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20/10/2010
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Dal Risorgimento alla Resistenza Claudio Pavone
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I LIBRI DE LO STRANIERO
9 788863 570571
I QUADERNI
I QUADERNI
L’Unità d’Italia ha appena un secolo e mezzo di storia. Si è trattato di una storia tormentata e difficile, e le idee dei profeti del Risorgimento – un lungo processo non privo di contraddizioni – sono state utilizzate da destra e da sinistra, dai fascisti così come dagli antifascisti in modi opposti. E, nella storia della Resistenza, se ne sono serviti in modi diversi il Partito comunista rispetto a Giustizia e Libertà e agli stessi cattolici, con maggiore o minore sincerità, e a volte in modi decisamente strumentali. Questo saggio magistrale del 1959 aiuta a far chiarezza, e ha avuto grande influenza su tutta la storiografia successiva. Ripubblichiamo fuori commercio questo saggio magistrale prendendolo da Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri 1995), anche come omaggio degli “Asini” a Claudio Pavone, autore del fondamentale Una guerra civile, che festeggia quest’anno i suoi novant’anni.
Dal Risorgimento alla Resistenza Claudio Pavone
Il presente testo è interamente tratto da Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento da “Passato e Presente”, n. 7, gennaio-febbraio 1959, pp.850-918. Sucessivamente pubblicato in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 3-69. © 1995 Bollati Boringhieri Editore 2010 Edizioni dell’Asino Copia gratuita. Isbn 978-88-6357-057-1 Distribuzione PDE spa Progetto grafico Orecchio Acerbo Hanno collaborato: Bianca Dematteis, Marco De Vidi, Goffredo Fofi, Giulio Marcon, Francesca Nicora, Fausta Orecchio, Nicola Villa. Le Edizioni dell’Asino sono un progetto frutto della collaborazione tra Lunaria e Lo Straniero con la partnership di Redattore Sociale www.gliasini.it
Nota introduttiva
A 150 anni dall’Unità, l’Italia è un paese pieno di contraddizioni politiche e territoriali, dove il messaggio dei “padri fondatori” è discusso e spesso aspramente respinto. In questo saggio, uno dei nostri maggiori storici analizza i modi in cui le forze politiche e intellettuali hanno letto la storia del Risorgimento e hanno cercato di appropriarsene, o alcuni, pochi, di metterla in discussione. C’è stato un Risorgimento dei fascisti e uno degli antifascisti, e tra questi uno dei comunisti e uno dei “giellini” (quelli di Giustizia e Libertà e più tardi del Partito d’Azione), e c’è stato finanche un Risorgimento dei cattolici. E c’è stata una Resistenza che del Risorgimento in vario modo ha voluto considerarsi l’erede, secondo posizioni spesso tra loro divergenti, quali più opportunistiche, quali più critiche. Le diverse (e diversamente appassionate) interpretazioni lasceranno il posto, scriveva l’autore nel lontano 1959, a indifferenza o a ostilità, a un Risorgimento “sempre più lontano come mito capace di suscitare passioni politiche di vasta risonanza”. E questo ci sembra esatto, nonostante si assista oggi non tanto a tentativi di appropriarsi di quella storia quanto di metterla in discussione, anche radicalmente.
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1. Il “Secondo Risorgimento”
L’espressione “Secondo Risorgimento” per indicare la Resistenza è divenuta largamente corrente nei discorsi, negli scritti, nelle testate di riviste e giornali usciti dopo il 1945. Tuttavia, quando si abbandonano i discorsi celebrativi e di prima approssimazione, quelle due parole appaiono avvolte in un alone di incertezza, e nascono dubbi suscitati innanzi tutto dai troppo diversi punti di vista da cui si pongono coloro che a esse fanno ricorso. Andiamo infatti dal neogaribaldinismo dei comunisti e dalle esplicite dichiarazioni neorisorgimentali di Parri1, alla rivista “Risorgimento, periodico della Resistenza” diretta dal più noto capo di formazioni autonome, Mauri (Enrico Martini) e al titolo di Secondo Risorgimento dato al volume governativo di celebrazione del decimo anniversario del 25 aprile2; dalla esortazione di Pieri, in un convegno della Associazione per la difesa della scuola nazionale, a parlare nelle scuole della Resistenza ricollegandola al Risorgimento3, alla circolare con cui il ministro della Pubblica istruzione, Martino, non certo perché sensibile all’appello di quella provenienza, presentava nel 1954 la Resistenza come ritorno al Risorgimento. La Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia è 1
Vedi, ad esempio, due sue brevi note in “Il Movimento di liberazione in Italia”: una introduttiva a Documenti relativi all’attività politica e militare del rappresentante del Partito d’Azione nei suoi rapporti con gli alleati (n. 27, novembre 1953, p. 3), l’altra commemorativa di U. Ceva (nn. 38-39, settembre-novembre 1955, pp. 90 sg.). 2 Il Secondo Risorgimento, scritti di A. Garosci, L. Salvatorelli, C. Primieri, R. Cadorna, M. Bendiscioli, C. Mortati, P. Gentile, M. Ferrara e F. Montanari, Nel decennale della resistenza e del ritorno alla democrazia 1945-1955, Roma 1955. Il Secondo Risorgimento d’Italia, del resto, è anche il titolo di una miscellanea di eclettica ispirazione, pubblicata a Roma nel 1955, e contenente scritti di F. Antonicelli, R. Cadorna, F. Parri, M. Socrate e molti altri di varia tendenza. 3 P. Pieri, La tradizione del Risorgimento e l’insegnamento della storia, in “Scuola democratica”, VI, 1952, nn. 3-4.
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piena di richiami risorgimentali; e perfino in qualche scritto di anarchici si possono trovare accenni al nuovo Risorgimento4. Da parte di uomini politici come di storici sono stati avanzati, in verità, molti dubbi sulla correttezza di quella espressione. A uno studio critico della questione invitava Antonicelli in un saggio che voleva essere di ampia impostazione problematica5; molto polemico e molto diffidente si mostrava Garosci nella sua comunicazione al primo convegno di studi di storia della Resistenza6; disposto a riconoscere “che un certo parallelismo con il Risorgimento possa affermarsi anche in sede storiografica” Valiani7, benché in seguito tornato con maggiori perplessità sull’argomento.8 Un augurio a che qualcuno si decidesse a fare la storia della espressione era formulato qualche anno fa da Mario Delle Piane, che contestava l’affermazione fatta, sia pure dubitativamente, da Gaston Manacorda di essere stati primi i comunisti a valersene.9 E, nel terzo convegno di studi sulla Resistenza tenutosi a Firenze nel marzo 1958, Bianca Ceva consigliava cautela nell’avvicinamento fra Risorgimento e Resistenza.10 Anche da parte comunista non sono mancati recenti richiami a maggior scrupolo nell’uso del paragone che sembra sminuire la novità, dal punto di vista dei rapporti di classe, della Resistenza rispetto al Risorgimento.11 E una voce di tutt’altra provenienza, quella di Aldo Capitini, ha sentito il
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La guerre continue, in “Quelque part en Suisse”, febbraio 1941, p. 10, che si augura un nuovo, più radicale Risorgimento. Cfr. anche Pendant le carnage, ivi, novembre 1941, p. 11. 5 F. Antonicelli, Il movimento di liberazione nella storia d’Italia, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 21, novembre 1952, pp. 13 sgg. 6 A. Garosci, Appunti sui criteri generali per una storia della Resistenza, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 22, gennaio 1953, pp. 42-47. 7 L. Valiani, Il problema politico della nazione italiana, in AA.VV., Dieci anni dopo (19451955), Bari 1955, p. 38. 8 Recensione a Il Secondo Risorgimento cit., in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 42, maggio 1956, p. 48. 9 M. Delle Plane, Lauro De Bosis e respressione “Secondo Risorgimento “ (Per la storia di una locuzione , in “Il Ponte”, XI, 1955, pp. 1952-54. Cfr. G. Manacorda, Dieci anni dopo o del modo di scrivere la storia recente, in “Società”, XI, 1955, p. 555. 10 B. Ceva, L’Istituto Nazionale e il suo terzo Convegno storico, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 50, gennaio-marzo 1958, p. 10. 11 Così L. Longo alla Casa della cultura di Milano il 19 giugno 1954 (“Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 31, luglio 1954, pp. 45-47); così P. Secchia, il 23 luglio dello stesso anno, alla Fondazione Gramsci di Roma (Problemi e storia della Resistenza, testo ciclostilato a cura della Fondazione, pp. 33-36).
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bisogno di ricordare che “il Risorgimento, anche corretto dalle forzature convenzionali, non è nella misura della Opposizione antifascista”.12 Vi è stato anche qualche tentativo di affrontare in modo diretto ed esplicito il problema, e ne sono scaturiti saggi di disuguale valore, ai quali non mancheremo in seguito di riferirci, man mano che se ne presenterà l’occasione.13 Quello che ci preme dire subito è che crediamo sia da resistere alla tentazione di comporre scolastici elenchi di analogie e di differenze, che si ridurrebbero poi all’ovvia constatazione che l’Ottocento non è il Novecento, che Garibaldi, Mazzini e Cavour non sono Longo, Parri e Croce, come Mussolini non è il re Bomba; oppure sfocerebbero nella disputa accademica sulla continuità e la novità o la rottura nella storia. Pensiamo sia più proficuo sforzarsi di ricostruire la storia di quell’espressione, vedere come sia nata, chi, in quale senso e in quali momenti l’abbia usata, fino a che punto essa abbia costituito un ideale operante: servirsene, cioè, per cercare di cogliere, sia pure in modo necessariamente frammentario, la posizione in cui le varie correnti antifasciste, e i fascisti stessi, vollero collocarsi di fronte alla storia dell’Italia moderna. Alcuni dei temi più vivi del Risorgimento, del postrisorgimento e della Resistenza potranno così, rapidamente e di scorcio, essere tirati in campo, anche perché, se la tradizione, o meglio le tradizioni, del Risorgimento hanno influito sulle ideologie non solo della Resistenza post 1943 ma di tutto l’antifascismo, la Resistenza ha poi a sua volta reagito su quelle tradizioni, rinnovando la tematica sul Risorgimento e sui suoi rapporti con l’Italia d’oggi.
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Risposta a una inchiesta su “La Resistenza nella scuola”, promossa da “La Riforma della Scuola”, IV, aprile 1958, n. 4. 13 M. Bendiscioli, Esiste un “Secondo Risorgimento”?, in “Humanitas”, IV, 1949, pp. 16269; T. Tessari, Rapporti tra alcuni aspetti della Resistenzae alcuni aspetti del Risorgimento, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 11, marzo 1951, pp. 8-27; E. Passerin D’Entreves, Risorgimento e Resistenza, in “Civitas”, n.s., VI, aprile 1955, n. 4, pp. 8591;V. E. Giuntella Mito e realtà del Risorgimento nei lager tedeschi, Roma 1956. Vedi anche L. Bulferetti, La Resistenza nei Musei del Risorgimento, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 22, gennaio 1953, pp. 22-26, e Risorgimento e Resistenza (Gli Artom), ivi, nn. 34-35, 1955, pp. 44-55.
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2. Risorgimento e fascismo
“Per gli italiani, l’atteggiamento da assumere nei riguardi del Risorgimento implica ancora, e forse continuerà a implicare per parecchio tempo, una scelta inequivocabile che precede ogni valutazione storiografica”. Queste parole di Leone Ginzburg14 possono considerarsi il sottofondo implicito a tutta la disputa non solo sui rapporti fra Risorgimento e Resistenza, ma anche fra Risorgimento e fascismo: e le due questioni sono intimamente legate, la prima nascendo anche come reazione a certe soluzioni date alla seconda. Pur nella sua rozzezza culturale, infatti, il fascismo non poté sottrarsi all’obbligo di definirsi in rapporto alla più recente storia d’Italia; e se la retorica della romanità gli fece sempre più preferire il gran volo di collegamento diretto con il lontano Impero, tuttavia il fatto stesso di considerarsi il provvidenziale termine ad quem dell’intera storia d’Italia, rese necessario al fascismo atteggiarsi, in qualche modo, anche a continuatore e sistematore del Risorgimento. “I vincitori non si contentano di occupare il presente. Essi proiettano la loro vittoria nel passato per prolungarla nell’avvenire”, scriveva Salvemini spiegando il sorgere dell’interesse di Nello Rosselli per gli studi risorgimentali proprio con il desiderio di reagire alle falsificazioni fasciste.15 Il primo a mettersi sulla strada di una reinterpretazione fascistica del Risorgimento era stato Mussolini, con materiali culturali di scarsa originalità e grossolanamente manovrati sotto la spinta di scoperte esigenze tattiche. Ma l’eclettismo che ne derivava corrispondeva, sul piano effettuale, all’assorbimento che il fascismo andava compiendo dei vari gruppi della vecchia classe politica e, sul piano storiografico, all’eclettismo dell’agiografia tradizionale, che vedeva i quattro grandi, Vittorio Ema14
In La tradizione del Risorgimento, prime pagine di un saggio che Ginzburg preparava nella primavera del 1943. Pubblicato in “Arethusa”, II, aprile 1945, pp. 1-16. 15 Prefazione a C. Rosselli, Oggi in Spagna domani in Italia, Paris 1938, p. VII.
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nuele, Cavour, Mazzini e Garibaldi, procedere a braccetto verso i più alti destini della patria. Il fascismo accreditò questa visione, che aveva il gran pregio di non sollevare problemi e di preparargli la strada come a quello che di tutti quei grandi poteva, senza contraddizioni, considerarsi il suggello. Caratteristico, da questo punto di vista, il discorso dell’Augusteo del 9 novembre 1921, in cui Mussolini, con notevole abilità, trova una parola di comprensione per tutti i settori dello schieramento politico tradizionale: dai repubblicani (l’Italia non ha bisogno di cercare in Russia i suoi profeti) ai liberali e ai nazionalisti (lodi alla Destra e a Crispi). Non manca nemmeno un po’ di civetteria verso gli anarchici (Malatesta santo e profeta); mentre l’incertezza del giudizio sui popolari sottintende il proposito, chiaro fin da allora in Mussolini, di trattare, scavalcando il partito di Sturzo, direttamente col Vaticano, nella convinzione, che farà fortuna nel fascismo, che “il cattolicesimo può essere utilizzato per l’espansione nazionale”.16 Allorché i Patti lateranensi porteranno a felice compimento tale indirizzo, Mussolini, parlando alla Camera, si mostrerà di nuovo assai abile nel difendersi sia dalle critiche che potevano essergli mosse in nome della tradizione laica e risorgimentale, sia dalle accuse di debolezza dei fascisti intransigenti; e al Senato concluderà con una perorazione sulla scomparsa di ogni ipoteca su Roma capitale: tema, quest’ultimo, riproposto per difendere la sostituzione della festa del 20 settembre con quella dell’11 febbraio, giorno da considerare ormai, esso, conclusivo del Risorgimento.17 Quando voleva giocare la carta del fascismo popolaresco Mussolini non esitava poi a tirare in scena Garibaldi: così, parlando a Monterotondo il 23 dicembre 1923, menò gran vanto della presenza di Ricciotti Garibaldi,18 e proclamò che “fra la tradizione garibaldina, vanto e gloria d’Italia, e l’azione delle Camicie nere, non solo non vi è antitesi ma vi è continuità storica e ideale”.19 Vedremo in seguito come di un certo tipo di continuità fra garibaldinismo e fascismo si parlasse anche in ambienti 16
B. Mussolini, Scritti e discorsi, vol. 2, La Rivoluzione fascista, Milano 1934, pp. 199206. 17 I due discorsi sui Patti lateranensi in Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. 7, Dal 1929 al 1931, Milano 1934, pp. 31-122. Quello sul XX settembre, alla Camera, 12 dicembre 1930, ibid., pp. 241-50. 18 Sulla misera storia dei rapporti fra i Garibaldi e il fascismo, cfr. A. Garosci, Storia dei fuorusciti, Bari 1953, pp. 271-73. 19 Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. 3, L’inizio della nuova politica, Milano 1934, pp. 295 sg.
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antifascisti; e già Gobetti, in una sua complessa definizione di Mussolini, aveva inserito l’elemento del “garibaldino in ritardo”.20 Nel presentarsi come vendicatore della vittoria mutilata, Mussolini contribuì a canonizzare il conflitto del 1915-18 come “quarta guerra d’indipendenza”, facendolo divenire un anello della catena che partiva dal Risorgimento e finiva al fascismo (“il decennio 1860-70, quando fu compiuta l’unità della Patria che dovrà essere perfezionata colla guerra mondiale e la nostra vittoria.”);21 e di nuovo, nell’appropriarsi di tutta l’eredità per lui politicamente utile del conflitto, dall’interventismo nazionalista a quello d’intonazione democratico-risorgimentale, Mussolini faceva appello a Garibaldi, dichiarandosi sicuro che l’Eroe “riconoscerebbe la discendenza delle sue Camicie rosse nei soldati di Vittorio Veneto e nelle Camicie nere che da un decennio continuano, sotto forma ancor più popolare e più feconda, il suo volontarismo”.22 Perfino l’Anschluss e l’Asse servirono a ridestare in Mussolini spiriti risorgimentali, spingendolo più volte a paralleli fra i modi con cui Italia e Germania avevano raggiunto l’unità nazionale. Ed erano paragoni che, sovvertendo tutta quell’ala della tradizione liberale che aveva sempre amato accentuare le differenze fra Cavour e Bismarck, servivano poi d’introduzione all’accostamento fra fascismo e nazismo come momenti culminanti delle due rivoluzioni nazionali. “Il dramma austriaco non è cominciato ieri: cominciò nel 1848, quando il piccolo animoso Piemonte osò sfidare l’allora colosso asburgico [...]. Noi non abbiamo fatto nulla di diverso tra il 1859 e il 1861. Io vi esorto alla storia, o signori [...]”: così parlò Mussolini alla Camera il 16 marzo 1938, accennando anche al “grande autoritario Cavour”.23 Aiutavano Mussolini quei liberali che, man mano che si convertivano al fascismo, lo scoprivano campione delle tradizioni di cui avrebbero dovu20
“Rivoluzione liberale”, 28 maggio 1922 (cilato da G. Solari, Aldo Mautino nella tradizione culturale torinese da Gobetti alla Resistenza, premesso ad A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Bari 1953, p. 85). Cfr. quanto diremo poi su Gobetti. 21 B. Mussolini, Prefazione alla “Rivista marittima” del gennaio 1937, in Scritti e discorsi cit., vol. II , Dal novembre 1936 al maggio 1938, Milano 1938, p. 39. Anche il “germe del nuovo Impero” risaliva “all’anno in cui il piccolo Piemonte osò sfidare il potente impero degli Absburgo”: discorso ai gerarchi torinesi del 30 maggio 1935 (Scritti e discorsi cit., vol. 10, Scritti e discorsi dell’Impero, Milano 1936, p. 143). 22 Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. 8, Dal 1932 al 1933, Milano 1934, p. 63. 23 Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. II, pp. 221-29. Parlando poco dopo a Genova, il 14 maggio, ancora dell’Anschluss, Mussolini tirò in campo anche Mazzini (ibid., p. 285).
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to, essi, costituire i portatori. Parlò per tutti Salandra alla Scala il 19 marzo 1924, quando affidò appunto a Mussolini la tradizione del liberalismo italiano e del Risorgimento; e già Albertini aveva rivolto in Senato al governo fascista appena costituito un appello a raccogliere, rinnovandola, l’eredità del liberalismo.24 Se l’idea – scrive Salvatorelli – di affidare a Mussolini l’eredità del liberalismo risorgimentale oggi appare assurda e grottesca – e tale appariva già allora ai più perspicaci e spassionati (fra i quali va certo collocato l’autore di Nazionalfascismo, e di Irrealtà nazionalista) – non per questo sarebbe ragionevole sentenziare che in quanti allora la professavano, da Salandra ad Albertini, essa fosse pura finzione, a scopo tattico. Illusione, certamente: ma non del tutto incomprensibile.25
Non incomprensibile, ove si tenga conto che essa era l’espressione del passaggio al fascismo del vecchio ceto dirigente liberale, con le poche eccezioni di coloro che, come scrive ancora Salvatorelli, alla opposizione “furono letteralmente trascinati per i capelli”.26 Se il fascismo accentuò con gli anni la sua polemica di principio contro il liberalismo, ciò discese anche dal fatto che l’operazione di assorbimento del vecchio personale politico aveva ormai dato tutti i frutti sperabili. Fu solo in conseguenza della Grande crisi, infatti, che il fascismo fece di tutto per esasperare il suo carattere di novità, di “terza via” corporativa, fra il mondo capitalistico in declino e il socialismo o comunismo. Così operando, il fascismo da una parte tendeva a far dimenticare i patteggiamenti coi vecchi liberali e il liberismo del suo primo periodo; dall’altra parte, però, stimolava una più energica reazione di tutti coloro che, sia pure da posizioni assai diverse, rivendicavano libertà e democrazia come elementi intrinseci dell’Italia nata dal Risorgimento. I due intellettuali che cercarono di dare una veste il più possibile colta al fascismo, Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, dovettero entrambi fare i conti con il Risorgimento: abbandonandosi a uno sfrenato ideologismo pseudostoriografico, il filosofo Gentile; con maggior equilibrio lo storico Volpe, dalle modeste esigenze speculative, e propenso, in fondo, ad ammettere che tutte le strade conducono a Roma. Per Gentile, il Risorgimento è una tappa necessaria per giungere alla pienezza dei tempi attualistico-fascisti. Mazzini diventa 24
Cfr. L. Salvatorelli, L’opposizione democratica durante il fascismo, in AA.VV., Il Secondo Risorgimento cit., p. 120. 25 Ibid., p.104. 26 Ibid., p. 112.
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l’Ezechiello della nuova Italia [...], di questa Italia nuova che si compie a Vittorio Veneto, sfolgorando e annientando il suo antico avversario [...]. Ora il Vangelo mazziniano sopravvive alla meraviglia del Risorgimento, poiché è la fede dell’Italia che ne è sorta; di quella Giovane Italia che il Mazzini evocò. È il Vangelo fascista, è la fede della gioventù del 1919, del ’22, d’oggi.27
Nel Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni, comparso sui giornali del 21 aprile 1925,28 Gentile insisteva nel paragone fra la Giovane Italia e lo squadrismo, nati “da un analogo bisogno politico e morale”; e introduceva un tema caratteristico della contraddizione fascista fra demagogia di massa e preteso aristocraticismo religioso. Gentile rivendicava infatti il carattere di élite del Risorgimento, “quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze”, il cui seme si era poi purtroppo disperso. Fu proprio Croce a ribattere su questo punto,29 condannando gli intellettuali fascisti che ripetono “la trita frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale”. Nella Dottrina del fascismo Gentile tornò alla carica in termini più generali contro il liberalismo e la religione della libertà, ricordando che la Germania aveva raggiunto la sua unità al di fuori, anzi contro il liberalismo e che, quanto all’unità italiana, il liberalismo vi aveva avuto “una parte assolutamente inferiore all’apporto dato da Mazzini e Garibaldi che liberali non furono”.30 Toccò al Gentile di dover anche difendere il Risorgimento dagli attacchi dei fascisti più intransigenti, desiderosi di rivendicare l’assoluta originalità del loro movimento: ma la difesa era di quelle che lasciano in imbarazzo chi vogliono proteggere, i cui tratti caratteristici, principio di nazionalità, liberalismo, Mazzini e Gioberti, erano tutti considerati antecedenti, perfettamente congrui, del fascismo.31 Soprattutto su Mazzini e Gioberti in27
G. Gentile, Che cosa è il fascismo (conferenza tenuta a Firenze l’8 marzo 1925), in Istituto nazionale fascista di cultura, Pagine fasciste, I, I fondamenti ideali, Roma 1926, pp. 28 sg. 28 Vedilo in N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925. Idee e documenti, Firenze 1958 (2a ed.), pp. 583-89. 29 Vedi la sua risposta al Manifesto, nella “Critica” del 1925; ora in Valeri, La lotta politica cit., pp. 390-93. 30 Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. 8, pp. 81-83. 31 G. Gentile, Risorgimento e fascismo, in “Politica sociale” del 1931: ora in Id., Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze 1936, pp. 115-20.
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sisterà, in più occasioni, il Gentile, rendendo al primo il cattivo servizio di isolarne i tratti più confusi e mistici; e il Mazzini fascista concluderà la sua carriera sui francobolli della Repubblica sociale italiana. Gentile diveniva così fra i principali responsabili della diffusione di un quadro del Risorgimento provinciale e autarchico, a caccia di spirituali primati, un Risorgimento che permetteva di considerare “il buon filosofo cattolico della Scienza nuova [...] tra i maestri spirituali del fascismo”.32 “Disgustevoli miscugli storico-politici da offrire agli uomini del governo, che, del resto, non sappiamo qual uso possano mai fare di così rea poltiglia”: così definì Croce “la configurazione che al prof. Gentile è piaciuto dare alla storia del Risorgimento e dell’Italia una”.33 Nel Discorso agli italiani, pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, Gentile, nel tentativo di creare nel paese una unità nazionale sotto le ali del fascismo, si sarebbe poi domandato per l’ennesima volta cosa quello fosse. Roma, avrebbe risposto, più la Chiesa cattolica, più il Rinascimento, più il Risorgimento: cioè l’Italia. E i liberali? Fascisti ritardatari. I comunisti? “Corporativisti impazienti”.34 Attenzione pari a quella dedicata al rapporto Croce-Gentile merita il rapporto Croce-Volpe, dove la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e l’Italia in cammino si fronteggiano, rivelando tuttavia un’affinità dovuta al fondamentale ottimismo sullo sviluppo dell’Italia moderna, nata dal Risorgimento: e, se il Croce poteva rimproverare al Volpe che la sua Italia “non pensa, non sogna, non medita, non si critica, non soffre né gioisce: cammina”,35 ben cogliendo il carattere meccanico dell’evoluzione tratteggiata dal Volpe, al Croce poteva obiettarsi che anche la sua Italia, con maggiori sfumature e più abile uso della dialettica, aveva tuttavia la caratteristica di andare sempre avanti trasformando il male in bene, fino al momento in cui incappava nel più grosso e imprevisto male del fascismo. Il pessimismo finale del Croce, se ovviamente gli faceva onore sul piano morale e politico, poteva non senza ragione essergli rimproverato dal Vol32
Gentile, Che cosa è il fascismo cit., p. 42. Parole comparse nel 1929 sulla “Critica”, in polemica diretta con quanto Gentile aveva scritto sul “Leonardo” nello stesso anno: ora in B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, vol. 2, Bari 1947 (3a ed.), pp. 260 sg. 34 Cfr., del Gentile, anche I profeti del Risorgimento; la prefazione alla terza edizione, datata 2 marzo 1944, conclude nel nome di Garibaldi “perché esso ha virtù oggi come sempre di riscuotere e riunire i cuori di tutti gli italiani” (p. VIII). Sugli appelli all’“unità della patria” del Gentile della Repubblica sociale, cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza Italiana , Torino 1953 (2a ed.), pp. 175 sg., 289-92. 35 Croce, Storia della storiografia cit., vol. 2, p. 240. 33
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pe come un’almeno parziale incongruenza.36 Insomma, la contrapposizione Croce-Volpe lasciava in eredità al pensiero politico e storiografico antifascista l’esigenza di una revisione della storia d’Italia, risorgimentale e postrisorgimentale, che meglio comprendesse anche il fascismo. Il Volpe37 era storico troppo scaltro per indulgere alla ricerca dei precursori del fascismo in Giovanni dalle Bande Nere, Gian Galeazzo Visconti o Giulio Cesare, che anzi contro tali goffaggini egli apertamente ironizza in apertura alla sua Storia del movimento fascista. Ma il Risorgimento non poté esimersi dal tirarlo in campo: Possiamo, senza tradire né Risorgimento né Fascismo, raffigurarci il Fascismo come un nuovo Risorgimento, o una ripresa spiegata e consapevole di Risorgimento, dopo un mezzo secolo d’incubazione delle forze nuove che nel primo Risorgimento erano deboli e assenti.
Contrapposizione più puntuale all’impegno che la Resistenza pose a presentarsi, essa, come nuovo Risorgimento sarebbe difficile trovare. Proseguiva Volpe in quel passo38 che il Risorgimento, se ebbe il suo punto di partenza nelle aspirazioni liberali e di indipendenza, sentì poi come valori fondamentali, se pur non esclusivi, l’unità, la potenza, la grandezza [...]. Ma l’Italia del Risorgimento era un’Italia senza popolo. L’epoca che va dalla nascita del Regno ad oggi è caratterizzata, appunto, dalla formazione del popolo [...] compiutasi, prima, ai margini dello Stato e della nazione, anzi contro lo Stato e la nazione e i valori della cosiddetta classe borghese; poi, entro lo Stato e la nazione. Questa ultima fase, la fase della più attiva e consapevole partecipazione del popolo alla vita della nazione e dello Stato, è quella che noi viviamo, del Fascismo.
In questo brano il Volpe ha concentrato l’essenza del suo giudizio sui rapporti fra Risorgimento, postrisorgimento e fascismo. Converrà soffer36
G. Volpe, Prefazione (A proposito di storia d’Italia) alla terza edizione di L’Italia in cammino, Milano 1928. In essa, fra l’altro, il Volpe rinfaccia al Croce la critica alla democrazia per anni da lui insegnata agli italiani. 37 Prendiamo qui in considerazione la già ricordata Italia in cammino e la Storia del movimento fascista, scritta per l’Enciclopedia italiana, Milano 1943 (2a ed.), che ne è come la continuazione. Tralasciamo la rielaborazione pubblicata dal Volpe dopo la guerra (Italia moderna, Firenze 1945-49, 3 voll.; il primo volume era già uscito nel 1943) che del resto, per quanto riguarda le grandi linee della prospettiva storico-politica, non presenta innovazioni di rilievo. 38 Volpe, Storia del movimento fascista cit., pp. 217 sg.
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marcisi un momento, accennando appena ad altri spunti e richiami in cui la finalità immediatamente politica e adulatoria è prevalente (anche se capita al Volpe, partito per coprire di allori il fascismo, di finire invece con lo sfrondare quelli del prefascismo): ricorderemo, ad esempio, i numerosi voli, mazziniani e giobertiani a un tempo, sulla rinascita della “missione”, della “iniziativa” e del “primato” italiani; il presentare la legge sulle associazioni e contro le società segrete, che colpiva la massoneria, come “antico voto” di “frazioni” di liberali, socialisti, nazionalisti, cattolici; o ancora l’interpretare la legge del 24 dicembre 1925 sui poteri del capo del Governo come il “ritorno allo Statuto [...] che da un pezzo uomini della Destra avevano auspicato”.39 La tesi fondamentale del Volpe e, come accennavamo, quella della progressiva inserzione delle masse popolari nello Stato, lungo processo che attraverso l’emigrazione (“nuovo e più sostanzioso ‘Risorgimento’, anche per le masse, anche per il Mezzogiorno”),40 il socialismo (al cui riguardo non si manca di fare appello al “socialismo nazionale” di Pisacane),41 il movimento cattolico (che “può essere considerato il riformismo del vecchio clericalismo”),42 la guerra (come “guerra di popolo” e “ultima guerra dell’indipendenza”, risorgimentale e nazionalistica insieme, con la contaminazione che abbiamo notato anche in Mussolini), trova il suo punto di arrivo nel fascismo, che rifonde in un nuovo quadro organico gli elementi per l’innanzi disparati o contrastanti.43 Era implicita a tale costruzione l’idea di un Risorgimento cui fossero essenziali indipendenza e unità più assai che libertà; un Risorgimento frutto dello sforzo di pochi, senza popolo. Ma mentre gli eroici furori del Gentile, come abbiamo visto, traevano da ciò motivo di compiacimento, il Volpe, pur con qualche oscillazione, mostrava invece di comprendere che in quel carattere stava il problema più grave dell’Italia unita. Su questo punto era più vicino al Volpe il Croce della risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, quando, proseguendo nel brano sopra ricordato, ma con troppo scoperta apologia della classe dirigente liberale, attribuiva a quella il costante proposito di chiamare “sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica”, e affermava che 39
Ibid., pp. 70, 147 sg., 137. Volpe, L’Italia in cammino cit., pp. 66-72. 41 Volpe, Storia del movimento fascista cit., p. 197. 42 Volpe, L’Italia in cammino cit., p. 221. 43 “La nazione italiana si metteva in moto a scaglioni e reparti; o meglio, elementi che erano fuori di essa erano tratti un po’ per volta nella sua orbita, si legavano, pur lottando, con gli altri elementi” (ibid., p. 266). 40
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perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali nei primi tempi il movimento fascistico, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici.
Salvemini osserverà molti anni dopo, intervenendo nella polemica suscitata dall’affermazione di Parri che in Italia non c’era mai stata democrazia, che nessuno ha il diritto di attribuire (alla oligarchia parlamentare) il merito di progressi che essa tentò, finchè le fu possibile, di impedire, ed accettò solamente quando non le fu più possibile opporsi. A tirare le conseguenze logiche delle opinioni di Croce, dovremmo pensare che le leghe di resistenza e le Camere del lavoro le fondavano gli agenti della polizia [...]44
Anche il Volpe, più sensibile del Croce al conflitto delle forze reali nella società, offriva una visione meno paternalistica del processo di allargamento delle basi sociali dello Stato, perché sapeva cogliere l’elemento di urto contro la classe al potere che quella inserzione comportava. Tutto si riduceva tuttavia, per il Volpe, nel vedere lo Stato come qualcosa esistente di per sé e costruita una volta per tutte, una botte bella e pronta entro la quale versare il vino popolare. Questa entificazione dello Stato, ultima deiezione della tradizionale dottrina dello “Stato etico” e dello “Stato di diritto”, e punto, pertanto, sul quale il Volpe si ritrovava accanto il Gentile, faceva dimenticare al Volpe che le masse, nello Stato, ci sono sempre state come oggetto, non fosse altro, degli obblighi fiscali e mililari, e che pertanto il problema dello Stato non può correttamente porsi, per il “popolo”, che come problema di partecipazione al potere; e parlare di “masse nello Stato” senza aver fede nella democrazia significa fare soltanto del paternalismo o della demagogia. Ma per il Volpe lo Stato è, nazionalisticamente, soprattutto una macchina da politica estera,45 e partecipazione del popolo allo Stato significa solo possibilità di meglio utilizzare le masse popolari a fini di potenza. Resta tuttavia a questa tesi del Volpe il merito di aver richiamato l’attenzione sul carattere di massa assunto dal fascismo, il quale, primo esempio nella storia del regno d’Italia, aveva mostrato un gruppo dirigente incapace 44
G. Salvemini, Fu l’Italia prefascista una democrazia?, in “Il Ponte”, VII, 1952, pp. 29597. 45 Caratteristiche le parole con cui commenta il “piatto realismo di tanta parte dei ceti dirigenti che non volevano Trento e Trieste, non volevano colonie, insomma non si sa bene che cosa volessero...” (Volpe, Storia del movimento fascista cit., p. 44).
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di reggersi senza fare, sia pur demagogicamente, appello alle masse. Era un carattere che avrebbe richiamato l’attenzione anche dei più acuti antifascisti; e Carlo Rosselli, sensibilissimo com’era al “nuovo” del fascismo, avrebbe visto un elemento essenziale di tale novità proprio nel regime di massa da cui, con dialettica alquanto moralistica, si riprometteva sarebbe scaturita finalmente una grande lezione di libertà per tutti gli italiani. Un’altra grossa difficoltà, anch’essa tuttavia adombrante un problema reale, era insita nella posizione del Volpe: il suo ottimismo sullo sviluppo dell’Italia in cammino come si conciliava con la irrisione fascista all’Italietta, come salvava quel carattere di rottura con un indegno passato cui il fascismo, per le sue velleità rivoluzionarie, non poteva rinunciare e che, in alcuni suoi più intransigenti apologeti, tendeva, come abbiamo visto accennando alla reazione del Gentile, a travolgere il Risorgimento stesso? Il Volpe cercò di trarsi d’impaccio un po’ usando e abusando del suo metodo a partita doppia (bene, sì certo... ma non solo bene...; male, indubbiamente, ma anche bene...), e poi distinguendo adialetticamente il piano delle forze economiche e sociali in sviluppo (un capilolo, il più celebrato, dell’Italia in cammino si intilola Gli italiani al lavoro) e il piano della classe politica dopo l’ascesa della sinistra al potere, che viene fustigata come rinunciataria, senza ideali eccetera, con l’unica eccezione di Crispi. “Alla elevazione economica e sociale del paese non era corrisposta una elevazione politica [...]; l’Italia dava l’immagine di un paese migliore del suo governo e meritevole di miglior governo”: così scrive Volpe a proposito dell’età giolittiana, sulla quale il suo giudizio è, e ci pare sintomatico, sostanzialmente oscillante. Incerto è, del resto, anche il suo concetto di borghesia, la quale deve essere insieme e la classe economica in sviluppo e quella politica in declino e, infine, la creatrice, così nel Risorgimento come nel fascismo, di valori spirituali e nazionali che la trascendono.46 Che il deus ex machina risolutore di tutte le contraddizioni sia il nazionalismo e poi il fascismo, appare così una conseguenza indispensabile della falsa dialettica del Volpe, per la quale un movimento che si poneva proprio come elemento di rottura del processo, democratico e socialista, di immissione dei ceti popolari nella vita politica del paese, assumeva la pretesa di esserne invece il sanzionatore.47 Ma, ancora una volta, la pertinace volontà del Volpe di trovare le basi del fascismo nella recente storia della società italiana lo spingeva a vedere con penetrazione maggiore di certo antifascismo moralistico i legami di quello sia con alcune remote eredità risorgimentali, sia con il nazionalismo e l’imperiali46
Cfr. Volpe, L’Italia in cammino cit., p. 18; Id., Storia del movimento fascista cit., p. 46. Cfr., su questo punto, la recensione di R. Romeo a Italia moderna (in “Rivista storica italiana”, LXIII, 1951, pp. 120-28).
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smo caratteristici, in tutto il mondo, del nuovo secolo, sia infine con lo sviluppo delle forze industriali italiane, che proprio nell’età giolittiana avevano avuto un notevole slancio. Il taglio netto che si era rifiutato di compiere fra Risorgimento e fascismo, il Volpe lo vorrebbe oggi fare fra Risorgimento e Resistenza. In un recente opuscolo,48 nel quale mostra di aver saputo essere più libero di fronte al fascismo trionfante che dinanzi al proprio risentimento di fascista (e di monarchico) sconfitto, egli scrive che la mania epuratrice post ’45 non risparmiò neanche il Risorgimento. Qualche “fascista più fascista di Mussolini”, o qualche nazionalista dottrinario come Rocco, aveva, è vero, già manifestato “qualche cenno di fastidio” verso quella età, considerata troppo liberale: “Ma ora si andò più in là”, perché quella età non era nelle grazie dei due più forti partiti formatisi o ricostituitisi dopo il 1943 o il 1945: il comunista, che la vedeva troppo “borghese”, poco “sociale”; e il democristiano che la vedeva massonica, irrispettosa dei diritti della Chiesa, usurpatrice di Roma al legittimo sovrano.49 È un giudizio, questo sulla fine del Risorgimento (o meglio, dello “spirito risorgimentale”), che vedremo nella sostanza condiviso da altri epigoni della vecchia classe dirigente postrisorgimentale, pur lontani dal Volpe, come, ad esempio, il Croce e lo Jemolo.
Riteniamo inutile offrire altre testimonianze di parte fascista ché, oltre tutto, troppo ingombrante è la schiera dei minori apologeti, anche se rivestiti di nomi non privi di notorietà: come Francesco Ercole, autore di un centone in cui disquisisce a lungo sui rapporti fra i plebisciti risorgimentali e quello fascista del 1929, con una goffa polemica antigiusnaturalistica;50 come Arrigo Solmi, per il quale grandezza romana, Rinascimento, Risorgimento, guerra mondiale, fascismo costituiscono un ovvio continuum;51 come Amintore Fanfani, il quale scriveva: “È stato detto molto bene, che con la proclamazione dell’impero fascista si conclude il Risorgimento. Nulla di più esatto”.52
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Volpe, Dieci anni, Edizioni “Monarchia”, Roma 1956. Ibid., pp. 5 sg. 50 F. Ercole, La Rivoluzione fascista, Palermo 1936. 51 A. Solmi, Il fascismo e la sua genesi nazionale, in Id., Discorsi sulla Storia d’Italia, Firenze 1935, pp. XIII-XIV. 52 A. Fanfani, Cinquant’anni di preparazione all’Impero, in Colonialismo europeo ed Impero fascista, a cura di L. Silva, Milano 1936, p. 27. Cfr., dello stesso autore, Da soli!, in “Rivista internazionale di scienze sociali”, XLIV, 1936, pp. 229-31, dove, commen49
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Ricorderemo piuttosto che al Risorgimento ricorsero ancora i fascisti della Repubblica sociale sia in appoggio ai loro sforzi di creare una unità patriottica a proprio vantaggio (abbiamo già accennato a Gentile) e di risuscitare un “socialismo nazionale” di origine mazziniana,53 sia per i tentativi, compiuti in extremis da alcuni, di trovare una via di uscita al di sopra, come scrisse uno di loro, delle baionette straniere: si pensi al Raggruppamento repubblicano nazionale socialista di Edmondo Clone, che fece uscire un quotidiano dal titolo mazziniano di “Italia del Popolo”, e al gruppetto detto appunto del Nuovo Risorgimento, composto da fascisti dissidenti desiderosi di creare alternative il più possibile conservatrici al regime mussoliniano.54
tando il fatto che “mezzo milione di legionari hanno sbaragliato le orde scioane”, svolge il concetto che, per la prima volta dal Risorgimento, nessuno potrà insinuare che gli italiani non hanno fatto da soli. 53 Le testimonianze in tal senso sono numerose. Ricordiamo l’articolo di C. Pettinato su “La Stampa” del 5 marzo 1944, a commento degli scioperi di quel mese (citato da G. Vaccarino, Il movimento operaio a Torino nei primi mesi della crisi italiana, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 20, settembre 1952, p. 42). 54 Su questo gruppo cfr. Vaccarino, Il movimento operaio cit., p. 34, e la nota introduttiva ad Alcuni documenti delle gerarchie di Salò sulla industria italiana e sulla classe industriale del Nord, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 11, marzo 1951, p. 41.
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3. La “difesa del Risorgimento”
Stabilire un rapporto diretto fra ciò che abbiamo sommariamente ricordato della interpretazione fascista del Risorgimento e l’atteggiamento degli antifascisti che rivendicarono per sé l’eredità di quella primavera della nuova Italia non sempre è possibile: abbiamo ricordato ciò che scrisse Salvemini di Nello Rosselli, abbiamo citato alcuni passi di Croce, e qualche altro collegamento diretto lo faremo man mano notare. Quel che conta è che l’interpretazione fascista era nell’aria, e ai contemporanei arrivava per mille strade, non tutte filologicamente controllabili. Di più: era il fascismo in quanto tale, con il solo fatto della sua presenza, che spingeva a porre il problema di donde esso venisse, di quali addentellati avesse nella recente storia d’Italia. E il dubbio che qualcosa di vero potesse pur esserci nella sua pretesa di rappresentare la conclusione di un processo iniziatosi per lo meno col Risorgimento, non poteva non affacciarsi nelle menti più critiche, e spingerle al riesame della storia di quel periodo e dei decenni successivi. Era, comunque, un ripensamento mosso direttamente da uno stimolo politico, e non destinato, almeno per il momento, a dare molti frutti tecnicamente elaborati come storiografia. Si pensi, ad esempio, alla discussione se nel Risorgimento la priorità spettasse al motivo della unità-indipendenza o a quello della libertà (discussione che si riproporrà in termini molto simili per la Resistenza): storiograficamente l’alternativa era troppo cruda; politicamente, fin troppo evidente appariva il significato dell’insistenza sul momento della libertà. Le opinioni antifasciste sul Risorgimento, che passeremo in rapida rassegna, hanno la loro origine in questo bisogno di polemica contro l’avversario e di miglior definizione di se stessi: ed è questo il punto di vista da cui vogliamo porci. Nelle grandi linee di tale quadro ci sembra si collochi anche la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 del Croce, con i lavori minori che le fanno corona:55 ma non staremo a riesporre la fin troppo nota polemica che la riguar55
Vedi, in particolare, per la nota tesi del fascismo-malattia, la postilla Verità storica e ideale politico, in Croce, Storia della storiografia cit., vol. 2, p. 273.
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da. Si tratta, nel complesso, di scritti tutti volti a tener fermo, di fronte al fascismo, l’ideale del liberalismo scaturito dal Risorgimento: quasi un manifesto della restaurazione prefascista, e perciò, come suole accadere, poco adatto a comprendere ciò contro cui la restaurazione doveva essere effettuata. Quanto fosse radicato nel Croce questo senso del ristabilimento, come unica via di salvezza, di valori per il momento perduti, è confermato dal fatto che egli riconobbe sì nel 1943 alla sorgente Resistenza il carattere di guerra “che proseguiva tenace lo spirito del Risorgimento” e che, già viva nel cuore degli italiani accanto a quella “in apparenza legale ma odiosa” condotta dal fascismo, si era infine fatta essa “legale”;56 ma, proprio in quel giro di giorni, egli poneva gli ideali nostalgicamente accarezzati per tanti anni molto al di sopra di quelli democratici della guerra antifascista, la cui imminente conclusione vittoriosa lungi dal presentarglisi (come si presentò alla massima parte dei resistenti) quale inizio di nuova vita, accentuava invece in lui il senso tragico di un mondo che irrimediabilmente si dissolveva. È del 1° marzo 1944 un commosso sfogo confidato alle pagine del suo diario: [...] noi, nel tenace fondo del nostro animo, siamo ancora nell’attesa che risorga un mondo simile a quello, continuazione di quello in cui già vivemmo per più decenni, prima della guerra del 1914, di pace, di lavoro, di collaborazione nazionale e internazionale. E in ciò è la sorgente della nostra implacabile angoscia, perché quella speranza sempre più si allontana e, peggio ancora, s’intorbida e si oscura.57
E già il 16 dicembre 1943 aveva scritto di essersi convinto che “questa non è la guerra per la libertà, ma come tutte le altre, per l’indipendenza, per il dominio e per il vantaggio economico e politico, e che la guerra per la libertà si dovrà combattere poi, e con mezzi più veri e più adatti che non siano le armi”.58 Uno stato d’animo simile a questo del Croce è dato cogliere in un’altra personalità “risorgimentale” (nel senso di tenace attaccamento alle tradizioni della classe colta moderata nata dal Risorgimento): lo Jemolo. Nostalgia 56 Vedi il Manifesto redatto da Croce per la chiamata dei volontari dei Gruppi Combattenti Italia, e affisso in Napoli il 10 ottobre 1943 (in appendice al diario Quando l’Italia era tagliata in due, Bari 1948, pp. 154-56). Un certo impaccio nel trattare la questione della legalità è indicativo delle preoccupazioni, di Croce e di tanta parte del ceto dirigente prefascista, di salvare, al di sopra del fascismo e anche attraverso a esso, la “continuità dello Stato”. 57 Croce, Quando l’Italia... cit., pp. 87 sg. 58 Ibid., p. 44. Cfr. pure le note del giorno precedente, 15 novembre.
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del Risorgimento come primavera di uno spirito “proteso verso l’avvenire”; e quindi nostalgia meno “restauratrice” di quella del Croce, come del resto la diversa posizione politica dei due uomini sta chiaramente a indicare: ma pur sempre rimpianto di un mondo che svanisce, e che nello Jemolo si fonde con quella “delusione della Resistenza”, di cui avremo ancora occasione di parlare. “Il 1848 – scrive lo Jemolo – è l’anno dei portenti, l’esplosione dello spirito risorgimentale: il 1948 vede un’Italia nettamente anti-risorgimentale”. E ancora: Per chi abbia questo senso della fine dei movimenti storici, è chiaro che il moto risorgimentale è ben chiuso [...]. Potrà sostenersi che abbia dato l’ultimo guizzo a Vittorio Veneto; o che lo abbia dato invece nel movimento partigiano del 1944-45. Ma il rapido crollare di ogni aspirazione risorgimentale, ossia di rinnovamenti radicali in qualche modo ricollegabili a quell’antica tavola di valori, degli uomini della Resistenza, subito dopo la cessazione delle ostililà, mostrerebbe che era proprio stato un ultimo guizzo.
Nell’esaurirsi del cattolicesimo liberale, e nella scarsa sensibilità al problema dei rapporti fra Stato e Chiesa, vede lo Jemolo una controprova della sua tesi; e il fallimento della classe dirigente della Resistenza, che ha portato l’Italia a divenire simile al “più tipico degli Stati antirisorgimentali”, quello pontificio, dà un ulteriore suggello al suo pessimismo.59 Su quest’ultimo punto, in particolare, la posizione del Croce era diversa e meno generosa: la restaurazione di un mondo di valori coincideva infatti per lui col ritorno della vecchia classe dirigente al governo dello Stato. Per questo motivo, e non soltanto perché Guido Calogero non aveva bene inteso il rapporto fra libertà e giustizia, egli fu ostilissimo al Partito d’Azione, frenando con la sua autorità gli unici spunti di liberalismo moderno che si erano manifestati in Italia. Croce sperò che dietro al partito liberale, il partito dei “padri del Risorgimento”, si sarebbe ricostituita l’antica unione dei ceti dirigenti, e nelle elezioni del 1946 la sua partecipazione al blocco nazionale di Orlando, Nilti e Bonomi ebbe chiaramente il significato di favorire tale ripresa. La sotituzione della Democrazia cristiana a quello che era stato il “partito” liberale prefascista dovette certo apparire a Croce, nei suoi ultimi anni, un’ulteriore conferma della decadenza del mondo che gli era caro. Difesa del Risorgimento: questo titolo dato alla nota raccolta di scritti di Adolfo Omodeo ben esprime l’atteggiamento di tutela del “significato pia59
A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948, pp. 715, 728, 730, 716.
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no e onesto del Risorgimento” che, accanto al Croce, vide appunto nell’Omodeo un tenace rappresentante. Si deve anzi all’Omodeo quello che potrebbe definirsi il manifesto dell’“antirevisionismo” risorgimentale: la recensione a Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti.60 Cosa intende difendere, dalla “revisione”, l’Omodeo? Più che un insieme di risultati storiografici in quanto tali, egli vuol salvare un ideale politico e di vita, il “senso del Risorgimento” come era stato costruito, tramandato e idealizzato dalla classe colta liberale, e che non ci si riusciva a persuadere dovesse venire, rebus ipsis dictantibus, messo in forse dalle nuove generazioni.61 Soltanto in tale quadro ci sembra possa essere intesa la polemica, che tuttora si trascina, fra “revisionisti” e “antirevisionisti”, anche se non del tutto assolto può andare l’Omodeo per la durezza cattiva (“ho cercato invano una scintilla d’intelligenza in quelle pagine”) del suo giudizio su Gobetti, da poco morto in esilio, e che nello stimolare la resistenza al fascismo avrebbe avuto un peso certo maggiore di quello del suo acre recensore. Colpisce, nell’atteggiamento dell’Omodeo di fronte al Gobetti, la mescolanza, tipica dell’intellettualità idealistica, della “boria del dotto” contro l’“irregolare” tecnicamente sprovveduto (che spinge l’Omodeo a configurare il contrasto non come quello di due posizioni politiche e morali, ma come lotta della Scienza contro il “giornalismo”), con l’incomprensione del conservatore, resa più aspra e aggressiva dalla delusione che il fascismo dava a tutti i conservatori illuminati. L’Omodeo, e con lui molti dei più accaniti “antirevisionisti”, coinvolgeva nell’odio contro chi aveva, nel fatto, manomesso il suo ideale, coloro che quell’ideale avevano criticato proprio perché troppo fiacco e minato da intime contraddizioni. Si spiega in tal modo l’abitudine presa dall’“antirevisionismo”, anche in alcuni suoi tardi epigoni radicali,62 di porre in un unico sacco Oriani, Gobetti, Dorso, Gramsci, Missiroli, Mussolini, tutti rei di aver profanato la tradizione liberale del Risorgimento. Omodeo stesso ha raccontato il suo volgersi agli studi del Risorgimento per una “ispirazione polemica a dimostrare le forze costruttive della libertà nella storia recente d’Italia”; e ha inquadrato tale ispirazione nel senso che ebbe dopo la prima guerra mondiale, dalla quale pure aveva cercato di enucleare, in implicita polemica antifascista, un significato non retorico ma 60
Apparsa nel 1926 sul “Leonardo”; ora in A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Torino 1955; pp. 439-46. 61 Scrive l’Omodeo nella recensione citata: “I danni successivi dipesero dall’aver smarrito progressivamente il senso del Risorgimento, non dal Risorgimento stesso”. 62 Vedi, ad esempio, F. Compagna, Benedetto Croce e la questione meridionale, in “Archivio storico per le provincie napoletane”, n. s., XXXIV (LXXIII), 1955, pp. 465-82.
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“risorgimentale”,63 “di essere figlio di una età di decadenza, di appartenere a un mondo in reinvoluzione”: così da esserne spinto, quasi per contrasto, a immergersi nello studio delle “primavere storiche” come il Risorgimento e, più su, la Restaurazione che, con scambio rivelatore di tutto l’indirizzo moderato, egli pone, al posto della Rivoluzione, come vera matrice di quello.64 Questo gusto della ricerca dei momenti aurorali spingeva l’Omodeo ad aver maggiore simpatia e interesse per il Risorgimento che per il postrisorgimento, reintroducendo, sia pur indirettamente, quella distinzione di valori fra prima e dopo il 1870 o il 1876 che il Croce, aveva con nettezza, e quasi con disprezzo, tolta di mezzo. Il fatto è che la Destra storica e i “padri del Risorgimento” (che l’Omodeo, nonostante i suoi studi critici su figure come Carlo Alberto, doveva necessariamente tendere a ricomporre in un quadro armonico senza vincitori né vinti, trasposizione dotta della vecchia agiografia) esercitavano indubbiamente un fascino più immediatamente percepibile da parte di chi cercava conforto contro gli “hyksos” piombatigli in casa. L’Omodeo, è noto, negli ultimi suoi anni, sotto la spinta degli eventi, si radicalizzò molto, come mostra la sua adesione al Partito d’Azione, che gli fruttò qualche amichevole rimbrotto del Croce: ma non risulta che questa sua evoluzione politica abbia inciso sulla sua ideologia e sulla sua visione storiografica,65 che era ciò che qui ci premeva ricordare come esempio di un atteggiamento proprio di quella parte della vecchia classe dirigente più affezionata ai valori tradizionali manomessi dal fascismo. Un tentativo di utilizzare l’ideologia risorgimentale, oscillante fra impennate romantiche e desiderio fin troppo scoperto di portare su posizioni di antifascismo restauratore le più solide forze conservatrici non immedia63
“In sede storica è certamente erroneo considerare la recente guerra italiana come l’ultima del Risorgimento. Tuttavia essa fu la guerra combattuta dai figli del Risorgimento. Tremenda e sanguinosa, non fu, per chi la visse, esclusivamente un museo degli orrori, proprio per questa luce ideale, per questa fede nativa, sincera, così diversa dalla maledetta retorica giornalistica che la falsò e la contaminò” (A. Omodeo, Momenti della vita di guerra, Bari 1934, p. 389). 64 A. Omodeo, Trentacinque anni di lavoro storico, in Id., Il senso della storia, Torino 1955, pp. 13 sg. Cfr., nello stesso volume, Il distacco dal Risorgimento (del 1933), pp. 444-48, e La nostalgia del passato (del 1946, uno dei suoi ultimi scritti), pp. 617-20; e, in Difesa del Risorgimento cit., pp. 537-39, Storia ipotetica (del 1937), aspra polemica contro la scuola dell’Istituto storico per l’età moderna e contemporanea, diretta dal Volpe. 65 Vedi, ad esempio, la sua recensione a Pensiero e azione del Risorgimento di Salvatorelli, dove la simpatia espressa è chiaramente più politica che culturale (Omodeo, Difesa del Risorgimento cit., pp. 531-33).
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tamente fasciste (monarchia ed esercito, Vaticano e Azione cattolica), fu quello compiuto da Lauro De Bosis e Mario Vinciguerra con l’Alleanza Nazionale.66 Il Risorgimento, proprio quello classico, canonizzato da una destra conciliazionista in pectore, e quindi irrimediabilmente eclettico, fu parte integrante delle parole d’ordine dell’Alleanza. “L’Italia di Cavour e di Mazzini è nuovamente in marcia contro l’Italia dei Radetzky e dei Borboni”, scriveva, ad esempio, il De Bosis.67 Nei manifestini da lui lanciati su Roma durante il volo senza ritorno del 5 ottobre 1931 è tutto un tambureggiare di ricordi risorgimentali: “Siamo in pieno Risorgimento”; “non fumare”; “il secondo Risorgimento trionferà come il primo”; “l’Asburgo in camicia nera, rientrato di soppiatto nel suo palazzo, è un oltraggio per tutti i nostri morti”; e, rivolgendosi direttamente al re: “Accettate Voi veramente d’infrangere dopo Vittorio Veneto quel giuramento cui il Vostro avo restò fedele dopo Novara? Sono sette anni che Vi vediamo firmare i decreti di Radetzky con la penna di Carlo Alberto”.68 L’efficacia pratica dell’Alleanza, scompaginata dall’arresto di Vinciguerra e dalla morte di De Bosis, fu scarsa: ma il suo atteggiamento, volto a ricostruire una unità d’Italia che mettesse a frutto tutto ciò che di sedimentato era nella società e nella cultura media italiane, non sarebbe rimasto senza eco e senza conseguenze.
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Cfr. Delle Plane, Lauro De Bosis cit. “Guai lasciare ai sovversivi il monopolio della lotta contro il fascismo!”, scrisse De Bosis nella prima circolare della Alleanza, del giugno 1930 (citato da M. Salvadori, Il sacrificio di Lauro De Bosis, in a Rossi (a cura di), No al fascismo, Torino 1957, p. 224). Dobbiamo aggiungere che il Salvadori cita una lettera (febbraio 1931) del De Bosis (la cui personalità non può essere valutata solo nell’ambito dell’Alleanza) a Salvemini, in cui monarchia, Vaticano e fascismo vengono accomunati nella condanna, e l’atteggiamento dell’Alleanza è presentato come mero espediente tattico. 67 Citato da Delle Piane, Lauro De Bosis cit. 68 Citato da A. Gavagnin, Vent’ anni di resistenza al fascismo, Torino 1957, pp. 320-22.
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4. Il Risorgimento da completare
La famosa frase di Fortunato, non essere il fascismo una rivoluzione ma una rivelazione, offre una appropriata epigrafe agli atteggiamenti, pur differenziati, di un antifascismo che, non ponendosi come restaurazione ma desiderando invece che l’Italia compisse un passo innanzi decisivo anche nei confronti del regime politico e sociale prefascista, era indotto a cercare nella recente storia d’Italia dal Risorgimento in poi (ma per alcuni, di più fervida fantasia, anche da prima o da sempre),69 non solo le “origini” del fascismo, ma i motivi che avevano resa debole e stentata la vita democratica e lo sviluppo sociale del paese, provocando poi l’ingloriosa resa della sua classe dirigente. Era questo un atteggiamento carico di ben maggiore aggressività nei confronti del fascismo e che, se dette origine ai molti “processi” al Risorgimento e al postrisorgimento tanto fastidiosi per gli storici togati, si rivelò poi fecondatore delle correnti principali della Resistenza, dal Partito d’Azione ai comunisti. Non è infatti concepibile una Resistenza svuotata di questa volontà eversiva contro qualcosa di più profondo del fascismo inteso nei suoi ristretti termini di regime fondato da Mussolini il 28 ottobre del 1922 e fatto rinascere, dopo l’8 settembre del 1943, dalle baionette tedesche. L’utilizzazione di un concetto storiografico come il Risorgimento nella polemica antifascista era talvolta soltanto implicita nella scelta di nomi e di parole d’ordine che facevano appello alla tradizione patriottica e democratica, senza particolari prese di posizione storico-politiche: come fu, ad Ricordiamo quattro opere che potrebbero raggrupparsi sotto il titolo di De antiquissima italorum insipienti: G.Fenoaltea, Storia degli italieschi dalle origini ai giorni nostri, Firenze 1945; G. Colamarino, Il fantasma liberale, Milano s. d.; F. Cusin, Antistoria d’Italia, Torino 1948; G.A. Borgese, Golia. Marcia del fascismo, trad. it., Milano 1946 (ed. orig. am. 1937). Su questi autori, eredi della parte peggiore di Gobetti, e che spesso capovolgono soltanto il segno morale di quei romanzi fascisti che partivano da Augusto e finivano a Mussolini, vedi N. Valeri, Premesse ad una storia d’Italia nel postrisorgimento, in AA.VV., Orientamenti per la storia d’Italia nel Risorgimento, Bari 1952, pp. 65-71.
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esempio, per il gruppo della Giovane Italia, sorto nel 1927, il cui nome mazziniano e la cui organizzazione di arcaico tipo settario coprivano un raggruppamento assai largo di antifascisti di varie tendenze, per nulla radicale.70 Un contributo originale non fu dato nemmeno dal movimento politico che direttamente si richiamava al grande sconfitto del Risorgimento: il Partito repubblicano italiano, che pure, quando la Concentrazione antifascista adottò nel maggio 1928 la pregiudiziale repubblicana, parve aver raggiunto un suo obiettivo essenziale. Il fatto è che l’ortodossia mazziniana mostrò proprio di fronte al fascismo la sua inadeguatezza, che il coraggio civile di alcuni suoi fedeli non riuscì a far dimenticare. Non erano, a tale scopo, sufficienti richiami come quello formulato dalla minoranza del congresso di St. Louis, nel marzo 1932, alla “scuola socialista italiana” rappresentata dal Pri.71 Anche nella lotta armata dopo l’8 settembre del ’43 i repubblicani, rimasti fuori dei Cln, e le loro brigate Mazzini non troveranno un posto di grande rilievo. L’iniziativa della riflessione critica sul fascismo e sull’Italia contemporanea era passata in altre mani con Gobetti, Rosselli e, accanto a essi, ancora Salvemini (non parliamo per ora dei comunisti). Erano uomini, soprattutto i due ultimi, che avevano sentito il fascino della personalità di Mazzini: e il fatto che la loro posizione non si risolvesse nel mazzinianesismo politico (sia pur contaminato di cattaneanesimo) del partito repubblicano, contro il quale il giudizio di Gobetti è particolarmente duro,72 mostra come il loro desiderio di “fare finalmente ciò che nel Risorgimento (e nel postrisorgimento) non era stato fatto” non avesse nulla in comune con un tardivo spirito di rivincita degli sconfitti del Risorgimento.
Vedi, sulla Giovane Italia, R. Luraghi, Momenti della lotta antifascista in Piemonte negli anni 1926-1943, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, nn. 28-29, gennaiomarzo 1954, pp. 15 sg.; e Gavagnin, Vent’anni di resistenza cit., pp. 257 sgg. Il Luraghi (pp. 31-33) ricorda anche il MURI (Movimento Unitario di Ricostruzione Italiana), sorto dopo gli arresti che scompaginarono nel 1937 Giustizia e Libertà, ma dal carattere affine alla Giovane Italia. 71 Traggo la notizia da G. Bonfante, Che cosa è il partito repubblicano, in “Lo Stato Operaio”, VI, 1932, pp. 242-50: articolo di aspra critica al Pri, nel solco della violenta polemica comunista di quegli anni contro i partiti della Concentrazione antifascista (l’uscita del Pri dalla Concentrazione, deliberata proprio a St. Louis, è considerata dal Bonfante un tentativo di riprender quota sotto la spinta della concorrenza di Gl). Per i rapporti fra Pri e Gl, e per la reciproca irriducibilità dei due gruppi, cfr. Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 57 sg. e 69 sg. 72 “Dottrina democratica conservatrice” è definito da Gobetti il mazzinianesimo; La Rivoluzione liberale, Torino 1948, p. 249. 70
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Di Salvemini basterà qui ricordare come negli ultimi anni, pur dopo i riconoscimenti concessi al suo antico avversario,73 egli finisse col ribadire il giudizio negativo su Giolitti: La differenza fra Mussolini e Giolitti era in quantità e non in qualità. Giolitti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo: gli preparò la strada. Gobetti giustamente disse che Mussolini non fece altro che estendere a tutta l’Italia i “mazzieri” di Giolitti.74
Giudizio questo che, espresso in termini così drastici, oggi pochi sarebbero disposti a sottoscrivere: e che pure, in quel fustigatore d’ipocrisie, serviva a denunciare i rinnovati tentativi di bolsa apologia della classe dirigente tradizionale. Ai partiti antifascisti non comunisti Salvemini attribuiva il compito di perpetuare e rinnovare la tradizione del Risorgimento (per i comunisti parlava di “fonti postrisorgimentali”); e nella Resistenza egli vide attuarsi il sogno che Mazzini aveva invano coltivato dal 1833, quando tratteggiava il quadro Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia: la guerra per bande. Proprio facendo riferimento agli esempi classici dei moti sanfedisti di fine Settecento e della Spagna contro Napoleone, Salvemini scriveva che ciò che aveva resa finalmente possibile nel 1943-45, in Italia, una guerra per bande non al servizio della reazione, era stato l’appoggio dei contadini. “La partecipazione dei contadini italiani alla lotta partigiana è il fatto più importante nella storia italiana del secolo in cui viviamo”; cosicché, aggiungeva, “possiamo dire ormai che una nazione italiana esiste non solo nelle aspirazioni di una minoranza intellettuale”: che era il riconoscimento, fin troppo generoso, di una “inserzione delle masse nello Stato” ben diversa da quella del Volpe. Salvemini giungeva fino a rovesciare la frase di Fortunato sopra ricordata, asserendo che non il fascismo, ma il “movimento partigiano [...] ha rivelato il popolo italiano a se stesso” e agli altri popoli. Di fronte alla nostalgia verso un mondo che muore che, come abbiamo visto, si impadroniva di Croce allo sbocciare, della Resistenza, Salvemini ricordava la seconda metà del 1944 e i primi mesi del 1945 come un “tempo di esaltazione crescente”, come un rinnovarsi, per diciotto mesi e non in una sola città, delle Cinque giornate di Milano.75 Dell’atteggiamento di Piero Gobetti di fronte al rapporto Risorgimento-fascismo vogliamo qui mettere in rilievo due aspetti. Il primo è che il riVedi G. Salvemini, Introduzione a W. Salomone, L’età giolittiana, Torino 1949. Salvemini, Fu l’Italia cit., p. 285. 75 G. Salvemini, Partigiani e fuorusciti, in “Il Mondo”, 6 dicembre 1952, pp. 3-4; e La guerra per bande, in Aspetti della Resistenza in Piemonte, a cura dell’Istituto storico per la Resistenza in Piemonte, Torino 1950, pp. XIII-XVI. 73 74
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salire indietro nei decenni era per Gobetti uno strumento della critica che egli intendeva fare a quella classe dirigente che vedeva spappolarsi sotto i propri occhi. Offrire “la teoria di una classe dirigente”, sbarazzando il terreno dalla incancrenita tradizione politica italiana, è il compito che apertamente egli confessa nella Nota conclusiva della Rivoluzione liberale. E altrove, per spiegare il significato che attribuisce al “fallimento della nostra rivoluzione”, ricorda “l’incapacità del popolo a esprimere dal suo seno una classe di governo”.76 L’interpretazione “ideologica” che Gobetti dà del Risorgimento trova la sua origine in questo accanito desiderio di non vedere nella crisi della classe politica qualcosa di occasionale, e nel rifiuto di cambiare in positivi i segni negativi di cui vedeva costellata la storia d’Italia contemporanea. Accettando la realtà fatta, quale è data dal Risorgimento – scrive – noi dobbiamo soddisfare un’esigenza che il Risorgimento non ha appagata e perciò non possiamo esaltare e porre come aspirazione del nostro avvenire quella debolezza che aspramente pesa su di noi e che è nostro compito sforzarci di superare prendendone coscienza.77
La dialettica cui Gobetti ricorre per realizzare il suo assunto è una dialettica di puri concetti politici che, messi in moto dal suo moralismo, tentano di sfociare nella realtà con abuso di artifici e di astuzie della provvidenza; e in questo sta la sua debolezza, che lo rende in qualche modo compartecipe dell’attivismo irrazionalistico che voleva combattere, e che lo porta a dare un giudizio incerto proprio sul fascismo. In fondo, il fascismo rimane anche per Gobetti un’aberrazione rispetto a un ideale: aberrazione dalle salde radici storiche, ma individuate unilateralmente nelle “pecche tradizionali” (e ideologiche) del popolo italiano, e non messe sufficientemente in rapporto con lo sviluppo complessivo della società borghese italiana e mondiale. In tal modo, e passiamo così al secondo rilievo sopra preannunciato, Gobetti tende a far convivere in maniera singolare la teoria del fascismo-incidente con quella del fascismo “autobiografia della nazione”78: “parentesi P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino 1926, p. 130. Ibid. Altrove scrive che “constatando l’immaturità ideale dell’Italia del Risorgimento, o la mancata partecipazione popolare, non si vuol fare un processo alla cultura e agli uomini, ma un semplice calcolo di forze” (Gobetti, La Rivoluzione liberale cit., p. 34). 78 L’espressione è in un suo articolo sulla “Rivoluzione liberale” del 23 novembre 1922, riportato poi largamente nel libro omonimo, p. 185. È l’articolo in cui si dice che “in Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie”, come aveva insegnato Giolitti e come confermava Mussolini. 76 77
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storica”, egli definisce il fascismo, “fenomeno di disoccupazione nella economia e nelle idee, connesso con tutti gli errori della nostra formazione nazionale”. Di fronte a esso occorreva aver fiducia che l’Italia trovasse in sé la forza di “riprendere quella volontà di vita europea che parve annunciarsi, almeno in certi episodi, col Risorgimento”.79 Nel Risorgimento Gobetti distingueva pertanto una parte da rilanciare e una da espungere: ed è caratteristico del suo interesse prevalentemente accentrato sul problema della classe dirigente che alla critica a essa rivolta dall’interno egli unisca una chiara insofferenza, di tipo aristocratico, contro quella che pur era stata l’unica manifestazione concreta di una possibile alternativa risorgimentale all’egemonia piemontese: il garibaldinismo. Anzi, Gobetti giunge a stabilire quasi una filiazione del fascismo dal garibaldinismo, tramite il partito repubblicano. Il fascismo – scrive infatti – ricollegandosi alla parte caduca e donchisciottesca del nostro Risorgimento, si assume quel compito di rivendicazioni romantiche, di predicazione di esaltato patriottismo, di sentimentalismo sociale collaborazionista, che dopo la fine del Partito d’Azione era stato il solo patrimonio continuato dal mazzinianesimo.
E ancora: l’attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono esperienze attraverso cui l’inguaribile fiducia ottimistica dell’infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure.80
La Resistenza, e non i soli comunisti, preferirà rifarsi a un Garibaldi e a un garibaldinismo positivi: ma vedremo come in Giustizia e Libertà ricomparissero le preoccupazioni, proprie dell’antifascismo di élite, nei confronti di un garibaldinismo ritenuto (cogliendone, certo, un aspetto reale) simbolo di piccola borghesia disoccupata, incolta, sbracata e retorica. L’espressione “secondo Risorgimento” fu usata per la prima volta esplicitamente nell’ambiente da cui doveva uscire Giustizia e Libertà; e, fra tutte le formazioni politiche che presero poi parte alla Resistenza, il Partito d’Azione o, almeno, la sua ala che discendeva direttamente da Gl, fu senza dubbio quella che più poté considerarla congeniale. Già Rosselli e Parri al processo di Savona per la fuga di Turati avevano affermato la necessità di riprendere, integrandola, la tradizione di un Risorgimento rimasto patrimonio di pochi, fenomeno di avanguardie e non di popolo, Rosselli accentuando il significato socialista di questa ripresa e in79 80
Gobetti, La Rivoluzione liberale cit., p. 188. Ibid., pp. 183 sg. Cfr. supra, nota 20.
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sieme il senso di una continuità familiare che portava, a distanza di mezzo secolo, due Rosselli a ospitare l’uno Mazzini esule in patria, l’altro Turati fuggiasco; Parri, ex combattente, rivendicando il significato risorgimentale della guerra 1915-18 contro l’accaparramento fattone dal fascismo.81 Di “secondo Risorgimento” Rosselli parlerà poi spesso, sia nei suoi scritti ideologici che in quelli politici. Nel primo appello di Gl agli italiani82 egli dichiara che “la lotta è durissima e impone i massimi sacrifici. Questo è il prezzo del secondo Risorgimento italiano” e propone il motto “insorgere per risorgere” che poi, con il saluto alla città delle Cinque giornate, sarà stampato sui manifesti lanciati da Bassanesi su Milano l’11 luglio 1930, nonché sui buoni-moneta distribuiti da Gl con evidente richiamo al prestito nazionale mazziniano. È evidente la derivazione di molti motivi della eclettica ideologia rosselliana da Gobetti, “genio precoce”, che “aveva indicato la via del riscatto con gli ideali dell’autonomia e della rivoluzione liberale operaia”.83 Ma Rosselli poté conoscere non soltanto il fascismo delle origini, quello di cui Gobetti aveva colto con finezza gli aspetti di gratuità dannunziana, estetizzante e tardoromantica, ma anche il fascismo nel pieno del suo potere, quello che si atteggiava a signum contradictionis del secolo. Rosselli tentò perciò di fondere la tesi del fascismo male tipicamente italico con l’altra, di cui si fece tenace propugnatore, del fascismo come novità di portata mondiale, cui pertanto andava opposta, da parte dell’antifascismo, altrettanta novità. Egli stesso, in un importante scritto del 1937,84 in cui traccia come un bilancio della sua creatura politica, pone al 1932 l’anno in cui Gl passa dalle posizioni di concentrazione democratica socialista, sostenute però fin da allora dall’impegno di “rivolta contro gli uomini, la mentalità, i metodi del mondo politico prefascista, responsabile della fine miserabile dell’Aventino”, alla prospettiva dell’oltrefascismo, per usare un’espressione ricorrente sulla stampa giellista. Il 1932, scrive Rosselli, per il fascismo è il decennale, l’ingresso nel Pnf di sei milioni di nuovi iscritti, Cfr. E. Tagliacozzo, L’evasione di Turati, in Rossi (a cura di), No al fascismo cit., pp. 58-61. 82 Vedi la Prefazione (p. 15) a C. Rosselli, Socialismo liberale, Edizioni di Gl, Milano 1944-1945. 83 C. Rosselli, Risposta a Mussolini, in “Giustizia e Libertà” del 21 maggio 1936, dove si legge anche questa apostrofe: “A voi, fascisti, l’impero; a noi, la nazione. A voi, la Roma della decadenza; a noi l’Italia repubblicana, comunale, risorgimentale, protesa verso il nuovo umanesimo proletario” (ora in Id., Scritti politici e autobiografici, Napoli 1944, pp. 96-106). 84 C. Rosselli, Per l’unificazione politica del proletariato italiano, in “Giustizia e Libertà” del 24 maggio 1937 (ora in Id., Scritti cit., pp. 189-200). 81
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la nuova demagogia corporativa: insomma, l’apparenza della stabilità. Per gli antifascisti, è la fine del periodo postaventiniano. Una nuova generazione d’italiani si affaccia: quella per cui il fascismo “non è più la parentesi irrazionale; è la norma, il punto di partenza per ogni azione”. A questi fenomeni italiani sempre più avrebbero fatto riscontro, amplificandone il significato, quelli europei: Hitler,85 Dollfuss, le Asturie, la giornata del 6 febbraio 1934 a Parigi, la Sarre,86 e infine, esperienza culminante, la Spagna. Di fronte alla guerra d’Etiopia, Rosselli aveva dichiarato con vigore che “si deve essere disfattisti integrali e pratici” e accettare la guerra civile, ricordando che durante la prima guerra mondiale c’erano stati dieci milioni di caduti invano, e “quasi tutti coatti”.87 Di fronte alla Spagna, come ha messo in evidenza il Garosci,88 egli manifestò la sua fiducia in un antifascismo mondiale come forza autonoma, con fini non necessariamente coincidenti con quelli politici e diplomatici delle varie potenze: con il che veniva posto con chiarezza, anche se in termini alquanto astratti e moralistici, un problema delicatissimo per la Resistenza, che pure dovrà distinguere fra i suoi interessi specifici e quelli militari e diplomatici delle potenze della coalizione antihitleriana. La parola d’ordine del “secondo Risorgimento” costituiva un antidoto specifico solo per il primo aspetto del fascismo, quello italico, perché la dilatazione del Risorgimento a “età” di significato europeo non era persuasiva, ché anzi il Risorgimento appariva, agli storici meno conformisti e meno nazionalisti, il tentativo di un popolo arretrato di portarsi al livello di altri d’Europa più evoluti; e proprio l’insoddisfacente esito di quel tentativo, che si scontava col fascismo, poteva giustificare l’esigenza che esso venisse con più energia ripreso. Rosselli rielaborava le tesi del fascismo “riVedi il lucido articolo di C. Rosselli, La guerra che torna, pubblicato sui` “Quaderni di Giustizia e Libertà” poco dopo l’ascesa di Hitler al potere (ora di Id., Scritti cit., pp. 116-28), e che provocò una polemica con l’“Avanti”, poco propenso ad ammettere, nel solco del tradizionale pacifismo socialista, la liceità di una “guerra rivoluzionaria” (cfr. G. Arfe, Storia dell’Avanti! 1916-1940, Milano-Roma 1958, pp. 96 sg.). 86 “Quel che è avvenuto il 13 gennaio in Sarre è la prova ultima, in vitro, della cadaverica impotenza di tutte le forze, partiti, uomini del passato prefascista”: C. Rosselli, La lezione della Sarre, in “Giustizia e Libertà” del 18 gennaio 1935 (ora in Id., Scritti cit., p. 81). 87 C. Rosselli, Perché siamo contro la guerra d’Africa, in “Giustizia e Libertà” dell’8 marzo 1935 (ora in Id., Scritti cit., pp. 84-90). 88 Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 150-63. Su questo punto, dell’autonomia dell’antifascismo di fronte agli interessi diplomatici delle potenze, cfr. E. Lussu, Diplomazia clandestina, Firenze 1956. 85
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velazione degli italiani agli italiani” e “autobiografia della nazione”, della mancanza in Italia di rivoluzioni popolari e di lotte religiose, dei Savoia che “furono tosto l’equivalente dei Lorena e dei Borboni”, della burocrazia piemontese che “serrò nelle sue spire tutta l’Italia”, di Mazzini e Cattaneo “grandi vinti del Risorgimento”, della prassi corruttrice del giolittismo che invischiò anche i socialisti, rei fra l’altro (va segnalata tale indulgenza di Rosselli) di avere interrotto la “tradizione socialista locale che aveva avuto in Mazzini, Ferrari e Pisacane i suoi principali rappresentanti”.89 Ne derivava che il fascismo “è il risultato più passivo della storia d’Italia, è un gigantesco ritorno ai secoli passati, un fenomeno abietto di adattamento e di rinuncia”; e che esso è nato come per esplosione di fermentazioni nascoste della razza, dell’esperienza delle generazioni [...]. Il fascismo si radica nel sottosuolo italiano, esprime i vizi profondi, le debolezze esistenti, le miserie del nostro popolo, del nostro intero popolo.90
Queste ultime citazioni le abbiamo tratte da Socialismo liberale, scritto nel 1929, prima cioè della “svolta” del 1932, cui sopra accennavamo; e pertanto sarebbe inesatto contrapporle con puntualità formalistica alle tesi sul fascismo fenomeno mondiale. Tuttavia, non è possibile risolvere integralmente con la cronologia la difformità delle due interpretazioni offerte da Rosselli, perché entrambe, sia pur con diversa accentuazione, si trovano nelle due fasi del suo pensiero politico. Durante la guerra di Spagna, ad esempio, che segna il culmine della seconda fase, i richiami rosselliani al Risorgimento, ai suoi esuli, ai suoi volontari, ai suoi legami con la libertà del popolo spagnolo, non sono dovuti soltanto a nobile enfasi.91 Il fatto è che può cogliersi in Rosselli uno sforzo di sintesi analogo a quello che contemporaneamente, e sia pur da altro punto di vista e con altri risultati, venivano compiendo i comunisti: fondere la considerazione sul fascismo primogenito con quella sui fascismi, fino a cercare di attingere una definizione del fascismo come sistema politico proprio di una certa fase dello sviluppo della società borghese. Crediamo non vada sottovalutata, negli antifascisti non comunisti, la spinta che a tale slargamento del quadro derivò dall’umiliazione di sentirsi rinfacciare che chez nous o mit uns (proprio Rosselli, Socialismo liberale cit., pp. 187, 174, 168, 70. Ibid., pp. 167, 173. 91 Vedi, per tutti, il discorso da radio Barcellona del 13 novembre 1936, che lanciò la formula “oggi in Spagna, domani in Italia”: “Un secolo fa l’Italia schiava taceva e fremeva sotto il tallone dell’Austria, del Borbone, dei Savoia, dei preti” (Rosselli, Scritti cit., pp. 166-72). 89 90
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così: anche mit uns!) un fenomeno d’inciviltà come il fascismo non sarebbe stato possibile:92 rinfaccio democratico che si mescolava (il danno e la beffa) alle lodi conservatrici per Mussolini baluardo dell’Occidente contro il bolscevismo e, nella fervida fantasia di qualche baronetto inglese, novella incarnazione di Garibaldi.93 In che cosa consistesse, per Rosselli, la modernità mondiale del fascismo non è compito di questo scritto riesporre. Possiamo solo ricordare quanto egli, senza tuttavia mostrare una reale conoscenza delle tesi sull’imperialismo di Lenin, cui preferisce il De Man, insista sulla novità del capitalismo contemporaneo che rimproverà (nel 1929)94 al marxismo di non più comprendere, dato che l’elemento essenziale non starebbe più nella produzione, ma nella distribuzione e nella morale. L’eclettismo culturale, favorito dalle ambizioni superatrici, e l’affrettato desiderio di porsi in una posizione di punta sulla scena politica italiana o addirittura europea, offuscano in realtà in Rosselli l’intuizione storico-politica fondamentale, che finisce col venire argomentata in termini poco coerenti e persuasivi. In contraddittorio con Salvemini, egli afferma potersi parlare di “sistema economico fascista”, di “tipo nuovo di struttura sociale”, di nuova barbarie alleata con un tecnicismo forsennato.95 Ed è nota la sua definizione dei fascismi come i più perfetti regimi di massa della storia: con il che, come già abbiamo fatto notare a proposito del Volpe, si coglieva del fascismo un aspetto reale, ma nello stesso tempo si distorceva in una interpretazione sostanzialmente moralistica e aristocratica che rischiava, fra l’altro, di dimenticare proprio le critiche al Risorgimento come movimento di pochi. Secondo Rosselli “la massa, in quanto massa, è brutale, ignorante, impotente, femminile, preda di chi fa più chiasso, di chi ha più quattrini, di chi ha la forza e il successo [...]. Combattere i regimi di massa fascisti a forza di massa, è tempo perso”.96 Il senso della classe operaia come élite della rivoluzione liberale, mutuato da Vedi, su questo punto, le testimonianze di Salvemini, Partigiani e fuorusciti cit.; L. Sturzo, L’Italia e l’ordine internazionale, Torino 1946, pp. 67 sg.; M. Salvadori, Resistenza e azione, Bari 1951, pp. 26-28. 93 Ceva, L’Istiluto Nazionale cit., p. 11, ricorda il generale Sir George White, amico di Churchill, che “entusiasta di Garibaldi, percorreva la Sicilia segnando le tappe della campagna dei Mille; per lui Mussolini e Garibaldi erano una stessa cosa, e, purtroppo, non solo per lui”. 94 Rosselli, Socialismo liberale cit., p. 110. 95 Cfr. Garosci, Appunti cit., p. 44. 96 Rosselli, La lezione della Sarre cit. Corollario di tale atteggiamento è che il fascismo non si batte con il classismo (vedi, ad esempio, Classismo e antifascismo, articolo di fondo di “Giustizia e Libertà” del 25 gennaio 1935). 92
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Gobetti,97 non era sufficiente a riempire il vuoto così prodotto e a far fronte ai compiti sempre più pressanti posti dall’espansione fascista nel mondo. Non era sufficiente sul piano della teoria e dell’azione politica a lunga scadenza, perche la nobiltà del comportamento di Rosselli, fino a che Mussolini e Ciano non lo fecero assassinare, non ha certo bisogno di essere difesa. Il “secondo Risorgimento” non rimase senza opposizione nell’ambito di Gl, e nel 1935 si svolse in proposito sul settimanale del movimento una discussione di notevole vivacità e interesse.98 Aprì il fuoco Andrea Caffi il quale, portando alle estreme conseguenze la critica al Risorgimento, fallito fin dal nascere, che ha “avuto per sbocco (tutt’altro che inaspettato) il fascismo”, e attaccando con particolare veemenza il gretto e culturalmente improduttivo Mazzini, negava la convenienza dell’antifascismo a rifarsi al Risorgimento, nel quale “prevalgono elementi, ai quali i nostri avversari hanno più ragione di attingere che non noialtri, sovversivi senza riguardi”. In un successivo, più elaborato, intervento Caffi chiariva che “la questione si pone non sul piano della cultura storica, ma su quello della pratica”: sull’utilità, cioè, per i rivoluzionari di oggi, di prendere come modello gli impacciati rivoluzionari di ieri. Con il che il carattere pragmatico del “secondo Risorgimento” era forzato fino a considerare la comprensione della verità storica totalmente irrilevante per l’efficacia dell’azione politica; ma, nello stesso tempo, veniva individuato un punto che, vedremo fra poco, avrebbe messo in sospetto, anche se con altra motivazione, anche i comunisti: parlare di secondo Risorgimento non significava distorcere lo sguardo dall’avvenire al passato, non significava “porre una (fosse pure parziale) ‘restaurazione’ fra le finalità dell’antifascismo italiano?”. Il Risorgimento, insomma, non lo si poteva raddrizzare: era stato quello che era stato, una volta per tutte, moto per nulla popolare e guidato, a loro esclusivo vantaggio, da retrive oligarchie; e come si sarebbe potuto in buona fede negare che l’Italia di Giolitti, che aveva partorito quella di Mussolini, era creatura del Risorgimento? “La classe operaia nella società capitalistica è la sola classe veramente rivoluzionaria”: Rosselli, Socialismo liberale cit., p. 145. Ma, ibid., p. 203, ammoniva i socialisti italiani a decidersi: o attendere fatalisticamente che l’Italia si trasformi in Inghilterra, o farsi rappresentanti di tutti gli italiani, e non dei soli, pochi, operai. 98 Andrea (Andrea Caffi), Appunti su Mazzini (29 marzo); Gianfranchi (Franco Venturi), Sul Risorgimento italiano (5 aprile); G. O. Griffith, Attorno a Mazzini (12 aprile); Luciano (Nicola Chiaromonte), Sul Risorgimento (19 aprile); Curzio (Carlo Rosselli), Discussione sul Risorgimento (26 aprile); Replica di Gianfranchi e Lettera di un uomo della strada (3 maggio); Andrea, Discussione sul Risorgimento, con Postilla di Luciano (10 maggio); U. Calosso, Palinodia mazziniana (24 maggio). 97
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Il supporto ideologico dell’atteggiamento di questa frazione di Gl fu esposto dall’intervento di Nicola Chiaromonte, e consisteva in una violenta dissociazione del motivo della libertà, trattato con sensibilità quasi anarchica, da quello della nazionalità, dando a quest’ultimo un significato, ab antiquo, totalmente negativo, quello che, appunto, aveva irrimediabilmente compromesso il valore di civiltà del Risorgimento. Chiaromonte sbeffeggiava, conseguentemente, sia Croce e la storiografia liberale, di cui vedeva, non a torto, una difesa nelle tesi raccomandate da Venturi, sia Marx per il suo principio della rivoluzione nazionale tappa della rivoluzione sociale. La posizione rosselliana, fu sostenuta dall’“uomo della strada”, e poi da Rosselli stesso. Griffith, l’autore di Mazzini profeta di una nuova Europa, si limitò a difendere la nobiltà del credo spirituale di Mazzini; e Calosso si prese il gusto di ritorcere l’accusa di reazionarismo in pectore all’antirisorgimentismo di Caffi e di Chiaromonte. Rosselli riconobbe anch’egli che, più che di un problema storiografico, si trattava di un problema del movimento rivoluzionario italiano; ma, appunto per questo, è conveniente, si chiedeva, lasciare il monopolio del Risorgimento al fascismo? Egli rispondeva distinguendo due Risorgimenti: quello “ufficiale, prima neoguelfo, poi sabaudo e sempre moderato”, e quello popolare, in cui nazionalità e libertà erano stati momenti inscindibili; di quest’ultimo, sconfitto fra il 1859 e il 1860, l’antifascismo aveva tutto il diritto e l’interesse a presentarsi come vendicatore e continuatore. Ne era riprova la permanenza nel popolo italiano della tradizione risorgimentale democratica, come dimostrava, fra l’altro, il grande successo ediloriale delle dispense della Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia dello Spellanzon. La discussione su Gl mise in luce il facile scambio di posizioni (ad esempio, rispetto al “popolo” nel Risorgimento: era più “rivoluzionario” rivendicarne la presenza, o darne per scontata l’assenza?) e il rischio di astratti giochi dialettici nel maneggio di termini storiografici disancorati dalla loro base effettuale. Risultava comunque evidente che l’antifascismo non poteva non fare i conti col Risorgimento, e che la difficoltà consisteva nella elaborazione di una nuova sintesi, dopo quella liberale, fra dati (per la maggior parte dei quali non c’era tuttavia, almeno per il momento, che da rifarsi alle ricerche degli storici tradizionali), nuove spinte politiche e nuove esigenze metodologiche.
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5. I socialisti. I comunisti fra Gramsci e il “cosiddetto Risorgimento”
Anche il socialismo scese in campo su questo terreno. Le fortune del Risorgimento nel socialismo italiano erano state varie, e una indagine accurata su di esse servirebbe anche a chiarire quanto di veramente popolare c’era nel mito del Risorgimento, e quanto invece di piccolo-borghese colto o semicolto. Schematizzando, può dirsi che, alle origini, il movimento operaio italiano, proprio perché nasceva dalla delusa democrazia risorgimentale, dovette, per prendere coscienza della propria originalità, accentuare la polemica politica e ideologica contro di quella e contro i due Giuseppi che ne erano i pontefici massimi. Il maggior attaccamento alle tradizioni della sinistra risorgimentale rimase perciò una caratteristica delle ali destre del movimento, quelle che meno riuscivano a sottrarsi a una posizione subalterna nei confronti della piccola borghesia democratica, e che erano conseguentemente inclini alla politica dei blocchi con massoni, liberi pensatori, mazziniani e garibaldini. Il Partito socialista italiano ereditò da questa situazione una relativa indifferenza nei confronti del Risorgimento. Se si scorre, ad esempio, la “Critica Sociale” degli anni 1909, 1910, 1911 non si trova alcuno scritto che prenda posizione nei confronti del cinquantenario dei fatti conclusivi dell’unificazione, se non due insignificanti articoletti, pur scritti da un membro della direzione del partito, e che, del resto, rientrano nella campagna per il suffragio universale.99 I giudizi che Marx ed Engels avevano dato sul processo di unificazione italiana100 non stimolarono la elaborazione della problematica che poteva scaturirne per il movimento operaio,
S. Cammareri Scurti, La mancata conquista inglese della Sicilia e l’Unità d’Italia, e La Sicilia e il suffragio universale (Dal cinquantenario dei Mille al suffragio universale), in “Critica sociale”, XX, 1910, pp. 117-19, 228 sg. 100 Su di essi, vedi E. Ragionieri, Il Risorgimento italiano nell’opera di Marx ed Engels, in “Società”, VII, 1951, pp. 54-94. 99
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per quanto, nella nota lettera a Turati del 26 gennaio 1894,101 Engels enunciasse un giudizio destinato a divenir classico, e cioè che la borghesia italiana “non seppe né volle completare la sua vittoria”, cosicché anche all’Italia poteva applicarsi la tesi di Marx sui paesi che soffrono insieme dello sviluppo della produzione capitalistica e della mancanza di esso. La sostanziale accettazione dell’alveo del regime parlamentare borghese per svolgere la propria specifica azione di classe, implicava naturalmente, per il partito socialista, il riconoscimento di certe strutture fondamentali dello Stato scaturito dal Risorgimento. Era un riconoscimento che sarebbe stato aspramente rinfacciato dai comunisti delle origini, pronti a vedere, come fece Rakovsky nella discussione sulla “questione italiana” al III congresso dell’Internazionale comunista (giugno-luglio 1921), nei richiami che alle “tradizioni del Risorgimento” vi sarebbero stati nella “Critica Sociale” (cosa, abbiamo visto, da non prendere alla lettera), una manifestazione del socialpatriottismo e del riformismo di Turati.102 Ma era anche un riconoscimento che avrebbe fornito in seguito, unitamente a più remote ispirazioni che potrebbero farsi risalire alle lodi del Manifesto verso l’opera rivoluzionaria saputa svolgere dalla classe borghese, armi polemiche contro la borghesia italiana traditrice dei suoi stessi ideali, secondo uno schema che proprio Lenin enunciava fin dal 1915, in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia: L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante, che all’idea di essere ammessa alla spartizione del bottino, si sente venire l’acquolina in bocca.103
Toccò a Gramsci compiere lo sforzo più complesso di ripensare, in una nuova sintesi socialista, la più recente storia d’Italia. Questo sforzo si basava, obiettivamente, sulla maturità raggiunta dal movimento operaio italiano, che poteva infine riproporsi, senza complessi, il problema del suo rapporto col Risorgimento, sottraendosi alla posizione subalterna che era stata della sua ala destra, come pure al rifiuto polemico che aveva caratterizzato le sue Vedila in appendice a Lenin, Sul movimento operaio italiano, Roma 1949, pp. 19597. 102 Cfr. La questione italiana al 3° congresso dell’Internazionale comunista, Edizioni del Partito comunista d’Italia, Roma 1921. Rakovsky era stato delegato del Comitato esecutivo dell’Internazionale al congresso di Livorno. 103 Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, pubblicato sul “Kommunist” nell’agosto 1915 (ora in Id., Sul movimento operaio italiano cit., p. 10). 101
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correnti più vivaci della sinistra. In Gramsci questa maturità si esprime col porre il problema dello Stato in generale, e di quello italiano, della sua origine e delle sue caratterizzazioni storiche, in particolare. Gramsci volle slargare la sua attenzione dagli sconfitti del Risorgimento a tutto lo Stato e alla sua classe dirigente, nelle cui caratteristiche soltanto, del resto, potevano esser pienamente colti i motivi di quella sconfitta. Proprio per questo, le fonti immediate di Gramsci, nelle sue considerazioni sulla storia d’Italia, vanno ricercate non tanto nella tradizione socialista italiana (che, abbiamo ricordato, era stata poco sensibile all’argomento), e tanto meno nelle querimonie degli epigoni del mazzinianesimo, ma nelle élite critiche che si erano formate nell’interno stesso della classe dirigente: Salvemini, i liberisti di sinistra e, in un rapporto di dare e avere, Gobetti.104 Gramsci innestò alcuni risultati di quella critica nel suo marxismo riattivizzato dalle esperienze leniniste e della rivoluzione d’Ottobre: e ne derivò quel nuovo quadro dello Stato italiano su cui è ancora impegnata la discussione di storici e di politici. Le prese di posizione del Partito comunista d’Italia, che ricorderemo tra poco, fanno sorgere l’interrogativo sulla circolazione e l’influenza che le idee elaborate in forma definitiva nei Quaderni del carcere ebbero nel partito della clandestinità e dell’esilio. Si tratta di un problema dalle ampie implicazioni, e che il limitato angolo visuale di questo scritto può solo sfiorare. Pubblicamente Gramsci aveva già manifestato alcune sue tesi risorgimentali ai tempi dell’“Ordine Nuovo”, riconoscendo, ad esempio, che “la borghesia italiana è stata lo strumento storico di un progresso generale della società umana”, ma che ormai, perso tale ruolo, sta affossando e disgregando la stessa nazione da lei creata, cosicché “solo lo Stato proletario, la dittatura proletaria, può oggi arrestare il processo di dissoluzione dell’unità nazionale”: tema, questo, che avrà ampi e caratteristici sviluppi, innestandosi in quello della vera unità (non quella del regno sorto “con un vizio di origine che lo rende incapace, nonché di risolvere, di sentire il problema del popolo”), da realizzare finalmente con l’alleanza degli operai del Nord e dei contadini del Sud.105 I socialisti delle varie correnti non sembra che approfondissero, nell’esilio, questi suggerimenti, né che ne venissero stimolati a proprie originali riflessioni, il loro impegno politico-culturale essendo rivolto in altre direzioni. I socialisti non potendo, specie nei primi anni di esilio, non rimanere in Su questo punto, vedi un’osservazione proprio di Gobetti, in La Rivoluzione liberale cit., p. 129. 105 A. Gramsci, L’Ordine nuovo, Torino 1954, pp. 276-78 (L’Unità nazionale); pp. 32730 (Tradizione monarchica). Vedi anche, oltre vari spunti disseminati nel volume, il paragone fra Cavour e Giolitti, ritenuto irriverente per il primo (pp. 300 sg.). 104
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qualche modo fedeli al proprio passato, furono frenati sulla via di quell’integrale riesame dei rapporti politici e di classe sviluppatisi in Italia dal Risorgimento in poi, sulla quale si erano messi sia i comunisti che Gl. I socialisti perciò, proprio perché parte integrante del sistema politico prefascista e giolittiano, indugiarono a riconoscere nel fascismo un fenomeno che non fosse solo una parentesi nella “normalità”. Glielo rimproverava Rosselli;106 e, nell’alternativa di polemiche e di collaborazione che caratterizzò i rapporti fra socialisti (prima e dopo la riunificazione del 1930) e Gl,107 da parte socialista si univa alla critica del carattere generico e aclassista del socialismo di Gl – “anti-capitalismo da ceti medi”, come lo definì Nenni –108 un certo fastidio per un atteggiamento che voleva sbarazzarsi con tanta irruenza di tutta una tradizione ancora cara, pur nello sforzo di rinnovamento, al socialismo italiano. Per quanto riguarda i comunisti, la grande svolta compiuta dopo l’ascesa di Hitler al potere, divide in due fasi, i cui rapporti di continuità e di rottura non sono di facile definizione, il loro atteggiamento anche di fronte al problema che stiamo esaminando: riprova, questa, di quanto esso sia legato alla evoluzione generale delle correnti antifasciste, per l’esame delle quali costituisce un limilato, ma non impreciso, reattivo. Nelle Tesi del congresso di Lione (gennaio 1926)109 ricompare con grande evidenza l’argomento, cui già abbiamo fatto cenno, del proletariato come unica forza unitaria d’Italia, dato che la “classe industriale non riesce a organizzare da sola la società intiera e lo Stato”. “La costruzione di uno Stato nazionale – si aggiunge –, non le è resa possibile che dallo sfruttamento di fattori di politica internazionale (cosiddetto Risorgimento)”. E Gramsci stesso, autore con Togliatti delle Tesi, che spinge qui a tal punto la critica dello Stato italiano da coinvolgervi, tout court, il Risorgimento: posizione di cui, nel contesto del pensiero di Gramsci, è possibile precisare e chiarire il significato; ma che, nella polemica politica del partito fino agli anni della svolta, farà del “cosiddetto Risorgimento” una espressione largamente e sprezzantemente usata. Partendo dalla premessa, già implicita nelle Tesi di Lione (richiamantesi a quelle del V congresso mondiale sulla divisione di funzioni fra fascismo e democrazia), che “la sola politica antifascista è la politica comunista” e che “la lotta per abbattere il fascismo ed eliminarlo completa-
Vedi, ad esempio, Rosselli, Socialismo liberale cit., p. 186. Cfr., su questo punto, Arfe, Storia dell’Avanti! cit., passim. 108 Cit. da Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 78 sg. 109 Vedile in Trent’anni di vita e di lotte del Partito comunista italiano, Quaderno di “Rinascita”, n. 2, Roma (1952), pp. 93-103. 106 107
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mente dalla vita politica italiana coincide con la lotta per la instaurazione dello Stato operaio in Italia”,110 i comunisti conducono un’aspra battaglia contro tutte le posizioni che sembrano prospettare l’ipotesi che il fascismo possa essere invece rovesciato da forze democratiche borghesi, con la conseguente restaurazione dello Stato parlamentare e democratico borghese. Così, ad esempio, più volte “Lo Stato Operaio” sente il bisogno di chiarire che la espressione “rivoluzione popolare”, contenuta nella risoluzione sulla situazione italiana approvata dal Praesidium dell’Internazionale nel gennaio 1927, non può venire intesa come parola d’ordine mirante ad accodare il Partito comunista a una rivoluzione antifascista democratico-borghese, ma solo come individuazione di una prima tappa, di un periodo di lotte aperte antifasciste e per la egemonia del proletariato.111 Tale atteggiamento fu rafforzato dalla convinzione, espressa dal decimo Plenum dell’esecutivo dell’Internazionale (nel 1929, quando ci fu la svolta in senso intransigente – il “socialfascismo” – che portò all’espulsione dal partito italiano di Tresso, Leonetti e Ravazzoli) che “il lineamento fondamentale della situazione è l’inizio di una nuova ondata di movimento rivoluzionario ascendente”.112 Gli atteggiamenti neorisorgimentali dovevano necessariamente fare le spese di una tale politica, secondo la quale, va ancora ricordato tenendo presente che il bordighismo non fu eliminato d’un colpo (Bordiga fu espulso solo nel 1930), “il proletariato non deve rivendicare la conquista democratico-parlamentare”.113 Fin dal primo numero di “Lo Stato Operaio”, nell’Ediloriale già citato, si polemizza infatti contro coloro che “parlano della battaglia contro il fascismo nei termini di Mazzini e del liberalismo di tre quarti di secolo fa”; e in un articolo dell’anno successivo,114 sbozzate rapidamente le “stentate vicende del cosiddetto Risorgimento”, e ricordato che “i tratti caratteristici del regime fascista non sono altro che lo sviluppo, logico e conseguente sino alle conseguenze estreme, di principi, di consuetudini e di stati di fatto i quali erano insiti nello stesso regime statutario”, si concludeva affermando che “l’antifascismo liberale democratico e socialdemocratico non spezza il cerchio di questa politica. È un momento di essa. È una posizione di attesa e di riserva”.
Editoriale del primo numero di “Lo Stato Operaio”, I, 1927. Vedi, ad esempio, l’Editoriale, in “Lo Stato Operaio”, I, 1927, n. 4, e le Osservazioni sulla politica del nostro partito, ivi, II, 1928, p. 332. 112 Cfr. l’editoriale La conquista della maggioranza, in “Lo Stato Operaio”, III, 1929, p. 465. 113 La riforma costituzionale, in “Lo Stato Operaio”, I, 1927, p. 1077. 114 Lo Statuto e la lotta per la libertà, in “Lo Stato Operaio”, II, 1928, pp. 225-29. 110
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L’attacco frontale contro il Risorgimento, vecchio e nuovo, doveva venir sferrato da Togliatti nel corso di un violento articolo contro Rosselli e Giustizia e Libertà.115 Una prima presa di posizione nei confronti di Gl si era avuta nel numero precedente della rivista, con un articolo di Giorgio Amendola, riesponendo le tappe del cammino da lui e da altri compiuto dal gobettismo (si cita Risorgimento senza eroi) al Partito comunista d’Italia, riconosceva che altri gobettiani erano invece passati a Gl, verso la quale egli usa un linguaggio un po’ meno aggressivo di quello di cui poco dopo si sarebbe servito Togliatti.116 Il quale, fors’anche perché preoccupato di una certa forza di attrazione che Gl mostrava di esercitare sui comunisti che uscivano dal partito,117 tiene a considerare assurdo ogni parallelo fra Gobetti e Rosselli: l’uno povero, pensatore originale, rivoluzionario; l’altro ricco, dilettante dappoco, revisionista ignorante del marxismo fino alla malafede. L’obiettivo politico principale dell’articolo è espresso con chiarezza: Giustizia e Libertà – scrive Togliatti – rappresenta, in questa crisi, il tentativo più vasto che sino ad oggi sia stato fatto dalla intellettualità piccolo-borghese e dalla piccola borghesia radicale per darsi una posizione politica autonoma, assumendo essa la direzione di tutto il movimento antifascista.
Contro tentativi di tal genere la replica dei comunisti non poteva mai essere troppo dura. L’ideologia del “nuovo Risorgimento” è vista da Togliatti come strumentale rispetto all’ambizione politica di Gl. Già nell’articolo di commento ai Patti lateranensi Togliatti aveva parlato del “Risorgimento” e della “Terza Italia” come ideologia autonoma che la borghesia italiana aveva tentato di darsi, peraltro con meschini risultati.118 Ora scrive che la dissoluzione del mito del “Risorgimento” nazionale è uno dei risultati cui era già arrivata la critica storica più spregiudicata. Nella propaganda di Giustizia e Libertà il mito viene restaurato in pieno, e nella sua forma più pacchiana, nella stessa forma, del resto, in cui lo si trova, col Ercoli, Sul movimento di “Giustizia e Libertà”, in “Lo Stato Operaio”, V, 1931, pp. 463-73. 116 G. Amendola, Con il proletariato o contro il proletariato? (Discorrendo con gli intellettuali della mia generazione), in “Lo Stato Operaio”, V, 1931, pp. 309-18. 117 Cfr., su questo punto, Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 77-99. 118 Ercoli, Fine della questione romana, in “Lo Stato Operaio”, III, 1929, p. 128. 115
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marchio di dottrina ufficiale, nei “libri di Stato” del fascismo per le scuole elementari. Il “Risorgimento” è, per il piccolo-borghese italiano, come la fanfara militare per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bisogno di sentirsela squillare agli orecchi, per credersi un eroe. Il “Risorgimento” italiano è stato – siamo tutti d’accordo – un movimento stentato, limitato, rachitico. Le masse popolari non vi partecipano. I suoi eroi sono figure mediocri di uomini politici di provincia, di intriganti di corte, di intellettuali in ritardo sui loro tempi, di uomini d’arme da oleografia. Ma tutto questo non è stato un caso, tutto questo ha avuto una ragione.
E la ragione sta nel fatto che la borghesia italiana, non avendo voluto risolvere il problema della terra e della distruzione totale della feudalità, non poté essere conseguentemente rivoluzionaria “per la paura che il suo potere venisse travolto prima ancora di essere saldamente instaurato”. Ma appunto perciò, prosegue Togliatti, “è assurdo pensare che vi sia un ‘Risorgimento’ da riprendere, da finire, da fare di nuovo, e che questa sia il compito dell’antifascismo democratico”. Infatti, il capitalismo italiano è ormai divenuto imperialismo, è nata la moderna lotta di classe e i contadini si trovano di fronte proprio la borghesia risorgimentale, reazionaria oggi come ieri. La tradizione del Risorgimento vive quindi nel fascismo, ed è stata da esso sviluppata fino all’estremo. Mazzini, se fosse vivo, plaudirebbe alle dottrine corporative, né ripudierebbe i discorsi di Mussolini su “la funzione dell’Italia nel mondo”. La rivoluzione antifascista non potrà essere che una rivoluzione “contro il Risorgimento”, contro la sua ideologia, contro la sua politica, contro la soluzione che esso ha dato al problema dell’unità dello Stato e a tutti i problemi della vita nazionale. Le questioni che il Risorgimento, come rivoluzione borghese, non ha risolto, dovranno essere risolte contro la classe che fu protagonista del Risorgimento, dalla classe che oggi è rivoluzionaria, dal proletariato [...]. I borghesi tengono curvi i contadini sotto il giogo del capitale. Le fantasie sul “secondo Risorgimento” sono fatte solo per nascondere questa realtà.
Abbiamo riportato ampiamente l’articolo di Togliatti non solo perché i suoi argomenti verranno ripresi in numerosi scritti di “Lo Stato Operaio”,119 Vedi, ad esempio, E.R., Il programma di “Giustizia e Libertà”, in “Lo Stato Operaio”, VI, 1932, pp. 87-96; e, soprattutto, due articoli di R. Grieco, Il programma agrario di “Giustizia e Libertà”, ivi, pp. 157-65, e Ancora sul programma agrario di “Giustizia e Libertà”, dove, a p. 671, scrive: “Ah, no, bastardi di Giuseppe Mazzini (definiti poco prima ‘imbroglioni quanto il loro antenato’)! Non l’avete voluta e non l’avete fatta nel 1848 una rivoluzione contadina, e oggi ve ne venite fuori con la riformetta”. 119
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ma perché, connesso al significato politico immediato cui sopra abbiamo fatto cenno, l’articolo ne ha un altro che si presta a considerazioni più generali. I comunisti si trovarono infatti di fronte a un problema analogo a quello che richiamava l’attenzione di Rosselli: fondere la considerazione sul fascismo come fenomeno mondiale caratterizzato dalla “dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialistici del capitale finanziario” (secondo la nota definizione datane poi da Stalin nel 1933), con l’altra sul fascismo legato a tutte le tare storiche di un paese ben individualizzato come l’Italia. Era un problema di largo respiro legato alla struttura composita dell’Italia (anello forte o anello debole?) e, in definitiva, a quella che sarebbe stata poi la controversia sulla “via italiana al socialismo”. I comunisti, in effetti, proprio mentre sembravano spingere alle più drastiche conseguenze la tesi del Risorgimento fallito potevano (e possono) soltanto fino a un certo punto farla integralmente propria. Per quanto meschino e stentato, il Risorgimento non può tuttavia non rimanere, marxisticamente, il processo storico che ha portato in Italia al potere la borghesia: borghesia asfittica, poco coerente, che non ha saputo legarsi i contadini eccetera, ma pur sempre borghesia.120 Non solo. Ma tale borghesia, sia pure alla retroguardia e col fiato grosso, ha seguito poi una linea di sviluppo sostanzialmente simile a quella delle altre borghesie, ed è divenuta imperialistica come tutte le altre. Si tratta, anche qui, di un imperialismo sui generis, da straccioni, ma, contro tutte le altre proposte d’interpretazione del fascismo, “sul carattere imperialistico del capitalismo italiano non vi possono essere dubbi”, come scriveva Longo.121 E Togliatti, polemizzando con Salvemini, affermava che non la mania di grandezza o la buffoneria di Mussolini
Rivelatrice del complesso di borghesismo che affliggeva Gl di fronte ai comunisti e la risposta, Sulla questione agraria, comparsa nel n. 6, marzo 1933, dei “Quaderni di Giustizia e Libertà” (pp. 75-78), in cui si offre il seguente sillogismo: chiunque si batte oggi per la rivoluzione contadina, “a parte le differenze di dettaglio” non può, “per definizione”, essere borghese; Gl si batte per la rivoluzione contadina; dunque Gl non è borghese. 120 Di qualche interesse, in questa direzione, la comunicazione presentata al X congresso internazionale di scienze storiche dalla sovietica Lina Misiano, Alcuni problemi di storia del Risorgimento italiano, Mosca 1955. 121 L. Gallo (Luigi Longo), Aspetti dell’imperialismo italiano, in “Lo Stato Operaio”, VI, 1932, p. 147.
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stavano alla radice della politica estera fascista, ma le basi obiettive dell’imperialismo italiano, debole, ma non per questo non aggressivo. Togliatti ne prendeva spunto per un’altra spallata al Risorgimento: Fa ridere – scriveva – sentir accennare qua e là a una politica estera del “Risorgimento italiano” che sarebbe stata qualcosa di grande, di generoso, idealistico, rettilineo. Per dirla con Marx, non vi è stato nulla di più sordido e pidocchioso della manovra diplomatica, durata più di venti anni, attraverso la quale la dinastia dei Savoia riuscì a trasformare il suo regno di Sardegna in regno d’Italia.122
In un discorso di tal tipo, volto a mostrare di quali meschine lacrime grondasse il capitalismo italiano, il settarismo politico e lo schematismo ideologico erano mescolati a un forte senso della irripetibilità degli eventi storici (le occasioni, la storia, le presenta agli uomini e alle classi una volta sola) e a una intransigente affermazione della novità dei tempi imperialistici, destinati a sfociare nella instaurazione della dittatura del proletariato nella Repubblica mondiale dei Soviet, con totale eversione non solo delle strutture economiche capitalistiche, ma anche delle forme politiche della democrazia borghese-parlamentare: nella totale sotituzione, insomma, di una civiltà a un’altra. Più pensoso della complessità del nodo storico dell’Italia moderna, il Gramsci dei Quaderni del carcere è tratto a non scavare abissi tra l’ieri e l’oggi. Gramsci volle far quadrare l’esperienza del Nord, dove gli operai si trovano di fronte una borghesia con caratteri ormai abbastanza analoghi a quelli della borghesia occidentale, con l’esperienza meridionale dei contadini rimasti vittime anche della insufficiente rivoluzione borghese. Gramsci, insomma, tentò di cogliere l’individualità italiana in questa coesistenza, nell’ambito di uno stesso Stato, di un anello forte e di un anello debole. Va addebitato all’uso superficiale delle tesi gramsciane, nonché a certe caratteristiche, che non possiamo qui esaminare, dell’azione del Pci nel dopoguerra, la conseguenza, assai semplicistica da un punto di vista marxista, che alcuni sembra abbiano voluto trarne: e cioè che il rimprovero principale da muovere alla borghesia italiana sarebbe stato di essere borghesemente poco coerente. No, avrebbe risposto “Lo Stato Operaio”: ciò che si deve, senza rimpianti, rimproverare alla borghesia italiana (se avessero un senso rimproveri di tal fatta) è di essere, puramente e semplicemente, borghesia. È nella rigidezza di questa posizione che va intesa la denuncia del “cosiddetto Risorgimento” come tentativo Ercoli, Per comprendere la politica estera del fascismo italiano, in “Lo Stato Operaio”, VII, 1933, pp. 270-76.
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d’individualizzare il giudizio sul fascismo italiano, senza però cedere alle lusinghe della democrazia borghese. La tesi generale sulla “stabilizzazione relativa” del capitalismo era stata applicata all’Italia affermando che il fascismo era il tentativo di stabilizzazione di “un paese a economia prevalentemente agricola, sprovvisto di materie prime e di mercati esterni e di un largo mercato di consumo interno”.123 E, nelle Osservazioni al “Progetto di programma della Internazionale Comunista” presentate alla Commissione del programma del VI congresso mondiale dalla delegazione del Partito Comunista d’Italia (1928), si criticava l’uso troppo generico del termine fascismo, sostenendo che vi sono forme di reazione aperta che non possono a quello assimilarsi. Il fascismo sarebbe infatti caratterizzato dalla debolezza capitalistica del paese e dalla possibilità di approfittare di uno spostamento e di un movimento di masse della piccola borghesia rurale e urbana.124 Sono le tesi che Togliatti riprenderà e svilupperà, ricollegandole a vari motivi gramsciani sul Risorgimento e sullo Stato da esso scaturito, nel saggio A proposito del fascismo, scritto anch’esso in occasione del VI congresso dell’Internazionale.125 Alle soglie poi della svolta del 1933-35, Grieco scriverà un interessante articolo126 di contrappunto al dibattito che si sviluppava fra i fautori, soprattutto giellisti, del “secondo Risorgimento”, ricordando che non poteva avere senso sperare in una “rivincita” dei “principi giusti” che nel Risorgimento avevano avuto la peggio di fronte a quelli “falsi”. Grieco riprendeva alcune delle critiche rivolte da Gramsci al Partito d’Azione, rimproverava a Garibaldi, che nel 1860 avrebbe potuto diventare il “Washington italiano”, di essersi invece impigliato in una “diplomazia di bassa lega” e, ribadendo che i problemi non risolti dal Risorgimento potevano ormai esserlo solo nel nuoCosì nelle Tesi presentate dal Comitato centrale alla II conferenza del Partito Comunista d’Italia (La situazione italiana e i compiti del partito), in “Lo Stato Operaio”, II, 1928, p. 127. 124 Ibid., pp. 478-80. 125 Ripubblicato in “Società”, VIII, 1952, pp. 591-613, accompagnato da una breve nota in cui Togliatti, ricordando che l’articolo era nato per combattere sia la negazione socialdemocratica dell’identità fascismo-capitalismo, sia le tendenze comuniste a chiamare fascismo ogni forma di reazione dimenticando le caratteristiche del fascismo tipo, quello italiano, concludeva che il dibattito sulla natura del fascismo era poi stato risolto da Stalin con la definizione già da noi ricordata (la quale sembra, invece, ricadere proprio nell’appiattimento che Togliatti volle criticare nel 1928). 126 R. Grieco, Centralismo e federalismo nella rivoluzione italiana, in “Lo Stato Operaio”, VII, 1933, pp. 424-22. Cfr. anche un successivo articolo di Longo: L. Gallo, Centralismo, federalismo e autonomia, in “Lo Stato Operaio”, pp. 647-61. 123
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vo quadro di classe, affermava con orgoglio che “l’introduzione al programma dei comunisti italiani è la storia d’Italia”. Subito dopo chiariva molto bene la differenza fra la “continuità” rivendicata dai comunisti e quella di cui si faceva invece banditore l’antifascismo borghese: “Il partito del proletariato rivoluzionario italiano non è il continuatore di nessun partito storico, ma solo del movimento politico del proletariato, dal momento in cui questo è sorto dalla nuova classe rivoluzionaria”. Con il che, tuttavia, insieme alla tradizione dei partiti politici italiani si rischiava anche di espungere dal socialismo ogni tradizione di pensiero democratico, pur nei limiti, certo modesti, in cui esso si era manifestato in Italia. La svolta operata dopo il 1933, e sanzionata dal VII congresso della Internazionale (1935), è evento di troppo vasta portata nell’intero comunismo mondiale per poter essere valutato adeguatamente in questa sede. La necessità di far fronte a Hitler e alla minaccia di guerra che scaturiva dalla sua ascesa al potere spinge l’Urss e i comunisti a uscire dallo splendido isolamento fino ad allora mantenuto. Essi, si convincono che, nella lotta contro il fascismo mondiale (la Francia, nel febbraio 1934, era apparsa anch’essa sull’orlo dell’abisso), il proletariato (e l’Urss sul piano diplomatico) non può “fare da sé”, ma ha bisogno di alleanze che, ormai, è in grado di sollecitare senza tema di restarne inquinato, poiché ha alla sua testa un partito e uno Stato per definizione incorruttibili, quali appunto sono il Partito comunista e l’Unione Sovietica. È vero, le tesi sul “fronte unico” erano state approvate fin dal 1921 dal Comitato esecutivo dell’Internazionale, e nel congresso di Lione del PCdI il tema era stato ampiamente sviluppato. Ma proprio a Lione si era chiarito che la tattica del fronte unico mirava a unificare il proletariato sulle posizioni comuniste; tanto che essa, come azione politica, veniva definita “manovra” volta a smascherare i dirigenti di partiti e gruppi sedicenti rivoluzionari, per strappare loro la base, alla quale, quindi, direttamente ci si rivolgeva. Con la tattica dei fronti popolari, inaugurati concretamente in Francia, ci si sposta invece su un altro piano: si cerca l’accordo di vertice con partiti e movimenti non comunisti, in quanto tali. È caratteristica, al riguardo, la polemica sulla “unità organica”, svoltasi coi socialisti: nel 1932 Grieco spiegava che la tattica del fronte unico consisteva nello stabilire l’unità di lotta “con qualsivoglia organizzazione o gruppo di proletari disposto a battersi per una rivendicazione di classe, quale che sia”.127 Nei programmi di unità antifascista seguiti alla svolta, i comunisti, invece, tennero proprio a escludere le precise rivendicazioni di classe, e perciò contrastarono la tendenza sociaR. Grieco, Per il fronte unico proletario di lotta, in “Lo Stato Operaio”, VI, 1932, p. 749. 127
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lista a vedere nel riaccostamento dei due partiti l’avvio alla unità organica della classe operaia.128 C’era, in questo atteggiamento comunista, il desiderio di sfruttare fino in fondo la nuova tattica (che si rivolgerà infatti sempre più anche a gruppi e partiti per nulla proletari e “a tutti gli uomini semplici e di buona volontà”), senza tuttavia rinunciare completamente all’antica, conservando intatto il nucleo comunista come unica élite dirigente dell’intero gruppo di alleati.129 Insomma: verso l’esterno apertura, larghezza e duttilità, fino al più spicciolo realismo; all’interno, ferma preservazione del carattere accentrato e burocratico del partito, che sembrava condizione indispensabile per affrontare senza rischi questa ed eventualmente altre svolte, a prescindere dal loro contenuto. Altro, naturalmente, dovrebbe essere il discorso sui risultati che, al di là delle iniziali intenzioni dei gruppi dirigenti, furono provocati dalla svolta nella composizione e nella natura dei partiti comunisti, quello italiano in particolare. La svolta, infatti, secondo il costume comunista, fu subito ideologizzata, e da espediente tattico e diplomatico, sia pur di vasta portata, suggerito da una situazione di emergenza, tese sempre più a trasformarsi in piattaforma programmatica di quello che fu poi detto il “partito nuovo”, ritenuto senz’altro tale da molti arrivati al comunismo durante e subito dopo la Resistenza. La “doppia anima” del Partito comunista italiano, e la equivoca formulazione della “via italiana al socialismo” hanno la loro origine in questo carattere ambiguo della svolta, che, non va dimenticato, si compì in concomitanza con i definitivi giri di vite della dittatura personale di Stalin. L’atteggiamento comunista verso il Risorgimento (e chiudiamo così la digressione, necessaria tuttavia per dare un senso a quanto ora diremo) risentì subito del mutamento avvenuto nella direzione politica e di quella che sopra abbiamo chiamato la sua ideologizzazione. Innanzi tutto, non poteva venir mantenuto, nemmeno sul piano ideologico, il totale e sprezzante ostra128 Vedi al riguardo (“Lo Stato Operaio”, VIII, 1934, pp. 570-80) le due Dichiarazioni, del Psi e del Pci, allegate al “patto d’accordo” (il primo) del 17 agosto 1934, e l’articolo di commento di Grieco che, pur nel titolo, Per l’organizzazione del fronte unico, tende a rivendicare la continuità della politica comunista (pari tentativi facevano i socialisti: ma è evidente che sia l’uno che l’altro partito, nel realizzare l’unità di azione, operarono una svolta). Cfr., su tutta la discussione, Arfè, Storia dell’Avanti! cit., pp. 10920. 129 Scriveva Togliatti, in piena svolta, che “la sola garanzia reale della vittoria della classe operaia sulla borghesia, in tutti i momenti della lotta e particolarmente nei momenti supremi, è il fatto che esista un partito bolscevico e che questo partito non rinunci mai alla sua funzione di direzione e alla sua iniziativa rivoluzionaria” (Ercoli, Problemi del fronte unico, in “Lo Stato Operaio”, IX, 1935, p. 510).
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cismo contro quei gruppi antifascisti non comunisti di cui ormai si sollecitava la collaborazione: non si poteva più parlare, rivolgendosi al Psi, di “socialfascismo”;130 non si poteva continuare a insultare i democratici borghesi sensibili a certi movimenti risorgimentali, ma bisognava scendere a più sottili distinzioni. L’obiettivo politico immediato della lotta contro il “cosiddetto Risorgimento” veniva in tal modo a cadere. Si doveva inoltre necessariamente ridar fiducia a motivi popolari e popolareschi ritenuti idonei a commuovere le masse; e Garibaldi si sarebbe trovato, fra questi, in prima fila. Ma, accanto a queste manifestazioni tattiche per le quali la intransigenza settaria sembrava cedesse il posto solo a improvvisazioni e confusionarismo, quasi che l’apertura politica dovesse essere scontata con una perdita di chiarezza intellettuale, il nuovo atteggiamento, almeno in chi veramente lo sentì come tale, si sarebbe dimostrato capace di meglio riprendere certi temi cari al pensiero di Gramsci. Il lunghissimo appello lanciato nel 1935 dal Comitato centrale del partito contro la guerra di Etiopia, Salviamo il nostro paese dalla catastrofe!,131 che pur finiva ancora con le parole “Viva l’Italia proletaria! L’Italia Sovietica!”, fu una delle prime ufficiali manifestazioni del nuovo corso. Tutto ciò che vi fu di progressivo, di rivoluzionario – affermava l’appello – nelle lotte del secolo scorso e di questo secolo, appartiene al proletariato, è nostro! Noi continuiamo le lotte dei nostri nonni, proseguite dai nostri padri, contro gli oppressori d’Italia, per le libertà popolari, per il benessere delle masse lavoratrici.
Seguiva la consueta diagnosi sulla borghesia italiana mai stata rivoluzionaria e sulla classe operaia unica capace di fare ciò che quella non aveva fatto; ma, contro il fascismo nato dalle forze che avevano soffocato la rivoluzione popolare del Risorgimento, si rivendicava per sé l’eredità di quella rivoluzione, operando così una distinzione che apriva la porta al reingresso del Risorgimento (o meglio, di una delle facce di esso) fra i beni del patrimonio socialista: “La bandiera che passa dalle mani di Pisacane e di Garibaldi a quelle di Andrea Costa e dei pionieri del movimento socialista, e, oggi, nelle mani del partito comunista”. Il manifesto, che si rivolgeva a comunisti, socialisti, massimalisti, repubblicani, anarchici, cattolici e fascisti, trovava il suo suggello nel lancio di quella politica di “riconciliazione del popolo italiano”, di fascisti e “non fascisti”, che doveva spingersi, senza che fosse più 130 Nella ricordata Dichiarazione del Psi annessa al patto del 1934, si diceva appunto che, con il patto, il Pci mostrava di aver ripudiato la teoria del “socialfascismo”. 131 In “Lo Stato Operaio”, IX, 1935, pp. 241-60.
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possibile distinguere la spregiudicatezza dalla ingenuità o dall’opportunismo, fino a rivendicare il programma fascista del 1919 come programma di libertà.132 Che la nuova posizione riportasse alla ribalta il problema del Carattere internazionale della rivoluzione proletaria e le “particolarità nazionali”, è mostrato dall’articolo che con questo titolo, e a commento dell’appello del 1935, fu scritto da Ruggero Grieco,133 che appare fra i dirigenti comunisti più impegnati a dare una base culturale alle posizioni del partito. Grieco che, nel già ricordato scritto attorno al Patto d’accordo coi socialisti del 1934, aveva con sincera enfasi scritto: “Diffondiamo fra le masse lavoratrici il pathos della patria socialista [...] Oggi la Unione dei Soviet e la Repubblica Sovietica cinese sono la nostra patria. Grande fatto per il proletariato del mondo intero, quello di avere finalmente una patria”, si sforza di far quadrare questo atteggiamento con la rivendicazione del carattere nazionale del Partito comunista italiano. Egli concede ai polemisti di Gl che nell’Appello c’è del nuovo: ma non, come essi credono, un nuovo meramente tattico, bensì l’organico sviluppo di quell’insegnamento di Gramsci che il partito non aveva ancora saputo mettere bene a frutto. Del resto, non aveva già Engels, nella sua lettera a Giovanni Bovio del 14 aprile 1872, osservato che “nel movimento della classe operaia [...] le vere idee nazionali, cioè corrispondenti ai fatti economici, industriali e agricoli che reggono la rispettiva nazione, sono sempre nello stesso tempo le vere idee internazionali”? “Noi possiamo dunque – concludeva Grieco – giustamente richiamarci alla tradizione rivoluzionaria del Risorgimento nazionale, cioè alla tradizione delle lotte popolari per la libertà”: e questa continuità è in Italia più intima che nei paesi capitalisticamente più avanzati, proprio per il rachitismo delle soluzioni risorgimentali; né è possibile confondere questa posizione comunista con il filisteismo dei “socialisti nazionali” piccoli borghesi. A questo motivo di rivalutazione della pur sconfitta democrazia risorgimentale si aggiunge, da parte, ad esempio, di Emilio Sereni,134 l’altro di difesa addirittura dello Stato liberale e borghese in quanto tale: con il che da una parte si estendeva la tattica delle alleanze fino alle ali destre della borghesia, dall’altra si poteva riprendere il motivo del riconoscimento, marxisticamente indispensabile, di un qualche sviluppo borghese italiano. Ed è 132 Vedi l’appello Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!, pubblicato come editoriale del numero di agosto 1936 di “Lo Stato Operaio”. Contro questo “diciannovismo ritardatario”, vedi le reazioni dei socialisti in Arfè, Storia dell’Avanti! cit., pp. 244 sgg. 133 In “Lo Stato Operaio”, IX, 1935, pp. 404-16. 134 E. Sereni, XX Settembre, in “Lo Stato Operaio”, X, 1936, pp. 588-92.
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sintomatico che a questo tema si dimostrasse sensibile proprio chi, come Sereni, si dedicava allo studio del capitalismo nelle campagne italiane, cioè dei reali, se pur particolarmente contraddittori, effetti borghesi del Risorgimento, e non di quelli mancati. Perciò Sereni, rivendicando il valore del XX settembre come momento in cui la classe dirigente italiana compie finalmente un atto di significato europeo e mondiale, può affermare che, “nonostante tutta la sua incompletezza e incoerenza”, il Risorgimento rimane un fatto “obiettivamente rivoluzionario”, avendo creato in Italia lo Stato moderno, borghese, s’intende, ma unitario, indipendente, laico, costituzionale, “autonomo” (nel senso dello Spaventa): quello Stato che il fascismo aveva dovuto, per disfrenare tutta la sua carica reazionaria, distruggere, e che è compito di tutti gli italiani “che non rinnegano e non arrossiscono delle lotte dei loro padri”, rivendicare. La guerra di Spagna doveva essere l’occasione della glorieuse rentrée di Garibaldi nel mondo del comunismo italiano e internazionale. Il nome di Brigate Garibaldi nacque in Spagna; e durante quel periodo la stampa comunista (e non solo comunista) è piena di richiami all’eroe dei due mondi. La politica del fascismo in Spagna, scriveva Dimitrov, “è in stridente contrasto con le tradizioni democratiche e rivoluzionarie che si incarnano nella immortale figura di Garibaldi, eroe del popolo italiano, e sono patrimonio inalienabile del popolo italiano”.135 “Dovunque si rammenta la libertà, il nome di Garibaldi le tien dietro quasi eco di quella”: queste parole del Guerrazzi furono da Giuseppe Berti poste come epigrafe in testa al primo di due suoi articoli dedicati a Garibaldi.136 Berti ripeteva ancora una volta che se i comunisti parlano di Risorgimento ciò non significa che essi pensino ci sia in Italia una rivoluzione democratico-borghese da compiere. Questo può crederlo Gl quando pretende di porsi alla testa di tutto l’antifascismo, mentre invece, come ammoniva in quel torno di tempo Montagnana, meglio farebbe a dedicarsi, più modestamente, ma più utilmente, a organizzare le frazioni antifasciste della media e piccola borghesia.137 Berti rivendica la continuità del primo socialismo italiano con il garibaldinismo, che, proprio per questo, solo in parte può considerarsi sconfitto; e rivaluta il significato rivoluzionario di Garibaldi, in virtù certo dell’istinto e non della teoria rivoluzionaria: ma fra il buon 135 Vedi il saluto inviato alla rivista per il suo decimo anniversario, in “Lo Stato Operaio”, XI, 1937, p. 188. 136 Jacopo, Garibaldi nella rivoluzione nazionale italiana, in “Lo Stato Operaio”, X, 1936, pp. 599-609; G. Berti, L’attualità di Garibaldi, ivi, XI, 1937, pp. 386-99. 137 M. Montagnana, Franche parole a “Giustizia e Libertà”, in “Lo Stato Operaio”, XI, 1937, pp. 379-85.
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istinto e la cattiva teoria, caratteristica di Mazzini, la scelta deve essere tutta a favore del primo. Caratteristico è il rimprovero che Berti muove a Garibaldi: non quello dell’“ascetico e settario” Mazzini, di essersi messo d’accordo con la monarchia, bensì l’altro di non aver saputo, in quell’incontro, essere il più forte, mantenendo in mani democratiche la direzione del fronte unico delle forze nazionali. Insomma, Garibaldi aveva avuto il merito di essere “unitario”, ma il demerito di essersi fatto rimorchiare dagli alleati, anziché rimorchiarli. La riscoperta di un filone democratico del pensiero politico italiano diveniva una delle conseguenze del nuovo corso: e ancora Berti vi si sarebbe dedicato con impegno qualche anno dopo, in America, durante la guerra.138 Avrebbe allora espresso giudizi più equanimi su Mazzini, facendo sue le belle parole di Cattaneo: “Reputava vittorie anche i disastri, purché si combattesse”; e avrebbe invitato a non limitarsi a ripetere all’infinito i giudizi di Marx ed Engels sui democratici italiani del Risorgimento, i quali, poi, non furono tutti trasformistizzati, che altrimenti fra Garibaldi e Mazzini da una parte e Crispi e Nicotera dall’altra non ci sarebbe differenza. Contemporaneamente, Berti avrebbe riaffermato con vigore l’irriducibilità fra democrazia e liberalismo e, a maggior ragione, tra democrazia e liberalismo italiano, che era stato nulla più di un moderatismo e di un cattolicesimo non sanfedista, nato e sviluppatosi come reazione all’illuminismo, alla democrazia e al socialismo assai più che come lotta contro l’assolutismo e i residui feudali, e perciò legittimo antecedente del fascismo. La parziale assoluzione che, sul terreno strutturale, il marxismo doveva concedere alla borghesia italiana non poteva infatti minimamente estendersi all’azione e al pensiero politico dei moderati. La rivalutazione dell’illuminismo fu in effetti, ed è ben noto, comune a molti pensatori politici dell’antifascismo; e vogliamo qui ricordare come, quasi contemporaneamente a Berti, e pur partendo da altre premesse, Leone Ginzburg, nel saggio citato all’inizio di questo scritto, spezzasse una intelligente lancia a favore del Settecento, e non per ciò che esso anticipa dell’Ottocento, ma proprio per ciò che ebbe di peculiare: fu progressivo in Italia, scriveva Ginzburg, quel romanticismo che seppe continuare anche la tradizione dell’illuminismo. Gioberti in particolare faceva, sia in Berti che in Ginzburg, le spese di una tale impostazione; ma Berti, preoccupato di Materiali in preparazione del centenario di Antonio Labriola, saggio comparso anonimo, in più puntate, sullo “Stato Operaio” del 1942. Va tenuto presente che la serie americana della rivista (primo numero: 15 marzo 1940, “anno uno”, senza aggiungere “nuova serie”) fu pubblicata da Berti per iniziativa personale, e quindi non ha più carattere ufficiale. 138
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salvaguardare da ogni infiltrazione liberale la via democratica al socialismo, si spingeva fino a travolgere anche Gobetti in un giudizio stroncatorio, che fa pendant con quello di Omodeo. Gobetti, simbolo del disorientamento della gioventù intellettuale del dopoguerra, aveva avuto, secondo Berti, proprio l’assurda pretesa di trovare gli antenati del movimento operaio e del comunismo non già nella democrazia (di fronte alla quale egli aveva tutti i pregiudizi insegnatigli dalla reazione crociana), ma nel liberalismo: in concreto, nelle vecchie cariatidi (Cavour non escluso) che costituivano la classe dirigente piemontese. “Vedete un po’ – commentava Berti – che antenati Gobetti regalava alla classe operaia!”. Berti, diversamente dal Togliatti del 1931, riconosceva la filiazione di Gl da Gobetti, e ne traeva motivo di ulteriore condanna per l’autore della Rivoluzione liberale. Errore dei comunisti era stato quello di non sottoporre a critica radicale le idee di Gobetti, limitandosi a cercare di attrarre alla classe operaia i giovani da quello influenzati: ma un militante della classe operaia può imparare da Gobetti solo “nella misura in cui riesce a capire la gravità degli errori in cui cadde”. Fra il patto tedesco-sovietico del 1939 e l’attacco di Hitler all’Urss corre uno dei periodi più travagliati e confusi della storia dei partiti comunisti occidentali. L’elaborazione ideologica, che aveva sempre voluto accompagnare con baldanza tutte le svolte, in quei due anni si fa incerta e segna il passo, racchiusa in un arco che ha al suo inizio la tesi (echeggiante le vecchie posizioni leniniste del 1914-18) che si tratta di guerra meramente interimperialistica, e al suo termine l’altra, che l’aggressione all’Urss ne ha modificato la natura, trasformandola nella “più giusta di tutte le guerre”.139 Il Partito comunista italiano, nelle testimonianze che abbiamo potuto esaminare ai fini della nostra ricerca, partecipa di questa incertezza, pur non deflettendo dalla opposizione di principio al fascismo. Si ha l’impressione che certi motivi vengano come tenuti in caldo, in attesa di tempi migliori: ad esempio, quello del vassallaggio di fronte all’imperialismo tedesco, che dà sempre motivo a citazioni di Garibaldi e degli altri “padri del Risorgimento”; o l’altro dell’indipendenza della Grecia, per cui morirono Santorre di Santarosa e i garibaldini italiani; o perfino quello, alla vigilia ormai del giugno 1941, della “tradizionale amicizia” con l’Inghilterra, che ci aveva aiutati nel Risorgimento e aveva data generosa ospitalità a Garibaldi e a Mazzini.140
Vedi, ad esempio, l’editoriale La disfatta dell’hitlerismo libererà l’Italia e assicurerà il suo avvenire, che commenta l’aggressione all’Urss, in “Lo Stato Operaio”, I, 1941, pp. 89-96. 140 Vedi ad esempio, l’Appello del Comitato centrale del Pci del 16 maggio 1941: “Lo Stato Operaio”, I, 1941, pp. 103 sg. 139
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Erano discorsi d’occasione. Ma fra il 1941 e il 1943 passarono due anni che permisero al Partito comunista italiano di presentarsi all’inizio della Resistenza senza dover rimettere in discussione la parentesi 1939-41, e ricollegandosi direttamente a quanto in tutti gli anni antecedenti esso era venuto elaborando.
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6. Il Risorgimento e i giovani del ventennio
Le opinioni che abbiamo finora esaminato sono opinioni di vertice, elaborate fra le ristrette élite antifasciste rimaste in patria e, soprattutto, fra i fuorusciti. Ma la Resistenza non scaturì dal solo fuoruscitismo, bensì dall’incontro di esso con gli italiani che mai avevano varcato i confini e che, pure, non giunsero impreparati all’8 settembre del 1943. Altro discorso sarebbe dunque da fare sulle reazioni e sui fermenti che l’accaparramento fascista di tutta la storia d’Italia suscitò fra i giovani nati sotto il fascismo e privi, fino al 1943, di contatti con l’antifascismo politicamente organizzato. Sarebbe un discorso da inquadrare in quello più ampio su di una generazione che, quasi da sola, seppe costruirsi, usando i materiali più disparati, una coscienza politica e culturale antifascista. Si possono, fra tali materiali, rinvenirne di risorgimentali? È indubbio che il Risorgimento abbia agito in molti casi come mito conformista, provinciale e piccolo-borghese, elemento passivamente accolto nella formazione del cittadino disciplinato e rispettoso di una immagine oleografica della Patria. Ricordiamo che i programmi d’insegnamento della storia nelle scuole medie, elaborati nel 1936 da De Vecchi di Val Cismon,141 prescrivevano che il massimo rilievo deve essere dato in ogni ordine di scuole al processo formativo dello Stato unitario italiano che confluisce nel Fascismo, alla funzione esercitata dalla dinastia Sabauda dal suo primo orientamento verso l’Italia all’azione decisiva che essa svolse durante il Risorgimento e nella più recente vita italiana. E il Risorgimento venga presentato non quale materiale conseguenza di sia pur grandi eventi stranieri ma come fenomeno schiettamente italiano le cui origini risalgono ai primordi del secolo XVIII.
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Avvertenze generali per l’insegnamento, annesse al R.D. 7 maggio 1936, n. 762.
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Un Risorgimento siffatto, cui poco interessavano le più sottili distinzioni di un Volpe, entrava bene nel gran calderone monarconazionalfascista: e un uomo sensibile ai problemi educativi come Aldo Capitini ha ricordato di recente le gravi responsabilità del “patriottismo scolastico”, della “esaltazione del Risorgimento italiano” e degli “stimoli della letteratura nazionale dal Foscolo al Carducci e al D’Annunzio”.142 Tuttavia, per quanto il discorso su tale terreno sia difficile, per la quasi completa mancanza di testimonianze esplicite, una più dignitosa tradizione nell’insegnamento della storia fu mantenuta da alcuni docenti; e l’immagine di un Risorgimento un po’ all’antica, ma nobilmente ravvolto nei suoi pur logori panni liberali, fornì senza dubbio qualche germe di potenziale resistenza alla pressione fascista.143 La stessa presentazione della guerra 1915-18 come “ultima del Risorgimento” poteva offrire uno stimolo, per chi era in grado di ricordarne o di apprenderne la realtà, a porsi, non fosse altro, la domanda se essa fosse stata veramente dichiarata, combattuta e vinta da Mussolini. I tentativi, anche se presto falliti, di organizzare associazioni di ex combattenti non fascisti (come, ad esempio L’Italia Libera)144 avevano giovato in questa direzione; e anche giovò il già ricordato libro dell’Omodeo, che raccoglieva le lettere degli ufficiali combattenti, cercando di ricostruirne un’umanità più ricca e contraddittoria di quella canonizzata e oleografica. Sia, dunque, per derivazione diretta dagli ultimi fili della tradizione prefascista, attraverso fortunati incontri nella scuola o, per alcune élite, attraverso più diretti e precisi canali,145 sia per spontanea reazione alla grossolanità dell’insegnamento fascista, nacque in alcuni giovani la spinta a riscoprire un Risorgimento più schietto, come uno dei punti sui quali far leva per trarsi dalle secche fasciste. Influì su questo atteggiamento il fastidio per il bolso romanesimo del regime: non di Cesare si desiderava infatti sentirsi figli, ma di quegli uomini che, cento anni prima, avevano tentato di fare dell’Italia un paese moderno e civile.146 Cfr. supra, nota 12. In una delle Autobiografie di giovani del tempo fascista, pubblicate a Brescia nel 1947 a cura della rivista cattolica “Humanitas”, G.C. parla ad esempio (pp. 9 sg.) del “carattere risorgimentale” che ancora informava ai suoi tempi (17 anni nel 1935) la scuola elementare e media: “idee di libertà e di nazionalità”, “sensi romantici”, filofrancesismo e antitedeschismo. 144 Cfr. Gavagnin, Vent’anni di resistenza cit., pp. 157, 182-85; e Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 271 sg. 145 Vedi, ad esempio, il saggio di Solari, Aldo Mautino cit. 146 Ricordiamo un interessante articolo, con accenni autobiografici, di G. Levi, La scuola fascista e la gioventù, in “Lo Stato Operaio”, II, 1942, pp. 207-11. “Noi non ci van142 143
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Di fronte al nazionalismo fascista, sorgeva la esigenza di riporsi il problema dei rapporti fra nazionalità e libertà, andando a verificare cosa avevano davvero pensato al riguardo gli uomini del Risorgimento, soprattutto Mazzini, che i fascisti facevano di tutto per tirare dalla loro. Di “tradimento di Mazzini” avrebbe allora parlato chi, come ad esempio il Capitini così poco tenero verso il Risorgimento patriottardo, vedeva nel genovese colui che invano aveva riproposto ai distratti italiani il problema della riforma religiosa, nella cui mancanza tutta una tradizione individuava una delle tare dell’Italia moderna.147 Dal Risorgimento provinciale, cui era stata assegnata da De Vecchi come termine a quo l’impresa di Pietro Micca, si veniva respinti, con l’aiuto dei migliori studiosi non clandestini come, oltre l’Omodeo, il Maturi,148 al Risorgimento che aveva significato il reingresso dell’Italia nel circolo della vita culturale, politica ed economica d’Europa. Un Risorgimento, insomma, che poco quadrava con il fascismo autarchico e corporativo. La pubblicazione da parte di Giaime Pintor del Saggio sulla rivoluzione di Pisacane venne poi a ricordare l’esistenza di un Risorgimento dichiaratamente “eretico”: Pintor reintroduceva la tematica della rivoluzione italiana, del socialismo, della ribellione ai miti borghesi, del marxismo; e nel fallimento pratico di Pisacane e dei mazziniani denunciava pericoli che provavano “la loro realtà di fronte all’Italia unita”.149 Nell’ultima, ben nota, lettera al fratello la frase di Pintor “oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità del Risorgimento”, avrebbe definito il “senso del Risorgimento” proprio di alcuni giovani di quella generazione. Che era un Risorgimento non agiografico, e implicitamente da “revisionare”, poiché non potevano, quei giovani, presentarsi con l’heri dicebamus dei superstiti della vecchia classe dirigente prefascista.150 tiamo – scriveva nel 1934 la madre di un antifascista della generazione di mezzo – di essere una fedele copia degli antichi romani – Dio ci liberi! – ma sappiamo essere degli autentici italiani, di quegli italiani che nel ’48 seppero soffrire e morire per il bene della Patria” (Elide Rossi, Lettere ad Ernesto, Firenze 1958, p. 101). 147 Cfr. A. Capitini, Un’esperienza religiosa dell’antifascismo, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 33, novembre 1954, pp. 60-64. 148 Si può fare un confronto fra le voci Risorgimento dell’Enciclopedia italiana e del Dizionario di politica (edito dall’Istituto dell’Enciclopedia in collaborazione col partito fascista): scritte entrambe dal Maturi, la prima, problematica, si colloca bene nella tradizione liberale; la seconda è invece espositiva e anodina. 149 G. Pintor, Prefazione a C. Pisacane, Saggio sulla rivoluzione, Torino 1942. 150 “Loro (la vecchia classe dirigente) credono [...] che il fascismo sia stato nient’altro che un’offesa alla cultura mossa da alcuni insipienti. Per loro, tolti di mezzo gli insi-
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Il successo che ebbe al suo apparire (1943) il libro di Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, si spiega proprio per la spavalderia con cui rompeva lo schema scolastico, attaccando apertamente la monarchia, mostrando che nel 1861 c’erano stati dei vincitori e dei vinti, e personificando quasi nell’“Antirisorgimento” il “male” d’Italia, sempre vivo e operante, e che con un piccolo e sollecitatissimo trapasso si identificava senz’altro col fascismo. Se l’Antirisorgimento di Salvatorelli è divenuto poi una categoria di comodo, in quel momento, alla vigilia della resistenza armata, rappresentò, per un certo tipo di cultura giovanile, un ben riconoscibile obiettivo da battere. La guerra fascista del 1940-43, crediamo, non fu mai presentata come “quinta guerra dell’indipendenza”. La Corsica, Nizza, Malta non erano tanto sentite, dagli stessi fascisti, nel quadro della tradizione unitaria (niente di paragonabile a Trento e Trieste del 1915), quanto in quello nuovo della espansione imperialista, come mostrava il metterle sullo stesso piano della Savoia, di Tunisi e di Gibuti; e che anche quelle rivendicazioni imperiali fossero poi provinciali, è altro discorso. Molti, la maggioranza forse, di coloro che parteciparono poi alla Resistenza avevano anche combattuto nella guerra 1940-43: il senso oscuro dell’ingiustizia di essa e la tensione richiesta dall’adempimento di un astratto dovere trovarono dopo l’8 settembre come un atteso compenso nel collaborare a una impresa collettiva che poteva, finalmente, essere compiuta senza ricorso a criteri di doppia verità. Spunti e parole d’ordine risorgimentali, reinterpretati spesso senza un preciso significato politico e culturale, entrarono allora a far parte dei materiali che la nuova esperienza tentava di rifondere in una sintesi originale, anche se non da tutti veniva acquistata piena coscienza di tale novità.151 Il Giuntella152 si è sforzato di ricostuire il clima che, nei lager tedeschi, portava gli internati italiani a trasformare la “leggenda” del Risorgimento in una idea-forza; e ha individuato alcuni motivi eterogenei, dall’equiparazione fra i tedeschi di oggi e gli austriaci di ieri come simbolo di barbarie, alla pienti, la cultura rimane intatta e perfetta come prima; per noi invece rimane malata come prima, e sempre in grado di ripetere l’ascesso [...]. Il fascismo affonda le sue radici nel lontano risorgimento”: così U. Alfassio Grimaldi, in una delle Autobiografie citate supra, nota 143 (pp. 78, 73, 54). 151 Gli ufficiali di carriera che parteciparono alla Resistenza possono considerarsi il caso limite della continuità pre e post 8 settembre: vedi, ad esempio, la lettera del capitano Franco Balbis, tutta fondata sulla convinzione della perfetta identità fra il dare la vita per l’Italia in Africa e il darla ora contro tedeschi e fascisti (Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, Torino 1952, pp. 42 sg.). 152 Giuntella, Mito e realtà cit.
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fratellanza degli italiani coi polacchi e con tutti gli altri popoli oppressi dalla stirpe teutonica; dai ricordi scolastici, ai cori del Nabucco e dei Lombardi;153 dalla fierezza dell’esiliato politico, alla sensazione che, pur nella disgrazia, l’Italia ritrovava il suo posto accanto ai popoli d’Europa. In alcuni si manifestava il desiderio di un “ritorno alle origini” che raddrizzasse un cammino finito non casualmente nel baratro; e la nostalgia di un’antica tavola di valori si confondeva con la spinta a trapassare oltre tutte le esperienze compiute. Un atteggiamento di questo tipo si poteva già cogliere (facciamo un esempio fra i molti) in due documenti stilati da un gruppo di giovani, in maggioranza combattenti, che, tentato invano di prender contatto con l’antifascismo organizzato, vollero ugualmente affermare la loro presenza pubblicamente (se così può dirsi di un documento clandestino).154 In essi la volontà, risolutamente affermata, di una “radicale rivoluzione sociale” e non di una semplice “rivolta antifascista”, si appoggiava a un acceso idealismo politico, alla “religione della libertà” (ma non quella “illusoria prefascista”), al senso della “gloriosa fatica comune del Risorgimento”; e c’era l’invito ad appendere ai muri i ritratti di Mazzini e di Cavour, e a insegnare ai figli l’inno di Garibaldi. Dopo l’8 settembre la spontaneità di certi motti e parole d’ordine risorgimentali (“bastone tedesco Italia non doma”, inni di Garibaldi e di Mameli eccetera) si incontrò con i risultati della elaborazione del pensiero politico antifascista; e il “secondo” o “nuovo” Risorgimento (la parola “Resistenza”, di origine francese, si affermò in Italia a cose fatte) divenne un termine di largo uso, ma, proprio per questo, atto a coprire atteggiamenti ancor più svariati o contrastanti di quelli che erano stati propri delle preesistenti correnti antifasciste. Il generico, ma indubbiamente stimolante, richiamo alle precedenti lotte per la libertà sostenute dal popolo italiano, appena arrivava al livello dei partiti e delle forze politiche organizzate si frantumava infatti in significati profondamente diversi.
G. Carocci racconta dei cori verdiani che si levavano dalla tradotta dei prigionieri al passaggio del Brennero (Il campo degli ufficiali, Torino 1954, p. 46). 154 Agli Italiani (novembre 1941) e Ai migliori degli Italiani (agosto 1942), ripubblicati poi sul “Bollettino” nn. 1-2, giugno-luglio 1943 del Movimento “Popolo e Libertà”. 153
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7. Secondo Risorgimento e unità della Resistenza
Può dirsi che il “secondo Risorgimento” fu parte integrante della ideologia della “unità della Resistenza”, bandita soprattutto dai comunisti, ma non respinta, almeno esplicitamente, da nessuna delle altre correnti, anti talvolta da quelle ritorta, ancor oggi, contro i comunisti per sostenere il carattere aclassista della Resistenza.155 I contrasti e, talvolta, gli equivoci, che erano coperti dalle parole d’ordine unitarie, trovavano così riscontro nei significati diversissimi con cui il Risorgimento veniva tirato in campo, pur sotto l’apparenza di cosa su cui era facile intendersi e ritrovarsi, quasi si volesse ancora una volta ricorrere alla vecchia oleografia dei padri della patria che, per vie diverse, vengono dalla provvidenza condotti alla realizzazione del fine comune. E come l’“unità del Risorgimento” era stata uno dei modi con cui la nuova classe dirigente aveva affermato la sua forza di assimilazione dei movimenti politici concorrenti, così l’unità della Resistenza, con i richiami risorgimentali che la puntellavano, voleva essere l’espressione della fiducia della formazione politica che più la sosteneva, ma non solo di quella, di costituire la forza egemone dell’intero movimento. Perfino il “Regno del Sud” fu considerato dai suoi apologeti la “riemersione dello Stato italiano risorgimentale”, il “disincrostamento” della monarchia, unico istituto costituzionale che il fascismo non aveva abbattuto.156 “Ritorno allo Statuto” di nuovo genere, che pretendeva di coprire con una parvenza di dignità storica la preoccupazione fondamentale della monarchia e dei ceti che le si stringevano attorno di salvare “la continuità dello Stato”. Agli “istituti tradizionali” e ai “valori ideali del Risorgimento” si appellava, ad esempio, il primo giornale confessio-
Vedi, ad esempio, quanto scrive G. Rossini nel volumetto, celebrativo della Resistenza sub specie democristiana, Il fascismo e la Resistenza, Roma 1955, pp. 10, 97. 156 A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud, Roma 1946, pp. 342-44. 155
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nalmente monarchico uscito a Brindisi, il quale non esitava a rilanciare il grido di “Viva V.E.R.D.I.”.157 La guerra del 1915-18, più che mai ripresentata come quarta guerra dell’indipendenza, fu ampiamente utilizzata a tal fine. Del “secolare nemico” parlava Vittorio Emanuele già nel discorso da Radio Bari del 24 settembre 1943, e parlerà il nuovo “governo dei sottosegretari” nella sua prima dichiarazione del 28 novembre, stigmatizzando come antirisorgimento coloro che avevano ancora una volta chiamato quel nemico al di qua delle Alpi.158 La carta dei “tradizionali alleati” fu a sua volta scopertamente giocata nel tentativo di trovar grazia presso i vincitori: dalla risposta inviata da Badoglio al messaggio di Churchill e Roosevelt dell’11 settembre 1943, ai proclami dello stesso maresciallo del 15 settembre 1943 (“i nostri antichi compagni del Piave e di Vittorio Veneto”) e dell’11 febbraio 1944,159 alle dichiarazioni di uomini politici e della stampa.160 Che l’alleanza coi tedeschi dovesse considerarsi “innaturale” era cosa ripetuta da molti e con sfumature diverse: si andava da affermazioni retoriche o addirittura da un razzismo rovesciato (nemici “della nostra razza e della nostra civiltà” erano stati chiamati dal re i tedeschi nel ricordato discorso), al desiderio di riaffermare la vocazione liberal-occidentale dell’Italia, contro il prussianesimo e il nazismo, contro la politica estera fascista. Nell’ordine del giorno redatto da Bonomi, e approvato il 2 settembre 1943 dal Comitato centrale delle forze antifasciste, si rivendicava, ad esempio, per l’Italia il rinnovamento di quella scelta a favore della libertà, dell’eguaglianza e della pacifica convivenza di tutte le nazioni, che essa aveva già compiuto nel Risorgimento;161 e, in un telegramma inviato a Badoglio dal Comitato di liberazione nazionale di Napoli, il maresciallo veniva lodato per “aver rotto l’iniqua alleanza” e riportato l’Italia alle antiche tradizionali amicizie.162 Privati del loro “antico valore” erano stati i soldati italiani solo perché costretti a combattere “in una via opposta a quella della storia secolare del popolo
“L’Unione”, organo del “Partito d’Unione”, 25 dicembre 1943 (anno I, n. I), e 28 gennaio 1944. 158 Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 80 sg.; M. Bendiscioli, La Resistenza: aspetti politici, in AA.VV., Il Secondo Risorgimento cit., p. 314. 159 P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano 1946, p. 126; Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 53-58, 273. 160 Vedi, ad esempio, l’intervista, ancora di Badoglio, del 13 novembre 1943 (ibid., p. 191) e “La Rassegna” di Bari, 14 dicembre 1943. 161 I. Bonomi, Diario di un anno, Milano 1947, p. 87. 162 Si può leggere in “Il Risorgimento” di Napoli, 19 ottobre 1943. 157
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italiano”: questa era la convinzione espressa dal nuovo governo di Salerno di concentrazione antifascista.163 Bonomi, capo del governo, in un suo discorso del 4 novembre 1944 riprenderà questi temi, sforzandoli a dismisura, fino a dichiarare che il fascismo, dilapidando l’eredità del Risorgimento, aveva fatto passare l’Italia per tre anni al nemico, in quell’unica grande guerra contro “l’eterno barbaro” che era cominciata nel 1914 e che finalmente si avviava alla vittoria totale. Da parte alleata, come è noto, si dava moderato ascolto a tali affermazioni italiane; o meglio, si prendeva di esse quanto poteva servire a rafforzare la linea di condotta, d’ispirazione britannica, volta a sostenere il re e Badoglio e, più in generale, a salvare, anch’essa, la continuità dello Stato. Anche gli alleati amavano fare appello, contro quella fascista, a una Italia “vera”, i cui interessi e le cui tradizioni, come avevano detto, poco prima del 25 luglio, Churchill e Roosevelt in un loro messaggio, erano stati traditi dalla Germania e dai gerarchi “falsi e corrotti”.164 Ad armistizio concluso, l’interesse alleato per un profondo rinnovamento italiano sarebbe ovviamente diminuito. Nel dibattito sull’Italia svoltosi ai Comuni il 21 e 22 settembre 1943 i laburisti tentarono invano di portare a conseguenze più radicali, in polemica con Churchill, il motivo dell’Italia che ritrova se stessa: “Se il legittimo appello dei capi democratici italiani al popolo italiano – essi dissero – fosse stato consentito”, in modo che “la fiamma della libertà legittimamente percorresse l’Italia, come fece durante il Risorgimento”, ben altro aiuto avrebbero fornito alla causa alleata gli italiani, i quali si era invece preteso rischiassero la vita per sostenere, con armi insufficienti, dei voltagabbana; e il deputato Thomas ricordò l’esempio dei garibaldini di Spagna.165 L’appello al Risorgimento riproponeva ancora una volta il problema del rapporto fra nazionalità e libertà: era prevalente, oggi come un secolo fa, l’aspetto di guerra al tedesco per l’indipendenza della patria, o invece quello di guerra per la libertà, di guerra civile non solo italiana, ma europea e mondiale? La tematica era resa ancora più complessa dall’intervento di un terzo termine, quello della lotta per il socialismo, come forma più piena della libertà dei tempi moderni. È vero: nel corso della lotta il problema Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., p. 340. Il testo del messaggio in W. Churchill, La seconda guerra mondiale, parte V, vol. I, La campagna d’Italia, Milano 1951, pp. 60 sg. 165 Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 63-79; Churchill, La seconda guerra cit., pp. 168-74. Nel volume a cura di A. e V. Toynbee, Hitler’s Europe, London-New York-Toronto 1954, il saggio The Italian Resistance Movement di E. Wiskemann accenna (p. 331) al “Secondo Risorgimento” e lo differenzia dal primo per la partecipazione di operai e contadini. 163 164
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non si poneva in termini così scolastici, e una concreta unità dei primi due motivi, e anche del terzo, si realizzava con relativa facilità nella coscienza dei singoli combattenti. Ma non per questo il problema non sussisteva; e il diverso modo di vederne la soluzione influì allora in re, e non può non influire oggi sul nostro giudizio. È stato da molti, e giustamente, osservato che la Resistenza italiana fu tra le più politicizzate: i motivi di ciò sono intuitivi, come è facile comprendere che i più ostili a tale politicizzazione furono i ceti monarchici e conservatori, nonché gli alleati. Per tutti costoro il nuovo Risorgimento era solo una formula di comodo per incanalare il rischioso ribollire della società italiana nella patriottica guerra al tedesco; e abbiamo potuto vedere nel volume governativo che celebra il decimo anniversario della liberazione, Il Secondo Risorgimento, riservare venticinque pagine fredde, burocratiche e inspirate da una invincibile ripugnanza per la politica, al saggio di Cadorna sul Corpo Volontari della Libertà, e ottanta pagine a quello del generale Primieri su Il contributo delle Forze armate alla guerra di liberazione. Non sarebbe tuttavia giustificato un atteggiamento di sufficienza verso il motivo nazionale della Resistenza, quale si riscontra soprattutto in una parte dell’antifascismo di origine giellista (si ricordi la discussione del 1935):166 non si può, cioè, considerare un mero equivoco il fatto che la Resistenza si avvalse con larghezza di uomini mossi da spinte prevalentemente patriottiche; bensì si deve riconoscere che le più mature forze politiche antifasciste non seppero trasformare tali spinte, in quella situazione, in motivo di generale rinnovamento della società italiana. Anche i fascisti della Repubblica sociale tentarono la corda del patriottismo contro l’invasore angloamericano, ma con esito pressoché nullo. Paradossalmente, i fascisti post 8 settembre avrebbero potuto anch’essi fare i nazionalisti antitedeschi, e così tentare di rinfrescare il proprio volto: se non lo fecero, è perché il legame che li univa alla Germania nazista non era per essi qualcosa di occasionale; e non occasionale fu dunque il carattere di lotta insieme antifascista e antitedesca che assunse la Resistenza: antitedesca perché antinazista. “Viva l’Italia e viva la Germania libera!” esclamò sul patibolo il chimico siciliano Pietro Mancuso, impiccato l’11 settembre 1944 dai tedeschi a Carignano: e sembra che l’ufficiale nazista guardasse stupito e senza comprendere.167 Viene in mente, ma trasferito su un piano assai più alto, il “ripassin l’Alpe, e tornerem fratelli” del poeta risorgimentale. Vedi, ad esempio, gli scritti di Salvadori, Resistenza e Azione cit., e, in misura attenuata, Id., Storia della Resistenza italiana, Venezia 1955. 167 G. Marabotto, Un prete in galera, Il Cuneo 1953, pp. 277 sg. 166
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La presenza del fattore nazionale contribuì, fra l’altro, a far riflettere sul posto che a esso sarebbe spettato nella ricostruzione postbellica e sul valore che poteva ancora avere per l’uomo moderno. Il Risorgimento, da questo punto di vista, servì a rivalutare il civile patriottismo del secolo scorso contro la spuria filiazione del nazionalismo e dell’imperialismo. Anzi, sulla scia di un secondo Risorgimento che doveva ricollocare, come già il primo, l’Italia nell’Europa,168 il carattere europeo del Risorgimento fu sforzato fino a vedere in esso il precedente di quello che, con pari, anzi maggiore sforzatura, sembrava ad alcuni il carattere essenziale, in tutti i paesi, della Resistenza: l’europeismo o federalismo europeo.169 Ne sarebbe nata quella confusione di atteggiamento realmente aperto e di sciovinismo occidentalistico caratteristica del federalismo europeo postbellico. Per l’Italia c’era, in particolare, da risolvere in termini democratici la questione delle minoranze nazionali oppresse durante il fascismo, soprattutto quelle slave. La slavofilia della democrazia risorgimentale tornò allora di attualità, quella slavofilia che aveva sempre dato fastidio ai nazionalfascisti: il Volpe, ad esempio, aveva ritenuta superata “certa tradizione del Risorgimento, che considerava croati e sloveni strumenti ciechi d’occhiuta rapina dell’Impero asburgico dominato dai Tedeschi, cioè vittime essi stessi, come noi, di un uguale regime di oppressione”170. Soprattutto i comunisti si erano, durante il ventennio, interessati alla sorte delle minoranze etniche in Italia, nel quadro delle note tesi di Lenin e di Stalin sulla questione nazionale; anzi, era stato da parte loro sopravvalutato il ruolo che la ribellione di quelle minoranze avrebbe potuto giocare nella rivoluzione italiana. Articoli e dichiarazioni comunisti sugli sloveni e sui croati si erano susseguiti in abbondanza,171 Cfr., su questo punto, le osservazioni di G. Spini, Della Resistenza come di un aspetto della storia d’Europa, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 22, gennaio 1953, pp. 48 sg. 169 Esemplare, per l’esposizione di questa tesi, il saggio del cattolico L. Benvenuti, Resistenza europea e federalismo europeo (sul quale avremo occasione di tornare), in “Civitas”, n. s., VII, aprile 1955, n. 4, pp. 60-81. 170 Volpe, L’Italia in cammino cit., pp. 131 sg. 171 Vedi, ad esempio, in “Lo Stato Operaio”: V. Ukov, Sul problema delle minoranze slovene e croate in Italia, III, 1929, pp. 668-76; lo Schema di una piattaforma per l’azione politica delle organizzazioni comuniste della Venezia Giulia, IV, 1930, pp. 514-31; la Risoluzione del IV congresso del Partito comunista d’Italia, V, 1931, p. 223; la Dichiarazione comune dei partiti comunisti della Jugoslavia, dell’Italia e dell’Austria sul problema sloveno, VIII, 1934, pp. 349-51. Nel 1942-43 E. Curiel, triestino, scrisse a Ventotene alcuni Appunti per uno studio sul movimento nazionale slavo (ora in Id., Classi e generazioni del Secondo Risorgimento, Roma 1955, pp. 145-54). 168
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e non ci si era dimenticati né dei greci del Dodecanneso,172 né dei tedeschi dell’Alto Adige,173 anche se la posizione di questi ultimi aveva necessariamente risentito dell’Asse, dell’Anschluss, del plebiscito per il trasferimento in Germania e, dopo l’8 settembre, della loro pratica annessione al Reich, che li collocò in una posizione totalmente diversa da quella delle altre popolazioni alpine e di confine. Anche Salvemini, in Mussolini diplomatico, aveva denunciato la politica fascista contro le minoranze slave e tedesche; Gl aveva a sua volta agitato questo motivo; e Sforza, in una intervista alla “Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari dell’ottobre 1943, appellandosi a Cavour, Mazzini e Garibaldi indicava nella politica balcanica del fascismo la riprova del suo carattere antitaliano.174 Fu prova di maturità della Resistenza aver saputo affrontare con spirito democratico le rivendicazioni autonomiste delle popolazioni alpine,175 e anche, almeno nelle linee di massima (che il resto non dipendeva dai soli italiani), i rapporti difficili coi francesi e difficilissimi con gli jugoslavi:176 il neorisorgimento democratico prevalse, in quelle occasioni, su quello nazionalisteggiante. L’atteggiarsi delle due principali formazioni politiche della Resistenza, i Partiti comunista e d’Azione, di fronte al Risorgimento era fissato, nelle sue grandi linee, dalla elaborazione precedente, di cui abbiamo già parlato. Ma la concretezza della lotta e il fatto che essa coinvolgesse masse assai più larghe di quelle cui erano abituati a rivolgersi i fuorusciti, non furono, anche in questo campo, senza conseguenze. Il carattere composito del Partito d’Azione, di cui il vecchio tronco giellista costituì solo una delle parti, conteneva in sé un’implicita diversità di K. Grispos, La popolazione del Dodecanneso in rivolta contro l’imperialismo italiano, in “Lo Stato Operaio”, VIII, 1934, pp. 627 sg. 173 S. Gassmayer, Il problema del Tirolo meridionale, in “Lo Stato Operaio”, III, 1929, pp. 532-46. Cfr. pure la Risoluzione, citata a nota 171, dove si parla anche delle minoranze tedesche. 174 Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 161 sg. 175 Cfr. G. Peyronel, La dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine al convegno di Chivasso il 19 dicembre 1943: contro “il motto brutale e fanfarone di Roma doma” si rivendicò, nella fedeltà allo spirito del Risorgimento, il diritto alle autonomie locali, schiacciate dallo Stato monarchico accentratore (“Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 2, settembre 1949, pp. 16-26). 176 Parri, nel secondo convegno di studi sulla Resistenza, ha ricordato che il solo consiglio dato ai triestini “fu quello di combattere da antifascisti il più attivamente possibile: unico modo per pesare sulle sorti della città” (“Il Movimento di liberazione in Italia”, nn. 34-35, 1955, p. 15). Cfr. i paragrafi Gli accordi diplomatici della Resistenza e L’internazionalismo partigiano, in Battaglia, Storia della Resistenza cit., pp. 318-26. 172
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valutazione della storia italiana risorgimentale e postrisorgimentale. Ciò si rispecchia, curiosamente, nel modo stesso con cui fu scelto un nome tanto “revisionista” proposto da Mario Vinciguerra, cioè da un rappresentante dell’estrema destra del partito, perché, come racconta Ragghianti, “meno impegnativo circa il carattere e il contenuto del nuovo partito”: cioè, potrebbe dirsi, per evitare il peggio, rappresentato da parole come “lavoro” e “socialismo”, che pure erano entrate in ballottaggio.177 La lotta, nel suo corso, fece comunque prevalere la interpretazione più radicale, e il partito interpretò il suo nome quale incitamento alla “conquista della libertà”, motto che “Oggi e domani”, periodico azionista uscito clandestinamente a Firenze alla fine dell’agosto 1943, contrapponeva a quello badogliano di “ritorno alla libertà”178 e quale impegno a realizzare i “fini supremi che allora (nel Risorgimento) furono solo additati e non conseguiti”, come si esprimeva il primo numero dell’“Italia libera” uscito a Bari nell’ottobre 1943; e riteniamo superfluo ricordare altri analoghi atteggiamenti azionisti. Per i comunisti, poiché la base più larga della unità da essi patrocinata era costituita dalla lotta contro il tedesco invasore, il largo uso di echi e di suggestioni risorgimentali diveniva ovvio; e senza, anche qui, dilungarci in soverchie esemplificazioni, citeremo le parole dell’Appello dei comunisti all’insurrezione (12 marzo 1945): “L’insurrezione [...] si svolge sotto la bandiera del tricolore, simbolo dell’unità di tutto il popolo, nella tradizione degli eroi che combatterono e si sacrificarono nel corso del primo Risorgimento, per fare l’Italia unita, libera e indipendente”.179 Giova piuttosto ricordare che il secondo Risorgimento, se aveva dato in precedenza luogo, nel Partito comunista, alle contrastanti reazioni che abbiamo esaminato, ora contribuì a coprire, senza tuttavia ben risolverlo, il problema del rapporto tra i fini di classe, socialisti, della Resistenza e quelli nazionali e genericamente democratici. Togliatti, nel dicembre 1943, sostenendo la necessità della partecipazione italiana alla guerra contro la Germania come solo mezzo per presentarsi con un nuovo volto dinanzi ai vincitori, dichiarava che gli italiani non avevano combattuto nella guerra fascista perché l’unica tradizione militare che vive nel popolo italiano è la tradizione delle guerre di liberazione nazionale del secolo scorso, delle Camicie rosse di Garibaldi, la tradizione cioè di un esercito popolare pronto a com-
Cfr. C. L. Ragghianti, La politica del Partito d’Azione in un giornale clandestino di Firenze, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 14, settembre 1951, pp. 9 sg. 178 Ibid., p. 3. 179 Trent’anni di vita e di lotte cit., p. 202. 177
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battere, e che combatte realmente, sotto la bandiera dell’indipendenza e della libertà di tutte le nazioni.180
Motivo militare e garibaldino, cui si accoppiava quello del Risorgimento politicamente e socialmente incompiuto: Reclamando la convocazione di un’Assemblea Costituente, noi ci ricolleghiamo alle migliori tradizioni democratiche del Risorgimento italiano [...]. La lotta per l’Assemblea Costituente è in tutto il nostro Risorgimento come un filo rosso, il quale permette di scorgere quali fossero gli elementi e le forze che, mentre auspicavano la formazione di un fronte di lotta veramente nazionale, per creare un’Italia libera, indipendente e unita, pure volevano fosse garantito al popolo il sacro diritto di darsi una Costituzione corrispondente ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni. Se questo diritto fosse stato rispettato, non v’è dubbio che la marcia dell’Italia sulla via della civiltà e del progresso sarebbe stata molto più rapida, dolorose parentesi di reazione sarebbero state evitate, e forse non ci troveremmo ora al punto in cui ci troviamo.181
L’accenno alla coesistenza, nel Risorgimento, di fini d’indipendenza e unità nazionale con altri di miglioramento della condizione delle classi popolari quadrava bene con la pari coesistenza di obiettivi nella guerra partigiana, più volte affermata da parte comunista, e argomentata con la separazione fra le trasformazioni strutturali e politiche in senso socialista, che venivano rinviate, e quelle riforme sociali che avrebbero dovuto invece far parte integrante della democrazia nuova o progressiva.182 Derivava, da questa posizione, un nodo di problemi che non è qui il caso di dipanare e che potrebbe, ad esempio, essere riguardato sotto l’angolo visuale del dibattilo sui Cln, che raggiunse una delle sue formulazioni più esplicite nella nota polemica delle “cinque lettere”.183 180
Ercoli, Per un’Italia libera e democratica, in “Lo Stato Operaio”, III, 1943, pp. 102-104. Parole di Togliatti citate da Longo nel Rapporto politico presentato alla riunione allargata della Direzione per l’Italia occupata del Pci, 11 e 12 marzo 1945 (ora in L. Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, Roma 1945, pp. 440 sg.). 182 Cfr., fra i tanti documenti comunisti che si esprimono in tal senso, gli articoli Saluto al governo di unione nazionale, in “Il Combattente”, maggio 1944, e Tutta la nazione per la insurrezione, in “La nostra lotta”, settembre 1944, nonché lo Schema di rapporto politico presentato alla conferenza dei triumvirati insurrezionali del Pci (novembre 1944), in cui Longo si dilunga a spiegare la differenza fra democrazia progressiva e dittatura del proletariato (Longo, Sulla via dell’insurrezione cit., pp. 209-12, 288, 329 sgg.). 183 Cfr., su questa polemica, Battaglia, Storia della Resistenza cit., pp. 517-25; e R. Carli Ballola, Storia della Resistenza, Milano-Roma 1957, pp. 47-51. 181
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Naturalmente – ha poi scritto Longo – noi rifuggivamo dall’idea di sottoporre il movimento operaio per le rivendicazioni immediate al controllo e alla direzione operativa dei Cln. Sarebbe stato un non senso. Il Cln, proprio per la sua natura di organo di unità nazionale di tutte le forze patriottiche, non poteva assumere la direzione delle lotte operaie che erano classiste per la loro stessa natura e per gli obiettivi che si ponevano.184
Secchia, a sua volta, considerava un “errore da evitare [...] quello di far tacere la voce del partito per parlare solo a nome del Cln”185 e, nella riunione allargata alla direzione del Pci dell’11 marzo 1945, dopo aver citato un lungo brano di Togliatti sul partito nuovo, commentava: “Partito nuovo dunque per i suoi compiti, per la sua funzione, per le forme e i metodi nuovi della nostra organizzazione, partito nuovo la cui natura di classe e l’ideologia rivoluzionaria rimangono inalterate”.186 Se si rammenta l’accusa lanciata dal Cominform a Tito, di aver annegato il partito nel Fronte (la Resistenza jugoslava era stata fra quelle con più spiccati caratteri nazionali e di massa), si può meglio cogliere il senso di queste distinzioni fra partito e Cln. D’altra parte, citiamo ancora parole di Longo, “noi eravamo per dei Cln che fossero non dei semplici strumenti di un organo centrale, burocratico e lontano, ma organi di mobilitazione e di autogoverno delle masse, strumenti di democrazia diretta e immediata”.187 Discendeva, da tutto ciò, che l’unità, pei comunisti, oscillava fra il riconoscimento della spinta dal basso tendente a vedere nei Cln l’embrione di nuovi strumenti di potere popolare, e l’alleanza, al vertice, di partiti, patrocinata nella fiducia di saperne costituire la guida e i beneficiari; e il secondo Risorgimento poteva far gioco nell’uno come nell’altro atteggiamento. Che sotto quella bandiera potessero nascondersi degli equivoci fu avvertito, ad esempio, da Eugenio Curiel che, nel dicembre 1943,188 criticando l’atteggiamento “antipartitico” di alcune formazioni di montagna, avanzava il dubbio che esso si rifacesse a certe situazioni risorgimentali, e in particolare alla formazione della Società Nazionale del 1857. “Sono richiami astratti Longo, Sulla via dell’insurrezione cit., p. XXVI. Il partito e il Cln, in “La nostra lotta”, dicembre 1943 (ora in P. Secchia, I comunisti e l’insurrezione, Roma 1954, pp. 49-55). 186 Ibid., p. 391. 187 Longo, Sulla via dell’insurrezione cit., p. XXXIV Cfr. lo Schema di rapporto, citato supra a nota 182, dove si dice che, a liberazione avvenuta, i Cln periferici dovranno trasformarsi in organi di potere popolare. 188 Fronte nazionale, società nazionale, blocco nazionale (Curiel, Classi e generazioni cit., pp. 161-67). 184 185
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dalla realtà storica”, commentava Curiel, non risparmiando le sue critiche alla “indefinibilità politica” e al “candore” di Garibaldi, che lo facevano “facile strumento di avvedute diplomazie”. Ormai l’Italia non era più nazione di “popolo”, nel senso indiscriminato e precapitalistico che poteva ancora valere nel Risorgimento, bensì nazione di classi socialmente diverse e contrastanti, che di ciò acquistano coscienza nei partiti: quindi, “nazione di partiti”. E “l’unità d’azione non si raggiunge nella romantica ed enfatica confusione dell’embrassons nous, ma nella coscienza della distinzione”. Perciò, concludeva Curiel, ridurre, quasi per tema di complicazioni, le parole d’ordine al vecchio motto sabaudo e garibaldino di via i tedeschi, significa non aver inteso la profonda differenza tra la occupazione nazista di oggi e il dominio asburgico di ieri. Noi non possiamo scindere la parola d’ordine di via i tedeschi da quella di morte ai fascisti.
Parole chiare, in cui il desiderio di evitare l’equivoco viene argomentato in termini quasi liberali, come invito a ciascuna delle forze in campo a giocare fino in fondo il ruolo che le è proprio, nella fiducia che i fatti avrebbero poi dimostrato quale fosse la più valida ed efficiente. In realtà, come abbiamo visto all’inizio ricordando Longo e Secchia,189 i comunisti ancor oggi, nonostante il largo uso fattone, considerano il “Secondo Risorgimento” come formula tutt’altro che ovvia, anzi bisognosa di molte precisazioni, di cui ormai siamo in grado di meglio cogliere il significato e la remota origine.190 C’è da aggiungere che man mano che passano gli anni, e i fatti dimostrano come la classe operaia sia lontana dall’esercitare in Italia quella funzione dirigente che avrebbe dovuto costituire il presupposto della sua azione unitaria durante la Resistenza, agli stessi comunisti sarà sempre più difficile sottrarsi alla necessità di un riesame critico che non continui a dare per scontato ciò che palesemente non sussiste. Di “attaccamento eccessivo, in qualche caso, alla politica unitaria” ha parlato anche Togliatti;191 e Longo riconosceva, nella conferenza già ricordata, che se la catastrofe nazionale aveva fatto confluire nella Resistenza numerosi gruppi delle vecchie classi dirigenti, ciò fu sì “indice della profondità e della ampiezza raggiunte dalla Resistenza, ma fu anche la causa dei suoi contrasti e delle sue remore interne”. Cfr. supra, nota 11. Aggiungiamo che le ultime propaggini del bordighismo stanno ferme al totale ripudio del secondo Risorgimento. Vedi: Alfa, Il ridicolo “bis” del risorgimento e Dopo le garibaldine, in “Prometeo”, 1946, n. 2, p. 70, e 1948, n. 10, p. 433. 191 Trent’anni di vita e di lotte cit., p. 208 (Si tratta di una delle note redazionali, attribuite comunemente a Togliatti). 189 190
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8. I cattolici
Non abbiamo finora parlato dei cattolici. I cattolici non hanno prodotto un pensiero politico antifascista che possa essere messo alla pari di quello giellista o comunista. A leggere, ad esempio, il volume che raccoglie i principali scritti di De Gasperi durante il fascismo, I cattolici dall’opposizione al governo,192 è difficile sfuggire all’impressione che, se il governo fosse premio alla originalità e al mordente del pensiero politico, i cattolici meritavano di rimanere ancora per lunghi anni all’opposizione. Non bastano, a smentire questo giudizio, scrittori vivaci e coraggiosi, come Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, il primo dei quali, quando Mussolini si presentò alla Camera dopo il 28 ottobre, voleva tornare a cospirare “con passione garibaldina e mazziniana, con la passione della mia stirpe, cristiana e repubblicana”;193 e il secondo denunciava con forza, nel solco di una sincera accettazione delle strutture fondamentali dello Stato liberale, la collusione fra la Chiesa e il fascismo.194 Sturzo fin dal congresso di Torino del 1923 del Partito popolare fece appello alla “tradizione più sana del nostro Risorgimento”, e in uno dei primi discorsi fatti in esilio, nel 1925, parlò della “attuale battaglia per la libertà come un secondo Risorgimento”.195 Nel volume L’Italia e l’ordine internazionale, pubblicato a New York nel 1944, in un excursus sulla storia d’Italia egli fa largo uso di simili espressioni. Ma l’equivoca rivendicazione di libertà propria della tradizione democratico-cristiana (nello Stato risorgimentale, scriveva Sturzo, “la libertà era per la borghesia, ma non per il popolo né per la Chiesa”),196 Bari 1955. Citato da Rossini, Il fascismo e la Resistenza cit., p. 43. 194 F. L. Ferrari, L’Azione cattolica e il “regime”, Firenze 1957, in cui è ripubblicato anche l’Appello ai parroci d’Italia, redatto nel 1931 e diffuso in Italia a cura di Gl. 195 Cfr. Salvatorelli, in Il Secondo Risorgimento cit., p. 108; A. Marazza, I cattolici e la Resistenza, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 43, luglio 1956, p. 4. 196 L. Sturzo, L’Italia e l’ordine internazionale, New York 1944, p. 118. 192 193
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rendeva arduo un originale ripensamento della storia dell’Italia contemporanea, e portava a giudizi eclettici e poco mordenti sul fascismo. Va anche detto che un vero dibattito fra antifascisti cattolici e non cattolici non vi fu, sia per disabitudine degli uni come degli altri, sia perché gli antifascisti democratici, socialisti e comunisti, non mostrarono di prendere in seria considerazione l’ipotesi che sarebbe stato il partito cattolico la grande riserva della borghesia italiana. Ma va soprattutto ripetuto che il fatto massiccio che caratterizzò il cattolicesimo italiano durante il ventennio fu la “conciliazione”, con tutto ciò che essa implicava sul piano culturale non meno che su quello politico. Hic Rhodus, hic salta: e saltò male Sturzo;197 e inciampò anche Jemolo.198 Per i giovani cattolici nati durante il ventennio il cammino verso l’antifascismo, se da una parte trovò qualche appoggio nella appartenenza all’unica organizzazione non fascista esistente in Italia, dall’altra fu reso doppiamente difficile dalla necessità di superare il peso non di una, ma di due autorità costituite: la seconda, anzi, più che di superarla si trattava, per chi voleva restare cattolico, di tentare di interpretarla in una chiave contrastante con gli atteggiamenti che essa ogni giorno palesemente assumeva. Un giovane studioso cattolico ha recentemente scritto che accanto all’antifascismo politico degli ex popolari si formò nel ventennio, fra i giovani, un “nuovo antifascismo, originale, se così può dirsi”, “morale più che politico”, basato su due convinzioni, lentamente maturate: la prima, della irriducibilità dei principi cristiani a quelli fascisti (e in questo il fascismo fu seriamente compromesso dalla politica razzista); la seconda, che “precarie e instabili sono le garanzie offerte alla Chiesa e alla religiona da una dittatura, anche se dichiari di voler difendere il patrimonio religioso della Nazione”.199 L’ingresso nella Resistenza di cattolici così formatisi costituì indubbiamente uno di quegli eventi sui quali molte cose sono ancora da scrivere (insufficienti appaiono, ad esempio, alcune ricostruzioni biografiche di In L’Italia e l’ordine internazionale cit., p. 131, Sturzo, difendendo la Chiesa dall’accusa di avere approvato teoria e prassi del fascismo, considera i Patti del 1929 la conclusione del Risorgimento come processo di unificazione: e le sue riserve sono nel senso che non per questo deve intendersi che la Chiesa abbia voluto sanzionare implicazioni teoriche e leggi del Risorgimento a essa ostili. 198 Per risolvere la questione romana “occorreva venisse l’Uomo capace di comprendere che il momento era giunto [...]. Nel 1929 quest’Uomo dominava ormai da sette anni la vita italiana, e la sua figura già si levava poderosa nel cielo d’Europa” (A. C. Jemolo, La questione romana, Milano 1938, p. 16). 199 P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma 1957, p. 270. 197
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singole esperienze):200 il peso avuto da considerazioni sulla storia d’Italia e sul Risorgimento potrebbe venire allora meglio chiarito. Possiamo tuttavia accennare al fatto che la partecipazione cattolica alla Resistenza non coinvolse solo pochi giovani intellettuali, ma strati molto più ampi di popolazione, soprattutto nelle campagne, e che quindi si legò alla presenza di quei contadini che, come diceva appunto Salvemini, segnarono la sconfitta della tradizione sanfedista e antirisorgimentale delle campagne italiane. E possiamo appena ricordare il problema, troppo schematicamente impostato, e che pur si è dibattuto, se i cattolici furono nella Resistenza come cattolici o come italiani, se spinti cioè da moventi religiosi o politici (e poi, di nuovo, nella seconda ipotesi, se come semplici patrioti o come antifascisti, ripresentandosi anche per loro l’interrogativo di cui già abbiamo parlato). Occorre comunque distinguere fra la partecipazione dei democristiani, e quella dell’alto clero, del basso clero, dei semplici credenti: gruppi non omogeni, e non mossi da uguali finalità.201 E bisognerà saper leggere le frequentissime espressioni di fede cattolica ricorrenti nelle Lettere dei condannati a morte, di contro, per far un esempio connesso al nostro tema, agli accenni al Risorgimento contenuti in una sola lettera, quella di un ufficiale in servizio permanente effettivo, iscritto al Partito d’Azione, Pedro Ferreira.202 Esiste una interpretazione cattolica della Resistenza? Ne esiste più d’una perché, anche in questo caso, la cultura cattolica non è stata capace di elaborare una sua posizione originale, ma si è dovuta accontentare di riprendere, variandole e adattandole alle proprie esigenze, quelle che venivano offerte dalla cultura laica. Ciò sembra valere in modo particolare per il nesso Risorgimento-Resistenza, dato che i cattolici erano, su quel terreno, dopVedi, oltre le già ricordate Autobiografie (fra le quali, quella di U. Alfassio Grimaldi appare la più articolata): A. Caracciolo, Teresio Olivelli, Brescia 1947 (dove però proprio l’insorgere del momento della libertà rimane insufficientemente chiarito, nonostante il richiamo a Mazzini, ma forse anche per questo); Ignazio Vian, il difensore di Boves, testimonianze raccolte da V. E. Giuntella, Roma 1954. 201 Buone osservazioni in G. Rovero, Il clero piemontese nella Resistenza, in Aspetti della Resistenza in Piemonte cit., pp. 41-75. Si può anche citare l’ultima lettera del sacerdote Aldo Mei, fucilato il 4 agosto 1944, il quale attribuisce la sua sorte all’“aver fatto il prete” (Lettere dei condannati a morte cit., pp. 142-45). Ingiuriosa fu ritenuta dalla “Civilta Cattolica” (CV, 1954, n. 4, pp. 684 sg.) la distinzione, fatta dal Battaglia nella sua Storia, fra alto e basso clero. 202 Lettere dei condannati a morte cit., pp. 76-83. Per una interpretazione laica della religiosità dei combattenti che muoiono con i riti cattolici, cfr. Omodeo, Momenti della vita di guerra cit., pp. 376 sgg. 200
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piamente compromessi: essi avevano infatti alle spalle o la tradizione clericale-antirisorgimentale, o quella, latu sensu, neoguelfa, che così bene si era portata su posizioni conciliazioniste e filofasciste. Quanto questa seconda tradizione fosse forte è mostrato, fra l’altro, dal fatto che perfino uno dei pochi movimenti clandestini cattolici del ventennio, quello facente capo a Piero Malvestiti, non trovò nome migliore di Movimento Guelfo d’Azione;203 mentre nel “Regno del Sud” la Democrazia cristiana, non stimolata dal movimento partigiano, fu subito proclive a riprendere logore parole d’ordine neoguelfe e italocattoliche, come quelle che abbondantemente apparivano sulla sua stampa.204 È noto del resto come lo stesso De Gasperi avvertisse in qualche modo i rischi di tali atteggiamenti quando, nella sua ultima lettera a Fanfani, raccomandava di tenere fuori il partito dallo “storico steccato politico” dell’alternativa guelfo-ghibellina. Due appaiono, a ogni modo, le tesi principali avanzate da parte cattolica sul nesso Risorgimento-Resistenza, cioè sulla posizione della Resistenza nella storia dell’Italia moderna. L’una si rifà alla definizione del Risorgimento come fatto essenzialmente religioso per applicare pari modulo interpretativo alla Resistenza; l’altra accetta molte delle tesi “revisioniste” sul Risorgimento, conducendole ovviamente a conclusioni assai diverse da quelle dei loro primi formulatori. Il Passerin d’Entreves, nel saggio Risorgimento e Resistenza,205 offre la formulazione più colta della prima posizione. Egli polemizza contro chi ha posto in primo piano i motivi sociali e politici della Resistenza, “che non si voglion certo ignorare, ma si voglion vedere come una materia che non sarebbe stata sollevata e sublimata senza un lievito religioso”: parole caratteristiche di tutti gli spiritualismi, cattolici e no, i quali sempre ritengono la vita politica e sociale bisognosa di sollevamenti e sublimazioni, senza i quali rimarrebbe affetta dalla sua originale limitazione o colpa (e di religiosità scaturente dalla “insufficienza dei concetti morali” parla infatti il Passerin). Storiograficamente, il Passerin porta in primo piano anaCfr. Rossini, Il fascismo e la Resistenza cit., pp. 55-58. Nel numero del 26 dicembre 1943 di “Il Risveglio” di Bari, “settimanale della Democrazia cristiana”, in un Saluto ai valorosi rivolto alle truppe italiane entrate in linea accanto agli alleati, si tiravano in campo la Roma onde Cristo è romano, san Francesco d’Assisi e santa Caterina da Siena, la Madonnina del Grappa e il Carroccio, san Nicola e le Alpi che Iddio pose a termine sacro d’Italia. Della “Chiesa, testimone di tutta la storia d’Italia, dall’Impero di Roma fino ai nostri giorni” parlava il 12 dicembre dello stesso anno la “Giustizia Sociale”, “organo della Democrazia cristiana, Sezione jonica”. Cattivo gusto provinciale, certo: ma non per questo meno rivelatore. 205 Cfr. supra, nota 13. 203 204
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loga essenza religiosa del Risorgimento, sforzandola fino a farla coincidere, al limite, proprio con il cattolicesimo (la religiosità di Mazzini diventa così “cattolicesimo deviato [...] e secolarizzato”). Il cattolicesimo liberale appare così il vero protagonista del Risorgimento; e il suo riemergere, sia pure in forme nuove, il protagonista della Resistenza. Con minor dottrina e sensibilità, il Marazza ha esposto tesi analoghe, accettando senz’altro il “Secondo Risorgimento”. E di nuovo – scrive – come nel primo Risorgimento, essi (i cattolici) ebbero la fortuna di sentire accanto a sé la presenza fortificante dei loro sacerdoti. La Resistenza fu nella storia d’Italia, come era stato nel Risorgimento, ansia di rinnovamento etico prima che azione politica, e questo spiega perché, come nel primo Risorgimento, di nuovo si dispiegò fervente il patriottismo del clero, e con noi tanti religiosi si fecero congiurati ed il Vaticano stesso, pur conscio delle sue enormi responsabilità, scese nella battaglia, mentre il Soriano Pontefice pronunciava contro i nuovi barbari la sua chiara e pesante condanna.206
Su questa strada, la totale annessione al cattolicesimo, liberale e no, del Risorgimento come della Resistenza non appare lontana. L’impegno europeistico di alcuni cattolici può essere posto accanto a questa interpretazione religiosa della Resistenza. Un certo tipo di cattolico colto italiano è venuto infatti alimentando una sempre maggiore ammirazione per i cattolici stranieri, specie francesi e belgi, considerati simbolo di una religiosità aperta alle esigenze del mondo moderno: essere antifascisti significò soprattutto, per i cattolici di tal fatta, uscire dal bigotto cattolicesimo italico su cui aveva fatto leva Mussolini. I cattolici italiani si fecero talvolta, e si fanno, dei cattolici stranieri un vero mito; e tutti i problemi aperti fra cattolicesimo e civiltà moderna, che hanno sempre angustiato i cattolici più sensibili, si postulavano, e si postulano, con semplicistico entusiasmo, risolti da quei vivaci cattolici d’oltralpe. Occorre comunque riconoscere che in tal modo i cattolici colti parteciparono positivamente al moto, caratteristico dell’antifascismo, per ricondurre l’Italia, come già nel Risorgimento, nell’ambito della vita europea. In ciò essi furono favoriti dalla coscienza di appartenere a un corpus, anche culturale, che scavalca i confini dei singoli Stati. Questa coscienza, dal Risorgimento in poi, era entrata in conflitto con la rivoluzione nazionale come fatto progressivo: e i cattolici si erano sentiti ricacciati ai margini della vita, anche morale, del nuovo Stato. Si aggiunga che conMarazza, I cattolici e la Resistenza cit., e La Democrazia cristiana come forza politica della Resistenza, in “Civitas”, n. cit., pp. 15-29.
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tro la nazionalità dello Stato era sorta la internazionalità del socialismo: per i cattolici, da Scilla a Cariddi. Il federalismo europeo (quello dell’Europa carolingia) è apparso come un’occasione di rivincita per i cattolici che si sentivano finiti in quel vicolo cieco. Essi hanno creduto di avere finalmente la possibilità di presentarsi in veste moderna, all’avanguardia contro i nazionalismi e i socialismi degenerati nelle tirannidi totalitarie: e non casualmente uno dei rappresentanti più espliciti di tale tendenza, il Benvenuti,207 può presentare il federalismo europeo quale superamento (come già si diceva del corporativismo) del liberalismo e del socialismo, tesi cui altrimenti sarebbe difficile attribuire un significato. Così facendo, i cattolici hanno avvertito come la soddisfazione di ritrovare la loro strada e la loro tradizione, che finalmente si dimostravano le più positive e feconde: Cristianità o Europa. È chiaro allora come, sia nel Risorgimento che nella Resistenza, si voglia scoprire come essenziale il clima cattolico-europeo, rinvenendo in esso il vero legame fra i due eventi storici.208 I cattolici “revisionisti” sono stati soprattutto dei giovani influenzati da Gramsci e dall’ambiente della Resistenza e della immediata postresistenza. Il fascismo, reazione degli agrari e degli industriali, “affonda le sue radici nelle carenze del vecchio Stato borghese”, affermavano anni fa i giovani democristiani, e argomentavano ricordando che l’Italia fu fatta senza gli italiani, a opera di una minoranza “che nelle baionette piemontesi trovò la sua forza di realizzazione” e che “sistematicamente soffocava quegli ideali di libertà e di giustizia più schiettamente rivoluzionari”. Quei giovani, inoltre, non solo separavano nettamente la “mistificazione corporativa” fascista dal corporativismo cattolico (questa era una distinzione cui molto aveva mostrato di tenere, come è ovvio, De Gasperi), ma anche verso il secondo non rivelavano un entusiasmo troppo vivace.209 Il revisionismo cattolico, se da una parte ha sbandato fino alle equivoche, anche se non prive d’intelligenza, prese di posizione del Ciccardini,210 dall’altra ha espresso il sincero desiderio di riesaminare la storia d’Italia dal Risorgimento in poi alla luce delle nuove esperienze che avevano portato al Cfr. supra, nota 169. Cfr. ancora il citato saggio del Passerin. 209 Il fascismo in Italia, edito da “Per l’Azione”, rivista dei gruppi giovanili della Democrazia cristiana, a cura di A. Paci, L. Elia, V. Bachelet, F. Grassini, prefazione di F. M. Malfatti, Roma s.d. 210 B Ciccardini, Il fascismo come esame di coscienza delle generazioni, in “Terza generazione”, I, 1953, pp. 39-44. 207 208
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potere un gruppo dirigente cattolico la cui impreparazione culturale era avvertita dai più sensibili giovani di quella fede; ed è quanto si sono accinti a fare su un piano di sbrigliata e, spesso, sofisticata dialettica il De Rosa, con più profondo senso della storia il Fonzi, lo Scoppola e altri, della cui opera non vogliamo qui tentare il bilancio. Un punto, fra tanta frammentarietà di atteggiamenti cattolici, può essere individuato come raccordo ricco d’implicazioni non solo culturali, ma direttamente politiche: quello secondo cui la Resistenza rappresenterebbe l’inserzione nello Stato delle masse cattoliche che ne erano state escluse durante il Risorgimento. Si vuole in tal modo non solo offrire una interpretazione della Resistenza, ma trovare una base storica e culturale al potere esercitato, dopo la liberazione, dai cattolici. L’assimilazione dei cattolici alle forze popolari escluse dallo Stato risorgimentale costituisce, sul piano della logica storica, un evidente equivoco, oggi peraltro molto fortunato. Il De Rosa ne fa il suo cavallo di battaglia, quando discorre del Partito popolare come della Resistenza e della Democrazia cristiana, e vi innesta l’altra affermazione sui cattolici rivendicatori delle libertà dei cosiddetti “corpi intermedi” fra l’individuo e lo Stato, conculcate dalla “borghesia censitaria” e dall’“assetto proprietario”. Gli editori degli scritti di De Gasperi rivolgono al leader democristiano la lode di aver contribuito “a dare al nuovo Stato una base popolare che non ebbe lo Stato risorgimentale”;211 e altri scrittori cattolici identificano senz’altro il carattere popolare della Resistenza, che la contraddistingue dal Risorgimento, con la partecipazione dei cattolici.212 La conclusione politica aperta di tale atteggiamento si poteva leggere su “Il Popolo” del 26 aprile 1955 che, commentando le manifestazioni per il decimo anniversario della Resistenza, presentava quella come semplice prologo o premessa del secondo Risorgimento, il quale così veniva senz’altro a coincidere con la Democrazia cristiana al potere. Del resto, anche un liberale, Mario Ferrara, nella stessa occasione celebrativa, scriveva che il 18 aprile del 1948 il popolo italiano “riaffermò la sua fede nella ispirazione morale e negli ideali del Risorgimento”.213 De Gasperi, I cattolici cit., p. XIII. Vedi, ad esempio, F. Salvi, Valori morali della Resistenza, in “Civitas”, n. cit., pp. 9-14. Cfr. anche Rossini, Il fascismo e la Resistenza cit., p. 22 e passim. Un infortunio deve considerarsi quello del Ciasca che, negando con sdegno alla Resistenza la qualifica di primo moto armato popolare nella storia d’Italia, le dona come precedenti i lazzaroni del cardinale Ruffo, gli insorgenti, aretini del “Viva Maria”, e tutti i moti antigiacobini della fine del Settecento (Moti di popolo nella storia d’Italia, in “Civitas”, n. cit., pp. 92-102). 213 M. Ferrara, Il consolidamento della democrazia, in Il Secondo Risorgimento cit., p. 451. 211 212
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Abbiamo all’inizio di questo scritto ricordato la tesi del Volpe sul fascismo come immissione delle masse nello Stato: mutatis mutandis, molte delle obiezioni che abbiamo mosse al Volpe potremmo ora ripeterle a queste posizioni cattoliche. E potremmo anche mettere in rilievo che fra i due atteggiamenti non esiste solo un’affinità ideologica, ma anche una continuità in re, se è vero che la “pace” fra Italia e Chiesa (cioè, la “immissione dei cattolici nello Stato”) ebbe una sua manifestazione essenziale proprio nella Conciliazione fascista, e che la Democrazia cristiana, assumendo il carattere di partito di massa, ha fruito, non da sola del resto, anche di certe eredità fasciste. La “dolorosa dilacerazione” fra cattolici e Stato risorgimentale che sarebbe stata sanata dalla Resistenza, non può essere considerata un fatto occasionale, un sovrapprezzo che sarebbe stato augurabile risparmiare. Il Risorgimento conteneva intrinsecamente, in quanto volto a fare dell’Italia un paese di civiltà moderna, una carica anticattolica che nessun apologeta del cattolicesimo liberale potrà mai, contro l’autorità di Pio IX, nascondere. Altro è casomai il discorso da fare, e cioè che la classe dirigente liberale non fu capace di foggiare una società e uno Stato così civili da non far più sentire come dilacerazione la tendenziale, corretta, riduzione delle cose di religione nell’ambito del comune diritto di libertà. Pertanto, se la partecipazione dei cattolici, o almeno di parte di essi, alla Resistenza è fenomeno di grande interesse e di significato sicuramente positivo, occorre tenere ben distinta la deduzione politico-ideologica che si pretende trarne.214 In realtà, la formula della inserzione delle masse cattoliche nello Stato da un lato esprime la prevalenza finale avuta, nella Resistenza, dalla continuità dello Stato, dall’altro sta a indicare le sempre maggiori pretese che di fronte a esso Stato hanno accampato i cattolici, fino a rovesciare l’iniziale significato della formula, immettendo, se così può dirsi, lo Stato nella Chiesa: tanto che oggi l’Italia soffre insieme della sussistenza dello Stato liberale borghese e del suo sovvertimento a opera dei cattolici. I cattolici, fino ancora al 1945-46, si sentivano ed erano sentiti come forza subalterna nella società e nello Stato, alla cui direzione, anche se non più da soli, avevano riproposto la candidatura gruppi e uomini prefascisti. Fu errore della sinistra italiana essere rimasta troppo a lungo ancorata a un Uno degli scrittori cattolici già ricordati, lo Scoppola, sembra rendersi conto del semplicismo della formula che pure, almeno in parte, accetta, quando scrive che se “il caso di coscienza del nostro Risorgimento” appare oggi sanato, non è ancora risolto il “problema centrale” di un giusto rapporto tra coscienza religiosa e azione politica (Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana cit., p. 176). 214
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quadro prefascista in cui il Partito popolare poteva essere considerato, entro limiti che oggi si tende però a dilatare, una forza di potenziale rinnovamento della società italiana. Le sinistre, e in particolare i comunisti, ricercando l’alleanza dei democristiani partivano evidentemente da un presupposto di tal fatta, pensando di potersi subordinare i cattolici sulla via di quelle riforme che, d’altronde, non avevano fiducia di poter condurre in porto da soli.215 Ma De Gasperi concepiva le riforme come provvedimenti amministrativi da attuare dall’alto, dopo aver restaurato l’autorità dello Stato, salvaguardato l’ordine pubblico e ricostruita l’economia su basi privatistiche: cioè, dopo aver ridato forza a tutto ciò che si sarebbe poi opposto alle riforme.216 Così la Democrazia cristiana, lungi dal costituire una forza almeno potenzialmente eversiva in senso progressivo, finì col funzionare, proprio per quel carattere di massa di cui la borghesia non può più fare a meno per i suoi partiti, da strumento principale della salvaguardia della continuità dello Stato tradizionale, borghese, censitario, proprietario, conservatore e, a suo modo, risorgimentale. Nel volume ufficiale sul Secondo Risorgimento lo riconosce anche il Bendiscioli, quando scrive che la Democrazia cristiana, col primo governo De Gasperi, “si assumeva il compito di avviare la restaurazione del vecchio Stato burocratico, facendo leva sulle correnti politicamente conservatrici dello spirito pubblico”; ma, crede di poter aggiungere il Bendiscioli quasi a contrappeso, “rimanendo fedele al proprio programma sociale avanzato, condiviso dalle sinistre”.217 Che poi la Democrazia cristiana, impadronitasi dello Stato così restaurato, abbia voluto fare un passo più in là, è altro discorso, cui sopra accennavamo, ma che non rientra, almeno direttamente, nell’oggetto di questo studio.
Cfr. P. Melograni, Comunisti e cattolici, in “Passato e Presente”, I, 1958, pp. 587-614. E vedi anche Valiani, Il problema politico cit., in AA.VV., Dieci anni dopo cit., pp. 72 sg. e passim. 216 Cfr. ancora ibid., e P. Togliatti, L’opera di De Gasperi. Rapporti fra Stato e Chiesa, Firenze 1958. 217 M. Bendiscioli, in Il Secondo Risorgimento cit., p. 359. Cfr. le conclusioni del saggio dello stesso autore citato supra, nota 13. 215
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9. La “delusione della Resistenza”. Esaurimento della polemica sul “revisionismo risorgimentale”
Ai nostri fini immediati, interessa porre in luce come il punto della continuità dello Stato, le cui implicazioni vanno al di là del discorso sulla Democrazia cristiana, può forse consentire anche a noi di prospettare uno di quei paragoni puntuali fra Risorgimento e Resistenza, cui all’inizio abbiamo dichiarato di volerci sottrarre. E cioè, che nel 1860 come nel 1945 ha prevalso nelle cose italiane, col favore della situazione internazionale, lo Stato come momento del già istituzionalmente compiuto. Fra i Cln e gli altri organismi nati durante la lotta come embrioni di nuove forme di potere e lo Stato ricostituitosi al Sud, è il secondo che ha finito, e abbastanza rapidamente, coll’avere la meglio, nonostante che nel 1946 si sia ottenuta la cacciata della monarchia e quella Costituente invano sognata nel 1860. Discende da questo, che è ovviamente solo un accostamento volto a stimolare la riflessione sulla vocazione italiana allo Stato già fatto come unico luogo, intrinsecamente trasformistico, della evoluzione sociale, discende forse da ciò che è da ritenere giustificata una “delusione della Resistenza” che faccia il paio con la “delusione del Risorgimento” patita dai democratici italiani dopo il 1860? La critica storica ha ormai sufficientemente messo in luce, al di là dei termini in cui il problema era posto dalla pubblicistica dell’epoca, quale fosse la realtà sottintesa da quella delusione; e vincitori e vinti della battaglia per l’egemonia risorgimentale sono sempre più riconosciuti nelle loro caratteristiche storicamente concrete, nel quadro di un evento globalmente progressivo. Per la Resistenza un analogo processo critico non è forse neppure iniziato. Ma non per questo dobbiamo astenerci dal respingere sia il volgare ottimismo ufficiale e governativo, sia il moralismo sterile, anche se nobile, dei nuovi delusi. Le forze politiche che hanno raggiunto il potere sogliono nutrire scarsa simpatia per coloro che, nel processo che le ha condotte a tanto, non rinun79
ciano a individuare voci ed esigenze reali, realmente sacrificate e non soltanto verbalmente “mediate” o “conciliate” dalla parte vincitrice; e ciò avviene con tanto maggiore impegno, quanto più una rivincita è considerata nell’ordine del possibile. Nella classe dirigente postliberazione, come in quella postunitaria, la polemica contro i delusi ha appunto questo significato pragmatico: negare che vi siano problemi lasciati aperti dal periodo critico e rivoluzionario, e imbalsamare questo come eroica, oleografica e, al limite, apolitica parentesi, da considerarsi definitivamente chiusa con l’avvento della normalità e col passaggio dalla poesia alla prosa. Da parte loro, i delusi del Partito d’Azione (mai, forse, come in questo caso l’identità del nome rinvia a una reale affinità fra il partito del Risorgimento e quello della Resistenza) hanno il torto di non vedere tutta la originalità, gravida di progresso, delle situazioni scaturite pur dalla rivoluzione incompiuta: e finiscono o col far pesare nel giudizio la continuità giuridica più che la novità dei fatti,218 o, come ad esempio fa il Bauer, col rifugiarsi in un ideale di libertà proprio dell’eroismo di pochi, mentre “pei più non v’è che l’entusiasmo facile di fronte alla conclusione fatale, ormai evidente”.219 I comunisti oscillano, nella loro valutazione dei risultati della Resistenza, fra il pessimismo implicito nella denuncia di una Italia preda dei gruppi più retrivi del capitale monopolistico e del clericofascismo,220 e l’ottimismo basato sulla convinzione della forza acquistata dal loro partito, che costituirebbe la irreversibile garanzia di una situazione ricca di potenzialità progressive, caratterizzata dai nuovi rapporti di forza già espressi dalla Costituzione. Pietro Secchia ha espresso abbastanza chiaramente questo duplice atteggiamento in un discorso pronunciato a Napoli nel 1954,221 dove riconosce che sino a oggi “gli ideali, gli obiettivi, il programma della Resistenza non sono stati realizzati”, e che perciò è legittima una certa analogia coll’esito del Risorgimento (e cita il giudizio di Antonio Labriola su di quello come “rivoluzione democratica non compiuta che lasciò il paese nella Questa ci sembra sia l’osservazione principale da fare al Valiani per il suo saggio, più volte citato, in Dieci anni dopo. Rivelatori, nel Valiani, gli accostamenti comunisti-garibaldini (sotto l’insegna del coraggio unito al possibilismo) e azionisti-mazziniani (sotto quella dell’intransigenza). 219 R. Bauer, Non poteva essere altrimenti, vero manifesto della Resistenza tradita (Id., Alla ricerca della libertà, Firenze 1957, pp. 411-20). 220 Anche nelle note redazionali di Trent’anni di vita e di lotte del Partito comunista italiano cit., attribuite a Togliatti, si parla, a p. 209, di “restaurazione reazionaria”. 221 P. Secchia, Il significato e il valore delle quattro giornate, in “Cronache meridionali”, I, 1954, pp. 669-76. Cfr. anche la conferenza alla Fondazione Gramsci citata supra, nota 11. 218
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corruttela e nel pericolo permanente”); ma conclude che oggi le forze popolari e democratiche sono tali che indietro non è possibile tornare. Togliatti, recensendo la Storia della Resistenza del Battaglia,222 tornava, dopo ventidue anni, a porsi la domanda della legittimità della formula “nuovo” o “secondo Risorgimento”. La molta strada percorsa dal Partito comunista italiano trova in quello scritto un riscontro quasi pari a quello che lo stesso Togliatti ha fornito col suo Discorso su Giolitti. Nel 1953 Togliatti si colloca con un certo distacco di fronte all’argomento, ironizzando sui molti ricami e sulle cose belle e lodevoli che intorno a esso si dicono, e ponendosi alcune corrette domande metodologiche sul nesso tra novità e continuità nella storia. Il fatto è che Togliatti non teme più, come nel 1931, che il “secondo Risorgimento” possa servire da bandiera a un gruppo antifascista concorrente: egli parla ormai dal punto di vista di quella nuova classe dirigente di cui la Resistenza, scrive, ha segnato il primo apparire e affermarsi. E che Togliatti si serva della espressione di “nuova classe dirigente” piuttosto che di quella di classe operaia, indica la persistente convinzione che quest’ultima, e per essa il Partito comunista, stia al centro, come guida, di un più vasto raggruppamento di forze sociali e politiche.223 Torniamo così al punto della valutazione globale dei risultati della Resistenza, perché una classe dirigente che non riesce a dirigere non è un fenomeno che possa essere preso alla leggera. Ma il nostro scritto deve, a questo punto, fermarsi, perché la parabola dell’uso immediato del Risorgimento nella polemica politico-culturale antifascista può considerarsi ormai compiuta; e le parole di Ginzburg, che abbiamo citato all’inizio, sembrano più che mai destinate a conservare valore come semplice richiamo a una scelta pregiudiziale fra libertà e reazione. “Gli è che il mondo del Risorgimento – e chi è stato educato nel suo culto non può scriverlo senza angoscia – si è andato decomponendo nei suoi elementi costitutivi e ciascun elemento se ne va tutto solo a cercarsi le sue origini storiche”: così uno dei migliori storici liberali italiani esprimeva pochi anni fa il sen-
In “Rinascita”, X, 1953, pp. 678-80. Soltanto come esempio di testardaggine ricordiamo “Il Dibattito politico” che, intervenendo nelle discussioni suscitate dal decimo anniversario della Liberazione, scrive che la Resistenza ha per novità irreversibile l’aver portato alla ribalta “due vigorose forze antiborghesi: la cattolica e la comunista”, il cui dialogo e incontro caratterizza anche gli anni susseguenti. (La Resistenza vince ancora, e Storiografia dei delusi, nei numeri del 23 aprile e del 6 giugno 1955). 222 223
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so, già da noi richiamato, della caduta dell’ambizione del Risorgimento a costituire il centro della coscienza di una classe dirigente.224 Di fatto, il Risorgimento si allontana sempre più come mito capace di suscitare passioni politiche di vasta risonanza; e, quale che sia il futuro riservato all’Italia, è difficile immaginare che una ripresa di vita democratica possa, dopo il primo e il secondo, inalberare la bandiera di un terzo Risorgimento. I francesi, tutti i francesi, che dopo il 13 maggio 1958 intonavano la Marsigliese ci rendono d’altronde accorti sulla ambigua polivalenza in cui può scadere nella lotta politica l’uso di certi appelli a eventi sempre più remoti. Agli studi sul Risorgimento il dibattito svoltosi in seno all’antifascismo ha fornito un alimento ormai messo sufficientemente a frutto, tanto che, fermo rimanendo che a ogni solida concezione politica non può non corrispondere una organica visione storiografica, possono considerarsi in via di superamento i vecchi termini della polemica fra revisionismo e antirevisionismo. Lo notava tempo fa, da parte marxista, il Cafagna;225 lo conferma oggi il più spregiudicato storico liberale, il Romeo,226 che, passando oltre l’impuntatura spiritualistica sul Risorgimento incontaminatamente eticopolitico, considera ormai indispensabile far largo all’esame dei modi e dei risultati dell’accumulazione capitalistica in Italia, e sia pure per ribadire il giudizio positivo sulla Destra.
W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, vol. I, Napoli 1950, p. 247. 225 L. Cafagna, Intorno al “Revisionismo risorgimentale”, in “Società”, XII, 1956, pp. 1015-35. 226 R. Romeo, Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887, in “Nord e Sud”, V, 1958, n. 44, pp. 7-60; n. 45, pp. 23-57. 224
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Indice
3 Nota introduttiva 5 Il “Secondo Risorgimento” 8 Risorgimento e fascismo 20 La “difesa del Risorgimento” 26 Il Risorgimento da completare 37 I socialisti. I comunisti fra Gramsci e il “cosiddetto Risorgimento” 55 Il Risorgimento e i giovani del ventennio 60 Secondo Risorgimento e unità della Resistenza 70 I cattolici 79 La “delusione della Resistenza”. Esaurimento della polemica sul “revisionismo risorgimentale”
Finito di stampare nel mese di ottobre 2010
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20/10/2010
9.24
Pagina 1
Dal Risorgimento alla Resistenza Claudio Pavone
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I LIBRI DE LO STRANIERO
9 788863 570571
I QUADERNI
I QUADERNI
L’Unità d’Italia ha appena un secolo e mezzo di storia. Si è trattato di una storia tormentata e difficile, e le idee dei profeti del Risorgimento – un lungo processo non privo di contraddizioni – sono state utilizzate da destra e da sinistra, dai fascisti così come dagli antifascisti in modi opposti. E, nella storia della Resistenza, se ne sono serviti in modi diversi il Partito comunista rispetto a Giustizia e Libertà e agli stessi cattolici, con maggiore o minore sincerità, e a volte in modi decisamente strumentali. Questo saggio magistrale del 1959 aiuta a far chiarezza, e ha avuto grande influenza su tutta la storiografia successiva. Ripubblichiamo fuori commercio questo saggio magistrale prendendolo da Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri 1995), anche come omaggio degli “Asini” a Claudio Pavone, autore del fondamentale Una guerra civile, che festeggia quest’anno i suoi novant’anni.