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Italian Pages 65 Year 2005
MARTIN PAGE COME SONO DIVENTATO STUPIDO
GARZANTI
Prima edizione: ottobre 2002
Traduzione dal francese di Roberto Rossi Titolo originale dell'opera: Comment je suis devenu stupide © Le Dilettante, 2001 ISBN 88-11-66504-3 © Garzanti Libri s.p.a., 2002 Printed in Italy www.garzantilibri.it
«Invidiava loro tutto ciò che non sapevano.» Oscar Wilde, Il delitto di lord Arthur Savile «Ob-la-di ob-la-da life goes on bra.» The Beatles, Ob-la-di ob-la-da, White Album
Ad Antoine era sempre sembrato di avere l'età dei cani. Quando aveva sette anni, si sentiva logorato come un uomo di quarantanove; a undici, aveva il disincanto di un vecchio di settantasette. Ora, a venticinque anni, sperando in una vita un po' più dolce, Antoine decise di coprire il proprio cervello con il sudario della stupidità. Troppo spesso aveva osservato che l'intelligenza è parola che designa sciocchezze ben costruite e graziosamente enunciate, ed è talmente traviata che sovente è più vantaggioso essere stupidi che intellettuali doc. L'intelligenza rende infelici, solitari, poveri, mentre mascherarla permette un'immortalità da rotocalco e l'ammirazione di quelli che credono in ciò che leggono. Il bollitore iniziò a emettere un sibilo malaticcio. Antoine versò l'acqua fremente in una tazza azzurra decorata con una luna circondata da due rose rosse. Le foglie di tè si aprirono vorticando e diffondendo il loro colore e profumo, mentre il vapore svaniva mescolandosi all'aria. Antoine sedette alla scrivania di fronte all'unica finestra del suo studio in disordine. Aveva passato la notte a scrivere. In un grande quaderno scolastico, dopo molti tentennamenti, dopo pagine di abbozzi, era finalmente riuscito a dare una forma al proprio manifesto. Prima, per settimane si era sfiancato a trovale una scappatoia, a immaginare vie d'uscita probanti. Ma aveva finito per accettare la spaventosa verità: nel suo stesso spirito era la causa della sua infelicità. Quella notte di luglio, Antoine aveva quindi annotato gli argomenti che dovevano spiegare la sua rinuncia al pensiero. Il quaderno sarebbe rimasto la testimonianza del suo progetto, nel caso in cui non fosse uscito indenne da quell'esperienza pericolosa. Ma sicuramente esso era, prima di tutto, il mezzo per convincere sé stesso della validità del proprio modo di procedere, perché quelle pagine di giustificazioni avevano l'aspetto di una dimostrazione razionale. Un pettirosso picchiettò sul vetro con il becco. Antoine alzò gli occhi dal quaderno e, come per rispondere, vi picchiettò sopra con la penna. Bevve un sorso di tè, si stirò sulla sedia e, passando una mano fra i capelli un po' grassi, pensò che doveva rubare dello shampoo nel supermercato all'angolo. Antoine non si sentiva l'animo di un ladro, non aveva abbastanza leggerezza per questo, così prelevava soltanto ciò di cui aveva bisogno: una boccetta di shampoo incastrata discretamente in una piccola scatola di caramelle. Procedeva allo stesso modo per il dentifricio, il sapone, la schiuma da barba, gli acini d'uva, le ciliegie; prelevando la propria decima, piluccava così quotidianamente nei grandi magazzini e nei supermercati. Allo stesso modo, non avendo abbastanza denaro per comprare tutti i libri che desiderava, e avendo osservato la vista aguzza dei vigilanti e la sensibilità dei portali di sicurezza della FNAC, rubava i libri pagina per pagina e poi li ricostruiva nel riparo del suo appartamento, come un editore clandestino. Poiché veniva conquistata con un crimine, ogni pagina acquisiva un valore simbolico ben più grande che se fosse stata incollata e confusa fra le sue sorelle; staccata da un libro, nascosta, poi pazientemente rilegata, essa diventava sacra. La biblioteca di Antoine contava così una ventina di libri ricostruiti nella sua preziosa edizione speciale. Mentre l'alba stava per sorgere, sfinito dalla notte in bianco, si accingeva a dare una conclusione al suo proclama. Dopo un attimo di esitazione, con la punta della penna fra i
denti, iniziò a scrivere, la testa china sul quaderno e la lingua che passava sul bordo delle labbra: «Non c'è nulla che mi dia di più sui nervi che le storie in cui il protagonista, alla fine, si ritrova nella situazione di partenza avendo ottenuto qualcosa. Ha rischiato, ha vissuto delle avventure, ma alla fine ricade sulle proprie zampe. Non voglio condividere questa menzogna: fare finta di non conoscere già la conclusione di tutto. So benissimo che questo viaggio nella stupidità si trasformerà in un inno all'intelligenza. Sarà la mia piccola Odissea personale: dopo molte peripezie e avventure pericolose, finirò per raggiungere Itaca. Già sento l'odore di ouzo e di foglie di vite ripiene. Sarebbe ipocrita non dirlo, non dire che, fin dall'inizio della storia, sappiamo che il protagonista se la caverà, che addirittura uscirà arricchito da tante peripezie. Uno scioglimento costruito artificialmente per sembrare naturale proclamerà una lezione di questo genere: "Pensare è bene, ma bisogna approfittare della vita". Qualunque cosa diciamo, qualunque cosa facciamo, c'è sempre una morale che rumina nel prato della nostra personalità. È mercoledì 19 luglio, il sole finalmente si decide a lasciare il suo rifugio. Mi piacerebbe poter dire, alla fine di questa avventura, come il personaggio di Joker in Full Metal Jacket: "Sono in un mondo di merda, ma sono vivo e non ho paura".» Antoine posò la penna e richiuse il quaderno. Bevve un sorso di tè; ma il liquido si era raffreddato. Si stirò e fece scaldare dell'acqua sul fornelletto da campeggio posato sul pavimento. Il pettirosso picchiettò con il becco sul vetro. Antoine aprì la finestra e depose una manciata di semi di girasole sul davanzale.
Per metà, la famiglia di Antoine era originaria della Birmania. I suoi nonni paterni erano arrivati in Francia negli anni Trenta per seguire le tracce di Shan, la loro illustre antenata, che otto secoli prima aveva scoperto l'Europa. Shan era un'avventuriera botanica; si interessava alle arti, ai rimedi, tentava di tracciare una cartografia della regione. Fra una spedizione e l'altra, ritornava nella città natale di Pagan, si ricongiungeva con la famiglia e metteva al corrente delle proprie scoperte i suoi e gli eruditi. Anawratha, il primo grande sovrano birmano, ebbe notizia della sua passione per la ricerca e l'avventura, e le offrì i mezzi materiali e finanziari per scoprire il vasto mondo sconosciuto. Per mesi, Shan e i suoi equipaggi viaggiarono per terra, per mare, e si perdettero a sufficienza per trovare la via del Nuovo Mondo, dell'Europa. Attraversando il Mediterraneo sbarcarono nel Sud della Francia e raggiunsero Parigi. Offrirono specchietti e abiti di cattiva seta agli indigeni delle contrade europee e conclusero accordi commerciali con i capi di queste tribù pallide. Di ritorno nel proprio paese, Shan ebbe un'accoglienza trionfale per la sua scoperta; venne celebrata e finì i suoi giorni gloriosamente. Fra i tumulti e le violenze del ventesimo secolo, i nonni di Antoine decisero di seguire le tracce della loro ava nella speranza di una uguale felicità. Si erano quindi installati in Bretagna all'inizio degli anni Trenta; nel 1941 costituirono persino la celebre sezione di resistenti FTP Birmania. Si erano a poco a poco integrati, avevano imparato il bretone e, con maggiore difficoltà, ad apprezzare le ostriche. Ispettrice del litorale per il ministero dell'Ambiente naturale, la madre di Antoine era bretone; suo padre, birmano, divideva il proprio tempo fra la passione di cuoco e il lavoro di pescatore su motobarca. A diciotto anni Antoine aveva lasciato i genitori, premurosi e inquieti, per la capitale, con il desiderio di farvi la propria strada. Da bambino la sua ambizione era stata di diventare Bugs Bunny; più tardi, più maturo, avrebbe voluto essere Vasco de Gama. Ma la sua consigliera di orientamento gli chiese di scegliere studi che figurassero nei documenti del ministero. Il suo percorso universitario aveva la forma labirintica delle sue passioni, e se ne scopriva sempre di nuove. Antoine non aveva mai capito la separazione arbitraria delle materie: assisteva alle lezioni che gli interessavano in qualunque disciplina e trascurava quelle i cui professori non erano all'altezza. Così un po' per caso otteneva diplomi grazie all'accumulo delle griglie di valutazione e di moduli. Aveva pochi amici, perché soffriva di quella sorta di asocialità che deriva da troppa tolleranza e comprensione. I suoi gusti senza esclusiva, disparati, lo bandivano dai gruppi che si aggregano sui disgusti. Diffidava dell'anatomia odiosa delle masse, ma erano soprattutto la sua curiosità e la sua passione ignara delle frontiere e dei clan che ne facevano un apolide nel suo stesso paese. In un mondo in cui l'opinione pubblica è imprigionata nella risposta a sondaggi fra sì, no e senza opinione, Antoine non voleva riempire nessuna casella. Essere per o contro era per lui un'insopportabile limitazione di questioni complesse. Inoltre aveva una dolce timidezza a cui teneva come a un vestigio infantile. Gli sembrava che un essere umano fosse così vasto e ricco che non esistesse maggiore vanità in questo mondo di quella di essere troppo sicuri di sé di fronte agli altri, di fronte all'ignoto e alle incertezze che ciascuno rappresenta. Per un momento aveva avuto paura di perdere la propria piccola timidezza e di venire aggregato alla truppa di quelli che vi disprezzano se non li dominate; ma con volontà accanita seppe conservare
un'oasi della propria personalità. Benché avesse ricevuto numerose e profonde ferite, ciò non aveva per niente indurito il suo carattere; manteneva intatta la propria estrema sensibilità, che, come una fenice dalla carne di seta, rinasceva più pura che mai ogni volta che veniva sciupata e straziata. Infine, anche se credeva ragionevolmente in sé stesso, si sforzava di non credersi troppo, di non aderire troppo facilmente a ciò che pensava, perché sapeva quanto le parole del nostro spirito desiderano renderci servizio e confortarci mentre ci ingannano. Prima di prendere la decisione che avrebbe cambiato la sua esistenza in più di un modo, prima dunque di diventare stupido, Antoine tentò altre strade, altre soluzioni per risolvere la sua difficoltà a partecipare alla vita. Ecco il suo primo tentativo, che potremmo giudicare maldestro, ma che fu pieno di una speranza sincera. Antoine non aveva mai bevuto un goccio d'alcol. Anche quando si feriva leggermente, quando si graffiava, da buon astemio rifiutava di disinfettarsi con alcol a settanta gradi, preferendo il betadine o il mercurocromo. In casa non c'era vino né aperitivi. Più tardi disdegnò l'utilizzo di composti fermentati o distillati per mitigare una mancanza di immaginazione o fare sparire gli effetti di una depressione. Osservando quanto il pensiero degli ubriachi fosse vago e distaccato da ogni attenzione verso la realtà, quanto le loro frasi si soddisfacessero dell'incoerenza e, per coronare il tutto, essi avessero l'illusione di spacciare superbe verità, Antoine decise di aderire a questa filosofia promettente. L'ubriachezza gli sembrava il mezzo di sopprimere ogni velleità riflessiva della propria intelligenza. Ubriaco, non avrebbe più avuto il bisogno di pensare, non avrebbe più potuto: sarebbe stato un retore di approssimazioni liriche, eloquente e volubile. L'intelligenza, dentro l'ebbrezza, non avrebbe più avuto senso; mollati gli ormeggi, avrebbe potuto naufragare o venire divorata da qualche squalo senza che lui se ne preoccupasse. Risate senza motivo, esclamazioni assurde, in stato di ebbrezza avrebbe amato tutti, si sarebbe disinibito. Avrebbe danzato, volteggiato! Oh, certo, non dimenticava il lato cupo dell'alcol: la bocca impastata, i vomiti, la cirrosi all'orizzonte. E la dipendenza. Contava davvero di diventare alcolista. È un'occupazione. L'alcol occupa tutto il posto nei pensieri e dà una meta nella disperazione: guarire. Avrebbe frequentato le riunioni degli Alcolisti anonimi, raccontato il proprio percorso, sarebbe stato sostenuto e capito da persone della sua specie plaudenti al suo coraggio e alla sua volontà di liberarsi. Sarebbe stato alcolista, cioè qualcuno che ha una malattia socialmente riconosciuta. Si compiangono gli alcolisti, li si cura, hanno una considerazione medica, umana. Mentre nessuno pensa a compiangere le persone intelligenti: «Osserva i comportamenti umani, questo deve fare di lui uno molto infelice», «Mia nipote è intelligente, ma è molto ammodo. Vuole uscirne», «A un certo momento, ho avuto paura che tu diventassi intelligente.» Ecco il genere di riflessioni benevole, piene di compassione, a cui avrebbe avuto diritto se il mondo fosse giusto. Ma no, l'intelligenza è un male duplice: fa soffrire e nessuno pensa di considerarla una malattia. Essere un alcolista, al confronto, sarebbe una promozione sociale: soffrire di mali visibili, con una causa nota e trattamenti previsti. Non esiste cura di disintossicazione per l'intelligenza. Come il pensiero conduce a una certa esclusione, per la distanza dell'osservatore dal mondo osservato, così essere alcolisti sarebbe un modo di trovare un
posto. Ed essere perfettamente integrato nella società, se già non è accaduto naturalmente, non può che essere l'auspicio di un alcolista. Grazie all'alcol, non avrebbe più quel blocco di fronte ai comportamenti umani, e potrebbe introdurvisi tranquillamente. Non avendo nessuna conoscenza in merito, Antoine non sapeva come intraprendere la sua nuova carriera. Bisognava iniziare con una serie di sbronze, o invece avanzare cautamente nella palude spirituale? Non aveva potuto impedirselo. La sua curiosità vivace lo spinse a precipitarsi alla biblioteca municipale di Montreuil, a due passi da casa: voleva diventare alcolista in modo intelligente, costruttivo e colto, conoscere i segreti del veleno che lo avrebbe salvato. Antoine perlustrò gli scaffali, scelse i libri che gli sembravano più interessanti sotto lo sguardo accondiscendente del bibliotecario, intimamente persuaso di essere intelligente perché malvestito. Conosceva bene Antoine, erano ormai quattro anni consecutivi che veniva nominato «lettore dell'anno». Nonostante le proteste di Antoine di fronte a questo esibizionismo culturale, il bibliotecario aveva affisso una fotocopia della sua carta di prestito con la scritta in grassetto: «Lettore dell'anno». Era ridicolo. Antoine si presentò al banco con il Dizionario degli alcolici del mondo intero, Guida storica degli alcolici, Alcolici & Vini, I più grandi alcolici, L'abbecedario degli alcolici… Il bibliotecario registrò il prestito e gli chiese: «Ancora! Batterà il record dell'anno scorso, complimenti! Fa ricerche storiche sull'alcol?» «No, a dire il vero io… cerco di diventare alcolista. Ma prima di iniziare a bere, preferirei conoscere l'argomento.» Il bibliotecario trascorse i giorni successivi a domandarsi se fosse uno scherzo, poi morì, misteriosamente soffocato sotto un gruppo di turisti tedeschi vicino alla torre Eiffel. Dopo tre giorni trascorsi a divorare quei libri, a prendere appunti e a fare schede di lettura, supponendo di padroneggiare un po' il tema, Antoine cercò fra le proprie conoscenze un alcolista che potesse insegnargli quel metodo. Una persona che avesse la stoffe di un professore in vini e acqueviti, un Platone del liquore, un Einstein del calvados, un Newton della vodka. Lo Yoda del whisky. Fra i suoi intimi (la famiglia era lontana), colleghi e vicini, trovò e scoprì psicotici, cattolici, un barone, una cruciverbista, un petomane, un eroinomane, aderenti a partiti politici… e ancora molte altre tare. Ma nessun alcolista. A cinquanta metri, sul marciapiede di fronte al suo appartamento, si trovava un bistrò chiamato Il Capitano Elefante. È in questo luogo che decise di fare una ricognizione. Antoine prese i propri libri e un quadernetto nero per annotarvi le prossime esperienze e tutte le nuove conoscenze che sperava di acquisire. La porta fece vibrare una campanella, ma al suo ingresso nessuno si voltò. Osservò i clienti, li valutò per scegliere quello che sarebbe stato il suo professore. Erano solo le otto e trenta del mattino, ma tutti bevevano già allegramente. C'erano solo uomini, alcuni giovani, la maggior parte sopra i quarant'anni; avevano quell'età patinata, indefinibile, tipica degli alcolisti. Le loro vite ferite non avevano potuto dar loro il gusto e la forza delle passioni sane, così consumavano i bassi stipendi nei succedanei di felicità e di bellezza che sono gli alcolici. Il bar era simile a mille altri bar: banco di zinco, bottiglie allineate come i soldati di un esercito segreto, qualche tavolo, un vecchio juke-box. E, soprattutto, quel cocktail di odori di sigaretta, di caffè e di candeggina che impregnava i ricordi. Seduto al banco, un uomo con un berretto da monello aveva allineato undici bicchieri pieni di liquidi differenti. Antoine vide in lui uno specialista. Poco sicuro, posò i libri sul
banco. L'uomo non lo degnò di uno sguardo e vuotò il primo bicchiere. Ripensando alle fotografie della propria enciclopedia, Antoine individuò i vari alcolici e li nominò indicandoli con il dito: «Porto, gin, vino rosso, calvados, whisky, cognac, birra chiara, Guinness, bloody mary, quello lì sicuramente champagne. Il vino rosso forse è un Bordeaux e ha appena bevuto un pastis.» L'uomo con il berretto osservò Antoine con aria sospetta. Poi, vedendo l'aspetto inoffensivo di quel giovane con i capelli scarmigliati, sorrise. «Mica male», ammise. «Sei dotato, ragazzino.» Trangugiò il bicchiere di whisky in un solo colpo. «Grazie, signore.» «Sei un conoscitore di alcol? È un'arte originale, anche se non ho la minima maledetta idea di come possa servire. In genere, su una bottiglia c'è un'etichetta.» «No», disse Antoine scuotendo la testa e spostandosi discretamente dall'alito pesante dell'uomo. «Leggo libri sull'alcol per imparare le varie fabbricazioni, i materiali utilizzati… Voglio sapere tutto sull'alcol.» «A che cosa ti serve?» buttò lì l'uomo sorridendo dopo avere vuotato il bicchiere di gin. «Voglio diventare alcolista.» L'uomo chiuse gli occhi e strinse il bicchiere; i tendini gli diventarono bianchi, il bicchiere scricchiolò. Si sentivano i rumori della strada, delle automobili, delle conversazioni animate dei commercianti. L'uomo inspirò profondamente ed espirò con dolcezza. Riaprì gli occhi e tese la mano ad Antoine. Sorrideva di nuovo. «Mi chiamo Léonard.» «Piacere. Ehm, io mi chiamo Antoine.» Si strinsero la mano. Léonard osservava Antoine incuriosito e divertito. La stretta di mano continuava. Antoine finì per liberarsi. «Vuoi diventare alcolista…», mormorò Léonard. «Vent'anni fa, avrei creduto che tu fossi un'allucinazione, ma è da un bel po' che l'alcol mi mostra la realtà solo come un miraggio. Vuoi diventare alcolista, e per questo hai tutti questi libri. È logico.» «Questi libri mi servono per… Non voglio diventare alcolista in un modo qualunque. Mi interessano veramente tutte le varie specie di alcol, gli alcol bianchi, i liquori, i vini, ce n'è una tale ricchezza! Ho scoperto che l'alcol è legato alla storia dell'umanità, e conta più fedeli del cristianesimo, del buddhismo e dell'islamismo messi insieme. Sto leggendo un saggio appassionante di Raymond Dumay su questo tema…» «Se leggi troppo, non diventerai mai alcolista», osservò Léonard con flemma. «È un'attività che richiede un certo impegno, bisogna dedicarvisi parecchie ore al giorno. È una disciplina, per così dire, olimpionica. Non credo che tu abbia i requisiti adatti, ragazzino.» «Senta, non voglio sembrare immodesto, ma… insomma, io parlo l'aramaico, ho imparato ad aggiustare i motori dei caccia della prima guerra mondiale, a raccogliere il miele, a rifare la cuccia del cane della mia vicina, e quando avevo quindici anni ho passato un mese di vacanza dai miei zii Joseph e Miranda. Quindi con il suo aiuto, penso che sarò capace di diventare alcolista. Ne ho la volontà.» «Con il mio aiuto?» si stupì gentilmente Léonard. Osservò la coppa di champagne – delle bollicine risalivano alla superficie – e ridacchiò. «Sì. Io conosco la teoria, ma non ho nessuna pratica. Lei, invece, ha l'aria di uno specialista.»
Antoine indicò la schiera di bicchieri sul banco. Léonard sorbì il cognac e lo tenne in bocca per qualche istante. Le sue guance iniziavano a diventare rosa. Il padrone del bar pulì il banco con uno straccio e portò via i bicchieri vuoti. Léonard aggrottò le sopracciglia. «E chi ti dice che hai i requisiti adatti? Credi che si diventi alcolisti così? Che basti volerlo e mandare giù qualche bicchiere? Conosco persone che hanno passato la vita a bere, ma che non sono mai riuscite a diventare alcoliste. Non ne avevano la predisposizione. Mentre tu… tu pensi di averne il dono? Te ne arrivi tranquillamente e dichiari che vuoi diventare alcolista, come se ti fosse dovuto! Lasciami dire una cosetta, ragazzo: è l'alcol che sceglie, è l'alcol che decide se sei adatto a diventare una spugna.» Antoine alzò le spalle, desolato: non aveva mai avuto la pretesa che fosse facile, proprio per questo era venuto a cercare un allenatore in questo bistrò. Léonard aveva reagito con l'eccesso che caratterizza i vecchi lupi di mare quando un giovane, inesperto e ingenuo, dichiara di volere imbarcarsi. Era un atteggiamento che Antoine, avendo trascorso l'infanzia in piccoli porti bretoni, conosceva bene e capiva: gli artigiani sono fieri e gelosi della loro arte. «Non volevo dare questa impressione, signor Léonard. Ammetto la mia ignoranza e non so se possiedo quei requisiti. Le chiedo di accettarmi come allievo. Lei può insegnarmi.» «Ci proverò volentieri, ragazzo», rispose Léonard lusingato, «ma non posso garantirti nulla. Se non hai quello che occorre… Non tutti possono diventare alcolisti, questo è sicuro, c'è una selezione; è triste, ma è la vita. Allora non dovrai volermene se resterai a terra. Ci sono altre navi da prendere.» «Capisco.» Léonard esitò fra il bloody mary e il bicchiere di Guinness. Poi scelse la birra. Ai peli grigi della barba rimase attaccata della schiuma, che asciugò con il risvolto di una manica della sua pesante giacca blu scuro. «Bene. Devo farti qualche domanda. Una specie di esame preliminare.» «Un esame di accesso?» «Eh, ragazzino, puoi capire che ci sono delle condizioni per esercitare l'alcolismo, è una cosa seria…» «Non ci vorrà comunque un permesso», chiese Antoine sorridendo e alzando le spalle. «Ci vorrebbe, però. Alcuni non reggono l'alcol, picchiano la moglie e i figli, guidano a casaccio e votano… Lo stato dovrebbe farsi carico della formazione degli alcolisti, perché apprendano i propri limiti, i cambiamenti di percezione del tempo e dello spazio, e della propria personalità… È come per il nuoto: meglio assicurarsi di saper nuotare prima di buttarsi in piscina.» «In questo caso», osservò Antoine, «lei vuole piuttosto assicurarsi che io sappia andare a fondo.» «Proprio così, ragazzino. Voglio sapere se hai le pinne per potere andare a fondo. Vediamo… Prima domanda: perché vuoi diventare alcolista? Mi sembra fondamentale conoscere il tuo motivo.» Antoine, massaggiandosi la fronte, si mise a riflettere. Osservò gli altri clienti del caffè e trovò che stavano benissimo nell'ambiente. Avevano una specie di famigliarità, perché se anche non si somigliavano, erano tutti fatti della stessa materia triste. «"L'alcolismo ha come causa la bruttezza, la sconcertante sterilità dell'esistenza così come ci è venduta".»
«È una citazione?» chiese Léonard dopo aver tracannato il bloody mary d'un fiato. «Sì, da Malcolm Lowry.» «Una domanda, ragazzino: quando vai a comprare il pane, citi Shakespeare alla panettiera? "Comprare croissant al burro o panini al cioccolato: questo è il problema". Preferirei che tu parlassi da te, invece di farti soccorrere da un fottuto grande scrittore. Se vuoi il mio parere, sono troppo facili le citazioni, perché ci sono talmente tanti grandi scrittori che hanno detto talmente tante cose che non si avrebbe neanche più bisogno di esprimere un'opinione personale.» «Allora diciamo che sono povero, senza futuro… e soprattutto che penso troppo, che non posso impedirmi di analizzare e di capire come tutto questo bazar resti in piedi e vada avanti: mi rende immensamente triste vedere che non siamo liberi e che ogni pensiero, ogni atto libero si produce a prezzo di una ferita che non si rimargina.» «Ragazzino, sei un poeta: tu vuoi dire che sei depresso…» «È il mio stato naturale, soffro di depressione da venticinque anni.» Léonard diede una pacca amichevole sulla spalla di Antoine. Entrò un cliente e si sedette a un tavolo dove si svolgeva una partita di carte. Ordinò un caffè e un calvados. Il padrone accese la radio per ascoltare le notizie delle nove. «Però, sai, l'alcol non ti guarirà. Non devi crederlo. Calmerà le tue ferite, ma te ne procurerà altre, forse peggiori. Non potrai più lasciare l'alcol, e anche se, all'inizio, bevendo proverai euforia, felicità, tutto questo sparirà in fretta lasciando il posto solo alla tirannia della dipendenza e della mancanza. La tua vita non sarà che nebbie, stati di semincoscienza, allucinazioni, paranoia, crisi di delirium tremens, violenza contro i tuoi intimi. La tua personalità si disgregherà…» «È quello che voglio!» ribatté Antoine colpendo il banco con il suo piccolo pugno. «Non ho più la forza di essere me stesso, non più il coraggio, la voglia di avere qualcosa come una personalità. Una personalità è un lusso che mi costa troppo caro. Voglio essere uno spettro banale. Ne ho abbastanza della mia libertà di pensiero, di tutte le mie conoscenze, della mia dannata coscienza!» Dopo aver vuotato il bicchiere di porto, Léonard fece una smorfia. Restò, pensieroso, con il bicchiere alzato, a osservarsi nello specchio davanti a sé, nascosto in parte dalle bottiglie. Via via che vuotava i bicchieri, si appiattiva un po' di più sul banco, gli occhi si restringevano e, al contempo, i gesti diventavano meno tremanti, più ampi e più fluidi. Come ultima domanda d'«esame», Léonard chiese ad Antoine di indovinare perché aveva allineato sul banco undici bicchieri diversi di alcol. «Per non creare gelosie?» rispose istantaneamente Antoine. «Per non creare gelosie…» mormorò Léonard sorridendo e battendo dolcemente un bicchiere sul banco. «Puoi essere più preciso?» «Forse così lei rende omaggio, con uguaglianza, a tutte quelle specie di alcol. Lei non è un patito della birra o del whisky scozzese, niente di settario: lei ama l'alcol in tutte le sue declinazioni. È un innamorato dell'Alcol con l'A maiuscola.» «Non avevo mai pensato alla cosa in questo modo, ma… sì, sono d'accordo. Antoine, Antoine… Mi sembri avere i requisiti, la natura nella sua grande misericordia forse ti ha concesso il dono. Ma devo metterti al corrente di tutte le scocciature di cui avrai il diritto. Vomiterai spesso, avrai acidità di stomaco e lo stomaco si attorciglierà, avrai emicranie di ogni tipo, oftalmiche, cerebrali, dolori alla cervicale, ai muscoli e alle ossa, avrai diarree frequenti, ulcere, disturbi della vista, insonnie, vampate di calore, crisi d'angoscia. Per un
po' di calore e di conforto, l'alcol ti porterà tutto questo, devi esserne consapevole.» Entrarono due nuovi clienti. Strinsero la mano al padrone, salutarono Léonard. Sedettero a un tavolo in fondo al caffè, accesero la pipa e bevvero birra dividendosi le pagine di «Le Monde». Antoine guardò Léonard con i suoi occhi sinceri; come sempre, era calmissimo, sicurissimo della propria decisione. Si passò una mano fra i capelli, li scompigliò. «È quello che voglio, voglio altri tormenti, mali reali, manifestazioni fisiche di un comportamento preciso. La causa del mio male sarà l'alcol; non la verità, l'alcol. Preferisco una malattia che resta nei limiti di una bottiglia piuttosto che una malattia immateriale e onnipotente a cui non posso dare nome. Sarò la causa dei miei dolori. L'alcol occuperà tutti i miei pensieri, riempirà ciascuno dei miei secondi come dei bicchierini…» «Accetto», disse Léonard dopo essersi accarezzato la barba. «Mi è gradito essere il tuo professore di alcolismo. Sarò severo, ti farò sgobbare. È un tirocinio sui tempi lunghi, quasi un'ascesi.» «Grazie, grazie di tutto cuore», disse pacatamente Antoine stringendo la mano secca e ruvida dell'alcolista. Léonard alzò la mano e schioccò le dita per chiamare il padrone che leggeva «Le Parisien» all'altro capo del banco, vicino alla cassa: «Roger, una birra alla spina per il ragazzino!» Il padrone posò la birra davanti ad Antoine. «Grazie. Cominceremo dolcemente. È una birra di cinque gradi, scorrerà liscia, bisogna abituarti il palato, avvezzare il tuo fegato primaverile. Non si diventa alcolisti prendendo una sbornia tutti i sabato sera, occorrono perseveranza e costanza. Bere sempre, non necessariamente cose forti, ma farlo seriamente, con applicazione. La maggior parte delle persone diventano alcoliste senza metodo, bevono whisky, vodka in enorme quantità, si ammalano, e ricominciano a bere. Se vuoi il mio parere, Antoine, sono dei cretini. Dei cretini e dei dilettanti! Si può benissimo diventare alcolisti in modo più intelligente, con una sapiente utilizzazione delle dosi e della gradazione alcolica.» Antoine osservava il grosso boccale di birra circondato di schiuma bianca; attraverso il suo prisma tutto era dorato. Léonard si tolse il berretto e lo schiacciò sui capelli di Antoine. «Dai, ometto, non bisogna avere paura, non è mica lì dentro che annegherai.» «Devo berla in un colpo solo», chiese Antoine un po' intimidito, «o a piccoli sorsi?» «Tocca a te decidere. Se il sapore ti piace, e se non vuoi essere ubriaco troppo in fretta, bevi a piccoli sorsi, degusta questo nettare di luppolo. Altrimenti, se lo trovi schifoso, tracannalo d'un fiato.» Dopo avere annusato il liquido ed essersi riempito le narici di schiuma, Antoine cominciò a bere. Fece una smorfia, ma continuò a vuotare il bicchiere. Cinque minuti dopo, un'ambulanza si fermò slittando sul marciapiede di fronte a Il Capitano Elefante. Due infermieri muniti di barella comparvero nel bar e portarono via Antoine in pieno coma etilico. Sul banco il suo boccale di birra era ancora pieno a metà.
A causa di una sensibilità fisiologica estrema, Antoine non aveva potuto diventare alcolista. Come rimedio alternativo decise di suicidarsi. Diventare alcolista era stata la sua ultima ambizione di integrazione sociale; darsi la morte era l'ultimo modo che vedeva di partecipare al mondo. Personaggi che ammirava avevano avuto il coraggio di scegliere il momento della propria morte: Hemingway, la sua cara Virginia Woolf, il suo caro Seneca, Debord, Catone l'Uticense, Sylvia Plath, Demostene, Cleopatra, Lafargue… La vita era ormai solo un'infinita tortura. Non provava più piacere a vedere l'alba, ogni istante era acido e rovinava il sapore di ciò che avrebbe ancora potuto essere gradevole. Poiché non aveva mai veramente avuto l'impressione di vivere, non aveva paura della morte. Era persino felice di trovare nella morte l'unica prova tangibile di essere stato in vita. L'incredibile cattiva qualità del cibo che gli servivano da quando era all'ospedale finì di convincerlo a mettere fine ai propri giorni. Antoine era stato accolto nel reparto d'urgenza della Pitié-Salpêtrière, nonostante la tessera plastificata nel suo portafoglio che lo segnalava come donatore dei propri organi in caso di morte cerebrale e deciso ad agonizzare sul marciapiede piuttosto che essere curato alla Pitié. Non voleva finire in questo ospedale soprattutto per il rischio di incontrarvi gli zii Joseph e Miranda. Antoine aveva un buon carattere, ma non li sopportava; nessuno, del resto, li sopportava. Non erano pericolosi, solo non smettevano di lamentarsi, di gridare e di fare storie per ogni minima cosa. Buddhisti affascinanti erano passati nei ranghi di qualche milizia paramilitare per averli troppo frequentati. Ogni loro viaggio all'estero creava incidenti diplomatici. Così avevano il divieto di soggiorno in molti paesi: Israele, Svizzera, Paesi Bassi, Giappone, Stati Uniti. L'IRA, l'ETA, l'Hezbollah avevano pubblicato comunicati di condanna a morte per la coppia se avesse rimesso piede sul loro territorio. Le autorità di quei paesi non fecero né dissero nulla che potesse far pensare a un loro dissenso. Un giorno, forse, l'esercito oserà utilizzare il potenziale distruttivo di questa coppia e lo utilizzerà quando le bombe atomiche si riveleranno troppo inefficaci. Zio Joseph e zia Miranda da anni vivevano all'ospedale: cambiavano reparto, piano, a seconda delle operazioni, delle malattie reali o inventate dalla loro ipocondria astiosa. Facevano il giro di tutti i reparti, passavano da urologia ad allergologia, provavano l'angiologia, la gastroenterologia, l'otorinolaringoiatria, la stomatologia, la dermatologia, la diabetologia… Giravano anche negli ospedali della capitale come in contrade esotiche, evitando sempre i due reparti che avrebbero potuto fare qualcosa per loro, e per il resto del mondo: psichiatria e medicina legale. Antoine tentò, senza successo, di convincere alcuni infermieri a cancellare il suo nome dal registro dell'ospedale per non ricevere la visita degli zii. Rimettendosi a poco a poco dal coma, prese la decisione di suicidarsi: era seduto sul letto d'ospedale, con un cucchiaio piantato in un vasetto di composta di mele grumosa e rosata. I suoi amici – Ganja, Charlotte, Aslee e Rodolphe – andarono a fargli visita. Ganja, un ex compagno della facoltà di biologia, l'uomo più calmo del mondo, la bontà in persona, aveva l'abitudine di riconfortare Antoine preparandogli tisane di piante medicinali straordinarie che allietavano le loro serate. Giocavano a scacchi diverse volte la settimana in cima all'osservatorio della Sorbona e passeggiavano a caso per le strade chiacchierando.
Antoine non aveva alcuna idea della professione di Ganja, e quest'ultimo era riservatissimo in proposito, ma aveva abbastanza soldi e così spesso era lui a impadronirsi dei conti. Traduttrice in una casa editrice, Charlotte era una vecchia vicina di Antoine. Il suo grande sogno era di avere un figlio, ma essendo lesbica non aveva assolutamente il desiderio di arrivarci con mezzi naturali. Così, regolarmente, grazie alla complicità della sua amica medico, si faceva inseminare. Per aumentare le probabilità favorevoli, dopo ogni inseminazione, Antoine l'accompagnava alla fiera del Trono o a qualunque lunapark, e per interi pomeriggi giravano sulla ruota panoramica. Non era una tecnica molto scientifica, ma Charlotte pensava che la forza centrifuga di questi macchinari potesse spingere nel luogo giusto gli spermatozoi recalcitranti. Rodolphe, un collega della facoltà, era l'indispensabile contraddittore. Aveva due anni più di Antoine ed era incaricato di un corso di filosofia intitolato «Kant o il regno del pensiero assoluto». Puro prodotto del sistema educativo, Rodolphe poteva sperare di ottenere un posto di professore incaricato di lì a due anni, diventare poi titolare di cattedra entro sette anni e morire completamente dimenticato una sessantina di anni dopo, lasciando un'opera che avrebbe influenzato generazioni di termiti. Il punto in comune, ciò che avvicinava Antoine e Rodolphe, era che non si trovavano mai d'accordo su nulla. La loro ultima discussione verteva sul pensiero: Rodolphe affermava, da buon filosofo, di produrre atti di pensiero puri con la semplice operazione della propria volontà onnipotente e del proprio perfetto libero arbitrio. Antoine si burlò di lui ricordandogli le contingenze e i molteplici determinismi che pesano sugli esseri umani. Ma Rodolphe sembrava credere che un professore di filosofia non potesse venire bagnato dalla stessa pioggia dei comuni mortali. Per riassumere, Antoine era il dubbio, Rodolphe la certezza, e possiamo dire che ciascuno esagerava a suo modo la propria tendenza. Infine, Aslee era il migliore amico di Antoine, ma ne parleremo più tardi. Durante la loro prima visita all'ospedale, Ganja portò la tisana, Charlotte dei fiori, Aslee una palma nana di un metro e cinquanta in vaso e Rodolphe rimpianse che Antoine non fosse legato a un respiratore artificiale che lui avrebbe potuto staccare. La sollecitudine degli amici non modificò la risoluzione silenziosa di Antoine: aveva deciso, per una volta nella vita, di essere egoista e di non vivere più solo per non dare pena agli amici. Antoine aveva per vicino di stanza un essere umano, certo, ma non avrebbe potuto essere più preciso. Non sapeva se fosse un uomo o una donna, non aveva neppure idea dell'età di questa persona, per la semplice ragione che era avvolta nelle bende alla maniera delle mummie egiziane. Ma quella forma bianca non nascondeva la salma di un faraone, perché articolò con voce femminile, senza il minimo accento della valle dei Re: «Non si preoccupi, ce la farò. Ancora una volta, ce la farò.» «Scusi?» domandò Antoine raddrizzandosi sul letto. «Perché si trova qui?» «Coma etilico.» «Oh, ci ho già provato», assicurò la donna in tono leggero. «Mica male. Che cosa ha bevuto? Vodka? Whisky?» «Birra.» «Quanti litri?» «Mezzo bicchiere.»
«Mezzo bicchiere? Allora ha stabilito un record in questo campo. È un classico, il coma etilico.» «Non era il mio scopo, io volevo diventare alcolista, ma non ha funzionato. Adesso, il suicidio mi sembra la soluzione più abbordabile. Lì, almeno, ho tutte le possibilità a mio favore.» «Non si illuda: nulla è più difficile di sopprimersi. È più facile passare la maturità, il concorso per ispettore di polizia o la libera docenza che suicidarsi. Il tasso di riuscita è inferiore all'otto per cento.» Antoine si sedette sul bordo del letto. Il sole pallido sollevava le stecche della tapparella e stampava la propria luce sui muri color malattia della stanza. Gli amici di Antoine erano passati qualche ora prima, ma nessuno veniva mai a prendere notizie della donna. «Lei si è suicidata?» chiese Antoine. «Come può vedere», rispose lei in tono beffardo, «ho fallito.» «Non è il suo primo tentativo?» «Non li conto più, mi deprimerebbe. Eppure ho provato di tutto. Ma ogni volta qualcosa o qualcuno ci si metteva di mezzo. Quando ho cercato di annegarmi, un imbecille coraggioso mi ha salvata. Peraltro è morto qualche giorno dopo di polmonite. Orribile, no? Quando mi sono impiccata, la corda ha ceduto. Quando mi sono tirata un colpo alla tempia, la pallottola ha attraversato il cranio senza toccare il cervello, senza nessun danno serio. Ho ingoiato due scatole di sonniferi, ma il laboratorio aveva sbagliato le dosi e quindi ho avuto diritto soltanto a una siesta di tre giorni. Tre mesi fa ho persino ingaggiato un killer per stendermi, ma quell'imbecille si è sbagliato e ha ucciso la mia vicina! Non ho davvero fortuna. Prima volevo suicidarmi per disperazione, adesso la causa principale della mia disperazione è che non riesco a suicidarmi.» Simili a smeraldi su uno scrigno di lino bianco, solo i suoi occhi verdi erano visibili attraverso le fasce. Antoine vi cercò una traccia di tristezza, ma vi trovò solo contrarietà. «Vuole sapere perché mi trovo in questo stato?» chiese lei girando gli occhi verso Antoine. «Non si vergogni, è normale che ci si domandi perché sono imballata così. Mi sono gettata dal terzo piano della torre Eiffel. Avrebbe dovuto essere irrimediabile, no? Ebbene, è successo che proprio in quel momento un gruppo di turisti tedeschi in calzoncini si è ammassato sotto la torre per una foto ricordo.» «È caduta sui tedeschi?» «Li ho schiacciati, sì. Hanno attutito la caduta. Sono persino rimbalzata. Diverse volte. Risultato: ho avuto quasi tutte le ossa rotte, ma secondo quell'imbecille del medico, sarò in piedi e in piena forma entro sei mesi!» Il silenzio aprì le sue grandi e fragili ali di farfalla nella stanza. Il sole era sparito per lasciare posto alla pioggia e al grigiore. Era un mese di luglio che leggeva lo spartito di marzo. «Forse farebbe meglio a smettere di suicidarsi, la cosa finirà male. Cerchi… non so… di incontrare della gente, di ascoltare un album dei Clash, di innamorarsi…» «Lei non mi capisce!» insorse lei. «È a causa dell'amore che voglio uccidermi, quindi se mi innamoro di nuovo e finisce male, avrò voglia di essere morta due volte. E poi, il suicidio è la mia vocazione; fin da quando ero piccolissima è la mia passione. Che senso ha se muoio a novant'anni di cause naturali?» «Non lo so, signora, non lo so.»
«Ma non succederà, non subirò questa umiliazione. Mangio qualunque cosa, un sacco di roba fritta, tonnellate di carne, bevo troppo, fumo due pacchetti al giorno… Pensa che sia valido conte modo di suicidarsi?» «Sì», l'incoraggiò Antoine. «Quello che conta è lo scopo per cui fa tutto questo. Ma nello stesso tempo, penso che se lei muore di un cancro ai polmoni non verrà omologato come suicidio nelle statistiche, anche se fosse l'obiettivo perseguito.» «Non si preoccupi, non sbaglierò più.» Allora la donna raccontò ad Antoine che aveva scoperto, nella bacheca municipale delle associazioni del XVIII arrondissement, fra i corsi di yoga e di ceramica, un corso di suicidio. Antoine, che non aveva alcuna esperienza in questo campo e che non voleva perdere preziosi anni di morte tentando senza successo di suicidarsi, ascoltò la vicina di stanza con attenzione. Lei gli espose il proprio progetto: non appena si fosse ristabilita, si sarebbe presentata al corso e, con assiduità, avrebbe imparato come uccidersi correttamente. Dettò ad Antoine il numero telefonico del corso. La porta si aprì bruscamente, e due diavoli di Tasmania comparvero in un turbine di esclamazioni e di gesti vivaci: zio Joseph e zia Miranda si precipitarono sul povero Antoine. Gli chiesero notizie sue e della famiglia, ma presto ritornarono alle loro preoccupazioni, cioè ai loro supposti malanni. Zio Joseph raccontò ad Antoine e alla sua vicina di stanza – la quale, più che mai, doveva rimpiangere l'esistenza dei turisti tedeschi – che era appena uscito da una operazione alla prostata, ed era certo che il chirurgo gliela aveva sostituita con quella di un altro. Insistette perché Antoine gli toccasse il ventre: «La senti la prostata, Antoine?» mormorò a denti stretti. «Qui, la senti? Non è la mia prostata, non mi faranno su così, non è la mia prostata!» «Ma dai, zio Joseph, perché te l'avrebbero cambiata?» «Perché?» esclamò lo zio. «Perché? Diglielo tu, Miranda, io non posso. Diglielo, Miranda!» «Perché?» fece eco zia Miranda. «Per il traffico d'organi!» «Più piano!» gridò zio Joseph. «Più piano, se no ci sentiranno, e sa Dio che cosa ci faranno. Sono capaci di tutto, di tutto. Gente che scambia le prostate è capace di tutto!» «Pensiamo sia un complotto», sussurrò zia Miranda afferrando le braccia di Antoine, «abbiamo raccolto un fascio di indizi e di deduzioni su un importante traffico d'organi dentro questo ospedale.» «Che cosa ve lo fa credere?» domandò Antoine. «La prostata!» esclamò zio Joseph. «La mia prostata! Non è una prova, questa? Hanno preso la mia bella prostata per rivenderla a peso d'oro, e mi hanno appioppalo una vecchia prostata rattrappita e molle…» «Abbiamo notato dei segni», affermò zia Miranda, «delle occhiate da parte degli infermieri e dei medici che la dicono lunga sulla cospirazione.» Zio Joseph e zia Miranda visitavano quindi ogni stanza per palpare il ventre dei pazienti. Alla fine, come due goffi detective, se ne andarono alla ricerca di testimonianze e di prove su quel traffico. Felice di ritrovare la calma della stanza, Antoine si voltò verso la donna suicida. Ma i suoi occhi erano chiusi. Entrò un medico e, con un tono da garagista, annunciò ad Antoine che poteva lasciare l'ospedale.
Passarono alcuni giorni prima che Antoine si decidesse a gettare un occhio sul pezzo di carta dove era annotato il numero telefonico del corso di suicidio. Finalmente il sole brillava su Parigi. I tubi di scappamento diffondevano i loro gas inquinanti come i pollini di una nuova era, seminando nei polmoni dei parigini e dei turisti la futura flora di una civiltà malata. L'agonia della vegetazione, degli alberi e delle piante, così silenziosa e invisibile a occhi che non vedono ciò che si muove, diventava la norma di vita. Le automobili continuavano a inventare l'uomo nuovo senza più gambe per aggirarsi nei propri sogni catramati, ma munito di ruote. Antoine non aveva telefono, andò quindi alla cabina all'angolo della strada, che si trovava davanti a una panetteria: un odore di brioche cancellava gli odori meno gradevoli del quartiere. Antoine dovette aspettare per un po' che la cabina si liberasse. «SPTCTM, Suicidio per tutti e con tutti i mezzi, buongiorno!» annunciò una giovane donna dalla voce musicale. «Buongiorno, ehm, ho avuto le vostre coordinate da un'amica, e sarei interessato ai vostri corsi.» Un barbone si era appoggiato alla griglia d'aerazione della panetteria. Tirò fuori un pezzo di pane raffermo avvolto in un calzino e lo assaporò aspirando i dolci odori zuccherati dei pasticcini, mescolandoli in bocca al pane dal gusto di cartone. «In questo caso, signore, le consiglio di venire direttamente a trovarci. Questa settimana non c'è corso a causa della meravigliosa impiccagione del professor Edmond, ma da lunedì la professoressa Astanavis riprenderà i corsi. Le do gli orari. Può annotarli?» «Aspetti, aspetti… Sì, l'ascolto.» «Da lunedì a venerdì, dalle diciotto alle venti, al 7 di place Clichy. Le basterà citofonare, è a pianterreno. È indicato.» Il lunedì successivo Antoine era davanti all'edificio in place Clichy. Fra le targhe di medici, di corsi teatrali, di una sezione degli Alcolisti anonimi, di una sede di scout, di un partito politico, trovò una targa di rame sulla quale era inciso: «SPTCTM, associazione fondata nel 1742.» Antoine premette il pulsante del portone dell'edificio. Seguendo la pista dei cartelli, dopo un lungo corridoio, attraverso una doppia porta, penetrò in un ampio locale rischiarato da grandi finestre. Era già presente una trentina di persone. Alcune, sedute, leggevano o aspettavano, la maggior parte discuteva a piccoli gruppi sparpagliati. Un quartetto suonava un'opera di Schubert. Una donna imponente vestita di uno smoking nero sembrava essere la responsabile. Accolse Antoine con affabilità e si presentò come la professoressa Astanavis. I partecipanti erano giovani, vecchi, di ogni condizione sociale, di ogni stile. Sembravano calmi; frugavano nelle borse, discutevano, si scambiavano carte. Iniziarono a sedersi. La maggior parte aveva un bloc-notes o un quaderno. Attendevano che il corso iniziasse, penna in mano, sussurrando, soffocando scoppi di risa. Il locale era riempito da una decina di file di quindici sedie; in fondo, su una pedana, si trovava una cattedra a cui sedette la professoressa Astanavis. Ora tutti gli allievi erano seduti. I quattro muri della sala erano coperti da ritratti o da fotografie di suicidi celebri: Gérard de Nerval, Marilyn Monroe, Gilles Deleuze, Stefan Zweig, Mishima, Henri Roorda, Ian Curtis, Romain Gary, Hemingway e Dalida. Il pubblico rumoreggiava con parole e risate come prima dell'inizio di qualsiasi corso o conferenza. Antoine sedette in una delle file centrali, fra un uomo elegante dal volto
impassibile e due giovani donne sorridenti. La professoressa tossì dentro il pugno. Si fece silenzio. «Signore, signorine, signori; prima di tutto permettetemi di annunciare, anche se alcuni di voi ne sono già al corrente, il suicidio riuscito del professor Edmond. Ce l'ha fatta!» La professoressa Astanavis prese un telecomando e lo diresse verso il muro coperto da un telo bianco: vi si impresse l'immagine di un uomo impiccato in una stanza d'albergo. Per giunta, aveva le vene dei polsi aperte, il sangue aveva formato due cerchi rossi sulla moquette nocciola. Quando la fotografia era stata scattata, il corpo doveva oscillare leggermente, perché il volto era sfocato. Gli spettatori intorno ad Antoine applaudirono e fecero, fra loro, commenti elogiativi su quel suicidio preparato. «L'ha fatto! E come potete vedere, per non fallire, per sicurezza, nel caso in cui la corda avesse ceduto, si è aperto le vene. Credo che questo meriti ancora qualche applauso!» Gli allievi applaudirono di nuovo, si alzarono, gridarono, fischiarono. Antoine rimase seduto, osservando, stupito, la manifestazione di gioia che celebrava la morte di un uomo. «Stasera abbiamo un nuovo amico», disse la professoressa indicando Antoine. «Gli chiedo di presentarsi.» Tutti si voltarono verso Antoine. Lui, un po' intimidito all'idea di prendere la parola in pubblico, si alzò sotto gli sguardi benevoli e gli incoraggiamenti silenziosi dei pubblico. «Mi chiamo Antoine, io… ho venticinque anni.» «Benvenuto Antoine!» risposero in coro i presenti. «Antoine», intervenne la professoressa, «puoi dirci perché sei qui?» «La mia vita è un disastro», spiegò Antoine sempre in piedi, muovendo nervosamente le mani. «Ma non è la cosa più grave. Il vero problema è che ne sono cosciente…» «E hai deciso di suicidarti», mormorò la professoressa appoggiando le mani sulla scrivania, «per scivolare nella pace del nulla.» «In effetti, sono così poco dotato per vivere che forse mi realizzerò nella morte. Sicuramente ho più capacità di essere morto che vivo.» «Sono certa, Antoine», approvò la professoressa, «che tu sarai un gran bel morto. Per questo sono qui: per insegnarti, per insegnarvi a finirla con questa vita che ci dà così poco e ci chiede così tanto. La mia teoria… La mia teoria è che è meglio morire finché la vita non ci ha preso tutto. Bisogna conservare munizioni, energie per la morte e non arrivarci completamente vuoti come quei vegliardi inaciditi e infelici. Importa poco che siate credenti, atei, agnostici o diabetici, non sono fatti miei. Penso certe cose e ve ne parlo, ma non sono qui per convincervi a morire o di quello che possono essere la vita e la morte. Questo riguarda la vostra esperienza, le vostre ragioni, le vostre scelte. Il nostro punto comune è che la vita non ci soddisfa, che vogliamo finirla, tutto qui. Vi insegnerò come suicidarvi in modo efficace, in un modo bello e originale, senza fare cilecca. Il mio insegnamento riguarda il modo di uccidersi, non le ragioni. Non siamo una chiesa o una setta. In qualunque momento potrete piangere, abbandonare il corso, gridare: avete il diritto di fare tutto questo. Potete anche innamorarvi del vostro vicino e ritrovare il gusto della vita… Perché no?, vi darete al bel tempo, anche se rischiamo di rivederci entro sei mesi. Sempre che, sciaguratamente, io sia ancora qui.» Alcuni vicini di Antoine risero. La professoressa parlava tranquillamente, come un tribuno politico o religioso, ma con la disinvoltura di una professoressa di letteratura di fronte a un'aula magna attenta. Le mani affondate nello smoking, era così sobriamente brillante che non aveva bisogno di servirsi di effetti esagerati, scenici o retorici, per creare
un'enfasi artificiale. «Esiste una censura contro il suicidio. Politica, religiosa, sociale, persino naturale, perché Madre Natura non gradisce che si prendano libertà nei suoi confronti, vuole tenerci al guinzaglio fino all'ultimo, vuole decidere al nostro posto. Chi decide la morte degli uomini? Abbiamo delegato questa suprema libertà alla malattia, agli incidenti, al delitto. Lo chiamiamo il caso. Ma è falso. Questo caso è la sottile volontà della società che a poco a poco ci avvelena con l'inquinamento, ci massacra con le guerre e con gli incidenti… La società decide così la data della nostra morte come la qualità della nostra alimentazione, la pericolosità del nostro ambiente quotidiano, delle nostre condizioni di lavoro e di vita. Non scegliamo di vivere, non scegliamo la nostra lingua, il nostro paese, la nostra epoca, i nostri gusti, non scegliamo la nostra vita. La sola libertà è la morte: essere liberi è morire.» La professoressa bevve un po' d'acqua. Rimase con le braccia appoggiate sul bordo della scrivania. Osservava attentamente tutti i partecipanti nella sala, scuoteva la testa, complice, come se li legasse un'intimità comprensiva. «Ma sono tutte sciocchezze. È dopo che si arriva a rifletterci, a trovare una certa nobiltà, una sublimazione, una legittimazione, una trascendenza… che so… l'illusione di un assoluto chiamato morte o libertà che si vorrebbe fare coincidere in un'eguaglianza perfetta. La verità… la mia verità – bisogna essere chiari, parlo di me -, è che sono malata. Un cancro ha trovato che il mio corpo sarebbe stato una graziosa isola paradisiaca, quindi ci passa le sue vacanze, con i piedi nell'oceano del mio sangue, facendosi abbronzare dal sole del mio cuore… Non ha bisogno di parasole, se ne frega dei colpi di sole. Le sue ferie consistono nel farmi morire. Soffro atrocemente… Sapete tutti di che cosa parlo. Per non torcermi dal dolore sono obbligata a farmi iniezioni di morfina, a imbottirmi di analgesici…» Dalla tasca interna della giacca fece uscire una scatoletta e l'agitò. «Questo ha un prezzo, il prezzo della mia coscienza. La testa mi funziona ancora, ma c'è il rischio che non duri a lungo, quindi preferisco andarmene mentre sono ancora "io" anziché farmi sopprimere da un medico, distesa senza coscienza in un letto d'ospedale. È una piccola libertà, una libertà miserabile. Se siete qui, è perché anche voi avete sicuramente un cancro organico o un cancro all'anima, dei tumori sentimentali, delle leucemie amorose e delle metastasi sociali che vi rodono. Ed è questo che detta la nostra scelta, ben prima di ogni grande idea della nostra libertà. Siamo franchi: se fossimo in buona salute, se fossimo amati come lo meritiamo, stimati, con un bel posto al sole nella società, sono certa che questa sala sarebbe vuota.» La professoressa finì la propria presentazione. Il pubblico intero l'applaudì; le due vicine di Antoine si alzarono, impressionate e commosse. La professoressa tolse il fiore rosso dall'asola e lo mise nel bicchiere d'acqua sullo scrittoio. Nell'ora e mezza che seguì, la professoressa fece la sua lezione. Insegnò molti modi di suicidarsi efficacemente. Insegnò ai suoi ascoltatori come fare un vero nodo scorsoio, elegante e solido, quali farmaci scegliere, come dosarli e combinarli per morire piacevolmente. Indicò, e preparò, ricette di cocktail mortali dai bei colori, che assicurò deliziosi. Descrisse dettagliatamente le varie armi da fuoco e i loro effetti sulle ossa del cranio e sull'anatomia del cervello, a seconda del calibro e della distanza del fuoco; consigliò, prima di tirarsi un colpo in testa, di fare una radiografia del cranio per determinare in quale punto posare la canna per non fallire. Con l'aiuto di diapositive di schemi descrittivi, insegnò ai suoi allievi attenti quali vene del polso recidere, come e con che cosa tranciarle. Sconsigliò l'utilizzo di mezzi approssimativi come il gas. Raccontò il suicidio di Mishima, di Catone, di Empedocle, di Zweig… Tutti quei suicidi che offrivano
un loro senso al mondo. Concluse con un omaggio al professor Edmond, ricordando che era preferibile conciliare due forze letali per non fallire: farmaci e impiccagione, vene e pistola… Terminata la lezione, Antoine se ne andò prima che qualcuno cercasse di discutere con lui. Il quartetto si era rimesso a suonare. Passò davanti alla piccola bottega dell'associazione, che proponeva, in un affascinante ambiente di casa di bambola, graziose corde, brossure, libri, armi, veleni, amanite falloidi secche, come tutto il necessario per accompagnare una bella morte: vini, piatti raffinati, musica. Risalì l'avenue Clichy fino alla stazione della metropolitana La Fourche; la città ondeggiava nei suoi occhi come se fosse ubriaco. Ora che sapeva come uccidersi, che aveva perso l'innocenza del dilettante per possedere la sapienza del professionista, non ne aveva più voglia. Antoine non voleva vivere, certamente, ma neppure voleva morire.
«Non so se l'ha osservato, ma con le dimensioni, la circonferenza e il peso di una baguette, si può ottenere la sezione aurea. Non è assolutamente un caso.» Il panettiere annuì e gli diede un pane intero. Antoine abitava a Montreuil, ai confini di Parigi. Aslee era il suo migliore amico. Antoine non lo chiamava quasi mai con il nome completo, ma in modo abbreviato: As. Questo divertiva molto Aslee, perché in samoano – e lui lo era – As vuole dire «acqua della montagna». As era alto più di due metri, ma si muoveva con l'agilità di un cetaceo nell'acqua. Ed era dotato di un carattere stupefacente. Questo risaliva alla sua infanzia. La Nestlé ha l'abitudine di sottoporre i nuovi prodotti, prima della loro immissione sul mercato, a un gruppo di consumatori. I genitori di Aslee erano poverissimi, lo avevano iscritto a dei test in cambio di buoni-acquisto di alimentari. A quell'epoca, la Nestlé voleva lanciare una nuova varietà di pappe per neonati con un supplemento di vitamine e di fosforo. In dosi infinitesimali, il fosforo è buono per la salute, ma c'era un errore di dosaggio nella fabbricazione: un ingegnere aveva confuso microgrammi e chilogrammi. In seguito a questo errore industriale, non tutti i bambini sottoposti al test morirono: i sopravvissuti patirono di cancro e di altre malattie gravi. Aslee ebbe la relativa fortuna di avere solo turbe mentali che distorsero il suo sviluppo cerebrale. Non aveva, propriamente parlando, deficienze intellettuali; è solo che la sua mente prendeva vie particolari, la sua ragione seguiva una logica che nessun altro condivideva. Un'altra conseguenza di quelle pappe per neonato sovraccariche di fosforo era che Aslee brillava al buio. Era molto gradevole. Quando passeggiava per le strade, di notte, As, vicino ad Antoine, sembrava un'immensa lucciola che rischiarava il loro cammino nelle viuzze senza lampioni. Per curare i propri mali, As aveva trascorso l'infanzia in un'istituzione specializzata. Per molti anni era rimasto muto, nessuna rieducazione tradizionale riusciva a farlo uscire dal silenzio. Poi un'ortofonista appassionata di poesia scoprì che il solo modo, per As, di parlare, era di farlo in versi. Il suo linguaggio handicappato aveva bisogno di piedi: i versi erano stampelle per le sue parole. A poco a poco, poté tornare a una vita pressoché normale e lasciò l'ospedale a sedici anni. In seguito, nonostante il suo carattere placido che lo apparentava più a un orsacchiotto che a una guardia, occupò dei posti di vigilante; la sua taglia imponente si addiceva a spaventare i ladri eventuali. Due altre qualità avevano un certo effetto sui rari svaligiatori con cui fu in contatto: innanzitutto, la luminosità lo faceva somigliare a uno spettro, a un'apparizione sovrannaturale; poi, se il ladro non era svenuto o scappato, il fatto che Aslee parlasse in versi finiva di terrorizzarlo. Da due anni e mezzo era guardiano al museo nazionale di storia naturale dell'Orto botanico. È lì che Antoine lo aveva incontrato. Ad As piaceva passeggiare fra i piani della grande galleria dell'Evoluzione dopo il lavoro. È un luogo stupefacente, popolato da migliaia di animali impagliati, che dà al visitatore la sensazione di muoversi in un'arca di Noè immobilizzata nel tempo. Da questo luogo poco rischiarato si sprigiona un'atmosfera di mistero; la penombra, in contrasto con la luce puntata sugli animali, avviluppa i curiosi,
che mormorano e bisbigliano per paura di risvegliare elefanti, belve e uccelli. Un mattino, Antoine aveva visitato la galleria per la prima volta: si aggirava con uno stupore e un'impazienza vergini, ammirava gli animali fermati in pose stupefacenti, leggeva le etichette e i pannelli che descrivevano la loro vita e il loro habitat. Giranzolando, la sua mente vorace si nutriva di tutta quella cultura offerta. Una vaga forma bizzarramente illuminata attirò la sua attenzione. Inizialmente pensò che rappresentasse una specie di uomo di Neandertal o un esemplare rarissimo di yeti glabro, a cui fossero stati messi abiti e calzature. Antoine abbassò gli occhi alla ricerca di un'etichetta esplicativa, di una notizia scientifica sull'origine e sull'epoca di questo strano campione. Cercò ai piedi della creatura, ma non trovò nulla. Rialzò la testa: la creatura gli sorrise e gli tese la sua mano enorme. È così che divennero amici. Stavano sempre insieme. As non parlava molto, ma questo andava bene ad Antoine, agitato di pensiero e di parola. As interrompeva le sue eterne domande con alessandrini che riempivano con i loro dodici piedi distese di senso più grandi della prolissità di Antoine. Quest'ultimo prediligeva la sintesi e la poesia delle parole di As, e As, di ritorno, prediligeva l'abbondanza, la giungla delle parole di Antoine. Charlotte, Ganja, Rodolphe, As e Antoine la sera si ritrovavano nel baretto islandese di rue Rambuteau, il Gudmundsdottir. Giocavano agli scacchi, discutevano ingurgitando bevande e piatti dai nomi impronunciabili e dalle composizioni misteriose. Non sapevano se ciò che ingoiavano fosse carne o pesce, quali fossero quei legumi bizzarri, ma quei sapori sconosciuti li divertivano. Quel piccolo bar-ristorante era il luogo d'incontro degli islandesi espatriati, perciò tutti gli altri clienti deglutivano la stessa lingua strana. Antoine aveva osservato che qui, almeno, c'era una ragione logica per non capire ciò che dicevano le persone. In questo luogo improbabile, molte sere la settimana, con i propri amici, giocava al ritratto cinese, a inventare nuovi paesi e al gioco che essi chiamavano «il gioco del mondo si divide in due». È un gioco che consiste nel trovare le vere grandi divisioni del mondo, quelle che sono realmente pertinenti, perché, infallibilmente, il mondo si divide sempre in due: quelli a cui piace andare in bicicletta e quelli che corrono veloci in automobile; quelli che portano la camicia fuori dai pantaloni e quelli che la portano dentro; quelli che prendono il tè senza zucchero e quelli che lo prendono con lo zucchero; quelli che pensano che Shakespeare è il più grande scrittore di tutti i tempi e quelli che pensano che lo sia André Gide; quelli a cui piacciono i Simpson e quelli a cui piace South Park; quelli che adorano la Nutella e quelli che adorano i cavolini di Bruxelles. Con autentico scrupolo antropologico, essi compilavano così le liste delle divisioni fondamentali dell'umanità. Fu durante una delle loro riunioni segrete, una settimana dopo la sua uscita dall'ospedale, giovedì 20 luglio, che Antoine annunciò ai propri amici l'intenzione di diventare stupido.
Il ristorante si riempiva. Un vichingo in miniatura uscì dall'orologio appeso al muro e, con la sua ascia, batté dieci colpi su uno scudo. Il brusio delle conversazioni in islandese e della musica autoctona trasformavano in isolotto il tavolo di Antoine e dei suoi amici. Gli odori di cucina e di birra si mescolavano e formavano una specie di nebbia sospesa sulla saletta del ristorante, mostri e dèi della mitologia islandese trasformati in lampioni sfavillavano sopra i clienti. I camerieri sopraffatti zigzagavano fra i tavoli addossati uno all'altro e pieni. Antoine prese dalla borsa il grande quaderno in cui aveva annotato la propria professione di fede. Chiese agli amici di non interromperlo e, con voce tesa e commossa, iniziò a leggere: «Ci sono persone a cui le cose migliori non si confanno. Possono essere vestite di cachemire e avere l'aria di barboni; essere ricche e piene di debiti; alte e incapaci nel basket. Oggi me ne rendo conto: appartengo alla specie di quelli che non riescono a rendere redditizie le loro doti, per i quali le doti sono persino degli inconvenienti. La verità esce dalla bocca dei bambini. Alla scuola materna, essere trattati da intellettuali era un insulto infame; più tardi, essere un intellettuale diventa quasi una qualità. Ma è una menzogna: l'intelligenza è una tara. Come i vivi sanno che moriranno, mentre i morti non sanno nulla, penso che essere intelligente è peggio che essere stupido, perché uno stupido non si rende conto di esserlo, mentre una persona intelligente, per quanto umile e modesta, ne è necessariamente consapevole. È scritto nell'Ecclesiaste che "chi accresce il proprio sapere, accresce il proprio dolore"; ma non avendo mai avuto la fortuna di andare a catechismo con gli altri bambini, non sono mai stato avvertito dei pericoli dello studio. I cristiani sono ben fortunati di essere messi in guardia, fin da giovani, di fronte al rischio dell'intelligenza; sapranno tenersene lontani per tutta la vita. Beati i poveri di spirito. Coloro che pensano che l'intelligenza ha qualche aspetto nobile non ne hanno certamente abbastanza per rendersi conto che è una maledizione. I miei compagni di classe, i miei professori, tutti quelli che mi circondavano mi hanno sempre trovato intelligente. Non ho mai capito molto bene perché e come erano giunti a questo giudizio su di me. Ho sofferto spesso di questo razzismo positivo, di quelli che confondono l'apparenza dell'intelligenza e l'intelligenza, e vi condannano, con un pregiudizio falsamente favorevole, a incarnare una figura autoritaria. Come l'opinione comune va in estasi per il giovane o per la ragazza di estrema bellezza, con l'umiliazione silenziosa di quelli meno dotati dalla natura, così io ero la creatura intelligente e colta. Quanto detestavo quegli incontri in cui contribuivo, mio malgrado, a ferire, a umiliare dei ragazzi e delle ragazze giudicati meno brillanti! Non sono mai stato uno sportivo; le ultime gare importanti che hanno affaticato i miei muscoli sono state le partite di biglie alla scuola elementare durante la ricreazione. Le mie braccia gracili, il respiro breve, le gambe lente non mi permettevano lo sforzo necessario per calciare un pallone con efficacia; avevo solo la forza di rovistare il mondo con la mia mente. Troppo gracile per lo sport, mi restavano solo i neuroni per inventare giochi di pallone. L'intelligenza era un ripiego.
L'intelligenza è un fallimento dell'evoluzione. Al tempo dei primi uomini preistorici, immagino benissimo, in una piccola tribù, tutti i ragazzini che corrono nel bosco, inseguono le lucertole, raccolgono le bacche per cena; a poco a poco, nel contatto con gli adulti, imparano a essere uomini e donne perfetti: cacciatori, raccoglitori, pescatori, conciatori… Ma, osservando più attentamente la vita di questa tribù, ci si accorge che alcuni bambini non partecipano alle attività del gruppo: restano seduti accanto al fuoco, al riparo dentro la grotta. Non sapranno mai difendersi contro le tigri dai denti di sciabola, né cacciare; lasciati a sé stessi, non sopravviverebbero neppure una notte. Se trascorrono le giornate a non fare nulla, non è per fannullaggine, no, vorrebbero volentieri saltellare con i loro compagni, ma non possono. La natura, mettendoli al mondo, ha perso colpi. In questa tribù c'è una piccola cieca, un ragazzo zoppo, un altro maldestro e distratto… Allora, rimangono nell'accampamento tutto il giorno, e siccome non hanno niente da fare e i videogiochi non sono ancora stati inventati, sono obbligati a riflettere e a lasciare vagabondare i loro pensieri. E passano il loro tempo a pensare, a tentare di decodificare il mondo, a immaginare storie e invenzioni. Così è nata la civiltà: perché dei ragazzotti non avevano nient'altro da fare. Se la natura non deformasse nessuno, se la forma fosse ogni volta senza errore, l'umanità sarebbe rimasta una specie di proto-ominidi, felice, senza nessun pensiero di progresso, vivendo benissimo senza Prozac, senza preservativi né DVD dolby digital. Essere curioso, volere capire la natura e gli uomini, scoprire le arti, dovrebbe essere la tendenza di ogni spirito. Ma se così fosse, con l'organizzazione attuale del lavoro, il mondo smetterebbe di girare, semplicemente perché prende tempo e sviluppa lo spirito critico. Più nessuno lavorerebbe. Ecco perché gli uomini hanno gusti e disgusti, cose che li interessano e altre no; perché, altrimenti, non ci sarebbe società. Coloro che si interessano a troppe cose, che si interessano persino a questioni che non li interessano a priori – e che vogliono capire le ragioni del proprio disinteresse – ne pagano il prezzo con una certa solitudine. Per sfuggire a questo ostracismo, è necessario dotarsi di un'intelligenza che abbia una funzione, che serva una scienza o una causa, un mestiere; molto semplicemente, un'intelligenza che serva a qualcosa. La mia presunta intelligenza, troppo indipendente, non serve a nulla, cioè non può essere recuperata per un utilizzo universitario, per un'impresa o uno studio d'avvocati. Ho la maledizione della ragione; sono povero, celibe, depresso. Sono mesi che rifletto sulla mia malattia di riflettere troppo, e ho stabilito con certezza la correlazione fra la mia infelicità e l'incontinenza della mia ragione. Pensare, tentare di capire non mi ha mai apportato nulla ma ha sempre giocato contro di me. Riflettere non è una operazione naturale, ferisce, come se rivelasse cocci di bottiglia o filo spinato. Non riesco a fermare il cervello, a rallentare il suo passo. Mi sento come una locomotiva, una vecchia locomotiva che fila sui binari, e che non potrà mai fermarsi, perché il carburante che le dà quella potenza vertiginosa, il carbone, è il mondo. Tutto quello che vedo, sento, ascolto, sprofonda nella caldaia della mia mente, la riempie e la fa girare a pieno regime. Tentare di capire è un suicidio sociale, significa non avere più desiderio della vita senza sentirsi, controvoglia, come un uccello da preda e al tempo stesso un avvoltoio che fa a pezzi i propri oggetti di studio. Spesso si uccide ciò che si cerca di capire, perché, come nell'aspirante medico, non c'è autentica conoscenza senza dissezione: si scoprono le vene e la circolazione del sangue, la struttura dello scheletro, i nervi, il funzionamento intimo del corpo. E, in una notte di paura, ci si ritrova in una cripta umida e buia, con un bisturi in mano, imbrattati di sangue, sofferenti di nausee continue, con un cadavere freddo e informe su un tavolo metallico. Dopo, si può sempre cercare di essere un professor
Frankenstein e rappezzare il tutto per farne un essere vivente, ma il rischio è di fabbricare un mostro omicida. Ho vissuto troppo nell'alterigia; oggi sento avvicinarsi il pericolo del cinismo, dell'acidità e dell'infinita tristezza; rapidamente, si diventa dotati per l'infelicità. Non è possibile vivere troppo coscienti, troppo raziocinanti. D'altronde, osserviamo la natura: tutto ciò che vive molto a lungo e felice non è molto intelligente. Le tartarughe vivono secoli, l'acqua è immortale e Milton Friedman è ancora vivente. In natura, la coscienza è l'eccezione; si può persino postulare che si tratta di un'irregolarità, perché non garantisce nessuna superiorità, nessuna longevità particolare. Nel quadro dell'evoluzione della specie, essa non è segno di un migliore adattamento. Sono gli insetti che per età, numero e territorio occupato, sono i veri padroni del pianeta. L'organizzazione sociale delle formiche, per esempio, è ben più prescrittiva di quanto lo sarà mai la nostra, e nessuna formica ha una cattedra alla Sorbona. Tutti hanno da dire qualcosa sulle donne, gli uomini, i poliziotti, gli assassini. Noi generalizziamo a partire dalla nostra esperienza, da ciò che ci assicura, da ciò che possiamo capire con i modesti mezzi dei nostri reticoli neuronali e secondo la prospettiva della nostra visione. È una facilità che permette di pensare rapidamente, di giudicare e di prendere posizione. Questo non ha valore in sé, sono segnali, gagliardetti che ciascuno agita. E tutti difendono la verità dei propri tornaconti, del proprio sesso, della propria condizione. In una discussione, la genericità offre il vantaggio della semplificazione e della fluidità dei ragionamenti, della loro facile comprensione e, dunque, di un maggiore impatto sugli ascoltatori. Per tradurre questo in linguaggio matematico, le discussioni che hanno basi generiche sono addizioni, operazioni semplici, che, per la loro evidenza, fanno credere alla loro pertinenza. Mentre una discussione seria darebbe piuttosto l'idea di una serie di equazioni a più incognite, di integrali e di operazioni con numeri complessi. Una persona saggia, in una discussione, avrà sempre l'impressione di semplificare, e il suo unico desiderio sarà di fare correzioni, di aggiungere parentesi a certe parole, di mettere note a pie' di pagina e commenti a fine volume per esprimere veramente il proprio pensiero. Ma in una conversazione all'angolo di un corridoio, a una cena animata o nelle pagine di un giornale, non è affatto possibile: non è questione di rigore, obiettività, imparzialità, onestà. La virtù è un handicap retorico, non è efficace in una discussione. Certi spiriti brillanti, osservando la vacuità indispensabile di ogni discussione, hanno scelto di essere furbetti e di suggerire la complessità con il paradosso e con un umorismo distaccato. Perché no? Dopotutto, è un modo di sopravvivere. Gli uomini semplificano il mondo con il linguaggio e il pensiero, così hanno delle certezze; e avere certezze è la voluttà più potente in questo mondo, ben più potente del denaro, del sesso e del potere tutti insieme. La rinuncia a un'autentica intelligenza è il prezzo da pagare per avere certezze, ed è sempre uno scialo invisibile per la banca della nostra coscienza. A queste condizioni, preferisco ancora quelli che non si coprono con il mantello della ragione e sostengono la finzione del loro convincimento. Come un credente che ammette che la propria fede è solo credenza e non prelazione sulla verità delle cose reali. C'è un proverbio cinese che dice, pressappoco, che un pesce non sa mai quando fa pipì. Questo è perfettamente applicabile agli intellettuali. L'intellettuale è persuaso di essere intelligente, perché si serve del proprio cervello. Il muratore si serve delle mani, ma ha anche un cervello che può dirgli: "Ehi!, questo muro non è dritto, e per di più hai dimenticato di mettere cemento fra i blocchi di pietra". C'è un va e vieni fra il suo lavoro e
la sua ragione. L'intellettuale, lavorando con la ragione, non ha questo va e vieni, le sue mani non si animano per dirgli: "Ehi, bravuomo, ti sbagli! La terra è rotonda". All'intelligenza manca questo divario, quindi si crede capace di avere un'opinione chiara su ogni argomento. L'intellettuale è come un pianista che, dal momento che utilizza le proprie mani con virtuosità, pensa di avere la predisposizione per essere, naturalmente, giocatore di poker, pugile, neurochirurgo e pittore. Gli intellettuali non sono evidentemente i soli toccati dall'intelligenza. In generale, quando qualcuno inizia dicendo: "Non è per essere demagogico ma…", è per essere, appunto, demagogico. Allora, non so bene che cosa potrebbe essere interpretato come condiscendenza. Sono persuaso che l'intelligenza sia una virtù condivisa dalla popolazione, senza distinzione sociale: c'è la stessa percentuale di persone intelligenti fra i professori di storia e i pescatori bretoni, fra gli scrittori e le dattilografe… Mi viene dalla mia esperienza, a forza di bazzicare brain-builders, pensatori e professori, intellettuali scemi e, allo stesso tempo, persone normali, intelligenti senza certificato di intelligenza, senza aura istituzionale. Non possono dire altro. È tanto più contestabile perché uno studio scientifico è impossibile. Trovare qualcuno intelligente, sensato, non dipende da un diploma; non c'è un testo di QI per rivelare ciò che potremmo chiamare il buon senso. Ripenso a ciò che diceva Michael Herr, sceneggiatore di Full Metal Jacket, nel magnifico libro di Michel Ciment su Kubrick: "La stupidità delle persone non deriva dalla loro mancanza d'intelligenza, ma dalla loro assenza di coraggio." Una cosa che si può ammettere è che frequentare grandi opere, servirsi della propria mente, leggere le opere geniali, se non rende intelligenti a colpo sicuro, rende il rischio più probabile. Naturalmente ci sono persone che hanno letto Freud, Platone, che sanno giocare con i quark e distinguere un falco pellegrino da un gheppio, e che sono imbecilli. Tuttavia, potenzialmente, a contatto con una molteplicità di stimoli e lasciando che la mente frequenti un'atmosfera arricchente, l'intelligenza trova un terreno favorevole al proprio sviluppo, proprio allo stesso modo di una malattia. Perché l'intelligenza è una malattia.» Infine, Antoine lesse la conclusione. Chiuse il quaderno e osservò gli amici con l'aria di un saggio che avesse fatto la dimostrazione implacabile di uno dei grandi misteri della scienza di fronte a un'assemblea di distinti colleghi stupefatti.
Ganja scoppiò in una risata che riecheggiò per tutta la serata. Un islandese, seduto al tavolo dietro, gli porse un pacchetto di sigarette: sembra che il riso tremolante di Ganja in islandese significhi qualcosa come: «Avrebbe una sigaretta?» Così, ogni volta che rideva, un gentile islandese gli offriva una sigaretta. Rodolphe fece notare che Antoine non avrebbe dovuto sforzarsi troppo per essere stupido; Charlotte gli prese affettuosamente la mano; As li osservò con i suoi grandi occhi stupiti. Con una semplicità toccante, Antoine spiegò che non poteva impedirsi di pensare, di cercare di capire, e che questo lo rendeva infelice. Se, almeno, lo studio gli avesse procurato la gioia del cercatore d'oro… Ma l'oro che trovava aveva il colore e il peso del piombo. La mente non gli lasciava nessuna tregua, gli impediva di dormire con le proprie domande incessanti, lo risvegliava in piena notte con dubbi e indignazioni. Antoine raccontò agli amici che da molto tempo non aveva più sogni né incubi, tanto le idee riempivano lo spazio del suo sonno. Per il troppo pensare, la coscienza sempre tumescente, Antoine viveva male. Adesso voleva essere un po' inconsapevole, molto ignorante delle cause, delle verità, della realtà… Ne aveva abbastanza di quella acutezza d'osservazione che gli dava un'immagine cinica dei rapporti umani. Voleva vivere, non sapere la realtà della vita: solo vivere. Ricordò agli amici turbati il tentativo di diventare alcolista e il progetto abortito di suicidio. La stupidità era la sua ultima occasione di salvarsi. Non sapeva ancora come procedere, ma si promise di dedicare tutta la propria volontà a diventare stupido. Sperava di mettere un po' d'acqua nel suo vino senza alcol, di ammorbidirsi, di sbarazzarsi di quegli strani pregiudizi chiamati verità. Antoine non desiderava essere un perfetto imbecille, ma stemperare la propria intelligenza nella fusione della vita, lasciarsi andare a non analizzare sempre tutto, a non sviscerare tutto. La sua mente era sempre stata un'aquila dall'occhio preciso, dagli artigli e dal becco taglienti. Adesso voleva insegnarle a essere una gru maestosa, a planare e a lasciarsi portare dai venti, a profittare del colore del sole e della bellezza del paesaggio. Non si trattava di rinunciare gratuitamente alla ragione: lo scopo era di partecipare alla vita sociale. Cercava sempre il movente delle ragioni che anima ogni persona, sapeva quanto il libero arbitrio avesse poco spazio nella scelta delle opinioni. Una parte della sua infelicità veniva dal fatto che viveva sotto il regno della tragedia enunciata da Jean Renoir, cioè che «l'infelicità in questo mondo, è che tutti hanno le proprie ragioni». Come un sacerdozio, applicava la regola di Spinoza: «Non deplorare, non ridere, non detestare, ma capire»; cercava sempre di non giudicare, neanche chi voleva ferirlo e sottometterlo. Antoine era il genere di testa che avrebbe potuto fabbricare una protesi dentaria per squali e che sarebbe stato capace di installargliela in gola. Tuttavia, se cercava di capire, non era in quel modo religioso che consiste nel perdonare tutto con condiscendenza. Forse esageratamente, vedeva sotto la vernice della libertà e della scelta la necessità e la meccanica di una macchina che si nutre di anime umane. Nello stesso tempo, poiché cercava di essere obiettivo su sé stesso quanto sugli altri, constatava che cercando di capire tutto aveva imparato a non vivere, a non amare, e che si poteva interpretare la sua estremistica probità intellettuale come paura di impegnarsi nella vita e di occuparvi un
posto definito. Ne era consapevole e questo contribuì alla sua decisione. «Ma», aggiunse, «la verità, come Giano, ha due facce, e fino a oggi ho vissuto solo sulla faccia buia. Voglio spostarmi sulla faccia luminosa. Dimenticare di capire, appassionarmi alla quotidianità, credere nella politica, comprare bei vestiti, seguire gli avvenimenti sportivi, fantasticare sull'ultimo modello di automobile, guardare le informazioni televisive, osare detestare certi espedienti… L'ho ignorato interessandomi a tutto, non appassionandomi a nulla. Non dico che sia bene o male, solo cercherò di comunicare, sì, di comunicare attraverso questa grande mente che chiamano "opinione pubblica". Voglio stare con gli altri, non capirli, ma essere come loro, fra loro, condividere le stesse cose…» «Vuoi dire», disse lentamente Ganja masticando semi medicinali, «vuoi dire che sei stato stupido cercando di essere così intelligente, che ti sei sbagliato, e che diventare un po' stupido… questo sarebbe intelligente…» «Noi ti amiamo così», disse Charlotte, «sei un po' complicato, ma… sei super. Se io fossi etero…» «E io, Charlotte», rispose Antoine, «se fossi danese ti chiederei in moglie. Sentite, una certa asocialità mi sembra sempre la cosa più normale del mondo, è persino una buona cosa avere problemi con la società. Non voglio essere totalmente integrato, ma non voglio neppure essere disintegrato.» «Devi trovare un equilibrio», disse Ganja. «Sì», continuò Charlotte, «o uno squilibrio equilibrato.» Il cameriere portò delle scodelle di una zuppa densa e verdastra, e dei bicchieri pieni di un liquido torbido alla cui superficie risalivano piccole bacche rosse. I cinque amici si chinarono circospetti sul cibo. Il cameriere emise dalla gola un gomitolo di consonanti che doveva significare qualcosa come «buon appetito». In forma di haïku, As chiese allora ad Antoine se non ci fosse il pericolo che si perdesse completamente e che un giorno lo ritrovassero conduttore televisivo. Antoine rispose che si trattava di un'avventura e che le grandi avventure umane non sono senza pericoli: Magellano, Cook, Giordano Bruno ne sono degli esempi. Fino a ora, aveva vissuto nell'occhio del ciclone, che è un luogo calmo e solitario circondato dalla tempesta più infernale. Voleva lasciare quel nido maledetto, attraversare quel sipario di turbini distruttori per ricongiungersi con il mondo secolare. Inquieti e infelici per Antoine, gli amici lo confermarono, gli fecero promettere di non fare sciocchezze e riuscirono a convincerlo di chiedere consiglio a Edgar, il suo medico e confidente.
Lo studio del dottor Edgar Vaporski si trovava al terzo piano di un bello stabile del XX arrondissement, in rue des Pyrénées, vicinissimo a place Gambetta. Antoine lo consultava da quando aveva due anni e non aveva mai avuto altro medico. Era un pediatra, ma nessuno conosceva Antoine come lui. Dal momento che si frequentavano da ventitré anni, avevano una certa intimità: si chiamavano per nome e, di tanto in tanto, uscivano insieme perché condividevano la medesima passione per il Brady, un vecchio cinema di boulevard Strasbourg. A partire dai vent'anni, aveva iniziato a essere imbarazzante essere il solo adulto non accompagnato da un bambino nella sala d'attesa. I genitori osservavano Antoine discretamente da sopra le riviste, i bambini lo fissavano. Aveva un bel sedersi vicino a donne sole: la rivelazione del suo non-possesso di bambini finiva per risaltare. Ecco perché ogni volta portava con sé il nipotino della vicina, o qualunque altro ragazzino disponibile. Quel giorno aveva con sé la piccola Coralie, figlia del portinaio del suo stabile, che non dimostrava un grande entusiasmo a fornirgli un alibi. Edgar aprì la porta della sala d'attesa, con una mascherina da chirurgo sul volto. Fece entrare Antoine e Coralie nello studio. Il luogo era simile a un qualunque studio medico, con i diplomi appesi ai muri beige, la biblioteca di grossi tomi superbamente rilegati con la pelle di una vacca che doveva aver brucato oro. Come se la targa di ottone all'entrata non fosse sufficiente, lo studio emanava una competenza attestata; i colori e i mobili ispiravano serietà. Chiunque vi entrasse era assalito da questa atmosfera di solennità, sentiva il dominio dell'onnipotente medicina e non aveva altra scelta che sottomettervisi. Assai spesso, andare dal medico costringe naturalmente all'abbandono della sovranità su sé stessi: non ci si appartiene più realmente, si fa dono del proprio corpo e delle sue disfunzioni ai maghi della scienza delle malattie. La somiglianza fra i ninnoli che arredano ogni studio medico e quelli che creano il mistero di uno studio di veggente o di marabut è stupefacente. Uno spirito critico e malizioso potrebbe accostare queste due messe in scena: anche solo nell'odore dei prodotti medici e nell'odore di incenso si trova una medesima intenzione, una medesima influenza sulla psicologia del cliente. Ma lo studio di Edgar sfuggiva un po' a questo, perché ai muri erano attaccati disegni di bambini, e scarabocchi, giocattoli, plastilina costellavano il pavimento e la scrivania. Un Power Ranger rosso posato su un ricettario disinnescava la potenza simbolica della sua natura di medico. La finestra era aperta, un leggero odore di gas lacrimogeno aleggiava nel locale. Questo spiegava la maschera di Edgar. Egli se la tolse, poiché l'aria era di nuovo respirabile. Antoine gli fece notare l'odore, mentre Coralie faceva smorfie e si tappava il naso. «Un ragazzino di dieci anni un po' troppo turbolento ha cercato di rubarmi le ricette.» «E tu gli hai lanciato del lacrimogeno per questo?» s'indignò Antoine. «Aveva un nunchaku», rispose Edgar levando le mani al cielo. «Un nunchaku, Antoine!» «Mio Dio, ti capita spesso?» «No, per fortuna. Buongiorno, Coralie» disse Edgar dopo essersi seduto dietro la scrivania. Sei qui per te o per Antoine?»
«Per lui», rispose Coralie con tono di rimprovero. «Alla sua età, sono ancora obbligata ad accompagnarlo dal medico!» «Ti pago, Coralie» disse Antoine. «E piuttosto bene.» «Due panini al cioccolato e "Première"… Dovrei aumentare le mie tariffe. Dopo tutto, l'inflazione deve anche toccare i rapporti umani.» «Coralie, tua madre ti lascia leggere le pagine finanziarie dei giornali? È incredibile.» «Devi abituartici, è la nuova generazione. Allora, Antoine, che cosa succede?» Dalla borsa, dopo avere rovistato in un ammasso di libri, giornali e carte varie, Antoine tirò fuori la fotocopia di uno schema che rappresentava il cervello umano in sezione. Prese la Mont Blanc di Edgar e indicò delle zone del cervello. «Le funzioni cognitive superiori sono assicurate dalla corteccia del neocerebro, d'accordo?» «Sì… Cos'altro ancora hai inventato? Dove vuoi arrivare? Hai deciso di diventare neurochirurgo?» «I lobi frontali, qui», continuò Antoine circondando le zone in questione, «assicurano la comunicazione fra le strutture dell'io e le funzioni cognitive…» «Benissimo, Antoine. Sono medico, non mi insegni nulla di nuovo. Tutto questo è noto.» «Bene», disse Antoine sempre chino sul suo schema. «Pensavo che potresti togliermi una parte della corteccia, oppure, se preferisci, sopprimere un lobo frontale, così…» Edgar osservò Antoine mentre scarabocchiava perplesso sulle parti del cervello da togliere. Aggrottò le sopracciglia squadrando il suo amico e paziente. Coralie leggeva la sua rivista di cinema sul divano in fondo allo studio. «Di cosa parli, buon Dio?» disse Edgar alzandosi bruscamente dalla sedia. «Non ti seguo. Hai battuto la testa, sei diventato completamente stupido, o cosa?» «Mi piacerebbe davvero», rispose Antoine molto serio, «è lo scopo di tutto questo. Io…» «Tu vuoi che pratichi su di te una lobotomia?» lo interruppe Edgar terrificato. «In realtà, credo che una semilobotomia sarebbe sufficiente: voglio essere ancora in grado di sfregare un fiammifero e di aprire il frigorifero, evitiamo di rifare Qualcuno volò sul nido del cuculo… Insomma, sei tu il medico, fa' quello che ritieni meglio.» «La cosa migliore sarebbe di chiuderti in manicomio. Che cosa ti succede?» «No, no, non è come credi… È da perfettamente sano di mente, in pieno possesso delle mie facoltà che ti chiedo questo. Ti firmerò una dichiarazione. Ci ho riflettuto molto. Prendo questa decisione in piena coscienza. Non è stata la mia prima scelta, te lo dico subito, prima ho voluto diventare alcolista e suicidarmi, ma non ha funzionato.» «Hai voluto suicidarti?» «Una catastrofe. Non ne parliamo.» Edgar girò intorno alla scrivania e si sedette accanto ad Antoine. Gli mise una mano sulla spalla, pieno di sollecitudine per il paziente più familiare, più intimo, un amico. «Sei depresso? C'è qualcosa che non va?» chiese inquieto. «Nulla va, Edgar. Ma non preoccupartene, sto cercando una soluzione. La migliore mi sembra di diventare stupido…» «Come?» «Mi fai un favore? Descrivimi. Se tu dovessi parlare di me a qualcuno, che cosa diresti?» «Non so… Che sei brillante, intelligente, colto, curioso nei due sensi della parola,
simpatico, divertente, un po' troppo dispersivo e indeciso, inquieto…» Via via che il pediatra sgranava i qualificativi caratterizzanti l'amico, il viso di Antoine si scuriva come se quella fosse la lista delle gravi malattie di cui soffriva. «È esageratamente lusinghiero, o almeno dovrebbe esserlo, ma la mia vita è un inferno. Conosco un sacco di idioti, incoscienti, gente piena di certezze e di pregiudizi, dei perfetti imbecilli, e come sono felici! lo sto per prendermi un'ulcera, ho già qualche capello bianco… Non voglio più vivere così, non posso più. Dopo uno studio minuzioso del mio caso, ho dedotto che il mio disadattamento sociale proviene dalla mia intelligenza sulfurea. Non mi lascia mai tranquillo, non la domino, mi trasforma in un castello stregato, cupo, pericoloso, inquietante, posseduto dal mio spirito tormentato. Mi ossessiono da me.» «Anche se la tua intelligenza è la causa del tuo problema, non posso fare quello che mi chiedi. In quanto medico, non posso, è contrario a ogni deontologia. In quanto amico, non voglio.» «Non ne posso più di pensare, Ed, devi aiutarmi. Il mio cervello corre la maratona tutto il giorno, tutta la notte, non cessa di girare come in una ruota da criceto.» «Mi dispiace, non posso. Non ti capisco: sei fantasioso, originale, non ti rendi conto della tua fortuna. Bisognerà che tu impari a vivere essendo te stesso. Per qualche tempo, il tempo che tu ti rimetta, troveremo una soluzione riparatoria per migliorare la tua vita.» «Migliorare la mia vita sarebbe diventare stupido.» «È stupido.» «Quindi sono sulla buona strada. Non si potrebbe togliere una parte dei miei neuroni? Ci sono le banche di organi, le banche del sangue, le banche dello sperma, dovranno pure esistere le banche di neuroni, no? Così, quelli che hanno troppi neuroni possono darne a tutti quelli che ne hanno carenza. Per giunta, sarebbe un gesto umanitario.» «No, non esistono, Antoine. Mi dispiace.» «Allora che cosa posso fare, Ed? Cosa diventerò? Perché sono diverso? Voglio una vita banale, essere conformista. Solo una formica tra le formiche.» Mentre parlava, Antoine faceva scarabocchi sullo schema del cervello in sezione; disegnò delle formiche tutto intorno al disegno, e una grossa formica che doveva somigliargli. «Ricordi il libro che mi avevi regalato per il mio decimo compleanno?» «Monsieur Badaboum?» «Sì, Monsieur Badaboum. Nelle sue avventure gli capitano solo delle disgrazie: quando esce piove, batte la testa dappertutto, dimentica il dolce nel forno, smarrisce tutte le sue cose, perde sempre l'autobus… Perché? Perché è Monsieur Badaboum! Edgar, ho la sensazione che sto diventando Monsieur Badaboum… Monsieur Badaboum sono io!» Sulle guance di Antoine colarono lacrime. Edgar lo strinse fra le braccia e gli diede dei colpetti sulla spalla, che ebbero l'effetto di precipitarlo in una lunga crisi di tosse. Edgar tirò fuori da un cassetto uno sciroppo; gliene diede due cucchiai, poi gli propose un Twix. Antoine sgranocchiò la tavoletta al cioccolato con voracità, con gli occhi ormai asciutti, ritrovando a poco a poco la calma. «Non hai pensato di andare da uno psicoanalista?» «Ne ho visto uno», disse con impotenza Antoine sollevando le braccia. «E?…» «Secondo lui, tutto è perfettamente normale: non ho patologie psichiche, niente di… Sai che cosa mi ha detto? "Approfitti della vita, giovanotto, si distenda. La smetta di rompersi
il capo." Che scuola di psicoanalisi ha frequentato per dire questo? La Scuola della causa tomjonesiana?»1 «D'accordo. Quello che posso proporti», disse il medico, «è di darti dell'Heurozac. 2 In generale sono contro questo tipo di farmaci, ma i tuoi tentativi di suicidio e di alcolismo, il tuo stato, mi spingono a prendere in considerazione questo mezzo. Ma non risolve nulla, non cura.» «Voglio solo pensare di meno, Ed.» «L'Heurozac ha un'azione calmante e antidepressiva. È proprio quello che ti serve. Comporta dei rischi, perciò dovrai venire da me tutti i mesi per decidere se continuare o meno il trattamento.» «Comporta rischi? Quali?» «I piccoli effetti collaterali tipici dei farmaci: secchezza delle fauci, possibili vertigini, stanchezza… E, soprattutto, una sgradevolissima dipendenza. Dovrai assolutamente leggere le istruzioni per l'uso e attenerti alla posologia.» «Con questa roba», chiese Antoine, pieno di speranza, «penserò di meno?» «Sarai quasi uno zombie, te lo garantisco. La vita ti sembrerà più semplice, più bella. Sarà falso, beninteso, ma non ne sarai cosciente. Sappi comunque che l'effetto sarà temporaneo.» «Va benissimo», assicurò Antoine. «Alla fine, hai ragione tu: è meglio che qualcosa di definitivo. Mi sono un po' lasciato andare. Sai, lo vedo come una boa; mi aiuterà per qualche tempo, poi saprò sbrogliarmela da solo.» Discussero ancora per qualche minuto delle rispettive famiglie, degli amici, di cinema. Antoine aveva spesso questioni da sottoporre a Edgar, questioni che reputava di sua competenza in quanto medico: perché le bevande gasate fanno ruttare, perché le unghie crescono, perché si starnutisce, perché si singhiozza, perché, quando si fa stridere un gesso su una lavagna o una forchetta su un piatto si ha una sensazione sgradevole. Una volta scritta la ricetta, Edgar e Antoine si strinsero calorosamente la mano. Come sempre, Antoine volle pagare la visita; come sempre, Edgar rifiutò. Coralie e Antoine lasciarono lo studio.
1 Nell'originale: Ecole de la cause tomjonesienne (da Tom Jones, 1749, romanzo omonimo di Henry Fielding): calco ironico dell'Ecole de la cause freudienne, società psicoanalitica fondata nel 1980 da un gruppo di seguaci di Jacques Lacan. [Tutte le note al testo sono del traduttore] 2 Neologismo ironico (con evidente riferimento al Prozac) coniato a partire da «heureux» (felice).
Il suo appartamentino si trovava all'ottavo piano di un vecchio stabile di Montreuil. In collegio e al liceo, Antoine aveva subito l'umiliazione istituzionalizzata – con altri compagni poco tagliati per la pratica delle attività fisiche – di essere sempre scelto fra gli ultimi nella formazione di squadre di calcio e di pallavolo. Aveva dovuto subire le proteste e gli scherni di compagni per i quali i corsi di educazione fisica non avevano nulla a che vedere con l'apprendimento, ma piuttosto con la competizione. Così Antoine non aveva sviluppato interesse per lo sport. Ma gli seccava di obbedire a questa esperienza negativa e di non fare esercizio: così aveva deciso di affittare un piccolo appartamento a un piano alto perché l'avrebbe obbligato a servirsi dei suoi ipotetici muscoli. Nei fatti, questo si rivelò troppo spossante. Il coinquilino del settimo era un campione di catch, gentilissimo, di nome Vlad. Poiché doveva allenarsi continuamente, sollevare pesi, farsi i muscoli, propose ad Antoine di portarlo fino al proprio piano. Così Antoine cercava di arrivare alla stessa ora di Vlad all'inizio delle scale, per farsi portare sulle sue spalle fino al settimo piano. Secondo Vlad, Antoine non pesava più di un asciugamani, tanto che non cercava neppure di asciugarsi dopo la doccia… Vlad era alto un metro e ottanta e doveva pesare sui centoventi chili; era così forte che una volta aveva dimenticato Antoine sulle spalle, era rientrato in casa e aveva incominciato a prepararsi la cena. Non era un appartamento molto elegante, anzi era abbastanza malandato: i termosifoni, l'isolamento acustico, le tubature, l'impianto elettrico… nulla funzionava decentemente. E tuttavia era ben al di sopra dei mezzi di Antoine. All'inizio poteva pagare l'affitto grazie a un contributo assistenziale per gli studenti e alla sua traduzione in aramaico della Ricerca del tempo perduto. Ma da quando il progetto era stato abbandonato in seguito allo stupefacente fallimento dell'editore, le sue finanze erano a terra. Di fronte all'agonia del portafoglio, aveva immaginato un ospedale finanziario in cui si potessero sottoporre a trasfusione i conti bancari anemici. Antoine ne aveva parlato al proprio direttore di banca, ma costui sembrava considerare la banca come una clinica privata. In cerca di una classificazione dell'umanità, Antoine aveva stabilito una tabella universale che determinava il grado di ricchezza a partire dal tallone del calzino. Prima categoria, i più poveri, quelli che non hanno calzini; seconda categoria, i mediamente poveri, quelli che hanno buchi nei calzini; terza categoria, i più ricchi, quelli che hanno calzini senza buchi. Antoine apparteneva alla seconda categoria. I suoi proventi erano costituiti principalmente dai corsi di insegnante incaricato a Paris V, che significava, secondo i mesi, dai mille ai duemila franchi. A questo si aggiungeva il denaro del RMI, 3 che riceveva del tutto illegalmente grazie a una confusione sul suo nome di battesimo: sui documenti dell'università era Antoine Arakan, mentre per gli ASSEDIC 4 era iscritto con il nome di battesimo birmano, Sawlu, che non aveva mai utilizzato nella vita di tutti i giorni. Inoltre, ogni tanto faceva dei lavoretti in nero. Così, ultimamente, aveva doppiato le grida di una famiglia di giraffe in un documentario sugli animali di cui era andata perduta la colonna sonora. Dalla Bretagna i genitori gli mandavano un po' di denaro e pacchi di cibo. Era uno stupefacente e delizioso miscuglio di specialità asiatiche e bretoni. Ogni mese gli 3 Il minimo che lo stato francese dà quando non si ha più diritto al sussidio di disoccupazione. 4 Associazione per l'impiego nell'industria e nel commercio.
arrivava una pesante borsa termica contenente dei nem al pesce e alle vongole, degli involtini primavera alla salicornia, dei ravioli ripieni di cappe sante, delle focacce di grano saraceno al noucmâm, cotte alla fiamma e farcite di riso al salto… Anche il suo amico Ganja lo aiutava, e lo avrebbe aiutato di più se Antoine non avesse rifiutato di essere mantenuto. Antoine viveva tutti i mesi con una somma inferiore allo SMIC. 5 Nonostante questo, rimaneva nell'appartamentino. Come? Non pagava più l'affitto. Perché? Perché il proprietario, il signor Brallaire, soffriva di alzheimer. Antoine non era affatto sicuro che si trattasse veramente di alzheimer. In ogni caso, il signor Brallaire non ricordava nulla. All'inizio di settembre Antoine doveva accompagnarlo all'ospedale per degli esami complementari. Il signor Brallaire non aveva famiglia, quindi Antoine si prendeva cura di lui. Per puro caso si era reso conto della sua amnesia. Antoine non poteva pagargli l'affitto tutti i mesi, così rasentava i muri, cercava di essere il più discreto possibile. Un giorno, tuttavia, Brallaire lo acciuffò. Antoine si aspettava che gli ordinasse di fare i bagagli. Ma Brallaire, con lo sguardo perso, lo fissò tenendolo per un braccio e mormorò: «Lei abita qui?» «Sì, signore. All'ottavo piano. Tengo a scusarmi, questo mese ho avuto delle difficoltà… ho dimenticato…» «Ha dimenticato qualcosa?» gli chiese con un'attenzione innocente e stupefatta. Di consueto, Brallaire esigeva il pagamento dell'affitto il primo del mese. Alle sette precise del mattino, la busta doveva scivolare sotto la sua porta. Bastava che Antoine avesse solo qualche ora di ritardo perché Brallaire bussasse vigorosamente alla sua porta e minacciasse l'intervento dell'ufficiale giudiziario. «Euh… no», rispose Antoine sudando. «Ho dimenticato di salutarla. Buongiorno…» «Buongiorno», mormorò l'altro. «Lei abita qui?» «Sì, signore. All'ottavo piano.» A questo punto si presentò un delicato caso di coscienza. Antoine poteva lasciare avanzare la malattia e continuare a vivere nell'appartamento. Oppure poteva occuparsi di quel padrone di casa un tempo bisbetico, mai gentile e senza pietà. Prevalse la sua bontà naturale. Antoine pensò tristemente che avrebbe dovuto rafforzare il proprio egoismo e la propria amoralità per sopravvivere in questo mondo. Lo accompagnò dal medico. Costui si riservò la diagnosi: sarebbero occorsi tempo e batterie di esami per determinare con certezza la malattia di Brallaire. «E ha delle possibilità di guarire?» «È difficile da dirsi», rispose il medico. «Ha la memoria a brandelli. Dovrebbe vegliare su di lui. La testa funziona bene, ma è incapace di conservare traccia del passato recente.» Antoine si occupava di lui come di un vecchio zio. Lo riconduceva all'appartamento quando si smarriva nei corridoi; aveva scritto un biglietto con il suo indirizzo e glielo aveva infilato nel portafoglio, nel caso che si fosse perso in città. Gli faceva la spesa, ritirava il denaro degli altri inquilini e lo depositava sul conto in banca del vecchio. Brallaire aveva ancora periodi di lucidità durante i quali ricordava certe cose, in particolare che Antoine non pagava più l'affitto; ma durava poco. Antoine aveva letto su «Le Monde» un articolo sui progressi delle ricerche mediche concernenti le malattie 5 Sussidio di disoccupazione.
degenerative del cervello: parkinson, alzheimer… Era al contempo felice per Brallaire e angosciato all'idea che quel progresso scientifico lo avrebbe forse condotto alla sfratto. Gli studiosi non si rendono conto delle conseguenze extramediche delle loro scoperte. Se alla fine si fosse arrivati a guarire la malattia del suo padrone di casa, Antoine non avrebbe potuto contare sulla sua gratitudine: dai suoi libri contabili il vegliardo si sarebbe accorto di tutti gli affitti non pagati, ma non avrebbe avuto nessun ricordo dell'aiuto fornitogli da Antoine. Il giorno dopo il consulto nello studio di Edgar, giovedì 25 luglio, Antoine iniziò ad assumere il farmaco che avrebbe dovuto assicurargli una protezione contro la sua stessa mente: l'Heurozac. La posologia era di una compressa al giorno. Antoine decise di raddoppiarla. Auspicava un effetto sensibile e rapido, non un balsamo per un'azione di superficie. L'effetto si sarebbe fatto sentire in capo a qualche giorno, giusto il tempo necessario ad Antoine per preparare la sua nuova vita con tutta l'ingenuità di cui era capace la sua volontà. Prima tappa. Spedì una lettera di dimissioni all'università Paris V René Descartes. Da due anni vi teneva un corso settimanale di un'ora e mezza sull'Apokolokyntosis del divo Claudio (cioè «metamorfosi in zucca»), una commedia satirica di Seneca. Inoltre, di tanto in tanto faceva il supplente nelle materie di cui aveva qualche solida conoscenza: la biologia, i lepidotteri, la retorica aramaica, il cinema. Le sue conoscenze specialistiche erano sufficienti per sostituire lì per lì un professore malato, ma restavano troppo parziali per assicurargli l'autentica padronanza di una materia universitaria e la speranza di un posto. Seconda tappa. Si sbarazzò di tutto quello che rischiava di stimolare la sua mente. Chiuse dentro scatoloni i libri, centinaia di romanzi, saggi, dizionari ed enciclopedie, i dischi, chili di dispense universitarie, di riviste scientifiche, storiche, letterarie… Staccò dai muri del monolocale i cartelloni dei film, i ritratti dei suoi eroi e le riproduzioni di quadri di Rembrandt, Schiele, Edward Hopper e Miyazaki. As, Charlotte, Vlad e Ganja lo aiutarono a trasportare gli scatoloni da Rodolphe, che fu felice di conservare – temporaneamente, aveva detto Antoine – quei tesori culturali. Terza tappa. Svuotato l'appartamento, Antoine si domandò come avesse potuto stipare così tanta roba in uno spazio così piccolo. Adesso si trattava di riempirlo con delle cose inoffensive che avrebbero lasciato in pace la sua mente. Dopo alcune visite interessate a dei vicini di cui reputava eccellenti le difese immunitarie contro l'intelligenza, osservò quello che avrebbe costituito un perfetto ambiente per la sua nuova vita. Una coppia di vicini composta da un professore, Alain, e da una giornalista, Isabelle, gli sembrava il caso edificante di un'intera vita consacrata alla rinuncia all'intelligenza. Li osservava da molto tempo, e in fondo al cuore li ammirava: erano così pienamente dentro la vita, possedevano così completamente tutte le sfumature di una stupidità cangiante, di una cretineria pura, piena d'innocenza, felice e realizzata, una cretineria gradevole per loro e per il loro entourage, per nulla cattiva o pericolosa. Alain e Isabelle, con partecipe serietà, di un ridicolo assolutamente affascinante, gli diedero consigli per riempire l'appartamento. Recuperò un vecchio televisore che piazzò al centro del locale come il simbolo principe della sua risoluzione. Appiccicò ai muri dei cartelloni di Il Re Leone, di auto sportive e di ragazze formose, foto di attrici e di attori dall'aria compresa di geni universali, foto di personalità intellettuali immortali come Alain Minc e Alain Finkielkraut. All'inizio ne fu shoccato, si sentì male in quell'ambiente sterile. Si rassicurò dicendosi che grazie alla chimica dell'Heurozac, presto tutto gli sarebbe parso formidabile. Alain e Isabelle gli
consigliarono dischi inoffensivi per la sua quiete sinaptica, della musica contemporanea a base di colpi di martello elettronico su pianoforti compressi, album di folclore internazionale. Gli sembrò infine che il suo appartamento fosse diventato perfettamente innocuo per il suo cervello in via di rammollimento. Antoine tuttavia sapeva che, anche se il mondo esterno seguiva la medesima tendenza, non poteva sperare di sradicare completamente i magri pericoli culturali e intellettuali della società. Antoine riunì Charlotte, Ganja, As e Rodolphe nel suo nuovo ambiente per una merenda islandese. La tavola era coperta di delizie nordiche: tè al burro, lokum al pinguino, frittelle di grasso di foca alle erbe sottaceto… Antoine riaffermò la sua decisione di diventare stupido, almeno per qualche tempo, per cercare di diluire la propria coscienza troppo concentrata. Gli amici, considerando questo progetto come un male minore, gli assicurarono con rammarico il loro aiuto. Antoine li invitò a non provocarlo con conversazioni su grandi temi, ma a chiacchierare di questo e di quello, del tempo che là, di quelle cose anodine e futili che fino a quel momento aveva trascurato. «Immagino, quindi», gli disse Ganja, «che le nostre partite di scacchi appartengano al passato…» «Per il momento, sì. Ma ti propongo di sostituirle con partite di un altro gioco che i miei vicini mi hanno fatto scoprire. Si chiama Monopoli. Il principio di questo gioco è semplice: bisogna guadagnare denaro, essere abile, comportarsi da buon capitalista imbecille. È affascinante. Una virtù di questo gioco è che dovrebbe insegnarmi, e forse anche convertirmi, con il suo aspetto ludico, alla morale liberale. Aderirò a quello che oggi condanno, come un semplice gioco, senza preoccuparmi delle conseguenze e degli affitti troppo alti che mettono sul lastrico tante famiglie. Diventerò un taccagno, egoista, senza altra preoccupazione che il denaro, senza altro tormento e grande questione esistenziale che il modo di guadagnare il più possibile.» «Rischi di diventare un vero stupido, allora», osservò Charlotte. «Essere un vero stupido è un buon rimedio alla mia malattia. Ho bisogno di un trattamento radicale: essere uno stupido sarà la chemioterapia della mia intelligenza. È un rischio che assumo senza esitare. Ma se, fra sei mesi, vedete che mi sto sviluppando un po' troppo come… brutto stupido, intervenite. Il mio scopo non è di diventare stupido e cupido, ma di lasciarne circolare delle molecole nel mio organismo per purgare la mia mente troppo indolorita. Ma non intervenite prima di sei mesi.» As, con un magnifico sonetto, disse ad Antoine che rischiava di perdere la sua personalità, di venire contaminato dai veleni che avrebbe lasciato penetrare in sé. «Anche questo è un rischio. Tanto più che essere stupido procura assai maggior piacere che vivere sotto il giogo dell'intelligenza. Si è più felici, questo è certo. Non dovrò conservare il senso della stupidità, ma gli elementi benefici che vi nuotano dentro come oligoelementi: la felicità, una certa distanza, la capacità di non soffrire per la mia empatia, una leggerezza di vita, di pensiero. Della noncuranza!» «Capisco», intervenne Rodolphe. «La chiamo teoria dello squalo. Come il curaro o le amanite falloidi, lo squalo è mortalmente pericoloso, e tuttavia nei suoi tessuti si trovano componenti chimici che serviranno a preparare farmaci per curare il cancro, salvare delle vite. Alla fine, diventando stupido, per una volta potresti dare prova di un'intelligenza stupefacente. Mi trovate perfido?»
«È anche il principio del vaccino», continuò Charlotte. «Forse riuscirai a curarti e a immunizzarti.» «Se non ne muoio», disse Antoine passandosi una mano sulla nuca e sorridendo, vagamente inquieto. «O se non diventi irrimediabilmente stupido», disse Charlotte. «Che sarebbe peggio della morte.» Nella sua disperata ingenuità, Antoine vedeva la stupidità come l'universo infinito che avrebbe offerto alla sua vita uno spazio sgombro di ogni resistenza all'atmosfera: avrebbe vagato fra le stelle e i pianeti secondo l'ellissi della propria specie.
Il grande problema, per Antoine, fu di scoprire le meravigliose miniere che, fra le rocce e il minerale, nascondevano i diamanti della stupidità. Indicare con il dito alcuni imbecilli, la stupidità generale e diffusa, sarebbe facile: ma il più delle volte è camuffare un giudizio di valore. Se si dicesse che il calcio, i quiz televisivi, i media sono intrinsecamente stupidi, sarebbe semplice. Ma per Antoine era chiaro che la stupidità risiedeva più nel modo di fare le cose o di considerarle che non nelle cose in sé. Al contempo, avere pregiudizi era stupido, così Antoine trovò che era un buon inizio per la sua nuova vita. L'Heurozac cominciava ad agire. Antoine era più disteso, i dubbi e l'angoscia lo avevano abbandonato. L'alchimia che si svolgeva nel suo cervello e nel suo sistema nervoso trasformava il piombo della realtà in una luminosa polvere dorata e colorata. Prima gli impedivano di vivere tutte le questioni, tutti i principi che si accavallavano nella sua mente. Per esempio, verificava la provenienza di tutti gli abiti che acquistava per non partecipare allo sfruttamento dei bambini nelle fabbriche asiatiche di Nike e delle altre multinazionali. Poiché la pubblicità era un attentato alla libertà, un colpo di stato contro il consumatore, la sua immaginazione e il suo inconscio, lui aveva fatto un quaderno con il nome di tutte le marche e di tutti i prodotti che partecipavano a quella guerra psicologica, e li eliminava dalla propria spesa. Teneva anche un registro di tutte le imprese che investivano in attività moralmente condannabili, inquinanti, in paesi non democratici o che licenziavano quando i profitti aumentavano. Non acquistava neppure cibi chimici, alimenti che contenevano conservanti, coloranti, antiossidanti e, quando i mezzi finanziari glielo permettevano, preferiva acquistare prodotti di agricoltura biologica. Non tanto perché fosse ecologista, pacifista, internazionalista: faceva, semplicemente, quello che la sua coscienza trovava giusto; il suo comportamento nella vita era il frutto di idee morali più che di convinzioni politiche. In questo, Antoine possedeva qualche tratto di un martire della società dei consumi. D'altronde vedeva assai bene come il suo atteggiamento intransigente si avvicinasse alla mortificazione cristiana. Questo lo imbarazzava perché era ateo, ma non poteva agire diversamente che in questo modo da Cristo laico e apostata. Cercando di non nascondersi nulla di sé stesso, Antoine si era detto che forse questo rigorismo doloroso, addirittura doloristico, era il modo di esprimere la propria colpevolezza di maschio-occidentale-sfruttatore-del-terzo-mondo. Come ogni chierico astinente, aveva principi un po' rigidi: rifiutava di cadere nella trappola delle nuove tecnologie che spingono il consumatore a dotarsi periodicamente di materiale all'ultima moda. Perciò rifiutava i cd ed era soddisfatto, a ragione, dell'eccellente tecnica dei 33 giri e del vecchio giradischi. Questo atteggiamento da consumatore responsabile e umanista aveva, sfortunatamente, un costo. Antoine pagava tutto più caro. Il risultato della sua morale e del suo senso acuito delle responsabilità era che aveva pochi abiti e spesso fame. Ma non se ne lamentava mai. Sotto il sole chimico dell'Heurozac, Antoine scoprì il mondo. Lo vide come non l'aveva mai visto. Prima, i paesaggi, l'aria, le strade, le persone, tutta la realtà era colpita dalla violenza delle guerre, dalla disoccupazione, dalle malattie, dall'infelicità quotidiana della maggior parte degli esseri umani. Non poteva ammirare il sole senza pensare a coloro per i quali, in Africa, quella maestà fiammeggiante era sinonimo di raccolti bruciati, di fame.
Non poteva apprezzare la pioggia, perché sapeva dei morti e delle distruzioni causate in Asia dal monsone. Il flusso delle automobili tracciava nella sua mente sensibile le immagini di migliaia di morti e di feriti sulle strade. I titoli dei giornali, con le loro litanie di catastrofi, delitti e ingiustizie davano il colore al suo cielo, la temperatura alla sua giornata, la qualità dell'aria che respirava. Da quando prendeva quelle pilloline rosse era sorta una salvifica impermeabilità al mondo e alle sue conseguenze profonde. Non è che se ne fregasse della sorte delle specie in pericolo, che non fosse più toccato dalla miseria del mondo, dagli attentati, le guerre, le disuguaglianze sociali, di cui era a sua volta vittima, ma era diventato realista. Trovava desolanti la povertà, le violenze di ogni genere, era davvero terribile, ma… boh! che poteva farci? Non aveva, individualmente, i mezzi per cambiare qualcosa. Una sincera simpatia aveva sostituito la sua dolorosa empatia. Antoine passeggiava, apprezzava la semplice gioia di camminare e di vedere, provava il vibrante piacere di constatare che il nostro cuore batte e che si respira. Annusava l'aria del mattino nel parco di Montreuil, a occhi chiusi sulla realtà del mondo, ammirava i pettirossi senza che gli venisse in mente la vertiginosa caduta della loro longevità a causa dell'inquinamento. Approfittava dello spettacolo delle ragazze in tenuta estiva senza domandarsi se avessero dei libri nelle borse, prendeva il mondo al primo grado, come si offriva, senza cercare più in là, approfittando dei suoi piaceri gratuiti. Per comportarsi come un individuo normale in società, Antoine invitò i vicini a cena, a guardare incontri di qualunque sport durante i quali si entusiasmò per uomini d'affari in short. Lui, che prima dubitava troppo, provò a emettere giudizi parziali e a disprezzare le preferenze altrui. Stava installandosi dolcemente nella normalità quando decise di affrontare il test supremo che avrebbe dimostrato il successo della sua integrazione: il McDonald's. Mai, in precedenza, gli sarebbe venuta l'idea di penetrare in questo antro del capitalismo imperialista, fornitore di grassi e di zuccheri, simbolo dell'uniformazione dei modi di vita. Ma era davvero cambiato. Scelse il McDonald's di Montreuil, a qualche minuto da casa. Durante l'era precedente della sua esistenza – un'eternità di appena quattro mesi prima – Antoine si era detto che se non fosse stato contro ogni violenza, gli sarebbe piaciuto mettervi una bomba. Ma, si era subito obiettato, vi lavoravano studenti e impiegati sfruttati, quindi sarebbe stato ingiusto ferirli e renderli disoccupati. L'edificio era largo e alto, colorato, manifesti invitavano a prendere la vita con leggerezza e per una modica somma. Una grossa M gialla troneggiava sul muro del fastfood. Un simpatico clown di plastica, con una mano alzata e un sorriso spontaneo, lo accolse davanti all'ingresso. Antoine entrò e salutò con un cenno del capo le due guardie, che erano lì certamente per proteggere i clienti dagli attacchi delle potenti bande di ladri di patatine fritte. Arrivò davanti al banco: «Buongiorno!» disse alla ragazza di fronte a lui. «Che cosa vuole?» Antoine era affascinato da questa economia relazionale: non era più necessario usare formule di cortesia meccanica. Quindi se ne sarebbe astenuto. Era più franco, alla fine più onesto. Guardò i menù. «Un menù Best of McDeluxe», decifrò sul pannello luminoso, allettato dalla promessa di mangiare per trentadue franchi un alimento contenente la parola «lusso» nella sua
denominazione. «Bevanda?» «Sì, naturalmente. È perfetto.» «Che bevanda vuole?» domandò la ragazza un po' esasperata. «Coca, sì, proviamo la Coca.» Per obbedire agli usi e costumi di questa nuova realtà, ebbe il riflesso di astenersi da ogni ringraziamento. Sedette a un tavolo beige e iniziò a mangiare le patatine vuotando un terzo del suo litro di liquido scuro e frizzante. Con aria curiosa osservò una patatina, la immerse in un miscuglio di ketchup, mostarda e maionese, e la sgranocchiò. Solo qualche giorno prima, Antoine non avrebbe potuto impedirsi di pensare, semplicemente mangiando una patatina, alla storia sanguinosa della patata, ai sacrifici umani che la civiltà azteca fece in suo nome. Che quel semplice tubero avesse tanti morti sulla coscienza gli avrebbe sicuramente impedito di apprezzarlo completamente. Affondò i denti nel sandwich in modo maldestro; una parte del ripieno vischioso cadde sul piatto. Dovette riconoscere che gli piaceva. Certo non faceva benissimo alla salute, gli imballaggi non dovevano essere biodegradabili, ma era semplice, poco caro, molto calorico e di un sapore rassicurante. Il gusto gli diede l'impressione di trovare una famiglia senza frontiere, di unirsi a milioni di persone che in quello stesso istante masticavano un sandwich identico al suo. Come in una coreografia internazionale, eseguiva gli stessi gesti di acquisto, trasporto di piatto, suzione di Coca e ingestione di patatine e sandwich di altri balleriniconsumatori dentro templi esattamente uguali. Sentì un certo piacere, una fiducia, una forza nuovi a essere come gli altri, con gli altri. Antoine non si era mai preoccupato della propria apparenza. Possedeva abiti solidi che avevano il tempo di logorarsi, ma non aveva né i mezzi né la voglia di acquistarne dei nuovi; il suo negozio-feticcio era la rigatteria Guerrisold di boulevard de Rochehouart. Quanto alla sua «acconciatura», consisteva in un semplice colpo di tosatrice dato da Ganja ogni due mesi. Chiese a un parrucchiere di fargli un taglio. In un negozio di abiti copiò le scelte di un ragazzo che si comportava come se avesse un gusto sicuro, senza preoccuparsi di sapere se gli abiti che sceglieva fossero fabbricati da bambini. Acquistò un paio di Nike, dei jeans Levi's e uno sweat-shirt Adidas. Sarebbe stata la sua tenuta di riposo. Poi fece una visita alle Galeries Lafayette, crimine inimmaginabile qualche tempo prima. Penetrò in quella bassacorte borghese, profumata del muschio della superiorità sociale. Su consiglio di un commesso che metteva le pattine a ciascuna delle proprie parole, acquistò dei pantaloni di tela, una camicia e una giacca di stile elegante «ma molto molto coool, glielo assicuro…». Per finire la giornata si concesse una partita di videogiochi in una sala specializzata. Oh, non scelse uno di quei giochi intellettuali in cui si tratta di trovare degli oggetti, di risolvere enigmi, no, giocò a uccidere dei mostri venuti dallo spazio intersiderale. Questo lo sfogò, eliminò la tensione di una giornata che sperava tipica. Provò persino piacere a sterminare quegli alieni; impegnato nel combattimento, se ne sentiva coinvolto come se il futuro dell'umanità dipendesse veramente dall'agilità del suo polso e dalla precisione delle sue dita. Era, finalmente, un eroe. Charlotte gli telefonò. Si era di nuovo fatta inseminare e voleva che l'accompagnasse a un luna-park. Parlarono di tutto come se niente fosse: dell'estate che quest'anno era iniziata così tardi, del governo così inefficiente, della vita così bella. A un certo punto lei cercò di parlargli della propria partecipazione al gruppo che si era impegnato a tradurre tutta l'opera di Christopher Marlowe. Dopo due giri di ottovolante in quella felicità
soleggiata, Antoine vomitò a cielo aperto. Le due pillole rosse, non ancora digerite, caddero in mezzo a una marea di patatine e di ketchup. Si pulì la bocca e inghiottì altre due pillole. Si lasciarono in modo vago. A un'edicola, osservando le copertine delle riviste femminili, i periodici di pettegolezzi per uomini, le pubblicità di profumi e prodotti di bellezza maschili, gli attori sex-simbol, Antoine si rese conto di non corrispondere all'immagine dell'uomo ideale. Un numero di «Elle» conteneva un'inchiesta sulle caratteristiche di quello che, dell'uomo, faceva fantasticare la donna, e con un po' di delusione constatò che non ne aveva nessuna. Qualche tempo prima se ne sarebbe fregato, osservando che era il corrispettivo naturale delle fantasie maschili, e che le proprie qualità erano più profonde. Ma, sotto il dominio delle pillole rosse, si sentì sminuito dal fatto di non suscitare un desiderio immediato. Per avvicinarsi all'uniformità dei sogni su carta patinata, si iscrisse a una palestra di culturismo luminosa e moderna, con piante esotiche appese al soffitto. Sperava così di assumere la forma dei desideri dell'epoca e accedere all'esistenza sessuale. Per un'ora al giorno sollevò pesi con gambe, braccia, spalle, compì serie di movimenti ripetitivi. Sfinito, Antoine dimenticava sé stesso nello sforzo; il dolore, il sudore, la musica dello stridore metallico e dei colpi d'arresto dei pesi sui sollevatori lo trasformavano in un meccanismo, un ingranaggio di quella sala di macchine umane strette dentro macchine di ferro. La serietà degli altri clienti della palestra convinceva Antoine dell'importanza della propria attività. La musica lancinante e ipnotica scandiva i colpi di remi per quei galeotti del muscolo. Nessuno si guardava apertamente, aleggiava una specie di vergogna, la vergogna di non avere un corpo splendido di nascita e di essere obbligati a fabbricarselo con quella chirurgia di sudore. Il corpo di Antoine acquistava la consistenza liscia e ferma degli oggetti industriali; delle linee nette sostituirono quelle vaghe del suo vecchio corpo. Sul ventre gli comparvero disegni, bozze. Diventava più forte, era felice di vedere spuntare l'acciaio dalla propria carne molle. Ammirava i muscoli nascenti come le stimmate della normalità, i simboli visibili della conformità a un ideale di bellezza convalidata. Era forte, era qualcuno; si rendeva conto di quanto, da gracile e debole, non fosse stato pressoché nessuno. Il suo corpo, come un Lego, si incastrava perfettamente nel riconoscimento del mondo. Ormai aveva la stessa scioltezza degli squali nell'acqua, più niente lo tratteneva; la sua trasformazione fisica seguiva la sua trasformazione psichica. La sua mente e il suo corpo non erano più doloranti, come se finalmente appartenesse a quella stupefacente specie di pesci che non hanno paura di annegare. Non si accorse neppure che la sua piccola e preziosa timidezza era volata via dal suo cuore come una farfalla. Antoine non era più singolare, si riconosceva negli altri come dentro specchi viventi: e questo gli risparmiava molta fatica.
Impassibilmente felice, Antoine aveva l'impressione che il proprio corpo fosse pieno di piccole e dolci piume di giovani oche, che circolavano nelle sue vene e riempivano i suoi organi; il suo cuore e il suo cervello debordavano di marsh-mallow multicolori. Martedì 1° agosto ricevette una lettera dalla banca che lo informava che era in rosso. Provò allora la prima angoscia dall'inizio del trattamento. Troppo incurante, aveva dimenticato di cercare una nuova fonte di reddito e aveva acquistato con una lascivia nuova cose che qualche settimana prima gli sarebbero sembrate superflue. Doveva trovare del denaro: la vita è un animale che si nutre di assegni e di carte di credito. Con la conoscenza dell'aramaico, la laurea in biologia e la conoscenza del cinema di Sam Peckinpah e di Frank Capra, e anche con la moltitudine di pezzi di diplomi non poteva sperare di trovare un impiego qualificato che corrispondesse alla sua formazione. Lo shock di questo ritorno alla realtà aveva neutralizzato gli effetti dell'Heurozac; con dolorosa consapevolezza, quindi, Antoine si presentò all'ANPE 6 del proprio quartiere. Dopo un'attesa di tre ore, in piedi con altri disoccupati in una stanza con aria condizionata da feromoni di stress, un uomo da uno dei box gridò il suo nome storpiandolo senza esitazioni. Antoine sedette di fronte all'uomo in giacca e cravatta che digitava su un computer. Trascorsero cinque minuti prima che l'uomo prendesse atto della sua presenza. Finalmente gli fece alcune domande senza alzare gli occhi dallo schermo del computer. Antoine rivelò i propri diplomi esotici: «Lasci stare», gli disse l'uomo. «Lei è matto, è così? Perché ha scelto di studiare queste… queste robe…» «Mi interessavano. Ah, e ho anche quasi finito una laurea in…» «È un suicidio professionale. Lei ha studiato per diventare disoccupato!» «Bene», disse Antoine alzandosi in piedi, «e grazie per il suo aiuto e il suo sostegno.» «Aspetti, non lasci perdere così facilmente. Ha la patente?» «No.» «Non ha la patente… Incredibile.» «Secondo una ricerca», piegò Antoine sardonico, «le riserve di petrolio del pianeta dovrebbero esaurirsi fra quarant'anni. Non vale la pena che sprechi denaro per questo.» «Non deve fare troppo il difficile, lei fa parte del secondo livello. Aspetti, aspetti.» L'uomo, continuando a guardare lo schermo del computer, propose ad Antoine dei corsi di aggiornamento e di formazione per mestieri che non lo interessavano e con paghe da fame. Antoine capì di trovarsi nella posizione di un mendicante; non aveva scelta, avrebbe dovuto accettare quello che gli avrebbero messo nel cappello: monetine, biglietti di metrò, buoni-ristorante, bottoni di mutande, chewing-gum già masticati… L'uomo si clava da fare per trovargli qualcosa, cioè una cosa qualunque; lo umiliava con una benevolenza professionale. Antoine si alzò e se ne andò senza che l'uomo se ne accorgesse. Antoine si ricordò di un compagno di liceo, Raphaël, che aveva fatto fortuna. Rovistando nella scatola in cui gettava alla rinfusa i promemoria, ritrovò il suo nome di 6 Agenzia nazionale di collocamento.
famiglia e il numero telefonico. Raphaël, naturalmente, non abitava più con i genitori. Costoro, adorabili o rimbambiti, non avrebbe saputo dire, gli fornirono il suo numero telefonico. Antoine sperava che Raphi (era il suo ridicolo nomignolo) si sarebbe ricordato di lui e del ruolo che aveva svolto nella scelta della sua carriera durante una discussione alla fine dell'ultimo anno di liceo. Molto sicuro di sé, Raphi si trovava a proprio agio con tutti; aveva il contatto franco e diretto di chi non dubita di essere amato. La sua coscienza aerodinamica non aveva occasioni dolorose di impigliarsi nelle asperità della realtà e di restarne ferita: scivolava sul mondo. Raphi stimava Antoine, lo trovava divertente, soprattutto perché non avvertiva la critica aspra delle sue parole; e, ancor prima, era curioso di questo personaggio che non stava in ammirazione davanti a lui. Antoine, per Raphi, era esotico, non lo capiva. Quanto ad Antoine, mangiare con Raphi gli dava l'occasione di non dover ascoltare una conversazione per sapere che non sarebbe stata interessante. Raphi aveva l'egocentrismo di quelli che parlano di sé stessi in prima persona: parlava di sé, degli altri in rapporto a sé, di quello che dicevano di lui eccetera. Raphi stava tagliando a fette un pezzo di pane, lo strappava, lo torceva – segno di un nervosismo per lui inconsueto. Avvicinò la testa all'orecchio di Antoine e gli mormorò, come se fossero due spie americane alla mensa del KOB: «Ho un problema. Puoi aiutarmi?» «Lancerò addirittura una grande operazione umanitaria», rispose laconicamente Antoine, poco convinto che quei settanta chili di perfezione avessero realmente un problema importante. «È molto esistenziale. So che in queste cose sei bravo.» «Ma certo, sono cintura nera di ontologia.» «Ecco. Posso scegliere i miei studi, sono accettato nelle migliori classi preparatorie… Potrei seguire la strada del successo: scienze politiche, HEC, 7 l'ENA.8 Forse, poi, entrare in un grosso gruppo con una posizione importante, e finire per dirigerlo, oppure potrei fare carriera negli alti livelli della pubblica amministrazione…» «Potresti diventare presidente…» disse Antoine sarcastico. «Sì, certamente. Potrei avere questo tipo di avvenire brillante, ma ho voglia d'altro. Ho voglia di correre rischi e di fare quello che mi appassiona. Non voglio arrivare alla fine della vita dicendomi che ho avuto successo in tutto quello che ho intrapreso, che sono ricco e amato e così via, ma che non ho realizzato la mia passione. Non ne ho parlato ai miei genitori perché non voglio inquietarli, ma ho voglia di spazzare via tutto e di seguire quello che mi dice il cuore. Ho bisogno di avventure, di uscire dalle vie battute, sento che ho qualcosa di originale dentro di me. Ho un sogno segreto, Antoine, una passione assolutamente folle…» «Benissimo, Raphaël», disse Antoine, stupito che il compagno di classe si lasciasse trascinare da una passione in apparenza così poco ragionevole. «Benissimo, devo confessarti che mi sorprendi, ti pensavo più terra terra, più arrivista.» «È il mio aspetto di poeta, Antoine, sento che ho l'anima di un artista. Pensi che dovrei buttarmici e darmi completamente alla mia passione?» «Sì, è chiaro, buttatici dentro. Leva gli ormeggi. Avrai bisogno di pazienza e di coraggio, 7 Hautes Etudes Commerciales. 8 Ecole Nationale d'Administration.
di scontrarti per realizzare il tuo sogno, però sì, vivi la tua passione.» Raphi era al settimo cielo. Commosso, con gli occhi lucidi di riconoscenza, strinse le mani ad Antoine. E per ringraziarlo gli offrì un bicchiere d'acqua. «A proposito, Raphaël, non mi hai detto qual è il tuo folle sogno…» «Fonderò una mia società di brokeraggio!» «Scusa?» «Azioni, obbligazioni, SICAV9… Lo farò, Antoine, grazie a te mi farò le palle in oro!» Alla fine i genitori di Raphaël non presero la cosa troppo male, gli offrirono persino un milione per aiutare il decollo dell'impresa. Da allora, Antoine aveva sulla coscienza questo crimine imbecille: aveva fabbricato un nuovo capitalista. Aveva alzato le spalle quando Raphi gli aveva detto che sarebbe sempre stato pronto ad aiutarlo in caso di bisogno; ma oggi il suo conto in banca piangeva miseria e lui non vedeva più barriere morali per inventarsi qualunque cosa allo scopo di guadagnale denaro. Quando si constata che si è tra i pochi a osservare principi morali nei rapporti umani, si può essere tentati di sprofondare nell'amoralità, non per convinzione o per piacere, ma semplicemente per non soffrire più, perché non c'è dolore più grande che essere un angelo nell'inferno quando il diavolo è dovunque a casa propria. Antoine voleva assuefarsi al comportamento che consiste nell'integrarsi offrendo in sacrificio i propri ideali: la dannazione permette tutto, perdona tutto. Non poté parlare direttamente a Raphi: una segretaria fece scudo e gli chiese di lasciare il proprio numero di telefono. Un'ora dopo la cabina telefonica vicino alla panetteria squillò. Era Raphi, eccitato e felice di parlare a colui che lo aveva incoraggiato a prendere in mano il proprio destino. «Antoine! Se sapessi come sono contento di sentirti. Io e te, erano bei tempi, vero? Cosa fai? Bisogna assolutamente che tu venga a pranzo con tua moglie, che mi parli del tuo lavoro! Sarebbe stupendo!» «Sono scapolo e disoccupato.» Ci fu un attimo di silenzio all'altro capo del filo. Raphaël non aveva mai pensato che il proprio successo personale non avrebbe creato la felicità per ogni essere umano sulla terra. «Non è un problema, tu sei il mio guru, Antoine, troverò tutto quello che ti serve. È il minimo che ti devo. Dobbiamo vederci!» Si diedero un appuntamento nell'edificio di Saint-Germain-des-Prés che ospitava la società di Raphi. Lui accolse Antoine nel suo ampio ufficio decorato da cartelloni di film. L'affare fu rapidamente concluso: Raphi voleva assumere Antoine. «Non so niente di Borsa…» «Appunto, sei nuovo nell'ambiente, non rischierai di essere influenzato da sciocchezze. Ho fiducia in te.» «Che cosa dovrei fare?» «Facile: basta vendere e comprare azioni nel mondo intero. Al momento giusto. Sentire le azioni che salgono o scendono, stare in guardia, assecondare il proprio istinto. E quindi non sono affatto inquieto: ti devo il mio successo.» Con grande fierezza, Raphi fece visitare ad Antoine i lussuosi locali della società, lo presentò ai colleghi e alla macchina del caffè. Il clima era laborioso ed elettrizzato, ma disteso; i rapporti di lavoro erano sciolti, come in una comunità paritaria. Il presidente 9 Société d'investissement à capital variable. L'equivalente dei BOT italiani.
Clinton si fa chiamare Bill dalla stampa obbediente, anziché William, suo nome completo. È più simpatico, dà di lui un'immagine di amico, di un intimo, a cui si perdona facilmente; questo permette soprattutto di attenuare l'immagine negativa legata alla sua funzione. Seguendo la medesima strategia negativa, per tutti Raphaël era Raphi. Facile da contattare, aperto e socievole, questo gli serviva a esercitare pressioni benevole sui suoi collaboratori, a esigere amichevolmente una produttività maggiore e orari di lavoro estensibili. Antoine ebbe un box nell'immensa sala che conteneva i settanta agenti di cambio della società. Aveva due microcomputer, una piccola scrivania in ferro grigio con una serie di cassetti e una tazza da caffè. Sui muri della sala sfilavano gli andamenti dei vari mercati delle più importanti borse mondiali. Per una settimana Antoine osservò le manovre dei suoi colleghi; gli diedero consigli; comprò libri per padroneggiare il lessico e i meccanismi finanziari; OPA, NASDAQ, OPE, FED, COB, Stoxx, FTSE 100, DAX 30… Questa nuova lingua, scandalosamente più semplice dell'aramaico, non ebbe più segreti per lui. La sua vita cambiò ancora. Un salario fisso, che gli sarebbe stato largamente sufficiente per vivere, era integrato da un premio in base ai suoi risultati. Abbandonò l'appartamentino gratuito per un loft alla Bastille, in rue de la Roquette. Il signor Brallaire non aveva recuperato la salute. Antoine chiese quindi a Vlad, il suo vicino. di occuparsene. Non vedeva più Rodolphe, che voleva tirarlo verso temi intellettuali e polemici per i quali lui aveva perso ogni gusto. Senza il connettivo della discussione e del confronto, la loro relazione si deteriorò. Antoine accompagnava sempre Charlotte nei suoi giri al lunapark: ma non parlavano più. Ganja, solitamente molto calmo, si offese e dichiarò che non si sarebbero rivisti se non quando Antoine avesse abbandonato lo stupido progetto di diventare stupido. As gli dedicò una quartina in cui osservava che non respiravano più la medesima aria, e che, senza avere cambiato paese, erano diventati estranei uno all'altro. Dopo una serata silenziosa, si lasciarono nel loro vecchio quartiere generale, il Gudmundsdottir. Antoine vide gli amici allontanarsi nella notte, rischiarati dalla luce del corpo di As. Non ne rimase troppo triste: perché non avevano più niente da dirsi. Antoine era occupato dal suo nuovo mestiere: l'ambizione di diventare ambizioso e di desiderare di desiderare abiti di marca. Aveva nuovi amici che possedevano pareri su tutto, con i quali andava ai concerti e alle serate. Viveva quindi la vita normale di tutti i giovani che hanno mezzi per vivere. Si fece amici da bar, scafati, amici in serie che non avrebbero esitato a venirgli in aiuto in caso di necessità. Dall'esterno avrebbero potuto crederlo totalmente integrato in quella casta di principi, recitando senza problemi il ruolo del suo abito Hugo Boss. Tuttavia, osservando in modo più attento, ci si sarebbe accorti che conservava un certo ritegno. In ogni modo, non rimetteva mai in causa la morale delle sue frequentazioni, non dava mai un parere che potesse apparire originale. Antoine si lasciava andare a questo nuovo mondo originale e ne traeva un piacere sicuro: il piacere della libertà inquadrata, dell'abbandono alla corrente che segue il corso del fiume. Il denaro, il successo, l'integrazione in un ambiente noto dalle basi solide: tutti questi fattori partecipano a un'economia del sé. Non c'è più bisogno di pensare ai desideri, alla morale, alle azioni, agli amici, alla vita, nessun bisogno di capire, di cercare: l'ambiente ci procura tutto chiavi in mano. Antoine ricevette il corredo del proprio matrimonio con la società. È tutta questione di economizzare le energie, ed è decisamente meno faticoso, meno impegnativo che tentare di trovare sé stessi, o addirittura di inventare. No, non ne vale la pena: vi saranno forniti emozioni prefabbricate, pensieri precotti.
Gli esseri umani somigliano in modo stupefacente alle loro automobili. Alcuni hanno una vita senza optional che gira alla perfezione, non va troppo veloce, si guasta e ha spesso bisogno di riparazioni: è una vita di piccola cilindrata, poco solida, che non protegge gli occupanti in caso di incidente. Altre vite hanno tutti gli optional possibili: il denaro, l'amore, la bellezza, la salute, l'amicizia, il successo, come dire airbag, ABS, sedili di cuoio, direzione assistita, motore 16 valvole e aria condizionata. A metà agosto, il trapianto di Antoine nel suo lavoro aveva attecchito bene: era un agente di cambio come gli altri, il suo lavoro era corretto. Seguiva i mercati, reagiva con un misto di istinto e di logica, ma non aveva realizzato il colpo grosso che lo avrebbe fatto entrare nel cenacolo dei milionari della società. Dimenticò di pensare alle conseguenze della speculazione e dei suoi giochi di cifre su un mondo reale che non esisteva veramente più nella sfera della sua coscienza ovattata. Tuttavia c'era un tratto che differenziava Antoine dai suoi colleghi: non sopportava il caffè. Aveva cercato di berne una tazza al suo esordio nella società. Risultato: non aveva potuto chiudere occhio per due notti. Da allora consumava lungo la giornata del caffè decaffeinato. La tazza di caffè era una questione di immagine: un buon agente di cambio ha sempre una tazza di caffè in mano o sulla scrivania. Proprio come un poliziotto ha la sua arma, uno scrittore la penna, un tennista la racchetta, così l'agente di cambio lavora con il caffè; è uno strumento di lavoro, il suo martello pneumatico, la sua Smith & Wesson. Poi di colpo, senza nessuna premeditazione, Antoine diventò ricco. Digitava come al solito sui suoi due computer nel piccolo box fra l'agitazione di una giornata normale: rialzi, ribassi, continui squilli di telefono, suicidi, ticchettii, urla, fischio regolare delle dieci caffettiere allineate contro il muro… Batteva tranquillamente, con il ricevitore del telefono incastrato fra orecchio e spalla, vendeva yen, gettava lenza ed esca nella casualità dei mercati, quando, volendo prendere la tazza di caffè per umidificare la sua mucosa labiale prosciugata, la rovesciò sulla tastiera del computer principale. Ci fu qualche scintilla, un po' di fumo, degli sfrigolìi, lo schermo del computer si offuscò, si spense e riaccese rapidamente, tutto rientrò nell'ordine in un attimo. Salvo che i conti indicavano che aveva realizzato una succosa operazione il cui montante raggiungeva parecchie centinaia di milioni. Il cortocircuito aveva provocato una reazione a catena conclusasi con geniali operazioni finanziarie. «Sapevo che era una buona idea assumerti», gli disse Raphi. «Come hai fatto a prevedere questo colpo?» «Intuizione», rispose Antoine abbassando gli occhi. «E questo, questo non si impara. Ma comunque hai dovuto sgobbare sull'argomento, hai una padronanza perfetta degli avvenimenti, non sei caduto nel panico, hai mantenuto la rotta. Questo, amici miei, è ciò che chiamo sangue freddo!» Tutti applaudirono Antoine, dei colleghi gli diedero grandi pacche sulla schiena, volarono stelle filanti, furono stappate bottiglie di champagne, e Raphi gli porse l'assegno della commissione. Antoine osservò l'importo dell'assegno e, senza aspettarselo, si commosse. Era commosso come se gli fossero nati dei figli. E poteva ben esserlo, perché dopo un numero qualunque, sull'assegno comparivano sei zeri. In quel momento Antoine non ricordò che un giorno aveva imparato che corrompiamo più facilmente proprio noi stessi. Una pillola rossa gli evitò di pensare che aveva potuto al contempo vendersi e comprarsi con una ricchezza che non si fossilizzerà in nessun sogno.
Per tastare la realtà della propria fortuna, Antoine intascò il premio in biglietti di piccolo taglio. Uscì dalla banca con due valigie piene di banconote e le impilò in pacchetti sul grande tavolo in legno d'ulivo del salotto. Quelle migliaia di rettangoli di carta erano gli atomi del suo successo. Cedette un po' all'ebbrezza di quello che focalizzava il desiderio dell'umanità, gli girò la testa: suo malgrado, sorrise. Era ricco, cioè aveva adempiuto a una parte del proprio contratto realizzando una fantasia condivisa da miliardi di persone. Ma questa sensazione, che chiamò «felicità», non durò a lungo. Che cosa avrebbe fatto di questa ricchezza? Se voleva essere un milionario perfettamente normale, non poteva accontentarsi di conservare quel denaro. Essere ricco non è un fine in sé: la società, la gente per strada dovevano con la loro ammirazione e la loro invidia essere lo specchio del suo successo. Antoine si rese conto che diventando ricco aveva percorso solo la metà del cammino: adesso era necessario desiderare le cose che i ricchi desiderano. E questa gli sembrò la parte più difficile. Per diventare ricco gli era bastato rovesciare una tazza di caffè sulla tastiera del computer; per utilizzare la ricchezza doveva spremersi il cervello. Sfogliando delle riviste fece la lista delle cose che doveva desiderare. E non desiderare: fu attento a non cadere nei difetti dei nuovi ricchi, categoria apparentemente disprezzabile di ricchi che ha solo la vernice meno importante della ricchezza, cioè il denaro. Come se fosse diventato Babbo Natale di sé stesso, Antoine fece i propri acquisti con una grande gerla di vimini e una slitta trainata da renne. Per decorare il proprio loft e abbigliare la propria reputazione, acquistò arte contemporanea. In una prestigiosa galleria parigina scelse delle tele di un pittore che doveva essere un genio visto il numero di zeri posti sotto la sua firma. Il proprietario della galleria lo descrisse come il nuovo Van Gogh. «D'altronde», disse ad Antoine per convincerlo, «ha avuto gli orecchioni.» Antoine finse ammirazione, diede un «oh!» di elemosina alla stupidità venale del mercante d'arte e aprì la valigetta. Poi decise di acquistare un'auto di lusso. Non sapeva guidare, non aveva assolutamente intenzione di imparare, ma questo non modificò per niente la sua risoluzione di fare sacrifici a questo rito capitale. Quasi tutti acquistano un'auto, ma la scelta, per la maggior parte delle persone, è limitata da ragioni finanziarie. Antoine non doveva preoccuparsene, perciò aveva davanti una gamma incredibile di marche, modelli e motori. Osservò che le varie auto di lusso corrispondevano spesso a un tipo particolare di fortuna: i milionari della società di Raphi avevano tutti auto sportive (quelli più giovani) e Mercedes o BMW (quelli più anziani). Antoine acquistò l'auto che dimostrasse che era giovane, brillante e agente di cambio milionario: una Porsche rossa. Il concessionario parcheggiò l'auto davanti al suo loft, dove rimase come un'insegna luminosa che vantava il suo successo e il suo potere. Nei negozi resi esclusivi dal disprezzo cerberiano dei venditori per coloro che non hanno i mezzi per farvi compere, Antoine fu accolto come un principe quando venne notata la sua corona plastificata: la sua carta di credito dorata. Acquistò dei begli abiti che faranno di certo ridere le future generazioni, ma che, per il momento, diffondevano la sua superiorità sul popolo comune che non ha i mezzi di mostrare tanto cattivo gusto con tanta naturale ostentazione. La muta (definizione del Petit Robert) è un «cambiamento parziale o totale che concerne
il carapace, le corna, la pelle, il piumaggio, il pelo eccetera di certi animali, in certe stagioni o in periodi determinati della loro esistenza». Antoine aveva fatto la muta. Aveva abbandonato il vecchio abbigliamento per abiti chic; si profumava la pelle con costosissime lozioni, la ungeva, la curava con olii e creme al latte, si faceva fare massaggi, trattamenti e raggi UVA negli istituti di bellezza e curava l'acconciatura ogni settimana da un barbiere di gran classe. La muta è anche un cambiamento nel timbro della voce umana al momento della pubertà. Così ad Antoine sembrò di essere improvvisamente, nel giro di qualche settimana, diventato adulto. Prima del successo, la sua voce non era altrettanto efficace nella vita quotidiana; quando si trattava di chiedere qualcosa a un commerciante, quando aveva a che fare con dei funzionari negli uffici, o semplicemente in una conversazione, capitava che non lo sentissero, nonostante la sua voce chiara. Adesso invece, benché non notasse un cambiamento di timbro, Antoine era immediatamente udito, ascoltato ed esaudito. Con tutte queste storie di muta, possiamo dire che Antoine era diventato una specie di serpente. Non aveva più molto a che vedere con l'essere umano che era stato, come se avesse cambiato specie. Il suo budget era esploso. Oltre ai grossi acquisti di quadri, dell'auto, degli abiti, regalò alla propria posizione sociale elettrodomestici, hi-fi, videoregistratore e strumenti informatici. In realtà non utilizzava queste apparecchiature sofisticate e costosissime. Allo stesso modo, non mangiava le caterve di cibi raffinati che ogni sera stipava in un gigantesco frigorifero americano. La sua mente era ancora allo stadio dell'acquisto, non a quello del consumo. Antoine aveva mantenuto gusti semplici. Il suo loft somigliava a un museo delle meraviglie della tecnica moderna, a un cimitero di apparecchi nuovi. Affinché il suo conto in banca continuasse ad alimentare le sue esercitazioni pratiche di consumo, Antoine rovesciò nuovamente una tazza di decaffeinato sulla tastiera del computer. Ancora una volta fu il successo: il denaro è un animale domestico, un buon cane fedele che iniziava a conoscere la strada del suo conto in banca. Era una fine-giornata. Tutti gli agenti di cambio stavano per andarsene quando Raphi chiamò Antoine nel proprio studio. Due ragazze in abito da sera sexy erano ai fianchi di Raphi. «Antoine!» esclamò Raphi. «Sei meraviglioso, amico mio. Ecco il tuo premio.» «Grazie», disse Antoine sistemando i milioni nella tasca interna della giacca. «Be', buonasera…» «Come "buonasera"? Passiamo la serata insieme. Per festeggiare la tua genialità. Ti presento Sandy.» «Piacere», disse una delle ragazze sorridendo e tendendogli la mano sottile. «E Séverine», continuò Raphi, «che stasera sarà la tua dama, uomo fortunato.» Antoine osservò Séverine, il suo corpo superbo, il suo aspetto provocante, gli occhi pieni di desiderio quando lo guardava, e si disse che c'era un problema. Sentiva che i canini della propria personalità spuntavano dall'ipogeo della coscienza, e avrebbe inghiottito volentieri una o due pillole di Heurozac per prevenire questo pericolo, ma le aveva dimenticate a casa. Chiese a Raphi se potevano parlare da soli per un attimo. Raphi pregò le ragazze di aspettarli in auto. Sandy e Séverine uscirono dallo studio con un'aria di sfida concupiscente. «Non posso credere che tu mi giochi un tiro simile», disse Antoine con tono di rimprovero.
«Quale tiro? Di cosa parli?» «Mi paghi una prostituta… Credevo che mi conoscessi meglio, Raphaël. Mi delude da parte tua.» «Una puttana?» Raphi scoppiò a ridere. «Credi che Séverine sia una puttana?» «Mi sembra evidente.» «Dovresti avere più fiducia nel tuo potenziale di seduzione, Antoine. No, Séverine non è una puttana.» «Allora perché vuole uscire con me? E soprattutto, perché ha quell'espressione golosa quando mi guarda? Si direbbe che guardi Brad Pitt.» «Le ho detto di te, che sei un mago della finanza, ecco tutto. Ti assicuro, tu hai del fascino.» «Già. E chi è questa Sandy? Raphaël, tu hai una moglie eccezionale…» «Oh no, non vorrai farmi la morale!» «Non è questo, ma… Sì, ti faccio la morale perché tu…» «Vuoi fare la spia? È male fare la spia. Le spie vanno all'inferno. Sei un po' rigido, Antoine. Rilassati.» «Non puoi fare questo, darai un dolore a tua moglie.» «Mia moglie non ne saprà nulla, quindi non le farà male, di conseguenza non è male.» «Perché lo fai? Hai un amore…» «Non c'è solo l'amore nella vita. C'è anche il desiderio. Merda, Antoine, siamo nel duemila, c'è stata la liberazione sessuale, svegliati. Si dispone del proprio corpo, le ragazze sono libere.» Raphi aveva il sussiego di quei principi plebei che confondono i propri privilegi con i diritti, e la loro giustificazione con la verità. Antoine sedette su una poltrona di fronte alla scrivania. Sfregò una gomma su un'agenda, con lo sguardo nel vuoto. Nel frattempo Raphi sistemava delle carte nella valigetta. Antoine fissò Raphi: «A proposito di liberazione sessuale…» «Vuoi delle lezioni? Séverine te le darà… se capisci cosa intendo.» «Una delle mie colleghe condivide la tua opinione, è d'accordo con te.» «Certamente, le cose sono cambiate, bisogna essere meno bloccati. Lei approfitta del sesso e ha ragione.» «Non so se la conosci, si chiama Mélanie.» «Mélanie?» disse Raphi impallidendo. «La Mélanie del NASDAQ?» Appoggiandosi alla scrivania Antoine fece girare la poltrona a rotelle. Guardava Raphi, osservava la sua reazione con un sorrisetto sulle labbra e una specie di malinconia negli occhi. Si alzò e prese Raphi per una spalla. «Sì. È d'accordo, e per dirla tutta è pronta ad andare a letto con chiunque, talmente è liberata. Magnifico, no? Ma il problema è che nessuno vuole andare a letto con lei. Allora… mi sono detto che, visto che anche tu ti sei così liberato, forse potresti renderle un servizio…» «Ma Mélanie… è veramente… insomma, vedi… non ha niente di…» «È certo più divertente, più intelligente di tutte le tue Sandy, niente a che vedere. È questo che vuoi dire?»
«È racchia, Antoine, mi dispiace, ma è la verità, sembra uno scheletro. È un antidoto al Viagra.» «E?» «E cosa? Cosa vuoi che ti dica? È la natura: non tutti possono correre i cento metri. Ci sono delle ineguaglianze naturali, non ci posso fare nulla. Lei non ha il corpo per queste cose. Ma ci sono altri sport. Sarebbe meglio che investisse le proprie forze nell'amore, solo i sentimenti possono fare accettare un fisico come il suo. L'amore è cieco. Conosci il detto: è una ragazza da amicizia, non da scopata.» «È tutto? Ma… Raphaël, tu non conosci… Lei vuole sesso, vuole espandersi. Come te, come Sandy.» «Posso informarmi per trovarle dei ragazzi ciechi. Ascolta, Antoine, domani le dirò che la mutua della società è disposta a pagarle un'operazione per siliconarle i seni. Questo dovrebbe limitare i danni.» «Sei davvero caritatevole. Già che ci sei, devi solo farle trapiantare un cazzo nella mano…» «Sveglia, Antoine, non si fantastica sulla passionalità. Non è questo che lo fa venire duro. Forse è un peccato, ma è così. Non ci posso fare nulla.» «Kirk Douglas ha detto: "Mostratemi una donna intelligente e vi dirò: ecco una donna sexy".» «Eh, Antoine, non vorrai mica che vada a letto con lei solo per essere coerente?» «Sarebbe bene.» Mélanie era una di quelle persone a cui piace essere condannate, come quei poveri che ammirano i ricchi; come Raphi non la desiderava perché era brutta, così lei lo desiderava perché era bello. Una settimana dopo arrivò al lavoro con una scollatura sul suo nuovo petto, voluminoso e sodo. Per certi uomini fu sufficiente a renderla visibile. Non era più uno spettro agli occhi dei propri colleghi: con quei seni, finalmente riempiva il loro sguardo. Raphi era soddisfatto della propria magnanimità, ma era inquieto per Antoine a causa, disse, del suo "robespierrismo sentimentale". E, per un'amichevole preoccupazione, lo convinse a consultare un'amica che dirigeva un'agenzia di incontri. Gli fornì ogni garanzia di serietà, gli assicurò che questo non lo impegnava in nulla, lo supplicò di parlare almeno una volta con l'amica. Antoine capitolò perché Raphi lo lasciasse tranquillo con il suo catechismo libertino e le sue arringhe moralizzatrici. Poche settimane prima aveva ancora un'idea dell'amore come forma d'arte, o almeno di artigianato; adesso avanzava nel nuovo mondo, certo più reale, in cui l'amore è una forma di consumo e un luogo di segregazione. Al cinquantesimo piano di un palazzo d'affari che proteggeva le sedi sociali di imprese high-tech, Antoine penetrò nei locali formicolanti dell'agenzia matrimoniale. Nessun tramezzo: gli impiegati circolavano in tutti i sensi, i telefoni squillavano senza interruzione; i ticchettii delle tastiere dei computer diffondevano una musica che avrebbe potuto essere suonata all'IRCAM. 10 Antoine venne introdotto in un ufficio di stile inglese, isolato dall'agitazione. Attese, solo e in piedi, per qualche secondo. Il locale era luminoso e ordinato. Qualche libro sugli scaffali, piante addossate ai muri, oggetti d'arte discreti, un Apple azzurro cielo, una grande finestra. Una donna sulla quarantina entrò pimpante, lo pregò di sedersi e passò dietro la scrivania. Portava un tailleur elegante, ampio abbastanza 10 Institut de recherche et de coordination acoustique musique.
per non impedirle i movimenti e forse anche per nascondere qualche chilo di troppo. «Viene da parte di Raphi, vero? Bene, troveremo qualcosa. Non deve essere troppo difficile, lei è di secondo livello. Ha delle esigenze particolari?» «Cioè?» «Bionda, bruna, rossa, taglia, categoria professionale. Ci sono un bel po' di criteri. Non posso prometterle di offrirle un incontro con il ritratto sputato di quello che vuole, ma ci si può avvicinare.» La donna accese il computer, aprì degli schedari, digitò qualche parola. Sembrava sfinita, allo stremo delle forze, e al contempo nervosa e sovreccitata. Fissava Antoine aspettando la lista dei suoi criteri. «Non voglio fare elenchi. Insomma… credo di avere fatto un errore venendo qui. Mi scusi.» «Si sente shoccato? Ma è così che funziona, solo che al posto di filtri irrazionali noi usiamo filtri scientifici. Il risultato è il medesimo. Non è un caso se abbiamo la migliore percentuale di successo di tutte le agenzie matrimoniali: lavoriamo in affari, non in sentimenti. In affari di sentimenti, se vuole. Riprendiamo. Dunque, nessun profilo determinato.» Le sue dita batterono con violenza sulla tastiera. Il telefono squillò, ma lei non alzò il ricevitore. La suoneria tacque. Guardò Antoine, considerandolo con occhio esperto, come se ne facesse una stima. «Comunque una più o meno della mia età…» «Magnifico. Senta, giovanotto, cerchi di fare uno sforzo. Costruiremo un dossier su di lei e a partire da questo delle clienti si interesseranno eventualmente di lei. Quindi tanto vale che si presenti.» «Vuole dire che parli delle mie passioni?» «Sì, ma questo alla fine. Prima di tutto bisogna presentare la sua situazione sociale.» «Preferirei di no, non vorrei che…» «Mi sta prendendo in giro? Non ho tempo da perdere con gente che vuole essere amata per la propria personalità. Se almeno fosse bello, troverebbe senza difficoltà delle ragazze che l'amerebbero per il suo umorismo e la sua gentilezza. Ma così… Giovanotto, non siamo qui per fare della morale, per dire è bene o è male: semplicemente, è così che funziona il mondo. Le piaccia o meno, è così, quindi metta insieme tutte le sue opportunità. Machiavelli ha detto cose sulla politica che possono sembrare ciniche ma non per questo sono meno vere. Noi siamo i Machiavelli dell'amore. Non dirò che si ama per il denaro, il colore dei capelli, la circonferenza toracica, ma le statistiche ci insegnano che tutto questo ha un'influenza determinante. La professione, la muscolatura, l'altezza, l'età, il denaro, il peso, l'auto, gli abiti, il colore degli occhi, la nazionalità, la marca di corn flakes che si mangiano al mattino… Non può immaginare il numero di fattori che hanno un'influenza. Lo sa che le bionde hanno il ventiquattro per cento in più di rapporti sessuali rispetto alle brune? Ci sono delle verità in amore e nel sesso, e sa cosa? Queste verità non interessano nessuno, perché tutti sono persuasi della specificità della propria piccola storia. Ma io ho tonnellate di statistiche che affermano in contrario.» «Lei generalizza», disse Antoine riconfortante. «Secondo me la personalità, anche se non allo stesso modo per tutti, conta, ma… Conosco persone per cui conta. Forse lei esagera un po'.» «Lei crede? È possibile. Sono infelice, quindi ho il diritto di esagerare e di avere una
visione pessimistica di tutto questo. Peraltro credo di essere oggettiva, in amore la verità appartiene probabilmente al cinismo. Per dirla tutta, mi innervosisco a essere così oggettiva, a capire che tutto questo ha una ragione e che non si è responsabili di nulla. Mi piacerebbe smettere di essere oggettiva per poter lasciarmi andare all'odio e, alla fine, riuscire a detestare mio marito che mi ha lasciata per una ragazza di vent'anni.» Sbatté il mouse contro la scrivania, diede un colpo sulla tastiera e si alzò. Sorrideva con una tristezza cattiva. Si voltò verso gli scaffali, cambiò di posto dei libri, rovesciò una statuetta di koala che si frantumò sul pavimento. Ne raccolse i pezzi. «Mi dispiace…» mormorò Antoine alzandosi e aiutandola a raccogliere i frammenti della statuetta. «Perché le dispiace?» chiese la donna aggrottando le sopracciglia. «Le vieto di essere dispiaciuto e di criticare mio marito. Chi si crede di essere?» «Volevo solo… L'ha lasciata per una donna più giovane…» «E allora? Sbaglia prendendo le mie parti. Io non avrei mai potuto innamorarmi di un uomo come lei.» «Perché non sono abbastanza gradevole?» «No, soprattutto perché lei è più basso di me.» «Solo per questo?» «È importante. In ogni caso per me. Ma devo ammettere che è un atteggiamento simile a quello di mio marito, quello stupido che preferisce una donna giovane. In amore non ci sono innocenti, ma solo vittime.» «È un po' da calcolatori scegliere questo genere di… criteri…» «No, si sbaglia. Nulla è calcolato, in amore tutti sono sinceri. Mio marito è realmente innamorato di quella porca. Non si è detto: "Oh, mia moglie ha quarant'anni, i seni le cascano, la pelle non è più bella come prima, è ingrassata, devo trovare un'altra." È la verità, secondo me, ma non si è detto questo. Semplicemente, è successo così. Solo dopo si può razionalizzare e sezionare un comportamento. Io avrei potuto adorarla, forse lei avrebbe potuto essere il mio migliore amico, ma sinceramente, non mi sarei mai innamorata di lei. Quando sento dire che qualcuno non sa perché si è innamorato di quella specifica persona, mi viene da ridere. Non vogliono sapere, forse, ma oltre alle ragioni legate all'incontro di due personalità, ci sono ragioni psicologiche, sociali, genetiche… L'amore e la seduzione sono al contempo le cose più inconsapevoli e più razionali che ci siano. Dire che non ci sono ragioni permette di non confessarsi che sono poco nobili; perché chi è interessato alla verità? Quando ho chiesto a mio marito perché mi lasciava per quella ragazza giovane, fine, bionda, sexy, con seni superbi, piena di vita, lui mi ha detto: "Non lo so, cara, non si sa perché ci si innamora, succede, ecco tutto." E sa cosa è il peggio? Che era sincero, quel figlio di puttana credeva sinceramente alle proprie fesserie. Sa cosa diceva Madame de Staël? "Nel campo dei sentimenti non c'è bisogno di mentire per dire menzogne." Quindi, sì, esagero… ma ho ragione di esagerare, perché… sono vecchia, adesso, faccio parte della plebe.» La donna, piangendo, continuava a parlare, si rimproverava di lamentarsi, malediceva il marito e la sua nuova fidanzata. Non si accorse di quando, dispiaciuto, Antoine si eclissò. In un fruttuoso giorno di disperazione si era detto che credere nelle verità che costringono a piegare la testa significa farsi sudditi della realtà che le produce: chiunque vorrà trovare prove della propria infelicità ne troverà, perché nei commerci umani si trova sempre quello che si cerca. Aveva dunque deciso che ogni verità che lo faceva soffrire era
una morale, che la realtà stessa era una morale, e che poteva opporvi l'immaginazione della propria. Ma uscendo dal palazzo, nonostante il turbamento, non se ne ricordò. Più precisamente, non ebbe bisogno di ricordarsene: prese due pillole di Heurozac e lo spettro delle parole disincantate della donna scomparve. Antoine chiamò Raphi, gli raccontò l'episodio e gli consigliò di prendersi cura dell'amica. Durante la conversazione un'ombra era passata accanto alla sua coscienza, ma era sparita non appena aveva ripreso il ritmo della vita in cui i giorni si riproducono vicendevolmente. Per coloro che sono perfettamente integrati nella società esiste una sola stagione, un'estate perpetua, che abbronza la loro mente a un sole che non tramonta sul loro sonno: hanno sogni in cui non fa mai notte. Antoine aveva vissuto venticinque anni di autunno piovoso: d'ora in poi, fosse inverno, primavera, autunno, per la sua coscienza non ci sarebbe stato altro che il regno indistinto dell'estate.
Era l'inizio di settembre. Il sole era ancora vivo e nelle mani del vento accarezzava i passanti. Quella sera Antoine era rimasto davanti al televisore a fare zapping, a guardare trasmissioni interessanti, divertenti. In realtà, gli importava poco quello che vedeva: la sola cosa che gli interessava erano gli effetti tranquillizzanti e ansiolitici della televisione, quello sfavillio solare che riscaldava e riempiva la caverna della sua coscienza. Faceva zapping stringendo in mano il telecomando: lo aveva ricoperto con un tessuto setoso e spesso, e lo aveva dotato di un motorino che produceva un dolce ronron quando ci passava sopra la mano. Era il suo telecomando-gatto. Con l'indice cercava le trasmissioni che gli avrebbero fornito, con il pretesto del loro argomento, la scusa del suo saltare qua e là. Nonostante le quattro pillole di Heurozac, Antoine non si sentiva bene. Questo da quando, poche ore prima, rientrando dal lavoro, aveva trovato un pacchetto davanti alla porta. Era un piccolo pacco postale anodino, perciò Antoine non se n'era preoccupato quando, in cucina, lo aveva sballato. Aveva strappato la carta, lo scotch, e una volta apertolo un'esplosione lo aveva buttato contro il frigorifero. A occhi sbarrati era rimasto a contemplare un'edizione tascabile della corrispondenza di Flaubert. A poco a poco il suo cuore aveva ripreso un ritmo regolare. Aveva pianto senza potersi fermare, come se le lacrime tentassero di portarsi via la vista del libro sulla tavola o di spegnere l'incendio che aveva provocato esplodendo nella sua memoria. Non l'aveva toccato; non aveva osato. La corrispondenza di Flaubert era uno dei libri preferiti di Antoine prima della sua trasformazione. Lo aveva adorato, si era spesso riconosciuto nei tentennamenti, le disillusioni e le difficoltà di Flaubert di essere semplicemente vivo e di sopportare la propria epoca. Questo libro che ricompariva all'improvviso era come una mela velenosa che avesse addentato e che sconvolgeva un organismo e un pensiero che lui credeva ormai al sicuro. Pensava che questo attentato fosse opera dei vecchi amici, i quali, ferendolo, tentavano di recuperarlo. Aveva concentrato la volontà a lottare contro quella bomba di carta che rischiava di disturbare il trantran pacifico e senza sorprese della propria vita. Per paura di essere contaminato, aveva lasciato il libro sulla tavola e aveva incatenato la propria coscienza al televisore, mentre il telecomando faceva le fusa nella sua mano. I colori della notte penetravano nell'appartamento di Antoine. La luna si abbronzava con ostentazione sulla spiaggia di sabbia nera dello spazio. Antoine cercava di ipnotizzarsi nell'occhio del ciclope televisivo, quando, di colpo, una fiocina si piantò nello schermo. Qualche scintilla, un po' di fumo, le parole di un presentatore che si distorcono, poi più nulla, nient'altro che quella fiocina affondata in mezzo allo schermo. Antoine si voltò bruscamente, il telecomando cadde a terra. Nell'appartamento tutte le luci erano spente, perciò poté a malapena distinguere la forma umana del fiocinatore. Non era un extraterrestre, pensò Antoine rassicurato. Constatò con sorpresa di non avere paura, sicuramente a causa dell'overdose di Heurozac. Si sforzò di tremare e si morse il labbro inferiore. Dalla sagoma sembrava un uomo di taglia media, e non aveva ali di pipistrello. I lampioni della strada si accesero. Adesso Antoine aveva di fronte l'uomo. «Dany Brillant…» mormorò. «Lei è Dany Brillant. Dany Brillant è un ladro. Vuole uccidermi? È una specie di serial killer?» Antoine conosceva vagamente questo cantante che sembrava essersi fermato agli anni
Cinquanta; aveva trovato gradevoli e carine molte delle sue canzoni. Tutto acquistava senso: Dany Brillant, con la sua pettinatura alla Elvis, gli abiti "zazou" e le canzoni di un'altra epoca, era uno psicopatico. Dany Brillant rise. Era vestito di un semplice abito nero con una camicia bianca aperta sul petto e portava scarpe nere di vernice. Una tenuta alla Jerry Lee Lewis. «Falso, falso, falso. Tutto sbagliato, Tony. Non sono Dany Brillant, né un ladro, e ancora meno un serial killer. Un serial killer si vestirebbe con tanta classe?» «Non so, ma uno normale non indosserebbe un abito di questo genere. Lei è Dany Brillant. Parla come lui, ha lo stesso sorriso, la stessa pettinatura e il gel nei capelli. Lei è Dany Brillant.» «Errore, Tony: sono il fantasma di Dany.» «Dany Brillant è morto?» «No.» «Allora come può essere il suo fantasma?» «Sono un fantasma prematuro. Capita. Compaio solo quando il Dany Brillant vivo dorme.» «Sta scherzando.» «Eh no, Tony. Toccami.» Dany Brillant, o il suo fantasma, si avvicinò ad Antoine con passo esageratamente dinoccolato, gli occhi maliziosi, schioccando le dita. «Ho capito», disse Antoine indietreggiando, «lei è un pervertito.» «Sono un fantasma!» disse Dany ridendo. «Toccami e vedrai che la tua mano passerà attraverso il mio corpo.» E, in effetti, la mano di Antoine attraversò il corpo di Dany. Questo divertì molto Antoine. «Ehi, basta così! Giù le zampe! Non sono un giocattolo, Tony.» «Può smetterla di chiamarmi Tony?» «Nessun problema, Tonio.» «Benissimo, continui a chiamarmi Tony, è meno orrendo.» «Nessun problema, Tony. Permetti che dia un'occhiata nel tuo frigorifero?» Senza aspettare la risposta, Dany entrò in cucina. Aprì lo sportello del frigorifero illuminando il locale. Antoine lo raggiunse. Dany rimase a bocca aperta davanti al frigorifero, cadde in ginocchio, alzò le braccia in adorazione, come in preghiera di fronte alla profusione di cibi. Si rialzò e prese tra le braccia Nutella, foie gras, una salsiccia, formaggi, blini, ogni sorta di vettovaglie. Depose quel tesoro sulla grande tavola della cucina, si sedette su uno sgabello e incominciò ad abbuffarsi. «I fantasmi mangiano?» chiese Antoine sistemandosi su uno sgabello di fronte a lui. «Ecco la prova», disse Dany con la bocca piena di blini spalmato di foie gras e di Nutella. «E per di più, il bello è che non si ingrassa. Si possono mangiare hamburger tutto il giorno, bere quanta Coca si vuole: non si prende un chilo. Essere un fantasma è meraviglioso, è la bella vita, ragazzo. Mi passi la Coca?» «Senta, Dany, lei ha un'aria molto simpatica, canta delle canzoni carine, ma domani io lavoro; quindi non potrebbe andare a spaventare qualcun altro?» «Non posso», disse Dany dopo aver vuotato metà bottiglia di Coca e ruttato senza
ritegno. «Ho una missione, per questo sono qui.» «Oh, e la sua missione è di svuotarmi il frigorifero?» «No, ma questo rende la missione ancora più simpatica.» «Non potrebbe smettere per un attimo di mangiare e spiegarmi senza sputacchiare briciole dappertutto? Tocca a me pulire.» «Cool, Tony. Sono stato nominato tuo angelo custode.» «Per salvarmi dai rischi del colesterolo? Chi l'ha nominata?» «Non so più, ero ubriaco fradicio. In ogni caso sono qui per tirarti fuori da tutta questa merda.» Dany fece un gran gesto che inglobava tutto l'appartamento. Ruttò e frugò nella montagna di cibo. Il fantasma di Dany Brillant, manifestamente, aveva meno classe dell'originale. «È meraviglioso, allora?» osservò ironico Antoine. «Ma sì», approvò Dany attaccando un sacchetto di patatine. «Be', Tony, com'è la tua vita? Sei felice?» «Non è la parola che userei, ma comunque non sono neanche infelice.» «Né felice né infelice? Niente di peggio. La tua vita è una merda.» «Grazie, molto delicato. Per diventare angelo custode seguite un corso di formazione psicologica?» «No, si impara sul campo. Tu sei il mio primo, Tony, il mio first one.» «Fantastico, veramente fantastico.» Antoine incominciò a raccogliere i residui di cibo e le confezioni. Dany spazzò la tavola con le mani, raccolse i fogli di carta unti, i pezzi di dolce, i resti di salmone e, finalmente, trovò l'oggetto della propria ricerca: l'edizione tascabile della corrispondenza di Flaubert. Ripulì il libro e asciugò il grasso che ne copriva la copertina, lo sfogliò e lo aprì a una pagina a cui fece un'orecchia. «Fatto. Hai un microfono, Tony?» «In salotto, Dany», mormorò Antoine sempre più affaticato. «Sotto l'hi-fi.» Dopo aver aspirato un vasetto di caviale con una cannuccia di paglia, Dany andò in salotto. Tirò fuori il microfono, lo sistemò su un treppiede e lo collegò con l'hi-fi. Esplose un rumore stridente di distorsione acustica. «Potresti passarmi il mio Best of, Tony?» «Non ho il suo Best of Dany. D'altronde non ho nessun disco.» «Non è grave», disse Dany tirando fuori di tasca un cd, «lo avevo previsto. Il tuo hi-fi ha l'opzione karaoke, magnifico!» Inserì il disco nel lettore e schiacciò alcuni tasti. Teneva aperto il libro della corrispondenza di Flaubert con la mano sinistra. Tamburellò sul microfono, schiacciò il tasto «lettura» e le prime note senza parole di Redonne-moi ma chance, una canzone di successo, cominciarono a diffondersi. Mosse il capo al ritmo della musica, poi cominciò a cantare un brano di una lettera a mademoiselle Leroyer de Chantepie, del 18 maggio 1857, seguendo esattamente la forma della canzone e aggiungendo esclamazioni più personali: Le persone leggere, limitate, le teste presuntuose ed entusiaste vogliono
per ogni cosa una conclusione. Cercano lo scopo della vita, see, e la dimensione dell'infinito, ehh! Prendono nella loro mano, mmmh, nella loro povera piccola mano, una manciata di sabbia, E dicono all'oceano: «Conterò i granelli delle tue rive», yeah! Ma siccome i granelli gli sfuggono tra le dita, see, e il calcolo è lungo, battono i piedi e piangono, see, piangono. Sapete cosa bisogna fare sulla spiaggia? Bisogna inginocchiarsi o passeggiare, see! Passeggiate. Passeggia, Tony! See, passeggia! Mmh passeggia! Tony! Sprofondato nel divano, Antoine si lasciò cullare suo malgrado dal ritmo gradevole della canzone. Le parole lo avevano immerso in una vertigine. Stringeva il cuscino tra le braccia. Alla fine della canzone, Dany lo raggiunse. Lo afferrò per le spalle e lo scosse amichevolmente. «Smettila di rimuginare troppo, Tony. Un po' va bene, ma il vecchio Gustave ha ragione: passeggia sulla spiaggia! Devi smetterla con le tue stupidaggini, non sei un golden boy, non sei tu, questo. Manda tutto al diavolo, anche quel fesso di Raphi, ritrova i tuoi amici e inventati la vita. See, inventati la vita, Tony.» «Tutte le cose che dice sembrano le parole di una canzone…» mormorò Antoine sforzandosi di sorridere. «Deformazione professionale», ammise Dany. Cominciava a calare la notte, degli uccelli cantavano e saltellavano sui fili dei piloni e dei pali elettrici. Dany si alzò e si spolverò l'abito. «Adesso devo andare: altri poveretti hanno bisogno dei miei consigli. Ma continuerò a vegliare su di te finché non ti sarai tratto d'impiccio. Ce la farai, Tony. Sai cosa diceva Nietzsche? "L'intelligenza è un cavallo pazzo, bisogna imparare a tirare le redini, nutrirla con buona avena, spazzolarla, e a volte usare la frusta." Ciao, Tony.» Il fantasma di Dany Brillant attraversò il salotto e scomparve nell'oscurità del corridoio senza che Antoine sentisse aprire la porta di casa. Si addormentò sul divano per alcune ore che gli sembrarono secoli.
Durante la settimana successiva alla visita del fantasma, Antoine non parlò a nessuno; sembrava preoccupato. Ignorò Raphi, gli amici agenti di cambio e le uscite abituali nei locali alla moda. Il venerdì sera, lasciando il lavoro, chiamò un taxi per tornare a casa. Un furgone nero dai vetri ombreggiati con una donna che cavalcava un drago dipinta su una fiancata, si arrestò proprio davanti a lui con uno stridio di pneumatici. Il guidatore si voltò verso Antoine puntandogli contro una pistola. Aveva una maschera di Albert Einstein sul viso. Una portiera del furgone si aprì e due altri Einstein lo presero ciascuno per un braccio e lo gettarono dentro il veicolo. Antoine non reagì; era così spossato, così stanco che non aveva la forza di opporsi alla volontà altrui. Gli Einstein lo imbavagliarono, gli bendarono gli occhi e lo legarono. Antoine cercò di intuire mentalmente il percorso, i punti in cui giravano a sinistra, a destra, i semafori, ma nel giro cinque minuti perse il filo. Dopo una corsa piena di slittate e di frenate, il furgone si fermò. Gli Einstein tirarono fuori Antoine. L'aria dolce della sera settembrina era gradevole come seta. Entrarono in un luogo chiuso, uno stabile – sembrò ad Antoine. Qualcuno lo afferrò per la vita e se lo mise in spalla. In questa posizione fu trasportato per parecchi piani, che non riuscì a contare perché cominciava ad avere le vertigini. Venne aperta una porta. Delle braccia lo sistemarono su una sedia. I rapitori gli tolsero i legacci, la benda, e lo attaccarono alla sedia lasciandogli il bavaglio. Per qualche istante vide in modo confuso, distinse delle sagome intorno a sé, una finestra. Poi le immagini divennero nitide, poté osservare le quattro persone vestite di nero sempre coperte con la maschera da Albert Einstein. Gli stavano di fronte in semicerchio, senza dire nulla. Antoine cercò di parlare, ma il bavaglio non glielo permise. Guardò attentamente il locale alla ricerca di indizi, di qualcosa che spiegasse il rapimento. Sui muri e sulle finestre erano stati tirati grandi teli bianchi. Dietro i rapitori era installata una lampada alogena che li rendeva più alti e più impressionanti di quanto realmente fossero; le loro ombre gigantesche si espandevano per tutto il locale e passavano sopra Antoine, attaccato alla sedia. Le rughe di plastica delle maschere da Einstein risaltavano con contrasti terrificanti, le criniere di capelli bianchi brillavano come colline di fiamme private dei loro colori. Trascinarono Antoine con la sedia e lo sistemarono di spalle alla finestra. Di fianco a lui misero un apparecchio per diapositive. A quel punto iniziò la più stupefacente seduta esorcistica che mai ebbe luogo. Da un sacco di plastica un Albert Einstein tirò fuori una decina di teste e di zampe di pollo. Le dispose a cerchio intorno alla sedia e attaccò una testa di gallo con le sue belle piume al collo di Antoine. Un altro Albert Einstein prese una bottiglia piena di sangue e gli imbrattò il viso. Poi i quattro Albert Einstein si misero leggermente dietro Antoine; la luce si spense; l'apparecchio si mise in funzione. Mentre venivano proiettate diapositive dei grandi geni dell'umanità, di opere d'arte, di invenzioni e scoperte, i quattro Einstein lessero, come formule d'incantesimo, testi ritenuti capaci, da un'allopatia ingenua, di combattere la letargia. Tutti e quattro avevano in mano una copia delle Meditazioni metafisiche di Descartes, nella collana dalla copertina rossa delle PUF, e si sarebbe detto che stringessero un libro di preghiere. Lessero in coro la prima meditazione, a voce alta e forte, mentre i volti di artisti, scienziati, umanisti e dei Simpson si ila vano sul telo. Continuarono declamando brani dai Pensieri di Pascal, dai Commenti di un ammiratore di Graciàn e del Borgogna, e i passi più divertenti di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome. La seduta esorcistica durò un po' più di un'ora. Alla fine il clicchettio delle diapositive cessò. I rapitori interruppero le loro melopee erudite. Riaccesero la lampada e tolsero i teli
che coprivano le pareti. Antoine riconobbe il proprio vecchio appartamentino di Montreuil. I rapitori si levarono la maschera: apparvero i volti sudati di As, Charlotte, Ganja e Rodolphe. Sembravano soddisfatti del lavoro compiuto, ma ci vollero le gesticolazioni di Antoine sulla sedia perché si ricordassero di liberarlo. «Avete perso la testa o cosa?» chiese Antoine più calmo che poté, sbarazzandosi con orrore della testa di gallo attaccata al collo. «Volevamo solo esorcizzarti, Antoine», spiegò Ganja. «Eri diventato abbastanza stupido.» «Ho una zia che è un po' maga vudu», continuò Charlotte, «e ci ha spiegato come liberarti dal malocchio che ti eri gettato da solo.» «Ti abbiamo salvato», sentenziò Rodolphe con la sua abituale sufficienza. «Eri diventato uno zombie. Ti abbiamo dezombificato. Missione compiuta.» As prese Antoine tra le braccia e lo strinse forte contro il proprio immenso corpo luminoso. E in ottosillabi gli disse quanto era felice di rivederlo. Antoine abbandonò l'idea di incollerirsi: i suoi amici avevano avuto solo un'intenzione generosa nei suoi riguardi; anche se con goffaggine e con il rischio di traumatizzarlo, avevano voluto salvarlo. Antoine raccontò loro – senza fare cenno alla visita notturna del fantasma di Dany Brillant, per non inquietarli circa la propria salute mentale – che da una settimana aveva smesso di prendere le pillole e che aveva preparato la propria uscita in bellezza: aveva introdotto un virus nel sistema informatico della società di Raphi, che, collegato alla rete mondiale, doveva provocare alla riapertura dei mercati, all'inizio della settimana, qualcosa come un allegro caos finanziario. Quella notte di liberazione tutti dormirono distesi sui teli bianchi nell'appartamentino di Antoine, come bambini in una capanna costruita su una quercia al centro di una foresta magica. Passarono alcuni giorni durante i quali Antoine e i suoi amici spesero il tempo a divertirsi e a ritrovale la gioia di essere dipendenti gli uni dagli altri. Un mattino dei poliziotti bussarono alla sua porta e lo arrestarono. Raphi era fuggito in Svizzera con qualche risparmio. Considerando il suo esilio elvetico una punizione sufficientemente crudele, la Giustizia non ne chiese l'estradizione. Molto rapidamente si svolse un processo. Antoine pagò una multa che inghiottì tutto il denaro che aveva guadagnato; tutti i suoi beni inutili, i quadri, l'auto, furono sequestrati; e poiché nessuno era stato ferito, fu condannato a soli sei mesi di prigione con la condizionale. Antoine trovò che era un prezzo onesto per l'esilio di Raphi e per aver fatto svanire qualche miliardo.
Era una di quelle mattine al limitare dell'autunno in cui la luna riesce a sopravvivere al giorno. Il sole non appariva in cielo: spuntava delicatamente da tutte le minuzie naturali e urbane, traspirava dai petali dei fiori, dai vecchi edifici e dai volti affaticati dei passanti. Nell'olocausto fecondo del tempo che passa fioriscono, per gli occhi feriti, i soli autentici eden, quelli la cui architettura è una sensazione. Quella domenica mattina Antoine si svegliò alle otto. Tra l'ondeggiare ibrido che separa il sonno dal risveglio gli era sembrato di udire una canzone. Si alzò stiracchiandosi. Dopo avere messo dell'acqua a scaldare fece una doccia. Preparato il tè, rimase un istante a guardare il liquido verde e fumante davanti alla finestra. Su un ramo un pettirosso sembrava mettersi in posa perché Antoine si ricordasse di lui; il sole estivo sprigionava nell'atmosfera lampi continui. Senza bere una goccia di tè, posò la tazza davanti alla finestra e uscì di casa. Camminò fino al parco di Montreuil infilandosi tra le auto e i passanti. Si affrettò: aveva le stringhe slacciate, i capelli scarmigliati e ancora umidi. A quell'ora il parco era pressoché deserto: alcuni anziani passeggiavano, qualche donna accompagnava i bambini per mano, una pittrice con un ampio cappello aveva sistemato il cavalletto sull'erba. Antoine camminava con passo distratto, come perduto in quel luogo piatto e tranquillo. Sedette su una panchina a fianco di un vecchio appoggiato a un bastone con il pomo d'argento. Il vecchio portava un feltro grigio con una banda di seta nera; si voltò leggermente verso Antoine, poi riprese la posizione da sentinella affaticata. Antoine guardò nella medesima direzione e, per un attimo, non vide niente; ma poi, strizzando gli occhi, osservando attentamente, gli apparve proprio davanti una ragazza. Lo scrutò, chinò il capo, si abbassò per esaminarlo come se fosse una scultura, poi gli tese la mano. Con un riflesso di cortesia Antoine gliela strinse. Volle parlare, ma la ragazza mise un dito sulle labbra e gli fece segno di alzarsi e di seguirla. Si allontanarono dalla panchina e dal vecchio. «Cerco degli amici», disse la ragazza guardando prima Antoine e poi i dintorni. «A chi somigliano?» «A te, forse. Siccome, seduto su quella panca, avevi l'aria di una persona interessante, mi sono detta che avresti potuto gradire di essere uno dei miei amici. Hai l'aria di essere di buona qualità. Di qualità superiore.» «Di qualità superiore… Si direbbe che parli di prosciutto.» «No, non di prosciutto, io non mangio carne.» «E i tuoi amici li mangi?» «Non ho più amici. Bisogna che tu mi segua un po'. Ecco, siccome dico delle cose davvero stupefacenti, sei tenuto a chiedermi perché.» «L'agente ha dimenticato di mandarmi il seguito del copione. Dunque… perché?» «Perché cosa?» chiese lei recitando io stupore in modo assai convincente. «Perché non hai più amici?» «Sono ammuffiti. Non mi ero accorta che avevano una data di scadenza. Bisogna farci
attenzione. I miei amici hanno cominciato ad avere tracce di muffa, delle macchie verdi abbastanza disgustose. Quello che dicevano cominciava veramente a puzzare…» «Può essere pericoloso.» «Sì, avrebbero potuto rifilarmi la salmonellosi.» «Li hai buttati nella pattumiera?» «No, non ce n'è stato bisogno, si sono gettati da sé stessi nella loro vita idiota.» «Sei severa.» «Scusami, ma non è questa la battuta: dovevi dire: "Sei fantastica".» «Ci sono state modifiche dell'ultimo minuto alla sceneggiatura.» «Sono sempre l'ultima a sapere le cose!» La ragazza si fermò di colpo e si diede una manata sulla fronte. Si mise davanti ad Antoine a occhi sgranati e un po' sconvolta. «Abbiamo dimenticato la scena della presentazione! Abbiamo dimenticato la scena della presentazione! Dobbiamo recitare di nuovo tutto daccapo. Vieni, torniamo alla panchina.» «Sai», rispose Antoine fermandola, «si può fare un raccordo. Il montaggio serve per questo.» «Hai ragione. Camminiamo un momento senza dire nulla e presentiamoci. Azione!» Camminarono per i vialetti del parco, sui prati, guardando gli alberi, gli uccelli. Il clima era dolce, l'aria aveva un colore chiaro e quasi scintillante. Mai un settembre era stato così gradevole; ignorava ingenuamente l'autunno che si avvicinava, restava fiero, dritto, bruciava le ultime forze dell'estate come se fossero infinite. «Oh», disse la ragazza con spontaneità, «mi chiamo Clémence.» «Piacere», rispose Antoine con tono brioso. «Io mi chiamo Antoine.» «Sono lieta di fare la tua conoscenza», disse lei stringendogli la mano. Poi, dopo qualche istante di silenzio, continuò: «Adesso, Antoine, riprendiamo a partire dal momento in cui dicevi che ero fantastica.» «Dicevo che eri severa.» «Sei molto ingiusto. Non giudichi mai nessuno, tu?» «Ci provo, ma è difficile.» «La mia teoria è che si può comprendere e giudicare. Si giudica solo per difendersi, perché chi cerca di comprenderci? Chi comprende quelli che cercano di comprendere?» «Lacenaire diceva che gli unici abilitati a giudicare sono i condannati.» «D'accordo. Allora, noi siamo i condannati», disse Clémence allargando le braccia. «Sono sempre stata condannata, da quando ero piccola sono stata giudicata con sentenze silenziose. È bello quello che dico, no?» «Per esempio?» «Per esempio: tutto. Tutta la società è un giudizio contro di me. Il lavoro, gli studi, la musica moderna, il denaro, la politica, lo sport, la televisione, le indossatrici, i giornali, le auto. Sono un buon esempio, le auto. Non posso andare in bicicletta, camminare dove voglio, approfittare della città: le auto condannano la mia libertà. E puzzano, sono pericolose…» «Sono d'accordo. Le auto sono una calamità.» Comprarono dello zucchero filato. Piluccando, strappando volute rosa, lo inghiottirono
rapidamente appiccicandosi dita e labbra. «Un'altra questione», disse Clémence. «Secondo me, la grande divisione del mondo, be', a parte tutta la faccenda delle classi sociali, la grande divisione del mondo è tra quelli che andavano alle festicciole scolastiche e quelli che non ci andavano. E questa divisione dell'umanità, che data dalla scuola, permane per tutta la vita sotto altre forme.» «Io non ero invitato alle festicciole.» «Neanch'io. Avevano paura, perché dicevo quello che pensavo, e pensavo molto male dei miei compagni. Detestavo quasi tutti. Era magnifico. Ma adesso, siccome hanno capito quanto siamo fantastici, vorrebbero invitarci alle festicciole di adulti, e fare come se non fosse successo nulla, come se tutto fosse dimenticato. Ma noi non ci andremo, no.» «Oppure solo per fregare i pasticcini e bottigliette di Orangina.» «E dare a tutte quelle persone dei colpi di mazza da baseball sul cranio», disse Clémence mimando il gesto. «E li finiremo con le mazze da golf, è più elegante.» «Con classe, con grazia!» Continuando a discutere lasciarono il parco. Camminavano fianco a fianco: Clémence saltellava, coglieva fiori, inseguiva gli uccelli battendo le mani. Aveva all'incirca l'età di Antoine; a tratti molto seria, e un istante dopo disinvolta e leggera, la sua personalità non cessava di svolazzare. Con aria candida, esclamò allargando le braccia: «Perché non si avrebbe il diritto di criticare, di trovare delle persone stupide e idiote, con il pretesto che saremmo inaciditi e gelosi? Tutti si comportano come se fossimo tutti uguali, come se fossimo tutti ricchi, educati, potenti, bianchi, giovani, belli, maschi, felici, in buona salute, dotati di una grossa auto… Ma non è vero. Quindi ho il diritto di sbraitare, di essere di cattivo umore, di non sorridere beatamente tutto il tempo, di esprimere il mio parere quando vedo cose anormali e ingiuste, e anche di insultare le persone. Protestare è un mio diritto.» «D'accordo, ma… è stancante. Forse c'è di meglio da fare, no?» «Hai ragione», concesse Clémence. «È idiota sprecare energie per faccende che non ne valgono la pena. È meglio conservare le forze per divertirsi.» «E camminare sulla spiaggia.» «Camminare sulla spiaggia… È in una canzone, vero?» Clémence canticchiò un'aria vaga. Camminavano sul marciapiede tra la folla di lavoratori e disoccupati, di studenti, vecchi e bambini. I negozi, le panetterie, le banche erano sempre pieni di quei globuli variopinti che sono gli esseri umani nell'apparato circolatorio della città. Un'auto passò loro davanti suonando il clacson. Dieci metri più in là si fermò a un semaforo rosso. Clémence prese Antoine per un braccio. «Chiudi gli occhi», gli chiese. «Ho una sorpresa per te.» Antoine chiuse gli occhi. Un vento leggero e caldo scompigliò i capelli dei due giovani. Clémence guidò Antoine tirandolo per un braccio; lo condusse in mezzo alla strada. Da un centinaio di metri stava arrivando un'auto nera. «Bene, puoi aprire gli occhi.» «Clémence, sta arrivando un'auto», constatò tranquillamente Antoine. «Hai promesso di fidarti.» «No, niente affatto, non ho mai detto questo.»
«Ah, ho dimenticato di domandartelo. Fidati, d'accordo?» «Clémence, l'auto…» «Giura che hai fiducia in me e smetti di lamentarti, specie di omiciattolo. Non devi muoverti, è molto importante. Giura.» «D'accordo, lo giuro. Non mi muoverò, non… mi muoverò…» L'auto era ormai a trenta metri, il suo clacson urlava perché i due lasciassero la strada. Antoine e Clémence continuavano a stare fermi, dei passanti li osservavano. Al penultimo istante Clémence tirò Antoine per un braccio e caddero sul marciapiede. L'auto nera passò ringhiando con cattiveria e mostrando i denti. «Ti ho salvato la vita», disse Clémence. «Sono la tua eroina!» (Si alzò e aiutò Antoine a rimettersi in piedi.) «Questo vuole dire che siamo legati per tutta la vita. D'ora in poi siamo responsabili l'uno dell'altra. Come i cinesi.» «Credo di avere avuto abbastanza emozioni per oggi.» «Hai un certo numero di emozioni da non superare?» «Sì, è così, se no rischio un'overdose. Non dirmi che le overdose di emozioni sono magnifiche, non ci sono abituato.» Affamati dalla loro vita così avventurosa, Clémence e Antoine decisero di andare a colazione al Gudmundsdottir con As, Rodolphe, Ganja, Charlotte e la sua amichetta. Ma poiché mancavano alcune ore a mezzogiorno, decisero di giocare ai fantasmi. Clémence spiegò ad Antoine in cosa consistesse il gioco: dovevano comportarsi come dei fantasmi, osservare minuziosamente le persone sedute all'esterno dei caffè, andare per le strade e nei negozi rumorosi, ululare, bighellonare approfittando della propria invisibilità, comportarsi come se fossero scomparsi agli occhi del mondo. Agitando le catene e sollevando le braccia in modo terrificante, Clémence e Antoine iniziarono a spaventare la città.