Commentario al Timeo di Platone. Testo latino a fronte
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Si vedano le indicazioni dei contributi dei singoli collaboratori alle pagine LXXXTTT-IXXXTV

Questo volume è pubblicato in colla­ borazione con il “ PSaton-Institut Internationale Akademie fur Philosophie im Fur,tentum” Liechtenstein.

Caìcidìo COMMENTARIO AL «TIMEO» DI PLATONE Testo latino a fronte

A cura di

Claudio Moreschini con la collaborazione di M arco Bertolini, Lara N icolini, Tlaria Ram elli

BUONO Di CARICO n°....S

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inventario ...X ..L .? .Q .< L . BOMPIANI IL P E N SIE R O O C C ID E N T A L E

SAGGIO INTRODUTTIVO di Claudio Moreschini

VII

1. Il Timeo d i P latone nella tarda antichità Nella storia del platonismo occupa una posizione di rilievo il Timeo, un dialogo che a partire dalla fine deh l ’età ellenistica e per tutta la tarda antichità esercitò un forte influsso sulla speculazione successiva, anche non specificamente platonica, nonostante la sua riconosciuta difficoltà1. Il Timeo , infatti, fu considerato il testo fon­ damentale per giungere alla conoscenza della filosofia di Platone, probabilmente perché riuniva in forma di trattato teologia, cosmologia, etica, antropologia, tanto che il cosiddetto “medioplatonismo”, cioè il platonismo compreso tra il I secolo a.C. e l’inizio del III sec. d.C., si servì di esso più di tutti gli altri dialoghi platonici (a partire da Plotino, invece, il Timeo perse la sua centra­ lità e gli fece concorrenza, per importanza, il Parme­ nide). Parlando di medioplatonismo, noi intendiamo soprattutto quello che è presente nei testi dei platonici che ci sono conservati, e che risalgono al primo e al secondo secolo dopo Cristo; ma è verisimile che la riscoperta del Timeo sia avvenuta già nell’ultimo secolo dell’età precristiana, allorquando l’Accademia cominciò ad abbandonare le più decise posizioni scettiche o pro­ babilistiche dei secoli precedenti e tornò al Platone “dogmatico”. Nel primo secolo a.C., infatti, ha luogo un ritorno a Platone, che ci è attestato anche in ambien­ te romano. A questo ritorno al Platone dogmatico si accompagna la grande importanza che assume il Timeo. 1 Dovettero tenerne conto anche coloro che lo combatterono, come Aristotele nel de caelo, o lo ripresero, come gli Stoici.

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Ne è una testimonianza la traduzione, seppure parziale (d a lla fin e di 27d a ll’in izio di 4 7 b ), che ne fece Cicerone2. Primi tra i medioplatonici (ma certamente preceduti da altri di cui non conosciamo l ’identità3), Plutarco, Alkinoos, Apuleio, Numenio, posero il Timeo al centro della propria speculazione; anzi, si è osservato che anche filosofi, che pure non aderirono al platonismo, tennero in conto quel dialogo di Platone, che ai loro tempi godeva di assoluta rinomanza4. Questa dipenden­ za del medioplatonismo dal Timeo ha come conseguen­ za la validità del giudizio secondo cui si colloca «nell’e­ segesi il movimento caratterizzante della filosofia plato2 Tuttavia, come si ricava dal proemio, giuntoci solo frammenta­ rio, l’opera in cui Cicerone aveva inserito questa sua parziale tradu­ zione del Timeo era probabilmente un dialogo tra il neopitagorico Nigidio Figulo, il peripatetico Cratippo e Cicerone stesso, quale rap­ presentante dell’Accademia; argomento del dialogo, la fisica. Gli stu­ diosi, pertanto, hanno avanzato la plausibile ipotesi, che il discorso del pitagorico Timeo (tale era considerato allora il protagonista del dialogo platonico: cfr. anche a p. 694), che nell’opera di Cicerone era posto in bocca a Nigidio Figulo, costituisse una parte della esposizio­ ne di quest’ultimo, vale a dire, Cicerone non avrebbe tradotto l ’inte­ ro Timeo, ma solo quella sezione del dialogo che poteva essere conve­ niente ad un argomento, come la fisica, di cui Cicerone in quel momento si stava interessando. Va tenuto presente che di quest’ope­ ra di Cicerone noi possediamo solamente questo ampio frammento. Il fatto che la traduzione ciceroniana sia stata solamente parziale e inserita in un’opera rimasta allo stato di abbozzo spiega il fatto che essa non abbia esercitato nessun influsso sulla filosofia posteriore, e che anche Calcidio non ne tenga nessun conto. 3 Ad esempio, colui che verisimilmente spiegò il Timeo e di cui si servì Seneca nella presentazione della dottrina platonica dell’esse­ re nelle epistole 58 e 65. 4 F. Ferrari, Commentari specialistici alle sezioni matematiche del Timeo, in: La filosofia in età imperiale. Le scuole e le tradizioni filo­ sofiche, a cura di A. Brancacci (Atti del colloquio Roma 17-19 giu­ gno 1999, Napoli 2000, pp. 169-224, p. 174); P.L. Donini, Testi e commenti, manuali e insegnamento: la forma sistematica e i metodi della filosofia in età postellenistica, ANRW II 36,7, Berlin-New York, 1994, pp. 5027-5100, pp. 5062 ss.

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nica nei primi secoli della nostra èra»5, giudizio che risulta sostanzialmente calzante anche per un filosofo, pur così originale e profondo, come Plotino. Le opere esegetiche a Platone risalenti al medioplatonismo hanno l ’aspetto di monografie dedicate alla discussione di un tema particolare del Timeo, oppure sono commenti testuali di determinate sezioni di esso. Tale, ad esempio, è il de animae procreatione in Timaeo di Plutarco; il Ferrari ha individuato l’esistenza di altri trattati analo­ ghi scritti da filosofi non dichiaratamente platonici, come potrebbe essere il Commento alle parti mediche d el Timeo (dedicato a Timeo 76d3-80c8) di Galeno o il commento di Eliano (vissuto nel II sec. d.C.) alle sezio­ ni armonico-musicali dell’opera platonica (almeno Tim. 67b2-c3 e 80a3-b8)6. Più importante, per la storia del Timeo e, di conse­ guenza, per Calcidio, è il commento di Adrasto di Afrodisia, perché, come vedremo più avanti e nel corso del commento, esso è stato una delle fonti dell’opera che stiamo esaminando. Adrasto fu un filosofo peripa­ tetico della prima metà del II secolo d.C., tutto somma­ to non molto conosciuto, e la sua opera, andata perdu­ ta, è ricostruibile in prima istanza da quella di Teone di Smirne, vissuto una generazione dopo di lui, e proprio da Calcidio. Teone scrisse una Esposizione delle nozioni 5 Cfr. Ferrari, op. cit., p. 173. Secondo il Ferrari, durante il medioplatonismo l ’interesse per il Timeo non si manifestò tanto nella preparazione di veri e propri commenti complessivi, quanto nella preparazione di commenti specialistici a singole sezioni o a sin­ gole problematiche trattate nel Timeo. «Nessuno dei commentari anteriori alla seconda metà del II secolo d.C. ... sembra possedere una struttura formale simile a quella dei commentari continui neo­ platonici, nei quali viene riportato e interpretato esaustivamente il dialogo a cui si intende fornire l’esegesi» (op. cit., pp. 176-177). Questo avrà influenza, come vedremo anche sul commentario di Calcidio. 6 Cfr. Ferrari, op. cit., pp. 182 e 185.

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m atem atiche ch e servon o a leg g ere P latone (Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium ), nella quale riporta ampi brani dell'opera di Adrasto, senza però nominarlo, come era uso fare nell’antichità. G li stu d io si hanno o sservato che un b ran o del Commento agli "Elementi di armonica ’ di Tolomeo, con­ servato da Porfirio (cf. in Ptolem. Harm., p. 96, 1- 6 Diiring), contiene la citazione di un passo del commen­ to di Adrasto; ebbene, questa citazione corrisponde alla lettera a un passo della Expositio di Teone or ora ricor­ data (p. 50, 22-51,4 Hiller). Da ciò si ricava che Teone aveva desunto vari elementi dall’opera di Adrasto e che questa consisteva in un commento al Timeo. L'Expositio di Teone dipende dal commento di quel filosofo peripa­ tetico da p. 49, 6 a p. 85, 8 Hiller per quanto riguarda la sezione aritmetico-musicale, e da p. 119, 19 a p. 198, 9 per quanto riguarda l’astronomia. Molto probabilmente il commento di Adrasto era dedicato non a tutto il Timeo , ma solamente a quelle parti. La sua opera è pas­ sata anche nel commento di Calcidio: quest’ultim o, quindi, comincia a configurarsi come un continuatore dei medioplatonici anche per quanto riguarda il genere letterario da lui seguito, che è quello del commento a singole sezioni e a singole problematiche del Timeo. La caratteristica peculiare dell’opera di Adrasto sembre­ rebbe, dunque, quella di essere particolarmente tecnica e incline all’uso della matematica. Ciò è confermato anche dalla conclusione della prima parte del commen­ to di Calcidio, ove lo scrittore latino afferma (cap. 119) di aver spiegato quella sezione del Timeo facendo ricor­ so alle artificiosae rationes, cioè a degli argomenti “tec­ n ici”: essi erano quelli che derivavano dà\Yars della astronomia e della matematica. Tutto questo spiega, perciò, la caratteristica, a prima vista insolita, del Commentario al «Timeo» di Platone di Calcidio: esso è costituito da due parti: una traduzione in lingua latina di una sezione del testo platonico (dall’i-

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nizio fino a p. 53c 1) ed un commento, relativo, anch’esso, ad una sezione del Timeo, che però non corrisponde a quella tradotta, ma, precisamente, a quella compresa tra la p. 3 le e la p. 53c. I due testi (cioè la traduzione ed il commento) sono preceduti da una lettera prefatoria dell’autore. Calcidio, dunque, si presenta anche nella struttura della sua opera (oltre che per la scelta degli argomenti, come vedremo poi) quale medioplatonico che enuclea determinate sezioni del Timeo per sottopor­ le alla propria esegesi. E questo, d’altra parte, spiega (e, agli occhi degli antichi, confermava) le ripetute dichiara­ zioni circa la difficoltà del Timeo, di volta in volta che il dialogo platonico esigeva un approfondimento mediante l’aggiunta delle discipline più tecniche7. Ma per quale motivo fin dal II secolo d.C. si faceva ricorso a tali artificiales rationes , per dirla con Calcidio? Il Ferrari osserva8 che, perseguendo lo scopo di inserire sezioni determinate ed isolate del Timeo nell'ambito del sistema di conoscenze ad esse relativo, cioè, nel colle­ garle alle conoscenze matematiche, astronomiche, musi­ cali proprie della loro epoca, «gli autori di commentari specialistici si trovano di fronte ad un ostacolo conside­ revole, costituito dal carattere frammentario e poco sistematico delle affermazioni “scientifiche” di Platone. Quest’ultimo aveva spesso proceduto in modo cursorio, senza curarsi di sviluppare gli accenni a concezioni mediche, astronomiche o matematiche presenti nella sua trattazione. E naturale che al commentatore deside­ roso di inserire una determinata sezione del Timeo all'interno di un sapere disciplinare già strutturato, si presentava il compito di “riempire” le lacune lasciate da Platone». 7 È verisimile, intatti, che ad esse soprattutto si riferisse Caladio, quando all’inizio del suo commento sottolineava la difficoltà del Timeo. 8 Cfr. op. cit., p. 196.

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2. Caladio: la sua figura storica C alcidio è un personaggio di cui non si conosce assolutamente niente: è una stranezza che l ’autore di uno dei più importanti commenti al Timeo non sia mai nominato da alcuno scrittore antico. La collocazione precisa di Calcidio nella storia del platonismo rimane aleatoria. N ella lettera prefatoria egli dedica la sua opera ad un certo Ossio (od Osio), al quale si riferisce qualche altra volta nel corso del suo commento, ma con molta discrezione. Il testo non permette di meglio iden­ tificare questo Osio: una subscriptio che si legge in alcu­ ni manoscritti aggiunge un dettaglio che, se rispondente al vero, sarebbe molto interessante. Essa afferma che il dedicatario dell’opera di Calcidio sarebbe stato vescovo di Cordova, di cui il nostro scrittore sarebbe stato arci­ diacono. In passato si era soliti identificare questo Osio con un personaggio abbastanza noto: quell’Osio, vesco­ vo di Cordova, che aveva goduto di una vita lunghissi­ ma (tra il 257 e il 357 circa) ed era stato una figura di rilievo nel cristianesimo occidentale durante la prima metà del quarto secolo, perché aveva svolto un ruolo di primo piano nella difesa della ortodossia nei concili di Nicea (325 d.C.) e di Sardica (344 d.C.), dedicati alla condanna d ell’arianesimo; di conseguenza, C alcidio dovrebbe aver eseguito la traduzione del Timeo e com­ posto il suo C om m entario a ll’incirca in quest’epoca (325-350). L’identificazione tradizionale sia di Osio sia di C alcidio fu messa in dubbio q u a ran tan n i fa dal Waszink9, secondo il quale non vi sono motivi concreti per attribuire l’opera ad uno scrittore spagnolo; lo stu­ dioso, pertanto, anche in base al lessico impiegato da Calcidio, pensò che si dovesse scendere, nella cronolo9 Cfr. Plato Latinus ...Timaeus a Calcidio translatus commenta­ rioque instructus ... edidit J. H. Waszink, Londinii et Leidae 19752, pp. IX-XVII. Lo segue anche la Ratkowitsch (cfr. Chr. Ratkowitsch,

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già, alla fine del quarto secolo o ai primi decenni del quinto; lo stile ornato e fiorito di certe parti del com­ mento preluderebbe a quello dei letterati del quinto secolo, come Claudiano Mamerto e Sidonio Apollinare. Inoltre, l’ambiente in cui sarebbe sorto questo trattato, neoplatonico e cristiano insieme, non potrebbe essere stato altro che quello di Milano della fine, non degli inizi, del quarto secolo. In quell’epoca Milano era un centro di neoplatonismo pagano e cristiano; ivi erano vissuti Manlio Teodoro, Simpliciano ed Agostino; que­ sto Osio a cui è dedicata l’opera di Calcidio potrebbe, pertanto, essere identificato con un alto funzionario imperiale attivo a Milano intorno al 395. Si aggiunga che il K libansky aveva osservato10 che Isidoro di Siviglia, nonostante che nelle sue opere erudite cercasse di sottolineare l’importanza avuta dagli scrittori spagno­ li del passato, non conosce affatto Calcidio. Successivamente, perciò, il Dillon11 tornò alla primi­ tiva interpretazione delle figure di Osio e di Calcidio e della loro epoca. L’argomento ricavato dal silenzio di Die Timaios-Ùbersetzung des Chalcidius. Ein Plato Christianus, «Philologus» 140 [1996], pp. 139-162, p. 141), la quale, tuttavia, avanza anche l’ipotesi, suggeritale da K. Smolak, che questo Osio fosse una finzione, quasi un ‘santo le tto re ’, alla maniera del Candidus ariano di Mario Vittorino (cioè, un ‘candido, imparziale lettore’). Senza avere a nostra disposizione nessun elemento concre­ to e probante, e quindi rimanendo sul piano della pura ipotesi, abbiamo anche pensato che Calcidio, data la sua notevole conoscen­ za del p lato n ism o , potesse aver com posto la sua opera a Costantinopoli, ove, negli ultimi anni del quarto secolo, alla corte di Arcadio, si trovava un Hosius, funzionario amico del praefectus Eutropio (ne parla Claudiano, in Eutr. II, 346 sgg.). In tal caso, però, dovremmo noi per primi rinunciare a quanto diciamo più oltre, a proposito della conservazione del medioplatonismo nella cultura latina del quarto secolo (cfr. pp. XV sgg.). 10 Citato dal Waszink stesso, op. cit., p. XIII. 11 Cfr. J. Dillon, The Middle Platonists. A Study o f Platonism 80 B.C. to A.D. 220, London 1977, p. 402 e 408.

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Isidoro, infatti, non è decisivo, secondo il Dillon, e implica come conseguenza il fatto che noi dovremmo non tener conto di quanto ci riferisce la subscriptio di cui abbiamo detto. Se Isidoro di Siviglia non nomina Calcidio, questo può essere dovuto anche al semplice fatto che non lo conosceva, dato che il commento scom­ parve in età tardo antica per tornare ad essere letto nel XII secolo12, tanto più che il cristianesimo, che pure è presente nel commento al Timeo , vi gioca un ruolo insi­ gnificante. Di conseguenza, sarebbe strano che l’opera fosse di un cristian o ortodosso: sem bra quasi che Calcidio tema di mostrare la sua fede. Anche l ’unico autore cristiano che egli cita, e cioè Origene, senza dub­ bio non era apprezzato negli ultimi vent’anni del quarto secolo, per cui la sua attività mal si adatterebbe all’epo­ ca proposta dal Waszink. E quasi incredibile, secondo Dillon, che un uomo di cultura che fosse dichiaratamente cristiano potesse scrivere un commento ad un testo così pagano come il Timeo molto tempo dopo il 350 d.C. Un caso analogo potrebbe essere quello di M ario Vittorino, esperto di platonismo e fortemente impegnato nella teologia cristiana; ma Mario Vittorino fa vedere chiaramente, una volta convertitosi, di essere cristian o , e non più pagano com e in p reced en za. L’epoca di Ambrogio e di Agostino, che, secondo il Waszink, sarebbe quella di Calcidio, non permette ad un cristiano di essere così reticente nelle sue formula­ zioni dottrinali né di occuparsi con tanta competenza di 12 Secondo il Beatrice (cfr. P.F. Beatrice, Ein Origeneszitat im Timaioskommentar des Calcidius, in Origeniana septima, herausgegeben von W.A. Bienert und U. Kiihneweg, Leuven 1999, pp. 7591), il quale segue l’opinione di J. Fontaine (Isidore de Séville et la culture classique dans l’Espagne wisigothique, voi. II, Paris 1959, p. 658 e III, Paris 1983, pp. 1130 ss.), esisterebbero tracce di Calcidio in Isidoro (p. 87), ma poi egli afferma che, se Isidoro non ricorda mai Calcidio, potrebbe semplicemente significare che Calcidio non era di origine spagnola.

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un testo così pagano come il Timeo. Anche le osserva­ zioni di carattere linguistico, che avanza il Waszink, non sono, secondo il Dillon, cogenti. In conclusione, egli ritiene che la datazione di Calcidio alla fine del IV seco­ lo e la sua collocazione nell’ambiente milanese non siano dimostrate, ed anche noi pensiamo che esse deb­ bano essere abbandonate. Ma d’altra parte, se riteniamo molto verisimile l’ipo­ tesi tradizionale, che Calcidio debba essere collocato prima della fine del quarto secolo e per niente affatto in un ambiente milanese, non possiamo ancora dire che egli sia stato diacono di Ossio, vescovo di Cordova13. La subscriptio relativa a questa notizia rimane totalmente incerta: non sappiamo su che elementi si basi, per cui riteniamo che essa sia stata l’invenzione di qualche “edi­ tore” dotto, vissuto ai tempi della rinascita di Calcidio nel XII secolo, il quale avrebbe creduto di potere iden­ tificare lo sconosciuto Osio di Calcidio con il relativa­ mente più famoso vescovo di Cordova: identificazioni di tal genere, che hanno lo scopo di “eliminare” perso­ naggi privi di storia, facendoli coincidere con altri meglio noti, non sono rare nelle letterature antiche14. Di conseguenza, ci sembra inevitabile ammettere di non possedere elementi concreti e plausibili circa la identificazione dei personaggi di Calcidio e di Osio, e che essa possa essere ricostruita per via di ipotesi solo

13 E tanto meno «che il cristiano Calcidio abbia conosciuto Origene (una delle fonti dell’opera) attraverso la mediazione del vescovo Ossio, perché Origene e in generale lo studio della filosofìa greca era tenuto in gran conto dall’ambiente ecclesiastico ed intellet­ tuale di cui Ossio era il punto centrale» (così Beatrice, p. 86). Altre ipotesi sull’ambiente occidentale dell’epoca e la presenza di Porfirio ibid., pp. 88-89. 14 E nemmeno in quelle moderne: si pensi alla tenacia con cui si torna periodicamente a identificare l ’Origene cristiano con quello neoplatonico.

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sulla base del contenuto filosofico della sua opera, che, comunque, è tipica del quarto secolo occidentale.

3,1. I l C o m m e n ta rio al « T im e o » d i P la to n e d i C aladio e d il su o p la to n ism o Il Commentario al «Timeo» di Platone di Calcidio è un testo insolito e per molti aspetti interessante, più di quanto non sia stato fino ad ora adeguatamente sottoli­ neato. Innanzitutto è curioso che esso sia opera di un cristiano che, dedicandosi all’esegesi di un testo pagano, si rivolge ad un cristiano. Parimenti insolita è la filosofia mediante la quale si commenta il Timeo. Essa riprende, per la massima parte, un platonismo antiquato rispetto ai suoi tempi, nei quali avrebbe dovuto essere predomi­ nante il neoplatonismo15 (ma vedremo che non è neces­ sariamente così). Medioplatonico è, invece, il complesso delle dottrine di cui Calcidio si serve per il suo com­ mento16, il che conferisce all’opera una forte arcaicità, una sfasatura rispetto ai suoi tem pi. Non solo, ma, anche all’interno del Timeo , alcune dottrine, come quel­ le astronomiche e matematiche, avevano un interesse relativo per gli stessi medioplatonici. Inoltre, lo stesso Timeo , per quanto abbastanza fami­ gliare ai Cristiani nella loro conoscenza di Platone in generale, non lo era assolutamente per la parte esamina­ ta da Calcidio, il quale non spiega tutto il dialogo plato­ 15 Altrove (cfr. C. Moreschini, Eredità medioplatoniche nella teo­ logia negativa del quarto secolo latino: da Tiberiano a Calcidio, Pisa 2002, in stampa) abbiamo cercato di mostrare come il medioplatoni­ smo, che ad una visione troppo semplice avrebbe dovuto essere la pura e semplice preparazione del neoplatonismo, continua in paral­ lelo a quest’ultimo (cfr. anche oltre, pp. XVII-XVIII). 16 Questo appare in modo incontrovertibile dal commento che accompagna l’edizione del Waszink, e dai lavori che ne ha eseguito la sua scuola.

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nico, ma solo alcune sezioni di esso. Gran parte delle dottrine del Timeo che sono oggetto dello studio di Calcidio, infatti, non possono assolutamente essere in­ globate o rielaborate nel cristianesimo: non cristiane sono l’astronomia e l’aritmologia; la dottrina dell’origi­ ne e della natura dell’anima cosmica; del fato e della provvidenza e dei loro rapporti reciproci; della materia e delle sue caratteristiche. Insomma, siamo autorizzati a domandarci come Calcidio potesse pensare che quello che egli riteneva opportuno spiegare nel Timeo - e per giunta ricorrendo all’ausilio di altre dottrine puramente pagane, come lo stoicismo e l’aristotelismo - si adattas­ se alla fede cristiana; inoltre, si è visto sopra (pp. VI ss.) che il commento di Calcidio si inserisce in una tradizio­ ne esegetica del Timeo che risaliva molto indietro17. Ma se questo interesse per un testo così schiettamente non cristiano (che tale è il Timeo), non era l’unica causa del­ l ’esegesi di Calcidio, dobbiamo domandarci in seconda istanza quale fosse il suo intento, anche se alcuni ele­ menti di platonismo si adattano alla dottrina cristiana (come è ben noto), e sono ripresi sia da altri scrittori, sia anche dallo stesso Calcidio. Un altro problema che suscita incertezze nella inter­ pretazione di Calcidio deriva dalla sfasatura tra la cro­ nologia e la dottrina del commento. Composto quasi sicuram ente, come si è detto, entro il quarto secolo d.C., esso appare interessato, per la massima parte, ad un platonismo antiquato rispetto ai suoi tempi, i quali avrebbero dovuto essere rivolti allora al contemporaneo platonismo di Porfirio, che era divenuto, come gli stu­ diosi da Courcelle a Hadot hanno dimostrato, il tipo di platonismo corrente nel mondo occidentale. M edio­ platonico è, come si è detto, il complesso delle dottrine 17 Su tale tradizione esegetica cfr. quanto si è osservato sopra, pp. VIII-IX.

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di cui Calcidio si serve18. Proprio questo fatto, questa arcaicità d e ll’opera, questa sua sfasatura, insomm a, rispetto ai suoi tempi, ha indotto gli studiosi a doman­ darsi come fosse possibile che nel IV-V secolo il plato­ nismo potesse essere, agli occhi di qualcuno, quello dello Pseudo Plutarco autore del d e f a t o , quello di Alkinoos, di Numenio, di Teone di Smirne e di Adrasto, e non, se mai, quello di Porfirio. Tutto questo si può spiegare in vari modi. Innanzi­ tutto va considerata la normale arretratezza della cultu­ ra di lingua latina rispetto agli ambienti greci per quan­ to concerne gli studi filosofici, con l’eccezione di poche personalità di maggior rilievo19. Tanto più che nel quar­ to secolo d.C. i rapporti tra cultura greca e cultura lati­ na stavano diventando sempre più deboli, per cui non meraviglia se Calcidio si interessa ancora a dei platonici

18 Lo confermano i contributi scientifici del Waszink (cfr. J.H . Waszink, Studien zum Timaioskommentar des Calcidius. I. Die erste H àlfte des K om m entars (m it A u snah m e der K a p ite l ù b er die Weltseele) («Philosophia Antiqua», XII), Leiden 1964; Porphyrios und Numenios, in: Porpbyre («Entretiens sur l ’Antiquité Classique XII»), Vandoeuvres-Genève 1965, pp. 33-78; Calcidius’ Erkldrung von Tim. 41e-42a4, «Museum Helveticum» 26 (1969), pp. 271-280; La théorie du langage des dieux et des démons dans Calcidius, in: Epektasis. Mélanges ... Card. J. Daniélou, Paris 1972, pp. 237-244; Le rapport de Calcidius sur la doctrine platonicienne de la métempsychose, in: Mélanges d’histoire des religions offerts à H. Ch. Puech, Paris 1974, pp. 315-322) e dei suoi scolari (cfr. J.C.M . van W inden, Calcidius on Matter. His Doctrine and Sources. A Chapter in thè History o f Platonism («Philosophia Antiqua» IX), Leiden 1959; J. den Boeft, Calcidius on Fate. His Doctrine and Sources («Philosophia A n tiq u a » X V III ), L e id en 1 9 7 0 ; C alcid iu s on D aem ons (Commentarius ch. 12 7 -13 6 ) («P hilosophia A n tiq u a» X X X III), Leiden 1977. 19 Pensiamo, a questo proposito ad autori come Apuleio, Mario Vittorino e Boezio, i quali, pur con risultati e con metodi assolutamente differenti l’uno dall’altro, erano però bene informati del pla­ tonismo loro contemporaneo.

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che erano oramai sorpassati ai suoi tempi, negli ambien­ ti di lingua greca. Inoltre, la speculazione medioplatonica appare nel complesso meglio adattabile al cristianesimo che non la forte astrattezza che caratterizza il più tardo pensiero neoplatonico: salvo poche eccezioni (come quella di Dionigi l ’Areopagita), i Cristiani, nella formulazione della loro teologia trinitaria20, si trovano più a loro agio con la metafisica medioplatonica e quella della Historia philosopha di Porfirio che non con la dottrina del più tardo neoplatonismo21. Infine questa stessa nostra idea di una arretratezza del platonismo latino rispetto a quello greco è condizio­ nata da una periodizzazione che dipende in larga misu­ ra dal concetto di evoluzione e di sviluppo del pensiero, la quale non corrisponde però alla realtà storica e quin­ di deve essere accettata con cautela. Intendiamo dire che non necessariamente un platonico del quarto secolo deve avere come punto di riferimento Plotino o Por­ firio, come noi saremmo portati a credere sulla base della nostra idea di evoluzione dal medio- al neoplatoni­ smo (come di qualsiasi altra corrente filosofica). Gli ora­ cula Chaldaica , ad esempio, continuano ad essere vivi, in ambiente greco, anche dopo Plotino, per cui non sareb­ be, in sé, strano che Calcidio si fosse rifatto agli autori del secondo secolo invece che a un platonico a lui più vicino nel tempo. 20 Questo interesse per alcune dottrine medioplatoniche, accan­ to, e talora anche più, a quello per le dottrine neoplatoniche è pro­ prio, ad esempio, dei Padri Cappadoci. 21 Un esempio di questa ripresa delle ipostasi porfiriane ci è dato dalla elaborazione della teologia trinitaria cristiana, la cui defi­ nizione delle ipostasi deriva probabilmente da Porfirio attraverso Eusebio di Cesarea e i Padri Cappadoci: cfr. le nostre considerazioni in: C. Moreschini, Una definizione della Trinità nel Contra Iulianum di Cirillo d’Alessandria, in Lingua e teologia nel Cristianesimo greco, Brescia 1999, pp. 251-270.

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3.2. Medioplatonismo e cristianesimo Il medioplatonismo, rappresentato eminentemente nella cultura latina del secondo secolo da Apuleio (e si tratta di un medioplatonismo che ha un suo significato ed una sua caratterizzazione peculiare, nonostante tutte le critiche di superficialità che gli sono state rivolte22), divenne poi una componente essenziale nella tarda anti­ c h ità , a c o m in ciare d a ll’ep o ca d ei T e tra rc h i e di Costantino, caratterizzata, come è noto, da un forte sin­ cretismo filosofico e religioso23. Determinate concezioni medioplatoniche (e soprattutto quelle di carattere “teo­ logico” e metafisico) ebbero diffusione anche al di fuori delle scuole filosofiche, costituendo un elemento di non piccolo significato nella cultura d ell’epoca. Si tratta, dunque, di una divulgazione del medioplatonismo che è ben presente accanto a quello che noi chiamiamo “neoplatonismo”, quest’ultimo è “posteriore” solo secondo lo sviluppo intellettuale, non secondo la storia24.

3.3. Medioplatonismo latino Volendoci limitare agli autori non cristiani, un posto significativo occupa il poeta Tiberiano. Di lui non si sa quasi nulla; visse verso la fine del III e gli inizi del IV secolo, e scrisse alcune brevi composizioni di carattere 22 Cfr. le o sservazioni da noi fo rm u la te in C. M o resch in i, Apuleio e il platonismo, Firenze 1978. 23 Cfr. la sintesi a cura di G. Fowden, G li effetti del monoteismo nella tarda antichità. D all’impero a l Com m onwealth, tr. it. Roma 1 9 9 7 ; e, già p rim a, le n o s tre o s s e rv a z io n i in C. M o re sc h in i, Monoteismo cristiano e monoteismo platonico nella cultura latina del­ l'età imperiale, in Vlatonismus und Christentum. Festschrift fu r H. Dòrrie, «Jahrbuch fùr Antike und Christentum », Ergànzungsband X, Aschendorff, Mùnster 1980, pp. 131-16 0. 24 Su questo problema torneremo più specificamente più avanti, riconsiderando il medioplatonismo di Calcidio.

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bucolico ed una di contenuto teologico. Un poemetto di circa trenta versi, che alcune subscriptiones dei mano­ scritti designano come «versi di Platone tradotti dal greco in latino da un certo Tiberiano», manifesta aper­ tamente una natura platonizzante (l’autore apparteneva alle cerehie del platonismo occidentale del IV secolo, e viene pertanto citato anche dal platonico Servio nel commento alVEneide). L’inizio suona così: o m n ip o ten s, annosa poli quem suspicit aetas, quem sub m illennis sem per virtu tibus unum n ec n u m ero quisquam p o terit pensare nec aevo, n u n c esto affatus, si quo te nom ine dignum est, q u o sacer ignoto gaudes, qu od m axim a tellus in trem it et sistunt rapidos vaga sidera cursus25.

Seguono vari altri predicati di dio, ed il componi­ mento si conclude con una preghiera per ottenere la conoscenza del cosmo: «Ti supplico, sii propizio alla m ia preghiera e concedi alla mia brama di sapere in base a quale disegno è stato creato quest’universo, in che modo si è generato e come è stato fatto. Concedimi, o padre, di poter conoscere le cause prime delle cose, ecc.». Il poemetto è di carattere composito e sincretistico nei suoi contenuti. Sono stati osservati, in esso, elementi orfici, ed anche platonici: si è pensato che Tiberiano abbia ripreso il De philosophia ex oraculis haurienda di 25 «Essere onnipotente, che la volta del cielo, antica di anni, guarda con riverenza, che, sempre uno sotto mille attributi, nessuno potrà m isurare col numero e col tempo, sii ora invocato, se con qualche nom e conviene invocarti, con quel nome ignoto, di cui santo ti allieti, per cui trema la terra nella sua vastità, e le stelle vaganti arrestano il loro rapido corso» (tr. di S. M attiacci in: S. Mattiacci, I carini ed i frammenti di Tiberiano. Introduzione, edizio­ ne critica, traduzione e commento, Accademia Toscana di Scienze e Lettere ‘La Colombaria’, Studi XCVIII, Firenze 1990).

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Porfirio26. Possiamo, dunque, osservare come, in mezzo ad una serie di varie connotazioni risuona quella della inconoscibilità di dio, che è essenziale nella metafisica medioplatonica. E p iù di un seco lo (fo rse q u a si due) p iù ta r d i Marziano Capella comincia il suo inno alla divinità tra­ scendente {Nupt. II, 185) con queste parole: ign o ti vis celsa patris («o alta forza del padre ignoto»)27. E rilevan­ te il fatto che in Marziano venga mantenuta financo la specifica invocazione del dio “ignoto” come “p ad re”, proprio come la si trova nei sistemi gnostico-platonici già dall’epoca antica28.

3,4. Medioplatonismo latino: Mario Vittorino Un altro esempio molto interessante della presenza di dottrine m edioplatoniche n ell’O ccidente latino del quarto secolo ci è fornito da Mario Vittorino, il quale, 26 Per l ’inquadramento storico-culturale di Tiberiano rimandia­ mo in primo luogo alla trattazione della Mattiacci (op. cit., p. 157 sgg.) ed alle nostre considerazioni in: C. Moreschini, M ovim enti filo ­ so fic i d e lla la tin ità ta rd o a n tic a : p ro b le m i e p r o s p e ttiv e , in : M etodologie della ricerca sulla tarda an tichità. A tti del P rim o Convegno dell’Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli 1989, pp. 89 -12 0 , soprattutto pp. 1 0 9 -1 1 0 . Su questo celebre inno cfr. H. Lewy, A Latin Hymn to thè Creator ascrihed to Plato, «Harv. Theol. Rev.», X X X I, 1946, pp. 243-258; e soprattutto T. Agozzino, Una preghiera gnostica pagana e lo stile lucreziano n el I V secolo, in Dignam Dis. A Giampaolo Vallot (1934-1966). Silloge di studi suoi e dei suoi amici, Venezia 1972, pp. 169-210, che ne individua la m atri­ ce nella teologia solare e nell’enoteismo tardoantico. 27 Naturalmente, il problema della caratterizzazione filosofica di questo inno di M arziano è m olto più com plesso (in esso si sono riscontrati elementi degli Oracula Chaldaica, di Giam blico e del pita­ gorismo: cfr. il commento di L. Lenaz, Padova 1975): per ora accen­ niamo solo ad un elemento della metafisica medioplatonica. 28 Cfr. w . 5 sgg., ultramundanum fas est cui cernere patrem / et magnum spectare deum.

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intorno al 360 d.C ., nella sua discussione teologica riprende - all’interno, beninteso, di un contesto molto più complesso e sviluppato di origine porfiriana, entro il quale Vittorino è inserito - anche alcuni elementi che risentono della filosofia di Alkinoos (anche se non siamo in grado di affermare che Vittorino si sia rifatto precisamente al Didaskalikós)23. Cosi in adversus Arium 1 49 leggiamo che l’uno è prima di tutto: Ante omnia quae vere sunt, unum fuit, sive unalitas, sive ipsum unum, antequam sit ei esse, unum illud. Illud enim unum oportet dicere et intellegere quod nullam imaginationem alteritatis habet, unum solum, unum simplex, unum per concessionem, unum ante omnem existentiam, ante omnem exsistentialitatem et maxime ante omnia inferiora, ante ipsum òv; hoc enim unum ante òv; ante omnem igitur essentitatem, substantiam, subsistentiam et adhuc omnia quae potentiora; unum sine existentia, sine substantia, sine intelligentia - supra enim haec - immensum, invisibi­ le, indiscernibile universaliter omni alteri ... soli autem sibi et discernibile et definitum ... sine figura, sine qualitate neque inqualitate, sine qualitate quale, sine colore, sine specie, sine forma, omnibus formis carens, neque quod sit ipsa forma qua formantur omnia ... Potrem m o citare per intero questo passo, ma ci dilungherem m o troppo. Basti osservare che, accanto alla concezione neoplatonica dell’uno, Mario Vittorino impiega le determinazioni negative che sono tipiche del medioplatonismo, e possono riscontrarsi, ad esempio, in Alkinoos (Didaskalikós 10): l ’uno prima dell’essere, l ’uno assoluto, al di sopra della capacità di comprender-29 29 Cfr. M arius Victorinus, Traités théologiques sur la Trinité, texte établi par P. Henry, introduction traduction et notes par P. Hadot, Sources Chrétiennes nn. 68-69, Paris 1960.

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lo e al di sopra di ogni limite, l ’uno privo di limiti, inco­ noscibile, senza qualità senza quantità senza colore e senza forma30.

3,5. Caladio e Porfirio Inoltre, questa difficoltà della presenza di un m edio­ platonico come Calcidio in un’epoca che non dovrebbe più essere la sua, come il tardo quarto secolo, può meglio essere superata se ipotizziamo, come ha fatto il Waszink, che Calcidio si fosse servito del C om m entario al «Tim eo» di Porfirio, ora perduto. Con questa ipotesi, naturalmente, lo studioso viene a risolvere la difficoltà di fondo, e cioè quella del “vuoto” cronologico su cui abbiamo fino ad ora insistito: Calcidio non si rifarebbe, quindi, a degli scrittori così lontani da lui nel tempo, quali erano i medioplatonici, e a tanti insieme (cosa di per sé poco probabile, per quanto attiene il norm ale procedimento degli scrittori latini, che non vogliono - e spesso neanche lo possono - im piegare varie “fo n ti” contemporaneamente), ma ad uno solo - Porfirio - in cui essi sono confluiti. In effetti, potrebbe apparire dif­ ficile l ’ipotesi che Calcidio avesse avuto la possibilità di procurarsi, e, quindi, di utilizzare tutte le opere dei medioplatonici che sopra abbiamo elencato (Alkinoos, Numenio, Pseudo Plutarco, Teone etc.): il problema si risolverebbe ricorrendo, con il Waszink e la sua scuola,

30 Queste ultime determinazioni negative, che risalgono in ulti­ ma analisi al Fedro (247b), ove designano il mondo iperuranio, sono dai platonici dell’età imperiale applicate a dio stesso, come è ben noto. Per questo passo si leggano, comunque, le note di H adot, op. cit., pp. 846 sgg. N aturalm ente, per quanto riguarda il passo del Didaskalikòs di Alkinoos, esso è presente ovunque negli studi sul medioplatonismo, stante la sua im portanza: per tale ragione non passeremo in rassegna le num erose indicazioni bibliografiche al riguardo.

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all’ipotesi che Calàdio si fosse rifatto al Commentario al «Timeo» di Porfirio, tanto più vicino nel tempo e, logi­ cam ente, più attuale. Che il filosofo di Tiro potesse essere impiegato da uno scrittore cristiano, nonostante la sua polemica anticristiana e nonostante il provvedi­ mento preso da Costantino di distruggere il Contro i C ristiani , è verisim ile: Porfirio è presente insieme a Plotino, sia pure in una misura che fino ad oggi è stato difficile stabilire, come fonte del platonismo di Mario Vittorino (che rappresenta il personaggio più notevole nella filosofia cristiana del IV secolo), ma anche di quel­ lo di A m brogio e di Agostino. La sua funzione di mediatore della filosofia platonica in Occidente è stata oramai messa in evidenza da molti studi che è superfluo elencare, e, in fondo, il carattere poco cristiano del commento di Calcidio potrebbe corrispondere a quello di una filosofia come quella di Porfirio, che in parte si presta ad una rielaborazione da parte dei Cristiani, i quali ripresero da lui, e non da Plotino, la dottrina delle ipostasi, ma per la massima parte, come è logico, proce­ de per la sua strada. L’ipotesi di Waszink, dunque, ci fornirebbe la spiegazione delle difficoltà sopra accenna­ te: nel C ommentario al «Timeo» di Porfirio sarebbero state contenute le dottrine medioplatoniche che appaio­ no nell’opera di Calcidio. L’utilizzazione di Porfirio da parte di Calcidio, ci procura, però, alcune difficoltà. Infatti, il Waszink dà più volte l’impressione di ritenere che il materiale del commento di Calcidio derivi sostanzialmente tutto da Porfirio, il quale, a sua volta, sarebbe servito come rac­ coglitore delle dottrine dei filosofi precedenti, compre­ so il C om m ento alla G enesi di Origene. Eppure le con­ clusioni del Waszink suonano contraddittorie. In un prim o momento asserisce esplicitamente31: «Possiamo riten ere per certo, dunque, che C alcidio trasse da 31 Cfr. Timaeus a Calcidio translatus ci/., p. XCV. Abbiam o messo in corsivo noi le parole che più ci interessano.

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Porfirio m olte parti del suo commento, e precisamente, se non andiam o e rra ti, dal com m ento co n tin u o di Porfirio al Timeo». Ma più oltre afferma32: «C alcidio ebbe come fonti principali della dottrina platonica, per spiegare la quale egli avrebbe aderito in prim a istanza ai m e d io p la to n ic i, N um enio e P o rfirio , fo rse an ch e Albino33; come fonte della dottrina peripatetica Porfi­ rio, dei commenti di carattere tecnico, Adrasto. Sembra probabile ch e eg li abbia avuto a disposizione i libri (cor­ sivo nostro) Sul b en e di Numenio, il C om m entario al «T im eo» di Adrasto, il C om m entario al «T im eo» e forse anche i Symmikta Z etem ata di Porfirio, il C om m en to alla G enesi di Origene; non è possibile affermare se a questi libri si debba aggiungere anche la E pitom e di Albino. Pertanto noi non siamo d ’accordo con quegli studiosi che affermano che Calcidio si sia servito di un testo greco solamente...». Comunque sia, anche alcuni anni dopo aver pubbli­ cato la sua fo n d a m en ta le e d iz io n e d i C a lc id io , il Waszink ha tenuto ferma la sua ipotesi della derivazione sostanziale del commentatore latino da Porfirio, trac­ ciando lo schema seguente34. Da Adrasto deriverebbero i capp. 8-9; 32-50; 58-118. Da Porfirio i capp. 20-25; 127-136 (dottrina dei demoni); 138 (sul linguaggio degli dèi e dei demoni); 142-190 (trattato del destino); 191199 (sulle leges fatales)\ 200-211 (sui legami tra l ’anima e il corpo); 212-235 (sulla parte dom inante d ell’anim a); 236-248 (sulla vista); 249-256 (sui sogni); 257-259 (sugli specchi); 260-267 (sull’impiego dei sensi). 32 Cfr. ibid., p. CVI. 33 Quando il Waszink scriveva la sua introduzione a Calcidio, era ancora seguita la communis opinio che identificava A lbino con Alkinoos; ora si deve tener presente che la cosiddetta Epitome di Albino è distinta dal Didaskalikòs di Alkinoos. 34 Cfr. J.H. Waszink, Nachtràge zum Reallexikon fù r A ntike und Christentum, «Jahrb. f. Ant. u. Christ.» 15, 1972, pp. 236-244, pp. 240-241.

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Inoltre, ammessa l’ipotesi del Waszink, se vogliamo precisare fino a che punto Porfirio stesso sia stato riela­ borato da Calcidio, è difficile dare una risposta. Se ci si basa sui dati oggettivi, cioè sulla presenza di dottrine di Porfirio nel testo del commentatore latino, apparente­ mente si trova assai poco: sembra che nel Commentario di Calcidio si trovino con certezza sostanzialmente solo due dottrine di Porfirio, vale a dire, quella per cui la trasmigrazione delle anime colpevoli non si attua nel corpo di un anim ale, ma con la reincarnazione nel corpo di un uomo più bestiale ancora (cap. 198); la precisazione, a proposito del movimento disordinato della materia nel ricettacolo, che tale movimento non significa che la materia in sé è soggetta aH’instabilità, ma che lo sono solamente i corpi che derivano dalla imposizione della forma su di essa (cap. 301)35. In nes­ suno di questi due casi Calcidio asserisce di attingere a Porfirio, ma sappiamo che queste erano effettivamente dottrine insegnate dal filosofo di Tiro. Ma anche in tal caso sorgerebbero delle difficoltà, come ha ben visto il Dillon36. Se Porfirio fosse stato la fonte di Calcidio, quest’ultimo avrebbe fatto una cerni­ ta a ll’intern o del suo C om m en tario al «T im eo» di P iatone , scegliendo esclusivamente le dottrine più anti­ che, che sono quelle medioplatoniche, e trascurando tutte le più recenti, quelle neoplatoniche (che, in effetti, sono sostanzialm ente assenti), e ciò sarebbe strano. Viceversa, poiché Porfirio aveva commentato tutto il T im eo , Calcidio avrebbe fatto una scelta anche tra le dottrine platoniche da commentare: lo scrittore latino, infatti, non ha fatto come Porfirio, ma ha eseguito una traduzione in lingua latina di una parte soltanto del 35 Così va sostenendo St. Gersh, Middle Platonism and Neoplatonism. The Latin Tradition, volume II, Notre Dame, Indiana 1986, p. 450. 36 Cfr. J. Dillon, op. cit., pp. 401-408, soprattutto 403-407.

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Timeo (e cioè dall'inizio fino a p. 53c) ed ha preparato un commento relativo, anch’esso, ad una sezione soltan­ to del dialogo platonico, la quale, per di più, non corri­ sponde a quella tradotta, ma, precisam ente, è quella compresa tra la p. 3 le e la p. 53c dell’originale greco. Invece Porfirio si era dilungato sulla prim a parte del Timeo, compreso il mito di A tlantide37. Inoltre, nella discussione di p. 38d, sul significato dei “poteri contra­ r i” di Venere e di Mercurio, Calcidio presenta una spie­ gazione puram ente astronom ica, m entre P orfirio ne aveva avanzato una m olto elaborata, attingendo agli O ra co li C aldaici. A ltri e le m e n ti d el com m en to d i Calcidio sono in contrasto con le dottrine di Porfirio, o, comunque, l ’opera nel suo complesso non si occupa dei medesimi problemi che tratta Porfirio. Le obiezioni del Dillon, dunque, tendono a mostrare che Calcidio potrebbe essersi servito direttam ente di un filosofo m edioplatonico, senza l ’in term ed iazio n e di Porfirio. Tale m edioplatonico sarebbe stato ipo tetica­ mente una fonte siglata “S ”, la quale avrebbe im piegato le dottrine di Numenio; insieme ad essa, il commentatore latino sarebbe ricorso ad un’altra fonte, che gli avreb­ be permesso di spiegare le parti astronomiche e aritmologiche del Timeo. Però questo non basta: è noto che per altre dottrine (ad esempio, per quella della provvi­ denza e del fato) C alcidio non si serve di N um enio, bensì della fonte dello Pseudo Plutarco, autore del d e fa to 38. Calcidio, insomma, a nostro parere, si sarebbe comportato con molta libertà, con una libertà che di 37 Altrettanto avrebbe fatto Giam blico, stando a Proci., in Tim. I 204, 24 sgg. (cfr. framm. 25 Dillon). Tuttavia, se è valido quanto abbiamo detto sopra, che anche Calcidio rientra nella tradizione dei com m entatori a delle sezioni partico lari del Timeo, per cui non avrebbe spiegato tutto il dialogo, questa differenza di Calcidio da Porfirio e Giamblico viene ad assumere un m inor peso. 38 Tale fonte sarebbe Gaio, secondo il Theiler (cfr. W. Theiler, Tacitus und die antike Schicksalslehre, in: Phyllobolia fù r Peter von

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solito gli studiosi non concedono ad uno scrittore latino nei confronti di quelli greci; questo suo comportamento era dovuto, forse, alla sua simpatia per il cristianesimo, ed appare anche nel fatto che egli impiega per certe sezioni pure Origene e l’Antico Testamento. Anche per queste sezioni e per queste dottrine si è ipotizzato, ma secondo noi in modo non convincente, che esse fossero presenti nel Commentario al «Timeo» di Porfirio39. In conclusione, abbiamo a che fare con Calcidio, con un platonismo arcaico, di due secoli precedente, ma che dobbiamo pensare che fosse considerato adatto alla cultura latina dell’epoca. Interessante, quindi, sia per la contemporanea presenza di dottrine medio- e neoplatoniche (queste ultime, in grado ridotto, come si è d etto ), sia per quelle derivate dal cristianesim o. Dottrine più recenti, risalenti probabilmente a Porfirio, sono rintracciabili, certo, in Calcidio, ma sono sporadi­ che e non sono quelle “portanti” del suo sistema filoso­ fico. Dobbiamo ritenere, del resto, che il criterio di rin­ tracciare una “fonte unica”, che escluda ogni altro ele­ mento, sia troppo schematico; esso era tipico di una tendenza esegetica che ora appare abbandonata. Calcidio sembra essere un cristiano molto interessa­ to al platonism o, il quale ritiene possibile dedicarsi a ll’interpretazione di un’opera pagana senza che ciò costituisca un pregiudizio per la sua fede. Non manca­ no altri casi di atteggiamenti analoghi: Sinesio, nonoder Mùhll, Basel 1946, pp. 35-90, ripubblicato in: Forschungeti zum N eu platon ism us [«Q u elle n und S tu d ien zur G e sch ich te der Philosophie» X], Berlin 1966, pp. 46-103). 39 C osì il den Boeft, secondo il quale le considerazioni di C a lc id io sulle d o ttrin e eb raiche sareb b ero state ricavate dal Commento alla Genesi di Origene (den Boeft, Calcidius on Fate, cit., pp. 135-136), e il Beatrice, secondo cui la fonte di esse sarebbero, invece, i perduti Stromata di Origene (P.F. Beatrice, op. cit., pp. S4 sgg.). Sulla presenza di dottrine cristiane in Calcidio e sul suo cri­ stianesimo torniamo in un nostro contributo in onore di F. Romano.

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stante alcuni suoi scrupoli di coscienza, non ebbe diffi­ coltà a conciliare il neoplatonismo con la sua fede cri­ stiana, e Boezio scrisse la sua C onsolatio p h ilosop h ia e senza ricorrere né alla teologia né all’etica cristiana. Per accostarsi ad un’opera pagana, tuttavia, anche Calcidio ha osservato certe cautele, in quanto egli ha tradotto il testo greco con piccole, ma significative modifiche, allo scopo di adattarlo al pensiero cristiano. Questo è visibi­ le soprattutto dove P lato ne p arla del creato re e del mondo, cioè là dove il cristianesimo aveva una dottrina sua, autorevole e antica, da contrapporre a quella del

Timeo40. Calcidio avrebbe scritto la sua opera per dei Cristia­ ni, secondo il den B oeft41: il co m m en tato re voleva mostrare a Osio che anche i pagani insegnavano le stesse (o analoghe) dottrine dei Cristiani, e che quindi Platone poteva essere tranquillamente accolto anche da loro. M a al contrario, la Ratkowitsch ha sostenuto che Calcidio si rivolgeva ai pagani che dovevano fare il passo decisivo per convertirsi al cristianesimo42. N aturalm ente, il cri­ stiano Osio rimaneva il dedicatario dell’opera, ma essa era destinata agli strati reazionari della cultura tradizio­ nale che, come aveva mostrato l’esempio di Tiberiano, erano ancora legati al platonismo. Essi costituivano dei gruppi particolari, che si trovavano a mezza strada tra il cristianesim o e certe dottrin e, che erano affin i alla nuova religione, ma pur sempre schiettamente pagane, come quelle platoniche. Calcidio intendeva guadagnare al cristianesimo questi intellettuali pagani, che troviamo in numero notevole in quell’epoca di passaggio al cristia­ nesimo che occupò il quarto e il quinto secolo. 40 Queste volute modifiche (che quindi non sono sviste o im pre­ cisioni) della traduzione di Calcidio sono state finem ente esaminate dallo studio già citato della Ratkowitsch. 41 Cfr. den Boeft, Calcidius on Fate cit., pp. 132 ss. 42 Cfr. op. cit., pp. 160-162.

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4. Calcidio cristiano Accertato, dunque, come è oramai da tutti ricono­ sciuto43, che Calcidio è scrittore cristiano, nonostante che si dedichi ai problemi del pagano Tim eo , vale la pena riconsiderare ora le dottrine con le quali egli dovrebbe mostrare la sua fede. Innanzitutto, bisogna osservare che Calcidio cita quasi esclusivamente testi dell’Antico Testamento, e mai testi cristiani44. Ma la cosa è naturale, perché i Cristiani del mondo antico non sentivano nessuna separazione tra le due fonti della loro religione. Inoltre, Calcidio stesso o la sua fonte (cioè Origene) non trovavano nel Nuovo Testamento le conferme che potevano tornare utili per l’esegesi di certe dottrine che ad essi stavano a cuore. Del resto, l’Antico Testamento era, per i Cristiani stessi, la fonte di molte concezioni “filosofiche”, come la cosm ologia e l ’antropologia: non aveva, in fatti, l ’Antico Testamento spiegato l’origine del mondo e del­ l ’uomo? Ad esso si rifanno scrittori come Lattanzio, Gregorio di Nissa e Nemesio. M eno giustificato è, però, il fatto che, per meglio definire il cristianesimo di Calcidio, ci si sia limitati a prendere in considerazione solo le dottrine ebraiche presenti nel commento: come vedremo poi, è opportu­ no cercare anche qualche traccia di effettivo cristianesi­ mo. Inoltre, le dottrine ebraiche fino ad ora sono state con siderate quasi esclusivam ente per individuare la fonte da cui provengono, mentre a nostro parere esse potrebbero servire anche (e soprattutto) per farci cono­ scere qualcosa di più del pensiero di Calcidio stesso, ed in particolare la sua caratteristica mescolanza di cristia­ nesimo e platonismo. 43 Basti leggere Waszink, Timaeus cit., pp. XI-XII. 44 Essi sono elencati e dal Beatrice, op. c i t p. 83.

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Per quello che riguarda la loro origine, è diffusa la convinzione che esse fossero presenti nel C om m en to alla G enesi di Origene, da cui Calcidio le avrebbe rica­ vate con o senza la mediazione di Porfirio45; una propo­ sta, avanzata dal Sodano quaran tan ni fa46, che le cita­ zioni dall’Antico Testamento siano state volontariam en­ te inserite da C alcidio stesso nel suo com m ento, fu respinta troppo precipitosamente dal W aszink e da altri sulla scia del grande studioso olandese, il quale osserva­ va che esse erano connesse troppo strettam ente con il contesto della dimostrazione filosofica, che secondo lui derivava, appunto, da Porfirio, per cui non era pensabi­ le che fossero delle inserzioni personali dello scrittore latino47. Un esame dei passi in questione non ci perm ette, tut­ tavia, di dare una risposta univoca. Alcuni di essi posso­ no effettivamente essere derivati da Origene, come quel­ li in cui lo scrittore affronta una tematica specifica e dif­ ficile; altri derivano, a mio parere, proprio dalla rielabo­ razione che Calcidio ha dato al suo materiale.

45 II Waszink (Plato latinus... Timaeus cit., p. XI) ha pensato che le dottrine ebraiche di Calcidio derivino da Numenio, la cui simpa­ tia per l ’ebraismo è stata dimostrata soprattutto dal W aszink stesso (cfr. Porphyrios und Numemos, «Entretiens sur l ’Antiquité Classique X II», V andoeuvres-G enève 19 6 5 , pp. 3 3 -7 8 , p. 5 0 -5 3 ). C alcidio, dunque, le avrebbe riprese da Numenio o direttam ente o attraverso l'in term ed iazion e di P o rfirio , o attrave rso l'in term ed ia zio n e di Origene, come vorreb be il van W ind en (Calcidius on Matter. His D octrine and Sources. A C h ap ter in th è H isto ry o f P lato n ism , «Philosophia Antiqua» IX, Leiden 1959, p. 66). 46 Cfr. A.R. Sodano, Su una recente edizione critica del commento di Calcidio al Timeo di Platone, G IF 1963, pp. 353-363. 47 Cfr. per questa replica al Sodano, J.H . W aszink, Porphyrios und Numenios, in: Porphyre, cit., p. 59, seguito dal den Boeft (J. den Boeft, Calcidius on Fate, cit., p. 135) e dal Beatrice, op. cit., pp. 8384.

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Nel primo caso si possono collocare, come hanno osservato già il Waszink e molti studiosi prima di lui48, la citazione e l’esegesi di Gen 1, 1-2 al cap. 276, e quin­ di tutta la sezione dei capp. 276-278: in tale sezione Calcidio cita il testo biblico traducendo in modo preci­ so la versione dei Settanta, a cui fa seguire per comple­ tezza quella di Aquila49 e di Simmaco, omettendo, inve­ ce, quella di Teodozione. Siffatta completezza, tipica di u na v asta eru d izio n e, può d erivare solam ente da Origene50 (che del resto è espressamente citato in quel contesto), per cui Calcidio avrebbe attinto la trattazione dei capp. 276-278, nella quale è esposta la dottrina degli Ebrei sulla materia (de silva) molto verisimilmente dal C om m ento alla G enesi dell’Alessandrino. Analogamente, la classificazione delle varie forme di sogni, esposta al cap. 256, deriva quasi sicuramente da Filone: attraverso la mediazione di Numenio, come ha osservato il Waszink51, o non, eventualmente, attraverso quella di Origene?

48 Cfr. ad locum. 49 II testo latino della traduzione di Aquila («terra porro inanis erat et nihil») corrisponde a quello citato anche da G regorio di Nissa, Hexaem. Hom., PG 44, 80B. 50 Cfr. Beatrice, op. cit., p. 78. Del resto, tutto il ragionamento dei capp. 276-278 deriva da Origene. 51 Su cui da tempo J.H. Waszink, Die sogennante Fiinfteilung der Tràume bei Chalcidius und ibre Quellen, «Mnemosvne», III 9 (1940), pp. 65-85.

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4,1. Individuazione del cristianesimo di Calcidio Ma per i casi restanti si deve fare un discorso diver­ so. Innanzitutto, per nessuno di essi ricorre la preclusio­ ne del W aszink, che essi siano intim am ente connessi con la struttura della dim ostrazione. Infatti si tratta sempre di esempi citati a conferma di un ragionamento già fatto, e tali esempi possono essere presenti o assenti indifferentemente. Uno di questi è costituito dalla trattazione del fato. Calcidio sta presentando in sostanza, a partire dal capi­ tolo 151, una dottrina platonica che si contrappone al determinismo stoico: essa si ispira a quella esposta dallo P seudo P lu tarco , autore del d e f a t o , risale forse al medioplatonico Gaio e mostra stretti paralleli con il d e natura hom inis di Nemesio. Nel cap. 154 Calcidio addu­ ce, a sostegno della sua tesi, la storia genesiaca (iuxta M oysea) della proibizione, intimata ai nostri progenitori, di mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male: una volta che fu posta quella proibizione, obbedire o disobbedire era in potere del libero arbitrio di Adamo e di Èva, ma le conseguenze, nell’un caso e n ell’altro, sarebbero state necessarie e fatali. Calcidio non aveva certo bisogno di ricorrere a Origene o Porfirio per intro­ durre questo esempio, che era noto ad ogni cristiano. lì medesimo discorso di metodo si può fare a pro­ posito degli esempi successivi, presentati nel cap. 171. Calcidio si basa su leggi e norme formulate al condizio­ nale: «si praeceptis meis parebitis ... si contem pseritis». Sono, come ha già osservato il W aszink, delle norme derivate dal Deuteronomio (6,3 e 11,9 ss.): c’era biso­ gno che Calcidio ricorresse a Origene e a Porfirio per conoscerle? Esse saranno dovute, verisim ilm ente, alla rielaborazione cristiana che C alcidio ha dato al suo lavoro di tipo e di contenuto platonico. La medesima patina di cristianesimo è data poco più oltre (cap. 172),

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sempre dall’autore stesso. Egli, infatti, fa riferimento agli assassini di Isaia e di Geremia, che equipara alla condanna a morte di Socrate o alla condanna all’esilio di Aristide, come esempio della depravazione del giudi­ zio umano: tutte queste azioni perverse non sono condi­ zionate dal fato, mentre lo sono le loro conseguenze. I passi relativi alla demonologia possono intendersi soprattutto come un tentativo, da parte di Calcidio, di distinguere tra demonologia pagana (e platonica in par­ ticolare) e demonologia cristiana. Tale è, ad esempio, quello costituito dai capitoli 132-133, dedicati a indivi­ duare la natura dei sancti angeli e dei daemones di cui parlano gli Ebrei, che comprende un riferimento perso­ nale dello scrittore ad Osio, conoscitore del problema52. Più mi meraviglia il fatto che Calcidio al cap. 135, quan­ do dice che i demoni che fino ad allora ha descritto («hos ... et huius modi daemonas») sono chiamati “da alcuni” desertores angeli. Costoro non possono essere che gli Ebrei, perché in quel passo Calcidio si riferisce alla ribellione degli angeli narrata da Gen 6,1 ss., ed il termine cosi generico (“alcuni”) non dovrebbe essere impiegato da un cristiano per indicare il testo biblico. Ma, anche qui, il racconto biblico degli angeli ribelli era una cosa ovvia per un cristiano, e non era necessario che Calcidio lo desumesse da Porfirio. E poi, si noti, questa allusione è all’interno di una sezione, come quel­ la della demonologia, la quale era, per molti aspetti, comune al platonismo e al cristianesimo: Calcidio sem­ bra essere sullo spartiacque tra le due concezioni, ma doveva pur dire qualcosa in senso cristiano, se voleva che il suo commento avesse una caratterizzazione cri­ stiana.

52 Importanti, per questa dottrina, le osservazioni del den Boeft, Calcidius on Daemons, pp. 32-46

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4,2. Cristianesimo e medioplatonismo in Calcidio Più interessanti, infine, per definire il cristianesimo di Calcidio sono alcuni passi che mostrano come l ’adat­ tamento del platonismo al cristianesimo non è perfetta­ mente riuscito (e comunque noi riteniamo, anche in questi casi, che le dottrine cristiane sono state inserite da Calcidio medesimo e non desunte dal Commentario al «Tim eo» di Porfirio). Così, a ll’interno della lunga trattazione dedicata a ll’anima cosmica, che è svolta secondo le dottrine di Numenio, nel cap. 55 Calcidio trova, per la sua interpretazione, una conferma nella «eminens doctrina sectae sanctioris et in comprehensio­ ne divinae rei prudentioris», cioè quella d ell’Antico Testamento, e precisamente nel passo di Gen 1, 26-27. La dottrina ebraica, infatti, asserisce che Dio, dopo aver creato il mondo sensibile, creò il genere umano, e pla­ smò il corpo p ren d en d o una p a rte d e lla te rra . Innanzitutto si noti l ’interpretazione puramente filosofi­ ca dell’AT, per cui non viene fatto nessun riferimento alla creazione di Adamo. Di conseguenza sorge la diffi­ coltà di intendere corpus quidem eius come riferito a genus hominum e non ad un ovvio e sottinteso Adamo. Calcidio, comunque, prosegue: vitam vero eidem (sci, homini) ex convexis accersisse caelestibus postque intimis eius inspirationem pro­ prio flatu intimasse, inspirationem hanc dei consi­ lium animae rationemque significans. Qui è da notare che C alcidio, se in terp reta alla maniera di molti scrittori cristiani, da Tertulliano a Gregorio di Nissa, il “soffio” anim atore d e ll’uomo come l ’anima razionale presente in lui, afferma però che Dio prese dalla volta del cielo (ex convexis... caelestibus) la vita dell’uomo, il che è una dottrina aristotelico-stoi-

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ca, e non cristiana: la vita, infatti, non consisterebbe nel soffio inspirato da Dio nell’uomo precedentemente creato dal fango della terra, come normalmente inten­ devano i cristiani, ma sarebbe stata inserita nell’uomo da Dio mediante il soffio. Più avanti, il cap. 130 riprende la dottrina dell’Epinom ide (983 bc). E assurdo, dice Calcidio, credere che l ’uomo, con la sua natura così difettosa e manchevole, sia un essere animato razionale, e non attribuire invece razionalità e vita alle stelle, il cui corso è immutabile e il cui corpo indissolubile. Anche qui abbiamo a che fare con una dottrina aristotelico-stoica di grande diffusione, che Calcidio conferma con la citazione di Gen 1,14, ove si dice che Dio, exornator mundi53, avrebbe creato il sole, la luna e le stelle perché avessero il loro compito ben preciso e stabile. L’osservazione è interessante nella sua apparente non “ortodossia”: il testo biblico non può certo essere interpretato come lo intende Calcidio. In realtà sappiamo che alcuni scrittori cristiani (ad esem­ pio, Origene) credevano che le stelle fossero corpi ani­ mati e razionali, e Calcidio potrebbe aver conosciuto questa dottrina di Origene. Il cap. 219 contiene un ragionamento la cui struttura non è del tutto chiara. Siamo all’intemo di una sezione, iniziata al cap. 208, nella quale lo scrittore si sofferma a parlare della natura dell’anima, sia di quella razionale sia di quella irrazionale, e della sua collocazione. Dopo che, prendendo spunto dalla dottrina di Empedocle, egli ha esaminato il rapporto tra anima e sangue del cuore (cap. 218), ancora una volta Calcidio ricorre alla dottrina degli Ebrei per confermare quanto sta dicendo. Facile la citazione dell’assassinio di Abele (il sangue di 53 II termine è un po’ vago, ma costante in Calcidio: esso può significare sia la creazione in senso cristiano sia l’ordinamento del mondo in senso platonico. Insiste sull’aspetto non cristiano di que­ ste espressioni G. Reydams-Schils in un recentissimo contributo (Calcidius Christianus? God, Body and Matter, in Metaphysik und Religion..., Miinchen-Leipzig 2002, pp. 193-211.

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tuo fratello grida alla mia presenza, dice Dio a Caino [Gen 4.10]), e quindi di un altro passo biblico (Gen 9,4: «Non edetis carnem cum sanguine, quia omnium animalium sanguis anima est»). Allo scrittore importa, dunque, asserire che il testo biblico con il termine san­ guis vuole significare l’anima. Se questa espressione è intesa adeguatam ente, nel senso, cioè, che il sangue degli animali trasporta l’anima irrazionale, allora, prose­ gue Calcidio, tale affermazione è esatta. Ma se gli Ebrei ritengono che il sangue sia effettivamente l ’anima razio­ nale dell'uomo, «credant sibi quod Deus a se homini­ bus factis inspiraverit divinum spiritum ...» , cioè faccia­ no attenzione al racconto biblico, perché da esso si rica­ va invece che Tanima razionale è lo spirito di Dio, sof­ fiato nell’uomo54 e non è nel sangue. Pertanto non è logico che questa parentela d e ll’uomo con Dio e la razionalità stessa dell’uomo siano rappresentate dal san­ gue: il sangue è solamente l’elemento che trasporta l’ani­ ma razionale. Questo è confermato anche dal cap. 300, ove si ripresentano le stesse concezioni: l ’anima raziona­ le è l’anima che è stata data all’uomo ex inspiratione ca e­ lesti, mentre l ’altra anima, cioè quella vivente, è quella degli animali, tra i quali si trova anche il serpente che sedusse con le sue promesse i nostri primogenitori55. Si è visto a p. XXXV che Dio è definito al cap. 130 exornator mundi, cioè creatore o ordinatore del mondo. Più oltre (cap. 132) lo scrittore impiega l’analogo term i­ ne conservator. Calcidio senza dubbio crede che Dio sia 54 Per questo motivo, osserva Calcidio, «estque nobis cum divi­ nitate cognatio diique esse dicimur et filii summi dei». Secondo il Waszink (p. XI-XII) il riferimento sarebbe a tre passi evangelici (Gv 10,34; Mt 5,9; Le 20,36), ma è possibile anche che Calcidio pensi a Sai 81,1 e 81,6, che erano due passi particolarmente diffusi nella let­ teratura cristiana antica. 55 Anche questo elemento del racconto biblico è (inutile dirlo) così famoso che può essere stato ripreso da Calcidio personalmente. Ma non staremo a ripeterci ancora a questo proposito.

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creatore del mondo, ma in un passo ben noto (cap. 59) da buon medioplatonico afferma che l ’origine del mondo è causativa, non temporaria. In lui si coglie una oscillazione tipica della sua posizione, che sta a metà tra il cristianesimo e il platonismo. Calcidio, infatti, non sostiene mai esplicitamente una creazione del mondo ex nihilo secondo la dottrina cristiana. Quando definisce Dio fabricator, Calcidio impiega quel termine quasi sem­ pre come traduzione del platonico SripioupYCx;, il che implica, come è logico, una creazione causativa-. Dio, di conseguenza, è fabricator ... intellegibilis delle stelle (cap. 139). Oppure, traducendo òrKiioupyòq 7tarf|p ie di Tim. 41a7, nei capp. 138 e 139 dice opifex paterque. E poco prima afferma: «ceteras ratione carentes et occi­ duas animi portiones... totumque corpus iussu et ordi­ natione architecti dei ... assignata esse» (cap. 137); que­ sto Dio è opifex et intellegibilis. Come si vede, non è possibile constatare in Calcidio la presenza di una crea­ tio ex nihilo, che invece era diventata una concezione usuale tra i Cristiani a partire dal II secolo. Nel resto del commento Calcidio non presenta delle sezioni che apertamente si rifacciano al cristianesimo, in quanto il suo interesse di commentatore di Platone è prevalente. Abbiamo cercato, però, nelle nostre annota­ zioni di segnalare tutti i passi in cui sembra percepibile un’eco o un influsso di dottrine cristiane, le quali po­ trebbero aver caratterizzato in quel senso il modo di esprimersi dello scrittore.

5. Struttura del Commentario al «Timeo» di Platone Il commento è organizzato in sezioni, che Calcidio stesso chiama tractatus (cap. 31), e spiega il testo plato­ nico con maggiore o minore ampiezza a partire da Tim. 3 le. L’introduzione elenca ventisette sezioni, anche se ce ne sono giunte solamente sedici; l’ultima è quella

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sulla materia, con la quale lo scrittore si arresta a com­ mentare Tim. 53 c. La traduzione che precede il com­ mento giunge allo stesso punto, e non va oltre: pertanto si può concludere con sufficiente verisimiglianza, anche sulla base di quello che abbiamo osservato nelle pagine precedenti, che Calcidio abbia volutamente terminato il suo lavoro in quel modo, e non che esso sia rimasto incompiuto, come alcuni hanno ipotizzato. L’opera è divisa in due parti, delle quali la prima ter­ mina commentando Tim. 39e3. La prima parte è dedi­ cata alle opere della provvidenza divina (capp. 8-267), e cioè alle opere d ella somma razio n alità, m entre la seconda (capp. 268-355), è dedicata alla materia, cioè alle opere della necessità. Questo è vero secondo la afferm azione di P latone stesso: l ’o rigin e di questo mondo, infatti, è mista, e fu prodotta dalla necessità e dall’intelletto {Tim. 47e-48a). In ogni caso, tale divisio­ ne non ha nessun p arallelo con q u ella eseg u ita da Proclo nel suo Commentario al «Tim eo», che segue pro­ babilmente la divisione di Porfirio: entrambi, ad esem­ pio, terminavano il primo libro del loro commento a Tim. 27b, cioè in un passo che Calcidio nemmeno ha cominciato a esaminare. Una introduzione sottolinea, in apertura, le grandi difficoltà del Timeo. L’opera platonica discute la realtà dell’universo e fornisce la causa e la spiegazione di tutto quello che esiste, per cui di necessità sorsero varie que­ stioni apparentemente non correlate con quella princi­ pale, e cioè sulle figure piane, sui corpi solidi, sull’ani­ ma che dà la vita al mondo, sul suo movimento e sul movimento delle stelle. Bisognava, quindi, affrontare questi problemi ricorrendo a delle determinate discipli­ ne, secondo quel criterio di “aggiornamento” del mate­ riale platonico di cui si è parlato sopra (p. IX) (cap. 2). Calcidio ha deciso di affrontare l ’esegesi solam ente delle cose oscure, mentre ha omesso di parlare della parte iniziale del Timeo, in cui si trovava la sem plice

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narrazione degli antefatti del dialogo (capp. 3-4). Essi sono riassunti al cap. 5. Segue un’interpretazione del m ondo, che prende lo spunto d a ll’argom ento del Timeo. Tale interpretazione è singolare. Nei capp. 5 e 6 Calcidio sostiene che il Timeo esamina i temi della legge naturale e della giustizia (naturalis aequitas ), in contrap­ posizione alla Repubblica , che tratta della giustizia tra gli uomini (iustitia in rebus humanis). Come Socrate ha descritto la giustizia in una città ideale del mondo, così Timeo ha descritto la giustizia che vige nel mondo reale. La legge naturale e la giustizia costituiscono quel tipo di giustizia che gli dèi impiegano vicendevolmente in quel­ la che è la comune città e repubblica (se così la si può chiamare) di questo mondo sensibile. E strana questa accentuazione del carattere etico del Timeo. Effetti­ vamente, quel dialogo platonico tratta delle leggi divine e come debbono comportarsi gli uomini che vogliono im itarle. Secondo la Reydams- Schils56, qui potrebbe essere particolarmente sensibile l’influsso dello stoici­ smo. Calcidio, infatti, parla di una “repubblica cosmi­ ca”, un concetto che era stato sviluppato pienamente dagli Stoici, per cui è possibile, secondo la studiosa, che essi abbiano letto il Timeo vedendo in esso una specie di Repubblica trasportata sul piano cosmico57. 56 Cfr. G. Reydams-Schils, Demiurge and Providence. Stoic and Platonist Readings of Plato’s Timaeus, Turnhout 1999, p. 213. La studiosa, del resto, dedica il suo lavoro proprio a rintracciare la pre­ senza di elementi stoici nel commento di Calcidio, anche se i suoi risultati non sono sempre probabili e la sua dimostrazione non sem­ pre convince. 57 A tal proposito la studiosa rimanda (p. 214 n. 22) alla interpre­ tazione del mondo «come una repubblica perfettamente retta dalle leggi» (SV F I 98), e a un passo di Cicerone, nat. deor. II 31,78 (= SVF II 1127): gli dèi sono «provvisti di ragione e uniti tra di loro come in una comunità e una società civile, e governano l’universo come una specie di comune repubblica e città» («... rationis compotes inter seque quasi civili conciliatione et societate coniunctos, unum mun­ dum ut communem rem publicam atque urbem aliquam regentis»).

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Ciò detto, Calcidio prosegue affrontando il proble­ ma della creazione del mondo (capp. 8-25), nella quale svolge l ’esegesi di Tim. 31c-32c. Più in particolare, i capp. 23-25 costituiscono una trattazione unitaria sulla origine del mondo. In questo contesto si riscontrereb­ bero degli elementi di dottrine neoplatoniche (le note al testo li metteranno in evidenza), uniti a concezioni di o rigin e m ed io p lato n ica. Ne co n segue, seco ndo il Waszink, che Calcidio potrebbe avere attinto al Com­ mentario al «Timeo» di Porfirio, nel quale, comunque, sarebbero confluite, in una specie di sezione dossografi­ ca, varie dottrine medioplatoniche58. La sezione contie­ ne innanzitutto un’ampia esposizione delle dottrine della proporzione, della aritm etica, della geom etria e dell’armonia. Ora, questa trattazione è parallela ad una successiva (capp. 58-91), la quale è una traduzione del­ l ’analogo commento che Teone di Smirne pose nella sua opera (Teone, a sua volta, si era servito del commento di Adrasto al Timeo medesimo, come si è detto sopra, pp. VII-VIII). Di conseguenza, è verisim ile che anche i capp. 8-19 derivino da Adrasto59. Secondo il Gersh60, il m ateriale fornito da Adrasto, che era peripatetico, si lim ita a queste sezioni di contenuto aritm ologico e astronomico; per il resto, il commento di Calcidio attin­ ge a testi esegetici più specificam ente platonici, che 58 Cfr. J.H . W aszink, Studien zum T im aioskom m entar des Calcidius, Leiden 1964, pp. 69-82, soprattutto, p. 80. Tutte queste ricostruzioni di Waszink, mirate a individuare la ‘fonte’ (un concetto oramai antiquato, per alcuni versi) di Calcidio sono mirabili per la loro acutezza e per la somma maestria con cui lo studioso domina la materia, ma talvolta lasciano sussistere qualche dubbio sulla loro plausibilità, dato il carattere artificioso che posseggono. 59 Cfr. J.H. Waszink, Studien cit., pp. 31-36. Per questo proble­ ma e per quelli che vedremo in seguito, si pone sempre la domanda se Calcidio dipenda da Porfirio o da altre fonti. Abbiamo già discus­ so sopra la questione. 60 Cfr. a tal riguardo St. Gersh, op. cit., p. 431.

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sono presenti già nella sezione successiva; il Waszink, invece, ritiene che tutta questa prima parte dell’opera risalga ad Adrasto, anche se con qualche inserzione da testi medioplatonici, ed, eventualmente, neoplatonici, come Plotino e Porfirio (ad esempio, i capp. 101 e 105107). Sempre nella sezione cosmologica si spiega come sia stata formata l’anima cosmica (capp. 26-55); si illustra la mescolanza che l’ha prodotta (capp. 27- 31) e la divisio­ ne dell’anima in parti (capp. 32-50). Il tutto corrispon­ de a Tim eo 35ab; vengono poi alcune osservazioni secondarie, che comprendono, a mo’ di conferma, la dottrina degli Ebrei sulla origine dell’anima (cap. 55). E, questa, la sezione dedicata alla divisio animae. Tale sezione, come ha dimostrato il Waszink61, sarebbe stata ricavata da Calcidio, come le altre di questa prima parte, dal Commentano al «Timeo» di Adrasto, senza la intermediazione dell’analogo Commentario al «Timeo» di Porfirio. Quindi, si spiega l’esistenza dell’armonia tra l ’anima cosmica e il corpo del mondo (capp. 56-97); questa trattazione comprende anche un ampio excursus di contenuto astronomico, sulle stelle fisse e sui pianeti (capp. 59-91); altre spiegazioni secondarie sono esposte ai capp. 92-97, con riferimento a Timeo 36bd. Infatti, analogamente a quanto era avvenuto per l ’approfondimento di certe dottrine del Timeo , alle quali erano stati dedicati durante il medioplatonismo dei commenti specifici, anche per quanto riguarda le singole interpretazioni, «gli sforzi dei commentatori risultavano spesso orientati a riempire le lacune della trattazione platonica, ad aggiornarne la terminologia, a spiegarne le imprecisioni. A ll’interno di un quadro ermeneutico di questo genere, è evidente che la sezione astronomica del dialogo poteva dare luogo a particolari 61 Studien cit., pp. 1-30.

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ditti colta. Se, infatti, l ’esigenza di aggiornare la tratta­ zione platonica poteva venire soddisfatta senza partico­ lari problemi nell’ambito dell’armonia musicale, dove tutto sommato il contenuto del Timeo non presentava clamorose divergenze dottrinali nei confronti del livello raggiunto dalla disciplina nei secoli successivi, le cose stavano in maniera del tutto diversa per quanto concer­ ne il campo dell’astronomia»62. Analoga è la sezione successiva, dedicata a spiegare quale collegamento esiste tra il corpo del mondo e l ’ani­ ma cosmica (capp. 98-118): l ’anima dà vita al corpo del­ l ’universo (capp. 98-104) e, all’interno di esso, si deve distinguere tra tempo ed eternità (capp. 105-118). Perché questa lunga discussione sull’anima cosmica, che form a come una sezione autonom a (la d iv is to a n im i ) a ll’interno del com m ento? Com e osserva il Ferrari63, anch’essa rientra nella prassi dei m edioplato­ nici, di comporre quaestiones, zetemata su singoli pro­ blemi del testo platonico. La seconda sezione di questa prima parte dell’opera di Calcidio è più ampia: essa è dedicata allo stato e all’ordine del mondo esistente, e si divide in varie sottosezioni (capp. 119-267). Innanzitutto si parla degli esseri immortali (le stelle, gli dèi invisibili, i demoni) (capp. 120-136); la sezione sui dem oni deriva da un testo medioplatonico, che risaliva, in ultima analisi (come le altre trattazioni dei medioplatonici sulla demonologia, del resto), all 'Epinomide: lo scrittore usato da Calcidio come fonte era verisimilmente vicino agli scrittori della cosiddetta “scuola di G aio”. Poi si tratta del genere delle creature mortali, in particolare, l’uomo (capp. 137267). All’interno di questa seconda sezione si discutono vari problemi. Innanzitutto quello della creazione degli esseri mortali (capp. 137-141) e soprattutto quello del 62 Cfr. Ferrari, op. cit., p. 214. 63 Cfr. op. cit., p. 209.

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fato e del libero arbitrio, trattato ampiamente (capp. 142-190). Questa sezione appare, per il suo contenuto, assai vicina ad un altro testo medioplatonico, il de fato, a torto, attribuito a Plutarco. Si discutono varie definizio­ ni del fato (capp. 143-159); si conduce una polemica contro gli Stoici, assertori di un assoluto dominio del fato sul mondo e sull’uomo (capp. 160-175), ed infine si espone la dottrina platonica al riguardo (capp. 176-190). Il passaggio alla sezione successiva non è molto rigo­ roso: innanzitutto si parla delle anime e della loro tra­ smigrazione (capp. 191-199); quindi, una discussione più ampia è dedicata al genere umano, concludendo la prima parte del commento (capp. 201-267). In questo contesto si discute come prima cosa dell’unione tra anima e corpo (capp. 201-207) e delle differenze tra le singole anime (capp. 208-211). Poi si considera l’uomo, distinto nelle varie membra: la testa, nella quale risiede la parte dominante dell’anima (capp. 213-235), e i sensi del corpo (capp. 236-267). La trattazione dedicata alla vista (capp. 236-248) introduce una breve sezione rela­ tiva a un tipo particolare di visioni, cioè i sogni (capp. 250-256). La seconda parte del trattato è omogenea e dedicata alla materia (capp. 268-355): essa deriva probabilmente da una fonte che ha fatto notevole uso di Numenio. Si esaminano la natura e l’origine della materia (capp. 268274), si presenta un’ampia sezione dossografica, conte­ nente le varie opinioni dei filosofi al riguardo, dai pre­ so c ra tic i, ad A ristotele, agli Stoici, a P itagora e a Platone; tra di essi sono compresi gli Ebrei (cioè quanto si legge nella Genesi) (capp. 275-301). Dopo questa parte, che espone sostanzialmente le interpretazioni dei filosofi che lo hanno preceduto, Calcidio presenta le sue interpretazioni sul problema della materia (capp. 302355), e con questa trattazione si conclude anche il trat­ tato. La discussione condotta da Calcidio in questa sezione corrisponde a Timeo 49a-53c.

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6. Conoscenze filosofiche di Calcidio: le citazioni Tra gli autori ricordati da Calcidio figura innanzitut­ to Platone, del quale vengono citati o parafrasati o allu­ si: il Teeteto, con il paragone della mente con una tavo­ letta di cera (194cd = cap. 328); il Parmenide, con l ’af­ fermazione che il mondo delle forme è unico e m oltepli­ ce (129bc e 136a = cap. 272) e con il riferimento alla discussione sulla partecipazione delle cose alle forme (132c-133a = cap. 335); il Fedro, a proposito della dot­ trin a d e ll’anim a auom oventesi e q u in d i im m o rtale (245c-246a = cap. 57 e 228); il Teage, con la descrizione della voce demoniaca che richiama Socrate (128d = cap. 255); la Repubblica, con la analogia tra il sole e la forma del Bene (508 bc = cap. 242), e con il mito della caverna (514a ss. = cap. 340); l ’analogia tra la linea divisa e i quattro livelli di coscienza (509d-511c; 533d-534a = cap. 342); le Leggi, con la classificazione in dieci tipi dei movimenti del corpo e dell’anima (893b ss. = cap. 262). Platone, dunque, ha la preminenza, come è logico, nelle citazioni, cioè nell’aspetto esteriore dell’opera di Calcidio. Ma non mancano, in altri passi, citazioni di altri autori classici, come A ristotele (Fisica, M eteo ro ­

logica, Lanima, Le parti d egli animali). Interessante, per comprendere il carattere composi­ to del C ommentario al «T im eo» di P latone è la presenza in esso di autori cristiani, come O rigene (a cui lo scrit­ tore fa riferimento per il C om m ento alla G en esi ) o giu ­ dei di lingua greca, come Filone di Alessandria (per La

creazione d el m ondo). 7.

Le dottrine del Com m entario al «T im eo » di Platone

La struttura portante del comm ento calcidian o è costituita dalla speculazione medioplatonica, come ora­ mai abbiam o detto più volte, e più precisam ente in

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quella forma di tipo platonico-aristotelica che costitui­ sce una delle correnti del medioplatonismo stesso. L’interesse per l’aristotelismo è attestato già dall’impie­ go delle dottrine del peripatetico Adrasto, che si trova­ no nelle sezioni astronomiche, aritmologiche e armoni­ che, oltre che da alcune dottrine che esamineremo tra breve e che ci riconducono a quel medioplatonismo che è tipico della cosiddetta “scuola di Gaio”.

7,1. La teologia dei tre principi Questo medioplatonismo di Calcidio è attestato, in primo luogo, dalla presenza nel commento della cosid­ detta “teologia dei tre principi”, che era stata tipica di filosofi del I e II secolo, come Ario Didimo, Alkinoos ed A puleio, e dei testi dossografici d ell’epoca. I tre principi dell’universo sono Dio, la forma (exemplar) e la materia, la hyle, latinizzata da Calcidio con il calco di silva. Naturalmente, presentandoci una vera e propria trattazione della “teologia dei tre principi”, Calcidio è molto più dettagliato e approfondito di quanto non fos­ sero i manuali scolastici o le dossografie. Ed anche la dottrina relativa al secondo principio, cioè alla materia, appare in Calcidio notevolmente più complessa. Ad essa è dedicata la lunga sezione finale del commento (capp. 321-354), che ha alcuni antecedenti ai capp. 268 e 279. Anche nella trattazione destinata a questo argo­ m ento si trovano molte considerazioni ricavate dal m edioplatonism o. Calcidio, infatti, parla ancora di mondo intelligibile, di forme e di idee. Sottolinea la tra­ scendenza di questi principi, la loro semplicità, la loro natura incorporea ed eterna; essi sono paradigmi (exem­ pla) o archetipi (archetypa) delle cose sensibili. Il rapporto tra Dio e la materia appare in Calcidio soprattutto come rapporto tra provvidenza e necessità. La provvidenza viene spiegata nel senso che

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... penetratam siquidem eam (sci. silvam) usque quaque divina mens format plane, non ut artes formam tribuentes in sola superficie, sed perinde ut natura atque anima solida cor­ pora permeantes universa vivificant (cap. 269). In questo passo Calcidio manifesta una forma di sin­ cretismo tra platonismo (con l ’intervento della mente di Dio) e stoicismo (in quanto ha luogo l ’operazione di Dio nella materia, che egli pervade). Alle decisioni della mente provvidenziale di Dio si presta, obbediente, la materia, che desidera essere ornata («consultis providae mentis exornationique se facile praebente»: capp. 269270). La materia, a sua volta, è descritta in una condi­ zione di squalor ac deform itas (cap. 354), per indicare quello che dice Platone, che, cioè, là dove è assente l ’in ­ tervento di Dio, non hanno luogo l ’ordine e la bellezza (Tim. 53b). Per quanto riguarda i rapporti tra Dio e la forma, Calcidio descrive Dio, analogamente, come provviden­ za, intelletto, mente; la form a è sia trascen den te sia immanente (oltre che nella materia) anche nelle forme dei corpi materiali. La forma, infatti, è un’idea che è l ’e­ terno pensiero di Dio («idea quae intellectus dei aeterni est aeternus»: cap. 330), o il perfetto pensiero di Dio («perfectus intellectus Dei»: cap. 339), o, comunque, i pensieri di Dio («intellectus eius, quas ideas vocam us»: capp. 342; 349). In tutto questo C alcidio si riallaccia alla tradizione platonica presente già nel I secolo (atte­ stata da passi famosi, come Seneca, epist. 58 e 65) e nel II (in Alkinoos, didaskalikòs 9, e in A puleio, Viat. I 6,192-193). L’intelletto di Dio è chiamato in altri modi, quali “provvidenza”, e “volontà”, ed è secondo al prin­ cipio più alto, che è Dio.

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7,2. Dio Per quello che riguarda il primo principio, cioè Dio, Calcidio ripete le considerazioni tradizionali sulla sua assoluta trascendenza. Quello di Calcidio non è un Dio personale (come sarebbe stato logico intendere per un cristiano): spiegando la necessità della presenza dei demoni, mediatori, come voleva il medioplatonismo, tra il dio e gli uomini, Calcidio afferma: solus quippe deus, utpote plenae perfectaeque divi­ nitatis, neque tristitia neque voluptate contingitur (cap. 133). Più in particolare, Dio è il summum bonum, verso il quale tendono tutte le realtà esistenti, in quanto è pieno di ogni perfezione e non bisognevole di nessuna cosa (cap. 176). In generale, si può dire che Calcidio impiega senza difficoltà gli attributi di Dio che si conoscono come ovunque diffusi nel platonismo a partire dal I secolo d.C. Comunque, si possono trovare nelle consi­ derazioni di Calcidio anche alcune novità. Il commenta­ tore, infatti, sostiene che Dio trascende la sostanza: esso, cioè, non è un’essenza, anche se è nell’esistenza (e questo potrebbe corrispondere ad una certa vulgata di tipo neoplatonico, che vede nell’uno qualcosa di supe­ riore alla sostanza). Altre sue caratteristiche sono quelle di essere sum­ m us e in tellegib ilis (cap. 137), opifex et in tellegib ilis (cap. 137), di conoscere tutte le cose (cap. 138). Carat­ teristica principale di Dio, infatti, è quella di essere intellegibilis apprime (cap. 138). Per cui: intellegibilem deum pro bonitate naturae suae rebus omnibus consulentem, opem generi hominum, quod nulla esset sibi cum corpore conciliatio, divinorum

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potestatum interpositione ferre voluisse6465(cap. 255). La qualità che più emerge tra quelle di Dio è quella di essere intelligibile^. Per questo motivo, «optim um dei opus est id quod intellegit» (cap. 260). Dio è una divina m ens che penetra la materia e le dà forma, così come Lanima cosmica penetra i corpi e dà loro la vita (cap. 269). Per la teologia calcidiana è fondamentale il cap. 176, esaminato già da tutti coloro che si sono occupati del problema. Dovremo farlo, quindi, anche noi. Calcidio è giunto a parlare di Dio in seguito ad una discussione ampia su provvidenza e fato. E così afferma: Principio cuncta quae sunt et ipsum mundum conti­ neri regique principaliter quidem a summo deo, qui est summum bonum ultra omnem substantiam omnemque naturam, aestimatione intellectuque melior, quem cuncta expetunt, cum ipse sit plenae perfectionis et nullius societatis indiguus ... Deinde a providentia, quae est post illum summum secundae eminentiae, quem noyn Graeci vocant; est autem intellegibilis essentia aemulae bonitatis propter inde­ fessam ad summum deum conversionem, estque ei ex illo bonitatis haustus, quo tam ipsa ornatur quam cetera quae ipso auctore honestantur. Hanc igitur dei voluntatem, tamquam sapientem tutelam rerum omnium, providentiam homines vocant ... quia pro­ prium divinae mentis intellegere, qui est proprius mentis actus. Et est mens dei aeterna: est igitur mens dei intellegendi aeternus actus. 64 Questa unione della demonologia platonica alla prow idenzialità divina ci sembra un elemento tipico del cristianesimo di Calcidio. 65 Al cap. 252 Calcidio respinge l’opinione di coloro che pensa­ no che il nostro intelletto durante il sogno vada nell’alto del cielo e si unisca divinae intellegentiae, quam Graeci noun vocant. Pertanto la divina intellegentia sarebbe il secondo dio, «quae summa et eminens im aginatur m ens», secondo il W aszink, C alcid iu s etc. cit., pp. LX X X V III-L X X X IX .

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La dottrina del cap. 176 è ripresa in sintesi66 dal cap. 188: originem quidem rerum, ex qua ceteris omnibus quae sunt substantia67 ministratur, esse summum et ineffabilem deum; post quem providentiam eius secundum deum, latorem legis utriusque vitae, tam aeternae quam temporariae; tertiam porro esse sub­ stantiam quae secunda mens intellectusque dicitur, quasi quaedam custos legis aeternae. Abbiamo dunque una dottrina della suprema tra­ scendenza di Dio, che regge e governa il mondo. Il W aszin k n el suo com m ento rich iam a A lkinoos e Numenio: secondo lo studioso, infatti, Faffermazione che dio è sum m um bonum è caratteristica più del m edio- che del neoplatonismo68, e può rintracciarsi anche in Porfirio69. Esiste poi un secondo principio, cioè la forma immanente nella materia, che, considerato nel suo nome, può essere definito come intelletto o mente, come provvidenza e volontà. Per quanto riguar­ da la sua natura, invece, tale principio è eterno, è sostanza, è attività, oltre che, naturalmente, intellegibile. Infine, esso è rivolto verso Dio e procura la bontà agli esseri che vengono dopo di lui («estque ei ex illo boni­ tatis haustus, quo tam ipsa ornatur quam cetera quae ipso auctore honestantur»). Le fonti di questa sintetica teologia devono essere rintracciate, naturalmente, nella 66 Ut igitur brevi multa complectar, dice Calcidio. 67 Cioè l’esistenza; substantia è l’equivalente latino di tò eivai. Per questo impiego di substantia nel quarto secolo, abbiamo fatto alcune osservazioni in: Ilario di Poitiers e l ’impiego della filosofia pagana, Napoli 2003, in stampa. 68 Cfr. ad locum e Studien etc. cit., pp. 20-21. Una attestazione di questa dottrina in un autore m edioplatonico non considerata da Waszink è quella di Apuleio, apoi. 64. 69 Secondo il den Boeft, invece (Calcidius on Fate cit., p. 92 sgg.; 13 1-13 2), è possibile trovare delle tracce di Plotino in questo conte-

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tradizione platonica greca: in primo luogo in Numenio, il quale ha sostenuto l'esisten za di un secondo dio, dipendente da quello assolutam ente trascendente; il secondo dio è immanente al mondo e, a sua volta, è “im itato” dal terzo dio, cioè d a ll’anim a del m ondo. Numenio, comunque, è una fonte essenziale di tutta questa sezione che espone la dottrina calcidiana su Dio: egli, infatti, afferma che il secondo dio è sostanza e m ovim ento e realtà in te llig ib ile ; in o ltre è tip ic a di Numenio la descrizione delle qualità del dio (eterno, unico ed esistente fuori del tempo) etc. Vi sono anche certi punti in cui sembra che Calcidio concili la dottrina della immanenza del primo dio nelle forme e neH’intelletto divino con quella che il secondo p rin cip io è im m anente n elle form e ed è ch iam ato “provvidenza”, intelletto o volontà, e dipende da un principio più alto, descritto come Dio. Così C alcidio ipotizza l’esistenza di una relazione tra Dio e la mente, nel senso che esistono delle «cause che sono visibili alla provvidenza di Dio» (cap. 24), e nel senso che l ’opera migliore di Dio è il suo pensiero (cap. 260); le opere di sto, per cui sarebbe giustificata la conclusione (pp. 1 3 1 -1 3 2 ) che Porfirio avrebbe ripreso la dottrina medioplatonica delle tre pro vvi­ denze: Calcidio la esamina al cap. 188 e cerca di m etterla in accordo con la dottrina delle tre ipostasi di P lotino. Q ualcosa di sim ile sostiene anche il Gersh, secondo il quale avremmo a che fare sia con dottrine di Numenio sia con dottrine porfiriane: l ’afferm are che il bene è al di là dell’essere è una ben nota dottrina platonica, che risa­ le fino alla Repubblica (509b), ma essa appare anche in certi neopita­ gorici, come M oderato e Brotino, e nell’ermetismo; più verisimile, però, è che Calcidio abbia ricavato questa dottrina della trascenden­ za da Numenio (cfr. framm. 16) e da Porfirio (cfr. seni. 26; comm. Parm. XII, 5: Porfirio impiega un termine specifico per questa carat­ teristica, cioè quello di proousion, “antecedente all’essere”, che si trova anche in Comm. Parm. X , 23-25). Q uindi, questa dottrin a medioplatonica di dio poteva essere stata ripresa anche da Porfirio (cfr. Gersh, op. cit., pp. 440-445). In conclusione, si ripresenta la derivazione di Calcidio da Numenio, con o senza la mediazione di Porfirio.

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Dio costituiscono il suo intelletto; tali opere sono chia­ mate “idee” dai Greci; inoltre, le idee sono i modelli delle cose sensibili: o p e ra v e ro eius intellectus eius sunt, qui a G raecis ideae vocan tu r; porro ideae sunt exem pla naturalium reru m (cap. 304).

Di conseguenza, le idee sono i pensieri di Dio oppu­ re sono le opere di Dio, e quindi subordinate a lui: cosi dicendo, Calcidio arricchisce la tradizione dossografica del m edioplatonism o. Secondo il G ersh70, Calcidio potrebbe essersi rifatto a Numenio, il quale afferma che il prim o dio «pensa servendosi del secondo dio in aggiunta» (framm. 22 des Places)71, e all’interpretazione degli Oracoli Caldaici proposta da Porfirio72, secondo il quale il primo principio è isolato dalle realtà seconde e possiede dynamis e intelletto unificati nella sua sempli­ cità {comm. Parm. IX, 1-8). Insomma, Numenio e Porfirio potrebbero avere arricchito con i loro contribu­ ti lo schema dossografico della dottrina dei tre principi, che è alla base della speculazione di Calcidio. In conclusione, secondo il Dillon73, siffatta dottrina risale a Numenio: Calcidio, però, potrebbe averla cor­ retta con elementi del pensiero di Porfirio.

7,3. Conoscenza di Dio Si è visto sopra che Dio è detto più volte intellegibilis. Questo significa che Dio è un essere supremamente razionale, fonte di tutta la razionalità: le idee, che sono 70 Cfr. op. cit., p. 467.

71 Noupiivioq 8è tòv pèv rtpcikov xatà tò ò èou £ còov temei xai cJniCTiv év rcpoaxpiiaei toù Seircépov voù voeiv. 72 Cosa, questa, molto meno dimostrabile. 73 Cfr. op. cit., p. 404.

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la realtà somma, sono, appunto, secondo la teologia medioplatonica dei tre principi, i suoi pensieri. D ’altra parte, intellegibilis ha il significato passivo che è tipico di tutti gli aggettivi con il suffisso -bilis; ma intellegibilis, come vor)xó.)■ < IU . ijf

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XCVII Ora, dato che egli afferma che il dio ha stabi­ lito che quei' sette cerchi si muovano di un movimento contrario, la maggior parte intende questo fatto nel senso che tutti si muovano di un movimento contrario alla rotazione dell’intero universo e, dunque, proceden­ do il moto rotatorio dell’universo, sempre uguale a se stesso, da destra a sinistra, questi sette cerchi ruotereb­ bero di comune accordo in direzione contraria a quella di ciò che da solo li trascina nel suo moto. Altri dissen­ tono da tale posizione e ritengono che il moto rotatorio degli stessi pianeti sia vario e reciprocamente contrario e che quindi nella loro stessa rotazione procedano gli uni contro gli altri, per il fatto che le loro orbite circola­ ri sono caratterizzate da un’estrema varietà: se infatti il moto di rivoluzione del sole e della luna, che procede concorde a quello dell’insieme dell’universo, suo eccentro o anche epiciclo, ritardano, per quanto è possibile, il loro procedere, allontanandosi dal ritmo stabilito e naturale, il movimento naturale degli altri cinque piane­ ti può essere definito come uno che si oppone a quello deH’insiem e d ell’universo, benché il preponderante moto rotatorio universale prevalga, traendolo con forza nella sua direzione. Conseguenza di ciò è il fatto che, a volte; sembra che i pianeti restino fermi, in certi casi anche che retrocedano, così come il fatto che alcune tra le stelle erranti tramontano al calar della sera, rimanen­ do nascoste alla vista, durante il giorno, a causa della lum inosità dei raggi solari, apparendo infine, trascorsa la notte, prima del sorgere del sole, come la stella di Saturno, di Marte e di Giove [tav. 21]. Al contrario, la luna, mentre al tramonto appare prima di tutte le stelle, si cela tramontando il mattino, mentre Venere e M ercu­ rio, n ell’uno e nell’altro modo, sorgono e tramontano la sera. E che dire poi del fatto che tutti gli altri pianeti si allontanano dal sole fino al punto che, in certi momenti, la loro distanza da esso equivale al diametro del loro cerchio di rivoluzione? Mercurio e Venere non arrivano

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metro distant a solis orbitis ex utraque regione mundi eois aut occidentalibus satis proximi facti, sed soli semper proximi cursus suos peragunt proptereaque dixisse uidetur Plato: «Tres quidem pari atque eadem uelocitate, illos uero alios quattuor et sibimet inuicem et his tri­ bus dissimiliter incedere». Quos tamen omnes diuersos motus contrariasque agitationes planetum ratione sub­ nixos esse dicit, ea uidelicet, quam iugi tractatu manife­ stare curauit.

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mai ad una distanza dalle orbite solari che equivalga al diametro del loro cerchio di rivoluzione, raggiungendo, da una parte e dall’altra, così da vicino le estremità orientali e occidentali della sfera universale, ma proce­ dono nelle loro orbite di rivoluzione sempre vicinissimi al sole, e pare che per questa ragione Platone abbia affermato: «Ordinò a quei cerchi di muoversi in senso contrario gli uni agli altri, tre cerchi con uguale velocità e quattro con velocità differenti tra loro e rispetto agli altri tre »150. L’autore afferma che tutti quei diversi moti e il procedere reciprocamente contrario dei pianeti sono tuttavia sottoposti e conformi ad una regola, evi­ dentemente quella che si è preoccupato di chiarire con un’ampia trattazione.

DE CAELO

XCVIII Idem inde prosequitur: «Igitur cum pro uoluntate patris cuncta rationabilis animae substantia nasceretur, aliquanto post omne corporeum intra conseptum eius effinxit mediumque applicans m ediae modulamine apto iugabat. Ast illa complectens caeli ultima circumfusaque eidem exteriore complexu operiensque ambitu suo ipsaque conuertens in semet diuinam originem auspicata est indefessae sapientisque et sine intermissione uitae». Caelum diuerse et dicitur et accipitur: partim mundi superficies, quam uranon Graeci appellant, uelut uisus nostri limitem ultra quem porrigi nequeat, quasi oranon, partim sphaera quae aplanes uocatur, proprie uero omne hoc quod a lunari globo surgit, communiter autem quidquid supra nos est, in qua regione nubila concrescunt, et aliquanto superius, ubi astra sunt. Nam et pluuias ex caelo dici­ mus demanare et stellas in caelo apparere, quae appel­ lantur cometae, et cetera quae apparent infra lunae glo­ bum; caelum quoque usurpantes mundum omnem uocamus. XCIX Animam ergo mundi dicit orsam «ex medieta­ te usque ad extremitatem mundani corporis et inde usque ad aliam extremitatem circumfusam omni globo corporis operuisse uniuersum eius ambitum»; ex quo apparet a uitalibus mundi per extimas partes com­ plexum esse circumdatum, hoc est ut intra atque extra uitali uigore foueatur; neque enim uniuersum corpus alterius corporis, quod nullum supererat, auxilio com-

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XCVIII L’autore prosegue allora così: «Quando al creatore tutta la struttura dell’anima razionale riuscì secondo le sue intenzioni, in seguito egli formò nel suo interno l ’elemento corporeo, facendo coincidere il cen­ tro dell’anima con il centro del corpo e li mise in armo­ nia. E l ’anima, estendendosi in ogni direzione dal cen­ tro verso le estremità del cielo e avvolgendolo circolar­ mente dall’esterno, ruotando su se stessa, diede inizio divinamente per l’eternità alla sua vita inestinguibile e saggia»151. Il cielo può essere concepito e definito in vario modo: o come la parte superiore del mondo, quel­ la che i Greci chiamano “uranon”, considerato come il limite per il nostro sguardo, oltre il quale esso non può spingersi, quasi “oranon”152, oppure come la sfera che è detta aplanes , propriamente poi tutta questa parte del­ l ’universo che si eleva oltre la sfera lunare e, più comu­ nemente, tutto ciò che è al di sopra di noi, la regione nella quale si condensano le nuvole e, assai più in alto, quella dove sono collocati gli astri. Affermiamo infatti senza intedere cose diverse che la pioggia discende dal cielo e che brillano in cielo le stelle, che chiamiamo comete, così come tutte le altre che si mostrano al di sotto della sfera lunare. Utilizziamo impropriamente il termine “cielo” anche per definire l ’intero universo. XCIX Afferma poi che l ’anima dell’universo: «si estese dal centro verso un’estremità dell’universo e da lì verso l ’altra estremità e, avvolgendo l’intera sfera uni­ versale, l ’ha completamente ricoperta»153: da ciò appare evidente che la compagine dell’universo risulta circon­ data nelle sue estremità dalle sue membra vitali, è cioè, sia dall’interno, sia dall’esterno vivificata da una forza vitale. E infatti, il complesso della realtà universale non aveva bisogno dell’aiuto e dell’abbraccio di un’altra

plexuque indigebat, sed incorporeae naturae uiribus totus uitali complebatur substantia. C Illud uero, quod a meditullio porrecta anima esse dicitur, quidam dici sic putant, ut non tam quam a medietate totius corporis facta dimensione porrecta sit, sed ex ea parte membrorum uitalium in quibus pontifi­ cium uiuendi situm est ideoque uitalia nuncupantur. Non ergo a medietate corporis, quae terra est, sed a regione uitalium, id est sole, animae uigorem infusum esse mundano corpori potius intellegendum pronun­ tiant, siquidem terra immobilis, sol uero semper in motu; itemque uteri medietas immobilis, cordis semper in motu, quando etiam recens extinctorum animalium corda superstites etiam tunc motus agant. Ideoque solem cordis obtinere rationem et uitalia mundi totius in hoc igni posita esse dicunt. CI Ipsam uero animam in semet conuertere non uti­ que corporali conuersione facta intellegendum , sed cogitationis recordationisque gyris et anfractibus paren­ te sibi corpore, sicut quoque nostrae animae motibus corpus obsequitur; idque mundo fuisse initium, inde auspicium indefessae ac sine interm issio ne u itae. Praeclare, quando quidem indefessa et sine intermissio-

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entità corporea, dato che nessuna entità corporea sussi­ steva al di fuori di esso, ma della forza vitale di una entità incorporea, pieno com’era, a sua volta, di un’es­ senza vitale. C Alcuni ritengono poi154 che l’affermazione che l’a­ nim a si sarebbe estesa dal centro verso le estremità debba intendersi non come se, fatta una misurazione, essa si sarebbe estesa esattamente dal punto centrale della massa corporea dell’universo, ma piuttosto a parti­ re da quella parte delle membra vitali nelle quali è col­ locato il principio vitale e che, per questo motivo, sono chiam ate “v ita li”. Ritengono, dunque, che occorra intendere che non a partire dal punto mediano del corpo universale, che è costituito dalla terra, ma dalla regione propria delle membra vitali, cioè dal sole, la forza vitale dell’anima sia stata diffusa al corpo materia­ le dell’universo, dato che, mentre la terra resta immobi­ le, il sole sussiste in perpetuo movimento. Allo stesso modo, nel corpo umano, inerte è il punto centrale del ventre, mentre sempre in movimento è quello del cuore, come ci testim onia il fatto che i cuori degli animali morti da poco, quasi superstiti del corpo, continuano a muoversi. E per questa ragione che ritengono che siano da attribuire al sole le funzioni di principio vivificante proprie del cuore e che gli elementi vitali dell’universo intero siano collocati in questo fuoco155. CI L’affermazione platonica secondo la quale « l’ani­ ma ruota su se stessa»156 non deve in ogni caso essere intesa come la rotazione vera e propria di un essere cor­ poreo: tale «rotazione» avviene per mezzo dei giri e degli avvolgimenti del pensiero e della memoria che il corpo segue obbediente, così come il nostro corpo si piega ai moti della nostra anima. Questo è stato il prin­ cipio da cui ha preso avvio l’universo, «esordio di una vita in stan cab ile e in estin g u ib ile»157.O ttim am ente detto, se si intende che tale instancabile ed inestinguibi-

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ne uita tempori curriculisque eius propagata sit. Aeui tamen alia quaedam est et in sublimiore maiestate perseuerantia; temporis enim partes anni menses dies horae, at uero aeui neque initium neque finis ullus proptereaque indeterminatum et perpetuum. Cum ergo mundum generatum intro daret, consequenter temporis quoque generationem mundo aequaeuam commentus est. CII Atque haec quidem mox ipse latius explicabit; nunc tamen animam docet esse incorpoream, cum dicit: «Et corpus quidem caeli siue mundi uisibile factum, ipsa uero inuisibilis, rationis tamen et item modulaminis compos cunctis intellegibilibus praestantior, a p re s ta n ­ tissimo auctore facta». Cum enim dicit inuisibilem, sen­ sui minime subiacere pronuntiat, et quod nec uisu nec ceteris percipitur sensibus, hoc corpus esse m inim e potest. Rationis tamen compos, ut declaret naturam rationabilem carentem corpore, quae quidem est' ani­ mae rationabilis propria et conueniens adum bratio. Porro quod eandem modulatam esse asserit, originem eius et quasi quaedam elementa, ex quibus eandem inter initia constituit, recordatur et repetit, ut ex ternis originibus, id est indiuiduae diuiduaeque substantiae item que eadem diuersaque naturis, coagmentata simili­ tudinem dissimilitudinemque rerum, bonitatisque et malitiae diuersitatem, optandaeque et execrandae natu­ rae disparilitatem facile ipsis in rebus recognoscat, utpote quae diuisa sit numeris, composita analogiis, sti­ lo:.

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le vita sia stata estesa al tempo e al suo scorrere. Una ben altra vita ed una perseveranza caratterizzata da una più sublime maestà sono proprie invece dell’eternità. Se il tempo è infatti suddivisibile in parti, costituite dagli anni, dai mesi, dai giorni e dalle ore, non esiste né un inizio, né una fine per l’eternità, che scorre priva di sudd ivisio n i'e perpetuamente senza limiti. Affermando infatti che l ’universo risulta generato dall’interno, di conseguenza egli ha immaginato anche una generazione del tempo coeva a quella dell’universo158. CII Tutto ciò egli spiegherà in seguito più diffusamente. Per il momento afferma che l’anima è di natura incorporea, quando sostiene: «e nacquero il corpo visi­ bile del cielo o dell’universo e l’anima, invisibile, ma partecipe di ragione e armonia, la migliore tra le creatu­ re intelligibili generate dal migliore degli esseri intelligi­ b ili»159. Allorché egli afferma che l’anima è invisibile, vuol’significare che non risulta minimamente soggetta alla nostra percezione sensoriale e tutto ciò che non risulta percepibile dalla vista e da tutti gli altri sensi non può essere assolutamente ritenuto di natura corporea. «E tuttavia partecipe di ragione»160 - afferma - per definire la natura razionale priva di sostanza corpo­ rea161, che è propria e conveniente raffigurazione dell’a­ nima razionale. Quando poi sostiene che essa partecipa dell’armonia, richiama e ribadisce la sua origine e, in un certo qual modo, gli elementi dai quali ritiene che essa sia costituita, affinché, risultando dalla mescolanza di tre elem enti162 (e cioè della sostanza indivisibile e di quella divisibile, così come della natura dell’identico e del diverso, unendo assieme in se stessa la somiglianza e la dissomiglianza delle cose, e parimenti la differenza del bene e del male), possa riconoscere facilmente nelle cose stesse la diversità tra ciò che è da desiderare e ciò che è da evitare. Inoltre, in quanto suddivisibile in parti identificabili con rapporti numerici, composta di eie-

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para medietatibus, ordinata rationibus musicis scissaque adeo sexies et rursum deuincta immortalibus uinculis conuenientibus diuerso uarioque totius mundani corpo­ ris motui omnia sciat et omnia iuxta naturam propriam assequatur. G II Denique addit: «Ut ergo ex eiusdem et diuersi natura cum essentia mixtis coagmentata indigete motu et orbiculata circuitione in se ipsam reuertens cum ali­ quam uel dissipabilem substantiam offenderit uel indiuiduam, facile recognoscit, quid sit eiusdem indiuiduaeque, quid item diuersae dissolubilisque naturae causasque omnium quae proueniunt uidet et ex his quae accidunt quae sint futura metitur». In his enim clare manifestat nihil esse quod animam lateat eiusdemque intellegentiam manifeste reuelat, cum dicit: «Motus eius rationabilis sine uoce, sine sono cum quid sensile spectat circulusque diuersi generis sine errore fertur ueridico sensu et certa nuntiante cunctae animae, rectae opiniones et dignae credulitate nascuntur; porro cum indiuiduum genus semperque idem conspexerit, ea quae sunt motu intimo fideliter nuntiante, intellectus et scientia conualescunt». CIV Sine uoce ac sono motus ratio est in intim is mentis penetralibus residens. Haec autem differt ab oratione; est enim oratio interpres animo conceptae rationis. Quae ratio cum se exerit in his quae nascuntur

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menti che stanno in rapporto di analogia, resa colma nei suoi intervalli dai termini medi, ordinata secondo rap­ porti armonici, divisa sei volte e di nuovo congiunta con adatti vincoli eterni al mutevole e vario moto dell’intero corpo universale, l'anima tutto conosce e tutto com­ prende conformemente alla propria natura. CHI Infine aggiunge: «E dato che l’anima risulta dalla mescolanza di tre elementi, ossia della natura del medesimo, di quella del diverso e dell’essenza, proce­ dendo essa per un suo movimento innato ad una rota­ zione circolare su se stessa, quando entra in contatto con qualcosa che ha una sostanza divisibile o con qual­ cosa che ha una sostanza indivisibile, riconosce facil­ mente che cosa sia di natura identica e di sostanza indivisibile e che cosa sia di natura diversa e di sostanza divisibile, comprende le cause di tutte le cose che si producono e in base a ciò che si manifesta può prevede­ re che cosa avverrà in futuro»163. Dopo aver affermato chiaram ente con queste parole che non vi è nulla che resti celato all’anima, rivela apertamente l’intelligenza di essa, quando afferma: «Il suo moto razionale si svolge senza voce né suono quando guarda la realtà sensibile, il cerchio del diverso procede senza possibilità di erro­ re; dotata di una conoscenza veritiera e comunicando elem enti certi a tutta l’anima, fa sì che nascano allora opinioni solide e credenze vere. Quando invece volge lo sguardo a ciò che è indivisibile e sempre identico a se stesso, comunicando fedelmente le cose che sono dotate di un loro intimo movimento, giungono a perfezione il pensiero e la conoscenza»164. CIV Tale «moto senza voce né suono»165 è da inten­ dersi come il processo razionale che si svolge nei più intim i penetrali della mente. Un processo che ben si distingue, poi, d all’espressione. L’espressione risulta infatti l ’interprete dell’attività razionale che si realizza n ell’anim o166. Allorché tale attività razionale entra in

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et occidunt uel manu fiunt et prorsus omnibus quae sentiuntur, et recte tamen mouetur idem hic motus inti­ mae mentis, nascuntur uerae opiniones et credulitate dignae. Nec tamen satis certa prouenit et firma cogni­ tio, siquidem inter scientiam et opinionem sit ampla distantia; cum autem constituerit se spectatricem rerum immutabilium quae sunt eaedem semper intellegibilemque naturam suspexerit et in isdem spectaculis perspi­ cacem mentis contemplationem conuegetauerit, tunc motus similis eius globi motui qui aplanes uocatur sine errore circumactus ueram menti cognitionem diuini generis creat. CV Nunc uenit ad aeui temporisque discretionem et docet: quia mundus intellegibilis exemplum est mundi sensilis, utpote principatum obtinens animal inter cete­ ras intellegibilis diuinitatis animantes, per omne aeuum manet inconcussa stabilitate. Imago quoque eius hic sensilis simulacro aeui facto atque instituto iungetur; imago enim demum aeui tempus est manentis in suo statu, tempus porro minime manens, immo progrediens semper et replicabile. [Imago] Itaque ut intellegibilis mundus per aeuum, sic sensilis per omne tempus -a lia quippe exemplorum, alia imaginum u ita- recteque uno eodemque momento mundus exaedificabatur sensilis et dierum noctiumque instituebantur uices, elem enta seriesque temporis ex quibus menses et anni, partes

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contatto con entità che nascono e muoiono, realizzate dalla mano dell’uomo e, in una parola, con tutto ciò che risulta percepito dai sensi, e tale moto procede in linea retta dalla profondità della mente verso tali oggetti, allora nascono opinioni veritiere e fededegne. Non si produce tuttavia la conoscenza certa e solida, dato che su ssiste u n ’ am pia distanza tra l ’opinione e la co­ noscenza. Quando infatti la conoscenza si sarà fatta spettatrice delle realtà immutabili, che sono sempre identiche a se stesse e, levato il suo sguardo alla natura in telligib ile, avrà vivificato in tale contemplazione il perspicace sguardo della mente, il suo movimento, simi­ le allora al moto di quella sfera che è chiamata aplanes, procede circolarmente senza errore e crea per la mente quella conoscenza vera, che possiamo definire di genere divino167. CV Giunge così a trattare della differenza tra eter­ nità e tempo e afferma: dato che il mondo intelligibile costituisce il modello del mondo sensibile, in quanto essere dotato di anima che possiede una posizione di preminenza tra tutti gli altri esseri viventi prodotti dalla divinità intelligibile, esso sussiste per tutta l’eternità in uno stato immutabilmente fisso168. Allo stesso modo, anche l ’immagine del mondo intelligibile, cioè questo mondo sensibile, sarà congiunta a quello che è stato costituito e stabilito come il simulacro dell’eternità. Il tempo può essere considerato infatti come l’immagine d ell’eternità, ma se essa sussiste nella sua immutabile fissità, il tempo invece per nulla rimane fermo, ma scor­ re continuam ente e ciclicamente. Pertanto, come il mondo intelligibile è stato costruito lungo l’eternità, il mondo sensibile, in un solo e medesimo istante, per mezzo di tutto il tempo169 - una è infatti la vita dei m odelli ideali, altra quella delle loro immagini - ed è stata introdotta l ’alternanza dei giorni e delle notti, che sono gli elementi costitutivi e la successione delle coni-

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CALODIO

eius ratione ac supputatione diuiduae. CYI «Nosque haec cum aeuo assignamus, inquit, id est solitariae naturae, non recte partes indiuiduae rei tingimus; dicimus enim ‘fuit est erit’, ast illi esse solum competit». Propter eos qui addubitant num tempus, quod dicitur esse, nullum sit, haec processit assertio. Dicunt enim praeterita quidem omnia iam esse desisse, si quid porro immineat, hoc nondum esse, praesentia uero neque plane esse neque omnino non esse propter instabile atque inrefrenabile momentorum agmen; flue­ re enim et transire omnia ostendit. Ergo praeteritam quidem temporis partem sic dicit esse, ut intellegatur fuisse, non ut ad praesens existere, ut cum Homerum esse dicimus diuinum poetam. Futurum uero sic esse dicit, ut non iam existat atque ad praesens habeatur, ut cum dicimus ad annum proximum lustri esse conclusio­ nem uel certamen esse Olympiacum. Porro quod ad praesens fiat ita esse, non ut per aliquam diuturnitatem mansurum esse uideatur, sed ut tamquam fluat atque praetereat, ut cum dicimus Compitalia esse hodie ullamue aliam publicam priuatamque celebritatem, quippe cum eiusdem diei quaedam iam exacta momenta sint, aliquanta uero adhuc maneant; eodemque modo men­ sem nunc esse Ianuarium uel alium quem quam , uel

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ponenti del tempo, tra i quali i mesi e gli anni, le sue parti divisibili in base ad un calcolo170, CVI «Quando noi attribuiamo tali delimitazioni all'e­ ternità - egli afferma171 -, cioè ad un'essenza unitaria, attribuiamo non correttamente delle parti ad un'essenza indivisibile. Diciamo infatti “era, è, sarà”, mentre a tale essenza si addice soltanto “è”» 172. A causa poi di coloro che dubitano che lo spazio temporale, che è definito “è ”, abbia reale consistenza, è introdotta la seguente considerazione. Affermano infatti costoro che. mentre tutto ciò che è passato ha cessato di “essere”, se qualco­ sa è sul punto di manifestarsi non “è” ancora; ciò che è presente, poi, né “è ” completamente, nè, in ultima anali­ si, non “è ”, a causa dell’incessante ed inesorabile scorre­ re degli istanti: conseguenza di ciò è il fatto che tutto scorre e passa. Per quanto riguarda, dunque, la parte del tempo che è già trascorsa, egli afferma che essa “è ”, intendendo dire con ciò che “è stata” e non che essa sus­ siste ancora nella sua esistenza lino al momento presen­ te, come quando, per esempio, asseriamo che Omero “è ” il divino poeta. Ciò che è futuro, poi, affermiamo che “è ”, non come se esso già esistesse e sussistesse nel presente, ma così come quando asseriamo che l'anno successivo “è ” la conclusione del quinquennio o che vi “sono” i giochi Olimpici. Occorre intendere dunque ciò che sussiste nel momento presente come esistente non già in quanto destinato a permanere per una certa conti­ nuità temporale, ma in quanto caratterizzato dal pro­ prio fluire, così come quando diciamo che oggi “sono” le feste C o m p itali173, o una qualche altra ricorrenza pubblica o privata, se alcuni momenti di quello stesso giorno sono da ritenersi già trascorsi, altrettanti restano invece da trascorrere. Una situazione del tutto analoga si verifica, quando affermiamo: “adesso è gennaio", o un q ualch e altro mese, o “si stanno svolgendo le gare sacre”, allorché, terminata la competizione dei fanciulli,

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sacrum certamen agi, cum puerorum certamine exacto adulescentes citantur et post eos deinceps perfectae aetatis iuuenes manus conserunt. , j v?CVII Quid quod etiam illa, quae non sunt, esse dici­ mus, cum eadem non esse uolumus ostendere? Ut cum dicimus quadrati latus esse dispar lateribus ceteris uel diametrum lateribus esse maiorem - ita enim dicentes probamus minime esse aequalem lateribus proptereaque absonum - uel cum idem Plato siluam esse dicit in nulla substantia propterea quod nulla siluestria habeant ullam perfectionem. Dum enim sunt adhuc siluestria, informia sunt ac sine ordine ac specie, ut saxa, quorum tamen est naturalis possibilitas, ut accedente artificio simulacrum fiat uel quid aliud huius modi; quod uero sola possibilitate et sine effectu uidetur esse minime est, utpote carens perfectione. Uerum haec disputatio, quia nihil pertinet ad naturalem tractatum, cum sit rationabi­ lis, differetur. jj ,-g i T -rrr



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CVIU Genituram uero temporis necessario dicit esse institutam, ut tam eadem tempora sub dimensionem uenirent quam dierum mensiumque et annorum dinu­ merari spatia possent, proptereaque solis lunaeci|ue illu ­ strationes et occasus necessarios fuisse ceterasque érraticas stellas superimpositas esse gyris circulorum iussasque agere motum septemplicem diuersis et dissimilibus maeandris in ea regione quae sub zodiaci orbis circum­ flexum iacet: «lunae quidem iuxta terram in prima cir­ cum actione, solis uero in secunda diam etro a luna »

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sono convocati gli adolescenti e, dopo di loro, ancora si affrontano i giovani di età più matura. CVII E che dire poi del fatto che affermiamo “esse­ re” anche le cose che non sono, allorché vogliamo indi­ care che “non sono”? Come quando affermiamo che il lato di un quadrato è differente da tutti gli altri, o che la diagonale è: maggiore dei lati, così dicendo dimostria­ mo, infatti, che essa non è per nulla uguale ai lati e per tale ragione è con essi discordante. O quando lo stesso Platone afferma che la materia non consiste in nessuna delle sostanze materiali, dato che ogni entità materiale non possiede alcuna perfezione174. Mentre esse sono infatti ancora materiali, informi, prive di una ordinata disposizione e di una forma definita, come le pietre, che posseggono tuttavia una potenzialità propria della loro natura, cosicché, sottoposte all’attività di un artista, si trasformano in statue, o in qualche altra realizzazione di tal genere; ciò che è dotato, dunque, soltanto di poten­ zialità, privo di realizzazione, per nulla “è”, privo com’è di ogni perfezione. Rinviamo però ad un’altra parte del commentario questa digressione175, per nulla pertinente alla trattazione vera e propria, per quanto assai giustifi­ cabile da.un punto di vista logico. CVIII Afferma poi che di necessità fu introdotta l’o­ rigine del tempo affinché, da un lato, fosse possibile quantificare le stesse durate temporali, dall’altro, potes­ sero essere delimitate le dimensioni dei giorni, dei mesi e degli anni: in seguito a ciò sono stati fissati immutabil­ mente i tempi in cui il sole e la luna sorgono e tramon­ tano; tutti gli altri corpi celesti erranti sono stati sovrap­ posti a cerchi dotati di movimento circolare e per essi è stato prefissato un moto sette volte diverso e lungo orbite tra loro dissimili in quella parte del cielo che si trova al di sotto della fascia dello Zodiaco: «la luna nella prima orbita, più vicina alla terra, poi quella del sole, al secondo posto, distante da quella della luna la sua stessa

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distantis. Tunc Luciferi et M ercurii collocat ignes, inquit, in eo motu qui concurrit solstitiali circuitioni, contraria tamen ab eo circumfertur agitatione; quare fit, ut comprehendant se inuicem et a se rursum com ­ prehendantur hae stellae». Cur has stellas pari esse dicat uelocitate, manifestat ipse, cum asserit anni uertentis spatio cursus ab omnibus peragi, sed ita, ut modo tardius modo incitatius euntes comprehendant subinde solem et subinde a sole comprehendantur. CIX Ait tamen hos ignes contrariam quoque habere uim. Quam rem alii aliter accipiunt. Quidam enim contrarietatem hanc nasci putant ex eo quod sol quidem, cum naturaliter ab eois ad occidua sem per feratur, perinde ut omnis mundus mouetur, epicyclum tamen suum peragat anni spatio, cuius epicycli contraria est conuersio m undi co n u ersio n i, L u c ife r u ero et Mercurius contrarios semper motus exerant mundi cir­ cumactioni. Quidam uero putant contrariam uim esse in his stellis propterea quod comprehendant solis inces­ sum Mercurius et Lucifer et interdum remorantes eos sol comprehendat, cum ortus et item occasus effulsionesque et obumbrationes interdum mane, interdum uesperascente patiantur praecedentes modo, modo relicti; sic enim fere semper iuxta solem comitari uidentur. Quod his usu accidit ex eo quod una m edietas atque punctum unum est tam solstitialis circuli quam cuiuslibet alterius stellarum harum. CX Denique Heraclides Ponticus, cum circulum

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ampiezza, colloca poi i pianeti di Venere e Mercurio n e ll’orbita che procede con la medesima velocità di quella del sole, dotati però di una direzione contraria alla sua: ecco perché questi corpi celesti si raggiungono tra loro con regolare successione»176. Manifesta poi egli stesso per quale ragione affermi che questi corpi celesti procedono con uguale velocità, allorché asserisce che ciascuno di essi percorre la propria orbita di rivoluzione nel medesimo volgere di un anno, ma in modo tale che, procedendo ora più lentamente, ora più velocemente, spesso essi raggiungono il sole, o sono da esso raggiunti. CIX Afferma poi che questi corpi celesti sono dotati anche di «una forza contraria»177. Un’affermazione che alcuni interpretano in un modo, altri in un altro. Alcuni ritengono infatti che tale opposizione derivi dal fatto che, mentre il sole procede naturalmente in modo co­ stante, da oriente verso occidente, conformemente al moto dell’intero universo, e percorre il suo circolo epici­ clo nello spazio di un anno, il movimento circolare del suo epiciclo risulta contrario a quello della rotazione universale; Venere e Mercurio presentano invece un moto rotatorio costantemente contrario al movimento circolare d e ll’universo. Altri ritengono invece che in questi corpi celesti sia presente una forza contraria, per il fatto che Mercurio e Venere raggiungono il sole nel suo procedere e talvolta, mentre essi ritardano, è il sole che li raggiunge e, sia nel periodo in cui precedono il sole, sia quando sono da esso lasciati indietro, sorgono e tramontano, iniziano a brillare e sono oscurati, talvolta all’alba, talvolta al tramonto: così infatti quasi sempre risultano accompagnare il sole nel suo percorso. Un tale fenomeno si manifesta per il fatto che il punto mediano d ell’orbita di rivoluzione è lo stesso, sia per il circolo sostiziale, sia per quello di ciascuno di questi due corpi celesti. CX Eraclide Pontico178, infine, descrivendo le orbite

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Luciferi describeret, item solis, et unum punctum atque unam medietatem duobus daret circulis, demonstrauit ut interdum Lucifer superior, interdum inferior sole fiat. Ait enim et solem et lunam et Luciferum et omnes planetas, ubi eorum quisque sit, una linea a puncto ter­ rae per punctum stellae exeunte demonstrari. Erit ergo una linea directa ex terrae medietate solem dem on­ strans, duae uero aliae dextra laeuaque nihilo minus directae lineae a sole quidem distantes quinquaginta momentis, a se autem inuicem centum; quarum altera linea orienti proxima dem onstrat L uciferum , cum Lucifer plurimum a sole distabit factus uicinus orienta­ libus plagis proptereaque idem Hesperi nomen acci­ piens, quod in eois uespere postque occasum solis appareat, altera uero occidenti proxima, cum plurimum distabit idem Lucifer a sole factus uicinus occiduis proptereaque Lucifer nominatur. Etenim perspicuum est Hesperum quidem dici tunc, cum in partibus orien­ tis uidetur sequens solis occasum, Luciferum uero, cum ante solem m ergitur et rursus exacta propem odum nocte oritur ante solem. CXI Sit igitur punctum terrae caelique ubi est littera X, zodiacus uero circulus, super quem sunt ABr notae, et sit AB ambitus momentorum quinquaginta, item B r ambitus totidem momentorum, et per XB lineam punc­ tum sit solis in littera K. Erit ergo linea XKB quae solem demonstrat, id est litteram B; tantum autem moueatur haec eadem linea quantum sol mouetur prope cotidiana momenta singula, similiter ceterae lineae X A et x r diui-

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di Venere e del sole e attribuendo ai due circoli un solo e medesimo centro, dimostrò che talvolta Venere si col­ loca in posizione superiore in rapporto al sole, talvolta in posizione inferiore. Afferma infatti che, sia per quan­ to riguarda il sole, sia la luna, sia Venere, sia tutti i pia­ neti, è possibile mostrare in quale luogo ciascuno di essi si trovi, grazie ad una sola linea che, uscendo dal punto centrale della terra, individui il sole, e altre due, alla sua destra e alla sua sinistra, altrettanto rette, distanti dal sole 50 unità di misura e 100 tra loro. Una di esse, la più prossima all’oriente, individua la posizione di Venere, allorché nella sua massima distanza dal sole, avvicinatasi alla parte orientale dell’universo, trae da ciò lo stesso suo nome di Espero, in quanto appare nella parte orien­ tale del cielo al vespro e dopo il tramonto del sole179. L’altra linea invece, la più prossima all’occidente, indivi­ dua lo stesso corpo celeste, allorché, nella sua massima distanza dal sole, risulta vicino alla parte occidentale dell’universo e per questa ragione è chiamato Lucifero. E chiaro infatti che esso è detto Espero, allorché appare nella parte orientale del cielo dopo il tramonto del sole, Lucifero invece, quando tramonta prima del sorgere del sole e nuovamente, quasi al termine della notte, sorge prima del sole. CXI II punto in cui è collocata la lettera X rappre­ senti dunque il punto mediano della sfera terrestre e dell’intero universo; si identifichi poi con lo Zodiaco il cerchio sul quale sono collocati i punti ABr; AB rappre­ senti una sezione circolare con lunghezza pari a 50 unità di misura e altrettanto dicasi per Br; infine la linea retta XB intersechi nel punto K il punto mediano della sfera solare. La linea XKB sarà dunque quella che individua la posizione del sole, cioè la lettera B. Si consideri poi che questa stessa linea è soggetta a spostare la sua direzione nella m isura in cui il sole stesso si muove quasi in ogni singolo momento della giornata: lo stesso dicasi anche per le altre due linee XA e XF e siano divise in 50 unità

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dantur in quinquaginta momenta. Sit porro XA linea in parte orientis, X r uero linea in parte occidentis, haec quidem, id est x r linea, prius occidens et prius oriens quam sol, illa uero alia XA posterius occidens et poste­ rius exoriens. Necesse est igitur ut haec quidem, id est XA linea, demonstret Luciferum in littera A Hesperum eo uidelicet tempore, quo eadem stella longius a sole discesserit, illa uero alia linea, id est x r, eandem stellam demonstret esse Luciferum temporibus m atutinis in signo litterae r . Hoc autem fiet apertius, si per X K B lineam circumducatur circulus qui contingat duas a se distantes lineas, id est XA et x r , quae dem onstrant modum discessionis a sole Luciferi, [tab. 25-26] CXII At uero Plato quique huius indaginis diligen­ tius examen habuerunt affirmant aliquanto quam solis esse elatiorem Luciferi globum qui limitatur notis AEZH contingens KA quidem lineam per E litteram, KT uero per H. Quare, cum Lucifer lustrans circulum proprium perueniet ad E, uidebitur in A locatus a sole plurimum, utpote momentis quinquaginta omnibus, separatus et ad orientem ac diem uergens; quippe sol non nisi ubi est B littera indifferenter uidetur. Porro cum in H erit Lucifer, uidebiturin excelsitate r consistere isdem quin­ quaginta demum momentis a sole et ad occidua semo­ tior, cum uero uel penes A uel penes Z co n sistet, dubium non est proximum soli factum uisum iri con­ cursumque fecisse unum excelsiorem procul a regione terrae penes A, alterum citimum terraeque proximum in Z. Iam illud obseruatione diligentiore perceptum stel­ lam ipsam in maxima secessione, siue orientalis seu

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di misura. La linea XA sia collocata nella parte orientale del cielo e la linea x r nella parte occidentale: quest’ultima, cioè la linea x r, preceda il sole, sia nel tramontare, che nel sorgere, così come l’altra, la linea XA, lo segua. A ppare come necessaria conseguenza di ciò che quest’ultima, cioè la linea XA, individui Lucifero nel punto A, Espero naturalmente nel momento in cui il medesi­ mo corpo celeste si sarà allontanato maggiormente dal sole; l ’altra linea poi, cioè la linea x r mostrerà come il medesimo corpo celeste si collochi durante le ore del mattino, in quanto Lucifero, nel punto indicato dalla lettera r. Tutto ciò apparirà poi in modo ancor più chia­ ro, se lungo la linea XKB sarà tracciata una circonferen­ za tangente le due linee XA e x r, che indicano la misura dell’allontanamento di Lucifero dal sole [tav. 25-26]. CXII Platone poi, e coloro che con particolare atten­ zione si dedicarono a questo tipo di ricerca, sostengono che assai più in alto di quella del sole è collocata la sfera di Venere, delimitata dai punti AEZH, tangente la linea K A , che attraversa il punto E e la linea Kr, che attraversa il punto H. Per questa ragione, dato che Venere, percor­ rendo la sua propria orbita circolare, giungerà al punto E, ap p arirà collocato nel punto A, alla sua massima distanza dal sole, equivalente a 50 unità di misura, volto verso oriente e la luce del giorno, dato che il sole appa­ re senza alcuna differenza solo dove è posta la lettera B. Quando poi Venere si troverà nel punto H, apparirà col­ locato nel più elevato punto r, ad un’analoga distanza dal sole di 50 unità di misura e volto verso occidente. Allorché si troverà invece presso i punti A o Z non vi è dubbio che verrà a trovarsi nel punto di maggior vici­ nanza al sole, dopo aver realizzato una prima congiun­ zione con l ’orbita solare nel punto A, quella nel punto più elevato e lontano dalla regione terrestre, e una seconda, più bassa e più vicina alla terra, cioè nel punto Z. Ad una più attenta osservazione apparirà evidente che lo stesso corpo celeste, giunto nel suo punto di mas-

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occidua erit illa secessio, diebus fere quingentis o cto g in ­ ta et quattuor ad id in quo pridem fu e ra t uel.E uel H remeare, ut sit perspicuum totum ob ire circulum suum , qui est AEZH, m em oratam stellam m e m o ra to n u m e ro dierum, ita ut m aiorem quidem discessionis am bitum , qui est ab eois ad occidua, hoc est HAE, quadringentis q u a d ra g in ta o c to p e r a g r e t d ie b u s , m in o re m u e r o depressioremque, id est EZH, reliquis centum triginta et sex, maximae siquidem discessionis ab occiduis ad. eoa prolapsio hoc dierum n u m ero reu o catu r, u t fre q u e n s ueterum uirorum obseruatio palam fecit, * v

CXIII Rursum su b tex it haec : « I g itu r sin g u lis uniuersisque apto et decenti sibi motu locatis, uidelicet his quae consequens erat tempore prouenire, nexibus uitalibus ubi constricta corpora facta sunt anim alia imperatumque didicerunt». Caelestia corpora constricta uitalibus nexibus, id est stellas animalia facta esse assqrit et cognouisse quae a deo iubebantur, scilicet ut pla­ netes quoque in globos proprios redacti non solum anima uitaque fruerentur, sed cum isdem om nibus etiam mundus et anima uteretur et rationis iparticeps esset. Quatenus enim carens quid ratione poterit intelle­ gere quae iubentur? o u. CXIV «Ea quae diuersae naturae motus obliquus per directum eiusdem naturae motum uertens semet utpote constrictus circumferebat partim maiore partim minore circulo rotabantur, citius quidem dim ensum spatium peragentia quae minore, tardius uero quae maiore, utpote ambitu circumacta prolixiore». Diuersa ■i. f ,rr ) c. yj

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sima eccentricità, sia in direzione dell’oriente sia in dire­ zione d e ll’occidente, ritorna nella posizione in cui si trovava precedentemente, cioè nel punto E o H, in circa 584 giorni. E dunque chiaro che il citato corpo celeste porta a compimento la sua orbita, delimitata dai punti AEZHy nel numero di giorni indicato, cosicché percorre il settore più ampio della sua orbita circolare, quello che segue nel suo moto eccentrico da oriente ad occi­ dente, indicato dai punti HAE, in 448 giorni; il settore più'breve, invece, che è anche il più basso, cioè quello indicato dai punti EZH, nei restanti 136, dato che il pro­ cesso di discesa dell’astro, nel suo massimo percorso di spostamento da occidente ad oriente, si svolge in questo numero di giorni, come la frequente osservazione degli antichi rese manifesto. ■i CXIII Aggiunge poi quanto segue: «Collocati dun­ que nell’orbita loro adatta e ad essi conveniente, i singo­ li, pianeti e tutti quanti, destinati a produrre, nel loro insieme, il tempo, i loro corpi, legati da vincoli animati, divennero viventi e impararono gli ordini»180. Afferma così che i corpi celesti sono legati da vincoli animati, ciòè che le stelle sono state fatte come esseri viventi e hanno conosciuto le cose che erano state loro ordinate dal. dio181: e ciò evidentemente affinché anche i pianeti, collocati n e ll’orbita loro propria, non solo fruiscano dell’anima e della vita, ma anche il mondo, assieme ad essi tuttiy usufruisca dell’anima e sia partecipe della ragione. Come è possibile infatti che un’entità priva di ragione abbia potuto comprendere ciò che era ad essa ordinato? CXIV «Q uesta si volgeva procedendo secondo il moto del diverso, che è obliquo rispetto al moto dell'i­ dentico e da esso viene dominato, perché l'uno gira per un cerchio maggiore e l ’altro per un cerchio minore; perciò quelli che seguono il cerchio minore vanno più in fretta e quelli che seguono il cerchio maggiore vanno

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natura quae sit, saepe iam ostensum est in superioribus, quodque motus eius ab occidente ad orientem feratur. Haec ergo, cum sit interior, contineatur necesse est ab exteriore orbe, qui aplanes dicitur, tardaque ipsa in pro­ grediendo ab apianis uelociore rapitur ad contrarium motum et comprehensa sequi sequentem, comprehen­ dere etiam comprehendentem uidetur. Planetum uero quidam citius, alii tardius cursus suos peragunt. Merito; circulorum enim minorum compendia aduersum maio­ rum anfractus comparata modicis temporum impendiis curriculorum spatia complent, ut luna quae iuxta cubi­ cum numerum uiginti et septem diebus circulum suum lustrat, cum Saturnium sidus triginta prope annis redeat ad pristinum exordium. CXV «Qua de causa fiebat, inquit, ut ex uniformi eiusdem naturae conuersione quae citius circumibant ab his quae tardius circumferebantur comprehendentia comprehendi uiderentur». Uniformis eiusdem naturae conuersio rapit stellas motu nitentes contrario ad uolatum suum cotidianis diebus. Illae autem naturaliter incedunt per suos circulos quorum motus atque agitatio dissentit rapientis se motui. Itaque quoniam planetes partim minores partim maiores circulos obeunt, qui minores circulos, obeunt in illa diei noctisque uertigine consequuntur eos qui pigrius progrediuntur, quia per prolixiores orbes feruntur proptereaque com prehen­ dentes et transeuntes comprehendi ab his quos praete­ rierint putantur. Comitata enim uerbi gratia iuxta pri-

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più lentam ente»182. In che cosa consista tale loro diver­ sa natura è già stato spesso trattato nei capitoli prece­ denti183, così come è stato affermato che il loro movi­ mento procede da occidente ad oriente184. Questa sfera, dunque, essendo quella delle due collocata in posizione interna, è inevitabile sia contenuta da quella piu esterna, detta aplanes , e, lenta nel suo movimento, è trascinata dal moto più veloce della aplanes in un movimento con­ trario; raggiunta poi nel suo movimento, sembra seguire quella che la segue e anche, persino, raggiungere quella che in realtà la raggiunge. Tra i pianeti, poi, alcuni per­ corrono la loro orbita più velocemente, altri più lenta­ mente, ed è logico. Quelli che percorrono le orbite più brevi, cioè quelle dei circoli minori, comparate a quelle dei maggiori, portano a compimento i loro percorsi in brevi periodi di tempo, ad esempio la luna, che percorre la sua orbita in 27 giorni, una quantità di giorni pari al numero cubico, mentre a Saturno occorrono quasi 30 anni per tornare al punto da cui era partito. CXV «P er tale ragione - disse - accadrà che quelli che, grazie al moto del medesimo, ruotavano più velo­ cem ente, sem bravano esser raggiunti da quelli che andavano più lentamente, pur essendo loro in realtà a ra g g iu n g e rli. L’uniform e conversione del moto del m edesim o»185 trascina nel suo movimento i corpi celesti che si muovono in un moto contrario alla sua corsa giornaliera. I corpi celesti procedono, poi, per forza di natura lungo le loro orbite circolari, il cui muoversi e il cui procedere discorda da quello della sfera che si pre­ cipita in direzione contraria. Così, dal momento che i pianeti percorrono, in parte, orbite minori, in parte, maggiori, quelli cui corrispondono le minori, le percor­ rono nel rapido volgere di un giorno e di una notte e raggiungono quelli che procedono più lentamente, poi­ ché devono percorrere orbite più lunghe e, per tale ragione, essi, che raggiungono e lasciano indietro gli altri, si ritiene siano raggiunti da quelli che loro stessi

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mum momentum Arietis luna cum sole diebus uiginti et nouem totum circulum transit octauoque et uicesimo momento eiusdem signi solem comprehendens, quia transit eum atque progreditur, uelut fugere eum et com­ prehendi ab eo uidetur. Eadem ista ratio etiam in ceteris astris, quorum dispar cursus est, inuenitur. CXVI Deinde prosequitur: «Omnes quippe circulos eorum uniformis et inerrabilis illa conuersio uertens in spiram et uelut sinuosum acanthi uolumen». Cum fixo cardine circini casu uel etiam uoluntate nostra oppresso aut relaxato circino describuntur circuli tales, ut postremitas circumductae lineae non solum non perueniat ad exordium, sed deflectens a competenti rigore infra uel supra circumducta linea saepius artiores laxioresue cir­ culos faciat, hoc genus circulorum spiram solem us uocare uel acanthi uolumen. Igitur quia planetas sic aplanes rapit cotidiana uertigine, ut non patiatur eos in eundem locum et uelut sedem ex qua progressi fuerant repraesentari, sed uel transire cogat uel leniore progres­ sione minime occurrere ad destinata, recte dixit erran­ tes stellas in spiram et uelut sinuosum acanthi uolumen rotari ob inconstantem atque inaequabilem circumuectionem. Ut si stella forte Ueneris sit in Arietis signo, deinde rapiat eam mundi conuersio, ita ut eam longius a pridiana progressione protrahat, certe tunc aliqua fiet

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h a n n o oltrepassato. Congiunta infatti con il sole, se così si p u ò d ire, nel prim o settore del segno dell’Ariete, la lu na p e rc o rre tutta la sua orbita circolare in 29 giorni, raggiu ng en do il sole nel ventottesim o settore del m ede­ sim o segno, poiché lo oltrepassa e procede oltre, m en­ tre sem b ra fuggirlo ed essere da esso raggiunta. Questo ste sso r a p p o r to si in d ivid u a anche p er tu tti gli altri c o rp i celesti, la lunghezza delle cui orbite è reciproca­ m en te assai dissimile.

CXVI Prosegue poi: «Tale moto rotatorio infatti, costante e immutabile, avvolgendo tutte le loro orbite a spirale e nella forma del sinuoso avvolgimento dell’acan­ to »186. Allorché, tenendo fisso uno dei perni di un com­ passo, restringendo o allargando, o per caso o volonta­ riamente, l’angolo di apertura dell’altro perno, il com­ passo traccia cerchi in modo tale che non solo l’estre­ mità finale della linea tracciata non giunge a ricongiun­ gersi con il suo inizio, ma, deviando dal corso ad essa appropriato, o in basso o in alto, la linea circolare pro­ duce cerchi più stretti o più larghi, siamo soliti definire questo insieme di cerchi “spirale” o “voluta dell’acan­ to”. Ora, dunque, la sfera aplanes trascina con sé i pia­ neti nel suo quotidiano, vorticoso moto rotatorio in modo tale da impedire che essi tornino ad occupare il m edesim o punto, o, per così dire, la medesima sede dalla quale avevano iniziato il loro movimento rotatorio, ma o li spinge a oltrepassare la loro orbita verso l’ester­ no o fa sì che non raggiungano in nessun modo i punti verso i quali avrebbero dovuto convergere, costringen­ doli in un’orbita più ridotta. Si può affermare, così, cor­ rettam ente che le stelle erranti procedono nella loro rivoluzione come a spirale, o secondo la voluta dell’a­ canto, grazie al loro incostante e diseguale moto rotato­ rio. Ammettiamo che il pianeta Venere si trovi per caso nel segno d ell’Ariete e che, lì posto, la rotazione del cielo lo tragga con sé, in modo tale da trascinarlo assai lontano dal suo precedente percorso: si realizzerà in

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ab Ariete discessio; quantoque plures conuersiones fient, tanto longius ab Ariete ad praecedentia signa discedet et ad postremum ad Pisces atque inde ad Aquarium prouehetur. Contra si remissior erit raptatio, ab Ariete ad Taurum uersus recedet et ad Geminos atque Cancrum iniquis semper gyris et deflectentibus ab exordiis atque aberrantibus a conuenienti rigore; quos quidem gyros Graeci helicas appellant; quorum incrementa ab imminutionibus, imminutiones porro ab incrementis notantur suntque similes eius form ulae quae subter ascripta est. CXVII Deinde ait: «Atque ut rationabilis et consulta haec motuum uarietas et moderatio uisu quoque nota­ retur omniumque octo motuum perspicua esset chorea, igniuit lucem clarissimam deus rerum conditor e regio­ ne secundi a terra globi, quam lucem solem uocamus». Cum propter ceteras ineffabiles utilitates, quas uniuerso mundo sol inuehit, tum etiam propterea ignis huius dicit extitisse genituram, ut tanta rerum designatio nulla tegeretur obscuritate: «u t cum idem rebus colorem daret, tum etiam numeri, quo temporis spatia notantur, commoditas proueniret atque ut dierum et noctium uicissitudo succederet. Mensis uero designauit esse genituram , cum luna peragrato circulo suo solem conuenit, anni quoque, cum sol ad idem signum ex quo progressus erat reuertitur» numero dierum trecentorum sexaginta quinque et parte quarta, [tab. 27] Quare fac­ tum ut a prudentissimis uiris et iuxta caelestium rerum

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questo caso senza dubbio un allontanamento del corpo celeste dal segno d ell’Ariete. Quanto piu numerosi saranno poi i giri di rivoluzione, tanto più Venere si por­ terà lontano dal segno dell’Ariete verso i segni che lo precedono, fino ad essere trasportato, alla fine, verso il segno dei Pesci e da lì verso l’Acquario. Se, al contrario, il corpo celeste sarà trascinato da un moto rotatorio più lento, recederà dall’Ariete verso il segno del Toro, fino ai Gemelli e al Cancro, con orbite sempre diseguali tra loro, devianti dall’inclinazione originaria e allontananti^ dal percorso fisso conveniente: orbite che i Greci chia­ mano “eliche”. I loro ampliamenti sono indicati dalle riduzioni e le riduzioni dagli ampliamenti e appaiono sim ili a quelli indicati nel disegno allegato al capitolo che segue. CXVII Aggiunge poi: «Affinché questa razionale e ponderata varietà dei movimenti e la loro regolarità fosse palese anche alla vista e fosse evidente la danza circolare di tutti gli otto corpi celesti in movimento, il dio ordinatore di tutte le cose, accese una luce lumino­ sissima nel secondo cerchio ruotante intorno alla terra, che ora noi chiamiamo sole»187. Egli sostiene che l’ori­ gine del sole si sia verificata, da un lato, per tutte le innumerevoli utilità che esso apporta all’intero univer­ so, d a ll’altro soprattutto perché una così grandiosa disposizione dei corpi celesti non fosse coperta da alcu­ na oscurità: «affinché, da un lato, attribuisse un colore a tutte le cose, dall’altro, derivasse all’uomo l’opportunità di possedere una legge numerica, in base alla quale fos­ sero definiti gli spazi temporali e si succedesse l'alter­ narsi del giorno e della notte. Ha avuto così origine il mese: quando la luna, percorsa la sua orbita, raggiunge il sole; così come l’anno, quando il sole ha percorso la propria, collocandosi nel medesimo segno dal quale era p a rtito »188, in 365 giorni e 1/4 [tav. 27]. È questa la ragione per cui fu stabilito dagli uomini più intelligenti e più allenati nella pratica dell’osservazione delle cose

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obseruationem exercitatissimis quarta illa portio quarto post anno in unum collecta et accorporata spatium diei noctisque compleret. CXYIII «Est tamen intellectu facile, quod perfectus temporis numerus perfectum annum com pleat tum demum, cum omnium octo circum actionum cursus peracti uelut ad originem atque exordium circumactio­ nis alterius reuertentur, quam sem per idem atque uniformis motus dim etietur». Perfectum tem poris numerum, qui perfectum complet annum, ap p ellat eum, quo tam septem planetes quam ceterae stellae quae dicuntur ratae repraesentatae originalibus sedibus eandem, quae fuit initio rerum principioque m undi, constitutionis efficiunt designationem, ita ut et prolixi­ tas prolixitati et interuallorum pristinorum latitudini latitudo et profunditati profunditas q uadret. H oc autem tem pus continet annorum in n u m era b ilem seriem, quippe cum stellarum errantium circuitus im pa­ res sint necessarioque diuersis temporibus cursus suos compleant, praeterea latius aliae a m edietate m undi euagentur, angustius uero aliae ad austri septentrionisue conuexa, celsiores aliae a terra sint, aliae non adeo longo altitudinis interuallo distent a regione terrae, diuersos quoque inter se motus agant, ut citae tardius progredientibus, ultra progredientes retrorsum rece­ dentibus, humilibus excelsae, dextrae sinistris, sinisteriores dexterioribus occurrant in unum nihilque omni­ no sit, quod in designatione differat a ceterorum astro­ rum habitu specie figuris. Atque ut omnes omnibus

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celesti, che le suddette quarte parti di un giorno, dopo quattro anni, riunite assieme e accorpate, vengano a riempire lo spazio di un giorno e di una notte189. CXVIII «Nondimeno è facile a comprendersi che il num ero perfetto del tempo compie l’anno perfetto, quando, portati a compimento i percorsi delle otto rivo­ luzioni, esse tornano al punto di partenza, che è punto di inizio di una nuova rivoluzione, che percorrerà con un moto sempre identico ed uniforme»190. Il numero perfetto del tempo, che compie l’anno perfetto, è da lui identificato con quello in cui sia i sette pianeti, sia tutte le altre stelle, che sono dette fisse, ricollocate nelle loro sedi originarie, riproducono lo stesso schema di disposi­ zione, che ha caratterizzato l’inizio del tutto e l’origine d e ll’universo, cosicché la lunghezza corrisponda alla lunghezza, l’estensione degli intervalli all’estensione ori­ ginaria degli intervalli, la profondità alla profondità191. Questo tempo contiene poi una serie innumerevole di anni, per il fatto che sono diverse tra loro le orbite delle stelle erranti e necessariamente diversi risultano i tempi in cui esse sono percorse; dato che, inoltre, alcune si spingono molto lontano dal centro dell’universo, altre più strettamente si avvicinano alla convessità meridio­ nale o settentrionale del cielo, alcune si innalzano più in alto rispetto alla terra, altre non raggiungono tanta distanza dalla regione terrestre, diverso tra loro risulta anche il moto con cui si muovono, in modo tale che le più veloci si incontrino con quelle che procedono più lentamente, quelle che procedono in avanti con quelle che retrocedono, quelle poste più in basso con quelle poste più in alto, quelle che si trovano nella parte destra del cielo con quelle collocate a sinistra, quelle poste a ll’estrem ità sinistra con quelle poste a ll’estrem ità destra e non vi sia nella loro disposizione alcuna diffe­ renza in rapporto alla forma, all’aspetto esteriore e alle figure di tutti gli altri astri. Affinché poi tutti questi

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aequis diametris distent unumque nutum atque unam efficiant stellarum omnium conformationem, cum sit necesse, si unus aliquis ex ignibus repraesentatus fuerit in antiquae constellationis statum iuxta rationem forte altitudinis, latitudini tamen non sit repraesentatus anti­ quae, uel si perfecte per omnia momenta unus reuocatus ad antiquum statum fuerit, ceterorum tamen, quo­ rum est diuersa condicio, perfecta repraesentatio m ini­ me prouenerit, necesse sit etiam eius stellae quae in repraesentatione perfecta inuenietur rursum fieri aliam mutationem, quoad opportunitas illa proueniat, quae unam faciem atque eandem repraesentet quae fuit ab initio mundi. Quem quidem motum et quam designa­ tionem non est putandum labem dissolutionem que afferre mundo, quin potius recreationem et quasi nouellam uiriditatem positam in auspicio motus noui; haud sciam an in quibusdam regionibus terrae prouentura sit ulla ex innouatione iactura. Hactenus de mundi sensilis constitutione tractauit.

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corpi celesti siano collocati a uguali distanze rispetto a tutti gli altri e determinino un unico movimento e un’u­ nica formazione di tutte le stelle, se uno qualsiasi dei corpi celesti è stato ricollocato nella sua stessa posizio­ ne, nell’ambito della sua antica costellazione, conforme­ mente, per esempio, alla misura dell’altezza, e non sia stato ricollocato nella sua medesima posizione per quel che riguarda la latitudine, o se uno solo è stato perfetta­ mente reintegrato, attraverso tutte le fasi intermedie, nella sua originaria posizione, mentre per tutti gli altri, dei quali diversa è la situazione, non si è per nulla deter­ minata una perfetta reintegrazione nelle posizioni origi­ narie, appare necessario che anche il corpo celeste che sarà rinvenuto perfettamente reintegrato nella sua origi­ naria posizione sia sottoposto nuovamente ad un altro cam biam ento di posizione, fino a che non si realizzi l ’occasione favorevole che determini il riprodursi di q u e ll’unica disposizione dei corpi celesti, identica a quella che si verificò all’inizio dell’universo. Non si deve però ritenere che tale movimento dei corpi celesti e tale loro disposizione rechino con sé la rovina e la dissolu­ zione d ell’universo, ma piuttosto una sua rinascita, e quasi una nuova giovinezza, sono implicite nell’inizio di un nuovo movimento. Non saprei se in qualche regione della terra un qualche detrimento possa derivare da tale rinnovam ento192. Fin qui la trattazione relativa alla costituzione del mondo sensibile.

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COMMENTARII PARS SECU N D A

CXIX Mundi totius perfectionem ab opifice absolu­ tam deo praeteriti operis textu secreuimus Platonicis dogmatibus, quoad mediocritas ingenii passa est, inhae­ rentes iuxta naturae contemplationem artificiosasque rationes. Deinde ante omnes res primam pertractat cae­ lestium orbium, qui sunt infixi tergo ratae atque inerra­ bilis conuersionis, generationem, eorum etiam quae mundus complectitur, quo sit plena perfectaque uniuersa res animalque sensilis mundi proximam sim ilitudi­ nem nanciscatur perfecto intellegibilique et exem plari ex se genito mundo, quattuorque sensilium animalium species, tam caelestium quam terrenorum, naturali con­ templatione dinumerat: caelestium quidem stellas, ter­ renorum uero uolatilia et item nantia quaeque per ter­ ram feruntur, iure dicta terrena, quippe quae terra nutriantur et in eiusdem terrae gremio quiescant, quod­ que corpora eorum ex maiore parte terrena ex obtinen­ tis materiae uocabulo cognominantur, perinde ut caele­ stia, quae ex maiore parte ignis puri liquidique concreta aeterni appellantur ignes. CXX Nec contentus supra dictorum anim alium demonstratione porrigit diligentiam usque ad angelicae naturae, quos daemonas uocat, extricationem. Quorum quod est purius in aethere sedes habet, alterum in aere, tertium in ea regione quae humecta essentia nominatur,

339 PARTE SECONDA I QUATTRO GENERI DEGLI ESSERI ANIMATI

CXIX Nella sezione precedente abbiamo trattato a parte in che modo il dio artefice abbia condotto a ter­ mine la creazione del mondo nella sua interezza; ed in ciò ci siamo attenuti strettamente, almeno per quanto ci ha consentito il nostro modesto ingegno, alle dottrine platoniche, basandoci sull’osservazione della natura e sull’indagine razionale. Prima di tutto, dunque, Platone esamina la formazione dei corpi celesti che stanno attac­ cati alla superficie della volta fissa e immobile193, e poi d i q u e lli che l ’universo com prende194, affinché il mondo sia assolutamente perfetto, e l’essere vivente ottenga una strettissima somiglianza con il mondo per­ fetto, intellegibile e archetipo del mondo nato da lui195; ed elenca, sulla base d ell’osservazione della natura, quattro specie di esseri viventi, sia celesti, sia terreni. Tra i celesti appunto le stelle, mentre tra gli esseri terre­ ni i volatili e parimenti gli animali acquatici e quelli che camminano sulla terra, giustamente chiamati terrestri, dal momento che dalla terra traggono il nutrimento e in grembo alla terra stessa riposano; e poiché i loro corpi sono costituiti per la maggior parte di terra, essi pren­ dono il nome dalla materia che in essi è predominante, allo stesso modo in cui i corpi celesti, che sono costituiti prin cipalm ente da puro e limpido fuoco, sono detti “fuochi eterni”. CXX E non si lim ita alla descrizione degli esseri viventi di cui si è detto sopra, ma estende la sua scrupo­ losa indagine alla spiegazione della natura delle creature angeliche, che lui chiama demoni196. Tra questi la schie­ ra più pura risiede nell’etere, una seconda nell'aria, la terza in quella regione che è chiamata «essenza umida»,

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quo interna mundi congesta sint anim alibus ratione utentibus nec sit ulla eius regio deserta. Quem quidem tractatum, quod sit elatior et ultra naturae contempla­ tionem, necessario differt et ait deum post generatio­ nem stellarum ratarum, cum unaquaeque earum diuinum animal esset utens corpore mixto ex sincerissimis materiis quattuor et ex maiore parte ignis sereni, coru­ scum quoddam animal et formatum in modum sphae­ rae infixisse summo cum m odulam ine apiani globo eumque omnem huius modi luminibus exornasse. Ubi uero mouendi usus est necessarius uisus, ex omnibus motibus duos hos tribuisse praecipuos: unum ex acci­ denti, quo rapit stellas aplanes ad o ccid u a, quem motum nunc uocat in antecedentia, alterum uero prin­ cipalem, qui est circumactio circaque semet uertitur, similem deliberatiuo animae motui quinque ceteris ces­ santibus motibus. CXXI Etenim loculares motus septem sunt, opinor: duo quidem iuxta longitudinem, id est ante et post, duo item alii per latitudinem, in dextram et sinistram, duoque alii iuxta profunditatem, sursum et deorsum, et ultimus supra memoratae circumactioni similis, qui fixo circumuolat cardine. Quia ergo ex his septem motibus duum tantummodo singulis ratis stellis usum tribuit deus, principalem quidem circumactionem, ex accidenti uero qui fertur in dextram, recte dixit quinque praete­ rea motus alios uacare. Deinde concludit commemorans de motibus se stellarum errantium in sup erio rib u s disputasse. Et caelum quidem ita exornatum est sapien­ tibus et aeternis animalibus inquilinis. CXXII Quod uero consequens uideretur mortalium quoque et obnoxiorum passionibus animalium demon­ strari genituram, haec sunt porro terrena, iure merito-

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in modo che le parti interne del mondo siano piene di esseri viventi dotati di ragione, e che nessuna zona rimanga vuota197. Ma deve necessariamente rinviare la trattazione di questo argomento perché è più nobile e va al di là della semplice osservazione della natura; e afferma che il dio, dopo la creazione delle stelle fisse, poiché ognuna di esse era un essere divino198 dotato di un corpo formato da quattro purissime materie e in massima parte da limpido fuoco, collocò con perfetta armonia ogni essere luminoso e di forma sferica nel cer­ chio im m obile, che adornò tutto di queste lu ci199. Quando poi gli parve indispensabile che questi esseri avessero la facoltà di muoversi, attribuì ad essi, tra tutti i tipi di moto, questi due precisi movimenti: uno acci­ dentale, con il quale trascina le stelle fisse verso le cose corruttibili e che egli definisce «in avanti», ed un secon­ do, che è il più importante, di rotazione circolare su se stesso, simile al moto conoscitivo dell’anima200. Quanto agli altri cinque movimenti, questi mancano del tutto. CX XI Ed infatti i moti nello spazio sono, credo, sette: due infatti, in lunghezza, avanti e indietro, altri due in larghezza, a destra e a sinistra, e poi altri due in altezza, verso l’alto e verso il basso, e l’ultimo simile alla rotazione descritta sopra, il movimento intorno a un perno fisso201. Poiché dunque tra tutti questi sette tipi di moto, il dio ne attribuì a ciascuna delle stelle fisse soltanto due, e cioè la rotazione principale intorno a se stesse e quello accidentale verso destra, giustamente egli afferma che gli altri cinque mancano. Quindi conclude ricordando di aver trattato del moto dei pianeti nei capitoli precedenti. E così il cielo è ornato degli esseri viventi sapienti e immortali che lo popolano. CXXII Poiché poi sembrerebbe logicamente conse­ guente trattare della creazione degli esseri animati mor­ tali e soggetti alle passioni, e questi esseri sono terrestri, giustamente e a buon diritto egli espone prima ciò che

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que prius quae de terra ipsa dicenda existimabat expo­ nit. Dicit autem, quod «hanc quoque deus constrictam limitibus per omnia uadentis et cuncta continentis poli constituerit noctis dieique custodem». Sed polum nun­ cupat eum, qui omne mundi corpus peruadit, axem. Constrictam uero dupliciter intellegendum, uel iuxta Pythagoram ignem uertentem se circum axem, placet quippe Pythagoreis ignem quidem utpote materiarum omnium principem medietatem mundi obtinere, quem Iouis custodem appellant; per hunc porro moueri circu­ mactas in gyrum tamquam stellas terram et anticthona. Quare uel sic intellegendum uel aliquanto uerisimilius medietati mundi adhaerentem quiescere terram proptereaque et a Platone et a multis aliis Uestam cognomina­ ri. Denique in Phaedro idem ait: «Manet enim Uesta in diuino domicilio sola». CXXIII Custodem uero et opificem diei et noctis propterea dicit esse, quia per eandem, id est terram , uectus sol partes eius subiectas sibimet illustrans diem facit. Cum uero obiecerit se ex aliqua parte solis anfrac­ tibus terra ipsa obumbratur; itaque exum bris crassa noctis caligo succedit. Simul quia immobilis terra est, significanter eam custodem noctis et diei cognominauit. Neque enim pereunte die nox nascitur uel noctis amis­ sione dies oritur, sed utraque salua succedit altera. Quia uero hoc fit per eam indefesse ipsa manente semper in sua sede, spectatrix est, opinor, eorum quae uelut ante conspectum suum g e ru n tu r m erito q u e cu sto s. Antiquissimam uero deorum dicit, opinor, uel quia locus est animalium capax, regio porro et locus praeco-

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riteneva dover dire della terra stessa. Dice allora che «questa terra il dio la fissò stabilmente, vincolandola ad un polo che attraversa tutto l’universo e abbraccia tutte le cose, e la rese custode della notte e del giorno»202. Quello che chiama polo è l’asse che attraversa tutto l’u­ niverso. Che la terra sia «stabilmente fissata», lo si può in te n d e re in due modi: o, secondo la dottrina di Pitagora, nel senso che è il fuoco che gira intorno a un asse - poiché secondo l’opinione dei Pitagorici è il fuo­ co che, sommo tra tutte le materie, occupa la parte cen­ trale del mondo, ed essi lo chiamano «difensore di G iove»203; e per mezzo di esso si muovono e vengono fatte ruotare come stelle la terra e gli antipodi204. Perciò si può intendere così, oppure, in maniera molto più verosimile, che la terra, attaccata alla parte centrale del mondo, rimane immobile e per questo è chiamata, sia da Platone, sia da molti altri, Vesta. In fin dei conti, Platone stesso dice, nel Fedro : «Sola rimane, infatti, nella dimora degli dei, Vesta»205. CXXIII Dice poi che la terra è «custode e creatrice del giorno e della notte» per il fatto che, trasportato attraverso di essa, attraverso la terra intendo, il sole illu­ mina le zone poste sotto di sé e fa giorno. Quando poi si contrapporrà in qualche parte ai rivolgimenti del sole, la terra stessa si oscura; e così dall’ombra avanzano le tenebre fitte della notte. Allo stesso tempo, poiché la terra è immobile, Platone la definì in modo significativo «custode della notte e del giorno». Infatti la notte non nasce dal giorno che muore, né il giorno sorge dallo sparire della notte, ma entrambi rimangono intatti e l ’uno succede all’altro. E poiché ciò avviene per mezzo della terra, mentre essa rimane sempre al suo posto, instancabile, la terra è, credo, spettatrice di tutto ciò che avviene, per così dire, davanti al suo cospetto e ne è, giustam ente, custode. Dice poi che è «la più antica tra le divinità»206, credo, o perché è il luogo che contie-

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gitetur his quae in loco sunt necesse est, uel quia puncti rationem obtinet; hoc porro antiquius esse omni m agni­ tudine atque omnibus quantitatibus naturali quadam mentis conceptione praenoscitur, uelut ait Hesiodus: «Prima quidem haec caligo, dehinc post terra creata est, Spirantum sedes firmissima, pectore uasto». Post enim chaos, quam G raeci h y le n , nos siluam uocamus, substitisse terram docet in medietate m unda­ ni ambitus ut fundamenta fixam et immobilem. Nobis autem natura tributum est id quod stat prius his quae mouentur mente percipere; omnis quippe motus post stationem sumit exordium. CXXIV Stellarum uero errantium opera, quae prop­ ter modulatam et consonam celebrantur agitationem , quam idem appellat choream, in progressibus et anfrac­ tibus earundem stellarum perspicue uidentur, ut cum apparent nimio quodam incitatoque motu progressae longius uel cum diu stare in uno atque eodem loco et item cum retrorsum ferri putantur, tum in coetibus quoque et effulsionibus et absconsionibus uel in eois uel in occiduis, conuersionibus quoque et aequinoctiis omnibusque transfigurationibus, hoc amplius in defec­ tionibus et reparatis illustrationibus, denique ceteris huius modi. De quibus si quis dedita opera disputet, hunc frustra dicit terere superuacuum laborem proptereaque excusat ratus tractatum istum ad astronomiam potius quam physiologiam pertinere. «Parabolas» enim quasdam appellat, qui comitatus sunt siderum, ut iuxta

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ne gli esseri viventi, ed è d’altra parte necessario che si pensi precedentem ente una regione e un luogo per quelle cose che in un luogo sono contenute207, o perché essa possiede la natura del punto208, ed il punto a sua volta è fin dall’inizio conosciuto, per effetto di un ragio­ nam ento, come precedente a ogni altra grandezza o dimensione, come dice Esiodo: «E prima certo questa oscurità fu creata e poi, di seguito, la terra dal vasto petto, dimora saldissima per i [mortali»209. Infatti dopo il Caos, che i Greci chiamano hyle e noi silva 210, egli spiega che la terra rimase salda al centro del cerchio dell’universo, fissa alle sue fondamenta ed immobile. A noi è stato dato dalla natura di immaginare con la m ente ciò che sta fermo prima di ciò che si muove, poiché ogni moto ha inizio dopo uno stato di quiete. CXXIV Quanto poi all’attività dei pianeti211, che si manifesta secondo un moto armonico e concorde, che Platone definisce «danza»212, essa è ben evidente negli avanzamenti e nei rivolgimenti dei pianeti stessi, come quando appaiono avanzati per tratti alquanto lunghi in seguito a un movimento straordinario e impetuoso, o q u an d o p are che stiano ferm i sempre nello stesso punto, o quando, allo stesso modo, sembrano esser riso­ spinti indietro; ed è altrettanto evidente nel loro incon­ trarsi, nel loro risplendere e oscurarsi rispettivamente nelle regioni orientali e in quelle occidentali; e nelle loro conversioni, negli equinozi e in tutte le loro trasforma­ zioni, e tanto più nel loro eclissarsi e tornare visibili, e infine in tutti gli altri fenomeni simili. Ma riguardo a queste cose, Platone dice che, se uno se ne occupa intenzionalm ente, non fa che sprecare fatica inutile e vana e perciò si giustifica giudicando questi argomenti m aggiormente pertinenti all’astronomia, che alla filoso­ fia naturale. E infatti definisce «accostamenti»213 alcuni

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solem indiuidui semper Mercurius et Lucifer, «recipro­ cos circuitus», quos astrologi regradationes uocant, «progressus» item ad praecedentia profectionem, etiam «coniugationem»; duplex uero est coniugano, altera per cathetum, altera per diam etrum, atque ea quae per cathetum fit significat, cuius modi stellae q ualib u s coeant quaeue sit earum coetus significatio, per diam e­ trum uero contra distantium a se stellarum positionem uult intellegi, cum ex medietate stellae ad alterius con­ tra positae stellae medietatem directa linea conectit et continuat utramque. Quos uero defectus mathematici uocant, Plato «obstacula» appellat proprie magis et ali­ quanto significantius, non quo sibi inuicem obsistant, sed quod nobis a terra spectantibus inferioris subiectu uisus arceatur stellae superioris proptereaque deficere ac laborare propter obiectum inferioris superior existi­ matur. CXXV Item inquit: «Q uae longo interuallo rursus apparent, metus et quaedam portenta significant uel mox futura uel serius», significationem uero pertinere ad eos qui de his rebus ratiocinari possunt putat; ex quo intellegi datur non stellas facere quae proueniunt, sed futura praenuntiare. Quam rationem secutus etiam uates Homerus ortum C aniculae «C anem O rio n is» appellat, cum hanc eandem stellam Astrocynon q u i­ dam, Aegyptii uero Sothin uocent, cuius com pletur annus qui Cynicus uocatur annis mille quadringentis sexaginta. Dicit autem Homerus de hoc sidere hacte­ nus:

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movimenti con i quali le stelle si accompagnano tra loro: per esempio quelli di Mercurio e Lucifero che stanno, inseparabili, sempre accanto al sole; chiama poi «con­ versioni reciproche»214 quelle che gli astrologi chiamano «retrogradazioni», e chiama allo stesso modo «avanza­ m ento»215 e anche «congiunzione» lo spostamento in avanti verso orbite precedenti. La congiunzione, poi, è di due tipi, quella lungo il cateto216 e quella lungo il dia­ metro217: la congiunzione lungo il cateto indica in che modo le stelle si uniscano e a quali altre e spiega quale sia il significato di questa unione; invece con «congiun­ zione lungo il diametro» si vuole intendere quella che avviene tra stelle poste lontano tra loro, quando cioè dal centro di una stella parte una linea retta che giunge al centro di u n ’altra stella contrapposta e le congiunge insieme. Quelle poi che gli astronomi chiamano «eclis­ si»218, Platone le definisce, in maniera più appropriata e sig n ific ativ a, «o stac o li»219, non perché i pianeti si oppongano l’uno all’altro, ma perché a noi che guardia­ mo dalla terra, la vista di una stella che si trova più in alto viene impedita dalla posizione inferiore di una stella che sta più in basso; perciò si conclude che il pianeta che sta più in alto viene meno e si eclissa a causa dell’in­ terposizione del pianeta che sta più in basso. CXXV E dice ancora: «Ed essi, dopo un lungo inter­ vallo, ricompaiono e incutono paura e danno presagi del futuro immediato e del futuro lontano»220 e ritiene che questi segni siano rivolti a coloro che sono capaci di fare dei calcoli su questi fenomeni; da ciò si può com­ prendere che le stelle non fanno sì che le cose accadano, ma preannunziano che accadranno221. Concordando con questo principio anche il vate Omero chiama il sor­ gere di Sirio, «Cane di Orione»222, mentre la stessa stel­ la alcuni la chiamano «Astrocynon» e gli Egizi, a loro volta, «Sothis»223, e un anno di questo pianeta si com­ pie in millequattrocentosessanta anni nostri ed è detto «anno del cane»224. Di questa stella, però, Omero dice soltanto:

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«Iste quidem clarus, sed tristia fata m inatur» tunc, opinor, cum fuerit interuallo temporis uisus; uidetur porro interposito quadriennio, sed non in isdem locis. Quater porro trecentis sexaginta quinque quadrienniis comple­ tur Cynicus annus. CXXVI Aegyptiorum quoque prophetae stellam quandam aliquot annis non uisam uerentur, quam uocant Ach. Porro sidus hoc exoriens morbos populo­ rum m ultorum que o p tim atium m ortes d e n u n tia t. Homerus denique, qui idem fuerit Aegyptius, siquidem Thebanus fertur, quae ciuitas est apud Aegyptum nobi­ lissima, id ipsum latenter exequitur in Iliadis exordio, cum dicit propter iram A chillis, cuius pater P eleus, mater uero maritima fuerit dea, morbum atque interi­ tum non modo clarorum uirorum sed aliorum quoque animalium et pecorum bello necessariorum extitisse; quo quidem sumpto exordio cetera poetica licen tia finxit. Est quoque alia sanctior et uenerabilior historia, quae perhibet ortu stellae cuiusdam non morbos mor­ tesque denuntiatas sed descensum dei uenerabilis ad humanae conseruationis rerumque mortalium gratiam. Quam stellam cum no cturn o itin e re su sp ex issen t Chaldaeorum profecto sapientes uiri et in consideratio­ ne rerum caelestium satis exercitati, quaesisse dicuntur recentem ortum dei repertaque illa m aiestate p u erili ueneratos esse et uota tanto deo conuenientia nuncu­ passe. Quae tibi multo m elius sunt com perta quam ceteris. CXXVII «A t uero naturae daem onum p raestare rationem maius esse opus dicit quam ferre ualeat homi­ nis ingenium», non quo disputatio haec a philosophis aliena sit - quibus enim aliis magis competat? - , sed

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«E d essa è certo splendida, ma triste fato minaccia»225 allorquando, credo, sarà vista dopo un certo inter­ vallo di tempo; ed essa, d’altra parte, viene vista ogni cinque anni, ma non negli stessi luoghi. Un anno del Cane si compie dunque in quattro volte trecentosessantacinque anni, o in trecentosessantacinque quadrienni. CXXVI Anche i sacerdoti degli Egizi temono una certa stella che non viene vista per molti anni e che ch iam an o « A c h » 226. Q uesta stella, poi, sorgendo, annunzia epidem ie di popoli e morti di eroi. Infine Omero, che era Egizio egli stesso, se è vero che, come si dice, era Tebano227 (e Tebe è una famosissima città d e ll’E gitto), descrive proprio questo, pur in maniera oscura, a ll’inizio deW Iliade, quando narra dell’ira di Achille (il cui padre era Peleo, ma la madre una dea del mare), che causò pestilenza e morte non solo di eroi, ma anche di altri esseri viventi e di animali usati in guerra; e dopo aver dato un tale inizio al suo poema, le altre cose le inventò, servendosi di quella libertà che è consentita ai poeti. M a c’è anche un altro racconto, ben più degno di venerazione e di rispetto, secondo cui, dal sorgere di una certa stella non malattie e morte sarebbero state annunziate, ma la venuta sulla terra di un Dio santo, per la salvezza degli uomini e del loro destino228. E si dice che proprio guardando quella stella, viaggiando durante la notte, dei caldei, sapienti e molto esperti nell’osserva­ zione d ei fenomeni celesti, siano andati in cerca del luogo ove il Dio era appena nato, e avendo trovato il divino fanciullo, lo abbiano adorato e abbiano pronun­ ciato voti confacenti a un Dio così grande. Ma questa storia tu, Osio, la conosci molto meglio delle altre. CXXVII «M a in verità dare una spiegazione della natura dei demoni - secondo Platone - è un’impresa superiore alle capacità dell’intelletto umano»229, non perché questo argomento non sia adatto ai filosofi - e infatti a chi, piuttosto che ad essi, dovrebbe competere?

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quod inquisitio istius rei primariae superuectaeque con­ templationis sit, quae appellatur epoptica, altior a li­ quanto quam physica, proptereaque nobis, qui de rerum natura nunc disputamus, nequaquam conueniens esse uideatur. Idem tamen breuiter et strictim de his potestatibus quae dii putantur locutus, credo propterea, ne mundi constitutio imperfecta relinqueretur ex quotacumque parte, si sileret de huius modi rebus, credule mage quam persuadenter et probabiliter ostendit opor­ tere credulitatem omnes doctrinas praecedere, maxime cum non quorumlibet sed magnorum et prope diuinorum uirorum sit assertio d en iq u e non fru s tra de Pythagora dictum Ipsum dicere proptereaque ultra quaeri non oportere. Ergo, inquit, «neque probationes semper adhibendae nec persuadens assertio his quae dicuntur a priscis diuina quadam sapientia praeditis». Simul exponit ea quae Orpheus et Linus et Musaeus de diuinis potestatibus uaticinati sunt, non quo delectare­ tur aut crederet, sed quod tanta esset auctoritas uaticinantium, ut his asseuerantibus parcius credi non opor­ teret. CXXVIII At uero in eo libro qui Philosophus inscri­ bitur summa diligentia praecipuaque cura omnes exequitur huius modi quaestiones: priscorum hominum genus omnia quae ad usum hominum uitaeque agendae facultatem diuino consilio prouidentiaque dem anant auxiliantibus atque operantibus tam potentiis quam rationibus, haec ipsa quae auxiliantur deos existimasse, propterea quod rudibus animis nondum insedisset ueri dei sciscitatio. Erant enim pastores et siluicaedi ceteri-

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- ma perché la trattazione di questa materia è compito di un tipo di osservazione di livello superiore e più profon­ do230, che è chiamata «epoptica»231, ed è molto più nobi­ le della fisica e perciò non sembra per nulla adatta a noi che stiamo ora trattando della natura fisica delle cose. Ciò nondimeno egli accenna brevemente a quelle poten­ ze che si ritengono essere dei232, e credo lo faccia per non lasciare incompleta in qualche sua parte la creazione del mondo, col tacere di argomenti di tale importanza; mostra poi, più con fede che con argomentazioni convin­ centi e persuasive, come sia necessario che la fede prece­ da tutte le scienze, soprattutto perché questa affermazio­ ne non è di gente qualsiasi, ma di uomini grandi e per così dire divini233 - dopotutto non senza ragione si dice, riguardo a Pitagora: «Lo ha detto lui e perciò non c’è bisogno di indagare oltre». Per questo - continua - non è necessario servirsi continuamente di prove e di argomen­ tazioni convincenti, riguardo a ciò che ci viene riferito dagli antichi, uomini dotati di una sapienza quasi divina. Contem poraneam ente espone ciò che Orfeo, Lino e M useo, divinamente ispirati234, insegnarono sui poteri degli dei, non perché si diletti con tali racconti o creda ad essi, ma perché così grande era l’autorevolezza di coloro che li narrarono, che non sarebbe stato opportuno attri­ buire scarsa fiducia a ciò che essi asserivano. CXXVIII Ma, in ogni modo, in quel libro intitolato Il filo s o fo 235, egli passa in rassegna con la massima scru­ polosità e con straordinaria attenzione tutte le questioni attinenti a ciò: e spiega come tutte le cose che promana­ no dalla sapienza divina e dalla provvidenza, con l’aiuto congiunto della potenza fisica e della ragione, al fine di servire gli uomini e di fornir loro i mezzi per condurre la loro vita, tutte queste cose dunque che recano loro aiuto, gli uomini antichi le ritennero divinità, poiché non era ancora penetrata nei loro animi ignoranti la ricerca del vero dio236. Facevano infatti i pastori, i boscaioli e altri mestieri simili, ed erano privi di cultura

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que huius modi sine studiis humanitatis, quos cladis publicae superstites fecerat opportuna habitatio ex tem­ pestatum atque illuuionis incommodo. Q uae poetae postea blandientes humanis passionibus propter cupidi­ tatem lucri uersibus suis formata membratimque effigia­ ta amplis et reconditis nominibus exornauerunt usque adeo, ut etiam uitiosas hominum illecebras turpissimosque actus deos cognom inarent obnoxios passioni. Itaque factum ut pro gratia, quae ab hominibus debetur diuinae prouidentiae, origo et ortus sacrilegio pandere­ tur; cuius erroris opinio creuit inconsultorum hominum uanitate. CXXIX Haec ad praesens Plato quidem de daemo­ num genere disseruit, nos tamen oportet, etsi non usque quaque, ueram eorum breuiter explicare rationem, quae est huius modi. Quinque regiones uel locos idem Plato esse dicit in mundo capaces animalium habentes a li­ quam inter se differentiam positionum ob differentiam corporum quae inhabitent eosdem locos. Sum m um enim esse locum ait ignis sereni, huic proximum aethereum, cuius corpus esse ignem aeque, sed aliquanto crassiorem quam est altior ille caelestis, dehinc aeris, post humectae substantiae, quam Graeci hygran usian appellant, quae humecta substantia aer est crassior, ut sit aer iste quem homines spirant, imus uero atque u lti­ mus locus terrae. Quae porro in locis differentia est, eadem etiam in m agnitudinibus inuenitur; caelestis maximus, quippe qui omnia intra complexum suum redigat, breuissimus terrae, quia ceteris omnibus corpo­ ribus ambitur, iuxtaque rationem continui competentis ceteri medii.

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ed educazione, sopravvissuti al disastro generale in virtù del luogo in cui abitavano, non esposto al pericolo di tempeste e inondazioni237. E tutte queste cose, in segui­ to, presero forma e furono descritte, per così dire, membro a membro, nei versi dei poeti che, per il loro personale guadagno, rappresentavano in modo favore­ vole le passioni degli uomini; e le abbellirono con nomi illustri e inusuali, al punto da attribuire alle più perver­ se seduzioni e alle azioni più turpi il nome di dei sogget­ ti alle passioni238. E avvenne così che, invece della grati­ tudine che gli uomini dovrebbero tributare alla provvi­ denza divina, fu reso possibile l’inizio e l’origine del sacrilegio e la credenza in questo errore fu alimentata dalla leggerezza di uomini sconsiderati. CXXIX Per il momento, Platone ha trattato appun­ to questi argomenti relativamente alla specie dei demo­ ni; tuttavia è necessario che noi forniamo, in breve, un sistema vero e proprio di essi, anche se non in maniera com pleta239. Questo sistema è dunque il seguente: lo stesso Platone afferma esservi nel mondo cinque regioni o luoghi che contengono gli esseri viventi e che hanno posizioni differenti a causa della diversità dei corpi che abitano i luoghi stessi. Dice infatti che il luogo più alto è quello del fuoco limpido240; contigua a questo è la regione d ell’etere241, la cui sostanza è costituita ugual­ m ente da fuoco, ma da un fuoco molto più denso di quanto non sia quel fuoco celeste più alto; poi c'è la regione d e ll’aria e poi quella della «sostanza umida» che i G reci chiamano hygra usia, e questa sostanza um ida è aria, ma più densa, ed è l’aria che gli uomini respirano; la più bassa e ultima è, ovviamente, la regio­ ne della terra242. La stessa differenza che sussiste riguar­ do alla posizione si trova inoltre anche riguardo alle d im en sio n i: la regione celeste è la più grande, dal momento che abbraccia e comprende in sé tutte le cose, la più piccola è la regione della terra, poiché è circonda­ ta da tutti gli altri corpi, e così via, analogamente243, per le regioni centrali.

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CXXX Cum igitur extim i lim ites, id est summus atque imus, celebrentur conuenientibus anim alibus naturae suae, scilicet ratione utentibus, caelestis quidem stellis, terrestris autem hominibus, consequens est etiam ceteros locos regionesque interiectas plenas esse ratio­ nabilibus animalibus existimari, ne quis m undi locus desertus relinquatur. Etenim est absurdum hom ines quidem imam mundi regionem inhabitantes fragili cor­ pore, animo cum amentia et sine sinceritate pleno paenitudinis ob inconstantiam commotionum suarum, alias aliis atque aliis placentibus, rationabiles anim antes putari, stellas uero prudentis naturae ob aeternam actuum suorum constantiam nulli paenitudini obnoxias puro minimeque dissolubili corpore, utpote quae exti­ mas ignis cuncta am bientis regiones in co lan t, sine anima fore, carere etiam uita putare. Cui quidem rei Hebraeorum quoque sententia concinit, qui perhibent exornatorem mundi deum mandasse prouinciam soli quidem, ut diem regeret, lunae uero, ut noctem tuere­ tur, ceteras quoque stellas disposuisse tamquam limites temporum annorumque signa, indicia quoque futuro­ rum prouentuum. Quae cuncta certe tam m oderate, tam prudenter, tam iugiter continueque agi sine rationa­ bili, quin potius sine sapientissimo rectore non possent. CXXXI Quare cum sit diuinum quidem et immorta­ le genus animalium caeleste sidereum , tem porarium uero et occiduum passionique obnoxium terrenum , necesse est esse inter haec duo m edietatem aliquam

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CXXX Ora, dal momento che le regioni estreme, e cioè la più alta e la più bassa, sono popolate da esseri viventi che corrispondono alla natura di esse e che, ovviam ente, sono dotati di ragione - le stelle nella regione celeste244 e gli uomini, invece, sulla terra - ne consegue che anche gli altri luoghi e le regioni interme­ die si debbano ritenere piene di esseri viventi razionali, affinché nessuna parte del mondo rimanga disabitata245. E infatti è certamente assurdo ritenere che gli uomini, i quali abitano la regione più bassa del mondo, hanno un corpo corruttibile e un animo che, dominato dalla stol­ tezza e im puro, è pieno di pentimenti a causa della volubilità delle sue passioni (ora, infatti, ama una cosa, ora u n ’altra, siano esseri razionali246; e, d'altra parte pensare che le stelle, che hanno una natura sapiente, che non sono mai soggette a pentimento per l’eterna coerenza dei loro movimenti e che sono dotate di un corpo puro e per nulla corruttibile247, dal momento che abitano le regioni più esterne del fuoco che circonda tutte le cose, non abbiano un’anima e che siano addirit­ tura prive di vita. Con ciò concorda senza dubbio quel­ lo che affermano gli Ebrei, quando dicono che il dio ordinatore del mondo abbia, appunto, affidato «al sole il compito di governare il giorno, alla luna, invece, quel­ lo di vegliare sulla notte»248, e che abbia inoltre ordina­ to le altre stelle in modo che fossero limiti del tempo e segnali degli anni e anche indizi degli eventi futuri249. E certamente tutti questi astri non sarebbero in grado di muoversi con tanta precisione e sapienza e in maniera così continua e ininterrotta, senza la guida di un reggi­ tore razionale, o meglio, sapientissimo250. CXXXI Perciò, dal momento che c’è una razza di esseri viventi divina e immortale, che abita la regione del cielo e delle stelle, e una di breve durata, mortale e soggetta alle passioni, che vive sulla terra, è necessario che tra queste due vi sia qualche intermediario che con-

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conectentem extimos limites, sicut in harmonia uidemus et in ipso mundo. Ut enim sunt in ipsis materiis medietates, quae interpositae totius mundi corpus con­ tinuant iugiter, suntque inter ignem et terram duae medietates aeris et aquae, quae mediae tangunt conectuntque extimos limites, sic, cum sit immortale animal et impatibile idemque rationabile, quod caeleste dicitur, existente item alio mortali passionibusque obnoxio, genere nostro, necesse est aliquod genus medium fore, quod tam caelestis quam terrenae naturae sit particeps, idque et immortale esse et obnoxium passioni. Talis porro natura daemonum est, opinor, habens cum diuinitate consortium propter im m o rtalitatem , habens etiam cum occiduis cognationem, quia est patibile nec immune a passionibus, cuius affectus nobis quoque consulit. CXXXIL Huius porro generis est illud aethereum, quod in secundo loco commemorauimus positum, quos Hebraei uocant sanctos angelos stareque eos dicunt ante dei uenerabilis contemplationem, summa atque acri intellegentia, mira etiam memoriae tenacitate, rebus quidem diuinis obsequium nauantes summa sapientia, humanis uero prudenter opitulantes idemque speculatores et executores, daemones, opinor, tamquam daemones dicti; daemonas porro Graeci scios rerum omnium nuncupant. Quos quidem praefectos sensili mundo primo quidem uicem im itari aliquam putandum - ut enim deus iuxta angelum, sic angelus iuxta hominem - dehinc quod usui nobis sint interpre-

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giunga i due limiti estremi, così come vediamo avvenire nell’armonia e nel mondo stesso. Come infatti vi sono anche tra gli elementi delle parti centrali che, poste in mezzo, collegano senza interruzioni il corpo di tutto il mondo - tra il fuoco e la terra vi sono le due parti inter­ m edie251 d ell’aria e dell’acqua che, stando al centro, toccano e mettono in connessione i due limiti estremi allo stesso modo, dal momento che esiste un essere immortale, non soggetto alle passioni e insieme dotato di ragione, che è detto celeste, ed esiste parimenti un altro essere m ortale, soggetto alle passioni, che è la nostra razza umana, è necessario che esista una qualche razza interm edia che sia partecipe tanto della natura celeste, quanto di quella terrena e, di conseguenza, immortale e soggetta alle passioni252. Tale è dunque la natura dei demoni, credo: essi partecipano della natura divina in virtù del loro essere immortali, ma hanno anche un’affinità con i mortali poiché sono soggetti alle impressioni e non sono immuni dalle passioni, e la loro natura sensibile li porta a prendersi cura di noi253. CXXXII Alla specie dei demoni appartiene inoltre quella classe di esseri viventi dell’etere, quella cioè che, come abbiamo ricordato, abita la seconda regione; gli Ebrei li chiamano «santi angeli» e dicono che essi stiano in contemplazione del Dio degno di essere adorato254, dotati di somma sapienza e acuto intelletto e anche di memoria straordinariamente tenace: essi invero obbedi­ scono, con sapienza somma, ai piani divini, ma offrono anche aiuto agli uomini, con saggezza, e sono anche o sserv ato ri ed esecutori255 e sono detti «dem oni», credo, in quanto sanno tutto: i Greci infatti chiamano «dem oni» coloro che conoscono tutto256. E certamente dobbiamo pensare, prima di tutto, che questi esseri che sovrintendono al mondo sensibile facciano in qualche modo le veci di Dio: ciò che è Dio nei confronti di un angelo, è, infatti l’angelo nei confronti dell’uomo257. In

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tantes et nuntiantes deo nostras preces et item hom ini­ bus dei uoluntatem intimantes, illi nostram indigentiam , porro ad nos diuinam opem deferentes; quam ob cau­ sam appellati angeli ob assiduum officium nuntiandi. Testis est huius beneficii cuncta Graecia omne Latium omnisque Barbaria gratulationesque populorum libris conditis ad memoriam perpetuitatis. Indiget q u ip p e natura generis hum ani nim ium im b e c illa su ffra g io melioris praestantiorisque naturae; quam ob causam creator omnium et conseruator deus uolens esse hom i­ num genus praefecit his, per quos recte regeren tu r, angelos siue daemonas. CXXXIII Nec nos terreat nomen promisce bonis et improbis positum, quoniam nec angelorum quidem ter­ ret, cum angeli partim dei sint m inistri - qui ita sunt, sancti uocantur - , partim aduersae potestatis satellites, ut optime nosti. Igitur iuxta usurpatam penes Graecos loquendi consuetudinem tam sancti sunt daem ones quam po lluti et infecti. De q uib us m ox e rit a p tio r disputandi locus; nunc de eo genere sit sermo quod ait Plato admirabili quadam esse prudentia m em oriaque et docilitate felici, quod omnia sciat cogitationes que hom i­ num introspiciat et bonis quidem exim ie delectetur, improbos oderit contingente se tristitia quae nascitur ex odio displicentis - solus quippe deus, utpote p len ae perfectaeque diuinitatis, neque tristitia neque uoluptate contingitur. CXXXIV Cunctis ergo caeli regionibus sortitis dae­ m onas in q u ilin o s agi m utuos co m m eatus m e d iam

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secondo luogo dobbiamo pensare che essi siano inter­ preti dei nostri bisogni e riferiscano a Dio le nostre pre­ ghiere e, allo stesso modo, comunichino agli uomini la volontà di Dio, e facciano conoscere a lui le nostre necessità e portino a noi il suo aiuto258; e perciò, per questo frequente compito di «annunciare» sono chia­ m ati « a n g e li» 259. Testimoni di questi benefici sono i popoli di tutta la Grecia, di tutto il Lazio e di tutti i paesi stranieri e i rendimenti di grazie che gli uomini hanno espresso per mezzo di libri scritti apposta per perpetuarne il ricordo260. La natura della specie umana è infatti troppo debole e ha bisogno del sostegno di una natura superiore e più perfetta: perciò il Dio creatore e salv ato re di tu tte le cose261, volendo che la specie um ana esistesse, la affidò a degli esseri da cui fosse gui­ data rettam ente, gli angeli o demoni. C X X X III E non ci spaventi il nome, adoperato senza distinzione per quelli buoni e per quelli malvagi, d a l m o m en to che non ci sp aven ta il nom e di «an g e li»262, sebbene gli angeli siano in parte servitori di Dio (e questi sono chiamati santi263), ma in parte sen i della potenza nemica264, come sai bene. Perciò, confor­ m em ente alla lingua usata dai Greci, ci sono sia demoni santi, sia dem oni im puri e corrotti. Ma di questi sarà p iù opportuno discutere in seguito. Ora parliamo di quel tipo di demoni che Platone265 definisce straordina­ riam en te sap ien ti, di molta memoria e prontissim i a im parare, perché tutto conoscono e guardano dentro i p e n sie ri d eg li uom ini e si rallegrano moltissimo dei buoni, m entre odiano i malvagi, poiché sono toccati da quel dispiacere che deriva dall’avversione nei confronti di una persona che provoca fastidio. Solo Dio infatti, poiché piena e perfetta è la sua divinità, non è toccato dal dolore, né dal piacere266. CX XX IV Dunque, dal momento che tutte le regioni d e l c ie lo h an n o ric e v u to d ei d em o n i com e loro

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mundi sedem incolentibus po testatibus ob sequium caelo praebentibus, etiam terrena cu ran tib u s; quae potestates aetherei aereique sunt daemones, rem oti a uisu nostro et ceteris sensibus, quia corpora eorum neque tantum ignis habent, ut sint perspicua, neque tantum terrae, ut soliditas eorum tactui renitatur, tota­ que eorum compago ex aetheris seren itate et aeris liquore conexa indissolubilem coagm entauit su p erfi­ ciem; ex quo non nulli regionem hanc nostram ' Al5r|v merito, quod sit aides, hoc est obscura, cognominatam putant. M ultos porro esse daem onas etiam H esiodo placet. Ait enim ter esse eorum decem milia eosque esse tam in obsequio dei quam in tutela mortalium, non cer­ tam summam conficiens numeri eorum, sed iuxta uim pleni numeri trium multiplicans decem milia. CX X X V E rit ergo d e fin itio d a em o n is ta lis : «D aem on est anim al ratio nabile im m ortale p a tib ile aethereum diligentiam hominibus im pertiens». Anim al quidem, quia est anima corpore utens; rationabile uero, quia prudens; immortale porro, quia non mutat corpus aliud ex alio, sed eodem semper utitur; patibile uero propterea quia consulit, neque enim dilectus h ab eri potest sine affectus perpessione; aethereum item ex loco uel ex qualitate corporis cognominatum; diligen ­ tiam uero hominibus impertiens propter dei uoluntatem qui custodes dedit. Eadem haec erit definitio aerei quo­ que daemonis, nisi quod hic in aere mansitat et, quanto est terrae propinquior, eo passioni affectus accom m oda­ tior. Reliqui daemones neque ita probabiles neque ita commodi nec inuisibiles semper, sed interdum contem-

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abitatori267, dice che le potenze che abitano la zona cen­ trale del mondo268 mettono in atto dei rapporti di reci­ procità, offrendo obbedienza al cielo e prendendosi cura, allo stesso tempo, delle cose terrene; e queste potenze sono i demoni dell’etere e dell’aria269, che noi non percepiamo né con la vista, né con gli altri sensi, perché i loro corpi non sono formati270 da tanto fuoco da risultare ben visibili, né da tanta terra che la loro consistenza offra resistenza al tatto, ma tutta la loro struttura, formata insieme da puro etere e limpida aria, ha cem entato insieme una superficie indissolubile271. Perciò alcuni ritengono che giustamente la nostra regio­ ne sia ch iam ata A ides , poiché essa è «aid es», cioè oscura272. Anche secondo Esiodo, infine, molti sono i demoni: dice infatti che sono trentamila e che obbedi­ scono a Dio273 e insieme aiutano gli uomini274; ma egli non ricava una somma precisa del loro numero, ma m oltiplica per diecimila il numero pieno tre, in confor­ m ità alla sua essenza275. CX XX V Dunque la definizione di demone sarà la segu en te: « il demone è un essere vivente razionale, im m ortale, soggetto alle passioni, etereo, che si prende cura d egli u om ini»276. «Essere vivente», ovviamente perché è un’anima che si serve di un corpo; «razionale» poi, perché è intelligente; ancora, «immortale» perché non cam bia un corpo dopo l’altro, ma si serve sempre d ello stesso; inoltre «soggetto alle passioni» perché riflette277, e nessuna scelta si può avere senza esperienza della passione; ugualmente è detto «etereo» dal luogo dove risied e o dalla sostanza del suo corpo; «che si prende, poi, cura degli uomini» per il volere di Dio che diede agli uomini i demoni come loro custodi. La stessa definizione è adatta anche ai demoni dell’aria, se non che questi abitano nell’aria e quanto più sono vicini alla terra, tanto più sono inclini alle passioni278. Gli altri demoni non sono altrettanto degni di lode, né così utili, né sem pre invisibili, ma qualche volta possono essere

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p ia b ile s , cum in d iu ersa s c o n u e rtu n tu r fig u ra s . Exsanguium quoque simulacrorum umbraticas formas induuntur obesi corporis illuuiem trah en tes, saepe etiam scelerum et impietatis ultores iuxta iustitiae diuinae sanctionem. Ultro etiam plerum que laedunt; tan ­ guntur enim ex uicinia terrae terrena libidine habentque nimiam cum silua communionem, quam malignam animam ueteres uocabant. Hos quidam et huius modi daemonas proprie uocant desertores angelos; quibus nulla quaestio referenda est super nomine. CXXXVI P lerique tamen ex Platonis m agisterio daemonas putant animas corporeo m unere lib eratas, lau d abilium quoque uirorum aethereos daem onas, improborum uero nocentes, easdemque animas anno dem um m illesim o terren u m co rp u s re s u m e re , Empedoclesque non aliter longaeuos daemonas fieri has animas putat, Pythagoras etiam in suis Aureis uersibus: «Corpore deposito cum liber ad aethera perges, Euades hominem factus deus aetheris alm i». Quibus Plato consentire m inim e uidetur, cum in Politia tyranni animam facit excruciari post mortem ab ultoribus, ex quo apparet aliam esse anim am , alium daemonem, siquidem quod cruciatur et item quod cru­ ciat diuersa esse necesse sit, quodque opifex deus ante daemonas instituit quam nostras animas creauit quod­ que has indigere auxilio daemonum, illos his uoluerit

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visti, allorché si trasformano, prendendo forme diver­ se279. Assumono, tra l’altro, l’aspetto indistinto di palli­ di fantasmi e trascinano con sé un corpo ripugnante ed enorme280 e spesso si fanno vendicatori di delitti e del­ l ’empietà, conformemente a quanto stabilito dal volere divino281. M a molte volte essi arrecano danno di loro spontanea volontà; infatti, a causa della vicinanza della terra, essi sono toccati dalle passioni terrene e parteci­ pano eccessivamente della materia, che gli antichi chia­ mavano « l’anima malvagia»282. Tali demoni e altri simili vengono chiam ati da alcuni, in modo appropriato, «angeli ribelli»283, e sull’uso del nome «angeli» non c’è bisogno di stare a criticarli. CXXXVI Tuttavia molti filosofi di scuola platonica ritengono che i demoni siano anime liberate dal peso del corpo, ed esattamente che i demoni buoni, formati di sostanza eterea, siano le anime degli uomini degni, mentre i demoni maligni siano quelli degli uomini mal­ v ag i284; ed ino ltre credono che queste stesse anime riprendano un corpo terreno soltanto dopo mille an­ ni285; non diversamente Empedocle286 pensa che queste anime diventino demoni e rimangano tali per lunghissi­ mo tempo. Anche Pitagora, nei suoi Versi aurei, dice: «E quando, deposto il peso del corpo, ti innalzerai [libero all’Etere, lascerai la condizione umana, divenuto ormai un [dio dell’etere radioso»287. M a con costoro Platone sembra non essere affatto d ’accordo, quando nella Repubblica immagina che l’ani­ ma di un tiranno venga, dopo la morte, torturata da dei vendicatori288: da ciò è evidente che una cosa è l’anima, u n ’altra il demone, dal momento che è necessario che la vittim a della tortura e il torturatore siano esseri distinti; in o ltre il dio artefice stabilì che vi fossero i demoni prim a di creare le nostre anime e volle che queste aves­ sero bisogno dei demoni e che i demoni, a loro volta, le

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praebere tutelam. Quasdam tamen animas quae uitam exim ie per trinam incorporationem egerin t u irtu tis merito aereis uel etiam aethereis plagis consecrari putat a necessitate incorporationis immunes. CXXXVII Hactenus de natura daemonum, deinde de mortalium genere disserit, ac primo de hom inibus eorumque ipsorum sexu uirili, rationabilem partem ani­ mae duplici uirtute praeditam docens: alteram quae contemplatur eandem semper im m utabilem que n atu ­ ram ex qua intentione mentis conualescit sapientia, alte­ ram item quae mutabilium generatorumque opinatrix est, cui prudentiae uocabulum congruit. U tram q u e porro hanc animae potentiam a summo et intellegibili deo dicit uniuersi corporis, mundi sensilis uidelicet, ani­ mae datam, ceteras ratione carentes et occiduas animae portiones, id est appetitum sensuum locularem motum quaque corpora nutriuntur totumque corpus, iussu et ordinatione architecti dei a generatis ab ipso potestati­ bus assignata esse m ortalibus propterea ne, si haec etiam ab opifice et intellegibili deo forent, unius essent fortunae omnia immortalibusque existentibus cunctis nullo existente mortali semine claudicaret uniuersitatis perfectio, cum in exemplari, hoc est intellegibili mundo, inferioris naturae semina intellegibiliter extent. CXXXVIII Videamus nunc sermonis textum . «D i deoru m , quorum o p ifex id em p a te r q u e e g o » . Dramatica est dialogi, quod ad dispositionem pertinet, adumbratio, sermo uero speciei augustioris. Decet deni-

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proteggessero. Tuttavia Platone è convinto che alcune anime che hanno condotto una vita eccellente per un periodo di tre differenti incarnazioni, come premio per la loro virtù siano rese divine e collocate nelle regioni del cielo e addirittura dell’etere, senza soggiacere al destino di reincarnazione289. CXXXVII Fin qui egli tratta della natura dei demo­ ni, poi della specie dei mortali, e innanzitutto degli uom ini, e precisamente di quelli appartenenti al sesso v irile, spiegando che la parte razionale dell’anima è dotata di due tipi di virtù: una che guarda sempre alla stessa e im m utabile natura290 - e in seguito a questa ap p licazio n e della mente si rafforza la sapienza - , e parim enti un’altra che può solo conoscere per opinione le cose create e mutevoli: ad essa ben si adatta il nome di prudenza291. E, continuando, afferma che entrambe queste virtù dell’anima furono date all’anima del tutto, ovvero del mondo sensibile, dal dio sommo e intellegi­ bile292, mentre le altre parti dell’anima prive di ragione e corruttibili, ovvero l’appetito sensibile, il movimento nello spazio e la facoltà di nutrirsi e il corpo intero furo­ no attribuite ai mortali dalle divinità create dal dio, per volontà e disposizione dello stesso dio creatore293, e ciò avvenne per evitare che tutte le cose avessero una stessa condizione (come sarebbe accaduto se anche queste fossero state create dal dio creatore e intellegibile) e che, essendo tutti gli esseri immortali e non esistendo alcun genere m ortale, la perfezione del mondo fosse m anchevole in qualche parte294, dal momento che nel m odello, cioè nel mondo intellegibile esistono delle spe­ cie di natura inferiore. CXXXVIII Ma vediamo ora il testo del discorso: «O dei discendenti da dei, che io ho creato e di cui sono il p a d r e » 295. L’azione finge un dialogo, per quel che riguarda la struttura del testo, ma il discorso è di tono più elevato che non un dialogo. E, in fin dei conti, si

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que hoc in genere orationis arcanorum interp retatio fabulosa. Nihil ergo inconuenienter facit auctor, quod opificem deum inducit condonantem sancientemque a se genitis quae obseruari u ellet, m ultis ra tio n ib u s: primo recreationis legentium causa, quippe res difficilis lepido sermone condita facilius ad intima mentis adm it­ titur; deinde inopinatae allocutionis uarietas m ixta reli­ gioni raptis animis ad imaginem contionantis praesen­ tem laborem sentiri non sinit; tum immutatio m agisterii nouo in stitu to operis exo rd io nouas u ires e x c ita t audientis, siquidem et deficit omnis auditor aduersum molestiam uniformis eloquii, porro attentior fit, cum nouae spes dispositionis ostenditur. Hoc in loco dogm a­ ta etiam sua studiose asserit, ut non tam a se inuenta quam a deo praedicta uideantur, praedicta autem non illo sermone qui est positus in sono uocis ad declaran­ dos motus intimos propter humanae mentis inuolucra; deus enim nullo obstaculo prohiberi potest ab intellectu scientiaque omnium rerum lege diuin a, quam P lato ineuitabilem appellat promulgationem. CXXXIX Quid ergo dicit deus? «D i deorum, quo­ rum idem opifex paterque ego». Praeclare; facit enim regem optimatibus sancientem, ut lex illis data etiam ad ceteras potestates atque animas commearet. O pificem se et parentem eorum esse commemorat, opificem q ui­ dem, utpote a quo facti sint, patrem uero, ut qui consu­ lat prouide, quatenus aeterni ac beati sint. O pera siqui­ dem uos mea, quia pater est et opifex non substantiae

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addice a questo tipo di discorso un’esposizione fantasti­ ca degli argomenti misteriosi. Dunque l’autore non fa niente di inopportuno, quando rappresenta il dio crea­ tore nell’atto di tenere un discorso e di stabilire le cose che vuole siano compiute dagli dei che lui stesso ha generato; e ciò per molte ragioni296. In primo luogo, per dilettare i lettori, poiché è più facile che un argomento complesso venga accolto nel profondo dell’animo, se è reso gradito da una forma piacevole. Inoltre, la varietà inattesa della forma del discorso, unita alla religiosità, fa sì che gli animi, portati a immaginare il dio che parla, non sentano la fatica del momento. Ancora, il cambia­ mento del modo di insegnare, col porre un nuovo inizio d e ll’opera, stimola nuove energie in chi ascolta, se è vero che l ’ascoltatore si stanca di fronte alla noia di un modo di parlare sempre uguale, e d’altra parte diviene più attento quando si presenta la possibilità di una rap­ presentazione di nuovo tipo. A questo punto Platone bada anche ad affermare i principi della sua dottrina, in modo che non sembrino cose ideate da lui, ma annun­ ziate dal dio; non annunziate, tuttavia, con quel linguag­ gio che consiste neU’esprimere i pensieri dell’animo per mezzo della voce, a causa dell’involucro in cui è chiusa la mente umana297; infatti il dio non può essere impedi­ to da nessun ostacolo alla comprensione e alla cono­ scenza di tutte le cose, per una legge divina che Platone chiam a «legge inevitabile»298. CXXXIX Cosa dice dunque il dio? «Dei discendenti di dei, che io ho creato e di cui sono il padre». Chia­ rissimo: egli presenta infatti il re che ordina ai personag­ gi più autorevoli che la legge data a essi si estenda agli altri poteri e alle altre anime. E ricorda di essere «crea­ tore e padre»; creatore, evidentemente in quanto è colui che li ha creati, padre invece in quanto si prende cura di loro e provvede a che essi siano im m ortali e beati. «G iacché voi siete fatti per opera mia»299, è detto per-

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sed generationis; illi enim optimates, id est stellae, non sunt intellegibiles sed sensiles, at uero fabricator eorum intellegibilis apprime. Deinde docet eos cuius naturae sint quodque ex compositione subsistant. Porro quae ex com positione subsistunt, dissolubilia sunt isdem rationibus quibus subsisterent, ipsi tamen indissolubi­ les, merito; non enim sunt ex ullo ortu temporario sed ex uoluntate summi dei emensa omnem temporum anti­ quitatem. Qui uero indissolubiles eos esse confitetur, sine ullo quoque ortu concedat necesse est; quod uero initium non habet, sine fine certe est, et quod finem non habet, sine ortu est. Diuinum autem et immortale cognomentum uocat rationis potentiam , id est ratio ­ nem, m ortalia porro et associata, immo, ut ipse ait, attexta, quae sunt, opinor, in uitiis, iram u idelicet et uoluptatem. CXL Deinde genituram hum anarum p ro seq u itu r animarum, ut natura eius liquido comprehendatur, et perseuerat in fabula quam interposuit, propterea ut quae dicuntur manifesta sint. Rursus enim cratera pro­ ponit et mixturam concretionemque earum p o ten tia­ rum ex quibus mundi anima concreuerat exque re li­ quiis earum nostras machinatur, uidelicet «ex illa dupli­ ci natura eiusdem et item diuersi diuiduaeque substan­ tiae», quae non ut antea sincerae puritatis erant; neque enim anima, quae ex sincerissimis excuderetur, in tanta siluae uitia posset incidere nec congruere cum mortalis corporis fragilitate. «M iscebat autem», inquit, «eodem propem odum genere nec tam en eadem ex o rieb atu r puritas serenitasque prouentuum». Merito, quoniam in his animis, quae umificant morti obnoxia genera anima-

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ché egli è padre e artefice non della sostanza, ma della stessa creazione; infatti questi personaggi autorevoli, cioè le stelle, non sono esseri intellegibili, ma sensibili, mentre il loro creatore è l’essere assolutamente intellegi­ bile. Poi il dio spiega loro di che natura siano e di quale sostanza siano composti. Inoltre dice che tutto ciò che viene composto può essere sciolto nello stesso modo in cui è composto, ma tuttavia essi sono indissolubili, e giustamente: infatti essi non sono venuti al mondo per una qualche circostanza temporanea, ma per la volontà del sommo dio300, la cui durata è pari all’eternità dei tempi. M a, dal momento che egli afferma che essi sono indissolubili, è necessario che ammetta che siano anche senza inizio; poiché veramente ciò che non ha inizio è certam ente senza fine, e ciò che non ha fine è senza ini­ zio301. D efinisce poi «divina»302 e «im m ortale»303 la facoltà della ragione, cioè la ragione stessa, e invece « m o rta li» e «m esco late»304, anzi «intessute»305, per usare le parole di Platone, le cose che appartengono ai vizi, e cioè l’ira e il piacere. C X L Poi espone la creazione delle anime umane, perché si comprenda chiaramente la natura di esse, e continua il mito che ha inserito, per chiarire le cose che vengono dette. Di nuovo, infatti, introduce il cratere e la m iscela composta di quelle potenze dalle quali era stata composta l ’anima del mondo e con i resti di quelle p rep ara le nostre anime306, «partecipi evidentemente della duplice natura del medesimo e dell’altro e della sostanza corporea divisibile»307; e questi resti non erano genuini e puri come prima308; infatti l’anima, formata da elem enti purissimi, non avrebbe potuto venire a tro­ varsi nella materia e nei suoi vizi, né adattarsi alla cadu­ cità del corpo umano. «Li mescolava - dice poi - quasi allo stesso modo, e ciò che ne risultava non era dotato d ella m edesim a purezza e genuinità»309; e a ragione, poiché in queste anime, che pure danno vita alle specie

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liurn, non pura ratio intellectusue sincerus sed aliquan­ tum tam iracundiae quam libidinis inuenitur. M ixta igi­ tur, inquit, anima ipsa etiam in longum secatur eiusque una pars integra relinquitur iuxta naturae, quae uocatur eadem , circum actionem , ex quo in telleg u n t d iu in a omnia sapientesque fiunt qui intellegunt, diuersae uero naturae partem secat sexies iuxta motum rationabilem planetum harm onicis et arithm eticis et geo m etricis medietatibus, ut supra demonstratum est; haec est ani­ mae uirtus quae opinio dicitur, qua duce quae nascun­ tur et occidunt noscim us. Q uae constitutio anim ae propterea facta est ut esset, opinor, eadem anima scia tam intellegibilium quam substantiae sensilis, utpote quae rationes utriusque naturae habeat in semet ipsa. Haec est animae rationabilis institutio a uenerabili deo facta in hominis innexa uultum, cum occasiones uitiorum percipit aeternae legis prouida moderatione. CXLI Deinde ait «delegisse animas stellarum num e­ ro pares singulasque singulis comparasse easdem que uehiculis competentibus superimpositas uniuersae rei naturam spectare iussisse». Antequam sementem face­ ret animarum, superim posuit stellis singulis singulas animas, quo isdem uehiculis usae in circuitu stellarum cunctam mundi naturam considerarent, illud docens, quod sine diuinitatis adminiculo ipsa per se anima nihil ualeat spectare atque intellegere diuinum. CXLII «Legesque immutabilis decreti docuit». H ic iam magnam et difficilem rationem commouet, de qua multa disceptatio habita inter ueteres perseuerat etiamnunc. P erfu n cto riu m ergo tra cta tu m h a b e ri n u n c conuenit iuxta Platonicum dogma; longum est enim

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degli esseri viventi soggette alla morte, non si trova solo razionalità e incorrotto intelletto, ma una considerevole parte di furore e di passione sensuale. Quindi quest’ani­ ma mista la taglia ancora per lungo310 e una parte di essa la lascia integra, «secondo il moto rotatorio di quella natura definita medesima»311, ed è in seguito a ciò che comprendono tutte le cose divine e diventano sapienti coloro che comprendono312; taglia invece la parte della natura diversa in sette parti313, secondo il movimento razionale dei pianeti, con intervalli armonici, aritmeticam ente e geometricamente regolari, come si è spiegato sopra314; questa è la facoltà dell’anima che si definisce opinione: guidati da essa noi conosciamo le cose che nascono e muoiono315. E l’anima fu costituita in tal modo, credo, affinché la medesima anima fosse capace di conoscere sia le cose intellegibili, sia la sostanza sensi­ bile, poiché contiene in se stessa i due tipi di natura316. Tale è dunque la creazione dell’anima razionale fatta dal dio degno di adorazione; essa è vincolata alla testa del­ l ’uom o317 quando riceve la possibilità di fare il male secondo l ’ordine provvidenziale della legge eterna. CX LI Dice poi che «il dio scelse le anime in numero pari agli astri e che associò ogni anima a un astro e ve la pose sopra, come su appropriate vetture, e fece loro osservare la natura dell’universo»318. Prima di seminare le anim e, pose ogni anima sopra una stella affinché, facendo uso di tali vetture319, potessero vedere, accom­ pagnando le stelle nel loro girare, tutta la natura del mondo, mostrando così che, senza l’aiuto della divinità, l ’anim a da sola non è capace di osservare e comprende­ re il divino. CXLII «E rivelò le leggi stabilite dal fato»320. E qui solleva u n ’im portante e complessa questione su cui è sorta tra gli antichi una gran disputa che continua ancor o g g i. D u n q u e con vien e ora trattarn e di sfu ggita, seguendo la dottrina platonica321. Infatti sarebbe lungo

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persequi ceterorum, quorum plerique nihil putant fato fieri, alii omnia, nec quicquam arbitrio ac uoluntate, quidam alia esse quae fato nihiloque minus alia esse quae uoluntate fiant. CXLIII Igitur iuxta Platonem praecedit prouidentia, sequitur fatum; ait enim deum «post mundi constitutio­ nem diuisisse animas stellarum numero pares singulasque singulis comparasse uniuersique mundi monstras­ se naturam atque uniuersam fatorum seriem reuelasse». Horum enim quae prima sunt prouidentiam indicant, secunda leges fatales, proptereaque iu xta P latonem praenascitur prouidentia; ideoque fatum quidem d ici­ mus ex prouidentia fore, non tamen prouidentiam ex fato. Fatum ergo iuxta Platonem dupliciter intellegitur et dicitur, unum, cum substantiam eius animo intuemur, alterum, cum ex his quae agit et esse id et cuius modi uim habeat recognoscimus. Idem fatum in Phaedro qui­ dem «scitum ineuitabile», in Timaeo «leges» quas deus «d e uniuersae rei natura» dixerit caelestibus anim is, porro in Politia «Lacheseos» appellat «orationem », non tragice sed more theologorum. CXLIV Possumus ergo «in euitab ile» quidem « s c i­ tum » interpretari legem minime mutabilem ex ineuitabili causa, leges uero, quas de «uniuersa natura» dixit animis deus, legem quae mundi naturam sequitur et qua reguntur mundana omnia, «Lacheseos» uero, hoc est Necessitatis , «orationem » diuinam legem, qua praeteritis et item praesentibus conectuntur futura. At uero in substantia positum fatum mundi anima est, tripertita in aplanem sphaeram inque eam quae putatur

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rip erco rrere le opinioni degli altri: la maggior parte ritiene che nulla accada per volere del fato, altri che tutto avvenga per volere del fato e nulla per effetto del libero arbitrio, alcuni che vi siano delle cose che acca­ dono per volere del fato e nondimeno altre che avven­ gono per libera volontà322. CX LIII Dunque, secondo Platone, la provvidenza precede e il fato segue. Dice infatti che «dopo la forma­ zione del mondo, egli divise le anime in numero pari alle stelle e associò ogni anima a una rispettiva stella, e mostrò la natura dell’universo e rivelò tutta la serie dei fati»323. Ora, le cose dette nella prima parte di questo testo indicano la provvidenza, quelle dette nella secon­ da parte le leggi del fato; perciò secondo Platone la provvidenza nasce per prima. Per questo motivo, inve­ ro, diciam o che il fato dipende dalla provvidenza e non invece la provvidenza dal fato324. Dunque, secondo Platone, il fato si può intendere e definire in due modi, uno quando consideriamo la sua essenza, l’altro quando d alle cose che opera riconosciamo la sua esistenza e quale sia la sua potenza. E lo stesso fato, poi, nel Fedro, 10 chiam a «decreto inevitabile»325, nel Timeo «leggi che 11 dio rivelò sulla natura del mondo alle anime divi­ n e » 326, in f in e n e lla R ep u b b lica «esp ressio n e di L achesi»327, non alla maniera dei tragici, ma dei teologi. CXLIV Dunque possiamo senza dubbio spiegare l’e­ spressione «decreto inevitabile» come «legge immutabile perché dipendente da una causa inevitabile»; l’espressio­ ne «leg g i sulla natura del mondo che il dio dettò alle anim e» come «legge che segue la natura del mondo e da cui tutte le cose del mondo sono governate»; inoltre «espressione di Lachesi», cioè della figlia della Necessità, come «legge divina» per la quale il futuro è connesso al passato e parimenti al presente328. Riguardo poi al fato inteso come sostanza, esso è l ’anima del mondo divisa in tre parti, una sfera fissa, una considerata mobile, e una

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erratica et in sublimarem tertiam; quarum elatam qui­ dem ad superna dici Atropon, mediam Clotho, imam Lachesin: Atropon, -quod aplanes in nulla sit deflexio­ ne. Clotho propter uarie perplexam tortuosamque uertiginem , qua proueniunt ea quae d iu ersae n a tu rae deuius motus importat, Lachesin uero tamquam sorti­ tam id munus, ut omnia praedictarum opera effectu­ sque suscipiat. Itaque non nulli putant praesumi diffe­ rentiam prouidentiae fatique, cum reapse una sit, quip­ pe prouidentiam dei fore uoluntatem, uoluntatem porro eius seriem esse causarum, et ex eo quidem, quia uoluntas prouidentia est, < prou iden tiam , > po rro, q u ia eadem series causarum est, fatum cognominatam. Ex quo fieri, ut quae secundum fatum sunt etiam ex proui­ dentia sint, eodemque modo quae secundum prouiden­ tiam ex fato, ut putat Chrysippus; alii uero, quae q ui­ dem ex p ro u id en tiae au cto ritate, fa ta lite r q u o q u e prouenire, nec tamen quae fataliter ex prouidentia, ut Cleanthes. CXLV Sed Platoni placet neque omnia ex prouiden­ tia fore, neque enim uniformem naturam esse rerum quae dispensantur; ita quaedam ex prouidentia tantum, quaedam ex decreto, non nulla ex uoluntate nostra, non nulla etiam ex uarietate fortunae, pleraque casu, quae ut libet accidunt. Et diuina quidem atque intellegibilia quaeque his proxim a sunt secundum p ro u id en tiam solam, naturalia uero et corporea iuxta fatum; ea porro, quae nostri arbitrii nostrique iuris sunt, sponte nostra; porro quae extra nos posita sine ratione atque inopinate

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terza sublunare; di queste, poi, la più alta si chiama Atropo, quella in mezzo Cleto e la più bassa Lachesi329: Atropo si chiama cosi perché è fissa330 e non si volge da nessuna parte, Cloto per il suo moto di rotazione mute­ vole, intricato e tortuoso331, da cui derivano le cose cag io n ate dal moto errante della natura differente; Lachesi infine, poiché ha ottenuto in sorte332 di racco­ gliere e condurre a compimento tutte le opere delle altre due. Perciò alcuni333 ritengono di annullare la differenza tra provvidenza e fato, poiché di fatto essi sono una cosa sola: in fatti la provvidenza è la volontà del dio e la volontà del dio, a sua volta, è la serie delle cause, e ne segue, senza dubbio, che, poiché la sua volontà è provvi­ denza, è chiamata con quel nome, e d’altra parte, poiché essa stessa è serie delle cause, è chiamata fato. Da ciò segue che ciò che è secondo il fato è anche secondo la provvidenza e, allo stesso modo, ciò che è secondo la provvidenza è secondo il fato, come ritiene Crisippo334. Altri comunque pensano che le cose che avvengono per volontà della provvidenza, avvengano anche per volere del fato, ma che le cose che avvengono per volere del fato non avvengono per volontà della provvidenza. Così pensa Cleante335. CXLV M a secondo Platone, non tutte le cose acca­ dono per volontà della provvidenza, e la natura delle cose ordinate non è uniforme; così alcune cose accado­ no per volere della sola provvidenza, altre per destino, alcune per nostro volere, altre in seguito alla mutevo­ lezza della sorte, la maggior parte per caso, quelle che avvengono così come capita336. E precisamente le cose divine e intellegibili e quelle vicine a esse sono regolate dalla sola provvidenza, mentre le cose naturali e corpo­ ree dal fato337; quelle poi che sono soggette al nostro arbitrio e al nostro diritto dipendono dalla nostra libera volontà338; infine, quelle che sono poste al di fuori della n o stra in flu en za accadono in maniera irrazionale e

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accidunt: si quidem ex nostro disposito coepta erunt, fortuita, si sine nostra in stitutio n e, casu p ro u en ire dicuntur. CXLYI Quae cuncta manifestius in Timaeo digerit ita dicens: «Q uib us ita ordin atis cum in p ro p o sito rerum creator maneret». Quaenam ordinauerat? Scilicet quod uniuersae rei animam corpusque omne m odula­ mine apto iugauerat. «Intellegentes», inquit, «iussionem patris filii iuxta mandatam informationem im m ortali sumpto initio mortalis animantis ex mundi materiis igni terraqu e et aqua cum sp iritu faenus elem en tariu m mutuati, quod redderetur cum opus foret, ea quae acce­ perant conglutinabant non indissolubilibus illis nexibus ex quibus ipsi cohaeserant». Etenim iussum dei, cui parent dii secundi, ratio est, opinor, continens ordina­ tionem perpetuam, quae fatum uocatur, idque trahit originem ex prouidentia. CXLVII Q uid cum dicit: «C o agm en tataqu e m ox uniuersae rei machina delegit animas stellarum numero pares singulasque singulis comparauit easdemque uehiculis competentibus superimpositas uniuersae rei natu­ ram sp e c tare iu ssit le g e sq u e im m u ta b ilis d e c r e ti docuit». M undi quippe machinam absoluere, deligere animas stellarum numero pares, uehiculis aptis sup e­ rim ponere, uniuersae rei m onstrare n aturam , leges immutabilis decreti docere, cuncta haec officia prouidentiae sunt. Ipsae uero leges quae dictae sunt fatum est idque diuina lex est mundi animae insinuata, salubre rerum omnium regimen. Sic fatum quidem ex p ro u i­ dentia est nec tamen ex fato prouidentia.

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im prevista339: e, invero, se avranno principio da una nostra decisione, si diranno fortuite, se avranno inizio senza una nostra disposizione, si dira che avvengono per caso. CXLVI E tutte queste cose le spiega piu chiaramen­ te nel T im eo , dicendo: «Cosi, avendo ordinato tutto ciò, il creato re rimaneva sempre identico nelle sue in ten zio n i»340. In cosa consisteva dunque quest’ordi­ ne? E videntem ente nel fatto che aveva congiunto in u n ’appropriata armonia l’anima del mondo e Tiritera corpo di esso341, Dice poi: «E, comprendendo l’ordine del padre, i figli, seguendo l’esempio dato loro, avendo ricevuto il principio immortale dell’essere mortale, pre­ sero in prestito dalle materie del mondo, fuoco terra acqua e aria, una somma di elementi che avrebbero restituito quando fosse stato necessario; e le cose che avevano preso le incollavano insieme, ma non con quei vincoli indissolubili con cui essi stessi erano legati»342. E infatti l ’ordine del dio a cui obbediscono le divinità inferiori è, credo, la ragione, che contiene l’ordinamen­ to eterno detto fato343, ed esso trae la sua origine dalla provvidenza. CXLVII Dice inoltre: «E, dopo aver cementato insie­ me il corpo d e ll’universo, scelse le anime in numero pari alle stelle e associò ogni anima a una stella, e ve le pose sopra come su appropriati veicoli e fece loro osser­ vare la natura d ell’universo e mostrò le leggi del fato im m u tab ile»344. E infatti completare il corpo dell’uni­ verso, scegliere le anime in numero pari alle stelle, porle su veicoli appropriati, mostrare la natura del mondo, spiegare le leggi del fato immutabile, tutto ciò è compi­ to della provvidenza. Le leggi stesse, poi, che sono qui menzionate, sono il fato, ed esso è la legge divina pene­ trata n e ll’anima del mondo, guida salutare di tutte le cose. E cosi invero il fato dipende dalla provvidenza, né tuttavia la provvidenza dipende dal fato,

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CXLVIII Nimc iam de fato, quod in munere atque actu positum est, loquemur, quippe de hoc plurim ae disceptationes habentur morales naturales logicae. Nam cum omnia quae fiunt infinita sint et ex infinito per immensum tempus infinitum que proueniant, cuncta undique complectens fatum ipsum tamen finitum est ac determinatum - neque enim lex neque ratio neque quid omnino diuinitate praeditum indeterminatum - idque ipsum manifestatur ex statu et conformatione caeli sub id tempus, quod perfectum annum uocant. De quo Plato sic ait: «Est tamen intellectu facile, quod perfec­ tus temporis numerus perfectum annum compleat tunc demum, cum omnium octo circum actionum cursus peracti uelut ad originem et caput circumactionis alte­ rius reuertentur, quam semper idem atque uniform is motus dimetietur». Hoc quippe omni tempore finito, ut cuius determinatio certi circuitus spatio consideretur, omnia quae uel in caelo uel in terris proueniunt, rursum de integro ad praeteritas condiciones redeant necesse est, ut puta qui nunc est habitus constellationis post prolixam tem poris seriem in stau rab itu r eo d em q u e modo qui sequitur deinceps est hoc semper. CXLIX Ex quo apparet in actu positum fatum infi­ nita uarietate accidentium et ex infinito in infinitum tempus quae accidunt, ipsum tamen esse determinatum et immutabili semperque eadem proprietate. Ut enim circularis motus et item quod dim etitur eum tem pus utraque sunt circuli, sic ea omnia quae in gyros circum ­ feruntur circuli sint necesse est. Ergo «scitum ineuitabile » uocat ille fatum, ineuitabilem uim potentiam que intellegens principalem causam omnium quae in mundo consequenter continueque fiunt. Haec porro anima est

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CXLVIII Ora parleremo del fato inteso come fun­ zione e atto, poiché su questo argomento si hanno mol­ tissime discussioni di ordine morale, naturale e logico. Infatti, pur essendo infinite le cose che accadono e pur avvenendo dall’infinita eternità lungo il corso immenso e senza fine del tempo, il fato stesso che abbraccia da ogni parte tutte le cose è tuttavia finito e limitato345 - infatti né la legge, né la ragione, né in generale alcuna cosa do­ tata di natura divina, è senza limiti - e questo stesso è re­ so evidente dalla posizione e dalla configurazione del c ie lo in q u e l p erio d o che essi chiam ano «anno perfetto»346. Riguardo a questo Platone dice: «Tuttavia è facile com prendere che il numero perfetto del tempo compie l ’anno perfetto solo allorché i percorsi di tutte le otto rotazioni torneranno, dopo il loro completamento, com ’erano all’origine e al principio dell’altra rotazione che sarà m isurata da un moto identico e uniforme». Poiché infatti, tutto questo tempo è limitato, dacché la sua lim itazione può essere osservata dalla misura di una p recisa rotazione, è necessario che tutte le cose che avvengono in cielo o in terra tornino da capo alle anti­ che condizioni, come per esempio la costellazione che si vede ora, dopo una lunga serie di tempi si rinnoverà, e così è sempre, allo stesso modo, per la costellazione che la segue347. CX LIX Da ciò appare chiaro che il fato inteso come azione, m algrado l’infinita varietà degli eventi che acca­ dono d all’infinità in un tempo infinito, tuttavia è esso stesso lim itato e immutabile e di carattere sempre ugua­ le. Infatti, dal momento che il moto circolare e parimen­ ti il tempo che lo misura, sono entrambi dei circoli, allo stesso modo tutte le cose che sono soggette a un moto di rotazione è necessario che siano circoli348. Dunque egli chiam a il fato «decreto inevitabile»349, compren­ dendo che la sua inevitabile forza e il suo potere sono la causa p rin cip ale di tutte le cose che avvengono nel mondo con continuità ininterrotta. Questo è inoltre l'a-

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mundi tripertita, quod in substantia positum fatum in superioribus diximus. Scitum porro dei lex est, quam inexcusabilem fore asseruimus ob ineuitabilem causam. CL Haec porro lex et «o ratio » est et «sa n ctio », quam sanxit deus animae mundi ad perpetuam rerum omnium gubernationem, neque enim ut esset mundus modo, sed ut aeternus et indissolubilis esset, curauerat. Quae sanctio cum cuncta intra se contineat, alia ex ali­ qua praecessione fiunt, quaedam secundum praecessio­ nem, scilicet ut in geometrica initia ex praecessione sunt, theoremata uero secundum praecessionem; con­ cessis quippe initiis, ut notae et item lineae ceterorumque huius modi uelut originibus elementisque, theore­ mata secundum praecessionem aperiuntur, quasi quae habeant consequentiam concessae praecessionis. Sic etiam sanctio ordinatio existens et lex omnia complexa causas praecedentes ex meritis nostris habet ut initia quaedam; quae porro necessitatibus constricta proueniunt, iuxta praecessionem necessitatemque eius conse­ quenter eueniunt. CLI Ergo initium diuinae legis, id est fati, prouidentia, fatum uero, quod et parendi sibi obsequium et non p aren d i contum aciam u elu t ed icto co m p lectitu r. Animaduersiones porro uel praemia exoriuntur secun­ dum collocati meriti praecessionem; collocati autem in alterutram partem meriti praecessio animarum nostra­ rum motus est iudicium que et consensus earum et appetitus uel declinatio, quae sunt in nobis posita, quo­ niam tam horum quam eorum quae his contraria sunt

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nima del mondo, divisa in tre parti che, come abbiamo detto sopra, è il fato inteso come sostanza. Ancora, il decreto è legge del dio che abbiamo detto essere ineso­ rabile perché dipende da una causa inevitabile. CL Inoltre questa legge è «il discorso e l’ordine»350 con cui il dio ordinò all’anima del mondo di governare in eterno tutte le cose: infatti egli non si curò solo di far sì che il mondo esistesse, ma anche del fatto che fosse eterno e indissolubile351. E poiché questo ordine contie­ ne tutte le cose dentro di sé, alcune cose avvengono sca­ turendo da un presupposto, altre in conseguenza di quel presupposto352, come nella geometria i principi primi esistono per un presupposto e i teoremi sono con­ seguenti al presupposto; infatti, ammessi dei principi (ad esempio le origini e gli elementi del punto, e ugual­ mente della linea e delle altre figure di questo genere), i teoremi si rivelano poi consequenziali al presupposto: portano cioè con sé la conseguenza del presupposto che si è ammesso. Così anche il decreto, che esiste come ordinamento e legge che abbraccia tutte le cose, trova le sue cause iniziali nei nostri meriti come in precisi prin­ cipi. E quanto poi alle cose che avvengono secondo necessità, esse accadono conseguentemente, in base ai presupposti e alle necessità di quest’ordine353. CLI Perciò il principio della legge divina, cioè del fato, è la provvidenza, mentre il fato è ciò che abbrac­ cia, come un ordine, sia l’obbedienza condiscendente ad esso, sia la resistenza che consiste nel non obbedire. I castighi poi, o i premi, hanno origine a secondo del presupposto che consiste nel merito procurato. Ora, il presupposto che consiste nel merito procurato, che può andare nell’una o nell’altra direzione, è un moto della nostra anima, un giudizio e un consenso di essa, un desiderio o u n ’avversione; tutte queste cose sono in nostro potere poiché abbiamo la facoltà di scegliere tra queste e quelle a esse contrarie. Perciò in questo ordi-

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optio penes nos est. Igitur in hac rerum ordinatione atque lege antiquissima quaeque ex praecessione dicun­ tur fore et sunt nostrae potestatis, quae uero post illa sunt, secundum praecessionem et necessitate constricta. Atque ut aliud lex, aliud quod legem sequitur, id est legitimum, sic aliud fatum et alia quae fatum sequuntur ex ineuitabili necessitate, fatalia. CLII Est igitur uniuersae rei anima fatum in sub­ stantia positum , est item data huic inform atio rem omnem recte gerendi lex, quae in munere atque actu positum fatum continet habet textum et conse­ quentiam talem: «si hoc erit, sequetur illud». Ergo quod ex his praecedit, in nobis est, quod sequitur, secundum fatum, quod alio nomine fatale dicitur, a fato plurimum differens, ut sint tria: quod in nobis positum est et ipsum fatum et quod secundum fati legem pro meritis imminet. Deinde ipsius legis uerba ponit: «Q u ae se comitem deo fecerit anima eorumque aliquid uiderit quae uere sunt, usque ad alterius circuitus tempus erit incolumis, ac si semper hoc faciet, semper incolum is m anebit». Est igitur totum hoc lex et edictum quod fatum proprie uocatur, secutum uero Socratem legis edictum deo se comitem praebuisse proprium Socratis opus; porro quod, cum ita uiueret Socrates, anima eius usque ad alterius circuitus tempus incolumis perseuerat, iuxta fatale decretum prouenit ac si semper hoc faciat, quod est in Socrate, semper incolumis erit iuxta fatum. CLIU Hac ratione Laio praedictum est ab Apolline: «Caue uetatos liberum sulcos seras:

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namento delle cose e in conformità alla legge, si dice che tutte le cose iniziali354 avvengono scaturendo da un presupposto, e queste sono in nostro potere, invece le cose che vengono in seguito a queste sono conseguenti al presupposto e vincolate alla necessità355. E come altro è la legge, altro ciò che segue la legge, cioè ciò che è legale, così una cosa è il fato e un’altra cosa le cose che seguono il fato per necessità inevitabile, cioè le cose fatali. C L II D unque l ’anima del mondo è il fato inteso come sostanza ed è parimenti l’ordine356 dato al mondo di regolare ogni cosa rettamente, legge che contiene in sé il fato come funzione e atto: essa ha questa struttura di successione consequenziale: «se accadrà questo, allo­ ra accadrà quello». Tra queste cose ciò che precede è in nostro potere, ciò che segue dipende dal fato, ed è detto, con altro nome, «fatale», che è cosa ben diversa da «fato », così che ci sono tre tipi di cose: le cose in nostro potere, il fato stesso, e ciò che, seguendo la legge del fato, pende sui nostri meriti. Quindi Platone enun­ cia le parole della legge stessa: «L’anima che seguirà da vicino il dio e vedrà qualche parte della verità, resterà immune da ogni dolore fino al tempo della nuova rota­ zione; e se farà questo sempre, per sempre rimarrà immune dal dolore»357. Tutto ciò è dunque la legge e il decreto che si chiama propriamente fato; così, il fatto che Socrate, seguendo il decreto della legge, si diede a seguire il dio, questo fu opera di Socrate e soltanto sua; d ’altra parte il fatto che, dal momento che Socrate vive­ va così, la sua anima resista immune dal dolore fino al tempo d e ll’altra rotazione, avviene secondo il decreto del fato, e se farà questo per sempre, e ciò è in potere di Socrate, rim arrà sempre immune da danno per volere del fato358. CLIII In questo modo Apollo profetizzò a Laio: «G uardati dal seminare solchi non consentiti di figli:

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Generatus ille te mactabit impie Et omnis aula respergetur sanguine». His quippe oraculis ostendit penes Laium fuisse, ne sereret, quae praecessio est; quod porro insecutum est, iam non in potestate Laii sed potius in necessitate fatali iuxta meritum praecessionis. Quod si necesse esset Laio sortem illam incurrere aut iam dudum immineret clades illa ex ineuitabili necessitate, uacaret sciscitatio, uacaret etiam praedictio. Sed ille quidem, utpote praescius quae sequerentur, sementem iuxta fatum fieri uetabat sciens in potestate eius positum, si abstinere uellet, Laius uero, ut homo nescius futurorum, ab eo qui sciret, quid agen­ dum sibi esset sciscitabatur, seuit autem non fato eli­ ciente sed uictus intemperantia. CLIV Eodemque modo Thetis praedixerat filio, si bellaret apud Troiam, am icitia sibi paratura necem , maturum exitium cum ingenti fama futurum, si rediret ad patriam , longa uitae spatia portendi sine glo ria. Bellauit tamen nulla fati cogente uiolentia, nulla quippe in optione ancipiti, sed tamquam bilis uiolentia, sed propenso iuxta gloriam fauore. Quibus concinit etiam illud Platonis: «causa penes optantem, deus extra cul­ pam, item liberam esse uirtutem nec u lli obnoxiam necessitati» uel cum ait animis Lachesis «nullam earum sortito sub dicionem daemonibus esse uenturam , sed ipsas sponte lecturas sibi daemonem quem quaeque putauerit deligendum». Iuxtaque Moysea deus primige-

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colui che sarà generato, empiamente ti ucciderà e tutta la reggia si macchierà di sangue»359. Con questo oracolo, infatti, egli mostrò come fosse in potere di Laio non seminare: e questo è il presuppo­ sto; ciò che poi ne seguì non era più in potere di Laio, ma dipendeva piuttosto dalla necessità fatale, conse­ guentem ente a ciò che meritava la scelta precedente. Ché se fosse stato necessario che Laio incombesse in una simile sorte, o se già da tempo fosse stata incom­ bente quella sciagura, per una necessità inevitabile, allo­ ra non ci sarebbe stata l’interrogazione dell'oracolo e non ci sarebbe stata nemmeno la profezia. Ma invero il dio, in quanto sapeva da prima ciò che ne sarebbe seguito, gli proibiva di seminare, secondo il fato, sapen­ do che Laio avrebbe potuto astenersi se l’avesse voluto; Laio però, in quanto uomo ignaro delle cose future, chiese a colui che sapeva ciò che egli avrebbe dovuto fare e, tuttavia, seminò, non perché il fato lo inducesse a farlo, ma perché fu vinto dalla propria intemperanza. CLIV Allo stesso modo Teti aveva predetto al figlio che se avesse combattuto a Troia, l’amicizia l'avrebbe condotto a morte ed egli avrebbe avuto una fine preco­ ce, ma unita a immensa fama; se, invece, fosse tornato in patria, gli si prospettava una vita assai lunga, ma senza gloria360. Tuttavia egli combattè e non fu costretto a ciò dalla forza inesorabile del fato, dal momento che non si trovò di fronte a una scelta incerta, ma agì così per la sua violenta rabbia e perché la sua preferenza era incline alla g lo ria. Con ciò si accorda anche quel detto di Platone secondo cui «la colpa è di colui che sceglie e senza colpa è il dio»361, e allo stesso modo «la virtù è lib e ra e non è soggetta alla necessità»362; e quando Lachesi dice alle anime che «nessuna di esse sarà sogget­ ta al potere dei demoni per destino, ma che saranno esse stesse a scegliere liberamente il demone che riterranno degno di essere preferito»363. E, secondo Mosé364, Dio

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nis interdixit, ne edulibus arborum, ex quibus notitia boni m alique animis eorum obreperet, u escerentur, quia, cum et abstinendi et non abstin endi po testas penes eos esset, qui consultum his uellet deus quid cauendum esset ostendit, non prohibiturus frustra, si id fieri esset necesse. CLV Nunc iam de his agemus quae in hominis pote­ state sunt. Omnia quae sunt in tres partes a ueteribus diuisa sunt, possibile necessarium ambiguum, possibile ut genus, necessarium et dubium ut species; ergo omne possibile uel dubium uel necessarium est. Necessarium porro dicitur quod necessitate constrictum est, et quia possibilium pleraque obstari, quom inus p ro u en ian t, non possunt, quaedam prohibentur d eclin an tu rq u e con siliis d efin ition ibu s ad u m b ran tu r h u iu s m o d i: Necessarium est possibile cuius contrarium est im possi­ bile, ut est omnia orta occidere et aucta sen escere; necesse est enim omne quod sit natum emori, et quod usque ad senectutem prouectum senescere, nec est contrarietati locus, scilicet, quod ortum sit non occidere. Dubiorum uero definitio talis est: Dubium est possibile cuius etiam contrarium possibile, ut hodie post occa­ sum solis pluuiam futuram. Hoc enim possibile, aeque etiam contrarium eius possibile, ut post occasum solis omnino non pluat. CLVI Iam uero dubiorum prouentuum plures diffe­ rentiae, quaedam enim frequentia sunt, quaedam perae­ que frequentia, ut barbire utque scire litteras uel agere causas. Aduersantur porro frequentibus quae quidem

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proibì ai primi uomini di mangiare i frutti di un albero, che avrebbero fatto penetrare nei loro animi la cono­ scenza del bene e del male. Infatti, dal momento che era in loro potere astenersi o meno dal fare ciò, Dio, volen­ do prendersi cura di loro, mostrò loro ciò che avrebbero dovuto evitare; e se fosse stato necessario che ciò acca­ desse, non l ’avrebbe proibito senza motivo. CLV O ra tratteremo delle cose che sono in potere dell’uomo. Gli antichi divisero tutto ciò che esiste in tre parti, il possibile, il necessario, l’incerto: il possibile è un genere, il necessario e il contingente due specie: dunque tutto il possibile è o contingente o necessa­ rio365. Ora, il necessario è detto così perché è vincolato alla necessità; e poiché tra le cose possibili, la maggior parte non si può impedire che accadano, mentre alcune sono tenute lontano ed evitate con delle precauzioni, si può abbozzare per esse una definizione di questo tipo: «Il necessario è il possibile di cui è impossibile il contra­ rio »366, ad esempio è necessario che tutte le cose che nascono muoiano e che tutte le cose, dopo essere cre­ sciute, decadano. E necessario, infatti, che tutto ciò che è nato m uoia e ciò che è avanzato fino a tarda età deca­ da, né c’è possibilità che avvenga il contrario e che ciò che è nato non muoia. Q uanto poi alle cose contingenti, esse si definiscono così: « I l contingente è il possibile di cui è possibile anche il contrario»367, per esempio che oggi, dopo il tramonto piova. Infatti ciò è possibile, ma è ugualmente possibile il contrario, e cioè che dopo il tramonto non piova affatto368. CLVI O ra però, ci sono moltissime differenze tra gli eventi contingenti: alcune cose, infatti, hanno una certa frequenza, altre hanno una frequenza sempre uguale, come avere la barba, o come conoscere la letteratura o trattare le cause369. Si oppongono poi alle cose frequen­ ti, quelle che si verificano di rado, mentre a quelle che

rari exempli sunt, his porro quae peraeque proueniunt quae non sunt peraeque. Erit ergo eorum quae perae­ que dubia sunt optio penes hominem, qui, utpote ratio­ nabile animal, cuncta reuocat ad rationem atque consi­ lium. Ratio porro et consilium motus est intimus eius, quod est in anima principale; hoc uero ex se mouetur motusque eius assensus est uel appetitus. Igitur assensus et appetitus ex se mouentur nec tamen sine im aginatio­ ne, quam phantasian Graeci uocant. Ex quo fit, ut per­ saepe fallente im agine motus ille p rin cip alis anim ae potestatis uel consensus deprauetur et eligat uitiosa pro optimis. Cuius rei m ultiplex causa est, uel agrestis in consultando inelegantia uel ignoratio uel nimium dedita mens importuno fauori uel falsae opinionis anticipatio uel consuetudo praua, certe alicuius u itii tyran n ica quaedam dominatio; proptereaque ui aut uiolentis delinimentis potius quam uoluntate peccare dicimur. CLVII Quae cum ita sint, salua est, opinor, diuinatio, ne praesagio derogetur auctoritas; potest quippe prae­ scius tali facta informatione fati consilium dare aggre­ diendi uel non aggrediendi recteque et ratio nabiliter mathematicus originem captabit instituendi actus ex prosperitate siderum atque signorum, ut, si hoc factum erit, proueniat illud. Haec porro et huius modi rem edia sunt dubiorum prouentuum, in quibus consilii salubri­ tas medicina est. Habent etiam disciplinae locum maximeque legum latio; quid est enim lex nisi iussum sci-

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capitano con regolare frequenza, quelle che non si veri­ ficano in modo sempre uguale. Dunque la scelta sulle cose che sono contingenti in modo perfettamente indif­ ferente spetta all’uomo che, in quanto animale raziona­ le, riconduce tutto alla decisione della ragione. Ora, la decisione della ragione è un moto intimo di quello che è la parte principale370 dell'anima; ed esso si muove da sé e il suo m u o versi è l ’approvazione o il desiderio. D unque l ’approvazione e il desiderio si muovono da sé, e tuttavia non senza l’immaginazione, che i Greci chia­ m ano phantasia 37 b Da ciò deriva che quando, come spesso avviene, un’immagine ci trae in inganno, quel moto della facoltà principale dell’anima, o meglio il suo consenso, venga corrotto e scelga ciò che è cattivo, inve­ ce di ciò che è migliore. Le ragioni di ciò sono moltepli­ ci; una volgare negligenza nella riflessione, l’ignoranza, un anim o troppo votato a pericolose adulazioni, o il pregiudizio basato su un’opinione sbagliata, o la cattiva abitudine, in ogni caso una sorta di domino tirannico di qualche vizio; per questo si dice che pecchiamo per vio­ lenza o a causa di violente seduzioni, più che per nostra volontà. CLVII Stando così le cose, resta valida, credo, la pra­ tica della divinazione, così che alla profezia non venga m eno l ’au to rità372; infatti uno che sa le cose già da prim a, poiché è stato istruito in tal modo dal fato, può consigliare gli altri se intraprendere o meno qualcosa; e giustam ente e in modo ragionevole l’astrologo cercherà di cogliere dalla posizione favorevole degli astri e delle costellazioni il momento giusto per intraprendere un’a­ zione, in maniera tale che, compiuta una certa cosa, ne derivi q uell’altra. Ora, queste cose e altre simili sono i rim edi alle cose contingenti: per queste un consiglio utile è come una medicina. Anche le scienze hanno un loro valore e soprattutto la scienza della legislazione; infatti cos’altro è la legge se non il comando che ordina

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scens honesta, prohibens c o n traria ? Id c irc o , q u ia horum electio in potestate nostra est, laudisque honor et uituperationis nota praemiique gratia et suppliciorum animaduersio, cetera item exhortamenta uirtutis m ali­ tiaeque retinacula iure prospecta. CLVIII Nunc, quoniam quid rerum sit prouidentia quidue fatum in substantia positum et item quod in munere atque actu inuenitur quidue in hominis potesta­ te sit, quid item quod iuxta fati decretum prouenit, pro­ secuti sumus, de fortuna deque his quae casu proueniunt disseremus. Fortunae potestatem omnem in rebus hominum dicit esse, casus aliam quandam iurisdictionem. Quae enim uel rebus uita carentibus uel sine ratio­ ne uiuentibus animalibus accidunt non ex natura uel arte, haec omnia casu facta dicuntur, quae uero hom ini­ bus accidunt uel fauentia negotiis eorum uel aduersantia, fortuita et ex fortunae arbitrio putantur. Causarum uero altera principalis est, altera accidens. P rincip alis causa est itineris faciendi uel negotiatio uel ruris inspec­ tatio uel aliqua generis huius, accidens, ut cum iter ingressos sol atque aestus adurunt, quae sequitur infec­ tio uultus et coloratio; quippe non infectionis causa iter fuerat institutum . C om m uniter ergo tam fo rtu n am quam casum principali causae accidentes causas esse dicemus, ut sit causa quidem principalis in fato, in for­ tuna uero et casibus causa accidens. Et quia quae fiunt partim ex necessitate habent auctoritatem, partim usita­ ti et frequentis exempli sunt, partim ex raro accidunt, et fortuna et casus in his inueniuntur quae raro accidunt;

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ciò che è onesto e vieta ciò che non lo è?373 Perciò, dal momento che la scelta di questi eventi è in nostro pote­ re, giustamente sono stati disposti in previsione di ciò l ’onore della lode e la vergogna del rimprovero374, i prem i come ricompensa e i castighi come punizione e le altre cose che, allo stesso modo, servono a esortare alla virtù e a trattenere dal fare il male. 1.. - b'kCLVIII O ra, poiché abbiamo esposto cosa sia la provvidenza e cosa sia il fato nella sua sostanza e parim enti quello inteso come funzione e atto, e ancora quali cose siano in potere dell’uomo e ugualmente quali cose avvengano per decreto del fato, parleremo della fortuna e d elle cose che avvengono per caso. Dice375 che il p o tere d ella fortuna è interamente posto nelle cose um ane, m entre un altro è il campo d’azione del caso. Infatti, tutto ciò che accade alle cose prive di vita o agli esseri v iv en ti non razionali, senza l’intervento della natura o d ell’arte, tutto ciò si dice avvenuto per caso, m entre le cose che accadono agli uomini e che sono favorevoli o meno alla loro attività, queste si dicono «fo rtu ite» e si crede che avvengano per il capriccio della fortuna. Le cause sono di due tipi: la causa principale e quella accidentale376. Quando si intraprende un viaggio, ad esem pio, la causa principale è un affare o l’ispezione di un podere o qualcosa di simile, la causa accidentale, per esem pio, quando il calore del sole abbronza i viag­ giatori, e il colorito e l’abbronzatura del volto che ne deriva. Infatti il viaggio non era stato intrapreso al fine di abbronzarsi. In generale diremo perciò che sia la for­ tuna, sia il caso sono cause accidentali della causa prin­ cipale, in maniera tale che la causa principale consista nel fato e quella accidentale consista nella sorte e nei casi. O ra, poiché le cose che accadono in parte dipen­ dono d alla necessità, in parte si verificano ordinaria­ m ente e con frequenza, in parte accadono di rado, la fortuna e il caso si manifestano in quelle che accadono

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et fortunae quidem inrationabilis et cum adm iratione prouentus inopinus ex hominum proposito sumit origi­ nem, casus uero citra propositum hominis fit, siquidem quod casu accidit uel in rebus uita carentibus uel in mutis animalibus inuenitur. C LIX B reu iter ergo, cum du ae cau sae in itiu m habentes ex proposito nostro ita concurrunt, ut non quod propositum est, at longe secus praeterque opinio­ nem accidat, fortunae ludus est, ut si quis occulte the­ saurum terrae m andet, dehinc agricola propo situm habens uitem aliamue quamlibet stirpem propagare the­ saurum illum , dum scrobem molitur, inueniat; certe neque qui condidit, ut alius inueniret, sed ut ipse, cum prolato opus esset, reportaret, nec agricola ut thesau­ rum inueniret, sed ut scrobem faceret, laborauerat, et tamen uterque usus fortuna est inopina. Quare sic etiam fortuna recte definiri potest: Fortuna est concursus simul cadentium causarum duarum originem ex propo­ sito trahentium, ex quo concursu prouenit aliquid prae­ ter spem cum admiratione, ut si creditor ob diu frustra repetitum debitum procedat ad forum instruendorum gratia patronorum , eodem etiam deb ito r m ercan d i causa, dehinc conuentus debitor arbitris patronis diu tractum debitum depraesentet; diuersa quippe causa utrisque procedendi fuit, et est illud potius actum quod propositum non erat quam quod iam paene agebatur. Erit ergo etiam casus concursus simul atque una acci­ dentium sine ratione causarum in uita carentibus uel

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di rado377; e precisamente, l’evento fortuito irrazionale e inaspettato, che causa stupore, ha origine da un pro­ posito d ell’uomo, invece il caso si verifica in maniera indipendente dai propositi umani, dacché ciò che acca­ de per caso si riscontra nelle cose che riguardano le cose prive di vita o i muti animali378. CLIX In breve, dunque, quando due cause che trag­ gono origine da un nostro proposito concorrono in modo che si verifichi non quanto ci eravamo proposti, ma qualcosa di ben diverso e inaspettato, questo è uno scherzo della fortuna: per esempio, se uno nasconde un tesoro sotto terra e poi un contadino, che ha intenzione di p ropagare le radici di una vite o di qualche altra pianta, mentre scava una buca, trova il tesoro, di certo né quello che ha nascosto il tesoro si era dato pena di far questo per farlo trovare all’altro, ma per riprenderlo lui stesso qualora vi fosse stato bisogno di trarlo fuori, e nem m eno il contadino aveva faticato per trovare un tesoro, m a per scavare una buca; e tuttavia entrambi hanno fatto esperienza di una sorte inaspettata379. Perciò, a ragione la fortuna può essere definita anche in questo modo: «la Fortuna è la coincidenza di due cause che si verificano contemporaneamente, traendo origine da u n ’intenzione, coincidenza da cui deriva qualcosa che va al di là delle aspettative, suscitando stupore»380; come, ad esempio, se un creditore si reca al foro per procurarsi degli avvocati per ottenere il saldo di un de­ bito a lungo, ma invano, reclamato; e arriva nello stesso posto anche il debitore per sbrigare una commissione, e quindi il debitore, incontrato alla presenza degli avvo­ cati, gli paga il debito da tanto tempo contratto; infatti, per entram bi era diversa la causa per cui si recavano al mercato e si è attuato un evento che non era stato pre­ stabilito, piuttosto che quello che stava quasi per attuar­ si. Così anche il caso sarà la coincidenza di cause che si verificano contemporaneamente e senza motivo, in ciò

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che riguarda le cose prive di vita o gli animali irraziona­ li: ad esempio, quando delle bestie selvatiche, rinchiuse nelle stalle, dopo essere fuggite, tornano spontaneamen­ te nelle stesse stalle, o quando diciamo che un sasso è caduto da solo. E ora, veramente, riguardo al fato e a ciò che è in potere degli uomini, alla fortuna e al caso, è stato detto abbastanza. C LX M a poiché vi sono molti argomenti che, da punti vista opposti, vengono sollevati contro ciò che abbiamo detto, devono essere presi in considerazione e confutati. Solo allora il pensiero di Platone poggerà su salde fondamenta. Dicono: «Ma allora, se il dio sa tutte le cose fin dall’inizio, prima che avvengano, e non sob tanto le cose celesti che sono regolate da una felice legge di necessità mirante alla beatitudine eterna, come da una specie di fato381, ma anche i nostri pensieri e le nostre volontà; e se conosce anche la natura del contin­ gente e sa le cose passate presenti e future, e tutto ciò fin d all’inizio, e se il dio non può sbagliare, allora senza dubbio tutte le cose sono fissate e stabilite fin dall’ini­ zio, tanto quelle che si crede siano in nostro potere quanto quelle fortuite e soggette al caso». Essi deduco­ no inoltre che, dal momento che tutte le cose sono già da tem po stabilite, tutto ciò che avviene, avviene per fato e anche le leggi, le esortazioni e i rimproveri e gli insegnam enti e le cose simili sono legate a leggi fatali, giacché se è stabilito che a qualcuno capiti qualcosa, allo stesso tem po è stabilito anche per opere o per beneficio di chi ciò debba accadere382; per esempio se a qualcuno capiterà di rimanere sano e salvo durante un viaggio per mare, ciò gli capiterà quando a guidare la nave sarà non un altro qualunque timoniere, ma quel determ inato timoniere; oppure se a una città, per esem­ pio a Sparta, accadrà di godere di un buon ordinamen­ to e di onesti costumi, ciò dovrà accadere grazie alle leggi di Licurgo; e allo stesso modo, se uno è destinato a

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futurus, ut Aristides, huic educatio parentum adiumento sit in iustitiae atque aequitatis obtentu. CLXI xA.rtes quoque sub fati decretum cadere m ani­ festum esse aiunt, nam et hinc iam dudum esse ordina­ tum, quis aeger quo medente reualescat; denique fieri frequenter, ut non a medico sed ab im perito curetur aeger, cum talis erit condicio decreti. Sim ilis ratio est laudum uituperationum anim aduersionum p raem io ­ rum; fit enim frequenter, ut aduersante fato quae recte gesta sunt non m odo n u llam la u d e m , sed c o n tra reprehensionem suppliciaque afferant. At uero diuinationem dicunt dare demonstrare prouentus iam dudum esse decretos; neque enim, nisi decretum praecederet, ad ratio n em eiu s a c c e d e re p o tu is s e p ra e s a g o s . Animorum uero nostrorum motus nihil aliud esse quam ministeria decretorum fatalium, siquidem necesse sit agi per nos agente fato. Ita homines uicem obtinere eorum quae dicuntur «sine quibus agi non potest», sicut sine loco esse non potest motus aut statio. CLXII Aduersum quae tam pugnaciter et ipso fato uiolentius instituta quid respondebim us? Q uod deus sciat quidem omnia, sed unumquidque pro natura sua ipsorum sciat: necessitati quidem subiugatum, ut neces­ sitati obnoxium , anceps uero, ut quod ea sit n atu ra praeditum, cui consilium uiam pandat; neque enim ita scit ambigui naturam deus, ut quod certum et necessita­ te constrictum (sic enim falletur et nesciet), sed ita, ut

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essere giusto, come Aristide, l’educazione ricevuta dai genitori dovrà aiutarlo ad acquisire la rettitudine e la giustizia. CLXI Dicono inoltre che è evidente che persino le arti dipendono dalle leggi del fato: e infatti in seguito a queste leggi è già da tempo stabilito quale malato debba guarire e per le cure di quale medico; e, in fin dei conti avviene spesso che un malato venga guarito non da un m edico, ma da un ignorante, quando sia tale la condi­ zione prevista dalla legge del fato. La stessa situazione si ha nel caso della lode e del biasimo, della punizione e del premio; infatti avviene spesso che, quando il fato è avverso, delle azioni giuste, non soltanto non arrechino nessuna lode, ma al contrario rimproveri e castighi. Ancora, affermano che la divinazione dimostra chiara­ m ente che gli eventi sono già da tempo fissati; che se, infatti, non vi fosse una legge precedentemente stabilita, gli indovini non potrebbero avere accesso alla cono­ scenza di essa. Q uanto poi ai nostri moti dell’animo, secondo loro non sono altro che servi delle leggi fatali, poiché è necessario che le azioni avvengano tramite noi, ma per azione del fato383. Perciò gli uomini hanno la funzione di quelle cose delle quali si dice: «senza ciò non può verificarsi ch e...»384, come ad esempio non può esservi il moto o l ’immobilità senza lo spazio. CLXII Cosa risponderemo a questi argomenti solle­ vati con tale accanimento e con una violenza maggiore persino di quella del fato? Risponderemo che è vero che il dio conosce tutto, ma che conosce ogni cosa in rela­ zione alla sua natura385: e dunque conosce ciò che è sot­ toposto al giogo della necessità, come soggetto alla necessità, ciò che è contingente come ciò che è dotato di una natura tale che solo la scelta apra ad esso una strada; ed infatti il dio non conosce la natura del contin­ gente nel senso che sa cosa è certo e vincolato da neces-

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prò natura sua uere dubium sciat. Quid ergo dicim us? Deum scire omnia scientiamque eius ex aeternitate soli­ dari, porro quae sciuntur partim diuina esse et im m or­ talia, partim occidua et ad tempus; immortalium rerum substantiam stabilem et fixam fore, mortalium m utabi­ lem et dubiam aliasque aliter se habentem ob naturae inconstantiam. Ergo etiam dei scientia de diuinis q u i­ dem, quorum est certa et necessitate perpetua m unita felicitas, certa et necessaria scientia est, tam p ro p ter ipsius scientiae certam com prehensionem quam pro eorum quae sciuntur substantia; at uero incerto rum necessaria quidem scientia, quod incerta sint et in euentu ambiguo posita - nec enim possunt aliter esse quam est natura eorum - , ipsa tamen in utram que p artem possibilia sunt potius quam necessitatibus subiugata. CLXIII Non ergo etiam dubia ex initio rigide dispo­ sita atque decreta sunt, nisi forte id ipsum, quod incerta esse et ex ancipiti euentu p endere debeant. Q u are, quod animae quoque hominis natura talis sit, ut inter­ dum ad uirtutem se applicet, interdum ad m alitiam praeponderet (perinde ut corpus modo sospitati modo aegritudini proximum), fixum plane est et decretum ex origine. Quis porro malus sit futurus aut bonus, neque decretum neque imperatum, proptereaque leges m agi­ steria deliberationes exhortationes reuocationes institu­ tiones nutrimentorum certa obseruatio laus uituperatio quaeque his simulantur, quia recte uiuendi optio penes nos est. CLXIV Si igitu r eorum quae sunt p leraq u e iu ris

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sita (ché infatti così sbaglierebbe e non saprebbe), ma nel senso che conosce realmente il contingente nella sua essenza. D unque cosa dobbiamo dire? Che il dio sa tutto e che la sua conoscenza è consolidata dall’eternità e inoltre che le cose che conosce sono in parte divine e im m ortali, in parte mortali e limitate nel tempo; che la sostanza delle cose immortali è stabilita e fissa, quella delle cose mortali mutevole, dubbia e tale da svolgersi ora in un modo ora in un altro, per l’incostanza della sua natura. E dunque anche la conoscenza che il dio ha delle cose divine, la cui felicità è sicura e garantita da una legge eterna di necessità, è una conoscenza sicura e n ecessaria sia perché è sicura la comprensione della conoscenza stessa, sia per la natura stessa delle cose che sono oggetto di conoscenza386. Quanto poi alle cose contingenti, è certamente necessaria la conoscenza che dio ha del fatto che esse siano incerte e che dubbio sia il loro verificarsi (e infatti non potrebbero essere diverse dalla loro stessa natura) - e tuttavia esse sono tali che possono verificarsi in un senso o in quello opposto, e non sono invece legate alla necessità387. C LX III G li eventi contingenti non sono perciò anch ’essi rigidam ente fissati e stabiliti fin dall’inizio, se non forse per il fatto stesso di dover essere dubbi e di rim anere sospesi ad un esito incerto388. Perciò è chiara­ m ente fissato e stabilito fin dall’inizio il fatto che anche la natura d ell’animo umano sia tale che talvolta essa si volga alla virtù, talvolta invece inclini verso il male (allo stesso m odo in cui il corpo talvolta è sano, talvolta è m alato ); non è però stabilito, né ordinato chi dovrà essere m alvagio o buono e perciò ci sono le leggi, gli insegnam enti, le decisioni, le esortazioni e i richiami, l ’educazione, delle precise regole sul modo di nutrirsi, la lode e il biasimo e cose simili, poiché la scelta di vive­ re secondo giustizia dipende da noi. C LX IV Se dunque, tra le cose che esistono, molòssi­

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nostri sunt, alia extra nostram potestatem, nostra qu i­ dem appetitus iudicium uoluntas consensus praeparatio electio declinatio, aliena uero diuitiae gloria species for­ titudo ceteraque quae potius optare possum us quam uindicare, recte dicitur, si quis forte uelit quae non sunt in potestate nostra nostri iuris esse praesum ere, nihil sapere; consequenter ergo etiam is qui quae nostra pro­ pria sunt praesumit aliena nihil, opinor, sapit. Denique nullus laudatur ob adeptionem secundorum , quae in hominis potestate non sunt, nisi forte putatur beatus prosperitas enim non est in eius arbitrio - , at uero in iustitiae contractibus tem perantiaeque negotiis et in ceterarum uirtutum obseruantia iure laudam ur, siq u i­ dem uirtus libera est, contraque agentes reprehendimur, quod dare operam ut peccemus existimamur. CLXV Dicunt porro non spontanea esse d elic ta, ideo quod omnis anima particeps diuinitatis n atu rali appetitu bonum quidem semper expetit, errat tam en aliquando in iudicio bonorum et malorum; nam que alii nostrum summum bonum uoluptatem putant, diuitias a lii, p leriq u e gloriam et om nia m agis quam ip su m uerum bonum . Est erroris causa m u ltip lex : p rim a, quam Sto ici d up licem p eru ersio n em u o can t; h aec autem nascitur tam ex rebus ipsis quam ex diuulgatione famae. Quippe mox natis exque materno uiscere deci­ dentibus prouenit ortus cum aliquanto dolore, propterea quod ex calida atque humida sede ad frigus et sicci­ tatem aeris circumfusi migrent; aduersum quem dolo-

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me appartengono alla nostra giurisdizione, altre invece sono al di fuori del nostro potere, e le nostre, senza dubbio, sono il desiderio, il giudizio, la volontà, il con­ senso, la preparazione, la possibilità di scegliere o di evitare una cosa, mentre quelle che non dipendono da noi sono le ricchezze, la gloria, la bellezza, la forza, e le altre cose che possiamo solo sperare, ma non pretende­ re di avere, qualora uno voglia ritenere che appartenga­ no alla nostra giurisdizione le cose che non sono in nostro potere, a ragione si dice che è un ignorante; di conseguenza allora, io credo che sia un ignorante anche chi ritiene che le cose che ci appartengono non dipen­ dano da noi. Infine, nessuno viene lodato per aver otte­ nuto una sorte favorevole, cosa che non dipende dallu o m o ; a m eno che non venga ritenuto felice - la b u o n a sorte, infatti, non dipende dalla sua volontà; invece nei rapporti basati sulla giustizia, nell’esercitare la m oderazione, e nell’osservanza delle altre virtù, giu­ stam ente siamo lodati, perché la virtù è libera, e quando agiam o in m aniera contraria, giustamente siamo rimpro­ verati, perché si giudica che pecchiamo con intenzione. C LX V Dicono ancora che i peccati non sono volon­ tari, p er il fatto che ogni anima, in quanto partecipe d ella n atu ra divina, per un desiderio naturale, aspira invero sem pre al bene e tuttavia qualche volta sbaglia nel giu d icare il bene e il male; e infatti alcuni di noi ritengono che il sommo bene sia il piacere, altri la ric­ chezza, moltissimi la gloria e tutte le altre cose, piutto­ sto che lo stesso vero Bene389. E molte sono le cause d ell’errore: la prima è quella che gli Stoici chiamano la «d u p lice perversione»390; questa poi nasce sia dalle cose stesse, sia dalla celebrazione che ne fa l’opinione comu­ n e391. In fatti, per i neonati appena usciti dal ventre m aterno, la nascita avviene in maniera molto dolorosa, p er il fatto che essi si spostano da un luogo caldo e um ido, all’aria fredda e secca che li avvolge; come rime-

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rem frigusque puerorum opposita est m edicinae loco a rtific io sa o b stetricu m p ro u isio , ut aq u a c a lid a confoueantur recens nati adhibeanturque uices et simi­ litudo materni gremii calefactione atque fotu, quo laxa­ tum corpus tenerum delectatur et quiescit. Ergo ex utroque sensu tam doloris quam delectationis opinio quaedam naturalis exoritur omne suaue ac delectabile bonum, contraque quod dolorem afferat malum esse atque uitandum. CLXVI Par atque eadem habetur sententia de indi­ gentia quoque et exsaturatione, blanditiis et obiurgationibus, cum aetatis fuerint auctioris, proptereaque con­ firmata eadem aetate in anticipata sententia permanent omne blandum bonum, etiam si sit inutile, omne etiam laboriosum, etiam si commoditatem afferat, malum exi­ stimantes. Consequenter diuitias, quod praestantissimum sit in his instrumentum uoluptatis, eximie diligunt gloriam que pro honore amplexantur. N atura quippe omnis homo laudis atque honoris est appetens - est enim honor uirtutis testimonium - , sed prudentes qu i­ dem uersatique in sciscitatione sapientiae uiri sciunt, quam et cuius modi debeant excolere uirtutem, uulgus uero imperitum pro ignoratione rerum pro honore glo­ riam popularemque existimationem colunt, pro uirtute uero uitam consectantur uoluptatibus delibutam, pote­ statem faciendi quae uelint regiam quandam esse em i­ nentiam existimantes; natura siquidem regium anim al est homo et quia regnum semper com itatur potestas, potestati quoque regnum obsequi suspicatur, cum regnum iusta sit tutela parentium. Simul quia beatum necesse est libenter uiuere, putant etiam eos qui cum

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dio contro questa sensazione di dolore e freddo che i bam bini provano, le ostetriche oppongono l’ingegnosa precauzione di riscaldare con acqua calda i bambini appena nati e di imitare e, per così dire, riprodurre il grem bo m aterno, con questa operazione di ristorarli con il calore. Rianimato da queste cure, il corpo delica­ to del bam bino prova piacere e si calma. Perciò da entram be le sensazioni, sia da quella di dolore, sia da q u ella di p iacere, deriva un’opinione, in certo qual modo innata, secondo cui tutto ciò che è gradito e pro­ voca piacere è bene, e, al contrario, ciò che procura dolore è male e si deve evitare392. CLXV I La stessa identica opinione si ha, quando poi si cresce, riguardo alle sensazioni di bisogno e di appagamento e di fronte alle parole carezzevoli e ai rim­ proveri, e perciò, anche in età ormai adulta, si persiste n ell’opinione precedentemente formatasi, e si pensa che tutto ciò che è piacevole sia buono, anche se è inutile, e che tutto ciò che è penoso sia male, anche se procura qualche vantaggio. Di conseguenza si amano incredibil­ mente le ricchezze, poiché si riconosce in esse il mezzo più efficace per ottenere piacere, e si preferisce la gloria all’onore. Infatti tutti gli uomini, per natura, desiderano la lo d e e Tonore, perché l ’onore è testimonianza di virtù. M a gli uomini saggi ed esercitati nella ricerca della sapienza sanno quale e che tipo di virtù debbano co ltivare, m entre la massa incolta, a causa della sua ignoranza delle cose, invece dell’onore, coltiva la gloria e il favore popolare, e invece della virtù, cerca di ottene­ re una vita immersa nei piaceri, pensando che il potere di fare ciò che si vuole sia una prerogativa quasi regale. G iacché l ’uomo è, per natura, animale regale393 e, poi­ ché il regno è sempre accompagnato dal potere, si sup­ pone che, allo stesso modo, al potere tenga dietro il regno, mentre il regno non è che la giusta difesa di colo­ ro che obbediscono. Allo stesso modo, poiché chi è feli­ ce vive necessariamente con piacere, si crede che anche tutti quelli che vivono nel godimento debbano essere

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uoluptate uiuant beatos fore. Talis error est, opinor, qui ex rebus ortus hominum animos possidet. CLXVII Ex diuulgatio ne autem su cced it erro ri supra dicto ex matrum et nutricum uotis de diuitiis glo­ riaque et ceteris falso putatis bonis insusurratio, terriculis etiam, quibus tenera aetas uehementius commouetur, nec non in solaciis et omnibus huius modi perturbatio. Quin etiam corroboratarum mentium delinitrix poetica et cetera scriptorum et auctorum opera m agnifica quantam anim is rudibus in u eh u n t iu x ta uoluptatem laboremque inclinationem fauoris? Q uid pictores quoque et fictores, nonne rapiunt animos ad suauitatem ab industria? Maxima uero uitiorum excita­ tio est in corporis [atque] humor concretione, quorum abundantia uel indigentia propensiores ad lib i­ dinem aut iracundiam sumus. His accedunt uitae ipsius agendae sortisque discrimina, aegritudo seruitium ino­ pia rerum necessariarum, quibus occupati ab studiis honestis ad consentanea uitae institutae officia deduci­ mur atque a cognitione reuocamur ueri boni.

CLXVin Opus est ergo futuris sapientibus tam edu­ catione liberali praeceptisque ad honestatem ducenti­ bus quam eruditione a uulgo separata uidendaque eis et spectanda sunt lecta omnia quae protelent ad sapien­ tiam. (CLXVIII) Ante omnia diuino praesidio opus est ad perceptionem bonorum maximorum quae, cum sint

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felici. E questo è, credo, l’errore che nasce dalle cose e domina gli animi degli uomini. CLXVII In seguito poi alla diffusione dell’opinione, all’errore di cui si è detto subentra quella voce diffusa sulle ricchezze, la gloria e le altre cose erroneamente ritenute buone, che deriva dai voti che si sentono fare alle madri e alle balie394. Ulteriore confusione è causata dalle paure infantili che turbano in maniera assai violen­ ta l ’uomo quando è ancora in tenera età, e anche dai m ezzi che si usano per consolare e da tutte le cose simili395. E ancora, riguardo al piacere e alla sofferenza, quanto sarà grande la propensione e il favore che arreca­ no negli animi inesperti, la poesia, che riesce a sedurre l ’animo anche in età più adulta, e le altre opere meravi­ gliose di scrittori e di grandi autori396? E i pittori e gii scrittori, che altro fanno, se non trascinare via gli animi dalle loro occupazioni, verso la bellezza? Ma ciò che soprattutto stimola i vizi, è la presenza nel corpo di umori e il loro grado di condensazione: infatti, a secon­ da d ell’abbondanza o della scarsità di essi, siamo più propensi al piacere o alla collera. A ciò si aggiungono le difficoltà della vita e della sorte, le malattie, la schiavitù, la mancanza dei beni necessari; impegnati da tutte que­ ste cose, veniamo distolti dai propositi onorevoli, per dedicarci alle difficoltà conseguenti al tipo di vita intra­ preso, e veniamo allontanati dalla conoscenza del vero bene. CLXVIII Dunque è necessario che coloro che devo­ no diventare saggi ricevano un’educazione conveniente ad uom ini lib eri e degli insegnamenti che inducano a ll’onestà, ed insieme un tipo d’istruzione diverso da quello della gente comune. Essi devono inoltre osserva­ re con attenzione tutto ciò che vi è di eccellente, perché possa condurli alla sapienza. E prima di tutto è necessa­ rio l ’aiuto divino, che li guidi alla comprensione dei

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propria diuinitatis, cum hominibus tamen communican­ tur. Corporis quoque obsequium sufficiens animae uiribus esse debet ad to leran d u m e x e rc itii lab o rem . Oportet item sufficere praeceptores bonos propositum­ que id quod sortiti sumus sin gu li num en. Q u ip p e Socrati dicitur a pueris comes daemon rerum agenda­ rum praeceptor fuisse, non ut hortaretur eum ad ali­ quem actum, sed ut prohiberet quae fieri non expedi­ ret. Propterea quoque quae in hominis potestate sunt, si per imprudentiam agantur, cum agi ea sit inutile, cla­ dem afferant, quod a S o crate a rc eb at b en iu o lu m numen.' CLXIX Diuinatio uero necessitati quidem subiectarum rerum, ambiguarum etiam, sed quarum iam fatalis completus sit exitus, uera est et complexibilis, si modo diuinatio dicenda est - quippe quae semel acciderunt infecta esse non possunt (CLXIX) ambiguarum uero, quarum exitus adhuc pendent nondum praecedentibus meritis, ambigua est et obliqua, ut est illa Apollinis: «Perdet Croesus Halyn transgressus maxima regna». Istic enim tria erant, nisi fallor, am bigua: unum , utrum Cyri et Persarum regnum esset periturum , alte­ rum, an ipsius Croesi potius et Lydium, tertium, utrum condicionibus iustis bellum deponeretur. H oc quippe fieri poterat, et depositorum bellorum aliquot exempla praecesserant; sed quia uoluntas utriusque aduersabatur armorum depositioni, cum et Cyrus fera quadam esset et gloriosa natura, Croesus quoque confidens potentiaeque praecupidus, decretum quod sequebatur

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beni più importanti che, pur essendo propri della divi­ nità, vengono tuttavia condivisi con gli uomini. Anche il corpo deve essere in grado di obbedire al vigore dell’a­ nim o, p er poter sopportare la fatica dell’esercizio. Bisogna altresì che vi siano a disposizione degli inse­ gnanti validi e come proposito di vita397 quel demone che ciascuno di noi ha avuto in sorte. Si dice infatti che Socrate ebbe «un demone che lo accompagnò fin dal­ l ’infanzia, insegnandogli le cose che doveva fare», non nel senso che lo esortava a compiere qualcosa, ma che lo tratten eva da quelle cose che non conveniva che accadessero398. Perché anche quelle cose che sono in potere dell’uomo, qualora vengano compiute inavverti­ tamente, poiché è inutile compierle, arrecano danno; e ciò a Socrate veniva evitato da un demone benevolo399. CLXIX Veniamo ora alla divinazione: quella almeno degli eventi soggetti alla necessità e quella degli eventi con tin gen ti, ma dei quali sia ormai compiuto l’esito fatale, è vera e comprensibile400, se pure si deve chiama­ re divinazione - infatti una volta che una cosa è fatta non può essere non fatta; ma la divinazione degli eventi contingenti il cui esito è ancora sospeso, questa è incer­ ta e am bigua, come ad esempio quella predizione di Apollo: «Avendo oltrepassato Alis, un grandissimo regno [Creso manderà in rovina»401. Qui erano infatti possibili, se non sbaglio, tre even­ tualità incerte: la prima, se ad andare in rovina sarebbe stato il regno di Ciro e dei Persiani, la seconda se sareb­ be stato piuttosto quello di Creso stesso e dei Lidi, la terza, se, con patti ragionevoli, la guerra sarebbe stata sospesa. Questo infatti poteva accadere e c’erano stati in precedenza molti esempi di guerre sospese. Ma, poiché tutti e due erano contrari a deporre le armi - Ciro infatti aveva un’indole feroce, per così dire, e avida di gloria e Creso, da parte sua, era sicuro di sé e troppo amante del

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ratum erat factum ex utriusque proposito pacem inter eos minime futuram; supererat igitur ex reliquis alteru­ trum idque erat dubium, cuiusnam regnum extingueretur; proptereaque dubia sors dubiique intellectus pro­ cessit oraculum, ut quodcumque accidisset, id praedic­ tum ab Apolline uideretur. CLXX Sunt aliae praedictiones consiliorum exam ini similes, quia, cum sit in nostra potestate d eligere ex incertis alterum, ne in delectu peccetur ex ignoratione, suadet hominibus quid sit optandum propitia diuinitas, ut Argiuis per oraculum quaerentibus, an aduersum Persas bellum suscipi conueniret, responsum est: «Uicinis offensa, deo carissima plebes, Armorum cohibe munimina: corporis omne Discrimen sola capitis tutabitur um bra». Sciebat enim, quid esset eligendum, quodque optio penes hom inem, id uero, quod seq u itu r o ption em , penes fatum. CLXXI Hebraeis quoque consilium datum est a deo cum praedictione rerum futurarum in istum m odum : «S i praeceptis meis parebitis, bona terrarum om nia penes uos erunt. Lac itaque et melliflui fluctus non dee­ runt. Si contempseritis, poenarum imminentium seriem diuina uox prosecuta est», quippe quod esset dubium id quod erat positum in hominis potestate, parere uel contemnere iussa caelestia. Quod si optionem eorum praecederet decretum ineuitabile necessarioque con­ tem nendum esset, abundaret praedictio, ab u ndaren t etiam promissa et minae. Est igitur aliquid in hominis potestate nec sunt homines, ita ut a contra sentientibus

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potere - la decisione che ne seguì fu ratificata dalle intenzioni di entrambi: fra loro non vi sarebbe stata la pace in alcun modo. Così restavano aperte entrambe le rim anenti possibilità ed era incerta una cosa sola: di quale dei due sarebbe andato distrutto il regno. Perciò venne fuori un responso incerto e un oracolo di incerta interpretazione, così che, qualsiasi cosa fosse accaduta, sarebbe sembrata essere stata predetta da Apollo. C LX X Vi sono altri tipi di predizione, che assomi­ gliano a una quantità di avvertimenti: infatti, essendo in nostro potere scegliere una tra due incerte possibilità, affinchè non si sbagli nella scelta, per ignoranza, una d ivin ità benevola consiglia gli uomini sulla scelta da fare. Ad esempio, agli Argivi che interrogavano Foracolo per sapere se si dovesse intraprendere la guerra con­ tro i Persiani, fu risposto: «O gente odiosa ai popoli vicini, ma carissima al dio, frena ogni difesa in armi: il pericolo di tutto il corpo la sola ombra della testa lo allontanerà»402. Sapeva infatti cosa sarebbe stato scelto e che la scelta è in potere degli uomini; ma ciò che segue la scelta è in potere del fato. CLXXI Anche gli Ebrei ricevettero un avvertimento da Dio, con una profezia sugli eventi futuri, in questo modo403: «Se obbedirete ai miei comandamenti, tutti i beni della terra vi apparterranno. E così non manche­ ranno fiumi di latte e miele. Ma se li avrete trascurati, la voce d ivin a ha già descritto la serie dei mali incom­ b en ti»404; ed infatti ciò che era posto in potere dell'uo­ m o, se o b b ed ire ai comandi divini o trascurarli, era incerto. Poiché, se la loro scelta fosse stata preceduta da un decreto inevitabile, se fosse stato necessario che essi d isp rezzassero i suoi com andi, allora la predizione sarebbe stata superflua, e superflue sarebbero state pure le prom esse e le minacce. Dunque c'è qualcosa che è posto in potere dell’uomo e gli uomini non sono, come

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asserebatur, materiae rerum earum quae aguntur, per quas aguntur, sed causa praecedens, quam sequitur id quod ex fato est. CLXXII «Sed praeter spem aiunt aliquanta prouenire». Scimus, et horum omnium duplex genus: unum eorum quae perraro accidunt, quae uel forte proueniunt uel casu aliquo importantur, ut ex hominibus por­ tenta nasci; alterum quod frequentius quidem prouenit, sed originem sumit ex hum ani iu d icii dep rau atio n e, cum uel a potentibus iratis uel ab inimicis res iudicantur, ut accidit Socrati, eiusdemque populi iudicio cum uir iustissim us condem natus est A ristid es, u el cum prophetae a consceleratis unus membratim sectus, alter obrutus saxis. Numquid etiam horum causa est penes fatum? Nec intellegunt diuersas se contrariasque poten­ tias, id est uirtutem et item uitia simul, quod fieri non potest, assignare decreto, cum huius modi crim ina fati propria esse dicunt. Constituant denique, q u id esse fatum uelint. Uirtutemne diuinam? Sed non esset causa malorum. An uero animam m alignam ? Sed dem um a m alitia nihil boni fieri potest, et fato dicun tur etiam bona prouenire. Dicent fortasse mixtam quandam esse substantiam. Et qui fieri potest, ut unum et idem quid malitia simul et bonitate sit praeditum intem perantiam ­ que et castitatem creet ceteramque uirtutum uitiorum que importet contrarietatem? CLXXIII Quae porro erit de fato existim atio? Q uod uelit certe omnia esse bona nec tamen possit; erit igitur

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sosten go n o q u elli che la pensano diversamente da noi405, gli strumenti tramite cui accadono le cose che accadono406, ma la causa precedente: ad essa poi segue ciò che è deciso dal fato. C LX X II «M a dicono407 che molte cose accadono contro ogni aspettativa». Lo sappiamo, e la natura di tutti questi eventi è duplice: il primo tipo è infatti quel­ lo degli eventi che accadono assai raramente, di quelle cose cioè che avvengono per caso, o di quelle che sono determ inate da una qualche circostanza, come il fatto che dagli uomini nascano dei mostri; il secondo tipo è quello d egli eventi che, invero, si verificano più fre­ quentem ente, ma che hanno origine dalla perversione del giudizio umano, quando i fatti sono giudicati dai potenti in preda all’ira, o dai nemici, come avvenne per Socrate, o come quando, per giudizio del medesimo popolo, fu condannato Aristide, uomo giustissimo, o come quando i profeti furono uno fatto a pezzi, un altro lap id ato , da uomini scellerati408. Forse che anche la causa di queste cose è in potere del fato? Non si rendo­ no conto che attribuiscono al decreto fatale dei poteri diversi e contrari tra loro - cioè la virtù e insieme con essa i vizi, cosa che è impossibile - , quando affermano che sim ili colpe appartengono al fato? Decidano una buona volta cosa vogliono che sia, il fato. Un potere divino? M a allora non sarebbe causa dei mali. O piutto­ sto l ’anim a malvagia? Ma insomma, dal male non può derivare niente di buono, mentre si dice che per volere del fato avvengono anche cose buone. Diranno forse che si tratta di una specie di sostanza mista. E come può essere che una e una medesima cosa sia dotata allo stes­ so tem po di m ale e di bene, e crei da una parte gli eccessi e d all’altra la purezza, e determini tutte le altre opposizioni di virtù e vizi? C LX X III Q uale sarà, inoltre, la loro opinione sul fato? Che vorrebbe senza dubbio che tutte le cose fos-

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imbecillum quiddam et sine uiribus. An potest quidem nec tamen uult? H aec uero iam fera est quaedam et immanis inuidia. An uero neque uult neque potest? At hoc dicere de fato praesertim flagitiosum. An et potest et uult? Erit ergo causa bonorum omnium, nec m alo­ rum auctoritas pertinebit ad fatum. CLXXIV Unde ergo mala? Motum stellarum cau ­ santur. Sed ipse motus unde? Et utrum uolentibus stel­ lis motus ipse talis fit, ut ex eodem motu et mala proueniant et bona, an inuitis? Si uolentibus, anim alia sunt stellae et iuxta propositum mouentur; si inuitis, nullus est earum actus. Certe aut omnes stellae diuinae sunt et bonae nec quicquam faciunt mali aut quaedam m alefi­ cae. Sed maleficas esse in illo sancto et pleno bonitatis loco quatenus conuenit, cum que omnia sidera plena sint caelestis sapientiae, m alitiam porro sciam us ex dementia nasci, quatenus conuenit maleficas stellas esse dicere? Nisi forte - id quod fas non est - interdum easdem bonas, interdum malignas esse existim andum proptereaque promisce beneficia et maleficia praebere; sed hoc absurdum est, putare caelestem substantiam una eademque natura praeditam non in omnibus stellis eandem esse sed plerasque tamquam a propria degene­ rare natura. «Sed nimirum hoc inuitae stellae p atiu n ­ tur.» Et quaenam erit illa tanta necessitas quae inuitas cogat delinquere? Et haec ipsa utrum diuina erit anima an maligna?

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sero b u o n e e tu ttav ia non è in grado di fare ciò? Sarebbe dunque qualcosa di debole, privo di forze. O forse veramente può, ma non vuole? Ma questa allora è una form a di malevolenza smisurata e, per cosi dire, feroce. O piuttosto non può e non vuole? Ma dire que­ sto del fato è oltremodo scandaloso. Sarà dunque causa di tutte le cose buone, e la responsabilità del male non avrà nulla a che fare col fato409. C LX X IV Da dove proviene allora il male410? Gli Stoici ne attribuiscono la causa al movimento delle stel­ le. M a questo movimento da dove ha origine? E avviene per volontà delle stelle o contro la loro volontà questo movimento, tale che sempre da lui derivano sia il male sia il bene? Se ciò dipende dalla loro volontà, allora le stelle sono esseri viventi411 e si muovono secondo un preciso disegno; se invece avviene contro la loro volontà, le stelle non compiono nessuna azione. Evidentemente, o tutte le stelle sono divine e buone e non fanno niente di m ale, oppure alcune di esse sono malefiche412. Ma fino a che punto è ragionevole dire che ci sono stelle malefiche in quel luogo santo e pieno di bontà? E, dal m om ento che tutte le stelle sono pervase di sapienza divina413, mentre il male nasce, come sappiamo, da una m an canza di ragione414, fino a che punto dunque è ragionevole dire che ci sono stelle malefiche? A meno che non si debba credere - ma non è lecito - che le me­ desime stelle siano ora buone, ora malvagie e che di con­ seguenza causino, senza distinzione, benefici e danni. M a è assurdo pensare che la sostanza divina, dotata di una sola natura sempre identica a se stessa, non sia la stessa in tutte le stelle, ma che molte di esse, per così di­ re, degenerino dalla loro stessa natura. «Evidentemente le s t e lle su b isc o n o questo moto contro la loro volontà»415. E quale mai sarà questa necessità così forte da costringere te stelle a compiere il male contro la loro volontà? E questa poi sarà un’anima divina o malvagia?

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CLXXV An uero ratio quaedam est, ut aiunt, qua omnia fiunt quae ad praesens aguntur quaeque futura erunt prouenient? Sed nimirum monstri simile est dice­ re ratione fieri mala, quae multo uerius dicentur nulla ratione. Iniquus est uel etiam libidinosus; series uero illa causarum ineuitabilis unde accipiet exordium, nisi prius merita nostra in quamcumque partem locentur? Illud uero quis ferre possit, quod praeter cetera quae inreli­ giose dicuntur atque existimantur, prouidentia quoque dei tollitur hac eorum assertione simulque omnis diuinitas exterm inatur? Q uid enim faciet deu s, si om nia secundum hanc uersutorum hominum affirm ationem fient atque impulsu rapido ferantur pro n ecessitatis instinctu? Facit tamen haec uana praesum ptio facilio­ rem causam nocentibus, quibus licebit non anim i sui peruersitatem condemnare, sed de fatali uiolentia con­ queri, facit bonorum uota iuxta uitam lau d ab ilem et impetus prudentiae pigriores; quare missum faciendum est genus hominum ex uersutia et uanitate concretum qui, ut ipsi putant, aduerso fato nati sunt, quibus haec et talia opinari fato prouenerit. CLXXVI Nos uero diuinam legem sequentes repete­ mus ab exordio digesto ordine quae de fato Plato ueritatis ipsius, ut mihi quidem uidetur, instinctu locutus est. Principio cuncta quae sunt et ipsum mundum con­ tineri regique principaliter quidem a summo deo, qui est summum bonum ultra omnem substantiam omnemque naturam, aestimatione intellectuque melior, quem cuncta expetunt, cum ipse sit plenae perfectionis et nui-

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CLX X V O forse c’è una specie di ragione, come dicono416, in base alla quale accade tutto ciò che si svol­ ge nel presente e avverrà tutto ciò che sarà in futuro? M a è davvero una mostruosità dire che i mali avvengo­ no in base a una ragione: sarà molto più verosimile dire che essi avvengono senza alcuna ragione. E ingiusto, o alm eno arbitrario417. Ma da dove avrà origine quella serie inevitabile di cause418, se prima i nostri meriti non si p orranno in una qualunque direzione419? Ma chi potrebbe sopportare che, oltre a tutto quello che viene detto e creduto contro la religione, venga anche negata, in base a ciò che essi affermano, la provvidenza divina e venga eliminato del tutto ogni realtà divina? Infatti che cosa farà il dio se tutte le cose avverranno secondo quanto affermano questi uomini cavillosi, se tutto sarà trascinato da un impeto violento, in seguito alla spinta della necessità? In compenso questo ingannevole pre­ giu d izio rende più facile per quelli che compiono il m ale discolparsi, poiché essi potranno non condannare la m alvagità del loro animo, ma lamentarsi della violen­ za del fato, e, d ’altra parte, rende più indolenti i buoni ad im pegnarsi in un modo di vita lodevole e a desidera­ re la sapienza. Perciò dobbiamo lasciar perdere queste persone, che sono un misto di malizia e falsità, e che, stando a quel che loro stessi ritengono, sono nate con un destino avverso, poiché è accaduto loro per fato di avere queste e simili opinioni. CLXX VI Noi invece, seguendo la legge divina, ripe­ terem o d all’inizio e ordinatamente, le cose che riguardo al fato disse Platone, ispirato, come almeno sembra a me, dalla verità stessa. Innanzitutto tutto ciò che esiste e il m ondo stesso è tenuto insieme e retto principalmente proprio dal sommo dio, che è bene sommo al di là di ogni essenza e di ogni natura420, migliore di qualsiasi rappresentazione e conoscenza, al quale tutte le cose aspirano, mentre esso è completamente perfetto e non

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lius societatis indiguus; de quo plura dici nunc exorbi­ tare est. Deinde a prouidentia, quae est post illum sum­ mum secundae eminentiae, quem noyn Graeci uocant; est autem intellegibilis essentia aemulae bonitatis prop­ ter indefessam ad summum deum conuersionem, estque ei ex illo bonitatis haustus, quo tam ipsa ornatur quam cetera quae ipso auctore honestantur. H anc igitu r dei u o lu n tatem , tam qu am sa p ie n te m tu te la m re ru m omnium, prouidentiam homines uocant, non, ut plerique aestimant, ideo dictam, quia praecurrit in uidendo atque intellegendo prouentus futuros, sed quia p ro ­ prium diuinae mentis intellegere, qui est proprius m en­ tis actus. Et est mens dei aeterna: est igitur mens dei, intellegendi aeternus actus. CLXXVII Sequitur hanc prouidentiam fatum , lex diuina promulgata intellegentiae sapienti m odulam ine ad rerum omnium gubernationem. H uic obsequitur ea quae secunda mens dicitur, id est anima m undi tripertita, ut supra comprehensum est, ut si quis periti legum latoris animam legem uocet. Iuxta hanc legem , id est fatum, omnia reguntur, secundum propriam quaeque naturam, beata quidem necessitate incom m utabilique constantia cuncta caelestia, quippe quae sint prouidentiae uicina atque contigua, frequenter uero accidentia naturalia, propterea quia oriuntur et occidunt om nia quae naturae lege proueniunt; simul, quia im itatur n atu ­ ram ars et disciplina, etiam haec quae artibus efficiun­ tur sunt frequentia prouentusque crebri. Q uae uero reguntur hac lege, ratione ordine ac sine ui reguntur,

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necessita di alcuna unione; ma dire di più, ora, riguardo ad esso, ci farebbe deviare dall’oggetto del discorso. In secondo luogo tutto è retto dalla Provvidenza, che è seconda per importanza a quel sommo dio che i Greci chiamano noys\ essa è essenza intellegibile, che emula la bontà del sommo dio, a causa del suo instancabile vol­ gersi verso di lui, e riceve da lui come un sorso di bontà, dal quale è adornata essa stessa tanto quanto le altre cose che sono abbellite dallo stesso autore. E dunque questa volontà del dio, in quanto sapiente sorveglianza di tutte le cose421, che gli uomini chiamano provviden­ za; e non è stata detta in questo modo, come pensano i più, in quanto essa precorrerebbe, con il suo vedere e il suo com prendere, gli avvenimenti futuri422, ma perché compito specifico della mente del dio è il comprendere, e questo è l’atto specifico dell’intelletto. E la mente del dio è eterna: dunque la mente del dio è l’eterno atto del com prendere423. CLX X V II La provvidenza è seguita dal fato, legge divina prom ulgata dalla sapiente armonia dell’intelli­ genza, al fine di reggere tutte le cose. Al fato obbedisce qu ella che è chiamata la seconda mente, cioè l’anima d el m ondo trip artita, come abbiamo esposto sopra, come se uno chiamasse legge l’anima di un esperto legi­ slatore424. Tutte le cose sono governate secondo questa legge, cioè secondo il fato, ciascuna secondo la propria n a tu ra 425: ed evidentem ente tutti i fenomeni celesti sono regolati da una felice legge di necessità e da un'im­ m utabile coerenza, poiché sono vicinissimi alla provvi­ d en za, i fenom eni n atu rali invece sono regolati da u n ’accadim ento frequente, a causa del nascere e perire di tutto ciò che ha origine da una legge di natura. Allo stesso tem p o , p oiché l ’arte e la scienza im itano la n atu ra426, anche le cose che sono prodotte dalle arti sono frequenti e accadono spesso. E invero, le cose che sono regolate da questa legge, sono regolate in maniera

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CALCIDIO

nihil enim ratione et ordine carens non uio len tum ; quod uero tale est, non diu perseuerat, utpote quod contra naturam suam distrahitur. CLXXVIH «Sequuntur» ergo deum proprium sin­ gula et, ut ait Plato, «regem imperatoremque caeli, prin­ cipem agm inis et ducem su b lim em u o lu c ri c u rru dispensantem omnia et m oderantem , legiones caele­ stium angelicarum potestatum in undecim partes distributae. Solam siquidem Vestam ait m anere in sua sede», Vestam scilicet animam corporis uniuersi m en­ temque eius animae moderantem caeli stellantis habe­ nas iuxta legem a prouidentia sanctam. Q uam legem saepe diximus esse fatum serie quadam consequentia­ rum atque ordinum sancientem. Volucris uero currus imperatoris dei aplanes intellegenda est, quia et prim a est ordine et agilior ceteris om nibus m o tib us, sicut ostensum est, undecim uero partes exercitus dinum erat hactenus: primam aplanem, deinde septem planetum , nonam aetheris sedem, quam incolunt aetherei daem o­ nes, decimam aeream, undecimam hum ectae substan­ tiae, duodecimam terram, quae immobilis ex conuersione mundi manet. Verum hoc fortassis extra propositum, quamuis instituto sermoni concinat, quod fatum sine ui ac sine ulla necessitate inextricabili modo salubri atque ordine administretur. CLXXIX Ex hoc ordine rerum demanant illa quae rari exempli sunt, quorum partim fortuna potestatem habet, partim improuisa et sua sponte proueniunt, qu i­ bus omnibus casus dicitur imperare. Quae fatalia q u i­ dem sunt, continentur enim edictis fatalibus, nec tamen sunt necessitate uiolenta, perinde ut quae a nobis fiunt;

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razionale e ordinata, senza alcuna violenza, poiché tutto ciò che è privo di ragione e di ordine è violento; ma ciò che è tale, non dura a lungo, in quanto è lacerato contro la sua stessa natura427. CLXXVIII Dunque tutte le cose, ciascuna per suo conto, seguono il proprio dio e, come dice Platone, «il re e imperatore del cielo, principe della schiera e nobile guida, che dal suo carro alato regola e ordina tutte le cose, è seguito da legioni di divinità e di potenze angeli­ che distribuite in undici parti»428. Giacché «solo Vesta - dice - rimane nella sua dimora»429, Vesta che è, evi­ dentemente, l’anima dell’universo e la mente di quell'a­ nim a, e regge e guida il cielo stellato, secondo la legge sancita dalla provvidenza. Legge che, come si è detto più volte, è il fato, che ordina le cose secondo una sorta di catena di conseguenze e successioni. Il carro alato del dio im peratore deve poi intendersi come la sfera fissa, poiché essa è la prima nell’ordine e più veloce di tutti gli altri movimenti, come si è dimostrato; Platone poi enum era fin qui undici parti dell’esercito: la prima, la sfera fissa, poi i sette pianeti, nona la regione dell'etere, abitata dai demoni eterei, decima la regione dell'aria, undicesim a quella della sostanza umida, dodicesima la terra che rimane immobile rispetto al moto di rivoluzio­ ne d ell’universo430. Ma questo argomento forse è fuori tem a, sebbene si accordi con il discorso che avevamo iniziato, poiché il fato non è regolato dalla violenza di una necessità inevitabile, ma secondo un ordine mirante alla salvezza del tutto. CLX X IX Da questo ordinamento delle cose scaturi­ scono q u egli eventi che si manifestano raramente: e p arte di essi sono sotto il potere della fortuna, parte accadono in modo improvviso e spontaneo e su questi si dice che domini il caso. E questi eventi, invero, sono detti «fatali», perché sono compresi nei decreti del fato, e tuttavia non sottostanno alla violenza della necessità,

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continentur quippe legibus nostris, nec tam en secun­ dum leges proueniunt quibus utimur. Ut puta, iubet lex interfici patriae proditorem. Quid ergo? Quia prodito­ rem uocat eum cui poenam statuit, necesse est, ut lex faciat proditorem? Non, opinor, nam proditor quidem sua mala mente, quin potius am entia, p ro rum p it ad facinus, punitur uero iuxta legem. Rursumque lex est, ut qui fortiter bellauerit praem io afficiatur; haec lex iubet, non tamen uictorem aut uictoriam lex facit, et tamen praemium lex dat. Proptereaque lex generaliter iubet omnibus quae facienda sint prohibetque omnes ab inconuenientibus; sed non omnes obtem perant nec omnes faciunt quae iubentur. Quae res ostendit optio­ nem quidem esse in hominibus nec eandem in omnibus; ea uero quae sequuntur, id est legitim a, id est animaduersiones uel praemia, ex lege sancta. CLXXX Talis est, opinor, etiam lex illa caelestis, quae fatum uocatur, sciscens hominibus honesta, prohi­ bens contraria. Sequi porro nostrum est et a fati iugo liberum , laudari uero bene agentem tam iuxta legem quam iuxta commune iudicium , sim iliter ergo etiam contraria: mentiri quidem et pessime agere uitam conti­ netur edicto et est in hominis arbitrio ut praecedens; male porro uitam disponere proprium hominis propte­ reaque puniri plane est ex necessitate fatali, u tp o te quod legem sequatur. Haec porro omnia sedem habent in animis hominum, quae anima lib era est et agit ex arbitrio suo. O ptima porro pars anim ae ea est quam

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esattamente come quelli che dipendono da noi; questi, infatti, sono compresi nelle nostre leggi431 e tuttavia non avvengono secondo le leggi di cui ci serviamo. Ad esem pio, la legge ordina di uccidere i traditori della patria. Ebbene? Forse che, per il fatto che chiama tradi­ tore colui per il quale ha stabilito la pena, è necessario che la legge crei un traditore? No, a mio parere: infatti il traditore si abbandona al delitto per il suo animo mal­ vagio, anzi piuttosto per il suo animo insensato, ma è punito secondo la legge. Allo stesso modo è la legge che conferisce un premio a chi ha combattuto valorosamen­ te; la legge dispone così, e tuttavia non è la legge che crea il vincitore o la vittoria, e però è la legge che pre­ mia. E perciò, in generale, la legge ordina a tutti le cose che si devono fare e proibisce a tutti le cose che non è bene fare432. Ma non tutti obbediscono, né tutti fanno ciò che viene ordinato. E ciò prova veramente che gli uom ini hanno possibilità di scelta, ma non tutti fanno la stessa scelta. Ciò che poi ne consegue, vale a dire che è fissato dalla legge, ovvero le punizioni o i premi, questo è sancito dalla legge. C L X X X Tale è, credo, anche quella legge divina c h iam ata fato, che stabilisce per gli uomini le cose conformi alla morale, e proibisce quelle ad essa contra­ rie433. Seguire questa legge, poi, dipende da noi, ed è una scelta non vincolata al giogo del fato; ma lodare chi agisce bene è conforme sia alla legge, sia al giudizio comune, e lo stesso vale per il contrario: certamente il fatto di poter mentire e condurre una vita scellerata è contem plato dalla legge e dipende dalla volontà dell'uo­ mo, come la scelta precedente; ma vivere da malvagi è in potere d ell’uomo e perciò essere puniti è evidente­ m ente conforme alla necessità fatale, poiché è la conse­ guenza d ella legge. Tutte queste cose risiedono nelle anim e degli uomini, e l ’anima dell’uomo è libera e agi­ sce secondo il suo arbitrio. Inoltre la parte migliore del-

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descripsit Plato duplicem habere uirtutem , unam in comprehensione diuinarum rerum, quae sapientia est, alteram in dispositione rerum mortalium, quae pruden­ tia nominatur. CLXXXI Quod si quis ad humores corporis naturalemque illam concretionem respiciens plerosque intem ­ perantes, alios porro moderatos homines esse non sine fato p utat, et intem peran tes qu idem ex h um o rum intemperie laborare, moderatos autem ex felicitate con­ cretionis leuari eaque omnia decreto fieri putat, uera sentit quidem - est enim natura tributum, ut im becilla hominum natio uel laboret improspera concretione uel adiuuetur moderata in obtentu honestatis - ideoq ue aduersum huius modi uitia rationis consiliique salubri­ tas opposita est prouidentiae lege, siquidem au aritia libido crudelitas ceteraeque huius modi pestes nihil in pueritia grande designent, sed sint confirmata iam aeta­ te noxia, tunc opinor, cum etiam consilii salubritas con­ firmatur, cui auxiliatur decus studiorum honestiorum , prodest beniuolorum reprehensio, medetur anim aduersio; contraque aduersis rebus obtunditur prauitas m en­ tis atque insolescit. CLXXXII Ideoque ob consortium corporis est inter homines bestiasque et cetera uita carentia societas com ­ munioque corporeorum prouentuum , siquidem nasci nutriri crescere commune est hom inibus cum ceteris, sentire uero et appetere commune demum hom inibus et m utis tantum ac ratio n e caren tib u s a n im a lib u s. Cupiditas porro atque iracundia uel agrestium uel man-

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l ’anima è quella che Platone definì dotata di due virtù: una è qu ella di comprendere le cose divine, ed è la sapienza, l’altra quella di ordinare le cose umane, e si chiama saggezza434. CLXXXI Ma se qualcuno, considerando il naturale composto degli umori corporei, ritiene che non avvenga senza il fato che molti uomini abbiano un carattere intem perante, e che altri abbiano invece un carattere equilibrato, e precisamente che gli intemperanti soffra­ no di un eccesso di umori, e invece quelli equilibrati siano aiu tati dalla felice commistione degli umori, e ritiene che tutto ciò avvenga in base a un decreto del fato, ebbene, questi crede la verità433: infatti la natura ha concesso che la debole stirpe degli uomini o soffrisse a causa di una sfavorevole commistione degli umori, o fosse aiutata da una commistione equilibrata, nell’ac­ quisizione della virtù morale. Per questo motivo la legge della provvidenza ha opposto a simili imperfezioni l'aiu­ to salutare della ragione e dell’intelletto: dal momento che l ’avarizia, la passione sensuale, la crudeltà ed altri vizi rovinosi simili a questi, nel periodo della fanciullez­ za e non rappresentano nulla di importante, ma diven­ gono dannosi in età ormai adulta, allorquando, credo, anche l ’aiuto rappresentato dall’intelletto si rafforza, poiché è aiutato dagli studi nobili e onesti, avvantaggia­ to dai richiam i di uomini benevoli, medicato dalle puni­ zioni; al contrario, una mente perversa è colpita dalle avversità e diviene insolente. CLX X X II E perciò, poiché partecipano del corpo, c’è tra gli uomini e gli animali e gli altri esseri privi di vita436, una comune partecipazione ai fenomeni corpo­ rei, giacché nascere nutrirsi e crescere è comune agli uom ini e agli altri, mentre percepire con i sensi e desi­ derare è comune solo agli uomini e agli animali muti e privi di ragione. Ora, il desiderio e l'ira sono istinti irra­ zionali negli animali, sia selvaggi sia domestici; invece

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suetorum appetitus inrationabilis est, hom inis uero, cuius est proprium rationi mentem applicare, rationabi­ lis. Ratiocinandi tamen atque intellegendi sciendique uerum appetitus proprius est hominis, qui a cupiditate atque iracundia plurimum distat; illa quippe etiam in mutis animalibus, et multo quidem acriora, cernuntur, rationis autem perfectio et intellectus propria dei et hominis tantum. CLXXXIII Atque inter ipsos homines non p erae­ que, compugnant quippe se in hominum commotioni­ bus inuicem cupiditas iracundiaque et item ratio obtin en tq u e ad u ersu m se u ic is s im : r a tio , u t a p u d Homerum, cum Laertius iuuenis «pectore pulsato mentem castigat acerbe: Quin toleras, mea mens? Etenim grauiora tulisti» quippe in illius animo ratio tunc iracundiam subiugabat. Apud Euripidem contra in M edeae m ente saeua iracundia rationis lumen extinxerat, ait enim: «Nec me latet nunc, quam cruenta cogitem, sed uincit ira sanitatem pectoris»; usque adeo salubri consilio uiam clauserat immoderatus dolor pelicatus. CLXXXIV Ergo in animo continentis u iri sem per plus consilium potest, intemperantis im becillitas aduer­ sum rationem uitiosis animi partibus suffragatur. Saepe etiam haec ipsa uitia se inuicem impugnant, ut in adule­ scente Terentiano, qui aduersum acerrimas amoris flam ­ mas resistens honesta iracundia nititur, cum negat itu ­ rum se ad conspectum amicae «ultro accersentis», ut

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sono razionali nell’uomo, la cui caratteristica è quella di rivolgere l ’animo alla ragione. Ma l’inclinazione a ragio­ nare, a comprendere e a conoscere, è propria dell’uo­ mo, che più di tutti è lontano dal desiderio e dalla rab­ bia; questi istinti, infatti, si osservano anche tra i muti anim ali, e molto più violenti, invece la perfezione della ragion e e delPintelletto è propria soltanto del dio e degli uomini. CLXXXIII E anche tra gli uomini questa perfezione non è presente in modo perfettamente uguale, poiché nel turbinio delle emozioni umane, il desiderio, la rab­ b ia e la ragione combattono fra loro e prevalgono, a turno, l ’una s u ll’altra437. A volte prevale la ragione, come accade, ad esempio, in Omero, quando il giovane figlio di Laerte, «colpendo il petto, rimprovera l’animo con acerbe [parole: “Perché non sopporti, animo mio? E infatti più [atroci pene hai affrontato”» 438. Nel suo animo, infatti, in quel momento, la ragione sottom etteva l ’ira. In Euripide, invece, nell’animo di M edea, l ’ira feroce aveva oscurato il lume della ragione. Dice infatti: «S o bene quali orribili cose io stia meditando, m a l ’ira vince l’animo assennato»439. Fino a tal punto l’immenso dolore per il tradimento del m arito aveva sbarrato la strada al salutare aiuto del­ l ’intelletto. CLX X X IV Perciò, nell’animo di un uomo moderato la riflessione prevale sempre, mentre la debolezza di un uomo intem perante è sostenuta contro la ragione dalle parti corrotte d ell’animo. E spesso questi stessi vizi lot­ tano fra loro, come accade nel caso del giovinetto di Terenzio440 che, nel tentativo di resistere alle terribili fiam m e d ell’amore, cerca di affidarsi a una nobile ira, quando afferma che non si recherà dall’amante, che lo

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«exclusum » indigne «reuocet» lenocinio blandiiisque «meretriciis». Ergo haec, de quibus intra arcana pecto­ ris disceptamus quaeque utrum facienda necne sint deliberamus et ad postremum tamquam lata sententia decernimus, quatenus non sunt propria nostra? Nisi forte ideo, quia commoti uel deprauati libidine discep­ tatores idonei non sumus, cum aequum iudicium carere tam odii quam gratiae misericordiaeque anticipationi­ bus debeat. CLXXXV «Sed praedictio», inquiunt, «futurorum cuncta iam dudum disposita atque ordinata esse testa­ tur; haec porro dispositio atque ordinatio fatum uocatur». Immo haec ipsa praedictio fatalem necessitatem dom inari negat usque quaque, siquidem p raed ictio rationabilis sit aestimatio sortis futurae, quae non in rebus certis et necessitate constrictis, sed in incertis atque in ambiguis praeualet. Quis enim consulat praesa­ gum de recens nato, utrum mortalis an immortalis futu­ rus sit? Sed illud potius, quod est dubium, quaeri solet, quam prolixa uitae spatia sortitus esse uideatur et utrum diues an pauper elataque an plebeia sit atque humili for­ tuna futurus. Quae cuncta obseruatione scientia, artifi­ ciosa quoque sollertia colliguntur: aut enim alitum uolatu aut extis aut oraculis homines praemonentur praedi­ cente aliquo propitio daemone, qui sit eorum omnium quae deinceps sequuntur scius, perinde ut si medicus iuxta disciplinam medendi praedicat uel exitium uel sanitatem aut etiam gubernator caeli condicionum non ignarus ex aliqua nubecula praenuntiet tem pestatem

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ha per prim a, invitato, per richiamarlo indietro con allettamenti e lusinghe da meretrice, dopo averlo inde­ gnamente scacciato. E dunque queste cose, che discu­ tiamo nell’intimità del nostro animo, riflettendo se si debbano fare o no, e che infine stabiliamo, come dopo averle votate, fino a che punto non sono nostre e non ci appartengono? A meno che, forse, per il fatto che, tur­ bati e alterati dalla passione, non siamo in grado di giu­ dicare opportunamente, dal momento che un giudizio giusto deve essere privo di pregiudizi, dettati sia dall’o­ dio, sia dal favore e dalla compassione. CLXXXV Dicono ancora: «Ma la predizione degli even ti fu tu ri attesta che tutte le cose sono, già da tempo, disposte e ordinate; ora, questa disposizione e questo ordinamento sono chiamati fato». Al contrario, proprio questa predizione attesta che non c’è affatto una necessità fatale che domina, dal momento che la predizione è la valutazione razionale della sorte futura, che vale non per le cose certe e vincolate alla necessità, ma per quelle incerte e contingenti. Infatti chi consulte­ rebbe un indovino, riguardo a un bambino appena nato, per sapere se sarà mortale o immortale? Ma, di solito, si dom anda piuttosto ciò che è incerto, cioè quanto sia lungo il periodo di vita che ha avuto in sorte, se sarà ricco o povero, se sarà di condizione elevata o bassa e umile. Tutte queste cose si ricavano dall’osserva­ zione e dalla scienza, e per mezzo dell’esperienza e del­ l ’ingegno441: infatti è dal volo degli uccelli, o dalle visce­ re, o dagli oracoli, che gli uomini ricevono presagi, gra­ zie alle predizioni di qualche demone benigno, che conosce tutte le cose che in seguito avverranno; esatta­ m ente come se un medico, in base ai principi della scienza m edica, predice la morte o la guarigione, o come se un timoniere, che ben conosce le condizioni del cielo, da una piccola nube preannuncia una futura tempesta442. Tutte queste cose non sono comprese nelle

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futuram; quae cuncta non fato sed artificiosis rationibus usuque et experientia comprehenduntur. CLXXXVI Aeque cum ex motu siderum praedictio habetur, signa obseruari solent ortusque et obitus stella­ rum et conform ationes ad rationem red actae iu x ta quam fertilitas sterilitasque prouenit; omnisque huius modi ratio nihil est aliud quam coniectura rerum earum quae uel ad corpus pertinent uel ad ea quae corporis propria sunt uel ad animam satis corpori seruientem. Unde opinor Platonem animarum quidem exaedifica­ tioni deum opificem praefuisse dicere, eorum uero quae animis subtexuntur aliis diuinis potestatibus inferiori­ bus munus atque officium esse mandatum, ita ut purae quidem animae sinceraeque et uigentes florentesque rationibus a deo factae sint, uitiosarum uero partium eius auctores habeantur hae potestates quibus ab opifi­ ce deo talis cura mandata sit. CLXXXVII Uitiosae porro partes animi quae sub­ texuntur ira est et cupiditas, satis idonea uitae agendae instrumenta. Multa quippe sunt quae per uirilem animi commotionem recte in hac uita fiunt et uindicantur, quotiens iusta iracundia comitem se et auxiliatricem rationi praebet, multa etiam ex cupiditate honesta uel m ediocri praeter libidinum sordes. Sicut ergo purae mundi animae regnum in perpetua m undi agitatione permissum est, ita his animis quae homines inspirant opus fuit ratione iracundia et cupiditatibus interpolata, ut, cum quidem se ad rationem totum animal conuertisset, curaret, intueretur etiam caelestia, cum uero ad terrena despiceret, despectus aeque ne esset otiosus,

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leggi del fato, ma si comprendono in base ad accorti ragionamenti, alla pratica e all’esperienza. CLXXXVI Allo stesso modo, quando si ha una pre­ dizione dal moto degli astri, si è soliti osservare le costel­ lazioni, e il sorgere e il tramontare delle stelle e la loro posizione vengono ricondotti a uno schema razionale, in base al quale si ricava fertilità o sterilità. E ogni sistema razionale di questo tipo, altro non è che una deduzione congetturale di quelle cose che appartengono al corpo, o alle cose relative al corpo, o all’anima, almeno all’anima che è in gran parte schiava del corpo. Per questo moti­ vo, credo, Platone dice che il dio artefice presiedette alla creazione delle anime, ma che il compito e l’incarico di creare le cose che sono connesse alle anime, fu affidato ad altre potenze divine inferiori, cosicché le anime pure e incorrotte, piene di vigore e fiorenti di ragione, sono fatte dal dio, mentre autori delle parti corrotte dell’ani­ ma sono ritenute quelle potenze a cui tale compito fu affidato dal dio creatore443. CLX X X V II Ora, le parti corrotte dell’anima che vengono aggiunte444 sono l’ira e il desiderio, strumenti abbastanza utili per vivere. Giacché molte sono le cose che, in questa vita, attraverso un vigoroso moto dell’ani­ ma, sono fatte in maniera giusta e possono essere difese, ogniqualvolta una giusta ira si accompagni alla ragione e la sostenga445; molte anche le cose che derivano da un desiderio conforme alla morale e moderato, senza le pas­ sio n i ig n o b ili. Come, dunque, alla pura anima del m ondo è concesso il dominio sull’eterno volgersi del mondo, allo stesso modo queste anime che danno vita agli uomini hanno bisogno della ragione mista all’ira e ai desideri, in maniera tale che, quando l’essere vivente si sia volto completamente alla ragione, possa occuparsi delle cose celesti e comprenderle, quando invece guardi in basso, alle cose terrene, questo guardare in basso pos-

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sed ex eadem in clin atio n e cura rerum terrestriu m nasceretur. CLXXXVIII Ut igitur breui multa complectar, istius rei dispositio talis mente concipienda est: originem qui­ dem rerum, ex qua ceteris omnibus quae sunt substan­ tia ministratur, esse summum et ineffabilem deum; post quem prouidentiam eius secundum deum, latorem legis utriusque uitae, tam aeternae quam tem porariae; ter­ tiam porro esse substantiam quae secunda mens intel­ lectusque dicitur, quasi quaedam custos legis aeternae; his subiectas fore rationabiles animas legi obsequentes, ministras uero potestates naturam fortunam casum et daemones inspectatores speculatoresque m eritorum . Ergo summus deus iubet, secundus ordinat, tertius inti­ mat; animae uero lege agunt. CLXXXIX Lex porro ipsum fatum est, ut saepe diximus. Cui legi qui pareat sequaturque principis dei ueneranda uestigia, beatam sem per uitam agit iu xta legis perpetuae sanctionem, quod est iuxta fatum ; at uero quae dei comitatum animae neglexerint, rursum et ip sae alio quodam co n trario q u e gen ere secu n d u m fatum uitam exigunt, donec paeniteat eas delictorum suorum expiatisque criminibus deinceps ad immortalis dei et aeternarum diuinarum potestatum choros reuertantur et ille legis rigor ex deteriore fortuna transitum fieri sinat ad beatam , quod fieri certe non posset, si om nia constricta essent uniform i quadam et rig id a atque inreuocabili necessitate. Ex quo apparet p ro u i­ dentiam quidem omnia intra se circum plexam tenere, quippe omnia quae secundum eandem recte ad m in i­ strantur; at uero fatum prouidentiae scitum est, continet autem ea quae sunt in nostra potestate ut praecedentia,

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sa ugualmente essere utile, in modo che da questa mede­ sima inclinazione nasca la cura degli affari terreni446. CLXXXVIII Dunque, per riassumere, dobbiamo im­ maginare un simile ordinamento di questa realtà: l’origi­ ne di tutte le cose, da cui ricevono esistenza tutte le altre cose che ci sono, è il sommo e ineffabile dio; e dopo di lui, il secondo dio è la sua provvidenza, il legislatore di entram be le vite, quella eterna e quella temporale; la terza essenza, poi, è quella che viene definita seconda mente e intelletto, una specie di custode, per così dire, della legge eterna447. Soggette ad essi sono le anime razionali che obbediscono alla legge448, e, come potenze subordinate, la natura, la fortuna, il caso e i demoni che osservano ed esaminano i meriti. Insomma, il sommo dio comanda, il secondo dispone e il terzo comunica la volontà; le anime poi, agiscono secondo la legge449. CLXXXIX La legge, inoltre, è il fato stesso, come più volte abbiamo detto. Colui che obbedisce alla legge e segue le orme venerande del dio supremo, conduce sem pre una vita felice, in conformità al decreto della legge eterna, cioè in conformità al fato450. Ma, in verità, quelle anime che avranno trascurato di seguire il dio, un’altra volta, e rimanendo le stesse, trascorrono la vita secondo il volere del fato, sebbene in forma diversa e contraria, finché non si pentono dei loro delitti e, scon­ tate le lo ro colpe, tornano poi alle schiere del dio im m ortale e delle divine potenze eterne451; e il rigore della legge consente loro di passare da una sorte peggio­ re ad una felice, e ciò non potrebbe certamente avvenire se tutte le cose fossero vincolate da un'uniforme, rigida e irrevocabile legge di necessità. Da ciò è evidente che la provvidenza abbraccia e contiene in sé tutte le cose, poi­ ché tutte le cose che avvengono secondo provvidenza sono rettam en te governate. Quanto al fato poi, è il decreto della provvidenza; esso inoltre contiene le cose che sono in nostro potere come atti precedenti, e contie-

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continet etiam meritorum collocationem . Sequuntur animaduersio et approbatio, quae sunt fatalia, eaque omnia quae casu fortunaue fiunt. CXC Q uid igitu r sibi uoluit tractatus huius tam larga prolixitas? Quia multi nulla cura ueri sciendi, sed potius ueris rationibus renitendi et ipsi falluntur et cete­ ros in erroris ineluctabilis implicant lubrico, quippe qui ad unam aliquam partem m undanae adm inistrationis respicientes tamquam de solida atque uniuersa dispen­ satione pronuntient, quodque in una parte inuenerint, id esse in omnibus quoque mundi partibus asseuerant; proptereaque, cum aliquid uerum dicunt, ueri similes habentur, quamuis compugnantia inuicem dicant, cum autem de parte sentientes perinde habent, tamquam de solido uniuersoque sentiant, red argu u n tu r inuicem . Namque fato quaedam agi uerum est, et quod quaedam in nostra potestate sint, hoc quoque uerum esse m on­ stratum est. Quare qui omnia fato fieri dicunt, merito rep reh en d u n tu r ab his qui p ro b an t esse a liq u id in nostra potestate, demum qui omnia in nostra potestate constituunt nec quicquam fato relinquunt, falli d ete­ guntur; quis enim ignoret esse aliquid in fato et extra nostrum ius ? Sola igitur uera illa ratio est fixaque et stabilis sententia, quae docet quaedam fato fieri, alia porro ex hominum arbitrio et uoluntate proficisci. CXCI D einde subnectit leges ipsas et iura fatalia: p rin cip alem quidem legem , qua cu n ctis an im is ob uniformem naturam ad uirtutis uindicationem aequabi­ lis fato tribuitur facultas sine cuiusquam praeclaratione.

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ne anche ciò che i meriti hanno procurato452. Seguono la punizione e l’approvazione che sono «"fatali*, e tutte quelle cose che avvengono per caso o per fortuna. CXC Qual è dunque il motivo di questo trattato di così grande estensione453? Poiché molti, senza curarsi di conoscere la verità, anzi badando piuttosto a opporsi alle giuste spiegazioni, ingannano se stessi e coinvolgo­ no anche gli altri nel rischio dell’errore inevitabile; essi infatti, guardando a una qualche parte nella disposizio­ ne del mondo, emettono giudizi come sull’intero e uni­ versale ordinamento delle cose, e ciò che hanno trovato in una sola parte, affermano che si trovi anche in tutte le altre parti del mondo. Perciò, quando dicono qualco­ sa di vero, ciò che pensano sembra verosimile, anche se dicono cose che si contraddicono reciprocamente; ma quando poi, avendo un’opinione riguardo a una parte, si comportano come se avessero un’opinione sull’uni­ verso intero, allora si confutano l’un l’altro. Poiché è vero che alcune cose avvengono per fato, ma allo stesso modo è stato dimostrato vero che alcune cose sono in nostro potere. Perciò quelli che dicono che tutto avvie­ ne per fato, giustamente vengono corretti da quelli che riconoscono che esiste qualcosa in nostro potere; e finalm ente quelli che pongono tutto in nostro potere e non lasciano niente al fato, vengono colti nell'errore. Chi, infatti, può ignorare che vi sia qualcosa che appar­ tiene al fato ed è al di fuori del nostro potere? Dunque l ’unica, vera spiegazione razionale ed opinione salda e sicura è quella secondo cui alcune cose avvengono per fato, altre invece hanno origine dalla volontà e dalla decisione degli uomini. CXCI Subito dopo Platone aggiunge proprio le leggi e i decreti del fato: e appunto la legge fondamentale, secondo cui a tutte le anime, per la loro identica natura, è attrib uita dal fato la possibilità, uguale per tutti, di ottenere la virtù, senza che nessuna possa eccellere sulle

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Addit secundam legem, qua sanctum est omnes animas, quae comitatae diuinum agmen spectauerint aeterna­ rum uereque existentium rerum n aturam , form am hominis induere ad tuenda terrena, piae nationis animal hominem significans ideo, quod in mutis anim alibus nulla sit cognitio de deo. Porro ex his quae ratione instructa sint, praestantissimum quidem animal id esse quod ceteris caelestibus animalibus substantiam ex se largiatur, colat autem aliud multo praestantius, in quo sit origo rerum; sequi uero quasi per ordinem quendam inferioris eminentiae potestates, quae singulae potiora quaeque uenerentur numina. Q uia igitu r ultim us est homo ex his quae ratione utuntur animalibus cunctaque meliora et elatiora ueneratur, iure praecipua religione praeditum esse dixit. Cumque duplex sit natura homi­ nis, altera melior, altera inferior, lege opus fuit tertia, quae meliora distingueret. Est porro melior sexus uirilis, muliebris inferior, non quo sit aliqua in animis diffe­ rentia - una est quippe natura - , sed diuersitas tamen in sexu esse debuit caduca mortalitate partus substitutio­ nesque desiderante. Denique cum una eademque uirtus sit maris et feminae, corporum tamen ipsorum diuersae uires sunt, cum eorum alterum calidius densiusque, alterum sit frigidius et rarius. CXCII Sequitur alia lex, quam designat his uerbis: «Cum que necessitate decreti corporibus inserentur corporeaque supellex uarie mutabitur quibusdam labentibus et a liis in u icem s u c c e d e n tib u s m e m b ris » . Necessitatem nunc uocat usum inexcusabilem m unu­ sque incorporationis, neque enim aliter poterant regi

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altre454. Aggiunge una seconda legge da cui è stabilito che tutte le anime, che, avendo accompagnato la schiera celeste, hanno contemplato la natura delle cose eterne e realmente esistenti, assumono forma umana, per pren­ dersi cura delle cose terrene: perciò con «essere animato di stirpe pia»455 intende l’uomo, dal momento che i muti animali non hanno nessuna cognizione del dio. Inoltre, tra questi che sono provvisti di ragione, l’essere vivente più nobile è senza dubbio quello che dona da sé resi­ stenza agli altri esseri celesti e, d’altra parte, venera un altro, molto più nobile, in cui è posta l’origine delle cose; seguono poi, in una specie di precisa successione, delle potenze di nobiltà inferiore, che onorano ciascuna per sé tutte le divinità più potenti. Poiché, dunque, l’uomo è l ’ultim o tra questi esseri viventi che si servono della ragione e onora tutti gli esseri più potenti e più nobili, giustamente Platone disse che esso è dotato di particola­ re religiosità. E poiché la natura umana è duplice, una più forte e l’altra più debole456, fu necessaria una terza legge che differenziasse gli esseri migliori. E proceden­ do, il sesso più forte è quello virile, mentre il sesso fem­ minile è più debole, non perché vi sia una qualche diffe­ renza fra le anime - la natura, infatti, è una sola - ma vi dovette essere tuttavia una diversità tra i sessi, poiché la caducità della condizione mortale richiede il rinnova­ m ento m ediante la procreazione. Insomma, sebbene m aschio e femmina abbiano una sola ed eguale virtù, tuttavia diverse sono le forze dei loro corpi, poiché l’uno di essi è più caldo e più denso, l’altro più freddo e più leggero457. CXCII Segue un’altra legge, che egli spiega in questi termini: «Ed essendo impiantate per necessità fatale le anime nei corpi, quando vengono meno degli elementi ed altri, a loro volta, li sostituiscono, tutto il corpo si modificherà in modo diverso»458. Quella che ora chiama necessità, è l’uso indispensabile e l’obbligo dell’incarna­ zione in un corpo; e infatti le cose terrene non avrebbe-

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terrena rationabili anima regente nisi corporis adhibita coniunctione. Corpus porro terrenum hoc non diu con­ stat, sed torrentis more praecipitis et ipsum effluit et ab effluentibus inundatur; sunt quippe in eo multi meatus multaque item emissacula tam in promptu et uisibilia quam latentia et caeca, per quae fertur humor et spiri­ tus aliaeque superfluae reliquiae cibi et potus, quibus egressus conseruationis animalium causa natura com­ menta est et aduersum detrimenta egestionis pro com­ petenti modo uicem reparat ex humido et sicco cibatu atque extrinsecus circumfusi aeris respiratione. Meatus igitur ingredientibus omnibus pro modo proque m agni­ tudine eorum natura fabricata est, id q u e ipsum est quod dicit idem Plato: «quibusdam labentibus et aliis inuicem succedentibus membris». CXCIII Haec ergo lex illud effecit ante omnia: «sen ­ sum ex uiolentis passionibus e x citari». M erito; u ita quippe sine sensu esse non potest, siquidem inter ea quae uiuunt et quae uita carent haec sit, opinor, diffe­ rentia, ut sentiant haec, illa sine sensu sint nascentiaque simul cum uita sensum auspicentur et in diiugio corpo­ ris et animae sentire desinant. Certe siue passio siue potentia siue aliquis affectus est, sensus hic animantis est proprius ex corporis animaeque copulatione confla­ tus. Ex uiolentis uero passionibus recte, nam eadem ac sim ili facilitate anima contem platur - con tem platio quippe facilis intentio est - , sensus uero nascitu r ex consortio corporis atque anim ae passionum ; et sunt

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ro potuto essere governate in altro modo dal governo dell’anima razionale, se questa non si servisse dell’unio­ ne con un corpo. Inoltre questo corpo terreno non rima­ ne a lungo immutato, ma, come un rapido torrente, flui­ sce via esso stesso ed è inondato dagli affluenti459; vi sono, infatti, in esso, molti passaggi e molte aperture, sia evidenti e visibili, sia nascosti e invisibili, attraverso cui defluiscono gli umori e l’aria e altri resti sovrabbondanti di cibi e bevande; per questi la natura ha trovato un’u­ scita, funzionale alla conservazione degli esseri viventi; contro le perdite d ell’evacuazione, poi, reintegra e ricam bia in modo appropriato per mezzo dei cibi, liqui­ di e asciutti, e per mezzo della respirazione dell’aria che sta tutt’intorno, all’esterno. Dunque la natura ha creato dei passaggi per tutte le cose che devono entrare, a seconda della loro misura e della loro grandezza di esse, e ciò è quello che intende Platone stesso, quando dice: «quando vengono meno degli elementi del loro corpo e altri, a loro volta, li sostituiscono460». CX CIII Questa legge produsse, dunque, prima di tutto, questa conseguenza: che «dalle violente passioni fosse suscitata la sensazione»461. Giusto; infatti, non può esservi vita senza sensazione, se davvero tra le cose che vivono e quelle prive di vita vi è, come credo, questa dif­ ferenza, cioè che le prime provano delle sensazioni, mentre le altre sono prive della facoltà di sentire; inoltre le cose che nascono, nello stesso momento in cui danno inizio alla vita, cominciano anche a sentire, e quando avviene la separazione tra corpo e anima, cessano di sen­ tire. Certamente, sia che si tratti di un patire, o di una facoltà attiva, o di un qualsiasi sentimento dell’animo, questa sensazione è propria dell’essere vivente ed è cagionata dall’unione di anima e corpo. Dice poi, giusta­ mente: «dalle violente passioni»; infatti l’anima osserva sem pre con facilità, poiché l’osservazione è un facile sforzo mentale, mentre la sensazione nasce dalla parteci­ pazione delle impressioni del corpo a quelle dell’anima.

multae corporis pulsationes eius modi, ut neque contin­ gant animam et sensim latenterque uanescant, qualis est lapsus in uidendo uel audiendo, quidam tamen pulsus corporis uiolentiores sunt, qui ad animam usque perm a­ nant. CXCIV Est ergo sensus passio corporis quibusdam extra positis et pulsantibus uarie, eadem passione usque ad animae sedem com m eante. Q uae passio cum est lenis molliterque palpando potius quam pulsando cor­ pus mouet, consentit anima corporis titillationi; atque hoc genus sensus uoluptas cognominatur. Porro si erit asperitate quadam praedita passio, doloris nomen acci­ piet, ut sit perspicuum uoluptatem ac dolorem species esse sensus, sensum uero ipsum genus. Omnis porro talis cupiditas mixta est cum uoluptatis et doloris affec­ tu consequenterque amor huius modi rerum inter dolo­ rem uoluptatem que positus in u en itu r; spes q u ip p e fruendi uoluptatem creat, dilatio tristitiam et dolorem. Quare sequitur sentiendi legem lex amandi; amor uero conseruationi corporis plurimum confert idem que est auctor successionum. Idem hoc in ira quoque reperitur, quotiens sine ratione ac sine modo commouemur agre­ sti quodam ardore mentis; aduersum quem instruitur anima cautionis salubritate, quae nimia facta transit ad formidinis uitium. Itaque cum animi uigor, qui factus immoderatior progressus est ad iracundiae lim item , et item cautio sit animae data ob tutelam corporis, immo­ derate crescentia p ertu rb an t anim um p o tiu s quam regunt. CXCV «C eterasque», inquit, «p edisseq uas earum perturbationes diuerso affectu pro n atu ra sua permouentes; quas quidem si frenarent ac sub iugaren t,

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E molti sono gli impulsi del corpo di natura tale che non raggiungono l ’anima e si dileguano insensibilmente, senza che ce ne accorgiamo, come gli errori nel vedere e nel sentire; alcuni impulsi del corpo, però, sono più vio­ lenti: così essi persistono fino a raggiungere l’anima. C X C IV Perciò la sensazione è una passione del corpo, dovuta a delle cose poste fuori di esso e che lo colpiscono in vario modo, quando questa passione giun­ ge fino alla sede dell’anima462. E quando essa è leggera e stimola il corpo sfiorandolo delicatamente, piuttosto che colpendolo, 1’anima acconsente a questo piacevole sti­ molo del corpo; e questo tipo di sensazione si chiama piacere. D’altra parte, se il patire sarà caratterizzato da una certa durezza, prenderà il nome di dolore, così che risulta chiaro che il piacere e il dolore sono le specie della sensazione, mentre la sensazione è il genere stesso. Inoltre, ogni desiderio in quanto tale è un misto delle sensazioni di piacere e di dolore e, di conseguenza, un simile amore delle cose si trova posto in mezzo tra dolo­ re e piacere; infatti la speranza di goderne dà origine al piacere, il ritardo alla tristezza e al dolore. Perciò la legge d e ll’am ore segue quella del sentire; l’amore463 poi, è assai utile alla conservazione del corpo ed è pure l'artefi­ ce del ricambio464. La stessa cosa si ritrova riguardo al sentimento dell’ira, tutte le volte che, siamo spinti da un ardore per così dire selvaggio dell’animo, in maniera sconsiderata ed eccessiva; e contro questo sentimento l ’anima è provvista dell’aiuto salutare della cautela, che, se diventa eccessiva, trapassa nel vizio della paura465. Perciò, il vigore dell’animo, che quando diventa troppo smodato si spinge al limite dell’iracondia, e parimenti la cautela sono stati dati all’anima per la tutela del corpo; quando questi crescono senza misura, invece di guidare l ’animo, lo sconvolgono. CXCV «E diede loro le altre passioni - dice poi -, conseguenti a queste, che turbano con sentimenti diver­ si, a seconda della propria natura; e se le anime le aves-

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iustam his lenemque uitam fore, sin uincerentur, iniustam et confragosam. Et uictricibus quidem ad compa­ ris stellae contubernium sedemque reditum patere actu­ ris deinceps uitam ueram et beatam, uictas porro m uta­ re sexum atque ad infirmitatem naturae muliebris rele­ gari secundae generationis tempore nec a uitiis intem ­ perantiaque discedentibus tamen poenam reiectionemque in deteriora non cessare, donec instituto meritisque co n gru as im m an iu m fe ra ru m in d u a n t fo rm a s » . Pedissequas quidem cupiditati dolorique cognatas et consentaneas passiones aem ulationem dicit inuidiam obtrectationem et cetera huius modi, uoluptati uero in alienis m alis gaudium iactantiam glo riae uan itatem , m etui porro fugam fo rm id in em , ira c u n d ia e n ih ilo minus saeuitiam feritatem calorem quaeque his sunt proxim a. «D iuerso», inquit, «affectu pro n atura sua permouentes», ea uidelicet, quae sunt his ipsis contraria uirtutum ornamenta, quae uirtutibus fiunt. «Q uae qui­ dem uitia si frenarent», inquit, «iustam his lenem que uitam fore». Aperte et ita, ut dubitare nequeamus, sui iuris esse animas docet in delectu atque optione. CXCVI Horum omnium praem ia etiam constituit, uictricibus uitiorum animis reditum ad caelestem sedem perpetuam que im m unitatem , quae uero lib id in e se commaculauerint in munere uitae secundae asperiorem congruamque moribus et instituto uitam futuram, siqui­ dem ex uirili sexu transeant in feminae formam, non quo ipsa anima sexum mutet, sed quod deterioris sexus corpus accipiat. Quae uitam meliorem temperantemque delegerit, ad meliorem fortunam reuocabitur; porro si deterior facta erit deteriusque uiuet, propter nim iam

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sero frenate e sottomesse, avrebbero avuto una vita giu­ sta e dolce; se invece fossero state vinte, ingiusta e aspra. E, invero, per le anime vincitrici è possibile il ritorno nell’abitazione e sede della stella affine, dove esse con­ durranno in seguito la vita vera e beata, mentre le anime vinte cambiano sesso e vengono relegate nella condizio­ ne di debolezza del sesso femminile, per il tempo di una seconda generazione, e se non abbandonano i vizi e fintemperanza, non cessano comunque di essere punite e respinte verso condizioni inferiori, fino a quando non assumono l’aspetto di bestie selvagge, per analogia con i loro costumi e i loro meriti»466. Dice che le passioni effettiv am en te conseguenti al desiderio, e affini e conformi al dolore, sono l’ostilità, l’invidia, la malignità e altre simili, mentre quelle affini al piacere sono la gioia per i mali degli altri, la presunzione, la vanagloria, quelle che si accompagnano alla paura sono la ripugnanza e il tim ore, quelle che seguono la collera, ugualmente, la crudeltà, la ferocia, il furore e le passioni affini a queste. «Esse turbano con diversi sentimenti, a seconda della propria natura»: turbano evidentemente quelle doti vir­ tuose d e ll’anima che scaturiscono dalle virtù e che si oppongono a queste passioni. «E se avessero frenato e sottomesso i vizi - dice - avrebbero avuto una vita giu­ sta e dolce». In modo chiaro e indubitabile spiega alle anime che è in loro potere la possibilità di scelta. CXCVI Per tutte queste cose stabilì anche le ricom­ pense: per le anime capaci di sottomettere i vizi, il ritor­ no alla sede celeste e l’eterna immunità; per quelle inve­ ce che si lasceranno contaminare dalla passione dei sensi, n ell’obbligo di una seconda vita, una vita futura più difficile e adeguata ai loro costumi e alle loro con­ suetudini, dal momento che passano dal sesso virile alla form a fem m inile, non affinché l ’anima stessa cambi sesso, ma perché riceva un corpo di sesso inferiore. L’anima che avrà scelto una vita più nobile ed equilibra­ ta sarà chiamata a una sorte migliore; se, d’altra parte,

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corporis amplexationem uitae destinabitur infeliciori, quoad usque ad ferae naturae perueniat immanitatem. CXCVII Empedocles tamen Pytagoram secutus ait eas non naturam modo agrestem et feram sortiri, sed etiam formas uarias, cum ita dicit: «Namque ego iamdudum uixi puer et solida arbos, Ales et ex undis animal, tum lactea uirgo», non iuxta sexus siluestrem conuersionem, sed in diuersorum animantium, ut ipse aliis testatur uersibus, qui­ bus abstineri oportere censet animalibus: «Mutatos subolis mactat pater impius artus Dis epulum libans. Saeua prece territa mente Hostia, luctifica funestatur dape mensa. Natus item ut pecudes caedit matremque patrem que Nec sentit caros mandens sub dentibus artus». Item alio loco: «Comprimite, o gentes, homicidia! Nonne uidetis Mandere uos proprios artus ac uiscera uestra?» CXCVIII Sed Plato non putat rationabilem animam uultum atque os ratione carentis animalis induere, sed ad uitiorum reliquias accedente corpore incorporatio­ nem auctis animae uitiis efferari ex instituto uitae prio­ ris, et iracundum quidem hominem eundemque fortem prouehi usque ad feritatem leonis, ferum uero et eun-

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peggiorerà e vivrà in maniera peggiore, a causa del trop­ po amore per il corpo, sarà destinata a una vita più infe­ lice fino al punto di giungere alla bestialità, ricevendo la natura di un animale467. CXCVII Tuttavia Empedocle, seguendo l’opinione di Pitagora468, afferma che le anime non ricevono solo una natura animale e selvaggia, ma anche forme diverse, quando si esprime in questo modo: «E d infatti io vissi già come fanciullo e come robusto [albero, uccello e animale marino, e poi candida [fanciulla»469, non nel senso di un cambiamento materiale di sesso, ma nelle forme di diversi esseri animati, come egli stesso attesta in altri versi, in cui crede che si debba astenersi dal m angiare gli animali: «E il padre, empio, immola le membra della prole, [che ha mutato aspetto, offrendo in sacrificio il banchetto agli dei. La vittima [è atterrita nell’animo dalla terribile preghiera, la mensa è contaminata dalla funesta vivanda. Similmente il figlio massacra come bestie la madre e [il padre e non comprende di masticare sotto i denti le amate [membra»470. E parim enti, in un altro passo: «O popoli, frenate le uccisioni! Non vi accorgete che masticate le vostre stesse membra, le vostre [ viscere?»471 CXCVIII Ma Platone non crede che un’anima dota­ ta di ragione assuma l’aspetto e le sembianze di un ani­ m ale privo di ragione, ma che, poiché il corpo si accosta alle scorie dei vizi, la reincarnazione sia inselvatichita d all’aum entare dei vizi, in conseguenza del comporta­ mento della vita precedente472, e che l’uomo iracondo e insiem e violento venga trascinato alla natura selvaggia

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deni rapacem ad proximam luporum naturae sim ilitudi­ nem peruenire, ceterorum item. Sed cum sit reditus ani­ mis ad fortunam priorem - hoc uero fieri non potest, nisi prius reditus factus erit purus ad clemens et homine dignum institutum - , rationabilis porro consilii correc­ tio, quae paenitudo est, non proueniat in his quae sine ratione uiuunt, anima quondam hominis nequaquam transit ad bestias iuxta Platonem. CXCIX D einde ait: «P au sam q u e m alorum non prius fore quam consecuta eas similis eademque semper uolucris illa mundi circumactio cuncta earum uitia ex igni et aqua terraqu e et aere contracta om nem que illuuiem deterserit inconsultis et immoderatis erroribus ad modum rationis tem periem que redactis, eandem semper circum actionem » motus intellegentis anim ae significans, «sim ilem » uero eius, cum deliberat ut intel­ legat; hae quippe uirtutes sunt anim ae ratio n ab ilis. «Inconsultos porro et immoderatos errores» anim ae dicit esse qui ex igni terraque et ceteris corporeis ele­ m entis oboriuntur, aduersum quos obtinens anim a reuertitur ad antiquam diuinitatem suam et habebit naturam bonis meritis competentem. (CC) Has leges ait a magno opifice deo animis esse intimatas causamque intim ationis ostendit: «ne qua penes se deinceps ex reticentia noxae resideret auctoritas», uolens ostendere m alitiam non ex decreto ac uoluntate dei prouenire hominibus sed ipsorum uel imprudentia uel deprauatione. CC D einde post exp o sitio n em legu m fa ta liu m «sementem fecit animarum nostrarum deus partim in

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di un leone, quello crudele e insieme rapace raggiunga una strettissima somiglianza con la natura del lupo, e allo stesso modo si svolga la reincarnazione degli altri473. Ma dal momento che per le anime è possibile il ritorno alla condizione precedente - e ciò non può accadere se prima non si sarà ritornati alla purezza di un comportamento mite e degno della natura umana -, e inoltre la correzione dei propri propositi, basata sulla ragione, ovvero il pentimento, non potrebbe avvenire in q u esti esseri che vivono privi di ragione, secondo Platone l ’anima che è stata, un tempo, nell’uomo, non può mai passare nelle bestie. CXCIX Dice poi: «E non vi sarebbe stata cessazione d ei m ali prim a che quel rapido moto circolare del mondo, uguale e sempre identico, le avesse raggiunte e ripulite dei loro vizi, uniti e formati di fuoco acqua terra e aria, e di tutta la sporcizia, riconducendo gli errori irragionevoli e privi di misura alla misura della ragione e al giusto equilibrio»474; e con «moto di rotazione sem­ pre id en tico » intende il movimento con cui l’anima comprende, mentre con «uguale» il movimento dell’ani­ ma quando riflette per comprendere: queste infatti sono le virtù dell’anima razionale. Con «errori irragionevoli e sm odati» dell’anima intende poi quelli che nascono dal fuoco, dalla terra a dagli altri elementi materiali; se l’ani­ ma prevale su di essi, torna alla sua antica natura divina e potrà ottenere una natura appropriata ai suoi buoni meriti. E dice che queste leggi furono annunciate475 dal grande dio artefice alle anime e spiega il motivo di que­ sto annuncio: «Affinché in seguito non avesse lui, per non essere stato chiaro, la responsabilità della colpa»476, volendo mostrare che il male non deriva agli uomini dalla decisione e dalla volontà del dio, ma dalla loro stessa sconsideratezza e depravazione. CC Quindi, dopo aver esposto le leggi del fato, il dio «seminò le nostre anime, alcune sulla terra, alcune sulla

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terra partim in luna partim in ceteris», quae «in stru ­ menta temporis» esse dicit, iuxta Pythagoram quidem, quod ita ut in terra, sic etiam in lunari globo consistant homines et etiam in ceteris errantibus stellis, iuxta se uero, quod in aliis libris idem asserat alterna uice fungi munere animas quibus rerum terrenarum tutela m anda­ tur, ita ut quae iam iamque fungentur munere prim ae serantur in terra, quae post has in lunari globo ac dein­ ceps in aliis globis. CCI Consequenter deinde iubet factis a se diis, id est stellis, «fingere humana corpora» animarum competen­ tium receptacula isdemque adhibere cuncta adminicula uitalis substantiae: principio appetitum, qui diuiditur in iracundiam et cupiditatem, sine quibus corpus mortalis animantis neque esse neque uero adm inistrari potest, deinde artes, quae uictum necessarium largiuntur, ceteraque omnia «iu x ta uires, ut quam optim e m o rtalis natura regatur» - «iuxta uires» uidelicet non efficien­ tium sed eorum quae efficiebantur, propterea quod homines tam ad bonitatem quam ad malitiam inclinatio­ nes habent, ex quo fit, ut saepe ipsi sint sibi auctores malorum. Talis ergo fuit ordinatio summi opificis dei, ut quod erat in corpore mortali minime mortale, sed diuinum potius et sempiternum, ipse construeret, porro quae dissolubilia umquam essent futura minoribus effi­ cienda mandaret. Denique «com pleta dispositione in suo», inquit, «affectu manebat». Quid est? Nimirum ut prouidentia sua cunctis tam ex aeternitate quam natiuis generatisque consuleret, diuinis quidem et aetern is immortalitatem propagans, temporariis uero perennita­ tem, non iugem et integram, sed ex successione.

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luna, alcune sugli altri strumenti del tempo»477, come lui li ch iam a, evidentem ente secondo la dottrina di Pitagora478 in base a cui si trovano uomini come sulla terra così anche sul globo lunare e sugli altri pianeti, ma anche secondo la sua stessa dottrina, poiché egli stesso afferma in altri libri479 che le anime a cui è affidata la cura delle cose terrene, adempiono al compito alternati­ vamente, in modo che quelle che si accingono a svolgere subito il loro compito vengono seminate per prime sulla terra, quelle che lo faranno dopo di queste verranno seminate sul globo lunare e, di seguito, sugli altri pianeti. CCI Subito dopo «quindi ordina alle divinità da lui stesso create»480, cioè alle stelle, «di plasmare i corpi um ani» come contenitori delle anime corrispondenti e di adoperare tutti gli strumenti della sostanza vitale: prima di tutto l ’istinto, che si divide in ira e desiderio, senza i quali il corpo umano non può esistere e nemmeno essere guidato481; poi le arti, che forniscono il vitto necessario, e tutte le altre cose «secondo le forze, affinché la natura umana sia retta nel migliore dei modi»482 - «secondo le forze» evidentemente non degli esseri che creavano, ma di quelli che venivano creati, per il fatto che gli uomini sono inclini tanto al bene quanto al male, da cui deriva che spesso essi stessi sono autori di mali per se stessi. Tale, dunque, fu l’ordinamento del sommo dio creatore: ciò che nel corpo mortale non era per nulla mortale, ma piuttosto divino ed eterno, lo creò lui stesso, mentre affidò la creazione di ciò che un giorno si sarebbe dissol­ to alle potenze minori. Infine, «dopo aver disposto tutto, - dice ancora - il dio rimaneva nelle sue intenzioni»483. Che significa? Evidentemente che la sua provvidenza si prendeva cura di tutte le cose, tanto di quelle eterne quanto di quelle non originarie ma generate, estendendo l ’immortalità alle cose divine ed eterne, e a quelle tempo­ rali, invece, una continuità, non perenne nel suo essere sempre uguale, ma derivata dal ricambio.

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CCII Deinde docet ipsam humani corporis aedifica­ tionem sentiendique causam et cetera quae sensum sequuntur. «Ex mundi», inquit, «materiis, igni terraque et aqua cum spiritu, faenus elem entarium m u tuati, quod redderetur cum opus foret», et cetera. Corpora nostra ex quattuor materiis esse composita in promptu est. Est enim quiddam in his contiguum, quod tactui resistit, idque sine terrena soliditate non est, est etiam calidum aliud idemque uisibile - porro quae talia sunt, sine igni esse non possunt - , est praeterea plenum spiri­ tus, ut sunt hae uenae quae arteriae nuncupantur, est etiam humor, ut sanguis et cetera quae manant ex cor­ pore. Sed neque humor sine aqua neque spiritus sine aere consistet umquam; est igitur in corporibus nostris aquae portio et item aeris nec non ignis et terrae. Unde opinor hominem mundum breuem a ueteribus appella­ tum; nec immerito, quia totus mundus et item totus homo ex isdem sunt omnibus, corpore quidem easdem m aterias habente, anima quoque unius eiusd em q ue naturae. CCIII Inuisibiles porro coniunctiones «gom pho s» appellat, uel minorum corpusculorum coaceruationem, ut Diodorus, uel eorundem sim ilium inter se conglobationem formabilem, ut Anaxagoras, uel supra dictorum multiformem implicationem, ut Democritus et L eucippus, uel interdum concretionem in terdu m discretionem , ut Empedocles, concretionem quidem amicitiam, discretionem porro et separationem inimici-

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tudinem atomorum, quarum una commota omnem spi­ ritum, id est animam, moueri simul. Unde plerum que audita niue candorem simul et frigus homines recordari, uel, cum quis edit acerba quaedam, qui hoc uident assi­ due spuunt increm ento saliuae et cum o scitantibu s simul oscitant alii, inque consonis rhythmis moueri nos iuxta sonos. CCXVI Quae cum ita sint, quaerunt qui magis capi­ te quam pedibus sapiamus, quando scientiae discip li­ naeque assiduo sensus exercitio corroborentur pruden­ tiaeque initium ex aliquo temperamento orsum usuque assiduo promotum perueniat ad perfectionem, dum fre­ quens obseruatio rudim enta creat, ru d im en ta item artem, quae tempore atque usu confirmata fit discipli­ na. Idem negant principalem animae uim consistere in capite propterea quod pleraque anim alia capite secto uiuant ad tempus et agant solita tamquam nullo damno allato corporis uniuersitati, ut apes et item fuci, quae licet capitibus abscisis ad momentum uiuunt et uolant aculeisque secundum naturam suam se defendunt; quae non facerent, si in capite consisteret quod est in anima principale. etiam in corde negant; crocodilos enim auulsis cordibus aliquam diu uiuere et resistere aduersum uiolentiam, hoc idem etiam in testudinibus obseruatum marinis et terrestribus capris. CCXVII Aduersum quae respondetur ab aliis nihil

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Epicuro529, per la somiglianza degli atomi; e se si muove uno solo di essi, allo stesso tempo si muove tutto lo spi­ rito, cioè l’anima530. Da ciò deriva che spesso, quando sentono parlare della neve, gli uomini ripensano con­ temporaneamente al candore e al freddo, o se qualcuno mangia qualcosa di acerbo, quelli che lo vedono sputano frequentem ente per l ’aumento della saliva e appena alcuni sbadigliano, contemporaneamente sbadigliano altri, e che ad un ritmo armonico ci muoviamo secondo i suoni. CCXVI Stando così le cose, essi si chiedono531 per­ ché siamo intelligenti con la testa invece che con i piedi, dal momento che il sapere e la conoscenza si rafforzano grazie al continuo esercizio della sensazione, e la pru­ denza, che prende inizio da un certo equilibrio, miglio­ rando in seguito alla continua esperienza, giunge alla perfezione, poiché la frequente osservazione delle cose dà origine ai primi elementi di conoscenza e i primi ele­ menti, a loro volta, alla perizia che diviene apprendi­ mento quando è consolidata dal tempo e dall’esperien­ za. Ancora, essi negano che la parte principale532 dell’a­ nima si trovi nella testa, per il fatto che moltissimi ani­ mali, se viene loro tagliata la testa, continuano a vivere per un certo tempo e a comportarsi come al solito, come se nessun danno fosse stato arrecato alla totalità del corpo, come per esempio le api ed anche i fuchi che, p ur con le teste troncate, per un certo tratto di tem po vivono, volano e si difendono con gli aculei, secondo la loro natura. Ora, non potrebbero fare ciò se si trovasse nella testa ciò che costituisce la parte princi­ pale d ell’anima. Negano anche che questa si trovi nel cuore; in fatti i coccodrilli, se viene loro strappato il cuore, vivono ancora per un certo tempo e fanno resi­ stenza alla violenza, e la stessa cosa si è osservata nelle tartarughe marine e nelle capre terrestri533. C C X V II A ltri ribattono che non c’è nulla di cui

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esse mirum, si, cum initia et quasi quaedam fundamenta dogmatis imbecilla et minus idonea iacta sint, totum eorum dogma nutet. Quae est enim eorum de anima opinio? Nempe quod ex minutis corpusculis constet. Ergo corpus initium est animae et erit animae propria nulla substantia, sed potius corporis; corpus enim ani­ mam creat iuxta ipsos uitamque animae. Contingit ergo secundum hanc eorum opinionem , ut num quam sit eadem anima, sed diuersa habeatur atque m utabilis. Cum enim dicant corpus esse antiquius anim a, dant corpori p rin cip atu m . Id porro sem per flu it atq u e immutatur; et anima igitur, quae secundae condicionis est, eadem patietur quae corpus; mutabitur ergo tempo­ re et senio, ceteris item , quae fert n atu ra co rpo ris, attemptabitur. Atque ita male fundata sententia hone­ stum inuenire non potest exitum. CCXVIII At uero ex illis, qui iugem p u tan t esse silu am et a d u n a tio n e q u ad am s ib i c o n tin u a ta m , Empedocles quidem principalem animae uim constituit in corde sic dicens: «Sanguine cordis enim noster uiget intellectus», siquidem intimis sensibus nostris sentiam us ea quae sunt extra nos propter cognationem. Ideoque ait: «Terram terreno sentimus, at aethera flammis, Humorem humecto, nostro spirabile flatu». Sed de his omnibus, qualia sint quantamue inter se habeant differentiam, cordis sanguine diiudicam us. CCXIX Hebraei quoque uidentur secundum hunc opinari de anim ae p rin cip ali, cum dicu n t: «C lam at

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meravigliarsi se, una volta gettate delle basi e, per così dire, delle fondamenta della dottrina deboli e poco adat­ te, tutta la loro dottrina vacilli534. Qual è infatti la loro opinione riguardo all’anima? Evidentemente che essa è composta da minuscole particelle. Perciò il principio primo dell’anima è il corpo e nessuna sostanza sarà pro­ pria dell’anima, ma piuttosto del corpo. Infatti il corpo crea l ’anima e la vita dell’anima, secondo loro. Da questa loro opinione deriva dunque che l’anima non sia mai una e medesima, ma che sia considerata varia e mutevo­ le. Dicendo infatti che il corpo è anteriore all’anima, essi danno la preminenza al corpo. Ora, esso scorre e si m odifica continuamente; e dunque l’anima, che è di condizione inferiore, subirà le stesse cose che subisce il corpo; perciò si modificherà con il tempo e con l’età e parimenti subirà gli assalti delle altre cose che comporta la natura materiale. E una teoria fondata su basi così malcerte non può avere una conclusione dignitosa. CCX V III Tra quelli, invece, che ritengono che la m ateria sia ininterrotta e continua per una sorta di collegamento, Empedocle fissa l’essenza principale dell’a­ nim a nel sangue del cuore e si esprime così: «D al sangue del cuore infatti ha vita il nostro [intelletto»535, se è vero che con i nostri sensi più interni noi sentiamo le cose che sono poste fuori di noi, grazie all’affinità che c’è con loro. E perciò dice: «Sentiam o la terra con la sostanza terrena e l’etere [con quella del fuoco, l ’acqua con la sostanza umida e l’aria col nostro [respiro»536. M a quanto a tutte queste cose, che natura abbiano e come differiscano le une dalle altre, questo lo discernia­ mo per mezzo del sangue del cuore. CCX IX Anche gli Ebrei sembrano concordare con lui sulla parte principale dell'anima, quando dicono537:

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apud me sanguis fratris tui» et item alio loco: «Non edetis carnem cum sanguine, quia omnium animalium sanguis anima est». Quae si ita intelleguntur ut debent, animam esse animalium sanguinem, quia sit uehiculum inrationabilis animae, cuius partes sunt importuni appe­ titus, habet plane rationem talis assertio. Si autem confi­ tentur animam hominis rationabilem fore, credant sibi, quod deus a se hominibus factis inspirauerit diuinum spiritum, quo ratiocinamur quoque intellegimus et quo ueneram ur pie deum estque nobis cum d iu in ita te cognatio diique esse dicimur et filii summi dei. Quam cognationem cum deo et omnino rationem qua ratioci­ namur sanguinem putare esse non recte opinantis est. Quae omnia nobis aduersum Empedoclea quoque dicta sint. CCXX Stoici uero cor quidem sedem esse principa­ lis animae partis consentiunt nec tamen sanguinem qui cum corpore nascitur. Spiritum quippe Zeno quaerit hactenus: «Quo recedente a corpore m oritur anim al, hoc certe anima est; naturali porro spiritu recedente moritur animal, naturalis igitur spiritus anima est». Item Chrysippus «Una et eadem», inquit, «certe respiramus et uiuimus; spiramus autem naturali spiritu, ergo etiam uiuimus eodem spiritu; uiuimus autem anima, naturalis igitur spiritus anima esse inu enitur». «H aec ig itu r», inquit, «octo in partes diuisa inuenitur; constat enim e principali et quinque sensibus, etiam uocali substantia et serendi procreandique potentia. Porro partes animae

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«G rid a presso di me il sangue di tuo fratello»53** similmente, in un altro luogo: «Non mangerete la carne con il sangue539, poiché il sangue è l’anima di tutti gli esseri viventi»540. E se queste cose vengono comprese come devono, cioè nel senso che il sangue è l’anima degli esseri viventi, in quanto sarebbe il veicolo dell’ani­ ma irrazionale, quella che è costituita dagli istinti dan­ nosi, allora quest’affermazione è sicuramente valida. Ma se essi ritengono che l’anima dell’uomo debba essere razionale, allora credano anche a ciò che essi stessi dico­ no, e cioè che Dio abbia infuso negli uomini da lui crea­ ti lo spirito divino, con il quale noi ragioniamo e com­ prendiamo e per il quale adoriamo religiosamente Dio e abbiamo una somiglianza con la divinità e siamo detti essere dèi e figli del sommo Dio541. Ma credere che questa parentela con Dio e in generale tutta la ragione sia sangue non si conviene a chi pensa rettamente. E tutto ciò che abbiamo detto valga anche contro la dot­ trina di Empedocle. CCXX Gli Stoici poi sono senza dubbio d’accordo sul fatto che il cuore sia la sede della parte principale d ell’anim a542, ma non che lo sia il sangue, che nasce insieme al corpo. Ed infatti Zenone ricerca lo spirito in questi termini: «Ciò che, venendo a mancare al corpo, causa la morte dell’essere vivente, questo è sicuramente Tanima; ma l ’essere vivente muore quando viene a man­ care lo spirito naturale, dunque lo spirito naturale è l’a­ nim a»543. Allo stesso modo Crisippo dice: «Da una cosa soltanto, sicuramente, noi siamo animati e abbiamo vita; ma noi siamo animati dallo spirito naturale, e dunque da quel medesimo spirito abbiamo anche vita; ma noi abbiam o vita dall’anima, dunque ne risulta che lo spiri­ to n a tu ra le è l ’an im a»544. «Q uesta dunque», dice, «risulta divisa in otto parti545; infatti è formata da una parte principale e dai cinque sensi, più la sostanza della voce e la facoltà di generare e procreare. Le parti dell’a-

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uelut ex capite fontis cordis sede manantes per immer­ sum corpus porriguntur omniaque membra usque qua­ que uitali spiritu complent reguntque et m oderantur innumerabilibus diuersisque uirtutibus nutriendo adolendo mouendo motibus localibus instruendo sensibus compellendo ad operandum totaque anima sensus, qui sunt eius officia, uelut ramos ex p rin cip ali parte illa tamquam trabe pandit futuros eorum quae sentiunt nuntios, ipsa de his quae nuntiauerint iudicat ut rex. Ea porro quae sentiuntur composita sunt utpote corpora singulique item sensus unum quiddam sen tiun t, hic colores, sonos alius, ast ille sucorum sapores discernit, hic uapores odoraminum, ille asperum leuigationem que tactu, atque haec omnia ad praesens; neque tamen prae­ teritorum meminit sensus ullus nec suspicatur futura. Intimae uero deliberationis et considerationis proprium cuiusque sensus intellegere passionem et ex his quae nuntiant colligere quid sit illud et praesens quidem acci­ pere, absentis autem meminisse, futurum item prouidere». Definit idem intimam mentis deliberationem sic: «Intim us est motus animae uis ratio n ab ilis». H abent quippe etiam muta uim animae principalem, qua discer­ nunt cibos, imaginantur, declinant insidias, praerupta et praecipitia supersiliunt, necessitudinem recognoscunt, non tamen rationabilem, quin potius naturalem ; solus uero homo ex mortalibus principali mentis bono, hoc est ratione, utitur, ut ait idem Chrysippus: «Sicu t aranea in medietate cassis omnia filorum tenet pedibus exor­ dia, ut, cum quid ex bestiolis plagas incurrerit ex qua-

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nima inoltre, scaturendo dalla sede del cuore come da una sorgente d’acqua, si estendono a tutto il corpo e riem piono tutte le membra, in ogni parte, di spirito vitale, e le governano e le regolano con innumerevoli e diverse funzioni: quelle del nutrimento, della crescita, del moto che consiste nei movimenti nello spazio, del­ l ’insegnamento attraverso le sensazioni, dello stimolo ad agire546; l ’anima intera poi distende, a mo’ di rami che si dipartono da quella sua parte principale come da un albero, i sensi, che sono i suoi servi e che saranno mes­ saggeri delle cose che sentono; essa stessa poi, come un re, giudica su ciò che essi hanno annunziato547. Le cose che vengono sentite, poi, in quanto sono corpi, sono composite, e parimenti i sensi sentono ciascuno in parti­ colare una sola cosa di una determinata specie: questo i colori, un altro i suoni, quello poi distingue i sapori e i gusti, questo gli odori e i profumi, quello ciò che è ruvi­ do e ciò che è liscio al tatto, e tutto ciò sul momento; e tuttavia nessuno dei sensi ricorda le cose passate né si imm agina quelle future. Ma è proprio di una profonda riflessione e di un attento esame comprendere ciò che ciascun senso prova e capire da ciò che i sensi annun­ ziano che cosa sia una data cosa e intenderla appunto m entre si manifesta, ricordarsene poi quando non c’è più, e allo stesso modo prevedere che accadrà». Sempre C risip p o definisce così la riflessione interiore della mente: «Il moto profondo dell’anima è la sua essenza razio n ale »548. Anche i muti animali, infatti, hanno la parte principale dell’anima, con la quale distinguono i cibi, riconoscono ed evitano le trappole, oltrepassano saltando dirupi e precipizi, si rendono conto di ciò di cui hanno bisogno; e tuttavia essa non è razionale, ma piuttosto naturale. Ma soltanto l’uomo549 si serve del bene principale della mente, cioè della ragione, come dice lo stesso Crisippo: «Come il ragno, nel centro della ragnatela, tiene con le zampe tutte le estremità dei tili, in modo tale che, quando qualche bestiolina incappa

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cumque parte, de proximo sentiat, sic animae principa­ le positum in media sede cordis sensuum exordia reti­ nere, ut, cum quid nuntiabunt, de proximo recogno­ scat». Uocem quoque dicunt e penetrali pectoris, id est corde, mitti, gremio cordis nitente spiritu, qua neruis obsitus limes interiectus cor a pulmone secernit utroque et uitalibus ceteris, quo faucium angustias arietante formanteque lingua et ceteris uocalibus organis articulatos edi sonos, sermonis elementa, quo quidem interprete mentis arcani motus aperiantur. Id porro principale ani­ mae uocat. CCXXI Ergo spiritum animam esse dicentes corpus esse animam plane fatentur. Quod si ita est, corpus cor­ pori sociatum est. Societas porro uel ex applicatione fit uel ex permixtione uel ex concretione. Si applicita sint corpus et anim a, quid ex ap p licatio n e com positum horum duum, quatenus totum erit uiuum ? U ita enim secundum ipsos in solo spiritu, qui applicitus non per­ manat ad corpus intimum (nihil enim penetrat applici­ tum); et totum animal uiuere aiunt: non igitur anima et corpus applicatione sociantur. Si uero perm ixta sunt, anima unum aliquid non erit, sed perm ixta m ulta; Stoici spiritum, id est animam, unum quid esse profitentur: non ergo perm ixta sunt. Superest, ut ex concretione manent; ergo et per se inuicem transeunt duo corpora et locus unus quo corpus continetur duobus corporibus praebebit capacitatem , cum uas quod aquam recip it uinum et aquam simul capere non possit. N eque igitur

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nella rete, in qualsiasi punto, lo sente come da vicino, allo stesso modo la parte principale dell’anima, situata nella sede centrale del cuore, tiene sotto il suo controllo i principi dei sensi, sì che, quando essi annunzieranno qualcosa, come da vicino lo comprenderà». Dicono che anche la voce sia emessa dalla parte più interna del petto, cioè dal cuore, poiché lo spirito si sforza550 a par­ tire dalla cavità del cuore, laddove una barriera interpo­ sta e avvolta da tendini551 separa il cuore da entrambi i polmoni e dagli altri organi vitali; e mentre percuote le strettoie della gola, e gli danno forma la lingua e gli altri organi della voce, lo spirito produce suoni articolati, i prim i elementi del discorso, così che grazie ad esso, che fa da interprete, si svelano i segreti moti della mente. Ed è questo poi che chiama parte principale dell’anima. CCX XI Dunque, dicendo che lo spirito è l’anima, essi ammettono chiaramente che l’anima è un corpo552. E se è così, è un corpo unito a un altro corpo. Ora un' unione si può avere in seguito a giustapposizione, o a mescolanza, o ad aggregazione553. Se anima e corpo fos­ sero giustapposti, cosa sarà composto dalla giustapposi­ zione di queste due cose in modo che tutto insieme sarà vivo? Infatti secondo loro la vita è solo nello spirito, ed esso, se giustapposto, non si diffonde all’interno del corpo (poiché niente può penetrare in una cosa giustap­ posta); eppure essi dicono che tutto l’essere vivente ha vita: dunque l’anima e il corpo non sono uniti per giu­ stapposizione. Inoltre, se sono mescolati, l’anima non sarà qualcosa di unico, ma molte cose mescolate insie­ me; ma gli Stoici affermano che lo spirito, cioè l’anima, è una cosa unica: dunque non sono mescolati. Resta che essi d erivino da u n ’aggregazione; dunque due corpi passano l ’uno n ell’altro, a vicenda, e un luogo atto a contenere un solo corpo offrirà la capacità di contener­ ne due; ma un vaso atto a ricevere acqua non può conte­ nere a un tempo vino e acqua. Dunque corpo e anima

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ex applicatione neque permixtione neque uero concre­ tione corpus et anima sociantur; ex quo confit animam non esse corpus. Est igitur uirtus et potentia carens cor­ pore, quodque est in ea principale competentem natu­ rae suae sedem habeat necesse est. CCXXII At uero Aristoteles animam definit hacte­ nus: «Anima est prima perfectio corporis naturalis orga­ nici possibilitate uitam habentis», perfectionem nunc app ellan s sp ecialem essen tiam q u ae est in effig ie . Essentia enim trifariam intellegitur: una, quae constat ex corpore, uelut animalia uel quae arte fiunt, essentia dicta, quia haec ipsa est et cetera quae sunt facit esse; altera, qua materiam informem et adhuc siluam mente consideramus, haec quippe possibilitate omnia est quae ex se fieri possunt, effectu autem nondum quicquam , ut massa aeris et intractata ligna; tertia, cui accidens effec­ tus perficit eam exornatque impressione formae, ex qua form a, quam in sig n iu it ars, id quod p erfectu m est nomen accepit, ut statua, quae ex sim ilitudine formae, cuius est statua, simulacrum uocatur. Sim iliter, inquit, homo animal certe est, et est ut siluestris et m aterialis essentia, et haec composita ex materia form aque, qu ip ­ pe ex corpore constat et anima; ergo corpus eius m ate­ ria est, anima uero species siue forma, iuxta quam spe­ ciem, id est animam, animal est cognominatum. H anc ergo sp eciem q u a fo rm a n tu r s in g u la g e n e r a lit e r Aristoteles «entelechiam », id est absolutam perfectio ­ nem, uocat; hac enim obueniente siluae quae olim fue-

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non sono uniti né per giustapposizione, né per mescolan­ za, né per aggregazione; da ciò risulta che l’anima non è un corpo. Dunque è una facoltà e una potenza priva di corpo ed è necessario che ciò che in essa è la parte prin­ cipale, abbia una sede adeguata alla sua natura. CCXXII Quanto poi ad Aristotele, costui definisce Tanima in questi termini: l’anima è il primo essere in atto di un corpo naturale organico avente la vita in potenza554, denominando ora «essere in atto» la parti­ colare sostanza che consiste nella forma. La sostanza infatti si intende in tre sensi: in un primo senso essa è quella che consiste nel corpo, ad esempio quella degli esseri viventi e delle cose prodotte dall’arte, chiamata “sostanza” poiché essa stessa sussiste e fa sì che sussi­ stan o le cose che vi sono; in un secondo senso la sostanza è quella secondo cui noi immaginiamo nel pensiero una massa informe che si trova ancora allo stato di pura materia; essa, infatti, è in potenza tutto ciò che da essa può essere creata, in atto tuttavia non è ancora nulla, come ad esempio un blocco di bronzo o del legnam e non lavorato; in un terzo senso la sostanza è quella cosa alla quale la realizzazione ultima, agendo su di essa come accidente, le dà compimento, adornan­ dola con l ’imprimerle una forma, e ciò che viene porta­ to a compimento riceve un nome, come la statua che, dalla som iglianza formale a ciò di cui è appunto la sta­ tua, è chiam ata “simulacro”555. Allo stesso modo, dice, l ’uomo è certamente un essere vivente, e lo è in quanto sostanza m ateriale e corporea, e questa è composta di m ateria e forma, poiché è costituita dal corpo e dall'a­ nim a; dunque il suo corpo è materia, mentre l'anima è im m agine o forma, e in considerazione di quest’imma­ gine che è l ’anima, è chiamato “animale”. Ora, questa im m agine da cui ogni cosa riceve forma, Aristotele la chiam a in generale «entelechia», cioè «atto assoluto»; in fatti, quando questa si unisce alla materia, ciò che

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rant in sola possibilitate perueniunt ad effectum. Item quod uiuit duplex est, anima et corpus, opinor, ut quae discuntur duabus rebus sociantur, doctrina et anima, sed prius doctrina, qua ipsa anima eruditur. Item salui sumus salute et corpore, sed prius salute, per quam cor­ pus incolume est. Sic etiam uiuimus prius anima quam corpore, siquidem uita corporis in anim a lo cata est proptereaque anima entelechia est corporis. Q uodque corpora partim dicuntur m athem atica, ut sp haera et cubus, partim artificiosa, ut nauis et statua, p leraque naturalia, quae motus originem intra se hab en t, uita uidelicet utentia, naturalis anima corporis entelechia sit necesse est. Competit alia etiam diuisio, nam corporum quaedam simplicia, ut elementa, quaedam com posita, ut. quae ex simplicibus coagmentantur. Compositorum partim organica nuncupantur, partim sine nom ine, ut aurum aes gemmae, cetera im m obili n atu ra m inim e organica; animalium uero et stirpium et omnino qualiu m cu m q u e u ita u ten tiu m o rg an ica su n t, q u ip p e modulata, et habent membrorum per quae agant a li­ quid aut patiantur opportunitatem , ut ad sum endos cibos et generandam prolem paris eiusdem que naturae, tum ad sentiendum et translatiuum ex loco ad locum motum, ut cuncta gradientia, tum ad faciendum im pe­ tum iuxta desideria et appetitus, ut anim alium quae sunt firmiora. Ex quibus concludit Aristoteles «en tele­ chiam animam esse corporis naturalis o rgan ici». Tale porro est quod corpus recipere oportet, et est, inquit; nam sunt quaedam sola possibilitate anim alia, ut oua

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prim a era stato nella condizione di pura potenza per­ viene all’atto556. Allo stesso modo ciò che vive ha una doppia natura, di anima e di corpo, credo, come ciò che si apprende è composto dall’unione di due cose, scienza e anima, ma prima di tutto dalla scienza, dalla quale l ’anima stessa è istruita. Parimenti noi siamo sani grazie alla salute unita al corpo, ma prima di tutto gra­ zie a lla salute, grazie alla quale il corpo è privo di danni. Così allo stesso modo, noi viviamo prima grazie all’anim a che grazie al corpo, se è vero che la vita del corpo è rip o sta n ell’anima, e per questo l ’anima è l ’«en telech ia» del corpo. E poiché i corpi si definisco­ no in parte matematici, ad esempio la sfera o il cubo, in p arte artificiali, come la nave o la statua, la maggior parte naturali, e questi hanno in sé l’origine del moto, vale a dire godono della vita, è necessario che l’entele­ chia del corpo sia l’anima naturale. Appare adeguata anche u n ’altra divisione: infatti alcuni corpi sono sem­ plici, come gli elementi, altri sono composti, cioè quelli che sono form ati d all’unione dei corpi semplici. Di q u elli com posti parte sono detti “organici”557, parte non hanno un nome, come l’oro, il bronzo, le gemme, e tutte le altre cose dotate di una natura priva di moto che non è affatto organica; sono organici i corpi degli esseri viventi, delle piante e, in generale, di tutti gli esseri che godono della vita, in quanto sono regolati da un ’arm onia; ed essi hanno la possibilità di servirsi delle m em b ra per fare o subire qualcosa, ad esempio per m angiare e per generare una prole di uguale e identica natura, ora per provare sensazioni e per il moto di spo­ stam ento da un luogo a un altro, che è proprio di tutti gli esseri che camminano, ora per slanciarsi, seguendo i propri desideri e gli istinti, che è proprio degli esseri viventi più capaci558. Da ciò Aristotele conclude559 che l ’anim a è l ’«essere in atto» di un corpo naturale organi­ co. In o ltre - dice - tale è ciò che deve ricevere un corpo e l ’anima è tale. Infatti alcuni esseri viventi sono

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uel semina, quaedam cum effectu et operatione, ut quae adhibito fotu ex isdem excuduntur anim alia. Ex quo apparet entelechiam fore animam non cuiuslibet corpo­ ris, sed eius quod potest animam sumere, iuxta eiusdem uiuere patrocinium motusque uitales exercere in agen­ do, uitae quoque passiones experiri, proptereaque defi­ nitioni additum: «possibilitate uitam habentis». CCXXIII Et definitio quidem anim ae Peripateticis auctoribus talis est. Quae tamen ex ea confiunt, m anife­ stant principio animam neque corporeum quicquam esse uel sensile sed intellegibile potius et sine corpore, quae tamen recipiatur a corpore, quippe corpori perfec­ tionem det ipsa sitque eius entelechia, res p er sem et ipsam immobilis, sicut sunt artes et disciplinae, ex acci­ denti uero aliquo mobilis propterea quod sit in anim ali­ bus quae, dum uiuunt, mouentur. Dum enim naturales motus edit anima, mouentur anim alia, uel cum agunt aliquid uel cum patiuntur. Quae cum sit intellegibilis et sine corpore, consequenter etiam sine quan titate esse inuenitur, quippe cuius neque prolixitas ulla neque lati­ tudo nec profunditas extet, non enim est ut lin ea uel superficies nec uero figuram habet ullam nec est diuidua, ut quae constant ex partibus; diuiditur tam en alio quodam genere, sic ut ex eadem diuisione non m agis partes eius ullae quam uirtutes et potentiae consideren­ tur. Nec uero species eius ullae sunt, ut generis alicuius species dici solet, ut rhetoricae d iscip lin ae, q u ae est intellegibilis res et sine corpore, species tam en eius esse dicitur ea oratio quae facta est ad doctrinae ostentatio-

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tali soltanto in potenza, ad esempio le uova o i semi, altri lo sono nell’atto effettivo, ad esempio gli esseri che da quelle stesse uova o semi vengono fatti nascere, con il tenerli al caldo. Da ciò risulta chiaro che l’entelechia non sarà l ’anima di ciascun corpo, ma di quello che può ricevere l ’anima, e vivere sotto la sua tutela ed esplicare i moti vitali nell’agire e sperimentare anche le p assio n i d e lla vita, e perciò alla definizione viene aggiunto: «che ha la vita in potenza». CCX X III E tale è invero la definizione dell’anima negli autori peripatetici. Ciò che tuttavia risulta da essa rivela innanzitutto che l’anima non è niente di corporeo o di m ateriale, ma piuttosto di intellegibile e privo di corpo560, tale però che venga accolto da un corpo, poi­ ché essa stessa dà al corpo il completamento finale e costituisce il suo «essere in atto»; ed essa in sé è priva di moto, così come lo sono le arti e le scienze, ma è dotata di moto in seguito a una causa accidentale, per il fatto che si trova negli esseri viventi che, mentre vivono, si muovono. Infatti, mentre l’anima produce i moti natura­ li, gli esseri viventi si muovono, quando fanno qualcosa o quando la subiscono561. Ed essendo essa intellegibile e priva di corpo, di conseguenza ne risulta anche che è priva di quantità, poiché è tale che di essa non può esi­ stere nessuna lunghezza, né larghezza, né profondità; non è infatti come una linea o una superficie, e nemme­ no ha una qualche forma o è divisibile, come le cose che si compongono di parti; tuttavia c’è un altro tipo di divi­ sione che si può fare per essa, nel senso cioè che in seguito appunto a questa divisione vengono esaminate non tanto le parti di essa, quanto le sue facoltà e le sue capacità. M a non vi sono delle specie particolari dell'a­ nim a, come si è soliti dire che vi sono specie particolari di un qualche genere, ad esempio dell’arte retorica: l’ar­ te retorica è una cosa intellegibile e priva di corpo, e tut­ tavia si dice che sia una sua specie quel tipo di discorso

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neni et item species contionabilis uel species orationis forensis Sic emo, cum anima quoque res sit sine corpo­ re et sine magnitudine, nihil interest dicere partes ani­ mae et item potentias animae, uel cum diuidim us eam, cum sit illa naturae indiuiduae, in speciem naturalem , iuxta quam nutritur omne animal et crescit et subolem creat, uel in speciem sensilem , iuxta quam differunt inter se quae animam habent et item quae sola uita fruuntur. id est animalia et stirpes, item in eam speciem quae locum ex loco mutat, ut serpentia omnia uel quae habent appetitum qui in perfectioribus inu enitur ani­ malibus, in quibus est cupiditas et iracundia, et item in eam speciem, quae est perfectior ceteris, ratione uten­ tium, quae in natura hominis tantum inuenitur. CCXXTV «Est igitur tota», inquit, «an im a in totis partibus uiuentis anim alis». Et naturalis quidem eius species per omne se diuidit corpus, sensus uero tactus quidem per omne corpus, uisus autem uel auditu s et ceteri in ceteris membris quae sunt organa sentiendi. Principalis uero animae pars siue p oten tia, ad quam feruntur quae nuntiant sensus singuli et qu ae de his quae sentiuntur iudicium facit exam inatque, cuius modi sin t ea qu ae o ccu rru n t sen sib u s u a rie , h a n c u ero Aristoteles asserit locatam esse in penetralibus cordis, ubi aliae quoque species anim ae sunt lo catae, id est im a g in a tio m em o ria a p p e titu s e x c u r s io . Q u ip p e omnium animae uirium initia et quasi quaedam radices e sede cordis emanant, quando confecti cibi sucus per uenas cordis ceterum corpus inrigat et m otus corpo-

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che viene fatto per esporre una dottrina e parimenti la Sgiua r fa oio. Stand0 ° ***** ^ l’anima è Stando ^cosi le cose, poiché anche una cosa senza corpo e senza grandezza, non c'è diffe­ renza tra parlare delle parti dell’anima e parimenti delle capacita dell anima, sia quando la dividiamo, pur essendo essa di natura indivisibile, in parte naturale, quella cioè m base a cui ogni essere vivente si nutre, cresce e genera la prole, e m parte sensibile, per la quale differiscono tra loro gli esseri che hanno l’anima e parimenti quelli che godono semplicemente della vita, ad esempio gli anim ali e le piante, e parimenti in quella parte che fa spostare da un luogo a un altro, propria di tutti gli esseri che camminano o che hanno quell’istinto che si trova negli esseri più perfetti, nei quali sono presenti desiderio e ira, e ancora in quella parte che è più perfetta delle altre, quella che appartiene agli esseri dotati di ragione, che si trova solo nella natura umana. C C X X IV «E l ’anima dunque - dice - è presente tutta in tera in tutte le parti dell’essere vivente»563. E veram en te, la sua facoltà naturale si distribuisce per tutto il corpo, ma il senso del tatto è effettivamente in tutto il corpo, mentre la vista o l'udito e gli altri sensi si trovano nelle altre membra che fungono da organi del senso. Invece la parte o facoltà principale dell’anima, alla quale vengono ricondotte tutte le cose che ciascun senso annunzia, e che giudica le cose che vengono senti­ te, ed esam ina la qualità delle cose che si presentano in vario m odo ai sensi, ebbene questa facoltà Aristotele afferm a che si trova riposta nelle parti più interne del cuore564, dove sono pure riposte altre facoltà dell ani­ m a, cioè l ’immaginazione, la memoria, il desiderio, i pensiero565. Infatti i principi, e, per così dire le radici di tutte le capacità dell’anima scaturiscono dalla sede del cuore, dal momento che, quando vengono consu­ m ati i cibi, il nutrimento, attraverso le vene del cuore, si

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reus, qui locularis est, a corde initium sum it; nam que uenarum et nemorum initium et quidam nodus ipsum cor est, iuxta quod intellectus agitatus et rationabiliter ignitus ibidem coaceruare se creditur, possibilitate qui­ dem illic habitans, effectu uero extra conseptum cordis atque uiciniam commeans. H aec et m ulta alia huius modi probationum genera asseruntur a supra memorato uiro ad probandum , quod p rin cip alis anim ae uis in corde sit, quae usque adeo sit animantium propria, ut cetera ex uitalibus uim pulsusque p atian tur sine an i­ mantis interitu, cordis uero sedem ne minimas quidem pulsationes sine interitu animalium sustinere (quod si quis nominis praesumptione inductus cardiacam passio­ nem dicat frequenter esse curatam , errat in nom ine, quippe cum constet illam passionem non cordis esse sed stomachi). CCXXV Aduersum quae ita respondetur: A lia q u i­ dem fere om nia recte et p ro u t fert n a tu r a re ru m Platonicisque dogm atibus consentanee d icta, sed de animae substantia erratum uideri; non enim specialem essentiam fore animam, quam appellat A ristoteles ente­ lechiam - haec quippe forma est corporibus accidens [ut censet Plato], quam hic specialem essentiam nun cu­ pat, et est imago speciei purae a cor­ pore et intellegibilis, penes quam est dignitas exem p la­ ris. Igitur iuxta hanc formam, qua form antur corpora, nomina esse imposita rebus uerum est, anim am tam en esse formabilem hanc speciem nemo ei concedit; hoc quippe formabile fit ccorporibus nascentibus> et cor­ rumpitur corporibus solutis, anima uero omni est cor-

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diffonde nel resto del corpo e il moto corporeo, che è un moto nello spazio, ha origine dal cuore; ed infatti il cuore stesso è il principio e come il nodo delle vene e dei nervi, e accanto ad esso si crede che si raccolga, proprio in quel punto, l’intelletto sempre in moto e luminoso di ragione566, che in potenza, invero, risiede lì, ma in atto oltrepassa il limite del cuore e le regioni circostanti. Queste cose e molte altre simili sono affer­ mate dal suddetto filosofo come prove per dimostrare che si trova nel cuore la parte principale dell’anima, che a tal punto è propria degli esseri animati che, mentre le altre parti vitali possono subire violenze e traumi senza che ciò comporti la morte dell’essere animato, la sede del cuore, invece, non può sopportare nemmeno il più piccolo traum a senza che ne derivi la morte degli esseri viventi (perciò, se qualcuno, indotto da una supposizio­ ne che si basa sul nome, dice che più volte è stata curata una m alattia cardiaca, sbaglia nella denominazione, poi­ ché si sa che la malattia cardiaca non è una malattia del cuore, ma dello stomaco567). C C X X V A ciò si replica così: quanto al resto, in effetti, quasi tutto è stato detto giustamente, in modo conforme alle leggi naturali e in accordo con le dottrine platoniche; ma sembra che si sia errato riguardo alla sostanza d ell’anima; infatti l’anima non sarà una specia­ le sostanza, che Aristotele chiama «entelechia», poiché questa forma, che lui definisce speciale sostanza è un attributo accidentale per i corpi568, ma è, come ritiene P la to n e 569, l ’im m agine d ell’idea incontam inata dal corpo e intellegibile, che ha in sé la dignità di modello. D unque è vero che le cose ricevono il nome in base a questa forma dalla quale sono formati i corpi; tuttavia nessuno concede ad Aristotele che l’anima sia questa id ea capace di dare forma570. Infatti questo qualcosa capace di dar forma comincia a esistere alla nascita dei corpi e si distrugge quando i corpi muoiono. Ma l’anima è più antica di ogni corpo, poiché possiede già da tempo

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pere antiquior habens ohm et ante coniugationem cor­ poris substantiam propriam extinctisque anim alibus separatur sine perpetuitatis incommodo, ut quam con­ stet in aeterno esse motu, quia habet internum domesticumque ex natura sua motum. Aliud est igitur anima et item aliud specialis essentia. Itemque haec entelechia in rebus quoque cernitur quae sunt sine anima. Si enim est plena cuiusque seminis conceptusque p erfectio , qui magis animalia quam stirpes et arbores legitim o tem po­ re accipiunt perfectionem? At uero anima in solis ani­ malibus. Deinde perfectio adultis iam, quae in conceptu sunt, adhibetur et cum isdem crescit. At uero anim a sine ortu et ex aeternitate, non sine m otu, quem ad modum entelechiam Aristoteles fore confitetur, sed in motu perpetuo, utpote cuius naturaliter motiua uis sit. Proptereaque diuiditur primitus in duas species, ratio­ nabilem et eam ex qua sunt appetitus, deinde subdiuiditur in opinionem intellectumque et demum in iracun­ diam et cupiditatem; atque his ex diuisione speciebus singulis apta membra tamquam organa sunt distributa. CCXXVI Sed ne praecurrere et delibare uideam ur quicquam ex Platonis sententia, ponemus ipsam quae illustrabit cuncta quae in aliqua obscuritate uersantur. Est igitur anima iuxta Platonem substantia carens cor­ pore semet ipsam mouens rationabilis. Et esse animam rem aliquam nullus ambigit - mouet enim corpus p rae­ cedente impetu quodam sensibus excitato - , sed quia cuncta quae sunt diuiduntur in decem genera, quod cuiusque generis suscipiet proprietatem , eidem generi sociabitur. Constat porro inter omnes ex omnibus cate­ goriis proprium essentiae fore suscipere contrarias pas-

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e prima dell’unione col corpo una propria essenza; e, alla morte degli esseri viventi, essa si separa senza danno per la propria esistenza perpetua, dal momento che come si sa - essa si trova in eterno movimento, perché è dotata, per sua natura, di un proprio moto interno. Dunque una cosa è l’anima e così un’altra è la «speciale sostanza». Ancora, questa «entelechia» si scorge anche nelle cose prive di anima. Se, infatti, essa è il pieno esse­ re in atto di ogni seme e di ogni feto, in che modo gli anim ali, dopo il tempo prestabilito, ricevono il pieno essere in atto più che le piante e gli alberi? Eppure l’ani­ ma si trova solo negli animali. Inoltre, il pieno essere in atto si applica quando sono diventati adulti i feti e cre­ sce insieme a loro. Ma l’anima non nasce, esiste dall’e­ ternità, non è priva di moto, come Aristotele ammette che sarà l ’entelechia571, ma è in perpetuo movimento, dal momento che è dotata, per sua natura, della capacità di movimento. E perciò si divide prima di tutto in due parti, quella razionale e quella da cui derivano gli istinti, poi ancora si suddivide in opinione e intelletto e, final­ mente, in ira e desiderio; e ad ognuna delle facoltà che risultano da questa divisione sono assegnate delle parti del corpo appropriate come organi. C C X X V I M a affinché non sembri che vogliamo anticipare o sottrarre qualcosa al pensiero di Platone, esporrem o proprio il suo pensiero, ad illuminare quan­ to è avvolto da qualche oscurità. Dunque l ’anima, secondo P latone572, è sostanza priva di corpo, che si muove da sé, razionale. E che l’anima sia qualcosa, nes­ suno lo m ette in dubbio - infatti essa muove il corpo in virtù di un impulso precedente, stimolato dai sensi - , ma poiché tutte le cose che esistono si dividono in dieci categorie573, ciò che assumerà in sé il carattere proprio di ciascuna di queste categorie, a quella categoria sarà associato. Ora, è noto a tutti che tra tutte le categorie, carattere proprio della sostanza sarà quello di ammette­ re in sé, in modo alterno, passioni tra loro contrarie, ed

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siones uicissim et esse antiquissim am p raen o sciq u e generibus ceteris. Ut igitur corpus, ut puta hom inis, essentia est sine ulla dubitatione propterea quod con­ trarias passiones uicissim suscipit, ut aegritudinem et sospitarem, turpitudinem et item decentiam , sic an i­ mam essendam fore aperte probatur, quia haec quoque contrarias passiones uicissim suscipit, ut iu stitiam competit porro haec corporeae sospitati - et item in i­ quitatem, quae demum congruit corporis morbis, sicut pulchritudini quidem tem perantia, turp itudini libido, item fortitudini quidem m agnanim itas, im b e c illita ti porro timiditas et ignauia, et omnino bona quidem cor­ poris ualetudo com paratur animae bonae u aletu d in i, quae uirtus est, mala uero corporis ualetudo uitiositati. Deinde anima, sicut in superioribus constitit, m odulata est p o sitaq u e in m otu suo h ab etq u e cum n u m eris cognationem. Quae cuncta essentiae quidem non sunt, sed iuxta ea quae sunt habentque essentiam uersantur. Si igitur proprium est essentiae uicissim contraria susti­ nere, idem autem hoc etiam animae commune est, pro­ cul dubio nihil est aliud anima quam essentia; certe rid i­ culum id quod paret atque obsequitur essentiam esse concedere, scilicet corpus, quod uero d o m in atu r et regit n egare in sub stan tia positum , cum P lato tam dignitate quam uirtutum praestantia uenerabilem dicit esse animam et plane corporis dominam. CCXXVII Et essentiam quidem fore anim am sic probatur eandemque antiquiorem esse corpore nec ut entelechiam crescere cum conceptis seminibus cum que isdem m aturari et ad perfectionem uenire. Sed quia

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essere precedente alle altre categorie dal punto di vista cro n o lo gico e della conoscenza. Come dunque un corpo, ad esempio il corpo umano, è sostanza, senza alcun dubbio, per il fatto che può accogliere in sé in modo alterno passioni diverse tra loro, come la malattia e la salute, la bruttezza e parimenti la bellezza; allo stes­ so modo si dimostra chiaramente che l’anima sarà una sostanza, poiché anch’essa può accogliere in sé, in modo alterno, passioni contrarie tra loro, come la giu­ stizia - che corrisponde, poi, alla salute del corpo574 - , e parim enti l ’iniquità, che equivale appunto alla malattia del corpo; e allo stesso modo, invero, alla bellezza del corpo corrisponde l’equilibrio dell’anima, alla bruttezza la turpitudine morale, e così alla forza la grandezza d’a­ nimo e alla debolezza la timidezza e l’ignavia, e, in gene­ rale, veramente, la buona salute del corpo si paragona alla buona salute dell’anima, che è la virtù, mentre la cattiva salute del corpo si paragona al vizio. Inoltre l’anim a, come risulta dai capitoli precedenti, è regolata da u n ’arm o n ia, dotata di un proprio movimento, e ha u n ’affin ità con i num eri575. E tutte queste cose non sono proprie della sostanza, ma si hanno relativamente alle cose che esistono e che hanno sostanza. Se dunque è proprio della sostanza subire in modo alterno fenome­ ni contrari, e ciò, poi, è comune anche all’anima, allora, senza dubbio, l ’anima non è altro che sostanza. Ora, è certam ente ridicolo ammettere che sia sostanza ciò che è sottomesso e obbedisce, cioè il corpo, e d’altra parte n e g a re che sia sostanza ciò che governa e regge; e Platone afferma che l’anima è venerabile per la dignità e per la superiorità delle virtù ed è evidentemente sovra­ na del corpo576. CCXXVII E così si dimostra che l’anima sarà certa­ m ente sostanza e che è più antica del corpo, e non cre­ sce, come l ’«entelechia», insieme ai semi concepiti, e non m atura e non giunge alla perfezione insieme con essi. M a poiché la sostanza è di due tipi, una corporea e

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duplex essentia est, altera corporea, altera carens corpore, consequenter docebimus, quod sit anim a essentia carens corpore. Principio, quod omne corpus penetret idque uiuificet; proprium uero est hoc eius n aturae quae est sine corpore, ut dulcedinis quae peruadit m el­ leum corpus, ut lucis quae corpus aereum penetrat. Nam si haec corpora essent, uel applicata corpori uel mixta uel concreta inuenirentur; sed applicata non sunt haec nec anima corpori - nec enim ex applicatione eius uita corpori prouenit, sed quia anima per omnes se dif­ fundit artus - , nec uero ex perm ixtione - non enim esset unum quiddam anima, sed multa commixta - , sed nec ex concretione - nullum quippe corpus aliud cor­ pus penetrare ualet usque quaque Non ergo anima corpus est uel corporeum aliquid, ut quidam putant: sine corpore igitur. Deinde omne corpus uel intimo uel extemo motu mouetur; quae externo, sine anima sunt, quae interno, cum anima. Itaque, si corpus esset, uel anima aliunde sumpta uteretur uel sine anim a esset; neutrum porro horum rationem habet: est ergo sine corpore. Probatum quoque in superioribus, quod motu intimo genuinoque moueatur et ex semet ipsa; sequitur ergo, ut etiam immortalis sit et sine ulla generatione, simplex etiam nec ex ulla compositione. CCXXVIII Hoc loco calumniari solent homines qu i­ b u s u e ri in d a g a n d i cu ra n u lla est. D ic u n t en im Platonem in Phaedro quidem asserere animam esse sine u lla com positione p ro p tereaq u e in d isso lu b ile m , in Tim aeo tam en compositam rem co n fiteri, siq u id em faciat eam constare ex indiuidua diuiduaque substantia et item diuersa eademque, alia natura conflante eam et

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una priva di corpo, spiegheremo di conseguenza perché l’anima sia sostanza priva di corpo. Prima di tutto, per il fatto che penetra in ogni corpo e gli dà vita; ma questo è proprio di una natura incorporea, come la dolcezza che pervade il corpo del miele, o come la luce che penetra il corpo dell’aria. Infatti, se queste cose fossero corpi, si troverebbero giustapposti o mescolati o aggregati a un corpo; ma esse non sono giustapposte, come non lo è l ’anima al corpo - e infatti la vita non proviene al corpo dal fatto che l’anima sia giustapposta a esso, ma dal fatto che l ’anima si diffonde in tutte le membra; e nemmeno, poi, proviene da una mescolanza - infatti l’anima non sarebbe una cosa sola, ma molte cose mescolate insieme - e neanche da un’aggregazione - poiché nessun corpo p u ò p e n e tra re com pletam ente in un altro corpo. Dunque l ’anima non è un corpo, né qualcosa di corpo­ reo, com e alcuni credono: perciò è senza corpo577. Inoltre, tutti i corpi sono mossi da un moto interno o da un moto esterno; quelli che sono mossi da un moto esterno sono senz’anima, quelli che sono mossi da un moto interno hanno l ’anima578. Perciò, se l’anima fosse un corpo, o si servirebbe di un’anima presa da qualche altra parte, o sarebbe senz’anima: ma nessuna di queste due cose ha senso. Dunque è priva di corpo. Si è inoltre dimostrato, nei capitoli precedenti579, che essa è mossa da un moto interno e innato e proveniente da se stessa; ne consegue dunque che essa sia anche immortale, non generata, e ancora, semplice e non composta. CCXXVIII A questo punto, degli uomini a cui non im porta nulla di ricercare la verità, sono soliti muovere delie critiche. Dicono infatti che Platone, nel Fedro580, afferma effettivamente che l’anima sia non composta e perciò indissolubile, ma che nel Timeo581 ammetta che essa sia una cosa composta, dal momento che suppone che l ’anima consista di una sostanza indivisibile e di una divisibile e parimenti del diverso e del medesimo, poi-

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uelut coagmentante ab opifìce deo, male ac miserabiliter, nescientes compositum id esse quod ex aliquo initio tem poris factum sit, ut nauim et dom um , quiddam uero, quod compositum quidem non sit, habeat tamen rationem compositionis, ut in musica symphonia, quae diatessaron uocatur, et item geom etrica theorem ata; similiter ergo etiam generatum quidem, quod ex aliquo temporis initio natum factumue sit, ut statuam; porro aliud esse longeque diuersum, quod habeat rationem generationis intellegibilis, ut sphaeram. Igitur cum dicit Plato natam animam et ab opifice deo factam compositamque nec ex certo tempore initium substantiae dici trahere nec ut, quae non fuerit ante, post esse coeperit, sed quod habeat rationem ortus et compositionis; cum uero sine genitura et sine com positione d icit, aperte nullum ei dat initium nec ullam originem com positio­ nis. CCXXIX Alia igitur significatione diuersaq ue res generata et item alia diuersaque sine generatione anima esse dicitur a Platone, cuius diuersissimae uires sint. Est enim quaedam uirtus eius in ratiocinando et item alia quae dicitur uigor iracundiae et item quae cupit; quae species sunt appetitus, quae tamen rationi n aturaliter pareant. Erit igitur optima uirtus eius quae ratiocinatur, ceterae secundae ac tertiae potestatis. H aec P lato de anima sentit; quae strictim breuiterque a nobis decursa sunt. CCXXX Censet uero eam per omnes artus ac totum corpus meare et per singula membra uelut organa uim suam ostentare; proinde et in sentiendo ad eam quidem

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ché una diversa natura le dà forma e, per così dire, la mette insieme, per volontà del dio artefice; ma sbaglia­ no, e in modo deplorevole, poiché non sanno che è composto ciò che è stato fatto a partire da una qualche origine nel tempo, come una nave o una casa582, e che, d’altra parte, una cosa che veramente non sia composta, ha tuttavia un suo modo di composizione, come nella musica l ’accordo che è chiamato diatessaron 583, e come i teoremi nella geometria; similmente dunque, ignorano anche che è appunto generato ciò che è nato o che è stato creato a partire da una qualche origine nel tempo, ad esempio una statua; ma che è un’altra cosa, e ben diversa, ciò che ha un modo di generazione intellegibile, ad esem pio la sfera. Perciò, quando Platone dice che l ’anima è nata, ed è stata creata e composta dal dio arte­ fice, non dice che l’esistenza trae origine da un tempo determ inato, né che essa prima non era, poi cominciò ad essere, ma che ha un suo motivo di nascita e compo­ sizione584; quando invece dice che essa è non generata e non composta, in maniera chiara nega che essa abbia un inizio e u n ’origine della composizione. CCXXIX Dunque Platone dice che l’anima è gene­ rata in un senso, e parimenti dice che essa è non genera­ ta in un altro senso. E le sue facoltà sono assai diverse. Vi è infatti una virtù di essa che si esplica nel ragionare e parim enti un’altra che è detta vigore della collera e così pure quella che desidera. E queste parti sono gli istinti, che tuttavia dovrebbero essere sottomessi alla ragione. L a facoltà migliore dell’anima sarà dunque q u ella che ragiona, le altre staranno al secondo e al terzo posto per d ign ità585. Questo è ciò che pensa Platone a proposito dell’anima. E noi lo abbiamo espo­ sto in modo breve e sommario. CCXXX Ritiene inoltre che essa si diffonda attraver­ so tutte le membra e in tutto il corpo e che manifesti le sue capacità servendosi di ciascuna delle parti del corpo

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reterri omnia quae sensibus occurrant, ea uero quae sensus referant esse diuersa. Q uia igitu r prin cipales uires animae duae sunt, una deliberatiua, altera quae ad appetendum quid impellit, et est deliberatiua quidem uirtus propria rationabilis anim antis, illa uero alia id ipsum animantis, consequenter competentia uiribus et apta membra dimensa sunt. CCXXXI R ationabili uelut arx corporis et regia, utpote uirtuti quae regali quadam eminentia praestet, id est domicilium capitis, in quo habitet animae principa­ le, quod ad sim ilitudinem m undi sit exaed ificatu m , teres et globosum, purum separatum que ab ea quae cibo alimentisque nascatur illuuie; in quo quidem dom i­ cilio sensus quoque habitent, qui sunt tam quam comites rationis et signi, scilicet ut de proximo sensibus interpellantibus statuatur super his quae sen tien tu r atque etiam intellectus a ratione aduo catus facile ab ea commonefiat eorum omnium quae quon­ dam uidit, [et] imaginum recordatione ad ueri specta­ culi commemorationem retractus. Q uis enim nesciat quod, quam rationem habet sensus aduersus d elib era­ tionem, hanc deliberatio iuxta intellectum ? Ex coniectura siquidem nascitur opinio, ex opinione intellectus, ut idem Plato docuit in Politia. Facile est assequi natu­ ralia arcana ex his quae frequenter accid u n t, om nes quippe corporeae passiones quae mentem deliberatio­ nemque eius impediunt non nisi in capite proueniunt: phrenesis, obliuio, lapsus epilenticus, furor atque atri fellis incendia ex arce capitis trahunt in itia, non quo

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come di organi; di conseguenza, che anche nella sensa­ zione, è all’anima che vengono riportate tutte le cose che si presentano ai sensi, ma diverse sono le cose che i sensi riportano. Poiché dunque due sono le principali facoltà dell’anima, una deliberativa586, l’altra quella che spinge a desiderare qualcosa, e quella deliberativa è veram ente la facoltà propria dell’essere vivente dotato di ragione, mentre quell’altra è propriamente dell’essere vivente, di conseguenza sono state assegnate parti del corpo adatte e corrispondenti alle varie facoltà. CCXXXI La facoltà razionale, in quanto facoltà che supera le altre per la sua eccellenza quasi regale, possie­ de quella che è, per così dire, la rocca e la reggia del corpo587, cioè la sede della testa, in cui risiede la parte principale dell’anima; e questa è stata costruita a somi­ glianza del mondo, rotonda e sferica588, incontaminata e separata dall’impurità che deriva dal nutrimento e dai cibi; e appunto in questa sede abitano anche i sensi, che sono come gli accompagnatori e i vessilliferi della ragio­ ne, in modo tale, evidentemente, che si prenda una decisione su quelle cose che vengono sentite dai sensi che la interrogano da vicino, e che anche l’intelletto, richiam ato dalla riflessione589, venga da essa facilmente portato a ricordarsi di tutte quelle cose che una volta conobbe e ricondotto dalla memoria di immagini al ricordo della rappresentazione della verità. Chi potreb­ be ignorare, infatti, che il rapporto che i sensi hanno con la riflessione è lo stesso che la riflessione ha con l ’intelletto? Giacché dalla congettura nasce l’opinione, e d a ll’opinione l ’intelletto, come insegna Platone nella R ep u b b lica 590. E facile com prendere i m isteri della natura da ciò che accade di frequente; infatti tutte le passioni del corpo che sono d’ostacolo alla mente e alla sua riflessione, nascono nella testa: il delirio, la perdita di m em oria, l ’epilessia, il furore e la passione bruciante causati dal velenoso fiele traggono origine dalla rocca della testa, non in modo tale che la mente e la sua rifles-

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mens deliberatioque eius laedatur proptereaque fiat obtunsior, sed quod organum morbo im peditum offi­ cium suum iuxta naturam implere non possit nec ani­ mae iussis occurrere cerebrique sedes nullam , opinor, fert passionem, prouenit enim passionis sensu hominis interitus. Quod si et ratio his quae uidentur et quae uidentur rationi testimonium inuicem praebent, utro­ que genere uerum sincerae fidei esse dogma Platonis probatur, quod animae uis principalis in cerebri locata sit sede. CCXXXII Illud uero aliud principale, quod secun­ dae dignitatis esse praedixim us, non rationabilis an i­ mantis, sed id ipsum animantis. Commune ergo ut ani­ malis in corde ac m edietate, ut uero rationabilis an i­ mantis in cerebro. Unde cetera quidem anim alia uno utuntur principali, quod in corde est, at uero homo duobus, uno in corde, altero in capite. Certe hominis m embra sequuntur ordinationem m undani corporis; quare si mundus animaque mundi huius sunt ordinatio­ nis, ut summitas quidem sit dimensa caelestibus hisque subiecta diuinis potestatibus quae appellantur angeli et daemones, [in] terra uero terrestribus, et im perant q ui­ dem caelestia, exequuntur uero angelicae potestates, reguntur porro terrena, prima summum locum obtinen­ tia, secunda medietatem, ea uero quae subiecta sunt imum, consequenter etiam in natura hominis est q uid­ dam regale, est aliud quoque in medio positum, est ter­ tium in imo, summum quod im perat, m edium quod agit, tertium quod regitur et administratur. Im perat igi­ tur anima, exequitur uigor eius in pectore constitutus,

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sione vengano danneggiate e perciò si indeboliscano, ma perché l’organo, impedito dalla malattia, non riesce a svolgere il suo compito secondo natura, né ad andare incontro agli ordini dell’anima; e la sede del cervello non riesce, credo, a sopportare nessun patimento: infat­ ti quando sente la passione, ha luogo la morte dell’uo­ mo591. Poiché se la ragione fa da testimone alle cose che si osservano e queste, a loro volta, fanno da testimoni alla ragione, in entrambi i modi si dimostra assolutamente degna di fede la dottrina di Platone, secondo cui la facoltà principale dell’anima è collocata nella sede del cervello592. CCXXXII Quanto poi a quell’altra parte principale d e ll’anim a, che, come abbiamo detto sopra, ha una d ignità inferiore, essa non è caratteristica dell’essere vivente dotato di ragione, ma dell’essere vivente in quanto tale. Dunque la parte comune, in quanto di esse­ re vivente, ha sede nella parte centrale e nel cuore, men­ tre quella comune all’essere vivente razionale ha sede nel cervello. Perciò gli altri esseri viventi si servono solo di una facoltà principale, quella che ha sede nel cuore, mentre l ’uomo di due, una che ha sede nel cuore e l’altra che ha sede nella testa. Le parti del corpo umano, certa­ mente, imitano la struttura del corpo dell’universo; per­ ciò, se il mondo e l’anima del mondo sono ordinati in maniera tale che la parte più alta sia senza dubbio distri­ buita ai celesti e soggetta a queste potenze divine chia­ m ate angeli e demoni, la terra, invece, ai terrestri; e, invero, le forze celesti ordinano, le potenze angeliche, poi, eseguono, le cose terrene, a loro volta, sono gover­ nate, e le prime occupano il luogo più alto, le seconde quello centrale, mentre quelle che sono sottoposte occu­ pano il luogo più basso, di conseguenza anche nella natura dell’uomo vi è qualcosa di regale, e ancora un’al­ tra cosa che sta in mezzo e una terza che sta nella parte più bassa; e la parte più alta governa, quella centrale agi­ sce, la terza è retta e governata. Dunque l’anima gover-

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reguntur et dispensantur cetera pube tenus et infra. CCXXXIII Atque hanc eandem ordinationem inuenimus etiam in libris Politiae. In quibus cum ea iustitia quaereretur qua homines aduersum se utuntur, haec porro tunc conualescit, cum animae potestates opificia sua recognoscunt nec aliena appetunt, ex unius hominis ingenio ad illustre duitatis et populi confugit exem ­ plum et de gentium disputat iustitia. Principales q ui­ dem urbis illius uiros ut prudentissimos sapientissimosque editiores urbis locos habitare iussit, post hos m ili­ tarem atque in armis positam iuuentutem, quibus subie­ rit sellularios atque uulgares, ut illi quidem ut sapientes praecepta dent, militares agant atque exequantur, u ul­ gares uero competens et utile praebeant m inisterium . Sic animam quoque ordinatam uidemus: rationabilem quidem partem eius, ut sapientissimam, principem p ar­ tem obtinentem tamquam totius corporis capitolium , uigorem uero qui est iracundiae sim ilis ut m ilitarem iuuentutem in cordis castris manentem, uulgare et sellu­ larium, quod est cupiditas seu libido, inferioribus abdi­ tum occultatumque natura. CCXXXIV «Cum igitur», inquit, «horum omnium consensus talis erit et quasi quaedam conspiratio, ut quod oportet praecipere recte officium suum compleat, huic pareat quod est dignitatis secundae, postrem um uero atque ultimum morem gerat melioribus, tunc non solum hominum uita sed etiam ciuitatum et gentium erit laudabilis et apprime beata.» Ex quibus ostendit Plato ueram hominis proprietatem in capite consistere, cuius species sit mundi formae simillima, et quod ger­ m ana sustentetur anima u iu ifican tis an im ae corpus

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na, la sua forza vitale posta nel petto esegue, e le altre parti fino all’inguine e al disotto sono rette e regolate. CCXXXIII E questo medesimo ordinamento lo tro­ viamo anche nei libri della Repubblica593. E poiché in essi viene ricercata quella giustizia di cui gli uomini si servono nei loro rapporti, e questa inoltre si rafforza quando le facoltà dell’anima riconoscono i loro compiti senza aspi­ rare a quelli delle altre594, dalla natura di un solo uomo passa all’esempio chiaro della città e del popolo e tratta della giustizia dei popoli. Stabilisce appunto che gli uom ini più importanti di quella città, in quanto i più saggi e sapienti, ne occupino i posti più elevati, e dopo questi venga la gioventù militare e armata; a costoro poi sottomette gli artigiani e la gente comune, in modo tale che i primi, in quanto sapienti, dettino le regole, i militari le esercitino e le facciano valere, e la gente comune offra poi dei servizi adatti e utili. Allo stesso modo vediamo che è ordinata anche l’anima: la sua parte razionale, infat­ ti, in quanto è la più sapiente, occupa il luogo principale, che è come il Campidoglio dell’intero corpo, la forza vitale, che è simile alla collera, rimane, come i giovani militari, negli accampamenti del cuore, la parte volgare e, per così dire, operaia, cioè il desiderio o passione, è rele­ gato nelle parti più basse e nascosto per sua natura. CCXXXIV “Quando dunque”, dice, “vi sarà un tale accordo e, per così dire, una sorta di unanime concor­ d ia tra tu tte queste parti, per cui quella che deve com andare svolgerà giustamente il suo compito, e quel­ la che è seconda per importanza obbedirà ad essa, e anche l ’ultim a e la più bassa agirà secondo la volontà delle m igliori, allora non soltanto la vita degli uomini, ma anche quella delle città e dei popoli sarà degna di lode e molto felice”595. Da ciò Platone dimostra che la vera caratteristica dell’uomo è posta nella testa, la cui im m agine è assai simile alla forma del mondo, e che la testa è sostenuta dall’anima che è sorella di quell’anima

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uniuersae rei, cuique cuncta cognitionis rerum instru­ menta, sensus uidelicet, adiuncta sint, quo quae aguntur extra indicio uicinorum sensuum mens assequatur. Quibus quidem sensibus minime fuit opus m undo quippe nihil extra ambitum mundi est aut agitur - , at uero perfectae hominis instructioni sunt sensus admo­ dum necessarii, quia initium et quasi quaedam intelle­ gendi sapiendique semina sunt in sentiendo. CCXXXV D einde causam dem onstrat cur cap iti cetera membra subiecta sint. «O portebat», inquit, «an i­ mal terrenis negotiis praefici, terrae autem superficies iniqua ex parte maxima decliuibus et item accliuibus impedimentis. Erat igitur impossibile motu capitis natu­ rali, hoc est globosa decursione, terras obiri proptereaque diuinae potestates uehiculum consimilis eiusdemque naturae capiti ceterum corpus et quae motui futura erant necessaria membra subtexuerunt, quo rationis domicilium ceteris emineret», quodque ex translatiuis motibus quaedam est praecedendi coniugatio, retro quidem , unde est exordium m otus, ante autem , ad quod fit impetus. «Praecedendi officium comm odius», inquit, «uisum est quam recedendi», opinor ideo, quia mundi quoque motus agitur in antecedentia naturaeque animalium congruentius progredi quam recessim moueri; totius denique corporis conformatio prouida naturae sollertia sic ordinata est ore uultuque ad praecedentia uersum locata, ducibus quoque ad spatiandum sensibus prorsum spectantibus.

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che dà vita al corpo dell’universo, e che a questa sono congiunti tutti gli strumenti della conoscenza, cioè i sensi, in modo che la mente possa comprendere le cose che si svolgono al di fuori, grazie alla testimonianza dei sensi ad essa vicini. E invero per il mondo non vi fu bisogno di questi sensi596 - infatti nulla esiste o si svolge al di fuori del mondo597, ma al contrario i sensi sono quanto mai necessari alla perfetta istruzione dell’uomo, poiché l ’origine e i primi germogli, per così dire, del comprendere e del sapere si trovano nella sensazione. CCXXXV Spiega quindi il motivo per cui le altre p a rti d el corpo sono sottoposte alla testa. E dice: «Bisognava che l’essere vivente fosse messo a capo delle cose terrene, ma la superficie della terra era in grandissi­ ma parte disagevole, a causa degli ostacoli costituiti da pendìi e avvallamenti. Perciò era impossibile per il movi­ mento naturale della testa, vale a dire il rotolare che è proprio della sfera, percorrere la terra e perciò le poten­ ze divine aggiunsero alla testa il resto del corpo come veicolo di natura simile e identica e quelle membra che sarebbero state necessarie al movimento, in modo tale che la sede della ragione fosse posta sopra le altre»598, e quello, tra i movimenti di spostamento, che è per così dire un’unione che porta ad avanzare, e si svolge da die­ tro, da dove il moto ha inizio, in avanti, verso dove si dirige l ’impulso. Il movimento in avanti, dice, sembrò più opportuno di quello all’indietro599, per questo moti­ vo, credo, che anche il movimento del mondo si svolge in avanti ed è più conforme alla natura degli esseri viven­ ti and are in avanti piuttosto che muoversi a ritroso. Infine la natura previdente e ingegnosa ordinò allo stesso modo l ’intera conformazione del corpo e la dispose con il viso e lo sguardo in avanti, con i sensi che, guardando in avanti, facevano da guida anche per camminare.

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uniuersae rei, cuique cuncta cognitionis rerum instru­ menta, sensus uidelicet, adiuncta sint, quo quae aguntur extra indicio uicinorum sensuum mens assequatur. Quibus quidem sensibus minime fuit opus m undo quippe nihil extra ambitum mundi est aut agitur - , at uero perfectae hominis instructioni sunt sensus admo­ dum necessarii, quia initium et quasi quaedam intelle­ gendi sapiendique semina sunt in sentiendo. CCXXXV Deinde causam dem onstrat cur cap iti cetera membra subiecta sint. «Oportebat», inquit, «an i­ mal terrenis negotiis praefici, terrae autem superficies iniqua ex parte maxima decliuibus et item accliuibus impedimentis. Erat igitur impossibile motu capitis natu­ rali, hoc est globosa decursione, terras obiri proptereaque diuinae potestates uehiculum consimilis eiusdemque naturae capiti ceterum corpus et quae motui futura erant necessaria membra subtexuerunt, quo rationis domicilium ceteris emineret», quodque ex translatiuis motibus quaedam est praecedendi coniugatio, retro quidem , unde est exordium m otus, ante autem , ad quod fit impetus. «Praecedendi officium commodius», inquit, «uisum est quam recedendi», opinor ideo, quia mundi quoque motus agitur in antecedentia naturaeque animalium congruentius progredi quam recessim moueri; totius denique corporis conformatio prouida naturae sollertia sic ordinata est ore uultuque ad praecedentia uersum locata, ducibus quoque ad spatiandum sensibus prorsum spectantibus.

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che dà vita al corpo dell’universo, e che a questa sono congiunti tutti gli strumenti della conoscenza, cioè i sensi, in modo che la mente possa comprendere le cose che si svolgono al di fuori, grazie alla testimonianza dei sensi ad essa vicini. E invero per il mondo non vi fu bisogno di questi sensi596 - infatti nulla esiste o si svolge al di fuori del mondo597, ma al contrario i sensi sono quanto mai necessari alla perfetta istruzione dell’uomo, poiché l ’origine e i primi germogli, per così dire, del comprendere e del sapere si trovano nella sensazione. CCXXXV Spiega quindi il motivo per cui le altre p a rti d el corpo sono sottoposte alla testa. E dice: «Bisognava che l’essere vivente fosse messo a capo delle cose terrene, ma la superficie della terra era in grandissi­ ma parte disagevole, a causa degli ostacoli costituiti da pendìi e avvallamenti. Perciò era impossibile per il movi­ mento naturale della testa, vale a dire il rotolare che è proprio della sfera, percorrere la terra e perciò le poten­ ze divine aggiunsero alla testa il resto del corpo come veicolo di natura simile e identica e quelle membra che sarebbero state necessarie al movimento, in modo tale che la sede della ragione fosse posta sopra le altre»598, e quello, tra i movimenti di spostamento, che è per così dire un’unione che porta ad avanzare, e si svolge da die­ tro, da dove il moto ha inizio, in avanti, verso dove si dirige l ’impulso. Il movimento in avanti, dice, sembrò più opportuno di quello all’indietro599, per questo moti­ vo, credo, che anche il movimento del mondo si svolge in avanti ed è più conforme alla natura degli esseri viven­ ti andare in avanti piuttosto che muoversi a ritroso. Infine la natura previdente e ingegnosa ordinò allo stesso modo l ’intera conformazione del corpo e la dispose con il viso e lo sguardo in avanti, con i sensi che, guardando in avanti, facevano da guida anche per camminare.



CXXXVI Dehinc subtexit de sensibus et organis sentiendi et incipit ab optimo praeclarissim oque sen­ suum omnium uisu, causas quibus uidemus edisserens. Sed quoniam de hoc plerique alii post ipsum opiniones uarias libris conditis sunt executi, eas quae sunt in honore perstringam, quo perfectior propositae rei trac­ tatus habeatur. Omnes qui rerum initia corpora censuerunt uel coetu innumerabilium m inutorum congesto inani uel perpetuorum continuata proceritate, dicunt uidere nos simulacrorum incursionibus; fluidam quippe materiem formatas iuxta sui similitudinem exudare sub­ tiles corporum fusiones, quae sunt uisibilium simulacra rerum, eaque cum uisus noster in cu rrerit, hausta et recepta meatibus transmittat ad eum per quem senti­ mus spiritum; cumque delicatior sim ulacri moles erit, separatur panditurque uisus, opinor, et candida tunc quae sentiuntur uidentur, si corpulentior, confundunt aciem et uidentur atra, atque ad eundem modum cetera formata et colorata pro formarum et colorum cognatio­ ne. Multaque ab his dicuntur alia in eundem modum, quibus singulis immorandum non erit. CCXXXVII At uero H eraclitus intim um m otum , qui est intentio animi siue animaduersio, porrigi dicit per oculorum meatus atque ita tan gere tractareq u e uisenda. Stoici uero uidendi causam in natiui spiritus

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CCXXXVI Aggiunge quindi qualcosa sui sensi e sugli organi del senso e comincia dal migliore e dal più nobile tra tutti i sensi, quello della vista600, illustrando con ricchezza di particolari le cause per cui vediamo. Ma poiché su questo argomento moltissimi altri, dopo di lui, hanno scritto libri in cui hanno esposto opinioni diverse, accennerò a quelle che sono tenute in qualche considerazione, affinché la trattazione dell’argomento sia considerata più valida. Tutti coloro che ritengono che gli elementi iniziali delle cose siano corpi601, o per­ ché il vuoto si è riempito in seguito all’aggregazione di innum erevoli minuscole particelle, o per l’estensione priva di interruzioni degli elementi eterni, sostengono che noi vediamo a causa della collisione con le immagi­ ni602; dicono infatti che la materia, che è instabile, emet­ ta dei sottili flussi di corpi, formati a sua somiglianza, che sono le immagini dei corpi visibili, e che quando la nostra vista si imbatte in essi, li assorbe e li accoglie nei suoi passaggi603 e li trasmette allo spirito attraverso cui riceviamo le sensazioni604; e se la massa dell'immagine è più fine, la vista si dilata e si dispiega, e gli oggetti per­ cepiti vengono visti chiari, se è più spessa, gli oggetti confondono lo sguardo e vengono visti scuri, e allo stes­ so modo le altre cose appaiono in forme e colori diversi a seconda del rapporto con le forme e i colori. Ed essi dicono molte altre cose simili a queste, ma non sarà il caso di soffermarsi su ognuna di esse. CCXXXVII Eraclito invece, afferma che è un moto intim o, cioè una tensione o un’attenzione dell’animo, che si protende attraverso i passaggi degli occhi e giun­ ge così a toccare e ad esaminare gli oggetti della vista605. M a gli Stoici pongono la causa del vedere in una ten-

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intentione constituunt, cuius effigiem coni sim ilem uolunt. Hoc quippe progresso ex oculorum penetrali, quae appellatur pupula, et ab exordio tenui, quo magis porrigitur, in soliditatem opimato exordio, penes id quod uidetur locata fundi omnifariam dilatarique uisus illustratione. Quodque omnis natura modo mensuraque moueatur, spatii quoque magnitudinisque coni modum fore eaque, quae neque u ald e a p p lic a ta u isu i nec nimium distantia, uisibilia clare uideri; certe conum ipsum pro modo m ensuraque intentionis au geri, et prout basis eius uel directa uel inflexa erit incidetque in contemplabilem speciem, ita apparebunt quae uidentur. Oneraria quippe nauis eminus uisa perexigua apparet deficiente contem plationis uigore nec se per om nia nauis membra fundente spiritu; turris item quadrata rotunditatem simulat cylindri, atque etiam ex obliquo uisa porticus in exile deficit oculorum deprauatione. Sic etiam stellarum ignis exiguus apparet atque ipse sol multis partibus quam terra maior intra bipedalis diam e­ tri ambitum cernitur. Sentire porro m entem p u tan t perinde ut eam pepulerit spiritus, qui id quod ipse pati­ tur ex uisibilium specierum concretione mentis intimis tradit, porrectus siquidem et ueluti patefactus candida esse denuntiat quae uidentur, confusus porro et confaecatior atra et tenebrosa significat; similisque eius passio est eorum, qui marini piscis contagione torpent, siqui­ dem per linum et harundinem perque m anus serpat uirus illud penetretque intimum sensum.

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sione dello spirito naturale, che secondo loro ha una forma simile a un cono606. Esso, infatti, procede dalla parte più interna dell’occhio, che si chiama pupilla, e, cominciando con un inizio sottile, quanto più si proten­ de, tanto più quel primo inizio aumenta di densità e concretezza e la pupilla, posta accanto a ciò che si vede, si espande da ogni parte, e la vista si dilata con la lumi­ nosità. E poiché ogni natura si muove secondo un’esten­ sione e una misura, vi sarà anche una misura della lun­ ghezza e d e ll’ampiezza del cono e si vedranno e si distingueranno chiaramente le cose che non stanno troppo accostate alla vista, né troppo lontane607; e certa­ mente anche il cono si accresce a seconda del modo e d ell’entità della tensione e, a seconda che la sua base sarà posta in linea dritta o piegata e incontrerà l’immagi­ ne visibile, conformemente a ciò appariranno le cose che si vedono. Infatti una nave da carico, vista da lonta­ no, sem bra piccolissima, poiché viene a mancare la potenza della capacità di vedere608 e lo spirito non si estende a tutte le parti della nave; allo stesso modo, una torre quadrangolare si mostra rotondeggiante609 come un cilindro, e anche un portico, visto di lato, si rimpic­ ciolisce e si restringe610 per la deformazione dovuta agli occhi. Così anche la luce infuocata delle stelle appare debole e persino il sole, che è molte volte più grande della terra, si vede in uno spazio circolare del diametro di due piedi. Essi ritengono inoltre che la mente riceva le sensazioni a seconda di come sia stata colpita dallo spirito che trasmette alle parti più interne della mente ciò che esso stesso subisce in seguito all’aggregazione delle immagini visibili, se è vero che quando è disteso e come spalancato, annunzia che le cose che si vedono sono chiare, m entre quando è confuso e non puro dichiara che sono scure e buie; subisce qualcosa di simi­ le a ciò che subiscono quelli che perdono la sensibilità a causa del contatto con un pesce del mare, se capita che, attraverso la rete o la canna o le mani, il veleno si insinui e penetri fin nel profondo della facoltà di sentire611.

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CCXXXYI1I Geometrae cum Peripateticis conci­ nentes radii effusione uisum operari putant, cum per fulgidam lucidamque pupulae stolam in directum em i­ cans radius serenam porrigit lineam, quae gyris oculo­ rum circum uecta m otibus dispergat un diq ue lucem contemplationis; quippe teres et leuis oculi globus et humori lubrico uelut innatans sequacem lineam uisus utrobique tacile contorquet. Ergo notae geom etricae comparant quod uidetur et illuc uersum ferri censent uisus intentionem , sed ob nim iam rep en tin am q u e conuersionem omnia uideri per illustrem contuentis superficiem putant, ut cum in theatro alioue quolibet conuentu popularis multitudinis decursis strictim uultuum partibus totum populum uidere nobis uidemur. CC X X X IX Idem aiunt u id ere nos u el tu itio n e , quam phasin uocant, uel intuitione, quam em phasin appellant, uel detuitione, quam paraphasin nominant. Tuitione quidem, ut quae simpliciter et prompte uidentur quaeque clementer uisum recipientia minime eum a se repellunt, ut flexus quin immo fractus rursum ad oculos redeat. Intuitione uero, ut quae fragmento radii recurrente ad oculorum aciem uidentur, q u alia sunt quae in speculis et aqua considerantur, ceteris item , quorum tersa est quidem superficies, sed ob nim iam densitatem idoneus uigor ad repellendum quod offen­ derit. Ergo etiam radius, in quo est uis uidendi, fractus in speculo facit angulum, quem contineant duae lineae,

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CCXXXVIII Gli studiosi di geometria, d'accordo con i Peripatetici612, ritengono che la vista sia operata d a ll’emissione di un raggio, quando il raggio, che si sprigiona in linea retta attraverso il rivestimento splen­ dente e luminoso della pupilla, protende una limpida traiettoria che, spaziando tutto intorno grazie ai movi­ menti circolari degli occhi, in virtù di questi movimenti, sparge da ogni parte la luce della vista; infatti il globo oculare, che è tondo e liscio e come immerso in una sostanza liquida e mobile, volge nell'una e nell'altra direzione e con facilità la flessibile traiettoria della vista. D unque associano ciò che si vede alla figura geometrica e pensano che la tensione della vista si volga verso quel punto, ma credono che, quando l'occhio si volge in maniera brusca e improvvisa, tutto si veda, attraverso la lucida superficie di colui che osserva, come quando a teatro o in qualche altro luogo molto affollato, se per­ corriamo con lo sguardo, di sfuggita, porzioni di volti, ci sembra di vedere la folla nel suo insieme. CCXX XIX Dicono anche che noi vediamo o per «visio n e d iretta», che essi definiscono phasis, o per visione riflessa, e a questa danno il nome di emphasis , o per visione in trasparenza, che chiamano paraphasis. Ed evidentemente si ha la visione diretta per quegli oggetti che si vedono in maniera semplice e immediata e che. accogliendo gradualmente lo sguardo, non lo respingo­ no da sé, in modo che torni indietro, agli occhi, deviato, anzi addirittura spezzato. Si ha poi la visione di riflesso per quelle cose che si vedono perché una parte del rag­ gio torna alla pupilla, come accade per gli oggetti che si vedono negli specchi, sull’acqua e allo stesso modo in tutto ciò che ha, sì, una superficie nitida, ma, per l'ec­ cessivo spessore, una potenza capace di respingere ciò che incontra. Dunque anche il raggio in cui consiste la facoltà della vista, sullo specchio si spezza e forma un angolo compreso tra due rette, una che parte dall’oc-

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una quae ab oculo profecta peruenit ad speculum, alte­ ra quae a speculo recurrit ad uultum; qui quidem angu­ lus. cum erit acutus, imaginem uultuum nostrorum facit in speculo uideri remeante ad uultum acie atque inde occulte praecipitante simulacrum in speculi sinum, ex quo fit, ut uultus noster transisse ad speculum putetur. Quomodoque simulacrum e speculo resultans e diuerso uidetur consistere, perinde ac si duo contra stantes dex­ tras partes sin istris, sin istras item d e x tris o b u ias habeant, sic aduersum nos imagines nostrae dextras et sinistras partes cum immutatione dem onstrant. Idem angulus acutus, si ex aliqua conuersione uel immutata qualitate positionis erit acutior et procerior factus, lon­ gius euagatus cuncta quae retro nos sunt in speculo uideri facit; quod si non acutus sed rectus erit angulus, tunc ea quae ad directum rigorem supra nos erunt uidebuntur, sin uero hebes et latior, ea quae contra nos excelsiora sunt apparebunt. CCXL Nullo porro angulo facto nec fracto radio nulla in speculis dumtaxat imago proueniet ut in globo­ sis et sphaerae similibus uasis. At uero si talis erit specu­ li figura, ut sit eius concaua superficies et tornata in modum scapii quadrati uel imbricis, dehinc intueam ur hoc idem speculum ita conuersum, ut rectus cernatur imbrex, margines porro eius seu supercilia hinc illinc pro lateribus assistant, tunc, opinor, radius incidens et infractus ob leuem speculi rigidam que soliditatem in proximum latus eius delabitur in decim ani apicis effi­ giem. Ita dextri lateris im agine in sinistrum , sin istri etiam in dextrum ob em inentiam m arginis utriusqu e

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chio e arriva allo specchio, e l’altra che dallo specchio torna al volto. E quando poi quest’angolo è acuto, fa sì che nello specchio si veda l’immagine del nostro volto, poiché lo sguardo torna al volto e da lì, senza che lo si veda, fa ricadere l’immagine all’interno dello specchio, per cui avviene che si creda quasi che il nostro volto sia passato nello specchio. E dal modo in cui l’immagine risulta dallo specchio, sembra che sia fatta al contrario; come, se due persone stanno una di fronte all’altra, si trovano le parti destre davanti alle sinistre e, allo stesso m odo, le sinistre davanti alle destre, così le nostre immagini, tornando a noi, mostrano le parti destre e le sinistre rovesciate. Se poi lo stesso angolo acuto, in seguito a un cambiamento di direzione o ad uno sposta­ mento, diviene più acuto e stretto e si estende ancora di più in lunghezza, fa sì che nello specchio si vedano tutte le cose dietro di noi. E se quest’angolo non sarà acuto, ma retto, allora si vedranno le cose che stanno esatta­ mente sopra di noi in linea retta, mentre, se sarà ottuso e più largo, apparirà ciò che sta di fronte a noi e più in alto. CCXL Ancora, se non si forma nessun angolo e il raggio non si spezza, negli specchi non apparirà certa­ mente nessuna immagine, come nei vasi rotondi e sferi­ ci. M a se poi la configurazione dello specchio sarà tale che la sua superficie sia concava e modellata a mo’ di cilindro regolare o di embrice, e inoltre, se questo spec­ chio, appunto, noi lo guardiamo girato in modo che questo em brice si veda in posizione verticale e che i suoi m argini o orli, poi, siano posti lateralmente, allora, credo, il raggio che vi cade sopra e si spezza, a causa della consistenza liscia e compatta dello specchio, scivo­ la sul lato più vicino e prende la forma della lettera che indica il numero dieci613. Infatti, poiché l’immagine del lato destro viene respinta a sinistra e quella del lato sini­ stro a destra, a causa della sporgenza di entrambi i mar-

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deiecta dextrae partes nostrae etiam in speculo dextrae sinistraeque item sinistrae uidebuntur et erit imaginis falsae remedium imago falsa. Hoc idem speculum si demum ita erit aduersum nos locatum, ut eminentium marginum alter superior sit, alter inferior, nec rectus sed obliquus cernatur imbrex, resupinas ostentat im agi­ nes et simulacra praepostera ob similem lapsum fracti radii per accliuia; directus quippe uisus ad sp eculi supercilia cum quidem superiorem conspexerit eminen­ tiam, deicitur simulacrum ad ima resupinum, cum uero inferiorem, facit saltum uultus ad marginem superio­ rem. CCXLI Indicat porro causam prauae intuitionis fore in radii fragmine commentum tale. Etenim si duo spe­ cula sic collocentur, ut unum sit ante uultum, alterum a tergo, obliquatum, ne impediatur obiectu corporis uisus radii commeantis, tunc occipitium nostrum uidemus in speculo quod habetur a tergo; quod non fieret, nisi radius uisualis applicans se ad speculum aduersum fractusque eius obiectu faceret angulum , ex quo rursum recurrens in posterius se speculum arietaret rursum que illic angulo facto desineret in occipitii sedem. A tque ita quod uero uisu non sentitur, discursantis aciei lum ine proditur. Sim iliter cum in m odum sectae co n cau ae sphaerae formatum erit speculum, maiores ueris uultus apparent ideo quod undique se fundente radii lum ine uelut exaestuans imago porrigitur.

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gini, le nostre parti destre appariranno destre e, allo stesso modo, le sinistre appariranno sinistre anche nello specchio e un’immagine falsata costituirà il rimedio a u n ’altra immagine falsata614. Infine, se questo stesso specchio sarà collocato di fronte a noi, in modo che, dei margini che sporgono, l’uno sia posto in alto e l’altro in basso e l’embrice si veda messo di fianco, esso mostrerà le immagini capovolte e le figure rovesciate, sempre a causa dello scivolamento del raggio spezzato sui lati in pendenza; infatti, dirigendo lo sguardo in linea retta verso gli orli dello specchio, quando esso si volge appunto verso la sporgenza superiore, viene rigettata un immagine capovolta verso il basso, quando invece guar­ da la sporgenza inferiore il volto balza sul margine superiore615. CCXLI Ed egli spiega che il motivo di questo rifles­ so distorto dipende dallo spezzarsi del raggio, con il seguente esperimento. Poniamo infatti che si collochino due specchi in questo modo: uno davanti al volto e l’al­ tro dietro le spalle, inclinato in modo che il corpo, posto in mezzo, non sia d’ostacolo al raggio della vista che va e viene; vediamo allora la nostra nuca nello spec­ chio che si trova dietro di noi. E questo non accadrebbe se non fosse che il raggio della vista, volgendosi allo specchio posto davanti e spezzato dall’incontro con esso, forma un angolo, dal quale poi torna di nuovo indietro e va a colpire lo specchio posto dietro, e anco­ ra, formato un angolo su quello, va a finire dove si trova la nuca. E così quello che non viene effettivamente per­ cepito dalla vista, viene rivelato dalla luce dello sguardo che si muove da ogni parte. Similmente, quando lo specchio sarà fatto a forma di una semisfera concava, i volti appaiono più grandi di come sono in realtà, per questo motivo, che, poiché la luce del raggio si propaga d ap p ertu tto , l ’im m agine, quasi come fluttuando, si estende.

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CCXLII Quae autem paraphasis ab his appellatur, prouenit quotiens non in cute speculi, sed introrsum et tamquam in penetralibus simulacrum inuenitur obum ­ brante aliqua nigredine, ut in pellucidi quidem sed fusci uitri lam ina uel stagnis atris ex alto profundo; tunc quippe uisus ingreditur non adeo densam cutem et uidet interiora, sed non adeo clare. Infringitur tamen radius ob tersam pellucidae m ateriae superficiem et obumbrationem atri coloris usque adeo, ut ipsi etiam nosmet uidentes intra speculum nosmet putemus consi­ stere nec os nostrum e speculo sed intra speculum uidere. Quae causa est ut, cum accedim us ad speculum , imago etiam proxim are et, cum redim us, illa etiam uideatur una recedere. CCXLIII Idem unum esse radium qui ex utroque oculo porrigitur argum entantur ex ea passione quae hypochysis dicitur et ex uisu eorum qui duplicia uidere creduntur et habere pupulas binas. Etenim cum crassus humor ita oculos obsederit, ut non omnem eorum occupauerit et obtexerit ambitum, sed in medietate constite­ rit liberis hinc inde partibus uisus, tunc scisso radio diuiditur bifariam uisus et qui hoc uitio laborant d u p li­ cia uidere se censent. Ergo etiam in gem inis pupulis idem uitium medicorum detegit experientia; nam que bicori naturali quidem pupula recte quae sunt uident, illa uero aha simulacra rerum. Quapropter m edici quod plus est quam natura desiderat tollunt et illam praeter naturam pupulam interim unt im posita cicatrice; quo

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CCXLII Quanto poi a quel tipo di visione che chia­ mano paraphasis, essa si produce ogni volta che l’imma­ gine si trova non sulla superficie dello specchio, ma dentro di esso e come nelle parti piu interne, nascosto da una qualche oscurità, come avviene appunto sulla lastra di un vetro trasparente, ma offuscato, o negli sta­ gni scuri per la grande profondità; allora infatti, la vista non penetra fino a tal punto la superficie spessa, vede le cose che stanno all’interno, ma non così chiaramente. Tuttavia il raggio si spezza a causa della superficie nitida della materia trasparente e dell’oscurità del colore nero, al punto che, anche quando guardiamo noi stessi ci pare di trovarci dentro lo specchio e di non vedere il nostro volto riflesso dallo specchio, ma dentro di esso. E que­ sto è il motivo per cui, quando ci avviciniamo a uno specchio, pare che anche l’immagine si avvicini e quan­ do torniamo indietro, pare che essa nello stesso tempo si allontani. C C X L III Essi inoltre adducono come prova del fatto che uno solo sia il raggio che si protende da entram bi gli occhi, la malattia chiamata «ipochisi»616 e il modo di vedere di quelle persone che si crede vedano doppio e abbiano due pupille per ciascun occhio. E infatti, quando un umore denso ricopre gli occhi, non in modo tale da riempirne e nasconderne tutta forbita, ma da ferm arsi nella parte centrale, lasciando libere, d all’uno e dall’altro lato, parti della vista, allora, poiché il raggio si spezza, la vista si divide in due direzioni e quelli che soffrono di questo difetto pensano di vedere doppio. Così anche nelle doppie pupille l'esperienza dei m edici scopre il medesimo difetto; e infatti, quelli che hanno due pupille vedono con la pupilla naturale gli oggetti, in modo normale, e con quell'altra vedono delle im m agini degli oggetti. Perciò i medici eliminano ciò che è un di più di quel che la natura richiede e, arrecan­ do una ferita, distruggono la pupilla che è superflua

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facto reuocatur uisus naturalis integritas. Hae sunt de uisu probatae sententiae ueterum , qui m ihi uidentur acceptis occasionibus a Platone suum proprium fecisse dogma. Nam cum ille perfectam rationem a ttu le rit docueritque tam ipsam causam uidendi quam cetera quae causam sequuntur atque adiuuant et sine quibus non potest uisus existere, iuniores sumptis ex plena sen­ tentia partibus de isdem partibus tamquam de uniuersitate senserunt proptereaque, ut qui uera dicant, merito mouent; sed quia nulla partis perfectio est, aliquatenus succidunt, ut exposita Platonis sententia res ipsa mon­ strabit. CCXLIV Censet enim Plato lumen ex oculis profun­ di purum et liquatum, quod sit uelut flos quidam ignis intimi nostri habens cum solstitiali lumine cognationem, solis porro lumen instrumentum animae fore ad uisibilium specierum contemplationem, siquidem ad oculos feratur, quorum leuigata soliditas et tersa rotunditas, utpote munita tunicis textis tenui neruorum subtemine, fert facile obuiam lucem. Medietas uero, in qua consti­ tuitur uidendi uis, delicati corporis et sincerae propemodumque incorporeae puritatis adm ittit contem pla­ tionis ingressum; causaque principalis uidendi lum en est intimum, nec tamen usque quaque perfecta et suffi­ ciens ad muneris competentis perfunctionem. Opus est quippe adiumento cognati extimi luminis, m axim e q ui­ dem solstitialis, alias tam en etiam eorum quae solis lumen imitantur. Igitur extimum lumen accorporatum lumini quod ex oculis fluit confirmat illud et facit ido-

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rispetto alla legge di natura. Una volta fatto questo, viene riportata la naturale integrità della vista. Queste sono le opinioni accettabili che gli antichi avevano riguardo alla vista; e mi pare che essi, quando hanno avuto l ’occasione, abbiano ricavato la loro propria dot­ trina da quelle di Platone. E infatti, avendo egli perfet­ tamente spiegato il motivo e mostrato non solo la causa stessa della vista, ma anche i fenomeni conseguenti ad essa e che ad essa contribuiscono e senza cui non può esistere la vista, i successori scelsero alcune parti dall’in­ tera dottrina, e giudicarono quelle parti come la totalità, e perciò a ragione ti colpiscono, come se dicessero cose vere; ma poiché non esiste la perfezione di ciò che è parziale, in qualche misura sbagliano, come i fatti stessi dimostreranno una volta esposto il pensiero di Platone. CCXLIV Platone infatti ritiene che dagli occhi sgor­ ghi una luce limpida e pura, la parte più nobile, per così dire, del fuoco che è dentro di noi, e che ha un rappor­ to di parentela con la luce del sole617; la luce del sole, a sua volta, sarà lo strumento di cui l’anima si serve per la contem plazione delle immagini visibili, dal momento che giunge fino agli occhi, la cui struttura liscia e com­ patta, lim pida e rotonda, in quanto protetta da rivesti­ m enti formati da un sottile tessuto di nervi, sopporta facilm ente la luce che viene incontro. La parte centrale, poi, in cui è posta la facoltà della vista, dotata di una sostanza delicata e di una purezza limpida e quasi incor­ po rea, perm ette l ’inizio della osservazione618; ma la causa fondamentale della vista è la luce interna, né tut­ tavia essa è assolutamente perfetta e capace di svolgere pienam ente la funzione che le compete. Vi è bisogno, infatti, dell’aiuto della luce sorella, quella che sta al di fuori, della luce del sole soprattutto, ma, alcune volte, anche di quelle altre luci che imitano la luce del sole. A llora la luce esterna, unitasi a quella che scaturisce dagli occhi, la rafforza e la rende capace di scorrere

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neum obtutibus fluere proptereaque ducit ex ipsis cor­ poribus quae uidentur colores. Colorem porro p ro ­ prium esse uisus sensum quis nesciat? Flamma est igitur quaedam, inquit, corporum color infundens sup erfi­ ciem; quae cum erit aequalis oculorum capacitati, m ani­ festa sunt atque erunt quae uidentur, cum uero minor, clara et candida, ut quae patulus et apertus uisus adm it­ tat; si uero maior erit color qui ex corporibus euaporatur quam est oculorum ambitus, tegitur confunditurque acies et quae uidentur atri coloris uidentur. CCXLV Tribus ergo his concurrentibus uisus existit trinaque est ratio uidendi: lumen caloris intimi per ocu­ los means, quae principalis est causa, lumen extra posi­ tum, consanguineum lumini nostro, quod simul opera­ tur et adiuuat, lumen quoque, quod ex corporibus uisibilium specierum fluit, flamma seu color, qui perinde est atque sunt omnia sine quibus propositum opus effici non potest, ut sine ferramentis quae sunt operi faciendo n ecessaria; quorum si quid d eerit, im p e d iri u isum necesse est. CCXLVI His tam plene tamque diligenter elaboratis iuniores philosophi, ut non optimi heredes paternum censum in frusta dissipantes, perfectam atque uberem sententiam in mutilas opiniunculas ceciderunt. Q uare faciendum, ut ad certam explorationem Platonici dog­ matis commentum uetus aduocetur medicorum et item physicorum , illu striu m sane u iro ru m , q ui ad co m ­ prehendendam sanae naturae sollertiam artus hum ani corporis facta membrorum exectione rimati sunt, quod existimabant ita demum se suspicionibus atque opinio-

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attraverso gli occhi e percio trae i colori dai corpi che si vedono. Chi potrebbe ignorare d’altra parte che il colo­ re sia una percezione propria della vista? «Il colore è dunque una specie di fiamma che pervade la superficie dei corpi»619. E quando questa sarà uguale alla capacità visiva, le cose che si vedono sono e saranno visibili chia­ ram ente620, quando poi sarà minore di essa, chiare e candide, tali da essere accolte da una vista ampia e dila­ tata; ancora, se il colore che promana dai corpi sarà m aggiore di quello che l’occhio può abbracciare, lo sguardo si copre e si confonde e le cose che si vedono si vedono di colore scuro621. CCXLV La vista, perciò, ha origine da questi tre ele­ m enti che concorrono e tre sono le cause del nostro vedere: la luce del calore interno, che passa attraverso gli occhi, e questa è la causa principale; la luce esterna, legata da parentela alla nostra luce, che opera insieme e collabora con essa, e ancora una luce che fluisce dai corpi delle immagini visibili, una fiamma o colore, che è tale quale tutte le cose senza cui non si può compiere un lavoro intrapreso, allo stesso modo in cui non è pos­ sibile compiere un lavoro senza gli strumenti ad esso necessari: e se viene a mancare uno di essi, risulta neces­ sariam ente impedita la vista. CCXLVI Data dunque questa dottrina elaborata con tale completezza e precisione, i filosofi che succedettero a Platone, come degli eredi indegni che dilapidano il patrimonio paterno, fecero a pezzi una teoria completa e ricca, riducendola in pensierini senza capo né coda. Perciò, per mettere alla prova la dottrina platonica, biso­ gna fare in modo da ricorrere a quell’antico esperimento dei m edici e anche dei naturalisti, di certo uomini illu­ stri; questi, per comprendere l’ingegnosità della natura q u an d o è sana, esam inarono le membra del corpo um ano, avendo praticato un’amputazione: pensavano infatti che in questo modo, finalmente, sarebbero stati

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nibus certiores futuros, si tam rationi uisus quam uisui ratio concineret. Demonstranda igitur oculi natura est, de qua cum plerique alii tum Alcmaeo Crotoniensis, in physicis exercitatus quique primus exectionem aggredi est ausus, et C a llisth e n e s, A ris to te lis a u d ito r, et Herophilus multa et praeclara in lucem protulerunt: duas esse angustas semitas quae a cerebri sede, in qua est sita potestas animae summa et principalis, ad oculo­ rum cauernas meent naturalem spiritum continentes; quae cum ex uno initio eademque radice progressae ali­ quantisper coniunctae sint in frontis intimis, separatae biuii specie perueniant ad oculorum concauas sedes, qua superciliorum obliqui tramites porriguntur, sinuataeque illic tunicarum gremio naturalem humorem reci­ piente globos complent munitos tegmine palpebrarum , ex quo appellantur orbes. Porro quod ex una sede pro­ grediantur luciferae semitae, docet quidem sectio p rin ­ cipaliter, nihilo minus tamen intellegitur ex eo quoque, quod uterque oculus moueatur una nec alter sine altero moueri queat. Oculi porro ipsius continentiam in quat­ tuor membranis seu tunicis notauerunt disparili solidi­ tate; quarum differentiam proprietatem que si quis p er­ sequi uelit, maiorem proposita m ateria suscipiet lab o ­ rem. CCXLVII Interim uerbis Platonis expositis et quae sit in his naturalium arcanorum com prehensio atque expressio consideremus. Cum de sensibus loqueretur, quos capitis instrumenta esse dixerat, addidit: «E q u i­ bus primi luciferi oculorum orbes coruscant, et mox: Duae sunt, opinor, uirtutes ignis, altera edax et peremp-

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più sicuri che basandosi su sospetti e opinioni, nel caso in cui la visione diretta concordasse con la scienza e la scienza con la visione diretta. Bisogna dunque che si spieghi la conformazione naturale dell’occhio; e riguar­ do ad essa, oltre a molti altri, svelarono tante cose importantissime specialmente Alcmeone di Crotone622, studioso esperto in scienze naturali e che, per primo, e b b e il co ragg io di tentare un’am putazione, e C allistene623, discepolo di Aristotele, ed Erofilo624: vi sono due angusti sentieri che dal cervello, in cui risiede la facoltà più nobile e importante dell’anima, giungono fino alle orbite oculari e racchiudono all’interno lo spiri­ to naturale; ed essi, partendo dallo stesso punto iniziale e dalla medesima radice, pur trovandosi per un po’ uniti nelle parti più interne della fronte, separandosi con una specie di biforcazione, arrivano alle concave sedi degli occhi, laddove si estendono le curve vie delle sopracci­ glia, e lì si piegano e, mentre la cavità delle membrane riceve l ’umore naturale, riempiono i globi difesi dalla protezione delle palpebre; per questo motivo sono detti «orb ite». Inoltre, è vero che la sezione mostra innanzi­ tutto che le vie che portano la luce si dipartono da un solo punto, ma nondimeno, in seguito ad essa si capisce anche che entrambi gli occhi si muovono insieme e non è possibile che uno si muova indipendentemente dall’al­ tro. A ncora, osservarono che l’occhio è racchiuso da quattro membrane o rivestimenti di diversa consistenza; e qualora uno voglia trattare le differenti proprietà di esse, si farà carico di una fatica più impegnativa dell'ar­ gomento proposto. CCXLVII Per il momento, riportando le parole di Platone, consideriamo ciò che in esse si comprende e si esprim e riguardo ai misteri della natura. Parlando dei sensi, che aveva detto essere gli strumenti della testa, aggiunge: «E tra essi per primi risplendono i globi degli occhi apportatori di luce», e, subito dopo: «Due sono le

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toria, altera mulcebris innoxio lumine. H uic igitur, ex qua lux diem inuehens panditur, cognatum et familiare corpus oculorum diuinae potestates commentae sunt, intimum siquidem nostri corporis ignem, utpote germ a­ num ignis lucidi sereni et defaecati liquoris, per oculos fluere ac dem anare u o lu eru n t». Solis et o cu lo ru m cognationem scit ab ineunte aetate communis omnium anticipatio, quippe sol m undi oculus a p p ella tu r ab omnibus ideoque idem auctor in Politia «so lem » qu i­ dem «sim ulacrum» esse ait «inuisibilis dei, oculum uero solis et solstitiale quiddam », ut sit eminens sol intellegi­ bili mundo suus, huic similis in sensili globus iste igni­ tus lucifer, cuius simulacrum id lumen, quo illustratur uisus animalium, id est oculus. Fluere porro uisum per oculos consentiunt tam physici quam etiam m edici, qui exectis capitis membris, dum scrutantur naturae prouidam sollertiam , notauerunt ferri biuio tram ite ign is liquorem. «U t per leues», inquit, «congestosque et tam ­ quam firmiore soliditate probatos orbes lum inum , quo­ rum tamen esset angusta m edietas subtilior, serenus ignis per eandem flueret medietatem ». CCXLVIII Quid ergo? Num aliter physici m em bra­ nis uel etiam tunicis solidis contineri oculorum orbes asseuerantes de natura eorum in terp retari u id en tu r? Angusta porro illa m edietas, quae peruenit usque ad oculorum cauas sedes, quae alia est quam h aec p er quam fluit ignis serenus? «Itaque», inquit, «cum diur­ num iu b ar ap p licat se uisus fu sio n i, tu n c n im iru m

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proprietà del fuoco, una quella che consuma e distrug­ ge, l ’altra quella che accarezza con una luce innocua. E affine e somigliante a questa da cui si dispiega la luce che porta il giorno, le potenze divine idearono dunque la sostanza degli occhi, dal momento che vollero che il fuoco che sta dentro il nostro corpo scorresse e sgorgas­ se dagli occhi, come fratello del fuoco limpido e sereno e del puro splendore»625. Ma che il sole e gli occhi abbiano un rapporto di parentela lo sanno tutti, comu­ nemente, fin dalla più tenera età, poiché il sole è da tutti chiam ato «occhio del mondo» e Platone stesso, nella Repubblica, dice che il sole è veramente «un’immagine del dio invisibile, e che l’occhio inoltre ha qualcosa del sole ed è simile al sole»626, così che risulta chiaro che il mondo intellegibile ha un suo proprio sole, a somiglian­ za del quale è fatto nel mondo sensibile questo globo infuocato apportatore di luce; ed è poi un’immagine di questo sole quella luce da cui è illuminata la vista degli esseri viventi, cioè l’occhio. Sul fatto poi che la vista scorra attraverso gli occhi, sono d’accordo tanto i natu­ ralisti quanto i medici, che, avendo amputato parti della testa, mentre esaminavano la provvida ingegnosità della natura, osservarono che il liquido fuoco passava attra­ verso una via che si biforca. E dice: «... così che nel mez­ zo dei globi oculari lisci e compatti e di provata, per così dire, m aggior saldezza e spessore, vi fosse tuttavia una stretta parte centrale più sottile, e che proprio attraverso questa parte centrale scorresse il limpido fuoco»627. CCXLVIII E dunque? Forse che i medici, quando afferm ano che le orbite degli occhi sono racchiuse da m em brane o anche da rivestimenti robusti, sembrano intendere in maniera diversa? E che cosa è poi quella stretta parte centrale, che giunge fino alle concave sedi degli occhi, se non quella attraverso cui scorre il limpi­ do fuoco? «E così - egli dice - quando la luce meridia­ na si congiunge al flusso della vista, allora, evidente-

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incurrentia semet inuicem duo similia in unius corporis cohaerent speciem, quo concurrunt oculorum acies emicantes quoque effluentis intimae fusionis acies con­ tiguae imaginis occursu repercutitur». Euidenter uisum fieri dicit, quotiens intimi caloris lumen, quod inoffense per oculos fluit, aliquam uisibilem materiam, quam con­ tiguam imaginem appellat, incu rrit ibidem q ue iu x ta m ateriae qualitatem form atum et co lo ratum sensus uisusque confit ex lumine qui contiguae imaginis occur­ su repercussus reditu facto ad oculorum fores usque ad mentis secreta porrigitur. A tque etiam diurn i iu b aris applicatio cum ignis intimi lumine manifestat sine solis effulsione nihil uideri. Denique «postquam in noctem, inquit, discesserit cognatus ignis, desertum eius auxilio lumen intimum remanet otiosum nullam habens cum proximo tunc aere naturae comm unicationem uidereque desinit factum illecebra somni. O bductis quippe palpebris» - quarum tegmen salubre oculorum a u x i­ lium dixit esse - «uis illa ignis intim i coercetur compressaque fundit se per membra, quo pacto intimorum motuum relaxatur intentio in soporam quietem » m ini­ me tunc interpellante mentem uisus inquietudine.

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mente, due cose simili vengono a coincidere l’una con l ’altra e si uniscono formando un corpo solo, là dove corrono insieme, scaturendo fuori, i raggi degli occhi e dove il raggio del flusso interno, che scorre fuori, viene colpito d a ll’incontro con un’immagine contigua»628. Evidentemente dice che si produce la vista ogni volta che la luce della fiamma interna, che scorre senza osta­ coli attraverso gli occhi, si imbatte in una qualche mate­ ria visibile, che chiama “immagine contigua”, e che lì p ren d e forma e colore a seconda della qualità della m ateria, e la sensazione della vista risulta dalla luce che, colpita dall’incontro con l’immagine contigua e tornan­ do alle porte degli occhi, arriva fino alle parti più intime della mente. E anche l’unione della luce brillante del giorno con la luce del fuoco interno dimostra che nulla si vede senza lo splendere del sole. «Infine, dopo che si allontana, di notte, il fuoco affine, la luce interna, priva del sostegno di quella, rimane inattiva e priva di ogni rapporto di natura con l ’aria vicina, e cessa di vedere, divenendo stimolo al sonno. Infatti quando si chiudono le palpebre - una protezione che egli definisce “salvag u a rd ia degli occhi” - la potenza del fuoco interno viene trattenuta e, costretta dentro, si diffonde attraver­ so le membra e, in questo modo, la tensione dei moti in te rio ri si rilassa in una quiete che apporta il son­ n o »629, poiché l ’agitazione che nasce dalla vista non sol­ lecita affatto la mente.

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CCXLIX «Cumque erit», inquit, «altior quies cras­ siore facto naturali spiritu, nihil aut leue quiddam incer­ tumque et perfunctorium somniamus; sin erunt insignes reliquiae commotionum animi, cuius modi erunt et qui­ bus in locis, talia uisuum simulacra nascentur expressa et ob insigne imaginum diu penes memoriam residen­ tia». Sunt porro reliquiae commotionum uel ex m ode­ stis uel ex intemperantibus interdum que sapientibus, interdum stolidis cogitationibus sedatae uel ad iracun­ diam incitatae, proque locis ut in capite, ubi est sedes domiciliumque rationis, uel in corde, in quo dom inatur uirilis ille indignationis uigor, uel in iecore subterque; dimensa porro haec omnis regio libidini [s]. CCL Et quoniam tractatum incurrimus somniorum, de quo uarie senserunt u eteres, fiat earum quae in honore sunt opinionum commemoratio. Aristoteles, ut qui dei prouidentiam usque ad lunae regionem progredi censeat, infra uero neque prouidentiae scitis regi nec angelorum ope consultisque sustentari nec uero daem o­ num prospicientiam putet interuenire proptereaque tol­ lat omnem diuinationem negetque praeno sci fu tu ra, unum genus somniorum admittit atque approbat, quod ex his quae uigilantes agimus aut cogitamus residens in memoria mouet interpellatque per quietem gestarum deliberatarumque rerum conscias animas. Nec errat; est enim etiam haec progenies somniorum, sed non sola, ut Aristoteles putat; multa quippe incognita inopinataque

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CC X LIX «E quando il sonno sarà più profondo, poiché lo spirito naturale si fa più denso, non sogniamo n u lla, o qualcosa di lieve e incerto e superficiale; se invece rimarranno turbamenti d’animo eccezionali, a seconda della loro qualità e collocazione, nasceranno e si formeranno corrispondenti immagini di visioni che, per l ’eccezionaiità dei sogni, rimarranno a lungo nella m e m o ria»630. Inoltre quei turbamenti d’animo che restano, sono o calmati o rabbiosamente eccitati, in seguito a pensieri moderati o intemperanti, ora saggi ora stupidi, e a seconda dove si trovano: ad esempio nella testa, dove è la sede e il domicilio della ragione, oppure nel cuore, in cui prevale l’energico vigore della rabbia, o nel fegato e più sotto: e tutta questa zona, a sua volta, è assegnata alla libidine. CC L E dato che ci siamo imbattuti nell’argomento dei sogni, su cui gli antichi espressero pareri diversi, ricordiam o le opinioni ritenute degne di considerazio­ ne631. Aristotele, poiché pensa che la provvidenza del dio giunga fino alla regione della luna, e che invece la regione inferiore non sia guidata dai decreti della prov­ videnza né sorretta dall’aiuto e dai consigli degli angeli, e nemmeno ritiene che vi sia un intervento della preveg­ genza dei demoni, e, di conseguenza elimina del tutto l ’arte della divinazione e nega che si possano conoscere in anticipo le cose future, ammette e riconosce un solo tipo di sogni, quello cioè che deriva dalle cose che fac­ ciamo o pensiamo durante la veglia e che rimane nella m em oria e agita e disturba le anime consapevoli delle cose che hanno fatto o deciso632. E non sbaglia: esiste infatti anche questa famiglia di sogni, ma non è l’unica, come crede Aristotele; infatti noi sogniamo molte cose

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neque umquam temptata animis somniamus, quotiens prouenisse uspiam significantur quae nondum scientiae fama conciliauerit uel futura portenduntur quae non­ dum prouenerint. Sed hic suo quodam more pleni per­ fectique dogmatis electo quod uisum sit cetera fastidio­ sa incuria neglegit. CCLI Heraclitus uero consentientibus Stoicis ratio­ nem nostram cum diuina ratione conectit regente ac moderante mundana: propter inseparabilem comitatum consciam decreti rationabilis factam quiescentibus ani­ mis opere sensuum futura denuntiare; ex quo fieri, ut appareant imagines ignotorum locorum sim ulacraque hominum tam uiuentium quam mortuorum. Idem que a sse rit d iu in a tio n is usum et p ra e m o n e ri m e rito s instruentibus diuinis potestatibus. (CCLII) H i quoque parte abutentes sententiae pro solida perfectaque scien­ tia. CCLII Sunt qui nostrum intellectum et peruolitare conuexa mundis putent miscereque se diuinae in telle­ gentiae, quam Graeci «noyn» uocant, et uelut ex m aiore disciplina minusculas scientias mutuatas, quae summa et eminens imaginetur mens, nuntiare m entibus nostris in u itan te ad coetum anim ae n o ctu rn ae s o litu d in is opportunitate. Sed cum pleraque non inreligiosa modo, uerum etiam im pia somniemus, quae im agin ari sum ­ mam exim iam qu e in te lle g e n tia m siu e m en tem seu prouidentiam fas non sit putare, falsam esse hanc opi­ nionem hominum liquet. CCLIII Sed Plato magna diligentia summaque cura discussis penitus latibulis quaestionis uidit atque asse­ cutus est non unam somniorum esse genituram ; gigni

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sco n o sciu te e inaspettate e mai sperimentate dalle anim e, e ciò tutte le volte che si presagisce che sono accadute da qualche parte delle cose che la fama non ha ancora reso note, o che vengono preannunziati come imminenti eventi che non si sono ancora verificati. Ma costui, com’è sua abitudine, una volta scelto ciò che gli appare adatto a una dottrina completa e perfetta, tra­ scura le altre cose con un’indifferenza sprezzante. CCLI Eraclito invece, seguito dagli Stoici633, ritiene la nostra ragione connessa con la ragione divina che regge e governa le cose del mondo: grazie a quest’inseparabile scorta, essa, resa consapevole del decreto della ragione divina, fa conoscere gli eventi futuri alle anime, m entre dormono, mediante l’opera dei sensi. E per que­ sto motivo accade che appaiano visioni di luoghi scono­ sciuti e immagini di uomini sia vivi sia morti. Egli inol­ tre sostiene la pratica della divinazione e afferma che coloro che lo hanno meritato vengono avvertiti prima dalle potenze divine che li istruiscono. Anche questi uti­ lizzano im propriam ente una parte della dottrina dei sogni come se fosse la dottrina intera e completa. CC LII Alcuni credono che il nostro intelletto per­ corra in volo le volte dell’universo e si mescoli alla divi­ na intelligenza, che i Greci chiamano noys, e che esso, quando l ’occasione opportuna della solitudine notturna favorisce l ’incontro con l ’anima, annunzi alle nostre m enti quelle cose che la mente più nobile e superiore im m agina, come piccole parti di sapere prese in prestito da una conoscenza maggiore634. Ma poiché noi sognia­ mo moltissime cose non solo poco religiose, ma addirit­ tura em pie, che non si può pensare siano immaginate dalla somma e nobilissima intelligenza, o mente, o prov­ videnza, è evidente che l’opinione di costoro è falsa. C C LIII Ma Platone, dopo aver discusso a fondo, con grande scrupolosità ed estrema cura, i punti oscuri della questione, si rese conto e comprese che l’origine

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quippe uel ex reliquiis cogitationum et accidentis a li­ cuius rei stimulo, ut in nono Politiae libro docet oratio­ ne tali: «Inutiles m inimeque necessariae cupiditates, quae aduersantur legibus, uidentur mihi omnium q ui­ dem hominum promisce labefactare mentes; quaedam tamen earum tam castigatione legum quam sobriis et melioribus rectae uoluptatibus uel omnino exolescere uel in paucas admodum atque exiles attenuatae re li­ quias otiosae latere, porro aliae usque ad praecipitem amentiam confirmari, quae se exerunt im m anius per quietem, quotiens ratione sopita, quae est rector m an­ suetissimus, cetera pars animae agrestior im m ani q ua­ dam ebrietate luxurians pulsa quiete pergit at incestas libidines. Tunc quippe nihil est quod non audeat uelut soluta et libera honestatis uerecundiaeque praeceptis; namque maternos, ut putat, amplexus concubitusque non expauescit nec quem quam dubitat lacessere uel hominum uel deorum nec ab ulla sibi uidetur caede aut flagitio temperare. Contra cum erit in salubri statu posi­ ta casteque cubitum ibit, ratio n ab ili quidem m entis industria uigiliis imperatis eaque pasta sapienti uirtutis indagine atque etiam libidine moderate mansuefacta, ut neque de ino pia q ueri possit nec e x p letio n e n im ia grauetur ultraque modum maerens uel gestiens tum ul­ tuetur impediatque prudentiam, sed pura uitiis ratione opus proprium efficere in ratiocinando atque indagine ueritatis instituat nihiloque minus iracundia delinita et minime saeuiente dormiat, tunc certe rationabilis an i­ mae pars nullis sibi obstrepentibus libidinis aut iracu n­ diae uitiis perueniet ad indaginem ueri, quae est sincera

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dei sogni non è una sola; essi, infatti, sono prodotti dai pensieri che rimangono e in seguito allo stimolo di qual­ cosa che accade, come spiega nel nono libro della R epubblica con questo discorso: «Mi pare che i desideri non utili e non necessari, che sono contrari alle leggi, scuotano le menti di proprio tutti gli uomini, senza distinzione; e tuttavia, alcuni di essi, o perché corretti dalle leggi che li puniscono, o perché raddrizzati da desideri moderati e migliori, o svaniscono del tutto, o indebolitisi e ridotti tutt’al più a pochi e scarsi residui, restano nascosti e inattivi; altri, invece, si rafforzano, giungendo a una sconsiderata follia: ed essi si rivelano nel modo più violento durante il sonno, ogni volta che, m entre dorme la ragione, nostro mitissimo reggitore, l ’altra parte dell’anima, più selvaggia, si dà agli eccessi, spinta da una sorta di bestiale ebbrezza e, turbando il sonno, si volge a passioni impure. Allora, certo, non c’è nulla che non osi, come sciolta e libera da ogni norma di saggezza e di pudore; e infatti non teme, come s’im­ m agina, di congiungersi e accoppiarsi con la propria m ad re, né esita a sfidare chicchessia degli uomini o degli dei, né crede di doversi astenere da alcuna uccisio­ ne o violenza. Quando invece si troverà in una condi­ zione di salute e andrà a dormire nella temperanza, dopo aver svegliato apposta la parte razionale dell’ani­ ma e averla nutrita con la saggia ricerca della virtù, e dopo aver calmato e moderato l’elemento appetitivo, in modo che non possa dolersi del bisogno né essere appe­ santito dalla troppa pienezza, e non si agiti ostacolando la saggezza col soffrire o con l’esultare oltre misura, ma che, essendo la ragione libera dai vizi, possa svolgere il proprio compito di ragionare e cercare la verità; e dopo aver altresì calmato l ’elemento irascibile, in modo che non si irriti affatto, così si metta a dormire, allora certa­ m ente la parte razionale dell’anima, senza che la turbi­ no le passioni o i vizi dell’iracondia, giungerà alla ricer­ ca della verità, che è la vera saggezza, e non vi sarà alcu-

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prudentia, nec ulla existet species nefaria somniorum». Quippe in his perfecte docuit, quod perfunctorie posuit in Timaeo. CCLIV At uero somniorum, quae diuina prouidentia uel caelestium potestatum amore iuxta homines obo­ riuntur, causam rationemque exposuit in eo libro qui Philosophus inscribitur. Ait enim diuinas potestates consulere nobis, quotiens per quietem ea quae grata sunt deo intim ant ueris m inim eque fallacib u s u isis, earumque miram quandam esse dicit memoriae tenaci­ tatem dignitatique et diuinitati congruam sapientiam , quibus cum cogitationes hominum perspicuae sint, con­ sequenter amorem bonis, odium malis exhiberi; proba­ tionemque affert de exemplis illustribus m utuatam , ut in eo libro quem appellauit Critonem praesagit Socrates prouentum imminentem regente somnii relatione. «U isa est mihi quaedam », inquit, «m ulier exim ia uenustate, etiam candida ueste, nomine me appellasse dixisseque» illud Homericum: «Tertia luce petes Pthiae praefertilis am a». Rursus in Phaedone: «Saepenum ero unum et idem mihi somnium aduentans in alia atque alia forma iubebat me nauare operam m usicae. Id ego nunc usu et necessitate moriendi admonitus interpretor hactenus, ut hymnum, quem iam dudum institueram in A pollinem , compleam, ne promissi debitor et uoti reus uitam prius finiam». Musicae quippe consanguineam esse poeticam palam est omnibus. Socratem uero haec euidenter soli­ tum somniare arbitror ex eo, quod tam corporis quam animae puritate totum eius animal uigeret.

COMMENTARIO AL «TIMEO* DI PLATCINE

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na visione di sogni im puri»*» Ed evidentemente in questo passo spiega in modo completo ciò che ha enun ciato superficialmente nel Timeo. CCLIV Quanto poi ai sogni che hanno origine dalla provvidenza divina e dall'amore delle potenze celesti net confronti degl, uomini, ne espose la causa e il moti­ vo nel libro intitolato II D filos ice infatti che le potenze divine si prendono cura di noi ogni volta che fanno conoscere attraverso il sonno le cose che sono gradite al dio, con visioni veridiche e per nulla inganna­ trici, che hanno una straordinaria capacità di resistenza nella memoria e una sapienza conforme alla loro natura divina; e che, poiché conoscono bene i pensieri degli uom ini, m ostrano di conseguenza amore ai buoni e odio ai malvagi; e adduce una prova presa in prestito da esem p i illu s tr i; ad esem pio, nel libro che intitolò C ritone ^ , Socrate, guidato dal racconto di un sogno, prevede un evento imminente: «Mi è sembrato che una donna di straordinaria bellezza, vestita inoltre di una candida veste, mi chiamasse per nome e mi dicesse quel verso di Omero: «Il terzo giorno ti dirigerai verso i campi della molto [fertile Ftia». E ancora, nel Fedone 63S: «Molte volte mi è apparso un sogno, sempre lo stesso, talvolta in una forma, talvol­ ta in un’altra, che mi ordinava di dedicarmi all’arte della musica. E io, ora, poiché mi è stata ricordata 1 inevitabi­ le necessità della morte, lo intendo in questo senso, che io debba portare a compimento l’inno che già da tempo avevo iniziato per Apollo, affinché io non muoia debito­ re di quello che ho promesso e senza aver suolto 1 voto». Infatti è noto a tutti che la poesia e sorella della m usica, Ma io credo che Socrate tosse sohto sognare queste cose evidentemente perche tutto il suo essere fiorente di purezza nell’animo e nel corpo.

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CCLV Denique etiam uigilanti non deerat propitia diuinitas quae eiusdem m oderaretur actus, ut P lato demonstrat in Euthydemo dicens ita: «Est ab ineunte aetate numen mihi comes quoddam idque uox est quae, cum ad animum sensumque meum commeat, significat ab eo quod agere proposui tem perandum , h o rtatu r uero ad nullum actum; atque etiam si quis familiaris uti meo consilio uolet aliq u id acturus, hoc quo que agi prohibet». Quarum quidem rerum et significationum fides certa est; eget enim im becilla hom inum natura praesidio melioris praestantiorisque naturae, ut idem asseruit supra. Uox porro illa quam Socrates sentiebat non erat, opinor, talis quae aere icto sonaret, sed quae ob egregiam castimoniam tersae proptereaque intellegentiori animae praesentiam coetumque solitae diuinitatis reuelaret, siquidem pura puris contigua fore miscerique fas sit. Atque ut in somnis audire nobis uidem ur uoces sermonumque expressa uerba, nec tamen illa uox est sed uocis officium imitans significatio, sic uigilantis Socratis mens praesentiam diuinitatis signi p ersp icu i notatione augurabatur. Nec uero dubitare fas est intelle­ gibilem deum pro bonitate naturae suae rebus omnibus consulentem opem generi hominum, quod nulla esset sibi cum corpore conciliatio, diuin arum po testatum interpositione ferre uoluisse; quarum quidem beneficia satis clara sunt ex prodigiis et diuinatione uel nocturna somniorum uel diurna fama praescia rumores uentilante, m edelis quoque ad uersum m orbos in tim a tis et prophetarum inspiratione ueridica.

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CCLV Infine, anche quando era sveglio, non gli mancava l’aiuto della divinità benevola che guidava le sue azioni, come Platone ricorda nell’E utidem o^, con queste parole: «C ’è una specie di potenza divina che mi accompagna fin dall’infanzia, ed è una voce che, quan­ do giunge al mio animo e ai miei sensi, mi fa capire che devo astenermi da ciò che avevo intenzione di fare, ma non mi spinge a fare niente; e anche se qualche mio amico vuole valersi del mio consiglio per fare qualcosa, essa proibisce anche di fare ciò». E la veridicità di que­ sti racconti e del loro significato è sicura; infatti la debo­ le natura umana ha bisogno dell’aiuto di una natura più n o b ile e più potente, come egli stesso ha affermato sopra. Inoltre, quella voce che Socrate sentiva non era tale da risuonare, colpendo l’aria640, ma tale che, a un’a­ nim a pura, e perciò più sapiente, per la straordinaria m oralità, rivelava la presenza della divinità che gli era fam iliare e l’unione con essa641, poiché è possibile che solo ciò che è puro si avvicini e si mescoli a ciò che è puro642. E come nei sogni crediamo di udire delle voci e d elle parole di discorsi pronunciati, e tuttavia quella non è una voce, ma qualcosa che esprime e che riprodu­ ce la funzione della voce, così la mente di Socrate, durante la veglia, immaginava la presenza della divinità d a ll’osservazione di un segnale a lui evidente643. E in verità non si può dubitare che il dio intellegibile, che provvede a tutte le cose, per la bontà della sua natura, abbia voluto portare aiuto al genere umano servendosi d elle potenze divine come intermediari, dal momento che egli non ha alcuna comunione con il corpo644; e i benefici di queste potenze sono resi abbastanza evidenti dai prodigi e dalla divinazione, o da quella notturna dei so gn i o da q u ella diurna, quando la fama presaga diffonde le notizie, e anche dai rimedi suggeriti contro le m alattie e dalla veridica ispirazione degli indovini.

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CCLVI Multiformis ergo est ratio somniorum, siqui­ dem sunt quae uelut percussa grauius u erb erataq u e mente uestigiis doloris penitus insignitis per quietem refouent imagines praeteritae consternationis, sunt item quae iuxta cogitationes rationabilis anim ae partis uel purae atque immunis a perturbatione uel in passionibus positae oboriuntur, nihiloque minus quae diuinis pote­ statibus consulentibus praemonstrantur uel etiam poe­ nae loco ob delictum aliquod form ata in atrocem et horridam faciem. Consentit huic P lato nico dogm ati H ebraica philosophia; appellant quippe illi u arie, ut somnium et item uisum , tum adm onitio nem , etiam spectaculum nihiloque minus reuelationem : som nium quidem, quod ex reliquiis commotionum anim ae d ix i­ mus oboriri, uisum uero, quod ex diuina uirtute legatur, admonitionem, cum angelicae bonitatis consiliis reg i­ mur atque admonemur, spectaculum, ut cum uigilantibus offert se uidendam caelestis potestas clare iubens aliquid aut prohibens forma et uoce m irabili, reuelatio­ nem, quotiens ignorantibus sortem futuram imminentis exitus secreta panduntur. De som niis satis d ictu m ; sermo nunc ipse considerandus. CCLVII «A t uero sim ulacrorum », inquit, «q u ae in speculis oboriuntur». Docet nunc illam uisus rationem , quae intuitio dicitur, intra speculum uel stagnorum pro­ fundum simulacris resultantibus nec tamen eodem quo Aristoteles magisterio. Namque ille censet radii uisualis im pacti in solidam speculi superficiem p ro p tereaqu e infracti mucronem ad os reuerti obuium que uultui fac­ tum uultum suum cernere et in speculo putare sibi uul-

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CCLVI Dunque varie sono le cause dei sogni, giacché ce ne sono alcuni che, quando la mente viene impressio­ nata e colpita in modo piuttosto violento dalle tracce del dolore chiaramente impresse nel profondo, fanno rivive­ re nel sonno le immagini del turbamento passato; altri poi che, allo stesso modo, nascono in seguito ai pensieri della parte razionale dell’anima, o pura e immune da turbam enti o soggetta alle passioni; e inoltre alcuni che vengono mostrati dalle potenze divine che si prendono cura degli uomini, o anche come mezzo di punizione per qualche delitto, e hanno un aspetto orribile e spavento­ so. Concorda con questa dottrina platonica anche la filo­ sofia eb raica645; infatti gli Ebrei lo chiamano in vari m odi, ad esempio “sogno”, e parimenti “visione”, e ancora “ammonizione”, e anche “apparizione” e nondi­ m eno “rivelazione”; il sogno appunto, come abbiamo detto, è quello che nasce da ciò che resta dei turbamenti d e ll’anim a, la visione invece quella che è inviata dalla potenza divina, l’ammonizione si ha quando siamo gui­ dati e ammoniti dai consigli degli angeli buoni, l’appari­ zione, quando la potenza celeste ci permette di vederla durante la veglia e in modo chiaro ordina o proibisce qualcosa, servendosi di un aspetto e una voce straordi­ nari, la rivelazione ogni volta che a quelli che ignorano la sorte futura vengono rivelati i segreti di un evento che si verificherà. E sui sogni è stato detto abbastanza; ora si dovranno esaminare le parole di Platone. CCLVII Dice: «Quelle immagini poi che si formano n egli sp ecch i...»646. Illustra ora quel modo di vedere che è detto «visione riflessa», che si ha quando le imma­ gini rim balzano in uno specchio o nel profondo degli stagni, e tuttavia non lo fa secondo lo stesso insegna­ m ento di Aristotele. E infatti questi pensa che la punta del raggio della vista, che ha urtato contro la superficie solida dello specchio e perciò si è spezzato, torni indie­ tro alla faccia e veda il suo volto che viene incontro al

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rus apparere simulacrum, at uero Plato pro ingenii pru­ dentiaeque diuinitate duum luminum coetum confluen­ tium in tersam speculi et solidam cutem, id est diurni luminis et intimi, quod per oculos fluit, trahentis secum de uultu manantem colorem, in speculo corporari coloratisque uultus lineamentis et formato ac deliniato colo­ re simulacrum aemulum uultus adumbrari. Sic quippe loquitur: «At uero simulacrorum quae in speculis obo­ riuntur facilis assecutio est, siquidem utriusque ignis tam intimi quam extra positi concursu», intim i scilicet caloris et extra positi luminis, «incidentis in tersam ali­ quam leuemque materiam», hoc est speculum, «formatique in multas et uarias figuras», quae ad se formata specula diuersas edunt imagines, «sim ulacra» inquit «ex leuigati corporis conspectu resultant». CCLVIII «D extrae uero partes quae sunt sinistrae uidentur». Agit nunc de immutatione uisus, et quia spe­ cula quaedam facta sunt ad sim ilitudinem dim idiatae sphaerae concaua, si ad eam partem , quae um bonis habet tumorem, contemplatio dirigatur, dextrae partes sinistrae uidebuntur contraque; item oculi dextri con­ templatio laeuas simulacri partes sinistrique item acies dextras tangent insolito more. M erito; cum enim in directum rigorem utriusque oculi uisus ferantur, erat consequens dexterioris uisus directione partes dextras tangi sinistrique item sinistras; nunc fit contra uelut cir­ cumactis et e diuerso consistentibus imaginibus.

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suo volto e creda che nello specchio gli appaia l’immagine del suo volto647; invece Platone, in virtù del suo ingegno divino e della sua divina saggezza, crede che l ’unione di due luci che confluiscono sulla superficie nitida e solida dello specchio, ovvero la luce del giorno e la luce interna, quella che scorre attraverso gli occhi, e che porta con sé il colore che promana dal volto, pren­ da corpo nello specchio, e che dalle fattezze colorate del volto e dal colore che prende forma e linee venga tra tte g g ia ta u n ’immagine che riproduce il volto. Si esprim e infatti così: «E facile spiegare poi quelle imma­ gini che si formano negli specchi, giacché a causa del­ l ’incontro di entrambi i fuochi, di quello interno e di quello posto fuori - ovvero della fiamma intima e della luce che si trova all’esterno - che cadono su una qual­ che m ateria nitida e liscia - cioè lo specchio - e prendo­ no forma in varie e diverse figure - quelle cose cioè che, conform ate su di essi, gli specchi restituiscono sotto forma di immagini diverse - le immagini rimbalzano in seguito alla visione di un corpo liscio»648. CCLVIII «M a le parti sinistre sembrano destre»649. Tratta ora d ell’alterazione della vista, e poiché alcuni specchi sono fatti a immagine di una semisfera concava, se si dirige lo sguardo verso quella parte che ha il rigon­ fiamento di uno scudo, le parti destre si vedranno come sinistre e viceversa; parimenti l’osservazione dell’occhio destro tocca le parti sinistre dell’immagine e parimenti lo sguardo del sinistro le parti destre, in un modo che sem bra strano. Giustamente; infatti, quando gli sguardi di entram bi gli occhi si volgevano verticalmente in linea retta, ne conseguiva che le parti destre erano toccate dalla direzione dello sguardo del destro, e, allo stesso m odo, le parti sinistre da quella del sinistro650. Ora avviene l ’opposto, come se le immagini si fossero girate su se stesse e fossero fatte al contrario.

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CCLIX «At uero dextrae corporis partes dextrae ita ut sunt in speculis quoque sinistraeque item sinistrae uidentur». Persequitur aliud duplicis im aginationis genus, quod apparet in his speculis quae facta sunt ad formam cylindri caui siue imbricis. Rursum enim, cum in directum rigorem utriusque oculi uisus ferantur, dex­ ter uisus dextrum latus eminens et obliquum, sinister etiam sinistrum tale latus incurrant necesse est. Formae tunc in lateribus geminis conglobatae ob tersam et incli­ natam proptereaque lubricam utriusque lateris superfi­ ciem labuntur in latera diuersa, quae quidem a dextro uisu nascitur, in sinistrum latus, quae uero a sinistro, similiter in dextrum; quae quia in diuersa latera transi­ tum faciunt et simul e diuerso uidentur consistere, dex­ tras simulacrorum partes dextris nostris, sinistras item sinistris obuias exhibent. Ceteros errores uidendi ab hoc iuniores philosophi m utuati exposuerunt, ita ut supra comprehensum est. CCLX Deinde prosequitur: «Q ui quidem sensus famulantur actibus opificis dei summam optimamque et prim ariam speciem m o lientis». Q uia, cum de uisu loqueretur, qui est optimus omnium sensuum, corporeis eum nom inibus ap p ellau erat m odo ign em , m odo lumen, interdum flammam cognominans, ne quis puta­ ret se ita existimare, quasi corporeis opificiis sensus administrentur sine melioris incorporeae potentiae con­ sortio, dicit hos ipsos sensus famulari diuinis actibus, perinde ut opifici famulantur organa. Porro optimum dei opus est id quod intellegit. Sed «opinari plerosque» dicit, eos uidelicet qui existimant nihil esse quod carens

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CCLIX «Ma le parti destre del corpo sembrano de­ stre, come in realtà sono, anche negli specchi e parimen­ ti le sinistre sembrano sinistre»651. Spiega un altro tipo di riflesso duplice, che si manifesta in quegli specchi fatti a forma di cilindro cavo o di embrice. Infatti, pur vol­ gendosi gli sguardi di entrambi gli occhi ancora vertical­ mente in linea retta, è inevitabile che lo sguardo destro vada a cadere sul lato destro, che è sporgente e curvo, e che anche il sinistro vada a cadere sul lato sinistro, fatto allo stesso modo. Allora appunto le immagini che si rac­ colgono in entrambi i lati, a causa della superficie nitida e inclinata, e di conseguenza scivolosa, dell’uno e dell’al­ tro lato, vanno a cadere sui lati opposti, e quella appun­ to che nasce dallo sguardo destro va a cadere sul lato sinistro, mentre quella che nasce dal sinistro, allo stesso modo, va a finire sul destro; e poiché queste immagini passano sui lati opposti e contemporaneamente sembra­ no risultare al contrario, mostrano le parti destre delle immagini di fronte alle nostre parti destre e parimenti le sinistre di fronte alle sinistre. E i filosofi successivi, pren­ dendo degli spunti da ciò, spiegarono altre alterazioni della vista, come si è detto sopra652. CCLX Quindi prosegue: «E questi sensi, invero, ser­ vono come ausiliari agli atti del dio artefice che costrui­ sce la forma somma, ottima e più importante»653. Poi­ ché, quando parlava della vista, che è il senso più per­ fetto tra tutti, la aveva chiamato con nomi di cose cor­ poree, definendola ora «fuoco», ora «luce», talvolta «fiam m a»654, affinché nessuno pensasse che egli ritenes­ se che i sensi siano governati attraverso mezzi fisici, se così possono chiamarsi, senza la partecipazione di una potenza più nobile e incorporea, aggiunge che questi stessi sensi servono come ausiliari agli atti di dio, nel modo in cui gli strumenti servono all’artigiano. Inoltre l ’opera migliore del dio è il suo comprendere655. Ma dice che moltissimi, evidentemente coloro che ritengo-

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corpore quicquam patiatur aut faciat, nihil etiam incor­ poreum fore cui pareat famuleturque corpus, ut puta mentis intellectui animae naturae, sed ipsa corpora qua­ litatibus propriis rerum creare diuersitatem, frigus qui­ dem terram et aquam, calorem uero ignem et aera, rur­ sus astrictionem quidem et duritiam terram et ignem, relaxationem uero et effusionem aera et aquam igneamque uim contraria molientem pro corporum diuersitate modo astringentem modo relaxantem, ut cum «uno et eodem calore limus quidem durescit, cera uero liqu e­ scit». CCLXI «Haec porro om nia», inquit, «n eq ue sen­ tiunt nec rationem intellectumque in rebus ratione prudentiaque agendis sciunt». Praeclare, siquidem ratioci­ nari et intellegere non corporis sed animae proprium. Haec porro incorporea, non enim uidentur, cum omne corpus sit uisibile ac sentiatur; itaque, cum discreta sint corpus et anima diuersaque eorum natura sit, dignitas quoque et ordo diuersus est. «Q uotus quisque igitur amator est sapientiae, dabit operam, ut prudentis natu­ rae causas prius quam ceteras assequatur». Sunt porro hae: deliberatiua et item intellegens animae potentia, quibus deliberat ratiocinatur intellegit. «Illas u ero », inquit, «quae ab aliis motae mouent alias, secundas exi­ stimandum». Perspicue patibilem partem rationabilis animae uitiosamque significat, in qua est impetus; quip­ pe impetus principaliter quidem ab ea parte anim ae mouetur, quae motu intimo genuinoque ex semet ipsa mouetur, ex accidenti uero etiam desideriis mouentibus, ipse autem impetus mouet corpus.

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no che nulla che sia privo di corpo possa subire o com­ piere qualcosa, pensano anche che non vi possa essere nulla di incorporeo a cui sia soggetto e serva da ausilia­ rio un corpo, come ad esempio all’intelletto della mente dell’anima della natura, ma che sono i corpi stessi, gra­ zie alle loro proprie qualità, a produrre la diversità delle cose: così il freddo produce la terra e l’acqua, mentre il caldo il fuoco e l’aria, e ancora la solidificazione e la durezza producono la terra e il fuoco, mentre la fluidifi­ cazione e la dispersione l’aria e l’acqua; e il potere del fuoco produce cose contrarie, causando ora la solidifi­ cazione, ora la fluidificazione, a seconda della diversità dei corpi, come quando a causa dello stesso e medesimo calore il fango si indurisce, mentre la cera si scioglie656. C C LX I «Tutte queste cose tuttavia - dice - non hanno coscienza, né conoscono la ragione e l’intelletto nelle cose che bisogna svolgere con la ragione e la pru­ denza»657. E ciò è detto in maniera eccellente, dal mo­ mento che ragionare e comprendere è proprio dell’anima e non del corpo. Queste cose, inoltre, sono incorporee, infatti non si vedono, mentre tutti i corpi sono visibili e si percepiscono; perciò essendo cose distinte l’anima e il corpo ed essendo diversa la loro natura, è diversa anche la loro importanza e la loro posizione. «Dunque chiun­ que ami la sapienza, si sforzerà di comprendere le cause della natura intellegibile658, prima delle altre»659. Ora, queste sono la facoltà deliberativa e parimenti la facoltà intellettiva dell’anima, grazie alle quali l’anima delibera, ragiona, comprende. «Quelle poi» - dice - «che, mosse da altre entità, ne muovono altre ancora, bisogna consi­ derarle secondarie»660. Intende evidentemente la parte d e ll’anima razionale661 soggetta alle passioni e ai vizi, nella quale si trova l ’istinto; l ’istinto662, infatti, senza dubbio è mosso principalmente da quella parte dell’ani­ ma che si muove da se stessa, per un movimento intimo e innato, ma poi, per accidente, perché lo muovono anche i desideri: l ’istinto stesso, poi, fa muovere il corpo.

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CCLXII Itaque principalis animae motus definitur aeterna substantia semet ipsam mouens, hic uero com­ munis, qui commotus mouet, operatio mouentis est in eo quod mouetur, ut sectio operatio secantis in eo quod secatur. Cuius quidem motus aliquot diuersitates sunt, quas demonstrauit in Legibus, octo corporis, animae duas, corporeum motum locularem uocans, cuius duae sint species, translatio et circumlatio, item alium, quem appellat qualitatem, aeque in duplici specie, concretio­ ne et discretione, tertium, quem positum esse dicit in quantitate, habentem item duas species, incrementum et diminutionem, quartum iuxta essentiam, cuius aeque duae species intelleguntur, una generatio, altera interi­ tus. Animae item duples motus, unus qui alia mouet, ipse a nullo mouetur sed proprio genuinoque motu, alius qui alia mouens ab alio mouetur; qui est patibilis habitus animae et aegritudine oppressus. CCLXIII Recte ergo faciet amator sap ien tiae, si, cum de his rebus tractandum erit, naturalem ordinem seruet ac principe loco de anima disserat, post demum de corpore, deinde, cum de anima tractab it, de illa prius disserat, quae tam semet ipsam mouet quam cete­ ra, in qua est uis deliberandi et intellegendi, tunc conse­ quenter illam quoque p ertractab it, quae ab a lia re potiore mota quaedam mouet. Id porro motus genus «si quidem pareat intellectui, erit aliquatenus ordinatum, si minus, temere», inquit, «et ut libet se exerens confusa et inordinata quae agit relinquit», et addit: «Nobis quo­ que igitur in eundem modum faciendum», ac prius de ea loquendum natura quae suo motu mouetur haec qui-

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CCLXII Perciò il moto principale dell’anima si defi­ nisce come sostanza eterna che muove se stessa663, men­ tre questo moto comune, che messo in moto muove a sua volta, è l’operazione di ciò che muove in ciò che è mosso, così come il tagliare è l’operazione di chi taglia in ciò che è tagliato. E di questo moto, invero, ci sono alcu­ ni tipi diversi, che Platone descrisse nelle Leggfi64, otto del corpo e due dell’anima; e un moto del corpo lo defi­ nisce «moto nello spazio», e di esso vi sono due specie, moto di traslazione e moto circolare; parimenti un altro, che chiama “qualità”, ed è ugualmente di due specie, aggregazione e disgregazione, un terzo dice che consiste nella quantità, ed ha anch’esso due specie, incremento e diminuzione, un quarto secondo la sostanza, del quale ugualm ente si intendono due specie, generazione e distruzione. Anche l ’anima è dotata di due moti, il prim o che muove le altre cose, ma esso stesso non è mosso da nessun altro, se non da un moto proprio e innato, e un secondo che, mentre muove le altre cose, è mosso da qualcos’altro; e questo è l’aspetto dell’anima soggetto alle passioni e oppresso dai turbamenti. CCLXIII Dunque colui che ama la sapienza agirà giustam ente se, quando si dovranno trattare questi argom enti, rispetterà l ’ordine naturale e discuterà in primissimo luogo dell’anima, soltanto dopo del corpo, e se inoltre, quando parlerà dell’anima, discuterà prima di quella che muove sia se stessa sia le altre cose e nella quale si trova la facoltà deliberativa e intellettiva e poi, in seguito, esaminerà anche quella che, mossa dall'altra entità più potente, ne muove altre. Ancora, se questo genere di moto, «invero, obbedirà all’intelletto - dice sarà in certa misura ordinato, altrimenti sarà privo di ordine, e, manifestandosi come gli piace, lascerà disor­ dinato e confuso tutto ciò che fa»665 e aggiunge: «An­ che noi dunque dobbiamo agire allo stesso modo»666 e parlare prima di quella natura che si muove di un suo

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dem praecedit ordine, per quam intelleguntur et sciun­ tur aeterna quae sola sem perque uera sunt - , tunc demum illa quoque alia demonstranda quae ad mouendum quid motu indiget alieno. Utrique porro motui sensus necessarii sunt, quoniam ex his tam cupiditates excitantur improbae quam rerum optimarum intellectus et scientia conualescit.

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proprio moto - e senza dubbio è prima nell’ordine que­ sta attraverso cui si comprendono e si conoscono le cose eterne che sole e sempre sono vere -, e soltanto dopo spiegare anche quell’altra che, per muovere qual­ cosa, ha bisogno di un moto estraneo. Inoltre a entram­ bi i moti sono necessari i sensi, poiché da questi non vengono solo suscitati i desideri sconvenienti, ma ven­ gono anche rafforzate la comprensione e la conoscenza delle cose migliori.

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CCLXIV «Et de oculorum quidem ministerio satis dictum; nunc de praecipua operis eorum utilitate dicen­ dum», quae cum in plerisque rebus tum in obtentu phi­ losophiae clare perspicitur, quo beneficio negat quicquam m aius a deo gen eri esse hum ano trib u tu m . Duplex namque totius philosophiae spectatur officium, consideratio et item actus, consideratio quidem ob assi­ duam contemplationem rerum diuinarum et im m orta­ lium nominata, actus uero, qui iuxta rationabilis animae deliberationem progreditur in tuendis conseruandisque rebus mortalibus. U trique autem officiorum gen eri uisus est n ecessariu s, ac prim um c o n sid e ra tio n i. Diuiditur porro haec trifariam, in theologiam et item naturae sciscitationem praestandaeque etiam rationis scientiam. Neque enim quisquam deum quaereret aut ad pietatem aspiraret, quod est theologiae proprium , nec uero id ipsum quod nunc agimus agendum putaret nisi prius caelo sideribusque uisis et am ore n u trito sciendi rerum causas, eorum etiam, quae ortum habent temporarium, exordia; haec quippe demum ad natura­ lem pertinent quaestionem. Quid quod dierum et noctium uice considerata menses et anni et horarum curri­ cula dinum erata sunt num erique ortus et g e n itu ra dimensionis intro data? Quod ad tertiam partem philo­ sophiae pertinere perspicuum est. CCLXV At uero actuosae philosophiae uisus quate­ nus sit utilis et necessarius, docet ita dicens, «deum oculos hominibus idcirca dedisse, ut mentis prouidentiaeque circuitus, qui fiunt in caelo, notantes eorum

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CCLXIV «E riguardo alla funzione degli occhi si è davvero detto abbastanza; ora bisogna parlare della straordinaria utilità del loro servizio»667, utilità che risulta in modo evidente da moltissime cose, ma soprat­ tutto n ell’acquisizione della filosofia, della quale Pla­ tone afferma che nessun bene più grande sia stato dona­ to dal dio al genere umano668. Infatti due sono conside­ rati i compiti di tutta la filosofia: l’osservazione669 e l’a­ zione, l’osservazione, invero, così chiamata per l’assidua contemplazione delle cose divine e immortali, l’azione poi, che procede secondo la deliberazione dell’anima razionale nel curare le cose mortali e provvedere ad esse670. Ma la vista è necessaria ai due diversi compiti, e innanzitutto all’osservazione. Questa si divide poi in tre parti, teologia, fisica e dialettica671. Infatti nessuno an­ drebbe in cerca del dio o aspirerebbe alla devizione reli­ giosa, il che è proprio della teologia, ma nemmeno riter­ rebbe che si debbano fare quelle stesse cose che ora fac­ ciamo, se non perché prima ha visto il cielo e le stelle e ha alimentato l’amore di conoscere le cause delle cose, anche le origini di quelle che hanno una nascita nel tem po; e queste cose infatti appartengono appunto all’indagine sulla natura. Che dire poi del fatto che dal­ l ’osservazione dell’avvicendamento dei giorni e delle notti sono stati numerati i mesi e gli anni e i cicli delle ore e sono stati introdotti l’origine dei numeri e l'inizio della misurazione? E ciò appartiene evidentemente alla terza parte della filosofia. CCLXV Quanto sia utile e necessaria poi la vista alla filosofia attiva, lo spiega con queste parole: «Per questo motivo il dio diede gli occhi agli uomini, affinché osser­ vando le orbite celesti della mente e della provvidenza,

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similes constituerent in suis mentibus, hoc est, motus animi, qui deliberationes uocantur, quam sim illim os instituerent diuinae mentis prouidis motibus placidis tranquillisque perturbatos lic e t», quod est m orum uitaeque correctio, quae publice priuatim que prodest tam ad domesticas quam ad publicas res recte salubriterque administrandas; ex his quippe constat alterum philosophiae genus, quod actiuum uocatur. Id porro diuiditur trifariam, in moralem domesticam publicam; quibus omnibus officiis prodest certe usus uidendi. CCIXVI «Minora», inquit, «alia praetereo», scilicet ea, quae in uariis artibus d iscip lin isq u e u ersan tu r. Neque enim nauium regimen neque cultus agrorum nec uero pingendi fingendique sollertia recte sine uisu pro­ prium opus efficere posset solaque contem platio est, quae mentes hominum usque ad caeli conuexa protelat, proptereaque Anaxagoras, cum ab eo quaereretur, cur natus esset, ostenso caelo sid erib u sq u e m o n stratis respondisse fertur: ad horum omnium contem platio­ nem. At uero Stoici deum uisum uocant eo quod opti­ mum putabant - id enim [pulchro] dei nomine tribuen­ dum esse dixerunt - , Theophrastus uisus pulchritudi­ nem asserens uisum formae nomine appellat, quod quo­ rum extincta est acies uidendi, uultus informes sint et uelut in aeterna consternatione. Denique ex oculorum habitu mens atque animus indicatur irascentium m ae­ rentium laetan tiu m ; irascen tiu m q u id em , ut ap u d Homerum commotae mentis orator: «Stabat acerba tuens defixo lumine terrae» et item:

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le istituissero simili a quelle nelle loro menti, ovvero regolassero i moti dell’animo, che sono detti “delibera­ zioni”, in modo che fossero quanto più possibile simili ai moti provvidenziali, calmi e tranquilli dell’intelligen­ za divina, sebbene posti in disordine»672; e questo è ciò che governa rettamente i comportamenti della vita, cosa utile alla comunità e ai singoli, tanto nella conduzione degli affari privati, quanto nella giusta e vantaggiosa amministrazione delle cose pubbliche. In queste cose infatti consiste la seconda forma della filosofia, quella che è chiamata attiva. Essa, a sua volta, si divide in tre parti: morale, privata e pubblica673. E l’uso della vista è sicuramente utile a tutte queste funzioni. CCLX VI «E tralascio altre cose meno importan­ ti» 674, dice, evidentemente quelle che si esplicano nelle varie arti e discipline. Né infatti la guida di una nave o la coltivazione dei campi o l’abilità nella pittura o nella scultura potrebbero realizzarsi bene senza la vista, e sol­ tanto la contemplazione è capace di condurre le menti degli uomini fino alle concave regioni del cielo675; e per questo motivo Anassagora, una volta che gli chiesero perché fosse nato, si dice che, dopo aver mostrato il cielo e indicato le stelle, abbia risposto: «Per vedere tutte queste cose»676. Gli Stoici, invece, chiamano la vista «d io », perché la ritenevano la migliore di tutte le cose e ad essa affermavano di dover attribuire il nome di “divinità”677; Teofrasto, dichiarando la bellezza della vista, chiama la vista col nome di «forma», per il fatto che i volti di quelli nei quali è venuto meno il raggio della vista sono deformi e come in un’eterna condizione di turbamento678. Infine, dall’aspetto degli occhi si rive­ la il pensiero e lo stato d’animo di chi è adirato, triste o lieto; di chi è adirato, appunto, come in Omero «Restava immobile, lanciando sguardi feroci, gli [occhi fissi a terra»679 e anche:

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«Furor ignea lumina uoluit», maerentium uero, ut fert poeta de eo qui iugi fletu ocu­ los amiserat: «Maeroreque lumina linquunt» item apud Ciceronem: «In huius amantissimi sui fratris gremio maerore et lacrimis consenescebat». CCLXVII Transit deinde ad alterius sensus exam ina­ tionem. Ait enim: «Eadem uocis quoque et auditus ratio est ad eosdem usus atque ad plenam uitae hominum instructionem datorum». Sunt igitur principales duo sensus uisus et auditus, utrique philosophiam adiuuantes; quorum alter quidem euidentior, utpote qui res ipsas acie sua comprehendat, alter latior, ideo quod etiam de rebus absentibus instruat, modulatus siquidem aer articulatae uoci factusque uox et intellegibilis oratio pergit ad intimos sensus audientis intellectui nuntians tam praesentia quam absentia. Idem auditus quod intel­ lectum quoque adiuuet, sic probat: «Q uantum que per uocem utilitatis capitur ex musica, totum hoc constat hominum generi propter harmoniam tributum », quia iuxta rationem harmonicam animam in superioribus aedificauerat naturalemque eius actum rhythmis m odi­ sque constare dixerat, sed haec exolescere anim ae ob consortium corporis necessario obtinente ob liuio n e proptereaque immodulatas fore animas plurim orum . Medelam huius uitii dicit esse in musica positam, non in ea qua uulgus delectatur quaeque ad uoluptatem facta excitat uitia non numquam, sed in illa d iu in a, quae numquam a ratione atque intellegentia separetur; hanc enim censet exorbitantes animas a uia recta reuocare

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«Il furore gli fa volgere intorno gli occhi infuocati»680 e ancora di chi è triste, come narra il poeta a proposito di quello che, piangendo senza fine, aveva perso gli occhi: «E nel pianto gli occhi vengono meno...»681 e similmente in Cicerone: «E nel grembo di questo suo am atissim o fratello, si consumava nel pianto e nelle lacrim e»682. CCLXVII Passa dunque ad esaminare un secondo senso. D ice infatti: «L a medesima spiegazione vale anche per la voce e per l’udito, che sono stati donati per i medesimi fini e per la completa istruzione della vita degli uom ini»3683.1 due sensi più importanti sono dun­ que la vista e l’udito ed entrambi sono utili alla filosofia; il primo certo in modo più evidente, perché abbraccia col suo sguardo tutte le cose, il secondo in modo più ampio, per il fatto che informa anche sulle cose che non si vedono, poiché l’aria, modulata in suono dalla voce articolata e divenuta voce e discorso intellegibile684, giunge alle sensazioni interne di chi ascolta, annunzian­ do all’intelletto tanto le cose presenti quanto quelle lon­ tane. E che l’udito poi aiuti anche l’intelletto lo dimo­ stra così: «E quanto di utile si ottiene, grazie alla voce, dalla musica, tutto questo risulta essere stato dato al genere umano per raggiungere l’armonia»685, poiché nei capitoli precedenti686 aveva costruito l’anima secondo un calcolo di armonia e aveva detto687 che il suo atto naturale consiste nel ritmo e nella misura, ma che questi si perdono a causa dell’unione dell’anima con il corpo, poiché inevitabilmente prevale la dimenticanza e perciò le anime di moltissimi saranno prive di armonia. E dice che il rimedio a questa imperfezione si trova nella musi­ ca, non in quella con cui si diletta la gente comune e che, praticata per piacere, talvolta eccita i vizi, ma in quella divina che non è mai disgiunta dalla ragione e d a ll’intelligenza688; è questa, egli pensa, che richiama

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dem um ad sym phoniam u eterem . O p tim a p o rro symphonia est in moribus nostris iu stitia, uirtutum omnium principalis, per quam ceterae quoque uirtutes suum munus atque opus exequuntur, ut ratio quidem dux sit, uigor uero intimus, qui est iracundiae similis, auxiliatorem se rationi uolens praebeat; porro haec prouenire sine modulatione non possunt, m odulatio demum sine symphonia nulla sit, ipsa symphonia sequi­ tur musicam. Procul dubio m usica exornat anim am rationabiliter ad antiquam naturam reuocans et efficiens talem demum, qualem initio deus opifex eam fecerat. Tota porro musica in uoce et auditu et sonis posita est. Utilis ergo etiam iste sensus est philosophiae totius asse­ cutioni ad notationem intellegibilis rei.

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finalmente all’armonia originaria le anime che deviano dalla retta via. Inoltre l’armonia più alta nel nostro modo di vivere è la giustizia, la più importante tra tutte le virtù, per mezzo della quale anche le altre virtù com­ piono il loro dovere e il loro compito, in modo che la ragione sia veramente la guida689, e quel vigore interno che è simile all’ira si offra poi benevolmente come aiuto alla ragione; inoltre queste cose non possono avvenire senza armonia, ma non vi sarebbe appunto nessuna armonia senza melodia e la melodia a sua volta, accom­ pagna la musica. Senza dubbio la musica abbellisce l’anima in modo razionale, richiamandola alla natura ori­ ginaria e rendendola infine tale quale il dio artefice l’a­ veva creata in principio. Ora, la musica nella sua inte­ rezza è posta nella voce, nell’udito e nei suoni. Dunque anche questo senso è utile nel conseguimento della filo­ sofia ai fini dell’indagine sull’intellegibile.

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< DE SILUA>

CCLXVIII D einde ait: «N un c quoniam cu ncta exceptis admodum paucis executi sumus, quae prouidae mentis intellectus instituit, oportet de illis etiam quae necessitas inuexit dicere». Mundi sensilis explana­ turus omnem substantiam iure com m em orat prope omnia se pertractasse quae prouida mens dei contulerit, efficiens eum ad exemplum et similitudinem intellegibi­ lis mundi, solumque residuum superesse tractatum, ex quo ea quae necessitas inuexit considerentur, quando prouidis necessariisque rationibus m undi uniuersitas constare uideatur. Necessitatem porro nunc appellat hylen, quam nos Latine siluam possumus nominare, ex qua est rerum uniuersitas eademque patibilis natura, quippe subiecta corpori principaliter, in qua qualitates et quantitates et omnia quae accidunt proueniunt; quae cum «a natura propria non recedat», diuersis tamen et contrariis speciebus eorum quae intra se recipit formi­ sque uariatur. Hanc igitur explanare proposuit dicturus deinceps rationem ob quam necesse fuerit tractatum hunc minime praeteriri. CCLXIX Denique addit: «M ixta siquidem m undi sensibilis ex necessitatis intellegentiaeque coetu consti­ tit generatio». Quia igitur de mundi generatione tracta­ tur perfecteque id fieri conuenit, oportet de utroque genere disseri; ex quo de natura siluae necessarius esse tractatus ostenditur. «M ixtam » uero «gen eratio n em »

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CCLXVIII Quindi afferma: «Ora, poiché, a parte qualche piccola omissione, abbiamo trattato tutto ciò che è stato creato dall’intelletto della mente provviden­ te, bisogna che parliamo anche di quelle cose che sono state apportate dalla necessità»690. Nell’intento di spie­ gare tutta la sostanza del mondo sensibile, Platone ricorda giustamente di aver esaminato tutte le cose che la provvida mente del dio ha prodotto, creandolo ad immagine e somiglianza691 del mondo intellegibile. Gli resta ora da trattare soltanto un argomento, che esamini ciò che è stato apportato dalla necessità, dal momento che il mondo appare essere composto da due fattori, provvidenza e necessità. Con il termine “necessità” Pla­ tone indica la h y le , che in latino possiamo chiamare silva692: da essa ha esistenza l’intero universo ed essa stessa è natura sensibile, in quanto soggetta al corpo prim a di tutto693, e in essa si manifestano la qualità, la quantità e tutti gli accidenti. E sebbene essa «non si allontani mai dalla propria natura»694, tuttavia si diver­ sifica nei differenti e opposti aspetti e nelle forme delle cose che accoglie in sé. Platone si è riproposto dunque di esaminare la materia e si accinge di seguito a spiegare per quale motivo non avrebbe assolutamente potuto trascurare questo argomento. CCLXIX Infine aggiunge: «Poiché la generazione del mondo sensibile consistette in una mescolanza, e risultò dall’unione dell’intelligenza e della necessità»695. Dal momento dunque che si discute della generazione del mondo ed è opportuno che ciò sia fatto in maniera completa, bisogna trattare di entrambi i fattori origina­ ri: e perciò risulta essere necessaria una trattazione della natura della materia. Platone parla di una «generazione

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dicit esse ideo quod ex diuersis elementis initiisque con­ stet, recteque ex necessitate et prouidentia; non enim ex his mixtus est mundus, sed consultis prouidae mentis et necessitatis rationibus constitit operante quidem proui­ dentia et agente, silua uero perpetiente exornationique se facilem praebente, penetratam siquidem eam usque quaque diuina mens format plene, non ut artes formam tribuentes in sola superficie, sed perinde ut n atura atque anima solida corpora permeantes uniuersa uiuificant. CCLXX Dehinc consequenter intellegentiae necessi­ tatisque demonstrat consortium, cum ita dicit: «dom i­ nante intellectu». Duplex porro est dominatio, altera uiolentior tyrannicae potentiae similis, item alia sancti­ tatis im peratoriae. Omne porro uiolentum non diu subiectum conseruat, sed facile perdit. «O m ne», inquit, «quod rationabiliter et regit et tuetur, prodest et melius efficit quod regit». Ut igitur mundus aeternus esset, oportuit siluam ei morigeram parentemque subdi nec aduersum exornationem suam resistentem, sed ita uictam, ut maiestati opificis libens cedat pareatque eius sapientiae, proptereaque dixit: «salu b ri persuasione rigorem necessitatis assidue trahente ad optimos actus. Itaque uicta», inquit, «et parente prouidis auctoritati­ bus necessitate prima rerum mundique exordia consti­ terunt», quia est et alia minus consulta parentia, quae

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m ista», per il fatto che risulta da elementi originari diversi, e giustamente dice «in seguito all’unione di provvidenza e necessità» e non «dalla necessità e dalla provvidenza»; infatti il mondo non è un miscuglio di questi due fattori, ma ha origine dalle deliberazioni dello spirito provvidenziale e dalle cause della necessità; ed evidentemente, mentre la provvidenza opera e agi­ sce, la materia ne subisce l’azione e si lascia plasmare docilmente; la mente divina, infatti, la penetra intera­ mente e le dà forma completa, non come le arti che danno forma agli oggetti solo nell’aspetto esteriore, ma nel modo in cui la natura e l’anima pervadono i corpi solidi e danno vita a tutte le cose. CCLXX Perciò, sulla base di tutto questo, illustra l ’unione di intelligenza e necessità, quando dice così; «E l ’intelligenza dominava»696. Ora, il dominio può essere di due tipi, uno più violento, simile a un potere tiranni­ co, e parimenti un altro che ha il carattere sacro proprio dell’impero. Tutto ciò che è violento però non conserva a lungo quello che ha sottomesso, ma lo manda in rovi­ na facilmente. «Tutto ciò che regge e governa secondo ragione - dice Platone - è utile e rende migliore ciò che regge»697. Affinché dunque il mondo fosse eterno era necessario che la materia obbedisse all’intelletto in modo docile e arrendevole, e che si lasciasse plasmare senza opporre resistenza, ma così sottomessa da cedere di buon grado alla maestà dell’artefice e da obbedire alla sua sapienza. Perciò Platone dice: «E grazie a una salu tare persuasione, l ’intelletto trascinava la dura n ecessità sem pre verso gli atti m igliori. E perciò aggiunge - essendo la necessità sottomessa e obbeden­ do ai comandi della provvidenza, presero forma i prin­ cipi delle cose e le origini dell’universo»698, e ciò in modo tale che la necessità consista in un’obbedienza provvidenziale, fondata sulla ragione, poiché esiste anche un altro tipo di obbedienza, meno ponderata, che

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error et facilitas dicitur, ut sit prouida parentia ratione nixa necessitas, et opus dei tale est, ut ui persuadeat uimque inroget persuadentem, hoc est ut persuasio uim et uis adhibeat persuasionem; id porro perspicitur in aegritudinibus uirorum prudentium, cum praebent se medicis urendos ac secandos. CCLXXI Deinde progreditur: « S i quis ergo uere iuxtaque meram fidem mundi huius institutionem insi­ nuaturus erit, hunc oportet erraticae quoque causae speciem dem onstrare». Rursum alio siluam erro ris nomine appellat propter inordinatam eius antiquam iactationem, similiter ut «necessitatem », propterea quod non est principalis causa mundi constitutionis in silua, sed necesse fuerit ascisci eam ob substantiam corpora­ lem. Est quippe silua perinde ut sunt ea sine quibus quod institutum est effici non potest. CCLXXII Facto igitur recursu redit ad indaginem initiorum et incipit ex eo tem pore «q u o d p raeced it ortum generationemque mundi». Quaerit quoque natu­ ram ignis sinceri et sine permixtione, qualitatem quo­ que eius et «passionem», nec solius ignis sed ceterorum quoque corporum serenorum nec ulla contagione inter­ polatorum; omnes quippe, qui de originibus tractauerunt uniuersae rei, quattuor sunt materias executi has quae concretione mutua ex m aioris atque obtinentis m ateriae uocabulo cognom inatae sunt. «Q u a te n u s porro eaedem materiae et ex quibus antiquioribus sub­ stiterin t, nemo usque adhuc d ix erat, sed tam qu am scientibus naturam sinceritatem que earum ignem et aera et aquam et terram uelut elementa m undi sensilis esse dixerunt, quae ne in syllabarum quidem ordinem

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si chiama “errore” o “leggerezza”; ma l’opera del dio è tale da persuadere con la forza e da imporre una forza persuasiva, in modo cioè che la persuasione adoperi la forza e la forza la persuasione; questo comportamento può essere osservato quando sono ammalati degli uomi­ ni saggi ed essi si offrono da sé ai medici per essere curati con la cauterizzazione o l’amputazione699. CCLXXI Prosegue poi: «Se uno dunque vorrà far conoscere in modo veridico e degno di assoluta fiducia come questo mondo ebbe origine, dovrà spiegare anche la specie della causa errante»700. Ancora una volta chia­ ma la materia con un nome diverso, cioè «errore», per il suo originario movimento agitato e privo di ordine701, allo stesso modo in cui la chiama «necessità», per il fatto che la causa principale della creazione del mondo non consiste nella materia, ma era necessario che si adottasse la materia per la sostanza corporea delle cose. La materia è infatti come una di quelle cose senza cui non si può fare ciò che si è stabilito di fare702. CCLXXII Perciò «andando di nuovo indietro»703 torna a esaminare i principi e comincia da quel tempo «che precede la nascita e la generazione del mondo»704. Indaga anche la natura del fuoco puro e immune da mescolanza, e pure la sua qualità e le sue caratteristi­ che705, e non soltanto del fuoco, ma anche di tutti gli altri elementi puri e non alterati dal contatto con nessu­ na cosa; infatti tutti coloro che trattarono le origini del­ l ’universo esaminarono questi quattro elementi che, in base alla reciproca mescolanza, hanno preso il nome da quello dell’elemento dominante e prevalente. «Ma entro q u ali lim iti e da quali elementi precedenti abbiano avuto inizio queste materie, nessuno finora l’aveva spie­ gato, ma dissero che fuoco e aria e acqua e terra erano come i principi dell’alfabeto del mondo706, come se ne conoscessimo la natura nella sua purezza: essi invece non devono essere paragonati neppure alle sillabe»707.

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locanda sunt». Quia sermonis dem enta litterae sunt, post quas secundi ordinis syllabae, recte dixit quattuor haec mundana corpora ne in syllabarum quidem ordi­ nem collocanda. Quippe primum elementum uniuersae rei silua est informis ac sine qualitate quam, ut sit mun­ dus, format intellegibilis species; ex quibus, silua uidelicet et specie, ignis purus et intellegibilis ceteraeque sin­ cerae substantiae quattuor, e quibus demum hae mate­ riae sensiles, igneae aquatiles terrenae et aereae. Ignis porro purus et ceterae sincerae intellegibilesque sub­ stantiae species sunt exem p laria corp orum , id eae cognominatae; quarum ad praesens differt exam inatio­ nem nec quaerit, unane sit archetypa species eorum quae sunt communis omnium, an innumerabiles et pro rerum existentium numero, quarum coetu et congrega­ tione concreuerit uniuersa moles, an uero idem unum pariter et multa sint, ut docet in Parmenide. Quae causa declinandi fuit non laborem, sed ne instituto sermoni minime conueniens tractatus admisceatur; haec quippe naturalis, illa epoptica disputatio est, naturalis quidem, ut imago nutans aliquatenus et in ueri sim ili quadam stabilitate contenta, epoptica uero, quae ex sincerissi­ mae rerum scientiae fonte manat. CCLXXIII «Deum ergo», inquit, «etiam nunc lib e­ ratorem inuoco ex turbida et procellosa sermonis iactatione». Laborat omnino et id agit, ut instituam ur ad pietatem uenerationemque diuinitatis, cuius opem exo­ rat ingrediens procellosum de natura silu ae fretum

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Poiché gli elementi del discorso sono le lettere e dopo di esse le sillabe, elementi di secondo grado, giustamen­ te Platone dice che queste quattro sostanze del mondo non devono essere paragonate alle sillabe. Infatti il prim o elemento dell’universo è la materia, priva di forma e di qualità: affinché diventi mondo, essa viene plasmata dalla forma intellegibile708. Da queste, vale a dire dalla materia e dalla forma, derivano il fuoco puro e intellegibile709 e le altre quattro sostanze pure, dalle quali infine procedono queste quattro sostanze sensibi­ li, quelle fatte di fuoco, di acqua, di terra e di aria. Inoltre il fuoco puro e le altre forme pure e intellegibili della sostanza, sono i modelli dei corpi e sono chiamati «id ee»710; e, per il momento, Platone rimanda l’esame di esse e non indaga se vi sia un’unica forma originaria comune a tutte le cose che esistono, o se ve ne siano innumerevoli, proporzionalmente al numero delle cose che esistono711, e dall’unione e dall’aggregazione di esse abbia preso forma tutto l’universo, o se piuttosto la medesima forma sia allo stesso tempo una e molteplice, come spiega nel Parmenide112. Ed egli tralascia queste cose non per evitare la fatica, ma per non mischiare al discorso intrapreso un argomento che non si accorda affatto con esso713; la prima, infatti, è una trattazione di carattere naturale, mentre la seconda è una trattazione «ep o p tica»714: quella naturale, invero, è tale che l’im­ magine risulta instabile fino a un certo punto e risiede in una sorta di certezza verosim ile, mentre quella «e p o p tic a » scaturisce dalla fonte della più limpida conoscenza. C C LX X III «D unque invoco ancora il dio che ci liberi dai pericoli di un’esposizione confusa e tempesto­ sa»715, dice Platone. E si preoccupa di far ciò, senza dubbio, per educarci all’amore e alla venerazione nei confronti della divinità, il cui aiuto implora adesso che si accinge a procedere nel mare tempestoso del discorso

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propter «nouum» atque «insolitum» etiam tunc «dispu­ tationis genus. Rursum ergo ab exordio d icam u s», inquit. Merito. Iam enim de utraque origine tam exem­ plari quam corporea tractauerat concedens sensilem mundum ex isdem substitisse; quippe id quod gignitur et perit nec uere semperque est, corporea species est. Quae quidem corpora cum sola et per se ac sine susci­ piente [ex] eadem essentia esse non possunt, quam modo «m atrem », alias «nutriculam », interdum totius gen eratio n is « g re m iu m », non n u m q u am « lo c u m «appellat quamque iuniores hylen, nos siluam uocamus, ut quod deerat adderet, hunc de silua tractatum initio­ rum tractatui iungit «posteriorem que diuisionem » ait «operosius esse ordinandam. «Tunc quippe» res omnis «in duo fuerat» initia «diuisa», quorum «alterum intel­ legibilis erat species», quam mundi opifex deus mente concepit, eamque «idean » cognominauit Plato, « a lte ­ rum imago eius», quae natura est corporis. CCLXXIV Porro corpora, si per se ipsa spectentur, perfectam uidebuntur habere substantiam, sed si ad ori­ ginem eorum conuertis mentis intentionem , inuenies cuncta et eorum «scatebras» siluae grem io contineri. Tunc ergo compendio principalibus materiis quattuor sumptis exaedificauerat sermone m undum , sed quia erat philosophi proprium cuncta quae ad causam perti­ nent summa cura mentis et diligentiore examine pera­ grare, ratio porro asserit subiacere corporum diuersitati siluae capacitatem, recte rationabiliterque censuit hanc ipsam rationem trahendam usque ad in te lle g e n tia e lucem, difficile opus omnino uel assequi, longe tamen

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sulla natura della materia, a causa «del carattere nuovo e ancora inusuale della discussione». «Ricominciamo dunque a parlare dall’inizio»716 dice. Giustamente. In­ fatti aveva già trattato di entrambi i principi originari, sia di quello formale che di quello corporeo, ammetten­ do che il mondo sensibile risulta costituito da questi due; infatti ciò che nasce e muore e non esiste davvero e per sempre è la forma corporea717. E poiché questi corpi, invero, non possono esistere da soli e di per sé e senza la sostanza che li accoglie, e che egli chiama ora «m ad re»718, ora «nutrice»719, talvolta «grembo»720, e anche «luogo»721, di tutto ciò che è generato, e che i filosofi platonici più recenti722 chiamano hyle e noi silva , per aggiungere ciò che manca, unisce al trattato sui prin cipi questo trattato sulla materia e dice che «bisogna stabilire un’ulteriore e più elaborata divisio­ ne»723. Prima infatti tutto l’universo «era stato distinto in due principi iniziali: l’uno di essi era la forma intelle­ gib ile»724 che il dio creatore del mondo ha concepito nella sua mente, ed è quella che Platone chiama “idea'5; « il secondo era 1’ immagine di essa»725, e questa è la natura del corpo. CCLXXIV Inoltre, se i corpi si considereranno di per sé, sembreranno possedere una sostanza perfetta, ma se rivolgi l’attenzione alla loro origine, ti renderai conto che tutte le cose e le loro «sorgenti» sono conte­ nute nel grem bo della materia. Prima dunque, per ragioni di brevità, aveva posto come principio le quat­ tro sostanze fondamentali e aveva spiegato la costruzio­ ne726 del mondo; ma poiché è proprio del filosofo inve­ stigare con la massima attenzione e con un esame più accurato ciò che riguarda le cause, e inoltre la ragione afferma che alla base della diversità dei corpi vi sia la attitudine della materia ad accogliere le idee, credette giustamente e razionalmente che questa stessa ragione dovesse essere condotta alla luce della comprensione e

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difficilius declarare ac docere. Talis quippe natura est initiorum, quae neque exemplis demonstrari, nondum his quae ad exemplum comparentur existentibus, possit nec ex praecedenti ratione aliqua intimari - nihil quip­ pe origine antiquius - , sed obscura quadam lum inis praesumptione, non ut quid sit explices, sed contra sublatis quae sunt singulis quod solum remanet ipsum esse quod quaeritur intellegendum relinquas, hoc est, ut uniuersis corporibus, quae intra gremium siluae uarie uaria formantur mutua ex alio in aliud resolutione, singillatim ademptis solum ipsum uacuum sinum specula­ tione mentis imagineris. CCLXXV Qua ratione factum ut, cum nullus eam ueterum dubitet esse, utrum tam en facta an contra infecta sit disceptetur eorumque ipsorum, qui infectam sine generatione posuerunt, p leriq u e continuam et iugem, alii uero diuisam putent rursumque eorum, qui diuiduam esse censent, partim sine qualitate et infor­ mem, partim formatam esse pronuntient, hi uero, qui iugem continuatamque posuerunt, disceptent inter se de qualitatibus formaque eorum quae ibidem confor­ mantur et omnium quae isdem accidunt, utrum ex silua proueniant an ex alio potiore numine accommodentur. Quorum breuiter perstringentur opiniones. CCLXXVI Hebraei siluam generatam esse censent. Quorum sapientissimus Moyses non humana facundia sed diurna, ut ferunt, inspiratione uegetatus in eo libro qui «De genitura m undi» censetur ab exordio sic est profatus iuxta interpretationem septuaginta p ru d en ­ tium: «Initio deus fecit caelum et terram, terra autem

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che fosse certamente un’impresa ardua capirla, ma di gran lunga più difficile spiegarla e insegnarla727. Infatti la natura dei principi è tale che non può essere spiegata con esempi, poiché adesso non esiste ancora nulla che possa essere portato ad esempio, né può essere resa intellegibile per mezzo di una qualche causa precedente - poiché nulla è più antico dell’origine - ma per mezzo di una sorta di oscura presunzione di comprensione728, non nel senso che tu possa spiegare cosa sia, ma che, al contrario, eliminate a una a una le cose che vi sono729, lasci che la sola cosa che rimane sia proprio quella che si cerca di comprendere. In altre parole, tolti uno alla volta tutti i diversi corpi che in diverso modo si forma­ no nel grembo della materia, per reciproca dissoluzione degli uni negli altri, immaginerai con la speculazione della mente quello stesso grembo vuoto. CCLXXV Per questo motivo, seppure nessuno degli antichi dubitava dell’esistenza della materia, tuttavia avvenne che si discutesse se essa fosse creata730 o, al contrario, non creata; e che tra quelli che la considera­ vano non creata e priva di nascita, la maggior parte la ritenessero continua e priva di interruzioni, e gli altri d ivisibile in parti731; e che tra quelli che pensavano fosse divisibile, alcuni la dichiarassero priva di qualità e di forma732, altri dotata di forma propria; e che questi che invece la considerarono ininterrotta e continua, discutessero tra di loro sulle qualità e la forma di quelle cose che in essa vengono plasmate e di tutti i loro acci­ denti, se cioè derivassero dalla materia o se venissero attribuiti da un’altra potenza superiore. E sfioreremo brevemente le loro opinioni. CCLXXVI Gli Ebrei ritengono che la materia sia sta­ ta creata733. Il più sapiente tra loro, Mosé, animato, co­ me essi dicono, dall’ispirazione divina più che dall'uma­ na facondia734, nel libro intitolato Genesi, cominciò in questo modo, secondo la traduzione dei Settanta sapien-

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erat inuisibilis et incompta», ut uero ait Acyles: «Caput rerum condidit deus caelum et terram, terra porro ina­ nis erat et nihil», uel ut Symmachus: «Ab exordio con­ didit deus caelum et terram, terra porro fuit otiosum quid confusumque et in o rd in atum ». Sed O rigenes asseuerat ita sibi ab Hebraeis esse persuasum quod in aliquantum sit a uera proprietate deriuata interpretatio; fuisse enim in exemplari: «Terra autem stupida quadam erat admiratione». Omnia tamen haec in unum aiunt concurrere, ut et generata sit ea quae su b iecta est immerso corpori silua sermonesque ipsos sic interpre­ tantur: initium minime temporarium dici - neque enim tempus ullum fuisse ante mundi exornationem dieique et nocturnas uices quibus temporis spatia dimensa sunt —, tum initii multas esse significationes, «u t initium sapientiae timorem domini fore» Salomon ait, item : «In itiu m sap ien tiae cu ltu s d e i» n ih ilo q u e m in u s: «Initium uiae optimae iustus actus»; atque etiam in praeconio sapientiae caelestis auctor «In itiu m uitae panis et aqua et tu n ica», in q u it, « e t dom us idon ea uelandis pudendis», quippe in his non una in itii sed diuersa et m ultiplex habetur significatio. Est tam en unum rerum omnium in itiu m , de quo Salo m on in Prouerbiis «C reauit m e», inquit, «deus progressionis suae semitam, cui nitens efficeret opera diuina constituitque ante ortum mundi terraeque et profundi funda­ tionem, ante tractus fontium aggestionesque m onta­ nas», aperte indicans praeeunte diuina sapientia caelum terramque facta eandemque diuinam sapientiam fore uniuersitatis primordium. Ex quo apparet sapientiam factam quidem a deo, sed non aliquo in tem pore neque enim fuerit tempus ullum, quo deus fuerit sine

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ti: «In principio Dio fece il cielo e la terra; ma la terra era invisibile e disadorna», o come dice Aquila735: «Co­ me prima cosa Dio creò il cielo e la terra, ma la terra era vuoto e nulla»; o, secondo Simmaco: «All'inizio Dio creò il cielo e la terra, ma la terra era inerte, confusa e disordinata»736. Ma Origene attesta di essere stato con­ vinto dagli Ebrei del fatto che la traduzione si sia alquanto allontanata dal vero significato; infatti nel testo originale si leggeva: «Ma la terra giaceva in uno stato di stupefatta ammirazione»137. Tutte queste versioni si accordano comunque su un punto, sul fatto cioè che la materia, che è posta alla base del tutto, sia anche creata, e interpretano le stesse parole in questo modo: il termine «inizio» non è inteso in senso temporale, poiché prima dell’ordinamento del mondo non esisteva nessun tempo e nessun avvicendamento dei giorni e delle notti, ovvero ciò in base a cui si misura il tempo; inoltre la parola «ini­ zio» ha molti significati, ad esempio quando Salomone dice che «L’inizio della sapienza è il timor di Dio»738, e parimenti: «L’inizio della sapienza è il servizio di Dio»739 e ancora: «L’inizio della via migliore è l’agire giustamen­ te»740 e nel suo inno sulla Sapienza il divino autore dice: «L ’inizio della vita è il pane e l’acqua e la veste e una casa che ripari le parti intime»741; in questi passi, infatti, il termine «inizio» non ha un solo significato, ma ne ha vari e diversi. Vi è tuttavia un inizio di tutte le cose, a proposito del quale Salomone dice, nei Proverbi: «Dio mi ha creato come sentiero del suo cammino, sul quale poggiare per compiere le sue opere divine, e mi ha crea­ to prima dell’origine del mondo e della terra e prima di fondare l ’abisso, e prima di far scorrere dei fiumi e di ammassare le montagne»742, indicando chiaramente che la sapienza divina precedeva e che dopo furono creati il cielo e la terra e che quella stessa sapienza divina era il p rin cip io d e ll’universo. Da ciò risulta chiaro che la sapienza è stata, sì, creata da Dio, ma non nel tempo infatti non potrebbe essere esistito un tempo in cui Dio

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sapientia - quodque deum percipi cogitationibus homi­ num ante quam sapientiam eius sit necesse ob eminen­ tiam naturae, quia prius cuius res est, tunc demum ipsa res noscitur. Et de initio quidem sic habendum. CCLXXVII Quod autem caelum quam ue terram Scriptura loquatur, intellegendum . Qui tum ultuario contenti sunt intellectu, caelum hoc quod uidem us et terram qua subuehimur dici putant. Porro qui altius indagantur, negant hoc caelum ab initio factum , sed secundo die - namque ab initio factum lum en idque diem esse cognominatum, hoc uero caelum postea quod deus appellauerit «soliditatem » - ; tertio deinceps die remotis aquis apparuit « sic c a » eique terrae nom en impositum, ut sit euidens neque hoc caelum cognitum nobis neque hanc in qua sumus terram ab exo rd io facta, sed alia esse antiquiora, intellectu potius quam sensibus haurienda. Aliud ergo uerum caelum et aliud quiddam esse soliditatem Scriptura testatur eodemque modo aliud terram et item aliud siccam. CCLXXVIII Quod ergo illud caelum prius quam cetera deus condidit quamue terram ? Philo carentes corpore atque intellegibiles essentias fore censet, ideas et exemplaria tam siccae istius terrae quam soliditatis; denique etiam hominem prius intellegibilem et exem ­ plum archetypum generis humani, tunc demum corpo­ reum factum a deo esse dicit. Alii non ita, sed scientem prophetam duas esse species rerum omnium, alteram intellegibilem , alteram sensibilem , eas u irtutes quae utramque naturam circumplexae contineant caelum et

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è stato privo della sapienza743 - e che è inevitabile che gli uomini comprendano col loro pensiero Dio prima della sua sapienza, a causa della superiorità della sua natura, poiché prima si conosce ciò a cui una cosa appartiene e soltanto dopo quella cosa. E in questo mo­ do appunto dovremo intendere la parola «inizio». CCLXXVII Ora bisogna capire di quale cielo e di quale terra parli la Scrittura. Quelli che si accontentano di una comprensione confusionaria credono che si parli del cielo che vediamo e della terra che ci porta. Invece quelli che ricercano più a fondo, dicono che questo cielo non è stato creato fin dall’inizio, ma nel secondo giorno - e infatti all’inizio era stata creata la luce ed era stata chiamata «giorno» e dopo di essa questo cielo che Dio chiamò «firmamento»744. In seguito, nel terzo giorno, allontanate le acque, apparve l’asciutto745 e ad esso fu dato il nome di «terra», cosicché risulta evidente che né questo cielo che conosciamo né questa terra in cui ci troviamo sono stati creati fin dall’inizio, ma che vi sono altre cose più antiche, che possono essere percepite con l ’intelletto piuttosto che con i sensi. Dunque la Scrittura attesta che una cosa è il vero cielo e un’altra è il firma­ mento, e, allo stesso modo, che una cosa è la terra e parimenti un’altra è l’asciutto. CCLXXVIII Quale altro cielo, dunque, Dio creò prim a delle altre cose e quale terra? Filone ritiene che si tratti di essenze immateriali e intellegibili, idee e model­ li di questa terra asciutta e del firmamento746; infine anche l ’uomo, secondo lui, fu creato da Dio prima come essere intellegibile e modello originario del genere umano, e soltanto dopo come essere corporeo747. Altri non la pensano così, ma credono che il profeta748, poi­ ché sapeva che tutte le cose hanno due forme, una intel­ legib ile e una sensibile, abbia denominato «cielo » e «terra» quelle qualità che abbracciano e comprendono le due nature, e che abbia chiamato «cielo» la natura

terram cognominasse, caelum quidem incorpoream naturam, terram uero, quae substantia est corporum, quam Graeci hylen uocant. A stipulantur his ea quae sequuntur, «terra autem erat inuisibilis et inform is», hoc est silua corporea, uetus mundi substantia, prius quam efficta dei opificis sollertia sumeret formas, etiam tunc decolor et omni carens qualitate. Quod uero tale est, inuisibile certe habetur et informe; «inan is» porro et «nihil» propterea dicta, quia, cum sit omnium quali­ tatum receptrix, propriam nullam habet ex natura. Silua ergo, ut quae cuncta quae accidunt recipiat in se, «in a ­ nis» appellata et, ut quae compleri numquam posse uideatur; porro quia sit expers omnium , nih il dicta. «Otiosa uero et indigesta» nuncupatur a Symmacho; quod quidem per se nihil ualeat, otiosa, quod uero habeat opportunitatem suscipiendi ordinis ab exornan­ te semet deo mundum moliente, «indigesta» censetur. «Stupidae» uero «ex adm iratione» significatio animae uim quandam similitudinemque declarat, siquidem opi­ ficis et auctoritatis sui maiestate capta stuperet. Q uod si facta est a deo silua corporea quondam informis, quam Scriptura terram uocat, non est, opinor, desperandum incorporei quoque generis fore intellegibilem siluam , quae caeli nomine sit nuncupata; factam uero et ita fac­ tam, ut sit quae non fuerit, sic probant, quod opificibus mortalibus apparata ab aliis opificibus silua praebeatur hisque ipsis natura suppeditet, naturae deus, deo nemo apparauerit, quia nihil deo sit an tiqu ius; ipse ig itu r siluestres impensas m undi fabricae sufficientes utilesque constituit. M ultasque alias probationes afferunt, quas singillatim persequi longum est.

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incorporea, «terra» invece quella che costituisce la sostanza dei corpi e che i Greci chiamano hyle. Con­ corda con ciò l’espressione che segue: «Ma la terra era invisibile e priva di forma»; si tratta della materia cor­ porea, l ’antica sostanza del mondo, prima che, plasmata dalla perizia del dio artefice, assumesse le varie forme, quando era ancora incolore e priva di ogni qualità749. E davvero, ciò che è tale si deve sicuramente pensare invi­ sib ile e senza forma; è chiamata inoltre «vuoto» e «n u lla» per questo motivo, poiché, pur essendo capace di accogliere tutte le qualità, non possiede in sé nessuna qualità. La materia dunque, in quanto capace di riceve­ re in sé tutti gli accidenti, è chiamata «vuoto» poiché pare che non possa mai essere riempita. Inoltre è detta «nulla», poiché è priva di tutto. Simmaco poi la defini­ sce «inerte e disordinata»: è giudicata inerte poiché di per sé non può nulla, disordinata perché ha l’attitudine a ricevere ordinamento dal Dio creatore del mondo che la adorna. Quanto poi al significato dell’espressione «stupefatta per l’ammirazione», essa rivela una capacità simile a quella dell’anima, giacché essa rimaneva stupi­ ta, conquistata dalla maestà dell’artefice e dalla sua potenza. Ora, se fu creata da Dio una materia corporea che un tempo era priva di forma e che la Scrittura chia­ ma «terra», non c’è motivo, credo, di dubitare che vi sia anche una materia intellegibile, di genere incorporeo, che sia indicata col nome di «cielo»; essa è stata dunque creata, e creata nel senso che esiste ora quella terra che non esisteva prima, e lo dimostrano così: e la materia preparata per artefici mortali è stata offerta loro da altri artefici, e a questi stessi è stata fornita dalla natura e alla natura da Dio; ma Dio non l’ha ricevuta da nessuno, po iché n u lla esiste prima di Dio; Egli dunque creò ingredienti materiali sufficienti e utili alla costruzione del mondo750. Ed essi apportano molte altre prove; ma sarebbe lungo esaminarle una per una.

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CCUCXIX Restat nunc, ut eorum quoque qui gene­ ratam esse corpoream siluam negant sententias exequamur; quorum aeque diuersae opiniones omnino sunt. Sunt enim qui textum eius et quasi continuationem quandam corpusculis, quae intellegantur potius quam sentiantur, conexis sibi inuicem assignent in aliquo modo positis et aliquatenus figuratis, ut Democrito et Epicuro placet. Addunt alii qualitatem, ut Anaxagoras, sed hic omnium materiarum naturam proprietatemque in singulis materiis congestam esse censet; alii propter exiguitatem indiuiduorum corporum, quorum numerus in nullo fine sit, subtilitatem siluae contexi putant, ut Diodorus et non nulli Stoicorum, quorum sit fortuitus tam coetus quam segregatio. Quas opiniones, cum sint omnino sine fine, praetereo. CCLXXX Qui tamen prouidentiae opus siluae quo­ que constitutionem esse pronuntiauerunt, censent eam una quadam ab exordio usque ad finem continuatione porrectam, nec tamen omnes eodem modo; aliter enim Pythagoras et item aliter Plato diuersoque Aristoteles modo et cum aliquanta differentia Stoici. Sed hi quidem omnes informem eam et sine ulla qualitate constituunt, alii formam dederunt, ut T hales, quem feru n t ante omnes naturalia esse secreta rim atum , cum in itiu m rerum aquam esse dicat, opinor ideo quod omnem uictum quo utuntur quae uiuunt humectum uideret; inque eadem se n te n tia H o m eru s esse in u e n itu r , cum Oceanum et Tethyn dicat parentes esse geniturae, cum ­ que iusiurandum deorum constituat aquam, quam q ui­ dem ipse appellat Stygem, antiquitati tribuens reuerentiam et iureiurando nihil constituens reuerentius. At

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CCLXXIX Ci rimane ora da spiegare le opinioni di coloro che negano che la materia corporea sia stata crea­ ta; anche i pareri di costoro sono affatto diversi. Infatti alcuni ritengono che essa abbia un corpo continuo e come una sorta di compattezza751 che attribuiscono a delle particelle, percepibili più dall’intelletto che dai sensi, connesse reciprocamente tra loro, disposte in qualch e modo e dotate di una certa forma752; così sostengono Democrito ed Epicuro. Altri affermano che abbia anche la qualità, e tra questi Anassagora753, ma quest’ultimo pensa che la natura e le caratteristiche di tutte le materie siano contenute nel singolo tipo di mate­ ria. Altri, ad esempio Diodoro e alcuni Stoici754, credo­ no che la sottile struttura della materia sia tutta collegata con se stessa per via della piccolezza delle particelle indivisibili, il cui numero è infinito, e che l’unione e la sepa­ razione delle particelle siano accidentali. E poiché que­ ste teorie sono veramente innumerevoli, le tralascio. C C LX X X Q uelli comunque che affermano che anche la costituzione della materia sia opera della prov­ videnza755, pensano che essa si distenda in un tutto con­ tinuo dall’inizio alla fine, e tuttavia non tutti allo stesso modo. In un modo infatti la pensa Pitagora, e in un altro Platone, in maniera ancora diversa Aristotele e in modo alquanto differente gli Stoici. Tutti costoro, comunque, la ritengono priva di forma e di qualità, mentre altri le attribuirono una forma, come Talete, che si dice sia stato il primo ad indagare i misteri della natura: egli asseriva che il principio di tutte le cose fosse l’acqua, per questo motivo, credo, che osservava che tutti i cibi di cui si ser­ vono gli esseri viventi sono umidi756; e si deduce che anche Omero fosse della stessa opinione, quando dice che Oceano e Teti erano i progenitori di tutto ciò che è generato757 e quando afferma che gli dei giuravano sul­ l ’acqua758, che lui chiama «Stige»: e lo diceva perché attribuiva onore a ciò che è antico; ed egli non reputava

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uero Anaximenes aera iudicans initium rerum, initium quoque corporum ceterorum et ipsius aquae, non con­ sentit Heraclito caput rerum ignem putanti. Omnes ergo hi qui uel aquae uel aeri uel igni tribuunt principa­ tum, in motu positam rerum originem censuerunt. CCLXXXI Sunt tamen qui immobilem fore defen­ dant et eandem ex omnibus in unam molem redactam, unum omnia esse censentes immobile sine ortu et sine interitu, ut X enophanes M elissus P arm en id es; sed Parmenides quidem unum omne perfectum et defini­ tum pronuntiat, Melissus infinitum et indeterminatum. CCLX XX II E m pedocles u ariu m et m u ltifo rm e quiddam esse siluam docet quattuor diuersis sustenta­ tum radicibus ignis aquae aeris terrae atque ex his fieri corporum modo concretionem , modo discretionem ; idemque concretionem quidem uocat amicitiam, discre­ tionem uero discordiam. Hi sunt, opinor, qui formatam descriptamque qualitatibus et corpus siluam esse pro­ nuntiant. CCLXXXIII At uero qui detrahunt ei q u alitates informemque constituunt et sine consortio corporum solam per semet ipsam mente intuentur, Aristoteles qui­ dem tria initia constituit corporeae rei, siluam speciem caren tiam , eaq u e sin g u la sin e d u um re s id u o ru m conexione considerat, licet profiteatur altera sine alteris esse non posse. Idem sine genitura et sine interitu dicit mundum esse diuina prouidentia perpetuitati propaga­ tum. Cuius sententia cum sit praeclara et nobilis et ad

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nulla più onorevole del giuramento. Invece Anassimene ritiene che il principio delle cose, il principio di tutti gli altri corpi e anche dell’acqua, sia l’aria e non è d’accor­ do con Eraclito, che pensa che l’origine di tutto sia il fuoco. Dunque tutti questi che attribuiscono il primato all’acqua, all’aria o al fuoco, credono che l’origine delle cose sia posta nel movimento. CCLXXXI Altri tuttavia sostengono che la materia sia immobile e che, rimanendo sempre la medesima, sia ricondotta a un’unica massa da tutte le cose, e pensano che l ’universo sia una cosa unica, immobile, senza nascita e senza fine759; tra questi Senofane, Melisso e Parmenide; ma Parmenide afferma, invero, che quest’u­ nico tutto sia perfetto e delimitato, Melisso che sia infi­ nito e indeterminato760. CCLX XX II Empedocle insegna che la materia è qualcosa di vario e multiforme, sostenuta dai quattro diversi principi del fuoco, dell’acqua, dell’aria e della terra, e che in virtù di essi avviene ora l’unione, ora la separazione dei corpi; ed egli poi chiama veramente l’u­ nione «am icizia», e la separazione invece «discordia». Questi sono i filosofi, credo, che affermano che la mate­ ria abbia una forma e determinate qualità e sia qualcosa di corporeo. CCLXXXIII Quanto invece a quelli che negano alla materia ogni qualità e la considerano priva di forma e la concepiscono, nella loro mente, sola e priva di qualsiasi corporeità, Aristotele stabilisce che vi sono tre principi della sostanza corporea, materia, forma e privazione761 e considera ognuno di questi indipendentemente dal suo rapporto con gli altri, pur ammettendo che l'uno non possa esistere senza gli altri. Egli sostiene inoltre che il mondo non ha né inizio né fine, ma che la divina provvi­ denza ne propaga l’esistenza nell’eternità. E poiché la sua opinione, oltre a essere illustre e di grande valore, si accorda anche abbastanza con l’esame della dottrina

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Platonici dogmatis considerationem satis accommodata, non otiose praetereunda est; prius tamen exponendus uidetur physicorum ueterum syllogism us, qui asserit nihil eorum quae sunt generatum esse nec periturum fore. Formula syllogismi talis est: Si quid fit, id necesse est uel ex eo fieri quod iam erat uel ex eo quod non est. Utrumque autem im possibile, de existen te quidem , quia quod iam dudum est fieri ad praesens non potest id enim quod gignitur nondum est - nec uero de non existente, quia necesse est ei quod fit subesse aliquam materiam ex qua fiat: nihil ergo fit. Sed nec corrum pi­ tur; id enim quod corrumpitur uel in aliquas reliquias uel in nullas dissoluitur, sed neque in aliquas, ut docebi­ tur, neque in nullas: nihil ergo corrumpitur. Ostensum est porro, quod nec fiat quid: neque igitur fit aliquid neque corrumpitur. Quatenus ergo quod est et quod corrumpitur negamus in nihilum posse dissolui? Quia quod est et idem corrumpitur ac perit: si in nullas reli­ quias dissoluatur, erit pariter et non erit, quod rationem non habet; rursum si erit aliquid futurum quod dissolui­ tur, illud et perit et non perit. CCLXXXTV Hoc syllogismo ueteres physici tollere co n ab an tu r reru m g e n itu ra m et in te r itu m . S ed A ristoteles d iu id it syllogism um n o tata et p atefacta duplici significatione nominum, existentis scilicet et non existentis, item uerborum fieri et corrumpi. Etenim omnia quae fiunt uel secundum naturam suam fiunt uel ex aliquo accidenti, ut puta si musicus aegrotus conualescat: quod quidem ex natura est, aegrotat et conualescit, non tamen quia musicus est; ex accidenti porro, quia musicus est, accidit quippe, ut musicus esset qui

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platonica, non bisogna tralasciarla con negligenza. Ma prim a mi pare che si debba spiegare quel sillogismo degli antichi filosofi naturalisti, secondo cui nessuna delle cose che esistono nasce né muore762. La formula del sillogismo è la seguente: «se una cosa nasce, è neces­ sario che essa derivi o da ciò che già vi era o da ciò che non è». Ma nessuna di queste due cose è possibile: non può derivare da qualcosa che esiste, poiché ciò che esi­ ste già da tempo non può cominciare a esistere ora infatti ciò che nasce, non è ancora -, ma nemmeno da ciò che non esiste, poiché è necessario che alla base di ciò che esiste vi sia una qualche materia dalla quale esso deriva763. Dunque nulla nasce. Ma nemmeno muore: infatti ciò che muore, o si dissolve in altre cose che rimangono o si dissolve nel nulla. Ma, come si chiarirà, né si dissolve in qualcosa, né si dissolve nel nulla; dun­ que nulla muore. Ma si è anche dimostrato che niente può nascere: dunque nulla nasce né muore. Ora, in che modo possiamo negare che ciò che esiste e che muore non possa dissolversi nel nulla? Il motivo è che la stessa cosa che esiste si consuma e muore: infatti se si dissol­ verà senza lasciare resti, esisterà e insieme non esisterà, ma ciò non ha senso; d’altra parte, se ciò che si dissolve diverrà qualcos’altro, esso muore e insieme non muore. CCLXXXIV Con questo sillogismo gli antichi filoso­ fi naturalisti tentavano di negare la nascita e la morte delle cose. Ma Aristotele divide in due il sillogismo, mostrando e rivelando il duplice significato dei termini, di «esistente», cioè, e di «non esistente», e parimenti dei verbi «divenire» e «morire»764. E infatti tutte le cose che esistono, esistono rispetto alla loro propria natura o per qualche accidente765: ad esempio, nel caso in cui un m u sicista m alato guarisca, ciò che avviene secondo natura è che egli sia malato e guarisca, ma questo non avviene tuttavia perché è un musicista; d’altra parte è un fatto accidentale, dal momento che è un musicista,

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aegritudinem sustineret. Sim iliter quod corrum pitur, si quid candidum pedalis p ro ceritatis co rru m p atu r in atrum colorem, secundum naturam quidem et prin cipa­ liter patitur immutationem sui, quia est candidum , ex accidenti uero, quia est pedalis modi. Cum igitur d ici­ mus musicum conualescere, tunc quod fit ex accidenti fit, quia prouenit ut conualescat; porro cum aegrotare eum dicimus, secundum naturam patitur. Rursum cum dicim us candidum illud pedalis m ensurae co rrum p i, quia conuertatur in nigredinem, hoc ex accidenti d ici­ mus fieri; cum uero candidum cognominamus, naturam eius exprimimus. Si ergo dicimus etiam de non existente fieri aliquid, dupliciter dicimus non existere: sem el iuxta naturam, quod est impossibile, ut quod nusquam omnino gentium est, ex eo aliquid fiat quod sit; iterum ex accidenti dicimus non existere, cum quod fit aliter se habebit quam erat antea et cui plus a cc id it quam a natura tributum est, ut si ex informi massa aeris sim ula­ crum fiat; informitas quippe aeris ex natura est, form ae uero impressio, quam imponit opifex, de non existente prouenit proptereaque ex accidenti d icitur prouen ire. Fieri tamen potest, ut ex eo quoque quod est fiat aliud quod sit, sed hoc ex accidenti, ut si cui gram m atico proueniat m edicinae scientia; nam et hic ex p erito fit alterius quoque disciplinae peritus. C onsequenter igitu r etiam corrum petur aliq u id et d isso lu etu r existen s in aliud existens, sed non principaliter, uerum ex acciden-

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che sia avvenuto che fosse un m usicista ad amma­ larsi766. Allo stesso modo avviene per ciò che si altera: se una cosa che è candida e ha la larghezza di un piede si altera, diventando di colore nero, ciò che essa subisce principalm ente rispetto alla sua natura è evidentemente il cam biam ento della sua essenza, poiché essa è di colo­ re bianco767; è accidentale, invece, il fatto che misuri un piede di larghezza. Perciò quando diciamo che il musi­ cista guarisce, allora ciò che avviene, avviene per acci­ dente, in quanto capita che egli guarisca; d’altra parte, quando diciamo che si ammala, soffre relativamente alla p ro p ria natura. Ancora, quando diciamo che quella cosa candida, della misura di un piede, si altera, poiché diventa nera, diciamo che ciò avviene accidentalmente; ma quando la definiamo «candida», parliamo della sua propria natura. Dunque, anche se diciamo che una cosa deriva da una cosa che non esiste, intendiamo la «non esistenza» in due modi: in un primo senso, secondo la natura, e ciò è impossibile: infatti non può avvenire che da ciò che non esiste affatto da nessuna parte derivi qualcosa che esista; e, d’altra parte, parliamo di «non esistenza» in senso accidentale, quando ciò che diviene, diviene in quanto si viene a trovare in uno stato diverso da com e era prim a e acquisisce più di quanto gli era stato attribuito per sua natura768: ad esempio, se da una m assa informe di bronzo viene fatta una statua; infatti la m ancan za di forma appartiene al bronzo per natura, m entre la forma impressa che l’artista gli dà deriva da qualcosa che non esiste e perciò si dice che avviene per accidente. Tuttavia può accadere che anche da qualcosa che già esiste derivi un’altra cosa, in modo che esista, m a ciò avviene per accidente, come se uno che è un g ra m m a tico acq u isisce la scienza m edica769; infatti co stu i, da esperto in una disciplina, diviene esperto anche in u n ’altra disciplina. Di conseguenza, dunque, anche una cosa che esiste si corromperà e si dissolverà in qualcos’altro che esiste, ma non in senso assoluto, ma

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ti, ut si ex simulacro Liberi patris formam quis transfe­ rat in simulacrum Apollinis; uidetur enim hoc quoque pacto forma in aliam speciem demigrare, sed non pro­ prie, uerum ex accidenti. Similiter poterit existens quid in non existens corrumpi ac resolui, sed non ut ex cor­ ruptela plenus afferatur interitus proueniatque, ut id quod erat nihil omnino neque uspiam gentium sit. CCLXXXV t Tna igitur haec ratio est iu x ta quam posse Aristoteles putat et fieri aliquid tam de existente quam de minime existente et interire uel in existens uel in nihilum; alia uero ratione esse et non esse d icitu r quid, quotiens nondum adhibito effectu esse dicitur, quod procul dubio futurum erit, si adhibeatur effectus. Quae cuncta possibilitate dicuntur esse p raesum p ta eorum existentia contemplatione possibilitatis, ut cum aes dicim us p o ssib ilitate statuam fo re, cum ad h u c metallum sit informe. Est ergo statua et non est, et est quidem, quia potest esse, non est autem, quia nondum effectus accessit. Eodemque modo aliquatenus est, a li­ quatenus non est, et ex eo, quod aliquatenus est, potest aliquid effici nihiloque minus etiam in id, quod aliq u a­ tenus non est, potest aliquid dissolui atque interire. Est ergo genitura et interitus. CCLXXXVI Haec ad praesens uisa nobis necessaria fore ad explanationem Aristotelici dogm atis de initiis rerum, in quibus etiam silua est, praetractari curauim us, sicut eiusdem Aristotelis uerba declarant. Ait enim sic: «Nobis ergo uidebitur [injdiuidua esse silua carentiae, ita ut silua non sit existens quid sed ex accidenti, caren-

padre U bero in una statua di Apollo; infatti in questo modo anche la forma sembra trasferirsi in un altra C ra e tuttavia non in senso assoluto, ma per accidente Alfo stesso modo una cosa che esiste potrà corrompersi e dissolversi in qualcosa che non esiste, ma non in modo che dalla corruzione sia arrecata e derivi la com­ pleta distruzione, in modo tale che ciò che esisteva non esista piu affatto e da nessuna parte. CCLXXXV Questo dunque è uno dei motivi per cui, secondo Aristotele, una cosa può derivare da qualcosa che esiste come anche da qualcosa che non esiste affatto e può distruggersi divenendo qualcos’altro o distrugger­ si nel nulla. Per un diverso motivo, poi, si dice che "una cosa esiste e non esiste, ogniqualvolta si dice che una cosa senza dubbio avverrà, qualora giunga a realizzarsi, pur non essendo ancora giunta a realizzazione. Tutte queste cose si dice che esistono «in potenza», in quanto la loro esistenza viene presupposta in base alla conside­ razione della possibilità, come quando diciamo che il bronzo è una statua in potenza, sebbene esso sia ancora un metallo privo di forma770. E dunque una statua e non lo è: lo è, sì, in quanto può esserlo, ma non lo è, poiché non è ancora sopraggiunto l'atto. E allo stesso modo, esiste fino a un certo punto, e fino a un certo punto non esiste; e da ciò che esiste fino a un certo punto può deri­ vare qualcosa e nondimeno qualcosa può dissolversi e distruggersi in ciò che fino a un certo punto non esiste. Dunque la nascita e la morte esistono. C C LX X X V I Abbiamo pensato di trattare prima questi argom enti poiché ci sembrava che fossero ora necessari per spiegare la dottrina aristotelica sui princi pi, tra i quali vi è anche la materia. Lo dimostrano le p aro le d ello stesso Aristotele. Dice infatti cosi: «Io credo che la materia dovrà essere distinta dalla privazio­ ne, nel senso che la materia non è qualcosa che esiste in

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ria uero principaliter et omnino nihil, et silua quidem prope habeat essentiam, carendae nulla prorsum substantia. Et aliis», inquit, «uidetur carentia et silua unum esse non recte spectantibus, cum idem breue et grande cognominent duasque res separatim spectandas in unam eandem que rem redigan t et unum a liq u id subiacere corporibus putent. Q ui etiam si d iu id a n t maius illud et minus, ut sint duo, aeque ex hac duitate una res significatur, alia interm ittitur, siquidem silua tamquam mater corporum form ationi adium ento est, carentia uero non ad iu u at form ationem sed p o tiu s impedit ac renititur, quatenus quia, cum species diuina res sit et appetibilis, contraria est ei carentia, silua uero appetit formam et illustrationem cu p id aq u e eius est iuxta naturam propriam; porro carentia si appetat for­ mam, appetere eam necesse est contrarietatem suam, et omnis contrarietas interitum affert: minime igitur in teri­ tum suum carentia desiderabit. Nec uero species se ipsam potest cupere, est enim plenum et perfectum bonum; et omne quod desiderat in indigentia positum est: sola ergo silua est quae cupit illustrationem , perinde ut femineus sexus uirilem et deform itas p u lc h ritu d i­ nem, ita tamen, ut deformitas siluae non ex natura sed ex accidenti sit. Quae silua fit et corrum p itu r certe, cumque fit, est aliquatenus, et cum dissoluitur, non est aliquatenus corrup telaque eius p ro p ter in d iu id u a m carentiam prouenit. Ipsa uero possibilitate, non natura, im m ortalis est ac sine gen eratio ne, p ro p terea quo d necesse erat his quae nascuntur subiacere aliquid anti-

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sé, ma per accidente, mentre la privazione non esiste in senso proprio e assoluto, e la materia ha qualcosa che si avvicina all’essenza, mentre la privazione non ha assolu­ tamente alcuna sostanza. Ma ad altri - dice - pare che la materia e la privazione siano una cosa sola; essi non giudicano correttamente, poiché definiscono la stessa cosa «piccola» e «grande» e riducono a una cosa sola due cose che devono essere considerate separatamente e pensano che una sola cosa sia alla base delle cose cor­ poree. E se pure essi distinguono la cosa più grande e quella più piccola, in modo che risultino due, una sola cosa è ugualmente indicata da questa dualità e l’altra è omessa, giacché la materia, come una madre, collabora alla formazione dei corpi, mentre la privazione non con­ trib u isc e alla formazione, ma anzi la impedisce e si oppone ad essa; dal momento che, infatti, essendo la forma una cosa divina e desiderabile, la privazione è il suo contrario, la materia invero aspira a ricevere forma e abbellimento, e lo desidera secondo la propria natura; inoltre, se la privazione desiderasse la forma, essa desi­ dererebbe necessariamente il suo contrario e ogni con­ trario arreca la distruzione771: dunque la privazione non potrà affatto desiderare la sua distruzione. Nemmeno, poi, la forma può desiderare se stessa: infatti essa è un bene completo e perfetto; e tutto ciò che desidera si trova in uno stato di bisogno; dunque è solo la materia che desidera essere abbellita, nel modo in cui il sesso fem m inile desidera quello maschile e ciò che è informe desidera la bellezza; la materia però è priva di forma non p er sua propria natura, ma per accidente. E la m ateria, senza dubbio, nasce e muore; e quando nasce, esiste fino a un certo punto, e quando si dissolve non esiste fino a un certo punto e la sua distruzione avviene a causa della privazione che è inseparabile da essa. Essa poi è immortale e senza nascita, non per sua natura, ma in potenza, per il fatto che era necessario che alla base delle cose che nascono vi fosse qualcosa di più antico

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quius, ex quo fierent atque ad generationem uenirent; talis est porro haee natura: necesse est ig itu r fuisse siluam ante quam fieret, siquidem ex ea fiunt cetera, siue quod dissoluitur et perit ad hanc eandem naturam postremo redeat necesse est; ergo etiam corrupta erit ante corruptelam dissolutionemque». CCLXXXVII Haec Aristoteles assistens sententiae suae de initiis rerum deque natura siluae loquitur; sed quia obscurior sermo est, explanandus uidetur. Tres ab eo ponuntur origines uniuersae rei, species silua caren­ tia. Speciem laudat ut summi dei similem diuinitatem pleno perfectoque nixam bono ideoque appetibilem . Quid est ergo quod appetit? «N eque ipsa se», inquit, «quia nihil ei deest ad perfectam exornationem, et est proprius indigentium ap p etitu s». Nec uero caren tia cupit speciem; interitum enim suum cuperet, quip pe accessu speciei form aeque to llitu r in d ig en tia nec in habitu proprio perseuerat. Superest ergo, ut silua cul­ tum omatumque desideret, quae deformis est non ex se, sed ob indigentiam. Est enim turpitudo siluam cultu formaque indigere; sic quippe erit uidua carens specie, perin de ut carens uiro fem ina. «P ro p te re a q u e e t» , inquit, «appetit speciem, ut sexus fem ineus u irilem », quoque sit in aliqua posita deformitate, formam atque cultum, simul cupiens perire atque exolescere quod est in semet ex indigentiae uitio, contraria siquidem haec duo sibi et repugnantia, species et item carentia, quo­ rum quod obtinuerit alterum perimit. Cupiditatem uero negat esse talem, qualis est animalium, sed ut, cum quid coeptum atque inchoatum, dicitur perfectionem deside-

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da cui esse derivassero e fossero generate: dunque è necessario che la materia sia esistita prima di nascere, giacché da essa derivano le altre cose; e se qualcosa si dissolve e muore è necessario che torni infine a questa medesim a natura. Perciò, inoltre, si distruggerà prima della sua stessa distruzione e dissoluzione»772. CCLXXXVII E questo è ciò che dice Aristotele, per sostenere la sua dottrina sui principi e sulla natura della m a te ria ; ma poiché il discorso è di comprensione alquanto difficile, mi pare che ci sia bisogno di spiegar­ lo. Aristotele stabilisce tre principi originari del tutto: form a m ateria e privazione. Egli loda la forma come qualcosa di divino, simile al sommo dio, che si fonda su un bene completo e perfetto e perciò è desiderabile. Ora dunque, cos’è ciò che desidera? «Essa non desidera se stessa» - dice - «poiché nulla le manca per completare il suo abbellimento e il desiderio è proprio di quelli a cui m anca qualcosa». Ma nemmeno la privazione desidera la forma; infatti verrebbe a desiderare la propria distru­ zione, poiché il bisogno è eliminato dal sopraggiungere della forma e della bellezza e non rimane nel suo stato. Rimane dunque che sia la materia a desiderare di essere ordinata e abbellita, poiché essa è priva di forma, non per natura, ma per mancanza. Così la materia, priva della forma, sarà veramente vedova, come una donna senza l ’uomo. «E per questa ragione - dice - desidera la forma, come il sesso femminile desidera quello maschi­ le » e anche, trovandosi a essere priva di forma, desidera la bellezza e l ’ordine e desidera allo stesso tempo che m uoia e venga meno ciò che in essa vi è per il difetto della privazione, giacché queste due cose, forma e priva­ zione, sono contrarie e incompatibili tra loro773 e, qualo­ ra una di esse prevalga, elimina l’altra. Ma egli afferma che questo desiderio non è come quello che provano gli esseri viventi, ma, come quando si dice che una cosa intrapresa e cominciata aspira a essere completata, in questo modo, credo, anche la materia desidera la forma;

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rare, sic, opinor, edam silua speciem cupit; potest enim eius florere consortio. CCLXXXYIII Ergo iuxta Aristotelem proprie q ui­ dem et principaliter existens est species, ex accidenti uero esse dicitur silua, propterea quod natura talis est, ut recipiat formam. Rursum quod minime est proprie quidem et principaliter, caren tia, ex accid en ti uero silua; patitur quippe id quod uere atque ex natura non est, id est, carendam. Ergo silua alio quodam genere est, item alio non est, et potest aliquid ex ea fieri ut de re non existente, non una tamen, sed diuersa significatio­ ne. Consequenter ergo dicemus malitiam esse atque in i­ tium malorum non siluam, sed carendam; haec est enim informitas et nullus cultus et turpitudo siluae, proptereaque etiam maleficentia. Et ideo siluam definit seu potius appellat corpus incorporeum , ut p o ssib ilitate quidem sit corpus, effectu uero atque operatione n u l­ lum corpus. H aec A ristotelis de silua sententia, nisi quod addit Platonem tria illa nominibus tantum attigis­ se, effectu autem duo posuisse initia corporeae rei, spe­ ciem et minimum grande, quod sit silua. «N on ergo tria sed duo haec erunt in itia», inquit, «species et silu a», quam ait ex natura nullam habere substantiam . «A u t si», inquit, «grande hoc minimum carendam fore» intel­ legendum est, rursum silua praeterita erit et duo uidebuntur initia rerum, «species» atque «carentia». CCLXXXIX Stoici quoque ortum siluae reiciun t, quin potius ipsam et deum duo totius rei sumunt initia, deum ut opificem, siluam ut quae operationi subiciatur; una quidem essentia praeditos, facientem et quod fit ac

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dalla loro unione, infatti, essa può ricevere completo svi­ luppo774. CCLXXXVIII Dunque, secondo Aristotele, la forma è ciò che esiste di per se stessa, realmente e in senso assoluto, mentre la materia dice che esiste per acciden­ te, in quanto essa è, per natura, capace di ricevere la forma. Ancora, la privazione è ciò che non esiste di per sé, realmente e in senso assoluto, la materia, invece, per accidente775: infatti essa subisce ciò che non esiste real­ m ente e per sua natura, cioè la privazione. Perciò la m ateria esiste in un certo senso e parimenti non esiste in un altro, e qualcosa può derivare da essa come da una cosa che non esiste, sebbene non nello stesso senso, ma in un senso diverso. Di conseguenza diremo che il male e il principio dei mali non è la materia, ma la privazio­ ne; essa infatti è la mancanza di forma, l’assenza di ordi­ ne e la bruttezza della materia e, di conseguenza, il m ale776. E perciò definisce, o meglio chiama la materia «corpo incorporeo»777, in quanto essa è un corpo in potenza, ma non è effettivamente e in atto un corpo778. Questa è l ’opinione di Aristotele sulla materia, ma egli aggiunge che Platone solo a parole aveva menzionato questi tre principi, ma di fatto aveva stabilito due prin­ cipi originari della sostanza corporea, cioè la forma e il «piccolo e grande», che sarebbe la materia779. «Dunque questi principi non saranno tre, ma due, la forma e la m ateria»; e quest’ultima non ha, secondo lui, per natura nessuna esistenza. «Se invece» - continua - «questo “grande e piccolo” dovrà essere inteso come la privazio­ ne, resterà ancora omessa la materia e i principi delle cose appariranno due, la forma e la privazione». CCLXXXIX Anche gli Stoici respingono l’idea della nascita della materia, ché anzi pongono come principi di tutto la materia stessa e il dio: il dio in quanto artefi­ ce, la m ateria come ciò che è soggetto all’azione dell'ar­ tefice780; e credono che entrambi, colui che agisce e ciò

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patitur, corpus esse, diuersa uero uirtute, quia faciat, deum, quia fiat, siluam fore. Quorum ab re non erit opinionem diligentius explicari. Aiunt enim, ut aenea quaeque ex aere sint argenteaque ex argento, sic corpo­ reas materias ex silua fore cum isdem, ut aere et argen­ to, etiam similibus ceteris; esse enim quasdam m agis, alias minus siluestres materias, aliasque aliis corpulen­ tiores, quarum tamen exordium fore unam quandam antiquiorem communem omnium siluam. A tque ut sta­ tua quae, cum sit fo rm atum co rp u s, h a b e t tam en subiectam sibi aeris antiquiorem substantiam , sic aes informe corpus, compos tamen qualitatis, habere dicunt subiectam praeeuntem substantiam eam que esse corpus cohaerens sine qualitate, patibile totum et com m utabile, quod siluam, simul essentiam appellant hactenus defi­ nientes: «E ssentia et silua est quod sub iacet corpori cuncto, uel ex quo cuncta sunt corpora, u el in quo proueniunt rerum sen sib ilium co m m utatio n es ipso statu proprio manente, item quod subditum est corpo­ ribus qualitates habentibus, ipsum ex natura pro p ria sine qualitate». CCXC Plerique tamen siluam separant ab essentia, ut Zeno et Chrysippus. Siluam quippe dicunt esse id quod est sub his omnibus quae habent qualitates, essen­ tiam uero primam rerum omnium siluam uel antiquissi­ mum fundamentum earum, suapte natura sine uultu et informem, ut puta aes aurum ferrum, cetera huius m odi silua est eorum quae ex isdem fabrefiunt, non tam en

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che subisce passivamente l’azione, siano dotati di un’u­ n ica essenza, e che siano sostanza corporea, ma di diverso potere: uno, in quanto opera, è dio, l’altro, in quanto subisce, è materia781. E non sarà inopportuno sp iegare in modo più preciso la loro opinione. Essi sostengono che, come gli oggetti bronzei sono fatti di bronzo e quelli argentei di argento, così le sostanze cor­ p o ree saranno fatte di materia, e insieme di quelle m edesim e sostanze materiali, ad esempio di bronzo e d ’argento e delle altre simili782; e dicono che vi sono alcune sostanze più materiali e altre meno, e che alcune sono più corporee783 di altre; tuttavia la materia sarà il loro principio unico, preesistente e comune a tutte. E come una statua, che è un corpo avente una forma, ha tuttavia come sostrato una sostanza più antica, cioè il bronzo, così dicono che il bronzo, corpo informe che possiede però delle qualità, abbia come sostrato una sostanza preesistente e che essa sia un corpo continuo privo di qualità, completamente passivo e soggetto a cam biam ento: ed essi lo chiamano «materia» e anche «essenza»784 e lo definiscono in questi termini: «Essen­ za e m ateria è ciò che è alla base di ogni corpo»785, o «d a l quale tutti i corpi hanno esistenza»786 o «ciò in cui si verifica il cambiamento delle cose sensibili, pur rima­ nendo esso sempre nel proprio stato»787, e anche «ciò che sta alla base dei corpi aventi delle qualità, ma che è, per sua natura, privo di qualità»788. CCX C Comunque la maggior parte di loro ritiene separate lu n a dall'altra la materia e l’essenza, ad esem­ pio Zenone e Crisippo. Dicono infatti che la materia è ciò che è alla base di tutte le cose che possiedono delle qualità, mentre l’essenza è la materia principale di tutte le cose o il loro fondamento più antico, ed è in sé priva di im m agine e di forma; ad esempio il bronzo, l’oro, il ferro e le altre sostanze simili sono la materia delle cose che sono costruite con essi, ma non ne costituiscono

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essentia; at uero quod tam his quam ceteris ut sint causa est, ipsum esse substantiam. CCXCI Plerique etiam hoc pacto siluam et substan­ tiam separant, quod asseuerant essentiam quidem ope­ ris esse fundamentum, ut m undi fore m erito d icatu r atque existimetur essentia, siluam uero contemplatione opificis dictam, quod eam fingat ac formet. CCXCII Deinde Zeno hanc ipsam essentiam finitam esse dicit unamque eam communem omnium quae sunt esse substantiam, diuiduam quoque et usque quaque mutabilem; partes quippe eius uerti sed non interire, ita ut de existentibus consumantur in nihilum . Sed ut inn u­ merabilium diuersarum, etiam cerearum, figurarum , sic neque formam neque figuram nec ullam omnino qu ali­ tatem propriam fore censet fundamenti rerum omnium siluae, coniunctam tamen esse semper et inseparabiliter cohaerere alicui q u alitati; cum que tam sine o rtu sit quam sine interitu, quia neque de non existente substi­ tit nec consumetur in nihilum, non deesse ei spiritum ac uigorem ex aeternitate, qui moueat eam ration abiliter totam interdum , non num quam pro p o rtio n e, q u ae causa sit tam crebrae tamque uehementis uniuersae rei conuersionis; spiritum porro m otiuum illum fore non naturam , sed animam, et quidem ratio n ab ilem , quae uiuificans sensilem mundum exornauerit eum ad hanc qua nunc illustratur uenustatem. Quem quidem beatum animal et deum appellant. C C X C III Ergo co rpus u n iu ersu m iu x ta S to ico s determinatum est et unum et totum et essentia; totum quidem, quia nihil ei partium deest, unum autem , quia inseparabiles eius partes sunt et inuicem sibi cohaerent, essentia uero, quia princeps silua est om nium co rpo ­ rum ; per quam ire d icu n t ratio n em so lid am a tq u e

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l’essenza; invece ciò che è la causa dell’esistenza di que­ ste cose e delle altre, questo è l’essenza789. CCXCI Moltissimi distinguono poi la materia e l’es­ senza in questo modo: affermano che l’essenza è la base di un’opera, così che si possa giustamente dire e ritene­ re che vi sia un’essenza del mondo, mentre si parla di m ateria quando si considera l’artefice che la plasma e le dà forma790. CCX CII Inoltre Zenone dice che questa essenza è lim itata ed è l’unica sostanza comune a tutte le cose che esisto n o , e che è anche divisibile e completamente m utevole, poiché le sue parti si trasformano, ma non muoiono, nel senso che, dacché esistono, si dissolvono nel nulla791. Ma come accade per le innumerevoli figure diverse, ad esempio quelle delle cose di cera, così egli pensa che anche la materia, fondamento di tutte le cose, non avrà nessuna forma, nessuna figura e neanche, in generale, nessuna qualità propria, e che tuttavia sia sem­ pre unita e indissolubilmente legata a una qualche qua­ lità; e poiché essa non ha nascita né morte, dal momen­ to che non trae esistenza da qualcosa che non esiste, né si dissolve nel nulla, fin dall’eternità possiede uno spiri­ to e un vigore che la muove secondo ragione, talvolta nella sua interezza, talvolta in una parte di essa; e questo è il motivo dei frequenti e violenti cambiamenti dell'uni­ verso. Inoltre questo spirito che la muove non sarà una natura, ma un’anima, e per di più un’anima razionale, che, dando vita al mondo sensibile, lo ha ornato e lo ha portato a questa bellezza di cui ora risplende. Ed essi lo chiam ano «essere animato felice»792 e «dio»793. CCXCIII Dunque, secondo gli Stoici il corpo dell’u­ niverso è limitato, è uno, è un tutto ed è essenza794. E invero un tutto perché non gli manca nessuna parte, ma è uno, perché le sue parti sono inseparabili e sono unite tra loro vicendevolmente, ed è poi essenza poiché è la m ateria principale di tutti i corpi; attraverso essa dicono

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uniuersam , perinde ut semen per m em bra gen italia. Quam quidem rationem ipsum fore opificem uolunt, cohaerens uero corpus et sine qualitate, patibile totum et commutabile siluam siue essentiam , quae u ertatur quidem nec intereat tamen neque tota neque partium excidio, ideo quia philosophorum omnium com m une dogma est neque quid fieri ex nihilo nec in n ihilum interire - licet enim cuncta corpora casu aliq u o d if­ fluant, silua tamen semper est et opifex deus, ratio scili­ cet, in qua sit fixum, quo quidque tem pore tam nasca­ tur quam occidat - proptereaque de existentibus geni­ turam fieri et in existens desinere quod finiatur im m or­ talibus perseuerantibus, a quo fit et item ex quo fit quod gignitur. CCXCIV R eprehendunt etiam quod, cum sint in em inenti p raestantissim aque et uetere ex isten te alia substantia rerum omnium exempla, m undum sensilem iu xta im m ortale exem plum a deo factum esse d icat Plato; non enim opus ullo exemplo fuisse, quando sem i­ num ratio incurrens aliquam concipientem comprehendentem que naturam totum m undum q u aeq u e in eo sunt enixa sit. Haec Stoici de silua deque initiis rerum partim a Platone usurpantes partim com m enti, sic ut facile sit intellegere nullam eos ne su sp icari qu id em potuisse diuinam uirtutem substantiam que carentem corpore cunctis corporibus uel etiam sem inibus efficaciorem, proptereaque factum ut opiniones incurrerent impias, deum scilicet hoc esse quod silua sit, uel etiam qualitatem inseparabilem deum siluae, eundem que per siluam m eare uelut semen per m em bra g e n ita lia , et omnium quae nascuntur tam originem quam etiam cau-

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che passi la ragione tutta intera795, nel modo in cui il seme passa attraverso gli organi genitali796. E mentre questa ragione, essi sostengono, sarà il dio stesso, la ma­ teria o essenza sarà un corpo continuo, privo di qualità, totalmente passivo e soggetto a mutamento, che si tra­ sforma, ma non muore, né nella sua interezza, né per distruzione delle sue parti, motivo per cui tutti i filosofi concordano sulla dottrina secondo la quale nulla nasce dal nulla e si distrugge nel nulla - infatti, sebbene tutti i corpi per un evento accidentale si dissolvano, la materia tuttavia esiste sempre e così il dio artefice, cioè la ragio­ ne, in cui è saldamente stabilito cosa deve nascere e mo­ rire e in quale tempo. Perciò la nascita avviene a partire da qualcosa che esiste e ciò che muore cessa di essere in qualcosa che esiste, mentre rimane ciò che è immorta­ le797, a partire da cui e per mezzo di cui nasce ciò che è generato. CCXCIV Essi inoltre, dal momento che i modelli di tutte le cose si trovano in un’altra sostanza eccellente, superiore e preesistente, criticano Platone quando dice che il mondo sensibile è stato creato dal dio secondo un m odello immortale798, poiché, secondo loro, non vi era biso gn o di alcun modello, dal momento che questo sistem a razionale di semi799, incontrando una natura capace di accogliere e ricevere, produsse tutto il mondo e le cose che esso contiene. E questa è la dottrina degli Stoici sulla materia e sui principi, dottrina che, in parte trassero indebitamente da Platone800, in parte inventa­ rono; si com prende, così, facilmente come essi non potessero neanche immaginare l’esistenza di una poten­ za divina e di una sostanza priva di corpo, più potente di tutti i corpi e di tutti i semi, e che perciò giungessero ad opinioni empie, e cioè che dio e la materia sono la stessa cosa, o anche che il dio è una qualità inseparabile della m ateria801, o che esso passi attraverso la materia come il seme attraverso gli organi genitali, e ancora, che il dio sarà l ’origine e la causa di tutte le cose che nasco-

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sani fore, non malorum modo, sed turpitudinis quoque et obscenitatis, omniaque agere et pati, uel pudenda. Cuius opinionis deformitas euidentius detegetur exposi­ ta Platonis sententia. CCXCV Nunc iam Pythagoricum dogma recensea­ tur. Numenius ex Pythagorae magisterio Stoicorum hoc de initiis dogma refellens Pythagorae dogmate, cui con­ cinere dicit dogma Platonicum, ait Pythagoram deum quidem singularitatis nomine nom inasse, siluam uero duitatis; quam duitatem indeterminatam quidem m ini­ me genitam, limitatam uero generatam esse dicere, hoc est. antequam exornaretur quidem form am que et o rdi­ nem nancisceretur, sine ortu et generatione, exornatam uero atque illustratam a digestore deo esse generatam , atque ita, quia generationis sit fortuna posterior, inorna­ tum illud minime generatum aequaeuum deo, a quo est ordinatum, intellegi debeat. Sed non nullos Pythagoreos uim sententiae non recte assecutos putasse dici etiam illam indeterminatam et immensam duitatem ab unica singularitate institutam recedente a natura sua sin gu lari­ tate et in duitatis habitum migrante - non recte, ut quae erat singularitas esse desineret, quae non erat duitas subsisteret, atque «deo silua et ex singularitate im m ensa et indeterminata duitas conuerteretur»; quae opinio ne m ediocriter quidem institutis hom inibus com petit - ; denique Stoicos definitam et lim itatam silu a m esse natura propria, Pythagoram uero infinitam et sine lim ite d icere, cum que illi quod n atu ra sit im m ensu m non p o sse ad m odum atq u e o rd in em r e d ig i c e n s e a n t,

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no, non solo dei mali, ma anche di tutto ciò che è brutto e osceno, e che il dio faccia e subisca tutto, anche ciò che è vergognoso. E quanto sia sconcia una tale opinio­ ne sarà chiarito in maniera più evidente, una volta che avremo esposto la dottrina di Platone. C CX CV Adesso bisogna esaminare la dottrina di Pitagora. Numenio, esponente della scuola pitagorica802, confuta la dottrina stoica dei principi sulla base della dottrina pitagorica, con cui, secondo la sua opinione, si a c c o rd a p ien am en te q u ella p lato n ica, e dice che Pitagora chiamò il dio col nome di «monade» e la mate­ ria con quello di «diade»; della diade dice poi che, in quanto indeterminata, essa non è generata, mentre, in quanto lim itata, è generata; in altre parole, prima che fosse adornata e ottenesse forma e ordine, essa era senza n ascita e senza origine, ma fu generata in quanto fu adornata e abbellita dal dio ordinatore e perciò, poiché la generazione è una condizione successiva803, quella sostanza ancora non adorna e non generata si dovrebbe ritenere tanto antica quanto il dio da cui fu ordinata. Ma dice che alcuni Pitagorici non compresero correttamen­ te il significato di questa dottrina e credettero che egli in te n d e sse che anche quella diade indeterm inata e immensa fosse stata creata dalla monade unica e sola la quale, venendo meno alla sua natura di monade, passò allo stato di diade. Essi sbagliavano, poiché in questo modo ciò che esisteva, vale a dire la monade, avrebbe cessato di esistere, mentre ciò che non esisteva, la diade, avrebbe cominciato a esistere e dio si sarebbe trasforma­ to nella m ateria e la monade nella diade immensa e inde­ term inata. Ma una tale opinione non si addice nemmeno a gente scarsamente istruita. Infine, gli Stoici affermano che la m ateria è definita e lim itata per sua natura, Pitagora sostiene invece che essa è infinita e senza limiti e, m entre essi pensano che ciò che è immenso per natura non possa essere ricondotto a un ordine e una misu-

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Pythagoram solius hanc dei fore uirtutem ac poten­ tiam asserere, ut quod natura efficere nequeat, deus facile possit, ut qui sit omni uirtute potentior atque praestantior, et a quo natura ipsa uires mutuetur. C C X C V I I g itu r P y th a g o ra s q u o q u e , in q u it Numenius, fluidam et sine qualitate siluam esse censet nec tamen, ut Stoici, naturae m ediae interque bono­ rum malorumque uiciniam, quod genus illi appellant indifferens, sed plane noxiam. Deum quippe esse - ut etiam Platoni uidetur - initium et causam bonorum , siluam malorum, at uero quod ex specie siluaque sit, indifferens, non ergo siluam, sed m undum ex speciei bonitate siluaeque m alitia tem peratum ; d en iq u e ex prouidentia et necessitate progenitum ueterum theolo­ gorum scitis haberi. CCXCVII Siluam igitur informem et carentem q u a­ litate tam Stoici quam Pythagoras co n sen tiun t, sed Pythagoras malignam quoque, Stoici nec bonam nec malam. Dehinc, tamquam in progressu uiae m alis ali­ quot obuiis, perrogati: «unde igitur m ala?» peruersitatem seminarium malorum fore causati sunt. N ec exp e­ diunt adhuc, unde ipsa p eru ersitas, cum iu x ta illos duo sint initia rerum, deus et silua, deus sum m um et praecellens bonum, silua, ut censent, nec bonum nec malum. Sed Pythagoras assistere ueritati m iris licet et contra opinionem hominum operantibus asseuerationibus non ueretur; qui ait existente prouidentia m ala quoque necessario substitisse, propterea quod silua sit et eadem sit m alitia p raed ita. Q uod si m u n d u s ex silua, certe factus est de existente olim natura m aligna,

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ra804, Pitagora afferma che ciò sarà facolta e potere del dio, e solo del dio: egli compie facilmente ciò che la natura non è capace di fare, poiché è più potente e più capace di ogni potere ed è tale che la natura stessa rice­ ve da lui le sue capacità. C C X C V I D unque anche P itag o ra, secondo Numenio, pensa che la materia sia fluida e priva di qua­ lità, e tuttavia non crede, come gli Stoici, che essa sia qu alco sa di neutro, a metà tra il bene e il male, del gen ere che essi definiscono «indifferente»805, ma di assolutam ente dannoso806. Infatti, come pensa anche Platone, il dio è l’origine e la causa del bene, la materia d el m ale807, ma indifferente è ciò che procede dalla forma e dalla materia, non dunque la materia stessa, ma il mondo, che è un misto della bontà della forma e del m ale d ella materia; e infine, secondo l’opinione degli uom ini religiosi dell’antichità808, il mondo è generato dalla provvidenza e insieme dalla necessità. CCX CVII Dunque gli Stoici e Pitagora concordano sul fatto che la materia sia priva di forma e di qualità, ma Pitagora pensa che essa sia anche cattiva, gli Stoici che non sia né buona né cattiva. E perciò quando, pro­ cedendo, per così dire, sul loro cammino, incontrano qualche male e si chiede loro: «Da dove vengono allora i m ali?», essi adducono come risposta che il principio dei m ali è la malvagità. Ma non spiegano ancora da dove provenga questa malvagità, dal momento che secondo loro i principi delle cose sono due, il dio e la materia, e il dio è bene sommo ed eccellente, la materia, come credo­ no, non è né bene né male. Ma Pitagora, non teme di difendere la verità, sia pure con affermazioni straordina­ rie e contro l ’opinione comune: e dice che, se esiste la provvidenza, è necessario che esistano anche i mali, per il fatto che esiste la materia e che essa è di natura malva­ gia. Poiché, se il mondo ha origine dalla materia, esso è sicuram ente derivato da una natura malvagia preesisten-

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proptercaque Numenius laudat H eraclitum reprehen­ dentem Homerum, qui optauerit interitum ac uastitatem malis uitae, quod non intellegeret m undum sibi deleri placere, siquidem silua, quae malorum fons est, exterminaretur, Platonem que idem N um enius lau dat, quod duas mundi animas autumet, unam beneficentissi­ mam, m alignam alteram , scilicet silu am , q u ae, lice t incondite fluctuet, tamen, quia intimo proprioque motu mouetur, uiuat et anima conuegetetur necesse est lege eorum omnium quae genuino m otu m o uentu r; quae quidem etiam patibilis animae partis, in qua est aliquid corpulentum mortaleque et corporis sim ile, auctrix est et patrona, sicut rationabilis animae pars auctore utitur ratione ac deo. Porro ex deo et silua factus est iste m un­ dus. CCXCVIII Igitur iuxta Platonem m undo bona sua dei tamquam patris liberalitate collata sunt, m ala uero matris siluae uitio cohaeserunt. Q ua ration e in telleg i datur Stoicos frustra causari nescio quam p eru ersitatem, cum quae proueniunt ex motu stellarum prouenire dicant[ur]. Stellae porro corpora sunt ignesque caelites; omnium quippe corporum silua nutrix, ut etiam quae sidereus motus minus utiliter et im prospere turbat ori­ ginem trah ere u id ean tu r ex silu a , in q u a est m u lta intem peries et im prouidus im petus et casus atq u e ut lib et exagitata praesum ptio. Itaque si deus eam co r­ rexit, ut in Timaeo loquitur Plato, «red egitqu e in o rd i­ nem ex incondita et turbulenta iactatione», certe confu­ sa haec intem peries eius casu quodam et im p ro sp era sorte habebatur nec ex prouidentiae consultis salubri-

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te; per questo motivo Numenio approva Eradito che rim provera Omero809 perché desiderava la distruzione e l ’estinzione dei mali della vita, e non comprendeva di volere la distruzione del mondo, dal momento che, in questo modo, sarebbe stata distrutta la materia, che è l ’origine dei mali. Ma Numenio approva anche Platone, poiché afferma l’esistenza di due anime del mondo, una assolutam ente buona, l’altra malvagia810, che è eviden­ tem ente la materia; ed essa, sebbene si agiti nel disordi­ ne, tuttavia, poiché si muove di un proprio moto inter­ no, è necessario che abbia vita e che sia vivificata da un ’anim a, secondo la norma di tutte le cose che si muo­ vono per un moto innato811 La materia è inoltre ciò che dà origine e sovrintende alla parte sensibile dell’anima, in cui vi è qualcosa di materiale, di mortale e di simile al corpo, allo stesso modo in cui la parte razionale dell’a­ nim a ha il suo creatore nella ragione e nel dio. Perciò, questo mondo ha avuto origine da dio e dalla materia. CCX CVIII Dunque, secondo Platone, il mondo ha ricevuto i suoi beni dalla generosità del dio, come da un p ad re812, i mali, invece, si unirono ad esso per difetto della m ateria, che ne è la madre. E perciò si può com­ prendere che gli Stoici abbiano senza ragione chiamato in causa non so quale malvagità, dicendo che le cose che avvengono, avvengono per un moto degli astri813. Ora, le stelle sono corpi e fuochi celesti; e certamente la m ateria è come la nutrice di tutti i corpi814, così che anche quei disordini che il moto delle stelle causa in m odo inu tile e dannoso sembrano trarre origine dalla m ateria, che ha in sé una grande instabilità, e movimen­ ti inconsulti e accidenti e una prefigurazione delle varie cose agitata e casuale. Perciò, se il dio la perfezionò, come dice Platone nel Timeo8[\ e «la ricondusse all'or­ dine da uno stato di disordinata e confusa agitazione», certam ente questa instabilità priva di ordine era dovuta a un qu alch e caso e a una sorte sfavorevole e non ai

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bus. Ergo iuxta Pythagoram siluae anim a n eque sine ulla est substantia, ut plerique arbitrantur, et aduersatur prouidentiae consulta eius impugnare gestiens m alitiae suae uiribus; sed prouidentia quidem est dei opus et officium, caeca uero fortuitaque tem eritas ex prosapia siluae, ut sit euidens iuxta Pythagoram dei siluaeque, item prouidentiae fortunaeque coetu cunctae rei molem esse constructam, sed postquam siluae ornatus accesse­ rit, ipsam quidem matrem esse factam corporeorum et natiuorum deorum, fortunam uero eius prosperam esse magna ex parte, non tam en usque qu aq ue, quoniam naturale uitium limari omnino nequiret. C C X C IX Deus ita q u e silu am m a g n ific a u ir tu te comebat uitiaque eius omnifariam corrigebat non in ter­ ficiens, ne natura siluestris funditus interiret, nec uero permittens porrigi dilatarique passim, sed ut m anente natura, quae ex incommodo habitu ad p ro sp eritatem deuocari com m utarique possit, ordinem in o rd in atae confusioni, modum immoderationi et cultum foeditati coniungens totum statum eius illustrando atque ex o r­ nando conuertit. Denique negat inueniri N um enius - et recte negat - immunem a uitiis usque quaque generato­ rum fortunam, non in artibus hominum, non in natura, non in corporibus animalium, nec uero in arboribus aut stirpibus, non in frugibus non in aeris serie nec in aquae tractu, nec in ipso quidem caelo, ub ique m iscente se prouidentiae deterioris naturae quasi quodam piaculo. Idemque nudam siluae imaginem dem onstrare et uelut

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salu tari disegni della provvidenza. Dunque secondo Pitagora l ’anima della materia non è priva di sostanza, come moltissimi credono, e si oppone alla provvidenza cercando di contrastarne i piani con la forza della sua natura m allvagia; ma la provvidenza è opera e attività del dio, mentre l ’irrazionalità cieca e casuale ha origine dalla m ateria: risulta così evidente che, secondo Pita­ gora, la massa dell’universo fu costituita dall’unione di dio e della materia, e, ugualmente, della provvidenza e del caso816, ma, dopo che alla materia si aggiunse l’ordi­ ne, essa divenne davvero madre delle cose corporee e delle divinità generate. E la sua condizione era buona, nella m aggior parte di essa, ma non in ogni sua parte, poiché il suo naturale difetto non poteva essere elimina­ to com pletam ente817. C CX CIX II dio, dunque, con il suo grandioso pote­ re, ordinava la materia e ne correggeva i difetti in ogni parte, ma senza distruggerli, perché non andasse com­ pletam ente in rovina la natura della materia, e tuttavia non perm ettendo che essi si espandessero e si accresces­ sero senza ordine; ma ne trasformò completamente la condizione, abbellendola e adornandola, con raggiun­ gere l ’ordine alla confusione disordinata, la misura alla sregolatezza e la bellezza alla deformità, in modo tale che, p ur rimanendo la sua natura intatta, essa potesse essere ricondotta e cambiata da uno stato sfavorevole ad una condizione felice818. Infine Numenio dice819 - e dice bene - che la condizione degli esseri generati non è m ai priva di difetti, né nelle membra umane, né in natu­ ra, né nei corpi degli animali, e nemmeno negli alberi e nelle piante, né nei frutti, né nell’aria, né nell’acqua, e nem m eno nello stesso cielo, dal momento che dovun­ que si m escola alla provvidenza una natura inferiore, che è come un qualcosa che contamina. Ed egli inoltre, sforzandosi di m ostrare e, per così dire, portare alla luce la nuda immagine della materia, esorta ad elimina-

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in lucem destituere studens detractis omnibus singillatim corporibus, qu ae grem io eiu s fo rm as in u ice m mutuantur et inuicem mutant, ipsum illud quod ex ege­ stione uacuatum est animo considerari iubet, eam que «siluam » et «necessitatem » cognominat; ex qua et deo mundi machinam constitisse deo persuadente, necessi­ tate obsecundante. Haec est Pythagorae de originibus asseueratio. CCC Superest ipsa nobis ad tractandum Platonis de silua sententia, quam diuerse interpretari uidentur au d i­ tores Platonis. Quippe alii generatam dici ab eo putauerunt uerba quaedam potius quam rem secuti, alii uero sine generatione, sed anim a praeditam , quan do ante illustrationem quoque motu instabili atque inordinato dixerit eam fluctuasse, cum motus intimus genuinusque sit uiuentium proprius, quoque idem saepe alias duas esse mundi animas d ixerit, unam m alignam ex silua, alteram beneficam ex deo; existentibus itaque bonis ac malis bona quidem ex anima benefica m undo tributa, incom m oda porro ex silu estri m alig n a, cum d iu in a sap ien tia in telleg en tiaq u e o p ificis d ei silu a e seu e re atque efficaciter p ersu ad eret p ra eb ere c u ltu i atq u e exornationi suae patientiam, patientia uero non nisi ani­ m an tib u s u ita q u e fru e n tib u s a d h ib e a tu r. Q u ib u s H ebraei concinunt, cum dicunt hom ini quidem a deo datam esse animam ex inspiratione caelesti, quam ratio ­ nem et animam rationabilem appellant, m utis uero et agrestibus ex silua rationis expertem iussu dei uiuis et animantibus bestiis terrae gremio profusis; quorum in

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re a uno a uno tutti i corpi che, in seno alla materia, as­ sumono alternativamente delle forme e cambiano aspet­ to vicendevolmente, e a considerare nella nostra mente ciò che è stato reso sgombro in seguito a questa opera­ zione di svuotamento820: e definisce ciò «m ateria» o «necessità». Da questa e dal dio è stato costituito Fap­ parato del mondo; e il dio agiva con la persuasione, la necessità obbediva821. Questo è ciò che Pitagora affer­ ma sull’origine delle cose. CCC Ci resta ora da esaminare la dottrina platonica sulla materia, dottrina che i discepoli di Platone sembra­ no interpretare in modi diversi. Infatti secondo alcuni egli la considerava generata; ma essi si basavano più su alcune parole che sui fatti821. Altri invece pensarono che la intendesse non generata, ma dotata di anima822, dal m om ento che egli aveva detto che la materia, anche prim a di essere adornata, era agitata da un moto incerto e privo di ordine, e che il moto interno e innato è proprio degli esseri viventi; inoltre più volte egli aveva affermato l ’esistenza di due diverse anime del mondo, una malva­ gia, che ha origine dalla materia, e una buona, che ha ori­ gine dal dio. E siccome esistono cose buone e cose catti­ ve, quelle buone, invero, sono state attribuite al mondo d all’anima buona, mentre quelle dannose dall'anima mal­ vagia della materia; e la divina sapienza e l'intelligenza del dio artefice persuasero con severità e con efficacia la m ateria a lasciarsi ordinare e adornare in modo sottomes­ so; m a alla sottomissione si volgono soltanto gli esseri dotati di anima e che godono della vita. Concordano con loro gli Ebrei, quando dicono che certamente l'anima fu data all’uomo da Dio, per mezzo di un soffio divino823, che essi chiamano “ragione” e “anima razionale”824 - , m entre ai m uti animali che vivono nei campi fu data u n ’anim a irrazionale che deriva dalla materia, allorché, per volere di Dio, vennero fuori dal grembo della terra gli anim ali vivi e animati825. E tra essi vi fu anche quel

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numero fuerit edam ille serpens, qui prim itias generis humani malis suasionibus illaqueauerit. CCCI Nec desunt qui putent inordinatum illum et tum ultuarium motum Platonem non in silu a, sed in materiis et corporibus iam notasse, quae initia m undi atque elementa censentur. Q uippe si est inform is et inordinata, nimirum etiam im m obilis natura sua, nec immobilis modo, uerum etiam incom mutabilis - quippe commutationes non siluae accident sed corporibus, in quibus sint qualitates - eodem que pacto etiam ex an i­ mis, quando quidem immobilis. M alitiam porro aiunt uirtutis esse carendam, ut informitatem inopiam intem ­ perantiam , proptereaque u irtu tib u s ad d ita o ratio n is parte negatiua contra quam uirtutes cognom inatas fore imprudentiam iniustitiam imperitiam. H aec atque huius modi est dissensio Platonicorum philosophorum.

c c c n Nos tamen quam ex his putam us potiorem et ad ueritatis exam en propensiorem m ax im eq u e tan ti auctoris prudentia dignam exequemur. Est igitu r p ro ­ positarum quaestionum duplex probatio, altera quae ex antiquioribus posteriora confirmat, quod est proprium syllogism i - praecedunt qu ip p e o rd in e accep tio n es, quae elementa uocantur, conclusionem - , altera item , quae posterioribus ad praecedentium indaginem gradatim peruenit, quod genus p ro b ation is reso lu tio dicitur. Nos ergo, quia de initiis sermo est, quibus an ti­ quius nihil est, utemur probationis rem ediis ex reso lu­ tione manantibus, certum est siquidem apud omnes uel philosophantes uel qui se non d ediderin t h uic studio esse in nobis sensus, esse etiam intellectum , et haec esse non eadem sibi; ergo etiam effectus tam sensuum quam

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serpente che con i suoi malvagi consigli riuscì a corrom­ pere i primi esemplari del genere umano826. CCCI E non mancano quelli che pensano che secon­ do P latone questo movimento disordinato e confuso non sia insito nella materia, ma piuttosto nelle sostanze e nei corpi, che sono ritenuti essere le origini e i princi­ pi prim i del mondo827. Infatti, se la materia è priva di forma e di ordine, evidentemente è anche immobile per natura828, e non soltanto immobile, ma anche immuta­ bile - i cambiamenti, infatti, non avverranno alla mate­ ria, ma ai corpi: sono loro che hanno le qualità - e, allo stesso modo, anche priva di anima, dal momento che è priva di moto. Dicono inoltre che il male è mancanza di virtù, così come vi sono la mancanza di forma, di mezzi, di moderatezza, e perciò quando ai nomi delle virtù si aggiunge un prefisso negativo, verranno indicati i con­ trari di queste virtù, ad esempio //«prudenza, /«giusti­ zia, //«perizia829. Queste e altre simili sono le interpreta­ zioni discordi dei filosofi platonici. C CCII M a tra esse noi prenderemo in considerazio­ ne q u ella più valida, che meglio si accosta all’esame della verità e che è più degna della saggezza di un auto­ re così grande830. Vi sono dunque due modi di dimo­ strare gli argomenti proposti: uno, sulla base di ciò che precede prova ciò che segue, ed è il modo di procedere proprio del sillogismo - in esso, infatti, le premesse, che sono chiam ate «elem enti»831, precedono nell'ordine la conclusione l ’altro, che dalle cose che seguono risale per grad i all’indagine di ciò che precede: questo tipo di d im o strazio n e è chiam ato «an alisi»832. Noi dunque, poiché si parla dei principi primi, per i quali non esiste nulla di precedente, ci serviremo del metodo di dimo­ strazione che scaturisce dall’analisi; è un fatto certo per tutti, sia per i filosofi sia per chi non pratica lo studio della filosofia, che in noi vi siano i sensi e vi sia pure l ’intelletto e che essi non siano la stessa cosa; dunque

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quid neque in compositum dissoluetur: in sim plex, ideo quod sola initia sim p licia; ergo in se d isso lu etu r et recreabitur potius quam interibit. N eque in com posi­ tum quidem, continebitur enim ex compositis; ergo nec dissoluetur, quippe omne compositum ex sim plicium naturarum conexione subsistit. Nec uero in nihilum dissolui potest; nec enim quicquam potest esse quod nihil est. Certe, ut ait Plato, «initio perdito nec ipsum ex alio quoquam nec ex eodem aliud quicquam recreab itur»; quo pacto immortale rerum initium reperitur. CCCVII Quia igitur quid et cuius m odi sit initium demonstrauimus, consequens erit iam nunc considera­ re, utrum hoc ignis sit an terra an cetera quae dicuntur elementa. Arbitror quippe non recte horum qu id in i­ tium putari; haec enim minime sim plicia sed ex diuersis materiis naturisque concreta sunt corpora; in itii porro simplicem esse naturam in superioribus constitit. H is ita digestis demonstrandum est duo esse initia rerum et haec contraria sibi inuicem. Sic quippe non solus Plato sed antiquiores quoque omnes consentiunt, cum partim calorem et frigus initia constituunt, partim hum orem et siccitatem, alii quidem consensum et dissensionem uel unum et item multa, parque et impar, id est sin gu larita­ tis d u ita tis q u e n a tu ra m , ut P y th a g o ra e p la c e b a t. Quorum omnium sententiae de contrarietate initiorum concinunt, sed utrum ea aeterna an tem poraria, et an incorporea an corporeae m olis, dissentiu nt. Q uorum alterum ut faciens, alterum ut patiens. O portet porro

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potrà dissolversi in qualcosa di semplice poiché i princi­ pi soltanto sono semplici; dunque in questo caso si dis­ solverà in se stesso e ciò equivarrà a una rinascita, più che a una morte. Ma nemmeno potrà dissolversi in qualcosa di composito: infatti esso sarà contenuto dai com positi stessi. E dunque non si dissolverà, poiché tutto ciò che è composto trae esistenza dall’unione delle nature semplici. Ma nemmeno può dissolversi nel nulla: infatti non può esistere un qualcosa che sia nulla. Di certo, come dice Platone, «una volta distrutto il princi­ pio, né il principio stesso risorgerà da qualcos’altro, né qualcos’altro rinascerà dal principio»848; risulta perciò che il principio delle cose è immortale. CCCVII Poiché dunque abbiamo chiarito cosa sia e che natura abbia il principio, si dovrà di conseguenza esam inare se il fuoco o la terra o le altre cose chiamate “elem enti” siano principi. Credo infatti che nessuno di questi possa essere ritenuto a ragione un principio, poi­ ché essi non sono affatto semplici, ma sono corpi com­ posti d all’unione di sostanze e nature diverse. Ma si è d im o strato nei capitoli precedenti che la natura del p rincipio è semplice. Stabilito ciò, si deve dimostrare che i principi delle cose sono due e che essi si oppongo­ no vicendevolmente. Concordano infatti su ciò non solo P lato n e, m a anche tutti i filosofi precedenti, quando pongono come principi, alcuni il caldo e il freddo, altri l ’um ido e il secco, alcuni poi la concordia e la discordia o l ’uno e il molteplice e il pari e il dispari, cioè la natura d e ll’u n ità e d ella diade: questo era ciò che pensava Pitagora. Le opinioni di tutti questi filosofi concordano sul fatto che vi siano dei principi in opposizione tra loro; ciò su cui si trovano in disaccordo è se questi prin­ cipi siano eterni o temporali, incorporei o corporei849. E uno di essi lo presentano come principio attivo, l’al­ tro come principio passivo. Bisogna inoltre che i princi­ pi non traggano origine da qualcos’altro e che non siano

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initia nec ex aliis rebus originem trahere nec ex se inuicem constare, quin potius omnia ex isdem substantiam mutuari. Quod igitur « laciens» dixim us, deus est, quod uero «u t p atien s», silua corporea. Sed qu ia id quod facit aliquid, ad exem plum aliq u o d resp icien s operatur, tertiae quoque originis intellecta est necessi­ tas. Sunt igitur initia deus et silua et exem plum , et est deus quidem origo prim aria moliens et posita in actu, silua uero ex qua prima fit quod gignitur. CCCVTII Nunc iam de silua tractabitur, quam origi­ nem fore rerum consentiunt Pythagorei Platonici Stoici. Nomen uero ei dederunt auditores Platonis ipse enim nusquam siluae nom en ascrip sit sed a liis m u ltis ad declarationem naturae eius conuenientibus n uncupamentis usus est, cum animis nostris intim are uellet in tel­ lectum eius utcumque, uel ex natura propria rei uel ex passionibus comm otionibusque anim orum nostrorum , ex natura quidem propria «prim am m ateriam » n u n cu ­ pans et item « sim ile » q u id d am «m o llis ce d e n tisq u e m ateriae in quam im p rim u n tu r s ig n a c u la et reru m receptaculum » et interdum «m atrem » atque « n u tric u ­ lam totius generationis», ex passione uero audientium , cum dicit «adulterino quodam intellectu recordandam et contiguam sine tangentium sensu». O m nibus uero supra memoratis communiter placet siluam esse m u ta­ bilem totam et conuersibilem, sed conuersionem m u ta­ tionem que eius d iu erse in terp retan tu r. N am q u e a lii putant ex sua propria ratione conuerti et sum ere q u ali­ tates, cum ex conuersione nihil accidat p raeter uariam

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costituiti l ’uno della sostanza dell’altro, ma che invece tutte le cose traggano la loro sostanza da essi850. Quello dunque che abbiamo indicato come il principio attivo è dio, quello invece che abbiamo definito principio passi­ vo è la m ateria corporea851. Ma poiché ciò che crea qualcosa, opera guardando a un modello, si comprende la necessità dell’esistenza di un terzo principio. Dunque i principi sono dio, la materia e il modello, e dio è l’ori­ gine prim a che opera ed è posta in atto, mentre la mate­ ria è la prim a cosa da cui nasce ciò che viene a esiste­ re852. CCCVIII Adesso infine si parlerà della materia, che i filosofi pitagorici, i Platonici e gli Stoici ritengono una­ nim em ente l ’origine delle cose. Ma il nome le fu dato dai discepoli di Platone853: egli infatti non le attribuì da nessuna parte il nome di “materia”, ma si sen i di molte altre denominazioni, adatte a spiegarne la natura; voleva infatti in qualche modo far penetrare nei nostri animi la com prensione della materia, basandosi sulla natura pro­ pria di essa o sulle passioni e sulle emozioni del nostro anim o; così, partendo dalla sua specifica natura, la chia­ m ava « la p rim a m ateria»854 e parim enti la definiva «qu alco sa di simile alla sostanza morbida e cedevole su c u i si p rem o n o gli stam p i»855 e «ricettaco lo delle co se»856 e, talvolta, «madre e nutrice di tutto ciò che è gen erato »857; si basa poi sull’esperienza di chi ascolta, quando la definisce «tale che si può ripensare con un ragionam ento illegittimo» e che «si può toccare senza la sensazione di ciò che tocca»858. Inoltre, tutti i filosofi m enzionati sopra concordano sul fatto che la materia sia interam ente mutevole e soggetta a trasformazione; m a interpretano in maniera diversa questo suo trasfor­ m arsi e cambiare. Infatti, alcuni pensano che la materia si trasform i e assuma delle qualità per sua propria natu­ ra, dal momento che in seguito alla trasformazione non avviene n u ll’altro che un mutamento di qualità; e questa

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qualitatem; quam quidem qualitatem nihilo minus esse siluam in alio atque alio habitu. Nobis autem nequa­ quam placet eandem siluam esse et qualitatem, quippe quarum altera sit quasi quaedam subiecta materia, alte­ ra accidens quid eidem materiae. Quae causa est cur silua patibilis esse probetur, quippe quae suscip iat diuersas qualitates ex immutatione. CCCIX Fit porro conuersio iuxta siluam non ipsa silua perpetiente mutationem, sed earum quae sunt in eadem et continentur ab ea qualitatum. Quippe si ipsa mutabitur, in aliud quiddam conuertatur necesse est ac desinat esse silua; quod ratione certe caret. Namque ut cera, quae transfigurata in multas diuersasque formas non ipsa uertitur sed figurae, ipsa in propria natura perseuerante, cum figurae non sint quod cera est, sic opi­ nor siluam quoque formis figurisque uariatam, cum de sua condicione minime recedat, recte patibilem dici. CCCX Etiam hoc communiter ab omnibus pronun­ tiatur, siluam sine qualitate esse ac sine figura et sine specie, non quo sine his umquam esse possit, sed quod haec ex propria natura non habeat nec possideat potius quam comitetur species et qualitates. Denique si mentis consideratione uolumus ei haec adim ere sine quibus non est, possum us ei non effectu sed p o ssib ilita te horum omnium possessionem dare. Possibilitas autem gem ina ratione intellegitur: una, ut cum dicim us in semine omnem totius corporis perfecti rationem intus latere semenque possibilitate animal esse, altera, quod rationem quidem in se futurae generationis nondum

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qualità veram ente non è che la m ateria in uno stato sempre diverso859. Ma non siamo affatto dell’opinione che la m ateria e la qualità siano la stessa cosa: infatti, l’una è, per così dire, come la sostanza860 che sta alla base, l ’altra un accidente di quella stessa sostanza. E questo fatto dimostra che la materia è passiva, poiché assume qualità diverse in seguito al cambiamento. C C C IX A ncora, la trasform azione avviene n ella materia, ma non nel senso che la materia stessa subisce il cambiam ento; esso riguarda invece le qualità che si trovano e sono contenute nella materia. Poiché se sarà la materia stessa a cambiare, è necessario che essa si tra­ sformi in qualcos’altro e cessi di essere materia: ma ciò è certam ente privo di senso. Infatti, come quando la cera viene plasmata in molte e diverse forme, non è la cera stessa a cambiare, ma cambiano le figure, mentre la cera perm ane nella sua natura - poiché le figure non sono la cera stessa861 - , allo stesso modo, credo, la materia m utata in forme e figure diverse, anche se non abbandona affatto il suo stato, è giustamente definita «passiva». CCCX Tutti i filosofi862 sono poi d ’accordo anche sul fatto che la materia sia priva di qualità, di figura e di forma, non nel senso che essa possa eventualmente esi­ stere senza di esse, ma nel senso che essa non le ha in sé per sua natura e non le possiede, ma piuttosto accom­ pagna le forme e le qualità. Infine, se con l’immaginazione vogliamo sottrarre ad essa queste cose senza cui non esiste, possiamo concedere che la materia possieda tutto ciò non nella realtà effettiva, ma in potenza. Ora, la potenza si può intendere in due modi: uno, quando diciamo che nel seme si cela interamente tutto il corpo com pleto e che, p erciò , il sem e è essere viven te in potenza; l ’altro, quando di una cosa che in realtà non ha ancora in sé ciò che in seguito diverrà, ma è di natura tale per cui può ricevere dall’esterno delle figure e delle

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habet, sed quia tale est natura, ut extrinsecus accipere possit rationes formarum et qualitatum , possibilitate dicimus fore quod nondum est, ut aeris ceraeue massa informis, antequam ex arte recipiat formas. CCCXI Quare si intra siluam ratio formarum et qua­ litatum latet, ut Stoicis uidetur, abundat opificis mode­ ratio, sed opinor siluae opificem necessarium, sicut ipsi etiam Stoici sanciunt. Opifex igitur siluae ut aeris infor­ mitati ceraeue formas insigniet atque ita constabit ob necessariam dogmatis rationem. CCCXII Nihilo minus de aeternitate etiam siluae consentiunt perpetuam fore censentes, quando sit arx et origo rerum, sed utrum lim itata, id est determ inata, nequaquam consentiunt, quando determinatum quoque magnitudinem habeat necesse est; magnitudo autem est uel lineae uel superficiei uel corporis, quae cuncta pro­ prias figuras habent, siue plana sint seu solida, figura porro species qualitatis est. Quare si est lim itata silua, qualitate praedita et figurae compos erit per sem et ipsam , quae inform is et q u alitate carens eu id en ter ostensa est, ergo infinita quoque et minime terminata. Infinita porro, non ut quae immense lateque et insuperabiliter porrecta sunt, sed ut quae possunt aliquo lim i­ te circum iri nec tamen adhuc mentis consideratione uallata; atque ut sine qualitate, sine figura quoque dici­ mus, sic etiam infinitam, uelut nondum ante exornatio­ nem dumque adhuc silua est fine circumdatam. CCCXIII Eademque nec incrementum nec imminu­ tionem pati dicitur. Merito; fiet enim, ut ex nihilo subsi-

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qualità, diciamo che esiste in potenza ciò che ancora non esiste; questa è, ad esempio, la condizione di una massa informe di bronzo o di cera, prima di ricevere forma dal lavoro dell’artista. CCCXI Perciò, se forme e qualità si celano nella materia, come credono gli Stoici, l’opera regolatrice del­ l ’artefice diventa superflua; ma io credo che un artefice sia indispensabile alla m ateria, come gli stessi Stoici affermano. L’artefice dunque imprimerà le forme nella materia come in una massa informe di bronzo o di cera e così, se la loro filosofia vorrà essere consequenziale, dovrà necessariamente esistere863. CCCXII I filosofi concordano inoltre sull’eternità della materia e pensano che essa abbia esistenza perpe­ tua, poiché è l ’origine e il principio delle cose864; non si trovano però d’accordo sulla questione se essa sia finita, cioè delimitata, dal momento che è necessario che anche ciò che è delimitato abbia anche un’estensione; ma l’e­ stensione è propria di una linea, di una superficie o di un corpo, e tutte queste cose sono dotate di forma pro­ pria865, sia che siano figure piane sia che siano figure so­ lide; ora, la forma è un tipo di qualità. Perciò, se la ma­ teria è delim itata sarà dotata di qualità e possiederà di per se stessa una forma; ma si è chiaramente dimostrato che essa è priva di forma e di qualità; dunque è anche infinita e illimitata. Inoltre è infinita non come qualcosa che si estende in uno spazio smisurato, vasto e invalica­ bile866, ma come ciò che può essere circondato da un limite, e tuttavia non può ancora essere circoscritto dalla riflessione867. E come diciamo che è priva di qualità e di forma, allo stesso modo diciamo anche che è infinita, nel senso che, prima di essere adornata, mentre era ancora materia, non era ancora circondata da un limite. CCCXIII Dicono inoltre che la m ateria non possa subire accrescimento o diminuzione. Ed è giusto: acca­ drebbe infatti che qualcosa venisse ad esistere dal nulla

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stat aJiquid et dissoluatur in nihilum, quod fieri non potest. Quippe quod augetur accessu magnitudinis cre­ scit, et praeter ipsam siluam nihil esse arbitror ex quo fiat accessio uel in quod id quod ex silua defluit inanita silua minuatur. CCCXIV Sunt qui censent eam fundi et item con­ trahi. Sed neque funditur quid sine humore nec con­ trahitur sine replicatione. Utrumque autem hoc non caret qualitate, et silua caret qualitate: neque igitur ut fusilis materia porrigitur nec contrahitur ut replicabilis. CCCXV Sunt item qui putent infinitae sectionis patibilem siluam. Sed omne quod secatur compositum minimeque simplex erit et in aliquo spatio, quod est proprium quantitatis: ergo silua minime secabitur; caret enim quantitate perinde ut qualitate, quamuis qualita­ tem quantitatemque comitetur. Si uero, quia corpora qualitatibus et quantitatibus praedita, quae ab ea conti­ nentur, secari queunt, ipsam quoque una cum isdem secari fingamus, non erit omnino abhorrens a ratione uel inconueniens praesumptio. CCCXVT Recta est igitur nostra opinio neque ignem neque terram nec aquam nec spiritum esse siluam, sed materiam principalem et corporis primam subiectionem, in qua non qualitas non forma non quantitas non figura sit ex natura propria, sed uirtute opificis haec ei cuncta conexa sint, ut ex his uniuerso corpori et singillatim perfectio et communiter uarietas comparetur. CCCXVII Quod uero sit uniuersi corporis fomes et prima subiectio, facile probatur ex elementorum in se

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o a dissolversi nel nulla, e ciò non può accadere. Infatti ciò che si accresce diviene più grande per l’aumento della sua estensione e, a parte la materia stessa, credo, non esiste nulla da cui possa derivare un tale aumento o in cui possa consumarsi ciò che scorre via dalla materia, mentre la materia stessa si svuota868. CCCXIV Alcuni pensano che essa si espanda e si contragga. Ma niente si espande senza liquido, e niente si contrae senza ripiegarsi su se stesso. Ora, le cose capaci di queste due azioni sono dotate di qualità, e la m ateria è priva di qualità: dunque la m ateria non si estende come qualcosa che può espandersi, né si con­ trae come ciò che può ripiegarsi su se stesso. CCCXV Alcuni credono poi che la materia sia divi­ sibile all’infinito869. Ma tutto ciò che si divide sarà com­ posto e non semplice e si troverà in un certo spazio, e questo è proprio della quantità: la materia perciò non si potrà affatto dividere. Infatti essa è priva di quantità come di qualità, sebbene accom pagni la qualità e la quantità. Se poi, dal momento che i corpi in essa conte­ nuti, in quanto dotati di qualità e quantità, possono essere divisi, immagineremo che anche la materia venga divisa insiem e con essi, questa supposizione non sarà del tutto irragionevole né sconveniente. CCCXVI Dunque è giusta la nostra opinione, secon­ do cui la materia non è né fuoco, né terra, né acqua, né aria870, ma materia principale e primo sostrato dei cor­ pi871; non possiede per sua natura né qualità, né forma, né quantità, né figura, ma tutte queste cose sono state aggiunte ad essa dal potere dell’artefice, affinché l’uni­ verso ottenesse da esse la perfezione delle singole parti e la varietà che è comune a tutte. CCCXVII Che la materia poi sia l'alim ento e il fon­ damento principale dell’universo è facilmente dimostra­ to dalla reciproca trasformazione degli elementi gli uni

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conuersione mutua et ex qualitatum inconstanti muta­ tione. Etenim terra duas habet proprias qualitates, fri­ gus et siccitatem (perinde enim tractemus ad praesens, quasi terra ex aliqua parte in aliud aliquod conuertatur elementum). Similiter aqua in duabus qualitatibus inuenitur, humoris uidelicet et frigoris, et est propria quali­ tas terrae quidem siccitas, aquae uero humor, commu­ nis uero utriusque natura frigoris. Cum igitur terra late fusa conuertetur aliquatenus in aquam, tunc siccitas quidem eius mutata erit in humorem, frigus uero, quod commune est, perseuerat in statu proprio, quia neque etiam tunc est in terra nec iam in aqua: in terra quidem propterea, quia, quod conuersum est, d esin it esse [terra]; nec uero in aqua: dum enim mutatur adhuc et conuertitur, neque plene m utatum neque p erfecte conuersum est, ut iam in aquae m ateriam m igrarit. Superest igitur, ut sit uspiam frigus, nec enim potest esse sine eo in quo est; hoc porro nihil esse aliud quam siluam ratio testatur. CCCXVIII Rursum dicim us aera duas q ualitates habere, calorem et humorem; constitit autem aquam quoque in duabus qualitatibus inueniri humoris et fri­ goris. Erunt ergo et horum propria quae uidentur con­ traria, aquae quidem frigus, aeris uero calor, sed com­ munis his humor. Cum igitur resoluta in uapores aqua aeri quod ex aqua conuersum fluxit quaeritur ac uindicatur, tunc, opinor, frigus quidem ad calorem transitum facit, humor porro communis manet neque in aeris nec in aquae gremio; esse tamen eum uspiam necesse est: erit igitur in silua. Eodemque modo ignis duae sunt

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negli altri e dagli incostanti cambiamenti delle qualità. E infatti la terra ha due qualità che le sono proprie, il freddo e il secco (fingiamo infatti ora che la terra possa in qualche parte mutarsi in un qualche altro elemen­ to872). Allo stesso modo anche nell’acqua troviamo due qualità, l ’umido e il freddo; e la qualità della terra è il secco, quella dell’acqua, invece, l’umido, mentre il fred­ do è com une a entram be. Quando dunque la terra, spargendosi ed espandendosi, si muterà parzialmente in acqua, allora la sua natura secca si sarà mutata in umi­ dità, ma il freddo, che è comune a entrambi gli elemen­ ti, permane nel suo stato, poiché non è più nella terra e non è ancora nell’acqua. E non è nella terra per il fatto che ciò che è cambiato cessa di essere, ma non è nem­ meno nell’acqua: infatti, mentre è ancora nella fase di cambiamento e trasformazione, non è ancora compietamente cam biata, né interam ente trasformata, così da essere già passata allo stato di acqua. Non rimane dun­ que che pensare che il freddo si trovi da qualche altra parte, poiché non può esistere senza qualcosa in cui si trovi; ora, il ragionamento dimostra che questo qualco­ sa non è altro che la materia. CCCXVIII Ancora, diciamo che l ’aria ha due qua­ lità, il caldo e l ’umido; ma anche n ell’acqua risultano esservi due qualità, l ’umido e il freddo. Vi saranno dun­ que delle qualità proprie di queste sostanze, che appaio­ no essere opposte, e cioè il freddo dell’acqua e il caldo dell’aria, ma comune a entrambe sarà Tumido. Quando dunque l ’acqua evapora873 e ciò che scorre via dall'ac­ qua, durante la trasformazione, viene attirato e trattenu­ to dall’aria, allora credo che il freddo si cambi in caldo, mentre Tumido comune a entrambe rimane e tuttavia non si trova né nell’aria, né nell’acqua. Ma deve trovarsi per forza da qualche parte: sarà perciò nella materia. E allo stesso modo due sono le qualità del fuoco, il secco e il caldo, mentre quelle dell’aria, come abbiamo detto

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qualitates, siccitas et calor, aeris uero, ut supra com­ prehensum est, calor et humor: ergo etiam et horum communis qualitas in calore. Ignis item propria siccitas, aeris humor: ignito ergo aere et aliquatenus conuerso in naturam ignis humor quidem ad siccitatem facit transi­ tum, calor autem, communis qualitas, neque in igni neque in aere residebit, nec uero nusquam erit: manebit igitur in silua. Ex quo perspicuum est, quod in illa cor­ porum mutua permutatione inuenitur silua antiquissima et principalis subiectio, perinde ut cera mollis, in qua imprimuntur signacula, aut ut eorum quae generantur commune omnium receptaculum. CCCXIX Quibus ita decursis sequitur ut, an corpus silua sit, consideremus. Neque corpus neque incorpo­ reum quiddam posse dici simpliciter puto, sed tam cor­ pus quam incorporeum possibilitate; quippe quod pro­ prie dicitur corpus ex silua constat et qualitate, silua autem nequaquam ex silua constat et qualitate: minime ergo corpus est. Deinde nullum corpus sine qualitate, silua autem per se sine qualitate: non igitur corpus est. Quid quod omne corpus habet figuram et siluae iuxta naturam suam n u lla figura est? Non ergo corpus. Deinde omne corpus finitum ac determinatum est, silua autem infinita et minime determinata: non ergo corpus. Item omne genus corporis sub categoricam redigitur appellationem. Dicimus enim corpus essentiam, utpote quod diuersis temporibus contrarias sustineat passiones et in quo alterum ex duobus co n trariis in u e n ia tu r necesse est. Idem hoc dicimus quantitatem , cum est perfectum longitudinis latitudinis soliditatisque consor­ tio. Nihilo minus corpus quale et qualitate praeditum

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sopra, sono il caldo e Tumido: anche queste due sostan­ ze hanno perciò una qualità in comune, che è il caldo. E così la qualità caratteristica del fuoco è il secco, quella dell’aria l ’umido; dunque, quando l’aria è infuocata e si cambia parzialmente nella natura del fuoco, Tumido si muta in secco, ma il calore, che è la qualità comune, non resterà nel fuoco né nell’aria: ma certamente non potrà essere da nessuna parte: rimarrà dunque nella materia. Da tutto ciò risulta evidente che nella reciproca trasformazione dei corpi si scopre la materia, il più anti­ co e principale fondamento delle cose874: essa è come la molle cera, in cui si imprimono gli stampi, o come un ricettacolo comune di tutte le cose generate. CCCXIX Passati così in rassegna questi argomenti, dobbiam o adesso considerare se la m ateria sia un corpo. Io credo che non si possa dire semplicemente che essa sia un corpo o una sostanza incorporea, ma che sia in potenza875 tanto un corpo quanto una sostanza incorporea. Infatti, ciò che si definisce propriamente corpo è costituito da materia e qualità, ma la materia non è affatto costituita da materia e qualità; dunque non è un corpo876. Nessun corpo, poi, è privo di qua­ lità, ma la materia è di per sé priva di qualità: dunque non è un corpo877. Che dire poi del fatto che tutti i corpi hanno una forma, mentre la materia, per sua natu­ ra, non ne ha nessuna? Dunque non è un corpoS/S. Inoltre ogni corpo è finito e limitato, ma la materia è infinita e illimitata: dunque non è un corpo. Allo stesso modo tutti i tipi di corpi possono essere ricondotti a una classificazione per categorie. Diciamo infatti che un corpo è sostanza in quanto può subire, in tempi diversi, accidenti879 contrari tra loro880 e in esso deve trovarsi per forza uno dei due contrari. Allo stesso modo lo chiamiamo quantità, quando risulta costituito dall’insie­ me di lunghezza, larghezza e spessore. Definiamo inol­ tre il corpo di un certo tipo e dotato di qualità. E quan-

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nuncupamus. Idem hoc ad aliud corpus comparantes maius esse dicimus aut minus uel aequale, quam com­ parationem Graeci uocant pros ti, quippe maius sine comparatione minoris et aequale sine comparatione alterius aequalis intellegi non potest; ceteramque signifi­ cationem de categoriis m utuam ur. At enim siluae detrahimus haec omnia, quando passionem quoque ipsam, quae propria eius uidetur, adimimus ideo quod numquam ex propria condicione desciscat sed aliis, id est corporibus, intra eam perpetientibus illa concors perpessionis putetur. Denique passio eius modi est, ut ipsa quidem in nihil aliud conuertatur, sed quia recipit ea quae m utantur pati aliquid falso putatur. Denique ut deus, qui primitus operatur ac facit, neque genus est neque ulli subiacet generi, sic etiam quod pri­ mitus patitur, id est silua, origo altera, neque genus est neque ulli subiacet generi; quapropter, cum sit origo, nihil antiquius ea mente concipiendum est. Quae cum ita sint, corpus sentitur, silua sensibilis non est: silua igi­ tur non erit corpus. Eodemque modo silua simplex res est et incomposita, corpus neque simplex et composi­ tum: minime ergo silua corporea. CCCXX Dico eandem hanc ne incorpoream q u i­ dem, quia quidquid incorporeum est nullam condicio­ nem corporis patitur nec corpus umquam fieri potest; at uero silua formata qualitatibus, quantitatibus etiam figurisque et omni cultu conuenustata corpus mundu-

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do poi lo paragoniamo a un altro corpo, diciamo che è più grande, o più piccolo, o uguale; e questo tipo di paragone i Greci lo definiscono pros A881, poiché ciò che è più grande non si può comprendere senza il para­ gone con ciò che è più piccolo, né ciò che è uguale si può intendere senza il confronto con u n ’altra cosa uguale; e allo stesso modo ricaviamo le altre qualifica­ zioni dalle categorie. Ma tutte queste cose le togliamo alla m ateria nel momento in cui sottraiamo ad essa anche quella passività che sembra esserle propria; e lo facciamo perché essa non si allontana mai dalla propria condizione, ma, quando le altre cose, cioè i corpi, subi­ scono qualcosa all’interno di essa, sembra che anche la materia sia partecipe di questo “subire”. Insomma, que­ sto suo essere passiva è tale che essa stessa, in verità, non si muta in nient’altro, ma poiché riceve in sé le cose soggette a mutamento, si pensa erroneamente che sia essa a subire qualcosa882. Infine come il dio che prima­ mente opera e agisce non è un genere e non è posto sotto alcun genere, così anche ciò che primamente subi­ sce, cioè la materia, che è la seconda origine delle cose, non è un genere, né è posta sotto alcun genere883, per il fatto che, essendo l ’origine, non si può im m aginare niente di precedente ad essa. Stando così le cose, un corpo viene percepito dai sensi, ma la materia non è percepibile dai sensi: dunque la materia non sarà un corpo. Ancora, allo stesso modo, la materia è una cosa semplice e incomposita, mentre il corpo non è semplice, ma composito: dunque la materia non è corporea884. CCCXX Ma io dico che essa non è nemmeno incor­ porea. Infatti, tutto ciò che è incorporeo non può sotto­ stare a nessuna condizione di corporeità, né può mai divenire un corpo; ma, in effetti, la materia, che riceve forma dalle qualità, dalle quantità e anche dalle immagi­ ni ed è abbellita da tutto ciò che la adorna, divenne corpo e mondo grazie all’azione e all'attività delTartefì-

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sque facta est effectu opificis atque operatione: igitur ne incorporea quidem. Deinde, si corpus est, sensile est; at enim sensile non est: ne corpus quidem igitur erit. Si autem incorporeum quiddam erit silua, intellegibilis eius natura est; at intellegibilis non est: ne incorporea quidem. Recte igitur eam simpliciter et ex natura sua neque corpoream neque incorpoream cognominamus, sed possibilitate corpus et item possibilitate non corpus. CCCXXI Iam cum omnia quae propositum erat recensere perspicaci consideratione decursa sint iuxta Platonici dogmatis auctoritatem, superest reditum fieri ad orationis ipsius explanationem. Ait ergo: «Quam igi­ tur eius uim quamue esse naturam putandum »? Uim nunc appellat opportunitatem siluae uultus induendi; etenim tam uultus quam qualitates uarias nec non quan­ titates habet, non effectu, sed possibilitate ob incon­ stantem eorum mutuam ex alio in aliud conuersionem. «Naturam» uero substantiam eius significat, recteque etiam «putandum »; non enim possumus certa aliqua comprehensione uel ex sensu cognita uel ex ratione intellecta de ueritate eius praesumere; quippe ut som­ nium, quo magis contrectare cupimus, hoc impensius imago effugit. «Opinor», inquit, «omnium quae gignun­ tur receptaculum est et quasi quaedam n u tricu la». Omnia quae gignuntur et ex aliquo tempore sint necesse est; sunt ergo mortalia immortalium uereque existentium simulacra et imagines, accipiunt autem substan-

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ce: dunque non è nemmeno incorporea. Allora, se è un corpo, è percepibile dai sensi; ma essa non è percepibile dai sensi: dunque non sarà nemmeno un corpo. Se poi la m ateria sarà qualcosa di incorporeo, allora la sua natura è intellegibile; ma non è intellegibile, quindi nemmeno incorporea. Perciò agiremo correttamente se la definiremo semplicemente e per sua natura né corpo­ rea, né incorporea, e se diremo che in potenza è corpo e parimenti in potenza non lo è885. CCCXXI Ora, giacché, con una riflessione appro­ fondita e basandoci sull’autorità della dottrina platoni­ ca, abbiamo completato la trattazione di tutti quegli argomenti che ci si era proposti di esaminare, non ci resta che tornare a commentare il testo stesso. Dice dunque: « E quale capacità e quale natura dovremo pensare che essa abbia?»886. Definisce qui «capacità» la facoltà che la m ateria ha di assumere un’apparenza esteriore; e infatti essa possiede delle apparenze este­ riori, nonché diverse qualità e quantità; e non le possie­ de in atto, ma in potenza, a causa della loro instabile e reciproca trasformazione l’una nell’altra. Con «natura» poi, intende l ’essenza della materia; e giustamente si esprim e ancora con le parole «dovrem o p en sare»: infatti noi non siamo in grado di trarre conclusioni sicure sulla vera natura di essa, in base a una compren­ sione che ricaviamo dalla percezione sensoriale o dal ragionam ento, poiché essa è come un sogno, in cui tanto più rapidam ente un’immagine ci sfugge quanto più noi ci sforziamo di toccarla. Dice ancora: «Io penso che essa sia il ricettacolo e, per così dire, la nutrice di tutto ciò che è generato»887. Tutto ciò che è generato deve necessariamente esistere a partire da un determ i­ nato tempo; ora, le cose mortali sono immagini e copie delle cose immortali e realmente esistenti; ma ricevono sostanza nella materia e perciò da una parte si rivelano esse stesse nella m ateria, d all’altra suscitano in noi il

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tiam in silua proptereaque et ipsa illic apparent et siluae nobis iniciunt recordationem. Quam quidem «recepta­ culum» eorum appellat, quia non ex gremio siluae gene­ ratae species florescunt, ut putant Stoici, sed extrinse­ cus obueniunt ut in cera signacula, «nutriculam » uero ideo quod alienos fetus uelut propriis humeris uehat; quippe nihil his praebet amplius praeter subiectionem. CCCXXII Deinde progreditur: «Atque hoc quod de ea dicitur uerum est quidem, et dicendum uidetur aper­ tius», quia non statim quae uere dicuntur aperte etiam manifesteque dicuntur. Multae quippe orationes uerae quidem sed obscurae; nascitur quippe obscuritas uel dicentis non numquam uoluntate uel audientis uitio uel ex natura rei de qua tractatus est. Iuxta dicentem fit obscuritas, cum uel studio dataque opera dogma suum uelat auctor, ut fecerunt Aristoteles et Heraclitus, uel ex imbecillitate sermonis, iuxta audientem uero, uel cum inaudita et insolita dicuntur uel cum is qui audit pigrio­ re ingenio est ad intellegendum, iuxta rem porro, cum talis erit, qualis est haec ipsa de qua nunc sermo nobis est, ut neque ullo sensu contingi neque intellectu com­ prehendi queat, utpote carens forma, sine qualitate, sine fine. Sed neque Timaeus, qui disserit, instabilis orator nec audientes tardi; restat, ut res ipsa difficilis et obscu­ ra sit. Nec silua quicquam difficilius ad explanandum; ergo cuncta quae de natura eius dicta sunt mera praedi­ ta ueritate sunt nec tamen aperte dilucideque intimata. Denique praestat causam difficultatis, cum ita dicit: «Est tamen arduum eo magis, quod praeconfundi men-

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pensiero di essa. E la chiama, invero, «ricettacolo» di queste cose perché le forme generate non spuntano dal grembo della materia - come credono gli Stoici - ma sopraggiungono dall’esterno, come degli stampi sulla cera. La chiama invece «nutrice» perché porta sulle sue spalle, per dir così, ciò che è generato da altri, come se fosse suo888; poiché la materia non offre nulla alle cose, se non un sostrato. CCCXXII Prosegue poi: «E ciò che si è detto di essa è certamente il vero, ma sembra che si debba dire più chiaramente»889, poiché ciò che si dice secondo verità non è automaticamente detto anche in modo chiaro e aperto. Molti discorsi infatti, sebbene veri, sono tuttavia oscuri; l ’oscurità, infatti, nasce talvolta dall’intenzione di chi parla, oppure dall’errore di chi ascolta, o dalla natura della cosa di cui si parla. L’oscurità è dovuta a chi parla quando l ’autore rende occulta la sua dottrina intenzionalmente e a bella posta, come fecero Aristotele e Eraclito890, o quando la trattazione è debole; è dovu­ ta, invece, a chi ascolta quando si parla di qualcosa di m ai sentito prim a e di inusuale o quando colui che ascolta è di ingegno meno pronto alla comprensione; ancora, è dovuta all’argomento quando esso sarà simile a questo stesso di cui stiamo parlando noi ora, cioè tale che non possa essere percepito da nessuno dei sensi, né compreso d all’intelletto, in quanto privo di forma, di qualità e di limite. Ma qui Timeo che parla non è un oratore incerto, né gli ascoltatori sono lenti; resta che l ’argomento stesso sia difficile e oscuro. E infatti niente è più difficile da spiegare della materia; per questo tutto ciò che si è detto sulla natura di essa, sebbene sia asso­ lutamente vero, non è tuttavia espresso in maniera chia­ ra e limpida. Infine Platone spiega il motivo di questa difficoltà quando dice così: «Tuttavia è tanto più diffici­ le stabilire, per il fatto che è inevitabile che l ’acutezza della mente si confonda e divenga incerta riguardo al

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tis aciem necesse est et aestuare tam de igni quam de ceteris materiis, qui magis aquam iure aquam dici putarique oporteat quam terram, cum nulla sit certa et stabi­ lis proprietas corporum quae cuiusque indicet natura­ lem proprietatem». Initium quaestionis arripit ex reci­ proca de alio in aliud elementorum conuersione. CCCXXIII «P rin cip io ut de aqua, cuius modo, inquit, fecimus mentionem, ordiamur: cum astringitur in glaciem, certe saxum terrenaeque soliditatis corpus minimeque fusile apparet». Acriter et nimium uigilanter «apparet»; quippe non in sua propria natura perseuerans aqua solidatur et fit terra, siquidem est humida, sed quod [ea quae] subiacet, uidelicet silua, contrariam naturam, hoc est siccitatem, suscipiens fit ex conuersio­ ne terra, mutato repente habitu mutataque condicione apparens quod non erat. Sed aquam in saxum solidari dicit, quia in glacialibus et gelidis locis aqua diu con­ stricta mutatur in saxum, quod crystallus uocatur ab Alpinis gentibus montium Raeticorum. Est quoque in Asia ciuitas Tripolis aquis immensum calentibus uaporata, quae, cum missa in formulas diuersas obriguerit, form atur in uuarum pom orum que aliorum figuras. Idem, quo modo haec fiant, deinceps dicturus erit. CCCXXIV Nunc exequitur quod aggressus est et quia conuersam aquam fieri terram dixerat, «hanc ean­ dem aquam demum tenuatam in uapores aereae misceri subtilitati docet rursumque ambustum aera conuerti in ign em ». D einde gyris an fractib u s gen itu ram eorum conuersionem que procedere adm onet, «cum ignis a propria subtilitate discedens condicionem aeris

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fuoco o alle altre materie, perché l’acqua debba essere a ragione definita e ritenuta acqua piuttosto che terra, dal momento che non esiste alcuna proprietà fissa e stabile dei corpi, che indichi la naturale caratteristica di ciascu­ no»891. E coglie l’origine della questione nella reciproca trasformazione degli elementi gli uni negli altri. CCCXXIII «Innanzitutto - dice - cominciamo dal­ l ’acqua, che abbiamo appena nominato: quando essa si condensa in ghiaccio pare davvero essere pietra e un corpo dotato della solidità della terra e non fuso»892. E dice «pare» in modo acuto e veramente preciso, poiché quando l ’acqua si solidifica e diviene terra, non persiste nella sua p ro p ria natura - dal momento che essa è umida - , ma ciò che è alla base di essa, la materia evi­ dentem ente, assum endo una natura diversa, cioè il secco, trasformandosi diviene terra e, cambiando im ­ provvisamente stato e cambiando condizione, appare essere ciò che prima non era. Ma egli dice che l’acqua si solidifica e diviene pietra893 poiché nelle regioni ghiac­ ciate e fredde l’acqua congelatasi da lungo tempo, si è cam biata in pietra, pietra che è chiamata «cristallo » dalle popolazioni alpine dei monti Retici894. C ’è inoltre in Asia una città, Tripoli, che è enormemente piena dei vapori di acque calde; e l ’acqua895, posta in form e diverse, si è solidificata e dà forma a figure di uva e di altri frutti. E in che modo ciò possa avvenire, lo spie­ gherà lui stesso in ciò che segue. CCCXXIV Continua ora il discorso che ha iniziato e, poiché aveva detto che l’acqua, trasformandosi, diviene terra, spiega che «questa stessa acqua, quando infine si è dissolta in vapore, si mescola alla finissima massa dell'a­ ria e inoltre l ’aria, infiammata, si cambia in fuoco»896. Ricorda poi che la generazione e la trasformazione degli elem enti si attuano in una successione ciclica, «d a l momento che il fuoco, abbandonando la sua natura rarefatta, assume lo stato di aria; l ’aria, quindi, adden-

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accipit, qui densatus primo quidem in nebulas nube­ sque opim atur, post soluta et liq u efacta sagin a in pluuias diffluit; ex aqua rursum soliditas et saxa subsi­ stunt». Igitur secundum hanc orbitam rationemque cir­ cuitus terra quoque uidetur in alia elementa mutari. Si enim sola non conuertitur, ad postremum omnia terra fient, siquidem cetera in ipsam conuertentur, ipsa autem in nihil eorum habebit conuersionem. Sed quia probatio consistit in uisu et numquam uisa est terra in aquam aliamue quam materiam conuerti idcirco absti­ nuit ac refugit terrenae immutationis assertionem, ne pugnare aduersum sensus uideretur. CCCXXV Sumpsit tamen, quo perfectius tractaret de mutua elementorum ex alio in aliud conuersione. Ait enim: «Atque ita circuitu quodam uires fom entaque generationis corporibus inuicem sibi mutuantibus nec in una eademque forma perseuerantibus quae tandem erit certa eorum et a cunctatione semota comprehensio? Nulla certe». Merito; fingamus enim esse hunc ignem sincerum et sine ullius materiae permixtione, ut putat H e ra c litu s , u el aquam , ut T h a les, u e l a e ra , ut Anaximenes: «haec», inquit, «si semper eadem immuta­ bilia censeamus, multos et inextricabiles incurrem us errores.» Q uare non oportet facile de huiusce modi naturis accommodare consensum nec, si u eri sim ile quid uidebitur, statim habere pro certo. Quid est igitur quod errore nos lib eret? Q uoniam est essentia, est etiam qualitas, et haec diuersa sunt, nam essentia qui­ dem alicuius rei substantia est, qualitas autem [quae] rebus substantiam habentibus contingit ac prouenit. Si obseruemus, ut semper, quotiens naturam istam penitus

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sandosi, dapprima si condensa in nebbia e nuvole, poi, quando la sua massa si è sciolta ed è divenuta liquida, scorre via sotto forma di pioggia; dall’acqua, di nuovo, derivano la terra e le pietre»897. Quindi, secondo questa successione circolare e questo ciclo, anche la terra pare mutarsi negli altri elementi. Se infatti soltanto la terra non si trasforma, alla fine tutte le cose diverranno terra, dal momento che tutti gli altri elementi si trasformeran­ no in essa, mentre la terra non si trasformerà in nessuno di quelli898. M a poiché la prova consiste nel vedere e non si è mai vista la terra mutarsi in acqua o in qualche altra materia, per questo motivo si trattenne ed evitò di affermare che la terra si trasforma, perché non sembras­ se andar contro l’esperienza dei sensi899. CCCXXV Stabilisce comunque di trattare in manie­ ra più approfondita la questione della reciproca tra­ sform azione d egli elem enti gli uni negli altri. Dice infatti: «E se l ’essenza e gli elementi della generazione si trovano in una sorta di successione circolare, poiché i corpi si legano reciprocamente tra loro e non perm an­ gono sem pre nella stessa forma, potrà infine esservi una comprensione di essi sicura e lontana da ogni dub­ bio? Certam ente no »900. E giustamente: immaginiamo infatti che esista questo fuoco puro, non mescolato con nessun’altra sostanza, come crede Eraclito, oppure l ’ac­ q u a, com e r itie n e T ale te , o l ’ a ria , com e p en sa Anassimene. «S e penseremo - dice - che le cose siano sempre le stesse e immutabili, incorreremo in molti ine­ stricabili erro ri»901. Perciò non bisogna concordare con troppa facilità su queste nature, né, se pure qualcosa sembrerà verosimile, ritenerlo subito sicuro. Cosa dun­ que ci im pedirà di sbagliare? Il fatto che esiste l’essen­ za, ed esiste anche la qualità, e sono cose diverse, in quanto l ’essenza è la sostanza di una cosa, la qualità invece capita e avviene alla cose che hanno sostanza. Se faremo attenzione, come sempre ogni volta che scrutia-

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introspicimus partemque aliam eius uidemus deficere a se et in aliam materiam migrare, ut puta ignem, non ut constans aliquid et semper idem certa pronom inis appellatione monstremus dicentes «hoc» uel «illu d » haec quippe pronomina sunt essentiae signa - , sed «illo » magis utamur in demonstratione quod est pro­ prium qualitatis dicam usque non «h o c» sed potius «tale», nec «illud» sed potius «illius modi» uel «huius modi». Neque enim ignis quam patitur immutationem iactura est essentiae, sed qualitatis. Cum ignis fit aer, transit in diuersam contrariamue materiam, certum est siquidem essentiam nihil in se sibi habere contrarium, sed potius circa eandem essentiam res uersari contra­ rias; itaque conuersio commutatioque fit non essentiae, sed qualitatis, in qua et diuersitas et contrarietas inuenitur. Eadem ratio est ceterorum quoque elementorum, quippe nihil eorum habet essentiam propriam, et nos praesumimus ex consuetudine uti demonstratione pro­ nominum eorum quae sunt essentiae, cum q u alitati accommodatis pronominibus utendum potius sit; sem­ per enim et sine intermissione ullius temporis fluunt haec quattuor corpora priusque ex conuersione m utan­ tur quam erunt cognominata, more torrentis inrefrenabili quodam impetu proruentis. CCCXXVI «Itaq u e», inquit, «ignis iste qui uelut exudans in aereas auras dissoluitur, cum instabilis mutabilisque sit nec habeat perpetuam proprietatem, non est ignis censendus, sed igneum quiddam, nec quae exhala­ tis uaporibus in auras aqua uertitur humor est nuncu­ panda, sed humidum quid»; similiter cetera. Et exsequi­ tur; «A t uero id, in quo fieri cuncta haec singillatim

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mo a fondo questa natura, e vedremo che una parte di essa viene a mancarle e si trasferisce in un’altra sostan­ za, ad esempio nel fuoco902, non la indicheremo come qualcosa di stabile e sempre uguale, definendola con un pronome determinato, dicendo cioè «questo» o «quel­ lo» - questi pronomi, infatti, denotano la sostanza - , ma piuttosto ci serviremo, per indicarla, del pronome che è proprio della qualità, e non diremo «questo», ma piut­ tosto «ciò che è così», né «quello», ma invece «ciò che ha quella o questa natura»903. E infatti il mutamento che il fuoco subisce non è una perdita di sostanza, ma di qualità. Quando diventa aria, il fuoco si muta in una materia diversa e opposta - , poiché è certo che la so­ stanza non ha in sé nulla di opposto a se stessa; avviene piuttosto che cose opposte tra loro abbiano a che fare con la stessa sostanza. Perciò la trasform azione e il m utam ento non avvengono nella sostanza, ma nella qualità, nella quale sono presenti la varietà e l'opposi­ zione. Lo stesso criterio vale anche per gli altri elementi, poiché nessuno di essi ha una sostanza propria; ed è dovuto alla forza d ell’abitudine che noi crediamo di poterci servire, per indicarli, di quei pronomi che sono peculiari della sostanza, mentre sarebbe meglio utilizza­ re dei pronom i che si addicano alla qualità. Q uesti quattro elementi infatti scorrono sempre e senza sosta e prima ancora che si dia ad essi un nome904, si trasfor­ mano e cambiano alla maniera di un torrente che preci­ pita con impeto irrefrenabile. CCCXXVI «Perciò» dice «questo fuoco che, come trasudando, si dissolve nel soffio d ell'aria, poiché è instabile e soggetto a mutamento, e non ha alcuna pro­ prietà costante, non bisogna considerarlo fuoco, ma qualcosa che ha la natura del fuoco, e quest’acqua che, evaporando, si trasforma in aria, non bisogna definirla “um ido” ma “qualcosa di natura um ida”905, e così per gli altri elementi. E continua: «M a ciò in cui ciascuna di

uidentur et demum dissolui pereuntiaque ad alias tran­ sire formas», siluam scilicet, «solum illud» appellandum puto certo pronomine recteque de eo dici posse ‘hoc’ uel ‘illud’. Merito; sola enim haec, ut cuius nulla quali­ tas sit nullaque forma, nec in contrarias qualitates nec in diuersas formas patitur conuersionem, et quia semper eadem manet, certo nomine appellari firme potest. Atque ut omne nubilum naturalis discuteret obscurita­ tis adhibito splendore illustris exempli, iubet concipere animo et intingere cogitatione opificem «ex uno eodemque auro innumeras sine intermissione formantem figu­ ras», modo pyramidis et ex ea mox octahedri dictoque citius icosahedri et item cubi species, ceteras item trian­ gulorum quadratorum hemicycli circuli: «tunc, si quis electa qualibet figura quaerat, quid illud sit, aurum esse responderi oportere» censet ne, si pyram idem esse responsum sit, illa in aliam figuram mox et inter ipsa uerba responsionis migrante qui sic responderit m entia­ tur. Eodem igitur modo nec ignem, qui est pyramoides, ignem esse respondebimus, sed uel ignitam siluae par­ tem uel igneam qualitatem, nec octahedrum, sed spira­ bilem siluam, nec icosahedrum nec cubum, sed humectam hanc, terrenam illam siluae soliditatem. CCCXXVII Nec uero putandum est agere nunc Platonem de nominum proprietate, quin potius dare operam ut assuescamus sinceram siluam, quae concursu uariorum corporum tegitur, ab eorundem corporum

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queste cose sembra avere origine e infine dissolversi e, distruggendosi, mutarsi in altra forma» - la materia evi­ dentemente - «questa cosa soltanto, credo, si può defi­ nire con un pronome determinato e ad essa soltanto si può correttam ente attribuire il pronome “questo” o “quello”» 906. Ed è giusto: solo la materia, infatti, può con sicurezza essere definita con un nome preciso, in quanto non possiede nessuna qualità e nessuna forma e non subisce mutamento, assumendo qualità opposte e forme diverse, ma rimane sempre uguale a se stessa. E, per dissipare ogni ombra di dubbio dovuta alla naturale oscurità dell’argomento, si serve di un esempio chiaro e luminoso e invita a concepire nella mente e a immagina­ re «un artigiano che, servendosi sempre dello stesso oro, plasmi senza interruzione moltissime figure geome­ triche»907, ora una piramide e subito da quella un ottae­ dro e, in men che non si dica, un icosaedro e, allo stesso modo, un cubo e così pure triangoli e quadrati e un semicerchio e un cerchio: «Allora, se qualcuno scegliesse una figura e chiedesse cosa sia m ai, si dovrebbe rispondere - come Platone crede - che è oro»908: altri­ m enti avverrà che, rispondendo che si tratta di una piram id e e trasform andosi quella, subito e proprio mentre si risponde, in un’altra figura909, colui che ha dato la risposta dica il falso. Allo stesso modo, dunque, parlando del fuoco che ha la forma di una piram ide, non risponderemo che è fuoco, ma che è o una parte infuocata di m ateria910, o che è la qualità del fuoco; né deU’aria diremo che è un ottaedro, ma «m ateria aerifor­ m e», né parleremo di icosaedro o di cubo, ma rispetti­ vamente di «parte solida um ida» e «parte solida terre­ n a»911 della materia. CCCX XVII M a non bisogna pensare che Platone discuta qui la scelta appropriata dei termini: egli si sfor­ za piuttosto di abituarci a distinguere, con mente acuta, la pura m ateria, che si cela nell’insieme e nella varietà

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perm ixtione sollertia mentis distinguere. Ait enim: «Eadem et consimilis ratio difficultasque in ea enatu ­ ra:^ quae cunctas recipit corporum formas, reperitur. Haec quippe minime recedit ex condicione propria; recipit enim cuncta nec ullam de isdem formam trahit». Ergo formata quidem sunt corpora, silua sine forma. «Cumque intra gremium eius formentur», inquit, «quae recipiuntur», - consequenter supra dictis quae reci­ piuntur, omnium quippe eam corporum appellauerat receptaculum - «ipsa informis manet estque usus eius similis molli cedentique materiae, in qua imprim untur uaria signacula». Perspicuum est aliqua esse mollia cor­ pora, quae cedentia uariorum simulacrorum impressio­ nibus recepta diu conseruent imposita signacula, ut, si ceram quis uel plumbum uel argentum consignet undi­ que, erit tunc in siluae uicem cera informis et habebit innumeras formas non suas, sed aliunde adhibitas sibi. Ratione igitur et recte usui siluae corporeae, quae consi­ gnata est undique corporum form is, n atu ra m ollis cedentisque materiae comparatur. CCCXXVIII Sed de cera quidem etiam in Theaeteto locutus est, cum diuersae hominum memoriae, tenacio­ ris et labidae, causas exprimeret. Ait esse in hominum ingeniis uim quandam cerae simillimam, quae faciat et acutos ad intellegendum et celeres ad ediscendum , et eosdem subinde obliuiosos, item alios quidem tardos ad discendum, uerum iugiter memores, quosdam ita inge­ niatos, ut et cito discant et diu memoria uigeant. Nam

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dei corpi, dalla confusione con quei corpi stessi. Dice infatti: «L a stessa identica condizione e la stessa diffi­ coltà a spiegarsi risulta esservi nella natura che accoglie in sé le forme di tutti i corpi. Questa infatti non viene mai meno al suo stato, ma accoglie in sé tutte le cose e non assu m e n essu n a form a d alle cose s te s s e » 912. Dunque i corpi hanno, senza dubbio, una forma, mentre la materia è senza forma. «E sebbene ciò che essa riceve in sé prenda forma in seno ad essa - e dice «ciò che essa riceve» conform em ente a quanto aveva detto sopra, quando aveva definito la materia «ricettacolo» dei corpi - , lei rimane priva di forma e viene usata alla maniera della sostanza m olle e cedevole su cui si imprimono stampi diversi»913. Esistono, come si sa, dei m ateriali morbidi, così cedevoli da potervi imprimere immagini diverse, m ateriali che ricevono in sé e trattengono a lungo le impronte degli stampi applicati su di essi, come avviene se si marchia in ogni parte con un sigillo la cera, il piombo o l’argento: in quel caso la cera sarà, come la materia, priva di forma e avrà moltissime forme che non appartengono ad essa, ma le vengono applicate dall’e­ sterno. A ragione dunque, e giustamente la natura di un materiale morbido e cedevole è paragonata al modo in cui è utilizzata la materia corporea914, che è come m ar­ chiata in ogni sua parte dall’impronta delle forme dei corpi. CCCXXVIII Ma della cera Platone ha parlato anche nel T eeteto 915, quando spiegava i m otivi per cui gli uomini possiedono diversa capacità di memoria, chi più tenace, chi più labile. Egli dice che nella mente degli uomini c’è una facoltà assai simile alla cera, che rende alcuni p ro n ti a capire e veloci ad im parare, ma poi anche soggetti alla dimenticanza; parimenti rende altri lenti a capire, ma capaci di ricordare per lunghissimo tempo, altri ancora così ben dotati per natura che im pa­ rano rapidam ente e ricordano a lungo. Infatti questa

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quorum in animo cerae illa similitudo, quam Homerum dicit cognominasse, fluxior solutiorque erit, faci­ le quidem discunt, sed cito am ittu n t o b so letis ob nimiam remissionem cerae signaculis. Contra ingenii mentisque durior cera uix recipit formas quae im pri­ muntur, sed si umquam receperit, diu conseruat opero­ se im pressas figuras, utpote stab ili m ateria locatas. Tertia diuinae felicitatis concretio, cum cerae similitudo sic solida est, ut neque respuat formas nec renitatur aduersum impressionem signaculorum nec ita fluxa recipiat sede, ut incertae minimeque uisibiles impressio­ nes sint. CCCXXIX Nunc, quoniam informem esse ac sine qualitate siluam m anifestauerat, im m obilem quoque curat ostendere asserens «m oueri eam conformarique ab introeuntibus» multimodis, cum ipsa ita ut formae sic motus quoque sit expers, sed a speciebus formam habentibus motam uarie diuerseque form ari. M anet ergo haec in tali fortuna et condicione semper, archety­ pum quoque exemplum manet in substantia propria, idea scilicet cuiusque existens rei natae; sim iliter deus opifex per aeuum manet, sed archetyporum exem plo­ rum simulacra, quae siluae obueniunt, non permanent, namque assidue ac sine intermissione m utantur mortis nascendique perpetua successione ob inexcusabilem naturae cuiusdam necessitatem. Quam ob rem dicta est a P lato ne silu a «p o sita esse ad recip ien d am rerum signacula». P raeclare «p o sita», quia, cum sit n atura

COMMENTARIO AL «TIMEO» DI PLATONE

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facoltà sim ile alla cera, che Platone afferma Omero abbia chiamato «cuore»916, nejl’animo di alcuni uomini sarà più liquida e molle; e costoro, invero, apprendono con facilità, ma dimenticano rapidam ente, poiché le immagini impresse svaniscono a causa della consistenza troppo cedevole d ella cera. Al contrario se questa «cera» dell’animo e della mente è più dura, accoglie con difficoltà le immagini che vi vengono impresse, ma, una volta che le abbia accolte, trattiene a lungo queste im­ magini impresse faticosamente, poiché si trovano ripo­ ste in una m ateria salda. Il terzo caso, che consiste in una felice e, per così dire, divina combinazione di ele­ menti, si ha quando la facoltà simile alla cera ha una consistenza tale da non rigettare le immagini e da non opporre resistenza agli stampi che vi vengono impressi, ma nemmeno da riceverli su una base così instabile, che le immagini impresse risultino incerte e per nulla chiare. CCCXXIX Ora, poiché aveva chiarito che la materia è priva di forma e di qualità, si preoccupa di mostrare che è anche immobile, affermando che essa « è modifica­ ta e conformata, ora in un modo ora in un altro, da ciò che vi e n tra » 917, poiché essa stessa è priva, come di forma, così anche di movimento, ma è mossa e riceve varie e diverse forme dalle immagini corporee che hanno forma. Perciò la m ateria permane sempre nello stesso stato e nella medesima condizione, così come permane nella propria natura il modello originale, cioè l'idea esi­ stente di tutte le cose che nascono. Allo stesso modo il dio artefice continua a esistere neH’eternità, ma le imma­ gini dei m odelli originali che si uniscono alla m ateria non persistono; infatti si trasformano continuamente e senza interruzione, in un perenne susseguirsi di morte e di nascita, per un’inevitabile necessità di natura918. Per questo motivo Platone dice che la materia «è posta nella condizione di ricevere le immagini delle cose»919. Ed è molto appropriata l’espressione «è posta nella condizio-

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immobilis, ingredientium formantiumque eam specierum commeatu mouetur et easdem inuicem mouet spe­ cies, ut progrediens docebit. Recte itaque, cum eadem sit semper et immutabilis, «uidetur tam en», inquit, «ob specierum multiformium coetum dispariles induere for­ mas; at uero quae obueniunt siluae species et in ea dissoluuntur ac pereunt, aeternarum atque immortalium specierum simulacra sunt», earum uidelicet, quas ideas uocam us, «fo rm an tu rq u e ab isd em m iro quo dam modo», iuxta memorati uidelicet exempli consignatio­ nem. «M iro» autem «m odo» propterea, quod difficile atque inexplicabile est concipere mente, quatenus ex idearum sinceritate natiuis uera rebus similitudo proueniat, utrum perinde ut mollius materiis signacula, sicut supra dictum est, an ut cum de exemplo liniam enta in materias tractabiles transferuntur, quod in pictoria et item fictoria fieri uidemus. CCCXXX Quare differt ad praesens tractatum hunc suo reseruans loco ac tempori, ac distinguit intellectum im perata animi conceptione tali, ut tria genera nobis occurrant, genera nunc im proprie appellans - neque enim silua nec uero exem plum genera sunt - sed ut appellatio generum significet primas substantias. «Illud quidem», inquit, «quod fit et quod gignitur» - generata uidelicet species, quae in silua subsistit et ibidem dissoluitur - , «item aliud in quo gignitur» - in quo est ipsa silua, in hac quippe species dissolubiles substantiam sortiuntur - , «tertium praeterea, ex quo sim ilitudinem trahit m utuaturque quod gignitur», idea scilicet, quae

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ne», perché, essendo la materia per natura immobile, viene mossa dal continuo andare e venire delle immagini che entrano in essa e le danno forma: essa stessa, a sua volta, muove le immagini, come spiegherà in seguito920. A ragione perciò, pur essendo essa sempre uguale e immutabile, «sembra tuttavia» - come afferma Platone «assumere forme diverse a causa dell’unione con immagi­ ni di varia forma; ma, invero, quelle immagini che si aggiungono alla materia e in essa si dissolvono e muoio­ no, sono imitazioni delle immagini eterne e immortali921 - di quelle, cioè, che noi chiamiamo «idee» - e ricevono forma da esse in un modo quasi straordinario»922, evi­ dentemente in seguito al fatto che viene impresso in esse il modello di cui si è detto. Ora, dice «in un modo quasi straordinario» per il fatto che è inspiegabile e difficile a im m aginarsi in che modo alle cose che nascono possa derivare una vera rassomiglianza con la purezza delle idee, se essa cioè risulti come le immagini degli stampi sul materiale morbido, come si è detto sopra, o nel modo in cui le fattezze del modello sono trasferite in un materiale che si presta ad essere lavorato, come avviene nell’arte della pittura e della scultura. CCCXXX Perciò, per il momento923 rimanda la trat­ tazione di questo argomento, riservandosi di esaminarlo in altro luogo e in altra occasione; e cerca di chiarirci il concetto invitando a pensare l’animo in modo tale che ci si presentino «tre generi»: e dice «generi» in senso figurato, dal momento che né la materia né il modello sono g e n e ri, p er in d ic a re col term ine « g e n e re » , le sostanze p rim e. «V i sono ap p u n to », dice, «ciò che diviene e che nasce», evidentemente la forma generata che ha esistenza nella materia e in essa si dissolve924, e «parim enti qualcos’altro nel quale si nasce» (e questo «nel quale» è la materia stessa, poiché in essa ricevono sostanza le forme soggette a dissoluzione), «inoltre una terza essenza da cui ciò che nasce trae e deriva la sua

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exemplum est rerum omnium quas natura progenuit, hoc est eorum, quae siluae quasi quodam gremio conti­ nentur exemplorumque imagines esse dicuntur. Deinde elùdenti quadam comparatione atque exem plo quae­ stionem reuelat. Comparat enim «quod percipit» in se species «m atri», uidelicet siluae - haec enim recipit a natura proditas species - , «illud uero ex quo» similitu­ do commeat «patri», hoc est ideae - huius enim simili­ tudinem memoratae species mutuantur - , quod uero ex his duobus est proli, generatae scilicet speciei - est enim haec posita inter naturam uere existentem constantem eandemque semper, nimirum idean, quae intellectus dei aeterni est aeternus, et inter eam naturam quae est qui­ dem, sed non eadem semper, id est siluam; quippe haec natura sua nihil est eorum quae sunt, cum sit aeterna. Ergo quod inter has duas naturas positum est uere existens non est. Cum enim sit imago uere existentis rei, uidetur esse aliquatenus, quia uero non perseuerat patiturque immutationem sui, non est existens uere ut sunt exempla; illa quippe exempla rata et im m utabili con­ stantia uigent. Erunt igitur tria haec: quod semper est, item quod semper non est, deinde quod non semper est. Nec uero moueri quemquam oportet, si exem pla exemplis non usque quaque similia uidebuntur; compa­ ratio enim iuxta similitudinem instituitur, quae sim ilitu­ do parilitatis disparilitatis concretio est. Q uare si quid in huius modi rebus perfunctoriam similitudinem habe­ re inuenietur, amplecti nos oportet intellectus m anife­ stationis causa. CCCXXXI Deinde ait «fieri non posse, ut una existat facies quae omnes rerum omnium formas uultusque co n tin eat u aria q u e u n iu ersi co rp o ris u n d iq u e ora demonstret, nisi subiecto prius informi aliquo corpo­ rum gremio, perinde ut quae in picturis substernitur

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somiglianza»925, cioè l’idea, che è il modello di tutte le cose generate dalla natura, ovvero di quelle cose che sono contenute, per così dire, come nel grembo della materia e che sono dette imitazioni dei modelli. Spiega poi la questione con un paragone chiaro ed esemplifica­ tivo926: paragona infatti «quello che riceve in sé le for­ m e» a una madre, e questa è evidentemente la materia; «quello poi da cui proviene la somiglianza» al padre, e questa è l ’idea - le forme menzionate, infatti, ricavano la somiglianza da essa - , «inoltre ciò che deriva da que­ ste due alla prole», e questa è la forma generata; essa infatti è posta tra la natura realmente esistente e costan­ te e sempre uguale, cioè l’idea, che è l’eterno atto del comprendere dell’eterno dio927, e quella natura che è, ma non è sempre la stessa, cioè la materia: questa infat­ ti, di per sé, non è nessuna delle cose che esistono, pur essendo eterna. Dunque, ciò che è posto tra queste due nature non esiste realmente. Poiché, infatti, è un’imma­ gine di ciò che realmente esiste, sembra esistere fino a un certo punto; d’altra parte, poiché non persiste ed è soggetta a mutamento, non è realmente esistente come i m odelli928: sono i modelli infatti a godere di un’esisten­ za stabile, fissa e immutabile. Vi saranno perciò queste tre cose: ciò che sempre esiste929, ciò che sempre non esiste930 e inoltre ciò che non sempre esiste931. E non bisogna sorprendersi se le copie non appariranno in tutto sim ili ai m odelli; infatti il paragone si istituisce sulla base di una somiglianza e la somiglianza è la com­ binazione di uguaglianza e disuguaglianza. Perciò se si riscontra che una di queste cose abbia una somiglianza superficiale, bisogna che noi la abbracciamo col pensie­ ro per ottenere una chiara comprensione dell’intelletto. CCCXXXI Dice poi che «non è possibile che esista un’unica forma che contenga in sé tutte le figure e gli aspetti di tutte le cose e che mostri le sembianze dell’u ­ niverso diverse in ogni parte, se non vi è prim a, alla base, una sorta di grembo privo di forma che accoglie i

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infectio decolor ad colorum lum ina su b u eh en d a». Nunc praestat causas, cur necesse fuerit siluam esse ino­ pem qualitatis. Etenim si erit aliquod opus futurum, cui nihil desit ad perfectam atque integram p u lch ritu d i­ nem, praebitum esse debet exemplum iuxta quod fit, nec opifex optimus et praestantissimus, sed etiam ipsa silua atque materies, ex qua illud opus fieri necesse est. Erit porro materia idonea si habebit opportunitatem facilitatemque formabilem. Habebit autem, si erit pura et qualitate omni carens; quippe si habebit propriam qualitatem erit impedimento ceteris qualitatibus genui­ na qualitas, maxime igitur, si erunt uariae m ultiplicesque insigniendae nec m ultiplices m odo, sed omnes etiam formae ac figurae. Igitur quia omnes silua recipit figuras, omnes quoque colores et ceteras, quot sunt, qualitates, nihil autem horum habet ipsa ex natura sua, iure eam modo «inform em », modo m inim e «fig u ra ­ tam », interdum «sine qualitate» cognominat, non quo habuerit haec umquam et amiserit, sed ut quae potuerit habere, utpote natura praedita splendoris atque ornatus capacitate; quem ad modum appellatur informe saxum, cui nondum accesserit ex artificio forma, formari tamen possit. CCCXXXII Et concludit asserens omne quod bene atque affabre recepturum erit form as inform e esse debere purum que ab his omnibus quae erit recep tu ­ rum, hoc est, sine figura et sine colore, odore etiam et ceteris quae corporis naturam sequuntur. «E tenim si erit», inquit, «alicuius eorum quae in se recipit simile receptaculum, cum quid obueniet dissimile his quibus

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corpi, allo stesso modo in cui, nelle pitture, si stende prima uno strato di tintura incolore che riceverà poi su di sé la luce dei colori»932. Spiega ora i motivi per cui la materia doveva necessariamente essere priva di qualità. E infatti, quando dovrà realizzarsi un’opera a cui non manchi nulla per ottenere una bellezza perfetta e com­ pleta, bisognerà che vi siano a disposizione un modello sulla base del quale essa venga fatta, e non solo un arte­ fice bravissim o ed eccellente933, ma anche la materia stessa, il materiale con cui quell’opera dev’essere fatta. E la materia sarà adatta se avrà la capacità di ricevere docilmente la forma. Ma avrà questa capacità se sarà pura e priva di ogni qualità: se infatti avrà una qualità propria, questa qualità originaria costituirà un ostacolo alle altre qualità, soprattutto nel caso in cui debbano essere impresse in essa varie e molteplici qualità, e non soltanto m olteplici, ma addirittura tutte le forme e le figure. Perciò, dal momento che la materia riceve in sé tutte le figure, e anche tutti i colori e tutte le altre qua­ lità che esistono, ma non possiede in se stessa, per sua natura, nessuna di queste, a ragione Platone la definisce ora «priva di form a»934, ora «priva di ogni figura» e tal­ volta « p riv a di q u a lità » 935, e non nel senso che un tempo le ha possedute e poi le ha perdute, ma nel senso che avrebbe potuto possederle, in quanto dotata, per sua natura, della facoltà di ricevere ornamento e abbel­ lim ento. Allo stesso modo si definisce “inform e” una pietra a cui il lavoro dell’artista non ha ancora dato una forma, ma che potrebbe tuttavia ricevere forma. C C C X X X II E conclude afferm ando che ciò che dovrà ricevere in sé bene e con precisione le forme, deve essere privo di forma e libero da tutte quelle cose che dovrà ricevere, dovrà essere cioè senza forma e senza colore e anche senza odore e senza le altre carat­ teristich e p ro p rie dei corpi. «E in fatti», dice, «se il ricettacolo sarà simile a qualcuna delle cose che riceve in sé, quando capiterà qualcosa di diverso da ciò a cui è

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simile est, discordabit, opinor, uulru nullamque exprim et sim ilitudi­ nem». Quod dicit tale est: si aqua sit uniuersae rei silua siue substantia, ut Thales censet, habebit certe qualita­ tes naturae suae proprias, quae numquam ab ea rece­ dent, sed si necesse sit eam a natura sua declinare ali­ quatenus et ignescere, suscipiet certe rursum igneas qualitates. Humecta et ignea contrariae sibi sunt, quip­ pe alterius humor et frigus propria sunt, alterius siccitas et calor. «Haec ergo», inquit, «diuersa sibi et repugnan­ tia non patientur alterius sinceram exprim i qualitatem, cum calor quidem frigus im pugnet, siccitas demum interimat humorem, uel, ut alio utamur exemplo, si sit aliquid candidum, ut psimithium, deinde hoc oporteat transferri in alium colorem uel diuersum, ut ruborem siue pallorem, uel contrarium, ut atrum, tunc candor non patietur introeuntes colores sinceros perseuerare sed permixtione sui faciet interpolatos». CCCXXIII «Q uid igitu r sibi u u lt», dicet aliq u is, «ista diuisio diuersorum colorum et item co n trario ­ ru m ?» Q uia con traria sunt ea quae a se p lu rim u m distant, licet sint generis eiusdem , ut puta candor et item nigredo, quorum genus unum est quod uocatur color. Sed haec duo plurimum a se distant - candido enim minimum distat quod dicitur pallidum , aliquanto plus quod ap p ellatur rubeum , hoc am plius cyaneus color, plurimum uero nigredo - ideoque candidum et item nigrum non diuersa sunt sed contraria, quia inter­ capedo prolixior. Ergo contraria separata quidem a se sunt m agna quadam separatione, nec tam en om nino aliena sunt; facit enim ea ueluti cognata et consanguinea

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simile, il suo aspetto contrasterà con quello del corpo che vi è entrato ed esso non manifesterà nessuna somi­ glianza»936. Quello che intende dire è che, se la materia o la sostanza di tutto fosse l’acqua, come crede Talete, avrebbe certamente le qualità che sono proprie della sua natura ed esse non verrebbero mai a mancarle; ma se essa dovesse abbandonare fino a un certo punto la propria natura e m utarsi in fuoco, allora certamente assum erebbe, di nuovo, le qualità del fuoco. Ma la sostanza um ida e quella del fuoco sono contrarie tra loro, poiché le qualità proprie della prima sono l’umidità e il freddo, quelle d ell’altra il secco e il caldo. “Ciascuna di queste due cose, che sono opposte e con­ trastanti tra loro, non perm etterà dunque che l ’altra esprim a p ien am en te le proprie q u a lità ”, dice, “dal momento che il caldo combatte col freddo, e il secco infine annienta l ’umido; oppure, per fare un altro esem­ pio, se una cosa è bianca, come la biacca, e bisogna cam biarla poi in un altro colore diverso, ad esempio il rosso o il giallo, o addirittura contrario, come il nero, in questo caso il candore del bianco non consentirà ai colo ri che si sovrappongono di rim anere puri, ma, mescolandosi ad essi, li altererà”. CCCXXXIII “Che significa dunque, uno dirà, questa divisione tra colori diversi e contrari?”937 Sono contrarie quelle cose che differiscono moltissimo tra loro, pur appartenendo allo stesso genere938, ad esempio il bianco e il nero, che appartengono a un unico genere, che chia­ miamo colore. Ma essi sono diversissimi tra loro; il bian­ co infatti differisce pochissimo dal colore che chiamia­ mo “giallo”, un pò di più da quello che è detto “rosso”, ancora di più dall’azzurro cupo, ma moltissimo dal nero: perciò il bianco e il nero non sono diversi, ma contrari, perché tra essi vi è la distanza maggiore. Perciò questi contrari sono separati tra loro da una grande differenza, e tuttavia non sono completamente estranei; li rende per così dire im parentati e li accomuna il genere cui appar-

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genus suum, quod colorem esse praedixim us. Natura uero distant omnino ea quae diuersa dicuntur, ut can­ dor et dulcedo nigredoque et odor; illorum quippe genus color, horum sucus et uapor proptereaque diuersis sensibus comprehenduntur. Ut igitur ea quae subiacet his omnibus silua possit horum facies sinceras minimeque interpolatas ostendere, ipsam necesse est nullas qualitates habere. CCCXXXTV Id ipsum quod gen eraliter asseuerat nunc specialiter uult probare positis exem plis in usu freq u en ti: «U t qui odora p igm en ta co n ficiu n t non patiuntur esse odoris naturalis ac proprii quod con­ diunt, quo meracos sincerosque suscipiat sucos odora­ m inum : u a s c u la rii q u o q u e a rg en to in fo rm i sig n a impressuri leuigant prius superficiem, ut figurae since­ rae im p rim an tu r m o lli ce d e n tiq u e m a te ria e . I ta » , in q u it, « illa etiam quae om nium sp ecierum form as receptura erat pura et sine qualitatibus debuit apparari. Factum uero generatum que et u isib ile » anim al uult intellegi sensilem mundum; «m atrem que eius et corpo­ rum receptaculum » siluam uocat ob rationem supra dictam , «sed neque terram hanc neq u e aquam nec ignem uel aera recte existim ari». Haec quippe corpora esse sed eam quae cuncta haec ambiat «inuisibilem spe­ ciem et informem esse capacitatem m ira quadam et incomprehensibili ratione inter nullam et aliquam sub­ stantiam nec plane C>ò

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CCCXLII Sed, opinor, explanari dilatarique oportet quae contracta sunt angustiis syllogism i. Intellectum appellat hoc loco motum anim i com prehendentem ; huic comparat opinionem cum in plerisque aliis libris tum euidenter in Politia. Secat enim intellectum quidem in duo haec, scientiam et recordationem , opinionem uero in alia totidem haec, credulitatem et aestim atio­ nem, singulaque haec quattuor con uen ientib us sibi rebus accommodat, scientiam quidem altis et sapientia sola percipibilibus rebus, cuius modi sunt deus et intel­ lectus eius, quas ideas uocamus, recordationem uero rebus deliberatiuis, hoc est his quae praeceptis artificia­ libus et theorematibus percipiuntur, credulitatem porro sensilibus, scilicet quae oculis auribus ceterisque sensi­ bus comprehenduntur, aestimationem fictis commenticiisque et im aginariis rebus, quae iuxta ueros simulata uultus corpora tamen perfecta et uiua non sunt. Quae cuncta dicit «p er semet esse in tellectu potius quam sensibus assequenda», quia nihil ex his quattuor sub sensus nostros uenit sed tam scientiam quam opi­ nionem et ceteras mente discernimus. CCCXLIII «Sin uero, ut quibusdam uidetur, inquit, uera opinio ab intellectu nihil differt». M erito; m ultae quippe sectae sunt philosophorum quas certum est in i­ tia rerum putasse corpora; cumque intellegibile genus, id est id eas, paene sub oculos co n stitu isset d icen s «intellegibilem speciem semotam a sensibus in se ipsa locatam sine ortu sine occasu, quae nec recip it in se quicquam aliunde nec ipsa procedit ad aliud quicquam , inuisibilem insensilem soli mentis intuentis intentioni

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CCCXLII Ma credo che gli argomenti riassunti nella breve struttura del sillogismo debbano essere chiariti e sviluppati. Q uello che qui chiama “intelligenza” è il moto di comprensione della mente; con questo con­ fronta l ’opinione nella maggior parte dei suoi libri, ma, nel modo più evidente, nella Repubblica. E qui divide infatti l ’intelligenza in due parti, conoscenza e riflessio­ ne968, e divide anche l’opinione in altre due parti, cre­ denza e supposizione969, e associa a ognuna di queste quattro operazioni gli oggetti che ad esse corrispondo­ no970: associa evidentemente la conoscenza alle cose più nobili e percepibili solo con la sapienza, e tali sono il dio e i suoi pensieri, che chiamiamo “idee”; la riflessio­ ne, invece, la associa alle cose che si basano sulla consi­ derazione, cioè a quelle che si intendono per mezzo di regole artificiali e di teoremi; la credenza a sua volta alle cose sensibili, cioè a quelle che si comprendono attra­ verso gli occhi, le orecchie e gli altri organi di senso; la supposizione alle cose finte, inventate e immaginarie, che, riprodotte a imitazione delle figure reali, non sono tuttavia corpi perfetti e vivi. E dice che tutte queste cose sono «d i per se stesse intuibili con l’intelligenza, piuttosto che percepibili per mezzo dei sensi»971, poi­ ché nessuna delle quattro ricade sotto i nostri sensi, ma è per mezzo della mente che distinguiamo la conoscen­ za d all’opinione e dalle altre cose. CCCXLIII «M a se, come credono alcuni», continua «la vera opinione non differisce in nulla dall'intelligen­ za...»972. Ed è vero: infatti si sa con certezza che alcune scuole filosofiche hanno ritenuto che i principi delle cose fossero corpi. E Platone, dopo aver posto quasi davanti ai nostri occhi il genere intellegibile, ovvero le idee, col definirlo «forma intellegibile, distante dai sensi, posta in se stessa, ingenerata e immortale, che in sé non riceve n u ll’altro da altre parti, né si muta in qualche altra cosa, invisibile, impercettibile, tale da poter essere per­ cepita soltanto dall’attenta osservazione della mente che

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animaduersionique perspicuam», consequenter addidit: «porro quod ab hoc secundum est, natiuum sensile sustenrabile consistens aliquo in loco et inde rursum cum immutatione atque interitu recedens, sensibus et opinione noscendum». Quo loco uult intellegi secun­ dam speciem, quae nascitur, cum opifex concipit animo futuri operis liniam enta effigieque intus locata iuxta eandem format quod aggressus est; id ergo consistere aliquo in loco dicit et inde rursum cum immutatione et interitu recedere. Praeclare; demolitionem quippe sta­ tuae formae quoque interitus sequatur necesse est et item ad alterius statuae collocationem reuocari ac redi­ re. «Sensibus» autem «noscendam » dicit hanc speciem, quia impressa forma operi spectantium oculis uidetur, «opinione» uero «noscendam », quia mens opificis non de certo exemplari transfert hanc speciem, sed ex pro­ pria mente haustam pro uiribus. CCCXLIV «Tertium genus» esse dicit «lo ci». Puto eum dignitatis respectu tertium genus dixisse siluam ; quippe secunda species, id est natiua, m utuatur sub­ stantiam de specie principali, quae sine ortu est et aeter­ na, censita ideae nomine, silua demum ex natiua specie sumit substantiam. At uero «locum » uocat eam uelut regionem quandam suscipientem specierum inco rpo­ rearum intellegibilium que sim ulacra, sem per eandem , uel quia sine generatione est et interitu uel quia necesse est eam locum stationemque esse et uelut receptaculum corporearum specierum, quae sunt membra m undi, ut uidetur prope omnibus, indissolubilis et aeterni; ipsa ergo immortalis est, sed his quae pariuntur in eiusdem gremio datur substantia.

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la contem pla», aggiunge quindi: «E ciò che viene per secondo dopo questa, è generato, percepibile coi sensi, bisognoso di un sostegno973, tale che nasce in un luogo e poi da lì sparisce attraverso il mutamento e la distruzio­ ne, e che può essere conosciuto per mezzo dei sensi e dell’opinione»974. E qui vuol far intendere la seconda forma, che nasce quando l’artefice concepisce nel suo animo i lineamenti dell’opera futura e, sulla base di que­ sta immagine che è riposta in lui, dà forma a ciò che ha intrapreso. Di questo dice dunque che compare in qual­ che luogo e da lì di nuovo sparisce, attraverso il muta­ mento e la distruzione. E dice benissimo. Infatti alla dem olizione di una statua segue necessariam ente la distruzione della forma e parimenti segue la distruzione all’essere ricondotta alla costruzione di una diversa sta­ tua e al tornarvi. E dice che questa forma «può essere conosciuta dai sensi», poiché la forma impressa all’opera è vista dagli occhi di chi guarda e «può essere conosciuta d all’opinione» perché la mente dell’artefice non copia questa forma da un modello fisso, ma traendola fuori dalla propria mente, per quanto ne è capace. CCCX LIV «Il terzo genere - dice - è quello dello spazio»975. Io credo che abbia definito la materia «terzo genere» in base all’importanza: infatti la seconda forma, cioè quella che nasce, trae esistenza dalla forma princi­ pale, che è senza nascita ed eterna ed è definita col ter­ mine «id e a », la materia infine trae esistenza dalla forma che nasce. E la chiama poi «spazio» in quanto è una sorta di luogo che accoglie le im m agini delle forme incorporee e intellegibili, e dice che è «sempre la stes­ sa» o perché è ingenerata e immortale, o perché dev'es­ sere il luogo e la dimora e, per così dire, il ricettacolo delle form e corporee: queste sono le parti del mondo che è, secondo l ’opinione di tutti, indissolubile ed eter­ no976; essa stessa, perciò, è immortale, ma è data come sostrato alle cose che sono generate in seno ad essa.

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CCCXLV Deinde progrediens mira quadam animi conceptione dicit «ipsam sine tangentis sensu tangi»; quippe omne quod tan gitu r sensile est et sensibus subiacet, quidquid ergo tangitur sensu sentiatur necesse est. Quo modo igitur possumus dicere tangi aliquid quod ex natura sua minime contiguum est? Uide altitu­ dinem pectoris et ut breui elocutione suspicionem men­ tis suae de silua reuelauerit: Omne certe quod alicuius simile est ex simili suo recognoscitur; ut igitur certae rei definitaeque certa et definita est com prehensio, sic incertae minimeque definitae incerta et indefinita suspi­ cio sit necesse est. Quia igitur sensus certarum definitarumque rerum sensus est, quippe habentium figuras et qualitates, necesse est etiam comprehensionem earum certam definitamque esse. Sed enim silua indefinita res est, utpote inform is et figura carens iu x ta naturam suam; minime igitur cum sensu eius fit imaginatio, «sine sensu» igitur. Fit tamen euanida quaedam eius attrecta­ tio sine contagio nec ipsius mage quam eorum quae intra ipsam sunt corporum; quae cum sentiuntur, suspi­ cio nascitur ipsam sentiri, propterea quod ex his speciebus quas recipit form ari, cum sit inform is, uidetur. Itaque sensus quidem specierum in silua constitutarum clarus est, ipsius autem siluae, quae speciebus subiacet, obscurus et consensus potius quam sensus est. Ergo quia siluestria quidem sentiuntur, silua uero m inim e sen titu r n atura p ro p ria, sed p ro p ter s ilu e stria cum isdem sentiri putatur, fit huius m odi sensus incertus, praeclareque dictum siluam «sin e sensu tan gen tium

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CCCXLV Prosegue quindi dicendo, con un concetto m eraviglioso, che «essa si tocca senza che colui che tocca la percepisca»977; infatti tutto ciò che si tocca è percepibile coi sensi ed è oggetto dei sensi, perciò tutto ciò che si tocca deve essere percepito dalla sensazione. In che modo, dunque, possiamo dire che può essere toccato qualcosa che è per sua natura intoccabile? Osserva la profondità del suo pensiero e come, con un modo di esprimersi conciso, chiarisce la sua idea riguar­ do alla materia: tutto ciò che è simile a qualcosa si rico­ nosce certam ente per mezzo della cosa che ad esso somiglia: come dunque è certa e definita la comprensio­ ne di una cosa certa e definita, allo stesso modo è neces­ sario che sia incerta e indefinita l’idea di una cosa incer­ ta e indefinita. Poiché dunque la percezione è percezio­ ne di cose certe e definite, cioè di cose che hanno forma e qualità, è necessario che anche la comprensione di queste cose sia certa e definita. Ma la materia è una cosa indefinita, in quanto priva di forma e di immagine per sua natura; dunque l’immaginazione di essa non avviene tram ite la percezione: avviene perciò «senza percezio­ ne». Tuttavia un qualche debole contatto avviene, ma non un vero e proprio toccare, e comunque non si tocca la m ateria, ma piuttosto i corpi che sono dentro di essa. E quando questi vengono percepiti, nasce il sospetto che sia la m ateria stessa ad essere percepita, per il fatto che sembra essere formata da queste immagini che rice­ ve in sé, m entre è senza forma. Perciò la percezione delle forme poste nella materia è evidente, mentre quel­ la della m ateria che costituisce il sostrato delle forme, è oscura ed è una “co-percezione”978 più che una perce­ zione. D unque, poiché le cose materiali vengono perce­ pite, m entre la m ateria in se stessa non viene affatto percepita, anche se, a causa delle cose materiali, si crede di percepirla insiem e ad esse, ne deriva una specie di sensazione incerta; ed è detto benissimo che «la materia si tocca senza che colui che tocca la percepisca», perché

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tangi», quia puro sensu minime sentiatur, ut si quis dicat tenebras quoque sine sensu uideri. Non enim perinde sentit uisus hominis tenebras intuentis ut cum solet intueri res coloratas dilucidasque, sed contraria passione et amissione atque indigentia eorum omnium quae oculi uident -sunt enim tenebrae decolores et sine claritudinis illustratione - , nec potest uisus comprehen­ dere aliquam qualitatem teneb rarum , sed susp icari quod non sit potius quam quid rerum sit, n ih ilq u e uidens id ipsum sibi uidetur uidere quod non uidet et uidere se aliquid putat, cum nihil uideat - quis enim uisus in tenebris? - , sed quia natura oculi haec est, ut colores discernat, conans, opinor, discernere naturam decolorem , tenebras sentire se suspicatur. Sic igitu r etiam silua contigua quidem est, quia contingi putatur, cum ea quae p rin cip aliter co n tin gu n tu r sub sensus u en iun t, sed contactus eius p ro u en it ex a cc id e n ti, uerum hoc ipsum sine sensu, quia ipsa per se neque tactu sentitur neque ceteris sensibus. CCCXLVI Nec contentus hac tanta diligentia superaddidit «notha et adulterina quadam ratiocinatione» siluam esse dicens «opinabilem ». Filios omnes naturales esse nullus ignorat, sed tam Graeci quam nos legitimos et item praesumptos nominibus discernimus. Legitimos Graeci gnisios uocant . CCCXLVII * * * ut sine uocalibus quidem per se mutae sunt, mixtae uero uocalibus confe­ runt aliquid im pertiuntque genuinum sonum. O ratio tamen de silua infinitam eam et incertam esse asserens certa est. Rite igitur «notha et spuria ratio cin atio n e»

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essa non è percepita da una reale sensazione: è come quando si dice che il buio si vede anche se non si perce­ pisce979. Infatti la vista di un uomo che guarda il buio non riceve una sensazione allo stesso modo di quando guarda, come avviene di solito, cose colorate e lumino­ se, ma per un effetto contrario e per la perdita e la man­ canza di tutte quelle cose che gli occhi vedono - il buio infatti è senza colore e senza lo splendore della luce - la vista non è in grado di cogliere una qualità del buio, ma solo di immaginare cosa non sia, piuttosto che supporre cosa in effetti sia; e, non vedendo effettivamente nulla, crede di vedere ciò che non vede e pensa di vedere qualcosa, pur non vedendo niente: infatti, che vista si può avere nel buio? Ma poiché la natura dell’occhio è tale da distinguere i colori, credo che nel momento in cui tenta di distin guere una natura priva di colore, imm agini di percepire il buio. Allo stesso modo, dun­ que, anche la materia è percepibile dal tatto, poiché si crede di toccarla, quando le cose che vengono toccate prim a di tutto980 cadono sotto i sensi, ma il contatto con la m ateria avviene in modo accidentale; e ciò avvie­ ne senza percezione, poiché di per sé la materia non può essere percepita dal tatto, né dagli altri sensi. CCCXLVI E non contento di una così grande preci­ sione, P latone aggiunge che «la m ateria si può com­ prendere con un ragionamento illegittimo e spurio»981. Ognuno sa che tutti i figli sono naturali, ma sia i Greci che noi distinguiam o con nomi diversi quelli legittimi e quelli illegittim i. I Greci chiamano quelli legittimi «gnisioi»982 e quelli illegittimi «nothoi». CCCXLVII ...983 come le consonanti, di per sé, senza le vocali, sono mute, ma, unendosi alle vocali, contri­ b u isco n o in q u a lc o sa e danno un p ro p rio suono. Tuttavia il discorso secondo cui la materia è infinita e incerta è certo. Dunque a ragione Platone ritiene che la

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atque opinione potius quam in te lle c tu certo com ­ prehendi eam censet Plato, utpote cuius natura rectae rationis et non recti confusique intellectus praesumatur consortio. Diuisa ergo a se sunt tria illa separatimque exam inata, et est idea quidem in telleg ib ilis species, utpote quae puro intellectu com prehendatur, species uero natiua opinione percipibilis proptereaque opinabi­ lis, silua porro neque intellegibile quid neque opinabile, quia neque intellectu neque sensu com prehendatur, uerum est suspicabilis, suspicio autem spuria quaedam ratio est atque adulterina. CCCXLVIII Pergit ulterius insistitque probationi coeptae perfectius ita dicens: «D enique cum id animo intuem ur, patim ur quod som niantes; putam us enim necesse esse, ut omne quod est in aliquo sit loco posi­ tum regionemque obtineat ullam ». Incertam et caligan­ tem animi nostri intentionem, cum siluae naturam con­ sideramus, uanis somniis comparat et opinioni quae ex sensibus nascitur. Etenim cum corpus aliquod uidemus aut tangimus, necesse est id a nobis sentiri cum locis suis et regionibus; neque enim sine loco nec uero sine sede sentiri corpus ullum potest. Dicit ergo nos hac opi­ nionis percelebratae consuetudine ita esse im butos ut, cum res intellegibiles contem plam ur animo, putem us eas consistere aliquo in loco ullamue regionem obtinere perinde ut mundi corpus, quod situm est loco quem complet mundana moles habens etiam regionem quae p ercep tis corporum form is e x o rn ata est, u id e lic e t siluam. Cuius partes ex quibus constat quia diuisas locis ac regionibus consideramus, putamus omnia quae sunt eodem modo consistere in locis ac regionibus certis.

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m ateria si possa comprendere «con un ragionamento illegittimo e spurio» e con l’opinione più che con la cer­ tezza dell’intelligenza, poiché la sua natura è immagina­ ta per mezzo di un corretto ragionamento, unito però a una falsa e confusa intelligenza. Perciò queste tre essen­ ze sono divise tra loro ed esaminate separatamente: e l’i­ dea è la forma intellegibile, in quanto viene compresa dal puro intelletto; la forma generata è percepibile per congettura e perciò oggetto di opinione, la materia, a sua volta, non è né qualcosa di intellegibile né qualcosa oggetto di opinione, poiché non può essere compresa né d all’intelligenza né dai sensi, ma è immaginabile, e l ’immaginazione è un ragionamento illegittimo e spurio. CCCXLVIII Prosegue ancora e insiste con maggior precisione sulla dimostrazione che ha intrapreso, e dice così: «Insom m a, quando con l’animo ci volgiamo ad essa, proviamo una sensazione simile a quando sognia­ mo: crediamo infatti che sia necessario che tutto ciò che esiste si trovi in qualche posto e occupi uno spazio»984. E paragona la nostra attenzione che, quando riflettiamo sulla natura della materia, è incerta e annebbiata, alle vane visioni di sogni e all’opinione che nasce dai sensi. E infatti, quando vediamo o tocchiamo un corpo, è ine­ v itab ile che lo percepiam o insiem e al luogo dove si trova, poiché nessun corpo può essere percepito senza un luogo o senza un posto dove si trovi. Dice perciò che siamo talm ente impregnati dell’abitudine a questo dif­ fuso modo di pensare che, quando consideriamo nell'a­ nimo le cose intellegibili, crediamo che esse si trovino in qualche luogo e che occupino un posto, così come il corpo del m ondo, che è posto nello spazio riem pito dalla massa del mondo e occupa anche la regione ador­ nata dalle forme dei corpi che percepiamo, cioè la mate­ ria. E dal momento che osserviamo che le parti di cui essa consiste sono divise in vari luoghi, crediamo che tutte le cose che esistono, allo stesso modo, siano poste

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Dehinc denique si quis dicat fore substantiam sine sede ac loco quae «neque in terra neque in caelo sit», porten­ to similia dici putamus et res uana mentis opinione con­ ceptas. Iam dudum quippe et ab ineunte aetate praeiudicauimus omne quod sit corpus esse nec quicquam fore quod substantia sensili careat, cognitoribus et uelut assertoribus corporum credentes sensibus. CCCXLIX Et concludit: «O b quam deprauationem itemque alias consanguineas ne in reputatione quidem et consideratione uere existentis u erequ e p eru ig ilis naturae mente consistimus propter huius m odi som­ n ia». Exsomnem p eru igilem q u e naturam n u n cu p at intellegibile atque incorporeum genus, quod sem per idem est principaliterque subsistit sine ortu sine occasu, minime mutabile, nullam habens cum sensilibus socie­ tatem, pura mente percipibile, deum uidelicet et cogita­ tiones eius, intellegibiles atque incorporeas species. Has porro esse quidam negant, quod his usu accidit ex alto et profundo sopore. Denique si quis eos ad contem pla­ tionem ueram minimeque soporatam excitet aetern a­ rum et im m ortalium rerum , in d ign an tu r ac m oleste ferunt, similiter ut in Politia illi dediticii perpetuis abdi­ ti tenebris speluncae densis umbris opacae. At uero qui se a profunda imperitia uindicant laboriosius licet, ex tenebris ad lumen emergunt et ad scientiae ueritatisque claritudinem aspirant nec moleste ferunt excellentes in studiis humanitatis uiros diuidere ac separare sensilem intellegibilemque naturam, docere etiam ac dem onstra­ re, quod sint rerum initia species archetypae siue quod

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in luoghi e posti determinati. Per questo motivo, infine, se qualcuno dice che deve esistere una sostanza che non si trova in nessun posto e in nessun luogo e «non sta né in terra né in cielo»985, noi pensiamo che parli di cose incredibili e di pensieri concepiti da un animo fantasio­ so. Già da lungo tempo, infatti, e fin dalla più tenera età, crediam o, in base a un pregiudizio, che tutto ciò che esiste sia corporeo e che non esista nulla che sia privo di sostanza sensibile, affidandoci in ciò ai sensi, che sono garanti e, per così dire, difensori delle cose corporee. CCCXLIX E conclude dicendo: «A causa di questo ragionamento errato e di altri simili986 la nostra mente non resta salda nemmeno nella considerazione e nell’os­ servazione della natura che veramente esiste e che è davvero vigile, e ciò è dovuto a queste visioni di so­ gn i»987. E definisce natura «insonne e vigile» il princi­ pio intellegibile e incorporeo, che è sempre lo stesso ed esiste prim a di tutto, ingenerato e immortale, immutabi­ le, che non ha nulla in comune con le cose sensibili ed è percepibile dal puro intelletto, e cioè il dio e i suoi pen­ sieri, form e in telleg ib ili e incorporee988. A lcuni poi negano l ’esistenza di queste forme, e ciò accade ad essi a causa del loro profondo torpore. Infine, se qualcuno cerca di destarli alla contemplazione vera e non sonno­ lenta delle cose eterne e immortali, si sdegnano e lo tol­ lerano m alvolentieri, come quei prigionieri che, nella R ep u b b lica , sono relegati nelle tenebre eterne e nella fitta om bra della caverna oscura989. Ma coloro che, sep­ pure con m aggior fatica, si liberano dalla loro profonda ignoranza, escono dalle tenebre alla luce e si accostano allo splendore della conoscenza e della verità e soppor­ tano di buon grado che uomini di superiore cultura operino una distinzione e una separazione tra natura sensibile e natura intellegibile, e che inoltre insegnino e spieghino che le forme originarie sono i principi delle

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exempla genuina sint substantia praedita; neque enim ad cuiusquam alterius rei sim ilitudinem facta atque in stitu ta sunt, quia n ih il est o rig in ib u s a n tiq u iu s. Imagines uero exemplorum, quia iuxta exem pla sunt factae, aliunde oportet substantiam mutuentur ut forma Socratis naturalis existens comparatione imaginis uelut archetypa species est. Imago enim ex arte facta et iuxta archetypam speciem effigiata nisi habeat siluam -si qui­ dem erit pictura, colores, si autem fictura, lim um uel aes ceteram que huius m odi su p ellectilem - , carebit certa perfectione. Igitur, quia sensiles quoque species imagines sunt specierum intellegibilium, sicut saepe iam diximus, et ab intellegibilibus substantiam trahunt, nec substantiam modo, sed etiam sim ilitudinem , opus est his, opinor, silua, in qua fiant et substantiam sortiantur. CCCL Deinde interponit auctoritatem suam dicens: «H aec est meae quidem sententiae mens esse et ante mundi quoque sensilis exornationem fuisse tria haec: existens locum generationem». Suam profitetur senten­ tiam. M erito; nullus quippe ueterum etiam tunc tria haec animaduerterat, quippe quorum plerique sola opi­ nati sunt esse sensilia, ut Empedocles, alii sola intellegi­ bilia, ut Parmenides; siluam nullus omnino m ente con­ ceperat, ut ipse dixit in superioribus. Uult autem intel­ legi «existen s» quidem idean siue in tellegib ilem spe­ ciem , «lo c u m » autem siluam , «g e n e ra tio n e m » uero quantitates et qualitates et ceteras sensiles conform atio­ nes; et «existens» quidem, quia suapte natura sit, idemque aliis quoque rebus causa existen d i sit, «lo c u m »

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cose o che i modelli possiedono reale sostanza; e infatti essi non sono stati fatti e creati a somiglianza di nessun’altra cosa, perché non esiste nulla precedente ai principi. Le immagini dei modelli, invece, poiché sono fatte sulla base dei modelli, devono necessariamente trarre sostanza da qualche altra cosa; allo stesso modo la figura del Socrate che esiste in natura è, rispetto a una statua di Socrate, come la sua forma originaria990. Infatti l ’immagine creata dall’arte e foggiata secondo il modello originario, se non ha una materia - i colori, se si tratterà di una pittura, l’argilla o il bronzo o altri m ateriali simili, se sarà invece una scultura - sarà priva di reale perfezione. Allo stesso modo le forme sensibili sono le immagini delle forme intellegibili, come abbia­ mo già detto più volte, e da quelle intellegibili traggono la loro sostanza, e non solo la sostanza, ma anche la somiglianza: pertanto è indispensabile ad esse, credo, la materia in cui esse possano esistere e ricevere sostanza. CCCL Q uindi Platone fa valere la propria autorità e dice: «Q uesto dunque è il mio ragionamento e la mia opinione: esistono, ed esistevano anche prim a che il mondo sensibile fosse adornato, queste tre cose: ciò che esiste, lo spazio e ciò che nasce»991. Dichiara aperta­ m ente il suo pensiero, e giustamente. Infatti nessuno degli antichi aveva ancora constatato l’esistenza di que­ ste tre cose, poiché la maggior parte di essi credeva, come Empedocle, che esistessero soltanto le cose sensi­ bili, altri, come Parmenide, che esistessero solo le cose in telleg ib ili992; ma mai nessuno aveva concepito l'esi­ stenza della m ateria, come Platone stesso afferma nei capitoli precedenti993. Ora, con «ciò che esiste» vuole certam ente intendere l'idea o forma intellegibile, con «sp azio», poi, la materia, mentre con «ciò che nasce» le quantità e le qualità e le altre forme sensibili create. E usa la definizione «ciò che esiste», poiché esso esiste per sua n atura ed è anche causa d ell’esistenza delle altre

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uero propterea quod silua receptaculum est corporum et qualitatum ceterorumque sensilium, «generationem » porro, quia haec non diu perseuerant in uno statu, sed alia ex aliis inuicem subrogantur. CCCLI «Igitur generationis», inquit, «nutriculam humectatam modo, modo ignitam , terraeque item et aeris formas suscipientem». «Generationis nutriculam » siluam significat, quia q u id q u id n ascitu r recursum habet ad materias principales, materiae demum princi­ pales h u ic in accep tum fe ru n tu r; est enim earum omnium silua nutrix easdemque gestat. «H um ectatam modo, modo ignitam». Recte; non enim ipsa silua uel humectatur uel ignitur immutationemue patitur ullam; omnino enim est incommutabilis nec declinat a natura sua, sed ut quae recipiat qualitates et quantitates humo­ ris et item calo ris, h u m ectari atq u e ig n iri p u tatu r. Explanat euidentius, cum adiungit: «terraeque et item aeris formas suscipientem ceterasque pedissequas pas­ siones perpetientem». Rationabiliter; non enim tantum solent hae qualitates hum ectari et calefieri, sed etiam siccari et frigescere quaeque his sim ilia pro u en iun t. «C eteras pedissequas passiones p erp etien tem », ideo quia formatur et figuratur conuentu formatorum corpo­ rum, nam ipsa ex natura sua im petibilis est nec ullam fert perpessionem. CCCLII Deinde ait: «Q uod tamen priuatim neque similibus uiribus neque exaequatis potentiis instruatur, nihil esse eius aequale». Nunc iam ueluti separato opifi­ ce deo solam per semet ipsam siluam intuetur duplici consideratione, una nondum susceptis q u a lita tib u s, altera post qualitates. Et ante consortium quidem quali-

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cose; «spazio», inoltre, perché la materia è il ricettacolo dei corpi e delle qualità e delle altre cose sensibili; infi­ ne «ciò che nasce», perché queste cose non persistono sempre nello stesso stato, ma si sostituiscono reciproca­ mente le une alle altre. CCCLI «Pertanto la nutrice di ciò che nasce - dice ora um ida ora infuocata e parimenti capace di accoglie­ re le form e della terra e d ell’aria...»994. E chiama la materia «nutrice di ciò che nasce» perché tutto ciò che nasce ritorna alle materie iniziali e le materie iniziali, a loro volta, si muovono per essere accolte dalla nutrice; la materia, infatti, è la nutrice di tutte queste cose e le contiene in sé. La definisce poi «ora umida ora infuoca­ ta», e a ragione: infatti non è la materia in se stessa ad essere um ida o infuocata o a subire mutamento alcuno, poiché essa è affatto immutabile e non si allontana dalla propria natura, ma, in quanto accoglie in sé le qualità e le q u an tità d e ll’um idità e del calore, viene ritenuta um ida o infuocata. Lo spiega in modo più chiaro, quan­ do aggiu n ge: « ...e parim enti capace di accogliere le forme della terra e dell’aria e di sottostare alle affezioni che ne co n seguo n o »995. Ciò è logico, perché queste qualità non sono sem pre e soltanto l ’essere umido o caldo, ma anche l’essere secco o freddo e tutti gli acci­ denti simili. E dice «capace di sottostare alle affezioni che ne conseguono» per il fatto che essa riceve forma e fig u ra in seg u ito a ll’unione con i corp i che hanno forma: la m ateria in sé, infatti, non può subire nulla, né essere soggetta a nessuna affezione. CCCLII E prosegue: «E poiché la materia non era in sé dotata di capacità simili e di forze equivalenti, niente in essa era in equilibrio »996. Ora, messo da parte, per così dire, l ’artefice, Platone considera soltanto la m ate­ ria di per se stessa da due punti di vista: quando non ha ancora ricevuto le qualità e dopo che le ha ricevute. E appunto prim a di unirsi alle qualità la m ateria non si

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tatuili neque stabat, opinor, neque m ouebatur, erat tamen quaedam in ea naturalis opportunitas ad motus stationisque perceptionem; post qualitatum porro con­ sortium exornata et pertectum corpus a deo facta motus stationisque sumpsit officia, quibus diuersis temporibus uteretur. Ergo uolens motus eius praestare causam dicit siluae primitus corporibus iniectis et ex praeponderatione eorum hinc illinc uergentium substitisse motum, sed incertum adhuc et fluctui similem, cum hinc illinc oppressa modo, modo subleuata siluae im becillitas reci­ procaret et iniquus turbulentusque motus per uniuersam eius fluctuaret capacitatem . Ex quo factum , ut hunc inordinatum motum intimam siluae propriam que et ex natura eius agitationem plerique esse censerent, qui alienus pulsus est, proptereaque anim atam eam uitaeque compotem arbitrarentur. Motus ergo, qui in ea fiebat, alienus erat, confusio porro motus et inordinatio secundum naturam siluae proueniebat praebentis insta­ bilem tremulamque sedem ideo, «quod priuatim neque similibus uiribus neque exaequatis potentiis instructa 8 nec quicquam in ea esset aequale» quod iactationem praeponderationemque corporum coerceret. Sed ut in stagnis, cum immobilis est aquae superficies, incidente aliq u a grauiore mole prim o n ascitu r in itiu m m otus, I' d e in d e agitatio n e facta to tiu s elem en ti non solum V' agm en aquae mouetur, sed illud ipsum , quod in cid it causam que motus praebuit, uicissim m ouet, sic silua quoque ex initio corporum sumpto m otu non solum ipsa omnifariam mouetur, uerum ipsa corpora, quae in i­ tium motus sunt, inuicem pellit. &

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trovava né in stato di immobilità né in moto, ma aveva una certa naturale disposizione a ricevere il moto o l’im­ mobilità; ma dopo l’unione con le qualità e dopo essere stata adornata e resa un corpo perfetto dal dio, assunse in sé la funzione del moto e quella dell’immobilità, per servirsene in momenti diversi. Perciò, volendo spiegare il motivo per cui la materia si muove, afferma997 che da principio il movimento ebbe origine nella m ateria a causa dei corpi posti dentro di essa e in seguito al loro inclinarsi e volgersi ora da una parte ora dall’altra; ma era un moto ancora incerto e come ondeggiante998, dal m om ento che la m ateria, n ella sua debolezza, ora schiacciata da una parte, ora sollevata dall’altra, si muo­ veva in modo alterno e un moto disuguale e confuso la faceva ondeggiare da ogni parte nella sua interezza. Per questo motivo moltissimi pensarono che questo moto disordinato fosse un’attività intima e connaturata alla materia, m entre è un impulso esterno, e di conseguenza ritennero la m ateria dotata di anima e di vita propria. Il moto dunque, che aveva luogo in essa, era proveniente d all’esterno, ma il carattere confuso e disordinato del moto era conseguente alla natura della m ateria, che offriva una sede instabile e vacillante, poiché «non era in sé dotata di capacità simili e di forze equivalenti e in essa non vi era niente che fosse in equilibrio»999 e che potesse frenare i corpi che si agitavano e si inclinavano. M a come, quando sulla superficie immobile degli stagni cade un oggetto di un certo peso, dapprima ne deriva un principio di movimento, e poi, quando tutto 1 ele­ m ento si a g ita , non soltanto la m assa d ell acqua si muove, ma muove a sua volta anche ciò che, cadendovi d en tro , h a cau sato il m ovim ento; allo stesso m odo anche la m ateria, traendo il moto da quello iniziale dei corpi, non soltanto si muove da ogni parte essa stessa, ma a sua volta mette in moto gli stessi corpi che hanno dato inizio al movimento.

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CCCLIII Talem porro motum eius significat non ad aliquem usum rerum nascentium fieri, sed ad solam conuersionem commutationemque corporum, siquidem dicit: «Ex quo fluctu turbatas materias in diuersa rapta­ ri discernique a se», hoc est separari. Quo pacto clare demonstrat non unam esse in silua potentiam opportu­ nitatem que form arum recipien darum , sed m u ltifo r­ mem; nam si una eius esset potentia, unum quiddam semper esset. At nunc, cum in omnes qualitates figura­ sque uertatur atque omnia fiat, potentias eius necesse est opportunitatesque uariae commutationis praenosci mentibus. Deinde manifesto exemplo quod dicit expla­ nat, cum separat a se quattuor m aterias, id est ignem terram que et ceteras, separationis causam docens in fluctu siluae atque agitatione consistere, «perinde ut in frum enti p urgation e». N ouimus enim esse quaedam iam dudum p arata, ut solent p o etae d ic e re , «arm a C e re alia», quibus ea quae m essa erunt secernuntur, grana quidem seorsum motu et agitatione, paleae uero aliorsum ex iactatio n e; et « le u ia » q u id em u o litare, «grauia» uero residere. «Sic», inquit, «quattuor quoque illa prim a corpora uelut in euripo fluctuante iactantur» et ad postrem um generatim «secern u n tu r, eu rip u m » q u id em silu am cogn o m in an s, « s e c re tio n e m » u ero sedem elementi cuiusque diuina prouidentia separatam. Quae ordinatio est scilicet, ne ex diuersorum corporum cohaerentia confusio et inordinatio, quae ante constitu­ tionem mundi fuerat, perseueraret. H anc ait fortunam mundi fuisse, priusquam exornata silua splendor et p u l­ chritudo proueniret uniuersitati.

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CCCLIII Inoltre spiega che questo moto non avve­ niva affinché nascessero le cose, ma soltanto per la tra­ sformazione e il mutamento dei corpi, dal momento che dice: «D a questo ondeggiare le materie confuse veniva­ no trascinate in diverse direzioni e si dividevano le une dalle a ltre »1000 ovvero si separavano. In questo modo dimostra chiaramente che la materia non aveva una sola cap acità e facoltà di ricevere forma, ma m olteplici: infatti, se avesse una sola capacità, sarebbe sempre la stessa cosa. M a ora, dal momento che essa si cambia in ogni qualità e figura e diviene tutte le cose, è necessario comprendere prima le sue facoltà e la capacità che essa ha d i m u tarsi in varie forme. Spiega quindi ciò che intende con un esempio chiaro, quando cioè separa le une dalle altre le quattro materie fondamentali, fuoco terra e le altre, e mostra che la causa della separazione consiste n e ll’ondeggiare e n ell’agitarsi della m ateria, «com e avviene nella mondatura del grano»1001. Come si sa, infatti, disponiamo già da tempo di quelle che i poeti sono soliti chiam are «le armi di C erere»1002, attrezzi con cui si separa il ricavato della mietitura: muovendoli e agitan d o li, infatti, i chicchi di grano vanno da una parte, e la pula va dall’altra, in seguito a questo scuoti­ m ento; e « le cose leg g e re » volano qua e là, m entre «quelle p esan ti»1003 si posano. «Allo stesso modo» dice «anche quei quattro corpi fondamentali venivano scossi come sotto l ’effetto di un flutto tempestoso1004 e infine sep arati»1005 secondo i generi. E chiama evidentemente «flutto tem pestoso» la materia, e «separazione» i posti diversi che la divina provvidenza attribuisce ad ogni ele­ mento. E questa disposizione ordinata mira evidente­ m ente a non far persistere quella confusione e quel disordine che derivano dall’unione dei diversi corpi e che regnavano prim a dell’ordinamento del mondo. Tale era, secondo Platone, la condizione del mondo prim a che la m ateria fosse adornata e l ’universo acquisisse la sua m eravigliosa bellezza1006.

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C C C L IV « S e d u b i c u n c ta » , in q u it, « r e d ig i ad modum placuit». Dei uoluntatem significat prouidam, complacuisse dicit «ignem primo terram que et aera atque aquam continuasse, non talia ut nunc sunt, sed eorum exigua uestigia». Q uippe uestigium ignis nondum ignis est nec uero ceterorum corporum uesti­ gia ipsa corpora sunt; uestigium quippe potentiam rei, non rem significat multoque etiam minus corpus signifi­ catur uestigii nomine; ergo silua etiam uestigium corpo­ ris fuit ante m undi exornatio nem . «In eo », in q u it, «squalore ac deformitate qui apparet in his quibus diuina deest prospicientia». Iure meritoque; quid enim diuina opera carens pulchrum aut uenustate erit p raed i­ tum? Apparatus ille igitur erat etiam tunc, elem entis confusis incondite, nondum mundus nec claritudo quae ex opportunitate prouidae ordinationis accessit. Erat igitur subiecta silua cum naturali opportunitate susci­ piendae pulchritudinis ac uenustatis, erant etiam quat­ tuor corporum potentiae seu uestigia confusa adhuc minimeque ordinata. Haec ergo cum uoluit deus dispo­ nens et ordinans immortale hoc sensilis m undi anim al figuris et qualitatibus conuenustauit certis et in aeter­ num duraturis rationibus. Omnia porro quae fiunt opti­ ma diu in a m ente ac uoluntate fieri p raesu m ere nos iubet; qua praesumptione nihil esse uerius asseuerat. CCCLV «N u n c iam o rdin atio n em g e n itu ra m q u e eorum singillatim demonstrari», inquit, «conuenit nouo quidem et inusitato genere d em o n stratio n is, uerum uobis, qui omnes eruditionis ingenuae uias peragraueri-

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CCCLIV Continua: «M a quando gli sembrò conve­ niente m ettere in ordine il tu tto ...»1007 e intende la provvidenziale volontà del dio a cui sembrò convenien­ te continuare la formazione1008 dapprima del fuoco, e di terra aria e acqua, che non erano nella condizione in cui si trovano ora, ma come deboli tracce di essi. Infatti la traccia del fuoco non è ancora fuoco, né le tracce degli altri corpi sono esse stesse corpi, poiché la traccia indica la cosa in potenza e non la cosa stessa, e ancor meno con la parola «traccia» si intende il corpo. Perciò la m ateria, prim a che il mondo fosse adornato, era anch’essa una traccia di corpo; e si trovava, dice, «in quella condizione di trascuratezza e di bruttezza che è evidente in tutte le cose a cui manca la provvida assi­ stenza del d io » 1009. Questo è giustissimo: infatti cosa può essere dotato di bellezza e di grazia, se è privo della cura del dio? Perciò, dal momento che gli elem enti erano ancora nella confusione e nel disordine, questo m ateriale non era ancora il mondo, né era quello splen­ dore che si aggiunse ad esso grazie alla sua capacità di ricevere l ’ordinamento della provvidenza. C ’era dunque alla base di tutto la m ateria, che aveva una naturale disposizione a ricevere la bellezza e la grazia, e c’erano anche i quattro corpi in potenza, o le tracce ancora con­ fuse e disordinate dei corpi. Così, quando il dio volle, diede a queste cose una disposizione ordinata, e abbellì questo essere vivente immortale che è il mondo sensibi­ le con figure e qualità, secondo principi fissi ed eterni. Egli ci esorta inoltre a credere che tutte le cose che esi­ stono sono create nel migliore dei modi dalla mente e dalla volontà del dio; e afferma che nulla è più vero di questa credenza. CCCLV E dice: «O ra dunque conviene che io spie­ ghi la disposizione e la genesi di ciascuno di questi esse­ ri, con un tipo di spiegazione insolito e non comune, ma che risulterà ben noto ed evidente, anche ad accennarvi

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CALCIDIO

tis, neque incognito et ex leui admonitione perspicuo». Demonstraturus ratione substantias quattuor principa­ lium corporum, quae censentur elem enta, «ordinatio­ nem» quidem uocat habitum eorum iuxta se communi­ cationemque et quasi quondam societatem, quae nasci­ tur iuxta analogiam, quae talis est: ut hoc iuxta illud, sic illud iuxta aliud; «genituram » uero appellat ipsam for­ mam et effigiem. De quibus secundum geom etricam rationem disputaturus, quae ratio minime nutat semperque certas et inexpugnabiles affert probationes, nouam quidem aliis et «incognitam » dicit esse hanc eandem rationem, ipsis tamen, qui omnes «ingenuae eruditionis uias peragrauerint, neque ignotas et ex leui adm onitio­ ne p e rs p ic u a s » . E ten im q u i a d e ra n t om nes e ra n t instructi praecipuis doctrinis, quas «ingenuas discip li­ nas» appellauit propterea quod a pueris aetas illa ueluti p r in c ip iis a ltio ris d o ctrin ae et tam q u am g ra d ib u s im buebatur geometrica musica arithmetica astronomia. De quibus Cebes pronuntiauit, si quidem philosophiae causa discantur, ut per eas tamquam gradibus ad sum ­ mum culmen philosophiae perueniatur, operae pretium fore, si sine philosophia, plenae tam en dignitatis esse hindam enta, im perfectae licet eruditionis. Hos igitu r :am quam ex ercitato s in geo m etrica u iro s adm o n et, quod sciebant huius modi quaestiones non nisi geome:ricis probationibus explicari; sim ul habet exhortatiolem sermo ad effectionem institutionis ingenuae.

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brevemente, a voi che avrete percorso tutte le vie degli studi lib erali»1010. Accingendosi a spiegare con il ragio­ namento la sostanza dei quattro corpi fondamentali, i cosiddetti elementi, definisce evidentemente «disposi­ zione» la condizione di essi gli uni accanto agli altri e la comunicazione e, per così dire, l’unione; questa nasce in base all’analogia, e l’analogia è la seguente: come questo sta a quello, così quello sta a quest’altro. Chiama invece «genesi» la forma stessa e l’immagine. E poiché vuole esaminare queste cose basandosi sulla scienza geometri­ ca e questa scienza non è mai incerta, ma adduce sem­ pre ragionam enti sicuri e inespugnabili, dice che questa scienza appunto è insolita e sconosciuta agli altri, ma che a coloro che abbiano percorso tutte le vie degli studi lib e ra li esse risulteranno ben note ed evidenti, anche a un breve accenno. E infatti tutti i suoi discepoli erano istruiti nelle scienze più nobili, che egli chiama “studi lib erali”, poiché a quel tempo gli uomini, fin da fanciulli, venivano istruiti nella geometria, nella musica, n e ll’aritm etica e n ell’astronomia1011, come nei fonda­ menti di una dottrina più elevata e quasi per gradi suc­ cessivi. E riguardo a queste scienze Cebete1012 affermò che, se esse vengono apprese in funzione degli studi filosofici, in modo da pervenire per mezzo di essi, che sono come dei gradini, fino alla cima più elevata della filosofia, allo ra ne varrà la pena, m entre se vengono apprese indipendentem ente dalla filosofia, costituisco­ no, sì, una base di un grande valore, ma la base di una cultura incom pleta. Platone ricorda, dunque, a questi uom ini in quanto esperti nella scienza geometrica, che essi sapevano che questioni di questo tipo non potevano essere spiegate se non sulla base di prove geometriche; e il discorso serve anche a esortare a conseguire una nobile educazione.

Parte Terza

N O T E A L C O M M E N TA RIO D I C A L C ID IO

1.1. No te alla Introduzione di Calcidio al suo Commentario

1 La citazione di Isocrate (ad Demonio. 7) è assai strana in un testo filosofico, e ancor più nel quarto secolo d.C.; il grande oratore ateniese godette di una fama notevole ai tempi di Cicerone, che lo considerò suo m odello, ma, dopo Quintiliano, non fu più tanto conosciuto negli ambienti retorici latini. Calcidio avrà forse ricavato questo accenno generico a Isocrate dalla sua formazione greca. 2 Un argomento topico, questo, negli scrittori latini (principal­ mente nei filosofi) che attingevano alla cultura greca. Da Lucrezio a Boezio, tutti hanno sottolineato i meriti acquisiti dalla loro fatica con il rendere nella lingua e nella cultura del loro paese le “scoper­ te ” dei Greci. 3 Questa divisione in parti, che Calcidio ha adottato, verrà più ampiamente illustrata nei capitoli iniziali del commento.

1.2 Note al Commentano al «Timeo» di Fiatone 1 II Timeo era noto nell’antichità per la sua difficoltà: essa era attribuita alla materia trattata e non ai limiti espressivi dell’autore. Il Waszink cita, p er questa opinione diffusa, le affermazioni di Cic., de fin . II 5 ,1 5 e di G alen., Compend. Tim. pp. 34, 14-36, 1 KrausWalzer. Calcidio stesso ripeterà questa difficoltà più avanti, al cap. 322. Un esame più dettagliato di questo topos dell’esegesi antica del Tim eo in J .H . W a sz in k , S tu dien zum T im aioskom m entar des Calcidius. I. D ie erste Hàlfte des Kommentar, Leiden, 1964, pp. 2730; F. Ferrari, Struttura e funzione dell’esegesi testuale nel mediopla­ tonism o: il caso del Timeo, Athenaeum 89,2 2 0 0 1 , pp. 5 2 5 -5 7 4 , soprattutto pp. 530-532. 2 Q uesta è l ’interpretazione usuale del Timeo, considerato dalla scuola platonica come la fonte più autorevole della dottrina fisica (e, quindi, anche metafisica). 3 C om e ha osservato il F errari (I commentari specialistici alle sezioni matematiche del Timeo, in: La filosofia in età imperiale. Le scuole e le tradizioni filosofiche. A tti del C olloquio Roma, 17 -19 giugno 19 99, a cura di A. Brancacci, Napoli 2000, pp. 169-224), l'in­ teresse che il Timeo suscitò nella scuola platonica (e non solo in essa) d ell’età imperiale, pose l’esigenza si “aggiornare” le sue dottri­ ne facendo riferim ento alle conoscenze tecnico-scientifiche raggiun­ te nell’età posteriore a Platone. Da qui la stesura di trattati tecnici,

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come quelli di Adrasto e di Teone. ed il ricorso ad essi da parte di Calci dio. Cfr. quanto si è detto nell'introduzione, pp. VII-IX. 4 II discorso è impacciato, e tipico dei prologhi delle opere lette­ rarie della tarda antichità. Calcidio vuol dire, probabilmente, che, una volta integrato il Timeo con le conoscenze scientifiche raggiunte dopo l'epoca di Platone, il lodevole desiderio di comunicarle agli altri si sarebbe unito, nell'animo di chi le possedeva, al gretto desi­ derio di tenerle, invece, per sé. Ma è prop rio questo quello che C aladio non vuole fare. 5 Si dà qui un riassunto dell'introduzione del Timeo. Essa è con­ siderata come una sezione di carattere puram ente storico, come generalmente facevano i commentatori di Platone, a cominciare da Crantore, il quale sottolineava soprattutto la narrazione del mito di Adantide. 6 È l'argomento del prim o libro della Repubblica (in particolare cfr. 3 3 8 c ; 3 4 6 c d b A n che G aleno (comp. Timaei, 1, 5 -8 K rausWalzer) sottolinea il rapporto tra Timeo e Repubblica; cfr. anche M. V e g e tti, L'a u to c ritic a d i F ia to n e : i l T im eo e le L e g g i, in La Repubblica di Platone nella tradizione antica, a cura di M. Vegetti e M. Abbate, Napoli 1999, pp. 13-27. 7 Cfr. Tini 19b. 8 Cri:. Tim. 20b. 9 Cioè stabilita da un determinato sistema di leggi. 10 Di Timeo di Locri si sa sostanzialmente solo quello che dice Platone in Tim. 20a. La tradizione posteriore (ma non Platone) lo definisce “pitagorico” e gli attribuisce un trattato pervenutoci con il titolo Sull’anima del mondo e sulla natura, che però è una falsifica­ zione più tarda (probabilmente del primo secolo a.C.), eseguita con Pambizione di riprodurre il suo insegnamento ricorrendo addirittura all'im piego del dialetto dorico, parlato, appunto, a L o cri e nella Magna Grecia. Cicerone (resp. I 10 ,16 e fin. V 29,87) sostiene che Platone, durante uno dei suoi viaggi in Italia e in Sicilia, dovuti al suo desiderio di apprendere la dottrina pitagorica, avrebbe incontra­ to Timeo di Locri. Per una discussione più approfondita del trattato di cosm ologia pitagorica a cui abbiam o accennato rim andiam o so p rattu tto ai due studi congiunti: Tim aeus L o cru s, De natura mundi et animae. Uberlieferung, Testimonia, Text und Ubersetzung von W alter Marg, Leiden 1972, e: Timaios Lokros, Uber die Natur des Kosmos und derSeele, kommentiert von M. Baltes, Leiden 1972. 11 Da qui inizia il commento, che riprende quello di A d rasto (cfr. introduzione, p. VII ss.). 12 II commento è svolto da Calcidio secondo l’abitudine comune nella tarda antichità, di illustrare il testo dividendolo in pericopi. Si

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può osservare questo procedimento anche nella letteratura cristiana (nel Contra Celsum di Origene e nel Contra lulianum di Cirillo di Alessandria). La prima pericope, dunque, è quella di Tim. 31c332a7. 13 Tim. 32a7-b8. 14 C alàd io impiega, per questa nozione, il termine di summitas-. il W aszink ritien e che l ’espressione derivi dal neoplatonism o e rimanda alla nota di P. Hadot (Marius Victorinus, Traités théologiques sur la Trinité, SC 68-69, Paris 1960, p. 884). Ma non è necessa­ rio: che il fuoco nella sua forma più pura (cioè nell’etere) costituisse la p a rte più alta del m ondo, era un’idea comune, anche se gli Oracula Chaldaica, ai quali probabilmente si rifa Mario Vittorino nel passo citato da Hadot, gli conferivano un’accezione specifica al loro sistema, dato che il fuoco era da intendersi come la manifestazione materiale della potenza dell’intelletto. 15 II term ine latino qui impiegato (competens) corrisponde ad avaXoyoq. 16 II te rm in e di fa b ric a to r a ttrib u ito a dio, ren de il greco Sripioupyoq, ma il sintagma nel suo complesso (mundi sensilis fabri­ cator) è cristiano. Così, non sappiamo se, in Calcidio, con deus si intenda il dio del Timeo o il Dio cristiano. 17 Che il fuoco abbia la struttura della piramide si legge in Tim. 5 3 d. Q u esta nozione è ripresa anche dal m edioplatonism o (cfr. Apuleio, Piat. 1 7, 195). 18 Cfr. Tim. 31c4-32a2. Il problema è spiegato poco più avanti. La similitudine degli elementi, anche se non esiste nella forma, esiste com unque nella loro natura, che è materiale. L’affermazione: «tale similitudine ... un qualche affetto» corrisponde a quella di Nemesio, nat. hom. 5, come tante affermazioni m edioplatoniche sono state rip re s e da q u esto s c ritto re del IV secolo. SuH 'argom ento cfr. Waszink, Studien cit., p. 80, e la nostra nota successiva. 19 Questa proporzione è ripresa anche da Apuleio, Piai. I 8,196 e Alkinoos, Didask. 13 ,1, e risale a Tim. 55e-56b. Il Waszink osserva {comm., pp. LX IV-LXVI) che questa caratterizzazione d à fuoco e della terra si riscontra anche in Nemesio (de natura hominis 5) e in P roclo (in Tini. II, p. 37,17 ss.), per cui si è pensato o che Calcidio derivasse da A d rasto attraverso P orfirio, o da Numenio, sem pre attraverso P orfirio (questi due autori potrebbero essere stati la fonte di Calcidio). Cfr. ancora Waszink, Studien cit., pp. 75 ss. 20 S e c o n d o il W a sz in k , i c a p ito li 2 3 -2 5 d e riv e re b b e ro da N um enio; da P orfirio, invece secondo alcuni studiosi precedenti, che il W aszink stesso segue (cfr. Studien, cit., pp. 69 ss.). 21 Cfr. Tim. 28b8.

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— Secondo il Waszink. queste parole di Calcidio sarebbero l ’eco della critica di Aristotele al Timeo; in realtà il discorso mi sembra molto generico. 25 Sono le dottrine della prima parte della cosmologia del Timeo: da chi sia stato tatto il mondo (2Sc); con quali elementi (32c), secon­ do quale paradigma (28c-29a); per quale motivo (sci., la bontà di dio: 29eh la sua eternità (32c). 24 È la concezione aristotelica (ma vulgata in tutta l ’età im peria­ le). dell'arte come imitazione della natura. 25 N atura qui. sembrerebbe essere il mondo, che sarebbe nato insieme al tempo, come si legge in Tim. 37e; cfr. anche più oltre, cap. 101. 26 Dio deve essere stato spinto da una causa alla sua opera di creazione, e questa causa è stata la sua bontà (cfr. anche sopra, n. 23). 2 II passo insiste in m odo particolare sulla funzione della p ro v­ videnza divina, cosa che non si riscontra nel passo del Timeo qui commentato da Calcidio. Il fatto è che il com mentatore vuole sottolineare la funzione della provvidenza di dio, che in Platone ha un ruolo secondario, ma è divenuto fondamentale nello stoicismo e da lì è passato al medioplatonismo. La dottrina della provvidenza, di conseguenza, ha un ruolo im portante nella filosofia di C alcidio e costituisce ima sezione assai significativa in questo commento, come vedremo poi, capp. 143 ss. 28 II rapporto tra eternità e tempo è già posto dal Timeo (37d ss.), ed è un argomento comune nel dibattito dei m edioplatonici: cfr. A p ul., Flat. I 10 ,2 0 1 (im portanti le annotazioni di J. B eaujeu al passo, cfr. A pulée, Opuscules philosophiques. Fragm ents, C.U.F., Paris 1973, ad locunr, anche C. Moreschini, Apuleio e il platonismo, Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colom baria LII, Firenze 1978, pp. 88-89). 29 Si o ssem la spiegazione, tipicamente m edioplatonica, dell’o ri­ gine del mondo: essa è causativa, non temporaria, e per questo certa­ mente poco conforme alla dottrina cristiana. Calcidio segue qui la tradizione rappresentata da A lkinoos e A puleio, in contrasto con quella di P lu tarco e A ttic o (cfr., n e ll’im m ensa b ib lio g ra fia , C. Moreschini, Apuleio e il platonismo cit., pp. 84-85 e 148 ss.). 50 Cfr. Tim. 32c6-8. 31 La dottrina delia immortalità del m ondo è comune nella trad i­ zione platonica; per quello che riguarda questo passo, C alcidio, secondo il Waszink, sembrerebbe aver ripreso anche delle osserva­ zioni del Commento a l Timeo di G aleno (questo conferm a, com e si è visto sopra [n. 29], la dottrina d ell’origine eterna del m ondo); la

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terza spiegazione, invece, si ritrova in Filopono (aet. mundi VI 27 ), il quale rimanda a Proclo, il quale, a sua volta, avrebbe ripreso delle dottrine di Porfirio. Per varie strade, dunque, siamo ricondotti al complesso del medioplatonismo. 32 Cfr. Galeno, Compendium Timaei-. «Inoltre, dio non ha lascia­ to nessuna parte di questa sostanza (sci. della sostanza materiale» fuori del m ondo, perché volle che, per quanto possibile, il mondo fosse eterno e impassibile» (p. 41,7 Kraus-Walzer). Successivamente, Calcidio afferm a che non si può immaginare che un pericolo alla sussistenza eterna del mondo possa provenire dal mondo stesso. Questa affermazione, secondo il Waszink (Studien cit., pp. 72-73 ), troverebbe un parallelo in Plotino (II 1,3) e in Proclo ( Tim. II. 55 10 ss.), per cui sarebbe verisimile che Calcidio avesse attinto a Porfirio. 33 Cfr. anche per questa dottrina Apuleio, Flat. I 8.197. 34 II m ondo è stato creato dal demiurgo in conformità con la causa esemplare. Era, questa, la formulazione della cosiddetta “teo­ ria dei tre principi” dei medioplatonici, vale a dire, dio, materia e p a ra d ig m a (m on do d elle idee, o m ondo in telleg ib ile, KÓcgo^ vor|TÓ

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205 PbaeJr. 247a 1-2. [Trattasi di una etimologia platonica: in greco 'E o lia deriva dalla stessa radice di e r o g a i, “stare ferm o ”, “stare seduto”, cioè “essere collocato”. La terra, quindi, è collocata immobile al centro dell'universo. C.M.].

**T im . 40c 3. 207 Cfr. Tim. 52b 3-5. 20S Cfr. anche par. LIX. 20i5Hesiod., Tkeogon. 11 6 -11 8 . 210 Cfr. par. CCLXVIIL [Si o ssem la traduzione letterale, che è limitata sostanzialmente a Calci dio: silva effettivam ente corrisponde a uÀr), che significa “bosco” e, in linguaggio filosofico (fin dai tempi di Lucrezio), “m ateria”; silva, però, non ebbe fortuna in latino di fronte alla traduzione più frequente di materia. C.M .]. 211 Ciò che segue è una parafrasi del passo di Tim. 40c 3-d3. 212 Cfr. 40c3. 213 Cfr. 40c4. 214 Cfr. 40c5. 215 Cfr. 40c5. 216 Cfr. 40c6. 217 Cfr. Tim. 40c6. 218 Cfr. Tim. 40c7. 219 Tim. 40c7-8. 220 Tim. 40c9-d2. 221 [Una dottrina diffusa nei n eo p lato n ici pagani e cristiani: Plotino ha dedicato al problema un trattato intitolato Se le stelle ope­ rano, concludendo che esse sono solo dei “seg n i” di q u ello che avverrà, non lo determ inano e O rigene, Gen. Comm. V i l i , p. 19 Lommatzsch asserisce la stessa cosa. Su questo argom ento cfr. recen­ temente Scott, op. cit., p. 144; H.S. Benjamins, Eingeordnete Freiheit. Freiheit und Vorsehung bei Origenes, Leiden-N ew Y ork-K òln 19 91. La presenza di questa do ttrin a in C alcid io , da una p a rte , ed in O rigene, d a ll’altra, è stato uno degli argom enti p e r ip o tizzare la mediazione di dottrine cristiane a Calcidio attraverso il Commentario a l «Timeo» di Porfirio. Cfr. introduzione, pp. X X X -X X X V I. C.M .]. 222 II. X X II, 29. 223 Cfr. ad es. Plut., De Is. et Osir. 2 1 , 359c. 224 Si tratta del co sid d etto Ico0icxKr| 7teplo5o7. 984 e 1. 269 [Sem brerebbero essere dei dem oni di natura e di dignità più elevata, perché C alcidio li distingue da quelli fo rm ati dalla terra. A n che A puleio, del resto, distingue dagli altri un augustius genus daemonum (Socr: 16, 15 5-15 7), come il Sonno, l ’A m ore, il demone personale, tra cui il demone di Socrate. C .M .]. 270 [Questa dottrina sembra una aggiunta di Calcidio al contesto della demonologia medioplatonica. C.M .]. 271 Cfr. Epin. 984e 3-5. 2/2 Questa etimologia si legge in Phaed. 80d 5-6; Gorg. 4 9 3 b 5. 273 [Come si ricava dal verso di Esiodo, il poeta parlava, logica­ mente, di Zeus, e qui Calcidio, ancora una volta, ha “cristianizzato” la demonologia m edioplatonica intendendo D io com e colui al quale i demoni recano il loro ossequio. C.M .]. 274 Hes., Erga 252-253. 273 [Tenendo conto di quanto si è detto o r ora, che C alcidio ha in mente il Dio cristiano, al quale i dem oni / angeli tribu tano il loro ossequio, questa afferm azione ha un suo preciso significato, nel senso che il Dio a cui ci si riferisce è la Trinità, e quindi gli angeli sono diecimila per ogni Persona, cioè trentam ila. C .M .]. 276 A questa definizione il W aszink accosta quella di A puleio, De

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Deo Socratis 13: «daemones sunt genere animalia, ingenio rationabi­ lia, animo passiva, corpore aeria, tempore aeterna»; l’unica differen­ za consiste n ell’aggiunta di Calcidio diligentiam hominibus imper­ tiens. 277 [Cfr. la etim ologia di “dem one”, presentata al cap. 13 1. C.M .]. 278 [Secondo il den Boeft (op. cit., p. 40), un passo dei placita di A ezio (Diels, Dox. Graeci, p. 303) presenta la stessa distinzione: «certe potenze eteree sono dei logoi incorporei». C.M.]. 279 [Questo particolare sembra derivare non tanto dalla demo­ nologia m ed ioplatonica, ma da quella, più vicina a Calcidio, di Porfirio (cfr. den Boeft, op. cit., p. 40), perché trova una sua corri­ spondenza in un passo del de abstinentia (II 39): «I demoni malvagi non si rivestono tutti di un corpo solido né di un’unica forma, ma sono effigiati in form e diverse, che caratterizzano il loro spirito, e talvolta sono visibili talvolta no ...» (ma cfr. già Waszink, ad locum, che cita anche Giam blico [myst. II 3] come sostenitore di questa dottrina). C .M .]. 280 [Anche a questo proposito il den Boeft {op. cit., pp. 40-41) sottolinea la derivazione di Calcidio da Porfirio, de abstinentia p. 16 7 ,2 6 -16 8 ,3 . C.M .]. 281 [Questa dottrina, invece, era già più antica: la si riscontra in Plutarco, def. orae. 417B , il quale, secondo Heinze {Xenocrates ..., Leipzig 18 9 2 , p. 81), l ’avrebbe tratta da Senocrate. Che la giustizia fosse am m inistrata dai demoni è sostenuto, inoltre, anche dal plato­ nico Ierocle (V secolo), come attesta Fozio, bibl., cod. 251, p. 195 Henry. Cosi den Boeft, op. cit., p. 43. C.M.]. 282 [Il riferim en to a ll’anima cosmica malvagia sem brerebbe rich iam are in prim a istanza Numenio, il quale aveva sostenuto, infatti, questa dottrina (cfr. più oltre, cap. 297). Il den Boeft, tutta­ via, si pone la domanda {op. cit., pp. 44-45) se questo aggancio all'a­ nima cosm ica malvagia sia di Numenio stesso o di Calcidio, ed è incline a sostenere la seconda alternativa, in quanto non sembra a tt e s ta to u n in te r e s s e di N um enio p e r la d e m o n o lo g ia . P rob ab ilm en te C alcidio aveva voluto giustificare con riferimento all’anima cosmica malvagia la malvagità innata nei demoni. C.M.]. 283 G en 6, 1. [“disertori”, cioè “ribelli” a Dio. C.M.]. 284 [Una concezione diffusa nella demonologia medioplatonica: cfr. ad esem pio Apuleio, Socr. 1 5 ,1 5 2 e Massimo di Tiro, diss. IX, 6e H obein. Il den Boeft {op. cit., p. 47) aggiunge anche le testimonian­ ze di Plut., def. orac. 43ìe-,fac. 944C. C.M.]. 285 Cfr. Phaedr. 249a 3-5 e Resp. 615a 2-3.

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2S6Cfr. Emp. B 115, 5 Diels. 2S7 Pyth. Vers. A ur. 70 -71. 25^ Gir. Resp. M 5e 4-616a 4. -8* Cfr. Tim. 42b 3 e Pbaedr. 249a 3-5. 290 [Cioè Dio, definito secondo la terminologia dei platonici. Sui capp. 13 7 -13 8 cfr. Ch. Ratkowitsch, Die Timaios-Uhersetzung des Cbalddius. Etti P itto Christianus, Philol. 140, 1996, pp. 139-16 2, la quale a pp. 14 7 -14S, osserva le modifiche che Calcidio avrebbe arre­ cato. nella sua traduzione, al significato originario del testo platoni­ co. La dim ostrazione della studiosa è tro p p o dettagliata, perché possa essere qui ripresa. C.M .]. 291 [Calcidio presenta qui la distinzione tra sapienza e prudenza, che è stata teorizzata soprattutto dagli Stoici, ma che è stata ripresa anche dai platonici, sia pagani (cfr. Apuleio, Piat. II 6,228; Alkinoos, didask. 1-2 e 29; C. Moreschini, Apuleio e il platonismo cit., p. 111112) sia cristiani (cfr. S.R.C. Lilla, Clement o f Alexandria. A Study in Christian Platonism and Gnosticism, O xford 19 7 1, pp. 72-76. C.M.]. 292 Cfr. Tim. 4 le 6-d 1. 293 Cfr. Tim. 41 d 1-3. [Com e osserva il W aszink, il testo del Timeo (41 d ), ove si legge 0vr|TÓv, è stato reinterpretato da Calcidio nel senso che, secondo lui, si tratterebbe «delle parti prive di ragio­ ne e m ortali dell’anima». Calcidio avrebbe poi diviso le due parti nelle tre della dottrina aristotelica, sensibile, m obile e nutritiva. E, questo, un esempio interessante di interpretazione della fonte plato­ nica originaria. C.M .]. 294 Ihid. 4 lb 7-c 5. [Io tradurrei diversam ente: «esistessero in m odo intelligibile i semi della natura inferiore». C.M .]. 295 Tim. 4 la 7. 296 [U n’interessante interpretazione di carattere letterario del Timeo. Il dialogo platonico non deve solo istruire, ma anche diletta­ re i lettori, secondo un’esigenza diffusa per la letteratura del mondo antico. C.M .]. 29/ [Com e osserva il W aszink ad locum , C alcidio intende una voce di Dio che, a differenza dalia voce dell’uomo, non è materiale. Lo studioso rintraccia le origini di questa interessante dottrina nella tradizione giudaica e cristiana, e rimanda a Filone, dee. 32 -35 ; migr. Ahr. 47-48 e 81; sotnn. I 2 3 6; Clem. A lex., strom. V I 3,3 4; Orig., cont. Ceis. II 72 e VI 62. Essa sarebbe stata ripresa anche da P orfi­ rio, ahst. II 34. Alcuni anni più tardi lo studioso è tornato sull’argo­ mento con un altro contributo {La théorie du langage des dieux et des démons dans C alcidius, in: E pektasis. M élan ges p a tristiq u e o ffe rts au C a rd in a l Je a n D a n ié lo u , P a ris 1 9 7 2 , p p . 2 3 7 - 2 4 4 ) .

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Rivolgendosi agli dèi inferiori, il demiurgo non ha bisogno di una voce vera e propria, come quella che serve agli uomini a comunicare tra di lo ro i propri pensieri, secondo quanto si dice al cap. 220. Questa afferm azione trova un singolare confronto in un passo di Gregorio di Nissa, adv. Eun. II 391, pure il quale sottolinea come l’“involucro” di cui è rivestita l'anima rende necessaria la voce mate­ riale. La stessa affermazione e lo stesso impiego del termine involu­ crum si trovano in Ambrogio, instit. virg. Ili 18; Cain et Abel II 9,36. e Agostino, contra Acad. I 8,23. Ulteriori dettagli ibid., pp. 241-243. C.M.]. 298 Tim. 4 le 2. [Secondo il Waszink (op. cit., p. 243), questa affermazione abbastanza banale è dovuta, in realtà, ad un fraintendi­ m ento di C alcid io : come afferm a Proclo (Crat. 34, p. 11,2 7 -2 9 Pasquali), infatti, non è il dio a non essere impedito da nessun osta­ colo alla com prensione di tutte le cose, ma l'anima umana prima della sua caduta nel corpo. 299 Tim. 4 la 7. [Questa terminologia è ripresa poco più avanti, al cap. 142, insieme alla citazione da Phaedr. 248c, ove Calcidio tradu­ ce con scitum inevitabile il Seagòi; ’ ASpaateiaq. C.M.]. 300 Cfr. Tim. 4 la 8 ss. 301 [Una concezione tipicamente greca, alla quale si contrappose (ed abbastanza faticosamente con il passare dei tempi, a partire dal II secolo d.C.) quella cristiana, della creatio ex nihilo, per cui l'ani­ ma, ad esem pio, creata da Dio, ha un inizio, ma non avrà una fine. C.M .]. 302 Tim. 4 1 c 7. [La “facoltà della ragione" è una definizione di o rig in e sto ica, aggiunta al testo da C alcidio o dalla sua fonte: C alcid io , in fa tti, avrebb e interpertato il termine qyeiiovoùv del Timeo com e equivalente alTfyy£|ioviKÓv degli Stoici, cioè come “la parte dom inante dell’anima”. C.M.]. 303 Tim. 4 1 d 1. 304 [M escolate di mortalità e immortalità, si intende. C.M.]. 305 [Com e osserva il Waszink, il termine deriva da Tim. 4 ld . ove si legge jtpoou(t>atvovT£