dal cadavere in decomposizione; o, per lo meno, la decomposizione sembra racchiudere il segreto della morte, i suoi liquami paiono promettere che forse, ad affrontare in qualche modo il disgusto, qualcosa possa rivelarsi. È probabile che a questa prospettiva o speranza vada ricollegato, più che a ogni altra ipotesi, una delle ragioni del cannibalismo (endocannibalismo, cioè divoramento del proprio defunto, ed esocannibalismo, divoramento del nemico) e di pratiche come quella dei Waramunga, consistente nel precipitarsi sul morente e mutilarlo in maniera atroce: le pompe della morte, secondo il celebre aforisma di Francis Bacon, travalicano il fenomeno della

morte; in effetti, si tratta di una “recita” o impersonazione delle emozioni scatenate dalla morte, e insieme di un atto di ripudio della stessa, di uno “sfregio” alla morte, di una sorta di vendetta e rappresaglia per il processo di distruzione della vita, che si è impadronito del morente invadendolo e diventando tutf uno con lui. La morte è insomma concepita come un principio attivo, una sorta di entità feroce, implacabile, all'agguato nel vivo o fuori di lui. Ciò spiega sia idee come quelle del vampirismo (il morto-morte che si nutre del vivo), sia la figurazione della morte reperibile in molte culture (in Occidente di solito, da qualche secolo in qua, con attributi come la falce). Oltre che “aggredire” il disgusto, cioè l'alone, l'atmosfera, lo stato d'animo che nel cadavere sottolinea la morte, si può costringersi ad affrontarlo impavidamente, con pratiche volte a familiarizzarsi con esso e quindi, si suppone, con la morte, con l'“anch'io mi ridurrò dunque così”. I Kwakiutl dell'America nordoccidentale usavano deporre le salme su una piattaforma elevata e si esponevano al colare dei liquami. Ma gli atteggiamenti verso la morte, pur rispondendo a un comune denominatore, sono variabilissimi. L'associazione degli Hamatsa, diffusa un tempo nelle stesse regioni americane nordoccidentali, imponeva al novizio di mangiare carne umana; dopo essere stato afferrato e trascinato dallo spirito di Alla-Kotla in aria o sottoterra, il novizio si sentiva ordinare da lui di mordere i presenti nella casa delle danze, pena altrimenti di essere divorato egli stesso. Sempre presso i Kwakiutl, lo hamatsa veniva rapito dallo spirito e restava per tre o quattro mesi nei boschi. Al suo ritorno nel villaggio, assaliva quanti incontrava, strappando loro a morsi brani di carne dalle braccia e dal petto; a volte portava con sé dalla foresta la salma di un parente defunto, che proclamava essere «il cibo ricevuto da Baxbakulana Xiwae», modeLlo e paradigma del cannibale. Un tempo gli si sacrificavano schiavi, che il posseduto divorava; sulla roccia, nel luogo dove questo avveniva, si scolpiva il volto di Baxbakulana. Il posseduto era «reduce dal regno dei morti»,

tant'è che si eccitava e cadeva in estasi sentendo nominare o vedendo cose inerenti alla morte. Per provocare lo stato di possessione, bastava spesso che lo hamatsa pensasse concetti come “spirito”, “salma”, “cranio”, “testa tagliata”, “verme”, “porta aperta” e simili. «// cannibalismo non è stato monopolio della preistoria: ha continuato — e continua — a essere praticato da popolazioni stanziali, almeno di grossi villaggi. Sull'isola di Fiji, in Melanesia, racconta il navigatore William Mariner (1805-1870), si mangiavano i nemici vinti, lasciando in vita quelli che si fossero comportati da vigliacchi, in segno di disprezzo». Ewald Volhard, Il cannibalismo, Torino, 1949. È diversa la considerazione di cui sono fatti oggetto la parolasalma e le parole-cose inanimate: ciò che noi chiamiamo “morte” è la consapevolezza che ne abbiamo, la cessazione, nel defunto, della parola- fiume e della parola-comunicazione: il prorompere, dentro di noi, attorno a noi, d'una violenza destinata ad annichilirle. Assistiamo angosciati, affascinati, a un proliferare insensato e a un insensato perire di parole- forme vitali, a una successione illimitata di procreazioni singole, inutilmente spente da una degradazione uniforme, una dissipazione dalla quale si generano nuove forme in un pullulare incontenibile, sontuoso e spaventoso. Ci separiamo da quest'eccesso di violenza, da quest'Alterità rispetto alla quale la violenza umana è una metafora, sofferenza imposta alla carne, senza che coinvolga la Carne: ci iscriviamo al mondo profano in antitesi al mondo sacro, ma pretendiamo, speriamo, ci illudiamo che un barlume della violenza, del sacro, ci segua a mo' di bagaglio; irresistibilmente attratti dalla sua fosforescenza maligna, ci buttiamo ciecamente nel gorgo della violenza o elaboriamo vie sistematiche, rotte in apparenza sicure. La nostra esistenza oscilla così di continuo tra sacro e profano, fra l'attrazione per l'immondo, l'indicibile, il nauseante, il terribile, il tremendum, e il mondo in cui si costruiscono oggetti che sono, in primo luogo, scongiuri contro il soffio imprevedibile, ora gelido ora infuocato, che alita da mille spiracoli, da boschi, acque, pozzi, città,

vicoli, angoli bui, stanze, camini, finestre, fogne, lavandini, da noi stessi e dagli animali, dalle macchine e dal cielo stellato, dai fiori e dalle tempeste, dalle rupi e dalle acque. È impossibile, lo si è detto e ripetuto, scindere religione da potere (oltre che, beninteso, da guerra). Il che significa che è impossibile astrarre la religione dal discorso, che nel caso specifico si articola in racconto, cioè cronaca e storia della nascita delle religioni (leggenda del Buddha come iniziatore del buddismo, di Maometto come artefice dell'islam, del Cristo incarnato come capostipite della chiesa) e delle loro successive affermazioni. Storia, dunque, e quindi letteralismo che nell'accezione religiosa si configura quale complesso di dogmi. Storia. Nei testi, viene per lo più concepita come concreta successione temporale e irreversibile. All'invenzione di questo concetto hanno largamente contribuito i profeti biblici, secondo i quali l'irreversione era fermo principio dal momento che il dio unico e onnipotente aveva messo in moto una volta per tutte la grande macchina dell'universo-orologio (o clessidra), obbligato a procedere fino al giorno supremo in cui il Signore fundit secul in favilla, e chi s'è visto s'è visto, e pagamento col contante dell'anima salvata o dannata. Anche il passato, non solo il futuro, da allora ci è proposto come prospettico: macchine via via più piccole e inefficienti a mano a mano che ci si riaccosta, a ritroso, al punto che, contraddicendo la geometria euclidea, “c'è stato”, ha avuto una “dimensione”, una concreta consistenza in quanto si è trattato di un momento preciso, inconfondibile, dell'evoluzione (un salto giù dall'albero del frugivoro, la crescita dei canini del carnivoro bipede), e dunque è concretamente spaziotemporale, ancorché non ancora individuato (storicizzato): un punto fermo, non relativizzabile né relativizzato, pena la perdita dell'essenziale promessa. E macchine fin quasi a ridursi a nonmacchine, germi e parvenze di macchine, ma pur sempre macchine. Macchina persino il propulsore, persino l'amigdala; e macchine per trasportare i menhir di Carnac e i massi della Sacsahuamàn, gli

obelischi di Luxor e le statue dell'isola di Pasqua. Macchine mobili e macchine statiche: carri, dunque, e montagne minuziosamente intagliate per coltivarvi uno scarso mais, uno stento miglio, un riso precariamente irrigato. Macchine magiche e macchine templi, sontuose e avare, a vapore e a combustione interna, volanti, mandrini e presse, computers, secondo una visione in questo caso antientropica, di eccezione (grazie all'organo macchina che ci siede nel cranio e che ci porterà al linguaggio universale) rispetto all'entropia. Una visione rinascimentale, pertanto, tale per cui più la macchina è vicina, nei primi piani, e più grande dev'essere; più è coeva, e più utile risulta. E una visione sorretta dallo scherno per le imprecisioni degli arretrati, dei ritardatari, dei selvaggi, per le assurdità degli antichi aggeggiatoti ancora all'oscuro del calcolo differenziale e della teoria dei sistemi. La macchina dunque sarebbe sempre esistita, se non altro come sogno, aspirazione, tesoro da conquistare, Graal al quale attingere. La comparsa del figlio del Cielo equivale alla restaurazione di un dominio. Questo, lo ripetiamo, dove si abbia una religione rivelata, cioè con divinità “spiegate”, definite, razionalizzate, dotate di specifiche qualità: “ritratti” del sacro, insomma. E dove, soprattutto, sia avvenuta o sia in atto la divisione tra Bene e Male, la costituzione di due schieramenti della sacralità, avversari tra loro. Di norma, gli dèi “inferiori”, gli usurpatori, appartengono alla schiera del Male, ma il sovrano-sacerdote, finché è saldo in sella, li proclama il Bene. (È per questo che i profeti a volte denunciano il potere come diabolico, e sovente i mistici il mondo — cioè il quaggiù, contrapposto al lassù — come opera diabolica che l'Avvento distruggerà.) Nelle fasi intermedie tra i Grandi Eventi, tra i ritorni del Grande Tempo, il mito-tabù tende a cristallizzarsi, a diventare ripetitivo. È in questi periodi che il potere ha modo di instaurarsi e rafforzarsi, a patto, beninteso, che il gruppo sia abbastanza vasto da giustificare ed esigere la specializzazione produttiva, cioè la direzione e programmazione del lavoro. Ma appunto per questo è condizione del potere che il gruppo si dilati o che occupi altri spazi ancora, a giustificazione della sua

esistenza, donde alcuni imperativi come la conquista - la sottomissione dei “barbari”- l'impulso dato allo sviluppo demografico e la conseguente persecuzione delle pratiche omoerotiche, come nel caso degli Incas, e sempre l'obbligo della stanzialità; ne conseguono quindi l'introduzione del computo o del censimento per assicurarsi che il numero dei sudditi sia costante e anzi cresca, l'istituzione di caste, categorie, classi dai confini invalicabili (caste indiane o stratificazioni occidentali per censo), compartimenti stagni in ognuno dei quali deve verificarsi la moltiplicazione. Invincibilità dell'apparso. Accade così che il Grande Evento, ogni qualvolta si verifica, metta in forse il potere costituito, ne riveli il carattere di alleato delle “forze del Male”, ragion per cui il potere costituito, per esempio Erode o la casta sacerdotale, potrà accusare l'Apparso di volergli togliere il trono, di volersi fare “re dei giudei”. Ne consegue dunque, per il potere costituito, la necessità di soffocare il Grande Evento, perseguitando l'Apparso. La vicenda, la fabula che il potere incarna, esige perentoriamente la persecuzione, equivalente gerarchico delle difficoltà e necessità del gruppo fattosi società di tornare alle fonti, di “risorgere”, espressa nei riti di passaggio e nelle prove dell'iniziazione. La favola (non il mito!) è dunque prescrittiva al riguardo: il figlio del Cielo subirà persecuzioni, sarà ricercato dai carnefici o dalle guardie, verrà tradito, catturato, messo a morte, ma risorgerà. Ora, la “risurrezione” è già implicita nel suo essere perseguitato e messo a morte: il fatto stesso che il potere costituito lo teme, ne rivela e comprova, al di là di ogni dubbio, il carattere epifanico. La favola ricalca puntualmente il mito, con una differenza sostanziale: il mito è sempre astante, sempre possibile, il mito si svolge in un assoluto presente, un Grande Tempo che ha molta maggiore importanza del tempo cronologico, minore. Nelle società arcaiche, la festa e l'iniziazione sono i culmini della vita consociata. La religione è una pianta sorta dalla radice del mito, però superandolo e negandolo, spesso condannandolo a ridursi a una

dimensione ctonica, esecranda. E per lo meno assai difficile stabilire un'attendibile correlazione tra l'immaginata presenza di spiriti e divinità e le complessità di famiglie, genealogie, attribuzione di funzioni a divinità via via antropomorffzzate, raggruppate in siti specifici (olimpi, strutture templari), fatte oggetto di rituali e, soprattutto, di sacrifici. Va comunque dato atto ai teologi che sono dotati di notevole fantasia fiabesca. Nelle società, che sono gerarchiche, a contare è il tempo cronologico; il Grande Tempo si verifica, sì, ma malgrado il potere costituito che lo tiene prigioniero nei templi (i sancta sanctorum sono i luoghi - la stanza segreta di Barbablù — da cui può erompere o infettare o glorificare chi vi mette piede. E chi lo fa, dev'essere ucciso; è un pericolo per il potere: ha “visto”, ha “toccato con mano” la violenza — i cadaveri delle altre mogli di Barbablù). Il Grande Tempo è sperato, minacciato, agognato, rimpianto dai sudditi, e il potere costituito fa di tutto per impedirne l'esplosivo avvento. Cerca, in primo luogo, di avere dalla sua i profeti (la Chiesa ha fatto di tutto, durante il Medioevo, per inserire e chiudere i mistici profetizzanti, i proclamatori dell’umiltà, gli annunciatori di nuove Parusìe, i fustigatori delle “pompe del mondo”, cioè del potere, dentro i confini degli “ordini”, istituzionalizzandoli e ammutolendoli). Così si spiega, a mio giudizio, la forza prorompente che ha avuto, e ha tuttora in varie forme, l'idea-speranza rivoluzionaria moderna. Qui non ci interessano né la validità scientifica del marxismo né il suo divenire storico; considero la prima affatto secondaria, e il tentativo di fondarla una razionalizzazione inevitabile: il marxismo, grazie a essa, è reso plausibile in un universo in cui appaiono accettabili, in seguito ai secolari sforzi del potere costituito, soltanto spiegazioni fondate sul trinomio formulazione dell'ipotesi- convalida-applicazione. Che nel caso del marxismo il risvolto scientifico sia secondario, e anzi inaccettabile, è comprovato dal fatto che l'idea-speranza marxista non è certo scalzata dai fallimenti pratici cui va inevitabilmente incontro a

livello di applicazione. Quanto fin qui detto, è per far toccare con mano: a) che non c'è idea “razionale” la quale non sorga da una matrice “oscura”, e cioè mitica (o, se si preferisce, il mondo non può essere percepito che sotto specie simbolica e transeunte, dunque angosciosa e trionfale insieme). b) che il mito-tabù non può essere in nessun caso tolto di mezzo. Esso è la condizione stessa del nostro esser-ci. c) che le sue versioni variano con il variare degli ambiti culturali, ma sono essenzialmente due: il mito-tabù dell'accettazione e il mitotabù del progresso. Questo secondo descrive (e coincide con) le società gerarchiche, e si presenta nella veste di favola, leggenda e razionalizzazione-spiegazione. Torno ora al figlio del Cielo, per far notare come in tutte le religioni rivelate del mondo si assista alla nascita (rinascita) di dèi o rampolli di dèi, alla loro persecuzione seguita sovente da morte e smembramento (Osiride, Dioniso Zagreo), e al trionfo e alla resurrezione (ma, come abbiamo visto, la sua epifania contiene l'uno e l'altra: essa è infatti la Rivoluzione che tutto trasforma). Lo schema nascita-peripezia-trionfo-sparizione (morte, assunzione ad altro stato) ha carattere ciclico (il Grande Tempo “tornerà”, basta attenderlo, saperne cogliere i segni), centinaia sono i Saosyant profetizzati dal mazdeismo. Né potrebbe essere altrimenti, l'evento non verificandosi nel tempo seriale, numerato e lineare, il tempo della successione storica, bensì in un Altro Tempo, concepito secondo un affatto diversa interpretazione della temporalità. Le vicende degli dèi si collocano, anziché nel «concetto volgare del tempo» (Heidegger), nella nozione sacrale del tempo, di cui resta traccia nei calendari, cioè nell'«idea di un tempo, non puramente quantitativo, bensì qualitativo, composto di parti discontinue, eterogenee, incessantemente volgentesi su sé stesso». La ciclicità, del resto, si impone a ogni nostra attuale concezione del mondo; sembra confermata dagli eventi naturali (che ovviamente non esisterebbero

senza la nostra constatazione e descrizione): ritorno delle stagioni, volvere delle stelle, costanza delle correnti, delle migrazioni animali, eccetera. Marcel Mauss, Alcune forme primitive di classificazione, 1903. Si impone così l'idea del ciclo cosmico, che si presta a varie elaborazioni. Per esempio, nell'India postvedica vennero formulate due dottrine, quella dei cicli (yuga) e quella della trasmigrazione delle anime (samsara). Il tempo mitico è l’intelligenza della transitorietà, del “passare”, il mito è la metaforica aspirazione alla continuità che si “riconosce” impossibile, ma si “comprende” possibile. A questa “fuggitivi-tà” del Grande Tempo, le religioni rivelate, e soprattutto il loro culmine e riassunto mediterraneo, il cristianesimo, contrappongono l'evento storico della nascita dei redentori: il punto fermo, la certezza, la concretezza istituzionale. Tutto si può mettere in discussione dell'edificio cristiano, ogni elemento, ogni rito, ogni dogma: non però questo fondamento, toccando il quale si minaccia l'intera struttura ontoteo-logica. (Allo stesso modo, a lungo è stato fatto obbligo di proclamare il carattere scientifico del marxismo: per chi era armato di questo strumento, il futuro si spalancava prevedibile.) Il Cristo è “storico”: le incongruenze dei Vangeli vanno attribuite a imprecisione storiografica (assenza o scarsità di documenti, incapacità dei cronisti); il Cristo ha una sua carta d'identità: nato il giorno tale dell'anno tra l’altro, da genitori con nome, cognome e pedigree, in un luogo ben definito. Non si creda però che sia un'eccezione. Qualsiasi società gerarchica “storicizza” l'Evento par excellence, quello che l'ha “fondata”. Così, gli Incas spacciavano la favola che il loro padre, il Sole, un bel giorno aveva posto in terra due suoi figli, fratello e sorella — marito e moglie — perché redimessero il mondo dalla barbarie fondando un regno. Mancando di un computo esatto degli anni, gli Incas erano meno precisi dei giudeo-cristiani circa la data, ma la sequenza dei loro re, a cominciare dal primo, il Figlio del Sole Manco Capac, era inderogabile,

rigida, indiscutibile; e per definizione, ogni Inca aveva regnato “fino a tarda età” per circa trenta-quarant'anni. Il Cristo topico e i suoi rappresentanti fanno giustizia delle favole e dei miti (“O tu che ammutolisci i poeti dei miti”, si canta nel bizantino Inno acàtisto alla Deìpara di Romano il Melode, 525 d.C.). La religione diviene storica, quindi non c'è più bisogno di “superstizioni”: tali vengono dichiarate tutte le manifestazioni della “paganità” primitiva, a cominciare dalle “religioni preistoriche”: “presenze”, idoli, sacrifìci, atti cannibalici, poroi. La si sostituisce, nella fase intermedia (protostorica-megalitica), con la divinazione, cioè con l'organizzazione, l'istituzionalizzazione dello sciamanismo (e la sua scomparsa). Ma la “superstizione” (l'avvertita presenza del sacro — ancorché deformata e alienata) è insopprimibile, ed essa viene assunta in proprio dal potere, accogliendo nel culto (essoterico ed esoterico) quegli elementi che non sono contraddittori con la teologia ufficiale, e mettendo decisamente al bando gli altri. Cosi, la Chiesa ha accolto nel proprio Olimpo santi che erano divinità pagane, ha assimilato culti pagani, ma ha decisamente respinto, non appena ne ha avuto la forza, i culti sabbatici, cioè la “superstizione” dei culti della fecondità (del fallo e della vulva, residuo pagano, cioè delpagus, del mondo agricolo arcaico). Di che cosa è portatore il dio ipostatizzatosi una tantum (esclusa ormai la ciclicità, e dunque la ripetitività, dei Grandi Ritorni) nel figlio del falegname e della Vergine, il rampollo del cielo? Egli è il veicolo del Verbo, imposizione di un ordine razionale (Salvezza) al caos (male, peccato: paganesimo); e insieme, è ambasciatore di violenza (definitiva condanna del reprobo, cioè del miscredente, del criminale nemico dello stato — del potere — ovvero della comunità identificatasi con lo stato terreno o con la sua immagine, lo stato celeste). È un persecutore. Abitato dalla divinità, sacrifica sé stesso, o meglio il corpo umano, presunto suddito dell'anima; del resto, è antica norma (gerarchica) che il padre possa sacrificare il figlio (Abramo e Isacco), il superiore l'inferiore, il re mandare a morte i sudditi. Il potere è monopolio della

violenza; il potere è armato; il potere ha ai suoi ordini carnefici ed eserciti. Ora, carnefice, carni- fex, è colui che “fa carne”, che riduce a cibo per il potere (cannibale in esclusiva) la vittima, e tutti i sudditi sono vittime più o meno amanti del carnefice in potenza. Il Cristo moltiplica i pani e i pesci, ed è un'altra caratteristica del potere: l'agricoltura e l'industria sono fatti della stessa sostanza, entrambe fondate sulla produzione (piante o macchinari), sulla previsione (depositi, granai, scorte), sulla programmazione, sulla moltiplicazione (alimenti, beni; pani e forni da pane, pesci e peschiere...). Il potere sazia i sudditi; il sovrano-dio o il dio-sovrano (tornato a reclamare il dominio) è la chiave della fertilità. Egli è il Creatore, il dio «dai mille testicoli», il «signore dei campi», il «toro della terra». Ha cento, mille concubine (sovrano) o spose celesti o «vergini prescelte» a lui riservate. E il «fecondatore»; il sovrano ha schiere di figli (bastardi, quindi disuguali), è il Padre di tutti (quindi uguali fatta salva la “schiatta celeste”, angeli, santi, eccetera). Il Cristo-potere non regna subito: inizialmente “complotta” al rovesciamento del potere-Male costituito. E ancora disarmato, ma i suoi fedeli saranno armati e convertiranno con la forza, realizzando la missione delegata loro dal Cristo. Del resto, il potere-sacralità è sempre guerriero. Solo se è forte è credibile (nei momenti di crisi, come in quest'inizio del XXI secolo, si sentono di continuo levarsi voci che proclamano la necessità che si “governi davvero”; il paese, si lamenta, è “ingovernabile” o “ingovernato”). Il gioco della guerra è stato monopolizzato; il mito-tabù sostituito con la norma-proibizione. Il sovrano, e il potere in generale, essenzialmente vieta, è il proibitore per antonomasia. Proibisce ciò che gli serve a dimostrare la sua forza, previa negoziazione con i sudditi per ottenerne il consenso, sempre strappato dal potere (non da un potere). Conditio sine qua non per la sussistenza del potere, è che esso perseguiti, metta al bando, escluda. Il potere propone i possibili ambiti da proibire — bisogna assolutamente che ce ne siano — e sono quelli coperti da tabù “spontanei” o “dichiarati” (imposti) su imitazione dei primi (il tabù- dialetto diviene

proibizione-lingua); il gioco esige che i sudditi mugugnino e protestino, che persino si ribellino, che magari abbattano quel potere per sostituirlo subito con un altro. Il potere è un idolo. Il sovrano-dio è un idolo. L'idolatria è un'invenzione del potere, anche se questo l'attribuisce, come “stupida”, ai “selvaggi”. Si deve adorare qualcosa di concreto, qualcosa che il sovranodio estrae dall'aldilà e traspone nell'aldiqua, sia pure null'altro che sé stesso, idolo vivente. Se l'asceta erede dello sciamano continua a sapere che la persona non ha una realtà oggettiva, che essa e il mondo sono soltanto immagini, costruzioni soggettive di un falso immaginare che si ordina, si complica, si svolge come la trama del karma, e avvolge e trascina l'uomo al punto che questi continua a credere nella sua esistenza individua mentre è già ombra; se l'asceta sa che tutto è sogno ed errore, dalle cose che si vedono a quelle che si immaginano, dalla varietà screziata della natura alla visione angelicante dei paradisi o alle torture dell'inferno; se non ignora che gli “dèi”, le “potenze”, le “presenze”, sono soltanto promemoria, appunti, punti di riferimento nel “viaggio dell'anima” (e per esempio nel già citato Libro dei morti tibetano lo si dice a chiare lettere), il potere pretende invece che si tratti di concretezze. Gli idoli devono quindi essere realtà: non simboli come la caduca carne, come gli ossami, ma una capitale che sia l'asse dell'universo, idolo per eccellenza, riassunto di tutti i santuari; una corte, magnifica, sontuosa, splendida come il cielo, il cui modello sia l'universo intero con la sua bellezza e grandiosità; e la corte sarà in effetti l'impero tutto quanto, perché nell'impero essa si diramerà con strade a raggiera, case reali, ville di delizia, castelli, fortezze. Il sovrano-dio è una concretezza: lo si adora. Ma è concreto anche il dio-sovrano, con una fisionomia sulla quale si accaniranno gli esegeti e gli illustratori (la Sacra Sindone). Anche il dio- sovrano conquista e perseguita. Nel caso del Cristo, il suo nemico è Satana, con la corte dei governatori, sacerdoti, finti interpreti della divinità; gli usurpatori, il dio falso, il Male. Il Cristo inaugura il nuovo regno della discriminazione, della lotta per il potere. Ma Satana

è il residuo implacabile, irriducibile; e in fin dei conti, il sacrificio supremo e conclusivo è un'eco di altri tempi, anzi del Tempo, l'ombra degli dèi ctonii eredi della scissione operatasi nella figura del dio del giudaismo, che comandava ai figli di Noè di «mettere timore sacro e spavento... su tutto quel che si muove e vive», che puniva Saul perché non tutto era stato distrutto nella terra degli Amalechiti: che più tardi (post-esilio) aveva tenuto pacati conversari con Satana e se ne era lasciato persuadere a tentare (atto diabolico!) lui stesso Giobbe. Il dio del Genesi è ancora un impasto di bene e male, un ermafrodito capace di ogni nefandezza e di ogni atto di pace. Ma è un dio scissiparo: ed eccone la metà lucente comparire, l'anno 27 del regno di Augusto, sul suolo di Galilea, e poco tempo dopo affermare che la fede nel Padre è il Grande Tempo. II mito è stato cosi negato e stravolto: il potere, il desacralizzatore, si afferma investito di sacralità. Il potere si afferma figlio del Cielo; il potere si identifica con il Bene e dichiara guerra al Male, al Residuo. Il Cristo è il sigillo religioso che convalida l'ordine ormai istituito nel mondo anticoclassico, è la garanzia dell'ordine cosmico di cui quello terreno non è più, ma ridiventerà, il riflesso. La Città di Dio è la meta: identificazione dell'ordine gerarchico cesareo e dell'ordine celeste. Del resto, da qualche millennio la città, l'urbe, si proclama fatta a immagine e somiglianza dell'ordine “razionale” di tutto l'universo: è il centro motore della conquista, sia quella estensiva (l'espansione territoriale), sia l'intensiva (il “progresso”, lo sfruttamento sempre più sistematico dell'ambiente). La città ha sempre e ovunque la stessa struttura: un mondo dei vivi e del potere, la città quadrata, e un mondo dei morti, la necropoli, attorno o accanto alla prima, inizialmente di solito circolare, residuo dell'abitato arcaico, in cui la distinzione tra vivente e defunto non esisteva o non era così rigida. Ma la struttura reticolare, quadrangolare, si impone un po' alla volta all'intera conurbazione: la città-lingua impone bisogni che l'abitato-dialetto ignorava, li dice e li istituisce. La città quadrata ospita per lo più i

templi degli dèi ufficiali, gli dèi “maggiori” creati dal potere; i santuari delle divinità minori possono essere sparsi per la città, e tra essi quelli di dèi “maligni” (Kalì si drizza, nera e con la collana di teschi, in mille vicoli indiani), ma si tratta pur sempre di “dèi”, quindi di potenze ormai esorcizzate, istituzionalizzate. La sacralità, ridotta a negatività, resta confinata nella zona dei morti; si rifugia sottoterra, diviene esclusivamente ctonica. In un secondo tempo, anche su questa sfera si avventa l'urbanità: la zona circolare, la necropoli, viene ridotta a cimitero, dal quale tuttavia è impossibile eliminare completamente un estremo residuo. Il cadavere continua a essere tabù. Dal cimitero emana pur sempre un metafisico lezzo. Ma perché, dunque, non appena sacerdoti, profeti, sovrani, giudici, guardiani, si distraggono, i sudditi si sbandano, si danno al1'“abominazione”, all'ebbrezza, all'orgia? Perché infrangono la santità della Famiglia, della Legge, della Chiesa? Perché tornano selvaggi? Si deve supporre che l'”abominazione” attragga. Solo feroci persecuzioni e minacce valgono a distogliercene. Il potere, mito incarnato che rinnega le proprie origini, suppone di poter governare senza il mito. La sua vicenda è sempre uguale: così facendo, per il fatto stesso di esistere, il potere inaugura la propria crisi, è sempre sospeso sull'orlo dell'incredibilità. E se il re non fosse dio o unto dal Signore? Se la nuova divinità, la divinità definitiva, la razionalità scientifica, non fosse il toccasana? Se una sempre più alta razionalità non ci avvicinasse (o riavvicinasse) affatto al “regno dell'uomo”? Se l'unica libertà consistesse nel conservare, cercando di allargarle, proprio le zone oscure, il Residuo negato, disprezzato, perseguitato, ghettizzato? Nella ripugnanza per il “mondo e le sue pompe”? Definisco millenarismo il processo, fin qui esposto, che ha desacralizzato il mondo occidentale e, come programma, il mondo intero; e che ha aggiunto, all'angoscia in apparenza costitutiva dell'uomo, una sovra- angoscia, un'incertezza che nessuna “razionalizzazione”, nessuna aggiunta di poteri al potere, nessuna conquista, nessun accumulo di beni, basta a togliere di mezzo. L'uomo sprofondato nel

millennio se la porta sulla spalla, come Odino il suo corvo. E la sua scimmia e la sua “scimmia”. Ho cercato, nei testi precedenti, di sottolineare l'impossibilità di scindere la religione dal potere; qui mi proverò a indicare l'impossibilità di separarla dalla guerra. Tre momenti; L'invenzione della stregoneria. Ogni guerra è di religione. Religioni: uguali e diverse. L'invenzione della stregoneria. Il termine stregoneria designa possesso di poteri soprannaturali nell'ambito naturale ai fini di esercitare il male e di solito in associazione con spiriti maligni o con il diavolo in persona o per lo meno un demone. La credenza in portatori di poteri straordinari, per la quale magia e stregoneria sono spesso confuse, esiste tuttora in moltissimi ambiti. E tuttora è oggetto di condanna soprattutto da parte delle religioni monoteistiche. La donna sapiente, esperta di erbe e pozioni, l'uomo di medicina delle cosiddette società primitive, il dotto sacerdote pagano, sono così divenuti i perfidi, maledetti stregoni e streghe che il Medioevo europeo riteneva fossero legione, e di cui si ritrovano gli eredi quali personaggi di fiabe e leggende. Dal canto loro, le divinità delle religioni non monoteistiche sono state degradate a demoni condannati agli inframondi, veri e propri inferni organizzati e strutturati come luoghi di pena, oppure a spiriti maligni pronti a pervertire gli esseri umani. I poteri dei portatori di stregoneria sarebbero: divinazione, invulnerabilità, forza straordinaria e spesso irresistibile, capacità di trasformare se stessi e altri (nel leggendario, i personaggi di Circe, quelli che compaiono nella favola della Bella e della Bestia, i Sei Cigni di Grimm, eccetera), capacità di volare, di rendersi invisibili a volontà, di impartire animazione a oggetti inanimati, di conferire potenzialità e poteri ai loro seguaci, e ancora conoscenza di droghe atte a generare amore e fertilità e a causare morte. Già nel libro dell'Esodo 22,17 della Bibbia si trova una esplicita prescrizione: “Non lascerai vivere colei che pratica la magia”. Si noti

il colei. Per chiarire la centralità della strega nella concezione occidentale della stregoneria, va tenuto presente che alla donna si sono attribuite ampie valenze simboliche da epoche assai precedenti alla visione ebraica della divinità, lo Jahvè che vietava la magia e condannava senz'altro a morte la strega. Bisogna risalire al Neolitico, ad almeno 12.000 anni fa, per individuare il punto di svolta della traduzione delle valenze simboliche attribuite alla donna in cose. Al Paleolitico risalgono raffigurazioni femminili nelle quali seni, natiche e grembo hanno una presenza predominante a scapito degli arti e della testa, ridotti a semplici abbozzi. Sono le celebri veneri steatopigiche reperite in molti siti paleolitici europei, asiatici e africani, e che nel XIX e XX secolo sono state erroneamente interpretate come promotrici della fertilità. Ma i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico ignoravano l'agricoltura, e quindi non avevano bisogno di favorire simbolicamente la fertilità campestre, e le mandrie selvatiche dalle quali ricavavano la carne che, insieme ai pesci, costituivano la fonte principale della loro alimentazione, erano di tale entità da non richiedere, ancora una volta, particolari accorgimenti di carattere “magico”. «Le figurine femminili del Paleolitico e del Neolitico iniziale possono forse considerarsi una prova a favore del presunto matriarcato delle comunità non ancora storiche, più di quanto lo siano le statue di Venere e della Vergine Maria in culture innegabilmente patriarcali?» Gordon Childe, Social Evolution.

Persino tra gli odierni «selvaggi», non si ha traccia di matriarcati, anche se sussistono ben noti casi di matrilinearità. Nel Paleolitico manca un'associazione, ed è l'associazione donna-morte, che invece è frequentissima nel Neolitico. Se ne hanno esempi già nel VII millennio a.C. in Turchia a fiatai Hiiyiik, sito dove sono sorti alcuni tra i primissimi santuari. In certuni compare la figura della Dea Madre o Signora Bianca o Signora degli Animali in duplice forma, quella di avvoltoio (noto simbolo di morte nelle credenze popolari insieme con la civetta, il cuculo, la colomba, il cinghiale e l'osso secco) e quella di simbolo della rigenerazione. In uno stesso santuario di Gatal Hiiyiik,

mentre su una parete appaiono vari avvoltoi, cioè Dee Madri, intenti a cibarsi di cadaveri umani decapitati, su un'altra parete è presente, a rilievo, una grande testa di toro che sovrasta un teschio. E nelle raffigurazioni neolitiche il toro è un esplicito simbolo di rinascita e rigenerazione. L'associazione donna-morte comporta infatti sempre l'altra faccia della medaglia, e cioè l'associazione donna- generazione. Il duplice simbolo è facilmente reperibile in molti ambiti extraoccidentali, ed è facilmente riconoscibile nelle concezioni dell'intero ambito indoeuropeo. Nell'India invasa dagli Ari verso il 2000 a.C., si diffuse l'immagine simbolo della dea Kalì. È raffigurata con una collana di teschi, munita di zanne, ed è venerata come datrice di morte ma anche di vita. In Occidente, dalla dea-avvoltoio raffigurata più volte in Anatolia e nel Levante, sono derivate altre concezioni di donna- uccello rapace, come le Sirene e le Arpie dell'antica Grecia dette anche Keres (Parche) della Morte. Del Neolitico noi siamo gli eredi. L'invenzione dell'agricoltura oggi si continua nell'industria. Ma il Neolitico ha inventato oltretutto la divinità, il potere come organizzazione gerarchica e la guerra come razionalizzazione organizzativa della violenza. Le prime raffigurazioni divine furono animali di enormi proporzioni, per lo più tori, presenti già nel IX millennio a.C. Ma assai spesso i tori sono accompagnati da figure di Dee Madri, molto spesso intente a partorire i tori stessi. Nel corso dei secoli, la figura femminile, Dea Madre, Signora Bianca o Signora degli Animali, secondo le varie denominazioni che sono state attribuite alle sue rappresentazioni, cedette il posto alla figura maschile. Il processo di fallocratizzazione è reso evidente, a partire almeno dal 5000 a.C., dalla comparsa di simboli chiaramente fallici, come i menhir, accompagnati però da altre strutture litee, come i dolmen, che avevano funzioni sepolcrali e sulle pareti interne dei quali quasi sempre compaiono simboli femminili come occhi — residuo della deaavvoltoio o dea-civetta — spirali, vulve schematiche, seni, eccetera. In questa fase del divenire umano si ha perciò l'affermato predominio del maschio portatore di fertilità, con la femmina già tendenzialmente relegata alla funzione di custode e vestale dell'ambito della morte.

Il potere che, come si è detto più volte, è invenzione neolitica, promosse o impose un processo di detronizzazione delle antiche dee europee, le cui tradizioni rimasero tuttavia largamente conservate nelle isole egee, a Creta, nelle regioni del Mediterraneo centrale e occidentale. Una delle figure femminili che ebbe parte importantissima nello sviluppo della religiosità di queste zone, fu la dea egizia Iside, da cui i cristiani hanno dedotto, con pochissimi cambiamenti, la figura della Madonna. Al di fuori degli ambiti in questione, l'immagine religiosa femminile si eclissò in ampia misura per lasciare il posto all'immagine maschile, inizialmente in figura di un dio antropomorfo in piedi su un toro che evidentemente dominava e soggiogava. Ripeto: il toro era in origine collegato direttamente alla Dea Madre, non di rado raffigurata intenta a partorirlo. Il processo di fallocratizzazione o virilizzazione che ebbe luogo durante il Neolitico, comportò la scomparsa delle dee partenogenetiche fin dalla prima fase del Neolitico, la relegazione, nella nebulosità di ricordi ancestrali, di figure che si autogeneravano senza ricorso all'inseminazione maschile, simboleggiate elettivamente dalla Madre Terra, cioè dalla terra che risorge continuamente da se stessa, in primavera, dopo ogni aratura e taglio delle messi, eccetera. Attorno al 1100 a.C. il culto di Zeus a Olimpia sostituì quello della dea della fertilità Demetra Chamine. Iprimi Giochi si tennero a Olimpia nel 776, anno al quale i greci facevano risalire l'inizio della storia. Le dee partenogenetiche si trasformarono gradualmente in spose e figlie; e il potere generativo fu attribuito al maschio, al punto che più tardi in Grecia Atena fu fatta nascere dal cervello di Zeus. E in ogni regione d'Europa, e in larga parte dell'Asia, la Madre Terra perdette la capacità di generare la vita delle piante senza rapporto sessuale con il Dio del Tuono o il Dio del Cielo. Le dee tuttavia continuarono a contare, a un livello sotterraneo, ma pur sempre abbastanza esplicito, almeno quanto gli dèi fino ai primi secoli della nostra era. A partire almeno dal IV secolo d.C. la Chiesa, struttura portante i

del cristianesimo, si rese però conto di essere minoranza: il cristianesimo è stato fin dall'origine una religione cittadina e rigidamente fallocratica, che restava in larga misura estranea alle campagne. Persino nei centri medievali di dominio dell'economia agricola, castelli, conventi e latifondi, e più in generale nelle campagne, a predominare era tuttora il paganesimo, soprattutto nella forma di culti della fertilità maschili e femminili, con frequentissimi luoghi di culto — spesso semplici boschetti o radure - nei molti pagus, i villaggi altomedievali. Tale situazione indusse la Chiesa a iniziare, con l'ausilio dei poteri laici, la definitiva conquista delle campagne mediante proselitismo e costrizione. Al centro dei culti della fertilità erano molto spesso donne, lontane eredi delle sacerdotesse di Iside, di Cerere, di Atena e della dea Bubastis, la dea- gatta dei culti egizi. Per procedere alla conquista delle campagne (si noti che per esempio la Prussia Orientale fu cristianizzata soltanto nel X secolo d.C., e che ancora più tardi nelle valli prealpine continuarono a sussistere concezioni pagane — e il loro più feroce persecutore fu san Carlo Borromeo), la Chiesa si alleò, nell'VIII secolo, con la monarchia carolingia che aveva assunto una posizione di predominio nel contesto dei potentati europei. Carlomagno fu incoronato imperatore a Roma dal papa nel Natale del 799, e restituì il favore facendo annegare, nelle onde battesimali di un torrente nei pressi di Attigny, sede delle assemblee generali Merovingie, Witkingo, Albione e i loro Sassoni rimasti testardamente pagani. La guerra della Chiesa contro gli ebrei: sempre colpevoli, deicidi, perfidi, bevitori del sangue di bimbi cristiani. Dovè Ugo, dovè il mio Ughetto, / Con cui giocavo a rimpiattino? / La nera ebrea, la figlia del ghetto, / L'ha attratto oltre il muro del suo giardino. // Con una nenia lo ha addormentato, / Sul capo d'oro lo ha poi colpito, / La gola e il collo gli ha tutto squarciato, IE ha riso quando lo ha visto stecchito! Il Lui non ha fatto né gesto né motto, / Non lo si è udito neppur rantolare: / Solo il rumor di qualcosa di rotto, / L'arma che insiste sull'osso a grattare. Il L'ebrea il rosso sangue di Ugo ha colato, / E l'unica lacrima, in coppa d'argento. / Suo padre

ha detto: “Io son fortunato, /perché ho una figlia che è proprio un portento”. Il Il corpo di Ugo nel pozzo han buttato, / Con pietre e sassi poi l'hanno impedito. / Verde ora cresce il muschio bagnato / Sopra le ossa di Ugo sparito. Il E quando torna il bel tempo d'estate, / La nera figlia del perfido ebreo / Sul muro sta a pettinarsi, guardate, / Per allettare un altro babbeo Leslie Fiedler, «La danza di Rabbi Hershl dalla mano secca», uno dei racconti de La macchia, Rizzoli, Milano, 1972 (mia traduzione).

La Chiesa doveva imporre nelle campagne la religione del dio fallocrate, e la Dea Madre, la Dea Bianca o Madre dei Morti, personificazione dell'inverno e della rinascita, venne trasformata in malefica strega della notte e della magia. In altre parole: la Chiesa si impadronì dei terrificanti poteri simbolici della dea della vita e della morte e li trasformò in realtà concreta. Fu fedele, in questo, alla sua tendenza a trasformare tutti i propri simboli in tangibili verità e concretezze. Il cristianesimo ha infatti a fondamento l'idea dell'effettiva, tangibile, comprovata (dal dogma e dal potere dell'Impero Romano con il quale si alleò fin dall'inizio e che ne garantì il trionfo) incarnazione del Figlio del Cielo, Gesù Cristo. L'antichità conosceva una sterminata serie di figli del cielo, molto spesso risorti da morte, come l'egizio Osiride, e partoriti per lo più da madri vergini, cioè dalla Madre Terra. Ma soltanto i fondatori del cristianesimo ebbero la grande trovata consistente nel dichiarare realtà palpabile, indiscutibile, l'incarnazione, verificatasi in un preciso tempo e luogo, del Figlio del Cielo nato da madre vergine, Maria, ucciso sulla croce e risorto dai morti. E chi si fosse opposto a tale credenza doveva venire persuaso o costretto ad accettarla. Il dio fallocrate doveva a ogni costo imporre il proprio dominio, e chi lo contestasse sarebbe stato dichiarato adoratore di divinità trasformate, per decreto, per dogma, per bolla papale, in demoni e “servi di Satana”. L'idea della stregoneria qual è concepita dal cristianesimo, non risale dunque al Medioevo, ma il Medioevo fu un momento particolarmente favorevole, anzi elettivo, al suo dispiegarsi. La distruzione dei templi e simboli pagani era cominciata in maniera

sistematica già nel IV secolo, non appena il cristianesimo era divenuto religione ufficiale dell'Impero sotto Teodosio il Grande: opera resa pre scrittiva dalle autorità civili e compiuta molto spesso dai sempre più numerosi monaci, vere truppe d'assalto della nuova religione. L'opera di evangelizzazione dell'intera Europa ebbe un primo colpo d'arresto nel VII secolo in seguito alle invasioni islamiche in Spagna e alle incursioni in Gallia, senza contare quelle, numerosissime, lungo le coste mediterranee. L'avanzata islamica fu notoriamente bloccata dalla monarchia carolingia e dai suoi eredi, e con la protezione del ricostituito Impero, la Chiesa intraprese la conversione forzosa dei popoli dell'Europa settentrionale e della penisola balcanica, combattendo insieme i residui culti pagani e le eresie che via via risorgevano o si manifestavano ex novo. In questo processo, a venire presi elettivamente di mira furono come si è detto i culti della fertilità, cioè quelli della Dea Terra partenogenetica e delle altre figure sacre della maternità e della resurrezione. Le dee collegate alla religione isiaca e le equivalenti grecoromane, come Cerere, Diana e Artemide, nutrici di tutte le creature, erano assai vicine, se non tutt'uno, con la dea-gatta egizia Bubastis, e in Egitto il gatto era notoriamente coperto di sacralità, tant'è che da morto veniva imbalsamato. Le immagini di queste divinità appaiono infatti molto spesso accompagnate da gatti. Inutile dire che i cristiani lanciati alla conquista delle campagne per “salvarle” dalla maledizione del paganesimo coinvolsero, nella demonizzazione delle dee, anche i loro felini, e soprattutto le gatte nere, particolarmente abili come cacciatrici di topi e ratti, che vennero molto spesso bruciate insieme con le streghe. Il Martello delle streghe è uno dei tanti testi di condanna e metodologia persecutoria delle streghe prodotti dalla cultura dell'Inquisizione. Ripercorriamo brevemente le fasi della sistematica repressione e distruzione dei suoi avversari organizzata dalla Chiesa. Toccò per primi agli ebrei, definiti deicidi, poi fu la volta degli eretici, vale a dire i cristiani che non fossero cattolici ortodossi, e infine, e più

largamente, dei residui pagani. Le sacerdotesse dei culti della fertilità, essendo per definizione pagane e, in quanto eredi dei culti delle divinità della morte e della rinascita, oggetto di timore reverenziale e santimonioso orrore, e oltretutto dispensatrici di rimedi in margine alla medicina ufficiale il cui patrono era il Cristo medico, furono le donne alle quali toccò il peso maggiore delle persecuzioni organizzate dall'Inquisizione. Ne furono travolte levatrici, profetesse e guaritrici, cosa che comportò disgregazione e crisi di molte comunità agricole. Dal XIII al XVII secolo, le donne mandate a morte con l'accusa di stregoneria furono circa otto milioni. Inutile dire che l'Inquisizione imperversò anche in tutte le regioni del mondo che vennero a mano a mano conquistate e colonizzate dagli europei. In Africa, in Asia, in America, come in Italia, in Francia, in Germania, in Polonia, in Russia, due furono i simboli contro i quali si appuntò la persecuzione cristiana: il demonio e il corpo della donna. La fisionomia del primo fu definita già nel 1233 da papa Gregorio IX con la bolla Vox in Rama, titolo desunto da Matteo, 2,18. Nella bolla si legge: “Un grido è stato udito in Rama... Rachele, che è la Santa Madre Chiesa, la Sposa del Cristo, piange i suoi figli che il diavolo colpisce e distrugge”. Il diavolo nella bolla di Gregorio IX compare ai suoi adepti in figura di grosso gatto nero, hispidus, ovvero coperto di pelo. Nella bolla il pontefice esortava i vescovi a tentativi di proselitismo come premessa alla conversione forzosa. Dalla Vox in Rama risulta evidente il nesso istituito dalla Chiesa tra i gatti e la stregoneria. Sono concezioni che hanno tuttora larga parte in molte tradizioni popolari. Il gatto nero che attraversa la strada porta sfortuna. Il culto di Bubastis, la dea-gatta egizia, è sopravvissuto a Yeper, l'attuale Ypres, in Belgio, fino al 1000 d.C., e fino a tempi recentissimi, e forse ancora oggi, vi si celebrava una “festa dei gatti” che venivano gettati dall'alto di campanili dai buoni cristiani (l'usanza aveva festoso corso in pieno XX secolo). Nel XV secolo, quando fu dato alle stampe II martello delle streghe, la situazione in tutta Europa era ancora una volta mutata a sfavore della Chiesa. I tentativi di conversione delle campagne si erano

infatti scontrati con le sempre più numerose rivolte contadine, collegate in varia misura ai tentativi compiuti dalle grandi proprietà agricole di imporre una maggiore redditività delle campagne. In Germania in particolare stavano prendendo forma i movimenti di rifiuto delle concezioni genericamente “gotiche “, estremamente rigide, e nel paese, che si apriva in ritardo all'Umanesimo, si delineavano quei movimenti che nel 1517 avrebbero avuto l'avallo delle 95 Tesi affisse da Martin Lutero alla porta della chiesa di Wittenberg. Fu in tale contesto che la Chiesa romana autorizzò l'Inquisizione a diventare operante nei territori tedeschi, dove in precedenza non era stata tollerata perché i principi ecclesiastici locali ne avevano già una propria; e se in un primo tempo essi non cedettero alle istanze di Roma, nel 1484 Innocenzo Vili con bolla papale provvide convincentemente a denunciare la stregoneria come congiura organizzata dall'esercito del diavolo contro il Sacro Romano Impero. La pubblicazione del Malleus Maleficarum, la cui prima edizione è del I486, rientra nel quadro di una problematica, appunto quella della stregoneria, che aveva dato vita a una scienza che teneva occupate schiere di eruditi, spesso il fior fiore dell'intellighenzia di allora. Gli orrori della caccia alle streghe si spiegano anche con la creazione di una vera e propria industria del massacro, fiorita sul tronco delle ideologie ufficiali. Vi erano giudici, esorcisti, boia, fabbricanti di pire e forche, fornitori di legnami, scrivani ed esperti che campavano sulla pelle dei sabbatici. Tuttavia, già all'inizio del XVII secolo, va detto, non mancò chi contestò queste barbariche prassi, come il gesuita Friedrich von Spee, il quale scrisse: «Mi è accaduto sovente di pensare che l'unica ragione per la quale noi tutti non siamo stregoni è che non siamo stati sottoposti a tortura». Come si è notato, l'altro simbolo-bersaglio della persecuzione della stregoneria fu il corpo della donna. Bisognava sottomettere la sua implicita, aprioristica incontrollabilità (corpo che non risponde ai ritmi della temporalità razionale, il tempo degli orologi, dei ritmi maschili produttivi), la sua malvagia impudicizia, la sua perniciosa procacità, il

suo erotismo presuntamente incontenibile. Il corpo della donna, come s'è detto, fin dal Neolitico era oggetto di timore reverenziale come simbolo della morte, ed è probabile che già al Neolitico risalgano i pregiudizi sulla donna mestruata (ancora oggi non deve fare la maionese: la farebbe “impazzire”) e il suo frequente isolamento (ancora oggi, tra gli agricoltori Dogon del Mali, le mestruanti sono relegate in apposite capanne ai margini del villaggio). Del resto, il corpo della donna è tuttora ritenuto peccaminoso per definizione, e infatti è l'oggetto elettivo della pornografia. Si pensi poi allo sprezzante e umiliante trattamento troppo spesso riservato dalla medicina ufficiale alle donne nella fase terapeutica e soprattutto in quella diagnostica. È evidente che l'inquisitore era semplicemente inserito in un contesto che ha tuttora largo corso. Il corpo della donna contiene “cavità” che in epoca medievale sono state identificate, in ambito germanico, con Hohle, grotta, termine assai vicino a Holle, inferno, equivalente dell'inglese bell, ancora inferno. Quanto alla domanda avanzata da Freud sul perché dello sperma freddo del diavolo che compare nei Sabba, Freud non seppe dare una spiegazione, che però mi sembra a portata di mano se si considera che il diavolo è per definizione il contrario, il rovesciamento di Dio, la faccia del Male nella medaglia la cui altra faccia è il Bene. Le streghe, le donne che lo seguivano ma che — secondo gli inquisitori — dovevano per forza di cose sentirsi peccatrici, non potevano non considerare il diavolo nemico in quanto divinità del Male, ritenuta l'altra faccia del monodìo, cioè del Bene. Pertanto, il diavolo, che con le streghe si congiunge nel corso del Sabba, non dà loro il calore dello sperma normale, ma il ripugnante gelo dello sperma diabolico. Lo affermano, tra gli altri, gli autori del Martello delle streghe e lo afferma il curioso inquisitore Pierre de Lancre, autore de L'inconstance des mauvais anges et démons. Impossibile, insomma, che le streghe al Sabba se la spassino. Potevano forse affermarlo, le povere donne sottoposte a orribili, sconcissimi tormenti? Pierre de Lancre, dotto abate consigliere del re di Francia, morì

nel 1630. Nel 1603 al parlamento di Bordeaux fu presentata denuncia contro «l'inquietante aumento del numero di streghe e stregoni» nella regione di Bayonne, il Labourd, e il consigliere, incaricato dell'inchiesta, svolse il suo compito con zelo esemplare: tra il 1609 e il 1610 le carceri rigurgitarono di donne e fanciulle arrestate su suo ordine. Pierre de Lancre compilò in merito un rapporto in un francese di straordinaria eleganza, e Jean d'Espagnet, suo amico e collaboratore, compose un poemetto in latino a mo' di introduzione. Ogni guerra è di religione. Rifacendomi al discorso di Clausewitz (ne parleremo nel capitolo dedicato espressamente alla guerra) sui limiti inevitabili della guerra, nel senso che quella “assoluta” significherebbe, oggi, la distruzione del mondo, va però rilevato che l'idea di guerra in teoria senza limiti, quale aspirazione non realizzata e, ripeto, oggi irrealizzabile - sussiste, e come! La sfera dell'economia - della concorrenza globale - tenderebbe a non ammettere limiti: ricorre a mezzi in apparenza “pacifici”, al sotterfugio, alla “scalata” delle posizioni avversarie, e se rifugge dall'aperta violenza (ma non sempre: le guerre di mafia insegnano; e il neocolonialismo comporta più morti — per sfruttamento, fame, sterminio o espulsione delle masse o loro esclusione dai mercati — di molte guerre combattute), lo fa per il timore di andare incontro a perdite eccessive e di attirarsi la collera del proprio o di altri popoli. Sono le stesse remore alle quali hanno dovuto e devono sottostare oggi le religioni, a esclusione dei momenti in cui hanno potuto e possono agire senza maschere. Il cristianesimo lo ha fatto nel corso della guerra senza limiti che ha condotto apertamente contro i paganesimi, in maniera meno esplicita (una guerriglia secolare) contro i giudei e, con la massima durezza e senza scrupoli di sorta, contro le stregonerie, come si dice in altri paragrafi. E lo ha fatto soprattutto rendendo possibili, e anzi benedicendole, quelle che chiamo neoconquiste. In quello che è oggi il Terzo Mondo gli europei tutti quanti, per primi gli spagnoli - seguiti o concomitati da inglesi, francesi, olandesi,

eccetera - furono portatori di una cultura inesorabilmente nemica, contrapposta, inconciliabile, rispetto alle culture locali. L'esempio più eloquente ne è fornito dal Sudamerica. Ma ovunque, nell'America Settentrionale, Centrale e Meridionale, la sorte degli indiani fu la stessa. In pochi anni, nel Nuovo Mondo ebbe luogo una rivoluzione paragonabile, per entità, a quella neolitica, ed essa costò la vita, nel giro di meno di due secoli, a oltre cento milioni di indigeni, pari ad almeno il 25% dell'intera popolazione mondiale all'epoca. I conquistadores erano transfughi che trovarono una terra di comodo esilio a spese di quanti già vi abitavano. Ebbe così inizio il grande esodo dall'Europa, destinato a continuare per quattro secoli. Europei emigrarono alla volta delle Americhe, dell'Africa, poi dei Mari del Sud, e ancora dell'Australia e di ogni isola scoperta e annessa a questo o quel regno. Questa fuga dal vecchio mondo, se mutò la faccia di interi continenti, diede a milioni di bianchi la speranza o l'illusione di una vita nuova, diversa, più libera e più comoda, senza guerre — o, al più, massacri di deboli selvaggi, e dunque il gusto di menar le mani Senza troppi rischi. Nei mondi nuovi, non ci sarebbero state persecuzioni, gli stati sarebbero rimasti lontani, le fatiche non più disumane (e in ogni caso delegate agli indigeni). E sotto i nostri occhi l'evidenza: il “sogno dell'uomo bianco” non si è realizzato affatto: nei luoghi “liberi” è subentrato lo stato, si sono perpetuati guerre, massacri, intolleranze; e l'uomo bianco si è attirato l'odio delle popolazione locali che ha obbligato con la forza alla “civiltà”. Vero è che anche le società antiche avevano praticato l'invasione di territori alieni, obbedendo a moventi di vario genere: affermazione e glorificazione del potere dei gruppi sociali dominanti, desiderio di impossessarsi di ricchezze e fonti di materie prime, in particolare quella rappresentata dalla principale forza lavoro dell'epoca, gli schiavi. Ma appare subito evidente una differenza essenziale tra la conquista antica e quella post-medievale, segnatamente rinascimentale, che vorrei appunto indicare come neoconquista: intesa, questa, alla sottomissione

del mondo intero e all'imposizione della propria cultura (Weltanschauung, concezione religiosa, costumanze, ecc.) a gruppi, tribù, nazioni, regni... La neoconquista fu infatti caratterizzata da totalitarietà ed esclusività, in pieno contrasto con la tolleranza, sia pure parziale, della paleoconquista. La neoconquista è stata il germe del colonialismo moderno e ha avuto come legittimazione, come ideologia portante, l'affermazione della superiorità razziale, culturale, morale, religiosa, cioè la rinuncia all'universalismo che caratterizzava la paleoconquista. Roma non aveva calpestato l'Egitto tanto da ridurlo in polvere, pur facendone una provincia dell'impero; non ne aveva sterminato gli abitanti; ne aveva accolto gli dei, scoprendo l'affinità, se non l'identità, tra le divinità capitoline e quelle dell'altra sponda del Mediterraneo, e lo stesso aveva fatto in precedenza con le divinità celtiche prontamente identificate con le latine. Roma aveva riconosciuto l'alta valenza della cultura egizia, dotata di un'originalità indiscutibile e fascinosa. E Roma, ferus victor, si era lasciata sedurre e “captare” dalla cultura greca. Perché questa enorme trasformazione avesse luogo, perché la nuova visione del mondo trionfasse, perché la sottomissione di interi continenti fosse possibile, bisognava conoscerne le terre, gli abitanti, il clima, la flora, la fauna, la geografia, le risorse, le potenzialità, le debolezze e le forze. E lo strumento di conoscenza che rese più rapido, e forse anzi rese possibile e autorizzò il diluvio destinato a distruggere i mondi antichi e la loro varietà, fu la cronaca. La cronaca medievale e post-medievale era pur sempre una esposizione di paradigmi, di nobili archetipi, la messa in scena di “uomini illustri”. Ed erano questi, nella visione degli autori, a generare gli eventi, avvalendosi di altri uomini concepiti quali meri strumenti variamente e agevolmente “spendibili”. La cronaca, in altre parole, considerava e, dove sussista, considera secondario il fatto storico (con la premessa che il “fatto” esiste | solo in quanto sia detto, narrato, cantato, come ben sa qualunque | giornalista

moderno). Un esempio possono fornirlo i due libri veterotestamentari 1 Maccabei e 2 Maccabei che illustrano la lotta dell'ortodossia ebraica contro l'ellenismo ormai imperante. In effetti, i loro autori intendevano raccontare una storia religiosa, ricalcando antiche cronache di Israele. I barbari che premevano ai confini di un impero, quello romano, niente affatto unitario, niente affatto monolitico sotto il profilo linguistico (il latino si era, è vero, universalizzato, ma aveva principalmente la funzione di lingua franca e a conferirgli valenze cogenti, quelle dell'indispensabilità e obbligatorietà ufficiosa oltre che ufficiale, fu l'alleanza della burocrazia dell'impero in decadenza con la Chiesa), figurativo, legislativo, religioso, culturale, genericamente culturale: quei “barbari” erano integrabili nel suo contesto con relativa facilità. Dai paleoconquistatori, le culture locali non venivano cancellate, bensì modificate, riadattate, integrate. E del resto la loro cancellazione, che avrebbe richiesto lo sterminio sistematico o la riduzione in schiavitù di tutti gli indigeni, sarebbe stata impossibile con i mezzi dell'epoca. Roma deportava schiavi, ma schiavistici erano anche i regni e gli aggregati tribali, le nazioni alle quali imponeva la propria supremazia. Il mondo restava nuclearmente immutato: cambiavano soltanto i suoi connotati superficiali. Situazione che mutò radicalmente e improvvisamente quando sulla scena mondiale comparvero nuovi strumenti di sottomissione e dominio: inedite strutture sociali, imprecedute concezioni del potere e dei rapporti tra i singoli, eserciti creati ex novo, armi inventate proprio ai fini di ben diverse conquiste. Componenti che tuttavia non sarebbero bastate, da sole, a conferire carattere totalitario alle neoconquiste. Così per esempio i nomadi cavalcatori asiatici poterono, certo, invadere Russia, Cina, parte dell'Europa occidentale, ma la loro spinta fu di breve durata: i capi mongoli divennero sovrani cinesi, la Russia risorse. Ma appunto le invasioni mongole costituiscono, in un certo senso, l'anello di congiunzione tra paleo e neoconquiste. I mongoli si urtarono contro una visione del mondo per loro di difficile accesso, incentrata sulla fede in un unico dio, che d'altra parte corrispondeva

all'impreceduta solidità di mura erette a difesa di strutture urbane inedite, le “città da guerra”; si trovarono di fronte a una visione stanziale e produttiva che si era definitivamente imposta sulle campagne, sul feudalesimo, sull'economia rurale. I mongoli si trovarono, in altre parole, alla sopraffacente presa con regioni ampiamente urbanizzate e pertanto in larga misura non assudditabili, e nelle quali vigeva, sia pure non ancora esplicitamente formulato, il principio del cuius regio, eius religio. Il punto di svolta definitivo, la componente decisiva, la premessa sine qua non delle neoconquiste fu l'affermazione dei monoteismi nel mondo tardoantico e medievale. Alle spalle delle invasioni e colonizzazioni medievali e ancora più post-medievali furono, accanto a mezzi più efficaci, inedite spinte ideologiche, cioè appunto i monoteismi cristiano e islamico con i corollari che ne derivarono. Vero è che l'affermazione definitiva del monoteismo fu preceduta, in ordine di tempo, dalla scissione della sacralità in Bene e Male, cosa che avvenne per esempio nel mondo iranico, nella cui E mitologia zoroastriana perenne era la lotta tra Angra Mainyu j (Ahriman), lo spirito maligno e distruttore, e Mazda (più tardi Ahura Mazdah, Ormazd), la divinità suprema, onniveggente e creatrice. È assai probabile che anche altrove siano stati compiuti tentativi di concentrare le forze metafisiche in un “divino”, in un unicum, e del resto era inevitabile che sovrani miranti a un dominio assoluto cercassero di imporre un loro monoteismo. Lo fece, a quanto sembrerebbe accertato, in Egitto Amenofi IV (1372-1354 a.C.) che assunse il nome di Ekhnaton e tentò di fare prevalere, sulle molte divinità del clero, dei nomoi, delle città e dei villaggi, Aton equivalente, sulla riva occidentale del Nilo, di Amon-Ra, tradizionale signore degli dei, padre della dinastia; il programma fu però respinto e invalidato dal potentissimo clero. Lo stesso tentativo di erigere un dio locale a dio unico fu compiuto, stando almeno alle varie redazioni bibliche, dal Libro di [..] alle versioni neotestamentarie, in ambito inizialmente egizio, da Mosè forse rifacendosi a una divinità adorata dai nomadi ebrei, cioè Geova,

prima del loro insediamento nella terra dei faraoni. Lo stesso tentativo fu ripetuto, con assai maggior successo, dagli arabi che avevano accolto la predicazione di Maometto. Il monoteismo, cioè l'attribuzione di tutti i poteri a un dio che era un'invenzione sostanzialmente letteraria, orale o scritta che fosse, con la sottomissione e la messa al bando di altre figure metafisiche, se fallì in Egitto, in Palestina restò confinato a un esiguo gruppo nel cuore di un mondo già largamente ellenizzato; e se la divinità originariamente geovita riuscì, nella sua versione neotestamentaria, a imporsi nel mondo antico-classico mediante un'opera di indefesso apostolato, fu, ripeto, grazie all'alleanza tra impero e cristianesimo. Ma il monoteismo dovette lottare a lungo per imporsi definitivamente sia nel mondo romano che in quello musulmano. E riuscì a spuntarla solo a patto di assumere i panni del cesaropapismo o di trasformarsi in legislazione e costumanze coraniche, in altre parole a patto di assurgere, in ambedue i casi, a centro dottrinario, cultuale, legale, culturale, tale esplicitamente imposto e propagandato con mezzi quasi sempre violenti. E fin dall'inizio, nella sua fase di concorrenza con altre fedi, il monoteismo, romano o musulmano che fosse, si rivelò intollerante e spietato. Se insisto su questo concetto, è perché solo così si spiega, a mio parere, l'affermazione delle neoconquiste. Le quali, a differenza delle paleoconquiste che si svolgevano in lunghi archi di tempo, ebbero sempre carattere di subitaneità e distruttività. Inutile soggiungere che anche il confronto tra monoteismi è stato sempre particolarmente cruento, fanaticamente accanito (cristianesimo e islamismo). La scissione tra Bene e Male, raffermato trionfo del Bene, il relegamento del Male in una dimensione di inferiorità ctonica (nonostante sopravvivesse come Satana o Shaitan) in attesa della sua conclusiva cancellazione dall'universo (Giudizio finale), ha comportato l'instaurazione di uno stato di guerra perenne, in tutti 1 territori che ne sono stati toccati: tale per cui i momenti di pace sono diventati brevi interludi, mere eccezioni. Per restare all'ambito

cristiano, è evidente essere fondatissima l'affermazione di Benedetto Croce che “non possiamo non dirci cristiani”. Noi oggi, e prima di noi i conquistadores, abbiamo una visione omologatrice, unidimensionale, inquadratrice, in cui continuo e interminabile è lo scontro tra il Superiore e l'Inferiore, dove il secondo cerca con ogni mezzo di sostituirsi al primo. Superfluo anche sottolineare che si tratta dell'esasperazione di una concezione rigidamente gerarchica del mondo, che ha trovato la sua giustificazione, la sua ideologia portante, appunto nella lotta tra il Superiore, inteso come buono per definizione, e l'Inferiore, per definizione concepito come cattivo. Per l'universo cristiano, imbevuto di una fede monoteistica trionfante, prescrittivamente integralista, intollerante, dedita all'apostolato più o meno forzoso, corrispondente a una Weltanschauung basata sull'affermazione dell'Uno, dell'universale ritenuto senz'altro equivalente al Bene, era indispensabile abbattere con la forza e con la persuasione il paganesimo, l'idolatria e i suoi simboli (templi, culti, superstizioni sostituite da altre, più efficaci, come il culto dei santi), e imporre un innovativo racconto che aveva radici nel mito ma in pari tempo ne era la negazione e la riduzione a favola. Ma si trattava anche, in statu nascenti, di una demitizzazione del mondo, della sua desacralizzazione: gli dei vennero assorbiti nella figura dell'unico dio, cosa che comportò l'esordio di una ancora inesplicita, ma non per questo meno concreta, laicizzazione. Da parte musulmana, lo sforzo fu del pari volto alla riduzione del molteplice all'Uno, alla creazione di un dominio universale, alla soppressione dell'altro ipostatizzata dall'infedele; il corollario fu il predominio di quello che era ed è tuttora il più efficace dei cinque pilastri dell'Islam, quello che maggiormente incide nei rapporti di esso con il mondo esterno: la jihad, che è, sì, alla lettera, sforzo di affermazione della fede, ma può trasformarsi in guerra aperta, e giustificatamente senza limitazione di mezzi, se a proclamarla è un'autorità religiosa-politica. In entrambi i casi, venne in essere un accorpamento della sacralità diffusa, di numi, dei, spiriti, geni, credenze locali, in un'unica santità

con la quale coincideva senza residui la struttura sociale. Fu “sacrale” l'invasione cristiana della Palestina, la riconquista dei Luoghi Santi. E “sacrale” fu la furia con cui l'Islam si avventò sui paesi vicini prima e sull'Europa e sull'Asia poi. Le guerre di conquista divennero guerre di religione, e religiose erano, e restarono, le ideologie. Le teologie sono infatti le madri delle moderne logie, tali una volta decapitato l'ormai ingombrante théos. Per questo la penetrazione degli europei nel mondo degli Aztechi, degli Incas, dei pellerossa delle Grandi Pianure, e ancora degli africani, degli australiani, degli eschimesi, dei fueghini, degli araucani, dei siberiani a opera dei russi, assunse fin dall'esordio proporzioni apocalittiche, sempre e comunque integralistiche, totalitarie, cruente e intolleranti. Né diversamente si comportarono gli islamici che, messo piede in Africa, diedero avvio a forme di riduzione in schiavitù senza precedenti, in pari tempo obbligando alla conversione e all'obbedienza al loro unico dio non concomitato, in teoria almeno, da co-divinità. Gli islamici imposero sempre modelli sociali ignoti alle popolazioni vittime, come l'inferiorità costuma- ria e legale della donna. Per le popolazioni assoggettate, che a compiere l'opera di conquista fossero europei o arabi, fu comunque l'inizio di quella tragica avventura che segnò irreversibilmente uriepoca destinata a mutare faccia al mondo intero: e con conseguenze catastrofiche, oggi sotto gli occhi di tutti. «La Chiesa ha predicato amore e seminato l'odio più mortifero, ha annunciato la vita e diffuso la morte più sanguinosa». Hans Kùng, teologo cattolico, Riformare la Chiesa oggi, 1990.

Parlo, ripeto, dell'epoca coloniale e post-coloniale, degli imperialismi moderni, pre-condizione della rivoluzione industriale e, ancora, del sempre più rapido declino e scomparsa dei “primitivi”, dei “selvaggi”: di quello insomma che è il definitivo trionfo della “civiltà”, della storia, del “progresso”. Le religioni mirano a sopprimere il mito, a sostituirlo con forme discorsive, teologiche. Il tramonto del mito non si verifica mai. Ha luogo semplicemente l'esorcismo del mitico. Avviene, in altre parole,

che il mito venga requisito, monopolizzato, relegato. Avviene che il mitico sia vissuto, come momento ludico, dal potere; che sia presuntamente vissuto come distruzione, viaggio nell’oltretomba, dissoluzione, dalla follia e dalla perversione, entrambe decretate realtà; che sia invece contemplato come speranza, nostalgia, possibile redenzione, negazione, fuga, dalla dimensione della póiesis. E avviene che, accanto e attorno a questi nuclei ormai “specialistici”, ciascuno a suo modo diverso, ciascuno per motivi differenti scisso dal resto del corpo sociale, ci sia - e si dilati senza posa - l'universo delle interpretazioni, vale a dire l'impositiva, rassicurante Cultura che sostiene la prevalenza della ratio, del furor logicus, su tutte le altre esplicazioni dell'uomo, la Cultura che scaccia notte e tenebre per far trionfare il giorno e la lucidità; la Cultura che tutto spiega, tutto riduce a oggetto, a caterva di oggetti ugualmente fruibili (consumabili), nella speranza, continuamente vanificata, di drizzare un muro definitivo, di sigillare per sempre l'abisso, di conquistare l'oscurità, l'abnorme, l'impenetrabile, in una parola di colonizzare il Residuo. «Il dittatore che vuole essere incoronato non si presenta più al popolo con al fianco un vescovo: preferisce un premio Nobel. Il grande ricco che ha bisogno di farsi perdonare i suoi peccati non fonda più una abbazia, ma un museo... Oggi e la cultura che ha assunto il ruolo di “oppio dei popoli”». Jean Dubuffet, Asfissiante cultura, Parigi, 1968.

Religioni: uguali e diverse. Norma di ogni religione è il proselitismo. Il giudaismo è l'unica religione monoteista che almeno oggi (ma non sempre è stato così) non si dedichi programmaticamente al proselitismo, la tendenza cioè alla diffusione reclutando sempre nuovi adepti con la persuasione, la concessione di vantaggi o prerogative, o con la forza. In generale, le religioni tribali e nazionali mostrano punte o poche tendenze a estendersi al di là della comunità sociale che le pratica, mentre invece ogni religione sovranazionale esercita il proselitismo, muovendo dalla convinzione di essere l'unica vera

religione, valida per ogni essere umano, e di norma si dedica al proselitismo in forma organizzata (missionarismo), addirittura (gesuiti) ricalcando quella degli eserciti. Le religioni pagane esercitavano forme di propaganda, senza però pretendere di essere l'unica via alla salvezza, al contrario delle religioni sovranazionali che, una volta adottate dallo stato, si dedicano spesso alle conversioni obbligatorie (cristianesimo e islam) in regioni sottomesse o colonizzate. Il giudaismo, al pari dei politeismi, si è sempre limitato a proporre la conversione, e a chi accettava l'offerta, diventando gèr (proselito), si richiedeva la circoncisione, un bagno rituale e un’offerta al tempio. Jahvè, forma iniziale della divinità ebraica, non imponeva conversioni: dio tribale, guerriero, comandava la messa a morte dei nemici di Israele in quanto nazione, restando indifferente alle loro pratiche cultuali. I giudei hanno quasi sempre accettato e raramente imposto conversioni. Principio che può sembrare smentito dalla conversione al Giudaismo del regno dei Khazary (Cazari) popolazione che nel VI secolo d.C. fondò un grande stato nelle steppe dell'odierna Russia tra il Volga e il Dniepr. Inizialmente pagani, i Cazari, sottoposti alle minacce dei Peceneghi e dei Russi, assimilarono elementi di cultura giudaica, bizantina e musulmana. La leggenda vuole che il loro khagan (sovrano) abbia optato a favore del Giudaismo, quale religione “prediletta”, in seguito a un confronto, da lui organizzato, tra sapienti ebrei, sacerdoti cristiani e mullah islamici. I primi si dichiararono contrari al proselitismo, cristiani e musulmani volevano invece la conversione forzosa del regno. Il khagan decise che il culto migliore era il giudaico. All'atto dell'iniziazione, al gèr viene ricordato che gli israeliti sono un popolo perseguitato; il sottinteso è che non gli è lecito perseguitare altri gruppi, ma solo difendersi da aggressioni. È opportuno precisare che il termine proselitismo ha precise connotazioni militanti: dal greco proselytos, nuovo venuto, straniero stanziatosi a viva forza su un territorio alieno. Ogni religione sostiene che il suo insegnamento è per figure e giunge anzi a respingere, fingendo addirittura orrore, l'interpretazione

letterale. Il dio è sempre nascosto sotto il suo contrario (come l'Essere sotto l'esser-ci di Heidegger): deus absconditus sub contrario. E il dio c'è: “realtà” che trascende ogni negazione, beffa, rifiuto. Realtà che impone la credenza che si sottrae a ogni razionalizzazione. Prima facie, ogni religione va oltre il principio di realtà, fino alla “verità assurda”. Propone cioè una reductio adabsurdum. E uno dei pilastri della fede, almeno cristiana, è il credo quia absurdum: il paradosso, dunque. In effetti, avviene esattamente il contrario. La religione — nessuna esclusa — non esce dalla logico-discorsività, attinge tutt'al più al surrealismo senza sapere né potere addivenire alla dimensione poetica, all'uscita dal Discorso. Nella sua reductio ad absurdum c'è, sì, reductio, ma ad unicum, la dimensione del «credo»: della metafisica. In molti ambiti linguistici non esiste l'idea della credenza che pertiene al discorso occidentale. Per esempio, tra i già citati parlanti ewe dell'Africa occidentale. E sono patetici gli sforzi dei missionari cristiani impegnati nel tentativo di insegnare il “credo” ai soliti, poveri negretti. Il credo, dimenticano i buoni padri, non può essere scisso dall' io («io credo...»). Ma per gli ewefoni, Xio non è immutabile, non è il motore immobile di una trinità, soggetto, verbo, oggetto. L'equivalente ewe dell'io che va ad attingere l'acqua al pozzo, non è un «io vado a...», ma una delle persone (o maschere) che partecipano dell' azione e di chi la compie. L'io ewe è variabile — come è, in effetti, ovunque e per tutti. Ma l'Occidente si fonda sull'identità, cioè sul Discorso, sulla sintassi, sulla logica del terzo escluso. Gli Ewe del cosiddetto Eweland dell'Africa occidentale tra la foce del fiume Volta e quella del Mono (zona oggi divisa tra il Togo e il Dahomey) parlano una lingua appartenente alla famiglia Kwa delle lingue sudanesi. Inutile dire che la loro ricca cultura (ceramica, metallurgia, oreficeria, e soprattutto una complessa letteratura orale) è stata in larga misura travolta dalla colonizzazione e dalla neocolonizzazione. Notizie in parte ricavate dal Dizionario Enciclopedico Italiano,

Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1970. Credere 1. Il mito non è credibile, per la semplice ragione che si presenta, è phanes, rivelazione immediata che si traduce, è vero, in mythos, in racconto (mitico). Ma neppure questo può essere considerato “verità” intesa secondo l'antichissima ma sempre impositiva adaequatio intellectus et rei, la puntuale corrispondenza cioè della mappa al territorio. Il credere, l'accettazione dell'equivalenza, sussiste a patto che la parola sia presuntamente sempre detta, sempre parlata, anziché essere parlante. A patto, dunque, che si supponga la parola derivata dagli oggetti, e non già quale denominatrice e istitutrice degli oggetti. La parola non delucida sé stessa: la parola è. Ma nessuna parola resta istituita nei tempi da essa stessa istituiti. Nessuna parola, nessuna traduzione può prescindere da tali presupposti. «Verità: divinità allegorica, figliuola di Saturno, o del Tempo, o di Giove, e Madre della Virtù. Secondo Filostrato, rappresentavasi sotto la figura di una donna dall'aria maestosa ma nuda perché imponevasi senza necessità di addobbi». A.L. Millin, Dizionario delle favole, tradotto in italiano da Celestino Massucco, Piacenza 1807.

Credere 2. Vuol dire far credito, prestar fede, affidarsi alla norma, al decalogo. Non “crede” chi si rifiuti di essere suddito. Tutto e realmente possibile quaggiù, dove gli antichi iddìi dei pastori, il caprone e l'agnello rituale, ripercorrono ogni giorno le note strade, e non vi è alcun limite sicuro a quello che è umano verso il mondo misterioso degli dei e dei mostri. Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945

La chiesa perdona Galilei. Galileo ha dovuto subire varie riabilitazioni. Monsignor Bernard Jacqueline ci dice che «la memoria di Galileo fu riabilitata nel 1734». Le opere che patrocinavano la teoria

copernicana, come il Dialogo, dovettero però aspettare un altro poco, fino al 1757, e l'autorizzazione ad accettare tale teoria fino al 1822. Per limitarci solo al secolo XX, già durante il Concilio Vaticano I si levò qualche voce che proponeva un «omaggio ripara- torio alla memoria di Galileo». Nel 1968, il cardinale Kònig parlava esplicitamente di una riabilitazione di Galileo, ma l'atto di «riabilitazione di Galileo», che in questi ultimi anni ha fatto periodicamente la propria comparsa sui mezzi di comunicazione, si deve soltanto a Giovanni Paolo IL Nel 1979, all'Accademia Pontificia delle Scienze, Giovanni Paolo II diede inizio a una cinica manovra con la quale invitava teologi, scienziati e storiografi a studiare a fondo il caso Galileo. «E in un riconoscimento leale degli errori, da qualsiasi parte vengano, facciano scomparire le differenze derivanti da questo caso che ostacola ancora, in molti spiriti, una concordia fruttifera tra scienza e fede». Si trattava, per Woityla, di giungere a una «soluzione onorevole, uno stato d'animo propizio alla soluzione onesta e leale di vecchie contrapposizioni». Un punto di partenza dal quale risultava con chiarezza che non si trattava semplicemente di giudicare e valutare i propri «errori». Dopo aver accennato all'iniziale amicizia di Galileo con i gesuiti, verso i quali sarebbe stato tanto in debito, per esempio padre Wallace conclude: «Anche qui, come avrebbe messo in rilievo padre Grassi, inquisitore, dopo il processo, la personalità di Galileo, per tacere del suo orgoglio e della sua arroganza, contribuì alla sua perdita». (William A. Wallace, teologo americano, professore emerito di Filosofia e Storia della scienza, Catholic University of America, Washington D.C.).

GUERRA RELIGIONE POTERE

Neolitico: invenzione della genesi. L'aratore stupra la madre, la terra. Il suo è sempre incesto. Ed è conoscenza. La conoscenza è una conoscenza carnale, copula di soggetto e oggetto, che simbolica- mente fa dei due una cosa sola. Cognitio nihil aliud est quam coitio quaedam curri suo cognobili. «Sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Matteo 1,18). «Ed essendo la favorita a tavola con Sua Maestà, essa parlò e disse a Sua Maestà: “Giurami per il nome del dio che farai ciò che io ti dirò. [Il Faraone assentì e la favorita gli disse:] “Fa' abbattere i due cedri e se ne fabbrichino dei bei cofani”. E qualche giorno dopo, il Faraone inviò abili legnaioli ad abbattere i cedri. Ed era presente a vederlo fare la sposa reale, la favorita. Una scheggia ne volò, penetrò nella bocca della favorita, la quale subito si accorse di essere rimasta incinta... Ed essa partorì un bambino di sesso maschile, e andarono da Sua Maestà a dirgli: “Ti è nato un maschio!”». Favola dei due fratelli, racconto egizio della XIX Dinastia, 1300 a.C. circa. «Mentre un aratore solcava la terra nei pressi della città di Tarquinia, da sotto il vomere sorse un bambino con i capelli grigi del saggio e fu ricevuto dai dodici re della Decapoli etrusca, ai quali insegnò l'arte di indovinare». A.L. Millin, Dizionario delle favole, trad. di Celestino Massucco, Piacenza 1807. «Ma se Cristo non e risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede» (Giovanni, Prima Lettera ai Corinzi 13,12).

La guerra non è spiegabile con il ricorso a presunti istinti bellicosi: è un'attività troppo complessa, multiforme, negatrice della coerenza interna dell'istinto. La guerra non è riducibile alla violenza: è la conclusione di un movimento che, a partire dal Neolitico, attraversa,

condiziona, in larga misura definisce, la “civiltà del discorso”. La civiltà industriale del carbone e dell'acciaio si è alimentata con la produzione di cannoni, carri armati, incrociatori, velivoli. Per fabbricarli, occorrevano gli eserciti dei lavoratori, e oggi occorrono i loro equivalenti, gli automi. Per avere gli uni e gli altri, i presupposti erano: l'accettazione — l'introiezione — del principio della produttività, cioè la finalizzazione totale dei mezzi delle società precedenti. La strumentazione tecnica è andata prendendo il posto di altri scenari, in parte ancora simbolici (anche se assediati dal pensiero discorsivo, dalla ratio ormai intronizzata). Ha prevalso il pensiero unico i cui criteri di valutazione sono produttività, efficienza, rispetto della gerarchia. Le religioni tendono via via a ridursi a\Y unicum, il potere al dio unico del potere stesso: una costellazione di monopoli, province al cui centro si è imposto il mercato con i suoi automatismi. Non accettarne le regole significa relegarsi nella marginalità. E alle regole è sottesa la prescrizione dell'esecuzione, l'obbedienza ai manuali, leggi, istruzioni per l'uso, sistemi didattici, medicalizzazione: imposizioni dettate dalle mille istanze di distribuzione della normalina, le istanze dell'inquadramento e della mobilitazione perenne, stabilimento, azienda, scuola, caserma, struttura sanitaria, struttura carceraria, manicomio, ricovero... Il buon cittadino obbedisce a un fitto tessuto di imposizioni e insinuazioni: è il consumatore-mobilitando, il compratore-soldato, che accetta, per condizionamento ormai plurisecolare (ma sempre più intenso con l'avanzare della “modernità”) le prassi giustificatone intese a sbarazzarlo dai sensi di colpa (assoluzione per acquisti voluttuari come pure per l'uccisione del nemico a comando). La guerra non consiste soltanto di battaglie, secondo l'interpretazione che molto spesso ne danno gli storici che non possono, condizionati come sono dal loro ruolo, quello della fattualità, non focalizzarsi sull'evento suppostamente culminare. Non sanno cioè uscire dal letteralismo. Ma il letteralismo è la negazione di quello che

vien detto inconscio e dunque dell'asse sul quale si incentra la vicenda umana: il simbolismo. La storiografia ha elevato a proprio modello la scienza esatta, la mathesis. Va alla ricerca della Verità - il fatto senza sfumature. Laddove il simbolico oscilla tra vedere e non vedere, la scienza esatta, e la storia con essa, prende la rappresentazione per realtà, vuole dare concretezza ai sogni, descrive un mondo di materialismo astratto. «L'inconscio è la vera realtà psichica». Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni.

La guerra non è mai in effetti alcunché di assoluto: la sconfitta non è mai totale (implicherebbe, in tal caso, la sparizione fisica del nemico, distrutto fin l'ultimo uomo, fin l'ultimo oggetto). Ne consegue che «le probabilità della vita reale prendono il posto dell'estremo e dell'assoluto del concetto». Si afferma qui l'obiettivo politico della guerra: «se lo scopo dell'atto di guerra è un equivalente dell'obiettivo politico, quest'atto si farà meno imponente col diminuire dell'obiettivo politico. Questo spiega perché, senza che vi sia contraddizione, si possono dare guerre di tutti i gradi e di tutte le estensioni, dalla guerra di sterminio alla semplice ricognizione armata». Karl von Clausewitz (1780-1831), Deila guerra, Libro I, 1832 (postumo). «Alla domanda: bisogna dire arte o scienza militare? Clausewitz risponde che la guerra somiglia assai da vicino al commercio». Friedrich Engels, Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und der Staates (1884).

Ogni “arte della guerra” propone una ricetta unica e indiscutibile: una eziologia, una diagnosi e una terapia, ciecamente fedele alla componente immaginifica, da magicien con tanto di cilindro e coniglio, dell'interpretazione storica. Ma inevitabilmente, nella cronaca presuntamente imparziale, oggettiva, si inserisce l'invenzione. E la

scienza moderna, letteralistica — prende per “reali” le cosmogonie confezionate dagli astrofisici - discende direttamente dal letteralismo della Riforma e della Controriforma, entrambe estreme decapitatrici del simbolico, già del resto ucciso dal cristianesimo senza aggettivi: è la ricerca del Gesù storico, al quale è attribuito un luogo, un mese, un giorno, un'ora della nascita. La differenza tra il guerriero tribale e il militare va ricercata nel fatto che, ferocissimo, il primo non si cura sostanzialmente di sterminare senza residui i nemici; anzi, che questi in parte o compietamente sopravvivano è la condizione della sua ferocia. È noto che, tra i cheyenne, non contava tanto l'uccisione del nemico, quanto il “segnare punti”, cioè penetrare tra gli avversari e toccarli con un bastone. Crudelissimo, il vendicatore non eliminerà l'intero clan avversario, ma eserciterà la vendetta su questa o quella generazione, su questo o quel rampollo, secondo un complicato cerimoniale di regole varianti da ambito ad ambito. Valorosissimo, il cavaliere rischiava la vita per un nonnulla: abbatteva l'avversario, ma non di rado lo risparmiava. Nel frammento di poema epico in Old Englisb noto col titolo di La battaglia di Maldon si narra come, nel 991, regnante Aethelred II, a Malden, nell'Essex, si combattè una battaglia tra i difensori dell'Essex e un esercito vichingo. Alla testa degli inglesi era Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, duca di Essex. I normanni erano sbarcati all'estuario della Pan te (l'attuale Blackwater), accampandosi sull'isola di Northey, per cui erano separati dagli avversari da un braccio del fiume. Esisteva un unico guado, e i vichinghi chiesero che fosse loro concesso di superarlo perché si potesse combattere alla pari. Beorhtnoth accettò la sfida con un gesto di cavalleria del tutto coerente con l'epoca e dunque con il significato della guerra intesa ancora come ludus, nella quale il carattere ritualistico aveva, se non la prevalenza, per lo meno l'equivalenza con l'aspetto utilitaristico. La conseguenza fu la sconfitta e il massacro degli inglesi; e ne La battaglia di Maldon, infatti, l'autore esprime caute critiche all'operato del comandante inglese, che definisce lofgeornost, “desiderosissimo (o troppo desideroso) di gloria”: caute,

perché egli stesso condivide in sostanza l'atteggiamento del duca sconfitto. Finché si continui a considerare dall’esterno il processo sia di incorporazione del proprio simile a opera del cannibale, sia l'atteggiamento del guerriero e i molti altri comportamenti che hanno il proprio movente nella rivelazione, non se ne viene a capo: esso appare, secondo la classica separazione di soggetto e oggetto, qualcuna mera trasformazione della materia d'un corpo in un altro: di polvere in polvere. Nulla, secondo questo approccio, “appare"; nulla si rivela. È necessario, per esso, il ricorso alle spiegazioni antropologiche; e a chi vi si adegua, sfugge che il “senso” del cannibalismo, della violenza in generale, della «contemplazione della morte», è un atto di rievocazione, di ri-scoperta di quel qualcosa che sta nascosto nel profondo: il Phanes arcaico, l'epifania. Ma è anche la sua (inutile) negazione, il suo (presunto) superamento. Ancora all'epoca sua Clausewitz, teorico della guerra moderna, per così dire razionale, doveva polemizzare con i militari di tradizione cavalleresca, ponendo l'accento sulla necessità di travolgere senza pietà le forze dell'avversario. Nel 1914, e fino ad almeno il 1916, gli eserciti contrapposti sui fronti della Prima guerra mondiale esitavano a tirare, con le artiglierie, sui rispettivi Stati Maggiori. D'altra parte, il militarismo, cioè l'uso a fini politici delle tendenze ritualistiche o, se si vuole, del fascino esercitato dall'aldilà sull'individuo, presuppone il persistere di atteggiamenti del genere: il militarismo è l'azione militare propria di un'epoca storica in cui il fine della guerra già trascende le manifestazioni della guerra, in cui il combattente esiste ancora, in cui è tuttora necessaria la mobilitazione degli individui, che è quanto dire la messa in opera di complessi meccanismi intesi a persuaderli della necessità del sacrificio, cioè della rinuncia al “sé” in nome di ideali superiori che equivalgono a sospensioni del tabù che copre la violenza. La competitività economica, intesa come “duello”, favorisce indubbiamente il processo perché fornisce un accenno di “ebbrezza”, il senso del gioco e del rischio.

«La guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza». Karl von Clausewitz. Clausewitz si abbeverò a Kant e a Fichte, ma influenza decisiva sul suo pensiero esercitò, oltre a Montesquieu, Niccolò Machiavelli. Anzi, si può dire che Clausewitz abbia ripreso l'opera del fiorentino, proseguendola in un campo inusitato e più che altro, fino a lui, sottinteso. Se, prima, di guerra si parlava era infatti per accettarla come la successione dei giorni e delle notti; si tentava, al più, una meteorologia, una climatologia della guerra, ignorando però la fisica, la costituzione reale di nubi e acque. L'esposizione della teoria di Clausewitz non è quindi l'enunciazione di un metodo o di un insieme di ricette per condurre guerre di tipo diverso, o per agire nelle differenti situazioni del conflitto e forme del combattimento; Clausewitz pone l'accento sulla diversità che corre tra essenza e teoria della guerra vera e propria. L'essenza ci rimanda alla guerra assoluta o all'assoluto della guerra (che non va confusa con l'odierna guerra totale). In altre parole, allo “sviluppo all'estremo” di tutte le potenzialità della guerra; alla violenza pura. Sviluppata, la violenza porta all'annientamento dell'oggetto preso di mira (l'avversario); ma ovviamente ciò non può non generare una reazione: il movimento è bipolare, non meramente negato rio; e ne deriva il conflitto. La storia della guerra non può essere disgiunta da quella degli avvenimenti politici, ma soprattutto non può essere compresa se non nel contesto della cultura tutta quanta. Se, «quanto agli obiettivi politici» della guerra, «il governo è il solo a decidere... le passioni chiamate a infiammarsi nella guerra devono preesistere nel popolo impegnato; l'estensione che il gioco del coraggio e del talento assumerà nel dominio del caso e delle sue vicissitudini, dipenderà dal carattere del comandante e dell'esercito». E quindi inevitabile il militarismo, la preparazione delle «principali potenze morali» fin dal tempo di pace. Anzi, per la definizione stessa di guerra, non esiste per il militare «la pace»; esiste solo la nonguerra, la tregua armata.

Ancora Clausewitz, Della guerra. «Noi diciamo», suona la definizione di Clausewitz che aveva entusiasmato Engels, «che la guerra non appartiene al dominio delle arti e delle scienze, bensì a quello dell'esistenza sociale. Essa è uno scontro di grandi interessi, regolato mediante il sangue, ed è per questo solo che si differenzia dagli altri conflitti. Meglio sarebbe paragonarlo, anziché a un'arte..., al commercio... ed essa ancor di più somiglia alla politica, che a sua volta può essere considerata, in parte almeno, una sorta di commercio su larga scala. Di più, la politica è la matrice dalla quale si origina la guerra». Momento decisivo della totalità dei conflitti umani, questa ha un contenuto “commerciale” e “interessato” (oggi diremmo economico e sociale), che dà il senso alla vita e alla morte della società e della sua coscienza politica; ma essa non è affatto un primum, un a priori, bensì un “accanto”, un mezzo tra altri mezzi, distinto da essi solo in quanto culminante, mortifero, distruttivo. In questo suo essere mortifero, il suo fascino: ma anche la sua possibile condanna. Il concetto di guerra pura, assoluta - la distruzione illimitata -, si degrada così nella guerra reale, in una problematica umana, e chi vince è colui che ha messo in campo più volontà, più forze, più chances. Se tra essenza e teoria (tra guerra assoluta e guerra reale) vi è dunque una distinzione, ne deriva che anche il rapporto tra politica e guerra può essere considerato alla stregua di un rapporto tra concetti e tra manifestazioni reali. «La guerra reale non è uno sforzo del tutto conseguente, tendente ai suoi estremi, come dovrebbe essere secondo il proprio concetto, ma alcunché di mitigato, una contraddizione in sé». In altre parole: non esiste guerra senza regole. Come tale, la guerra dev'essere considerata parte di un tutto, che è, non solo la politica, ma l'intera struttura culturale; e della politica, e di questa o quella particolare cultura, la guerra avrà il carattere; se la politica è politica di un grande stato, grande potrà essere la guerra, «prossima ad assumere la propria forma assoluta». Anche la politica, «il cui concetto supremo domina quello di guerra», ha una sua ratio interna, la ratio dei conflitti

nei rapporti umani; e anche la politica ha una forma assoluta e una «tendenza agli estremi»: per cui Napoleone poteva dire che le destivi, c'est la politique. Perché la guerra ci sia, occorre dunque che esista la fonte delle regole, cioè la legge. Non si dà guerra senza legge, senza ordinamenti militari, senza divisione del territorio in distretti, senza designazioni di gradi, funzioni, scopi... La violenza assoluta è un ideale inattingibile; è il mondo del sacio. Così, la politica assoluta è il mondo delle decisioni non impastoiate da nulla di concreto, non limitate né condizionate. La guerra assoluta e la politica assoluta appartengono agli dèi; velleitariamente, ai sovrani. La guerra reale e la politica reale sono due relativi. Se, per appropriarsi dei beni o della posizione dell'avversario, è d'uopo batterlo, volgerlo in fuga, è ovvio che prima debba essere stata posta la nozione di proprietà, e questa non può che essere frutto di un processo economico e sociale, certo intessuto di spinte e resistenze, di pressioni e reazioni, ma non esclusivamente ed essenzialmente di scontri sanguinosi; l'apocalittica concezione di un'umanità originariamente in guerra, di una società biologicamente spinta al funebre rito del massacro e che miracolosamente trova di tanto in tanto la via di parziali, fortunosi, precari accordi: di un'umanità in cui tutto derivi — cultura, civiltà, progresso, struttura sociale e politica —, tutto dallo spargimento di sangue, sangue come suolo e come concime, come matrice e come fecondante, è sostanzialmente errata e fonte di gravissime conseguenze. È stata la concezione del nazionalsocialismo hitleriano, e può riproporsi in qualsiasi momento (a patto, beninteso, che la mobilitazione sia totale, da parte dei mobilitatori come dei mobilitati, metodi dei primi, accettazione entusiastica dei secondi). La teoria della guerra deve pertanto culminare in una teoria, non solo della politica e dell'economia, ma - lo ripeto - del divenire della cultura. La guerra reale si fonda necessariamente sulla vita sociale reale. Tattica e strategia hanno regole che dipendono dalla struttura della società, dalle sue risorse, dalla sua capacità di produzione, dal suo

livello tecnico. Una guerra che non tenga conto di questi fattori, è evidentemente scatenata dall'incoscienza. (Lo è stata quella voluta dal fascismo negli anni Quaranta del XX secolo.). Ciò spiega il carattere della guerra di oggi, la sua lenta e meticolosa preparazione, logistica e di materiali, il suo procedere a scatti rapidi e deleteri, la tensione permanente — legata alla lunghezza del processo produttivo — che essa origina. Ciò che Clausewitz affermava, era che necessariamente la guerra è strumento della politica; che il signore della guerra, se conquista il potere, lo fa appunto per assudditare la guerra a una politica di cu si crede capace. La guerra che non sia strumento, è concepibile? Ma l'assioma “occorre l'esercito della propria politica” comporta un potenziale errore, che consiste nel ritenere che l'esercito sia un'entità a sé stante; che senza un potente esercito, lo stato debba limitarsi a una politica modesta; e che solo con gli arsenali pieni e gli «otto milioni di baionette» di mussoliniana memoria, o con gli enormi investimenti statunitensi in strumenti della «guerra chirurgica» all'inizio del XXI secolo, ci si possa permettere una politica di vasti orizzonti. Inutile dire che è proprio quanto Clausewitz negava, ma l'imperialismo, quello del passato e quello attuale, sostiene esattamente il contrario e fa sua espressamente la politica della minaccia, quella che il defunto Dulles definiva la politica della brinkmanship, sospesa cioè sull'orlo della guerra: la quale ha fatto perdere di vista agli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra, altre fondamentali realtà, squisitamente politiche, come è avvenuto negli USA sotto la presidenza di George W. Bush coadiuvato dai suoi consiglieri neoconservatori. L'esercito — la preparazione alla guerra: il militarismo — non possono esaurire la sfera dell'azione politica. Hitler nel 1939 aveva l'esercito della sua politica: ha portato alla rovina quello e questa. La rivoluzione sovietica del 1917 non aveva certo un esercito da opporre a quello zarista né, più tardi, a quelli degli interventisti; e nel 1947 non l'aveva certo Mao Zedong, eppure ha saputo condurre ugualmente una guerra che ha visto il trionfo della sua concezione politica. Un esercito

poderoso, la Grande Armata napoleonica, non ha avuto ragione della rivolta spagnola. L'errore sta nel concepire un parallelismo tra guerra e politica, laddove Clausewitz proponeva un'integrazione, una mobile compenetrazione. A sua volta tuttavia operando un riduzionismo, un assudditamento della guerra alla politica; dimenticando, dunque, che la politica è una faccia della cultura. La guerra, in realtà, non è propriamente subordinata alla politica; ne è, al più (e non sempre), la forma suprema, il culmine della politica, ne è parte integrante, ne è la sempre possibile metamorfosi, la sua forma allotropica; ma non è detto che il ricorso alla guerra sia assolutamente indispensabile e inevitabile, così come l'insurrezione armata è il momento decisivo della rivoluzione senza esaurire la rivoluzione, senza essere tutta la rivoluzione. E, dichiarando superata la guerra per la coscienza attuale, non si vuol certo dire che quest'opinione, anche se dovesse divenire generale, può bastare a farla decadere; il processo al quale mi riferisco è quello della possibile sostituzione della guerra nell'armamentario politico: la proposta di ricercare un'altra forma allotropica della politica, un'altra metamorfosi. Ciò che esigerebbe una metamorfosi culturale di vastissimo respiro. Soltanto una politica stupida — anzi una non-politica, la sua negazione — come è stata quella degli USA nei confronti dell'Iraq e dell'Afghanistan in questo secolo si trasmuta senz'altro in guerra, al di là di ogni considerazione di carattere razionale e utilitaristico. Il militarismo è l'impresa della morte individuale. Una guerra completamente meccanizzata, una push-bottom war, toglierebbe di mezzo il militarismo? Certo, nei limiti in cui si eliminerebbero gli eserciti, per sostituirli con le macchine. La guerra diverrebbe, allora, mera politica, e il monopolio della violenza sarebbe più che mai assicurato ai poteri, che potrebbero privarne in ancor maggiore misura i sudditi, perché non avrebbero bisogno di soldati. (Riteniamo che sia questa la ragione principale per cui gli stati, USA in testa, dedicano tanti sforzi alla

creazione di armamenti sofisticatissimi, completamente automatizzati.) D'altro canto, è facile constatare come ciò implicherebbe un aumento di tal fatta delle componenti in apparenza razionali alle quali dovrebbero sottomettersi, nei rapporti con altri stati con poteri equivalenti, da rendere assai improbabile lo scoppio di un conflitto, com'è (in parte) comprovato dall’“equilibrio del terrore” atomico, che infatti è sembrato e tuttora sembra rendere impossibile lo scontro diretto tra superpotenze nucleari. «[Gli uomini d'arme, cioè i nobili cavalieri] che erano finiti a terra [venivano storditi a colpi di mazza dagli arcieri usciti dallo schieramento inglese]... L'uomo d'arme era impotente: un colpo al viso, se portava un bacinetto, o ancora attraverso il giaco di maglia all'ascella o all'inguine, era sufficiente per spacciarlo o per lasciarlo morire dissanguato». John Keegan, «Azincourt», 25 ottobre 1415, in // volto della battaglia, Milano, 2001. Poiché lo Storico è sempre, e comunque, un religioso. Pratica, infatti, una scienza. Beato lo Storico che sa quello che fa. Che sa quello che dice. Beato lo Storico al quale sono stati svelati gli arcani; che anzi li ha agguantati, sbattuti a terra, infranti e calpestati, ridotti in polvere. Che tutto ha problematizzato. Beato lo Storico perché non solo conosce il passato, ma il futuro gli si apre intatto davanti. Egli sa che passato e futuro esistono, e infatti li definisce, sia pure servendosi di una definizione che presuppone se stessa: dice che il passato è un non-più, il futuro un non-ancora, il presente è l'adesso, tre momenti che contengono una negatività, il passato perché non è più, il futuro perché non è ancora, il presente perché, nell'istante in cui lo si coglie, è già trapassato nel non-più. Sicché, i momenti del tempo appaiono come non esistenze, e tuttavia il tempo per lo storico è innegabile realtà. E la celebre aporia descritta dallo Storico Sesto Empirico, al quale replica, mettendo una volta per tutte le cose a posto, lo Storico

sant'Agostino, secondo cui il passato è una traccia, affectio-animi, è, per l'animo, un «essere interessato» da un «essere passato», mentre il futuro è un segno di ciò che attendiamo; ragion per cui, ci sono tre tempi: il presente delle cose passate, il presente delle presenti, il presente delle future. «Tre presenze che si notano solo, distinguibili, nell'animo, e altrove non le vedo» (Confessioni, XI, 20). Beato dunque lo Storico teologizzante il quale sa che il tempo sta nel nostro animo, al di fuori del quale si stende l'infinita presenza del divino, di cui l'animo fa e non fa parte; e, se distinguiamo ciò che ancora non è o non è più, è perché tendiamo a qualcosa, alcunché ci sospinge, ci mette in tensione («il presente è un'attenzione per tramite ciò che era futuro viene trasposto in modo da essere passato»). Il motore della tensione è l'aspirazione al divino. Ciò che sta fuori dal tempo, i greci lo chiamavano a-dion: non un'entità, una realtà astratta, scissa da noi, bensì quella forza di tensione che fa sorgere la realtà. Insomma, era il tempo mitico. Per lo Storico, invece, tutto questo diviene realtà: realtà dell'anima che tende al suo (reale) Fattore, lui sì padrone del sacro, ma depurato, sacro senza gli aspetti orribili e impuri. Un Dio buono, insomma, nel quale ci si riposerà in un eterno (e reale) presente, che è però un dovere: contemplazione, è vero, ma a lode e gloria del Fattore. Nulla è senza scopo, tutto tende a un fine, sostiene il teologo. Beato lo Storico, perché ignora che la confusione di sacro impuro e di profano, imposta dal cristianesimo, è sembrata per secoli contraria al sentimento, alle memorie, alla natura stessa dell'uomo; per il cristianesimo, la profanazione finiva per identificarsi con la trasgressione la quale, anziché essere accolta ed esaltata in quanto accesso alla sacralità, era respinta e denunciata come appartenente al mondo diabolico e profano, antisacro. Beato lo Storico, perché non ha avuto modo di accorgersi che, così facendo, il cristianesimo si condannava - al pari di ogni religione rivelata - al vuoto formalismo; la sacralità essendo ridotta alla parte in luce, dio, mentre ne era esclusa quella in ombra, Satana, esso doveva di necessità ricorrere a un enorme

apparato logico per sostenere la credenza in questa mutilata sacralità; e, dove finiva l'apparato logico, finiva anche il cristianesimo. Beato lo Storico, il quale non ha occhi per vedere che proprio l'ambito cristiano costituiva la culla ideale della scienza moderna, poiché la chiesa aveva già provveduto a togliere di mezzo la contemplazione del sacro. Perseguendo i culti satanici, la chiesa non ha fatto che eliminare l'aura di intoccabilità che gravava sulle cose sacre, ha permesso l'indagine spassionata e senza pregiudiziali su un mondo altrimenti ritenuto inavvicinabile. E beato lo Storico il quale non si avvede che non già il logos si è spinto, conquistador, nell'aldilà, ma che il logos, girando su se stesso, ha riempito, ragno indefesso, di una tela sempre più fitta l'ambito dell'aldiqua. I confini, sono sempre quelli: nelle fauci spalancate del cadavere, il logos rilutta a precipitarsi. Beato lo Storico che, non contento di elaborare una cosmogonia non più mitica ma razionale, ha elaborato addirittura una logo-gonia; che ha dilatato il modello logico all'universo intero; che l'ha dichiarato figlio dell'universo (Figlio del Padre); che, umiliandolo (tra gli «abominevoli odori» dei «composti organici delle purine e delle pirimidine che si agganciano in lunghe sequenze per formare geni e cromosomi»), l'ha elevato in realtà alla gloria degli altari. Che ha rinnovato l'antropocentrismo dopo aver denunciato e rovesciato F Antropocentrismo, e che ne comprova la fondatezza, tant'è che, in candido camice da biologo, lo Storico si dedica a giochi di prestigio con le catene di geni e, in tuta spaziale, calca le polveri della Luna. Beato lo Storico che deve rifarsi di continuo alle presunte origini, al Residuo indecomponibile, ma non lo sa, lo nega, e non soltanto sostiene che non gli sembra affatto, ma che anzi senz'altro non è così, che sono tutte calunnie, e ride dell'inconsistenza di quest'insinuazione. No, no, la Scienza non è il mito, che diavolo! La Storia non ha nulla a che fare con il mito. Semmai, che ci si debba rifare alle origini, egli proclama, è norma iscritta nel nostro codice genetico, nella nostra logica che è poi la Logica: ulteriore riprova dell'unitarietà e uniformità del mondo, supposta con atto un tantino metafisico, ma senza il quale

nessun discorso sarebbe possibile, e lo Storico perderebbe la sua funzione di labbro loquace del potere. Anche lo Storico tiene famiglia, anche lo Storico deve campare, no? La storiografia pretende all'univocità, all'indiscutibilità del documento. Il Neolitico ha introdotto armi specializzate per l'omicidio. Derivazione da strumenti per la caccia, o non piuttosto una concezione affatto nuova? Una mentalità senza precedenti? Starebbe a provarlo l'esistenza, fin dal X millennio a.C., convalidata dai reperti, di armamenti evidentemente da parata, di pietra o di osso, troppo voluminosi e pesanti per rispondere a fini meramente pratici. Armi, cioè, da esibizione, da parata, non tanto utilitaristici, quanto rispondenti a un'ideologia, se per questa si intende l'interpretazione della realtà proposta-imposta dal potere. Ideologica in questo senso è la favola, riduzione e utilizzazione del racconto mìtico, rispetto al quale vengono introdotti interpreti — animali antropomorfici —, liberatori e scioglitori di enigmi, sovrani ed esseri ultraterreni in funzione di giudici e psicopompi. EMILIO MOBILITATO

Ecco di fronte a noi il moderno pronipote di quell'Emilio cui Rousseau non raccomandava mai abbastanza di abbeverarsi alle poppe generose di madre Natura. Dobbiamo, al nostro tenero pupillo, impedire di farsi venire troppi grilli per il capo, indurlo al rispetto dei poteri costituiti, cavarne un soldatino sempre pronto a marciare qualora noi, la Patria, lo si chiami: dobbiamo infondergli odio per i nemici e amore per i nostri padri che, ineffabilmente incapaci di errare, sono la fonte della nostra autorità. Dobbiamo produrre un suddito fedele, non un rivoltoso né un rivoluzionario: un inquadrato, non uno che pensi con la propria testa; ma dobbiamo convincerlo che, appunto facendo come vogliamo noi, egli pensa con la sua testa. E quando daremo mano a questa opera? Qual è la stagione a essa più favorevole? Attenderemo che Emilio sia grandicello o imprenderemo a plasmarlo appena uscito dall'alveo

materno? No: cominceremo — è assai più conveniente — dall'alveo che lo genera. E il mezzo per farlo, eccolo: ecco il sicuro strumento che, dando a coloro cui sia applicato, ai sudditi, la certezza di partecipare della bontà, bellezza, pulizia, candore immacolato degli strati più alti della società, li renderà paghi di questa coscienza, e null'altro essi più domanderanno; agiremo infrenandoli, reprimendone gli impulsi, castigandone le voglie. Possiamo, a questo metodo, dare il nome di censura? Essa, è ovvio, sarà la custode della famiglia, della domestica fedeltà, della castità cioè e della modestia. Opponendo alle espansioni erotiche il volto severo e impietrito della riprovazione, la fronte aggrottata del disdegno, imprimerà a tali pratiche quel marchio di colpevolezza, lavato solo dalla loro utilità ai fini della conservazione del nome, delle memorie familiari, di quel dolce calore da nido in cui apriamo gli occhi al mondo e in cui viviamo e tranquillamente ci spegniamo, dopo avere, a nostra volta, generato; quell'onta, si riverserà e spanderà su ogni nostro atto, desiderio, aspirazione: se colpevole è quella molla fondamentale per cui abbiamo vita, che cosa non sarà colpevole? Colpevole il nostro nascere; che altro? Chi ci salva? Ma ecco venirci in aiuto l'autorità, eccola dettarci i limiti del nostro fare, pronta a sollevare il dito in gesto di rimprovero ad ogni nostro tentativo di superare, sia pure di un'unghia, i limiti del convenevole. O non sono questi un tantino arbitrari? Errare è umano, ed è sempre meglio abbondare in precauzioni che mancare. E poi, l'abbondanza di sanzioni, primo, fornisce un falso scopo, e obbliga la critica e l'opposizione ad accanirvisi contro; secondo, confonde i limiti delle varie proibizioni, li mescola e sfuma e nullifica: e chi distinguerà più i fulmini scagliati contro l'impavidità morale, le manifestazioni del pensiero, gli scritti, le opere, i quadri, le pellicole non ufficiali? I limiti della decenza - seno e non pelo, coscia con calza e non natiche — servono ad abituare al limite tout court, sono una prima disciplina. E alla portatrice dell'alveo da cui dovrà sbocciare il nostro Emilio, imporremo così limiti nuovi e più severi, oltre a quelli affidati in

retaggio, dalla tradizione, a lei cui classicamente compete di far da freno, di imporre redini sorridenti e teneri divieti, di ostacolare le nostre defecazioni e i nostri eccessi digestivi, di far di noi dei disciplinandi. Già usciamo, dal suo caldo abbraccio, stanchi, spossati; già i tentativi di evasione hanno esaurito gran parte delle nostre energie, si son tradotti in lacrime e sofferenze, in capelli precocemente incanutiti e in mani tremule. Ora, vorrà Emilio far soffrire la Patria, questa madre di tutti noi, come ha fatto, ahimè necessariamente, soffrire la mamma? Emilio sorge dal grembo piumoso della famiglia con poche pretese, e con la persuasione che nell'accettare la disciplina, e nell'imporsene di ulteriori, spesso gratuite, egli riveli la sua libertà. Emilio si fustigherà, ma non tanto da dimenticare — preso dal problema della sua inimicizia con se stesso, attratto e affascinato dalla guerra che muove alle proprie voglie — i suoi doveri: che sono, è la norma ideale, di diventar parco e laborioso e obbediente al giro delle stagioni, a tutto ciò che gli spacceremo per “natura”, come un contadino, epperò con l'abilità tecnica del manager e quella manuale di un operaio. Dell'uno avrà la ristrettezza di orizzonti — il podere familiare —, dell'altro i limiti rigorosi dell'azienda, la solidarietà, svuotata però di senso, limitata e degradata nel codice della camerateria: colleghi e non amici, acquartierati assieme ma senza particolari e vicendevoli simpatie; il modello di Emilio sarà, non ancora l'ufficiale, ma già il distaccato e impenetrabile capitano d'industria che non guarda mai in faccia nessuno; e chi aspira a divenire almeno sergente, non deve dare troppa confidenza. Sul modello delle sofferenze di Emilio, del suo volontario e virtuoso castrarsi — o sconciarsi, o sanarsi — di questa segreta ma ormai radicata aspirazione a farsi Flagellatore, Scopatore, Passionista, costruiremo adesso il modello del Tutto di cui egli è parte. Gli proporremo l'immagine del Dio sofferente, e sofferente sarà anche l'entità che, partecipando del carattere sacro e intangibile della divinità, può a questa sostituirsi efficacemente, in quanto più concreta e quasi visibile: la Patria. La Patria che mostreremo a Emilio è piagata, è

offesa, ha un altare, su cui si celebra un perenne sacrificio; la Patria è circondata, come la cattedrale medioevale da storpi, lebbrosi e mendichi, da una folla di festosi monchi, di orgogliosi mutilati, di tuonanti ciechi, di storpi agitati come bandiere; la Patria cannibale ne ha divorato le mani, i piedi, gli occhi; la Patria pietosa ha offerto, in sostituzione di questi organi, altrettante protesi. Non dimentichiamo infatti che il nostro Emilio ha una doppia dimensione: v'è l'Emilio incapace di ribellioni, f Emilio pieno di scrupoli, l'Emilio ridondante di divieti, l'Emilio limitato e inibito, l'Emilio conformista, l'Emilio obbediente, confezionato su misura, l'Emilio persuaso di avere operato, in tutta libertà, una scelta; sì, gli si sono proposti dei modelli, ma egli poteva anche non accettarli, non farli suoi. E c'è f Emilio esorbitante e assoluto; già nel non ribelle, nell'untuosa vittima, si nasconde l'assassino: Emilio il conformista è un possibile carnefice. Se ora volessimo sviluppare appieno le potenzialità di Emilio, se ci occorresse non solo adeguarlo e condizionarlo, tenerlo pronto alla chiamata, ossequiente all'autorità, in modo da averlo sempre sottomano, ma addirittura spedirlo al fronte, cangiarlo in carne da cannone, come faremo? Ecco: insisteremo sul concetto che la guerra è sublime, che essa costituisce la sommità dei servigi resi alla Patria, dell'esser solidali con la comunità nazionale. Emilio è abituato a sentirselo dire; e noi sappiamo, col Capitano statunitense John H. Burns, teorico della «bella guerra», che uomini cresciuti dall'infanzia con la convinzione che la guerra non possa mai giustificarsi, «non costituiranno mai un esercito»; e perciò abbiamo provveduto a convincere Emilio che la sua ultima istanza è la Natura; ora, è evidente, e lo dicono perfino le favole dell'infanzia, che il leone mangia la pecora, il gatto il sorcio, e i cani si mordono a vicenda, e gli “uomini di natura”, roteando gli occhi e le mazze, agitando scompostamente le lance, si scagliano sulle carovane dei pionieri del West, bramosi di scalpi, animati dal desiderio di riempir di frecce il giovane, tenero corpo della bionda e casta Jane O'Hara, innocente vittima della

barbarie. La guerra, dunque, è la «suprema, estrema fase dell'evoluzione dell'umanità», come insegna la tedesca Militàrwissenschajtliche Revue del marzo del 1936. E Mussolini incalza: «Noi suoniamo la lira su tutte le corde, da quella dell'arte a quella della politica. Siamo politici e siamo guerrieri». Alle proprie spalle, Emilio sentirà fermentare la Nazione, avvertirà la spinta irresistibile della solidarietà nazionale: e gli diremo degli orrori che lo attendono qualora fosse sconfitto, delle madri uccise coi teneri figli al seno, degli ospedali devastati, delle città in fiamme, e della soldataglia nemica che, assaliti i conventi, stupra le monache, assetata di sangue e di alcol, né manca di abbeverare i suoi cavalli nelle nostre marmoree, perfette fontane. Non più querele, dunque, non più discussioni e scioperi e proteste: uniti, si stia, e si proceda diritti alla meta. E, per i generali della Reichswehr matrice, entre-deux-guerres, della Wehrmacht nazista, «scuola ed esercito sono interrelati, e la gioia dell'obbedienza può essere imposta ex cathedra». E la stessa convinzione dei neoconservatori degli Stati Uniti del XXI secolo. Potremo, all'occasione, ridurre le ore di studio di Emilio (e infatti le scuole USA — le pubbliche, ovviamente — sono espressamente tenute in stato di degradazione), e sostituirle con qualche proficua ora di esercizi militari, e magari di esercitazioni a fuoco; oh, l'odio che Emilio ha raggomitolato in sé contro i possibili nemici! Ha seguito, lungo le pagine dei libri della sua infanzia, le peste di se stesso, cacciatore di indiani, uccisore di bisonti che costituivano la principale fonte alimentare di quelli delle Grandi Pianure; ed è stato dietro una finestra della fattoria, nel cuore buio e umido dell'Africa, e con calma puntava il fucile, e dalla boscaglia saliva il confuso urlio della banda nera e selvaggia, che tra poco si sarebbe manifestata con una pioggia di zagaglie, subito persa nel fumo e nel fragore degli spari. Pronto, Emilio? «Non praevalehunt» (Mussolini, Messaggio per l'anno IX). La scuola gli ha formato il carattere: «ancora e sempre, lo spirito è la leva delle grandi cose», e «un popolo non può diventare grande e potente... se non si accosta alla religione e non la considera come un elemento

essenziale della sua vita privata e pubblica». In vista dei suoi compiti futuri, è però necessario che Emilio, ancorché zotico, non sia digiuno di certe conoscenze tecniche; e, se vogliamo farne un ufficiale, che abbia un'istruzione ispirata alla classicità, quella assicurata, negli USA, dai buoni colleges, dalle università di élite. Abbeverato alle ricche fonti dell'antichità, sia pure ridotta in ben digeribili pillole, saprà cose che gli studenti delle scuole di rango inferiore ignorano; grazie a una cultura, data a lui o propostagli come modello, e riservata ai futuri dirigenti, si sarà convinto che la verità va cercata alle proprie spalle, lontano, nelle ombre del passato da cui si levano, illuminati dai raggi di un sole intramontabile, i frontoni dei templi greci, e le belle divinità impavide, i giovinetti eroi. La storia, eventualmente, sarà accomodata, ritoccata e insaporita; non ci ha forse detto il conte Keyserling, nel primo dopoguerra (1919), che «l'idealizzazione della guerra... non è un segno di decadenza morale, ma al contrario il segno di un nuovo culto dell'eroe e di un nuovo spirito di sacrificio»? E non è un'opinione saldamente radicata negli USA del XXI secolo, dove in mano ai privati sono almeno duecento milioni di armi? Ma Emilio potrebbe opporsi alla sorte che gli abbiamo riserbato, può chiederci: «E la morte? lo parto soldato, combatto, e sta bene. Ma se muoio?». Ecco, questa è una seria difficoltà; possiamo però superarla. Possiamo, anziché tacere sulla morte, farne una compagna d'ogni giorno, un sontuoso e indispensabile ornamento, un vistoso orpello, un manto prezioso. Le città in cui Emilio si muove, sono costellate di templi-ossari, l'orizzonte è occupato da cimiteri, cippi e croci non si può dire che manchino. Si può morire: si deve morire; ma chi muore giustificato, non muore, sopravvive anzi a se stesso, al sacco di ossa, alla fragile carcassa che ne imprigiona il soffio vitale. Emilio ha certo visto chiese le cui mura interne sono pareti d'ossa impilate, di tibie ammucchiate come consunte tessere di un vecchio mosaico ormai roso e grigiastro, di teschi sovrapposti a formare enormi parati, vegliati alla base dal tremolio delle candele, e che verso il soffitto svaniscono,

assieme all'incenso e alle preghiere, in un'ombra tenue, un'ascesa placata. La morte, per Emilio, è gialla e nera, color dei marmi barocchi che, al di qua delle reticelle distese a trattenere quegli ingranaggi di scheletro, quei cumuli di rottami ossei, quelle frazioni del passato, quelle memorie e ammonizioni, si stendono in balaustre, balzano in riccioli, si prolungano entro grotte fatate sviluppantisi dietro gli altari, tra un piovere di ceree stalagmiti; è una morte che Emilio teme e desidera insieme. Si è soli, dopo la morte? No, i poveri defunti sono vegliati, han fiori, lampade votive, vedove e orfane chiuse nei loro veli come in un bozzolo di rimpianti. E coloro che sono morti bene, da bravi soldati, nella cassa che ne ha raccolti i pietosi resti sobbalzano al tuono delle salve che salutano l'ascesa al cielo degli eroi; si offre un cibo di corone, a questi insaziabili morti ben nutriti di aulenti coccole deposte sulle lunghe gradinate che portano ai fortilizi in cui dormono, sotto il bel cielo di un deserto, o sulla cima d'un colle, nei luoghi in cui è rifulso il loro valore. E poi, chi teme la morte è un vigliacco. Viva la muerte, scrive il legionario franchista sui muri del villaggio d'Andalusia testé occupato; e la bandera va all'assalto lanciando il grido: «Viva la muerteh. Morte tua, Emilio, nomo de la muerte: e morte da te inferta al nemico; sul tuo berretto da SS, Emilio, un teschio con tue tibie incrocicchiate ripete il simbolo barocco della morte subita, e quello tecnico della cabina ad alta tensione che tu sei diventato per chi osi levare la mano su di te. Emilio è entrato nell'oppiaceo regno del nichilismo attivistico, la sua ambrosia ha nome successo, vittoria. In verde età, Emilio è già un vecchio combattente, egli combatte per combattere, pronto a un addio pacato e fermo alle donne, agli affetti, all'amore, per ritrovarsi, con un senso di sollievo, nell'unico ambito in cui si senta veramente a suo agio, tra camerati, anziani dalla barba bianca che han tirato fuori dai cassettoni la vecchia uniforme, nipoti imberbi che, fanciulli ancora, burlandosi della loro stessa fanciullezza, si uniscono ai padri e ai nonni nel coro delle vecchie canzoni, intonando le quali si marcia senza avvertire la stanchezza, come su un nastro mobile, fluente, eterno. Se

Emilio tornerà a casa, sarà per rimpiangere quei momenti sereni, quell'incredibile felicità tra il fumo e lo schianto delle esplosioni: era un uomo, Emilio, allora. Assicureremo a Emilio la salute fisica: esci all'aria libera, Emilio; pratica gli sport, Emilio, va' al poligono di tiro; dedicati ai giochi di ruolo; ti divertano le violenze buffonesche, ma istruttive, dei videogiochi; non consumarti sui libri, la vita è una battaglia; devi esser pronto e scattante allorché corri a vendere la tua merce o, in ufficio, per rispondere all'appello del superiore. Sentirai magari dire che ai ragazzi non si devono lasciare armi, che non dovrebbero giocare con pistole e schioppetti di latta: ma nessuno ti parlerà di pace; la vita è un continuo duello, t'hanno detto, e tu ti sei agguerrito, il tuo ideale è l'uomo col pelo sullo stomaco; non si vuole la guerra - non ora, per lo meno —, ma la battaglia sì: questa è continua. Emilio è salvo solo se “arriva”, se conquista per lo meno i galloni di sergente. E soldato nella vita civile: una vita militante, all'insegna del lupo; soldato quanto avrà la cartolina precetto. Emilio è persuaso che la concorrenza vitale scatenata, la lotta per l'esistenza, sia l'unica regola delle società. La guerra, se scoppia, è il proseguimento di un ordine originario, eterno. E sempre andata così, e sempre andrà così, sostiene ormai Emilio: è tutta una “naja”, conclude rassegnato e orgoglioso, con l'orgoglio del naufrago che tocca terra e ogni fine del mese. Se Emilio dunque si trasformerà in guardiano di Buchenwald, forse che noi ce ne meraviglieremo? Diremo che ha tralignato? Che è andato al di là del segno? In tutto quel che gli siamo andati insegnando, è insita questa sua possibilità; Emilio carnefice, non è un mostro: è il frutto dell'opera cui l'abbiamo sottoposto.

CONCLUSIONE Homo affectus, homo patiens: dovrebbe essere la nostra condizione. Ci è prescritta. E ignoriamo la sintassi della gioia. Ci è imposta la valle di lacrime, la colpa, il pentimento, il perdono, e la gioia è riservata a questo o quello dei tanti nirvana o paradisi. La porta della gioia può socchiudersi già quando ci si rifiuti di prestar fede all'ineluttabilità del binomio Potere-tristezza. E quella che ci appare allora può essere la strada dell'erranza, che non è necessariamente l'inseguimento dell'uro o dell'orso speleo, ma il richiamo al mitico che è in ciascuno di noi. Questo libro non è, non ha voluto essere, un manuale di idee per l'azione. L'esperienza insegna che le formule, le ricette facilmente o arduamente applicabili attorno alle modalità di opposizione o contestazione o negazione del Dominio nella sua tripartizione, potere, religione, guerra, per secoli e secoli si sono rivelate incapaci di minare effettivamente, concretamente, la fortezza del Potere. Sono stati e sono atteggiamenti che sono valsi a rovesciare singoli poteri, senza portare al permanente superamento del Dominio. Anzi, di solito sono stati e sono tuttora i distruttori di quel potere, di quel Dominio, che si sono affrettati a intronizzarne uno nuovo, e poco importa, a una visione vastamente panoramica, globalizzata, se migliore o peggiore del precedente. Mi è dunque parso di maggior momento tentare di mostrare la fallacia di facili illusioni demolitrici e ricostruttive, e di richiamare, me stesso e quanti mi leggeranno, a quel residuo indecomponibile che me parla, che te parla, che noi parla; e se fosse possibile (ma non è) abolirlo non ci resterebbe appunto che la tetraggine, con la verbalizzazione del parlante convinto di essersi lasciato alle spalle l'ombra, che pure non cessa mai di inseguirlo, del mitico.

GLOSSARIO Qui di seguito sono riportati alcuni termini ricorrenti nel testo e che forse richiedono qualche spiegazione aggiuntiva, accanto ad altri termini che, non sempre presenti nel testo, hanno però diretta attinenza con le idee in esso esposte. Androginia Dal greco anér andrós, “uomo”, e gyné, “donna”. Il principio primo, l'aldilà dal quale si proviene, è generalmente concepito quale un tutto unico, indifferenziato (informe, caos, nulla), da cui si distaccano, individualizzandosi, le specie e i singoli di sesso diverso. A mano a mano che dalle concezioni mitiche si passa alle religioni rivelate, l'aldilà assume caratteristiche “umane”, si crea un pantheon {vedi), le potenze, gli antenati, gli spiriti animali dei primordi cedono il posto a divinità maschili e femminili. Nelle religioni monoteistiche, fortemente maschiliste, la divinità suprema è quasi sempre un “padre”; ma è tipico di molte sette eretiche il ritorno alla concezione antica dell'androginia (per certe sette gnostiche, il Cristo era androgino, maschio e femmina assieme). (Vedi Ermafroditismo). Anima Nell'accezione comune odierna, è il principio vitale dell'uomo, localizzata nel corpo di cui costituisce la parte immateriale; ne originano pensieri, sentimenti, coscienza morale, volontà. Se il concetto ha assunto connotazioni spiccatamente religiose, non fu cosi all'inizio, quando venne intesa quale elemento animatore, e dunque “vita”. I termini con cui l'anima è designata appaiono pertanto connessi con l'idea della respirazione (greco psyché, latino animus ricollegabile al greco dnemos, “vento”). L'anima così concepita non appare staccata dal corpo, ed è localizzata in ogni sua parte o funzione; è insomma parte essenziale del vivente, e in molte culture è tutt'uno con il riflesso in uno specchio d'acqua o l'immagine che appare nella pupilla. (Molti “primitivi” non vogliono essere fotografati perché l'obiettivo, in cui sono riflessi, può rubare loro l'anima così intesa). Agli esordi della concezione religiosa dell'anima, questa è molteplice (Cina, Egitto):

anima vitale, anima razionale, eccetera. In una fase più avanzata, si ha l'anima “esterna”, immersa nel vivente da poteri superni; si può così avere l'anima- sogno, indipendente dal corpo e capace di distaccarsene. Le anime dei morti sono da allontanare con riti apotropaici, dotate come sono di poteri che possono essere anche malefici. Altre volte ne hanno di benefici, come i Mani e i Lari a Roma, o come gli “antenati” oggetti di culto in molte culture. Per le chiese cristiane, fin dall'inizio l'anima ha avuto natura spirituale, immortale e individuale; l'anima verrebbe creata insieme al feto, e la Chiesa romana ha condannato fin dal 1679 l'idea che il feto nel grembo non sia dotato di anima razionale, donde il divieto canonico dell'aborto. Autorevolezza Non è l'autorità (vedi), non è un diritto ratificato, legittimato, ma semplicemente stima, fiducia acquisita da persone e attribuita loro per consenso diffuso, sia pure solo nell'ambito di un gruppo o tribù. Autorità Va distinta dall'autorevolezza in quanto espressione di una volontà esercitata da un individuo per sua imposizione o per elezione più o meno condizionata dall'individuo e dai suoi accoliti. In latino, auctoritas equivale a “legittimità”, e il termine indica comunque la condizione di chi è investito di poteri e funzioni di comando, e la cui forza si basa sulla sintesi del volere con la legge e sul riconoscimento ufficiale della forza stessa. Se l'autorevolezza è spontaneità, l'autorità è costrizione e prevaricazione. Coincidentia oppositorum E un concetto diffuso in ogni cultura; significa, in latino, “coincidenza degli opposti” e allude all'equilibrio fondamentale in cui i contrasti convivono. È l'idea che sta alla base del concetto cinese di yin e yang. Ctonio Dal greco khtónios, “sotterraneo”. L'aggettivo si applica alle divinità in qualche modo collegate con l'oltretomba. Divinità ctonia per eccellenza era Ade per i greci, equivalente al latino Dite. Demiurgo Dal greco demiurgos, “artefice, ordinatore”. Termine che designava l'artefice dell'universo o il suo reggitore. In questo secondo significato fu usato dagli gnostici, nel senso di divinità

intermedia, ordinatrice di una realtà già creata dalla divinità suprema, la quale non aveva dato leggi precise al mondo, ciò che spiegava la presenza in esso del male. Eone Dal latino aeon, “periodo”, ma a volte anche eternità, età assoluta in cui cessa il tempo. In questo senso è usato dal mitraismo (l'Eone universale è la divinità), mentre nel Nuovo Testamento (lettere di San Paolo) ha significato spaziale, di “mondo” o “parte del mondo” (in quanto il mondo è “nel secolo”, nel tempo). Ermafroditismo Fin dalla sua comparsa, il potere si è posto e imposto come reductio ad unum, non diversamente dalla religione nelle sue mille ipostasi. Ne è derivata la visione del reale come moltiplicazione dell'uno, e di una “vera” sessualità, la maschile, di cui la femminile sarebbe derivazione. E infatti Eva, nel Genesi, è ricavata da una costola di Adamo. Presunta originarietà, dunque, del monosesso scissiparo: in Platone, Simposio, Zeus taglia la sogliola originaria, facendone maschio e femmina che, mossi da nostalgia iperu-ranica, aspirano a ricostituire l'ermafrodito. Nella sua impresa di virilizzazione del mondo, il Neolitico ha drizzato ovunque menhir falliformi, avendo cura di piantarne la base, ove possibile, in terreni umidi (falde acquifere, zone acquitrinose e simili), onde riaffermare sia il predominio del fallo sull'acqua, simbolo femminile, sia la letteralizzazione dell'ermafroditismo. Escatologia Dal greco éskhatos, “ultimo”, indica la dottrina degli ultimi fini, cioè quella parte delle concezioni religiose che riguarda i destini ultimi dell'umanità. Eucarestia Dal latino e dal greco, “riconoscenza, rendimento di grazie”. Sacramento centrale del cristianesimo, definito da Leone XIII prolungamento dell'incarnazione del Verbo, in quanto rinnova il sacrificio di Cristo e attua la comunione dei fedeli con il Redentore che viene “incorporato” (mangiato: è evidente il residuo del concetto, sia pure simbolico, di cannibalismo). Gnosi Dal greco gnosia, conoscenza. Usato, di solito, per indicare la speciale “conoscenza” religiosa da cui fanno dipendere la salvezza i

diversi sistemi gnostici (complesso di dottrine e movimenti spirituali sviluppatosi in età ellenistico-romana e fiorito accanto al cristianesimo antico). Suo concetto fondamentale, è la conoscenza immediata, al di là della razionalità, certificata dall'immediatezza intuitiva e dalla virtù dell'iniziazione. Potrebbe sembrare simile allo zen {vedi), ma se ne differenzia nel senso che la gnosi conduce alla conoscenza del divino come sostanza. Scorge, nel tessuto dell'universo, una lacerazione attraverso la quale vede risplendere la scintilla dell'ipervita, del sovraterreno, della metafisica. Chi vi attinge, si libera dal peccato e dal male. Ogni tentativo di andare al di là della Parola, di individuarne la sorgente, può ben essere definito gnostico. La gnosi è il Discorso o viceversa: il Discorso è gnostico, il Discorso SA. La gnosi è l'episteme, cioè conoscenza scientifica, incontrovertibile. Ancora una volta il Discorso. Anche l'episteme SA. La gnosi potrebbe piuttosto essere accostata al concetto di fede del buddismo (vedi), quale è esemplificato dall'Arahat, cioè persona che ha raggiunto la fase della piena “guarigione spirituale” e ignora che cosa voglia dire “io sono” ma non è a tal punto illuminata da raggiungere la piena buddità. Innominabile Ciò che il potere nasconde ma che per ciò stesso pretende di possedere, conoscere (in esclusiva) e opportunamente utilizzare. E il nome del nome, l'affermata capacità di attribuire un nome alla Parola. Il nome però è arbitrario: impadroneggiabile in quanto si sottrae al parlante. Non si può dare nomi alle cose, se non inserendoli — vanamente — nell'atto di parola. Resta che il potere chiude questo suo sospetto — lo spaccia per certezza — in un ripostiglio, lo stanzino proibito che, dilatato, si fa sala del trono, consiglio segreto. Letteratura II cogito occidentale, che è l'ipostasi del Discorso, fa suo il principio del terzo escluso, della non contraddizione. In pari tempo, predica, propone — ne assicura la concreta astanza — una sintesi tra le polarità. La quale è per lo meno indecidibile, né può esservi

pace tra Discorso e póiesis. Codesta presunta sintesi, nella versione più recente di matrice hegeliana, ha tra gli altri nomi quello, promettente, conciliante, di letteratura. Sintesi: dogma imposto dalla dittatura del pensiero occidentale. Che la letteratura volentieri subisce, e comunque le è imposta - onde evitare che si faccia venire grilli per la testa — da quegli sgherri del potere che sono accademie, editoria, prescrittiva “democrazia” dei testi che devono essere “accessibili a tutti”. La letteratura non è però la scrittura. O, per meglio dire, la letteratura non ingabbia totalmente la scrittura: la letteratura è un'invenzione del potere che si esplica nel “così si dice”, “così si parla” - e ovviamente “così si pensa”, cioè si parla interiormente, nel segreto della propria intimità, da cento custodi perquisita e intimidita. Norma, grammatica, sintassi: la letteratura ha in sé il germe della censura. Non va tuttavia dimenticato che, se la scrittura si agita inquieta, evasa in potenza, dentro la gabbia materialmente composta da righe, pagine, testi tipograficamente ordinati, è in grado di sottrarsi infinitamente a imperativi a lei estranei, ai tentativi di mummificarla per ridurla a equivalenza di manuali, prospetti, codici, cifrari, gazzette ufficiali, autentiche, interpretazioni, vidimazioni, surrogazioni: insiemi di segni in cui ci si orizzonti di primo acchito, e non più, non dunque labirinti del malinteso. Manicheismo Monoteismo imperniato, al pari del cristianesimo e di altri monoteismi, sulla lotta tra Bene e Male; fu fondato in Persia da Mani (III secolo d.C.) che diffuse la sua religione in India, in Egitto e in Cina, dove si colorò di buddismo e durò fin oltre il XII secolo, lasciandovi cospicue tracce letterarie e artistiche. Materia È la materializzazione della Parola. Dimensione impossibile della nominazione (denominazione del nome, vedi Innominabile). Parola resa gestibile, oggettualizzata. Mille dibattiti sul carattere ultimo della realtà materiale, specializzazioni della fisica relativistica e quantistica: in ultima analisi, forzatamente limitate ai termini del linguaggio comune, ma con il soccorso delle religioni (dei creatori, letteralizzatori del Verbo). Secondo il buddismo, vacuità. In

un testo buddista, il Sutra del Cuore, si dice infatti che ciò che è forma materiale è vuoto, ciò che è vuoto è forma materiale. In altre parole, non c'è sostanza esistente in sé e tutto l'universo è un tessuto di fenomeni fluttuanti e interdipendenti. Comunque, secondo la fisica quantistica, tuttavia più prossima al buddismo di quanto essa stessa supponga — e pertanto meno ingenua della fisica newtoniana o galileiana — la natura (e quella cosiddetta umana in primo luogo) è e insieme non è: né oggi né mai potremo concepire la “realtà” (che del resto è sempre e comunque “virtuale”); né il determinismo né l'oggettivismo o il buon senso ci servono a intendere i fenomeni dell'universo e della sua provincia umana. Il “non dato da conoscere” lo traduciamo, fedeli al principium reificationis, in rappresentazioni. Di cui questo libro si discetta. Matrilineari Si definiscono così le società in cui la discendenza viene computata in linea materna. Mazdeismo Religione dell'antica Persia, nota anche come Zoroastrismo; è un monoteismo basato sulla lotta tra Bene e Male, fondato da Zarathustra (Zoroastro) poco dopo il 1000 a.C., e propagatosi nell'Asia centrale, giungendo fino alla Cina. Medicina Accanita ricerca delle cause. Causa di vita, causa di morte. La medicina è il letteralismo applicato al corpo. E neppure: quattro secoli fa, infatti, la scienza medica ha ridotto il corpo a una sommatoria di organi, imponendo la mera funzionalità come modalità del comprendere e intervenire. Ha tentato di definire il corpo riducendolo a organismo separato da un'anima alla quale andava affibbiando tutti i significati simbolici della carne: anima- vampiro che si è alimentata e si alimenta dell'impoverimento della Carne con la C maiuscola. Perché la medicina partecipa attivamente, in veste di officiante e testimone, dello sposalizio fra scienza e teologia. E un'ennesima manifestazione dello smembramento sistematico del tutto-simbolo: i resti della demolizione sono i cosiddetti sintomi. A ciascuno dei quali è imposto di esprimersi in un suo dialetto esclusivo,

traduzione della corrispettiva, particolaristica struttura fìsio-anatomica. Non formano coro, i sintomi, non sono autorizzati a raccontare l’integralità del nostro esserci: hanno funzioni deprecatorie, di profezie sempre potenzialmente mortali. Impellenze grammaticali, insomma. La medicina mira a strutturare la società, e non può che farlo secondo modalità gerarchiche, la norma cioè dell'integrità fisica, condizione della produttività, e dunque la norma della medicalizzazione anche di quella che definisce, arbitrariamente, malattia mentale. La malattia diviene così un'entità indipendente, e il paziente l'oggetto sempre più reificato della contesa tra sanitario e patia. Ne consegue che la malattia assurge a obbligo sociale. Donde l'imporsi di due istituzioni: l'istituzione terapeutica e l'istituzione morbilità. La prima è governata in larghissima parte dall'industria farmaceutica, cioè dal vasto campo che va dai medicinali e strumenti diagnostici e terapeutici alla pubblicità medica e al pronto soccorso. La seconda, l'istituzione della morbilità, è costituita dal sempre maggior numero di pazienti effettivi o immaginari. Salus, terapia, ricovero, riduzione della cura alla sola medicina, inseriti pertanto nel grande contesto consumistico, obbligatoriamente tale. Del resto, il principio della medicalizzazione universale è il gemello omozigotico del presunto carattere salvifico della tecnica, chiamata a redimere il mondo da essa stessa aggredito e devastato. Tutto il mondo è stato colonizzato da soldati, prospettori, tecnici minerari, caritatevoli volontari, medici, paramedici... E missionari. Ora, accade che questi ultimi siano dediti al proselitismo, e lo praticano elettivamente istituendo ambulatori, distribuendo saggi consigli e medicinali (per lo più scaduti). E che il loro “primario” ideale sia il Cristo Medico. Figura che in altri tempi aveva valenze simboliche: risanare le anime infettate dal morbo diabolico; poi, però, questo Cristo ha indossato il camice e i missionari, suoi interpreti ed esecutori, impongono la medicina che conoscono, deprecano le cure autoctone, li

orripilano le pratiche degli aborigeni, vietano rimedi non approvati dall'industria farmaceutica, partecipano insomma attivamente allo sterminio delle culture locali. Nirvana (in sanscrito; pali, Nibbana) Vuol dire “estinzione del dolore”, ed è un'esperienza trascendente, senza tempo, definita il “Senza Morte” e “incondizionata”. Comporta la cessazione di tutti i fenomeni che producono Dukkha, cioè sofferenza e insoddisfazione. Il Nirvana è anche il “vuoto”, la profonda conoscenza intuitiva dei fenomeni, tale da riconoscerli privi di individualità sostanziale. Ontologia II termine, introdotto nel XVII secolo, designa la “scienza dell’essere”. La domanda che essa si pone suona: che cos'è l'essere? Che significato ha l'esistenza? La risposta delle religioni rivelate al quesito è, di norma, che il segreto dell'esistenza, il perché della presenza umana sulla terra, appartiene esclusivamente a dio. Ortodossia Dal greco orthodoxia: retta credenza, purezza di fede, conformità ai principi di una determinata religione, di cui si accetta la dottrina. E dunque l'opposto di eterodossia. Panteismo Dal greco pàn, “tutto”, e theós, “dio”, è la dottrina, presente in molti ambiti culturali, che identifica in vario modo dio e il mondo. Ci sono panteismi che considerano il mondo una mera manifestazione di dio (religione vedica dell'India, neoplatonismo), e altri che vedono nel divino un'energia che anima il mondo dall'interno. Quest'ultima interpretazione è detta panteismo ateistico perché perviene a conclusioni naturalistiche o materialistiche; è stata rappresentata, in epoca antico-classica, soprattutto dalla scuola stoica; in tempi più vicini, da Giordano Bruno che anzi e soprattutto per questo finì sul rogo. Pantheon o panteon Dal greco pàntheon (che significa “tempio di tutti gli dèi”), passato al latino. Si usa il termine per indicare la totalità degli esseri divini; il pantheon di una religione è cioè il complesso di tutte le figure divine di un sistema politeistico (per esempio, Zeus è la divinità sovrana del pantheon greco). Rinascite II ciclo delle rinascite (samsara) era già implicito nella

filosofìa indiana Shamkhya, dalla quale però era considerato comunque ineluttabile. La grande innovazione del Buddha è consistita nel proporne il superamento. Sacer, sacrum, sacro In latino, tacer (da etimo che indica separazione, scissione, isolamento) significa “consacrato a un dio”, ma anche “maledetto, esecrabile, detestabile”. La prima accezione ha carattere religioso; la seconda ha attinenza con la concezione mitica di un aldilà inteso come “sentimento” o “intuizione”, ma pur sempre Parola oltre la quale ci è impossibile andare, e dunque quale limite. Il tentativo di superare il limite, oltre a essere vano, significa supporre che la Parola possa venire usata, e l'uomo essere parlante anziché parlato: per la visione mitica, è uno sforzo risibile e deprecabile in quanto negatore della più elementare evidenza che l'uomo è Parola. Per la concezione protoreligiosa e religiosa, affermare che l'uomo è Parola appare quale un atto di hybris che si scontra con il principio per cui dio è il depositario del Verbo, colui che concede agli uomini la parola. Ritenere che l'uomo sia Parola è considerato dunque un atto di orgoglio punibile come il tentativo dei costruttori della Torre di Babele di “raggiungere il cielo” e diventare sicut dii, invadendo la sfera del sacro. In latino, infine, il sacrum designa sia la reliquia sia la vittima da sacrificare. Teismo Oggi si intende, con questo termine, l'idea di un dio personale, creatore e provvidente, e in tal senso lo si distingue da deismo, concezione che contrappone religione “naturale” (dio è conoscibile con la semplice ragione) e religioni “positive” o “storiche” le quali presuppongono un'autorità che fissi ciò che si deve credere. Il rappresentante più noto di questa posizione è stato il filosofo Blaise Pascal, vissuto nel XVII secolo, sospettato di eresia da certi rappresentanti del cattolicesimo. Teogonia Termine che designa il processo di formazione del mondo divino. Nelle religioni politeistiche si ha molto spesso una fase originaria in cui un essere supremo crea il mondo, la vita e gli uomini, per poi ritirarsi, scomparire o essere ucciso da altre divinità che ne

prendono il posto, e che a loro volta saranno sostituite da altre. Storicamente, il passaggio dalla primitiva idea del dio o “antenato” celeste, il deus otiosus di certe concezioni tardoneolitiche, alle nuove divinità dotate di forza e potenza corrisponde a una fase post-neolitica in cui è dato assistere al sorgere di società gerarchiche di crescente complessità. Teologia In origine, la conoscenza relativa agli dèi (il termine esiste per esempio in Aristotele); successivamente, in ambito cristiano, scienza di Dio e delle cose divine. Questa “scienza delle verità rivelate” si è trasmessa dal cristianesimo e dal giudaismo all'islam. Totem II termine deriva dalla lingua ojibwa degli indiani dei Grandi Laghi, in cui il vocabolo ototeman significa “egli è del mio clan” (della mia parentela). Non in tutte le culture esiste il concetto di un animale (più di rado, pianta, pietra o altro) come rappresentante o antenato del gruppo, contrariamente a quanto l'antropologia ha a lungo sostenuto. Ma in tutte le culture il rapporto tra uomo e animale continua a presentare aspetti misteriosi, e l'animale è in qualche modo considerato un simbolo dell'aldilà, dell'indifferenziato “che non sa di morire”: il mondo “prima della coscienza”, senza gli interrogativi angosciosi che l'uomo cogitante si pone. Weltan schauung Da Welt, mondo, e Anschauung, visione: modo di concepire il mondo e la vita proprio di un individuo o di un gruppo. Yang Secondo la concezione taoista cinese, accolta in parte dal buddismo del Celeste Impero, è uno degli elementi (l'altro è lo yin, vedi) del ciclo dei principi antagonistici ma complementari. Tutto ciò che è yang ha natura maschile, suggerisce radiosità solare, calore, esteriorità ed estroversione. Yin L'altro elemento della polarizzazione e convergenza dei due elementi antitetici della concezione dell'universo secondo il taoismo; indica tutto ciò che ha natura femminile. Lo Yin evoca l'idea di corpi freddi e coperti, e si applica a ciò che è interno. La concezione si basa, in sostanza, sulla fondamentale dualità universale, elemento maschile ed elemento femminile, che compongono la “totalità di ordine ciclico”.

Zen E, a rigor di termini, l'equivalente, anzi all'origine la pedissequa imitazione giapponese, del Ch'en cinese. Questo è stato soprattutto una versione del buddismo che attribuiva importanza preminente alla comprensione intuitiva e riteneva sostanzialmente inutili i lunghi, prolissi insegnamenti dei maestri. L'arte zen, l'aspetto più noto in Occidente del movimento zen, si attiene al principio di poteri non razionali, suscettibili di produrre nel percettore un senso di identificazione totale con il supporto e con lo strumento, la carta su cui il maestro di calligrafia “proietta” il pennello nel momento in cui sente di aver raggiunto il distacco dalla quotidianità. Non diverse sono l'intuizione con cui il ceramista crea il vaso o la semplicità con cui viene concepito il “giardino di pietra”, una breve distesa di ghiaia su cui si levano pochi “scogli” a raffigurare l'universo nell'elementarità del non esistente. E l'arciere scoccherà la freccia nel momento in cui “sentirà” di essere divenuto tutt'uno con il bersaglio. Un'arte che allo zen si ispiri, poesia, pittura o altro che sia, a ben vedere non può dirsi diversa da quell'attività universalmente umana che ha luogo ovunque e che siamo soliti definire “arte”. Ciascun creatore, che la sua si chiami ispirazione o intuizione dell'istante, deve “caricarsi”, cioè isolarsi dalle tentazioni del discorso, per cedere alle esigenze paraoniriche, ludiche, dell'accostamento al “grado zero” del riconoscimento-invenzione dell'Alterità; e, come il maestro zen, l'artista occidentale non potrà che abbandonarsi all'immediatezza del ritmo. Lo zen, per concludere, è una metafora dell'universalità della Parola creatrice. Una perfetta esemplificazione dello zen è costituita dagli haìku, sintetiche versificazioni di incredibile semplicità e potenza espressiva, fatte di pure “cose”, e che spalancano, per via intuitiva, un mondo di sensazioni. Qui ci limitiamo a darne un esempio, alcuni versi del poeta Basho (1644-1694): “Antico stagno/rana vi salta/tonfo d'acqua”. In Giappone, almeno fino a tempi recentissimi, la conoscenza intuitiva, e le scelte che ne derivano, ha avuto largo corso anche in campo economico. Il manager veniva accostato ai guerrieri della

tradizione, i samurai, e al loro modo di concepire lo scontro armato come atto appunto di “intuizione del momento”, quello in cui il colpo di spada viene sferrato quando il guerriero si fa tutt'uno con la lama che impugna.

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