Commento allo Zarathustra
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Bruno Mondadori

Sossio Giametta Commento allo "Zarathustra''

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© Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori Milano, 1996

È vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno o didattico, con qualsiasi mezw, non autorizzata. [editore potrà concedere a pagamento lautorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente documento.

Le richieste di riproduzione vanno inoltrate alla Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere a Stampa (AIDROS), via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel./fax 02/809506. Studio Massa & Marci progetto grafico della copenina Franco Malaguti progetto grafico dell'interno

La scheda bibliografica è riportata nell'ultima pagina del libro.

Indice

Prefuzione Proemio di Zarathustra

IX

1

Parte prima. Discorsi di Zarathustra Delle tre metamorfosi Delle cattedre della virtù Di coloro che abitano un mondo dietro il mondo e Dei disprezzatori del corpo Delle passioni gaudiose e dolorose . Del delinquente pallido Del leggere e scrivere Dell'albero sul monte Dei predicatori di morte Della guerra e dei guerrieri Del nuovo idolo Delle mosche del mercato Della castità Dell'amico Dei mille e uno scopi Dell'amore del prossimo Del cammino del creatore Delle donnine vecchie e giovani Del morso della vipera Dei figli e del matrimonio Della libera morte Della virtù che dona

17 19 21 24 26 29 30 31 32 37 38 40 42 46 48 49 51 52 53 54 56

Parte seconda Il fanciullo con lo specchio Sulle isole beate Dei compassionevoli Dei preti Dei virtuosi Della plebaglia Delle tarantole Dei sapienti famosi Il canto della notte

65 69 75 80 84 90 93 96 99

Il canto della danza Il canto dei sepolcri Del superamento di sé Dei sublimi Del paese della cultura Della conoscenza immacolata Dei dotti Dei poeti Dei grandi eventi I.'.indovino Della redenzione Dell'accortezza con gli uomini l'.ora più silenziosa

1 07 1 09 1 12 1 16 1 18 121 1 24 1 28 1 32 1 35 1 38 143 147

Parte terza Il viandante Della visione e dell'enigma Della beatitudine contro voglia Prima del levar del sole Della virtù che rimpicciolisce Sul monte degli olivi Del passare oltre Degli apostati Il ritorno Delle tre cose cattive Dello spirito di gravità Delle tavole vecchie e nuove Il convalescente Del grande anelito l'.altra canwne da ballo I sette sigilli (ovvero La canwne del «Sì e amen»)

Parte

151 1 53 1 59 1 64 171 1 79 1 84 1 88 1 93 1 98 202 209 234 244 249 25 1

quarta Il sacrificio del miele Il grido di aiuto Colloquio con i re La sanguisuga Il mago

255 258 260 26 1 263

A riposo

l'.uomo più brutto Il mendicante volontario l'.ombra Al meriggio Il saluto La cena Dell'uomo superiore Il canto della malinconia Della scienza Tra le figlie del deserto Il risveglio La festa dell'asino Il canto del nottambulo Il segno

265 267 268 270 273 276 277 278 285 288 290 292 294 297 305

Conclusione

307

Bibliografia

33 1

Indice dei nomi

335

Premessa

Il presente Commento è autonomo e indipendente, ma costituisce ideal­ mente /,a parte specifica di un saggio unico sullo Zarathustra di cui Niet­ zsche il poeta, il moralista, il filosofo, pubblicato nel 1991, rappresenta /,a parte generale. Questo saggio sul/,o Zarathustra è poi un saggi-o su tutto Nietzsche perché, come ho già avuto occasione di dire, /,o Zarathustra è l'opera centrale che illumina quelle precedenti e quelle successive come il sole i suoi pianeti. Esso nacque dall'incontro ravvicinato che ebbi con Nietzsche quando tradussi per Rizzo/i Così parlò Zarathustra. Realizzai al/,ora un vecchio sogno. Fin da quando '4voravo per Giorgio Colli tra Firenze e Wéimar, nel/,a prima metà degli anni sessanta, avevo concepito il desiderio di tradurre quest'opera, rapito dal/,a bellezza del/,a sua lingua. Ma più che desiderio era, come ho detto, sogno, perché /,a traduzione del/,o Zarathustra per Adelphi era affidata da Colli, in segno di speciale riguardo, all'amico e col/,aboratore Mazzino Montinari. Questi, a sua volta, aveva accettato di fare questa traduzione non proprio per passione, dato che non apprezzava affetto lo Zarathustra (/,o si vede in partico'4re nel suo Che cosa ha "veramente" detto Nietzsche), ma perché non si fidava di altri traduttori, me compreso. Inseguendo il sogno im­ possibile del/,a traduzione bel/,a e fedele e amando per di più /,o stile so­ stenuto, io gli apparivo, non senza qualche ragione, legnoso (mentre Colli, che fin dal principio mi aveva affidato i testi a lui più cari, diceva che. . . traducevo come lui). In realtà Colli avrebbe dovuto e certamente potuto far lui /,a traduzione. A differenza dell'amico, infatti, ammirava e amava lo Zarathustra, che per lui trapassa addirittura il "mondo dell'espressione': cioè il ve/,o di Maya del fenomeno. Ma preferì tenere per sé /,a traduzione degli scritti fi/,o/,ogici, a cui portava un'affezione partico'4re. L'opera è un segno, certo non semplice, certo non uno qualunque, dietro o dentro il quale cè l'autore. Ma questo segno 'Jùnziona" veramente so/,o quando diventa un ponte che riunisce, che mette in comunicazione e mesco/,a /,a vita del fruitore con quel/,a dell'autore. Mentre mi addentravo nel testo di Nietzsche e ne seguivo capil/,armente pieghe e volute, da un '4to estasiandomi ma dall'altro arrovel/,andomi per trovare i modi migliori per rendere non soltanto sostantivi, verbi, avverbi e aggettivi, ma anche tono, ritmo, stile e perfino i giochi di parole (con "danza di dei e baldanza di dei" al posto di "Gotter-Tanz und Gotter-Mutwillen ': una volta ho sopravanzato l'originale), mi balzò incontro, per /,a prima volta veramente,

X

Commento allo ''Zarathustra"

l'uomo Nietzsche. L'uomo Nietzsche, proteso al compimento dell'opera della sua vita e alla suprema realizzazione di sé, mi si mostrò allora con la sua forza e le sue debolezze, le sue esperienze e i suoi sogni e ideali, la sua grandezza e le sue cadute, le sue gioie e i suoi dolori, le sue certezze e i suoi dubbi e tormenti. Solo allora ne abbracciai la straordinaria, stratificata e tormentata per­ sonalità, e solo allora ne strinsi in unità idee e sentimenti, dottrina, slanci e fantasie: perché coi miei sentimenti capii i suoi. Lo Zarathustra è infatti, come è detto nel Commento, il vero Ecce homo di Nietzsche, non sban­ dierato al pubblico ma confessato sommessamente a se stesso, in timore e tremore. Questo breviario della grandezza è, per l'uomo serio e pensoso, un compagno e un consolatore inegu,agliabile. Si è detto di Schopenhauer che, pur tra bizze e durezze del suo carattere, rimane un grande conso­ latore. Il suo principale discepolo non gli è però da meno, anzi veramente lo supera, per la sua quasi illimitata sensibilità e umanità, per il suo grande afflato poetico e in particolare per quello che chiamo il suo "potere di confessione''. Importante dunque affratellarsi con l'autore e scendere nelle viscere del vulcano, per capire la natura e la forza delle sue eruzioni. Ma questa discesa si può fare nel modo migliore commentando lo Zarathustra non in blocco, per argomenti, come fanno tutti, a parte qualcuno all'inizio (G. Naumann e H Weichelt), bensì lasciandosi gu,idare dal testo, segu,en­ dolo capitolo per capitolo e versetto per versetto. Giacché è la forma che, essendo anche la sostanza, rivela qui veramente quest'ultima. E la forma va perduta nel commento in blocco. Solo un esame di questo tipo permette, inoltre, di sceverare il bene dal male, filosofico ed estetico, dello Zarathu­ stra, ove sono, certo, entrambi presenti, mentre senza di esso tendono a prevaricare l'uno sull'altro nell'opinione di lettori e studiosi, come l'espe­ rienza insegna. Ma ciò dice anche che lo scopo del presente Commento non è meramente esplicativo, banalmente filologico, com'era, mi permetto di dire, nei due commentatori tedeschi summenzionati, bensì, in primo luogo almeno, filosofico ed estetico. Sicché il Commento si può dire la continuazione e l'applicazione dell'interpretazione generale, ma tenendo presente che questa, come abbiamo spiegato, ha avuto origine, per così dire, dal Commento stesso.

Premessa

XI

Non era questa la sede per analizzare in dettaglio quella che è da dire la vera e propria tkttrina nietzschiana: la teoria della trasvalutazione e della volontà di potenza, il naturalismo selvaggio sviluppato in alternanza e a rimedio del nichilismo soprattutto nelle opere post-zarathustriane. Basti qui dire che essa non è una concezione filosofica origi,nale, tktata di forza autonoma, ma ciò che resta quantkJ si è abbattuto il principio stesso del sistema, cioè della filosofia. La sua origi,ne rimane dunque marchiata di passività, per quanta profondità, sottigliezza e quasi diabolica potenza vi sia poi profasa. Solo che a guardar bene si vede che non si tratta veramente della concezione di un filosofo, bemì della visione tutta lievitata di un poeta, di un pematore-poeta che anche nel regrzo dei concetti ha saputo scavare le grandi ricchezze della natura, come è appunto costume dei poeti.

Avvertenza Le opere di Nietzsche vengono citate, quando non è indicato diversamente, dalle Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, compreso l' Episto/,ario, Adelphi, Milano 1 964 ss, salvo Così parlò Zarathustra, citato sempre dall'e­ dizione Rizwli, Milano 1 988, e Al, di là del bene e del male, citato sempre dall'edizione Rizwli, Milano 1 992. Quando però di queste due opere si cita non il testo ma sue varianti o l'apparato critico e il commento che accom­ pagnano il testo, allora il riferimento è di nuovo all'edizione Adelphi. Le scansioni del testo riprendono i titoli dei paragrafi dell'opera nietzschiana.

Proemio di Zarathustra

1

Al compimento del trentesimo anno, Zarathustra lasciò la sua patria e il lago della sua patria e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine e per dieci anni non se ne stancò. Ma alla fine il suo cuore si trasformò - e una mattina, alzatosi con l'aurora, si fece al cospetto del sole e cosi gli parlò: «0 grande astro, che cosa sarebbe la tua felicità se tu non avessi coloro a cui risplendi? Per dieci anni sei venuto quassù alla mia caverna: della tua luce e di questo cammino ti saresti saziato senza di me, della mia aquila e del mio serpente. Ma noi ti abbiamo aspettato ogni mattina, ti abbiamo preso il tuo superfluo e ti abbiamo per ciò benedetto. Vedi: io sono tediato della mia saggezza, come l'ape che ha accumulato troppo miele, ho bisogno di mani che si protendano. Vorrei donare e distribuire, finché i savi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza. Per questo devo scendere in basso: come fai tu la sera, quando vai dietro il mare e porti ancora luce al mondo infero, tu astro straricco! Devo, al pari di te, tramontare, come dicono gli uomini tra i quali voglio discendere. E allora benedicimi, occhio placido, che senza invidia puoi contemplare anche una troppo grande felicità! Benedici il calice che vuol traboccare, affinché dorata ne fluisca l'acqua, recando ovunque il riflesso della tua giocondità! Vedi: questo calice vuol ridiventare vuoto, e Zarathustra vuol ridiventare uomo». Cosi cominciò il tramonto di Zarathustra.

Questo primo capitoletto, dei dieci che compongono il Proemio di Zarathustra, introduce il principale tema lirico di Così parlò Zarathu­ stra, intorno al quale si raggruppano tutti gli altri: il tema del calice troppo pieno, che si vuole nuovamente svuotare, il tema dell'uomo che ha troppo da dare e non trova a chi dare, ed è oppresso dalla sua ricchezza e condannato alla solitudine. Riferendosi a questo inizio, Nietzsche parla della «bellezza adaman­ tina delle prime parole dello Zarathustra». In che cosa consiste questa bellezza adamantina? Ebbene, essa consiste proprio in questo asseve­ rarsi e trionfare del suddetto motivo lirico sulla massa degli altri motivi. Si tratta in sostanza di chiarezza ed essenzialità, ma di una chiarezza

2 Commento allo "Zarathustra"

ed essenzialità che, qui come altrove, acquistano non solo la traspa­ renza del vetro ma anche la lucentezza e tagliente durezza del diaman­ te. La lingua riprende qui il suo originario vigore espressivo, per cui nulla è all a fine più miracoloso, nel suo falso aspetto di semplicità, di un'espressione chiara e netta come questa, la quale contrasta, con la sua quasi tangibile concretezza, con l'immensità di cose che stringe e unifica in sé. D'altra parte, il fatto che questo inizio fosse già stato anche una fine, ossia l'ultimo aforisma del N libro della Gaia scienza, 1 parla chiaro. È un segno cioè che era stato concepito come un tutto unico, nonostante terminasse con un'apertura e non con una chiusura. La forma, infatti, è chiusa e come tale si regge da sola, ma il contenuto è aperto al punto che tutto il resto dell'opera può considerarsi un dispiegamento o una spiegazione di esso, e questo avrebbe forse fer­ mato un artista meno sicuro di sé di Nietzsche. Perché è chiaro che Nietzsche deve aver sentito, da un lato, l'autosufficienza formale di questa prima cellula dell'organismo che è poi diventato lo Zarathustra, e dall'altro che essa aveva un avvenire e uno sviluppo. Nel sorgere e compiersi dell'opera d'arte, sussiste evidentemente una continuità di cui l'artista è consapevole, sebbene agli altri le varie parti e i vari tempi dell'opera, nonché i correlativi atteggiamenti dell'autore, appaiano distanziati e separati, come se la natura facesse salti. Dal punto di vista dell'economia dell'opera, il motivo etico della rivendicazione della terrestrità, più il suddetto motivo lirico, che di quella rivendicazione è conseguenza, perché conseguenza della lotta con se stesso e con il mondo per la conquista e l'affermazione di tale principio, basterebbero da soli a sostenere l'opera. Ciò dimostra che lo Zarathustra sta o sarebbe stato già benissimo in piedi in base a questa diade di motivi o sdoppiamento lirico e morale di un motivo unico, anche senza il motivo filosofico dell'eterno ritorno. Per quanto Nietzsche abbia creduto nell'importanza suprema e dominante del1' eterno ritorno, questo è in realtà un fastigio, una gloriette sovrapposta a una visione, scoperchiata, senza tetto. Le prime righe, il "cappello" narrativo dell'allocuzione al sole, a cui fa riscontro la breve chiusa, è di massima concisione. Ma è interessante notare che in tanta brevità non sia omesso il See, il lago della Heimat o terra natale, che Zarathustra lascia, andando sui monti, insieme con essa. Nietzsche aveva menzionato già, in Umano, troppo umano, II, il 1

Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, pp. 202-203.

Proemio 3

lago o piuttosto lo stagno ( Teich) del suo paesello (Rocken bei Lutzen), a cui evidentemente la sua memoria rimaneva attaccata. E ciò appunto vuol dire qui il ricordo di esso: che Zarathustra era attaccato ai luoghi che lasciava andando sui monti ma che ciò nonostante li lasciò per andare sui monti - allo stesso modo in cui, alla fine della seconda parte, lascerà gl� amici a cui era attaccato, di notte, per tornare alla sua solitudine. E, se non un annuncio, un suggerimento del grande tema della solitudine, che pervad� tutta l'opera e riceve trattazione specifica in vari capitoli di essa. E una spia su di esso, come tema lirico. Della solitudine, senza la risonanza emozionale che avrà in se­ guito, si parla in effetti subito dopo apertamente, e nella maniera più sobria. Giacché è chiaro che la solitudine non è solo dolore ma anche, e secondo Nietzsche soprattutto, libertà (la Berges-Freiheit, la libertà dei monti di Il ritorno in Zarathustra, III), beatitudine, libera espan­ sione spirituale. Quindi godimento del proprio spirito. Zarathustra «godette del suo spirito e della sua solitudine e per dieci anni non se ne stancò», è detto subito dopo. "Liquidato'', così, il passato, si passa di colpo, drammaticamente, al presente: «0 grande astro» ecc. Con questo e gli altri versetti, fino a «ti abbiamo per ciò benedetto», la zavorra è gettata, l'aerostato lirico si è librato e vola già ben alto. Per verificarlo, si paragoni per contrasto questo atteggiamento di Za­ rathustra con quello dell'autore dell'aforisma 37 di Aurora, 2 sulle illa­ zioni errate dell'antropomorfismo. Si tratta, come ben si vede, di due atteggiamenti diametralmente opposti: l'uno, quello dell'autore del suddetto aforisma, determinato dalla ragione scettica, l'altro, quello di Zarathustra, determinato da un affiato lirico. Questo immette nel sole, nella natura gli stessi sentimenti dell'uomo, la sua stessa capacità di soffrire per la solitudine nell'universo vuoto, al punto da avviare con il sole un ragionamento che assomiglia a un patteggiamento, finché non si vede che è una preghiera con un forte argomento di appoggio. Pur umanizzato, infatti, il sole non perde la sua maestà. Rivolgendosi a esso come a un «Occhio placido, che senza invidia [può] contemplare anche una troppo grande felicità», Zarathustra abbandona il paragone della propria situazione con quella del sole e passa a chiedere sempli­ cemente comprensione per sé: «Vedi: io sono tediato della mia sag­ gezza, come l'ape che ha accumulato troppo miele, ho bisogno di mani che si protendano». È questa la prima delle molte belle similitudini o metafore dello 2Cfr. F.

Nietzsche, Aurora,

pp.

32-33 .

4 Commento allo "Zarathustra"

Zarathustra tratte dal regno animale o vegetale. Perché è bella questa? Perché l'ape è un esserino sedulo e gentile, che sugge i fiori e suggerisce qualità di umiltà e laboriosità anche nell'uomo che viene a essa para­ gonato; perché produce ciò che di più dolce e buono è al mondo tra le cose pure e naturali e perché lo produce senza spocchia e presun­ zione, non per calcolo o interesse e neanche per generosità e bontà, ma semplicemente perché è fatta così e il produrre miele fa parte della sua piccola vita, proprio come il filosofo produce il prezioso e delizioso miele della conoscenza e della saggezza. Con un paio di sostantivi e un verbo, il paragone ha naturalezza e grazia dantesche, che ne fanno la prima di molte perle del genere sparse nello Zarathustra. Bella e originale anche, nel versetto seguente, la libertà - già tipica della grande apertura sulla totalità dialettica della vita e della natura di Zarathustra - con cui è concepita la ricchezza dei ricchi e quella dei poveri. Si può capire che Nietzsche non sia arrivato subito alla presente formulazione e abbia avuto bisogno di passaggi intermedi attraverso idee meno originali, prima di trovare (per contrasto) lo scat­ to dell'attuale versione. Lo attestano le basi filologiche. Il frammento N V 7, 125 ha infatti: «e voglio far sì che i saggi tornino a rallegrarsi della loro saggezza e i poveri della loro povertà».3 Altrettanto bello e originale, nella sua semplicità, lo spunto del sole che tramonta dietro il mare e po.rta ancora luce al mondo infero, all' Unterwelt, esso astro straricco!. E un lampo che brilla, ma per un attimo illumina tutta una vasta e misteriosa visione del passato: un eone trascorso torna alla vita e alla luce. È questa una delle immagini forti di Nietzsche, di cui sono costellate le sue prose e in particolare la prosa poetica di Così parlò Zarathustra. Esse lasciano stupefatti, come afferma LOwith, per la loro «perfetta bellezza». Non sembri esagerato! Con il «Vai dietro il mare» e «porti ancora luce al mondo infero, tu astro straricco!» si contrappone il mondo umano o piuttosto umanizzato, che è il mondo della poesia, a quello freddo ed estraneo della ragione. L Unter­ welt è un'immagine che si trae dietro tutto il pathos della concezione mitica della natura che fu degli uomini antichi. Immagini così grandiose e potenti, di cui questa è la prima, non si trovano né in Holderlin, grandioso per definizione, né in Heine, per quanto dolce e lirico, che si contendono, nella poesia tedesca, il secondo posto dopo Goethe. Ma questa immagine non resta ferma, non è concepita a sé. Il paragone continua, si sviluppa sempre più, finché si arriva ali' acme 3 F. Nietzsche,

Così par/,ò Zarathustra,

p.

4 14.

Proemio 5

che chiude il capitoletto. Con una parola, Untergang, che, come già untergehen prima, non si può rendere in italiano con la molteplicità dei suoi significati. Perché significa sì "tramonto", come la si è tradotta e come traducono tutti, essendo questo il suo significato primo o più appariscente; ma significa anche discesa. Significa inoltre catastrofe. In questo senso di rovina è usata alla fine del capitoletto 9: A/so sei mein Gang ihr Untergang!, che solo per una preoccupazione stilistica abbia­ mo tradotto con: «E così segni il mio passo il loro trapasso!». La parola ritorna ancora alla fine del capitoletto 10, ultimo del Proemio, con un senso di rafforzamento e chiusura del già detto: «Così cominciò il tramonto di Zarathustra». Nel primo capitoletto questa chiusa, dopo l'ultimo versetto: «Vedi: questo calice vuol ridiventare vuoto, e Zarathustra vuol ridiventare uomo», ha un che di unheimlich, di inquietante: perché sembra sug­ gerire che la natura punisce con il disastro il desiderio così naturale e umano di Zarathustra di ritornare a essere uomo, un normale essere umano (Mensch, non Mann) . La catastrofe che l' Untergang significa è infatti anche proprio quella dell'eroe nella tragedia greca, il "capovol­ gimento" che, secondo Aristotele, ne segna lo scioglimento luttuoso. Notiamo ancora il mistero poetico della subitanea "trasformazione" del cuore di Zarathustra dopo dieci anni di godimento della solitudine e la risonanza di solitudine che emana dalla limitazione a tre esseri viventi, un uomo e due animali, del "pubblico" del sole da parte di Zarathustra. Bella come un'utopia è infine la visione del saggio che riversa l'acqua accumulata della sapienza agli assetati, descritta nel versetto «Benedici il calice... giocondità!», visione amaramente contrastante con la situazione reale. Un inizio dunque perfetto, questo dello Zarathustra, che fa pensare si possa magari dire anche delle prose, delle grandi prose, ciò che già si dice delle poesie: che il primo verso (qui l'attacco), te lo dà Dio, ma il resto deve farlo l'uomo. Un'altra considerazione che non si può non fare è che il problema di Nietzsche-Zarathustra - svuotarsi della troppa saggezza accumulata, dare e distribuire agli uomini il troppo miele accumulato - trovò infine la più "felice" delle soluzioni. Scri­ vendo lo Zarathustra, Nietzsche ha fatto davvero all'umanità, come afferma, «il più grande dono». Neppure una goccia del miele-saggezza è andata perduta. Ciò non ha impedito che la tragedia cominciata con l'inizio dello Zarathustra (Incipit traga?dia è il titolo che tale inizio ha come aforisma nella Gaia scienza) si consumasse nella vita fino all'ultima catastrofe. Questo dimostra, da un lato, che nella vita c'è o ci può essere una compensazione del sacrificio, una fecondità di esso

6 Commento allo "Zarathustra"

che funziona come la nemesi, essendone il contrario, e, dall'altro, che il vero artista, lo scrittore autentico non arriva allo scrivere diretta­ mente, perché voglia fin dal principio direttamente quello, bensì in­ direttamente, come ripiego e compensazione di qualcosa che avrebbe voluto avere o realizzare nella vita. 2

All'alta eloquenza succede un profondo silenzio: Zarathustra scende dalla montagna senza incontrare nessuno. Ma infine si trova faccia a faccia con un vegliardo. Questo vegliardo, che si è allontanato dalla sua capanna per cercare radici nel bosco, si ricorda di aver visto passare Zarathustra quando, dieci anni prima, era andato sui monti. Ma lo trova cambiato. «Allora portavi la tua cenere sul monte», lo apostrofa, «Vuoi oggi portare il tuo fuoco nelle valli? Non paventi il castigo riservato agli incendiari?». Poi, come rinfrancandosi: «SÌ», dice, «rico­ nosco Zarathustra. Puro è il suo occhio, e il disgusto non si annida nella sua bocca. Non incede egli simile a un danzatore? Zarathustra è trasformato, Zarathustra è diventato un fanciullo, Zarathustra è un risvegliato: che cosa cerchi mai presso i dormienti? Vivesti nella tua solitudine come nel mare, e il mare ti portò. Ahi, vuoi ora scendere a terra? Ahi, vuoi tornare a trascinare da te il tuo corpo?». Zarathustra risponde: «Io amo gli uomini». «E perché mai», gli fa il vegliardo, «io mi sarei ritirato nella solitudine delle foreste? Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Ora amo Dio: gli uomini non li amo. Luomo è per me una cosa troppo imperfetta. Lamore per gli uomini mi ucciderebbe.» Zarathustra risponde: «Perché mai ho parlato d'amore! lo porto agli uomini un dono». «Non dar loro nulla», dice il santone. «Piuttosto prendi tu qualcosa da loro e portalo con loro questo a loro farà bene più di tutto: sempreché faccia bene anche a te! E se proprio vuoi dar loro qualcosa, non dar loro più di un' ele­ mosinai e prima lascia che mendichino, per essa!» «No», risponde Zarathustra, «non faccio elemosine. Per questo non sono abbastanza povero.» Il vecchio ride di Zarathustra e dice: «E allora bada che accettino i tuoi tesori! Essi diffidano degli eremiti e non credono che noi ve­ niamo per donare. I nostri passi risuonano troppo solitari ai loro orec­ chi nei loro vicoli. E, come quando la notte sentono, nei loro letti, passar fuori qualcuno molto prima del sorgere del sole, si domandano certamente: Dove andrà questo ladro? Non andare dagli uomini e resta nel bosco! Va piuttosto dagli animali! Perché non vuoi essere, come me, un orso tra gli orsi e un uccello tra gli uccelli?».

Proemio 7

«E che cosa fa il santo nel bosco?» chiede Zarathustra. E l'altro: «Faccio canzoni e le canto, e quando faccio canzoni, rido, piango e borbotto: così lodo Iddio. Cantando, piangendo, ridendo e borbot­ tando lodo Iddio, che è il mio Dio. Ma tu, che cosa ci porti in dono?». Zarathustra: «Che cosa mai non avrei da darvi! Ma che io vada via subito, acciocché nulla vi prenda!». Così si separano, il vecchio e l'uomo, ridend9 come due ragazzi. Ma, tornato solo, Zarathustra dice al suo cuore: «E mai possibile? Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire, qui nel suo bosco, che Dio è morto.�>. Abbiamo riportato liberamente tutto il secondo capitoletto, perché è bello e chiaro come il primo, perché ha un episodio che si può ben raccontare e perché il senso di esso si capisce da sé. Per una volta, l'interlocutore di Zarathustra è un vero interlocutore: cioè un'altra persona e non solo il suo cuore, la sua anima o la sua mente o il cielo o il sole o la natura o la foresta o un pagliaccio o un qualche fantasma. In questo capitoletto, concavo in corrispondenza della convessità del primo, Nietzsche puntualizza i termini del dramma di Zarathustra, prospettandone una possibile soluzione, quella rappresentata dal san­ tone. Appare immediatamente chiaro, anche se Zarathustra non vi si sofferma, che tale soluzione non lo soddisfa. Essa, incarnazione di tutte le obiezioni al "progetto" di Zarathustra, è drammatica e pro­ fondamente pessimistica, sebbene sia presentata dal santone medesimo con allegra ironia. Comunque, essa perde subito importanza, allorché viene fatto l'annuncio così gravido di conseguenze che segue e, lugu­ bremente, chiude il pezzo: quello della morte di Dio. Questo annuncio, che Nietzsche non intende certo in maniera solo poetica, come si vede subito dalle conseguenze che ne trae nella parte successiva, qui funziona in primo luogo come iperbole poetica. E in­ fatti chiaramente destinato a produrre un colpo di scena, e questo si può fare anche con qualcosa di reale o di pensato come reale, purché faccia contrasto con quel che precede. Ma anche, e forse soprattutto, si può fare con qualcosa che spicchi per la sua "incredibilità" e asso­ lutezza, con un'iperbole appunto. Da notare l'altro "pesce d'oro'', cioè l'altra perla poetica - come chiameremo questa e altre forti immagini servendoci di una espressione di Nietzsche stesso - che nuota in questo capitoletto: l'uomo che passa di notte nei vicoli suscitando sospetti e apprensioni in quanti, nel caldo del loro letto, lo sentono passare fuori. Nietzsche intende l'annuncio della morte di Dio, abbiamo detto, in senso effettivo e dottrinale e non solo in senso poetico. Gli aforismi

8

Commento allo "Zarathustra"

1 25 e 343 della Gaia scienza4 stanno a dimostrarlo. Questo stesso annuncio, infatti, egli laveva dato e abbondantemente commentato nel libro immediatamente precedente allo Zarathustra. Ma proprio nell'aforisma 343 della Gaia scienza, primo del libro V (un libro, que­ sto, composto molto più tardi degli altri quattro, dai quali si stacca quasi come un'altra opera), spiega all'inizio che «Dio è morto» significa che «la fede nel Dio cristiano non è più credibile) (è ung/,aubwurdig, "non fededegnà') , chiudendo la prima espressione tra virgolette, come un'espressione enfatica e simbolica o, come diciamo noi, poetica. Dire in effetti «Dio è morto» è ben diverso dal dire «la fede nel Dio cristiano non è più credibile». C'è nel primo annuncio una perentorietà e de­ finitività che non lascia spazio né a discussioni né a speranze, anzi, per dirla schietta, che mozza il fiato - secondo leffetto voluto, ap­ punto. Nietzsche, con il suo sviluppatissimo senso estetico, ne sarà stato lui stesso colpito (il poeta è il primo "pubblico" di se stesso) quando, come è ben possibile che sia avvenuto, avrà visto quell'espressione in Hegel, là dove questi commenta, in Fede e sapere, il passo di Pascal sulla natura che rivela dappertutto un Dieu perdu. Ne sarà stato colpito e l'avrà fatta sua, forgiandola e presentandola poi in quel modo estre­ mamente efficace che conosciamo. Questo può sembrare un discorso ozioso, ma dall'intendere quell'annuncio letteralmente, in maniera as­ soluta, o invece come la constatazione enfatica e poetica di un fatto graduabile, non assoluto e definitivo, discendono le più importanti conseguenze, per la dottrina e naturalmente anche per l'interpretazione di Nietzsche. Per esempio, nel capitoletto seguente del Proemio, il superuomo è evidentemente per Nietzsche già (come meta ideale) una realtà solidificata, un fatto irreversibile, quale non sarebbe se Nietzsche non avesse inteso alla lettera, anche alla lettera, la morte di Dio. 3

Io vi insegno il superuomo. I.'.uomo è qualcosa che dev'essere superato. Che cosa avete fatto voi per superarlo?

Con queste parole comincia il discorso di Zarathustra alla folla radu­ nata sulla piazza del mercato; ma con esse comincia anche nello Za­ rathustra la sua parte malata. A togliere all'uomo ciò che fa sì che debba essere superato, infatti, gli si toglie lo spirito non meno che a 4F. Nietzsche, La gaia scienza, pp.

5 Trad. dell'autore.

1 29-1 30 e pp. 204-205 .

Proemio 9

togliere la gobba al gobbo, come è detto nel capitolo Della redenzione (Parte seconda). In questo discorso confluiscono, purtroppo, errore, illusione e fanatismo. Nietzsche ha voluto negare di essere stato in­ fluenzato da Darwin e dall'evoluzionismo, mentre sembra aver recepito bene, probabilmente senza rendersene conto, l'indirizzo "diveniristico" inaugurato su vasta scala da Hegel all'insegna di Eraclito, che era del1' evoluzionismo l'equivalente e anzi il prius filosofico (in un'epoca le cose importanti senza rapporto apparente comunicano tra loro sotter­ raneamente) . Ma che cosa, se non la suggestione dell'evoluzionismo, gli fece concepire come possibile il "superamento" dell'uomo anche solo nella sfera interiore? E che cosa se non il fanatismo, per quanto involontario e aborrito, gli fece pensare che l'uomo dovesse superarsi? Da dove veniva questo dovere, dal momento che nessun dio e nessuna morale esisteva più e anzi gli stessi concetti di bene e male erano diventati, se non fandonie, espressioni della volontà di potenza? Ammettiamo che il superamento sia stato in origine il sogno, il nobile sogno di un artista oppresso dal senso della miseria dell'uomo, uno di quei sogni idealizzanti che fanno piovere sull'umanità una pioggia dorata, perché ne esaltano il meglio e ne abbozzano le mete future; ma il martello che infuria sulla "rozi:à' pietra per liberarne l'immagine imprigionatavi, senza preoccuparsi di dove, in faccia a chi vadano le schegge - e anzi inebriandosi addirittura del piacere di di­ struggere - è già puro fanatismo e un'acconcia base per il razzismo. I..'.errore e la follia del fanatismo consistono in effetti proprio nell'in­ capacità di capire e accettare che nessun cambiamento o superamento radicale dell'uomo è possibile o auspicabile, e che tutto quello che è possibile e buono deve avvenire nella cornice che solo conosciamo: l'uomo qual è e quale sarà per tutto il tempo prevedibile; e che a ogni modo, nonostante la sua grande e ineliminabile miseria, l'uomo al­ berga, anche, in sé - è stato detto da Pascal meglio che da chiunque altro - ogni seme di grandezza: di grandezza, bellezza e perfino subli­ mità, al punto che talvolta è impossibile negare in lui la presenza della divinità. Se Nietzsche avesse avuto un genuino senso filosofico, avrebbe ripreso da Hegel anche e soprattutto la dialettica, la quale gli avrebbe consentito di evitare la scappatoia estrinseca del superuomo e di con­ centrare la sua forza di moralista nell'uomo qual è, di impostare la sua dottrina dialetticamente, invece di tendere a snaturare l'uomo, cosa possibile, come si è visto, solo in senso negativo. Avrebbe anche evitato una grande, patente contraddizione in questo stesso discorso. Il succo sano di esso infatti è, paradossalmente, proprio la difesa, con il prin­ cipio terreno, dell'uomo qual è e delle sue inesauribili risorse "naturali".

1 O Commento allo ''Zarathustra"

«I..:uomo è per me una cosa troppo imperfetta. ramore per gli uo­ mini mi ucciderebbe», aveva lamentato il santone nel capitoletto pre­ cedente. E della delicatezza di Nietzsche al riguardo (il santone non è che una delle sue voci) è stato già detto abbastanza6 perché si capisca il meccanismo interiore che è alla base del "superamento". D'altra parte si può far valere che l'essenza del superuomo era concepita come una quintessenza della terrestrità, come un'estrema naturalezza del1' uomo: il superuomo dovrebbe essere quel tipo umano ben riuscito di cui la morale avrebbe, secondo Nietzsche, impedito lo sviluppo. Ma questo tipo umano o piuttosto naturale, non somiglia un po' troppo a cene magnifiche bestie, a ceni tipi riuscitissimi della natura come leoni e tigri e pantere e leopardi, che si ammirano ma che non si possono ritenere superiori all'uomo né prendere come modelli per l'uomo? «lo mi beo nel vedere le meraviglie che cova il sole cocente: tigri e palme e serpenti a sonagli» (Zarathustra, II, Dell'accortezza con gli uomini) . Anche noi ce ne beiamo. Ma non abbiamo bisogno, come ebbe bisogno Nietzsche, di pensare alle meraviglie covate dal sole co­ cente, tra cui anche gli uomini malvagi, per cercar rimedio alla diffusa decadenza dei tempi. La quale non solo è continuata, da allora in poi, ma è addirittura precipitata, in un modo gravissimo e però anche chiarissimo, che consente di vedere l'inutilità, anzi il peggioramento che hanno comportato e comportano in genere ceni rimedi disperati. Privo com'era del senso sociale e collettivo, Nietzsche infatti, pur av­ vertendo come nessun altro, salvo forse Marx, il declino dei valori e la decadenza in genere, donde la sua fama di critico della civiltà (Kultur-Kritiker), non sapeva pensare che in termini individuali, men­ tre i mali morali che avvertiva erano in massima parte causati dalle trasformazioni sociali, specialmente economiche, erano ripercussioni di queste. Per questo non infondatamente Marx tagliava a sua volta una larga fetta della sfera individuale e naturale e la riversava nel cro­ giuolo sociale. È allora tutto da respingere il discorso di questo terzo capitoletto? Certamente no. I discorsi, i pensieri e gli scritti dei grandi non sono mai da respingere in blocco. Anche i meno buoni sono soltanto da interpretare e recuperare nella parte buona, che di solito non manca. Neanche qui manca, se si accetta una notomia del tessuto nietzschiano. Questo discorso del superuomo, come in genere i discorsi di Nietzsche, 6 Cfr.

S. Giametta,

Nietzsche ilpoeta, il moralista, ilfilosofo, Garzanti, Milano 1 99 1 .

Proemio 1 1

sono tutti discorsi sulla grandezza, che mirano cioè a difendere le ragioni della grandezza contro le ragioni della piccolezza. In questo senso il loro fine profondo è non sano ma sanissimo, perché niente di meglio di questo potrà mai fare un moralista. La "grandezza'', poi, non è altro che l'umanità, la pura, libera umanità, la quale si fa valere contro gli ostacoli esterni e interni che la vorrebbero piegare e distor­ cere. Per esempio: «Tutti gli esseri hanno finora creato qualcosa al di sopra di se stessi». Lasciamo stare il resto di questo versetto, che non vale niente; ma questa parte non vuol forse dire che bisogna vivere per qualcosa che è al di là e al di sopra di quello che già siamo? Che non sia cioè un mero interesse di conservazione, egoistico, meschino, ma qualc