Dizionario del Corano  
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Zitiervorschau

DIZIONARIO DEL CORANO

Mondadori DOC - Dizionario Corano

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DIZIONARIO DEL CORANO a cura di MOHAMMAD ALI AMIR-MOEZZI edizione italiana a cura di IDA ZILIO-GRANDI

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Traduzione dal francese: Barbara De Poli, Silvia Di Donato, Martino Diez, Gabriele Ferrario, Marco Aurelio Golfetto, Anna Maria Paoluzzi, Davide Tacchini Impaginazione e redazione: Edigeo s.r.l., Milano I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. L’editore potra` concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre a mezzo fotocopie una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO), Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected] § 2007 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano per l’edizione italiana Prima edizione: ottobre 2007 Prima edizione Mondadori DOC: ottobre 2007 § 2007 E´ditions Robert Laffont S.A., Parigi Titolo originale dell’opera: Dictionnaire du Coran Stampato da Mondadori Printing S.p.A., Via Bianca di Savoia 12, Milano presso lo Stabilimento di NSM, Cles (TN) ISBN 978-88-04-56660-1

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Prefazioni Prefazione all’edizione italiana Riferirsi al Corano non significa semplicemente richiamare un libro, la Scrittura fondativa di una fede religiosa, ma anche e soprattutto evocare in generale la cultura che da questo libro muove, ampia e stratificata nel tempo e nello spazio, complessa cioe` articolata nelle componenti interne e senza dubbio dinamica. Una cultura che si fonda su un sentimento di se´, di Dio e del mondo, che si e` espressa fin dagli esordi in una letteratura religiosa e spirituale caratterizzata dalla pluralita` e inoltre si e` costruita attorno a specifiche dialettiche filosofiche, giuridiche e politiche. E che merita d’essere conosciuta piu` a fondo: sia per la levatura e l’apertura indubbiamente attestate nel corso dei secoli e per gli stimoli che ancora puo` fornire alla civilta` globale, sia per evitare quel tanto paventato e altisonante ‘‘scontro di civilta`’’ che infine, come spesso accade di pensare, si rivela un piu` prosaico ‘‘scontro di ignoranze’’ avvilente per tutti. Nell’intero mondo cosiddetto occidentale e in particolare nell’Italia di oggi, dove convivono donne e uomini di diverse origini e tradizioni culturali, conoscere la cultura musulmana e` urgente perche´ serve a combattere le false certezze: la diffidenza o il timore indifferenziati e acritici come la confidenza ingannevole. E la conoscenza, la` dove e` possibile, viene prima di ogni altra cosa e almeno prima del giudizio. In omaggio alla cultura esplorata nelle pagine seguenti, che ha saputo onorare la conoscenza umana – non solo in fatto di religione – insistendo sulla sua origine divina e facendone un motivo di elezione sullo statuto angelico, una cultura che ha voluto per converso individuare nelle convinzioni irriflesse la via al castigo infernale (cfr. Corano, 83,15-16), vale la pena di fare appello, mutatis mutandis, ad alcune parole attribuite al profeta Muhammad: Chiesero al Profeta quali azioni fossero le migliori per la comunita`. Rispose: «La ricerca della scienza». «E poi?», chiesero ancora. Rispose: «Osservare un sapiente». «E poi?» «Far visita a un sapiente», rispose infine. Questo Dizionario del Corano, proposto nella cura di un intellettuale di spicco come Mohammad Ali Amir-Moezzi e aperto da una dotta introduzione dello stesso Amir-Moezzi sulla storia del Testo e della sua tradizione scritta (vedi in seguito Un testo e una storia enigmatici), mira appunto a una conoscenza del Corano e insieme dei suoi numerosi e molteplici sviluppi culturali. Dunque, e solo in apparenza a dispetto del titolo, quest’opera e` molto piu` di un Dizionario del Corano, di una lista di termini e temi ricorrenti nella parola di Dio secondo l’islam. E` piuttosto un inventario esemplificato e ragionato dei molti aspetti di una cultura che si da` beninteso a partire dal Corano, perche´ trova sempre e comunque nel Libro la propria ragion d’essere, la radice e la linfa vitale. Ma che in una storia ben piu` che millenaria e nelle vaste aree geografiche in cui questo Libro e` stato recitato, letto e studiato insieme alle idee che veicola si e` giovata e continua

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a giovarsi di stimoli endogeni numerosi e di vario ordine e varia ispirazione, a volte recuperati dal passato e piu` spesso rinnovati, e, sempre, di contatti stretti con le culture limitrofe. Le molte voci di questo Dizionario del Corano tendono a una conoscenza della cultura musulmana che sia il piu` possibile oggettiva, distanziata e serena; e sono guidate dallo stesso rigore fondato sull’erudizione, lo stesso rispetto dell’oggetto studiato, la stessa preoccupazione per la chiarezza e la coerenza, come scrive il curatore francese nella sua prefazione. Riportano innanzitutto il fondamento scritturale, citando per esteso il versetto o i versetti coranici in cui un dato tema e` attestato, offrendo cosı` al lettore un valido supporto testuale, pur con l’inesorabile riduzione che ogni traduzione comporta, particolarmente quando si tratta di una lingua densa qual e` l’arabo del Corano. Procedono quindi considerando i precedenti storici e gli eventuali rapporti con analoghi temi in altre culture. E poi esponendo e commentando gli sviluppi nella corposa quanto articolata letteratura di commento – tradizionale, razionale o spirituale – che tanto pesa sulla ricezione del Libro, cioe` sul modo in cui il Libro stesso e` stato variamente inteso secondo le diverse impostazioni di scuola, dal principio e fino a oggi. E` questo un punto particolarmente importante che puo` se non altro indebolire le tante dichiarazioni, diffuse su ogni versante, introdotte dalla frase: «il Corano dice che ...», sempre irrispettose, e perfino odiose quando ignare di ogni contestualizzazione finanche intrascritturaria. Le discipline contemplate da questo Dizionario del Corano sono molte, e vanno di pari passo con i diversi ambiti di ricerca degli autori oltre che con la loro diversita` di formazione e di radici culturali anche religiose: islamologi – arabisti e iranisti per lo piu` e per ovvi motivi – filologi, antropologi o storici del folklore, storici dell’arte e cosı` via, ciascuno dei quali si e` adoperato in vista di un’agile comprensione anche per il lettore non specialista. Ci auguriamo di cuore che la pubblicazione di quest’opera, nuovissima nel panorama della maggiore editoria italiana per ampiezza e profondita`, leggibilita` e semplicita` di consultazione, assolva al suo intento primo, cioe` quello di abbattere i fraintendimenti e le banalizzazioni che minano la serenita` di una societa` civile. In questa edizione italiana la traduzione dei passi coranici, senza che cio` comporti giudizi di merito sulle altre e sempre piu` numerose proposte editoriali, segue ovunque una versione apprezzata in ambito accademico sin dalla sua pubblicazione, quella di Alessandro Bausani (Sansoni e poi BUR), a volte con trascurabili variazioni intese soprattutto a meglio aderire al pensiero degli autori; i riferimenti coranici indicano prima la sura e poi il versetto (ad esempio 22,3 rinvia alla sura 22, versetto 3). Le traduzioni bibliche seguono invece La Bibbia di Gerusalemme (EDB; traduzione riproposta nella versione italiana della Bibbia TOB - Traduction œcume´nique de la Bible, Elledici; di quest’ultima si sono adottate le abbreviazioni dei libri biblici). Poiche´ la cultura musulmana si fonda sul rispetto della lingua araba in quanto lingua della parola ultimamente rivelata da Dio, si e` per lo piu` data preferenza ai nomi arabi: nomi comuni quali sharı¯‘a (evitando sciaria o sharia) o nomi propri, innanzitutto quello del profeta dell’islam, Muhammad (la cui trascrizione Muhammad e` im˙ piegata invece nel caso di personaggi omonimi), cosı` evitando l’italiano Maometto che, sia pure involontariamente, ricorda troppo da vicino un diminutivo di forte coloritura dispregiativa; lo stesso vale anche, per lo piu`,

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nel caso dei nomi propri di autori non arabi, per esempio persiani o turchi, se appartenenti al periodo classico e arabofoni. Le trascrizioni seguono in generale i criteri dell’Encyclopaedia of Islam (Brill Academic Publishers) con le variazioni necessarie per seguire il sistema semplificato di trascrizione scientifica che si e` scelto di mantenere dall’originale francese (su questo sistema vedi in seguito). Consapevoli di contraddire la regola del singolare invariabile nel caso dei nomi comuni stranieri, si e` per lo piu` utilizzato, o almeno segnalato qualora pertinente, il plurale dei nomi comuni arabi (per esempio ‘ulama¯’ come plurale di ‘a¯lim, evitando l’invariabile ulema; oppure aha¯dı¯th come plurale di hadı¯th quando si tratta di ˙ maiuscolo Hadı¯th alla detti o fatti del Profeta,˙ riservando il singolare Tradizione profetica ovvero Sunna come corpus canonico). In ˙tal modo si e` inteso offrire al lettore una maggiore possibilita` di scelta nell’utilizzo dei vari termini. Anche nelle italianizzazioni dei nomi comuni si sono per lo piu` mantenute le vocali lunghe e segnalate le consonanti enfatiche per permettere una pronuncia il piu` possibile vicina a quella del nome originario; si e` pertanto riportato per esempio ma¯likita e non malikita o malichita, oppure sha¯fi‘ı¯ta e non sciafiita o shafiita. Pero`, per non peccare di pedanteria, la trascrizione e` stata omessa nel caso di altri nomi, come imam (ima¯m in trascrizione) o islam (isla¯m in trascrizione, dunque con l’accento tonico sulla a); quest’ultimo risultera` sempre minuscolo, evidentemente non per mancato rispetto o faciloneria, ma per adeguarlo all’ormai invalso uso di scrivere minuscoli anche cristianesimo o ebraismo. Inoltre, nei nomi propri arabi di tipo denominativo si e` evitato l’articolo determinativo al-; si e` quindi riportato Tabarı¯ e non al-Tabarı¯ tranne nel caso di nomi composti ˙¯), ma anche Ibn ‘Arabı¯ e non Ibn al(per esempio Abu˙¯ Jarı¯r al-Tabarı ‘Arabı¯; e si e` sempre dato per˙ esteso ibn, ‘‘figlio di’’ (per esempio Zayd ibn Tha¯bit), evitando b., piu` rapido ma incomprensibile oltre che impronunciabile al lettore non specialista. Infine, nel caso di formule o espressioni o nomi composti si e` adottata una trascrizione dell’arabo che guarda piu` alla grafica e meno alla resa fonetica (per esempio bi-ism Alla¯h anziche´ bismilla¯h o bismi-lla¯hi, Abu¯ al-‘Ala¯’ e non Abu¯’l-‘Ala¯’, Shams al-Dı¯n e non Shams ad-Dı¯n), non solo perche´ piu` diffusa nell’ambito dell’arabistica italiana, ma anche per agevolare al lettore l’individuazione delle singole componenti lessicali e di conseguenza la migliore comprensione. Infine, nella quasi totalita` dei casi compare una doppia data, la prima secondo l’era musulmana cioe` a partire dall’egira e in base al calendario lunare, la seconda secondo l’era giuliana e gregoriana. Ringrazio Piero Capelli, Laura Parodi, Davide Righi, Angelo Scarabel, Piero Stefani e Giuliano Tamani per i consigli sulle scelte preliminari quanto alla presente versione o sulla resa in italiano di nomi o espressioni. Per la loro costante e generosa disponibilita` ringrazio i traduttori, tutti giovani studiosi esperti delle materie trattate: Barbara De Poli, Silvia Di Donato, Gabriele Ferrario, Marco Aurelio Golfetto, Davide Tacchini e in particolare Martino Diez per i suggerimenti sulla Cronologia adeguata al pubblico italiano. Di ogni errore o manchevolezza nell’edizione italiana resto la sola responsabile. Il mio piu` cordiale ringraziamento va alla casa editrice Mondadori nelle persone di Margherita Forestan e Elena Dal Pra. Ida Zilio-Grandi

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Prefazione all’edizione originale Non si puo` negare che il Corano appartiene al patrimonio dello spirito e della cultura universali. La globalizzazione e un’attualita` sconvolgente hanno fornito a quest’evidenza una dimensione tragica. Il Libro suscita ogni genere di curiosita`, il suo nome e i suoi estratti sono ovunque, e` rivendicato o denunciato da ogni sorta di persone e tuttavia resta profondamente misconosciuto o addirittura sconosciuto. Il libro santo dei musulmani non si presta facilmente alla lettura. Mettendo da parte i pregiudizi storici che l’hanno sempre accompagnato in Occidente, la sua forma e il suo contenuto ne sono anch’essi in qualche misura responsabili, in particolare la composizione a brani non conseguenti, dove ogni tipo di temi talora difficilmente comprensibili e di passi a volte oscuri sono affrontati secondo una logica poco intelligibile e in una lingua spesso sconcertante. I musulmani stessi non nascondono che una comprensione adeguata del Corano e` lungi dall’essere alla portata di ogni lettore, sebbene istruito. Il Corano, forma italianizzata di al-Qur’a¯n (la traduzione piu` adeguata del termine sarebbe ‘‘la Recitazione’’), e` per i musulmani l’insieme delle rivelazioni divine rivolte al profeta Muhammad dall’anno 610 circa fino alla sua morte avvenuta nel 632. E` scritto in un arabo letterario particolare, il cosiddetto ‘‘arabo coranico’’, che include un buon numero di arcaismi terminologici, di prose ritmate talora arricchite di assonanze; e` diviso in centoquattordici capitoli, chiamati ‘‘sure’’ (dall’arabo su¯ra, su¯rat in stato costrutto), di lunghezze molto differenti, ripartite in versetti (in arabo a¯ya, pl. a¯ya¯t) il cui numero totale e` di poco superiore a seimiladuecento, secondo i diversi sistemi di suddivisione. Le sure sono di due tipi, meccane o medinesi secondo il luogo in cui si ritiene che siano state rivelate. Il Corano e` disposto in ordine di lunghezza decrescente in ragione della dimensione delle sure, grosso modo dalle piu` lunghe alle piu` brevi: un ordine, dunque, che non ha nulla di cronologico. I musulmani testimoniano la piu` profonda venerazione nei confronti del loro libro santo. Lo considerano la Parola stessa di Dio, ‘‘discesa’’ grazie all’intermediazione dell’angelo Gabriele sul piu` perfetto degli uomini, l’inviato di Dio, Muhammad. Ne conoscono i grandi temi: adorare e sottomettersi al Dio Unico, ubbidire alle direttive dei profeti e piu` particolarmente a quelle di Muhammad, che completano l’opera dei suoi predecessori, credere nella ricompensa e nel castigo nell’altro mondo e vivere una vita morale, la piu` pura possibile. Tuttavia, per la quasi totalita` dei fedeli il rapporto con il Corano non va oltre questa venerazione e la conoscenza di tali generalita`. Negli ultimi due o tre decenni circa, l’attivismo di alcuni gruppi sembra aver creato l’illusione che la vita del credente musulmano, dall’alba fino al tramonto, sia interamente improntata al Corano, alla sua lettura e meditazione e alla sua applicazione rigorosa. La realta` e` di gran lunga piu` variegata. Il rapporto del fedele comune con questo libro appartiene assai di piu` all’ambito del sentimento e della devozione che a quello del sapere. Ne forniamo alcune prove. Solo il 15% circa dei fedeli di Muhammad sono arabi. I piu` grandi paesi musulmani sono la Nigeria e l’Indonesia; i tre paesi del subcontinente indiano, India, Pakistan e Bangladesh, ospitano quasi la meta` della popolazione musulmana mondiale. Nessuno dei paesi menzionati conosce la lingua e la

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cultura arabe; e lo stesso puo` dirsi per altre regioni dell’Africa nera, della Turchia e dell’Iran, dei Balcani e del Caucaso, dell’Asia centrale o della Cina. Del resto, l’immensa maggioranza dei fedeli e` analfabeta, e i pochi in grado di leggere l’arabo classico non necessariamente comprendono l’arabo coranico. Cio` fa sı` che un numero infimo, certamente meno del 5% dei musulmani, puo` avere una conoscenza piu` o meno profonda del Corano direttamente nel suo testo. Se i fedeli recitano la preghiera quotidiana e molte altre invocazioni in lingua araba, la stragrande maggioranza ne ha una comprensione molto limitata o perfino nulla. Queste cifre permettono di relativizzare serenamente alcune idee accolte con eccessiva facilita` sull’uso comune del testo coranico. Tuttavia non si puo` mettere in dubbio il ruolo fondamentale, come struttura e come principio, che il Corano ha svolto nella formazione, nello sviluppo e nell’evoluzione storica della cultura, della civilta` e del pensiero nell’islam, a tal punto che la conoscenza adeguata di quest’ultimo e` impossibile senza quella del suo testo sacro. Queste realta` contrastanti e le loro implicazioni sono la principale ragion d’essere della presente opera. Questo Dizionario del Corano e` il frutto di un lavoro collettivo iniziato cinque anni fa. Il suo obiettivo principale e` mettere a disposizione di un vasto pubblico, colto ma non necessariamente specialista, uno strumento di lavoro per forza di cose non esaustivo e incompleto ma scientificamente rigoroso e allo stesso tempo di agevole lettura, volto a una conoscenza del Corano il piu` possibile oggettiva, distanziata e serena. Esso differisce dunque decisamente da un’opera scritta da specialisti e per specialisti qual e` l’Encyclopaedia of the Qur’a¯n, monumentale ed eccellente strumento di consultazione pubblicato in cinque volumi e in parecchie migliaia di pagine. I due primi anni di questo lavoro sono stati dedicati dal curatore dell’opera a stilare la lista dei lemmi e a costituire la squadra dei collaboratori, il secondo compito non essendo sempre piu` agevole del primo. Si e` formata cosı` una e´quipe internazionale, che include ricercatori affermati di diversa origine e formazione, provenienti dalla Francia soprattutto, ma anche dall’Italia e dal Belgio, dalla Tunisia e dall’Algeria, da Israele, dall’Iran e da altri paesi. L’elevato livello scientifico di tutti esigeva che la liberta` d’espressione, l’approccio metodologico e le concezioni intellettuali di ciascuno fossero strettamente rispettati. Tutti gli autori condividono del resto lo stesso rigore fondato sull’erudizione, lo stesso rispetto dell’oggetto studiato, la stessa preoccupazione per la chiarezza e la coerenza. Parecchi anni sono stati dunque necessari per trattare argomenti complessi e talvolta delicati ma sempre tecnici, con la costante attenzione alla leggibilita` e, per quanto possibile, alla semplicita`. Durante il nostro intero lavoro, alcuni tra i nostri amici piu` stretti ci hanno messo in guardia sul carattere delicato della nostra iniziativa: un’opera – temevano – destinata al grande pubblico e che affronta il testo coranico da un punto di vista strettamente filologico e storico non avrebbe mancato di urtare la sensibilita` di alcuni musulmani. Non abbiamo voluto dar credito a questo timore, per diversi motivi. Innanzitutto, la storia dell’islam e della civilta` islamica, come accade per ogni religione e civilta`, comporta beninteso zone buie di violenza e fanatismo, ma anche numerosi e magnifici momenti d’apertura, di razionalismo e pluralismo intellettuale e spirituale che per molti secoli hanno reso la cultura musulmana una delle piu` ricche e stimolanti al mondo: il recente libro di Yohanan Friedmann, Tolerance and

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Coercion in Islam, pubblicato a Cambridge nel 2003, lo ha dimostrato una volta di piu` e in modo magistrale. Gli stessi intellettuali musulmani non hanno mai negato che la ricezione, la messa per iscritto e la trasmissione del testo coranico hanno avuto una storia. Per numerosi secoli e particolarmente all’inizio dell’islam, essi hanno largamente dibattuto lo statuto, il contenuto e la storia di questo testo. L’inquietudine dei nostri amici trova forse fondamento nell’oblio di questi dibattiti d’idee, oblio, anche, di una storia religiosa densa di sfumature e sottigliezze intellettuali, certamente dovuto al recente emergere del fondamentalismo islamico violento. Cedere all’inquietudine significa dunque dar ragione al monolitismo riduttivo di un’infima minoranza, trascurando secoli di dibattiti e centinaia di opere frutto di molteplici visioni di una realta` particolarmente articolata. Inoltre, sarebbe disastroso confondere musulmani e islamisti, come pure intellettuali islamisti e islamisti violenti. E infine, perche´ rifiutare di credere che i musulmani siano capaci di considerare la propria storia, compresa quella del Libro santo, con serenita`? Perche´ rifiutare di ritenere che essi siano in grado di assimilare cio` che si potrebbe considerare l’apporto intellettuale piu` magnifico della modernita`, cioe` il pensiero critico, l’approccio distanziato e obiettivo ai fenomeni, anche a quelli relativi alle questioni di fede? E` vero che il metodo scientifico critico, applicato alle credenze e alle religioni, e` il frutto di una storia occidentale che ha visto il Rinascimento, l’Illuminismo, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, la separazione tra chiesa e stato e cosı` via, una storia che non e` quella dell’islam. Ma perche´ i musulmani dovrebbero essere incapaci di riconoscere il valore di questo metodo e il suo ruolo nella promozione del progresso, della razionalita` e della pace? Non si puo` forse sperare che dotti, ricercatori e intellettuali musulmani, ispirandosi all’immensa curiosita` e alla grande capacita` d’adattamento intellettuale dei loro antenati, assimilino questa nuova e universale visione del mondo, propria delle scienze umane? Tale visione, sottraendo ai problemi la loro carica emotiva e contestualizzandoli, non potrebbe costituire anche un mezzo tra i piu` efficaci per salvaguardare una gloriosa cultura che oggi attraversa una delle peggiori crisi spirituali della sua storia, dovuta principalmente alla strumentalizzazione politica del fatto religioso? La nostra opera colloca costantemente il Corano all’interno della storia e della geografia, lo situa nella cultura e nella civilta` musulmana, ma anche nel contesto piu` vasto di altre religioni mediorientali, per sottolinearne l’indissociabilita`, nonostante un certo numero di divergenze che le separano. Accostando questo Dizionario del Corano a una storia delle religioni, e` nostro desiderio aiutare a cancellare false idee, diffidenze ingiustificate o chiusure dottrinali. Evidentemente, la nostra iniziativa e` innanzitutto scientifica, ma avra` pienamente raggiunto il proprio obiettivo se sara` riuscita ad assolvere anche a un ruolo civile, per quanto modesto. Mohammad Ali Amir-Moezzi

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Ringraziamenti Mi e` particolarmente gradito ringraziare qui tutti coloro che hanno permesso la realizzazione di quest’opera. In primo luogo naturalmente tutti gli autori dei contributi: le loro competenze scientifiche, la loro perseveranza e pazienza e l’amichevole e arricchente collaborazione hanno permesso che questa lunga avventura si concludesse nel migliore dei modi. Due prestigiose istituzioni francesi hanno sostenuto con forza la nascita di questo libro: l’Institut europe´en en sciences des religions (IESR), legato all’E´cole pratique des hautes e´tudes (EPHE-Sorbonne) e il Laboratoire d’e´tudes sur les monothe´ismes (LEM, gia` Centre d’e´tudes des religions du Livre), gruppo di ricerca misto (EPHE-CNRS). La nostra profonda riconoscenza va a Dominique Borne e Jean-Paul Willaime, rispettivamente presidente del consiglio di direzione e direttore dell’IESR, come anche a Philippe Hoffmann, direttore del LEM. La nostra piu` sincera gratitudine si rivolge ugualmente all’importante fondazione internazionale Roshan Cultural Heritage Institute di Washington e specialmente alla sua sapiente e attenta presidente, la dottoressa Elahe Mir-Jalali e agli onorevoli membri del consiglio d’amministrazione, il cui generoso sostegno, fin dagli esordi della nostra iniziativa, ha fatto sı` che l’elaborazione e la redazione dell’opera si svolgessero nelle migliori condizioni; li ringrazio vivamente per la loro fiducia e i loro incoraggiamenti. Infine, tutti i nostri ringraziamenti vanno a Christophe Parry e Guy Stavride`s della collana ‘‘Bouquins’’ delle edizioni Robert Laffont, per la loro attenta lettura e il loro rigore professionale. La qualita` editoriale di quest’opera deve loro molto. Grazie anche a Vale´rie Gautheron, Euge´nie Rambaud e Mireille Orfali per le accorte correzioni e la supervisione alla stampa.

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Collaboratori [tra parentesi la sigla con cui sono citati in coda a ogni voce] ADDAS, Claude [C.A.] Ricercatrice indipendente, diplomata presso l’Institut national des langues et civilisations orientales di Parigi, specialista di mistica musulmana. Tra le sue opere: Ibn ‘Arabı¯ et le voyage sans retour, Le Seuil, Paris 1996, e Ibn ‘Arabı¯ ou la Que¯te du soufre rouge, Gallimard, Paris 1989. ¯ sa¯f ibn Barakhiya¯; Bah¯ıra¯; Bilqı¯s; Gente della . Autore delle voci: ‘Arafa ¯ t; A ˙ ˙ Naja¯shı¯; Noe`; RamaVeranda; Hira¯’; Idrı¯s; Lot; Mecca; Mina¯; Muzdalifa; da¯n; Safa¯ e˙ Marwa; Uomo; Waraqa ibn Nawfal; Zabu¯r. ˙ ˙ AMIR-MOEZZI, Mohammad Ali [M.A.-M.] Directeur d’e´tudes presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes di Parigi, specialista di teologia islamica e di esegesi coranica classica. Autore, in particolare, di: Le Guide divin dans le shi’isme originel. Aux sources de l’e´sote´risme en Islam, Lagrasse, Verdier 2007 (2ª ed.), e di La Religion discre`te: croyances et pratiques spirituelles dans l’islam shi’ite, Vrin, Paris 2006. . Autore delle voci: ‘Alı¯ Ibn Abı¯ Ta ¯ lib; Famiglia di Muhammad; Musaylima; ˙ Pietra nera; Religione; Sciismo; Vocabolario straniero e parole enigmatiche. ARKOUN, Mohammed [M.A.] Professore emerito presso l’universita` di Parigi III (Sorbonne nouvelle), specialista di pensiero islamico classico. Tra le sue opere, Pour une critique de la raison islamique, Maisonneuve et Larose, Paris 1984, e Lectures du Coran, Maisonneuve et Larose, Paris 1982. . Autore delle voci: Corano (significato del termine); Parola di Dio; Unicita `. ATLAGH, Riyadh [R.A.] Maıˆtre de confe´rences presso l’Institut national des langues et civilisations orientales di Parigi, e` l’autore di Le point et la ligne. Explication de la basmala par la science des lettres, in Bulletin d’e´tudes orientales, 44 (1992), pp. 161-190, e di Paradoxe d’un mausole´e, in Mohammad Ali AmirMoezzi (a cura di), Lieux d’islam, Autrement, Paris 2005 (2ª ed.), pp. 132153. . Autore delle voci: Insidia e astuzia; Tentazione; Traviamento e smarrimento. AZMOUDEH, Khashayar [K.A.] Directeur d’e´tudes presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes di Parigi, specialista di filosofia islamica. E` stato uno dei principali collaboratori del Dictionnaire des monothe´ismes, diretto da Jacques Potin e Valentine Zuber, Bayard, Paris 2003. . Autore delle voci: Bisanzio e bizantini; Conoscenza; Creazione; Emigrazione; Escatologia coranica; Essere e non-essere; Inferno; Leggende del passato; Manifestazione di Dio; Manna; Non-arabo; Notte del destino; Omayyadi; Ora; Pentimento; Profetizzare; Regno dei cieli; Salvezza; Sinai; Spirito Santo; Tempo; Verbo creatore; Zoroastro e zoroastriani.

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BALLANFAT, Paul [P.B.] Maıˆtre de confe´rences in studi turchi e persiani presso l’universita` JeanMoulin di Lione. Tra le sue opere: Najm al-Dı¯n Kubra¯: la pratique du soufisme, E´ditions de l’E´clat, Nıˆmes 2002, e Ru¯zbeha¯n: l’itine´raire des esprits, Les Deux Oce´ans, Paris 2001. . Autore delle voci: Alberi; Allah; A‘ra ¯ f; Bastone di Mose`; Bestia; Casa frequentata; Corvo; Cuore; Eliseo; Giorno del Giudizio; Grido; Idoli e idolatria; Jinn; Ka‘ba; Pilastri dell’islam; Preghiera canonica; Resurrezione; Segni della fine dei tempi; Tromba; Violenza e non-violenza. BAR-ASHER, Meir [M.B.-A.] Docente presso l’Universita` ebraica di Gerusalemme; specialista delle correnti dottrinali dell’islam medievale. Autore, tra l’altro, di The Nusayrı¯˙ and ‘Alawı¯ Religion (con Aryeh Kofsky), Brill, Leiden 2002, e di Scripture Exegesis in Early Ima¯mı¯ Shı¯’ism, Brill, Leiden 1999. . Autore delle voci: Abele e Caino; Abu ¯ Lahab; Antico Testamento; Esegesi coranica; Gabriele; Ha¯ru¯t e Ma¯ru¯t; Intercessione; Isra¯’ı¯liyya¯t; Jibt e Ta¯ghu¯t; ˙ Maria; ‘‘I Ripetuti’’; Saul; Shu‘ayb; ‘Uzayr; La Vacca; Zayd ibn Ha¯ritha. ˙ BENKHEIRA, Mohammed Hocine [M.H.B.] Directeur d’e´tudes presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes di Parigi, specialista di diritto musulmano. Tra le sue opere: Juguler l’animalite´: Islam et interdits alimentaires, PUF, Paris 2000, e L’Amour de la Loi, PUF, Paris 1997. . Autore delle voci: Adozione; Adulterio; Alimentazione; Allattamento; Animale morto; Baraka; Caccia e pesca; Califfato e imamato; Cane; Commercio; Esegesi giuridica; Furto; Giuramenti; Interdizioni alimentari; Macellazione; Maiale; Matrimonio; Mestruazioni; Omicidio; Omosessualita`; Parentela e parenti; Parentela di latte; Recinto sacro; Sacrificio; Salmodia del Corano; Sangue; Sessualita`; Sodomia; Testimonianza e professione di fede. CHAUMONT, E´ric [E´.C.] Responsabile della ricerca presso il CNRS, specialista di diritto musulmano. In particolare, ha curato l’edizione di Abu¯ l-Yusr al-Bazdawı¯: livre ou` repose la connaissance des preuves le´gales (con Marie Bernand), IFAO, Il Cairo 2003, e di Al-Shaykh Abu¯ Isha¯q al-Shı¯ra¯zı¯: le livre des rais illuminant la ˙ compre´hension de la Loi, Robbins Collection of Ancient and Religious Law, Berkeley 1999. . Autore delle voci: Abrogazione; Adozione; Antichi; Apostasia; Bambino ed educazione; Diritto successorio; Gioco e gioco d’azzardo; Imitazione; Matrimonio temporaneo; Ordinare il bene e proibire il male; Orfano; Passione; Pene coraniche fisse; Poligamia; Prostituzione; Purita` rituale; Ripudio; Schiavo e schiavitu`; Sharı¯‘a; Usurpazione e spoliazione; Velo; Versetti chiari e versetti ambigui; Vino, bevande inebrianti e droghe. CUYPERS, Michel [M.C.] Ricercatore presso l’Istituto Domenicano di studi Orientali del Cairo, specialista di retorica semitica e coranica. Tra le sue opere: Le Festin: une lecture de la sourate al-Ma¯’ida, Lethielleux, Paris 2007. . Autore delle voci: Lingua e stile del Corano; Preghiere nel Corano; Retorica e struttura.

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DAAIF, Lahcen [L.D.] Attivo presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes di Parigi e ricercatore associato del Laboratoire d’e´tudes sur les monothe´ismes, specialista di pensiero islamico classico e di diritto musulmano. . Autore delle voci: Invisibile; Isaia; Meriti del Corano; Monachesimo e monaci. DE´CLAIS, Jean-Louis [J.-L.D.] Sacerdote domenicano a Orano (Algeria), biblista e islamologo. Autore, tra l’altro, di Un re´cit musulman sur Isaı¨e, Le Cerf, Paris 2001, e di David raconte´ par les musulmans, Le Cerf, Paris 1999. . Autore delle voci: Faraone; Giacobbe; Giuseppe; Salomone. DE´ROCHE, Franc¸ois [F.D.] Directeur d’e´tudes presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes di Parigi, specialista di codicologia ed epigrafia araba. Tra le sue opere piu` recenti: Le Coran, PUF (coll. Que sais-je?), Paris 2005, e Le Livre manuscrit arabe: pre´ludes a` une histoire, Bibliothe`que nationale de France, Paris 2004. ¯ d; Animale; Babilonia; . Autore delle voci: Abraha e anno dell’elefante; ‘A Basmala; Calendario; Direzione della preghiera; Gerusalemme; Manoscritti del Corano; Muhammad; Recensioni del Corano; Recitatori del Corano; Redazioni del Corano; Scienze coraniche; Scribi del Corano; Scrittura; Sette letture; Studi occidentali sul Corano; Thamu¯d; Traduzioni del Corano; Tribu` e cultura tribale. DE SMET, Danielv [D.DeS.] Direttore delle ricerche presso il CNRS e docente di filosofia della lingua araba presso l’Institut supe´rieur de philosophie dell’Universita` cattolica di Lovanio. Autore, in particolare, di Les Epıˆtres sacre´es des Druzes: Rasa¯’il alHikma, Peeters, Louvain 2007, e di La Quie´tude de l’intellect. Ne´oplatoni˙ et gnose ismae´lienne dans l’œuvre de Hamı¯d al-Dı¯n al-Kirma¯nı¯, Peeters, sme ˙ Louvain 1995. . Autore delle voci: Api e miele; Apparente e nascosto; Bilancia; Cicli; Crocifissione; Demoni; Dhu¯ al-Qarnayn; Eresia; Esagerazione; Esoterismo; Genti del Libro; ‘Illiyyu¯n e Sijjı¯n; Impugnatura saldissima; Lettere isolate; Luqma¯n; Metamorfosi; Partito di Dio e partito di Satana; Ribellione; Scienze straniere; Sette; Simone; Vitello d’oro. GEOFFROY, E´ric [E´.G.] Maıˆtre de confe´rences in studi arabi e islamici presso l’universita` MarcBloch di Strasburgo, specialista di mistica musulmana. Tra le sue opere: Une voie soufie dans le monde: la Sha¯dhiliyya, Maisonneuve et Larose, Paris 2006, e Initiation au soufisme, Fayard, Paris 2003. . Autore delle voci: Archetipo della scrittura; Ascensione celeste; Dhikr; Dhu¯ al-Kifl; Eden; Egitto; Fiducia in Dio; Giona; Glorificazione di Dio; Gratitudine e riconoscenza; Khadir ‘‘il verdeggiante’’; Luce e tenebre; ˙ ¯na; Salmodia, musica e danza; Ummı¯; Malattia; Mistica; Riti e rituali; Sakı Visione e sogno; Visita pia. GOBILLOT, Genevie`ve [G.G.] Docente di civilta` e storia delle idee arabo-musulmane presso l’universita` Jean-Moulin di Lione. Autrice, tra l’altro, di Al-Hakı¯m al-Tirmidhı¯: le Livre ˙

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des nuances ou De l’inexistence de la synonymie, Geuthner, Paris 2006, e di La Conception originelle (fitra), ses interpre´tations et fonctions chez les penseurs musulmans, IFAO, Il˙ Cairo 2000. . Autore delle voci: Angeli e angelologia; Arabo (lingua e popolo); Battesimo e battisti; Benedizione e maledizione; Congresso Supremo; Dualismo coranico; Embrione; Gente della Caverna; Gente di Ukhdu¯d; Geremia; Hanı¯f; Manichei˙ Sabei; Sigillo smo e manichei; Messia; Najra¯n; Natura innata; Patto preeterno; dei profeti; Scritture apocrife; Tavola Custodita; Teologia islamica e Corano; Vangeli. GRIL, Denis [D.G.] Docente di studi arabi e islamici presso l’universita` della Provenza. Tra le sue opere: Ibn ‘Arabı¯: le de´voilement des effets du voyage, E´ditions de l’E´clat, Nıˆmes 1996, e La Risa¯la de Safı¯ al-Dı¯n Ibn Abı¯ Mansu¯r: biographie des ˙ ˙ 1986. maıˆtres spirituels, IFAO, Il Cairo Autore delle voci: Arca di Mose`; Arca di Noe`; Cammino; Deposito divino; Donna; Dubbio; Elemosina; Esegesi mistica; Esperienza spirituale del Profeta; Ferro; Libri santi; Macrocosmo e microcosmo; Meraviglia; Parabole e simboli; Peccato; Politeismo; Preghiera invocatoria; Rivelazione e ispirazione; Speranza; Stelle.

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GUIRAUD, Morgan [M.G.] Inge´nieur de recherches e responsabile della biblioteca della sezione Scienze religiose presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes, specialista di filosofia e mistica dell’islam classico. . Autore delle voci: Adamo; Barzakh; Destino; Eva; Formica; Giobbe; Loto del Limite; Morte; Ragno; Scimmia; Sira¯t. ˙ ˙ HAKIM, Avraham [A.Ha.] Professore associato presso l’universita` di Tel-Aviv, storico dell’islam e della letteratura delle tradizioni profetiche. Autore, tra l’altro, di ‘Umar b. alKhatta¯b as a fighter against Satan, in Jerusalem Studies in Arabic and Islam, ˙ 31 (2006), pp. 34-57. . Autore della voce: Abu ¯ Bakr; ‘Umar ibn al-Khatta¯b; ‘Uthma¯n ibn ‘Affa¯n. ˙˙ HILALI, Asma [A.Hi.] Dottore di ricerca presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes, attualmente borsista presso la Martin-Luther-Universita¨t di Halle. Autrice di ‘Abd alRahma¯n al-Ra¯mahurmuzı¯ (m. 360/971): a` l’origine de la re´flexion sur l’au˙ ´ du hadith, in Annales islamologiques, 39 (2006), pp. 131-147. thenticite . Autore delle voci: Battaglie del Profeta; Compagni del Profeta; Medina; Mogli del Profeta; Permesso di Dio; Quraysh e qurayshiti; Sigillo; Storie dei profeti; Storie edificanti; Sunna e sunnismo. LORY, Pierre [P.L.] Directeur d’e´tudes presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes, specialista di mistica e scienze occulte islamiche. Autore, tra l’altro, di La Science des lettres en islam, Devry, Paris 2004, e di Le Re¯ve et ses interpre´tations en Islam, Albin Michel, Paris 2003. . Autore delle voci: Abramo; Aronne; Davide; Elia; Esegesi mistica (introduzione); Ezechiele; Follia; Giosue`; Giovanni Battista; Giuda Iscariota;

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‘Imra¯n e la sua famiglia; Isacco e Ismaele; Madyan; Magia; Martirio; Mose`; Nemrod; Occidente e Corano; Pellegrinaggio alla Mecca; Poesia; Qa¯ru¯n; Scienze occulte; Sogni; Zaccaria. MICHEAU, Franc¸oise [F.M.] Docente di storia medievale dei paesi islamici presso l’universita` di Parigi I (Panthe´on-Sorbonne). E` autrice, tra l’altro, di: Les Pays d’Islam du VIIe au XVe sie`cle (con Alain Ducellier), Hachette, Paris 2000, e di La Me´decine arabe et l’Occident me´die´val (con Danielle Jacquart), Maisonneuve et Larose, Paris 1996 (2ª ed.). . Autore della voce: Dhimma e dhimmı¯. PORTER, Yves [Y.P.] Maıˆtre de confe´rences in arte islamica presso l’universita` della Provenza. Autore, in particolare, di L’Art de la ce´ramique dans l’architecture musulmane, Flammarion, Paris 2001, e di Peinture et arts du livre. Essai de litte´rature technique indo-persane, Institut franc¸ais de recherche en Iran, Teheran 1992. . Autore delle voci: Architettura; Argilla; Arte; Bellezza; Calamo; Calligrafia; Carta; Cavallo; Colori; Libro; Mihra¯b; Miniature; Moschea; Nave; Para˙ diso; Rappresentazione figurativa; Scuola coranica e insegnamento; Trono; Uccelli; Volto e viso. SEBTI, Meryem [M.S.] Responsabile delle ricerche presso il CNRS, specialista di filosofia islamica. Autrice, tra l’altro, di Avicenne. L’aˆme humaine, PUF, Paris 2000. . Autore delle voci: Amore; Anima; Castita ` ; Certezza; Corpo; Filosofia islamica; Prova. TOELLE, Heidi [H.T.] Docente di letteratura araba e islamica presso l’universita` di Parigi III (Sorbonne nouvelle). In particolare, e` l’autrice di Histoire de la litte´rature arabe (1800-1945) (con Boutros Hallaq), Actes Sud, Arles 2007, e di Le Coran revisite´: le feu, l’eau, l’air et la terre, Institut franc¸ais de Damas, Damasco 1999. . Autore delle voci: Abbigliamento; Acqua; Aria e vento; Cammello; Cielo; Diluvio; Fonti d’acqua; Fonti e fiumi del paradiso; Frutti; Fuoco; Letteratura; Luna; Monti e montagne; Natura; Palma da dattero; Pioggia; Soffio vitale; Sole; Sperma; Tannu¯r; Terra; Tubba‘; Tuwa¯; Ulivo; Urı` ed efebi; Uva; ˙ Vegetazione. URVOY, Marie-The´re`se [M.-T.U.] Docente di islamologia, storia medievale e arabo classico presso l’Universita` cattolica di Tolosa. Autrice, in particolare, di Les Mots de l’islam (con Dominique Urvoy), Presses universitaires du Mirail, Toulouse 2004, e di Traite´ d’e´thique de Yahya¯ ibn ‘Adı¯, Cariscript, Paris 1991. ˙ . Autore delle voci: Annuncio della venuta di Muhammad; Apostasia; Bottino; Comunita`; Cristiani e cristianesimo; Digiuno; Dissimulazione; Dogma; Dominio di se´; Ebrei ed ebraismo; Falsificazione; Fede e infedelta`; Gesu`; Guerra e pace; Hadı¯th; Impeccabilita`; Inimitabilita` del Corano; Invito ˙

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all’islam; Morale coranica; Profeti e profetologia; Scrupolo religioso; Statuti giuridici; Tolleranza e intolleranza; Versetti satanici; Versetto della purificazione. YAHIA, Mohyddin [M.Y.] Professore presso la Da¯r al-hadı¯th al-Hasaniyya di Rabat, specialista di diritto e pensiero musulmano˙ classico. ˙La sua tesi di dottorato, condotta presso l’E´cole pratique des hautes e´tudes e intitolata Sha¯fi‘ı¯ et les deux sources de la loi islamique, e` in corso di stampa nella collana della Biblioteca dell’E´cole des hautes e´tudes di Turnhout, per i tipi di Brepols. . Autore delle voci: Ammonimento; Circoncisione ed escissione; Circostanze della rivelazione; Collera divina; Diritti; Esegesi contemporanea; Eternita`; Giustizia e ingiustizia; Gog e Magog; Golia; Ipocriti; Nomi divini; Ordalia; Scienza; Segni; Tasse islamiche; Tempio; Usura; Vita. ZILIO-GRANDI, Ida [I.Z.-G.] Ricercatrice di lingua e letteratura araba classica presso l’Universita` di Genova. Autrice, in particolare, di Una corrispondenza islamo-cristiana sull’origine divina dell’Islam (con Samir Khalil Samir), Zamorani, Torino 2004, e Il Corano e il male, Einaudi, Torino 2002. . Autore delle voci: Bene e male; Satana.

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Nota sulla pronuncia Diamo di seguito alcune brevi osservazioni sulla pronuncia dei nomi arabi, in base alla trascrizione usata nella compilazione. – dh corrisponde grosso modo al suono di th nell’inglese this; – h e` una faringale sorda, una h aspirata con forte raschiamento della ˙faringe; – kh e gh indicano le due prevelari, rispettivamente sorda come nel tedesco Bach e sonora, simile alla r francese; – j corrisponde alla g dolce come nell’italiano gemma; – k corrisponde alla c di casa; – sh corrisponde a sc in sciame; – d, s, t e z sono le enfatiche delle rispettive consonanti, e vanno pronun˙ ˙ ritraendo ˙ciate ˙ la radice della lingua verso la faringe; – th corrisponde a th nell’inglese thing; – q rappresenta l’enfatica della k e corrisponde a un suono vicino alla pronuncia della c di cuore; – l’apostrofo (’) indica una brusca interruzione della glottide mentre l’apostrofo rovesciato (‘) rende una faringale sonora assente dalle lingue europee; – y e w, utilizzate nei dittonghi, si leggono rispettivamente i e u; – a¯, ¯ı e u¯ sono vocali lunghe, sulle quali cade l’accento tonico.

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Introduzione Un testo e una storia enigmatici Non parleremo qui del Corano – a questo e` dedicato il resto della presente opera – ma di alcuni interrogativi, zone d’ombra ed enigmi che costellano la sua storia e quella del suo testo, della sua messa per iscritto. La nostra analisi costituisce dunque piu` una rassegna di problemi che una risposta o una soluzione a un argomento in divenire, tanto piu` che le scoperte di nuovi manoscritti e fonti islamiche, con l’elaborazione di nuovi metodi e diverse teorizzazioni, hanno sconvolto e continuano a sconvolgere, da piu` di un secolo e mezzo, le nostre conoscenze1. Tenteremo di offrire da un lato una rapida sintesi dei diversi aspetti della storia della redazione del Corano, e dall’altro alcune delle rappresentazioni musulmane antiche attorno al libro santo. Desideriamo cosı` collocare questo testo entro un vasto paesaggio religioso, caratteristico dei primi tempi dell’islam, i quali furono teatro di molteplici discussioni e polemiche sul testo coranico, controversie che illustrano una pluralita` di punti di vista che l’‘‘ortodossia’’ posteriore ha cercato di occultare per ragioni ideologiche. Problematiche sollevate dagli studi occidentali Naturalmente, la storia del Corano ha ben presto suscitato l’interesse degli orientalisti e degli islamologi, ma anche, e fin da un’epoca antica, quello degli studiosi musulmani. Quanto al contenuto di questo libro, i fedeli ritengono che alcune parti siano l’espressione di verita` eterne, e che altre parti siano legate a circostanze precise della vita di Muhammad e della storia del suo tempo. Evidentemente non si tratta per loro di storia in quanto disciplina critica, ma di una scienza religiosa elaborata da credenti; nel sunnismo dipende spesso da una letteratura apologetica, tesa a dimostrare l’autenticita` assoluta del testo, e nello sciismo da una controversia dottrinale che mette in dubbio l’integrita` della Vulgata ufficiale. Il tenore e l’autenticita` della versione scritta della rivelazione ricevuta dal profeta Muhammad sono beninteso inseparabili dalla storia e dalla datazione della redazione scritta del Corano. E` evidente che piu` l’elaborazione definitiva e` vicina nel tempo alla rivelazione, minore e` il rischio di alterazione. Questo e` il principale motivo per cui la tradizione ‘‘ortodossa’’ piu` diffusa arriva a professare che la decisione di raccogliere il Corano fu presa subito dopo la morte del Profeta nell’11/632, al tempo di Abu¯ Bakr, primo califfo; e che la versione ufficiale, assolutamente fedele alle rivelazioni ricevuta da Muhammad, vide la luce sotto il califfato di ‘Uthma¯n, terzo califfo, appena trent’anni dopo la scomparsa dell’inviato di Allah. E` dunque di capitale importanza chiedersi quando e in quali condizioni sia stato redatto il Corano che conosciamo oggi, chiamato convenzionalmente la ‘‘Vulgata

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di ‘Uthma¯n’’, e in che misura esso sia fedele ai ‘‘messaggi celesti’’ che si credono ricevuti dal Profeta; e ancora, come i primi musulmani abbiano percepito questi problemi. A questo proposito, la tradizione manoscritta del Corano non e` di alcun aiuto, quantomeno per il momento. Non esistono infatti manoscritti autografi di Muhammad (sappiamo oggi che egli non fu analfabeta) e/o dei suoi scribi. Le piu` antiche versioni complete del Corano daterebbero al III/IX secolo; ma i manoscritti piu` antichi, di epoca pre-abbaside, sono estremamente rari e il loro carattere frammentario ne rende la datazione difficile e soggetta a controversie. I pochi brani del Corano scoperti su papiro e pergamene sono stati datati da alcuni alla fine del I o all’inizio del II secolo dell’egira, questa ipotesi e` respinta da altri. Da piu` di un secolo, nessuna teoria riscuote l’unanimita` degli studiosi. Per trovare elementi di risposta, conviene rivolgersi ad altre fonti d’informazione, a cominciare dagli studi di filologia storica del testo coranico che si situano, in modo piu` generale, all’interno dello studio critico sulla storia della scrittura nell’islam. Fin dal XIX secolo, Aloys Sprenger nella sua celebre Vita di Muhammad opta per il carattere tardivo della produzione del libro propriamente detto. Egli stabilisce infatti una netta distinzione tra gli ‘‘appunti’’ o ‘‘promemoria’’, comparsi molto presto, e i libri, che egli data al II-III/VIII-IX secolo2. La tesi sara` ripresa e completata da Igna´c Goldziher nel suo magistrale studio sulla formazione e lo sviluppo dello Hadı¯th e, ˙ Hartmalgrado la critica spesso pertinente, mossa soprattutto da Martin mann, essa prevarra` tra i ricercatori fino all’inizio della seconda meta` del XX secolo. Tuttavia, una svolta decisiva si produce a partire dal 1960 circa, e da allora questa tesi e` radicalmente discussa. Una prima ragione risiede nella pubblicazione di due opere monumentali che sostengono la grande antichita` della scrittura sistematica tra i letterati in terra d’islam: Studies in Arabic Literary Papyri di Nabia Abbott3 e quindi Geschichte des arabischen Schrifttums di Fuat Sezgin4. Entrambi questi autori affermano che la pratica di mettere per iscritto (nel caso specifico la poesia) esisteva presso gli arabi fin dall’epoca preislamica, e che un corpus scritto si sviluppo` in modo costante all’avvento dell’islam e soprattutto durante il periodo omayyade, cioe` tra il 10/630 e il 132/750 circa. Il postulato dell’antichita` del libro e` stato discusso lungamente e con grande erudizione soprattutto dagli studiosi tedeschi. Tra i detrattori e critici si distinguono Rudolf Sellheim e Stefan Leder. Altri, come Manfred Fleischhammer, Walter Werkmeister o Sebastian Gu¨nter, senza arrivare a difendere apertamente le tesi di Abbott e Sezgin, hanno optato per l’antichita` di talune forme di scritti sistematici. Infine Gregor Schoeler, specialista nella trasmissione dei testi nell’islam, riprendendo e analizzando gli studi anteriori, ha affinato considerevolmente l’esame del problema attraverso numerosi studi apparsi principalmente nella rivista Der Islam. Introducendo nella storia dei testi arabi la coppia syngramma-hypomnema, improntata al greco, egli e` stato in grado di stabilire tra le altre cose una persuasiva distinzione tra l’atto di ‘‘scrivere’’, che non implica sempre una pubblicazione scritta, e l’atto di ‘‘pubblicare’’ che per lungo tempo avvenne solo in modalita` orale5. La seconda ragione per la messa in discussione della teoria del ‘‘libro tardo’’ e` la scoperta e l’edizione, da qualche decennio, di un numero crescente di fonti molto antiche, alcune delle quali, monumentali, che datano principalmente alla seconda meta` del II/VIII secolo: cio` vale per la

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grande opera Al-ridda wa al-futu¯h, attribuita a Sayf ibn ‘Umar, per Al˙ volumi), per Ta’rı¯kh al-Madı¯na di Ibn musannaf di Ibn Abı¯ Shayba (in nove ˙ Shabba (tre volumi) o ancora per Al-musannaf di ‘Abd al-Razza¯q al˙ San‘a¯nı¯ (undici volumi). L’esistenza di opere di quest’ampiezza sembra ˙ indicare che la tradizione libraria si fosse gia` affermata almeno fin dall’inizio del II se non addirittura dalla fine del I secolo dell’egira.

Due approcci scientifici Gli specialisti del testo e della storia della redazione del Corano incontrano dei problemi identici a proposito della periodizzazione. A fronte dei problemi e delle contraddizioni poste dagli scritti islamici, e in particolare a fronte dell’intervallo che separa la data tradizionalmente accolta per la definitiva messa per iscritto del Corano (durante il califfato di ‘Uthma¯n, 2325/644-656) e le prime fonti che riportano quest’informazione, vanno distinti nella ricerca occidentale due atteggiamenti metodologici, l’uno ipercritico e l’altro critico, secondo la terminologia di Gregor Schoeler. Il metodo ipercritico e` proprio degli studiosi che rifiutano totalmente o quantomeno quasi totalmente la tradizione testuale musulmana. Per giustificare questa scelta essi invocano in particolare la lunga durata nella trasmissione delle informazioni scritte, le numerosissime divergenze e contraddizioni degli autori, l’assenza di un’istanza indipendente di controllo della trasmissione, l’esistenza innegabile di errori storici e di racconti inverosimili o la molteplicita` delle leggende. Gia` all’inizio del XX secolo, Leone Caetani o Henri Lammens appartengono a tale corrente scientifica. In questo quadro, un passo decisivo fu compiuto grazie alle analisi dello specialista di arabo e siriaco Alphonse Mingana, a partire dal suo studio sulla trasmissione del Corano6. Riprendendo e sviluppando considerevolmente le tesi di Paul Casanova sul ruolo fondamentale del califfo omayyade ‘Abd al-Malik ibn Marwa¯n (che regno` dall’anno 65 all’anno 86 dell’egira, cioe` dal 685 al 705) e del suo governatore Hajja¯j ibn Yu¯suf nella costituzione della recensione finale del Corano, ˙egli sottolinea innanzitutto il carattere poco credibile delle fonti islamiche circa la storia della redazione del Corano: quasi due secoli, a suo avviso, separano infatti l’epoca del Profeta dalle fonti piu` antiche che riportano i racconti sulla messa per iscritto del testo coranico, nel caso specifico le Tabaqa¯t di Ibn Sa‘d (m. 229/ 844) e il Sah¯ıh di Bukha¯rı¯ (m. 256/870). E` ˙pur vero che dall’epoca di ˙ sono state edite altre fonti piu` antiche. Mingana sfrutta ˙ ˙poi Mingana in allora con minuzia un certo numero di fonti siriache, espressione d’ambienti cristiani orientali dei primi due secoli dell’islam, e conclude che una versione ufficiale del Corano non pote´ esistere prima delle fine del VII secolo dell’era volgare, e che essa, il ‘‘codice di ‘Uthma¯n’’, dovette vedere la luce all’epoca di ‘Abd al-Malik. L’approccio ipercritico conta tra le sue fila altri celebri ricercatori come Joseph Schacht o Re´gis Blache`re, per culminare nelle due opere di John Wansbrough, Quranic Studies e The Sectarian Milieu7, che riscossero una vasta eco. Wansbrough, esattamente come i suoi predecessori, contesta radicalmente il carattere storico dei racconti sulla recensione coranica trasmessi dalla tradizione musulmana, e ritiene che il Corano pote´ assumere forma definitiva solo alla fine del II/VIII secolo, o addirittura all’inizio del III/IX. Per molteplici ragioni, la datazione molto tarda proposta da

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Wansbrough venne in seguito respinta definitivamente, e non soltanto da parte degli oppositori del metodo ipercritico, ma anche dai suoi propri allievi e continuatori come Patricia Crone e Michael Cook, in diversi passi dei loro numerosi lavori. Quanto ai ricercatori che si riconoscono nel metodo critico, ritengono che l’esame scientifico in seno alla tradizione testuale islamica permetta di distinguere adeguatamente i racconti e le informazioni piu` o meno credibili da cio` che non puo` essere accettato. In questo caso, il problema nodale e` evidentemente quello di trovare i criteri d’apprezzamento appropriati per stabilire questa distinzione. L’esame preciso delle tendenze politico-religiose degli autori o delle correnti all’interno delle quali nacque questo o quel testo possono, per esempio, fornire un solido criterio di valutazione. Questo metodo e` stato adottato dalla gran parte dei grandi studiosi del XIX secolo e dai loro successori nel XX secolo. E` in primo luogo il caso degli autori della celebre opera Geschichte des Qora¯ns, a cominciare da Theodor No¨ldeke, che accolse fin dal 1860 il racconto tradizionale musulmano sulla storia del Corano, seguito in questo dai suoi continuatori Gotthelf Bergstra¨sser e Otto Pretzl. Tuttavia, Friedrich Schwally, autore dell’edizione riveduta del libro pubblicata a partire dal 1909, seguendo i metodi che Goldziher aveva applicato allo studio dello Hadı¯th, respinse un buon ˙ prima raccolta, di Abu¯ numero di racconti tradizionali – come quello sulla Bakr, o ancora quello sul dialetto qurayshita del Corano – per trattenere solo la teoria secondo cui una parte importante del Corano trovo` forma definitiva al tempo del Profeta e la raccolta finale ebbe luogo sotto il califfato di ‘Uthma¯n8. L’approccio critico trovo` in seguito qualche difensore di vaglia in Gran Bretagna, in particolare Richard Bell che, considerando i versetti come le unita` originarie della rivelazione, sostenne la tesi delle molteplici revisioni e rimaneggiamenti che il Corano aveva subito in un’epoca molto antica, in massima parte subito dopo la morte di Muhammad9. Egli fu seguito da William Montgomery Watt e da Robert B. Serjeant. Qualche anno prima un altro studioso inglese, John Burton, aveva offerto una delle pietre miliari di questo approccio, The Collection of the Qur’a¯n, pubblicata nello stesso anno dei Quranic Studies di Wansbrough10. Sebbene entrambi gli studiosi si basino sui metodi di Goldziher e di Schacht per la fondamentale disamina dell’affidabilita` della tradizione islamica, Burton giunge a conclusioni radicalmente diverse da quelle di Wansbrough circa la datazione della redazione finale del Corano. Respingendo i racconti sui codici, riuniti prima al tempo di Abu¯ Bakr e poi al tempo di ‘Uthma¯n, ‘‘racconti ideologici’’ che egli attribuisce ai dotti posteriori, Burton stabilisce una distinzione tra un ‘‘Corano come documento’’ (Qur’a¯n document), molto antico, e un ‘‘Corano come fonte’’ (Qur’a¯n source), piu` tardo, per concludere che il testo coranico oggi conosciuto ha visto la luce principalmente al tempo di Muhammad stesso. Tra i numerosi sostenitori della metodologia critica, sono inoltre degni di nota Alfred T. Welch e Rudi Paret, e anche Gregor Schoeler che in quest’ambito si dichiara esplicitamente un continuatore di No¨ldeke. Egli scarta l’ipotesi di Wansbrough basandosi sul famoso Corano di San‘a¯’ (Yemen) e ˙ sugli studi del gruppo di Gerd R. Puin che, attraverso il metodo del carbonio 14, hanno determinato per questo manoscritto una datazione tra il 37/657 e il 71/690, dunque poco tempo dopo la morte di ‘Uthma¯n. Tuttavia, in mancanza di un’edizione scientifica, non si conosce ancora se i numerosi

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frammenti di questo manoscritto coranico, il piu` antico scoperto fino a oggi, rappresentino l’intero testo del Corano. Del resto ci si chiede perche´, trascorso ormai qualche decennio dalla capitale scoperta di questo Corano, Gerd R. Puin e i suoi collaboratori abbiano pubblicato al riguardo soltanto alcuni brevi articoli11. Il metodo dei ricercatori critici si puo` cosı` riassumere: occorre considerare autentica una fonte antica o una tradizione, e plausibile il suo contenuto, fintantoche´ non vi sia alcuna valida ragione per respingerla. In opposizione a questo approccio, Michael Cook, illustre rappresentante del metodo ipercritico, afferma invece che probabilmente ci avviciniamo di piu` alla verita` storica se rifiutiamo tutto cio` che ragioni specifiche non ci impongono di accogliere. Harald Motzki, studioso che non si richiama all’approccio critico, illustra bene le grandi divergenze dei ricercatori occidentali sulla datazione della versione finale del Corano, riferendo le conclusioni di quattro tra i piu` decisivi di loro: in ordine cronologico, Friedrich Schwally data questa versione al tempo del califfo ‘Uthma¯n, Alphonse Mingana al califfato di ‘Abd al-Malik, John Wansbrough all’inizio del III/IX secolo e il suo contemporaneo John Burton al tempo del profeta Muhammad.

Alcune zone d’ombra del testo coranico A parte i problemi posti dalla tradizione testuale islamica, alcuni elementi interni al testo coranico continuano a costituire un problema per gli orientalisti. Per esempio, alcune parole ed espressioni sono sempre rimaste enigmatiche, non soltanto per gli specialisti moderni, ma anche e gia` per gli studiosi musulmani medievali, i cui commenti tanto numerosi quanto contraddittori, talora in uno stesso autore, illustrano le esitazioni se non l’ignoranza pura e semplice. E` il caso, per esempio, dell’espressione jizya ‘an yad (9,29), la cui analisi critica va dallo studio pioneristico di Franz Rosenthal fino al minuzioso esame recentemente condotto da Uri Rubin. La rivista Arabica e` stata per anni la tribuna di dotte discussioni attorno a questa espressione, grazie agli articoli di Claude Cahen, Michael M. Bravmann e Meir J. Kister. Il termine ¯ıla¯f della sura 106 e` stato a sua volta discusso da Harris Birkeland, Michael Cook, Patricia Crone e Uri Rubin, mentre il termine kala¯la (4,12) e` stato lungamente studiato da David Powers in numerosi lavori. Allo stesso modo, il carattere problematico del termine samad, nella sura 112, e` stato rilevato da Franz Rosenthal, Rudi ˙ A. Ambros e altri. Si puo` aggiungere alla lista – che peraltro Paret, Anne non sara` ancora esaustiva - la parola hanı¯f o le famose ‘‘lettere isolate’’, ‘‘le ˙ Aprenti’’ (al-Fawa¯tih) di alcune sure, o ancora i termini aba¯bı¯l, sijjı¯l, qa¯ri‘a e kawthar12. ˙ Per quanto concerne la redazione del Corano e la sua evoluzione, la questione fondamentale si pone in questi termini: per quali motivi i dotti musulmani, fin da un’epoca molto antica, ossia qualche decennio dopo la morte del Profeta, non conoscono o non conoscono piu` il significato di queste parole, di queste espressioni, delle misteriose ‘‘lettere isolate’’? Michael Cook propone l’idea seguente: o i materiali coranici furono resi disponibili come Scrittura soltanto numerosi decenni dopo la scomparsa del Profeta, o molti termini che si sono ritrovati nel Corano, per una ragione o per l’altra, erano gia` enigmatici, o non compresi, al tempo di quest’ultimo13.

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Un altro elemento di rottura concerne l’ambito giuridico. Fin dalla sua grande opera The Origins of Muhammadan Jurisprudence, Joseph Schacht aveva dichiarato che il diritto islamico, quale lo conosciamo dal II secolo dell’egira in poi, e` non coranico in misura sorprendente. In seguito, i lavori di John Burton sulle regole dell’eredita`, sui diritti delle vedove o sulla lapidazione degli adulteri, quelli di David Powers sul diritto ereditario o ancora l’analisi condotta da Gerald Hawting sui diritti della donna ripudiata durante il ‘‘periodo d’attesa’’ (‘idda) tendono a mostrare che meno d’un secolo dopo l’epoca del Profeta alcuni importanti aspetti del diritto erano diventati non solo non coranici (come diceva Schacht), ma a volte assolutamente anticoranici. In tutti i casi studiati, l’impressione generale e` che le enunciazioni coraniche o quelle attribuite a Muhammad fossero trascurate e/o non fossero piu` messe in pratica. Perche´? La ragione puo` essere la messa a punto finale del Corano, tardiva e non consensuale; ma il fenomeno puo` spiegarsi altrettanto bene con l’uso massiccio del ra’y, l’opinione personale del giurista che non traeva i suoi argomenti dal Corano. La questione, comunque, resta aperta. Questi interrogativi e queste fratture, che ancora non hanno trovato spiegazioni sufficientemente soddisfacenti, sono alla base dell’approccio ipercritico. E` utile riassumere qui le tesi del piu` radicale, e certamente del piu` celebre tra i suoi rappresentanti, John Wansbrough14. A suo avviso, il Corano non e` affatto originario dell’Arabia e neppure dell’islam. Gli arabi infatti non avevano ancora costituito una nuova comunita` religiosa quando uscirono dalla loro terra natale per conquistare altri paesi. Fu al di fuori dell’Arabia che essi rinvennero, dopo le conquiste, un ‘‘ambiente settario’’ (sectarian milieu), nel Medio Oriente e piu` in particolare in Iraq, e iniziarono progressivamente ad adottare questo ‘‘ambiente’’ e a plasmarlo a modo loro, riscrivendone la storia e ‘‘arabizzandone’’ l’evoluzione. In questo modo, il Corano emerse da una molteplicita` di fonti all’interno di un processo in cui i predicatori popolari (qass, pl. qussa¯s) svolsero un ruolo ˙ lo strumento sia di prim’ordine: proprio il sermone popolare˙sarebbe ˙stato della trasmissione sia della spiegazione delle parole cosiddette profetiche, in gran parte espressione di tale ambiente settario. Il Libro santo dei musulmani, che trae origine da questo materiale composito, se ne sarebbe separato solo progressivamente. La fissazione del testo si effettuo` cosı` lentamente che la data della sua versione definitiva non puo` essere anteriore all’800 circa dell’era volgare (180 dell’egira), durante la prima epoca abbaside. Anche se le argomentazioni di Wansbrough sono spesso potenti e le sue teorie tanto pertinenti quanto suggestive, la datazione che egli propone per la versione finale del Corano non pare piu` difendibile. A parte le ragioni gia` evocate, codicologiche, archeologiche ed epigrafiche, alcune scoperte la rendono parimenti insostenibile: oltre al manoscritto di San‘a¯’, il fram˙ mento di Khirbet el-Mird (in Arabia) che cita i versetti 3,102 e seguenti, descritto da Adolf Grohmann e analizzato da Meir Kister, sembra provare che un testo stabile esisteva gia` attorno alla fine dell’epoca omayyade. Il papiro nubiano datato al 141/758, che contiene due citazioni coraniche precedute dalla formula «e Dio, che sia glorificato ed esaltato, dice nel suo libro» fornirebbe, secondo Hinds e Sakkout, un’indicazione in questo stesso senso. Nella medesima direzione vanno le scoperte numismatiche che datano dell’epoca omayyade, studiate da Patricia Crone e Martin

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Hinds, con menzione del nome di Muhammad come Inviato di Dio e citazioni coraniche. Racconti sulla raccolta sistematica del Corano, in particolare sotto i califfati di Abu¯ Bakr e ‘Uthma¯n, si ritrovano in fonti molto antiche come Al-ridda wa al-futu¯h attribuita a Sayf ibn ‘Umar (m. ˙ 184/800), al-Ja¯mi‘ di ‘Abd Alla¯h ibn Wahb (m. 197/812), il Musnad di Taya¯lisı¯ (m. 204/820) o il Kita¯b fada¯’il al-Qur’a¯n di Abu¯ ‘Ubayd al-Qa¯sim ˙ recente opera, Harald Motzki rileva in ˙ Salla¯m (m. 224/838). Nella sua ibn modo convincente che la quasi totalita` di questi racconti si devono al dotto e tradizionista Ibn Shiha¯b al-Zuhrı¯ (m. 124/742)15. E questo ci riporta, una volta di piu`, e come aveva sostenuto Alphonse Mingana, al tempo dei primi Omayyadi. Si tratta di una data molto antica, ma comunque di diversi decenni posteriore al terzo califfo: poche decine d’anni, che contano pero` come parecchi secoli, a tal punto le enormi conseguenze delle guerre civili e delle grandi e folgoranti conquiste avevano sconvolto la storia tra le due epoche e le mentalita` dei primi musulmani. Esitazioni e contraddizioni delle fonti islamiche Esattamente come la ricerca occidentale, che ne e` il luogo d’esame, anche la tradizione testuale islamica racchiude zone d’ombra e contraddizioni poco appariscenti ma significative. Esse sembrano indicare che la messa per iscritto definitiva del Corano sia stata effettuata piu` tardi di quanto avrebbe poi preteso l’‘‘ortodossia’’ musulmana. Secondo il racconto piu` ricorrente nella tradizione islamica e conformemente alle versioni divenute dominanti, alla morte del Profeta non esisteva alcun codice completo del Corano che fosse stato da lui debitamente autorizzato. Brani piu` o meno lunghi erano conservati dai diversi Compagni, alcuni dei quali scritti, su ogni tipo di supporto. Una prima recensione venne decisa dal primo califfo Abu¯ Bakr, su consiglio del suo futuro successore ‘Umar, ed eseguita dallo scriba del Profeta Zayd ibn Tha¯bit, inizialmente restio all’opera. Tale operazione porto` alla compilazione di un esemplare, ‘‘il codice [che si trova] tra le due copertine’’ cosı` designato dalla Tradizione. Dopo la morte di ‘Umar, questo esemplare rimase all’interno della sua famiglia e fu ereditato dalla figlia Hafsa, una delle mogli del ˙ ˙ a opera di personaggi Profeta. Oltre a questo codice, vi furono altre raccolte di primo piano, i piu` noti dei quali sono ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯lib, Ubayy ibn Ka‘b, ˙ ‘Abd Alla¯h ibn Mas‘u¯d e Abu¯ Mu¯sa¯ al-Ash‘arı¯. Su consiglio del suo celebre generale Hudhayfa, il terzo califfo ‘Uthma¯n si decise a far stabilire una recensione˙ ufficiale del testo coranico: e` la ‘‘raccolta modello’’ (al-mushaf ˙ al-ima¯m) ovvero la recensione o Vulgata ‘uthma¯niana (al-mushaf al-‘uth˙ ma¯nı¯). Il compito ricadde ancora una volta su Zayd ibn Tha¯bit, assistito da una commissione formata da qurayshiti (curiosamente le fonti non sono unanimi sul loro numero ne´ sulla loro identita`); essa ebbe come base il codice posseduto da Hafsa. Il califfo conferı` in seguito un carattere ufficiale ˙ ˙ recensione; e obbligatorio a questa ne invio` copie nelle varie capitali delle province dell’impero, dove sarebbero stati gli esemplari di riferimento, e infine, per completare la propria opera, diede l’ordine di distruggere ogni altra recensione. Ma trascorreranno diversi secoli prima che questa recensione ufficiale sia accettata da tutti i musulmani come textus receptus.

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Divergenze sulla natura e la trasmissione del testo Quali sono gli elementi problematici delle fonti antiche? In primo luogo, lo studio filologico suggerisce che i termini piu` importanti della nostra indagine risultano ambigui gia` in epoca antica, a cominciare dal vocabolo stesso qur’a¯n, che puo` anche designare dei detti provenienti da Muhammad. In alcune tradizioni, qur’a¯n sembra essere un nome generico che indica tutto cio` che e` stato udito direttamente dalla bocca del Profeta (in questo caso scriviamo ‘‘corano’’ con la c minuscola). Secondo un’affermazione riportata da Ibn Sa‘d, il Compagno Salima al-Jarmı¯ ricorda di «aver raccolto da Muhammad molti corani (qur’a¯nan kathı¯ran) sulle prescrizioni concernenti la preghiera canonica»16. Di fatto la distinzione precisa tra Hadı¯th e ˙ di Dio, Corano, il primo designante i detti del Profeta e il secondo le parole sembra tardiva. Ad esempio, in un’epistola attribuita all’imam degli sciiti zayditi, Zayd ibn ‘Alı¯, due detti iniziano con la frase «Muhammad ha detto», e i rispettivi contenuti, con leggerissimi adattamenti stilistici, si ritrovano nei versetti coranici 5,56 e 21,24. All’inverso, nel quarto versetto di quest’ultima sura (‘‘I profeti’’), i lettori esitano tra le due forme verbali qa¯la, ‘‘disse’’, e qul, ‘‘dı`’’, e grandi divergenze esistono tra i commentatori per capire se si tratta di un detto del Profeta o di un’ingiunzione divina. Alfred-Louis de Pre´mare ha studiato un altro esempio pertinente all’iniziale indecisione tra ‘‘corano’’ e ‘‘hadı¯th’’ attraverso i famosi sermoni che il Profeta avrebbe pronunciato poco˙ prima di morire, che la Tradizione ha in seguito definito ‘‘la predica dell’addio’’ (khutbat al-wada¯‘). Alcune frasi di questi sermoni, in particolare sulle donne e i˙ mesi sacri, si ritrovano infatti con minime varianti nel Corano17. Infine, resta l’esempio enigmatico dello hadı¯th qudsı¯, cioe` di quei detti d’origine divina la cui trasmissione e` ˙attribuita a Muhammad che pero` non hanno trovato posto nel Corano. Pre´mare ha ugualmente sottolineato il carattere problematico della radice «jm‘» nell’espressione ricorrente jam‘ al-qur’a¯n18. La radice contiene evidentemente il senso di ‘‘raccogliere, radunare, mettere insieme’’, ma molti lessicologi musulmani affermano che essa puo` anche significare ‘‘memorizzare, conoscere e imparare a memoria’’, laddove esiste pero` un verbo specifico per quest’ultimo significato, cioe` hafiza. Alcuni racconti ˙ ˙ nel petto degli affermano che il Corano fu in primo luogo ‘‘raccolto uomini’’ – cioe` memorizzato – poi ‘‘radunato’’, o messo insieme, dall’uno o dall’altro dei Compagni di Muhammad. L’ambiguita` che caratterizza il verbo jama‘a sembrerebbe volontaria; troverebbe origine nella preoccupazione di evitare le piu` evidenti contraddizioni esistenti nei racconti sulla redazione del Corano; o forse si trattava di occultare i conflitti a questo proposito, che imperversavano tra le diverse tendenze politico-religiose. Cosı`, ‘Alı¯ avrebbe detto d’aver raccolto un Corano completo in un codice subito dopo la morte di Muhammad. Ora, Ibn Abı¯ Da¯wu¯d, che riporta questa tradizione nei suoi Masa¯hif, precisa immediatamente in seguito che ˙ ¯˙n kulla-hu pronunciata da ‘Alı¯ significa l’espressione jama‘tu al-qur’a invece in questo caso ‘‘ho imparato a memoria l’intero Corano’’19. A complicare ulteriormente la faccenda, il Corano stesso recita: Inna ‘alayna¯ jam‘a-hu wa qur’a¯na-hu (lett.: ‘‘Su di noi incombe il suo raccoglimento/ memorizzazione e il suo ‘corano’’’; 75,17). Chi parla qui, e che cosa significano i termini jam‘ e qur’a¯n? Gli esegeti sono lungi dall’essere d’accordo.

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Altro punto enigmatico e` il seguente: numerosi racconti riferiscono che quando Abu¯ Bakr e ‘Umar convocarono Zayd ibn Tha¯bit per commissionargli la messa per iscritto del Corano, costui si sarebbe inizialmente irritato e avrebbe esclamato: «Volete fare cio` che l’Inviato di Dio in persona non ha fatto?». Muhammad avrebbe dunque voluto conservare il Corano principalmente nella modalita` della recitazione orale, come fu per la poesia? In tal caso, i lavori del padre Edmund Beck ritrovano tutta la loro pertinenza. Egli fu infatti il primo a riconoscere la grande somiglianza tra i primi ‘‘recitatori del Corano ‘‘ (qa¯ri’, pl. qurra¯’) e gli antichi ruwa¯t (sing. ra¯win), i trasmettitori, soprattutto per via orale, della poesia araba arcaica del periodo preislamico. Per costoro le varianti della poesia che si ravvisavano principalmente nella recitazione non equivalevano sempre a un difetto, e in alcuni casi erano invece auspicabili perche´ permettevano di migliorare il poema. Sempre secondo padre Beck, e` del tutto possibile che i primi qurra¯’, la cui attivita` s’esercito` almeno fino alla meta` del II/VIII secolo, abbiano considerato le varianti tra le diverse recitazioni, conservate ora meglio ora peggio dalle recensioni del Corano, come un vantaggio per migliorarne il livello linguistico. Da cio` deriva forse il seguente hadı¯th, ˙ attribuito al Profeta e particolarmente apprezzato dai primi ‘‘recitatori’’: «Nel mushaf esistono espressioni dialettali (lahn), ma gli arabi le regola˙ E sarebbero stati proprio questi ˙recitatori-lettori, esperti di rizzeranno». lingua araba, a rimproverare violentemente a ‘Uthma¯n l’istituzione ufficiale della sua Vulgata, come racconta Tabarı¯ (m. 310/923): «Il Corano ˙ aveva varie forme (lett.: ‘‘il Corano era molti’’). Tu le hai abbandonate tutte a eccezione di una sola»20. Un’eco di questa lagnanza si ritrova in un detto riferito da parecchie fonti, in piu` forme, attribuito a ‘Abd Alla¯h il pio figlio di ‘Umar ibn al-Khatta¯b, figura ammirata dai recitatori-lettori; questi si rivolse a ‘Uthma¯n cosı˙`: «Non permettere che alcuno ti dica di avere in suo possesso la totalita` del testo del Corano. Come si puo` sapere che cos’e` la totalita` del Corano? Molte cose del Corano sono sparite per sempre (qad dhahaba min-hu qur’a¯nun kathı¯run; lett.: ‘‘sono scomparsi da esso molti corani’’)». Altri testi parlano ugualmente della soppressione di alcune parti del Corano, ma anche di qualche aggiunta. Prima di tutto le soppressioni: Abu¯ ‘Ubayd al-Qa¯sim ibn Salla¯m nelle sue Fada¯’il al-qur’a¯n, segnala un certo ˙ coranico, alcune delle quali numero di ‘‘censure’’ effettuate sul testo risalgono a prima del califfato di ‘Uthma¯n. Le due brevi sure al-hafd e al˙ khal‘, sebbene presenti nella recensione di Ubayy ibn Ka‘b, cosı` come altri piccoli testi attribuiti ai codici di ‘Alı¯ o di ‘Umar, non furono infine incorporate nella versione definitiva del Corano. Lo stesso accadde per alcuni versetti, in particolare quello della lapidazione (a¯yat al-rajm) o per la frase: «Se il figlio d’Adamo avesse due valli d’oro, ne vorrebbe una terza, solo la terra puo` riempire il ventre del figlio d’Adamo, Dio si volge verso colui che si volge [a Lui]». Fino al IV/X secolo, parecchi sciiti affermavano che la versione ufficiale del Corano era una versione massicciamente censurata e falsificata della vera Rivelazione fatta a Muhammad. Inoltre, essi riportavano nelle loro fonti citazioni coraniche che non figurano nella Vulgata ‘uthma¯niana. Sono citati molti altri ‘‘testi assenti’’ dalla versione definitiva, in particolare nella Geschichte des Qora¯ns21. Quanto alle aggiunte, alcuni kha¯rijiti, gli ‘aja¯rida, e certi mu‘taziliti consideravano la sura di Giuseppe (la dodicesima) come apocrifa, aggiunta posteriormente

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alle vere rivelazioni fatte al Profeta. Ibn Mas‘u¯d avrebbe inoltre considerato come preghiere e non come rivelazioni coraniche la prima e le ultime due sure della Vulgata ufficiale. Infine, secondo numerose e antiche fonti, molte altre autorita`, rivendicate poi dal sunnismo posteriore, misero ugualmente in dubbio l’autenticita` della versione ufficiale22. Beninteso, la letteratura ‘‘ortodossa’’ piu` tarda cerchera` di passare sotto silenzio questo genere d’informazioni.

Il peso della storia Che la codificazione definitiva del testo coranico sia stata legata a tensioni politico-religiose e` illustrato da un racconto tramandato in particolare da Bukha¯rı¯ nel suo Sah¯ıh e da Tabarı¯ nel suo commentario coranico: Hud˙ ˙ conquisto ˙ ` l’Armenia negli anni 25-26 dell’egira ˙ hayfa, il generale˙ che (645-646 dell’era volgare), e` spaventato dalle divergenze tra i soldati, per la maggior parte originari dell’Iraq, circa la recitazione che essi facevano del Corano. Supplica allora il califfo ‘Uthma¯n di stabilirne una versione scritta e unificata: «Unifica questa comunita` prima che si divida sul suo Libro come si divisero (sui loro Libri) gli ebrei e i cristiani». Tabarı¯ precisa ancora che in quell’esercito il conflitto a proposito del testo˙ coranico era scoppiato tra iracheni e siriani. Subito dopo la morte del Profeta gli arabi, abili commercianti, erano divenuti dei grandi conquistatori che nel giro di pochi anni poterono disporre di potenza e ricchezza assolutamente gigantesche. Tra questi ricchissimi uomini di potere, alcuni sembrano particolarmente importanti per la nostra analisi. Continuando e sintetizzando i lavori precedenti, piu` precisamente quelli di Paul Casanova, Alphonse Mingana, Patricia Crone e Michael Cook, Pre´mare traccia in particolare i ritratti di tre personalita` di prim’ordine23: innanzitutto ‘Ubayd Alla¯h ibn Ziya¯d, celebre e crudele governatore omayyade dell’Iraq (dal 56 al 67/675-686). Nipote di Abu¯ Sufya¯n e quindi membro della potente famiglia regnante, egli fu uno di quei ricchi commercianti che divennero potenti conquistatori. Dopo essersi impadronito della Transoxiana, in Asia centrale, ricoprı` il ruolo strategico di governatore dell’Iraq sotto i califfati di Mu‘a¯wiya e di Yazı¯d I, califfati nel corso dei quali egli seppe soffocare nella violenza le rivolte kha¯rijite e ‘alidi, mettendo a morte in particolare l’imam Husayn ibn ‘Alı¯ a ˙ Karbala¯’. Fine ingegno politico, incito` Marwa¯n ibn al-Hakam, a candidarsi al califfato di Damasco contro Ibn al-Zubayr, califfo˙ rivale alla Mecca: Marwa¯n divenne cosı` il primo califfo del secondo periodo omayyade. ‘Ubayd Alla¯h ibn Ziya¯d era al tempo stesso un grande letterato, esperto di lingua araba. Abu¯ al-Faraj al-Isfaha¯nı¯ (m. 356/967) nei suoi Agha¯nı¯ e ˙ Ya¯qu¯t (m. 626/1229) nei suoi Udaba ¯ ’ gli consacrano qualche riga. Ibn Abı¯ Da¯wu¯d al-Sijista¯nı¯ (III/IX secolo) scrive che ‘Ubayd Alla¯h ibn Ziya¯d era intervenuto nella fissazione del testo coranico; aveva incaricato di alcune integrazioni il proprio segretario persiano, Yazı¯d ibn Hurmuz alFa¯risı¯: «‘Ubayd Alla¯h aggiunse (za¯da) duemila harf (‘‘parola’’, ‘‘lettera’’ o ˙ ‘‘espressione’’?) al codice» racconta Yazı¯d. Naturalmente il segretario non precisa in alcun modo l’identita` del codice o la natura delle aggiunte. Per giunta, l’ambiguita` certamente volontaria del termine harf lascia aperta ˙ ogni sorta d’ipotesi.

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Il secondo personaggio fu anch’egli un governatore dell’Iraq omayyade, il non meno celebre Hajja¯j ibn Yu¯suf. Divenne governatore sotto il regno di ‘Abd al-Malik ibn ˙Marwa¯n, il secondo e senza dubbio il piu` importante califfo della dinastia omayyade dei marwa¯nidi. A quell’epoca si manifestano in effetti le prime correnti di riflessione dogmatica successive alle conquiste, correnti tutte profondamente interessate al problema della legittimita` politico-religiosa. Durante questo periodo d’incessanti guerre civili, la posta in gioco rappresentata dai testi scritturari avrebbe assunto un’importanza capitale. Hajja¯j, anch’egli uomo di lettere e grande conoscitore ˙ della lingua araba, sconfisse il califfo rivale degli omayyadi, Ibn al-Zubayr, che si trovava alla Mecca; dopo piu` di dieci anni (dal 62 al 73/681-692), il potere califfale ritrovava la sua unita`. Tabarı¯ negli Annali o Ja¯hiz nel Baya¯n ˙ ˙ Parecchie ˙ prosa fiammeggiante. riproducono qualche esempio della sua altre fonti riferiscono ugualmente che Hajja¯j ibn Yu¯suf intervenne massic˙ ciamente anche sul testo coranico. Secondo racconti a volte contraddittori, egli avrebbe rettificato le letture divergenti, ordinato alcune sure o versetti e perfezionato l’ortografia attraverso l’introduzione di punti diacritici e vocali fino a quel momento inesistenti. Secondo una dichiarazione di Samhu¯dı¯ (m. 912/1506), storico della citta` di Medina, Hajja¯j aveva stabilito la sua propria recensione coranica della quale aveva ˙poi inviato copia in ciascuna capitale delle grandi province dell’impero islamico per ufficializzarla a spese delle recensioni anteriori, che fece peraltro distruggere in Iraq. Secondo alcuni racconti, egli fu il primo a prendere un’iniziativa del genere; secondo altri, egli ripeteva in tal modo il gesto di ‘Uthma¯n, che a sua volta aveva ordinato la distruzione dei codici concorrenti. Secondo altri infine, le recensioni divergenti dalla sua continuarono a circolare, e il codice di Hajja¯j fu definitivamente messo da parte sotto gli abbasidi. Il ˙ nome di questo governatore dell’Iraq figura anche nel testo polemico dell’apologista arabo cristiano ‘Abd al-Ması¯h al-Kindı¯, che data forse ˙ dell’inizio del III/IX secolo. In una delle sue epistole costui (o chiunque scriva sotto il suo nome) dichiara: «Poi ci fu l’intervento [sul testo coranico] di Hajja¯j ibn Yu¯suf che si impadronı` di tutte le raccolte senza ˙ nessuna. Fece cadere molti versetti e ne aggiunse altri che, tralasciarne secondo alcuni, erano relativi agli uomini dei Banu¯ Umayya [gli omayyadi] e dei Banu¯ al-‘Abba¯s [gli abbasidi], designati [nel testo] con i loro rispettivi nomi. Della recensione voluta da Hajja¯j si fecero sei copie: una fu inviata in ˙ Egitto, un’altra a Damasco, una terza a Medina, la quarta alla Mecca, la quinta a Ku¯fa e l’ultima a Bassora. Quanto alle altre raccolte antecedenti, egli le getto` nell’olio bollente e le distrusse, imitando in questo ‘Uthma¯n»24. Il terzo personaggio e` lo stesso califfo ‘Abd al-Malik, che regno` dall’anno 65 all’anno 86 dell’egira, ossia dal 685 al 705. L’inchiesta storiografica di Pre´mare, esattamente come, prima di lui, lo studio di Gerald Hawting sulla storia omayyade o quello di Yehuda Nevo sulla sigillografia e la numismatica dell’epoca, dimostrano che il periodo del califfato di ‘Abd al-Malik fu decisivo nell’elaborazione dottrinale dell’islam. «Temo di morire durante il mese di ramada¯n; durante quel mese sono nato; durante quel mese sono stato svezzato ˙e durante quel mese ho radunato (jama‘tu) il Corano», avrebbe dichiarato il califfo. Naturalmente, anche qui il senso del verbo jama‘a puo` essere oggetto di dibattito, ma cio` che gia` sappiamo circa gli interventi sul testo coranico operati in quella stessa epoca da dei due

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governatori dell’Iraq sembra indicare che qui il temine non significhi ‘‘memorizzare, imparare a memoria’’, ma piuttosto ‘‘radunare, mettere in ordine’’. Altri aspetti notevoli del regno di ‘Abd al-Malik sono verosimilmente in relazione diretta con il nostro problema. Le iscrizioni della Cupola della Roccia, finemente analizzate da Christel Kessler e Oleg Grabar, furono eseguite su ordine del califfo. Esse risultano la prima reale illustrazione datata di una definizione dogmatica dell’unicita` teologica secondo l’islam: qul huwa alla¯hu ahad alla¯hu al-samad lam yalid wa lam yu¯lad wa lam ˙ yakun la-hu kufu’an˙ ahad («Di’: ‘‘Egli e` Dio, l’Unico, Dio l’Impenetrabile (?) / Non ha generato˙ e non e` stato generato e non ha alcun eguale’’»). All’interno della Cupola, sulla facciata esterna meridionale dell’arcata ottagonale, il testo e` preceduto dalla basmala (la formula che recita: ‘‘Nel nome di Dio, clemente e misericordioso’’) e dalla formula dell’unicita` divina: ‘‘Non vi e` dio se non Dio, senza associati’’. Questo insieme, salvo l’ultima formula, costituisce la sura 112 del Corano. Ma perche´ questa divergenza rispetto al testo coranico? Perche´ la formula che segue immediatamente la basmala e` assente dalla sura? Trattandosi di un lavoro tanto minuzioso e tanto prolungato nel tempo non e` possibile pensare a una svista. Dobbiamo pensare che la differenza sia dovuta al fatto che il testo coranico non era ancora definitivamente stabilito?25 Oltre all’aspetto dottrinale e` infatti ben noto il carattere polemico di questo testo: distinti dai testi dichiarativi, compaiono nella Cupola della Roccia testi polemici piu` specificamente diretti contro il dogma trinitario e la cristologia cristiana, come quello che e` attestato anche nel versetto 9,33: «Egli e` Colui che ha inviato il Suo Messaggero con la retta guida e la Religione della Verita` perche´ prevalga sulle religioni tutte, anche a dispetto degli ‘‘associazionisti’’ (ovvero idolatri)». Solange Ory tra gli altri ha mostrato in modo persuasivo che qui, come pressoche´ sempre nel Corano, gli ‘‘associazionisti’’ designano i cristiani e gli ebrei, i primi accusati di divinizzare Gesu` e i secondi ‘Uzayr (o Esdra, secondo il versetto 30 della stessa sura). Del resto, secondo gli studi di Amikam Elad e di Yehuda Nevo, le prime vere glorificazioni di Muhammad come profeta d’una religione indipendente dall’ebraismo e dal cristianesimo datano anch’esse dell’epoca di ‘Abd alMalik. Esse cercavano forse di fare di Gerusalemme un luogo di pellegrinaggio d’importanza pari alla Mecca, ormai da dieci anni in mano al califfo concorrente ‘Abd Alla¯h ibn Zubayr; tuttavia, ‘Abd al-Malik avrebbe mirato molto piu` in la` e avrebbe avuto obiettivi assai piu` vasti. La storia dell’islam primitivo gli deve infatti alcune decisioni fondamentali: l’arabizzazione della lingua dell’amministrazione, fino a quel momento assicurata dagli antichi funzionari bizantini e/o iraniani nelle loro rispettive lingue; o l’ufficializzazione dello statuto di ‘‘protezione’’ (dhimma) riservato a ebrei, cristiani e probabilmente anche zoroastriani, con l’applicazione dell’imposta di capitazione (jizya) come segno della loro soggezione al potere islamico e in cambio del diritto d’essere protetti da esso; o ancora la creazione di una moneta islamica propria, senza rappresentazione figurata e riportante unicamente formule religiose in arabo. In questo contesto il califfo, come gli altri uomini di potere che lo circondavano, non poteva non essere attento a quell’aspetto fondamentale del potere che e` il controllo sulle credenze. D’altro canto essi sapevano che esso puo` essere effettivo solo attraverso il controllo e dunque la codifica-

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INTRODUZIONE

zione delle Scritture, soprattutto in una societa` in cui abbondavano i movimenti politico-religiosi dissidenti. Un libro scritturario unico, indipendente dalle Scritture anteriori, nella fattispecie quelle degli ebrei e dei cristiani, e codificato secondo i dogmi di stato sarebbe stato la migliore garanzia per una sicurezza dottrinale e quindi politica. E` interessante notare che la seconda fonte scritturaria dell’islam, cioe` lo Hadı¯th, sembra ˙ avere ugualmente cominciato ad assumere un carattere sistematico a partire dall’epoca di ‘Abd al-Malik. Grazie a Goldziher, sappiamo che in realta` una timida messa per iscritto dello Hadı¯th era gia` iniziata prima di questa data, ma gli studi di Michael Lecker˙ e di Harald Motzki hanno dimostrato che il primo ad aver registrato sistematicamente in forma scritta lo Hadı¯th ˙ alfu Ibn Shiha¯b al-Zuhrı¯, costretto a questo dal califfo Hisha¯m ibn ‘Abd Malik (che regno` dal 105 al 127/724-743). Zuhrı¯ era pero` gia` un dotto di corte all’epoca del padre del califfo, cioe`, appunto, ‘Abd al-Malik. Cosı`, l’iniziativa della costituzione di un codice coranico ufficiale, iniziata a quanto pare sotto il califfato di ‘Uthma¯n, avrebbe trovato compimento durante il regno di ‘Abd al-Malik o forse poco piu` tardi26. Nel frattempo, con le conquiste e insieme alla volonta` dei dirigenti musulmani di distinguere chiaramente la loro religione dall’ebraismo e dal cristianesimo, avrebbe avuto luogo un progressivo lavoro redazionale, con composizione, riscrittura, stilizzazione, elaborazione, rettifica e cosı` via27. La tradizione islamica nella sua maggioranza insiste sulla grande antichita` della sistemazione della versione ufficiale del Corano (l’iniziativa risalirebbe ai tempi di Abu¯ Bakr e ‘Umar e sarebbe stata portata a compimento da ‘Uthma¯n), poiche´ sa bene che piu` questa sistemazione e` tardiva maggiore e` il rischio di alterazione. Ad esempio, secondo Ibn al-Nadı¯m (IV/X secolo), nella regione di Bassora nell’Iraq meridionale si trovavano ancora nel III/ IX secolo esemplari della recensione non ufficiale di Ubayy ibn Ka‘b. Il simbolo certamente piu` significativo della tardiva accettazione del Corano ufficiale e` la doppia condanna dei dotti Ibn Miqsam e Ibn Shannabu¯dh, all’inizio del IV/X secolo, per aver utilizzato ‘‘letture’’ non canoniche. Alla fine dello stesso secolo, nel 398/1007, scoppio` una polemica tra i sunniti e gli sciiti di Baghdad circa il carattere lecito o illecito del codice non ufficiale di Ibn Mas‘u¯d. Un tribunale sunnita ne ordino` infine la distruzione. Ci si puo` dunque rendere conto che, malgrado i molti tentativi degli autori ‘‘ortodossi’’ d’occultare le divergenze, l’esame delle esitazioni o delle contraddizioni riportate dalle fonti illustra con chiarezza che un grande movimento di protesta contro la versione ufficiale del Corano prese forma fin dal principio. Infatti, in una societa` in cui le diverse recensioni erano altrettanti strumenti di legittimazione dei vari gruppi politico-religiosi, la versione detta ‘‘‘uthma¯niana’’ impieghera` parecchi secoli prima d’essere unanimemente accolta da tutti i musulmani. Mohammad Ali Amir-Moezzi

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Quest’introduzione e` la versione ridotta e semplificata di un articolo scritto insieme al Professor Etan Kohlberg, apparso in Journal Asiatique, 293, 2(2005), pp. 663-722. Il lettore che desideri approfondire ulteriormente lo studio dell’argomento vi potra` ritrovare facilmente i riferimenti e le parti omesse in questa sede. Aloys Sprenger, Das Leben und die Lehre des Mohammad, G. Parthey, Berlin1869 (rist. Olms, Hildesheim 2003), vol. III, pp. XCIII e sgg. In tre volumi, Chicago University Press, Chicago1957-1972. In nove volumi, Brill, Leiden 1967-1984. Cfr. ad esempio Gregor Schoeler, Charakter und Authentie der muslimischen ¨ berlieferung u¨ber das Leben Mohammeds, W. de Gruyter, Berlin-New York U 1996. Alphonse Mingana, ‘‘The Transmission of the Kur’an’’, in Journal of the Manchester Egyptian and Oriental Society, 5(1915-1916), pp. 25-47. John Wansbrough, Quranic Studies. Sources and Methods of Scriptural Interpretation, Oxford University Press, London 1977; e The Sectarian Milieu. Content and Composition of Islamic Salvation History, Oxford University Press, London 1978. Theodor No¨ldeke et alii, Geschichte des Qora¯ns, Leipzig, 3 voll., 1909-1938 (ristampa Hildesheim-New York 1970, in un volume). Cfr. in particolare Friedrich Schwally, ‘‘Die Sammlung des Qora¯ns’’, in ibid., vol. II, 1919, pp. 1-121. Cfr. The Qur’an, translated by Richard Bell, Edinburgh University Press, Edinburgh 1937-1939, 2 volumi, in particolare l’introduzione. John Burton The Collection of the Qur’a¯n, Cambridge University Press, Cambridge 1977. In particolare Gerd R. Puin, ‘‘Methods of Research on Qur’anic Manuscripts. A Few Ideas’’, in Masa¯hif San‘a¯’, 1985, pp. 9-17; Id., ‘‘Observations on Early ˙ ¯ ’ ’’, in Stefan Wild (a cura di), The Qur’a¯n as Text, Qur’a¯n Manuscripts˙ in˙ San‘a Brill, Leiden 1996, pp.˙ 107-111; Hans-Caspar Graf von Bothmer, Karl-Heinz Ohling e Gerd R. Puin, ‘‘Neue Wege der Koranforschung’’, in Magazine Forschung. Universita¨t des Saarlandes, 1(1999), pp. 33-46. Per spiegare il numero troppo scarso di studi su questo manoscritto si invocano le reticenze delle autorita` yemenite e i molteplici ostacoli che esse creano ai ricercatori: forse dovuti al fatto che questo manoscritto comporterebbe differenze notevoli rispetto alla versione ufficiale del Corano? Gli studi appena menzionati in questa nota ne segnalano timidamente un certo numero: a parte alcune varianti ortografiche e lessicografiche minori, il 22% dei 926 gruppi di frammenti studiati presenta un ordine di successione delle sure completamente diverso dall’ordine conosciuto; e la suddivisione in versetti non corrisponde a nessuno dei ventun sistemi noti. Colpisce che l’ordine delle sure si avvicini a quello dei codici di Ubayy ibn Ka‘b e di Ibn Mas‘u¯d, entrambi particolarmente apprezzati dagli sciiti. Per quest’ultimo caso, cfr. nel presente dizionario il lemma ‘‘Vocabolario straniero e parole enigmatiche’’. Michael Cook, The Koran. A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2000, pp. 137-138. Cfr. Qur’anic Studies e The Sectarian Milieu, op. cit. Harald Motzki, ‘‘The Collection of the Qur’a¯n. A Reconsideration of Western Views in Light of Recent Methodological Developments’’, in Der Islam, 78(2001), pp. 1-34, in particolare pp. 22-29.

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Ibn Sa‘d, al-Tabaqa¯t al-kubra¯, edizione a cura di Ihsa¯m Ibn ‘Abba¯s, Beirut 1985, ˙ attuale dice ben poco sulla vol. VII, pp.˙89-90. In aggiunta, e` noto che il Corano preghiera canonica (sala¯t). ˙ Alfred-Louis de Pre´mare, ‘‘Le discours-testament du prophe`te de l’islam’’, in Flore´al Sanagustin (a cura di), Paroles, signes, mythes. Me´langes offerts a` Jamel Eddine Bencheikh, Institut franc¸ais d’e´tudes arabes de Damas, Damas 2001, pp. 301-330. Id., Les Fondations de l’islam. Entre e´criture et histoire, Le Seuil, Paris 2002, pp. 283-284. Ibn Abı¯ Da¯wu¯d al-Sijista¯nı¯, Kita¯b al-Masa¯hif, ed. a cura di Arthur Jeffery, in ˙ ˙ ¯ n. The Old Codices, Cairo 1936 e Materials for the History of the Text of the Qur’a Brill, Leiden 1937, pp. 10. Al-Tabarı¯, Ta’rı¯kh al-rusul wa al-mulu¯k, ed. De Goeje e collaboratori, Brill, ˙ 1879-1901, vol. I, pp. 2952. Leiden Theodor No¨ldeke et alii, op. cit., vol. I, pp. 234-261. Hossein Modarressi, «Early Debates on the Integrity of the Qur’a¯n. A Brief Survey», in Studia Islamica, 77(1993), pp. 5-39. Alfred-Louis de Pre´mare, Les Fondations de l’islam ..., op. cit., pp. 292-301. Per la traduzione francese, vedi Georges Tartar, Dialogues islamo-chre´tiens sous le calife al-Ma’mu¯n (813/834). Les e´pı¯tres d’al-Ha¯shimı¯ et d’al-Kindı¯, Nouvelles e´ditions latines, Paris 1985, pp. 190 (testo arabo pp. 117). [Traduzione italiana dell’intero dialogo: Al-Kindı¯, Apologia del cristianesimo, intr., trad., note ed indici a cura di Laura Bottini, Zamorani (coll. Patrimonio culturale arabo cristiano), Torino 1998]. Re´gis Blache`re segnala anche un altro problema riguardante questa sura: la recensione di Ibn Mas‘u¯d recava al-wa¯hid anziche´ al-samad (Le Coran, Paris ˙ Cupola della Roccia ˙ 1949, vol. II, p. 124, nota 2). Le sei iscrizioni interne alla presentano altre divergenze minori rispetto ai versetti corrispondenti. Forse un po’ piu` tardi perche´ alcune rare informazioni sembrano suggerire questa conclusione. Ad esempio San Giovanni Damasceno, dopo aver lasciato gli omayyadi che aveva servito tra il 700 e il 705 dell’era volgare, cioe` verso la fine del regno di ‘Abd al-Malik, scrisse un trattato contro l’islam in cui da` l’impressione che a quell’epoca il testo del Corano non fosse stato ancora completamente stabilizzato (Jean Damasce`ne, E´crits sur l’Islam, e´dition Raymond Le Coz, Le Cerf, Paris 1992, pp. 210-227) [Si veda anche Giovanni Damasceno, Centesima eresia: l’Islam, intr., trad. e note Giovanni Rizzi, Centro Ambrosiano, Milano 1997]. Cfr. Claude Gilliot, «Le Coran, fruit d’un travail collectif ?» in Daniel De Smet, Godefroid de Callatay e Jan M. F. Van Reeth (a cura di), Al-Kita¯b. La sacralite´ du texte dans le monde de l’Islam, Bruxelles, Acta Orientalia Belgica, 2004, pp. 185231.

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A ABBIGLIAMENTO Nel Corano i riferimenti all’abbigliamento sono numerosi e variegati, e concernono sia l’Aldila` sia il mondo terreno. Per esempio, i dannati avranno vesti ignee (thiya¯b min na¯r; 22,19) oppure, secondo che i lettori del Libro sacro leggano sara¯bı¯l ‘‘min qitr a¯nin’’ o ‘‘min qitira¯nin’’ (14, ˙ di rame fuso o di˙ pece, mate50), di vesti riale rovente nel primo caso, materiale ritenuto infiammabile nel secondo. Quanto agli eletti, avranno vesti verdi (thiya¯ b khud r) di seta (h arı¯r), di raso ˙ broccato (istabraq; ˙ (sundus) e di 18,31; 35,33; 44,53; 76,21); «saranno adorni di monili d’oro e di perla» (22,23) e bracciali d’argento (76,21). Ai fasti del paradiso si contrappone il richiamo alla semplicita` nell’abbigliamento della vita terrena, poiche´ il Corano insiste nel mettere in guardia contro la vanita` di ogni ornamento (zı¯na). Ma prima di tutto, e` opportuno precisare che mai nel Corano l’ormai celebre hija¯b in˙ dica un capo femminile. Il termine rimanda piuttosto a una barriera, un ‘‘velo spesso’’ che separa i mortali da Dio; o che separa Dio e i credenti da una parte e gli increduli o i dannati dall’altra. In tal senso, uno hija¯b e` posto tra il paradiso e ˙ l’inferno (7,46) e tra Dio e i futuri dannati nel giorno del Giudizio ultimo (83,15); tra la Parola divina e il mortale al quale e` rivelata (42,51); tra il Profeta e gli increduli nelle cui orecchie «v’ha gravezza» (41,5); tra chi legge il Corano e «coloro che rinnegano la vita futura» (17,45); tra Maria, incinta di Gesu`, e il suo popolo (19,17). Anche l’invito rivolto ai credenti affinche´ chiedano oggetti alle spose del Profeta solo dietro a un velo (33,53) rimanda a un tale dispositivo di separazione. Infine, hija¯b indica il velo dietro il ˙ quale scompaiono le nobili giumente che

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Salomone aveva preferito al ricordo del Signore prima di farle tornare per tagliare loro i garretti (38,32). Quanto agli abiti degli umani (sara¯bı¯l), il Corano afferma in generale che Dio li ha procurati loro come protezione dal calore e dai colpi (16,81), ed enuncia alcune norme sull’abbigliamento, in particolare per le donne. Mentre ‘‘i figli di Adamo’’ hanno il diritto di indossare i loro ornamenti (zı¯na) nei luoghi di preghiera (7,3132), al contrario le credenti sono invitate a non mostrare «troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare» (zı¯na), a coprire i seni d’un velo e a mostrare «le loro parti belle» soltanto ai mariti, agli uomini della loro famiglia, a servi, schiavi ed eunuchi, e ai fanciulli impuberi (24,31). E` inoltre raccomandato alle mogli e alle figlie del Profeta, cosı` come alle donne dei credenti, di coprirsi con «ampie vesti» (jala¯bı¯b, sing. jilba¯b) fino ai piedi in quanto cio` «sara` piu` atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese» (33,59). E` senza dubbio questo il motivo per cui la regina di Saba, dopo aver scambiato il salone dal pavimento di cristallo di Salomone per una distesa d’acqua, afferma di aver fatto torto a se stessa scoprendosi le gambe (27,44). Infine, le donne che non possono piu` avere figli o sposarsi sono autorizzate a deporre i ‘‘veli’’ (thiya¯b) «senza pero` mostrare le loro parti belle» (24,60). Certamente tale zı¯na – ‘‘parti belle’’, ‘‘vano ornamento’’, ‘‘orpello’’, ‘‘apparato’’, ‘‘fasto’’ – cosı` come le ‘‘gioie’’ e i gioielli (hilya) compaiono nel Corano per ricordare˙ la generosita` divina e la ricchezza, ma in primo luogo per mettere in guardia contro il lusso ingannevole della vita terrena. Similmente, Dio ha creato i cavalli, i muli e gli asini come cavalcature e come ‘‘ornamento’’ (16,8). Gli uomini, da parte loro, traggono dal mare, o dai due

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mari, uno dolce e l’altro salato, ‘‘le gioie’’ di cui si adornano (16,14; 35,12) e fabbricano ‘‘gioielli’’ fondendo i metalli (13, 17). Infine le ricchezze e i figli sono l’‘‘ornamento’’ della vita di questo mondo (18,46). Ma come la vegetazione a sua volta e` l’ornamento della terra (18, 7), che appassisce e svanisce, cosı` l’ornamento della vita terrena non e` che vanita` (57,20). Non si devono bramare gli orpelli della vita terrena (18,28), e anche il Profeta e` invitato a dare «grazioso congedo» a quelle tra le sue spose che dovessero preferire la vita di questo mondo e il suo ‘‘ornamento’’ a «Iddio e il Suo Messaggero e la Dimora dell’Oltre» (33,28-29). Il ‘‘fasto’’ di Faraone e dei suoi consiglieri non fu donato loro perche´ si allontanassero dal cammino del Signore (10,88); del resto, e` in occasione del «giorno della zı¯na» che Mose` da` appuntamento a Faraone (20,59) per misurarsi con i suoi maghi. Core, dopo aver impressionato anch’egli il suo popolo con il proprio ‘‘fasto’’, e` inghiottito dalla terra (28,79). In sua assenza, «gli uomini di Mose` si fecero un vitello con i loro ornamenti, un corpo che emetteva muggiti» (7,148). Le stelle sono certamente l’‘‘ornamento’’ del cielo (37,6) ma ne sono anche le vigili guardiane (7,22; 20,121). Altri termini relativi all’abbigliamento compaiono a proposito dell’espulsione di Adamo ed Eva dal paradiso, nella storia di Giuseppe e in quella di Mose`. Le foglie con cui i primi coprono la loro nudita`, dopo aver assaggiato «i frutti dell’albero», sono chiamate «foglie del Giardino (waraq al-janna)» (7,22; 20,121). Nella su¯rat Yu¯suf (sura di Giuseppe), il termine qamı¯s indica insieme la camicia ˙ «intinta di sangue mentito» (12,18) che i fratelli di Giuseppe riportano a Giacobbe; quella che «la donna nella cui casa egli abitava» (12,23), infatuatasi del bel giovane, «strappo` per di dietro» (12,25); e quella di Giuseppe che, applicata sul volto del padre, restituisce a quest’ultimo la vista. Infine, quando Mose` giunge nella valle sacra di Tuwa¯, Dio gli chiede di ˙ (na‘l; 20,12) perche´, togliersi i sandali

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stando a Tabarı¯ (m. 310/923), essi erano fabbricati˙ con la pelle di un asino non macellato ritualmente. Altrove, uno dei termini piu` correnti per indicare gli abiti, liba¯s, e` impiegato in senso metaforico. Per esempio, Dio stabilı` che «la notte fosse come una veste» per gli esseri umani (25,47) e che l’uomo e la donna fossero «una veste» l’uno per l’altro (2,187). E se Dio ha fatto discendere sui figli di Adamo «una veste» a nascondere la loro nudita`, e dei monili (rı¯sh), «il vestito della Pieta` (liba¯s altaqwa¯) e` di tutto questo migliore» (7,26). In una parabola, il Corano menziona una citta` «sicura e tranquilla» che vive nell’abbondanza e poi si allontana da Dio; come punizione, egli fa gustare ai suoi abitanti «il vestito della fame e del terrore (liba¯s al-ju¯‘ wa al-khawf)» (16,112). Osserviamo ancora che Dio insegno` a Davide la fabbricazione delle cotte di maglia (labu¯s; 21,80) e nel giorno dell’ultimo Giudizio le montagne somiglieranno a «fiocchi di lana tinta (‘ihn manfu¯ sh)» (70,9; 101,5). Infine la sura 74, i cui primi sette versetti si ritengono rivelati poco dopo la sura 96, quest’ultima presumibilmente la prima, si intitola al-Mudaththar (L’avvolto nel mantello); come testimoniano i primi due versetti, il termine designa Muhammad che, in quella circostanza, ricevette la [H.T.] missione di profeta. Bibliografia: Soubhi El Saleh, La Vie future selon le Coran, Vrin, Paris 1971; Heidi Toelle, Le Coran revisite´: le feu, l’eau, l’air et la terre, Institut franc¸ais de Damas, Damas 1999.

ABELE e CAINO I due figli di Adamo ed Eva, Abele e Caino, non sono menzionati per nome nel Corano ma solo indicati in modo vago come «i due figli di Adamo» (5,27); la Tradizione islamica li designera` attraverso due nomi in rima tra loro: Ha¯bı¯l e Qa¯bı¯l, sia in quest’ordine sia nell’ordine inverso. La storia dei due fratelli narrata dal Corano (5,27-32) e` essenzialmente analoga al racconto biblico (Gn 4,1-16),

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ma si caratterizza per la maggiore concisione. Secondo la versione coranica, i due figli offrirono un sacrificio a Dio il quale gradı` solo l’offerta di uno di loro. Contrariamente alla Bibbia, il Corano non precisa ne´ l’identita` di colui che offrı` il suo sacrificio ne´ la natura di quest’ultimo. Dalla frase coranica secondo cui «Dio non accetta che il sacrificio dei pii (innama¯ yataqabbalu Alla¯h min al-muttaqı¯n)» si puo` dedurre che uno dei due fratelli, nella fattispecie Caino (come affermano sia la Bibbia sia la Tradizione islamica), vide rifiutata la sua offerta perche´ non era mosso dal timor di Dio. Inoltre la tradizione postcoranica, similmente al racconto della Genesi e, come d’abitudine, piu` prolissa del Corano, fornisce maggiori dettagli sulle cause della collera di Caino: dedito all’agricoltura, costui scelse come offerta i frutti peggiori del suo raccolto, mentre Abele, pastore, porto` i migliori animali del suo gregge. Quel che accese la collera di Caino e lo spinse a uccidere il fratello fu che Dio avesse gradito il sacrificio di Abele e respinto il suo. Secondo un’altra tradizione islamica, i due fratelli decisero di presentare un sacrificio in ragione della gelosia che Caino provava nei confronti di Abele riguardo alle fanciulle loro destinate in spose. Questa tradizione riferisce che i due fratelli avevano ciascuno una sorella gemella: quella di Caino si chiamava Iqlı¯ma¯ e quella di Abele Labu¯da¯. Adamo si valse ˙ ` ai propri dell’ordine divino e consiglio figli di sposare ciascuno la gemella dell’altro, ma Caino, la cui gemella era piu` bella, rifiuto` di seguire l’ordine di Dio. Adamo prodigo` allora un altro consiglio: che entrambi portassero un sacrificio a Dio e Iqlı¯ma¯ sarebbe toccata a colui la cui offerta fosse stata accettata, mentre Labu¯da¯ sarebbe stata la sposa dell’altro. ˙ Caino vide che Dio accettava Quando l’offerta di Abele e rifiutava la sua, si getto` sul fratello e lo uccise. L’analogia tra la narrazione coranica e quanto ci e` noto dalle fonti ebraiche (all’occorrenza postbibliche) compare inoltre in due aggiunte al racconto. La prima e` il giudizio morale che il Corano da` sulla

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ABELE e CAINO

gravita` dell’omicidio; la seconda e` la questione della sepoltura della vittima. Per quanto riguarda l’omicidio perpetrato da Caino, il Corano afferma: «Per questo prescrivemmo ai figli d’Israele che chiunque uccidera` una persona (nafs) senza che questa abbia ucciso un’altra o portato la corruzione sulla terra, e` come se avesse ucciso l’umanita` intera» (5,32). L’equivalenza tra l’assassinio di un solo uomo e la distruzione dell’intera umanita` (ka-annama¯ qatala al-na¯s jamı¯‘an) compare gia` nell’esegesi dei rimproveri rivolti da Dio a Caino nella Genesi (4,10): «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!». I saggi della Mishnah spiegano cosı` nel trattato Sanhedrin (4,5) le parole «del sangue di tuo fratello» (in ebraico: deme-ahikha): «‘‘Il suo sangue’’ e quello dei ˙ suoi discendenti [e` un’espressione] [...] per insegnarti che la Scrittura considera l’assassino di un solo membro del popolo d’Israele come se avesse ucciso il mondo intero, e ogni uomo che preservi la vita di un solo membro del popolo di Israele come se avesse salvato la vita del mondo intero». Anche il problema della sepoltura di Abele richiama la tradizione postbiblica. Il primo assassino nella storia dell’umanita` si confronta con la necessita` di conoscere cosa fare del cadavere della sua vittima, problema che la Bibbia non solleva. Il Corano, invece, come il Midrash Tanhuma, offre all’assassino la possibilita` di ˙ soluzione: «Iddio mando` un corvo, una che gratto` la terra per mostrargli come nascondere la spoglia di suo fratello. [...] ‘‘O me infelice! Che sono stato incapace perfino d’essere come questo corvo e nascondere la spoglia di mio fratello!’’» (5, 31). Parallela all’interpretazione letterale del racconto biblico-coranico, esiste un’esegesi allegorica, in particolare entro l’islam sciita. Essa e` essenzialmente fondata sul versetto citato in precedenza, che oppone colui che uccide a colui che salva una vita. Per esempio, secondo i commentatori sciiti Fura¯t ibn Ibra¯hı¯m al-Ku¯fı¯ (m. all’inizio del sec. III/IX) e Abu¯ ‘Alı¯ alTabrisı¯ (m. 548/1153), questo versetto al˙

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luderebbe al discendente del Profeta, il Salvatore della fine dei tempi, l’attuale imam nascosto che nel suo avvento escatologico si dedichera` a ristabilire universalmente la conoscenza e la vera religione; secondo una tradizione riportata sull’autorita` del primo imam ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯lib, chi lo aiutera` a consolidare il suo ˙ governo si considera colui che salvera` la vita all’intera specie umana. Quanto a chi abbandonera` la causa del Salvatore e se ne disinteressera`, facendo sı` che egli venga ucciso, si considera l’assassino di tutta [M.B.-A.] l’umanita`. Bibliografia: Vigdor Aptowitzer, Kain und Abel in der Agada, den Apokryphen, der hellenistischen, christlichen und mohammedanischen Literatur, R. Lo¨vit, VienneLeipzig 1922; Abraham Geiger, Was hat Mohammed aus dem Judenthume aufgenommen?, Kaufmann, Leipzig 1902; David Sidersky, Les Origines des le´gendes musulmanes dans le Coran et dans les Vies des prophe`tes, Librairie orientaliste Paul Geuthner, Paris 1933; Heinrich Speyer, Die biblischen Erza¨hlungen im Qoran, G. Olms, Hildesheim 1961; Ida Zilio-Grandi, Il Corano e il male, Einaudi, Torino 2002.

ABRAHA e ANNO DELL’ELEFANTE Non compaiono nel Corano ne´ il nome Abraha ne´ l’espressione ‘‘anno dell’Elefante’’. Quest’ultima rinvia pero` alla sura dell’Elefante (105), dove si parla di «quelli dell’Elefante»: Dio invio` contro di loro «uccelli aba¯bı¯l che li colpirono con pietre indurite» d’argilla (105,3-4), e li distrusse «facendo di loro come pula di grano svuotata» (105,5). In questo testo, che evoca in modo estremamente ellittico una sfortunata spedizione, la tradizione islamica ha voluto riconoscere alcuni fatti noti. Ha quindi inteso la sura come un richiamo al conflitto che avrebbe segnato l’anno della nascita di Muhammad, avvenuta verso il 570 d.C. In questa data, il capo etiope dello Yemen, Abraha, avrebbe condotto i suoi uomini contro la Mecca: la ragione di questa campagna sarebbe stata la gelosia che egli nutriva nei confronti del santuario meccano, la Ka‘ba, al quale avrebbe voluto sostituire

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la cattedrale costruita a San‘a¯’ verso cui ˙ avrebbe voluto stornare i pellegrini. Fra le forze che lo accompagnavano c’era un elefante che, giunto al limite del territorio sacro, si sarebbe rifiutato di proseguire oltre. Gli uccelli evocati nel Corano sarebbero allora arrivati, lasciando cadere i loro colpi sulla spedizione e distruggendola completamente. Abraha in seguito sarebbe morto. La storia dell’Arabia meridionale, oggi meglio conosciuta, non si accorda in tutto con i dati offerti dalla tradizione islamica. E` vero che la regione si trovava sotto la dominazione etiope dopo che il negus l’aveva invasa verso il 525, sollecitato da Bisanzio a soccorrere le comunita` cristiane locali perseguitate da un sovrano yemenita convertito all’ebraismo. Il secondo rappresentante del potere abissino nello Yemen, Abraha, si rese indipendente dal suo sovrano e riprese il titolo tradizionale dei sovrani himyariti. E` quanto risulta dalle iscrizioni che egli ha lasciato e che permettono di collocare il suo regno verso la meta` del secolo VI: il testo nel quale Abraha commemora le riparazioni eseguite sulla diga di Ma’rib e` datato 549. Nel 533, in un’altra iscrizione, narra di una spedizione contro l’Arabia centrale e il nord della penisola. Ma la sua attivita` sembra concludersi intorno a quest’epoca, ed e` dubbio che verso il 570 egli abbia potuto intraprendere una simile impresa contro la Mecca. Suo figlio Yaksu¯m, che gli succedette, regno` per poco tempo e attorno al 570 i Persiani, sollecitati da un principe yemenita, cacciarono gli etiopi e occuparono l’Arabia meridionale. Dunque, la cronologia degli avvenimenti stabilita dagli storici dello Yemen preislamico non permette di mantenere l’interpretazione dei commentatori musulmani tradizionali. [F.D.] Bibliografia: Lawrence I. Conrad, «Abraha and Muhammad», in Bulletin of the School of Oriental and African Studies, 50/2 (1987), pp. 225-240; Alfred-Louis de Pre´mare, «Les e´le´phants de Qa¯disiyya», in Arabica, 45 (1998), pp. 261-269; Christian

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5 Robin (a cura di), L’Arabie antique de Karib’il a` Mahomet, Edisud (coll. Revue du monde musulman et de la Me´dite´rrane´e, 30), Aix en Provence 1992.

ABRAMO Abramo (Ibra¯hı¯m in arabo) e` una delle principali figure di profeta evocate nel testo coranico. E` abbondantemente menzionato nel Libro, compare infatti in venticinque sure. Tuttavia il profilo che il Corano ne traccia differisce sensibilmente da quello biblico. Il libro della Genesi evoca in effetti il percorso del ‘‘patriarca’’, la cui fede in Dio e` legata alla promessa di una numerosa discendenza e al possesso di un territorio preciso, ma egli non e` un profeta nel senso che questo termine acquistera` nei testi biblici posteriori. Invece nel Corano Abramo si trova inserito in una profetologia generale sistematizzata e sviluppata nella dottrina islamica comune: Dio ha creato gli uomini perche´ gli rendano grazie e gli offrano un culto, a lui soltanto. Ma gli uomini sono incostanti e negligenti, pronti a dimenticare tale missione e a volgersi all’adorazione di esseri altri rispetto a Dio; e` questa la colpa di Adamo, come l’idolatria dei popoli di Noe` e cosı` via. Al fine di ricordare all’umanita` cio` cui e` chiamata, Dio invia ai diversi popoli dei messaggeri, dei profeti, incaricati di restaurare i fondamenti del monoteismo originario. Tale fu la missione di Abramo, che si presenta come uno degli anelli di questa storia sacra. Il Corano lo dice adottato da Dio quale «amico intimo» (khalı¯l) (4,125), riecheggiando una denominazione piu` antica (Is 41,8; 2Cr 20,7; Gc 2,23) e scritti intertestamentari e talmudici. La specificita` della funzione di Abramo va oltre quella di ‘‘grande profeta’’: e` il modello piu` pregnante di quella fede monoteistica originaria alla quale intende riferirsi il messaggio di Muhammad. Quando egli inizio` a predicare alla Mecca, a partire dagli anni 610-612, e poi a Medina dopo l’egira avvenuta nel 622, ebbe la necessita` di situare in qualche modo la legittimita` della propria missione agli occhi dell’uditorio – pagano,

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ebreo o cristiano. Ora, sebbene egli rivendicasse la continuita` biblica, non era ebreo e non considerava piu` attuale l’elezione della discendenza di Israele. Non era neppure cristiano, poiche´ rifiutava la divinizzazione di Gesu` ignorandone la natura messianica che i suoi seguaci gli riconoscevano. La figura di Abramo gli permise di illustrare la propria posizione confessionale, ossia la restaurazione del puro monoteismo delle origini: «Rivelammo a te [Muhammad]: ‘‘Segui la religione di Abramo, con fede pura (hanı¯fan): ˙ egli non fu un idolatra (min al-mushrikı ¯n, cioe` tra coloro che associano altre divinita` a Dio)’’» (16,123; cfr. anche 4,125; 6,161; 16,120). Abramo rappresenta uno stadio della religione anteriore alla Legge di Mose` e all’avvento di Gesu`, e in questo senso non puo` essere rivendicato da nessuna delle due confessioni: «gente del Libro! Perche´ discutete su Abramo, mentre e la Torah e il Vangelo sono stati ambedue rivelati dopo di lui? Non capite dunque?» (3,65). Appellandosi alla fede di Abramo, Muhammad trova una legittimita` biblica alla propria missione. Egli scavalca, in qualche maniera, le predicazioni ebraiche e cristiane: «Abramo non era ne´ ebreo ne´ cristiano: era un monoteista (hanı¯f) dedito interamente a Dio (muslim)˙ e non era un idolatra» (3,67; 16, 120). I due termini qui impiegati meritano attenzione. Hanı¯f designa nel Corano il ˙ monoteista indipendente, che si appella all’eredita` biblica senza appartenere formalmente a un gruppo confessionale preesistente; questa denominazione sottolinea l’indipendenza della fede di Abramo. Muslim significa ‘‘che si sottomette [a Dio]’’ e designa la qualita` perfetta degli atti di questo profeta. Il suo carattere sovra-confessionale si trasmette anche alla sua discendenza: «Pretendete voi che Abramo e Ismaele e Isacco e Giacobbe e le dodici tribu` fossero ebrei o cristiani? Di’ loro ancora: ‘‘Ne sapete piu` voi di Dio?’’» (2,140). Queste affermazioni discreditano all’istante le posizioni della gente del Libro, cristiani ed ebrei, e lasciano intendere che essi hanno deviato dalla purezza del messaggio abramitico.

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Il sabato, per esempio, non fa parte della fede originale (16,124). La discendenza di Abramo acquista senso solo nell’imitazione della sua fede e della sua virtu`. Nel Corano, Dio promette ad Abramo: «In verita` Io ti faro` principe (ima¯m) del popolo». Alla reazione del profeta, che chiede se questa promessa riguardi anche la sua discendenza, Dio risponde: «Il mio patto non si applica agli empi» (2,124). L’ultima allusione puo` indicare gli ebrei di Medina, ma forse anche gli arabi politeisti, ugualmente discendenti di Abramo attraverso Ismaele. Inoltre, i racconti su Abramo forniscono al credente dei modelli piuttosto vari, e talvolta di una profonda efficacia psicologica e spirituale. Ogni credente, in qualsiasi epoca gli sia dato di vivere, puo` trovarsi in una situazione analoga a quella di Abramo: «Di’: ‘‘Il mio Signore mi ha guidato alla Via Diritta, in una religione solida e vera, la fede di Abramo, che fu uno hanı¯f e non certo uno dei pagani’’» (6, 161).˙ Abramo rappresenta il perfetto prototipo del credente per le scelte e le azioni che compie, ma a questo riguardo conviene distinguere tra cio` che e` menzionato nel Corano e le aggiunte della tradizione successiva delle storie profetiche. Queste ultime costituiscono una sorta di midrashim islamici, scaturiti del resto in larga parte dalla tradizione ebraica su Abramo, dapprima citati dagli storici ed esegeti musulmani e poi raccolti in opere indipendenti; tra queste le piu` diffuse sono quelle di Tha‘labı¯ (m. 428/1036), Kisa¯’ı¯ (VI/XII sec.) e Ibn Kathı¯r (m. 775/1373). Si rileva a proposito di Abramo l’idea di una ricerca personale della fede. I versetti 6,75-79 lo mostrano alla ricerca del suo Signore, che egli crede di scoprire, successivamente, in una stella, nella luna e nel sole; accortosi del carattere transitorio dei corpi celesti, si converte infine alla fede nel creatore dei cieli e della terra. L’esegesi sunnita fatica a credere che Abramo sia stato un astrolatra, sia pure per un breve tempo, poiche´ i profeti sono esseri troppo perfetti per cadere in questo errore. La meditazione di Abramo di fronte ai segni dell’universo risale pero` a

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fonti piu` antiche: il Libro dei Giubilei, Filone di Alessandria, Giuseppe Flavio e la tradizione aggadica. Questo aspetto della ricerca personale di Abramo si intravede nella dimostrazione della resurrezione che egli chiede a Dio. Dio gli comanda allora di tagliare quattro uccelli in parti, di porle su quattro montagne e poi di chiamarli a se´. Gli uccelli ritornano in vita, prefigurando la seconda creazione (2,260; Gn 15,9-10). Per i mistici, Abramo fu sempre credente, ma la fede comporta un gran numero di gradi di realizzazione che occorre progressivamente superare per raggiungere il Reale. E` quel che simbolizza il passaggio della fede dalla stella (l’intelletto), alla luna (la fede vissuta) e poi al sole (l’illuminazione mistica), tutte tappe da superare. Divenuto un convinto monoteista, Abramo entra in conflitto con il padre: «Prenderai tu degli idoli per de`i? Io vedo te e il tuo popolo in manifesto errore!» (6, 74). Questo padre idolatra e` chiamato ¯ zar nel Corano, ma il nome biblico di A Terah, come pure la sua genealogia, non e` ignoto alla tradizione postcoranica che ne fa non solo un fervente idolatra ma anche un fabbricante di idoli. La rottura tra il padre e il figlio e` violenta: «Padre, perche´ tu adori chi non ode e non vede e a nulla ti giova? Padre, mi e` giunta, per vero, da Dio scienza che tu non possiedi: seguimi dunque e io ti guidero` per una via piana [...]». [Il padre rispose]: «Sei tu avverso agli de`i, Abramo? Se non desisti ti lapidero` davvero; ora vattene via da me per un tempo» (19,42-46). Occorre ricordare la forza del legame familiare e il carattere sacro dell’obbedienza ai propri genitori nella societa` araba per valutare la portata dell’esempio fornito e di cio` che insegna: i legami della fede sono piu` forti di quelli di sangue, il musulmano e` invitato a separarsi concretamente dalla sua famiglia se questa rifiuta l’islam. Anche pregare per i propri genitori morti, se sono pagani, e` fuori discussione, secondo l’esempio di Abramo (9,113-114). Abramo entra in aperto conflitto anche con il suo popolo idolatra. Gli argomenti evocati fanno certamente eco alle diatribe

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che opponevano Muhammad ai suoi concittadini meccani. Nulla giustifica il culto reso agli idoli, pratica del tutto inutile, fondata su un’istintiva imitazione degli antenati (21,51-55; 26,69-76). Abramo deride l’impotenza e il mutismo degli idoli, che giunge a distruggere (21,57-67; 37,83-96); e proclama che la potenza di Dio, al contrario, risulta evidente nell’intera creazione. Inoltre, Dio rivela esplicitamente la propria volonta` attraverso i profeti (6,80-81; 29,16-23). Il compimento di tale volonta` e` il solo vantaggio per l’uomo, materialmente e nel momento del Giudizio ultimo (26,78-89). Il Corano suggerisce ancora che i suoi compatrioti, esasperati, vollero bruciarlo in una fornace, ma Dio lo fece scampare miracolosamente al supplizio (21,68-70; 29,24; 37,97-98). Le tradizioni posteriori chiamano in causa il tiranno pagano Nemrod quale autore di questa persecuzione e quale avversario accreditato dell’inviato, sottolineando incidentalmente l’aspetto politico del profetismo: solo entrando in rapporto con la trascendenza, il profeta minaccia la legittimita` religiosa del tiranno (vedi anche 2,258, dove Abramo sfida il tiranno a far sorgere il sole da occidente). Tutti questi diversi racconti trovano origine nella tradizione intertestamentaria e aggadica. Abramo lascia il suo popolo ed emigra, come Muhammad fugge dalla Mecca per guadagnare Medina, e suo nipote Lot lo accompagna in questa emigrazione (29, 26). Il Corano parla poco di quest’ultimo, ma racconta la storia del suo popolo perverso che volle abusare degli inviati di Dio. Malgrado il tentativo d’intercessione di Abramo (11,74), le citta` peccatrici furono distrutte da una pioggia di mattoni. La famiglia di Lot fu salvata, a eccezione di sua moglie; le rovine delle citta` distrutte, rimaste visibili, costituiscono un ammonimento per le generazioni successive (11,74-83; 15,51-77; 29,28-35; 21, 74-75; 51,24-37; si veda anche Gn 18 e 19). Vari passi coranici menzionano la visita degli angeli ad Abramo, vecchio e senza figli, la generosita` della sua accoglienza e

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l’annuncio di una discendenza che gli venne dato, categorico nonostante lo scetticismo di sua moglie (11,69-73; 37,112113). Si trattava della prossima nascita di Isacco, specificamente indicato (11,71). La nascita di Ismaele, figlio di Agar, come pure le questioni di rivalita` tra le due madri e di preminenza tra i due figli, non sono raccontate nel Corano, sebbene esse fossero certamente note agli uditori arabi di Muhammad, anche se non si sa esattamente in quali termini. La curva della vita spirituale di Abramo raggiunge senza subbio il culmine nel racconto del sacrificio di suo figlio, il quale non e` identificato (37,101-111). Quando quest’ultimo divenne adulto, Abramo si vide in sogno mentre lo immolava. Lo interpello`, ed entrambi vi lessero un ordine divino: «‘‘Figlio mio, una visione in sogno mi dice che devo immolarti al Signore: che cosa credi tu che io abbia a fare?’’ Il figlio rispose: ‘‘Padre mio, fa quel che ti e` ordinato: tu mi troverai, a Dio piacendo, paziente!’’». Il padre obbediente si apprestava a tagliare la gola del figlio consenziente, quando Dio intervenne per fermare il gesto e annunciando una ricompensa per Abramo. Se il testo non nomina il figlio in questione, la tradizione discusse a lungo della sua identita`. Alcuni esegeti, e non tra i minori, Tabarı¯ ˙ al (m. 310/923) in particolare, guardarono racconto biblico e pensarono che si trattasse di Isacco; ma la maggior parte degli eruditi musulmani ritengono che si trattasse di Ismaele. Comunque sia, il testo conserva vari elementi enigmatici: Dio ha realmente ordinato il sacrificio? Se sı`, come pote´ ordinare qualcosa di contrario alla morale da lui stesso imposta agli uomini? Se invece no, vista l’ambiguita` dell’apparizione in sogno, perche´ ci si rallegra con Abramo per la sua determinazione (37,104-111)? Bisogna essere in grado di sacrificare tutto alla volonta` di Dio, suggerisce la gran parte degli esegeti di questi versetti. I mistici vi vedono l’illustrazione della necessita` di sacrificare attivamente e completamente il proprio io: solo allora la fede assume la sua vera dimensione.

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Il ruolo di Ismaele nel Corano e` abbastanza paradossale. Ci si aspetterebbe di vederlo sottolineato, poiche´ egli e` noto come l’antenato degli arabi, e dunque come radice della piu` pura abramiticita` locale. Ora, nelle sure antiche egli e` menzionato in modo abbastanza discreto, il suo legame con Abramo e` appena indicato (19,49 e 54; 21,72; 85,38,45-48 per esempio). In seguito e` progressivamente evocata l’idea che Abramo stesso si sia recato in Arabia, alla Mecca, dove si erano rifugiati Agar e Ismaele dopo essere stati cacciati. Egli vi avrebbe consacrato l’insediamento di una parte della sua discendenza, nella fattispecie Ismaele, il cui ruolo appare allora in modo piu` netto (14,39 in particolare). Abramo avrebbe invocato la benedizione su questo sito meccano: «Signore, ho stabilito parte della mia progenie in una valle deserta presso la Tua santa Casa, Signore, perche´ compissero la Preghiera!» (14,37; vedi anche 2,126; 14,35-36). Infine e soprattutto, egli avrebbe costruito il santuario della Ka‘ba con suo figlio: «Quando facemmo della Santa Casa [della Mecca] luogo di riunione e di sicuro rifugio [...] e ingiungemmo ad Abramo e a Ismaele: ‘‘Purificate la mia Casa per coloro che attorno vi correranno venerabondi, vi pregheranno devoti, vi s’inchineranno e si posteranno reverenti’’» (2,125 e 127128). La costruzione di questo santuario e` intimamente legata ai riti del pellegrinaggio (hajj), come suggeriscono i ver˙ setti 3,95-97 e soprattutto 22,26-29, ampiamente integrati dalla tradizione esegetica. Quest’ultima descrive nei minimi particolari il primo h ajj compiuto sotto la ˙ rito che si ripercosse guida di Abramo, sulla natura intera, assumendo una dimensione quasi cosmica. Con questi racconti, i riti – pagani – della Mecca furono cosı` dotati di una legittimita` monoteista tutta nuova: istituiti da Abramo, il loro significato sarebbe stato snaturato dai politeisti. Abramo appare come una retroproiezione di Muhammad stesso: profeta inviato alla Mecca per istituire un sistema religioso completo di fede e di riti, egli

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avrebbe compiuto nel passato cio` che Muhammad eseguiva nuovamente nel presente. Egli prega Dio di inviare alla Mecca un profeta di questo popolo (2, 129), e Muhammad e` la risposta alla sua preghiera. Ma questo gioco di specchi tra prefigurazione abramitica e attualizzazione muhammadica non lascia mai pensare che gli arabi, in quanto popolo, possano vantare una qualche superiorita` in ragione della loro discendenza da Abramo. Tale ascendenza e` nondimeno attestata tre volte nella Bibbia: per Ismaele padre delle dodici tribu` d’Arabia (Gn 25,12-18), per Esau` (Gn 36,9) e per Chetura, terza moglie di Abramo dalla quale nacque Madian (Gn 25,1-4), tradizioni che del resto erano note all’esegesi islamica. Infatti, la vera discendenza di Abramo, la successione a lui nell’elezione divina si manifesta attraverso la fede e le buone azioni (2,132: Abramo morente trasmette la propria fede ai figli; si veda anche 2,135-136). Il tema era stato ampiamente sviluppato dal pensiero cristiano (Mt 3,7-10; Rom 4). Quest’ultima considerazione non deve suggerire che la dimensione familiare della successione profetica sia in fondo indifferente; essa e` esplicitamente affermata: ad Abramo «concedemmo Isacco e Giacobbe e ponemmo nella sua progenie la Profezia e la Scrittura» (4,54; 29,27). Il Corano enumera molto frequentemente gli inviati, e in tal caso compare Abramo con la sua discendenza profetica: Isacco e Giacobbe e talvolta, separatamente, Ismaele (4,163; 6,84-87; 57,26). E` lo stesso per altri lignaggi: «Dio ha eletto Adamo e Noe` e la gente d’Abramo e la gente di ‘Imra¯n [il padre di Maria] su tutto il creato come progenie gli uni degli altri, e Dio sa e ascolta» (3,33-34). L’importanza della stirpe di Muhammad e` stata sottolineata dagli sciiti in modo del tutto particolare. Ma anche in seno al sunnismo, la venerazione per la sua discendenza e` marcata, e le ‘‘preghiere abramitiche’’ che suggellano la preghiera rituale testimoniano l’antico parallelo tra la missione di Abramo e quella del Profeta.

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Quali sono le fonti dei diversi racconti coranici su Abramo? Esse sono bibliche solo indirettamente. I racconti della Genesi sono stati trasformati da una trasmissione orale di lunga durata, incorporando numerosi midrashim. Inoltre, alcuni racconti intertestamentari ebbero certamente un ruolo fondamentale. Il Corano allude alle ‘‘pagine di Abramo’’ a due riprese (53,36-37; 87,18-19), ma e` impossibile identificare con certezza la natura di questi scritti. In compenso, la tradizione esegetica islamica ricorda un viaggio celeste accordato ad Abramo (6,75), e i dettagli forniti dall’esegesi tradizionale antica permettono di ritrovarne l’origine nel Testamento di Abramo (capp. 10-15) e nell’Apocalisse di Abramo (15). Il conflitto che oppone Abramo a suo padre e poi al suo popolo rinvia ugualmente a quest’ultimo scritto (1-8), come pure al Libro dei Giubilei (11-15), ma per via principalmente orale. Per quanto riguarda l’introduzione dei temi abramitici nel corso delle rivelazioni coraniche, gli studiosi sono in disaccordo. Alcuni (Snouck Hurgronje) ritengono che l’identificazione dell’islam con una restaurazione della religione abramitica piu` originale del giudaismo e del cristianesimo dati dell’epoca di Medina. Secondo altri (Youakim Moubarac), essa era gia` completamente presente nella predicazione della Mecca. La maggior parte degli specialisti distinguono piuttosto un’accentuazione e un’amplificazione progressive di antichi temi meccani. L’importanza di Abramo nel sistema dottrinale dell’islam e` immensa. Questi racconti abramitici non sono solo evocati con insistenza nel Corano, ma sono anche incorporati nel piu` importante dei riti islamici: la preghiera rituale si chiude infatti con l’invocazione delle benedizioni divine su Abramo e sulla sua famiglia. In modo ancora piu` netto, si ritiene che il pellegrinaggio alla Mecca, che secondo il Corano Abramo stesso istituı`, riproduca le azioni del grande profeta. Il cruento sacrificio del decimo giorno del mese di dhu¯ al-hijja, compiuto da numerosi musulmani˙ in tutto il mondo contemporanea-

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mente ai pellegrini (‘‘Festa del sacrificio’’, o ‘‘Grande festa’’), evoca l’immolazione dell’ariete che la provvidenza sostituı` al figlio di Abramo. Il rito della lapidazione del demonio, che lo precede, corrisponderebbe al rifiuto del profeta di cedere alle tentazioni sataniche affinche´ rinunciasse all’atto sacrificale. Altri riti del pellegrinaggio minore, intorno alla Ka‘ba, corrispondono ad alcuni racconti, non coranici ma assai popolari, sull’arrivo di Ismaele e di Agar alla Mecca e alla loro provvidenziale salvezza grazie allo sgorgare di una fonte. Il fatto che Abramo sia considerato la figura profetica piu` importante nella storia precedente Muhammad, piu` di Mose` e piu` di Gesu`, e` illustrato da un racconto cui la Tradizione accorda estrema importanza, sebbene esso non sia formalmente accolto dal Corano: l’ascensione celeste del profeta dell’islam. Una notte, quando egli viveva ancora alla Mecca, l’angelo Gabriele lo avrebbe miracolosamente portato a Gerusalemme. Di lı`, lo avrebbe condotto attraverso i sette cieli; e` il racconto del mi‘ra¯j. A ogni cielo Muhammad incontra un profeta che lo saluta. Secondo la maggior parte delle versioni, Abramo occupa il sesto o il settimo cielo. Il profeta dell’islam supera il luogo in cui si trova Abramo per accedere, primo di tutto il genere umano, alla Presenza stessa di Dio. Poiche´ anche ad Abramo e` riconosciuto un viaggio celeste, viene da chiedersi se il mi‘ra¯j di Muhammad non comporti un’imitazione e una ripresa di quel racconto. Muhammad, salendo ai cieli, ripete le gesta di Abramo e lo supera, un modo per illustrare la posizione oramai acquisita dalla nuova religione islamica. Comunque sia, questo racconto, mentre legittima il mi‘ra¯j, sottolinea il grado riconosciuto ad Abramo nell’ordine della profezia: il secondo, immediatamente [P.L.] dopo Muhammad. Bibliografia: Rene´ Dagorn, La geste d’Ismae¨l d’apre`s l’onomastique et la tradition arabes, Droz, Gene`ve 1981; Reuven Firestone, Journeys in Holy Land, the Evolution of the Abraham-Ishmael Legends in Islamic Exegesis, State University of New

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ABROGAZIONE

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York Press, Albany 1990; Youakim Moubarac, Abraham dans le Coran, Vrin (coll. E´tudes musulmanes, 5), Paris 1958; Heinrich Speyer, Die biblischen Erza¨hlungen im Qoran, G. Olms, Hildesheim 1961; Roberto Tottoli, I profeti biblici nella tradizione islamica, Paideia, Brescia 1999.

ABROGAZIONE L’idea secondo cui una realta` rivelata agli uomini da Dio e` suscettibile di essere abrogata come «il vento cancella le orme sulla sabbia» si ispira direttamente alla seconda sura, medinese: «Non abrogheremo ne´ ti faremo dimenticare alcun versetto senza dartene uno migliore o uguale» (2,106). Con ben rare eccezioni, l’insieme dei dotti musulmani si e` cosı` accordato da una parte sulla possibilita` dell’abrogazione (naskh) nell’ambito della legge rivelata, e d’altra parte sulla sua realta` di fatto. Secondo i giuristi musulmani, i negatori del principio del naskh sono gli ebrei, i quali ciononostante riconoscevano una nozione dagli effetti simili, quella di ‘‘particolarizzazione nel tempo’’, in base alla quale un istituto etico-giuridico divinamente ispirato poteva avere validita` solo per una data epoca. Piu` indirettamente, molti dotti musulmani, per lo piu` hanafiti, hanno egual˙ mente ridotto l’abrogazione a una particolarizzazione nel tempo, pur continuando a chiamare quest’ultima con il nome di naskh. La possibilita` stessa dell’abrogazione non puo` porsi senza sollevare un problema critico di natura teologica all’interno della dottrina piu` diffusa nell’islam sunnita. Nel quadro del mu‘tazilismo, che e` dottrina minoritaria, questo problema non esiste; per i mu‘taziliti, il principio che fonda l’istituzione della sharı¯‘a e` l’‘‘interesse pubblico’’ (maslaha) e in questa ˙ ˙le norme della prospettiva l’idea che legge rivelata possano variare e` naturale. Ma¯wardı¯ (m. 450/1058), giurista fortemente influenzato dal mu‘tazilismo, scrive: «L’interesse pubblico differisce secondo le epoche: puo` ben essere che un istituto sciaraitico sia in vigore in un’epoca e un altro, che abroga il precedente,

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sia valido in un’altra epoca. Ciascuno dei due istituti ha valore nel proprio tempo, anche se fossero antinomici». Secondo la corrente teologica maggioritaria dell’islam sunnita – l’ash‘arismo – l’idea che un cambiamento possa colpire la legge rivelata nel Corano suscita immediatamente un problema, poiche´, in tale prospettiva, il Corano rende conto della volonta` divina nella sua versione definitiva, e tale volonta` e` concepita come sovrana (cioe` determina le nozioni di bene e male nella loro versione definitiva), come immutabile e non circoscritta nel tempo (il Corano e` infatti considerato dall’islam come l’ultima delle rivelazioni, e ne chiude il ciclo). In tal modo, la volonta` divina si trova a essere difficilmente conciliabile con gli interessi mutevoli del creato o, piu` semplicemente, con il cambiamento in quanto tale; essa e` infatti di diritto indifferente alla storia. Ma allora, come concepire che un comandamento divino finale possa sostituirsi a un altro comandamento divino avente lo stesso statuto? Forse Dio, nell’espressione conclusiva della sua volonta`, cioe` la rivelazione coranica, cambierebbe d’avviso? L’ipotesi e` per principio scartata, perche´ l’abrogazione comporterebbe volubilita` da parte di Dio. Egli apparirebbe mutevole nella sua scienza o nella sua volonta`, cio` che e` realmente inammissibile nel quadro della dottrina teologica maggioritaria dell’islam sunnita. Il cambiamento, direbbero i dotti sunniti, e` stato previsto da Dio sin da tutta l’eternita`, egli ha previsto sin dall’inizio che avrebbe abrogato uno dei propri comandamenti a favore di un altro. Tuttavia questa spiegazione e` ambigua e non appare soddisfacente, e alcuni dotti ash‘ariti, per esempio Ibn Barha¯n (m. 518/1124), hanno espresso chiaramente il loro imbarazzo di fronte alla questione dell’abrogazione: se il Corano e` transtorico, se e`, similmente a Dio, increato, e` fondamentalmente impossibile pensare che esso sia mutevole; il cambiamento e` un attributo naturale della storia, ma esso non puo` concepirsi per cio`

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che e` reputato non circoscritto nel tempo, perche´ la temporalita` e` la condizione sine qua non del cambiamento. L’insieme delle numerose definizioni tecniche di naskh offerte dai trattati di teoria giuridica sunnita ha per funzione negativa quella di distinguere con chiarezza l’abrogazione dal bada¯’, concetto quest’ultimo che rinvia a un cambiamento in Dio, nella Sua conoscenza o nella Sua volonta`. In ambito sciita, il fatto che Dio possa essere mutevole e` un principio riconosciuto, il cui piu` solido fondamento e` il versetto medinese che segue: «Dio cancella quel che vuole e quel che vuole conferma: a Lui d’accanto e` la Madre del Libro (Umm al-Kita¯b)» (13,39). Abrogazione e Leggi rivelate anteriormente Il fenomeno dell’abrogazione non riguarda la sola rivelazione coranica; esso opera nell’insieme delle rivelazioni, considerate come una sequenza continuativa. La rivelazione coranica si presenta in effetti come confermativa (musaddiq) ri˙ rivelate spetto alle rivelazioni monoteiste prima (vedi tra l’altro 2,89). Cosa occorre allora pensare quanto alla validita` di queste Leggi per la comunita` musulmana? Costituiscono, sull’esempio del Corano, una fonte della giurisprudenza islamica? E allora in che cosa il Corano abroga gli altri Libri? Questa problematica si innesta su un’altra affermazione coranica secondo la quale i depositari di questi Libri – gli ebrei e i cristiani – avrebbero sottoposto i Libri stessi a una ‘‘alterazione’’ (tahrı¯f), eliminando nella fattispecie l’an˙ nuncio della venuta del profeta Muhammad (4,46). Per questo, il musulmano non si rivolge mai direttamente a quei Libri alterati; solo le fonti proprie dell’islam – il Corano e la Sunna – gli insegneranno all’occorrenza che questo o quel comandamento divino indirizzato a questo o quel profeta antico e` ancora attuale nella Legge di Muhammad oppure e` stato abrogato. Senza che sia possibile individuare una corrente maggioritaria fra i giuristi-teologi, le tesi piu` accreditate in questo di-

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ABROGAZIONE

battito sono quattro: secondo la prima, la legge di Muhammad abroga tutte le altre; per la seconda solo la legge di Abramo e` Legge per i musulmani, con l’eccezione di cio` che e` stato abrogato dalla Legge di Muhammad; lo stesso, con il riconoscimento aggiuntivo della ‘‘Legge di Mose`’’; lo stesso, con il riconoscimento aggiuntivo, questa volta, della ‘‘Legge di Gesu`’’. I sostenitori della prima tesi traggono la loro convinzione dal versetto seguente: «A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via» (5,48), il quale lascia intendere in effetti che ciascun inviato, seguito dalla sua comunita`, e` stato gratificato di una Legge propria e specifica. I sostenitori delle altre tre tesi si basano invece su altri versetti che invitano i musulmani a seguire la guida che alcuni profeti antichi hanno ricevuto da Dio (6, 90; 16,123; ecc.). Abrogazione e rivelazione coranica L’abrogazione e` una realta` interna alla rivelazione, e dunque i suoi effetti si esauriscono con la chiusura definitiva delle sue porte: quale ne e` allora il campo preciso di pertinenza? Quali ‘‘categorie del discorso rivelato’’ sono suscettibili d’essere abrogate? Le dottrine a questo proposito sono del tutto omogenee. Le realta` di ordine ontologico e teologico cui il Corano fa riferimento, a cominciare dall’esistenza di Dio e dalla sua unicita`, non sono assolutamente suscettibili di essere abrogate. Queste realta` rivelate sono del resto naturali, razionalmente percepibili e nulla puo` modificare alcunche´ della loro esistenza o delle loro modalita`. L’intera sfera della teologia e` messa cosı` al riparo da cambiamenti che ripugnerebbero alla r a g i o n e . « L’ a b r o g a z i o n e e` l eg a l e (shar‘ı¯)» e` formula che concerne soltanto gli istituti sciaraitici della rivelazione. Pochi teologi, il piu` importante dei quali e` Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/1209), ritengono che le ‘‘informazioni storiche’’ (akhba¯r, sing. khabar) rivelate nel Corano siano anch’esse suscettibili di abrogazione. Dunque, un fatto avvenuto potrebbe essere cancellato da Dio nel vero senso della parola e non essere mai esi-

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stito? Oppure e` solo il racconto di eventi passati cio` che Dio potrebbe far dimenticare, la memoria del passato piuttosto che il passato stesso? Un autore piu` antico, il giudice Abu¯ Ya‘la¯ (m. 458/1066), scrisse appunto che le lotte della ‘‘grande fitna’’, la guerra civile del I secolo dell’egira, sarebbero state ‘‘cancellate’’, o ‘‘deesistenziate’’ da Dio. Significa che e` come se questi avvenimenti non fossero mai accaduti o, piu` radicalmente, che non esisteranno piu` dopo essere esistiti? Poiche´ l’abrogazione e` contemporanea alla rivelazione, cioe` ne fa parte, i soli istituti giuridici suscettibili di essere abrogati o di abrogare a loro volta derivano dal Corano o dalla Sunna. Il fatto che il Corano e la Sunna possano abrogarsi da se´ e` ammesso da tutti. In compenso, e` questione largamente controversa se l’una delle due fonti possa abrogare l’altra. Secondo Sha¯fi‘ı¯ (m. 204/829), il Corano non puo` abrogare la Sunna, ne´ e` possibile il contrario. Sul primo punto non sara` seguito, neppure da parte degli sha¯fi‘iti. Sul secondo – la Sunna puo` abrogare il Corano – i pareri sono rimasti discordi: la maggior parte degli sha¯fi‘iti non lo ammette, al contrario degli hanafiti e dei teologi ash‘ariti e mu‘taziliti.˙ Quanto all’accordo unanime della comunita`, l’ijma¯‘, in via di principio esso non puo` abrogare ne´ essere abrogato, perche´ questa fonte del diritto e` per definizione successiva alla profezia: ha efficacia solo in seguito alla fine della rivelazione, laddove la dinamica dell’abrogazione si esaurisce con la rivelazione e la scomparsa del Profeta. Nell’islam sunnita, l’ijma¯‘ rimane infallibile, e` «la piu` forte delle prove legali». L’abrogazione si presenta in tre forme diverse. La prima e` la seguente: un testo puo` essere abrogato senza che sia abrogato allo stesso tempo l’istituto sciaraitico che lo veicola. L’esempio classico e` quello del versetto detto «della lapidazione» – «Lapidate il vecchio e la vecchia, se fornicano » – la cui ‘‘recitazione’’ e` abrogata nel senso che non figura piu`

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materialmente nel Corano, pero` la lapidazione dei fornicatori e` un istituto che rimane in vigore. La seconda forma dell’abrogazione e` la seguente: uno statuto puo` essere abrogato anche senza che lo sia il suo supporto testuale. Cosı`, 2,24, che verte sulla durata del periodo di continenza (‘idda) di una donna ripudiata o di una vedova cioe` un anno, e` stato abrogato dal versetto 234 della stessa sura il quale riduce questo lasso temporale a quattro mesi e dieci giorni. Infine, testo e istituto possono essere abrogati congiuntamente. Per esempio, un versetto stabiliva che la parentela di latte e l’interdizione del matrimonio che ne consegue erano stabiliti al compimento di dieci allattamenti; il versetto e l’istituto corrispondente sono stati abrogati in ragione di una dichiarazione di ¯ ’isha, una delle mogli del Profeta, che ‘A riduce questo numero a cinque. Formalmente, l’abrogazione puo` causare la sostituzione di una cosa con un’altra in modo neutro, come nel caso della direzione della preghiera, la qibla, che e` passata da Gerusalemme alla Mecca; oppure puo` condurre a un obbligo meno gravoso, come nella riduzione da dieci a due dei combattenti miscredenti ai quali il soldato musulmano deve far fronte senza fuggire: in questo caso 8,66 ha abrogato 6,85. Se l’abrogazione possa portare invece a conseguenze piu` gravose e` controverso. Basandosi su 2,185 – «Iddio desidera agio per voi, non disagio» – i giuristi di scuole differenti ritennero che tale evenienza non dovesse ventilarsi; pero` la maggioranza ne constato` la realta` de facto: sempre nella seconda sura, il versetto 184 presenta il digiuno (sawm) del mese di ˙ ramada¯n come facoltativo, ma e` abrogato ˙ dal versetto 185 che lo rende obbligatorio. Infine, l’abrogazione puo` rendere lecito cio` che era prima proibito, come l’alleggerimento degli obblighi del sawm (di˙ [E´.C.] giuno canonico). Bibliografia: John Burton, The Sources of Islamic Law. Islamic Theories of Abrogation, Edinburgh University Press, Edinburgh 1990; Wae¨l B. Hallaq, A History of

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13 Islamic Legal Theories, An Introduction to Sunnı¯ Usu¯l al-Fiqh, Cambridge University ˙ Press, Cambridge 1997; Sha¯fi‘ı¯, La Risa¯la. Les fondements du droit musulman, trad. dall’arabo, intr. e note di Lakhdar Souami, Actes Sud-Sindbad, Arles 1997; Shı¯ra¯zı¯, Le Livre des rais illuminant les fondements de la compre´hension de la Loi, trad dall’arabo, note e indici di E´ric Chaumont, University of California Press, Berkeley 1999; Bernard G. Weiss, The Search for God’s Law, University of Utah Press, Salt Lake City 1992.

¯ BAKR ABU Tra i primi convertiti all’islam o addirittura, come vogliono i dotti sunniti, il primo in assoluto a essersi convertito alla nuova religione, Abu¯ Bakr (‘Abd Alla¯h ibn ‘Uthma¯n), del clan qurayshita dei Taym, fu il primo califfo succeduto al profeta Muhammad. Regno` dall’anno 10 all’anno 12 dell’egira (632-634 d.C.). Nella memoria collettiva dei musulmani, gia` il suo epiteto di al-Siddı¯q, ‘‘il Fedele’’ ˙ ¯ Bakr al Corano, o ‘‘il Veridico’’, lega Abu e piu` precisamente all’episodio del Viaggio Notturno del Profeta «dalla moschea Al-Hara¯m alla moschea Al-Aqsa¯» men˙ ˙ zionato nel versetto 17,1. Interpretando il versetto, una tradizione musulmana spiega che tale epiteto gli venne attribuito dal Profeta perche´ egli fu l’unico a credere senza esitazione nel racconto del Viaggio Notturno dalla Mecca a Gerusalemme. Per quanto riguarda la raccolta del Corano, Abu¯ Bakr gioca un ruolo centrale nelle narrazioni tradizionali. Secondo la tradizione sunnita, ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯ lib avrebbe dichiarato che Abu¯ Bakr ˙fu il primo ad aver raccolto il Corano in un volume, cosı` meritando gran ricompensa in paradiso. E` assai probabile che questa risoluta dichiarazione sia attribuita a ‘Alı¯, nemico acerrimo di Abu¯ Bakr, solo per dare maggior credibilita` a questa impresa del primo califfo. Un altro legame tra Abu¯ Bakr e la raccolta del Libro sacro e` evidenziato da una tradizione molto nota, citata anche nella raccolta di tradizioni canoniche di Bukha¯rı¯ (m. 256/869). Si

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riporta che, durante il califfato di Abu¯ Bakr e in seguito alla grande battaglia dei musulmani contro gli ‘‘apostati’’ (ahl alridda) a Yama¯ma (nell’anno 11/633), un gran numero di lettori del Corano trovo` la morte. Questi lettori erano considerati i veri guardiani del testo integrale, dal momento che lo conoscevano a memoria; e spaventava l’idea che una gran parte del Libro sacro potesse perdersi. ‘Umar ibn al-Khatta¯b, successore di Abu¯ Bakr, con˙˙ siglio` dunque di intraprendere immediatamente una collazione di tutti i capitoli e versetti del Corano a quel tempo dispersi in ogni regione e presso piu` persone, allo scopo di pubblicarne una versione integrale. ‘Umar si rivolse al califfo Abu¯ Bakr e lo esorto` a intraprendere questa impresa. Il califfo esito` un poco, ritenendo che, in tal modo, avrebbe compiuto cio` che il Profeta stesso si era astenuto dal compiere nella sua vita. ‘Umar insistette, e il califfo poco a poco riconobbe la vitale necessita` del progetto. Abu¯ Bakr, sempre accompagnato da ‘Umar, si rivolse a Zayd ibn Tha¯bit, lo scriba cui il Profeta aveva un tempo affidato il compito di mettere per iscritto i versetti del Corano man mano che gli venivano rivelati. Come Abu¯ Bakr, anche Zayd esito` per il medesimo motivo, ma infine riconobbe la saggezza della decisione presa dai due grandi Compagni del Profeta. Nonostante l’enormita` del compito affidatogli, Zayd si mise alla ricerca delle diverse parti del Corano, constatando che alcuni versetti o interi capitoli erano stati redatti su materiali diversi, mentre altri erano conservati solo dalla memoria di alcuni Compagni di Muhammad. Secondo la tradizione sunnita, il Corano venne allora raccolto su alcuni fogli (suhuf); alla morte di Abu¯ ˙ ˙` conservato da ‘Umar, Bakr, esso verra quindi da Hafsa, figlia di quest’ultimo e ˙ vedova del˙Profeta, fino al regno di ‘Uthma¯n (24-35/644-656). Abu¯ Bakr si ricollega al Corano secondo le numerose e importanti tradizioni esegetiche note come asba¯b al-nuzu¯l (‘‘le circostanze della rivelazione’’). Secondo i commentatori coranici, molti versetti sarebbero stati rivelati proprio in riferi-

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mento a lui; i due episodi citati qui di seguito riflettono la natura di questo legame. Il versetto 9,40 menziona un episodio relativo all’emigrazione di Muhammad: «Se voi non lo assisterete, ebbene gia` lo ha assistito Iddio quando gli infedeli lo scacciarono, lui con un solo compagno, e quando essi erano nella caverna, e quando egli diceva al suo compagno: ‘‘Non ti rattristare! Dio e` con noi!’’ Dio fece scendere su di lui la Sua Divina Pace e lo confermo` con schiere invisibili, e la parola di coloro che ripugnarono alla fede la ridusse in basso, e levata in alto fu la parola di Dio, e Dio e` certo potente sapiente». Nella memoria collettiva dei musulmani, questo versetto descrive in modo assai succinto un particolare episodio dell’egira. La Tradizione fornisce numerosi dettagli supplementari su questa emigrazione forzata di Muhammad dalla Mecca a Medina, inseguito dai nemici della sua stessa tribu` dei Quraysh. Per i sunniti, il «solo compagno» (letteralmente: ‘‘il secondo di due’’) menzionato nel versetto altri non e` che Abu¯ Bakr, il quale accompagno` il Profeta e lo sostenne per tutto il cammino. Alcune tradizioni vollero infatti attribuirgli anche l’epiteto di ‘‘secondo di due’’. Tale epiteto fornı` piu` tardi la base per legittimare la sua elezione a successore di Muhammad, a discapito di ‘Alı¯. Inoltre, i commentatori narrano che il Profeta e il suo fedele compagno si rifugiarono in una caverna, e i loro nemici passarono oltre senza scoprirli. Muhammad avrebbe incoraggiato Abu¯ Bakr rivelandogli: «Cosa ne pensi di due persone delle quali il terzo e` Dio?». La tradizione evoca con insistenza la sollecitudine di Abu¯ Bakr nei confronti del Profeta e la sua attenzione alla sicurezza e alla salvaguardia di tale sua illustre guida. Questi avvenimenti, cosı` come l’indulgenza di Dio stesso verso i due fuggitivi, condussero i dotti sunniti a conferire ad Abu¯ Bakr l’epiteto di ‘‘Uomo della caverna’’ (Sa¯hib ˙ ˙ al-gha¯r). In secondo luogo, il versetto 2,271 raccomanda: «Se le elemosine le farete pubblicamente, buona cosa e` questa; ma se le farete in segreto dando dei vostri beni ai

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poveri, questa e` cosa migliore per voi e servira` d’espiazione per le vostre colpe, che´ Dio e` bene informato di quello che fate». Il celebre tradizionista Sha‘bı¯ sostiene che questo versetto fu rivelato allo scopo di lodare Abu¯ Bakr a discapito di ‘Umar. Infatti, il Profeta aveva raccomandato ai musulmani di fare elemosina ai poveri. Per eccellere su Abu¯ Bakr, ‘Umar aveva donato meta` dei suoi averi. Muhammad gli chiese dunque se avesse lasciato qualcosa per i membri della sua famiglia ed egli rispose che aveva lasciato loro l’altra meta`. Quanto ad Abu¯ Bakr, offrı` al Profeta, con discrezione, tutto cio` che possedeva. E quando il Profeta gli chiese cosa avesse lasciato ai membri della sua famiglia, rispose che aveva affidato i suoi familiari alle attenzioni di Dio e del suo Profeta. ‘Umar, udendo il proposito di Abu¯ Bakr, scoppio` in lacrime e grido`: «Abu¯ Bakr! Ogni volta che si tenta di superarti sulla via del bene, tu arrivi sempre per primo!». Questo episodio rifletterebbe l’esistenza di un conflitto tra i primi due califfi per la preminenza. Resta certo che storicamente Abu¯ Bakr precedette ‘Umar al califfato, superandolo dunque, dal punto di vista della Tradizione, quanto al merito. Tuttavia, un buon numero di tradizioni lascia intendere che durante il primo secolo dell’egira il secondo califfo fu sempre oggetto di preferenza rispetto al primo. Di rimando, con riferimento alla rivelazione del versetto citato sopra, la tradizione sunnita ha garantito ad Abu¯ Bakr il primato e la superiorita` su tutti gli altri Compagni di Muhammad. [A.Ha.] Bibliografia: Patricia Crone, Medieval Political Thought, Edinburgh University Press, Edinburgh 2004; Patricia Crone, Martin Hinds, God’s Caliph. Religious authority in the first centuries of Islam, Cambridge University Press, Cambridge 1986; Wilfred Madelung, The succession to Muhammad. A study of the Early Caliphate, Cambridge University Press, Cambridge 1997; Uri Rubin, «The life of Muhammad and the Qur’a¯n: the case of Muhammad’s Hijra’’, in Jerusalem Studies in Arabic and Islam, 28 (2003), pp. 40-64.

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¯ LAHAB ABU Abu¯ Lahab, letteralmente ‘‘il padre della fiamma’’, e` il soprannome dello zio di Muhammad, ‘Abd al-‘Uzza¯ ibn ‘Abd alMuttalib, tra i piu` feroci oppositori del ˙˙ dell’islam. Suo padre lo aveva profeta chiamato cosı` «per la sua bellezza e il suo viso luminoso (li-husni-hi wa-ishra¯q ˙ wajhi-hi)»; ma il Corano, che dedica la sura 111 – per lo piu` nota con il titolo di su¯rat al-Masad, ‘‘delle Fibre di Palma’’ o ‘‘della Corda’’ – alla descrizione della triste fine di Abu¯ Lahab e di sua moglie nel giorno del Giudizio, riprende questo soprannome in modo ironico: il soprannome sarebbe dovuto invece alla fiamma che lo consumera` nell’ultimo giorno: «Periscano le mani di Abu¯ Lahab e perisca egli pure! A che gli sara` valsa la sua ricchezza e quel che si e` guadagnato? Brucera` in un fuoco fiammeggiante insieme con sua moglie, portatrice di legna, con attorno al collo una corda di fibre di palma!». Dalla letteratura di Tradizione e dai commenti a essa si desume che Muhammad, prima della missione profetica, intratteneva buoni rapporti con lo zio Abu¯ Lahab; i due figli di quest’ultimo, ‘Utba e ‘Utayba, erano sposati, o fidanzati secondo altre versioni, con le due figlie di Muhammad, Ruqayya e Umm Kulthu¯m. Ma quando il clan dei Banu¯ Ha¯shim, cui apparteneva il Profeta, fu bandito, una manovra tra le altre per far pressioni su Muhammad e impedirgli di esercitare il nuovo potere, le relazioni tra Abu¯ Lahab e il nipote iniziarono a deteriorarsi. All’inizio, Abu¯ Lahab aveva promesso di rimanere al fianco di Muhammad, come parte degli obblighi tribali e familiari nei suoi riguardi; ma alcuni dirigenti della Mecca, alla cui testa si trovava Abu¯ Jahl, lo avrebbero presto convinto a prendere le distanze dal Profeta perche´ questi aveva attentato alla dignita` della Mecca medesima. Secondo una tradizione riportata da Ibn Hisha¯m (m. 218/833) nella Sı¯ra, Abu¯ Lahab, dopo avere udito le esortazioni di Muhammad in favore dell’islam, avrebbe detto: «Quest’uomo [Muhammad] chiede che rigettiate le vostre dee al-La¯t e al-

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¯ LAHAB ABU

‘Uzza¯ e che prendiate la sua strada, una strada di deviazione e smarrimento. Non obbeditegli e non ascoltate i suoi propositi!». Sua sorella Safiyya gli aveva chie˙ sto: «Perche´ te la prendi con tuo nipote e il messaggio che porta? In nome di Dio, i sapienti continuano ad annunciare la venuta di un profeta, di un popolo uscito dai Banu¯ ‘Abd al-Muttalib. E deve essere ˙˙ aveva risposto: «In lui!». Abu¯ Lahab le nome di Dio, queste sono chiacchiere da donne! Se tutti gli altri clan dei Quraysh si sollevano contro di noi e gli arabi si associano a loro, che forza potremo opporre? Ci mangeranno in un sol boccone!». Abu¯ Lahab – che secondo quanto emerge dalle fonti e anche da alcune allusioni del Corano era un notabile – temeva come molti meccani che la religione di Muhammad potesse turbare la stabilita` religiosa, sociale ed economica della Mecca; la sua opposizione proveniva da questo. In reazione a cio`, scrivono tutti i commentatori, furono proferite le orrende maledizioni coraniche contro di lui e contro la moglie che gli era accanto nel denigrare Muhammad. Va ricordato che tra i teologi mu‘taziliti, i quali rappresentano la corrente razionalista della teologia islamica, alcuni hanno trovato riprovevole l’esistenza stessa nel Corano di versetti contenenti delle maledizioni, ivi compresa l’intera sura 111; secondo quanto riporta Fakhr al-Dı¯n alRa¯zı¯ (m. 606/1209) nel suo commentario coranico, questi circoli intellettuali ritenevano impensabile l’esistenza di tali maledizioni nella Umm al-kita¯b, l’archetipo celeste da cui e` tratto il Corano. Si tratta dunque di un’allusione alla possibilita` che alcuni passi del Corano e nella fattispecie la sura 111 abbiano un carattere troppo umano e per nulla divino in quanto passi che riflettono i conflitti politici e religiosi dell’epoca della Rivelazione. Abu¯ Lahab morı` poco dopo aver condotto contro Muhammad la battaglia di Badr (2/ 624), nella quale trovarono la morte molti dirigenti dell’opposizione al Profeta. [M.B.-A.]

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ACQUA

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Bibliografia: Igna´c Goldziher, Introduction to Islamic Theology and Law, Guildford, Princeton University Press, Princeton 1981; Mahmoud Hussein, Al-Sı¯ra. Le Prophe`te de l’Islam raconte´ pas ses compagnons, Grasset, Paris 2005.

ACQUA «Dio ha creato tutti gli esseri viventi dall’acqua (ma¯’)»: questa affermazione, che compare quattro volte nel testo coranico, con alcune varianti (21,30; 24,45; 25,54; 86,5-7), vale sia per il paradiso, luogo della vita eterna, sia per i vegetali, gli animali e gli esseri umani del mondo terreno. Nel Corano, l’acqua e` per eccellenza l’elemento che dona la vita. Anche i giardini paradisiaci straripano d’acqua viva (ma¯’ masku¯b; 56,31). Vi abbondano i fiumi, le fontane e le sorgenti, alcune delle quali profumate di canfora. I primi sono designati col singolare nahar (54, 54) o col plurale anha¯r (quasi quaranta occorrenze di cui trentatre` volte la formula janna¯t tajrı¯ min tahti-ha¯ al-anha¯r, ˙ «giardini alle cui ombre scorrono i fiumi»); le fontane, due delle quali hanno un nome (76,18; 83,27) e le sorgenti sono indicate col singolare ‘ayn (76,6), il duale ‘ayna¯n (55,50) o il plurale ‘uyu¯n (15,45). Quest’acqua, che si precisa come inalterabile (ghayr a¯sin; 47,15) e che procura la rigogliosa vegetazione del Paradiso, impregna tutto lo spazio e, come testimonia il paradigma inna al-muttaqı¯n fı¯ janna wa-na‘ı¯m/‘uyu¯n/nahar, «i pii saranno in giardini e delizie/fontane/fiumi» (rispettivamente 52,17; 15,45; 54,54), il connubio con questo elemento benedetto corrisponde alla delizia suprema. Alle molte fonti del paradiso si oppone altrove l’unica fonte d’acqua bollente dell’inferno. Gli ospiti del fuoco gridano invano agli ospiti del paradiso: «Versate su di noi dell’acqua» (7,50). Nella vita terrena, l’acqua paradisiaca e` rappresentata dalla pioggia fertilizzante che Dio fa discendere dal cielo, sempre resa da ma¯ ’ (‘‘acqua’’ o ‘‘sperma’’) quando penetra la terra per ‘‘farne uscire’’ le piante. Parallelamente, Dio ha tratto dalla terra «acqua e pascolo» (79,31) e

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sorgenti (‘uyu¯n; 26,134), e vi ha collocato dei fiumi (nahar; 18,33 e il plurale anha¯r; 13,3) che ha messo a disposizione degli uomini. Infine, «ha lasciato scorrere liberi i due Mari» (25,53) tra i quali ha posto una barriera: l’acqua dell’uno e` dolce, molto dolce (‘adhb fura¯t) e di gradevole gusto (sa¯’igh), quella dell’altro e` salata e amara (milh uja¯j; 25,53; 35,12). Il qualificativo uja¯j,˙ generalmente chiosato con ‘‘molto amaro’’ (shadı¯d al-mara¯ra), deriva da una radice che significa ‘‘bruciare’’, ‘‘fiammeggiare’’. I lessicografi attribuiscono allo stesso termine il significato di ‘‘molto caldo’’ (shadı¯d al-hara¯ra). Appare dunque lecito chiedersi˙ se l’acqua di mare non fosse percepita come un misto di acqua di pioggia celeste e di fuoco ctonio. Quanto all’acqua dolce, essa puo` sgorgare miracolosamente dalle rocce; purificatrice, serve per le abluzioni del credente; materia preziosa quando si trova nelle regioni desertiche, e` inoltre promessa di abbondanza: anche Noe` spera di convincere il suo popolo a credere in Dio promettendo «giardini e ruscelli» (71,12). E` inoltre il segno della misericordia divina; per questo, chi invoca gli idoli invece di Dio e` «come chi stende le mani all’acqua per portarsela fresca alla bocca e non riesce a farlo» (13,14). La privazione dell’acqua appare dunque come una prova, o come un castigo. Cosı` Saul, per riconoscere i suoi, impone ai propri soldati di astenersi dal bere a un fiume, salvo raccogliere un po’ d’acqua con le mani (2,249), episodio che ricorda quello di Gedeone nella Bibbia (Gdc 7,4). Analogamente, come punizione, Faraone e i suoi si trovano tra l’altro privati di giardini, sorgenti e campi coltivati (44, 25-27). L’eccesso d’acqua, infine, puo` divenire mortale: con il Diluvio, l’acqua si precipita dalle porte del cielo e le fonti sgorgano e straripano dalla terra ribollendo. [H.T.]

Bibliografia: Gaston Bachelard, L’Eau et les Reˆves, Jose´ Corti, Paris 1942; Denise Masson, L’Eau, le feu, la lumie`re. D’apre`s le Coran et les traditions monothe´istes, De-

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17 scle´e de Brouwer, Paris 1986; Heidi Toelle, Le Coran revisite´: le feu, l’eau, l’air et la terre, Institut franc¸ais de Damas, Damas 1999.

¯D ‘A ¯ d, menzionato ventiIl popolo degli ‘A quattro volte nel Corano, appartiene al passato preislamico dell’Arabia, come suggeriscono i riferimenti contenuti nella poesia araba anteriore all’islam. Quanto all’epigrafia dell’Arabia preislamica, non sembra fornire indicazioni a questo proposito salvo forse nel caso di Iram. La ¯ d, evocata in maniera allustoria degli ‘A siva nel Libro sacro, e` legata a quella del profeta Hu¯d, che da` il nome alla sura 11, uno dei tre profeti arabi anteriori a Muhammad menzionati nel Corano. Nella cronologia dei profeti preislamici, la sto¯ d si colloca successivamente a ria degli ‘A quella di Noe` (7,69) e prima di quella di Sa¯lih e dei Thamu¯d; i tre episodi, d’altro ˙ ˙ sono spesso associati quando si canto, tratta di richiami generali (per esempio in 14,19). Gli uomini di questo popolo sono violenti (26,130) e dotati di una forza eccezionale (41,15); alcuni racconti posteriori ne fanno dei giganti; abitano castelli, possiedono greggi, giardini e fonti (26,129 e 133-134). Al-Ahqa¯f, titolo della ˙ ` in cui Hu¯d sura 46, e` il nome della localita si rivolse loro (46,21): per la tradizione geografica araba si tratta di un deserto di sabbia nella parte sud-orientale della penisola arabica, ma l’identificazione ri¯ d e la citta` mane incerta. Il nesso tra gli ‘A di Iram «dalle alte colonne» (89,6-7) non offre maggior chiarezza; la gran parte dei commentatori tradizionali considera che ¯ d, ma altri presi tratti della citta` degli ‘A feriscono riconoscervi una suddivisione di questo popolo. Il riferimento alle colonne ha suscitato numerosi approfondimenti esplicativi e leggende: fanno da cornice a tali narrazioni l’Arabia meridionale (vicino ad Aden), Damasco o Alessandria. I riferimenti coranici mirano fondamen¯ d tra talmente a inserire il destino degli ‘A quelli dei popoli che, avendo ricevuto un inviato da Dio, si rifiutarono di seguirne il

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messaggio e furono infine puniti per la loro ostilita` . Hu¯ d e` qualificato rasu¯ l come Muhammad, ed e` inviato da Dio per far sı` che il suo popolo segua il messaggio che egli porta loro (ed e` a loro «fratello»: 7,65; 11,50; 26,124). Ma gli ¯ d avanzano diverse accuse contro di lui: ‘A e` un folle e un bugiardo (7,65), non ha alcuna prova solida a sostegno di cio` che annuncia (11,53) ed e` un uomo al pari dei suoi fratelli (7,69). Il castigo che si abbattera` su di loro ha la forma di un vento violento che soffia per un’intera settimana e non lascera` in piedi null’altro che le abitazioni (29,40; 41,16; 51,41-42 e 54, 19-20). Solo coloro che hanno prestato fede all’annuncio di Hu¯d furono risparmiati (7,72; 11,58) e poi, secondo alcune narrazioni posteriori, si trasferirono alla Mecca. Un’altra figura coranica e` associata agli ¯ d dalle tradizioni dell’Arabia antica, ‘A riprese da parte di autori come Wahb ibn Munabbih (m. 110/728): si tratta di Luqma¯n, la cui saggezza (hikma) e` presentata ˙ al Libro (ovvero in alcuni passi accanto kita¯b, inteso come uno scritto rivelato a un profeta), e anche, in due casi, accanto alla Torah e al Vangelo (3,48; 5,110). Ma il ¯d Corano non indica un legame con gli ‘A piu` di quanto lo faccia nel caso di Iram. Come nel caso di altri profeti, le Qisas al˙ ˙ inanbiya¯’ (Le storie dei profeti) si sono caricate di apportare integrazioni e ampliamenti alle velate indicazioni del testo coranico, si tratti della localizzazione di ¯ d e di Iram oppure della loro storia. Dal ‘A canto loro, gli orientalisti hanno tentato di rinvenire alcune tracce di questo popolo, ma le iscrizioni preislamiche non forniscono elementi a questo proposito; fa eccezione, forse, Iram, che si e` suggerito di identificare con Ramm, un sito nei pressi di ‘Aqaba, il cui toponimo sembra attestato nell’epigrafia. Altre ipotesi si basano sul riferimento ai nomi di antiche tribu` arabe. [F.D.] Bibliografia: Robert Bertram Serjeant, Hu¯d and other pre-Islamic prophets of Hadramawt, in «Le Muse´on», 46 (1954), pp. 212179.

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ADAMO Nel Corano, Adamo e` il primo essere umano e anche il padre del genere umano, e l’umanita` stessa e` designata sette volte con l’espressione Banu¯ A¯dam, i ‘‘figli di Adamo’’. La tradizione lo considera il primo profeta. Il racconto della sua creazione e della sua caduta segue in parte quello della Genesi; gli elementi extrabiblici provengono principalmente dalla tradizione ebraica e in misura minore da quella cristiana. Durante il periodo postcoranico, caratterizzato da un’ampia incorporazione di leggende e narrazioni degli israeliti (le isra¯’ı¯liyya¯t) entro la letteratura musulmana, i racconti su Adamo si moltiplicarono. Di conseguenza, nonostante la diffidenza dei compilatori per tali leggende e nonostante la loro opera di selezione, le sei raccolte canoniche del sunnismo recensiscono piu` di centottanta tradizioni profetiche (Ha¯dı¯th) su di lui. ˙ Esse si ritrovano in numero ancora maggiore nei commentari coranici, nelle opere di storia universale e nelle raccolte di racconti sui profeti preislamici (Qisas ˙ ˙ al-anbiya¯’). L’annunciazione agli angeli e la creazione di Adamo La creazione di Adamo viene annunciata da Dio agli angeli, che la sottopongono a questione: «E quando il tuo Signore disse agli Angeli: ‘‘Ecco, io porro` sulla terra un Mio Vicario (khalı¯fa)’’, essi dissero: ‘‘Vuoi mettere sulla terra chi vi portera` la corruzione e spargera` il sangue, mentre noi cantiamo le Tue lodi ed esaltiamo la Tua santita`?’’ Ma Egli disse: ‘‘Io so cio` che voi non sapete’’» (2,30). Questa conversazione tra Dio e gli angeli non e` biblica, ma e` riportata da testi ebraici. In ambito islamico, il termine khalı¯fa e` stato oggetto di dibattiti. Nel Corano il suo significato principale e` quello di successore, sostituto o vicario, e quasi tutti i commentatori concordano nel ritenere che il versetto appena citato si riferisca ad Adamo; sollevando cosı` il problema di conoscere di chi Adamo sia il khalı¯fa e in quale senso. I primi esegeti, che privilegiano il senso filologico di successione,

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suppongono che Adamo sia succeduto agli angeli o ai jinn che popolavano la terra prima di lui. In particolare, secondo alcuni, egli fu successore di Iblı¯s (ovvero Ha¯rith o ‘Aza¯zı¯l). In generale, si ammise ˙ il termine khalı¯fa vada esteso ai figli che di Adamo, dunque all’umanita` intera, le cui generazioni succedono l’una all’altra. Altri commentatori pongono invece l’accento su una sostituzione quale sinonimo di una delega di autorita`: vedono cosı` in Adamo il khalı¯fa di Dio, incaricato di stabilire sulla terra un regno di verita` e giustizia, in riferimento al versetto di Davide: «Davide, Noi ti abbiamo costituito Vicario (khalı¯fa) sulla terra, giudica dunque fra gli uomini secondo verita`» (38, 26). Alcuni autori sciiti riconoscono in Adamo il primo khalı¯fa (gli succedettero Davide, Aronne e ‘Alı¯), ma si attengono a una dottrina dell’autorita` califfale e delle sue prerogative diversa da quella che legittima l’istituzione dinastica sunnita la quale, per la tradizione sciita, rientra generalmente nella dottrina dell’imamato. L’accusa di portare la corruzione e spargere il sangue venne fatta ricadere tanto sugli angeli o sui jinn, quanto sui figli di Adamo che non seguono la legge di Dio; i commentatori all’unanimita` sostengono che in questa formula non vi sia alcun riferimento ad Adamo, in ragione del suo statuto di profeta. Per la fede musulmana, Allah, come il Dio della Bibbia, creo` il primo uomo dall’argilla – i commentatori fanno derivare il nome Adamo da adı¯m al-ard oppure da ˙ dalla ‘‘suadamat al-ard, perche´ fu creato perficie della˙ terra’’. Nel Corano, i termini impiegati per designare il materiale con cui fu creato il primo uomo sono polvere (3,59), argilla (7,12; 16,61; 38, 71) o argilla secca, presa da fango nero impastato (15,28). Dio modella questo materiale e gli insuffla il Suo spirito per dargli vita (15,29; 38,72); inoltre, Dio creo` Adamo di Sua mano (38,75). L’argilla e le varianti lessicali di quest’ultima non sono prerogativa del primo uomo ma vengono riferite anche alla creazione dell’uomo in genere (6,2; 30,20-21; 37,11; 55,14). Del resto, nel Corano compaiono

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altre antropogonie che non e` possibile rapportare a priori alla creazione del primo uomo: da una goccia di sperma, da un grumo di sangue – versioni prevalenti, secondo Re´gis Blache`re, nelle sure che appartengono all’inizio della Rivelazione – da una persona unica, semplicemente dall’acqua, o ancora per germinazione come le piante. Questo variegato insieme e` stato sintetizzato dai commentatori in uno schema antropogonico unico: la creazione di Adamo e` avvenuta a partire dall’argilla o dal soffio divino, e quella della sua discendenza da una goccia di sperma che, attraverso una successione di atti creativi, si trasforma in grumo di sangue e quindi in essere umano. Solo Gesu`, come Adamo, venne creato dalla polvere e per insufflazione dello spirito divino (3, 59; 21,91; 66,12). Le varianti lessicali in rapporto all’argilla sono state ampiamente e concordemente interpretate come gli stadi successivi di un unico materiale nel processo di fabbricazione di una ceramica. Secondo la versione piu` diffusa, Dio bagno` la polvere (tura¯b) per farne dell’argilla molle (t¯ın la¯zib) che venne lasciata corrompere˙ o fermentare fino a divenire fango nero impastato (hama’ masnu¯n); da quest’ultimo, ˙ ` il primo uomo e lo lascio` Dio modello seccare finche´ si trasformo` in argilla secca e sonante come la terracotta (salsa¯l ˙ ˙sul ka-al-fakhkha¯r). Gli autori insistono fatto che l’argilla si secco` o si indurı` senza venire a contatto con il fuoco, in conformita` al Corano che oppone due tipi di creature: gli uomini, creati d’argilla, e i jinn, creati di fuoco (15,26-27; 55,14-15). Il racconto della creazione di Adamo si arricchı` di numerose leggende e tradizioni profetiche a fini eziologici o speculativi. Si racconta che Dio invio` sulla terra l’angelo Gabriele e in seguito l’angelo Michele affinche´ gli portassero una manciata d’argilla, ma la terra rifiuto`; allora Dio invio` l’angelo della morte il quale strappo` con la forza dell’argilla rossa, bianca e nera, origine dei diversi colori dell’umanita` . Come nella tradizione ebraica – secondo cui l’argilla provenne sia dall’ubicazione del Tempio, sia dal-

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l’intero universo – gli autori musulmani associano ogni parte del corpo a differenti regioni o ‘‘climi’’, cosı` spiegando quella sintesi di qualita` e temperamenti multipli che si trova nell’uomo. In tal modo, secondo una tradizione profetica, la polvere destinata alla testa fu prelevata dalla Ka‘ba, quella per la schiena e il petto a Gerusalemme, quella per le cosce nello Yemen, quella per le gambe nello Hija¯z. La sintesi dell’universo nell’uomo,˙ cioe` del macrocosmo nel microcosmo, si trova amplificata in alcune teorie secondo le quali l’uomo riunirebbe in se´ i quattro elementi, o una manciata di ciascuna delle sette terre menzionate nel Corano (65,12), o altro. Anche la modalita` dell’operazione divina comporto` numerose spiegazioni. Gli autori musulmani ebbero difficolta` nel precisare la natura e l’azione dello spirito (ru¯h), strumento soprannaturale e mediatore˙ di origine ebraico-cristiana, nel quale alcuni riconobbero l’angelo Gabriele. La questione della mano o delle mani di Dio si trovo` al centro del dibattito sull’antropomorfismo e il corporalismo divini che oppose i sostenitori del senso letterale a quanti interpretavano tale espressione in senso metaforico (come potenza o abilita` o grazia). La tradizione attribuita al Profeta secondo la quale Dio creo` l’uomo «a Sua immagine» (‘ala¯ su¯rati-hi, cfr. Gn 1, 27) fu, per gli stessi ˙motivi, oggetto di vivaci discussioni. L’insegnamento dei nomi e la prosternazione degli angeli Dopo aver creato Adamo, Dio gli insegno` i nomi di tutti gli esseri, poi li «presento` agli Angeli dicendo loro: ‘‘Ditemi dunque i loro nomi, se siete sinceri’’» (2,31). Poiche´ gli angeli ne furono incapaci, Dio ordino` ad Adamo di insegnarli loro. In seguito, Dio ordino` agli angeli di prosternarsi davanti ad Adamo, e tutti accettarono tranne Iblı¯s che si inorgoglı` pretendendo d’essere di rango piu` elevato: infatti Adamo era stato creato d’argilla ed egli era stato creato di fuoco (2,34; 7,1112; 15,29-33; 17,61; 18,50; 20,116; 38, 72-76). La prosternazione degli angeli si

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ritrova nella tradizione ebraica, ma non come ordine di Dio; quanto al rifiuto del diavolo, geloso dell’adorazione di Adamo, ci e` noto dall’opera siriaca cristiana La Caverna dei tesori. In ambito islamico, l’insegnamento dei nomi diede origine a una discussione sull’origine del linguaggio. Il Corano allude semplicemente a «tutti i nomi» (al-asma¯’ kullaha¯), senza precisare come Dio li avesse insegnati ad Adamo ne´ quel che venne presentato agli angeli, ma assai presto i commentatori considerarono tale espressione come equivalente a «i nomi di tutte le cose o di tutti gli esseri», e descrissero l’insegnamento divino come un simultaneo nominare, da parte di Dio, le cose o gli esseri che presento` ad Adamo, segno di una connaturalita` essenziale tra il significante e il significato. Si suppone che Adamo parlasse l’arabo, lingua di Dio, in paradiso, e il siriaco o l’aramaico dopo la sua caduta; gli si attribuisce inoltre la conoscenza dei nomi degli angeli, quella degli avvenimenti passati e futuri, dei propri discendenti e cosı` via. In seguito, l’espressione «tutti i nomi» fu interpretata come conoscenza di tutte le lingue, cosı` designando per metonimia la conoscenza universale. Secondo la gnosi sciita, Adamo apprese da Dio i nomi dei profeti, dei fedeli iniziati e delle cinque Persone del Mantello (Muhammad, sua figlia Fa¯tima e i tre primi imam: ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯lib, ˙Hasan e Husayn). L’episodio della˙ pro˙ ˙ riceve scarsa attenzione da sternazione parte dell’esegesi sunnita, che si preoccupa soprattutto di conoscere se sia lecito o meno prosternarsi davanti a un essere umano; la superiorita` di Adamo sugli angeli non vi trova un vero fondamento dottrinario, e i primi commentatori generalmente interpretarono il gesto degli angeli primariamente come atto di obbedienza a Dio. Nei commentari sciiti, gli angeli si inchinarono a Dio per adorazione e ad Adamo per rispetto e obbedienza, a causa della presenza di cinque «nobili creature» – Muhammad, Fa¯tima, ‘Alı¯ e i due figli di questi ultimi, tutti˙ superiori agli angeli – che preesistevano nei suoi lombi sotto forma di entita` luminose o di ‘‘ombre’’.

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La caduta della prima coppia umana In seguito alla prosternazione, Dio ordino` ad Adamo di abitare il Giardino (alJanna) con la sua sposa, dove non pativano ne´ fame ne´ sete, ne´ il calore del sole ne´ la nudita`. Potevano cibarsi a piacimento dei frutti del Giardino con una sola restrizione: non dovevano avvicinarsi a «quest’albero» per non divenire degli iniqui (2,35; 7,19; 20,118-119). Tale patto concluso tra Adamo e Dio (20, 115) includeva un avvertimento: « Adamo! Costui (Iblı¯s) e` per certo nemico a te e alla tua donna: badate che non vi cacci dal Giardino, e tu abbia a cadere in disgrazia» (20,117). Ma Adamo lo dimentico` (20,115): «Satana (Iblı¯s) li fece scivolare di lı` e li tolse dalla loro condizione» (2,36). Sussurro` (waswasa) per rivelare loro che erano nudi e che l’albero dell’immortalita` (shajarat al-khuld) era loro interdetto affinche´ non divenissero angeli e immortali. Essi mangiarono i frutti dell’albero, videro la propria nudita` e presero a coprirsi con le foglie del Giardino (7,20-22; 20,120-121). Fu dunque loro ordinato di scendere dal Giardino sulla terra, luogo di soggiorno e di godimento effimeri, per vivere lı` in mutua inimicizia. Poiche´ Adamo si pentı`, Dio gli accordo` il perdono e gli promise la propria guida (2,36; 7,23-35; 20,122123). Come nelle fonti rabbiniche, l’albero proibito si identifica per lo piu` con un fico o una spiga di grano; i commentatori musulmani vi aggiunsero la vigna. Se nel Corano Satana e` l’unico seduttore, sotto l’influsso ebraico-cristiano i commentari aggiunsero il serpente: Iblı¯s gli entro` in bocca e cosı` penetro` in paradiso – al quale, dietro divieto divino, non poteva accedere – per sedurre la coppia umana. Nelle successive raccolte di leggende, compare anche il pavone. La sposa di Adamo, identificata con Eva dalla tradizione, non ricopre nel Corano quel ruolo di nefasta intermediazione che invece le attribuisce il racconto biblico; i commentatori non dubitano dell’errore compiuto da Adamo ma, influenzati dal dogma dell’impeccabilita` (‘isma) profetica, tentano di minimizzarne ˙il peso: pongono l’ac-

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cento sul ruolo di Satana e piu` tardi di Eva, riducendo la responsabilita` di Adamo alla dimenticanza del patto con Dio o a un errore di giudizio. La teologia sunnita risolse la questione dell’impeccabilita` profetica sostenendo che la missione profetica di Adamo inizio` solo dopo la discesa dal paradiso, e che, dunque, una volta profeta egli non pecco`. Il pentimento di Adamo non e` menzionato nella Bibbia, ma si ritrova nelle letterature ebraica e cristiana; quanto al Corano, vi si legge che Adamo «ricevette parole (kalima¯t) dal Signore» e che Dio «lo perdono`» (2,37). Secondo la maggior parte dei commentatori, le parole ispirate ad Adamo sono quelle che esprimono il pentimento del genere umano: «Signore nostro! Abbiamo fatto torto a noi stessi: se Tu non ci perdoni e non hai pieta` di noi, andremo in perdizione!» (7,23). Cosı` il perdono divino risponde ed e` concomitante al pentimento dell’uomo (in arabo, perdonare e pentirsi derivano da una medesima radice). Contrariamente alla dottrina cristiana del peccato originale, la discendenza di Adamo non eredito` il peso della sua colpa ne´ la necessita` di una redenzione appunto perche´ egli venne perdonato. L’uomo non e` un peccatore ma e` impulsivo – «Non scorgemmo in lui (Adamo) fermezza di intenti» (20,115) – e smemorato, e quel che gli viene promesso non e` un riscatto ma una guida, che equivale essenzialmente al fargli memoria e indurlo al ricordo; e` definito un Ricordo (tadhkira) il Corano stesso (20, 3). In seguito, ai versetti coranici si sovrapporranno racconti leggendari: si dice che Adamo sia sceso in India, Eva a Gedda, in Arabia, e che essi si ricongiunsero sulla collina di ‘Arafa¯t nei pressi della Mecca; secondo una tradizione diffusa, Eva genero` numerose coppie di gemelli. Il Corano rammenta la storia di due fratelli – senza pero` farne i nomi – l’uno dei quali uccise l’altro perche´ il proprio sacrificio, al contrario di quello del fratello, non era stato gradito da Dio (5,2732); i due fratelli furono identificati con Caino (Qa¯bı¯l) e Abele (Ha¯bı¯l). Adamo ed Eva ebbero molti altri figli, tra i quali Seth

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(Shı¯th), legatario spirituale di Adamo, e ‘Abd al-Ha¯rith. La tradizione riporta che ˙ Adamo venne creato di venerdı`, il giorno della preghiera collettiva dei musulmani, che fu cacciato dal paradiso e morı` nello stesso giorno della settimana. Venne infine sepolto accanto a Eva in una grotta nei pressi della Mecca, e poi la sua salma fu trasportata a Gerusalemme. Adamo profeta Il Corano non allude esplicitamente ad Adamo come profeta, ma due volte e` menzionata una sua elezione: dopo averlo perdonato Dio lo prescelse, e dopo la colpa lo guido` (20,122); inoltre lo elesse, cosı` come elesse dopo di lui il profeta Noe` e le famiglie profetiche di Abramo e di ‘Imra¯n, padre di Mose` (3,33). La tradizione lo vuole il primo profeta-inviato (rasu¯l), essendo Muhammad l’ultimo. Secondo i commentari coranici e le leggende sui profeti preislamici, Adamo fu il primo a pregare; Dio gli invio` libri rivelati, gli insegno` le formule religiose, i doveri e le interdizioni che costituivano ‘‘la legge di Adamo’’ (sharı¯‘at A¯dam) alla quale Muhammad si attenne prima di ricevere la rivelazione coranica; secondo una tradizione, Adamo inauguro` inoltre le cerimonie ebraiche. Insieme a Eva costruı` la Ka‘ba alla Mecca e, dopo l’invio della Pietra Nera dal cielo, compı` i riti dello hajj o pellegrinaggio. Per l’esoteri˙ smo islamico, Adamo non e` solo il primo profeta-legislatore ma anche il depositario del contenuto esoterico della rivelazione, cioe` i nomi che non aveva rivelato agli angeli. Gli si attribuisce la conoscenza di numerose scienze occulte (la scienza delle lettere, l’alchimia). Secondo l’esoterismo sciita, in particolare, Dio deposito` in lui la conoscenza iniziatica ovvero Luce di Muhammad e di ‘Alı¯, che costituisce l’eredita` dei profeti. Questa luce, dapprima trasmessa ad Abele, alla morte di quest’ultimo passo` a Seth e proseguı` il proprio cammino lungo la storia santa dell’umanita` per fare infine ritorno ai suoi possessori originali, i Quattordici Impeccabili (Muhammad, Fa¯tima, ‘Alı¯ e la loro discendenza) a partire˙ dai

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quali e in vista dei quali era stata creata l’umanita` adamitica, di cui essi stessi sono il ‘‘Polo’’. Nel sufismo sunnita, che pone l’accento sulla polarita` di Muhammad, Adamo si considera per lo piu` il primo depositario della sua essenza o della sua luce; dunque, egli non e` solo l’antenato degli adamitici terrestri. La gnosi islamica conosce un Adamo a piu` livelli, poiche´ la luce in lui depositata altro non e` che l’Adamo Spirituale ovvero l’AdamoVero (A¯dam al-haqı¯qı¯), uomo di˙ musulmano devino che il neoplatonismo nomina ‘‘Adamo Universale’’ (A¯dam alkullı¯), identico all’Intelletto, che gli sciiti duodecimani chiamano l’Imam (metafisico), e che l’ellenismo identifico` con l’Uomo Perfetto. [M.G.] Bibliografia: Daniel Gimaret, Dieu a` l’image de l’homme. Les anthropomorfismes de la Sunna et leur interpre´tation par les the´ologiens, Le Cerf, Paris 1997; Meir Jacob ¯ dam. A study of some legends in Kister, «A tafsı¯r and h adı¯th literature», in Israel ˙ Oriental Studies, 13 (1993), pp. 113-174; Id., «Legends in tafsı¯r and hadı¯th literatu˙ related sto¯ dam and re: the creation of A ries», in Andrew Rippin, Approaches to the History of the Qur’an, Clarendon Press, Oxford 1998, pp. 82-114; Cornelia Scho¨ck, Adam im Islam. Ein Beitrag zur Ideengeschichte der Sunna, Klaus Schwarz Verlag, Berlin 1993; Jean-Claude Vadet, «La cre´ation et l’investiture de l’homme dans le sunnisme ou la le´gende d’Adam chez alKisa¯’ı¯», in Studia Islamica, 42 (1975), pp. 5-37.

ADOZIONE La dottrina corrente circa l’adozione afferma che essa era conosciuta e praticata dagli arabi antichi, ma che in seguito a un avvenimento di rilievo nella vita di Muhammad il Corano l’ha dichiarata illecita. Quest’asserzione si fonda su una serie di versetti raggruppati nella sura 33 (La sura delle Fazioni alleate). Dal versetto 4 emerge che la filiazione adottiva e` menzognera, allo stesso modo in cui un uomo non puo` avere due cuori. Cosı` il versetto 5 raccomanda di designare i bimbi adottati usando il nome dei loro padri (il versetto 23 della sura 4 menziona i «i vostri figli, i

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quali sono dei vostri lombi» in opposizione, secondo gli esegeti, ai figli adottivi). Questa raccomandazione implica che i genitori degli adottati fossero noti. Quanto al versetto 6, sempre della sura 33, esso costituisce Muhammad a padre dei credenti e le mogli di Muhammad a loro madri (di qui la proibizione di sposarle). L’esegesi musulmana ha ben presto presentato questi versetti come collegati a un avvenimento della vita di Muhammad. All’inizio della sua predicazione o poco prima, egli avrebbe adottato uno schiavo liberato di nome Zayd ibn Ha¯ritha, che avrebbe sposato a una delle ˙sue cugine, Zaynab bint Jahsh. Un giorno egli scopre ˙ la bellezza di Zaynab e se ne innamora. Il Corano lo trae allora d’impaccio proclamando nulla ogni adozione: il matrimonio tra Zaynab e Zayd e` rotto e Muhammad sposa la cugina. Nel versetto 33,37 – «Temevi gli uomini, mentre piu` merita d’esser temuto Iddio! E quando Zayd ebbe regolato con lei (Zaynab) ogni cosa, te la facemmo sposare, affinche´ non sia peccato per i credenti sposare le mogli divorziate dei figli adottivi allorche´ questi abbiano regolato ogni cosa con loro: l’ordine di Dio e` assoluto» – il Profeta riceve il diritto di sposare legittimamente la moglie ripudiata del proprio figlio adottivo. E nei versetti 4 e 5 della stessa sura, l’adozione piena e` colpita da divieto. Infatti, perpetuando un’usanza preislamica, secondo la letteratura musulmana classica Muhammad aveva adottato Zayd ibn Ha¯ritha in modo ˙ l’ascendenza pieno, visto che da una parte di quest’ultimo era nota e dall’altra costui era chiamato senza il minimo equivoco ‘‘Zayd, figlio di Muhammad’’ (Zayd ibn Muhammad) dal momento della sua ado˙ in poi. Cosı` attestano le fonti muzione sulmane, per esempio lo hanafita al-Jas ˙˙ ¯ n. Ma, come sa¯s nei suoi Ahka¯m al-Qur’a ˙ ˙ ˙ ¯ (m. 448/1058) nel suo ricorda Ma¯wardı commento al Corano dal titolo al-Nukat wa al-‘uyu¯n, se quest’adozione fosse stata piena, Muhammad non avrebbe mai avuto il diritto di sposare la moglie ripudiata di suo figlio: secondo il diritto matrimoniale

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allora in vigore – era gia` ‘‘musulmano’’? – essa gli sarebbe stata vietata per sempre. Tale e` il contesto in cui viene rivelato il divieto d’adozione piena nell’islam: l’ordine legale cosı` riformato autorizza il matrimonio di Muhammad con Zaynab, figlia di Jahsh, moglie ripudiata del suo ex˙ figlio adottivo. Senza dubbio quest’episodio e` risultato fonte di disturbo, e non e` un caso se, nel suo commentario al Corano, Al-tafsı¯r alkabı¯r (noto anche come Mafa¯ tı¯h al˙ di ghayb), e precisamente a proposito questo versetto 33,37, Fakhr al-Dı¯n alRa¯zı¯ (m. 606/1209) si preoccupa di spiegare che la vita maritale del Profeta non e` mai stata governata in alcun modo dalla passione o dagli appetiti carnali... I suoi atti – egli afferma – hanno qui come altrove il valore di baya¯n, cioe`, nel caso specifico, esplicitazione pratica degli statuti legali, ne´ piu` ne´ meno. «Non ha fatto dei vostri figli adottivi dei veri figli. [...] Chiamate i vostri figli adottivi dal nome dei loro veri padri: questo e` piu` equo agli occhi di Dio» (33,4-5): questo passo coranico vieta imperativamente che un nome possa essere trasmesso altrimenti che per filiazione di sangue; vieta in altri termini l’adozione piena, che trasmette il nome di colui che adotta e tutte le sue prerogative, pur permettendo, e anzi incoraggiando, l’adozione semplice. Il principio di tale divieto non e` mai stato contestato, ma non e` andato esente da osservazioni e addirittura da critiche in seno alla comunita` dei teologi-giuristi musulmani; in questo senso va letto il sorprendente commento al versetto 33,5 fornito da Zamakhsharı¯ (m. 539/1144) nel suo Kashsha¯f ‘an haqa¯’iq al-tanzı¯l, in cui ˙ prende posizione a egli, con prudenza, favore dell’adozione piena. Questo divieto ha per effetto di escludere il bimbo adottato da tutte le prescrizioni legali direttamente o indirettamente connesse alla filiazione legittima (eredita` ecc.). I giuristi musulmani dedurranno da questi fatti il rifiuto totale della filiazione adottiva (tabannı¯). Se hanno agito cosı`, non e` perche´ rifiutino ogni parentela fittizia: non contestano infatti ne´ la parentela di

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latte ne´ quella d’alleanza, le quali, a differenza della parentela adottiva, non minacciano la parentela consanguinea; i parenti di latte e gli alleati sono infatti esclusi dalla successione e dagli altri obblighi indotti dal vincolo di consanguineita`. Il rifiuto della filiazione adottiva e` talora giustificato con la necessita` di difendere i diritti dei figli legittimi; in verita` ci si puo` domandare se non si trattasse piuttosto di vegliare sui diritti dei collaterali, in particolare gli zii paterni. Il carattere fondamentalmente agnatico del diritto delle filiazioni e dunque anche del diritto delle successioni stabilito dai giuristi – e che non coincide esattamente con quello ascrivibile al Corano – permette di comprendere meglio la loro opposizione alla parentela adottiva avvertita come minaccia diretta agli interessi patrimoniali del gruppo degli agnati. Se e` certo che l’adozione turba il sistema successorio agnatico, non si deve perdere di vista il fatto che il suo rifiuto puo` avere anche altre motivazioni. Nel quadro di una concezione che valorizza al massimo grado la comune origine patrilineare, facendone la condizione primaria del successo politico e storico del gruppo tribale, come e` il caso della teoria della ‘asabiyya (la solidarieta` tra i membri del ˙gruppo fondato sui vincoli di sangue) sostenuta dallo storico maghrebino Ibn Khaldu¯n (m. 808/1406), l’adozione sarebbe particolarmente nefasta. Il rifiuto della filiazione adottiva mira cosı` a preservare il gruppo non soltanto dall’arbitrio individuale, ma anche da mescolanze nefaste che causerebbero l’introduzione nel corpo del gruppo di un ‘‘sangue’’ se non vile almeno sospetto. L’adozione in quest’ordine d’idee sarebbe stata respinta al pari dei matrimoni con persone socialmente inferiori per le donne, al fine di proteggere le famiglie aristocratiche. Il gruppo si rafforza attraverso i matrimoni: scegliere attentamente le mogli dei membri del gruppo permette di vigilare sulla sua perpetuazione, moltiplicando le alleanze – che sono anche politiche – e aumentando le possibilita` d’avere una discendenza forte. Essa e` il risultato della

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fusione tra il gruppo paterno e il gruppo materno. Invece, nel caso della filiazione adottiva, e` un ‘‘sangue’’ totalmente straniero che viene introdotto all’interno del gruppo. Cosı` dietro il rifiuto dell’adozione non si cela una concezione agnatica della filiazione, poiche´ il figlio e` frutto dei suoi due genitori, ma piuttosto una concezione del gruppo tribale. Quest’ultimo puo` perpetuarsi solo alleandosi con altri gruppi, scelti per accrescerne la forza e la potenza, il che suppone l’esclusione di un ‘‘sangue’’ incerto affinche´ non attenti all’identita` del gruppo. Un ‘‘sangue’’ troppo lontano e` ugualmente esposto al sospetto. Affermando la preminenza degli uomini sulle donne, dunque del padre sulla madre, si risolve il dilemma costituito dall’apporto materno. Il ‘‘sangue’’ materno non puo` turbare la riproduzione del gruppo perche´ occupa una posizione subordinata; cio` e` tanto piu` vero nel caso del matrimonio cosiddetto ‘‘arabo’’ (cioe` il matrimonio con la figlia dello zio paterno). In tal modo l’identita` del gruppo non e` mai minacciata. Quanto alla regola dell’ipergamia femminile, essa impedisce che la linea materna possa essere piu` nobile di quella paterna. Insieme alle regole successorie, all’obbligo per la donna di avere un tutore matrimoniale e alla poliginia, l’adozione rimane uno dei principali punti di attrito tra conservatori e riformisti in materia di statuto personale. Una delle funzioni dell’adozione e` supplire ai malfunzionamenti della fisiologia (sterilita`) permettendo a individui colpiti da incapacita` biologica di soddisfare il desiderio di un figlio. I giuristi musulmani hanno cercato di sostituirla con l’istituto della kafa¯la, che consiste nell’affidare un bambino piccolo a una coppia perche´ lo educhi fino al raggiungimento della maggiore eta`; tuttavia il marito non puo` trasmettergli ne´ il nome ne´ il patrimonio. Quest’istituzione non ha mai riscosso grande successo; per questo sono state ideate altre soluzioni e particolarmente, in parecchie parti del mondo musulmano, il ‘‘dono del bimbo’’: una sorella fa dono di uno dei suoi figli, o anche del figlio primogenito, alla sorella

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supposta sterile. Ma anche in questo caso non si tratta di adozione nel senso pieno del termine. Ai nostri giorni alcune legislazioni statali (come il diritto tunisino) riconoscono l’adozione a fini sociali (maslaha), cioe` ba˙ sandosi su una teoria dei ˙giuristi ma¯likiti classici. In altri paesi, partendo dall’esistenza di numerosi figli naturali, numerose voci si levano per ottenere una riforma dello stesso tipo. Ma e` proprio questa la ragione per cui la parte della popolazione che resta attaccata alla Legge islamica vi si oppone: non soltanto un tale provvedimento equivarrebbe ad adottare figli adulterini, chiamati spesso «figli dell’illecito» (awla¯d al-hara¯m), ma secondo ˙ i suoi detrattori s’incoraggerebbe anche la licenziosita` sessuale. Habib Bourghiba, presidente tunisino, aveva ottenuto di legalizzare l’adozione adducendo i guasti indotti nella societa` dalla colonizzazione, una delle cui conseguenze erano i numerosi orfani ridotti in miseria. Invocare invece come argomento i figli naturali risveglia la minaccia che il sangue di un individuo dall’ascendenza incerta o dubbia fa pesare sull’identita` del gruppo. Nel primo caso si resta dunque all’interno della morale ammessa (bisogna vegliare sugli orfani), mentre nell’altro se ne fuoriesce, magari senza averne coscienza. Esiste infatti una differenza essenziale tra l’orfano e il figlio naturale: il primo e` legittimo, il secondo no. Ma non si tratta solo di diritto. Il figlio naturale puo` avere per genitori individui di nobile estrazione; essendo stato concepito nell’errore, ne e` segnato per sempre, trasmettendo quest’eredita` infame senza dubbio alcuno a tutta la sua discendenza. Quando si considera lo statuto legale del trovatello (laqı¯t), i cui legami familiari sono ignoti, si ˙constata che e` molto piu` facile per chi lo adotta iscriverlo formalmente nella genealogia e trasmettergli il nome; su questo punto i giuristi musulmani si mostrano molto accomodanti. Cosı` il diritto musulmano rende abbastanza semplice e agevole la creazione di una genealogia ex nihilo pur vietando il passaggio da una genealogia nota a un’al-

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tra. D’altronde secondo l’escatologia musulmana la moltiplicazione dei figli naturali e` uno dei segni della fine dei tempi. Cosı`, dietro il rifiuto dell’adozione, si profila una concezione originale della filiazione e del gruppo, basata su una visione escatologica. [M.H.B., E´.C.] Bibliografia: Nadia Ait Zaı¨, «L’enfant ille´gitime dans la socie´te´ musulmane», in Peuples me´ diterrane´ens, 48-49 (1969), pp. 113-122 e 331-332; Maurice Borrmans, Statut personnel et famille au Maghreb de 1940 a` nos jours, Mouton, Paris-La Haye 1977; Ella Landau-Tasseron, «Adoption, acknowledgement of paternity and false genealogical claims in Arabian and islamic societies», in Bullettin of the Society of Oriental and African Studies, 66/ii (2003), pp. 162-192; Lucie Pruvost, «Inte´gration familiale de l’enfant sans ge´ne´alogie en Alge´rie et en Tunisie: kafa¯la ou adoption», in Recueil d’articles offerts a` Maurice Borrmans par ses colle`gues et amis, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, Roma 1996, pp. 155-180; Gertrud Stern, Marriage in Early Islam, The Royal Asiatic Society, London 1939.

ADULTERIO Nella storia della legislazione coranica sull’adulterio si possono distinguere due periodi, corrispondenti a due gruppi di versetti che si differenziano innanzitutto per il vocabolario impiegato. Il primo gruppo e` costituito da tutti i versetti in cui l’adulterio e` designato con il termine fa¯hisha. A parte un’eccezione (il versetto ˙ che appartiene senza dubbio a una 4,16, tappa intermedia), si tratta probabilmente dell’insieme piu` antico (4,15 e 25; 65,1, forse anche 4,19). Il tratto che piu` colpisce in questi versetti e` che l’adulterio vi appare come un crimine esclusivamente femminile. E` del resto questo il motivo per cui il versetto 4,16, che ne fa una colpa anche maschile, non sembra appartenere a questo periodo ma al successivo. Il Corano si serve a piu` riprese del termine fa¯hisha, al singolare come al plurale. Nel ˙ versetto 24,19, il senso della parola non e` sufficientemente chiaro: rimanda, se non all’adulterio, almeno a una colpa grave commessa dalla moglie. In molti altri ver-

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setti (3,135; 6,151; 7,28 e 32; 17,32; 33, 30; 42,37; 53,32) essa sembra designare una colpa indeterminata. Al contrario nel versetto 4,22 indica l’incesto con la matrigna, mentre nei versetti 7,80; 27,54 e 29,28 indica l’omosessualita` maschile. Il Corano ricorre ugualmente al termine fahsha¯’, tratto dalla stessa radice, il cui ˙ senso e` tuttavia piuttosto distante. Se si eccettua il versetto 12,24 che e` in rapporto con la storia di Giuseppe e in cui la parola designa forse l’adulterio, nelle altre occorrenze fahsha¯’ e` spesso associato al ˙ Male e a Satana e sembra designare il peccato in generale. Emerge dunque che i versetti che usano la parola fa¯hisha per designare l’adulterio (a ˙ lo ripetiamo, del versetto 4,16) eccezione, costituiscono un insieme sufficientemente omogeneo sul piano concettuale, per il fatto che in essi, come nella Bibbia ebraica (Lv 20,10 e Dt 22,22), il crimine riguarda esclusivamente le mogli. Si tratta certo di un crimine commesso a danno del marito, ma a motivo del campo semantico del termine, che l’associa al peccato e al Demonio, esso diventa anche una colpa religiosa. Dato che quest’insieme di versetti e` certamente il piu` antico, ne risulta che l’adulterio fin dal primo periodo e` stato percepito come un’infrazione non soltanto alla relazione contrattuale, ma anche all’ordine del mondo. Inoltre, anche se diversi versetti (per esempio 4,25 e 5,5) non mancano di stigmatizzare il comportamento immorale degli uomini, in particolare con le schiave, a quell’epoca l’idea di un adulterio degli uomini non sembra ancora presente. Un altro tratto saliente di questi versetti e` che la punizione dell’adulterio sembra rientrare nel dominio privato e costituire una prerogativa del marito. Il versetto 4,15 prescrive che il crimine debba essere constatato da quattro testimoni, esigenza che perdurera` e sara` codificata dai giuristi. La moglie la cui colpevolezza e` cosı` provata dovra` essere rinchiusa a vita nel domicilio coniugale, pena improntata forse alla legislazione romana. Il versetto 4,16 e` piu` vago e non sembra collegabile al precedente; in ef-

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fetti vi si tratta insieme dell’uomo e della donna colpevoli d’adulterio, il che sembra datarlo al periodo successivo. Inoltre la pena non e` definita, e il versetto ammette il pentimento. I versetti 4,19 e 65,1 evocano il caso delle mogli adultere ripudiate, senz’alcuna indicazione quanto alla pena da comminare loro, a parte la perdita di alcuni diritti, come quello ad avere una residenza finche´ il periodo d’attesa non sia concluso (il versetto 65,1 permette esplicitamente all’uomo di cacciare di casa la moglie adultera). Infine il versetto 4,25 allude al caso delle mogli di condizione servile che commettano adulterio, le quali dovranno subire solo la meta` del castigo previsto per il crimine; in questo caso non potra` trattarsi della reclusione a vita, ma di una pena esprimibile in termini quantitativi, per esempio la flagellazione. Anche se questo versetto riguarda solo le mogli di condizione servile, i giuristi se ne sono serviti per trattare il caso della schiava adultera sposata a un altro schiavo. E` nella sura 24 (detta della Luce) che si trova la gran parte dei versetti appartenenti al secondo periodo. I versetti 2-25 ritornano su questa legislazione in modo dettagliato, e vi si possono rilevare evoluzioni notevoli. Il primo mutamento significativo e` d’ordine lessicale: viene ora utilizzata la radice semitica «zny». Il sostantivo zina¯ (di origine semitica: in ebraico zonah e` la prostituta), che i giuristi promuoveranno a termine tecnico, non appare in questa sura ma altrove, nel versetto 17,32, in cui e` collegato a fa¯hisha ˙ La come la parte in rapporto al tutto. forma verbale zana¯ e` presente in due versetti. Secondo il primo (25,68) i credenti devono impegnarsi a non essere adulteri, dopo aver rifiutato l’associazionismo e l’omicidio. Nel secondo versetto (60,12) si tratta di nuove convertite all’islam le quali devono impegnarsi anch’esse a non commettere adulterio. In entrambi i casi e` significativo che il crimine ‘‘adulterio’’ venga al secondo posto dopo ‘‘associazionismo’’: il che la dice lunga sulla sua gravita`. Tale restera` nella Legge musulmana, definitivamente stabilita dopo il

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III/IX secolo e per la quale l’adulterio rappresenta uno dei tre principali motivi di applicazione della pena di morte. Questa mutazione nel lessico nasconde una profonda trasformazione nella concezione stessa dell’adulterio. L’evoluzione piu` importante e` data dal fatto che esso smette d’essere affare esclusivo delle donne e che il divieto delle relazioni extramatrimoniali, e forse prematrimoniali, si estende oramai anche agli uomini. Questi ultimi non beneficiano piu` di alcun privilegio e devono dar prova di castita` al pari delle donne (4,16; 24,30; 33,35); sono dunque passibili di giudizio e condanna per il crimine di adulterio. Secondo il versetto 24,2, i due complici sono sottoposti alla stessa punizione, cento colpi di frusta. In questa sura il Corano sembra rompere con una concezione molto diffusa nel mondo mediterraneo che tende a perdonare agli uomini le trasgressioni alla morale identificando da un lato virilita` e conquiste femminili e dall’altro onore e uomini. In quest’ordine d’idee solo le trasgressioni alla morale dovute al comportamento sessuale della moglie o della sorella sono crimini: cio` che ci si aspetta da un uomo e` che sia capace di conquistare e sedurre le donne degli altri, come prova della sua forza e della sua virilita`; di contro, cio` che ci si aspetta da una donna e` che sia capace di resistere alle avances degli uomini, perche´ proprio a questa condizione essa risponde nel modo piu` pieno all’ideale femminile della societa`. Il passaggio dalla sura delle Donne (4) alla sura della Luce (24) costituisce una rottura: da una concezione dell’adulterio come crimine lesivo del marito si e` passati a una concezione che ne fa un crimine contro l’ordine del mondo voluto da Dio, dunque un crimine pubblico. Si tratta di un processo di universalizzazione della morale sessuale del Corano: la colpa e` giudicata e punita in quanto crimine contro Dio. Peraltro nessuna sura prescrive la messa a morte dei colpevoli. Se la reclusione a vita e` forse un prestito dalla legislazione romana o bizantina, la flagellazione e` ispirata alla legge ebraica che applica questa punizione allo schiavo

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adultero (Lv 19,20-22). O la dottrina alla quale aderisce la giovane comunita` musulmana ha subito un’evoluzione, o siamo di fronte alla compilazione di due tradizioni giuridiche differenti. Poiche´ nel versetto 24,2 si parla dell’«adultera» e dell’«adultero», non puo` che trattarsi di una relazione eterosessuale. Tuttavia vi e` certezza che il riferimento sia esclusivamente all’adulterio. I giuristi musulmani ritengono infatti che questo versetto riguardi tutte le relazioni sessuali illecite, a esclusione dell’omosessualita`, della necrofilia e della bestialita`. Oltre alla necessita` di produrre quattro testimoni, confermata dal versetto 24,4, due nuovi tratti rafforzano il carattere pubblico dell’adulterio: prima di tutto e` raccomandato di non avere alcuna pieta` verso i colpevoli: dato che il crimine colpisce Dio, non sono gli uomini a poter perdonare; in secondo luogo, alcuni credenti devono assistere alla pena, che deve dunque tenersi in pubblico affinche´ se ne possa attestare l’effettiva esecuzione. Piu` tardi, quando sara` gia` stata definita come hadd (pena prescritta da Dio), la puni˙zione dell’adulterio sfuggira` totalmente al controllo degli uomini. La sura 24 considera inoltre la possibilita` di un’accusa calunniosa, a opera del marito o di estranei. Secondo il versetto 4, ogni individuo che lanci un’accusa contro una donna senza essere in grado di produrre quattro testimoni credibili sara` condannato per qadhf o calunnia e dovra` subire ottanta colpi di frusta, un numero pressoche´ equivalente a quello stabilito per chi commette adulterio; perdera` inoltre ogni credibilita` e le sue testimonianze non saranno piu` ammesse. L’estrema severita` della pena si spiega senz’alcun dubbio con la volonta` di prevenire le false accuse, che avrebbero messo in pericolo l’ordine sociale. Il versetto 6, sempre nella medesima sura 24, considera il caso dell’uomo che accusi la moglie di adulterio senza poter produrre quattro testimoni: egli dovra` pronunciare quattro giuramenti per confermare quanto afferma e un quinto per chiamare su di se´ la maledizione divina nel caso in cui abbia mentito;

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e la donna messa in stato d’accusa dovra` compiere lo stesso per difendere il proprio onore. I giuristi precisano che come esito di questo confronto il matrimonio andra` sciolto; i due coniugi non potranno piu` risposarsi e se vi e` un bambino gia` nato o in gestazione questi non avra` padre (tale e` in generale lo statuto del figlio adulterino, walad al-zina¯) e sara` ricollegato al nonno materno tanto per il patronimico quanto per l’eredita`. Questo rituale, chiamato li‘a¯n, dovra` aver luogo nella moschea, in presenza di testimoni. Questi versetti nella sura della Luce sono seguiti da una serie d’altri (11-23) che l’esegesi sunnita e` solita presentare come connessi a un fatto della vita di Muhammad: la falsa accusa di adulterio rivolta ad ¯ ’isha, la sua moglie preferita, nell’anno ‘A 4/626. Nel Corano non si parla affatto di lapidazione (rajm), almeno nella recensione che si e` imposta nel mondo musulmano fin da epoca molto antica e che si ha l’abitudine di attribuire al terzo califfo, ‘Uthma¯n ibn ‘Affa¯n (che regno` dall’anno 23 all’anno 35 dell’egira, 644-656 d.C.). Tuttavia tutte le famiglie religiose dell’islam sostengono tale punizione per l’individuo adultero sposato o che e` gia` stato sposato. Per legittimare questo punto di vista e a parte le tradizioni profetiche invocate al riguardo, i giuristi pretendono, sotto l’autorita` del secondo califfo ‘Umar, che esistesse un versetto volto a prescrivere esplicitamente la lapidazione, che pero` venne abrogato. Il tema e` complesso e necessita di qualche lume sulla teoria giuridica dell’abrogazione (naskh). Un versetto coranico puo` essere recitato come parola divina, ma puo` avere in aggiunta una portata legale. Su questa base si distinguono tre forme di abrogazione: abrogazione del solo valore giuridico del versetto con mantenimento del versetto medesimo nel Libro santo; abrogazione del versetto dal testo coranico con conservazione della regola giuridica; abrogazione del versetto e della regola. Risulta allora chiaro che l’abrogazione del versetto della lapidazione rientra nella seconda categoria, e si osservera` che questa dot-

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trina e` fondata sulla Tradizione. Alcuni gruppi musulmani antichi l’hanno respinta, come la branca kha¯ rijita degli Aza¯riqa. L’assenza dal Corano di ogni indicazione sulla lapidazione significa senz’alcun dubbio che questa pena non era conosciuta negli ambienti in cui esso e` sorto. Si puo` anche pensare a due legislazioni distinte, l’una antica (4,15) e l’altra recente (24,2). Occorre mettere questa distinzione in relazione con l’episodio dell’Emigrazione di Muhammad e dei suoi primi fedeli? Che la Vulgata abbia mantenuto fianco a fianco due versetti che prescrivono punizioni differenti per lo stesso crimine pone senz’alcun dubbio il problema piu` generale della fissazione della Vulgata stessa. D’altronde, cio` e` indice d’esitazione nei primi musulmani o di scarsa premura nello stabilire una punizione unica. Inoltre, se si da` credito all’abrogazione del versetto sulla lapidazione, occorre allora concludere che lasciarlo figurare nella Vulgata fosse ritenuto inaccettabile. L’incorporazione della lapidazione nella legislazione islamica implica che i suoi sostenitori finirono per prevalere sugli avversari, sia perche´ divenuti dominanti, sia perche´ un indurimento nella repressione delle infrazioni alla morale sessuale si era fatto necessario agli occhi delle autorita` religiose. Si invoca talora l’influenza ebraica per giustificare l’accoglimento, da parte della Legge musulmana, della lapidazione come punizione per l’adulterio, ma sembra che all’epoca della nascita dell’islam l’ebraismo avesse gia` abbandonato questa legislazione. Sorge una domanda: i giuristi musulmani avrebbero forse contrapposto una prescrizione biblica alle usanze ebraiche dell’epoca come prova, allo stesso tempo, del traviamento degli ebrei e della verita` dell’islam quale continuatore della religione originaria? Se i giuristi hanno considerato che il versetto 4,15 e` abrogato dal versetto 24,2, sostituendo all’imprigionamento la flagellazione, in ragione di un altro versetto, 4,25, essi sostengono che la punizione dello schiavo deve essere la meta` del ca-

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stigo inflitto all’individuo di condizione libera. Secondo la loro interpretazione, ogni individuo muhsan e` suscettibile di ˙ ˙ parola muhsan e` di lapidazione. Ora, la ˙˙ difficile interpretazione nel Corano. Si considera muhsan ogni individuo pubere, ˙˙ dotato di ragione, di condizione libera, sposato o che e` gia` stato sposato; ne deriva che ne´ l’impubere ne´ il pazzo ne´ lo schiavo possono essere considerati muh˙ san e lapidati. Queste condizioni restrin˙gono il campo d’applicazione della pena. Un’altra condizione e` oggetto di divergenze: a differenza delle altre scuole, ha˙ nafiti e ma¯likiti esigono che un individuo sia musulmano per essere considerato come muhsan, perche´ a loro avviso il non ˙ ˙ non puo` subire la pena di musulmano lapidazione. Per comprendere il crimine di zina¯ e` necessario un approccio antropologico. Il punto di partenza e` la divisione dei sessi che non deve essere trasgredita sotto alcun pretesto. I giuristi enunciano questo principio affermando che in materia sessuale vige la ‘‘presunzione di divieto’’. La divisione dei sessi puo` essere trasgredita soltanto sotto l’egida della Legge; in altre parole, la trasgressione deve essere ritualizzata, principalmente nella forma del matrimonio (nika¯h). Vi sono solo due tipi ˙ lecita (matrimonio, d’unione sessuale, concubinato) e illecita. E` per questo che zina¯ e nika¯h formano una dicotomia essenziale. In˙ quest’ordine d’idee, solo la trasgressione non rituale della divisione dei sessi, come l’incesto, il fatto di sposare una quinta moglie o di frequentare prostitute e` qualificata come zina¯; invece altri comportamenti sessuali presentati come anormali e dunque illeciti, come l’omosessualita`, la necrofilia o la bestialita`, non sono collocati sotto la categoria di zina¯ pur essendo duramente riprovati, talora quanto il zina¯ stesso. L’omosessualita` non trasgredisce la frontiera tra i sessi, ma unisce due individui dello stesso sesso; e` un attentato al principio del genere. Nella necrofilia e nella bestialita`, la trasgressione si associa ai rapporti tra la vita e la morte o a quelli tra gli uomini e gli animali. D’altronde questi ultimi due cri-

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mini non sono in se´ puniti con il castigo supremo, ma sono lasciati a discrezione di colui che detiene il potere. L’idea di adulterio si e` ulteriormente evoluta grazie al lavoro dei giuristi musulmani. Mentre il Corano non ne parla, questi ultimi, dopo aver specificato la nozione come trasgressione della divisione dei sessi, l’ancoreranno alla questione della filiazione. In tal modo, essa assumera` una dimensione cosmica. [M.H.B.] Bibliografia: Albert Arazi, «Les enfants adulte´rins [Da‘ı¯s] dans la socie´te´ arabe ancienne: l’aspect litte´raire», in Jerusalem Studies in Arabic and Islam, 16 (1993), pp. 1-34; Mohammed Hocine Benkheira, L’amour de la Loi. Essai sur la normativite´ en islam, PUF, Paris 1997, pp. 262-342; John Burton, «Law and exegesis: the penalty for adultery in Islam» in Gerald R. Hawting e Abdel Kader A. Shareef (a cura di), Approaches to the Qur’a¯n, Routledge, London-New York 1993, pp. 269-284; Etan Kohlberg, «The position of walad zina¯ in ima¯mı¯ shı¯‘ism», in Bullettin of the Society of Oriental and African Studies, 48 (1985), pp. 237-266; Alfred-Louis de Pre´ mare, «Prophe´ tisme et adulte` re. D’un texte a` l’autre», in Revue des mondes musulmans et de la Me´diterrane´e, 58/iv (1990), pp. 101-135; Uri Rubin, «‘‘Al-walad li-l-fira¯sh’’: on the Islamic campaign against ‘‘zina¯’’», in Studia islamica, 78 (1993), pp. 5-26.

ALBERI Il termine shajar (pl. ashja¯r) indica nel lessico coranico gli alberi propriamente detti ma anche ogni tipo di pianta; piu` precisamente, e` «cio` che cresce con un fusto, spesso o sottile». Alcuni alberi sono citati per nome, come l’ulivo, la palma da dattero, il melograno, la vite o il fico, mentre altri, come ‘‘l’albero del paradiso’’, non vengono meglio identificati. Il Corano afferma che gli alberi sono una grazia che Dio ha accordato agli uomini, mediante l’acqua che egli distribuisce e che generalmente e` associata alla vita. Questa grazia e` di due ordini: e` manifestazione miracolosa della bellezza e dono divino del sostentamento concesso all’uomo. Inoltre, gli alberi servono a dimo-

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strare l’incapacita` degli uomini nel produrre da soli la bellezza della natura, come ricorda la sura della Formica (27, 60). Secondo la tradizione, le piante vennero create in terza istanza dopo la terra e i monti, e, come ogni altra cosa creata, anch’essi si prosternerebbero davanti a Dio, si rammenterebbero di lui sempre e proclamerebbero la sua gloria; a volte, sono state utilizzate dal Profeta come metafora per gli uomini: in una occasione egli dichiaro` per esempio che la palma e` l’albero che piu` somiglia all’uomo e che fu creato dalla stessa argilla di Adamo. Piantare alberi e` importante: le tradizioni vi insistono facendone una delle piu` nobili forme di elemosina; peraltro, si riporta che in piu` casi Muhammad avrebbe proibito di tagliare gli alberi delle zone considerate sacre a Medina e alla Mecca. Il Corano allude abbondantemente alla vegetazione sia trattando della vita umana – come fonte naturale di sostentamento – sia nelle descrizioni dell’Aldila`. L’utilizzo delle piante come metafore per gli uomini consente di identificare ‘‘alberi buoni’’, che hanno radici sane, crescono verso il cielo e danno frutti buoni in ogni stagione, e ‘‘alberi malvagi’’, piante effimere, prive di radici e dunque facili da strappare alla terra (14,24-26). Sebbene gli alberi siano associati alla vita e all’acqua e forniscano numerose immagini per descrivere il paradiso, alcuni di essi sono associati all’inferno e ai suoi castighi. Il paradiso e` indicato con il termine janna, ‘‘giardino’’; e` ricco di piante che procurano ombra fresca e gradevole e danno frutti per la gioia dei beati, senza fatica da parte loro. Gli alberi del paradiso forniscono inoltre piatti di carne cucinata e deliziosi volatili cotti ma non bolliti ne´ arrostiti, che emanano profumo di muschio e d’ambra. La descrizione di questi cibi abbonda a sua volta di metafore tolte dal mondo vegetale, cosı` evidenziando per mezzo dell’iperbole l’estrema importanza delle piante nella comprensione della ricompensa promessa ai credenti. Gli alberi del paradiso sono di colore verde scuro, la` dove il verde gioca un

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importante ruolo simbolico nell’islam; il Corano ne cita alcuni come il loto, il melograno, la palma, la vite, l’albero del caucciu`, il banano selvatico e le piante aromatiche. Un albero del paradiso porterebbe iscritto su ciascuna foglia il nome di un uomo, e quando per un individuo giunge il momento della morte la foglia che gli corrisponde cade; alcuni hanno voluto identificare quest’albero con il loto. Tale citazione rimanda anche a una delle immagini che il Corano offre della creazione e della resurrezione degli uomini: questo processo e` infatti accostato alla germinazione e alla crescita delle piante. Similmente, la letteratura dedicata all’ascensione del Profeta al cielo paragona la nascita delle urı` (Hu¯r) alla com˙ attribuite al parsa delle piante. Tradizioni Profeta parlano inoltre di alberi e pietre che ne attestarono la missione profetica; una tradizione in particolare menziona un albero, denominato al-shajara al-sumra, cui Muhammad si sarebbe rivolto per poter provare il proprio statuto di profeta a un beduino che lo interrogava, e l’albero lo avrebbe attestato per tre volte. Un certo numero di alberi particolari sono citati nel Corano, spesso per mezzo di perifrasi. Vi e` per esempio l’‘‘albero verde’’ (al-shajar al-akhdar, 36,80; 56, 71-73) che ha un fuoco ˙all’interno per ricordare agli uomini il fuoco dell’inferno e che, per diminuirne l’effetto e permettere loro di trarne vantaggio, e` stato bagnato due volte nell’acqua. Secondo gli esegeti, si tratterebbe di alberi che crescono nel deserto: verdi all’inizio, con l’andare del tempo si seccheranno e spontaneamente bruceranno, come il markh e il ‘afa¯r. L’albero dell’immortalita` (shajarat al-khuld) e` quello del regno eterno (20,120), e Dio aveva proibito ad Adamo ed Eva di avvicinarsi a esso; la letteratura religiosa vi allude anche come un ‘‘albero proibito’’. Il Corano non fornisce alcuna descrizione di questa pianta che permetta di identificarla. Quanto all’albero benedetto (al-shajara al-muba¯raka), e` citato nella sura della Luce: «Dio e` la luce dei cieli e della terra, e si rassomiglia la sua Luce a una Nicchia, in cui e` una Lampada,

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e la Lampada e` in un Cristallo, e il Cristallo e` come una Stella lucente, e arde la lampada dell’olio di un albero benedetto, un Ulivo ne´ orientale ne´ occidentale in cui olio per poco non brilla anche se non lo tocca fuoco» (24,35). Esso e` dunque paragonato a un ulivo ma al di fuori di qualsiasi orientamento geografico, il cui olio e` luminoso per sua natura. Vi e` poi l’albero della soddisfazione (shajarat al-ridwa¯n, ˙ cfr. 48,18), sotto il quale i musulmani ` avrebbero giurato fedelta al Profeta nell’anno 6 dell’egira, all’epoca della battaglia di Hudaybiyya. L’albero maledetto ˙ al-mal‘u¯na) indica un albero (al-shajara di nome Zaqqu¯m che cresce nel fondo dell’inferno all’opposto dell’albero Tu¯ba¯ ˙ che si trova in paradiso; parte dei castighi riservati ai dannati, i suoi frutti sono demoni che strappano loro le viscere. Altre piante sono presenti nell’inferno, secche, pestilenziali, che scorticano i corpi. Il Tu¯ba¯ fa invece parte degli alberi del para˙ diso; il suo stesso nome rimanda alla delizia, alla migliore delle cose possibili, a bellezza, beatitudine e felicita`. Secondo la tradizione, la comunita` dei musulmani verra` riunita sotto quest’albero nel giorno del Giudizio. Poiche´ il Profeta preciso` che l’albero Tu¯ba¯ non assomiglia a nessuno ˙ che crescono sulla terra, lo si e` degli alberi descritto con le immagini piu` meravigliose: il suo tronco immenso e` di rubino, profumato di muschio e ambra, i suoi frutti sono come perle che hanno il gusto di miele e zenzero, alle sue radici zampillano sorgenti di vino. Vi e` infine l’albero Yaqt¯ın, associato a Giona. Secondo il Corano˙ (37,156) quando Giona venne restituito alla terraferma era nudo, e Dio fece crescere questa pianta perche´ egli potesse coprirsi con le sue foglie; la tradizione lo identifica in un tipo di zucca. Occorre segnalare da ultimo che il roveto ardente della tradizione biblica non e` menzionato come tale nel testo coranico sebbene l’episodio in questione, a proposito di Mose`, sia descritto in tre lunghi passi (20,9-14; 27,7-9; 28,29-30). [P.B.]

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31 Bibliografia: Denise Masson, Le Coran, Gallimard (coll. La Ple´iade), Paris 1967; Annemarie Schimmel, Deciphering the Signs of God. A Phenomenological Approach to Islam, State University of New York Press, Albany 1994.

¯ LIB ‘ALI¯ IBN ABI¯ TA ˙¯ Ta¯lib, cugino germano e ‘Alı¯ figlio di Abu ˙ anche genero del Profeta in quanto marito della figlia Fa¯tima, e` il quarto califfo dei ˙ ` dal 35 al 40 dell’egira, musulmani (regno dal 656 al 661 d.C.) e il primo imam degli sciiti. Secondo i racconti tradizionali, fu uno dei personaggi piu` significativi dell’islam nascente; tra i primissimi, forse addirittura il primo, di quanti si convertirono alla nuova religione in Arabia, e` noto per essere stato l’amico piu` intimo di Muhammad sin dall’infanzia. Con l’avvento dell’islam, ‘Alı¯, allora molto giovane, si rese celebre per la fede incrollabile, il coraggio dimostrato nelle gesta guerriere e l’eloquenza; tra i rari letterati della Mecca si fece conoscere presto per la saggezza, e divenne uno dei primi scribi di Muhammad, sia per seguire i suoi affari temporali sia per mettere in iscritto le rivelazioni coraniche. Alla morte del Profeta, nell’anno 11/632, si aprı` la questione della sua successione; le versioni divergono secondo le fonti, sunnite o sciite. Per i sunniti, Muhammad non aveva esplicitamente designato nessuno a suo successore, e Abu¯ Bakr fu legittimamente eletto primo califfo da un consiglio formato dai piu` fedeli Compagni del Profeta, a esclusione di ‘Alı¯. Nondimeno, quest’ultimo e` assai rispettato dai sunniti come Compagno intimo e parente prossimo di Muhammad, e come quarto califfo ‘‘ben guidato’’ dell’islam. Ma per gli sciiti – che durante i primi secoli dell’islam si chiamavano appunto Alidi, cioe` seguaci di ‘Alı¯ – le cose erano andate diversamente. Essi ritengono che Muhammad avesse piu` volte formalmente designato ‘Alı¯ come suo successore, e in particolare presso lo stagno di Khumm (Ghadı¯r Khumm che da` il nome a una delle piu` grandi feste sciite, quella dell’investitura ufficiale di ‘Alı¯ da parte

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del Profeta), poco prima di morire; comunque, i legami privilegiati di parentela tra i due uomini, cosı` come alcuni passaggi espliciti del Corano, censurati e falsificati dagli avversari, facevano di ‘Alı¯, agli occhi dei suoi partigiani, l’unico successore legittimo del Profeta. Tuttavia, quest’ultimo ottenne il califfato solo ventiquattro anni dopo la morte di Muhammad. Gli sciiti considerano dunque le elezioni dei primi tre califfi quale esito di autentici ‘‘colpi di stato’’, e ritengono che Abu¯ Bakr, ‘Umar e ‘Uthma¯n fossero usurpatori i quali, nell’escludere ‘Alı¯ dal potere, tradirono Muhammad e la sua missione. Il califfato di ‘Alı¯ si svolse in un contesto di estrema crisi. Sotto i suoi predecessori e quasi immediatamente dopo la morte del Profeta, l’Arabia e i musulmani conobbero una serie di guerre civili e conflitti fratricidi cui si aggiunsero, sin dal califfato di ‘Umar, le ‘‘grandi conquiste’’. Durante tutto questo tempo, ‘Alı¯ si sarebbe tenuto piu` o meno in disparte, conducendo una vita di ascesi e insegnamento. I suoi due predecessori avevano conosciuto una morte violenta ed egli, apparentemente spronato dai suoi partigiani ad assumere il potere, dovette affrontare, nell’intero corso dei suoi cinque anni di califfato, lotte sanguinose su tre fronti: in primo luogo contro i nemici di sempre nel numero dei vecchi Compagni di Muhammad, guidati dalla vedova di ¯ ’isha (nella celebre battaquest’ultimo, ‘A glia del Cammello); poi contro la potente famiglia degli Omayyadi guidata da Mu‘a¯wiya, sempre piu` influente in Siria (nella battaglia di Siffı¯n); infine contro gli kha¯rijiti, partigiani˙ delusi divenuti i suoi piu` accaniti avversari (nella battaglia di Nahrawa¯n). Fu appunto assassinato da un kha¯rijita, secondo la tradizione il 21 ramada¯n, 40/28 gennaio 661; a quanto pare ˙ sepolto a Najaf, in Iraq, che diverra` venne una delle citta` piu` sacre dello sciismo. La sua morte offrı` a Mu‘a¯wiya l’occasione di assumere il potere; costui chiuse il periodo dei ‘‘quattro califfi bendiretti’’, e diede inizio alla prima dinastia dell’islam, gli Omayyadi.

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Senza dubbio per neutralizzare l’entusiasmo dei partigiani di ‘Alı¯, la letteratura sunnita sembra aver voluto mitigare la sua figura, tacendone il ruolo storico e religioso. Tuttavia, l’esame critico delle fonti di ogni tipo e tendenza sembra mostrare che, ancora mentre il Profeta era in vita, ‘Alı¯ fosse guardato come un personaggio singolare. Per esempio, e` l’unico Compagno di Muhammad al quale venne associata la sorprendente espressione ‘‘religione di ‘Alı¯’’ (dı¯n ‘Alı¯). Lo studio filologico dei brani che contengono questa espressione e l’esame storico del contesto religioso e antropologico dell’epoca sembrano indicare che la ‘‘religione di ‘Alı¯’’ fosse un insieme di articoli di fede basato su dottrine coraniche, ma piu` ancora su credenze ancestrali preislamiche (all’epoca molto piu` potenti di quelle appena prodotte dall’islam) concernenti un certo ‘‘culto della parentela’’. Infatti, secondo alcune credenze arabe plurisecolari, legami privilegiati di parentela avrebbero stabilito una sorta di identita` spirituale tra Muhammad e ‘Alı¯: essi erano cugini germani, il piu` nobile legame di parentela secondo la cultura tribale; inoltre Muhammad era il figlio adottivo del padre di ‘Alı¯, e quest’ultimo divenne a sua volta figlio adottivo di Muhammad. In occasione del solenne patto di fraternita` (mu’a¯kha¯t) che il Profeta fece concludere tra alcuni musulmani, egli stesso scelse ‘Alı¯ come ‘‘fratello’’ e assai probabilmente mischio` il proprio sangue col suo, stabilendo con lui il magico legame della ‘‘fratellanza di sangue’’. Inoltre, Muhammad diede in sposa a ‘Alı¯ la figlia Fa¯tima, ˙ rendendolo cosı` il padre della sua unica discendenza maschile, rappresentata dai due nipoti Hasan e Husayn. Muhammad ˙ ˙ le quattro persone avrebbe considerato suddette la sua Sacra Famiglia – ‘‘la gente della Casa profetica’’, ahl Bayt al-nubuwwa – e con costoro avrebbe regolarmente effettuato l’antica pratica magica del tahnı¯k, consistente nel far colare loro ˙ la propria saliva per trasmettere in bocca il proprio carisma, le virtu` spirituali, le conoscenze iniziatiche e le doti soprannaturali. Avrebbe inoltre insegnato a ‘Alı¯ il

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senso riposto della dimensione esoterica del Corano, facendone cosı` il massimo iniziato tra i suoi Compagni. Tutto cio`, almeno agli occhi degli adepti della religione associata al suo nome, nucleo primitivo di cio` che diverra` lo sciismo, rendeva ‘Alı¯ una figura che condivideva pienamente la sacralita` di Muhammad e, naturalmente, l’unico suo successore legittimo. Ma c’e` di piu`. Numerose e importanti connessioni legano la figura di ‘Alı¯ al Corano. In modo generale, la tradizione islamica lo presenta come uno dei quattro grandi esperti del Corano tra i Compagni, accanto a ‘Abd Alla¯h ibn Mas‘u¯d, Ubayy ibn Ka‘b e Abu¯ Mu¯sa¯ al-Ash‘arı¯. Ciascuno di essi avrebbe posseduto un codice, una recensione coranica copiata di proprio pugno. Secondo un’antica idea che circolava allora nella gran parte degli ambienti sciiti, solo la recensione di ‘Alı¯ conteneva la versione integrale del Corano, ovunque fedele alle rivelazioni divine fatte a Muhammad. Per ragioni di ordine politico, questa recensione venne rifiutata dalla commissione riunita dal califfo ‘Uthma¯n con il compito di elaborare la versione definitiva e ufficiale del Corano. E con buona ragione: il codice di ‘Alı¯, tre volte piu` voluminoso del Corano ufficiale conosciuto da tutti, avrebbe infatti contenuto alcuni passi compromettenti per i suoi avversari, soprattutto i primi tre califfi, e avrebbe esplicitamente menzionato ‘Alı¯ e i suoi discendenti entro la famiglia profetica quali successori di Muhammad, esattamente come accadde per i membri della famiglia e i successori di altri profeti. Secondo gli sciiti, questi passi furono appunto soppressi dagli autori della vulgata ufficiale, tutti avversari di ‘Alı¯. Il suo codice, contenente il ‘‘Corano integrale’’, segretamente conservato dalla stirpe di imam della sua discendenza, sara` rivelato integralmente solo alla fine dei tempi, con la venuta del Salvatore escatologico. Questo Corano rimane dunque sconosciuto, eppure il corpus antico dei testi canonici dello sciismo – dal III e IV/IX e X secolo – contiene un

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gran numero di frammenti e citazioni di questo Corano, e in particolare elementi assenti dalla versione ufficiale. Seguono ora alcuni esempi particolarmente significativi legati a ‘Alı¯ e alla sua wala¯ya, quest’ultimo un termine chiave della dottrina sciita, difficilmente traducibile in un’unica parola: significa al tempo stesso amicizia e alleanza divina, santita`, carisma, autorita`; qui e` tradotto con ‘‘santo potere’’ (le parole o i brani in corsivo sono quelli che non figurano nella versione nota del Corano): «Ma dunque ogni qualvolta Muhammad [anziche´ ‘‘un inviato’’, come nella versione ufficiale] vi porta ordini non graditi riguardo al santo potere di ‘Alı¯, voi superbamente vi ribellate e alcuni ne smentite tra la famiglia di Muhammad, altri ne uccidete?» (2,87). «Coloro che agiscono iniquamente [anziche´ «coloro che rifiutano la Fede e agiscono iniquamente»] rispetto ai diritti della famiglia di Muhammad, Dio non e` disposto a perdonarli ne´ a guidarli per Via alcuna eccetto la via dell’Inferno nel quale rimarranno in eterno, sempre, e questo e` ben facile a Dio. Uomini! E` venuto a voi il Messaggero con la Verita` data dal vostro Signore sul santo potere di ‘Alı¯; credete dunque e sara` meglio per voi. Ma se rifiutate la fede nel santo potere di ‘Alı¯, sappiate che e` di Dio tutto cio` che e` nei cieli e che e` sulla terra» (4,167-170). «Messaggero! Comunica agli uomini cio` che ti e` stato rivelato dal tuo Signore su ‘Alı¯» (5,67). «Quando il tuo Signore trasse dai lombi dei figli d’Adamo tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro se stessi: ‘‘Non sono io, chiese, il vostro Signore, Muhammad non e` l’inviato di Dio, ‘Alı¯ non e` il principe dei credenti?’’ Ed essi risposero: ‘‘Sı`, l’attestiamo!’’» (7,172). «Chi obbedisce Dio e il Suo Messaggero per quanto concerne il santo potere di ‘Alı¯ e il santo potere degli imam dopo di lui, raggiunge supremo successo!» (33,71). «Presto saprete, o popolo che rifiuta la Fede, quando vi ho fatto giungere il mes-

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saggio del mio Signore sul santo potere di ‘Alı¯ e quello degli imam dopo di lui, chi sia in errore manifesto» (67,29). Gli esempi simili a questi possono moltiplicarsi. Del resto, la tradizione esegetica sciita coglie anche nel Corano ufficiale, che considera nondimeno epurato di tutte le menzioni esplicite ad ‘Alı¯, centinaia di versetti che fanno allusione a lui, alla sua santita`, al suo statuto divino, alla sua bonta`, al suo coraggio, ai suoi rapporti privilegiati col Profeta, agli avvenimenti importanti della sua vita, e cosı` via. Questa esegesi tipologica sta alla base di tutto un genere letterario in seno al corpus dei commentari coranici sciiti cosiddetti ‘‘ma¯ nazala fı¯ ‘Alı¯’’, ‘‘cio` che e` stato rivelato su ‘Alı¯’’. Infine, ‘Alı¯ e` considerato dai suoi partigiani e in tutta la letteratura sciita il conoscitore per eccellenza dei significati nascosti del Corano, maestro dell’interpretazione spirituale (in arabo ta’wı¯l). Numerose tradizioni del Profeta contribuiscono in questo senso: «Io sono la citta` della conoscenza e ‘Alı¯ ne e` la soglia»; «Dopo di me vi lascio due oggetti preziosi: il Libro di Dio e ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯lib ˙ che ne e` l’interprete»; «Sono il maestro della rivelazione letterale [del Corano] e ‘Alı¯ e` il maestro della sua interpretazione spirituale»; «Tra voi vi e` chi lotta per l’interpretazione spirituale del Corano come io stesso lottai per la lettera della sua rivelazione, e costui e` ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯lib». Secondo questa concezione, ‘Alı¯ e`˙ il messaggero dello spirito del Corano, cosı` come Muhammad e` il messaggero della sua lettera. Senza l’insegnamento della dimensione spirituale esoterica, infatti, il Corano non e` che lettera morta, priva di spirito; per essere realmente compreso, il Libro necessita dell’ermeneutica del maestro di saggezza, cioe` ‘Alı¯. Per questo motivo, nello sciismo, il Corano e` detto ‘‘la guida silenziosa’’ (ima¯m sa¯mit) ˙ e ‘Alı¯, come gli imam della sua discendenza, e` definito ‘‘Corano parlante’’ (Qur’a¯n na¯tiq). Gli insegnamenti di ‘Alı¯ e ˙ imam costituiscono il contedegli altri nuto dell’immenso corpus di H adı¯th ˙ piu` sciita, che comprende nella sua fase

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antica diverse decine di opere in diverse migliaia di pagine. Del resto, un numero considerevole di sermoni, consigli, lettere e precetti morali attribuiti a ‘Alı¯ vennero raccolti nel V/XI secolo in un volume intitolato Nahj al-bala¯gha (‘‘Il cammino dell’eloquenza’’ oppure ‘‘La via della maturita`’’), vero e proprio libro sacro dei musulmani sciiti. Per tutte queste ragioni, in una fase molto precoce e forse a partire dalla morte del Profeta, un processo di glorificazione di ‘Alı¯ da parte dei suoi partigiani avrebbe trasformato il personaggio storico in una Figura, eroica e tragica a un tempo, dalle dimensioni progressivamente cosmiche e poi divine. Considerato l’imam per eccellenza, padre dell’intera stirpe ima¯mita a venire, ‘Alı¯ e` assimilato alle due accezioni dello stesso termine ‘‘ima¯m’’ che lo sciismo professera` dall’epoca della sua elaborazione dottrinale: l’imam come guida storica terrena, e l’imam metafisico cosmico, Uomo Perfetto, intermediario tra Dio e le creature in quanto dimensione esoterica dell’imam terreno, e allo stesso tempo volto rivelato di Dio. Vi contribuı` senza dubbio il fatto che il nome ‘Alı¯ (lett. ‘‘Altissimo’’, ‘‘Supremo’’) e` uno dei nomi di Dio secondo il Corano. Per alcuni suoi adepti (che gli eresiografi definiscono in modo alquanto artificiale ‘‘estremisti’’), ma anche in seno alle correnti cosiddette ‘‘moderate’’, ‘Alı¯ e` considerato l’essere teofanico per eccellenza, luogo di manifestazione degli attributi divini. Lo considerano la realta` ultima di tutto cio` che nell’universo e` divino, personificazione dell’imam cosmico, volto di Dio che si nasconde dietro ogni teofania. E` questa la ragione per cui, nella coscienza mistica sciita, ‘Alı¯ (come gli imam della sua discendenza) e` sı` la guida spirituale e il modello iniziatico per eccellenza, ma anche, nella sua dimensione divina, l’orizzonte ultimo del percorso interiore che trasforma il semplice fedele in ‘‘amico di Dio’’. Percio`, si dice che il ‘Alı¯ terreno sia il depositario e il trasmettitore di una conoscenza segreta di cui il ‘Alı¯ celeste e` il contenuto principale. Queste dottrine, considerate altamente eretiche dall’‘‘or-

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todossia’’ sunnita, costituiscono il livello esoterico del Corano rivelato attraverso lo Hadı¯th, ovverosia, per gli sciiti, gli inse˙ gnamenti degli imam. Anche nella spiritualita` sunnita, ‘Alı¯ gode di una considerazione eccezionale: rappresenta il modello di saggezza, devozione, scienza e vita spirituale. Citato assai piu` spesso di ogni altro Compagno nelle opere mistiche, si trova al vertice di quasi ogni catena di trasmissione iniziatica e delle varie stirpi di maestri spirituali nella assoluta maggioranza delle confraternite sufi. Vedi anche SCIISMO; FAMIGLIA DI MUHAM[M.A.-M.] MAD. Bibliografia: Mohammad Ali Amir-Moezzi, «Notes a` propos de la Wala¯ya imamite», in Journal of the American Oriental Society, 122 (2002), pp. 722-741; Mohammad Ali Amir-Moezzi, «Conside´rations sur l’expression dı¯n ‘Alı¯. Aux origines de la foi shi’ite», in Zeitschrift der Deutschen Morgenla¨ndischen Gesellschaft, 150 (2000), pp. 29-68; Wilfred Madelung, The succession to Muhammad. A study of the Early Caliphate, Cambridge University Press, Cambridge 1997; Ahmet Yaºar Ocak (a cura di), From History to Theology: Ali in Islamic Beliefs, Tu¨rk Tarih Kurumu, Ankara 2005.

ALIMENTAZIONE Il Corano accorda un’importanza non trascurabile all’alimentazione: si contano piu` di un centinaio d’occorrenze della radice «akl», da cui deriva la forma verbale akala ‘‘mangiare’’, e quarantotto occorrenze della radice «t‘m », da cui deriva ˙ il sostantivo ta‘a¯m, ‘‘nutrimento’’. Infine l’imperativo˙ «mangiate!» (kulu¯) appare ventotto volte (2,57,58,60,168,172 e187; 4,4; 5,4 e 88; 6,118,141-142; 7,31,160, 161; 8,69; 16,114; 20,54 e 81; 22,28 e 36; 23,51; 34,15; 52,19; 67,15; 69,24; 77,43 e 46). Quest’imperativo e` associato al sostantivo tayyiba¯t, «cose buone», o all’ag˙ gettivo derivato dalla stessa radice tayyib, ˙ ¯ ’ith, opposti entrambi al sostantivo khaba «cose immonde». Un doppio tema e` qui all’opera. Il primo e` teologico: i cibi sono un dono di Dio, una

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delle manifestazioni della misericordia divina verso gli uomini. Sono chiamati rizq (2,22 e 60; 3,37; 14,32 ecc.), da cui anche razaqa-kum (5,88; 6,142,7,50 ecc.), razaqna¯-kum (2,57,172 e 254; 7, 160, ecc.) o razaqna¯-hum (2,3; 8,3; 10, 93; 13,22, ecc.); per questo uno dei nomi divini e` Razza¯q. Questi versetti hanno in parte ispirato la dottrina per cui ogni essere vivente ha la propria porzione di sostentamento gia` determinata e prevista da Dio, idea che sara` poi corroborata da quella della sottomissione totale a Dio (tawakkul), successivamente elevata, soprattutto nei circoli sufi, al rango di valore fondamentale. Tale dottrina, per quanto espressione di un atteggiamento conservatore, contiene elementi potenzialmente sovversivi; essa permette infatti di fondare un’etica economica che definisce l’ingiustizia sociale quale ‘‘accaparramento’’. Se la quantita` di ricchezze, nella volonta` divina, corrisponde perfettamente alla popolazione esistente, e se certi individui soffrono la fame, cio` accade perche´ altri si appropriano indebitamente della porzione dei piu` poveri. Cosı` i giuristi musulmani, basandosi sul principio che la necessita` fa legge – ammesso dal Corano per i divieti alimentari – considerano il furto motivato da fame estrema permesso a certe condizioni. Sul piano lessicale, rizq designa un sostentamento determinato (qu¯t muqaddar), ora un bene (milk) in generale, ora invece il cibo (ghidha¯’). Il versetto 11,6 afferma infatti che «non c’e` animale (da¯bba) sulla terra, cui Dio non si curi di provvedere il cibo (rizq)». Rizq non puo` qui designare il bene o la proprieta`, giacche´ una bestia non puo` possedere nulla in ragione della Legge, ma soltanto il cibo. Quando designa la proprieta` rizq non si puo` applicare a un bene illecito (hara¯m), ma quando in˙ cio` che e` illecito puo` dica il cibo, anche essere qualificato come rizq. Secondo questa dottrina, la poverta` e` una contraddizione in termini; non si puo` imputare a Dio, ma soltanto agli uomini. Cosı` la ricchezza puo` essere presentata come un’appropriazione indebita da parte di alcuni egoisti individui di cio` che Dio ha elargito

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ad altri loro simili. Cio` presuppone che l’accrescimento delle ricchezze non sia frutto dell’aumento della produttivita` del lavoro, ma risulti dalla volonta` di Dio. Tale dottrina implica anche che la ricchezza si accresce parallelamente al crescere della popolazione per volere di Dio. Il secondo registro e` normativo. Qui il Corano insiste particolarmente sull’opposizione tra lecito (hala¯l) e illecito (ha˙ ˙ ra¯m). I credenti devono mangiare solo quanto e` lecito, quanto e` tayyib ‘‘buono’’. Alcuni versetti, dunque,˙ prescrivono divieti, mentre altri abrogano le proibizioni preislamiche, ebraiche (4,160-161; 6, 146; 16,118) e arabe (2,168-173; 5,103104; 6,118-121,136-140 e 143-144). I divieti propri degli ebrei sono presentati come una punizione divina o come un’invenzione degli ebrei stessi, quelli degli arabi pagani sono spesso connessi all’accrescimento delle greggi; secondo la testimonianza del Corano, gli arabi sono legati a tali divieti e non li vogliono abbandonare (2,168-170; 6,118-121). Si osservera` che il Corano insiste meno sulla proibizione che sull’autorizzazione, come se l’attenzione fosse rivolta a liberarsi di divieti illegittimi piu` che a stabilire prescrizioni negative. L’islam coranico si presenta meno rigido dell’ebraismo, i cui divieti alimentari non sono fatti propri dal Libro sacro, e vengono anzi presentati come una punizione inflitta da Dio ai figli d’Israele. A piu` riprese il Corano insiste sulla bonta` e la commestibilita` dei cibi concessi da Dio all’uomo. Peraltro non si parla mai delle usanze alimentari dei cristiani, e nemmeno del loro atteggiamento rispetto al maiale: il Corano non rileva in effetti che la Legge cristiana abbia abolito il divieto biblico sul maiale. Cosı`, nel momento in cui enuncia alcuni divieti alimentari, il Corano dichiara che altri sono obsoleti o nulli. A posteriori cio` puo` apparire come restrittivo nell’ambito alimentare, soprattutto per quanti attribuiscono scarsa importanza ai riti; tuttavia non e` cosı`, se lo si situa nel suo contesto: le ‘‘leggi alimentari’’ dell’islam sono il frutto della Sunna piu` che del Corano.

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I miracoli alimentari sono rari nel Corano. Per lo piu` si ricollegano alla storia di Mose` e particolarmente all’episodio dell’uscita dall’Egitto (2,57; 7,160; 20,8081). Un solo caso interessa la storia di Gesu` e sembrerebbe una reminiscenza dell’episodio della Cena (5,112-115); nessuno concerne Muhammad, argomento su cui la Sunna si dilunga maggiormente. Non si puo` infine trascurare un’istituzione autonoma ma intrinsecamente legata alle rappresentazioni che prendono a oggetto l’alimentazione: le leggi dell’ospitalita`. Dal versetto 2,177 si ricava che l’ospitalita` nel senso dell’offerta di cibo e` importante tanto quanto la preghiera o la fede negli angeli. Il viaggiatore, cioe` lo straniero, e` equiparato ai parenti prossimi (2,215; 4,36; 30,37). Per di piu` il versetto 4,37 condanna molto chiaramente gli avari, mentre il versetto 38 della stessa sura accusa i prodighi. Cosı`, il Corano riprende e fa proprie le leggi dell’ospitalita` dei beduini, pur inserendole in un contesto religioso; a motivo del versetto 11,69, Abramo e` presentato come l’iniziatore di tali leggi. Lo sfondo in cui il Corano si colloca e` definito da due elementi importanti: da una parte, un’economia di sussistenza, basata principalmente sull’allevamento estensivo e strettamente dipendente dai capricci del clima (da questo punto di vista ogni anno nuovo e` un miracolo, perche´ la carestia minaccia continuamente questo fragile ordine); dall’altra, l’esistenza di una massa d’individui ridotti in poverta` e in grado di sopperire ai propri bisogni solo grazie alla pubblica carita`, cioe` l’elemosina. Forse per tutti questi motivi l’alimentazione costituisce uno dei principali terreni di scambio e di confronto tra gruppi. Vedi anche INTERDIZIONI ALIMENTARI. [M.H.B.]

Bibliografia: Mohammed Hocine Benkheira, Islam et interdits alimentaires. Juguler l’animalite´, PUF, Paris 2000; Ersilia Francesca, Introduzione alle regole alimentari islamiche, Istituto per l’Oriente (IPO), Roma 1995.

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ALLAH Allah e` il nome che l’islam da` a Dio, uno e unico, creatore, padrone dei mondi e signore del giudizio finale. Il termine arabo deriva da una famiglia di nomi piu` antica della comparsa dell’islam; Allah risale senza dubbio a un termine comune alle lingue semitiche, Il o El, che indicava la divinita`. La variante Alla¯humma, utilizzata specialmente nelle preghiere, sembrerebbe corrispondere al nome ebraico Elohim. Nella poesia araba preislamica compare la parola ila¯h (pl. a¯liha) preceduta dall’articolo per indicare soprattutto una divinita` impersonale, nel senso di ‘‘divinita` di cui si sta parlando’’. Gli arabi nel periodo preislamico erano soliti indicare con al-ila¯h anche il sole, e pare addirittura che alcuni gli riservassero un culto; ma nulla esclude che ila¯h fosse utilizzato anche senza l’articolo per indicare una particolare divinita`. Le ipotesi sull’origine del termine Alla¯h sono numerose. Secondo la piu` diffusa, si e` formato a partire dall’articolo al- unito al sostantivo ila¯h (‘‘divinita`’’), con contrazione in Alla¯h; in tal modo, il nome della divinita` preislamica Al-La¯t risulta essere la forma femminile di Alla¯h. In epoca preislamica, e segnatamente presso i cristiani, il nome Allah veniva gia` utilizzato; lo si evince da un’iscrizione del VI secolo rinvenuta a Umm al-Jimal nonche´ dal nome del padre del Profeta, ‘Abd Alla¯h (‘‘servo di Allah’’). Alla¯h compare anche nella poesia preislamica in sostituzione di al-ila¯h, che non compare nel Corano, per indicare un dio particolare. Il Libro sacro sembra aver conservato una traccia della parentela con la fase preislamica nel versetto che recita «Egli e` Iddio nei cieli» (6,3) e anche nel versetto seguente, che distingue Allah da ogni altro dio affermandone l’unicita` : «Perche´ Egli e` Dio, non c’e` altro dio che Lui» (28,70). Il semplice impiego del termine Alla¯h non e` tuttavia sufficiente a indicare la fede in un dio unico; solo l’islam conferira` a questa parola la sua dimensione di unicita` assoluta e di universalita`. Il lavoro dei lessicografi per defi-

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nire l’origine di questa parola ha contribuito all’elaborazione del concetto teologico di Dio. Com’e` ovvio, i lessicografi si sono immediatamente impegnati a comprendere come questo termine si fosse formato, e le ipotesi avanzate sono numerose. Qualche raro studioso ha creduto che si trattasse di un nome proprio di Dio, che non indicasse alcuna qualita` divina particolare e che fosse un derivato dal quale, pertanto, non poteva essere eliminato l’articolo al-; la grande maggioranza dei teologi sunniti concorda con questa posizione. Tra questi lessicografi, alcuni hanno inoltre ritenuto che fosse un calco dal siriaco o dall’ebraico. Tuttavia, la maggioranza concorda nel considerarlo un nome derivato da una data radice, e in tal caso l’etimologia offre diverse soluzioni. Alcuni teologi hanno seguito l’ipotesi della derivazione, in particolare la maggioranza dei mu‘taziliti. Le ipotesi avanzate sono tre. Secondo la prima, Alla¯h sarebbe formato dall’articolo al- e dal termine la¯h, quest’ultimo derivato dal verbo la¯ha e formato a sua volta dalle lettere la¯m, wa¯w e ha¯’. La sua radice puo` significare sia ‘‘essere nascosto’’, poiche´ Dio e` nascosto agli sguardi, sia ‘‘essere elevato’’, poiche´ Dio e` l’Altissimo, essendo infine i due significati complementari. Nella seconda ipotesi, il nome Alla¯h si sarebbe formato a partire dall’ultima lettera, la ha¯’. L’idea e` che Dio sia stato dapprima definito con il pronome di terza persona singolare hu (huwa); che a esso sia stata aggiunta una la¯m, dando cosı` forma a lah; che in seguito sia stato aggiunto l’articolo al-; e che, infine, sia stata allungata la a di la¯h cosı` da ottenere Alla¯h. L’ipotesi prevalente e` pero` la terza, che poggia sulla derivazione a partire da ila¯h; sarebbe semplicemente stato aggiunto l’articolo al- davanti a ila¯h per distinguere Dio dagli de`i e per rispetto nei suoi confronti, ottenendo cosı` al-ila¯h; quindi la prima lettera di ila¯h sarebbe stata eliminata per formare una parola intera a se´. A questo punto occorreva spiegare l’ori-

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ALLAH

gine di ila¯h, e otto possibilita` furono prese in considerazione. 1. Ila¯h deriverebbe da a¯liha, che vuol dire ‘‘cercare rifugio e protezione in Dio’’. 2. Deriverebbe piuttosto da waliha, che include comunque tra i suoi significati quello del punto precedente. 3. Potrebbe derivare dallo stesso waliha ma con un altro significato, quello di ‘‘essere in preda a una viva emozione’’ oppure di ‘‘desiderare qualcuno con passione’’; vale a dire che Dio e` colui del quale le creature sono perdutamente innamorate, colui che esse vogliono conoscere. 4. Potrebbe derivare da walah, sempre dalla stessa radice, attingendo pero` all’idea di amore intenso; Allah sarebbe dunque al tempo stesso l’oggetto di un simile amore da parte degli uomini e anche colui che ama gli uomini intensamente. 5. Un’altra possibilita` e` che ila¯h derivi da aliha nel senso di adorare; in questo caso Allah e` ‘‘colui che viene adorato’’. 6. Costruendo aliha in modo diverso, si ottiene il senso ‘‘stazionare a lungo in un luogo’’; Allah significa allora ‘‘l’eterno’’ e ‘‘colui che sta immobile’’. 7. Si e` inoltre proposto che ila¯h derivi da la¯ha (rad. «lwh») nel senso di ‘‘creare’’. 8. Infine, potrebbe derivare dalle radici «’wl» e «’yl » che esprimono entrambe un’idea di primato. Oltre la questione etimologica, i teologi concordano nel ritenere possibile l’utilizzo dell’espressione al-ila¯h per indicare Dio. Molti significati sono stati attribuiti alla nozione di ila¯h; tra questi: ‘‘Colui che vince e non e` mai vinto’’, ‘‘Colui che esiste per propria esclusiva volonta`’’, ‘‘il Forte’’, ‘‘l’Eterno’’, ‘‘il Creatore’’, ‘‘la Luce in senso assoluto’’, ‘‘Colui che deve essere designato in base alle qualita` di preminenza e superiorita`’’, ‘‘Colui che possiede l’ordine e la creazione’’, ‘‘l’Eterno Onnipotente’’, ‘‘Colui che merita d’essere adorato’’ e ‘‘Colui cui spetta l’adorazione’’ – e` questo il caso di alcuni mu‘taziliti – o ancora ‘‘Colui cui appartiene la divinita` cioe` la capacita` di creare senza intermediari’’ – e` questo il caso di Ash‘arı¯ (m. 323/935). Allah, nel modo in cui lo intendono i teologi, e` il nome piu` importante. Nome dell’essenza, esso non

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ALLAH

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indica una qualita` particolare; al contrario e` il nome proprio di Dio, un nome che raccoglie in se´ ogni altro nome, che esisteva prima che esistesse Adamo. Allah e` il Dio che si e` rivelato a tutti i profeti, da Adamo a Muhammad passando per Noe`, Abramo, Mose` e Gesu`, e costituisce il cuore della fede e della prassi musulmane tanto che ogni aspetto della vita del musulmano si riferisce ad Allah attraverso la religione. Sebbene vi si faccia riferimento mediante il pronome di terza persona maschile e singolare huwa, e sebbene il neutro non esista in arabo, Allah si considera normalmente un nome privo di genere. Anche il misticismo musulmano percepisce il nome Allah come il nome proprio di Dio che comprende ogni altro nome; i mistici hanno frequentemente affermato che questo e` il nome supremo e utilizzarlo per rivolgersi a Dio fa sı` che le preghiere siano esaudite. Allah si considera un nome che designa una realta` le cui caratteristiche sono ben precise e che trascende assolutamente la sua intera creazione. E` la sola vera realta`, la sola che possa dirsi eterna sotto ogni aspetto; pertanto, essa si oppone alle realta` accessorie che sono periture. E` il creatore onnipotente, onnipresente e onnisciente. La concezione di Dio propria dell’islam e` quella di un monoteismo integrale; la sura 112 (al-Ikhla¯s) ne offre la presentazione piu` eloquente:˙ «Dı`: ‘‘Egli, Dio, e` uno, Dio l’Eterno, Non genero` ne´ fu generato e nessuno gli e` pari» (112,1-4). Questa sura riassume in se´ i tratti essenziali dell’idea di Dio, allo stesso tempo uno e unico, il quale trascende il ciclo delle cause proprie della creazione e in particolare la generazione che vi sta a capo. Il versetto 53,19 ricorda che quella teologia spicciola consistente nel recuperare tre antiche divinita` preislamiche (alLa¯t, al-‘Uzza¯ e al-Mana¯t) facendone ‘‘le figlie di Allah’’ (bana¯t Alla¯h), per allettante che sia, e` del tutto inconcepibile per la coscienza musulmana. Questo monoteismo intransigente porta a definire Allah come il sovrano dei mondi, il padrone dei destini, il Resuscitatore, il giudice nel giorno del Giudizio, colui che dara` a ogni

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anima la sua ricompensa secondo i meriti acquisiti lungo la vita terrena. Egli e`, soprattutto, il creatore, colui che fa esistere tutto quel che accade, e che conduce gli uomini a una meta di cui gli uomini stessi ignorano la ragione vera e la conclusione. E` colui che guida sulla retta via e colui che smarrisce. Allah racchiude in se´ una moltitudine di caratteristiche, attributi e nomi che sono quasi sistematicamente reciproci opposti, poiche´ il nome Allah non possiede di per se´ alcun opposto. Dio e`, allo stesso tempo ‘‘il Temibile’’ (al-Qahha¯ r) e ‘‘il Terribile’’ (al-Jabba¯ r), ‘‘il Maestoso’’ (al-Jalı¯l) e ‘‘il Bello’’ (al-Jamı¯l), e` colui che castiga e colui che perdona. E sebbene si affermi l’esistenza del furore divino, la fede musulmana insiste soprattutto sulla dimensione misericordiosa di Dio la quale viene ricordata immediatamente dopo il nome Allah all’inizio di ogni sura tranne una, in una formula, la basmala, che ricorre di continuo nella vita del musulmano: «Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso». Il nome Allah, che per il musulmano e` il modo stesso di dire la rivelazione monoteista, e` innanzitutto pensato nella sua dimensione di misericordia, anzi di una doppia misericordia, di intensita` assoluta ed estensione universale. Questa rivelazione di Allah come misericordia sara` oggetto particolare della meditazione dei mistici, che insisteranno sul senso spirituale della basmala. Il Corano afferma la trascendenza assoluta di Dio (tanzı¯h), incomparabile e impossibile a descriversi, ma ne propone alcune descrizioni antropomorfe (tashbı¯h): riporta cosı` che Dio sta assiso sul Trono (20,5 ; 57,4) e che possiede le mani (42,10; 51,47), e ne evoca il volto (55:27) e gli occhi (11,37; 52,48; 54,14). Dunque, da un lato ribadisce la necessita` di affermare la trascendenza assoluta di Dio in rapporto alla creazione di cui egli e` autore, dall’altro sostiene la presenza di Dio in questa creazione, che consente di continuare a sperare nell’incontro con il proprio Dio che purtuttavia non si considera persona. Dio e` contemporaneamente l’inaccessibile mistero (Ghayb) e colui che

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si e` manifestato nella (e per mezzo della) sua creazione. «Egli e` il primo, Egli e` l’Ultimo, Egli e` il Dispiegato, Egli e` l’Intimo» (57,3); e` nei cieli (67,16), nei cieli e sulla terra (50,16) della quale e` re; allo stesso tempo e` piu` vicino all’uomo della sua stessa carotide (50,16), dunque nella massima prossimita` possibile sebbene si nasconda nella sua trascendenza. Uno ha˙ dı¯th qudsı¯ (parola divina trasmessa da Muhammad ma esclusa dal Corano) afferma inoltre che i cieli e la terra non possono contenere Dio, ma puo` contenerlo il cuore di chi lo serve e ha timor di lui. Il Libro sacro e` particolarmente attento a spogliare il Dio secondo l’islam di tutto cio` che puo` attentare all’unicita` e alla trascendenza. Associare altri a Dio e` dunque sistematicamente condannato; questo conduce a condannare il dogma cristiano della Trinita`, letto appunto in tal senso – e anche l’Incarnazione. Dio e` indicato inoltre come colui che e` in se´ completo, basta a se stesso e non necessita di alcuno; questo ne sottolinea la misericordia con cui si preoccupa di assicurare agli uomini il sostentamento, di guidarli, di perdonare loro i peccati finanche trasformandoli in virtu`. Egli conosce i pensieri degli uomini, conosce le sue creature fin nei minimi particolari, e dunque nel giorno del Giudizio decidera` con cognizione di causa a perfezionamento della sua giustizia, e dara` ricompensa a quelli che credono e invece castigo ai peccatori e a quelli che non hanno creduto. L’islam insiste sulla fede nell’unicita` di Dio, il messaggio che il Profeta e` stato inviato ad annunciare; per questo, il Corano insiste su un’unica colpa assolutamente imperdonabile (44,48) cioe` attentare all’unicita` di Allah associandogli altri. Il Profeta lo ripetera` piu` volte: «Mi e` stato rivelato che il vostro Dio e` un Dio solo» (41,6). E` un’idea che percorre instancabilmente l’intero Corano e addirittura sembra rappresentarne il cuore. Questa unicita` assoluta che allontana da Dio ogni altra entita` che possa essergli comparata si collega, all’inizio del periodo meccano, all’idea che Dio sia uno nella sua stessa natura, insecabile e indivisi-

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ALLATTAMENTO

bile, senza la possibilita` di qualsivolgia interpretazione in termini trinitari. Egli e` una monade pura che e` regola della creazione, di questa iniziatore e creatore pur essendo, in senso stretto, l’unica realta` e l’unica verita`. [P.B.] Bibliografia: Louis Gardet, M.M. Anawati, Introduction a` la the´ologie musulmane, essai de the´ ologie compare´ e, Vrin, Paris 1981 (3ª ed.); Daniel Gimaret, Les Noms divins en islam. Ese´ge`se lexicographique et the´ologique, Le Cerf, Paris 1988; Paul Nwyia, Exe´ge`se coranique et langage mystique. Nouvel essai sur le lexique technique des mystiques musulmans, Dar elMachreq, Beyrouth 1970.

ALLATTAMENTO Gli abitanti dello Hija¯z erano principal˙ mente pastori: allevavano dromedari e secondariamente caprini. Come la maggior parte degli allevatori, il cibo quotidiano non era costituito, come a torto si crede, dalla carne, ma piuttosto dal latte, dal formaggio stagionato e da un po’ di cereali. In numerose tradizioni, Muhammad e i suoi Compagni si nutrono esclusivamente di latte di capra. Per questa ragione il latte e` stato assunto a simbolo del sapere religioso da parte della tradizione islamica. La parola ‘‘latte’’ (laban) e` menzionata due volte nel Corano (16,66; 47,15) e l’allattamento appare in otto versetti, di cui due riguardano la storia di Mose` (28,7 e 12). A parte l’affermazione sul seno della madre come superiore a quello della balia, dottrina che non sara` tuttavia eretta a norma ideale da parte dei giuristi musulmani se si esclude l’ambito sciita, questi versetti non hanno incidenza sul nostro argomento. Un altro versetto (22,2), di carattere escatologico, fa della nutrice che abbandona il bambino affidatole un segno della fine dei tempi; esso testimonia pertanto che dare a balia un bambino era di uso corrente, fin dalla piu` remota antichita`. Solo i versetti che seguono forniscono i tratti fondamentali di una dottrina coranica dell’allattamento, su alcuni dettagli precisi.

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ALLATTAMENTO

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La durata dell’allattamento o l’eta` dello svezzamento Il versetto 2,233 recita: «Le madri divorziate allatteranno i loro figli per due anni pieni se il padre vuole completare l’allattamento [...]: ne´ la madre soffra danno per il figlio, ne´ il padre [...]. Se poi i due coniugi vorranno interrompere l’allattamento di comune accordo, e dopo essersi insieme consultati, non faranno alcun peccato». Questo versetto non definisce soltanto la durata dell’allattamento a due anni, ma precisa anche che il bambino puo` essere svezzato prima di questa data solo se entrambi i genitori sono d’accordo. Una tale decisione non puo` dunque essere presa dal solo padre. Cio` appare sorprendente nella misura in cui il Corano sembra aderire a una concezione patrilineare della filiazione, ma la contraddizione e` solo apparente: finche´ il bambino non e` dotato di discernimento, e` legato piu` strettamente alla madre che al padre. E` cosı` che la Legge musulmana riconoscera` nel caso dei bambini piccoli un diritto di custodia per la madre e, in mancanza di lei, per la parentela materna prima che per quella paterna. Dallo stesso versetto si ricava inoltre che la durata di due anni non e` imperativa; e` solo affermato implicitamente che non si era soliti allattare i bambini oltre i due anni. Il versetto 31,14 – «la madre che lo porto` fra mille stenti in seno, e svezzo` quando aveva due anni [...]» – procede nella stessa direzione per quanto riguarda la durata dell’allattamento raccomandata dal Corano; ma il versetto 46,15 – «lo porto` sua madre in seno a fatica e lo ha partorito a fatica e trenta mesi durarono la gestazione e lo svezzamento» – e` meno chiaro: per conciliarlo con 2,232 e 31,14 occorre postulare, come fanno i giuristi musulmani, che il Corano suppone una gestazione minima di sei mesi. L’allattamento a pagamento Esso e` permesso, anche quando la madre e` in grado di allattare: «ne´ farete peccato se darete ad allattare i vostri figli a una nutrice, se consegnerete il prezzo pattuito, gentilmente» (2,233). Il Corano, che non

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esprime alcuna preferenza al riguardo, non indica nemmeno a chi appartenga il diritto di decisione. Si puo` pensare che spetti alla coppia dibattere e deliberare. In seguito i giuristi preciseranno questa dottrina distinguendo le mogli di nobile estrazione, che non sono tenute a nutrire al seno i loro figli, e le altre. L’infanzia stessa di Muhammad illustra tale pratica, dal momento che egli sarebbe stato allattato da diverse nutrici. A parte le difficolta` concrete (in particolare, il ripudio o il decesso della madre e l’assenza del latte), due ragioni principali sembrano spiegare la diffusione dell’allattamento a pagamento nell’Arabia antica. Entrambe si ricollegano a credenze allora diffuse. Da una parte, sembra che si dessero i lattanti a balia preferibilmente a donne beduine, perche´ si pensava che fossero piu` sane. Dall’altra, si credeva che la donna che allattava dovesse astenersi dalle relazioni sessuali per non alterare il proprio latte e nuocere cosı` alla salute del bambino; in tal modo, l’allattamento a pagamento permetteva ad alcune donne, soprattutto appartenenti alle classi agiate, di condurre una vita sessuale senza impacci. Si aveva infatti l’abitudine d’inserire nei contratti di baliatico una clausola di castita`, secondo un’usanza risalente all’Egitto greco e ripresa, secondo numerosi testi, nel mondo islamico. Tuttavia alcuni giuristi criticheranno questa clausola perche´ lesiva dei diritti del marito. Se il padre muore prematuramente, il salario della balia deve essere preso in carico dagli eredi; e se egli muore mentre il lattante e` ancora nutrito al seno, ai suoi eredi incombe il compito di provvedere ai bisogni del bambino, per esempio pagando per lui una nutrice, come testimonia il versetto 2,233: «l’erede ha gli stessi obblighi». I giuristi preciseranno che si tratta soltanto degli agnati del padre del lattante. Nel caso della donna ripudiata, il padre e` tenuto a trovare una nutrice al bambino oppure dovra` versare alla moglie ripudiata, se questa accetta di allattarlo, il salario che verserebbe a una balia: «Se allatteranno per voi date loro la loro mercede e accordatevi fra voi con genti-

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lezza. E se troverete difficolta` in questo, allora allatti il vostro figlio un’altra donna. Che colui che ha abbondanza di mezzi, spenda abbondantemente!» (65,67). Queste due regole sono in linea con la concezione patrilineare. Secondo una tradizione riferita da Ma¯lik ibn Anas (m. 179/795) che pero` non la sottoscrive, sarebbe esistito un versetto coranico che stabiliva a dieci poppate il termine necessario per creare un vincolo di parentela tra balia e lattante; tuttavia, tale versetto sarebbe stato abrogato. [M.H.B.]

Bibliografia: Mohammed Hocine Benkheira, «Donner le sein, c’est comme donner le jour: la doctrine de l’allaitement dans le sunnisme me´die´val», in Studia islamica, 92 (2001), pp. 5-52; Id., «Le commerce conjugal gaˆte-t-il le lait maternel? Sexualite´, me´decine et droit dans le sunnisme ancien», in Arabica, 50/i (2003), pp. 1-78; Avner Giladi, Infants, Parents and Wet Nurses. Medieval Islamic Views on Breastfeeding, Brill, Leiden 1999.

AMMONIMENTO L’idea di ‘‘ammonire’’ o indha¯ r (dal verbo andhara, impiegato nel Corano quasi esclusivamente con il senso di ‘‘mettere in guardia’’) rappresenta uno degli aspetti cardinali della profetologia islamica, nel Corano come nella Tradizione. Esso figura centotrentasei volte nel Libro sacro; tutte le sure suggeriscono di meditare sulla sorte dei popoli che prima furono ammoniti e poi scomparvero. Nei versetti 6,19 e 38,70, la Rivelazione nel complesso si trova ricapitolata nello stesso termine indha¯r. Il testo rivelato risponde da solo alle seguenti questioni essenziali: chi ammonisce? chi e` ammonito? e a che proposito viene ammonito? La Tradizione e l’esegesi non aggiungono nulla di essenziale. Si tratterebbe dei profeti anteriori a Muhammad, per la gran parte definiti nadhı¯r (‘‘colui che avverte’’, pl. nudhur). La missione del nadhı¯r sembra inoltre strettamente collegata a quella di rasu¯l (‘‘inviato’’), tanto che i commentatori considerano le due parole come sinonimi. Una citta` o una

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AMMONIMENTO

comunita` (umma) riceve un profeta autoctono mandato da Allah, testimone (sha¯hid) di fronte a essa, guida (ha¯din) e ammonitore (35,24). Nel mondo di quaggiu`, costui avverte di un’imminente calamita`: vento devastante, nuvole dense di pietre, e cosı` via che stanno per annientare la comunita` in questione; e` quel che accade nei ¯ d, versetti 54,16-41, che citano Noe`, gli ‘A i Thamu¯d, Lot e Faraone. La Tradizione aggiunge che ciascun profeta, in testa alla propria comunita` debitamente ammonita, la guidera` nell’ultimo giorno fino al ponte che la condurra` all’altro mondo. Piu` spesso, pero` , l’oggetto dell’ammonimento e` vago e implicito; il lettore intuisce da altri contesti che si tratta di una punizione che sara` inflitta agli empi o a coloro che sono infedeli a Dio e ai suoi inviati. Le varie comunita`, gia` oggetto di un ammonimento, non sapranno accampare alcuna scusa nell’ultimo giorno (39, 71). Dio, nella propria prescienza, sa che gli avvertimenti in questione giovano solo ai credenti: la Rivelazione anticipa infatti al Profeta che avvertire o non avvertire chi non crede e` «indifferente» (10,101). E il musulmano non rinuncia a credere che Dio si impegni, per pura misericordia, a un compito votato in buona parte al fallimento. Per quanto riguarda Muhammad, inviato a un popolo che non aveva ancora ricevuto un profeta ammonitore (28,46), settantatre versetti ricordano il monito che egli rivolse a suoi contemporanei non credenti (arabi politeisti, increduli, ipocriti, ebrei medinesi, cristiani): si tratta di una calamita` prossima, del fulmine o, piu` spesso, di un «tormento doloroso» (‘adha¯b alı¯m) o perfino l’annientamento. Nel versetto 6,130, Muhammad avverte anche i jinn. In generale, la menzione della messa in guardia e` accompagnata dalle pene infernali che Dio infliggera` , nel giorno del Giudizio finale, agli increduli, ai perversi, agli idolatri, a coloro che rifiutano i segni (a¯ya¯t) divini, a coloro che «mentono ad Allah». Talvolta, l’avvertimento si identifica con lo stesso giorno del Giudizio, annunciato come imminente (Yawm al-Azifa, 40,18) o prossimo (77,40). Da questo punto di vista, Mu-

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AMORE

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hammad non si distingue dai profeti anteriori. Anche nel suo caso, l’ammonimento non giovera` a coloro che non temono Dio. Il suo unico compito, ripete il Corano, e` quello di annunciare, avvertire e guidare. In molte occasioni, Muhammad afferma per il tramite della Rivelazione di non essere nient’altro che un «ammonitore chiaro» (nadhı¯r mubı¯n; ma puo` accadere che sia l’‘‘Io’’ divino ad affermarlo di lui: 7,184; 11,2; 26,115). Tali avvertimenti profetici lasciano indovinare che i contemporanei di Muhammad avessero gia` udito parlare della sorte dei popoli scomparsi, il che e` confermato dalle ricerche sulla situazione religiosa d’Arabia alla nascita di Muhammad. Muhammad viene a conoscenza della propria condizione di ammonitore tramite la Rivelazione (cfr. bi-al-wahy; 21,45; 38,70); grazie a essa, ˙ scopre di essere l’unico tra gli soprattutto, inviati incaricato di ammonire l’intero genere umano (10,2; 14,44 e 52; 34,28; 36,70; 74,36). L’esegesi si fonda su questi testi per affermare il carattere universale della missione di Muhammad. E si fonda anche su alcuni Seguaci, quali ‘Ikrima, Qata¯da o Ibn ‘Abba¯s (m. 68/686); quest’ultimo, nel suo commento ai versetti suddetti, si richiama al passo in cui il Corano descrive Muhammad come inviato agli uomini e ai jinn (6,130). Questa prerogativa del profeta dell’islam, che lo differenzia dai suoi predecessori, e` una delle cinque cui allude uno hadı¯th profe˙ e` corrobotico considerato autentico. Ed rata dal potere di intercessione anche a favore delle comunita` precedenti che gli sara` conferito nell’ultimo giorno. Tuttavia, all’inizio della sua missione, Muhammad dovra` predicare in primo luogo ai «piu` vicini a te della tua tribu`» (26, 214), e alla Mecca (definita Umm alQura¯, ‘‘Madre delle Citta`’’; 6,92); in seguito a un solo popolo, che non aveva ricevuto un ammonitore prima di lui (32, 3). E` dunque consentito affermare che Muhammad pote´ prendere coscienza dell’universalita` della sua missione solo progressivamente. Infine, secondo la Tradizione, Muhammad inauguro` l’apostolato proprio in nome di questa funzione di

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ammonitore. A ciascuna delle prime comunicazioni divine faceva infatti seguito un periodo di interruzione; e poi un giorno il Profeta, in preghiera nella grotta del monte Hira¯’, vide l’angelo Gabriele, seduto su ˙un trono (kursı¯) tra cielo e terra, che lo avvolse in un mantello e gli ordino`: «Sorgi e predica!» (74,2). In sintesi, la nozione di indha¯r chiarisce il senso coranico di profezia: un insieme di funzioni al servizio di una missione soteriologica. La prima di tali funzioni e` avvertire delle minacce che incombono sull’umanita`, in questo mondo come nell’Aldila`, lasciata a se stessa. Cio` e` confermato dalla linguistica strutturale che ha isolato un preciso campo semantico: nadhı¯r compare nel Corano frequentemente associato a bashı¯r (o mubashshir, ‘‘latore di una buona novella’’). Allah comunica all’uomo le sue a¯ya¯t, i suoi Segni; relativamente alla divina bonta`, esse sono oggetto di tabshı¯r o ‘‘buona novella’’; relativamente alla divina collera, sono oggetto di indha¯r. Nel versetto 6,48, questa bipolarita` investe l’intera missione profetica. E se e` Dio, e non il Profeta, che parla alla persona, e` vero che il Corano tratta invariabilmente di una ‘‘promessa’’ e di una ‘‘minaccia’’ (wa‘ada, pl. aw‘ada). Indha¯r e` propriamente la modalita` del discorso divino, che i profeti hanno il compito di [M.Y.] spiegare agli uomini. Bibliografia: Willem A. Bijlefeld, «A Prophet and more than a prophet...», in Andrew Rippin (a cura di), The Qur’an, Style and Contents, Ashgate, Brookfield 2001; Re´gis Blache`re, Le Proble`me de Mahomet, PUF, Paris 1952; Toshihiko Izutsu, God and Man in the Koran, Keio Institute of Cultural and Linguistic Studies, Tokyo 1964 (nuova ed. Books for Libraries, New York 1980); Hanna E. Kassis, A Concordance of the Qur’a¯n, University of California Press, Berkeley 1983; William Montgomery Watt, Mahomet a` La Mecque, Payot, Paris 1977.

AMORE Il verbo piu` utilizzato nel Corano per esprimere l’amore e` ah abba; il nome ˙ radice, comhubb, derivato dalla stessa ˙

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pare nove volte. Il Libro sacro fa soprattutto riferimento all’amore di Dio per gli uomini, amore che non e` incondizionato; dipende infatti dalla condotta morale di questi ultimi. In tal senso, il rapporto d’amore che lega l’uomo a Dio e` il fondamento di un’etica autentica. L’amore di Dio non si rivendica, e` un dono, una grazia della quale l’uomo non puo` prendere l’iniziativa da se´: «Iddio suscitera` uomini che Egli amera` come essi ameranno Lui, umili coi credenti, fieri coi miscredenti [...]; questa e` grazia che Dio dona a chi vuole, che´ Dio e` ampio, saggio» (5,54). Dio non gratifica del suo amore a caso, ma ama «coloro che agiscono per il meglio» (muhsinu¯n; l’espressione ricorre cinque ˙ nel Corano), e «ama coloro che agivolte scono equamente» (muqsitu¯n; tre occor˙ renze). Dio non ama gli «ingiusti» (za¯li˙ mu¯n; tre occorrenze), ne´ i « trasgressori» (mu‘tadu¯n; tre occorrenze). Ma anche la fede e la ripulsa di ogni atto d’empieta` e` un dono di Dio: «Dio vi ha fatto amare la Fede e ve l’ha resa adorna nel cuore e vi ha reso odioso il ribelle rifiuto e l’empieta` e la disobbedienza; questi sono quelli che vanno sulla retta via» (49,7). Tuttavia, gli uomini possono tentare di chiamare a se´ l’amore di Dio con le azioni, in particolare imitando il comportamento del Profeta dell’islam: «Di’: ‘‘Se veramente amate Dio, seguite me e Dio vi amera` e vi perdonera` i vostri peccati, perche´ Dio e` indulgente, pietoso’’» (3,31). La letteratura di Hadı¯th soprannominera` il profeta ˙ Muhammad ‘‘l’amato di Dio’’ (habı¯b Al˙ la¯h). Gli attributi divini della misericordia (Rah¯ım) e del perdono (Ghafu¯r) esprimono ˙l’amore e l’affetto di Dio nei confronti dell’uomo, sentimenti che nel Corano sono resi anche dalla radice «wdd»: «E` colui che perdona e che ama (al-Ghafu¯r, al-Wadu¯d)» (85,14); ma anche: «Il mio Signore e` misericordioso e amorevole (inna rabbı¯ rah¯ım, wadu¯d)» (11,90). Tuttavia, ancora ˙una volta, questo amore e questa misericordia sono accordati unicamente a chi ha compiuto buone azioni:

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AMORE

«Allora a coloro che credono e operano il bene concedera` il Misericordioso amore» (19,96). Per l’uomo, l’atto d’amore e` l’atto di fede incondizionata in Dio e l’adozione dell’etica rivelata dalla Legge di Dio. All’uomo si offre la scelta tra due tipi di amore: l’uno, alimentato da una fede incrollabile, gli guadagna in cambio l’amore di Dio e la salvezza eterna; l’altro lo conduce smodatamente verso i beni terreni e lo devia, destinandolo al Castigo eterno: «Divorate l’eredita` dei deboli, voracemente, e amate le ricchezze bramosamente. No! Quando la terra sara` stritolata [...] sara` tratto innanzi, quel giorno, l’Inferno» (89,19-23). Nel suo commentario, Fakhr al-Dı¯n alRa¯zı¯ (m. 606/1209) identifica l’amore che l’uomo nutre per Dio all’alleanza che unisce l’uno all’altro e all’obbedienza che la creatura deve al Creatore. Per i mutakallimu¯ n, i teologi scolastici, questo amore non rappresenta null’altro che l’obbedienza dovuta a Dio, amore che dipende dalla volonta` poiche´ richiede un’obbedienza assoluta alla Legge rivelata dal Creatore. Il Corano stesso identifica la vera fede con l’amore per Dio: «Ma vi sono uomini che danno a Dio degli eguali, che essi amano come Dio; pero` quelli che credono, piu` forte di loro amano Dio» (2,165). Oltre al rapporto d’amore e di affetto che lega Dio agli uomini, il Corano evoca l’amore o l’amicizia tra gli uomini. Ma hubb designa l’amore umano un’unica ˙volta; in questa occasione, il termine assume una connotazione negativa: i fratelli di Giuseppe ricordano con una punta di gelosia che Giuseppe e` il piu` amato (ahabb) dal padre. Questo amore e` fonte di˙ conflitti e invidia, analogamente a quello, colpevole, della moglie del padre adottivo di Giuseppe per quest’ultimo. L’amore per una donna, come pure per le ricchezze o i figli, distoglie da Dio se non si radica nell’amore vero che occore nutrire per Dio: «Fu reso adorno agli occhi degli uomini l’amore dei piaceri, come le donne, i figli, e le misure ben piene d’oro e d’argento, e i cavalli di purissima razza, e i greggi e i campi. Questi sono beni di

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ANGELI e ANGELOLOGIA

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questa vita terrena, ma il Buon Ritorno e` presso Dio» (3,14). Vi e` nondimeno un versetto che presenta l’amore tra i coniugi come una grazia di Dio: «Uno dei Suoi Segni e` che Egli vi ha creato da voi stessi delle spose, acciocche´ riposiate con loro, e ha posto fra di voi compassione e amore» (30,21). L’amicizia o l’amore o l’affetto tra gli uomini non hanno alcun valore se non si saldano a una fede incrollabile in Dio e nell’Aldila`. Al vero credente, colui che teme l’ultimo Giudizio, Dio ingiunge l’amore per il prossimo (almawadda fı¯ al-qurba¯; 42,23); secondo vari versetti, chi non crede non ha amici sinceri (26,101; 40,18; 70,10). Nel Corano, l’amore reciproco tra creatura e Creatore appare come la manifestazione dell’alleanza che li unisce. La tradizione mistica porra` l’amore al centro del rapporto che unisce l’uomo a Dio, e Ibn ‘Arabı¯ (m. 638/1240) elaborera` una vera metafisica dell’amore. Quanto ai filosofi, Fa¯ra¯bı¯ (m. 339/950) concepisce l’amicizia (mahabba) come il sentimento ˙ fondazione della citta` che presiede alla virtuosa. E` una disposizione innata, inscritta nel cuore degli uomini, che conviene sviluppare nell’ambito di una citta` che ne favorisca l’accrescimento. [M.S.] Bibliografia: Fa¯ra¯bı¯, La citta virtuosa, intr., trad. e note di Massimo Campanini, BUR, Milano 1996; Ibn ‘Arabı¯, Traite´ de l’amour, intr., trad. e note Maurice Gloton, Albin Michel, Paris 1986; Ibn Hazm, Il collare ˙ e gli amanti, della colomba, sull’amore trad. di Francesco Gabrieli, Laterza, Bari 1983 (rist. anastatica dell’edizione 1943).

ANGELI e ANGELOLOGIA Gli angeli, designati con il termine malak (mala¯’ika al plurale), sono citati ottantotto volte nel testo coranico. Duncan Black MacDonald ha dimostrato le origini armene ed ebraiche di questa parola che giunse all’arabo prima dell’islam per intermediazione etiopica, mal’a¯ k, mala¯’eket. Essi svolgono diverse funzioni: proclamano le lodi di Dio: «Il tuono canta la Sua lode, e gli angeli pure, pieni di santo spavento» (13,13); stanno attorno al trono di Dio: «Gli angeli che traspor-

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tano il Trono e gli angeli che lo circondano, celebrano le lodi del Signore» (40, 7); portano il trono: «E Otto porteranno il Trono del Signore, in quel giorno, sopra di loro, alto» (69,17); implorano il perdono di Dio a favore degli uomini (42,5 tra le altre ricorrenze). Sono anche inviati come messaggeri al fianco di numerosi personaggi: Abramo, Lot, Zaccaria e Maria. Sono, inoltre, i guardiani del fuoco della Geenna: «E grideranno: ‘‘O Ma¯lik, che il tuo Signore ci finisca!’’ Ed egli rispondera`: ‘‘No! Vi resterete vivi!’’» (43,77); si occupano di applicare il castigo: «Oh! Se potessi vedere quando gli angeli faranno morire quelli che si rifiutarono alla Fede, colpendoli in volto e sul dorso» (8,50). Gli angeli combattono sulla terra accanto ai credenti per distruggere gli infedeli (8, 12). Dio li ispira a colpire i nemici sul collo. Viene citato anche l’angelo della morte: «Vi fara` morire l’Angelo della Morte, a voi preposto, poi al vostro Signore sarete ricondotti» (31,11). Nel Corano figurano inoltre degli angeli ‘‘scrivani’’, seduti alla destra e alla sinistra di alcuni uomini, che registrano le buone e le cattive azioni. (50, 17-21). Questi angeli scrivani sono menzionati nel Testamento di Abramo. Infine, gli angeli giocano il ruolo di intermediari tra gli uomini e Dio, portando al cielo le azioni degli uomini e pesandole con le bilance in modo che nessuno venga danneggiato. L’angelo Gabriele, che il Profeta avrebbe visto al momento della sua morte – egli avrebbe allora accennato al fatto che si sarebbe riunito al suo ‘‘compagno piu` elevato’’ – viene citato nel Corano tre volte (2,97 e 98; 66,4), una delle quali insieme a Michele. Secondo Re´gis Blache`re, queste tre occorrenze sono episodi brevi e tardi, cosa ancora piu` sorprendente dal momento che questo angelo e` presentato come colui che ha dettato la Rivelazione a Muhammad parola per parola. E` bene precisare che tale modalita` di trasmissione si inscrive in una tematica molto antica, che risale almeno al ‘‘profeta’’ Elcasai e che si puo` trovare, in particolare, nel manicheismo, ma anche nelle

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Apocalissi. Gli hunafa¯’, secondo Shahra˙ sta¯nı¯ (m. 548/1153), sono caratterizzati dal fatto di riconoscere un intermediario umano della Rivelazione, al contrario dei sa¯bi’a, che la concepiscono come tra˙smessa unicamente tramite l’intermediario celeste, l’angelo. Il Corano allude a una simile attitudine, attribuendola agli increduli (si vedano in particolare i versetti 6,8-9 e 50). D’altra parte, alcune tradizioni sciite sostengono che gli imam sono visitati da un angelo molto piu` importante dello stesso Gabriele. Secondo il Corano, Gesu` e` dotato di una natura angelica. Essa e` chiamata ru¯h, che, ˙ in questo caso, non significa ‘‘spirito’’, ma angelo di Dio. In effetti, nel Libro sacro, gli angeli sono designati molte volte con questo termine; per esempio Gabriele, il ru¯h la cui presenza, secondo ˙ numerosi commentatori, garantisce la veridicita` della Rivelazione (al riguardo, si veda al-Hakı¯m al-Tirmidhı¯, Khatm alawliya¯’). ˙L’angelo che ha ‘‘visitato’’ Maria e` talvolta ritenuto lui stesso padre di Gesu` ; Ibn ‘Arabı¯ (m. 628/1240), per esempio, utilizza l’espressione ‘‘suo padre, l’angelo’’. Gesu`, essendo inoltre il verbo di Dio, la kalima, potrebbe essere considerato un ‘‘angelo parlante’’. Questa definizione di Cristo appare in modo dettagliato in Lattanzio: «E` stabilito nelle Scritture che questo figlio di Dio e` una parola (sermonem) di Dio. Infatti, la parola e` un soffio, emesso con un suono che significa qualcosa. Tuttavia, dal momento che il soffio e la parola vengono emessi da canali differenti, dato che il soffio procede dalle narici e la parola dalla bocca, c’e` una grande differenza tra questo figlio di Dio e tutti gli altri angeli» (Istituzioni divine, IV, VIII, 6). I teologi, come anche i mistici, sono divisi su chi, tra angeli e uomini, occupi il rango piu` elevato nella creazione. La maggioranza degli autori ritiene che gli uomini siano incontestabilmente superiori agli angeli, in primo luogo poiche´ questi ultimi sono stati creati per obbedire, mentre per l’uomo, creato con una natura debole, saper resistere alle tentazioni e` un merito. Secondo al-Hakı¯m al-Tirmidhı¯ (m. 318/ ˙

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ANGELI e ANGELOLOGIA

930), gli angeli sono legati a compiti fissi, mentre l’uomo e` stato creato per scopi differenziati. Secondo le tradizioni ima¯mite, gli imam stessi hanno iniziato gli angeli nei ‘‘giorni della preeternita`’’. Secondo alcuni teologi, in particolare i mu‘taziliti e i filosofi, gli angeli sono superiori agli uomini a causa della sublimita` della loro natura. Essi sono di sovente presentati, tra gli altri da Avicenna (m. 428/1037), come abitanti delle sfere celesti e, di conseguenza, identificati anche con l’intelletto che le governa. Il Corano allude, tuttavia, agli angeli caduti Ha¯ru¯t e Ma¯ru¯t i quali, avendo ceduto ˙ alle tentazioni della carne, furono rinchiusi in una fossa a Babilonia e insegnarono agli uomini la magia (2,102). Infine, gli angeli sono testimoni della creazione dell’uomo e rendono noto a Dio il loro scetticismo sull’oculatezza della cosa: «Vuoi metter sulla terra chi vi spargera` la corruzione?» (2,30). Negli apocrifi, questa protesta contro gli uomini emana dagli elementi naturali: astri, fiumi, terra (si veda anche l’Apocalisse di Paolo). Questa creazione e`, inoltre, l’occasione della caduta di Iblı¯s, angelo decaduto per aver rifiutato di prostrarsi di fronte ad Adamo. La fonte di questa tradizione e` giudeocristiana: la Vita di Adamo (latino; 12-16) e le Questioni di Bartolomeo (4,54-55). «Quando tornai dalle estremita` del mondo, Michele mi disse: ‘‘Prostrati davanti all’immagine di Dio, che lo ha plasmato a sua somiglianza’’. Ma io risposi: ‘‘Io che sono fuoco generato da fuoco, il primo angelo a essere stato plasmato, io dovrei prostrarmi davanti all’argilla e alla materia?’’. Michele mi disse: ‘‘Prostrati, di modo che Dio non si adiri contro di te’’. Risposi: ‘‘No, Dio non si adirera` contro di me, ma innalzero` un trono di fronte al suo trono e saro` come lui’’. Allora Dio si adiro` e mi fece precipitare in basso» (Questioni di Bartolomeo, 4, 55-56). Una parte del testo e` contenuta integralmente nel Corano, che conserva anche un’allusione alla dichiarazione d’orgoglio del demone che vuole innalzare il proprio trono accanto a Dio. «Disse Iddio: ‘‘Che cosa t’ha impedito di prostrarti, quando Io te l’ho ordinato?’’ E quegli ri-

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ANIMA

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spose: ‘‘Io sono migliore di lui: me Tu creasti di fuoco e lui creasti di fango!’’. Rispose Dio: ‘‘Via di qui! Non t’e` lecito, qui, fare il superbo! Fuori!» (7,12-13). Questo passo e` ripreso dal Corano nel ver[G.G.] setto 17,61. ANIMA Il Corano impiega due termini distinti per indicare l’anima: nafs e ru¯h. Tuttavia, se ˙ la maggior parte dei commentatori del Corano li considera sinonimi, il testo coranico indica piuttosto con nafs l’anima, e con ru¯h un particolare angelo messaggero quale ˙specifica qualita` divina. Nel Corano, il vocabolo nafs ricopre diverse accezioni che e` opportuno distinguere tra loro. In alcuni versetti designa l’anima umana: «Gli angeli con le braccia stese grideranno: ‘‘Fuori le vostre anime (anfus)!’’» (6,93); tale anima umana, secondo il Libro sacro, e` dotata di due caratteristiche principali che ne determinano la natura e che, analizzate in prospettiva, pongono le basi di una dottrina etica e psicologica. L’anima si caratterizza come ‘‘tentatrice’’; incita al male e alla disobbedienza: «Non voglio dichiararmi del tutto innocente, che´ l’anima appassionata spinge al male, a meno che il mio Signore non abbia pieta`, e certo il mio Signore e` indulgente e clemente» (12,53); «in verita` noi creammo l’uomo, e sappiamo quel che gli sussurra l’anima dentro, e siamo a lui piu` vicini che la vena grande del collo» (50,16). Questo aspetto dell’anima deve essere dominato affinche´ l’uomo possa garantirsi la salvezza: «Chi avra` paventato di comparire davanti al Signore e l’anima avra` frenato dalle passioni, il Giardino avra` per asilo» (79,4041). Tra gli altri caratteri negativi dell’anima umana nel Corano vi e` la sua propensione al biasimo: «Giuro per l’anima biasimatrice!» (75,2). Tali attitudini negative devono essere combattute duramente per assicurare all’anima la salvezza e permetterle di raggiungere il paradiso. Viceversa, l’anima possiede una qualita` positiva: e` questa l’anima tranquilla (al-nafs al-mutma’inna) che garan˙

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tisce al credente la salvezza eterna: «E tu, o anima tranquilla, ritorna al Tuo signore, piacente e piaciuta, ed entra fra i Miei servi, entra nel Mio Paradiso!» (sura dell’Alba, 89,27-30). Il Corano non impiega il termine nafs quando si riferisce agli angeli; e i versetti precedentemente citati permettono di comprenderne il motivo: l’anima umana, nafs, non e` una natura pienamente realizzata nella sua perfezione al pari dell’angelo. E` in divenire. Racchiude in se´ una tensione tra il bene e il male. L’uomo puo` consolidare, perfezionare in se´ questo bene e raggiungere il paradiso, oppure lasciarsi condurre dal male e perdere la speranza della salvezza. Puo` scegliere il suo destino, e questa scelta e` ontologicamente inscritta nella sua natura. Si tratta di un tema fondamentale che avra` un’eco importante sulle dottrine psicologiche dei filosofi musulmani. Ibn Sı¯na¯ (m. 428/ 1037), Avicenna, ha elaborato a tale proposito una complessa dottrina dell’anima umana, che avra` un’influenza determinante sugli epigoni. Uno dei principi cardine della sua psicologia e` che l’uomo detiene il principio della propria realizzazione: orientando l’esistenza verso l’affermazione dell’‘‘anima tranquilla’’, egli e` libero di scegliersi il destino. Nell’espressione coranica ‘‘anima tranquilla’’, il filosofo individua quella parte dell’uomo che e` capace di pensare razionalmente, ovverosia l’intelletto. Per questa ragione, nelle sue opere (in particolare Alrisa¯la al-ad ˙ ˙hawiyya fı¯ amr al-ma‘a¯d e la Risa¯la fı¯ al-kala ¯ m ‘ala¯ al-nafs al-na¯tiqa, scritte qualche mese prima di morire)˙vi fa riferimento due volte; scrive: «Sappi che tra tutti gli animali l’uomo si distingue per una forza attraverso cui comprende le cose intelligibili, talvolta detta anima razionale, talvolta anima tranquilla, presente in ogni uomo, bambino e adulto, pubere o impubere, folle o ragionevole, malato o sano». La dualita` che il Corano inscrive nel cuore dell’anima umana produce una concezione etica dell’esistenza umana fondata sulla liberta`: l’uomo e` libero di assicurarsi la salvezza realizzando la propria anima tranquilla o, al contrario,

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di votarsi al tormento eterno seguendo i bisbigli (50,16) dell’anima che istiga al male. Nel Corano nafs puo` designare anche lo stesso essere umano: «Disse il re: ‘‘Portatemelo, che´ io voglio prenderlo al mio servizio particolare (astakhlis-hu li-nafsı¯)’’» ˙ segni per chi e` (12,54); «sulla terra vi sono certo del Vero e dentro di voi stessi (fı¯ anfusi-kum) ancora: non li scorgete?» (51, 20-21). Questa designazione dell’essere umano col termine nafs avra` ripercussioni importanti sulle dottrine psicologiche dei pensatori dell’islam. Sia in Ibn Sı¯na¯, sia, dopo di lui, nei filosofi della scuola dell’ishra¯q (‘‘sapienza illuminativa’’), l’anima e` identificata con l’io. E` la sede della convergenza di ogni attivita` psichica, tanto cognitiva quanto affettiva, sensibile e intellettuale; va tuttavia osservato che tale identificazione dell’anima e dell’io si trova anche in Platone (Alcibiade I, 129b-131d) e in Plotino. E` difficile sapere quale sia la fonte della dottrina avicenniana e, piu` tardi, di quella dei filosofi dell’ishra¯q. Per indicare la persona, in un senso affine a quello di nafs, il Corano impiega anche il termine wajh (volto) (3,20; 4,125; 6,79; 10,105; 16,58; 30,30 e 43; 31,22; 39,24). In numerosi versetti coranici, nafs e` riferito agli de`i, designandoli: «Hanno preso in luogo di Lui degli de`i che non creano nulla, anzi sono essi stessi creati» (25,3); in una decina d’altri si applica a Dio (Alla¯h): «Dio stesso vi mettera` in guardia contro se stesso e a Dio e` il grande Ritorno» (3,28) o ancora «Dio per vero si e` prescritta la misericordia, per trascinarvi tutti uniti» (6,12). Infine, nafs e` utilizzato al plurale in due versetti per indicare un consesso di uomini e jinn: «Essi risponderanno: ‘‘Ne siamo testimoni, contro noi stessi’’, ma la vita della terra li sedusse, e testimoniarono, contro se stessi, di aver rifiutato la fede» (6,130). Le occorrenze del termine ru¯h consen˙ tono di distinguere cinque distinti modi di impiego. I primi si riferiscono al soffio di Dio in Adamo per dare vita al corpo: «Quando l’avro` modellato e gli avro` soffiato dentro del Mio Spirito (ru¯h), prostra˙

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tevi davanti a lui, adoranti» (15,29, ma anche 32,9 e 38,72). La stessa accezione di ‘‘soffio vitale’’ si ritrova nella sura dei Profeti, dove e` detto che Dio insuffla il suo ru¯h in Maryam (Maria) per il conce˙ di ‘I¯sa¯ (Gesu`) (21,91 e 66,12); pimento altrove, Gesu` e` definito un ru¯h che emana da Dio (4,171). In molte sure,˙ questo termine e` inoltre associato agli angeli (70, 14; 78,38); in altre designa lo ‘‘spirito fedele’’ (al-ru¯h al-amı¯n) che discende ˙ nel cuore di Muhammad per rivelargli il Corano (26,193). Vi e` anche il ru¯h al˙ qudus (lo spirito di santita`) che ha inviato il Corano per fortificare il cuore dei credenti (16,102) o soccorrere ‘I¯sa¯ (2,87; 2, 253; 5,110). Tuttavia, gli usi coranici che hanno maggiormente attirato l’attenzione dei commentatori sono quelli che vedono il termine ru¯h accostato al ‘‘comandamento di Dio’’˙ (amr Alla¯h). La combinazione ricorre numerose volte, e la piu` studiata dai commentatori e` quella in cui e` detto: «Ti chiederanno [Muhammad] dello Spirito. Rispondi: ‘‘Lo Spirito procede dall’Ordine del mio Signore, ma solo di un poco di scienza voi siete stati dotati’’» (17,85). Quando Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/1209) spiega questo versetto, nel suo grande commentario, identifica nafs e ru¯h: alla stregua dei filosofi, ˙ l’anima come una soegli concepisce stanza semplice, «un esistente distinto da questi corpi e accidenti, perche´ questi corpi derivano dal mescolarsi dagli elementi. Il ru¯h non e` questo; e` piuttosto una ˙ sostanza separata che viene all’esistenza solo grazie a un ‘‘esistenziatore’’ (di qui la Parola divina ‘‘Sii ed egli e`’’). E quando chiedono perche´ essa e` qualcosa di diverso da tali corpi e accidenti, Dio risponde che cosı` e`, perche´ questo esistente e` creato dal comando di Dio [...] Le realta` e le sostanze della maggioranza delle cose ci rimangono sconosciute». In tal modo, mentre nel Corano ru¯h non indica mai la persona dell’uomo, ne´ ˙la sua anima o il suo spirito, i commentatori hanno assimilato nafs e ru¯h. Anche Qur˙ i due termini tubı¯ (m. 671/1272) identifica ˙nel suo commentario: «La prova che l’anima e` il ru¯h (al-nafs hiya al-ru¯h) e` che ˙ ˙

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quando Egli dice: ‘‘Dio chiama a se´ le anime (anfus) al momento della loro morte’’ (39,42), per i numerosi commentatori anfus vuol dire arwa¯ h ». Questa ˙ identificazione e` tanto piu` sorprendente se si considera che il plurale di ru¯h, ar˙ suo wa¯h, non si trova nel Corano. Nel ˙¯ b al-milal wa al-nihal (Il libro delle Kita religioni e delle sette),˙ Shahrasta¯nı¯ (m. 548/1153) ricorda che anche il mu‘tazilita Nazz a¯m (m. 225/839-840 ca.), ripren˙ ˙ a suo avviso l’opinione dei filosofi, dendo identificava nafs e ru¯h, e riteneva che l’uomo altro non fosse˙ che la sua nafs ovvero ru¯h. Sembra tuttavia che quest’ul˙ contrariamente ai filosofi, timo autore, professasse una dottrina materialista dell’anima. In compenso, i filosofi ellenizzanti distinguono il ru¯h, assimilato al pneuma (in ˙ greco ‘‘soffio’’ e per estensione ‘‘spirito’’) della medicina galenica, dalla nafs, sostanza immateriale e immortale; essa anima il corpo e gli sopravvive dopo la morte. Vi e` tuttavia un’eccezione: Ibn Sı¯na¯, in un commentario coranico intitolato Al-firdaws fı¯ ma¯hiyyat al-insa¯n, assimilando il ru¯h alla nafs (attribuendo co˙ ` cosı` designata il senso munque all’entita di sostanza immateriale) osserva che l’anima umana (ru¯h) e` il prodotto dell’or˙ mentre il corpo e` il dine di Dio (amr), prodotto della sua Creazione (Khalq). [M.S.]

Bibliografia: Avicenna, L’epistola sulla vita futura, a cura di Francesca Lucchetta, Antenore, Padova 1969; Meryem Sebti, Avicenne, L’aˆme humaine, PUF, Paris 2000; Shahrasta¯nı¯, Livre des religions et des sectes, trad. dall’arabo, intr. e note di Daniel Gimaret, Jean Jolivet e Guy Monnot, Peeters-Unesco, Louvain-Paris 1986.

ANIMALE Vari tipi di animali sono menzionati nel Corano, e alcuni hanno dato il nome a una sura: la Vacca (al-Baqara, 2), l’Ape (alNahl, 16), la Formica (al-Naml, 27), il Ragno˙ (al-‘Ankabu¯t, 29), l’Elefante (al-Fı¯l, 105); a questi e` possibile aggiungere le Greggi (al-An‘a¯m, 6). Le diverse ricorrenze nei titoli delle sure non devono pero`

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trarre in inganno: nelle sure appena menzionate come nelle altre, gli animali non possiedono affatto un ruolo di primo piano nel Libro sacro. La fauna rappresentata e` in buona parte quella dell’Arabia, ma include anche specie non autoctone. I mammiferi piu` frequentemente citati, con il termine generico di an‘a¯m, sono quelli domestici che vivono in gregge; un passo (6,143-144) specifica che si tratta di ovini, caprini, camelidi e bovini. Non sorprende che ciascuna di queste specie sia menzionata anche separatamente, con ricorrenze proprie: in particolare i camelidi sono descritti attraverso un numero di vocaboli estremamente precisi che li distinguono tra loro in base al genere, all’eta` o ad altre caratteristiche specifiche (sedici casi). Gli animali di grossa taglia e i bovini compaiono diciannove volte, assai piu` spesso degli ovini (otto occorrenze) e dei caprini (menzionati una sola volta). Il Corano conosce altri animali domestici: cita sei volte l’asino e cinque volte il cane, il maiale e il cavallo. Con riguardo a quest’ultimo, vi alludono forse altri due passi, con termini che divennero in seguito i titoli di altrettante sure. Sono inoltre menzionati alcuni animali selvatici; in particolare il lupo e le scimmie (tre ricorrenze ciascuno), la selvaggina (quattro ricorrenze), il leone (una) e gli animali da preda. La tradizione associa il gia` citato elefante all’episodio dell’attacco etiope contro La Mecca, avvenuto probabilmente attorno al 750, anno della nascita di Muhammad. I rettili sono rammentati a malapena, sebbene questa specie animale fosse diffusa nell’intera Arabia: si trova un solo passo che riguarda il serpente. Fra gli insetti esplicitamente nominati nel testo coranico, alla formica, all’ape e al ragno gia` menzionati vanno aggiunti la mosca e il moscone, il pidocchio, la cavalletta o il grillo, la farfalla e la termite. Quanto ai volatili, il Corano impiega ventiquattro volte un termine generico per indicare gli uccelli, ma si esprime all’occorrenza con maggiore precisione, come

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nel caso dell’upupa della storia di Salomone, oppure nel caso dei corvi. La quaglia e` menzionata una volta. Prevedibilmente, il Libro sacro si riferisce di rado alle specie acquatiche: si rileva un termine generico per indicare i pesci (5,96), un altro (nu¯n) per l’animale che ingoio` il profeta Giona (21,87), e infine il nome della rana (7,133). Il bestiario coranico lascia emergere alcune scelte, dalle quali e` possibile desumere i significati piu` evidenti. Innanzitutto, la menzione dei vari animali e` tesa a evidenziare la bonta` che Dio mostra nei confronti dell’umanita` . La creazione della vita animale risponde infatti alla volonta` divina di dare all’uomo il modo di soddisfare differenti bisogni, e in primo luogo quelli alimentari; gli serve inoltre per il trasporto di persone o carichi, e gli fornisce un ornamento o il piacere di contemplare cose belle a vedersi. Inoltre, il testo coranico suggerisce che la sottomissione degli animali all’uomo e` il risultato di una decisione divina (22,65; 45,13). Un primo punto concerne dunque l’utilizzo degli animali per l’alimentazione umana, sia prelevando animali domestici che vivano in gregge o no, sia con la caccia. L’uomo ha il diritto di consumare la carne degli animali che uccide a condizione che essa sia lecita (hala¯l) e che gli animali medesimi siano ˙uccisi nel rispetto di disposizioni legali che il Corano peraltro non indica. Il Libro specifica d’altronde in modo dettagliato che e` proibito cibarsi di carogne, sangue, maiale e di carni sulle quali sia stato invocato un nome diverso da quello di Allah (2,173; 5,3; 16,115); similmente e` proibito cibarsi della selvaggina che vive nel territorio sacro della Mecca (5,1). Quanto agli animali acquatici, sono leciti (16,14 e 35,12). Nel Corano la vita animale mette in risalto l’onnipotenza divina; essa e` infatti creazione divina, e alcune delle sue manifestazioni sono volte nel testo a ricordare all’uomo la presenza di Dio. E` lui che sostiene nell’aria gli uccelli che volano (16,79 e 67,19); l’ape obbedisce a un divino ordine insediandosi sulle montagne, sugli alberi (16,68) o in costruzioni rea-

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lizzate dalla mano dell’uomo; il bastone di Mose` si trasforma in serpente per affermare l’onnipotenza di Dio davanti a Faraone. Gli animali avvertono gli uomini dei divini disegni: le cavallette o le rane che si abbattono sull’Egitto sono al tempo stesso una punizione e un invito a prestare attenzione al messaggio di Mose`; nella storia di Salomone, la termite che rode il bastone a cui si appoggiava il re per sostenersi rivela la morte di quest’ultimo; la cammella di Sa¯lih e` strumento della ro˙ ¯ d ˙che, tagliandole i garvina dei Thamu retti (7,73-79), attirano su di se´ la punizione divina; sono ugualmente mandati da Dio gli uccelli che colpiscono gli ‘‘uomini dell’elefante’’ con pietre d’argilla, cosı` distruggendo la loro spedizione, sebbene il testo coranico non fornisca indicazioni sulla precisa natura della trasgressione che suscito` la punizione venuta dal cielo. Infine, il Corano accosta talvolta l’animale all’uomo, sia nell’ambito di una comparazione sia sopprimendo le barriere tra le specie: alcuni ebrei che non rispettavano il sabato sono trasformati in scimmie, e, per converso, alcuni animali – l’upupa o le formiche – sono dotati di linguaggio, una facolta` che li avvicina all’uomo. Ma gli accostamenti rientrano soprattutto nell’ambito della comparazione o della metafora: il termine mu‘allaqa (4,129), che designa una giumenta non piu` utilizzata come cavalcatura, e` impiegato per estensione in riferimento a una donna sessualmente trascurata dal marito; i miscredenti sono come animali (8,22) o come un gregge senza guida (7, 179; 25,44), mentre gli ebrei che non comprendono le Scritture loro affidate sono assimiliati ad asini che portano libri (62,5). Il bestiario coranico resta nell’insieme relativamente prossimo alla realta` . La sola eccezione sembra essere la Bestia che uscira` dalla terra (27,82), la cui apparizione e` tra i segni che annunceranno la fine dei tempi; se il Corano non la descrive, i commentatori si sono appoggiati comunque ad alcune tradizioni per descrivere il suo aspetto tremendo. Per il resto,

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il ruolo degli animali e` di secondo piano e la loro presentazione, del tutto stereotipata, rimane segnata dalla concezione che vuole il regno animale inferiore e subalterno rispetto all’uomo. [F.D.] Bibliografia: Arne A. Ambros, «Gestaltung und Funktionen der Biospha¨re im Koran», in Zeitschrift der Deutschen Morgenla¨ndischen Gesellschaft, 140 (1990), pp. 290325; Herbert Eisenstein, Einfu¨hrung in die arabische Zoographie. Das tierkundliche Wissen in der arabisch-islamischen Literatur, Reimer, Berlin 1991.

ANIMALE MORTO Il termine mayta, ‘‘animale morto’’, e` un derivato del verbo ma¯ta, ‘‘morire’’. Se ne contano sei occorrenze: in un unico caso essa svolge funzione di qualificativo (36, 33: «terra morta»), mentre negli altri compare come sostantivo designante un cibo illecito (2,173; 5,3; 6,139 e 145; 16, 115). Mentre nella maggior parte di questi versetti il termine mayta viene ripetuto senza cambiamento sensibile, nel versetto 5,3, considerato piu` tardo dai dotti musulmani, si registra una significativa differenza. Dopo aver ripetuto la lista delle quattro proibizioni altrove enunciate (gli animali morti, il sangue, la carne di maiale e quella su cui e` stato pronunciato un nome diverso da quello di Dio), il versetto prosegue con un frammento senza paralleli: «gli animali soffocati o uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli». A parere degli esegeti e dei giuristi, questo inciso costituisce una spiegazione della nozione di mayta. L’interpretazione elude una certa incoerenza del versetto, perche´ l’inciso che e` considerato esplicitare la nozione non segue immediatamente la parola mayta, ma compare nella seconda parte del versetto, dopo l’enunciazione della lista delle quattro proibizioni principali. Potrebbe trattarsi di un’interpolazione, forse ispirata a una versione cristiana del Decreto apostolico che circolava negli ambienti pseudoclementini.

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L’inciso in questione pone l’accento al tempo stesso sul processo di messa a morte – per soffocamento, in seguito a colpi o a una caduta, volontaria (da parte dell’essere umano) o accidentale – e sull’agente della messa a morte – inferta da un animale della stessa specie o da un predatore. La mayta e` definita in questa prospettiva come la vittima morta in seguito a un processo illecito oppure non uccisa dall’uomo. Questa nozione dara` luogo a un dibattito casuistico ricco e complesso tra i giuristi musulmani. Il concetto di mayta e` strettamente associato al rituale di abbattimento: e` mayta ogni animale in se´ puro per il consumo, ma messo a morte con un procedimento non canonico. Pertanto, una vittima lecita e` l’opposto della mayta: infatti, se mayta designa ogni animale la cui morte e` frutto di un processo illecito, respinto dalla collettivita`, allora abbattere in maniera lecita un animale consiste nell’assicurarne l’appropriazione da parte del gruppo. Di conseguenza si considerera` mayta ogni vittima la cui appropriazione non si e` verificata o e` fallita. Il modo migliore di esprimere questa situazione e` collegare la vittima alla morte. Cio` di cui l’uomo non s’e` appropriato e` finito in mano alla morte; la mayta e` inadatta al consumo perche´ e` una vittima non sociale. Alcuni giuristi sono giunti a sostenere che se un animale illecito al consumo – il maiale o il cane, per esempio – fosse messo a morte secondo il procedimento canonico, andrebbe considerato come un caso di mayta. Il che equivale a estendere in modo considerevole il significato di questa nozione. In tal caso, infatti, ogni carne illecita puo` essere collocata nella categoria di mayta. Secondo uno hadı¯th, ˙ caso la nozione abbraccia in un unico vittime lecite al consumo, cioe` quello dei pesci. Dato che per ucciderli non e` necessario agire nei loro confronti come si fa con il bestiame o la selvaggina terrestre, ogni pesce trovato morto sara` considerato puro per il consumo. Cio` si spiega ugualmente con l’opposizione tra animali ae-

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rei, che vivono respirando l’aria, e animali acquatici, che vivono inghiottendo l’acqua. La mayta infine e` fonte di impurita`. Ogni contatto fisico con un cadavere animale – diverso da un pesce – rende impuri e necessita di una purificazione rituale. Per questo, la pelle dell’animale non puo` essere utilizzata senza essere conciata. [M.H.B.]

Bibliografia: Mohammed Hocine Benkheira, «Chairs illicites en Islam. Essai d’interpre´tation anthropologique de la notion de mayta», in Studia Islamica, 84/ii (1996), pp. 5-33; Ersilia Francesca, Introduzione alle regole alimentari islamiche, Istituto per l’Oriente (IPO), Roma 1995; Marcel Simon, «De l’observance rituelle a` l’asce`se. Recherches sur le De´cret apostolique», in Marcel Simon, Le Christianisme antique et son contexte religieux. Scripta varia, Mohr, Tu¨bingen 1981, vol. II, pp. 725-802.

ANNO DELL’ELEFANTE Vedi ABRAHA E ANNO DELL’ELEFANTE. ANNUNCIO DELLA VENUTA DI MUHAMMAD Due passi del Corano evocano quest’annuncio: «Coloro che seguiranno il Mio Messaggero, il Profeta dei Gentili che essi troveranno annunciato presso di loro nella Torah e nell’Evangelo» (7,157); «figli d’Israele – dice Gesu`! Io sono il Messaggero di Dio a voi inviato, a conferma di quella To¯ra¯h che fu data prima di me, e ad annunzio lieto di un Messaggero che verra` dopo di me e il cui nome e` Ahmad!» (61, ˙ 6). ‘‘Ahmad’’ e` una forma elativa, un aggettivo˙ intensivo che significa ‘‘il molto glorioso’’ o ‘‘il molto lodato’’. Deriva dalla stessa radice «hmd» di Muhammad, il ‘‘lodato’’. Cosı`, la˙ traduzione francese di Medina precisa: «Ahmad in arabo ha ˙ di Muhammad; quasi lo stesso significato per questo i due termini sono utilizzati nel Corano per designare la stessa persona: il Profeta dell’islam». Uno hadı¯th fa dire al ˙ Profeta: «Io mi chiamo Muhammad sulla terra, ma Ah mad in cielo». Infine, il ˙ ‘‘poeta del Profeta’’, Hassa¯n ibn Tha¯bit ˙

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ANNUNCIO DELLA VENUTA DI MUHAMMAD

(m. 54/674), compose un’elegia in cui utilizzo` indifferentemente l’uno o l’altro dei due nomi. Poiche´ non vengono forniti dettagli di sorta circa le fonti testuali, i credenti si sono sforzati di trovarli. Nel VI/XII secolo, nella Sicilia conquistata dai Normanni, Muhammad ibn Zafar nel suo li˙ Khayr al-bisha ˙ ¯ ra recensisce bro intitolato e commenta i passi della Bibbia e dei Vangeli che ritiene essere annunci della venuta di Muhammad. Attualmente per la Torah l’apologetica propone questo brano: «Il Signore tuo Dio suscitera` per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (Dt 18,15). Di fatto si tratta di un brano del Codice deuteronomico, che segue il secondo discorso di Mose`: quest’ultimo si apre con «Ascolta, Israele» e presenta in prima battuta il Decalogo, ricordato poi dallo Shema‘ Israel (6,4). E` dunque impossibile che tale brano riguardi altri che il popolo ebraico. Per il Vangelo la questione e` un po’ piu` complessa. Nell’VIII/XIV secolo, Anselmo Turmeda, un francescano catalano convertito all’islam e stabilitosi in Tunisia, racconta nella parte autobiografica del suo trattato polemico anticristiano di un prete di Bologna che gli aveva svelato come il Paraclito annunciato nel Vangelo fosse il Profeta dell’islam, Muhammad, e che questa rivelazione gli aveva aperto il cammino alla conversione. Questo testo di Anselmo Turmeda, dal titolo Tuhfat al˙ alı¯b adı¯b (o al-arı¯b) fı¯ radd ‘ala¯ ahl al-S ˙ ovvero L’omaggio del letterato (o dell’esperto) per refutare i partigiani della Croce, e` ai nostri giorni molto diffuso tanto nel Maghreb quanto tra i musulmani europei. Esso rappresenta di fatto il prolungamento di un processo cominciato molto prima. La parola ‘‘Paraclito’’ e` ricordata due volte nel Vangelo di Giovanni: «Io preghero` il Padre ed egli vi dara` un altro Consolatore (Paraclito), perche´ rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verita` [...]. Voi lo conoscete, perche´ egli dimora presso di voi e sara` in voi» (Gv 14, 16-17). «E` bene per voi che io me ne vada, perche´ se non me ne vado, non verra` a voi

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il Consolatore (Paraclito); ma quando me ne sara` andato, ve lo mandero`» (Gv 16,7). L’interpretazione cristiana e` che ‘‘Paraclito’’ significhi ‘‘intercessore, avvocato’’, colui che assiste e difende i propri clienti: cosı` e` infatti dello Spirito di verita`, dimora dello Spirito Santo nel cuore dei cristiani per mezzo della grazia. E il secondo frammento significa che la venuta dello Spirito Santo e` subordinata al ritorno del Figlio al Padre. La relazione tra il testo coranico e quello evangelico e` stata operata per mezzo di una ‘‘captazione’’ che si basa su due forme di deviazione linguistica. La prima e` opera di un convertito dal cristianesimo, che conosceva il siriaco ma senza dubbio piuttosto male l’arabo, e la cui interpretazione e` stata ripresa nella Sı¯ra nabawiyya di Ibn Isha¯q (m. 150/767) e Ibn Hisha¯m ˙ (m. 218/833), al paragrafo dedicato alla «descrizione (s¯ıfa) dell’Inviato di Dio da ˙ parte del Vangelo». Essendo il greco parakle`tos reso in siriaco con mnahma¯na¯ ˙ cita(letto munhamanna¯; il resto della ˙ zione e` anch’esso un adattamento molto approssimativo del testo di Giovanni), Ibn Isha¯q conclude: «Al-munhamanna¯ in si˙ ˙ e` Muhammad e nella riaco lingua dei greci al-baraqlitis». In realta` il primo ter˙ radice semitica «nhm», mine deriva dalla ˙ ‘‘consolare’’, ben nota ai fedeli in seguito al celebre passo d’Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo dice il Vostro Dio» (Is 40,1). Passando al siriaco, la radice ha assunto il senso di ‘‘sollevare, raddrizzare’’, il che spiega perche´ si sia utilizzato uno dei suoi composti per tradurre il greco parakle` tos, ‘‘avvocato, intercessore’’. Con la radice «hmd» di Muhammad essa ˙ sole lettere e neppure ha in comune due nello stesso ordine. Pertanto, l’argomento non ha avuto successo in Medio Oriente dove permaneva un numero non trascurabile di cristiani per i quali il siriaco era lingua liturgica, dunque in grado di denunciare la confusione. Da notare che solo la recensione palestinese dei Vangeli impiega il termine mnahma¯na¯, ma non la ˙ Peshitta (traduzione della Bibbia in siriaco), la quale si serve della trascrizione fonetica Paraqlı¯ta¯. Nel Dialogo del pa˙

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triarca nestoriano Timoteo I con il califfo Mahdı¯ (che regno` circa dall’anno 159 al 169 dell’egira, dal 775 al 785) la questione dell’assimilazione del Profeta dell’islam al Paraclito viene sı` affrontata, ma in termini (per esempio, Fa¯raqlı¯t) che non consentono alcuna confusione;˙ e l’assimilazione musulmana e` refutata con argomenti strettamente teologici nella versione araba, psicologici nella versione siriaca piu` sviluppata. Piu` tardi un nestoriano convertito all’islam, ‘Alı¯ ibn Rabba¯n al-Tabarı¯ (m. 241/855), dedica un in˙ tero capitolo del suo Kita¯b al-Dı¯n wa aldawla a quest’argomento, ma basandosi solo sulla trascrizione Paraqlı¯ta¯. Al contrario nel Maghreb, dove il ˙siriaco era ignoto, l’argomento linguistico ha goduto di grande successo. In Oriente si e` ripiegato su una seconda forma di derivazione, affermando che parakle`tos e` un’alterazione di periklutos, ‘‘illustre, rinomato’’, il che equivarrebbe a trattare una lingua indoeuropea come una lingua semitica, nella quale vi e` la possibilita` di variare la vocalizzazione. Tale passo trova appoggio nell’accusa di aver falsificato (tahrı¯f) le Scritture, rivolta dal Corano alla˙ ‘‘gente del Libro’’. [M.-T.U.]

Bibliografia: Miguel de Epalza, La Tuhfa, ˙ autobiografia y polemica islamica contra el Cristianismo de ‘Abdalla¯h al-Tarjuma¯n (Fray Anselm Turmeda), Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1971; Ibn Hicha¯m, La Vie du prophe`te Mahomet, ed., trad. dall’arabo e note di Wahib Atallah, Fayard, Paris 2003.

ANTICHI Due espressioni sono utilizzate nel Corano per designare gli ‘‘Antichi’’: i ‘‘Primi’’ (Awwalu¯n) e i ‘‘Padri’’ (A¯ba¯’). I Padri sono evocati piu` di una ventina di volte e sempre in un contesto negativo (vedi soprattutto 2,170 e 200; 6,148). Tra quelli a cui si indirizza Muhammad ci sono coloro che invariabilmente non lo ascolteranno e tanto meno lo riconosceranno come profeta, «perche´ seguono le orme dei [loro] padri». Introducendo una novita`, il Corano non poteva vedere nell’attaccamento alle

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tradizioni antiche e all’eredita` degli avi nient’altro che un ostacolo al proprio riconoscimento da parte dei piu`. In questo senso, il Libro sacro e` risolutamente antitradizionalista. Le tracce di questo spirito sono rimaste, soprattutto nella teologia. E` obbligatorio per il musulmano acquisire personalmente una conoscenza razionale dei principali articoli del dogma (usu¯l al˙ su dı¯n), e quest’obbligo e` spesso fondato quei versetti che condannano l’obbedienza cieca e il conformismo in materia religiosa. Quanto ai ‘‘Primi’’, sono invece derisi come quelli che rifiutano di credere nell’Altra Vita (al-a¯khira). Sono gli stessi che invocano la via dei ‘‘loro padri’’ per non aderire all’islam, e quando Muhammad si rivolge loro essi obbiettano che si tratta di «favole degli antichi» (asa¯t¯ır alawwalı¯n) (8,31; 16,24; 23,81, ecc.).˙ Gli ‘‘Antichi’’ sono generalmente definiti Salaf (letteralmente ‘‘che vengono prima’’), in opposizione a Khalaf (‘‘che vengono dopo’’), e designano le prime generazioni della comunita` musulmana, ossia quella dei Compagni del Profeta (Saha¯ba), quella dei ‘‘Seguaci’’ (Ta¯bi‘u¯n) ˙ e˙ quella dei ‘‘Seguaci dei Seguaci’’ (Ta¯bi‘u¯ al-Ta¯bi‘ı¯n). Nonostante l’antitradizionalismo innato del Corano, la via seguita dai musulmani di queste tre generazioni e` considerata come perfettamente esemplare sotto ogni aspetto per tutte le generazioni a venire della comunita`. Cosı` il tradizionalismo, rigettato in quanto tale dal Corano, e` riabilitato in una prospettiva che guarda perpetuamente all’esempio di una societa` islamica ‘‘primigenia’’ ritenuta perfetta, quella di un’eta` dell’oro delle origini. Non ci sono, in seno all’islam, una corrente che privilegia l’imitazione degli ‘‘Antichi’’ (Salaf) e un’altra che si affranca dal loro esempio: l’islam e` interamente ‘‘salafita’’, nel senso che l’esemplarita` dei ‘‘Antichi’’ non e` contestata da alcuno. Si e` tuttavia posta, nel quadro della teoria della Legge (usu¯l al-fiqh), la ˙ rispetto alla questione se il loro esempio, via tracciata dal Profeta, avesse forza di Legge per le generazioni seguenti, cioe` se si trattasse, insomma, di una fonte del diritto in senso pieno. Sha¯fi‘ı¯ (m. 204/

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820), e dopo di lui gli sha¯fi‘iti, non la ritenevano tale, diversamente dalla maggior parte degli hanafiti che integrarono ˙ alla Sunna. l’esempio dei Salaf Cio` che oggi e` chiamato ‘‘salafismo’’ (salafiyya) – e che tale era chiamato nel passato – altro non e` che un islam particolare che si rappresenta i Salaf nel modo piu` puritano possibile (il salafismo e` prima di tutto un moralismo). I musulmani liberali affermano invariabilmente di ispirarsi anch’essi all’esempio dei ‘‘Pii Antichi’’, ma usano questa etichetta per qualcos’altro. Come regola generale i rappresentanti di tutte le correnti dell’islam si ricollegano agli ‘‘Antichi’’: il loro esempio costituisce un modello flessibile che si presta a tutti i contenuti. La realta` oggettiva che esso ricopre e` basata su decine di migliaia di ‘‘notizie’’ (a¯tha¯r) diverse, riunite in una letteratura specifica. Nel corso della storia, la scelta operata entro questo immenso corpus in ragione di differenti fattori – socio- o politico-teologici – ha determinato un modello di ‘‘islam dei Pii Antichi’’ proprio di ogni epoca. Al giorno d’oggi, il fattore che determina questa scelta sembrerebbe strettamente identitario; e poiche´ un’identita` che emerga con precisione si ricostruisce solo in rapporto a un’‘‘altra’’, insieme ammirata e detestata, e considerata responsabile della propria distruzione, ‘‘il modello dell’islam dei Pii Antichi’’ e` oggi quello che, punto per punto, ribalta i valori pretesi [E´.C.] ‘‘occidentali’’. ANTICO TESTAMENTO Il Corano designa l’Antico Testamento principalmente in due modi: Kita¯b (‘‘Libro’’), da cui l’espressione Ahl al-Kita¯b (‘‘la gente del Libro’’) che designa gli ebrei e i cristiani; e Tawra¯t (‘‘Torah’’), che include non il solo Pentateuco ma tutto l’Antico Testamento e anche, talvolta, le fonti ebraiche postbibliche. Il testo coranico impiega inoltre il termine Zabu¯ r (la definizione coranica per i Salmi), ovvero un libro santo indipendente rivelato a Davide: «Alcuni dei profeti preferimmo ad altri e demmo a Da-

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vide i Salmi» (17,55). Menziona poi, in modo alquanto vago, «le pagine di Mose` e d’Abramo (suhuf Ibra¯hı¯m wa Mu¯sa¯)» (87, ˙ ˙ 19) o semplicemente «le Pagine Antiche (o ‘‘i primi Libri’’; al-suhuf al-u¯la¯)» (20, ˙ ˙ a quali scritti si 133). Tuttavia, non e` noto faccia qui riferimento; forse l’espressione allude solo alle parole dei due profeti (o di altri) menzionati del Libro sacro. In generale, il riflesso dell’Antico Testamento nel Corano e` assai parziale, e la gran parte degli elementi biblici che vi si trovano sono tratti dal Pentateuco. Si tratta, per esempio, della storia degli eroi della Genesi – Adamo, Noe`, Lot, Abramo e i suoi figli, Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli – e di racconti tratti da altri libri del Pentateuco. Similmente, si trova la lunga narrazione della vita e delle azioni di Mose`, tra le figure centrali del Corano, del suo suolo di guida del popolo d’Israele in Egitto, del suo scontro con Faraone, della traversata del deserto e dell’ingresso in Terra santa. Sono ugualmente presenti le tracce di numerosi decreti e disposizioni attestati nel Pentateuco. Per quanto riguarda gli altri libri biblici, il Corano ne riprende molto brevemente le storie – quelle di Saul, Davide, Salomone e Giona – menzionando anche altri profeti. Brilla l’assenza di altre parti dell’Antico Testamento, e cosı` pure di profeti centrali quali Isaia, Geremia ed Ezechiele, le cui profezie sono oggetto di un libro intero. Inoltre si trovano solo vaghe e rare eco delle storie di Saul (Talu¯t), Davide, Golia e ˙ Salomone, o di altri libri biblici come i Proverbi, Giobbe o ancora i Salmi. Altre volte nondimeno il Corano allude a elementi precisi della biografia di alcuni personaggi quali Gedeone o Samuele. Occorre notare, d’altra parte, che molti dei dati che il Corano associa ad alcune figure bibliche non sono attestati nell’Antico Testamento ma nella letteratura ebraica postibiblica, principalmente nel Talmud e nel Midrash: per esempio, il racconto della sepoltura di Abele da parte di suo fratello Caino – il Corano indica i due fratelli con la formula vaga:«i due figli di Adamo» (5,27) – o il racconto di Abramo che distrugge gli idoli di suo pa-

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dre e scampa alla fornace (21,52-70; 37, 91-98), o ancora la storia della sposa del governatore egiziano (moglie di Potifar nel racconto biblico) che invita le amiche a contemplare la bellezza di Giuseppe per legittimare la propria incapacita` di resistere alla tentazione di offrirsi a lui (12, 30-32). Questi racconti, come molti altri relativi a personaggi dell’Antico Testamento, hanno molti paralleli nella letteratura postbiblica. In altre parole, nel Corano, molti elementi postbiblici sono mescolati ai racconti biblici, come se facessero parte dell’Antico Testamento, e allo stesso tempo un gran numero di elementi propri a quest’ultimo sono assenti. Qualche generazione dopo l’epoca dell’elaborazione del Corano, quando la conoscenza delle fonti ebraiche da parte dei letterati musulmani miglioro`, tale palese lacuna venne colmata. La letteratura esegetica, le raccolte di Hadı¯th e in modo ˙ profeti’’ (Qisas particolare le ‘‘Storie dei ˙ ˙ al-anbiya¯’) traboccano di elementi biblici e postbiblici che offrono dell’Antico Testamento un’immagine assai piu` ricca. La curiosita` degli eruditi dei primi secoli dell’egira riguardo al testo biblico li porto` ovviamente a interessarsi alle sue traduzioni in arabo; pero`, sebbene vi siano testimonianze letterarie dell’esistenza di traduzioni arabe a partire del III/IX secolo, la loro autenticita` non e` certa. Ibn alNadı¯m (m. 385/995), nella sua opera bibliografica dal titolo al-Fihrist, riporta che all’inizio del II/IX secolo lo storico Ahmad ibn ‘Abd Alla¯h ibn Sala¯m aveva ˙ tradotto integralmente in arabo l’Antico Testamento e anche, dal greco, il Nuovo Testamento, ma nulla si e` conservato di queste opere. Quanto a Ibn Qutayba (m. 275/888), cita all’inizio del suo Kita¯b alMa‘a¯rif alcuni passi della Genesi tradotti in arabo; anche nell’opera d’Ibn Hazm ˙ all’Andaluso (m. 456/1064) intitolata Fisal si trovano alcuni estratti dell’Antico ˙ Testamento tradotti in arabo. Tuttavia, la piu` importante e piu` completa traduzione dell’Antico Testamento in arabo, accompagnata da un parziale commento, rimane incontestabilmente quella di Sa‘dia Gaon (m. 331/942), uno dei piu` grandi sapienti

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ebrei del Medioevo. L’Antico Testamento fu tradotto anche dall’erudito caraita Yefet ben ‘Eli (inizio del sec. XI), ma non sappiamo in quale misura i musulmani conoscessero queste traduzioni compiute da ebrei, o quella attribuita a Hunayn ibn ˙ Isha¯q, il grande traduttore e teologo ne˙ storiano. Una delle caratteristiche sorprendenti del testo coranico in rapporto all’Antico Testamento sta nel fatto che per lo piu` il Corano riporta una parafrasi del contenuto dei testi biblici, mentre la citazione letterale di un versetto biblico e` estremamente rara. Un’illustrazione eloquente di questo fenomeno si trova nel versetto 21, 105: «Gia` abbiamo scritto nei Salmi, dopo che venne il Monito, che i Miei servi giusti erediteranno la terra»; versetto da ricondursi al salmo 37:«I giusti possederanno la terra e la abiteranno per sempre» (37,29). Questo esempio mostra come il Corano si interessi a quel che coglie del contenuto dell’Antico Testamento, non alla sua formulazione. Alcuni studiosi ritengono che questo tipo di rapporto con il testo biblico prova che le fonti ebraiche furono trasmesse all’islam oralmente. Un’altra possibile spiegazione della mancanza del diretto utilizzo del testo biblico risiede nella relazione ambivalente che l’islam intrattiene con quest’ultimo: da una parte, esso considera l’Antico Testamento uno dei testi santi che Dio rivelo` agli uomini prima di offrire il Corano agli arabi. Questo e` il motivo per cui l’Antico Testamento – come accade per il cristianesimo – serve da prova alla veridicita` del Corano. Del resto, molti versetti dell’Antico Testamento sono interpretati come predizioni dell’avvento futuro di Muhammad e della vittoria dell’islam. Un esempio e` il versetto che segue: «Poiche´ un bambino e` nato per noi, ci e` stato dato un figlio. Sulle sue spalle e` il segno della sovranita`» (Is 9, 5); versetto molto noto all’esegesi ebraica e cristiana che lo considerano l’annuncio dell’avvento del Messia. Questa interpretazione, basata sul senso letterale, non sfuggı` agli eruditi musulmani, i quali vi lessero invece un’allusione alla missione

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profetica di Muhammad. Essi fondarono questa interpretazione appunto sul passo «sulle sue spalle e` il segno della sovranita`»; ‘‘sovranita`’’ e` tradotta in arabo con diversi termini che indicano tutti il potere (sulta¯n, ri’a¯sa), e gli eruditi musulmani ˙ riconobbero nel versetto biblico il ‘‘sigillo della profezia’’ che, nella credenza musulmana, si trovava sulla spalla di Muhammad. Cosı`, essi ritennero che il versetto non alludesse per nulla a Gesu`, la cui spalla non portava affatto questo segno, ma a Muhammad. D’altra parte, fin dai suoi esordi, l’islam contesto` l’integrita` dell’Antico Testamento, che gli ebrei, secondo il Corano, avrebbero tendenziosamente falsificato (cfr. tahrı¯f); essi ne avrebbero inoltre mo˙ l’ordine dei versetti (cfr. tabdı¯l): dificato «Alcuni dei giudei storpiano le parole della Scrittura» (per esempio, 4,46); «Ma guai a coloro che scrivono il Libro con le proprie mani e poi dicono: ‘‘Questo e` da Dio’’» (2,79). Lo scopo delle falsificazioni e delle modifiche, che la Tradizione islamica imputo` essenzialmente a ‘Uzayr (generalmente identificato con Esdra lo Scriba), era estirpare dall’Antico Testamento tutte le testimonianze che avevano una relazione con la venuta futura di Muhammad: la descrizione del personaggio, delle sue qualita` e della vittoria della religione che egli era destinato a portare agli uomini. Questa ambivalenza nei confronti dell’Antico Testamento e` gia` presente in modo evidente nel testo coranico, e determinera` la relazione dell’islam con il testo biblico per la sua intera storia. Tale ambiguita` puo` essere tra i motivi della quasi totale assenza, nel Corano, di citazioni letterali dell’Antico Testamento. [M.B.-A.]

Bibliografia: Camilla Adang, Muslim Writers on Judaism and the Hebrew Bible. From Ibn Rabban to Ibn Hazm, Brill, Leiden 1996; Hava Lazarus-Yafeh, Intertwined Worlds: Medieval Islam and Bible Criticism, Princeton University Press, Princeton 1992; Roberto Tottoli, I profeti biblici nella tradizione islamica, Paideia, Brescia 1999.

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API e MIELE Dalla piu` alta antichita`, l’ape ha affascinato i popoli delle regioni mediterranee, che ne apprezzavano il miele come un nettare divino, cibo privilegiato degli de`i. Secondo la Bibbia, la Terra promessa racchiude miele a profusione (Dt 8,8), anche se il Levitico (2,11), senza dubbio in reazione ai culti pagani, vieta di offrirne a Dio. Questa ammirazione per l’ape si ritrova nel Corano: «Il tuo Signore rivelo` all’ape: ‘‘Fatti case nei monti, e negli alberi, e in quel che fabbricano gli uomini e mangia di tutti i frutti, e percorri sommessa le vie che il Signore ti dice’’. E dal ventre suo esce variopinta bevanda, che guarisce gli uomini; e certo questo e` un Segno per gente che sa meditare» (16,68-69). Poiche´ contiene questi due versetti, la sedicesima sura del Corano e` intitolata AlNahl, ‘‘L’Ape’’; quanto ai versetti prece˙ (16,65-67), menzionano l’acqua, il denti latte e il vino che, insieme al miele, costituiscono le eccellenti bevande terrene che Dio accordo` agli uomini, le stesse che i beati ritroveranno nei fiumi del paradiso: «La descrizione del Giardino che e` stato promesso ai timorati di Dio e` cosı`: vi saranno fiumi di acqua incorruttibile, e fiumi di latte dal gusto immutabile, e fiumi di vino delizioso a chi beve e fiumi di miele purissimo» (47,15). Numerose tradizioni profetiche esprimono l’ammirazione di Muhammad per l’ape, creatura meravigliosa, segno per eccellenza dell’onnipotenza divina. «Ogni mosca – avrebbe egli detto un giorno – e` votata al fuoco infernale, eccetto l’ape». L’industriosa ape, con il suo lavoro ininterrotto al servizio della comunita`, offre al credente un esempio da meditare e imitare: «Il credente deve seguire l’esempio dell’ape, che mangia e produce solo cose buone», avrebbe insegnato il Profeta. Al di la` della personale predilezione di quest’ultimo per il miele e del suo impiego in cucina, lo Hadı¯th accorda un’attenzione particolare˙ alle proprieta` curative del miele enunciate nel Corano. Secondo una celebre tradizione, Muham-

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mad disse: «Per voi musulmani, vi sono due rimedi: il Corano e il miele», combinando l’insegnamento del versetto 16,68 con il versetto 17,82: «Noi riveliamo del Corano cio` che e` guarigione e misericordia ai credenti». Il Profeta vanta il miele come rimedio efficace nel trattamento di numerose malattie e come componente indispensabile di una sana alimentazione. Lo testimoniano, per esempio, i capitoli dedicati all’igiene, alla dietetica e alla medicina nel Sah¯ıh di Bukha¯rı¯ (m. 256/ ˙ ˙ 869), una delle˙ raccolte di tradizioni ‘‘ca˙ noniche’’. Pertanto il miele occupa uno spazio privilegiato nella ‘‘medicina profetica’’ (al-tibb al-nabawı¯), specialmente ˙ Ibn Qayyim al-Jawziyya (m. nell’opera di 751/1350) dal medesimo titolo, che ancora ai nostri giorni gode di popolarita` nel mondo musulmano. I versetti coranici che evocano le api e il miele, malgrado la loro apparente semplicita`, non tardarono a suscitare problemi per alcuni esegeti e teologi. Il Corano afferma esplicitamente che il popolo delle api ricevette da Dio una rivelazione; e` detto che «il tuo Signore rivelo` all’ape (awha¯ rabbu-ka ila¯ al-nahl)» (16,68). ˙ rivelazione Ma ˙come si espresse questa (wahy), in un linguaggio umano e nella ˙ fattispecie l’arabo, la lingua per eccellenza di ogni rivelazione, oppure in un linguaggio proprio alle api? O si tratta piuttosto di un’‘‘ispirazione’’ (ilha¯m) divina che, contrariamente alla Rivelazione, non e` legata a una lingua particolare? I piu` casuistici tra i giurisperiti si sono interrogati inoltre sulla purezza e la liceita` del miele in quanto alimento. Infatti, se il miele fuoriesce dal corpo dell’ape, come il Corano afferma esplicitamente («dal ventre suo esce variopinta bevanda»; 16,69), i casi sono due: o esce dalla bocca e dunque si tratta di un rigurgito; oppure esce dall’ano e si tratta di un escremento. In entrambi i casi e` un prodotto impuro, la cui consumazione e` illecita. Fortunatamente uno hadı¯th offre la soluzione: il miele esce ˙da sotto le ali dell’ape! La scoperta della zoologia greca grazie alle traduzioni, in particolare le osserva-

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zioni di Aristotele sulla vita delle api, non fece che accrescere l’interesse nei loro confronti. Numerose questioni biologiche, in particolare sul modo di riproduzione delle api, rimasero tuttavia irrisolte fino all’epoca moderna. Cosı`, le api furono spesso considerate i prodotti misteriosi di una generazione spontanea, che secondo alcuni si realizzava da cadaveri di buoi. Quest’ultima teoria, esposta nel corpus alchemico attribuito a Ja¯bir ibn Hayya¯n (probabilmente II/VIII sec.) e ˙ dallo studioso Bı¯ru¯nı¯ (m. 442/1050), riprende l’antico tema della bugonia, che Virgilio descrive nelle Georgiche. Inoltre, naturalisti, moralisti, teologi e filosofi musulmani giunsero a considerare l’ape (insieme alla scimmia) l’animale piu` perfetto e piu` prossimo all’uomo, per la sua intelligenza e per la sua organizzazione sociale e politica (siya¯sa) molto evoluta. La vita nell’alveare e` apprezzata come un modello di societa` perfetta: a ogni membro e` assegnata una mansione precisa; ogni attivita` si compie per il bene della comunita`, sotto il comando di un ‘‘capo’’ (amı¯r) che da` prova di un’equita` ineccepibile. Un esempio particolarmente eloquente della percezione dell’ape nella civilta` musulmana medievale e` fornito da un’epistola dell’Enciclopedia dei Fratelli della Purita` (Ikhwa¯n al-Safa¯’, IV/X sec.), che ˙ rappresenta una discussione tra gli animali e l’uomo davanti al re dei jinn. Il ‘‘principe delle api’’, sostenuto dai versetti coranici (16,68-69), enumera davanti al suo meravigliato interlocutore gli innumerevoli benefici di cui Dio colmo` il popolo delle api: sole tra gli animali, furono beneficiate da una rivelazione divina che apprese loro i minimi segreti dell’architettura, come l’arte di costruire alveoli di forma esagonale talmente perfetta da non lasciare alcuno spazio fra l’uno e l’altro. Inoltre, grazie alla loro acuta intelligenza, le api si comportano da accorte econome, padroneggiando l’arte di gestire le provviste in modo esemplare, evitando il minimo spreco. La loro organizzazione sociale e` il frutto di una politica molto saggia: all’interno dell’alveare re-

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gna l’ordine, ognuno vi esercita una determinata funzione e il principe governa l’insieme nell’interesse della comunita`. Non vi e` gelosia ne´ discordia, poiche´ le api sono dotate di una natura intrinsecamente buona e di una disposizione innata a fare il bene. Inoltre, sono molto devote: consapevoli dei numerosi benefici che il creatore ha concesso loro, lo lodano giorno e notte e professano continuamente la sua unicita`. Alla bellezza e alla bonta` della loro natura interiore corrisponde una forma armoniosa del corpo, ogni parte del quale e` mirabilmente adatta alla sua funzione. I loro corpi perfetti, che si nutrono unicamente delle sostanze piu` nobili, producono un dolce nettare, alimento squisito e rimedio efficace contro le malattie dell’uomo. Tuttavia, il principe termino` la propria perorazione su una nota amara: la maggior parte degli uomini si dimostra ingrata, e non esita a uccidere le api, a cacciarle dalle loro dimore o a depredarne le provvigioni, dimenticando che la condotta delle loro sorelle alate potrebbe fornire loro un esempio salutare. Essendo sciiti, i Fratelli della Purita` accordano un significato particolare all’espressione ‘‘principe delle api’’. L’esegesi sciita riconosce nelle api del versetto 16,68 gli appartenenti all’ahl al-bayt, le ‘‘genti della casa del Profeta’’ (‘Alı¯, Fa¯tima, Hasan e Husayn) e, per estensione, ˙gli altri ˙ imam della ˙ loro discendenza, se non l’insieme dei credenti sciiti. Essendo ‘Alı¯ a capo di tutti loro, il suo titolo usuale di ‘‘principe dei credenti’’ (amı¯r al-mu’minı¯n) e` talvolta trasformato in ‘‘principe delle api’’ (amı¯r al-nahl): ‘Alı¯ deve la sua autorita` come maestro˙ spirituale dei credenti al fatto di essere il depositario del significato occulto del Libro, la cui conoscenza e` simboleggiata dal miele che esce dal corpo dell’ape. Il titolo di amı¯r al-nahl ˙ e` particolarmente frequente nello sciismo ‘‘estremista’’ (ghuluww), che ritiene ‘Alı¯ una manifestazione dell’essenza divina (ma‘na¯). Cosı`, i nusayriti identificano le api coraniche con le˙ anime purificate dei credenti: divenute sostanze luminose, sfuggono ai cicli delle reincarnazioni e

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delle metamorfosi (maskh) e appaiono nel firmamento come stelle splendenti. [D.DeS.]

Bibliografia: Meir Bar-Asher, Arieth Kofsky, The Nusayri-Alawi Religion. An Enquiry into Its Theology and Liturgy, Brill, Leiden 2002; Bukha¯ rı¯, El-Bokha¯rı¯. Les Traditions islamiques, trad. dall’arabo, note e indice di Octave Houdas, E. Leroux, Paris 1914; Alma Giesse, Mensch und Tier vor dem Ko¨nig der Dschinnen. Aus den Schriften der Lauteren Bru¨der von Basra, Philosophische Bibliothek, Hamburg, 1990; Igna`c Goldziher, «Schı¯‘itisches», in Zeitschrift der Deutschen Morgenla¨ ndischen Gesellschaft, 64 (1910), pp. 529533; Remke Kruk, «A Frothy Bubble. Spontaneous Generation in the Medieval Arab Tradition» in Journal of Semitic Studies, 35 (1990), pp. 265-282.

APOCRIFI Vedi SCRITTURE APOCRIFE. APOSTASIA Il Corano rimprovera piu` volte coloro che rinnegano l’islam (2,217; 3,149; 5,54; in particolare 16,106): su di loro «cadra` ira da Dio e avranno castigo cocente». E un tono diverso sarebbe stato sorprendente. Tuttavia non e` previsto alcun castigo terrestre ai danni degli apostati; la pagheranno cara nell’Aldila`, ma nulla nel Corano e` stabilito per l’aldiqua` , nessuna pena fissa (hadd) e` indicata in caso di apostasia. ˙ In modo anch’esso ben poco inaspettato, l’invito alla conversione dei non musulmani all’islam e` uno dei leitmotiv del Corano. Questo invito – al-da‘wa e` il nome che l’islam da` alla propaganda religiosa e al proselitismo – e i mezzi per metterlo in pratica differiscono a seconda della categoria alla quale appartengono le persone cui esso si rivolge: da una parte gli appartenenti all’Ahl al-Kita¯b (‘‘gente del Libro’’), e dall’altra i pagani-associazionisti (mushriku¯n). Nei commenti classici al Corano, il famoso versetto la¯ ikra¯h fı¯ aldı¯n («Non puo` esservi – o non deve esservi – costrizione nella religione»; 2, 256) si considera riferito solo all’Ahl al-

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Kita¯b. Tuttavia, secondo Ibn Zayd, questo versetto e` abrogato da 2,191, nettamente piu` sfavorevole ai non musulmani in generale. Altri versetti (per esempio 2,148) riconoscono implicitamente o espressamente la legittimita` attuale delle religioni dell’Ahl al-Kita¯b. Diverso il caso dei pagani-associazionisti, i miscredenti (ka¯firu¯n) che il Corano invita a combattere e a uccidere: «Uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli ovunque in imboscate. Se poi si convertono e compiono la Preghiera e pagano l’Elemosina, lasciateli andare» (9,5; cfr. anche 2,191). In altri termini, essi non hanno altra scelta che la morte o la conversione all’islam. La pedagogia coranica per invitare alla conversione e` la «riflessione», la «considerazione» dei «segni di Dio»: il Corano in primo luogo, che nessuno e` in grado d’imitare, ma anche i fenomeni naturali e la storia dei popoli antichi. Su sessantadue occorrenze coraniche del verbo radda e derivati, solo tre brani (2, 217; 4,137-138; 16,106-107) rimandano all’idea di abiura e apostasia. Ciononostante, anche se nei fatti l’apostasia assumera` pieno senso concreto sotto il potere califfale, essa e` gia` la preoccupazione del Profeta a Medina, dov’e` assimilata al crimine di ribellione contro l’Inviato di Dio, non soltanto in quanto rinnegamento della fede, ma anche in quanto attentato all’integrita` dello Stato. In effetti, durante gli ultimi anni della vita del Profeta e poi al momento della sua morte, la situazione dei musulmani si era fatta critica; l’impero nascente, fondato soltanto sull’autorita` personale di Muhammad, minacciava di sgretolarsi. Tra i credenti, alcuni respingevano deliberatamente l’islam, altri si rifiutavano di pagare l’imposta o adottavano un atteggiamento equivoco. L’opera di Muhammad e dopo di lui dei califfi ra¯shidu¯ n (i ‘‘ben guidati’’, cioe` i primi quattro califfi) fu duplice: da un lato, verso l’esterno, si concretizzo` in una serie di razzie lanciate ai confini della Siria che preparavano la conquista e l’islamizzazione delle tribu` arabe che, ben prima dell’avvento dell’islam, vivevano

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in territorio bizantino e svolgevano piu` o meno coscientemente un ruolo di agenti di penetrazione; dall’altro lato, all’interno, si susseguivano trattative diplomatiche o politiche con tribu` di lealta` incerta e operazioni di polizia e d’inquisizione contro gli apostati e i briganti. Cio` diede luogo alla teorizzazione del jiha¯d contro gli apostati come risultato naturale della pratica di Muhammad, che avrebbe stabilito, a partire dal 6/627, un vero regime di delazione e terrore. Il Profeta stesso aveva del resto dato un esempio d’intransigenza mettendo a morte la tribu` ebraica dei Qurayza. ˙ Il proselitismo e` un’impresa incoraggiata dal Corano. Altri versetti (per esempio 2, 62 e 29,46) paiono tuttavia favorevoli al riconoscimento d’una certa pluralita` religiosa, almeno riguardo gli appartenenti all’Ahl al-Kita¯b, anche se nel corso della sua evoluzione il discorso coranico nei loro confronti s’e` inasprito, in particolare verso gli ebrei. Vi sono pochi dubbi sul fatto che l’inasprimento del discorso rivelato echeggi la degradazione delle relazioni tra Muhammad e i suoi da una parte e le tribu` ebraiche di Yathrib dall’altra. Per gli Ahl al-Kita¯b e` stato elaborato uno ‘‘statuto di protezione’’ (dhimma) che permette loro di vivere la loro fede a certe condizioni; un documento antico e assai interessante al riguardo e` il famoso patto di ‘Umar, il secondo dei califfi ‘‘ben guidati’’ (regno` dall’anno 13 all’anno 23 dell’egira, dal 634 al 644), imposto ai cristiani che vivevano sotto dominazione musulmana. Basandosi sul versetto 9,60, il sistema legale musulmano prevede che una parte delle elemosine legali (sadaqa¯t) spetti a ˙ definita al-muuna categoria di persone ’allafa qulu¯bu-hum – espressione di difficile traduzione: ‘‘coloro i cui cuori sono riconciliati’’, ‘‘coloro i cui cuori sono stati guadagnati all’islam’’ – ma che in ogni caso e` stata interpretata come designante alcuni convertiti particolari. I giuristi parlano piu` precisamente dei convertiti ‘‘importanti’’ (la-hum sharaf) e altrove di convertiti dalla fede tiepida; una parte delle elemosine va offerta ai primi

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per attirare all’islam altre persone dello stesso rango, e ai secondi per consolidare la loro adesione. Ancora oggi alcuni storici musulmani considerano che gli avvenimenti di Medina e le ‘‘guerre della ridda’’ fossero necessari alla sopravvivenza dell’islam, e abbiano rappresentato una condizione imprescindibile per il suo sviluppo. Storicamente la ridda e` intesa dai tradizionisti come il confronto tra lo stato islamico di Medina e le tribu` della Penisola arabica le quali, dopo la morte del Profeta, si ribellarono credendo di potersi affrancare dai simboli di sottomissione politica pur continuando a riferirsi alla fede islamica. Abu¯ Bakr, il primo califfo (che regno` dall’anno 10 all’anno 12 dell’egira, dal 632 al 634), interpreto` alla lettera la definizione coranica di ‘‘credenti’’: «coloro che pregano e che pagano l’Elemosina». Le tribu` ribelli furono dunque trattate come apostate a motivo del loro rinnegamento di alcune regole coraniche, della loro disobbedienza e del rifiuto di pagare il tributo che versavano mentre il Profeta era in vita (cioe` le elemosine legali obbligatorie: zakawa¯t e sadaqa¯t). La ‘‘grande apostasia’’ (con le˙ guerre che essa provoco`) fu in realta` una rivolta generale durante la quale apparvero diversi ‘‘profeti’’ che fu necessario combattere. La morte del Profeta aveva infatti gettato lo scompiglio tra le sue fila e nella comunita` in generale. Durante i due anni del regno d’Abu¯ Bakr, l’islam si attesto` in Arabia grazie a ferme operazioni volte a evitare ogni defezione. L’efficacia del califfo, il suo pugno di ferro e l’ardore delle sue truppe soffoco` i focolai di resistenza. La loro risolutezza aiuto` l’islam ad avere ragione di tutti i ‘‘falsi profeti’’ della regione, che avevano fatto la loro comparsa come capi di rivolte contro lo Stato islamico. Fu cosı` che nel 12/633, durante la battaglia della Yama¯ma, fu ucciso il ‘‘profeta’’ Musaylima, considerato il piu` temibile. Ma Abu¯ Bakr non volle in alcun modo spingere oltre la pressione militare sulle tribu` beduine, e alla repressione suc-

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cedette una certa mitezza; infatti egli aveva bisogno di queste tribu` per le truppe musulmane delle grandi conquiste. Alcuni orientalisti hanno affermato che l’ampiezza della conversione all’islam era stata fortemente esagerata e che solo qualche tribu`, intorno a Medina e alla Mecca, era diventata musulmana; per altre erano forse intervenute alleanze politiche, ma altre ancora non ebbero alcun rapporto con Medina prima d’essere sconfitte nelle guerre della ridda. Non vi fu dunque apostasia, piuttosto slealta` politica. Le conversioni di massa sarebbero delle ‘‘invenzioni pie’’ tese a magnificare a posteriori il successo di Muhammad. William Montgomery Watt ha violentemente criticato quest’idea, basandosi da un lato sulla politica tribale di Muhammad e dall’altro su testi diversi che egli ritiene autentici: le narrazioni storiche di Ibn Hisha¯m (m. 218/833) e di Wa¯qidı¯ (m. 207/823), una raccolta di missive attribuite a Muhammad e alcuni rendiconti delle ‘‘delegazioni’’ inviate presso di lui e conservati da Ibn Sa‘d. In questo sistema, quel che non e` riconosciuto ai musulmani piu` che la liberta` di coscienza e` la liberta` religiosa, e l’apostasia risulta punita con la morte (sempre che l’apostata sia pubere, dotato delle facolta` razionali e libero nella sua scelta). Due detti profetici sono abitualmente invocati per giustificare il fatto che l’apostata, che sia maschio o femmina – alcuni giuristi hanbaliti stabiliscono una distinzione tra ˙ l’uno e l’altra – vada messo a morte. Il primo e` il seguente: «Chi cambia di religione, uccidetelo» (man baddala dı¯na-hu fa-uqtulu¯-hu); la` dove si tratta beninteso del musulmano e della musulmana che cambiano di religione; il secondo rende lecito il sangue di un uomo musulmano che abbia abiurato la propria religione (rajul kafara ba‘da isla¯mi-hi). Su questo principio si registra un consenso (ijma¯‘) tra gli ‘ulama¯’ tale da permettere di fare a meno di un riferimento coranico. L’apostasia e` un crimine verso Dio piu` che verso la comunita`; per questo, il pentimento (tawba) dell’apostata ha l’effetto d’an-

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nullare il castigo. Tuttavia, alla domanda se sia obbligatorio chiamare l’apostata al pentimento, le risposte divergono. La severita` del diritto musulmano con riguardo all’apostasia deve senza dubbio piu` ancora alla storia – quale la riporta la Tradizione – della prima epoca islamica che al Corano e allo Hadı¯th, anche se ˙ quand’essa non l’argomento della storia, sia registrata nello H adı¯th, compare ˙ dei giuristi. Le molto di rado negli scritti ‘‘guerre dell’apostasia’’ (huru¯b al-ridda), ˙ la prima ‘‘crisi’’ (fitna) dell’islam, furono duramente represse, e nell’immaginario musulmano alimentato dalla storiografia tale repressione risulta necessaria per assicurare la semplice sopravvivenza della comunita` nascente. L’‘‘apostasia’’ delle tribu` fu parziale: non toccava il riconoscimento formale dell’islam, ma la dimensione legale a esso associata. Da allora, la questione di conoscere se, a lato della fede, gli atti facciano o no parte integrante della definizione di musulmano non ha smesso d’occupare i teologi. Anche nei testi normativi musulmani l’islam e` indivisibile, e non solo chi rinnega l’islam nella sua integralita` e` suscettibile d’essere qualificato di apostata: anche chi neghi questo o quell’aspetto dell’islam considerato essenziale per la sua definizione corre il rischio d’essere accusato di apostasia. Affermare per esempio che il Corano si rivolga ai soli arabi del tempo della sua rivelazione e, eventualmente, alla comunita` che s’era creata attorno a esso, che esso insomma non abbia vocazione universale, costituisce atto d’apostasia. Apostasia e` anche negare il carattere obbligatorio, piu` che l’adempimento, delle cinque preghiere quotidiane o delle elemosine sciaraitiche. E` accaduto che la pratica della magia (sihr) fosse conside˙ rata un segno di rinnegamento dell’islam. L’apostasia, dunque, e` non solo repressa molto severamente ma anche molto largamente definita. Ai giorni nostri, in alcuni paesi musulmani si registrano casi di cristiani che si convertono senza convinzione per poter sposare donne musulmane o per accedere a funzioni riservate ai musulmani. E se

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non praticano la nuova religione rischiano d’essere accusati d’apostasia. Essi allora domandano d’applicare il solo Corano, che non stabilisce la pena di morte. All’inizio del XX secolo, Muhammad ‘Abduh, ˙ ` che la congran muftı¯ d’Egitto, dichiaro danna a morte dell’apostata si spiegava agli inizi dell’islam, quando si temeva la diserzione e l’abbandono, ma che oramai, una volta acquisito il trionfo della religione, tale pena non aveva piu` giustificazione alcuna. E alcuni ‘‘riformisti’’ del suo tempo ripresero queste riflessioni attribuendole a se stessi e, un secolo piu` tardi, passano per coraggiosissimi. Nella prima redazione della carta dei musulmani di Francia, era affermata la «liberta` di cambiare religione»; ma alcuni gruppi di pressione hanno ottenuto che essa non figuri piu` nella redazione finale del 2000. [E´.C., M.T.U.]

Bibliografia: Sami Aldeeb Abu-Sahlieh, Liberte´ religieuse et paix au Proche-Orient, cahier 61 du Centre d’e´tudes et de recherches sur le monde arabe contemporain, Universite´ catholique de Louvain, Louvain-la-Neuve 1988; Id., «La liberte´ religieuse dans un pays musulman: cas de l’E´gypte», in La liberte´ religieuse dans le judaı¨sme, le christianisme et l’islam, actes du colloque international a` l’abbaye de Se´nanque, Le Cerf, Paris 1981; Ibn Hicha¯m, La Vie du prophe`te Mahomet, ed., trad. dall’arabo e note di Wahib Atallah, Fayard, Paris 2003; David Little, John Kelsay, Abdulaziz A. Sachedina, Human Rights and the Conflicts of Cultures: Western and Islamic Perspectives on Religious Liberty, University of South Carolina Press, Columbia 1988; William Montgomery Watt, Muhammad at Medina, Clarendon Press, Oxford 1956.

APPARENTE e NASCOSTO Nel Corano, la distinzione tra l’apparente (z a¯ hir, dal verbo z ahara, ‘‘apparire’’, ˙ ‘‘manifestarsi’’) e ˙il nascosto (ba¯tin, da ˙ albatana, ‘‘essere nascosto’’, ‘‘essere ˙ l’interno’’) e` applicata ai peccati e alle turpitudini da cui il credente deve tenersi lontano – «Lasciate il peccato esteriore e il peccato interiore» (6,120) – ai benefici accordati da Dio alle sue creature – «Ha

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versato in copia su voi i Suoi favori, manifesti e celati» (31,20) – ma anche alla stessa essenza divina: «Egli e` il Primo, Egli e` l’Ultimo, Egli e` il Dispiegato, Egli e` l’Intimo» (57,3). Nel giorno del Giudizio, «fra questi [gli ipocriti] e quelli [coloro che avranno creduto] verra` interposta una muraglia, che avra` una porta. E all’interno della porta sara` la Misericordia e all’esterno, di fronte, il Castigo» (57,13). Malgrado la scarsa base scritturaria, il binomio za¯hir-ba¯tin genero` una dialettica ˙ ˙˙ che ha animato larga parte del pensiero musulmano, ossia le correnti religiose e filosofiche che rifiutano di limitare l’islam al senso letterale del Corano e della Legge, e ricercano al di la` dei fenomeni del mondo sensibile un senso piu` profondo. E` stata quindi riconosciuta una dualita` tra aspetto manifesto (essoterico) e aspetto occulto (esoterico) nella stessa Rivelazione, che nell’islam si da` principalmente attraverso i testi sacri. A questo scopo sono invocati diversi aha¯dı¯th. Secondo una tradizione riferita ˙da Bukha¯rı¯ (m. 256/869), l’insegnamento del Profeta avrebbe comportato una parte essoterica e una parte esoterica: «Disse Abu¯ Hurayra: ‘‘Ho raccolto due serie di aha¯dı¯th ˙ tra dall’Inviato di Dio. Una l’ho diffusa gli uomini; l’altra non l’ho divulgata, altrimenti mi avrebbero tagliato la gola’’». Secondo un’altra celebre tradizione, il Profeta avrebbe detto che «il Corano possiede un esterno (z ahr) e un interno ˙ e un luogo verso (batn), un limite (hadd) ˙ il quale ci si eleva˙ (muttala‘)». Al senso ˙˙ versetti corriletterale e manifesto dei sponde dunque un significato profondo, interiore e nascosto. Dio non si e` limitato a prescrivere agli uomini una Legge, ha anche procurato loro la chiave che da` accesso al significato interno, ‘‘reale’’ della Rivelazione. Il doppio livello di significato non e` prerogativa del Corano, poiche´ si ritrova in tutte le Rivelazioni anteriori (Salmi, Torah, Vangeli), se non addirittura, secondo alcuni autori, nei racconti indiani e nei testi filosofici greci. Tuttavia, la dialettica tra za¯hir e ba¯tin non ˙ testi, ˙ puo` confinarsi al solo ambito dei

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perche´ l’intero universo e` caratterizzato da questa dualita`. A partire dai numerosi versetti coranici che presentano i fenomeni della natura come segni (a¯ya¯t) dell’onnipotenza divina (per esempio 2,164; 3,190; 6,97 e 99), il mondo sensibile degli esseri corporei e` percepito come la manifestazione esteriore di un’essenza interiore intelligibile. Il mondo materiale, corruttibile e mutevole, e` interpretato come il riflesso, l’esteriorizzazione di un mondo superiore di archetipi, un mondo spirituale, eterno e immutabile. Poiche´ ogni essere ha la sua immagine in questo mondo e il suo archetipo nell’altro, la conoscenza dell’uno e` impossibile senza la conoscenza dell’altro. Si comprende quindi come le nozioni di za¯hir e ba¯tin si ˙ visione˙ delintegrino perfettamente a una l’universo di matrice platonica (o neoplatonica). Il significato ovvio del testo della Rivelazione e il nostro mondo sensibile appaiono come simboli che fanno riferimento a una medesima realta` superiore. Za¯hir sta a ba¯tin come il significante sta al ˙ simbolo al simbolizzato. ˙significato, il Estrarre il significato del simbolo necessita un’esegesi (ta’wı¯l, da awwala, ‘‘far risalire’’) che ‘‘riconduce’’ la lettera ovvia o il fenomeno manifesto al suo senso reale e nascosto. In tal modo, l’esegesi si opera su due livelli tra i quali esiste una stretta corrispondenza: applicata ai fenomeni del mondo sensibile, apre il Libro della Natura; praticata sul testo rivelato, inizia al Libro sacro, l’archetipo del Corano e di tutta la Rivelazione conservato presso Dio sulla ‘‘Tavola Custodita’’ (allawh al-mahfu¯z; 85,22). ˙ ˙ delicata ˙ Operazione e ardua, il metodo del ta’wı¯l e la conoscenza del ba¯tin non si trovano alla portata di tutti, ma ˙sono strettamente riservati a una stretta cerchia (kha¯ssa) di filosofi o di iniziati, mentre il ˙ ˙ mortale deve accontentarsi dello comune za¯hir. Di conseguenza, la scienza del ba¯˙tin va tenuta nascosta a quanti ne sono ˙indegni. La teoria dello za¯hir e del ba¯tin e` condi˙ maggior visa in un modo˙o nell’altro dalla parte delle correnti di pensiero che vanno

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oltre l’islam letteralista, in particolare i mistici, i filosofi (fala¯sifa) e alcuni teologi dialettici (mutakallimu¯n). Ma in una prospettiva storica queste nozioni furono elaborate in seno allo sciismo, che volle dare cosı` una base teorica alla dottrina dell’imamato. In tutte le loro tendenze, duodecimani, isma¯‘ı¯liti, o ‘‘estremisti’’ (ghula¯t), gli sciiti, nella Rivelazione ‘‘discesa’’ (tanzı¯l) con la mediazione dei profeti, distinguono una dimensione esteriore (spesso paragonata alla buccia, qishr) e una dimensione interiore, che ne costituisce il nocciolo (lubb). I profeti confidarono ai loro imam la conoscenza di tale dimensione interiore, indispensabile alla salvezza dell’anima. Nel ciclo di Muhammad, ‘Alı¯ e gli imam della sua discendenza sono i ‘‘depositari’’ della scienza del ba¯tin e della tecnica del ta’wı¯l. Il loro scopo˙consiste nel preservare e insegnare queste conoscenze ai fedeli che ne sono giudicati degni. Percio`, gli sciiti applicano ai loro imam il versetto 3,7 del quale, in rapporto alla Vulgata sunnita, modificano la punteggiatura: «La vera interpretazione (ta’wı¯l) di quei passi non la conosce che Dio e gli uomini di solida scienza. Diranno[...]»; mentre nella Vulgata si legge: «La vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio. Invece gli uomini di solida scienza diranno [...]». Gnosi sacra e iniziatica, la conoscenza del ba¯tin, nel mondo attuale dominato dall’i˙ gnoranza e dall’oppressione, deve rimanere segreta e nascosta alle masse, per prudenza (la famosa taqiyya) e per evitarne la profanazione. Lo sciismo, «il santuario dell’esoterismo dell’islam» secondo Henry Corbin, nel corso della sua lunga e movimentata storia sviluppo` un ricco insieme di dottrine esoteriche di una sorprendente diversita` , in particolare adottando e assimilando, attraverso il ta’wı¯l, numerosi elementi ereditati dalle religioni e dalle filosofie preislamiche, ebraiche, cristiane, iraniche o greche. Se queste dottrine variano largamente in rapporto alle correnti, alle epoche e agli autori, in generale comportano tutte diversi livelli di profondita`, permettendo un’ini-

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ziazione progressiva ai segreti della Rivelazione. Partendo dallo za¯hir, la scorza ˙ accessibile ai comuni mortali, la via al ta’wı¯l conduce al ba¯tin, riservato all’e´lite, ˙ ba¯tin al-ba¯tin, l’esprima di penetrare nel ˙ alcuni˙ privilesenza piu` segreta che solo giati possono raggiungere. Questo percorso si compie sotto la conduzione dell’imam, vera ‘‘guida spirituale’’ e insieme ‘‘Maestro del Segreto’’, come afferma una tradizione attribuita al sesto imam Ja’far al-Sa¯diq (m. 148/765): «La nostra causa e` un˙ segreto, velato in un segreto; il segreto di qualcosa che rimane velato; un segreto che solo un altro segreto puo` insegnare; e` un segreto su un segreto che rimane velato da un segreto». Oppure, secondo un’altra tradizione: «La nostra causa e` la verita` e la verita` della verita` (haqq al-haqq); e` l’essoterico ed e` l’eso˙ ˙ terico dell’essoterico (ba¯tin al-za¯hir), ed ˙ (ba¯˙tin al-ba¯e` l’esoterico dell’esoterico tin)». La rivelazione integrale ˙del ba¯tin ˙avra` luogo solo alla fine dei tempi, con ˙ l’avvento del Mahdı¯. Per i duodecimani, sara` il dodicesimo imam, talvolta identificato col Paraclito del Vangelo, a porre fine al nostro presente stato di occultazione, restaurando l’unita` iniziale tra esoterico ed essoterico. Altre tradizioni, soprattutto isma¯ ‘ı¯lite, sostengono che il Mahdı¯, svelando l’integralita` del ba¯tin, ˙ abolira` lo za¯hir, in quanto l’essoterico ˙ sara` allora divenuto superdella Legge fluo. Ma in attesa dell’era messianica, la maggior parte degli autori duodecimani e isma¯‘ı¯liti proclamano l’unita`, la complementarieta` e il carattere indissociabile dello za¯hir e del ba¯tin, del tanzı¯l e del ˙ del Profeta e di ta’wı¯l,˙ della missione quella dell’imam. Il vero credente mantiene una posizione intermedia tra la sottomissione (isla¯ m) alle leggi esteriori della religione e la conoscenza delle verita` esoteriche della Rivelazione, che e` l’essenza stessa della fede (ı¯ma¯n). Anche l’isma¯‘ı¯lismo di epoca fa¯timida insegna il piu` stretto equilibrio tra˙ il ‘‘culto attraverso le opere (al-‘iba¯da al-‘amaliyya)’’, che consiste nel seguire scrupolosamente le prescrizioni della sharı¯‘a nel loro senso

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APPARENTE e NASCOSTO

letterale, e il ‘‘culto attraverso la conoscenza (al-‘iba¯da al-‘ilmiyya)’’, che si compie acquisendo le scienze del ba¯tin. ˙ Tuttavia, sin dalle sue prime manifestazioni nella seconda meta` del II/VIII secolo, lo sciismo isma¯‘ı¯lita conobbe tendenze antinomiche, legate alla convinzione che il Mahdı¯, svelando l’integralita` del ba¯tin, dispensera` l’iniziato dall’accettare il˙senso ovvio del testo rivelato e dal praticare le prescrizioni della Legge, col pretesto che lo za¯hir sarebbe un castigo imposto da Dio˙ agli uomini ignoranti e ingiusti (questa tesi troverebbe legittimazione nel versetto 57,13 citato sopra). Alcuni di questi movimenti antinomici originati dall’isma¯‘ı¯lismo hanno avuto ampia eco negli annali dell’islam: i carmati del Bahrein, che si impadronirono della Pietra Nera della Ka‘ba nel 930, e i niza¯˙ riti (niza¯ riyya, i temibili ‘‘Assassini’’ delle cronache medievali) il cui imam Hasan-i Sabba¯h, nel 1164 proclamo` la ˙ ˙ ˙ Grande Resurrezione ad Alamu¯ t, segnando l’avvento di una religione puramente centrata sul ba¯tin. Secondo i drusi, il califfo fa¯timida H˙a¯kim (m. 386/996), ˙ considerato˙ un’incarnazione della divinita`, revoco` sia lo za¯hir sia il ba¯tin di tutte ˙ ˙ le rivelazioni anteriori, instaurando una nuova religione che avrebbe dovuto sfuggire alla dialettica del manifesto e dell’occulto. Caratterizzato da una singolare diversita`, l’isma¯‘ı¯lismo genero` una corrente filosofica i cui rappresentanti, provenienti dallo stesso ambiente intellettuale degli anonimi autori della celebre Enciclopedia dei Fratelli della Purita` (Rasa¯’il Ikhwa¯n al-Safa¯’, IV/X sec.), definiscono il ‘‘culto per˙ la conoscenza’’, complemento indispensabile dell’attaccamento allo za¯hir, ˙ come un ‘‘culto filosofico e metafisico (al-‘iba¯ da al-falsafiyya al-ila¯ hiyya)’’. Muovendo da una tradizione che attribuisce al profeta Muhammad le parole «io sono l’Aristotele di questa comunita`», applicano il ta’wı¯l sia al testo rivelato sia ai fenomeni del mondo sensibile per estrarne il ba¯tin. Questo significato profondo, che si ˙considera ‘‘scientifico’’ per quanto riflette la struttura reale dell’uni-

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verso quale fu rivelata nel duplice libro della natura e del Corano, e` spesso affrontato attraverso concetti e termini presi a prestito dalla filosofia greca, neoplatonica e aristotelica. Gli insegnamenti di alcuni presocratici (in particolare Empedocle e Pitagora), di Platone, Aristotele e Plotino, adattati e assimilati a una visione isma¯‘ı¯lita del mondo, sono ritenuti rappresentare il senso nascosto e reale della manifestazione esteriore del mondo e della lettera della Rivelazione. I grandi filosofi isma¯‘ı¯liti del IV/X e V/XI secolo (Abu¯ Ya‘qu¯b al-Sijista¯nı¯, Abu¯ Ha¯tim al-Ra¯zı¯, Hamı¯d al-Dı¯n al-Kirma¯˙nı¯) ˙ tal modo delle esegesi elaborarono in che, per il metodo e le dottrine applicati, presentano notevoli affinita` con la dialettica dello za¯hir e del ba¯tin che anima il ˙ ˙ fala¯sifa, i ‘‘filosofi pensiero dei ellenisti’’ della cultura musulmana, tra cui Ibn Sı¯na¯ (Avicenna) e Ibn Rushd (Averroe`). Malgrado l’origine sciita, la dualita` tra apparente e nascosto e il metodo del ta’wı¯l, che consente il passaggio dall’uno all’altro, svolgono un ruolo primario anche nella mistica sunnita. Ma se i filosofi ricercano il ba¯tin nei segreti della natura e ˙ nell’essenza intelligibile mascherata dai fenomeni del mondo sensibile, i mistici aspirano innanzitutto a ritrovarlo entro se stessi. Il dominio del ba¯tin, frutto di una lunga ricerca spirituale,˙ conduce infine all’incontro con Dio, attraverso la conoscenza di se´. Il ta’wı¯l e la recitazione (dhikr) del testo rivelato consentono un’ascesi progressiva, sotto la guida dello shaykh, verso una comprensione sempre piu` profonda della creazione e del creatore. A ogni stadio, il sufi coglie di piu` la presenza divina che il versetto contiene. E alla fine del percorso, dopo aver interiorizzato integralmente tutti i significati, il suo cuore si apre e si unisce a Dio. Il versetto trasfigurato diviene una manife[D.DeS.] stazione dell’essenza divina. Bibliografia: Mohammad Ali Amir-Moezzi, Christian Jambet, Qu’est-ce que le shı¯’isme?, Fayard, Paris 2004 (in particolare pp. 31-36, 139-174); Alessandro Bausani, L’enciclopedia dei Fratelli della purita`. Riassunto con introduzione e breve com-

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64 mento dei 52 trattati o epistole degli Ikhwan as-safa¯’, Istituto universitario orientale di Napoli, Napoli 1978; Leonardo Capezzone, Marco Salati, L’Islam sciita. Storia di una minoranza, Edizioni Lavoro, Roma 2006; Daniel De Smet, «Za¯hir et ˙ ba¯tin», in Jean Servier (a cura di), Diction˙ critique de l’e´sote´risme, PUF, Paris naire 1998, pp. 1387-1392; Daniel De Smet, «Au-dela` de l’apparent: les notions de za¯˙ hir et ba¯tin dans l’e´sote´risme musulman», ˙ in Orientalia Lovaniensia Periodica, 25 (1994), pp. 197-220; Christian Jambet, Le Cache´ et l’Apparent, L’Herne, Paris 2003.

ARABO (LINGUA e POPOLO) Il Corano, come la Torah in rapporto all’ebraico, e` intimamente dipendente, sia per la sua espressione, sia per la sua comprensione, dalla lingua araba. Il testo stesso insiste in molte occasioni su questo punto (si vedano in particolare 16,103 e 26,195): il Corano e` stato rivelato in «lingua araba chiara» (lisa¯n ‘arabı¯ mubı¯n), nel primo caso questa affermazione e` sottolineata per liquidare alcuni sospetti relativi all’esistenza di un informatore straniero di Muhammad, nel secondo semplicemente per convincere i destinatari del messaggio. Il corollario di queste affermazioni e` che chi non conosce l’arabo (all’epoca l’arabo dei Quraysh) non ne puo` cogliere i significati veri e profondi. Per lungo tempo si e` ritenuto che si trattasse esclusivamente di una questione legata al contesto culturale della Rivelazione. Tuttavia, le numerose e frequenti affermazioni degli esegeti riguardanti l’inimitabilita` del Corano, essenzialmente legate alla sua lingua, hanno da sempre portato a ritenere che il problema fosse differente. Le attuali scoperte dei ricercatori confermano l’esattezza delle loro affermazioni, dimostrando l’impossibilita` di accostarsi alla retorica strutturale del Corano senza il ricorso alla lingua araba; proprio allo stesso modo, secondo la medesima prospettiva, senza la conoscenza dell’ebraico non e` possibile comprendere la Torah, che e` scritta in ebraico ed e` legata alle regole di vocalizzazione proprie di questa lingua. Michel Cuypers lo ha dimostrato per il Corano, verifi-

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cando che e` possibile ritrovarvi le regole della retorica semitica, uno sviluppo della retorica biblica. Tale retorica e` il frutto di piu` di duecento anni di lavoro di esegesi biblica, ed e` stata recentemente sistematizzata da Louis Meynet e da Roland Pouzet, i quali hanno constatato contemporaneamente che le leggi della retorica semitica – riguardanti sia i corpora dell’Oriente antico sia quelli della Bibbia e del Corano – si applicano ugualmente alle tradizioni profetiche. Queste scoperte forniscono una nuova prova del legame di parentela esistente tra Hadı¯th e corpus ˙ antiche testicoranico, confermando le monianze secondo le quali numerose tradizioni profetiche, in fase di recensione, divennero parte del Corano e viceversa. Il corollario di questa situazione e` che, cosı` come la lingua ebraica e` considerata, secondo le tradizioni ebraiche, la lingua di Dio e degli eletti in paradiso, anche la lingua araba, secondo la tradizione islamica, si trova a essere investita di identiche funzioni, in un quadro simmetrico. Cio` non accade nel cristianesimo, la` dove il testo evangelico puo` essere trasmesso in tutte le lingue senza dover per questo pensare che il suo messaggio ne venga alterato. Cio` spiega perche´ esso e` stato trasmesso in greco, mentre i contemporanei erano ben consci che Gesu` si esprimeva in aramaico e, forse, in latino, pur conoscendo l’ebraico della Torah. Pertanto, alcuni studi recenti dimostrano che anche i Vangeli in greco rispondono alle regole di questa retorica formale. Il Corano, come la Bibbia, obbedisce ad alcune regole ‘‘codificate’’ molto rigide, per esempio quella delle corrispondenze interne, il cui reperimento dipende direttamente dalla lingua in cui questi testi sono stati messi per iscritto. Ora, secondo la tradizione islamica, il Corano, come il corpus dello Hadı¯th, sarebbe stato tra˙ puramente orale per un smesso in forma periodo, pur essendo stato, secondo questa stessa tradizione, messo per iscritto molto prima della Sunna. Questo fenomeno della trasmissione orale della Tradizione profetica avrebbe portato, in tempi piu` o meno lunghi, alla messa per

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iscritto dei testi, secondo un modello non estraneo all’ebraismo, nel quale la Mishnah e` a lungo rimasta per i rabbini il mistorin, trascrizione ebraica del greco myste´rion (il ‘‘segreto’’); e anche a una tradizione esoterica di cui Origene ha dato testimonianza nel suo commentario ai Proverbi di Salomone (1,8): «Ascolta, figlio mio, la morale di tuo padre e non abbandonare mai la legge di tua madre», identificando ‘‘tuo padre’’ con la tradizione scritta e ‘‘tua madre’’ con la tradizione orale. Questo e` l’elemento che, nel Medioevo, da questa paradosis formo` la qabbalah scritta. In ambito cristiano sono gli apocrifi, come le tradizioni segrete degli apostoli e altri scritti gnostici, trasmessi essenzialmente per via orale, a testimoniare l’esistenza di una dottrina esoterica, del resto legata all’ebraismo, che fece sopravvivere nel cristianesimo un esoterismo ebraico che gia` esisteva ai tempi degli apostoli, come Guy Stroumsa ha dimostrato. La tradizione profetica si inserı`, per molti aspetti, in una linea di continuita` con queste strutture. Attorno a questo insieme di soggetti si sviluppa il tema della lingua araba divina e del miracolo dell’ inimitabile Corano, presentato come il primo libro in assoluto in questa lingua araba ‘‘pura’’. Numerose ricerche recenti invitano a interrogarsi sul carattere storico di questa affermazione, dimostrando che, dall’inizio del VII secolo e forse anche da prima, la scrittura araba si era sviluppata a H¯ıra, nell’Arabia ˙ scritti in quesettentrionale, e che alcuni sta lingua (verosimilmente traduzioni di testi religiosi) avevano cominciato a circolare attorno alla Siria meridionale e, quindi, in Hija¯z. Secondo alcune tradi˙ dei sette uomini che sapezioni, i nomi vano scrivere in arabo al momento della penetrazione dell’islam tra i Quraysh sono i seguenti: ‘Umar, ‘Uthma¯n, ‘Alı¯, Abu¯ Sufya¯n e suo figlio Mu‘a¯wiya e cosı` pure Zayd ibn Tha¯bit e Ubayy ibn Ka‘b, due futuri segretari di Muhammad. In una prospettiva totalmente differente, Christoph Luxenberg ha proposto una teoria basata sul fatto che, nell’Arabia del VII secolo, lingua franca e nel contempo lin-

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gua letteraria era il siro-aramaico o siriaco. A suo avviso, la lingua del Corano, fondamento essenziale della lingua araba scritta, andrebbe intesa come una ‘‘lingua mista arabo-aramaica’’. Di qui egli arriva a concludere che, senza prendere in considerazione il siro-aramaico, l’arabo coranico non puo` essere compreso nel vero senso inteso dal Libro. Egli ritiene che vi siano stati chiaramente dei ‘‘fraintendimenti’’ del testo coranico da parte dei commentatori arabi, che coinvolgono sia il lessico sia la sintassi. Per esempio, le urı` e gli efebi del paradiso sarebbero un tipo di uva bianca riservata agli ospiti di quel luogo. Benche´ le corrispondenze stabilite da Luxenberg tra il testo coranico e gli stadi anteriori dei ‘‘modelli’’ siro-aramaici, sui quali egli ha potuto elaborare la sua struttura, presentino un interesse innegabile, e` difficile ammettere che questo stadio ‘‘precoranico’’ dei testi abbia conservato un qualsivoglia impatto sulla loro forma ‘‘coranica’’. Per esempio, il testo della sura 85, cosı` come si presenta in arabo, avrebbe potuto significare un appello a celebrare l’Ultima Cena oppure a recitare la liturgia del Natale. Allo stesso modo, se cio` che egli afferma corrispondesse alla realta`, queste ‘‘corrispondenze’’ non potrebbero non rinviare a uno stadio anteriore del testo coranico, che in tal caso sarebbe stato inizialmente composto non in arabo, ma, per la precisione, in siro-aramaico. E` del tutto concepibile che queste versioni siano esistite e inoltre che siano circolate a lungo nell’impero musulmano. Nondimeno, a partire dal momento in cui il testo coranico venne fissato nella ‘‘lingua araba pura’’ e nella forma retorica (e polemica) costruita che noi conosciamo, e` molto difficile ammettere che esso abbia fatto da supporto ad altro che non a cio` che esso chiaramente afferma, e cioe`, per esempio, che e` lo stesso Corano disceso durante la Notte del Destino. Ugualmente, l’interpretazione dell’‘‘uva bianca’’ non puo` che corrispondere a uno stadio anteriore del testo o di una parte del testo che non possediamo e di cui, fino a oggi, non esiste alcuna traccia. Percio`, il significato, pur

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pertinente, proposto da Luxenberg non fa parte, o almeno, non fa piu` parte del Corano cosı` come si presenta in arabo nella sua forma attuale. Come ha constatato Claude Gilliot, «la lingua del Libro di Dio e` proprio l’arabo». Essa si distingue da quella degli arabi semplicemente per la sua qualita` superiore. D’altro canto, dal punto di vista linguistico, una parte della teoria di Luxenberg non puo` reggere, secondo Andre´ Roman: egli constata che «la lingua araba e` una lingua unica, senza ‘‘latino’’, una lingua vivente, cosa quest’ultima resa tra l’altro evidente dalla pausa complessa, che e` uno dei suoi tratti caratteristici; una lingua non priva di varianti, ma senza dialetti; una koine`. Le sintassi dell’arabo e dell’aramaico di allora sono incompatibili, e supporre l’esistenza di una lingua letteraria mista e` linguisticamente inverosimile, mentre i prestiti di vocaboli sono sempre stati possibili, in tutte le epoche». Effettivamente, per quanto concerne la lingua della Rivelazione il Corano porta un concetto nuovo rispetto all’ebraismo. Si tratta dell’idea, inaugurata e sviluppata dal manicheismo, che la profezia debba essere modulata in una lingua scritta chiaramente. Percio`, come nota Michel Tardieu, «una religione del Libro, com’e` il caso delle due profezie di Mani e di Muhammad, deve forzatamente possedere una lingua e una scrittura chiare per dire Dio». Secondo Andre´ Roman, qui si tratta ovviamente di un semplice argomento d’autorita`, almeno per quanto riguarda l’arabo, poiche´ la chiarezza affermata perentoriamente dal Testo e` destinata a indurre ammirazione nel lettore o nell’uditore. Queste concezioni della lingua coranica come ‘‘divina, increata, atemporale’’ procedono di pari passo con l’idea di ‘‘popolo eletto da Dio’’. Affermando che Yahveh e` l’unico dio dell’universo e che Israele e` il suo popolo, gli ebrei avevano in qualche modo accentrato su loro stessi il concetto di ‘‘popolo eletto’’, un modello universale nel mondo antico: ogni popolo era quello eletto dal dio o dagli de`i tutelari che adorava. Simile posizione accentratrice diviene allora, per quella comunita`, con-

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dannata alla perfezione oppure esposta alla persecuzione, un privilegio assoluto e una catarsi drammatica al tempo stesso. Nel Corano, questa pretesa e` rimproverata agli ebrei e, inoltre, e` precisato a chiare lettere che Dio puo` eleggere chi vuole, nel caso specifico gli arabi i quali, in quest’ottica, hanno l’incarico di riprendere la fiaccola della rivelazione soppiantando gli ebrei (e i cristiani) nel ruolo di popolo eletto. Quando questo processo ebbe luogo, si verifico` un fenomeno che si era gia` prodotto anche nel mondo ebraico: le conversioni all’islam non potevano aver luogo senza essere accompagnate da una certa ‘‘arabizzazione’’. Tanto quanto le tribu` arabe di Medina, che vivevano attorno alle tre tribu` ebraiche dei Banu¯ Nad¯ır, dei Banu¯ Qaynuqa¯‘ e dei Banu¯ Qurayz˙a, erano convertite all’ebraismo e senza˙ dubbio in parte ebraizzate, ogni entrata di un popolo nell’islam implicava a fortiori una certa arabizzazione. In questo senso, questa religione si presenta come una forza ‘‘centripeta’’, che attira il resto del mondo verso la propria lingua e, per quanto possibile, verso la propria etnicita`. Al-Hakı¯m al-Tirmidhı¯ ˙ della resistenza (m. 318/930) fu testimone a questo fenomeno da parte dei fedeli persiani, i quali sostenevano di poter praticare il culto e pregare in una lingua completamente diversa dall’arabo. Tuttavia, vi e` una differenza tra l’ebraismo – molto poco portato al proselitismo e voltosi a una visione che fa dello stesso popolo eletto una garanzia per la salvezza del mondo – e l’islam: quest’ultimo infatti possiede, insieme a questa forza che tutto convoglia verso di se´, un carattere volto al proselitismo universale similmente al cristianesimo, al quale si aggiunse, sin all’inizio, l’elemento della conquista armata. L’islam, dunque, e` mosso da una tendenza ineluttabile ad arabizzare il mondo, in un movimento a cerchi concentrici piu` o meno ampi al centro dei quali si trovano, per gli sciiti, il Profeta e la sua famiglia, e per i sunniti il Profeta e la sua tribu`. L’idea elettiva del popolo arabo nel Corano rinvia direttamente alla stessa idea presso i circoli cristiani, giudeocristiani e

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anche gnostici dell’epoca. A partire dalla trasposizione di una ben nota tradizione cristiana di esegesi dei testi dell’ebraismo, come quella che troviamo nel quarto e nel quinto libro di Esdra, gli arabi vengono presentati dal Corano come i gentili dai quali giungera` quella salvezza che gli ebrei (e i cristiani) hanno mostrato di non saper meritare. L’idea fondante e` che cio` si sia prodotto poiche´ le due comunita` hanno usurpato l’eredita` dell’elezione. Uno degli argomenti utilizzati per comprovare la realta` dell’elezione degli arabi tra i gentili e` l’affermazione, sostenuta dalla maggior parte degli autori musulmani, che Ismaele, considerato l’antenato degli arabi, e` il figlio della promessa al posto di Isacco, e che lo stesso Ismaele e` stato indicato da Dio ad Abramo per il sacrificio. Questa sostituzione di personaggi, assente nel Corano e della quale alcuni commentatori musulmani come Ibn ‘Arabı¯ (m. 628/1240) o Tabarı¯ (m. ˙ conto, 310/923) non hanno affatto tenuto dev’essersi tuttavia diffusa assai presto, per essere presentata come la giustificazione originaria dell’elezione degli arabi. Una versione del Targum Neofiti (Add. 27031, su Gn 22,1), la cui redazione finale risale all’VIII secolo, costituisce una testimonianza storica di questa forma di competizione: «Avvenne, dopo il litigio tra Ismaele e Isacco, che Ismaele disse: ‘‘E` a me che spetta l’eredita` di mio padre poiche´ io sono il suo primogenito’’. Isacco disse: ‘‘E` a me che spetta questa eredita` poiche´ io sono il figlio di Sara, sua moglie, mentre tu, tu sei il figlio della sua serva’’». D’altra parte, secondo un racconto riportato da Tabarı¯, «un ebreo era giunto a far visita a ˙Muhammad neonato. Riconoscendo sul suo corpo i segni della profezia, era svenuto, disperato poiche´ la profezia era passata dai Banu¯ Isra¯’ı¯l ai Banu¯ Isma¯‘ı¯l. Infine, Abdesselam Cheddadi fornisce alcune testimonianze secondo le quali l’impero islamico nascente avrebbe conosciuto, per una cinquantina d’anni, una doppia cultura greco-araba. Soltanto a partire dal califfo omayyade ‘Abd al-Malik si assiste a un’accelerazione nell’isla-

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¯F A‘RA

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mizzazione dei quadri. Il greco rimarra` noto ai cristiani che lo coltiveranno fino al V/XI secolo, quando anch’essi lo dimenticheranno. Pare che nessun autore musulmano, neppure tra i filosofi, lo abbia mai conosciuto. Il legame tra islam e arabicita`, a quanto sembra, e` andato rafforzandosi col passare del tempo. Numerose tradizioni profetiche testimoniano che, durante i primi decenni della conquista, la penisola arabica nella sua interezza era considerata un territorio esclusivamente consacrato all’islam. Alle tribu` arabe politeiste sconfitte fu applicata la regola ‘‘o islam o morte’’ e intere popolazioni di citta` arabe rimaste cristiane, come Najra¯n, furono deportate oltre la penisola, in particolare verso l’Iraq; lo testimonia Ibn Qayyim al-Jawziyya (m. 751/1350) che inoltre segnala l’esistenza nell’Iraq della sua epoca di una localita` chiamata Najra¯n, luogo di raccolta di quelle popolazioni. Le deportazioni sarebbero state condotte a partire dall’anno 20 dell’egira (641), quando il califfo ‘Umar decise di applicare la sentenza pronunciata dal Profeta sul letto di morte: «In Arabia non devono coabitare due religioni». [G.G.] Bibliografia: Abdesselam Cheddadi, Les Arabes et l’appropriation de l’histoire, Sindbad-Actes Sud, Arles 2004; Michel Cuypers, «L’analyse rhe´torique: une nouvelle me´thode d’interpre´tation du Coran», in Me´ langes de science religieuse, 59 (2002), pp. 31-57; Claude Gilliot, «Langue et Coran selon Tabarı¯: I. La pre´cellence du ˙ Islamica, 68 (1998), pp. Coran», in Studia 79-106; Ibn ‘Arabı¯, Le Livre des chatons des sagesses, trad., note e commento di Charles-Andre´ Gilis, (2 voll.), Al-Bouraq, Bayru¯t 1997-1999; Christoph Luxenberg, Die syro-arama¨ische Lesart des Koran. Ein Beitrag zur Entschlu¨sselung der Koransprache, Schiler, Berlin 2004 (1ª ed. 2000); Andre´ Roman, «Interrogation sur deux e´nigmes pose´es par la culture et la langue arabes», in Mode`les linguistiques, 24 (2003), pp. 139-169.

¯F A‘RA Citato nel Corano (7,46-48), questo termine che e` il plurale di ‘urf (‘‘promonto-

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rio’’ o ‘‘luogo elevato’’) e` stato oggetto di numerosi commenti e sviluppi sia da parte degli esegeti coranici sia in ambito mistico musulmano. Il Libro sacro recita: «Fra di loro ci sara` un velo e sull’alto Limbo (A‘ra¯ f) uomini, che conoscono tutti, giusti ed iniqui, dal loro aspetto, e chiameranno cosı` verso quelli del Giardino: ‘‘Pace su di voi!’’, ma ancora non sono entrati, essi, nel Giardino, pur bramandolo ardentemente. E quando i loro sguardi si volgeranno a quelli del Fuoco, diranno: ‘‘Signore nostro, non ci porre con il popolo degli iniqui!’’ E quelli del Limbo chiameranno verso uomini che essi riconoscono dal loro aspetto e diranno: ‘‘A cosa vi e` servito tutto il vostro raccogliere e il vostro affannarvi superbo?’’». Il termine a‘ra¯f da` il nome alla settima sura, la piu` lunga tra quelle del periodo meccano, che conta 205 versetti, o 206 se si contano come versetto a se´ le quattro lettere ‘‘isolate’’ che compaiono all’inizio della sura. Esso deriva dalla radice del verbo ‘arafa, ‘‘conoscere’’, che nel Corano identifica il fatto di riconoscere la scienza di cui l’uomo e` stato dotato da Dio nella preeternita`. Gli esegeti hanno fornito diverse interpretazioni del Limbo. Per alcuni si tratta di un luogo elevato paragonabile alla montagna di Uhud, che sarebbe situata al di sopra del ˙ Ponte escatologico e separerebbe l’inferno dal paradiso. La sura del Limbo paragona questo luogo a un velo, mentre la sura del Ferro (57) indurrebbe a considerarlo un muro. E` una nozione che serve a rappresentare la separazione geografica tra paradiso e inferno e a concretizzare la distinzione morale fra bene e male, delineando il paesaggio escatologico della ricompensa e della punizione allo scopo di dare validita` alle azioni umane. Questo disegno si offre anche all’esperienza visiva: descrive un luogo onirico che, successivamente arricchito dalla tradizione musulmana, sara` visto come un velo o una parete, o ancora come una muraglia merlata piena di torri costruite con mattoni di rubini, topazi, smeraldi e perle bianche tenute insieme da una calce di muschio, ambra e acqua di rose. La meta-

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fora della muraglia e` nata dai riferimenti coranici; si sono inoltre dotati di porte l’inferno e il paradiso. I commentatori fanno di questo luogo una frontiera, il punto in cui si confermera` definitivamente la distinzione fra credenti ed empi, tra eletti e dannati, e in cui ciascuno sara` confermato nel suo diritto secondo le azioni compiute nella vita terrena. Tra le questioni dibattute dagli esegeti vi e` quella di individuare chi siano ‘‘i compagni delle altitudini’’ (asha¯b al-a‘ra¯f) che abitano questo luogo. Sono state avanzate una dozzina di proposte, che portano a identificare quattro gruppi: il primo e` formato dai profeti, i martiri e i sapienti che portano testimonianza circa i credenti e gli empi per separarli tra loro e definire cio` che spetta loro rispettivamente; il secondo gruppo e` costituito dagli angeli che separano gli empi dai credenti riconoscendoli dal colore dei loro volti, bianchi quelli dei credenti e neri quelli degli empi; il terzo da chi non possiede uno statuto tale che che se ne possa definire la destinazione, l’inferno o il paradiso, per esempio quanti morirono senza poter conoscere il messaggio del Profeta o i bambini dei politeisti defunti prima di aver raggiunto l’eta` adulta o ancora i fanciulli nati al di fuori del matrimonio; infine il quarto gruppo e` formato dai credenti che hanno compiuto un numero affatto equivalente di azioni buone e di azioni malvage, i quali dovranno attendere finche´ la grazia di Dio li fara` accedere al paradiso. Tra i mistici, pensare il limbo come una frontiera ha condotto a descriverlo come un ‘‘intermondo’’ (barzakh, letteralmente ‘‘confine’’); ‘Abd al-Karı¯m al-Jı¯lı¯ lo considera la ‘‘sosta’’ della vicinanza divina. Per i teologi dello sciismo duodecimano, A‘ra¯f indica un confine, un bastione fra il paradiso e l’inferno dove si trovano i guardiani capaci di distinguere l’eletto dal dannato grazie ai tratti somatici. Questi guardiani sono ‘‘i Quattordici Immacolati’’, cioe` i dodici imam sciiti con l’aggiunta di Muhammad e di sua figlia Fa¯tima. Per gli gnostici sciiti, l’imam stesso ˙e` considerato quale A‘ra¯f, vale a dire l’apice della conoscenza mistica che per-

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¯T ‘ARAFA

mette di distinguere l’eletto dal dannato. Riconoscendo il proprio imam, e` possibile entrare in relazione con lui e trovare il proprio paradiso interiore che e` la visione [P.B.] beatifica di tale imam. Bibliografia: Henry Corbin, Corps spirituel et terre ce´leste: de l’Iran mazde´en a` l’Iran shı¯’ite, Buchet-Chastel, Paris 1979 (trad. it. Corpo spirituale e terra celeste, Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 2ª ed. 1996).

¯T ‘ARAFA E` il nome di una pianura ricordata nel Corano (2,198), situata una ventina di kilometri a est della Mecca e circondata, a nord e a est, dalle montagne di Ta¯’if. E` in ˙ questa distesa desertica che si svolge ogni anno, il nono giorno di dhu¯ al-hijja, ul˙ timo mese dell’anno lunare musulmano, una tappa essenziale dello hajj, il pellegrinaggio annuale che ogni˙ musulmano deve sforzarsi di compiere almeno una volta nella vita. A differenza del ‘‘piccolo pellegrinaggio’’ (‘umra) i cui riti si compiono esclusivamente nel santuario della Mecca e in qualsiasi momento dell’anno, eseguire lo h ajj implica diversi spostamenti fuori ˙porta, particolarmente nella pianura di ‘Arafa¯t che si trova oltre i confini del territorio sacro, definiti dalla tradizione. E` del resto questo il motivo per cui, come indica Tabarı¯ (m. 310/923), all’epoca del ˙ paganesimo preislamico gli Hums, cioe` i Qurayshiti e le poche tribu` ˙che praticavano il loro stesso culto, contrariamente ai beduini, non si recavano ad ‘Arafa¯t per le cerimonie dello hajj ma a Muzdalifa, ˙ localita` situata a mezza via tra Mina¯ e ‘Arafa¯t e parte integrante del territorio sacro. E` opportuno ricordare a questo proposito che lo hajj, quale e` praticato da quando il Profeta˙ ne fisso` le regole nell’anno 10 dell’egira/632 d.C., quando compı` quello che sarebbe stato il suo ultimo pellegrinaggio, non e` altro che la riattualizzazione del pellegrinaggio istituito su ordine divino da Abramo. Il rituale continuo` a essere praticato lungo i secoli fino a

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essere integrato al paganesimo che piu` che la forma ne altero` il significato iniziale. I principali riti che ordinano il cerimoniale dello hajj erano gia` praticati alla ˙ nascita del Profeta, ma in un contesto che da molto tempo non era piu` quello del monoteismo abramitico. Tutto porta a credere in effetti che prima dell’avvento dell’islam esistessero due pellegrinaggi distinti, quello degli Hums – principal˙ mente Qurayshiti – e quello dei beduini, in altre parole quello dei sedentari e quello dei nomadi. La sosta (wuqu¯f) a ‘Arafa¯t, praticata soltanto dai secondi, era probabilmente legata a un rituale per ottenere la pioggia. In ogni caso, l’islam nascente intende ristabilire il principio fondatore di questa pratica di culto: «Compite il pellegrinaggio e la visita ai luoghi santi per amore di Dio» ingiunge il Corano (2,196); piu` generalmente esso si prefigge di restaurare nella sua purezza originale il dı¯n qayyim (9,36), la religio perennis. Ed e` precisamente a ‘Arafa¯t che questa impresa di restaurazione del dı¯n qayyim trovo` la propria conclusione, in occasione di quello che e` chiamato convenzionalmente il ‘‘pellegrinaggio dell’Addio’’, compiuto dal Profeta meno di tre mesi prima della sua morte e il cui racconto dettagliato compare in numerose fonti. Nella primavera dell’anno 10 (marzo 632), due anni dopo aver conquistato la Mecca ai politeisti, il Profeta annuncio` che avrebbe diretto in persona le cerimonie dello hajj – l’anno prima questa funzione era˙ stata svolta da Abu¯ Bakr – e invito` espressamente i fedeli a osservare attentamente il modo in cui le avrebbe svolte, per trasmettere le modalita` del rituale alle generazioni future. Dopo aver effettuato il tawa¯f, cioe` le sette ˙ circoambulazioni rituali attorno alla Ka‘ba, e il sa‘y, cioe` la corsa tra le due colline di Safa¯ e Marwa, il Profeta lascio` ˙ la Mecca, nella mattina dell’ottavo giorno di dhu¯ al-hijja per recarsi nella valle di Mina¯, situata a otto kilometri dalla citta` santa. L’indomani mattina riprese il cammino e si fermo` non, come molti si attendevano, a Muzdalifa, ma a ‘Arafa¯t, sepa-

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rata da Mina¯ soltanto da una quindicina di kilometri; a quanti erano stupiti dalla scelta dichiaro` che solo in quel luogo Abramo compiva il wuqu¯f, la sosta in preghiera che costituisce il momento piu` alto del pellegrinaggio. Arrivato sul luogo, il Profeta si fermo` in prossimita` del ‘‘monte della misericordia’’ (jabal al-rahma), una piccola collina rocciosa situata ˙ai piedi della montagna; dalla cima di questa altura pronuncio` a mezzogiorno, davanti a circa centomila fedeli riuniti, il discorso detto ‘‘dell’Addio’’, che iniziava con queste parole: «O uomini, ascoltatemi, perche´ non so se saro` tra voi in questo luogo quando quest’anno sara` trascorso...». Durante la predica, il Profeta insistette particolarmente sull’instaurazione del calendario lunare annuale di dodici mesi, mettendo fine all’usanza preislamica del nası¯’ in virtu` della quale gli arabi intercalavano, ogni due anni, un tredicesimo mese (9,36-37). A questo proposito egli dichiaro`: «Il tempo e` ora tornato al suo stato primigenio, quello in cui si trovava quando Dio creo` i cieli e la terra». Poi, dopo aver ricordato ai fedeli alcuni precetti fondamentali, mettendo l’accento in quest’occasione sull’obbligo che essi hanno di trattare bene le donne, il Profeta domando` per tre volte alla folla che assisteva: «Ho trasmesso il messaggio?». Ottenuta una risposta affermativa, dichiaro`: «Signore, sii tu testimone!». Il tono e` solenne; quello del versetto che gli fu rivelato in quello stesso giorno, a ‘Arafa¯t, non lo e` da meno: «Oggi vi ho reso perfetta la vostra religione, e ho compiuto su di voi i Miei favori, e Mi e` piaciuto darvi per religione l’Islam» (5,3). La Rivelazione e` ormai conclusa: si tratta infatti, secondo numerose tradizioni, dell’ultimo versetto ‘‘disceso’’ sull’Inviato, che rese l’ultimo respiro ottantuno giorni piu` tardi. Comunque sia, alla fine di questo sermone relativamente breve, il Profeta compı` la preghiera del mezzogiorno e subito dopo quella del ‘asr che di norma si esegue piu` tardi. Quindi si mantenne ritto in preghiera fino al tramonto del sole: e`

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quella che comunemente si chiama wuqu¯f, cioe` la ‘‘stazione’’ a ‘Arafa¯t, uno dei pilastri (arka¯n) dello hajj. In altri termini, ˙ si tratta di una prescrizione sempre cogente, al punto che il pellegrinaggio di chi non assiste al wuqu¯f e` considerato invalido. Il Profeta avrebbe dichiarato a questo proposito: «Lo hajj e` ‘Arafa¯t». Cio` per ˙ indicare l’importanza primaria che la ‘‘stazione’’ a ‘Arafa¯t riveste nell’economia del rituale che informa le cerimonie dello hajj e di cui costituisce il vertice. E` ˙ al riguardo che, a differenza di notevole tutti gli altri riti del pellegrinaggio, che implicano un’attivita` fisica e, di conseguenza, un movimento, il wuqu¯f, termine che etimologicamente significa sosta, e` per definizione un atto immobile e in aggiunta il piu` semplice, stricto sensu, che esista, ovvero una preghiera. Una preghiera che ogni anno e da piu` di quattordici secoli riunisce, in quel giorno, nella pianura desertica dove si dice che Adamo ed Eva abbiano avuto la consolazione di ritrovarsi dopo la cacciata dal paradiso, centinaia di migliaia di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo. Molteplici sono dunque le etnie e le lingue che li differenziano, ma unanime e` la supplica che tutti rivolgono a Dio, quella, spogliata di ogni presunzione, del servitore (‘abd) che sa di dover comparire davanti al ‘‘Signore dei mondi’’ nel giorno del Giudizio e che, con tutto se stesso, fa appello alla Sua Misericordia. [C.A.] Bibliografia: Maurice Borrmans, «Les prie`res du pe`lerinage a` La Mecque», in Recherches d’Islamologie: recueils d’articles offerts a` Georges C. Anawati et Louis Gardet par leurs colle`gues et amis, Peeters, Louvain 1977, pp. 35-59; Michel Chodkiewicz, «Le pe`lerinage a` La Mecque», in L’Histoire, nº 16, ottobre 1979; Jean GaudefroyDemombynes, Le pe`lerinage a` la Mekke, Librairie orientaliste Paul Geuthner, Paris 1923; Abdallah Hammoudi, Une saison a` la Mecque: re´cit de pe`lerinage, Le Seuil, Paris 2005; Abdel Magid Turki, Hadj Rabah Souami, Re´cits de pe`lerinage a` La Mekke, Maisonneuve et Larose, Paris 1979.

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ARCA DI MOSE`

ARCA DI MOSE` La madre di Mose` affida il figlio alle acque del Nilo in una cassa chiamata ta¯bu¯t. Questo termine suggerisce un accostamento con l’Arca dell’Alleanza, ma non con l’Arca di Noe` qualificata come ‘‘vascello’’. Il nostro impiego di espressioni simili per l’Arca di Mose` e quella di Noe` tuttavia richiama un qualche parallelismo: la costruzione dell’Arca da parte di Noe` e la deposizione di Mose` nell’Arca si compiono l’una e l’altra sotto l’ispirazione e la protezione divine (11,37; 20, 38-39; 23,27). Ta¯bu¯t, sia per la sua forma sia per la sua radice, e` visibilmente una parola di origine non araba, benche´ gli esegeti e i lessicografi non lo segnalino. Secondo Arthur Jeffery, la navicella di giunco o di papiro nella quale e` deposto Mose`, l’Arca di Noe` e l’Arca dell’Alleanza sono designate nella Mishnah con una parola di radice «tybh», verosimilmente di origine egizia. L’arabo ta¯bu¯t deriva senza dubbio da una forma tybu¯ta attraverso l’aramaico o l’etiopico. Secondo una tradizione riportata da Tirmidhı¯ (m. 279/892), al momento della redazione del Corano compiuta su richiesta di ‘Uthma¯n (il terzo califfo ‘‘bendiretto’’, che regno` dall’anno 23 all’anno 35 dell’egira, dal 644 al 655), vi fu una divergenza tra gli scribi Qurayshiti, che scrissero al-ta¯bu¯t, e il Compagno Zayd ibn Tha¯bit che, da medinese, scrisse invece al-ta¯bu¯h. ‘Uthma¯n ordino` di scrivere la parola secondo la pronuncia meccana. Secondo il sapiente Nahha¯s, a Zayd ˙ si attribuisce ugualmente la ˙lettura al-tı¯bu¯t, vicina alla forma aramaica o etiopica. L’Arca di Mose` e` menzionata una sola volta, in una narrazione che ricorda a Mose` la grazia di cui e` stato fatto oggetto nella sua prima infanzia: «Che´ gia` una volta ti fummo benigni quando cosı` rivelammo a tua madre: ‘‘Mettilo nell’arca e getta l’arca nel fiume e l’onda lo getti sulla riva, e ivi lo prenda un Mio e suo nemico’’ e lanciai sopra di te un Mio atto d’amore, perche´ tu venissi allevato sotto i miei occhi» (20,37-39). Lo stesso episo-

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dio e` raccontato con maggiori dettagli nei versetti 28,13-17, ma senza che l’Arca vi sia nominata. Quando la Bibbia parla di un «cestello di papiro» spalmato «di bitume e di pece» (Es 2,3), i commentatori precisano che il ta¯bu¯t era fatto di legno di sicomoro (jummayiz) tappezzato all’interno di cuoio o cotone cardato e spalmato di pece, dettaglio che ricorda l’Arca di Noe` (Gn 6,14). Ad avviso di altri, sarebbe stato spalmato di gesso, cio` che ricorda un sarcofago e coincide con l’uso funerario della parola ta¯bu¯t. Qurtubı¯ (m. 671/1272) riporta nu˙ merose tradizioni sull’accoglimento dell’Arca da parte di Faraone. Secondo una di queste, egli si trova in compagnia della ¯ siya, quando il ta¯bu¯t passa sua sposa, A loro davanti. Essi aprono la cassa e Faraone e` preso ben presto da un grande amore per il bambino. Secondo un’altra tradizione, la figlia di Faraone, colpita dalla lebbra, guarı` immediatamente all’apertura della cassa. Secondo un terzo rac¯ siya, che percepisce una luce conto, A emanante da questa cassa, e` da sola quando prova ad aprirla; il bambino ha un viso di luce e si allatta da solo succhiandosi il pollice, e quel che guarisce la figlia di Faraone e` la sua saliva oppure la visione della sua luce. Infine, secondo un’altra versione, piu` vicina alla Bibbia, sono le ancelle di Faraone che trovano il ta¯bu¯t e lo portano a Faraone che si affeziona ben presto al bambino. Tra questo ta¯bu¯t, culla nilotica di Mose`, e l’Arca dell’Alleanza, designata con lo stesso termine (2,248), si impone piu` di un accostamento. Per confermare l’elezione di Saul a re, Samuele, il profeta dei figli d’Israele, dice loro: «In verita` segno del suo regnare sara` questo, che verra` a voi l’Arca nella quale dimorera` Divina Presenza (sakı¯na) inviata dal Signore vostro e un resto (o reliquia) di cio` che lasciarono la gente di Mose` e la gente di Aronne: sara` portata dagli angeli. In questo, certo, v’e` un segno per voi se siete credenti». Il racconto del ritorno dell’Arca dell’Alleanza e` sensibilmente differente di quello della Bibbia (Sam 4,6), salvo che nella versione di Wahb ibn Mu-

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nabbih (m. 110/728). I commentatori non descrivono veramente l’Arca dell’Alleanza, tranne Wahb, che ne indica le dimensioni: tre cubiti per due. Secondo una tradizione, Adamo l’avrebbe recata dal paradiso, assieme alla Pietra Nera. E` detto anche che l’Arca e il bastone di Mose` si trovano nel lago di Tiberiade e che ne emergeranno prima del giorno della resurrezione. Si possono operare alcuni accostamenti tra le reliquie di Mose` e Aronne e il ta¯bu¯t di Mose` bambino. La sakı¯na e` sia un vento sonoro con una testa umana o una testa di gatto con le ali, sia una vasca dove e` lavato il cuore dei profeti, o ancora, secondo Wahb, uno spirito emanato da Dio e dotato di parola. Quanto alla reliquia, si tratta, secondo l’avviso quasi unanime dei commentatori, del bastone di Mose`, o talvolta di quello di Aronne, e dei pezzi delle Tavole della Legge o delle due Tavole. Al di la` della diversita` del loro contenuto e della loro origine, queste tradizioni si accordano su un punto: l’Arca di Mose` e l’Arca dell’Alleanza, e in una certa misura l’Arca di Noe`, benche´ quest’ultima sia designata nel Corano con un termine diverso, rappresentano la preservazione e il trasferimento della profezia depositaria della Parola divina, accompagnata da segni miracolosi. Si pensi anche a Gesu` che parlava dalla culla (19,29-30). Maryam non e` forse chiamata in questo passo ‘‘sorella di Aronne’’? Il rapporto tra l’Arca dell’Alleanza contenente la sakı¯na e la guerra, gia` presente nella Bibbia, si ritrova anche nel Corano. La sakı¯na interviene in situazioni di guerra per placare gli animi. La guerra non ha in effetti altro scopo che la pace, ed e` significativo che un commentatore interpreti l’eredita` lasciata da Mose` e da Aronne nell’Arca come ‘‘il combattimento sulla via di Dio’’. Ora, l’opposizione e la complementarita` della guerra e della pace ovvero dell’amore e dell’ostilita` si ritrovano nel passo gia` citato a proposito dell’Arca di Mose`, poiche´ del ta¯bu¯t e` detto: «Lo prendera` un nemico Mio e suo», allorche´ Mose` e` l’oggetto dell’amore di Dio, e secondo talune tradizioni

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anche di Faraone. E non c’e` nulla di piu` opposto e complementare nel Corano della doppia figura di Mose` e di Faraone, il quale perira` tra i flutti, proclamando infine la sua fede, troppo tardi oppure no, secondo i diversi commentatori. Lo stesso termine, di origine egizia, ‘‘al-yamm’’, e` impiegato nel racconto dell’Arca e in quello dell’annegamento. L’interiorizzazione della sakı¯na, posta oramai nel cuore dei credenti, si ritrova nell’impiego abituale della parola ta¯bu¯t. A proposito di una invocazione del Profeta che chiede a Dio di accordargli una luce nel cuore (e anche nella tomba, secondo una versione) e nelle sei direzioni dello spazio attorno a lui, il trasmettitore dello hadı¯th, secondo Ibn ‘Abba¯s (m. 68/ 686),˙ aggiunge questa osservazione: «Sette nel ta¯bu¯t». Secondo i commentatori, il termine designa in questo caso il petto, ricettacolo del cuore, senza dubbio per indicare che si tratta di luci interiori contenute nel corpo umano. Secondo Ibn H ajar al-‘Asqala¯ nı¯ (m. 852/1448), i ˙ ‘‘sette’’ sarebbero le cinque parti del corpo menzionate in una versione dello hadı¯th: i capelli, la pelle, la carne, il san˙gue e le ossa, alle quali si aggiungono la lingua e il soffio vitale. Il ta¯bu¯t rappresenta dunque l’arca del corpo, illuminato dalla presenza interiore. Esso e` anche il ricettacolo della Parola divina incarnata da Gesu`, che parla dalla culla. Anche il catafalco della tomba e` chiamato ta¯bu¯t, perche´ e` destinato a ricevere la spoglia o la reliquia del corpo animato da questa parola. [D.G.] Bibliografia: D. Sidersky, Les Origines des le´gendes musulmanes dans le Coran et dans les Vies des prophe` tes, Librairie orientaliste Paul-Geuthner, Paris 1933; Tabarı¯, De la Cre´ation a` David, extrait de˙ la Chronique de Tabarı¯, trad. dal persiano di ˙ Hermann Zotenberg, Sindbad, Paris 1984, pp. 250-253; Tabarı¯, I profeti e i re. Una ˙ dalla creazione a Gesu`, a storia del mondo cura di Sergio Noja, Guanda, Parma 1993.

ARCA DI NOE` Il nome piu` frequente dell’Arca nel Corano e` fulk, ‘‘vascello’’, talvolta qualifi-

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ARCA DI NOE`

cato come mashhu¯n, ‘‘carico’’. Una volta e` chiamata safı¯˙na, ‘‘battello’’, un’altra ja¯riya, ‘‘quella che corre’’, e ugualmente ‘‘quella che e` fatta di assi e di chiodi (o di corde)’’ (51,3). La storia di Noe` e del diluvio e` oggetto di numerose menzioni nel Corano. In alcuni brani, l’Arca e` evocata alla fine della storia per contrapporre la salvezza di quanti vi salirono con Noe` all’annegamento degli altri (7,64; 10,73; 26,119-122; 29,1415). I passaggi piu` sviluppati riguardo all’Arca si trovano nelle sure di Hu¯d (11, 36-49) e dei Credenti (23,27-30): poiche´ la predicazione di Noe` si rivela vana, Dio gli ordina di costruire l’Arca «sotto i nostri occhi e la nostra ispirazione». L’espressione «sotto i nostri occhi» significa, secondo i commentatori, lo sguardo, la protezione di Dio oppure l’aiuto e la protezione degli angeli. Noe` opera nonostante il suo popolo lo derida. Una volta ultimata l’Arca, appare il segno miracoloso del forno (al-tannu¯r, da cui Athanor) da cui zampilla l’acqua. L’espressione fa¯ra al-tannu¯r, «il forno si mette a bollire», e` anche interpretato come una metafora dell’acqua zampillante sulla superficie della terra o sulla sommita` delle montagne o ancora al chiarore dell’alba, tempo dell’ingresso nell’Arca. Noe` riceve l’ordine di far entrare un maschio e una femmina di ciascuna specie animale, oltre ai propri cari e a quelli che hanno creduto nel suo messaggio. Egli pronuncia questa formula propiziatoria: «In nome di Dio sia il viaggio sia l’ormeggio!» (11,41) o questa invocazione: «‘‘Sia lode a Dio che ci ha salvato dal popolo degli empi!’’ [...]. ‘‘Signore fammi sbarcare in benedetto sbarco, che´ meglio di chiunque Tu sai farlo!» (23,28-29). La sura di Hu¯d parla della corsa dell’Arca in mezzo a «onde simili ai monti» (11,42) e del suo arresto sul monte Ju¯dı¯, allorquando le acque cominciarono a ritirarsi (11,44). Noe` riceve quest’ordine: «Scendi da questo monte con la Nostra Pace e le Nostre benedizioni, su di te» (11,48). Ju¯dı¯ potrebbe derivare dal nome di una montagna situata sul territorio dei Tayy’, nel˙ l’Arabia centrale, benche´ i commentatori

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situino in generale il monte Ju¯dı¯ nella Mesopotamia settentrionale, nella regione di Mossul. L’Arca sarebbe stata costruita in legno di sa¯j (forse teck). Le tradizioni esegetiche divergono sulle sue dimensioni: 300 cubiti di lunghezza, 50 di larghezza e 30 di altezza, secondo Qata¯da (m. 117/735) citato da Tabarı¯ (m. 310/ ˙ 923). In un racconto attribuito a Ibn ‘Abba¯s (m. 68/686), gli apostoli domandarono a Gesu` di far loro incontrare un uomo che avesse visto l’Arca. Gesu` resuscita Cam il quale precisa che essa misurava 1200 cubiti di lunghezza e 600 di larghezza ed era composta di tre piani: il primo per gli animali terrestri, il secondo per gli uomini ed il terzo per gli uccelli. A proposito degli animali dell’Arca, gli esegeti riportano alcune leggende, come quelle del maiale uscito dalla coda dell’elefante per sgomberare gli escrementi, e del gatto uscito dalle narici del leone per arrestare la proliferazione di ratti e topi. La storia del corvo e della colomba segue approssimativamente il racconto biblico. Secondo un’altra tradizione riportata da Tabarı¯, il primo animale a entrare fu la piu` ˙ piccola delle formiche (dharra) e l’ultimo fu l’asino, alla coda del quale Satana riuscı` ad aggrapparsi per penetrare nell’Arca. Si riporta inoltre che Noe` avrebbe portato con se´ il corpo di Adamo e lo avrebbe collocato in modo da separare gli uomini dalle donne e lo avrebbe in seguito sepolto nel sito di Gerusalemme. Questi dati, per la gran parte di origine talmudica e aggadica, mostrano l’importanza delle isra¯’ı¯liyya¯t nell’esegesi musulmana. Essi non sono privi di significati simbolici, ma, per conoscere i sensi di cui e` portatrice l’Arca nella sensibilita` religiosa e nella tradizione spirituale dell’islam, conviene ritornare, in primo luogo, allo stesso testo coranico. Costruita «sotto i nostri occhi e la nostra ispirazione», l’Arca rappresenta la via della salvezza, per la grazia di Dio e la conformita` all’ordine e alla scienza di Dio. Questo ‘‘vascello della salvezza’’ (safı¯nat al-naja¯t) rappresenta, secondo alcuni, la Legge divina (sharı¯‘a) che sola permette all’uomo di non annegare nel mare della natura

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psichica o in questo mondo, dove annegano coloro che non hanno purificato le loro anime seguendo il Profeta, che e` il ‘‘Noe` dello spirito’’ (Nu¯h al-ru¯h). Altri vi ˙ successori ˙ leggono un simbolo dei del Profeta; occorre seguire questi ultimi, si tratti della sua discendenza carnale o di quella spirituale, le genti della Casa Profetica (Ahl al-Bayt). A questo proposito sunniti e sciiti sono d’accordo. Si apprende, in effetti, da un commentario tardo, il Ru¯h al-baya¯n di Isma¯‘ı¯l Haqqı¯ ˙ ˙ (m. 1137/1725), che l’uscita dell’Arca ebbe luogo il giorno di ‘A¯shu¯ra¯’, data del martirio di Husayn (avvenuto nel 61/681), ˙ nipote del Profeta e figlio di ‘Alı¯. A questa salvezza si contrappose la perdizione di quanti, come il figlio di Noe`, rifiutarono di salire nell’Arca. Quando Noe` si lamento` con Dio per la morte di suo figlio, gli venne risposto: «Tuo figlio non era della tua famiglia (min ahli-ka), e` una condotta empia» (11,46). Percio` le opere, la salvezza o il suo contrario non sono, in definitiva, che la conseguenza di un decreto divino eterno di cui il figlio di Noe` e` l’esempio sventurato. Quando Noe` riceve l’ordine di introdurre nell’Arca una coppia di ogni specie e i suoi propri figli, gli e` precisato: «Eccetto coloro per i quali fu gia` pronunziata sentenza di morte» (23, 27). Gli animali trasportati nell’Arca rappresentano i germi di una vita conservata e rinnovata, e a loro volta i figli di Noe` rappresentano una discendenza (dhurriyya) rigenerata, chiamata a divenire la rappresentanza di Dio sulla terra (khala¯’if, pl. di khalı¯fa). Il tema della conservazione della tradizione adamitica si congiunge a quello della rinascita spirituale. Il Corano, infatti, fa dell’Arca il modello di ogni vascello (36,42) e la storia di Noe`, nella sura dei Credenti, e` introdotta da un accostamento tra le cavalcature animali e l’Arca: «Su di essi come su navi viaggiate» (23,22). In molti passi, e` Dio stesso che trasporta gli uomini e, in un luogo, e` detto a Noe` di portare o trasportare gli esseri destinati alla salvezza. Il Corano ripete che l’Arca e` un segno per i mondi o l’umanita` (li-al-‘a¯lamı¯n) (29,

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15), per mettere alla prova gli uomini (23, 30), «ma i piu` di loro non furono credenti. E per vero il tuo Signore e` potente clemente» (26,121-122). Cosı`, attraverso l’Arca, si manifestano la collera e la misericordia divine. Come segno, l’Arca con il suo fascio di simboli, e` l’espressione ricca d’immagini della parola divina che l’uomo porta in se´. Simbolo di vita, essa lo trasporta da un mondo all’altro. Non e` forse implicitamente assimilata alla Rivelazione nel versetto seguente: «Noi fummo che, quando traboccarono l’acque, vi portavamo sull’Arca agile, per farne a voi memoriale che orecchio attento ascolti» (69,11-12)? Similmente, il mistico ‘Abd al-Razza¯ q al-Qa¯ sha¯ nı¯ vede nell’invocazione di Noe` «in nome di Dio sia il viaggio sia l’ormeggio» un’allusione al Nome supremo di Dio, identificato con i rappresentanti della perfezione umana, portatori in se´ di tutti gli esseri del mondo. Nell’Arca, gli animali terrestri rappresentano il mondo psichico e gli uccelli il mondo spirituale. L’e´lite spirituale, trasportata sulle assi delle opere tenute assieme dai chiodi o dalle corde della scienza divina, e` guardiano e traghettatore di cio` che deve essere preservato nell’uomo, nell’attesa di una restaurazione e di una nuova esistenza. Per al-Qa¯ sha¯nı¯, l’adagiarsi dell’Arca sulla montagna, dopo la discesa di Noe` e dei suoi, e` l’equivalente simbolico della nuova discesa di Gesu` sulla terra alla fine [D.G.] dei tempi. Bibliografia: D. Sidersky, Les Origines des le´gendes musulmanes dans le Coran et dans les Vies des prophe` tes, Librairie orientaliste Paul-Geuthner, Paris 1933; Tabarı¯, De la Cre´ation a` David, extrait de˙ la Chronique de Tabarı¯, trad. dal persiano di ˙ Hermann Zotenberg, Sindbad, Paris 1984, pp. 101-108; Tabarı¯, I profeti e i re. Una storia del mondo dalla creazione a Gesu`, a cura di Sergio Noja, Guanda, Parma 1993.

ARCHETIPO DELLA SCRITTURA Questa espressione, che traduce l’espressione araba Umm al-Kita¯b,‘‘La Madre del Libro’’, compare nel Corano tre volte (3, 7; 13,39; 43,4). Non ha equivalenti nelle

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ARCHETIPO DELLA SCRITTURA

lingue semitiche anteriori, benche´ anche nell’ebraismo sia attestata l’idea d’una ‘‘Torah preesistente’’. Essa designa per lo piu` il prototipo celeste (asl) del Corano, ˙ terra, il cui testo tangibile «disceso» sulla originale, nella sua completezza, si trova «presso Dio». Questo originale e` inconoscibile, perche´ e` l’attributo della scienza divina preeterna che abbraccia ogni cosa e non puo` essere abbracciata a sua volta. A tale titolo, l’espressione Umm al-Kita¯b e` spesso identificata con Lawh Mahfu¯z, la ˙ ˙e` regi˙ «Tavola Custodita» sulla quale strato il divenire di tutte le creature. Questa interpretazione, rafforzata da molti discorsi profetici (Hadı¯th), si comprende ˙ del versetto 13,39: soprattutto alla luce «Iddio cancella quel che vuole e quel che vuole conferma: a Lui d’accanto e` la Madre del Libro». Estendendo questo senso, alcuni autori, soprattutto i sufi metafisici, definiscono la Umm al-Kita¯b come l’intelletto primo (al-‘aql al-awwal), oppure il Calamo Supremo (al-Qalam al-A‘la¯), che scrive i destini sulla Tavola. Parallelamente, gli autori musulmani rilevano una delle etimologie della parola umm, in base alla quale essa designerebbe «cio` che riunisce e sintetizza». Pensando alla tradizione islamica, che afferma di sintetizzare e sigillare i messaggi profetici anteriori, essi hanno individuato nella Umm al-Kita¯b la ‘‘matrice’’ celeste non solo del Corano ma anche di tutti i libri rivelati. Da questa matrice sarebbero state estratte le Tavole della Legge per essere consegnate a Mose` sul monte Sinai. Tale accezione non manca di evocare cio` che alcuni sufi chiamano «l’unita` trascendente delle religioni» (wahdat al-adya¯n); proprio nel ˙ senso di archetipo di tutte le scritture sacre il pastore Alain Houziaux comprende l’espressione Umm al-Kita¯ b: «Questa idea di un Libro unico e nascosto fino alla fine dei tempi potrebbe permettere la riconciliazione dei tre monoteismi [abramitici], ciascuno dei quali reclama una Scrittura che altro non e` che il ‘‘riflesso’’ della Verita` unica di questo Libro». Secondo questo stesso orientamento semantico, all’espressione Umm al-Kita¯b si e` assegnata una definizione spesso ricor-

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rente nella tradizione profetica, quella di Fa¯tiha, ‘‘L’Aprente’’, la prima sura del ˙ che conterrebbe la totalita` del LiCorano bro: Ibn ‘Arabı¯ (m. 638/1240) insegna che tutti i libri rivelati sono contenuti nella Fa¯tiha. Questo autore e altri sufi posteriori˙ per lo piu` appartenenti alla sua scuola sono giunti a identificare la Umm al-Kita¯b con il puntino diacritico che si trova sotto la lettera araba ba¯’ nella basmala, cioe` la formula ‘‘bi-ism Alla¯h alRahma¯n al-Rah¯ım’’ posta in apertura di ˙ le sure salvo ˙ una. In tale attribuzione, tutte essi si fondano su due detti del Profeta, l’uno complementare all’altro: «Tutto cio` che e` contenuto nei Libri rivelati si trova nel Corano; tutto cio` che e` contenuto nel Corano si trova nella Fa¯tiha; tutto cio` che e` contenuto nella Fa¯tiha ˙si trova nel ‘‘biism Alla¯ h al-Rah ma¯˙ n al-Rah ¯ı m’’; e: «Tutto cio` che e` ˙contenuto nel˙ ‘‘bi-ism Alla¯h al-Rahma¯n al-Rah¯ım’’ si trova nella lettera ba¯’,˙ e tutto cio`˙ che e` contenuto nella lettera ba¯’ e` esso stesso contenuto nel punto diacritico che sta sotto questa lettera». Per i sufi, questo puntino simboleggia la prima determinazione della Manifestazione universale, e dunque l’essenza di ogni scrittura. «Il distintivo – scrive Martin Lings – procede infatti dall’integrale, e tutto e` racchiuso nell’unita` della conoscenza, simboleggiata dal Punto». Anche al di fuori delle cerchie sufi, alcuni autori musulmani medievali, e in particolare alcuni commentatori d’orientamento definito ‘‘razionalista’’, hanno notato che la Umm al-Kita¯b costituisce «il principio di ogni scrittura».

cheikh Ahmad al-‘Alawı¯, E´ditions traditionelles, Paris 1967; Jean-Luc Monneret, Les Grands The`mes du Coran, Dervy, Paris 2003.

[E´.G.]

ARCHITETTURA A prima vista, il Corano sembra prestare scarsa attenzione alle realizzazioni umane nel campo dell’architettura. Il piu` delle volte, i monumenti e le citta` dei popoli antichi sono accusati come prova flagrante della loro ignoranza ed empieta`; tuttavia, alcuni monumenti notevoli sfuggono a questa condanna, come quelli eretti da Salomone o da Dhu¯ al-Qarnayn, nome col quale e` noto Alessandro Magno nella tradizione coranica. Nella vita quotidiana gli uomini non devono aspirare al lusso e all’ostentazione, e di conseguenza le dimore dei credenti sono descritte come molto austere. L’estrema semplicita` degli edifici si ritrova anche nei luoghi di preghiera: nel Corano, l’architettura del luogo di preghiera, masjid o ‘‘moschea’’, e` appena menzionata e solo per l’orientazione rituale, la qibla. Un solo monumento esistente all’epoca del Profeta scampa alla disapprovazione pressoche´ generale, la Ka‘ba della Mecca. Il poco spazio riservato alle realizzazioni umane contrasta fortemente con quello accordato all’opera del creatore. Nondimeno, tale concezione di un’architettura ‘‘minimalista’’, caratterizzata dalla sobrieta` delle forme e dei materiali, sara` progressivamente abbandonata dalla grande maggioranza della comunita` musulmana, in seguito alle conquiste e alla straordinaria potenza che le accompagno`.

Bibliografia: William C. Chittick, The Sufi Path of Knowledge: Ibn al-‘Arabı¯’s Metaphysics of Imagination, State University of New York Press, Albany 1989; ‘Abd alKarı¯m al-Jı¯lı¯, Un commentaire e´sote´rique de la formule inaugurale du Coran, trad. dall’arabo e note di Clement-Franc¸ois Ja¯bir, Al-Bouraq, Beirut 2002; Alain Houziaux, Ge´rard Israe¨l, Khaled Ben Toune`s, Le Coran, Je´sus et le judaı¨sme, Descle´e de Brouwer, Paris 2005; Martin Lings, Un saint musulman du vingtie`me sie` cle: le

Dio architetto Numerosi versetti del Corano descrivono la creazione come l’opera di un architetto: per esempio, le colline di Safa¯ (‘‘Roccia’’) e Marwa (‘‘Pietra’’) ˙ vicino alla Mecca sono «monumenti di Dio» (ovvero «le cose sacre di Dio»; 2,158). Anche il monte ‘Arafa¯t, dove Muhammad si ritiro` per pregare e dove il suo volto divenne radioso, e` qualificato come «monumento sacro» (2,198).

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Nell’architettura della creazione, Dio e` «Colui che separa (fa¯ t ir) i cieli dalla ˙ terra», e la terra e` paragonata a un tappeto, uno strato, un giaciglio: «[Dio] ha fatto per voi della terra un tappeto (fira¯sh) e del cielo un castello (al-sama¯’ bina¯’)» (2,22). Un altro passo insiste su questo aspetto: «E` Dio che vi ha dato la terra come stabile suolo e il cielo come alto palazzo» (40, 64); la terra nuda sarebbe dunque sufficiente all’uomo come abitazione: «Sulla terra avrete una sede» (2,36). La terra e tutto cio` che la ricopre sono assemblati come fossero le componenti di una costruzione: Dio «ha spianato la terra e vi ha messo montagne immobili e fiumi» (13,3); «sulla terra vi sono terreni vicini, e giardini di vigne, e grani, e palme a coppie e sole» (13,4). La bellezza della creazione, la sua compiutezza e dunque la sua perfezione sono descritti come l’opera del supremo Artista.

attorno al trono di Dio, cantare le lodi del Signore» (39,75). In realta` non si tratta di un’architettura ‘‘verticale’’ ma piuttosto ‘‘sferica’’, perche´ il Trono di Dio e` ovunque: Egli e` «il Signore dei sette cieli, il Signore del Trono Immenso» (23,86). Tuttavia, la localizzazione del luogo di soggiorno dei beati non sembra affatto lontana da quella della Geenna: «Fra questi e quelli [gli ipocriti e i credenti] verra` interposta una muraglia, che avra` una porta. E all’interno della porta sara` la Misericordia e all’esterno, di fronte, il Castigo» (57,13). Del resto, se la geografia e l’architettura del paradiso danno luogo a un certo numero di descrizioni, quelle della Geenna raramente vanno oltre la descrizione delle porte, menzionate molto spesso (cfr. «la porta di un tormento tremendo»; 23,77); l’essenziale delle descrizioni concerne piuttosto i castighi che saranno inflitti ai dannati.

L’architettura del cielo Il cielo e` paragonato a un tetto, un «tetto saldamento tenuto» (saqf mahfu¯z; 21,32). ˙ ˙ e` anche Ma questa straordinaria creazione un prodigio, perche´ e` una volta «senza pilastri visibili» (13,2). Gli unici supporti del cielo sembrerebbero le montagne: «Egli ha creato i cieli senza pilastri (‘amad) visibili e ha piantato sopra la terra monti come pilastri» (31,10). Le regioni celesti sono attentamente custodite per mezzo di porte. Le porte del cielo possono aprirsi per far scendere la pioggia benefattrice (31,10) oppure la pioggia torrenziale del diluvio (54,11). Si apriranno anche per ricompensare i credenti: «Saranno spinti coloro che temono il Signore verso il Giardino, a schiere, e quando vi giungeranno, saranno spalancate le Porte» (39,73). Le porte del cielo sono le stesse del paradiso. Come per le dodici porte della Gerusalemme celeste dell’Apocalisse, dimora degli eletti, degli angeli vigilano alle porte del cielo: «Entreranno da loro gli angeli da tutte le porte» (13,23). Il cielo, luogo dei beati, e` provvisto di sette sfere (tara¯’iq; 23,17), in ˙ qualche modo ‘‘sormontate’’ dal trono di Dio: «Allora vedrai gli angeli, a cerchi

L’architettura degli uomini Al primo livello di questa architettura figurano i templi sacri. L’architettura degli uomini, come gia` detto, generalmente non gode dell’approvazione divina. Un’eccezione significativa riguarda tuttavia il recinto sacro della Ka‘ba (al-masjid al-ha˙ ra¯m), ‘‘la Casa’’ per eccellenza; occorre ` pero sottolineare che la portata di questo edificio e` assai piu` simbolica che ostentativa, e del resto nel testo rivelato il monumento non e` mai oggetto di una descrizione architettonica. In misura nettamente inferiore, almeno nel testo coranico, il masjid al-aqsa¯, il ‘‘tempio molto ˙ lontano’’, e` una probabile allusione al Tempio di Gerusalemme (17,1), a proposito del quale altre allusioni ricorrono: un aneddoto su Davide (38,21) e la storia di Zaccaria, padre di Giovanni Battista, con Maria (3,37 e 39; 19,11). E` interessante osservare che in questi versetti il santuario e` designato col termine mihra¯b. « I l p r im o Te mp i o [l e tt e˙ra l me n t e: ‘‘Casa’’] che sia stato fondato per gli uomini e` , certo, quello che e` in Bakka [Mecca], benedetto, e Guida per tutto il Creato» (3,96). L’assoluta anteriorita` della Ka‘ba sugli altri luoghi di culto

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rende questo monumento il ‘‘tempio primordiale’’, nozione quasi atemporale che sostiene una nuova affermazione: «C’e` un tempio che e` stato fondato sul timor di Dio, sin dal primo giorno: questo e` piu` degno che tu vi stia in preghiera» (9,108). Gia` in epoca preislamica, la Ka‘ba era un luogo di pellegrinaggio, nel quale, oltre alla Pietra Nera, si veneravano altre divinita`. La stessa Pietra Nera, gia` prima della predicazione di Muhammad, appariva legata alla storia di Abramo, della serva Agar e del loro figlio Ismaele, l’antenato degli arabi. Secondo la tradizione musulmana, la costruzione della Ka‘ba sarebbe stata iniziata da Seth, figlio di Adamo; dopo la distruzione a causa del diluvio, il tempio sarebbe stato ricostruito da Abramo con l’aiuto di Ismaele: «Quando Abramo e Ismaele ebbero levato le fondamenta (qawa¯‘id) della Casa [...]» (2,127). La rivelazione coranica considerera` solo quest’ultima fase della storia del luogo di pellegrinaggio, definito ‘‘casa’’, o ‘‘luogo di sosta’’, di Abramo’’: «Facemmo della Santa Casa (bayt) luogo di riunione e di sicuro rifugio per gli uomini (prendete dunque il luogo dove ristette [maqa¯m] Abramo per oratorio [mus alla¯ n])» (2, 125). A partire dall’anno ˙624, dopo la rottura del Profeta con la comunita` ebraica di Yathrib, la qibla o ‘‘orientazione della preghiera’’ che sino ad allora consisteva nella direzione di Gerusalemme, cambio`, in direzione della Ka‘ba. Tuttavia, secondo uno hadı¯th, «nell’ul˙ prima qibla tima Ora, Gerusalemme, ` ` della comunita, sara anche l’ultima». Le menzioni della Ka‘ba (particolarmente 5, 95 e 97) denominata anche ‘‘l’oratorio sacro’’ (al-masjid al-hara¯m) sono rara˙ mente descrittive dal punto di vista architettonico. In compenso, la letteratura religiosa – le storie dei profeti o i manuali di pellegrinaggio – sviluppera` ulteriormente le descrizioni dell’edificio. Occasionalmente sono citati altri luoghi di preghiera: «Se Dio non respingesse alcuni uomini per mezzo di altri, sarebbero ora distrutti monasteri e sinagoghe, e oratori e templi (sawa¯mi‘ wa biya‘ wa ˙

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salawa¯t wa masa¯jid) nei quali si menziona il nome di Dio di frequente» (22, 40). A parte la Ka‘ba, praticamente tutti i monumenti costruiti degli uomini ‘‘del tempo dell’ignoranza’’, ovvero prima della predicazione di Muhammad, sembrano esser stati ispirati da forze demoniache e quindi meritevoli della sorte che fu riservata loro, cioe` la rovina e la distruzione. Gli esempi che il Corano fornisce di citta` e monumenti distrutti, annientati dalla volonta` divina, sono numerosi e costituiscono un tema ricorrente: «Non hai visto quel che fece il Signore della gente di ‘A¯d a Iram dalle alte colonne (Iram dha¯ti al-‘ima¯d) che non aveva pari su tutta la terra? E della gente di Thamu¯d, che spaccavano le rocce nella vallata?» (89, 6-9). Va osservato che mentre Iram, ‘‘la citta` dalla colonna’’ (o ‘‘dalle grandi colonne’’) e` apparentemente non identificata, quella dei Thamu¯d si situerebbe nel wa¯dı¯ al-Qura¯, a una giornata di distanza da Alheji; le costruzioni scavate nella roccia, celebri a Petra, si trovano anche in siti arabici quali Mada¯’in Sa¯lih. Un’ultima ˙ ˙ nella menzione di case ‘‘scavate roccia’’ e` fornita a proposito degli abitanti di alHijr, indubbiamente gli stessi Thamu¯d il ˙ sito si trovava a nord di Medina, sulla cui strada per la Siria: queste abitazioni troglodite non salvarono i loro abitanti dalla distruzione (15,82). A proposito delle distruzioni, due idee si sovrappongono: la prima e` la piu` frequente e concerne la distruzione dei monumenti e delle citta` dell’orgoglio e del vizio: «Quelle antiche citta` Noi le distruggemmo allorche´ agirono iniquamente, e fissammo, per la distruzione loro, un termine» (18,59). E` interessante osservare che queste citta` sono nominate unicamente per via di un qualificativo: al-mu’tafika¯t, ‘‘le rivoltate da cima a fondo’’. Si puo` trattare di esempi precisi (citta` e monumenti di Faraone, Sodoma e Gomorra), o di esempi piu` generici e non specificamente identificati. La seconda nozione e` quella di una mano immanente ma non cieca: «Noi non distruggemmo Citta` alcuna senza averle prima dato una Scrit-

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tura ben conosciuta» (15,4). Tono talvolta prossimo alla disperazione: «Quale infatti la citta` che poi credette e le giovo` la sua fede? Non avvenne questo che al popolo di Giona» (10,98). I riferimenti a precisi monumenti dell’antichita` sono estremamente rari. Per lo piu`, i riferimenti agli edifici dei popoli antichi sono ‘‘globali’’; non sono condannate solo le realizzazioni materiali ma soprattutto l’empieta` dei costruttori: «Distruggemmo tutte le opere di Faraone e della sua gente e le loro costruzioni dagli alti tetti» (7,137). Il Corano riferisce due volte un esempio di costruzione apparentemente ‘‘faraonica’’: Faraone ordina a Ha¯ma¯n, personaggio sconosciuto, contemporaneo di Mose`, menzionato nel Libro di Ester come ‘‘persecutore degli ebrei’’, di costruire una torre: «Accendimi dunque un fuoco sull’argilla, e costruiscimi una torre, sı` che possa salire fino al dio di Mose`» (28,38). Lo stesso episodio e` ripetuto nei versetti 40,36-37, dove si aggiunge: «Ma l’insidia di Faraone non finı` che in perdizione». E` evidentemente un’allusione alla torre di Babele. Un altro personaggio insieme ricchissimo ed empio e` menzionato piu` volte: si tratta di Core (o Qa¯ru¯n), un discendente di Levi che si sarebbe opposto a Mose` e ad Aronne. Dopo aver accumulato enormi tesori, venne inghiottito dalla terra con la sua ‘‘casa’’, termine che indubbiamente indica sia la sua dimora sia la sua famiglia (28,81). Un riferimento a un evento storico relativo ad antiche costruzioni e` fornito dalla storia riportata nella sura dei Saba¯’ (34,15-16): poiche´ essi non riconobbero i segni di Dio, due giardini colmi di frutti deliziosi, Dio li castigo` rompendo le dighe: l’inondazione provoco` un cambiamento nella natura degli alberi e dei frutti dei due giardini che divennero amari. L’avvenimento riportato si riferisce alla diga di Ma’rib, nello Yemen, che crollo` verso il 542 dell’era cristiana. In definitiva, se le citta` e i monumenti dei tempi antichi, all’epoca della Rivelazione, sono luoghi di rovine, e` per Volonta` divina: «Come il contegno delle gente di

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Faraone e di quelli che vissero prima di loro [...] Dio li colse in flagrante peccato, e Dio e` violento a punire» (3,11). Una serie di monumenti mitici sfugge alla condanna generale, segnatamente le opere del re Salomone e il muro che Alessandro eresse contro Gog e Magog. Salomone, aiutato dai jinn con il consenso divino, si fece costruire numerosi edifici meravigliosi ornati di oggetti straordinari; i demoni che l’assistevano erano ‘‘costruttori’’ (38,37) e per trovare tesori si tuffavano anche nel mare (21,82). Sebbene non sia fatto esplicito riferimento al tempio di Salomone, uno degli elementi d’arredo di quest’ultimo, il mare di bronzo, e` suggerito dal seguente versetto: «Facemmo colare per lui la Fonte di Liquido Bronzo» (34,12). Ma i jinn fabbricarono per lui anche «palazzi (maha¯rı¯b, sing. mih ra¯b), statue (tama¯ thı¯l), ˙piatti ˙ abbeveratoi di cammello e ampi come caldaie salde» (34,13). Il re Salomone possedeva inoltre un palazzo prodigioso, dal pavimento di cristallo; quando la regina di Saba entro` nel palazzo, «lo credette una gran distesa d’acqua, e si scoprı` le gambe» (27,44). In questo palazzo doveva senz’altro trovarsi anche il trono del re. E` noto che i jinn aiutarono Salomone a trasformare il trono della regina di Saba per renderlo irriconoscibile (27,41-42); quanto a quello del re, e` appena menzionato (38,34). Il tema del muro di Gog e Magog trova origine in Ezechiele (38,2) e nell’Apocalisse di Giovanni (20,8), ma anche nella tradizione del Romanzo di Alessandro (Pseudo-Callistene e Giacomo di Sarug). In quest’ultimo, si riporta che il conquistatore macedone fece elevare da alcuni fabbri un bastione o una diga per confinare questi popoli barbari. Per la devozione di Alessandro e la bonta` delle sue intenzioni, questa costruzione prodigiosa non incorse nella collera divina; inoltre, i materiali e le circostanze della costruzione del bastione contribuiscono a dare un aspetto meraviglioso alla realizzazione: «‘‘Portatemi blocchi di ferro!’’ E quando ebbe colmato lo spazio fra i due

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versanti dei monti [...] ordino`: ‘‘Portatemi bronzo fuso che ve lo versi sopra!’’» (18, 94-96). «E` Dio che vi ha dato la terra come stabile suolo e il cielo come alto palazzo» (40, 64): infatti il credente potrebbe essere felice sulla terra contentandosi di poco. In ogni caso la felicita` non si raggiunge con il possesso dei beni materiali: «Se [...] le case che amate, vi sono piu` care di Dio e del Suo Messaggero [...] allora aspettate finche´ Dio vi portera` il Suo Ordine distruttore» (9,24). Altrove, a proposito della partenza degli ebrei dall’Egitto verso la terra promessa, e` detto: «Quanti giardini abbandonarono, e fontane e campi seminati e dimore splendenti!» (44,25-26). La vita del credente, in seno alla comunita` musulmana, deve dunque svolgersi in un ambiente sobrio, privo di lusso e di lustro; l’opera del creatore – la natura – e una fede incrollabile sono sufficienti come rifugio e riparo. Infatti, «se non fosse che gli uomini sarebbero divenuti una nazione sola, avremmo fatto per le case dei negatori del Misericordioso tetti d’argento, e scale d’argento a salirvi e per le case loro porte d’argento, e letti d’argento per adagiarvisi e ornamenti d’oro» (43,33-35). Questa descrizione di abitazioni lussuose, caratterizzate da ornamenti brillanti e contemporaneamente il loro aspetto futile, che dunque nel mondo terreno e` meritevole di condanna, si ritrova invece nelle abitazioni del paradiso. Si tratti di senso proprio o figurato, il Corano fornisce numerosi riferimenti occasionali all’architettura degli uomini. La casa, come la tenda, e` un dono di Dio: «Dio vi ha dato le tende a dimora, le tende vi ha fatto dalle pelli dei greggi, che leggere maneggiano le mani allorche´ trasferite l’accampamento quando vi fissate in un luogo» (16,80). Gli appartamenti privati del Profeta, che danno il titolo alla sura 49, al-Hujura¯t (‘‘Le stanze intime’’), ˙ sono immagine dell’austerita` della sua dimora, la cui descrizione puo` essere dedotta dalla critica, rivoltagli dai suoi detrattori, perche´ non possedeva una casa piena di ornamenti (bayt min zukhruf;

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quest’ultimo termine significa ‘‘oro falso’’, che brilla di luce riflessa; 17,93). A coloro che lo accompagnano nel suo esilio verso Medina, il Profeta promette una ricompensa: «Coloro che perseguitati lasciarono la loro terra per la causa di Dio, ecco annunciammo loro il Bene, nel mondo; ma la mercede dell’Altro e` piu` grande» (16,41). Costretti a costruire un edificio, destinato ad abitazione oppure a luogo di preghiera, debbono fare attenzione alla stabilita` delle sue fondamenta: «Chi dunque e` meglio? Chi ha fondato il suo edificio sul timor di Dio e sul Suo santo compiacimento, o chi ha fondato il suo edificio su un orlo sottile di terra friabile franata con lui giu` del Fuoco dell’inferno?» (9,109). Certe pratiche, sviluppatesi quando il Profeta era ancora in vita, come l’apertura di una nuova porta in casa al ritorno dal pellegrinaggio, sono condannate (2,189). Talvolta si nota se non un’attenzione all’urbanistica almeno la volonta` di raggruppare la comunita` ordinatamente: «Preparate al vostro popolo delle case in Egitto, e disponete le case vostre l’una di fronte all’altra» (10,87). Quanto all’ultima dimora, la tomba, nel Corano e` appena evocata (17,52; 22,7). Del resto, «dovunque siate vi cogliera` la morte, anche se foste su altissime torri» (4,78). Le pratiche funerarie del tempo del Profeta e dei califfi ‘‘bendiretti’’ furono estremamente sobrie. Questa posizione tipicamente sunnita si discosta nettamente dalla tradizione sciita che, a partire dalla morte del Profeta, propenderebbe per l’edificazione di una tomba monumentale che conservi le sue spoglie. Tale divergenza di opinioni spiega in parte uno sviluppo dell’architettura musulmana molto diversificato secondo la geografia e strettemene dipendente dalle concezioni predominanti in ciascuna [Y.P.] epoca. Bibliografia: Titus Burckhardt, L’arte dell’Islam, Abscondita, Milano 2002; Giovanni Curatola, Gianroberto Scarcia, Le arti nell’Islam, NIS, Roma 1990; Maria Vittoria Fontana, Bruno Genito, Studi in onore di Umberto Scerrato nel suo settantacinquesimo compleanno, Universita` de-

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81 gli Studi di Napoli L’Orientale, Napoli 2003; Oleg Grabar, Arte Islamica. Formazione di una civilta`, Electa, Milano 1989; Robert Hillenbrand, Islamic Architecture Form, Function and Meaning, Edinburgh University Press, Edinburgh 1994; John D. Hoag, Architettura islamica, Electa, Milano 1998 (ed. or. Architecture islamique, Gallimard, Paris 1991); Jean Sauvaget, La Mosque´e omeyyade de Me´dine, Van Oest, Paris 1947.

ARGILLA Come nei racconti mesopotamici o nella Bibbia, l’argilla, nel Corano, e` uno dei materiali di cui Dio si serve per plasmare l’uomo. Tuttavia, per nominarla sono utilizzati diversi termini a seconda delle sue funzioni o dei suoi impieghi (t¯ın, salsa¯l o ˙ ˙materie ˙ sijjı¯l). La categorizzazione delle prime che si possono raggruppare sotto l’appellativo generico d’argilla non e` certamente fortuito; non solo indica l’umilta` del materiale di base, fango e polvere eventualmente mescolati a sperma e sangue coagulato, ma traduce anche la preoccupazione di preparare una materia nobile a partire da un materiale originariamente umile. «Dalla terra vi creammo, nella terra vi riconduciamo» (20,55). Oltre a questo ‘‘materiale primordiale’’, che mescola insieme l’argilla del vasaio ma anche il fango, il limo o la polvere, accezione largamente maggioritaria, talvolta, anche se in misura significativamente minore, altre occorrenze dell’argilla concernono il lavoro degli uomini. Date le splendide realizzazioni conosciute dalla ceramica nel mondo musulmano, potrebbe sorprendere il fatto che i vasai, al contrario per esempio dei calligrafi, non abbiano raccolto il parallelismo tra il loro lavoro quotidiano della terra e l’opera del creatore. Senza dubbio, cio` e` dovuto all’umilta` del lavoro del vasaio e al suo status sociale poco prestigioso entro la comunita` musulmana. Il vasaio divino Nel Corano, l’argilla e` innanzitutto il materiale che servı` a creare l’uomo. E` interessante osservare che la radice del verbo ‘‘creare’’, khalaqa, significa anche ‘‘dare

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ARGILLA

forma a qualcosa osservandone le proporzioni’’ e ‘‘plasmare’’; e` evidente che il termine puo` essere correlato alle attivita` umane, in particolare a quella del vasaio. Il termine piu` sovente utilizzato per descrivere la materia con la quale Dio plasmo` l’uomo e` t¯ın (6,2; 7,12; 17,61; 23,12; ˙ 32,7; 37,11; 38,71 e 76), che indica del fango o dell’argilla comuni, prima dell’affinatura in vista del loro utilizzo nella ceramica. Nella sura 23, quest’argilla e` definita ‘‘fine’’; si tratta infatti di ‘‘estratto’’ o ‘‘quintessenza’’ d’argilla (min sula¯la min t¯ın; 23,12). Nel versetto ˙ 37,11, essa e` definita ‘‘dura’’ o ‘‘collosa’’ (min t¯ın la¯zib). I due qualificativi sono ˙ impiegati anche nell’arte della ceramica. Il termine salsa¯l, impiegato diverse volte ˙ 55,14), talvolta e` tradotto (15,26,28 e˙ 33; con ‘‘argilla sonora’’, cioe` una terracotta che, essendo appunto gia` cotta, se viene colpita manda un suono. Questa argilla da cui e` creato l’uomo e` estratta da un ‘‘fango impastato’’: «Noi creammo l’uomo d’argilla secca, presa da fango nero impastato (Wa la-qad khalaqna¯ al-insa¯n min salsa¯l ˙ ˙ min hama¯’ masnu¯n)» (15,26; cfr. 15,28). ˙ E` interessante osservare che questo ‘‘fango impastato’’ potrebbe anche tradursi con ‘‘fango putrido e fetido’’. Tale ‘‘marciume’’ rimanda anche a un’idea radicata nella tradizione ebraico-cristiana, con la quale il parallelo e` d’obbligo: ‘‘Polvere sei e polvere ritornerai’’. In ogni caso, questa operazione che implicitamente distingue l’argilla di prima qualita` dal resto della materia prima accosta ancora una volta l’opera divina al lavoro del vasaio. Questo parallelo e` sostenuto anche dal versetto 55,14: «Creo` l’uomo da fango seccato come argilla per vasi (khalaqa al-insa¯ n min s als a¯ l ka¯ -al-fakh˙ paragona il ˙ che kha¯ r)». L’immagine Creatore a un vasaio e` gia` biblica (Is 64, 7; Qo 33,10 e 13) e sara` ripresa in particolare da Filone di Alessandria. I diversi stati del materiale, progressivamente da ‘‘terra polverosa’’ (tura¯ b) a ‘‘fango colloso’’ (t¯ın la¯zib) a ‘‘fango fe˙ ¯ n) a ‘‘terra seccata’’ tido’’ (hama¯’ masnu ˙ riproducono gli stadi osservati (salsa¯l), ˙ ˙

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ARIA e VENTO

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ancora nel XX secolo nella preparazione dell’argilla per la ceramica, a Fust a¯ t ˙ ˙ (Egitto) o a Meybod (Iran). Infine, un altro materiale e` chiamato sijjı¯l, traducibile con argilla o ‘‘marna’’; di questa argilla sono le ‘‘pietre’’ ovvero i mattoni cotti o induriti al sole (haja¯ra min sijjı¯l), che piovono sulla citta`˙di Lot (11, 82-83; cfr. 15,74); inoltre, secondo la pratica corrente dei vasai, questi mattoni sono ‘‘marcati con un’impronta’’, in questo caso, evidentemente, quella del Signore. Il lavoro degli uomini L’immenso spazio accordato all’opera del creatore non ne lascia alcuno alle realizzazioni degli uomini. Il vasaio (fakhkha¯r) o i fabbricanti di mattoni non sono esplicitamente menzionati nel Corano; assenza indubbiamente spiegata dall’umilta` della loro condizione sociale, ma anche dallo scarso spazio che queste professioni occupano in ambiente beduino. Un’eccezione significativa concerne Gesu`, descritto come il profeta precursore di Muhammad; in due occasioni il figlio di Maria e` raffigurato mentre plasma l’argilla: «Io vi porto un Segno del vostro Signore. Ecco che io vi creero` con dell’argilla una figura d’uccello e poi vi soffiero` sopra e diventera` un uccello vivo col permesso di Dio» (3,49). Questo aneddoto degli ‘‘uccelli di Gesu`’’ sara` largamente ripreso in seguito, particolarmente nella letteratura sulle arti e come tema poetico. Infine, l’argilla ricorre a proposito di Faraone: nell’episodio della costruzione della torre, egli chiede a Ha¯ma¯n di accendergli «un fuoco sull’argilla (t¯ın)» per [Y.P.] fabbricare i mattoni (28,38). ˙ Bibliografia: Micheline Centlivres-Demont, Une communaute´ de potiers en Iran, L. Reichert – O. Harrassowitz, Wiesbaden 1971; Lucien Golvin, Jacques Thiriot, Mona Zakariya, Les potiers actuels de Fustat, Institut franc¸ais d’arche´ologie orientale, Le Caire 1982; Heidi Toelle, Le Coran revisite´: le feu, l’eau, l’air et la terre, Institut franc¸ais de Damas, Damas 1999.

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ARIA e VENTO I due termini piu` comuni per indicare l’aria in arabo, hawa¯’ e jaww, compaiono entrambi nel Corano un’unica volta; il primo e` impiegato in senso metaforico. Nel quadro dell’annuncio dell’ultimo Giudizio (14,43), il testo definisce i cuori degli ingiusti hawa¯ ’ (af ’idatu-hum hawa¯’), che nel caso specifico significa ‘‘vuoti’’ di ogni pensiero e sentimento diverso dal terrore che suscita in loro il giudizio che li attende. Quanto a jaww (16,79), rimanda allo spazio tra terra e cielo nel quale volteggiano gli uccelli; la loro capacita` di librarsi in aria e` vista come uno dei segni che testimoniano l’onnipotenza divina: «Non guardano dunque agli uccelli, soggiogati a Dio nella distesa del cielo? Non li sorregge che Dio; e certo sono Segni, in questo, per gente pronta alla Fede». Ma, nel Corano, l’aria e` presente soprattutto sotto forma di soffio vitale e di vento, l’aria per eccellenza, nella sua qualita` di elemento cosmologico. Il vento e` designato dal singolare rı¯h (di genere insta˙ plurale riya¯h; il bile in arabo) o dal suo singolare e` talvolta accompagnato da˙ un qualificativo maschile o femminile, positivo o negativo: rı¯h tayyiba, «un buon ˙ ¯ sif(a), «un vento vento» (10,22); rı¯h˙ ‘a ˙ ˙ il ‘asf», cioe` i talmente forte da strappare giovani germogli ancora verdi,˙ da cui il senso di tempesta (10,22; 21,81 e metonimicamente 14,18). Quest’ultimo qualificativo compare una volta (77,2) sotto forma di participio attivo al plurale femminile: al-‘a¯sifa¯t, «quelle che soffiano in tempesta». I ˙venti, in generale, sono inoltre definiti fecondativi (lawa¯qih; 15,22) e ˙ come tali si oppongono al vento sterile (rı¯h ‘aqı¯m) e distruttore (51,41). Si ag˙ giungono altri due termini: il primo, qa¯sif (17,69), indica un vento che spezza ˙le navi; il secondo, i‘sa¯r (2,266), un vento che insieme «suscita nuvole temporalesche», «solleva la polvere» e «contiene fuoco» (cfr. Lisa¯n al-‘arab); si tratta dunque di un vento di sabbia infuocata. Questo assume la stessa funzione negativa del vento glaciale e mugghiante (rı¯h sarsar; ˙ ˙ 41,16; 54,19; 69,6) malgrado ˙l’opposi-

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zione apparente: infatti, il ghiaccio come il fuoco brucia la vegetazione e di conseguenza la rende secca e la frantuma. Infine, a questi venti ‘‘terrestri’’ occorre aggiungere il samu¯m, fetido vento infuocato che soffia nell’inferno (52,27; 56, 42). Nel mondo terreno, il vento si alza solamente per ordine di Dio; talvolta e` buono, talvolta e` malvagio, secondo che Dio sia o non sia soddisfatto delle creature. Tuttavia, quando l’universo segue il corso normale e nulla suscita il corruccio divino, la funzione dominante dei venti, nella schiacciante maggioranza dei casi citati al plurale, e` positiva. Consiste nel far filare i vascelli in tal modo contribuendo al buon corso degli affari, ma anche a suscitare nuvole di pioggia e spingerle verso terre scarse d’acqua cosı` da dissetare uomini e animali (15,22) e da far sbocciare la vegetazione (in particolare 7,57-58). Lo scopo dei venti e` anche disperdere i resti della vegetazione morta nel ventre della terra, dove essi giacciono finche´ la pioggia non riporta loro la vita. Quanto ai venti cattivi, citati al singolare oppure dotati di denominazioni caratterizzanti (con due eccezioni: 18,45 e 77,2: il plurale si accompagna a una denominazione caratterizzante, al-‘a¯sifa¯t), compaiono nel Corano solo come castigo. In tal caso, perturbano la navigazione e l’agricoltura e, all’occorrenza, vengono in soccorso al fuoco per sterminare un popolo che ha logorato l’infinita pazienza divina a forza di empieta`. La manifestazione piu` benigna di questo castigo e` l’assenza di vento, nella misura in cui la calma piatta impedisce alle navi di avanzare (42,33); questo castigo assume piu` volentieri l’aspetto di un vento impetuoso di tempesta che provoca onde enormi (10, 22) o spezza le imbarcazioni (qa¯sif; 17, ˙ vento 69) o ancora assune la figura di un sterile, mugghiante e glaciale (rı¯h sarsar) ˙ ˙ ˙ riduche causa lo sterminio degli ‘Ad, cendo tutto in cenere e devastando il paese «per sette notti e otto giorni». Il vento glaciale interviene inoltre, sostituito talvolta dal vento di sabbia infuocato (i‘sa¯r), o dal vento di un giorno di tempe˙

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sta (al-rı¯h fı¯ yawm ‘a¯sif), nel quadro di ˙ far comprendere parabole ˙che tentano di agli uomini la vanita` delle loro azioni. Il primo di questi venti distrugge «il campo di coloro che hanno fatto ingiustizia a se stessi» (3,117); il secondo brucia un giardino, pur paradisiaco in quanto aveva «palme e vigneti», era attraversato da «ruscelli» e conteneva «ogni specie di frutta» (2,266); il terzo si accanisce sulle ceneri delle opere dei miscredenti, ridotte cosı` dal fuoco (14,18). Altrove, la funzione del vento e` precipitare «chi associa altri esseri a Dio» lontano da Dio, «in lontanissimo abisso» (22,31). Malgrado il suo colore giallo, un colore sempre negativo nel Corano, esso non riesce a convincere gli increduli dell’esistenza di Dio. Infine, nelle sure dell’inizio della Rivelazione, accade che i venti di tempesta (‘a¯sifa¯t) ˙ ad siano invocati nei giuramenti, insieme altri fenomeni cosmologici (77,22). In sintesi: i venti, abitualmente associati all’acqua, sono benefici e contribuiscono, su ordine di Dio, al buon funzionamento dell’universo; eccezionalmente associati al fuoco oppure al suo sostituto, il ghiaccio, fanno opera di distruzione soffiando in tempesta, bruciando la vegetazione, cosı` materializzando la collera divina. Ricordiamo infine che, in generale, si ritiene che i venti fossero sottomessi a Salomone (21,81; 34,12; 38,36), e che fu il vento, sotto forma di odore (rı¯h), quel che ˙ vicinanza permise a Giacobbe di sentire la del figlio Giuseppe, prima del loro incon[H.T.] tro (12,94). Bibliografia: Gaston Bachelard, L’Air et les Songes, Jose´ Corti, Paris 1943; Heidi Toelle, Le Coran revisite´: le feu, l’eau, l’air et la terre, Institut franc¸ais de Damas, Damas 1999.

ARONNE Aronne occupa nel Corano e nella tradizione postcoranica una posizione paradossale. Da un lato egli compare solo come un personaggio secondario, figura di contorno nei confronti di suo fratello Mose`; dall’altro e` associato a quest’ultimo in modo tanto stretto da condivi-

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derne l’intera grandezza. Nel dipanarsi della storia di Mose`, e` menzionato dapprima al momento del dialogo con il roveto ardente: di fronte al comando divino di recarsi da Faraone per ricondurlo sulla via della giustizia, Mose` esita, afferma di parlare male in ragione di un «nodo alla lingua» e chiede che suo fratello vada con lui per assisterlo (20,27-42; 28,34; si veda anche Es 4,14 ss. e 7,1). La richiesta gli viene accordata e quindi i due uomini si presentano davanti a Faraone, lo interrogano e gli consegnano il messaggio monoteista. Il ruolo primario spetta tuttavia a Mose` con assoluta evidenza. Del resto, nella gran parte dei racconti dedicati all’incontro con Faraone, solo Mose` agisce, e Aronne e` menzionato assai discretamente o e` persino assente (7,103 ss; 10, 75 ss; 20,49 ss; 26,13 ss; 40,23 ss.). Mose` compie tutti i prodigi per la corte di Faraone, mentre nel libro dell’Esodo (Es 7, 8-12) e` Aronne a gettare il bastone che si trasformera` in serpente. La fusione dei due personaggi in una sola funzione e` suggerita dal versetto 26,16; Dio chiede loro: «Andate dunque da Faraone e ditegli: ‘‘Siamo il messaggero del Signore del Creato’’». Aronne ricompare piu` tardi, quando Mose` si accinge a partire per incontrare Dio sul monte Sinai, e delega la propria autorita` al fratello per il tempo dell’assenza (7,142). La quale autorita` non sembra affatto sicura, perche´ gli israeliti, preoccupati per l’assenza di Mose` e il silenzio del suo Dio, accolgono il suggerimento del misterioso Sa¯mirı¯ e fondono dei gioielli per costruire il Vitello d’oro. Aronne non riesce a contrastare l’iniziativa e Mose`, di ritorno con le Tavole della Legge, da` libero sfogo alla collera: afferra il fratello «per la testa e per la barba» prima di chiedere perdono a Dio per entrambi (7,150-151). Aronne, che era stato sopraffatto dalla richiesta degli israeliti, si giustifica nel proprio comportamento con i costruttori del Vitello facendo appello al desiderio di non dividere la comunita` (20,90-94). La tradizione islamica insiste molto sulla perfezione dei profeti, prescelti da Dio quali canali puri della sua Rivelazione, e

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in qualche modo garantiti contro ogni errore e peccato grave. Prova dunque ripugnanza a considerare che un uomo di rango profetico qual e` Aronne abbia permesso il compiersi dell’idolatria, il peccato piu` infamante, e tende a trovargli delle scusanti. Alcuni esegeti ritengono perfino che Mose` abbia afferrato il fratello per i capelli e la barba come segno di affetto e riconoscenza. Il tono e` comuqnue assai diverso rispetto alla Bibbia, dove la responsabilita` di Aronne sembra accolta assai di piu` buon grado (Es 32). Qui si arrestano i dati coranici su Aronne. I racconti postcoranici, spesso derivati direttamente da midrashim islamizzati, offrono un maggior numero di dettagli. Aronne si precisa come il fratello maggiore di Mose`. Il racconto della sua morte, di poco precedente quella di Mose`, e` piuttosto diffuso: i due uomini scoprono sotto un albero un giaciglio su cui Aronne si corica e si addormenta. Giunge l’angelo della morte e prende l’anima di Aronne mentre il suo corpo scompare. Gli israeliti, non vedendolo di ritorno, accusano Mose` del suo assassinio, perche´ amavano Aronne piu` di suo fratello. Mose` li riconduce allora in quel luogo e in seguito alla sua preghiera il corpo di Aronne riappare. La tradizione islamica ha dunque generalmente associato Aronne alla funzione profetica di suo fratello: non fu solo un aiuto per lui, fu realmente inviato al pari suo. Questo elemento viene illustrato in particolare dal racconto, molto diffuso, dedicato all’ascensione celeste del Profeta. Accompagnato dall’angelo Gabriele, Muhammad sarebbe salito ai sette cieli, incontrando in ciascun cielo uno dei grandi profeti della storia sacra. In una versione corrente del racconto, tradotta in latino nel XIII secolo e nota come Il libro della Scala, Muhammad incontra Aronne nel quarto cielo, incoronato e raggiante di splendore. Il suo ruolo e` particolarmente importante nella tradizione sciita e serve a sottolineare la funzione degli imam – ‘Alı¯ e alcuni dei suoi discendenti – come prosecutori della missione profetica. Gli sciiti citano spesso questa risposta del profeta

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Muhammad ad ‘Alı¯, scontento di rimanere a Medina durante un’importante spedizione militare: «Non ti e` sufficiente d’essere nei miei riguardi come Aronne nei riguardi di Mose`, salvo che non vi saranno profeti dopo di me?» Quanto ai mistici, guardano spesso ad Aronne come all’aiutante essoterico di Mose`: se quest’ultimo aveva udito direttamente la parola di Dio, aveva conosciuto l’ebbrezza di questo stato e oramai non sapeva adeguarsi al blando linguaggio religioso che gli uomini sanno comprendere, invece Aronne, che mai aveva conosciuto quella Presenza bruciante, poteva parlare loro senza patire il ‘‘nodo alla lingua’’. Una peculiarita` nel testo coranico fa sı` che il nome di Aronne ricompaia nei racconti su Gesu` e Maria, designata come ‘‘figlia di ‘Imra¯n’’ e ‘‘sorella di Aronne’’. Il Pentateuco menziona Myriam come sorella di Mose` e Aronne e figlia di ‘Amram (in arabo ‘Imra¯n), anche lei profetessa; ma il rapporto storico non emerge, cosı` gli esegeti musulmani hanno generalmente ritenuto che si trattasse di un altro Aronne e un altro ‘Imra¯n, a meno da non attribuire a ‘‘sorella’’ un significato metaforico.

nella copia dei piu` antichi esemplari conosciuti del Corano, caratterizzati dall’assenza quasi totale di ornamenti. Del resto, nella predicazione di Muhammad come nella nascente societa` musulmana, l’espressione ‘‘vani ornamenti’’ suonava come una spaventosa tautologia. Perche´ l’espressione volontaria e deliberata di un’autentica ‘‘arte musulmana’’ prenda corpo occorre attendere il progressivo insediamento della dinastia califfale degli Omayyadi (dal 661 al 750 dell’era volgare); ma anche allora l’arte concerneva piu` l’architettura, religiosa o profana, che la copiatura del testo sacro, le cui rare copie note risalenti a quell’epoca sono decorate assai di rado. Nondimeno l’epigrafia monumentale, che poggia in particolare sulle citazioni coraniche, svolge un ruolo fondamentale nella decorazione degli oggetti e dell’architettura islamici. La Cupola della Roccia a Gerusalemme (edificata nel 72/691), primo autentico capolavoro dell’architettura omayyade, e` anche il primo edificio a presentare un importante programma epigrafico integralmente composto di versetti del Corano.

[P.L.]

Dio creatore: l’Artista supremo I versetti che consentono un parallelo tra Dio o la sua creazione e l’opera di un artista sono estremamente numerosi. All’origine del rapporto tra ‘‘creazione’’ e ‘‘opera d’arte’’ vi e` la radice araba del verbo ‘‘creare’’, khalaqa, che significa anche ‘‘dare forma a qualcosa osservandone le proporzioni’’. Del resto, l’immagine di Dio assimilata a quella di un artista, paragonabile alla figura del Deus pictor dell’Occidente cristiano, sara` largamente utilizzata nella letteratura artistica del mondo musulmano. Tutto emana dalla volonta` divina: «Dio crea cio` che Egli vuole: allorche´ ha deciso una cosa non ha che da dire: ‘‘Sii! Ed essa e`’’» (3,47). Ma l’opera di Dio non si accontenta di esistere, e` «perfetta» (27,88; 32,7; M. Kasimirski traduce «che dispone artisticamente ogni cosa»). La creazione emana da un decreto divino: «In verita` Noi ogni cosa creammo in stabilito decreto» (54,49). E` interessante osservare

Bibliografia: Mahmoud M. Ayoub, The Qur’a¯n and Its Interpreters: the House of ‘Imra¯n, State University of New York Press, Albany 1992; Michel Dousse, Marie la musulmane, Albin Michel, Paris 2005; Ta˙ barı¯, I profeti e i re. Una storia del mondo dalla creazione a Gesu`, a cura di Sergio Noja, Guanda, Parma 1993.

ARTE Il posto accordato alla creazione, alla sua bellezza, al suo carattere compiuto lascia poco spazio alle creazioni umane in campo artistico. La supremazia assoluta dell’Artista divino e` inoltre accresciuta dalla generale preoccupazione, da parte del Profeta, di promuovere una societa` che viva se non nella privazione, almeno senza segni ostentativi di ricchezza. Tale preoccupazione, che nel corso dei primi decenni della storia della comunita` musulmana si materializza nell’insieme delle sue realizzazioni, si ritrova anche

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che il termine tradotto con ‘‘decreto’’ (biqadar) ha anche il senso di ‘‘determinare, o dare, in una certa misura’’; in tal modo, lo stesso versetto puo` tradursi con: «Noi creammo ogni cosa in una certa proporzione». Come un artista, Dio crea con le proprie mani (36,71) e dispone nell’universo gli oggetti della creazione: «Adornammo il cielo piu` basso di torce e lo ponemmo a custodia» (41,12). Dio creo` l’uomo «da una persona sola, e ne creo` la compagna» (4,1). Adamo, il primo uomo, e` plasmato con l’argilla: «Egli e` colui che vi ha creato dall’argilla» (6,2). Da questo umile materiale Dio produce una forma ‘‘armoniosa’’: «armoniosamente lo formo`» (32,9). Dalla medesima radice del verbo ‘‘formare’’, sa˙ wara, deriveranno i termini per le rappresentazioni plastiche, in particolare le pitture. L’idea che la bellezza emani da cio` che e` ‘‘ben proporzionato’’ e dunque una certa concezione dell’armonia sono nozioni riconosciute alquanto universalmente, e si trovano alla base di ogni sistema estetico. Platone e i suoi discepoli svilupparono ampiamente questo tema, insistendo soprattutto su un punto nodale che e` l’armonia delle parti e del tutto, secondo la quale l’unita` di quest’ultimo domina sulla molteplicita` delle parti. A tali concezioni delle ‘‘belle proporzioni’’ si aggiunge un valore morale, perche´ il bello, la bellezza della creazione, e` cio` che produce il bene e si confonde con l’amore che Dio nutre per la sua creazione. L’arte degli uomini Come si puo` constatare per l’architettura, nella rivelazione coranica l’opera degli uomini in materia artistica non sembra beneficiare dell’approvazione generale. Il piu` delle volte, quando vi e` un riferimento a opere d’arte prodotte dall’uomo, e` per denigrarle come prove di empieta`, di frivolezza o di orgoglio. L’uomo non sarebbe infatti in grado di rivaleggiare con i talenti creativi di Dio. Qui risiede una delle differenze sostanziali tra l’arte dell’Occidente cristiano, come nel Rinascimento, che riconosce all’artista una di-

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mensione prometeica, e le realizzazioni avutesi in seno alla societa` musulmana, nella quale la proiezione dell’artista al rango di demiurgo avrebbe, in tutta evidenza, posseduto un carattere blasfemo. Le differenze concettuali tra Oriente musulmano e Occidente cristiano non si limitano alla questione dello statuto semidivino dell’artista. La stessa idea di opera d’arte, o piu` precisamente di ‘‘belle arti’’ in contrapposizione alle arti applicate o minori, correntemente affermato in Occidente, propone una differenziazione che non e` in alcun modo applicabile alle arti islamiche, per le quali il termine fann (pl. funu¯n) che dice ‘‘arte’’ significa anche ‘‘tecnica’’. Dio ha insegnato le arti agli uomini: «Ad ambedue [Davide e Salomone] demmo saggezza e scienza» (21,79). A Davide, «apprendemmo l’arte di fare cotte di maglia per voi, che vi schermassero dalla vostra violenza» (21,80); quanto a Salomone, «fra i de`moni alcuni si immergevano per lui nelle acque del mare, e altre opere facevano per lui oltre questa, e Noi li sorvegliavamo» (21,82). Le parabole coraniche si esprimono nel vocabolario degli artigiani. I metalli e la metallurgia forniscono un certo numero di esempi: «Trasporta via la corrente spumeggiante schiuma, come la schiuma che viene dai metalli che gli uomini mettono a fondere al fuoco, bramosi di utili oggetti e di monili (cosı` Dio paragona in parabole il Vero e il Falso); e svanisce via la schiuma come inutile detrito e sulla terra rimane quello che e` utile all’uomo» (13,17). I metalli in fusione sono citati anche in relazione ai castighi dell’inferno: «Se imploreranno soccorso saranno soccorsi con acqua come metallo fuso che abbrustolira` loro il volto» (18,29). Altre arti e tecniche servono da metafora o paragone; il vetro o il cristallo, per le loro lucentezza e purezza, forniscono la bella similitudine di Dio e di una lampada, che da` il titolo alla sura 24 o della Luce: «Dio e` la Luce dei cieli e della terra, e assomiglia la Sua Luce a una Nicchia, in cui e` una Lampada, e la Lampada e` in un Cristallo, e il Cristallo e` come una Stella lucente» (24,35).

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Va osservato che questa metafora che paragona la luce divina a una lampada (misba¯h) di vetro (zuja¯j) posta in una nicchia ˙(mishka ˙ ¯ t) ispiro` un’iconografia estremamente ricca, soprattutto nelle decorazioni del mihra¯b, la nicchia indicante la dire˙ zione della preghiera. E` questa, insieme alla calligrafia, una delle rare rappresentazioni iconografiche di Dio la cui liceita` sia ammessa. In particolare, il cristallo (qawa¯rı¯r) e` menzionato nella pavimentazione che desta lo stupore della regina di Saba quando entra nel palazzo di Salomone (27,44). Il cristallo sarebbe inoltre il materiale della coppa che serve ad abbeverare gli abitanti del paradiso (37,4547), descritta inoltre cosı`: «Qualcuno passera` attorno con vasi d’argento e crateri che sono di cristallo, di cristallo d’argento, forgiati con armonia» (76,15-16); si puo` osservare che le virtu` di lucentezza proprie del cristallo e che lo avvicinano all’argento, poeticamente descritte nel Corano, sono state rilevate da eminenti specialisti di pietre preziose quali Abu¯ Rayha¯n al-Bı¯ru¯nı¯ nel suo Trattato sulle ˙ preziose (inizio del XI sec.). I tespietre sili forniscono l’abbigliamento e il riparo delle tende: «delle loro lane, dei loro peli e dei loro crini [vi ha fatto] suppellettili ed utili cose» (16,80); anche in questo caso, i tessuti piu` belli sono riservati al paradiso. Tuttavia, il possesso di ricchezze e cose belle non deve far dimenticare il loro carattere primo di vanita` e soprattutto che questi beni, per quanto belli, non sono nulla a confronto di cio` attende il credente in paradiso: «Fu reso adorno agli occhi degli uomini l’amore dei piaceri, come le donne, i figli, e le misure ben piene d’oro e d’argento [...] Questi sono beni di questa vita terrena, ma presso Dio e` la meta` buona» (3,14). I bei tessuti, i gioielli d’oro e le perle, come il mobilio lussuoso e gli oggetti d’argento e di cristallo, ogni splendido lusso e` riservato al paradiso, «dove [i beati] saranno adorni di monili d’oro e di perla, e avranno vesti di seta» (22,23). Nell’austera societa` descritta dal Corano, ogni ornamento sembra superfluo. Uno dei rari casi di deroga alla regola, a esclu-

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sione degli ‘‘ornamenti dell’anima’’, sono le ‘‘ghirlande’’ ovvero gli ornamenti posti sulle vittime dei sacrifici (5,2 e 97); inoltre, i fedeli possono recarsi ben adornati in tutti i luoghi di preghiera (6,31). La natura abbonda di tesori che l’uomo puo` lavorare e trasformare in ornamento: «Chi ha proibito gli ornamenti di Dio, che Egli ha preparato per i suoi servi e le buone cose della Sua provvidenza?» (7,32). Anche il mare e` stato creato per fornire nutrimento e ornamento insieme: «E` Lui che vi ha soggiogato il mare, che ne mangiate carne freschissima e ne prendiate ornamenti dei quali poi vi vestite» (16,14). Tuttavia il credente e` subito messo in guardia: «Vi abbiamo donato vesti che coprono le vostre vergogne, e piume; ma il vestito della Pieta` e` di tutto questo migliore» (7,26). L’aspetto infausto dei gioielli d’oro di cui uomini e donne si adornano e` accentuato dal fatto che essi servirono a fabbricare il Vitello d’oro (7, 148; 20,87-88). Le statue o i betili (pietre drizzate) sono considerati particolarmente abominevoli, e molti sono i termini impiegati per descrivere gli ‘‘idoli’’. Ansa¯b, talvolta tra˙ piu` particolardotto con ‘‘idoli’’ indica mente le pietre drizzate o betili: «In verita` il vino, il maysir [gioco d’azzardo], le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono sozzure, opere di Satana» (5,90). Awtha¯n indica gli idoli di pietra o di legno: «Astenetevi dalla contaminazione degli idoli» (22,30). Quanto ad asna¯m, ˙ esprime gli idoli di metallo (6,74; 7,138; 14,35; 21,57; 26,71). Altrove le statue distrutte da Abramo (tama¯thı¯l, sing. timtha¯l, lett. ‘‘somiglianza’’; dalla stessa radice derivano le parole che significano ‘‘proverbio’’ e ‘‘metafora’’) rappresentano le divinita` adorate dagli infedeli. Va osservato che il principale motivo di questa condanna risiede nel fatto che si tratta di idoli; infatti, la rappresentazione di esseri animati, che non abbia come scopo il culto, non e` assolutamente vietata dalla rivelazione coranica. Gli esempi di uomini che producono statue ‘‘lecite’’ sono poco numerosi nel Corano; si possono

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¯ SA ¯ F IBN BARAKHIYA ¯ A ˙

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comunque citare la parabola degli ‘‘uccelli di Gesu`’’, o le statue (tama¯thı¯l) fabbricate dai jinn per Salomone (34,13). L’arte puo` anche trovarsi associata alla magia, assumendo il senso di artificio malefico: e` quel che i cattivi angeli Ha¯ru¯t e Ma¯ru¯t tentano di insegnare alla gente di Babilonia (2,102). Un esempio analogo e` dato dai due maghi alla corte di Faraone i quali sfruttano il proprio talento per seminare il dubbio nei seguaci di Mose`. Cosı` Dio dice a quest’ultimo: «Getta il bastone che hai nella destra ed esso ingoiera` le cose che essi hanno prodotto, poiche´ le cose che essi hanno prodotto sono incantesimo di mago» (20,69); «ed ecco che divoro` i loro menzogneri incantesimi» (7, 117). Curiosamente, tutto all’opposto di questa assimilazione dell’arte alla magia malefica, la letteratura artistica sviluppera` piu` tardi l’idea che segue: l’artista e` [Y.P.] un mago capace di prodigi. Bibliografia: Al-Biruni, The Book in Knowledge on Precious Stones, trad. dall’arabo di H. M. Said, Islamabad 1989; Titus Burckhardt, L’arte dell’Islam, Abscondita, Milano 2002; Johann Christoph Bu¨rgel, The Father of the Simurgh, New York University Press, New York 1988; Giovanni Curatola, Gianroberto Scarcia, Le arti nell’Islam, NIS, Roma 1990; Id., Il volto di Adamo. La questione estetica nell’altro Occidente, Il Cardo, Venezia 1995; Maria Vittoria Fontana, Bruno Genito, Studi in onore di Umberto Scerrato nel suo settantacinquesimo compleanno, Universita` degli Studi di Napoli L’Orientale, Napoli 2003; Oleg Grabar, Arte Islamica. Formazione di una civilta`, Electa, Milano 1989; Oleg Grabar, Penser l’art islamique, Albin Michel, Paris 1996; Robert Irwin, La Monde Islamique, Flammarion, Paris 1997; Al-Tı¯fa¯shı¯, Il libro delle pietre preziose (a cura di Ida Zilio-Grandi), Marsilio, Venezia 1999.

¯ SA ¯ F IBN BARAKHIYA ¯ A ˙ Secondo un’opinione largamente diffusa ¯ sa¯f (o A ¯ saf) tra gli esegeti musulmani, A ˙ ˙ ibn Barakhiya¯ e` il misterioso personaggio a cui si fa allusione nel versetto 40 della sura 27, versetto che si iscrive in una lunga sequenza dedicata alle circostanze dell’incontro tra Salomone e la regina di

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Saba, [Bilqı¯s]. Il suo intervento nel racconto coranico segna un episodio tra i piu` importanti nell’incontro tra i due sovrani: quello della traslazione soprannaturale del trono di Saba. Benche´ l’incontro tra i due sovrani sia raccontato due volte nell’Antico Testamento, vi si cercherebbe invano un’allusione a tale avvenimento, tanto e` vero che le due narrazioni, quella che figura nel Corano (27,20-44) e quella presentata dalla Bibbia (1 Re 10,1-13; 2 Cr 9,1-12), hanno pochi elementi in comune. Ricordiamo dunque i fatti come ne da` conto la sura al-Naml o della Formica (27): informato che la regina di Saba ha istituito il culto del sole nel suo regno, Salomone le invia una missiva, esortandola a sottomettersi. La regina – che i commentatori assicurano chiamarsi Bilqı¯s, cosa che il Corano non precisa – comincia tergiversando: manda alcuni inviati incaricati di consegnare doni preziosi a Salomone. Quest’ultimo non se ne cura e minaccia d’invadere Saba, al che la regina decide di recarsi a rendergli omaggio. E` allora che Salomone, rivolgendosi ai suoi servi, tra i quali figuravano anche dei jinn, domanda che il trono della regina sia trasportato sul posto, prima dell’arrivo della regina (27,38). «Poi (Salomone) disse: ‘‘O mia corte! Chi di voi mi portera` il suo trono prima che essi vengano a noi sottomessi al Signore?’’». Interviene in quel momento un jinn che afferma di essere in grado di trasferire il trono di Saba in un tempo inferiore a quello necessario al re per alzarsi in piedi; prodezza che non ha occasione di compiere, perche´ un altro personaggio assicura a Salomone di essere capace, lui, di eseguire la stessa operazione in un batter di ciglia. Di fatto, il trono di Saba appare all’istante davanti a Salomone. Ma del personaggio in questione il Corano non dice nulla se non che possedeva una «scienza del libro» (‘ilm min al-kita¯b); in aggiunta, la formulazione del versetto non permette di determinare se si tratta di un altro jinn o di un uomo (27,

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40): «Colui che conosceva la Scrittura disse: ‘‘Io te lo portero`, prima ancora che torni a te il tuo sguardo’’». E` attingendo alle isra¯’ı¯liyya¯t, i racconti tratti dalla tradizione rabbinica, che gli esegeti e gli autori delle Qisas al-anbiya¯’ ˙ dei pro– le raccolte dedicate alla ˙storia feti precedenti a Muhammad – sono giunti alla conclusione che si trattasse di ¯ sa¯f ibn Barakhiya¯. Secondo tali fonti, in A ˙ effetti, costui era il visir di Salomone o quanto meno un suo intimo consigliere, e conosceva il Nome supremo di Dio che nessuno invoca senza essere immediatamente esaudito. E` dunque per mezzo di questo incantesimo che egli trasporta il trono di Bilqı¯s in un tempo insuperabile. Per accrescere ulteriormente il carattere prodigioso dell’impresa, i commentatori precisano che il trono si trovava in appartamenti chiusi a chiave e sorvegliati da numerosi soldati. Secondo altre tradizioni e` grazie all’anello di Salomone, su cui era inciso il nome supremo di Dio e di cui ¯ sa¯f poteva disporre quando gli sembrava A ˙ opportuno, che il visir realizzo` la traslazione del trono. ¯ sa¯f Comunque stiano le cose, il nome di A e` parimenti associato dai commentatori˙ a un triste episodio del regno di Salomone, che non e` riportato ne´ nell’Antico Testamento ne´ nel Corano, ma di cui e` questione in un passaggio del Talmud (Sanhedrin 20b). Pur esistendo numerose varianti di questa storia nella tradizione islamica, delle quali una nella Cronaca di Tabarı¯ (310/923), la trama del racconto ˙ cambia di molto. Salomone – cosı` ci non viene riferito – dovette affrontare nel corso di una delle sue spedizioni un re empio che regnava su un’isola in un paese lontano. Ora questo re aveva una figlia chiamata Jara¯da, d’una bellezza ineguagliabile. Salomone se ne innamora immediatamente e la conduce via con se´, dopo aver ucciso il padre di lei. Jara¯da non tarda a soppiantare tutte le mogli di Salomone, il quale da parte sua non smette di coprirla di doni. Ma inutilmente: Jara¯da, assai legata al padre, lo piange continuamente. Alla fine ottiene da Salomone che i jinn

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¯ SA ¯ F IBN BARAKHIYA ¯ A ˙

scolpiscano un’immagine del re defunto. Subito riveste la statua degli abiti di suo padre e prende ad adorarla come idolo, all’insaputa di tutti. ¯ sa¯f scopre inPassano quaranta giorni; A fine le manovre di Jara¯da. ˙Prendendo a pretesto la prapria tarda eta` e l’approssimarsi della morte, il visir domanda a Salomone di tenere un’assemblea pubblica, durante la quale egli rievochera` le virtu` e i meriti dei profeti del passato. La sua richiesta e` accolta. Tuttavia, quando arriva ¯ sa¯f si limita a ricordare le da Salomone, A ˙ dal re durante la sua virtu` manifestate giovinezza e con questo chiude il discorso. Salomone convoca il visir e gli ¯ sa¯f gli rivela allora chiede spiegazioni. A ˙ nella sua casa e che l’idolatria e` penetrata denuncia Jara¯da. Il re si affretta a distruggere la statua, fa castigare la moglie e domanda perdono a Dio, ma invano. Qualche tempo dopo, infatti, il castigo divino si abbatte su di lui. Prendendo il suo aspetto, un demone riesce trafugare l’anello reale che Salomone aveva momentaneamente affidato a una delle proprie mogli e grazie al cui potere egli regnava sugli uomini, i jinn, gli animali, gli elementi ecc. Il demone si colloca dunque sul trono al posto di Salomone, che e` costretto a lasciare il palazzo dove ormai nessuno lo riconosce. Per quaranta giorni, il falso re governa al posto del vero, senza che alcuno sospetti l’inganno. Proprio a questo episodio farebbe riferimento, secondo i commentatori, il versetto che recita: «Mettemmo ancora alla prova Salomone e ponemmo sul suo trono un fantasma. Poi egli si pentı`» (38,34). Ma le manovre e le decisioni del demone finiscono per insospettire gli intimi del re ¯ sa¯f, che conduce un’ine soprattutto A ˙ mogli di Salomone e chiesta presso le scopre la verita`. Gli viene allora l’idea di organizzare una pubblica lettura del Pentateuco in presenza del demone, che fugge gettando l’anello nel mare, persuaso che Salomone non riuscira` mai a recuperarlo. Tuttavia un pesce inghiottisce l’anello e Salomone, improvvisatosi

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pescatore, lo cattura nelle sue reti; nel pesce ritrova cio` che aveva perduto. [C.A.]

Bibliografia: Louis Ginzberg, Les Le´gendes des Juifs, t. 5, Le Cerf, Paris 2004; Abraham Isaac Katsh, Judaism in Islam: Biblical and Talmudic Backgrounds of the Koran and its Commentaries, New York University Press, New York 1954; David Sidersky, Les Origines des le´gendes musulmanes dans le Coran et dans les Vies des prophe` tes, Librairie orientaliste Paul Geuthner, Paris 1933; Tabarı¯, De Salomon ˙ a` la chute des Sassanides, extrait de la Chronique de Tabarı¯ trad. di Hermann Zo˙ tenberg, Sindbad, Paris 1984; Tha‘labı¯, Storia di Bilqı¯s regina di Saba, a cura di Giovanni Canova, Marsilio, Venezia 2000.

ASCENSIONE CELESTE La Tradizione ha messo in relazione al tema dell’ascensione celeste due racconti coranici: quello del Viaggio Notturno (isra¯’) del Profeta dalla Mecca a Gerusalemme, e quello dell’ascensione stessa (mi‘ra¯j) da Gerusalemme fino alla presenza divina attraverso i cieli successivi. Come spesso accade, la formulazione allusiva e concisa del Corano su questo argomento ha generato presso gli autori musulmani sviluppi molteplici e talvolta contrastanti. In linea generale, il Corano evoca la possibilita` di una ascensione fino al cielo: nel versetto 40,36, Faraone da` a Ha¯ma¯n l’ordine di costruire un edificio perche´ egli possa raggiungere le regioni del cielo e salire fino al Dio di Mose`; al versetto 52, 38, e` chiesto ai negatori se essi abbiano una scala (sullam) per udire la voce celeste; al versetto 6,35 si stima l’effetto che produrrebbero, sugli uditori del Profeta, i segni che egli trarrebbe dal cielo se avesse una scala per salirvi. Anche gli antichi poeti parlano di un’ascensione al cielo tramite una scala come mezzo per sfuggire a cio` che si vuole evitare. In certe versioni del mi‘ra¯j, il Profeta si serve di una scala, magnifica secondo le descrizioni; si tratta di una scala verso la quale i moribondi volgono il loro sguardo, e della quale gli spiriti degli uomini si servono

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per salire al cielo. Essa ricorda, certamente, la scala di Giacobbe (Gn 28,12), alla quale il libro etiopico dei Giubilei (27,21) da` il nome di ma‘a¯reg. Nella sura 70, ai versetti 3 e 4, Dio e` detto Dhu¯ alma‘a¯rij, ‘‘il Signore dei gradini’’, «verso i quali ascendono gli angeli e lo Spirito». Nel versetto 32,4, l’ordine (amr) sale verso Dio, e secondo i versetti 57,4 e 34, 2, «Egli conosce [...] quel che scende dal cielo e quel che vi sale». Per quanto riguarda il racconto coranico dell’ascensione del Profeta, va notato innanzitutto che la radice «‘rj», e dunque il termine mi‘ra¯j, non sono impiegati in relazione all’esperienza del Profeta. E` vero che la sura della Stella, ai versetti 1-18, descrive le modalita` di questa esperienza, ma senza nominarla; e` invece il primo versetto della sura 17 che ne costituisce il punto di partenza e la referenza tangibile. L’importanza di questo versetto emerge dal fatto che esso ha determinato il titolo della stessa sura 17, che contiene 110 versetti: Al-Isra¯’, ‘‘Il Viaggio Notturno’’. «Gloria a Colui che rapı` di notte il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo, dai benedetti precinti, per mostrargli dei Nostri Segni. In verita` Egli e` l’Ascoltante, il Veggente» (17,1). La tradizione musulmana afferma unanimemente che qui il ‘‘servo’’ (‘abd) e` il Profeta Muhammad. Ibn ‘Arabı¯ (m. 638/1240) conclude che lo stato di servitu` spirituale (‘ubu¯diyya) e` una condizione necessaria all’elezione e all’elevazione che spettarono a Muhammad. Il termine arabo tradotto con ‘‘Tempio’’ e` masjid (nell’arabo comune ‘‘moschea’’), che significa piu` propriamente ‘‘luogo della prosternazione’’; ora, il Profeta precisa che la prosternazione (suju¯d), che simboleggia l’estinzione della creatura, e` il momento in cui il fedele e` piu` vicino a Dio. ‘‘Tempio Sacro’’ designa sia la sola Ka‘ba sia l’intera moschea della Mecca. Il ‘‘Tempio Ultimo’’, secondo i primi musulmani, qualifica il prototipo celeste della Ka‘ba o ancora ‘‘il cielo ultimo’’ della terra, con conseguente allusione all’ascensione del Profeta. Per le generazioni seguenti, e poi per la tradizione isla-

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mica nel suo insieme, il ‘‘Tempio Ultimo’’ altro non e` che Gerusalemme. Si e` spesso sostenuto che quest’ultima interpretazione venne introdotta dai sovrani omayyadi (661-750), i quali intesero aumentare in tal modo il prestigio di Gerusalemme a detrimento della Mecca; il loro potere si estendeva infatti alla Siria e comprendeva Gerusalemme, mentre il loro rivale ‘Abd Alla¯h ibn al-Zubayr controllava la Mecca. Questa opinione, tuttavia, e` controversa. E` evidente che la teologia e la politica concordano qui nel sottolineare l’importanza che Gerusalemme aveva allora nell’ottica islamica. Anche per i musulmani, questa citta` e` uno dei luoghi centrali dell’azione di Dio in questo mondo: tutti i grandi avvenimenti dell’umanita`, dalla Creazione fino al Giudizio, hanno avuto o debbono aver luogo a Gerusalemme. Cosı`, si convenne che Muhammad vi era stato trasportato. Nel IV secolo dell’era volgare, ai pellegrini cristiani veniva mostrata, nella basilica dell’Ascensione, la traccia del piede di Gesu`; proprio allo stesso modo, verosimilmente a partire dall’epoca omayyade, ai pellegrini musulmani veniva indicata la traccia lasciata dal loro Profeta. Similmente, l’idea che ci si faceva della ‘‘Gerusalemme celeste’’ dovette esercitare una qualche influenza sull’esperienza dell’Ascensione e sui racconti che si formarono a questo proposito. Si invoca egualmente a favore di Gerusalemme il fatto che, quando s’incontra nel Corano l’espressione «dai benedetti precinti», si tratta sempre di un’allusione alla Terra Santa. Da chi vi dimora, la Palestina e` chiamata, tuttavia, ‘‘il paese prossimo’’ (30,3), cio` che secondo alcuni contraddice l’identificazione del ‘‘Tempio Ultimo’’ con Gerusalemme. Il ‘‘Viaggio Notturno’’ del Profeta si sarebbe svolto, a partire dalla Mecca, il 27 del mese di rajab dell’anno cristiano 620; in ogni caso, la notte dell’‘‘Ascensione’’ (laylat al-Mi‘ra¯j) si celebra per lo piu` il 27 di rajab. L’anno precedente, il Profeta aveva perduto i suoi migliori sostenitori, cioe` la moglie Khadı¯ja e lo zio Abu¯ Ta¯lib, e stava vivendo un periodo difficile,˙ per-

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che´ la pressione dei miscredenti meccani si era rafforzata. In quella data egli dormiva a casa di Umm Ha¯nı¯, sorella del cugino ‘Alı¯, nei pressi del Tempio della Ka‘ba. Secondo parecchi detti profetici raccolti nella Sı¯ra (la biografia del Profeta) di Ibn Isha¯q (m. 150/767), Muham˙ mad venne svegliato dall’angelo Gabriele, che lo condurra` da Bura¯q, misteriosa cavalcatura rapida come il lampo (e` questo il significato del termine arabo bura¯q), «una via di mezzo tra il mulo e l’asino, con una testa di donna». Secondo alcune versioni, tre angeli, tra i quali Gabriele e Michele, avevano precedentemente aperto il petto del Profeta e lavato il suo cuore con l’acqua della fonte di Zamzam per purificarlo; quest’ultimo episodio si fa abitualmente risalire alla giovinezza di Muhammad. Secondo la tradizione, al-Bura¯q prese il volo in direzione di Gerusalemme con il Profeta sul dorso. L’angelo fece sostare Muhammad per farlo pregare sul monte Sinai (Mose` ), a Betlemme (Gesu` ) e a Ebron (Abramo). Al loro arrivo, Gabriele riunı` i profeti, tra i quali Abramo, Mose` e Gesu`, e ingiunge a Muhammad di dirigere la preghiera. Questo episodio segna la consacrazione di Muhammad a ultimo inviato di Dio; egli proclama cosı` l’unita` della profezia e l’identita` di tutti i messaggi rivelati. L’incontro con i profeti a Gerusalemme presenta alcune analogie con i racconti della trasfigurazione di Gesu` sul monte Tabor (vedi specialmente Mc 9,1; Lc 9,28). La confraternita profetica e` in seguito confermata dagli incontri che Muhammad ha dal primo al settimo cielo. Prima di abbandonare Gerusalemme, Muhammad lascia l’impronta del suo piede su una roccia che si trova precisamente nella Cupola della Roccia (Qubbat al-Sakhra) ˙ nostri e che ancora possiamo vedere ai giorni. Il viaggio orizzontale cede il posto all’ascensione. «Grazie ad una scala di luce posta sulla pietra di Giacobbe», dichiarano alcune fonti, Muhammad e` elevato di cielo in cielo. Alla soglia di ciascuno dei sette cieli che visitava insieme al Profeta, viene chiesto a Gabriele il suo

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nome e quello del suo compagno. E ogni volta, dopo che ha risposto a questa domanda, gli viene chiesto ancora se Muhammad e` gia` stato inviato come profeta; questo prova che l’ascensione ebbe luogo agli inizi della missione profetica. In ciascun cielo essi incontrano uno degli inviati precedenti, in genere Adamo nel primo cielo, Giovanni Battista (Yahya¯) e ˙ nel Gesu` nel secondo, Giuseppe (Yu¯suf) terzo, Enoch (Idrı¯s) nel quarto, Aronne (Ha¯ ru¯ n) nel quinto, Mose` nel sesto e Abramo nel settimo. Trovano Abramo appoggiato contro la Ka‘ba celeste, la ‘‘Casa Frequentata’’ ogni giorno da settantamila angeli (al-Bayt al-Ma‘mu¯ r). Esistono alcune varianti quanto alla presentazione dei profeti, e talvolta Adamo ha il ruolo di giudicare gli spiriti dei morti. Mose` si presenta particolarmente loquace: dichiara formalmente che Muhammad godra` al cospetto di Dio di un favore maggiore di quello di cui godeva egli stesso, e che il numero dei suoi adepti superera` quello dei propri. Gli esseri e le cose che il Profeta vede in ogni cielo lo colpiscono per la loro immensita` e la loro singolarita`: l’angelo della morte, l’angelo delle lacrime, l’angelo del castigo con il viso di rame e assiso su un trono di fiamme, un altro angelo mezzo di fuoco e mezzo di neve, e cosı` via. La visita al paradiso e all’inferno fa sicuramente parte dell’ascensione. L’inferno e` localizzato per lo piu` nel primo cielo, e Muhammad lo vede mentre compie il Viaggio Notturno verso Gerusalemme. Quanto al paradiso e ai suoi fiumi, sono generalmente situati nel settimo cielo. Muhammad viene in seguito trasportato verso il ‘‘Loto del Limite’’ (Sidrat alMuntaha¯) – limite tra gli stati creaturali e gli stati signoriali, tra il conoscibile e l’inconoscibile. Poi, in un batter d’occhio, come scrive Hamza Boubakeur, «egli attraverso` degli oceani senza fine, immense zone separate come da veli di garza e distanti le une dalle altre cinquecento anni di cammino, zone di oscurita` assoluta, di fuoco, di gas, di vuoto». In seguito, mentre si trova «alto sul sublime orizzonte», «discese pendulo nell’aria»

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(53,7-8). Egli e` allora ghermito da una misteriosa luce che lo conduce alla prossimita` del Trono divino, «a due archi o ancor meno» (53,9). Da lı`, annientato alla presenza di Dio, egli contempla il suo ‘‘Beneamato’’. «Cosı` non si manifesto` laggiu` altro nome che il Se´ [divino]», spiega Ibn ‘Arabı¯. «Rivelo` al servo suo quel che rivelo`» (53,10), eco del versetto 53,4: «No, e` rivelazione rivelata». Nessuna creatura, neppure l’angelo Gabriele ha avuto accesso al ‘‘segreto’’ di questo incontro. Intimita` suprema. «E non smentı` il cuore (fu’a¯d) quel che vide» (53,11): secondo Ibn ‘Arabı¯, la vista esteriore puo` sbagliare, ma il cuore, cioe` la vista interiore, non puo` essere indotto in errore perche´ non conosce il mondo delle apparenze. Affermazione reiterata poco oltre: «Non devio` il suo sguardo, non vago`. E certo egli vide, dei Segni del Signore, il supremo!» (53,17-18). Si tratta sicuramente di una visione per mezzo del cuore, e non per mezzo dell’organo della vista. Muhammad afferma, per esempio, di aver visto Dio sotto forma di luce. Il solo incontro ‘‘oggettivo’’ tra le due realta` (Dio e il suo Profeta) riportato dalla Tradizione islamica rinvia alle preghiere rituali (salawa¯t, sing. sala¯t) che proprio in ˙ ˙ quell’occasione sarebbero state prescritte. Durante questo incontro Dio impone all’inizio cinquanta preghiere al giorno. Poi, quando il Profeta, scendendo di cielo in cielo, passa accanto a Mose`, quest’ultimo gli suggerisce di chiedere una riduzione: «Conosco gli uomini meglio di te – dice, – ho avuto molto a che fare con i figli di Israele. La tua comunita` non sapra` sopportare tante preghiere». Infine, dopo molti andirivieni, il Profeta ottiene che i fedeli musulmani compiano solo cinque preghiere al giorno. E quando Mose` gli consiglia un’ulteriore diminuzione, Muhammad per pudore rifiuta. Secondo la tradizione musulmana, questo viaggio non fu evidentemente effettuato nelle nostre ordinarie coordinate spaziotemporali. E` detto infatti che Muhammad, quando fece ritorno alla Mecca, pote´ riprendere, prima che essa cadesse a terra, una brocca piena d’acqua che aveva rove-

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sciato al momento della partenza. Comunque sia, un simile racconto non poteva che alimentare lo scherno dei miscredenti meccani, e i parenti del Profeta gli consigliarono pertanto di tacere su questa esperienza notturna. Ma Muhammad volle testimoniare. Malgrado le molte descrizioni che poterono essere verificate (della citta` e del tempio di Gerusalemme, di una carovana incontrata lungo la via, di un certo dettaglio di viaggio) e altri elementi circa l’aspetto fisico dei profeti che egli avrebbe visto di cielo in cielo, molti meccani, e alcuni credenti con loro, ritennero che Muhammad fosse pazzo. Solo il suo compagno Abu¯ Bakr presto` fede alle sue affermazioni, e in conseguenza di cio` il Profeta gli attribuı` l’epiteto di Siddı¯q, ‘‘grandemente Veri˙ ` di cui godeva Abu¯ Bakr dico’’. L’autorita dissipo` i dubbi e le esitazioni dei primi musulmani e attenuo` lo scherno dei meccani. Successivamente il Corano confermo` l’esperienza di Muhammad nel medesimo contesto della sura della Stella: «Per la stella, quando declina! Il vostro compagno non erra, non si inganna e di suo impulso non parla. No, e` rivelazione rivelata» (53,1-4). Resta in sospeso un’importante questione, fonte di grandi dibattiti: l’ascensione avvenne solo in spirito, o anche con il corpo? Questione corollaria: ebbe luogo durante un sogno del Profeta o in stato di veglia? L’opinione piu` condivisa e` che sia avvenuta con il corpo e allo stato di veglia (ma uno hadı¯th sfuma la cosa, pre˙ ero presso Ka‘ba, in cisando: «Quando uno stato intermedio tra la veglia e il sonno [...]»). Tabarı¯ (m. 310/923), tra i ˙ massimi commentatori, porta i seguenti argomenti: se il Profeta non fosse stato trasportato con il corpo, questo avvenimento non avrebbe fornito una prova della sua missione divina, e dunque non avrebbe potuto essere accusato di miscredenza chi non aveva creduto a questo racconto; inoltre, nel Corano e` detto che Dio fece viaggiare il suo servo, e non lo spirito del suo servo; infine, se il Profeta non fosse stato trasportato che in spirito, i servigi di Bura¯q sarebbero stati superflui,

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poiche´ gli animali non si impiegano al servizio degli spiriti ma al servizio dei corpi. Se i filosofi e alcuni esoterici hanno optato per un viaggio unicamente spirituale del Profeta, cosı` non e` per la Tradizione classica del sufismo. Da Qushayrı¯ a Ibn ‘Ata¯’ Alla¯h, passando per Ibn ‘Arabı¯, essa ˙ che il Profeta abbia effettuato quereputa sto spostamento sia con lo spirito sia con il corpo, mentre i santi musulmani, in quanto eredi dei profeti, lo compiono solo in spirito. Gli autori sufi hanno contribuito inoltre alla consacrazione dell’ascensione entro la comunita` musulmana, confermando il legame tra il Viaggio Notturno del Profeta e la sua ascensione: e` una stessa e unica esperienza, nella quale l’anima si svincola dal mondo sensibile per risalire verso la contemplazione e la gnosi, e culmina, a loro avviso, nella visione del cuore che Muhammad ebbe di Dio. Nulla di stupefacente, per i sufi, discepoli del Profeta, che spesso riportano questo hadı¯th: «Ho dei momenti con Dio ˙ che nessuno puo` contendermi, ne´ angelo cherubino ne´ profeta inviato». L’ascensione del Profeta ha rapidamente rappresentato l’archetipo di ogni esperienza spirituale, di ogni viaggio iniziatico nell’islam. Il primo mistico cui si e` attribuita un’esperienza paragonabile al mi‘ra¯j e` Abu¯ Yazı¯d al-Bista¯mı¯ (m. 262/ 875). Successivamente, ˙esso divenne pressoche´ un topos della letteratura sufi. Per Ibn ‘Arabı¯, l’ascensione spirituale del santo musulmano rappresenta una parte dell’eredita` di Muhammad, in certo qual modo naturale. Egli stesso descrive la propria ascensione, nel corso della quale incontra gli stessi profeti gia` incontrati da Muhammad. Ma insiste sul fatto che tutti gli esseri e le cose che ha visto, cieli, profeti, angeli, Trono, hanno per sede il cuore: «Il mio viaggio ha avuto luogo unicamente in me stesso», scrive. I sufi affermano spesso che il viaggio iniziatico non termina con l’ascensione ma con il ‘‘ritorno’’ (ruju¯‘) verso gli uomini, con la discesa verso il mondo della molteplicita`. Molti autori hanno stabilito un legame intertestuale tra l’elevazione di Muham-

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mad ai cieli e la discesa della Rivelazione cosı` come e` descritta nella sura 97, ‘‘la notte del Destino’’ (laylat al-Qadr), poiche´ si tratta di due paradigmi analoghi. Sono state egualmente stabilite alcune analogie tra i racconti di mi‘ra¯j e quelli sul giorno del Giudizio. Il racconto dell’ascensione del Profeta ha alimentato considerevolmente l’immaginario e la letteratura islamici. La versione piu` nota di questo racconto e` quella attribuita a Ibn ‘Abba¯s (m. 68/686), cugino del Profeta. Questo testo rimane decisivo, anche se talvolta viene considerato apocrifo. Molte opere poetiche furono dedicate a questo tema, in tutte le lingue dell’islam. E nessun avvenimento della storia religiosa ha ispirato l’arte e l’iconografia islamiche piu` dell’ascensione del Profeta. Ma fu una sfida ardua, perche´ occorreva suggerire l’immaginabile senza profanarlo; com’e` ben noto, le piu` frequenti rappresentazioni di Muhammad in questo evento spirituale compaiono nella miniatura persiana. Non si puo` dimenticare, infine, che il mi‘ra¯j divenne parte della letteratura universale grazie al Libro della Scala di Maometto, una traduzione latina di un testo in castigliano, a sua volta tradotto dall’arabo. Fu il re di Castiglia, Alfonso il Savio (VII-XIII secolo) che incarico` di questo lavoro il medico ebreo Abraham. Oramai e` noto che Dante si ispiro` a tale opera nella composizione della Divina Commedia. L’Ascensione, dunque, fu un’esperienza capitale per il Profeta, e per la comunita` musulmana, sui piani spirituale (esperienza dell’estasi e della visione interiore di Dio), religioso (importanza di Gerusa-

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lemme come terza citta` santa dell’islam), teologico (eccellenza del profeta Muhammad e unita` della rivelazione pur nella pluralita` dei profeti) e cultuale (istituzione delle cinque preghiere quotidiane). Esiste d’altronde un legame intrinseco tra il mi‘ra¯j e la sala¯t in virtu` di questo detto ˙ preghiera e` l’ascensione del Profeta: «La celeste del credente». [E´.G.] Bibliografia: Mohammad Ali Amir-Moezzi (a cura di), Le voyage initiatique en terre d’islam. Ascensions ce´lestes et itine´raires terrestres, Peeters, Louvain-Paris 1996; Miguel Ası´n Palacios, La escatologia musulmana en la Divina Comedia, seguida de la historia y critica de una pole´mica, 2ª ed. Madrid-Granada, 1943 (trad. it. Dante e l’Islam, l’escatologia islamica nella Divina Commedia, a cura di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik, intr. di Carlo Ossola, NET, Milano 2005; 1ª ed. ed. Pratiche, Parma 1994); Mahmoud Hussein, Al-Sı¯ra. Le Prophe`te de l’Islam raconte´ par ses compagnons, Grasset, Paris 2005; Ibn ‘Arabı¯, Le De´voilement des effets du voyage, trad. dall’arabo di Denis Gril, E´ditions de l’E´clat, Combas 1994; James Winston Morris, «Ibn Arabı¯’s spiritual Ascension» in Michel Chodkiewicz (a cura di), Les Illuminations de la Mecque, Sindbad, Paris 1989, pp. 351-381; Annemarie Schimmel, And Muhammad is His Messenger. The Veneration of the Prophet in Islamic Piety, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1985; Il libro della Scala di Maometto (trad. di Roberto Rossi Testa, note al testo e postfazione di Carlo Saccone), Mondadori, Milano 1999 (1ª ed. Studio Editoriale, Milano 1991).

ASTUZIA Vedi INSIDIA E ASTUZIA.

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B BABILONIA La celebre citta` mesopotamica di Babilonia e` citata una volta nel Corano, nella forma Ba¯bil (2,102). Nel VII secolo era oramai in rovina, ma i geografi segnalano che sul suo sito continuava a esistere un modesto villaggio. Comunque, i commentatori considerano Ba¯bil, in italiano Babele, una regione effettivamente situata in Mesopotamia. E` vero che nel passo coranico in questione nulla permette di comprendere che si tratti di una citta`: «[...] i demoni, i quali insegnavano agli uomini la magia e quel che fu rivelato ai due angeli Ha¯ru¯t e Ma¯ru¯t, a Babilonia». Questa allusione e` riferita a Salomone, citato all’inizio del medesimo versetto, e lascia intendere un nesso tra Babilonia e le pratiche magiche. Tali tradizioni relative a Babilonia, interessate particolarmente alle questioni collegate alla pratica della magia, si sono sviluppate essenzialmente in seno a una letteratura che attingeva alle fonti bibliche o parabibliche. Numerose leggende si sono cosı` cristallizzate attorno alla celebre citta`. Il geografo Bakrı¯ si giova ugualmente della conoscenza dei racconti biblici per spiegare 16,26: «E gia` tramarono insidie quelli che vissero prima di loro: ma Dio colpı` il loro edificio alle fondamenta, e crollo` loro addosso il tetto da sopra». Egli vi riconosce infatti un’allusione alla torre di Babele evocata nel testo della Genesi. Secondo alcuni studiosi contemporanei, il nome dei due angeli Ha¯ru¯ t e Ma¯ru¯t deriverebbe da quello di due arcangeli noti all’angelologia zoroastriana. I commentatori musulmani, basandosi essenzialmente sul contesto del versetto, vi riconoscevano due angeli caduti: nel loro approccio furono probabilmente influenzati da fonti ebraiche e cristiane relative a tale tema. In quest’ottica, un racconto

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esplicativo li presenta come due angeli venuti sulla terra a condizione di astenersi dai peccati gravi; vennero pero` sedotti da una donna alla quale rivelarono il nome segreto di Dio, e pertanto vennero puniti e imprigionati per l’eternita` in un pozzo di Babilonia. Cosı`, essi insegnarono agli uomini la magia. [F.D.] Bibliografia: Raif Georges Khoury, Les le´gendes prophe´tiques dans l’islam depuis le Ier jusqu’au IIIe sie`cle de l’He´gire, Otto Harrassowitz, Wiesbaden 1978.

¯ BAH¯IRA Bah˙¯ıra¯ o Bah¯ıra e` il nome di un monaco ˙ cristiano che˙ secondo la tradizione musulmana incontro` Muhammad quando questi era ancora bambino e ne annuncio` l’elezione a profeta. Della narrazione di questo incontro esistono diverse recensioni che nell’insieme divergono solo su dettagli minori. Siamo debitori a Ibn Isha¯q (m. 151/767), consi˙ derato il primo storico dell’islam, per la piu` antica versione che ci sia pervenuta, riportata da Ibn Hisha¯m nella sua celebre Vita del Profeta (al-Sı¯ra al-nabawiyya), redatta nel IX secolo. All’epoca di questo episodio, Muhammad ha secondo alcuni nove anni, secondo altri dodici; orfano di padre e di madre, e` stato affidato alle cure dello zio Abu¯ Ta¯lib. Questi e` molto legato al bambino e˙ non ama separarsene; di qui la sua decisione di condurlo con se´ quando si unisce alla carovana meccana in partenza per la Siria, dove conta di commerciare. Arrivati a Bosra (Busra¯) – nel Hawra¯n, ˙ – i viaggiatori ˙ nella Siria meridionale si accampano alle porte della citta`, nelle vicinanze di un eremo dove vive un monaco noto con il nome di Bah¯ıra¯ (dall’ara˙ maico bekhı¯ra, l’eletto). Quest’ultimo risiede lı` da molto tempo e, dal momento

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che i Qurayshiti sono soliti sostare in quel luogo, ha avuto piu` volte occasione di osservarli. Mai pero` ha egli cercato di stabilire un contatto con loro. Tuttavia quel giorno Bah¯ıra¯ s’affretta a porgere il benvenuto ai ˙viaggiatori e li invita nella propria casa dove li attende un ricco pasto. Quest’accoglienza, tanto calorosa quanto insolita, sorprende i meccani, che comunque accettano l’invito del monaco. Egli insiste inoltre perche´ tutti i membri del gruppo, «giovani e vecchi, schiavi e liberi», assistano al pasto. Al momento convenuto, tutti si recano dunque all’eremo, a eccezione di un ragazzo incaricato di sorvegliare le merci: Muhammad. Una volta che i convitati hanno preso posto, Bah¯ıra¯ li esamina attentamente uno a uno, e ˙al termine dell’indagine insiste nuovamente affinche´ tutte le persone che viaggiano con la carovana prendano parte al pasto. «Siamo tutti qui, lo rassicurano gli ospiti, tranne un ragazzo che e` rimasto a sorvegliare le merci». Bah¯ıra¯ li scon˙ giura di andare a chiamare il giovane Muhammad. Quest’ultimo si unisce dunque al pasto, durante il quale il monaco non smette di scrutarlo, senza proferire parola. Quando l’incontro sta ormai volgendo al termine, il monaco si decide a rivolgersi direttamente al ragazzo, ponendogli ogni sorta di domande e particolarmente sui suoi sogni notturni; il giovane interlocutore gli risponde in tutta semplicita`. Alla fine Bah¯ıra¯ chiede di potergli ˙ esaminare la schiena. Docilmente il ragazzo gliela mostra. Un semplice colpo d’occhio e` sufficiente al monaco per convincersi d’essere nel giusto. Il segno e` proprio lı`: una leggera escrescenza, situata tra le scapole, della grandezza di un uovo di pernice, circondata da un ciuffo di peli. Quest’impronta sulla pelle del bambino e` subito identificata da Bah¯ıra¯ come il ‘‘si˙ descrizione – gillo della profezia’’, la cui cosı` ci viene riferito – egli ha letto in alcuni antichi manoscritti conservati da tempo immemorabile all’interno dell’eremo i quali predicono la venuta di un profeta che succedera` a Gesu`. In questi

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scritti, trasmessi di generazione in generazione dai monaci vissuti lı` uno dopo l’altro, Bah¯ıra¯ ha raccolto numerose indi˙ quest’ultimo inviato di Dio. cazioni circa Vi si tratta particolarmente della sua famiglia e del suo aspetto fisico, e anche di alcuni segni che ne avrebbero accompagnato la venuta in quei luoghi. Bah¯ıra¯ ha visto manifestarsi simili segni ˙ quando la carovana si avvicinava. Una nuvola bianca nel cielo azzurro che si manteneva ostinatamente sopra uno dei viaggiatori quasi a proteggere dal sole soltanto lui; poi, dopo che i viaggiatori si sono installati nell’accampamento, l’eremita ha visto curvarsi i rami dell’albero sotto il quale si era sistemato il viaggiatore misterioso, come per far da schermo ai bollenti raggi del sole. I libri hanno dunque detto il vero. Bah¯ıra¯ inizia a inter˙ rogare Abu¯ Ta¯lib; gli chiede soprattutto ˙ di parentela con il bamdei suoi legami bino: «E` mio figlio», risponde Abu¯ Ta¯lib. ˙ e` «Non e` tuo figlio, ribatte il monaco; impossibile che il padre di questo bambino sia ancora in vita». «E` il figlio di mio fratello», riconosce Abu¯ Ta¯lib. «Che cosa ˙ e` successo a suo padre?» «E` morto quando il bambino era ancora nel ventre di sua madre». «Dici il vero, risponde Bah¯ıra¯; riconduci dunque il figlio di tuo ˙ fratello al suo paese e proteggilo dagli ebrei, perche´, mi appello a Dio, se verranno a sapere sul suo conto quel che ne so io, cercheranno di fargli del male. Un grande destino attende tuo nipote, affrettati a ricondurlo nella sua casa». Se ci si basa sulle testimonianze trasmesse da Ibn Isha¯q, Bah¯ıra¯ non disse ˙¯ Ta¯lib ˙il quale, in senulla di piu` ad Abu ˙ guito a questa conversazione, concluse in tutta fretta i propri affari in Siria per ricondurre il nipote alla Mecca. Tuttavia, secondo altre recensioni, in particolare Tirmidhı¯ (m. 279/892) e Bayhaqı¯ (m. 458/1066), Bah¯ı ra¯ tenne un discorso ˙ molto meno sibillino, dichiarando all’insieme dei Qurayshiti riuniti presso di lui e tenendo per mano il giovane Muhammad : «Costui e` il signore dei mondi, l’inviato di Dio, da Lui suscitato come misericordia per i mondi»; quest’ultima espressione

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(rah matan li-al-‘a¯ lamı¯n) compare nel ˙ Corano (21,107) precisamente applicata al Profeta. Poiche´ i suoi ospiti, rimasti attoniti, gli chiesero di fornire delle spiegazioni, Bah¯ıra¯ espose loro gli strani se˙ osservato all’arrivo della gni che aveva carovana e cito` il ‘‘sigillo della profezia’’ presente tra le spalle del bambino. In ogni caso, tutte le fonti concordano nell’affermare che Bah¯ıra¯ non era il solo ˙ a conoscenza della venuta in Siria del bambino-profeta. Ibn Isha¯q ma anche Tirmidhı¯ parlano infatti di ˙un gruppo di uomini venuti dai Ru¯m – Ibn Isha¯q scrive ˙ «della gente del Libro» senza precisare se fossero ebrei o cristiani – che si recarono anch’essi all’eremo il giorno in cui Bah¯ıra¯ ˙ ricevette i Qurayshiti; intendevano infatti incontrare l’Eletto, la cui presenza in quei luoghi era stata svelata anche a loro. Quali furono precisamente le intenzioni di costoro? Ibn Isha¯q ci lascia nel dubbio affer˙ mando semplicemente che Bah¯ıra¯ li convinse a non opporsi al destino;˙ gli autori posteriori dichiarano invece che essi erano giunti con l’intenzione di uccidere il bambino, e che il monaco riuscı` a dissuaderli. Prima di esaminare i molti ulteriori sviluppi di questo racconto nell’apologetica musulmana e cristiana, conviene precisare che secondo un’altra tradizione, raccontata tra gli altri da Ibn Isha¯q, il Profeta ˙ ` d’inconin eta` adulta ebbe l’opportunita trare nuovamente un monaco cristiano, dal nome imprecisato, quando commerciava in Siria per conto di Khadı¯ja prima ancora di farne la prima moglie, e pertanto prima d’essere chiamato alla profezia. Ma evidentemente e` sul primo racconto, assai piu` completo, che si concentra l’attenzione degli autori musulmani e cristiani. Per i musulmani, questo episodio si inscrive nella serie di eventi soprannaturali che hanno costellato l’infanzia del Profeta, eventi interpretati dalla tradizione come altrettanti segni divini che nel contempo annunciano la vocazione di Muhammad a inviato di Dio e che dimostrano l’autenticita` della sua missione.

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Da questo punto di vista, l’episodio che ha luogo a Bosra riveste un ruolo particolare nella struttura della Vita del Profeta, la biografia di Muhammad trasmessa dalla tradizione musulmana, di cui chiude il capitolo relativo all’infanzia. L’intervento di Bah¯ıra¯ da` infatti pieno signifi˙ eventi che hanno segnato cato agli strani la nascita del Profeta e la sua infanzia, soprattutto il celebre episodio dei due uomini, entrambi di bianco vestiti, che si recano dal bambino, gli aprono il petto per estrargli il cuore e lavarlo nella neve prima di rimetterlo al suo posto: il bambino e` l’Eletto di Dio, colui che ben presto diverra` il ricettacolo della Parola divina. Ma c’e` di piu`. Qui e` un rappresente della tradizione cristiana colui che si fa testimone dell’autenticita` della missione di Muhammad, e lo fa attraverso scritti cristiani. Appaiono dunque in filigrana due temi che saranno al centro dell’apologetica musulmana: l’idea, da un lato, che Gesu` abbia annunciato esplicitamente la venuta di Muhammad (61,6), il Paraclito ricordato nei Vangeli (Gv14,16; 1Gv 2,1), e, d’altro canto, quella connessa secondo cui le Scritture sono state alterate, donde l’assenza del nome di Muhammad nel Nuovo Testamento. Il riconoscimento da parte di Bah¯ıra¯ dello statuto di Muham˙ mad come inviato di Dio viene dunque a compensare il tahrı¯f, la corruzione del ˙ cui i cristiani si sono testo dei Vangeli di resi colpevoli. Ovviamente del tutto diversa e` l’interpretazione data a questo incontro dalla teologia cristiana orientale in cui la figura di Bah¯ıra¯ compare ben presto, spesso sotto ˙ designazioni. Cosı` Giovanni Damaaltre sceno (m. 754 circa), nel capitolo del De Haeresibus consacrato alla refutazione dell’islam, sostiene che Muhammad fu in contatto con un monaco ariano che lo avrebbe istruito sulle dottrine cristiane. Per Bartolomeo d’Edessa il monaco, che egli designa nella Refutazione di un Agareno con il nome di Bah¯ıra¯, e` un nestoriano, e Muhammad lo˙ frequento` per lungo tempo alla Mecca, mentre si trovava al servizio di Khadı¯ja.

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L’idea che il profeta dell’islam abbia beneficiato dell’insegnamento di un monaco cristiano che gli avrebbe in parte dettato il Corano trova pieno sviluppo in un trattato cristiano anonimo redatto in arabo, probabilmente verso la fine del IX secolo, noto con il titolo di Risa¯la di ‘Abd al-Ması¯h al-Kindı¯. Secondo questa ver˙ storia, il monaco e` un nestosione della riano e si chiama Sergius, e conosce Muhammad alla Mecca presentandosi con il nome di Nestor. E` lui l’autore di tutto cio` che nel Corano si trova in conformita` con il dogma cristiano, ma l’opera di Sergius e` stata deliberatamente alterata da due discepoli di Muhammad, ‘Abd Alla¯h ibn Sala¯m e Ka‘b al-Ahba¯r, entrambi ebrei convertiti all’islam; ˙essi hanno trasmesso un gran numero di isra¯’ı¯liyya¯t, i racconti derivati dalla tradizione rabbinica, e sono pertanto considerati responsabili delle dottrine eretiche veicolate dal Corano. La nota Apocalisse di Bah¯ıra¯ , redatta senza dubbio all’inizio del ˙IX secolo, in parte in siriaco e in parte in arabo, e` piu` fedele al racconto trasmesso dalla Sı¯ra. Bah¯ıra¯ viene presentato come un monaco ˙ nestoriano, di nome Sergius, e il suo incontro con il giovane Muhammad si situa proprio in occasione di un viaggio di quest’ultimo con una carovana meccana. Dopo aver constatato la presenza soprannaturale di una nuvola bianca che segue ostinatamente il bambino, Sergius gli predice un futuro grandioso, ma, ovviamente, senza fare riferimento alla sua funzione di inviato di Dio. Da allora in poi il bambino frequenta assiduamente il monaco che gli assicura l’istruzione religiosa e redige il Corano. Pero` anche in questo caso due scribi ebrei alterano di proposito il testo trasmesso da Sergio, dopo la sua morte. Proprio costoro, afferma l’anonimo autore dell’Apocalisse di Bah¯ıra¯ , furono all’origine dell’idea ˙ che Muhammad e` il Paraclito la cui venuta e` stata promessa da Gesu`. In Occidente, dove l’Apocalisse di Bah¯ıra¯ ˙ a ha conosciuto larga diffusione grazie una traduzione latina composta nel XIV secolo, il tema del monaco che avrebbe istruito Muhammad e` altrettanto onnipre-

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sente nelle diverse ‘‘Vite di Maometto’’ che apparvero ben prima delle Crociate. Degno di nota e` il fatto che nel XIII secolo Guglielmo di Tripoli e Pietro Pascasio danno dell’incontro con Bah¯ıra¯ una ver˙¯ra, naturalsione simile a quella della Sı mente senza trarne le medesime conclusioni. Infatti, in tutti i casi, per gli autori cristiani del tempo si tratta di dimostrare che Muhammad e` un impostore – se non addirittura l’Anticristo – e che il Corano e` l’opera di un uomo, e nel caso specifico di un monaco (eretico per alcuni e santo per altri) il cui insegnamento e` stato alterato da qualche discepolo. Cosı`, a prescindere dal carattere storico o meno dell’episodio di Bosra, dove rimangono le vestigia di una chiesa che il folklore locale chiama il ‘‘convento di Bah¯ıra¯’’, musulmani e cri˙ stiani sono paradossalmente concordi nel fare di Bah¯ıra¯ la figura di punta della ˙ propria rispettiva apologetica, agitando, gli uni e gli altri, l’accusa di tahrı¯f o cor˙ ruzione dei testi sacri. [C.A.] Bibliografia: Norman Daniel, Islam and the West, the Making of an Image, The University Press, Edinburgh 1962; Claude Gilliot, «Les ‘‘informateurs’’ juifs et chre´tiens de Muhammad. Reprise d’un proble`me traite´ par Aloys Sprenger et Theodor No¨ldeke», in Jerusalem Studies in Arabic and Islam, 22 (1998), pp. 84-116; Sidney H. Griffith, «The prophet Muhammad, his scripture and his message according to Christian apologies in Arabic and Syriac from the first Abbasid century», in La Vie du prophe` te Mahomet (Actes du colloque de Strasbourg, oct. 1980), PUF., Paris 1983, pp. 99-146; Raif Georges Khoury, Pole´mique byzantine contre l’islam (VIII-XIII sie`cle), Brill, Leiden 1972; Richard William Southern, Western Views of Islam in the Middle Ages, Harvard University Press, Cambridge 1962.

BAMBINO ed EDUCAZIONE L’infanzia e di conseguenza l’educazione o la pedagogia sono poco trattate nel Corano. Lo statuto del bambino nel pensiero etico-giuridico musulmano e` tuttavia riconosciuto, e la pedagogia, che mira principalmente all’educazione religiosa, co-

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stituisce una disciplina autonoma che ben presto ha originato una letteratura specifica, per quanto non molto abbondante. Questa disciplina prende a prestito molto piu` dalla Tradizione del Profeta, e dalla riflessione di coloro che la coltivarono, che dal Libro sacro. Lo sviluppo notevole della pediatria in ambiente musulmano nel corso della storia testimonia inoltre il corrispondente interesse per la condizione dell’infanzia. L’infanzia nel Corano Il termine piu` frequente nel Corano a questo proposito e` walad (pl. awla¯d), che designa piuttosto la progenie. Nella gran parte dei versetti che attestano questo termine si afferma che il Creatore, contrariamente alla sua creazione, non ha generato ne´ e` stato generato (112,3). La parola ghula¯m designa altresı` il ragazzo di cui Dio, in differenti occasioni, annuncia ai genitori la venuta quale ‘‘buona novella’’ (per esempio 15,53 o 51,28). Inoltre, alcuni versetti mettono in guardia i musulmani adulti dal sentimento di sufficienza che talvolta provano nei confronti di Dio quando possiedono beni e progenie numerosa. Sabı¯ e tifl designano indifferen˙ i bambini e gli adoletemente ˙i lattanti, scenti. A una categoria di bambini, gli orfani di padre (yata¯ma¯), come fu Muhammad stesso, il Corano riserva un trattamento del tutto particolare. Trattandosi della condizione infantile, il Libro si oppone incondizionatamente all’infanticidio (17,31): il disagio materiale che l’arrivo di un bambino puo` causare non giustifica in alcun modo l’eliminazione fisica del bambino stesso. Da cio` si e` concluso ingenuamente, o in modo apologetico, che nell’ambiente della predicazione di Muhammad l’infanticidio – soprattutto delle bambine – fosse abituale e ben tollerato dalla societa`. Un’ipotesi che appare piu` sensata della precedente e` che l’infanticidio, causato dalle condizioni socioeconomiche miserevoli di certuni, esistesse con probabilita` nell’Arabia preislamica, come l’aborto. D’altra parte e` stato dimostrato che, malgrado questa interdizione coranica radicale, aborto e in-

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fanticidio vennero praticati nella societa` musulmana nei periodo di miseria o grande poverta`. L’aborto e l’abbandono del bambino, formalmente condannati dalle autorita` religiose, che del resto negano la loro esistenza, sono in realta` praticati anche nelle societa` musulmane contemporanee, le quali si caratterizzano appunto per la grandissima poverta` di alcune componenti (particolarmente Egitto e Marocco); per questo nel diritto musulmano il ‘‘trovatello’’ (laqı¯t) possiede un ˙ partitolare statuto. In modo del tutto tradizionale ed essenziale, il Corano prescrive da una parte i doveri dei genitori nei confronti dei figli e dall’altra quelli dei figli nei confronti dei genitori. La pieta` filiale e` raccomandata, ma non a qualunque condizione. ‘‘Seguire i propri padri’’ se essi non sono musulmani e` infatti causa di traviamento: introducendo una nuova religione, il Corano non poteva predicare il rispetto incondizionato degli antichi e delle loro credenze; al contrario, se i genitori sono musulmani il rispetto si impone (4,36; 17,2324). Alla madre musulmana e` raccomandato di allattare il suo bambino fino a due anni, ma le e` consentito affidarlo ad una nutrice; quanto al padre, ha l’obbligo di provvedere ai bisogni materiali, al nutrimento e all’abbigliamento dei figli (2, 233). Un altro versetto (24,59) ricorda allusivamente qual e` il termine dell’eta` dell’infanzia, presentato nel Corano come un periodo indifferenziato della vita: «Quando i vostri bambini raggiungono la puberta`», e` loro ingiunto di annunciare il proprio arrivo prima di entrare in una stanza; questo comportamento serve a indicare che il tempo dell’infanzia e` concluso. Il tempo in cui si puo` andare e venire da un luogo a un altro e` dunque terminato; la puberta` segna la fine dell’infanzia, l’ingresso nel mondo degli adulti e l’inizio della servitu` alla Legge. In particolare per il ragazzo, la maturita` sessuale interrompe la frequentazione immediata e intima del mondo femminile che fino ad allora aveva egli lambito in modo quasi esclusivo; la madre e` de facto incaricata

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dell’educazione dei bambini, e, in caso di ripudio, la cura di questi le e` affidata per principio. Il ragazzo pubere ricade cosı` esclusivamente entro il mondo maschile, fino alle nozze. Il momento del matrimonio, tradizionalmente molto precoce, e` spesso ritardato nella gran parte delle societa` musulmane contemporanee per ragioni socioeconomiche. Questo ritardo acuisce le frustrazioni sessuali dei giovani uomini e favorisce le pratiche omosessuali, senza che l’omosessualita`, peraltro formalmente e gravemente condannata dalla sharı¯‘a, sia mai rivendicata come tale. Per la ragazza questo passaggio presenta altre implicazioni: facendosi oggetto di ‘‘desiderio’’ da parte degli uomini, e` tenuta a conformarsi a un’etica dell’abbigliamento alquanto rigorosa. L’infanzia nella Sunna L’infanzia e` ben piu` differenziata nella Tradizione che nel Corano. La terminologia distingue il lattante che ha un’eta` inferiore ai sette giorni da quello che ha oltrepassato questo limite, il bambino che e` svezzato da quello che inizia a camminare, quello che diviene agile, quello che ha raggiunto l’eta` del discernimento, quello che si avvicina alla puberta` e quello che ne e` a due dita, il pubere e infine quello che ha dato prova della sua maturita`. Quattro momenti dell’infanzia appaiono determinanti: il settimo giorno, la comparsa del discernimento (tamyı¯z), i sette anni circa, la puberta` (bulu¯gh), fissata a quindici anni o piu` tardi, e la maturita` (rushd). «Il bambino appartiene al letto (nuziale)», e` questo l’adagio che fonda la filiazione: in assenza di un disconoscimento della paternita`, il bambino nato nel quadro di un matrimonio concluso almeno sei mesi prima della sua nascita e` a priori legittimo. Il disconoscimento della paternita`, d’altronde, non e` una procedura facilitata nel diritto musulmano e inoltre comporta dei rischi per il querelante. L’adozione completa, che trasmette il nome dell’adottante e tutte le sue prerogative, e` in compenso severamente proibita.

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Un detto del Profeta afferma che ogni bambino nasce ‘‘secondo secondo la fitra’’, cioe` sanamente conformato, dunque ˙musulmano o piu` precisamente – cosı` la Tradizione lo ha inteso – predisposto all’islam, sempre se sara` educato correttamente (altrimenti la pedagogia non avrebbe oggetto e basterebbe lasciare il bambino a se stesso). Mal guidato, invece, egli si allontanera` dalla predisposizione innata e favorevole e sara` ‘‘sviato’’ dai suoi genitori: diverra` ebreo, cristiano, mazdeo o altro di piu` svantaggioso. Numerose discussioni hanno avuto luogo tra i dotti musulmani a proposito del destino nell’oltretomba dei bambini morti; questi dibattiti, logicamente, si sono sviluppati soprattutto quando la mortalita` infantile era molto elevata, come al tempo della ‘‘Grande Pestilenza’’. Il diritto musulmano si e` ugualmente interrogato sullo statuto giuridico dei bambini non musulmani: come le donne, anch’essi sono risparmiati in caso di eccidio ‘‘legittimo’’ di una popolazione. Essi cessano di essere considerati dei bambini quando sul loro pube appare una peluria, un criterio non determinante per i bambini nati musulmani. Perche´ le donne e i bambini cosı` definiti debbono essere risparmiati in caso di eccidio collettivo ‘‘legittimo’’? Probabilmente perche´ le une si considerano neutre e gli altri emendabili. La religione di una donna prigioniera non importa molto: ridotta in schiavitu`, i suoi figli saranno musulmani se il padre e` musulmano, poiche´ l’islam si trasmette col seme del padre. Quanto ai giovani prigionieri, qualora nella condizione di schiavi essi saranno facilmente reclutabili: molto presto nella storia politica delle societa` musulmane il ruolo dei fanciulli prigionieri, assoggettati ed educati nell’islam e` stato determinante; divenuti adulti, non avendo prestato altro giuramento di fedelta` che al loro signore e all’islam, essi hanno sovente rivestito delle funzioni, financo le piu` importanti, all’interno dell’apparato statale. Su questo status giuridico, nell’islam sunnita si e` costruito un sistema politico: all’inizio, l’Egitto mamelucco fu guidato da un uomo gia`

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schiavo fin dall’infanzia, quindi convertito all’islam ed educato al suo interno, senza legami familiari. L’infanzia nelle societa` musulmane Alla nascita, il bambino si sente sussurrare all’orecchio dal padre la formula dell’appello alla preghiera (adha¯n), e poi la formula che segna l’inizio della preghiera stessa (iqa¯ma); cosı`, quasi per magia, diviene musulmano. Poco dopo la nascita, un dattero viene posto sul palato del bambino (tahnı¯k): e` indubbiamente il modo ˙ comunita` gli significa la propria con cui la accoglienza e gli indica che verra` nutrito. In questa eta`, inoltre, la sopravvivenza del bambino e` assicurata al meglio. Egli riceve il nome (tasmı¯ya) nel settimo giorno di vita, quando ha luogo la ‘aqı¯qa, il sacrificio di un montone per una figlia e di due per un figlio (misura determinata in base a un’affermazione attribuita al Profeta). Con questo sacrificio i genitori esprimono a Dio la propria gioia (suru¯r) di avere ricevuto un figlio, e poiche´ la gioia e` maggiore nel caso di un maschio il sacrificio sara` maggiore proporzionalmente. La gran parte di questi riti ha origini preislamiche. Il khita¯n ovvero circoncisione di una parte dei genitali – che secondo le obbedienze giuridiche e` raccomandata o obbligatoria (ma de facto e` sempre praticato) – riguarda sia i ragazzi che le ragazze (per nominare l’atto sessuale, si parla, in certi testi, dell’‘‘incontro dei due circoncisi’’). Per il ragazzo si tratta dell’ablazione del prepuzio, per la ragazza di quella di una parte mal definita della sua intimita` fisica. Secondo la tradizione islamica classica, la finalita` della pratica in un caso come nell’altro e` diminuire la libido dei membri della comunita`. La spiegazione igienista, invece, e` moderna e presa a prestito; non ci si deve ingannare: nel corso della storia, quando a questa pratica e` riconosciuta una ragion d’essere, quel che l’istituzione del khita¯n ha cercato di contenere e` l’appetito carnale, naturalmente troppo pronunciato. L’eta` della mutilazione sessuale e` da sempre molto variabile, a partire da sette giorni fino al momento della preado-

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lescenza o dell’adolescenza. Al giorno d’oggi e` spesso praticata alla nascita, nell’ospedale dove il bambino vede la luce. Altrettanto spesso e` praticata piu` tardi, a dieci, dodici, quindici o anche diciassette anni, senza dubbio per conservare al khita¯n il suo valore simbolico e rituale. Il khita¯n di un ragazzo si accompagna a una cerimonia pubblica mentre quello della ragazza rimane strettamente privato. La puberta` (al-bulu¯gh) non si identifica con la maggiore eta` legale; per accedere alla pienezza dei diritti e dei doveri propri dell’adulto, cioe` all’autonomia, l’adolescente pubere deve raggiungere la maturita` (rushd), definita nel modo piu` generale. La ragazza, di contro, sebbene divenuta donna non gode mai di piena autonomia e rimane subordinata all’uomo sotto piu` aspetti. La maturita` e` definita come una ‘‘maturita`’’ duplice: e` ‘‘maturita` in materia religiosa’’ (isla¯h al-dı¯n) la ˙ ˙ quale consiste nel non commettere peccati di natura tale da intaccare ‘‘l’onorabilita`’’ (‘ada¯la), condizione affinche´ la propria testimonianza sia accettata; ed e` ‘‘maturita` in materia finanziaria’’ (isla¯h ˙ al-ma¯l) equivalente alla capacita` di˙ gestire ragionevolmente i propri beni senza dilapidarli. La maturita` cosı` definita deve essere comprovata dalla persona investita di potesta` sul ragazzo. Regola lo statuto legale del bambino un adagio ben noto, tratto dalla Tradizione del Profeta e non dal Corano: in via generale, egli e` soggetto ai comandamenti divini, alla sharı¯‘a. Questa regola contempla tuttavia numerose eccezioni e soprattutto in materia cultuale (‘iba¯da¯t); l’elemosina (zaka¯t), per esempio, si applica sui suoi beni per quanto l’obbligo di versarla incomba non su di lui ma sul suo tutore. D’altronde, se il bambino non e` obbligato stricto sensu a compiere le preghiere, si raccomanda ai suoi genitori di ingiungergli di adempierle quando ha compiuto i sette anni e di punirlo se le rifiuta dopo i dieci anni; questo secondo un detto del Profeta; lo stesso vale per il digiuno del mese di ramada¯n. Analoga˙ al nascondimente, gli obblighi inerenti mento del corpo inclusi tra i precetti eti-

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cosociali musulmani sull’abbigliamento, non riguardano il bambino all’inizio, almeno in linea di principio; ma per scrupolo pedagogico gli si insegnera` a coprire alcune parti del corpo ben prima della puberta`. E` dunque la preoccupazione di educare alla Legge, come raccomanda la Legge stessa, che vede de facto il bambino parzialmente interessato da alcune questioni giuridiche. La principale eccezione al principio che regola lo statuto legale del ragazzo riguarda certamente il matrimonio. Egli non potra` concludere da se´ un contratto di matrimonio, ma lo potra` il suo tutore (generalmente il padre), nella maggior parte dei casi anche senza il suo consenso (diversamente dalla dottrina classica, nei paesi musulmani di oggi e` stabilita un’eta` minima per il matrimonio). Il matrimonio delle ragazze prima della maturita` sessuale era considerato un atto assai onorevole compiuto dal padre a vantaggio delle dirette interessate e della comunita`. La tendenza contemporanea, che in modo generalizzato riprova questa pratica, non tiene in alcun conto il contesto in cui essa veniva raccomandata; in modo reciproco, gli apologeti contemporanei dell’islam piu` fideista cercano di giustificarla ai nostri giorni ignorando che il contesto e` mutato. In tale matrimonio, il ragazzo figura come l’oggetto di un atto legale, pur non essendone il soggetto. L’educazione pedagogica nell’islam Nella storia dell’islam, lo scrupolo pedagogico non fu mai tanto forte come al giorno d’oggi, e particolarmente in terra d’emigrazione (soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti) ma anche nei paesi musulmani. Nell’una e negli altri, la ragione e` identica: i bambini nati musulmani vivono oggi in condizioni tali da avere sempre accesso, comunque sia, alla conoscenza e talvolta all’esperienza di una societa` diversa da quella musulmana, di altre culture, di altre religioni e dell’ateismo. Poiche´ i bambini musulmani contemporanei crescono in ambienti aperti a innumerevoli influssi, mantenere la loro identita` religiosa e` un compito che appare

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prioritario a molti. Spesso, la nuova pedagogia musulmana che ne e` derivata deve molto alle correnti piu` conservatrici dell’islam contemporaneo. Essa veicola valori ritenuti islamici che, sovente, sono solo l’opposto di ‘‘non valori’’ biasimati e abitualmente qualificati come ‘‘occidentali’’. Tale nuova pedagogia, che si caratterizza per il rigorismo e il puritanesimo, e` ostentata in un considerevole numero di pubblicazioni e siti internet dedicati all’infanzia; ma non e` che un’eco lontana di quel che fu la tradizione pedagogica islamica nella storia. Partendo da una constatazione meno negativa e talvolta persino positiva dello stato del mondo attuale, altri autori musulmani tentano invece di definire una pedagogia piu` complessa, piu` critica nei confronti della tradizione musulmana pur senza mai contestarne i fondamenti, ossia, principalmente, il Corano. Si puo` realmente parlare di una tradizione musulmana di pedagogia globale nel corso della storia? Gli scritti sono assai rari e piuttosto elementari. Generalmente esprimono soltanto una dottrina di base il cui contenuto e` piuttosto ripetitivo; in realta`, e come ovunque, l’educazione e la pedagogia dipendono nella pratica da fattori parzialmente impermeabili alle pure norme religiose. In definitiva, una dottrina comune e` esistita ed e` stata applicata in modo piu` o meno integrale nelle societa` islamiche solo sul terreno dell’educazione e dell’insegnamento strettamente religioso. Nelle civilta` fortemente intrise di religione e dove per di piu` la Legge religiosa e` chiamata a regolare l’insieme delle attivita` umane, l’educazione religiosa dei bambini riveste sicuramente una grande importanza. La preoccupazione pedagogica, insomma, assume la forma di una pedagogia quasi esclusivamente religiosa. Questa pedagogia concerne poco il bambino prima del suo settimo anno di vita, la cosiddetta ‘‘eta` del discernimento’’. La cellula familiare patriarcale, anche se aperta o allargata – cio` che accadeva piu` frequentemente – costituiva l’entita` entro la quale egli cresceva. L’esempio del

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comportamento del Profeta con i bambini molto piccoli, e piu` particolarmente con sua figlia Fa¯tima e i nipoti Hasan e Hu˙ ˙ ˙ sayn, ispira dolcezza e condiscendenza. Fino a quest’eta`, il bambino si trova essenzialmente sotto la protezione materna, e` la madre che se ne occupa sebbene il padre ne sia responsabile materialmente; cresce per la maggior parte del suo tempo nel seno di una comunita` femminile; il gioco, salvo che in compagnia di cani, e` un’attivita` incoraggiata: e` questa la ‘‘primavera dei bambini’’. Ancora oggigiorno, nelle societa` islamiche il bambino gode di una grande liberta` di movimento, ma come ovunque l’inurbamento delle popolazioni o lo sviluppo urbanistico delle megalopoli sta cambiando progressivamente la sua condizione. Negli ambienti popolari e rurali, egli partecipa spesso ai lavori necessari al buon andamento dell’intera la famiglia. Formalmente non riceve alcuna educazione religiosa specifica, salvo, a volte, su un punto: l’apprendimento del Corano, che appunto puo` iniziare prima dei sette anni. Un ragazzino, del resto, accompagnera` sovente suo padre alla moschea al momento della preghiera collettiva del venerdı`, anche se piu` per divertirsi che per pregare. La prima infanzia, nella citta` musulmana, e` un tempo di ‘‘assimilazione’’, e la pedagogia e` poco interventista. Testimoniando a contrario la miglior accoglienza che era ed e` abitualmente riservata ai maschi, Ibn Abı¯ al-Dunya¯ alBaghda¯dı¯ (m. 281/894), autore del «Libro dei fanciulli» (Kita¯b al-‘iya¯l), insiste sui meriti particolari dei genitori che si occupano al meglio delle loro figlie. Raggiunti i sette anni, pur senza obblighi di fronte alla Legge, il bambino si trova tuttavia invitato a rispettare alcune pratiche comandate, principalmente la preghiera e il digiuno. Se i suoi genitori ne hanno i mezzi e` questa l’eta` in cui inizia l’apprendimento del Corano in un kutta¯b, l’equivalente della scuola elementare. Secondo la tradizione, la memorizzazione del Corano costituisce il fondamento di [E´.C.] ogni altro apprendimento.

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BARAKA

Bibliografia: Avner Giladi, Infants, Parents and Wet Nurses: Islamic Views on Breastfeeding and their Social Implication, Brill, Leiden 1999; Id., Children of Islam: Concepts of Childhood in Medieval Muslim Society, MacMillan, Basingstoke 1992; Reuben Levy, The Social Structure of Islam, Cambridge University Press, Cambridge 1969; Elizabeth Warnock Fernea (a cura di), Children in the Muslim Middle East, University of Texas Press, Austin 1995.

BARAKA La radice «brk» e` abbondantemente presente nel Corano. Tutte le forme derivate sono strettamente associate all’idea di benedizione; sorgente di ogni benedizione e` Dio e per questo egli e` necessariamente benedetto al pari del suo nome (55,78), come testimoniano numerosi versetti (7, 54; 23,14; 25,1,10 e 61; 27,8; 40,64; 43, 85; 67,1). La benedizione si spande per contiguita` su luoghi, esseri e cose di cui Dio si serve per entrare in comunicazione con gli uomini. Essa proviene da lui e si diffonde cosı` in cio` che egli crea, negli inviati che egli si da`, nelle Scritture che rivela agli uomini. Vi sono percio` diverse categorie di cose benedette; innanzitutto lo spazio, che non e` omogeneo appunto perche´ alcuni luoghi sono benedetti: il monte su cui Dio si e` manifestato a Mose` (28,30), i templi in cui gli si vota un culto, come quello della Mecca (3,96) e probabilmente anche di Gerusalemme (17,1). Il Corano menziona senza precisarle in alcun modo citta` benedette (34,18), e terre benedette, come la Palestina (7,137; 21, 71 e 81; 23,29). Tra gli oggetti vi e` naturalmente il Libro rivelato, disceso dal cielo (6,92 e 155; 21, 50; 38,29). Alcuni momenti della giornata possono essere ugualmente benedetti, come la notte nel corso della quale avrebbe avuto luogo la prima rivelazione (44,3). Gli inviati di Dio sono anch’essi esseri benedetti. Cosı` Noe` (11,48) e la famiglia di Abramo, soprattutto dopo l’annuncio della nascita di Isacco (11,73; 37,113). In quest’ultimo caso, prova della

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benedizione e` che una donna molto avanti negli anni possa dare alla luce un figlio. Anche Gesu` e` benedetto (19,31). Secondo il versetto 24,61, persino i saluti che i credenti sono tenuti a rivolgersi vicendevolmente sono benedetti. Benedetto per se stesso, Dio, sorgente di tutti i benefici di cui profittano gli uomini, concede i propri doni (baraka¯t) a questi ultimi (7,96), senza lesinarli. Secondo il versetto 41,10, tutta la terra e` benedetta. E, fatto non sorprendente in una regione desertica, la pioggia e` presentata come una benedizione divina (50,9). Infine, all’interno del mondo naturale, l’ulivo e` ugualmente un albero benedetto (24,35). La Tradizione arricchira` questo quadro. Alcuni animali – per esempio il cavallo e l’ariete – come anche altri alberi – la palma da datteri, il fico, il melograno ecc. – saranno considerati benedetti; altri luoghi e altri templi, e anche altri momenti della giornata o dell’anno saranno altresı` valutati come particolarmente benedetti. Di fronte a tutte le cose cui s’accompagna la benedizione divina, altre ne esistono che saranno ritenute maledette: esseri umani, in particolare i miscredenti e i politeisti; animali, come il cane, il geco ecc; luoghi, come le latrine, lo hammam ecc; e oggetti, come le immagini di esseri viventi. La presenza o la manifestazione della baraka e` indice di un’armonia tra la collettivita` umana, il mondo naturale e la divinita`. [M.H.B.] Bibliografia: Joseph Chelhod, Les Structures du sacre´ chez les Arabes, Maisonneuve et Larose, Paris 1964; Id., «La baraka chez les Arabes», in Revue de l’histoire des religions, 148/i (1955), pp. 68-88; Marcel Cohen, «Genou, famille, force, dans le domaine chamito-se´mitique», in Me´morial Henri Basset, Institut des hautes e´tudes marocaines, Librairie orientaliste Paul-Geuthner, Paris 1928, vol. I, pp. 203-210.

BARZAKH Il termine barzakh compare nel Corano tre volte. In due occasioni si fa riferimento a due mari o a due vaste distese d’acqua tra le quali Dio ha stabilto un barzakh: «E`

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Lui che ha lasciato scorrere liberi i due mari, l’uno dolce e fresco e l’altro salmastro e amaro, e ha posto fra loro una barriera (barzakh), un insormontabile limite» (25,53); «lascio` liberi i due mari perche´ si incontrassero e vi e` una barriera (barzakh) frammezzo che essi non possono passare» (55,19-20). Secondo la maggior parte degli esegeti e dei lessicografi, barzakh significa ‘‘barriera’’, ‘‘ostacolo’’ o ‘‘separazione’’ tra due entita`, ed e` sinonimo di ha¯jiz; infatti la bar˙ riera tra i due mari e` ugualmente menzionata in 27,61 dove il termine ha¯jiz sosti˙ tuisce barzakh. Il teologo Zamakhsharı ¯ (m. 538/1144) introduce un’intenzionalita` divina quando lo spiega come ‘‘difesa’’ o ‘‘impedimento’’ (ha¯’il), implicando cosı` la volonta` di Dio.˙ Questa separazione e` identificata con molte e diverse cose dai commentatori che interpretano i due mari secondo le antiche cosmogonie sumere. Considerando i due mari secondo l’asse orizzontale, il mare di «acqua dolce, dal gusto piacevole» (‘adhb fura¯t) designa i fiumi della terra in contrapposizione agli oceani d’acqua «salata e amara» (milh uja¯j). Se˙ condo alcuni, il barzakh rappresenterebbe cosı` un limite invisibile, «come un filo bianco» che impedirebbe alle acque dolci dello Shatt al-‘Arab, che penetrano pro˙˙ nelle acque salate del Golfo fondamente Persico, di mescolarsi a quest’ultimo; secondo altri, si tratterebbe di una barriera fisica, cioe` l’estensione terrestre che separa le acque salate e amare del Mediterraneo (Bahr al-Ru¯m) da quelle del Golfo ˙ r Fa¯ris, espressione che iniPersico (Bah ˙ ` la foce del Tigri e piu` zialmente designo tardi, per estensione, l’intero Golfo come un ‘‘mare d’acqua dolce’’). Considerando invece i due mari secondo l’asse verticale, si distingue un mare celeste d’acqua dolce e un mare terrestre d’acqua salata. La geografia naturale ricompone tale ripartizione con la precedente: il mare celeste, infatti, alimenterebbe i fiumi che si riversano nel mare terrestre; va ricordato che il Corano afferma chiaramente l’origine celeste dei fiumi e delle sorgenti, e che la tradizione musulmana considera alcuni

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grandi fiumi, come il Nilo e l’Eufrate, prolungamenti terrestri di fiumi del paradiso. In questo caso, il barzakh che separa l’acqua dolce dall’acqua salata si identifica con la terra secca (yabas) oppure con la penisola arabica. Un autore tardo, descrivendo il ciclo dell’acqua, vide nell’alternanza dolce-salato la prova dell’esistenza di un barzakh, seppure invisibile. Ancora orientandosi secondo l’asse verticale, i due mari si iscrivono inoltre in un simbolismo cosmologico che riproduce quello delle acque superiori e inferiori della Bibbia, separate dal firmamento (Gn 1,7). Qurtubı¯ (m. 671/1272) annovera ˙ fine dei tempi la distrutra i segni della zione del barzakh, cioe` la volta celeste che manterra` divisi i due oceani cosmologici per tutta la durata della Creazione, come evocato dal Corano: «Quando il cielo si spacchera` [...] quando i mari si mescoleranno» (82,1 e 3). Anche il teologo Ghaza¯lı¯ (m. 505/1111), nell’opera intitolata al-Durra al-fa¯khira ovvero La perla preziosa, descrive la fine dei tempi come il mescolarsi delle acque e la compenetrazione dei mondi: «I mari fluiranno gli uni negli altri [...], si gonfieranno a tal punto che il mondo aereo si riempira` d’acqua, e i diversi mondi passeranno gli uni negli altri». Secondo la tradizione musulmana, nel barzakh o ‘‘confluenza dei due mari’’ (majma‘ al-bahrayn) sog˙ Khidr – giorno` il profeta Khadir – oppure ˙ ˙ che inizio` Mose` (18,60-82). Il barzakh implica dunque un’equivocita`: e` contemporaneamente cio` che separa e cio` che unisce, funge da ostacolo alla compenetrazione tra due entita` e al tempo stesso permette all’uno di trasformarsi nell’altro; talvolta e` pura contiguita` , senza dimensione, talvolta e` un intervallo o un istmo provvisto di un’estensione fisica. L’ambito semantico attribuito a barzakh si accorda almeno a una delle possibili etimologie del termine, quella che lo fa derivare dal persiano farsakh o parasang (da cui il greco parasagge`s), unita` di misura della distanza.

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Il barzakh della tomba, i vivi e i morti La terza occorrenza coranica inserisce il barzakh entro il contesto del divenire postumo dell’umanita`: «Alle spalle dei defunti si ergera` una Barriera fino al giorno in cui saranno risuscitati» (23,100). Secondo alcuni passi, i defunti miscredenti lamenteranno l’assenza di un possibile «ritorno» (karra) a questo mondo (2,167; 26,102; 39,58) e chiederanno invano a Dio di farli «ritornare» («facci ritornare, arji‘na¯!») sulla terra per compiere il bene non compiuto in vita (39,58). Se il Corano fa riferimento unicamente al barzakh quale ostacolo che impedisce il ritorno (ruju¯‘) dei defunti alla vita, l’interpretazione comune ne fa anche cio` che congiunge (al-mutawassit) la vita terrena (al˙¯ khira), un interredunya¯) e l’Aldila` (al-a gno tra la morte fisica (mawt) e la resurrezione individuale (ba‘th) con una propria dimensione di spazio e tempo. Un testo isma¯‘ı¯lita allude al barzakh come un ‘‘secondo ajal’’ dell’uomo, essendo il primo ajal o ‘‘durata a termine’’ quello della vita terrena cui pone fine la morte fisica. I due ajal sono correlati: piu` lunga e` la vita terrena, piu` breve e` l’esistenza nel barzakh, e viceversa. Nell’opera dal titolo Ihya¯’ ‘ulu¯m al-dı¯n (La vivificazione delle ˙ scienze religiose), Ghaza¯lı¯ fa rientrare nella durata del barzakh l’intervallo dei quaranta anni che separano il primo squillo di tromba, quello che annuncia la morte del cosmo, dal secondo, quello che spinge gli spiriti nei corpi annunciando la resurrezione. L’intervallo della tomba non trova una spiegazione chiara nel Corano, che suggerisce implicitamente una certa continuita` di coscienza: «Non sono uguali i vivi e i morti; e in verita` Iddio fa udire chi vuole, e tu non potrai far udire quelli che sono nelle tombe!» (35,22), dove resta sottinteso che invece Dio puo` farlo. I martiri caduti in combattimento sono dichiarati viventi (2,154; 3,169), mentre i condannati sembrano gia` essere nel fuoco infernale (a esso sono esposte al mattino e alla sera le genti di Faraone, cfr. 40,4546; vi e` fatto entrare il popolo di Noe`, cfr. 71,25). La tradizione musulmana inter-

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preta queste pene e anche quelle inflitte dagli angeli agli empi («colpendoli in volto e sul dorso», 8,50 e 47,27) come testimonianze che il Corano porta a favore del cosiddetto ‘‘castigo della tomba’’ (‘adha¯b al-qabr). La conservazione della coscienza, invece, e` ampiamente confermata nella Tradizione (Hadı¯th). Si narra che, al termine ˙ della battaglia di Badr, Muhammad fece gettare i cadaveri dei suoi nemici in un pozzo. Calata la notte, rivolse loro la parola. Ai suoi fedeli che si stupirono vedendolo parlare ai cadaveri, Muhammad rispose: «Voi non sentite meglio di loro cio` che dico: soltanto, essi non possono rispondere». Nel suo Musnad, il tradizionista Ibn Hanbal (m. 241/855) scrive che ˙ chi lo porta, chi lo lava, chi lo il morto «sa ripone nella tomba», e secondo il Sah¯ıh di ˙ ˙ Bukha¯rı¯ (m. 256/870), il Profeta ˙avrebbe detto che «i morti odono il rumore dei vostri passi». Nella letteratura escatologica, l’intervallo della tomba ha dato luogo a numerose speculazioni, in parte ispirate alle visioni del Profeta durante l’Ascensione notturna (mi‘ra¯j). Poiche´ il Corano assimila esplicitamente il sonno alla morte (39,42), anche la letteratura onirologica fornisce numerosi dettagli: alcuni tipi di sogno veritiero (ru’ya¯ o visione, cioe` il sogno ispirato da Dio, che include le visioni in stato di veglia) comportano una visita nell’intermondo del barzakh da parte dell’anima del dormiente, temporaneamente liberata dagli ostacoli del corpo. Queste fonti non alludono solo a un continuum della coscienza ma anche a una sua dilatazione e illuminazione post mortem, la quale si rapporta alla ‘‘rimozione del velo’’ che accompagna la morte fisica. Nella tomba, le anime vedono il mondo terreno e l’Aldila`, comunicano tra loro (uno h adı¯th afferma che «i defunti si fanno˙visita nelle tombe»), sanno dove si trovano, hanno una lucida consapevolezza del destino degli esseri e non possono mentire. Secondo il Kita¯b al-mana¯m (Il libro dei sogni) di Ibn Abı¯ al-Dunya¯ (m. 281/894), che raccoglie racconti di

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sogni con defunti come protagonisti, i morti divengono improvvisamente coscienti delle conseguenze e del peso religioso degli atti compiuti nel corso della loro vita. L’intervallo della tomba ha inizio dopo un’ascensione celeste dell’anima compiuta al momento del trapasso che si ispira direttamente al mi‘ra¯j del Profeta. Una volta accolta da Dio, oppure respinta per l’inadempienza degli obblighi religiosi, l’anima ritorna nella tomba per soggiornarvi in attesa della resurrezione. Aldurra al-fa¯khira di Ghaza¯lı¯ e l’anonimo Kita¯b ahwa¯l al-qiya¯ma descrivono un in˙ terrogatorio dell’anima da parte degli angeli Munkar e Nakı¯r. L’opera di Ghaza¯lı¯ introduce inoltre la figura dell’angelo Ruma¯n, il cui compito e` «scrutare gli interstizi delle tombe» e ordinare al defunto di registrare le proprie azioni su un lembo del suo sudario; in seguito, arrotolato, esso gli verra` appeso al collo (e` un’allusione a 17,3: «Abbiamo attaccato al collo di ogni uomo il suo destino e nel giorno della Resurrezione gli mostreremo un rotolo che trovera` dispiegato davanti a se´»). Secondo l’interpretazione comune, in base alle risposte che dara` l’anima sperimentera` una sorta di inferno o di paradiso preliminari; uno hadı¯th profetico dichiara ˙ e` uno dei giardini del infatti che «la tomba paradiso o, al contrario, uno degli abissi dell’inferno». Vi sono opinioni contrastanti sulla natura psichica o corporale o entrambe della retribuzione nel barzakh. I mu‘taziliti (pensatori razionalisti) rifiutano l’idea di una qualsivoglia corporeita` in grado di provare piacere o dolore. Al contrario, le credenze popolari accentuano la corporeita` dei tormenti e la sensualita` dei piaceri, al punto che il teologo Ibn al-Jawzı¯ (m. 597/1200) ne denuncio` le esagerazioni, attribuite alla credulita` del volgo. Il sufismo e alcune correnti filosofico-mistiche alludono a una corporeita` sottile o ‘‘immaginativa’’, che sussisterebbe nella tomba anche dopo la dissoluzione dell’involucro carnale. Le descrizione del castigo e della beatitudine seguono le regole di comparizione dei fenomeni propri al barzakh: la chiaro-

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veggenza e la mobilita`, le apparizioni infernali o paradisiache, la luminosita` e la spazialita` della tomba dipendono dalle disposizioni interiori dell’anima, cioe` il grado raggiunto nella fede o nell’empieta`. In sintesi, da un lato si puo` dire che l’anima dell’empio patira` un’anticipazione dell’inferno che e` il ‘‘castigo della tomba’’ (‘adha¯b al-qabr). Secondo La perla preziosa di Ghaza¯lı¯, gli angeli Munkar e Nakı¯r, terminato l’interrogatorio, apriranno il lato sinistro della tomba, quello che si affaccia sulla Geenna, offrendo al defunto la visione di abissi, scorpioni, pesi ecc. Il morto verra` allora vestito con un abito di fuoco nel quale si torcera`. Si dice che i condannati raggiungano gli stadi inferiori dell’inferno (il Sijjı¯n, cfr. 83,7-9, cioe` il ‘‘libro’’ ovvero il ‘‘mondo’’ degli impuri; la radice «sjn» esprime l’idea di ‘‘reclusione’’ e ‘‘imprigionamento’’). I racconti onirici suggeriscono ugualmente l’incapacita` di movimento degli empi. D’altro lato, le anime dei credenti fedeli godranno di una beatitudine anticipata: verra` loro aperto il lato destro della tomba, quello che si affaccia sul paradiso, da cui giungono i profumi e lo zefiro. I piu` meritevoli raggiungeranno i livelli superiori (lo ‘Illiyu¯n, cfr. 83,1821, il ‘‘libro’’ o il ‘‘mondo’’ dei puri; la radice «‘ly»esprime l’idea di ‘‘elevazione’’). Un celebre hadı¯th, cui si ispirano ˙ sia la letteratura escatologica sia le testimonianze oniriche, afferma che «gli spiriti dei martiri si trovano nelle gole di uccelli verdi appollaiati sugli alberi del paradiso». Al confinamento e alla paralisi dei dannati si contrappone la liberta` di movimento dei beati: la loro tomba viene ingrandita fino a divenire, come si legge ne La perla preziosa, una ‘‘volta immensa’’, mentre i profeti e i santi potranno circolare a piacimento in tutti i mondi. Tra i due estremi si situano numerose condizioni intermedie, come l’erranza dell’anima sotto il cielo inferiore, o lo stato d’incoscienza, o di sonno, e cosı` via. Ancora in Al-durra al-fa¯khira, Ghaza¯lı¯ aggiunge l’idea, destinata ad ampio sviluppo nella gnosi musulmana, che castigo e ricompensa altro non siano che la

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fede professata e la stessa condotta dell’anima: impersonate, esse si faranno incontro al fedele nella forma della piu` bella creatura o, al contrario, nella forma di cio` che l’empio ha piu` temuto nel corso della vita (un cane, un lupo o un maiale, tutti e tre hara¯m ovvero illeciti secondo il diritto ˙ musulmano). Al castigo della tomba non appartiene alcuna funzione espiatoria, e` solo una prefigurazione della Geenna promessa all’empio dopo l’ultimo Giudizio. Il destino postumo dipende esclusivamente dalle azioni compiute nel corso della vita terrena; sigillato dalla morte fisica, si dice che esso sia svelato al morente nel momento del trapasso. Nessuno sfuggira` alle conseguenze della sua condotta religiosa e della sua pietas (taqwa¯) durante la vita terrena: l’interregno del barzakh non equivale dunque alla nozione tardo-cristiana di purgatorio. Se l’islam ha ristretto l’ambito delle azioni al mondo terreno, ne ha tuttavia moltiplicato i frutti: l’uomo raccoglie cio` che ha seminato prima nel corso della sua esistenza in vita, poi durante la sua permanenza nel barzakh, infine nell’Aldila`. La ‘‘rimozione del velo’’ che accompagna la morte ha inoltre un valore esortativo quanto all’adempimento degli obblighi religiosi nel corso della vita terrena, sia pure nell’incoscienza o nell’ignoranza (ghafla): una buona azione compiuta nell’ignoranza, sostiene il mistico Shaykh Ahmad al-Ahsa¯’ı¯ (m. 1241/1826), viene ˙ ˙ nel barzakh evitando all’aricompensata nima il castigo della tomba e consentendole il riposo. L’immagine coranica della morte ha fatto sı` che la nozione di persona individuale, responsabile delle proprie azioni davanti a Dio, prevalesse sulla solidarieta` tribale preislamica, modificando in particolare il senso della cerimonia funebre (jana¯za); inoltre, la comunita` di fede, che si e` sostituita alla comunita` di sangue, ha esteso come quest’ultima i propri legami oltre la morte. Attraverso alcuni riti funerari (jana¯’iz) si intesse una solidarieta` invisibile tra i vivi e i morti del barzakh. Secondo alcune tradizioni, i vivi possono miglio-

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rare la sorte dei defunti recitando determinate sure che garantirebbero loro ricompense e misericordia divina, in particolare la sura Ya¯ Sı¯n (36), anche detta ‘‘il cuore del Corano’’. Va poi menzionata la pratica del taqlı¯n, approvata dalla maggior parte delle scuole giuridiche. Essa consiste nel ripetere la shaha¯da (la professione di fede musulmana) all’orecchio nel moribondo e nell’informare l’anima del defunto sulle riposte da fornire nell’interrogatorio dei due angeli: per esempio, la si esorta a dire che il Corano e` la sua fede (ı¯ma¯n) ovvero il suo Libro (kita¯b), che la Ka‘ba e` la sua direzione nella preghiera (qibla), e cosı` via. L’efficacia della preghiera sui defunti e` attestata nel Corano, che nel contempo la proibisce formalmente nel caso di ipocriti e infedeli (9, 84); tale efficacia dipende inoltre dal grado di fede di chi la esegue. La parola dei vivi e` amplificata dalla lucida coscienza dei defunti che, nel barzakh, ha consistenza reale: modificando le disposizioni interne di questa coscienza essa provoca, secondo le regole proprie del barzakh, l’apparizione esteriore corrispondente. Cosı`, nello sciismo duodecimano, l’enumerazione dei dodici imam nelle preghiere funebri e` legata alla credenza secondo cui il morto viene visitato da loro e dal Profeta i quali lo assistono nell’abbandono di questo mondo. In ambito islamico, il monito generale a evitare le lamentazioni eccessive viene talvolta giustificato con tale dilatazione della coscienza: il Sah¯ıh di Bukha¯rı¯ rammenta che ˙ ˙ ˙ puniti «i morti sono attraverso le lacrime che i vivi versano su di loro». La solidarieta` si prolunga attraverso i sogni. Nel Kita¯b al-mana¯m i morti appaiono in sogno ai vivi per comunicare loro il conforto che ricevono dalle visite sulle tombe o per informarli del miglioramento della propria condizione grazie alle suppliche e alle preghiere. Di piu`, il sogno instaura una vera complementarita` tra i defunti, la cui consapevolezza e` stata acuita dalla morte, ma non possono piu` agire, e i vivi, che possono agire ma non conoscono; i morti chiedono in sogno ai vivi di adempiere ad alcuni compiti che

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essi non portarono a termine durante la vita, per esempio saldare un debito non pagato che potrebbe imprigionare l’anima nel barzakh; per converso i vivi vengono istruiti dai morti sul peso religioso degli atti e ricevono da essi – primo fra tutti il Profeta che puo` trasmettere degli ahadı¯th post mortem – incoraggiamenti e ˙ precetti di carattere etico o spirituale. Il barzakh come Immaginazione (Khaya¯l) L’identificazione del barzakh con il mondo dell’Immagine e dell’Immaginazione (‘a¯lam al-mitha¯l o ‘a¯lam al-khaya¯l, che l’islamologo Henry Corbin definı` mundus imaginalis) si incontra principalmente nella filosofia cosiddetta illuminativa (al-hikma al-mashriqiyya), risalente a Shiha¯b˙ al-Dı¯n Yahya¯ Suhrawardı¯ (m. ˙ 587/1191), nel sufismo (in particolare quello di Ibn ‘Arabı¯ e della sua scuola), tra i filosofi dell’Iran safavide e tra i tardi filosofi sciiti. La dimensione immaginativa dell’essere e` l’ambito del malaku¯t, o mondo dell’anima, e postula una triade di universi sulla quale concordano tutte queste correnti: il mondo fisico sensibile (mulk) che comprende il mondo terrestre e il mondo siderale (cioe` i cieli astronomici), il mondo soprasensibile degli angeli-anime (malaku¯t) e l’universo delle entita` spirituali immateriali, o intelligenze arcangeliche (jabaru¯ t). Questa triade corrisponde ai tre organi della conoscenza (sensi, immaginazione, intelletto) e alla triade dell’antropologia (corpo, anima, spirito). Il ‘a¯lam al-mitha¯l, dimensione dell’immaginazione, e` un barzakh tra il sensibile e l’intelligibile, ontologicamente superiore al mondo dei sensi e inferiore al mondo intelligibile puro, piu` immateriale del primo e meno immateriale del secondo. In questo spazio intermedio, come scrive il teosofo sciita Muh sin al-Fayd al-Ka¯ sha¯ nı¯ (m. 1091/ ˙ «si materializzano ˙ 1680), gli spiriti e si spiritualizzano i corpi». In altri termini, il livello ontologico dell’immaginazione e` descritto come ‘‘la confluenza dei due mari’’ (majma‘ al-bahrayn), confluenza ˙ del mare delle che e` materializzazione

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realta` spirituali (tajassud al-ma‘a¯nı¯) e sublimazione del mare degli oggetti della percezione sensibile (talattuf al-mahsu¯˙ ˙ sa¯t). Secondo il sufismo, ˙l’uomo, essere ` del malaku¯t, e un barzakh tra la dimensione divina (la¯ hu¯ t) e la dimensione umana (na¯su¯t), tra Creatore (al-Haqq) e ˙ creatura (al-khalq), tra signore (rabb) e servo (‘abd); nella dimensione del ‘a¯lam al-mitha¯l si realizza il suo essere integrale, come unione mistica delle suddette [M.G.] coppie di opposti. Bibliografia: Henry Corbin, L’imagination cre´atrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabı¯, Flammarion, Paris 1958 (trad. it. L’immaginazione creatrice. Le origini del sufismo, a cura di Leonardo Capezzone, Laterza, Bari-Roma 2005); Id., Corps spirituel et terre ce´leste: de l’Iran mazde´en a` l’Iran shı¯’ite, Buchet-Chastel, Paris 1979 (trad. it. Corpo spirituale e terra celeste, Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 2ª ed. 1996); Heidi Toelle, Le Coran revisite´: le feu, l’eau, l’air et la terre, Institut franc¸ais de Damas, Damas 1999, pp. 122-131; Pierre Lory, Le reˆve et ses interpre´tations en islam, Albin Michel, Paris 2003.

BASMALA La formula che figura all’inizio di tutte le sure tranne una, la nona, bi-ism Alla¯h alRahma¯n al-Ra¯h¯ım (Nel nome di Dio Cle˙ ˙ mente e Misericordioso) e` la basmala, ugualmente detta tasmı¯ya. Nel resto del Corano, appare una sola volta, in 27,30, dove costituisce la formula iniziale utilizzata da Salomone nella lettera che invio` alla regina di Saba. La basmala occupa un posto particolare nella vita religiosa e culturale del mondo musulmano. Nel Corano, essa e` contata come un versetto a parte solo nella sura 1 (al-Fa¯tiha), mentre altrove non viene considerata˙ autonomamente. Il problema di sapere se essa faccia parte integrante del testo rivelato fu sollevato assai presto: autorevoli personaggi hanno risposto negativamente, e questo spiega, per esempio, la posizione adottata dagli hanafiti i ˙ nella quali non la recitano ad alta voce preghiera. Alcuni storici sono giunti inol-

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BASMALA

tre alla conclusione che la basmala rappresenti un’aggiunta anche nella prima sura, perche´ l’eventuale addizione permetteva di inserire un settimo versetto e quindi di intendere il passo che fa riferimento ai ‘‘sette matha¯nı¯’’ o ‘‘ripetuti’’ (15,87) come un’allusione alla Fa¯tiha. ˙ riGli esemplari manoscritti del Corano flettono le suddette incertezze, soprattutto in epoca antica. In copie attribuibili alla fine del I/VII secolo, alcuni copisti non separano nettamente la basmala dal testo che segue, ma lo copiano sulla prima riga della sura senza interruzione rispetto alla formula preliminare; altri invece le riservano l’intera riga iniziale della sura. In altri manoscritti ancora, che appaiono di poco piu` tardi, l’impiego di inchiostro rosso per la basmala permette di evidenziare quest’ultima, ma nel contempo di separarla, come suggerisce l’impiego di inchiostro similmente rosso per annotare i segni vocalici. Nei manoscritti coranici di formato oblungo, risalenti ai secoli II/ VIII e III/IX, la basmala non risulta accuratamente isolata dal resto del testo. A partire dal secolo V/XI, invece, l’abitudine di scriverla da sola all’inizio della sura e` generalizzata, e i copisti si sforzano allora di occupare l’intero spazio introducendo un allungamento: a questo proposito, una differenza di comportamento si osserva tra l’Oriente dove, allo scopo di riempire l’intero spazio della linea, l’allungamento e` introdotto nel primo termine, tra la s e la m di bi-ism; e il Maghreb, dove risulta piuttosto dilatata la legatura tra la h e la m di al-Rahma¯n. ˙ ˙ considerano i I commentatori musulmani due ultimi termini della formula (al-Rah˙ ma¯n al-Ra¯h¯ım) di pari natura; entrambi ˙ epiteti qualificativi di Dio, appaiono loro e questo fa sı` che la basmala vada intesa come ‘‘nel nome di Dio Clemente e Misericordioso’’. Alcuni islamologi hanno invece osservato che nelle altre occorrenze nel Corano il termine Rahma¯n e` sistema˙ ticamente preceduto dell’articolo al-, mentre cosı` non e` nel caso di Ra¯h¯ım, il ˙ ` frequale ricorre senza articolo molto piu quentemente di quanto accada per il contrario. Essi sono pertanto giunti alla con-

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clusione che al-Rahma¯n fosse un sostan˙ tivo (e piu` precisamente un nome divino) e che nella basmala esso fosse accompagnato da un aggettivo o epiteto, al-Ra¯h¯ım ˙ appunto. Dunque, la traduzione ‘‘nel nome di Dio il Benefattore misericordioso’’ renderebbe il senso della formula in modo piu` esatto; in tal caso, al-Rahma¯n ˙ ¯n puo` ricondursi al nome divino Rahmana ˙ delattestato nell’epigrafia preislamica l’Arabia centrale e meridionale. Occorre notare che Musaylima, dichiaratosi profeta dopo il 630 e morto nel corso della battaglia di ‘Aqraba¯’, attribuiva le rivelazioni che andava ricevendo ad ‘‘Al-Rah ˙ma¯n’’. In seguito, la basmala ha un impiego assai piu` ampio. Diviene abituale porla all’inizio di testi di qualsivoglia natura: essa figura comunemente a capo delle iscrizioni, per esempio, ma stesso vale per le composizioni letterarie, le missive e cosı` via. I musulmani piu` rigorosi non mancano di recitarla prima di ogni azione quotidiana, incoraggiati da alcune tradizioni che insistono sulle benedizioni da essa procurate a coloro che la pronunciano. In forma scritta, la basmala e` volentieri sospesa nei luoghi che si vogliono proteggere grazie alla sua forza benefica. Per di piu`, la posizione particolare che essa occupa nel Corano, all’inizio della prima sura e dunque in testa all’intero testo rivelato, non pote´ che suscitare numerose riflessioni: secondo una nota tradizione, tutte le Scritture sacre sono contenute nel punto situato al di sotto della sua prima lettera, la ba¯’. In epoca recente, la basmala ha ottenuto un’attenzione particolare da parte dei calligrafi e, soprattutto nel mondo ottomano, ha dato luogo a interpretazioni diverse: le si e` data la forma di alcuni animali, e` stata copiata secondo i vari stili calligrafici della classicita`, eventualmente a specchio, oppure e` stata impiegata in modo da [F.D.] raggiungere scopi ornamentali. Bibliografia: Yasim Hamid Safadi, Calligraphie islamique, Cheˆne, Paris 1978.

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` BASTONE DI MOSE In alcune sure, precisamente 7,117,120; 26,32,45; 27,10; 28,31, e` fatta menzione del bastone di Mose` (‘asa¯); il termine ‘asa¯ ˙ per indicare˙ il era utilizzato dagli arabi bastone che serviva al cammelliere per guidare la sua cavalcatura. E` un motivo che si ricollega ad antiche tradizioni; presenta allo stesso tempo una dimensione religiosa e una dimensione politica, ed e` contemporaneamente uno strumento di miracolo e un simbolo di autorita`: tali diversi aspetti si trovano riuniti nella presentazione coranica del motivo biblico che concerne essenzialmente Mose`, poiche´ Aronne possiede anch’egli un bastone che pero` non si distingue da quello di Mose`; la maggioranza degli elementi riportati proviene dalla letteratura religiosa ebraica. Nel Corano, Mose` utilizza il bastone in vario modo. Gli serve per far cadere delle foglie e nutrire il suo gregge; ha dunque una funzione vitale. Al tempo del roveto ardente, nella valle sacra di Tuwa¯, Mose` ˙ miracoapprende da Dio il suo carattere loso: «Disse Dio: ‘‘Gettalo, o Mose`!’’. E lo getto`, ed ecco che divenne una serpe strisciante. Disse Dio: ‘‘Afferralo, e non temere, perche´ lo ritorneremo al suo stato di prima» (20,19-22). In tal modo, il bastone diviene allo stesso tempo il simbolo del potere di Mose` e il potere miracoloso che annuncia la missione cui e` destinato, affrontare Faraone «che e` ribelle» (20, 24). Mose` si servira` di questo bastone per dimostrare il vano potere dei maghi d’Egitto e la superiorita` della religione monoteista sul culto di Faraone. Il Corano utilizza inoltre il bastone come simbolo della pura fede nella trascendenza e nell’unicita` divina, contro l’idolatria che divinizza il capo politico. Il bastone di Mose` serve al confronto con il potere della magia; anche i maghi usano bastoni, ma quello di Mose` divora le creature che i bastoni dei maghi sono diventate, e infine i maghi si convertono alla vera fede (7,107-122; 26,44-48). Esso ha senso solo in relazione al confronto tra la fede e l’empieta`, e allo scopo di manifestare il passaggio dalla magia al miracolo

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e dal potere degli uomini alla rivelazione della potenza divina. Per questo, il bastone diverra` uno dei principali simboli della fede musulmana e un importante elemento del rituale islamico. Durante la fuga del popolo di Mose`, il bastone serve ad attraversare il mare, salvando gli ebrei e sommergendo l’esercito di Faraone, il quale si salvo` e da ultimo si convertı`, come riporta un versetto (10,9) in contraddizione con gli altri. Il bastone compare ancora una volta come strumento di discrimine tra la vera fede e l’empieta` , ed e` strumento di giudizio come nelle pratiche preislamiche dove simboleggia il potere del giudice. Per esempio, nel versetto 20,21 dove e` detto che ritrovera` il suo aspetto precedente, segnando cosı` la fine del confronto, esso riprende la sua originaria funzione vitale in relazione all’acqua che simboleggia la vita. Al momento del confronto, il bastone e` allo stesso tempo strumento della morte degli empi e strumento della vita dei credenti. Tuttavia, liberando i figli di Israele dai loro nemici – che sono, secondo i mistici musulmani, le forze del male interne all’uomo stesso – esso libera anche la dimensione essenzialmente vivificatrice dell’acqua che puo` manifestarsi completamente, senza l’elemento distruttore. Questo e` sottolineato in modo evidente dai passi coranici relativi alle dodici fonti d’acqua che Mose` fece sgorgare da una roccia (2,60 e 7,160), cosı` associando quest’acqua al cibo che Dio fece discendere sul popolo d’Israele dalla nube. Secondo le tradizioni musulmane, che riprendono la letteratura rabbinica, Mose` avrebbe ereditato questo bastone dal suocero, Shu‘ayb (Ietro). Si tratterebbe di un ramo di mirto che Adamo avrebbe portato del paradiso e trasmesso a Seth, che quindi passo` a Idris (Enoch o Elia), Noe`, Sa¯lih e Abramo e infine a Shu‘ayb. ˙ ˙ Profeta Il riprese questo simbolo che si ricollegava sia alle tradizioni bibliche sia a quelle arabe preislamiche; ebbe l’abitudine di usare un bastone chiamato ‘ana¯za – gia` utilizzato in periodo preislamico dai giudici come simbolo del loro potere – per recarsi al luogo della preghiera e indicare

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la direzione di quest’ultima. In seguito, si stabilı` la norma che il predicatore portasse un bastone in occasione della preghiera. Per concludere, il bastone divenne inoltre un simbolo del califfato, con il [P.B.] sigillo e il pulpito. Bibliografia: Annemarie Schimmel, Deciphering the Signs of God. A Phenomenological Approach to Islam, State University of New York Press, Albany 1994.

BATTAGLIE DEL PROFETA Parallelamente alla sua vocazione profetica, Muhammad fu un capo militare che condusse le proprie truppe in combattimento. Le sue piu` famose battaglie sono, in ordine cronologico, quelle di Badr, di Uh ud, di Khandaq, di H udaybiyya, di ˙ ˙ Mecca e, inKhaybar, la conquista della fine, gli scontri di Hunayn e di Tabu¯k. Le loro narrazioni, per˙ esempio il Kita¯b almagha¯zı¯ (‘‘Il libro delle razzie’’) di Wa¯qidı¯ (m. 207/823), appaiono come tentativi di ricostruzione di dati biografici su Muhammad e la sua cerchia. Queste battaglie sarebbero da considerare, inoltre, come un’evoluzione della pratica largamente attestata delle razzie preislamiche che, tra le tribu` d’Arabia, consistevano nell’attaccare e derubare gli avversari per ragioni materiali o questioni di potere tribale. Le battaglie del Profeta avrebbero poi assunto un significato religioso; i riferimenti coranici a tali battaglie sono molto numerosi. Il permesso o, persino, l’ordine di combattere e` manifesto per esempio nei versetti seguenti: «E` dato permesso di combattere a coloro che combattono perche´ sono stati oggetto di tirannia: Dio, certo, e` ben possente a soccorrerli; cioe` coloro che sono stati cacciati dalla loro patria ingiustamente, soltanto perche´ dicevano: ‘‘Il signore nostro e` Dio!’’» (22,39-40), o ancora: «Combattete sulla via di Dio e sappiate che Dio ascolta e conosce» (2,244). I nemici che i musulmani devono combattere sono generalmente i ‘‘negatori’’: «Voi che credete! Combattete i negatori che vi stanno vicini! Che possano trovare in voi tempra durissima! E sappiate che Dio e` con coloro che Lo temono!» (9,123). Il combat-

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timento, tuttavia, non fu sempre gradito ai fedeli di Muhammad: «Vi e` prescritta la guerra anche se cio` possa spiacervi: che´ puo` darsi che vi spiaccia qualcosa che invece e` un bene per voi» (2,216). La motivazione dei combattenti e` tanto legata all’attrattiva del bottino, come gia` accadeva in periodo preislamico, quanto alla ricompensa divina nell’Aldila`, promessa dalla nuova religione: «Non hai visto coloro a cui fu detto: ‘‘Deponete le armi, attendete alla Preghiera e fate l’Elemosina!’, e quando viene loro prescritto di combattere ecco che parte di loro temono gli uomini tanto quanto temono Dio e piu` ancora, e gli dicono: ‘‘Signore! Perche´ ci hai prescritto la guerra? Non avresti potuto concederci una dilazione fino alla nostra prossima morte?’’ Dı` loro: ‘‘Vile e` la merce del mondo, ben migliore e` l’Altra per chi teme Iddio, e ivi non si sara` fatto torto nemmeno per la pellicina dell’osso d’un dattero!’’» (4,77). Il bottino, tuttavia, e` anche presentato come una divina ricompensa: «Voi che credete! Quando v’ingannate nella via di Dio, state ben attenti, e non dite a chi vi porge il saluto di ‘‘Pace!’’, ‘‘Tu non sei credente!’’ per il desiderio dei beni effimeri del mondo. Anzi, presso Dio c’e` bottino abbondante. Cosı` voi facevate prima, ma ora Dio vi ha colmato dei suoi favori. State dunque bene attenti, che´ Dio ha buona notizia di quel che voi fate» (4,94). Il Corano afferma inoltre che la superiorita` di alcuni musulmani su altri dipende dalla loro partecipazione alle battaglie condotte per ordine del Profeta: «Non sono uguali agli occhi di Dio quelli fra i credenti che se ne restano a casa (eccettuati i malati) e quelli che si sforzano sulla via di Dio dando i beni e la vita, poiche´ Dio ha esaltato d’un grado coloro che si sforzano sulla via di Dio dando i beni e la vita, sopra a quelli che se ne restano a casa» (4,95). La maggior parte degli esegeti afferma che in questo versetto ‘‘fare sforzo’’ significhi ‘‘condurre la guerra santa’’.

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La battaglia di Badr La prima battaglia condotta da Muhammad fu quella di Badr: essa consolido` la sua missione profetica e segno` la storia dell’islam. Badr Hunayn e` una piccola ˙ citta` a sud-est di Medina, sulla rotta carovaniera che congiungeva La Mecca alla Siria. Secondo i racconti tradizionali, nel mese di ramada¯n del secondo anno dell’egira (marzo˙ 624 dell’era cristiana), il Profeta intercetto` , nelle vicinanze di Badr, una ricca carovana composta di piu` di trecento uomini. Con i rinforzi inviati a proteggere questa carovana, le truppe meccane raggiungevano i novecentocinquanta elementi. Avendo scoperto l’esistenza del loro accampamento, Muhammad e i suoi bloccarono l’accesso a tutte fonti d’acqua salvo quella piu` vicina al nemico, ostruendole con la sabbia. Gli avversari del Profeta subirono a Badr una sconfitta totale: vi furono piu` di settanta morti tra i quali numerosi notabili meccani, e circa settanta prigionieri che vennero liberati in seguito dietro riscatto. Quanto all’armata dei musulmani, pianse solo quindici morti. La battaglia impressiono` a lungo le tribu` della regione di Medina e rafforzo` enormemente la fede di Muhammad e dei suoi Compagni circa la veridicita` della missione profetica. L’espulsione della tribu` ebraica dei Banu¯ Qaynuqa¯‘ di Medina ebbe luogo immediatamente in seguito a questa battaglia, che puo` essere dunque considerata la prima grande vittoria delle truppe musulmane. Quanti vi parteciparono godettero di un grande prestigio e il testo coranico la presenta come una battaglia provvidenziale. Nei versetti 8,41-45, secondo i commentatori, andrebbe individuata una rivelazione che Muhammad ebbe durante la battaglia. Nel versetto 17 della stessa sura, la battaglia viene descritta cosı`: «Ma non voi li uccideste, bensı` Dio li uccise, e non eri tu a lanciare frecce, bensı` Dio le lanciava; e questo per provare i credenti con prova buona, perche´ Dio e` ascoltatore sapiente».

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La battaglia di Uhud La battaglia di Uh˙ud ebbe luogo nell’anno ˙ 3/625 e deve il nome a un tavoliere roccioso situato a nord di Medina. Essa costo` la vita a piu` di settanta musulmani, tra cui lo zio del Profeta, Hamza, e fu, dunque, un ˙ solleva, a proposito fallimento. Il Corano di questa battaglia una questione teologica di una certa importanza: la superiorita` della vita dell’Aldila` rispetto a quella terrena. Tra le cause della sconfitta dei musulmani, il testo coranico menziona infatti la loro avidita`, che condanna in modo evidente; ricorda ai fedeli che il motivo primo dello scontro deve essere la ricompensa divina, promessa dopo la morte: «Eppure Dio gia` vi e` stato sincero nella Sua promessa, quando col Suo permesso sgominaste i nemici, fino al momento che disperaste e discuteste gli ordini, e cosı` vi ribellaste, quando gia` vi aveva fatto vedere quel che bramavate; e allora, poiche´ fra voi ci sono alcuni che desiderano i beni di questo mondo e altri che desiderano i beni dell’altro, Iddio, per provarvi, vi ha fatto fuggire innanzi a loro» (3,152). Questa battaglia sembra avere al contempo stigmatizzato l’eccesso di fiducia nella propria superiorita` bellica sviluppato dai musulmani dopo Badr: «O Profeta! Incita alla battaglia i credenti! Venti uomini pazienti dei vostri ne vinceranno duecento; cento dei vostri ne vinceranno mille di quelli che hanno ripugnato alla Fede, che´ questi sono gente che nulla comprende» (8,65). Tuttavia, in un altro passo, rivelato secondo gli esegeti dopo Uhud, la loro fiducia risulta piu` sfu˙ Iddio vi ha alleggerito il commata: «Ora pito, perche´ sa che v’e` debolezza fra voi: cento uomini pazienti dei vostri ne vinceranno duecento, e mille, col permesso di Dio, ne vinceranno duemila: Dio e` coi pazienti!» (8,66). Negli stessi versetti sono evocate alcune leggi belliche: «Non e` degno di un Profeta il possedere prigionieri prima d’aver duramente colpito sulla terra i nemici di Dio. Voi volete i beni del mondo, ma Dio vuole per voi quelli dell’Altro, e Dio e` possente sapiente» (8,67). La sconfitta dei musulmani in questa battaglia comporto` una

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flessione nella credibilita` di Muhammad. Successivamente a questa battaglia, percio`, si verifico` l’espulsione della tribu` dei Banu¯ al-Nad¯ır di Medina. ˙ La battaglia di Khandaq La battaglia ‘‘del Fossato’’ (al-Khandaq), ebbe inizio con l’assedio di Medina da parte degli avversari meccani del Profeta, nell’anno 5/627, e duro` una quindicina di giorni. Secondo le fonti, diecimila meccani affrontarono tremila musulmani per stroncare una volta per tutte il nuovo movimento religioso. Cifre che suonano eccessive, e risponderebbero infatti a una volonta` agiografica. Al fine di proteggere la citta`, il Profeta fece scavare un fossato nel luogo piu` vulnerabile di Medina, fossato che i meccani riuscirono a oltrepassare. Il Profeta, lungimirante, aveva fatto raccogliere tutte le messi dai campi circostanti un mese prima dell’arrivo dei nemici: cio` privo` del foraggio i loro cavalli. Questa battaglia e la successiva vittoria dei musulmani ebbero come conseguenza un gran numero di intrighi, che il Corano sembra evocare in modo allusivo: «La` furono messi alla prova i credenti, e una scossa li scosse violenta. Allorche´ dicevano gli Ipocriti e quelli che avevano un morbo nel cuore: ‘‘Iddio e il Suo Messaggero non ci hanno promesso che promesse bugiarde!’’ E quando un gruppo di loro disse: ‘‘gente di Yathrib [Medina], qui non e` luogo sicuro per voi, tornatevene dunque!’’ e infatti parte di loro chiedeva licenza al Profeta dicendo: ‘‘Le nostre case sono indifese!’’ Ma le loro case indifese non erano; quel che essi volevano era solo fuggire!» (33,11-13). La battaglia di Hudaybiyya ˙ La Tradizione riferisce che, in seguito a un sogno che lo incitava a compiere il piccolo pellegrinaggio (‘umra) alla Mecca, il Profeta decise di recarvisi insieme a circa millecinquecento uomini. Quando si fermo` a Hudaybiyya, i suoi ˙ avversari meccani inviarono duecento cavalieri per impedire loro di proseguire il cammino. Grazie ad alcune negoziazioni tra i due eserciti, fu stabilita una tregua: i musulmani si dovevano ritirare, ma,

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l’anno successivo, i meccani avrebbero dovuto evacuare la citta` per tre giorni per permettere ai loro avversari di compiere i riti del pellegrinaggio. Nella tradizione islamica, questo patto viene chiamato ‘‘Il giuramento sotto l’albero’’ (lett. ‘‘del consenso’’, bay‘at al-ridwa¯n). Il Corano fa allusione ˙al sogno del Profeta: «Certo Iddio confermo` al Suo messaggero la veridicita` della visione, quando Egli gli disse: ‘‘Voi entrerete nel Sacro Tempio, se Dio vuole, sicuri, con le teste rasate alcuni, coi capelli accorciati altri, senza timore. Perche´ Dio sa quel che voi non sapete, e oltre a questo Egli ha decretato per voi vicina vittoria’’» (48, 27). Si accenna anche alla tregua giurata pattuita a Hudaybiyya: «Iddio si e` com˙ i credenti quand’essi ti giupiaciuto con rarono fedelta` sotto l’Albero: Egli conosceva quello che avevano in cuore e ha fatto discendere su di loro la Sua Presenza Pacificante e li compensera` di vicina vittoria» (48,18). La battaglia di Khaybar L’oasi di Khaybar, abitata principalmente da tribu` ebraiche, si trovava a centocinquanta kilometri da Medina. Agricoltori commercianti e artigiani, gli ebrei del luogo possedevano abbondanti ricchezze. Assicuratosi che i meccani non sarebbero intervenuti grazie al patto di Hudaybiyya, ˙ Khaybar, il Profeta decise di attaccare cercando da un lato di ottenere un bottino che si preannunciava cospicuo, dall’altro di motivare i propri uomini delusi per non aver potuto invadere la Mecca durante la battaglia di Hudaybiyya. D’altra parte, la conquista di ˙Khaybar avrebbe permesso a Muhammad di sbarazzarsi definitivamente della tribu` ebraica dei Banu¯ al-Nad¯ır che aveva gia` cacciato da Medina dopo ˙ battaglia di Badr. I membri di questa la tribu`, rifugiatisi a Khaybar, non avevano effettivamente mai smesso di tramare contro il Profeta insieme alle tribu` arabe della regione. Secondo la Tradizione, Muhammad attacco` Khaybar con milleottocento o milleseicento uomini e cento cavalli nell’anno 6/628. I passi coranici che rievo-

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cano questa battaglia sollevano un ben preciso problema giuridico sulla condizione delle truppe dei musulmani durante l’assedio dell’oasi: non avendo nulla di cui nutrirsi, furono costretti a uccidere e mangiare alcuni asini fuggiti dall’oasi. Muhammad, pero`, aveva in precedenza dichiarato proibita la carne di cavallo, di mulo e di asino. In questa occasione, una rivelazione venne appositamente ad alleggerire quel divieto in considerazione del contesto bellico: «Uomini! Mangiate quel che di lecito e buono vi e` sulla terra e non seguite le orme di Satana, che e` vostro evidente nemico. Voi che credete! Mangiate delle cose buone che la Provvidenza Nostra vi ha dato, e ringraziatene Iddio, se Lui solo adorate!» (2,168 e 172; si veda anche 6,118-119). Dopo un mese e mezzo di assedio e una ventina di morti tra i musulmani, gli ebrei chiesero al Profeta di proporre loro un patto. Si arresero, dunque, e continuarono a coltivare le loro terre a condizione, tuttavia, di consegnare ai musulmani la meta` dei prodotti. La conquista della Mecca La conquista della Mecca da parte del Profeta, accompagnato, a quanto pare, da diecimila uomini, venne compiuta senza una battaglia vera e propria nel mese di gennaio del 630. Secondo la totalita` dei commentatori, il Corano menziona esplicitamente questa conquista nella sura 48, intitolata a ragione ‘‘La Vittoria’’ (o ‘‘L’Apertura’’, Al-Fath ): «Ti abbiamo ˙ concesso davvero segnalata Vittoria» (48,1). Essa appare come il coronamento dei benefici di Dio a favore del suo Profeta. La conquista della Mecca e` presentata nel Libro sacro come la prova della veridicita` del messaggio di Muhammad: «Chiedono: ‘‘Quando dunque sara` questa Vittoria, se siete sinceri?’’ Rispondi: ‘‘Il giorno della Vittoria non giovera` ai Negatori la loro fede tardiva, e non sara` loro concesso d’attendere’’» (32,28-29). Questa vittoria provvidenziale e` offerta da Dio ai musulmani: «Se cercate, o Meccani, una soluzione, ecco, la Soluzione e` venuta; se poi smettete di opporvi a Dio, meglio sara` per voi; se riattaccate, riattac-

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cheremo anche Noi e a nulla vi gioveranno i vostri eserciti, anche se fossero molti e grandi, perche´ Dio e` con i credenti» (8,19). La battaglia di Hunayn Questa battaglia˙ rappresenta il confronto principale tra Muhammad e le tribu` nomadi degli Hawa¯zin e dei Thaqı¯f. Il Corano rievoca l’aiuto concesso da Dio ai musulmani in occasione di questa battaglia: «In molti campi di battaglia gia` vi ha soccorso al trionfo Iddio! E nel giorno di Hunayn quando vi compiacevate del vo˙ grande numero, ma a nulla vi servı`, stro allorche´ l’ampio terreno della valle vi parve angusto e fuggiste, le spalle al nemico» (9,25). Nonostante qualche problema organizzativo in seno alle truppe musulmane, questa battaglia si concluse con la vittoria di Muhammad. La battaglia di Tabu¯k Tabu¯k era una citta` a nord-ovest dell’Arabia, la cui importanza era legata alla posizione privilegiata sulla rotta del pellegrinaggio dalla Siria e all’abbondanza di fonti d’acqua. Durante l’estate del 9/630, il Profeta decise di attaccare nonostante la riluttanza di molti musulmani che temevano di incontrare la` un assembramento di tribu` arabe e forze bizantine. Secondo gli esegeti e gli esperti della disciplina ‘‘delle circostanze della rivelazione’’ (asba¯b al-nuzu¯l), il Corano allude a questa ‘‘ora dell’avversita`’’ nel versetto 9, 117. In effetti, a Tabu¯k non ci fu alla fine una battaglia vera e propria, poiche´ il Profeta accetto` rapidamente la sottomissione di alcuni capi di queste regioni del litorale del mar Rosso prospicienti il golfo di ‘Aqaba. Le rievocazioni delle battaglie del Profeta nel Corano mostrano evidentemente come la rivelazione e la storia siano indissociabili. Tali battaglie furono considerate, inoltre, come una griglia interpretativa teologica o giuridica da applicarsi a situazioni analoghe, che implicavano questioni riguardanti la guerra santa, la distribuzione del bottino, la sorte riservata ai prigionieri o la ricompensa escato[A.Hi.] logica dei combattenti.

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BATTESIMO e BATTISTI

Bibliografia: Jacqueline Chabbi, Le Seigneur des tribus. L’Islam de Mahomet, Noeˆsis, Paris 1997; Michael Cook, Storia del jiha¯d: da Maometto ai nostri giorni, a cura di Roberto Tottoli, Einaudi, Torino 2007 (ed. or. Understanding Jihad, University of California Press, Berkeley 2005); Alfred-Louis de Pre´mare, Les Fondations de l’islam: entre e´criture et histoire, Le Seuil, Paris 2002; Claudio Lo Jacono, Maometto: l’inviato di Dio, Edizioni Lavoro, Roma 1995; Maxime Rodinson, Mahomet, Le Seuil, Paris 1968 (trad. it. Maometto, Einaudi, Torino 1973); Muhammad Abdulhayy Shaban, Islamic History, a New Interpretation, Cambridge University Press, Cambridge,1971; William Montgomery Watt, Mahomet a` La Mecque e Mahomet a` Me´dine, Payot, Paris 1977 e 1978.

BATTESIMO e BATTISTI Il termine sibgha, che a quanto pare ha ˙ ` a molti esegeti nel corso posto difficolta dei secoli, e` spesso interpretato e tradotto ancora ai nostri giorni con formule imprecise quali ‘‘colorazione’’, ‘‘distribuzione dei colori’’ o anche ‘‘unzione’’ di Dio. Figura al versetto 2,138: «Ecco la sibgha di Dio! E chi puo` tingere meglio di˙Dio?» Questo termine figura al centro di una polemica sulla religione di Abramo che contrappone Muhammad agli infedeli, cristiani ed ebrei (2,135-141): quale comunita` puo` davvero reclamarla in eredita`? Certo non gli ebrei e i cristiani, che se ne sono dimostrati indegni perche´ hanno occultato la testimonianza secondo la quale Muhammad era annunciato nelle loro scritture. Questa polemica si sviluppa a partire dal momento del cambio di direzione della preghiera (qibla) da Gerusalemme alla Mecca che gli storici situano circa due anni dopo l’egira, nel 2/ 624. Questa iniziativa segna per l’islam il momento del distacco concreto e definitivo dall’ebraismo, quando esso inizia a presentarsi come una religione veramente differente dalle rivelazioni ‘‘abramitiche’’ precedenti; e questo non a livello dei suoi referenti, che in buona parte rimangono comuni, ma per la sua struttura specifica, cioe` per il suo modo di riorganizzare quelle religioni e combinarle

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l’una con l’altra. Il versetto sulla sibgha ˙ prende dunque le mosse da una domanda retorica, la cui risposta e` l’affermazione del passaggio diretto della hanı¯fiyya (la ˙ religione retta religione di Abramo) alla di quanti si volgono verso la qibla della Mecca. Sembra che in realta` non ci sia alcun mistero attorno a questo versetto, come ha sottolineato Ge´rard Troupeau: il termine sibgha e` indubbiamente di ori˙ e appartiene al vocabolario gine araba religioso degli arabi-cristiani, che lo utilizzavano per designare il battesimo. Secondo Paul Nwyia, al-Hakı¯m al-Tir˙ midhı¯ (m. 318/930), che definisce la sib˙ gha come il fatto che «Dio tempra il cuore del credente nell’acqua della misericordia (ma¯’ al-rahma)», e` stato tra i primi a ‘‘riscoprire’’ il˙ vero significato di questa parola. Un’accezione molto simile si puo` ritrovare in un corpus di tradizioni sciite, anch’esso databile al III/IX secolo: «Dio ha creato i credenti dalla Sua luce, poi li ha immersi (o battezzati; asbagha-hum) ˙ stretto con nella Sua misericordia, poi ha loro il patto (mı¯tha¯q) riguardante la fede nella nostra [degli imam] santita`» (AlSaffa¯r al-Qummı¯, Basa¯’ir al-daraja¯t, 2: ˙ ¯ b ma¯ akhadha Alla¯˙h mı¯tha¯q al-mu’miBa nı¯n, 11). In effetti, questo significato era gia` conosciuto dai piu` antichi commentatori del Corano, i quali riportano che «quando Dio menziono` la sibgha, egli ˙ intese la s ibgha dell’islam; infatti, ˙ quando i cristiani vogliono rendere i loro figli cristiani, li immergono nell’acqua affermando che essa li purifica, nello stesso modo in cui ci si lava da un crimine secondo la tradizione islamica. Essi dicono che cio` costituisce una s ibgha ˙ (‘‘una condizione’’) del cristianesimo. Dio Altissimo ha detto: ‘‘Voi cristiani ed ebrei, sarebbe meglio per voi seguire il cammino della religione (milla) di Abramo, la sibgha di Dio, che e` la sibgha ˙ ´ e` la hanı¯fiyya di Abramo ˙ migliore poiche ˙ (Tabarı¯, Tafsı¯r, commento al versetto 2, ˙ 138). I personaggi piu` importanti nel gruppo dei Seguaci (Ta¯bi‘u¯n), tra i quali figurano Ubayy ibn Ka‘b (m. 104/722), Hasan al-Basrı¯ (110/728), ‘Ata¯’ ibn Ra˙ ˙ ¯ h (m. 134/752) ba e ‘Abd Alla¯h˙ ibn Kathı¯r ˙

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(m. 120/737), concordano con questa spiegazione; molti di loro hanno inoltre identificato la sibgha con la fitra. Essi ˙ dicono: «La sibgha di Dio e` la˙ fitra di ˙ ˙ Dio, conformemente alle sue parole: ‘‘Ogni essere umano nasce nella fitra’’». Tale equiparazione dei tre termini˙ fitra, ˙ sibgha e hanı¯fiyya, ai quali e` bene aggiun˙gere il termine ˙ mı¯tha¯q (‘‘patto’’), menzionato anche nella tradizione sciita sopra citata, significa che i primi commentatori avevano ben compreso come lo scopo del testo coranico fosse quello di dichiarare il battesimo cristiano, similmente alla circoncisione ebraica, soppiantata dal primo per gli adepti del cristianesimo, un semplice surrogato del vero battesimo: la sola ‘‘condizione religiosa’’ di un infante e` quella che gli e` conferita da Dio stesso. Per questo, almeno nel primo periodo dell’islam, la sibgha e` stata recepita come il ‘‘battesimo˙ di Dio’’, nel senso di ‘‘battesimo conferito da Dio’’; ed e` stata assimilata alla fitra (la concezione religiosa originaria), e˙ anche alla hanı¯fiyya (la voca˙ zione monoteistica dell’uomo), quest’ultima una caratteristica di Abramo che si ritrova in Muhammad e che rimanda alla risposta fornita dai discendenti dei figli di Adamo al momento del primo patto ovvero la prima alleanza tra Dio e gli uomini. Il commento relativo alla purificazione operata dal battesimo cristiano e il suo paragone con l’azione di ‘‘lavarsi da un crimine’’ introduce una connotazione critica sull’idea di peccato originale o, almeno, un netta presa di posizione su questo punto. Esso intende evidenziare la superiorita` dell’islam, per il quale l’uomo alla nascita si trova in una condizione di assoluta innocenza; inoltre, l’uomo nasce gratificato da un dono divino che comporta allo stesso tempo purezza e conoscenza. Questo modo di intendere il ‘‘battesimo di Dio’’ evoca una lettura letterale degli ‘‘Atti degli Apostoli’’ (1,5): «Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni»; e` un brano che rimanda, a sua volta al Vangelo di Luca: «Giovanni rispose a tutti dicendo: ‘‘Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che e` piu` forte

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di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzera` in Spirito Santo e fuoco’’» (Lc 3,16). Nel medesimo spirito, ben prima dell’avvento dell’islam, i manichei avevano rifiutato il battesimo con l’acqua considerandolo assolutamente inadatto a procurare la salvezza a chicchessia, e, secondo quanto riferito da Agostino, «ritenevano di non dover battezzare coloro che guadagnavano alla loro causa». Alcuni dei loro testi fanno poi riferimento a un ‘‘battesimo divino’’, legato all’adesione religiosa o alla professione di fede. Essi furono senza dubbio influenzati dai gruppi gnostici che dopo il II secolo avevano rifiutato tutte le pratiche materiali comportanti l’uso di simboli o elementi sensibili (acqua, miscela d’olio e acqua, unguenti), sostenendo che era impossibile portare a temine il mistero della Potenza inesprimibile e invisibile per mezzo di creature visibili e corruttibili. Ai loro occhi, la Redenzione perfetta era la ‘‘conoscenza stessa’’. Nella medesima prospettiva, secondo il Corano, il vero battesimo e` conferito soltanto da Dio, e la sibgha puo` rappresentare un battesimo ˙gnostico nella misura in cui esso consiste, tramite la risposta a un patto, in un’originale proclamazione di conoscenza della sovranita` divina. In questo contesto, esso riveste una dimensione che tocca l’essenza dell’essere. Effettivamente, questa e` la questione sollevata nel versetto della ‘‘sibgha di Dio’’, parallela˙ di Dio’’ del versetto 30, mente alla ‘‘fitra 30. Come ha ˙sottolineato Andre´ Roman, questa s ibgha costituisce appunto un punto di˙contatto tra l’uomo e Dio, un’impregnazione di ‘‘qualcosa di divino’’. Per di piu` vi e`, in quest’idea, la ricerca dell’applicazione del concetto la piu` universale possibile. Infatti, se tutti gli uomini nascono nella fitra, cioe` il battesimo ˙ conferito direttanaturale dello spirito mente da Dio, non c’e` piu` ostacolo alcuno tra l’umanita` nella sua essenza e l’appartenenza all’islam, che e` la sua religione naturale. Per questo, nessuno puo` affermare di ignorare l’islam a priori. Al contrario, tutti gli uomini appartengono all’i-

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BATTESIMO e BATTISTI

slam in modo innato. L’esclusione, allora, non verte su quanti non si mossero per uscire dallo stato di natura, ma su quanti si mossero in direzione diversa dall’islam, verso il battesimo cristiano o la circoncisione ebraica. Uscendo da questo stato di natura che coincide con l’islam stesso, essi si sono antropologicamente e spiritualmente ‘‘sfigurati’’, e si sono esclusi dal vero cammino. Questa concezione e` ampiamente sviluppata nelle numerose versioni del cosiddetto ‘‘hadı¯th del kull mawlu¯d’’: «Ogni infante˙ nasce nella fitra, sono i suoi genitori a farlo ebreo, ˙ cristiano o magio» (l’ultimo gruppo, quello dei magi, potrebbe rappresentare, nel contesto di questo hadı¯th, certi gruppi manichei, tornati, ˙tempo dopo, a un ‘‘battesimo materiale’’ tramite unzione con olio o con una miscela d’olio e acqua). In questa prospettiva, come ha constatato Ge´rard Troupeau, secondo l’ottica islamica il battesimo cristiano con l’acqua arriva effettivamente a modificare e denaturare l’atto creatore di Dio, deviando dalla vera fede l’uomo, creato originariamente per essere musulmano, e cosı` rendendolo un infedele. Meglio si comprende, dunque, il significato del versetto 2,138, che proclama la superiorita` del battesimo di fede dei musulmani sul battesimo d’acqua dei cristiani. Proclamandosi religione naturale dell’essere umano, l’islam presenta i non musulmani (gente del Libro cioe` ebrei, cristiani e, in alcuni contesti, manichei), sotto un’ottica particolare, come coloro che si sono esclusi dalla salvezza e anche privati volontariamente delle proprie autentiche dimensioni, quella umana e quella spirituale. Esiste nondimeno una versione della tradizione che non identifica la fitra/sibgha ˙ ˙ Essa musulmana con lo stato di natura. precisa che sono i genitori dell’infante che ne fanno un ebreo, un cristiano, un magio oppure un musulmano. Questa versione, attestata da una tradizione profetica conservata nel Sah¯ıh di Muslim, tra˙ ˙ ˙ ovvero ‘‘Sesmessa dall’‘‘Epigono’’ guace’’ A‘la¯ ’ (m. 130/747), a lui trasmessa da suo padre e risalente al Profeta

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BELLEZZA

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tramite Abu¯ Hurayra (m. 5/677), e` stata citata da Ghaza¯lı¯ (m. 505/1111); Hamadi Redissi parla, in questo caso, di una «felice disposizione di spirito» dell’autore. Si tratta, tuttavia, di un hapax, che non ha avuto influenza sull’interpretazione generale dei concetti coinvolti. D’altro canto esiste un racconto riferito da un uomo che dichiaro` d’aver messo al riparo il Corano (mushaf) del califfo ‘Uth˙ ˙ di quest’ultimo ma¯n, dopo l’uccisione nella sua dimora per mano di alcuni congiurati, nel 36/656. ‘Uthma¯n avrebbe tenuto il Libro tra le braccia, e il suo sangue sarebbe caduto precisamente sul versetto che riguarda la sibgha (Annali di Tabarı¯). ˙ questione di verosimi˙ Al di la` di ogni glianza storica riguardante la materialita` del ‘‘Libro’’, e` possibile constatare che l’accento posto sul legame tra questo sangue e la parola sibgha rappresenta un ri˙ ferimento all’equivalente di un ‘‘battesimo di sangue’’, nozione essenziale per i cristiani successivi ai primi Padri della Chiesa. Il Corano non impiega mai questa denominazione per alludere al battesimo; Giovanni Battista e` semplicemente chiamato Yahya¯ ibn Zakariyya¯ (Giovanni, figlio di ˙ Zaccaria). Alcune tradizioni, pero`, gli danno l’epiteto di al-ma‘mada¯nı¯, nome derivato da un’altra radice utilizzata in arabo per designare il battesimo. Per quanto riguarda i battisti, non vengono mai citati in quanto tali ma possono essere assimilati ai sabei. All’epoca, come ai nostri giorni quando portano ancora il nome di ‘‘mandei’’ o ‘‘cristiani di san Giovanni’’ in riferimento alle loro pratiche battesimali, essi vivevano nell’Iraq meridionale. La loro caratteristica e` la reiterazione delle abluzioni in acqua corrente, alcune delle quali costituirebbero un ‘‘richiamo’’ del battesimo. Circa quattro secoli prima, Mani era venuto alla luce in una comunita` battista di questa regione, e una delle caratteristiche del manicheismo orientale antico era, forse per semplice volonta` di differenziazione, il rifiuto dell’utilizzo di qualsiasi corpo materiale nella pratica del battesimo. Tuttavia piu` tardi, soprattutto negli sviluppi occiden-

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tali e in particolare europei, numerosi gruppi di manichei tornarono a una pratica piu` concreta, con olio o con una mistura d’olio e acqua. [G.G.] Bibliografia: Genevie`ve Gobillot, «La Conception originelle (fitra). Ses interpre´ta˙ le penseurs musultions et fonctions chez mans», Le Caire, IFAO, in Cahiers d’e´tudes islamologiques, 18 (2002) (1ª ed. 2000); Paul Nwyia, Exe´ge`se coranique et langage mystique. Nouvel essai sur le lexique technique des mystiques musulmans, Dar el-Machreq, Beyrouth 1970; HenriCharles Puech, Sur le maniche´isme et autres essais, Flammarion, Paris 1979; Hamadi Redissi, L’Exception islamique, Le Seuil, Paris 2004 (capp. 4 e 6); Ge´ rard Troupeau, «Un exemple des difficulte´s de l’exe´ge`se coranique: le sens du mot sibgha ˙ 5-6, (s. 2, v. 138), in Communio 16 (1991), pp. 119-126.

BELLEZZA Secondo uno hadı¯th molto noto, «Dio e` bello (jamı¯l) e˙ ama la bellezza (jama¯l)». Quest’idea, esposta in una semplice frase, esprime diverse nozioni ampiamente presenti nel Corano, che concernono innanzitutto la bellezza di Dio, bellezza generosa e non statica che si diffonde sulla terra e si rivolge all’intera creazione, specie attraverso il suo amore. La bellezza della creazione discende quindi in modo naturale dall’amore che Dio nutre per essa. La bellezza puo` essere formale, come nel termine latino formosus; in tal caso si rivolge sia alla vista sia all’intelligenza, e insiste sulla perfezione e la proporzione di tutte le parti dell’oggetto ritenuto bello. Puo` anche avere una connotazione morale: pulcher in latino e` insieme buono, bello e puro. Come in latino, diverse parole arabe indicano i differenti aspetti della bellezza. Abitualmente la radice del verbo jamula indica cio` che e` bello e piacevole, ma e` poco impiegata nel testo coranico. Invece la radice del verbo hasuna, assai piu` frequente, esprime un ˙valore che attiene piu` alla bellezza morale che all’estetica formale. Il valore morale della bellezza si evidenzia particolarmente in cio` che Dio esige dall’uomo:

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azioni belle e un’anima bella e pura che varranno al credente una ricompensa bella. Una terza radice, quella del verbo ‘ajiba, e` legata alla nozione di meraviglioso, di cio` che appare estremamente piacevole. Questo ‘‘stupore’’ puo` essere negativo: «Non ti stupiscano i loro abbondanti beni e i loro figli» (9,55 e 85). Ma lo stesso termine puo` essere impiegato con una connotazione ‘‘positiva’’: «I seminatori sono pieni di meraviglia, e i negatori se ne irritano» (48,29). La bellezza della terra, in particolare per quel che concerne l’uomo, e` passeggera; l’attaccamento ai beni mondani e ai loro ornamenti non e` che vanita`, e di gran lunga superiori sono le bellezze che il giusto scoprira` in paradiso. La bellezza creata dall’uomo, specie sotto forma di manifestazioni artistiche, non trova considerazione nella Rivelazione; in compenso, nel corso dei secoli successivi, i musulmani svilupperanno una serie di sistemi estetici, tra i quali i piu` elaborati riguardano senza dubbio la calligrafia. Dio e` bello Quando si invoca Dio, i qualificativi impiegati descrivono la sua bellezza poiche´ «Dio possiede i nomi piu` belli» (7,180). Similmente e` detto: «Comunque lo invochiate, a Lui appartengono i nomi piu` belli» (17,110; cfr. anche 20,8; 59,24). Nel contesto coranico, Dio e` definito in particolare buono o dolce (lat¯ıf) oppure benevolente (con l’impiego del˙ verbo ahsana), ma, contrariamente allo h adı¯˙th precedentemente citato, non e` mai˙ definito bello (jamı¯l) in senso stretto. La bellezza di Dio, nel Testo rivelato, non puo` descriversi come formale; essa deriva non solo dalla sua opera creatrice e dalla bellezza intrinseca di quest’ultima ma anche dall’amore che Dio ha nei suoi confronti. La sua bellezza e` dunque strettamente legata ai concetti di giustizia, perdono e amore. Il tema dell’amore divino, spesso esplorato nella poesia mistica musulmana, sviluppera` piu` tardi un sistema secondo cui la bellezza non e` piu` ricercata nella sola armonia delle cose, ne´ nella

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BELLEZZA

perfezione in rapporto a uno scopo, ma a partire dall’esperienza del soggetto, l’‘‘amante’’ del divino. Dio ama la bellezza La bellezza della creazione deriva naturalmente dall’amore che Dio le porta. Questa bellezza deriva in particolare dalla precisione e dall’armonia delle proporzioni di ogni cosa creata, nozione gia` presente nella radice «khlq», ‘‘creare’’ ma anche ‘‘dar forma a qualcosa nelle esatte proporzioni’’; e` detto: «Armoniosamente lo formo`» (32,9). Il principio di armonia sta alla base di numerose concezioni estetiche; in questo caso si tratta dell’armonia delle parti e del tutto secondo la quale l’unita` del tutto si impone sulla molteplicita` delle parti. La bellezza dell’uomo, sia per le proporzioni armoniose sia per la bellezza della sua anima, si contrappone naturalmente alla «malattia del cuore» (2, 10) cioe` l’empieta` cosı` come all’ingiustizia. La bellezza della creazione puo` mettere l’uomo alla prova; sta a lui riconoscerla e renderne grazia a Dio, e in tal modo la bellezza ricade su di lui. Tuttavia, il creatore conserva il potere di annientare tale bellezza transitoria: «Noi invero abbiamo fatto di tutte le cose che sono sulla terra un ornamento per essa, per metterli alla prova e vedere quale di loro meglio opera. Ma un dı` ridurremo tutto quel che vi e` sopra a suolo arido e desolato» (18,7-8). Analogamente, se le greggi «vi danno visione di bellezza (jama¯l), quando le riconducete alle stalle la sera» (16,6), cio` accade perche´ Dio e` buono e misericordioso. La piu` bella (ahsana) storia narrata nel Corano, per sua˙ stessa dichiarazione, e` quella di Giuseppe (12,3). La bellezza della storia risiede nel contenuto morale e edificante e anche nella purezza d’animo del figlio di Giacobbe. Va notato che, in seguito, la tradizione musulmana fara` della ‘‘bellezza’’ di Giuseppe, non piu` quella della sua storia ma la sua stessa bellezza fisica e morale, un tema ricorrente nella letteratura mistica e poetica.

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BELLEZZA

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La bellezza scaturisce in modo naturale dalla bonta`; per esempio, l’uomo bello e` chi «da` dei suoi averi, per amore di Dio, ai parenti» (2,177). Le buone azioni sono belle anche perche´ sono giuste: «Fate piena la misura quando misurate, e pesate con bilancia giusta. Questo sara` meglio, e il modo piu` bello per il conto» (17,35). Le buone azioni degli uomini si abbelliscono grazie all’amore di Dio: «Allora a coloro che credono e operano il bene concedera` il Misericordioso amore» (19,96). Dio ama tornare all’uomo che si pente (2,37 e 160), e lo stesso perdono ha una sua bellezza: «Perdona quindi, di perdono bello (jamı¯l)!» (15,85). Curiosamente, alcune occorrenze, poco numerose, utilizzano la radice «jml» (e non «hsn») per descrivere cio` che e` al contempo˙ giusto, adeguato e nobile (jamı¯l): «grazioso congedo (sara¯h ˙ jamı¯l)» (33,49); «pazienza dolce (sabr ˙ jamı¯l)» (70,5). A quanti avranno operato il bene sulla terra, Dio ha promesso una ricompensa che supera in bellezza tutto cio` che e` visibile nel mondo terreno: «Quanto e` bella la mercede di chi opera il bene!» (3,136). I vani ornamenti Cio` che pare bello all’uomo e` spesso ingannevole: «Fu reso adorno agli occhi degli uomini l’amore dei piaceri» (3,14). Eppure, se la natura appare bella agli occhi degli uomini e` proprio per volonta` di Dio: «La terra si veste dei suoi ornamenti e si adorna di lussureggiante bellezza e quelli che l’abitano s’illudono di possederla» (10,24). Dio puo` far appassire tanto questa natura lussureggiante quanto le bellezze di cui l’uomo si inorgoglisce: «Sappiate che la vita terrena e` gioco, trastullo, orpello, vanagloria fra voi; e i vostri sforzi per moltiplicare ricchezze e figli assomigliano a una pioggia, una pioggia che fa germinare le erbe, che piacciono agli empi; poi inaridiscono, ed ecco le vedi ingiallite e poi divengono aride stoppie» (57,20). E` inutile e vano ricercare la bellezza nei piaceri della vita terrena: «Questa vita della terra e` godimento effimero, ma quella dell’Oltre e` dimora durevole» (40,

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39). Cio` che appare, l’apparente bellezza esteriore, cio` che provoca stupore e meraviglia, tutto questo e` nulla senza la bellezza ‘‘interiore’’: «Le ricchezze e i figli sono gli ornamenti effimeri della vita terrena, ma le cose eterne, le opere buone, meritano compenso migliore agli occhi del Signore, e migliore speranza» (18, 46). Alle donne e` consigliato di non mostrarsi: «Rimanetevene quiete nelle vostre case e non vi adornate vanamente come avveniva ai tempi dell’idolatria» (33,33). Del resto, «non ti e` lecito ora prendere ancora altre spose, ne´ di cambiare quelle che hai con altre, anche se ti piacesse la loro bellezza, eccettuate le schiave» (33, 52). La bellezza, del tutto transitoria, non va dunque esibita: «O Profeta! Di’ alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sara` piu` atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese» (33,59). Dio ha messo a disposizione degli uomini quanto serve per confezionare abiti e ornamenti; in particolare, il mare fornisce loro «ornamenti dei quali poi vi vestite» (16,14). Tuttavia, nessun ornamento supera le bellezza dell’anima: «Vi abbiamo donato vesti che coprono le vostre vergogne, e piume; ma il vestito della Pieta` e di tutto questo migliore» (7,26). La bellezza di questo mondo non consiste nei beni materiali o nell’apparenza fisica; l’ornamento, che da` il titolo alla sura 43, e` l’espressione stessa della futilita`, ed e` ridicolo se paragonato alle bellezze che attendono il credente in paradiso: «Se non fosse che gli uomini sarebbero divenuti una nazione sola, avremmo fatto per le case dei negatori del Misericordioso, tetti d’argento, e scale d’argento a salirvi e per le case loro porte d’argento, e letti d’argento per adagiarvisi e ornamenti d’oro. Ma tutto questo non e` che godimento breve di vita terrena, mentre vi e` l’Altra presso il Signore per i timorati di Dio» (43,33-35). Va nondimeno osservato che, malgrado l’austerita` raccomandata dalla Rivelazione, le societa` musulmane svilupparono tutta una serie di sistemi estetici. Questi non concernono tanto le arti figu-

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rative (pittura e scultura) quanto altre forme artistiche piu` specifiche dell’islam, prima tra tutte la calligrafia. Le basi delle regole elaborate per la ‘‘bella scrittura’’ riposano, ancora una volta, su un sistema di proporzioni fondato sull’equilibrio delle lettere. Sebbene il mondo musulmano abbia prodotto un gran numero di opere maggiori in altri ambiti delle arti visive, come l’architettura, la decorazione di manoscritti o le arti della lavorazione dei metalli e della ceramica, colpisce costatare che tali differenti manifestazioni artistiche hanno raramente fornito materia per una letteratura normativa che desse le regole di cio` che va ritenuto bello. Queste regole, in compenso, esistono per altre forme artistiche quali la poetica o la retorica. [Y.P.] Bibliografia: Daniel Gimaret, Dieu a` l’image de l’homme. Les anthropomorfismes de la Sunna et leur interpre´tation par les the´ologiens, Le Cerf, Paris 1997; Oleg Grabar, Arte Islamica. Formazione di una civilta`, Electa, Milano 1989; Oleg Grabar, Penser l’art islamique, Albin Michel, Paris 1996; Jean Lacoste, L’ide´e de beau, Bordas, Paris 1986.

BENE e MALE Un versetto importante afferma: «Voi siete la migliore Comunita` mai suscitata tra gli uomini: promuovete il bene (alma‘ru¯f), proibite il male (al-munkar), credete in Dio» (3,110; cfr. 3,104 e 114 e 7, 157). In questo caso, il bene e` cio` che e` conosciuto e riconosciuto come parte della Legge (e dunque del messaggio coranico), mentre il male e` il suo opposto, cioe` quanto e` negato o non riconosciuto dalla Legge. Il versetto in questione, che comporta importanti implicazioni sul piano etico e giuridico particolarmente quanto alle virtu` personali richieste al capo della comunita` (ima¯m), e` uno dei numerosissimi casi di correlazione esplicita tra bene e male. Nel Corano, essi sono inseparabili nella misura in cui la menzione del bene e` quasi invariabilmente seguita dalla menzione del male e viceversa, e a una distanza molto breve (per

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BENE e MALE

esempio nell’espressione ma‘a al-‘usr yusr, «con la buona sorte viene l’avversita`», 94,5 e 6) o in modo meno conciso. I termini arabi impiegati dal Libro per esprimere il bene e il male sono numerosi, e i loro contenuti vanno dalla sfera morale a cio` che il Corano definisce ‘‘quel che tocca l’uomo‘‘. Tra questi termini ricordiamo innanzitutto h asana, la ‘‘cosa buona’’, si tratti di una˙ azione o di un’occasione; sa¯liha, ‘‘buona azione’’; sarra¯’, ˙ ` ˙e fortuna’’; rahma, ‘‘benes‘‘prosperita ˙ sere concesso dalla clemenza divina’’; na‘ma et yusr che significano entrambi ‘‘benessere’’ e ‘‘felicita`’’; farah, ‘‘gioia e ˙ Dio’’; e lietezza’’; ni‘ma, il ‘‘favore di khayr, il termine piu` generale per indicare il bene, il buono e l’eccellente. All’opposto, il male e` innanzitutto sayyi’a, ‘‘cattiva azione’’, ma anche ‘‘avversita` e sfortuna’’; dhanb, ‘‘colpa’’, ovvero ‘‘un’aggiunta abusiva a un precetto o a un’azione; ma‘s¯ıya, ‘‘disubbidienza’’; ithm, ‘‘peccato’’;˙ dala¯l, ‘‘traviamento’’, ‘‘deviazione dal ˙retto cammino’’; zulm, ‘‘ingiustizia’’, ‘‘oltraggio’’; durr ˙ou darra¯’, ‘‘avversita`’’, ‘‘sfortuna’’;˙ e infine˙ su¯’ (o saw’), che esprime il male nella sua accezione piu` generale e vasta. La lettera e il pensiero coranico procedono spesso per correlazioni o opposizioni forti, e questo evidentemente conferisce alle espressioni una definizione piu` precisa e un peso maggiore. Pero`, nel caso specifico del bene e del male, proprio perche´ si tratta di una correlazione cosı` spesso reiterata, l’espediente retorico va oltre. Infatti, ogni menzione del bene o del male genera nell’uditore o nel lettore una sorta di attesa del termine correlativo; ogni termine segnala la presenza simultanea dell’altro, cosicche´ la retta via e la felicita` presuppongono costantemente la presenza del rifiuto, dell’ingiustizia e dell’avversita`. Le implicazioni della correlazione costante di bene e male sono importanti sia sul piano antropologico sia sul piano teologico. In antropologia, questa correlazione comporta la compresenza, nella realta` creata, del credente (mu’min o muslim) e del negatore empio (ka¯fir o munkir), cioe` la necessaria bipartizione

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BENE e MALE

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delle creature. Si legge: «Chi acquista del male ed e` irretito nel peccato sara` dannato al fuoco dove rimarra` in eterno. Mentre quelli che credono ed operano il bene, saranno del Giardino dove rimarranno in eterno» (2,81-82). Ugualmente, al suono della Tromba escatologica, «quelli porteranno il bene avranno un bene ancora piu` grande [...] e quelli che porteranno il male saranno scagliati bocconi nel Fuoco. E di cosa saranno puniti se non di quello che essi stessi hanno fatto?» (27,89-90). I brani citati, come molti altri simili, istituiscono un rapporto causale tra le differenti correlazioni; la fede e l’empieta` portano alle buone e alle cattive azioni le quali, a loro volta, portano la ricompensa o la punizione nell’Aldila`: il Giardino (janna), verde e lussureggiante, irrigato di fiumi di latte, miele e vino che non inebria, e` un luogo di beatitudine della carne e dello spirito, luogo in cui tutti i desideri sono esauditi e molto di piu`; il luogo, secondo i mistici, della delizia piu` grande che e` la rivelazione del volto di Dio, la sua visione. All’opposto, il Fuoco dell’inferno (na¯r) e` il luogo del calore piu` insopportabile e dei piu` ineffabili tormenti. Ma il legame di causa-effetto tra la convinzione, l’azione e la retribuzione non e` affatto evidente nel Corano. Si legge per esempio: «Questa gente che non crede e` come quando uno grida e chi lo ascolta non percepisce che voce indistinta di invito: sordi, muti, ciechi, non comprendono nulla. Voi che credete, mangiate delle buone cose che la Provvidenza Nostra vi ha dato» (2,171-172). Quelli che credono, si legge ancora, trovano nel Corano «direzione e guarigione», ma quelli che non credono «sono colti da sordita`, i loro occhi sono avviluppati, come se li chiamassimo da molto lontano» (41,44). Secondo queste ultime citazioni – che riguardano la compresenza di quelli che vedono, parlano e odono, e quelli che al contrario sono ciechi, sordi e muti – solo chi gia` crede puo` udire l’appello alla fede; per il miscredente, invece, la virtu` e la ricompensa nell’Aldila` sono completamente chiuse. Cosı` il bene e il male sono presentati

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anche come delle qualita` preesistenti nelle creature, e sono entrambi quasi un tratto distintivo, o meglio un ‘‘sigillo’’, che mette ampiamente da parte la volonta` della creatura. Quanto alla predisposizione originaria all’empieta`, si puo` notare una convergenza con la dottrina cristiana del peccato originale, dunque un deposito esistenziale. Questa ipotesi sembra corroborata dalla narrazione coranica dei due figli di Adamo la` dove il migliore dei due, sebbene credente e ubbidiente, afferma la preesistenza di un suo proprio peccato («Io voglio che tu ti accolli il mio peccato e il tuo peccato», 5,29). Ma l’idea di un peccato commesso dal pio figlio di Adamo e` fermamente negata dai commentatori; inoltre, la stessa credenza in un peccato originale quale eredita` funesta del padre della specie umana si annulla se consideriamo che, nonostante la sua disubbidienza, Adamo fu perdonato da Dio e nuovamente guidato alla verita` (2,37). L’idea di una predisposizione a priori delle creature al bene o al male invita a considerare la conseguenza della costante correlazione di bene e male sul piano teologico, cioe` la presenza simultanea degli opposti in Dio oltre che nell’ambito del creato. Secondo il messaggio coranico, Dio detiene la libera volonta` di creare e far agire gli opposti senza che le creature possano domandargli conto di quel che fa; e` detto infatti che Dio «travia chi vuole e guida al Vero chi vuole» (14,4; cfr. anche 21,23), che «e` Dio che vi mostra la via e c’e` chi se ne allontana. Ma, se avesse voluto, vi avrebbe guidati tutti assieme» (16,9), e che «se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunita` unica, ma Egli travia chi vuole e guida chi vuole. E di quel che fate vi sara` chiesto conto» (16,93; cfr. 6,35). Altri brani sono ancora piu` espliciti: «Iddio guidera` coloro che credono verso un retto sentiero. Ma coloro che ripugnano alla fede non cesseranno di dubitarne fino a quando non sopravverra` loro d’un tratto l’Ora, o finche´ non giungera` loro il castigo di un giorno che distrugge» (22,54-55); «colui che Dio

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guida, egli e` il Guidato, e colui che Dio travia non trovera` patrono che lo ammaestri» (18,17). Questa e` in fondo la grande aporia del pensiero coranico come, d’altronde, di ogni pensiero monoteista: il bene e il male che l’uomo (e` oppure) compie o che ricevera` nell’Aldila` dipendono inesorabilmente, comunque sia, dalla volonta` divina. La buona condotta (huda¯), il divino sostegno (‘awn ou ma‘u¯na), esattamente come l’errore ovvero l’erranza (dala¯l) non vengono da altri che da Dio. La ˙buona condotta e` il risultato ma anche la condizione della fede, causa e anche effetto delle reazioni umane di fronte all’appello di Dio, e` lo spartiacque tra i pii e gli empi che Iddio stesso ha stabilito e voluto dal principio. L’inizio della seconda sura, La Vacca, rende bene questo paradosso del monoteismo: dapprima vengono descritti i timorati di Dio (al-muttaqu¯n), che credono nell’Invisibile, nella rivelazione, nell’Aldila` e compiono le opere prescritte dalla Legge; essi sono guidati dal loro Signore, sono i fortunati, quelli che godono di prosperita`. Poi vengono quelli che non credono: «E` per loro indifferente che tu li ammonisca o non li ammonisca: mai crederanno. Iddio ha sigillato loro il cuore e l’udito e la vista loro e` velata, e avranno un castigo tremendo» (2,2-7). Il celebre commentatore Tabarı¯ (m. 310/ ˙ 923), nella sua opera monumentale dal titolo Ja¯mi‘ al-baya¯n (L’esposizione completa), spiega che la buona condotta e` una luce che Dio riserva soltanto ai pii. Il Corano e` un appello universale, osserva, pero` guida e guarisce solo i cuori dei credenti, mentre acceca e assorda tutti gli altri. Grazie al Corano, dichiara ancora Tabarı¯ laconicamente, «il credente e` gui˙ dato e il negatore e` denunciato in quanto tale». In sostanza, la posizione di Tabarı¯ a ˙ questo proposito coincide con quella del pensiero islamico maggioritario, l’ash‘arismo (dal nome del fondatore Ash‘arı¯, m. 324/935), una posizione che riduce considerevolmente la liberta` dell’atto umano a favore della liberta` di Dio (eventualmente temperata dall’idea di una ‘‘acquisizione’’ umana delle azioni, kasb ou ikti-

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BENE e MALE

sa¯b). La posizione contraria, quella dei pensatori mu‘taziliti, insiste invece sulla giustizia divina: credere che l’uomo sia costretto da Dio o legato a Dio nelle sue scelte e in tal modo totalmente o in parte privo di responsabilita`, significa accusare Dio di arbitrarieta`; significa, inoltre, privare di senso la legge rivelata. Nel suo commento al versetto gia` citato 16,93, il mu‘tazilita Zamakhsharı¯ (m. 538/1144), autore del Kashsha¯f ‘an haqa¯’iq al-tanzı¯l ˙ ` rivelate), fa (Lo scopritore delle verita appello alla prescienza divina: Dio, il Giusto, ha decretato che si asterra` dall’aiutare quanti egli sa che sceglieranno d’essere empi, mentre ha decretato di aiutare quanti egli sa che sceglieranno d’essere credenti. Se l’uomo fosse costretto al male o al bene, nota ancora Zamakhsharı¯, Dio non gli chiederebbe conto di quel che ha compiuto; infatti Dio non puo` chiedere all’uomo cio` che questi e` incapace di compiere (e` la dottrina detta taklı¯f ma¯ la¯ yuta¯qu); non puo` allontanare gli uomini ˙ fede e poi chiedere «non guardasti dalla [...] come si allontanano?» (40,69), o creare in loro la menzogna e poi chiedere «come dunque potete mentire cosı`?» (10, 34). Non puo` suscitare in loro il rifiuto e poi chiedere «perche´ rifiutate?» (3,70), o ancora velare la verita` con l’errore e poi chiedere «perche´ rivestite la verita` con veli d’errore?» (3,71). Ma esistono numerosi passi coranici che gli ash‘ariti impugnano contro i mu‘taziliti e la loro idea razionalistica di Dio. Sono soprattutto brani che negano il legame di causa-effetto tra l’azione e la retribuzione in questa vita e nell’altra. E` detto per esempio che «a Dio appartiene quel che e` nei cieli e quel che e` sulla terra: Egli perdona chi vuole e punisce chi vuole (3,129)»; e` detto ugualmente che Dio «punisce gli ipocriti, se vuole, o si volge loro benigno» (33,24). Nel suo commento al versetto 4,78 («Quando tocca loro un bene dicono: ‘‘Viene da Dio!’’ e quando tocca loro un male dicono: ‘‘Viene da te!’’ Rispondi: ‘‘Tutto viene da Dio!’’»), il teologo ash‘arita Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/1209) osserva: «Il male e` sia sfortuna sia disubbidienza, e il bene e` sia fortuna

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BENEDIZIONE e MALEDIZIONE

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sia ubbidienza, e queste parole dell’Altissimo affermano a chiare lettere che tutti i beni e tutti i mali vengono soltanto da lui. E poiche´ l’ubbidienza e la disubbidienza si definiscono ‘‘bene’’ e ‘‘male’’, questo versetto significa che tutte le azioni umane, le azioni ubbidienti come le azioni disubbidienti, vengono da Dio». Cosı`, la responsabilita` umana nelle azioni rimane ambigua nel Corano, e di conseguenza esistono forti divergenze tra le elaborazioni dottrinali a questo proposito. Invece non vi e` alcuna ambiguita` sull’origine divina di ‘‘cio` che tocca l’uomo’’, cioe` la fortuna o la malasorte che gli toccano nella vita. «Ogniqualvolta inviammo un profeta in qualche citta`, colpimmo la sua gente con calamita` e afflizione, perche´, forse, si umiliassero, poi scambiammo il male (sayyi’a) col bene (hasana) sicche´ essi cancellarono dalla ˙ memoria l’antica punizione e dissero: ‘‘Anche ai nostri padri tocco` avversita` (darra¯’) e prosperita` (sarra¯’)’’. Allora li ˙ annientammo» (7,94-95). E` importante rilevare il valore che il Libro riconosce alla compresenza di prosperita` e avversita` nel mondo per volonta` divina, e alla loro alternanza: «Noi vi proviamo col male e col bene, e poi sarete a Noi ricondotti» (21,35). E` detto ancora: «Noi alterniamo questi giorni [di fortuna e sfortuna] tra gli uomini perche´ Dio possa riconoscere coloro che credono e trasceglierne Martiri» (3,140). Secondo il Corano, tutto viene da Dio, si ¯ lu¯sı¯ (m. 1270/ tratti di bene o di male. A 1854), un commentatore tardivo, utilizza nel suo Ru¯h al-ma‘a¯nı¯ (Lo spirito dei si˙ metafora assai eloquente: gnificati) una «Dio non e` monco, possiede entrambe le mani, e il castigo viene dalla mano che conquista, la mano che trionfa sui nemici, mentre il favore viene dalla mano della benevolenza, della dolcezza o della mitezza». Va da se´ che in un monoteismo puro, qual e` quello proposto dal Libro dell’islam, resta poco spazio per la potenza e la volonta` dell’essere diabolico. Il ruolo del demonio, nella disgrazia o nella buona sorte degli uomini come nella loro pieta` o disubbidienza, risulta in fin dei

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conti marginale. Satana non e` che un intermediario, egli stesso uno strumento nelle mani del Signore; e il credente che si rifugia in Dio per proteggersi dal suo bisbiglio tentatore, o dalle insidie tese da altri uomini o da jinn, non deve dubitare [I.Z.-G.] della propria salvezza. Bibliografia: Chikh Bouamrane, Le proble`me de la liberte´ humaine dans la pense´e musulmane : solution mu‘tazilite, Vrin, Paris 1978; Michael Cook, Commanding Right and Forbidding Wrong in Islamic Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2000; Soubhi El-Saleh, La Vie future selon le Coran, Vrin, Paris 1971; Louis Gardet, Dieu et la destine´e de l’homme, Vrin, Paris 1967; Louis Gardet, M.M. Anawati, Introduction a` la the´ologie musulmane, essai de the´ ologie compare´ e, Vrin, Paris 1981 (3ª ed.); Daniel Gimaret, The´ories de l’acte humain en the´ologie musulmane, Vrin, Paris 1980; George Fadlou Hourani, «Zulm an-nafs in the Qur’a¯n, ˙ in the light of Aristotle», Recherches d’islamologie (coll. Bibliothe`que philosophique, 26), Louvain 1977, pp. 139-161; Ida Zilio-Grandi, Il Corano e il male, Einaudi, Torino 2002.

BENEDIZIONE e MALEDIZIONE La radice «brk», legata in modo specifico all’idea di benedizione, presenta trentadue occorrenze nel Corano. In tutte le occorrenze, essa fa riferimento a Dio, sia che egli si trovi a esserne l’oggetto, nell’espressione ‘‘Dio sia benedetto’’ (taba¯raka Alla¯h; nove occorrenze), sia che egli stesso benedica gli esseri e le cose. In effetti, sono le cose, piu` degli umani, a essere investite dalla benedizione, dal momento che solo quattro versetti fanno allusione alla benedizione di persone: Dio benedice Abramo e Isacco (37,113); Dio benedice la ‘‘gente della casa di Abramo’’ (11,73); Gesu` dice: «Dio mi ha benedetto» (19,31); e` detto infine: «Sia benedizione su Noe` e sulle comunita` di coloro che sono con lui» (11,48). Tutte le altre benedizioni sono rivolte alla terra (41, 10), al luogo in cui Noe` approdo` dopo il Diluvio (23,29), al recinto sacro della sacra moschea (17,1), alla Ka‘ba (3,96), ai paesi (21,71), alle citta` (34,18), all’acqua

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(50,9), al Libro (il Corano; quattro occorrenze tra le quali 6,92), alla notte in cui il Corano discese nel cielo di questo mondo (44,3), al saluto di Dio rivolto ai credenti (24,61), al paese benedetto in cui cammino` Mose` (28,30) e, infine, all’‘‘albero benedetto’’, l’ulivo, il cui olio alimenta la ‘‘lampada di Dio’’ che illumina i cieli e la terra (24,35), in opposizione all’‘‘albero maledetto’’ (17,60). D’altra parte, il Corano proclama le maledizioni rivolte da Dio stesso o tramite l’intermediazione del Profeta contro un certo numero di personaggi, soprattutto quanti rifiutarono di credere nella rivelazione dell’islam, o, ancor di piu`, contro coloro che hanno perseguitato i credenti. Queste maledizioni vengono lanciate in tre modi differenti. Il primo consiste nel richiamare su di loro la perdizione o la morte: «Periscano le mani di Abu¯ Lahab e perisca egli pure!» (111,1); o: «Periscano quelli della fossa» (85,4). Un’altra forma di maledizione e` espressa dalla formula waylun li-, ‘‘guai a...’’, che viene utilizzata ventisette volte nel Corano ed e` indirizzata in generale contro i cattivi credenti: «Ma guai a coloro che pregano e dalla Preghiera sono distratti» (107,4-5). Questa formula ha piu` frequentemente la connotazione di una semplice constatazione, di un timore o di un avvertimento. Essa viene anche utilizzata una decina di volte in forma riflessiva: ‘‘guai a me’’, ‘‘guai a noi’’ (come nel versetto 21,97, in cui gli abitanti dell’inferno si lamentano della propria sorte). La vera e propria formula di anatema e` resa dalla radice «l‘n» (verbo la‘ana), che compare quarantuno volte nel testo coranico. Fatta eccezione per due occorrenze (2,159 e 7, 38), in cui si tratta di uomini e comunita` che ne maledicono altri, e` sempre Dio stesso che pronuncia le maledizioni contro individui o gruppi. Questa radice e` utilizzata solo un volta per designare alshajara al-mal‘u¯ na, ‘‘l’albero maledetto’’: «La visione che ti mostrammo la ponemmo a mo’ di tentazione per gli uomini e cosı` l’albero maledetto nel Corano» (17,60); si tratta dell’albero proibito da Dio a Adamo ed Eva. Allo stesso

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BENEDIZIONE e MALEDIZIONE

modo, l’aggettivo designa la maledizione rivolta a Iblı¯s, il Demonio, per essersi rifiutato di prostrarsi davanti a Adamo e essersi insuperbito di fronte a Dio: «Gli disse Iddio: ‘‘Esci di qui, che´ tu sei maledetto! E resti su di te la Mia maledizione fino al giorno del Giudizio’’» (38,77-78). A questa maledizione scagliata da Dio contro Iblı¯s si accosta la proroga fino al giorno del Giudizio che Dio accordo` all’angelo caduto affinche´ tentasse di ingannare gli uomini. Nonostante sia stato spesso affermato che nulla nel Corano evoca l’idea di ‘‘peccato originale’’ o di una ‘‘macchia trasmessa’’, il Libro menziona tuttavia la colpa, legata a una certa vulnerabilita` umana, di Adamo ed Eva, ingannati dal Demonio, che cerca di vendicare su di loro la maledizione di cui e` vittima. Il tema della debolezza umana di fronte alle tentazioni e` associato a una tradizione rara, di cui si trova un’eco nell’opera di al-Hakı¯m al-Tirmidhı¯ (318/ 930), il quale ˙riferisce che il Demonio scorre nei meandri delle vene dell’uomo, e che e` il suo sudore mischiato al sangue umano quel che fa debole l’uomo di fronte ai peccati. Il tema del sudore di Iblı¯s figura in un apocrifo cristiano: «Per ingannare l’uomo, a causa del quale sono stato precipitato dal cielo, ecco cosa mi sono inventato: ho preso tra le mani una coppa, ho raccolto il sudore del mio petto e del mio pelo e l’ho sparso all’imboccatura delle acque, nel luogo da cui scaturiscono i quattro fiumi. Eva ne bevve e fu vinta del desiderio; se ella non avesse bevuto di quell’acqua, io non sarei mai stato in grado di ingannarla» (Questioni di Bartolomeo, 4,58-59). Altre tradizioni islamiche esprimono la generalizzazione di questo fenomeno di debolezza davanti alle tentazioni del Maligno, tentazioni che insidiano ogni uomo «a eccezione di Maria e suo figlio» (cfr. Muslim, Ba¯b alqadar, kull mawlu¯d yu¯lad ‘ala¯ al-fitra). ˙ [G.G.]

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BESTIA

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Bibliografia: Genevie`ve Gobillot, Le Livre de la profondeur des choses d’al-Hakı¯m alTirmidhı¯, Presses universitaires du Septentrion, Lille 1996; E´crits apocryphes chre´tiens, vol. I, Gallimard (coll. La Ple´iade), Paris 1997.

BESTIA La ‘‘bestia’’ o da¯bba e` citata nel Corano una sola volta: «Quando stara` per cadere sugli empi la Sentenza, faremo uscire per loro dalla terra una Bestia, che parlera` loro e dira`: ‘‘Gli uomini non hanno creduto fermamente ai Nostri Segni’’» (27, 82). Il termine da¯bba indica tutti gli animali creati a partire dall’acqua (24,45), che del resto e` la fonte della vita; alcuni commentatori vi includono gli uomini, fondandosi sui versetti 16,61 e 35,45. Questa menzione della Bestia nel Corano sembra richiamare l’Apocalisse di Giovanni, ma non puo` essere confusa con la Bestia dell’Apocalisse, poiche´, secondo Tabarı¯ (m. 310/923), e` legata al tema della ˙ dei tempi. fine Il testo coranico e` fortemente enigmatico a questo proposito, e per comprenderne il senso gli esegeti hanno fatto ricorso a elementi esterni. In particolare, un detto del Profeta riportato da Tabarı¯ ha permesso di capire quel che˙ il Corano intende: «’’Inviato di Dio, dove apparira`?’’; rispose: ‘‘Dalla moschea piu` grande, santificata da Dio. Mentre Gesu` girera` attorno alla Casa di Dio accompagnato dai musulmani, le terra tremera` sotto i loro piedi per i movimenti dell’immensa Bestia. Safa¯ sara` ridotta in briciole nel luogo in cui˙ essa apparira`». La Bestia fa dunque parte dei segni della fine dei tempi citati nel Corano e soprattutto sviluppati nella letteratura di Tradizione: emergera` dalla terra della Mecca e piu` precisamente a Safa¯ e vi restera` tre giorni, intesi a volte ˙ come tre apparizioni successive. Alcune tradizioni fanno uscire la Bestia dalla citta` di Sodoma. Anche la sua descrizione ha dato luogo a numerose speculazioni: avrebbe un ciuffo di peli sulla fronte, o forse e` interamente coperta di peli, o addirittura e` come una chimera, composta di parti di diversi animali. Parlerebbe in

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arabo. Chi la vorra` catturare fallira`, chi tentera` di sfuggirle non lo potra` fare. Le tradizioni insistono comunque nell’affermare che il suo primo ruggito sara` fonte di terrore ben piu` del suo aspetto. La Bestia distinguera` fra credenti ed empi; liberera` i credenti dopo aver scritto loro tra gli occhi, sotto la fronte che brillera` come una stella, la parola ‘‘credente’’; invece traccera` un segno nero tra gli occhi degli empi. Secondo altre tradizioni, e` dotata di particolari segni. Portera` il bastone di Mose` e il sigillo di Salomone; con il bastone fara` un segno bianco sul credente mentre porra` il sigillo di Salomone sul naso dell’empio annerendogli completamente il corpo. Sua virtu` essenziale e` rivelare la natura degli uomini e renderne l’identificazione immediata e piu` facile. Essa manifesta l’ipocrisia degli uomini, rivelando loro che le preghiere non hanno oramai alcuna utilita`; anticipa cosı` la fine dei tempi vanificando gli sforzi che gli uomini compiranno per riparare alle loro azioni. Mettera` gli uomini di fronte a se stessi; per questo, alcuni commentatori l’hanno definita jassa¯sa, ‘‘spia’’. Una tradizione del Profeta ripete due volte questa definizione, e collega la Bestia a un racconto narrato a Muhammad da uno dei suoi Compagni, un cristiano convertito all’islam. Il terzo giorno della presenza della Bestia, l’imam della moschea della Mecca capira` che essa e` il segno della fine del mondo; alcuni esegeti le fanno compiere dei viaggi durante queste apparizioni. Quel che e` essenziale, in definitiva, e` che la Bestia scrutera` la natura degli uomini e li separera` in due gruppi distinti, annunciando la fine del tempo del pentimento e cosı` manifestando il senso irreversibile della storia: non resta piu` tempo per compiere cio` che prima non si e` compiuto. Da questo punto di vista, la Bestia e` figura minacciosa dell’immediata necessita` di impegno religioso. Se alcune tradizioni collegano la Bestia al diavolo, Iblı¯s, occorre pero` notare che alcuni esegeti sciiti come Ja¯bir al-Ju‘fı¯ (m. 128/746) la identificano invece con il primo imam ‘Alı¯ ibn

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Abı¯ Ta¯lib perche´ e` in possesso di attributi ˙ profetici e capace di separare i credenti [P.B.] dagli empi. Bibliografia: Louis Gardet, Dieu et la Destine´e de l’homme, Vrin, Paris 1967; Id., L’Islam, religion et communaute´, Descle´e de Brouwer, Paris 1967; Jane Idleman Smith, Yvonne Yazbeck Haddad, The Islamic Understanding of Death and Resurrection, Oxford University Press, Oxford 2002 (1ª ed. State University of New York Press, Albany-New York 1981).

BEVANDE INEBRIANTI Vedi VINO, BEVANDE INEBRIANTI E DROGHE. BILANCIA Esattamente come la Bibbia, (Lv 19,3536; Dt 25,13-16; Ez 45,10; Pr 11,1; 20, 23), il Corano condanna severamente i frodatori, che falsificano le bilance e pesano le mercanzie con pesi truccati; Dio ha prescritto «di dare giusta misura e giusto peso» (6,152; 7,85; 11,84). E` detto ancora: «Fate piena la misura quando misurate, e pesate con bilancia giusta» (17, 35); «ha drizzato l’equa bilancia. ‘‘Guardatevi dal trasgredire l’equa bilancia! Pesate con giustizia, non diminuite il peso!’’» (55,7-9); «Guai ai frodatori sul peso i quali, quando richiedono dagli altri la misura, la pretendono piena! E quando pesano o misurano agli altri danno di meno!» (83,1-3). L’equita` che Dio esige dal credente e` a immagine dell’equita` divina. La Bilancia, simbolo della giustizia, e` uno dei pilastri della Rivelazione: «Gia` inviammo i Nostri Messaggeri con prove chiarissime e rivelammo il Libro e la Bilancia, perche´ gli uomini osservassero l’equita`» (57,25). Quindi, il giorno del Giudizio, Dio valutera` in modo perfettamente equo le azioni degli uomini, pesandole: «Quel giorno l’unico peso sara` la Verita` e quelli che avranno le bilance pesanti, quelli saranno i fortunati, e quelli che avranno bilance leggere, quelli saranno coloro che avranno perduto se stessi, per essere stati ingiusti contro i Nostri Segni» (7,8-9). Questa pesatura si fara` su una o piu` bi-

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BILANCIA

lance escatologiche, appositamente preparate allo scopo e funzionanti con una precisione e un’esattezza assolute: «Noi prepareremo bilance giuste per il giorno della Resurrezione e non sara` fatto a nessuno il minimo torto: e anche le azioni che abbiano il peso di un granello di senape le porteremo alla luce. Bastiamo Noi per contare» (21,47; il ‘‘granello di senape’’ richiama evidentemente la Bibbia, Mt 17, 20 e Lc 17,6). La pesatura delle azioni del defunto sulla ‘‘bilancia escatologica’’ e` un tema profondamente radicato nella coscienza religiosa: se ne trovano paralleli non solo nella Bibbia (Gb, 31,6), ma anche nell’Egitto faraonico (il cuore del defunto posto sul piatto di una bilancia in presenza della dea Maat, secondo il Libro dei Morti) e nelle tradizioni religiose dell’antica Persia. Ovunque, svolge un ruolo importante nell’iconografia. Per commentare i versetti coranici che evocano la Bilancia del Giudizio finale, la tradizione islamica ha ampiamente sfruttato questo ricco fondo religioso. Esegeti coranici e teologi si sono soprattutto interessati a capire che cosa sara` oggetto di pesatura. Tabarı¯ (m. 310/923) ˙ i defunti resusciventila la possibilita` che tati debbano essi stessi salire sulla bilancia, invocando uno hadı¯th secondo cui anche la persona piu˙` obesa non pesera` piu` di una mosca perche´ solo le sue azioni saranno prese in considerazione. Piu` numerose le tradizioni che, basandosi ugualmente su alcuni aha¯dı¯th, mettono sulla ˙ bilancia i fogli, i rotoli o i libri sui quali gli angeli-scribi avranno annotato ogni azione, buona o cattiva, del defunto (6, 61; 43,80; 82,10-12). Infine, secondo la posizione senza dubbio dominante nel sunnismo, saranno pesate solo le azioni, come avrebbe del resto dichiarato il profeta Muhammad: «Saranno pesate le azioni e non il defunto stesso; le sue azioni, e non il suo corpo, saranno messe sulla bilancia: le azioni del musulmano splenderanno come la luce del sole e della luna; le azioni dell’infedele saranno tenebrose come la notte nera». Un’analoga

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tradizione aggiunge che le buone azioni saranno pesate sul piatto di destra, le cattive sul piatto di sinistra. La discrezione del Corano quanto ai dettagli e alle circostanze della pesatura lascia spazio a infinite elaborazioni, la maggior parte basate su tradizioni profetiche talvolta contraddittorie. Ci si chiese, per esempio, se gli angeli o lo stesso Profeta potessero assistere il credente intercedendo in suo favore al momento della pesatura. Certi aha¯dı¯th non danno adito ˙ l’uomo sara` solo daad alcuna illusione: vanti alla bilancia e persino le spose del Profeta non avranno diritto a indulgenze di sorta. Altre tradizioni risultano invece piu` rassicuranti, e promettono al credente che il Profeta gli stara` accanto nel momento decisivo. Uno dei Compagni, Anas, riporta: «Imploravo l’Inviato di Dio di intercedere in mio favore il giorno della Resurrezione. Mi rispose: ‘‘Quel giorno, io mi terro` a disposizione degli uomini’’. Allora gli chiesi: ‘‘Dove potro` trovarti quel Giorno?’’. Mi rispose: ‘‘Cercatemi prima di tutto vicino al Ponte’’. Dissi: ‘‘E se non ti trovo vicino al Ponte?’’ Rispose: ‘‘Allora saro` vicino alla Bilancia’’. Chiesi: ‘‘E se non ti trovo vicino alla Bilancia?’’ Rispose: ‘‘Allora saro` vicino alla Vasca. Non saro` assente da questi tre luoghi il giorno della Resurrezione’’» (il Ponte e la Vasca fanno parte delle credenze escatologiche tradizionali). D’altro canto, stando a Ghaza¯lı¯ (m. 505/1111), comparire davanti alla bilancia e` gia` un buon segno, poiche´ gli infedeli vengono precipitati direttamente all’inferno: la bilancia serve solo a valutare correttamente le buone e la cattive azioni del credente, che potra` sempre contare su una certa benevolenza. Per i tradizionalisti e la maggior parte dei teologi sunniti ‘‘ortodossi’’ di tendenza ash‘arita, la realta` della Bilancia escatologica, descritta chiaramente nel Corano e in innumerevoli tradizioni profetiche, e` un articolo di fede che non puo` essere oggetto del minimo dubbio. Essi concepiscono la Bilancia a immagine delle bilance (mı¯za¯n o qista¯s) comunemente in uso nei mercati; lo˙ testimonia la descri-

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zione offerta dalla tradizione seguente: «La Bilancia ha un giogo, una colonna, due piatti [...]. L’angelo Gabriele tiene la colonna e guarda l’ago, mentre l’angelo Michele controlla l’operazione». Questa interpretazione letterale e` stata respinta dalle correnti razionaliste dell’islam, in particolare dalla gran parte dei teologi mu‘taziliti e soprattutto dai filosofi (fala¯sifa) i quali vi leggono semplicemente una metafora della giustizia e dell’equita` divine. Per loro, la pesatura corporale del defunto e` impossibile, in quanto la resurrezione dei corpi e` contraria alla ragione. A fortiori, e` assurdo voler pesare delle azioni buone o cattive, in quanto l’azione, la bonta` e il male sono accidenti, mentre il peso, conformemente alla fisica aristotelica, e` una qualita` che appartiene alle sole sostanze. Di conseguenza, tutti questi enunciati devono essere considerati simboli destinati alle masse, ignoranti e incapaci di accedere a un ragionamento dialettico; hanno l’esclusiva funzione di far comprendere la giustizia divina agli spiriti semplici. Alcune tradizioni conferiscono alla Bilancia escatologica dimensioni cosmiche, come lo hadı¯th che fa dire al Profeta: «Il ˙ giorno della Resurrezione sara` innalzata la Bilancia. Ognuno dei suoi bracci avra` una lunghezza uguale alla distanza che separa l’occidente dall’oriente; ogni piatto avra` le stesse dimensioni della terra. Il primo piatto si trovera` a destra del Trono e conterra` le buone azioni; l’altro sara` a sinistra del Trono e conterra` le cattive azioni. La cima della Bilancia sara` come la cima delle montagne, riempita dalle buone e dalle cattive azioni degli uomini e dei jinn». Analoghe tradizioni, talvolta attribuite agli imam, sono evocate da alcuni autori sciiti, in particolare isma¯‘ı¯liti, ma in riferimento alla Bilancia cosmica, simbolo dell’armonia che regna nell’universo. L’equita` e la saggezza del creatore si riflettono in un universo dove ogni livello, ogni grado ontologico, si trova in equilibrio (muwa¯zana, termine derivato dalla stessa radice di mı¯za¯n, ‘‘bilancia’’, e wazana, ‘‘pesare’’).

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Ispirandosi alla ‘‘scienza della bilancia’’ (‘ilm al-mı¯za¯n), una teoria scientifica attribuita all’alchimista Ja¯bir ibn Hayya¯n ˙ ¯ ‘ı¯lita (probabilmente II/VIII sec.), l’isma Hamı¯d al-Dı¯n al-Kirma¯nı¯ (m. 996/1021 ˙ circa) elaboro` una sua ‘‘bilancia della religione’’ (mı¯za¯n al-diya¯na), un metodo che mira a individuare, per via di ‘‘esegesi esoterica’’ (ta’wı¯l), le corrispondenze tra i ‘‘mondi’’ e a illuminare la ‘‘simpatia universale’’ instaurata dalla Bilancia cosmica. [D.DeS.] Bibliografia: Miguel Ası´n Palacios, La escatologia musulmana en la Divina Comedia, seguida de la historia y critica de una pole´ mica, 2ª ed. Madrid-Granada, 1943 (trad. it. Dante e l’Islam, l’escatologia islamica nella Divina Commedia, a cura di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik, intr. di Carlo Ossola, NET, Milano 2005; 1ª ed. ed. Pratiche, Parma 1994); Daniel De Smet, «Mı¯za¯n ad-diya¯na ou l’e´quilibre entre science et religion dans la pense´e ismae´lienne», in Acta Orientalia Belgica, 8 (1993), pp. 247-254; Louis Gardet, Dieu et la destine´e de l’homme, Vrin, Paris 1967; Daniel Gimaret, La Doctrine d’al-Ash‘arı¯, Le Cerf, Paris 1990; Jean Michot, La destine´e de l’homme selon Avicenne. Le retour a` Dieu (ma‘a¯d) e l’imagination, Acade´mie royale de Belgique, classe des Lettres, Fonds Rene´ Draguet, 5, Louvain 1986.

BILQI¯S Nome che la tradizione musulmana da` alla regina di Saba, il cui incontro con Salomone e` evocato nell’Antico Testamento (1 Re 10,1-13 e 2 Cr 9,1-12) e nel Corano (27,20-44). Il racconto coranico differisce sensibilmente da quello che figura nella Bibbia, secondo il quale e` la regina di Saba a prendere l’iniziativa di visitare Salomone a Gerusalemme, per verificarne di persona la vastita` della saggezza reputata eccezionale. Dopo essersi a lungo intrattenuta con il re d’Israele, cui sottopone numerose e complesse domande, la regina di Saba, edificata dalla perspicacia del sovrano, gli offre doni preziosi e ritorna

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al suo regno, non prima pero` che Salomone l’abbia a sua volta generosamente onorata. La versione degli avvenimenti che la sura al-Naml o della Formica racconta e` tutt’altra: informato dell’esistenza del regno di Saba, su cui esercita il proprio potere una donna che, al pari del suo popolo, e` dedita al culto del sole, Salomone fa pervenire alla regina una lettera, in cui le ingiunge di sottomettersi. Dopo aver deliberato con i suoi consiglieri, la regina – di cui il Corano, come la Bibbia, passa sotto silenzio il nome – decide di mettere alla prova le intenzioni di Salomone: gli invia degli emissari incaricati di consegnargli un dono, in attesa della sua reazione. Il re disdegna il regalo dichiarando che Dio gli dona assai di piu`, e, in una nuova missiva, annuncia l’intenzione d’invadere il regno di Saba. Da quel momento il ritmo degli avvenimenti conosce una brusca accelerazione: mentre la regina si risolve a recarsi da Salomone per rendergli omaggio in un luogo che non viene mai precisato, Salomone, informato in anticipo della visita di lei, chiede che il trono di Saba sia trasportato sul posto prima del suo arrivo. Uno dei servitori si affretta a esaudire la richiesta e il trono compare immediatamente davanti a Salomone, che ordina di mutarne l’aspetto per mettere alla prova la regina: sara` in grado di riconoscerlo? Giunta sul posto, la regina supera con successo questa prima prova: «Sembra che lo sia!» dichiara (27,42). Fallisce pero` nella seconda prova: su richiesta di Salomone, i jinn hanno costruito un palazzo interamente di cristallo, sotto le cui lastre scorre dell’acqua. Invitata a entrarvi, la regina si scopre le gambe credendo di dover attraversare una distesa d’acqua. Informata del proprio errore, fa atto di sottomissione al Dio unico e con cio` si conclude il racconto coranico che la riguarda. Le differenze tra i due testi sono dunque numerose e non riguardano semplici dettagli. L’intero racconto coranico ha un unico scopo, la conversione della regina di Saba; quel che motiva l’incontro con

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Salomone e` l’idolatria, di cui essa si e` resa colpevole agli occhi di Dio, e il venir meno di questa mette bruscamente fine alla loro storia comune. Nel racconto biblico, al contrario, nessun antagonismo religioso oppone Salomone alla regina Saba che invece appare l’alleata di Israele: «Sia benedetto il Signore tuo Dio, che si e` compiaciuto di te sı` da collocarti sul trono d Israele» (1 Re 10,9). E` lei del resto a decidere di incontrare Salomone e di metterlo alla prova senza che sia mai citata una guerra tra le due parti. Ne´ troviamo qui alcun drammatico epilogo: dopo gli scambi di doni, la cui descrizione occupa una parte importante nel testo, la regina fa ritorno a Saba, in pace come era giunta. Fatto piu` importante, il racconto coranico si distacca da quello dell’Antico Testamento per la forte enigmaticita` che lo attraversa interamente: nel Corano, dapprima si parla di un uccello che rivela a Salomone l’esistenza del regno di Saba, poi di un misterioso personaggio detentore di una ‘‘scienza del Libro’’ (‘ilm min al-Kita¯b) e che in un batter d’occhio riesce a trasportare il trono di Saba sul posto, e infine di un palazzo totalmente trasparente. E` abbastanza per suscitare la curiosita` degli esegeti e dei cronisti musulmani i quali, per integrare la Rivelazione dove essa tace, fanno ampio ricorso alle isra¯’ı¯liyya¯t, i racconti tratti dalla tradizione rabbinica, nella gran parte dei casi trasmessi da ebrei convertiti all’islam. Fondandosi dunque su tali testimonianze, i commentatori riportano che la regina di Saba si chiamava Bilqı¯s, che sua madre non apparteneva alla specie umana ma a quella dei jinn, e che suo padre era re dello Yemen. Secondo un’altra versione dei fatti, meno diffusa ma attestata in particolare nelle Cronache di Tabarı¯ (310/923), il ˙ re della Cina il padre di Bilqı¯s era un quale, durante una battuta di caccia, aveva salvato la vita a un jinn; in cambio costui gli aveva dato in matrimonio la sorella e da quell’unione era nata Bilqı¯s, per meta` donna e per meta` jinn. Come che sia, Bilqı¯s salı` al trono alla morte del padre essendone l’unica discen-

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dente, e istituı` il culto del sole. Regno` senza condividere il potere con alcuno e senza preoccupazioni fino al giorno in cui l’upupa di Salomone scoprı`, nel corso di uno dei suoi peripli, il suo palazzo nella valle di Ma’rib. Un altro elemento del racconto coranico che ha generato commenti in abbondanza e` il dono consegnato dagli emissari della regina a Salomone e di cui si tratta nel versetto 36 della sura della Formica: «Ma io inviero` loro un dono e staro` a vedere che cosa mi riporteranno i miei messi». Impiegato al singolare, il termine hadiyya, dono, va qui inteso in senso generico: considerate le circostanze, non puo` trattarsi di un semplice regalo. Cio` e` confermato d’altronde dall’utilizzo del termine ma¯l, che designa sia il denaro nell’accezione corrente sia, in senso piu` ampio, le ricchezze o i beni materiali di ogni tipo. Tale termine compare nel versetto successivo, quando Salomone dichiara agli emissari della regina: «Mi venite in aiuto con ricchezze? Quel che Iddio mi ha dato e` migliore di cio` che voi mi offrite!» (27,36). In ogni caso, gli esegeti ritengono che il dono in questione fosse costituito da parecchi mattoni d’oro e d’argento, da servi e serve – diverse decine secondo alcuni, parecchie centinaia secondo altri – che Bilqı¯s aveva fatto abbigliare in modo tale che gli uomini fossero indistinguibili dalle donne, e per finire da un cofanetto sigillato contenente una perla non forata. Tutto questo per mettere alla prova Salomone: o egli si rivelera` capace di distinguere gli uomini dalle donne tra i servi, indovinare il contenuto del cofanetto e trovare il modo di forare la perla – e, in questo caso, si dimostrera` effettivamente un profeta di Dio come pretende – o, al contrario, fallira` e cosı` dimostrera` di non esserlo affatto. Ma Salomone, avvertito dei tranelli di Bilqı¯s dall’upupa secondo gli uni o dall’angelo Gabriele secondo gli altri, superera` le prove senza fatica. Anche l’episodio della traslazione del trono di Saba ha suscitato l’interesse dei commentatori, tanto piu` che il Corano ne da` conto in maniera molto succinta. Dap-

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prima si parla di un jinn che si vanta di poter portare sul posto il trono di Bilqı¯s prima ancora che Salomone si alzi dal luogo in cui si trova; interviene allora un personaggio, di cui non e` dato sapere se si tratti di un secondo jinn o di un uomo, il quale, in possesso di una ‘‘scienza del Libro’’ (‘ilm min al-Kita¯b) come affermato dal Corano, pretende di poter trasportare il trono di Saba prima ancora che Salomone batta le ciglia; lo provera` eseguendo l’impresa seduta stante. Anche se alcune rare tradizioni riconoscono in questo misterioso personaggio Gabriele, se non addirittura lo stesso Salomone, la maggioranza degli esegeti, fondandosi su alcune isra¯’ı¯liyya¯t, afferma ¯ sa¯f ibn che si tratta d’un uomo di nome A ˙ Barakhiya¯, visir di Salomone e conoscitore del Nome supremo di Dio, donde i suoi poteri taumaturgici. L’impresa appare in questo caso ancora piu` prodigiosa, poiche´ – cosı` ci viene riferito – Bilqı¯s, ogni volta che si assentava, aveva l’abitudine di far trasportare il proprio trono in un locale serrato con chiavistelli e situato entro appartamenti chiusi a chiave e attentamente sorvegliati da una moltitudine di soldati. Quanto al palazzo di cristallo, la spiegazione prevalente e` che i jinn, per impedire l’eventuale matrimonio tra i due sovrani, avevano raccontato a Salomone che Bilqı¯s aveva piedi simili a zoccoli d’asino e che le sue gambe erano coperte di lunghi peli, come una capra. E` dunque per costringere la regina a scoprire le gambe alla sua presenza che Salomone fece costruire il misterioso palazzo. In tal modo pote´ constatare che i piedi di Bilqı¯s erano di costituzione perfetta, ma che, effettivamente, le gambe erano pelose in modo inconsueto. Per rimediare, egli ordinera` ai jinn di ideare una pasta depilatoria, la prima del genere, o almeno e` quel che ci viene assicurato. Cosa accade in seguito a Bilqı¯s? Il Corano non ne dice nulla e conclude il racconto dell’incontro con la conversione della regina. Dunque un epilogo felice il quale, pero`, non poteva soddisfare i cronisti musulmani: molti di loro asseriscono infatti

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che Salomone sposo` Bilqı¯s e che essi generarono molti figli; altre tradizioni riportano invece che egli la diede in sposa al re della tribu` yemenita di Hamda¯n. La leggenda vuole peraltro che Salomone abbia fatto costruire dai jinn in risposta al desiderio di Bilqı¯s tre fortezze, Baynu¯n, Salh¯ın e Ghumda¯n, situate nella regione di S˙ an‘a¯’ e di Ma’rib, distrutte dagli abissini ˙ verso il 525 d.C. Numerosi scavi archeologici intrapresi dopo il 1950 nello Yemen, in particolare nella valle di Ma’rib, non hanno apportato fino a oggi alcuna prova in sostegno dell’esistenza della regina di Saba. E` peraltro vero che le ricerche effettuate nei due santuari che portano il nome della regina, Mahram Bilqı¯s (o ‘‘tempio di Awa¯m’’) e ˙ Bilqı¯s (o ‘‘tempio di Bar’a¯n), finora ‘Arsh infruttuose, sono lungi dall’essere concluse. Neppure si e` trovata traccia della tomba della regina a Palmira: alcuni cronisti musulmani affermano che fu scoperta casualmente al tempo del califfo omayyade Walı¯d ibn ‘Abd al-Malik, che regno` dal 705 al 715 d.C. Cio` non toglie che la storia di Bilqı¯s e del suo incontro con Salomone, quale venne definita dalla tradizione musulmana integrando abbondantemente il brusco e spesso ellittico racconto fornito dalla sura 27, abbia nutrito una copiosa letteratura anche in seno all’ebraismo e al cristianesimo. La si ritrova infatti, con qualche ovvio aggiustamento, nell’epopea nazionale etiope, il Kebra nagast (La gloria dei re) redatto nel XIV secolo da un monaco ortodosso. La regina di Saba porta il nome di Makeda (‘‘Grandezza’’) e il figlio nato dalla sua unione con Salomone, Menelik, sottrae l’Arca dell’Alleanza per portarla ad Axum, dove, secondo una credenza ancora assai diffusa, si troverebbe tuttora sebbene nessuno possa vederla. Menelik diviene cosı` il fondatore della dinastia etiope che sarebbe durata fino all’ultimo negus (Naja¯shı¯), Haile Selassie (m. 1975). Similmente, numerosi elementi della leggenda musulmana relativa alla regina di Saba figurano nel Targum Sheni di Ester (I, 3) o, molto piu` tardi, nell’Alfabeto di

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Ben Sira (dove il figlio di Salomone e della regina di Saba e` Nabucodonosor); in questi casi e` pero` difficile parlare di prestiti, poiche´ gli esegeti musulmani hanno senza alcun dubbio attinto largamente ai racconti rabbinici. Tra gli autori musulmani, la conversione di Bilqı¯s e le prove che l’hanno preceduta hanno ispirato molti spirituali, soprattutto Ru¯mı¯, che sviluppa a lungo questo tema nel suo Mathnawı¯, o Niza¯mı¯, o ancora Ibn ‘Arabı¯ nel capitolo dei˙ Fusu¯s al-hikam ˙ ˙ ˙ a Sa(Le gemme della saggezza) dedicato lomone. Inoltre, l’episodio del palazzo di cristallo e` stato oggetto di molte rappresentazioni pittoriche, particolarmente in Iran, ma anche in Europa (si pensi alle vetrate di Canterbury, Cambridge o Strasburgo). [C.A.] Bibliografia: Louis Ginzberg, Les Le´gendes des Juifs, t. 5, Le Cerf, Paris 2004; Fre´de´ric Manns, «Le Targum d’Esther», in Liber Annuus, 46 (1996), pp. 101-166; James Bennet Pritchard, Solomon and Sheba, Phaidon, London 1974; Fabrizio A. Pennacchietti, «La Reine de Saba, le pave´ de cristal et le tronc flottant», in Arabica, 49/1 (2002), pp. 1-26; David Sidersky, Les Origines des le´gendes musulmanes dans le Coran et dans les Vies des prophe`tes, Librairie orientaliste Paul Geuthner, Paris 1933; Tha‘labı¯, Storia di Bilqı¯s regina di Saba, a cura di Giovanni Canova, Marsilio, Venezia 2000.

BISANZIO e BIZANTINI Non di rado, le opere storiografiche arabe testimoniano simpatia e rispetto per i bizantini e la loro civilta`. E` il caso di Abu¯ Nasr al-Maqdisı¯ il quale, nel IV/X secolo, ˙ metteva allo stesso livello arabi, persiani, bizantini e indiani distinguendoli dagli altri popoli del mondo per una certa loro eccellenza culturale e spirituale, eccellenza che, secondo l’autore, si riflette nelle rispettive religioni. Un secolo dopo, Sa¯‘id al-Qurtubı¯, il qa¯d¯ı di Toledo, ag˙ elenco˙ i caldei, gli egigiunse a questo ziani e gli ebrei in quanto popoli che partecipano della scienza e della cultura. I testi dei due autori citati, assieme a nume-

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rosi altri, ci permettono di constatare la posizione privilegiata che gli arabi accordavano ai popoli non arabi, indice, questo, di una profonda riconoscenza da parte dei conquistatori nei confronti dei popoli conquistati. Tuttavia, l’esistenza di simili testimonianze di rispetto e simpatia non deve farci dimenticare che si tratta di opere tarde, le quali non riflettono dunque la posizione degli arabi alle origini dell’islam, soprattutto considerando che di sovente i loro autori non sono arabi essi stessi. Il Corano fa riferimento ai bizantini nella sura che porta il titolo al-Ru¯m, i Romani: «Sono stati vinti, i Romani, al confine della nostra terra, ma essi, dopo la loro sconfitta, vinceranno entro qualche anno» (30,1-4). Il termine Ru¯m indica l’impero e il popolo bizantini in quanto eredi dei romani. All’epoca dell’avvento dell’islam, l’impero bizantino possedeva la Siria, la Palestina, l’Egitto e buona parte dell’Africa settentrionale; inoltre, aveva tra gli arabi alleati assai importanti, quali la tribu` dei Ghassa¯n; similmente, i persiani avevano come sostenitori i Lakhmidi della regione di H¯ı ra. I mercanti ˙ commerciali arabi intrattenevano rapporti con le maggiori citta` di queste regioni, soprattutto con le citta` siriane, dove avevano proprieta` piuttosto rilevanti. Quando, nel periodo successivo alla morte di Muhammad, i due primi califfi, Abu¯ Bakr e ‘Umar, lanciarono la prima campagna militare contemporaneamente verso le province bizantine e la Persia, gli arabi non prevedevano un’avanzata tanto folgorante. Nel giro di qualche anno, fra il 12/633 e il 21/642, pressoche´ tutte le grandi citta` e tutti i centri di spicco nelle province bizantine caddero in mano agli arabi. Contemporaneamente (nel 14/635) le armate arabe superavano l’Eufrate, occupavano H¯ıra e infliggevano una pesante ˙ ai sasanidi a Qa¯disiyya. Ctesisconfitta fonte (Mada¯’in), la capitale dei sasanidi, cadde nel 16/637. Nel 21/642, una seconda e decisiva sconfitta dei persiani a Naha¯vand aprı` definitivamente agli arabi le porte dell’impero persiano. Le ragioni

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dell’espansione musulmana furono molteplici e complesse: la volonta` di imporre l’islam e l’egemonia araba, segno forse di un esacerbato sentimento di nazionalismo tra gli arabi, che per la prima volta si trovavano riuniti sotto un’unica insegna; una fede affermata per via di rapidi successi, e cosı` via. Fra queste ragioni, puo` includersi una certa lettura del Corano che giustifica religiosamente la conquista araba delle province bizantine. Infatti, se la religione dei persiani non e` riconosciuta dal Corano, probabile motivo per cui essi non hanno uno statuto ben definito, la questione e` del tutto diversa per il cristianesimo, religione dei bizantini che, secondo il Corano, e` una delle religioni del Libro che precedettero l’islam. Pero`, sono numerosi i versetti che insistono sui cristiani come coloro che hanno snaturato il messaggio del loro profeta (5,14-18), un popolo divenuto empio (ka¯fir) perche´ afferma che «Dio e` il terzo di tre» (5,73). Alcuni detti del Profeta, trasmessi nel corpus dello hadı¯th (le tradizioni attri˙ e particolarmente nelle buite al Profeta) opere di Bukha¯rı¯ (m. 256/869) e di Ibn Hanbal (m. 241/855), precisano che Mu˙ hammad avrebbe incoraggiato gli arabi ad aggredire l’impero bizantino sulla promessa che i loro peccati sarebbero stati perdonati, oppure che la fine dei tempi e la conversione del mondo all’islam non avrebbe potuto aver luogo fino alla sconfitta dei bizantini. Oltre la questione della loro autenticita`, queste tradizioni attestano la volonta` da parte degli arabi di giustificare la missione che si erano attribuiti, cioe` la diffusione della parola di Dio rivelata al Profeta. Si possono distinguere due periodi nella conquista musulmana dell’impero bizantino: la campagna intrapresa dagli arabi a partire dall’anno 12/633 fino all’anno 100/718, e un secondo periodo che inizia nel V/XI secolo e prosegue fino alla meta` del IX/XV, quando l’espansione e` oramai condotta dai turchi. La conquista degli arabi inizio` con l’avvento al potere di Abu¯ Bakr; ma fu soprattutto ‘Umar, il suo successore, che, nello spazio di soli dieci anni, annette´ tutte le regioni meri-

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dionali dell’impero bizantino, dalla Siria fino all’Egitto. Damasco e` presa nel 14/ 635, Aleppo nel 16/637, Gerusalemme nel 17/638 e Alessandria nel 21/642. La rapidita` straordinaria di questa prima ondata di conquista puo` in parte spiegarsi senza dubbio con l’indebolimento dei bizantini: dopo anni di continue guerre con l’impero persiano, l’imperatore Eraclio aveva ottenuto a fatica una vittoria sull’esercito sasanide (nel 628) riconquistando la Palestina e l’Egitto; sull’altro fronte egli doveva fermare l’avanzata degli slavi e dei bulgari, sempre piu` minacciosi nelle province europee dell’impero. Dopo l’assassinio di ‘Umar e l’avvento di ‘Uthma¯n al califfato, l’espansione araba riprese ma nella direzione opposta, verso l’Africa settentrionale, con l’annessione della Cirenaica e della Tripolitania fino alle porte della cosiddetta Ifrı¯qiyya. L’impero bizantino perse gran parte dei suoi territori nel Nord Africa quando Mu‘a¯wiya, il futuro fondatore della dinastia omayyade, si impadronı` di Cipro e di Rodi. Le lotte intestine per il potere che seguirono l’assassinio di ‘Uthma¯n nel 35/656 opposero ‘Alı¯, cugino e genero di Muhammad, a Mu‘a¯wiya, e misero momentaneamente fine all’espansione araba nei territori bizantini. Ma solo per qualche anno. Gli Omayyadi non tentarono di conquistare l’Asia Minore, forse a causa delle montagne del Tauro, ma organizzarono tre campagne militari contro Costantinopoli a partire dalle isole mediterranee: a due riprese sotto Mu‘a¯wiya, prima tra il 47/668 e il 48/669 e poi tra il 54/674 e il 59/680, e infine sotto Sulayma¯n ibn ‘Abd al-Malik, tra il 98/716 e il 100/718. L’avvento della dinastia abbaside, nel 132/750, segna un periodo di relativa stabilita` nei rapporti fra l’impero bizantino e il mondo musulmano; infatti, pressoche´ lungo l’intero regno degli Abbasidi, i conflitti che opposero le due potenze non furono conseguenza di una politica espansionistica ma di una volonta` di consolidare i confini gia` stabiliti alla conquista degli Omayyadi. La sola eccezione durante il regno degli Abbasidi fu la spedizione contro Costantinopoli, intrapresa dal califfo Ha¯ru¯n al-

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Rashı¯d nel 165/781-782; essa ebbe termine con l’offerta di un tributo da parte di Irene, la quale, alla morte del marito, l’imperatore Costantino IV, si era proclamata imperatrice escludendo dal potere il figlio Costantino VI. La seconda fase della conquista araba dell’impero bizantino ebbe inizio oltre due secoli piu` tardi con l’arrivo dei turchi in Asia Minore. Nel corso del V/XI secolo i Selgiuchidi, una volta imposta la propria egemonia sull’Iran e oramai divenuti i padroni di Baghdad, dopo aver preso le parti del califfo abbaside contro gli sciiti buwayhidi, si rivolsero ai territori bizantini. Di fronte al pericolo delle ripetute incursioni dei turchi, l’imperatore Romano IV Diogene decise di affrontarli in Armenia, ma ne ricavo` una pesante sconfitta a Mantzikert (Malazgird), nei pressi del lago Van (463/1071). Questa sconfitta permise ai selgiuchidi di insediarsi definitivamente nella pianura anatolica, dove fondarono il sultanato selgiuchide di Ru¯m, nel 473/1080. I selgiuchidi consolidarono il proprio potere in Asia Minore penetrando fin oltre Konya e Nicea; questo rappresento`, beninteso, un pericolo costante per l’impero bizantino. L’arrivo dei mongoli verso la meta` del VII/XIII secolo e la sconfitta dell’esercito selgiuchide di fronte ai nuovi invasori, avvenuta nel 641/1243, provocarono una profonda crisi in seno al sultanato di Ru¯m e si conclusero con la caduta dei selgiuchidi sul finire del secolo. Tuttavia, il vero pericolo per l’impero bizantino non era affatto scongiurato: gli ottomani, membri di un’altra tribu` turca insediatasi nell’Anatolia occidentale alla fine del regno selgiuchide, fondarono una nuova dinastia destinata a durare fino al termine della prima guerra mondiale. All’inizio del IX/ XV secolo, l’impero ottomano aveva non solo il dominio di tutta l’Asia Minore, ma anche di una parte importante dei paesi balcanici, come la Bulgaria e la Serbia. Cosı`, l’impero bizantino, ridotto praticamente alla sola Costantinopoli, si trovo` circondato da regioni sottoposte all’autorita` ottomana. Gli ottomani erano gia` stati sul punto di conquistare la citta` all’inizio

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del secolo, ma avevano dovuto rinunciare all’intento in seguito all’invasione dell’Asia Minore da parte di Tamerlano e alla sconfitta del sultano Ba¯ya¯zid ad Ankara nell’804/1402. Nell’857/1453, la presa della citta` da parte di Mehmet II mise ufficialmente fine all’impero bizan[K.A.] tino. Bibliografia: Clifford Edmund Bosworth, Les Dynasties musulmanes, Actes Sud (coll. La bibliotheque de l’Islam), Arles 1996. Id., The Arabs, Byzantium and Iran. Studies in Early Islamic History and Culture, Variorum, Aldershot 1996; Marius Canard, Byzantium and the Muslim world to the middle of the eleventh century, in Joan M. Hussey (a cura di), The Cambridge Medieval History, vol. IV, The Byzantine Empire, 2ª ed., Cambridge University Press, Cambridge 1966; Robert Mantran, L’Expansion musulmane (VIIe-XIe Sie`cle), PUF, Paris 1991 (1ª ed. 1969); Alexandre Alexandrovitch Vasiliev, Byzance et les Arabes, edizione francese a cura di Henri Gre´goire e Marius Canard, Institut de philologie et d’histoires orientales, 4 voll., Bruxelles 1935-68.

BOTTINO ‘‘Il Bottino’’ e` il titolo della sura 8, interamente medinese. Il primo versetto recita chiaramente: «Il bottino spetta a Dio e al Suo Messaggero». Muhammad deteneva dunque fondi pubblici e ne disponeva come meglio credeva; inoltre, gli spettava automaticamente il quinto (khums) di ogni preda di guerra. Secondo i testi autorizzati, come il Kita¯b al-magha¯zı¯ (‘‘Libro delle razzie’’) di Wa¯qidı¯ (m. 207/823), la pratica del khums fu istituita a partire dalla battaglia di Badr nell’anno 2/624, quando tra i credenti vincitori sorse una disputa per la divisione del bottino; fu allora che discese il versetto citato. Soltanto piu` tardi si concluse un accordo citato al versetto 41: a Muhammad spettava il quinto del totale delle finanze pubbliche, mentre il resto andava distribuito in parti uguali tra i membri delle varie spedizioni. Nei fatti il khums sostituiva concretamente il ‘‘quarto’’ che andava tradizionalmente al capo tribu`. In quanto tale, Muhammad aveva inoltre di-

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ritto a una ‘‘prima scelta’’ (safı¯), anteriore ˙ periodo prealla divisione generale. Nel cedente l’islam, peraltro denigrato dalla nuova religione, tale diritto del capo tribu` si realizzava con la concessione di una cammella, di un cavallo, di una spada o di una prigioniera preferibilmente vergine e giovane. A Badr, Muhammad scelse una spada. Si aggiungeva ancora per il Profeta una parte di bottino in qualita` di guerriero, la quale triplicava se aveva combattuto montando un cavallo o un cammello. Nelle sue Tabaqa¯t, Ibn Sa‘d (m. 230/845) descrive˙ Muhammad intento a negoziare aspramente con i beduini perche´ gli versassero il khums in aggiunta alla parte normale di combattente e perche´ gli riconoscessero il diritto alla prima scelta. E` evidente che la divisione materiale del bottino veniva condotta in modo ingegnoso, come si conviene a una societa` dal forte senso commerciale qual era la comunita` musulmana di Medina: il bottino era ripartito in lotti di ugual valore; se per caso esso risultava diversificato, le prede di guerra potevano essere vendute all’asta alle truppe e ai mercanti. Tutta un’attivita` commerciale si era organizzata attorno al bottino o per farne fruttare il prodotto; questo o quel credente ammasso` in tal modo ricchezze colossali. Nel caso di un bottino frutto di accordo e non di vittoria, Muhammad reclamava l’intero ammontare. Alcune fonti fanno allusione alle terre che gli spettarono per intero a Khaybar e a Fadak. Le fonti concordano ugualmente sul fatto che dopo la presa di Khaybar la situazione finanziaria del Profeta conobbe una significativa trasformazione; la sua accresciuta ricchezza si fece sempre piu` visibile, soprattutto per la considerevole quantita` di mezzi militari (cavalli e armi) impiegati nelle spedizioni. La questione del bottino e delle sua ripartizione rientra nelle diatribe che scossero l’islam degli inizi. Il Corano, in una serie di versetti successivi, giustifica il comportamento di Muhammad, pur regolamentando il modo di procedere per la sua comunita`. Secondo le fonti tradizionali

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egli accordava una parte del bottino ai soli guerrieri, escludendo ogni beduino non impegnato al servizio della ‘‘religione di Dio’’. Fu solo sotto ‘Umar ibn al-Khatta¯b, il secondo califfo che regno` ˙˙ 23 dell’egira, dal 634 al 644, che dal 13 al tutti i membri della umma (comunita` musulmana) poterono incassare una percentuale calcolata in base alla registrazione e alla ripartizione per tribu`; questo diede origine a rivalita` che esacerbavano gli antagonismi. Tutti i trattati di jiha¯d affrontano il tema del bottino quale problema rilevante e con dovizia di particolari. Autori fondamentali come Ibn Hazm in Spagna o Ma¯wardı¯ ˙ in Iraq concordano nel ritenere che i beni degli infedeli sono stati stabiliti per «l’arricchimento della umma». Per Nu‘ma¯n (m. 65/684), «tutto quel che la terra nasconde e` stato attribuito da Dio alla sua fazione»; e per Ibn Hazm, «il Signore ha ˙ istituito la proprieta` degli infedeli sui loro beni unicamente perche´ essa formi il bottino dei credenti». A partire da un insieme di versetti, si assiste a una teorizzazione completa: la nozione di bottino e` sacralizzata poiche´ e` Dio a fissarne il ruolo con un ordine proveniente da lui (59,6-7); essa ha anche una funzione morale poiche´ il bottino spetta agli Emigrati bisognosi che hanno perduto ogni cosa per seguire Muhammad a Medina (59,8), per i quali esso rappresenta un contraccambio divino; il bottino e` una ricompensa anche quando Dio, dopo aver respinto gli infedeli e «quelli della gente del Libro che avevano dato mano al nemico» senza che «nulla di buono» ottenessero, «vi fece eredi della loro terra e delle loro case e delle ricchezze loro» (33,25-27). Infine, tale nozione serve ad articolare tutta una morale specifica («perche´ questo fosse un Segno ai credenti, e potesse Egli guidarvi per un retto sentiero»; 48,15 e 19-20). Per converso, Dio rimprovera ai soldati musulmani di aver abbandonato la loro posizione per avventarsi sul bottino e disputarselo, il che ha permesso ai meccani di recuperare il vantaggio in occasione della battaglia di Uh ud nell’anno 3/625 (3, 152). E` molto ˙significativo al riguardo

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che diverse tradizioni profetiche parlino di spedizioni che ‘‘sono fallite’’ perche´ non hanno fruttato bottino. I trattati di diritto offrono una classificazione teorica molto precisa, non basata sul Corano e neppure sulla Sı¯ra (la biografia di Muhammad), le cui informazioni, pur dettagliate, non sono sistematiche. Sotto i primi califfi si distinguono diverse categorie: nafal (pl. anfa¯ l, il primo dei tre termini che designano il bottino nel Corano), cioe` un’attribuzione supplementare di bottino, accordata a certi combattenti in aggiunta alla parte loro dovuta; ghanı¯ma (solo il plurale magha¯nim si trova nel Corano), cioe` il bottino trasportabile ottenuto in seguito a un combattimento armato; fay’ (nel Corano si trova solo il verbo affine afa¯’a), cioe` ogni preda strappata agli infedeli senza combattimento, per esempio terre e abitazioni; infine radkh (assente dal Corano), cioe` ogni preda˙ ottenuta sulle spoglie del nemico ucciso. Anche se queste classificazioni possono apparire anacronistiche, la nozione di bottino, nel suo principio, resta molto viva ai nostri giorni. I fondamentalisti la inseriscono nelle loro rivendicazioni perche´ fa parte della parola di Dio. Cosı`, in cassette diffuse in alcune moschee delle citta` europee si possono trovare formule di questo genere: «Porci di cristiani! Voi

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che insultate il Dio Onnipotente pretendendo che abbia una moglie e un figlio, voi che diffamate Dio presentandolo come uno di tre, il vostro duro castigo vi e` assicurato! [...] Sappiate che, vicini o lontani, giovani o vecchi, preti o monaci, con i vostri atti vi siete condannati a morte e alla perdita dei vostri beni. Il vostro sangue sara` a buon diritto versato dai musulmani e il vostro denaro ci appartiene». Il jiha¯d contro gli infedeli e i colpevoli di blasfemia si ritrova strettamente legato alla nozione di prede di guerra, viste come legittimo compimento della lotta stessa per il trionfo della Vera Predica[M.-T.U.] zione. Bibliografia: Biancamaria Amoretti Scarcia, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, Sansoni, Firenze 1974; Michael Cook, Storia del jiha¯d: da Maometto ai nostri giorni, a cura di Roberto Tottoli, Einaudi, Torino 2007 (ed. or. Understanding Jihad, University of California Press, Berkeley 2005); Ibn Hicha¯m, La Vie du prophe`te Mahomet, ed., trad. dall’arabo e note di Wahib Atallah, Fayard, Paris 2003; Patrizia Manduchi (a cura di), Dalla penna al mouse: gli strumenti di diffusione del concetto di giha¯d, Franco Angeli, Milano 2006; Alfred Morabia, Le Gihad dans l’Islam me´dieval. Le «combat sacre´» des origins au XIIe sie`cle, Albin Michel, Paris 1993; Giorgio Vercellin, Jiha¯d: l’islam e la guerra, Giunti, Firenze 2001.

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C CACCIA e PESCA Una sola parola, sayd, designa contempo˙ raneamente in arabo la caccia, la pesca e la selvaggina. Pertanto, per distinguere la caccia (o la pesca) dalla selvaggina, i giuristi musulmani hanno designato l’attivita` per mezzo della forma verbale istiya¯d, che il Corano non conosce. Questa˙˙ambiguita`, senza dubbio assai antica, e` illuminante; e l’impossibilita` linguistica di differenziare la selvaggina aerea da quella acquatica – che non e` propria dell’arabo – e` una conseguenza della mancata differenziazione tra le due attivita` . Si puo` avanzare una spiegazione: che la caccia abbia o non abbia preceduto nel tempo la pesca, quest’ultima venne designata per via del termine che serviva a indicare la prima perche´ l’analogia tra le due attivita` fu subito avvertita. Gli arabi hanno sempre praticato la caccia per soddisfare le necessita` alimentari e come svago. Era particolarmente apprezzata dai cavalieri, e da questo punto di vista, era analoga alla guerra e dunque paragonabile a uno sport. La si praticava servendosi di animali da preda, sia cani (la varieta` piu` celebre e` un tipo di levriero, il salu¯qı¯) sia rapaci come l’astore (ba¯z o ba¯zı¯); capitava inoltre che si utilizzassero grandi felini, come il ghepardo. I giuristi musulmani della classicita` screditeranno la caccia: a loro avviso, essa e` condannabile se ha per fine il piacere ed e` ammissibile solo a scopo alimentare. Tuttavia i monarchi l’hanno praticata e continuano a praticarla per puro diletto; essi hanno altresı` ispirato la traduzione o compilazione di opere: ne e` nata una letteratura cinegetica di grande ricchezza tecnica, che attinse a diversi patrimoni (greco, persiano, indiano) e che in parte sarebbe passata al mondo occidentale medievale

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(il trattato attribuito all’imperatore Federico II da questo punto di vista e` particolarmente significativo). Al contrario, gli arabi, se si escludono gli abitanti delle coste, non conoscevano la fauna acquatica e non apprezzavano le prede marine. Questo non sorprende trattandosi dei beduini, prima di tutto allevatori nomadi: in generale essi, ancora oggi, nutrono un assoluto disprezzo per gli animali che vivono in acqua e per chi se ne ciba, e ritengono che la sola carne degna d’essere consumata sia quella dei ruminanti, di preferenza domestici; la selvaggina, poco presente nel Corano, ove nessuna delle sue specie e` nominata esplicitamente, non e` che un ripiego. La letteratura dietetica ne offre la prova, sconsigliando di consumare la selvaggina qualora non si osservino determinate precauzioni. L’atteggiamento del Corano nei confronti della caccia, degli animali acquatici (tra cui i pesci) e della pesca deve essere valutato alla luce dei dati gia` menzionati. Gli animali acquatici hanno nel Libro sacro uno statuto che si puo` definire ritualmente neutro. Nessuna specie e` vietata al consumo, ne´ peraltro nominata: il regno animale acquatico si presenta come indifferenziato. Non si puo` affermare lo stesso della dottrina affermata dalle scuole giuridiche come lo hanafismo e lo sciismo ima¯mita, concordi˙ nel considerare illecite tutte le specie che non appartengano ai pesci, come i crostacei o i molluschi. Mentre la caccia e` dichiarata illecita per il pellegrino in stato di sacralizzazione (5, 2 e soprattutto 5,95-96), la pesca gli e` esplicitamente permessa (5,96); e se questi uccide volontariamente della selvaggina, dovra` un risarcimento di valore uguale all’animale ucciso. In altre parole, uccidere selvaggina terrestre significa commettere una colpa, mentre uccidere

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animali acquatici e` un atto indifferente. L’immunita` che protegge la selvaggina terrestre circonda, secondo uno hadı¯th, ˙ l’ecl’insieme della fauna selvatica, con cezione degli animali che minacciano direttamente la vita del pellegrino e di qualche specie ben precisa. Nessun rituale di uccisione e` invece previsto o prescritto per la fauna acquatica, costituita da animali privi di sangue o, secondo una formula araba, privi di ‘‘anima liquida’’ (vedi MACELLAZIONE). Trattandosi dell’uccisione di bestiame o di caccia, sono lecite solo le vittime di un musulmano o eventualmente di un appartenente ai depositari di Scritture (cristiani, ebrei), ma nessuna condizione di questo tipo esiste per la pesca. Senza dubbio occorre ascrivere tale diversita` d’atteggiamento alla pastorizia, sempre presente nel Corano: l’enorme distanza tra l’uomo e gli animali acquatici si contrappone all’enorme prossimita` tra l’allevatore e il suo bestiame. Il rituale dell’uccisione e` semplificato nella caccia, perche´ corrisponde a una situazione eccezionale; i giuristi non esigono che la preda sia uccisa per sgozzamento, ed e` sufficiente infliggerle una ferita sanguinosa e mortale (‘aqr) sia per mezzo di un animale da preda (hayawa¯n ja¯rih), sia con un’arma tagliente˙(freccia, ˙ spiedo). Altri strumenti utilizzati lancia, nella caccia, come trappole, lacci o cappi, sono leciti purche´ la preda non muoia nel momento in cui resta intrappolata; ugualmente, se l’animale da preda uccide la propria vittima rompendole le ossa, soffocandola o per crepacuore, il procedimento e` illecito. Il cacciatore e` tenuto a sgozzare la preda solo se la cattura viva. L’animale da preda deve essere addestrato (mu‘allam), e la prova del suo avvenuto addestramento e` che non si cibi di quanto ha catturato a meno che ne abbia ricevuto l’ordine dal padrone; insomma, esso deve comportarsi come un ‘‘prolungamento’’ del cacciatore e agire solo dietro ordine di quest’ultimo. Si e` pero` meno esigenti con gli uccelli da preda, perche´ si ritiene che non siano addestrabili tanto perfettamente come i cani.

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Infine, la gran parte delle scuole giuridiche ritiene lecite le prede catturate dai depositari di una Scrittura; sostengono il contrario solo i ma¯likiti e gli sciiti. [M.H.B.]

Bibliografia: Fre´de´ric II de Hohenstaufen, L’Art de chasser avec les oiseaux. Le traite´ de fauconnerie De arte venandi cum avibus, traduit et annote´ par Anne Paulus et Baudoin Van den Abeele, J. Laget, Nogentle-Roi 2000; Federico II, De arte venandi cum avibus. L’arte di cacciare con gli uccelli, ed. e trad. it. a cura di Anna Laura Trombetti Budriesi, Roma-Bari, Laterza, 2000; Francesco Gabrieli, Abu¯ Fira¯s poeta ed eroe arabo del X secolo, G. Bardi, Roma 1977 (che contiene in traduzione un esempio di poesia cinegetica araba tra i piu` notevoli); Ibn Manglı¯, De la chasse, trad. dall’arabo di Franc¸ois Vire´, Sindbad, Paris 1984; Khwushal Khan Khatak, Il libro del falcone (a cura di D. Guizzo e G. Scarcia), Cafoscarina, Venezia 2001; Maurice Lombard, «La chasse et les produits de la chasse dans le monde musulman (VIIIe-XIe sie`cles)», in Annales E´conomies, Socie´te´s, Civilisations (ESC), 24 (1969), pp. 572593; Franc¸ois Vire´, «Jurisprudence en matie`re de gibier tue´ a` plomb», in Bulletin d’e´tudes orientales, 30 (1978), pp. 289305; Id., Le traite´ de l’art de la volerie, Brill, Leiden 1967.

CAINO Vedi ABELE E CAINO. CALAMO Il calamo, che da` il suo nome alla sura 68, e` una penna ricavata da una canna. Il termine arabo, di origine greca, indica sia la canna sia lo strumento di copisti e calligrafi. Quest’umile oggetto e` nondimeno quello attraverso cui la Rivelazione discende sugli uomini: «Grida! Che´ il tuo Signore e` il Generosissimo, Colui che ha insegnato l’uso del calamo, ha insegnato all’uomo cio` che non sapeva» (96,3-5). Di conseguenza il calamo e` insieme strumento divino e simbolo di conoscenza. Questo strumento del calligrafo, gia` largamente diffuso prima dell’islam nelle regioni che si affacciano sul Mediterraneo, gode ovviamente di una particolare

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attenzione nella letteratura musulmana e soprattutto nei trattati di calligrafia, i quali accordano considerevole interesse all’origine geografica della canna ma anche al suo colore, alla durezza e alla massa. Anche il modo di tagliare il calamo e` un’operazione spesso descritta nella letteratura tecnica, cosı` come le lame e gli altri accessori che servono per affilarlo. Con l’elaborazione dei ‘‘sei stili’’ della calligrafia araba classica, a Baghdad, nel IV/X secolo, il termine, attraverso un ragionamento simile alla sineddoche, designera` anche i diversi tipi di scrittura. La canna e` una pianta che cresce nelle regioni umide; contrariamente alle regioni dell’Arabia Petraea, si trova in abbondanza sulle rive del Nilo; tuttavia, nei trattati di calligrafia, la canna piu` rinomata e` quella di Wa¯sit, nella Bassa Mesopotamia. Il calamo e` ˙in primo luogo una canna; in quanto tale, nel Corano e` menzionato un’unica volta a proposito della storia di Maria: «Tu non stavi con loro quando tiravano a sorte con le canne per sapere chi si sarebbe preso cura di Maria» (3,44). Secondo Denise Masson, questa immagine, attestata in diverse narrazioni apocrife (Protovangelo di Giacomo, 8-9; Pseudo-Matteo, 8,2; Il libro della nativita` di Maria, 8) fa pensare al ramo di Aronne che fiorisce a differenza di quelli dei suoi undici compagni, cosı` segnalando la scelta divina. L’invocazione che apre la sura 68 e` piuttosto sconcertante: «N. Per il calamo e quel che scrivono gli angeli!» (68,1). La lettera nu¯n posta in apertura di versetto resta oscura quanto al significato; ma sara` nuovamente chiamata in causa in seguito, in particolare nei trattati di calligrafia, come metafora, per esempio, per un calamaio. Inoltre, in piu` testi dedicati all’arte della bella scrittura l’intero versetto e` posto in evidenza. La calligrafia puo` considerarsi dunque un’arte direttamente ispirata dalla Rivelazione; la sua ascendenza quasi divina fa sı` che essa figuri in primissimo piano tra le arti musulmane. E` ancora la penna di canna a essere invocata nel versetto 31,27 per spiegare il ca-

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CALAMO

rattere infinito della parola divina: «Se sulla terra ogni albero fosse una penna ed il mare inchiostro e lo ampliassero ancora sette mari, non si esaurirebbero le parole di Dio. E Dio e` possente sapiente». Il calamo e` in tutta evidenza lo strumento fondamentale dell’arte calligrafica. Le prime scritture arabe, eseguite su pergamena o papiro, mostrano una scrittura di larghezza alquanto costante. L’elaborazione degli stili corsivi della calligrafia araba classica ebbe luogo principalmente a Baghdad nel corso del IV/X secolo. Ibn Muqla (m. 338/949) e` noto per aver codificato le regole della scrittura corsiva dei copisti (il naskhı¯) elevandolo al rango delle scritture nobili, impiegate specialmente per trascrivere il Corano. In seguito, si svilupparono le regole di quelli che vengono chiamati i ‘‘sei stili’’ (qalam) della calligrafia classica. Tra le regole formulate nei trattati per calligrafi, la descrizione del calamo, delle qualita` richieste per il materiale di base e il modo di tagliarlo occupano una parte importante. Il calamo deve essere diritto, secco e duro, del caratteristico color rossiccio; non deve essere troppo leggero ne´ troppo pesante. Tagliato a ugnatura, il becco viene poi di nuovo tagliato per sbieco con l’aiuto di un temperino e di un tagliacalamo (miqatta’). Ogni stile calligrafico richiede una speciale misura di calamo, di modo che le linee e i punti abbiano la larghezza richiesta dalle norme stabilite per ogni stile; e` la ragione per cui il termine designa sia lo strumento sia il risultato. In un trattato persiano di calligrafia, il becco del calamo e` definito la ‘‘chiave dell’arte’’; il che indica l’importanza attribuita al modo in cui esso va tagliato. Copisti e calligrafi, come gli uomini di lettere in generale, sono noti sotto il nome di ahl al-qalam, ‘‘le genti della penna’’, e nella societa` musulmana tradizionale costituiscono una sorta di ‘‘nobilta` di toga’’. [Y.P.]

Bibliografia: Johannes Pedersen, The Arabic Book, Princeton University Press, Princeton 1984; Yves Porter, Peinture et arts du livre, Institut franc¸ais de recherche en Iran, Paris-Teheran 1992.

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CALENDARIO

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CALENDARIO Nel Corano compaiono differenti termini legati alla misurazione del tempo (anno, mese e giorno) che, nella maggior parte dei casi, sono riferimenti cronologici vaghi o espressioni stereotipate come il ‘‘giorno del Giudizio’’. D’altro canto, solo un piccolo numero di brani fornisce indicazioni sul modo di effettuare il computo del tempo oppure fissa il momento di alcuni atti della vita religiosa. Occorre sottolineare che i riferimenti ai mesi, che figurano essenzialmente nei passi medinesi del Corano, sono associati alla definizione di riti. Il fondamento del calendario e` indicato con relativa precisione (10,5): Dio ha determinato le fasi della luna (mana¯ zil; ugualmente 36,39) che l’uomo deve utilizzare per misurare gli anni. L’osservazione diretta dell’apparizione della luna nuova ha un ruolo particolare per determinare l’inizio del mese e dei riti che sono a esso collegati, come il digiuno o il pellegrinaggio (2,185 e 189). Lo stesso nome shahr (‘‘mese’’) avrebbe originariamente designato in arabo la luna nuova o neomenia. E` dunque il ciclo lunare quel che funge da fondamento per il calendario musulmano. A questo riguardo, si rileva una continuita` con la pratica in uso presso alcune comunita` dell’Arabia preislamica, dove il mese si definiva in base alle ventotto congiunzioni celesti della luna con altrettante stelle o costellazioni. Il ricorso a questo metodo non imponeva, pero`, un semplice calendario lunare: esso puo` infatti utilizzarsi solo in un sistema che associ i cicli lunare e solare. Sembra invece che l’Arabia meridionale conoscesse i calendari solari. L’anno conta dodici mesi: tale e` la «religione retta» (9,36), e quattro mesi sono «sacri» (hara¯m; 9,36; ma anche 2,194 e 197; 5,2 ˙e 97). Il Corano non precisa i nomi di questi ultimi; d’altronde menziona specificamente un solo nome di mese, quello di ramada¯n (2,185). Nella tradizione preislamica,˙ i mesi consecutivi di dhu¯ al-qa‘da, dhu¯ al-hijja e muharram ˙ ramada¯˙n, si oterano sacri; aggiungendo ˙ tiene il numero di quattro mesi sopra

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menzionato. Il versetto successivo a quello in cui si fissa il numero di dodici mesi pone un problema. Vi si allude infatti a una ulteriore divisione utilizzata nella fase preislamica che sembrerebbe analoga ai mesi e che e` chiamata nası¯, a volte dichiarata sacra «dagli empi» e a volte no (9,37). Questo termine e` inteso da alcuni commentatori come designante un mese ‘‘intercalare’’ che permetteva di mantenere il calendario lunare preislamico in fase con il ciclo solare. La difficolta` riguardava il suo inserimento nel numero dei mesi sacri: ne acquisiva il medesimo statuto oppure no? Il Corano decide di proibire tale pratica, aprendo cosı` la questione del motivo della scelta: se il nası¯ e` effettivamente un mese intercalare, la decisione potra` accogliersi come un rifiuto delle usanze preislamiche oppure come una nuova presa di distanza dall’ebraismo, il quale procede al raddoppio periodico di un mese in modo che le sue feste cadano, da un anno all’altro, nelle stesse stagioni. In ogni caso il calendario definito dal Corano e` puramente lunare e, dunque, sfasa annualmente di circa undici giorni rispetto a un calendario solare qual e` quello gregoriano. Per converso, il Corano non e` preciso circa il mese che corrisponde all’inizio dell’anno: anche in questa circostanza l’islam segue la pratica in uso nell’Arabia preislamica, che aveva adottato a tale proposito il mese di muharram. ˙ Con circa quattrocentosessanta occorrenze, il termine ‘‘giorno’’ (yawm) ricorre con molta frequenza nel Corano, ma in quattro casi su cinque si fa riferimento al ‘‘giorno del Giudizio’’. In alcuni passi, invece, si tratta effettivamente di misurare il tempo. La successione dei giorni e delle notti e` un segno che permette di conoscere «il numero degli anni e il conto» (17,12). La durata del giorno e la determinazione dei suoi diversi momenti sono indicate solo con termini generici, cinque dei quali vennero poi scelti come titoli per altrettante sure (89,92,93,103 e 113). Spettera` al lavoro dei matematici e degli astronomi stabilire con precisione i momenti in cui la preghiera deve essere compiuta, e so-

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prattutto l’alba e il crepuscolo, con le note implicazioni per la durata del mese di ramada¯n. Le questioni della misurazione ˙ del tempo e del calendario susciteranno in seguito una copiosa letteratura specialistica. La maggior parte dei riferimenti agli anni ha un valore simbolico: non si tratta propriamente di misurare il tempo che passa, ma di indicare la durata, e anche la lunga durata. In due casi si tratta evidentemente di un lasso di tempo preciso, poiche´ il contesto e` quello delle prescrizioni giuridiche (2,233 e 240). Benche´ il ciclo lunare sia stato fissato come base di calcolo del «numero degli anni» (10,5), il Corano non da` alcuna indicazione quanto alla scelta di un punto d’inizio per un’era propria all’islam. Nelle iscrizioni dell’Arabia antica compaiono diversi metodi di datazione: in base agli anni di regno di un re o di esercizio di un magistrato, o a partire da un avvenimento preciso assunto a riferimento; potra` allora trattarsi di un’era propriamente detta o meno. Le due pratiche furono note nell’Arabia meridionale, dove vennero impiegate tre ere locali delle quali la piu` conosciuta e` quella di Himyar. Nel nord ci si riferı` invece a si˙ stemi mutuati dalle civilta` contigue: le iscrizioni preislamiche di Nama¯ra (in nabateo) e di Harra¯n (in arabo) sono datate ˙ della provincia romana secondo l’era d’Arabia. Sotto il regno del califfo ‘Umar (dal 634 al 644) sara` introdotta l’era dell’egira: l’inizio, l’anno 1, e` costituito dal primo giorno del primo mese dell’anno nel quale Muhammad lascio` La Mecca per Medina, ovvero il 1º muharram del˙ il calenl’anno 1, il 16 luglio 622 secondo [F.D.] dario gregoriano. Bibliografia: Sebastian Gu¨nther, «Tag und Tageszeiten im Qur’a¯n», in Hallesche Beitra¨ge zur Orientwissenschaft, 25 (1998), pp. 47-68.

CALIFFATO e IMAMATO I termini ima¯m e khalı¯fa, dal secondo dei quali proviene l’italiano califfo, ritornano con una certa frequenza nel Corano. Non sono mai sinonimi: mentre khalı¯fa desi-

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gna generalmente colui che prende il posto di un altro, un successore, in senso non necessariamente istituzionale o politico, ima¯m mette l’accento sulla funzione di direzione. Si danno nove occorrenze coraniche del termine khalı¯fa (2,30; 6,165; 7,69 e 74; 10,14 e 73; 27,62; 35,39; 38,26) e dodici di ima¯m (2,124; 9,12; 11,17; 15, 79; 17,71; 21,73; 25,74; 28,5 e 41; 32,24; 36,12; 46,12). Il pensiero politico-religioso musulmano nella sua evoluzione e` andato verso una confusione dei due termini: quando i teologi dibattono per sapere a chi spetti il potere supremo in seno alla comunita` musulmana (umma), trattano della questione dell’imamato. Tuttavia, a partire dagli Omayyadi, per designare il capo della Comunita` si utilizza il termine khalı¯fa. Un altro appellativo concorrente ha fatto ben presto la sua comparsa: amı¯r al-mu’minı¯n, tradotto abitualmente con ‘‘principe dei credenti’’. Tuttavia gli sciiti e i kha¯rijiti si manterranno fedeli al termine imam, che preferiranno a quello di califfo e per mezzo del quale designeranno il capo legittimo (ai loro occhi) della Comunita`. Dal momento che imam designa colui che assume su di se´ una funzione direttiva, si applichera` a diverse categorie di persone, a partire dal II secolo; cosı` si impadroniranno del titolo gli ‘ulama¯’, soprattutto i tradizionisti e i giuristi, che rivendicano l’autorita` religiosa. Il termine serve anche a designare chi e` incaricato di dirigere la preghiera collettiva nella moschea. Quanto alla funzione politica suprema, e` designata con l’espressione al-ima¯ma al‘uzma¯, cioe` ‘‘l’imamato supremo’’. In se˙ si coniarono speciali titoli riservati guito agli ‘ulama¯’ (shaykh al-isla¯m, ‘alla¯ma ecc.); cio` accadde in particolare da parte degli sciiti, i quali non possono applicare il termine ima¯m a nessuno, neppure alla persona piu` carismatica, poiche´ dopo il IV/IX secolo esso designa esclusivamente l’‘‘imam nascosto’’, atteso alla fine dei tempi e chiamato anche ‘‘ima¯m muntazar’’ ovvero Mahdı¯. Nelle ˙nozioni di imam e califfo, quali sono state sviluppate dai pensatori musul-

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mani dei primi secoli, appaiono tracce di antiche rappresentazioni mediorientali che fanno del detentore dell’autorita` suprema un intermediario tra cielo e terra. La cosa risulta molto piu` accentuata in ambito sciita, dove l’imam e` la riproposizione della figura del Salvatore. Osserviamo che in terra sunnita, tanto nel Maghreb medievale che nel Sudan del XIX secolo, il titolo di Mahdı¯ e` stato rivendicato da capi di movimenti politicoreligiosi. Tuttavia nel Corano imam e califfo hanno poco a che fare con il campo semantico del potere e dell’autorita`; questi termini hanno assunto un significato principalmente politico soltanto tra i musulmani. Un’altra serie lessicale ha nel Libro Sacro una relazione piu` stretta con la politica: si tratta di ‘‘regalita`’’ (mulk) e ‘‘re’’ (malik). Questi termini non hanno comunque conosciuto la stessa sorte che e` toccata a imam e califfo. Mulk designa soprattutto la signoria di Dio sul mondo. Le occorrenze sono numerose; diversi versetti (2, 107; 3,189; 5,17-18,40 e 120; 7,158; 9, 116; 24,42; 25,2; 38,10; 39,44; 42,49; 43, 85; 45,27; 48,14; 57,2 e 5; 85,9) ripropongono la signoria di Dio sui cieli e sulla terra, secondo una formula stereotipata. In altri passi (6,73; 22,56; 25,26; 35,13; 39,6; 40,16; 64,1; 67,1) il Corano va oltre, affermando che la regalita` appartiene a Dio, proposizione talora associata all’idea del Giudizio finale. In un unico caso, 3,26, Dio riceve il titolo di malik al-mulk, letteralmente ‘‘sovrano del regno’’: e` lui, infatti, che concede il regno agli uomini. Dio puo` anche essere chiamato ‘‘re’’ (20, 114; 23,116; 59,23; 62,1), titolo che e` stato spesso associato all’idea di verita`, come pure all’espressione «Signore del Trono» (rabb al-‘arsh) o alla nozione di santita` (quddu¯s). La regalita` divina e` assoluta e Dio non la condivide con nessun’altra potenza (17,111; 25,2), ma la regalita` degli uomini non e` distinta da quella di Dio giacche´ deriva da quest’ultima (2,247). Appunto per questo, e` vano proclamarsi re perche´ e` legittimo solo il sovrano che Dio ha stabilito. I monarchi sono dunque degli eletti, e cio` vale per

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quei re biblici ai quali si allude con accenti favorevoli: Salomone (2,102; 38, 35), Saul (2,247-248) e Davide (2,251; 38,20), al cui proposito la regalita` e` associata alla saggezza (hikma). Anche ad ˙ Abramo il Corano attribuisce la regalita` (2,258), come a Giuseppe, che inoltre riceve il dono di interpretare gli enigmi (12, 101). Altrove, questo dono prezioso, insieme alla Scrittura e alla saggezza, e` fatto da Dio alla famiglia di Abramo (4,54). Sebbene tutti i personaggi biblici appena citati siano considerati come profeti, in base al versetto 5,20, il Corano sembra distinguere la regalita` dalla profezia. Piu` raramente i re possono non essere eletti di Dio. Nella sura 40 (versetto 29) questo e` detto degli egiziani in generale, mentre nella sura 12 (versetti 43,50,54,72 e 76) e nella sura 45 (versetto 51) si nomina lo stesso re Faraone. Si tratta ancora di un despota nella storia di Khidr e Mose` ˙ di Saba (18,79). Infine si deve alla regina la critica dei re conquistatori (27,34). Evidentemente, il titolo di re accomuna Dio ad alcuni uomini. Tuttavia il Corano insiste particolarmente sull’origine divina della regalita`: i re sono gli eletti di Dio, al pari dei suoi inviati; e sottolinea con forza la regalita` di Dio stesso, solo vero re dell’universo. Sembra che a causa di quest’ultimo utilizzo del termine e grazie all’interpretazione degli ‘ulama¯’, il titolo di re (malik) sia stato percepito dalla gente comune come illegittimo. I monarchi non eletti da Dio sono spesso presentati come tiranni e, alla luce di questa visione che gli ‘ulama¯’ hanno potuto imporre, gli storici musulmani hanno criticato le dinastie musulmane, in particolare quella omayyade. Ai giorni nostri, diversi monarchi preferiscono non fregiarsi del titolo di re; i sovrani marocchini, che conservano memoria della lotta contro gli ‘ulama¯’, sempre pronti questi ultimi a sollevare i fedeli, preferiscono fregiarsi del titolo piu` tradizionale di ‘‘principe dei credenti’’, per avere in mano, almeno formalmente, entrambi i poteri. Quanto al titolo adottato dalla famiglia wahha¯bita dei Sa‘u¯d (la quale ha dato il proprio nome all’Arabia Saudita), cioe` ‘‘servitore

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dei due luoghi santi’’ (kha¯dim al-haramayn), rappresenta un diniego che la˙ dice lunga. Il caso piu` sorprendente e` quello di un capo di stato che si pretendeva laico come il presidente tunisino Habib Bourguiba e che rivendico` per se´ il titolo di imam! Il sovrano dell’Iran infine, desiderando ancorarsi nell’antichissima tradizione persiana, si era appropriato del titolo di Shah, certamente meno conciliabile con la rappresentazione islamica del [M.H.B.] potere regale. Bibliografia: Wada¯d Al-Qa¯dı¯, «The term ‘‘khalı¯fa’’ in early exegetical literature», in Die Welt des Islams, 28 (1988), pp. 392411; Patricia Crone, Martin Hinds, God’s Caliph. Religious authority in the first centuries of Islam, Cambridge University Press, Cambridge 1986; Ann K. Lambton, State and Government in Medieval Islam, Oxford University Press, Oxford 1981; George Makdisi et alii, La Notion d’autorite´ au Moyen Aˆge: Islam, Byzance, Occident, PUF, Paris 1982; Erwin Rosenthal, Political Thought in Medieval Islam. An Introductory Outline, Cambridge University Press, Cambridge 1958.

CALLIGRAFIA La calligrafia in quanto tale, ovvero ‘‘l’arte della bella grafia’’, nel Corano non e` trattata. Nondimeno, una serie di importanti riferimenti coranici alla scrittura, al Libro, al calamo o all’inchiostro hanno fornito il fondamento di una delle forme artistiche piu` caratteristiche e piu` compiute dell’intero mondo musulmano. Sebbene il testo rivelato sia, all’inizio, una ‘‘recitazione’’, con lo stile specifico che gli conferisce l’oralita`, il Corano, nel testo stesso, e` esplicitamente definito un Libro. Il modo di trascriverlo e trasmetterlo sara` dunque oggetto di ogni attenzione. I piu` antichi esemplari del Corano giunti fino a noi non risalgono ai primi anni dell’islam, perche´ all’epoca il testo non veniva ancora trascritto. La sua compilazione definitiva ebbe luogo sotto il califfo ‘Uthma¯n, che regno` dall’anno 23 all’anno 35 dell’egira (644-655). Qualche decennio piu` tardi, sotto gli Omayyadi, il califfo ‘Abd al-Malik fece realizzare nella

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CALLIGRAFIA

Cupola della Roccia di Gerusalemme (72/ 691), la prima grande iscrizione monumentale, composta di citazioni coraniche in uno stile angolare sovente definito ‘‘ku¯fico’’ (originario della citta` di Ku¯fa nella Bassa Mesopotamia). In seguito, la trascrizione del Corano si sviluppo` parallelamente all’epigrafia monumentale; tale sviluppo della scrittura, che seguı` la folgorante espansione musulmana, fornı` all’arte islamica un tratto catalizzante che si ritrova in tutta la sua estensione geografica. Inoltre, l’utilizzo della scrittura quale segno distintivo sia religioso sia culturale concretizza una pratica artistica particolarmente originale, senza paralleli nell’insieme delle realizzazioni umane. Con l’espansione dell’impero califfale e il suo successivo crollo, le diverse regioni del mondo musulmano svilupparono ciascuna degli stili calligrafici propri. Un’arte di essenza divina Un’intera serie di passi coranici fa riferimento al calamo, all’inchiostro, alla scrittura e in generale al Libro. Indubbiamente, al primo posto tra queste ricorrenze va collocata la trasmissione da parte di Dio della sua Legge a Mose` tramite le Tavole scritte da Dio stesso: «Scrivemmo per lui, sulle tavole, di tutte le cose un’ammonizione e per tutte le cose una spiegazione precisa» (7,145). Poco oltre, nella stessa sura, Mose` esorta Dio: «Ascrivici il Bene nella vita terrena e nell’altra: ecco noi siamo tornati a Te, pentiti!» (7,156). Se Dio si manifesta attraverso la scrittura, all’uomo incombe la responsabilita` di mettere per iscritto la parola divina e di attenervisi: «Voi raccogliete [il Libro] in rotoli di pergamena che mostrate al popolo, ma ne nascondete anche gran parte; pure ora vi e` stato insegnato quel che ne´ voi ne´ i vostri antenati sapevano» (6,91). A proposito dei debiti contratti e` anche detto: «Lo scriva fra voi uno scrivano, con giustizia, e non rifiuti lo scrivano di scrivere come Iddio gli ha insegnato» (2, 282). Percio`, anche la stessa azione dello scrivere puo` essere considerata un insegnamento divino.

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CALLIGRAFIA

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Un altro punto importante e` la lingua della Rivelazione; molteplici menzioni nel Testo precisano che il Corano e` stato inviato agli uomini in lingua araba: «Ecco i Segni del Libro Chiarissimo: ecco, l’abbiamo rivelato in dizione araba a che abbiate a comprenderlo» (12,1-2). Un altro versetto insiste sul carattere ‘‘arabo’’ del Corano, escludendo ogni altra lingua: «Se Noi ne avessimo fatto un Corano in lingua straniera, avrebbero detto di certo: ‘‘Perche´ non sono chiari e precisi i suoi Segni? Come avviene che costui e` arabo e questo e` lingua straniera?’’» (41,44). Di conseguenza, scrivere il testo arabo del Corano e` considerato un atto di devozione. Copie del Corano e sviluppo della calligrafia nel mondo musulmano Il testo del Corano fu compilato solo dopo la morte del Profeta. Una prima compilazione fu eseguita per ordine del califfo Abu¯ Bakr (che regno` dall’anno 10 al 12 dell’egira, 632-634), ma la compilazione definitiva fu portata a termine solo sotto ‘Uthma¯n. Le copie del Corano dell’epoca sono praticamente scomparse nella loro totalita` ; anche i frammenti di epoca omayyade si sono conservati raramente. In compenso, va segnalata una serie di iscrizioni monumentali, alcune delle quali ci sono pervenute, e prime fra tutte quelle che ornano i deambulatori della Cupola della Roccia a Gerusalemme. Il monumento, eretto sotto il califfo omayyade ‘Abd al-Malik nel 72/691, puo` essere considerato a giusto titolo il primo capolavoro dell’architettura musulmana, ma anche il primo grande monumento epigrafico. Nel corso dei primi secoli dell’islam e` spesso difficile discernere l’elaborazione di una codificazione estetica della scrittura. A partire dall’epoca omayyade, alcune testimonianze provano che la calligrafia era considerata una delle piu` elevate espressioni artistiche. Tuttavia, perche´ si disegnino i contorni di un’autentica volonta` di imporre regole estetiche alla scrittura, occorre attendere il IV/X secolo, nell’Iraq abbaside. Codificando la forma delle lettere secondo diversi stili della scrittura corsiva, il calli-

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grafo Ibn Muqla (m. 338/949) pose i fondamenti di una letteratura normativa che da allora si sviluppo` in tutte le regioni dell’impero. La comparsa relativamente tarda delle norme che fissano i canoni della ‘‘bella grafia’’ spiega perche´ alcuni studiosi ritengono che la stessa idea di calligrafia fosse ignota prima del X secolo dell’era volgare. Fino a quel periodo, per copiare il Corano generalmente si impiegava, come nell’epigrafia monumentale, una grafia angolosa, spesso priva di punti diacritici, nota come ‘‘stile ku¯fico’’. Questo stile di scrittura sarebbe apparso a Ku¯fa, citta` fondata nel 17/638 sul basso Eufrate; la citta` divenne la capitale degli Abbasidi quando essi assunsero il potere nel 133/750, e rimase un centro intellettuale importante anche dopo la fondazione di Baghdad nel 145/762. Malgrado l’origine oscura di questo stile, e` certo che, a dispetto del suo carattere monumentale, esso presenta difficolta` di lettura. La rivoluzione operata negli scriptoria di Baghdad nel X secolo miro` a imporre una grafia piu` chiara e leggibile: il naskhı¯, scrittura corsiva ovvero ‘‘stile dei copisti’’. A partire da questo tipo di grafia, emersero altri stili che si differenziano tra loro per il rapporto tra altezza e larghezza delle varie lettere (per esempio l’altezza delle aste o l’apertura delle lettere finali). Questi stili sono chiamati naskhı¯, rayha¯nı¯, tawqı¯‘, riqa¯‘, ˙ muhaqqaq e thuluth. ˙L’altezza delle aste ˙ e` fissata sulla base della lettera alif, e contata in un dato numero di punti, numero fornito da un quadrato il cui lato abbia una larghezza pari a quella del becco del calamo. Tuttavia, gli stili ‘‘classici’’ elaborati nei territori centrali dell’impero furono assai rapidamente sostituiti nelle province lontane, in scala piu` o meno estesa, da grafie specifiche. In tal modo, se l’alfabeto arabo costituisce sempre il tratto comune di tutte le comunita` musulmane del mondo, in particolare per la scrittura del Corano e per l’epigrafia monumentale, si possono comunque rilevare progressivamente stili propri al Maghreb e alla Spagna, poi al mondo iranico, all’India fino

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alla Malaysia, al Sudan o alla Cina, poiche´ ogni regione mise a punto una propria ‘‘identita` grafica’’. Lo stile magrebino fu tra le prime grafie regionali a comparire; si sviluppo` nel corso del X secolo dell’era volgare nell’area che va dall’attuale Tunisia alla Spagna; fu impiegato nella trascrizione del Corano e in altri tipi di testi, ma poco nell’epigrafia monumentale. Alla fine del XIV secolo, nel mondo persiano vide la luce un’altra grafia particolare, il nasta‘lı¯q o scrittura ‘‘sospesa’’. Essa diverra` rapidamente una specificita` culturale del mondo persiano, ma sara` raramente impiegata nella trascrizione del Corano e dei testi arabi in generale. Nell’India dei sultanati, senza dubbio nell’ultimo quarto del XIV secolo, comparve un’altra grafia specifica, principalmente utilizzata per la copia del Testo rivelato, cioe` il biha¯rı¯. In India il suo impiego non sopravvisse all’avvento dei Mughal nel XVI secolo, ma trovo` dei prolungamenti in altri stili regionali, in particolare nelle [Y.P.] grafie utilizzate nell’Insulindia. Bibliografia: Abdelkebir Khatibi, Mohamed Sijelmassi, L’arte calligrafica dell’Islam, Vallardi, Milano 1995 (ed. or. L’art calligraphique de l’Islam, Gallimard, Paris 1994); Johannes Pedersen, The Arabic Book, Princeton University Press, Princeton 1984; Houari Touati (a cura di), «Ecriture, calligraphie et peinture», in Studia Islamica, 96 (2003).

CAMMELLO Nel Corano si fa riferimento al Camelus dromedarius, ovvero dromedario, diffuso dal bacino dell’Indo sino al Sahara e al Congo. Cavalcatura preferita del beduino, questo animale gli forniva buona parte del nutrimento (carne e latte), dell’abbigliamento e dell’habitat. In epoca preislamica, era considerato verosimilmente un animale sacro: lo testimoniano alcune leggende oltre alle descrizioni dell’animale nella poesia dell’epoca e il fatto che venisse sgozzato ritualmente in occasione del pellegrinaggio pagano alla Mecca. Per designare questo animale tanto importante, l’arabo classico conosce piu` di centosessanta termini, di cui

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CAMMELLO

solamente sei figurano nel Corano: ba‘ı¯r, ibil e jamal con il suo plurale jima¯la, tutti termini che rimandano alla specie; inoltre na¯qa, impiegato per la femmina, e ‘isha¯r che indica una cammella gravida di dieci mesi. Ba‘ı¯r compare due volte nella sura di Giuseppe (su¯ rat Yu¯ suf) dove figura in connessione a termini che significano ‘‘carico’’ (dukayl ba‘ı¯r e haml ba‘ı¯r; ri˙ spettivamente, 12,65 e 12,72). In entrambi i casi, si tratta del carico dei cammelli che i fratelli di Giuseppe conducono verso o dall’Egitto. Ibil compare una prima volta in un passo che rimuove un certo numero di tabu` alimentari: la carne di cammello, proibita dalla religione ebraica, e` dichiarata lecita (6,144). La seconda volta, questo termine figura nel contesto della creazione del mondo: la creazione dei cammelli e` citata allo stesso titolo di quella delle montagne, del cielo e della terra, a prova del potere creatore di Dio (88,17). Per converso, ‘isha¯r compare in relazione ai segni annunciatori della fine del mondo: saranno trascurate le cammelle prossime al parto, delle quali abitualmente si ha gran cura (81,4). Il termine jamal compare in un celebre versetto del quale si trovano varianti nei Vangeli di Matteo (19,24) e Luca (18,25). Il versetto afferma che quanti hanno reputato menzogneri i segni di Dio «non entreranno nel Giardino del Paradiso prima che il cammello entri nella cruna di un ago» (7,40). Quanto alle scintille sprigionate dalle fiamme dell’inferno, sono comparate a cammelli (jima¯la) di color nero mescolato al giallo, con riferimento al colore delle scintille ma anche alla velocita` con la quale esse si sprigionano (77, 32-33). Il termine na¯qa, infine, compare solo nel contesto della leggenda dei Thamu¯d, uno dei popoli annientati da Dio. Di questa leggenda il Corano riporta solamente gli episodi piu` significativi: la ‘‘cammella’’ di Dio (na¯qat Alla¯h) fu data ai Thamu¯d quale segno dell’onnipotenza divina e per metterli alla prova. Essi furono invitati a non farle del male e a condividere l’acqua

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CAMMINO

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con lei, pena un castigo doloroso. Ma ignorarono l’avvertimento e le tagliarono i garretti, ragion per cui subirono il ca[H.T.] stigo divino. Bibliografia: Mohammed Hocine Benkheira, Islam et interdits alimentaires. Juguler l’animalite´, PUF, Paris 2000; Joseph Chelhod, Le Sacrifice chez les Arabes, PUF, Paris 1955; Henri Lhote, Chameau et dromadaire en Afrique du Nord et au Sahara. Recherches sur leurs origines, ONAPSA, Alger 1987; Heidi Toelle, Le Coran revisite´: le feu, l’eau, l’air et la terre, Institut franc¸ais de Damas, Damas 1999; Eduard Westermarck, Survivances paı¨ennes dans la civilisation mahome´tane, Payot, Paris 1935.

CAMMINO Il termine piu` frequentemente impiegato nel Corano per designare il cammino e` sabı¯l (pl. subul). Esso comprende pressappoco tutti i sensi, propri e figurati, suscettibili di indicare il cammino o la via. Tarı¯q, il termine senza dubbio piu` ˙ utilizzato in arabo per indicare il cammino, compare solo quattro volte; sira¯t ˙ ¯ t ˙e (sono anche attestate le pronunce sira ˙ zira¯t), probabile prestito dal latino strata per˙ l’intermediazione del greco, piu` spesso seguito dall’epiteto mustaqı¯m, ‘‘diritto’’ o ‘‘verticale’’, che designa la via diritta o assiale verso Dio. Altri termini, dall’etimologia concernente il campo lessicale del ‘‘cammino’’, hanno ormai acquisito nel Corano un senso specifico: tarı¯qa significa ‘‘via verso Dio’’ (72,16)˙ ma anche ‘‘condotta’’ (20,104); shir‘a e sharı¯‘a esprimono entrambi il cammino che conduce all’abbeveratoio, designando in tal modo la Legge che occorre seguire; minha¯j, associato a shir‘a, aggiunge un senso di chiarezza e di continuita` e senza dubbio di via particolare, da cui il senso piu` recente di ‘‘metodo’’ (5, 48). Sunna (pl. sunan) e` la via seguita immutabilmente da Dio nei confronti degli uomini o seguita dagli Antichi, siano essi perduti o, al contrario, un modello da seguire (4,26). Sabab (pl. asba¯b) si connota con i sensi di ‘‘corda’’, ‘‘mezzo’’ e ‘‘via’’. Prende nettamente il senso di

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‘‘via’’ nella storia di Dhu¯ al-Qarnayn, ‘‘l’Uomo dalle Due Corna’’ che percorre la terra (cfr. sura 18); allo stesso modo, Faraone fa costruire una torre per raggiungere le ‘‘vie dei cieli’’ (asba¯b al-sama¯wa¯t). Tra i verbi che esprimono l’idea di camminare, salaka e` impiegato con il senso di seguire o di tracciare delle vie (subul) terrestri o aeree, nel caso delle api (16, 69), o ancora di introdurre e di passare. Da questo verbo proviene il sostantivo sulu¯k, il cammino iniziatico del sufismo. Dhababa, ‘‘andare’’, puo` prendere il senso di un cammino verso Dio. Sa¯ra vuol dire allo stesso modo percorrere la terra per contemplare i segni della creazione e meditare sulla sorte dei popoli castigati e scomparsi – il suo nome verbale, sayr, e` ugualmente uno dei sostantivi che indicano il cammino iniziatico. Il termine sa¯ha figura una sola volta, con il senso di ˙ andare liberamente, a proposito di una dilazione accordata ai politeisti (9,2). Il suo nome d’azione, siya¯ h a, prende il ˙ ricerca di senso di peregrinazione alla Dio. Quanto al verbo asra¯, significa compiere un viaggio di notte, ed e` impiegato a proposito di Mose` o del Profeta. Il suo nome di azione, isra¯’, e` impiegato esclusivamente per il Viaggio Notturno. Le vie o i cammini sulla terra (subul) come i fiumi fanno parte delle opere di Dio (16,15; 20,53; 21,31; 43,10; 71,20). Tuttavia il cammino (sabı¯l) e` prima di tutto quello che l’uomo deve seguire verso Dio: «Ora chi vuole scelga verso il Signore la Sua Via» (76,29; 25,57; 73,19), o verso un rifugio (78,39). Questo cammino richiede di seguire un profeta: «Oh, se io avessi intrapreso con l’Inviato un cammino!», si lamenta il miscredente nel giorno del Giudizio. Al Profeta stesso e` ingiunto di dire ai credenti: «‘‘Se veramente amate Dio, seguite me e Dio vi amera` e vi perdonera` i vostri peccati’’» (3,31). La progressione verso Dio passa per un certo numero di opere compiute ‘‘sulla via – o cammino – di Dio’’. La comunita` che si sviluppa attorno al Profeta si appoggia su due di queste opere: l’egira o emigrazione, e il combattimento

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‘‘con i beni e le anime’’. I martiri uccisi sulla via di Dio sono morti soltanto corporalmente, «che´ anzi essi sono viventi, senza che voi li sentiate» (2,154). Lo scopo del cammino e` dunque la beatitudine, perche´ il vero combattente, secondo una tradizione, lotta «per elevare la parola di Dio». L’espressione ‘‘sul cammino di Dio’’ puo` dunque applicarsi a ogni atto compiuto in vista di Dio, e in particolare alla distribuzione dei beni e all’elemosina. All’opposto dei credenti si trovano quanti intralciano la via di Dio, si tratti dei popoli antichi contrari ai loro profeti, dei Qurayshiti della Mecca e degli ‘‘ipocriti’’ di Medina, o ancora di Satana. Al contrario e` ingiunto al Profeta: «Chiama gli uomini alla Via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni» (16,125). Il cammino verso Dio e` qualificato come diretto (qasd al-sabı¯l), come uguale (sawa¯’ alsabı˙¯l) o come via diritta (sira¯t mustaqı¯m); ˙¯ t (38,22) ˙ ugualmente sawa¯’ al-sira e alsira¯t al-sawı¯ (19,43; ˙20,35) esprimono ˙l’idea dell’equilibrio tra gli opposti. Sira¯t ˙ ˙ e sabı¯l hanno dunque un significato grosso modo simile, non fosse che il primo e` impiegato sempre in un senso positivo o neutro, qualche volta seguito da un nome divino (‘‘la via del Possente’’, ‘‘del Lodato’’), mentre sabı¯l e` la via della direzione giusta (rushd, rasha¯d) ma anche della perdizione (ghayy). In questo ultima evenienza, e` la via dei miscredenti, dei criminali, dei corrotti e di quanti non sanno (4,115; 6,55; 7,146; 10,89), all’opposto della ‘‘via di quelli che ritornano a Me’’ (31,15). Proprio questa guida sulla via e` oggetto di richiesta da parte di chi recita la prima sura del Corano (Fa¯tiha), ˙ in opposizione alla via di quanti incorrono nella collera divina e degli erranti. Qualunque sia la responsabilita` dell’uomo nel progresso sulla via della sua vita terrena, e` pur sempre Dio che guida l’uomo, nella buona o nella cattiva direzione: «Lo guidammo per la retta Via, che Ci si mostri grato, o Ci si mostri ingrato» (76,3; cfr. 90,10). L’uomo merita questo rimprovero per la sua ingratitudine, poiche´ dimentica d’essere sotto la guida di-

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CAMMINO

vina in ogni fase e momento della sua esistenza, come ricordato da un altro brano che fa del cammino l’espressione metaforica della vita: «Maledetto l’uomo, quanto pervicacemente e` infedele! Da che cosa mai Dio l’ha creato? Da una goccia di sperma lo creo` e lo plasmo`, poi la via gli spiano` , poi l’ammazza e lo interra e quando vuole lo rievoca» (80,17-22). L’espressione ‘‘figli del cammino’’ designa nel Corano il viandante che gode del diritto alla carita` e all’elemosina legale; essa viene pero` trasposta dal Profeta in un senso spirituale quando da` il seguente consiglio a ‘Abd Alla¯h ibn ‘Umar: «Sii in questo mondo uno straniero o uno che passa sulla via (‘a¯bir sabı¯l)». L’attitudine dell’uomo in questo viaggio interiore e`, anch’essa, assimilata a un cammino che conduce a una conoscenza ispirata: «Se costoro diritta seguiranno la Via (tarı¯qa), ˙ li abbevereremo d’acqua in abbondanza» (72,16). Il cammino spirituale e le sue prove sono ugualmente rappresentate dalle tribolazioni dei profeti, come Abramo che abbandona il suo paese per sottrarsi al culto degli idoli e dice: «Ora me ne andro` al Signore, ed Egli mi guidera`» (37,99). Il verbo ‘‘andare’’ (dhahaba) torna a piu` riprese nella dodicesima sura, la sura di Giuseppe, per sottolineare una tappa nello sviluppo della storia e della riconciliazione finale (12,13,15,17,87,93). Dio dice a Mose`: «Va’ ora da Faraone» (20, 24,43; 25,30; 26,16; 79,17); e Dhu¯ alNu¯n, ‘‘Quello del Pesce’’, cioe` Giona, se ne va corrucciato prima di essere inghiottito dal pesce (21,87). Di tutti questi spostamenti, il Viaggio Notturno (isra¯’) rappresenta la forma piu` compiuta e perfetta del cammino. Nel caso di Mose`, il profeta non cammina per se stesso ma per il suo popolo che conduce fuori dall’Egitto (soprattutto 11,81; 15,65). In occasione dell’isra¯ ’ dalla Mecca a Gerusalemme, prima dell’ascensione celeste, il Profeta e` trasportato da Dio, secondo la Tradizione, sul dorso di Bura¯q. Egli, dunque, non viaggia da se´, e questo e` il segno della sua perfezione in quanto servo di Dio: «Gloria a Colui che rapı` di notte il Suo

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CANE

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servo dal Tempio Sacro al Tempio Ultimo» (17,1). Ma che il cammino sia diritto o tortuoso, orizzontale o verticale, esso e` pur sempre il ritorno, volontario o involontario, delle creature verso Dio: «E [D.G.] poi a Lui tornerete» (2,28). CANE Il termine cane o kalb compare nel Corano cinque volte (7,176; 18,18 e 22); oltre a queste, la radice «klb» e` attestata una volta (5,4). Nel versetto 7,176, il Corano utilizza un’immagine tradizionale del cane; si tratta di un uso retorico. Nelle altre occorrenze (in particolare nel versetto 18,22, dov’e` citato tre volte), si parla del cane dei Sette Dormienti d’Efeso. Infine la menzione del cane nella sura 5 chiama in causa una funzione tecnico-sociale dell’animale: la sua partecipazione alla caccia. In esso non si tratta direttamente del cane, ma del participio mukallibı¯n; secondo gli esegeti, questo termine s’applica a ogni animale da preda addestrato alla caccia, ivi compresi i rapaci. Significativo dunque che il termine sia costruito sulla base della parola stessa che designa il cane, il che sembra indicare che il cane da caccia fosse preso a modello per gli altri animali utilizzati nell’attivita` venatoria. Il Corano non si pronuncia sullo statuto alimentare del cane. Se il consumo del maiale e` esplicitamente vietato, non si fa alcun riferimento alla cinofagia e al suo statuto religioso. Tuttavia, da questo silenzio non si potrebbe dedurre che il Libro sacro permetta il consumo di carne di cane. Questo silenzio si spiega facilmente: a differenza del tabu` del maiale, che traduce gli stretti legami tra ebraismo e islam nascente, la proibizione del consumo della carne di cane sembra essere scontata. Neppure lo Hadı¯th d’altronde ˙ specifica il divieto, limitandosi a vietare il consumo di tutti i predatori muniti di zanne, gruppo cui naturalmente appartiene il cane. Il versetto 5,4 riguarda gli animali da preda in generale, ma e` interessante esa-

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minarlo accostandolo allo statuto rituale del cane nella legge islamica. Secondo questo testo, e` permesso consumare le prede catturate dagli animali addestrati, compreso il cane. Ora, esso prende in bocca la preda e la sporca di bava, o addirittura la mette a morte usando le zanne. Se nonostante questo la preda rimane lecita alla consumazione, significa che per il Corano il cane non e` impuro. I ma¯likiti, tra i giuristi i meno ostili al cane, utilizzano quest’argomento nelle polemiche con gli avversari. In effetti, a eccezione del ma¯likismo, le altre dottrine giuridiche considerano quest’animale come un essere fondamentalmente impuro. D’altronde i ma¯likiti non ne prendono le difese in modo specifico, ma sembrano sostenere un punto di vista generale secondo cui gli animali – forse l’insieme degli animali – sono per essenza puri: l’impurita` sarebbe solo un accidente. Per questo hanno avuto numerose discussioni con gli sha¯fi‘iti, accaniti sostenitori del punto di vista opposto. Nello Hadı¯th, quest’ultima ˙ rappresentata, in posizione e` ampiamente particolare da una tradizione profetica che raccomanda di lavare sette volte un recipiente in cui un cane abbia immerso il muso. Questo dibattito riecheggia certamente le divergenti tradizioni culturali [M.H.B.] del Medio Oriente. Bibliografia: Mohammad Hocine Benkheira, Catherine Mayeur-Jaouen, Jacqueline Sublet, L’Animal en Islam, Les Indes savantes, Paris 2005.

CARTA La carta, quale supporto per la scrittura, non e` menzionata nel Corano. Ai tempi del Profeta il suo impiego nella penisola arabica era pressoche´ sconosciuto. Si utilizzavano altri tipi di supporti per la scrittura, come la pergamena e il papiro, probabilmente i piu` frequenti, ma anche tavolette di legno, tessuti apprettati, cocci di ceramica o ossa di animali. I riferimenti a questi diversi tipi di supporto sono molto rari nel Corano; del resto nella gran parte dei casi la natura del supporto non e` precisata e si citano invece i ‘‘fogli’’ o il ‘‘rotolo’’: «Un giorno in cui arrotole-

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remo il cielo come rotolo (sijı¯l) di volume» (21,104; la stessa idea compare in 39,67). I fogli o pagine (suhuf) possono ˙ ˙ indicare le ‘‘prime Scritture’’, ma altre occorrenze del termine sono di interpretazione meno immediata, come nel versetto 74,52: «Anzi ognuno di loro vorrebbe che gli fossero dati dispiegati fogli». In questo caso, i fogli sarebbero la prova della veridicita` della Rivelazione che gli increduli chiedono. La stessa immagine dei ‘‘fogli dispiegati’’ e` impiegata per descrivere il giorno del Giudizio: «Saranno dispiegate le pagine (suhuf)» (81, ˙ ˙ delle pa10). Infine, un’altra menzione gine riguarda la stessa Rivelazione: «Scritto su sublimi pagine alte purissime da mani di scribi nobili santissimi» (80, 13-16). La natura dei supporti per la scrittura e` menzionata in rare occorrenze: una sola citazione concerne in tutta evidenza la pergamena (raqq, termine che richiama la finezza della pelle conciata): «Per un Libro vergato su pergamena spiegata!» (52,2-3). Quanto al termine qirta¯s, di ori˙ generalgine greca, e` citato due volte; mente indica il papiro, ma talvolta anche la pergamena: «Anche se facessimo discendere su di te un Libro di pergamena e lo toccassero con le loro mani, direbbero i Negatori: ‘‘Questo non e` che evidente magia!’’» (6,7). Un’altra occorrenza di questa parola si riferisce alla copia delle Scritture: «Voi [lo] raccogliete in rotoli di pergamena che mostrate al popolo, ma ne nascondete anche gran parte» (6,91). E` comunemente ammesso che la carta fece la sua apparizione nel mondo musulmano in seguito alla battaglia del fiume Talas (Tara¯z), nel 751 dell’era volgare; in ˙ quell’occasione, alcuni prigionieri cinesi trattenuti a Samarcanda avrebbero insegnato agli arabi musulmani il modo di fabbricare la carta. La realta` e` certamente diversa; da un lato e` molto probabile che la carta fosse conosciuta a Samarcanda prima di quella data, dall’altro i processi di fabbricazione della prima carta ‘‘musulmana’’ differiscono da quelli applicati in Cina sia per la materia prima sia per le procedure meccaniche. La prima carta

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CASA FREQUENTATA

prodotta a Samarcanda era fabbricata a partire da stracci, pestati grazie alla forza idraulica, azionando un albero a camme o un rudimentale mulino. La reputazione della qualita` di questa carta ne fece il riferimento obbligato in tutto l’Oriente musulmano. Dalla fine del II/VIII secolo, la fabbricazione della carta si diffuse dall’Asia centrale verso Baghdad e le grandi citta` dell’impero abbaside. Nondimeno va osservata un’indubbia reticenza a utilizzare questo nuovo supporto per le copie del Corano, analoga a quella manifestata verso la stampa a caratteri mobili. Si dovette attendere la fine del IV/X secolo perche´ nell’Oriente musulmano si generalizzasse l’impiego della carta, che in seguito si diffuse nel Mediterraneo occidentale, in Spagna e nell’Italia meridionale, per raggiungere quindi le citta` dell’Occidente cristiano nel corso dell’VIII/ [Y.P.] XIV secolo. Bibliografia: Yves Porter, Peinture et arts du livre, Institut franc¸ais de recherche en Iran, Paris-Te´he´ran 1992.

CASA FREQUENTATA Nell’espressione al-bayt al-ma‘mu¯r, il termine arabo bayt, derivato dal verbo ba¯ta che significa ‘‘passare la notte’’ o ‘‘soggiornare da qualcuno’’, indica sia la tenda dei nomadi sia la casa in muratura dei sedentari. Questo termine e` inoltre utilizzato per indicare un santuario, e la semplice espressione al-bayt indica comunemente il santuario della Mecca, albayt al-hara¯m, meta del pellegrinaggio (2,158; ˙3,97). Quanto al verbo ‘amara, significa ‘‘frequentare’’, ‘‘abitare’’, ‘‘coltivare una relazione’’, ‘‘popolarsi di persone’’. L’espressione composta al-bayt al-ma‘mu¯r, ‘‘il santuario frequentato’’, compare una sola volta nel Corano, precisamente nella sura di al-Tu¯r (o del Sinai, 52,1-5): «Per il Sinai! Per un libro vergato su pergamena spiegata! Per la casa frequentata! Per il tetto elevato!». Questo santuario si considera generalmente come un luogo sicuro dedicato a Dio. Due ipotesi sono state avanzate per spiegare il significato

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` CASTITA

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dell’espressione. Potrebbe trattarsi di un santuario fisicamente esistente nel mondo visibile, e frequentato dai musulmani; in tal caso si identifica con il santuario della Mecca, e Ibn ‘Abba¯s (m. 68/686) lo fa coincidere con la Ka‘ba. Secondo l’altra ipotesi, si tratterebbe di un santuario celeste del tutto identico a quello della Mecca, ma frequentato dagli angeli. Se nel Libro sacro questo tempio e` semplicemente nominato, in numerose tradizioni attribuite al Profeta esso riceve una definizione piu` precisa. Il ‘‘santuario frequentato’’ sarebbe quello mostrato al Profeta durante la sua assunzione al cielo, costruito per gli angeli del cielo a immagine della Ka‘ba, al quale si recano ogni giorno settantamila angeli per pregare prima di andarsene e non fare mai piu` ritorno. Questo luogo appare come la materializzazione, la metafora fisica di una preghiera celeste ripetuta all’infinito. Secondo Tabarı¯ (m. 310/923), ‘Alı¯ ibn Abı¯ ˙ Ta¯lib, genero del Profeta e primo imam ˙ sciita, avrebbe spiegato che questo santuario si trovava in cielo, che la sua santita` era pari a quella della Ka‘ba, che ogni giorno settantamila angeli vi si recavano per pregare e che avrebbe un custode di nome Razı¯n (‘‘Dignitoso’’). Secondo alcune tradizioni attribuite a ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯lib, questo santuario avrebbe un se˙ condo nome, dura¯h ‘‘il lontanissimo’’. ˙ ˙vuole che si trovasse Un’altra tradizione nel sito attuale della Ka‘ba nel periodo che intercorse tra Adamo e Noe`. Quest’ultimo avrebbe chiesto invano al suo popolo di recarvisi in pellegrinaggio; allora le acque sarebbero salite tanto da sollevare il santuario fino ai cieli. Da allora, gli angeli vi si recano per pregare; cosı` fino al giorno in cui si annuncera` la resurrezione. Un’altra tradizione precisa che il santuario sarebbe stato edificato in cielo da Adamo il quale l’avrebbe poi portato con se´ sulla terra; esso si sarebbe conservato fino al Diluvio. Le tradizioni presentano qualche incertezza sulla collocazione celeste della Casa frequentata: nel sesto cielo, nel settimo, oppure nel quarto. E` inoltre un luogo da cui passano gli angeli incaricati di pregare Dio, ma

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secondo una tradizione riportata da Ta˙ barı¯ gli angeli che vi si recano appartengono al ‘‘clan di Iblı¯s’’ e sono dei jinn. Questo collegamento tra un santuario terrestre ed effimero e il suo corrispettivo celeste e permanente e` stato ripreso nella mistica che ha insistito sulla differenza, inserendola nel contesto della distinzione fra interiore ed esteriore, fra esoterico ed essoterico. L’avvicinamento del santuario frequentato alla figura del santo verra` in seguito interpretato in ambito mistico come un simbolo dell’‘‘uomo perfetto’’. [P.B.]

Bibliografia: Henry Corbin, Temple et contemplation, Flammarion, Paris 1981; Louis Gardet, L’Islam, religion et communaute´, Descle`e de Brouwer, Paris 1967.

` CASTITA Nel Corano, la castita` designa il pudore e l’astinenza dai piaceri della carne al di fuori del matrimonio. Per esprimere questa nozione sono utilizzate tre forme verbali: ahsana (‘‘proteggere’’ o ‘‘preservare’’),˙ ˙hafiza (‘‘proteggere’’) e ista‘affa ˙ ˙ (‘‘astenersi’’). Nel contesto coranico, la castita` non ha lo stesso significato che per i cristiani: non e` casto chi si astiene da ogni rapporto sessuale, ma chi ha rapporti sessuali in un ambito legale rigidamente definito nel Corano. In tal senso si legge: «Quelli che non trovano moglie si mantengano casti (wa-l-yasta‘fif) finche´ Dio li arricchisca della sua grazia» (24,33). Nel suo commento a questo versetto, il teologo Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/ 1209) concepisce la castita` come uno stato provvisorio; al pari del digiuno, si tratta di una lotta interiore contro la concupiscenza naturale all’anima umana. Tuttavia, nel Corano la castita` non e` un principio che si applica a tutti allo stesso modo. Il musulmano e la musulmana liberi devono essere casti, come devono esserlo l’ebreo o il cristiano, ma non gli schiavi in generale. Le schiave credenti che sposano musulmani liberi devono vivere castamente e rinunciare alle relazioni sessuali extraconiugali – la castita`

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consente loro di accedere a un altro statuto: «Se pero` , dopo sposate, queste donne che avranno avuto accesso a una buona condizione (fa-idha¯ uhsinna) com˙˙ mettano una turpitudine, abbiano meta` della pena stabilita per le donne libere» (4,25). I fuqaha¯’, i dottori della Legge, non hanno trovato accordo sulla condizione delle donne a cui il versetto fa riferimento, se concerne le schiave sposate o le convertite, con conseguenti divergenze quanto alle pene applicate. Va osservato che l’espressione «colei che ha saputo preservarsi» (allatı¯ uhsanat) e` impiegata ˙ ˙ madre di ‘I¯ sa¯ per Maryam (Maria), (Gesu`), che concepı` il figlio mantenendosi casta (21,91; 66,12). Per la donna musulmana, essere casta significa avere rapporti sessuali unicamente col marito. Invece, l’uomo musulmano e` casto se ha relazioni sessuali unicamente con le proprie mogli e schiave: «Beati i credenti, che nella preghiera sono umili, che le futilita` schivano, che l’elemosina donano, che la castita` custodiscono (li-furu¯ji-him ha¯fizu¯n), eccetto che ˙ quello che le con le proprie mogli˙ e con loro destre posseggono» (23,1-6). Il termine qui impiegato, furu¯j (singolare farj), indica le parti intime dell’uomo come della donna, che e` opportuno preservare per essere casti: «I digiunanti e le digiunanti, i casti e le caste, gli oranti spesso e le oranti, a tutti Iddio ha preparato perdono e mercede immensa» (33,35). In un altro versetto, il Corano evoca «coloro che sono preservate» (al-muhsina¯t): «In ˙ ˙ le donne verita` coloro che calunniano oneste (al-muh s ina¯ t), incaute ma cre˙˙ denti, saranno maledetti in questo mondo e nell’altro e tocchera` loro un castigo tremendo» (24,23). Il Libro sacro stabilisce inoltre precise prescrizioni per quanto concerne il comportamento sessuale e il pudore: «Di’ ai credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne; questo sara`, per loro, cosa piu` pura, perche´ Dio ha contezza di quel che essi fanno» (24,30), e invita quanti entrano in case estranee a chiedere il permesso (24, 27-29 e 58-59). Le donne musulmane devono essere pudiche e la loro castita` deve

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CAVALLO

essere manifesta, le regole coraniche sono molto precise su questo punto: «Di’ alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d’un velo e non mostrino le loro parti belle altro che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli, o ai figli dei loro mariti, o ai loro fratelli, o ai figli dei loro fratelli, o ai figli delle loro sorelle, o alle loro donne, o alle loro schiave, o ai loro servi maschi privi di genitali, o ai fanciulli che non notano le nudita` delle donne» (24,31). Di fatto, l’inosservanza delle regole della castita` , da parte di donne o uomini, e` punita severamente: «L’adultera e l’adultero siano puniti con cento colpi di frusta ciascuno» (24,2; cfr. 4,15 e19 che riguarda solo le donne). Il Corano dispone di un vasto vocabolario per designare tutti coloro che si dedicano alla fornicazione: il depravato o la depravata (al-za¯nı¯ o al-za¯niyya), la prostituta (ba¯ghı¯ o khabı¯tha), il fornicatore (khabı¯th), gli uomini e le donne che hanno relazioni sessuali illecite (musa¯fihu¯n, mu˙ ˙ tutti cosa¯fiha¯t). Questi termini indicano ˙loro˙ che vivono non rispettando le regole rigide della castita` enunciate dal Corano. Nella letteratura giuridica, il vocabolo muhsan, che nel Corano non compare, e` ˙˙ divenuto un termine tecnico per designare un elemento dello statuto personale; negli studi giuridici e nella Tradizione, e` riservato a coloro che sono passibili di morte in caso di cattiva condotta sessuale; gli schiavi non rientrano in questa categoria, e pertanto non possono essere lapidati. [M.S.]

CAVALLO Il cavallo compare in diversi passi coranici testimoniando la considerevole importanza attribuita a questo animale nella societa` beduina; a tale proposito, la sura 100, intitolata ‘‘Le puledre veloci’’ (Al‘A¯diya¯t, letteralmente: ‘‘Quelle che galoppano’’ o ‘‘Le Giumente’’) e` fondamentale: «Per le puledre veloci correnti anelanti, scalpitanti scintille, gareggianti a

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CAVALLO

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corsa di primo mattino, suscitando polvere e nembi, nel pieno della turba nemica!» (100,1-5). Attraverso questa esortazione, Dio rende gli uomini testimoni della loro ingratitudine; in questo caso, il cavallo, tanto apprezzato, e` anche oggetto di un giuramento. Il cavallo: un dono di Dio Come le altre meraviglie della creazione, il cavallo e` al servizio dell’uomo: «Cavalli e muli ed asini vi ha dato perche´ li cavalchiate, ornamento bello» (16,8). Analogamente: «E` Dio che vi ha dato gli animali perche´ vi servano di cavalcatura e vi servano di cibo» (40,79). Questi diversi animali creati da Dio «vi danno visione di bellezza, quando le riconducete alle stalle la sera, quando le portate al pascolo, all’aurora, e vi portano i pesi in paesi lontani che non avreste raggiunto da soli senza duro travaglio, che´ il vostro Signore e` compassionevole e buono» (16,6-7). Tuttavia sta all’uomo avere giudizio: quando portarono a Salomone dei superbi cavalli di razza, egli li sacrifico` per manifestare il pentimento del suo orgoglio: «Quando gli furono presentate sul far della sera le cavalle dal piede leggero, alla corsa rapide [...] egli disse: ‘‘Ho amato piu` forte questo bene terreno che la menzione del Nome del Signore, fino a che il sole s’avvolse nel velo della notte! Riconducetemele dunque!’’ e prese a tagliare loro il collo e i garretti’’» (38,3133). Come tanti altri beni materiali, il cavallo rappresenta un segno d’orgoglio per l’uomo: «Fu reso adorno agli occhi degli uomini l’amore dei piaceri, come le donne, i figli, e le misure ben piene d’oro e d’argento, e i cavalli di purissima razza, e le greggi e i campi. Questi sono beni di questa vita terrena, ma presso Dio e` la meta` buona» (3,14). Il cavallo in battaglia L’amore dei beduini, e dello stesso Profeta secondo le tradizioni, per i cavalli e` in parte dovuto alla loro utilita` in guerra. Nel Corano si trovano numerosi appelli ai fedeli affinche´ riuniscano uomini e cavalcature per la battaglia: «Allestite contro di

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loro forze e cavalli quanto potete» (8,60). Si legge ancora: «Conturba dunque con la tua voce quelli fra di essi che potrai e piomba loro addosso con i tuoi cavalieri e i tuoi fanti» (17,64). Di piu`, coloro che non avranno fornito cavalcature non avranno diritto alla spartizione del bottino: «Il bottino che Iddio ha concesso al Suo Messaggero su di loro, voi non avete fatto correre per prenderlo ne´ cavalli ne´ cammelli» (59,6). Nella tormentata epoca dei primi anni dell’egira, l’onnipresenza del cavallo si intuisce in ogni circostanza, compreso il momento della preghiera: «Se temete qualche pericolo pregate in piedi o a cavallo» (2,239). Durante la battaglia di Badr, nel 3/624, l’esercito del Profeta avrebbe avuto a disposizione tre soli cavalli; indubbiamente e` questa la realta` che si riscontra nel versetto 9,92: «Non vi sara` luogo a rimprovero [...] contro quelli che quando vennero a te perche´ li portassi con te ebbero in risposta: ‘‘Non trovo cavalcature per portarvi con me!’’ e se ne ritornarono con gli occhi traboccanti di lacrime per la tristezza, per non trovare nulla da dare sulla Via di Dio». Questo dato di fatto cambiera` radicalmente poiche´, qualche anno piu` tardi, la cavalleria araba sara` la punta di diamante della folgorante espansione musulmana. Gli storici e i tradizionisti hanno ampiamente commentato l’amore del Profeta per i cavalli, per il loro allevamento, ma anche per la corsa e la guerra. Quanto a Bura¯q, la favolosa cavalcatura del Profeta nel Viaggio Notturno, non e` citata nel testo coranico. La sua immagine e` descritta da autori e commentatori coranici come quella di un cavallo oppure di una creatura meravigliosa cui la tarda iconografia attribuı` un volto femminile. [Y.P.] Bibliografia: Jean-Pierre Digard (a cura di), Chevaux et cavaliers arabes dans les arts d’Orient et d’Occident, Gallimard, Paris 2002.

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CERTEZZA Il termine coranico per ‘‘certezza’’ e` il sostantivo yaqı¯n; troviamo inoltre alcuni derivati della radice «yqn», come mu¯qinu¯n (‘‘noi abbiamo la certezza’’). Le occorrenze della nozione di certezza si possono suddividere in tre categorie principali: la prima e` associata alla nozione di scienza, la seconda a quella di morte, la terza a quella di fede. Quando la certezza e` associata alla scienza, si tratta nel Corano di ‘‘scienza della certezza’’ (‘ilm al-yaqı¯n): «Se sapeste di scienza certa! Vedreste allora l’Inferno! Sı`, ancora, lo vedreste con occhio certissimo. E renderete conto delle vostre delizie, quel giorno!» (102,5-8). Il teologo Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/1209) offre un’interessante esegesi di questi versetti nel suo grande commentario, e identifica la ‘‘visione di certezza’’ con quella del cuore. Va osservato che la nozione di ‘‘visione del cuore’’ e` tra i cardini della teoria della conoscenza formulata da alcuni mu‘taziliti. A questo proposito, secondo il pensatore Baghda¯dı¯ (m. 429/ 1037) nei suoi Usu¯l al-dı¯n, il mu‘tazilita Nazza¯m riteneva˙che la conoscenza fosse ˙˙ un movimento del cuore. Il teologo Baghda¯dı¯ si rende conto che questa definizione non puo` essere sufficiente, poiche´ si adatta egualmente alla non conoscenza; e tenta allora di stabilire un criterio semplice per distinguere il vero conoscere. Conclude che quel che produce nell’uomo la convinzione (i‘tiqa¯d) e` il conoscere, e la questione e` dunque capire come riconoscerlo. Nazza¯m dichiara infine che ˙ ˙ movimento che caratla particolarita` del terizza il vero conoscere e` la trasformazione in quiete, e si manifesta con la quiete del cuore (suku¯n al-qalb). Per i filosofi, la nozione di certezza e` tra i fondamenti delle teorie della conoscenza. Abu¯ Ya‘qu¯b al-Kindı¯ (m. 257/870-871 ca.) elabora una definizione di filosofia nella quale stabilisce qual e` la conoscenza della realta` delle cose in funzione della capacita` di ciascuno, in quanto il fine del filosofo e`, nel quadro della conoscenza speculativa, acquisire la verita`, e nel quadro della filosofia pratica comportarsi in

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CERTEZZA

accordo con la verita`. Nell’Accordo tra le opinioni dei due saggi, il divino Platone e Aristotele, Fa¯ra¯bı¯ (m. 339/950) riprende questa definizione integrandola con la distinzione tra la filosofia fondata sulla certezza (yaqı¯niyya) cioe` sulla dimostrazione, e quella fondata sull’opinione (maznu¯niyya), cioe` la dialettica e la sofi˙ Tale distinzione tra scienza certa e stica. scienza opinabile e` fondamentale nell’economia del sistema farabiano; le sue conseguenze piu` importanti nel pensiero di questo autore si hanno negli ambiti della metafisica e della dottrina della profezia: il profeta trasmette al popolo un’immagine della verita` dimostrativa poiche´ esso non puo` accedere ad altro, causa la limitazione dell’intelletto nella gente comune (‘amma, la ‘‘massa’’, opposta a kha¯ssa, l’‘‘e´lite’’). In questo con˙˙ testo epistemologico, la religione e` concepita quale semplice immagine della verita` teoretica, della quale essa non possiede pari grado di certezza. Nel Corano, inoltre, la nozione di certezza e` strettamente legata a quella di morte: «Celebra le lodi del tuo Signore e insieme agli altri adoraLo e il tuo Signore servi, finche´ ti giunga la certezza suprema!» (15,98-99). Ra¯zı¯ ritiene che in questo caso al-yaqı¯n indichi la morte: «La certezza e` la morte in quanto cosa certa (‘amr mutayaqqin)». Egli ritiene che questo versetto inciti il credente ad adorare Dio nel corso della vita terrena, prima che la morte glielo impedisca. Questa associazione tra certezza e morte si ritrova nella sura della Resurrezione: «Il giorno del Giudizio smentivamo; finche´ Certezza ci giunse» (74,46-47). Nella sura dell’Ora che cade (al-Wa¯qi‘a), un versetto dedicato alla descrizione dell’ultimo Giudizio, del paradiso e dell’inferno, chiude cosı`: «Certo, questa e` la Verita` certa. Celebra dunque la lode del tuo Signore, il Sublime!» (56,95). Questa ‘‘verita` certa’’ (haqq al-yaqı¯n) amplifica ulteriormente ˙ l’associazione coranica tra certezza e consapevolezza della finitudine. Anche nella dottrina escatologica dei filosofi, la nozione di certezza occupa un posto importante. Quando il dotto Nas¯ır al-Dı¯n al˙

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CICLI

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Tu¯sı¯ (m. 673/1274) nel commento al Ki˙¯ b al-isha¯ra¯t wa al-tanbı¯ha¯t di Ibn Sı¯na¯, ta detto Avicenna (m. 428/1037), interpreta il passo dedicato alla sopravvivenza delle anime dopo la morte, distingue due categorie di anime, quelle che sono ignoranti e quelle che hanno perfezionato la parte teoretica del loro intelletto. L’ignoranza nella vita terrena, opposta alla certezza (yaqı¯n), ha per conseguenza la sofferenza eterna nell’Aldila`. Numerosi versetti coranici evocano infine «coloro che hanno la certezza» (mu¯qinu¯n): «Se tu vedessi i malvagi con la testa bassa avanti al Signore, bisbigliare: ‘‘Signore! Abbiamo visto, abbiamo udito: facci tornare sulla terra, faremo opere buone, ora, poiche´ siamo certi del Vero!’’» (32,12). Un altro versetto recita: «Sulla terra vi sono segni per chi e` certo del Vero» (51,20; sulla stessa linea 6,75; 26,24 e 44,7). Secondo Ra¯zı¯, ‘‘coloro che hanno la certezza’’ sono ‘‘coloro che hanno la fede’’, mu¯ qinu¯ n e mu’minu¯ n sono pertanto intercambiabili. Secondo questo teologo, l’essere che ha la certezza e` chi non si distoglie mai da Dio e rinnova a ogni istante l’ardore della propria fede. L’idea coranica di certezza ebbe profonda influenza sul significato di questa nozione in ambito islamico. La conoscenza certa, quella porta al riconoscimento della grandezza divina, assicura al credente la salvezza eterna. Poiche´ i filosofi hanno assimilato certezza e conoscenza teoretica, ne consegue che anche l’acquisizione della certezza, ovvero la realizzazione dell’intelletto teoretico, e` cio` che assicura la salvezza nel quadro della loro dottrina escatologica. [M.S.] Bibliografia: Josef van Ess, Theologie und Gesellschaft im 2. und 3. Jahrhundert Hidschra. Eine Geschichte des religio¨sen Denkens im fru¨hen Islam, vol. VI, W. de Gruyter, Berlin-New York 1995; Seyyed Hossein Nasr, Oliver Leaman (a cura di), History of Islamic Philosophy, Routledge, London-New York 2001.

CICLI Nel Corano si cercherebbe invano una definizione precisa di tempo: questo vi e`

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percepito non come una durata continua ma piuttosto come una «costellazione, una via lattea di istanti», come scrive Louis Massignon, che si scandiscono tra l’imperativo creatore kun («sii»; 2,117; 3, 47) e l’avvento improvviso, in un momento inaspettato, dell’Ora (Sa¯‘a) dell’ultimo Giudizio (42,17). La storia del mondo, congiungendo il proprio inizio alla propria fine, si compone di una successione lineare di istanti, ritmata sui movimenti del sole e della luna (6,96; 10,5; 17,12) e segnata dalle generazioni di profeti che hanno tutti portato lo stesso messaggio, la stessa rivelazione divina, confermandosi a vicenda (2,136), e dei quali Muhammad, il «Sigillo dei profeti» (33, 40), e` l’ultimo. Nella Rivelazione non vi e` alcun reale sviluppo ma piuttosto una reiterazione, sotto forme leggermente diverse, di un unico messaggio. L’assenza, nel Corano, di una vera concezione ciclica del tempo e di un ‘‘mito dell’eterno ritorno’’ non impedı` a diverse correnti sciite di sviluppare una visione ciclica della storia e della profezia, adottando alcune dottrine gnostiche di origine cristiana e persiana, spesso legate a una cosmologia di ispirazione neoplatonica e a speculazioni astrologiche. La teoria dei cicli (dawr, pl. adwa¯r, o kawr, pl. akwa¯r), fu elaborata soprattutto nell’isma¯‘ı¯lismo. Imperniata su uno schema circolare preso a prestito dal neoplatonismo tardo antico, la cosmologia isma¯‘ı¯lita fa procedere i diversi gradi ontologici per emanazione a partire dall’Intelletto, la prima creatura, che e` sia l’origine degli esseri, sia la loro causa finale, lo scopo ultimo verso il quale aspirano a tornare. In tal senso, l’anima umana, partita dall’Anima universale (il ‘‘primo essere emanato’’ dall’Intelletto), decaduta e rinchiusa in un corpo materiale, e` mossa dal desiderio di ritornare alla sua origine celeste. Potra` purificarsi solo con l’acquisizione della gnosi salvifica, che le permettera` di liberarsi dei legami corporali. Sin dai primi testi isma¯‘ı¯liti conosciuti (seconda meta` del III/IX secolo), la profetologia e l’imamo-

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logia si trovano iscritte in questa visione del mondo, ritmata da una successione di sette cicli profetici. In seguito alla sua decadenza, l’anima umana e` privata di un accesso diretto alla conoscenza delle realta` intelligibili. La gnosi indispensabile alla sua salvezza e` occultata sotto il velo dei simboli, celata sotto il significato manifesto (za¯hir) della lettera della Legge (sharı¯‘a) ˙rivelata da sei figure di ‘‘profeta enunciatore’’ (na¯tiq): Adamo, Noe`, Abramo, Mose`, Gesu` e ˙Muhammad. Ogni enunciatore avvia a sua volta un ciclo composto da sette imam, ‘‘depositari’’ del senso occulto (ba¯tin) della Rivelazione e detentori della sua˙ esegesi (ta’wı¯l), che svelano alle anime degli iniziati una parte della gnosi. Tuttavia, questi sei cicli profetici formano un grande ‘‘ciclo d’occultamento’’ (dawr al-satr) segnato dalla predominanza della Legge e dalla necessita` di nascondere la gnosi alle masse ignoranti. Il completamento del ciclo di Muhammad con il suo settimo imam Isma¯‘ı¯l (m. 143/760 circa, secondo gli isma¯‘ı¯liti) apre un ‘‘ciclo di manifestazione’’ (dawr al-kashf) nella persona di ‘‘Colui che fa risorgere’’ (alQa¯’im), che abolira` la Legge e inaugurera` un’e`ra messianica preparatoria dell’Ora finale e della redenzione delle anime purificate dei fedeli. Contrariamente alla profetologia ‘‘statica’’ del Corano, all’isma¯‘ı¯lismo e` sotteso uno sviluppo nella rivelazione graduale della gnosi, che sara` completa solamente con l’apertura del ‘‘ciclo di manifestazione’’, a opera del Qa¯’im. La questione dell’identita` del Qa¯’im e del momento della sua venuta genero` scismi in seno al movimento isma¯‘ı¯lita. Mentre i carmati, fedeli alla logica iniziale della dottrina, lo identificavano con Muhammad ibn Isma¯‘ı¯l, figlio del settimo imam, i fa¯timidi, desiderosi di legittimare il proprio˙ potere religioso in quanto imam, ne posticiparono l’apparizione introducendo nuoci cicli costituiti da sette imam. Per i niza¯riti di Alamu¯t, la ‘‘Grande Resurre˙ zione’’ ebbe luogo nel 1163 (559 dell’e-

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CICLI

gira), con l’apertura di un ‘‘ciclo di manifestazione’’ che comportava l’abrogazione della legge musulmana. In alcune correnti ‘‘eterodosse’’ dell’isma¯‘ı¯lismo, che si cristallizzarono nel tayyibismo yemenita a partire dal VI/XII ˙secolo, la teoria dei cicli assunse una ampiezza ancora piu` rilevante. Alla dottrina vennero integrate speculazioni astrologiche sulle rivoluzioni e i cicli astrali, tratte in particolare dall’Enciclopedia dei Fratelli della Purita` (Rasa¯ ’il Ikhwa¯n alSafa¯’), insieme a temi prossimi al mani˙cheismo. Descrivendo dettagliatamente la catastrofe cosmica che avvio` la genesi del mondo (il ‘‘dramma nel cielo’’ provocato dall’orgoglio della terza Intelligenza), concepirono la sua storia come un grande ciclo, nel quale si iscrivono innumerevoli cicli minori tanto astrali quanto profetici. Il nostro attuale ciclo adamitico non rappresenta quindi che una sola fase in questo gigantesco ingranaggio che e` l’universo, una macchina destinata a purificare le particelle di luce corrotte dalla materia. Le anime trasmigrano da un corpo all’altro, da un ciclo all’altro, purificandosi lentamente e gradualmente. Ogni particella sufficientemente purificata e` aspirata per ‘‘magnetismo divino’’ attraverso la ‘‘colonna di luce’’ per sfuggire ai cicli delle reincarnazioni e formare un ‘‘Tempio di luce’’. Il completamento del ‘‘Tempio di luce’’ al momento della parusia del Qa¯’im segnera` la redenzione totale della creazione, la restaurazione della situazione iniziale anteriore alla catastrofe e il ritorno integrale delle anime, divenute pura luce, nell’Intelletto. Questa visione grandiosa implica la purificazione progressiva non solo dell’anima umana ma anche dell’intera natura, seguendo la successione dei cicli di cui si compone la storia del mondo. Ne risulta che alcuni testi tayyibiti, come l’opera degli Ikhwa¯n al-S˙afa¯’, hanno potuto ˙ prefiguranti una essere interpretati come teoria dell’evoluzione. La dottrina isma¯ ‘ı¯lita dei cicli fa da sfondo al sistema druso, che predica la manifestazione della divinita` nel corso di un numero considerevole di cicli, popo-

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CIELO

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lati da misteriosi esseri preadamitici, come i Timm, i Rimm, i Hinn, i Jinn e i Binn. Il˙ ritorno trionfale˙ di al-Hakı¯m, ˙ ` il l’ultima manifestazione, chiudera grande ciclo e condurra` alla redenzione finale dell’universo mettendo a nudo la Saggezza e rendendo cosı` superfluo l’occultamento della Verita` nella lettera della Legge e nei fenomeni della natura. [D.DeS.]

Bibliografia: Alessandro Bausani, L’enciclopedia dei Fratelli della purita`. Riassunto con introduzione e breve commento dei 52 trattati o epistole degli Ikhwan as-safa¯’, Istituto universitario orientale di Napoli, Napoli 1978; Robert Brunschvig, «Le culte et le temps dans l’islam classique», in Etudes d’islamologie, Maisonneuve et Larose, Paris 1976, pp. 167-177; Henry Corbin, Corps spirituel et terre ce´leste: de l’Iran mazde´en a` l’Iran shı¯’ite, Buchet-Chastel, Paris 1979 (trad. it. Corpo spirituale e terra celeste, Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 2ª ed. 1996); Henry Corbin, «Le Temps cyclique dans le mazde´isme et dans l’ismae´ lisme», in EranosJahrbuch, 20 (1951), pp. 149-217; Daniel De Smet, «The sacredness of nature in Shi‘i Isma‘ili Islam» in Klaas Ven Berkel e Arjo Vanderjagt (a cura di), The Book of Nature in Antiquity and Middle Ages, Groningen Studies in Cultural Change, Louvain, 10 (2004), pp. 85-96; Ikhwa¯ n alSafa¯’, Les Re´volutions et les cycles. Epıˆtres ˙ Fre`res de la Purete´, 36, trad. dall’arades bo, introd. e note di Godefroid de Callatay¨, Academia-Banylant (coll. Sagesse musulmanes), 3, Beyrouth-Louvain-la-Neuve 1996; Louis Massignon, «Le temps dans la pense´e islamique», in Opera Minora, vol. II, Daar al-Maaref, Beyrouth 1963; anche in Parole donne´e, Le Seuil, Paris 1983, pp. 319-326 (trad. it. Parola Data, Adelphi, Milano 1995); Paul E. Walker, «Eternal cosmos and the womb of history: time in early Ismaili thought», in International Journal of Middle-Eastern Studies, 9 (1978), pp. 355-366.

CIELO Dio e` al tempo stesso il creatore (badı¯‘, ba¯ri’, kha¯liq o fa¯tir), il re, e il possessore ˙ come di tutto cio` che dei cieli e della terra questi spazi contengono (21,19; 30,26),

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affermazione che attraversa l’intero Testo e le cui formule piu` ricorrenti sono la-hu mulk al-sama¯wa¯t wa al-ard, «possiede il ˙ e la-hu ma¯ fı¯ regno dei cieli e della terra», al-sama¯wa¯t wa al-ard, «i cieli e la terra gli ˙ appartengono». L’universo e` composto dal cielo (sama¯’) o dai cieli (sama¯ wa¯ t), dalla terra (ard ), ˙ ¯ dallo spazio che si trova tra i due (ma bayna-huma¯) e da quello situato sotto terra (ma¯ tahta al-thara¯). Nel Corano si legge che in ˙origine vi era solo una massa compatta (ratq) che riuniva il cielo e la terra. Dio li separo`, creando l’universo in sei giorni. Quanto al cielo, che inizialmente era fumo o vapore (dukha¯n; 41, 11), in due giorni fu plasmato in sette cieli sovrapposti, poi innalzato senza colonne centrali (‘amad) visibili. Infine, Dio «rivelo` a ogni cielo il suo compito» (41,12). L’idea che esistano sette cieli si trova gia` nella cosmologia babilonese, negli scritti rabbinici e negli apocrifi ebraici, e allusioni ai sette cieli compaiono in Ireneo, Epifanio e Clemente Alessandrino. La pluralita` dei cieli e` menzionata anche nella Bibbia (tra gli altri, Dt 10,14; 1Re 8,27; Sal 148,4). Una volta terminata la creazione dell’universo, Dio sedette quale re sul trono (kursı¯ o ‘arsh) di cui e` il Signore, che all’inizio della creazione galleggiava sulle acque (11,7). Il trono e` tanto immenso da estendersi «sui cieli e sulla terra» (2,255); «gli angeli che trasportano il trono e gli angeli che lo circondano celebrano le lodi del Signore» (40,7) e nulla gli accadra` quando «il cielo si spacchera`, in quel giorno fragile» (69, 16). I cieli stessi, del resto, cantano le lodi a Dio (17,44). Edificio solidamente costruito, fin dalla sua creazione il cielo e` trattenuto da Dio affinche´ «non cada sulla terra, senza il Suo permesso» (22,65) o «a che non crolli» (35,41). Il cielo inferiore e` stato ornato di costellazioni che, come indica il nome arabo, buru¯j, fungono da cittadelle. Vi si aggiungono stelle (kawa¯kib; 37,6) e lampade (masa¯bı¯h) che Dio destino` «a ˙ i demoni (shaya¯t¯ın)» esser lanciate˙contro ˙ (67,5). Inoltre, il cielo e` provvisto di guardiani (hifz) «attenti a ogni demone vile» ˙ ˙

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(15,17) e riempito di guardie (haras) e di ˙ cadenti «fiamme» (shuhub), ovvero stelle (72,8); percio` altrove e` detto «tetto custodito» (saqf mah fu¯ z; 21,32). Infine, un ˙ ˙col sole (sira¯j) e una astro identificabile luna (qamar) luminosa (25,61) completano la decorazione del firmamento. L’interazione tra cielo e terra e` continua e funziona nei due sensi: dal cielo cadono sulla terra le piogge fertilizzanti o mortali, sia per far sbocciare la flora, sia per annientare un popolo; ancora dal cielo scende sulla terra la rivelazione, oppure Dio invia angeli per aiutare i combattenti: per esempio la vittoria di Badr, avvenuta nel 2/624, e` attribuita a tremila angeli giunti in soccorso dei musulmani, e un rinforzo di altri cinquemila e` promesso contro i nemici a coloro che temono Dio (3,123-125). Del resto, le armate (junu¯d) dei cieli e della terra appartengono a Dio (48,7). Ma il cielo ascolta anche le richieste che provengono dalla terra, a condizione che siano di persone devote: cosı`, quando gli apostoli chiedono a Gesu` di far scendere dal cielo una tavola imbandita (ma¯’ida), la richiesta formulata dal figlio di Maria e` esaudita (5,112-114). In compenso, il cielo quasi si spacca quando ode dire che «il Misericordioso s’e` preso un figlio» (19,88-90). Altrove, capita che il Profeta desideri di costruire una scala in cielo per riportare in terra un segno che convinca gli increduli (6,35); essi lo invitano a far «cadere il cielo, a pezzi» su di loro (34,9). Ma «se anche vedessero un pezzo di cielo cadere loro addosso direbbero: ‘‘E` una nube addensata’’» (52,44). La disintegrazione del cielo «il giorno in cui la terra sara` cambiata in un’altra terra e in altri cieli i cieli» (14,48), ovvero il giorno del Giudizio finale, e` a sua volta ampiamente descritta. In quella occasione «il cielo produrra` un fumo visibile» (44,10), «si fara` rossastro come cuoio lucente» (55,37) e sara` simile a metallo fuso. Sara` agitato da un turbinio, si spacchera`, si rompera` e sara` spalancato. Verra` spostato e Dio lo pieghera` (tawa¯) «come un rotolo (sijill) di volume» ˙(21,104), do-

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CIRCONCISIONE ed ESCISSIONE

podiche´ «i cieli staranno piegati nella Sua destra» (39,67). Allora scenderanno gli angeli e «in quel giorno il Regno Vero sara` del Misericordioso» (25,26). Infine, nelle sure dell’inizio della Rivelazione, appaiono giuramenti che invocano il cielo: in un caso (51,7), il cielo e` attraversato da strisce (dha¯t al-hubuk) formate da nuvole staccate oppure ˙dalle stelle. [H.T.]

Bibliografia: Husan Eldin al-Alousi, The Problem of Creation in Islamic Thought, Nat. Printing and Pub. Co., Baghdad 1965; Louis Gardet, Dieu et la Destine´e de l’homme, Vrin, Paris 1967.

CIRCONCISIONE ed ESCISSIONE La circoncisione (khita¯ n) si considera spesso un segno distintivo dell’islam e dell’ebraismo; in effetti essa e` rigorosamente praticata in tutto il mondo islamico sui giovani di eta` variabile, tra il settimo giorno dopo la nascita e il quindicesimo anno, secondo le regioni, ma sempre prima dell’eta` adulta. In realta`, essa non ha alcun fondamento normativo, ne´ nel Corano, che vi fa riferimento solo in senso figurato (i «cuori incirconcisi»; 2,88; 4, 155), ne´ nello Hadı¯th. Si possono al mas˙ simo rilevare nelle tradizioni alcuni inviti in tal senso, ma non prescrittivi, come quello del celebre hadı¯th che nomina la ˙ circoncisione tra i cinque tratti caratteristici della disposizione religiosa naturale (fitra). L’origine di questa pratica va dun˙ cercata altrove. Occorre notare fin que d’ora che essa era diffusa anche nella ja¯hiliyya; i contemporanei del Profeta consideravano una disgrazia la mancata circoncisione, cio` che trova conferma nella poesia preislamica, nella Sı¯ra a proposito della battaglia di Hunayn, e anche nei ˙ racconti della Tradizione. Numerose affermazioni attribuite al Profeta portano a pensare che si trattasse di un’usanza abituale tra le comunita` dell’islam nascente, usanza destinata a radicarsi tanto piu` facilmente visto che in alcuni dei paesi conquistati dai musulmani preesisteva senza dubbio alla conquista.

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Nei trattati di fiqh (il diritto islamico tradizionale), la circoncisione e` considerata una sunna. Tuttavia, la considera obbligatoria solo la scuola giuridica sha¯fi‘ita, che peraltro, sebbene priva di un decisivo argomento coranico o profetico, la prevede per entrambi i sessi. Una delle ragioni invocate e` la tradizione canonica, di origine biblica, secondo la quale Abramo si fece circoncidere all’eta` di ottanta anni. Il carattere prescrittivo di questa pratica e` in realta` piu` di natura etico-religiosa che giuridica, e l’eta` alla quale deve essere praticata o alla quale non puo` piu` esserlo ha dato origine a divergenze tra le diverse scuole; cosı` si spiega senza dubbio il fatto che essa sia comunemente considerata un obbligo rigoroso, paragonabile, per esempio, ai pilastri dell’islam. Accompagnata da una cerimonia che prevede festeggiamenti nonche´ il sacrificio di un montone, la circoncisione simbolizza in ambito popolare l’ingresso del bambino nella comunita` religiosa; e` avvolta da un’aura di purificazione, come si puo` dedurre dall’altro termine impiegato per designarla, taha¯ra o ‘‘purita`’’. In sintesi, il khita¯n e` un ˙costume preislamico che, perpetuatosi nell’islam, si e` visto attribuire il senso di rito di passaggio. L’escissione femminile non ha maggior fondamento nel Corano. Se le scuole giuridiche la raccomandano come una buona abitudine, si basano pero` su alcune tradizioni profetiche che non la prescrivono esplicitamente. Tale pratica era diffusa nella ja¯hiliyya, e il fiqh si limito` dunque a mantenere una consuetudine preislamica. Sulla sua diffusione si hanno poche notizia; piu` discreta, essa infatti non da` luogo a festeggiamenti; sembra si sia diffusa solo in Egitto, anche presso i copti, e nell’Africa nera. L’intervento chirurgico puo` essere piu` o meno considerevole e l’asportazione totale della vulva puo` causare gravi malattie. Le autorita` dei paesi interessati da questa pratica hanno intrapreso alcune misure volte a estirpare questa usanza sempre piu` discussa nei pubblici dibattiti. [M.Y.]

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158 Bibliografia: Georges Henri Bousquet, La Morale de l’Islam et son e´thique sexuelle, A. Maisonneuve, Paris 1953; Bukha¯rı¯, Les Traditions islamiques, trad. dall’arabo, note e indici di Octave Houdas, E. Leroux, Paris 1914, hadı¯th n. 6297-6300 (trad. it. ˙ e fatti del Profeta dell’Islam parziale Detti raccolti da al-Buha¯rı¯, a cura di Virginia Vacca, Sergio Noja e Michele Vallaro, UTET, Torino 1982); Malek Chebel, Histoire de la circoncision, des origines a` nos jours, Balland, Paris 1992; Ibn Hisha¯m, The Life of Muhammad, a Translation of Isha¯q Sirat Rasul Allah, Oxford University Press, London-New York 1955.

CIRCOSTANZE DELLA RIVELAZIONE Gli asba¯b al-nuzu¯l (sing. di sabab al-nuzu¯l; i racconti sulla rivelazione comunicata a Muhammad) hanno dato origine a un genere della letteratura esegetica del Corano (tafsı¯r) i cui testi classici si devono a Suyu¯t¯ı (m. 911/1505) e a Wa¯hidı¯ ˙ ˙ (m. 428/1075). L’esegesi tradizionale riconosce gli asba¯b al-nuzu¯l come uno strumento indispensabile alla comprensione dei versetti coranici; e` questo il parere della gran parte degli esegeti, ivi compresi i piu` antichi come Tabarı¯ (m. 310/923). In quanto akh˙ ba¯r (informazioni sull’islam primitivo), si distinguono per la quantita` di materiale incorporato nella Sı¯ra profetica. La Tradizione narra che alcuni Compagni, come ‘Umar, erano particolarmente versati in questo genere esegetico. In tal modo si spiega perche´ l’esegesi abbia applicato a questo tipo di racconti il metodo di studio e l’approccio critico gia` utilizzato per lo Hadı¯th, cioe` quello dello ‘ilm al-hadı¯th o ˙ ˙ dello ‘ilm al-rija¯l. Tuttavia, la critica tradizionale, opera di credenti, ha attribuito a questo approccio una dimensione teologica che non ha suscitato molto interesse da parte dell’orientalismo, piu` interessato alla critica storica. A questo proposito, a gettare una luce apprezzabile sulla concezione islamica della rivelazione e ad arricchire la ‘‘teologia comparata’’ non sono i commentari ma alcune opere piu` generali, nel campo delle ‘‘scienze coraniche’’ (‘ulu¯m al-Qur’a¯n).

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L’esegesi definisce sabab al-nuzu¯l di un versetto una situazione, un avvenimento particolare o una questione posta a Muhammad cui fece seguito una rivelazione in forma di responso divino. Tuttavia, non sempre esistono degli asba¯b al-nuzu¯l relativi a un dato versetto, e il motivo, si dice, e` noto a Dio soltanto. Da questo punto di vista, le rivelazioni che il Profeta ricevette sono di due tipi: con o senza sabab al-nuzu¯l. Una sura puo` d’altronde contenere l’uno e l’altro tipo di versetti. Per esempio, i primi cinque versetti della sura 96, al-‘Alaq, che si considera tradizionalmente la prima rivelata, sono privi di sabab al-nuzu¯l; al contrario i due versetti seguenti – «Ma no! L’uomo prevarica appena crede d’esser ricco» – furono ‘‘occasionati’’ dal fatto che Abu¯ Jahl aveva promesso di appoggiare il proprio piede sulla nuca del Profeta durante le prosternazioni e di gettargli della terra in faccia. Molto spesso, il sabab al-nuzu¯l di una rivelazione riguarda una sola persona, identificata dalle tradizioni; Ka‘b ibn ‘Ujra, che aveva dei pidocchi in testa, sarebbe all’origine del versetto 2,196, che precisa alcune importanti modalita` di svolgimento del pellegrinaggio rituale; altrove, come nei versetti 70,16-17, la causa e` il Profeta stesso, che faceva gran fatica ad articolare le rivelazioni. Seguono ora altri esempi, tratti dal capitolo esegetico del Sah¯ıh di Bukha¯rı¯ (m. ˙ ˙ ˙ di Wa¯hidı¯, due 256/869) e dal trattato ˙ autorevoli opere sunnite. Il versetto 2, 158, che prescrive una corsa veloce tra Safa¯ e Marwa, conterrebbe un’implicita ˙ allusione al fatto che alcuni Ausiliari (Ansa¯r) si erano rifiutati di compiere questo ˙rito per rispetto alla dea Mana¯t; il versetto 4,11, che fissa le proporzioni dell’eredita`, avrebbe origine in una domanda che il Compagno Ja¯bir ibn ‘Abd Alla¯h pose direttamente al Profeta a proposito delle proprie ricchezze. Numerosi versetti di argomento giuridico sarebbero una risposta alle questioni private di alcuni Compagni. Il versetto 19,64, per esempio, sarebbe la risposta divina a una questione posta da Muhammad all’arcangelo Ga-

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briele, dal quale egli desiderava essere visitato; il versetto 2,222, che limita i rapporti intimi tra coniugi quando la moglie sia mestruata, risponderebbe a una domanda posta da alcuni Compagni che avevano rilevato divieti affini presso gli ebrei di Medina. L’esegesi tradizionale esclude dal rango di asba¯b al-nuzu¯l quei racconti che, benche´ esplicativi, non siano strettamente legati alla rivelazione di un versetto, e questo a differenza di un ipercriticismo, che li considerera` necessari all’esegesi ‘‘aggadica’’; e` il caso dell’identita` di ‘‘quelli dell’Elefante’’ cui allude il versetto 105, 1. Lo stesso vale per gli aha¯dı¯th in cui il Compagno di turno non e` ˙del tutto sicuro del sabab al-nuzu¯l, come Zubayr ibn al‘Awwa¯m a proposito del versetto 4,65, che fa del Profeta l’arbitro dei dissidi tra Compagni. L’esegesi ammette che un unico sabab al-nuzu¯l puo` corrispondere a versetti molteplici. Per esempio, Umm Salama avrebbe chiesto al Profeta perche´, secondo le rivelazioni precedenti, soltanto gli uomini fossero retribuiti per le loro buone azioni, e il Corano avrebbe risposto con i vari versetti che mettono sullo stesso piano i credenti e le credenti per quanto riguarda le opere (3,195; 4,32; 33,35). Per converso, molti asba¯b al-nuzu¯ l possono essere all’origine di una stessa rivelazione. Cosı`, la sura 112 sarebbe intervenuta a proteggere Muhammad sia contro le manovre dei politeisti meccani prima dell’egira sia contro la malvagita` di certa gente del Libro in Medina, dopo l’egira. La tradizione islamica, in virtu` della sua posizione teologica, non prova imbarazzo di fronte a situazioni di questo tipo; arriva al massimo a dichiarare alcuni asba¯b al-nuzu¯l piu` probabili di altri, ma senza scartarne nessuno, giacche´ figurano nelle raccolte canoniche di tradizioni, come i ‘‘sei Libri’’. Il sabab al-nuzu¯l che fornisce il contesto storico di un versetto contribuisce all’esegesi di quest’ultimo, dal momento che permette di precisare il senso di alcune parole, di comprendere il versetto nel suo insieme o di svelarne il senso etico-legale; e la sua conoscenza consente inoltre

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di scartare alcune interpretazioni fuori luogo. Ecco alcuni esempi. Il versetto 4, 145 elenca solo tre divieti alimentari: le bestie non macellate ritualmente, il sangue e il maiale; ma il versetto guardava in particolar modo agli infedeli che, a fini diffamatori, autorizzavano tali alimenti. Ed e` proprio il ricorso al sabab al-nuzu¯l che permette a Sha¯fi‘ı¯ (m. 204/820) di superare il senso apparente: a suo avviso, il versetto non implica affatto l’abolizione degli altri divieti alimentari definiti dalla Legge religiosa. Un altro esempio. Il passo che recita «se le elemosine le farete pubblicamente» (2,271) puo` comprendersi alla luce di una questione posta dai Compagni sul modo di effettuare l’elemosina: essa va appunto effettuata in pubblico. Infine, poiche´ la sura al-Duha¯ o ˙ ˙ a dell’Alba (93) sarebbe stata rivelata Muhammad in un periodo di interruzione delle rivelazioni (futu¯r al-wahy), cio` permette di affermare, a quanto ˙scrive l’esegeta Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/1209), che l’espressione al-a¯khira (93,4) non significa ‘‘l’Aldila`’’, come sostengono altri commentatori – peraltro seguiti dai traduttori moderni – ma ‘‘l’indomani’’. La conoscenza degli asba¯b al-nuzu¯l solleva un importante problema teologico: se la rivelazione e` contingente, collegata (gli esegeti dicono ‘‘ristretta’’) ad alcuni avvenimenti particolari e storicamente databili, come ammettere allo stesso tempo che essa genera una Legge, cioe` delle regole generali valide per tutti, in ogni luogo e in ogni tempo? Il fatto che l’esegesi consideri gli asba¯b al-nuzu¯l sembra dunque dover attenuare o contraddire la portata universale che la legge attribuisce ai versetti coranici. La maggioranza dei teologi musulmani risponde che la connessione tra una rivelazione e il suo sabab al-nuzu¯l non e` dovuta al caso: se cosı` fosse, non si potrebbe parlare di un ‘‘irrompere’’ del wahy dovuto solo alla libera ˙ La Rivelazione e` un iniziativa di Allah. tanzı¯l, una ‘‘discesa’’, e certo non e` intesa a provocare una qualche ‘‘risalita’’ verso il cielo di un avvenimento di quaggiu`. Se l’avvenimento non si fosse prodotto, il versetto corrispondente sarebbe stato ri-

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velato comunque, poiche´ la sua sola e unica causa e` la volonta` divina. In realta` non si tratta affatto di una ‘‘risposta’’ a una ‘‘domanda’’ umana, dal momento che tutti gli eventi sono previsti nella prescienza di Dio. Pensare in modo differente porterebbe a dubitare del dogma dell’eternita` della parola divina, che al pari degli altri attributi divini e` al di fuori del tempo, come sostengono i teologi ash‘ariti. Sempre sul piano teologico, e` stata sollevata l’obiezione di una pretesa ‘‘restrizione’’ della portata dei versetti. Le rivelazioni possiedono una ‘‘saggezza’’ intrinseca, che testimonia una preoccupazione particolare di Dio nei confronti della sua creazione. I teologi parlano di una simultaneita` tra ‘‘la particolarita` dell’occasione’’ e ‘‘l’universalita` della formulazione’’. Il significato etico o giuridico dei versetti si situa su un piano diverso rispetto al senso linguistico: e` solo quest’ultimo a essere delimitato in modo preciso e ristretto a un’occasione definita. Permangono, in ogni modo, alcune eccezioni ammesse in linea di principio: da un lato nel caso dell’abrogazione intracoranica, dall’altro perche´ il valore legiferante di un versetto puo` talvolta basarsi sul sabab al-nuzu¯l. Una citazione classica a questo riguardo e` il versetto 2,115: «Ovunque vi volgiate lı` e` il volto di Dio». Inteso in senso generale, questo versetto sospenderebbe l’obbligo di rivolgersi verso la Mecca al momento della preghiera canonica. Ma questo versetto venne rivelato quando i Compagni, trovandosi in viaggio, non avevano modo di orientarsi verso la citta` santa. Tale preciso avvenimento permette di applicare il versetto al fedele che ignori la direzione della qibla (la direzione della preghiera). Si noti, comunque, che l’esempio non mette in causa l’universalita` della portata legale dei versetti. Il punto di vista orientalista Esso si basa su premesse incompatibili con l’esegesi tradizionale: innanzitutto un sospetto generalizzato, sviluppatosi in seguito al lavoro pionieristico di Igna´c

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Goldziher, nei confronti dell’autenticita` dello Hadı¯th, al cui corpus appartengono ˙ ¯ b al-nuzu¯l; e poi l’idea che la gli asba pluralita` dei racconti su uno stesso versetto, racconti talvolta contraddittori, rifletta lotte di fazione interne alle prime generazioni. Per tornare all’esempio del versetto 2,115, esiste almeno una dozzina di racconti diversi, tutti proposti come sabab al-nuzu¯l. Quale scegliere? Inoltre, dietro le differenti versioni, e` facile cogliere un unico intento: mettere da parte il versetto ingombrante come possibile base per una soluzione giurisprudenziale. In tal caso e` dunque difficile accettare un sabab al-nuzu¯l, e l’orientalista si guarda bene dall’accordare alle varie versioni il benche´ minimo valore storico. Talvolta, i differenti asba¯b sono accolti o rigettati in funzione di un madhhab giuridico prestabilito, e danno l’impressione d’essere stati concepiti ad hoc. Infine, come ultima premessa, occorre tenere conto del tentativo di introdurre una dimensione storica nelle letteratura delle scienze islamiche. La critica occidentale moderna sostiene l’idea che gli asba¯b al-nuzu¯l non siano stati in origine concepiti come strumenti esegetici. Una prova di questo sarebbe data nel fatto che il termine tecnico asba¯b al-nuzu¯l sembra di formazione tardiva; e` attestato solo a partire da Wa¯hidı¯ (m. 428/ ˙ le accosta 1075), in un’opera che ancora alle Qisas al-anbiya¯’ (Le storie dei profeti) e ˙ad˙ altre tradizioni. Zarkashı¯ e` il primo autore, sembra, ad aver riservato loro una trattazione teorica. E questo lascia pensare che gli asba¯b al-nuzu¯l furono ricavati da narrazioni piu` antiche, allo scopo di avvalorare alcune costruzioni teoriche successive, come la cronologia della Rivelazione o la giustificazione delle varie opzioni giuridiche. Questa e` l’ipotesi di John Edward Wansbrough: gli asba¯b al-nuzu¯l della tradizione esegetica non possono aspirare a essere uno strumento di datazione scientifica all’interno del testo coranico. Tuttavia Andrew Rippin ha osservato che esistono due tipologie di asba¯b al-nuzu¯l: alcuni servono all’esegesi in senso generale, altri all’esegesi giuridica. Le prime sono molto piu`

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abbondanti, e questa osservazione, che fa vacillare l’ipotesi di Wansbrough, obbliga a non farne una distinta categoria di tradizioni. D’altro canto, vi si rilevano i vari temi letterari della Sı¯ra analizzati da Wansbrough: le polemiche con le confessioni concorrenti, il rifiuto dell’annuncio della missione di Muhammad, i meriti dei profeti e delle scritture precedenti, la falsificazione delle stesse, i tentativi di dissimulare l’avvento di un profeta arabo, le strategie degli ipocriti e altri luoghi comuni della storia sacra dell’islam. Esse danno luogo a una pletora di sviluppi aneddotici, estensione narrativa volta a porre rimedio alla concisione del testo coranico. Rippin ha dunque ripreso la tesi poco prima formulata da Tor Andrae sull’origine della materia della Tradizione: gli asba¯b al-nuzu¯l non vanno distinti dai racconti mitici sui profeti coranici (Qisas al-anbiya¯’), sono il prodotto ˙ ˙ dei predicatori popolari (qussa¯s) dell’i˙ ˙ passione slam primitivo, ascoltati con dalle folle dei primi secoli. Tuttavia l’approccio ipercritico e` lungi da incontrare il consenso unanime dei ricercatori. La sua validita` per l’insieme delle tradizioni esegetiche resta ancora tutta da dimostrare. E trattandosi di asba¯b al-nuzu¯l, presenta l’inconveniente di privare l’orientalismo di uno strumento a sua disposizione per collocare il Corano in un [M.Y.] contesto storico. Bibliografia: Andrew Rippin, «The function of asba¯b al-nuzu¯l in qur’anic exegesis», in Bulletin of the School of Oriental and African Studies (BSOAS), 51 (1988), pp. 1-20; Id., «The exegetical genre asba¯b al-nuzu¯l», Bulletin of the School of Oriental and African Studies (BSOAS), 48 (1985), pp. 1-15; Marston R. Speight, «The function of hadith as commentary on the Qur’a¯n», in Andrew Rippin, Approaches to the History of the Interpretation of the Qur’a¯n, Clarendon Press, Oxford 1988; John Edward Wansbrough, The Sectarian Milieu, Content and Composition of Islamic Salvation History, Oxford University Press, London 1977.

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COLLERA DIVINA

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COLLERA DIVINA Se la collera divina e` decisamente attestata nel Corano, occorre tuttavia tener presente che il testo sacro menziona assai piu` spesso le manifestazioni della bonta`, dell’amore e del perdono del creatore. Tale collera e` espressa dalla radice «ghdb» (in una ventina di versetti circa) piu` ˙che dalla radice «skht» (tre occor˙ renze). Ghayz, un altro sinonimo di col˙ solo all’uomo, invitanlera, si applica dolo, nel Corano e in alcune tradizioni profetiche, a moderare questo sentimento. Infine, la Rivelazione parla in due occasioni di una collera (radice «ghyz») ˙ della Geenna contro i dannati (25,12; 67, 8). La collera divina non e` gratuita, ma e` sempre provocata dai grandi peccati: la morte di un credente (mu’min; 4,93); l’adorazione di falsi de`i (5,60; 7,152), l’ipocrisia (nifa¯q); l’associazionismo (5,80; 8, 16; 48,6; 58,14-15; 60,13); l’ingiustizia; la ribellione contro Dio; la morte dei profeti; l’alterazione della parola divina (2, 59; 2,90; 3,112); l’incredulita` nei confronti della Rivelazione (2,90); i pensieri malvagi su Dio (48,6, la cui formulazione fa indubbiamente pensare a un celebre hadı¯th qudsı¯: «Io sono secondo l’idea che ˙il mio servo si fa di Me»); la sfiducia nell’altra vita (60,13); l’apostasia, cioe` «chi rinnega Dio dopo aver creduto» (16, 106; 47,28); l’accusa ignominiosa di adulterio rivolta contro i mariti o le mogli (24,9). Va sottolineato che la qualita` della fede e` il motivo principale del corruccio divino. Paradossalmente, gli ipocriti e gli associazionisti sono le sole categorie confessionali a essere prese di mira dalla collera divina, in molte occasioni; il termine ‘‘collera’’ non e` impiegato espressamente a proposito della ‘‘gente del Libro’’ salvo che per crimini precisi. Questa insistenza porta a pensare che Muhammad fosse persuaso che la collera divina era riservata ai suoi nemici personali tanto quanto ai nemici della sua missione. Per il credente, essa conferma che la vendetta celeste e` sostanzialmente procurata dalle macchinazioni degli uomini contro il progetto di

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Dio. Una lettura interiorizzante o mistica analizza volentieri i meandri e i dubbi della fede come una ripercussione nell’anima dei comportamenti degli ipocriti denunciati nel Corano. La collera divina si manifesta in primo luogo come un tormento doloroso (‘adha¯b alı¯m); talvolta si tratta del tormento infernale (8,16), ma sono previste anche le sofferenze di questo mondo, presenti o passate: la maledizione, la trasformazione in scimmie e maiali; l’umiliazione, la poverta` o l’esilio come nel caso degli israeliti infedeli a Mose` (2,61; 3,112). Essa puo` ricadere su un individuo ma anche su un’intera comunita` (come il popolo di Hu¯d; 7,71). E puo` abbattersi in ogni momento della vita terrena; per il credente, ne sono una manifestazione le calamita` di ogni tipo, soprattutto le annate di siccita`, gli scismi nella comunita` o il sangue versato. In fondo, nella prospettiva coranica, e` la collera divina che giustifica l’apostolato dei profeti, giacche´ i loro avvertimenti insistono sull’ineluttabilita` della punizione. Per la fede popolare, tra i poteri miracolosi dei santi vi e` appunto l’efficacia delle loro preghiere nello stornare l’ira divina. Nello Hadı¯th, le tradizioni dedicate alla collera˙ divina non sono molto numerose. Sorprendentemente abbondati sono invece i dettagli concreti dei tormenti infernali, rappresentazioni degne dei dipinti di Hieronymus Bosch o della Divina Commedia. In quanto esegesi popolare, essi rispondono all’ingenua necessita` di integrare con le immagini la sobrieta` del testo sacro. Alcune tradizioni, inoltre, spiegano cio` che rimane implicito nel Corano. Per esempio, le buone azioni come la carita` praticata in segreto o un sincero pentimento allontanerebbero o ‘‘estinguerebbero’’ la collera divina. Uno hadı¯th qudsı¯ ˙ misericormolto noto afferma: «La Mia dia supera la mia collera»; e sono numerosi i detti profetici, in particolare di tipo qudsı¯, che insistono sull’incommensurabilita` del perdono divino e sul fatto che Allah puo` sempre sospendere gli effetti della propria collera. E` dunque impossibile affermare che, nello spirito dei suoi

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adepti, l’islam non e` una religione dell’amore divino. Del resto la collera divina non e` mai arbitraria. Secondo il Corano, Allah non saprebbe essere ingiusto; le sofferenze di questo mondo, la sofferenza degli innocenti e i tormenti infernali sono espressione della sua giustizia. La collera non fa parte della lista comune dei Bellissimi Nomi di Dio. Alcuni citano ‘‘il Vendicativo’’ (al-Muntaqim), ma questo nome comporta comunque una connotazione di giustizia; altri citano i nomi legati alla sua onnipotenza, come al-Qa¯hir (‘‘il Dominatore’’) o al-Jabba¯r (‘‘il Violento’’), ma in questi casi il rapporto con la collera e` piu` blando. Si noti che l’esegesi mistica di Ibn ‘Arabı¯ (m. 628/ 1240) intende l’opposizione tra collera e misericordia divine in modo piu` complesso: la prima concerne piuttosto il tanzı¯h, l’infinita distanza tra Dio e l’uomo, il ‘‘silenzio eterno’’ pascaliano. [M.Y.] Bibliografia: Soubhi El-Saleh, La Vie future selon le Coran, Vrin, Paris 1971; Daniel Gimaret, Les Noms divins en islam. Exe´ge`se lexicographique et the´ologique, Le Cerf, Paris 1988; Hanna E. Kassis, A Concordance of the Qur’a¯n, University of California Press, Berkeley 1983; Angelo Scarabel, Preghiera sui nomi piu` belli, Marietti, Genova 1996.

COLORI Nella percezione e nella descrizione delle tinte, il Corano fa poco uso dei colori puri e tende piuttosto a evocare, oltre all’opposizione tra chiaro/luce/colore e nero/ tenebra, alcune impressioni d’insieme: per esempio, il miele delle api e` di diversi colori (alcuni traduttori usano il termine ‘‘iridato’’): «Dal ventre suo esce variopinta bevanda, che guarisce gli uomini» (16,69). La varieta` dei colori della creazione fa parte dei suoi benefici; i colori vi apportano attrattiva e differenziazione: «Non vedi tu che Iddio fa scendere dal cielo un’acqua con la quale trae dalla terra frutti variopinti, e che vi sono nei monti strisce bianche e rosse di vari colori e altre nere come l’ala del corvo? E fra gli uomini e le bestie e gli animali delle greggi

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COLORI

ve ne sono di vario colore» (35,27-28). La diversita` di colori in se´ e` un segno evidente di Dio: «Uno dei Suoi Segni e` la creazione dei cieli e della terra e la varieta` delle lingue vostre e dei vostri colori» (30, 22). I colori di cui si riveste la natura sono un dono di Dio, ma Egli ha anche il potere di farli appassire: «Non vedi come Dio fa discendere acqua dal cielo e la conduce a fonti nascoste nella terra e ne fa germinare variopinte sementi, e poi si disseccano e le vedi ingiallirsi, e poi Egli le riduce a briciole secche di paglia?» (39,21). Dati gli scarsi riferimenti ai colori puri, e` azzardato attribuire un simbolismo ai colori, cio` che invece faranno piu` tardi sia gli storici sia i tradizionisti. Curiosamente, si constata l’assenza quasi assoluta del colore blu, la qual cosa potrebbe essere suggerita nell’evocazione del cielo e del mare. In modo significativo, uno hadı¯th ricorda un’allusione del Profeta al ˙‘‘mare verde’’. Sembrerebbe dunque che le varie sfumature del blu siano comprese nell’accezione del verde. Il giorno e la notte I colori si manifestano naturalmente nella luce; si oppongono dunque alle tenebre: si pensi a coloro che non hanno la Guida, «come se uno abbia acceso un fuoco e, quando questo fuoco ha illuminato tutti i dintorni, Iddio toglie loro la luce e li lascia ciechi nelle tenebre: sordi muti ciechi, non recedono dall’errore!» (2,17-18). Simile idea emerge dal colore dei volti, per distinguere dagli empi coloro che avranno creduto; i primi «avranno un castigo immane, in un Giorno in cui alcuni volti saranno bianchi e alcuni volti saranno neri» (3,105-106). La manifestazione dei colori grazie al giorno e alla sua luminosita` si ritrova nel metodo per verificare l’ora in cui iniziare il digiuno: «Bevete e mangiate, fino a quell’ora dell’alba in cui potrete distinguere un filo bianco da un filo nero» (2,187). Bianco Il bianco e` spesso associato alla malattia o all’infermita`, ma senza che essa sia ne-

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cessariamente negativa. La mano bianca di Mose`, per esempio, e` un tema ricorrente nella narrazione coranica: «Premiti ora la mano sul fianco, ne uscira` bianca, ma senza male alcuno» (20,22); «trasse la mano, ed ecco, essa apparve bianca agli astanti» (7,108; cfr. anche 26,33; 27,12; 28,32). Il colore bianco (bayda¯’) qui non ˙ la potenza. indica solo la lebbra, ma anche L’episodio, narrato nell’Esodo (4,6), precisa che «[Mose`] mise la sua mano nel suo seno: la ritrasse, ed ecco che la sua mano era ricoperta di lebbra, bianca come la neve». In un altro episodio, Giacobbe, venendo a conoscenza della morte di Giuseppe, fu colpito da cecita`: «Gli occhi gli si fecero bianchi, per la tristezza, mentre egli comprimeva il suo dolore» (12,84). Ma il bianco e` associato anche alla purezza. L’acqua del paradiso e` «bianca (bayda¯’), deliziosa ai beventi» (37,46) e ˙ di purezza e biancore si trova acl’idea centuata dai materiali delle coppe che servono per bere, cristallo e argento (76, 15-16). Analogamente, le urı` del paradiso sono «come bianche perle celate» (37, 49); la stessa radice da cui proviene ‘‘urı`’’ (hawra’, pl. hu¯r) evoca l’idea di ˙ i commentatori ˙ biancore; hanno rilevato il contrasto col nero dei loro occhi. Il bianco sara` in seguito adottato come vessillo dai califfi omayyadi. Giallo Il colore giallo possiede in genere una connotazione ambivalente, se non addirittura negativa; per esempio, e` il colore della natura inaridita (39,21; 57,20). Anche le fiamme terribili che si abbatteranno sugli infedeli nel giorno del Giudizio sono paragonate a torri «scintillanti come cammelli gialli» (77,33); inoltre, questo colore tinge i venti di sabbia (30,51). Tuttavia, le genti di Mose` che devono sacrificare una vacca gli dicono: «Prega ancora per noi il tuo Signore che ci dica di che colore ha da essere!» Ed egli risponde: «Iddio dice che ha da essere di colore giallo (safra¯’) vivo che rallegri la vista» (2,69). ˙

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Rosso Il rosso e` citato in una sola occasione, o forse due: «Vi sono nei monti strisce bianche e rosse (humr)» (35,27). Un’altra ci˙ tazione, ugualmente isolata, concerne il colore del cielo nel giorno del Giudizio: «Allorche´ si spacchera` il cielo e si fara` rossastro (warda) come cuoio lucente» (55,37); e` una descrizione che ricorda la ‘‘luna di sangue’’ dell’Apocalisse di Giovanni (6,12). Il colore delle urı` potrebbe dedursi dalla metafora che segue: «Belle come rubino e corallo» (55,58). Nondimeno, l’associazione con questi due materiali e` probabilmente dovuta piu` al loro carattere prezioso che al loro colore. Verde Il verde e` indubbiamente il colore piu` amato, non solo perche´ rappresenta una natura ridente, ma anche perche´ e` piu` spesso associato al paradiso. La natura si fa verde grazie al creatore: «E` Lui che fa discendere acqua dal cielo con la quale Noi facciamo spuntare germogli d’ogni specie e da essi verde fogliame e da questo granelli agglomerati e dalle spate delle palme grappoli bassi di datteri» (6,99). La medesima immagine dell’acqua che scende dal cielo grazie a Dio e della natura verdeggiante compare nel versetto 22,63. Ma questo verde, allo stesso modo, puo` farsi secco: «Non vi e` granello nelle tenebre della terra, nulla di verde o di secco, che non sia registrato in un Libro Chiaro» (6,59). L’apparente contraddizione tra l’albero vivo, verde per antonomasia, e la sua capacita` di produrre il fuoco e` un’altra meraviglia della creazione: «E` Colui che dell’albero verde vi fa fuoco, ed ecco ne accendete la fiamma!» (36,80). Il verde e` il colore associato al paradiso, non solo per la vegetazione ma anche per i preziosi tessuti che vi si trovano. In paradiso gli alberi procurano ombra fresca, «verdi, verdi cupissimi» (55,64); i credenti «saranno [...] vestiti di vesti di seta verde e di broccato» (18,31), «staranno adagiati su verdi cuscini e tappeti splendidi» (55,76).

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Il personaggio anonimo della sura 18 o ‘‘della Caverna’’ (18,65) e` associato secondo la tradizione musulmana a Khadir, ˙ il ‘‘Verdeggiante’’; nell’iconografia posteriore sara` rappresentato di questo colore. La Tradizione racconta che il colore verde era il preferito del Profeta; verde sara` il vessillo degli sciiti. Il colore verde da` inoltre il nome alla cupola del palazzo dei califfi a Damasco e al palazzo di Baghdad; in seguito, in data e in circostanze alquanto vaghe, il verde divenne naturalmente associato all’islam. Nero Ovviamente, il colore nero e` spesso associato alla notte, alle tenebre e all’oscurita` dell’anima, ma anche ai castighi degli empi: «Quelli che avranno compiuto male azioni, ebbene il male sara` pagato col male. Li offuschera` l’ignominia, nessuno li proteggera` contro Dio, e sara` come se pezzi di notte coprano loro il volto di tenebra» (10,27). Il colore dei volti di coloro che hanno mentito su Dio consentira` di riconoscerli nel giorno della resurrezione: essi avranno «i volti anneriti» (39,60), «tuniche di catrame e il volto avviluppato dal Fuoco» (14,50); i dannati saranno avvolti «in ombra di fumo nerissimo, non fresca, non generosa» (56,4344). Tuttavia la radice «swd», impiegata per lo piu` per descrivere i colori scuri, e` anche associata alla nozione di potenza: indubbiamente, tale aspetto positivo fece sı` che nero fosse il vessillo dei califfi Abbasidi. [Y.P.] COMMERCIO Nel Corano si possono distinguere due gruppi di versetti che riguardano il commercio. Nel primo gruppo, senza dubbio il piu` antico, il Libro santo denuncia l’imbroglio e la frode e invita all’onesta` considerata tra le manifestazioni della fede autentica (6,152; 7,85; 55,7-9; 83,1-3). Nel secondo gruppo compare l’idea che l’attivita` commerciale allontani dal culto dovuto a Dio da parte dei fedeli (9,24; 24, 37; 62,9-11). Questi due discorsi, cronologicamente distinti e indubbiamente rapportabili a differenti situazioni verifica-

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COMMERCIO

tesi in seno alla giovane comunita` musulmana, perdureranno nella cultura islamica l’uno a fianco dell’altro. La denuncia della frode e la ricerca della giusta transazione sembrano ugualmente motivate dalla credenza che, quando gli imbrogli si moltiplicano e il commercio fraudolento e ingiusto si diffonde, la prosperita` si muta nel suo contrario. La ricchezza non sarebbe preservata ne´ con il risparmio – non lontano dall’essere assimilato a una forma di egoismo, addirittura di tirchieria – ne´ con la frode. L’ideale economico del Corano e` mille miglia distante dall’economia di mercato, nella misura in cui mette al centro della morale economica il dono. Quanto alla politica raccomandata, essa consiste in una ridistribuzione delle ricchezze da parte dei piu` agiati e del potere centrale. Tuttavia il testo coranico non rimette in discussione le disuguaglianze, che sarebbero il risultato della volonta` di Dio (6,165; 16, 71). Quanto al truffatore, per esempio chi trucca la bilancia, questi non compromette solo la propria salvezza personale, ma minaccia con il proprio comportamento la sopravvivenza della collettivita`. I giuristi si occuperanno delle condizioni necessarie a una transazione equa, e assoceranno la questione a quella dell’usura. Mentre il Corano si limita a esortare i fedeli a non imbrogliare, soprattutto quando pesano le derrate, i giuristi hanno classificato le diverse transazioni. In nome dello scambio equo ne hanno rifiutate alcune; per esempio l’acquisto di un bene non noto: un raccolto che non ha ancora avuto luogo, il prodotto d’una pesca non ancora realizzata, e cosı` via. Preoccupandosi dello scambio equo, i califfi istituiranno una polizia dei mercati (hi˙ i sba) che si occupera`, in realta`, di tutti comportamenti nello spazio pubblico. Il funzionario cui e` assegnata questa carica, denominato muhtasib, ha svolto un im˙ portante ruolo negli agglomerati urbani; diversi trattati permettono di conoscerne meglio le attivita` e gli ambiti d’intervento, tra i quali lo spazio maggiore e` occupato dalle transazioni.

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Il secondo discorso, che individua nell’attivita` commerciale la manifestazione di un attaccamento al mondo e la preoccupazione per le ricchezze, sara` illustrato soprattutto nella letteratura morale. In questa prospettiva, la salvezza implica il disprezzo del mondo e di tutto cio` che lo caratterizza, come le ricchezze: il credente non deve occuparsi neppure del cibo quotidiano e deve invece rimettersi totalmente a Dio (tawakkul). Una tradizione che ha riscosso un certo successo fa del mercato (su¯q) il luogo in cui Satana tiene le sue riunioni. Va infine ricordato che il Corano, nonostante tutto, si serve abbondantemente delle metafore commerciali per descrivere i rapporti tra il fedele e Dio. [M.H.B.] Bibliografia: Rachel Arie´, «Traduction annote´e et commente´e des traite´s de hisba ˙ ¯d’Ibn ‘Abd al-Ra’u¯f et de ‘Umar al-Garsı fı¯», in Hespe´ris-Tamuda, 1966, pp. 5-38, 199-214, 349-386; R. Philip Buckley, «The muhtasib», in Arabica, 39/i (1992), pp. 59˙ Ali Chenoufi, «Un traite´ de hisba», in 117; ˙ (1965Bulletin d’e´tudes orientales, 19 1966), pp. 133-340; Dien Izzi, The Theory and the Practice of Market Law in Medieval Islam, Gibb Memorial Trust, London 1997; E´variste Le´vi-Provenc¸al, Se´ville musulmane au de´but du XIIe sie`cle. Le traite´ de Ibn ‘Abdu¯n sur la vie urbaine et les corps de me´tiers, Maisonneuve et Larose, Paris 2001.

COMPAGNI DEL PROFETA I Compagni (asha¯b, sing. sa¯hib) del pro˙ ˙ occupano˙ un ˙ posto imfeta Muhammad portante nella storia dell’islam. L’espressione stessa ‘‘Compagni del Profeta’’ (asha¯b al-nabı¯) designa le persone che ˙lo ˙hanno conosciuto personalmente e lo hanno accompagnato nei momenti cruciali della sua vita. I piu` noti tra i Compagni sono i quattro califfi ‘‘ben guidati’’ (ra¯ shidu¯ n), che gli succedettero: Abu¯ Bakr, ‘Umar ibn al-Khatta¯b, ‘Uthma¯n ibn ‘Affa¯n e ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯˙˙lib. I musulmani ˙ sciiti ritengono che quest’ultimo, cugino e genero di Muhammad, sarebbe dovuto succedere al Profeta che lo aveva raccomandato esplicitamente ai musulmani

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come capo spirituale e temporale. La posizione eccezionale di ‘Alı¯ agli occhi dei suoi partigiani si basa su una particolare lettura dell’espressione ‘‘gente della Casa’’ (ahl al-Bayt) che appare in un versetto coranico: «[...] Iddio vuole infatti che siate liberi da ogni sozzura, o gente della casa del Profeta, ed egli vi purifichera` di purificazione pura» (33,33). Questo espressione indica, secondo gli alidi (i partigiani di ‘Alı¯) i parenti stretti di Muhammad, e cioe` sua figlia Fa¯tima, ˙ e suo genero ‘Alı¯ e i suoi nipoti Hasan ˙ Husayn. ˙ tradizione sunnita elenca nove ComLa pagni ‘‘destinati al paradiso’’: oltre ai precedenti quattro, essi sono Talha, Zu˙ ibn ˙ Sa‘d bayr, ‘Abd al-Rahma¯n ibn ‘Awf, ˙ ¯d ibn Zayd. Si noti Abı¯ Waqqa¯s e Sa‘ı inoltre che ˙i Compagni sono ulteriormente distinti in due gruppi: gli Emigranti (muha¯jiru¯n), che si sono spostati con Muhammad a Medina e gli Ausiliari (ansa¯r), ˙ `. che hanno accolto questi ultimi in citta Il significato del termine ‘‘compagno’’ e` mutato durante la storia del pensiero religioso dell’islam e ha dato luogo, in seno alla letteratura delle tradizioni profetiche, a un concetto a se´ stante. I compagni sono, quindi, considerati da un lato come i principali trasmettitori delle parole e degli atti di Muhammad; dall’altro, secondo i dotti sunniti medievali, sono ritenuti i trasmettitori degni di fiducia delle tradizioni profetiche. Alcuni giuristi attribuiscono loro una tradizione (sunna), in tutto simile a quella del Profeta, come quella del Compagno ‘Umar ibn al- Khatta¯b. I Compagni ˙˙ godono, dunque, di uno status particolare e centrale nella costituzione del pensiero islamico tradizionale, dal momento che i loro nomi hanno contribuito all’elaborazione progressiva dello H adı¯th come fonte normativa del diritto ˙e della teologia. Nel Corano, la parola ‘‘compagno’’ e` accostabile per significato a quello di ‘‘testimone’’: «E Mose` rispose: ‘Se d’ora in poi ti chiedero` una sola cosa, non accompagnarti piu` a me, avrai scusa sufficiente per abbandonarmi» (18,76). I commentatori di questo versetto precisano che il

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compagno e` qui la persona scelta per effettuare un viaggio con Mose` e per essere testimone privilegiato delle sue prove. Un altro passo coranico da` al termine un senso differente: «Hanno essi degli de`i che possano ripararli da Noi? No! Essi non potranno aiutarsi da se´, ne´ avranno compagni per difendersi contro di Noi» (21,43). Il compagno rappresenta qui il ‘‘protettore’’, come Dio stesso e` compagno dei credenti poiche´ li soccorre. Lo stesso profeta Muhammad viene definito compagno in un versetto che descrive l’ostilita` di cui egli fu vittima all’inizio della predicazione: «Il vostro compagno non e` un folle» (81,22). Il Profeta fu infatti accusato di follia dai suoi avversari, ma, quando egli dichiaro` di aver visto Gabriele, l’angelo della rivelazione, il Corano giunse a confermare la veridicita` del suo racconto. Lo status di compagno viene inoltre accordato al Profeta, poiche´ egli e` il compagno di chi voglia credere alla sua missione profetica. Questo avviene nel versetto 9,40, quello sul rifugio che Muhammad e l’amico Abu¯ Bakr trovarono nella grotta: «Se voi non lo assisterete, ebbene gia` lo ha assistito Iddio quando gli infedeli lo scacciarono, lui con un solo compagno, e quando essi erano nella caverna, e quando egli diceva al suo compagno: ‘‘Non ti rattristare! Dio e` con noi!’’ E Dio fece scendere su di lui la Sua Divina Pace (sakı¯na) e lo confermo` con schiere invisibili, e la parola di coloro che ripugnarono alla fede la ridusse in basso, e levata in alto fu la parola di Dio [...]». Il Compagno in questione, secondo l’esegesi sunnita e` Abu¯ Bakr, amico e suocero di Muhammad e futuro primo califfo, che si era con lui rifugiato in questa grotta per sfuggire ai Qurayshiti che cercavano di uccidere il Profeta. Abu¯ Bakr e` dunque considerato dai sunniti come uno dei suoi Compagni piu` vicini. I Compagni del Profeta divennero oggetto di studi approfonditi da parte di specialisti dello Hadı¯th. E` senza dubbio in questo tipo di˙ letteratura che il significato del termine ‘‘compagno’’ assume tutta la propria complessita`. Molte collezioni di aha¯˙ dı¯th forniscono descrizioni delle virtu` (fa-

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da¯’il) dei Compagni. Naturalmente anche ˙le opere dedicate alle generazioni di dotti e di personaggi eminenti (i ‘‘libri delle Tabaqa¯t o delle ‘‘Generazioni’’) si inte˙ressano alle biografie dei trasmettitori di tradizioni e dei Compagni del Profeta. Spesso questi ultimi vengono classificati a seconda della generazione di trasmettitori cui erano appartenuti, dal momento che i primi trasmettitori delle parole profetiche furono anche i piu` antichi tra i Compagni. La prima generazione di Compagni corrisponde agli anni 609-622 dell’era cristiana, cioe` ai tredici anni che il Profeta trascorse alla Mecca, subendo, secondo le fonti storiografiche tradizionali, la persecuzione dei Qurayshiti e ricevendo, tuttavia, il sostegno dei nuovi convertiti medinesi. Questa prima generazione raggruppa, dunque, i primi convertiti all’islam. Essa comprende, secondo la maggior parte delle liste, Abu¯ Bakr, ‘Alı¯ e lo schiavo Bila¯ l ibn Raba¯ h (m. 20/642 ˙ circa). La seconda generazione di Compagni menzionata dagli esperti di Hadı¯th ˙ riguarda le persone che hanno riconosciuto Muhammad come profeta durante l’episodio della casa della Riunione (da¯r al-Nadwa), un luogo d’incontro alla Mecca dove ‘Umar ibn al-Khat t a¯ b ˙˙ avrebbe convocato Muhammad e dove alcuni meccani avrebbero prestato giuramento di fedelta` al nuovo profeta. La terza generazione di Compagni comprende i musulmani emigrati in Abissinia: tale emigrazione si suppone avvenuta cinque anni dopo la dichiarazione della missione profetica di Muhammad, nel 612. Secondo la Tradizione, essa fu motivata dalla ricerca di un rifugio da parte dei primi musulmani che subivano la persecuzione dei meccani ostili a Muhammad. Per quarta generazione si intende quella di coloro che hanno riconosciuto il Profeta al momento del primo patto di difesa, sotto giuramento, concluso tra i meccani e gli Ausiliari (Ansa¯r) di Yathrib (la futura ˙ prima dell’egira. QueMedina), tre mesi sto patto fu siglato a ‘Aqaba, dal cui nome deriva la denominazione di ‘Aqabı¯ per questi Compagni. La quinta generazione

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e` quella di coloro che hanno riconosciuto il Profeta e gli hanno promesso sostegno contro ogni aggressione in seguito a un secondo patto, identico al primo e sancito nello stesso luogo, la ‘‘seconda ‘Aqaba’’. La sesta generazione di Compagni e` costituita dai primi emigrati che si sono ricongiunti al Profeta a Quba¯’, prima di entrare in Medina. Questa generazione include coloro che hanno partecipato alla costruzione della moschea di Medina nel primo anno dell’egira. La settima generazione e` composta dalle persone che parteciparono alla battaglia di Badr (2/624), una delle piu` importanti tra quelle condotte dal Profeta. I Compagni che parteciparono a questa battaglia sono definiti ‘‘Badriyyu¯n’’ (‘‘i partecipanti a Badr’’). L’ottava generazione e` formata da coloro che sono emigrati tra la battaglia di Badr e quella di Hudaybiyya (6/628); la nona da ˙ quanti prestarono giuramento a Ridwa¯n ˙ da (definiti bayt al-Ridwa¯n); la decima quanti emigrarono a˙ Medina tra la battaglia di Hudaybiyya e la conquista della ˙ Mecca; l’undicesima da coloro che si convertirono al momento della conquista della Mecca (10/632); la dodicesima, infine, dai bambini e dai giovani che avrebbero riconosciuto il Profeta nel giorno della conquista della Mecca. Cosı`, accantonata la vicinanza o l’intimita` con il Profeta, le differenti generazioni di Compagni sono identificate dai dotti musulmani attraverso i principali avvenimenti ai quali essi presero parte: la conversione all’islam e la partecipazione attiva a eventi fondamentali sono determinanti per il conseguimento del glorioso titolo di Compagno. [A.Hi.] Bibliografia: Alfred-Louis de Pre´mare, Les Fondations de l’islam: entre e´criture et histoire, Le Seuil, Paris 2002; Maxime Rodinson, Mahomet, Le Seuil, Paris 1968 (trad. it. Maometto, Einaudi, Torino 1973); Muhammad Abdulhayy Shaban, Islamic History, a New Interpretation, Cambridge University Press, Cambridge 1971; John Edward Wansborough, The Sectarian Milieu. Content and Composition of Islamic

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168 Salvation History, Oxford University Press, Oxford 1977; William Montgomery Watt, Mahomet a` La Mecque e Mahomet a` Me´dine, Payot, Paris 1977 e 1978.

` COMUNITA Il termine umma presenta sessantadue occorrenze nel Corano, generalmente con il senso di ‘‘comunita` religiosa’’. Si trovano pero` anche altre accezioni: l’unita` archetipale o l’unita` potenziale dell’umanita`, l’unita` della religione profetica, l’insieme dei messaggeri profetici, la religione tradizionale (umma e` allora l’equivalente di milla), la direzione e la condotta di vita in senso ampio, perfino la scadenza (11,8; 12,45) e soprattutto la umma di Abramo, modello assoluto (16,120). Infatti quando Abramo e Ismaele eressero la Ka‘ba, si rivolsero a Dio in questi termini: «Signore nostro, fa che noi possiamo darci tutti a Te (muslimı¯n), e fa della nostra progenie una nazione a Te devota (umma muslima)» (2, 128). Cosı` l’islam storico si radicava nella religione archetipale d’Abramo. L’espressione umma muslima e` caratteristica del periodo medinese, che avvalla il ristabilimento degli antichi rituali risolutamente islamizzati (preghiera rivolti verso la Ka‘ba ecc. ) all’interno di un monoteismo autentico ritrovato. In tal modo Abramo, in quanto antenato genealogico e fondatore della Ka‘ba insieme al figlio Ismaele, permetteva di presentare l’islam come il messaggio che nuovamente infondeva all’eterna e immutabile religione l’abbagliante purezza che essa doveva avere all’inizio. Cosı` facendo si apriva la strada alla definizione di una nuova comunita`. La nuova predicazione poteva soltanto aver successo, nella misura in cui corrispondeva al fondo della sensibilita` araba. Il monoteismo veicolato da questa predicazione costituiva di certo una rottura con il politeismo circostante; pero` , nel riflesso religioso dell’uomo arabo pagano, convertirsi all’islam non doveva costituire un rovesciamento totale, perche´ questa nuova predicazione rispondeva alle aspirazioni religiose allora avvertite da uomini onesti in attesa di un segno. D’al-

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tronde Muhammad non fu l’unico profeta che apparve nella sua epoca. Ma fondamentalmente nuova fu a quel tempo la sostituzione del vincolo tribale e clanico con un nuovo vincolo di fratellanza tra tutti i musulmani, il vincolo stesso della fede tra credenti. L’islam generava una comunita`, un insieme che si sostituiva alle molteplici tribu`, al di la` di ogni altro valore sociale o affettivo (allo stesso modo, in epoca moderna i regimi fondamentalisti utilizzano le denunce tra parenti come prove di sincerita`). La comunita` si appropriava spontaneamente di riflessi psicologici e usi propri delle tribu`. Il Corano non manca di ricordare per via di diverse formulazioni che i musulmani «sono duri coi repugnanti alla fede, dolci fra di loro» (48,29). Un celebre tradizionista e asceta degli inizi dell’islam, alFudayl ibn ‘Iya¯d intendeva cosı` questo ˙ «Il piu` solido ˙ dei legami dell’islam passo: e` l’amore in Dio e l’odio in Dio». Le circostanze sulle quali si basa il concetto di umma sono riassunte in un documento che si ritiene redatto da Muhammad nell’egira (emigrazione), noto come la ‘‘Costituzione di Medina’’ (‘‘costituzione’’ in senso generico e non moderno, poiche´ il termine sah¯ıfa significa sempli˙ ˙ cemente un ‘‘foglio’’). Questo documento, segnalato piu` volte con precisione nel corpus degli aha¯dı¯th, e`, nelle parole di ˙ ´ mare, «l’adesione o la Alfred-Louis de Pre sottomissione a un nuovo potere instaurato da un profeta che ne definisce le leggi in nome di Dio e le cui assisi politiche poggiano su un’azione militare permanente». Cio` e` perfettamente reso nelle spedizioni militari compiute dall’Inviato di Dio (magha¯zı¯ rasu¯l Alla¯h), i racconti che sono il principale elemento della scrittura sulla storia degli inizi dell’islam. La Costituzione di Medina e` stata redatta da Muhammad per fissare le regole che dovevano reggere il funzionamento della nuova comunita` (umma), composta da muha¯jiru¯n (i meccani che avevano compiuto l’egira), da ansa¯r (i medinesi che vi ˙ ` ebraiche. I temi aderirono) e dalle tribu piu` frequentemente citati dalla tradizione riguardano la regolamentazione dei debiti

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` COMUNITA

di sangue in caso di omicidio, e le modalita` di riscatto dei prigionieri; ma la citazione che ritorna pressoche´ ovunque in modo quasi ossessivo e` quella che tratta della «stretta solidarieta` tra gli aderenti al movimento, contro coloro che gli sono ostili». Presso parecchi trasmettitori compare anche una dichiarazione di Muhammad che stabilisce Medina (madı¯nat alnabı¯, ‘‘la citta` del Profeta’’) come sacra sede di questa umma nascente, al modo della Ka‘ba meccana. Percio`, a questo stadio della vita del Profeta dell’islam, non esiste ancora uno Stato organizzato, ma un raggruppamento di guerrieri alleati, con un documento scritto quale patto riconosciuto da ciascuno di essi. L’obiettivo politico li salda insieme, lo sforzo bellico con Muhammad alla loro testa e` il loro vincolo sacro. Cosı` il Corano ordina di accettare gli arbitrati del Profeta in caso di litigio, come pure ingiunge di obbedire a lui (4,59 e 65). Una casuistica molto particolareggiata fa sı` che un individuo colpevole possa evitare una sanzione se la vittima e` estranea a questa comunita`. La umma ha dunque risonanze religiose che la ‘‘comunita`’’ occidentale non possiede. Il suo spazio e` la comunita` politica, che ne rappresenta anche la modalita` espressiva, articolandosi in quella solidarieta`, in origine la fratellanza di lotta, diventata storicamente il cemento di una comunita` che raccoglie in primo luogo credenti sottomessi (musulmani), e in secondo luogo e occasionalmente ebrei e cristiani o anche altri esseri umani. Cosı`, quando il Corano afferma che «i credenti sono tutti fratelli» (49,10), utilizza una particella grammaticale (innama¯ ) che comporta un senso esclusivo e contemporaneamente un effetto amplificante, che dinamizza la frase nominale. Essa va accostata a un’altra particella, l’eccettuativo (illa¯) del grido monoteista dell’islam, «non vi e` dio se non (illa¯) Dio», che carica la frase nominale, in tal caso negativa, di un esclusivismo indomabile. In entrambi i casi siamo di fronte, ben piu` che a semplici procedimenti retorici, a vere strategie stilistiche aventi un effetto comune:

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` COMUNITA

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sottolineare l’aspetto assoluto e l’impatto categorico. Il commentatore coranico Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/1209) afferma che la particella innama¯ compare nel versetto a significare la restrizione: «nessuna fratellanza salvo che tra musulmani». In effetti, questo stesso versetto (49,10) evoca il dovere che il credente ha di riconciliare i musulmani in lite; viene fatto appello alla solidarieta` che deve sussistere tra di essi, come e` evidente dal contesto. Di qui una domanda, posta da Jacques Jomier: l’assioma puo` essere inteso nel senso che «i musulmani sono fratelli soltanto tra loro»? Per Ra¯zı¯ certamente sı`, poiche´ egli spiega la propria interpretazione servendosi di prescrizioni legali sull’eredita` che escludono totalmente la fratellanza tra un infedele e un musulmano; infatti, il primo non puo` ereditare dal secondo. Un altro elemento caratteristico e` la formula: «Voi siete la migliore comunita` (umma) mai suscitata fra gli uomini: promuovete la giustizia e impedite l’ingiustizia, e credete in Dio» (3,110). L’islam ha pertanto considerato la superiorita` della comunita` dei credenti come il primo sentimento unificatore tra i credenti stessi: essi hanno come segno distintivo l’elezione divina e nello stesso tempo la capacita` di discernere tra fede e miscredenza, tra bene e male. Dall’invincibile affermazione dell’unicita` divina deriva al musulmano il senso fortissimo dell’unita` che egli forma con i fratelli di fede. La umma e` il popolo di Muhammad, la nazione per cui egli intercede, come vuole lo Hadı¯th; ˙ suoi essa mira a garantire a ciascuno dei membri le condizioni ottimali in questa vita e anche, se si tratta di credente sincero, la retribuzione nell’Aldila`. Questo sodalizio si fonda sul vincolo d’unita` specifica che e` il Libro, secondo la dottrina ortodossa increato ed eterno. Esso guida la umma e la protegge dall’errore grazie all’accordo unanime dei credenti a suo proposito, accordo che non puo` che essere foriero di verita`; esso contiene la Legge che Dio vuole per l’umanita`. Prima di tutto, i ‘‘diritti di Dio’’, come l’obbligo di combattere: stigmatizzando quelli che re-

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stano ‘‘seduti’’ (al-qa¯‘idu¯n), il Corano incita allo ‘‘sforzo’’ (jiha¯d) per promuovere su tutta la terra questi divini diritti per mezzo di un’organizzazione politico-religiosa. Contiene poi un certo numero di prescrizioni destinate a rafforzare la comunanza di vita, come la repressione della delinquenza, del crimine o della fornicazione e la riparazione dei danni causati dalle trasgressioni. Le prescrizioni e le norme contenute nel Corano insieme alla loro successiva elaborazione da parte del diritto, fanno sı` che ogni abbandono volontario della comunita` sia concepito come un crimine capitale in questo mondo e una colpa irremissibile nell’altro. Sottraendosi alla stretta osservanza delle leggi coraniche, che sono al tempo stesso l’ordine pubblico e il bene della collettivita`, il peccatore puo` essere passibile di morte, perche´ trasgredisce cio` che permette l’equilibrio della comunita` e l’esercizio del culto al suo interno. Tuttavia, i teologi ash‘ariti e ma¯turı¯diti insegnano che Dio rimettera` ogni grande peccato commesso da un musulmano se questi muore pronunciando la professione di fede sull’unicita` divina. Dunque, non e` tanto l’eresia che viene perseguita dall’islam, quanto il fatto esteriore d’abbandonare deliberatamente i propri fratelli, commettendo in qualche modo una diserzione, «colpa inespiabile in quanto spergiuro del patto concluso con Dio, di quella alleanza anteriore alla fondazione del mondo che il Corano descrive», come afferma Jean-Mohammed Abdeljalil. Questo rigorismo dell’islam e` prima di tutto l’espressione esacerbata della coesione, spirituale e temporale, della fratellanza comunitaria. Ancora oggi e` severamente vietato a un musulmano convertirsi a un’altra religione, anche a una religione cosiddetta ‘‘protetta’’ (ebraismo o cristianesimo); cio` equivale infatti ad abbandonare la umma. Qualora si consideri la nozione di ‘‘dimora dell’islam’’ nei suoi rapporti con gli infedeli, la umma da` piena prova della propria coesione. Si chiama da¯r al-isla¯m l’insieme delle terre in cui si osserva la Legge coranica, manifestazione tangibile

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e rappresentazione concreta della comunita` islamica colta nell’aspetto dell’organizzazione politica. Entro la ‘‘dimora dell’islam’’, che e` ritenuta coincidere con il mondo della giustizia, incombe ai credenti l’obbligo di conquistare la ‘‘dimora della miscredenza’’ (da¯r al-kufr), che diviene cosı` la ‘‘dimora della guerra’’ (da¯r al-harb), per insediarvi la comunita` isla˙ e i suoi valori. Ai giorni nostri, premica dicatori come Tariq Ramadan richiedono in primo luogo nei loro libri che i limiti del ‘‘dominio dell’islam’’ siano estesi per quanto possibile alla terra intera e che siano ampliati i confini effettivi entro i quali i membri del popolo musulmano sono ‘‘compattati’’ in salda unita` . La umma non cerca tanto le conversioni individuali quanto il rispetto globale dei ‘‘diritti di Dio’’ prescritti dal Corano e trasmessi dal Profeta. Nell’organizzazione sociale, morale e politica, basta che un gruppo musulmano sufficientemente organizzato possa applicare le regole di vita che definiscono la comunita` nelle sue componenti costitutive. Poiche´ tutta la dignita` dell’uomo proviene dalla condizione in cui la volonta` divina lo pone, la umma offre ai credenti il duplice vantaggio di essere l’unica comunita` spirituale e di avere pero` piena efficacia solo sul piano sociale. Il diritto musulmano considera la comunita` secondo una triplice distinzione: uomo-donna, libero-schiavo, musulmano-non musulmano. Le persone non hanno gli stessi diritti e neppure gli stessi doveri. La umma non cerca di trascendere i poteri terreni, ma di unificarli. Del resto, se ogni credente esiste come tale solo in virtu` dell’appartenenza alla comunita` , nondimeno egli conserva all’interno di questa comunita` le proprie opinioni individuali, in perfetta uguaglianza con ciascuno dei suoi confratelli. I musulmani vivono dunque del sentimento comunitario di tutti i credenti; e contemporaneamente vivono di quell’«individualismo che affida a ciascuno la sorte che Dio, da tutta l’eternita`, gli ha predestinato». Cosı` la umma dovra` tendere a organizzarsi sulla terra secondo uno spirito di solida-

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` COMUNITA

rieta` davvero autentico; ma sara` sempre divisa tra la necessita` di unione totale e il rispetto dei particolarismi o anche degli antagonismi. Infine, occorre sottolineare che il termine umma ricorda umm (madre) e i legami di sangue. Come una madre, essa forma, educa, porta, unisce e accompagna, in una parola genera continuamente fratelli uniti dalla coscienza di quel dovere di solidarieta` che e` consustanziale al patto originario stretto con il Profeta, quasi geneticamente, a partire da Medina ‘‘l’Illuminata’’ che lo accolse. La umma vive in un organismo politico entro una societa` confessionale. Assume significato attraverso lo spazio; occupa terre che chiama ‘‘terre d’islam’’; abita una casa detta ‘‘dimora dell’islam’’. Ha le proprie citta` sante dichiarate sacre (haram), vietate ai ˙ attorno a monon musulmani. Si edifica schee, si manifesta attraverso il tempo con il pellegrinaggio, il digiuno, le preghiere rituali nel quotidiano e la cadenza delle feste religiose. E` visibile in una fede centrata sull’ortoprassi. Con il passare del tempo la umma s’e` affermata come comunita` dei musulmani islamicamente organizzata in societa` politica, per quanto riguarda l’aspetto religioso, quello sociale e quello economico. Al limite, la umma e` ontologicamente l’islam, ovvero cio` che d’islamico vi e` nella creazione: cio` che e` islamico attualmente, cio` che lo fu e cio` che lo diventera`. Prefigura un’umanita` che, riallacciando il patto preeterno d’obbedienza a Dio, si lascera` raccogliere nell’unita` in una comune sottomissione al creatore. Per tale umanita`, la citta` ideale e` la citta` musulmana universale, sotto l’autorita` di un solo califfo, successore del Profeta, in cui il comandamento del bene e il divieto del male si esercitano a beneficio dei musulmani e anche dei non musulmani tutti. Ma questa citta` ideale puo` realizzarsi difficilmente. Di fatto, ai giorni nostri la umma e` frazionata in stati-nazione sovrani, spesso rivali tra loro. Cosı`, in mancanza di una comunita` politica musulmana universale, ogni popolo si adopera a realizzare per prima cosa, sotto la ban-

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CONGRESSO SUPREMO

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diera di Dio, l’unita` interna, con maggiore o minore successo. Questa umma vive concretamente come un insieme di stati che sono diversi tra loro, ma che si vogliono tutti citta` sottomesse a una trascendenza, una trascendenza specifica, coranica e retta dalla Legge canonica, segnata dall’asserzione, nella Costituzione, che «l’islam e` la religione di Stato». [M.-T.U.] Bibliografia: Frederick Mathewson Denny, «The Meaning of ‘‘Ummah’’ in the Qur’a¯n», in History of Religions, 15 (1975), pp. 34-70; Louis Gardet, La Cite´ musulmane, Vrin, Paris 1961; Alfred-Louis de Pre´mare, Les Fondations de l’islam: entre e´criture et histoire, Le Seuil, Paris 2002.

CONGRESSO SUPREMO L’espressione al-Mala¯’ al-A‘la¯ figura due volte nel Corano. Innanzitutto, nei versetti 37,7-10: «[...] a che qualche protervo demone non ascolti i discorsi del Congresso Supremo; e d’ogni parte dardi li dardeggiano a cacciarli, e pena avranno perpetua. Solo udra` qualcosa chi riesca a capire furtivo parole, ma lo inseguirebbe fiamma acutissima». Quindi, nel versetto 38,69: «Io nessuna notizia avevo delle discussioni occorse nel Supremo Congresso dei cieli». Tutte le esegesi attribuite da Tabarı¯ (m. 310/923) ai commentatori piu`˙ antichi sono concordi sul fatto che il ‘‘congresso supremo’’ rappresenta i capi degli angeli, riuniti in discussione per prendere, in un luogo elevato, decisioni sul mondo di quaggiu` . Il primo gruppo di versetti e` interpretato nel modo seguente: secondo Ibn ‘Abba¯s (m. 68/ 686), zio del Profeta e, secondo la tradizione, primo commentatore del Corano, un tempo (prima della missione di Muhammad) i demoni avevano alcuni seggi in cielo. Da lı` essi ricevevano l’ispirazione (wahy). In quest’epoca, le stelle erano fisse˙ e sui demoni non si scagliavano dardi; quando essi venivano a conoscenza di una parte della rivelazione, scendevano sulla terra e con ampi discorsi riportavano cio` che avevano udito. Dopo che l’inviato di Dio ebbe ricevuto la sua missione, quando i demoni cercarono nuovamente di installarsi sui loro seggi,

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vi trovarono degli astri fiammeggianti e furono bruciati. Allora si lamentarono presso Iblı¯s, il loro capo, che disse: «E` sicuramente successo qualcosa». Egli invio` quindi i propri soldati che videro l’inviato di Dio mentre pregava in un palmeto. Iblı¯s disse: «Ecco l’avvenimento a cui alludevo’’». Il tema dei demoni in grado di cogliere qualche frammento delle decisioni celesti, e in seguito resi incapaci di ricevere una qualsiasi comunicazione a causa della presenza di un giusto, sembra molto antico. Se ne trova una testimonianza diretta in Lattanzio (Istituzioni divine, II, XIV, 6) e in Macrobio (Saturnali, I, 23): i demoni hanno accesso a una certa conoscenza dell’avvenire, precisando comunque che «a loro non e` concesso di conoscere esattamente le disposizioni divine, poiche´ hanno l’abitudine di formulare i propri oracoli in termini ambigui». Lattanzio aggiunge che «i demoni conoscono in anticipo le disposizioni di Dio poiche´ sono stati suoi servitori» (Istituzioni divine, II, XVI, 14) e che «quando i pagani offrono sacrifici ai loro de`i, se e` presente qualcuno che ha il segno [della croce] sulla fronte, essi non possono assolutamente ottenere i presagi richiesti: la divinita` interpellata non puo` fornire l’oracolo. Un giorno, tra i servitori, c’erano alcuni dei nostri per assistere il loro capo mentre offriva sacrifici; grazie a questo segno marcato sulle loro fronti, essi misero in fuga gli de` i e i loro capi cosı` impedendo loro di iscrivere l’avvenire nelle viscere delle vittime» (ibid., IV, XXVII, 3-4). I demoni temono i giusti e, spesso, attraversano gravi crisi durante le quali dichiarano di essere colpiti e bruciati (ibid., II, XV, 4). La seconda citazione coranica allude a una situazione anteriore, poiche´ rinvia a un tempo precedente la creazione di Adamo, quando Iblı¯s e i demoni facevano ancora parte di questa sublime assemblea. Compare il Profeta stesso, che testimonia di non essere stato a conoscenza, durante il suo svolgimento, delle discussioni del Consiglio sulla creazione di Adamo, quando Dio annuncio` agli angeli che ne

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facevano parte la propria intenzione di creare dall’argilla un mortale davanti al quale essi dovevano prosternarsi. Secondo Tabarı¯, questa precisazione e` for˙ uno scopo preciso: provare ai nita con negatori della rivelazione che la conoscenza che Muhammad aveva degli avvenimenti di quel giorno egli l’aveva potuta apprendere solo da Dio. Tabarı¯ accosta ˙ del Corano questi versetti a un altro passo in cui gli angeli, radunati nel Congresso Supremo, decisero di chiedere a Dio di non inviare un suo vicario sulla terra. E` interessante notare che, in questo versetto, Muhammad dichiara di non avere alcuna conoscenza sul Congresso Supremo, quando esso si raduno` a proposito del problema di Adamo; cio` dimostra che il Corano stesso si rivela estraneo all’idea della preesistenza delle anime in generale e, di conseguenza, alle speculazioni dei sufi sulla ‘‘luce muhammadica’’. [G.G.] Bibliografia: AA.VV., Ge´nies, anges et de´mones, Le Seuil (coll. Sources orientales), Paris 1971.

CONOSCENZA Il pensiero islamico ha sviluppato nel corso della sua storia e in tutte le sue espressioni, in teologia, in filosofia e anche nella mistica, numerose teorie della conoscenza. Ma le diverse nozioni di conoscenza che i pensatori musulmani hanno utilizzato non sono esattamente quelli impiegati dal Corano. Del resto e` legittimo chiedersi se una tale nozione esista nel Corano. Per indicare la conoscenza, le sure coraniche utilizzano piu` termini, spesso come sinonimi. Il piu` frequentemente impiegato e` ‘ilm, dal verbo ‘alima, ‘‘sapere, conoscere’’; in alcune sure sono egualmente attestati i verbi ‘arafa e faqiha, che hanno grosso modo lo stesso significato. Nel pensiero islamico, tali termini assumeranno un senso tecnico preciso, che non hanno nel Corano. I teologi scolastici (mutakallimu¯n) ammetteranno due distinzioni principali. La prima distinzione tra ‘ilm e ma‘rifa e` la seguente: ‘ilm e` una conoscenza spontanea che viene da Dio e riguarda la materia

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CONOSCENZA

religiosa, da cui il participio attivo ‘a¯lim, ‘‘sapiente in materia religiosa’’; invece ma‘rifa e` una conoscenza riflessiva, dunque ottenuta grazie all’esperienza, e riguarda solo l’ambito profano. Una seconda distinzione prevede ‘ilm come conoscenza del composto e dell’universale, ma‘rifa quella degli oggetti semplici e particolari. Con l’evoluzione del pensiero in ambito islamico, ‘ilm prendera` il senso di ‘‘scienza’’ in generale e ‘a¯lim indichera` il sapiente; dunque, il sapiente in materia religiosa e` il sapiente per eccellenza. E il senso del termine fiqh, che in origine indicava l’attivita` indipendente dello spirito, evolvera` verso il senso di conoscenza del diritto islamico; faqı¯h si applica dunque all’esperto di diritto. Nella letteratura mistica, sia presso i sufi sia presso i filosofi mistici, ma‘rifa assumera` un senso del tutto diverso da quello dei teologi: la ma‘rifa e` una conoscenza basata sulla percezione intuitiva (dhawq) che illumina l’essere, una conoscenza soprannaturale delle cose spirituali e divine che occorre distinguere dalla conoscenza discorsiva e razionale; e` la conoscenza autentica, caratterizzata dalla chiarezza e dall’immediatezza. Alcuni studiosi occidentali, come Miguel Asin Palacios ed Henry Corbin, hanno tradotto ma‘rifa con ‘‘gnosi’’, secondo il suo senso mistico, per distinguerla dalla conoscenza astratta e razionale; ma questa traduzione puo` ritenersi valida solo guardando all’etimologia di ‘‘gnosi’’ e non in riferimento allo gnosticismo come movimento religioso storico. Esaminiamo ora i versetti coranici relativi al concetto di conoscenza. Il grande insegnamento che il Corano ci offre e` che la scienza di Dio e` al di sopra di quella degli uomini. Dio e` l’onnisciente (‘a¯lim, 12, 76). La conoscenza degli uomini viene da lui: «La vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio. Invece gli uomini di solida scienza diranno: ‘‘Crediamo in questo Libro, esso viene tutto dal Signore nostro’’. Ma su questo non meditano che gli uomini di sano intelletto» (3,7). Le formule ‘‘gli uomini di solida scienza’’ (al-ra¯sikhu¯n fı¯ al-‘ilm) e ‘‘gli uomini di

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CONOSCENZA

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sano intelletto’’ (u¯lu¯ al-alba¯b) ricorrono a piu` riprese nel Corano e si riferiscono sempre ai credenti (per esempio 4,162). La scienza, ovvero la conoscenza, e` stata data agli uomini attraverso la grazia incommensurabile di Dio: «Iddio ti ha rivelato il Libro e la Saggezza e ti ha insegnato quel che non sapevi, e la grazia di Dio e` stata su di te, immensa» (4,113). Ed e` appunto grazie a questa scienza che gli uomini riconoscono la verita` (22,54). Coloro che credono di sapere non hanno in realta` alcuna conoscenza: «Dio sa e voi non sapete!» (3,66). Cosı` gli uomini sono divisi in due gruppi: coloro che hanno ricevuto la conoscenza, conoscenza che viene loro da Dio; e coloro che sono ingiusti e negano i segni di Dio (29,49). Possiamo dire che per credere e temere Dio ed essere da lui guidati e` necessario avere gia` la conoscenza. Gli ignoranti sono dunque privi di tale guida divina, che Dio offre a chi vuole (6,39). Questo Dio, che possiede la saggezza e la insegna, e` un esempio per gli uomini. Secondo una tradizione (hadı¯th) il Profeta disse: ˙ «Colui cui Dio vuole del bene, a costui egli fa acquisire la scienza nella religione». Dio trasmette ad Adamo una saggezza che nemmeno gli angeli possiedono. «Insegno` a Adamo il nome di tutte le cose, poi le presento` agli angeli dicendo loro: ‘‘Ditemi dunque i loro nomi se siete sinceri’’. Ed essi risposero: ‘‘Sia gloria a Te! Noi non sappiamo altro che quel che Tu ci hai insegnato» (2,31-32). Il rapporto fra la conoscenza degli uomini e la scienza di Dio indica che, secondo il Corano, la conoscenza possiede una dimensione religiosa assai profonda, dimensione che si rivela attraverso il carattere istantaneo della conoscenza in quanto rivelazione. Quando gli avversari di Muhammad lo accusano d’essere solo un imbroglione o d’essere stato istruito da qualcuno, il Corano risponde: «Di’: ‘‘Lo ha rivelato lo spirito di Santita` inviato dal tuo Signore con la Verita` a conferma di coloro che credono, e guida e buona novella per i dati a Dio’’» (16,102). L’accento e` posto precisamente sul carattere profetico della conoscenza. Dio concede

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ai profeti una scienza accessibile solo ai suoi prescelti, come Lot, Davide e Salomone: «E gia` demmo a Davide e a Salomone la scienza, e dissero: ‘‘Sia lode a Dio, il quale ci ha prescelto sopra molti Suoi servi fedeli» (27,15). Salomone conosceva il linguaggio degli uccelli (27, 16). Si potrebbe anche parlare di una gnosi, nella misura in cui il credente che ha ricevuto la conoscenza grazie a essa viene salvato: «Una luce e un Libro Limpido (kita¯b mubı¯n), col quale Dio guida chi segue il Suo compiacimento sulle vie della Pace (subul al-sala¯m)» (5,15-16). Il versetto 58,11 recita: «Iddio innalzera` coloro di voi che credono e cui fu data la scienza»; similmente, il versetto 20,112, riferendosi alla resurrezione, afferma: «Chi compie opere buone, ed e` credente, non temera` ne´ torto ne´ diminuzione di premio». Un altro versetto (30,56) associa esplicitamente scienza e fede (ı¯ma¯n). Essere credente e avere la fede vuol anche dire avere il cuore (qalb) aperto. Coloro che sono smarriti lo sono perche´ «hanno cuori con i quali non comprendono» (7, 179). E` il cuore che comprende, «e Iddio imprime un suggello sui cuori dei miscredenti protervi» (7,101). Il Corano ritorna continuamente sull’importanza del cuore come organo sottile e divino e non come organo fisico: i credenti sono «coloro che credono, coloro cui si tranquillano i cuori al ricordo di Dio» (13,28). Il perdono di Dio salva soltanto quanti si presentano davanti a lui con cuore puro (26,89). Abu¯ Yazı¯d alBista¯mı¯, il mistico persiano vissuto nel ˙ secolo, considerava il ricordo di III/IX Dio (dhikr) come la vera conoscenza (ma‘rifa). Come scrisse Louis Massignon, «il Corano fa del cuore il principio della scienza e della conoscenza». Questo rapporto fra la conoscenza e il cuore si ritrova allo stesso modo nel sufismo. Secondo il grande teologo e mistico Ghaza¯lı¯ (m. 505/1111), il cuore in senso fisico e` la sede della ragione (‘aql), la capacita` di conoscere, mentre nel senso spirituale esso e` un principio sottile e divino. Il cuore, organo dell’intuizione, e` definito come il luogo delle conoscenze divine. La

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conoscenza, nel sufismo, risulta dall’annichilimento dell’io empirico e del se´ nel cuore. In quest’ottica, il mistico deve distogliersi da se stesso e affidarsi solo a Dio, per non vedere altri che lui, per divenire lo sguardo attraverso cui Dio si guarda. Secondo Suhrawardı¯, filosofo mistico persiano vissuto nel VI/XII secolo, quando l’uomo trova soddisfazione nel suo atto conoscitivo e` ancora al di qua dello scopo; la perfezione arriva nel momento in cui l’uomo dimentica, in Cio` che conosce, anche il suo atto del conoscere. [K.A.]

Bibliografia: Henry Corbin, Histoire de la philosophie islamique, Gallimard (coll. Folio Essais), Paris 1986 (1ª ed. 1964; trad. it. Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989); Franz Rosenthal, Knowledge Triumphant, the Concept of Knowledge in Medieval Islam, Brill, Leiden 1970.

CORANO Vedi anche

` ; LINGUA E STILE; INIMITABILITA MANOSCRITTI; MERITI; OCCIDENTE E CORANO; PREGHIERE; RECENSIONI; RECITATORI; REDAZIONI; SALMODIA; SCRIBI; STUDI OCCIDENTALI; TRADUZIONI.

CORANO (significato del termine) Il termine utilizzato in tutte le lingue europee fa riferimento alla forma araba Qur’a¯n, che ricorre sessantacinque volte nell’insieme dei testi riuniti nel volume chiamato Corano. La parola Qur’a¯n e` utilizzata come nome proprio e come verbo sostantivato. Nel primo caso, essa designa l’insieme delle dichiarazioni che rinviano ad altri due concetti, kita¯b (letteralmente ‘‘scrittura’’) e wahy (letteralmente ‘‘rive˙ elaborati all’interno lazione’’), entrambi di quel che qui chiameremo ‘‘discorso coranico’’. Nel secondo caso, invece, essa si riferisce ad antichi significati oramai perduti nell’uso corrente dell’arabo, che riduce il significato della radice «qr’» all’idea di ‘‘leggere’’ o ‘‘recitare’’. In seguito alla sacralizzazione dell’oggetto materiale chiamato Mushaf, allo stesso ˙˙ tempo contenitore e contenuto dell’in-

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sieme degli enunciati memorizzati, raccolti e affidati agli scribi dai Compagni piu` vicini al Profeta, la parola Qur’a¯n designa solo cio` che la ricezione fedele percepisce e vive come Rivelazione (wahy; tanzı¯l) fatta da Dio agli uomini ˙ attraverso la doppia mediazione dell’angelo Gabriele e del profeta Muhammad. Occorre precisare fin d’ora che in tale ricezione sono presenti i due aspetti di una realta` che chiameremo ‘‘fatto coranico’’: in primo luogo, la fede in quanto costruzione socioculturale e forza sovversiva di una storia che prosegue oggi davanti ai nostri occhi; in secondo luogo, l’intelligibilita` teorica, analitica e critica che i ‘‘ricercatori-pensatori-trasmettitori’’ dei saperi si sforzano di articolare. Gli elementi che legano questi tre nomi traducono le funzioni indissociabili di una attivita` intellettuale che comprende tanto i clerici musulmani, che hanno assicurato il passaggio dalla forma orale alla scrittura erudita, quanto i moderni storici dei sistemi di pensiero. Per far luce tra i problemi complessi coinvolti nel termine conciso Qur’a¯n, e` necessario introdurre numerosi strumenti di concettualizzazione e di analisi: Parola di Dio (kala¯m Alla¯h), discorso profetico cosı` come appare nel discorso coranico, corpus ufficiale chiuso, comunita` interpretanti e corpus interpretativo. Questi concetti rimandano a rapporti dinamici che traducono, allo stesso tempo, la forza instauratrice di senso e di rappresentazioni, inerente alla struttura grammaticale, sintattica, semantica, retorica e stilistica del discorso profetico/coranico e alla fecondita` deliberativa e speculativa della ricezione di questo discorso. I passaggi successivi, dalla Parola di Dio ai corpora interpretativi sono rappresentati da una linea discendente secondo la metafora del tanzı¯l, la discesa della Parola di Dio verso gli uomini sulla terra. La conoscenza oggettiva ed esaustiva di questi passaggi dipende contemporaneamente dall’utilizzo dell’approccio storico-critico e dalle strategie intellettuali caratteristiche dell’archeologia dei saperi e dell’analisi dei sistemi di pensiero. Gra-

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zie alla combinazione di questi due approcci, troppo di frequente disgiunti, e` possibile osservare con il medesimo sguardo non riduttivo il ‘‘fatto’’ biblico, evangelico e coranico. In effetti, l’applicazione di questo metodo si puo` estendere a tutti i corpora fondanti, sacralizzati o sacralizzanti a diversi gradi nell’universo simbolico delle societa`. Il discorso profetico e` un concetto generico, che include le caratteristiche linguistiche, semiotiche e antropologiche comuni a tutti i profeti. Questa definizione non riguarda i sistemi di credenze e miscredenze costruiti dalle interpretazioni dei diversi popoli, ebreo, cristiano e musulmano. Le espressioni tradizionali della credenza ortodossa ebraica, cristiana e musulmana rifiutarono di mettere sullo stesso piano i tre grandi corpora ufficiali chiusi, definiti, recepiti e letti nelle tre tradizioni sotto l’appellativo comune di Scritture sante. Nel discorso coranico, l’idea di scrittura, come anche quella di lettura, assume una complessita` che verra` persa di vista dai commentatori posteriori dei corpora interpretativi, detti anche esegetici. E` necessario ricordare che la Parola di Dio si fece inizialmente intendere in forma orale in societa` di tradizione orale nelle quali la scrittura era privilegio di alcune funzioni di un’autorita` che era indistintamente religiosa e profana. Solo dopo un lungo e complicato processo costellato di disaccordi, rotture violente e reciproche esclusioni, le comunita` si trovarono a disporre di un corpus stabile, dichiarato chiuso dalle autorita` abilitate a esercitare poteri travestiti sempre piu` da imperativi dati per vivere secondo religione. Questo e` il motivo per cui i corpora cosı` fissati sono detti ufficiali. Infatti, le medesime autorita` continuano a vigilare affinche´ nulla piu` sia aggiunto o tolto per modificare una parola, una lettura ricevuta, una vocale e, a fortiori, un frammento in quel che si puo` con ragione definire un corpus ufficiale chiuso. Le conseguenze della situazione venutasi cosı` a creare si ritrovano in tutte e tre le tradizioni che non possono, a questo stadio della ricerca, essere trattate isolatamente

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come imporrebbero le posizioni ortodosse delle diverse comunita` interpretanti. Per l’attivita` interpretativa, c’e` un prima e un dopo dei corpora ufficiali chiusi. Prima era possibile far circolare versioni e letture piu` o meno plausibili che generavano dibattiti didattici all’interno delle comunita` interpretanti; dopo, i dibattiti si limitano a questioni grammaticali e lessicografiche, di accettazione o rifiuto della lettura metaforica di un certo frammento o di unita` testuali interdipendenti o anche del discorso profetico nel suo insieme. La posta in gioco cambia considerevolmente, tanto da coinvolgere lo sviluppo stesso della storia delle societa` prima della fissazione del corpus. Per avere un’idea dell’ampiezza di tali meccanismi, e` sufficiente pensare alle tragedie generate dalle interpretazioni degli attivisti fondamentalisti che si richiamano alla Parola di Dio nella radicale ignoranza di tutti i percorsi storici e intellettuali brevemente descritti sopra. Si comprendera` inoltre la responsabilita` attuale dei capi di stato e delle autorita` religiose che insistono sulla distinzione opportunistica tra i ‘‘valori’’ dell’islam ‘‘autentico’’ e le funeste derive dell’attivismo fondamentalista di improvvisati soldati di un falso islam. Quando vengono poste domande ricorrenti quali «cosa dice il Corano sul velo, sull’assunzione di vino o sulla condizione di martire», si fa riferimento alla lettura di un testo intangibile, al di fuori di ogni contestualizzazione delle circostanze della ricezione e della trasmissione. A questo punto interviene cio` che ciascuna comunita` interpretante chiama ‘‘la Tradizione vivente’’, con la ‘‘T’’ maiuscola: e` questa Tradizione che perpetua i riti e i discorsi del credo ortodosso. Le funzioni della Tradizione condizionano la sopravvivenza della Parola di Dio e del discorso profetico che la manifesta, sia attraverso le discrepanze di quest’ultima rispetto ai corpora ufficiali chiusi e, a maggior ragione, rispetto ai corpora esegetici, sia attraverso il postulato non assunto di una continuita` assoluta e orga-

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nica tra Parola di Dio, discorso profetico, discorso coranico, corpora ufficiali chiusi e corpora interpretativi. Parola di Dio e discorso profetico nel discorso coranico Con il titolo The Qur’a¯n’s Self Image, Daniel A. Madigan ha arricchito le nostre conoscenze sul concetto di kita¯b (letteralmente ‘‘libro’’) nel testo coranico. L’idea di un Corano che costruisce la propria immagine per farne il quadro di riferimento obbligato dello sviluppo della giovane fede islamica conferma quel che si e` detto sopra sulla supremazia accordata al testo cosı` come e` offerto alla lettura e alla recitazione a partire dal corpus ufficiale chiuso (Mus h af). L’autore sottolinea ˙ tappe della concettualizchiaramente ˙le zazione del termine Qur’a¯n e, quindi, di kita¯b entro l’evoluzione della societa` nei tre periodi meccani e nel periodo medinese, pur approssimativamente identificati dalla Tradizione e dall’erudizione moderna. L’accento posto innanzitutto su Qur’a¯n come messaggio in lingua araba chiara, immediatamente intelligibile agli ascoltatori, e` una risposta alle persistenti negazioni degli oppositori politeisti, ebrei e cristiani. Gli atti successivi di annuncio ad alta voce (Qur’a¯n) della Parola di Dio finiscono per conferire al medesimo vocabolo il senso di rivelazione globale della Parola conservata nel Libro celeste o archetipico (Umm al-kita¯b), dal quale emanano i libri (kutub) cui sono affidate le rivelazioni trasmesse da ciascun profeta. Il legame cosı` stabilito tra Qur’a¯n, Libro celeste, e Libri o Scritture ricettacoli dei frammenti dell’inesauribile Parola di Dio rivelati successivamente, si accompagna a un nuovo aspetto di Qur’a¯n quale composizione linguistica, retorica e semiotica inimitabile, portatrice di un meraviglioso (i‘ja¯ z) differenziato da quello della magia, degli indovini, della poesia e dei ‘‘racconti degli antichi’’ (asa¯t¯ır al-awwalı¯n). Questi ultimi sono invo˙cati dagli oppositori proprio per banalizzare i racconti coranici. L’idea di Qur’a¯n come strumento di inserimento della Parola di Dio nella storia degli uomini al-

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l’interno della storia della Salvezza conferisce al Qur’a¯n, in quanto realizzazione di questo inserimento giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, uno status che e` impossibile ridurre ai generi letterari o alle ‘‘prove’’ abituali avanzate dagli oppositori: «Dissero: ‘Non crederemo finche´ tu non ci faccia sgorgare dalla terra una sorgente o non abbia a darci un giardino di palmizi e di vigne e non vi faccia sgorgare frammezzo ruscelli, o fino a che tu non faccia cadere il cielo, come pretendi, a pezzi sopra di noi» (17,90-92). Sfide polemiche di questo tipo sono state fortunatamente conservate nel Mushaf; esse permettono di compren˙ dere il˙ clima teso in cui si esprime una cultura tribale di fronte alla voce che proclama un Qur’a¯n didattico, che veicola una memoria mitica e iero-storica sempre piu` sovversiva per la societa` tribale dello Hija¯z. L’opera didattica del Qur’a¯n con˙ siste nel ricondurre continuamente le argomentazioni e le rappresentazioni degli oppositori ai segni-simboli (a¯ya¯t) divini, via (huda¯) e conoscenza (‘ilm) di salvazione. Ci si accontenta sempre di tradurre a¯ya con ‘‘segno’’. In effetti, l’idea di segno copre il vasto dominio della semiologia cosı` come ne fa uso il discorso coranico, poiche´ gli elementi della natura – flora e fauna, geografia, clima, legami con gli astri, i cieli ecc. – della psicologia, della vita sociale, della morale e della giustizia costituiscono segnatamente molti segni per costruire la memoria e l’immaginazione del credente in un legame costante con il suo Dio creatore e fonte di questa creazione totale offerta alla meditazione. Il simbolo e` ogni essere animato o ogni cosa utilizzata che siano utilizzati nel discorso o, ancora, la scrittura come significato valorizzante che sfugge alla percezione immediata dei sensi o alla ricezione delle parole nel loro senso comune. Tutti i tipi di discorso ricorrono piu` o meno alla funzione simbolica cosı` definita. Il discorso poetico e il discorso religioso elevano quest’uso a livelli di creativita` particolarmente fecondi. Il discorso religioso, tuttavia, non si confonde con il discorso

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poetico, dal momento che mette l’accento su cio` che la teologia chiama ‘‘i simboli della fede’’. Il dipanarsi del discorso dinamizza le parole dell’arabo qualificato come ‘‘chiaro’’ (mubı¯n), trasferendole in una lessicologia e una semantica della ‘‘vera religione’’, chiamata ‘‘islam’’. E` possibile seguire, al livello del discorso coranico di cui ci occupiamo, il progressivo emergere, nel confronto con i diversi oppositori, di un costante lavoro di cio` che il pensiero moderno chiama la ‘‘funzione simbolica’’. Per lo storico antropologo, e` uno strumento di analisi e di decostruzione di un discorso religioso a lungo coltivato dai teologi giuristi per costruire e ‘‘amministrare’’ gli articoli della fede. Introdurre questa funzione e quella della metafora nella decostruzione del discorso coranico pone molteplici problemi. Basti ricordare che la tradizione del pensiero cristiano e` molto piu` aperta all’opera della funzione simbolica nella sua professione di fede di quanto non lo sia la tradizione islamica ‘‘ortodossa’’, la quale giunse a scartare quasi ogni idea di metafora e tanto piu` di simbolismo a proposito del discorso coranico, dogmaticamente confuso con la Parola di Dio; e` dunque necessario fare attenzione ai frequenti scivoloni dello storico che, per penetrare nell’universo complesso della Bibbia, dei Vangeli e del Corano, si accontenta di seguire i dati della Tradizione. Tra i pochi ambiti fecondi dell’opera di simbolizzazione nel discorso coranico, vi e` innanzitutto il vasto dominio degli attributi sostantivi e qualificativi di Dio, chiamato Alla¯h, dove l’articolo al serve a distinguerlo da tutte le divinita` delle credenze in vigore tanto tra i politeisti quanto tra le genti del Libro (Ahl al-Kita¯b). Questa forma Alla¯h ricorre milleseicentonovantasette volte nel Mushaf (corpus ufficiale ˙ ˙ le occorrenze dei chiuso), senza contare novantanove attributi che hanno alimentato una letteratura immensa. ‘‘Il’’ Dio (al-Ila¯h, che, per contrazione, e` divenuto Alla¯h) e` la voce/forma su cui si articola l’intero discorso coranico: e` quel che la grammatica definisce chi parla, ‘‘io’’ ma anche ‘‘tu’’, e ‘‘egli’’ (huwa); e` il sog-

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getto, il verbo e il complemento; organizza la totalita` delle funzioni legate all’insieme complesso delle funzioni gia` citate: parola di Dio, discorso profetico, discorso coranico, corpora ufficiali chiusi, corpora interpretativi. Proprio in questa struttura omnicomprensiva emergono progressivamente i seguenti simbolismi: il simbolismo della coscienza del peccato; quello della speranza escatologica; quello della comunita` spirituale e politica (umma); quello della vita e della morte; quello del ‘‘governo’’ divino nel patto preeterno di obbedienza ai comandamenti (amr, derivato da una radice pregnante che rimanda contemporaneamente ai concetti di volonta`, decreto, ordine, via e norma di quel che diventera` la sharı¯‘a, la Legge canonica); il simbolismo della giustizia divina e delle sue distorsioni umane; quello della natura, e dell’uomo come ‘‘vicario di Dio sulla terra’’. L’ampiezza dell’opera di simbolizzazione non impedisce lo sviluppo della dimensione concreta del discorso coranico. Il ricorso alla nozione di abrogazione (naskh) di un versetto per mezzo di un altro piu` adeguato nell’affrontare una situazione nuova della vita corrente palesa una strategia di intervento nella gestione di una comunita` in via di formazione. A questo proposito, si e` parlato dell’opportunismo di un dio interventista finanche nella vita ‘‘privata’’ del Profeta; e` necessario, piuttosto, parlare di un discorso coranico volto alla messa in pratica della dimensione pragmatica della ‘‘vera religione’’ (dı¯n al-haqq). ˙ ‘‘di’’’, ‘‘proclama’’, riL’imperativo qul, corre trecentoventitre volte nel Mushaf; e` ˙ ˙ di necessario inoltre notare la presenza altre ingiunzioni quali iqra’, ‘‘proclama a voce alta davanti a un uditorio’’. La voce dell’Autorita` divina si rivolge alla voce dell’enunciatore dei segni attraverso alcuni versetti recitati di fronte a uditorii, nei quali le proporzioni di credenti e avversari si invertono a favore dei primi nella misura in cui si dispiega la ‘‘strategia d’intervento’’. L’imperativo qul e`, in questo caso, conforme al concetto di kita¯b inteso come Libro celeste in cui e` conser-

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vata la Parola eterna di Dio. Il Qur’a¯n e` l’insieme delle parole che risalgono a questo Libro celeste e sono articolate dalle labbra dell’Inviato grazie all’imperativo divino (kun fa-yaku¯nu). L’imperativo qul sottolinea il dinamismo creativo e la liberta` sovrana della Parola di Dio, che comporta il rifiuto di ogni canonizzazione. Ciononostante, questa canonizzazione verra` imposta in alcune condizioni storiche molto conflittuali al fine di produrre un corpus ufficiale chiuso. Questo processo, messo in pratica e sfruttato da ogni sorta di attore sociale, finira` per essere relegato in secondo piano dal corpus interpretativo, fino a diventare, al giorno d’oggi, l’oggetto del bricolage ideologico dei capi di stato, di molti religiosi e dei movimenti attivisti populisti. Qur’a¯n e kita¯b La forma kita¯b ricorre duecentosessantuno volte nell’insieme del corpus ufficiale chiuso, senza contare le altre forme della radice «ktb», che rimanda attualmente all’idea di scrittura, cosı` come «qr’» rimanda a quella di lettura. Molti controsensi che veicolavano una falsa comprensione del ‘‘fatto coranico’’ si sono sviluppati nel corso del tempo, ma gli errori maggiori, piu` che dalla demagogia e dagli usi ideologici, sono derivati dalla lettura populista del Corano / Mushaf. Cosı`, la contrapposizione tra popoli˙ ˙ senza kita¯b e popoli con un kita¯b (Ummiyyu¯n contro Ahl al-Kita¯b) rimanda a una linea di demarcazione di portata teologica (prima e dopo i ‘‘lumi’’ della Parola di Dio manifestata tramite i profeti) e antropologica (popoli senza o con la scrittura). La stessa rivelazione non temporale della Parola di Dio conservata nel Libro celeste archetipico (Umm alKita¯b) si amplifica, si precisa e si radica nelle memorie collettive, da Adamo fino a Muhammad. Il passaggio dal discorso profetico alla Parola di Dio scritta non si manifesta con la chiarezza di una ricostruzione storica; il Qur’a¯n non conosce la divisione del tempo in passato, presente e futuro, e solo la compassione di Dio che vuole guidare i passi dell’uomo verso l’e-

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terna salvezza da` una consistenza vissuta ai tempi della storia terrena. Solo all’interno di questo quadro nasce la scrittura, nel duplice senso di registrazione degli atti di ogni creatura in un registro invisibile che verra` aperto al momento del Giudizio ultimo e di annotazione concreta di un debito contratto: «Sara` posto in mano a ognuno il Registro (kita¯b), e vedrai allora gli scellerati pieni di paura per quel che c’e` nel Registro. Diranno: ‘‘Guai a noi, guai! Che Registro e` mai questo che non tralascia di contare cosa alcuna, piccola e grande?’’» (18,49). Questo kita¯b e` anche chiamato zubur – termine traducibile con ‘‘salmi’’ – quando si fa riferimento in modo piu` generale agli scritti o ai registri tenuti da Dio stesso (cfr. ‘‘naktubu’’), dai messaggeri o dagli angeli guardiani. Il kita¯b, chiamato anche ‘‘le pagine di Abramo’’ (suhuf Ibra¯hı¯m), contiene tutta ˙ ˙ eterna e infinita di Dio: non la conoscenza c’e` «nulla di umido o di secco» che non sia inscritto nel kita¯b esplicito. Il kita¯b e` il ricettacolo che non si presta a dubbio alcuno; la verita` di tutto cio` che esso contiene e` garantita da Dio, fonte e guardiano di tutti i contenuti comunicati per essere memorizzati, compresi, meditati e vissuti. Il kita¯b e`, dunque, la quintessenza di tutte le attivita` di Dio; esponendo tutti questi contenuti, il Qur’a¯n si definisce progressivamente come il kita¯b. Nella polemica con i popoli del kita¯b a proposito dell’alterazione delle Scritture precedenti, il Qur’a¯n afferma di essere indipendente da tutte le fonti anteriori (gli scritti apocrifi menzionati dall’erudizione storico-critica); identificandosi in tutto e per tutto con il kita¯b celeste quale ricapitolazione dell’Essere e dell’attivita` di Dio, esso trascende e supera le dispute tenute di fronte agli oppositori, che appunto si trattava di trascinare verso tale superamento. In seguito a queste indicazioni, pur lontane dall’essere esaustive, si sara` compreso quanto sia fuorviante tradurre il termine kita¯b con ‘‘Libro’’ o ‘‘Scritture’’. Kita¯b e` un simbolo della conoscenza e della sovranita` divine; e` un’istanza di riferimento obbligatoria trasformata in li-

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bro, oggetto materiale che perpetua sulla terra la Parola di Dio. E` dunque questione di ‘‘libri’’ al plurale quali archivi scritti, ma in modo incidentale e senza nulla a che vedere con l’opera continua e decisiva del concetto di Libro. Ritorno al metodo d’approccio Dopo la decostruzione di tutti i meccanismi linguistici, retorici e semiotici caratteristici del discorso profetico in generale e delle sue manifestazioni storiche particolari nella Bibbia, nei Vangeli e nel Corano, al ‘‘ricercatore-pensatore-trasmettitore’’ si impone il ritorno al metodo d’approccio. L’opera di decostruzione deve essere estesa al complesso dei rapporti precedentemente evidenziati: Parola di Dio, discorso profetico, discorso coranico, corpus ufficiale chiuso. La Parola di Dio e il discorso profetico designano cio` che sta a monte di questo complesso, il discorso coranico e il corpus ufficiale chiuso cio` che sta a valle. Tutto cio` che viene detto, scritto e vissuto a valle per legittimare una condotta, una norma e un significato articolato presuppone il riferimento a cio` che sta a monte. Inoltre, l’istanza della Parola di Dio e del discorso profetico e` soggetta a ogni tipo di trasformazione nelle pratiche esegetiche. Si giunge perfino a manipolare la Parola divenuta testo o citata oralmente per ‘‘provare’’ che ‘‘l’islam’’ e` compatibile con la modernita`, il socialismo, la democrazia, la tolleranza, e cosı` via. Va da se´ che i credenti, privati degli strumenti d’analisi che permettono di distinguere la critica del discorso dalla manipolazione, mantengono una concezione ingenua della Parola di Dio. Questa attitudine e` divenuta dominante anche nei contesti islamici contemporanei con l’intervento massiccio di cio` che si puo` chiamare ‘‘esegesi selvaggia’’, nel senso del ‘‘pensiero selvaggio’’ definito da Claude Le´viStrauss. [M.A.] Bibliografia: Mohammed Arkoun, Humanisme et Islam: combats et propositions, Paris, Vrin, 2005; Id., Lectures du Coran, Maisonneuve et Larose, Paris 1982; Claude Gillot, Tilman Nagel (a cura), Les Usages du Coran. Pre´suppose´s et me´thodes,

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180 numero speciale della rivista Arabica, 48 (2000), 3-4; William Albert Graham, Beyond the Written Word. Oral Aspects of Scripture in the History of Religion, Cambridge University Press, Cambridge 1987; Daniel A. Madigan The Qur’a¯n’s Self-Image. Writing and Authority in Islam’s Scripture, Princeton University Press, Princeton 2001.

CORPO Il Corano impiega tre termini distinti per designare il corpo: badan, jasad e jism. Badan e` utilizzato un’unica volta: «Ma pure, oggi, Noi salveremo il tuo corpo perche´ tu sia un Segno per chi succedera` a te» (10,92). In questo versetto, Dio si rivolge cosı` a Faraone che, vedendo sopraggiungere la fine, proclama la propria conversione. Secondo il teologo Fakhr alDı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/1209), ‘‘corpo’’ indica in questo caso l’assenza di vita; quando Dio annuncia a Faraone che lo salvera` ‘‘nel suo corpo’’, altro non e` che un modo per dire che Egli non ha creduto alla conversione, e che la promessa della salvezza e` vanificata. Qui, il corpo e` la parte inerte dell’essere umano, e si contrappone alla parte che induce la vita cioe` l’anima (nafs o ru¯h). Nel lessico dei filo˙ sofi, badan e` il termine deputato a indicare il corpo animato dall’anima (nafs); e` anche il termine che il mu‘tazilita Naz ˙za¯m utilizza per indicare il corpo del˙ l’uomo. Il termine jism compare in due versetti coranici, e indica il corpo in generale. Tuttavia Ra¯zı¯, quando interpreta questi versetti, pone l’accento sulla necessita` di diffidare dell’apparenza esteriore, che si manifesta nel corpo. «A vederli, le loro persone (ajsa¯ mu-hum) ti piacciono, e, quando parlano, volentieri ascolti il loro dire; ma sono come travi puntellate» (63, 4); per Ra¯zı¯, questo versetto significa che il corpo e` uno strumento di seduzione ingannevole di cui occorre diffidare, un’apparenza di vita che in realta` e` solo un pezzo di legno inerte. Il significato del secondo versetto risulta da un contesto che vede le qualita` intellettuali e morali distinte dalle qualita` propriamente fisi-

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che. A proposito di Saul, e` detto: «Dio lo ha eletto su di voi, lo ha reso piu` grande di voi nell’ampiezza della scienza e del corpo» (2,247). Il teologo insiste sul fatto che, se il Testo rivelato sembra attribuire al corpo qualita` specifiche, queste vengono pero` successivamente alle qualita` intellettuali e morali, il che spiega la loro seconda posizione nell’enunciato. Secondo i filosofi, il termine jism si impiega per designare tutti i corpi naturali o fisici, ed e` sinonimo di jirm. Lo utilizza in tal senso anche il teologo Nazza¯m. Jasad, impiegato quattro˙ ˙volte nel Corano, indica piuttosto il corpo organico, composto di carne e sangue: «Non demmo loro un corpo che potesse fare a meno di cibo: essi non erano eterni» (21, 8; ma cfr. anche 7,148 e 38,34). Il termine designa sia il corpo dell’animale sia quello dell’uomo: «Ne fece per loro un vitello, un corpo che muggiva» (20,88). Secondo Ra¯zı¯, e` un corpo composto di carne e sangue. Infine, il versetto 21,8 insiste sulla corporeita` dei profeti, dunque sul loro carattere mortale, per indicare che la profezia non risiede nel corpo ma nei miracoli che essi compiono. Si fa allusione al corpo anche in un contesto che insiste sul necessario pudore. Il termine utilizzato in questo caso e` furu¯j, cioe` le parti intime del corpo che e` opportuno proteggere (23,1-5; 24,30; 33,35; 70, 29). E` evocata anche la nudita` (20,121; 23,5; 24,58). Nel Corano, le occorrenze del corpo in se´ sono poco numerose, ma i termini relativi all’anatomia sono piu` frequenti. In particolare, e` citata la carne umana (lahm), cui ˙ si fa riferimento in senso sia letterale sia metaforico. Per esempio, il versetto 49,12 assimila il prender parte alle dicerie al cibarsi della carne di coloro di cui si parla. Con il medesimo spirito, il Corano evoca le bocche (afwa¯h) che tacciono il vero e dicono il falso (3,167) o si permettono di parlare di cio` che non si conosce (24,15). Compare anche un riferimento alle labbra (shafatayn) e alla necessita` di controllare la propria voce (sawt; 31,19; 49,3). E` evo˙ cata anche la lingua (lisa¯n), capace di

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recitare la verita` (26,84); per estensione, lisa¯n designa il linguaggio (14,4; 26,195; 46,12). Vi e` anche il riferimento al sangue (dima¯’): si tratti di quello dell’uomo o di quello dell’animale (22,37), esso non deve essere versato ingiustamente; compare anche in un contesto rituale, la` dove e` interdetto agli uomini l’avere relazioni sessuali con le proprie mogli durante il mestruo (2,222). Analogamente, la creazione dell’embrione (‘alaq) e` menzionata piu` volte, precisamente nei versetti 22,5,23,14,40, 67 e 96,2. Il Corano cita la schiena (dubur) in senso metaforico, per indicare il distogliersi dei non credenti dal messaggio divino (17,46; 47,25; 59,12). Quanto all’occhio (‘ayn; absa¯r per la visione), non si riferisce so˙ lamente alla visione fisica, ma anche alla visione spirituale (5,83), un doppio approccio che concerne anche i riferimenti alle teste (ru’u¯s) dei credenti. Un certo numero di versetti si riferisce alle esigenze rituali (2,196; 5,6); altri, metaforici, all’incapacita` del credente di comprendere il messaggio profetico (36,8). Si cita anche la fronte del credente (jibah), che subira` il fuoco dell’inferno (9,35). Il cuore (qalb), piu` volte evocato per distinguere il credente dal miscredente (33,4), indica l’interiorita` dell’uomo, i suoi pensieri segreti (23,24); del resto esso sara` considerato sede della conoscenza da alcuni teologi mu‘taziliti. Il cuore si riferisce anche all’intenzione, alla volonta` che presiede all’azione (33,5). E` inoltre la sede della fede; ad alcuni, Dio lo ricopre di un velo, privandoli di ogni luce (2,7). E` infine opportuno evocare i versetti che sembrano attribuire alcune parti del corpo a Dio: un volto (2,115 e 2,272; 6,52; 13, 22; 18,28), un occhio (20,39), una mano (3,73; 5,64; 48,10; 57,29), due mani (5, 64; 38,75) e una ‘‘gamba’’ (68,42). L’interpretazione di questi versetti, che ha visto opposti i sostenitori di una comprensione metaforica e quelli di una comprensione letterale, fonda una delle piu` importanti controversie nella storia dell’esegesi [M.S.] coranica.

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Bibliografia: Josef van Ess, Theologie und Gesellschaft im 2. und 3. Jahrhundert Hidschra. Eine Geschichte des religio¨sen Denkens im fru¨hen Islam, W. de Gruyter, Berlin-New York 1991-1997.

CORVO Il corvo (ghura¯b) citato nel Corano indica a Caino come seppellire suo fratello Abele facendogli intendere la portata e le conseguenze di quanto ha compiuto: «Iddio mando` un corvo, che gratto` la terra per mostrargli come nascondere la spoglia di suo fratello. Ed egli disse: ‘‘O me infelice! Che sono stato incapace perfino d’essere come questo corvo e nascondere la spoglia di mio fratello!’’ E divenne perseguitato dai rimorsi» (5,31). Secondo le tradizioni riportate dagli esegeti, Caino aveva portato con se´ per un anno intero il cadavere del fratello prima che Dio lo dissuadesse da questo comportamento tramite il corvo. Associato alla morte, il corvo procura inoltre a Caino la consapevolezza della gravita` dell’omicidio rivelandogli come seppellire il cadavere. D’altra parte, in alcuni commentari coranici, la scelta di un corvo da parte di Dio e` intesa anche a dimostrare che tutto e` segno, e che ogni creatura puo` essere un inviato di Dio, portatore di una parola o di un annuncio e rivestire cosı` una funzione profetica. Il comportamento del corvo e` il segno che Caino deve interpretare per comprenderne il senso, il che si ricollega a talune pratiche divinatorie degli arabi preislamici nonche´ di altre culture della regione. Questo uccello e` solitamente collegato alla notte, alla morte e alla desolazione, e questo sembra risalire alle tradizioni letterarie degli arabi dell’epoca preislamica. Il pensatore sciita persiano Na¯sir-i Khu˙ ricorda sraw (V/XI secolo), per esempio, nella sua raccolta poetica che il corvo e` di colore nero, il colore degli Abbasidi, i quali privarono la famiglia di ‘Alı¯ del diritto al califfato. Per il poeta mistico persiano Farı¯d al-Dı¯n ‘At t a¯ r (m. 513/ ˙˙ 1120, o 589/1193 o 627/1230 o infine 632/1235), gli uccelli sono associati alle qualita` dell’anima; il corvo, in particolare, farebbe riferimento all’ibernazione

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della materia, abita nelle rovine e ama l’inverno, quando il mondo e` morto e ogni cosa sembra immobile. Nella cultura araba vi e` l’idea che il corvo porti presagi con il suo verso e che sia di malaugurio, elementi che si ritrovano nel racconto che lo associa all’omicidio di Caino. Tuttavia, secondo la tradizione, portare con se´ il becco di un corvo tiene lontano il malocchio. Allo stesso modo, la tradizione musulmana vuole che Noe` avesse inviato un corvo in ricognizione dall’Arca, dopo il Diluvio, ma il corvo trovo` la carcassa di un animale morto, rimase lı` e non fece ritorno all’Arca; questo sottolinea ancora una volta il rapporto che lega il corvo alla morte e a funesti presagi. Per tutti questi motivi il corvo e` considerato un animale che si puo` uccidere, ma la cui carne e` [P.B.] illecita. Bibliografia: Annemarie Schimmel, Deciphering the Signs of God. A Phenomenological Approach to Islam, State University of New York Press, Albany 1994.

CREAZIONE Il tema della creazione, tra i piu` temi maggiori del Corano, puo` essere inoltre considerato come il fondamentale poiche´ contiene, concisamente, la quintessenza stessa dell’insegnamento coranico: l’unicita` assoluta di Dio, la sua potenza creatrice, la sua bonta`, la sua misericordia e la sua infallibile giustizia. Come un cerchio, la creazione trova inizio e fine nella divina volonta`, che crea e regola l’insieme della creazione per guidare gli uomini sulla via diritta. Cosı` la creazione, in quanto manifestazione dell’essenza divina, e` un insieme di ‘‘segni’’ (a¯ya¯t, sing. a¯ya) che permette agli uomini di riconoscere il loro Signore e di dirigersi verso di lui. In effetti, la grande certezza dell’esistenza e` il ritorno a Dio: «In verita` nei cieli e sulla terra vi sono Segni per i credenti, e nella vostra creazione, e negli animali che Iddio ha sparso sulla terra, Segni per gente fermamente certa» (45,3-4). Questa insistenza sull’importanza dei segni di Dio, che ritorna con regolarita` nei versetti coranici, e` tuttavia indirizzata solo a ‘‘coloro che comprendono’’, ‘‘coloro che

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sono dotati di intelligenza’’, cioe` quanti saranno guidati da Dio. «E` lui che ha fatto per voi le stelle, perche´ con loro possiate guidarvi nelle tenebre della terra e del mare. Noi precisiamo i nostri segni per gente capace di conoscere» (6,97; cfr. 2, 164). Come precisa Daniel Carl Peterson, l’impiego coranico del medesimo termine a¯ya¯t per indicare anche le realta` naturali e gli stessi versetti che compongono il Libro trasforma la creazione in un Libro rivelato sull’esempio del Corano; di qui, la necessita` di guardare la natura per ricordarlo. Lo confermano due versetti coranici relativi alla creazione: «Iddio alterna la notte col giorno e certo vi e` in questo un esempio per tutti quelli che sanno vedere» (24,44); «distribuiamo [la pioggia] fra loro affinche´ meditino» (25, 50). L’azione del ricordo fa riferimento al patto stipulato fra Dio e gli uomini, il patto primordiale (7,172), e anche al giorno del Giudizio finale, quando Dio interroghera` ogni individuo sulla sua fede. Altrimenti detto, la nostra salvezza dipende dal nostro modo di vedere e di comprendere i segni naturali. Capire i segni significa percepire Dio come il creatore (al-kha¯liq), perche´ egli e` il vivente (al-hayy), colui che sussiste di per se´ (al˙ ¯ m) (2,255; 3,2). Il termine kha¯liq, qayyu che si applica esclusivamente a Dio, e` il participio attivo del verbo khalaqa, ‘‘creare’’, di cui il nome verbale khalq che indica l’azione del creare e anche l’intero creato. Nello stesso senso, ma di rado, il Corano impiega il verbo bara’a con il suo participio attivo ba¯ri’. Soprattutto per quanto concerne la creazione dell’uomo, l’azione creatrice di Dio consiste anche nel formare o modellare, come prova il versetto 7,11: «Eppure vi abbiamo creati (khalaqna¯-kum), poi vi abbiamo formati (s awwarna¯ -kum) ». La ˙ creazione dell’uomo avviene per diversi stadi: «Noi vi creammo di terra (tura¯b), poi facemmo di quella terra una goccia di sperma (nutfa), poi un grumo di sangue (‘alaq), poi˙ un pezzo di carne (mudgha) ˙ informe o formato» (22,5). Gli studiosi hanno sempre sottolineato che nel Corano

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CREAZIONE

non si trova un racconto dettagliato e completo della creazione, simile a quello dell’Antico Testamento; piu` che nella forma di un racconto, la creazione e` presentata come un insegnamento inteso ad avvertire gli uomini. Il Corano e` un ammonimento, e i profeti sono ammonitori: «Dio mando` i profeti, araldi e ammonitori» (2,213). In tal modo, l’insegnamento coranico sulla creazione, pur restando generalmente fedele al racconto biblico, si inscrive in una prospettiva salvifica; questo e` il motivo per cui il Corano afferma che la creazione nel suo insieme e` un beneficio di Dio e un segno della sua onnipotenza (si veda la sura 55). Dio ha creato i cieli e la terra, le tenebre e la luce, ha creato l’uomo dall’argilla e l’ha plasmato, poi gli ha insufflato il suo spirito per dargli la vita (6,2; 15,26). La potenza di Dio si manifesta attraverso il suo Verbo creatore che esprime la volonta` divina; a esso si riferiscono numerosi versetti coranici, caratterizzati da una formula ben nota, menzionata nel Corano otto volte: «Dio crea cio` che vuole: quando ha deciso una cosa, non ha che da dire: ‘‘Sii!’’ ed essa e` (kun fa-yaku¯nu)» (3,47). Questo verbo creatore, che permette il passaggio dall’unicita` assoluta dell’essenza divina alle sue manifestazioni, si avvicina dunque al comando (amr) di Dio. Va notato che il medesimo avvicinamento della Parola al comando divino si ritrova nel Salmo 33: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli [...] perche´ egli parla e tutto e` fatto, comanda e tutto esiste» (6-9). Egualmente, nella lettera di Paolo agli Ebrei leggiamo: «Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio» (11,3). Va sottolineato che la formula coranica kun fa-yaku¯nu fonda la tesi della creazione ex nihilo difesa dai teologi e dagli esegeti coranici, nella quale essi videro un segno dell’arbitrarieta` della divina volonta`; pero`, come gia` rilevato da molti studiosi, non e` possibile affermare incontestabilmente la creazione ex nihilo a partire da questa formula. Essi osservano infatti che l’uso del verbo ‘‘creare’’ nel Corano lascia pensare a una materia

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CREAZIONE

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preesistente la quale determina l’atto della creazione. Tuttavia, a due riprese all’interno di una stessa sura, e` detto che l’uomo venne creato «quando non era nulla» (19,9 e 67). La creazione non e` un atto divino isolato e confinato al passato; invece, essa deve rinnovarsi costantemente: «Colui che produce la prima creazione e la ricrea viva dopo la morte, [...] potrebbe mai esservi accanto a Lui, Dio, un altro Dio?» (27,64); «forse Chi ha creato i cieli e la terra non sarebbe capace di creare altri uomini simili a loro? Anzi! Egli e` il Sempre-creante Sapiente!» (36,81). Ma la creazione non aggiunge nulla a Dio, non gli apporta nulla, poiche´ egli e` colui che dispensa ogni bene. L’unico dono degli uomini a Dio e` l’adorazione: «Io ho creato i jinn e gli uomini solo perche´ mi adorassero. Non voglio altro da loro, [...] non voglio che mi nutrano» (51,56-57). In ultima analisi, l’adorazione che gli uomini prestano a Dio e` un beneficio per loro stessi, perche´ chi adora e teme Dio agisce e vive secondo la divina volonta` e sulla via di Dio, in altri termini ‘‘ritorna a Dio’’. Non vi e` dunque alcuna contraddizione fra il ‘‘desiderio’’ che Dio ha di essere adorato e la sua assoluta autosufficienza. Una celebre tradizione tesse un rapporto tra la creazione e la volonta` di Dio di essere conosciuto: «Ero un tesoro nascosto, volli essere conosciuto e creai il mondo». Tale tradizione, che ebbe un’influenza estremamente importante sulle correnti mistiche dell’islam, e` tra i fondamenti della dottrina teofanica sia presso i sufi sia presso i filosofi mistici. In quest’ottica, l’universo e` un insieme di irradiazioni o epifanie (tajalliya¯t) dell’essenza divina che, in se stessa e fuori da ogni rapporto con le sue manifestazioni, resta assolutamente una. Per i sufi, l’irradiazione e` lo svelarsi dell’essenza divina al cuore del mistico; nel contempo, consente a ogni cosa di passare dal nulla all’essere, perche´ e` cio` che genera l’esistenza, cio` che porta ciascuna cosa all’esistenza effettiva conferendole una realta` in quanto ‘‘luogo di manifestazione’’ (maz har, majla¯ ) dell’essenza divina. ˙

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Questo dispiegarsi del molteplice a partire dall’unicita` rende l’universo quell’insieme di teofanie che i mistici, e in particolare Ibn ‘Arabı¯ (m. 628/1240), definiscono ‘‘una nuova creazione’’, una ‘‘creazione perpetua’’ (khalq jadı¯d). Il Corano dichiara con insistenza che la creazione ha un fine, un obiettivo: «Credevate voi che noi vi avessimo creati per scherzo (‘abathan) e che non sareste richiamati a Noi?» (23,115; cfr. 3,191). Dio ha creato «con verita` d’intento» (15,85; 29,44) e non per gioco: «Noi non abbiamo creato i cieli e la terra e quel che c’e` frammezzo per gioco (la¯‘ibı¯n). No, li abbiamo creati con Verita` d’intento, ma i piu` di loro non sanno» (44,38-39). L’obiettivo della creazione e` dunque riportare gli uomini a Dio; per questo l’uomo occupa nella creazione un posto centrale e privilegiato, perche´ e` il vicario di Dio sulla terra e conosce cio` che neppure gli angeli sanno (2,30). Lo confermano anche numerosi versetti dedicati ai fenomeni della natura. Dio crea tutte le cose affinche´ siano al servizio dell’uomo: «Ha fatto per voi della terra un tappeto e del cielo un castello, e ha fatto scendere dal cielo acqua con la quale estrae dalla terra quei frutti che sono il vostro pane quotidiano» (2,22); «ha soggiogato a voi quel che vi e` nei cieli e quel che vi e` sulla terra, tutto proviene da Lui» (45,13). Lo stesso vale per i fiumi, il sole, la luna, il mare e gli animali, tutti segni della generosita` di Dio nei confronti degli uomini; generosita` particolarmente sottolineata grazie al simbolismo dell’acqua. Il versetto 11,7 insegna che quando Dio creo` i cieli e la terra, il suo trono era sull’acqua, e a partire dall’acqua (ma¯’) Dio creo` ogni cosa viva (21,30). In alcuni versetti, l’acqua significa esplicitamente lo sperma (nutfa) ˙ (16,4), che il Corano peraltro dice ‘‘insignificante’’ o ‘‘vile’’ (mahı¯n) (32,8; cfr. 77,20); in questo caso, l’accento cade piuttosto sulla potenza creatrice di Dio. Malgrado questa generosita`, la centralita` dell’uomo nella dottrina della creazione coranica non implica affatto che l’uomo sia fin d’ora meritevole dei divini benefici; al contrario, i versetti coranici rile-

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vano sempre un retroscena escatologico: «Iddio ha creato i cieli e la terra con verita` d’intento, affinche´ ogni anima sia ripagata [...] di quel che ha operato» (45,22). Proprio in vista di questa retribuzione Dio ha preparato l’inferno e il paradiso: «Temete il fuoco che fu apparecchiato per gli empi [...] e gareggiate a corsa verso il Perdono del vostro Signore e un giardino ampio come i cieli e la terra apparecchiato ai timorati di Dio» (3,131-133). Se il Corano promette un termine (ajal) per tutti gli esseri (6,2), la vita dell’Aldila`, che del resto e` una ‘‘nuova creazione’’, e` invece eterna, e i dannati e i beati vi dimoreranno «finche´ durino i cieli e la terra a meno che non decreti altrimenti il Signore, che´, per certo, puo` fare quel che vuole» (11,107). Ciononostante, alcuni teologi, sulla base dello stesso versetto, hanno sostenuto l’annientamento dell’inferno e del paradiso; secondo questa tesi, i versetti coranici sopraccitati indicano che la volonta` di Dio puo` mettere fine all’esistenza del paradiso e dell’inferno, tanto piu` che secondo il Corano «Egli e` il Primo, Egli e` l’Ultimo» (57,3) «e tutte le cose periscono, salvo il Suo volto» (28,88). All’opposto dei teologi e dei commentatori che sostengono la temporalita` della creazione, la filosofia musulmana, fortemente influenzata dal pensiero greco, sostiene la tesi della creazione ab aeterno. Fa¯ra¯bı¯ (m. 339/950), Avicenna (m. 428/1037), Suhrawardı¯ (m. 587/1191) e molti altri hanno elaborato una teoria emanatista che insiste sulla necessita` del processo della creazione in quanto inerente all’essenza divina: la rivelazione dell’essenza divina attraverso l’insieme delle sue emanazioni dimostrerebbe infatti che l’Essere neces[K.A.] sario e` eternamente creatore. Bibliografia: Henry Corbin, Histoire de la philosophie islamique, Gallimard (coll. Folio Essais), Paris 1986 (1ª ed. 1964; trad. it. Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989); Louis Gardet, Dieu et la Destine´e de l’homme, Vrin, Paris 1967; Thomas J. O’Shaughnessy, Creation and the Teaching of the Qur’a¯n, Biblical Institute Press, Roma 1985.

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CRISTIANI e CRISTIANESIMO

CRISTIANI e CRISTIANESIMO Nel Corano il tema e` ambiguo, poiche´ per certi aspetti cristiani ed ebrei sono confusi in uno stesso appellativo, ‘‘gente del Libro’’. E sebbene il Libro Sacro in alcuni passi li opponga gli uni agli altri, li associa comunque nel condannarli quali ‘‘detentori della Scrittura’’ che sono stati a essa infedeli (5,68): essi pretendono d’avere il favore di Dio, ma le miserie che vivono o hanno vissuto sono il segno indubitabile della loro disgrazia presso di lui (5,18). Il Libro li associa inoltre nel rimprovero di aver dimenticato i benefici di Dio, di ignorare la venuta di Muhammad, pure annunciata nella Torah e nel Vangelo (citato al singolare), e, sopra ogni cosa, di aver falsificato le Scritture. Pur senza che sia dato sapere chi esattamente e` designato con questo termine, il testo coranico distingue tuttavia, entro la gente del Libro, una «comunita` retta» che prega e si prosterna, crede in Dio e nell’Ultimo Giorno, ordina il bene e proibisce il male (3,110 e 113-115). La descrizione di tale comunita` retta condivide molti dei tratti caratteristici della comunita` islamica nelle sue esigenze dogmatiche e nella loro formulazione. Ma l’aspetto laudativo e` temperato da alcune restrizioni: «C’e` fra loro una comunita` che segue una via di mezzo, ma molti di loro quanto male agiscono!» (5,66). D’altro canto il Corano sottolinea a piu` riprese le divergenze tra ebrei e cristiani a proposito della Scrittura (2,176), il piu` delle volte per confutare gli uni tramite gli altri (2,113,120,135,145; 3,65-67 ecc.). Paradossalmente, la versione cristiana si trova privilegiata rispetto a quella degli ebrei per quanto concerne la verginita` di Maria, contestata dagli ebrei ma mantenuta dal Corano (4,156). In cambio, i cristiani sono caratterizzati per la loro divisione interna in sette rivali (5, 14), e questa divergenza toglie validita` a tutte. Le divisioni dogmatiche dei cristiani sono appunto utilizzate dal Corano a loro carico: «Anche con coloro che dicono: ‘‘Siamo cristiani’’, abbiamo stretto un patto, ma hanno dimenticato una parte di quello che fu loro insegnato, e Noi

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abbiamo suscitato fra loro un’inimicizia e un odio che dureranno fino al giorno della Resurrezione» (5,14). E` un argomento fondamentale per affermare che la rivelazione fatta a Muhammad e` la sola completa, veridica, non falsificata. Laddove i cristiani discutono su Gesu`, il Corano offre la verita` divina e assoluta su di lui, verita` che di conseguenza dispensa, nelle menti dei credenti, dalla lettura delle loro Scritture, divenute sospette perche´ alterate. Cosı`, l’atteggiamento del Libro nei confronti del cristianesimo e` duplice. Nel versetto 57,27 viene emesso un giudizio molto favorevole sulla moralita` dei cristiani (Dio ha messo nei loro cuori «mitezza e misericordia»), che si unisce pero` a una condanna del monachesimo: «Fu da loro istituito (e non fummo Noi a prescriverlo loro) [...]; ma non lo osservarono come andava osservato. E a quelli di tra loro che credettero demmo la loro mercede, ma molti fra loro sono empi!». Nei versetti 9,31 e 34, il Corano non soltanto accusa il clero di sfruttare i fedeli, ma anche rimprovera a questi ultimi di aver preso «i loro dottori e i loro monaci e il Cristo figlio di Maria come ‘‘Signori’’ in luogo di Dio». Vi e` dunque una duplice confusione: da un lato tra i livelli morale e teologico, dall’altro tra la venerazione di esseri umani (per quanto esagerata essa possa apparire in certi casi) e l’adorazione di una divinita`. La cristologia e la mariologia svolgono un ruolo importante nel Corano, in particolare nel capitolo della profezia. Tuttavia i personaggi in se´ sono compresi piuttosto come ebrei, nella misura in cui il Libro sembra considerare i cristiani come una setta ebraica scismatica. Il conflitto tra ebrei e cristiani circa Gesu` e Maria e` infatti ampiamente utilizzato nella polemica coranica contro i primi (3,52-57; 4, 156-157; 5,78-86). Altrove i versetti elogiativi, nella ripresa stessa di racconti apocrifi, o ‘‘coranizzati’’ per alcuni elementi (per esempio ‘Imra¯ n per Gioacchino), introducono precisazioni lessicali proprie del linguaggio teologico cristiano (in particolare spirito ovvero ru¯h e verbo ˙

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di Dio ovvero kalimat Alla¯h), che lasciano supporre una maggiore informazione sui cristiani. Le sure disegnano una parabola nell’evoluzione dell’atteggiamento di Muhammad riguardo ai cristiani. Finche´ predico` un monoteismo che ricapitolava e portava a compimento i due precedenti, egli credette di potersi guadagnare l’adesione della gente del Libro. L’islam, l’ultimo monoteismo, si esprimeva in un linguaggio simile a quello della Bibbia; di qui una simpatia per i cristiani che si manifesta in particolar modo al momento dell’emigrazione dei primi musulmani in Abissinia, in fuga dalla persecuzione meccana: il Libro auspica la vittoria dei bizantini (30,2-3). E` nel periodo medinese, a partire dalla sfida d’esecrazione reciproca evocata nel versetto 3,61, che il credito di cui godevano i cristiani viene intaccato, perche´, secondo la Tradizione, essi non raccolsero la sfida. Si e` spesso invocata un’influenza di Maria la Copta, una delle mogli del Profeta, per spiegare versetti come il celebre ‘‘versetto dell’amicizia’’ («troverai che i piu` cordialmente vicini a coloro che credono sono quelli che dicono: ‘‘Siamo cristiani!’’»; 5,82). Di fatto la comprensione di questo versetto esige il versetto successivo («quando ascoltano quel che e` stato rivelato al Messaggero di Dio li vedi versare lacrime copiose dagli occhi, a causa di quella verita` che essi conoscono, e li odi dire: ‘‘Signore nostro! Crediamo! Annoveraci fra i testimoni del Vero!’’»; 5,83). Non si tratterebbe dunque piu` di cristiani, ma di ex-cristiani avviati alla conversione all’islam. Nella parabola delle relazioni tra il Corano e i cristiani, la fase del conflitto era inevitabile: dopo tanta comprensione e sollecitudine dimostrata da parte del Libro, i cristiani rifiutano di credervi e non accettano Muhammad; fatto ben piu` grave, insistono nella propria idea esclusivista della salvezza e su questo punto condividono con gli ebrei lo stesso tipo di argomentazioni. A cio` si aggiungono rimproveri specifici, d’ordine dogmatico, riguardanti principalmente la Trinita` e l’Incarnazione. La

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Trinita` e` percepita in modo sensista, e di conseguenza e` assimilata a una triade: «Non dite : ‘‘Tre!’’ Basta! E sara` meglio per voi! Perche´ Dio e` un Dio solo, troppo glorioso e alto per avere un figlio!» (4, 171-172); « sono empi quelli che dicono: ‘‘Dio e` il terzo di Tre’’» (5,73). Inoltre, Maria e` integrata alla Trinita`: «Quando Dio disse: ‘‘Gesu` figlio di Maria! Sei tu che hai detto agli uomini: ‘Prendete me e mia madre come de`i oltre a Dio’?’’» (5, 116). Si e` cercato di spiegare quest’ultimo punto con il fatto che esso riguarderebbe soltanto una setta particolare, i ‘‘marianiti’’; ma si puo` anche dubitare della loro esistenza, poiche´ sono citati solo da un eresiografo copto (Ibn Kabar) influenzato dal testo coranico, come prova il suo stesso modo di riprendere alla lettera le formulazioni del Libro sacro. Un’altra spiegazione, fornita da Muhammad Hamidullah, scorge in questo passo un’allusione ai «colliridiani e a quanti tributano a Maria una venerazione che non conviene a un essere umano», il che non risolve il problema, perche´ ‘‘venerare esageratamente’’ non e` ‘‘adorare’’ Dio. Resta il rimprovero di prendere il Messia come Dio. Per questa colpa i cristiani sono dichiarati ‘‘infedeli’’ (5,17). E quanto all’appellativo ‘‘figlio di Dio’’, esso li rende meritevoli d’essere combattuti a morte da parte di Dio (9,30). Il Corano intima loro di non essere «stravaganti nella religione» (4,171) e li chiama al pentimento. Ma davanti alla loro ostinazione li tratta come «empi» (2,99) nonostante la presenza tra loro di «credenti» (3,110). Ma nell’esegesi coranica si ammette che quest’ultimo qualificativo sia riservato ai soli musulmani, e dunque e` nuovamente possibile individuare degli ex-cristiani passati all’islam dopo aver riconosciuto i «segni» portati da Muhammad, oppure dei cristiani effettivi di cui si spera la conversione. Il punto di rottura nella parabola del rapporto tra il Corano e i cristiani si ha nell’accusa rivolta ai monaci che «consumano i beni altrui in cose vane e allontanano gli uomini dalla Via di Dio» e che saranno puniti con un «castigo cocente»

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CRISTIANI e CRISTIANESIMO

nelle fiamme della Geenna dove verranno marchiati a fuoco (9,34-35). Il versetto si considera come abrogante il ‘‘versetto dell’amicizia’’ che faceva dei monaci gente non superba. Altri passi si spingono alla definitiva condanna: «Anche se apportassi a coloro cui fu dato il Libro ogni sorta di Segni divini, essi non seguirebbero la tua qibla, ne´ tu devi seguire la loro, ne´ del resto essi stessi seguono la qibla gli uni degli altri. Ma se tu obbedissi alle loro voglie dopo quanto hai appreso di scienza certa, saresti, in verita`, fra gli iniqui». L’ultima tappa della parabola si concretizza dunque in un insieme di sanzioni che segnano la rottura pura e semplice: in particolare il divieto per i credenti di allearsi con i cristiani, definiti alleati degli ebrei, perche´ cio` equivarrebbe a diventare dei loro (5,51) – anche se il Corano autorizza altrove i credenti a sposare «le donne oneste di fra coloro cui fu dato il Libro prima di voi» (5,5) – e l’instaurazione, come legge divina, di un’imposta speciale (la jizya) che deve essere versata in condizione di umiliazione (9,29). Quest’ultimo versetto ha giocato un ruolo capitale nella definizione da parte dei giuristi dello statuto del dhimmı¯, un ebreo o un cristiano rimasto sotto dominio musulmano. Secondo Re´gis Blache`re il termine jizya non ha qui il senso di ‘‘imposta di capitazione’’, che assumera` successivamente, ma quello di ‘‘tassa’’ in genere, dunque sia sulle persone sia sulle terre. Secondo la traduzione ufficiale pubblicata a Medina, essa e` «la tassa che si esige, in uno stato islamico, dai sudditi non musulmani, tassa che li dispensa dall’imposta sui risparmi e dal servizio militare [...]. Le donne, gli schiavi, i minori, gli anziani e i poveri ne sono esentati». L’evoluzione della posizione nei confronti dei cristiani nel corso della rivelazione coranica ha fatto sı` che gli uomini di religione ne traessero tre conseguenze. In primo luogo, la ‘‘Legge rivelata’’ nel Vangelo risulta abrogata dalla ‘‘Legge’’ coranica; essa non e` piu` un tramite di salvezza e per essere salvati occorre credere al Corano. In secondo luogo, la ‘‘Scrittura’’ cristiana che il Corano riconosce come

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CROCIFISSIONE

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una rivelazione autentica nel suo contenuto originale e` stata falsificata dai suoi detentori; invece, il Corano ne ha conservato la versione primitiva la quale permette di fare a meno della versione cristiana. Infine, sul piano giuridico, i cristiani sono una comunita` (milla) protetta dai rigori della Legge islamica; al di fuori della dhimma, tale Legge esige la conversione all’islam oppure la distruzione o riduzione in schiavitu`. Essi possono conservare i beni, lo statuto personale loro proprio e il culto, ma secondo una lista di restrizioni dettagliatamente enumerate nei trattati di diritto islamico. Lo stato d’umiliazione che il Libro associa al pagamento della jizya implica che i cristiani non possano teoricamente occupare funzioni d’autorita` e che siano considerati in pratica come cittadini di seconda classe. Tuttora, i cristiani d’Egitto non possono insegnare la lingua araba negli istituti statali, perche´ nella maggior parte dei casi sono i professori di arabo a insegnare anche la religione; adempiono pero` al servizio militare, per esempio in Siria. Nella repubblica islamica del Sudan, le pene legali musulmane sono applicate loro per tutto quanto e` considerato reato dalla Legge musulmana, come il consumo di [M.-T.U.] vino. Bibliografia: Jacques Jomier, Pour connaıˆtre l’islam, Le Cerf, Paris, 1988.

CROCIFISSIONE Il Corano nega esplicitamente che Gesu` sia morto sulla croce. All’affermazione degli ebrei: «Abbiamo ucciso il Cristo, Gesu` figlio di Maria, Messaggero di Dio», risponde categoricamente: «Ne´ lo uccisero ne´ lo crocifissero (ma¯ salabu¯˙ occhi hu), bensı` qualcuno fu reso ai loro simile a Lui (wa-la¯kin shubbiha la-hum); e in verita` coloro la cui opinione e` diversa a questo proposito sono certo in dubbio ne´ hanno di questo scienza alcuna, bensı` seguono una congettura, che´ per certo essi non lo uccisero (wa ma¯ qatalu¯-hu yaqı¯nan) ma Iddio lo innalzo` a se´ (rafa‘a-hu Alla¯h ilay-hi), e Dio e` potente e saggio» (4,157-158). L’ambiguita` dell’espres-

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sione rafa‘a (ripresa piu` volte, anche in 3,55: «Dio disse: ‘‘O Gesu`, io ti faro` morire, e poi ti innalzero` fino a me, e ti purifichero` dagli infedeli’’») pone la questione di sapere se per il Corano Gesu` fu innalzato a Dio da vivo o se invece conobbe una morte naturale, come lascia intendere il versetto 19,33, in cui Gesu` dice: «Sia pace su di me, il dı` che nacqui e il dı` che muoio e il dı` quando saro` risuscitato a Vita». La tradizione musulmana ne ha dedotto che Gesu`, salito al cielo da vivo, riscendera` sulla terra alla fine dei tempi per fare trionfare l’islam, allora morira` di morte naturale, prima di essere resuscitato nel giorno della Resurrezione. Nell’ottica coranica, Gesu`, in quanto profeta, non poteva subire l’umiliazione della crocifissione, una pena comminata da Faraone ai suoi avversari (7,124; 20, 71; 26,49), che Dio stesso raccomanda come una delle pene da infliggere ai trasgressori: «La ricompensa di coloro che combattono Iddio e il Suo Messaggero e si danno a corrompere la terra e` che essi saranno massacrati, o crocifissi (yusal˙ labu¯), o amputati delle mani e dei piedi dai lati opposti, o banditi dalla terra» (5, 33). Sulla base di questo versetto, la Legge musulmana prescrive la crocifissione come una delle possibili sanzioni contro i briganti di strada, mentre alcuni giuristi l’ammettono anche in caso di ingiuria contro il Profeta, di eresia (zandaqa) e di stregoneria. La ‘‘passione’’ del mistico H alla¯ j, crocifisso nel 309/922 ˙ sotto l’accusa di zandaqa, ne costituisce un celebre e triste esempio. Date tali condizioni, e` evidente che Gesu` non poteva essere crocifisso. Se i versetti 4,157-158 non lasciano alcun dubbio in proposito, la loro oscurita` suscito` nondimeno innumerevoli commenti, tanto nella tradizione musulmana quanto negli studi degli orientalisti. Soprattutto si trova al centro dei dibattiti la frase wa-la¯kin shubbiha la-hum (che Denise Masson traduce: «Sembro` loro cosı` solo apparentemente», mentre Re´gis Blache`re, come l’italiano Alessandro Bausani, propone: «Il suo sosia venne sostituito ai loro occhi»).

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Dal XIX secolo, gli orientalisti vi hanno riconosciuto l’impronta di una cristologia gnostica di tipo ‘‘docetista’’. Infatti, la maggior parte dei movimenti gnostici dei primi secoli della nostra e`ra distinguono il Gesu` ‘‘pleromatico’’ o ‘‘pneumatico’’ dalla sua manifestazione terrena, corporea: solo quest’ultima, semplice involucro carnale, pote´ soffrire sulla croce, mentre il Gesu` ‘‘pneumatico’’ aveva abbandonato il corpo prima della crocifissione per raggiungere la sua origine celeste. Alcuni docetisti sostennero che il corpo che soffrı` e morı` sulla croce non era quello di Gesu` ma quello di un ‘‘sostituto’’ che aveva assunto le sue sembianze. Nella letteratura gnostica sono quindi stati rilevati numerosi passi che ricordano da vicino le espressioni shubbiha la-hum e il rafa‘a-hu Alla¯h ilay-hi del Corano. Per esempio, gli Atti apocrifi di Giovanni fanno dire a Gesu`: «Non sono colui che e` appeso alla Croce»; secondo Basilide (uno gnostico del II secolo dell’era cristiana), al posto di Gesu` sarebbe stato crocifisso Simone di Cirene; Tolomeo, un contemporaneo di Basilide, pretendeva invece che Gesu` fosse stato elevato al cielo ben prima della crocifissione; infine, il Vangelo di Filippo racconta di Gesu` che consola le donne in lacrime accanto al suo corpo senza vita: «Dio mi ha innalzato a lui – disse – e non mi e` accaduto nulla di male». Se questi paralleli sono evidenti, resta da comprendere in che modo la cristologia gnostica sia giunta sino al Corano. Gli esegeti musulmani, di fronte alla medesima preoccupazione di interpretare la frase enigmatica wa-la¯kin shubbiha lahum, attinsero abbondantemente a fonti gnostiche, che essi conobbero grazie a canali che in buona parte rimangono ancora oscuri. Tutti sembrano d’accordo nell’interpretare la frase nel senso che un’altra persona, somigliante a Gesu`, fu crocifissa al suo posto. Poiche´ il verbo shubbiha e` un passivo di seconda forma, se ne deduce che il suo soggetto e` Dio (secondo la grammatica araba, l’azione divina puo` esprimersi con un verbo passivo): «Dio ha fatto prendere l’apparenza

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CROCIFISSIONE

di Gesu` a qualcun altro»; sottinteso: in modo miracoloso. Le opinioni divergono sull’identita` del ‘‘sosia’’, ma si e` spesso pensato a Giuda: la sua trasformazione in una forma corporea identica a quella di Gesu`, affinche´ egli subisse la passione e la morte in sua vece, e` considerata un castigo per il suo tradimento. Tuttavia, alcuni esegeti piu` razionalisti, influenzati dal mu‘tazilismo, negarono la possibilita` di una tale ‘‘trasformazione’’ prossima alla ‘‘metamorfosi’’ (maskh). Per costoro, la sostituzione si spiega con un semplice errore di persona: gli ebrei, ignorando chi fosse Gesu`, arrestarono e uccisero un altro al suo posto, eventualmente Giuda. Le correnti gnostiche dell’islam, in particolare sciite, elaborarono questa cristologia ‘‘docetista’’ integrandola alle loro profetologia e imamologia. Profeti e imam, scrive Henry Corbin, divengono allora ‘‘figure epifaniche’’ la cui essenza divina (la¯hu¯t) si manifesta in una ‘‘umanita`’’ (na¯su¯t) concepita come un semplice involucro carnale. Applicata a Gesu`, al quale talvolta gli isma¯‘ı¯liti riconoscono la natura di un angelo (cristologia angelica; Engelchristologie), questa teoria ammette che il na¯su¯t di Gesu` soffrı` e morı` sulla croce, mentre il suo la¯hu¯t, impassibile, venne elevato al cielo. La questione della crocifissione e della sua esplicita negazione nel Corano svolse un ruolo assiale nella polemica islamocristiana. L’accento posto dai quattro vangeli sulla passione e la morte di Gesu` sulla croce, in flagrante contraddizione con l’insegnamento del Corano, fu spesso invocata dagli autori musulmani come una prova della ‘‘falsificazione’’ (tahrı¯f) del Vangelo da parte dei cristiani.˙ Ancora oggi, negli ambienti islamisti si usa fare riferimento al famoso Vangelo di Barnaba, che conterrebbe la verita` sulla crocifissione: al momento stesso del suo arresto da parte degli ebrei nel giardino degli Ulivi, Gesu` fu elevato al cielo dagli angeli Gabriele, Michele, Raffaele e Uriele, mentre Giuda fu crocifisso al suo posto. [D.DeS.]

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CULTURA TRIBALE

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Bibliografia: Heribert Busse, «Jesu Errettung vom Kreuz in der islamischen Koranexegese von Sure 4,157», in Oriens, 36 (2001), pp. 160-195; Id., «Der Tod Jesu in der Darstellung des Korans, Sure 3,55, und die Islamische Koranexegese», in Studia Orientalia Christiana Collectanea, 31 (1998), pp. 36-76; Luigi Cirillo, Michel Fre´maux, Evangile de Barnabe´. Recherches sur la composition et l’origine, pref. di Henry Corbin, Beauchesne, Paris 1977; Eugenio Giustolisi, Giuseppe Rizzardi, Il vangelo di Barnaba: un vangelo per i musulmani?, Istituto propaganda libraria, Milano 1991; Manfred Ullmann, Das Motiv Der Kreuzigung in der Arabischen Poesie des Mittelalters, Harrassowitz, Wiesbaden 1995; Dietrich Voorgang, Die Passion Jesu und Christi in der Gnosis, Lang, Frankfurt am Main 1991.

CULTURA TRIBALE Vedi TRIBU` E CULTURA TRIBALE. CUORE Il cuore (qalb), con lo spirito (ru¯ h ) e ˙ l’anima (nafs), gioca un ruolo primario per comprendere l’organizzazione dello psichismo coranico nelle molteplici dimensioni e trasformazioni. La ricchezza del lessico coranico per indicare questo concetto testimonia l’importanza che esso riveste nella formazione dei dati di fede musulmana. Per converso, alcuni elementi dello psichismo sottile presenti nella filosofia e nella mistica musulmane non compaiono nel Libro, per esempio il termine ‘aql, intelletto. La mistica islamica ha fatto largo uso del termine qalb, a esprimere il luogo che e` essenziale obiettivo nell’educazione spirituale. Deriva dalla radice «qlb» che indica principalmente l’idea di girare e rigirarsi, come esprime chiaramente una tradizione attribuita al Profeta: «I cuori delle creature stanno tra due dita del Misericordioso, e quando egli vuole rigirare un cuore lo rigira»; cosı` pure una preghiera: «O tu che fai girare i cuori, accetta il mio cuore nella tua religione». Qalb riunisce dunque due significati principali. L’idea piu` comunemente utilizzata e` quella di quintessenza o nucleo (lubb), parte piu` profonda

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di qualcosa; in una tradizione e` detto che «tutto ha un cuore». Qalb puo` indicare anche il cuore come muscolo di carne, nel qual caso e` descritto solitamente come un organo a forma di pigna che si trova al centro del petto o sadr, termine ˙ quest’ultimo che fa parte anch’esso del lessico coranico. Come testimoniano le tradizioni gia` riportate, il cuore si considera l’organo che e` sede delle percezioni, dei sentimenti, delle emozioni e delle conoscenze. In quanto tale e` sottoposto a rovesciamenti e a cambiamenti permanenti (taqallub, inqila¯b) che esso solitamente non padroneggia. Altri termini sono usati a complemento di qalb, e talvolta come suoi sinonimi: sadr (petto), che compare quarantaquattro volte nel Corano; fu’a¯d (cuore, soprattutto in senso fisico), usato sedici volte, tutte del periodo meccano; lubb (nocciolo e piu` in generale intelligenza) sempre impiegato nel plurale alba¯b, che compare diciassette volte. Cuore, qalb, occupa tuttavia un posto privilegiato ed eccezionale nel Libro sacro, che lo cita centrotrentadue volte. Seguendo lo sviluppo storico della rivelazione coranica, si nota che il suo impiego e` sempre piu` frequente mano a mano che prende forma la missione del Profeta: e` citato quaranta volte nel periodo meccano e novantadue volte in quello medinese, quindi piu` del doppio. Notiamo allora che nel vocabolario coranico qalb ha la meglio sugli altri termini che eventualmente compaiono in combinazione con esso, senza peraltro squalificarli; con questi termini, esso forma un insieme complesso di senso, del quale tuttavia occupa il ruolo centrale e di cui e` l’asse portante. Il cuore e` l’organo con cui l’uomo comprende, in modo simile a come vede e ode (7,179). Il cuore e` situato nel petto (sadr) ˙ ed e` dotato di vista, un’idea che lo sciismo delle origini riprendera` e arricchira` considerevolmente: «Non gia` i loro occhi sono ciechi, ma cieco hanno il cuore nel petto» (22,46). Se il termine fu’a¯d, la cui radice richiama l’idea di toccare e raggiungere il cuore, di colpirlo o consumarlo, e` utilizzato in un celebre versetto per confermare

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la veridicita` della visione per mezzo del cuore – «non smentı` il cuore (fu’a¯d) quel che vide» (53,11) – il Corano sottolinea che il cuore qalb e` un organo ambivalente, dai due aspetti: quello fisico, poiche´ e` il muscolo di carne a forma di pigna che sta nel petto, e quello spirituale, poiche´ e` l’organo capace di comprensione e dotato di una vista piu` acuta. Questa ambivalenza fa del cuore l’obiettivo della formazione tramite la fede che esso dovrebbe dare all’uomo, uomo la cui caratteristica e` appunto possedere un cuore, cioe` la conoscenza di cui egli fu originariamente investito. Il Corano afferma che tutto e` stato creato a coppie, ma sottolinea che ogni uomo ha un solo cuore: «Dio non ha posto due cuori nelle viscere dell’uomo» (33,4). Osservato da questo punto di vista, il cuore, che e` unico, spicca come l’organo preposto al riconoscimento della divina unicita`. Dio sigilla i cuori e non li guida sul cammino diritto (10,74; 30,59); inoltre pone un sigillo sul cuore del tiranno (7,101). E` un punto divenuto cruciale nella discussione sulla liberta`. Il cuore e` l’oggetto stesso dell’attenzione divina, e a questo proposito puo` essere malato e deve guarire. L’empieta` o l’ipocrisia sono in questo senso interpretate come malattie che lo affliggono e che Dio fa progredire: «Hanno una malattia nel cuore, e questa malattia Iddio l’accresce e avranno un castigo doloroso per la loro menzogna» (2,10). Conseguenza della malattia del cuore e` di ritorcere i previsti effetti della Rivelazione contro chi ne e` colpito, aggravando il suo male: «In coloro che credono si accresce la fede e sono tutti pieni di letizia, mentre in coloro che hanno il cuore malato s’accresce sozzura su sozzura e muoiono da empi» (9,124-125). Tale malattia si manifesta attraverso l’impurita` che il cuore alberga al proprio interno, simile a ruggine, facendo implicitamente del cuore uno specchio: «No per certo! Quel che iniquamente operano devasta loro il cuore come un velo di ruggine» (83,14). A questo cuore malato e coperto di ruggine si oppone ‘‘il cuore sano’’ (al-qalb al-salı¯m): «Il giorno in

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CUORE

cui a nulla serviranno ricchezze e figli e solo varra` chi avra` portato a Dio un cuore sano» (26,88-89). Il credente dal cuore sano per eccellenza e` Abramo, il quale «si accosto` col cuore sano al Signore» (37,84). Il cuore deve trovare la pace interiore, e questo e` possibile solo con il ricordo di Dio: «Coloro che credono, coloro i cui cuori si acquietano al ricordo di Dio: non e` forse col ricordo di Dio che si acquietano i cuori?» (13,28). Se condizione di tale pace interiore e` la fede, essa necessita del Ricordo, grazie al quale il cuore e` purificato. Tuttavia la purificazione (tazkı¯ya) e` possibile solo per grazia di Dio: «Se non fosse per il favore di Dio su di voi e per la sua misericordia, neppure uno di voi sarebbe puro giammai, ma Iddio purifica chi Egli vuole» (24,21). Il cuore e` un organo che non solo deve essere puro e sano, ma anche pieno di timor di Dio e di contrizione: Dio promette salvezza al credente che «temette il Misericordioso in segreto e venne a lui con cuore contrito» (50,33). La purezza del cuore si manifesta attraverso la sua stessa pace interiore e attraverso il timore reverenziale (taqwa¯), grazie al quale esso intuisce Dio nella sua dimensione misteriosa: «Chi rispetta i riti di Dio sappia ch’essi sgorgano dal Sacro timore dei cuori» (22,32). Il cuore appare allora come il luogo stesso della rivelazione coranica e della sua conservazione: «Lo porto` lo Spirito Fedele sul tuo cuore, perche´ fossi di monito agli uomini» (26, 193-194). E` il luogo della manifestazione dello spirito (di quest’ultimo il Corano afferma che e` un mistero direttamente derivato dall’ordine di Dio) e inoltre il luogo in cui discende la presenza acquietante di Dio, la sakı¯na che raddoppia la fede e la rende ‘‘fede su fede’’: «Egli e` colui che fece discendere la sua Pacificante Presenza nei cuori dei credenti, per aggiungere fede alla loro fede» (48,4). Questa presenza divina nei cuori dei credenti e` dunque una rivelazione aggiuntiva che illumina il credente e contrasta la cecita` con cui Dio colpisce chi non crede rendendolo allo stesso tempo cieco e ostile alla rivelazione. E` questa una sorta

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CUORE

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di abitudine divina ricollegata alla natura della profezia: «Tutti i messaggeri che vennero a loro, essi li schernivano, ecco quel che operiamo nel cuore degli scellerati» (15,11-12). Chi non crede ha il cuore cieco alla Rivelazione, ed e` cieco sul proprio destino; una cecita` che proviene dal tradimento della semplicita` del cuore, occupato da altri de`i indebitamente associati a Dio. Gli infedeli saranno dunque sorpresi dal terrore che Dio suscitera` in loro: «Getteremo il terrore nel cuore degli infedeli, perche´ hanno associato a Dio esseri che Dio non ha investito di autorita` alcuna» (3,151). La purificazione del cuore e l’accrescersi della fede grazie alla divina presenza procurano un addolcimento e un intenerimento interiori: «Si raggrinza la pelle di quelli che il loro Signore paventano, e poi si addolcisce la pelle loro, e i cuori, all’udire il nome di Dio» (39,23). L’infedelta`, al contrario, indurisce il cuore e lo rende chiuso alla Misericordia: «Guai a chi indurisce il cuore davanti al nome di Dio» (39,22). Secondo il Corano, il cuore si caratterizza dunque, allo stesso modo, per la sua durezza (qaswa). Poiche´ il Libro sacro insiste sulla resistenza dei cuori induriti, questo tema e` ripreso piu` volte sotto diverse forme: «Ma in seguito i vostri cuori s’indurirono e divennero come le pietre, anzi piu` duri ancora» (2,74). Questa durezza rende il cuore ermeticamente chiuso alla rivelazione ma suscettibile alle tentazioni del diavolo: «I loro cuori si sono induriti e Satana ha loro abbellito cio` che stavano facendo» (6,43). La durezza e la malattia del cuore sono i due elementi che aprono la porta alla tentazione: «Questo ordina Iddio per fare dei suggerimenti di Satana una prova per coloro che hanno un morbo nel cuore, per coloro che hanno il cuore indurito» (22,53).

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Attingendo a questo sostrato, la mistica musulmana si e` costituita come una spiritualita` del cuore e ha elaborato una sorta di scienza dei cuori. Le tecniche di invocazione o rammemorazione dei nomi divini, disciplina caratteristica della spiritualita` musulmana, hanno lo scopo di purificare il cuore e intenerirlo per accrescerne la fede. Il cuore deve cosı` adempiere al senso della volonta` creatrice e divenire il ricettacolo dei nomi di Dio i quali, colmando di se´ l’essere stesso del mistico, si manifestano in quanto realta`. Lo sciismo delle origini ha sviluppato una concezione della visione di Dio attraverso il cuore (al-ru’ya bi al-qalb); essa associa l’imam al luogo di manifestazione della luce divina che il cuore deve saper riconoscere per poter essere davvero il ‘‘cuore sano’’ menzionato dal Corano. Il fedele sciita e` dunque colui che testimonia la presenza realizzata dell’imam in lui, sia come luce divina sia come cuore, cioe` come insieme delle modalita` assolte. Se Dio non puo` essere visto, si lascia in compenso percepire dall’occhio del cuore che nel cuore fa schiudere l’intelligenza [P.B.] santa. Bibliografia: Mohammad Ali Amir-Moezzi, «La vision par le coeur dans l’Islam chiite», in Connaissance des religions, 57-5859, janvier-septembre 1999; George Chehata Anawati, Louis Gardet, Mystique musulmane: aspects et tendances, expe´riences et techniques, Vrin, Paris 1986; Louis Gardet, Dieu et la destine´e de l’homme, Vrin, Paris 1967; Annemarie Schimmel, Le Soufisme ou les dimensions mystiques de l’Islam, Le Cerf, Paris 1996 (trad. it. Sufismo. Introduzione alla mistica islamica, a cura di Roberto Tottoli, Morcelliana, Brescia 2001).

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D DANZA Vedi SALMODIA, MUSICA E DANZA. DAVIDE Il Corano allude piu` volte al re-profeta Davide (Da¯wu¯d), eventualmente menzionato insieme a suo figlio Salomone (Sulayma¯n). Dei complessi racconti contenuti nei due libri biblici di Samuele, il Corano ha mantenuto solo alcuni elementi significativi nel contesto della predicazione di Muhammad. La lotta di Davide contro Golia (Ja¯lu¯t) e` evocata immediatamente dopo la menzione del desiderio espresso dagli israeliti di darsi un re (2,246-251; si veda anche 1Sam 8 e 17). Il loro profeta, non denominato ma chiaramente identificato con Samuele (Shamu¯’ı¯l) dai commentatori, ricevuta un’ispirazione, sceglie Saul (Ta¯lu¯t), ˙ delcon la promessa di recuperare l’Arca l’Alleanza. Il ridotto esercito di Saul e il debole Davide riescono, con l’aiuto di Dio, a vincere nemici molto superiori numericamente, addirittura dei giganti. Da una parte traspare qui l’allusione ai combattimenti dei musulmani contro le coalizioni tribali e gli eserciti numericamente superiori, e dall’altra sono evocate le esitazioni di alcuni musulmani tiepidi e degli ebrei a partecipare allo sforzo militare. Del resto, gli storici e commentatori del Corano come Tabarı¯ (m. 310/923) cono˙ biblici dei quali riprenscono i racconti dono alcuni tratti, inserendoli in un contesto coranico e aggiungendovi molti dettagli mirabili. Cosı`, la narrazione della ricerca, da parte di Samuele, del piu` giovane tra i figli di Iesse (I¯sha¯) e dell’unzione di costui, nonche´ della vittoria spettacolare di Davide contro il gigante Golia e il suo esercito, o ancora della gelosia e dell’odio di Saul per il giovane eroe che lo spingono a tentare di assassinarlo, e` ac-

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compagnata da elementi fantastici. Il Corano riporta inoltre, in forma edulcorata, la storia di Saul che consulta la negromante della citta` di Endor (1Sam 28). Poi Davide divenne un re potente e incontestato, capo di un incredibile esercito. Il racconto della colpa di Davide, che procura la morte del suo ufficiale Uria per poterne sposare la moglie, nonche´ l’intervento di Natan, si trova nel Corano in una forma molto allusiva e modificata (28,21-25; vedi anche 2Sam 11-12, e forse anche Mt 18,12 sgg. e Lc 15,3 sgg.). I due litiganti fratelli, che i commentatori identificano con due angeli, scalano il muro del santuario in cui si trovava Davide. Uno dei due afferma che suo fratello possiede novantanove pecore e lui una sola, e che il fratello intende privarlo dell’unica pecora. Davide giudica a favore del piu` sfortunato e si pente amaramente presso Dio. Il Corano non dice nulla di piu`, ma i commentatori richiamano la storia della passione di Davide per la moglie di Uria. Secondo le loro narrazioni, Davide avrebbe chiesto a Dio il grado supremo dell’elezione profetica. Dio aveva risposto che cio` poteva avvenire solo dopo una prova, di quelle subite da Abramo, al quale fu chiesto il sacrificio del figlio, o da Giuseppe, venduto dai suoi fratelli, o ancora da Mose`, che dovette affrontare Faraone. Davide accetto` il principio della prova, ma non ci penso` piu`; ed ecco che un influsso satanico gli fece desiderare la moglie di Uria, quand’egli ne possedeva gia` quarantanove. Causando la morte di Uria, aveva potuto sposarne la moglie, che poi diede alla luce Salomone, ma i due angeli vennero a ricordargli il patto della prova; allora Davide, costernato, entro` in uno stato di pentimento spettacolare: verso` lacrime ininterrotte fino all’ottenimento del perdono divino. Questa riscrittura del testo biblico permette di pre-

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DAVIDE

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servare quel dogma essenziale dell’islam che e` l’impeccabilita` ovvero infallibilita` dei profeti. La grave colpa di Davide non deriva piu` da un’incontrollata inclinazione carnale, ma e` una prova causata da Dio, il cui scopo e` il progresso spirituale e morale del profeta. Davide ne esce accresciuto, malgrado la gravita` della sua azione. D’altra parte, ma secondariamente, il fatto che un profeta del piu` alto livello spirituale disponesse di un harem numeroso permise ai musulmani di contrastare le critiche di alcuni ebrei medinesi sul numero delle mogli di Muhammad. Davide ricevette da Dio la rivelazione di un testo sacro, lo Zabu¯r, come Mose` ricevette la Torah e Gesu` il Vangelo (4,163; 17,55). L’identificazione di questo testo rivelato con i Salmi non pone particolari problemi; tutt’al piu` essa indica la grande popolarita` di questo testo, considerato come rivelazione autonoma, quando il Corano non menziona fra i testi sacri degli israeliti ne´ i libri dei profeti di Israele ne´ gli scritti agiografici (Giobbe, Il cantico dei cantici ecc.). I commentatori del Corano notano correttamente che lo Zabu¯r non apporto` una nuova Legge in sostituzione di quella gia` rivelata a Mose`, poiche´ il suo contenuto attiene alla pieta`: essi ritengono che si tratti di un’opera di edificazione morale e di saggezza; questo indica che certamente non lo consultavano. Secondo gli autori musulmani, il regno di Davide segno` profondamente la storia sacra. Il Corano menziona a piu` riprese Salomone insieme a suo padre. Il seguito della sua discendenza cosı` com’e` descritto nella Bibbia non compare nel testo sacro, ma la tradizione extracoranica lo conosce e lo restituisce con relativa precisione. Questa stessa tradizione parla della scelta di Gerusalemme come capitale e anche della decisione di Davide di costruirvi un tempio per ringraziare Dio di aver risparmiato la popolazione dalle calamita`. Tuttavia egli non potra` realizzare questo progetto, completato invece dal suo figlio e successore.

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La figura di Davide invita a considerazioni teologiche su vari temi e in primo luogo sul legame tra regalita` temporale e missione profetica, una duplice grandezza che prima di lui era stata accordata solo a Giuseppe (che d’altra parte non fu re, ma solo intendente del re d’Egitto), e dopo di lui a suo figlio Salomone e anche a Muhammad, capo di uno stato pur non essendo un monarca in senso stretto. La regalita` di Davide deriva da una pura elezione divina, perche´ nulla lo predisponeva a un tale destino: ne´ la sua famiglia, di umili origini, ne´ l’ambizione personale, tutto questo a differenza di Salomone. Dio accordo` a Davide ‘‘il Regno e la Saggezza’’ (2,251), gli conferı` ‘‘la scienza’’ (27,15) e la ‘‘parola decisiva’’ (38,20). ‘‘Saggezza’’ e` qui da intendersi nel senso molto specifico di ‘‘sapere fondato in Dio’’, di cui hanno beneficiato molti profeti (Giovanni e Gesu` in particolare): Davide e` dunque un vero profeta per i musulmani e non solo un capo ispirato. Egli figura a pieno titolo nella stirpe dei grandi inviati che predicarono il monoteismo dalle origini dell’umanita` fino a Muhammad. Questa saggezza puo` senz’altro applicarsi agli umani casi di arbitraggio: il versetto 21,78 allude al caso preciso, purtroppo poco esplicito, di un campo le cui colture sarebbero state danneggiate da un gregge. I querelanti avrebbero chiesto a Davide e a Salomone un arbitrato e, secondo i commentatori, Davide avrebbe proposto che il gregge fosse dato ai proprietari del campo come indennizzo; ma il suo giovane figlio Salomone, in modo piu` elaborato, avrebbe giudicato che era meglio dare ai querelanti solo l’usufrutto del gregge finche´ l’indennizzo non fosse stato raggiunto. Comunque sia, Davide rimase celebre per il suo senso della giustizia resa al suo popolo. Non si tratta solo di assumere la responsabilita` di un regno, ma anche di prolungare sulla terra un’azione propriamente divina, la responsabilita` dell’andamento della creazione. Le implicazione della regalita` davidica sembrano piu` importanti della dimensione di potere e giustizia. Il ruolo di ‘‘luogotenente di Dio sulla terra’’ che

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Dio attribuisce a Davide secondo il versetto 38,26 ricorda la medesima funzione assegnata ad Adamo al momento della sua creazione. Qui si introduce il ruolo del dono tutto particolare di Davide per il canto e la musica, di cui parlano gia` i testi biblici (per esempio 1Sam 16,14 sgg.), e si apre quindi un vivace dibattito sull’arte e la spiritualita` . Diversi versetti ricordano che Dio ha sottomesso a Davide le montagne e gli uccelli perche´ proclamassero la lode di Dio mattina e sera (21,79; 34,10; 38,18-19; si veda anche Sal 98,4-9 e Sal 148). La sua voce, precisano i commentatori, era cosı` forte e cosı` bella che, quando cantava i Salmi, gli uccelli smettevano di volare per fargli eco e anche le montagne iniziavano a lodare Dio insieme a lui. Gli uccelli e gli altri animali erano talmente affascinati dal suo canto che potevano morire di fame e di sete se egli non smetteva di cantare; quanto agli esseri umani, non potevano ascoltarlo senza mettersi a danzare. Questa funzione di organizzatore di una liturgia cosmica, attribuita a Davide, e` in certo qual modo una prefigurazione dell’Aldila`: dopo la resurrezione, Dio chiedera` a Davide di cantare nuovamente, e la bellezza della sua voce fara` dimenticare ai beati le delizie del paradiso. La facolta` che Davide possiede di conoscere e gestire gli elementi naturali egli la condivide con il figlio Salomone, il quale comandava ai jinn e ai venti, e comprendeva il linguaggio degli uccelli. La tradizione mistica riconosce a entrambi i profeti la funzione di ‘‘Polo del mondo’’, l’uomo perfetto attraverso il quale Dio governa il mondo. Presente in ogni generazione, in genere esso e` celato agli uomini: nel caso di Davide e di Salomone, la regalita` spirituale coincide con la sovranita` esteriore, politica. D’altra parte, a Davide e` attribuito un sapere tecnico particolare: egli sarebbe l’inventore delle cotte di maglia «che vi schermassero dalla vostra violenza» (21, 80; 34,10-11). Piu` precisamente, Dio gli avrebbe insegnato il segreto della loro fabbricazione. E` difficile individuare l’origine storica di questa affermazione, tal-

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DEMONI

volta riferita anche a Salomone; tuttavia, la sua importanza e` meno aneddotica di quanto sembri: i benefici recati dai profeti non si limitano alla predicazione per l’altro mondo, ma possono concernere anche la vita materiale. Questo tema del profeta inventore e` sviluppato da alcuni storici musulmani in particolare a proposito di Idrı¯s, il quale, identificato con Hermes, avrebbe trasmesso agli uomini i segreti dell’astronomia, della medicina e dell’alchimia. Gli storici aggiungono che questo fu per Davide un modo per guadagnarsi da vivere. Questo puo` sorprendere trattandosi di un re, ma corrisponde in ogni caso alla perfezione morale raccomandata dal profeta Muhammad: il miglior cibo che si possa mangiare e` quello guadagnato con il lavoro delle proprie mani. D’altra parte, secondo varie tradizioni profetiche che lodano il suo modo di pregare (un terzo della notte) e di digiunare (un giorno su due), il modello del profeta Davide e` invocato da Muhammad; la Tradizione islamica afferma che egli morı` in [P.L.] posizione di prosternazione. Bibliografia: Jean-Louis De´clais, David raconte´ par les musulmans, Le Cerf, Paris 1999; Heinrich Speyer, Die biblischen Erza¨hlungen im Qoran, G. Olms, Hildesheim 1961; Tabarı¯, I profeti e i re. Una storia del mondo˙ dalla creazione a Gesu`, a cura di Sergio Noja, Guanda, Parma 1993; Roberto Tottoli, I profeti biblici nella tradizione islamica, Paideia, Brescia 1999.

DEMONI La demonologia coranica, oscura e complessa insieme, riunisce elementi di origine diversa: un fondo arabo pagano e politeista si affianca alle tradizioni bibliche. Il demone compare talvolta col nome semitico al-Shayta¯n (‘‘Satana’’), talvolta col nome di Iblı¯s,˙ nel quale viene generalmente riconosciuto il greco dia´bolos, sebbene i lessicografi arabi lo mettano piuttosto in relazione col verbo ablasa (‘‘essere disperato’’, ‘‘essere stupefatto’’) attestato nel Corano (6,44; 23,77; 30,12; 43, 75). Al suo fianco figura una pluralita` di

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DEMONI

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‘‘demoni’’ (shaya¯t¯ın), esseri di diversa natura, che non si˙ distinguono in modo chiaro dai jinn. Nel Corano Iblı¯s e` menzionato undici volte, sempre come un nome proprio e in rapporto al mito di Adamo. Pur descrivendolo sia come angelo (2,34) sia come jinn ( 18,50), il Corano riferisce che rifiuto` di obbedire all’ordine divino di prosternarsi davanti ad Adamo, col pretesto che questi era un mortale creato «d’argilla secca, presa da fango nero impastato», mentre lui, Iblı¯s, fu creato dal fuoco (in particolare 15,33; 38,75-76). A causa della sua insubordinazione e del suo orgoglio, Dio lo maledisse e lo caccio`, senza dubbio dal paradiso, per precipitarlo nell’inferno (15,34-35; 38,77-78). Tuttavia, su richiesta di Iblı¯s, Dio gli accordo` un differimento fino al giorno dell’ultimo Giudizio. Inoltre concluse con lui un accordo: in cambio di questa proroga, Iblı¯s avrebbe avuto la missione di ingannare gli uomini dalla fede vacillante, al fine di dannare i nemici di Dio e reclutare gli infedeli candidati a riempire la Geenna (15,36-43; 38,79-86). Questo curioso patto tra Dio e il diavolo, che diviene in qualche sorta un ausiliario della divinita`, ha imbarazzato esegeti, teologi e filosofi musulmani, e ha catturato l’attenzione degli storici della religione: se nel racconto coranico della caduta di Iblı¯s si sono identificate le tracce di testi ebraico-cristiani (in particolare La vita di Adamo ed Eva e La Caverna dei Tesori), il tema del patto col diavolo e` stato attribuito a influenze gnostiche o a concezioni dualiste di ispirazione zoroastriana. La prima impresa di Iblı¯s nel nuovo ruolo di tentatore fu causare la perdizione di Adamo (e di Eva, ma il suo nome non compare nel Corano) facendo loro mangiare i frutti dell’Albero proibito (7,2022; 20,120-121). Dopo la sua caduta e la sua maledizione, Iblı¯s il ‘‘Reietto’’ (o il ‘‘Lapidato’’, al-rajı¯m; 3,36; 16,98), divenne ‘‘al-Shayta¯n’’, il diavolo (2,34-36). Nel Corano, lo ˙Shayta¯n ricopre un senso ˙ ¯s: il termine commolto piu` ampio di Iblı pare una sessantina di volte con l’articolo, in contesti molto diversi. Indica un essere

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malefico, la cui natura e origine non sono specificate, un avversario di Dio e degli uomini, tentatore e ingannatore, che semina odio e discordia diffondendo la perdizione attorno a se´ (per esempio 2,36; 3, 155; 4,38 e 60; 5,91). Trasmette il proprio messaggio ingannatore e seduttore preferibilmente sussurrando all’orecchio (waswasa) delle vittime, come spiegano i sei versetti della sura 114, di grande qualita` letteraria: «Io mi rifugio presso il Signore degli uomini, Re degli uomini, Dio degli uomini, dal male del sussurratore furtivo che sussurra nei cuori degli uomini (min sharr al-waswa¯s al-khanna¯s alladhı¯ yuwaswisu fı¯ sudu¯r al-na¯s)» (cfr. anche 7, 20; 20,120).˙ Contrariamente a Iblı¯s, Shayta¯n non e` un ˙ impiega il nome proprio, poiche´ il Corano termine sei volte senza articolo per indicare un ‘‘demone’’ in senso generale (per esempio in 15,17: «Le guardammo attenti contro ogni demone vile»). Inoltre, la forma plurale shaya¯t¯ın (diciotto occor˙ ‘‘demoni’’, forze renze) si rapporta a dei o geni che si confondono con i jinn e fanno senza dubbio riferimento alla demonologia araba pagana, o addirittura alle divinita` del pantheon arabo preislamico (2,14 e 102; 6,71,112 e 121). Gli avversari pagani di Muhammad attribuivano, per esempio, le sue rivelazioni all’influenza degli shaya¯t¯ın (26,210 e 221). ˙ questi non sono Ma, analogamente ai jinn, necessariamente malefici, come testimonia la leggenda di Salomone che ricevette come aiutanti dei ‘‘demoni costruttori’’ (38,37). I dati disparati, oscuri e contradditori della demonologia coranica causarono molti grattacapi agli esegeti, che tentarono in un modo o nell’altro di conciliarli o sistematizzarli. I loro sforzi consistevano soprattutto nello stabilire la natura di Iblı¯s (angelo o jinn?) e nel capire come un angelo, creatura perfetta esente dal peccato, possa ribellarsi contro la volonta` divina. Inoltre, gli aha¯dı¯th e la letteratura ˙ islamica commentarono e completarono i racconti coranici alla luce di elementi tratti dalla Aggadah ebraica, dai testi apocrifi cristiani e dalla tradizione araba pa-

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gana. Tra gli altri, Il libro degli animali (Kita¯ b al-h ayawa¯ n) di Ja¯ h iz (m. 256/ ˙ una sintesi eloquente. ˙ ˙ 869), ne offre Accanto a Iblı¯s e a Satana compaiono un gran numero di shaya¯t¯ın tra i quali figurano i ˙ della credenza araba demoni del deserto pagana (in particolare i ghu¯l, pl. aghwa¯l, le si‘la¯t e gli ‘ifrı¯t, pl. ‘afa¯rı¯t) apparentati ai jinn. Secondo Ja¯hiz, «se il jinn e` mis˙ credente, ingiusto, ˙ostile, cattivo, e` uno shayta¯n; se e` puro, pulito, esente da ogni ˙ poiche´ completamente buono, e` sozzura un angelo». Le figure di Satana, Iblı¯s e dei demoni occupano uno spazio importante nella teologia musulmana (problema dell’origine del male), nel sufismo e nelle credenze popolari, inoltre esse determinano in modo fondamentale la coscienza religiosa dello sciismo. Infatti, quale movimento minoritario, escluso dal potere e sottomesso a continue vessazioni, lo sciismo sviluppo` una visione della storia nella quale si riflettono, ripetendosi all’infinito, i racconti coranici dell’insubordinazione di Iblı¯s e delle azioni malefiche di Satana. Cosı`, si riteneva che ogni profeta, ogni imam avesse avuto il proprio avversario (didd) che, alla stregua di Iblı¯s, rifiutava di ˙riconoscere la sua missione e incitava gli uomini a ribellarsi contro di lui. Nel ciclo islamico, gli avversari ‘‘diabolici’’ dell’imam ‘Alı¯ sarebbero stati i primi tre califfi, Abu¯ Bakr, ‘Umar e ‘Uthma¯n (soprattutto ‘Umar, spesso definito Iblı¯s al-aba¯lisa, ‘‘il diavolo supremo’’), seguiti dai califfi omayyadi, in particolare Yazı¯d, ritenuto responsabile del massacro di al-Husayn a Karbala¯’. ˙ La dottrina sciita elaboro` in tal modo una visione dualista del mondo animata dalla dialettica tra Bene e Male: di fronte alla luce degli Amici di Dio, si innalzano le tenebre dei suoi avversari. Le correnti filosofiche sorte in seno allo sciismo, in particolare l’isma¯ ‘ı¯lismo, adattarono questo dualismo a una cosmogonia di tipo neoplatonico, in cui l’emanazione delle diverse ipostasi a partire dall’Intelletto e` attribuita all’orgoglio o alla disobbedienza del demiurgo, identificato con l’Anima universale o la terza Intelligenza.

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Questo ‘‘dramma nel cielo’’, divenne allora il prototipo cosmico della rivolta di Iblı¯s, come appare nel Corano. L’estrema conseguenza di una simile teoria si evidenzia nella dottrina dei drusi, in cui ognuna delle cinque ipostasi, o principi luminosi di cui si compone il mondo intelligibile, fa coppia con un avversario demoniaco, principio di oscurita`. Ogni coppia si incarna nella storia del mondo in qualsiasi momento e vi causa una lotta incessante tra il Bene e il Male. La simbiosi tra le tradizioni bibliche e arabe pagane genero` nel Corano una triade costituita da angeli, jinn e demoni. Nelle traduzioni arabe dei testi greci neopitagorici e neoplatonici, questa fu a sua volta giustapposta alla triade pagana costituita dagli de`i, gli eroi e i demoni. Ne risulto` una demonologia neoplatonica islamizzata, che vide il suo sviluppo in particolare nell’Enciclopedia dei Fratelli della Purita` (Rasa¯’il Ikhwa¯n al-Safa¯’), ma anche nelle scienze occulte,˙ nelle opere degli alchimisti e nei trattati di ma[D.DeS.] gia e astrologia. Bibliografia: Mohammad Ali Amir-Moezzi, «Seul l’homme de Dieu est humain. The´ologie et anthropologie mystique a` travers l’exe´ge`se imamite ancienne (Aspects de l’imamologie duode´cimaine IV)», in Arabica, 45/3 (1998), pp. 193-214; Peter J. Awn, Satan’s Tragedy and Redemption. Iblı¯s in Sufi Psychology, Brill, Leiden 1983; Edmund Beck, «Iblı¯s und Mensch, Satan und Adam. Der Werdegang einer koranischen Erza¨hlung», in Le Muse´on, 89 (1976), pp. 195-244; Daniel De Smet, «Anges, diables et de´mons en gnose islamique. Vers l’islamisation d’une de´ monologie ne´ oplatonicienne», in Rika Gyselen (a cura di) De´mons et merveilles d’Orient, in Res Orientales, Bures-sur-Yvette, 13 (2001), pp. 61-70; Toufy Fahd, «Anges, de´mons et djinns en Islam», in Ge´nies, anges et de´mons, Le Seuil (coll. Sources orientales), Paris 1971, pp. 115-214.

DEPOSITO DIVINO Per la sua radice, il termine ama¯na ‘‘deposito’’ o ‘‘pegno’’ connota il duplice senso di sicurezza e di fiducia. Nell’accezione piu` concreta, esso designa un depo-

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sito affidato a un depositario. Il Corano lo impiega piu` precisamente per i debiti contratti in viaggio tra due persone che si fidano l’una dell’altra: «Se qualcuno di voi affida a un altro una cosa, il depositario restituisca il suo deposito e tema Iddio, suo Signore» (2,283). La rimessa scrupolosa dei depositi consegnati fa parte delle qualita` dei credenti, «coloro che i depositi in fiducia e i giuramenti rispettano» (23, 8). Il testo coranico fa tuttavia di questo termine un uso assai piu` ampio, che la tradizione esegetica si sforza di precisare o contestualizzare. Il versetto che recita «Iddio vi comanda di restituire i depositi fiduciari agli aventi diritto e, quando giudicate fra gli uomini, di giudicare secondo giustizia» (4,58) e` seguito dalla richiesta di obbedire «a Dio, al Suo Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorita`». I commentatori antichi ritengono dunque che l’ordine di restituire i depositi riguardi innanzitutto il capo della comunita` e i suoi rappresentanti (wula¯t al-amr). Il seguente aneddoto, riferito a proposito del versetto appena citato, conferma questa interpretazione, poiche´ da` a ama¯na il senso di ‘‘funzione’’, qualunque essa sia. Al tempo della conquista della Mecca, il Profeta chiese a ‘Uthma¯n ibn Talha, capo ˙ chiavi ˙ le dei Banu¯ Shayba che detenevano della Ka‘ba, di dargli quelle chiavi. ‘Uthma¯n inizialmente rifiuto` ma poi finı` per cedere dicendo, secondo una versione: «Ecco a te il deposito (ha¯k al-ama¯na)». ‘Alı¯ o ‘Abba¯s chiesero al Profeta di poter custodire le chiavi, cioe` di poter avere la custodia della Ka‘ba, funzione esercitata appunto dai Banu¯ Shayba, del clan dei Banu¯ ‘Abd al-Da¯r, rivali dei Banu¯ Ha¯shim che erano il clan del Profeta. Muhammad entro` nella Ka‘ba, vi prego` e ricevette la rivelazione dei versetti che poi recito` quando rese le chiavi a chi gliele aveva consegnate, confermandolo cosı` nella sua funzione. In questa tradizione, ama¯na designa tanto la virtu` del capo della comunita` che conferisce gli incarichi a chi ne e` degno o e` destinato ad assumerli, quanto la funzione stessa. Tuttavia, come riconosce Tabarı¯ (m. 310/ ˙ 923), seguito dalla maggior parte dei

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commentatori, questa nozione riveste un senso molto piu` generale, e abbraccia tutta la sfera della religione e anche i diritti e i doveri che legano gli uomini tra di loro. Nel suo commento al versetto 4, 58, Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ classifica il rispetto fedele dei depositi secondo una gerarchia tripartita. Innanzitutto vi e` l’osservanza del deposito consegnato da Dio, seguendo i suoi ordini e le sue interdizioni. Cita in questo caso una parola del Compagno Ibn Mas‘u¯d che fa dei riti altrettanti depositi che l’uomo deve rendere a Dio il piu` intatti possibile. Quanto a Ibn ‘Umar, il figlio del secondo califfo, riteneva che tutti i sensi e le membra dell’uomo, e in particolare il sesso, fossero depositi che l’uomo deve rendere a Dio dopo averne usato conformemente alla volonta` divina. Secondariamente, l’uomo deve osservare l’ama¯na nei confronti degli esseri e delle cose; essa e` rispetto dei depositi affidati, dei pesi e delle misure, dell’onore e della reputazione delle persone, e` dovere di giustizia da parte dei dirigenti, di guida e di consiglio da parte delle persone sagge. In terzo luogo, l’uomo deve rispettare la propria persona, che Dio gli ha affidato, scegliendo sempre il meglio per se´ in questo mondo e nell’altro. Cosı`, sempre secondo Ra¯zı¯, l’ordine di rendere i depositi a coloro cui essi appartengono abbraccia l’insieme delle obbligazioni nei confronti degli altri e precede l’ordine di applicare la giustizia facendo rispettare il diritto che gli uni vantano sugli altri. Prima di occuparsi degli altri, l’uomo deve iniziare dalla sua persona. Nella sura del Bottino, questo appello al rispetto di cio` che e` dovuto a ciascuno viene corroborato dalla messa in guardia contro il tradimento della fiducia (khiya¯nat al-ama¯na): «O voi che credete! Non tradite Dio e il Suo Messaggero, poiche´ cosı` facendo tradireste i pegni in voi riposti da Dio, e voi lo sapete» (8,27). A proposito di questo versetto, Tabarı¯ fa riferi˙ mento a due possibili ‘‘circostanze della rivelazione’’, o la battaglia di Badr (2/ 264), o il giuramento dei Banu¯ Qurayza ˙ dopo la battaglia di Khandaq, ‘‘il Fos-

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sato’’ (5/627). Un Compagno, Abu¯ Luba¯ba, che era legato a quella tribu` ebraica, avrebbe fatto un segno per mettere in guardia i suoi appartenenti contro le intenzioni del Profeta, cio` di cui si sarebbe subito pentito. In entrambi i casi, si tratta di un segreto confidato e quindi indebitamente divulgato. Si e` ritenuto inoltre che questo versetto contenesse un’allusione alla morte di ‘Uthma¯n o alla rivolta di Zubayr contro ‘Alı¯, allora califfo, cio` che mostra ancora una volta come l’ama¯na sia stata spesso identificata da un lato con il califfato e, dall’altra, con la relazione che lega il credente al rappresentante dell’autorita` divina e profetica. E` tuttavia l’interpretazione piu` ampia ad aver prevalso: i depositi di Dio sono le opere di obbligazione divina (fara¯’id) e i depositi dell’In˙ da lui inaugurate viato sono le pratiche (sunan); trascurarle e` tradire colui che le ha istituite oppure, quando si tratta di funzioni, colui cui sono state affidate. Queste diverse interpretazioni sono pienamente giustificate dai versetti che concludono la sura delle Fazioni Alleate, che fanno dell’ama¯na un legame privilegiato e vincolante, universale e cosmico tra Dio e l’uomo: «Noi abbiamo proposto il Pegno ai Cieli e alla Terra e ai Monti, ed essi rifiutarono di portarlo, e n’ebbero paura. Ma se ne carico` l’Uomo, e l’Uomo e` ingiusto e d’ogni legge ignaro! Questo perche´ Iddio possa punire gli ipocriti e le ipocrite e gli idolatri e le idolatre e possa volgersi invece benigno ai credenti e alle credenti. Che´ Dio e` indulgente clemente!» (33,72-73). Il castigo e la ricompensa legati a questo deposito e alla sua intrinseca gravita` spiegano il rifiuto di portare un tale carico da parte del cosmo. Questi versetti fanno del deposito l’immagine della luogotenenza di Dio assunta dall’uomo nei confronti della terra, e l’espressione dell’imposizione della Legge (taklı¯f) che abbraccia ogni campo dell’attivita` umana e condiziona il divenire escatologico dell’uomo. Il deposito e` talmente pesante che l’universo tutto intero non puo` portarlo, mentre l’uomo, malgrado la sua debolezza, accetta di farsene carico, a proprio detrimento e senza valutarne le

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conseguenze. Si puo` allora misurare la pesantezza del deposito che il Corano stesso e`: discendendo, esso potrebbe polverizzare una montagna (59,21), ma il cuore dell’uomo sa sopportarlo. Riprendendo le interpretazioni tradizionali, Ibn ‘Ajı¯ba (m. 1224/1809) distingue nel suo commentario la dimensione interiore del deposito, data dalla realizzazione metafisica dell’unita` divina (tawh¯ıd), e la sua dimensione esteriore, data ˙dalle istituzioni della Legge. Ibn ‘Arabı¯ (m. 638/1240) coglie in questi versetti un’allusione all’Uomo Perfetto o Universale che ha ricevuto la luogotenenza sulla terra e al quale Dio ha insegnato tutti i suoi Nomi (2,31). Egli fa torto a se stesso ignorando il posto che occupa in conseguenza di questo incarico. E` cosı` ingiusto da attribuire a se stesso, per ignoranza, cio` che non appartiene ad altri che a Dio. Secondo Mohammad Ali Amir-Moezzi, per gli autori sciiti piu` antichi coloro che possono portare ‘‘il deposito della profezia’’ sono gli imam, ispirati dallo Spirito santo; coloro che hanno tradito Dio, il suo Inviato e i loro depositi sono invece i nonsciiti, che hanno falsato il Libro. Nella Tradizione sunnita, due tradizioni parallele, riportate rispettivamente da Ma¯lik (m. 179/796) e da Ibn Hanbal (m. 241/ ˙ 855), pur senza parlare esplicitamente di ‘‘deposito’’, identificano implicitamente l’ama¯na al Corano e all’eredita` profetica, si tratti dell’insegnamento del Profeta oppure della sua discendenza carnale e spirituale: «Vi ho lasciato due cose che non vi permetteranno di perdervi, finche´ vi atterrete ad esse con fermezza: il Libro di Dio e la Sunna del suo Profeta»; «vi lascio due pesanti carichi: il Libro di Dio, corda tesa dal cielo verso la terra, e la mia discendenza, le genti della mia Casa». [D.G.]

Bibliografia: Mohammad Ali Amir-Moezzi, Le Guide divin dans le shı¯‘isme originel. Aux sources de l’e´sote´risme en islam, Verdier, Paris-Lagrasse 1992; William C. Chittick, The Self-Disclosure of God. Principles of Ibn al-‘Arabı¯’s Cosmology, State University of New York Press, Albany

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1998; Id., The Sufi Path of Knowledge: Ibn al-‘Arabı¯’s Metaphysics of Imagination, State University of New York Press, Albany 1989.

DESTINO Corso predeterminato degli avvenimenti in generale e delle azioni umane in particolare, il destino e` legato alla questione del rapporto tra libero arbitrio e predestinazione che suscito` vivaci controversie tra i teologi musulmani. Infatti, sia i deterministi sia i non deterministi potevano appellarsi al Corano, il quale non si pronuncia in modo univoco sull’argomento, poiche´ l’accento posto sulla predestinazione e` controbilanciato dall’asserzione altrettanto forte della liberta` e della responsabilita` umane. Gli aspetti deterministici del Corano riprendono in parte il fatalismo preislamico, che puo` sintetizzarsi nella nozione impersonale di tempo-destino (dahr) – sul quale l’uomo non ha alcun potere di intervento – che si incontra anche nella poesia preislamica sotto i nomi di al-zama¯n, ‘‘il tempo’’, e di al-ayya¯m, ‘‘i giorni’’. Il dahr si ritrova nel Corano (45,24 e 76,1), e inizialmente si tento` di identificarlo con Dio o di farne un attributo divino. In uno hadı¯th riportato dal Sah¯ıh di Bukha¯rı¯ (m. ˙256/870), Dio dichiara: ˙ sono il dahr; ˙ ˙ «Io tengo la notte e il giorno tra le mie mani». Sebbene i commentatori – sempre attenti a dissociarsi dalle credenze preislamiche attribuite all’‘‘Epoca dell’Ignoranza’’ (Ja¯hiliyya) – abbiano interpretato questa tradizione evitando ogni identificazione, il carattere implacabile del dahr ha influenzato nondimeno il teocentrismo islamico: il Corano vi sostituisce un Dio personale la cui onnipotenza e onniscienza sembrano eclissare totalmente la liberta` e la responsabilita` umane. Nel Corano ricorrono due termini, che assumeranno un significato tecnico nella teologia (‘ilm al-kala¯m), associati all’idea di predestinazione nel senso dell’onnipotenza divina. Il primo e` il verbo qada¯ ˙ (radice «qdy»), ‘‘decretare’’, ‘‘decidere’’, ˙ usato principalmente per sottolineare il potere creatore di Dio, la sua sovranita`

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sul Giudizio e sulla morte. Secondo la maggior parte dei commentatori il verbo qada¯, come il sostantivo da esso derivato, ˙ a¯ ’ (‘‘decreto’’, ‘‘destino’’), corriqad ˙ sponde al decreto divino universale ed eterno. E` l’espressione della volonta` divina (mashı¯’a) e, analogamente a quest’ultima, e` un attributo dell’essenza. Un versetto vi associa Muhammad («allorche´ Dio e il Suo Messaggero hanno deciso [...]»; 33,36) ma, nella gran parte dei casi, si tratta di un atto di Dio senza intermediari, talvolta collegato alla sua Parola creatrice: «quando ha decretato (qada¯) una cosa non fa che dire: ‘‘Sii!’’ (kun)˙ ed essa e`» (2,117; per la Parola con senso di decreto, cfr. 6,115; 7,137; 10,33 e 96; 11, 119; 40,6). Il secondo termine associato all’idea di predestinazione e` il verbo qadara (intensivo qaddara; radice «qdr»), che significa al tempo stesso ‘‘misurare’’, ‘‘determinare’’ e ‘‘avere potere su qualcuno o qualcosa’’, in riferimento alla creazione che Dio misura e ordina. Secondo la maggioranza degli esegeti, il suo sostantivo qadar, ‘‘decreto’’ (e gli aggettivi qadı¯r e qa¯dir con i quali e` reso l’attributo divino ‘‘Potente’’, che sottolinea l’onnipotenza di Dio su ogni cosa), corrisponde al decreto contingente, che agisce nel tempo. Esso concerne il passaggio dei possibili dal non-essere all’essere, uno a uno, conformemente al qada¯’, fissando il ˙ individuale. limite o la misura dell’essere Inoltre realizza l’amr, il ‘‘comando’’, nozione affine al qadar che esprime particolarmente la dipendenza del creato dalle leggi promulgate da Dio. L’amr non soltanto forgia il destino umano ma si rivolge anche agli angeli (13,11; 18,50; 19,64; 21, 27), ai jinn (34,12) e a Iblı¯s (7,12). Come il qada¯’, l’amr e` una prerogativa divina della˙ quale il Profeta non partecipa: riferendosi al perdono o al castigo riservato agli increduli, Allah disse a Muhammad: ««Tu non hai autorita` (amr) alcuna su questa questione» (3,128). Lo scarto tra qadar e qada¯’, tra tempo e ˙ eternita`, tra creato e increato, farebbe intravvedere la possibilita` di uno spazio per la liberta` e la responsabilita` umane. Tuttavia, il Corano e` inflessibile quanto al-

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l’applicazione del decreto eterno sul piano temporale e non sembra lasciare alcuno spiraglio aperto: gli eventi sono meri strumenti del decreto trascendente e non possono essere gli uni la causa degli altri. La predestinazione e` sostenuta da un teocentrismo che priva di qualsivoglia fondamento la causalita` fenomenica: di fronte a Dio che e` ‘‘la Verita`’’ (al-Haqq), ˙ (al‘‘il Vivente’’ (al-Hayy), ‘‘l’Eterno’’ ˙ Qayyu¯m, letteralmente ‘‘colui che mantiene in essere’’), la creazione in se´ e` puro non-essere, e` ‘‘morta’’ e inconsistente. Cosı`, l’applicazione del decreto si confonde con l’azione di un Soggetto unico per tramite delle sue creature: in un brano che allude alla battaglia di Badr, si legge: «Ma non voi li uccideste, bensı` Dio li uccise, e non eri tu a tirare frecce, bensı` Dio le lanciava» (8,17). La ‘‘Notte del destino’’ (o ‘‘della potenza’’, Laylat alqadr, 97,1-5), che assumera` grande importanza nel dogma, sara` interpretata da alcuni come il trasferimento del decreto eterno, ogni anno rinnovato, sul piano temporale, che rende nota al credente la propria efficacia sul corso degli eventi. Il Corano appare dunque rigidamente determinista. Tanto il corso degli eventi quanto il destino umano dipendono integralmente da un decreto eterno: innanzitutto il concepimento e la nascita, che lo esprimono in quanto sequenza di atti creativi divini (77,20-23; 80,18-22); poi la vita, che dipende da una sussistenza (rizq) accordata da Dio (che e` al-Razza¯q, ‘‘l’Elargitore’’, ‘‘Colui che provvede alla sussistenza’’), in virtu` di un decreto precedentemente stabilito (51,22); infine la morte, che e` un ‘‘termine fisso’’ (ajal oppure ajal musamma¯) da Dio, che implica una predeterminazione della durata della vita (per esempio 6,2). Tale durata determinata e` fissata per ogni uomo ma anche per ogni comunita` (7,34 e 185; 10,49; 15, 5; 23,43), per i jinn (6,128), per il rapido incedere del sole e della luna (13,2; 31,29; 35,13; 39,5), per i cieli e la terra (17,99; 30,8; 46,3). In materia religiosa, il Corano ribadisce piu` volte che Dio pone (yaj‘alu) e guida (yahdı¯) sulla retta via (sira¯t mu˙ ˙6,39; staqı¯m) chi egli vuole (2,142 e 213;

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10,25; 24,46), e allo stesso modo fa smarrire (yudillu) chi vuole (6,39). Dio sembra l’unico˙a decidere della fede o della miscredenza dell’uomo, agendo sul suo ‘‘cuore’’ (qalb, fu¯’a¯d) o sul suo ‘‘petto’’ (sadr), organi di percezione del divino: ˙ pone sul cuore degli increduli un ‘‘siegli gillo’’ (45,23) o un ‘‘velo’’ (6,25), li indurisce (5,13), li rende indifferenti al messaggio coranico (aghfalna¯ qalba-hu ‘an dhikri-na¯ , ‘‘rendemmo distratto il suo cuore al nostro monito’’, 18,28) oppure li devia (61,5); per converso, Dio apre il petto di colui che egli vuole guidare (6, 125; 39,22). L’idea di predestinazione si esprime inoltre attraverso l’onniscienza, mediante il simbolismo di libro e scrittura. Il Corano, cosı`, evoca molto spesso il ‘‘libro’’ o i ‘‘libri’’ o i ‘‘due libri’’ che contengono il destino universale e quello individuale. Gli avvenimenti passati e futuri sono scritti in un libro ‘‘chiaro’’ o ‘‘luminoso’’ (mubı¯n, 10,61; 11,6; 27,75; 34,3; 57,22) o in un libro celeste (Umm al-Kita¯ b, la ‘‘Madre del Libro’’, ovvero Lawh mahfu¯z, ˙ versetti ˙ ˙ la ‘‘Tavola custodita’’). Numerosi associano la predestinazione alla scrittura divina: «Rispondi loro: ‘‘Non ci accadra` che quel che Dio ha scritto per noi’’» (9, 51; vedi anche, per esempio, 3,145 e 154). Libri simili come simboli della prescienza divina sono ben noti alla Bibbia e alle tradizioni ebraico-cristiane. La responsabilita` umana Ciononostante, il Corano afferma con altrettanta forza la responsabilita` dell’uomo sulle sue azioni e in tal modo ne presuppone la liberta`. Il teocentrismo coranico insiste talmente sull’assoluta sovranita` di Dio nel giorno del Giudizio (1, 4) da limitare al massimo l’intercessione (shafa¯‘a); tuttavia, senza la liberta` e la responsabilita` individuali che rendono la vita terrena un periodo di prove, il giorno del Giudizio e` spogliato di senso. Infatti, e` presentato come il ‘‘giorno del Conto’’ (Yawm al-Hisa¯ b, per esempio 38,16 e 26), in cui ˙gli uomini saranno posti davanti alle loro azioni. L’atto umano e` collegato al verbo kasaba, ‘‘acquisire com-

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piendo qualcosa’’; il male o il bene che ha compiuto a suo proprio vantaggio o detrimento vengono acquisiti dall’uomo, gli vengono messi in conto (hisa¯b). In tal ˙ modo, il simbolismo della scrittura viene utilizzato anche per le azioni umane, alle quali sono riservati appositi registri. Angeli scribi (6,61) oppure due angeli (50, 17-18) mettono per iscritto in libri (17,1314; 45,28-29) «quanto avete acquisito» (ma¯ kasabtum) attraverso le opere, buone o malvagie; secondo l’escatologia musulmana, lo stesso defunto, nella tomba, mette per iscritto le azioni della sua vita e deve dar conto della sua fede durante un interrogatorio. Il Giudizio e` una pesa delle azioni (sul simbolismo della bilancia cfr. 7,8-9; 21,47; 23,102-3; 101,6-9) e il Corano pone l’accento sulla sua equita`, perche´ a nessuno sara` fatto torto, nel bene o nel male, fosse pure per un atomo o per il ‘‘peso di una formica’’ (mithqa¯l dharra). E` evidente che le azioni ‘‘pesano’’ soltanto se sfuggono alla predestinazione e comportano la responsabilita` dell’uomo in quanto soggetto libero: la guida e la perdizione che provengono da Dio dipendono dalle azioni umane buone o malvagie (2,26; 3,86; 16,104); l’uomo ha la responsabilita` di purificare la sua anima (91,7-10); Dio non muta la condizione di chi prima non cambia se stesso (13,11) e conduce alla perdizione chi decide di disobbedirgli (7,28; 11,101) o si allontana volontariamente dalla via (23,74). Dio guida solo quelli che credono nei suoi segni (16,104), che in lui si rifugiano (3, 101), che lo seguono (19,43) ecc. Guida e perdizione oscillano dunque tra atto umano e atto divino, un’ambivalenza talvolta presente in uno stesso versetto: «Ora chi vuole scelga verso il Signore la sua Via. Ma se non vuole Iddio, non lo vorrete» (76,29-30). La cooperazione tra uomo e Dio risulta chiaramente nella reciprocita` del pentimento e del perdono, espressi in arabo dal medesimo verbo: Dio perdona (ta¯ba ‘ala¯, letteralmente ‘‘ritorna verso’’) colui che si pente (ta¯ba ila¯ Alla¯h, letteralmente che ‘‘ritorna verso Dio’’). Questa ambiguita` alimentera` i dibattiti sui versetti che fanno riferimento al

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sigillo e al velo posti da Dio sui cuori: sono il risultato oppure la causa dell’infedelta`? Nelle sei raccolte canoniche di Hadı¯th del sunnismo, i capitoli sul qadar ˙difendono una posizione predeterminista. Nel corpus antico di Hadı¯th sciiti, l’idea di predestinazione e`˙ veicolata da alcune tradizioni antropogoniche dualiste, secondo le quali credenti e miscredenti sono stati tolti da una argilla differente (presa, gli uni, da ‘Illiyu¯n, ‘‘libro’’ o ‘‘mondo’’ dei puri, e per gli altri da Sijjı¯n, ‘‘libro’’ o ‘‘mondo’’ degli impuri). Nondimeno, alcune tradizioni alludono a un ‘‘impasto delle due argille’’ (ikhtila¯t al-t¯ınatayn) ˙ di˙ Adamo, che si ebbe nella creazione lasciando cosı` ai suoi discendenti la liberta` di porre in atto la loro natura o di cambiarla. Cosı`, l’ima¯mismo antico opto` per una posizione a mezza via tra il libero arbitrio e la predestinazione, riassunta dalla formula ‘‘decreto tra i due decreti’’ (amr bayna al-amrayn). La costituzione di queste raccolte e` contemporanea all’acceso dibattito sulla questione del libero arbitrio e della predestinazione (al-qada¯’ wa al-qadar) avviata ˙ della liberta` umana, a dai teologi fautori detrimento dell’onnipotenza divina, contro i tradizionalisti (principalmente gli ash‘ariti). Questi teologi sono designati dai loro avversari con l’appellativo di qadariyya. I primi argomenti dei qadariti sono esposti nella celebre Epistola sulla predestinazione di Hasan al-Bas rı¯ (m. ˙ ˙ califfo omayyade 110/728) indirizzata al ‘Abd al-Malik, che regno` dal 65/685 all’86/705. I dibattiti proseguirono nel III/IX secolo e accompagnarono lo sviluppo della teologia razionale. Sulla scia dei qadariyya, i mu‘taziliti difesero l’autodeterminazione dell’uomo, in forza della capacita` di azione (qudra) posta in lui da Dio. I mu‘taziliti ritennero che la predestinazione fosse incompatibile con la giustizia divina, analogamente agli sciiti i quali, in materia di teologia scolastica, si allinearono alle posizioni mu‘tazilite. Gli stessi tradizionalisti si sforzeranno di conciliare la preminenza del decreto divino con la responsabilita` umana:

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secondo le scuole, i significati attribuiti a qada¯’ e a qadar e i rapporti che intercor˙ rerebbero tra loro faranno intervenire le nozioni di ‘‘potere contingente’’ (qudra ha¯ditha), di ‘‘acquisizione’’ o ‘‘presa a ˙carico’’ da parte dell’uomo delle sue proprie azioni (kasb, iktisa¯b), ecc. Occorre precisare che qualunque sia il peso dato al decreto divino, nell’islam esso si considera sempre associato all’idea di rinnovamento o reiterazione del creato: la sovranita` divina e` quella che misura e determina la creazione in ogni istante e non quella di un Dio estraneo a un mondo predeterminato, di un deus ex machina. Resta da considerare l’aporia dell’onnipotenza divina e della liberta` umana ricordando il carattere prescrittivo e non descrittivo del Corano: suo scopo non e` condurre alla coerenza logica di una teodicea, ma esortare alla fede costantemente. [M.G.] Bibliografia: Louis Gardet, Dieu et la destine´e de l’homme, Vrin, Paris 1967; William Montgomery Watt, Free Will and Predestination in Early Islam, Luzac, London 1948.

DHIKR Dhikr, nella sua accezione spirituale, indica una rammemorazione-invocazione di Dio. Questo termine riveste in effetti significati diversi e piuttosto vaghi nel Corano. La radice «dhkr» possiede due sensi principali. In primo luogo ‘‘fecondare’’, ‘‘rendere maschile’’, ‘‘partorire maschi’’, ‘‘affilare’’. Sotto questo aspetto, il dhikr e` in senso primordiale, la Parola che veicola i semi contenuti nella coscienza divina. Come scrive Maurice Gloton, «esso esprime le virtu` generative del Principio attivo che compenetra la manifestazione universale, matrice delle forme del mondo, ordinandole secondo l’azione dei germi della saggezza e dell’amore». Il secondo senso e` quello di ‘‘ricordare ad altri’’, ‘‘menzionare’’, ‘‘ricordarsi’’, ‘‘invocare’’. Secondo una modalita` piu` immediata, l’impiego di dhikr che qui interessa si situa in questo campo semantico. Occorre pertanto lasciare il campo aperto:

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come precisa Ibn ‘Arabı¯ (m. 638/1240), il dhikr e` un attributo divino, e in realta` e` Dio che si menziona e menziona le sue creature prima che queste ultime lo invochino. Il dhikr, in quanto coscienza, e poi attivita`, non puo` dunque ridursi ad alcuna forma esclusiva, perche´ «tutto in questo mondo invoca Dio». Per questo, nel Corano, il dhikr rinvia implicitamente o esplicitamente a realta` molteplici. Il dhikr e` il Corano stesso: «In verita` Noi abbiamo rivelato l’Ammonimento (dhikr) e Noi ne siamo i custodi» (15,9); ma designa anche i testi rivelati anteriormente: «E da prima non inviammo che uomini al mondo, cui ispirammo la Nostra rivelazione; e domandatene, se non lo sapete, a quelli che prima ricevettero il Monito (ahl aldhikr)» (16,43). Il dhikr e` ugualmente la preghiera rituale (62,9), l’informazione (19,41), l’onore della rivelazione offerta a Muhammad e al suo popolo (43,44), l’apprendimento a memoria del Corano (54,17), il ‘‘richiamo’’ a piu` riprese, e cosı` via. Il dhikr puo` riassumere da solo la prospettiva spirituale generale dell’islam e la sua messa in opera. Solo il dhikr, in effetti, permette di lottare contro l’amnesia che tenta l’uomo, dimentico delle proprie origini divine e del patto (mı¯tha¯q) siglato con Dio nella preeternita`: «Ricordatevi della grazia che Iddio vi ha elargito e del patto che avete stretto con Lui, quando diceste: ‘‘Abbiamo ascoltato e siamo pronti a ubbidire’’» (5,7); «quando il tuo Signore trasse dai lombi dei figli d’Adamo tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro se stessi: ‘‘Non sono Io, chiese, il vostro Signore?’’ essi risposero: ‘‘Sı`, l’attestiamo!’’. Questo facemmo perche´ non aveste poi a dire, il giorno della Resurrezione: ‘‘Noi tutto questo non lo sapevamo!’’» (7,172). Nell’islam, la via spirituale consiste nella reminiscenza, incessantemente riattivata, di questo stato di indifferenziazione con il divino che l’essere umano ha conosciuto prima di essere incarnato. Come il Corano ripete tanto spesso, l’uomo e` smemorato per natura, dimentico dei benefici di Dio, e il kufr corrisponde esattamente a questa ingrati-

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tudine quasi ontologica dalla quale deriva la ‘‘miscredenza’’. Il Corano non smette di ammonire contro questa amnesia: «Se lo dimentichi, invoca il nome del tuo Signore» (18,24); «ricordatevi di Me, e Io mi ricordero` di voi»; e ancora: «Ricordatevi dunque di Me ed Io mi ricordero` di voi, siate grati a Me e non mi rinnegate» (2,152). Il dhikr consiste allora, per i mistici musulmani, nella lotta contro questa tendenza umana alla negligenza e alla distrazione, al fine di essere presenti a Dio, cioe` di essere coscienti, capaci della presenza divina. Sono numerosi i versetti che raccomandano di invocare Iddio. Il Corano afferma, in primo luogo, la superiorita` del ricordoinvocazione di Dio su tutte le altre forme di adorazione (preghiera, digiuno, pellegrinaggio ecc.); e` detto «La menzione di Dio (dhikr Alla¯h) e` la cosa piu` grande» (29,45). Come sottolineano i sufi, il dhikr deve la propria eccellenza al fatto di essere prescritto in ogni momento, mentre gli altri riti hanno tempi determinati e possono essere oggetto di dispensa. Infatti, esso fa sı` che l’essere umano si trovi sempre alla presenza di Dio, qualunque siano la sua condizione o la sua attivita`: «Essi rammentano il nome santo di Dio, in piedi, seduti o coricati sui fianchi» (3,191). Il Corano sottolinea i benefici spirituali dell’invocazione. Il dhikr e` pace: «Non e` con il ricordo di Dio che si acquietano i cuori?» (13,28); ed e` protezione: «In verita` coloro che temono Dio, quando li tocca un visitatore notturno venuto da Satana, si rammentano dei precetti di Dio ed ecco, vedono chiaro» (7,201). Al contrario, trascurare la pratica del dhikr conduce alla morte dell’anima e alla sventura: «Chi si distogliera` dal Mio monito (o ricordo; dhikr), avra` miserabile vita» (20, 124). L’essere ricettivi all’invocazione di Dio e` dunque il segno di una fede autentica: «In verita` veri credenti sono coloro ai quali, quando si nomina il nome santo di Dio, trema il cuore» (8,2). Il dhikr e` dunque il primo passo sulla via dell’amore perche´, come dicono i sufi, quando si ama qualcuno si ama ripeterne il nome e costantemente lo si ricorda.

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Chi si invoca durante il dhikr? Dio, sicuramente. Per mezzo del suo nome, o piuttosto per mezzo del nome della sua essenza, Alla¯h, nome che sintetizza e abbraccia tutti gli altri nomi divini. Nondimeno, questo ‘‘Nome di Maesta`’’ puo` per principio essere invocato solo dalla persona immersa nell’Unicita`, e ogni maestro (shaykh) sufi non ne prescrive l’invocazione a chiunque. La formula coranica piu` utilizzata e` la¯ ila¯h illa¯ Alla¯h (‘‘non c’e` altro dio che Dio’’), cioe` la ‘‘testimonianza di fede’’, il primo pilastro dell’islam. La virtu` della sua ripetizione e` tale che essa conviene, si dice, sia ai novizi sia alle persone giunte a un alto grado di realizzazione spirituale. Di fatto, Ibn ‘Arabı¯ pratico` a lungo l’invocazione Alla¯h prima di privilegiare definitivamente la¯ ila¯h illa¯ Alla¯h. Quanti praticano il dhikr – e non si tratta soltanto dei sufi – invocano ugualmente Dio per mezzo dei suoi ‘‘Bellissimi Nomi’’ (al-asma¯’ al-husna¯), menzionati nel Corano a gruppi, ˙a coppie o in forma isolata. Il loro numero canonico e` 99; il centesimo, il ‘‘Nome> supremo’’, rimane nascosto, almeno ai credenti comuni. Si suddividono in attributi della bellezza (jama¯l) o della gentilezza (lutf) da una parte, ˙ rigore (qahr) della maesta` (jala¯l) o del dall’altra. I nomi della bellezza sono evidentemente assai piu` invocati di quelli del rigore, e alcuni sono oggetto di una menzione particolare, come al-Rahma¯n (‘‘il ˙ Clemente’’), al-Rah¯ım (‘‘il Misericor˙ Gentile’’, ‘‘il Sotdioso’’), al-Lat¯ıf (‘‘il ˙ tile’’, ‘‘il Benevolo’’) e altri. I sufi rifiutano per lo piu` di invocare il nome dell’essenza, Alla¯h. Invocano allora Dio in modo allusivo con il nome di al-Haqq (‘‘l’unico Reale’’). Da un lato, alcuni impieghi hanno ottenuto nel corso dei secoli una loro indipendenza (invocare un certo nome divino per un certo numero di volte), essendo destinati a sedute collettive di dhikr; dall’altro, i maestri propongono la ‘‘terapia’’ del dhikr, dando a ciascun discepolo un dato nome da invocare, in ragione della personalita` spirituale di ciascuno; infatti, ogni nome impregna le creature che, invocandolo, possono ap-

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propriarsi della sua qualita`: il nome divino rappresenta una forma tangibile della divinita` nonche´ uno specifico rimedio per ogni individuo. I sufi invocano Dio con nomi perfino piu` ellittici, poiche´ la pratica del dhikr, quando si affina, sfiora l’ineffabile. Lo invocano con il pronome Huwa (‘‘Lui’’), molto presente nel Corano, che facilmente si riduce a Hu¯: il nome diviene allora puro soffio, il soffio creatore del Vivente, al-Hayy, nome spesso invocato nelle sedute ˙collettive. Essi lo invocano in modo ancora piu` sottile con l’esalazione di Ah, prima e ultima lettera del nome Alla¯h, il quale in tal modo si riassorbe in se stesso, e sfugge al mondo della manifestazione. Ad alta voce o in silenzio? L’invocazione va praticata a voce alta o in segreto? Dietro questa domanda si cela la questione della sincerita`, perche´ il discepolo puo` lasciarsi intrappolare nell’esteriorizzazione del ricordo intimo di Dio. L’una e l’altra forma di invocazione hanno comunque un fondamento profetico, poiche´ Muhammad avrebbe iniziato Abu¯ Bakr all’invocazione ‘‘segreta’’ e dunque silenziosa (dhikr khafı¯), e ‘Alı¯ all’invocazione sonora (dhikr jahrı¯). I sufi che afferiscono all’ordine dei naqshbandiyya, la cui catena iniziatica include Abu¯ Bakr, hanno generalmente optato per l’invocazione silenziosa, anche detta ‘‘invocazione del cuore’’ (dhikr qalbı¯). I detrattori dell’invocazione ad alta voce si appoggiano su alcuni versetti, per esempio: «Menziona il nome del tuo Signore, nell’intimo tuo, in umilta` e reverenza, e a bassa voce» (7,205); ma i suoi sostenitori rispondono che questo versetto riguarda il Profeta soltanto, che era gia` spiritualmente realizzato, oppure si spiega con le persecuzioni dei primi musulmani alla Mecca. La gran parte dei maestri, oggi, ritiene che i novizi debbano invocare Dio a voce alta, per respingere l’assalto del mentale e rinforzare la concentrazione. Quanto precede illustra come il ruolo del dhikr nel sufismo sia centrale sotto ogni

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aspetto. In effetti, non solo il Corano incita a questa pratica: lo hadı¯th qudsı¯, dichiarazione divina con ˙la quale Dio si rivolge all’uomo in prima persona (nel Corano, Dio impiega le prime persone del singolare e del plurale, e la terza del singolare), evoca la prossimita` di Dio cui il dhikr conduce: «Io sono l’intimo di colui che mi invoca»; «Io sono secondo l’idea che il mio servo si fa di Me, Io sono con lui quando mi invoca; se egli mi invoca in se stesso, Io lo invoco in Me stesso». Il Profeta stesso riconobbe molte volte l’eccellenza del dhikr rispetto ai cinque pilastri dell’islam: «I cuori si arrugginiscono come si arrugginisce il ferro», disse ai suoi Compagni. Uno di loro domando`: «E che cos’e` che li fa brillare?». Rispose: «L’invocazione di Dio e la lettura del Corano». In un altra occasione aggiunse: «Chi invoca il suo Signore e chi non lo fa sono come il vivo e il morto». I sufi si dedicano all’invocazione sia individualmente sia nelle assemblee collettive. Tali sessioni collettive, la cui pratica si diffuse con la comparsa delle ‘‘Vie iniziatiche’’ o ‘‘confraternite’’ (tarı¯qa¯t o turuq, ˙ sing. tarı¯qa) a partire dal˙ VI/XII ˙secolo, ˙ sono rapidamente diventate il punto focale della loro vita. Con l’andare del tempo, i metodi di invocazione hanno via via acquistato in complessita`, rivolgendo l’attenzione al soffio, alla postura, alla visualizzazione interiore. Secondo i sufi, l’esperienza spirituale inizia sempre dal mondo fenomenico per interiorizzarsi in modo graduale. Per lo piu`, essi ritengono che l’invocazione comporti tre livelli di approfondimento. Il primo e` l’invocazione della lingua (dhikr al-lisa¯n), che prevede la pronuncia orale della formula, e corrisponde alla dimensione corporea; essa deve accompagnarsi all’attenzione del cuore, senza la quale la pratica e` vana. Il secondo livello e` l’invocazione del cuore (dhikr alqalb), che ha sede nell’organo fisico, simbolo di quello spirituale; tale invocazione e` silenziosa, perche´ deve accordarsi ai battiti del cuore e seguire la pulsazione del sangue nel corpo. Ultima viene l’invocazione della

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coscienza intima (dhikr al-sirr): a questo livello ogni traccia di dualita` scompare, e chi invoca si annulla nell’Invocato. [E´.G.] Bibliografia: Georges Chehata Anawati, Mistica islamica. Aspetti e tendenze, esperienza e tecnica, SEI, Torino 1960; Arthur John Arberry, Introduzione alla mistica dell’Islam, Marietti, Genova 1986; E´va de Vitray-Meyerovitch, Anthologie du soufisme, Sindbad, Paris 1978 (trad. it. I mistici dell’islam. Antologia del Sufismo, Guanda, Parma 2002); E´ric Geoffroy, Initiation au soufisme, Fayard, Paris 2003; Maurice Gloton, «Les secrets du coeur selon l’islam», in Connaissance des religions, 5759 (1999), p. 126; Ibn ‘Ata¯’ Alla¯h, Traite´ ˙ sur le nom Alla¯h, trad. dall’arabo di Maurice Gloton, Les Deux Oce´ans, Paris 1981; Toshihiko Izutsu, Unicita` dell’esistenza e creazione perpetua nella mistica islamica (pref. di Francesca Lucchetta, intr. di Alberto Ventura), Marietti, Genova 1991; Kala¯ba¯dhı¯, Il sufismo nelle parole degli antichi, (a cura di Paolo Urizzi, pref. di Denis Gril), Officina di Studi Medievali, Palermo 2002 (con testo arabo); Seyyed Hossein Nasr, Il sufismo, Rusconi, Milano 1975; Angelo Scarabel, Il sufismo. Storia e dottrina, Carocci, Roma 2007; Annemarie Schimmel, Sufismo. Introduzione alla mistica islamica (a cura di Roberto Tottoli), Morcelliana, Brescia 2001.

DHIMMA e DHIMMI¯ La parola araba dhimma designa correntemente il regime giuridico cui e` sottoposto il non musulmano (dhimmı¯) in terra d’islam. Essa ha, tuttavia, un senso differente nell’unico passo del Corano in cui appare, quello della sura 9, al-Tawba (La Conversione), in cui vengono denunciati i politeisti (mushriku¯n) che non rispettano ne´ i legami di parentela ne´ gli impegni presi (dhimma). Questa accusa, ripetuta ai versetti 8 e 10, rinvia, dunque, a due tipi di obbligo: familiare e contrattuale. Il termine dhimma appartiene al lessico tecnico del diritto musulmano e abbraccia un doppio significato: la nozione di obbligo, in particolare l’obbligo che lega il debitore al creditore, e la nozione di capacita` di usufrutto. In alcuni aha¯dı¯th, le espressioni ‘‘dhimma ˙ di Dio’’ o ‘‘dhimma di Dio e del suo Profeta’’ o, ancora, ‘‘dhimma di tutti i musul-

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mani’’ rimandano a questa nozione di legame contrattuale, di convenzione che implica protezione e obblighi. E` questo significato che ha dato origine all’espressione ahl al-dhimma (la gente della dhimma), usata per designare i non musulmani ai quali la legge islamica garantisce protezione da parte dei musulmani in virtu` di una sorta di contratto a scadenza indefinita, a condizione che essi rispettino il dominio da parte dell’islam e un certo numero di obblighi. A questo proposito, le traduzioni correnti della parola dhimmı¯ (beneficiario della dhimma) come ‘‘protetto’’ o ‘‘tributario’’ non sono inesatte, ma la protezione, come anche il versamento di un tributo, non sono che due degli aspetti di questa forma di convenzione tra musulmani e non musulmani che e` la dhimma. Lo statuto giuridico dei non musulmani si basa su un doppio fondamento: il comportamento di Muhammad e le condizioni della conquista. Al momento della conquista dell’Arabia avvenuta negli ultimi anni della sua vita, il Profeta concluse accordi di sottomissione con alcuni gruppi di Ahl al-Kita¯b (‘‘la gente del Libro’’), in particolare con gli ebrei di Khaybar (a nord di Medina) e i cristiani di Najra¯n (nell’Arabia meridionale). Il versetto 9,29, «combattete [...] coloro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non si attengono alla Religione della Verita`. Combatteteli finche´ non paghino il tributo uno per uno, umiliati», implica che, a partire dal momento in cui gli Ahl alKita¯b (distinti nettamente dai politeisti con i quali non e` possibile alcun accordo, almeno in teoria) si sottomettono pagando un tributo, essi non devono piu` essere combattuti. In seguito, le conquiste arabe, che posero sotto la dominazione dei musulmani numerose popolazioni autoctone, si accompagnarono a una politica flessibile, imponendo il controllo politico ma mai la conversione forzata. L’attitudine suggerita da Muhammad nei confronti degli Ahl al-Kita¯b, in senso stretto ebrei e cristiani, fu estesa, a seguito di un esteso dibattito, agli zoroastriani, che ugualmente disponevano di un libro sacro, lo Zend-Avesta, e, in pratica, a tutte le

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altre confessioni dei paesi conquistati. E` tuttavia difficile conoscere con precisione le condizioni imposte alle popolazioni vinte, dal momento che le fonti sono posteriori e hanno lo scopo di legittimare uno stato di fatto. In particolare, il cosiddetto ‘‘patto di ‘Umar’’, attribuito al califfo ‘Umar che regno` dal 634 al 644, sarebbe stato elaborato all’epoca del califfo Mutawakkil (m. 247/861) il quale obbligo` tutti i non musulmani a conformarsi alle regole di questo statuto; ma la piu` antica versione conservata del patto risale al VII/XII secolo. Gli obblighi previsti dalla dhimma sono regolamentati con precisione nei trattati di fiqh (diritto islamico). Nel Libro dell’imposta fondiaria (Kita¯b al-khara¯j), che il giudice di Baghdad Abu¯ Yu¯suf Ya‘qu¯b redasse alla fine del II/VIII secolo per il califfo Ha¯ru¯n al-Rashı¯d, si trovano gia` le principali disposizioni che i trattati successivi fisseranno definitivamente. Il diritto musulmano concede ai dhimmı¯ la protezione contro tutte le minacce interne o esterne, il diritto di risiedere in terra d’islam, di possedere dei beni e dei terreni, di dedicarsi al commercio, di praticare il proprio culto, di conservare la propria organizzazione, il proprio credo e i propri edifici religiosi (ma non di costruirne di nuovi), le proprie istituzioni per l’insegnamento e i propri tribunali. In cambio, i dhimmı¯ devono riconoscere la sovranita` politica dell’islam, rispettare l’islam e i musulmani, astenersi da manifestazioni religiose ostentate, portare segni distintivi nell’abbigliamento e, infine, pagare un’imposta di capitazione chiamata jizya. Molte disposizioni intendono esplicitamente assicurare la superiorita` dell’islam e dei musulmani: divieto di attacco verbale all’islam e al suo Profeta, divieto di matrimonio tra un uomo dhimmı¯ e una donna musulmana (pur essendo permesso il contrario), divieto per il dhimmı¯ di possedere uno schiavo musulmano, di costruire una casa piu` alta di quella di un musulmano, di salire a cavallo. Se la popolazione dei dhimmı¯ era in origine esclusa dall’esercito e dall’ammi-

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nistrazione, i califfi non poterono fare a meno dei loro servizi e, quindi, vi furono numerosi segretari cristiani o ebrei. Questo statuto e` stato giudicato in diversi modi: alcuni autori contemporanei non esitano a sottolinearne la notevole tolleranza, mentre altri denunciano l’oppressione che gravava sui non musulmani. Sia gli uni che gli altri, tuttavia, fanno riferimento a nozioni nate nel secolo dei Lumi e che, dunque, non si possono applicare a una societa` premoderna i cui contorni non sono definibili al di fuori dei fattori religiosi. Si trattava senza dubbio di uno statuto che assicurava sicurezza e autonomia, ma anche di uno statuto di inferiorita` giuridica, le cui modalita` di applicazione erano diverse a seconda delle regioni, delle epoche, dei sovrani e del contesto sociale. Questo statuto permetteva sia che alcuni personaggi occupassero una posizione elevata nella societa`, come i segretari e i medici della Baghdad abbaside, sia che altri fossero tenuti in una situazione di dipendenza economica o fossero relegati in impieghi spregevoli. Ma il diritto e` una cosa e la sua applicazione un’altra. La storia di quanti furono soggetti a dhimma e`, quindi, segnata da un’alternanza di periodi di relativa distensione, in cui la vita pratica si svolgeva ben entro le stipulazioni giuridiche, e periodi di crisi, in cui i sovrani, in cerca di legittimita` e sotto l’influenza di religiosi rigoristi, applicarono severamente le disposizioni della dhimma. La stessa ripresa in determinati periodi di alcune prescrizioni, come quella riguardante i segni distintivi nell’abbigliamento o il divieto di lavorare nell’amministrazione, dimostra chiaramente che tali regole non erano applicate in modo costante. Non e` questa la sede per scrivere una storia degli ebrei e dei cristiani in terra d’islam, ma e` bene notare che gli ultimi secoli del Medioevo sono stati segnati da un incremento del controllo dei musulmani nei confronti dei soggetti a dhimma, sotto l’effetto congiunto di numerosi fattori: la politica fortemente sunnita del potere selgiuchide, la dottrina rigorista degli Almohadi, l’accusa ai cristiani autoctoni di complicita`

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¯ AL-KIFL DHU

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con nemici esterni come i crociati e, soprattutto, i Mongoli, l’islamizzazione progressiva che rese i non musulmani una minoranza. In epoca moderna, gli Ottomani tornarono all’applicazione della dhimma nel quadro delle millet, cioe` le comunita` religiose non musulmane, che, in questo modo, acquisirono un’ampia [F.M.] autonomia. Bibliografia: Youssef Courbage, Philippe Fargues, Chre´tiens et juifs dans l’islam arabe et turc, Payot et Rivages, Paris 2005; Anne-Marie Edde´, Franc¸oise Micheau, Christophe Picard, Communaute´s chre´tiennes en pays d’Islam. Du de´but du VIIe sie`cle au milieu du XIe sie`cle, Sedes, Paris 1997; Antoine Fattal, Le Statut le´gal des non-musulmans en pays d’Islam, Imprimerie catholique, Beyrouth 1958; Arthur S. Tritton, The Caliphs and Their Non-Muslim Subjects. A Critical Study of the Covenant of ‘Umar, Oxford University Press, Oxford 1930; Abu¯ Yu¯suf Ya‘qu¯b, Kita¯b al-khara¯j (Le Livre de l’impoˆte foncier, a cura di E. Fagnan, Librairie orientaliste Paul Geuthner, Paris 1921.

¯ AL-KIFL DHU Dhu¯ al-Kifl e` un personaggio misterioso, citato nel Corano in due occasioni: «Rammenta Ismaele e Idrı¯s e Dhu¯’l-Kifl, che´ tutti furono pazienti» (21,85); «ricorda Ismaele ed Eliseo e Dhu¯’l-Kifl, che essi tutti sono dei migliori [tra i nostri servi]!» (38,48). Per qualche esegeta egli e` un profeta (nabı¯) giacche´ e` menzionato tra i profeti, ma la gran parte lo considera un saggio, uno dei figli di Israele, un uomo molto pio. I commentatori in generale si interrogano sulla radice araba del nome kifl, «kfl», che significa ‘‘nutrire’’, ‘‘prendersi cura di’’, ‘‘garantire’’, ‘‘farsi garante di qualcuno’’. Kifl prende a volte il senso di ‘‘parte’’, ‘‘porzione’’, altre volte quello di ‘‘felicita`’’, ‘‘fortuna’’, o ancora quello di ‘‘doppia (parte)’’; quanto a dhu¯, vuol dire semplicemente ‘‘colui che possiede una data caratteristica’’ oppure ‘‘colui che detiene qualcosa’’: applicato all’ambito religioso, Dhu¯ al-Kifl diviene colui che compie il doppio di opere pie rispetto ai fedeli comuni, e dunque ha ricevuto o ricevera` una ricom-

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pensa divina doppia. Questa eccedenza semantica si spiega con l’assenza di elementi storici precisi. La letteratura esegetica e le Storie dei profeti (Qisas al-anbiya¯ ’) propongono ˙ ˙versioni leggendarie della inoltre varie sua vita. Ibn al-Jawzı¯ (m. 597/1200), per esempio, riporta che Dhu¯ al-Kifl salvo` un centinaio di profeti minacciati da un re empio e poi se ne prese cura. Questo racconto rinvia direttamente al passo biblico in cui Abdia, maggiordomo di Acab, salva cento profeti dalle grinfie del re Gezabele (1Re 18,4). Un’altra leggenda mostra Dhu¯ al-Kifl mentre promette a un uomo pio che compie cento preghiere al giorno di fare lo stesso dopo la sua morte; tale leggenda trova certamente fondamento nel significato di kifl, ‘‘fare il doppio [di una data cosa]’’. Altrove, Dhu¯ al-Kifl appare benevolo nei confronti di una prostituta: dopo averle proposto del denaro, domina la propria tentazione e, deciso a non peccare mai piu`, muore la notte stessa; e` quindi ricompensato con la felicita` (kifl) che gli eletti conoscono in paradiso. Un esempio edificante della fiducia in Dio e della fede nel destino di contro alle forze del male figura nella storia in cui Dhu¯ alKifl succedera` a un profeta o a un re d’Israele a condizione di impegnarsi (takaffala) a digiunare per tutto il giorno, a restare sveglio la notte e ricoprire l’incarico di giudice senza mai lasciarsi trasportare dalla collera; gli sforzi di Satana per provocare la sua ira restano senza effetto. Infine, il racconto nel quale Dhu¯ al-Kifl si rende garante (kafı¯l) del re pagano Kan‘a¯n insiste sull’autorita` profetica che attinge alla fonte divina: Dhu¯ al-Kifl converte il re al monoteismo e gli affida una lettera in cui gli garantisce che Dio lo salvera` e gli concedera` il paradiso. In questi racconti compaiono innumerevoli reminiscenze dei racconti biblici. Esse concernono soprattutto i cicli dei profeti Elia ed Eliseo (in 2Re 2,9, Eliseo chiede a Elia, prima che essi si lascino, di dargli una doppia parte del suo spirito; vedi anche 1Re 17; 2Re 13) e di Mose` (quando designa Giosue` a suo successore; vedi Nm 27,16-23). In tal modo, Dhu¯ al-

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Kifl e` stato integrato alla lista dei profeti da alcuni esegeti come Ra¯ zı¯ (m. 606/ 1209), e identificato con Elia, Giosue` o Zaccaria. Quest’ultima identificazione si poggia sul versetto 3,37: «Wa kaffala-ha¯ Zakariyya¯» (‘‘Zaccaria la [Maria] prese sotto la sua tutela’’). Dhu¯ al-Kifl e` anche assimilato a Giobbe, Ayyu¯b nel Corano, in rapporto al passo biblico che segue: «Mentre Giobbe pregava per i suoi amici, il Signore lo ristabilı` nel suo primo stato e raddoppio` tutto cio` che possedeva» (Gb 42,10); o al figlio di Giobbe, che gli autori musulmani chiamano Bishr (‘‘Lieta Novella’’) e che Dio avrebbe destinato alla profezia alla morte di suo padre chiamandolo appunto Dhu¯ al-Kifl. Un’altra interpretazione, fornita dagli autori musulmani e anche dagli orientalisti, identifica Dhu¯ al-Kifl al profeta biblico Ezechiele (VI secolo a.C.), Hizqı¯l in arabo, verosi˙ dell’omofonia tra i milmente in ragione due nomi. In Iraq, nella localita` chiamata Kefil – la cui fonetica evoca immediatamente quella di Kifl – situata tra Najaf e Hilla, esiste un santuario di Ezechiele ˙ dove gli ebrei si recavano in pellegrinaggio. La diversita` delle tradizioni attorno alla figura di Dhu¯ al-Kifl fa sı` che questo personaggio abbia diversi luoghi di sepoltura, lontani gli uni dagli altri. Oltre la sfera culturale araba, nei territori orientali dell’islam e soprattutto in India, alcuni dotti musulmani hanno visto in Dhu¯ al-Kifl Gautama Buddha, successivamente integrato alla lunga lista dei profeti riconosciuti dall’islam. Kifl sarebbe l’arabizzazione di Kapil, o Kapilavastu, il paese natale del Buddha situato a circa 250 kilometri a nord di Benares, dove questi trascorse una trentina d’anni. Buddha era chiamato ‘‘quello di Kapil’’, che corrisponde precisamente a Dhu¯ al-Kifl: infatti la p non esiste in arabo, e la lettera piu` prossima e` la f, cosicche´ Kapil diverrebbe Kifl. Poiche´ kifl significa anche ‘‘nutrimento’’, si e` pensato ugualmente al padre di Buddha, Suddhuta¯na, termine che designa il nutrimento puro. L’accostamento tra Dhu¯ al-Kifl e Buddha e` corroborato dal fatto che il fico citato al ver-

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setto 45,1, designa l’albero della Bodhi sotto il quale il Buddha pervenne all’illu[E´.G.] minazione. Bibliografia: Abu¯ al-Hasan al-Harawı¯, Gui˙ de des lieux de pe`lerinage, trad. dall’arabo di Janine Sourdel-Thomine, Institut franc¸ais de Damas, Damas 1957. Sull’identificazione di Dhu¯ al-Kifl con il Buddha, vedi soprattutto la traduzione del Corano di Muhammad Hamidullah, El-Bouraq, BeirutParis 2001, e il commento a 21,85.

¯ AL-QARNAYN DHU Dhu¯ al-Qarnayn, ‘‘l’Uomo dalle Due Corna’’, il ‘‘Bicornuto’’, fa la sua apparizione nella sura 18, ‘‘La Caverna’’ (alKahf). Interrogato al proposito, Muhammad ricevette da Dio l’ordine di raccontarne la storia (18,83-98). Dopo aver ricevuto in dono una grande potenza, Dhu¯ alQarnayn si sposto` da un punto all’altro della terra in modo misterioso: «Seguı` una via», o piuttosto «seguı` una corda celeste» (18,85,89 e 92). Giunse all’estremita` occidentale, la` dove «il sole tramonta, e trovo` che esso tramontava in una fonte limacciosa», e incontro` un popolo al quale impose la giustizia, castigando gli empi e colmando di benefici i credenti (18,86-88). Poi, nello stesso modo, raggiunse l’estremita` orientale «dove sorge il sole» e trovo` un altro popolo, privo di riparo per proteggersi dal sole (18,89-90). Infine «giunse fra le Due Barriere e trovo`, al di qua di esse, un popolo che appena comprendeva la parola» (18,93). Lo implorarono di costruire una diga per proteggerli da Gog e Magog che seminavano il terrore sulla terra. Grazie alla potenza che Dio gli aveva donato, Dhu¯ al-Qarnayn innalzo` una barriera invalicabile con blocchi di ferro e bronzo fuso, capace di tenere al di la` Ya’ju¯j e Ma¯ju¯j fino alla fine dei tempi. Allora la diga, oramai inutile, verra` distrutta (18,94-98). Gli esegeti musulmani, seguiti dagli orientalisti, riconobbero in questa storia un episodio della leggenda di Alessandro Magno, che si era diffusa in oriente grazie ad alcuni adattamenti del Romanzo di Alessandro dello Pseudo-Callistene, e a un’omelia in siriaco di Giacomo di Sarug (m. 521). Queste versioni orientali, di cui

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si trovano tracce anche nel Talmud, descrivono la corsa di Alessandro attorno al mondo, il suo arrivo ai limiti della terra e la costruzione da parte sua di un baluardo contro le incursioni del feroce popolo di Gog e Magog, menzionato nella Bibbia (Ez 38,2 e Ap 20,8). Inoltre, le versioni ebraica (Talmud) e cristiana (Giacomo di Sarug) della leggenda presentano Alessandro come un re dalla devozione esemplare, un fedele servo di Dio, le cui conquiste avevano come unico scopo la diffusione del messaggio divino sulla terra. Questo Alessandro ebraizzato e cristianizzato, incaricato di una missione religiosa, risulta molto vicino al Dhu¯ al-Qarnayn coranico. Il Corano fa precedere l’episodio di Dhu¯ al-Qarnayn da un racconto che ha come protagonisti Mose` e il suo giovane servitore (18,60-64). Questi versetti raccontano una storia singolare, che non trova un equivalente nella Bibbia: in cammino verso «la confluenza dei due mari», Mose` chiede al suo servitore di cucinargli un pesce che avevano portato con loro; ma, essendo stato dimenticato da qualche parte, il pesce aveva ritrovato la strada ed era tornato in mare. Da lungo tempo, in questo aneddoto e` stato ravvisato un altro episodio del Romanzo di Alessandro: il cuoco di Alessandro, Glauco, che la tradizione musulmana identifica con Khadir, lava un pesce salato in una sorgente ˙ si rivela la Fonte di Vita cercata dal che suo padrone; a contatto con l’acqua, il pesce resuscita e sfugge al cuoco. La presenza, nella medesima sura 18, di due episodi della leggenda di Alessandro, il primo dei quali ha come protagonista Mose` e il secondo Dhu¯ al-Qarnayn, continua a catturare la curiosita` degli specialisti del Corano. Facendo riferimento a una tradizione musulmana che data i versetti su Dhu¯ al-Qarnayn all’epoca medinese, mentre la prima parte della sura sarebbe stata rivelata precedentemente, alla Mecca, Armand Abel suppone che Muhammad avesse inizialmente confuso Alessandro e Mose`, attribuendo al profeta biblico una storia tratta dal Romanzo di Alessandro. Interrogato a Medina da al-

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cuni ebrei scettici – «Ti chiederanno ancora di Quello dalle Corna» (18,83), versetto che gli esegeti musulmani spiegano spesso come una domanda insidiosa degli ebrei di Medina – avrebbe allora rivelato un nuovo episodio, questa volta con il nome di Dhu¯ al-Qarnayn. Quale che sia la fondatezza di questa ipotesi, si pone la questione del rapporto tra Mose`, Alessandro e Dhu¯ al-Qarnayn. Le tradizioni ebraica e cristiana (in particolare l’iconografia medievale in Occidente), talvolta rappresentano Mose` con due corna sulla fronte. Questa immagine risale al racconto dell’Esodo (34,29): scendendo dal Sinai, «Mose` non sapeva che la pelle del suo viso era raggiante, per avere parlato con Lui». Poiche´ il verbo ebraico qaran, significa sia ‘‘splendere’’ sia ‘‘crescere un corno’’ (cfr. l’arabo qarn, ‘‘corno’’), anche questo secondo significato venne preso in considerazione. Va altresı` osservato che la versione siriaca del Romanzo di Alessandro dello Pseudo-Callistene fa dire ad Alessandro: «Dio mi ha fatto spuntare due corna sulla fronte, con le quali rovescero` tutti i regni sulla terra», corna che in tal caso simboleggiano la potenza e l’ardore guerriero. Entrambi muniti di corna, l’accostamento tra Mose` e Alessandro non poteva che imporsi, e gli esempi nella letteratura ebraica e cristiana dei primi secoli della nostra e` ra sono numerosi; allo stesso tempo la designazione coranica di Alessandro come Dhu¯ al-Qarnayn e la sua associazione a Mose` trovano spiegazione. Anche gli esegeti musulmani si posero la questione dell’identita` di Dhu¯ al-Qarnayn. Venuti a conoscenza delle leggende di Alessandro tramite fonti extracoraniche, essi non ebbero alcuna difficolta` a identificarlo con il conquistatore macedone. Tuttavia furono proposte anche altre identificazioni, in particolare con il re lakhmide al-Mundhir al-Akbar III al-Ma¯’ al-Sama¯’, che regno` a H¯ıra, nell’Arabia ˙ del Nord, dal 506 al 554; e con un re himyarita (Arabia meridionale) noto sotto ˙ diversi nomi, tra i quali Sa’b. I poeti arabi applicano effettivamente˙ l’epiteto di Dhu¯

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al-Qarnayn a questi sovrani, ma e` probabile che lo facciano sotto l’influenza del racconto coranico. La tradizione musulmana si e` interrogata inoltre sul senso dell’espressione Dhu¯ alQarnayn. Partendo dal presupposto che si tratti effettivamente di Alessandro Magno, Ibn Kathı¯r (m. 774/1373) propone cinque diverse spiegazioni: le due estremita` della sua fronte erano di rame (portava un elmo?); sulla fronte aveva due protuberanze che somigliavano a due corna; l’espressione e` simbolica, e indica che egli era il re dei greci e dei persiani; o che regnava sull’Occidente e l’Oriente; infine, una tradizione fa dire a ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯lib: «Era un fedele servitore di Dio; aveva˙ una grande devozione e chiamo` il suo popolo a Dio. Ma gli dettero dei colpi sulla testa (qarn) fino a farlo morire. Allora Dio lo fece resuscitare. Di nuovo egli chiamo` il suo popolo a Dio; ma gli dettero nuovamente dei colpi sulla testa (qarn) fino a farlo morire. Cosı` fu chiamato Dhu¯ al-Qarnayn». Quest’ultima tradizione riflette la dimensione religiosa che l’islam, conformemente al Corano, conferisce al personaggio di Dhu¯ al-Qarnayn/Alessandro. Una questione ricorrente nei commentari coranici riguarda il possibile ruolo profetico di Dhu¯ al-Qarnayn. Le opinioni al proposito divergono, ma la gran parte delle autorita` vede in lui un ‘‘nabı¯ ghayr mursal’’, cioe` un profeta che non fu inviato a un popolo determinato con una nuova rivelazione. Profeta senza una religione da predicare, Dhu¯ al-Qarnayn porta attraverso il mondo, in qualita` di devoto servo di Dio e di re giusto, l’equita` e l’ordine voluti da Dio. E` quindi tenuto in grande considerazione; ne da` esempio uno hadı¯th che at˙ tribuisce a Muhammad le seguenti parole: «Che Dio faccia grazia a mio fratello Dhu¯ al-Qarnayn». Per la sua missione universale, Dhu¯ al-Qarnayn prefigura l’avvento dell’islam e la sua conquista del mondo: «Egli divenne – scrive Armand Abel – il Profeta dell’Universalita`, inviato da Dio per dare al mondo il senso della sua unita`, nell’attesa della religione della salvezza.

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Il piu` grande conquistatore della storia aveva unificato il mondo solo per obbedire all’ingiunzione dell’Onnipotente». Ancora un’osservazione. Tra le numerose leggende che gli autori di storie profetiche (Qisas al-anbiya¯’) trassero dalle ver˙ ˙ sioni orientali del Romanzo di Alessandro dello Pseudo-Callistene, figura anche la sua ascensione al cielo; le fonti musulmane vi aggiungono una dimensione religiosa, accentuando il parallelismo con l’ascensione celeste di Muhammad: un angelo innalza Dhu¯ al-Qarnayn al cielo per mostrargli la distesa dell’intera terra, territorio della sua missione universale; nella stessa occasione gli fa intravedere il futuro avvento dell’islam. Sotto questo duplice aspetto – conquistatore macedone la cui singolare personalita` e` stata ingigantita da innumerevoli leggende sin dall’antichita`, e ‘‘profeta dell’universalita`’’, precursore di Muhammad – Iskandar/Dhu¯ al-Qarnayn compare nell’Iskandar Na¯meh del poeta persiano Niza¯mı¯ (m. 600/1203). Il valoroso guer˙ modello del cavaliere persiano, e` riero, incaricato di una missione universale per la salvezza dell’umanita`. L’opera monumentale di Niza¯mı¯ contribuı` particolar˙ mente a diffondere la fama di Iskandar/ Dhu¯ al-Qarnayn in Persia. Cosı`, nello sciismo duodecimano, la sua leggenda fu associata a quella di ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯lib, che a sua volta ricevette l’epiteto di˙ Dhu¯ [D.DeS.] al-Qarnayn. Bibliografia: Armand Abel, Le Roman d’Alexandre. Le´gendaire me´die´val, Office de Publicite´, collections Lebe`gue et Nationale, Bruxelles 1955; Id., «Du’l-Qarnayn, Prophe`te de l’Universalite´», in Annuaire de l’Institut de philologie et d’histoire orientales et slaves, Universite´ libre de Bruxelles, 11 (1951), pp. 5-18; Franc¸ois de Polignac (a cura di), Alexandre le Grand, figure de l’incomple´tude, numero speciale di Me´langes de l’E´cole franc¸aise de Rome, 112 (2000); Minso S. Southgate, Iskandarnamah. A Persian Medieval Alexander-Romance, Columbia University Press, New York 1978; Branner M. Whee-

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DIGIUNO

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ler, «Moses or Alexander? Early Islamic exegesis of Qur’a¯n, 18, 60-65», in Journal of Near Eastern Studies, 57 (1998), pp. 191-215.

DIGIUNO Il digiuno e` uno dei cinque pilastri dell’islam. E` generalmente citato prima del pellegrinaggio, ma la raccolta di Hadı¯th di ˙ ultimo. Bukha¯rı¯ (m. 256/869) lo mette per Il Corano prevede la pratica del digiuno in due modi. Il primo a titolo compensatorio, cioe` in caso d’impedimento a svolgere il pellegrinaggio (2,196). Il secondo a titolo espiatorio: due mesi consecutivi per l’omicidio di un alleato dei musulmani e se non e` possibile affrancare uno schiavo per riscattarlo (4,92); stessa misura per chi ripudia la moglie secondo una formula passibile di condanna (58,3-4); tre giorni in caso di spergiuro e se non e` possibile nutrire o vestire dieci poveri o affrancare uno schiavo (5,89); stessa misura se, infine, si uccide intenzionalmente della selvaggina mentre ci si trova in stato di sacralizzazione e non si puo` compensare con l’offerta alla Ka‘ba di un animale equivalente o nutrendo un povero (5,95). Il Libro parla una volta soltanto del digiuno come pratica rituale, ma in un testo abbastanza lungo e dettagliato (2,183-187). Esso si situa esplicitamente in continuita` con il passato. Infatti, il digiuno era un fenomeno diffuso nelle religioni mediorientali antiche ed era praticato dai cristiani, che si vietavano allora anche ogni relazione sessuale. Specificamente islamica e` la durata del digiuno, cioe` il mese di ramada¯n (il nono dell’anno lunare), ˙ rivelazione del Corano in ocquello della casione della notte del Destino, la cui data¯ ’isha (la zione e` incerta. Uno hadı¯th di ‘A ˙ moglie preferita del Profeta secondo alcune fonti antiche) insegna che «i Qurayshiti nei tempi antecedenti l’islam digiunavano nel giorno di ‘A¯shu¯ra¯. Il Profeta ordino` questo digiuno fino al giorno in cui fu prescritto quello di ramada¯n». ˙ Insieme alla prescrizione di un digiuno completo per l’intera durata del giorno, il testo fornisce a chi e` malato o in viaggio l’autorizzazione a rimandare il periodo di

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digiuno, e dichiara lecite le relazioni sessuali durante la notte salvo per chi e` in ritiro nella sacra moschea. Le tradizioni insistono sul fatto che il digiuno ‘‘preserva’’ contro lo ‘‘stato di turbamento’’, in particolare sessuale, ed e` valido solo se ci si astiene anche da menzogne, oscenita`, collera ecc. I trattati di diritto canonico designano quattro categorie di persone che ne sono dispensate: il malato che, digiunando, aggraverebbe il proprio stato di salute, e il viaggiatore; la donna che ha le mestruazioni o che ha appena partorito; la donna incinta e quella che allatta, se il digiuno puo` nuocere alla salute del bambino; infine, le persone troppo in la` con gli anni o colpite da malattia incurabile. In ciascuno di questi casi le scuole giuridiche hanno previsto compensazioni. Ciononostante, molti fedeli interpretano questa prescrizione in modo molto restrittivo e alcuni arrivano a vietare ogni iniezione nel corpo come clisteri o punture mediche. Il digiuno supererogatorio e` ‘‘raccomandato’’. Lo si puo` rompere liberamente. Alcuni giorni sono consigliati per praticarlo, ma e` vietato digiunare in occasione delle due grandi feste (la ‘‘festa della rottura del digiuno’’, o ‘ı¯d al-fitr e la ‘‘festa ˙ Il digiuno e` del sacrificio’’ o ‘ı¯d al-kabı¯r). [M.-T.U.] sconsigliato il venerdı`. Bibliografia: Kees Wagtendonk, Fasting in the Koran, Brill, Leiden 1968; Arent Jan Wensinck, A Handbook of Early Muhammadan Tradition, Brill, Leiden 1927.

DILUVIO Il Corano, come la Genesi, riporta l’annientamento del popolo di Noe` all’epoca del diluvio. La storia di Noe`, spesso ricordata insieme alla storia di altri popoli annientati, e` raccontata per esteso nelle sure Hu¯ d (11,25-49) e al-Shu‘ara¯ ’ (‘‘dei Poeti’’; 26,105-120); compare in una versione piu` concisa nelle sure al-Anbiya¯’ (‘‘dei Profeti’’; 21,76-77) e al-S a¯ ffa¯ t ˙ In(‘‘degli Angeli a Schiere’’; 37,75-79). fine, la settantunesima sura si intitola appunto Nu¯h, Noe`. Secondo ˙il˙ testo coranico, il profeta Noe` venne inviato al suo popolo per invitarlo

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ad adorare Dio. Ma, benche´ soggiornasse «fra loro mille anni meno cinquanta» e benche´ li avvertisse del castigo doloroso che li attendeva, il suo popolo gli disobbedı`, considero` menzogneri i suoi avvertimenti e continuo` ad adorare degli idoli pretendendo che egli provasse la veridicita` delle sue minacce. In breve, si comporto` come un popolo perverso, ingiusto e ribelle. Esasperato, Noe` chiese allora a Dio di «non lasciar sulla terra, dei Negatori vivo nessuno» (71,26). In seguito, Allah gli ordino` di costruire l’Arca e Noe` obbedı`, mentre il popolo continuava a prendersi gioco di lui. Infine, l’acqua dilago` e il Diluvio annego` tutti gli increduli tra cui uno dei figli di Noe`. Il Diluvio e` designato una volta con tu¯fa¯n ˙ al(29,14), parola di origine aramaica trove impiegata (7,133) per una delle piaghe d’Egitto. In altri versetti, piu` numerosi, il testo afferma semplicemente che Dio annego` (aghraqa) questo popolo infedele (7,64; 10,73; 21,76-77). Ma il Corano sa essere anche piu` esplicito: «Spalancammo le porte del cielo a torrenziale acqua, e la terra tutta facemmo sgorgare di fonti, e in decretata misura s’incontrarono le acque. E lo portammo su un naviglio formato di tavole e chiodi» (54,1113). E la`, infine: «Si udı` una Voce: ‘‘Terra, ingoia le tue acque!’’ e ‘‘Cielo, risucchiale!’’ E decrebbero le acque, e il decreto fu compiuto. E si poso` l’Arca sul monte Ju¯dı¯» (11,44), situato nell’alta Jazı¯ra o nel massiccio montuoso d’Arabia. Il Diluvio, se si esclude il castigo subito dalle truppe di Faraone quando inseguiva gli Israeliti, e` l’unico caso in cui il Corano da` all’acqua una funzione mortale. Pioggia torrenziale, acque che straripano: indubbiamente esso si caratterizza per l’eccesso, elemento che il Libro sacro qualifica sempre negativamente. In un versetto (69,11), si trova inoltre il verbo tagha¯ ˙ an(‘‘debordare’’), la cui radice compare che nell’annientamento dei Thamu¯d, collegata al ‘‘debordare’’ del fuoco. In effetti, almeno due versetti attraggono l’attenzione e suggeriscono che il diluvio possa collegarsi al fuoco: «Allorche´ il Nostro ordine giungera` e la Fornace ribol-

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DIREZIONE DELLA PREGHIERA

lira` (fa¯ra al-tannu¯r), introducivi una coppia di ciascuna specie di animali e la tua famiglia, eccetto coloro per i quali fu gia` pronunciata sentenza di morte» (23,27; cfr. anche 11,40). L’espressione ‘‘quando la Fornace ribollira`’’ solleva molti interrogativi. Infatti, il tannu¯r e` un forno per il pane di forma cilindrica, che ricorda un alveare. Come tale, e` stato spesso considerato dai commentatori quale sineddoche per la superficie terrestre (wajh alard). I due versetti in questione sembrano ˙ dunque indicare che le acque che sgorgarono dagli orifizi del forno fossero ‘‘bollenti’’. Tale interpretazione del diluvio coranico si trova corroborata dai testi anteriori al Corano. Infatti, il Talmud (Roch Hachanah, 16,2; Sanhedrin, 108) afferma che «il popolo del diluvio fu punito con acqua calda»; e il Midrash (Genesi Rabbah, 28,9) precisa che «ogni goccia d’acqua che Dio fece cadere su di loro, la porto` a ebollizione nell’inferno prima di farla scendere su di loro». Nel Libro di Enoch (89,3), infine, a proposito del diluvio, si puo` leggere che «l’acqua si mise a ribollire e a crescere sulla terra». Sotto questo aspetto dunque, il diluvio, come la sorgente bollente dell’inferno, altro non sarebbe che una figura del fuoco, elemento [H.T.] mortale per eccellenza. ¨ fen des Bibliografia: Armas Salonen, «Die O alten Mesopotamier» in Baghdader Mitteilungen, 3 (1964), pp. 100-124; David Sidersky, Les Origines des le´gendes musulmanes dans le Coran et dans les Vies des prophe` tes, Librairie orientaliste Paul Geuthner, Paris 1933; Heidi Toelle, Le Coran revisite´: le feu, l’eau, l’air et la terre, Institut franc¸ais de Damas, Damas 1999.

DIREZIONE DELLA PREGHIERA Per la tradizione musulmana, la direzione della preghiera o qibla e` quella del santuario della Mecca, verso il quale il musulmano deve orientarsi affinche´ la sua preghiera sia legalmente valida. Anche nell’ebraismo l’orante si volge verso Gerusalemme (1Re 8,38,44 e 48; Dn 6,11), ma si prega ugualmente rivolgendosi al cielo (1Re 8,22). Nella pratica, l’orientazione delle sinagoghe antiche verso Ge-

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DIREZIONE DELLA PREGHIERA

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rusalemme, indicata talora dalla porta, talora da uno dei muri, talora da un’abside nell’asse dell’edificio, non sembra tuttavia costante. Il termine qibla ricorre a sette riprese nel Corano: sei di queste compaiono nel medesimo passo (2,142-145) e concernono direttamente la preghiera, mentre la settima (10,87) riguarda l’orientazione delle case degli ebrei in Egitto. In quest’ultimo versetto che evoca il loro insediamento nel paese – e che porta un lessico medinese in seno a un sura essenzialmente meccana – l’interpretazione della parola qibla presenta difficolta` per l’esegesi tradizionale. Secondo Tabarı¯ (m. 310/923) le ˙ in direzione della case vanno costruite qibla, cioe`, in questo caso, di Gerusalemme. Tuttavia, il testo coranico non contiene alcun elemento che consenta di sostenere tale spiegazione a discapito di un’altra, e non e` dato sapere se il termine qibla possieda in questo contesto un senso identico a quello degli altri versetti. Il passo contenuto nella sura 2 consiste in un lungo invito rivolto ai fedeli affinche´ mutino la direzione della preghiera, e apporta alcuni elementi utili a spiegare tale apparentemente improvvisa richiesta di modifica. «Gli stolti diranno: ‘‘Che cosa li ha stornati dalla qibla che avevano prima?’’ [...] Fissammo la qibla che avevi dapprima solo per distinguere chi seguiva il Messaggero di Dio da chi se ne allontanava, e questa fu cosa dura salvo che per i ben guidati da Dio; ma Dio non intendeva distruggere la fede vostra [...] Vediamo che tu volgi la faccia verso il cielo, ma ti doneremo ora una qibla che ti piacera`: volgi dunque il tuo volto verso il Tempio Sacro, rivolgetevi tutti, ovunque siate, verso quella direzione. Certo coloro cui fu dato il Libro sanno che questa e` verita` che viene dal loro Signore [...] Anche se apportassi a coloro cui fu dato il Libro ogni sorta di segni divini, essi non seguirebbero la tua qibla, ne´ tu devi seguire la loro, ne´ del resto essi stessi seguono la qibla gli uni degli altri [...]» (2,142-145). Il passo citato non contiene alcuna indicazione precisa circa l’orientazione adottata in precedenza, ma l’identificazione del Tempio Sacro (al-masjid

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al-hara¯m) sembrerebbe non richiedere ul˙ dettagli. Infatti, per l’esegesi musulteriori mana classica, l’identificazione dell’una e dell’altra qibla, la precedente e la successiva, non pone dubbi di sorta: la prima e` Gerusalemme (o la Siria) e la seconda e` la Mecca; secondo la tradizione, l’avvenimento cui si fa riferimento si collocherebbe nell’anno 2 dell’egira (623-624 d.C.). Questi versetti aboliscono un’usanza precedente, ma quest’ultima non viene definita altrove nel testo coranico, contrariamente, per esempio, a quanto accade per il consumo di vino nel qual caso vi e` un’abrogazione di versetti ben precisi. L’interesse degli storici si e` rivolto principalmente alle condizioni e al significato di questa modifica nella direzione della preghiera, accettando nell’insieme l’interpretazione tradizionale. E` stato sottolineato il silenzio del Corano a proposito della qibla in alcuni passi cronologicamente anteriori alla sura 2, quando la preghiera era gia` stata istituita. La scelta di Gerusalemme, pur nella possibilita` di adottare altre direzioni (per esempio l’oriente), puo` spiegarsi come un modo per conciliare a se´ la comunita` ebraica locale, all’inizio del periodo medinese. Se e` cosı`, la qibla modificata dal passo contenuto nella sura 2 sarebbe rimasta in vigore per un periodo relativamente breve. Intesa in tal modo, la modifica si collocherebbe all’interno di in un piu` ampio processo di allontanamento dall’ebraismo; a parte la polemica attestata nelle sure medinesi, e` un’evoluzione che troverebbe sostegno in due cambiamenti ulteriori: la proibizione dei giorni o dei mesi intercalari (nası¯) e il digiuno di ramada¯n. Basandosi su vari dati archeologici˙e su fonti letterarie, Patricia Crone e Michael Cook hanno recentemente ipotizzato che al-masjid al-hara¯ m sia da identificarsi con un luogo nell’ Arabia nord-occidentale e non con la Mecca. Ma un esame attento dei loro argomenti mostra che le inesattezze riscontrate nell’orientazione di alcune moschee antiche o le approssimazioni di una fonte siriaca non sono ragione sufficiente per fondare solidamente tale ipotesi. [F.D.]

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215 Bibliografia: Patricia Crone, Michael Allam Cook, Hagarism. The Making of the Islamic World, Cambridge University Press, Cambridge 1977; William Montgomery Watt, Mahomet a` Me´ dine, Payot, Paris 1978.

DIRITTI Il senso primario, non giuridico, del termine haqq (pl. huqu¯q, termine tecnico della ˙ sharı¯ ‘a) ˙ e` ‘‘fatto stabilito’’, ‘‘realta`’’, ‘‘verita`’’, ma puo` anche significare ‘‘decreto’’, ‘‘ordinanza’’. Sia l’una sia l’altra sfumatura sono suscettibili di essere all’origine dell’accezione giuridica. Tale accezione, gia` pienamente presente nel Corano, preesiste dunque all’avvento dell’islam. I ‘‘diritti’’, come nelle altre legislazioni, sono le pretese o le necessita` che gli individui possono legittimamente rivendicare all’interno della comunita`. La filosofia giuridica islamica intende piu` astrattamente il significato di haqq come ‘‘cio` che limita la liberta` al˙trui’’. Dio ha infatti accordato a ogni uomo la capacita` di controllare le azioni dei suoi simili e gli esseri umani, nella loro vita sociale, dipendono gli uni dagli altri per le loro necessita`. In questo senso, e` innanzitutto Allah a possedere dei ‘‘diritti’’, poiche´ e` il padrone della creazione; ma va da se´ che questa espressione e` una semplice metafora, dal momento che non si puo` attribuire a Dio alcuna ‘‘necessita`’’. Cosı`, possedere un bene e` un diritto degli uomini nella misura in cui cio` da` luogo a un usufrutto; si tratta, pero`, di un diritto di Dio, poiche´ e` condizionato a una presa di possesso legittima (acquisto, eredita`...). E` possibile intendere piu` semplicemente i ‘‘diritti’’ di Dio’’ come i doveri di una creatura nei confronti del suo creatore, poiche´ essi comprendono essenzialmente gli obblighi rituali e gli h udu¯ d ˙ (pene legali). Questo fondamento teologico spiega, secondo i giuristi, la distinzione classica, che si ritrova nei primi monumenti giuridici dell’islam classico, che il diritto islamico opera in modo indifferenziato per tutte le scuole, tra diritti di Dio (huqu¯q ˙¯ q alAllah) e diritti degli uomini (huqu ˙

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a¯damiyyı¯n). I primi sono definiti come cio` che porta profitto oppure nuoce in caso di omissione alla comunita` intera, perche´ i suoi effetti non riguardano un solo e determinato individuo. Essi corrispondono alla nozione occidentale di diritto pubblico. Nessuna decisione degli uomini potra` mai farli vacillare; la loro messa in pratica e` compito del governo. Al contrario, la salvaguardia dei diritti degli uomini e` a discrezione dei singoli, che possono esigerli o disfarsene. Si tratta dunque di diritto privato. Per esempio, un venditore puo` scegliere di effettuare una vendita in perdita, una sposa puo` decidere di rinunciare alla dote (mahr), diritti che restano tuttavia inalienabili. Invece nessun musulmano puo` esentarsi dalla sala¯t ˙ ¯t (preghiera) o dal pagamento della zaka (elemosina rituale); e allo stesso modo lo stato non puo` sottrarsi all’esecuzione delle punizioni legali (gli hudu¯d, la punizione dell’adulterio, della˙ consumazione di alcool e del furto) coraniche: per esempio, la parte civile non puo` esigere dal giudice una pena alternativa. Da cio` deriva la classificazione seguente, piu` dettagliata. Vi sono innanzitutto i diritti esclusivi di Dio, gli obblighi rituali (zaka¯t, preghiere, pellegrinaggio ecc.), le tasse nelle loro differenti forme, le espiazioni, il jiha¯d o le pene legali. Vi sono poi i diritti esclusivi degli uomini: il diritto alla vita, quello ad applicare le pene previste per l’omicidio, il diritto alla proprieta`, il diritto di prelazione, quello di fare osservare un contratto, i diritti matrimoniali (diritti tra coniugi, diritto al tutorato, all’eredita` e alla successione), il diritto al risarcimento dei danni e degli interessi in caso di attentato alla proprieta`, di lesioni fisiche ecc. Si noti che la lista dei diritti privati, a differenza della precedente, e` assai lunga. Vi sono ancora i diritti misti all’interno dei quali i diritti di Dio sono preponderanti: tutti quelli finalizzati alla conservazione della vita, del discernimento e della proprieta` degli individui o, ancora, il diritto alla partecipazione agli affari pubblici, il diritto a giurare fedelta` in occasione dell’elezione di un imam, il diritto di punire il calunniatore (per gli

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hanafiti) ecc. Vi sono infine i diritti misti ˙ all’interno dei quali sono preponderanti i diritti degli uomini; sono il diritto al taglione, al prezzo del sangue e cosı` via, nei quali, pero`, lo stato puo` intervenire con una forma di punizione discrezionale (ta‘zı¯r) poiche´ tra i suoi doveri vi e` la salvaguardia della pace civile. L’avente diritto, come pure il tutore della vittima, puo`, di conseguenza, a propria discrezione, perdonare o esigere un compenso economico al posto del taglione. La teoria giuridica islamica ha introdotto altre distinzioni. Essa definisce un diritto in se´ (qa¯’im bi-nafsi-hi), che non impone alcun obbligo verso terzi: e` il caso, per esempio, della quinta parte del bottino di guerra. Esso corrisponde al ius in rem, contrapposto al ius in personam della tradizione occidentale. Citiamo ancora i diritti originari (asl), opposti ai diritti di ˙ Il compimento delle sostituzione (khalf). abluzioni con l’acqua prima della preghiera rituale appartiene al primo gruppo; con la sabbia (tayammum) al secondo. Queste ultime distinzioni si applicano tanto ai diritti di Dio quanto a quelli degli uomini. Segnaliamo, infine, che il sufismo prevede un’altra prospettiva: esso parla di huqu¯q al-nafs, cioe` i bisogni es˙ senziali all’esistenza, come opposti ai huzu¯z al-nafs, i piaceri di questo mondo. ˙ ˙ ˙ [M.Y.] Bibliografia: Louis Milliot, Introduction a` l’e´tude du droit musulman, Recueil Sirey, Paris 1953; Abdur Rahim, Muhammadan Jurisprudence According to the Hanafi, Maliki, Shafi’i and Hanbali Schools, Hyperion Press, Westport 1981 (1ª ed. 1911); Joseph Schacht, Introduction au droit musulman, Maisonneuve et Larose, Paris 1983 (trad. it. Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1995).

DIRITTO SUCCESSORIO Tra i capitoli del diritto, il diritto delle successioni viene trattato nel Corano in modo particolarmente dettagliato. Il fatto stesso che si possa qualificare il diritto musulmano delle successioni come ‘‘coranico’’ spiega in parte la sua persistenza

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in seno alle societa` musulmane. Le sue norme sono considerate riflesso immediato della volonta` divina, la volonta` del Legislatore, e assai poco marcate dall’interpretazione dei giuristi della comunita`, ma in realta` cio` e` inesatto. Cosı` la Tunisia, il paese musulmano che insieme alla Turchia si e` spinto piu` in la` nella riforma del diritto musulmano tradizionale (fiqh), ha riveduto solo in minima parte il diritto successorio del passato. Ciononostante, in differenti settori e specialmente quello della rappresentanza, il diritto e` stato riformato durante l’epoca moderna sotto l’influenza del diritto occidentale. Semplicemente, le varie riforme sono state presentate spesso come endogene e poste sotto l’autorita` dell’uno o dell’altro giurista del passato la cui voce non era stata ascoltata fino ad allora. La relativa stabilita` del diritto musulmano delle successioni dal passato fino a oggi e` certamente dovuta anche ai privilegi che accorda a certe categorie di eredi. L’importanza del diritto delle successioni, nell’islam non minore che altrove, ha originato una delle rare specializzazioni riconosciute come tali nel sistema legale musulmano, cioe` lo ‘ilm al-fara¯’id, ˙ ‘‘la scienza delle parti’’. Secondo la Tradizione musulmana, questa disciplina giuridica specializzata risale direttamente alla prima epoca dell’islam e piu` precisamente alla figura di Zayd ibn Tha¯bit (m. 54/674), noto Compagno del Profeta. Secondo Abu¯ Hurayra, un altro Compagno, il Profeta avrebbe detto: «Imparate le successioni (fara¯’id), e insegnatele alla gente: esse sono˙ meta` della scienza, ed e` la prima cosa che si cerchera` di cancellare e far dimenticare nella mia comunita` ». La questione generale della devoluzione del patrimonio nel sistema legale musulmano non si esaurisce nel solo diritto delle successioni in senso stretto. Lungi da questo, nelle societa` musulmane il patrimonio si trasmette ugualmente, ma raramente, per mezzo di donazioni tra vivi e, soprattutto, attraverso l’espediente delle Fondazioni Pie. Quest’ultima istituzione ha giocato un ruolo storico molto

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importante; anche nella maggior parte dei paesi musulmani contemporanei esiste un ‘‘Ministero delle Fondazioni Pie’’. Vi si e` fatto spesso ricorso per aggirare le rigide regole del diritto delle successioni (indubbiamente perche´ l’applicazione di quest’ultimo ha come effetto la frammentazione dei capitali). Il diritto musulmano delle successioni e` fatto oggetto in questi ultimi anni di un approccio critico da parte degli islamologi. Il volume di David Powers propone per esempio una lettura molto differente delle fonti di questo diritto, e ne ricostruisce la storia in modo innovativo: la dottrina islamica tradizionale e alcune sue varianti si sarebbero in realta` allontanate dalla dottrina coranica, limitando in particolare lo spazio attribuito alle successioni testamentarie. Cio` e` senza dubbio vero; il diritto musulmano delle successioni deve certamente all’interpretazione e all’elaborazione dei giuristi musulmani tanto quanto deve al Corano stesso o alla Sunna. Tuttavia la versione musulmana tradizionale di questo diritto e` piu` importante dal punto di vista fenomenologico. Un ben noto racconto tradizionale mostra la prima applicazione pratica delle regole successorie ritenute conformi all’ultimo stadio della Legge rivelata: un musulmano muore martire nella battaglia di Uhud (3/ ˙ e un 625) lasciando una moglie, due figli fratello. Quest’ultimo si appropria in modo indebito di tutti i beni lasciati dal defunto (il che lascia intendere che questa fosse la consuetudine). La moglie si reca allora in visita dal Profeta e si lamenta del comportamento del cognato. Il Profeta le dice di tornare a casa, e aggiunge che «forse Dio dara` un giudizio su cio`». Qualche giorno piu` tardi vengono opportunamente rivelati i versetti medinesi 4,11-12, detti appunto ‘‘dell’eredita`’’ (a¯ya¯t al-mı¯ra¯th). Il Profeta convoca il fratello del defunto e gli ordina, in conseguenza della nuova rivelazione, di dare due terzi della successione ai due figli del defunto e un ottavo alla vedova e di tenere per se´ il resto, ancora un ottavo. Piu` che una riforma, la Legge rivelata porta in questo caso un rovesciamento delle consuetudini in materia di diritto delle succes-

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sioni. L’islamologia giuridica non ha misurato l’ampiezza del cambiamento: l’agnato, che in precedenza avrebbe ereditato tutto, non riceve ormai nulla piu` che un ottavo del patrimonio; questo a vantaggio delle spose del defunto che, altrimenti, non avrebbero ereditato alcunche´. Si tratta certo di un rovesciamento. La vocazione pedagogica e apologetica del racconto appena citato e` chiara: esso mette in evidenza fino a che punto il Corano consideri la condizione dei piu` deboli, in questo caso una vedova e due orfani di padre. Piu` ancora, l’entita` che il diritto musulmano delle successioni favorisce e` la famiglia, a svantaggio della tribu`. Questi versetti 4,11-12 – che avrebbero abrogato altri versetti sull’eredita`, tra i quali i versetti 2,180 e 240 – offrono una lista esaustiva sia degli aventi diritto (ahl al-fara¯’id) sia delle ‘‘parti’’ (fara¯’id, sing. ˙ cui il nome del diritto˙ delle farad, da ˙ successioni, ‘ilm al-fara¯’id) della succes˙ sione rispettivamente dovute. Gli eredi aventi diritto sono coloro che, per principio, non possono essere esclusi dalla successione di uno dei loro parenti (con qualche eccezione, per esempio se uno degli eredi e` l’omicida del de cuius ecc.). Essi sono i ‘‘protetti’’ del diritto delle successioni che si ritiene ‘‘coranico’’. Quando gli aventi diritto sono numerosi, puo` accadere che altri eredi, quelli da cui i precedenti debbono essere protetti, non ereditino nulla, poiche´ il patrimonio successorio del de cuius e` oramai esaurito; sono gli ‘asaba, ossia gli agnati, anticamente i ˙ soli eredi di una defunta o di un defunto. Le regole precise del diritto islamico classico delle successioni sono estremamente complesse, e le modalita` di devoluzione di una successione devono conformarsi alla seguente prassi: le spese legate ai funerali del de cuius sono prelevate dai beni che egli lascia; i suoi eventuali debiti sono liquidati; i suoi lasciti, che non possono eccedere il terzo del suo patrimonio e il cui beneficiario (o piu` d’uno) puo` essere un erede (o piu`) solo a determinate condizioni, sono versati al legatario; le ‘‘parti’’ pattuite del patrimonio successorio sono attribuite agli eredi aventi diritto

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designati dal Corano; infine il resto del patrimonio successorio viene diviso in maniera prestabilita tra gli agnati del de cuius. Di fianco a questa prassi vincolante, e` raccomandato donare qualcosa agli eventuali bisognosi (orfani ecc.) che assistono alla divisione della successione. Se non vi fossero eredi, e` opinione maggioritaria dei giuristi, di tutte le scuole indistintamente, che la successione vada versata all’Erario pubblico (bayt al-ma¯l). Gli eredi aventi diritto sono otto: la figlia del de cuius, la figlia del figlio, la madre, la zia paterna, la sorella, il marito, la moglie e il fratello uterino; a proposito di questa lista, esistono divergenze di dettaglio. Quanto alle parti, sono le seguenti: la meta`, il quarto, l’ottavo, i due terzi, il terzo e il sesto del patrimonio successorio (una volta dedotti i lasciti). Secondo i casi, la parte di eredita` di ciascun erede puo` variare. Due parti fisse, per esempio, riguardano la moglie: avra` un quarto della successione se non e` in competizione con un figlio o un nipote, mentre se lo e` avra` un ottavo. Tutto il sistema e` proporzionale, ed e` facile immaginare quanto possa essere difficile calcolare con precisione le parti stabilite; nonche´ la attenta preparazione aritmetica necessaria ai giuristi che se ne occupano. Gli agnati ai quali va la quota residua del patrimonio successorio, variabile in funzione del numero degli aventi diritto, sono: il figlio, il figlio del figlio, il fratello germano, il nipote germano, lo zio paterno e il cugino germano. Inoltre, possono in alcune circostanze trovarsi assimilate a questi agnati alcune loro parenti prossime, che ereditano appunto in quanto ‘‘agnatizzate’’ (cosı`, per esempio, la figlia o le figlie del de cuius in presenza di uno o piu` figli). Alcune specificita` del diritto musulmano delle successioni meritano ancora di essere segnalate. Ad esempio, esso ignora il diritto di primogenitura, pur massicciamente attestato in altri sistemi legali della stessa epoca e degli stessi luoghi. Non riconosce poi la rappresentanza, e per questo un orfano di padre non si trova sulla lista degli eredi del nonno paterno;

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nella gran parte dei paesi musulmani contemporanei, tale flagrante ingiustizia e` stata corretta con vari sotterfugi e rettificata nei testi giuridici. Inoltre, gli eventuali debiti del de cuius, se sono piu` ingenti del patrimonio successorio, non si trasmettono ai suoi eredi. Infine, a parita` di eredita` (ossia a uno stesso grado di parentela), una norma vuole che il maschio erediti il doppio della femmina. Supponendo che il de cuius lasci solo un figlio e una figlia e non abbia altri eredi, il figlio ereditera` i due terzi e la figlia un terzo. Questa disposizione, che tanto puo` infastidire la nostra mentalita` contemporanea, ha una sua spiegazione: chi ha in carico la casa (e l’autorita` su quanto avviene al suo interno) nella famiglia tradizionale musulmana, e` l’uomo; invece la donna dispone liberamente dei propri beni senza doversi preoccupare delle spese quotidiane. Oltre questa concezione patriarcale della famiglia, che certo puo` essere legittimamente contestata, la disuguaglianza di trattamento non ha effettivamente alcuna ragion d’essere. Il diritto musulmano classico delle successioni presenta un limite, e puo` accadere che vi sia l’impossibilita` di applicarlo in quanto tale: in alcuni casi, infatti, la somma delle ‘‘parti stabilite’’ da corrispondere supera l’unita`. Per questo, i giuristi musulmani hanno fatto ricorso a un sistema detto ‘‘‘awl’’, cioe` una riduzione proporzionale delle parti dell’eredita` , cosı` risolvendo sul piano pratico un problema che rimane tale dal punto di vista della teologia: se ‘‘la scienza delle parti fisse’’ e` coranica, cio` significa che essa traduce la volonta` divina; e` dunque piuttosto imbarazzante che a volte si verifichi [E´.C.] l’impossibilita` di adempiervi. Bibliografia: E´ric Chaumont, «Legs et successions dans le droit musulman», in Joe¨lle Beaucamp et Gilbert Dragon, La trasmission du patrimoine. Byzance et l’aire me´diterrane´enne, De Boccard, Paris 1998, pp. 35-51; Agostino Cilardo, Diritto ereditario islamico delle scuole giuridiche zaydita, za¯hirita e iba¯dita. Casistica, Istituto per ˙ – Istituto Universitario l’Oriente, Roma Orientale, Napoli 1994; Noel J. Coulson, Succession in the Muslim Family, Cam-

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219 bridge University Press, Cambridge 1971; Fre´de´ric Peltier, Georges H. Bousquet, Les Successions agnatiques mitige´es. E´tude compare´e du re´gime successoral en droit germanique et en droit musulman, Paul Geuthner, Paris 1935; David S. Powers, Studies in Qur’an and Hadı¯th. The Formation of the Islamic Law ˙of Inheritance, University of California Press, Los Angeles 1986; Almaric Rumsey, Moohummudan Law of Inheritance and Rights and Relations affecting it. Sunni Doctrine, Lahore 1983 (ripr. fotomeccanica della 1ª ed., W. H. Allen, London 1880).

DISSIMULAZIONE ‘‘Dissimulazione’’ e` la traduzione del termine taqiyya che il celebre dizionario della lingua araba dal titolo Lisa¯ n al‘arab, cosı` definisce: «E` quando ci si premunisce gli uni contro gli altri manifestando concordia e intesa mentre interiormente si prova l’esatto contrario». Dalla stessa radice deriva la parola taqwa¯ che designa sia il timor di Dio, sia la devozione e la pieta` che a lui sono dovute. L’assimilazione dei due valori nell’animo del credente puo` dunque operarsi spontaneamente, tanto piu` che il Corano evoca la questione senza ambiguita`: «Chi rinnega Dio dopo aver creduto, e` perso; eccetto coloro che vi sono stati costretti a forza, ma il cuor loro e` tranquillo nella fede; ma su coloro che avranno spalancato il cuore all’empieta` cadra` ira da Dio e avranno castigo cocente» (16,106). Sebbene certi orientalisti pensino che l’inciso sia un’aggiunta successiva, l’esegesi classica ha accettato questa deroga come un alleggerimento e una protezione per la vita del credente che avrebbe a soffrire a motivo della sua fede. Secondo quel che l’esegesi spiega esplicitamente, i credenti che ricorrono alla dissimulazione per sottrarsi al nemico non vanno incontro a nessun biasimo, perche´ Dio tratta i propri servi secondo quanto essi pensano in cuore. La possibilita` che la taqiyya fosse un «alleggerimento permesso dalla misericordia divina» e un «dovere individuale» nel caso in cui entrassero in gioco gli interessi della comunita` si pose rapidamente.

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DISSIMULAZIONE

Nella storia del sunnismo, la taqiyya non e` mai caduta in disuso, anche presso i piu` scrupolosi; tuttavia nei fatti i teologi hanno assunto posizioni assai varie: da quanti la ritengono obbligatoria quando le condizioni di vita sono estreme, fino a quanti la considerano una misura semplicemente autorizzata. Ben presto ci si chiese se il credente debba compiere l’emigrazione (hijra) a imitazione del Profeta o piuttosto abiurare esteriormente la fede per preservare la propria vita. Le risposte sono state tanto vaghe quanto molteplici. La pratica della taqiyya e` soprattutto importante nello sciismo perche´ la storia di questo movimento si e` formata fin da subito nella violenza, e la sua dottrina e` contrassegnata da una cultura vittimista che esalta il dolore. La pratica sciita della taqiyya si distingue perche´ si attua in ambiente islamico e non e` in alcun modo assimilabile all’abiura esteriore autorizzata per ogni musulmano minacciato o costretto. Essa appare nondimeno piuttosto ambigua, perche´ lo sciismo magnifica apertamente il martirio degli imam assassinati; fa pero` riferimento alla posizione di ‘Alı¯ durante i tre primi califfati, quando fu costretto a praticare la dissimulazione, e ne giustifica l’atteggiamento con la formula: «il kitma¯n (clandestinita`) e` il nostro jiha¯d». Del resto il principio della dissimulazione e` applicato anche agli insegnamenti esoterici che devono essere nascosti a «coloro che non ne sono degni». Dal momento che lo sciismo, nel corso del tempo, si trovo` ad essere per lo piu` minoritario e all’opposizione, puo` capitare che esso coniughi lo spirito di rivolta alla pratica della taqiyya. Alcuni isma¯‘ı¯liti hanno ricordato il dovere della rivendicazione armata; quanto agli zayditi, ispirandosi direttamente al numero dei combattenti della battaglia di Badr nell’anno 2/624, hanno ritenuto che se un imam si trova con un numero equivalente di alleati non e` piu` autorizzato a praticare la dissimulazione. Nel kha¯rijismo solo la forma estremista rappresentata dagli aza¯ riqa ha strettamente vietato la taqiyya conformemente

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all’intransigenza dogmatica e politica dei suoi affiliati. Presso gli iba¯diti invece essa ˙ rappresenta un elemento ricorrente della discussione dottrinale e da` luogo a una casistica molto particolareggiata. Il vero credente, secondo Jumayyil, il teologo iba¯dita di Zanzibar (XIII/XIX secolo), e` ˙ che mette in pratica la religione», «colui ma puo` «velarla» e «non e` obbligato a lasciare un territorio dove domina la miscredenza». Il principio stesso della taqiyya e` stabilito e giustificato in stretto legame con il concetto di intenzione (niyya): giacche´ la professione di fede islamica esige l’intenzione del credente per essere valida, la confessione pubblica della fede degli infedeli e la partecipazione ai loro riti non sono validi, poiche´ la condizione di validita` rappresentata dall’intenzione non e` soddisfatta. La dottrina comunemente ammessa e` che «un atto condannabile che si reputi essere impotenti a cambiare con la mano o con la lingua puo` senz’altro essere accettato temporaneamente ed esteriormente, a condizione di continuare a riprovarlo con il cuore». Ai nostri giorni, la taqiyya puo` essere praticata a titolo individuale, perche´ la comunita` musulmana di ogni osservanza si e` diffusa per ragioni economiche o per altri motivi in paesi che l’islam considera territori della miscredenza. [M.-T.U.] Bibliografia: Mohammad Ali Amir-Moezzi, Le Guide divin dans le shı¯‘isme originel. Aux sources de l’e´sote´risme en Islam, Verdier, Paris-Lagrasse 1992; Henry Corbin, Histoire de la philosophie islamique, Gallimard (coll. Folio Essais), Paris 1986 (1ª ed. 1964; trad. it. Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989).

DOGMA Fondamentalmente la dogmatica islamica e` concentrata nei due termini della professione di fede: l’unicita` matematica e assoluta di Dio e la qualita` di profeta di Muhammad, una qualita` ‘‘voluta e accordata’’ dall’onnipotenza divina. Ma poiche´ cio` implica che il testo apportato dal Profeta dell’islam sia la parola stessa di Dio, discesa su di lui nella sua materialita` sotto

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forma di dettato, le formule del Corano acquistano valore dogmatico. I fondamenti della fede islamica sono riassunti nel versetto 4,136: «O voi che credete! Credete in Dio e nel Suo Messaggero e nel Libro che Egli ha rivelato al Suo Messaggero, e nel Libro che rivelo` prima; e chi rinnega Dio, i Suoi Angeli, i Suoi Libri, i Suoi Messaggeri e l’Ultimo Giorno, erra d’errore lontano». Questo stesso versetto e` ripreso da una tradizione profetica. Sono in tal modo designati alcuni ‘‘pilastri della fede’’, da tenere ben distinti dai ‘‘cinque pilastri del culto’’ che reggono la vita religiosa nella sua pratica (professione di fede, preghiera, elemosina legale, digiuno e pellegrinaggio). Questi ‘‘pilastri della fede’’ sono spesso portati a sei, perche´ ai primi cinque si e` aggiunta la ‘‘predestinazione’’ (qadar). I testi coranici pero` non l’affermano e neppure la contestano, e le scuole giuridiche l’hanno discussa. Ciononostante questo dogma e` attualmente accettato da tutti nella pratica. Infine, due altre nozioni hanno assunto carattere dogmatico: l’inimitabilita` del Corano, che e` percepita come un dogma derivante dal testo coranico stesso a motivo della ‘‘sfida’’ lanciata agli avversari di produrre un testo simile e che e` accettata nel suo principio, ma con significati diversi; e l’impeccabilita` (‘isma) ˙ del Profeta. Quest’idea si fonda su alcune tradizioni profetiche e viene sviluppata molto ampiamente in trattati di teologia dogmatica (kala¯m) a essa consacrati, con accezioni differenti. Nel Corano gli enunciati dogmatici hanno due forme, negativa e positiva. La forma negativa trova la propria efficacia per l’ascoltatore nell’uso ripetuto della particella la¯ o lam come strumento grammaticale di ‘‘negazione assoluta’’: Dio «non genero` ne´ fu generato e nessuno Gli e` pari» (112,3-4). L’effetto prodotto sarebbe allora quello di una litote molto amplificata, poiche´ l’arabo possiede sfumature e procedimenti molto sottili per esprimere la negazione. La forma positiva dal canto suo riposa essenzialmente sull’uso dell’imperativo: «Credete in Dio», «praticate l’equita`», «siate testimoni»,

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«rispettate gli impegni» ecc. Peraltro i verbi ‘‘ordinare’’ e ‘‘vietare’’ fanno parte della definizione dogmatica dell’islam nella sua pratica, mentre il verbo ‘‘credere’’ appare come una conseguenza (soprattutto nel contesto dell’enunciato orale): «Voi siete la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini: promuovete la giustizia e impedite l’ingiustizia, e credete in Dio» (3,110). Dio Il Corano non tenta di provare l’esistenza di Dio, perche´ nella sua epoca la questione non si poneva in termini chiari. Condanna invece la dottrina dei ‘‘fatalisti’’ (dahriyya) che considerano il destino impersonale (dahr) come responsabile del corso della vita umana; Dio rivela al Profeta d’essere colui che fa vivere e morire (45,26). Nello stesso tempo, il Corano si adopera a mostrare l’esistenza di Dio attraverso i segni visibili nella creazione. Si tratta di una ‘‘teologia naturale’’ espressa in numerosissimi versetti che magnificano il Creatore e dettano all’uomo l’atteggiamento verso Dio. Essi non costituiscono una prova per un non credente; nondimeno, tre temi coranici serviranno ai teologi per dimostrare l’esistenza di Dio. In primo luogo l’idea che egli sia il solo essere eternamente esistente, mentre tutta la creazione ha un’esistenza strettamente dipendente ed effimera: tutto perira` e non restera` che il volto di Dio nella sua maesta` (55,26-27). In secondo luogo, la rivelazione che il Corano stesso costituisce: «‘‘Di Dio dunque dubitate, creatore dei cieli e della terra’’ che non sono niente senza di Lui? – si domanda Ghaza¯lı¯ m. 505/1111), citando il versetto 14,10. Dunque, i profeti sono stati inviati agli uomini per insegnare loro l’unicita` di Dio, ma mai la sua esistenza». Infine, la creazione in ciascuno dei suoi elementi e` la manifestazione di Dio; il suo irradiarsi (tajallı¯) e` visibile in tutto l’universo, una nozione che sta a capo delle teorie di tipo emanazionista di alcuni sufi e degli isma¯‘ı¯liti. Nei trattati di teologia islamica (kala¯m) la questione dell’esistenza di Dio e` svilup-

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pata all’inizio del discorso sugli attributi divini. In tutti i casi non si tratta tanto di provare che Dio ‘‘e`’’, quanto d’insegnare ai credenti come chiamarlo e in che modo rivolgersi a lui. I profeti Dio si rivela per mezzo delle creature che parlano di lui. Puo` anche intervenire nella storia degli uomini, ma soprattutto egli si rivolge a loro per il tramite di persone che si e` scelto e che invia per parlare in suo nome: sono i ‘‘profeti’’ (anbiya¯’, sing. nabı¯). Se poi essi ricevono anche una Scrittura, parola di Dio da comunicare agli uomini, sono chiamati ‘‘inviati’’ (rusul, sing. rasu¯l). I racconti profetici compaiono essenzialmente durante il periodo meccano, in cui sono orientati e utilizzati in funzione della missione di Muhammad. Essi provengono direttamente dalla Bibbia, canonica o apocrifa. Il Corano allude anche a tre profeti specificamente arabi, che qualifica con il titolo di ‘‘inviati’’: Hu¯d, Sa¯lih e Shu‘ayb. Questi rac˙ ˙ il medesimo scopo conti condividono apologetico: da una parte mostrare il castigo che Dio riserva ai popoli che respingono i profeti inviati loro, dall’altra inserire Muhammad e il Corano all’interno del modello religioso dell’umanita`. Non sono un’innovazione (46,9); non fanno che riprendere e portare a compimento la missione che Dio ha affidato ai profeti precedenti. Ventisei personaggi sono dichiarati profeti nel Corano, da Adamo a Noe` a Muhammad, inclusi i tre arabi citati. Tre hanno una menzione d’importanza speciale: Abramo, Mose` e Gesu`. Muhammad si inscrive progressivamente come il sigillo di questa linea profetica. Le Scritture Dio si rivolge agli uomini per il tramite dei profeti. A loro soltanto parla direttamente, in tre modi diversi: per ispirazione (wahy), talora non molto nitida; rivol˙ una parola chiara (verbi kallama e gendo qa¯la); ma soprattutto attraverso una ‘‘discesa’’ (nuzu¯l o tanzı¯l) tangibile della Parola in quanto Scrittura (kita¯b), la cui comunicazione Dio affida ai profeti perche´ l’annuncino al popolo da cui ciascuno di

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essi proviene (13,30; 29,45; 96,1). Questa Scrittura e` detta eterna ma possiede edizioni successive. E` chiamata «le pagine di Abramo e di Mose`» nei versetti 53,36 e 37 e 87,18 e 19 ed e` definita con un nome proprio fin dal periodo meccano intermedio. In esso la Scrittura e` prima di tutto la parola stessa di Dio, conservata dall’eternita` sulla «Tavola ben custodita» che si trova presso Dio come «Madre del Libro» (Umm al-Kita¯b; 3,7 e soprattutto 13,39 e 43,4). Questa Scrittura eterna e` ‘‘discesa’’ successivamente sui diversi profeti, i piu` grandi dei quali sono Mose` (la cui Scrittura si chiama Torah; la traduzione di Medina precisa: il Pentateuco; 3,3 e 65) e Gesu` (la cui Scrittura e` il Vangelo, Injı¯l, al singolare; 3,3). Il Corano cita anche i Salmi (Zabu¯r) dati a Davide (4,163). Prima dell’egira, Muhammad si e` appoggiato alle Scritture anteriori sia per riconoscerle nella sua predicazione (37,37; 42,15) sia per trovarvi il riconoscimento e l’annuncio della sua stessa venuta (10, 37; 12,111; 30,133; 21,7), essendo ammesso che queste Scritture erano soltanto edizioni successive della stessa Scrittura divina ed eterna, consegnata a Mose` per gli ebrei, a Gesu` per i cristiani e a Muhammad in «lingua araba chiara» (16, 103; 26,195) per gli arabi. Per converso, a Medina, a causa dei conflitti con gli ebrei e i cristiani, il Profeta dichiara che essi hanno falsificato le loro Scritture. La parola stessa ‘‘Corano’’ (Qur’a¯n) si basa su una radice semitica quadrilittera («qr’n»), ma e` generalmente interpretata sulla base di una radice araba trilittera («qr’») per ottenere l’idea di ‘‘lettura, proclamazione’’ di questa ultima e decisiva edizione della Scrittura eterna. Cio` non spiega l’ultima consonante, n, che deriva verosimilmente dal siriaco qerya¯ na¯ (‘‘lettura delle sacre Scritture). Quest’elemento si oppone ai riflessi mentali dei credenti che considerano la rivelazione del Corano come un’irruzione nella storia: essa e` ‘‘discesa’’ (nazala) su Muhammad nella «notte del Destino» (97,12), parola di Dio che egli non cessa di rivelare al suo Profeta come «Scrittura in Segni precisi» (6,114; 10,37) in funzione

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delle necessita`. Dio non si limita a ‘‘far discendere’’ questa rivelazione su Muhammad; gliela legge e gliela spiega; e puo` cambiarne alcuni versetti, abrogarli o confermarli secondo il corso della vita del suo Profeta (2,106; 3,7 in particolare). Questa rivelazione ultima voluta da Dio per l’umanita` e` annunciata nel Corano come «guida (huda¯ ) per gli uomini e prova chiara» per i credenti; al tempo stesso essa e` condanna per gli infedeli (2, 185), compresi i detentori della Scrittura, nella misura in cui essi, una volta messi al corrente, diventano inescusabili nel loro ignorare la rivelazione ultima (6,155157), la quale conferma le Scritture anteriori, pero` migliorandole, correggendole, giudicandole per rettificarle. Questa rivelazione fatta a Muhammad e` efficace per la sua bellezza, commuove per la sua forma letteraria e il suo contenuto tocca i cuori. Infine, e` inimitabile: e` l’ultima Scrittura, l’unica. Gli angeli Nei versetti 2,285 e 4,136, che formulano il credo islamico, come anche nello Hadı¯th, ˙ gli angeli costituiscono il secondo articolo di fede dopo Dio e prima delle Scritture. Cio` mostra l’importanza del mondo invisibile, particolarmente sentita nella mentalita` popolare e presso le donne: angeli e demoni occupano un posto considerevole nel Corano e nello Hadı¯th, mentre la teologia ˙ quasi non li nomina. Gli angeli sono presentati nel Corano come esseri intermedi tra gli uomini e Dio (70,4); possono avere ali, «a due, a tre, a quattro» (35,1). Una tradizione ulteriore precisa che sono asessuati, e il vocabolo «spirito» e` spesso associato ad essi (16,2). E` un angelo, Gabriele, a trasmettere la rivelazione a Muhammad. Il Corano attribuisce un nome ad alcuni angeli in particolare: Gabriele (Jibrı¯l), come abbiamo visto, ma anche Michele (Mı¯ka¯l) (2,98) e Ma¯lik, l’angelo preposto all’inferno (43,77). Gli angeli hanno per vocazione quella di adorare (4,172) e credere in Dio (40,7); devono essere un modello, lodare Dio e glorificarlo. Alcuni sono piu` vicini al suo trono, che e` sorretto da otto di

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loro (69,17). Il credente infine deve onorarli e obbedirli e deve ricercare la loro amicizia (2,97-98): essi sono gli emissari (10,21) incaricati di consegnare gli ordini di Dio o di trasmetterli (16,2; 22,75) e i guardiani della Scrittura eterna nel cielo. Nell’angelologia coranica sono descritti con precisione alcuni interventi tangibili degli angeli: in particolare, ogni uomo ha due angeli che tengono il conto del bene e del male presenti nelle sue azioni (50,1718 e 21-28). Gli angeli combattono a fianco dei credenti contro i loro nemici (48,4 e 7); ai credenti Dio concede tremila, o anche cinquemila angeli di rinforzo (3,124-125) per dar loro la vittoria (8,9 e 12). Hanno ugualmente un ruolo specifico nel momento della morte e nel giudizio dell’Ultimo Giorno, «il giorno in cui lo Spirito e gli angeli staranno ritti a schiere, non parleranno, e solo parlera` colui cui lo permetta Iddio e dica rettamente» (78,38). Sono ancora loro a testimoniare contro gli infedeli (39,40-41) e a intercedere per i credenti peccatori (40,79). Entreranno in paradiso in compagnia degli eletti (13,23-24), mentre i condannati al tormento dell’inferno saranno accolti da Ma¯lik con «angeli feroci e terribili» a sorvegliarli (43,77; 66,6). Nello Hadı¯th la presentazione coranica e` ripresa˙ tale e quale, ma con l’aggiunta di elementi magici. Piu` tardi, il kala¯m assumera` l’insieme di questi dati fornendo alcune precisazioni: gli angeli sono «corpi sottili (lat¯ıf) creati di luce, che ˙ bevono». I filosofi e non mangiano e non anche qualche teologo come Fakhr al-Dı¯n al-Ra¯zı¯ (m. 606/1209) parleranno inoltre di «anime separate» da ogni materia. In tutti i casi, gli angeli sono invisibili e si mostrano solo dietro ordine divino a precisi esseri, come i profeti. La loro natura e` intermedia tra gli uomini, creati d’«argilla», «i demoni di fiamma purissima di fuoco» (55,15), e Dio: sono «creati di luce». La tradizione musulmana prevede infine un loro posto nella gerarchia degli esseri e tratta della loro infallibilita` e del luogo in cui soggiornano (il settimo cielo) in funzione del gigantismo di alcuni di

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essi. Due angeli, Munkar e Nakı¯r, sono particolarmente temibili in quanto incaricati dell’interrogatorio nella tomba. Il discorso del Corano con riguardo ai demoni e` alquanto singolare. Il Libro sacro parla indifferentemente di demoni (shaya¯t¯ın) o di Demonio (Shayta¯n), talora ˙ Iblı¯s (Diavolo). Probabilmente ˙ chiamato occorre comprendere tale fatto in relazione all’aspetto composito delle fonti del Corano stesso, com’e` rivelato dal suo lessico. Del resto, alla fine del periodo medinese la Rivelazione riunira` i diversi influssi per farne una sintesi, evidente in particolare nella Tradizione profetica. In essa si segnalano due temi principali: i racconti su Iblı¯s diventato Shayt a¯ n, e ˙ quelli sui demoni. L’Ultimo Giorno Nel versetto 4,136, che enuncia il credo, l’«Ultimo Giorno» compare quale quinto articolo della fede islamica; esso e` tuttavia il primo argomento e il tema essenziale della predicazione di Muhammad alla Mecca, ove egli annuncio` la resurrezione e il giudizio con la retribuzione come logica conseguenza di quest’ultimo. Il Corano descrive con abbondanza di particolari concreti gli elementi escatologici (la fine del mondo, la resurrezione dei corpi e il giudizio secondo le azioni compiute) e tratteggia in senso materiale le dimore eterne. Non si dilunga pero` sulla morte in se´, perche´ «ogni anima gustera` la morte, ma vi saranno pagate le vostre mercedi il giorno della Resurrezione» (3,185; 21,35; 27,57). E` ugualmente sobrio sul composto umano e sull’interrogatorio della tomba. Lo Hadı¯th in˙ vece sviluppa ampiamente una rappresentazione popolare derivata principalmente da fonti iraniche, siriache e nestoriane. Le posizioni teologiche oscillano tra due opposti. Da un lato, una percezione spiritualista neoplatonizzante, secondo cui l’anima, alla morte, si libera dal corpo e trova la propria beatitudine nella contemplazione dell’Uno. Questa visione e` sostenuta dai teologi mu‘taziliti, dai filosofi e da alcuni moderni che non credono alla resurrezione dei corpi e attribuiscono un valore allegorico ai versetti coranici sull’interro-

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gatorio della tomba, la resurrezione dei corpi e le delizie fisiche del paradiso. Dall’altro lato, la percezione ufficiale di questo dogma e` quella dell’ash‘arismo, che ha trionfato sul mu‘tazilismo. Esso ha inizialmente inteso il Corano e lo Hadı¯th in un senso concreto, legato ai sensi˙e letterale. In seguito, influenzato dalla filosofia (falsafa), ha temperato alcuni dati concreti attraverso un’interpretazione allegorica della sopravvivenza dell’anima. Infine, nella sua fase di stagnazione ultima, si e` avuto un ritorno parziale al senso materiale dei testi. La predestinazione Il Corano oscilla tra l’affermazione della predestinazione e quella del libero arbitrio dell’uomo, in versetti tra loro contraddittori. In pratica e` la predestinazione a dominare nella coscienza popolare. L’espressione che la designa e` al-qada¯’ wa al-qa˙ il decreto dar: il secondo termine designa eterno di Dio, la cui esecuzione nel tempo e` invece indicata dal primo termine. I due vocaboli abbracciano tutte le questioni: l’atto umano e la sua produzione, il libero arbitrio in rapporto all’onnipotenza divina e la retribuzione in stretta relazione con la giustizia divina, cioe` la predestinazione al male, al bene, al paradiso e all’inferno. Nella teologia dogmatica questi problemi si trovano al capitolo sugli ‘‘atti dell’Altissimo’’ e della sua giustizia. Anche se non formulato nei versetti che enunciano il credo islamico, questo dogma occupa un ruolo centrale nella teologia, allo stesso titolo di quello degli attributi di Dio e dei suoi nomi. Dalla risposta all’interrogarsi su questo tema dipende l’atteggiamento dei credenti nei confronti della responsabilita`, del libero arbitrio e della loro relazione con Dio. Nel Corano Dio e` prima di tutto creatore di ogni cosa, di tutto, in senso stretto: «Egli perdona chi vuole e tormenta chi vuole. A Dio appartiene il dominio dei cieli e della terra e dello spazio fra essi» (5,18). Egli ha creato l’uomo e le sue azioni (37,96). E` affermato che e` sempre Dio a iscrivere nel cuore dell’uomo la fede o l’empieta`, predestinandolo sin dal seno di sua madre (3,6); «e` Dio che fa vivere e uccide» (3,156) e Dio

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ha decretato dall’eternita` che «non vi toccheranno disgrazie sulla terra o nelle vostre persone che non siano stata scritte in un Libro» prima ancora che egli le crei (57, 22). Anche il bene e il male, «tutto viene da Dio» (9,51). Nonostante questi versetti molto precisi, il Corano afferma che l’uomo e` libero e responsabile: «La verita` viene dal vostro Signore: chi vuole creda, chi non vuole respinga la Fede» (18,29). Il Libro ricorda anche che «Iddio non muta mai la Sua grazia ad un popolo, avanti ch’essi non mutino quel che hanno in cuore. Ma quando Dio vuole del male ad un popolo, non v’e` scampo» (13,11). Tuttavia questi versetti proseguono con la descrizione di tormenti terrificanti per coloro che scelgono il male. Malgrado questo, si constata che i versetti a favore del libero arbitrio sono piu` numerosi di quelli a favore di alqada¯’ wa al-qadar, senza che il Corano ˙ proponga mai una sintesi teologica. Si osservera` semplicemente che lo Hadı¯th ˙ alle testimonia di un ritorno manifesto formule del fatalismo preislamico, anche se il contesto dottrinale, monoteista, e` differente. Si puo` allora parlare di un ritorno dello spirito arabo dopo il Corano? Si costituiranno due correnti: i jabriyya, partigiani dell’onnipotenza di Dio e della sua ‘‘costrizione’’ (jabr) nei confronti dell’uomo, una costrizione necessaria; e i qadariyya, partigiani del potere dell’uomo sui suoi atti (si notera` qui il mutamento semantico del termine qadar). Alcuni considerano gli appartenenti a questo secondo gruppo come degli antenati dei mu‘taziliti, mentre gli ash‘ariti aderiranno con varie sfumature alle idee della [M.-T.U.] jabriyya. Bibliografia: Josef van Ess, Theologie und Gesellschaft im 2. und 3. Jahrhundert Hidschra. Eine Geschichte des religio¨sen Denkens im fru¨hen Islam, W. de Gruyter, Berlin-New York 1991-1997; Louis Gardet, M.M. Anawati, Introduction a` la the´ologie musulmane, essai de the´ologie compare´ e, Vrin, Paris 1981 (3ª ed.); Igna´ c Goldziher, Lezioni sull’islam, a cura di Agostino Cilardo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma 2000 (ed. or. Vorlesungen u¨ber den Islam, Carl Winter’s Uni-

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225 versita¨tsbuchhandlung, Heidelberg, 1910, 2ª ed. ampliata Heidelberg 1925); Muhammad Hamidullah, Le Prophe`te de l’islam, Vrin, Paris 1959; Jacques Jomier, Dieu et l’homme dans le Coran, l’aspect religieux de la nature humaine joint a` l’obe´issance au Prophe`te de l’islam, Le Cerf, Paris, 1996.

´ DOMINIO DI SE Il termine hilm, che esprime in arabo il ˙ se´’’, era molto utilizzato nel ‘‘dominio di periodo antecedente l’islam e rappresentava allora una delle virtu` fondamentali. La nozione abbracciava un largo spettro di virtu`, dalla giustizia serena e dalla misura fino alla longanimita` e all’indulgenza; riguardava anche la dignita` nel contegno. Si contrapponeva inizialmente a jahl (‘‘ignoranza tipica della barbarie’’). Tuttavia non e` facile comprendere la genesi di questo concetto e si danno al riguardo due ipotesi contrapposte. Bichr Fare`s ha supposto che il capo tribu` che si lascia insultare si impedisce in tal modo di diventare tirannico, il che comporta un maggior prestigio per il gruppo. Un punto di vista piu` vicino a quello dei pensatori greci (si pensi alla ‘‘magnanimita`’’ di Aristotele) mette in rilievo l’idea di forza morale: l’indifferenza rappresenta un lezione piu` grande a chi insulta; cosı`, alcuni l’associano al silenzio. Questa virtu` inoltre ha un carattere aristocratico: e` una delle quattro componenti dell’onore, insieme alla generosita`, all’intelligenza e al coraggio. Come sostantivo, il termine non appartiene al Corano, che ne conosce solo la forma aggettivale, applicata a Dio o a personaggi antichi, con il significato di ‘‘longanime’’, ‘‘lento a castigare’’. Per l’uomo si e` mantenuta la concezione antica. Alcuni personaggi storici sono associati alla persistenza dello hilm preislamico, come il primo califfo˙ omayyade, Mu‘a¯wiya, che gli conferisce cosı` una nuova colorazione politica, il contesto essendo non piu` la sola tribu`, ma l’Impero musulmano tutt’intero. Si cita anche un personaggio vissuto agli inizi dell’islam e chiamato al-Ahnaf, celebre per il suo do˙

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DOMINIO DI SE´

minio di se´, l’indulgenza verso i nemici, la capacita` di reprimere la collera, la serieta` e discrezione e infine l’ostilita` nei confronti della delazione, qualita` che lo hanno reso proverbiale. Un elemento ulteriore di persistenza di questa nozione risiede nel fatto che, anche se l’islam le da` una colorazione leggermente differente, le parole isla¯m e hilm sono rispettivamente opposte a jahl˙ (da cui ja¯hiliyya, termine che designa lo stato umano prima della rivelazione coranica), il che ha come conseguenza psicologica quella d’associarle tra loro. Charles Pellat ha potuto affermare che «tutta l’opera di Muhammad, dal punto di vista etico, puo` essere molto bene illustrata come un audace tentativo di combattere fino all’ultimo lo spirito della ja¯hiliyya, d’abolirlo completamente e di sostituirlo una volta per tutte con lo spirito dello hilm». Tutta˙ via questa nozione e` solo implicita nel Corano e si deduce ex contrario dall’impiego della parola jahl e dei suoi derivati. Alcuni versetti nondimeno sono piu` espliciti, per esempio il seguente: «I servi del Misericordioso sono coloro che camminano sulla terra modestamente, e quando i pagani (ja¯hilu¯n) rivolgono loro la parola rispondono: ‘‘Pace!’’» (25,63). Nei trattati d’etica arabi, la nozione di hilm conosce un’evoluzione. Presso il cri˙stiano Yahya¯ ibn ‘Adı¯ (m. 364/974) l’insistenza sul˙ ceto dominante conduce ad accordare un particolare favore a questa nozione, che conserva il senso di ‘‘dominio di se´’’, ma e` anche estesa in direzione del concetto greco di ‘‘magnanimita`’’. Quest’autore offre un quadro assai vicino alla mentalita` delle origini della civilta` musulmana. Appena mezzo secolo piu` tardi, il musulmano Miskawayhi (m. 421/1030) le attribuisce un’importanza minore e la fa intervenire solo in circostanze particolari (regole d’igiene dell’anima e studio delle virtu` e dei vizi), mentre il senso di ‘‘magnanimita`’’ prevale definitivamente. [M.-T.U.]

Bibliografia: Marie-The´re`se Urvoy, introd. all’edizione e trad. di Yahya¯ ibn ‘Adı¯, Trai˙ te´ d’e´thique, Cariscript, Paris 1991.

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DONNA

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DONNA Tra i versetti che definiscono gli statuti legali (a¯ya¯t al-ahka¯m), quelli che riguar˙ dano le donne sono senza dubbio i piu` numerosi nel Corano; diversamente, i riti fondamentali dell’islam sono evocati nel complesso in modo succinto, e ambiti tanto importanti per la societa` quali l’organizzazione della giustizia, il commercio e la direzione della comunita` non sono, per cosı` dire, neppure trattati. E` del tutto legittimo pensare che su determinate questioni, come la vita coniugale e familiare e l’eredita`, l’islam riformo` in parte, come vogliono certe tradizioni, le differenti forme del matrimo