Docsity Sulla Letteratura Umberto Eco [PDF]

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Sulla letteratura, Umberto Eco Lingua Italiana Università degli Studi di Pavia 216 pag.

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Questa raccolta di scritti può essere vista come una naturale continuazione delle "Sei passeggiate nei boschi narrativi". Si tratta infatti di discorsi rivolti in genere a un pubblico abbastanza vasto e vertono tutti sulle funzioni della letteratura, su autori che Eco ha frequentato a lungo, sull'influenza di alcuni testi più o meno letterari sullo sviluppo degli eventi storici, su alcuni problemi tipici del narrare e su alcuni concetti chiave della scrittura "creativa". In alcuni di questi, e specialmente nell'ultimo ("Come scrivo"), Eco sceglie come esempio e oggetto di riflessione la sua stessa attività di narratore, ma anche i saggi in cui non parla direttamente di sé gettano una luce sul suo fare letterario.

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Critico, saggista, scrittore e semiologo di fama internazionale, Umberto Eco è nato ad Alessandria il 5 gennaio 1932. Nel 1954 si è laureato, all'età di 22 anni, all'Università di Torino, con una tesi sul pensiero estetico di Tommaso d'Aquino. Nel 1956 ha pubblicato Il problema estetico in San Tommaso, (volume edito in una seconda edizione riveduta e accresciuta nel 1970). Dopo aver lavorato dal 1954 al 1959 come editore dei programmi culturali della Rai, negli anni Sessanta ha insegnato prima, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Milano, poi, presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Firenze ed infine presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Inoltre, ha fatto parte del Gruppo 63, rivelandosi un teorico acuto e brillante. Dal 1959 al 1975 ha lavorato, presso la casa editrice Bompiani, come senior editor. Nel 1975 viene nominato professore di Semiotica all'Università di Bologna, dove impianta una vivace e agguerrita scuola. Negli anni 1976-'77 e 1980-'83 ha diretto l'Istituto di Discipline della Comunicazione e dello Spettacolo, presso l'Università di Bologna. È stato insignito di molti titoli onorifici da parte delle università di tutto il mondo, presso le quali ha tenuto diversi corsi. Dal 1989 è presidente dell'International Center for Semiotic and Cognitive Studies, e dal 1994 è presidente onorario dell'International Association for Semiotic Studies, di cui negli anni precedenti è stato segretario generale e vicepresidente. Dal 1999 è inoltre presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici, presso l'Università di Bologna. Ha collaborato con l'Unesco, con la Triennale di Milano, con l'Expo 1967 - Montreal, e con la Fondation Européenne de la Culture, e con molte altre organizzazioni, accademie, e testate editoriali nazionali e internazionali. Numerose inoltre sono le sue collaborazioni, non solo a quotidiani («II Giorno», «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «La Repubblica», «Il Manifesto») e a settimanali («l'Espresso»), ma anche a periodici artistici e intellettuali («Quindici», «Il Verri», ed altri). Ha svolto indagini in molteplici direzioni: sulla storia dell'estetica, sulle poetiche d'avanguardia, sulle comunicazioni di massa, sulla cultura di consumo, ecc. Spaziando dall'estetica medievale alla semiotica ai vari codici di comunicazione artistica, la sua produzione saggistica appare, dunque, estremamente varia e vasta. Negli anni Sessanta ha pubblicato, oltre ad uno dei testi di maggior rilievo per le poetiche della neoavanguardia, Opera aperta (1962), Diario minimo (1963), Apocalittici e integrati (1964),Le poetiche di Joyce (1965, edizione rivista della II parte di Opera aperta), La struttura assente e La definizione dell'arte (1968). Negli anni Settanta escono: Le forme del contenuto (1971); Il segno, Il costume di casa eBeato di Liébana (1973); il Trattato di semiotica generale (1975) un punto fermo per lo sviluppo delle ricerche semiotiche; ed inoltre Il superuomo di massa (1976, II ed. accresciuta 1978). Nel 1977 ha pubblicato Dalla periferia all'impero, e Come si fa una tesi di laurea; mentre nel 1979

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esce Lector in fabula, in cui si pone l'accento sul rapporto autore-lettore nell'ambito della letteratura di consumo. Nel 1980 l'illustre teorico esordisce nel campo della narrativa con il romanzo dal clamoroso successo internazionale Il nome della rosa, a cui segue nel 1988 un secondo romanzo Il pendolo di Foucault. Sempre negli anni Ottanta dà alle stampe Sette anni di desiderio (1983),Semiotica e filosofia del linguaggio (1984), Sugli specchi e altri saggi (1985), Arte e bellezza nell'estetica medioevale (1987) e Lo strano caso della Hanau 1609 (1989). È inoltre del 1983 la brillante traduzione degli Esercizi di stile di R. Queneau. Negli anni Novanta prosegue la sua intensa e multiforme attività con I limiti dell'interpretazione (1990); Stelle e stellette e Vocali (1991), Il secondo diario minimo,Interpretation and overinterpretation (1992), e La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (1993). Nel 1994 esce, oltre al volume Sei passeggiate nei boschi narrativi(ciclo di conferenze tenuto alla Harvard University nel 1993), il suo terzo romanzo L'isola del giorno prima. Negli ultimi anni del secolo sono stati pubblicati Cinque scritti morali e Kant eL'ornitorinco (1997), Tra menzogna e ironia (1998), e La bustina di Minerva (1999). Tra i romanzi più recenti troviamo Baudolino (2000) e La misteriosa fiamma della regina Loana(2004) Il 14 ottobre 2003, Umberto Eco è stato insignito dal presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, del titolo di ufficiale della Legion d'Honneur Al sito www2.dsc.unibo.it/dipartimento/people/eco/curriculum.html é disponibile l'interocurriculum vitae di Umberto Eco.

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Umberto Eco. Sulla letteratura Copyright 2002 RCS Libri S.p.A., Milano Saggi Bompiani ********** Questa raccolta di scritti può essere vista come una naturale continuazione delle Sei passeggiate nei boschi narrativi (Bompiani, 1994). Si tratta infatti di discorsi rivolti in genere a un pubblico abbastanza vasto e vertono tutti sulle funzioni della letteratura, su autori che Eco ha frequentato a lungo come Nerval, Joyce, Borges (ma anche Aristotele e Dante), sull'influenza di alcuni testi più o meno letterari sullo sviluppo degli eventi storici, su alcuni problemi tipici del narrare, come la rappresentazione verbale dello spazio, l'ironia intertestuale, la natura dei mondi possibili della finzione, e su alcuni concetti chiave della scrittura «creativa», come il simbolo, lo stile, la «zeppa» (ovvero i momenti apparentemente «morti» e meramente funzionali nello sviluppo di una forma artistica). In alcuni di questi interventi, e specialmente nell'ultimo («Come scrivo»), Eco sceglie come esempio e oggetto di riflessione la sua stessa attività di narratore, ma anche i saggi in cui non parla direttamente di sé gettano una luce sul suo fare letterario. Scritti occasionali, dunque, ma che rivelano una continuità di interessi, un costante richiamo alle stesse fonti d'ispirazione. Scritti che, anche quando si richiamano ai temi e ai problemi di una semiotica della letteratura, sviluppano una riflessione senza ricorso a tecnicismi, facendo sorgere le idee da un'appassionante panoplia di esempi concreti.

Umberto Eco è nato ad Alessandria nel 1932. E' ordinario di Semiotica e Presidente della Scuola Superiore di Scienze Umanistiche presso l'Università di Bologna. Tra le sue opere di saggistica più importanti si ricordano: Opera aperta (1962), La struttura assente (1968), Trattato di semiotica generale (1975), Lector in fabula (1979), Semiotica e filosofia del linguaggio (1984), I limiti dell'interpretazione (1990), La ricerca della lingua perfetta (1993), Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994), Kant e l'ornitorinco (1997). Inoltre, tra le sue raccolte, vanno menzionate: Diario Minimo (1963), Il secondo Diario Minimo (1990), che comprende una prima antologia di Bustine di Minerva, i Cinque scritti morali (1997) e La Bustina di Minerva (2000). Nel 1980 ha esordito nella narrativa con Il nome della rosa (Premio Strega 1981), seguito nel 1988 da Il pendolo di Foucault, nel 1994 da L'isola del giorno prima e nel 2000 da Baudolino.

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********** Introduzione Questo libro raccoglie una serie di scritti occasionali, tutti però incentrati sul problema della letteratura. Essi sono occasionali in quanto stimolati dal titolo di un incontro, simposio, congresso o raccolta antologica a cui ero stato invitato. Talora l'essere obbligato dal tema (anche se ovviamente si va a incontri dove il tema in qualche modo tocchi da vicino i propri interessi) serve a sviluppare qualche pensiero in più, o a ribadirne di antichi. Tutti gli scritti sono stati adattati per questo libro, talora abbreviati, talora ampliati, talora sfrondati da riferimenti troppo legati alla situazione. Ma non si è cercato di nascondere il loro carattere, appunto, occasionale. Il lettore potrà notare il ritorno, in scritti diversi, e magari a distanza di anni, di uno stesso esempio o tema. Mi pare naturale, perché ciascuno si porta dietro un proprio bagaglio di «luoghi» esemplari. E la ripetizione (se proprio non disturba il lettore) serve a metterli in evidenza. Alcuni di questi scritti sono anche, o soprattutto, autobiografici o autocritici, nel senso che parlo anche della mia attività non in quanto teorico bensì in quanto scrittore. Non mi piace in genere la commistione tra i due ruoli, ma talora è necessario, per spiegare che cosa si intende per letteratura, ricorrere anche alle proprie esperienze. Almeno in incontri informali come la maggior parte di questi. D'altra parte il genere «dichiarazioni di poetica» è ampiamente autorizzato. Su alcune funzioni della letteratura (1) Racconta la leggenda, e se non è vera è ben trovata, che una volta Stalin abbia domandato quante divisioni avesse il papa. Quello che è successo nei decenni successivi ci ha dimostrato che le divisioni sono certo importanti in date circostanze, ma non sono tutto. Ci sono dei poteri immateriali, non valutabili a peso, che in qualche modo pesano. Siamo circondati di poteri immateriali, che non si limitano a quelli che chiamiamo valori spirituali, come una dottrina religiosa. E' un potere immateriale anche quello delle radici quadrate, la cui legge severa sopravvive ai secoli e ai decreti non solo di Stalin, ma persino del papa. E tra questi poteri annovererei anche quello della tradizione letteraria, vale a dire del complesso di testi che l'umanità ha prodotto e produce non per fini pratici (come tenere registri, annotare leggi e formule scientifiche, verbalizzare sedute o provvedere orari ferroviari) ma piuttosto gratia sui, per amore di se stessi - e che si leggono per diletto, elevazione spirituale, allargamento delle conoscenze, magari per puro passatempo, senza che

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nessuno ci obblighi a farlo (se si prescinde dagli obblighi scolastici). E' vero che gli oggetti letterari sono immateriali solo a metà, perché si incarnano in veicoli che di solito sono cartacei. Ma un tempo si incarnavano nella voce di chi ricordava una tradizione orale, oppure su pietra, e oggi discutiamo sul futuro degli e-books, che dovrebbero permetterci di leggere sia una raccolta di barzellette che la Divina Commedia su uno schermo a cristalli liquidi. Avvertirò subito che non intendo intrattenermi stasera sulla vexata quaestio del libro elettronico. Io appartengo naturalmente a coloro che un romanzo o un poema preferiscono leggerselo su un volume cartaceo, di cui mi ricorderò persino le orecchie e la stazzonatura, ma mi dicono che esiste una generazione digitale di hackers che, non avendo mai letto un libro in vita propria, ora con l'e-book hanno avvicinato e gustato per la prima volta il Don Chisciotte. Tanto di guadagnato per la loro mente e tanto di perduto per la loro vista. Se le generazioni future arriveranno ad avere un buon rapporto (psicologico e fisico) con l'e-book, il potere del Don Chisciotte non cambierà. A che cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura? Basterebbe rispondere, come ho già fatto, che è un bene che si consuma gratia sui, e dunque non deve servire a nulla. Ma una visione così disincarnata del piacere letterario rischia di ridurre la letteratura allo jogging o alla pratica delle parole crociate - i quali oltretutto servono entrambi a qualcosa, vuoi alla salute del corpo, vuoi all'educazione lessicale. Quello di cui intendo parlare è quindi una serie di funzioni che la letteratura riveste per la nostra vita individuale e la vita sociale.

La letteratura tiene anzitutto in esercizio la lingua come patrimonio collettivo. La lingua, per definizione, va dove essa vuole, nessun decreto dall'alto, né da parte della politica, né da parte dell'accademia, può fermare il suo cammino e farla deviare verso situazioni che si pretendano ottimali. Il fascismo si è sforzato di farci dire mescita invece di bar, coda di gallo invece di cocktail, rete invece di goal, auto pubblica invece di taxi, e la lingua non gli ha dato retta. Poi ha suggerito una mostruosità lessicale, un arcaismo inaccettabile come autista in luogo di chauffeur, e la lingua lo ha accettato. Forse perché evitava un suono che l'italiano non conosce. Ha mantenuto taxi, ma gradatamente, almeno nel parlato, lo ha fatto diventare tassì. La lingua va dove vuole ma è sensibile ai suggerimenti della letteratura. Senza Dante non ci sarebbe stato un italiano unificato. Quando Dante, nel De vulgari eloquentia, analizza e condanna i vari dialetti italiani e si propone di foggiare un nuovo volgare illustre, nessuno avrebbe scommesso su un tale atto di superbia, eppure con la Commedia vince la sua partita. E' vero che per diventare lingua parlata da tutti, il volgare dantesco ha impiegato alcuni secoli, ma se ci è riuscito è perché la comunità di coloro che credevano alla

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letteratura ha continuato a ispirarsi a quel modello. E se non ci fosse stato quel modello non si sarebbe forse neppure fatta strada l'idea di una unità politica. Forse è per questo che Bossi non parla un volgare illustre. Venti anni di colli fatali, destini immarcescibili, eventi imprescindibili e aratri che tracciano il solco non hanno alfine lasciato alcuna traccia nell'italiano corrente, e ve ne hanno lasciato molta di più certi ardimenti, all'epoca inaccettabili, della prosa futurista. E se qualcuno oggi lamenta il trionfo di un italiano medio diffusosi attraverso la televisione, non dimentichiamo che l'appello a un italiano medio, nella sua forma più nobile, è passato attraverso la prosa piana e accettabile di Manzoni e poi di Svevo o di Moravia. La letteratura, contribuendo a formare la lingua, crea identità e comunità. Ho parlato prima di Dante, ma pensiamo a cosa sarebbe stata la civiltà greca senza Omero, l'identità tedesca senza la traduzione della Bibbia fatta da Lutero, la lingua russa senza Pu¬skin, la civiltà indiana senza i suoi poemi di fondazione. Ma la pratica letteraria tiene in esercizio anche la nostra lingua individuale. Oggi molti piangono la nascita di un linguaggio neotelegrafico che si sta imponendo attraverso la posta elettronica e i messaggini dei cellulari, dove si dice ti amo anche con una sigla; ma non dimentichiamo che i giovani che inviano messaggi in questa nuova stenografia sono, almeno in parte, gli stessi che affollano quelle nuove cattedrali del libro che sono le grandi librerie multipiano, e che, anche solo sfogliando senza comperare, vengono a contatto con stili letterari colti ed elaborati, a cui i loro genitori, e certamente i loro nonni, non erano stati esposti. Possiamo certo dire che, maggioranza rispetto ai lettori delle generazioni precedenti, questi giovani sono minoranza rispetto ai sei miliardi di abitanti del pianeta; né sono così 'idealista da pensare che a immense folle che mancano di pane e medicinali potrà portare sollievo la letteratura. Ma una osservazione vorrei fare: che gli sciagurati che, riunendosi in bande senza scopo, uccidono lanciando pietre dal cavalcavia o danno fuoco a una bambina, chiunque poi essi siano, non diventano tali perché sono stati corrotti dal Newspeak del computer (nemmeno al computer hanno accesso) ma perché restano esclusi dall'universo del libro e da quei luoghi dove, attraverso l'educazione e la discussione, arriverebbero a loro riverberi di un mondo di valori che arriva da e rinvia a libri.

La lettura delle opere letterarie ci obbliga a un esercizio della fedeltà e del rispetto nella libertà dell'interpretazione. C'è una pericolosa eresia critica, tipica dei nostri giorni, per cui di un'opera letteraria si può fare quello che si vuole, leggendovi quanto i nostri più incontrollabili impulsi ci suggeriscono. Non è vero. Le opere letterarie ci invitano alla libertà dell'interpretazione, perché ci propongono un discorso dai molti

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piani di lettura e ci pongono di fronte alle ambiguità e del linguaggio e della vita. Ma per poter procedere in questo gioco, per cui ogni generazione legge le opere letterarie in modo diverso, occorre essere mossi da un profondo rispetto verso quella che io ho altrove chiamato l'intenzione del testo. Da un lato ci pare che il mondo sia un libro «chiuso» che consente una sola lettura, perché se c'è una legge che governa la gravitazione planetaria, o è quella giusta o è quella sbagliata; rispetto a esso l'universo di un libro ci appare come un mondo aperto. Ma cerchiamo di avvicinarci con buon senso a un'opera narrativa e confrontiamo le proposizioni che possiamo enunciare intorno a essa con quelle che pronunciamo intorno al mondo. Del mondo, noi diciamo che le leggi della gravitazione universale sono quelle enunciate da Newton, o che è vero che Napoleone è morto a Sant'Elena il 5 maggio 1821. E tuttavia, se abbiamo una mente aperta, saremo sempre disposti a rivedere le nostre convinzioni, il giorno che la scienza enuncerà una diversa formulazione delle grandi leggi cosmiche, o uno storico troverà documenti inediti che provino che Napoleone era morto su di una nave bonapartista mentre tentava la fuga. Invece, rispetto al mondo dei libri, proposizioni come Sherlock Holmes era scapolo, Cappuccetto Rosso viene divorata dal lupo ma poi è liberata dal cacciatore, Anna Karenina si uccide, rimarranno vere in eterno e non potranno mai essere confutate da nessuno. Ci sono persone che negano che Gesù fosse figlio di Dio, altre che ne mettono addirittura in forse l'esistenza storica, altri che sostengono che è la Via, la Verità e la Vita, altri ancora che ritengono che il Messia sia ancora da venire e noi, comunque la pensiamo, trattiamo con rispetto queste opinioni. Ma nessuno tratterà con rispetto chi affermi che Amleto ha sposato Ofelia o che Superman non è Clark Kent. I testi letterari non solo ci dicono esplicitamente quello che non potremo mai più revocare in dubbio ma, a differenza del mondo, ci segnalano con sovrana autorità ciò che in essi va assunto come rilevante e ciò che non possiamo prendere come spunto per libere interpretazioni. Alla fine del capitolo 35 del Rosso e il nero è detto che Julien Sorel si reca alla chiesa e spara su Madame de Rênal. Dopo aver osservato che il suo braccio tremava, Stendhal ci dice che Julien tira un primo colpo e manca la sua vittima, poi ne tira un secondo e la signora cade. Ora immaginiamo di sostenere che il braccio che tremava, e il fatto che il primo colpo sia andato a vuoto, mostrino che Julien non si fosse recato alla chiesa con un fermo proposito omicida, bensì trascinato da un disordinato impulso passionale. A questa interpretazione se ne può opporre un'altra, che Julien avesse sin dall'inizio il proposito di uccidere, ma fosse un codardo. Il testo autorizza entrambe le interpretazioni. Si dà il caso che qualcuno si sia chiesto dove fosse finita la prima palla. Interessante quesito per i devoti stendhaliani. Così come i devoti joyciani vanno a Dublino a ricercare la farmacia dove Bloom avrebbe comperato una saponetta in forma di limone (e per

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accontentare questi pellegrini quella farmacia, che tra l'altro esiste davvero, si è messa a produrre di nuovo quel tipo di saponette), si possono immaginare dei devoti stendhaliani che cercano di individuare in questo mondo e Verrières e la chiesa, esplorandone poi ogni colonna per trovarvi il buco prodotto dalla palla. Si tratterebbe di un episodio di fanship, abbastanza divertente. Ma supponiamo ora che un critico voglia basare tutta la sua interpretazione del romanzo sulla sorte di quella palla perduta. Coi tempi che corrono non è inverosimile, anche perché c'è stato chi ha basato tutta la lettura della Lettera rubata di Poe sulla posizione della lettera rispetto al caminetto. Ma se Poe rende esplicitamente pertinente la posizione della lettera, Stendhal ci dice che di quella prima palla non si sa più nulla e quindi la esclude persino dal novero delle entità fittizie. Se si rimane fedeli al testo stendhaliano quella palla è definitivamente perduta, e dove sia finita è narrativamente irrilevante. Invece il non-detto di Armance circa la possibile impotenza del protagonista spinge il lettore a frenetiche ipotesi per completare quello che il racconto non dice, e nei Promessi sposi una frase come «la sventurata rispose» non dice sino a qual punto Gertrude si sia poi spinta nel suo peccato con Egidio, ma l'alone fosco delle ipotesi indotte nel lettore fa parte del fascino di questa pagina così pudicamente ellittica. All'inizio dei Tre moschettieri si dice che d'Artagnan arriva a Meung su un ronzino di quattordici anni il primo lunedì di aprile del 1625. Se si ha un buon programma sul proprio computer si può immediatamente stabilire che quel lunedì era il 7 aprile. Una squisitezza per trivia games tra devoti dumasiani. Si può impostare su questo dato una sovra-interpretazione del romanzo? Direi di no, perché il testo non rende rilevante quel dato. Il corso del romanzo non rende neppure rilevante che l'arrivo di d'Artagnan avvenisse di lunedì - mentre rende rilevante che fosse di aprile (si ricordi che, per celare il fatto che la sua splendida tracolla era ricamata solo sul davanti, Porthos indossava un lungo mantello di velluto cremisi che la stagione non giustificava - a tal punto che il moschettiere doveva fingere di essere raffreddato). Queste potranno sembrare a molti delle ovvietà, ma queste ovvietà (spesso dimenticate) ci dicono che il mondo della letteratura è tale da ispirarci la fiducia che ci sono alcune proposizioni che non possono essere revocate in dubbio, e ci offre quindi un modello, immaginario sin che volete, di verità. Questa verità letterale si riverbera su quelle che chiameremo verità ermeneutiche: perché a chi ci dicesse che d'Artagnan era trascinato da una passione omosessuale nei confronti di Porthos, che l'Innominato è stato indotto al male da un irrefrenabile complesso d'Edipo, che la Monaca di Monza, come certi politici d'oggi potrebbero suggerire, era stata corrotta dal comunismo, o che Panurge fa quello che fa in odio al nascente capitalismo, potremo sempre rispondere che nei testi a cui ci si riferisce non è possibile trovare alcuna affermazione, alcun suggerimento, alcuna insinuazione che ci permetta di abbandonarci a

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queste derive interpretative. Il mondo della letteratura è un universo nel quale è possibile fare dei test per stabilire se un lettore ha il senso della realtà o è preda delle sue allucinazioni.

I personaggi migrano. Possiamo fare affermazioni vere sui personaggi letterari perché ciò che accade loro è registrato in un testo, e un testo è come una partitura musicale. E' vero che Anna Karenina muore suicida così come è vero che la Quinta di Beethoven è in do minore (e non in fa maggiore come la Sesta) e inizia con «sol, sol, sol, mi bemolle». Ma a certi personaggi letterari - non a tutti - accade che escano dal testo in cui sono nati per migrare in una zona dell'universo che ci riesce molto difficile delimitare. I personaggi narrativi migrano, quando hanno fortuna, da testo a testo, e quelli che non migrano non è che siano ontologicamente diversi dai loro fratelli più fortunati; semplicemente non hanno avuto fortuna e non ci siamo più occupati di loro. Hanno migrato da testo a testo (e attraverso adattamenti in sostanze diverse, da libro a film o a balletto, o dalla tradizione orale al libro) sia i personaggi del mito che quelli della narrativa «laica», Ulisse, Giasone, Artù o Parsifal, Alice, Pinocchio, d'Artagnan. Ora, quando parliamo di personaggi del genere, ci riferiamo a una partitura precisa? Prendiamo il caso di Cappuccetto Rosso. Le due partiture più celebri, quella di Perrault e quella dei Grimm, differiscono profondamente. Nella prima la bambina viene divorata dal lupo e la storia finisce lì, ispirando dunque severe riflessioni moralistiche sui rischi dell'imprudenza. Nella seconda arriva il cacciatore, che uccide il lupo, e riporta alla vita la fanciulla e la nonna. Lieto fine. Ora immaginiamo una mamma che racconti la fiaba ai suoi bambini e si fermi quando il lupo divora Cappuccetto. I bambini protesterebbero e vorrebbero la «vera» storia, in cui Cappuccetto risuscita, e poco varrebbe se la mamma si dichiarasse filologa di stretta osservanza. I bambini conoscono una «vera» storia in cui veramente Cappuccetto risuscita e questa storia è più affine alla versione Grimm che a quella Perrault. Tuttavia non coincide con la partitura dei Grimm, perché lascia cadere una serie di fatti minori - su cui tra l'altro Perrault e i Grimm divergono, come ad esempio che tipo di doni Cappuccetto reca alla nonna, e su cui i bambini sono ampiamente disposti a transigere, perché si appellano a un individuo ben più schematico, fluttuante nella tradizione, instanziato in molteplici partiture, molte delle quali orali. Così Cappuccetto Rosso, d'Artagnan, Ulisse o Madame Bovary diventano individui che vivono al di fuori delle partiture originali, e su di essi possono pretendere di fare affermazioni vere anche persone che non hanno mai letto la partitura archetipa. Ancora prima di leggere l'Edipo Re io avevo appreso che Edipo sposa Giocasta. Per quanto siano fluttuanti, queste partiture non sono inverificabili: chiunque dicesse che Madame Bovary si riconcilia con Charles e vive

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con lui felice e contenta incontrerebbe la disapprovazione delle persone di sano buon senso, come se esse si fossero collettivamente accordate sul personaggio di Emma. Dove stanno questi individui fluttuanti? Dipende dal formato della nostra ontologia, se essa ospiti anche le radici quadrate, la lingua etrusca e due idee della Santissima Trinità, quella romana per cui lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio (ex Patre Filioque procedit), e quella bizantina, per cui lo Spirito procede solo dal Padre. Ma questa regione ha statuto molto impreciso e ospita entità di diverso spessore, perché anche il patriarca di Costantinopoli (disposto ad azzuffarsi col papa sul filioque) sarebbe d'accordo col papa (almeno spero) nel dire che è vero che Sherlock Holmes abitava in Baker Street, e che Clark Kent è la stessa persona di Superman. Tuttavia è stato scritto in infiniti romanzi o poemi che - invento degli esempi a caso - Asdrubale uccide Corinna o Teofrasto ama follemente Teodolinda, eppure nessuno pensa che si possano fare affermazioni vere al riguardo, perché si tratta di personaggi sfortunati o nati male, i quali non hanno migrato né sono entrati a far parte della memoria collettiva. Perché è più vero, in questo mondo, che Amleto non sposa Ofelia che non il fatto che Teofrasto abbia sposato Teodolinda? Qual è la porzione di questo mondo in cui abitano Amleto e Ofelia e non lo sfortunato Teofrasto? Certi personaggi sono diventati in qualche modo collettivamente veri perché la comunità ha fatto su di essi, nel corso dei secoli o degli anni, degli investimenti passionali. Noi facciamo investimenti passionali individuali su tante fantasie che possiamo elaborare a occhi aperti o nel dormiveglia. Noi possiamo realmente commuoverci pensando alla morte di una persona che amiamo, o risentire reazioni fisiche immaginandoci mentre abbiamo con essa un rapporto erotico, e parimenti, per processi di identificazione o di proiezione, possiamo commuoverci sulla sorte di Emma Bovary o, come è avvenuto ad alcune generazioni, essere trascinati al suicidio dalle sventure di Werther o di Jacopo Ortis. Ma, quando qualcuno ci chiedesse se veramente la persona, di cui abbiamo immaginato la morte, è morta, risponderemmo di no, che si è trattato di una nostra privatissima fantasia. Invece quando ci si chiede se veramente Werther si è ucciso rispondiamo di sì, e la fantasia di cui parliamo non è più privata, è una realtà culturale su cui l'intera comunità dei lettori conviene. Tanto che giudicheremmo folle chi si uccidesse solo perché ha immaginato (ben sapendo che si trattava di un parto della sua immaginazione) che la sua amata è morta, mentre cerchiamo di giustificare in qualche modo chi si sia ucciso per il suicidio di Werther, pur sapendo che si trattava di personaggio fittizio. Dovremo ben trovare uno spazio dell'universo dove questi personaggi vivono e determinano i nostri comportamenti, così che li eleggiamo a modello di vita, nostra e altrui, e ci comprendiamo benissimo quando diciamo che qualcuno ha il complesso di Edipo, un appetito gargantuesco, un comportamento donchisciottesco, la gelosia di un Otello, un dubbio amletico, è un dongiovanni inguaribile, una

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perpetua. E questo, in letteratura, non accade solo coi personaggi, ma anche con le situazioni, e gli oggetti. Perché le donne che vanno e vengono per la stanza parlando di Michelangelo, i cocci aguzzi di bottiglia infissi nella muraglia, nel sole che abbaglia, le buone cose di pessimo gusto, la paura che ci viene mostrata in un pugno di polvere, la siepe, le chiare, fresche e dolci acque, il fiero pasto, diventano metafore ossessive, pronte a ripeterci a ogni istante chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo, oppure ciò che non siamo e ciò che non vogliamo? Queste entità della letteratura sono tra noi. Non erano lì dall'eternità come (forse) le radici quadrate e il teorema di Pitagora, ma ormai, dopo che sono state create dalla letteratura e nutrite dai nostri investimenti passionali, esse ci sono e con esse dobbiamo fare i conti. Diciamo pure, per evitare discussioni ontologiche e metafisiche, che esse esistono come abiti culturali, disposizioni sociali. Ma anche il tabù universale dell'incesto è un abito culturale, una idea, una disposizione, eppure ha avuto la forza di muovere i destini delle società umane.

Ma, qualcuno oggi ci dice, anche i personaggi letterari rischiano di diventare evanescenti, mobili, incostanti, e di perdere quella loro fissità che ci imponeva di non negarne i destini. Siamo entrati nell'era dell'ipertesto, e l'ipertesto elettronico non solo ci permette di viaggiare attraverso un gomitolo testuale (sia esso un'intera enciclopedia o l'opera omnia di Shakespeare) senza necessariamente «sfilare» tutta l'informazione che contiene, penetrandolo come un ferro da maglia in un gomitolo di lana. Grazie all'ipertesto è nata anche la pratica di una scrittura inventiva libera. Su Internet trovate programmi con cui potete scrivere collettivamente delle storie, partecipando a narrazioni di cui è possibile modificare l'andamento, all'infinito. E se potete fare questo con un testo che, insieme a un gruppo di amici virtuali, state inventando, perché non farlo anche per i testi letterari esistenti, acquistando programmi grazie ai quali potrete cambiare le grandi storie che ci stanno ossessionando magari da millenni? Pensate, voi leggevate con passione Guerra e pace, chiedendovi se Natascia avrebbe finalmente ceduto alle lusinghe di Anatolio, se quel meraviglioso principe Andrea sarebbe davvero morto, se Pierre avrebbe avuto il coraggio di sparare su Napoleone, ed ora finalmente potrete rifare il vostro Tolstoj, conferendo ad Andrea una lunga vita felice, facendo di Pierre il liberatore dell'Europa, e non solo, riconciliando Emma Bovary col suo povero Charles, madre felice e pacificata; e potrete decidere che Cappuccetto Rosso entra nel bosco e v'incontra Pinocchio, oppure viene rapita dalla matrigna e messa a lavorare col nome di Cenerentola al servizio di Scarlett O'Hara, o che essa incontra nel bosco un donatore magico che si chiama Vladimir Ja. Propp, il quale le regala un anello incantato, grazie al quale essa scoprirà, alle radici del baniano sacro dei Thugs, l'Aleph, quel

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punto da cui si vede tutto l'universo, Anna Karenina che non muore sotto il treno, perché le ferrovie russe a scartamento ridotto, sotto il governo di Putin, funzionano peggio dei sommergibili, e, lontano lontano, al di là dello specchio di Alice, Jorge Luis Borges che ricorda a Funes el memorioso di non scordarsi di restituire Guerra e pace alla biblioteca di Babele... Sarebbe male? No, perché anche questo la letteratura ha già fatto, e prima degli ipertesti, con il progetto di Le Livre di Mallarmé, i cadaveri squisiti dei surrealisti, i miliardi di poemi di Queneau, i libri mobili della seconda avanguardia. Ed è questo che ha fatto la jam session jazz. Ma il fatto che esista la pratica della jam session, che muta ogni sera il destino di un tema, non ci esenta, né ci scoraggia, dall'andare nelle sale di concerto dove la Sonata in si bemolle minore op. 35 finirà ogni sera sempre nello stesso modo. Qualcuno ha detto che a giocare con meccanismi ipertestuali si sfugge a due forme di repressione, l'obbedienza a vicende decise da un altro e la condanna alla divisione sociale tra coloro che scrivono e coloro che leggono. Questo mi pare una sciocchezza, ma certamente giocare creativamente con gli ipertesti, modificando le storie e contribuendo a crearne delle nuove, può essere un'attività appassionante, un bell'esercizio da praticare a scuola, una nuova forma di scrittura molto affine alla jam session. Credo che potrà essere bello, e anche educativo, provare a modificare le storie che esistono già, così come sarebbe interessante trascrivere Chopin per mandolino: servirebbe ad aguzzare l'ingegno musicale, e a capire perché il timbro del pianoforte era così consustanziale alla sonata in si bemolle minore. Può educare al gusto visivo e all'esplorazione delle forme tentare dei collages componendo insieme lacerti del Matrimonio della Vergine, delle Demoiselles d'Avignon e dell'ultima storia dei Pokémon. In fondo molti grandi artisti lo hanno fatto. Ma questi giochi non sostituiscono la vera funzione educativa della letteratura, funzione educativa che non si riduce alla trasmissione di idee morali, buone o cattive che siano, o alla formazione del senso del bello. Jurij Lotman, nella Cultura e l'esplosione, riprende la famosa raccomandazione di ¬cechov, per cui se in un racconto o in un dramma viene mostrato all'inizio un fucile appeso alla parete, prima della fine quel fucile dovrà sparare. Lotman ci lascia capire che il vero problema non è se poi il fucile sparerà davvero. Proprio il non sapere se sparerà o no, conferisce significatività all'intreccio. Leggere un racconto vuole anche dire essere presi da una tensione, da uno spasimo. Scoprire alla fine che il fucile ha sparato o meno, non assume il semplice valore di una notizia. E' la scoperta che le cose sono andate, e per sempre, in un certo modo, al di là dei desideri del lettore. Il lettore deve accettare questa frustrazione, e attraverso di essa provare il brivido del Destino. Se si potesse decidere del destino dei personaggi, sarebbe come andare al banco di una agenzia di viaggi: «Allora dove vuole trovare la Balena, alle Samoa o alle Aleutine? E quando? E vuole ucciderla lei, o lascia fare

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a Quiqueg?» La vera lezione di Moby Dick è che la Balena va dove vuole. Pensate alla descrizione che Hugo fa della battaglia di Waterloo nei Miserabili. A differenza di Stendhal, che descrive la battaglia con gli occhi di Fabrizio, che ci sta dentro e non capisce che cosa stia avvenendo, Hugo la descrive con gli occhi di Dio, la vede dall'alto: sa che se Napoleone avesse saputo che oltre la cresta dell'altopiano di Mont-Saint-Jean c'era un dirupo (ma la sua guida non glielo aveva detto), i corazzieri di Milhaud non sarebbero rovinati ai piedi dell'esercito inglese; che se il pastorello che faceva da guida a Bülow avesse suggerito un percorso diverso, l'armata prussiana non sarebbe giunta in tempo a decidere le sorti della battaglia. Con una struttura ipertestuale potremmo riscrivere la battaglia di Waterloo facendo sì che arrivino i francesi di Grouchy invece che i tedeschi di Blücher, e ci sono dei war games che permettono di farlo, e con gran divertimento. Ma la tragica grandezza di quelle pagine di Hugo sta nel fatto che (al di là dei nostri desideri) le cose vanno invece come vanno. La bellezza di Guerra e pace è che l'agonia del principe Andrea si conclude con la morte, per quanto ci dispiaccia. La dolorosa meraviglia che ci procura ogni rilettura dei grandi tragici è che i loro eroi, che avrebbero potuto sfuggire a un fato atroce, per debolezza o cecità non capiscono a cosa vanno incontro, e precipitano nell'abisso che si sono scavati con le proprie mani. D'altra parte Hugo lo dice, dopo averci mostrato quali altre opportunità Napoleone a Waterloo avrebbe potuto cogliere: «Era possibile che Napoleone vincesse quella battaglia? Rispondiamo di no. Perché? A causa di Wellington? A causa di Blücher? No. A causa di Dio.» Questo ci dicono tutte le grandi storie, caso mai sostituendo a Dio il fato, o le leggi inesorabili della vita. La funzione dei racconti «immodificabili» è proprio questa: contro ogni nostro desiderio di cambiare il destino, ci fanno toccar con mano l'impossibilità di cambiarlo. E così facendo, qualsiasi vicenda raccontino, raccontano anche la nostra, e per questo li leggiamo e li amiamo. Della loro severa lezione «repressiva» abbiamo bisogno. La narrativa ipertestuale ci può educare alla libertà e alla creatività. E' bene, ma non è tutto. I racconti «già fatti» ci insegnano anche a morire. Credo che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma ora non mi vengono in mente. NOTE: (1) Discorso al festival degli scrittori, Mantova, settembre 2000. Poi in Studi di estetica («Il perché della letteratura»), 23, 2001. Lettura del Paradiso (1) «Perciò il Paradiso è poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto

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la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e risposte fra maestro e discente.» Così Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana. Ed esprimeva una riserva che ciascuno di noi ha fatto al liceo, a meno che non avesse un professore straordinario. D'altra parte, a sfogliare qualche storia della letteratura più recente, si trova l'annotazione che la critica romantica il Paradiso lo aveva deprezzato - condanna che ha pesato anche sul secolo successivo. Siccome voglio dire che, naturalmente, il Paradiso è la più bella delle tre cantiche della Commedia, torniamo a De Sanctis, che era sì uomo del suo tempo, ma anche lettore di straordinaria sensibilità, per vedere come la sua lettura del Paradiso sia un capolavoro di tormento interiore, qui lo dico e qui lo nego, di entusiasmo e diffidenza. De Sanctis, lettore acutissimo, si rende subito conto che nel Paradiso Dante deve parlare di cose indicibili, di un regno dello spirito, e si chiede come il regno dello spirito «possa avere una rappresentazione». Quindi - dice - per rendere artistico il Paradiso Dante ha immaginato un paradiso umano, accessibile al senso e all'immaginazione. Per questo cerca di trovare nella luce l'aggancio alle nostre possibilità umane di comprensione. E qui De Sanctis diventa lettore appassionato di questa poesia dove non ci sono differenze qualitative ma solo d'intensità luminosa, e cita turbe di splendori, nubi «quasi adamante che lo sol ferisse», beati che appaiono «sì come schiera d'api, che s'infiora», fiumane da cui escono faville vive, lumi in forma di riviera fulvidi di fulgori, beati che svaniscono «come per acqua cupa cosa grave». E nota che, quando san Pietro si sdegna contro Bonifacio VIII (rappresentando Roma in termini che rievocano piuttosto l'inferno: «fatt'ha del cimitero mio cloaca - del sangue e della puzza») l'intero cielo esprime il proprio sdegno semplicemente tingendosi di rosso. Ma basta un trascolorare per esprimere passioni umane? E qui De Sanctis si trova prigioniero della propria poetica: «in quel turbine di movimenti, la personalità scompare... non ci è differenza di aspetto, ma, per così dire, una faccia sola... Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il Paradiso a una corda sola, se non vi penetrasse la terra, e con la terra, altre forme ed altre passioni... I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia... E' tutto una sola onda di luce... l'individualità sparisce nel mare dell'essere.» Difetto inaccettabile, se poesia è espressione di umane passioni, e se la passione umana non può essere che carnale: vuoi mettere Paolo e Francesca che si baciano tutti tremanti sulla bocca, o l'orrore del fiero pasto, o il dannato che squadra le fiche a Dio? Tutta la contraddizione in cui De Sanctis si dibatte è dovuta a due malintesi: primo, che quel tentare di rappresentare il divino per sole intensità di luce e di colore, sia uno sforzo dantesco (originale, ma quasi impossibile) per umanizzare ciò che gli umani non possono concepire; secondo, che ci sia poesia solo nella

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rappresentazione delle passioni della carne e del cuore, e non ci possa essere poesia della pura intelligenza, perché in tal caso si finisce nella musica. (E a questo punto varrebbe la pena di prendersi gioco non del buon De Sanctis, ma del desanctismo degli stenterelli, pronti ad affermare che Bach non è poesia, e Chopin per fortuna un poco di più, che i clavicembali ben temperati e le Variazioni Goldberg non ci parlano d'amore terreno, mentre il preludio della goccia ci fa pensare a George Sand e alla tisi incombente, e questa, perdiana, è vera poesia, perché fa piangere.) Veniamo al primo punto. Cinema e giochi di ruolo ci incoraggiano a pensare al Medioevo come a una sequenza di secoli «oscuri», non dico ideologicamente (che al cinema non importa), bensì in termini di colore notturno e ombre cupe. Niente di più falso. La gente del Medioevo viveva certamente in ambienti oscuri, foreste, androni di castello, stanze anguste illuminate appena dal camino; ma, a parte che era gente che andava a dormire presto ed era più abituata al giorno che alla notte (che piacerà tanto ai romantici), il Medioevo rappresenta se stesso in toni squillanti. Il Medioevo identificava la bellezza (oltre che con la proporzione) con la luce e il colore, e questo colore era sempre elementare, una sinfonia di rossi, azzurri, oro, argento, bianco e verde, senza sfumature e chiaroscuri, dove lo splendore si genera dall'accordo d'insieme anziché farsi determinare da una luce che avvolga le cose dall'esterno o faccia stillare il colore oltre i limiti della figura. Nelle miniature medievali la luce sembra irradiarsi dagli oggetti. Per Isidoro di Siviglia i marmi sono belli a causa della loro bianchezza, i metalli per la luce che riflettono, e l'aria stessa è bella ed è detta tale perché aes-aeris deriva dallo splendore dell'aurum, e cioè dell'oro (e infatti come l'oro, non appena è colpita dalla luce, risplende). Le pietre preziose sono belle a causa del loro colore, dato che il colore altro non è che luce del sole imprigionata e materia purificata. Gli occhi sono belli se luminosi, e i più belli sono gli occhi glauchi. Una delle prime qualità di un corpo bello è la pelle rosata. Nei poeti questo senso del colore sfavillante è sempre presente, l'erba è verde, il sangue rosso, il latte candido, una bella donna ha per Guinizelli un «viso di neve colorato in grana» (per non dire, più tardi, delle chiare, fresche, dolci acque), le visioni mistiche di Hildegarda di Bingen ci mostrano fiamme rutilanti, e la stessa bellezza del primo angelo caduto è fatta di pietre rifulgenti a guisa di cielo stellato, così che l'innumerabile turba delle scintille, risplendendo nel fulgore di tutti i suoi ornamenti, rischiara di luce il mondo. La chiesa gotica, per far penetrare il divino nelle sue navate altrimenti oscure, è falciata da lame di luce che penetrano dalle vetrate, ed è per dar posto a questi corridoi di luce che lo spazio per le finestre e i rosoni si allarga, le mura quasi si annullano in un gioco di contrafforti e archi rampanti, e tutta la chiesa è costruita in funzione di un irrompere della luce attraverso un traforo di strutture.

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Huizinga ci ricorda l'entusiasmo del cronista Froissart per le navi con le bandiere e le fiamme sventolanti e i blasoni variopinti scintillanti al sole, il giuoco dei raggi del sole sugli elmi, le corazze, le punte delle lance, i pennoncelli e i vessilli dei cavalieri in marcia o, per i blasoni, le combinazioni di giallo pallido e azzurro, arancione e bianco, arancione e rosa, rosa e bianco, nero e bianco; e una giovinetta in seta viola su una chinea con gualdrappa di seta azzurra, condotta da tre uomini in seta vermiglia con cappe di seta verde. Alle origini di questa passione per la luce c'erano ascendenze teologiche, di lontana origine platonica e neoplatonica (il Bene come sole delle idee, la semplice bellezza di un colore data da una forma che domina l'oscurità della materia, la visione di Dio come Lume, Fuoco, Fontana Luminosa). I teologi fanno della luce un principio metafisico e si sviluppa in questi secoli, sotto l'influenza araba, l'ottica, da cui le riflessioni sulle meraviglie dell'arcobaleno e i miracoli degli specchi (alcune volte questi specchi appaiono liquidamente misteriosi, nella terza cantica). Dante non ha dunque inventato, giocando su una materia renitente alla poesia, la sua poetica della luce. Se la trovava intorno, e la riformulava, da par suo, a un pubblico di lettori che sentivano la luce e il colore come passione. Se si va a rileggere uno dei più bei saggi che io conosca sul Paradiso dantesco (Aspetti della poesia di Dante, di Giovanni Getto, del 1947) si vede come non c'è immagine del paradiso che non provenga da una tradizione che per il lettore medievale fa parte del proprio bagaglio, non dico di idee, ma di fantasie e sentimenti quotidiani. E' dalla tradizione biblica e dai padri della Chiesa che provengono queste fulgidezze, questi vortici di fiamme, queste lampade, questi soli, questi lustri e queste chiarezze che nascono «per guisa d'orizzonte che rischiari», queste candide rose, questi fiori rubicondi. Come diceva Getto, «Dante si trovava dunque di fronte ad un linguaggio, meglio, ad una lingua, già costituita ad esprimere la realtà della vita dello spirito, la misteriosa esperienza dell'anima nella sua catarsi, la vita della grazia come gioia stupenda, preludio di una stagione gaudiosa e sacra». Per l'uomo medievale, leggere di queste luci era come per noi fantasticare sulla grazia flessuosa di una diva, sulla linea ben sagomata di un'automobile, sugli amori di amanti perduti, brevi incontri, foglie morte, barattoli, balocchi e profumi e Marinelle, e con una intensità passionale e brividi dell'anima che ci sono ignoti. Altro che poesia dottrinale e discussione tra maestro e allievo! Col che si viene al secondo malinteso, che non ci possa essere poesia dell'intelligenza, capace di fare fremere non solo sul bacio di Paolo e Francesca, ma sulla architettura dei cieli, sulla natura della Trinità, sulla definizione della fede come sostanza di cose sperate e argomento delle non parventi. E' questo richiamo a una poesia dell'intelligenza che può rendere il Paradiso affascinante anche per il lettore moderno, che ha perduto i riferimenti familiari a quello medievale. Perché nel frattempo questo lettore ha conosciuto

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la poesia di John Donne, di Eliot, di Valéry o di Borges, e sa che la poesia può essere anche passione metafisica. E a proposito di Borges, da chi ha preso egli l'idea dell'Aleph, quel punto fatale da cui si vede il popoloso mare, l'alba e la sera, le moltitudini d'America, una ragnatela argentea al centro d'una nera piramide, un labirinto spezzato che era Londra, un cortile interno di via Soler con le stesse mattonelle viste trent'anni prima nell'andito di una casa di calle Frey Bentos, grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d'acqua, convessi deserti equatoriali, e a Inverness una donna indimenticabile, e in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione di Plinio, e contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina, un tramonto a Querétaro che sembra riflettere il colore di una rosa nel Bengala, un globo terraqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine in un gabinetto di Alkmaar, una spiaggia del mar Caspio all'alba, un mazzo di carte spagnolo in una vetrina di Mirzapur, stantuffi, bisonti, mareggiate, tutte le formiche che esistono sulla terra, un astrolabio persiano, e il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo? Il primo Aleph è quello dell'ultimo canto del Paradiso, quando Dante vede (e per quello che gli è possibile, ci fa vedere), «legato con amore in un volume - ciò che per l'universo si squaderna - sustanze e accidenti e lor costume - quasi conflati insieme...» Nel descriversi «la forma universal di questo nodo», con mente sospesa e corta favella, in quella chiara sussistenza, Dante vede tre giri di tre colori, e non come Borges i resti atroci di Beatriz Viterbo, perché la sua Beatrice, diventata resto atroce da gran tempo, è ritornata luce - e quindi l'Aleph di Dante è più passionalmente ricco di speranza che non quello allucinato di Borges, il quale ben sapeva che l'Empireo non gli era concesso, e gli restava solo Buenos Aires. E' dunque alla luce delle secolari vicende di una poesia dell'intelligenza che il Paradiso potrà essere oggi meglio letto e più gustato. Ma vorrei aggiungere qualcosa di più, per colpire l'immaginazione dei più giovani, o di coloro a cui non interessano né Dio né l'intelligenza. Il Paradiso dantesco è l'apoteosi del virtuale, degli immateriali, del puro software, senza il peso dello hardware terrestre e infernale, di cui rimangono i cascami nel Purgatorio. Il Paradiso è più che moderno, può diventare, per il lettore che abbia dimenticato la storia, tremendamente futuribile. E' il trionfo di una energia pura, ciò che la ragnatela del Web ci promette e non saprà mai darci, è una esaltazione di flussi, di corpi senz'organi, un poema fatto di novae e stelle nane, un Big Bang ininterrotto, un racconto le cui vicende corrono per la lunghezza di anni luce e, se proprio volete ricorrere a esempi familiari, una trionfale odissea nello spazio, a lietissimo fine. Se volete, leggete il Paradiso anche così, male non potrà farvi e sarà meglio di una discoteca stroboscopica e dell'ecstasy. Perché, quanto a estasi, la terza cantica mantiene le sue promesse. NOTE:

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(1) Scritto come articolo per la Repubblica del 6 settembre 2000, in una serie di interventi dedicati al settecentenario della Commedia, poi ripreso su Paragone, agosto-dicembre 1999. Sullo stile del Manifesto (1) Non si può sostenere che alcune belle pagine possano da sole cambiare il mondo. L'intera opera di Dante non è servita a restituire un Sacro Romano Imperatore ai comuni italiani. Tuttavia, nel ricordare quel testo che fu il Manifesto del Partito Comunista del 1848, e che certamente ha largamente influito sulle vicende di due secoli, credo occorra rileggerlo dal punto di vista della sua qualità letteraria o almeno - anche a non leggerlo in tedesco - della sua straordinaria struttura retorico-argomentativa. Nel 1971 era apparso il libretto di un autore venezuelano, Ludovico Silva, Lo stile letterario di Marx, poi tradotto da Bompiani nel 1973. Credo sia ormai introvabile e varrebbe la pena di ristamparlo. Rifacendo anche la storia della formazione letteraria di Marx (pochi sanno che aveva scritto anche delle poesie ancorché, a detta di chi le ha lette, bruttissime), Silva andava ad analizzare minutamente tutta l'opera marxiana. Curiosamente dedicava solo poche righe al Manifesto, forse perché non era opera strettamente personale. E' un peccato: si tratta di un testo formidabile che sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare e (se proprio la società capitalistica intende vendicarsi dei fastidi che queste non molte pagine le hanno procurato) dovrebbe essere religiosamente analizzato ancora oggi nelle scuole per pubblicitari. Inizia con un formidabile colpo di timpano, come la Quinta di Beethoven: «Uno spettro si aggira per l'Europa» (e non dimentichiamo che siamo ancora vicini al fiorire preromantico e romantico del romanzo gotico, e gli spettri sono entità da prendere sul serio). Segue subito dopo una storia a volo d'aquila sulle lotte sociali dalla Roma antica alla nascita e sviluppo della borghesia, e le pagine dedicate alle conquiste di questa nuova classe «rivoluzionaria» ne costituiscono il poema fondatore - ancora buono oggi, per i sostenitori del liberismo. Si vede (voglio proprio dire «si vede», in modo quasi cinematografico) questa nuova inarrestabile forza che, spinta dal bisogno di nuovi sbocchi per le proprie merci, percorre tutto l'orbe terraqueo (e secondo me qui il Marx ebreo e messianico sta pensando all'inizio del Genesi), sconvolge e trasforma paesi remoti perché i bassi prezzi dei suoi prodotti sono l'artiglieria pesante con la quale abbatte ogni muraglia cinese e fa capitolare i barbari più induriti nell'odio per lo straniero, instaura e sviluppa le città come segno e fondamento del proprio potere, si multinazionalizza, si globalizza, inventa persino una letteratura non più nazionale bensì mondiale. (2) Alla fine di questo elogio (che conquista in quanto è sinceramente ammirato), ecco il capovolgimento drammatico: lo stregone si trova

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impotente a dominare le potenze sotterranee che ha evocato, il vincitore è soffocato dalla propria sovraproduzione, è obbligato a generare dal proprio seno, a far sbocciare dalle proprie viscere i suoi propri becchini, i proletari. Entra ora in scena questa nuova forza che, dapprima divisa e confusa, si stempera nella distruzione delle macchine, viene usata dalla borghesia come massa d'urto costretta a combattere i nemici del proprio nemico (le monarchie assolute, la proprietà fondiaria, i piccoli borghesi), via via assorbe parte dei propri avversari che la grande borghesia proletarizza, come gli artigiani, i negozianti, i contadini proprietari, la sommossa diventa lotta organizzata, gli operai entrano in contatto reciproco a causa di un altro potere che i borghesi hanno sviluppato per il proprio tornaconto, le comunicazioni. E qui il Manifesto cita le vie ferrate, ma pensa anche alle nuove comunicazioni di massa (e non dimentichiamoci che Marx ed Engels nella Sacra famiglia avevano saputo usare la televisione dell'epoca, e cioè il romanzo di appendice, come modello dell'immaginario collettivo, e ne criticavano l'ideologia usando linguaggio e situazioni che esso aveva reso popolari). A questo punto entrano in scena i comunisti. Prima di dire in modo programmatico che cosa essi sono e che cosa vogliono, il Manifesto (con mossa retorica superba) si pone dal punto di vista del borghese che li teme, e avanza alcune terrorizzate domande: ma voi volete abolire la proprietà? Volete la comunanza delle donne? Volete distruggere la religione, la patria, la famiglia? Qui il gioco si fa sottile, perché il Manifesto a tutte queste domande sembra rispondere in modo rassicurante, come per blandire l'avversario - poi, con una mossa improvvisa, lo colpisce sotto il plesso solare, e ottiene l'applauso del pubblico proletario... Vogliamo abolire la proprietà? Ma no, i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetto di trasformazioni, la Rivoluzione francese non ha forse abolito la proprietà feudale in favore di quella borghese? Vogliamo abolire la proprietà privata? Ma che sciocchezza, non esiste, perché è la proprietà di un decimo della popolazione a sfavore dei nove decimi. Ci rimproverate allora di volere abolire la «vostra» proprietà? Eh sì, è esattamente quello che vogliamo fare. La comunanza delle donne? Ma suvvia, noi vogliamo piuttosto togliere alla donna il carattere di strumento di produzione. Ma ci vedete mettere in comune le donne? La comunanza delle donne l'avete inventata voi, che oltre a usare le vostre mogli approfittate di quelle degli operai e come massimo spasso praticate l'arte di sedurre quelle dei vostri pari. Distruggere la patria? Ma come si può togliere agli operai quello che non hanno? Noi vogliamo anzi che trionfando si costituiscano in nazione... E così via, sino a quel capolavoro di reticenza che è la risposta sulla religione. Si intuisce che la risposta è «vogliamo distruggere questa religione», ma il testo non lo dice: mentre abborda un argomento così delicato sorvola, lascia capire che tutte le trasformazioni hanno un prezzo, ma insomma, non apriamo subito

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capitoli troppo scottanti. Segue poi la parte più dottrinale, il programma del movimento, la critica dei vari socialismi, ma a questo punto il lettore è già sedotto dalle pagine precedenti. E se poi la parte programmatica fosse troppo difficile, ecco un colpo di coda finale, due slogan da levare il fiato, facili, memorizzabili, destinati (mi pare) a una fortuna strepitosa: «I proletari non hanno da perdere che le loro catene» e «Proletari di tutto il mondo unitevi». A parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica (e non solo) e dovrebbe essere studiato a scuola insieme alle Catilinarie e al discorso shakespeariano di Marco Antonio sul cadavere di Cesare. Anche perché, data la buona cultura classica di Marx, non è da escludere che proprio questi testi egli avesse presenti. NOTE: (1) Pubblicato sull'Espresso (8 gennaio 1998) per il centocinquantenario del Manifesto del Partito Comunista. (2) Quando scrivevo l'articolo evidentemente già si parlava di globalizzazione, e non ho usato l'espressione per caso. Ma oggi, che sul problema siamo tutti sensibilizzati, vale veramente la pena di andarsi a rileggere queste pagine. E' impressionante come il Manifesto avesse visto nascere, con un anticipo di centocinquant'anni, l'era della globalizzazione, e le forze alternative che essa avrebbe scatenato. Come a suggerirci che la globalizzazione non è un incidente avvenuto durante il percorso dell'espansione capitalistica (solo perché è caduto il muro ed è arrivato Internet) ma il disegno fatale che la nuova classe emergente non poteva evitare di tracciare, anche se allora, per l'espansione dei mercati, la via più comoda (anche se più sanguinosa) si chiamava colonizzazione. E' anche da rimeditare (e va consigliato non ai borghesi ma alle tute di ogni colore), l'avvertimento che ogni forza alternativa alla marcia della globalizzazione, all'inizio, si presenta divisa e confusa, tende al puro luddismo, e può venire usata dall'avversario per combattere i propri nemici. Le brume del Valois (1) Ho scoperto Sylvie a vent'anni, quasi per caso, e l'ho letto sapendo pochissimo di Nerval. Ho letto il racconto in stato di assoluta innocenza, e ne sono stato sconvolto. Più tardi ho scoperto che anche Proust aveva provato le mie stesse impressioni. Non ricordo come le avevo espresse nel mio lessico di allora, visto che ormai non riesco a renderle che con le parole di Proust nelle poche pagine che dedica a Nerval in Contre Sainte-Beuve. Sylvie certo non è, come voleva Barrès (e una certa critica «reazionaria»), un idillio neoclassico, tipicamente francese, non esprime un radicamento alla terra natale (caso mai il protagonista si

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sente alla fine sradicato). Sylvie ci parla di qualcosa - di un colore irreale - che vediamo talora dormendo e di cui vorremmo fissare i contorni, che fatalmente perdiamo quando ci si ridesta. Sylvie è il sogno di un sogno, e la sua qualità onirica è tale che «siamo costretti a ogni momento a tornare indietro, alle pagine precedenti, per vedere dove ci si trovi...» Le tinte di Sylvie non sono quelle di un pastello classico: Sylvie è di «un color porpora, di un rosa porpora di velluto purpureo e violaceo, agli antipodi dei toni di acquarello della "Francia moderata"». Non è un modello di «grazia piena di misura» bensì di una «ossessione morbosa». L'atmosfera di Sylvie è «bluastra e purpurea», ma questa atmosfera non sta nelle parole bensì tra una parola e un'altra: «come la nebbia di un mattino a Chantilly.» (2) Forse a vent'anni non sapevo dire così: ma uscivo dal racconto come se avessi gli occhi impastati, non tanto come accade nei sogni, bensì su quella soglia mattutina in cui ci si risveglia lentamente da un sogno, si confondono le prime riflessioni coscienti con gli ultimi barlumi onirici, e si perde (o non si è ancora superato) il confine tra sogno e realtà. Senza aver letto ancora Proust, sapevo di aver provato un effetto-nebbia. Ho riletto tante volte questo racconto nel corso degli ultimi quarantacinque anni, e ogni volta cercavo di spiegare a me stesso e agli altri perché mi facesse quell'effetto. Ogni volta credevo di averlo scoperto, eppure ogni volta che riprendevo a rileggere mi ritrovavo come all'inizio, ancora prigioniero dell'effetto-nebbia. Nelle pagine che seguono cercherò di chiarire perché e come il testo riesce a produrre i suoi effetti-nebbia. Ma chi voglia seguirmi non deve temere di perdere, sapendone troppo, la magia di Sylvie. Anzi, quanto più ne saprà, tanto più riuscirà a rileggerlo con rinnovato stupore. (3) NOTE: (1) Rifacimento di una parte della Postfazione alla mia traduzione di Gérard de Nerval, Sylvie (Torino: Einaudi, 1999). Ho già raccontato nel mio Sei passeggiate nei boschi narrativi (Milano: Bompiani, 1994) come su questo racconto abbia prima scritto un saggetto («Il tempo di Sylvie», in Poesia e critica, 2, 1962), poi abbia svolto una serie di seminari all'Università di Bologna negli anni settanta, da cui sono uscite tre tesi di laurea, l'abbia ripreso per un corso alla Columbia University nel 1984, ne abbia fatto oggetto delle Norton Lectures a Harvard nel 1993, e di altri due corsi, a Bologna nel 1995 e alla école Normale Supérieure, a Parigi, nel 1996. Il risultato più interessante di questi miei molteplici interventi è stato il numero speciale della rivista VS, 31ì32, 1982 (Sur «Sylvie»). (2) Marcel Proust, «Gérard de Nerval», in Contro Sainte-Beuve (Torino: Einaudi, 1974, pp. 34-38). (3) Un consiglio che devo dare al lettore è di leggere (o di rileggere), prima di questo saggio, il testo di Sylvie. Prima di

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passare alla riflessione critica è importante scoprire o ritrovare il piacere di una lettura «innocente». Inoltre, visto che rinvierò sovente ai vari capitoli, e che abbiamo appena detto, con Proust, che «siamo costretti a ogni momento a tornare indietro, alle pagine precedenti, per vedere dove ci si trovi», è indispensabile fare l'esperienza diretta di questo va e vieni. Labrunie e Nerval Devo iniziare con una distinzione molto importante. Voglio qui eliminare subito un personaggio scomodo, che è l'autore empirico. L'autore empirico di questa storia si chiamava Gérard Labrunie, e scriveva sotto il nom de plume di Gérard de Nerval. Se cerchiamo di leggere Sylvie pensando a Labrunie, siamo subito fuori strada. Per esempio si deve tentare, come hanno fatto molti esegeti, di vedere come e quanto i fatti narrati in Sylvie rinviino alla vita di Labrunie. Ed ecco che in genere le edizioni e le traduzioni di Sylvie sono accompagnate da note di carattere biografico che discutono se Aurélie fosse l'attrice Jenny Colon (a proposito, a chi ne veda il ritratto, riprodotto in varie edizioni, cascano le braccia), se a Loisy ci fosse davvero una compagnia dell'arco (o se non fosse invece a Creil), se Labrunie avesse realmente ricevuto una eredità dallo zio, o se il personaggio di Adrienne fosse ispirato da Sophie Dawes, baronessa de Feuchères. Molte solide reputazioni accademiche sono state costruite sulla base di tali puntigliose ricerche, utilissime per scrivere una biografia di Gérard Labrunie, ma non per capire Sylvie. Gérard Labrunie è morto suicida dopo essere entrato e uscito da varie cliniche psichiatriche, e sappiamo da una sua lettera che aveva scritto Sylvie ormai in stato di sovraeccitazione, a matita e su foglietti sparsi. Ma se Labrunie era folle, non lo era Nerval, vale a dire quell'Autore Modello che riusciamo a individuare proprio attraverso la lettura di Sylvie. Questo testo racconta la storia di un eroe che sfiora la follia, ma non è l'opera di un malato: chiunque l'abbia scritto (e questo chiunque è colui che d'ora in poi chiamerò Nerval), esso è costruito in modo mirabile, in un gioco di simmetrie, opposizioni e richiami interni. Se Nerval non è un personaggio estraneo al racconto, come vi appare? Anzitutto come strategia narrativa. La storia e l'intreccio Per capire la strategia narrativa di Nerval e come egli riesca a creare nel lettore gli effetti-nebbia di cui dicevo, debbo rimandare alla Tabella A [grafico non riproducibile in Braille]. (4) In orizzontale registro la serie dei capitoli del racconto, mentre a sinistra, in verticale, ricostruisco la sequenza temporale degli avvenimenti di cui il racconto parla. Dunque, in verticale ricostruisco la fabula o storia, e in orizzontale lo svolgimento dell'intreccio. L'intreccio è il modo in cui il racconto è costruito in superficie

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e ci viene pian piano esposto: un giovane esce da un teatro, decide di andare al ballo di Loisy, durante il viaggio rievoca un viaggio precedente, arriva al ballo, rivede Sylvie, passa con essa una giornata, torna a Parigi, ha un'avventura con l'attrice e finalmente (Sylvie ormai sposata a Danmartin) si decide a raccontare la propria storia. Visto che l'intreccio inizia nella sera in cui il protagonista usciva da un teatro (per convenzione, tempo 1), il suo svolgimento è rappresentato dalla linea nera che, da quella sera, per tempi successivi (tempi 1-14), via via si snoda sino alla fine del racconto. Ma nel corso di queste vicende s'innervano rievocazioni dei tempi andati, rappresentate dalle frecce che puntano verso tempi anteriori al tempo 1. Le linee verticali intere rappresentano le ricostruzioni del protagonista, quelle punteggiate i riferimenti al passato che hanno luogo, talora di sfuggita, nel corso dei dialoghi tra i vari personaggi. Per esempio, tra l'una e le quattro del mattino il protagonista ricorda il suo viaggio precedente a Loisy (in tempo 1), che a livello dell'intreccio occupa tre capitoli, mentre nei capitoli 9 e 10 si rievocano fuggevolmente episodi di Sylvie bambina e la vicenda dell'uaccua, in tempo 3. Grazie a queste rievocazioni si ricostruisce, a strappi, la fabula, ovvero la sequenza temporale di tutte le vicende di cui parla il racconto: il protagonista prima era piccolo e amava Sylvie, poi più grandicello incontra Adrienne a un ballo, più tardi torna a Loisy, finalmente una sera, già adulto, decide di tornarvi ancora e così via. L'intreccio è quello che è, lo abbiamo sotto gli occhi leggendo. La fabula invece non è così evidente, ed è nel tentare di ricostruirla che si creano alcuni effetti-nebbia, perché non si coglie mai con esattezza di quale tempo la voce narrante stia parlando. La mia tabella non pretende di dissolvere gli effetti-nebbia, bensì di spiegare come possano nascere. E la fabula viene ricostruita in modo ipotetico, nel senso che probabilmente gli eventi rievocati corrispondono a esperienze vissute prima verso i dieci-dodici, poi tra i quattordici e i sedici, e infine tra i sedici e i diciotto anni di vita (ma si potrebbe fare anche un conto diverso, il protagonista poteva essere un ragazzo estremamente precoce o molto ritardato). Quanto la ricostruzione (soltanto probabile) debba essere fatta in base al testo e non a elementi della biografia di Labrunie ce lo dice la vicenda di alcuni commentatori che si sforzano di collocare la sera del teatro nel 1836, visto che il clima morale e politico evocato sembra corrispondere a quello di quegli anni e che il club citato sarebbe il Café de Valois, chiuso poi alla fine del 1836, con altre case da gioco. Se si appiattisce il protagonista su Labrunie, nasce una serie alquanto grottesca di problemi. Quanti anni aveva dunque il ragazzo nel '36, e quanti quando ha visto Adrienne al ballo? Siccome Labrunie (nato nel 1808) ha smesso di vivere con lo zio a Mortefontaine nel 1814 (all'età di sei anni), quando è stato al ballo? Visto che è entrato al Collège Charlemagne nel 1820, a dodici

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anni, è allora che torna l'estate a Loisy e vede Adrienne? Ma allora, la sera del teatro ha ventotto anni? E se, come molti accettano, la visita alla zia, a Othys, avviene tre anni prima, è un fanciullone di venticinque anni quello che gioca con Sylvie a travestirsi da guardiacaccia, e che la zia tratta da bel biondino? Un fanciullone che nel frattempo (1834) ha ricevuto una eredità di trentamila franchi e ha già fatto un viaggio in Italia - vero e proprio rito d'iniziazione - e che nel 1827 ha già tradotto il Faust di Goethe? Come si vede, non se ne esce, e dunque occorre rinunciare a questi calcoli da ufficio anagrafe. NOTE: (4) Una tabella del genere appariva già in Sei passeggiate, cit. Questa, come la Tabella B [non riproducibile in Braille], sono riprese dalla traduzione einaudiana, per gentile concessione della casa editrice. Je-rard e Nerval Il racconto inizia con Je sortais d'un théâtre. Siamo di fronte a due entità (un Io e un teatro) e a un verbo all'imperfetto. Visto che non è Labrunie (che abbiamo abbandonato al suo triste destino) chi è allora quel Je che parla? In un racconto in prima persona colui che dice Io è il protagonista del racconto, e non necessariamente l'autore. Quindi (eliminato Labrunie) Sylvie viene scritta da Nerval, il quale mette in scena un Io che ci racconta qualcosa. Abbiamo quindi la narrazione di una narrazione. Per eliminare ogni equivoco, decidiamo che quel Je, che all'inizio usciva da un teatro, è un personaggio che chiameremo Jerard. Ma quando parla Jerard? Egli parla in quello che chiameremo Tempo della Enunciazione Narrativa (o tempo N), e cioè nel momento in cui inizia a scrivere e a rievocare il suo passato dicendoci che un giorno (tempo 1, Tempo d'Inizio dell'Intreccio) stava uscendo da un teatro. Se volete, visto che il racconto appare nel 1853, potremmo pensare che il tempo N sia quello, ma si tratterebbe di pura convenzione, tanto per poter tentare un conto alla rovescia. Visto che non si sa quanti anni passino tra tempo 14 e tempo N (ma sono molti, visto che in tempo N già si ricorda una Sylvie che ha due bambini ormai in grado di tirare all'arco), la sera del teatro potrebbe essere collocata indifferentemente cinque o dieci anni prima, purché si immagini che in tempo 3 Jerard e Sylvie fossero ancora bambini. Ora, il Jerard che parla in tempo N racconta del se stesso di molti anni prima, il quale a sua volta rievocava vicende del Jerard bambino e adolescente. Niente di strano, accade anche a noi di dire «[Ioche parlo ora] quando avevo diciott'anni [Ioallora], non riuscivo ancora a consolarmi del fatto che [Ioa sedici anni avevo coltivato un amore infelice». Ma questo non vuole dire che l'Iopartecipi ancora di quella passione adolescenziale dell'Ioné che riesca a giustificare le melanconie dell'IoAl massimo può ricordarle con indulgenza e

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tenerezza, scoprendosi così diverso da come era un tempo. In un certo senso è quello che fa Jerard, salvo che, riconoscendosi così diverso attraverso i tempi, non riesce mai a dirci con quale dei suoi Io passati s'identifichi, e rimane talmente confuso sulla sua stessa identità che in tutta la storia non si nomina mai, se non nel primo paragrafo del capitolo 13 come «un ignoto». Quindi anche quel pronome così apparentemente indiscutibile designa sempre un Altro. Ma non è che esistano solo molti Jerard, è che talora chi parla non è Jerard, bensì Nerval, il quale per così dire entra di soppiatto nel racconto. Si noti che ho detto «nel racconto», non nella fabula o nell'intreccio. Fabula e intreccio sono identificabili ma solo perché ci sono comunicati attraverso un discorso. Per capirci meglio, nel tradurre Sylvie ho trasformato il discorso originale, in francese, in un discorso in italiano, cercando però di mantenere inalterati e fabula e intreccio. Un regista potrebbe «tradurre» in film l'intreccio di Sylvie, permettendo allo spettatore, con un gioco di dissolvenze e flashback, di ricostruire la fabula (non voglio decidere con quante possibilità di successo): ma certamente non potrebbe tradurre il discorso come io ho fatto, perché dovrebbe trasformare le parole in immagini, e c'è differenza tra scrivere pallida come la notte e fare vedere una donna pallida. Nerval nella fabula e nell'intreccio non appare mai, ma nel discorso sì, e non solo (come accadrebbe per qualsiasi autore) come modo di scegliere le parole e di articolarle in frasi e periodi. Vi entra surrettiziamente come «voce» che parla a noi, i suoi lettori modello. Chi dice (nel secondo paragrafo del terzo capitolo) «torniamo alla realtà»? Jerard che parla a se stesso, dopo aver dubitato dell'identità di Adrienne e Aurélie? Nerval che rivolge un invito al suo personaggio, o a noi lettori, presi da quell'incantamento? Più avanti, tra l'una e le quattro del mattino, mentre Jerard viaggia verso Loisy, il testo dice: «Mentre la carrozza sale le pendici, ricomponiamo i ricordi del tempo in cui vi venivo così sovente.» E' Jerard in tempo 3 che parla, in una sorta di monologo interiore che si sta svolgendo al presente dell'indicativo? E' Jerard in tempo N che dice «mentre quello sta salendo, abbandoniamolo per qualche istante, e cerchiamo di riandare a un tempo precedente»? E quel «ricomponiamo» è una esortazione che Jerard rivolge a se stesso, o che Nerval rivolge a noi, a noi lettori che siamo così chiamati a far parte del suo percorso di scrittura? Chi dice all'inizio del capitolo 14 «tali sono le chimere che ammaliano e sconvolgono all'alba della vita»? Potrebbe essere Jerard in tempo N, complice e vittima delle sue passate illusioni, ma si noterà che in quella osservazione si giustifica l'ordine in cui le vicende sono state raccontate, con un appello diretto ai lettori («ma molti cuori mi comprenderanno»). Chi parla - dunque - non sembra essere Jerard, bensì l'autore di quel Sylvie che stiamo leggendo. Molto è stato scritto su questo gioco di voci, ma tutto rimane sempre indecidibile. E' proprio Nerval che ha deciso di rimanere

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indecidibile, e ce lo dice non solo per partecipare del nostro smarrimento (e comprenderlo), ma proprio per esasperarlo. Per quattordici capitoli non sappiamo mai se chi parla sta dicendo delle cose o se sta rappresentando qualcuno che parla di cose - né è mai chiaro di primo acchito se questo qualcuno tali cose le stia vivendo o ricordando. Si «esce» dal teatro? Sin dalla prima frase del racconto entra in scena, è il caso di dirlo, il tema del teatro, che non ci abbandonerà più sino alla fine del racconto. Nerval era uomo di teatro, Labrunie si era davvero innamorato di una attrice, Jerard ama una donna che ha visto solo sul palcoscenico, e per palcoscenici si aggira sin quasi alla fine del racconto. Ma il teatro riappare in Sylvie a ogni istante, sono eventi teatrali il ballo sul prato con Adrienne, la festa dei fiori di Loisy (e macchina teatrale è il cesto da cui si leva il cigno), la messa in scena che Jerard e Sylvie escogitano a casa della zia, la sacra rappresentazione di Châalis. Non solo, molti hanno notato che Nerval usa sempre per le scene più pregnanti una illuminazione di tipo teatrale. L'attrice appare prima rischiarata dalle luci della ribalta, poi da quelle della lumiera, ma tecniche di illuminazione teatrale sono messe in opera nel primo ballo sul prato, dove gli ultimi raggi del sole arrivano attraverso il fogliame degli alberi che fanno da quinta; e mentre Adrienne canta rimane come isolata dal riflettore della luna (e tra l'altro esce da quello che oggi chiameremmo un «occhio di bue» con un grazioso saluto d'attrice che si congeda dal pubblico). All'inizio del capitolo 4, nel «viaggio a Citera» (che oltretutto è rappresentazione verbale di una rappresentazione visiva, perché è ispirato a un quadro di Watteau), di nuovo la scena è illuminata dall'alto dai raggi vermigli della sera. Infine, quando nel capitolo 7 Jerard entra al ballo di Loisy, assistiamo a un capolavoro di regia in cui a poco a poco si lascia in ombra la base dei tigli, tingendoli al sommo di bluastro, sino a che, in questa lotta tra i lumi artificiali e il giorno che sorge, la scena viene lentamente pervasa della luce pallida del mattino. Non bisogna quindi farsi ingannare da una lettura «rozza» di Sylvie e dire che - Jerard essendo combattuto tra il sogno di una illusione e il desiderio di trovare la realtà - il racconto gioca su una opposizione chiara e netta tra teatro e realtà. Anzitutto, ogni volta che Jerard tenta di uscire da un teatro, entra in un altro. Jerard inizia con una celebrazione della sola verità dell'illusione, di cui s'inebria anche nel corso del secondo capitolo. Nel terzo capitolo pare iniziare un viaggio verso la realtà, perché la Sylvie che vuole raggiungere «esiste», ma la ritrova non più essere di natura, bensì imbevuta di cultura, che canta fraseggiando (e ormai usa gli abiti di nozze della zia per andare a un ballo in maschera, ed è pronta, da attrice consumata, a rifare Adrienne e a ricantare la canzone che essa cantava a Châalis, con Jerard che le fa da regista). E da

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personaggio teatrale si comporta di conseguenza lo stesso Jerard (nel capitolo 11) quando fa l'ultimo tentativo di conquistarla, assumendo una posa da tragedia classica. Così il teatro è talora luogo dell'illusione trionfante e salvifica, talora luogo della delusione e del disinganno. Quella che il racconto mette in questione (e di qui un altro effetto-nebbia) non è l'opposizione tra illusione e realtà, ma la frattura che attraversa i due universi, e li confonde. Le simmetrie dell'intreccio Se torniamo alla Tabella A vediamo che i quattordici capitoli, in cui si organizza l'intreccio, possono essere divisi in due metà, l'una prevalentemente notturna e l'altra prevalentemente diurna. La sequenza notturna si riferisce a un mondo vagheggiato nel ricordo e nel sogno; tutto vi viene vissuto in modo euforico, nell'incanto della natura, lo spazio è percorso lentamente, descritto con ampiezza di dettagli festosi. Nella sequenza diurna Jerard invece ritrova un Valois che è puro artificio, fatto di false rovine, dove gli stessi percorsi del viaggio precedente vengono rivisitati in stato di disforia, senza soffermarsi sui dettagli del paesaggio e mettendo a fuoco solo epifanie del disappunto. Dal quarto al sesto capitolo, dopo la festa, occasione di sorprese fiabesche come l'apparizione del cigno, e l'incontro con una Sylvie che ormai pare riassumere in sé le grazie dei due fantasmi ripudiati, ecco che Jerard s'inoltra la notte per la foresta (complice una luna anch'essa teatrale che illumina le rocce di arenaria): gli stagni si profilano lontani nella piana brumosa, l'aria è profumata, via via si stagliano all'orizzonte aggraziate rovine medievali. Gaio è il villaggio, virginale la camera di Sylvie che lavora al tombolo, e una festa di fiori è il cammino sino alla casa della zia, tra ranuncoli e cinciallegre, pervinche e digitale purpurea, siepi e ruscelli, che i due giovani saltano con allegria. La Thève si assottiglia a mano a mano che si avvicina alla sorgente, e riposa nei prati formando un laghetto tra iris e gladioli. Poco rimane da dire sull'idillio settecentesco di Othys, dove il passato profuma di buono. Nel secondo viaggio (capitoli 8-11) Jerard arriva che la festa è ormai finita, i fiori sulla chioma e sul corsetto di Sylvie languiscono, la Thève mostra mulinelli d'acqua stagnante, ci sono le biche di fieno ma il loro profumo non è più inebriante come un tempo. Se nel primo viaggio, andando a Othys, i due adolescenti saltavano siepi e ruscelli, ora non viene loro in mente di attraversare i campi. Jerard va, senza descrivere il percorso, alla casa dello zio, e la trova abbandonata, il cane morto, il giardino inselvatichito. Prende la via di Ermenonville, ma curiosamente gli uccelli tacciono e i paletti indicatori hanno scritte sbiadite. Quelle che gli appaiono sono le ricostruzioni artificiali del Tempio della Filosofia, ormai anch'esse in rovina; i lauri sono scomparsi, e sul lago (artificiale) sotto alla torre di Gabrielle «la schiuma ribolle, ronza l'insetto».

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L'aria è mefitica, l'arenaria polverosa, tutto è triste e solitario. Come Jerard arriva nella camera di Sylvie, i canarini hanno sostituito le capinere, i mobili sono moderni e leziosi, Sylvie stessa non fa più suonare i suoi fuselli bensì manovra un «meccanismo», la zia è morta. La passeggiata a Châalis non sarà una corsa folle per i prati, ma un lento procedere con l'aiuto di un asinello, nel corso del quale non si raccoglieranno più fiori, ma si farà piuttosto una gara di cultura, in un clima di mutua diffidenza. Vicino a Saint-S*** bisogna fare attenzione dove si mettono i piedi perché ruscelli infidi serpeggiano tra l'erba. Quando infine al capitolo 14 Jerard ritornerà su quegli stessi luoghi, non ritroverà neppure i boschi di un tempo, Châalis viene restaurato, gli stagni scavati invano ostentano acqua morta «che il cigno ormai diserta», non vi è più strada diretta per Ermenonville, lo spazio è diventato ancor più labirinto insensato. La ricerca delle simmetrie inverse potrebbe essere portata più in fondo, ed è stato fatto da molti, così che emergono rapporti quasi speculari tra i vari capitoli (vale a dire il primo e l'ultimo, il secondo e il tredicesimo, eccetera, anche se le corrispondenze non seguono una regola matematica). Si vedano gli esempi più vistosi: [Nota all'edizione Braille: nell'elenco che segue si alternano le corrispondenze fra lo stato euforico (indicato con E) e quello disforico (indicato con D).] 1. Tiro all'arco come rievocazione mitica D 14. Tiro all'arco come gioco di bambini E 2. Saluto grazioso di Adrienne, votata alla vita monastica D 13. Saluto grazioso di Aurélie, donna di mondo E 3. Orologio rotto: promessa di un tempo da riconquistare D 12. Orologio rotto: ricordo di un tempo perduto E 4. Ballo: D 8. Ballo: E - le ragazze rappresentano mille anni della storia di Francia D - i ragazzi sono figli di famiglie decadute E - Jerard è il solo ragazzo della danza D - ciascun ragazzo con una ragazza E - per Adrienne si appronta appositamente una corona D - la corona per Sylvie viene presa a caso E - il bacio come esperienza mistica D - il bacio è solo affettuoso E - tutti credevano di essere in paradiso D - si è a un'antica festa galante E 5. Passeggiata solitaria incantata D 9. Passeggiata solitaria depressa E 6. Esaltante passeggiata e visita alla zia D 10. La zia è morta, imbarazzato avvio a Châalis E 7. Apparizione di Adrienne che canta D 11. Vaga rievocazione di Adrienne, canta Sylviepar In effetti l'inquietante capitolo di Châalis rompe la simmetria, e separa i primi sei capitoli dagli altri sette. Da un lato si è visto in questo

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capitolo 7 una opposizione al ballo del capitolo 4: una celebrazione aristocratica contro la festa popolare sull'isola (non ci sono giovani se non sul palcoscenico, Jerard e il fratello di Sylvie vi si insinuano solo come intrusi), uno spazio chiuso contro lo spazio aperto di Citera, il canto apocalittico di Adrienne ormai conversa con quello dolce di Adrienne ancora fanciulla, una celebrazione funerea contro un pervigilium Veneris, il ritorno dell'ossessione di Adrienne contro la riconquista di Sylvie... Il capitolo inoltre contiene temi degli altri capitoli, ma oniricamente indecidibili, neutralizzati. Vi vengono citati senza ragione apparente il tiro all'arco, l'orologio, una forma di danza-spettacolo, una corona che è un nimbo di cartone dorato, e soprattutto un cigno. Molti interpreti insinuano che quel cigno non sia solo un emblema, uno stemma inciso o scolpito (come vorrebbe il termine araldico éployé), ma un vero e proprio cigno crocifisso sulla porta. Mi pare troppo, anche se in un sogno tutto è possibile, ma in ogni caso questo cigno sta a mezza strada tra quello vivo e trionfante del capitolo 4 e quello ormai assente del capitolo 14. Si è parlato di «rituali di degradazione», ma non bisogna scoprire le simmetrie per individuarli: le simmetrie lavorano quasi all'insaputa del lettore, ogni ritorno di un motivo già accennato provoca un senso di déjà vu, ma si avverte soltanto che qualcosa, che credevamo di avere avuto, ci è stato sottratto. Girare in tondo Effetti-nebbia, effetti di labirinto: Poulet ha parlato di «metamorfosi del cerchio». Forse la critica ha visto in Sylvie più cerchi di quanti ve ne siano, come il cerchio magico del palcoscenico, i cerchi concentrici della danza sul prato (quello della pelouse inquadrata dagli alberi, quello del girotondo delle fanciulle e finalmente, nel turbine della danza, come in un primissimo piano, i lunghi anelli d'oro dei capelli di lei), nella seconda festa a Loisy i tre cerchi dello stagno, dell'isola e del tempio. Talora, mi pare, ne ha sottovalutati altri. Per esempio, nel capitolo 9, durante la visita alla casa dello zio defunto, la parola jardin viene ripetuta tre volte nello stesso paragrafo. Non è trascuratezza stilistica: ci sono tre giardini, appartenenti a tre epoche diverse, ma organizzati concentricamente, se non secondo una prospettiva spaziale almeno secondo una prospettiva temporale. E' come se l'occhio di Jerard vedesse prima il giardino dello zio, più lontano il cerchio dell'infanzia, e più lontano ancora quello della Storia (il giardino come immemoriale luogo di reperti archeologici). In tal senso questo triplice giardino diventa come il modello in miniatura dell'intero racconto, ma guardato dal suo punto terminale. Da un luogo rivisitato in atteggiamento disilluso (il giardino è ormai un ammasso di erbacce) emerge nella bruma del ricordo prima la traccia ancora ordinata, benché in parte cancellata, dell'incantato universo infantile, e più lontano, quando ormai il giardino non è più messo a fuoco dall'occhio

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bensì dalla memoria di Jerard, tra i cocci allineati nello studio, si coglie l'eco di quei tempi romani e druidici già evocati all'inizio del racconto. Infine circolare è il movimento che Jerard compie in ciascuna delle sue visite a Loisy, prima partendo da Parigi per poi tornarvi nel giro di un giorno, poi partendo dal villaggio per poi tornarvi dopo avere attraversato stagni, boschi e brughiere. Questo aggirarsi-intorno merita uno sforzo apparentemente catastale, ma credo ne valga la pena. Mi sono deciso a tracciare una carta dei luoghi (Tabella B [cartina non riproducibile in Braille]), più per aiutare il traduttore che il lettore. Anche se ho tenuto sott'occhio varie carte del Valois, (5) non sono stato a sottilizzare su sfumature di meridiani e paralleli, e ho cercato di dare una visione approssimativa dei reciproci rapporti tra villaggi e foreste. In ogni caso si consideri che da Luzarches a Ermenonville, in linea d'aria sono circa venti chilometri, da Ermenonville a Loisy tre, da Loisy a Mortefontaine due. Ci viene detto nel capitolo 13 che il ballo davanti al castello con Adrienne ha avuto luogo dalle parti di Orry. Identifico invece il luogo del primo e secondo ballo di Loisy con gli stagni immediatamente a nord di Mortefontaine, dove ora nasce la Thève (allora pare sorgesse tra Loisy e Othys). Se si legge guardando la carta, lo spazio ci appare come un bolo di chewing gum, che muta forma a ogni rievocazione. Pare impossibile che la corriera postale faccia i giri che fa per deporre Jerard a poca distanza da Loisy, ma chissà come erano allora le strade. Il percorso scelto dal fratello di Sylvie nella notte di Châalis sgomenta i commentatori in vena di riscontri topografici, e se la cavano osservando che il ragazzo era brillo. Davvero, per andare da Loisy a Châalis, si doveva passare per Orry e poi costeggiare la foresta di Halatte? O i due non venivano da Loisy? Talora sembra che Nerval ricostruisca il proprio Valois, ma non possa evitare le interferenze con quello di Labrunie. Il testo dice che lo zio di Jerard stava a Montagny, mentre sappiamo che lo zio di Labrunie stava a Mortefontaine. Ora, se rileggiamo attentamente seguendo la tabella, vediamo che - se lo zio di Jerard stava a Montagny - i conti non tornano, e siamo obbligati a pensare che stesse a Mortefontaine, ovvero che - nel Valois del racconto - Montagny occupi esattamente il posto di Mortefontaine. Jerard, nel capitolo 5, dice che dopo il ballo accompagna Sylvie e il fratello a Loisy, poi «ritorna» a Montagny. E' ovvio che non può che ritornare a Mortefontaine, tanto più che risale per un boschetto tra Loisy e Saint*** (che in realtà è Saint-Sulpice, a un tiro di schioppo da Loisy), costeggia la foresta di Ermenonville, evidentemente a sudovest, e dopo aver dormito vede da vicino le mura del convento di Saint-S*** e da lontano la Butte aux Gens d'Armes, i ruderi dell'abbazia di Thiers, il castello di Pontarmé, tutte località a nordovest di Loisy, dove poi torna. Non può aver preso la strada per Montagny, che si trova troppo a est. All'inizio del capitolo 9 Jerard va dal luogo del ballo a Montagny,

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poi riprende la via di Loisy, trova tutti ancora addormentati, piega per Ermenonville, lascia il Deserto alla sinistra, arriva alla tomba di Rousseau, e quindi torna a Loisy. Se andasse davvero a Montagny farebbe un percorso lunghissimo per arrivarvi, già attraversando la zona di Ermenonville, e sarebbe insensato tornare a Loisy riattraversando la zona di Ermenonville - per poi decidere di risalire di nuovo verso Ermenonville, e infine ritornare ancora una volta a Loisy. Certamente sul piano biografico questo può significare che Nerval aveva deciso di spostare la casa dello zio a Montagny, e poi non ha saputo reggere il gioco, e ha continuato (con Labrunie) a pensare a Mortefontaine. Ma la cosa deve importarci pochissimo, a meno che non ci colga il desiderio di andare a rifare la passeggiata. Il testo è lì solo per farci viaggiare in un Valois dove la memoria si confonde col sogno, e lavora per farci perdere le tracce. Se così è, perché cercare a tutti i costi di ricostruire la mappa? Credo che i lettori normali ci rinuncino, come ho fatto io per tanti anni, perché è sufficiente che siano presi dal fascino dei nomi. Già Proust osservava quanto potere abbiano i nomi in questo racconto, e concludeva che chi ha letto Sylvie non può evitare di avvertire un brivido quando gli capita di leggere su un orario ferroviario il nome di Pontarmé. Però osservava che altri nomi di luoghi, celebri nella storia della letteratura, non ci provocano lo stesso turbamento. Perché i toponimi che appaiono qui ci si depositano nella mente (o nel cuore) come una sequenza musicale, una petite phrase? La risposta mi pare evidente: perché ritornano. I lettori non si disegnano mappe ma sentono (a orecchio) che, a ogni «ritorno» nel Valois, Jerard ripercorre gli stessi luoghi, quasi nello stesso ordine, come se uno stesso motivo riprendesse sempre dopo ciascuna strofa. Una forma musicale del genere in musica si chiama rondò, e il termine rondeau viene dalla ronde come ballo tondo. Quindi i lettori sentono a orecchio una struttura circolare, e in qualche modo la vedono, e però la vedono in modo confuso, come se si trattasse di un movimento spiraliforme, o di uno sfasarsi successivo di circonferenze. Per questo in qualche modo vale la pena di ricostruire la mappa, per capire visivamente quello che il testo ci fa sentire auralmente. Scorgerete sulla mia tabella, a partire da Loisy, tre cerchi eccentrici di diverse tonalità. Rappresentano le tre passeggiate principali - non i percorsi effettivi, ma l'area presuntiva dell'escursione. Il cerchio più chiaro rinvia alla passeggiata di Jerard di notte nel capitolo 5 (da Loisy per Montagny - ovvero Mortefontaine - ma cambiando direzione per costeggiare la foresta di Ermenonville, passando accanto a Saint-S*** e tornando finalmente a Loisy, mentre si vedono da lontano Pontarmé, Thiers o la Butte); quello un poco più scuro rappresenta la passeggiata di Jerard nel capitolo 9 (dal luogo del ballo alla casa dello zio - che deve stare al posto di Mortefontaine - poi a Loisy e infine a Ermenonville sino alla tomba di Rousseau, ritornando infine a Loisy); il cerchio più

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marcato rappresenta la passeggiata di Jerard e Sylvie a Châalis nei capitoli 10 e 11 (da Loisy attraverso la foresta di Ermenonville sino a Châalis, poi ritorno a Loisy passando per Charlepont). La passeggiata a Othys è una semplice andata e ritorno nel XVIII secolo. Infine il cerchio più vasto, che coincide con l'intera area della Tabella B, corrisponde ai vagabondaggi con Aurélie nel capitolo 13. Jerard cerca di ritrovare disperatamente tutto e perde il nucleo centrale dei suoi primi vagabondaggi. Non lo ritroverà più. Alla fine, poiché Sylvie abita ormai a Danmartin, i ritorni di cui si parla nel capitolo 14 sono sempre e soltanto ai margini di questa circonferenza. Jerard, Sylvie, tutti, sono ormai esclusi dal cerchio magico iniziale, che Jerard vede solo a grande distanza da una finestra d'albergo. In ogni caso, salta agli occhi (come già saltava all'orecchio, sia pure sotto forma di echi che da lontano si rispondono) che a ogni viaggio Jerard non fa altro che girare in tondo (non come nel cerchio perfetto del primo ballo con Adrienne, ma come una falena impazzita che sbatta entro la coppa di un lampadario) e non ritrova mai quello che aveva lasciato la volta prima. Talché occorre consentire con Poulet che ha visto in questa struttura circolare una metafora temporale: non è tanto Jerard che gira nello spazio, è il tempo, il suo passato che danza in cerchio intorno a lui. NOTE: (5) In un impeto d'acribia ho anche visitato i luoghi. Naturalmente le strade non sono più le stesse, ma ci sono ancora le foreste e molti stagni (particolarmente toccanti quelli di Commelle, con i cigni e il castello della regina Blanche), si può seguire la Thève nel suo percorso tortuoso, la struttura di Ermenonville è più o meno ancora quella di un tempo, con la strada che passa sopra la Launette e le quattro colombaie, Châalis è ancora commoventemente diroccata, a Loisy vi mostrano quella che era presumibilmente la casa di Sylvie. Il pericolo maggiore per il nervaliano commosso è d'incappare, tra Orry e Mortefontaine, nel Parc Asterix, e di trovare, nel Deserto, una ricostruzione del West e del Sahara, con indiani e dromedari (la Disneyland francese non è molto lontana). Dimenticatevi la strada delle Fiandre, perché Gonesse è all'altezza dell'aeroporto Charles de Gaulle, tra grattacieli e raffinerie. Ma dopo Louvres potete incominciare a ricomporre i vostri ricordi e le brume sono ancora quelle, anche se il paesaggio lontano viene visto da un'autostrada. L'imperfetto Torniamo alla prima frase del racconto: Je sortais d'un théâtre. Abbiamo riflettuto tanto su quel Je e su quel théâtre, ora dobbiamo riflettere sul sortais. Il verbo è all'imperfetto. L'imperfetto è un tempo durativo e sovente iterativo. Esprime sempre una azione che non si è ancora pienamente compiuta, e basta una piccola traccia contestuale per stabilire se l'azione è anche iterativa, e cioè viene compiuta più volte. Infatti Jerard da quel

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teatro usciva ogni sera, e da un anno. (6) Mi scuso per l'apparente tautologia, ma l'imperfetto così si chiama perché è appunto imperfetto: ci sposta in un tempo anteriore al presente in cui parliamo, ma non ci dice esattamente quando e quanto a lungo. Di qui il suo fascino. Diceva Proust (parlando di Flaubert): «Confesso che certi impieghi dell'imperfetto dell'indicativo - di questo tempo crudele che ci presenta la vita come qualcosa d'effimero e insieme di passivo, che al momento stesso in cui rievoca le nostre azioni le marchia d'illusione, le annienta nel passato senza lasciarci, come il passato remoto, la consolazione dell'attività - è restato per me una fonte inesauribile di misteriosa tristezza.» (7) A maggior ragione in Sylvie l'imperfetto è il tempo che ci deve fare perdere i confini del tempo. Viene usato con apparente generosità, eppure con matematica avvedutezza, tanto è vero che nel passaggio tra la prima e la seconda versione di Sylvie Nerval ne aggiunge uno e ne elimina un altro. Nel primo capitolo, quando si scopre ricco, Jerard scrive, nel 1853, «Que dirait maintenant, pensai-je, le jeune homme de tout à l'heure», e poi «je frémis de cette pensée». Nel 1854 corregge pensais-je. Infatti l'imperfetto appare in quelle righe per mettere in scena il corso dei pensieri del narratore, un corso di pensieri durativo: Jerard vagheggia per un certo lasso di secondi (o di minuti) l'idea di una possibile conquista dell'attrice, senza prendere una decisione. Poi, di colpo, e solo allora, col ritorno al passato remoto (je frémis) ripudia definitivamente quella fantasia. Al contrario, a conclusione del capitolo 2, nel 1853 Adrienne repartait, ma nel 1854 Adrienne repartit. Si vada a rileggere il brano. Sino ad allora tutto si è svolto all'imperfetto, quasi a rendere la scena più vaporosa, e solo a quel punto avviene qualcosa che non appartiene al sogno, ma alla realtà, ed è un fatto puntuale. Il giorno dopo, Adrienne scompare. La sua partenza è abrupta e definitiva. Di fatto (a non considerare il dubbioso episodio onirico del capitolo 7), si tratta dell'ultima volta che Jerard la vede - o comunque ha la ventura di avvicinarla. D'altra parte il lettore è avvisato, sin dal primo capitolo, che nel giro dei primi cinque paragrafi contiene, su una sessantina di forme verbali, cinquantatré imperfetti. In quei primi cinque paragrafi tutto quello che si descrive avveniva di solito, da gran tempo, ogni sera. Poi, al sesto paragrafo, qualcuno disse a Jerard, ovvero gli chiede per chi va a teatro. E Jerard fece un nome. Il tempo nebulizzato si concentra, si solidifica puntualmente: la storia incomincia in quel punto, ovvero quel punto segna il tempo 1 da cui Jerard (che rievoca in tempo N) fa iniziare la vicenda del suo viaggio. Quanto l'imperfetto possa nebulizzare il tempo, lo si vede nel capitolo di Châalis. Chi interviene due volte all'indicativo presente (una, a descriverci l'abbazia, l'altra per dirci che nel rievocare quei dettagli colui che parla si chiede se siano reali o sognati) è Nerval - o il Jerard in tempo N. Per il resto, tutto procede

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all'imperfetto - salvo là dove la sintassi non lo consente. L'analisi dei tempi verbali in questo capitolo richiederebbe troppe sottigliezze grammaticali. Ma basta rileggere il capitolo più volte, porgendo orecchio a questa musica dei tempi, e si capisce perché non solo noi, ma Nerval stesso esiti a dire se si tratti di incubo o di ricordo. L'uso dell'imperfetto in Sylvie ci riporta alla distinzione tra fabula, intreccio e discorso. La scelta di un tempo verbale si pone a livello del discorso, ma la vaghezza che si instaura al livello discorsivo incide sulla nostra possibilità di ricostruire, attraverso l'intreccio, la fabula. Ecco perché gli interpreti non riescono ad accordarsi sulla successione degli eventi, almeno per quanto riguarda i primi sette capitoli. Per districarci nella selva dei tempi decidiamo di chiamare primo ballo quello davanti al castello con Adrienne (forse a Orry), secondo ballo quello della festa del cigno (primo viaggio a Loisy) e terzo ballo quello che Jerard raggiunge ormai alla fine, dopo il suo viaggio in corriera. Quando avviene l'episodio della notte di Châalis? Prima o dopo la prima visita a Loisy? Badate che, ancora una volta, non si tratta di problema giudiziario. E' la risposta inconscia che il lettore cerca a questo quesito, quella che concorre maggiormente a creare l'effetto-nebbia. Qualcuno (il che prova quanto l'effetto-nebbia sia potente) ha avanzato persino l'ipotesi che Châalis venga prima della scena del primo ballo sul prato - dato che nel capitolo 2, al quinto paragrafo, si dice che, dopo il ballo, «non l'avremmo più rivista». Ma non può essere prima del ballo, e per tre ragioni: una è che a Châalis Jerard riconosce Adrienne, mentre al ballo la scorge per la prima volta (e lo si riconferma nel terzo capitolo); la seconda è che in quella notte la fanciulla è già «trasfigurata» dalla sua vocazione monastica, mentre nel secondo capitolo ci era stato detto che sarebbe stata consacrata alla vita religiosa solo dopo il ballo; la terza è che la scena del primo ballo viene citata all'inizio del quarto capitolo, come ricordo d'infanzia, e non si vede come, più infanti ancora, Jerard e il fratello di Sylvie se ne fossero andati di notte su una carretta attraverso i boschi per assistere a una sacra rappresentazione. Allora Châalis si pone tra il primo e il secondo ballo? Ma questo presupporrebbe che nello spazio tra i due eventi Jerard fosse andato ancora una volta a Loisy. E allora perché al suo arrivo al secondo ballo Sylvie gli tiene il broncio, come se provasse ancora l'umiliazione subita di fronte a Adrienne? Però questo potrebbe essere un altro effetto-nebbia. Il testo non dice affatto che Sylvie gli tiene il broncio per quell'antico tradimento - caso mai lo pensa Jerard. Sia lei che il fratello lo stanno rimproverando per non essersi fatto vedere «da tanto tempo». Chi dice che sia dal tempo del primo ballo? Jerard potrebbe essere tornato nel frattempo, in una occasione qualsiasi, ed essersi concesso una serata col fratello. Eppure la soluzione non convince, perché quella sera Jerard dà

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proprio l'impressione di rivedere Sylvie per la prima volta dopo il primo ballo, trasformata e più affascinante di allora. Quindi Jerard potrebbe essere andato a Châalis dopo il secondo ballo (in tempo 1). Ma come potrebbe essere se, secondo la maggior parte degli interpreti, il secondo ballo avviene tre anni prima della sera del teatro, e di nuovo, all'arrivo, Jerard viene rimproverato di non essersi più fatto vivo da tanto tempo? Anche qui, siamo forse vittime di un effetto-nebbia. Il testo non dice affatto che il secondo ballo (tempo 1) avviene tre anni prima della sera del teatro. Il testo (terzo paragrafo del capitolo 3) dice di Sylvie «perché l'ho dimenticata da tre anni?» Non dice che sono trascorsi tre anni dal secondo ballo, bensì (settimo paragrafo) che Jerard da tre anni sperperava la fortuna lasciatagli dallo zio, e si può supporre che in quei tre anni di eccitazione mondana avesse scordato Sylvie. Tra il secondo ballo e la sera del teatro, di anni potrebbero esserne trascorsi molti di più. Ma qualsiasi ipotesi si scelga, come si pone Châalis rispetto a quel 1832 in cui Adrienne muore? Certo sarebbe toccante pensare che Adrienne muore (sta morendo, è già morta) quando Jerard la vede (o sogna di vederla) a Châalis. Sono questi calcoli, apparentemente così fiscali, a spiegarci perché noi lettori (con Proust) ci sentiamo obbligati a sfogliare sempre il racconto all'indietro per capire dove ci si trovi. Certamente, anche in questo caso, la confusione potrebbe essere di Labrunie. Ma se i biografi importuni non eccedessero nel fornirci cartelle cliniche dello sventurato, noi diremmo semplicemente, leggendo il testo, che noi non sappiamo dove ci si trovi perché Nerval non voleva che lo sapessimo. Nerval fa il contrario dell'autore di un romanzo poliziesco, che dissemina il testo di indizi tali che, rileggendo, ci diciamo che avremmo subito dovuto intuire la verità. Egli ci depista, e vuole farci perdere l'ordine dei tempi. Ed ecco perché Jerard (nel primo capitolo) ci dice che non sapeva tener conto «dell'ordine dei tempi» e, all'inizio del quattordicesimo, che ha cercato di fissare le proprie chimere «senza badare all'ordine». Nell'universo di Sylvie, dove qualcuno ha detto che il tempo procede a strappi, gli orologi non funzionano. In altra sede, e proprio prendendo a esempio l'orologio descritto nel terzo capitolo, ho detto che in un testo si inserisce un «modo simbolico» quando si indugia a descrivere qualcosa che, ai fini della vicenda, non dovrebbe avere alcun rilievo. (8) Il caso della pendola del secondo capitolo è esemplare. Perché attardarsi a descrivere quell'anticaglia, visto che non è capace neppure di dire quello che sa persino l'orologio a cuculo del portiere? Poiché essa è un concentrato simbolico di tutto il racconto, anzitutto per il mondo rinascimentale che evoca, che è il mondo del Valois, e in secondo luogo perché è lì a dire (più al lettore, forse, che a Jerard) che l'ordine dei tempi non lo ricupereremo mai. Per una simmetria già rilevata, un orologio rotto ritorna nel capitolo 12. Se apparisse solo lì, si tratterebbe di un gustoso aneddoto di vita infantile: ma è

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il ritorno di un tema. Nerval ci sta dicendo che sin dall'inizio, per lui, il tempo era destinato a confondersi o che, per dirla con le parole di Shakespeare, time is out of joint. Per Jerard come per il lettore. NOTE: (6) Sfortunate le lingue che non hanno imperfetto e si sforzano di rendere questo incipit nervaliano. Una traduzione inglese del secolo scorso (Sylvie: a Recollection of Valois, New York: Routledge and Sons, 1887) provava con I quitted a theater were I used to appear every night, mentre una più recente azzarda I came out of a theater were I used to spend money every evening, e non si sa da dove venga quell'accenno al denaro speso, ma forse si vuole fare capire che era un'abitudine, un vizio, un qualcosa che durava da troppo tempo (Nerval, Selected Writings, tradotti da Geoffrey Wagner, New York: Grove Press, 1957). Che cosa non si fa per sopperire all'assenza dell'imperfetto! Mi pare più fedele la recentissima traduzione Penguin di Richard Sieburth (Sylvie, Hardmonsworth: Penguin, 1995) che recita: I was coming out of a theatre where, night after night, I would appear in one of the stage boxes...» Allunga un poco, ma rende la duratività e l'iteratività dell'imperfetto originale. (7) «Journées de lecture», in Pastiches et mélanges (Paris: Gallimard, 1919, ed. 1958, p. 239, nota 1). Traduco direttamente dal francese perché l'edizione italiana (Giornate di lettura, Torino: Einaudi, 1958), per curiosissima svista, in questo passo invece che di imperfetto parla di «passato prossimo». (8) Vedi il mio Semiotica e filosofia del linguaggio (Torino: Einaudi, 1984, pp. 246-249). Gli oggetti di desiderio Perché non si può ricuperare l'ordine dei tempi? Perché lungo il corso del tempo Jerard sposta il proprio desiderio su tre donne diverse, ma la sequenza non è lineare e orientata, bensì a spirale. In questa spirale Jerard identifica via via l'una o l'altra donna con il proprio oggetto di desiderio, ma sovente le confonde, e in ogni caso, via via che la donna riappare (ritrovata o rimemorata), non ha più le proprietà che aveva prima. Jerard ha un oggetto di desiderio, e ce ne traccia i lineamenti fin dall'inizio del racconto. Si tratta di un ideale femminile, che sia dea o regina, purché «inaccessibile». Tuttavia nei capitoli successivi egli cerca pure di raggiungere qualcosa. Solo che non appena il suo oggetto di desiderio gli si avvicina, Jerard trova una ragione per allontanarsene. Quindi l'effetto-nebbia non riguarda solo i tempi, e gli spazi, ma anche il desiderio. Nel primo capitolo pare che per Jerard sia desiderabile il sogno e ripugnante la realtà, e che il suo ideale venga incarnato dall'attrice: [Nota all'edizione Braille: gli elementi della sequenza che segue sono nell'ordine: 1) Sogno; 2) Attrice; 3) Realtà.]

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1) Incertezza e indolenza; 2) Che importa che sia lui o un altro?; 3) Eroica galanteria. 1) Vaghi entusiasmi; 2) Appagava ogni mio entusiasmo; 3) Caccia a prebende. 1) Aspirazioni religiose; 2) Ore divine d'Ercolano; 3) Ore diurne perdute. 1) Ebbri di poesia e d'amore; 2) Faceva trasalire di gioia e d'amore; 3) Scetticismo, baccanali. 1) Fantasmi metafisici; 2) Pallida come la notte; 3) La donna reale. 1) Dea e regina inaccessibile; 2) Non gli interessava chi fosse; 3) Vizio. Sino a quel punto è certamente più reale il palcoscenico che non la sala, e rispetto all'attrice gli spettatori altro non sono che «vane parvenze». Ma nel secondo capitolo sembra che Jerard desideri qualcosa di più tangibile, sia pure ricordando il solo momento in cui lo ha avvicinato. Chi ha tutte le virtù dell'attrice, vista solo sul palcoscenico, è ora Adrienne, scorta nel pallido cerchio del prato di notte. [Nota all'edizione Braille: gli elementi nella sequenza che segue sono riferiti a: 1) Aurélie (capitolo 1); 2) Adrienne (capitolo 2).] 1) Pallida come la notte; 2) Il chiarore della luna nascente cade su lei sola. 1) Ella viveva per me solo; 2) Ero il solo ragazzo in quella danza. 1) La vibrazione della sua voce; 2) Con una voce penetrante e fresca. 1) Specchio magico; 2) Fuoco fatuo che fugge. 1) Un'apparizione; 2) Fantasma lambente l'erba verde. 1) Bella come il giorno; 2) Miraggio di gloria e di bellezza. 1) Come le Ore divine; 2) Il sangue dei Valois scorre nelle sue vene. 1) Il suo sorriso lo colma di beatitudine; 2) Pensavano di essere in paradiso. E' per questo che Jerard si domanda (nel secondo paragrafo del terzo capitolo) se non ami una religiosa sotto la forma di un'attrice - e questo interrogativo non lo abbandonerà sino alla fine. Ma Adrienne non ha solo proprietà, diciamo, ideali, bensì anche proprietà fisiche, grazie alle quali, nel secondo capitolo, vince su Sylvie, che porta i segni di una gracile grazia contadina. Salvo che nel capitolo 4, quando a distanza di anni Jerard rivede Sylvie, non più bambina, ma splendida adolescente, è lei che ha acquistato tutte le grazie dell'Adrienne scomparsa e (sia pure per pallido riflesso) quelle di Aurélie, il cui ricordo ormai s'offusca. [Nota all'edizione Braille: gli elementi nella sequenza che segue sono riferiti a: 1) Adrienne, grande (capitolo 2); 2) Sylvie, petite fille (capitolo 2); 3) Sylvie, ce n'etait plus cette petite fille (capitolo 4).] 1) Bella; 2) Viva e fresca; 3) Era diventata così bella. 1) Bionda; 2) Carnagione abbronzata; 3) Braccia bianche.

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1) Figura slanciata; 2) Ancora bambina; 3) Figura snella. 1) Discendente dei Valois; 2) Della frazione vicina; 3) Degna dell'arte antica. 1) Miraggio di gloria e di bellezza; 2) Profilo regolare; 3) Fisionomia ateniese. 1) Restò sola e trionfante; 2) (non meritava la corona); 3) Incanto irresistibile. 1) Amore impalpabile e vago; 2) Tenera amicizia; 3) Il suo sorriso divino. Non solo Jerard sospetta, teme, desidera, finge sino alla fine, e contro ogni evidenza, che Aurélie e Adrienne siano la stessa persona, ma a tratti ritiene che quello che desiderava nelle prime due gli possa essere dato da Sylvie. Per ragioni non dette, dopo il secondo ballo, quando con lei ha celebrato persino nozze simboliche, se ne allontana. Quando (al terzo ballo), per sfuggire al fascino impossibile di Aurélie, la raggiunge, la ritrova simile a colei da cui fugge, e capisce che o Sylvie è perduta per lui, o lui per Sylvie. Si potrebbe dire che a ogni dissolvenza incrociata, in cui una figura muliebre svapora nell'altra, ciò che era irreale diventa reale; ma, proprio perché si pone a portata di mano, è pronto a trascolorare in qualche cosa d'altro ancora. Il male oscuro di Jerard è che deve rifiutare sempre ciò che prima desiderava, e proprio perché diventa come vagheggiava che divenisse. Si veda come nel capitolo 13 Aurélie divenga proprio quello che lui aveva inconsciamente sognato: era di un altro, e l'altro scompare oltremare; le attrici non avevano un cuore, e ora essa si mostra ansiosa di amare... Ma ahimè, ciò che diventa avvicinabile non può più essere amato. Proprio perché ha un cuore, Aurélie se ne andrà con chi la ama davvero. (9) Questo tormentoso volere e disvolere si manifesta in modo quasi nevrotico nel monologo interiore del capitolo 11. Urtato dall'ambiguo richiamo alla sorte di Adrienne, Jerard, che sino a un momento prima desiderava Sylvie, scopre che sarebbe sacrilego sedurre una sorella. Immediatamente (con una volubilità irritante) pensa a Aurélie e sposta il desiderio di nuovo su di lei. Ma all'inizio del capitolo successivo è di nuovo pronto a gettarsi ai piedi di Sylvie e a offrirle la sua casa e la sua incerta fortuna. Con tre donne intorno al cuore, che gli danzano intorno, Jerard perde il senso della loro identità, desidera e perde tutte e tre. NOTE: (9) Mirène Ghossein, in un term paper presentato al mio corso della Columbia University nel 1984, intravedeva una continua discrasia tra ciò che si istituisce come idea platonica, e ciò che si rivela come ombra deludente della caverna. Non so se Nerval pensasse a Platone, ma certamente il meccanismo è questo: a mano a mano che qualcosa appare a portata di mano (reale, nel senso comune del termine) esso diventa ombra e non regge il confronto con (non adegua più) l'immagine ideale vagheggiata.

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1832 D'altra parte Nerval stesso ci incoraggia a smemorare. E per aiutarci (o perderci) mette in scena una Sylvie smemorata, che solo alla fine si ricorda che Adrienne è morta nel 1832. Questo è l'elemento che più sconvolge gli interpreti. Perché dare una informazione così essenziale solo alla fine mentre, come recita una nota abbastanza ingenua dell'edizione Pléiade, ce la saremmo attesa all'inizio? Qui Nerval compie una di quelle che Genette chiama analessi completive, in cui il narratore, fingendo di aver dimenticato un particolare, lo ricorda con notevole ritardo sullo sviluppo dell'azione. (10) Non è la sola del racconto, l'altra è l'incidentale osservazione sul nome dell'attrice, che appare solo nel capitolo 11: ma questa sembra più motivata, perché solo in quel momento Jerard, sentendo sfumare l'idillio con Sylvie, incomincia a pensare all'Attrice come a una Donna a cui forse potrebbe avvicinarsi. Invece l'analessi completiva sulla data appare come minimo scandalosa, tanto più che è preceduta da un tentativo dilatorio che, a prima vista, è difficilmente giustificabile. Infatti nel capitolo 11 troviamo una delle espressioni più ambigue di tutto il racconto, cela a mal tourné. Quella allusione di Sylvie, per chi rilegge, in qualche modo anticipava la rivelazione finale, ma per chi legge la prima volta la ritarda. Sylvie non dice ancora che Adrienne è finita male, ma che è finita male la sua vicenda. E dunque non concordo con chi ha tradotto «le è andata male», né coi più cauti che si limitano a «è finita male» (e, non osando interpretare quell'evidentissimo cela, lasciano ancora sospettare che il soggetto sia Adrienne). Il fatto è che Sylvie dice che «la storia è finita male». Perché occorre rispettare questa ambiguità (tale che qualcuno intende che, di fronte a questo accenno, Jerard ancor più si convinca che Adrienne sia diventata l'attrice)? Perché essa rafforza e giustifica il ritardo con cui Sylvie, soltanto nell'ultima riga del testo, distrugge definitivamente ogni illusione di Jerard. E' che Sylvie non è reticente. Per chi l'informazione sarebbe essenziale? Per Jerard, che sul ricordo di Adrienne, e sulla sua possibile identità con Aurélie, ha costruito un'ossessione. Ma per Sylvie, a cui Jerard non ha ancora rivelato (come invece accadrà con Aurélie) le proprie ossessioni, se non per vaghe allusioni? Per Sylvie (creatura terrena) Adrienne è assai meno di un fantasma (è solo una delle tante che era passata da quelle parti). Sylvie non sa che Jerard è stato tentato di identificare la religiosa con l'attrice, non sa neppure con esattezza se questa attrice ci sia e chi sia. A questo universo metamorfico in cui una immagine sfuma nell'altra e vi si sovrappone, essa è totalmente estranea. Quindi non è che propini la rivelazione finale a goccia a goccia. Questo lo fa Nerval, non lei. Sylvie parla in modo vago non per malizia bensì per distrazione, perché trova la faccenda irrilevante. Collabora a distruggere il sogno di Jerard proprio perché lo ignora. Il suo rapporto col tempo è

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sereno, fatto di qualche conciliata nostalgia o qualche tenero ricordo che non mettono in questione il suo placido presente. Per questo, di tutte e tre le donne, è quella che alla fine rimane la più inaccessibile. Jerard ha pure avuto un momento magico con Adrienne, e da quel che si può capire ha realizzato una intimità amorosa con Aurélie, ma con Sylvie nulla, salvo un bacio castissimo - e a Othys l'ancor più casta finzione di uno sponsale. Nel momento in cui Sylvie viene pienamente a incarnare il principio di realtà (e pronuncia l'unico enunciato indubitabilmente vero, e storico - una data - di tutto il racconto) essa è definitivamente perduta. Almeno come amante: per Jerard è ormai solo sorella, e per giunta sposata a suo fratello (di latte). Talché si sarebbe tentati di dire che proprio per questo il racconto è intitolato a Sylvie e non - come un'opera posteriore, e fiammeggiante - a Aurélie. Sylvie è il vero tempo perduto e mai più ritrovato - proprio perché è l'unica a rimanere. Ma questo implicherebbe una tesi, molto forte, e che acquista tutta la sua importanza proprio nel confronto tra Proust e Nerval. Nerval andrebbe alla ricerca del tempo perduto, ma sarebbe incapace di ritrovarlo, e celebrerebbe soltanto la vanità della propria chimera. La data finale pronunciata da Sylvie suonerebbe allora come un rintocco funebre che chiude la storia. Col che si comprenderebbe l'interesse affettuoso e quasi filiale di Proust per questo padre, che ha fallito in un'impresa disperata (e forse per questo Labrunie si uccide). Proust si proporrebbe allora di vendicare la sconfitta paterna con la propria vittoria sul Tempo. Ma quand'è che Sylvie rivela a Jerard che Adrienne era morta da gran tempo? In tempo 12 («l'estate seguente», quando la compagnia dà delle rappresentazioni a Danmartin). Comunque si facciano i conti, certamente lo fa molto tempo prima del tempo N in cui Jerard inizia a narrare. Quindi, quando Jerard incomincia a rievocare la notte del teatro, per poi risalire ai tempi del ballo sul prato, a dirci dei suoi tremori al pensiero che Adrienne fosse l'attrice, e dell'illusione di poterla intravedere ancora nei pressi del convento di Saint-S*** - in tutto questo spazio di tempo (e di narrazione) in cui ci fa compartecipe delle sue incertezze, egli sapeva già che Adrienne era indubitabilmente morta nel 1832. Dunque non è che Jerard (o con lui Nerval) smetta di narrare quando capisce che tutto è finito: al contrario, è proprio dopo che ha capito che tutto è finito che incomincia a narrare (e a narrare di un se stesso che non sapeva né poteva sapere che tutto era ormai finito). Chi fa così è qualcuno che non è riuscito a regolare i conti col proprio passato? Al contrario, è qualcuno che avverte che si può incominciare a rivisitare il passato solo quando il presente è ormai azzerato, e solo il ricordo (anche se senza troppo ordine, ma forse proprio per quello) ci restituisce qualcosa per cui - se non vale la pena di vivere - vale almeno la pena di morire. Ma in tal caso Proust non avrebbe visto Nerval come un padre debole

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e indifeso, da risarcire, bensì come un padre troppo forte, da superare. E avrebbe dedicato la sua vita a questa sfida. (11) NOTE: (10) L'analessi completiva talora non è tecnica calcolata ma zeppa, come accadeva a molti romanzieri d'appendice del XIX secolo i quali, aumentando a dismisura le dimensioni del loro romanzo a puntate, si trovavano costretti a rimediare a dimenticanze o a giustificare, con una brusca spiegazione retrodatata, avvenimenti che erano obbligati a mettere in scena. Vedi per esempio questa tecnica nel mio «Eugène Sue, il socialismo e la consolazione», ora in Il superuomo di massa (Milano: Bompiani, 1978, pp. 57-58). (11) Molti sono i lavori che mi hanno aiutato a capire Nerval. Tra quelli da cui ho attinto vari suggerimenti ne citerò solo alcuni. Dal numero di VS, 31ì32 (Sur «Sylvie»), 1982, vedi Daniele Barbieri, «Etapes de topicalisation et effets de brouillard», Beppe Cottafavi, «Micro-procès temporels dans le premier chapitre de Sylvie», Isabella Pezzini, «Paradoxes du désir, logique du récit» (inoltre, della stessa, «Promenade à Ermenonville», in Passioni e narrazione, Milano: Bompiani, 1996), Maria Pia Pozzato, «Le brouillard et le reste», Patrizia Violi, «Du côté du lecteur». Degli studi francesi citerò Albert Béguin, Gérard de Nerval (Paris: Corti, 1945), Jacques Bony, Le récit nervalien (Paris: Corti, 1990), Frank Paul Bowman, Gérard de Nerval. La conquête de soi par l'écriture (Orléans: Paradigme, 1997), Pierre-Georges Castex, Introduzione e commento a Sylvie (Paris: SEDES, 1970), Léon Cellier, Gérard de Nerval (Paris: Hatier, 1956), Michel Collot, Gérard de Nerval ou la devotion à l'imaginaire (Paris: P.U.F., 1992), Uri Eisenzweig, L'éspace imaginaire d'un récit: «Sylvie» de Gérard de Nerval (Neuchâtel: La Baconnière, 1976), Jacques Geninasca, «De la fête à l'anti-fête» e «Le plein, le vide et le tout», in La parole littéraire (Paris: P.U.F., 1997), Raymond Jean, Nerval par lui-même (Paris: Seuil, 1964), e Introduzione e note a Sylvie. Aurélie (Paris: Corti, 1964), Michel Jeanneret, La lettre perdue. Ecriture et folie dans l'oeuvre de Gérard de Nerval (Paris: Flammarion, 1978), Aristide Marie, Gérard de Nerval, le poète et l'homme (Paris, Hachette, 1914), Pierre Moreau, Sylvie et ses soeurs nervaliennes (Paris: SEDES, 1966), Georges Poulet, «Nerval», in Le metamorfosi del cerchio (Milano: Rizzoli, 1971), Dominique Tailleux, L'espace nervalien (Paris: Nizet, 1975). Citerò ancora le introduzioni e note di Henri Lemaitre all'edizione Garnier delle Oeuvres, i commenti di Jean Guillaume e Claude Pichois, coi loro collaboratori, al terzo volume delle Oeuvres complètes nella Bibliothèque de la Pléiade, e Vincenzo Cerami, Introduzione a Le figlie del fuoco (Milano: Garzanti, 1983). Molte idee ho tratto da Gérard Genette, Figure III, Torino: Einaudi, 1976. Wilde. Paradosso e aforisma (1)

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Non vi è nulla di meno definibile dell'aforisma. Il termine greco, oltre che «cosa messa da parte per un'offerta» e «oblazione», viene a significare nel corso del tempo «definizione, detto, sentenza concisa». Tali sono per esempio gli aforismi di Ippocrate. Quindi l'aforisma è, secondo lo Zingarelli, una «breve massima che esprime una norma di vita o una sentenza filosofica». Che cosa distingue un aforisma da una massima? Nulla, se non la brevità. Poco basta a consolarci perché poco basta ad affliggerci (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, 136). Se non avessimo difetti non avremmo tanto piacere a notare quelli degli altri (La Rochefoucauld, Massime, 31). La memoria è il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé (Wilde, L'importanza di chiamarsi Ernesto). Parecchi pensieri che ho e che non potrei riassumere in parole li ho attinti dal linguaggio (Karl Kraus, Detti e contraddetti). Ecco delle massime che sono anche degli aforismi, mentre quelli che seguono sono massime, ma troppo lunghe per essere aforismi: Quanto è vantaggiosa la nobiltà: già a diciotto anni pone un uomo in posizione elevata, e lo rende conosciuto e rispettato, quanto un altro potrebbe riuscire a meritarlo in cinquant'anni. Sono trent'anni guadagnati senza fatica (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, 322). L'artista non ha convinzioni etiche. Una convinzione etica in un artista è un imperdonabile manierismo dello stile (Wilde, Prefazione al Ritratto di Dorian Gray). Alex Falzon, nell'editare gli Aforismi di Wilde (Milano: Mondadori, 1986), definisce l'aforisma come una massima in cui non conta solo la brevità della forma, ma anche l'arguzia del contenuto. Nel fare questo segue la tendenza odierna, per cui si privilegia nell'aforisma la grazia o la brillantezza, a scapito dell'accettabilità dell'asserto in termini di verità. Naturalmente, per quanto riguarda massime e aforismi, il concetto di verità è relativo alle intenzioni dell'aforista: dire che un aforisma esprime una verità significa dire che esso intende esprimere ciò che l'autore intende come vero e di cui intende persuadere i lettori. Ma in genere massima o aforisma non solo non intendono necessariamente apparire spiritosi ma neppure offendere le opinioni correnti: piuttosto intendono approfondire un punto su cui l'opinione corrente appare superficiale, e va emendata.

Ecco ora una massima di Chamfort: «L'economo è il più ricco degli uomini; il più povero è l'avaro» (Massime e pensieri, I, 145). L'arguzia consiste nel fatto che l'opinione comune tende a considerare l'economo come persona che non sperpera le sue poche risorse, onde far fronte con parsimonia ai propri bisogni, e l'avaro come uno che ammassa risorse superiori ai propri bisogni. La massima andrebbe dunque contro l'opinione comune, salvo che si accetti che, mentre «ricco» è inteso in riferimento alle risorse, «povero» è inteso, oltre che in senso morale, in riferimento alla soddisfazione

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dei bisogni. Chiarito il gioco retorico, la massima non va più contro l'opinione corrente, ma la corrobora. Quando l'aforisma invece va violentemente contro l'opinione comune, tal che appare a prima vista falso e inaccettabile, e solo dopo una giudiziosa riduzione della sua forma iperbolica appare portatore di una qualche verità, accettabile a fatica, allora abbiamo il paradosso. Etimologicamente è paradoxos ciò che va parà ten doxan, al di là dell'opinione comune. Quindi il termine nominava originariamente una affermazione lontana dalle credenze di tutti, strana, bizzarra, inattesa, e in tal senso lo troviamo anche in Isidoro di Siviglia. Che questa affermazione inattesa possa però farsi portatrice di verità, mi pare una idea che si fa strada lentamente. In Shakespeare un paradosso è falso in un certo tempo, ma col tempo diventa vero. Si veda Amleto iii.1.#110 ffg: Ofelia - Che intende Vostra Signoria? Amleto - Che se siete onesta e bella la vostra onestà non dovrebbe aver commercio con la vostra bellezza. Ofelia - Monsignore, con chi la bellezza potrebbe avere miglior commercio se non con l'onestà? Amleto - Certo, certo. Perché il potere della bellezza trasformerà l'onestà da quello che è in una ruffiana, prima che la forza dell'onestà possa tradurre la bellezza nel suo simile. Questo una volta era un paradosso, ma ora il tempo lo dimostra vero. (2) I paradossi della logica tengono un posto a parte, e sono affermazioni autocontraddittorie di cui non si può provare né verità né falsità - come ad esempio il paradosso del mentitore. Ma a poco a poco si fa strada anche il senso para-retorico, per cui mi attengo al Battaglia: Tesi, concetto, affermazione, sentenza, battuta, per lo più formulata nell'ambito di un discorso etico o dottrinale, che contrasta con l'opinione diffusa o universalmente accettata, con il buon senso e l'esperienza comuni, con il sistema di credenze cui si fa riferimento o con princìpi e conoscenze che si danno per acquisiti (e spesso non possiede valore di verità, riducendosi a un sofisma, creato per amore di eccentricità o per far sfoggio di abilità dialettica; ma può anche contenere sotto una forma apparentemente illogica e sconcertante, un fondo di validità oggettiva, destinato ad affermarsi contro l'ignoranza e la faciloneria di chi segue acriticamente l'opinione dei più). Allora, l'aforisma sarebbe una massima che intende essere riconosciuta come vera, benché intenda apparire arguta, mentre il paradosso si presenterebbe come massima prima facie falsa che, solo dopo matura riflessione, appare intesa a esprimere ciò che l'autore ritiene essere vero. A causa dello iato tra le attese dell'opinione comune e la forma provocatoria che assume, risulta essere arguta. La storia della letteratura è ricca di aforismi e un poco meno ricca di paradossi. L'arte dell'aforisma è facile (e sono aforismi

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anche i proverbi, la mamma è sempre la mamma, can che abbaia non morde) mentre l'arte del paradosso è difficile.

Tempo fa mi sono occupato di un autore maestro di aforismi quale Pitigrilli, (3) ed ecco alcune delle sue massime più brillanti. Alcune vogliono, sia pure in modo spiritoso, affermare una verità che non va per nulla contro l'opinione comune: Gastronomo: un cuoco che ha fatto il liceo. Grammatica: complicato strumento che ti insegna le lingue ma ti impedisce di parlare. Frammenti. Una provvidenziale risorsa per gli scrittori che non sanno mettere insieme un libro intero. Dipsomania. Una parola scientifica così bella che fa venir voglia di mettersi a bere. Altri, più che esprimere una presunta verità, affermano una decisione etica, una regola d'azione: Capisco il bacio al lebbroso ma non la stretta di mano al cretino. Sii indulgente con chi ti ha fatto un torto perché non sai cosa ti riservino gli altri. Però, proprio in quella raccolta detta Dizionario antiballistico (Milano: Sonzogno, 1962, p. 198) in cui raccoglieva massime, detti e aforismi suoi e altrui, Pitigrilli, che voleva sempre e a ogni costo passar per cinico, anche a costo di confessare candidamente le proprie ribalderie, avvertiva quanto il gioco dell'aforisma potesse essere insidioso: Poiché siamo sulla via delle confidenze, riconosco di aver assecondato il teppismo del lettore. Mi spiego: per la strada, quando scoppia un litigio o avviene un incidente della circolazione, scaturisce improvvisamente dalle viscere della terra un individuo che cerca di dare un'ombrellata a uno dei due contendenti, che generalmente è l'automobilista. Il teppista ignoto ha sfogato il suo rancore latente. Così nei libri: il lettore che non ha idee o le ha allo stato amorfo, quando trova una frase pittoresca, fosforescente o esplosiva, se ne innamora, l'adotta, la commenta con un punto esclamativo, con un «bene!», un «giusto!», come se egli l'avesse sempre pensata così, e quella frase fosse l'estratto quintessenziale del suo modo di pensare, del suo sistema filosofico. Egli «prende posizione», come diceva il Duce. Io gli offro il modo di prendere posizione senza scendere nella giungla delle varie letterature. In questo senso l'aforisma esprime in modo brillante un luogo comune. Dire dell'harmonium che è «un pianoforte che, disgustato della vita, si è rifugiato nella religione» non fa che riformulare icasticamente quello che sapevamo e credevamo già, che l'harmonium è uno strumento da chiesa. Dire dell'alcool che è «un liquido che uccide i vivi e conserva i morti», non aggiunge nulla a quello che sapevamo sui rischi dell'intemperanza e gli usi dei musei di anatomia. Quando Pitigrilli (Esperimento di Pott, Milano: Sonzogno, 1929) fa

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dire al suo protagonista che «l'intelligenza nelle donne è una anomalia che si incontra eccezionalmente come l'albinismo, il mancinismo, l'ermafroditismo, la polidattilia» (132) dice esattamente, sia pure in modo spiritoso, quello che il lettore maschio (e probabilmente anche la lettrice femmina) del 1929 desideravano sentirsi dire. Ma, nel criticare la sua vis aphoristica, Pitigrilli ci dice qualcosa di più, e cioè che molti aforismi brillanti possono essere rovesciati senza perdere forza. Vediamo alcuni degli esempi di rovesciamento che Pitigrilli stesso ci propone (Dizionario, cit., 199 sgg.): Parecchi disprezzano le ricchezze ma pochi sanno farne dono. Parecchi sanno far dono delle ricchezze, ma pochi le disprezzano. Noi promettiamo secondo i nostri timori e manteniamo secondo le nostre speranze. Noi promettiamo secondo le nostre speranze e manteniamo secondo i nostri timori. La storia non è che un'avventura della libertà. La libertà non è che un'avventura della storia. La felicità è nelle cose e non nel nostro gusto. La felicità è nel nostro gusto e non nelle cose. Inoltre egli elencava massime di autori diversi, certamente contraddittorie tra loro, e che purtuttavia sembravano sempre esprimere una verità assodata: Non ci si inganna che per ottimismo (Hervieu). Si è più spesso ingannati dalla diffidenza che dalla fiducia (Rivarol). I popoli sarebbero felici se i re filosofassero e se i filosofi regnassero (Plutarco). Il giorno che vorrò castigare una provincia la farò governare da un filosofo (Federico II). Userei per questi aforismi rovesciabili il termine di aforisma cancrizzabile. L'aforisma cancrizzabile è una malattia della tendenza al wit, in altre parole una massima che, pur di apparire spiritosa, non si preoccupa del fatto che il suo opposto sia egualmente vero. Il paradosso è reale rovesciamento della prospettiva comune che presenta un mondo inaccettabile, provoca resistenza, rifiuto e tuttavia, se si fa lo sforzo di capirlo, produce conoscenza; alla fine appare spiritoso perché si deve ammettere che è vero. L'aforisma cancrizzabile è portatore di una verità molto parziale e, sovente, dopo che lo si è cancrizzato, ci rivela che nessuna delle due prospettive che apre è vera: sembrava vero solo perché era spiritoso. Il paradosso non è una variazione del topos classico del «mondo rovesciato». Questo è meccanico, prevede un universo in cui gli animali parlano e gli umani ruggiscono, i pesci volano e gli uccelli nuotano, le scimmie celebrano messa e i vescovi saltano tra gli alberi. Esso procede per aggiunzione di adynata o impossibilia senza una logica. un gioco carnevalesco. Per passare al paradosso occorre che il rovesciamento segua una

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logica e sia circoscritto a una porzione dell'universo. Un persiano arriva a Parigi e descrive la Francia come un parigino descriverebbe la Persia. L'effetto è paradossale perché impone di vedere le cose consuete al di là dell'opinione assestata. Una delle prove per distinguere un paradosso da un aforisma cancrizzabile consiste nel tentare di rovesciare il paradosso. Pitigrilli cita da Tristan Bernard una definizione del sionismo, evidentemente valida prima della costituzione dello stato di Israele: «un ebreo che chiede del denaro a un altro ebreo per mandare un terzo ebreo in Palestina.» Provate a capovolgerlo: non si può. Segno che la forma corretta conteneva davvero una verità, o almeno quella che Bernard voleva che accettassimo come verità.

Ecco ora una serie di famosi paradossi di Karl Kraus. Non ne tento il rovesciamento perché, se ci riflettete un poco, non è possibile. Essi sono portatori, contro l'opinione comune, di una verità non convenzionale. Non possono essere piegati a esprimere la verità opposta. Lo scandalo comincia quando la polizia vi mette fine. Per essere perfetta le mancava solo un difetto. L'ideale della verginità è l'ideale di quelli che vogliono sverginare. I rapporti con gli animali sono proibiti, il macello degli animali è permesso. Ma nessuno ha ancora riflettuto sul fatto che potrebbe trattarsi di un delitto sessuale? Le pene servono a spaventare coloro che non vogliono commettere peccati. C'è una oscura regione della terra che manda per il mondo degli esploratori. I bambini giocano a fare i soldati. Ma perché i soldati giocano a fare i bambini? I pazzi vengono definitivamente riconosciuti dagli psichiatri per il fatto che dopo l'internamento mostrano un comportamento agitato. Naturalmente anche Kraus cade nel peccato di aforisma cancrizzabile ed ecco alcuni dei suoi detti che possono benissimo essere contraddetti, e quindi rovesciati (il rovesciamento, ovviamente, è mio): Nulla è più insondabile della superficialità della donna. Nulla è più superficiale della insondabilità della donna. Piuttosto perdonare un brutto piede che delle brutte calze! Piuttosto perdonare delle brutte calze che un brutto piede! Ci sono donne che non sono belle, ma hanno l'aria di esserlo. Ci sono donne che sono belle ma non hanno l'aria di esserlo. Il superuomo è un ideale prematuro che presuppone l'uomo. L'uomo è un ideale prematuro che presuppone il superuomo. La donna vera inganna per il piacere. L'altra cerca il piacere per ingannare. La donna vera cerca il piacere per ingannare. L'altra inganna per

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il piacere. Gli unici paradossi che non sembrano quasi mai cancrizzabili sono quelli di Stanisêaw J. Lec. Ecco una breve lista dei suoi Pensieri spettinati (Milano: Bompiani, 1984): Se si potesse scontare la morte dormendola a rate! Ho sognato la realtà. Che sollievo svegliarsi! Sesamo apriti - voglio uscire! Chi sa che cosa avrebbe scoperto Colombo se l'America non gli avesse sbarrato la strada! Orribile è il bavaglio spalmato di miele. Il gambero arrossisce dopo la morte. Che finezza esemplare, in una vittima! Se abbattete i monumenti, risparmiate i piedistalli. Potranno sempre servire. Ha posseduto la scienza, ma non l'ha resa gravida. Nella sua modestia si considerava un grafomane. Invece era un delatore. I roghi non illuminano le tenebre. Si può morire a Sant'Elena senza essere Napoleone. Si abbracciarono così stretti che non rimase spazio per i sentimenti. Si cospargeva il capo con la cenere delle sue vittime. Ho sognato Freud. Che significa? Frequentare i nani deforma la spina dorsale. Aveva la coscienza pulita. Mai usata. Persino nel suo silenzio c'erano errori linguistici. Ammetto di avere un debole per Lec, ma ho trovato sinora un suo solo aforisma che potrebbe essere rovesciato: Rifletti, prima di pensare. Pensa, prima di riflettere. Veniamo ora a Oscar Wilde. A considerare gli innumerevoli aforismi di cui ha cosparso le sue opere, dovremmo ammettere che ci troviamo di fronte a un autore fatuo, a un dandy che, pur di épater le bourgeois, non distingue tra aforismi, aforismi cancrizzabili e paradossi. Anzi, ha il coraggio di far passare per aforismi arguti affermazioni che, al di sotto dell'arguzia, si rivelano come sciagurati luoghi comuni - o almeno luoghi comuni per la borghesia e l'aristocrazia vittoriana. Tuttavia un esperimento del genere ci può permettere di vedere se e quanto un autore, che della provocazione aforistica ha fatto il sale dei suoi romanzi, delle sue commedie e dei suoi saggi, è stato un vero autore di paradossi fulminanti o un garbato collezionista di bon mots. Naturalmente il mio esperimento è puramente esplorativo e mira a incoraggiare, perché no, una tesi di laurea che conduca l'indagine a trecentosessanta gradi.

Elencherò subito una serie di paradossi autentici, di cui vi sfido a praticare il rovesciamento (salvo ottenere al massimo un nonsense o

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una massima falsa per ogni persona sensata): La vita è semplicemente un mauvais quart d'heure composto di attimi squisiti. L'egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma nell'esigere che gli altri vivano come pare a noi. E' molto più prudente pensare male di tutti finché, naturalmente, si scopre che una persona è buona, ma oggigiorno ciò richiede un'infinita serie di indagini [si noti che il rovesciamento è possibile - E' molto più prudente pensare bene di tutti finché, naturalmente, si scopre che una persona è cattiva, ma oggigiorno ciò richiede un'infinita serie di indagini - però il risultato è evidentemente falso]. Il brutto e lo sciocco se la passano meglio degli altri in questo mondo: possono rimanere seduti a loro agio e seguire la commedia a bocca aperta. Se nulla sapranno della vittoria, è loro risparmiata almeno l'esperienza della sconfitta. Una persona sensibile è quella che, avendo i calli, pesta sempre i piedi altrui. Tutti coloro che sono incapaci di imparare si sono messi a insegnare. Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto. Un uomo chiacchierato ha sempre qualcosa di attraente. Dopotutto, deve esserci qualcosa in lui. Ogni grand'uomo oggigiorno ha i suoi discepoli, ed è sempre Giuda a scriverne la biografia. Posso resistere a tutto tranne che alle tentazioni. La falsità è la verità degli altri. L'unico dovere che abbiamo nei confronti della Storia è di riscriverla. Una cosa non è necessariamente vera perché un uomo è morto per realizzarla. I parenti sono solo un mucchio di gente noiosa che non ha il minimo senso di come vivere né la più pallida idea di quando morire. Però sono infiniti gli aforismi wildiani che appaiono facilmente cancrizzabili (la cancrizzazione, ovviamente, è mia): Vivere è la cosa più rara del mondo. La maggior parte della gente esiste e nulla di più. Esistere è la cosa più rara del mondo. La maggior parte della gente vive e nulla di più. Coloro che trovano una differenza tra l'anima e il corpo non hanno né l'una né l'altro. Coloro che non trovano alcuna differenza tra l'anima e il corpo non hanno né l'una né l'altro. Vivere è una cosa troppo importante per poterne parlare seriamente. Vivere è una cosa troppo poco importante per potervi scherzare su. Ci sono al mondo due categorie di individui: coloro che credono nell'incredibile, come gli altri, e coloro che fanno l'improbabile, come me.

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Ci sono al mondo due categorie di individui: coloro che credono nell'improbabile, come gli altri, e coloro che fanno l'incredibile, come me. Ci sono al mondo due categorie di individui: coloro che fanno l'improbabile, come gli altri, e coloro che credono nell'incredibile, come me. La moderazione è una cosa fatale. Nulla ha più successo dell'eccesso. L'eccesso è una cosa fatale. Nulla ha più successo della moderazione. C'è una fatalità in tutti i buoni propositi: vengono fatti invariabilmente troppo presto. C'è una fatalità in tutti i buoni propositi: vengono fatti invariabilmente troppo tardi. C'è una ovvietà in tutti i cattivi propositi: vengono fatti invariabilmente nel momento giusto. Essere immaturi significa essere perfetti. Essere maturi significa essere imperfetti. Essere perfetti significa essere immaturi. Essere imperfetti significa essere maturi. L'ignoranza è simile a un delicato frutto esotico: basta sfiorarla e appassisce subito. Il sapere è simile a un delicato frutto esotico: basta sfiorarlo e appassisce subito. Più si studia l'Arte e meno ci interessa la Natura. Più si studia la Natura e meno ci interessa l'Arte. I tramonti sono ormai sorpassati. Appartengono al periodo in cui Turner era sulla cresta dell'onda. Ammirarli oggi equivale a confessare il proprio provincialismo. I tramonti sono ridivenuti moderni, perché appartengono al periodo in cui Turner era sulla cresta dell'onda. Ammirarli oggi equivale a essere up to date. La Bellezza rivela tutto perché non esprime niente. La Bellezza non rivela niente perché esprime tutto. Nessun uomo sposato è mai attraente, salvo che per la propria moglie, e spesso, mi dicono, nemmeno per lei. Ogni uomo sposato è attraente, salvo che per la propria moglie, e spesso, mi dicono, persino per lei. Il dandysmo, a modo suo, è un tentativo di affermare l'assoluta modernità della bellezza. Il dandysmo, a modo suo, è un tentativo di affermare l'assoluta inattualità della bellezza. La conversazione dovrebbe sfiorare tutto senza mai concentrarsi su nulla. La conversazione non dovrebbe sfiorare nulla concentrandosi su tutto. Amo molto parlare di niente. E' la sola cosa su cui so tutto. Amo molto parlare di tutto. E' la sola cosa su cui non so niente. Solo i grandi maestri di stile sanno essere chiari.

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Solo i grandi maestri di stile sanno essere oscuri. Chiunque può far parte della Storia. Solo un grand'uomo la può scrivere. Chiunque può scrivere la Storia. Solo un grand'uomo può farne parte. Gli inglesi hanno tutto in comune con gli americani, tranne la lingua. Gli inglesi non hanno nulla in comune con gli americani, tranne la lingua. Sono solo i moderni a diventare sorpassati. Sono solo i sorpassati a diventare moderni. Se ci dovessimo arrestare qui il nostro giudizio su Wilde sarebbe abbastanza severo. Incarnazione stessa del dandy, ma in ritardo su Lord Brummel e persino sul suo amato Des Esseintes, egli non si preoccupa di distinguere paradossi, portatori di verità oltraggiose, da aforismi, portatori di verità accettabili, e aforismi cancrizzabili, che sono puro gioco di spirito indifferente alla verità. E d'altra parte le idee wildiane sull'arte autorizzerebbero il suo comportamento, visto che nessun aforisma dovrebbe proporsi né l'utilità né la verità o la moralità, bensì soltanto la bellezza, l'eleganza dello stile. Però questa ricerca della provocazione estetica e dello stile non basterebbe ad assolvere Wilde, visto che non riusciva a distinguere tra provocazione paradossale e fatuità. Ma si sa, a seguire i suoi princìpi egli avrebbe dovuto essere spedito in carcere non per avere amato Lord Douglas bensì per avergli inviato lettere del tipo: «E' un miracolo che quelle tue labbra rosse come petali di rosa siano fatte non meno per la musica del canto che per la follia dei baci» - e non solo, ma per aver sostenuto durante il processo che la lettera fosse un esercizio di stile e una sorta di sonetto in prosa. IL ritratto di Dorian Gray viene condannato dai giudici londinesi per ragioni assolutamente stupide ma, dal punto di vista dell'originalità letteraria, con tutto il fascino che ha, si riduce a una imitazione della Pelle di zigrino balzacchiana, e a un'ampia copiatura (sia pure indirettamente confessata) dell'à rebours di Huysmans. Praz notava che il Dorian Gray deve altresì moltissimo al Monsieur de Phocas di Lorrain, e persino una delle massime fondamentali di Wilde esteta («Nessun crimine è volgare ma la volgarità è un crimine») è una versione da Baudelaire: «Un dandy non potrà mai essere un uomo volgare: s'egli commette un delitto, non perderebbe nulla della sua reputazione, ma se questo delitto fosse provocato da un motivo banale, il disonore sarebbe irreparabile.»

Tuttavia, come commentava Alex Falzon nella citata edizione italiana di aforismi wildiani, è arduo raccogliere aforismi di un autore che di aforismi non ha mai scritto un libro - per cui quelli che consideriamo tali non sono nati per brillare isolati, al di fuori di ogni contesto, ma in circostanze narrative o teatrali, e dunque

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detti da qualcuno in determinate circostanze. Per esempio, si può giudicare debole un aforisma che un autore mette in bocca a un personaggio fatuo? E' un aforisma quello enunciato da Lady Bracknell nell'Importanza di chiamarsi Ernesto, quando dice «Perdere uno dei genitori, signor Worthing, può essere considerato una disgrazia; ma perderli entrambi sembra piuttosto una tendenza alla sbadataggine»? Da cui il legittimo sospetto che Wilde non credesse ad alcuno degli aforismi che enunciava e neppure ai migliori dei suoi paradossi, ma gli interessasse solo mettere in scena una società capace di apprezzarli. D'altra parte lo dice. Si veda questo dialogo nell'Importanza di chiamarsi Ernesto: Algernon - La donna diventa sempre come sua madre. E' la sua tragedia. L'uomo mai. Ed è la sua tragedia. Jack - Sarebbe un'osservazione intelligente? Algernon - E' formulata in maniera impeccabile! E non è meno vera di quanto debba esserlo una qualsiasi osservazione fatta tra gente civile. Per cui Wilde non andrebbe allora visto come aforista scostumato bensì come autore satirico e critico di costume. Che poi in quel costume ci vivesse benissimo, è altra faccenda, ed è stata la sua sventura. Rileggiamoci Il ritratto di Dorian Gray. Tranne qualche eccezione, gli aforismi più memorabili sono messi in bocca a un personaggio fatuo come Lord Wotton. Wilde non ce li offre come massime di vita che egli stesso garantisca. Lord Wotton pronuncia, sia pure con spirito, una serie insopportabile di luoghi comuni della società del suo tempo (e proprio per questo i lettori di Wilde si divertivano ai suoi falsi paradossi): un vescovo continua a ripetere a ottant'anni quello che gli hanno insegnato a dire quando era un ragazzo di diciotto; la cosa più banale diventa deliziosa appena la si nasconde; l'unica attrattiva del matrimonio è di rendere indispensabile per tutti e due una vita di sotterfugi (ma più avanti Lord Wotton dirà che il vero difetto del matrimonio è che fa diventare altruisti); neanche il dieci per cento del proletariato vive rettamente; di questi tempi un cuore infranto tira parecchie copie; i giovani vogliono essere fedeli e non lo sono, i vecchi vorrebbero essere infedeli e non possono; non ho bisogno di denaro, solo chi paga i conti ne ha bisogno e io i miei non li pago mai; non desidero cambiare nulla in Inghilterra, salvo il clima; per ritrovare la propria giovinezza basta ripetere le stesse follie; gli uomini si sposano per stanchezza e le donne per curiosità; nessuna donna è un genio, le donne sono un sesso decorativo; le donne hanno uno splendido senso pratico, noi dimentichiamo spesso di parlare di matrimonio e loro ce lo ricordano sempre; quando siamo felici siamo sempre buoni, ma quando siamo buoni non sempre siamo felici; la vera tragedia dei poveri è di non permettersi nulla se non il sacrificio di se stessi (chi sa se Wotton aveva letto il Manifesto del Partito Comunista e aveva appreso che i

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proletari non hanno da perdere che le loro catene?); è meglio amare che essere amati, essere amati è una seccatura; per ogni effetto che produciamo ci facciamo un nemico, per essere popolari occorre essere mediocri; in campagna chiunque sa essere buono; la vita coniugale è solo un'abitudine; il crimine è l'esclusiva delle classi inferiori, per loro il crimine è quello che è l'arte per noi, un modo per procurarsi sensazioni fuori dal comune; l'omicidio è sempre un errore, non si dovrebbe mai fare nulla di ciò di cui non si può parlare dopo cena... Accanto a questa serie di ovvietà, che diventano brillanti solo perché sparate a catena - come nella tecnica dell'elenco, dove le parole più banali diventano ammirevoli per il rapporto incongruo che instaurano con altre parole altrettanto banali - Lord Wotton mostra un genio particolare nell'identificare luoghi comuni indegni persino dei cartigli dei cioccolatini, e li fa diventare sapidi rovesciandoli: Essere naturali è solo una posa, e la più irritante che io conosca. L'unico modo di liberarsi da una tentazione è di cederle. Adoro i piaceri semplici, sono l'ultimo rifugio delle persone complicate. Quello di cui ho bisogno è un'informazione, non un'informazione utile, naturalmente, ma inutile. Le assicuro che agli americani non manca mai il buon senso. Che orrore! Tutto m'ispira compassione, ma non la sofferenza. Al giorno d'oggi molta gente... scopre quando è troppo tardi che le sole cose che non si rimpiangono mai sono gli sbagli. Non penso proprio di sposarmi, sono troppo innamorato [ma questo è di Dorian, guastato dal maestro]. Caro ragazzo, quelli che amano una sola volta nella vita sono davvero superficiali. C'è sempre qualcosa di infinitamente meschino nelle tragedie degli altri. Quando una persona fa una cosa particolarmente stupida, è sempre per i motivi più nobili. (4) Siamo in disaccordo con noi stessi quando siamo costretti a essere in armonia con gli altri. Un uomo può essere felice con qualsiasi donna, purché non la ami. Io non discuto mai le azioni, discuto solo le parole. E' meglio essere belli che essere buoni. (5) La bruttezza è una delle sette virtù capitali. Il fondamento di ogni pettegolezzo è una certezza immorale. Le uniche persone che adesso ascolto con rispetto sono le persone più giovani di me. Sono solo i superficiali a non giudicare dalle apparenze. E' mostruoso che la gente vada in giro dicendo alle nostre spalle cose che sono assolutamente vere. L'unica differenza tra il capriccio e la passione di una vita è che il capriccio dura un poco di più.

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Non si può negare a Lord Wotton l'invenzione di qualche efficace paradosso, come Scelgo gli amici per la bellezza, i conoscenti per il buon carattere, e i nemici per l'intelligenza. Le ragazze americane sono abili a nascondere i loro genitori come le inglesi il loro passato. I filantropi perdono ogni senso d'umanità. E' questo il loro segno distintivo. Posso tollerare la forza bruta, ma la ragione bruta è insopportabile. La musica di Wagner mi piace più di ogni altra. E' così forte che si può parlare tutto il tempo senza che nessuno senta quello che si dice. Quando ci si innamora si incomincia sempre con l'imbrogliare se stessi e si finisce sempre con l'imbrogliare gli altri. Una grande passion è il privilegio di chi non ha nulla da fare. Le donne ispirano in noi il desiderio di creare capolavori, per poi impedirci sempre di realizzarli. L'uomo che non esita a chiamare vanga una vanga dovrebbe essere obbligato a usarla. Ma più facilmente i paradossi di Lord Wotton sono degli aforismi cancrizzabili (la cancrizzazione è ovviamente mia): Il peccato è l'unico elemento di colore rimasto nella vita moderna. La virtù è l'unico elemento di colore rimasto nella vita moderna. L'umanità si prende troppo sul serio. E' il peccato originale del mondo. Se l'uomo delle caverne avesse saputo ridere, la Storia avrebbe avuto un corso diverso. L'umanità si prende troppo poco sul serio. E' il peccato originale del mondo. Se l'uomo delle caverne avesse saputo astenersi dal ridere, la Storia avrebbe avuto un corso diverso. Le donne rappresentano il trionfo della materia sullo spirito, come gli uomini rappresentano il trionfo dello spirito sulla morale. Gli uomini rappresentano il trionfo della materia sullo spirito, come le donne rappresentano il trionfo dello spirito sulla morale. La verità è che il Dorian Gray mette in scena la fatuità di Lord Wotton, e al tempo stesso la denuncia. Di lui si dice: «Non starlo a sentire, cara... Non parla mai sul serio.» Di lui dice l'autore: «Lord Henry giocava con quell'idea con crescente ostinazione; la lanciava in aria e la trasformava; lasciava che gli sfuggisse e la riprendeva; la rendeva iridescente con la fantasia e volatile con il paradosso... Sentiva gli occhi di Dorian Gray fissi su di sé, e il fatto di sapere che tra i suoi ascoltatori ce n'era uno che desiderava affascinare sembrava dare più smalto al suo ingegno. E più colore alla fantasia.» Lord Wotton si diletta di quelli che egli crede paradossi, ma i suoi conoscenti non hanno del paradosso una grande opinione: «Dicono che nell'al di là gli americani buoni vanno a Parigi,» ridacchiò sir Thomas, che disponeva di un ampio repertorio di battute di seconda mano.

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«I paradossi vanno bene a modo loro,» insistette il baronetto. E' vero che Lord Erskine dice: «Era un paradosso? A me non sembrava. Ma forse sbaglio. Be', la via del paradosso è la via della verità. Per verificare la Realtà bisogna vederla sopra una corda. Solo quando le Verità fanno acrobazie possiamo giudicarle.» Lord Erskine non sbagliava, ma Lord Wotton - non avendo nulla in cui credere - era parco di paradossi, e sulla sua corda faceva acrobazie il senso comune, non la Verità. Ma d'altra parte che cosa importava a Lord Wotton? «E ora mio giovane amico - se mi consente di chiamarla così. Posso chiederle se è davvero convinto di tutto quello che ci ha detto a tavola?» «Non ricordo proprio cosa ho detto,» rispose Lord Henry sorridendo. «Era così terribile?» Nel Dorian Gray di cose veramente terribili se ne dicono poche, e molte se ne fanno. Ma in fondo Dorian le fa perché i suoi amici lo hanno guastato coi loro falsi paradossi. Alla fine è questa la lezione che possiamo trarre dal romanzo. Ma persino questa lezione Wilde negherebbe, perché aveva pur detto nella prefazione al romanzo che «L'artista non ha convinzioni etiche. Una convinzione etica in un artista è un imperdonabile manierismo dello stile». E lo stile del Dorian Gray sta nella messa in scena della fatuità. Per cui, anche se Wilde stesso era rimasto vittima di quel cinismo che ostentava e che deliziava lettori e spettatori, non si dovrebbe fargli il torto di citare isolatamente i suoi aforismi come se volessero o potessero insegnarci qualcosa. E' vero che alcuni dei migliori paradossi wildiani appaiono in quelle «Frasi e filosofie a uso dei giovani» che egli ha pubblicato appunto come massime di vita in un giornale di Oxford: La malvagità è un mito inventato dai buoni per spiegare la curiosa attrattiva dei non buoni. Le religioni muoiono appena se ne dimostra la verità. La scienza è l'inventario delle religioni morte. Le persone bene educate contraddicono gli altri. I saggi contraddicono se stessi. L'ambizione è l'ultimo rifugio dei falliti. Agli esami gli sciocchi fanno domande a cui i saggi non sanno rispondere. Solo i grandi maestri di stile riescono a passare sempre inosservati. Il primo dovere della vita è di essere il più artificiali possibile. Quale sia il secondo, non so. Niente che avvenga davvero ha la minima importanza. Il tedio è la maggiore età della serietà. Quando si dice la verità si è sicuri, prima o poi, di essere scoperti. Solo chi è poco profondo conosce se stesso. Ma quanto egli le considerasse veri insegnamenti ce lo dice nelle risposte che ha dato al processo, quando quelle frasi gli sono state contestate: «Di rado penso che qualcosa che scrivo sia vero.» Oppure:

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«Questo è un paradosso divertente, ma come massima non posso dire di attribuirgli troppo valore.» D'altra parte, se «una verità cessa di essere vera quando vi crede più di una persona», a quale consenso collettivo potrebbe aspirare una verità detta da Wilde? E poiché «in tutte le cose senza importanza lo stile, non la sincerità, è l'essenziale, e in tutte le cose importanti lo stile, non la sincerità, è l'essenziale», è giusto non richiedere a Wilde una severa distinzione tra paradossi (veri), aforismi (ovvi) e aforismi cancrizzabili (falsi, o privi di ogni valore di verità). Quello che egli esibisce è un furor sententialis (che è piacevole incontinenza retorica), non una passione filosofica. Su un solo aforisma Wilde avrebbe giurato, e ci ha giocato in fondo la vita: «L'arte, tutta, è completamente inutile.»

NOTE: (1) Relazione al convegno su Oscar Wilde tenuto all'Università di Bologna il 9 novembre 2000. (2) Traduzione di Agostino Lombardo (Amleto, Milano: Feltrinelli, 1995, p. 129). (3) «Pitigrilli: l'uomo che fece arrossire la mamma», in Il superuomo di massa, 2a ed. Milano: Bompiani, 1978. (4) Questo rovescia il luogo comune per cui si fanno cose belle per nobili motivi, ma sopporta anche la cancrizzazione: quando una persona fa una cosa particolarmente nobile è sempre per i motivi più stupidi. (5) Questo rovescia un luogo comune, però continua con «Ma nessuno è più pronto di me a riconoscere che è meglio essere buoni che essere brutti», e quindi ricorre a un luogo che più comune non ve n'è, del tipo popolarizzato da Catalano sui nostri teleschermi: «E' meglio essere bello, ricco e sano che brutto, povero e malato.» A portrait of the artist as a bachelor (1) Probabilmente sono l'oratore meno adatto per celebrare il Bachelor of Art di Joyce perché, in un articolo apparso nello St. Stephen's Magazine nel 1901 si diceva che Joyce fosse stato corrotto dalle idee che venivano dall'Italia. Ma non sono stato io a chiedere di fare questa commemorazione, e la responsabilità è dello University College. Quanto al titolo della mia conferenza, forse il mio giuoco intertestuale non è dei più acuti, ma sono solo un playboy of the southern world. Mi sento comunque a disagio con il titolo che ho scelto: avrei anche voluto parlare dei tempi in cui Jim, al Conglowes Wood College, denunciava la sua età dicendo: «I am half past six.» Ma non allontaniamoci dall'argomento e occupiamoci di Joyce in qualità di bachelor. Probabilmente voi tutti sapete che in molti studi di semantica

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contemporanea bachelor è diventata una parola magica, da quando è stata ereditata, autore dopo autore, quale sovrano esempio di termine ambiguo che ha per lo meno quattro diversi significati. Un bachelor è (i) un maschio adulto non ancora sposato, (ii) un giovane cavaliere al servizio di un altro, (iii) una persona che ha conseguito il primo livello di laurea, (iv) una foca maschio che non riesce ad accoppiarsi durante la stagione degli amori. Tuttavia Roman Jakobson ha fatto notare che, a dispetto delle loro diversità semantiche, questi quattro omonimi hanno in comune una nota di incompletezza o per lo meno di incompiutezza. Un bachelor è dunque in ogni caso qualcuno che non ha ancora raggiunto uno stato di maturità. Il giovane maschio non è ancora un marito e un padre maturo, il paggio non è ancora un cavaliere che abbia ricevuto l'investitura, il giovane BA non è ancora Phd e il povero maschio di foca non ha ancora scoperto i piaceri del sesso. All'epoca in cui lasciò lo University College il nostro Jim era ancora un Joyce incompiuto, in quanto non aveva ancora scritto quelle opere senza le quali Joyce sarebbe rimasto un esordiente arrogante. Tuttavia vorrei mettere in evidenza che, nonostante ciò, alla fine dei suoi studi Jim non era così incompiuto come si vorrebbe credere, e che è stato proprio durante quegli anni che egli ha tracciato lucidamente, nei suoi primi tentativi di scrittura, le direzioni che avrebbe seguito più tardi in età matura. Jim ha iniziato il suo curriculum nel 1898, imparando l'inglese sotto la guida di Padre O'Neill, un patetico seguace della Bacon-Shakespeare Controversy, l'italiano sotto la guida di Padre Ghezzi e il francese con Edouard Cadic. Era l'epoca degli studi neotomistici, quelli che spesso mostrano la strada più breve per fraintendere l'Aquinate, ma certamente al College, e prima che nel Pola e nel Paris Notebook, Jim di Tommaso aveva capito qualcosa. Aveva detto a Stanislaus che Tommaso d'Aquino è un pensatore molto complesso perché ciò che dice somiglia esattamente a ciò che dice la gente comune, o a ciò che essa vorrebbe dire - e questo per me significa aver capito moltissimo, se non proprio tutto, della filosofia di san Tommaso.

Nella sua conferenza Drama and Life, letta il 20 gennaio 1900 alla University College Literary and Historical Society, Joyce annunciava la poetica dei Dubliners: «Eppure penso che dalla triste monotonia dell'esistenza si possano trarre aspetti del dramma della vita. Il più grande luogo comune, il più morto tra i vivi, può avere una parte in questo grande dramma.» In Ibsen's New Drama, pubblicato il 1o aprile 1900 nella Fortnightly Review, possiamo individuare quell'idea fondamentale dell'impersonalità artistica che infine ritroveremo nel Portrait. A proposito dell'opera drammatica dice che Ibsen «la vede a intervalli regolari e completi, come da un'immensa altezza, con una visione perfetta e un'angelica imparzialità, con la vista di colui che può

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guardare il sole ad occhi aperti», e il Dio del Portrait starà «dentro o dietro o al di là o al di sopra l'opera sua, invisibile, sottilizzato fino a sparire, indifferente, occupato a curarsi le unghie». In James Clarence Mangan, una conferenza del 15 febbraio 1902, tenuta sempre alla Literary and Historical Society, e poi pubblicata in maggio nel St. Stephen's Magazine, troviamo che «la Bellezza, lo splendore della verità, è una graziosa presenza quando l'immaginazione contempla intensamente la realtà del suo proprio essere o il mondo visibile, e lo spirito che procede dalla verità e dalla bellezza è lo spirito santo della gioia. Queste sono realtà, e queste soltanto sostengono e danno vita». Questa è senza dubbio la prima fonte della nozione di epifania come poi sarà sviluppata nei lavori successivi. In The study of language, un saggio scritto nel corso del primo anno d'università (1898-1899), notiamo un'impressionante affermazione che sta alla base della struttura dello Ulysses; il giovane autore parla di un linguaggio artistico che sfugga a «quella durezza che è sufficiente solo per espressioni piatte, grazie a un'influenza sovraccarica di ciò che è bello nelle frasi patetiche, una dilatazione di parole, di torrenti di invettive, traslati e varietà di figure, tuttavia preservando, anche nei momenti di maggior emozione, un'innata simmetria». Nello stesso testo possiamo inoltre isolare un'eco remota del Finnegans Wake e della futura lettura di Vico quando Joyce dice che «nella storia delle parole c'è molto che indica la storia dell'uomo, e paragonando il linguaggio di oggi a quello di molti anni fa, abbiamo un'utile dimostrazione dell'effetto delle influenze esterne nell'autentico linguaggio di una razza». D'altra parte la fondamentale ossessione di Joyce, la ricerca di una verità artistica attraverso la manipolazione di tutte le lingue del mondo, si svela in un altro brano di questo saggio giovanile quando Jim, ancora matricola, scrive che «i gradi più alti della lingua, lo stile, la sintassi, la poesia, l'oratoria e la retorica sono, comunque vogliamo considerarli, i campioni e i rappresentanti della verità». Se è vero che ogni autore sviluppa un'unica idea seminale nel corso di tutta la sua vita, ciò sembra particolarmente evidente per Joyce: non ancora bachelor egli sapeva esattamente ciò che doveva fare - e lo ha detto, anche se in modo informale e piuttosto ingenuo, tra queste mura. O, se preferite, ha deciso di fare della sua età matura ciò che era riuscito a prevedere mentre studiava in queste aule. Nel primo anno di corso Jim ha meditato sulla rappresentazione delle scienze in Santa Maria Novella e ha deciso che la Grammatica doveva essere la «prima delle scienze». Ha così dedicato gran parte della sua vita all'invenzione di una nuova grammatica e la ricerca della verità è diventata per lui la ricerca di una lingua perfetta.

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Nell'anno in cui Dublino viene celebrata quale capitale culturale europea è opportuno riflettere sul fatto che la ricerca di una lingua perfetta era e continua a essere un tipico fenomeno europeo. L'Europa è nata da un unico nucleo di lingue e culture (il mondo greco-romano) e poi ha affrontato la sua frammentazione in diverse nazioni di lingue diverse. Il mondo antico non era preoccupato né del problema di una lingua perfetta né della molteplicità delle lingue. La koiné ellenistica, prima, e il latino imperiale dopo, assicuravano un soddisfacente sistema di comunicazione universale dal bacino mediterraneo alle isole britanniche. I due popoli che avevano inventato il linguaggio della filosofia e il linguaggio della legge identificavano le strutture della loro lingua con le strutture dell'umana ragione. L'uomo greco parlava il linguaggio. Tutti gli altri erano barbari, cioè, in termini etimologici, coloro che balbettavano. La caduta dell'impero romano ha segnato l'inizio di un periodo di divisione linguistica e politica. Il latino si è corrotto. I barbari hanno fatto irruzione, con i loro linguaggi e i loro costumi. Metà dei possedimenti romani sono passati ai greci dell'impero orientale. Parte dell'Europa e l'intero bacino mediterraneo hanno iniziato a parlare arabo. All'alba del nuovo millennio hanno visto la luce le lingue nazionali che ancor oggi noi parliamo su questo continente. E' esattamente in questo momento storico che la cultura cristiana ha incominciato a rileggere le pagine della Bibbia sulla confusio linguarum che si era verificata durante la costruzione della Torre di Babele. Solo in questi secoli si è iniziato a vagheggiare la possibilità di riscoprire o reinventare un linguaggio prebabelico, una lingua comune a tutta l'umanità, capace di esprimere la natura delle cose attraverso una specie di innata omologia tra cose e parole. Tale ricerca di un sistema di comunicazione universale ha assunto forme diverse da allora sino a oggi, c'è stato chi ha tentato di andare all'indietro nel tempo nel tentativo di riscoprire il linguaggio che originariamente Adamo aveva parlato con Dio, chi si è mosso in avanti, tentando di costruire una lingua della ragione dotata di quella perfezione perduta che apparteneva al linguaggio di Adamo. Si è cercato di perseguire l'ideale di Vico, trovare una lingua mentale comune a tutti i popoli. Si sono inventate lingue internazionali come l'Esperanto, si lavora ancora a delineare una «lingua della mente» comune agli uomini e ai computer... Tuttavia, nel corso di questa ricerca, vi sono stati casi in cui qualcuno ha asserito che la sola lingua perfetta fosse quella parlata dai propri compatrioti. Nel XVII secolo Georg Philipp Harsdörfer aveva affermato che Adamo non poteva parlare che tedesco, poiché solo in tedesco i radicali rappresentano perfettamente la natura delle cose (più tardi, Heidegger dirà che si poteva filosofare solo in tedesco - e, bontà sua, in greco). Per Antoine de Rivarol (Discours sur l'universalité de la langue française, 1784) il francese era la sola lingua in cui la struttura sintattica delle frasi rispecchiasse l'autentica struttura della ragione umana, e dunque era l'unica

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lingua logica al mondo (il tedesco era troppo gutturale, l'italiano troppo dolce, lo spagnolo troppo ridondante, l'inglese troppo oscuro).

E' ben noto che, in questo College, Joyce è divenuto un devoto di Dante Alighieri e che tale è rimasto per tutta la vita. Tutti i suoi riferimenti a Dante riguardano solo la Divina Commedia, ma ci sono delle valide ragioni per credere che avesse anche una certa familiarità con le idee di Dante sulle origini della lingua e con il suo progetto di creare un nuovo linguaggio poetico perfetto, così come Dante stesso lo ha espresso nel De vulgari eloquentia. In ogni caso Joyce deve aver trovato nella Divina Commedia dei chiari riferimenti a questo argomento e nel XXVI canto del Paradiso una nuova versione dell'antica discussione a proposito del linguaggio adamico. Il De vulgari eloquentia è stato scritto tra il 1303 e il 1305, e dunque prima della Divina Commedia. Sebbene appaia come una dissertazione dottrinale in realtà è un autocommento nel quale l'autore tende ad analizzare i suoi metodi di produzione artistica, che egli stesso identifica implicitamente con il modello di ogni discorso poetico. Secondo Dante la pluralità delle lingue volgari era stata preceduta, prima del peccato babelico, da una lingua perfetta con la quale Adamo comunicava con Dio e con la quale i suoi discendenti parlavano tra di loro. Dopo il caos babelico le lingue si erano moltiplicate, dapprima nelle varie aree geografiche del mondo e poi entro quell'area che oggi chiamiamo romanza, nella quale si erano distinte la lingua del sì, la lingua d'oc e lingua d'oïl. La lingua del sì, o italiana, si era dispersa in una molteplicità di dialetti che a volte variavano anche da una zona all'altra della città. Questa rottura era stata dovuta alla natura instabile e incostante dell'uomo, ai suoi costumi e alle abitudini verbali, sia nel tempo che nello spazio. E' proprio per compensare questi lenti e inesorabili cambiamenti nel linguaggio naturale che gli inventori della grammatica avevano cercato una specie di lingua inalterabile che rimanesse identica nel tempo e nello spazio, e questa lingua era stata il latino parlato nei secoli del Medioevo nelle Università. Ma Dante andava alla ricerca di un italiano volgare e, grazie alla sua cultura poetica e ai suoi contatti di esiliato itinerante, sperimentava sia le varietà di dialetti italiani che le varietà di lingue europee. L'intento del De vulgari eloquentia è quello di trovare un linguaggio più dignitoso e più nobile, e per questa ragione Dante procede attraverso una rigorosa analisi critica dell'italiano dialettale. Dal momento che i poeti migliori hanno, ognuno a suo modo, preso le distanze dal loro dialetto regionale, ciò suggerisce la possibilità di trovare un «dialetto nobile», un volgare illustre («diffusore di luce») degno di prendere posto nel palazzo reale di un regno nazionale, se mai gli italiani dovessero averne

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uno. Si tratterrebbe di un dialetto comune a tutte le città italiane e a nessuna in particolare, una specie di modello ideale al quale i poeti migliori si sono avvicinati e in confronto al quale tutti i dialetti esistenti dovranno essere giudicati. Dunque, in contrasto con la confusione delle diverse lingue, Dante sembra proporre un linguaggio poetico affine alla lingua di Adamo che corrisponda al linguaggio poetico del quale egli si considera orgogliosamente il fondatore. Questo linguaggio perfetto, al quale Dante dà la caccia come a una «pantera profumata», appare di tanto in tanto nelle opere di quei poeti che Dante considera grandi, sebbene in modo ancora piuttosto informe, non ben codificato e con dei princìpi grammaticali non del tutto espliciti. E' di fronte all'esistenza dei dialetti, naturali, ma non universali, e alla grammatica latina, universale ma artificiale, che Dante persegue il suo sogno di restaurare una lingua edenica che sia allo stesso tempo naturale e universale. Ma diversamente da chi poi cercherà di ritrovare la lingua ebraica originale, Dante intende ricreare la condizione edenica con un gesto di invenzione moderna. Il volgare illustre, di cui il suo linguaggio poetico deve essere esempio, è il modo con il quale il poeta «moderno» guarirà la ferita postbabelica. Questa audace concezione del proprio ruolo, quale restauratore di una lingua perfetta, spiega perché nel De vulgari eloquentia Dante, invece di condannare la molteplicità delle lingue, metta in evidenza la loro forza biologica, la loro capacità di rinnovamento nel corso del tempo. E' proprio sulla base di questa creatività linguistica che egli si ritiene capace di avviare e inventare una lingua perfetta, moderna e naturale, senza rifarsi a modelli perduti. Se Dante avesse creduto che il linguaggio primordiale coincideva con la lingua ebraica avrebbe deciso senz'altro di apprenderlo e di scrivere nella lingua della Bibbia. Ma a una simile possibilità Dante non ha mai pensato, perché era certo di poter trovare ancora, attraverso un perfezionamento dei vari dialetti italiani, quella lingua universale della quale la lingua ebraica era semplicemente stata l'incarnazione più venerabile. Molte delle arroganti affermazioni del giovane Joyce sembrano alludere allo stesso compito di restaurare le condizioni di una lingua perfetta attraverso la sua personale invenzione poetica, allo scopo di forgiare «la coscienza increata» della sua razza, una lingua che non sarà arbitraria come il linguaggio comune, ma necessaria e motivata. In questo modo il giovane bachelor aveva capito perfettamente, e in modo misterioso, l'idea di Dante, e l'ha perseguita per tutta la vita. Tuttavia il progetto di Dante, come ogni altro progetto per una lingua perfetta, era quello di trovare un linguaggio che permettesse all'umanità di sfuggire al labirinto postbabelico. Si può, come accadde a Dante, accettare la positiva pluralità delle lingue, ma una lingua perfetta dovrebbe essere chiara ed evidente, non labirintica. Al contrario il progetto di Joyce, nella misura in cui si allontana

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progressivamente dalla sua prima estetica tomista per avvicinarsi alla visione del mondo espressa in Finnegans Wake, sembra essere quello di superare il caos postbabelico non rifiutandolo, ma accettandolo come unica possibilità. Joyce non ha mai cercato di collocarsi davanti o oltre la Torre, egli ha voluto viverci dentro e permettetemi di chiedermi se per caso la decisione di iniziare lo Ulysses dalla cima di una torre non sia un'inconscia prefigurazione dello scopo finale di Joyce e cioè quello di forgiare un crogiuolo poligluttural e multilingual che rappresentasse non la fine bensì il trionfo della confusio linguarum. Quale può essere stata l'origine remota di tale decisione?

Verso la prima metà del VII secolo d.C. era apparso in Irlanda un trattato di grammatica il cui titolo era Auraicept na n-éces, I precetti dei poeti. L'idea fondamentale di questo trattato è che allo scopo di adattare il modello grammaticale latino all'irlandese si debbano imitare le strutture della Torre di Babele: otto o nove (secondo le varie versioni del testo) sono le parti del discorso, e cioè nomi, verbi, avverbi, e così via, e otto o nove erano gli elementi fondamentali usati per la costruzione della Torre (acqua, sangue, argilla, legno e così via). Perché un simile parallelo? Perché i settantadue dotti della scuola di Fenius Farrsaid, che avevano progettato la prima lingua nata dieci anni dopo il caos babelico (e va da sé che questa lingua fosse il gaelico) avevano cercato di costruire un idioma che, come quello originale, fosse non solo omologo alla natura delle cose ma anche in grado di tener conto della natura di tutte le altre lingue nate dopo il caos. La loro proposta era ispirata a Isaia 66, 18, «Verrò e radunerò ogni lingua e ogni nazione». Il metodo che avevano usato consisteva nel selezionare il meglio di ogni idioma frazionando, per così dire, le altre lingue, e combinandone i frammenti in una struttura nuova e perfetta. Si è tentati di dire che, facendo questo, essi erano proprio dei veri artisti se, come dice Joyce, «l'artista che volesse districare con molta esattezza la sottile anima dell'immagine dal reticolato di ben definite circostanze che le stanno intorno, e artistiche circostanze, scelte come più esatte per lei nel suo nuovo ufficio, era il supremo artista» (Stephen Hero, tr. it. p. 96). Segmentare - che è oggi concetto fondamentale nella analisi dei sistemi linguistici - era così importante per questi settantadue dotti che (come suggerisce la mia fonte) (2) la parola teipe usata per «segmentare», e dunque selezionare, modellare, ha indicato automaticamente la lingua irlandese quale berla teipide. Di conseguenza l'Auraicept in qualità di testo che definiva questo evento, era stato considerato un'allegoria del mondo. E' interessante notare come una teoria quasi simile era stata espressa da un contemporaneo di Dante, il grande cabalista del XII secolo Abraham Abulafia, secondo cui Dio aveva dato ad Adamo non una lingua specifica ma una specie di metodo, una grammatica universale

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che, perduta con lo scandalo di Babele, era sopravvissuta tra il popolo ebreo, che era stato così abile nell'usare questa regola da creare la lingua ebraica, la più perfetta delle settanta lingue postbabeliche. Ma l'ebraico di cui parla Abulafia non era un collage di altre lingue, bensì un corpus del tutto nuovo prodotto combinando le ventidue lettere originali (i segmenti elementari) dell'alfabeto divino. Al contrario i grammatici irlandesi non avevano deciso di tornare indietro alla ricerca del linguaggio adamitico, ma avevano preferito costruirne uno nuovo e perfetto, il loro gaelico. Conosceva Joyce questi grammatici altomedievali? Non ho trovato nessun riferimento all'Auraicept nella sua opera, ma sono stato incuriosito dal fatto, riportato da Ellmann, che il giovane Jim, l'undici ottobre del 1901, all'assemblea della Student Debating Society, era andato alla conferenza di John F. Taylor dove non solo era stata celebrata la bellezza e la perfezione dell'irlandese, ma era anche stato formulato un parallelo tra il diritto che aveva il popolo irlandese di usare la propria lingua e il diritto che avevano Mosè e gli Ebrei di usare l'ebraico come la lingua della rivelazione, rifiutando l'egiziano che gli era imposto. Come sappiamo, l'idea di Taylor è stata ampiamente utilizzata nel capitolo «Aeolus» dello Ulysses, dominato dal parallelo tra ebraico e irlandese, e tale paragone rappresenta una specie di complemento linguistico del parallelo tra Bloom e Stephen. Permettetemi allora di sollevare un dubbio. Nel Finnegans Wake (p. 356) c'è la parola taylorised che Atherton (3) interpreta come un riferimento al neoplatonico Thomas Taylor. Mi piacerebbe invece poterla interpretare come un riferimento a John F. Taylor. Non ne ho la prova, ma mi sembra interessante che questa citazione si trovi in un contesto (Finnegans, pp. 353 e sgg.) dove Joyce inizia parlando dell'abnihilisation of the etym, usa espressioni come vociferagitant, viceversounding e alldconfusalem, e termina con how comes every a body in our taylorised world to selve out thisthis, con un riferimento al primeum nobilees e alla parola notomise. E' probabile che l'idea di inventare linguaggi anatomizzando e tagliando le radici delle parole fosse ispirata da quell'antica conferenza di Taylor accompagnata da qualche indiretta conoscenza dell'Auraicept. Ma poiché non esiste una prova testuale di tutto ciò non posso presentare il mio suggerimento che come un'ipotesi allettante, o semplicemente un divertimento personale. Non esistono prove circa un'eventuale familiarità di Joyce con le tradizioni medievali irlandesi. Nella conferenza Irlanda, isola di santi e di saggi, tenuta a Trieste nel 1907, Joyce ha insistito sull'antichità della lingua irlandese, identificandola con quella fenicia. Joyce non era uno storico impeccabile, e durante la conferenza aveva confuso, come se fossero la stessa persona, Giovanni Scoto Eriugena (che era con certezza un irlandese del IX secolo) e Giovanni Duns Scoto (nato a Edimburgo nel XIII secolo, sebbene all'epoca molti fossero convinti che fosse irlandese); inoltre

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credeva che l'autore del Corpus Dyonisianum, che lui chiamava lo pseudo-Areopagita Dyonisius, fosse san Dionigi, santo patrono della Francia - mentre il Dionigi del Corpus era stato identificato dalla tradizione medievale con quel Dionigi Areopagita vissuto ai tempi di san Paolo - e, poiché anche questa attribuzione era falsa e non si sa se Dionigi fosse davvero un qualche Dionigi, il vero autore del Corpus è comunque uno pseudo-Dionigi Areopagita e non un Dionigi pseudo-Areopagita. Ma all'University College Joyce aveva studiato solo latino, francese, inglese, matematica, filosofia naturale e logica - non filosofia medievale. In ogni caso tutte le analogie tra le rivendicazioni dei grammatici irlandesi e la ricerca di un perfetto linguaggio poetico da parte di Joyce sono così sorprendenti che cercherò di trovare altre associazioni.

Allo scopo di inventare il suo linguaggio poetico Joyce, pur avendo delle idee imprecise circa le antiche tradizioni irlandesi, conosceva piuttosto bene un testo che ha menzionato esplicitamente, per la prima volta, nella sua conferenza triestina sull'Irlanda: il Book of Kells. Joyce da giovane aveva certamente visto il Book of Kells al Trinity College e più tardi ne ha citato una riproduzione, The Book of Kells, described by Sir Edward Sullivan and illustrated with 24 plates in colour (II edizione London-Paris-New York, 1920). Joyce ne aveva regalato una copia a Miss Weaver nel Natale del 1922. Recentemente, presentando il meraviglioso facsimile del manoscritto, (4) ho fatto presente che questo capolavoro dell'arte irlandese era stato preceduto e circondato da un «mormorio» e sono certo che, forse in modo indiretto, Joyce sia stato influenzato da questo mormorio. Due giorni fa ho trascorso un pomeriggio (per la seconda volta in vita mia) nel luogo più magico dell'Irlanda, le Seven Churches of Clonmacnoise, e ancora una volta ho capito che nessuno, anche chi non ha mai sentito parlare dei grammatici irlandesi o dei libri di Kells, di Durrow, di Lindisfarne o di Dun Cow, non può guardare quel panorama e quelle vecchie pietre senza ascoltare il mormorio che ha accompagnato la nascita e la vita millenaria del Book of Kells. Le storie della cultura latina prima del Mille, e particolarmente tra il settimo e il decimo secolo, registrarono lo sviluppo di ciò che è stato denominato «estetica isperica», uno stile emerso e sviluppatosi dalla Spagna alle isole britanniche, toccando anche le Gallie. (5) La tradizione classica latina l'aveva già descritto (e condannato) definendolo «asiano» e poi «africano», in opposizione all'equilibrio dello stile «attico». Quintiliano, nella sua Institutio oratoria (XII, 79), aveva già sottolineato che lo stile perfetto deve mostrare magna non nimia, sublimia non abrupta, fortia non temeraria, severa non tristia, gravia non tarda, laeta non luxuriosa, iucunda non dissoluta, grandia non tumida. Non solo la retorica romana ma anche quella cristiana antica condannava il

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kakozelón o cattiva affettazione dello stile asiano. Quale esempio di come fossero profondamente scandalizzati i Padri della Chiesa quando erano messi a confronto con gli esempi di questa mala affectatio, si veda l'invettiva di san Gerolamo (Adversus Jovinianum, I): «Vi è una tal barbarie tra gli scrittori e il loro discorso è reso così confuso da vizi di stile, che siamo giunti a un punto in cui non si riesce più a capire chi stia parlando e cosa venga discusso. Ogni cosa (in queste opere) si dilata per poi sgonfiarsi come un serpente indebolito che si spezza mentre tenta di contorcersi... Tutto è preso in tali inestricabili nodi verbali che si potrebbe ripetere con Plauto: "Qui nessuno - tranne la Sibilla - può comprendere nulla." Ma che sono queste stregonerie verbali?» Una tirata simile può suonare come l'astiosa descrizione, da parte di un tradizionalista, di una pagina del Book of Kells o del Finnegans Wake. Ma nel frattempo qualcosa doveva accadere: quelle qualità che, secondo la tradizione classica, erano state classificate come vizi, nella poetica isperica sarebbero diventate virtù. La pagina isperica non obbedisce più alle leggi della sintassi e della retorica tradizionale, i modelli del ritmo e del metro vengono violati allo scopo di produrre espressioni dal sapore barocco. Catene di allitterazioni che il mondo classico avrebbe considerato cacofoniche cominciarono a produrre una musica nuova, e Aldhelm di Malmesbury (Epistula ad Eahfridum PL 89, 91) si divertiva a costruire frasi nelle quali ogni parola iniziava con la stessa lettera: Primitus pantorum procerum praetorumque pio potissimum paternoque praesertim privilegio panegyricum poemataque passim prosatori sub polo promulgantes... Il lessico isperico si arricchisce di ibridi incredibili prendendo in prestito termini ebraici ed ellenismi, il testo si appesantisce di crittogrammi ed enigmi che sfidano ogni tentativo di traduzione. Se l'ideale dell'estetica classica era la chiarezza, l'ideale isperico sarà l'oscurità. Se l'estetica classica esaltava la proporzione, l'estetica isperica preferirà la complessità, l'abbondanza di epiteti e di parafrasi, il gigantesco, il mostruoso, l'irrefrenabile, l'incommensurabile, il prodigioso. La stessa ricerca di etimologie inaccettabili condurrà alla dissociazione della parola in elementi atomici che poi acquisiranno significati enigmatici. L'estetica isperica rappresenterà lo stile dell'Europa di quelle età oscure durante le quali il vecchio continente stava subendo un declino demografico, la crisi delle colture, la distruzione delle città più importanti, delle strade, degli acquedotti romani. In un territorio coperto di foreste non solo i monaci, ma anche i poeti e i miniaturisti guarderanno il mondo come un'oscura, minacciosa foresta brulicante di mostri, intersecata da percorsi labirintici. In questi secoli difficili e disordinati sarà dall'Irlanda che la cultura latina sarà riportata nel continente. Ma quei monaci irlandesi che hanno elaborato e preservato per noi quel poco della tradizione classica che erano riusciti a salvare, prenderanno l'iniziativa nel mondo del linguaggio e dell'immaginazione visiva cercando a tentoni

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la strada all'interno di una densa foresta, simili ai compagni di san Brandano, che con lui correvano i mari imbattendosi in mostri e insulae perditae, incontrando un pesce gigantesco su cui sbarcano scambiandolo per un'isola, un'isola abitata da uccelli bianchi (le anime cadute con Lucifero), fontane miracolose, alberi del Paradiso, una colonna di cristallo in mezzo al mare, Giuda su di una roccia, battuto e tormentato dalla forza incessante delle onde. Tra il Settimo e il Nono secolo, forse su suolo irlandese (ma certamente nelle isole britanniche) appare quel Liber monstrorum de diversis generibus che sembra descrivere molte delle immagini che scopriamo nel Book of Kells. L'autore confessa nelle prime pagine che, sebbene molti libri autorevoli avessero già raccontato simili menzogne, non avrebbe mai pensato di proporle di nuovo se «il vento impetuoso delle vostre richieste non fosse giunto inaspettatamente per gettare a capofitto me - impaurito marinaio - in un mare di mostri. [...] Ed è infinito, senza dubbio, il numero delle razze di animali marini mostruosi, i quali con corpi smisurati, pari ad alte montagne, squassano le ondate più gigantesche e sommuovono coi torsi le distese d'acqua quasi sradicate dal profondo per spingersi poi verso la foce tranquilla dei fiumi: e nuotando smuovono spume e spruzzi, con gran frastuono. Così schierato, quell'esercito mostruoso e immenso attraversa le gonfie piane azzurre, e spazza l'aria con sferzate di schiume bianchissime, come il marmo. E rovesciando poi con terribili risucchi le acque, già tutte un turbinio per la massa stragrande dei loro corpi, puntano alla spiaggia, così da offrire a chi stia sulla riva a spiarli non tanto spettacolo quanto orrore». (6) Per quanto l'autore possa essere timoroso nel dire bugie, non può resistere all'abissale bellezza di questa affascinante menzogna perché essa gli consente di tessere un racconto infinito e vario come un labirinto. Egli narra la sua storia con lo stesso piacere con cui, nella Vita S. Columbani, è descritto il mare intorno all'isola Hibernia o come nella Hisperica Famina (un'opera con la quale l'autore del Liber monstrorum doveva avere una certa familiarità), aggettivi come astriferus o glaucicomus sono usati per descrivere i marosi (e l'estetica isperica privilegerà neologismi come pectoreus, placoreus, sonoreus, alboreus, propriferus, flamminger e gaudifluus). Sono le stesse invenzioni lessicali elogiate da Virgilio Grammatico nelle sue Epitomae e Epistulae. (7) Molti eruditi sostengono adesso che questo folle filologo di Bigorre, vicino a Tolosa, fosse in realtà un irlandese, e tutto - dal suo stile alla sua visione del mondo sembrerebbe confermarlo. Virgilio è vissuto nel VII secolo e quindi, presumibilmente, cento anni prima della produzione del Book of Kells. Citava passaggi da Cicerone e da Virgilio (l'altro, quello vero) che questi autori non potevano aver scritto, ma poi scopriamo, o supponiamo, che egli apparteneva a una cerchia di retori, ognuno dei quali aveva preso il nome di un autore classico. Forse, come è stato supposto, scrive per deridere gli altri retori. Influenzato dalla cultura celtica, visigota, irlandese ed ebraica, descrive un universo linguistico che sembra sgorgare dall'immaginazione di un poeta

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surrealista moderno. Afferma che esistono dodici varietà di latino e che in ognuna la parola fuoco può essere diversa: ignis, quoquihabin, ardon, calax, spiridon, rusin, fragon, fumaton, ustrax, vitius, siluleus, aenon (Epitomae, IV, 10). Una battaglia si dice praelium perché ha luogo in mare - praelum - perché la sua vastità genera la supremazia, o praelatum, del meraviglioso (Epitomae, IV, 10). La geometria è un'arte che spiega tutti gli esperimenti con le erbe e le piante, ed è questa la ragione per cui i medici sono chiamati geometri (Epitomae, IV, 11). Il retore Aemilius ha proclamato elegantemente sssssssssss. pp. nnnnnnnn. gggg.r.mm.ttt.d. cc. aaaaaaa. iiii vvvvvvvv .o. ae. eeeeeee. - che dovrebbe voler dire «l'uomo saggio succhia il sangue dalla saggezza e deve essere giustamente chiamato sanguisuga delle vene» (Epitomae, X, 1). Galbungus e Terrentius si sono affrontati in una discussione durata quattordici giorni e quattordici notti per discutere il vocativo di ego, e il problema era di somma importanza perché si trattava di determinare come ci si dovesse enfaticamente rivolgere a se stessi («Oh! ho io ben operato? O egone, recte feci?»). Questo e altro ci racconta Virgilio, richiamandoci alla mente il giovane Joyce che domandava se fosse valido il battesimo con acqua minerale. Ognuno dei testi che ho menzionato potrebbe essere usato per descrivere una pagina del Book of Kells, così come una pagina del Finnegans Wake, perché in ognuno la lingua fa ciò che nel Book of Kells fanno le immagini. Usare parole per descrivere il Book of Kells significa reinventare una pagina della letteratura isperica. Il Book of Kells è una fioritura di forme di animali intrecciate e stilizzate, di piccole figure scimmiesche tra un fogliame inestricabile che ricopre pagina dopo pagina, come all'inseguimento dei motivi sempre uguali di un arazzo laddove - in realtà - ogni linea, ogni corimbo, rappresenta una invenzione diversa. E' una complessità spiraliforme che vaga intenzionalmente ignara di ogni regola di disciplinata simmetria, una sinfonia di colori delicati dal rosa al giallo arancione, dal giallo limone al rosso violaceo. Quadrupedi, uccelli, levrieri che giocano col becco di un cigno, inimmaginabili figure umanoidi avvitate come un atleta equestre che con la testa tra le ginocchia si contorce fino a formare una lettera iniziale, esseri malleabili e flessibili come elastici che si introducono in un groviglio di entrelacs, che spingono le loro teste attraverso decorazioni astratte, che si avvinghiano intorno alle lettere iniziali insinuandosi tra le righe. La pagina non si ferma sotto il nostro sguardo, ma sembra prendere vita da se stessa, non ci sono punti di riferimento, ogni cosa è mescolata con qualsiasi altra cosa. Il Book of Kells è il regno di Proteo. E' il prodotto di un'allucinazione fredda che non ha bisogno di mescalina o di acido lisergico per creare i suoi abissi, anche perché non rappresenta il delirio di una singola mente ma piuttosto il delirio di un'intera cultura impegnata in un dialogo con se stessa, citando altri Vangeli, altre lettere miniate, altri racconti.

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Esso è la lucida vertigine di una lingua che cerca di ridefinire il mondo mentre ridefinisce se stessa con la piena consapevolezza che, in un'età ancora incerta, la chiave della rivelazione del mondo non può essere trovata nella linea retta bensì nel labirinto. Non è dunque per caso che tutto ciò ha ispirato il Finnegans Wake nel momento in cui Joyce tentava di realizzare un libro che rappresentasse nello stesso tempo un'immagine dell'universo e un'opera per un «lettore ideale affetto da un'ideale insonnia». Ma anche rispetto allo Ulysses Joyce aveva già dichiarato che molte delle iniziali nel Book of Kells possedevano il carattere di un intero capitolo del suo libro e aveva chiesto esplicitamente che la sua opera fosse paragonata a quelle miniature. Il capitolo del Finnegans Wake che si riferisce chiaramente al Book of Kells è quello chiamato convenzionalmente «The Manifesto of Alp». In questo capitolo è narrata la storia di una lettera trovata su un mucchio di letame, e la lettera è stata vista come un simbolo di tutti i tentativi di comunicazione, di tutta la letteratura del mondo, e dello stesso Finnegans Wake. La pagina del Book of Kells in cui Joyce trova maggiore ispirazione è la tenebrous Tunc page (folio 124e). Ora, se si consente allo sguardo di vagare su questa pagina di Tunc, leggendo simultaneamente, anche se a sbalzi, qualche riga di Joyce, si ha l'impressione che si tratti di un'esperienza multimediale, in cui la lingua rispecchia le immagini delle miniature e le immagini delle miniature risvegliano analogie linguistiche. Joyce parla di una pagina in cui every person, place and thing in the chaosmos of Alle amyway connected with the gobblydumped turkey was moving and changing every part of the time. Parla di uno steady monologue of interiors dove a word as cunningly hidden in its maze of confused drapery as a fieldmouse in a nest of coloured ribbons diviene una Ostrogothic kakography affected for certain phrases of Etruscan stabletalk, fatta di utterly unexpected sinistrogyric return to one peculiar sore point in the past... indicating that the words which follow may be taken in any order desidered. Cos'è dunque che rappresenta il Book of Kells? L'antico manoscritto ci parla di un mondo fatto di sentieri che si biforcano in direzioni opposte, di avventure della mente e dell'immaginazione che non possono essere descritte. Si tratta di una struttura in cui ogni punto può collegarsi a qualsiasi altro, dove non vi sono punti o posizioni ma solo linee di collegamento, ognuna delle quali può essere interrotta in qualsiasi momento poiché riprenderà immediatamente e seguirà lo stesso percorso. Questa struttura non ha né centro né periferia. Il Book of Kells è un labirinto. Questa è la ragione per cui è riuscito a diventare, nella mente eccitata di Joyce, il modello di quel libro infinito ancora da scrivere, leggibile solo da un lettore ideale affetto da un'ideale insonnia. Ma nello stesso tempo il Book of Kells (insieme al Finnegans Wake, suo discendente) rappresenta il modello della lingua umana e, forse, quella del mondo in cui viviamo. Forse viviamo all'interno di un Libro di Kells credendo di vivere nell'Encyclopédie di Diderot. Sia

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il Book of Kells che Finnegans Wake sono la migliore immagine dell'universo così come viene presentato dalla scienza contemporanea. Sono il modello di un universo in espansione, forse finito e tuttavia illimitato, il punto di partenza per infinite interrogazioni. Sono libri che ci consentono di sentirci uomini e donne del nostro tempo anche se navighiamo nello stesso periglioso mare che ha condotto san Brandano alla ricerca di quell'Isola Perduta di cui il Book of Kells canta in ogni pagina, mentre ci invita e ci ispira a continuare la nostra ricerca per giungere a esprimere in modo perfetto l'imperfetto mondo in cui viviamo. Jim the bachelor non era affatto incompiuto perché aveva visto, sia pure come attraverso una nebbia, quale fosse il suo compito e ciò che noi dovevamo comprendere, vale a dire che l'ambiguità delle nostre lingue, la naturale imperfezione dei nostri idiomi, non rappresentano il morbo postbabelico dal quale l'umanità deve guarire, bensì la sola opportunità che Dio aveva dato ad Adamo, l'animale parlante. Capire i linguaggi umani, imperfetti e capaci nello stesso tempo di realizzare quella suprema imperfezione che chiamiamo poesia, rappresenta l'unica conclusione di ogni ricerca della perfezione. Babele non è stato un incidente, viviamo nella Torre fin dall'origine, il primo dialogo tra Dio e Adamo è forse avvenuto in finneganian, e solo ritornando a Babele e accettando la nostra unica possibilità possiamo trovare la nostra pace e affrontare il destino della razza umana.

Tutta questa storia è iniziata a Dublino, quando un ragazzo ha iniziato a essere ossessionato dalle immagini del Book of Kells, e forse da quelle dei libri di Durrow, di Lindisfarne, di Dun Cow... «Once upon the time there was a Dun Cow coming down along the maze and this Dun Cow that was down along the maze met a nicens little boy named baby Jim the bachelor...» NOTE: (1) Versione italiana di una conferenza pronunciata il 31 ottobre 1991 allo University College di Dublino per celebrare l'anniversario del conferimento del Bachelor of Arts a James Joyce. La versione inglese appare ora in Umberto Eco e Liberato Santoro Brienza, Talking of Joyce (Dublino: University College Dublin Press, 1998). Una traduzione italiana di Romana Petri era stata pubblicata in Leggere, V, 42, giugno 1992. (2) Vedi Diego Poli, «La metafora di Babele e le partitiones nella teoria grammaticale irlandese dell'Auraicept na n-éces», in Diego Poli (ed.), Episteme. Quaderni Linguistici e Filologici, IV, 1986-1989. Università di Macerata. Istituto di Glottologia e Linguistica Generale, pp. 179-98. (3) The Books at the Wake (London: Faber, 1959). (4) The Book of Kells (Ms 58, Trinity College Library Dublin). Commentary edited by Peter Fox. Fine Art Facsimile Publishers of Switzerland (Luzern: Faksimile Verlag, 1990).

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(5) Per l'estetica isperica e la Hisperica Famina vedi The Hisperica Famina I. The A-Text, a cura di Michael Herren (Toronto: Pontifical Institute of Medieval Studies, 1974) e The Hisperica Famina II. Related Poems, a cura di Michael Herren (Toronto: Pontifical Institute of Medieval Studies, 1987). (6) Liber monstrorum de diversis generibus, a cura di Corrado Bologna (Milano: Bompiani, 1977). (7) Virgilio Marone Grammatico, Epitomi ed Epistole, a cura di G. Polara (Roma: Liguori, 1979). Tra La Mancha e Babele (1) Mi è grato, nel ringraziare questa Università per l'onore conferitomi, che questo rito si svolga alla Mancha e nei giorni in cui si sta celebrando Jorge Luis Borges. (2) Perché esisteva e forse esiste ancora in un paese di questa regione, di cui non si è voluto fare il nome, una biblioteca. Questa biblioteca, piena soltanto di romanzi d'avventura, era una biblioteca da cui si esce. E infatti la storia del divino Don Quijote inizia proprio nel momento in cui il nostro eroe decide di abbandonare il luogo delle sue fantasticherie libresche per avventurarsi nella vita. Ma lo fa perché in fondo si era persuaso di avere trovato in quei libri la verità, per cui bastava imitarli, riprodurne le imprese. Trecentocinquanta anni dopo Borges ci narrerà la storia di una biblioteca da cui non si esce, e in cui la ricerca della parola vera è infinita e senza speranza. C'è una analogia profonda tra queste due biblioteche: Don Quijote ha cercato di trovare nel mondo fatti, avventure, dame che la sua biblioteca gli aveva promesso; e quindi ha voluto e creduto che l'universo fosse come la sua biblioteca. Borges, meno idealista, ha deciso che la sua biblioteca era come l'universo - e si capisce quindi perché non ha più provato la necessità di uscirne. Così come non si può dire «fermate il mondo, voglio scendere», parimenti non si può uscire dalla Biblioteca. Ci sono tante storie di biblioteche, ci sono le biblioteche perdute, come quella di Alessandria, e ci sono le biblioteche in cui si entra e si esce subito, perché si riconosce che contengono solo storie e idee assurde. Tale la biblioteca di Saint-Victor dove Pantagruel entra, alcuni decenni prima che Quijote nascesse, si compiace per quelle centinaia di volumi che gli promettono la sapienza dei secoli, ma a quanto ne sappiamo l'abbandona ben presto per far altro. Ci ha lasciati soltanto con la curiosità e la nostalgia di sapere di che cosa parlassero quei volumi, e il gusto di ripeterne i nomi come una litania: Bragheta juris, De babuinis et scimiis cum commento Dorbellis, Ars honeste petandi in societate, Formicarium Artium, De modo cacandi, De differentiis zupparum, De optimitate tripparum, Quaestio subtilissima utrum chimera bombinans in vacuo possit comedere secundas intentiones, De baloccamentis

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principum, Baloccatorium Sorboniformium, Campi clysteriorum, Antiodotarium animae, De patria diabolorum... Della biblioteca di Rabelais, come di quella di Cervantes, possiamo citare dei titoli, perché erano delle biblioteche finite, limitate dall'universo stesso di cui parlavano, l'una di Roncisvalle e l'altra della Sorbona. Della biblioteca di Borges non possiamo citare titoli perché il numero dei suoi libri è infinito e perché, più che il soggetto dei libri, interessa il formato della biblioteca. Di Biblioteche di Babele ne sono state sognate anche prima di Borges. Una delle proprietà della biblioteca borgesiana non è solo quella di contenere infiniti volumi lungo una distesa di stanze illimitata e periodica, ma di poter esibire volumi che contengono tutte le possibili combinazioni di venticinque simboli ortografici, così che non si possa immaginare alcuna combinazione di caratteri che la Biblioteca non abbia previsto. Era l'antico sogno dei cabalisti, perché solo combinando all'infinito una serie finita di lettere si poteva sperare di formulare un giorno il nome segreto di Dio. E se non cito, come forse tutti si attenderebbero, le ruote di Raimundo Lullo è perché egli, anche se voleva produrre un numero astronomico di proposizioni, di esse intendeva salvare solo quelle vere, scartando le altre. Ma, ponendo insieme e le ruote di Lullo e l'utopia combinatoria dei cabalisti, nel XVII secolo, oltre al nome di Dio, si sperava di poter nominare anche ciascun individuo del mondo e sfuggire così alla dannazione del linguaggio, che ci obbliga a designare individui attraverso termini generali, haecceitates attraverso quidditates, lasciandoci sempre - come accadeva ai medievali - con l'amaro in bocca per la penuria nominum. Per questo Harsdörfer in Matematische und philosophische Erquickstunden (1651) proponeva di disporre su cinque ruote 264 unità (prefissi, suffissi, lettere e sillabe) per generare attraverso la combinatoria 97.209.600 parole tedesche, comprese quelle inesistenti. Clavio (In Spheram Ioannis de Sacro Bosco, 1607) calcolava quanti termini potessero essere prodotti con le ventitré lettere dell'alfabeto, combinandole a due a due, a tre a tre e così via, sino a considerare parole di ventitré lettere. Pierre Guldin (Problema arithmeticum de rerum combinationibus, 1622), calcolando tutti i termini generabili con un alfabeto, di lunghezze variabili da due a ventitré lettere, raggiungeva la cifra di settantamila miliardi di miliardi di parole - per registrare le quali su registri di mille pagine, a 100 linee per pagina e 60 caratteri per linea, sarebbero occorse 8.052.122.350 biblioteche, ciascuna di 432 piedi per lato. Mersenne (Harmonie universelle, 1636), considerando oltre alle parole anche i «canti» (e cioè le sequenze musicali), notava che i canti generabili con ventidue note sono circa dodicimila miliardi di miliardi (per cui se si volessero scrivere tutti, mille al giorno, occorrerebbero quasi ventitremila milioni di anni). E' proprio per farsi gioco di questi sogni combinatori che Swift aveva proposto la sua antibiblioteca, ovvero una lingua perfetta,

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scientifica, universale in cui non vi fosse più bisogno di libri, di parole, di simboli alfabetici: Ci recammo quindi alla scuola di lingue, dove tre professori erano riuniti per migliorare la lingua del proprio paese. Il primo progetto era di abbreviare il discorso riducendo tutti i polisillabi a monosillabi, e eliminando verbi e participi, poiché tutte le cose immaginabili sono soltanto nomi. Il secondo era un progetto per abolire tutte le parole, il che veniva presentato come un grande vantaggio sia dal punto di vista della salute che della concisione. E' evidente che ogni parola che pronunciamo intacca in certa misura i polmoni, corrodendoli, e quindi contribuisce ad abbreviare la vita: l'espediente proposto, pertanto, si basa sul fatto che le parole sono soltanto nomi di cose, e sarebbe quindi molto più comodo che ognuno portasse con sé le cose necessarie ad esprimere un determinato discorso. Questa invenzione si sarebbe indubbiamente affermata, con grande comodità e vantaggio per la salute degli individui, se le donne, alleate con il popolo ignorante, non avessero minacciato di ribellarsi, se non fosse stata lasciata loro la libertà di esprimersi con la lingua, come i loro antenati: tanto è sempre e senza rimedio nemica della scienza la gente comune! Tuttavia, molti tra i più colti e intelligenti hanno adottato il nuovo sistema di esprimersi con le cose, che ha un solo difetto: se gli affari di un individuo sono molto vasti e vari, egli deve portare sulla schiena un carico di cose proporzionalmente grande, a meno che non possa farsi accompagnare da uno o due servi robusti. Ho osservato un paio di queste sagge persone, quasi piegate in due sotto il peso dei loro carichi come i nostri venditori ambulanti, le quali, incontrandosi per strada, scaricavano i loro fardelli, aprivano i sacchi, e conversavano per un'oretta; poi, rimpacchettati i loro oggetti, si aiutavano l'un l'altro a caricarseli sulle spalle e si salutavano (Gulliver's Travels, III, 5). Si veda però come anche Swift non avrebbe potuto evitare qualcosa di molto simile alla Biblioteca di Babele. Perché per poter nominare tutte le cose dell'universo gli uomini avrebbero bisogno di disporre di un vocabolario fatto di cose, e l'estensione di questo vocabolario sarebbe pari all'estensione dell'intero universo. Ancora una volta non ci sarebbe differenza tra Biblioteca e universo. Col progetto di Swift noi saremmo nella biblioteca, anzi parte della biblioteca stessa, e non potremmo uscirne, ma neppure potremmo parlarne perché, come nella Biblioteca di Babele si può essere in un solo esagono per volta, nel mondo in cui viviamo potremmo parlare solo di quello che ci circonda a seconda del luogo in cui stiamo, indicando col dito ciò che ci sta intorno. Ma ammettiamo pure che il progetto di Swift avesse trionfato e gli uomini non parlassero più. Anche in tal caso, ci avvertiva Borges, la biblioteca conterrebbe le autobiografie degli arcangeli e la storia minuziosa dell'avvenire. Ed è proprio traendo ispirazione da questo accenno borgesiano che Thomas Pavel, nel suo libro Fictional Worlds, ci invita a un affascinante esperimento mentale. (3) Supponiamo che

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un essere onnisciente sia in grado di scrivere o leggere un'Opera Massima, che contiene tutte le affermazioni vere sia sul mondo reale che su tutti i mondi possibili. Naturalmente poiché dell'universo si può parlare con diversi linguaggi, e ciascun linguaggio lo definisce in modo diverso, esiste una Collezione Massimale di Opere Massime. Supponiamo ora che Dio incarichi alcuni angeli di scrivere per ciascun uomo dei Libri Quotidiani, dove essi annotano tutti gli enunciati (circa i mondi possibili dei suoi desideri o speranze e il mondo reale dei suoi atti) che corrispondono a una affermazione vera in qualcuno dei libri che compone la Collezione Massimale delle Opere Massime. La collezione dei Libri Quotidiani di un dato individuo dovrà essere esibita nel giorno del Giudizio, insieme a quella dei Libri che valutano le vite delle famiglie, delle tribù e delle nazioni. Ma l'angelo che scrive un libro quotidiano non allinea solo affermazioni vere: le collega, le valuta, le costruisce in sistema. E poiché nel giorno del giudizio individui e gruppi avranno ciascuno un angelo difensore, i difensori riscriveranno per ciascuno una altra serie astronomica di Libri Quotidiani dove le stesse affermazioni saranno collegate in modo diverso, e diversamente confrontate alle affermazioni di qualcuna delle Opere Massime. Siccome di ciascuna delle infinite Opere Massime fanno parte infiniti mondi alternativi, gli angeli scriveranno infiniti Libri Quotidiani in cui si mescolano affermazioni che sono vere in un mondo e false nell'altro. Se pensiamo poi che alcuni angeli siano maldestri, e che mescolino affermazioni che una singola Opera Massima registra come mutuamente contraddittorie, avremo alla fine una serie di Compendi, di Miscellanee, di compendi di frammenti di miscellanee, che amalgameranno strati di libri di diverse origini, e a quel punto sarà molto difficile dire quali libri siano veri e quali siano fittizi, e rispetto a quale libro originale. Avremo una astronomica infinità di libri ciascuno dei quali gioca a cavallo di mondi diversi, e capiterà di considerare fittizie storie che altri hanno considerato come vere. Pavel scrive queste cose per farci capire che noi già viviamo in un universo del genere, salvo che invece che dagli arcangeli i libri sono stati scritti da noi, da Omero a Borges; e insinua che l'ontologia bastarda della finzione non sia una eccezione rispetto alla ontologia «pura» dei libri che parlano del mondo reale. Egli suggerisce che la leggenda che racconta dipinga assai bene la nostra situazione di fronte all'universo delle affermazioni che siamo abituati ad accettare come «vere». Così che il fremito con cui avvertiamo i confini ambigui tra finzione e realtà non solo è pari a quello che ci coglie di fronte ai libri scritti dagli angeli, ma anche a quello che dovrebbe coglierci di fronte alla serie dei libri che rappresentano, con autorevolezza, il mondo reale. L'idea della Biblioteca di Babele si è ormai sposata con quella altrettanto vertiginosa della pluralità dei Mondi Possibili, e la fantasia di Borges è andata a ispirare in parte il calcolo formale dei logici modali. Non solo, ma la Biblioteca descritta da Pavel, di

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cui fanno parte naturalmente anche le opere di Borges, compreso il suo racconto sulla Biblioteca, assomiglierebbe curiosamente alla biblioteca di Don Quijote, che era biblioteca di storie impossibili che si svolgono in mondi possibili, in cui il lettore smarriva il senso dei confini tra finzione e realtà. C'è un'altra storia che, inventata da un artista, ha influenzato anche l'immaginazione degli scienziati, se non dei logici certamente dei fisici e dei cosmologi, ed è il Finnegans Wake di Joyce. Joyce non ha ideato una biblioteca possibile: ha messo in pratica quello che Borges, più tardi, avrebbe suggerito. Ha usato i ventisei simboli alfabetici dell'inglese per produrre una selva di parole inesistenti dai multipli significati, ha proposto certamente il suo libro come modello dell'universo, e ha certamente inteso che la sua lettura dovesse essere illimitata e periodica, tanto che ha auspicato per la sua opera un ideal reader affected by an ideal insomnia. Perché cito Joyce? Forse e innanzitutto perché, insieme a Borges, è stato uno dei due autori contemporanei che ho più amato e da cui più sono stato influenzato. Ma anche perché è venuto ora il momento di interrogarci su paralleli e differenze tra questi due autori che hanno fatto entrambi del linguaggio e della cultura universale il loro terreno di gioco. Vorrei situare Borges nel quadro dello sperimentalismo contemporaneo il quale, a detta di molti, è tale quando la letteratura si interroga sul proprio linguaggio, ovvero sulla lingua comune, e la mette in causa scomponendola sino alle sue ultime radici. Ecco che dunque quando si pensa allo sperimentalismo si pensa a Joyce, e al Joyce di Finnegans Wake, dove non solo l'inglese, ma le lingue di tutti i popoli, ridotte a un vortice di frammenti in libertà, vengono ricomposte e ancora disfatte in un turbinare di nuovi mostri lessicali, che si raggrumano per un attimo per poi dissolversi ancora, come in una danza cosmica di atomi, in cui la scrittura si frantuma sino all'etimo - e non è casuale l'analogia fonica tra etimo e atomo che ha indotto Joyce a parlare per la sua opera di abnihilation of the ethym. Apparentemente Borges non ha messo in crisi il linguaggio. Basti leggere la prosa piana dei suoi saggi, la struttura grammaticalmente tradizionale dei suoi racconti, la distesa e comprensibile conversevolezza delle sue poesie. In tal senso Borges è quanto di più lontano possa esserci da Joyce. Naturalmente, come ogni buon scrittore, Borges rinnova e vivifica la lingua in cui scrive, ma non ne fa teatro di un jeu de massacre. Se lo sperimentalismo linguistico di Joyce è da considerarsi rivoluzionario, Borges dovrebbe esser tenuto per conservatore, delirante archivista di una cultura di cui si dichiara custode rispettoso. Delirante, dico, ma archivista conservatore. Eppure è proprio questo ossimoro («archivista delirante») che ci fornisce la chiave per parlare dello sperimentalismo di Borges. Il progetto joyciano era di prendere la cultura universale come terreno di gioco. Ebbene, questo progetto fu anche quello di Borges.

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Se nel 1925 Borges manifestava qualche difficoltà nel leggere lo Ulysses (vedi Inquisiciones) e nel 1939 (in Sur, novembre) guardava con cauta curiosità ai calembours joyciani (ma a detta di Emil Rodriguez Monegal in quegli anni ne componeva almeno uno di squisito sapore joyciano, whateverano («what a summer» e «whatever is summer»), in almeno due poesie posteriori (Elogio de la sombra) dichiara a Joyce la sua ammirazione e il suo debito: Que importa mi perdida generación ese vago espejo si tus libros la justifican. Yo soy los otros. Yo soy de todos aquellos que ha rescatado tu obstinado rigor. Soy los que no conosces y los que salvas. Che importa la generazione persa che fu mia, vago specchio, se è giustificata dai tuoi libri. Io sono gli altri. Sono tutti quelli che il tuo ostinato rigore riscatta. Son quelli che non conosci, che salvi. (4) Cosa lega allora questi due autori che hanno scelto entrambi, per salvarsi e per perdersi, la cultura universale come terreno di gioco? Io credo che lo sperimentalismo letterario lavori su quel luogo in cui abitiamo, e che sono le lingue. Ma una lingua, come sanno i linguisti, ha due facce. Da un lato il significante, dall'altro il significato. Il significante organizza dei suoni, il significato organizza idee. E non è che quell'organizzazione delle idee, che costituisce la forma di una data cultura, sia indipendente dalla lingua, perché la conosciamo solo attraverso il modo in cui la lingua ha organizzato i dati ancora informi del nostro contatto con il continuum del mondo. Senza lingua non vi sarebbero idee, bensì puro flusso di esperienza non esperita e non pensata. Lavorare sperimentalmente sulla lingua, e sulla cultura che essa veicola, vuole dunque dire lavorare su due fronti: sul fronte del significante, giocando sulle parole (e attraverso la distruzione e riorganizzazione delle parole si riorganizzano le idee); e giocando sulle idee, e portando quindi la parola a sfiorare nuovi e impensati orizzonti. Joyce ha giocato sulle parole, Borges sulle idee. E a questo punto si delinea una diversa concezione della infinita segmentabilità del proprio oggetto di manipolazione. Gli elementi atomici della parola sono i radicali, le sillabe, i fonemi. Si possono, limite massimo, ricombinare suoni, e si ha il neologismo o il pun, o ricombinare lettere, e si ha l'anagramma, procedimento cabalistico di cui Borges sapeva la magia. L'elemento atomico delle idee, o dei significati, è invece sempre una idea o un altro significato. Si può scomporre uomo in «animale umano maschio» e rosa in «fiore dai petali carnosi», si possono incatenare idee per interpretare altre idee, ma non si va al di sotto.

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Potremmo dire che il lavoro sul significante agisce a livello subatomico mentre quello sui significati agisce su atomi non altrimenti scomponibili per comporli in nuove molecole. Borges ha fatto questa seconda scelta, che non è quella di Joyce, ma è altrettanto rigorosa, assoluta, e condotta ai limiti del possibile e del pensabile. E per far ciò aveva dei maestri, e li denuncia (e così vedete che le citazioni apparentemente extravaganti che ho fatto poco fa non erano ingiustificate). Uno era Raimundo Lullo con la sua Ars Magna, in cui giustamente Borges aveva intravisto l'anticipatore della moderna computer science. L'altro, meno noto, è John Wilkins - che nello Essay toward a real character del 1668 ha cercato di realizzare quella lingua perfetta a cui pensavano Mersenne, Guldin e gli altri autori del suo stesso secolo salvo che Wilkins non voleva combinare lettere prive di significato per assegnare un nome a ogni individuo, ma voleva combinare quelli che lui e altri chiamavano «caratteri reali» ed erano ispirati agli ideogrammi cinesi, dove a ogni segno elementare corrisponde una idea, così che, combinando questi segni per nominare le cose, attraverso il nome si doveva manifestare la natura della cosa stessa. Il progetto non poteva funzionare e ho cercato di spiegarlo nel mio libro su La ricerca della lingua perfetta. (5) Ma la storia sconvolgente è che Borges non aveva letto Wilkins ma ne aveva avuto notizie di seconda mano solo attraverso l'Enciclopedia Britannica e qualche altro libro, come confessa nel suo saggio su «L'idioma analitico di John Wilkins» (Otras inquisiciones); eppure era stato capace di riassumere l'essenza del suo pensiero e di individuare le debolezze del suo progetto meglio di tanti altri studiosi che hanno consumato la vita a leggere l'enorme in-folio del 1668. Non solo, ma nel discutere le sue idee egli si avvedeva che il discorso di Wilkins aveva qualcosa in comune con altri personaggi del XVII secolo che si erano posti il problema della combinatoria alfabetica. Borges, che si dilettava di altre lingue universali e segrete, sapeva bene che il progetto di Wilkins era impossibile, perché presupponeva una recensione di tutti gli oggetti del mondo e delle idee a cui rinviavano e un criterio unitario di ordinamento delle nostre idee atomiche. Ed è su questo che cadono tutti gli utopisti che aspirano a una lingua universale. Ma vediamo il partito che Borges trae da questa considerazione. Una volta compreso e affermato che non si può arrivare a una classificazione unitaria dell'universo, Borges è affascinato proprio dal progetto contrario: sconvolgere e moltiplicare le classificazioni. E' proprio nel saggio su Wilkins che appare la citazione dell'improbabile enciclopedia cinese (Emporio celeste di riconoscimenti benevoli) in cui troviamo il modello più mirabile di classificazione scriteriata e incongruente (che avrebbe poi ispirato anche Michel Foucault per l'ouverture del suo Les mots et les choses). La conclusione che Borges trae dal fallimento delle classificazioni è che non sappiamo cosa sia l'universo. Anzi, diceva che «si può

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sospettare che non vi sia universo nel senso organico, unificatore, che ha questa ambiziosa parola». Ma subito dopo osservava che «l'impossibilità di penetrare il disegno divino dell'universo non può, tuttavia, dissuaderci dal tracciare disegni umani». Borges sapeva che alcuni disegni, come quello di Wilkins e come molti della scienza, tentano di arrivare a un ordine provvisorio e parziale. Lui ha fatto invece la scelta opposta: se molti sono gli atomi della conoscenza, il gioco del poeta consisterà nel farli ruotare e ricomporre all'infinito, nella infinita combinatoria non solo degli etimi linguistici, ma appunto delle idee. Milioni di nuove enciclopedie cinesi, di «Empori benevoli» la cui somma mai compiuta è appunto la Biblioteca di Babele. Biblioteca che Borges ha trovato come deposito della cultura dei vari millenni e dei diari di ciascun arcangelo, ma che non si è limitato a esplorare: egli ha giocato a porre in contatto diversi esagoni tra loro, a inserire le pagine di un libro in quelle di un altro (o per lo meno a scoprire i libri possibili in cui questo disordine era già stato attuato). Si parla tanto per l'ultima forma dello sperimentalismo contemporaneo, il postmodernismo, di gioco sull'intertestualità. Ma Borges aveva superato l'intertestualità per anticipare l'era dell'ipertestualità, in cui non solo un libro parla dell'altro, ma si può dall'interno di un libro penetrare in un altro. Borges, non tanto disegnando la forma della sua biblioteca ma prescrivendo in ogni sua pagina come si deve percorrerla, aveva disegnato in anticipo il World Wide Web. Borges doveva scegliere se dedicare la vita alla ricerca dell'idioma segreto di Dio (ricerca di cui racconta) oppure celebrare l'universo millenario del sapere come danza di atomi, intrecciarsi di citazioni, agglutinarsi di idee per produrre non solo tutto ciò che è stato ed è, ma anche quello che sarà o che potrebbe essere, così come è compito e possibilità dei bibliotecari di Babele. Solo alla luce di questo sperimentalismo borgesiano (sulle idee e non sulle parole) si capisce la poetica dell'Aleph, da dove si vedono in un solo colpo gli innumerevoli e scombinati oggetti che compongono la popolazione dell'universo. Si deve poter vedere tutto insieme, e poi cambiare il criterio di agglutinazione e vedere altro, cambiando a ogni visione di Emporio Celeste. A questo punto il problema se la Biblioteca sia infinita o di indefinita ampiezza, e se finito o illimitato e periodico sia il numero dei libri che la abitano, diventa secondario. Il vero eroe della Biblioteca di Babele non è la Biblioteca stessa, ma il suo Lettore, nuovo Don Quijote, mobile, avventuroso, instancabilmente inventivo, alchemicamente combinatorio, capace di dominare i mulini a vento che fa ruotare all'infinito. A questo Lettore Borges ha suggerito una preghiera e un atto di fede, e proprio nell'altra poesia dedicata a Joyce: Entre el alba y la noche està la historia universal. Desde la noche veo a mis pies los caminos del hebreo,

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Cartago aniquilada, Infierno y Gloria. Dame, Señor, coraje y alegria para escalar la cumbre de este dia. Tra l'alba e la notte è compresa la storia universale. Nella notte io scorgo ai miei piedi l'errare dell'ebreo, Cartagine annientata, Inferno e Cielo. Dammi, Signore, letizia e coraggio per toccare la vetta del mio viaggio. (6) NOTE: (1) Versione rivista della lezione tenuta il 22 maggio 1997 all'Università di Castilla-La Mancha per il conferimento di una laurea honoris causa. (2) Vedi in proposito, in questo libro, il mio saggio su Borges e l'angoscia dell'influenza. (3) Thomas Pavel, Fictional Worlds, Cambridge: Harvard U.P., 1986 (tr. it. Mondi di invenzione, Torino: Einaudi, 1992). (4) Traduzione di Francesco Tentori Montalto (Elogio dell'ombra, Torino: Einaudi, 1977). (5) Roma: Laterza, 1993. (6) Elogio dell'ombra, tr. cit. Borges e la mia angoscia dell'influenza (1) Ho sempre sostenuto che ai congressi di cardiologia non bisogna mai invitare i cardiopatici. Il mio dovere sarebbe, oltre che ringraziarvi per le molte cose gentili che avete detto in questi giorni, stare in silenzio, coerente con la mia idea che un testo scritto è un manoscritto affidato alla bottiglia. Il che non vuol dire che esso sia un manoscritto da leggere in qualsiasi modo si desideri, ma da leggere a babbo morto, per usare un'altra espressione popolare. Ecco perché in questi giorni mi ero annotato per ciascuno degli interventi delle risposte e delle integrazioni, e poi ho deciso di non discutere gli interventi uno per uno. Preferisco approfittare dei vari suggerimenti ricevuti da tutti voi per discutere il concetto di influenza. E' un concetto importante per la critica, per la storia letteraria, per la narratologia; ed è un concetto pericoloso. Molte volte in questi giorni ho avvertito questo pericolo e per questo voglio condurre queste riflessioni. Quando si parla del rapporto di influenza tra due autori A e B ci si può trovare in due situazioni: 1) A e B hanno scritto nello stesso periodo. Potremmo per esempio discutere se c'è stato un rapporto di influenza tra Proust e Joyce. Non c'è stato; si sono incontrati una volta sola e ciascuno ha detto dell'altro, più o meno: «E' antipatico, e ho letto poco o nulla di quello che ha scritto.» 2) A precede cronologicamente B, come è stato il caso delle

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discussioni di questi giorni, per cui la discussione concerne soltanto l'influenza di A su B. Purtuttavia, non si può parlare del concetto di influenza in letteratura, in filosofia, e persino nella ricerca scientifica, se non si pone al colmo del triangolo un X. Vogliamo chiamare questo X la cultura, la catena delle influenze precedenti? Per essere coerenti con i nostri discorsi di questi giorni, lo chiameremo l'universo dell'enciclopedia. Si deve considerare questo X, e mai come nel caso di Borges bisogna considerarlo, visto che, come Joyce, se pure in altro modo, ha usato la cultura universale come strumento di gioco. Il rapporto A/B può porsi in vari modi: 1) B trova qualcosa nell'opera di A e non sa che dietro c'è X; 2) B trova qualcosa nell'opera di A e attraverso l'opera di A risale a X; 3) B si riferisce a X e solo dopo si accorge che X era nell'opera di A. Non intendo oggi costruire una tipologia precisa dei miei rapporti con Borges, e citerò alcuni esempi in ordine quasi casuale. In altra sede qualcuno potrà fare corrispondere i miei esempi a diverse posizioni in questo triangolo. Inoltre molte volte questi momenti si confondono tra loro perché nel concetto d'influenza bisogna anche inserire il concetto della temporalità della memoria: un autore può ricordarsi benissimo di qualcosa che ha letto in un altro autore nell'anno - diciamo - 1958, essersene dimenticato nell'anno 1980 mentre scriveva qualcosa di proprio, e riscoprirlo (o essere indotto a ricordarsene) nell'anno 1990. Si potrebbe fare una psicoanalisi delle influenze. Per esempio, nel corso del mio lavoro narrativo sono state trovate delle influenze di cui io ero assolutamente cosciente, altre che non potevano essersi verificate perché io ignoravo la fonte, altre ancora che mi hanno sorpreso ma convinto - come quando Giorgio Celli, a proposito del Nome della rosa, vi ha individuato l'influenza dei romanzi storici di Dimitri Mere¬zkovskij, e io ho dovuto ammettere che li avevo letti a dodici anni, anche se mentre scrivevo me ne ero scordato. Il diagramma, poi, non è così semplice, perché oltre ad A, B e alla catena talora millenaria rappresentata da X c'è anche lo Zeitgeist. Lo Zeitgeist non deve essere un concetto metafisico o metastorico, credo lo si possa risolvere in una catena di influenze reciproche, ma ciò che è straordinario è che può lavorare persino nella mente di un bambino. Tempo fa ho ritrovato in antichi cassetti una mia opera scritta a dieci anni, il diario di un mago che si presentava come scopritore, colonizzatore e riformatore di un'isola dell'Oceano Glaciale Artico, la Ghianda. Rivista adesso, questa sembra una storia molto borgesiana, ma è evidente che all'età di dieci anni non potevo aver letto Borges (in una lingua straniera). Parimenti non avevo letto le utopie cinque, sei o settecentesche, con storie di comunità ideali. Però avevo letto molti libri di avventure, naturalmente libri di fiabe, e persino una riduzione per ragazzi del Gargantua e Pantagruel, e chissà quali reazioni chimiche si erano verificate nella mia immaginazione. Lo Zeitgeist può persino far pensare a inversioni della freccia del

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tempo. Ricordo che a sedici anni (e quindi intorno al 1948) avevo scritto storie di pianeti: vicende che avevano come protagonisti la Terra, la Luna, Venere che s'innamorava del Sole, eccetera. Erano a loro modo delle Cosmicomiche. Mi diverto talora a chiedermi come ha fatto Calvino a trovare anni dopo, svaligiando la mia casa, questi miei scritti giovanili in copia unica. Naturalmente sto scherzando, ma è per dire che certe volte occorre credere allo Zeitgeist. In ogni caso, non ci crederete, ma le storie cosmiche di Calvino sono meglio delle mie. Infine ci sono temi comuni a molti autori perché, per così dire, vengono direttamente dalla realtà. Per esempio, io mi ricordo quante persone sono venute fuori dopo Il nome della rosa a trovare altri libri in cui era bruciata un'abbazia, molti dei quali io non avevo affatto letto. E nessuno ha tenuto conto che nel Medioevo il primo mestiere delle abbazie, come delle cattedrali, era di bruciare. Ora, senza attenermi rigorosamente al mio diagramma, cercherò intanto di introdurre nella mia triade - intentio auctoris, intentio operis, intentio lectoris - anche l'intentio intertextualitatis che dovrà contare qualcosa in questo discorso. Permettetemi ora di riflettere, ancora una volta in modo disordinato, su tre tipi di rapporto con Borges: 1) i casi in cui ero ben cosciente dell'influenza borgesiana; 2) i casi in cui non ne ero cosciente ma poi i lettori (tra cui voi in questi giorni) mi hanno costretto a riconoscere che Borges mi aveva influenzato in modo inconscio; 3) i casi in cui, non triangolando su fonti precedenti e sull'universo dell'intertestualità, si è indotti a considerare come influenza diadica casi di influenza triadica e che sono i debiti che Borges aveva con l'universo della cultura, così che non si può attribuire certe volte a Borges quello che egli orgogliosamente ha sempre dichiarato di avere preso dalla cultura. Non a caso ieri lo abbiamo nominato «archivista delirante»: non può esserci il delirio di Borges senza l'archivio su cui egli lavora. Io credo che se si fosse andati a dirgli: «Tu hai inventato questo,» egli avrebbe detto: «No! No! C'era, esisteva già.» E avrebbe orgogliosamente preso come proprio modello quella frase di Pascal che io ho messo come exergo al Trattato di semiotica generale: «E non mi si dica che non ho detto niente di nuovo: la disposition des matières est nouvelle.» Dico questo non per negare i miei debiti, che sono tanti, ma per ricondurvi e ricondurci a un principio che credo sia basilare, e per tutti coloro che hanno partecipato a questo convegno, certamente per me, e certamente per Borges: la cosa più importante è che i libri si parlano tra di loro.

Nel 1955 esce Ficciones con il titolo La biblioteca di Babele nei «Gettoni» Einaudi. Era stato consigliato a Einaudi da Sergio Solmi, un grande poeta che io amavo molto, anche per un saggio sulla science fiction come modalità del fantastico che aveva scritto negli anni precedenti. Vedete come gioca lo Zeitgeist: Solmi scopre Borges

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mentre legge autori americani di fantascienza, che scrivono (magari senza esserne coscienti) nella tradizione del racconto utopico che inizia nel Sei-Settecento. Non dimentichiamoci che il vescovo Wilkins ha scritto anche un libro sugli abitanti della luna, e quindi anche lui come Godwin e altri già viaggiava per altri mondi. Io credo che sia nel '56 o '57 che Solmi, passeggiando in Piazza del Duomo, una sera mi ha detto: «Io ho consigliato Einaudi di pubblicare questo libro, non siamo riusciti a vendere neanche cinquecento copie, lo legga perché è molto bello.» E lì è stato il mio primo innamoramento con Borges e ricordo che, unico proprietario di una copia del libro, andavo a casa di amici e leggevo brani del «Menard». In quell'epoca io stavo cominciando a scrivere quei pastiches-parodie che sarebbero diventati Diario minimo. Partendo da che cosa? Forse l'influenza più forte era stata quella del Proust di Pastiches et mélanges, tanto è vero che quando è uscito Diario Minimo in Francia ho scelto come titolo Pastiches et postiches. Ma ricordo che quando poi ho pubblicato Diario Minimo nel '63 mi era venuta l'idea di dargli un titolo che ne citava un altro di Vittorini, Piccola borghesia, salvo che avrei voluto trasformarlo in Piccola Borges-ia. Questo per dire come, quindi, si cominciavano ad amalgamare un gioco di influenze e di richiami. Però non avrei potuto permettermi, all'epoca, un riferimento a Borges, perché in Italia era ancora noto a pochissimi. E' solo nel decennio successivo che Borges penetra definitivamente in Italia con tutte le altre sue opere, principalmente a opera di Domenico Porzio, carissimo mio amico, e uomo di grande apertura e letture mentali, ma critico tradizionalista. Borges, nell'epoca in cui da noi c'era la polemica sulle neoavanguardie, non era considerato scrittore d'avanguardia. Era l'epoca in cui erano apparsi i Novissimi e poi il Gruppo 63, e i modelli erano Joyce o Gadda. La neoavanguardia era interessata a uno sperimentalismo che lavorava sul significante (il modello era quello del libro illeggibile). Borges invece, che scriveva in un linguaggio classico, lavorava sui significati e quindi all'epoca, per tutti noi, era un ex lege, una presenza conturbante, non facilmente collocabile. Detto in modo rozzo, mentre Joyce o Robbe-Grillet stavano a sinistra, Borges stava a destra. E siccome non vorrei che si leggesse la distinzione in senso politico, potremmo dire il contrario, e l'opposizione non cambierebbe. In ogni caso, per alcuni di noi Borges era un «amore privato». Borges è stato ricuperato dalle neoavanguardie solo più tardi, dopo un lungo tragitto. Nei primi anni sessanta il fantastico era o narrativa tradizionale o science fiction, quindi poteva accadere che si scrivesse un saggio sulla science fiction e sul fantastico, ma questo non aveva niente a che fare con la teoria della letteratura. Io credo che l'interesse per Borges scatti a metà degli anni '60 con quella che è stata chiamata l'ondata strutturalista e semiologica. Qui bisogna far giustizia di un altro errore che si trova continuamente, anche in opere che si vogliono scientifiche: si dice

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oggi che la neoavanguardia italiana (Gruppo 63) fosse strutturalista. In verità nessuno in quel gruppo s'interessava di linguistica strutturale, tranne me, ma era un gioco privato mio che nasceva in ambiente universitario, tra Pavia (Segre, Corti, Avalle) e Parigi (gli incontri miei e di altri con Barthes). Perché dico che l'interesse per Borges nasce con lo strutturalismo? Ma proprio in quanto Borges faceva del lavoro sperimentale non sulle parole, ma su strutture concettuali, e solo con una metodologia strutturalista si poteva cominciare ad analizzare e a capire il suo lavoro. Quando poi io scrivo IL nome della rosa è più che evidente che nel costruire la libreria penso a Borges. Se andate a leggere la mia voce «Codice» sull'Enciclopedia Einaudi vedete che in uno dei paragrafi faccio un esperimento sulla Biblioteca di Babele. Ora, quella voce era stata scritta nel 1976, due anni prima di iniziare Il nome della rosa, segno che dalla biblioteca borgesiana ero ossessionato da tempo. Quando poi inizio il romanzo mi viene naturalmente l'idea della biblioteca e con essa quella di un bibliotecario cieco che decido di chiamare Jorge da Burgos. Non ricordo davvero se è decidendo di chiamarlo così che sono andato a vedere cosa succedeva a Burgos, o se l'ho chiamato così perché sapevo già che in quell'epoca a Burgos era stato prodotto il pergamino de paño, e cioè la carta invece della pergamena. Certe volte le cose vanno insieme molto in fretta, leggendo qua e là, e non si può ricordare che cosa sia venuto prima. Dopo di che tutti mi hanno chiesto perché Jorge diventi il «cattivo» della mia storia, e la mia unica risposta è che, nel momento in cui assegnavo quel nome al mio personaggio, non sapevo ancora quello che avrebbe fatto (e così è accaduto anche con gli altri miei romanzi, per cui il gioco, che molti hanno tentato, di trovare allusioni precise a questo o a quello, costituisce in genere una perdita di tempo). Tuttavia non escludo che nel momento in cui è sorto il fantasma di Borges io sia stato influenzato dallo schema di «La morte e la bussola», che mi aveva certamente molto impressionato. Ma vedete come è strano il gioco delle influenze: se qualcuno mi avesse interrogato nel momento in cui mettevo in scena la trama di reciproca seduzione tra Jorge e William io avrei detto che stavo pensando a Proust, a quella scena in cui Charlus cerca di sedurre Jupien e viene descritto attraverso la metafora di un'ape che gira intorno al fiore. Poi avevo altri modelli. Per esempio, è stato fondamentale per me il modello del Doktor Faustus perché il modo in cui Adso da vecchio rivive la storia raccontando come la vedeva da giovane era in qualche misura il modo in cui Serenus Zeitblom, vecchio, guardava la storia di Adrian Leverkühn. Ecco un'altra bella vicenda di influenze ignorate, perché tra i critici pochi hanno individuato il modello del Doktor Faustus e molti hanno invece visto una allusione ai dialoghi tra Naphta e Settembrini nello Zauberberg. Per fare altri esempi, sono stato grato a chi l'altro giorno ha

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sottolineato la possibile influenza di Bouvard et Pécuchet sul Pendolo di Foucault. Infatti, scrivendo il mio romanzo, pensavo molto a quel libro e mi ero riproposto di rileggerlo, e poi invece vi ho rinunciato, perché in qualche modo volevo esserne il Pierre Menard. Un caso invece opposto è quello del mio incontro con i Rosa-Croce, che ha determinato la struttura del Pendolo di Foucault. Sin dalla giovinezza avevo radunato un piccolo scaffale di scienze occulte, poi un giorno mi capita in mano un libro assolutamente idiota sui Rosa-Croce, e di lì mi viene l'idea di fare un Bouvard et Pécuchet dell'idiozia occultistica. Dopo di che raccolgo da un lato testi di occultisti da strapazzo e dall'altro letteratura storiograficamente attendibile sui Rosa-Croce. Solo a una fase avanzata del romanzo mi è tornato sotto gli occhi «Tlön», in cui Borges parlava dei Rosa-Croce - come sovente gli accadeva, prendendo notizie di seconda mano (da De Quincey) e tuttavia capendo tutto meglio di tanti studiosi che hanno dedicato la vita all'argomento. Nel corso di queste ricerche avevo ritrovato in fotocopia un libro esaurito, la monografia di Arnold. Quando poi è uscito il Pendolo, ho consigliato di tradurre il vecchio Arnold in italiano; subito dopo l'editore francese ha voluto ripubblicarlo e mi ha chiesto una prefazione, e solo in questa prefazione io mi rifaccio, questa volta coscientemente, a Borges, e inizio proprio da «Tlön, Uqbar, Orbis Tertius». Chi può però negare che da quando avevo letto tanti anni prima «Tlön» la parola Rosa-Croce non si sia depositata in qualche zona remota del cervello, così che decenni dopo (quando ho letto il libro dell'imbecille rosacrociano) è riemersa anche grazie a un ricordo borgesiano? In questi giorni sono stato portato a riflettere piuttosto su quanto mi abbia influenzato il «modello Menard». E' una storia che non ho mai smesso di citare da quando l'ho letta la prima volta. In che senso ha determinato il mio modo di scrivere? Ecco, direi che la vera influenza borgesiana nel Nome della rosa non sta tanto nell'avere immaginato una biblioteca labirintica, perché di labirinti è pieno l'universo dai tempi di Cnosso, e i teorici del postmoderno considerano il labirinto come una immagine ricorrente in quasi tutta la letteratura contemporanea. E' piuttosto che io sapevo di stare riscrivendo una storia medievale e che questa mia riscrittura, per quanto fedele, agli occhi di un contemporaneo avrebbe avuto significati diversi. Sapevo che se riscrivevo quello che era davvero successo nel XIV secolo con i fraticelli e fra Dolcino, il lettore (anche se io non lo avessi voluto) avrebbe visto riferimenti quasi letterali alle Brigate Rosse - e mi sono molto divertito a scoprire che la moglie di fra Dolcino si chiamava Margherita come la moglie di Renato Curcio. Il modello Menard funzionava, e consciamente, perché sapevo che io stavo scrivendo il nome della moglie di Dolcino e il lettore avrebbe pensato che pensavo alla moglie di Curcio. Dopo il «modello Menard» vorrei parlare del «modello Averroè». La storia di Averroè e del teatro è un'altra di quelle che mi ha sempre

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più affascinato. Infatti, l'unico mio saggio di semiotica del teatro che ho scritto parte dalla storia di Averroè. (2) Che cosa c'è di straordinario in quella storia? E' che l'Averroè di Borges è stupido, non personalmente ma culturalmente, perché ha sotto gli occhi la realtà (i bambini che giocano) e non riesce a farla corrispondere a ciò di cui gli sta parlando un libro. Tra parentesi, ho pensato in questi giorni, che portata all'estremo, la situazione di Averroè è quella della poetica dello straniamento di cui ci parlano i formalisti russi: descrivere una cosa come se la si vedesse la prima volta, rendendo quindi difficile al lettore la percezione dell'oggetto. Direi che nei miei romanzi io rovescio il «modello Averroè»: il personaggio (culturalmente stupido) spesso descrive con occhi attoniti una cosa che vede e di cui non capisce molto, mentre il lettore è indotto a capire. Cioè lavoro per produrre un Averroè intelligente. Può darsi che, come qualcuno ha detto, questo sia uno dei motivi della popolarità della mia narrativa: io faccio l'opposto della tecnica di straniamento, e familiarizzo il lettore con ciò che non conosceva ancora. Introduco un lettore del Texas, che non ha mai visto l'Europa, in una abbazia medievale (o in una capitaneria dei Templari, o in un museo pieno di oggetti complicati, o in un salotto barocco) e lo faccio sentire a proprio agio. Faccio vedere un personaggio medievale che tira fuori con naturalezza gli occhiali e metto in scena i suoi contemporanei che si stupiscono; il lettore in un primo momento non capisce perché si stupiscono, ma alla fine capisce che gli occhiali sono stati inventati nel Medioevo. Questa non è una tecnica borgesiana, il mio è un «modello anti-Averroè», ma senza il modello borgesiano non sarei riuscito a concepirlo. Queste sono le vere influenze, più di altre soltanto apparenti. Torniamo al tema del disordine labirintico del mondo, che pare direttamente borgesiano. Ma io per esempio lo avevo trovato in Joyce, e addirittura in qualche testo medievale. Il labirinto del mondo viene scritto da Comenio nel 1623, e il concetto di labirinto faceva parte dell'ideologia del manierismo e del barocco. Non a caso poi è stato scritto nei nostri tempi, partendo dall'idea di Comenio, quel bel libro sul manierismo che è Die Welt als Labyrinth di Hocke. Ma non basta. Che ogni classificazione dell'universo porti a costituire un labirinto o un giardino di sentieri che si biforcano era idea presente sia in Leibniz che - in modo chiarissimo ed esplicito - nel discorso introduttivo all'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert. Queste sono probabilmente anche le fonti di Borges. Ecco dunque un caso in cui non è chiaro, neppure a me, se io (B) passando attraverso A ho trovato X, oppure se io B ho prima scoperto alcuni aspetti di X e poi mi sono accorto di come X avesse influenzato anche A. Eppure i labirinti borgesiani hanno probabilmente fatto coagulare, per me, i molti richiami al labirinto che avevo trovato altrove, tanto che mi sono chiesto se avrei potuto scrivere Il nome della rosa senza Borges. Siamo di fronte a un condizionale controfattuale del tipo «Se Napoleone fosse stato una donna somala, avrebbe vinto a

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Waterloo?» In teoria, prendendo la macchina di padre Emmanuele (visto che qualcuno in questi giorni ha citato il mio gesuita de L'isola del giorno prima) e facendola ruotare al massimo regime, le biblioteche c'erano già, la polemica sul riso era intercorsa nel mondo medievale, la caduta dell'ordine era una storia che cominciava, se vogliamo, da Occam in avanti, gli specchi erano già celebrati nel Roman de la rose e avevano costituito oggetto d'indagine da parte degli arabi, e poi giovanissimo ero stato affascinato da una poesia di Rilke sugli specchi. Avrei catalizzato tutti questi elementi senza Borges? Probabilmente no. Ma Borges avrebbe scritto quello che ha scritto se alle sue spalle non ci fossero stati i testi di cui ho parlato? Com'è che egli ha catalizzato l'idea di labirinto e l'idea dei misteri speculari? Anche il lavoro che ha fatto Borges è stato di prendere nell'immenso territorio dell'intertestualità una serie di temi che già vi vorticavano e di trasformarli in parabola esemplare.

Vorrei ora mettere in luce tutti i casi in cui è pericolosa la ricerca dell'influenza diadica perché si perdono proprio di vista le trame dell'intertestualità. Borges è un autore che ha parlato di tutto. Non si può individuare nella storia della cultura un tema su cui Borges non si sia soffermato anche solo per un momento. Proprio ieri sentivo non so quale intervento in cui veniva a sospetto che Borges potesse aver influenzato Platone quando scriveva il Parmenide perché aveva messo in scena gli stessi personaggi di Platone. Non ricordo chi ha parlato ieri della «Bacon/Shakespeare controversy»: certamente Borges ne parla, ma c'è in proposito una bibliografia immensa che comincia dal Seicento in avanti, continua con opere monumentali (e folli) nell'Ottocento, e si prolunga ancora oggi con società pseudosegrete che continuano a cercare le tracce di Francis Bacon nelle opere di Shakespeare. Ovviamente un'idea come questa (che l'opera del grande bardo sia stata scritta da qualcun altro che ha lasciato nel testo, tra le righe, delle tracce continue) non poteva che affascinare Borges. Ma non è detto che un autore che citi oggi la controversia shakespeariana stia citando Borges. Consideriamo il problema della rosa. Come ho più volte raccontato, il titolo Il nome della rosa è stato scelto da alcuni amici guardando la lista di dieci titoli che avevo buttato giù all'ultimo momento. In effetti il primo titolo era Delitti all'abbazia (ovvia citazione del «Murder in the Vicarage», tema ricorrente nel romanzo poliziesco inglese) e il sottotitolo era Storia italiana del XIV secolo (citazione manzoniana). Poi il titolo mi era parso un po' pesante, ho fatto una lista di titoli tra cui quello che preferivo era Blitiri («blitiri» insieme a «babazuf» è un termine che i tardi scolastici usavano per indicare una parola priva di senso), e poi, siccome l'ultima riga del romanzo citava un verso di Bernardus Morliacensis che avevo scelto per il suo sapore nominalistico (stat rosa pristina nomine, etc.), avevo messo anche Il nome della rosa. Come ho detto altrove mi pareva un buon titolo perché era generico, perché la rosa

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aveva assunto nel corso della storia della mistica e della letteratura tanti significati diversi, spesso contraddittori, e quindi speravo che non si sarebbe prestato a decifrazioni univoche. Inutile: tutti hanno cercato un significato preciso, e molti hanno trovato un riferimento al shakespeariano a rose by any other name, che significa esattamente l'opposto di quello che voleva dire la mia fonte. In ogni caso posso giurare che non pensavo affatto alle apparizioni della rosa in Borges. Tuttavia trovo bellissimo che Maria Kodama, l'altro giorno, abbia fatto un riferimento ad Angelo Silesio, probabilmente ignorando che sui rapporti tra il mio titolo e Silesio aveva scritto un dottissimo saggio anni fa Carlo Ossola. (3) Ora, Ossola si era accorto che nelle ultime pagine del mio romanzo appare un collage di testi mistici dell'epoca in cui il vecchio Adso scrive ma che, con malizioso anacronismo, vi avevo introdotto anche una citazione di Angelo Silesio che avevo trovato chissà dove, ma senza sapere (all'epoca) che Silesio si fosse occupato anche della rosa. Ecco un bel caso in cui il triangolo delle influenze si complica, ma non c'era influenza diadica. Un altro tema borgesiano che è stato citato è il Golem. Io l'ho inserito nel Pendolo perché fa parte del bric-à-brac occultista, ma la mia fonte più diretta era ovviamente Meyrink, per non dire del film, e subito dopo venivano i testi cabalistici che avevo frequentato attraverso Scholem. E' stato rilevato in questi giorni come molte idee su cui poi Borges lavora fossero state elaborate da Peirce e da Royce. Credo che ad analizzare l'indice dei nomi di tutta l'opera di Borges non si trovino né Peirce né Royce. Eppure è possibilissimo che Borges abbia subìto quelle influenze attraverso altri scrittori. Io ho alcune esperienze che credo siano comuni a chiunque possiede moltissimi libri (io ne ho ormai circa quarantamila, tra Milano e le altre mie case) e considera una biblioteca non solo un luogo in cui conservare i libri già letti, ma soprattutto un magazzino di libri da leggere un giorno o l'altro, quando se ne senta il bisogno. Ora accade che, ogni volta che l'occhio cade su un libro non ancora letto, si venga colti da rimorso. Salvo che arriva poi un giorno che, per sapere qualcosa su un certo argomento, ci si decide finalmente ad aprire uno dei tanti libri mai letti, si comincia a leggerlo e ci si accorge che lo si conosceva già. Cos'è successo? C'è la spiegazione mistico-biologica, che con l'andar del tempo spostando i libri, spolverandoli e rimettendoli a posto, attraverso i polpastrelli l'essenza del libro sia penetrata a poco a poco nella nostra mente. C'è la spiegazione dello scanning casuale e continuato: con l'andar del tempo, prendendo e riordinando i vari volumi, non è che quel libro non sia mai stato sbirciato; anche soltanto nello spostarlo, si guardavano alcune pagine, una oggi, una il mese dopo, e via via si è finito per leggerlo in gran parte, sia pure in modo non lineare. Ma la vera spiegazione è che, tra il momento in cui quel libro ci era arrivato e il momento in cui lo si è aperto, si sono letti altri libri, nei quali c'era qualcosa

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che diceva quel primo libro, e quindi, alla fine di questo lungo giro intertestuale, si scopre che anche quel libro che non avevamo letto faceva parte del nostro patrimonio mentale e forse ci aveva profondamente influenzato. Credo si possa dire questo di Borges nei suoi rapporti con Royce o Peirce. Se questa è influenza, non è diadica. Il tema del doppio. Perché ho messo il doppio nell'Isola del giorno prima? Perché Tesauro (nel capitolo sui romanzi del Cannocchiale aristotelico) dice che è obbligatorio metterlo se si vuole scrivere un romanzo in barocco. Per seguire le regole di Tesauro ho inserito all'inizio del romanzo il fratello gemello, e poi non sapevo cosa farmene. Poi a un certo punto ho trovato il modo di utilizzarlo. L'avrei messo se (al di là del suggerimento del Tesauro) non fossi stato influenzato anche dal tema del doppio in Borges? E se avessi invece avuto in mente il tema del sosia in Dostoevskij? E se Borges fosse stato influenzato dal Tesauro, magari assorbito indirettamente attraverso altri autori barocchi? Nei giochi sull'intertestualità e sulle influenze bisogna sempre stare attenti a non scegliere mai la soluzione più ingenua. Qualcuno di voi ha ricordato in questi giorni come ci sia in Borges il riferimento a una scimmia che batte sui tasti alla cieca e finalmente scrive la Divina Commedia. Ma badate che l'argomento che, se si nega Dio, allora bisogna ammettere che la creazione del mondo sia avvenuta come nel caso della famosa scimmia, è stato usato infinite volte dai credenti fondamentalisti dell'Ottocento (e anche dopo) contro la teoria dell'evoluzione, contro le teorie della formazione casuale del cosmo. Anzi, il tema è più antico ancora, potremmo farlo risalire a Democrito e alle discussioni di Epicuro sul clinamen... Questa mattina è stato citato, con un riferimento a Mauthner, la questione se i caratteri reali siano come i caratteri di un'antichissima lingua cinese (da cui poi l'idea borgesiana dell'emporio celeste). Ma che i caratteri reali dovevano essere uguali agli ideogrammi cinesi, lo ha detto Francis Bacon, e di lì ha cominciato tutta la ricerca del Seicento sulle lingue perfette. Contro questa idea si scaglia Cartesio. Ora, Borges conosce, non so se attraverso Mauthner o direttamente, la famosa lettera di Cartesio a padre Mersenne, ma conosceva il discorso di Francis Bacon su caratteri reali e ideogrammi cinesi? O ritrova il tema attraverso Kircher? O leggendo chissà quale altro autore? Credo che sia fruttuoso fare girare a pieno regime le ruote dell'intertestualità per vedere in quali modi inopinati si articola il gioco delle influenze. Certe volte l'influenza più profonda è quella che scopri dopo, non quella che scopri immediatamente.

Mi piacerebbe ora sottolineare alcuni aspetti del mio lavoro in cui non posso essere detto borgesiano, ma siamo in dirittura di arrivo, e ne menzionerò solo due. Anzitutto c'è il problema della quantità. Naturalmente si può

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scrivere «L'infinito» leopardiano, che è brevissimo, e si può scrivere la Margherita Pusterla di Cantù, che è un libro lungo e insopportabile; ma parimenti è lunga e sublime la Divina Commedia, mentre un breve sonetto del Burchiello è semplicemente divertente. L'opposizione minimalismo/massimalismo non è un'opposizione di valore. E' un'opposizione di genere o di procedimento. Ecco, in questo senso, certamente Borges è stato un minimalista, e io sono un massimalista. Borges è all'insegna della sveltezza, va rapidamente alla conclusione della storia, e in questo senso poteva piacere a Calvino. Io sono invece un autore dell'indugio (come ho scritto nelle mie Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano: Bompiani, 1994). Forse anche per ragioni di quantità credo si possa definire la mia scrittura come neobarocca. Borges è un autore affascinato mentalmente dal barocco e dal modo con cui il barocco manovra i concetti, ma la sua scrittura non è barocca. La sua scrittura è limpidamente neoclassica.

Ma preferisco piuttosto individuare alcune idee forti borgesiane, che non possono essere ricondotte a una semplice citazione, e che costituiscono probabilmente la sua eredità più profonda, e quindi il modo in cui ha influenzato non solo me ma molti altri. Qualcuno ha parlato della narrazione come modello di conoscenza. Certamente tutta l'attività parabolica di Borges ci ha influenzato nel mostrarci come si possono fare affermazioni filosofiche, metafisiche, raccontando una parabola. Anche qui, naturalmente, abbiamo un tema che comincia con Platone, con Gesù - se mi permettete - e finisce con Lotman - modalità testuale contro modalità grammaticale -, con la psicologia di Jerome Bruner (i modelli narrativi aiutano la stessa percezione) e con i frames dell'intelligenza artificiale. Ma mi pare indubbio che la suggestione borgesiana sia stata in questo senso fondamentale. Vorrei subito dopo considerare il richiamo (e per questo ho parlato di Borges come archivista delirante) a rileggere tutta l'enciclopedia alla luce del sospetto e del controfattuale per cercare la parola rivelativa nei margini, per rovesciare la situazione, per far giocare l'enciclopedia contro se stessa. E' molto difficile sottrarsi all'angoscia dell'influenza, così come è stato molto difficile per Borges essere un precursore di Kafka. Dire che non c'è idea in Borges che non esistesse già prima, equivale a dire che non c'è una sola nota in Beethoven che non fosse già stata prodotta prima. Quello che rimane fondamentale in Borges è la sua capacità di usare i più svariati detriti dell'enciclopedia per fare musica di idee. Certamente ho cercato di imitare questa lezione (anche se l'idea di una musica di idee mi veniva da Joyce). Che posso dire? Che di fronte alle melodie di Borges, così immediatamente cantabili (anche quando sono atonali), memorizzabili, esemplari, mi sento come se lui avesse suonato divinamente il pianoforte e io avessi soffiato in un'ocarina.

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Ma spero che si troverà pur sempre, dopo la mia morte, qualcuno più inabile di me di cui io possa essere riconosciuto come il precursore. NOTE: (1) Versione abbreviata di un intervento al convegno «Relaciones literarias entre Jorge Luis Borges y Umberto Eco» tenuto all'Università di Castilla-La Mancha (con il concorso del Departement of Italian Studies e la Emilio Goggio Chair della University of Toronto) nel maggio 1997. Versione spagnola pubblicata in Relaciones literarias entre Jorge Luis Borges y Umberto Eco (Cuenca: Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, 1999). (2) Vedi «Il segno teatrale», in Sugli specchi e altri saggi (Milano: Bompiani, 1985). (3) Carlo Ossola, «La rosa profunda. Metamorfosi e variazioni sul Nome della rosa», in Lettere Italiane, 4, 1984. Ora come «Purpur Wort», in Figurato e rimosso. Icone di interni del testo (Bologna: Il Mulino, 1988). Su Camporesi: sangue, corpo, vita (1) E' difficile dire chi sia Piero Camporesi. Certamente un antropologo culturale, visto che nel corso di una quindicina di volumi ha studiato i vari aspetti di quella che si chiama la vita materiale, i costumi, i comportamenti (e in particolare i comportamenti «bassi», quelli connessi col corpo, con il cibo, con il sangue, le feci, il sesso). Eppure da un antropologo culturale ci si attende che faccia studi sul campo, che esplori gli usi e i miti di qualche civiltà ancora esistente. Camporesi invece legge dei testi. Legge dei testi letterari, ovvero dei testi che appartengono alla storia della letteratura. Infatti se andate a controllare quale sia la sua specialità accademica vedrete che è uno storico della letteratura (italiana, c'è scritto nella lista dei corsi dell'Università di Bologna, ma Camporesi commette frequenti invasioni di campo in altre letterature). Tuttavia Camporesi legge e scopre testi che le storie della letteratura hanno ignorato, perché si occupavano di questioni quotidiane, di problemi morali, o fisici. Talora le storie ufficiali della letteratura questi testi li hanno considerati, ma dal punto di vista dello stile, non del loro contenuto. Invece Camporesi ha passato la vita a riscoprirli e a rileggerli come testimonianze di un modo di vivere. Camporesi è dunque un antropologo culturale che, per trovare dei dati, non va a studiare gli uomini di oggi, sia pure «selvaggi» o «primitivi», ma gli uomini (civilissimi) del passato. Vorrei spiegarmi meglio: Camporesi è un signore che entra in una stanza dove c'è un tappeto, dai disegni e dai colori bellissimi, che tutti hanno sempre considerato come un'opera d'arte; lo prende per un lembo, lo rivolta, e ci mostra che sotto quel tappeto brulicavano vermi, scarafaggi, larve, tutta una vita ignota e sotterranea. Una

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vita che nessuno aveva mai scoperto. Eppure era sotto il tappeto. Così Camporesi ha passato la sua vita leggendo e rileggendo testi dimenticati, oppure testi che erano sotto gli occhi di tutti ma che nessuno aveva ancora letto in quel modo, per dirci come nei secoli passati il mondo fosse abitato da vagabondi, saltimbanchi, guaritori, ladri, assassini, pazzi illuminati da Dio, falsi lebbrosi e lebbrosi veri. Ha ritrovato i sogni millenari di un paese di Cockaigne, nati in popolazioni oppresse dalla fame, ha riscoperto i riti del carnevale, dei Sabba stregoneschi, delle allucinazioni diaboliche. Ha portato alla luce testi da cui si comprende come nel passato si avesse una idea diversa del proprio corpo, del cibo (Camporesi è un gourmet, capisce che cosa significasse in tempi lontani l'odore di un formaggio, il sapore del latte). Ha riletto i passaggi dei predicatori religiosi che parlavano dell'Inferno e dei suoi patimenti (il che significava riscoprire una visione del corpo come luogo e occasione di dolore, supplizio, sofferenze interminabili), ha guardato come gli uomini mangiavano, cuocevano, come schioccavano la lingua deglutendo, come eccitavano attraverso unguenti ed elisir le proprie capacità sessuali, come nel diciottesimo secolo fossero state accolte quelle bevande esotiche e (allora) meravigliose che erano il caffè e il cioccolato, come lavorassero i minatori, i tessitori, i barbieri, i chirurghi, i medici e i guaritori, quale fosse l'immagine del povero, del diseredato, del mascalzone, del ladro, dell'assassino, del disperato. Tutte le cose che Camporesi scopre c'erano già, e chiare, in libri che si erano accumulati nel corso dei secoli. Camporesi sa semplicemente rileggere questi libri. Dunque è uno storico della letteratura, che della letteratura ci invita a riscoprire i testi meno celebrati. E' un antropologo culturale, ma che riscopre i costumi di civiltà passate attraverso le tracce che hanno lasciato in vari testi. Chi sia Camporesi è difficile dire. Confesso che se dovessi rileggere in una volta sola tutti i libri che ha scritto, verrei colto da nausea: è una sequenza di scoperte sul modo in cui i corpi venivano amati, squartati, nutriti, anatomizzati, divorati, rifiutati, umiliati... L'antropologia culturale di Camporesi è atroce, spietata, documentata, vera. Se qualcuno decidesse di leggere di seguito, uno per uno, tutti i libri di Camporesi, proverebbe orrore, sazietà, desiderio di uscire da quest'orgia di fibre, intestini, bocche, bubboni, vomiti e ingordigie. I libri di Camporesi vanno centellinati, a poco a poco, per sfuggire all'ossessione del corpo trionfante, con tutte le sue miserie e le sue glorie. Leggerli tutti d'un fiato sarebbe come mangiare per una settimana di seguito torte alla crema, e niente altro, o nuotare per una settimana nei propri escrementi (e sarebbe lo stesso). Il lettore di questo libro ha a disposizione solo un aspetto di questa insopportabile rappresentazione del corpo umano durante i secoli: il sangue, i suoi riti, i suoi miti, la sua realtà. Leggendo questo libro ci coglie una sottile (e non tanto sottile)

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inquietudine. Noi siamo fatti di ossa, carne e sangue. Il sangue è importante. Ma ormai lo si studia solo nei laboratori, e noi non abbiamo un rapporto diretto col nostro sangue. Se ci tagliamo con un coltello, fermiamo il sangue con un cerotto, con un emostatico. Quando un chirurgo ci opera, e il sangue cola, noi siamo addormentati. Se avviene un incidente sull'autostrada, chiamiamo la polizia e l'ambulanza, ma cerchiamo di non vedere il sangue. Eppure, come Camporesi ci mostra, in altri secoli il sangue era una realtà quotidiana, la gente ne conosceva l'odore, la vischiosità. Siamo davvero estranei al sangue? Siamo davvero lontani da quei secoli di cui Camporesi ci racconta? E allora perché tante sette sataniche, tanti culti del sangue, ancora oggi, e persino pubblicizzati attraverso Internet? Abbiamo risolto il problema dei nostri rapporti col sangue? Certo, non andiamo più ad ammirare pubbliche cerimonie di squartamento, dove il sangue colava a fiumi. Ma, mentre scrivo, i giornali italiani parlano di una Madonna che piange sangue. Superstizione, certo, ma non è superstizione quella di tante sette carismatiche che impongono ai loro fedeli un bagno di sangue? Qual è il rapporto tra le Madonne che piangono sangue e il gusto del sangue che ha dominato il massacro di Sharon Tate? Ecco: Camporesi ricostruisce costumi, sentimenti, terrori e amori che ci parevano antichi, e ci invita a guardarci dentro. A capire il rapporto oscuro tra riti e miti del passato e le nostre pulsioni di oggi. A scoprire l'uomo antico che c'è in noi, che usiamo Internet e pensiamo che il sangue interessi solo i chirurghi e gli studiosi delle nuove pestilenze planetarie. Forse Camporesi va letto a piccole dosi, perché a leggerlo tutto ci chiederemmo: «Ma chi siamo, noi uomini civilizzati?» Questo libro è breve. Leggiamo Camporesi in dose omeopatica. Per il momento, basta. Ma poi forse vorrete leggere gli altri suoi libri. NOTE: (1) Scritto come prefazione a Piero Camporesi, The Juice of Life (New York: Continuum, 1995). Sul simbolo (1) So già che, sull'argomento del simbolo, qualunque cosa dica sarò confutato da un dottissimo saggio dell'amico Briosi. Inoltre a questo tema ho dedicato già alcuni dei miei scritti, e in particolare in quella voce dell'Enciclopedia Einaudi, ora diventata un capitolo del mio Semiotica e filosofia del linguaggio (Torino: Einaudi, 1980). Vuoi per processo di senescenza, vuoi per il permanere di una ybris adolescenziale, non ritengo di aver cambiato le mie idee su questo argomento. Emendarsi di continuo è pratica raccomandabile, a cui spesso mi attengo - ai limiti della schizofrenia. Ma ci sono casi in cui non si deve far mostra di avere cambiato idea solo per dimostrare che si è à la page. Anche nel campo delle idee, non sempre la

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monogamia è necessariamente segno di un'assenza di libido. Per non ripetere sul simbolo quello che ho già detto, vorrei toccare un aspetto particolare, e attualissimo, di questa vexata quaestio, e cioè il fenomeno della paranoia simbolica. Ma per arrivarvi dovrò pure rifarmi in parte a quel che ho già detto, e la preterizione finirà per apparire ipertrofica. Simbolo è parola che raccomando sempre ai miei studenti di usare con molta parsimonia, sottolineandola nei contesti in cui la trovano, per decidere il significato che ivi, e non altrove, assume. In effetti io non so più che cosa sia un simbolo. Ho cercato di definire il modo simbolico come una particolare strategia testuale. Ma al di fuori di questa strategia testuale - di cui ricorderò dopo - un simbolo può essere o una cosa molto chiara (una espressione univoca, dal contenuto definibile) o una cosa molto oscura (una espressione polivoca, che evoca una nebulosa di contenuto). L'ambiguità viene da origini lontane, è giustificata non solo dall'etimologia di symballein ma dalla pratica stessa che l'etimologia ha ispirato. Ché di quei due pezzi di tessera che si richiamano l'un l'altro, si può dire che essi si ricostituiranno senza ambiguità il giorno che qualcuno li riporrà in mutua presenza e li farà coincidere sottraendoli al flusso della semiosi per farli ridiventare cosa tra le cose; e tuttavia ciò che affascina in ciascuno dei due elementi separati è proprio l'assenza dell'altro, e solo sull'assenza e nell'assenza fioriscono le passioni più incontenibili. Ma abbandoniamo l'etimologia. Il primo scandalo di fronte a cui ci troviamo è che in certi contesti, in gran parte scientifici, si ricorre all'espressione simbolo per indicare processi semiosici estremamente chiari e incontrovertibili, oggetti che ambigui non sono e anzi aspirano a essere letti nel modo più univoco possibile. Prova ne sia il simbolo chimico, o certe accezioni di simbolo per indicare, in opposizione all'apertura fluttuante dell'icona, la convenzionalità del segno linguistico o grammatologico. Si potrebbe affermare che qualcosa dell'apertura di ciò che, dal romanticismo in poi, consideriamo simbolico, nel senso oscuro e polivoco del termine, abbiano anche i simboli logici. Essi infatti rappresentano variabili, e in quanto tali sarebbero disponibili a essere vincolate ai contenuti più imprevisti. Pensate infatti a una espressione della logica simbolica come se p allora q. Si ha l'impressione che p e q possano essere riempiti come ci aggrada, ma non è così. Poniamo che in luogo di p ponga la intera Divina Commedia e in luogo di q l'asserto sei per sei fa trentasei. La proposizione sarebbe vera, per le leggi dell'implicazione materiale. Tuttavia è impossibile invertire l'ordine dei vincoli. Se ponessi la Divina Commedia in luogo di q, poiché da un punto di vista vero-funzionale l'insieme di asserti costituito dal discorso dantesco è falso (non è vero che un fiorentino sia salito, ancor vivo, in Paradiso, o che esista Caronte), per le stesse leggi dell'implicazione materiale l'inferenza, pur avendo una premessa vera, sarebbe falsa. Mentre

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tutto funzionerebbe se in luogo di sei per sei fa trentasei assegnassimo a p l'intero testo di Mein Kampf, in quanto, noto paradosso dell'implicazione materiale, falso e falso danno vero. Quindi è inutile tentare equilibrismi semiotici per trovare una parentela tra il simbolo logico e il simbolo oscuro delle poetiche romantiche. Essi hanno modalità di funzionamento diverso, diversa sintassi e diversa natura aletica. Del pari non ha nulla a che fare col senso che noi attribuiamo al termine, l'uso che ne fa Cassirer con la sua teoria delle forme simboliche: si tratta di una versione culturologica del trascendentalismo kantiano, ed è forma simbolica la stessa geometria euclidea, dove respiriamo il senso dell'infinito e dell'indecidibile solo lungo la fuga delle parallele promessaci, in modo aleticamente indecidibile, dal quinto postulato. Potremmo attenerci a una decisione sensata, che peraltro rende ragione di una quantità di esperienze quotidiane: il simbolico si identifica con l'esistenza, in ogni linguaggio, di strati di senso secondo. Che è poi la via presa da Todorov nel suo libro sul simbolo. Ma identificare il simbolico con ogni istanza di senso secondo ci condurrebbe a confondere fenomeni diversissimi tra loro. Si hanno due strati di significato nel discorso bisenso, di cui è esempio l'indovinello classico. Ma i due strati sono strutturati, spesso sulla base di omonimie traditrici, secondo due isotopie rintracciabili senza esitazione. Come un messaggio in codice, il bisenso deve essere decifrato, e una volta decifratolo i sensi sono due, indiscutibili, senza riserva. Non appartiene all'ordine del simbolico la metafora. Essa può essere aperta a molteplici interpretazioni, può essere per così dire continuata lungo la direttrice della seconda o terza isotopia che genera. Ma esistono regole di interpretazione: che il nostro pianeta sia l'aiuola che ci fa tanto feroci può suggerirci mille inferenze poetiche, ma non convincerà nessuno, se esistono delle convenzioni culturali su cui tutti assentiamo, che esso sia il luogo dove allignano pace e benevolenza. In più rimango tra coloro che ritengono che il primo segnale di uso metaforico consista nel fatto che, presa alla lettera, l'espressione metaforica risulterebbe o falsa o bizzarra, o insensata (la terra non è un'aiuola). Non così credo avvenga del modo simbolico che, come vedremo, cela il proprio potenziale di senso proprio dietro l'apparenza ingannevole di una inspiegabile ovvietà. A maggior ragione non rientra nell'ordine del simbolico l'allegoria, bisenso filato che si regge non sull'omonimia ma sulla codifica quasi araldica di certe immagini. La tradizione occidentale moderna è abituata ormai a distinguere allegorismo da simbolismo, ma la distinzione è assai tarda, incomincia a porsi col romanticismo, in ogni caso coi celebri aforismi di Goethe (Maximen und Reflexionen): L'allegoria trasforma il fenomeno in un concetto e il concetto in una immagine, ma in modo che il concetto nell'immagine sia da

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considerare sempre circoscritto e completo nell'immagine e debba essere dato ed esprimersi attraverso di essa (1.#112). Il simbolismo trasforma il fenomeno in idea, l'idea in una immagine, in tal modo che l'idea nell'immagine rimanga sempre infinitamente efficace e inaccessibile e, anche se pronunciata in tutte le lingue, resti tuttavia inesprimibile (1.#113). E' molto diverso che il poeta cerchi il particolare in funzione dell'universale oppure veda nel particolare l'universale. Nel primo caso si ha l'allegoria, in cui il particolare vale solo come esempio, come emblema dell'universale, nel secondo caso si svela la vera natura della poesia: si esprime il caso particolare senza pensare all'universale e senza alludervi. Ora chi coglie questo particolare vivente coglie allo stesso tempo l'universale senza prenderne coscienza, o prendendone coscienza solo più tardi (279). Vero simbolismo è quello in cui l'elemento particolare rappresenta quello più generale, non come sogno od ombra ma come rivelazione viva e istantanea dell'imperscrutabile (314). Il mondo classico e medievale intendevano invece «simbolo» e «allegoria» come sinonimi. Gli esempi vanno da Filone a grammatici come Demetrio, da Clemente d'Alessandria a Ippolito di Roma, da Porfirio allo Pseudo-Dionigi Areopagita, da Plotino a Giamblico, dove si usa il termine simbolo anche per quelle raffigurazioni didascaliche e concettualizzanti che altrove saranno chiamate allegorie. E' vero che si è parlato di «universo simbolico» per il mondo dell'alto Medioevo, un universo in cui, secondo le parole dell'Eriugena (De divisione naturae, V, 3) «nihil enim visibilium rerum corporaliumque est, ut arbitror, quod non incorporale quid et intelligibile significet». Il mondo sarebbe dunque, come dirà più tardi Ugo di san Vittore, «quasi quidam liber scripto digito Dei». Non sarà stato dunque popolato di simboli un universo in cui «nostrum statum pingit rosa» (Pseudo-Alano, Rhythmus alter)? Ad ascoltare Huizinga (nel capitolo 15 del suo Autunno del Medioevo) l'universo simbolico medievale era assai simile all'universo delle Correspondences baudelairiane: Di nessuna grande verità lo spirito medievale era tanto convinto quanto delle parole di san Paolo ai Corinzi: Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem. Il Medioevo non ha mai dimenticato che qualunque cosa sarebbe assurda, se il suo significato si limitasse alla sua funzione immediata e alla sua forma fenomenica, e che tutte le cose si estendono per gran tratto nell'aldilà. Questa idea è familiare anche a noi, come sensazione non formulata, quando ad esempio il rumore della pioggia sulle foglie degli alberi o la luce della lampada sul tavolo, in un'ora tranquilla, ci dà una percezione più profonda della percezione quotidiana, che serve all'attività pratica. Essa può comparire talora nella forma di una oppressione morbosa che ci fa vedere le cose come già impregnate di una minaccia personale o di un mistero che si dovrebbe e non si può conoscere. Più spesso però ci riempirà della

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certezza tranquilla e confortante, che anche la nostra esistenza partecipa a quel senso segreto del mondo. Ma questa è l'interpretazione di chi ha già visto vagare, ai confini della propria terra, Verlaine e Rimbaud esuli alla ricerca dell'assoluto, ad ascoltare il suono della stessa pioggia sulle foglie e a farsi penetrare il cuore di languore, o ad allucinarsi di cromatismi vocalici. Era questo il simbolismo dell'alto Medioevo, per non dire del basso? Ad accettare l'eredità neoplatonica si doveva concepire, come fa Dionigi Areopagita, una idea dell'Uno come insondabile e contraddittorio, dove la divinità è detta «caligine luminosissima del silenzio che insegna arcanamente... tenebra luminosissima» (Theologia mistica, passim). E' vero che per Dionigi di Dio si dicono i concetti di Uno, di Bene, di Bello, come si dice la Luce, e la Folgore e la Gelosia; ma questi concetti di lui saranno detti solo in modo «ipersostanziale»: egli sarà queste cose, ma in una misura commensurabilmente e incomprensibilmente più alta. Anzi, ci ricorda Dionigi (e sottolineano i suoi commentatori), proprio affinché sia chiaro che i nomi che gli attribuiamo sono inadeguati, sarà opportuno che per quanto possibile essi siano difformi, incredibilmente disadatti, quasi provocatoriamente offensivi, straordinariamente enigmatici, come se la qualità in comune che andiamo cercando tra simbolizzante e simbolizzato sia, sì, reperibile, ma a costo di acrobatiche inferenze e sproporzionatissime proporzioni: e affinché, se si nomina Dio come luce, i fedeli non si facciano l'idea errata che esistano sostanze celesti luminose e auriformi, converrà maggiormente nominare Dio sotto specie di esseri mostruosi, orso, pantera, ovvero per oscure dissomiglianze (De Coelesti Hierarchia, 2). Ora questo modo di parlare, che lo stesso Dionigi chiama «simbolico» (per esempio, De Coelesti Hierarchia, 2 e 15), non ha nulla a che vedere con quella illuminazione, quell'estasi, quella visione rapida e folgorante che ogni teoria moderna del simbolismo vede come propria del simbolo. Il simbolo medievale è modo di accesso al divino, ma non è epifania del numinoso, né ci rivela una verità che possa essere detta solo in termini di mito e non in termini di discorso razionale. E' anzi vestibolo al discorso razionale e suo compito è proprio render palese, nel momento in cui appare didascalicamente e vestibolarmente utile, la propria inadeguatezza, il proprio destino (direi quasi hegeliano) a essere inverato da un discorso razionale successivo. In altri termini, il mondo medievale era ansioso di simboli, l'uomo medievale provava sconcerto, tremore e reverenza di fronte all'orso e alla pantera, alla rosa o alla quercia; ma queste erano sopravvivenze pagane. Non solo la teologia, ma lo stesso bestiario, sono fermamente decisi a decifrare questi simboli, a trasformarli in metafore o allegorie, a impedirne la fluttuanza. D'altra parte così accade anche con quelli che Jung chiama archetipi, e che farei rientrare sotto la categoria più ampia di quelli che, per metafora, chiamerò «oggetti totemici», imperiosi e

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stimolatori proprio nella loro enigmaticità. Jung è stato il primo a spiegarci come, non appena queste immagini archetipe affascinano l'immaginazione del mistico, trascinandolo verso una deriva infinita dei sensi, interviene subito una qualche autorità religiosa per chiosarli, sottometterli a un codice, farli diventare parabola. E allora l'oggetto totemico diventa simbolo nel senso più degenerato del termine, quello in cui chiamiamo simboli i distintivi dei partiti politici, su cui tracciamo la X (spesso incognita) del nostro consenso. Dotati di appelli connotativi a vari livelli (in quanto si può fremere o morire per una bandiera, una croce, una mezzaluna o una falce e martello), essi però stanno lì a dirci in che cosa bisogna credere e che cosa dobbiamo rifiutare. Il Sacro Cuore della Vandea non era già più quello che aveva abbacinato santa Margherita Maria Alacoque. Da esperienza del numinoso era diventato vessillo.

Una idea di simbolo come apparizione che ci rinvia a una realtà inesprimibile a parole, contraddittoria, inafferrabile, si impone in Occidente solo con la diffusione degli scritti ermetici, e richiede un neoplatonismo molto «forte». Ma non appena l'emozione per le folgorazioni offerteci dal discorso oscuro del Trismegisto si fa moda, stile, koiné, anche qui emerge subito la volontà, già medievale, e ora ermetica, di catturare il simbolo e conferirgli un senso socializzabile. E' curioso come l'epoca barocca sia stata la più fertile nella produzione, anzi nell'invenzione ex novo di oggetti totemici, dico i blasoni, le imprese e gli emblemi; è curioso come di essi il secolo abbia parlato come di simboli, e a ogni piè sospinto. Syntagma de symbolis sarà uno dei più celebri commenti all'Alciati, di Symbolicarum Quaestionum parlerà il Bocchi, di Mundus Symbolicus il Picinelli, e lo Scarlatino di Homo Figuratus et Symbolicus. Ma che cosa siano questi simboli ce lo dice il Tesauro nel suo Cannocchiale: «Il simbolo è una metafora significante un concetto, per mezzo di alcuna Figura apparente.» In questa celebrazione dei simboli si manifesta sempre una dogmatica volontà di commento, vale a dire di decifrazione. Volumi venerabili ci rendono attoniti di fronte al loro corredo iconologico fatto di immagini apparentemente oniriche, veri e propri cadaveri squisiti iconici, paradiso di uno psicoanalista che non abbia intenzione di leggerne l'elefantiaco commentario. Ma se al commentario si passa, ci si accorge che esso ci conduce passo per passo, e ridondantemente, verso la decifrazione più esatta, seppur più arguta, di ogni figura, onde trarne una e una sola moralità. Patetica è a questo proposito l'impresa di Athanasius Kircher, inteso a riscoprire i misteri dell'antica scrittura egizia. Privilegiata la sua posizione, perché si trova di fronte a qualcosa che assomiglia a un'impresa o a un emblema, ma di cui nessun Alciato, Valeriano o Ferro abbia fornito la chiave di lettura. Vecchie e note immagini, nel momento in cui non appaiono più consegnate da una

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tradizione cristiana (o pagana) ma dalle divinità stesse dell'Egitto, acquistano un senso diverso da quello che avevano nei bestiari moralizzati. I riferimenti scritturali, ora assenti, vengono sostituiti con allusioni a una religiosità più vaga e densa di misteriose promesse. I geroglifici sono visti come simboli iniziatici. Essi per Kircher sono simboli, e quindi espressioni che rinviano a un contenuto occulto, sconosciuto, multisenso e ricco di mistero. A differenza della congettura che ci permette di risalire da un sintomo palese a una sua causa certa, «il simbolo è una nota significativa di qualche mistero più arcano, vale a dire che la natura del simbolo è di condurre l'animo nostro, mediante qualche similitudine, alla comprensione di qualche cosa di molto diverso dalle cose che sono offerte ai nostri sensi esterni; e la cui proprietà è di essere celata o nascosta sotto il velo di un'espressione oscura [...]. Esso non è formato da parole ma si esprime solo attraverso note, caratteri, figure» (Obeliscus Pamphilius, II, 5, pp. 114-20). Sono simboli iniziatici, perché il fascino della cultura egizia si basa sul fatto che il sapere che promette è racchiuso nel giro insondabile e indecifrabile di un enigma onde sottrarlo alla curiosità profana del volgo. Ancora, Kircher ci ricorda che il geroglifico è simbolo di una cosa sacra (e in tal senso tutti i geroglifici sono simboli ma non vale l'inverso) e la sua forza è dovuta al fatto che esso è inattingibile dai profani. Se così fosse il mondo barocco avrebbe inventato la sua scrittura dell'insondabile. E così vuole Kircher, e se ne diletta con allucinato fervore nella epistola all'imperatore che apre l'Oedipus Aegyptiacus: Svolgo davanti agli occhi tuoi, o Sacratissimo Cesare, il polimorfo regno del Morfeo Geroglifico: dico un teatro disposto in immensa varietà di mostri, e non nudi mostri di natura, ma così adornato delle Chimere enigmatiche di un'antichissima sapienza che qui confido gli ingegni sagaci possano rintracciare smisurati tesori di scienza, non senza vantaggio per le lettere. Qui il Cane di Bubasti, il Leone Saitico, il Capro Mendesio, il Coccodrillo spaventevole per l'orrendo spalancarsi delle fauci scoprono gli occulti significati della divinità, della natura, dello spirito della Sapienza Antica, sotto l'umbratile gioco delle immagini. Qui i sitibondi Dipsodi, gli Aspidi virulenti, gli astuti Icneumoni, i crudeli Ippopotami, i mostruosi Dragoni, il rospo dal ventre rigonfio, la lumaca dalla contorta conchiglia, il bruco irsuto e innumerevoli spettri mostrano la mirabile catena ordinata che si dispiega nei sacrari della natura. Si presentano qui mille esotiche specie di cose in altre ed altre immagini trasformate dalla metamorfosi, convertite in figure umane e di nuovo restaurate in se stesse in mutuo intreccio, la ferinità con l'umanità, e questa con l'artificiosa divinità; e infine la divinità che, per dirla con Porfirio, scorre per l'intero universo, ordisce con tutti gli enti un mostruoso connubio; dove ora, sublime per il volto variegato, levando la cervice canina, si palesano il

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Cinocefalo, e il turpe Ibis, e lo Sparviero avvolto da maschera rostrata [...] e dove ancora allettando con virgineo aspetto, sotto l'involucro dello Scarabeo, si cela l'aculeo dello Scorpione [...questo e altro, elencato per quattro pagine] in questo pantomorfo teatro di Natura contempliamo, dispiegato davanti al nostro sguardo, sotto il velame allegorico di una occulta significazione. E' proprio per il fascino delle occulte significazioni della lingua arcaica degli egizi, che Kircher la celebra in opposizione al blando e codificatissimo iconismo dei cinesi, in cui ogni ideogramma corrisponde a una idea precisa; cosa che poteva affascinare Bacone, ma non lui. I simboli egizi integros conceptos ideales involvebant, e con involvere Kircher non intendeva raccogliere, offrire, bensì nascondere, avviluppare... Le icone degli egizi dovevano essere come delle allumeuses che continuamente trascinassero i propri adoratori nel vortice di una passione cognitiva insoddisfatta, senza mai loro concedersi. Ma dopo queste premesse che cosa fa Kircher, per migliaia di pagine e per almeno tre opere diverse? Tenta la decifrazione, fa consistere la propria vittoria di egittologo nel rivelarci quale fosse il significato occulto di quei segni, traduce, e convinto di tradurre nel solo modo corretto possibile. Sbaglia, lo sappiamo, ma è alle intenzioni e non ai risultati che facciamo ora il processo. Champollion, che pure non sbaglierà, compirà in spirito più laico la stessa operazione di Kircher: ci dirà che quelli erano segni, convenzionali, dotati di valore fonetico, svuoterà i simboli di ogni ambiguità. E però questo aveva già iniziato a fare Kircher. Chi, meno cattolico e teologale di lui, tenterà di conservare a questi geroglifici una carica di mistero irrisolto, li trasformerà in distintivi di parte per l'occultismo di bassa lega, e in effetti non sarà affascinato dalla loro insondabilità, ma dalla sicurezza che danno, rigidi emblemi quali ormai sono diventati, che esista da qualche parte un mistero. Mistero che non verrà mai svelato, non perché sia insondabile, ma perché i suoi amministratori avranno deciso di non sondarlo onde poterlo vendere come marchio di fabbrica, e promessa di elisir, ai collezionisti di assoluto, o ai frequentatori del Grand Guignol massonico.

La nostra nozione del simbolico si radicalizza solo in un universo ormai laico, in cui il simbolo non deve più svelare e nascondere l'assoluto delle religioni, ma l'assoluto della poesia. Se noi parliamo oggi di simbolo è perché c'è stato il simbolismo francese, e ne valga come manifesto Les correspondances di Baudelaire: le colonne viventi della natura lasciano solo sfuggire confuse parole, «comme de longs échos qui de loin se confondent - dans une ténébreuse et profonde unité - vaste comme la nuit et comme la clarté». Solo allora si potrà dire con Mallarmé «une fleur» e non decidere su quello che la parola ci deve evocare, perché sarà l'assenza stessa, pregnante, d'ogni florealità, e quindi tutto e nulla, e

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rimarremo attoniti a interrogarci all'infinito su cosa sia «le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui». Ma a questo punto non esistono più oggetti, siano essi emblemi, figure misteriose, parole isolate, che di per se stessi abbiano valenza simbolica. Neppure il fiore di Mallarmé sarebbe tale se non fosse inserito nella strategia della pagina bianca. Il simbolico diventa un effetto di senso prodotto dal testo, e a tale titolo qualunque immagine, parola, oggetto, può assumere valenza di simbolo.

Quale chiave semiotica si può offrire non per l'interpretazione ma per l'individuazione di quella strategia testuale che ho deciso di chiamare il modo simbolico? Il suggerimento ce lo ha dato, qualche tempo fa, un appassionato, necessariamente determinato ricercatore di sensi secondi: Agostino. Quando qualcosa, nelle Scritture, pur apparendo semanticamente comprensibile, ci pare fuori posto, eccedente, inesplicabilmente insistito, lì occorre cercare il senso secondo che si nasconde. L'attenzione al modo simbolico nasce dall'aver rilevato che qualcosa nel testo c'è, fa senso, eppure avrebbe potuto non esserci, e ci si chiede perché ci sia. Questo qualcosa non è metafora, perché altrimenti avrebbe offeso il senso comune, avrebbe inquinato la purezza ottusa del grado zero della scrittura. Non è allegoria, perché non rinvia ad alcun codice araldico. Sta, è lì, non dà noia che lì sia, al massimo rallenta la lettura, ma è lo spreco che esso rappresenta, la sua incolpevole incongruità, la sua presenza economicamente importuna, che ci fa supporre che lì stia per dire qualche cosa d'altro. E' l'inessenzialità, la gratuità di questa figura, che la rende totemica. E' la domanda che ci ispira («Perché ci sei, e in quel punto?») che ci spinge a una interrogazione senza risposta. E' uno dei rari casi in cui non è la nostra ybris decostruttiva, ma la volontà stessa del testo che ci invita alla deriva. Perché Montale deve spendere ben sessanta «Vecchi versi» per dirci di come una farfalla orribile dal becco aguzzo passasse attraverso i fili esili di un paralume, pazza aliando le carte sul tavolo? E' l'irrilevanza stessa dell'esperienza che la rende totemica, «e fu per sempre - con le cose che chiudono in un giro - sicuro come il giorno, e la memoria - in sé le cresce». Perché a un certo punto l'Eliot della Terra desolata, dopo averci avvertito che intende mostrarci la nostra ombra, che al mattino ci segue a lunghi passi e alla sera si leva davanti a noi (e sta a noi decidere se il senso dei versi sia letterale o metaforico) ci dice: I will show you fear in a handful of dust, vi mostrerò la paura in una manciata di polvere? In questo caso il simbolo eccede le potenze stesse della metafora. Certamente questa manciata di polvere potrebbe essere metafora di molte cose, tradizionalmente lo sarebbe, quasi per catacresi, dell'insuccesso. Quante volte, nella vita, non abbiamo ottenuto altro che una manciata di polvere, e l'abbiamo detto per

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frase fatta? Ma è di questo che Eliot vuole mostrarci la paura che annuncia e produce? L'insuccesso delude, addolora, smorza, non fa paura, perché non contiene ormai più nulla di inatteso. Quella manciata di polvere sta lì per qualche cosa d'altro, forse è lì sin dal momento del Big Bang, se di qualcuno è l'insuccesso, è del Demiurgo. Oppure no, è l'epifania di un universo senza Big Bang e senza Demiurgo, la prova del nostro essere-per-la-morte (ma The Waste Land precede di cinque anni Sein und Zeit). Epifania, l'ho detto. In fondo il concetto joyciano di epifania è la versione più laica, o più religiosa (quando con Barilli diventi «estasi materialistica») del modo simbolico. Qualcosa appare, e sappiamo che è un'apparizione, altrimenti non sarebbe così incongrua, eppure non sappiamo che cosa ci riveli. Il simbolo è una epifania con Magi che non conosciamo da dove vengano, dove vadano, e chi siano venuti ad adorare. La mangiatoia di Betlemme è vuota, oppure occupata - che so - da un oggetto enigmatico, un pugnale, una scatola nera, una cupola di cristallo con la neve che cade sulla Madonna di Oropa, un brandello di orario ferroviario. Eppure sfolgora, almeno per noi che accettiamo l'invito dell'inessenziale. Sempre tornando alla Waste Land: perché a un certo punto «vidi uno che conoscevo e lo fermai gridando Stetson»? Perché Eliot e Stetson sono stati insieme a Milazzo? Perché Stetson ha piantato l'anno scorso in giardino un cadavere che ora ha cominciato a germogliare? Perché deve tenere il cane a distanza? Roberto Cotroneo, nel suo recente Se una mattina d'estate un bambino (Milano: Frassinelli, 1996), tenta una esegesi: ma certo, chi portava uno Stetson se non Pound? Perché non Milazzo se dopo questa prima difesa dell'Occidente Roma, per esorcizzare la potenza cartaginese, ha introdotto il culto della dea frigia, e di lì la commistione tra i due mondi, e i riti di fertilità? Certo, la lettura è lecita, e autorizzata da Eliot stesso nel momento in cui apre le sue note ricordandoci Miss Weston. Ma è lì che si chiude? Certamente no. Stetson continua a inquietarci, con la sua apparizione non richiesta, e d'altra parte pochi versi sopra Eliot ci dà il segnale del modo simbolico che sta instaurando a piene mani. Ha appena menzionato il fatto che Saint Mary Woolnoth segnava il tempo «con un morto suono sull'ultimo tocco delle nove», e inserisce al proposito una delle poche ed ermetiche note del suo poema. Dice, commentando il verso 68: «Un fenomeno da me osservato frequentemente.» Sublime e inessenziale precisazione. Perché di tutti gli eventi di quella Londra, di quella città irreale in cui circola una folla da non credere che morte tanta n'avesse disfatta, dove ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi, Eliot deve dirci che ha osservato frequentemente proprio quel fenomeno, come se fosse un noumeno? E noi, noi lettori che dovremmo fare? Eliot ce lo dice subito, mutuando un insulto che sta alle origini della poetica del simbolismo: «You, hypochrite lecteur - mon semblable - mon frère!» Traducendo il vocativo dal francese all'inglese, ha decontestualizzato l'appello. Ora significa altro. A noi interrogarci

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perché Stetson sia apparso così all'improvviso, e se sia solo un cappello, e perché siamo ipocritamente colpevoli del suo arrivo. Si noti, ancora una volta, in sé il nome Stetson non è un simbolo. Lo diviene in contesto. E' una messa a fuoco priva di ragione. Né dobbiamo pensare che incongruità significhi mancanza di interna coerenza, o che gratuità voglia dire leggerezza. Talora il modo simbolico esibisce una sua logica ferrea, se pur paranoide, e il simbolo è duro, geometrico e pesante come la stele galattica che appare alla fine di 2001: Odissea nello spazio. Neppure dobbiamo pensare che il simbolo debba essere cosa breve, immagine appena allusa, che appare nel testo come di scorcio. Se per Mallarmé nominare un oggetto voleva dire sopprimere i tre quarti del godimento poetico (che è fatto della felicità di indovinare a poco a poco - le suggérer, voilà le rêve!), nulla è suggerito, tutto è descritto sino al minimo particolare nella Colonia penale di Kafka. Quasi un trattato di ingegneria, e una discussione giuridica di sapore talmudico, il racconto costruisce la sua «macchina celibe» ed è l'intera descrizione nel suo insieme, per pagine e pagine, che ci spinge a domandarci il perché di quella presenza. Non perché ci sia poiché c'è, e tanto basta - ma quale sia il senso globale di questo teatro della crudeltà. E resteremo a interrogarci sino alla fine dei nostri giorni, perché ogni allegorizzazione del simbolo ci condurrebbe all'ovvietà, ci direbbe solo quello che volevamo già sapere.

E ora giungo alla seconda parte del mio intervento. Sembra contrario alle nostre idee più acquisite, ma tutti i secoli che ci hanno parlato del simbolo sapevano poco del modo simbolico. Forse di esso andavano in cerca i frequentatori del tempio del dio in Delfi, dove l'oracolo non dice e non nasconde, ma fa cenni. Ma dopo, per trovare una nozione di simbolo quale l'abbiamo inseguita attraverso i millenni, dobbiamo attestarci tra Ottocento e Novecento, quando il modo simbolico si afferma come strategia cosciente. Forse è la modernità che ha inventato il concetto di poesia, visto che i lettori contemporanei, o di poco più tardi, leggevano Omero come una enciclopedia del sapere universale, e i medievali usavano Virgilio come più tardi si sarebbe usato Nostradamus. Siamo noi, oggi, che alla poesia, e sovente alla narrativa, non chiediamo solo espressione di sentimenti, o racconto di azioni, o moralità, ma anche folgorazioni simboliche, pallido Ersatz per una verità che alle religioni non chiediamo più. Può bastare? Solo a chi abbia fredda coscienza dell'insignificanza dell'universo, fervida volontà di riscatto attraverso la domanda, non attraverso l'accettazione prona della risposta. E' questa la disposizione che contrassegna il nostro tempo? No, e permettetemi questa conclusione moralistica. Dell'eredità del modo simbolico, appena lo ha scoperto, il nostro tempo ha accettato solo due sofisticazioni.

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La prima, colta e coltivata, è che ovunque si celi un senso profondo, che ogni discorso metta in scena il modo simbolico, che ogni detto sia costruito secondo l'isotopia del non detto, anche quando afferma che oggi piove. E' l'eresia contemporanea della decostruzione, che agisce come se una divinità o un inconscio maligno ci facesse parlare solo e sempre secondo un senso secondo, e tutto ciò che diciamo fosse inessenziale, perché l'essenzialità del nostro discorso sta altrove, nel simbolico che sovente ignoriamo. Così la gemma simbolica, che doveva sfolgorare nel buio e abbacinarci all'improvviso (possibilmente molto di rado) è diventata una serpentina al neon che pervade il tessuto di ogni discorso. Troppa grazia. Non è una cattiva strategia interpretativa, se interpretare significa accumulare titoli per concorsi universitari. Ma se ciascuno dice sempre ciò che non voleva dire, allora diciamo tutti e sempre la stessa cosa. Non c'è più il modo simbolico come suprema strategia del linguaggio, parliamo indirettamente, di sguincio e di striscio, sempre per simboli, perché siamo malati di linguaggio. Dove non c'è regola riconoscibile non c'è neppure deviazione della norma. Tutti parliamo in poesia, tutti sveliamo qualcosa, anche quando diciamo che pagheremo l'assicurazione martedì. Che pena, un mondo così dannatamente orfico, dove non c'è spazio per il linguaggio del portinaio. Dove non può parlare il portinaio, tace anche il poeta. La seconda eresia è quella del mondo dell'informazione che, ormai abituato a complotti, frasi in codice, mezze parole, alleanze prima promesse e poi disdette, divorzi sussurrati e rinnegati, cerca in ogni evento, in ogni espressione, un messaggio segreto. Dannazione dello scrittore contemporaneo, di cui non voglio dire, per non raccontare di esperienze personali, ma di cui costruirò il modello sulla vicenda di uno scrittore del passato, che si trovasse ad affrontare i critici o i giornalisti di oggi. Poniamo che sia Leopardi, e inventiamogli un Dialogo tra il Poeta e un Facitore di Rotocalchi... «Signor Leopardi, è stimolante e intrigante il fatto che lei per un attimino (non più di quindici versi) abbia condotto un certo discorso su una collina su cui lei riflette sull'infinito. Perché il colle è "ermo"? Chiaramente, mi consenta, lei alludeva all'affare delle Erme, che ha posto Alcibiade in conflitto con il governo di Atene, come a dire, chiaramente, o in una certa misura, del conflitto che oppone oggi i progressisti a Forza Italia...» «Ma no, il colle è ermo perché ho ceduto al gusto dell'arcaismo, e ammetto che questo sia il verso più brutto del mio idillio; ma il colle mi è caro davvero, perché da quelle parti sono nato.» «E perché lei nel pensier si finge profondissima quiete? Non mi dica che non si tratta di chiara ed esplicita allusione all'attuale situazione politica, all'inquietudine dei mercati, al destino incerto della finanziaria.» «Ma, guardi, ho scritto L'Infinito tra la primavera e l'autunno 1819, non potevo alludere alla vostra situazione politica. Consenta a

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un poeta di sognare, al sommo di un colle, ermo quasi per errore, ma in modo assolutamente letterale: non c'è allegoria, e di metafore quattro sole, e modeste: la quiete profonda (ma anche il vostro Lakoff direbbe che spazializzare è modo quotidiano di metaforizzare), le morte stagioni (che è quasi catacresi), l'annegarsi del mio pensiero e il naufragare in un mare che mare non è... Ma per il resto nessun simbolo e nessuna allegoria. La poesia non si estingue nella retorica, né la retorica nel discorso giudiziario... Io ero là, quel giorno, e mi son detto di colpo: mamma mia, l'infinito... Forse è simbolico il solo fatto che, benché non se ne avvertisse il bisogno, io l'ho fatto. Ma non decifri. Lasci stare quel mio momento di debolezza così come è, lo rilegga, e poi parta per la tangente della sua risposta.» «Evvia, signor contino, Lei non ce la dà a bere. A tre anni, tre anni soli, dal congresso di Vienna, lei strologa di immemoriali abbandoni, mentre l'Europa sta diventando quello che è... Consentirà almeno a noi di leggere il suo testo per quel che veramente dice?» Fine del mio gioco. Incapaci come siamo di ritrovare e individuare il simbolo dove è, avvelenati dalla cultura del sospetto e del complotto, lo cerchiamo anche dove non si realizza come modo testuale. O dove al massimo, non ogni singolo tratto di un testo, ma l'insieme del testo, la sua irriducibile e disinvolta casualità, per la quale appare quando nessuno lo avrebbe atteso, si fa simbolo, se così vogliamo parlare, della condizione umana. In verità il mondo massmediatico non va a caccia di simboli, perché ne ha perso il dono e la grazia. Privati di un Dio a cui alludere, cerchiamo allegorie dappertutto, connessioni misteriose tra due ragazze accoltellate (quando le statistiche ci dicono che nell'arco di un decennio due omicidi analoghi sono la norma), sfolgoranti cortocircuiti nel tessuto ottuso della quotidianità. E perdiamo il dono di individuare il modo simbolico là dove si annida. Dove tutto ha un senso secondo, tutto è irrimediabilmente piatto e ottuso. La libidine del senso secondo ci avvizzisce la capacità di vedere secondi o millesimi sensi là dove stanno, o sono stati messi. Non sappiamo neppure più godere della rivelazione del letterale, della stupefazione di ciò che è, quando il massimo della polivocità coincide col minimo della tautologia: a rose is a rose is a rose is a rose. Il modo simbolico sta là dove avremo finalmente perduto la voglia di decifrare a ogni costo. NOTE: (1) Versione rivista della relazione tenuta al convegno sul simbolo svoltosi a Siena nel 1994 (pubblicata in Sandro Briosi (ed.), «Simbolo», Numero speciale de L'immagine riflessa, NS, IV, 1, pp. 35-53. Dedico questo testo a Sandro Briosi, che quel giorno era ancora tra noi. Sullo stile (1)

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Il termine stile, da come si propone ai primordi nel mondo latino, sino alla stilistica e all'estetica contemporanea, ha una storia non del tutto omogenea. Se pure è individuabile un nucleo originario, per cui dallo stilus - lo strumento da cui trae per metonimia origine lo stile diventa sinonimo di «scrittura» e quindi di modo di esprimersi letterariamente, è pur vero che questo modo di scrivere verrà inteso nel corso dei secoli in maniere e con intensità diverse. Per esempio, esso passa ben presto a designare generi letterari ampiamente codificati (stile sublime, medio, tenue; stile attico, asiatico o rodio; stile tragico, elegiaco o comico). In questo, come in tanti altri casi, lo stile è un modo di fare secondo regole, di solito assai prescrittive; e vi si accompagnava l'idea di precetto, di imitazione, di aderenza ai modelli. Di solito si pensa che è col manierismo e col barocco che all'idea di stile si associa quella di originalità e ingegno - e non solo nelle arti, ma anche nella vita, poiché con l'idea rinascimentale di «sprezzata disinvoltura» l'uomo di stile sarà colui che ha l'arguzia, il coraggio (e il potere sociale) di comportarsi violando la regola - ovvero mostrando che egli ha il privilegio di poterla violare. E tuttavia persino il detto di Buffon per cui «lo stile è l'uomo» non va ancora inteso in senso individualistico, bensì specifico: lo stile è virtù umana. L'idea di uno stile che si afferma contro i precetti appare piuttosto nella Ricerca intorno alla natura dello stile di Cesare Beccaria, e poi con le teorie organicistiche dell'arte, per cui con Goethe si avrà stile quando l'opera raggiunge una sua originale, conchiusa, irripetibile armonia. Per arrivare infine alle concezioni romantiche del genio (per cui lo stesso Leopardi dirà che lo stile è quella specie di maniera o facoltà che si chiama originalità). A tal punto che il concetto ruota per così dire di trecentosessanta gradi alla fine del XIX secolo, col decadentismo e col dandismo, quando ormai lo stile si identifica con l'originalità bizzarra, il disprezzo dei modelli; ed è da qui che nasceranno tutte le estetiche delle avanguardie storiche. Identificherei due autori per cui lo stile è concetto squisitamente semiotico, e sono Flaubert e Proust: per Flaubert lo stile è un modo di foggiare la propria opera, ed è certamente irripetibile, ma attraverso di esso si manifesta un modo di pensare, di vedere il mondo. Per Proust lo stile diventa una sorta di intelligenza trasformata, incorporatasi nella materia, tanto che per Proust Flaubert, attraverso l'uso nuovo che fa del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente e dell'imperfetto, rinnova la nostra visione delle cose quasi quanto Kant. Da queste fonti discende l'idea dello stile come modo di formare che sta al centro dell'estetica di Luigi Pareyson. Ed è chiaro che a questo punto, se l'opera d'arte è forma, il modo di formare non riguarda più soltanto il lessico o la sintassi (come può accadere alla cosiddetta stilistica), ma ogni strategia semiosica che si

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dipana sia in superficie che in profondità lungo le nervature di un testo. Apparterranno allo stile (come modo di formare) non solo l'uso della lingua (o dei colori, o dei suoni, a seconda dei sistemi o universi semiotici) ma anche il modo di disporre strutture narrative, di disegnare personaggi, di articolare punti di vista. Si veda questo passo di Proust, dalle sue Osservazioni sullo stile, quando afferma che Stendhal curava lo stile meno di Baudelaire. Proust ci sta suggerendo che Stendhal scriveva male, ed è risaputo, se per stile s'intende lessico e sintassi. Quando di un paesaggio aveva detto «quei luoghi incantati», «quei luoghi deliziosi», o di una delle sue eroine «quella donna adorabile», «quella donna affascinante», egli non desiderava maggior precisione. Ne era talmente privo da scrivere persino: «Lei gli scrisse una lettera infinita.» Ma, se si consideri come facente parte dello stile quella grande ossatura incosciente che vien ricoperta dall'insieme voluto delle idee, nessun dubbio che in Stendhal essa c'è. Quale piacere avrei di mostrare che, ogni qual volta Julien Sorel o Fabrizio dimenticano le cure vane per vivere una vita disinteressata e voluttuosa, essi si ritrovano sempre in un luogo elevato (sia esso la prigione di Julien o quella di Fabrizio o l'osservatorio dell'abate Blanés). Parlare dello stile significa a questo punto parlare di come l'opera è fatta, mostrare come si è andata facendo (sia pure talora attraverso la progressione puramente ideale di un percorso generativo), mostrare perché si offre a un certo tipo di ricezione, e come e perché la suscita. E, per chi sia ancora interessato a pronunciare giudizi di valore estetico, solo individuando, pedinando e mettendo a nudo le supreme macchinazioni dello stile si potrà dire perché quell'opera è bella, perché ha goduto di diverse ricezioni nel corso dei secoli, perché pur seguendo modelli e talora precetti disseminati nel mare dell'intertestualità, ha saputo raccogliere e far fruttare quelle eredità in modo da dar vita a qualcosa di originale. E perché, se pure ciascuna delle diverse opere di uno stesso artista aspira all'originalità irripetibile, è possibile ritrovare lo stile personale di quell'artista in ciascuna di queste opere. Se così è, ritengo si debbano affermare due cose: una, che una semiotica delle arti altro non sia che una ricerca e messa a nudo delle macchinazioni dello stile; due, che la semiotica rappresenti la forma superiore della stilistica, e il modello di ogni critica d'arte.

Questo detto, non avrei bisogno di aggiungere altro: tutti ricordano quanta luce abbiano gettato su testi (che pure già prima amavamo in modo oscuro) alcune pagine dei formalisti russi, di Jakobson, dei narratologi o degli analisti del discorso poetico. Ma veramente viviamo in tempi oscuri, almeno nel nostro paese, in cui sempre più frequentemente si odono voci polemiche che accusano

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appunto gli studi semiotici (detti anche, con connotazione negativa, formalistici o strutturalistici) come responsabili di un declino della critica, come discorsi pseudomatematizzanti, infarciti di schemi illeggibili, nella cui melma evapora il sapore della letteratura, e l'estasi a cui il lettore sarebbe chiamato s'irrigidisce in partita doppia - dove il je ne sais quoi e il sublime, che dell'arte erano supposti essere l'effetto supremo, svaporano in un'orgia di teorie che sprimacciano, svillaneggiano, umiliano, schiacciano il testo, togliendogli freschezza, magia, estaticità. Dobbiamo dunque chiederci che cosa si intenda per critica (d'arte o di letteratura) e per comodità mi limiterò a parlare di critica letteraria. Ora credo che occorra anzitutto distinguere tra discorso sulle opere letterarie e critica letteraria. Sulle opere letterarie si possono fare svariati discorsi, e un'opera può essere assunta come campo d'indagine sociologica, come documento per una storia delle idee, come reperto psicologico o psichiatrico, come pretesto per una serie di considerazioni morali. Ci sono delle civiltà, prima tra tutte quella anglosassone, dove - almeno sino all'avvento del New Criticism - il discorso sulle opere letterarie era anzitutto discorso morale. Ora tutti questi modi discorsivi sono in sé legittimi, se non fosse che, nel momento stesso in cui si pongono, presumono, implicano, suggeriscono, rimandano a un giudizio critico-estetico che qualcun altro, o lo stesso autore in altra sede, dovrebbe aver già pronunciato. Questo discorso è quello della critica in senso proprio, ed esso può articolarsi in tre modi - dove deve essere chiaro che questi tre modi sono «generi critici», tipi ideali, e si dà sovente il caso che, sotto l'insegna di un genere o modo, qualcuno di fatto provveda esempi illustri di un altro modo, o mescoli, nel bene come nel male, i tre modi insieme. Chiameremo il primo modo la recensione, in cui si parla ai lettori di un'opera che essi non conoscono ancora. Una buona recensione può anche far ricorso a modalità più complesse, come le altre due di cui dirò, ma è vincolata fatalmente all'immediatezza, al breve spazio che interviene tra apparizione dell'opera, lettura e scrittura giudiziale. La recensione, nei casi migliori, può limitarsi a dare ai lettori una idea sommaria dell'opera che non hanno ancora letto, e poi imporre loro il giudizio (di gusto) del critico. La sua funzione è eminentemente informativa (dice che è apparsa un'opera approssimativamente così e così) e diagnostico-fiduciaria: i lettori credono al recensore così come credono al medico il quale, dopo aver fatto loro dire trentatré, individua sommariamente un principio di bronchite e prescrive uno sciroppo. Questa diagnosi recensoria non ha nulla a che fare con gli esami chimici o quelle esplorazioni con sonda, che lo stesso paziente segue ormai su uno schermo televisivo, e nel corso delle quali esso vede e capisce che cosa ha, e perché il suo corpo stava reagendo in una tal maniera. Nella recensione (come

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nella visita in casa del medico della mutua) il lettore non vede l'opera, ne sente solo parlare da qualcun altro. Il secondo modo della critica (la storia letteraria) parla di testi che il lettore conosce o almeno dovrebbe conoscere perché ne ha già sentito parlare. Questi testi gli vengono spesso soltanto nominati, talora riassunti, anche con l'aiuto di qualche citazione esemplare, vengono raggruppati, assegnati a correnti, disposti in sequenza cronologica. Una storia della letteratura può essere piattamente manualistica, talora essa diventa al tempo stesso riconoscimento delle opere e storia delle idee, e si pensi alla Storia del De Sanctis. Nei casi migliori avvia al riconoscimento finale e totale di un'opera, orienta le attese e il gusto del lettore, gli apre panorami interminati. Entrambi questi due modi possono essere praticati secondo due linee che, come già ci diceva Croce, possono essere definite come quella dell'artifex additus artifici o del philosophus additus artifici. Nel primo caso il critico, più che spiegarci l'opera, ci rende il diario delle proprie emozioni nel corso della lettura, inconsciamente cerca di superare in bravura l'oggetto della sua umile dedizione, talora ci riesce - e conosciamo benissimo pagine sulla letteratura che sono più belle, letterariamente, della letteratura di cui parlano, così come sono altamente musicali le pagine di Proust sulla cattiva musica. Nel secondo caso il critico cerca di mostrarci, alla luce di alcune categorie e criteri di giudizio, perché l'opera sia bella. Ma nel caso della recensione non ha spazio sufficiente per dirci a fondo come l'opera sia fatta (e quindi per rivelarci le macchinazioni del suo stile) e nel caso di una storia letteraria deve necessariamente mantenere la sua analisi a un livello obbligato di generalità. Ahimè, per mettere a nudo lo stile di una pagina ce ne vogliono cento, e in una storia della letteratura il rapporto è fatalmente inverso. Veniamo ora al terzo modo, la critica del testo: in essa il critico deve assumere che il lettore non sappia nulla dell'opera, anche se si tratta della Divina Commedia. Deve fargliela scoprire per la prima volta. Se il testo non è breve, così da poterlo riportare per intero, suddiviso in paragrafi o versicoli, occorre presumere che il lettore ne disponga altrimenti, perché il fine di questo discorso è condurre passo per passo a scoprire come il testo sia fatto, e perché funzioni come funziona. Questo discorso può proporsi una conferma («ora vi mostro perché tutti considerano questo testo splendido»), una rivalutazione o la distruzione di un mito. I modi in cui si può mostrare come un testo sia fatto (e perché sia bene che sia fatto così, e perché non poteva che essere così, e perché vada considerato eccelso proprio perché è fatto così) possono essere innumerevoli. Comunque essi si articolino, questa critica non può essere che una analisi semiotica del testo. Dunque, se fare vera critica è capire e far capire come un testo è fatto, e se la recensione e la storia letteraria, in quanto tali, non possono farlo in misura completa, la sola vera forma di critica è una lettura semiotica del testo.

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Una lettura semiotica del testo ha della vera critica (che deve portare a capire il testo in tutti i suoi aspetti e le sue possibilità) la qualità che di solito e fatalmente manca alla critica recensoria e alla critica storica: essa non prescrive i modi del piacere del testo, bensì ci mostra perché il testo possa produrre piacere. La critica recensoria, per la sua funzione di raccomandazione, non può esimersi, se non in casi di eccezionale viltà, dal pronunciare un giudizio su ciò che il testo dice; la critica storica può al massimo indicarci che un'opera ha avuto varie e alterne fortune, e ha suscitato mutevoli risposte. La critica testuale, che è sempre semiotica anche quando non sa, o nega di esserlo, invece assolve a quella funzione che già era stata mirabilmente descritta da Hume ne «La regola del gusto», citando un passo del Don Chisciotte: Due miei parenti furono chiamati una volta a dire la loro opinione su una botte che si supponeva eccellente, perché era vecchia, e di ottima uva. Uno di loro assaggia, ci pensa sopra: e dopo matura riflessione decide che il vino sarebbe stato buono, se non fosse per quel leggero sapore di cuoio che egli vi sentiva. L'altro, dopo aver usato le stesse cautele, emette anche lui il suo verdetto in favore del vino, ma con riserva, per un certo sapore di ferro, che riusciva a distinguervi nettamente. Non potete immaginarvi quanto essi fossero presi in giro per il loro giudizio. Ma chi rise per ultimo? Vuotando la botte, sul fondo vi si trovò una vecchia chiave a cui era attaccata una striscia di cuoio. Ecco, la vera critica è quella che ride per ultima, perché lascia a ciascuno il proprio piacere, ma di tutti mostra la ragione.

Naturalmente anche una critica del testo, attuata da un philosophus additus artifici, conosce i propri eccessi, che ne vanificano la funzione. Sarà utile prendere in considerazione alcuni errori della semiotica testuale, che spesso hanno determinato le sindromi di rigetto di cui si parlava poc'anzi. Si confonde spesso la teoria semiotica della letteratura con la critica semioticamente orientata. Vi rinvio a un antico dibattito degli anni sessanta, iniziato col celebre catalogo del Saggiatore dedicato a «Strutturalismo e critica», dibattito in cui grosso modo si disegnavano due opzioni, l'una rappresentata da Segre e l'altra da Rosiello. In breve, per la prima opzione, la teoria linguistica doveva servire per capire meglio l'opera singola; per la seconda, l'analisi dell'opera singola doveva servire a illuminare meglio la natura della lingua. E dunque è chiaro che per la prima opzione un insieme di assunzioni teoriche doveva servire a illuminare meglio lo stile personale di un autore, per la seconda lo stile personale era avvertito come deviazione dalla norma che rinforzava la conoscenza della norma come tale. Ora queste due opzioni erano e sono egualmente legittime. Si può fare una teoria della letteratura, e usare come documenti le opere

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singole, e si possono leggere le opere singole alla luce di una teoria della letteratura, o meglio cercando di far scaturire anche i princìpi di una teoria letteraria dall'esame di opere singole. Prendiamo l'esempio di una provincia della teoria del testo come la narratologia, che usa i testi come esempio e non come oggetto d'analisi. Se la critica di un testo narrativo serve a capire meglio quel testo, a che cosa serve la narratologia? Anzitutto a fare narratologia, nello stesso modo in cui la filosofia serve essenzialmente a filosofare. Serve a capire come funzionano in generale i testi narrativi, belli o brutti che siano. In secondo luogo serve a molte discipline (come l'intelligenza artificiale, la semantica e la psicologia) per capire come la totalità della nostra esperienza si strutturi (forse) sempre e comunque in forma di «narrazioni»: una teoria narratologica che servisse a capire solo come si racconta sarebbe ancora poco, ma se invece insegna come organizziamo in sequenze narrative il nostro modo di avvicinarci al mondo, è qualcosa di più. Infine serve anche a leggere meglio, e persino (si veda il caso di Calvino) a inventare nuove forme di scrittura. Purché si sappia farla interagire con un modo «naturale» di leggere, e cioè con una lettura critica che non parta già irrigidita in alcuni pregiudizi narratologici. Ora si danno due equivoci, uno di produzione e l'altro di ricezione. Il primo si ha quando il semiotico non sa bene, o non mette bene in chiaro, se sta usando il testo per arricchire la sua teoria narrativa, o se sta maneggiando alcune categorie narratologiche per comprendere meglio quel testo. Il secondo si dà quando il lettore (sovente prevenuto) intende come esercizio critico un discorso che mirava invece a far scaturire, da un testo o più testi singoli, i princìpi generali della narratività. Sarebbe come se uno psicologo, interessato alle ragioni per cui qualcuno uccide, leggesse un saggio di statistica sui delitti degli ultimi vent'anni, e lamentasse che la statistica abbia rinunciato a spiegare le motivazioni individuali. Potremmo limitarci a dire a questi utenti prevenuti che le teorie narratologiche non servono né alla lettura né alla critica. Potremmo dire che esse sono dei semplici protocolli di letture multiple e hanno la stessa funzione della teoria fisica, che ci spiega come i corpi cadano secondo una stessa legge, ma non ci dice né se sia bene né se sia male, né quale sia la differenza tra la caduta di una pietra dalla torre di Pisa e la caduta di un amante infelice da una cima tempestosa. Potremmo dire che esse servono non a capire i testi ma la funzione fabulatrice nel suo complesso, e dunque appaiono più come un capitolo della psicologia o dell'antropologia culturale che come un capitolo della critica. Eppure dovremmo anche spiegare che esse hanno, inoltre, e se non altro, un valore pedagogico. Costituiscono lo strumento con cui chi insegna a leggere individua subito i nodi su cui occorre attirare l'attenzione del catecumeno. E quindi, se non altro, servirebbero per insegnare a leggere. Ma siccome bisogna insegnare a leggere anche a

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chi non è più analfabeta, esse servono anche al lettore maturo, al critico, allo scrittore, per elaborare un colpo d'occhio sicuro. Bisognerebbe insomma far capire che, se il dizionario non basta a fare un buon scrittore, tuttavia i bravi scrittori frequentano i dizionari. Senza che per questo lo Zingarelli e i Canti di Leopardi appartengano allo stesso genere discorsivo. Eppure, forse anche per colpa dei semiotici, i nemici della semiotica testuale non sanno distinguere i due generi discorsivi (della semiotica testuale e della critica testuale semioticamente orientata). E così facendo perdono il senso del terzo tipo di critica di cui parlavo, l'unico che ci possa aiutare a capire il modo di formare che un testo manifesta. Quando la teoria, precostituita, precede la lettura, si vogliono spesso mettere continuamente a nudo gli strumenti dell'indagine, già noti, per mostrare che li si conosce, e che si è stati così ingegnosi a costruirli, invece di possedere l'arte di celare l'arte, e far venir fuori direttamente dal testo, e non dai saggi ginnici del metalinguaggio teorico, quello che il testo finalmente ci rivela. E' ovvio che questo modo di procedere spaventi il lettore che invece voleva sapere qualcosa su quel testo, e non sul metalinguaggio che istituisce i protocolli di lettura. Siccome una teoria testuale disegna delle invarianti, mentre una critica del testo dovrebbe mettere in luce le variabili, accade spesso che, avendo capito che il mondo dell'intertestualità è fatto d'invarianti ed eccezioni inventive, e che l'opera è miracolo d'invenzione che tiene a freno e cela le varianti su cui peraltro gioca, l'indagine semiotica si appiattisca sulla scoperta delle stesse invarianti in ogni testo, perdendo di vista le invenzioni. Come risultato ne nascono le indagini sulla struttura dei tarocchi in Calvino (come se l'autore non ci avesse già rivelato tutto in proposito) o gli esercizi su vita e morte in quadrato, identificate in qualsiasi testo, col risultato di ridurre l'Amleto a essere/non essere, non voler essere/voler non essere. Dove, si noti, il procedimento può essere didatticamente eccellente, e riesce persino a mostrare come, là dove tutti noi ci dibattiamo quotidianamente tra il voler essere e il voler non essere, Shakespeare ci ripropone un dilemma eterno in modo nuovo. Ma è proprio da quella «novità» che il discorso deve incominciare, e il livellamento narratologico è solo preambolo alla scoperta dei «picchi» artistici. Se è giusto che la teoria letteraria scopra delle invarianti in testi diversi, quando il critico applica la teoria non deve limitarsi a ritrovare in ogni testo le stesse invarianti (facendo il che non va al di là del lavoro del teorico), ma caso mai deve partire dalla consapevolezza delle invarianti per vedere come il testo le mette in questione, le fa giocare tra loro, e ricopre lo scheletro di pelle e muscoli diversi caso per caso. Il dramma del non-voler-sapere di Edipo (in Sofocle) non è dato da questa struttura modale (che si ritrova anche nella pochade in cui la moglie tradita dice all'amica pettegola «per favore, non dirmelo»), ma dalla strategia attraverso

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la quale la rivelazione viene dilazionata, dalla posta in gioco (parricidio e incesto, contro un banale tradimento coniugale), e dalla superficie discorsiva. Infine la semiotica testuale spesso non distingue tra maniera e stile, nel senso in cui li distingueva Hegel: la prima come ossessione ripetitiva dell'autore che rifà sempre e continuamente se stesso, il secondo come capacità di superare continuamente se stesso. Eppure sarebbe proprio una semiotica testuale la sola capace di mettere in chiaro queste differenze.

NOTE: (1) Intervento conclusivo al Convegno dell'Associazione Italiana di Studi Semiotici, «Lo stile - Gli stili» (Feltre, settembre 1995). Pubblicato in Carte semiotiche, 3, settembre 1996.

Ma se alla semiotica testuale possono essere imputati vari e numerosi eccessi, che dire dei difetti di chi vi si oppone? Certo non sta a noi dolerci degli orgasmi a cui ci fanno assistere gli artifices additi artifici, che ci raccontano in ogni opera il diario dei loro languori di lettori, tanto che una pagina dedicata all'autore A, ripubblicata per sbaglio nel libro dedicato all'autore B, passerebbe inosservata e al proto e al recensore. In effetti, potremmo lasciare ai critici dell'orgasmo il loro diletto, che non fa male a nessuno, e dopo un poco mostra quanto essi, così orgasmici a parole, siano pochissimo libertini, e abbiano l'alterità in orrore, dato che in ogni amplesso critico altro non fanno che fare all'amore con se stessi. E potremmo lasciare a chi vuol far critica sociale, o storia delle istituzioni letterarie, o critica di costume e di malcostume, la loro attività, tanto sovente utile e benemerita. Se non fosse che nel nostro paese si è verificata nell'ultimo decennio una sorta di gara a chi scagli maggiori anatemi contro le letture dette formalistico-struttural-semiotiche come se ad esse - e qualcuno lo ha persino detto - fossero dovuti Tangentopoli, la Mafia, il Crollo della Sinistra Algolagnica e il sorgere della Destra Trionfante. Questo potrebbe diventare incidente imbarazzante, nella misura in cui questi lamenti potrebbero traviare i giovani, e i giovani insegnanti, distogliendoli da alcune strade che negli ultimi vent'anni avevamo felicemente intrapreso. Se entrate nella sala al pianoterra della libreria delle Presses Universitaires a Parigi, sul secondo bancone a destra troverete decine e decine di manuali dedicati alle scuole di ogni grado su come si fa un'analyse de texte. Gli stessi pionieri dello strutturalismo degli anni sessanta sono stati costretti a riscoprire, non dico i formalisti russi o la scuola di Praga, ma la legione di buoni ed empirici critici e teorici anglosassoni che avevano analizzato a

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fondo, da decenni e decenni, le strategie del punto di vista, del montaggio narrativo, degli attanti o soggetti d'azione (come in Kenneth Burke). La mia generazione postcrociana (la prima) ha esultato sulle rivelazioni di Wellek e Warren, sulla lettura di Dàmaso Alonso o di Spitzer. Cominciavamo a capire che la lettura non era una scampagnata in cui si coglievano quasi a caso, or qui or là, i ranuncoli o i biancospini della poesia, annidata tra il letame delle zeppe strutturali, ma si affrontava il testo come cosa intera, animato di vita a diversi livelli. Pareva che anche la nostra cultura lo avesse imparato. Perché se ne sta dimenticando, perché si sta insegnando ai giovani che per parlare di un testo non occorre un forte armamentario teorico, e una frequentazione a ogni livello? Che la lunga e diuturna fatica di un Contini era dannosa (solo perché, è vero, ha sopravvalutato Pizzuto) mentre l'unico ideale critico ormai celebrato (di nuovo!) è quello di una mente libera che liberamente reagisce alle sollecitazioni occasionali che il testo le provvede? Personalmente vedo in questa tendenza un riflesso di altri settori della comunicazione, l'adeguarsi della critica ai ritmi e alla rata d'investimento di altre attività che si sono dimostrate di reddito sicuro. Perché la recensione, che obbliga a leggere il libro, se vende di più sulla pagina culturale il commento all'intervista rilasciata dall'autore a un altro giornale? Perché mettere in scena l'Amleto per la TV, come faceva la deprecata TV degli anni sessanta, quando si ha una udienza maggiore facendo partecipare, a pari merito, lo scemo del villaggio e lo scemo del consiglio di facoltà allo stesso talk show? E perché dunque leggere un testo per anni se si può ottenere l'estasi del sublime masticando alcune foglie, senza perdere le notti e i giorni a scoprire il sublime della foglia nelle sublimi macchinazioni della fotosintesi clorofilliana? Perché è questo il messaggio che viene quotidianamente lanciato dagli psicopompi della Nuova Critica Post-Antica: ci ripetono che chi conosce la fotosintesi clorofilliana sarà per tutta la vita insensibile alla bellezza di una foglia, che chi sa qualcosa della circolazione del sangue non saprà più far palpitare d'amore il suo cuore. E questo è falso, e bisognerà dirlo e ridirlo ad alta voce. Qui si sta combattendo una battaglia campale tra chi ama un testo e chi vuole fare in fretta.

Ma lascio la parola a una autorità insospettabile, talmente saggia e attendibile che non ne conosciamo neppure il nome vero, il che dovrebbe inclinare a suo favore i fautori, ormai imperversanti, della sapienza tradizionale, sconosciuta e occulta, o gli editori raffinati che pubblicano solo l'autore di un solo libro, e forse neppure di quello. Noi lo conosciamo come Pseudo-Longino, III secolo dopo Cristo, e siamo propensi ad attribuirgli l'invenzione di quel concetto che è sempre stato lo stendardo di chi ha affermato che

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sull'arte non si ragiona, si provano sentimenti ineffabili, se ne registra l'estasi conseguente, al massimo la si racconta con altre parole, ma non la si spiega. Il concetto è quello del Sublime, che in certe epoche della storia della critica e dell'estetica è stato identificato con l'effetto proprio dell'arte. E infatti Longino o chi per esso subito precisa che «il Sublime non conduce gli uditori alla persuasione, ma li trascina all'estasi». Quando il Sublime scaturisce dall'atto di lettura (o d'ascolto) «in certo modo disperde tutto, a guisa di fulmine». Solo che a questo punto (l'unico ahimè che abbia fatto scuola nei secoli, e siamo appena alla fine del primo paragrafo) Longino si chiede se il Sublime si possa pensare, e avverte subito che molti ai suoi tempi sfortunati ritengono che esso sia capacità innata, dono di natura. Ma Longino ritiene che i doni di natura non si conservino e non si facciano fruttare se non col metodo, e cioè con l'arte, e procede alla sua impresa che, come molti hanno dimenticato o mai saputo, è una definizione delle strategie semiotiche che inducono nel lettore o nell'ascoltatore l'effetto di Sublimità. E non c'è formalista russo, strutturalista praghese o francese, retorico belga o stil-kritico tedesco che abbia speso tanta energia (sia pure in poche decine di pagine) per scoprire le strategie del Sublime, e mostrarle in atto. Mostrarle in atto, dico, nel loro farsi e nel loro disporsi poi sulla superficie lineare del testo, riverberando agli occhi del lettore le più profonde macchinazioni dello stile. Ed ecco Longino, sia pure Pseudo, elencare le cinque fonti del Sublime, la capacità di concepire nobili pensieri, quella di manifestare e suscitare gagliarde passioni, la maniera di foggiare le figure retoriche adatte, l'ingegnosità nel creare nobiltà d'espressione attraverso la scelta dei vocaboli e l'uso accurato delle figure, e infine la disposizione generale e complessiva del testo, da cui deriva uno stile dignitoso ed elevato. Perché oltretutto Longino sa, contro coloro che ai suoi tempi identificavano la passione semiotica del Sublime con l'esperienza fisica dell'orgasmo, che «vi sono alcune passioni che sono ben lontane dal Sublime, e meschine, come i lamenti, gli abbattimenti, le paure e, al contrario, molti esempi di Sublime privo di pathos». Ed eccolo Longino, lanciato nella sua ricerca della sublime fotosintesi che produce il sentimento del Sublime: ecco che dimostra come Omero per dare grandezza al divino produce per superba ipotiposi il senso di una distanza cosmica, e rende il senso della distanza cosmica attraverso una descrizione protratta di distanze fisiche, eccolo vedere come per Saffo il pathos interiore possa essere reso solo mettendo in scena una battaglia degli occhi, della lingua, della pelle, degli orecchi; ecco che oppone un naufragio di Omero con uno di Arato di Soli, dove nel secondo l'imminenza della morte viene per così dire anestetizzata dalla semplice scelta di una metafora («Un esil legno tien lontano l'Ade») mentre in Omero l'Ade non viene

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nominato, e per questo ancora più incombe. Ecco che studia le strategie dell'amplificazione, dell'ipotiposi, ecco che esplora il teatro delle figure, degli asindeti, dei soriti, degli iperbati, e di come le congiunzioni illanguidiscano il discorso, e i poliptoti lo rafforzino, lo scambio dei tempi lo drammatizzino. Ma non si pensi solo a una serie di analisi stilistiche. Longino si occupa della contrapposizione e dello scambio delle persone, del passaggio da persona a persona, del modo in cui l'autore si rivolge al lettore, o si immedesima col personaggio, e della grammatica di queste manipolazioni narrative. Non trascura perifrasi e circonlocuzioni, idiotismi, metafore, similitudini e iperboli. E' tutta una gran macchina stilistico-retorica, di strutture narrative, di voci, sguardi e tempi, che viene vista al lavoro, analizzando testi e comparandoli, per mettere a nudo e rendere ammirevole la strategia del Sublime. Sembra che solo i semplici cadano in orgasmo, mentre Longino conosce la chimica delle loro passioni, e per questo gode di più. Nel paragrafo 39 lo Pseudo-Longino si propone di trattare della «armonia compositiva nella collocazione delle parole», armonia che non è soltanto disposizione naturale intesa a procurare persuasione e piacere, ma anche stupefacente strumento di eccelso e di patetico. Longino sa (per antica tradizione pitagorica) che il flauto genera passioni negli ascoltatori, e li riduce fuor di senno come tanti coribanti, anche se sono inesperti di musica, sa che i suoni della cetra, che di per se stessi sono privi di significato, generano effetti d'incantamento. Ma sa che il flauto ottiene i suoi effetti «dando al ritmo un certo andamento», e la cetra agisce sull'anima in virtù del «variare delle modulazioni» e del fondersi degli accordi. Quello che egli vuole spiegare non è l'effetto, palese a tutti, bensì la grammatica della sua produzione. Così, passando all'armonia verbale, «che cattura con l'orecchio anche l'anima», si trova ad analizzare un detto di Demostene che gli pare, oltre che mirabile, sublime: «Questo decreto ha fatto in modo che il pericolo che sovrastava la città passasse oltre, come una nube.» E dice: Qui il concetto non è inferiore all'armonia. L'intera frase è espressa in ritmi dattilici, i più nobili e i più atti a produrre grandezza, e per questo motivo sono propri del metro eroico, il più bello che conosciamo. Prova a spostare a tuo piacimento dalla propria sede le parole «questo decreto come una nube ha fatto in modo che il pericolo passasse oltre», oppure prova a sopprimere anche una sola sillaba, dicendo «ha fatto in modo che passasse oltre qual nube», e capirai quanto l'armonia consuoni col sublime. Infatti l'espressione «come una nube» (hjsper nëros) ha un lungo primo piede, che si misura in quattro tempi; ma se sopprimi una sillaba ed hai «come nube» (hjs nëros) tu mutili subito, con l'accorciamento, la grandezza. Al contrario, se aggiungi una sillaba, dicendo «ha fatto in modo che passasse oltre, quasi che fosse una nube», dici la stessa cosa ma non hai la stessa cadenza ritmica, perché allungando le sillabe estreme

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si scioglie e si allenta lo scatto del sublime. Anche senza controllare sul testo greco originale, lo spirito di questa analisi è chiaro. Lo Pseudo-Longino sta facendo della semiotica del testo. E sta facendo della critica - almeno secondo i canoni dei tempi suoi - e spiegandoci perché troviamo qualcosa sublime, e che cosa basterebbe mutare nel corpo del testo perché l'effetto fosse perduto. E quindi, sin dalle origini più lontane (ché se risaliamo più indietro, alla Poetica d'Aristotele, non troviamo di meno) si sapeva come si fa a leggere un testo, e come non si deve avere paura del close reading e di un metalinguaggio talora terroristico (né, per l'epoca, quello di Longino era meno terroristico di quello che terrorizza molti ai giorni nostri).

Quindi si tratta di mantenerci fermi alle origini, e del concetto di stile, e del concetto di critica vera, e del concetto di analisi delle strategie testuali. Quello che la migliore semiotica dello stile ha fatto e sta facendo è quello che hanno fatto i nostri maggiori. L'unico impegno sta nell'umiliare, con un serio e continuo lavoro, senza cedere a nessun ricatto, i nostri minori. Les sémaphores sous la pluie (1) Come si rappresenta lo spazio con le parole? Il problema ha una sua storia e la tradizione retorica rubrica le tecniche di rappresentazione verbale dello spazio (come di ogni altra esperienza visiva) sotto il nome di ipotiposi o di evidentia, talora identificata con, e talora giudicata affine a, la illustratio, la demonstratio, l'ekphrasis o descriptio, l'enargheia, ecc. Sfortunatamente tutte le definizioni dell'ipotiposi sono circolari, vale a dire che definiscono come ipotiposi quella figura mediante la quale si rappresentano o si evocano esperienze visive attraverso procedimenti verbali. Si vedano le definizioni, dovute ai massimi rappresentanti della retorica classica, da Ermogene a Longino, da Cicerone a Quintiliano, che traggo dal Lausberg senza preoccuparmi delle paternità, tanto l'una sembra riprendere l'altra: (i) credibilis rerum imago quae velut in rem praesentem perducere audientes videtur, (ii) proposita forma rerum ita expressa verbis ut cerni potius videatur quam audiri, (iii) quae tam dicere videtur quam ostendere, praesentans oculis quod demonstrat, (iv) quasi gestarum sub oculis inductio - e via dicendo. Ho sotto gli occhi (ma questa volta nel senso letterale del termine) il testo sull'ipotiposi presentato da Hermann Parret alla Décade di Cerisy svoltasi il luglio scorso, (2) e anche qui la spedizione nella foresta dei teorici più moderni non mi pare dare risultati apprezzabili. Dumarsais ci ricorda che ipotiposi significa immagine, o quadro e si ha «quando, nelle descrizioni, si dipingono i fatti di cui si parla come se quello che vien detto fosse davvero

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davanti agli occhi; si mostra, per così dire, quello che si racconta...» (Des Tropes), e che per altri tale figura di stile «fa toccar col dito» la realtà - bella metafora, invero, ma usare una figura per definirne un'altra è un po' poco. Tanto più che, teste Aristotele, una figura che quasi mette le cose sotto gli occhi sarebbe la metafora - e nessuno vorrà dire che la metafora sia la stessa cosa dell'ipotiposi. La verità è che se le figure retoriche debbono dare brillantezza, vivacità, persuasività al discorso, e se orazianamente si deve ammette che la poesia sia ut pictura, allora tutte le figure in qualche modo, sorprendendo chi legge o ascolta, mettono qualcosa sotto gli occhi. Ma se così fosse, e se questa metafora fosse troppo generica, dove finirebbe allora l'ipotiposi? Per fortuna, proprio là dove i teorici sono incapaci di dirci che cosa sia l'ipotiposi, sono quasi sempre in grado di fornircene bellissimi esempi. I primi tre provengono da Quintiliano (Institutio Oratoria VIII, 3, 63-69). Il primo rinvia a un verso dell'Eneide (V, 426) dove due pugili «stettero l'uno e l'altro subito ritti sulle punte dei piedi». Il secondo cita le Verrine (5, 33, 86): «Stette sul litorale, calzato di sandali, con un pallio rosso e una tunica lunga sino ai piedi, appoggiato ad una donnina, il pretore del popolo romano,» e Quintiliano si chiede se qualcuno sarà così privo di fantasia da non vedere il luogo, e i protagonisti, e anche più di quanto viene detto, e il viso e gli occhi e le oscene carezze e il disagio dei presenti. Il terzo esempio, sempre da Cicerone, frammento dell'orazione per Q. Gallio, si riferisce a un convito di dissoluti: «Mi pareva di veder gente che entrava, gente che usciva, alcuni che barcollavano ubriachi, altri che sbadigliavano per effetto della sbornia del giorno avanti. Il pavimento era sporco, imbrattato di vino, coperto di corone di fiori appassiti e di lische di pesci.» Il quarto esempio recita: «Indubbiamente, infatti, chi dice che è stata espugnata una città, vi associa l'idea di tutte le disgrazie che una tale calamità suol comportare, ma questa specie di annuncio conciso non crea profonda commozione. Se, invece, i concetti compresi in una sola parola avranno modo di espandersi, appariranno le fiamme dilaganti per case e templi e il fragore degli edifici crollanti e l'indistinto uniforme rumorio prodotto da vari suoni, la fuga incerta degli uni, gli ultimi disperati abbracci degli altri, e gli ululati dei bambini e delle donne, e i vecchi rimasti, malauguratamente per loro, vivi sino a quel giorno; e poi la devastazione delle cose profane e sacre, lo sciamare di coloro che portano via la preda e che ritornano a cercarne altre, e i prigionieri spinti ciascuno davanti al suo aguzzino, in catene, e la madre che cerca di non farsi portare via il suo bambino, e la zuffa tra i vincitori...» Parimenti, Dumarsais ci suggerisce come esempio di ipotiposi il brano di Fedra, V, 6: Cependant sur le dos de la plaine liquide S'élève à gros bouillons une montagne humide; L'onde s'approche, se brise, et vomit à nos yeux, Parmi les flots d'écume, un monstre furieux;

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Son front large est armé de cornes menaçantes Tout son corps est couvert d'écailles jaunissantes; Indomptable taureau, dragon impétueux, Sa croupe se recourbe en replis tortueux... Sulla pianura liquida, imponente, S'alza un'umida montagna ribollente; L'onda s'appressa, si rompe, dal flutto schiumoso Ai nostri occhi vomita un mostro furioso. La vasta fronte è armata di corna minaccianti; Il suo corpo è coperto di scaglie biondeggianti; Toro indomabile, drago impetuoso, La sua groppa è un groviglio tortuoso... (3) Se riflettiamo sui quattro esempi di Quintiliano, vediamo che nel primo si nomina soltanto una postura fisica (e per così dire si invita il lettore a immaginare la scena); nel secondo si descrive una posa con qualche malizia - si accosta la solennità del pallio rosso alla volgarità di quella donnina (muliercula), inducendo il destinatario ad avvertire qualcosa che stride; nel terzo quello che rende la descrizione interessante non ne è solo la maggior precisione e lunghezza ma la sgradevolezza delle cose descritte (non dimentichiamo che, nella mnemotecnica classica, una immagine mostruosa o terribile aveva più possibilità di essere ricordata e quindi rievocata al momento opportuno); nel quarto non si reca un esempio specifico, ma si suggerisce come potrebbe essere l'ampia e concitata descrizione di una lunga sequenza di azioni, e di proposito parlo del succedersi drammatico di queste azioni come di una sequenza cinematografica. Nel caso del brano raciniano abbiamo qualcosa di ancora più complesso, la descrizione di varie fasi di un evento naturale, ma con zoomorfizzazione continua di ciascuna delle forme ondose che si susseguono. Difficile sottrarsi alla tentazione, o al gusto, di immaginarle visivamente. Potrebbe sembrare irriverente evocare il Walt Disney della fuga nel bosco di Biancaneve (e l'irriverenza si attenuerebbe se supponessimo che Walt Disney avesse presenti procedimenti poetici di questo tipo) ma in verità sia Racine che Walt Disney non stanno facendo altro che seguire una delle tendenze più naturali dell'essere umano, quella di dare consistenza alle ombre, ovvero di vedere forme animate e minacciose nell'informe oscuro di una natura esagitata (e giustamente Parret a questo proposito vede l'ipotiposi come una delle figure che concorrono alla produzione del Sublime). Quello che mi pare si possa comunque dire è che in questi esempi ci troviamo di fronte a tecniche descrittive e narrative diverse, che hanno in comune soltanto il fatto che il destinatario ne trae una impressione visiva (se vuole - se intende cioè collaborare col testo). Il che mi permette di dire che quindi l'ipotiposi come figura retorica specifica non esiste. Il linguaggio ci consente di descrivere volti, forme, pose, «scene», sequenze di azioni, ce lo consente continuamente nel corso della nostra attività quotidiana

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(altrimenti non potremmo neppure dire «vammi a prendere per favore nel deposito attrezzi quella cosa che si presenta così e così») e a maggior ragione ci incoraggia a farlo per ragioni artistiche, ma ce lo consente grazie a tecniche multiple, non riducibili a una formula o istruzione, come può avvenire per tropi e figure retoriche propriamente dette come la sineddoche, l'iperbato, lo zeugma e persino - in qualche misura - la metafora. Non resterebbe allora che procedere a una tipologia di tecniche di rappresentazione/evocazione dello spazio. Se non fosse che occorrerebbe a questo punto domandarci che cosa si intenda per spazio - e senza poter evitare di porci una domanda analoga circa il tempo.

Ci sono spazio e tempo newtoniani come entità assolute, spazio e tempo kantiani come intuizioni pure e condizioni a priori dell'esperienza, c'è l'opposizione bergsoniana tra tempo degli orologi e tempo della durata interiore, c'è lo spazio misurabile della geometria cartesiana e lo spazio vissuto della fenomenologia. Non si tratta di privilegiare l'uno o l'altro, visto che il linguaggio ci permette sempre di parlarne, e si può dire con disinvoltura quanti milioni di chilometri ci sono da percorrere per arrivare ad Alpha Centauri oppure farci vivere (patire) un viaggio interminabile tra Firenze e Fiesole, per non dire di un viaggio intorno alla propria camera (nel Tristram Shandy la discussione tra due persone che scendono una scala occupa tre capitoli). A voler riscrivere oggi (dopo l'invenzione di nuove tecniche rappresentative, come il cinema) il Laocoonte di Lessing, ci sarebbe da chiedersi se ha ancora senso una divisione tra arti del tempo e arti dello spazio e - se la si prende ancora per buona - chiedersi come possano le arti dello spazio rappresentare il tempo e come possano le arti del tempo rappresentare lo spazio.

Per intanto, possono nascere molte riflessioni su come le arti dello spazio rappresentino lo spazio. Ne è esempio principe la prospettiva, dove una superficie fisica bidimensionale produce tridimensionalità come proprio contenuto, e dove una porzione minima di spazio dell'espressione può esprimere uno spazio amplissimo, come scopre chi, dopo averla a lungo contemplata in riproduzioni varie, vede finalmente la Flagellazione di Piero al Palazzo Ducale di Urbino, e si stupisce di come quello spazio, percepito come vastissimo, sia contenuto in una cornice così piccola. Come le arti dello spazio rappresentino il tempo, o addirittura implichino il tempo della propria contemplazione, ho trattato in altra sede. (4) La fenomenologia è vasta, e prevede anzitutto una analisi dei diversi rapporti tra quelle che Genette chiama spazialità significante e spazialità significata (e che per ragioni che si chiariranno dopo preferirei indicare come spazialità dell'espressione e spazialità del contenuto). Ci sono quadri che suggeriscono una

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sorta di congelamento dell'istante, come quella annunciazione del Lotto in cui il gesto di sorpresa di Maria è colto nell'istante in cui un gatto balza attraverso la stanza, o un taglio di Fontana, istantanea del movimento fulmineo della lametta che ha lacerato la tela tesa. Ma, a ben riflettere, non vi è nulla di singolare nel fatto che una porzione circoscritta di spazio, di per sé intemporale, esprima un istante. Il problema nasce quando ci si chiede come attraverso porzioni di spazio si esprima un tempo lungo. E si scopre che, in genere, per esprimere molto tempo ci vuole molto spazio. Ci sono storie pittoriche che rappresentano un succedersi anche secolare di eventi attraverso una serie di inquadrature, come accade nei fumetti; altre attraverso la riproposta visiva degli stessi personaggi in acconciature, situazioni ed età diverse; e sono tutti casi in cui occorre abbondare in spazio per rendere un'abbondanza di tempo, e non solo abbondare nello spazio significante, ma anche nello spazio (non semantico ma pragmatico) che il fruitore deve percorrere. Per cogliere il decorrere del tempo nella serie dell'Invenzione della Croce di Arezzo bisogna muoversi, e non solo con lo sguardo, ma anche coi piedi, e ancor più occorre camminare se si vuole seguire tutta la storia raccontata dall'arazzo di Bayeux. Ci sono opere che richiedono un lungo tempo di circumnavigazione e una lunga attenzione ai loro minutissimi particolari, come una cattedrale gotica. Una scultura che si presenti come un piccolo cubo d'avorio può essere vissuta in un attimo di contemplazione (anche se credo che richieda di essere toccata e ruotata per coglierne tutte le facce), ma un cubo in cui ogni faccia sia di un milione per un milione di chilometri deve essere circumnavigato, forse con l'astronave di Odissea nello spazio, altrimenti non se ne coglierebbe la sublimità megagalattica.

Se dunque per rappresentare molto tempo ci vuole molto spazio, non accadrà (con le arti del tempo) che per rappresentare molto spazio ci voglia molto tempo? Limitiamo anzitutto il tema. Non ci chiederemo, per esempio, se la musica possa esprimere lo spazio, anche se intuitivamente risponderemmo di sì. Anche a non voler essere descrittivisti a ogni costo, è difficile negare che la Sinfonia dal Nuovo Mondo di Dvo¬ràk o La Moldava di Smetana suggeriscano distese spaziali, a tal punto che il direttore d'orchestra è portato a dirigere con gesti ampi e morbidi, quasi a suggerire una «fluenza», e che la loro lunghezza contribuisce alla creazione dell'effetto. Certamente certe musiche impongono la piroetta, altre il salto, altre la passeggiata, e dunque ci sono strutture ritmiche che determinano o mimano movimenti corporali mediante i quali noi ci muoviamo nello spazio - altrimenti non esisterebbe la danza. Ma limitiamoci al discorso verbale. Riprendiamo pure la distinzione tra spazio dell'espressione e spazio del contenuto, sottolineando il fatto che dovremo interessarci non tanto alla forma dell'espressione quanto alla sua sostanza.

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Lo abbiamo visto, per quanta sia la buona volontà di Quintiliano, dire di due pugili che stanno ritti sulla punta dei piedi non ci pare una grande ipotiposi, mentre descrivere evento per evento e attimo per attimo l'invasione e il sacco di una città ci pare più visivamente evocativo. Ma questa descrizione implica una quantità di pagine (o almeno di versi). Quindi, parlando di espressione spaziale non penserei a quei casi in cui, a livello dell'espressione, viene nominato dello spazio che, a livello del contenuto, non è più spazio ma qualcosa d'altro, e per accidente potrebbe anche essere decorso di tempo, come accade in espressioni quali la linea del partito, è una brutta prospettiva, una grande cultura, seguiva il ragionamento passo per passo, ha preso una cattiva strada, nel mezzo della notte - e si veda quanto scrivono Lakoff e Johnson di queste metafore spaziali. (5) Penso a fenomeni di sostanza dell'espressione, la cui quantità incide sulla spazialità espressa. Voglio semplicemente dire che tra nominare una valle amena e il descriverla per cento pagine dovrebbe accadere qualcosa a livello del contenuto e, in altri termini, di quella valle dovremmo vedere qualcosa di più. Esaminiamo alcune tecniche di espressione verbale dello spazio.

1. Denotazione. E' la forma più semplice, immediata, meccanica, come quando si afferma che tra un luogo e l'altro ci sono venti chilometri di distanza. Naturalmente è facoltà del destinatario, se vuole, associare una immagine al contenuto concettuale appreso (magari la propria immagine di podista, accaldato, se l'informazione riguarda una zona priva di servizi di trasporto), ma non si può dire che di per sé l'enunciato faccia qualcosa per obbligare il destinatario a immaginarsi quello spazio.

2. Descrizione minuta. Diversamente già accade con uno spazio descritto, come quando si dica di una piazza che ha una chiesa a destra e un palazzo antico a sinistra. Si noti che la semplice menzione della rispettiva posizione delle due costruzioni sarebbe già indicazione sufficiente a farci riconoscere la piazza in questione, e pertanto bisognerebbe dire che ogni descrizione di oggetti visibili è di per sé ipotipotica. Tuttavia immaginiamo che nella città in cui ci viene data l'indicazione esistano due piazze con chiesa e palazzo, ed ecco che la forza ipotipotica della descrizione diminuirebbe. Si tratterebbe allora di fornire più dettagli. Ma eccoci di fronte a un problema di quantità: quanti debbono essere i dettagli? Abbastanza per incoraggiare il destinatario a costruirsi una immagine, ma non troppi, perché in tal caso l'immagine sarebbe incostruibile. Si veda il caso di questa descrizione da Le voyeur di Robbe-Grillet: Le bord de pierre - une arête vive, oblique, à l'intersection de deux plans perpendiculaires: la paroi verticale fuyant tout droit

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vers le quai et la rampe qui rejoint le haut de la digue - se prolonge à son extrémité supérieure, en haut de la digue, par une ligne horizontale fuyant tout droit vers le quai. Le quai, rendu plus lointain par l'effet de perspective, émet de part et d'autre de cette ligne principale un faisceau de parallèles qui délimitent, avec une netteté encore accentuée par l'éclairage du matin, une série de plans allongés, alternativement horizontaux et verticaux: le sommet du parapet massif protégeant le passage du côté du large, la paroi intérieure du parapet, la chaussée sur le haut de la digue, le flanc sans garde-fou qui plonge dans l'eau du port. Les deux surfaces verticales sont dans l'ombre, les deux autres son vivement éclairées par le soleil - le haut du parapet dans toute sa largeur et la chausée à l'exception d'une étroite bande obscure: l'ombre porté du parapet. Théoriquement on devrait voir encore dans l'eau du port l'image renversée de l'ensemble et, à la surface, toujours dans le même jeu de parallèles, l'ombre portée de la haute paroi verticale qui filerait tout droit vers le quai.

Il bordo di pietra - uno spigolo vivo, obliquo, all'intersezione di due piani perpendicolari: la parete verticale che fugge dritta verso la banchina e la rampa che raggiunge la parte alta della diga all'estremità superiore (la parte alta della diga) continua in una linea orizzontale che fugge dritta verso la banchina. La banchina, che l'effetto di prospettiva allontana, emette dall'una e dall'altra parte di questa linea principale un fascio di parallele che, con una precisione ancora accresciuta dalla luce del mattino, delimitano una serie di piani allungati, alternativamente orizzontali e verticali: il piano superiore del massiccio parapetto che protegge il passaggio dalla parte del largo, la sua parete interna, il lastricato sulla parte alta della diga, la fiancata non protetta che si tuffa nell'acqua del porto. Le due superfici verticali sono nell'ombra, le altre due vivamente rischiarate dal sole; il piano superiore del parapetto in tutta la sua larghezza, e il lastricato ad eccezione di una stretta striscia scura: l'ombra proiettata dal parapetto. Teoricamente nell'acqua del porto si dovrebbe inoltre vedere l'immagine rovesciata dell'insieme, e in superficie, sempre nello stesso sistema di parallele, l'ombra proiettata dall'alta parete verticale filare dritta verso la banchina. (6) Questo brano (ma la descrizione continua per quasi due pagine) è interessante perché dice troppo, e dicendo troppo impedisce al lettore di costruirsi una immagine (se non, per alcuni, a prezzo di numerosi sforzi e intensa concentrazione). Il che ci indurrebbe a concludere che, perché ipotiposi ci sia, non bisogna dire più di quello che possa indurre il destinatario a collaborare colmando spazi vuoti e aggiungendo particolari di propria iniziativa. Detto altrimenti, l'ipotiposi, più che far vedere, deve fare venire voglia

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di vedere. Ma dove individuare una regola? Nel caso di Robbe-Grillet potremmo dire che il brano volutamente fallisce nel far vedere (interessante provocazione per un testo intitolato al voyeur e appartenente a una école du regard) perché non offre l'aggancio di alcuna pertinenza: tutto ha la stessa importanza di tutto. Cosa significa offrire pertinenze? Potrebbe voler dire sottolineare verbalmente, in un certo senso comandare, una reazione passionale («vi era al centro della piazza qualcosa di spaventevole...»), oppure insistere su un particolare a scapito di altri. Gli esempi potrebbero essere infiniti e mi limiterò a un brano che ha provocato migliaia di tentativi di traduzione visiva, da Apocalisse, 4: Ed ecco un trono stava eretto nel cielo, e sul trono Uno assiso. Colui che era assiso rassomigliava nell'aspetto a diaspro e sardonio, e un'iride avvolgeva il trono, simile a smeraldo. E attorno al trono c'erano ventiquattro seggi, e sui seggi stavano ventiquattro vegliardi, avvolti in candide vesti, e sul loro capo delle corone d'oro. E dal trono escono lampi, voci e tuoni; e sette lampade accese ardono davanti al trono; sono i sette spiriti di Dio. E davanti al trono, come un mare di vetro simile a cristallo. E in mezzo al trono e intorno al trono, quatto Viventi pieni d'occhi davanti e di dietro... (7) Ipotiposi, se mai ve ne furono. Eppure la descrizione non descrive tutto, si arresta solo su emergenze; dei vegliardi si nominano solo le vesti e le corone, non gli occhi o le barbe.

3. Elenco. Ecco una tecnica che indubbiamente conduce all'evocazione di immagini spaziali senza creare pertinenze. Tre esempi, uno classico, o almeno della tarda latinità, e due moderni. Ecco la descrizione della città di Narbona in Sidonio Apollinare: Salve Narbo, potens salubritate, urbe et rure simul bonus videri, muris, civibus, ambitu, tabernis, portis, porticibus, foro theatro, delubris, capitoliis, monetis, thermis, arcubus, horreis, macellis, pratis, fontibus, insulis, salinis, stagnis, flumine, merce, ponte, ponto; unus qui venerere iure divos Laeneum, Cererem, Palem, Minervam spicis, palmite, pascuis, trapetis. Ti saluto, Narbona celebre per la tua salubrità, abitato o campagna, ugualmente gradita a vedersi: mura, cittadini, circonvallazione, vetrine, porto, portici, piazza, teatro, templi, edifici pubblici, banche, terme, archi, depositi, mercati,

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prati, fontane, isole, saline, stagni, fiume, fiera, ponte, mare; unica città che veneri a buon diritto gli dèi Leneo, Cerere, Pale, Minerva, con le spighe, i pampini, i pascoli, i frantoi. (8) Ed ecco un solo brano della descrizione dei cassetti della cucina di Leopold Bloom nel penultimo capitolo dello Ulysses: What did the first drawer unlocked contain? A Vere Forster's handwriting copybook, property of Milly (Millicent) Bloom, certain pages of which bore diagram drawings, marked Papli, which showed a large globular head with 5 hairs erect, 2 eyes in profile, the trunk full front with 3 large buttons, 1 triangular foot: 2 fading photographs of queen Alexandria of England and of Maud Branscombe, actress and professional beauty: a Yuletide card, bearing on it a pictorial representation of a parasitic plant, the legend Mizpah, the date Xmas 1892, the name of the senders: from Mr+Mrs M. Comerford, the versicle: May this Yuletide bring to thee, Joy and peace and welcome glee: a butt of red partly liquefied sealing wax, obtained from the stores department of Messrs Hely's, Ltd., 89, 90, and 91 Dame Street: a box containing the remainder of a gross of gilt «J» pennibs, obtained from same department of same firm: an old sandglass which rolled containing sand which rolled: a sealed prophecy (never unsealed) written by Leopold Bloom in 1886 concerning the consequences of the passing into law of William Ewart Gladstone's Home Rule bill of 1886 (never passed into law): a bazaar ticket, no 2004 of St. Kevin's Charity Fair, price 6d, 100 prizes...

Che cosa conteneva il primo cassetto da lui aperto? Un quaderno da calligrafia Vere Forster, proprietà di Milly (Millicent) Bloom, alcune pagine del quale portavano disegni diagrammatici con l'iscrizione Papalino, che mostravano una gran testa globulare con cinque peli ritti, 2 occhi di profilo, il tronco visto di fronte con 3 grossi bottoni, 1 piede triangolare: 2 fotografie sbiadite della regina Alessandra d'Inghilterra e di Maud Branscombe, attrice e bellezza alla moda: una cartolina di Natale con una rappresentazione pittorica di una pianta parassita, la leggenda Mizpah, la data Natale 1892, il nome dei mittenti; da parte del signore e della signora Comerford, i versetti: Possa questo Natale a voi portare, Pace gioia e letizia al focolare: un pezzetto di ceralacca rossa in parte liquefatta proveniente da Hely & C., s.r.l., 89, 90 e 91 Dame street: una scatola contenente il rimanente di una grossa di pennini dorati «J» proveniente dallo stesso reparto della stessa ditta: una vecchia clessidra capovolgibile contenente sabbia capovolgibile: una profezia sigillata (mai dissigillata) scritta da Leopold Bloom nel 1886 riguardante le conseguenze dell'approvazione del progetto di legge sull'Autonomia irlandese di William Ewart Gladstone nel 1886 (mai approvato): un biglietto di pesca di beneficenza n. 2004, Fiera di Beneficenza di St. Kevin, prezzo 6

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pence, 100 premi... (9) E qui l'elenco continua per pagine e pagine. Se per Narbona possiamo dire che la teoria degli elementi architettonici funziona come una panoramica cinematografica suggerendo una forma (oggi diremmo almeno una skyline), per Joyce è solo la gargantuesca abbondanza di oggetti irrilevanti che ci spalanca di fronte agli occhi l'insondabile profondità, la rizomatica ricchezza di quel cassetto. Si veda la descrizione di un altro cassetto, quello della vecchia zia nel capitolo «Othys» di Sylvie di Nerval: Elle fureta de nouveau dans les tiroirs. Oh! que de richesses! que cela sentait bon, comme cela brillait, comme cela chatoyait de vives couleurs et de modeste clinquant! deux éventails de nacre un peu cassés, des boites de pâte à sujets chinois, un collier d'ambre et mille fanfreluches, parmi lesquelles éclataient deux petits souliers de droguet blanc avec des boucles incrustées de diamants d'Irlande!

Curiosò di nuovo nei cassetti. Che meraviglie! Come tutto sapeva di buono, come brillava e gatteggiava di colori vivaci quella cianfrusaglia! Due ventagli di madreperla un poco rovinati, delle scatole di porcellana dai motivi cinesi, una collana d'ambra e mille fronzoli, tra cui brillavano due scarpini di lana bianca con fibbie incrostate di diamantini d'Irlanda. (10) Certo noi vediamo scintillare nel cassetto quelle buone cose di pessimo gusto su cui s'incantano i due giovani visitatori, e le vediamo perché scattano delle pertinenze - ovvero degli oggetti vengono sottolineati a spese di altri: ma allora perché vediamo il cassetto di Bloom dove nessun oggetto acquista una funzione privilegiata? Direi che Nerval vuole farci vedere quello che c'è nel cassetto mentre Joyce vuole farci vedere l'insondabilità del cassetto. Non so se il lettore riesca a vedere il cassetto di Bloom meglio del molo di Robbe-Grillet, dal momento che entrambi sono privi di pertinenze. Potremmo però dire che Robbe-Grillet mette insieme oggetti che di per sé non sono sorprendenti, come una banchina, un parapetto, dei piani e delle linee, mentre Joyce mette insieme cose mutuamente incongrue e per ciò stesso sorprendenti e inattese. In qualche modo (presumo) il lettore o pertinentizza un insieme sregolato, o opera delle scelte (magari fissa la sua attenzione sulla clessidra), e così facendo collabora a costruire immagini.

4. Accumulo. Un'altra tecnica (e già lo suggeriva Quintiliano nel suo terzo esempio) è l'accumulo concitato di eventi. Gli eventi debbono essere o incongrui o eccezionali. Naturalmente intervengono elementi di ritmo, ed ecco perché questa ipotiposi da Rabelais (Gargantua I, 27, nella efficace traduzione di Mario Bonfantini) ci fa vedere la scena (mentre non ce la farebbe vedere un procedimento

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meramente elencatorio come il gustosissimo elenco di «coglioni» in II, 26 e 28, più godibile fonicamente, che non visivamente): Es uns escarbouilloyt la cervelle, es aultres rompoyt bras et jambes, es aultres deslochoyt les spondyles du coul, es aultres demoulloyt les reins, avalloyt le nez, poschoyt les yeulx, fendoyt les mandibules, enfonçoit les dens en la gueule, descroulloyt les omoplates, sphaceloyt les greves, desgondoit les ischies, debezilloit les fauciles. Si quelqu'un se vouloyt casher entre les sepes plus espès, à icelluy freussoit toute l'areste du douz et l'esrenoit comme un chien. Si aulcun saulver se vouloyt en fuyant, à icelluy faisoyt voler la teste en pieces par la commisure lambdoide. Si quelq'un gravoyt en une arbre, pensant y estre en seureté, icelluy de son baston empaloyt par le fondement. [...] A d'aultres donnant suzla faulte des coustes, leurs subvertissoyt l'estomach, et mouroient soubdainement. Et aultres tant fierement frappoyt par le nombril qu'il leurs faisoyt sortir les tripes. Es aultres parmy les couillons persoyt le boiau cullier. Croyez que c'estoyt le plus horrible spectacle qu'on veit onques [...] Les ungs mouroient sans parler, les autres parloient sans mourir. Les ungs mouroient en parlant, les altres parloint en mourant...

E agli uni spappolava il cervello, agli altri rompeva braccia e gambe, a un terzo dislocava gli spondili del collo, o spaccava le reni, fendeva il naso, crepava gli occhi, fracassava le mandibole, cacciava i denti in gola, sconquassava gli omoplati, sfracellava le gambe, slogava gli ischi, staccava gli arti dal tronco. Se qualcuno cercava di nascondersi fra i pampini più spessi, a quello rompeva il filon della schiena, srenandolo come un cane. Se qualcun altro cercava di salvarsi fuggendo, gli faceva volar la testa a pezzi fracassandogli la sutura lamboidale. Se qualcuno si arrampicava su un albero, credendo di trovarsi al sicuro, lo impalava per il didietro col suo bastone [...]. Ad altri, dando sotto le costole, metteva a soqquadro lo stomaco, e morivan di colpo. Altri colpiva così fieramente all'ombelico che ne faceva uscir fuori la trippa. Ad altri, attraverso i coglioni, trafiggeva il budello culare. Credete che era il più tremendo spettacolo che si fosse mai visto [...] Gli uni morivano senza parlare, gli altri parlavano senza morire; e chi moriva parlando e chi parlava morendo. (11)

5. Descrizione con richiamo a esperienze personali del destinatario. Questa tecnica chiede al destinatario di convogliare nel discorso quello che ha già visto e patito. Essa non solo attiva schemi cognitivi preesistenti ma anche preesistenti esperienze corporali. Proporrei come esempio principe una delle tante pagine di Flatland di Abbott: Place a penny in the middle of one of your tables in Space; and

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leaning over it, look down upon it. It will appear a circle. But now, drawing back to the edge of the table, gradually lower our eye (thus bringing yourself more and more into the condition of the inhabitants of Flatland), and you will find the penny becoming more and more oval to your view; and at last when you have placed your eye exactly on the edge of the table (so that you are, as it were, actually a Flatland citizen) the penny will then have ceased to appear oval at all, and will have become, so far as you can see, a straight line.

Posate una monetina nel mezzo di uno dei vostri tavolini nello Spazio, e chinatevi a guardarla dall'alto. Essa vi apparirà come un cerchio. Ma ora, ritraendovi verso il bordo del tavolo, abbassate gradatamente l'occhio (avvicinandovi così sempre più alle condizioni degli abitanti della Flatlandia), e vedrete che la monetina diverrà sempre più ovale; finché da ultimo, quando avrete l'occhio precisamente all'altezza del piano del tavolino (cioè, come se foste un autentico abitante della Flatlandia), la moneta avrà cessato di apparire ovale, e sarà divenuta, per quanto potrete vederla, una linea retta. (12) Fa parte di questa tecnica l'evocazione di esperienze interocettive e propriocettive del destinatario. Si tratta in altri termini di richiamare il destinatario a esperienze in cui ha patito la fatica del procedere attraverso uno spazio. Vorrei citare in proposito questi due versi di Blaise Cendrars dalla Prose du transsibérien (a proposito, si tratta di un testo che, dovendo parlare di un viaggio, e lunghissimo, usa molte delle tecniche che ho già definito, dall'elenco alla descrizione minuta). A un certo punto Cendrars ricorda che Toutes les femmes que j'ai rencontrées se dressent aux horizons Avec les gestes piteux et les regards tristes des sémaphores sous la pluie... Se teniamo presente che in francese i sémaphores non sono i nostri semafori urbani (che per i francesi sono feux rouges) ma segnali lungo la via ferrata, chi ha avuto esperienza di treni che procedono lentamente nelle notti di nebbia, potrà evocare queste forme fantasmatiche che scompaiono lentamente nel piovischio, quasi in dissolvenza, mentre si guarda da un finestrino la campagna immersa nel buio, seguendo il ritmo ansimante del convoglio (la cadenza di carioca evocata da Montale in «Addio, fischi nel buio»). Il problema interessante è piuttosto quanto possa apprezzare questi versi chi è nato nell'epoca di treni rapidi coi finestrini ermeticamente chiusi (in cui non esiste neppure più l'interdizione trilingue che vieta di sporgersi). Come si reagisce a un'ipotiposi che sollecita il ricordo di qualcosa che non si è mai visto? Direi facendo finta di averlo visto, e proprio in base agli elementi che

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l'espressione ipotipotica ci provvede. I due versi appaiono in un contesto in cui si parla di un treno che va, per giorni e giorni e per pianure sterminate, i semafori (nominati) in qualche modo ci rinviano a occhi che scintillano nel buio, e l'accenno agli orizzonti ce li fa immaginare perduti in una lontananza che il moto del treno non può ingrandire, momento per momento... D'altra parte anche chi conosca solo i rapidi di oggi, ha scorto dal finestrino luci che scomparivano nella notte. Ed ecco che l'esperienza da ricordare tentativamente si profila: l'ipotiposi può anche creare il ricordo di cui necessita per potersi realizzare. D'altro canto, se è pur vero che chi ha avuto l'esperienza del primo bacio può assaporare bene un verso come la bocca mi baciò tutta tremante, diremmo che non possono fare finta di averla patita colorò che leggessero di un primo bacio per la prima volta? A volerlo negare, non si spiegherebbe né il fallo né il tremore di Paolo e Francesca, vittime quali furono (a loro volta) di una bella ipotiposi. Se così avviene, possiamo allora registrare sotto questa rubrica anche i casi in cui l'ipotiposi ci impone di immaginare esperienze non umane. Tale il caso della frattalizzazione dello spazio a passo di formica, di cui trovo un bell'esempio in The Love song of James P. Prufrock di Eliot: The yellow fog that rubs its back upon the window-panes, The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panes Licked its tongue into the corners of the evening, Lingered upon the pools that stand in drains, Let fall upon its back the soot that falls from chimneys, Slipped by the terrace, made a sudden leap, And seeing that it was a soft October night, Curled once about the house, and fell asleep. La nebbia gialla che strofina il dorso sui vetri della finestra, Il fumo giallo che strofina il muso sui vetri della finestra Lambì con la lingua gli angoli della sera, Esitò sulle pozze delle fogne, Si lasciò cadere sul dorso la fuliggine dei camini, Scivolò dalla terrazza, fece un salto improvviso, E vista la morbida sera d'ottobre, S'inanellò intorno alla casa, e s'assopì. (13) In questo caso, se il viaggiatore umano procede troppo in fretta per rendersi conto di come siano i muri e gli angoli delle vie di Londra, si chiede al lettore di immaginare a quale velocità possa procedere la nebbia. Questo implica che si legga rallentando, per così dire, il passo, e seguendo ogni anfratto di muro e spigolo di finestra - esattamente come accadrebbe se ci si chiedesse di immaginare come una formica proceda per i tourniquets di una frazione di spazio che noi copriamo, in un attimo, con la pianta del nostro piede.

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Non è mia intenzione esaurire nello spazio di un intervento così breve l'inesauribile tipologia dell'ipotiposi. Suggerisco solo alcune direzioni di ricerca. Si potrebbero analizzare le diverse tecniche di focalizzazione. Per esempio andrebbe riletta la bellissima analisi che Joseph Frank, in epoca veramente presemiotica, aveva fatto della festa dei comizi in Madame Bovary - dove i tre piani della piazza, del palco e della stanza vengono montati, per così dire, in simultanea, ovvero in una sorta di montaggio alla Griffith, creando attraverso questa scansione temporale un effetto visivo. (14) Si dovrebbe ovviamente rinviare alle due battaglie di Waterloo, quella di Stendhal (vista da un Fabrizio del Dongo che vi sta dentro, e si perde negli spazi che percorre a caso, mentre gli sfugge lo spazio globale dello scontro), e quella dei Miserabili, vista dall'alto da un Hugo onnisciente che analizza anche gli spazi che Napoleone non vede. In altra sede (15) ho parlato dei diversi punti di vista che via via creano lo spazio di «quel ramo del lago di Como» - là dove una particolare sintassi corrobora il gioco dei punti di vista. Varrebbe la pena di seguire passo per passo la visione dei tre alberi nel corso della passeggiata in carrozza in All'ombra delle fanciulle in fiore, per cogliere un duplice fenomeno: uno spostarsi successivo del punto di vista e l'inframmezzare la descrizione spaziale con altre riflessioni che prendono tempo (di lettura) e spazio (di scrittura) onde rendere effettivo il senso del viaggio, e giustificare la lenta e progressiva mutazione dell'angolo visuale.

Si potrebbe continuare, ma vale la pena di tentare, a modo di conclusione, di dire che cosa accomuni queste diverse tecniche e di conseguenza queste diverse manifestazioni dell'ipotiposi. Lo si è già accennato a varie riprese e non si tratta che di tirare le fila. L'ipotiposi non si basa su una regola semantica, come accade per i tropi e le figure di discorso, tale che - se la si disconosce - non si comprende che cosa ci venga detto. Quando la metonimia nomina il contenente per il contenuto («beviamoci un bicchiere»), se il destinatario ignora la regola, ritiene (stolidamente) che lo si inviti a sorseggiare un oggetto solido. Se per similitudine o metafora si dice che una fanciulla è una cerbiatta, l'insipiente che ignora la regola noterà con stupore che la nominata non è né quadrupede né ha materia cornea sulla fronte. Ma di solito questi equivoci non si danno, se non in racconti comici o surreali. Invece, di fronte a tutti i casi di ipotiposi sin qui citati, il destinatario può benissimo evitare di collaborare a visualizzare. Può limitarsi a cogliere che gli si sta dicendo che una città viene messa a sacco, che un cassetto è pieno di cianfrusaglie, che un tal frate Giovanni era un ammazzasette. Abbiamo anzi insinuato che nel caso di Robbe-Grillet possa rifiutarsi di vedere qualcosa di preciso, e forse debba, perché probabilmente l'autore voleva stimolare questo rifiuto ad attualizzare un eccesso di visibile.

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L'ipotiposi sarebbe dunque (tra l'altro, in quanto figura di pensiero che come l'ironia e altre consorelle richiede complesse strategie testuali e non è mai esemplificabile attraverso una citazione rapida, una formula) un fenomeno semantico-pragmatico, esempio principe di cooperazione interpretativa. Non tanto rappresentazione quanto piuttosto tecnica per suscitare lo sforzo di comporre una rappresentazione visiva (da parte del lettore). E infatti, perché dovremmo pensare che le parole facciano vedere, visto che sono state inventate proprio per parlare di ciò che non è sotto i nostri occhi e non può essere indicato col dito? Il massimo che le parole possono fare (perché producono effetti passionali) è indurci ad immaginare. L'ipotiposi usa le parole per sollecitare il destinatario a costruire una rappresentazione visiva. Prova ne siano i drammi di quell'esercizio che è l'opposto dell'ekfrasi (descrizione a parole di una immagine) ed è la «traduzione», la materializzazione visiva di quanto un testo verbale dava a immaginare. Torniamo alla descrizione dell'Apocalisse che ho già citato. Il dramma di tutti i miniatori mozarabici (illustratori di quegli splendidi commenti all'Apocalisse noti come Beati) è stato quello di rappresentare quei quattro Viventi che stanno in mezzo al trono e intorno al trono (secondo la Vulgata, unica versione che i miniatori conoscessero, super thronum et circa thronum). Come fanno queste quattro creature a stare sopra e intorno al tempo stesso? Una ispezione alle soluzioni dei vari Beati ci mostra come l'impresa sia impossibile e dia luogo a rappresentazioni che non «traducono» il testo in modo soddisfacente. E questo perché i miniatori, cresciuti nella traduzione greco-cristiana, pensavano che il profeta «vedesse» qualcosa simile a statue o a pitture. Ma la cultura dell'apostolo Giovanni, come quella di Ezechiele, dalla cui visione Giovanni traeva ispirazione, era ebraica, e per di più era l'immaginazione di un veggente. Pertanto Giovanni non raccontava quadri (o statue) ma se mai sogni e, se vogliamo, film (che sono quelle cose su cui si sogna a occhi aperti, ovvero visioni ridotte allo stato laicale). In una visione di natura cinematografica i Viventi possono ruotare e apparire ora sopra e davanti, ora intorno al trono. (16) Ma in questo senso il miniatore mozarabico non poteva collaborare col testo, e in qualche misura, nelle sue mani e nella sua mente, l'ipotiposi (almeno per quel particolare) falliva. Prova dunque che non c'è ipotiposi se il destinatario non sta al gioco. NOTE: (1) Versione di una comunicazione tenuta al Centro di Studi Semiotici e Cognitivi dell'Università di San Marino il 29 settembre 1996 per un convegno sulla semiotica dello spazio. Aprivo questa comunicazione citando «I sensi, lo spazio, gli umori. Micro-analisi di In the Orchard di Virginia Woolf» (in VS, 57, 1990) di Sandra Cavicchioli come una delle più belle analisi della rappresentazione

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dello spazio in letteratura. In quell'occasione l'autrice era presente in sala. Ora che non è più tra noi, le dedico queste mie riflessioni. (2) Ora in Hermann Parret, «Nel nome dell'ipotiposi», in J. Petitot e P. Fabbri, Nel nome del senso (Milano: Sansoni, 2001). (3) Traduzione di Roberto Carifi (Fedra, Milano: Feltrinelli, 1993). (4) Cfr. «Il tempo dell'arte», in Sugli specchi (Milano: Bompiani, 1985, pp. 115-124). (5) Metafora e vita quotidiana (Roma: Espresso Strumenti, 1982; Milano: Bompiani, 1998). (6) Traduzione di Luigi Aurigemma (Il voyeur, Torino: Einaudi, 1962, p. 112). (7) Traduzione di Piero Rossano (Il Nuovo Testamento, Torino: UTET, 1963). (8) Traduzione di Carlo Carena (Poesia latina dell'età imperiale, Milano: Guanda, 1957). (9) Traduzione di Giulio De Angelis (Ulisse, Milano: Mondadori, 1960). (10) Traduzione di Umberto Eco (Sylvie, Torino: Einaudi, 1999). (11) Traduzione di Mario Bonfantini (Gargantua e Pantagruel, Torino: Einaudi, 1953). (12) Traduzione di Masolino d'Amico (Flatlandia, Milano: Adelphi, 1966). (13) Traduzione di Roberto Sanesi (Opere, Milano: Bompiani, 1992). (14) Cfr. Joseph Frank, «Spatial Form in the Modern Literature», in Sewanee Review, 1945. (15) «Indugiare nel bosco», in Sei passeggiate nei boschi narrativi (Milano: Bompiani, 1994). (16) Cfr. Eco, «Jerusalem and the Temple as Signs in Medieval Culture», in G. Manetti (ed.), Knowledge through Signs (Paris: Brepols, 1996, pp. 329-344). Le sporcizie della forma Dell'Estetica di Luigi Pareyson (1) vorrei rileggere una pagina, anzi meno di una pagina, poche righe all'interno del sottoparagrafo 10 del terzo paragrafo («Le parti e il tutto») del capitolo III («Compiutezza dell'opera d'arte»). Il paragrafo 10 è intitolato «Essenzialità di ogni parte: struttura, zeppe, imperfezioni». Sappiamo quale fosse una delle preoccupazioni centrali dell'Estetica nella sua polemica contro l'idealismo crociano e contro i suoi risultati più deleteri presso la critica militante: una rivendicazione del carattere di totalità della forma artistica, e quindi il rifiuto di selezionare nell'opera sporadici momenti di poesia, come fiori cresciuti tra la sterpaglia, sia pure funzionalissima, della semplice struttura. Non sarebbe necessario ma è utile ripetere che la «struttura», a quei tempi, e in Italia, era una cosa da evitare: impalcatura, artificio meccanico che nulla aveva a

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che vedere col momento dell'intuizione lirica, e al massimo si stagliava hegelianamente come istanza negativa, residuo concettuale, che poteva al più servire a far brillare come gemme solitarie i momenti di poesia. Anche se nelle note al capitolo Pareyson si rifà a Luigi Russo come timido campione della «non estraneità della struttura all'arte», questo autore (se pure riconosce che ci sia una struttura che non nasce prima della poesia, come cornice, come scheletro su cui poi inserire i fiori poetici, e vede la struttura «come generata dall'interno dell'animo poeticamente commosso»), non può evitare di concedere che quest'animo commosso «prende respiro e riposo in queste stazioni dottrinarie». Quindi, assoluzione della struttura, ma perché non nuoce alla poesia, non perché sia anch'essa poesia. Struttura come boa a cui il nuotatore poetico si aggrappa: è bene che ci sia, ma solo per prendere fiato e riprendere a battere il crawl della liricità. Come a dire che Dante, che non poteva a ogni passo vedere dolci colori d'oriental zaffiro, o gli occhi ridenti di Beatrice, si prendeva ampi riposi discettando di teologia e divagando sulla composizione dei Cieli. Questo concetto di struttura non aveva nulla a che fare col senso «strutturalista» che daremmo oggi al termine; anche se a questo riguardo Pareyson, con la sua teoria della totalità della forma, potrebbe essere riletto in chiave strutturalista, la sua ispirazione veniva da estetiche organicistiche di ascendenza e kantiana e romantica e non passava attraverso l'asse postsaussuriano. Comunque, opponendo decisamente alla dicotomia poesia/struttura la totalità della forma artistica, Pareyson rischiava di cadere in una retorica organicistica. Un conto era affermare che nell'opera compiuta (e anzi già dal primo momento in cui lo spunto dà inizio al processo formativo) tout se tient, e quindi va asserito dalla teoria e individuato dalla attività interpretativa il disegno organico che la regge, la regola individuale, quella «forma formante» che oscuramente precede, dirige nel suo farsi, e appare come risultato e rivelazione della forma formata. E un conto è celebrare questa «unitotalità dell'opera» con accenti che, francamente, a distanza di quasi quarant'anni, ci appaiono appartenere più a una retorica del Bello che a una fenomenologia delle forme. Un solo esempio: Questo carattere dinamico dell'unitotalità dell'opera d'arte può spiegare i rapporti che in essa sussistono tra le parti e il tutto. Nell'opera d'arte le parti intrattengono un doppio genere di rapporti: di ciascuna con le altre e di ciascuna col tutto. Tutte le parti sono connesse tra loro in un'indissolubile unità, sì che ciascuna è necessaria e indispensabile e ha una collocazione determinata e insostituibile, al punto che una mancanza dissolverebbe l'unità e una variazione riporterebbe il disordine... Ogni parte è istituita come tale dal tutto, il quale ha, esso stesso, reclamato e disposto le parti da cui risulta: se l'alterazione delle parti è lo scioglimento dell'unità e la disintegrazione del tutto, ciò è perché

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il tutto stesso presiede alla coerenza delle parti fra loro e le fa cospirare tutte insieme a formare l'intero. In questo senso le relazioni che le parti hanno fra loro non fanno che riflettere la relazione che ogni parte ha col tutto: l'armonia delle parti forma l'intero perché il tutto fonda la loro unità (p. 107). Troppo perfetto. Qui - come altrove - Pareyson sembra preso da un raptus pitagorico, e varrà forse un giorno la pena di andare a ricercare fonti inconfessate della sua estetica oltre il romanticismo, nel neoplatonismo rinascimentale, o nel Cusano. Per non dire di alcune letture di mistici, autori che praticava anche se non ne scriveva. Possibile che un teorico così attento al momento della lettura concreta delle opere d'arte potesse pensare a un'esperienza così folgorantemente totalizzante, panica, mai disturbata da momenti di perplessità, insoddisfazione, sia da parte dell'artista che, rileggendosi, rivedendosi o riascoltandosi, desidererebbe correggere se stesso, sia da parte dell'interprete, tentato di correggere l'artista? Il buon interprete, che è penetrato nell'opera, è anche colui che, sia pure al culmine dell'entusiasmo per il suo autore, ogni tanto dice «non mi piace» e addirittura «io avrei detto meglio» (poi, forse per modestia tace; ma scalpita). E d'altra parte Pareyson è stato il primo a parlare dell'interpretazione come di esecuzione che sa anche accentuare, attenuare, mettere in prospettiva i vari aspetti dell'opera, e quindi - per fedeltà - correggere. Ma è proprio dopo avere scritto il brano che ho citato - e ho citato questo, tra i molti che avrei potuto, proprio per la sua vicinanza alla mirabile «frenata» di cui sto per dire - che Pareyson affronta il problema dei presunti momenti morti, o di «struttura». Lo affronta per redimere la struttura, per farla rientrare nel progetto formativo, momento essenziale e non marginale ed estraneo: se «il tutto risulta dalle parti unite a costituire un intero» non potrà esservi particolare trascurabile o minuzia irrilevante; e se nell'interpretazione alcune parti possono risultare meno importanti di altre, questo avviene perché si attua nella forma organizzata una distribuzione di funzioni. Pareyson non sta dicendo - che sarebbe leggerlo come se avesse scritto trent'anni dopo, o venendo da altre origini - che la Divina Commedia è più bella per l'impianto teologico che non per le sue più celebrate «perle» poetiche, che ne rappresentano invece il momento accidentale; ma certamente si sta avvicinando a dire che la impalcatura omerica dello Ulysses di Joyce è tanto esteticamente importante quanto il monologo di Molly Bloom, il quale non potrebbe ottenere l'effetto che ottiene se non fosse inserito in quell'impalcatura, così che il lettore deve trovare nel monologo una folla di citazioni infratestuali che lo rinviano necessariamente ad altri accenni, apparentemente irrilevanti e inutili, che appaiono via via in altri capitoli del romanzo. Naturalmente Pareyson non si esprime in questi termini, e scrive piuttosto che «lo sguardo veramente perspicace... è inteso non tanto

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a contemplare il particolare in sé, quanto a inserirlo fra gli altri... per considerarne l'insostituibilità in quel nesso vivente in cui esso appare non meno necessario all'intero che rivelativo del tutto, pronto a evocare le altre parti nell'atto stesso di esserne invocato» (p. 110). Ed è a questo punto che Pareyson avverte di dover fare i conti non solo con la struttura come impalcatura, ma con gli svirgolamenti, le debolezze, le toppe, i rappezzi, le scivolate, i cali di tensione, addirittura le disavventure che talora bruttano la pretesa armonia e necessarietà della struttura. Le zeppe, appunto. «Zeppa» è parola goffa, come la disfunzione che definisce, fonosimbolicamente evoca tosse, starnuto, rigurgito e singhiozzo, semanticamente suggerisce intrusione inabile, rappezzo evidente. (2) Eppure Pareyson, che è pure scrittore quasi aulico, non evita questa zeppa terminologica per indicar la zeppa estetica. Lo fa per parlare delle opere che appaiono «ineguali e discontinue, senza che perciò si possa dire che non contengono poesia» (e gli concederemo questo cedimento al linguaggio crociano al quale si oppone; egli vuol dire che certe opere appaiono discontinue eppure danno una impressione di grande respiro e coerenza formale), le zeppe sono viste come punti d'appoggio necessari all'andamento dell'insieme, ponti, saldature, «in cui l'artista opera con minor cura, con maggiore impazienza o perfino con indifferenza, quasi sbrigandosene come di passaggi che, proprio perché imposti dalla necessità di proceder oltre, possono essere lasciati alla convenzione senza pregiudizio del tutto» (p. 111). Nondimeno anch'esse rientrano nell'economia interna della forma, visto che il Tutto le reclama sia pure in posizione subordinata. Demetaforizziamo (l'estetica di Pareyson è abbondantemente metaforica, e a leggerla senza tenerne conto si rischia di non accorgersi di quanto essa metta in questione problemi fondamentali di organizzazione dei sistemi): dimentichiamo un Tutto personalizzato che reclama qualcosa. Pareyson ci sta dicendo che la zeppa è artificio che permette a una parte di legarsi con l'altra, è un giunto essenziale. Se una porta si deve aprire con dolcezza o maestà deve avere un cardine, per meccanica che sia la sua funzione. Il cattivo architetto, ammalato d'estetismo, si irrita perché una porta deve incardinarsi su un cardine, e ridisegna quest'ultimo in modo che appaia «bello» mentre svolge la sua funzione: e spesso così facendo ottiene che la porta cigoli, s'ingrippi, e non si apra o si apra male. Il buon architetto vuole invece che la porta si apra per mostrare altri spazi, e non gli importa se, avendo ridisegnato tutto nell'edificio, per il cardine dovrà ricorrere all'eterna sapienza del ferramentaio. La zeppa accetta la sua banalità, perché senza la rapidità che il banale permette, si ritarderebbe un passaggio che per il destino dell'opera, e della sua interpretazione, è importante. Indicherei come esempio di zeppe quello che alcuni teorici

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contemporanei hanno chiamato i turn ancillaries, e cioè quelle espressioni che nei romanzi seguono le battute di dialogo: «L'assassino è il Visconte,» accusò il commissario. «Ti amo,» disse. «Qualche santo ci aiuterà,» replicò Lucia. Salvo alcuni autori che pongono particolare cura nel differenziare i turn ancillaries (scegliendo volta a volta tra «replicò», «motteggiò», «sogghignò», «aggiunse soprappensiero» - e non è detto che siano i migliori), gli altri, dagli infimi ai grandissimi, li usano per così dire così come vengono, e quelli di Manzoni non sono poi tanto diversi da quelli di Carolina Invernizio. E' che i turn ancillaries sono delle zeppe, non si possono evitare ma non si possono abbellire più di tanto, e il grande scrittore è colui che sa che, quando ci sono, il lettore tende a saltarli; ma se non ci fossero il dialogo si farebbe faticoso, o incomprensibile. Ma la zeppa non è solo questo. Può essere un avvio banale, utile per ottenere un finale sublime. Fu una sera, alle tre di notte, sul Colle dell'Infinito di Recanati, dove stanno scolpite le prime parole di uno dei sonetti più belli di tutti i tempi, che mi sono reso conto che «Sempre caro mi fu quest'ermo colle» è un verso assai banale, che avrebbe potuto essere scritto da qualsiasi poeta minore del romanticismo, e forse di altre epoche e correnti. Che deve essere un colle, in linguaggio «poetico», se non ermo? Eppure senza quell'inizio banale la poesia non prenderebbe avvio, e forse occorreva che banale fosse, perché potesse essere avvertito in fine il sentimento panico di quel naufragio, poeticamente memorabile. Oserei dire, sia pure per amor di tesi, che un verso come «Nel mezzo del cammin di nostra vita» ha la cantilenante dignità di una zeppa. Se non fosse seguito dal resto della Divina Commedia, non gli avremmo dato molta importanza, forse l'avremmo registrato come un modo di dire. Non sto identificando la zeppa con il colpo d'inizio. Ci sono degli inizi delle Polacche di Chopin che zeppe non sono. Quel ramo del lago di Como non è una zeppa; né lo è April is the cruellest month. Ma pensiamo alla fine del Romeo and Juliet, e ditemi se non poteva finire meglio senza le due frasi sottolineate: Questa mattina ci reca una buia pace, e il sole, in segno di lutto, non si affaccerà. Alcuni saranno perdonati, altri puniti. Mai una storia è stata di tanto dolore quanto questa di Giulietta e del suo Romeo. Però se Shakespeare ha deciso di concludere con questa moraleggiante banalità è perché doveva dar respiro agli spettatori, prima di indurli a uscire pacificati, dopo l'ecatombe a cui avevano assistito. E dunque era bene che la zeppa ci fosse. «Il primo ad addormentarsi fu Leo»: non è male. Ma poi: «l'impreveduta seppure inesperta sfrenatezza di Carla l'aveva spossato.» Evvia, che può essere se non che «spossato», un adulto sottoposto all'assalto amoroso di una adolescente? Quella «impreveduta seppure inesperta sfrenatezza» non sembra presa a

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prestito da una sentenza giudiziaria? Tuttavia, senza questo passaggio un poco goffo ma necessario, non potrebbe iniziare il capitolo X de Gli Indifferenti, dove risplende la triste verità che omne animal triste post coitum. Ma non c'è da insistere: «L'esemplificazione al riguardo potrebbe essere così ampia, da giungere quasi ad abbracciare l'intera storia delle arti» (Estetica, p. 112). Sicuro. Ed è anzi argomentando come le zeppe possano essere riscattate dal tutto, che Pareyson gradatamente passa a parlar delle mutilazioni, dell'azione del tempo, dei monconi, delle rovine, dei frammenti, dei deperimenti che l'opera può subire e malgrado i quali noi possiamo ricostruire la sua intima legalità. Pagine che non sarebbero chiare se non vedessimo anche il valore centrale della zeppa, e la lode dell'imperfezione, perché solo se l'opera può essere goduta malgrado e grazie alle sue imperfezioni, potrà essere goduta malgrado (e forse grazie) al suo deperimento. Così, a controbilanciare quella sorta di ottimismo platonico che portava Pareyson a celebrare la forma nella sua adamantina perfezione, le osservazioni sulle zeppe (ispirate da concrete esperienze di lettura) riportano la sua fenomenologia dell'arte a dimensioni molto più umane. Se però riconsideriamo il problema della zeppa alla luce della dottrina kantiana del giudizio riflettente, forse esso diventa meno marginale di quanto non sembri a prima vista - sia nel senso in cui la zeppa non può essere un elemento marginale nell'opera, sia nel senso in cui la questione della zeppa non è così marginale nell'estetica pareysoniana. Il richiamo kantiano, per Pareyson, è d'obbligo: la sua teoria della forma come organismo autonomo dipende dalle sue riflessioni sulla terza Critica e sull'estetica dell'idealismo tedesco. Rivediamo la posizione kantiana: il riconoscimento dell'organicità nasce nel giudizio riflettente; l'organicità della natura viene postulata come un ordine che deve esserci nelle cose ma che tuttavia le cose non esibiscono da sé: occorre costruirlo, proiettarlo, come se. Solo perché non possiamo non vedere la natura come organismo siamo poi in grado di rivolgerci nello stesso spirito all'arte. Ma un giudizio di organicità sarà, come tutti i giudizi riflettenti e teleologici, una ipotesi: la natura viene saggiata attraverso i primi schemi e sempre meglio sottoposta all'attività interpretativa. Sarà certo per numerose altre influenze, ma il peso che l'interpretazione assume nella filosofia di Pareyson è anche dovuto all'estetica kantiana. L'attività interpretativa è (e questo è punto centrale per Pareyson) prospettica. Ora, nel pronunciare giudizi di organicità sulle cose di natura, si trovano elementi che sembrano contrastare col postulato della perfezione della forma: le zeppe - appunto - che permangono quali ricordi dell'evoluzione, elementi che non parrebbero cospirare al tutto ma sussistere in un corpo naturale come ricordi di un tentativo fallito. Nello studiare la forma, e poi nel categorizzarla, inserirla nell'architettura dei generi e delle

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specie, talora questi elementi vengono lasciati cadere, tenuti in penombra mentre il riflettore dell'attenzione interpretativa si sposta a illuminare altri elementi ritenuti centrali. C'è da chiedersi quanto questo criterio non intervenga nell'assegnazione di legalità interna all'opera d'arte. Messa in forma dall'atto interpretativo che la vede come organismo compiuto, essa si spoglia di aspetti apparentemente inessenziali, sacrificati in favore di altri, e solo a una interpretazione ulteriore, o parallela, questi aspetti vengono ad assumere una posizione più decisiva. La storia dell'interpretazione dantesca ce lo dice: elementi teologici che, nel Paradiso, venivano visti dalla critica romantica come zeppe (se tali erano definite), a una critica che ha introiettato una maggiore confidenza con l'universo culturale medievale (in un Dante riletto non solo dopo, diciamo, Gilson ma anche dopo Eliot) diventano fondamentali, nervatura essenziale dell'architettura poetica tanto quanto le volte e le vetrate nella cattedrale gotica. La prospettiva della cantica si ribalta, si scopre che Dante è talora più poeta quando parla delle sfere planetarie e degli sfolgorii della luce che quando si commuove sulle vicende di Paolo e Francesca. La zeppa diventa allora relativa, sopravvive come il residuo di uno stadio della interpretazione, e come tale rimane di riserva, pronta ad assumere una luce diversa a una nuova «lettura», rispetto alla quale non sarà più accidentale. Si è fatto l'esempio dei turn ancillaries: li accettiamo come zeppe, e come zeppe li «sorvoliamo». Che il tale personaggio abbia detto, sogghignato, ammiccato, risposto, ci pare inessenziale al procedere del dialogo e all'universo narrativo che esso illumina. Sono paletti d'appoggio quasi casuali. Poi, di colpo, per un altro lettore, questi «scambi» (nel senso ferroviario del termine) diventano fondamentali, nel male come nel bene: se per certi autori essi sono puri elementi di una strategia «gastronomica» (talora che qualcuno «sospiri» invece di «dire» può ottenere addirittura effetti pornografici) per altri questi meccanismi interiettivi diventano invece elemento di ritmo, indice di secchezza, o di pudore, o di straordinaria inventività. La zeppa è stata redenta, è diventata elemento portante, da essenziale ma sgraziata diventa inessenziale e graziosa, oppure sovranamente necessaria. L'opera come organismo è stata guardata da un punto di vista diverso. Se così fosse, vorrebbe dire che nell'estetica di Pareyson la zeppa non interviene solo come prudente correttivo del trionfo platonico o neoplatonico della Forma in tutta la sua metafisica purezza, e come riconoscimento della vita materiale delle forme, accettate anche come sporche e imperfette; essa si pone piuttosto come qualcosa che l'interpretazione accantona, riservandola come occasione o stimolo latente per interpretazioni successive, un possibile segnale che possa richiamare l'interprete a rinnovare a ogni lettura il proprio impegno di fedeltà alle promesse dell'opera. Così l'interpretazione si riconferma libera e fedele al tempo stesso, capace di molte

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indulgenze pur di acquetarsi nel riconoscimento di una forma, ma anche di molti pentimenti per non lasciare la forma riposare nello stato a cui la nostra lettura l'ha provvisoriamente condotta. E anche quando risultasse, lettura dopo lettura, che la zeppa non potrà mai e a nessun costo essere redenta (perché rimane davvero testimonianza di una distrazione o di una debolezza) la sua stessa presenza rimarrebbe a testimoniare come e quanto l'interrogazione dell'opera sappia essere collaborativa e caritatevole, individui un disegno disegnato anche là dove il disegno era solo un abbozzo, un desiderio, un proposito, consegnato come lascito al lavoro infinito dell'interpretazione. NOTE: (1) Cito dall'edizione più recente, Milano: Bompiani, 1988, ma questo brano è rimasto invariato sin dalla prima edizione 1954. (2) Mi sono chiesto varie volte se per l'idea di zeppa Pareyson si ispirasse a qualche discussione precedente. Sappiamo quanto l'Estetica sia povera di note, e i riferimenti siano spesso generici. Per quanto riguarda questo punto, non ho trovato in nota alcuna citazione o richiamo. Prendendomi, contro ogni proposito di fedeltà all'opera, e quindi contro ogni insegnamento del Maestro, una licenza decostruttivistica, noto che i dizionari danno come esempio di zeppa anche il cuneo, e decido di vedere nella scelta di questo termine atecnico un inconscio omaggio alla provincia natale. Ironia intertestuale e livelli di lettura (1) Mi scuso se nel corso di questa conversazione dovrò citare, tra i vari esempi, anche alcuni che riguardano la mia attività di narratore, ma dovrò intrattenermi su alcune caratteristiche della narrativa cosiddetta postmoderna che alcuni critici e teorici della letteratura, e in particolare Brian Mchale, Linda Hutcheon e Remo Ceserani (2) hanno trovato non solo presenti nella mia narrativa ma anche esplicitamente teorizzate nelle Postille al Nome della rosa. Queste caratteristiche sono la metanarratività, il dialogismo (nel senso bachtiniano per cui, come dicevo nelle Postille, i testi si parlano tra loro), il double coding e l'ironia intertestuale. Benché io ancora non sappia cosa sia esattamente il postmoderno, tuttavia debbo ammettere che le caratteristiche sopracitate sono presenti nei miei romanzi. Però vorrei distinguerle, perché non di rado avviene che esse siano intese come quattro aspetti della stessa strategia testuale.

La metanarratività, in quanto riflessione che il testo fa sopra se stesso e la propria natura, o intrusione della voce autoriale che riflette su quanto sta raccontando, e magari appella il lettore a condividere le sue riflessioni, è ben più antica del postmoderno. In

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fondo essa s'instaura con «Cantami o diva» e, per arrivare più vicino a noi, si manifesta nelle riflessioni che Manzoni fa, per esempio, circa l'opportunità di parlare d'amore nel suo romanzo. Ammetto che nel romanzo moderno la strategia metanarrativa si fa presente con maggiore insistenza ed è accaduto a me che, per esasperare la riflessione che il testo conduce su se stesso, ho fatto ricorso a quello che chiamerei «dialogismo artificiale», e cioè la messa in scena di un manoscritto su cui la voce narrante riflette, e tenta di decifrare e giudicare nel momento stesso in cui racconta (ma, come è evidente, questa strategia era già presente in Manzoni).

Anche il dialogismo, specie nella sua natura più evidente di citazionismo, non è né virtù né vizio postmoderno, altrimenti Bachtin non avrebbe potuto parlarne con tanto anticipo. Nel canto XXVI del Purgatorio Dante incontra un poeta che inizia «liberamente a dire»: Tan m'abellis vostre cortes deman, qu'ieu noi me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan... Che questo Arnaut sia Arnaldo Daniello il lettore dell'epoca avrebbe dovuto facilmente capire, ma solo e proprio perché viene messo in scena mentre parla in provenzale (e con versi che, benché di invenzione dantesca, si modellano sulla tradizione trobadorica). Il lettore (moderno o di quel tempo) incapace di riconoscere questa forma di citazione intertestuale, viene escluso dalla comprensione del testo.

Veniamo ora al cosiddetto double coding. Chi ha coniato l'espressione è Charles Jenks, per cui l'architettura postmoderna parla su almeno due livelli allo stesso tempo: rivolgendosi agli altri architetti e a una minoranza interessata che s'intende di significati architettonici specifici, ma anche al pubblico più ampio, o agli abitanti del luogo, i quali si interessano di altre cose, come la comodità degli edifici, le tradizioni e i modi di vita. (3) L'edificio o l'opera d'arte postmoderna si rivolgono simultaneamente a un pubblico minoritario di élite usando codici «alti», e ad un pubblico di massa usando codici popolari. (4) Questa idea può essere intesa in molti modi. In architettura abbiamo tutti presenti esempi di cosiddetto postmodernismo che abbondano in citazioni rinascimentali o barocche, o d'altra epoca, fondendo modelli culturali «alti» in un insieme che risulta però anche gradevole e fantasioso per l'utente popolare - spesso a scapito della funzionalità e ricuperando il valore della decorazione e della scenografia. Innumerevoli sono per esempio le citazioni e le soluzioni di ardita avanguardia presenti nel museo Guggenheim di Bilbao, che tuttavia attira anche visitatori digiuni di storia dell'architettura e (anche statisticamente parlando) «piace». D'altra

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parte questo elemento era presente anche nella musica dei Beatles, che non a caso sono stati anche adattati alla Purcell (in un indimenticabile disco di Cathy Berberian) proprio perché queste melodie, orecchiabili e piacevoli, usavano stilemi colti ed echi di altri tempi, avvertibili all'orecchio educato. Esempi di double coding si trovano oggi in molti spot pubblicitari, costruiti come testi sperimentali che un tempo sarebbero stati accettati solo da sparuti gruppi di cinefili, e che tuttavia attraggono ogni tipo di spettatore per svariati motivi «popolari», come l'accenno a situazioni erotiche, il richiamo di un volto noto, il ritmo del montaggio, l'accompagnamento musicale. Molte opere letterarie, a causa di una riscoperta dell'intreccio romanzesco, sono state accettate anche da un grande pubblico che pure avrebbe dovuto rimanere respinto da soluzioni stilistiche d'avanguardia, come il ricorso al monologo interiore, il gioco metanarrativo, la pluralità di «voci» che s'incastrano nel corso della narrazione, lo scardinamento delle sequenze temporali, i salti di registro stilistico, l'intricarsi di narrazione in terza o prima persona e discorso indiretto libero. Ma questo significherebbe solo che una caratteristica del cosiddetto postmoderno è proporre racconti capaci di attrarre un grande pubblico anche se impiegano riferimenti dotti e soluzioni stilistiche «colte», ovvero (nei casi più felici) se sanno fondere entrambe le componenti in modo non tradizionale. E' una caratteristica indubbiamente interessante e non a caso ha suscitato perplessi tentativi di spiegazione nei teorici del cosiddetto «best-seller di qualità», che piace anche se ha qualche pregio artistico, e impegna il lettore con problemi o procedimenti che una volta erano appannaggio della sola arte d'élite. Non è mai stato chiaro se il best seller di qualità sia da intendersi come romanzo a vocazione popolare che fa uso di alcune strategie «colte» o come romanzo «colto» che per qualche misteriosa ragione diventa popolare. Nel primo caso il fenomeno dovrebbe essere spiegato in termini di analisi strutturale dell'opera, per esempio decidendo che il suo appello al gusto popolare è dovuto per esempio alla riproposta di una «storia», magari poliziesca, che trascina il lettore permettendogli di superare i punti stilisticamente o strutturalmente ostici. Nel secondo caso il fenomeno sarebbe di competenza di una estetica, e ancora meglio di una sociologia della ricezione. Si dovrebbe per esempio dire che il best seller di qualità non dipende da un progetto di poetica, ma da una trasformazione delle tendenze del pubblico dei lettori, dato che (i) non è da sottovalutare la crescita di una categoria di lettori «popolari» che, sazi di testi «facili» e immediatamente consolatori, avvertono il fascino di opere che li sfidano a una esperienza più impegnativa ma in qualche modo appagante, e accettano di rileggerle più volte e (ii) molti lettori, che l'editoria si ostina a considerare ancora «ingenui», hanno assorbito per varie vie molte delle tecniche della letteratura contemporanea, e quindi si sentono, di fronte al best

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seller di qualità, meno imbarazzati di alcuni sociologi della letteratura. In tal senso il best seller di qualità sarebbe fenomeno vecchio come il mondo. Un best seller di qualità è stato certamente la Divina Commedia, se dobbiamo dare ascolto alla leggenda per cui Dante punisce il fabbro che cantava malamente i suoi versi (e se pure li cantava malamente, li cantava e dunque li conosceva). Best seller di qualità è stato Shakespeare, a giudicare dal pubblico popolare che lo seguiva, anche se forse non coglieva tante sue sottigliezze e il suo riutilizzo di testi precedenti. Best seller di qualità è stato I promessi sposi, che pochissimo concedeva, con il suo andamento a volte saggistico, ai gusti di chi si era sino ad allora nutrito di romanzi gotici e popolarissimi romances - eppure è stato vittima di innumerevoli edizioni pirata, e Manzoni è stato indotto a venire incontro al gusto popolare seguendo personalmente i disegni di Gonin per la Quarantana. E, a pensarci bene, sono stati best seller di qualità tutte le grandi opere che ci sono pervenute in molteplici manoscritti ed edizioni a stampa sull'onda di un successo che non ha toccato soltanto i lettori d'élite, dall'Eneide all'Orlando Furioso, dal Don Chisciotte a Pinocchio. Dunque non si tratta di fenomeni straordinari bensì consueti nella storia dell'arte e della letteratura, anche se epoca per epoca possono essere spiegati in modi diversi.

Ora, per sottolineare le differenze tra double coding e ironia intertestuale, permettetemi di riflettere su un'esperienza di scrittura personale. Il Nome della rosa inizia raccontando di come l'autore abbia trovato un antico manoscritto. Siamo in pieno citazionismo, perché il topos del manoscritto ritrovato ha una età venerabile e, come diretta conseguenza, si entra subito nell'area del double coding: il lettore, se vuole accedere alla storia narrata, deve accettare alcune riflessioni abbastanza dotte e una tecnica di metanarratività al cubo, perché non solo l'autore si sta inventando di sana pianta un testo con cui dialogare, ma lo presenta come versione ottocentesca e neogotica di un manoscritto originale della fine del XIV secolo. Il lettore «popolare» non potrà godere della narrazione che segue se non avrà accettato il gioco di questo incassamento di fonti, che conferisce alla vicenda un alone di ambiguità, dato che la fonte non appare sicura. Ma, se vi ricorderete, il titolo della pagina in cui si parla del manoscritto, è «Naturalmente, un manoscritto». Questo «naturalmente» ha vari spessori, perché da un lato intende sottolineare che si sta facendo ricorso a un topos letterario e dall'altro mette a nudo una «angoscia dell'influenza», dato che il richiamo vuole essere (almeno per il lettore italiano) a Manzoni - che appunto fa nascere il suo romanzo da un manoscritto secentesco. Quanti lettori avranno colto o potrebbero cogliere i vari spessori ironici di questo «naturalmente»? E, posto che non li abbiano colti, potranno ugualmente accedere al

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resto della storia senza aver perso molto del suo sapore? Ed ecco che questo «naturalmente» ci suggerisce che cosa sia l'ironia intertestuale. Torniamo alle varie caratteristiche attribuite alla narrativa postmoderna. Per quanto riguarda la metanarratività è impossibile che il lettore non colga le riflessioni metanarrative. Potrà sentirsene disturbato, potrà ignorarle (saltarle), ma si rende conto che ci sono. Così dicasi del citazionismo esplicito, come nel caso di Dante. Il lettore può benissimo non capire che Arnaldo Daniello sta parlando nel proprio linguaggio poetico, ma si accorge che sta parlando in una lingua che non è quella della Commedia, e che pertanto Dante sta citando qualcosa d'altro, non foss'altro che il modo di parlare dei provenzali. Per venire al double coding (e questo ci dice quanti profili assuma questa nozione), possiamo avere (i) un lettore che non accetta l'impasto di stilemi e contenuti colti e stilemi e contenuti popolari, e che quindi può rifiutarsi di leggere, ma lo fa proprio perché riconosce l'impasto, (ii) un lettore che si sente a proprio agio proprio perché si compiace di questo alternarsi di difficoltà e affabilità, sfida e incoraggiamento, e infine (iii) un lettore che coglie l'intero testo come invito affabile e non si rende ormai conto di quanto esso si richiami a stilemi elitari (e quindi gode dell'opera, ma ne perde i richiami). Solo questo terzo caso ci introduce alla strategia dell'ironia intertestuale. Di fronte a quel «naturalmente» chi capisce la strizzata d'occhio stabilisce un rapporto privilegiato con il testo (o la voce narrante), chi non lo capisce va avanti lo stesso - e avrà di fronte a sé due strade: o capirà per virtù propria che quello del manoscritto deve essere un artificio letterario (di cui arriva ad apprezzare l'arguzia per la prima volta, «crescendo» quindi come lettore competente) o, come molti hanno fatto, mi scriverà chiedendo se quel manoscritto così affascinante esista davvero. Ma sia chiaro un punto: in casi, per esempio, di double coding architettonico, il visitatore può non accorgersi che un colonnato con un timpano sta citando la tradizione greca, ma gode egualmente l'armonia, la molteplicità ordinata di quella costruzione. Invece il lettore che non coglie il mio «naturalmente» sa solo che sta leggendo di un manoscritto, ma perde il rinvio, e la sua affettuosa ironia.

Un'opera può abbondare in citazioni di testi altrui senza per questo essere un esempio di ironia intertestuale. Tanto per fare un esempio, The Waste Land richiede pagine e pagine di note per individuare tutti i suoi rinvii all'universo non solo della letteratura, ma della storia o dell'antropologia culturale, ma Eliot mette le note apposta perché non riesce a concepire un lettore ingenuo che non ne colga assolutamente nessuno, e tuttavia possa godere in modo accettabile del suo testo. Direi che le note sono parte integrante del testo. Certo, i lettori incolti potrebbero

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limitarsi ad apprezzare il testo per il ritmo, per il suono, per quel tanto di fantasmatico che appare a livello del contenuto, sapendo confusamente che ci sarebbe altro da cogliere, e godendo del testo come chi origli da una porta socchiusa, intravedendo solo accenni di una promettente rivelazione. Ma sarebbero per Eliot (credo) lettori non ancora pienamente cresciuti, non sarebbero i Lettori Modello a cui egli mirava e che voleva formare. I casi di ironia intertestuale sono invece diversi, e proprio per questo caratterizzano forme di letteratura che, per quanto dotta, può ottenere anche successo popolare: il testo può venire letto in modo ingenuo, senza cogliere i rinvii intertestuali, o può venire letto nella piena coscienza di questi rinvii, o almeno con la persuasione che di questi occorre mettersi in caccia. Per cercare un esempio limite, supponiamo di dover leggere il Don Quijote riscritto da Pierre Menard (e che il testo di Menard sia interpretabile diversamente da quello di Cervantes, almeno quanto Borges pretendeva). Chi non ha mai sentito parlare di Cervantes apprezzerebbe una storia tutto sommato appassionante, una serie di avventure eroicomiche il cui sapore sopravvive al castigliano non modernissimo in cui sono scritte. Chi colga invece il rinvio costante al testo cervantesco sarà in grado di cogliere non solo le corrispondenze tra questo e il testo menardiano, ma anche la costante e inevitabile ironia di quest'ultimo. A differenza dei casi più generali di double coding, l'ironia intertestuale, ponendo in gioco la possibilità di una doppia lettura, non invita tutti i lettori a uno stesso festino. Li seleziona, e predilige i lettori intertestualmente avveduti, salvo che non esclude i meno provveduti. Il lettore ingenuo, se per caso l'autore mette in scena un personaggio che dice Parigi a noi due!, non individua il richiamo balzacchiano, e tuttavia può appassionarsi ugualmente a un personaggio incline alla sfida e alla spavalderia. Il lettore informato «becca» invece il riferimento, e ne assapora l'ironia dico non solo l'ammiccamento colto che gli rivolge l'autore, ma anche gli effetti di abbassamento, o di mutazione di significato (quando la citazione si inserisce in un contesto assolutamente diverso da quello della fonte), il generale richiamo al dialogo ininterrotto che si svolge tra testi.

Dovendo spiegare il fenomeno dell'ironia intertestuale a uno studente dei primi anni di università, o in ogni caso a un non addetto ai lavori, dovremmo forse dirgli che, in virtù di questa strategia citazionistica, un testo presenta due livelli di lettura. Ma se, invece di un non addetto ai lavori, avessimo di fronte un frequentatore delle teorie letterarie, potremmo essere messi in crisi da due possibili domande. Prima domanda: ma allora l'ironia intertestuale non ha forse a che fare col fatto che di un testo possono darsi non solo due ma anche quattro diversi livelli di lettura, vale a dire letterale, morale,

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allegorico e anagogico, come insegna tutta l'ermeneutica biblica e come Dante pretende per la sua opera poetica nell'Epistola XIII? Seconda domanda: ma l'ironia intertestuale non ha forse a che fare coi due lettori modello di cui ci parla la semiotica testuale, e massime Eco, il primo detto lettore semantico e il secondo lettore critico o estetico? Io cercherò di mostrare che si tratta di tre fenomeni abbastanza diversi. Ma il rispondere a queste due domande apparentemente ingenue non è esercizio inutile, perché vedremo al tempo stesso che ci troviamo di fronte a un nodo di parentele non facilmente districabili. Passiamo alla prima domanda, e cioè alla teoria dei sensi plurimi di un testo. Non è necessario pensare ai quattro sensi delle scritture, basta pensare al senso morale delle favole: certamente un lettore ingenuo può intendere la favola del lupo e dell'agnello come il resoconto di una disputa tra animali ma, anche se l'autore non si affrettasse a informarlo che de te fabula narratur, risulterebbe molto difficile non cogliere un senso parabolico, una lezione di carattere universale, così come accade appunto con le parabole evangeliche. Questa compresenza di un senso letterale e di un senso morale è presente in tutta la narrativa, persino quella meno preoccupata dell'educazione dei lettori, come potrebbe accadere per un romanzo poliziesco di carattere dozzinale: persino da questo il lettore accorto e sensibile potrebbe trarre una serie di insegnamenti morali, e cioè che il delitto non paga, che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, che la legge e l'ordine sono destinati sempre a trionfare, che la ragione umana sa dipanare i misteri più complessi. Si potrebbe persino dire che in certe opere il senso morale fa talmente corpo col senso letterale da costituire un unico senso. Ma persino in un romanzo così scopertamente moraleggiante come I promessi sposi, il rischio che il lettore colga solo la storia perdendo la lezione etica induce l'autore a inserire precisazioni gnomiche qua e là, proprio affinché il divoratore di trame neogotiche a forti tinte non si accontenti del rapimento di Lucia o della morte di don Rodrigo, rischiando di trascurare la lezione circa la Provvidenza. Qual è la reale indipendenza dei livelli, quando essi si moltiplicano? Si può leggere la Divina Commedia se non se ne coglie il messaggio anagogico? Direi che così ha fatto tanta critica romantica. Si può leggere la processione del Purgatorio senza coglierne la portata allegorica? Una buona lettura surrealistica potrebbe farlo. E, quanto al Paradiso, Beatrice è abbastanza sorridente e sfavillante per incantare qualsiasi lettore che ne ignori le significazioni superiori, e certa critica che si ispirava a criteri di pura liricità ci ha detto che bisognava ignorarne questi disturbanti sovrasensi come del tutto allotrii, e delendi. (5) Si potrebbe allora dire che quei livelli di lettura che dipendono dai sovrasensi possono essere o meno attivati a seconda delle epoche

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storiche, e certe volte rimangono ormai inattingibili, come può accadere non solo con testi di civiltà antichissime ma, per esempio, con molta pittura di non molti secoli fa dove, tranne l'iconografo o l'iconologo, il visitatore del museo (e persino il critico purovisibilista) gode di Giorgione o di Poussin senza sapere a quali occulti mitologemi rinviino le sue immagini (ma noi siamo convinti che ancor più ne godesse Panofsky, che poteva leggere a entrambi i livelli, quello delle forme e quello dei rinvii iconografici).

Del tutto diversa è la risposta alla seconda domanda. Ho ripetutamente teorizzato il fatto che un testo (e massimamente un testo a finalità estetica, e nel caso del presente discorso un testo narrativo) tende a costruire un doppio Lettore Modello. Esso si rivolge anzitutto a un lettore modello di primo livello, che chiameremo semantico, il quale desidera sapere (e giustamente) come la storia vada a finire (se Achab riuscirà a catturare la Balena, se Leopold Bloom incontrerà Stephen Dedalus, dopo averlo incrociato casualmente alcune volte nel corso del 16 giugno 1904, se Pinocchio diventerà un bambino in carne e ossa, se il Narratore riuscirà a regolare i suoi conti col Tempo Perduto). Ma il testo si rivolge anche a un lettore modello di secondo livello, che chiameremo semiotico, o estetico, il quale si chiede quale tipo di lettore quel racconto gli chiedesse di diventare, e vuole scoprire come proceda l'autore modello che lo sta istruendo passo per passo. In parole povere, il lettore di primo livello vuole sapere che cosa accade, quello di secondo livello come ciò che accade è stato raccontato. Per sapere come la storia va a finire basta, di solito, leggere una volta sola. Per diventare lettore di secondo livello occorre leggere molte volte, e certe storie bisogna leggerle all'infinito. Non esistono lettori esclusivamente di secondo livello; per diventarlo, anzi, bisogna essere stato un buon lettore di primo livello. Chi, leggendo, I promessi sposi, non abbia provato neppure un brivido quando Lucia si vede apparire davanti l'Innominato, non può apprezzare il modo in cui il romanzo manzoniano è fatto. Ma è certo che si può essere lettori di primo livello senza mai accedere al secondo: come accade a chi si appassiona ugualmente ai Promessi sposi e al Gargantua, senza rendersi conto che il secondo è lessicalmente più ricco del primo. O come chi, non ingiustamente, si annoiasse a leggere l'Hypnerotomachia Poliphili perché, tra tutto quel neologizzare, non si capisce bene come le cose vadano a finire. A ben vedere è nel gioco tra questi due livelli di lettura che si pone il doppio modo di intendere la catarsi nella Poetica aristotelica, e nell'estetica in genere: infatti sappiamo che della catarsi si può dare sia una interpretazione omeopatica che una lettura allopatica. Nel primo caso la catarsi nasce dal fatto che lo spettatore della tragedia è veramente preso da pietà e terrore, e sino allo spasimo, così che nel soffrire di queste due passioni se ne purga, uscendo liberato dall'esperienza tragica; nel secondo caso il

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testo tragico ci pone a distanza della passione rappresentata, attraverso uno straniamento di tipo quasi brechtiano, e noi ci liberiamo dalla passione non provandola, ma apprezzando il modo in cui viene rappresentata. Vedete benissimo che per una catarsi di tipo omeopatico basta uno spettatore di primo livello (che è poi quello che piange quando nel film western arrivano i nostri), mentre per una catarsi allopatica si richiede un lettore di secondo livello - e questo fa sì che, forse erroneamente, alla teoria della catarsi allopatica sia attribuita una maggiore dignità filosofica, una visione più purificata e purificatrice dell'arte, mentre la teoria omeopatica viene assimilata alla celebrazione del coribantismo e della iniziazione eleusina per mezzo di profumi e droghe, o alla celebrazione della febbre del sabato sera. Guardiamoci dall'intendere questa distinzione di livelli come se da un lato ci fosse il lettore di facile contentatura, interessato alla storia, e dall'altro quello dal palato esteticamente fine, interessato al linguaggio. Se così fosse noi dovremmo leggere al primo livello il Conte di Montecristo appassionandoci, e magari piangendo a calde lagrime a ogni piè sospinto, e poi al secondo livello renderci conto, come è doveroso fare, che dal punto di vista stilistico è scritto malissimo, e quindi decidere che si tratta di un pessimo romanzo. Invece il miracolo di opere come Il conte di Montecristo è che, pur essendo scritte malissimo, sono dei capolavori di narrativa. E quindi il lettore di secondo livello non è solo colui che si accorge che il romanzo è scritto male, ma anche colui che si rende conto che, malgrado questo, la struttura narrativa è perfetta, gli archetipi tutti al posto giusto, i colpi di scena dosati al millimetro, il respiro (ancorché a tratti ansimante) quasi omerico talché parlar male del Montecristo a causa della sua lingua sarebbe come parlar male delle opere verdiane perché Francesco Maria Piave o Salvatore Cammarano non erano Leopardi. Il lettore di secondo livello è dunque anche colui che si rende conto di come l'opera sappia funzionare bene al primo livello. Però è certamente a questo secondo livello di lettura critica che si decide se il testo abbia due o più sensi, se valga la pena di andare alla caccia del senso allegorico, se la favola narri anche del lettore - e se questi sensi diversi si leghino in plesso solido e armonico o possano fluttuare indipendenti. Sarà il lettore di secondo livello a decidere che è difficile scardinare senso letterale e senso morale nella favola del lupo e dell'agnello (come se senza il senso morale non avesse senso raccontare di quella diatriba tra animali), mentre si può leggere con gusto e reverenza In exitu Israel de Aegypto - domus Iacob de populo barbaro - facta est Iudea santificatio ejus, - Israel potestas ejus anche senza sapere che i versi anagogicamente significano, tra l'altro, che l'anima santificata esce dalla schiavitù della corruzione terrena verso la libertà della gloria eterna - e poi va a sapere se il testo del salmista volesse dire davvero anche questo.

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Certamente vi sono molte analogie tra il lettore di secondo livello, esteticamente e criticamente avvertito, e colui che, di fronte a esempi di ironia intertestuale, coglie i rinvii all'universo letterario. Ma le due posizioni non possono essere identificate. Facciamo alcuni esempi. Nella favola del lupo e dell'agnello vi sono due sensi (letterale e morale), e certamente due lettori, quello di primo livello che non si limita solo a capire la vicenda (senso letterale) ma anche la morale, e quello che riconosce i meriti stilistici e narrativi di Fedro favolista. Ma non c'è ironia intertestuale perché Fedro non sta citando nessuno - oppure se cita un favolista precedente, semplicemente lo copia. L'Ulisse di Omero uccide i proci: un solo senso, due lettori, quello che gode della vendetta di Ulisse e quello che gode dell'arte omerica, nessuna ironia citazionistica. Nello Ulysses di Joyce ci sono due sensi, alla maniera biblico-dantesca (la storia di Bloom come allegoria della storia di Ulisse), ma è molto difficile non accorgersi che si tratta di una vicenda che ripercorre i pellegrinaggi di Ulisse, e se qualcuno non se ne accorgesse il titolo gli offrirebbe la chiave. Rimangono possibili i due livelli di lettura, perché ci può essere chi legge lo Ulysses per sapere soltanto come le cose vadano a finire - anche se una lettura così limitata e limitativa è altamente improbabile, tutto sommato esageratamente dispendiosa, e sarebbe consigliabile interrompere l'esperienza dopo il primo capitolo per darsi a storie più immediatamente appaganti. E' impossibile leggere Finnegans Wake se non come un immenso laboratorio intertestuale - salvo che lo si voglia recitare ad alta voce per goderlo come pura musica. I sensi sono ben più dei quattro della sacra scrittura, sono infiniti, o almeno indefiniti. Il lettore di primo livello segue una o due letture possibili di ogni singolo calembour, poi si ferma affannato, si perde, sale al secondo livello per ammirare l'arguzia di un incassamento impredicibile e insolubile di etimi e di letture possibili, torna a cercare di capire se nel testo accade qualcosa, si perde di nuovo, e così via. Finnegans Wake non ci aiuta a capire le distinzioni di cui stiamo parlando, le mette tutte in questione, imbroglia le carte. Ma lo fa senza infingimenti, non imbroglia il lettore ingenuo, permettendogli di andare avanti senza accorgersi del gioco in cui è coinvolto. Lo afferra per la collottola e lo spinge a calci fuori dalla porta di servizio.

Nel tentare queste distinzioni ci si accorge, credo, che la pluralità dei sensi è fenomeno che si instaura in un testo anche se l'autore non vi pensava affatto e non ha fatto nulla per incoraggiare una lettura multisenso. Anche il peggiore scribacchino che racconti storie di sangue, orrore o morte, o di sesso e violenza, non può evitare di lasciar fluttuare un senso morale, non fosse altro che la celebrazione dell'indifferenza verso il male, o del sesso e della

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violenza come unico valore perseguibile. Lo stesso dicasi dei due livelli di lettura, semantico ed estetico. Alla fin fine questa possibilità si dà anche di fronte a un orario ferroviario. Due diversi orari mi forniscono a livello semantico la stessa informazione, ma posso valutare il primo come meglio organizzato e meglio consultabile del secondo, passando quindi a un giudizio di organicità e funzionalità che riguarda più il come che il cosa. Non così accade con l'ironia intertestuale. A meno di andare alla ricerca di plagi, o di echi intertestuali inconsci, di solito la lettura come caccia alla citazione si pone come rapporto di sfida tra il lettore e un testo (per non voler parlare delle intenzioni dell'autore) che sollecita in qualche modo la scoperta del suo segreto dialogico.

Come autore di romanzi che sulla citazione intertestuale giocano moltissimo, sono sempre lieto che il lettore colga il rinvio, la strizzata d'occhio; ma, al di là della chiamata in causa dell'autore empirico, chiunque abbia colto, poniamo, nell'Isola del giorno prima degli ammiccamenti all'Isola misteriosa di Verne (per esempio la domanda iniziale se si tratti di isola o di continente) deve desiderare che anche gli altri lettori si accorgano di questo ammiccamento del testo. Naturalmente se c'è ironia intertestuale è perché si deve ammettere come legittima anche la lettura di chi segue soltanto la vicenda di un naufrago che non sa se è naufragato di fronte a un'isola o a un continente. Compito del lettore estetico è decidere che anche la prima lettura è autonomamente legittima, e il testo la permette. Se nello stesso romanzo introduco un sosia, ammetto che ci sia un lettore che si stupisce ed eccita per questa situazione, ma ovviamente aspiro a un lettore che si renda conto che la presenza del sosia è quasi obbligatoria in un romanzo barocco. Quando nel Pendolo di Foucault il protagonista Casaubon trascorre l'ultima sua notte a Parigi ai piedi della Tour Eiffel, vede, dal basso, questa costruzione come un essere mostruoso, e ne rimane quasi ipnotizzato. Per scrivere questo brano ho fatto due cose: da un lato ho passato alcune notti sotto la Torre, cercando di pormi al centro delle sue «zampe» e di guardarla da tutti gli angoli possibili, sempre dal basso verso l'alto. Ma dall'altro ho ritrovato tutti i brani letterari che erano stati scritti sulla Torre, specie all'epoca della sua costruzione, per la maggior parte indignati e violenti, e quello che il mio protagonista vede e sente è un collage, molto lavorato, di moltissimi testi in poesia e in prosa. Non prevedevo che il mio lettore potesse ritrovare tutte queste citazioni (e io stesso sono incapace di individuarle ora e distinguerle l'una dall'altra) ma certamente desideravo che i lettori più sottili avvertissero l'ombra di un déjà vu. Nel contempo permettevo al lettore ingenuo di vivere le stesse impressioni che avevo provato io sotto la Torre, anche se

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non sapeva che esse erano nutrite di tanta letteratura precedente. E' inutile nascondersi che non l'autore ma il testo privilegia il lettore intertestuale su quello ingenuo. L'ironia intertestuale è un selettore «classista». Ci può essere una lettura snobistica della Bibbia che si appaga del senso letterale, o al massimo apprezza la bellezza ritmica del testo ebraico o della Vulgata (facendo certamente intervenire il lettore estetico nel gioco) ma non vi può essere lettura snobistica di un testo a ironia intertestuale che ne ignori l'elemento dialogico. L'ironia intertestuale chiama a raccolta gli happy few - salvo che più quei pochi saranno, più felici si sentiranno.

Quando però un testo scatena la meccanica dell'ironia intertestuale, deve attendersi che esso non produrrà solo i richiami intesi dall'autore, visto che la possibilità di avere la doppia lettura dipende dall'ampiezza dell'enciclopedia testuale del lettore, e questa ampiezza può variare secondo i casi. In un convegno tenuto a Lovanio nel 1999, Inge Lanslots ha fatto rilievi acutissimi su molte allusioni a Verne che costellano L'isola del giorno prima, e aveva certamente ragione. Nel corso della sua esposizione orale ha trovato riferimenti a un altro romanzo di Verne (che io francamente ignoravo) in cui sono descritti molti orologi digrignanti, come nel mio romanzo. Non intendevo usare le intenzioni dell'autore empirico come parametro per validare le interpretazioni del testo, ma ho dovuto risponderle che il lettore dovrebbe individuare le molte citazioni dalla letteratura barocca che costellano quel testo. Ora il topos degli orologi digrignanti è tipicamente barocco (si pensi alle poesie del Lubrano). E' difficile chiedere a un critico straniero, non specializzato nel barocco italiano, di conoscerne un poeta minore, e avevo ammesso che la sua pista non era, per così dire, proibita. Se si va alla caccia di allusioni sotterranee, è difficile dire se abbia ragione l'autore che le ignorava, o il lettore che le ha trovate. Però avevo osservato che individuare un richiamo alla poesia barocca faceva corpo con le caratteristiche generali del testo, mentre individuare un richiamo verniano, in quel punto, non portava da nessuna altra parte. Evidentemente la discussione ha convinto l'oratrice, perché non trovo più traccia di questa osservazione negli atti di quell'incontro (di prossima pubblicazione).

Ma vi sono altri casi dove è molto più difficile controllare l'enciclopedia del lettore. Nel mio Pendolo di Foucault ho battezzato il protagonista Casaubon, e stavo pensando a Isaac Casaubon, che ha demitizzato con impeccabili argomenti critici il Corpus Hermeticum. Il mio lettore modello di secondo livello, che ha accesso all'ironia intertestuale, potrebbe individuare una certa analogia fra quello che ha capito il grande filologo e quello che il mio personaggio capisce

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alla fine. Ero consapevole del fatto che pochi lettori sarebbero stati in grado di cogliere l'allusione, e ritenevo che, in termini di strategia testuale, ciò non era indispensabile (voglio dire che si può leggere il mio romanzo e capire il mio Casaubon anche ignorando il Casaubon storico). Prima di finire il romanzo, ho scoperto per caso che Casaubon era anche un personaggio di Middlemarch: avevo letto quest'opera tanto tempo prima, ma quel particolare onomastico non aveva lasciato alcuna traccia nella mia memoria. In certi casi l'Autore Modello vuole calmierare le interpretazioni che gli paiono inutili, e ho fatto uno sforzo per eliminare un possibile riferimento a George Eliot. Così a p. 57 si legge questo dialogo tra Belbo e Casaubon: «A proposito, come si chiama?» «Casaubon.» «Non era un personaggio di Middlemarch?» «Non so. In ogni caso era anche un filologo del Rinascimento, credo. Ma non siamo parenti.» Ma ecco arrivare un lettore malizioso, David Robey, il quale aveva osservato che, evidentemente non per caso, il Casaubon di Eliot stava scrivendo una Key to all mythologies, e devo ammettere che questo sembra applicarsi al mio personaggio. Più tardi Linda Hutcheon (6) ha dedicato una maggior attenzione a questa connessione, e ha trovato altre affinità tra i due Casaubon, il che accrescerebbe la temperatura ironico-intertestuale del mio romanzo. Come autore empirico posso dire che la mia mente non era stata neppure sfiorata da questa analogia ma, se il formato dell'enciclopedia di Hutcheon lettrice è tale da consentirle questo rapporto intertestuale, e il mio testo lo incoraggia, bisogna dire che l'operazione è oggettivamente (nel senso di culturalmente e socialmente) possibile. Un caso analogo è quello di Foucault. Il mio romanzo si intitola Il pendolo di Foucault perché il pendolo di cui sto parlando è stato inventato da Léon Foucault. Se fosse stato inventato da Franklin, il titolo sarebbe stato Il pendolo di Franklin. Questa volta ero consapevole fin dall'inizio che qualcuno avrebbe potuto fiutare un'allusione a Michel Foucault: i miei personaggi sono ossessionati dalle analogie e Foucault ha scritto sul paradigma della somiglianza. Come autore empirico non ero molto contento di questo possibile collegamento perché mi pareva piuttosto superficiale. Ma il pendolo inventato da Léon era l'eroe della mia storia, e non potevo cambiare il titolo: così ho sperato che il mio Lettore Modello non tentasse un collegamento con Michel. Mi sono sbagliato, molti lettori lo hanno fatto. Linda Hutcheon più di tutti, e ha addirittura individuato corrispondenze punto a punto tra elementi del romanzo e le quattro figure della somiglianza che Michel Foucault elenca nel capitolo delle Parole e le cose intitolato alla prosa del mondo. Inutile dire che io avevo letto Le parole e le cose quando era uscito, nel 1966, quasi venti anni prima di iniziare a scrivere il romanzo, e nel frattempo avevo avuto occasione di incontrare i fantasmi dell'analogia nella tradizione dell'ermetismo rinascimentale e

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secentesco, per cui quando scrivevo pensavo alle fonti dirette, o all'uso delirante di queste fonti nei testi correnti dell'occultismo commerciale. Probabilmente se il romanzo si fosse intitolato Il pendolo di Franklin nessuno sarebbe stato autorizzato a collegare i riferimenti alla teoria delle segnature a Michel Foucault e sarebbe stato più facile pensare a Paracelso. Ma ammetto che il titolo del libro, e in ogni caso in nome dell'inventore del pendolo omonimo, costituiva una traccia troppo ghiotta per un cacciatore di tracce intertestuali, e Linda Hutcheon aveva tutto il diritto di trovare quel che ha trovato. E chissà che, almeno sul piano della psicanalisi dell'autore, in qualche modo non abbia ragione, che i miei interessi per alcuni aspetti dell'ermetismo non siano stati stimolati dalla lettura remota di Foucault (Michel). Tuttavia sarebbe interessante stabilire se il mio richiamo a Foucault fosse un caso di ironia intertestuale o semplicemente di influenza non avvertita. Sino a ora ho forse lasciato pensare che l'ironia intertestuale sia qualcosa che dipenda dall'intenzione dell'autore, ma ho troppo teorizzato sulla prevalenza dell'intentio operis sull'intentio auctoris per permettermi una simile ingenuità. Se nel testo appare una possibile citazione, e questa citazione pare far corpo col resto del testo (e delle altre sue citazioni), i propositi dell'autore empirico contano poco. Bene dunque fa il critico (o il lettore) a parlare di citazionismo, e di «eco testuale» (uso un altro termine di Linda Hutcheon e non gioco sul mio nome) che l'opera incoraggia. E' che a giocare di ironia intertestuale è difficile resistere alla fascinazione dei richiami, anche se alcuni possono essere del tutto casuali, come il rinvio agli orologi di Verne. Sempre Linda Hutcheon (7) trova a pagina 378 dell'edizione americana del Pendolo: «The Rule is simple: Suspect, only suspect», e individua un richiamo intertestuale a «Connect, only connect» di E.M. Forster. Acuta com'è, ha la prudenza di dire che questo «ironic play» si pone in inglese; infatti il testo italiano (e non è chiaro se nello scrivere l'avesse presente) non contiene questo rinvio intertestuale perché recita «sospettare, sospettare sempre». Il riferimento, certamente consapevole, è stato inserito dal traduttore, Bill Weaver. Niente da dire, il testo inglese contiene il riferimento, il che significa non solo che la traduzione può alterare il gioco dell'ironia intertestuale ma può anche arricchirlo. In altri casi si presentano delle possibilità di scelta tra lettura al quadrato o al cubo. In una pagina del capitolo 30 del Pendolo, dove i protagonisti immaginano che anche l'intera storia raccontata dai Vangeli sia effetto di una invenzione come quella del Piano che essi stanno costruendo, Casaubon commenta: Toi, apochryphe lecteur, mon semblable, mon frère. Non ricordo a che cosa pensassi scrivendo, ma probabilmente mi sarei accontentato del rapporto intertestuale con Baudelaire, già arricchito dal rinvio ai Vangeli apocrifi. Linda Hutcheon però definisce il sintagma come parody of Baudelaire by Eliot (infatti se vi ricordate Eliot cita questo verso di Baudelaire

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in The Waste Land), ed è certo che così la cosa diventa ancora più saporosa. Che faremo? Divideremo i lettori tra quelli che arrivano sino a Baudelaire e quelli che pervengono sino a Eliot? E se ci fosse un lettore che ha trovato l'ipocrita lettore in Eliot, e se ne ricorda, ma non sa che Eliot citava Baudelaire? Tutti si sono accorti che il Nome della rosa inizia con una citazione del Vangelo di san Giovanni («In principio era il verbo, eccetera»). Ma quanti si sono accorti che in effetti questa può essere vista anche come una citazione dell'inizio del Morgante Maggiore, il quale inizia facendo il verso (rispettosissimamente) a san Giovanni (In principio era il verbo appresso a Dio - ed era Iddio il verbo e il verbo lui. - Quest'era nel principio a parer mio - e nulla si può far sanza costui)?

A pensarci bene, però, quanti si sono veramente accorti che il mio romanzo inizia citando san Giovanni? Ho trovato dei lettori giapponesi (e forse non occorreva andare tanto lontano) che hanno attribuito quei virtuosissimi pensieri al buon Adso, e non per questo hanno perduto l'afflato di religiosità che anima le parole del giovane monaco. E' che, a essere precisi, l'ironia intertestuale non è, tecnicamente parlando, una forma di ironia. L'ironia consiste nel dire non il contrario del vero ma il contrario di ciò che si presume che l'interlocutore crede vero. E' ironia definire una persona stupida come molto intelligente, ma solo se il destinatario sa che la persona è stupida. Se non lo sa, l'ironia non viene colta, e si fornisce solo una falsa informazione. Quindi l'ironia, quando il destinatario non è consapevole del gioco, diventa semplicemente una menzogna. Invece, in termini di ironia intertestuale, posso raccontare la storia di un sosia senza che il destinatario senta il rinvio al topos barocco, e non per questo il destinatario avrà meno goduto la storia rispettabilissima e letterale di un sosia. Nell'Isola del giorno prima ci sono alcuni colpi di scena che sono nettamente dumasiani, e la citazione è talora letterale, ma il lettore che non coglie il rinvio può dilettarsi, sia pure ingenuamente, del colpo di scena. Quindi se ho detto prima che il gioco dell'ironia intertestuale è snobistico e aristocratico, mi correggo, perché esso non configura una conventio ad excludendum nei confronti del lettore ingenuo. E' come un banchetto in cui si distribuiscano al piano inferiore gli avanzi della cena imbandita al piano superiore, ma non gli avanzi della mensa, bensì quelli della pentola, e bene imbanditi anch'essi e, poiché il lettore ingenuo crede che la festa si svolga su un solo piano, li assaporerà per quel che valgono (e saranno tutto sommato saporiti e abbondanti) senza supporre che qualcuno abbia avuto di più. Che è poi quello che accade a chi legge ingenuamente «Tanto gentile e tanto onesta pare» senza conoscere quanto il lessico sia cambiato

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da Dante a noi, e quali fossero i presupposti filosofici della poesia dantesca. Si compiace di una gentile dichiarazione amorosa, e ne trae egualmente gran giovamento, ed emotivo e intellettuale. Col che si vede che la mia analogia culinaria era forse provocatoria, ma non intendeva porre su uno stesso piano arte e gastronomia. E infine, neppure il più ingenuo dei lettori può passare attraverso le maglie del testo senza avvertire il sospetto che talora (o spesso) esso rinvii fuori di sé. Dove si vede allora che l'ironia intertestuale non solo non è conventio ad excludendum ma provocazione e invito all'inclusione, tale da poter trasformare, a poco a poco, anche il lettore ingenuo in un lettore che incomincia a percepire il profumo di tanti altri testi che hanno preceduto quello che sta leggendo.

Rapporti tra ironia intertestuale e il sovrasenso biblico o dantesco? Qualcuno. L'ironia intertestuale provvede un sovrasenso intertestuale a lettori secolarizzati che non hanno più sensi spirituali da cercare nel testo. I sovrasensi biblici e poetici della teoria dei quattro sensi facevano fiorire il testo in verticale, ogni senso ci avvicinava sempre più a qualche Aldilà. Il sovrasenso intertestuale è orizzontale, labirintico, rizomatico e infinito, di testo in testo - non essendoci altra promessa se non il mormorio continuo dell'intertestualità. L'ironia intertestuale presuppone un immanentismo assoluto. Provvede rivelazioni a chi ha perso il senso della trascendenza. Però non prenderei sul serio chi moraleggiasse e ne traesse la conclusione che l'ironia intertestuale è l'estetica dei senza dio. E' una tecnica che può essere attivata anche da un'opera che poi punti a ispirare sovrasensi spirituali, o si presenti come alta lezione morale, o sappia parlare della morte e dell'infinito. Remo Ceserani (8) ha avuto la bontà di osservare come il mio presunto postmodernismo non sia esente da un senso di melanconia e pessimismo. Segno che l'ironia intertestuale non presuppone a ogni costo uno spensierato carnevale del dialogismo. Ma certamente, per tanto che il testo sia tormentato, chiede che il lettore abbia anche presente il brusio dell'intertestualità che ha preceduto i nostri tormenti, e che autore e lettori sappiano anche unirsi nel corpo mistico delle Scritture mondane. NOTE: (1) Versione rivista di una conferenza tenuta a Forlì nel febbraio 1999. (2) Linda Hutcheon, «Eco's Echoes: Ironizing the (Post)Modern», in N. Bouchard e V. Pravadelli (eds.), Umberto Eco's Alternative (New York: Lang, 1998); Linda Hutcheon, A Poetics of Postmodernism (London: Routledge, 1988); Brian Mchale, Constructing Postmodernism (London: Routledge, 1992); Remo Ceserani, «Eco's (post)modernist fiction», in Bouchard e Pravadelli, cit., p. 148.

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(3) Charles Jenks, The Language of Post-Modern Architecture (London: Academy, 1977, pp. 6-8). (4) Charles Jenks, What is Post-Modernism? (London: Art and Design, 1986, pp. 14-15). Vedi anche Charles Jenks (ed.), The Post-Modern Reader (London: Academy Editions; New York: St Martin's Press, 1992). (5) Per vedere però quanto questa pratica sia stata fuorviante, rinvio al mio scritto, in questo stesso volume, «Lettura del Paradiso». (6) «Eco's Echoes: Ironizing the (Post)Modern», cit., p. 171. (7) «Eco's Echoes: Ironizing the (Post)Modern», cit., p. 166. (8) «Eco e il postmoderno consapevole», in Raccontare il postmoderno (Torino: Bollati Boringhieri, 1997, pp. 180-200). La Poetica e noi (1) Permettetemi, da italiano, di affrontare la questione della Poetica aristotelica in forma di confessioni di un figlio del secolo. La cultura italiana ha prodotto i grandi commentatori del Rinascimento e, nel periodo barocco, è stato Emanuele Tesauro che, col suo Cannocchiale aristotelico, ha riproposto al mondo della fisica postgalileiana le teorie poetiche di Aristotele come la sola chiave per abbordare i problemi delle scienze umane. Ma, proprio all'inizio del secolo seguente, questa stessa cultura italiana è stata fecondata da quella Scienza nuova di Vico che metteva in causa ogni precetto aristotelico, per parlarci di un linguaggio e di una poesia che si sviluppano al di fuori di ogni regola. Facendo questo, Vico - mentre in Francia, da Boileau a Batteux, da Le Bossu a Dubos, e sino all'Encyclopédie si cercavano ancora, con le regole del gusto, le regole della tragedia - apriva la porta, senza volerlo, a una filosofia e a una linguistica e a una estetica dell'imprevedibile libertà dello Spirito. Non il gentile e classico Esprit francese, ma il Geist romantico e hegeliano, che si fa attraverso la storia e in quanto è esso stesso storia. Per cui, dall'idealismo del XIX secolo a Croce, la nostra cultura nel corso di cento anni è stata dominata dal rifiuto di ogni retorica e di ogni poetica. In una estetica idealista che leggeva il linguaggio intero come fondato sin dall'inizio sulla creatività estetica, il fenomeno poetico non poteva più essere descritto come la deviazione da una norma preesistente ma piuttosto come un momento aurorale. Le poche pagine dedicate da Croce ad Aristotele mostrano pregiudizi insanabili, che generano un sillogismo formalmente inattaccabile: l'estetica nasce con Baumgarten e con la sua idea di una scientia cognitionis sensitivae, gnoseologia inferior Aristotele non ha potuto leggere Baumgarten - Aristotele sull'estetica non aveva nulla da dire.

Mi ricordo dei brividi che provavo da giovane, sentendomi emarginato come un piccolo omosessuale nella società vittoriana,

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mentre scoprivo che la tradizione anglosassone aveva continuato a prendere sul serio la poetica aristotelica, e senza interruzione. Non mi stupivo di trovare le tracce di Aristotele in Dryden o Hobbes, Reynolds o Samuel Johnson, senza parlare dei riferimenti alla Poetica, sia pure imprecisi e talora polemici, che ritrovavo in Wordsworth o Coleridge, ma ero colpito dalla lettura di critici e poeti contemporanei di Croce che mi davano il ritratto di una cultura per la quale Aristotele era ancora un modello, un punto di riferimento. Uno dei classici della teoria critica americana, Principles of Literary Criticism di Richards (1924) si apre con un rinvio ad Aristotele; se la Theory of Literature di Wellek e Warren (1942) è riuscita a fondere i princìpi della critica anglosassone con le ricerche dei formalisti russi e degli strutturalisti di Praga è perché si situava sotto il segno di Aristotele quasi a ogni capitolo. Negli anni quaranta con Aristotele si sono misurati i maestri del New Criticism. Scoprivo la Scuola di Chicago, che si definiva senza riserve neoaristotelica, e un teorico del teatro odierno come Francis Fergusson (The Idea of a Theater, 1949), che usava le nozioni di plot and action, e interpretava il Macbeth in termini di imitazione di un'azione, o Northrop Frye che nel suo Anathomy of Criticism (1957) giocava sulla nozione aristotelica di mythos. Ma basterebbe citare l'influenza della Poetica su uno scrittore come Joyce. Non ne parla soltanto nel Paris Notebook del 1903, scritto durante le sue visite alla Bibliothèque Sainte Geneviève, ma nel 1904 egli scrive un poemetto ironico sulla catarsi. Dice a Stuart Gilbert che l'episodio di Eolo nello Ulysses è fondato sulla Retorica. In una lettera al fratello Stanislaus del 9 marzo 1903 critica Synge perché non era abbastanza aristotelico per i suoi gusti. In una lettera a Pound del 9 aprile 1917 dice dello Ulysses: «I am doing it, as Aristotle would say - by different means in different parts.» Infine la teoria dei generi letterari nel Portrait è di chiara origine aristotelica. Nel Portrait Stephen Dedalus elabora una definizione della pietà e del terrore, deplorando che Aristotele non l'abbia fatto nella Poetica, e ignorando che però lo aveva fatto nella Retorica. Per una sorta di prodigiosa affinità elettiva, le definizioni che Joyce inventa sono molto simili a quelle della Retorica - ma studiava coi gesuiti, e insieme a un san Tommaso di seconda mano doveva essergli pervenuto anche un Aristotele di terza mano. Senza parlare dell'ambiente culturale di lingua inglese in cui viveva, dei cui interessi aristotelici si è detto. Credo però di avere subìto la mia esperienza aristotelica decisiva leggendo la Philosophy of Composition di Edgar Allan Poe, dove egli analizza parola per parola, struttura per struttura, la nascita, la tecnica, la ragion d'essere del suo The Raven. In questo testo Aristotele non viene mai nominato ma il suo modello vi è sempre presente, anche nell'uso di alcuni termini chiave. Il progetto di Poe consisteva nel mostrare come l'effetto di «una intensa elevazione dell'anima» (la Bellezza) si raggiunga al prezzo

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di una organizzazione di strutture, e nel far vedere come «l'opera procede, passo per passo, verso il suo completamento con la precisione e le rigide conseguenze di un problema matematico», tenendo conto di una unità d'impressione (che è materialmente l'unità del tempo di una seduta di lettura), del luogo, del tono emotivo. Lo scandalo di questo testo è che il suo autore spiega la regola mediante la quale è riuscito a dare l'impressione della spontaneità, e questa è la medesima lezione che ci viene trasmessa dalla Poetica contro ogni estetica dell'ineffabilità. Questa lezione aristotelica la si ritrova anche nel Sublime dello Pseudo-Longino, che di solito viene inteso come una celebrazione del je-ne-sais-quoi estetico. Il Sublime vuole certamente parlarci di un effetto poetico che non si fonda sulla persuasione razionale o morale bensì su una sensazione di meraviglia che si produce come estasi e colpo di folgore. Ma sin dalla prima pagina del suo trattato l'Anonimo ci dice che egli non vuole soltanto definire l'oggetto del suo discorso ma anche dirci attraverso quali artifici lo si possa produrre. Da cui, nella seconda parte, una analisi minuziosa delle strategie retoriche da mettere in opera per raggiungere, attraverso procedimenti definibili, questo effetto che non può essere definito. Nello stesso modo procede Poe, salvo che la Philosophy of Composition è un testo affascinante e ambiguo: si tratta di prescrizioni per altri poeti o di una teoria implicita dell'arte in generale, estrapolata da una esperienza personale di scrittura, da parte di uno scrittore che si pone come lettore critico della propria opera? Della feconda ambiguità di questo testo si era reso conto Kenneth Burke, (2) che subito affronta il testo di Poe in termini esplicitamente aristotelici. Se vi è una disciplina chiamata Poetica, essa non avrà nulla a che vedere con una critica intesa come avviso commerciale al lettore, o distribuzione di approvazioni o rimproveri. Essa dovrà occuparsi di una delle dimensioni del linguaggio, e in tale senso sarà l'oggetto proprio del critico così come la poesia è l'oggetto del poeta. «Un approccio alla poesia in termini di Poetica è un approccio nei termini della natura di quella poesia come genere (una specie e modo letterario).» In questo senso la definizione di Burke si avvicina a quella della scuola di Praga, per cui la Poetica è la disciplina che spiega la «letterarietà» della letteratura, vale a dire perché un'opera letteraria può essere definita come tale. Burke sa bene che definire i procedimenti letterari e le regole di genere può condurre, come è avvenuto, a trasformare una scienza descrittiva in una scienza normativa. Tuttavia la Poetica non può sfuggire al dovere di formulare precetti che sono impliciti nella pratica del poeta, anche se l'artista non ne è cosciente. Poe, al contrario, ne era cosciente e quindi lavorava come philosophus additus artifici. Forse lo ha fatto après coup, e scrivendo non sapeva ancora che cosa stesse facendo, ma come lettore di se stesso ha poi capito perché The Raven produce l'effetto che produce e noi diciamo che è bello. L'analisi fatta da Poe autore

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avrebbe potuto essere condotta da un lettore come Jakobson. Così, cercando di definire una pratica di scrittura di cui il suo poemetto era l'esempio, Poe identificava strategie che caratterizzano il procedimento artistico in generale. Il saggio di Poe è aristotelico nei suoi princìpi ispiratori, nei suoi fini, nei suoi risultati e nelle sue ambiguità. Lubomir Dole¬zel si è posto la questione se la Poetica aristotelica sia opera di critica (che mira alla valutazione delle opere di cui parla) o di Poetica, che appunto mira a definire le condizioni della letterarietà. (3) Dole¬zel, citando Frye, ci ricorda che la Poetica mette in luce una struttura intelligibile della conoscenza che non è né poesia essa stessa né esperienza della poesia e (rifacendosi ad alcune distinzioni che appaiono nella Metafisica) la considera come scienza produttiva, che mira alla conoscenza al fine di creare degli oggetti. In tal senso la Poetica non interpreta opere individuali, alle quali fa ricorso solo come a un repertorio di esempi. Ma nel perseguire questo fine la Poetica si involge in un paradosso perché, cercando di cogliere l'essenza della poesia, ne perde la caratteristica più essenziale, vale a dire la sua unicità e la variabilità delle sue manifestazioni. Dole¬zel osserva così che la Poetica di Aristotele è al tempo stesso l'atto fondante sia della teoria della letteratura che della critica letteraria occidentale, e proprio a causa della sua intima contraddizione. Essa stabilisce un metalinguaggio della critica, e permette giudizi fondati sul sapere che essa fornisce. Ma questo risultato viene raggiunto a un certo prezzo. Ogni Poetica che parli di strutture ideali, e che voglia ignorare le particolarità proprie delle opere individuali, è pur sempre una teoria delle opere che il teorico giudica migliori. Quindi anche la Poetica aristotelica ha (permettetemi di parafrasare Popper) una sua «estetica influente», e Aristotele tradisce le sue preferenze critiche ogni qual volta sceglie un esempio. Secondo Gerald Frank Else (4) solo un decimo di tutte le tragedie greche potrebbe adeguare le strutture descritte da Aristotele. Con circolo vizioso, un giudizio critico intuitivo ha preceduto e determinato la scelta del corpus in base al quale elaborare i princìpi generali che lo giustificano criticamente. Osserva Dole¬zel che anche l'affermazione di Else si basa su un pregiudizio critico, ma l'argomento tiene in ogni caso, perché mette in evidenza la presenza del circolo che probabilmente ha viziato l'intera storia della poetica e della critica. Ci troviamo quindi di fronte non alla opposizione (come si è creduto a lungo) tra una poetica normativa e una estetica che si muove a livello tale di generalità da non compromettersi con la realtà delle opere particolari («la bellezza è lo splendore dei trascendentali riuniti» è una definizione estetica che permette di giustificare sia l'Edipo Re che un bel romanzo d'avventure), quanto piuttosto all'oscillazione tra una teoria descrittiva e una pratica

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critica che si presuppongono a vicenda.

Aristotele non ci parla soltanto di criteri astratti di ordine e misura, di verosimiglianza o necessità, di equilibrio organico (1450b 21 ffg), ma anche di quel criterio che sconvolgerà ogni lettura puramente formalistica della Poetica. L'elemento fondamentale della tragedia è l'intreccio, e l'intreccio è imitazione di una azione la cui finalità, il telos, è l'effetto che produce, l'ergon. E questo ergon è la catarsi. Bella - o ben riuscita - sarà la tragedia che sappia provocare la purificazione dalle passioni. Quindi l'effetto catartico è una sorta di coronamento dell'opera tragica, ed esso non risiede nella tragedia in quanto discorso scritto o recitato, bensì in quanto discorso ricevuto. La Poetica rappresenta la prima apparizione di una estetica della ricezione, ma di ogni reader oriented theory presenta alcuni problemi non risolti. Sappiamo che la catarsi può essere interpretata in due modi, ed entrambe le interpretazioni sono sostenute da quella espressione enigmatica che appare in 1449 b 27-28: la tragedia realizza ten ton toiouton pathematon katharsin. La prima lettura è che Aristotele stia parlando di una purificazione che libera noi attraverso l'esperienza intensa delle nostre passioni - come sarebbe suggerito dalla Politica (che però malauguratamente rinvia alla Poetica per una spiegazione che in nessuna delle due opere viene esplicitata), e dunque la purificazione andrebbe intesa in termini medici tradizionali, come azione omeopatica, liberazione dello spettatore per identificazione con le passioni dei personaggi - e s'imporrebbe come esperienza di ciò che non possiamo evitare. La tragedia sarebbe una macchina coribantica e psicagogica (se fosse possibile un qualche distacco, esso si produrrebbe solo con la commedia, ma di cosa Aristotele intendesse per commedia sappiamo troppo poco). La seconda lettura intende la catarsi in senso allopatico, come purificazione subita dalle passioni stesse, in quanto «bellamente» rappresentate e viste da lontano come passioni degli altri, attraverso lo sguardo freddo di uno spettatore che diventa occhio puro e disincarnato - e che gode non delle passioni che prova ma del testo che le mette in scena. A radicalizzare il conflitto interpretativo, da un lato ne esce una estetica dionisiaca e dall'altro un'estetica apollinea. E, a banalizzarlo, da un lato abbiamo una estetica della discoteca e dello splatter (e dirò del modo di leggere la Poetica come teoria delle emozioni massmediatiche) e dall'altro una estetica come momento di rasserenata e disinteressata contemplazione, dove l'arte mostra lo splendor del vero. Questa ambiguità è dovuta alle stesse fonti a cui Aristotele si rifaceva. I pitagorici «avevano canti giusti per le passioni dell'anima, alcuni per le debolezze e altri per le collere,

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attraverso i quali, eccitando e sollevando in giusta misura le passioni, le si rendevano proporzionate a una coraggiosa virtù» (Giamblico, Vita di Pitagora). E Pitagora usava testi poetici a fini catartici, Omero, ditirambi, treni ed epicedi. E' verosimile pensare che Aristotele volesse parlare di una purificazione che si realizza attraverso un atto di libera visione dell'organizzazione prodigiosa del grande animale tragico, e al tempo stesso fosse affascinato dalle potenze psicagogiche di cui la sua cultura gli parlava.

Altre feconde ambiguità fanno l'attualità della Poetica. Aristotele è un alessandrino che ha in parte perduto lo spirito religioso che animava il quinto secolo. Egli lavora un poco come un etnologo occidentale contemporaneo che vada in caccia di invarianti universali nei racconti di selvaggi, dai quali è affascinato, ma che non comprende se non dal di fuori. Ed ecco dunque un'altra lettura, molto moderna, di Aristotele, e che Aristotele incoraggia, facendo finta di parlare della tragedia mentre in realtà ci consegna una semiologia della narratività. Lo spettacolo tragico comprende il racconto, i caratteri, l'elocuzione, il pensiero, lo spettacolo e la musica, ma «il più importante di questi elementi è la composizione delle azioni... Infatti il fine della tragedia sono i fatti e il racconto» (1450 a 15-23). Sono d'accordo con Ricoeur (5) quando dice che, nella Poetica, la narrazione fondata sull'intreccio, questa capacità di comporre un racconto e ton pragmaton sustasis, diventa come il genere comune di cui l'epopea si riduce a specie. Il genere di cui parla la Poetica è la rappresentazione d'una azione (pragma) attraverso un mythos (plot o intreccio che vogliamo chiamarlo) di cui la diegesi epica e la mimesi drammatica sono solo specie. Ora, la teoria dell'intreccio è ciò che forse ha influenzato in modo più profondo il nostro secolo. La prima teoria della narratività nasce coi formalisti russi, che propongono da un lato la distinzione tra fabula e sju¬zet, e dall'altro la decomposizione della fabula in una serie di motivi e funzioni narrative. E' difficile trovare riferimenti diretti ad Aristotele nei testi di ¬sklovskij, Veselovskij o Propp, ma nel primo studio sui formalisti russi, quello di Victor Erlich (Russian formalism, 1965) (6) si mostrava chiaramente quale fosse il debito dei formalisti nei confronti della tradizione aristotelica - anche se Erlich notava giustamente che le nozioni formaliste di fabula e sju¬zet non sono strettamente coestensive a quelle di pragma e di mythos. Parimenti si potrebbe dire che le funzioni narrative di Aristotele sono meno numerose di quelle di Propp. Ma il principio è il medesimo, senza dubbio, e di questo si erano accorti i primi critici strutturalisti all'inizio degli anni sessanta (ma sarebbe ingiusto non ricordare le situazioni drammatiche di Polti e Souriau, con la loro filiazione imprecisa da Gozzi - e dunque un italiano del XVIII secolo che non aveva dimenticato Aristotele).

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«Innumerevoli sono i racconti del mondo,» scriveva Roland Barthes nel suo «Introduction à l'analyse structurale des récits» (Communications 8, 1966) (7). «E' dunque legittimo che, lungi dall'abdicare ad ogni ambizione di parlare del racconto, col pretesto che si tratta di un fatto universale, ci si sia periodicamente interessati alle forme narrative (fin da Aristotele); ed è normale che di questa forma lo strutturalismo nascente faccia una delle sue prime preoccupazioni.» Nello stesso numero di Communications sulla lettura di Aristotele era fondato il contributo di Genette, «Frontières du récit», e la prima proposta di quella semiologia del racconto di Bremond che potrebbe essere vista come una minuziosa sistemazione delle strutture formali suggerite da Aristotele (curiosamente Todorov, che dimostrerà nelle altre sue opere di conoscere molto bene Aristotele, fonderà la sua Grammaire du Décameron su basi puramente grammaticali). Non dico che una teoria dell'intreccio e della narratività sia nata solo nel nostro secolo. (8) Ma il fatto curioso è che la cultura contemporanea è tornata a questo aspetto «forte» della Poetica proprio nel periodo in cui, a detta di molti, la forma romanzesca stava entrando in crisi. Tuttavia raccontare, e ascoltar racconti, è una funzione biologica. Non ci si sottrae facilmente al fascino degli intrecci al loro stato puro. Se Joyce sfugge alle regole della tragedia attica non sfugge all'idea aristotelica di narratività. La mette semmai in causa, ma la riconosce. Le non-avventure di Leopold e Molly Bloom ci risultano comprensibili perché si disegnano sullo sfondo delle nostre memorie delle avventure di Tom Jones o di Télemaque. Persino il rifiuto, da parte del Nouveau Roman, di farci provare pietà e terrore, si fa eccitante sullo sfondo della nostra persuasione profonda che un racconto debba produrci queste passioni. La biologia si vendica. Quando la letteratura si è rifiutata di darci intrecci, siamo andati a cercarceli nei film o nei reportage giornalistici. C'è poi un'altra ragione per cui il nostro tempo è stato affascinato dalla teoria dell'intreccio. E' che ci siamo persuasi che il modello della coppia fabula-discorso narrativo, pragma et mythos, non serve solo a spiegare quel genere letterario che gli anglosassoni chiamano fiction. Ogni discorso ha una struttura profonda che è narrativa o che può essere sviluppata in termini narrativi. Potrei citare l'analisi che Greimas ha fatto dell'introduzione di Dumézil al suo Naissance d'archanges, (9) dove il testo scientifico manifesta una struttura polemica che si produce sotto forma di colpi di scena accademici, lotte contro gli oppositori, vittorie e sconfitte. Nel mio Lector in fabula (Milano: Bompiani, 1979) ho cercato di mostrare come si possa trovare una fabula persino sotto il testo (apparentemente privo d'intreccio) che apre l'Etica di Spinoza: Per causam sui intelligo id cujus essentia involvit existentiam; sive id cujus natura non potest concipi nisi existens. Ci sono qui almeno due fabulae incassate. Una concerne un agente grammaticalmente implicito (ego) che compie l'azione di comprendere o

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significare e che, così facendo, passa da una conoscenza confusa a una conoscenza più chiara di Dio. Ricordiamo che se intelligo viene inteso come «comprendo» o «riconosco», allora Dio resta un oggetto che non viene modificato dall'azione, ma se con quel verbo s'intende «voglio significare» o «voglio dire», allora l'agente istituisce, attraverso l'atto della propria definizione, il suo oggetto di discorso (lo fa essere come oggetto culturale). Questo oggetto, coi propri attributi, è peraltro il soggetto di un'altra fabula. E' un soggetto che compie un atto per il quale, per il fatto d'essere, esiste. Sembra che in questa avventura della natura divina non accada nulla, perché non vi è intervallo temporale tra attualizzazione dell'essenza e attualizzazione dell'esistenza (anzi entrambe non passano mai da qualche potenza precedente all'atto, perché sono là da sempre), né l'esistenza, sopravvenendo, cambia l'essenza. Ci troviamo certamente di fronte a un caso limite, in cui sia azione che corso del tempo si trovano a un grado zero (uguale infinito), e Dio agisce da sempre nella sua automanifestazione, ininterrottamente e da sempre producendo il fatto che egli esista per il semplice fatto che egli è. E' poco per una storia di avventure, ma è abbastanza perché si profilino le condizioni essenziali per una fabula. Non c'è colpo di scena, forse, ma questo dipende dalla sensibilità del lettore. Il Lettore Modello di una storia del genere è un mistico o un metafisico, un cooperatore testuale capace di provare emozioni intensissime di fronte a questa non-vicenda che non cessa di folgorarlo per la sua eccezionalità. Anche l'Amor Dei Intellectualis è una passione ardente, e si ha stupefatta e continua sorpresa nel riconoscere la presenza della Necessità. Se dunque il nostro tempo scopre che anche ogni discorso filosofico o scientifico può essere letto come narrazione, forse questo accade anche perché, più che in altre epoche, scienza e filosofia (forse persino per far fronte alla crisi del romanzo) si vogliono presentare (è stato detto) come grandi racconti. Il che non implica - come avviene per qualcuno - che per il fatto di essere dei racconti essi non debbano più essere giudicati in termini di verità. Essi intendono semplicemente dire una qualche verità anche attraverso una struttura narrativamente avvincente. E se poi i grandi racconti filosofici non sembrano sufficienti, abbiamo visto che molta filosofia contemporanea, anziché andare a cercare la verità nei filosofi del passato, è andata a cercarla in Proust o Kafka, Joyce o Mann. Per cui, caso mai, non è tanto che i filosofi abbiano rinunciato a dire la verità, quanto piuttosto che anche l'arte e la letteratura si sono assunte quel compito. Ma questi sono rilievi marginali, e Aristotele non c'entra.

La Poetica ha molti volti. Non si può essere un libro fecondo senza aver prodotto anche dei risultati contraddittori. Tra le mie prime scoperte dell'attualità di Aristotele ricordo un libro di Mortimer

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Adler che aveva elaborato una estetica del film su basi aristoteliche. Nel suo Art and Prudence (10) egli dava questa definizione: «Un film è l'imitazione di una azione completa, di una certa grandezza, usando insieme immagini, effetti sonori, musica e altro.» Forse la definizione era un poco scolastica (Adler era un tomista che ha ispirato anche Marshall Mcluhan) ma l'idea che la Poetica, se pure non fosse capace di definire la letteratura «alta», era pur sempre impiegabile come una teoria perfetta della letteratura e dell'arte popolare, è stata sostenuta anche da altri autori. (11) Non accetto l'idea che la Poetica non possa definire l'arte «alta», ma è certo che, con la sua insistenza sulle leggi dell'intreccio, si trova particolarmente adatta a descrivere le strategie dei mass media. La Poetica è certamente la teoria, tra l'altro, del western alla John Ford - e non perché Aristotele fosse un profeta ma perché chiunque voglia mettere in scena un'azione attraverso un intreccio (ciò che un western fa senza altri residui) non può fare diversamente da quanto aveva intravisto Aristotele. Se raccontare storie è funzione biologica, di questa biologia della narratività Aristotele aveva già capito quanto occorreva. I mass media non sono contrari alle nostre tendenze biologiche, anzi, li si potrebbe accusare di essere umani, troppo umani. Il problema è caso mai se la pietà e il terrore che essi provocano portino davvero a una catarsi, ma se si intende la catarsi nel suo senso omeopaticamente minimale (piangi e ti sentirai meglio) essi sono, allo stato minimale, della Poetica applicata. Si potrebbe dire anzi che, se ci atteniamo alle idee aristoteliche per la costruzione di un mythos che produca un ergon efficace, non si può che cadere nel massmediatico. Per tornare a Poe, a leggere le sole pagine che egli dedica alla produzione delle emozioni che si poneva come fine, penseremmo di trovarci davanti a uno sceneggiatore di Dallas. Volendo scrivere una poesia che in poco più di cento versi produca una impressione di melanconia («poiché la Melanconia è il più legittimo tra i toni poetici») egli si domandava quale, tra tutti i soggetti melanconici, fosse il più melanconico, e concludeva che era la morte, e tra le morti riteneva melanconicissima quella di una bella donna, «senza dubbio l'argomento più poetico che ci sia al mondo». Se Poe si fosse attenuto a questi soli princìpi avrebbe scritto Love Story. Fortunatamente Poe sapeva che, se l'intreccio è l'elemento dominante in ogni storia, deve pur essere contemperato con altri elementi. Egli è sfuggito alla trappola massmediatica (sia pure ante litteram) perché aveva altri princìpi formali. E di lì il calcolo dei versi, e l'analisi della musicalità del nevermore, e il calcolato contrasto visivo tra il busto bianco di Pallade e la nerezza del corvo, e tutto il resto che fa di The Raven una composizione poetica e non un film dell'orrore. Ma siamo ancora ad Aristotele. Poe calcolava una giusta e organica mistura di lexis, opsis, dianoia, ethos, melos. Così si dà carne allo scheletro di un mythos. I mass media possono far piangere, e

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consolarci, ma di solito non ci consentono di purificarci nel godimento di un «grande animale» ben formato. Quando vi arrivano, e per me vi arriva certamente il Ford di Stagecoach (o Ombre rosse che dir si voglia), allora hanno davvero realizzato gli ideali della Poetica.

Arriviamo all'ultima ambiguità. La Poetica è l'opera dove viene sviluppata per la prima volta una teoria della metafora. Ricoeur (12) (citando a questo proposito Derrida, per cui in Aristotele il definito è implicato nel definiente) osserva che, per spiegare la metafora, Aristotele ha creato una metafora, prendendola a prestito dall'ordine del movimento. In effetti la teoria aristotelica ci pone di fronte al problema fondamentale di ogni filosofia del linguaggio, e cioè se la metafora sia uno scarto rispetto a una letteralità soggiacente o il luogo di nascita di ogni grado zero della scrittura. Se pure è vero che io resto fedele a una teoria dell'interpretazione che, di fronte a testi già scritti, deve presupporre un grado zero letterale di cui la metafora sia lo scarto da interpretare, è altrettanto vero che se ci poniamo dal punto di vista glottogonico (sia alle origini del linguaggio, come voleva Vico, sia alle origini di ogni testo che si stia facendo) occorre tener conto del momento in cui la creatività può instaurarsi solo a prezzo della vaghezza metaforica che nomina un oggetto ancora ignoto o innominato. Il potere cognitivo della metafora su cui Aristotele ha insistito benché non nella Poetica ma nella Retorica - si manifesta vuoi che la metafora ci metta sotto gli occhi qualche cosa di nuovo, lavorando su una lingua preesistente, vuoi che essa ci inviti a scoprire le regole di una lingua a venire. Ma, ultima eredità aristotelica, le correnti eretiche della linguistica chomskyana, e George Lakoff in particolare, ci pongono oggi il problema di un modo più radicale anche se questa radicalità era già presente in Vico: il problema non è tanto di vedere che cosa la metafora creativa faccia di una lingua che è già costituita, ma come la lingua già costituita possa essere compresa solo accettando, nel dizionario che la esplica, la presenza della vagueness, della fuzziness, del bricolage metaforico. (13)

Non è accidentale che Lakoff sia tra gli autori che hanno iniziato a elaborare, sui frammenti di una semantica dove la definizione si fondava su proprietà atomiche, una semantica dove la definizione è rappresentata sotto forma di una sequenza di azioni. Uno dei pionieri di questa tendenza (che riconosceva i suoi debiti aristotelici) era stato Kenneth Burke con la sua Grammatica, la sua Retorica e la sua Simbolica dei motivi, dove la filosofia e la letteratura, e la lingua, erano analizzate in forma «drammatica», attraverso il gioco congiunto dell'Atto, della Scena, dell'Agente, dello Strumento e del Proposito.

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Per non dire di Greimas, che non fa alcuno sforzo per celare che una teoria della narratività presiede alla comprensione semantica penso a quella Case Grammar che lavora su una struttura semantica in termini di Agent, Counter-Agent, Goal, Instrument, ecc. (Fillmore, Bierwisch) (14) e a molti modelli impiegati in Frames Theory e in Artificial Intelligence. Dominique Noguez ha recentemente pubblicato un divertente canular (di cui io sono l'eroe e la vittima) sulla Semiologia del Parapioggia. Egli non sapeva che la réalité dépasse la fiction e che uno dei modelli nello studio dell'intelligenza artificiale è quello di Charniak (15) il quale, per spiegare a un computer come interpretare le frasi dove appare la parola parapioggia, fornisce una descrizione narrativa di ciò che si fa con un parapioggia, come lo si manovra, come lo si costruisce, a che cosa serve. Il concetto di parapioggia si risolve in una rete di azioni. Aristotele non era arrivato a saldare la sua teoria dell'azione con quella della definizione, perché, prigioniero delle proprie categorie, credeva vi fossero sostanze anteriori a ogni azione che esse permettevano o subivano. Occorreva attendere la crisi del concetto di sostanza per riscoprire una semantica implicita non nelle sue opere di logica, bensì di etica, poetica e retorica, e pensare che persino la definizione delle essenze potesse articolarsi in termini di azioni soggiacenti. Eppure Aristotele avrebbe potuto sviluppare un suggerimento del Cratilo platonico. Sappiamo che lì si presenta il mito del Nomoteta o «produttore di nomi», una sorta di Adamo della filosofia greca. Ma il problema, anteriore a Platone, era se i nomi dati dal Nomoteta fossero secondo convenzione (Nomos) o motivati dalla natura delle cose (Physis). Con quale delle due soluzioni Socrate (e Platone per lui) si allineasse, è problema che ha generato e ancora genera pagine e pagine di commento al Cratilo. In ogni caso, ogni qual volta pare aderire alla teoria della motivazione, Platone parla di casi in cui le parole non rappresentano la cosa in se stessa, bensì come fonte o risultato di un'azione. La strana differenza tra nominativo e genitivo in Zeus/Dios è dovuta al fatto che il nome originale esprimeva una azione, di'on zen, «colui attraverso cui viene donata la vita». Allo stesso modo anthropos, sarebbe riducibile a «colui che è capace di riconsiderare quello che ha visto», in quanto la differenza tra uomo e animale è che l'uomo non si limita a percepire, ma ragiona, e riflette su ciò che ha percepito. Siamo tentati di prendere l'etimologia platonica sul serio quando ci si ricorda che Tommaso d'Aquino, considerando la definizione classica dell'uomo come animale mortale e razionale, sosteneva che differenze specifiche come «razionale» (che distinguono l'uomo da ogni altra specie animale) non sono accidenti atomici, bensì nomi che diamo a sequenze di azioni e comportamenti attraverso i quali riconosciamo che in un certo animale alberga la razionalità, non diversamente percepibile. La razionalità umana viene per così dire inferita da sintomi come il parlare e l'esprimere pensieri. Noi conosciamo le nostre facoltà «ex ipsorum actuum qualitate», attraverso la qualità delle azioni di cui esse

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sono l'origine e la causa. (16) Secondo un esempio di Peirce, (17) il litio non si definisce solo per la sua posizione entro un sistema periodico di elementi né per il suo numero atomico, ma attraverso la descrizione delle operazioni che debbono essere compiute per produrne un campione. Se il Nomoteta avesse conosciuto e nominato il litio, avrebbe dunque inventato una espressione che potesse, come un gancio, catturare tutta una serie di racconti di sequenze di azioni. Non avrebbe visto, poniamo, le tigri come individui che incarnano la tigrità, bensì come animali capaci di sviluppare certi comportamenti, in interazione con altri animali e in un ambiente particolare - e questa storia sarebbe stata inseparabile dal proprio protagonista. Con queste riflessioni mi sono forse allontanato troppo da Aristotele, ma pur sempre sulla traccia dei suoi suggerimenti sull'azione. D'altra parte il convegno era dedicato alle strategie contemporanee di appropriazione dell'antichità, e ogni atto di appropriazione implica una dose di violenza. Così come sono convinto che Kant abbia detto le cose più interessanti sui nostri processi conoscitivi non nella Critica della ragion pura (dove parlava appunto di conoscenza) bensì nella Critica del giudizio (dove sembra parli di arte), nello stesso modo perché non andare a cercare una moderna teoria della conoscenza non (non solo) negli Analitici ma anche nella Poetica e nella Retorica?

NOTE: (1) Versione abbreviata della relazione presentata al convegno «Les stratégies contemporaines d'appropriation de l'Antiquité», tenutosi alla Sorbona nell'ottobre 1990. Gli atti sono stati pubblicati come Nos grecs et leurs modernes, a cura di Barbara Cassin (Paris: Seuil, 1992). (2) «Poetics in Particular, Language in General», in Poetry 1961, ma anche in Language as Symbolic Action (University of California Press, 1966). (3) «Aristotelian Poetics as a Science of Literature», 1984 (ora in Poetica occidentale, Torino: Einaudi, 1990). (4) Aristotle's Poetics (Harvard U.P., 1957). (5) Tempo e racconto I, 2 (Milano: Jaca Book, 1983). (6) Il formalismo russo (Milano: Bompiani, 1966). (7) AA.VV, L'analisi del racconto (Milano: Bompiani, 1969, pp. 7-8). (8) Al contrario, le culture del romanzo hanno sempre prodotto delle teorie dell'intreccio. Per tornare al rifiuto di Aristotele che ha caratterizzato la cultura italiana dopo il XVII secolo, non voglio compromettermi decidendo quale sia stata la causa e quale l'effetto, ma certamente per secoli la cultura italiana non ha prodotto né buoni romanzi né buone teorie dell'intreccio. Grande civilizzazione del racconto come novella, iniziando da Boccaccio, la cultura italiana ha

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prodotto romanzi con notevole ritardo su altre culture. Abbiamo una tradizione abbastanza vasta di romanzi barocchi, ma senza picchi d'eccellenza (e però in quel secolo si seguiva ancora Aristotele) e poi nulla di interessante sino al XIX secolo, dove peraltro si possono contare pochi titoli da porre a petto dei Dickens, dei Balzac, dei Tolstoj. E' vero che il romanzo è prodotto borghese e che l'Italia aveva una borghesia nascente ai tempi di Boccaccio ma non ha avuto borghesia moderna, se non in forte ritardo rispetto al resto dell'Europa. Ma, effetto o causa che fosse, non ha nemmeno avuto teorie dell'intreccio. E' per questo che l'Italia (che conta oggi eccellenti narratori polizieschi, e almeno due o tre di vaglia ne ha avuti negli anni prima della seconda guerra mondiale) non è stata una terra dove il poliziesco sia nato e si sia sviluppato: perché il romanzo poliziesco non è che Poetica ridotta alle sue coordinate essenziali, una sequenza di avvenimenti (pragmata), di cui si sono perdute le fila, e l'intreccio ci racconta il modo in cui il detective le ricostruisce. (9) «Fatti casuali nelle cosiddette scienze umane», in Del senso 2 (Milano: Bompiani, 1984). (10) New York: Longmans, 1937, p. 486. (11) Per esempio Robert Langbaum, «Aristotle and Modern Literature», in Journal of Aesthetics and Art Criticism, settembre 1956. (12) La metafora viva (Milano: Jaca Book, 1981, 1. 2). (13) G. Lakoff e M. Johnson, Metafora e vita quotidiana (Milano: Espresso Strumenti, 1982; Milano: Bompiani, 1998). Vedi anche George Lakoff, Women, Fire, and Dangerous Things (Chicago: The University of Chicago Press, 1987). (14) Charles Fillmore, «The Case for Case», in E. Bach et al. (eds.), Universals in Linguistic Theory (New York: Holt, 1968); Manfred Bierwisch, «On Classifying Semantic Features», in Steinberg, D.D. e Jakobovits, L.A. (eds.), Semantics (London: Cambridge U.P., 1971). (15) Eugene Charniak, «A Partial Taxonomy of Knowledge about Actions» (Institute for Semantic and Cognitive Studies. Castagnola. Working Paper 13, 1975). (16) Summa Th., I. 79.#8; Contra gentiles, 4.#46. (17) Collected Papers 2.#330.

Il mito americano di tre generazioni antiamericane (1) La citazione che segue è tratta da l'Unità, 3 agosto 1947, all'alba della guerra fredda. Vi ricordo che l'Unità era il quotidiano ufficiale del partito comunista italiano, a quei tempi fortemente inteso a celebrare i trionfi e le virtù dell'Unione Sovietica e a

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criticare i vizi della civiltà capitalistica americana: Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere «la speranza del mondo», accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l'America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente. Per qualche anno questi giovani lessero, tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia... Per molta gente l'incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci... A questo punto la cultura americana divenne per noi qualcosa di molto serio e prezioso, divenne una sorta di grande laboratorio dove con altra libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare un gusto, uno stile, un mondo moderno che, forse con minore immediatezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perseguivano... Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l'America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti... La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma... Parteggiare nel dramma, nella favola, nel problema non potevamo apertamente, e così studiammo la cultura americana un po' come si studiano i secoli del passato, i drammi elisabettiani o la poesia dello stil novo. L'autore di questo articolo era Cesare Pavese, già autore famoso, traduttore di Melville e altri scrittori americani, comunista. Nel 1953, introducendo la raccolta dei saggi di Pavese, morto suicida, Italo Calvino, allora membro del partito comunista (che lasciò ai tempi della vicenda ungherese), così espresse il sentimento che la intellighenzia di sinistra provava nei confronti degli Stati Uniti: L'America. I periodi di scontento hanno spesso visto nascere il mito letterario di un paese proposto come termine di confronto, una Germania ricreata da un Tacito o da una Staël. Spesso il paese scoperto è solo una terra d'utopia, una allegoria sociale che col paese esistente in realtà ha appena qualche dato in comune; ma non per questo serve di meno, anzi gli elementi che prendono risalto sono proprio quelli di cui la situazione ha bisogno... E davvero, questa America dei letterati, calda di sangui di popoli diversi, fumosa di ciminiere e irrigua di campi, ribelle alle ipocrisie chiesastiche, urlante di scioperi e di masse in lotta, diventava un simbolo complesso di tutti i fermenti e di tutte le realtà contemporanee, un misto di America, di Russia e d'Italia, con in più un sapore di terre primitive - una incomposta sintesi di tutto ciò che il fascismo pretendeva di negare, di escludere. Come era potuto accadere che questo simbolo ambiguo, ovvero questa civiltà contraddittoria, avesse potuto affascinare una generazione intellettuale cresciuta nel periodo fascista, quando l'educazione

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scolastica e la propaganda di massa celebravano soltanto i fasti della romanità e condannavano le cosiddette demoplutocrazie giudaiche? Come era potuto accadere che al di sotto e al di là dei modelli ufficiali, la generazione giovane negli anni trenta e quaranta si creasse una sorta di educazione alternativa, un proprio flusso di contropropaganda di regime? Ricordo che questa seconda giornata del nostro simposio è dedicata alla «Immagine degli Stati Uniti nell'educazione italiana». Se per «educazione» si intendono i programmi scolastici ufficiali, non vedo perché l'argomento dovrebbe interessarci. Gli studenti italiani dovrebbero sapere che New York è sulla East Coast e che l'Oklahoma è uno stato e non solo un musical di Roger e Hammerstein. Ma se per «educazione» intendiamo ciò che i greci chiamavano «paideia», allora la nostra impresa può diventare più eccitante. La paideia non è solo una trasmissione di sapere: era l'insieme delle tecniche sociali attraverso le quali i giovani erano iniziati alla vita adulta secondo un ideale di formazione umana. Realizzare la paideia significava diventare una personalità matura, un uomo, kaloskagathos, bello perché buono e buono perché bello. I latini hanno tradotto paideia con humanitas, i tedeschi la traducono, credo, con Bildung, che non è solo Kultur. Nei tempi antichi la paideia veniva trasmessa attraverso la conversazione filosofica e il rapporto omosessuale. Ai tempi moderni si sono usati libri di testo e lezioni scolastiche. Ma negli ultimi tempi la paideia è diventata anche una faccenda di comunicazione di massa. Non solo nel senso che anche la circolazione dei libri è un fenomeno di comunicazione di massa, ma anche perché lo scegliere un curriculum personale nella giungla dei mezzi di massa può costituire un caso di costruzione della propria humanitas. Vorrei dire che Woody Allen ha qualcosa a che vedere con la paideia, mentre John Travolta non c'entra: ma non bisogna essere così dogmatici. Se penso alla mia crescita umana dovrei porre nella lista delle mie Fonti spirituali l'Imitazione di Cristo, No no Nanette, Dostoevskij e Paperino. Assenti, per esempio, Nietzsche ed Elvis Presley. Sono d'accordo con Joyce che «music hall, not poetry, is a criticism of life». Ripeness is all. E' secondo questa idea di educazione che vorrei ora tracciare a vasti tratti la storia di tre generazioni di italiani che, per diverse ragioni storiche e politiche, in qualche modo si consideravano o avrebbero dovuto considerarsi antiamericani; e che, in qualche modo, da soli, contro o addirittura a sostegno della loro ideologia antiamericana, hanno elaborato un Mito americano. Il primo personaggio della mia storia firmava i suoi articoli, negli anni trenta, come Tito Silvio Mursino. Anagramma di Vittorio Mussolini, figlio del Duce. Vittorio apparteneva a un gruppo di giovani leoni affascinati dal cinema, come arte, come industria, come modo di vita. Vittorio non si accontentava di essere il figlio del Capo; il che sarebbe stato sufficiente a procurargli le grazie di molte attrici: voleva essere il pioniere dell'americanizzazione del

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cinema italiano. Nella sua rivista Cinema egli criticava la tradizione cinematografica europea e asseriva che il pubblico italiano si identificava emotivamente solo con gli archetipi del cinema americano. Egli parlava di cinema, con un certo candore, in termini di star system, senza preoccupazioni estetiche. Egli veramente amava e ammirava Mary Pickford e Tom Mix, così come suo padre ammirava Giulio Cesare e Traiano. I film americani erano per lui la letteratura del popolo. E Oreste del Buono, sull'Almanacco Bompiani 1980, ha notato che Vittorio stava in qualche modo, certo inconsciamente e in altra chiave, ripetendo la teoria gramsciana di un'arte nazionalpopolare, salvo che egli andava a cercare le radici del nazionalpopolare nell'area tra Sunset Boulevard e Malibu. Vittorio non era un intellettuale e neppure un grande uomo d'affari. Il suo viaggio in America, per gettare un ponte tra le due industrie cinematografiche, si risolse in un fiasco: gaffe politiche, sabotaggio da parte delle stesse autorità italiane (il padre guardava all'impresa con molta diffidenza), ironia da parte della stampa americana. Al Roach gli disse che al postutto era un bravo ragazzo, perché non cambiava nome? Tuttavia rileggiamo alcune delle affermazioni di Vittorio Mussolini: E' forse eresia affermare che spirito, mentalità e temperamento della giovinezza italiana, pur con le logiche e naturali differenze imprescindibili in un'altra razza, siano molto più vicine a quelle della gioventù d'oltreoceano che non a quella russa, tedesca, francese e spagnola? Il pubblico americano ama del resto i film a grandi orizzonti, sente i veri problemi, è attratto dal senso bambinesco ma felice dell'avventura, e se questa giovinezza gli è data dal non avere secoli di storia e di cultura, di sistemi e leggi filosofiche, è certo molto più vicina a quelle della nostra balda generazione che non a quelle, inesistenti, di molti paesi d'Europa. Questo accadeva nel 1936. E questo modello americano rimase valido sino al 1942, quando gli americani divennero ufficialmente nemici. Ma anche nei casi di più violenta propaganda bellica, il nemico odiato era l'inglese, non l'americano. Il propagandista radiofonico Mario Appelius aveva coniato lo slogan «Dio stramaledica gli inglesi», ma non ricordo uno slogan di pari virulenza e diffusione dedicato agli americani. D'altra parte la sensibilità popolare non era certo antiamericana. Ma forse la spia più interessante di questa sensibilità diffusa la troviamo nelle pagine della giovane intellighenzia fascista che scriveva sulle pagine di Primato. Primato uscì tra il 1940 e il 1943, diretta da una delle più contraddittorie figure del regime fascista, Giuseppe Bottai. Liberal-fascista e antisemita, anglofilo guardato con sospetto dagli alleati tedeschi, autore di una riforma dell'educazione che in parte si voleva ispirata a John Dewey, sostenitore dell'arte di avanguardia e nemico del classicismo pompieristico dell'arte fascista ufficiale, aristocratico sostenitore delle disuguaglianze umane e contrario alla partecipazione alla

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guerra di Spagna, Bottai cercò di riunire intorno a Primato il meglio della giovane cultura dell'epoca, ospitando nelle pagine della rivista il massimo di dissenso compatibile con la situazione. Tra i giovani collaboratori di Primato troviamo non solo i rappresentanti dell'antifascismo liberale (Montale, Brancati, Paci, Contini, Praz), ma anche il meglio della futura cultura comunista, Vittorini, Alicata, Argan, Banfi, Della Volpe, Guttuso, Luporini, Pavese, Pintor, Pratolini, Zavattini, eccetera. Colpisce accorgersi che, nel febbraio '41, un brillante giovane intellettuale come Giaime Pintor potesse pubblicare sulla rivista un saggio sulla robotizzazione del soldato tedesco, ricordando che l'Europa non sarebbe mai ridiventata un territorio di libertà sino a che fosse stata dominata dall'ombra cupa delle bandiere germaniche. Cresciuto sotto il fascismo, sviluppando giorno per giorno, articolo per articolo, una critica lucida e coraggiosa delle dittature europee, Giaime Pintor scrisse nel 1943, pochi mesi prima di morire nel corso della guerra di resistenza, un saggio che allora non poté pubblicare: ...la Germania si è a poco a poco presentata nella riflessione come l'antitesi naturale di questo mondo e in un significato più esteso il suo specchio in Europa. Nessun popolo è più vicino a quello americano per la giovinezza del sangue e il candore dei desiderî e nessun popolo celebra con parole tanto diverse la propria leggenda. Le vie della corruzione e quelle della purezza sono anche qui paurosamente vicine; ma una continua follìa trascina i tedeschi fuori della loro strada, li opprime in avventure disumane e difficili.

Da una parte e dall'altra sono impegnate forze capaci di correggere il corso della nostra esperienza, di buttarci in un angolo come rottami inutili o di condurci in salvo su una riva qualsiasi. Ma l'America vincerà questa guerra perché il suo slancio iniziale obbedisce a forze più vere, perché crede facile e giusto quello che si propone. Keep smiling, «conserva il tuo sorriso»: questo «slogan» di pace veniva dall'America con tutto un seguito di musiche edificanti, quando l'Europa era una vetrina vuota e l'austerità di costumi imposta ai paesi totalitari scopriva soltanto il volto disperato e amaro della reazione fascista. L'estrema semplicità dell'ottimismo americano poteva allora indignare quanti erano persuasi del dovere di portare il lutto in segno d'umanità, quanti anteponevano l'orgoglio per i propri morti alla salute dei propri vivi. Ma il grande orgoglio della America per i suoi figli di oggi sarà la consapevolezza che essi hanno corso sulla strada più ripida della storia, che hanno evitato i pericoli e le insidie di uno sviluppo quasi senza soste. L'arricchimento e la corruzione burocratica, i gangsters e le crisi, tutto è diventato natura in un corpo che cresce. E questa è la sola storia dell'America: un popolo che cresce, che copre con il suo continuo entusiasmo gli errori già commessi e riscatta nella buona volontà i pericoli futuri. Le forze

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più ostili potevano incontrarsi sul suolo americano, le malattie e la miseria; ma la media di questi rischi e paure era sempre una positività, ripeteva ogni volta l'esaltazione dell'uomo. Grava sulla civiltà americana la stupidità di una frase: civiltà materialistica. Civiltà di produttori: questo è l'orgoglio di una razza che non ha sacrificato le proprie forze a velleità ideologiche e non è caduta nel facile trabocchetto dei «valori spirituali»; ma ha fatto della tecnica la propria vita, ha sentito nuovi affetti nascere dalla pratica quotidiana del lavoro collettivo e nuove leggende sorgere dagli orizzonti conquistati. Qualunque cosa pensino i critici romantici, un'esperienza così profondamente rivoluzionaria non è rimasta senza parole; e mentre nell'Europa del dopoguerra si riprendevano i temi di una cultura decadente o si adottavano formule, come quella surrealista, necessariamente sprovviste di futuro, l'America si esprimeva in una nuova narrativa e in un nuovo linguaggio, inventava il cinematografo. Che cosa sia il cinema americano molti sentono, con quell'ambivalenza di simpatia e di fastidio che è stata descritta come uno dei nostri irriducibili complessi di europei, ma nessuno forse ha posto in luce con il necessario vigore. Ora che un'astinenza obbligatoria ci ha guariti dagli eccessi di pubblicità e dal fastidio dell'abitudine si può forse ricapitolare il significato di quell'episodio educativo e riconoscere nel cinema americano il più grande messaggio che abbia ricevuto la nostra generazione.

Pintor era estraneo alla critica aristocratica dei mezzi di massa, che fu poi tipica della sinistra europea del dopoguerra. Diremmo oggi che era più vicino a Benjamin che non a Adorno. Il cinema viene quindi visto come un'arma rivoluzionaria che abolisce ogni frontiera politica. Ma anche sul piano estetico, il cinema americano ci insegna a guardare al mondo con occhi freschi e innocenti, e ha realizzato il voto di Baudelaire, mostrare «come siamo giovani e belli con le nostre scarpe di vernice e con le nostre cravatte borghesi». Oggi, ricordava Pintor, la Germania perpetua la retorica della «inattualità». L'America invece non ha cimiteri da salvaguardare, la sua missione è la distruzione degli idoli e l'utopia di un uomo nuovo, ancora mera enunciazione nell'ideologia marxista, può realizzarsi ovunque l'uomo impari a non arrendersi al misticismo e alla nostalgia, in America come in Russia. Nelle nostre parole dedicate all'America molto sarà ingenuo e inesatto, molto si riferirà ad argomenti forse estranei al fenomeno storico USA e alle sue forme attuali. Ma poco importa: perché, anche se il Continente non esistesse, le nostre parole non perderebbero il loro significato. Questa America non ha bisogno di Colombo, essa è scoperta dentro di noi, è la terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei primi emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di fatiche e di errori la dignità della condizione umana.

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Con l'immagine di questa America universale nel cuore, Giaime Pintor si univa all'esercito inglese a Napoli e moriva tentando di passare le linee tedesche per organizzare la resistenza partigiana nel Lazio. Da dove veniva questa immagine dell'America? Pintor e Vittorio Mussolini, da due lati opposti della barricata, ci dicono che il mito arrivava via-cinema. Ma anche la narrativa era stata un elemento di diffusione e ispirazione. E alla origine di questa diffusione noi troviamo due scrittori, Elio Vittorini e Cesare Pavese. Ambedue cresciuti in clima fascista, Vittorini tentando l'avventura di Primato, Pavese già condannato al confino sin dal 1935. Entrambi affascinati dal mito americano. Entrambi sarebbero diventati comunisti. Vittorini collaborava con l'editore Bompiani, che già negli anni trenta aveva iniziato a pubblicare Steinbeck, Caldwell, Cain e altri scrittori americani, bloccato continuamente dal Ministero della Cultura Popolare, come documenta una serie di lettere ufficiali (capolavori di humour non intenzionale) in cui si proibisce o si minaccia di sequestro l'uno o l'altro libro perché esprime una visione non eroica della vita, o mette in scena personaggi di razza inferiore, o rappresenta con linguaggio troppo crudo costumi che non rispondono all'ideale di moralità littoria e romana. Anche Pavese lavorava come traduttore, quasi in segreto, perché non poteva ottenere permessi regolari in quanto bollato come antifascista. Nel 1941 Vittorini preparò per Bompiani Americana, una antologia di più di mille pagine, con testi che andavano da Washington Irving a Thorton Wilder e Saroyan, passando per O. Henry e Gertrud Stein tradotti da giovani letterati che si chiamavano Alberto Moravia, Carlo Linati, Guido Piovene, Eugenio Montale, Cesare Pavese. Dal punto di vista di oggi, la raccolta era abbastanza completa, forse eccessivamente vorace, certamente scompensata: Fitzgerald vi appare sottovalutato, Saroyan sopravvalutato, vi figurano autori come John Fante che per l'avvenire non avrebbero più occupato un posto di tale rilievo nelle cronache letterarie. Ma questa antologia non voleva essere una storia della letteratura americana bensì la costruzione di una allegoria, una sorta di Divina Commedia dove paradiso e inferno coincidevano. Vittorini aveva già scritto nel 1938 (Letteratura, 5) che la letteratura americana era una letteratura mondiale con un unico linguaggio e che l'essere americano coincideva col non esserlo, con l'essere libero da tradizioni locali, aperto alla comune civiltà dell'umanità. In Americana la prima descrizione degli Stati Uniti è alquanto omerica, con l'immagine delle pianure e delle ferrovie, delle montagne nevose e dei paesaggi sterminati da costa a costa. Una innocenza litografica, alla Courrier and Ives, un'epica non nutrita da alcuna evidenza diretta, puro onirismo intertestuale. C'era in quelle pagine la stessa libertà con cui Vittorini aveva tradotto e avrebbe tradotto i propri autori americani, tutti in «vittorinese», dove una creatività partecipante metteva in secondo piano l'esattezza

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filologica. Ma l'America che Vittorini disegna in quelle pagine è una terra preistorica sommossa da terremoti e derive di continenti, dove invece dei dinosauri e dei mammuths dominano i profili giganteschi di Jonathan Edwards che risveglia Rip van Winckle invitandolo a un epico duello con Edgar Allan Poe che cavalca Moby Dick. Anche i giudizi critici sono metafore, iperboli: Melville è l'aggettivo di Poe e di Hawthorne sostantivo. Egli ci dice che la purezza è ferocia. La purezza è una tigre... Billy Budd impiccato. Egli è un aggettivo. Ma come la felicità è un aggettivo della vita. O come lo è, della vita, la disperazione. America come chanson de geste. Pound e i negri del blues. L'America è oggi (per la nuova leggenda che si va formando) una specie di nuovo Oriente favoloso, e l'uomo vi appare di volta in volta sotto il segno di una squisita particolarità, filippino o cinese o slavo o curdo, per essere sostanzialmente sempre lo stesso: «io» lirico, protagonista della creazione. Il libro era multimediale. Non solo libro di brani letterari e raccordi critici, ma anche una superba antologia fotografica. Immagini prese dai fotografi del New Deal che lavoravano per la Works Progress Administration. Insisto sulla documentazione fotografica perché ho saputo di giovani che all'epoca furono culturalmente e politicamente rigenerati proprio dall'impatto con quelle immagini, di fronte alle quali provarono il sentimento di una realtà diversa, e di una diversa retorica, ovvero di una antiretorica. Ma il Minculpop non poteva accettare Americana. La prima edizione del 1942 fu sequestrata. Si dovette ripubblicarla senza i testi di Vittorini e con una nuova prefazione di Emilio Cecchi, più accademica e prudente, meno entusiastica e più critica, più «letteraria». Ma anche così emasculata, Americana circolò e produsse una nuova cultura. Anche senza le pagine di Vittorini, la stessa struttura dell'antologia agì come un discorso. Il montaggio era il messaggio. Lo stesso modo, criticabilissimo, in cui gli americani erano tradotti, produsse un nuovo senso della lingua. Nel 1953 Vittorini dirà che egli non aveva influenzato la gioventù per ciò che aveva tradotto ma per il modo in cui lo aveva tradotto. Già dal 1932 Pavese aveva scritto a proposito di O. Henry che l'America, come l'Italia, era una civiltà di dialetti. Ma a differenza dell'Italia in America i dialetti avevano vinto contro la lingua della classe dominante e la letteratura americana aveva trasformato l'inglese in una nuova lingua popolare. Ricordo che Pavese, per tradurre alcune pagine di Faulkner, aveva fatto ricorso al dialetto piemontese. Una delle sue idee era che ci fosse una affinità tra Midwest e Piemonte. Una volta ancora, l'idea gramsciana del nazionalpopolare, salvo che ora, anziché a risciacquar i panni in Arno, si andava a lavarli nel Mississippi. Non parleremo di un caso di semplice pidginizzazione, ma piuttosto di creolizzazione. Così, la generazione che aveva letto Pavese e Vittorini combatté la guerra partigiana, spesso nelle brigate comuniste, celebrando la

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Rivoluzione d'ottobre e la figura carismatica del Piccolo Padre, e rimanendo al tempo stesso affascinata e ossessionata da una America come speranza, rinnovamento, progresso e rivoluzione. Vittorini e Pavese erano alla fine della guerra adulti maturi, quasi quarantenni. La seconda generazione del mio affresco invece comprendeva ragazzi nati negli anni trenta. Molti di essi entrarono all'età adulta, alla fine del conflitto, come marxisti. Il loro marxismo non era quello di Vittorini e Pavese, del tutto identificato con la lotta di liberazione e l'orrore per le dittature fasciste, più un senso di fraternità universale che una ideologia precisa. Per la seconda generazione il marxismo era una esperienza di organizzazione politica e di engagement filosofico. L'ideale di questa generazione era l'Unione Sovietica, la sua estetica il realismo socialista, il suo mito la classe operaia. Politicamente avversi all'America come sistema economico e politico, simpatizzavano con vari aspetti della storia sociale americana, con quella «America vera» che era stata dei pionieri e della prima opposizione anarchica, l'America «socialista» di Jack London e Dos Passos. Proprio per questo, persino nei momenti più fieri della lotta antimaccartista, la cultura marxista ufficiale non rinnegò mai completamente lo spirito di Americana, anche quando Vittorini lasciò il partito per dissensi ideologici col suo leader, Palmiro Togliatti. Tuttavia quella che ci interessa è una diversa fascia di questa seconda generazione, che poteva vivere all'interno o all'esterno dei due partiti marxisti di quell'epoca, il comunista e il socialista, e la cui definizione risulterebbe così vaga e imprecisa che sono costretto a commettere un arbitrio narrativo. Costruirò un personaggio fittizio che chiamerò Roberto. Tra i membri della classe di cui egli vuol essere il rappresentante, ve ne saranno stati di Roberti al novanta per cento e di Roberti al dieci per cento. Il mio sarà un Roberto al cento per cento. Forse tra i membri del comitato centrale del PCI non c'erano molti Roberti; ma Roberto abitava piuttosto il territorio extrapartitico delle attività culturali, delle case editrici, delle cineteche, dei giornali, dei concerti, e proprio in questo senso è stato culturalmente molto influente. Roberto potrebbe essere nato tra il 1926 e il 1931. Educato in modo fascista, il suo primo atto di ribellione (naturalmente inconscia) è stato la lettura dei fumetti tradotti (male) dall'americano. Flash Gordon contro Ming fu per lui la prima immagine della lotta contro la tirannia. L'Uomo Mascherato era sì un colonialista, ma invece di imporre modelli occidentali ai nativi della giungla di Bengali, cercava di conservare le tradizioni sagge e antiche dei Bandar. Topolino giornalista che si batteva contro i politicanti corrotti per la sopravvivenza del suo giornale, fu per Roberto la prima lezione sulla libertà di stampa. Nel 1942 il governo proibì i palloncini e pochi mesi dopo soppresse i personaggi americani; Topolino fu sostituito da Toffolino, umano e non più animale, per preservare la purezza della razza. Iniziò un collezionismo clandestino dei pezzi di un tempo. Blanda e dolente protesta.

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Nel 1939 il Ringo di Ombre rosse fu l'idolo della generazione. Ringo non combatteva per una ideologia o per la patria, ma per se stesso e per una puttana. Era antiretorico e perciò antifascista. Antifascisti furono Fred Astaire e Ginger Rogers, perché si opponevano a Luciano Serra pilota, il personaggio del film imperiale e littorio alla cui creazione aveva contribuito anche Vittorio Mussolini. Il modello umano a cui Roberto pensava era una accorta misura di Sam Spade, Ismael, Edward G. Robinson, Chaplin e Mandrake il Mago. Immagino che per un americano, anche in un periodo di nostalgia di massa, non vi sia nulla che unisce Jimmy Durante, il Gary Cooper di Per chi suona la campana, il James Cagney di Ribalta di gloria e la ciurma del Pecquod. Ma per Roberto e i suoi amici vi era un filo rosso che univa tutte queste esperienze: tutti erano persone felici di vivere e spiacenti di morire, e costituivano l'antistrofe retorica al superuomo fascista che celebrava Sorella Morte e andava incontro alla propria distruzione con due bombe e in bocca un fior. Amare il tip-tap significava disprezzare il passo dell'oca, prima, e guardare con ironia le allegorie stakanoviste del realismo socialista, dopo. Roberto e la sua generazione ebbero anche una musica: il jazz. Non solo perché era musica d'avanguardia, che essi non sentirono mai diversa da quella di Stravinskij o di Bartók, ma anche perché era musica degenerata, prodotta dai negri nei bordelli. Roberto fu antirazzista la prima volta per amore di Louis Armstrong. Con questi modelli nella mente Roberto nel 1944, giovanissimo, si unì in qualche modo ai partigiani. Dopo la guerra fu o membro o compagno di strada di un partito di sinistra. Rispettò Stalin, fu contro l'invasione americana in Corea, protestò per la morte dei Rosenberg. Abbandonò il partito con gli eventi ungheresi. Fu fermamente convinto che Truman fosse un fascista e che Li'l Abner di Al Capp fosse un eroe di sinistra, parente dei barboni di Pian della Tortilla. Amò Ejzen¬stejn ma fu fermamente convinto che il realismo cinematografico passasse attraverso Piccolo Cesare. Adorò Hammet e si sentì tradito quando la hard-boiled novel passò sotto l'amministrazione del maccartista Spillane. Pensò che il passaggio a nordovest per un socialismo dal volto umano fosse sulla «road to Zanzibar» con Bing Crosby, Bob Hope e Dorothy Lamour. Riscoprì e divulgò l'epica del New Deal, amò Sacco, Vanzetti e Ben Shan, conobbe prima degli anni sessanta (quando ridivennero celebri in America) i folk songs e le ballate di protesta della tradizione anarchica americana, e ascoltò con gli amici, alla sera, Pete Seeger, Woodie Guthrie, Alan Lomax, Tom Jodd e il Kingston Trio. Era stato iniziato al mito di Americana, ma ora il suo livre de chevet era On Native Grounds di Alfred Kazin. Ecco perché quando la generazione del '68 lanciò la sua sfida, magari anche contro gli uomini come Roberto, l'America era già un modo di vivere, anche se nessuno di quei ragazzi aveva letto Americana. E non sto parlando di blue jeans o di chewing gum, cioè dell'America che dominava l'Europa come modello di civiltà dei

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consumi: sto parlando ancora di quel mito maturato negli anni quaranta, che in qualche modo funzionava ancora in sottofondo. Certo per quei giovani l'America come Potere era il nemico, il gendarme del mondo, l'avversario da battere in Vietnam come in America Latina. Ma il fronte di quella generazione era ormai quadrilaterale: i nemici erano l'America capitalista, l'Unione Sovietica che aveva tradito Lenin, il partito comunista che aveva tradito la rivoluzione e ultimo - l'establishment democristiano. Ma se l'America era nemico come governo e come modello di società capitalistica, c'era un atteggiamento di riscoperta e di ricupero nei confronti dell'America come popolo, come melting pot di razze in rivolta. Essi non avevano più presente l'immagine del marxista americano degli anni trenta, l'uomo delle Brigate Lincoln in Spagna, il «premature anti-fascist» lettore della Partisan Review. Essi identificavano piuttosto un campo labirintico in cui si intrecciavano le opposizioni tra vecchi e giovani, bianchi e neri, immigranti freschi e gruppi etnici stabilizzati, maggioranze silenziose e minoranze vociferanti. Non ponevano alcuna differenza sostanziale tra Kennedy e Nixon, ma si identificavano col campus di Berkeley, con Angela Davis, con Joan Baez e Bob Dylan prima maniera. E' difficile definire la natura del loro mito americano: in qualche modo essi usavano e riciclavano pezzi di realtà americana, i portoricani, la cultura underground, lo zen, non più i comics ma i comix, e quindi non Mio Mao (Felix the Cat) ma Fritz the Kat, non Walt Disney ma Crumbs. Amavano Charlie Brown, Humphrey Bogart, John Cage. Non sto tracciando il profilo di alcun movimento politico preciso tra '68 e '77. Forse disegno una foto ai raggi X, scoprendo qualcosa che continuava a vivere sotto la superficie maoista, leninista o guevarista. E so di fotografare qualcosa che c'era, perché questo qualcosa è esploso nel e dopo il 1977. La rivolta studentesca di quegli anni assomigliava più a una ribellione di ghetto negro che alla presa del Palazzo d'Inverno. E persino sospetto che il modello segreto delle Brigate rosse, ovviamente inconscio, sia la Famiglia Manson. Non posso certo parlare della generazione presente con lo stesso olimpico distacco con cui ho parlato di quella degli anni trenta. Sto cercando solo di isolare, nella confusione del presente, il modello di una immagine-mito americana. Inventata come le precedenti, prodotto di creolizzazione. Non è più un sogno, perché può essere raggiunto a poco prezzo via Icelandic Airways. Il nuovo Roberto è forse stato membro di un gruppo marxista-leninista nel 1968, ha lanciato qualche bomba Molotov contro un consolato americano nel 1970, alcuni cubetti di porfido contro la polizia nel 1972, e contro la vetrina di una libreria comunista nel 1977. Nel 1978, evitata la tentazione di unirsi a un gruppo terrorista, ha raccolto qualche soldo ed è volato in California, diventando magari rivoluzionario ecologo o ecologo rivoluzionario. L'America è divenuta per lui non l'immagine di un rinnovamento futuro

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ma il luogo ove leccarsi le ferite e consolarsi di un sogno distrutto (o dato per morto troppo in anticipo). L'America non è più un'ideologia alternativa, è la fine dell'ideologia. Egli ha ottenuto con facilità il visto, perché di fatto non è mai stato iscritto a uno dei partiti della sinistra storica. Se fossero ancora vivi Pavese e Vittorini non avrebbero potuto ottenerlo, perché essi, i padri del nostro sogno americano, avrebbero dovuto rispondere «sì» sul formulario consolare che chiede se si sia mai stati iscritti a partiti che intendono sovvertire la società americana. La burocrazia americana non è un sogno. Al massimo, un incubo. C'è una morale in questa mia storia? Nessuna, e molte. Per capire l'atteggiamento italiano verso l'America, e in particolare l'atteggiamento degli italiani antiamericani, dovrete ricordarvi anche di Americana e di quanto accadde in quegli anni. Quando gli italiani di sinistra sognavano del compagno Sam e puntando il dito verso la sua immagine dicevano: I want you. NOTE: (1) Originalmente preparato come intervento a un convegno tenutosi alla Columbia University, nel gennaio 1980, su «L'immagine americana in Italia e l'immagine italiana in America». Poi pubblicato come «Il mito americano di tre generazioni antiamericane» in Comunicazione di massa, 3, 1980 e quindi inserito nel volume Laterza, Eco, Ceserani, Placido, La riscoperta dell'America, del 1984. L'intervento originale era diretto ad ascoltatori americani, e questo spiega l'abbondanza di precisazioni su alcuni personaggi italiani, da Vittorio Mussolini a Vittorini. La forza del falso (1) Nella Quaestio quodlibetalis XII, 14 san Tommaso risponde «utrum veritas sit fortior inter vinum et regem et mulierem» - e cioè se sia più potente, più convincente, più costrittivo, il potere del re, l'influsso del vino, il fascino della donna, o la forza della verità. La risposta dell'Aquinate - che rispettava il re, alla cui mensa non disdegnava, credo, qualche buon bicchiere di vino, e aveva dimostrato di saper resistere al fascino muliebre inseguendo con un tizzone ardente la cortigiana nuda che i fratelli gli avevano introdotto in camera per convincerlo a farsi benedettino e a non disonorare la famiglia indossando l'abito mendicante dei domenicani era come al solito sottile e articolata: vino, monarca, donna e verità non sono comparabili perché non sunt unius generis. Ma se li si considera per comparationem ad aliquem effectum, tutti possono muovere ad alcune azioni il cuore umano. Il vino agisce sul nostro aspetto corporale, quod facit per temulentiam loqui, e sulla nostra natura animale sensibile ha potere la delectatio venerea, e cioè la donna (Tommaso non concepiva che potessero esservi impulsi sessuali di segno opposto che legittimamente muovessero la donna, ma non si può chiedere a Tommaso di essere Eloisa). Quanto all'intelletto pratico, è

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ovvio che su di esso abbia potere la volontà del re, ovvero il comando della legge. Ma l'unica forza che muove l'intelletto speculativo è la verità. E siccome vires corporales subiciuntur viribus animalibus, vires animales intellectualibus, et intellectuales practicae speculativis... ideo simpliciter veritas dignior est et excellentior et fortior. Tale è dunque la forza della verità. Ma l'esperienza ci insegna che spesso la verità ha tardato a imporsi, e la sua accettazione è costata lacrime e sangue. Non accadrà forse che una forza pari manifesti assai spesso l'equivoco, per cui sia legittimo parlare di una forza del falso? Per mostrare che il falso (non necessariamente sotto forma di menzogna, ma certamente sotto forma di errore) è stato motore di molti eventi della storia, dovrei appellarmi a un criterio di verità. Ma se lo scegliessi in modo troppo dogmatico, il mio discorso rischierebbe di concludersi nel momento stesso in cui inizia. Se si sostenesse che tutti i miti, tutte le rivelazioni di ogni religione, altro non sono che menzogne, siccome la credenza negli dèi, di qualsiasi tipo, ha mosso la storia umana, non resterebbe che concluderne che noi viviamo da millenni sotto l'imperio del falso. Però non solo peccheremmo di banale evemerismo: è che questo stesso argomento scettico apparirebbe singolarmente germano dell'opposto argomento fideistico. Se si crede in una qualsiasi religione rivelata, si deve ammettere che se Cristo è il figlio di Dio, allora non è il messia ancora atteso a Gerusalemme, e se Maometto è il profeta di Allah, allora è un errore offrire sacrifici al Serpente Piumato. Se si è seguaci del più illuminato e indulgente dei deismi, pronti a credere allo stesso tempo alla Comunione dei Santi e alla Gran Ruota del Tao, si rifiuterà come frutto di errore il massacro degli infedeli e degli eretici. Se si è adoratori di Satana, si giudicherà puerile il Discorso della Montagna. Se si è ateo radicale, ogni fede non sarà che un malinteso. Dunque, siccome molti nel corso della storia hanno agito credendo a quello che qualcun altro non credeva, è giocoforza ammettere che per ciascuno, in misura diversa, la Storia è stata in gran parte il Teatro di un'Illusione. Atteniamoci dunque a una nozione di verità e falsità meno contestata, anche se filosoficamente contestabile - ma si sa, a dar retta ai filosofi si contesterebbe tutto, e non si finirebbe più. Atteniamoci al criterio di verità scientifica o storica accettato dalla cultura occidentale; vale a dire al criterio per cui tutti accettiamo che Giulio Cesare sia stato ucciso alle Idi di Marzo, che il 20 settembre del 1870 le truppe del giovane regno sabaudo siano entrate in Roma dalla breccia di Porta Pia, che l'acido solforico sia H2So4 o che il delfino sia un mammifero. Naturalmente ciascuna di queste nozioni è esposta a revisioni sulla base di nuove scoperte: ma per intanto esse sono registrate dall'Enciclopedia, e sino a prova contraria noi crediamo come a verità di fatto che la composizione chimica dell'acqua sia H2O (e taluni filosofi ritengono che tale verità debba valere in tutti i mondi

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possibili). A questo punto si può dire che è accaduto, nel corso della storia, che credenze e affermazioni che l'Enciclopedia attuale fattualmente smentisce, abbiano avuto credito; e un credito tale da soggiogare i sapienti, far nascere e crollare gli imperi, ispirare i poeti (che non sempre sono i testimoni della verità), spingere gli esseri umani a sacrifici eroici, all'intolleranza, al massacro, alla ricerca del sapere. Se ciò è vero, come non affermare che esista una Forza del Falso? L'esempio quasi canonico è quello dell'ipotesi tolemaica. Oggi sappiamo che per secoli l'umanità si è mossa dando fiducia a una falsa rappresentazione del cosmo. Ha cercato tutti gli accorgimenti possibili per sopperire alla falsità dell'immagine, ha inventato epicicli e deferenti, ha infine tentato con Tycho Brahe di far muovere tutti i pianeti intorno al sole, purché esso continuasse a girare intorno alla terra. Sulla base di questa immagine si sono mossi non dico Dante Alighieri, che sarebbe nulla, ma i navigatori fenici, san Brandano, Eric il Rosso e Cristoforo Colombo (e uno di costoro è pur arrivato per primo in America). Non solo, sulla base di una ipotesi falsa si è riuscito a dividere il globo in paralleli e gradi di meridiano, come noi facciamo ancora, avendo solo spostato il primo meridiano dalle Canarie a Greenwich. L'esempio di Tolomeo, che attiva per associazione il ricordo della sfortunata vicenda di Galileo, sembra fatto apposta per indurre a pensare che la mia storia del falso, e del suo potere, riguardi, con laica baldanza, solo casi in cui un pensiero dogmatico non ha accettato la luce della verità. Ma ecco ora una storia di segno opposto, la storia di un altro falso, lentamente costruito dal pensiero laico moderno per diffamare il pensiero religioso.

Si provi a fare un esperimento, a domandare a una persona comune che cosa Cristoforo Colombo volesse dimostrare quando intendeva raggiungere il levante per il ponente, e che cosa i dotti di Salamanca si ostinassero a negare per impedire il suo viaggio. La risposta, nella maggior parte dei casi, sarà che Colombo riteneva che la terra fosse rotonda, mentre i dotti di Salamanca ritenevano che la terra fosse piatta e che dopo un breve tratto le tre caravelle sarebbero precipitate dentro l'abisso cosmico. Il pensiero laico ottocentesco, irritato dal fatto che la Chiesa non avesse accettato l'ipotesi eliocentrica, ha attribuito a tutto il pensiero cristiano (patristico e scolastico) l'idea che la terra fosse piatta. L'Ottocento positivista e anticlericale è andato a nozze con questo cliché che, come ha dimostrato Jeffrey Burton Russell, (2) si è rafforzato nel corso della lotta dei sostenitori dell'ipotesi darwiniana contro ogni forma di fondamentalismo. Si trattava di dimostrare che, come si erano sbagliate circa la sfericità della terra, così le chiese potevano sbagliarsi circa l'origine delle specie.

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Si è quindi sfruttato il fatto che un autore cristiano del IV secolo come Lattanzio (nel suo Institutiones divinae), dovendo tener per buoni molti passi biblici in cui l'universo viene descritto sul modello del Tabernacolo, e quindi in forma quadrangolare, si opponeva alle teorie pagane della rotondità della terra, anche perché non poteva accettare l'idea che esistessero degli antipodi dove gli uomini avrebbero dovuto camminare con la testa all'in giù... Infine era stato scoperto che un geografo bizantino del VI secolo, Cosma Indicopleuste, in una sua Topografia Cristiana, aveva sostenuto che il cosmo fosse rettangolare, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra (ancora una volta era l'archetipo del Tabernacolo). In un libro autorevole, Storia dell'astronomia da Talete a Keplero, di J.L.E. Dreyer (3) si ammette che Cosma non fosse un rappresentante ufficiale della Chiesa, ma si dà ampio spazio alla sua teoria. E.J. Dijksterhuis, nel suo Il meccanicismo e l'immagine del mondo, (4) anche se concede che Lattanzio e Cosma non debbono venir considerati come rappresentanti della cultura scientifica dei Padri della Chiesa, asserisce che la teoria di Cosma divenne l'opinione prevalente ancora per molti secoli. Il fatto è che Lattanzio è stato lasciato dalla cultura cristiana delle origini e del Medioevo a cuocere nel suo brodo, e che il testo di Cosma, scritto in greco, e dunque in una lingua che il Medioevo cristiano aveva dimenticato, fu reso noto al mondo occidentale solo nel 1706, nella Collectio nova patrum et scriptorum graecorum del Montfaucon. Nessun autore medievale lo conosceva, e viene considerato una autorità dei «secoli bui» solo dopo la sua pubblicazione inglese nel 1897! Che la terra fosse tonda lo sapeva naturalmente Tolomeo, altrimenti non avrebbe potuto dividerla in trecentosessanta gradi di meridiano, lo sapeva Eratostene che nel terzo secolo avanti Cristo aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza dell'Equatore, lo sapevano Pitagora, Parmenide, Eudosso, Platone, Aristotele, Euclide, Aristarco, Archimede - e si scopre che gli unici a non credervi erano stati solo due materialisti come Leucippo e Democrito. Che la terra fosse tonda lo sapevano bene Macrobio e Marziano Capella. Quanto ai Padri della Chiesa, dovevano misurarsi col testo biblico che parlava di quella maledetta forma a tabernacolo, ma Agostino, anche se non aveva opinioni sicure in proposito, conosceva quelle degli antichi, e concedeva che il testo sacro parlasse per metafore. La sua posizione è piuttosto un'altra, abbastanza comune al pensiero patristico: siccome non è conoscendo la forma della terra che ci si salva l'anima, la questione gli appariva di scarso interesse. Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di acribia scientifica) calcola a un certo punto la lunghezza equatoriale in ottantamila stadi. Poteva pensare che la terra fosse piatta? Anche uno studente di prima liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell'imbuto infernale ed esce dall'altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo

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significa che egli sapeva benissimo che la terra era tonda. Ma passi per Dante, a cui siamo propensi ad attribuire ogni virtù. Il fatto è che della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, e nel periodo scolastico parlavano e pensavano di una terra sferica Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, Pietro d'Ailly, Egidio Romano, Nicola di Oresme o Giovanni Buridano, tanto per citarne alcuni. Quale era dunque la materia del contendere ai tempi di Colombo? Era che i dotti di Salamanca avevano fatto calcoli più precisi dei suoi, e ritenevano che la terra, tondissima, fosse più ampia di quanto il nostro genovese credesse, e che quindi fosse pazzesco tentare di circumnavigarla arrivando a oriente passando per occidente. Colombo invece, agitato da sacro fuoco, buon navigatore, ma astronomo pessimo, pensava che la terra fosse più piccola di quel che era. Naturalmente né lui né i dotti di Salamanca sospettavano che tra l'Europa e l'Asia stesse un altro continente. E dunque vedete come è complicata la vita, ed esili sono i confini tra verità ed errore, ragione e torto. Avendo ragione, i dottori di Salamanca avevano torto; e Colombo, avendo torto, ha perseguito con costanza il proprio errore e ha avuto ragione - per serendipità. Eppure si veda Andrew Dickson White nella sua History of the warfare of science with theology in Christendom (New York: Appleton, 1896). E' vero che in questi due densi volumi egli vuole elencare tutti i casi in cui il pensiero religioso ha ritardato lo sviluppo della scienza, ma siccome è un uomo informato e onesto non può nascondersi il fatto che Agostino, Alberto Magno e Tommaso sapessero benissimo che la terra era tonda. Tuttavia dice che per sostenerlo hanno dovuto lottare contro il pensiero teologico dominante. Ma il pensiero teologico dominante era rappresentato proprio da Agostino, Alberto e Tommaso, i quali dunque non avevano dovuto lottare contro nessuno. E' sempre Russell a ricordarci che in un testo serio come quello di F.S. Marvin, apparso nel 1921 in Studies in the history and in the method of sciences, a cura di Charles Singer, si ripete che «le mappe di Tolomeo... furono dimenticate in Occidente per mille anni»; che in un manuale del 1988 (A. Holt-Jensen, Geography: his history and concepts) si scrive che la Chiesa medievale insegnava che la terra era un disco piatto con Gerusalemme al centro; e che persino Daniel Boorstin, nel suo fortunato The discoverers del 1983 dice che dal quarto al quattordicesimo secolo la cristianità aveva soppresso la nozione della rotondità del globo. Come si è diffusa l'idea che il Medioevo considerasse la terra un disco piatto? Abbiamo visto che Isidoro di Siviglia calcolava la lunghezza dell'equatore, però proprio nei suoi manoscritti appare un diagramma che ha ispirato molte rappresentazioni del nostro pianeta, la cosiddetta mappa a T. La struttura della mappa a T è molto semplice: dato il cerchio che rappresenta il pianeta, tre linee disposte a T dividono un semicerchio superiore da due quarti di cerchio inferiori. La parte

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superiore rappresenta l'Asia, in alto, perché in Asia stava secondo la leggenda il Paradiso terrestre, la barra orizzontale rappresenta da un lato il Mar Nero e dall'altro il Nilo, quella verticale il Mediterraneo, per cui il quarto di cerchio a sinistra rappresenta l'Europa e quello a destra l'Africa. Tutto intorno sta il gran cerchio dell'Oceano. Forse che queste mappe volevano significare che la terra fosse un cerchio piatto? In un manoscritto dal Liber floridus di Lamberto di Saint Homer, del XII secolo, l'imperatore tiene in mano un cerchio, su cui è disegnata una mappa a T. Non è un caso che questa mappa appaia come simbolo regale nelle mani di un imperatore. Essa ha valore simbolico e non geografico. Con un poco di buona volontà la si potrebbe interpretare non come un cerchio ma come la rappresentazione schematica di un globo terrestre, come accade in altre immagini. Tuttavia l'impressione del cerchio è data dalle mappe che illustrano i commentari all'Apocalisse di Beato di Liébana, un testo scritto nell'ottavo secolo ma che, illustrato da miniatori mozarabici nei secoli successivi, ha largamente influenzato l'arte delle abbazie romaniche e delle cattedrali gotiche, e mappe a T si ritrovano in innumerevoli altri manoscritti miniati. Come era possibile che persone che ritenevano la terra sferica facessero mappe dove si vedeva una terra piatta? La prima spiegazione è che lo facciamo anche noi. Criticare la piattezza di queste mappe sarebbe come criticare la piattezza di un nostro atlante contemporaneo. Si trattava di una forma ingenua e convenzionale di proiezione cartografica. Ma dobbiamo tenere in considerazione altri elementi. Il Medioevo era epoca di grandi viaggi ma, con le strade in disfacimento, foreste da attraversare e bracci di mare da superare fidandosi di qualche scafista dell'epoca, non c'era possibilità di tracciare mappe adeguate. Esse erano puramente indicative, come le istruzioni della Guida dei pellegrini a Santiago de Compostela, e dicevano a un dipresso: «Se vuoi andare da Roma a Gerusalemme procedi verso sud e chiedi strada facendo.» Cerchiamo di pensare alla carta delle linee ferroviarie che ci propone un qualsiasi orario che si trova in edicola. Nessuno da quella serie di nodi, in sé chiarissima se si deve prendere un treno da Milano a Livorno (e apprendere che si dovrà passare per Genova), potrebbe estrapolare con esattezza la forma dell'Italia. La forma esatta dell'Italia non interessa chi deve andare alla stazione. I romani avevano tracciato una serie di strade che connettevano ogni città del mondo conosciuto, ma queste strade venivano rappresentate nella mappa detta Peutingeriana, dal nome di chi l'aveva riscoperta nel Quattrocento. La mappa rappresenta con molta esattezza tutte le strade dell'epoca, ma le dispone grosso modo su due strisce di terra, quella superiore che raffigura l'Europa, e quella inferiore che rappresenta l'Africa, in modo che il Mediterraneo appare come un fiumiciattolo. Siamo esattamente nella

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situazione della mappa ferroviaria. Non interessava la forma dei continenti ma solo la notizia che c'era una strada che permetteva di andare da Marsiglia a Genova. Eppure i romani, dalle guerre puniche in avanti, percorrevano in lungo e in largo il Mediterraneo e sapevano benissimo che non era quella sorta di torrente che si vedeva nella mappa. Per il resto i viaggi medievali erano immaginari. Il Medioevo produce enciclopedie, Imagines Mundi che cercano maggiormente di soddisfare il gusto del meraviglioso, raccontando di paesi, lontani e inaccessibili, e questi libri sono tutti scritti da persone che non avevano mai visto i luoghi di cui parlavano, perché la forza della tradizione allora contava più che l'esperienza. Vari mappamondi dell'epoca non vogliono rappresentare la forma della terra bensì elencare le città e i popoli che vi si potevano incontrare. Ancora, la rappresentazione simbolica contava più della rappresentazione empirica, e spesso quello che preoccupava il miniatore era rappresentare Gerusalemme al centro della terra, non come si arriva a Gerusalemme. Ultima considerazione, le mappe medievali non avevano funzione scientifica ma rispondevano alla richiesta di favoloso da parte del pubblico, vorrei dire nello stesso modo in cui oggi riviste in carta patinata ci dimostrano l'esistenza dei dischi volanti e in televisione ci raccontano che le Piramidi sono state costruite da una civiltà extraterrestre. Ancora nella Chronica di Norimberga, che pure è del 1493, o nel secolo successivo negli atlanti di Ortelius, le carte rappresentavano i mostri misteriosi che si pensava abitassero in quelle contrade che pure le mappe rappresentavano già in modo cartograficamente accettabile. Forse i medievali erano cartograficamente ingenui, ma molti storici moderni sono stati più ingenui di loro e non hanno saputo interpretare i loro criteri proiettivi.

Un altro falso che ha cambiato la storia del mondo? La Donazione di Costantino. Oggi, dopo Lorenzo Valla, noi sappiamo che il Constitutum non era autentico. Eppure senza quel documento, senza la credenza profonda nella sua autenticità, la storia europea avrebbe avuto un decorso diverso, nessuna lotta per le investiture, nessuna lotta mortale per il Sacro Romano Impero, nessun potere temporale dei Papi, nessuno schiaffo di Anagni ma nessuna Cappella Sistina - che sorge dopo che la Donazione è stata messa in causa, ma può sorgere perché per secoli è stata creduta vera.

Nella seconda metà del secolo XII era pervenuta in Occidente una lettera che raccontava come nel lontano est, al di là delle regioni occupate dai musulmani, al di là di quelle terre che i crociati avevano cercato di sottrarre al dominio degli infedeli, ma che al loro dominio erano tornate, fioriva un regno cristiano, governato da un favoloso Prete Gianni, o Presbyter Johannes, re potentia et

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virtute dei et domini nostri Iesu Christi. La lettera iniziava dicendo: sappi e fermamente credi che io, Prete Gianni, sono signore dei signori e in ogni ricchezza che c'è sotto il cielo, e in virtù e in potere supero tutti i re della terra. Settantadue re ci pagano i tributi. Sono un devoto cristiano e ovunque proteggo e sostengo con elemosine i cristiani veri governati dalla sovranità della mia Clemenza [...] La nostra Sovranità si estende sulle tre Indie dall'India Maggiore, dove riposa il corpo dell'apostolo Tommaso, i nostri domini si inoltrano nel deserto, si spingono verso i confini d'Oriente e ripiegano poi verso Occidente sino a Babilonia deserta, presso la torre di Babele [...] Nei nostri domini nascono e vivono elefanti, dromedari, cammelli, ippopotami, coccodrilli, metagallinari, cameteterni, tinsirete, pantere, onagri, leoni bianchi e rossi, orsi e merli bianchi, cicale mute, grifoni, tigri, sciacalli, iene, buoi selvatici, sagittari, uomini selvatici, uomini cornuti, fauni, satiri e donne della stessa specie, pigmei, cinocefali, giganti alti quaranta cubiti, monocoli, ciclopi, un uccello chiamato fenice e pressoché ogni tipo di animale che vive sotto la volta del cielo [...] In una delle nostre provincie scorre un fiume che chiamano Indo. Questo fiume, che sgorga dal Paradiso, distende i suoi meandri per bracci diversi per l'intera provincia e in esso si trovano pietre naturali, smeraldi, zaffiri, carbonchi, topazi, crisoliti, onici, berilli, ametiste, sardonici e molte altre pietre preziose [...] Nelle regioni estreme della terra [...] possediamo un'isola [...] nella quale per tutto l'anno, due volte alla settimana, Dio fa piovere in grande abbondanza la manna che le popolazioni raccolgono e mangiano, né vivono di cibo diverso da questo. Infatti non arano, non seminano, non mietono, né in nessun modo smuovono la terra per trarne il suo frutto più ricco [...] Tutti costoro, che si nutrono solo di cibo celeste, vivono cinquecent'anni. Tuttavia, giunti all'età di cento anni, ringiovaniscono e riprendono forza bevendo per tre volte l'acqua di una fonte che sgorga alla radice di un albero che si trova in quel luogo [...] Tra di noi nessuno mente [...] Tra di noi non vi è chi sia adultero. Nessun vizio ha potere presso di noi. (5) Tradotta e parafrasata più volte nel corso dei secoli seguenti, sino al Seicento, e in varie lingue e versioni, la lettera ha avuto una importanza decisiva per l'espansione dell'Occidente cristiano verso Oriente. L'idea che al di là delle terre musulmane potesse esistere un regno cristiano legittimava tutte le imprese di espansione ed esplorazione. Di Prete Gianni parleranno Giovanni Pian del Carpine, Guglielmo di Rubrouck e Marco Polo. Verso la metà del XIV secolo il regno di Prete Gianni si sposterà da un oriente impreciso verso l'Etiopia, quando i navigatori portoghesi affronteranno l'avventura africana. Contatti con Gianni saranno tentati nel XV secolo da Enrico IV d'Inghilterra, dal duca di Berry, da papa Eugenio IV. A Bologna, all'epoca dell'incoronazione di Carlo

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V, si discute ancora di Gianni come alleato possibile per la riconquista del Santo Sepolcro. Come nasce, a che cosa mirava la lettera di Prete Gianni? Forse era un documento di propaganda antibizantina, prodotto negli scriptoria di Federico I, ma il problema non è tanto quello della sua origine (l'epoca abbondava di falsi d'ogni categoria), (6) bensì quello della sua ricezione. Attraverso il fantasticare geografico si è via via rafforzato un progetto politico. In altre parole, il fantasma evocato da qualche scriba in vena di falsificazioni (genere letterario stimabilissimo all'epoca), ha agito come alibi per l'espansione del mondo cristiano verso Africa e Asia, amichevole sostegno del fardello dell'uomo bianco.

Un'altra invenzione che è stata densa di risultati storici è stata quella della confraternita dei Rosa-Croce. Molti hanno tratteggiato il clima di straordinario rinnovamento spirituale che si profila all'inizio del secolo XVII, quando si fa strada l'idea dell'inizio di un Secolo Aureo. Questo clima di attesa pervade in forme diverse (in un gioco di mutue influenze) sia l'area cattolica che quella protestante: si profilano progetti di repubbliche ideali, dalla Città del Sole di Campanella alla Christianopolis di Johann Valentin Andreae, aspirazioni a una monarchia universale, a un generale rinnovamento dei costumi e della sensibilità religiosa, proprio mentre l'Europa, nel periodo intorno alla guerra dei trent'anni, avvampa di conflitti nazionali, odi religiosi, e l'affermarsi della ragion di stato. Nel 1614 appare un manifesto, intitolato Fama Fraternitatis R.C., dove la misteriosa confraternita dei Rosa-Croce palesa la propria esistenza, dà notizie sulla propria storia e sul proprio mitico fondatore, Christian Rosencreutz - il quale sarebbe vissuto nel XV secolo e avrebbe appreso rivelazioni segrete da sapienti arabi ed ebrei nel corso delle sue peregrinazioni in Oriente. Nel 1615 apparirà, insieme alla Fama, che era scritta in tedesco, anche il secondo manifesto, in latino, la Confessio fraternitatis Roseae crucis. Ad eruditos Europae. Il primo manifesto auspica che possa sorgere anche in Europa una società che possieda oro, argento e pietre preziose in abbondanza e li distribuisca ai re per soddisfare le loro necessità e scopi legittimi: una società che educhi i governanti ad apprendere tutto ciò che Dio ha concesso all'uomo di conoscere e li soccorra con i suoi consigli. Tra metafore alchemiche e invocazioni più o meno messianiche, entrambi i manifesti insistono sul carattere segreto della confraternita e sul fatto che i loro membri non possono palesare la propria natura («il nostro edificio - se anche centomila persone lo avessero visto da vicino - sarà in eterno intangibile, indistruttibile e nascosto al mondo empio»). Per cui maggiormente ambiguo può apparire l'appello finale della Fama, a tutti i dotti d'Europa, a prendere contatto con gli estensori del manifesto: «Anche

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se per ora non abbiamo rivelato i nostri nomi, né quando c'incontriamo, tuttavia verremo senz'altro a sapere l'opinione di tutti, in qualunque lingua sia espressa; e chiunque ci farà pervenire il suo nome potrà conferire con uno di noi a viva voce o, se vi fosse qualche impedimento, per iscritto.» Quasi immediatamente, da ogni parte d'Europa si iniziano a scrivere appelli ai Rosa-Croce. Nessuno afferma di conoscerli, nessuno si dice Rosa-Croce, tutti in qualche modo cercano di far capire che si trovano in assoluta sintonia con quel programma. Parlano agli introvabili Rosa-Croce Julius Sperber, Robert Fludd, Michael Maier, che in Themis aurea (1618) sostiene che la confraternita esiste realmente, anche se l'autore ammette di essere persona troppo umile per averne mai potuto far parte. Ma, come osserva Frances Yates, (7) il comportamento abituale degli scrittori rosacrociani è non solo di affermare che essi non sono rosacrociani, ma che neppure hanno mai incontrato un solo membro della confraternita. Tanto per incominciare, Johann Valentin Andreae e tutti i suoi amici del circolo di Tubinga, che furono immediatamente sospettati di essere gli autori dei manifesti, passarono la vita o a negare il fatto o a minimizzarlo come un gioco letterario, un errore di gioventù. D'altra parte, non solo non esistono prove storiche dell'esistenza dei Rosa-Croce, ma per definizione non possono esisterne. Ancora oggi, nei documenti ufficiali dell'AMORC (Anticus and Mysticus Ordo Rosae Crucis, il cui tempio, ricco di iconografia egizia, si può visitare a San José di California), si afferma che i testi originari che legittimano l'ordine certamente ci sono, ma per ovvie ragioni rimarranno segreti e rinchiusi in archivi inaccessibili. Ma non ci interessano tanto i rosacrociani d'oggi, che sono folklore, bensì quelli storici. Sin dall'uscita dei due primi manifesti appaiono pamphlet di segno opposto che attaccano la confraternita con accuse di vario genere, e in particolare di falsità e ciarlataneria. Nel 1623 appaiono a Parigi manifesti anonimi che annunciano l'arrivo dei Rosa-Croce in città, e questo annuncio scatena feroci polemiche, da parte di ambienti sia cattolici che libertini; la voce comune che vuole i Rosa-Croce adoratori di Satana è espressa da un anonimo Effroyables pactions faites entre le diable et les prétendus invisibles, sempre del 1623. Persino Descartes, che nel corso di un viaggio in Germania aveva tentato - si diceva - di avvicinarli (ovviamente senza successo), al suo ritorno a Parigi è sospettato di appartenere alla confraternita, e si cava d'impaccio con un colpo da maestro: siccome era leggenda comune che i Rosa-Croce fossero invisibili, si fa vedere in molte pubbliche occasioni e così sfata la diceria che lo concerne, come racconta Baillet nella sua Vie de Monsieur Descartes. Un certo Neuhaus pubblica, prima in tedesco e poi in francese nel 1623, un Advertissement pieux et utile des frères de la Rose-Croix dove si domanda se ve ne siano, chi siano, da dove abbian preso il loro nome, e a qual fine si siano pubblicamente palesati; e conclude con lo straordinario argomento che «poiché

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cambiano e anagrammano i loro nomi, e celano la loro età, e vengono senza farsi riconoscere, non v'è Logico che possa negare che necessariamente essi esistano». Questo ci dice come bastasse un qualsiasi appello alla riforma spirituale dell'umanità per scatenare le reazioni più paradossali, come se tutti fossero stati in attesa di un evento decisivo. Jorge Luis Borges, nel suo «Tlön, Uqbar, Orbis Tertius», racconta di un paese improbabile, descritto da una enciclopedia introvabile. Dalle ricerche su questo paese emerge, per altri vaghi indizi, basati su testi che si plagiano l'un l'altro, che in effetti ciò che è in gioco è un intero pianeta, «con le sue architetture e le sue guerre, col terrore delle sue mitologie e il rumore delle sue lingue, con i suoi imperatori e i suoi mari, con i suoi minerali e i suoi uccelli, e i suoi pesci, con la sua algebra e il suo fuoco, con le sue controversie teologiche e metafisiche.» Questa creatura è creazione di «una società segreta di astronomi, di ingegneri, di metafisici, di poeti, di chimici, di moralisti, di pittori, di geometri... sotto la direzione di un oscuro uomo di genio». Ci troviamo di fronte a una tipica invenzione borgesiana: l'invenzione di una invenzione. Tuttavia i lettori di Borges sanno che Borges non ha mai inventato nulla: le sue storie più paradossali nascono da una rilettura della storia. Infatti ad un certo punto Borges dice che una delle sue fonti è stata un'opera di Johann Valentin Andreae che (ma Borges attingeva la notizia di seconda mano da De Quincey) «descrisse la comunità immaginaria dei Rosa-Croce; comunità che altri, poi, fondò realmente sull'esempio di ciò che colui aveva immaginato». Infatti il racconto rosacrociano ha prodotto sviluppi storici di non poco rilievo. La massoneria simbolica, come trasformazione della massoneria operativa (rappresentata da effettive confraternite di artigiani che avevano conservato nel corso dei secoli termini e cerimonie degli antichi costruttori di cattedrali), nasce nel Settecento ad opera di alcuni gentiluomini inglesi. Con le Costituzioni di Anderson la massoneria simbolica cerca di legittimarsi sostenendo l'antichità delle sue origini, che vengono fatte risalire ai costruttori del Tempio di Salomone. Negli anni seguenti, attraverso l'opera di Ramsay, da cui prende origine la massoneria detta scozzese, si inserisce nel mito delle origini il rapporto tra i costruttori del Tempio e i Templari, la cui tradizione segreta perverrebbe alla massoneria moderna attraverso la mediazione della confraternita dei Rosa-Croce. Se nella massoneria delle origini il tema rosacrociano introduce elementi mistici e occultistici in una organizzazione ormai concorrenziale col trono e con l'altare, all'inizio del XIX secolo sarà proprio a difesa del trono e dell'altare che il mito rosacrociano e templare verrà ripreso per combattere lo spirito dell'illuminismo. Sul mito delle società segrete, e sul fatto che esistessero dei Superiori Sconosciuti che dirigevano il destino del mondo, si

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discuteva già prima della rivoluzione francese. Nel 1789 il Marchese de Luchet (nel suo Essai sur la secte des illuminés) avvertiva: «si è formata in seno alle tenebre più dense una società di nuovi esseri che si conoscono senza essersi mai visti... Questa società adotta del regime gesuitico l'obbedienza cieca, della massoneria le prove e le cerimonie esteriori, dei Templari le evocazioni sotterranee e l'incredibile audacia.» Tra il 1797 e il 1798, in risposta alla rivoluzione francese, l'Abate Barruel aveva scritto i suoi Mémoires pour servir à l'histoire du jacobinisme, un libro apparentemente storico che però si legge come un romanzo d'appendice. Dopo essere stati distrutti da Filippo il Bello, i Templari si trasformano in una società segreta per distruggere la monarchia e il papato. Nel diciottesimo secolo essi s'impadroniscono della massoneria e creano una sorta di accademia i cui diabolici membri sono Voltaire, Turgot, Condorcet, Diderot e d'Alembert - e da questo cenacolo prendono origine i Giacobini. Ma gli stessi Giacobini sono controllati da una società ancor più segreta, quella degli Illuminati di Baviera, regicidi per vocazione. La rivoluzione francese è stata l'effetto finale di questo complotto. Non conta che vi fossero profonde differenze tra la massoneria laica e illuminista e la massoneria degli «illuminati», occultista e templare, non conta che il mito dei Templari fosse già stato liquidato da un fratello-compagno di strada che altra strada avrebbe poi preso, e dico Joseph de Maistre... La storia era troppo affascinante. Il libro di Barruel non conteneva alcun riferimento agli ebrei. Ma nel 1806 Barruel ricevette una lettera da un certo capitano Simonini che gli ricordava come sia Mani che il Veglio della Montagna di musulmana memoria (con il quale i Templari erano stati sospettati d'intelligenza) fossero ebrei (e vedete che qui il gioco delle ascendenze occulte si fa vertiginoso). La massoneria era stata fondata dagli ebrei, che si erano infiltrati in tutte le società segrete. Barruel non raccolse pubblicamente questa voce, che peraltro non produsse effetti interessanti sino alla metà del secolo, quando i gesuiti iniziarono a preoccuparsi degli ispiratori anticlericali del Risorgimento, come Garibaldi, che erano affiliati alla massoneria. L'idea di mostrare che i Carbonari erano gli emissari di un complotto giudeo-massonico appariva polemicamente fruttuosa. Ma gli stessi anticlericali, sempre nel XIX secolo, tentarono di diffamare i gesuiti, per mostrare che altro non facevano che complottare contro il bene dell'umanità. Più che alcuni scrittori «seri» (da Michelet e Quinet a Garibaldi e Gioberti), l'autore che rese popolare questo motivo fu un romanziere, Eugène Sue. Nell'Ebreo errante il malvagio Monsieur Rodin, quintessenza della cospirazione gesuitica, appare chiaramente come una replica dei Superiori Sconosciuti di memoria sia massonica che clericale. Monsieur Rodin rientra in scena nell'ultimo romanzo di Sue, I misteri del popolo,

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dove l'infame piano gesuitico viene esposto nei minimi dettagli. Rodolfo di Gerolstein, che migra in questo romanzo dai Misteri di Parigi, denuncia il piano gesuitico, avvertendo «con quanta astuzia è stato organizzato questo complotto infernale, quali sciagure spaventevoli, quale genere di orrenda schiavitù, quale destino di dispotismo esso significhi per l'Europa...» Dopo che sono apparsi i romanzi di Sue, nel 1864 un certo Maurice Joly scrive un libello di ispirazione liberale contro Napoleone III, in cui Machiavelli, che rappresenta il cinismo del dittatore, parla con Montesquieu. Il complotto gesuita descritto da Sue viene ora attribuito da Joly a Napoleone III. Nel 1868 Hermann Goedsche, che aveva già pubblicato altri libelli manifestamente calunniosi, scrisse un romanzo popolare, Biarritz, sotto lo pseudonimo di Sir John Retcliffe, dove descrive una cerimonia occulta nel cimitero di Praga. Goedsche altro non fa che copiare una scena dal Giuseppe Balsamo di Dumas (del 1849) in cui si descrive l'incontro tra Cagliostro, capo dei Superiori Sconosciuti, e altri illuminati, quando tutti insieme progettano l'affare della Collana della Regina. Ma invece che Cagliostro & Co., Goedsche fa apparire i rappresentanti delle dodici tribù di Israele, che si riuniscono per preparare la conquista del mondo. Cinque anni dopo la stessa storia sarà ripresa da un libello russo (Gli ebrei, signori del mondo), ma come se si trattasse di cronaca vera. Nel 1881, Le contemporain ripubblica la stessa storia, asserendo che proviene da una fonte sicura, il diplomatico inglese Sir John Readcliff. Nel 1896 François Bournand usa di nuovo il discorso del Gran Rabbino (che questa volta si chiama John Readcliff) nel suo libro Les Juifs, nos contemporains. Da questo punto in avanti, l'incontro massonico inventato da Dumas, fuso col progetto gesuitico inventato da Sue e attribuito da Joly a Napoleone III, diventa il vero discorso del Gran Rabbino e riappare in varie forme e in vari luoghi. Entra ora in scena Pëter Ivanovic Rakovskij, un russo già sospetto di contatti con gruppi di rivoluzionari e nichilisti e che poi (dovutamente pentito) si era avvicinato alle Centurie Nere, una organizzazione terroristica di estrema destra, ed era divenuto prima informatore e poi capo della polizia politica zarista (l'Okhrana). Ora Rakovskij, per aiutare il suo protettore politico (il conte Sergej Witte), preoccupato da un suo oppositore, Elie de Cyon, aveva fatto perquisire la casa di Cyon e aveva trovato un libello in cui Cyon aveva ricopiato il testo di Joly contro Napoleone III, ma attribuendo le idee di Machiavelli a Witte. Rakovskij, ferocemente antisemita - questi fatti avvenivano al tempo dell'affare Dreyfus aveva preso quel testo, vi aveva cancellato ogni riferimento a Witte, e aveva attribuito quelle idee agli ebrei. Non ci si può chiamare Cyon, sia pure con la C, senza evocare un complotto ebraico. Il testo corretto da Rakovskij rappresentò probabilmente la fonte primaria dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Questo testo rivela la sua fonte romanzesca perché è poco credibile, se non in un romanzo di Sue, che i «cattivi» esprimano in modo così scoperto e svergognato

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i loro malvagi progetti. I Savi dichiarano candidamente di avere «un'ambizione sconfinata, una ingordigia divoratrice, un desiderio spietato di vendetta e un odio intenso». Vogliono abolire la libertà di stampa ma incoraggiano il libertinaggio. Criticano il liberalismo, ma sostengono l'idea delle multinazionali capitaliste. Per provocare la rivoluzione in ogni paese intendono esarcebare la disuguaglianza sociale. Vogliono costruire metropolitane per poter minare le grandi città. Vogliono abolire lo studio dei classici e della storia antica, intendono incoraggiare lo sport e la comunicazione visiva per rimbecillire la classe lavoratrice... Era facile riconoscere nei Protocolli un documento prodotto nella Francia ottocentesca, perché essi abbondano di riferimenti a problemi della società francese dell'epoca, ma era anche facile riconoscere tra le fonti molti e notissimi romanzi popolari. Ahimè, la storia ancora una volta - era narrativamente così convincente che fu facile prenderla sul serio. Il resto di questa storia è Storia. Un monaco itinerante russo, Sergej Nilus, per sostenere le proprie ambizioni «rasputiniane», ossessionato dall'idea dell'Anticristo, pubblica e commenta il testo dei Protocolli. Dopo di che il testo viaggia attraverso l'Europa sino a pervenire nelle mani di Hitler... (8)

Abbiamo esplorato alcune false opinioni che hanno fatto epoca, e di cui tutti hanno più o meno sentito parlare. Ma ci sono altre idee deliranti di cui ci siamo dimenticati. Sin dal 1925 negli ambienti nazisti si pubblicizzava la teoria di uno pseudoscienziato austriaco, Hans Hörbiger, chiamata WEL, vale a dire Welteislehre, o teoria del ghiaccio eterno. Essa aveva goduto dei favori di uomini come Rosenberg e Himmler. Ma con l'ascesa di Hitler al potere Hörbiger fu preso sul serio anche in alcuni ambienti scientifici, per esempio da uno studioso come Lenard, che aveva scoperto i raggi X con Roentgen. Secondo la teoria del ghiaccio eterno (esposta sin dal 1913 da Philip Fauth nel suo Glacial-Kosmogonie) (9) il cosmo è il teatro di una lotta eterna tra ghiaccio e fuoco, che produce non una evoluzione ma un alternarsi di cicli, o di epoche. C'era un tempo un enorme corpo ad alta temperatura, milioni di volte più grande del sole, che era entrato in collisione con una immensa accumulazione di ghiaccio cosmico. La massa di ghiaccio era penetrata in questo corpo incandescente, e dopo aver lavorato al suo interno come vapore per centinaia di milioni di anni, aveva fatto esplodere il tutto. Vari frammenti sono stati proiettati sia nello spazio ghiacciato che in una zona intermedia dove hanno costituito il sistema solare. La Luna, Marte, Giove e Saturno, sono ghiacciati, e un anello di ghiaccio è la Via Lattea, nella quale l'astronomia tradizionale vede delle stelle; ma si tratta di trucchi fotografici. Le macchie solari sono prodotte da blocchi di ghiaccio che si staccano da Giove. Ora la forza dell'esplosione originaria va diminuendo e ogni

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pianeta non compie una rivoluzione ellittica, come erroneamente crede la scienza ufficiale, ma una approssimazione a spirale (impercettibile) intorno al pianeta maggiore che lo attira. Alla fine del ciclo in cui stiamo vivendo, la Luna si approssimerà sempre più sulla Terra, facendo via via alzare le acque degli oceani, sommergendo i tropici e lasciando emergere solo le montagne più alte, i raggi cosmici diventeranno più potenti e determineranno mutazioni genetiche. Infine il nostro satellite scoppierà trasformandosi in un anello di ghiaccio, acqua e gas, che alla fine precipiterà sul globo terrestre. A causa di complesse vicende dovute all'influenza di Marte, anche la Terra si trasformerà in un globo di ghiaccio e alla fine sarà riassorbita dal Sole. Poi ci sarà una nuova esplosione e un nuovo inizio, così come d'altra parte nel passato la Terra aveva già avuto e poi riassorbito altri tre satelliti. Questa cosmogonia presupponeva una sorta di Eterno Ritorno che si rifaceva a miti ed epopee antichissime. Ancora una volta quello che anche i nazisti odierni chiamano il sapere della Tradizione veniva opposto così al falso sapere della scienza liberale e giudaica. In più una cosmogonia glaciale sembrava molto nordica e ariana. Nel loro Il mattino dei maghi Pauwels e Bergier (10) attribuiscono a questa profonda credenza nelle origini glaciali del cosmo la fiducia, nutrita da Hitler, che le sue truppe avrebbero potuto cavarsela benissimo nel gelo del territorio russo. Ma sostengono anche che l'esigenza di provare come avrebbe reagito il ghiaccio cosmico aveva ritardato anche gli esperimenti sulle V1. Ancora nel 1952 tale Elmar Brugg aveva pubblicato un libro in onore di Hörbiger come Copernico del XX secolo, sostenendo che la teoria del ghiaccio eterno spiegava i legami profondi che uniscono gli avvenimenti terreni alle forze cosmiche, e concludeva che il silenzio della scienza democratico-giudaica nei confronti di Hörbiger era un caso tipico di cospirazione dei mediocri. Che intorno al partito nazista agissero cultori di scienze magico-ermetiche e neotemplaristiche, ad esempio gli adepti della Thule Gesellschaft fondata da Rudolf von Sebottendorff, è fenomeno che è stato ampiamente studiato. (11) Nell'ambiente nazista si sarebbe anche prestato orecchio a un'altra teoria, quella per cui la terra è vuota e noi non abitiamo fuori, sulla crosta esterna, convessa, ma dentro, nella superficie concava interna. La teoria era stata enunciata a inizio Ottocento da un certo capitano J. Cleves Symmes dell'Ohio che aveva scritto a varie società scientifiche: «A tutto il mondo: io dichiaro che la terra è vuota e abitabile all'interno, che essa contiene un certo numero di sfere solide, concentriche, cioè poste l'una dentro l'altra, e che è aperta ai due poli per una estensione di dodici o sedici gradi.» Presso l'Academy of Natural Sciences di Filadelfia si conserva ancora il modello, in legno, del suo universo. La teoria era stata ripresa dopo la metà del secolo da Cyrus Reed Teed, il quale specificava che quello che noi crediamo il cielo è una massa di gas, che riempie l'interno del globo, con delle zone di luce

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brillante. Ma il sole, la luna e le stelle non sarebbero stati dei globi celesti bensì degli effetti visivi provocati da vari fenomeni. Dopo la prima guerra mondiale la teoria viene introdotta in Germania da Peter Bender, e poi da Karl Neupert, che fonda il movimento della Hohlweltlehre, la teoria della terra vuota. Secondo alcune fonti (12) nelle alte gerarchie tedesche la teoria venne presa sul serio, e in alcuni ambienti della marina germanica si riteneva che la teoria della terra cava permettesse di stabilire con più esattezza le posizioni delle navi inglesi perché, se si fossero usati raggi infrarossi, la curvatura della terra non avrebbe oscurato l'osservazione. Si dice persino che furono sbagliati alcuni tiri con le V1 proprio perché si calcolava la traiettoria partendo dall'ipotesi di una superficie concava e non convessa. Dove - se è vero - si vede l'utilità storica e provvidenziale delle astronomie deliranti. Ma è facile dire che i nazisti erano matti e che, salvo il buon Martin Borman che è sempre dato nascosto da qualche parte, sono morti tutti. Il fatto è che se andate su Internet e chiedete a qualsiasi motore di ricerca di trovarvi siti che si occupano della Hollow Earth, ovvero della Terra Cava, trovate che esistono ancora in giro moltissimi seguaci della teoria. Ed è inutile dire che i siti (e i libri che essi pubblicizzano) siano creati da alcuni marpioni che speculano su un pubblico di allocchi e/o di devoti del New Age. Il problema sociale e culturale non è rappresentato dai marpioni, ma dagli allocchi, che evidentemente sono ancora una legione. (13)

Che cosa accomuna tutti i racconti di cui ho detto, e che cosa li ha resi così persuasivi e credibili? La Donazione di Costantino non è stata creata probabilmente come falso esplicito, ma come esercitazione retorica, che solo più tardi qualcuno ha incominciato a prendere sul serio. I manifesti dei Rosa-Croce erano, almeno a detta dei loro sospetti autori, un gioco erudito e, se non uno scherzo, almeno un esercizio letterario ascrivibile al genere delle utopie. La lettera di Prete Gianni era certamente un falso intenzionale, ma certamente non pretendeva di produrre gli effetti che ha prodotto. Cosma Indicopleuste ha peccato di fondamentalismo, debolezza perdonabile per l'epoca in cui viveva, ma come si è visto nessuno l'aveva preso davvero sul serio e il suo testo è stato maliziosamente riesumato come «autorevole» solo più di mille anni dopo. I Protocolli nascono inizialmente quasi da soli, per agglomerazione di temi romanzeschi che via via accendono l'immaginazione di alcuni fanatici e si trasformano strada facendo. Eppure ciascuno di questi racconti aveva un pregio: appariva narrativamente verosimile, più della realtà quotidiana o storica, che è ben più complessa ed incredibile, sembrava spiegar bene qualche cosa che altrimenti era più difficile da comprendere. Riconsideriamo il racconto di Tolomeo. Oggi noi sappiamo che

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l'ipotesi tolemaica era scientificamente falsa. Eppure, se la nostra intelligenza è ormai copernicana, la nostra percezione è ancora tolemaica: noi non solo vediamo il sole nascere a oriente e viaggiare lungo l'arco del giorno, ma ci comportiamo come se il sole girasse e noi restassimo fermi. E lo diciamo: «il sole nasce, è alto nel cielo, cala, tramonta...» Così parla, pensa e percepisce, tolemaicamente, anche il professore di astronomia. Perché si doveva rifiutare il racconto della Donazione di Costantino? Garantiva una continuità del potere dopo il collasso dell'impero, perpetuava una idea di latinità, indicava una guida, un punto di riferimento tra i bagliori delle stragi perpetrate dai molteplici proci che si contendevano il talamo di Europa... Perché rifiutare il racconto di Cosma? Per altri versi era stato un viaggiatore attento, un diligente raccoglitore di curiosità geografiche e storiche, e inoltre la sua teoria della terra piatta almeno da un punto di vista narrativo - esibiva qualche verisimiglianza. La terra era un grande rettangolo delimitato da quattro immense pareti che sostenevano due strati di volta celeste: sul primo brillavano le stelle e nella intercapedine, o soletta, vivevano i Beati. I fenomeni astronomici erano spiegati dalla presenza di un'altissima montagna a nord, che nascondendo il sole creava la notte, e inframettendosi tra sole e luce produceva le eclissi... Come qualcuno ha notato, persino la teoria della terra cava di Teed era difficile da confutare da parte dei matematici del XIX secolo, perché era possibile proiettare la superficie convessa della terra su di una superficie concava senza che si notassero troppe discrepanze. Perché rifiutare il racconto dei Rosa-Croce se veniva incontro a una attesa di concordia religiosa? E perché rifiutare il racconto dei Protocolli se riusciva a spiegare tanti eventi storici con il mito del complotto? Come ci ha ricordato Karl Popper «la teoria sociale della cospirazione... è simile a quella rilevabile in Omero. Questi concepiva il potere degli dei in modo che tutto ciò che accadeva nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate nell'Olimpo. La teoria sociale della cospirazione... è una conseguenza del venir meno del riferimento a Dio, e della conseguente domanda: "Chi c'è al suo posto?" Quest'ultimo è ora occupato da diversi uomini e gruppi potenti sinistri gruppi di pressione, cui si può imputare di avere organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui soffriamo». (14) Perché ritenere assurda la credenza nella cospirazione e nel complotto, quando ancor oggi viene usata per spiegare il fallimento delle proprie azioni, o il fatto che gli eventi abbiano preso una piega diversa da quella voluta? I falsi racconti sono anzitutto racconti, e i racconti, come i miti, sono sempre persuasivi. E di quanti altri falsi racconti si potrebbe parlare... Per esempio, del mito della Terra Australe, questo immenso continente che avrebbe dovuto estendersi lungo tutta la calotta polare e subtropicale antartica. La ferma credenza

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nell'esistenza di questa terra (asseverata da innumerevoli carte geografiche che rappresentavano il globo avvolto, a sud, da questa sorta di ampia danda terricola), ha spinto navigatori di almeno tre secoli e vari paesi a tentare l'esplorazione dei mari australi e della stessa Antartide. Che dire dell'idea dell'Eldorado e della fontana dell'eterna giovinezza, che hanno spinto dissennati e coraggiosi eroi alla esplorazione delle due Americhe? Dell'impulso dato alla chimica nascitura dalle allucinazioni dovute al fantasma della pietra filosofale? Del racconto del flogisto, del racconto dell'etere cosmico? Dimentichiamo per un momento che alcuni di questi falsi racconti hanno prodotto effetti positivi, altri orrore e vergogna. Tutti hanno creato qualcosa, nel bene come nel male. Nulla è inspiegabile nel loro successo. Quello che costituisce problema è piuttosto come siamo riusciti a sostituirvi altri racconti, che oggi noi riteniamo veri. In un mio saggio su falsi e contraffazioni, di alcuni anni fa, concludevo che esistono certamente strumenti, vuoi empirici, vuoi congetturali, per provare che un qualche oggetto è falso, ma che ogni decisione in merito presuppone la credenza che esista un originale, autentico e vero, a cui il falso viene confrontato; ora, il vero problema conoscitivo non consiste nel provare che qualcosa sia un falso, ma nel provare che l'oggetto autentico sia tale. Eppure quest'ovvia considerazione non deve portarci a concludere che non esiste un criterio di verità, e che racconti detti falsi e racconti che riteniamo oggi veri si equivalgano, appartenendo entrambi al genere letterario della finzione narrativa. Esiste una pratica della verificazione che si basa sul lavoro lento, collettivo, pubblico, di quella che Charles Sanders Peirce chiamava la Comunità. E per umana fede nel lavoro di questa comunità che noi possiamo dire, con una certa tranquillità, che il Constitutum Constantini era un falso, che la terra gira intorno al sole e che san Tommaso sapeva almeno che era rotonda. Al massimo, il riconoscere che la nostra storia è stata mossa da molti racconti che ora riconosciamo come falsi, deve renderci attenti, capaci di rimettere continuamente in questione gli stessi racconti che ora teniamo per veri, poiché il criterio della saggezza della comunità si fonda sulla vigilanza continua nei confronti della fallibilità del nostro sapere. E' apparso qualche anno fa in Francia un libro di Jean-François Gautier, intitolato L'univers existe-t-il? (15) Esiste l'universo? Bella domanda. E se l'universo fosse un concetto come l'etere cosmico, il flogisto, la cospirazione dei Savi Anziani di Sion? Le argomentazioni di Gautier sono filosoficamente sensate. Quella dell'universo, come totalità del cosmo, è una idea che proviene delle più antiche cosmografie, cosmologie e cosmogonie. Ma si può descrivere, come se lo si vedesse dall'alto, qualcosa entro cui siamo contenuti, di cui siamo parte e da cui non possiamo uscire? Si può dare geometria descrittiva dell'universo quando non esiste uno spazio

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fuori di esso su cui proiettarlo? Si può parlare di inizio dell'universo, quando una nozione temporale come quella d'inizio deve riferirsi al parametro di un orologio, mentre l'universo è al massimo l'orologio di se stesso e non può essere riferito a nulla che gli sia esterno? Si può dire con Eddington che «un centinaio di miliardi di stelle costituiscono una galassia; un centinaio di miliardi di galassie costituiscono l'universo» quando, osserva Gautier, mentre una galassia è un oggetto osservabile, l'universo non lo è, e quindi si sta stabilendo una analogia indebita tra due entità incommensurabili? Si può postulare l'universo per poi studiare con strumenti empirici questo postulato come se fosse un oggetto? Può esistere un oggetto singolare (certo il più singolare tra tutti) che abbia per caratteristica quella di essere solo una legge? E se la storia del Big Bang fosse un racconto altrettanto fantasioso di quello gnostico che voleva l'universo nato dal lapsus di un Demiurgo maldestro? In fondo questa critica della nozione di Universo ricalca la critica kantiana della nozione di Mondo. Visto che a qualcuno il sospetto che il sole non girasse intorno alla terra è parso a un certo momento storico altrettanto folle ed esecrando che il sospetto che l'universo non esista, è utile tenere la mente sgombra e fresca anche per il momento in cui la comunità degli uomini di scienza decretasse che l'idea di universo è stata una illusione, come la terra piatta e i Rosa-Croce. In fondo il primo dovere dell'uomo di cultura è quello di tenersi all'erta per riscrivere ogni giorno l'enciclopedia. NOTE: (1) Versione accresciuta di una Prolusione all'inaugurazione dell'Anno Accademico 1994-1995, Università di Bologna. (2) Inventing the Flat Earth (New York, 1991). (3) History of Planetry Systems from Thales to Kepler, di J.L.E. Dreyer (Cambridge: Cambridge University Press, 1906). (4) Milano: Feltrinelli, 1971, pubblicato originalmente in olandese nel 1950 e dalla Oxford University Press nel 1961 come The Mechanization of the World Picture. (5) Si veda, anche per le considerazioni che seguono, Gioia Zaganelli, La lettera del Prete Gianni (Parma: Pratiche, 1990). (6) Cfr. Umberto Eco, «Falsi e contraffazioni», in I limiti dell'interpretazione (Milano: Bompiani, 1990). (7) L'illuminismo dei Rosa-Croce (Torino: Einaudi, 1976). (8) So benissimo di aver ripreso questa storia sia nel Pendolo di Foucault che in Sei passeggiate nei boschi narrativi. Ma è sempre bene ripeterla, e purtroppo non basterà mai. Come sempre le notizie, oltre che da alcune personali escursioni nel mondo del roman feuilleton, derivano in gran parte da Norman Cohn, Licenza per un genocidio (Torino: Einaudi, 1969) e da quella inesauribile riserva di argomenti antisemiti che è Nesta Webster, Secret societies and subversive movements (London: Boswell, 1924).

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(9) Ph. Fauth, Hörbigers Glacial-Kosmogonie (Kaiserlauten: Hermann Kayser Verlag, 1913). (10) Louis Pauwels e Jacques Bergier, Il mattino dei maghi (Milano: Mondadori, 1963, II, 5-7). (11) Si veda per esempio Nicholas Goodrick-Clarke, The Occult Roots of Nazism (Wellingborough: Aquarian Press, 1985), o René Alleau, Hitler et les sociétés secrètes (Paris: Grasset, 1969). (12) Per esempio Gerard Kniper, dell'osservatorio di Monte Palomar, in un articolo apparso su Popular Astronomy nel 1946, e Willy Ley, che aveva lavorato in Germania alle V1, nel suo articolo «Pseudoscience in Naziland», in Astounding Science Fiction, 39, 1947. (13) Nel 1926 l'ammiraglio Byrd aveva sorvolato il Polo Nord e nel 1929 il Polo Sud senza vedere alcun buco che desse accesso all'interno della Terra, ma sui viaggi di Byrd è sorta una vasta letteratura (basta chiedere «Byrd» su Internet) in cui vari spiriti bizzarri interpretano i suoi rilievi nel senso esattamente contrario, come prova che i buchi d'accesso ci sono. Anche perché, fotografando le zone interessate durante il giorno, si nota una zona oscura che è la porzione di circolo artico che, durante i mesi invernali, non viene mai illuminata dal sole. Per chi volesse delle mappe che mostrano gli indotti polari che recano al centro della Terra, si vedano siti come www.v-j-enterprises.com/holearth.html, o www.ourhollowearth.com/Polaropn.htm. Per chi volesse penetrare più a fondo nell'arcipelago della Terra cava, si possono visitare numerosissimi siti, tra cui mi limiterò a citare healthresearcharchbooks.com/categories/hollowearth.html, oppure t0.or.at/subrise/holeaqod.htm. Naturalmente, a prezzo di non cedere alla credulità. (14) Congetture e confutazioni (Bologna: Mulino, 1972, p. 213). (15) Paris: Actes Sud, 1994. Come scrivo (1) NOTE: (1) Una prima versione era stata scritta per Maria Teresa Serafini (ed.), Come si scrive un romanzo (Milano: Strumenti Bompiani, 1996). La curatrice aveva rivolto a un gruppo di autori una serie di domande, che corrispondono ai paragrafi di questo mio testo. Nel frattempo ho pubblicato anche il mio quarto romanzo, Baudolino, e pertanto ho inserito nella presente versione anche alcune pagine dedicate a questa ultima esperienza narrativa. Gli inizi, remoti Come autore di opere narrative sono un soggetto piuttosto anomalo. Infatti ho iniziato a scrivere racconti e romanzi tra gli otto e i quindici anni, poi ho smesso, per riprendere solo alle soglie dei cinquanta. Prima di questa esplosione di matura impudenza, ho avuto più di trent'anni di presunto pudore. Ho detto «presunto». La cosa va spiegata. Andiamo per ordine e cioè, come mio costume narrativo,

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facendo un passo indietro. Ho iniziato a scrivere romanzi così. Prendevo un quaderno, e scrivevo il frontespizio. Il titolo era di tipo salgariano, perché quelle (insieme a Verne, a Boussenard, a Jacolliot, alle annate 1911-1921 del Giornale illustrato dei viaggi e delle avventure di terra e di mare, scoperte in una cassa in cantina) erano le mie fonti. Quindi titoli come Gli scorridori del Labrador o Lo sciabecco fantasma. Poi scrivevo in basso il nome dell'editore, che era Tipografia Matenna (audace ircocervo composto da «matita+penna»). Quindi procedevo a collocare ogni dieci pagine una illustrazione, sul tipo di quelle di Della Valle o Amato per le edizioni di Salgari. La scelta dell'illustrazione determinava la storia che avrei poi dovuto costruire. Di questa scrivevo alcune pagine del primo capitolo. Ma, per fare qualcosa di editorialmente corretto, scrivevo a stampatello, senza potermi consentire correzioni. Ovvio che dopo alcune pagine abbandonassi l'impresa. Così sono stato, a quell'epoca, solo l'autore di grandi romanzi incompiuti. Di questa produzione (andata persa in qualche trasloco) conservo solo un'opera finita ma di genere incerto. Avevo ricevuto infatti in regalo una sorta di gran quaderno, con le pagine appena venate di righe orizzontali e grandi margini verticali viola. Di lì l'idea di scrivere (il frontespizio reca la data del 1942, XXI Era Fascista, come era d'obbligo e d'uso) In nome del «Calendario», il diario di un mago Pirimpimpino che si presentava come scopritore, colonizzatore e riformatore di un'isola dell'Oceano Glaciale Artico, la Ghianda, i cui abitanti adoravano il dio Calendario. Questo Pirimpimpino annotava giorno per giorno, e con grande pignoleria documentaria, fatti e (direi oggi) strutture socio-antropologiche del suo popolo, inframmezzando però queste pagine diaristiche con esercizi letterari. Trovo un «racconto futurista» che recita: «Luigi era un brav'uomo, ragion per cui, baciati i piatti delle lepri, si recò al Laterano per comperare il passato prossimo [...] Ma per la strada cadde in una montagna e morì. Fulgido esempio di eroismo e filantropia, fu pianto dai pali telegrafici.» Per il resto il narratore descriveva (e disegnava) l'isola su cui regnava, boschi, laghi, coste e regioni montuose, si intratteneva sulle proprie riforme sociali, su riti e miti del suo popolo, presentava i propri ministri, parlava di guerre e pestilenze... Il testo si alternava a disegni e il racconto (che non rispondeva alle regole di alcun genere) sfociava nell'enciclopedia - e col senno di poi si vede come le audacie infantili possano determinare le debolezze dell'età adulta. Sino a che, non sapendo più che cosa far accadere e all'isola e al suo re, chiudevo la storia a pagina 29 con: «Intraprenderò un lungo viaggio... Forse non verrò neanche più; una piccola confessione: i primi giorni mi dichiarai mago. Non è vero: mi chiamo solo Pirimpimpino. Perdonatemi.» Dopo quelle prove avevo deciso che avrei dovuto darmi al fumetto, e ne avevo portati a termine alcuni. Se a quell'epoca fossero esistite

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le fotocopiatrici ne avrei fatto ampia distribuzione; invece, per sopperire alle mie limitazioni di amanuense, avevo proposto ai compagni di scuola di darmi un numero di quinterni di carta quadrettata equivalenti alle pagine dell'albo, più alcuni a compenso delle spese in inchiostro e fatica, promettendo di produrre più copie della stessi avventura. Avevo stilato tutti i contratti senza rendermi conto di come fosse faticoso replicare dieci volte lo stesso fumetto. Alla fine ho dovuto restituire i quinterni, umiliato per il mio fallimento non di autore, ma di editore. Nella scuola media scrivevo di narrativa perché all'epoca avevano sostituito i «temi» (a argomento obbligato) con le «cronache» (in cui si dovevano liberamente raccontare stralci di vita). Eccellevo in bozzetti umoristici. Il mio autore preferito era allora P.G. Wodehouse. Ancora conservo il mio capolavoro: la descrizione di come, essendomi preparato, dopo molte prove, a esibire a vicini e parenti una meraviglia tecnologica, e cioè uno dei primi bicchieri infrangibili, l'avevo lasciato cadere trionfalmente per terra dove, naturalmente, si era infranto. Tra il 1944 e il 1945 mi sono occupato di epica, con una parodia della Divina Commedia e una serie di ritratti degli dei dell'Olimpo rivisitati in quel periodo oscuro, alle prese con il tesseramento, l'oscuramento e le canzoni di Rabagliati. Tutto in endecasillabi. Per capirci, cose come: Ecco qui Apollo, l'anima più eletta di quell'Olimpo degli Dei magione, suonare qualche lieve musichetta, senza più cetra o lira, ed ha ragione; ei suona il pianoforte, la cornetta, il flauto, fisarmonica e trombone. Perché sprecar la lira se il denaro per comprar l'olio in questi tempi è caro? Infine, nei due anni del ginnasio, avevo scritto (con illustrazioni) una Vita illustrata di Euterpe Clips, e allora il modello letterario erano i romanzi di Giovanni Mosca e di Giovanni Guareschi. Negli anni di liceo avevo scritto alcuni racconti, con intenti letterari più seri. Direi che il tono dominante era un realismo magico alla Bontempelli. A lungo, svegliandomi di buon'ora, ho progettato di riscrivere un giorno «Il concerto», che conteneva una idea narrativa interessante. Tal Mario Tobia, compositore d'insuccesso, riuniva tutti i medium dell'universo perché producessero sul palcoscenico, in forma di ectoplasmi, i più grandi musicisti del passato, a eseguire il suo Corradino di Svevia. Beethoven che dirigeva, Liszt al pianoforte, Paganini al violino, e così via. Un solo contemporaneo, un jazzista nero, Louis Robertson, alla tromba. Non era male la descrizione di come a poco a poco i medium non riuscissero a tenere in vita le loro creature, e i grandi del passato si liquefacessero a poco a poco, tra miagolii e dissonanze di strumenti morenti, mentre sola restava, alta, magica, incontrastata, la tromba di Robertson.

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Dovrei lasciar riconoscere dai miei fedeli lettori (ventiquattro, per non competere col Grande che voglio superare solo in modestia) come entrambi gli spunti siano stati poi sfruttati, quarant'anni più tardi, nel Pendolo di Foucault. Avevo anche scritto delle Antiche storie del giovane universo, i cui protagonisti erano la terra e gli altri pianeti, poco dopo la nascita delle galassie, presi da gelosie e passioni reciproche: in una storia Venere s'innamorava del sole e con sforzi immani riusciva a sottrarsi alla sua orbita per andare ad annullarsi nella massa incandescente dell'amato. Le mie piccole e ignare cosmicomiche. A sedici anni era nato l'amore per la poesia, divoravo gli ermetici, ma la mia vena era piuttosto rondista e nel complesso caldarelleggiavo. Non riesco più a ricostruire se sia stato il bisogno di poesia (e la scoperta contemporanea di Chopin) a determinare lo sbocciare del primo, platonico e inconfessato amore, o viceversa. Il connubio fu in ogni caso disastroso, e neppure la più tenera e narcisistica delle nostalgie mi permette oggi di tornare a quelle prove senza sentire profonda e motivata vergogna. Ma da quella esperienza deve essere nata anche una severa moralità critica: quella che mi ha spinto, nel giro di pochissimi anni, a decidere che la mia poesia aveva la stessa origine funzionale e la stessa configurazione formale dell'acne giovanile. Di qui la decisione (mantenuta per un trentennio) di abbandonare la scrittura detta creativa, e di limitarmi alla riflessione filosofica e all'attività saggistica. Il saggista e il narratore Decisione di cui, per trenta e più anni, non ho mai sofferto. Voglio dire, non sono stato di coloro condannati a scrivere di scienza con il desiderio bruciante di passare all'arte. Mi ritenevo del tutto realizzato così, e anzi consideravo con una sfumatura di disdegno platonico i poeti, prigionieri della loro menzogna, imitatori di imitazioni, incapaci di pervenire a quella visione dell'idea iperurania con cui - filosofo - mi sentivo di aver casto, pacato e quotidiano commercio. In effetti, mi accorgo ora, stavo nel contempo soddisfacendo una mia passione narrativa, ma senza avvedermene, e in tre modi. Anzitutto, attraverso un esercizio costante della narratività orale (mi sono mancati molto i figli infanti, quando sono cresciuti, perché non potevo più raccontargli favole). In secondo luogo, giocando di parodie letterarie e pastiches di vario genere (stagione documentata dal mio Diario Minimo scritto tra la fine dei cinquanta e l'inizio dei sessanta). E infine facendo di ogni saggio critico una narrazione. Debbo spiegare questo punto perché lo ritengo essenziale, sia per capire la mia attività di saggista che il mio (tardo) futuro di narratore. Quando ho discusso la mia tesi di laurea sul problema estetico in Tommaso di Aquino, mi aveva colpito un'obiezione del secondo relatore (Augusto Guzzo, che peraltro aveva poi pubblicato il mio elaborato così com'era): in sostanza, mi aveva detto, tu hai messo in scena le

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varie fasi della tua ricerca, come se si trattasse di una inchiesta, annotando anche le false piste, le ipotesi che hai poi scartato; mentre lo studioso maturo consuma queste esperienze ma poi restituisce in pubblico (nella stesura finale) solo le conclusioni. Io avevo riconosciuto che la mia tesi era proprio come diceva lui, ma non lo sentivo come un limite. Anzi, fu proprio in quel momento che mi convinsi che ogni ricerca va «raccontata» in questo modo. E così credo di aver fatto per tutte le mie opere saggistiche seguenti. Quindi io potevo stare tranquillamente senza scrivere storie, perché di fatto soddisfacevo la mia passione narrativa in altro modo; e quando avrei poi scritto storie, non avrebbero potuto essere altro che il regesto di una ricerca (solo che in narrativa si chiama queste). Da dove si parte? Tra i quarantasei e i quarantotto anni, ho scritto il mio primo romanzo, IL nome della rosa. Non ho intenzione di discutere qui le motivazioni (come si dice? esistenziali?) che mi hanno condotto a scrivere un primo romanzo: sono molteplici, probabilmente si sommano tra loro, e ritengo che asserire che mi era venuta voglia di scrivere un romanzo sia una motivazione più che sufficiente. Una delle domande che la curatrice di questo volume ha suggerito agli scrittori convocati, è quali siano le fasi che si seguono nella generazione di un testo. La domanda, felicemente, implica che la scrittura attraversi delle fasi. Di solito gli intervistatori ingenui oscillano tra due persuasioni, che si contraddicono tra loro: una, che un testo detto creativo si sviluppi quasi istantaneamente nella fiammata mistica di un raptus d'ispirazione; l'altra, che lo scrittore abbia seguito una ricetta, una sorta di regola segreta, che si vorrebbe svelata. Non c'è la regola, ovvero ce ne sono molte, variabili e flessibili; e non c'è il magma dell'ispirazione. Ma è vero che c'è una sorta di idea iniziale e ci sono delle fasi molto precise di un processo che si sviluppa a poco a poco. I miei tre romanzi sono nati tutti da una idea seminale che era poco più di una immagine: è quella che mi ha preso, e mi ha fatto venire il desiderio di andare avanti. Il nome della rosa è nato quando sono stato colpito dall'immagine dell'assassinio di un monaco in una biblioteca. Siccome nelle «Postille al Nome della rosa» avevo scritto che «avevo voglia di avvelenare un monaco», questa formula provocatoria è stata presa in senso letterale, scatenando una serie di domande successive sul perché volessi compiere questo crimine. Ma io non avevo affatto voglia di avvelenare un monaco (e infatti non ne ho avvelenato alcuno): io sono stato affascinato dall'immagine di un monaco avvelenato mentre stava leggendo un libro in biblioteca. Non so se fossi sotto l'influenza della poetica tradizionale del giallo anglosassone, per cui il delitto dovrebbe essere commesso in un vicariato. Forse partivo da alcune emozioni che avevo provato a sedici anni, durante un corso di esercizi spirituali in un monastero

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benedettino, dove passeggiavo tra chiostri gotici e romanici e poi entravo in una biblioteca ombrosa dove, su un leggio, avevo trovato aperti gli Acta Sanctorum, e di lì avevo appreso che non esisteva solo, come mi avevano fatto credere, un beato Umberto, festeggiato il quattro marzo, ma anche un sant'Umberto vescovo festeggiato il sei settembre, che aveva convertito un leone in una foresta. Ma si vede che sin da allora, mentre sfogliavo quell'in-folio aperto verticalmente davanti a me, in un silenzio sovrano, tra lame di luce che entravano da vetrate opache quasi scanalate nelle pareti che terminavano in sesti acuti, avevo avuto un momento di inquietudine. Non so. Fatto sta che quella immagine, del monaco assassinato durante la lettura, a un certo punto mi ha chiesto di costruirvi qualche cosa d'altro intorno. Il resto è nato a poco a poco, per dar senso a quell'immagine, compresa la decisione di situare la vicenda nel Medioevo. Dapprima pensavo che avrebbe dovuto svolgersi ai tempi nostri; poi ho deciso che, visto che conoscevo e amavo il Medioevo, tanto valeva renderlo teatro della mia storia. Tutto il resto è venuto da sé, a poco a poco, leggendo, rivedendo delle immagini, riaprendo armadi dove si erano accumulate da venticinque anni le mie schede medievali, stese per tutt'altre ragioni. Con Il pendolo di Foucault la cosa è stata più complicata. L'immagine seminale - anzi le due immagini seminali, come vedremo sono andato a cercarmele, come uno psicoanalista che tiri fuori a poco a poco il segreto del paziente da alcuni ricordi sconnessi e frammenti di sogni. Inizialmente avevo solo una inquietudine: ho scritto un romanzo - mi dicevo - il primo della mia vita, e forse sarà l'ultimo, perché ho l'impressione di averci messo dentro tutte le cose che mi piacevano e m'intrigavano, e tutto quello che, sia pure indirettamente, potevo dire di me. Ci sarebbe qualche cosa d'altro, veramente mio, che potrei raccontare? E mi sono venute in mente due immagini. La prima, quella del Pendolo, che avevo visto per la prima volta, più di trent'anni prima a Parigi, e mi aveva impressionato. Non dico che durante quel periodo l'avessi dimenticata. Anzi, una volta negli anni sessanta mi era stato chiesto da un amico regista di scrivere il soggetto per un film. Non ho voglia di parlarne perché poi il soggetto è stato malamente usato per trarne un filmaccio che con la mia idea iniziale non c'entrava più nulla, e per fortuna ero riuscito a ottenere - anche in virtù del fatto che ero stato pagato con un gettone quasi simbolico - che il mio nome non apparisse da nessuna parte. Ma in quel soggetto c'era una scena che si svolgeva in una caverna al centro della quale pendeva un pendolo, a cui poi qualcuno si aggrappava sciabolando nel buio. La seconda immagine che mi si è imposta è stata quella di me stesso che suonavo la tromba a un funerale di partigiani. Una storia vera, che peraltro non avevo mai smesso di raccontare. Non molte volte, ma sempre in situazioni di grande tenerezza: a tarda sera, davanti all'ultimo whisky nel buio di un bar accogliente, o nel corso di una passeggiata in riva a qualche specchio d'acqua, quando sentivo che

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una donna, di fronte o accanto a me, non attendeva altro che un bel racconto per dire «che bello» e prendermi la mano. Una storia vera, su cui si erano accumulate memorie diverse, e che ritenevo bella. Ecco, il pendolo e quella vicenda in un cimitero in una mattina di sole. Sentivo che di quelle due cose avrei potuto raccontare. Il problema era solo: come si arriva dal pendolo alla tromba? La risposta a questa domanda mi ha preso otto anni, ed è il romanzo. Del pari, con L'isola del giorno prima, sono partito da due immagini molto forti, evocate in risposta quasi immediata alla domanda: ma se dovessi scrivere un terzo romanzo di che cosa potrei raccontare? Ho parlato troppo di monasteri e musei, mi ero detto, e cioè di luoghi di cultura: dovrei provare a scrivere della natura. Natura e basta. E dove sarei obbligato a vedere solo natura? Mettendo un naufrago su un'isola deserta. Poi, nello stesso periodo, ma per ragioni del tutto indipendenti, mi sono comperato uno di quegli orologi detti world-time, dove una corona mediana ruota in senso opposto alle lancette per far corrispondere l'ora locale a una serie di luoghi iscritti nella corona più ampia. Questi tipi di orologi recano anche un segno che indica la linea del cambiamento di data. Che questa linea ci sia, lo sappiamo tutti, se non altro per aver letto Il giro del mondo in ottanta giorni, ma non è che ci pensiamo tutti i giorni. E' stata una folgorazione: il mio uomo doveva stare a ovest di quella linea e vedere un'isola a est, lontana non solo nello spazio ma anche nel tempo. Di lì a decidere che dunque costui non doveva stare sull'isola ma di fronte all'isola, il passo era breve. Ma all'inizio, siccome il mio orologio segnava, al punto fatale, le isole Aleutine, non vedevo una buona ragione per mettervi qualcuno a fare qualcosa. Dove? Rimasto abbandonato su una piattaforma petrolifera? In più, come dirò tra breve, se racconto di un posto devo esserci stato, e l'idea di andare in luoghi così freddi, cercando una piattaforma petrolifera, non mi affascinava per nulla. Poi, continuando a sfogliare l'atlante, ho scoperto che la linea passava anche attraverso l'arcipelago delle Figi. Figi, Samoa, Isole Salomone... Lì sono intervenuti altri ricordi, si sono profilate altre tracce. Poche letture, ed eccomi già in pieno Seicento, il secolo in cui si cominciavano ad infittire i viaggi di esplorazione nel Pacifico. Di lì il ricordo di tante mie antiche frequentazioni della cultura barocca. Di lì l'idea che l'uomo poteva essere naufragato su una nave deserta, una sorta di vascello fantasma... E via. A quel punto, oserei dire, il romanzo poteva camminare da solo. Anzitutto, costruire un mondo Ma dove cammina un romanzo? Ed ecco il secondo problema, che ritengo fondamentale per una poetica della narratività. Quando in una intervista mi pongono la domanda: «Come ha scritto il suo romanzo?», di solito taglio corto e rispondo: «Da sinistra a destra.» Ma qui ho spazio abbastanza per una risposta più articolata. E' che io ritengo (o almeno l'ho capito meglio adesso, dopo quattro

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esperienze narrative) che un romanzo non sia soltanto un fatto linguistico. Un romanzo (come ogni narrazione che facciamo ogni giorno, raccontando perché siamo arrivati in ritardo quella mattina, o come ci siamo sbarazzati di un importuno) usa un piano dell'espressione (le parole, certo, così difficili da tradurre in poesia perché là conta anche il loro suono) per rendere un piano del contenuto, ovvero quello dei fatti narrati. Ma a livello del contenuto possiamo individuare ancora due altri versanti, la fabula e l'intreccio. La fabula di Cappuccetto Rosso è una pura sequenza di azioni, cronologicamente ordinata: la mamma manda la bambina nel bosco, la bambina incontra il lupo, il lupo va ad attenderla a casa della nonna, divora la vecchietta, ne assume le sembianze, eccetera eccetera. L'intreccio può organizzare diversamente questi elementi: per esempio il racconto potrebbe iniziare con la bambina che vede la nonna, si stupisce per le sue fattezze, poi rievoca il momento in cui è uscita di casa; oppure con la bambina che tornata a casa sana e salva, e ringraziando il cacciatore, racconta alla mamma le fasi precedenti della fabula... La vicenda di Cappuccetto Rosso è talmente incentrata sulla fabula (e mediatamente sull'intreccio) che può essere resa in modo soddisfacente in qualsiasi discorso, e cioè con qualsiasi espressione: attraverso immagini cinematografiche, o in francese, o in tedesco, o a fumetti (ed è successo). Mi sono varie volte intrattenuto sui rapporti che intercorrono tra espressione e contenuto nell'opposizione tra prosa e poesia. Perché «la Vispa Teresa avea tra l'erbetta - al volo sorpresa gentil farfalletta»? Perché non l'ha sorpresa in un cespuglio, o tra fiori rampicanti sui quali avrebbe più giudiziosamente potuto suggere il polline di cui s'inebria? Ma naturalmente perché erbetta rima con farfalletta, mentre un cespuglio avrebbe rimato con guazzabuglio. Non è un gioco. Lasciamo la Vispa Teresa e avviciniamoci a Montale: «Spesso il male di vivere ho incontrato - era il rivo strozzato che gorgoglia - era l'accartocciarsi della foglia - riarsa, era il cavallo stramazzato...» Perché tra tutti i simboli o epifanie del male di vivere il poeta ha identificato la foglia riarsa, e non qualsiasi altro fenomeno di avvizzimento e morte? Perché il rivo strozzato gorgoglia? O forse il rivo gorgoglia, ed è un rivo, proprio perché doveva preparare l'apparizione di quella foglia? In ogni caso solo l'esigenza di quella rima ha favorito lo splendido enjambement di quel riarsa, che prolunga al verso successivo l'agonia di una vita già vegetale che ora quasi rantola in quell'ultimo spasimo che la sbriciola. Che se (e qui davvero si gioca, e fortunatamente per la storia della poesia) fosse entrato prima in scena un rivo che borbotta, il male di vivere avrebbe dovuto manifestarsi nel buio e nel fetore di una grotta. Mentre se «Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza» e «ce n'erano persino ad Ognina, e ad

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Aci Castello», certo Verga poteva scegliere qualche altro nome di borgo o di villaggio (e forse gli sarebbe piaciuto Montepulciano o Viserba), ma la sua scelta era limitata dalla decisione di far svolgere la sua vicenda in Sicilia, e persino la similitudine dei sassi della strada era determinata dalla natura del luogo, che non consentiva distese di «erbetta», pastorali e quasi irlandesi. Quindi in poesia è la scelta dell'espressione che determina il contenuto mentre in prosa accade il contrario, è il mondo che si sceglie, e gli eventi che vi si svolgono, che ci impone il ritmo, lo stile, le stesse scelte lessicali. Tuttavia sarebbe errato dire che in poesia il contenuto (e con esso il rapporto tra fabula e intreccio) è irrilevante. Tanto per fare un esempio, in A Silvia di Leopardi c'è una fabula (esisteva una fanciulla così e così, il poeta l'amava, ella è morta, il poeta la ricorda); c'è un intreccio (il poeta entra in scena all'inizio, quando la fanciulla è già morta, e la fa rivivere nel proprio ricordo). Non basta dire che in una traduzione di questa poesia il cambio dell'espressione impone la rinuncia di tanti valori fonosimbolici (Silvia/salivi), della rima e della metrica. E' che non ci sarebbe traduzione adeguata che non ne rispettasse e la fabula e l'intreccio. Sarebbe la traduzione di un'altra poesia. Questa sembra una osservazione banale, ma ci dice che, persino in un testo poetico, l'autore parla di un mondo (ci sono due case, l'una dirimpetto all'altra, c'è una fanciulla «all'opre femminili intenta»). A maggior ragione questo accade nella narrativa. Manzoni scrive assai bene (come si suol dire), ma che sarebbe il suo romanzo se non ci fossero la Lombardia del Seicento, il lago di Como,, due innamorati di umile condizione sociale, un signorotto arrogante, un curato codardo? Cosa diventerebbe I promessi sposi se si svolgesse a Napoli mentre viene impiccata Eleonora Pimental Fonseca? Suvvia. Ecco perché, quando ho scritto Il nome della rosa, ho passato un anno abbondante, se ricordo bene, senza scrivere un rigo (e per Il pendolo di Foucault ne ho spesi almeno due, e altrettanti per L'isola del giorno prima). Leggevo, facevo disegni e diagrammi, inventavo un mondo. Questo mondo doveva essere il più preciso possibile, in modo che io potessi muovermici con assoluta confidenza. Per il Nome della rosa, ho disegnato centinaia di labirinti, e di piante di abbazie, basandomi su altri disegni, e su luoghi che visitavo, perché avevo bisogno che tutto funzionasse, avevo bisogno di sapere quanto ci avrebbero messo due personaggi per andare parlando da un luogo all'altro. E questo definiva anche la durata dei dialoghi. Se in un romanzo io dovessi scrivere «mentre il treno sostava alla stazione di Modena, egli scese rapidamente e comperò il giornale» non ci riuscirei se non fossi stato a Modena e non avessi verificato se il treno vi sosta per un tempo sufficiente, e quanto è lontana l'edicola dal binario (e questo vale anche se il treno avesse dovuto arrestarsi a Innisfree). Tutto questo avrebbe pochissimo a che fare con lo sviluppo della storia (immagino), ma se non lo facessi non potrei raccontare.

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Nel Pendolo di Foucault dico che le due case editrici Manuzio e Garamond sono in due stabili diversi ma attigui, tra i quali era stato praticato un passaggio, con una porta smerigliata e tre scalini. Ho calcolato a lungo come si potesse praticare un passaggio tra quei due stabili, e se occorresse prevedere un dislivello, disegnando varie piante. Il lettore fa quei tre scalini senza rendersene conto (credo), ma per me erano fondamentali. Talora mi sono chiesto se occorreva disegnare il mio mondo con tale precisione, visto che dal racconto poi quei particolari non emergevano. Ma certamente servivano a me per prendere confidenza con l'ambiente. D'altra parte mi hanno raccontato che Luchino Visconti, se in un film due personaggi dovevano parlare di un cassetto pieno di gioielli, anche se il cassetto non veniva mai aperto, voleva che ci fossero gioielli veri, altrimenti i personaggi non sarebbero stati credibili - cioè, gli attori avrebbero recitato con meno convinzione. Così per Il nome della rosa avevo disegnato tutti i monaci dell'abbazia. Li avevo disegnati quasi tutti (ma non tutti) con la barba, anche se non ero affatto sicuro che all'epoca i benedettini portassero la barba - e questo è stato poi un problema filologico che Jean Jacques Annaud, quando ha realizzato il film, ha dovuto risolvere con l'aiuto di dotti consulenti. Si noti pure che nel romanzo non si dice mai se quelle barbe ci fossero o meno. Ma io avevo bisogno di riconoscere i miei personaggi, mentre li facevo parlare o agire, altrimenti non avrei saputo che cosa fargli dire. Per Il pendolo di Foucault ho passato sere e sere, sino all'ora di chiusura, nel Conservatoire des Arts et Métiers, dove si svolgevano alcune delle vicende principali della storia. Per poter parlare dei Templari sono andato a visitare la Forêt d'Orient, in Francia, dove esistono le vestigia delle loro capitanerie (a cui poi nel romanzo si accenna in poche e vaghe parole). Per descrivere la camminata notturna di Casaubon attraverso Parigi, dal Conservatoire sino a Place des Vosges e poi alla Tour Eiffel, ho passato varie notti tra le due e le tre a camminare, parlando in un registratore tascabile, e raccontandomi che cosa vedevo, per non sbagliare i nomi delle vie, e gli incroci. Per L'isola del giorno prima sono stato naturalmente nei mari del sud, nella precisa posizione geografica di cui racconto, per vedere il colore del mare, del cielo, dei pesci e dei coralli - e nelle varie ore del giorno. Ma ho anche lavorato per due o tre anni su disegni e modellini di navi dell'epoca, per sapere quanto poteva essere grande una cabina o un bugigattolo, e come si poteva passare dall'una all'altro. Quando recentemente un editore straniero mi ha chiesto se non valeva la pena di accludere al romanzo un disegno della nave, come si era fatto in tutte le edizioni per il piano dell'abbazia del Nome della rosa, ho minacciato di andar per avvocati. Nel Nome della rosa volevo che il lettore capisse alla perfezione come era fatto l'ambiente, nell'Isola volevo che il lettore si confondesse, e non riuscisse più a orientarsi nel piccolo labirinto di quella nave che riservava sempre nuove sorprese. Ma per poter raccontare di un

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ambiente oscuro, incerto, vissuto tra sogno, veglia ed eccitazione alcolica, per confondere le idee al lettore, avevo bisogno di averle chiarissime io, e di scrivere sempre riferendomi a una struttura della nave calcolata al millimetro. Dal mondo allo stile Una volta che questo mondo è stato disegnato, le parole seguono e saranno (se tutto va bene) quelle che quel mondo, con i fatti che vi avvengono, richiede. Per questo nel Nome della rosa lo stile è quello - sempre omogeneo - del cronista medievale, preciso, fedele, ingenuo e stupito, all'occorrenza piatto (un monacello del Trecento non scrive come Gadda, né ricorda come Proust); e invece nel Pendolo doveva entrare in gioco una pluralità di linguaggi, quello educato e arcaicheggiante di Aglié, quello pseudodannunziano di Ardenti, quello smagatamente e ironicamente letterario (voluto e sofferto) del Belbo dei files segreti, quello mercantile e kitsch di Garamond, e i dialoghi goliardici dei tre redattori nel corso delle loro irresponsabili fantasie, capaci di mescolare richiami eruditi a giochi di parole anche di dubbio gusto. Ma quelli che Maria Corti (2) ha definito (e le sono grato per il rilievo) «salti di registro» non dipendevano da una semplice decisione di stile: erano determinati dalla natura del mondo, culturalmente diseguale, in cui si svolgeva la vicenda. Per L'isola del giorno prima, poi, è proprio la natura del mondo di partenza che ha determinato non solo lo stile, ma la stessa struttura di colloquio e conflitto continuo tra narratore e personaggio, col coinvolgimento conseguente del lettore, continuamente interpellato come testimone e complice di quel conflitto. Infatti, nel Pendolo la vicenda si svolgeva ai giorni nostri, e non si poneva il problema di come recuperare un linguaggio desueto. Nel Nome della rosa si svolgeva in secoli abbastanza remoti, ma in cui si parlava una lingua diversa, quel latino ecclesiastico che appare così sovente (e a detta di alcuni troppo) a ricordare che la storia si svolge in un tempo lontano. Per questo il modello stilistico era indirettamente il latino dei cronisti dell'epoca, ma direttamente le traduzioni moderne che comunemente ne leggiamo (e poi avevo preso le mie precauzioni, avvertendo che trascrivevo da una traduzione ottocentesca di una cronaca medievale). Nell'Isola, invece, il mio personaggio non poteva che parlare in barocco, ma non potevo io, se non facendo la parodia del manoscritto che Manzoni ripudia all'inizio della sua trascrizione. E dunque dovevo avere un narratore che a volte si irrita per le intemperanze verbali del suo personaggio, a volte ne diviene vittima, a volte le contempera con appelli al lettore. Quindi tre mondi diversi mi hanno imposto tre diversi «esercizi di stile» che poi, nel corso della scrittura, sono divenuti tre modi di pensare e di vedere, e quasi ero portato a tradurre in quei termini le mie stesse esperienze quotidiane di quei periodi. NOTE:

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(2) Maria Corti, «I giochi del Piano», in L'indice dei Libri del Mese, 10, 1988, pp. 14-15. L'eccezione di Baudolino Sino ad ora ho detto che (i) si parte da una idea seminale e che (ii) la costruzione del mondo determina lo stile. L'ultima mia esperienza narrativa, Baudolino, pare negare questi due principi. Quanto all'idea seminale, per almeno due anni ne avevo molte, e se di idee seminali ce ne sono troppe è segno che non sono seminali. Infatti ciascuna ha dato origine non alla struttura generale del romanzo, ma solo a situazioni limitate ad alcuni capitoli. La prima idea non la dico, perché l'ho abbandonata - per svariatissime ragioni, anzitutto perché non riuscivo a svilupparla e magari me la riservo, chissà, per un quinto romanzo. Questa idea si accompagnava però a una idea secondaria che banalmente può essere ricondotta al topos dell'omicidio in una camera chiusa, e come si vede leggendo il romanzo ho ricuperato il topos solo per il capitolo della morte di Federico. La seconda era che la scena finale doveva svolgersi tra i cadaveri mummificati dei Cappuccini di Palermo (infatti ci ero andato varie volte, e avevo raccolto molte fotografie del luogo e delle singole mummie). Chi ha letto il libro sa che questa idea viene sfruttata per il confronto finale tra Baudolino e il Poeta, ma nell'economia del romanzo ha una funzione marginale, vorrei dire puramente scenografica. La terza era che il romanzo doveva concernere un gruppo di personaggi che costruivano dei falsi. In fondo mi ero occupato della semiotica del falso in alcune occasioni. (3) Inizialmente i personaggi dovevano essere dei contemporanei, che decidevano di fondare un quotidiano e sperimentavano, in una serie di numeri zero, come si potessero «creare» degli scoop. Infatti pensavo di intitolare il romanzo Numero Zero. Ma anche lì c'era qualcosa che non mi convinceva, e temevo di ritrovarmi tra le mani gli stessi personaggi del Pendolo di Foucault. Sino a che mi è venuto in mente quale fosse uno dei falsi più gustosi di tutta la storia occidentale, e cioè la lettera del Prete Gianni. Questa idea ha fatto «quagliare» una serie di ricordi ed esperienze di lettura. Nel 1960 avevo curato per Bompiani l'edizione italiana (Le terre leggendarie) di Lands Beyond di Ley e Sprague Du Camp. C'era naturalmente il capitolo sul Regno del Prete Gianni e un altro sulle tribù disperse di Israele. In copertina era stato messo (da una incisione credo quattrocentesca, con finta colorazione au pochoir) uno sciapode. Anni dopo avevo comperato una mappa a colori da un Ortelius smembrato, quella che rappresenta appunto le terre del Prete Gianni, e me l'ero appesa nello studio. Negli anni ottanta avevo letto varie versioni della lettera. (4) Insomma, il Prete Gianni mi aveva sempre intrigato, l'idea di far rivivere i mostri che popolavano il suo regno, e gli altri raccontati dai vari Romanzi di Alessandro, viaggi di Mandeville, e da tutta una serie di bestiari,

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mi attirava. E infine, era una bella occasione per tornare al mio amato Medioevo. Dunque la mia vera idea seminale era quella del Prete Gianni. Ma non ero partito da questa idea, ci ero semplicemente arrivato. Forse tutto questo non mi sarebbe bastato, se la lettera non fosse stata attribuita (è una delle ipotesi possibili) alla cancelleria imperiale di Federico Barbarossa. Ora Federico Barbarossa era per me un altro nome magico, perché sono nato ad Alessandria, la città che è stata fondata per opporsi all'Imperatore. Di lì una serie di decisioni quasi istintive, a catena: ritrovare un Federico fuori dai cliché tradizionali, visto da un figlio piuttosto che dai suoi avversari e dai suoi cortigiani (e via con molte letture sul Barbarossa), raccontare le origini della mia città, le sue leggende, tra cui quella di Gagliaudo e della sua vacca. Avevo scritto anni prima un saggio sulla fondazione e la storia di Alessandria (intitolato, guarda caso, «Il miracolo di san Baudolino») (5) e di lì mi è venuta l'idea di fare vivere la storia a un personaggio che si chiamasse come il santo protettore della città, Baudolino, e fare di Baudolino il figlio di Gagliaudo, dare alla storia un piglio popolare e picaresco - creando così una sorta di antistrofe al Nome della rosa, là una vicenda di dotti che parlavano in stile aulico, qui una vicenda di popolani e guerrieri tutto sommato assai rozzi, che parlavano in stile quasi dialettale. Ma anche lì, che fare? Far parlare Baudolino nel suo pseudodialetto padano di un XII secolo di cui conosciamo scarsissimi documenti in volgare, e nessuno di area piemontese? Far parlare un narratore, il cui stile moderno avrebbe inquinato la spontaneità di Baudolino? Ed ecco che qui mi è venuta in soccorso un'altra idea fissa, che mi girava in testa da tempo, senza che avessi mai pensato che mi sarebbe servita in quell'occasione: raccontare una storia che si svolgesse a Bisanzio. Perché? Perché sapevo pochissimo della civiltà bizantina, e non ero mai stato a Costantinopoli. A molti potrà sembrare una motivazione assai debole per decidere di raccontare qualcosa che si svolgesse a Costantinopoli, tanto più che Costantinopoli con Federico Barbarossa c'entrava solo di sbieco. Ma certe volte si decide di raccontare una storia solo per conoscerla meglio. Detto fatto, sono andato a Costantinopoli, ho letto molte cose sull'antica Bisanzio, mi sono impadronito della sua topografia, e ho incontrato Niceta Coniate e la sua Narrazione cronologica. Avevo trovato la chiave, il modo di articolare le «voci» della mia narrazione: un narratore quasi trasparente racconta il colloquio tra Niceta e Baudolino, alternando le riflessioni dotte e auliche di Niceta ai racconti picareschi di Baudolino, senza che mai Niceta, e tanto meno il lettore, possa capire se e quando Baudolino mente, l'unico punto fermo essendo che lui sostiene di essere un bugiardo (paradosso del mentitore e di Epimenide cretese). Avevo il gioco delle «voci», ma non la voce di Baudolino. Ed ecco che in quel caso ho contraddetto al secondo dei miei princìpi. Quando ancora, mentre leggevo le cronache della conquista crociata di

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Costantinopoli (e decidevo che avrei dovuto narrare la storia di quell'evento che già appare romanzesco nei testi di Villehardouin, Robert de Clary e Niceta), tanto per passare il tempo ho steso a penna in campagna quella sorta di diario iniziale di Baudolino, in un ipotetico pidgin padano del XII secolo, che poi ha costituito l'inizio del romanzo. E' vero che poi quelle pagine le ho riscritte negli anni seguenti moltissime volte, dopo aver consultato dizionari storici e dialettali, e tutti i documenti di cui potevo disporre, ma già in quella prima stesura, attraverso lo stile linguistico, mi è diventato chiaro di come avrebbe pensato e parlato Baudolino. Dunque, alla fine, il linguaggio di Baudolino non è nato dalla costruzione di un mondo, ma un mondo è nato sullo stimolo di quel linguaggio. Non so come risolvere teoricamente questa faccenda. Non mi rimarrebbe che citare Walt Withman, «mi contraddico? Ebbene, mi contraddico». Se non fosse che, probabilmente, il ricorso a schemi dialettali mi ha ricondotto alla mia infanzia e alla mia terra natale, e dunque a un mondo già pre-costruito, almeno nel ricordo. NOTE: (3) Anzitutto in «Falsi e contraffazioni» (I limiti dell'interpretazione, Milano: Bompiani, 1990). Ma si veda anche in questo stesso volume la mia prolusione sul falso, che forse, vista la data (1994), costituisce il primo nucleo di Baudolino. (4) Anzitutto Gioia Zaganelli (ed.), La lettera del Prete Gianni (Parma: Pratiche, 1990). (5) In AA.VV, Strutture ed eventi dell'economia alessandrina (Alessandria: Cassa di Risparmio, 1981), ora inserito nel Secondo Diario Minimo (Milano: Bompiani, 1992). Le costrizioni, e il tempo E però (mondo verso linguaggio o linguaggio verso mondo) non è che stai due o tre anni a costruire un mondo come se quel mondo esistesse per conto proprio, indipendentemente dalla storia che vi vuoi far succedere. Questa fase «cosmogonica» si accompagna (in misura che proprio non saprei ridurre a formula o a programma) con una ipotesi sulla struttura portante del romanzo - e del mondo che vai costruendo. Questa struttura si compone essenzialmente di costrizioni e scansioni temporali. Le costrizioni sono fondamentali per ogni operazione artistica. Sceglie una costrizione il pittore che decide di usare l'olio piuttosto che la tempera, la tela piuttosto che la parete; il musicista che opta per una tonalità di partenza (poi modulerà, modulerà, ma è a quella che dovrà pur tornare); il poeta che si costruisce la gabbia della rima baciata o dell'endecasillabo. E non crediate che pittore, musicista o poeta d'avanguardia - che paiono evitare quelle costrizioni - non se ne costruiscano delle altre. Lo fanno, solo non è detto che voi ve ne dobbiate accorgere. Può essere una costrizione scegliere come schema per la successione degli eventi quello delle sette trombe dell'Apocalisse. Ma anche

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situare la storia in una data precisa: potrai fare accadere certe cose ma non altre. Può essere una costrizione decidere che, per indulgere alla passione magica dei tuoi personaggi, i capitoli del Pendolo debbono essere 120, non uno di più e non uno di meno, e le parti dieci, come le Sefirot della Cabbala. Le costrizioni poi determinano a poco a poco una sequenza temporale. Nel Nome della rosa, se si doveva ubbidire alla sequenza apocalittica, il tempo dell'intreccio poteva coincidere (salvo ampie parentesi) col tempo della fabula: la storia inizia all'arrivo di Guglielmo e Adso all'Abbazia, e termina alla loro partenza. Facile (anche da leggere). Col Pendolo, lo stesso movimento oscillatorio dell'artificio eponimo, mi obbligava a un'altra struttura temporale. Casaubon arriva al Conservatoire una certa sera, vi si nasconde e rievoca eventi passati, poi la vicenda torna al momento di partenza, eccetera. Se per Il nome della rosa mi ero costruito a poco a poco una sorta di orario o calendario sequenziale, cercando di determinare che cosa dovesse succedere nel giro di una settimana, giorno per giorno, per il Pendolo ho costruito una sorta di struttura a serpentina, che registrava i ritorni al passato e le anticipazioni del futuro. Come un indice graduato, o degli assi cartesiani ortogonali. Il personaggio ora è qui, ma ricorda che cosa è avvenuto nel momento tale del passato. Il bello è che questi schemi sono ferrei, a vederli uno per uno, ma ho cassetti pieni di schemi rifatti di continuo, a mano a mano che il romanzo procedeva. Voglio dire, il bello della storia è che ti devi creare delle costrizioni, ma devi sentirti libero nel corso della stesura a cambiarle. Salvo che a quel punto devi cambiare tutto e ricominciare dall'inizio. Tra l'altro, una delle costrizioni del Pendolo era che i personaggi dovevano aver vissuto il 1968, ma siccome Belbo scrive poi i suoi files sul computer - che ha un ruolo anche formale in tutta la vicenda, dato che in parte ne ispira la natura aleatoria e combinatoria - gli eventi finali dovevano necessariamente svolgersi tra il 1983 e il 1984, e non prima. La ragione è molto semplice: i primi personal computer con programmi di scrittura sono entrati in commercio in Italia nel 1983 (o forse nel 1982). E questo risponda a tutti coloro che ripetono che Il nome della rosa è stato scritto al computer, per giustificarne il successo. Nel 1978-79 si vendevano appena in America dei computerini da quattro soldi che si chiamavano Tandy, e su cui nessuno avrebbe osato scrivere più di una lettera. Ma per far passare tutto quel tempo dal 1968 al 1983 sono stato costretto a mandare Casaubon da qualche altra parte. Dove? I miei ricordi di alcuni riti magici a cui avevo assistito laggiù mi ha condotto al Brasile (lì sapevo di che cosa parlavo e quale fosse la forma di quel mondo). Ed ecco la ragione e l'origine, benedetta, di quella che a molti è parsa una digressione troppo lunga e che invece, per me (e per alcuni lettori benevoli) è fondamentale, perché mi permette di far accadere in Brasile e ad Amparo, in forma contratta,

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quel che accadrà agli altri personaggi nel corso del libro. Se l'IBM, la Apple o l'Olivetti avessero messo in commercio i word processor sei o sette anni prima, il mio romanzo sarebbe stato diverso, non ci sarebbe stato il Brasile, con sollievo di molti lettori superficiali, ma dal mio punto di vista sarebbe stato un gran male. L'isola del giorno prima è stata basata su una serie di costrizioni storiche e su ferree costrizioni romanzesche. Le costrizioni storiche si basavano sul fatto che avevo bisogno che Roberto partecipasse adolescente all'assedio di Casale, assistesse alla morte di Richelieu e quindi arrivasse alla sua isola dopo il dicembre 1642, ma non dopo il 1643, anno in cui Tasman passa da quelle parti, sia pure con qualche mese di anticipo sul calendario della mia storia. Ma io potevo situare la storia solo tra luglio e agosto perché era in quell'epoca che avevo visto le Figi, e una nave impiegava qualche mese per arrivare da quelle parti: il che spiega le insinuazioni, romanzescamente maliziose, che faccio nel capitolo finale, per convincermi e convincere il lettore che forse Tasman era tornato dopo in quell'arcipelago senza dir nulla a nessuno. Dove si vede l'utilità euristica delle costrizioni, che ti obbligano a inventare silenzi, complotti, ambiguità. Mi chiederete: e perché tutte queste costrizioni? Era proprio necessario che Roberto assistesse alla morte di Richelieu? Per nulla. Ma era necessario che mi ponessi delle costrizioni. Altrimenti la storia non sarebbe poi andata avanti da sola. Quanto alle costrizioni romanzesche, Roberto doveva essere sulla nave, non uscirne più, e tentare invano di imparare a nuotare per raggiungere l'isola. Nel frattempo, riflettendo sulla vita e sulla morte, avrebbe dovuto inventare, a brano a brano, e poi buttar via per insipienza, tutta la filosofia di quel secolo. Per un lettore benevolo questa sarebbe più di una costrizione, posta tanto per ricevere degli stimoli: sarebbe l'essenza stessa del Desiderio. Sarei l'ultimo a poterlo negare. Ma siccome sto parlando di come ho scritto, e non di cosa il lettore dovrebbe o potrebbe trovare in quel che ho scritto (perché, per dire questo, o basta il romanzo così com'è, o io ho perso tempo a scriverlo e voi a leggerlo - il che non è escluso), quello che voglio dire è che, da un lato, è la costrizione a permettere al romanzo di svilupparsi secondo un Senso, e dall'altro è l'idea ancora oscura di questo Senso che suggerisce le costrizioni. Ma siccome l'una cosa non può andare senza l'altra, parliamo di costrizioni, e non di Senso, che non è cosa di cui deve discettare a posteriori l'autore. Per inciso. Un gazzettiere impudente - che voleva irridere al romanziere per punire il corsivista politicamente impegnato - ha definito il romanzo un solo atto di masturbazione. Nella sua rozzezza (anche lessicale) l'ignaro coglieva nel segno: onanistica è certo, e per definizione, la condizione di un naufrago separato per sempre dall'oggetto della propria passione. Salvo che l'ilico di cui dico, ancorato alla propria ottusa carnalità, vedeva cader manna dal cielo e la leggeva come deiezione di uccellacci da preda. E non coglieva la

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natura di «cosa mentale» - e infine metafisica - di quella virtù solitaria, di quel tentativo di generare dell'Essere spandendo disordinatamente il seme di un'anima esasperata dalla solitudine, sino alla visione. Ma torniamo al dunque. Dunque, Roberto non doveva lasciare la nave (se non alla fine, ma per fini e con esiti incerti). Dunque tutto quello che si poteva raccontare, che non avvenisse sulla nave, doveva avvenire per via di rammemorazione, a meno di appiattire l'intreccio sulla fabula e raccontare per filo e per segno di come un giovane, andato a Parigi dopo le sue avventure a Casale, si trovasse su una nave eccetera eccetera. Provate voi, se volete, ma vi assicuro che, per vana che sia stata la mia fatica, la vostra lo sarà ancor di più. Questo mi ha imposto non una sequenza temporale a serpente, come per il Pendolo, ma a un-passo-avanti-e-tre-indietro, uno-avanti-e-due-indietro, uno-avanti-e-uno-indietro. Roberto ricorda qualcosa, e intanto qualcosa accade sulla nave. Qualcosa accade sulla nave, e Roberto ricorda qualcosa. A mano a mano che i ricordi di Roberto passano dal 1630 al 1643, sulla nave gli eventi procedono ora per ora. Questo sino all'arrivo di padre Caspar. A quel punto la vicenda, per così dire, s'arresta sul presente, per qualche tempo. Poi padre Caspar scompare nel mare e Roberto rimane di nuovo solo. Che cosa dovevo fargli fare? La costrizione romanzesca mi imponeva di fargli tentare vari approcci alla riva. Ma dovevano essere lenti, registrati giorno per giorno, ripetitivi e monotoni. Al postutto dovevo pur scrivere un romanzo, il cui fine - sia detto a scorno di ogni esteta, e nel pieno rispetto delle leggi del genere, quali si sono formate dal romanzo ellenistico a oggi, per non dire della Poetica di Aristotele - deve essere quello di procurare il piacere della narrazione. Per fortuna ero vittima di un'altra costrizione. Per aderire allo spirito del romanzo secentesco, avevo dovuto introdurre all'inizio un Sosia, di cui proprio non sapevo che cosa avrei fatto. Ed ecco che il Sosia veniva buono ora: mentre tenta di raggiungere l'isola, imparando a nuotare meglio (ma non abbastanza) giorno per giorno, Roberto immagina il romanzo del proprio Sosia, e così può riprodursi la struttura un-passo-avanti-e-tre-indietro, visto che Roberto, non riuscendo a raggiungere l'isola, vi fa però arrivare il suo Sosia, facendolo partire dal punto in cui era partito lui. Che bello vedere un romanzo che si fa da solo! Io non sapevo dove sarei arrivato, perché la costrizione romanzesca era che Roberto non dovesse arrivare da nessuna parte. Il romanzo finisce perché va dritto verso la sua fine da solo. Questo è quello di cui vorrei che il mio Lettore Modello si accorgesse. Che il romanzo si fa da sé, perché così è avvenuto e così avviene sempre, davvero. A proposito delle costrizioni, il racconto finale di Baudolino doveva avvenire nel 1204, perché volevo raccontare della conquista di Costantinopoli. Ma Baudolino doveva nascere verso la metà del secolo (ho fissato il 1142 come data di riferimento, per avere il mio personaggio in grado di intendere e di volere all'epoca di molti

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fatti che mi faceva comodo raccontare). La prima menzione della lettera del Prete Gianni è intorno al 1165, e io già la faccio circolare con qualche anno di ritardo, ma perché allora, dopo aver convinto Federico, Baudolino non parte subito alla ricerca del regno del Prete? Perché dovevo farlo ritornare dal regno del Prete solo nel 1204, affinché potesse raccontare la storia a Niceta durante l'incendio di Costantinopoli. E che cosa dovevo far fare a Baudolino in quei quasi quarant'anni d'intervallo? Era un poco come la faccenda del computer nel Pendolo. Gli faccio fare molte cose, e gli faccio rimandare sempre la partenza. Sul momento mi pareva uno spreco, mi sembrava di inserire nel racconto una serie di zeppe temporali per arrivare finalmente a quel maledetto 1204. E invece, a conti fatti (e spero, anzi so, che molti lettori se ne sono resi conto) ho creato lo Spasimo del Desiderio (ovvero il romanzo lo ha creato senza che io me ne rendessi subito conto). Baudolino vuole il Regno, ma deve continuamente posporre il momento della sua ricerca. Così il Regno del Prete s'ingigantisce nel desiderio di Baudolino, e agli occhi del lettore (spero). Ancora una volta, i vantaggi della costrizione. Come scrivo Si capisce a questo punto quanto siano vane le domande del tipo «inizia con degli appunti, stende subito il primo o l'ultimo capitolo, scrive a penna, a matita, a macchina o al computer?» Se si deve costruire giorno per giorno un mondo, se si debbono tentare infinite strutture temporali, se i gesti che i personaggi compiono e debbono compiere secondo la logica del buon senso o delle convenzioni narrative (o contro le convenzioni narrative) si debbono adattare alla logica delle costrizioni (con ripensamenti, cancellature, rifacimenti continui), non c'è un modo uniforme per scrivere un romanzo. Almeno per me. So di autori che si svegliano alle otto di mattina, si mettono alla macchina da scrivere dalle otto e mezza alle dodici (nulla dies sine linea) e poi smettono e vanno a spasso sino a sera. Io no. Anzitutto, per scrivere un romanzo, l'atto di scrivere viene dopo. Prima si legge, si stilano schede, si disegnano ritratti di personaggi, mappe di luoghi e schemi di sequenze temporali. E queste cose si fanno col pennarello o col computer, a seconda del momento, di dove si è, del tipo di idea narrativa o di dato che si vuole registrare: sul retro di un biglietto del treno se l'idea viene in treno, su un quaderno, su una scheda, con la biro, col registratore, se fosse necessario col succo di more. Poi mi accade che butto, strappo, straccio, dimentico da qualche parte, ma ho scatole piene di quaderni, coi blocchi di pagine dai colori diversi, di cartoncini, addirittura di fogli protocollo. E questa disordinata varietà di supporti mi è di aiuto mnemonico, perché mi ricordo che quel tale appunto lo avevo scarabocchiato sulla carta intestata di un albergo di Londra, e la prima pagina di quel tal capitolo era stata abbozzata nel mio studio, su una schedina rigata

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di blu pallido, e con la Mont Blanc, mentre il capitolo successivo era stato steso inizialmente in campagna, sul retro di una minuta riciclata. Non ho metodo, giorni, ore, stagioni. Ma dal secondo romanzo al terzo avevo elaborato un costume. Raccoglievo idee, scrivevo appunti, facevo stesure provvisorie ovunque mi capitasse, ma poi, quando potevo passare almeno una settimana nella mia casa di campagna, lì stendevo i capitoli al computer. Quando ripartivo, li stampavo, li correggevo, e poi li lasciavo stagionare in un cassetto, sino al prossimo ritorno in campagna. Le stesure definitive dei miei primi tre romanzi sono state fatte là, di solito nei quindici o venti giorni di soggiorno natalizio. Per cui avevo iniziato a coltivare una superstizione (io, che sono la persona meno superstiziosa del mondo, passo sotto le scale, saluto con affetto i gatti neri che mi attraversano la strada, e per punire gli studenti superstiziosi metto sempre i miei esami universitari di martedì o venerdì purché sia tredici o diciassette): la versione quasi definitiva, salvo correzioni minori, doveva essere completata per il cinque gennaio, giorno del mio compleanno. Se non ero pronto per quell'anno, aspettavo il prossimo (e una volta, essendo pronto quasi a novembre, ho messo tutto da parte per poter finire a gennaio). Anche qui, Baudolino è stata l'eccezione. Ovvero, è stato scritto con gli stessi ritmi, steso sempre in campagna, ma verso la metà della stesura, durante le vacanze natalizie del 1999, mi ero incagliato. Pensavo fosse dovuto al Millennium Bug. Ero al capitolo della morte di Barbarossa, e quello che avrebbe dovuto accadere in quel capitolo determinava i capitoli finali, e lo stesso modo in cui avrei raccontato il viaggio verso il Regno del Prete. Mi sono bloccato per alcuni mesi, non riuscivo a immaginare come avrei potuto sormontare quello scoglio, o a doppiare quel capo. Non ce la facevo, e vagheggiavo tra me e me quelli che erano i capitoli (ancora da scrivere) a cui mi ero appassionato sin dall'inizio, l'incontro coi mostri e soprattutto l'incontro con Ipazia. Sognavo di poter scrivere quei capitoli ma non volevo farlo sino a che non avessi risolto il problema che mi ossessionava. Tornato in campagna, nell'estate del 2000, ho «doppiato il capo» a metà giugno. Avevo iniziato a pensare al romanzo nel 1995, ci avevo messo cinque anni per arrivare a metà, dunque - mi dicevo - mi ci vogliono ancora cinque anni per finire. Ma si vede che la seconda metà l'avevo pensata così intensamente, in quei cinque anni, che mi si era disposta tutta nella testa (nel cuore, nella pancia, non so). Insomma, tra metà giugno e i primi di agosto, il libro si è finito quasi da solo, di getto (poi ci sono stati alcuni mesi di controllo e riscrittura, ma ormai era fatta, la storia era compiuta). A quel punto crollava un altro mio principio, perché anche una superstizione è pure un principio, per irrazionale che sia. Non avevo finito il libro per il cinque gennaio. C'era qualcosa che non funzionava, ho pensato per alcuni giorni. Poi, l'otto agosto è nato il mio primo nipotino. Tutto diventava

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chiaro, per questa quarta volta dovevo terminare il romanzo non il giorno del mio ma del suo compleanno. Gli ho dedicato il libro e mi sono rasserenato. Il computer e la scrittura Quanto ha influito l'uso del computer sulla mia scrittura? Moltissimo, dal punto di vista della mia esperienza, e non so quanto dal punto di vista dei risultati. Per inciso, siccome il Pendolo parlava di un computer, il quale costruiva poesia e collegava eventi in modo aleatorio, molti intervistatori volevano a tutti i costi che rivelassi che l'intero romanzo era stato fatto dando al computer un programma, e poi la macchina aveva inventato tutto. Si noti che erano tutti giornalisti che ormai lavoravano in redazioni dove gli articoli ormai si scrivono al computer e vanno direttamente in stampa - e quindi sapevano quanto ci si possa attendere da questo strumento servile. Ma sapevano di scrivere per un pubblico che aveva ancora del computer una concezione magica, e si sa che spesso si scrive non per dire ai lettori la verità, ma quello che essi desiderano sentirsi dire. In ogni caso, a un certo punto mi ero irritato, e avevo dato a qualcuno la formula magica: Anzitutto ci vuole un computer, ovviamente, che è una macchina intelligente che pensa per te - e per molti sarebbe un vantaggio. Basta un programma di poche linee, lo sa fare anche un bambino. Poi si immette nel computer il contenuto di qualche centinaio di romanzi, opere scientifiche, la Bibbia, il Corano e molti elenchi telefonici (utilissimi per i nomi dei personaggi). Diciamo un centoventimila pagine. Dopo con un altro programma si randomizza e cioè si mescolano tutti quei testi, con qualche aggiustamento, per esempio eliminando tutte le a. Così oltre al romanzo si ha un lipogramma. A questo punto si dà il print e si stampa. Avendo eliminato le a viene fuori qualche cosa meno di centoventimila pagine. Dopo averle lette attentamente, più volte, sottolineando i passi più significativi, si caricano su un Tir e si portano a un inceneritore. Quindi ci si siede sotto un albero, con un carboncino e carta Fabriano e, lasciando vagare la mente, si scrivono due linee, per esempio: «La luna è alta nel cielo - il bosco stormisce.» Forse non ne viene fuori subito un romanzo bensì un haiku giapponese, ma l'importante è incominciare. Nessuno ha avuto il coraggio di riferire la mia ricetta segreta. Ma qualcuno ha detto: «si sente che il romanzo è stato scritto direttamente al computer; meno la scena della tromba nel cimitero: quella sì che è sofferta, e deve averla scritta varie volte, e a penna.» Mi vergogno di dirlo, ma di questo romanzo che ha subìto tante fasi di stesura, in cui sono intervenute la biro, la penna stilografica, il pennarello, e infinite revisioni, l'unico capitolo scritto direttamente al computer, e di getto, senza troppe correzioni, è stato proprio quello della tromba. La ragione è assai semplice: quella storia l'avevo talmente presente, me l'ero raccontata o l'avevo raccontata tante volte, che ormai era come se

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fosse già stata scritta. Non avevo nulla da aggiungere: muovevo le mani sulla tastiera come su un pianoforte su cui suonassi una melodia che sapevo a memoria; e se c'è della felicità, in quella scena, è dovuta al fatto che è nata come una jam session. Suoni lasciandoti andare, registri, e quello che c'è, c'è. Infatti il bello del computer è che incoraggia la spontaneità: scrivi di getto, in fretta, quello che ti viene in mente. Poi, intanto, sai che puoi correggere e variare. L'uso del computer riguarda infatti, e principalmente, il problema delle correzioni, e quindi delle varianti. Il nome della rosa, nelle sue versioni definitive, era a macchina. Poi correggevo, ribattevo, talora incollavo, alla fine ho dato tutto da ribattere a una dattilografa e poi ho ancor corretto, sostituito, e incollato. Ma con la macchina da scrivere puoi correggere sino a un certo punto. Poi sei stanco di ribattere, incollare e far ribattere. Il resto lo correggi in bozze, e via. Con l'uso del computer (il Pendolo è stato scritto in Wordstar2000, L'isola del giorno prima in Word5, Baudolino in Winword nelle sue varie releases durante gli anni), le cose cambiano. Sei portato a correggere all'infinito. Scrivi, poi stampi e ti rileggi. Correggi. Poi riscrivi secondo le correzioni e ristampi. Ho conservato le varie stesure (con qualche lacuna). Ma sarebbe sbagliato pensare che un fanatico delle varianti domani potrebbe ricostruire il tuo processo di scrittura. Infatti scrivi (al computer) stampi, correggi (a mano), riporti le correzioni sul computer, ma nel farlo scegli altre varianti, e cioè non riscrivi esattamente quello che hai corretto a mano. Il critico delle varianti troverebbe delle varianti tra la tua ultima variante a penna sullo stampato e la nuova variante prodotta dalla stampante. Se proprio volevi incoraggiare tesi di laurea inutili, i posteri sono a tua disposizione. E' che con l'esistenza del computer la logica stessa delle varianti muta. Esse non rappresentano né un pentimento né la tua scelta finale. Siccome sai che la scelta può essere revocata a ogni momento, ne fai molte, e sovente ritorni sui tuoi passi. Credo davvero che l'esistenza dei mezzi di scrittura elettronica cambierà profondamente la critica delle varianti, con buona pace dello spirito di Contini. Una volta mi sono esercitato sulle varianti degli Inni Sacri di Manzoni. (6) Allora la sostituzione di una parola era decisiva. Oggi no: domani puoi tornare sulla parola abbandonata ieri. Al massimo conterà la differenza tra la prima stesura manoscritta e l'ultima sulla stampante. Il resto è un va e vieni, sovente determinato dal tuo tasso di potassio nel sangue. NOTE: (6) «Il segno della poesia e il segno della prosa», in Sugli specchi (Milano: Bompiani, 1985). La gioia e la tristezza Altro non mi sento di dire, sul modo in cui scrivo i miei romanzi.

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Salvo che è necessario che essi prendano molti anni. Non capisco coloro che scrivono un romanzo all'anno (possono essere grandissimi, li ammiro, ma non li invidio). Il bello dello scrivere un romanzo non è il bello della diretta, è il bello della differita. Sono sempre contrariato quando mi accorgo che uno dei miei romanzi volge alla fine, e cioè che, secondo la sua logica interna, è ora che esso (che lui, che lei) finisca, e che io smetta. Quando mi accorgo che, a continuare ancora, lo peggiorerei. Il bello, la gioia vera, è vivere per sei, sette, otto anni (possibilmente all'infinito) in un mondo che ti stai costruendo a poco a poco, e che diventa il tuo. La tristezza incomincia quando il romanzo è finito. Questa è la sola ragione per cui desidereresti scriverne subito un altro. Ma se non è lì, che ti attende, inutile affrettare i tempi. Lo scrittore e il lettore Però non vorrei che queste ultime affermazioni ne incoraggiassero subito un'altra, comune ai cattivi scrittori: che scrivi solo per te stesso. Diffidate di chi dice così, è un narcisista disonesto e mendace. C'è una sola cosa che si scrive solo per se stesso, ed è la lista della spesa. Serve a ricordarti che cosa devi comperare, e quando hai comperato puoi distruggerla perché non serve a nessun altro. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno. Mi sono sovente chiesto: scriverei ancora, oggi, se mi dicessero che domani una catastrofe cosmica distruggerà l'universo, così che nessuno possa domani leggere quello che oggi scrivo? In prima istanza la risposta è no. Perché scrivere, se nessuno potrà leggermi? In seconda istanza la risposta è sì, ma solo perché nutro la disperata speranza che, nella catastrofe delle galassie, qualche stella possa sopravvivere, e domani qualcuno possa decifrare i miei segni. Allora scrivere, anche alla vigilia dell'Apocalisse, avrebbe ancora un senso. Si scrive solo per un Lettore. Chi dice di scrivere solo per se stesso non è che menta. E' spaventosamente ateo. Anche da un punto di vista rigorosamente laico. Infelice e disperato, chi non sa rivolgersi a un Lettore futuro.

Fine

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