Come si ammala la mente
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Gherardo

Amadei Come si ammala la mente il Mulino

Come si ammala la mente Come avviene che la mente si ammala? Il volume affronta interna delle malattie della mente presentando le principali determinanti dei disagi psichici e i modelli di comprensione del loro insorgere, e chiarendo inoltre cosa si intenda per sviluppo normale. L'autore tiene conto sia del succedersi storico delle differenti teorie, sia del modello esplicativo più recente, qui definito «del disconoscimento e della dissintonia». Riprendere contatto con le proprie empzioni e fiducia nel proprio modo di sentire sembra essere il compito primario per «curare la mente» e recuperare la vitalità smarrita dal corpo.

Gherardo Amadei Medico, psichiatra e psicoterapeuta, è professore associato nell'Università di MilanoBicocca. Con il Mulino ha pubblicato anche «Mindfulness. Essere consapevoli» (2013)

Cover design: Miguel Sal & C

ISBN 978-88-15-25306-4

Società editrice il Mulino

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I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività dell Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

Gherardo Amadei

Come si ammala la mente

Società editrice il Mulino

ISBN

978-88-15-25306-4

Copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Premessa

p.

9

PARTE PRIMA: DUE PERSONE, UN UNICO SISTEMA VIVENTE

I.

II.

Mente e malattia

13

1. Ma la mente si ammala? 2. La memoria delle relazioni e gli schemi mentali 3. La psicopatologia 4. Psiche in bianco e nero...

13 19 26 28

Le determinanti psicologiche

35

1. La prospettiva psicodinamica classica: traumi e conflitti 2. Carenze e sviluppo del bambino 3. Differenze fra i modelli 4. Una nuova ipotesi: le dissintonie 5. «Daimon» e «genius» 6. Monodirezionalità vs. bidirezionalità

38 40 51 55 63 71

III. Il problema dell'autenticità 1. Essere in sé o fuori di sé 2. Esistere anziché reagire

77 77 81

5

PARTE SECONDA: LO SVILUPPO DELLA MALATTIA MENTALE

IV. Disconoscimenti e dissintonie

V.

95

1. Un modo nuovo di guardare le cose 2. Eventi e circostanze psicopatogenetiche nella prospettiva dei sistemi viventi 3. Riconoscimento 4. Conseguenze del disconoscimento

101 122 137

Traumi

141

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

141 147 150 151 153 157 160

Dopo un trauma Il trauma è inevitabile? Neurofisiologia del trauma L'approccio cognitivo Modelli psicodinamici Comprendere i traumi di guerra La guerra vista dal basso

VI. Conflitti 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Il conflitto intrapsichico Tipologie di conflitto La base caratteriale Il conflitto ambivalente innato Conflitto e compromesso psichico Alcune considerazioni attuali

VII. Carenze 1. Il concetto di deficit nella teoria psicoanalitica 2. Deficit, ambiente e psicopatologia 3. Gli effetti della separazione e della perdita sullo sviluppo del bambino 4. La formazione del Sé 6

p.

95

163 164 166 168 171 174 176 181 182 186 187 194

Conclusione. Ritornare Sé 1. 2. 3. 4.

La competenza emotiva Corpo/Mente Un punto ritrovato Dagli schemi mentali ai giochi della mente

Riferimenti bibliografici

p. 199 199 201 204 205 211

7-

PREMESSA

Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. [...] Quale sarà il supporto tecnico di questo mutamento? La possibilità di padroneggiare la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica? Il controllo farmacologico preciso di tutti i sintomi psichici? [...] I progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattìa mentale, come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa soprawiverà, e cioè il rapporto tra l'uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte; che, una volta messo fuori circuito ciò che è patologico, l'oscura appartenenza dell'uomo alla follia sarà la memoria senza età di un male cancellato nella sua forma di malattìa, ma irriducibile come dolore. Michel Foucault [1961; trad. it. 2004, 626]

Il punto di partenza di questo libro è quello di voler fornire delle risposte alla domanda «Come si ammala la mente?». Nella prima parte, dopo aver esplicitato in che modo si intende affrontare il tema delle «malattie della mente» (cap. 1), vengono poi presentate le principali determinanti dei disagi psichici e i modelli di comprensione del loro insorgere (cap. 2), per introdurre infine quale sia il tipo di sviluppo normale a cui ci si riferisce (cap. 3). Nella seconda parte, si approfondiscono le principali determinanti psicologiche presentate nella prima parte (capp. 4, 5, 6 e 7). Per quanto riguarda le determinanti psicologiche, mentre nella prima parte si è deciso di seguire uno sviluppo storico dell'argomento, nella seconda parte si è invece preferito iniziare dai modelli esplicativi più recenti, qui definiti «disconoscimenti e dissintonie», e proseguire poi con quelli tradizionalmente più usati. Questa scelta rivela che se esiste un modo di comprendere lo sviluppo della 9

psicopatologia che è stato privilegialo (quello che attraversa tutta la prima parte, il cap. 4 e le note conclusive), si è anche ritenuto conveniente presentare gli altri importanti orientamenti psicopatogenetici. Voglio infine ringraziare Silvia Galvani (autrice del cap. 5 sui traumi), Davide Cavàgna (autore del cap. 6 sui conflitti) e Giovanni Stella (autore del cap. 7 sulle carenze) poiché i loro preziosi contributi hanno consentito di perseguire (e spero di raggiungere) il fine di fornire al lettore una conoscenza, anche «manualistica», del vastissimo territorio delle origini del disagio mentale.

10

PARTE PRIMA

DUE PERSONE, UN UNICO SISTEMA VIVENTE

CAPITOLO PRIMO

MENTE E MALATTIA

1. Ma la mente si ammala? Hai cominciato a leggere queste righe: bene, ora prova a immaginare che la mente «ammalata» possa essere la tua. Prima di replicare, forse con fastidio, forse con imbarazzo, «ma la mia mente sta benissimo!» cerca di lasciar fuori dai tuoi pensieri il matto, vestito con il cappotto anche in agosto, che urla contro la congiura delle voci dentro la sua testa, mentre spinge un carrello del supermercato in mezzo al traffico delle auto di Corso Buenos Ayres..., prova a dimenticare i serial-killer..., scordati di Ofelia, pazza d'amore perché respinta da Amleto..., non confrontarti con quel tuo collega di lavoro che prende da anni quelle strane pillole rosa..., lascia perdere la figlia della tua vicina di casa che sembra ormai uno scheletro con gli abiti addosso..., non riferirti a quello che, un tempo, era un ragazzo senza vita e ora è un uomo senza età, che, ogni volta che ti capita di andare al parco con il tuo cane, lo incontri a passeggiare lentamente, silenzioso e senza espressione, costantemente al braccio di una madre anziana, sempre più anziana... Non si tratta infatti di prendere come termine di paragone le forme psichiatriche «maggiori», come ad esempio la catastrofe psicotica, il furore della maniacalità o la melanconia suicida: quello di cui qui si vuole trattare non sono quelle patologie che occupano il maggior spazio nei manuali di psichiatria e nelle riviste specializzate del settore o che arrivano sulle prime pagine dei giornali per gli atti tragici che ne possono derivare (con frequenza peraltro statisticamente non maggiore degli atti distruttivi e tragici compiuti dai presunti sani...). Affrontare la com13

plessità della eziologia di quelle patologie richiederebbe una trattazione a se stante e di diverso tipo, basti pensare alla differente importanza delle determinanti biologiche, non ancora definite ma certamente riscontrate. Quel che si vuole qui mettere in chiaro sono dunque i confini di questo testo, che lungi da qualsivoglia pretesa di onnicomprensività a riguardo della individuazione di eventi, fattori e meccanismi implicati nella genesi delle malattie e dei disagi mentali in generale, intende invece concentrarsi sui disturbi delle relazioni interpersonali, che non si accompagnano necessariamente alle più gravi manifestazioni psichiatriche1 e che neppure diventano dei compiuti disturbi della personalità2. Quello che si intende proporre è infatti una visione deU'«ammalarsi della mente» da intendersi soprattutto come rigidità di una grande parte del funzionamento mentale quotidiano che allontana una persona da se stessa e dal suo esserci autenticamente nelle relazioni interpersonali. Tale «inflessibilità» ha a che fare con molteplici modalità di pensare (di sentire, di trattare sé e gli altri) che però hanno tutte in comune delle pregiudiziali interpretazioni delle esperienze. Alcuni dei modi che la rigidità della mente può assumere sono, ad esempio, quelli che: • hanno abituato una persona a credere che l'infelicità sia un destino e che le relazioni con gli altri non possano che essere insoddisfacenti, infelici o umilianti; • impediscono di immaginare che si possa cambiare qualcosa nella vita; • fanno inesorabilmente fallire ogni nuova relazione sentimentale; • non consentono a una persona di avere una adeguata stima di sé (permanendo invece o nel «faccio schifo» o nel suo opposto «sono un genio incompreso»); • fanno sentire di essere sempre in difetto; • convincono di dover fornire in ogni occasione livelli di prestazione quanto più elevati; • inibiscono la spontaneità; • impediscono di vivere il momento presente... 14

Quando un bambino subisce troppe interferenze o l'eccessiva assenza dei genitori è obbligato ad impiegare la propria energia mentale per far fronte alle intrusioni o alla indisponibilità, invece che per esplorare se stesso. Questa energia mentale, allora, prende il predominio, determinando una situazione in cui la mente pensante diventa il centro dell'intera esistenza del bambino [...], il che lo porta a sviluppare precocemente un sé vigile, che ha una sottile sfumatura di falsità [Epstein 1998; trad. it. 1999, 26], La mente che pensa non è certo in sé una nemica, ma quando si trova per necessità di sopravvivenza a prevaricare le sue stesse capacità percettive ed emotive, quando diviene una mente ansiosa e dunque ipervigilante, allora la persona diviene orientata verso l'esterno, e tenderà a osservare soprattutto le azioni dell'altro e a reagire di conseguenza. Questo comporta l'instaurarsi di una tendenza alla non autenticità rispetto alla spontanea modalità di essere, proprio per questa esigenza di non perdere il controllo sulla relazione con l'altro e al contempo di progredire sulla strada di mantenere il Sé quanto più integrato. Peraltro, come sosteneva Donald Winnicott [1965b; trad. it. 1997, 73], la condizione opposta alla integrazione non è la dis-integrazione, ma la non-integrazione, intesa come una condizione psicologica in cui il Sé non rinuncia alla propria soggettività ma anzi la approfondisce, senza assumere come centro dei propri interessi il comportamento e l'approvazione dell'altro. Si delinea qui una dicotomia winnicottiana di grande valore euristico, quella tra «esistere», cioè essere insediati nella propria autenticità mentale e corporea (e aver quindi la capacità di incontri diretti, in un'attitudine mentale di apertura), oppure «reagire», che si riferisce invece all'assumere una postura mentale orientata al monitoraggio dell'altro. Insomma, le malattie della mente delle quali ci si propone di comprendere l'origine sono esclusivamente quelle che si mostrano nel modo in cui ci relazioniamo con noi stessi e con gli altri: l'area tematica che si è scelto di trattare attraversa pertanto, senza sovrapporsi, sia quella del campo dei disturbi psichiatrici raccolti nell'asse I del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) [APA 1 9 9 4 ] 3 , sia quella caratterizzata nosograficamente dal 15

termine «disturbi della personalità», raccolti nell'asse II dello stesso manuale. Porre queste distinzioni nasce da differenti motivi. In primo luogo, pur riconoscendo la verità di quel che sosteneva già Fenichel [1945], cioè che tutti i sintomi derivano da specifici atteggiamenti dell'Io (e che quindi, in certa misura, tutte le analisi sono analisi del carattere), intendendo con ciò sottolineare la fallacia di distinguere in maniera netta tra una patologia caratterizzata da sintomi e una da relazioni disfuzionali, è pur vero che il complesso e imprevedibile intreccio dei fattori biologici, psicologici e sociali conduce, attraverso sequenze psicopatogene molto diverse, a medesimi disturbi psichiatrici o, al contrario, eventi in apparenza simili, se non uguali, possono determinare esiti assai differenti, di cui solo taluni francamente patologici. Date tali premesse di tipo stocastico4, è evidente che sintomi psichici possono, o meno, essere associati con i disturbi delle relazioni, come li si sta qui considerando. Inoltre, il prendere in considerazione un'area più ampia dei disturbi della personalità è conseguente alla considerazione che entro questa categoria diagnostica, necessariamente rigida per esigenze di precisa classificazione, non riesce a trovare posto quella diffusa sofferenza che caratterizza invece persone che hanno una serie di «difficoltà relazionali», pur non avendo quelle specifiche modalità di esperienza interiore e di comportamento esteriore tipiche dei «disturbi della personalità» propriamente detti, caratterizzati da disagio clinicamente palese, da compromissione molto spiccata del funzionamento della persona, in ogni suo contesto, conseguendone così delle deviazioni marcate rispetto alle aspettative della società e della cultura, come appunto recitano i criteri di classificazione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali [APA 1 9 9 4 ] , Infine, le malattie della mente che qui si considerano, anche quando non arrivano a determinare dei veri e propri «disturbi della personalità», possono però condurre a «disturbi delle relazioni», cioè a far sì che le persone che ne risultano affette stabiliscano delle modalità interpersonali che appaiono funzionare così che le loro vite possono 16

sembrare sufficientemente integrate: in effetti non sono, per lo più, presenti delle «deviazioni marcate» dal funzionamento normale o sintomi manifesti e strutturati, ma tutta la vita di queste persone è un sintomo... Occupando un'area più estesa di quella dei disturbi della personalità propriamente detti, al centro di questo testo sono dunque i multiformi disturbi delle relazioni tra persone, persone che, al di là di svariate differenze, possiedono però un elemento comune: una malattia della mente, intendendo con questo una mente che tende a privilegiare la percezione delle «esperienze della continuità» rispetto alle «esperienze della discontinuità», che tende a «pensare» piuttosto che «provare», che tende a restare ancorata al «passato» delle precedenti esperienze o a proiettarsi nel «futuro» desiderato (o temuto) piuttosto che a rimanere nel «presente» percettivo. Le malattie della mente sono anche quelle in cui la nostra mente ci impedisce di prendere in considerazione che possiamo contribuire significativamente al benessere come al malessere del nostro corpo e della nostra mente. Infatti abitualmente si pensa che siano gli altri quelli che non vanno bene: «E mio padre che non mi capisce», «E mia madre che mi picchia» ^ «E mio figlio/mia figlia che è strano/a e non parla mai», «E mia moglie/mio marito che è fuori di testa, non io». Certo i «fuori di testa» esistono, come esistono i depressi, i violenti, gli psicotici... guarda caso, però, è proprio tipico della follia pensare che il folle sia l'altro e quindi una delle prime operazioni di buon senso che conviene compiere quando ci si inoltra in questo perturbante territorio è quella di cominciare a guardare a se stessi e alle proprie relazioni, e questo non alla ricerca di cosa va male nell'altro (impostazione paranoica) e neppure di cosa va male in sé (impostazione depressiva) ma con l'obiettivo di capire cosa non funziona tra me e l'altro. Il che comunque deve aver poi come successiva conseguenza il capire e il modificare cosa non va in me, poiché ancora una volta ogni focalizzazione sull'altro («È lui che deve cambiare») è, ai fini della relazione, o del tutto inutile o francamente nociva. In termini psicologici e, come detto sopra, fuori da relazióni con altri marcatamente disturbati, se c'è qualcuno da cambiare non è l'altro: siamo noi. Iniziando con il 17

chiederci cosa la mente ci illumina e cosa ci oscura, impedendoci di comprendere la radicale differenza tra quel che si può trasformare e va dunque trasformato (che è molto più di quel che siamo soliti pensare) e quel che invece non si può davvero cambiare e va dunque tollerato (che, a ben vedere, può forse ridursi al fatto che oggi stia piovendo a dirotto...). Questo libro intende dunque assumere il punto di vista secondo cui le malattie della mente derivano dalla trasformazione in senso rigido e pervasivo della fisiologica e adattativa tendenza del funzionamento mentale verso la costruzione di schemi, cognitivi e affettivi. Se della normalità insita nell'organizzare in schemi il succedersi delle esperienze si parlerà nel prossimo paragrafo, va qui detto che tali schemi mentali possono avere una consistenza sottile, cioè quella indispensabile per funzionare secondo una buona partecipazione esperienziale, o invece acquisirne una assai spessa, fino ad accrescersi verso dimensioni sempre maggiori, in cui gli schemi risultano essere così stabili e ubiquitari da presentarsi in ogni settore della vita di una persona limitandone in modo marcato, talora fino alla psicopatologia dei disturbi della personalità, le possibilità relazionali. In tale formulazione riecheggiano evidentemente le intuizioni di Wilhelm Reich [1933] sullo spessore della «corazza caratteriale», che impedisce la fluidità degli incontri, e anche quelle di Donald Winnicott [1965b] sulla quota di «falso Sé» presente ordinariamente nel funzionamento della vita di tutti i giorni. Le malattie della mente sono quelle che la fanno identificare con le emozioni distruttive che la attraversano, sono quelle che la rendono rigida impedendole di pulsare come il cuore, di espandersi e di contrarsi come il diaframma durante il respiro, di fluttuare percettiva e senza giudizi. Le malattie della mente sono quelle che non ci fanno giocare con la realtà, poiché non possiamo più vederla direttamente, ma solo sbirciarla attraverso le lenti deformanti di «schemi», memorie di relazioni che rappresentano pregiudiziali modalità di sentire, di pensare, di valutare le esperienze e quindi di relazionarci con noi stessi e con gli altri. 18

Le malattie della mente sono quelle che conducono a relazioni disturbate. 2. La memoria delle relazioni e gli schemi

mentali

«Oh, il nostro Johnny va sempre di corpo così bene subito dopo la prima colazione». «Billy adora leggere...». «Non è carina Joan? Le piace lasciar vincere gli altri». «Sylvia è tanto bellina e matura: le piace vestirsi come una donnina». Mi sembrava che migliaia di ultrasemplificazioni all'anno tradissero la verità nel cuore di un bambino: ad un certo momento sentiva di non aver sempre voglia di andare in bagno dopo la prima colazione, ma la cosa faceva tanto piacere a mammina. Billy invece moriva dalla voglia di sguazzare nel fango con gli altri ragazzi, ma... Joan avrebbe voluto strappare il pene di suo fratello a morsi ogni volta che vinceva lui, ma... E Sylvia sognava a occhi aperti un paese in cui non avrebbe avuto bisogno di preoccuparsi del suo aspetto... Gli schemi sono la prostituzione allo schema dei genitori. Gli adulti comandano e premiano gli schemi. E così, schemi siano. E alla fine infelicità. Queste osservazioni, formulate da Luke Rhinehart, l'esasperato protagonista dell'Uomo dei dadi5, credo che ben illustrino, nel registro letterario, proprio quello di cui si sta trattando. Gerald Edelman [1992] ha avanzato l'ipotesi che le strutture neurologiche e le funzioni psicologiche si sviluppino non come conseguenza di istruzioni o di prescrizioni, ma in seguito a processi di selezione naturale di tipo evolutivo ed esperienziale. E la teoria del cosiddetto darwinismo neuronale, che si determina in conseguenza del determinato valore in termini di sostegno alla sopravvivenza che un bambino assegna a una certa esperienza, ad esempio, al cibo, alla temperatura, al contatto con le altre persone. Le differenze in termini di «valore» (termine evidentemente non usato nel senso comune, ad esempio, di «valori umani») servono a discriminare fra le esperienze e quindi a orientare l'orga19

nismo verso la sopravvivenza mediante la organizzazione dei valori in categorie [Ghent 2002, 775], come quelle di «mangiabile» o «non mangiabile» per quanto concerne il processo di acquisizione di esperienze a riguardo del cibo. Dunque, fin dagli inizi della vita, un essere umano è specificatamente orientato a stabilire in modo attendibile i significati delle diverse esperienze che attraversa: in effetti, noi impariamo ad essere motivati nel processo di attribuzione di significato in quanto questo rappresenta un grosso vantaggio ai fini della sopravvivenza. Tali attribuzioni e ri-attribuzioni di senso, o ciò che Edelman [1992, 160] chiama ricategorizzazioni delle esperienze, sono intrinseche ad ogni percezione e ad ogni azione [Ghent 2002, 767]. Lo stabilirsi di schemi mentali può quindi essere interpretato come una strategia di sopravvivenza per compiacere l'altro, cioè il genitore, dal quale originariamente dipendiamo e con il quale dobbiamo creare un legame di attaccamento in funzione della nostra primaria esigenza di sopravvivere. La memoria delle relazioni, sotto forma di schemi mentali, può essere rintracciata sia nei comparti espliciti sia in quelli impliciti delle strutture mentali deputate alla conservazione dei ricordi. Peraltro vi è ormai sempre maggiore evidenza che sono le componenti procedurali implicite quelle chiamate centralmente in causa a proposito della responsabilità di sostenere i funzionamenti mentali maladattativi e psicopatologici. Rispetto alla impostazione psicoanalitica classica che per spiegare tale fenomeno ricorreva al concetto di «interiorizzazione degli oggetti», svariati autori6, Loewald [1980] tra i primi, hanno invece sostenuto, con accenti diversi, che quel che si interiorizza non sono «gli oggetti», ma «le relazione con gli oggetti», cioè le regole del funzionamento relazionale, e hanno sviluppato modelli originali per dar conto del fenomeno sia fisiologico sia patologico del mantenimento in età adulta di stili relazionali originati nelle esperienze interpersonali infantili. Tali esperienze di micro sequenze interattive si costituiscono come le memorie delle relazioni e quindi diventano informazioni a partire dalle quali ^li eventi del passato 20

possono influenzare gli eventi del futuro, «nel cervello non esiste un "deposito" in cui le informazioni vengono riposte e ritrovate in caso di necessità: l'immagazzinamento delle memorie consiste in una variazione nelle probabilità di successiva attivazione di un particolare pattern di eccitazione neurale» [Siegel 1999; trad. it. 2001, 25]. Quindi «in risposta agli stimoli che provengono dall'ambiente il cervello può attivare una serie di circuiti, dando luogo a un insieme di pattern di eccitazione anatomicamente e cronologicamente correlati, che vengono registrati, immagazzinati e successivamente «richiamati» sulla base di un semplice assioma, originariamente enunciato da Donald Hebb: «neuroni che vengono eccitati contemporaneamente una prima volta tenderanno ad essere attivati insieme anche in seguito» [ibidem]. Passando dunque dalla dimensione cerebrale (in cui questi fenomeni di «associazione funzionale» e «integrazione spazio-temporale» costituiscono le basi della capacità di ricordare delle reti neurali) alla dimensione mentale, la psicoanalisi e le moderne scienze cognitive dello sviluppo concordano nel ritenere: • che i bambini organizzano e danno forma alle micro sequenze interattive in rappresentazioni mentali, altrimenti definibili come schemi affettivi e cognitivi di sé e degli altri; • che questi schemi regolano un ampio spettro di successivi comportamenti. Se nelle esperienze di sviluppo sufficientemente buono tali rappresentazioni (o schemi) mentali possono essere veridiche organizzazioni della realtà degli scambi intersoggettivi pregressi, nelle esperienze di sviluppo patologico tali rappresentazioni possono presentare i caratteri di varie distorsioni patologiche della realtà di sé e dell'altro. Dunque tali rappresentazioni (o schemi) derivano da esperienze del passato di cui costituiscono una memoria vivente, guidando il soggetto a una certa aspettativa circa lo svolgimento dei successivi processi relazionali, costituendo cioè una sorta di «trama attesa» mediante la quale la realtà del presente può essere influenzata in maniera significativa dalla memoria di relazioni passate. E importante però sottolineare che noi «non abbiamo la sensazione di stare ricordando qualcosa, ma andiamo semplicemente incontro 21

a stati della mente che percepiamo come parte della nostra realtà presente» [ibidem']. Tali stati mentali, influendo su percezioni, emozioni, convinzioni e comportamenti, tendono a diventare dei modelli mentali, più o meno rigidi o all'opposto flessibili, attraverso cui un individuo filtrerà le proprie relazioni interpersonali [ibidem, 34 s.]. A proposito di questi fenomeni, al posto del ricorso al concetto di derivazione psicoanalitica «oggetto interno», considerato impreciso e ambiguo, John Bowlby ha introdotto il termine concettuale di «modello operativo interno» (.Internai ^Working Model, IWM): esso è costituito dalle principali caratteristiche che un individuo attribuisce al mondo, cioè dell'altro, e a se stesso «in quanto, agente nel mondo esterno» [Bowlby 1979; trad. it. 1982, 123]. Concrete esperienze relazionali originarie conducono dunque ogni individuo a sviluppare interiormente uno o più di tali modelli operativi dell'altro e di sé, che «determinano le sue aspettative e le sue previsioni e gli forniscono strumenti per costruire piani d'azione. Il concetto di modello operativo tanto di sé quanto dell'altro comprende elementi attualmente concepiti in termini di immagine del Sé, autostima ecc.» [ibidem, 124]. Tale «modello operativo interno» inconscio, ma non determinato da una rimozione, fornisce dunque le linee guida essenziali per il pensare, il sentire, l'agire e il reagire del soggetto nel mondo, verso gli altri e verso se stesso: per dirla con George Perec il modello operativo è dunque una sorta di «manuale di istruzioni» interpersonali del vivere sociale, far previsioni e programmare. Oltre a Bowlby, differenti autori, tra i quali i Daniel Stern [1985], Lorna Benjamin [1996] e Jeffrey Young e Klosko [1993], hanno proposto altri «modelli» (rispettivamente i RlGs, Representations of Interactions that been Generalized, le IPIR, Important Persons Internalized Representations, le lifetraps7) inerenti al fatto che le memorie delle relazioni prendono le forme di regole procedurali, mediante le quali si determinano aspettative circa il comportamento proprio e altrui, orientando in tal modo la dinamica degli incontri interpersonali. Le differenze tra i RlCis ili Stern e i «modelli operativi interni» di Bowlby, gli IWM, sono che 22

a) gli IWM riguardano aspettative generali per quanto concerne la sicurezza dell'attaccamento, mentre i RlGs riguardano ogni tipo di interazione; b) gli IWM sono più vasti, essendo infatti il risultato di molte interazioni, di molti RlGs, che possono essere concettualizzati come i mattoni di base che costituiscono un «modello operativo interno»; c) i RlGs sono dei principi di organizzazione più spostati verso il versante affettivo rispetto agli IWM che sarebbero più avvicinabili a costrutti cognitivi. Quanto alle IPIR di Lorna Benjamin esse sono delle rappresentazioni di relazioni che permettano una codifica in termini SASB {Strutturai Analysis of Social Behavior), cioè di fatto sono delle definizioni di una persona che si rifanno ai tre foci relazionali individuati dalla SASB {focus del Sé che agisce verso l'altro, focus dell'altro che agisce verso il Sé e focus del Sé che agisce verso se stesso). Per quel che riguarda le lifetraps di Young, invece, esse si riferiscono a schemi maladattativi, mentre gli altri modelli concettuali possono avere caratteristiche normali come patologiche. A ogni livello di rigidità dello schema mentale (o di quantità di «inautenticità» o di dimensioni della «corazza caratteriale») corrisponde una sempre minore possibilità di fruizione esperienziale e una sempre maggiore stereotipia relazionale: pertanto l'area dei «disturbi delle relazioni» (sottesa dai disturbi della mente) si estende dalle forme più elementari, i disturbi della regolazione delle relazioni, fino alle cristallizzazioni più consistenti, quelle cioè che danno forma ai veri e propri «disturbi della personalità», caratterizzati da modalità rigide e pervasive di disadattamento in tutte le relazioni private e pubbliche di un individuo. E ormai sempre più diffuso il riscontro di un particolare tipo di disagio psicologico manifestato da persone per le quali le relazioni interpersonali sono causa ed effetto di grave disagio, con compromissione di aree importanti del funzionamento affettivo, lavorativo e sociale, e pur tuttavia la definizione del loro malessere non è facilmente riconducibile a precise categorie diagnostiche. Sono persone che arrivano alla terapia non per una singola crisi esistenziale ma perché soffrono da sempre a cau23

sa di modi di relazionarsi non soddisfacenti, in particolare per quanto riguarda la possibilità di costruire legami veramente autentici e intimi [Amadei e Pesenti 2004, IV]. Questo è probabilmente dovuto al fatto che la particolare qualità (che in seguito definiremo come di «non-sintonia», cfr. cap. 4) delle esperienze originarie tra l'individuo e chi si è preso cura di lui, ha indotto l'individuo stesso a nascondere la propria autenticità, il proprio Sé «essenziale», conducendolo a distorcere o a celare le proprie percezioni, emozioni, stati affettivi in funzione della loro accettabilità da parte dell'altro, dunque a mettere di fatto la propria esistenza in una lifetrap [Young e Klosko 1993], cioè in una sorta di «trappola-della-vita» costituita da modalità di pensare, di sentire, di agire e di avere relazioni che svuotando una persona della propria vitalità la rendono estranea a se stessa. Queste lifetraps sono dunque degli «schemi patologici» che veicolano specifiche memorie di esperienze relazionali disfuzionali e che ingabbiano la vitalità delle persone: i temi delle varie trappole (la convinzione dell'inaffidabilità/ instabilità delle persone che dovrebbero dar sostegno, con la conseguente paura dell'abbandono; il senso di essere costantemente in difetto; la credenza di dover fornire in ogni occasione elevati livelli di prestazione; l'aspettativa che le cose andranno per forza male; l'inibizione alla spontaneità ecc.) vengono ripetutamente rielaborati e rinforzati attraverso tutto il corso della vita, tendendo così a differenziarle in modo caratteristico, pur rimanendo aree di sovrapposizione. Proprio in quanto gli schemi, le lifetraps, forniscono delle risposte «familiari» (sia nel senso generico di «noto» sia in quello specifico di «originato in famiglia») a domande esistenziali cruciali quali «Chi sono io?» e «Cosa mi devo aspettare dall'altro?», le persone sono per lo più attratte da quelle situazioni interpersonali che confermeranno lo schema mentale stesso. Questo «danneggiamento» del senso di sé e delle relazioni con gli altri, fa sì che la limitazione della piena percezione, a cui taluni schemi (come, ad esempio, le lifetraps) conducono, sia assimilabile a una sorta di malattia della mente. 24

Va messo in evidenza che l'accostare il termine «malattia» a quello di «mente» avviene all'interno di una impostazione che comunque guarda alle manifestazioni psicopatologiche come «veri e propri disturbi di un intero sistema e non mere conseguenze della perdita di una singola funzione» [von Bertalanffy 1959; trad. it. 1970, 2199], Questo in primo luogo significa includere la mente in un sistema mente/ corpo (cfr. la conclusione), considerando inscindibile l'insieme psicofisico di una persona, caratterizzata da una propria attività autonoma, primaria, immanente e spontanea. Infatti, si considera: a) che «l'organismo non è passivo, ma è un sistema intrinsecamente attivo, anche senza l'intervento di stimoli esterni» e che b) «lo stimolo (per esempio un cambiamento nell'ambiente esterno) non causa un processo in un sistema altrimenti inerte, bensì modifica dei processi in un sistema dotato di attività autonoma» [ibidem]. Quindi, secondo tale impostazione, si può senz'altro parlare di malattia «quando la spontaneità è disturbata» [ibidem, 2209], intendendo con questo tutte quelle situazioni relazionali in cui una persona «diventa sempre più un automa» e il suo comportamento risulta dettato da una tendenza passiva del tipo «stimolo-risposta» piuttosto che da una negoziazione interattiva tra Sé e l'altro. In questo libro si cercherà di fornire al lettore la conoscenza delle principali teorie sulle cause che possono influenzare negativamente la mente di una persona, conducendola dalle forme più «normali» di riduzione della pienezza dell'esperienza a quelle più patologiche, arrivando così, attraverso differenti gradi di disagio, di sofferenza, di malattia della mente, fino a disturbi delle relazioni, in presenza o in assenza di uno strutturato disturbo della personalità. Da una prospettiva diversa da quella psichiatrica, verranno esposte alcune ipotesi su come originano i disagi della mente, non potendo affrontare il tema della loro presunta inevitabilità (poiché intrinseci alla condizione umana e ai processi di civilizzazione), o se, per converso, si dia la possibilità, almeno teorica, che non si determinino. Su questo però almeno una considerazione merita di essere posta a riguardo del fatto che introdurre «modelli della malattia», che cercano di capire l'origine della patologia, 25

dovrebbe andare parallelamente allo spiegare lo sviluppo normale di una persona, poiché «i modelli del benessere e della competenza» non sono semplicemente il negativo di quelli del disagio. D'altronde si parla solitamente di più sul come mai le cose possono andar «storte» rispetto al perché questo non succede. Così peraltro va il mondo... e così, per lo più, va anche questo libro... che solo qui e là, in particolare nelle note finali, proverà ad accennare qualcosa su questo. 3. . La

psicopatologia

La psicopatologia è materia di studio che comprende una parte statica e una dinamica: quella statica si rivolge alla descrizione e alla classificazione delle forme del disagio psichico, mentre quella dinamica si orienta a comprenderne le cause. Questo testo intende dunque collocarsi nell'amplissimo territorio della psicopatologia (comprendente, come detto, sia descrizioni fenomenologiche sia formulazioni di dinamiche eziopatogenetiche) e all'interno di questo prendere in esame specificamente i disagi delle relazioni tra le persone, riconducendone le possibili origini a disagi della mente e questi a pregressi disagi tra persone. Nel testo, la ricerca di questo tipo di connessioni avviene all'interno della generale cornice teorica di riferimento fornita dalla cultura psicoanalitica, che nel corso della sua storia ormai pluricentenaria ha mostrato di possedere, in particolare dagli anni '70 in poi, delle capacità di evoluzione determinanti per garantirne la sopravvivenza, anzi la piena vitalità, a patto, ben inteso, di saper stabilire alleanze con le altre culture emergenti del campo psicologico, tra cui in particolare le neuroscienze e il cognitivismo postbehaviorista. Ma anche la psicologia genericamente definibile come «orientale» rappresenta un sapere che non può essere escluso da una disponibilità all'integrazione nel progetto di costruire una scienza della mente8. Ciò detto, va ribadito che la convenienza di individuare le relazioni interpersonali come luogo di origine dei disagi mentali e anche come luogo dove i disagi, da lì nati, 26

si manifestano dopo aver fatto ammalare la mente di una persona, nasce da diverse convinzioni: 1. che la mente sia intrinsecamente relazionale (e corporea) e quindi le interazioni tra le persone costituiscano la via regia per la comprensione delle malattie della mente (nonché contribuiscano alla comprensione anche di quelle del corpo); 2. che i disturbi delle relazioni, riguardanti quella infelicità diffusa che intrappola la vitalità delle persone e le conduce a triturare le loro esistenze in un dolore silenzioso o in comportamenti di autocura più o meno efficaci9, siano enormemente più diffusi dei disagi conclamati e classificati nei manuali; infatti la rilevanza nella società dei disturbi relazionali supera di gran lunga qualunque stima del disagio basata unicamente su quelle determinate forme cliniche, come i disturbi della personalità, che vengono solitamente all'osservazione e alla cura degli specialistici; 3. che, se è vero che ci sono più forme di disagio che colori nella coda di un pavone e che tali forme sono radicalmente diverse tra loro (come può essere un disturbo d'ansia da una schizofrenia ebefrenica), i disturbi delle relazioni precedono e sottendono tutte le successive manifestazioni patologiche e tutti i successivi sintomi che il disagio psicologico potrà assumere; 4. infine, che questa attenzione alle relazioni possa, forse, far superare molti dei limiti ancora presenti nelle diverse teorie circa la genesi dei disagi mentali, in quanto le osservazioni sulle persone con malattie della mente sono ancora per lo più condotte secondo classificazioni e ipotesi eziopatogenetiche che risentono marcatamente di un impostazione di stampo individualistico e non relazionale. Passare da modelli eziopatogenetici, cioè di spiegazione della genesi della patologia, di tipo individuale a modelli relazionali crea comunque i presupposti per vedere, e non vedere..., in modo del tutto differente. Tralasciamo volutamente di parlare di demoni e indemoniati, delle «navi dei pazzi» e degli psichiatri francesi dell'inizio dell'Ottocento... perché non è in questa sede che si intende redigere una ennesima Storia della follia10 per l'età postmoderna. Prima di introdurre il lettore ai modi in cui un disagio relazionale diventa un disagio della mente che ulteriormente scompaginerà le attese quanto alle 27

successive relazioni (cfr. cap. 2), proviamo, a entrare in un cinema.

semplicemente,

4. Psiche in bianco e nero... Stanno proiettando Psycho di Alfred Hitchcock11: Marion (Janet Leigh) è una giovane donna che, con una decisione subitanea, ruba un'ingente somma di denaro affidatale per essere depositata in banca. Così si allontana in fuga guidando l'auto fino a notte e fermandosi per riposare in un motel fuori mano e privo di clienti. Tra lei e Norman Bates, il proprietario del motel, interpretato da Antony Perkins, si stabilisce una certa confidenza, tanto che lui le espone la sua difficoltà di vivere, un po' tiranneggiato da una vecchia e possessiva madre e, con una disarmante estrinsecazione edipica, arriva addirittura a confessarle che «un figlio non è che un povero sostituto di un'amante...». Dopo essersi congedata da Norman e ritiratasi nella propria stanza, Marion decide di fare una doccia... ed è proprio lì che sarà pugnalata ripetutamente a morte in una delle scene più violente e più famose del cinema: quarantacinque secondi di pellicola che Hitchcock ricordava avevano richiesto sette giorni di ripresa e settanta posizioni di macchina. La rivista «Hospital and Community Psychiatry», nel n. 42 dell'ottobre 1991, riporta un articolo di Hyler, Gabbard e Schnider intitolato Homicidal maniacs and narcissistic parasites: Stigmatization of mentally ili persons in the movies, concernente i rischi di una determinata modalità di rappresentazione filmica delle persone affette da malattie mentali. Scopo dello scritto è, in primo luogo, focalizzare l'attenzione sulle immagini di tali pazienti nei film; in secondo luogo, sottolineare le marcate influenze di tale modalità nel contribuire a una distorta e stigmatizzante percezione delle persone sofferenti di disagio psichico. Per far ciò gli autori invitano a osservare come tali persone sono state raffigurate al cinema, e individuano alcune precise categorie di personaggi in cui vengono incluse le persone malate: «personalità ribelli», «pazzi omicidi», «seduttrici ninfomani», «spiriti eccelsi ma incompresi», 28

«parassiti narcisistici», «esemplari da giardino zoologico», portando ad esempio una serie di film famosi come Qualcuno volò sul nido del cuculo e, appunto, Psycho. Essi concludono che tale modalità di raffigurazione è stereotipata, falsificante e danneggia la comprensione di persone che, anzi, vengono a essere stigmatizzate proprio a partire dal loro malessere. Quanto ai rischi della ricaduta nella società di simili devianti personificazioni cinematografiche delle malattie mentali sembra essere concorde anche Giancarlo Grossini [1984]: «risulta necessario [...] comprendere come spesso il pregiudizio vigente ancor oggi sulla malattia mentale sia stato mediato, ravvisato e mantenuto, a mo' di vera fissazione, proprio dal cinema che, insistendo in maniera abnorme su determinate manifestazioni di squilibrio mentale [...] ha percorso un itinerario ancor oggi contrario a quelle riflessioni e proposte operative che hanno visto la luce nella legge 180»; infatti «Il cinema porta avanti con incredibile solerzia lo stereotipo del malato mentale come eccesso, come esasperazione dell'abnorme». Forte di un lavoro di analisi compiuto su 353 film, Grossini afferma «come vengono rappresentati i malati di mente è cosa che nel cinema pare divenuto riferimento a stereotipi narrativi: si va dalla classica macchietta allo psicopatico assassino [...] sempre più dirigendo lo spettatore non tanto a valutare il perché il soggetto agisce in determinati modi contrari alla norma, quanto a seguire dinamiche tipicamente afferenti alla suspance [...]; quel che più sconvolge è l'assoluta mancanza di realismo nel connotare i personaggi pazzi». Anche per questo autore, concordemente a Hyler, Gabbard e Schnider, Psycho viene assunto come l'esemplare paradigma di una fuorviante associazione tra follia e violenza e quindi responsabile di una disinformazione sociale di grave danno al problema delle persone sofferenti psichicamente. Ma davvero le coltellate di Norman Bates/Antony Perkins stabiliscono quella associazione forzata tra malattia e morte che induce Hyler a scrivere: «Questo film perpetua il mito che la schizofrenia significa scissione della persona29

lità in diverse parti, una delle quali può rappresentare una violenta, pericolosa minaccia per la società»? Contro le argomentazioni contenute nell'articolo pubblicato da «Hospital and Community Psychiatry» si è espresso in seguito (sempre sulla stessa rivista, n. 43 del marzo 1992) William P. Jackson, sostenendo che gli stereotipi non sono che una delle svariate modalità di esprimere le nostre esperienze umane, comprese le nostre paure più naturali. Ci si può dunque chiedere se parzialità o pregiudizi verso la follia siano creati/inventati dal cinema o se invece questo si incarica piuttosto di mostrare quanto di pregiudizialmente stereotipato esiste nel nostro mondo interno circa la paura delle nostre parti «folli». Allora tale problema si viene ad aggiungere a quello di una falsa o cattiva rappresentazione del dolore mentale: Hyler, Gabbard e Schnider concludono il loro scritto invitando i registi a una maggiore sensibilità e a una più accurata capacità di ritrarre persone con disordini mentali al fine di controbilanciare le raffigurazioni selvagge e inaccurate presentate in Psycho e Qualcuno volò sul nido del cuculo. Tralasciando di commentare qui le critiche nei confronti di quest'ultimo film, che meriterebbero uno spazio a parte, viene però voglia, «in difesa» di Psycho, di ricordare un passo del celebre libro-intervista ad Alfred Hitchcock di Francois Truffaut: F.T.: «Tutta la costruzione del film mi fa pensare ad un tipo di scala dell'anormale; innanzitutto la storia inizia con una scena di adulterio; poi un furto; poi un delitto; due delitti ed infine la psicopatia. Ogni tappa ci fa salire di un gradino. È così?» A.H. «Sì, ma per me Janet Leigh interpreta la parte di una normale borghese». F.T.: «Ma lei ci guida verso l'anormale, verso Perkins...» [Truffaut 1983; trad. it. 1996, 240], Con tale suggestione il film sarebbe dunque da intendere come una sorta di viaggio dentro l'anormale, a partire dal normale, e in tal senso proporrebbe di pensare il sano 30

e l'insano come in una continuità: il che non vuol dire negare la differenza che c'è, ma pensarla differentemente. Il problema, dunque, di una sensibile e corretta rappresentazione della anormalità e della sofferenza psichica (che peraltro trova ormai sempre maggior attenzione e trattazione in molti film recenti, per citarne alcuni italiani Il grande cocomero di Francesca Archibugi e il più recente La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana), non si esaurisce nella complessità dei rapporti intercorrenti tra il sano (Marion) e l'insano (Norman Bates), né nella loro pericolosità; come nel film il mancato riconoscimento del potenziale distruttivo presente nel personaggio di Antony Perkins conduce alla morte, così una insufficiente conoscenza dei nostri fantasmi interni può condurre a spiacevoli frequentazioni. Nelle varie e inaspettate forme che un motel può assumere (fuori o dentro di noi) c'è un «Norman Bates» in paziente attesa... Se dunque anche Hitchcock, che pur ha introdotto con grande originalità e finezza temi psicoanalitici nei suoi film di grande successo, non è stato esente da critiche circa la questione della rappresentabilità cinematografica delle forme del disagio, per chi pensa poi di rappresentare la genesi di quelle forme le difficoltà sono ancora maggiori, così che le origini per lo più presentate dai film sono quelle di tipo traumatico (violenze fìsiche e sessuali, abbandoni ecc.) che sono certamente responsabili di un certo consistente, ma non maggioritario, numero di patologie psichiche dell'età infantile e adulta. Un'altra modalità di rappresentazione che alcuni film propongono è di tipo opposto, cioè tralasciando di dare una immagine realistica a eventi patogenetici li lasciano intendere in modi altamente suggestivi: penso al film diretto da Bernardo Bertolucci, La luna (1979), in cui la protagonista femminile, una cantante lirica interpretata da Jill Clayburgh, scopre che il figlio quindicenne, da lei trascurato a causa dei molti impegni delle sua carriera, è un eroinomane. La scena iniziale del film aveva a lungo indugiato su un bambino (evidentemente il figlio, molti anni prima) che si muoveva da solo in un ambiente domestico e che trovatosi sotto mano un barattolo di miele se ne serviva ingordamente, abbuffandosi con avidità di 31

quella dolcezza allusivamente sostitutiva di altri nutrimenti affettivi, evidentemente carenti. Oltre a ipotesi psicologiche di tipo macro, come quelle degli ormai storici Ribelle senza causa (titolo originale del film Gioventù bruciata) o Family Life, passando per Gente comune fino a Ragazze interrotte, le rappresentazioni filmiche dei disagi sembrano privilegiare ipotesi di matrice sociale, come quelle presentate dal recente Lame tossica. Il problema, già enunciato da Erikson [1959], è che sequenze di micro esperienze anche apparentemente non significative possono condurre allo stabilirsi di pattern radicalmente differenti circa il bilancio tra fiducia e sfiducia nelle relazioni. E questo affiancare all'importanza attribuita ai macro eventi anche quella per i micro eventi che rende così difficile una veritiera rappresentazione delle situazioni psicopatogenetiche. Le innumerevoli sintonizzazioni o dissintonie che intercorrono tra un bambino e chi si prende cura di lui possono essere solo parzialmente colte nei diversi setting di ricerca sullo sviluppo che la creatività degli studiosi riesce via via ad approntare12. NOTE AL CAPITOLO PRIMO 1 Che pure hanno evidentemente anche delle ricadute in termini di disfunzionalità relazionale. 2 Che per essere diagnosticati come tali richiedono di soddisfare una Serie di criteri rispetto ai quali i disturbi della relazionalità restano sottosoglia, non tanto perché siano disturbi della personalità meno gravi, ma perché non sono afferrabili dalle maglie della rete dei vari DSM o ICD, cioè dei due sistemi di classificazione attualmente più utilizzati: su questo punto cfr. anche nota 3. 3 II DSM si basa su un modello multiassiale, nel quale ogni asse si riferisce a un diverso campo di informazione: il I asse comprende i disturbi clinici (i «sintomi»), il I I asse i disturbi della personalità (ed eventualmente il ritardo mentale), il I I I asse le condizioni mediche generali, il IV asse i problemi psicosociali e ambientali, il V asse la valutazione globale del funzionamento. 4 Intendendo cioè che un determinato esito è determinato tanto da suoi antecedenti quanto da casualità successive. 5 Si tratta di un romanzo scritto da uno psicologo, George Cockroft, che, utilizzando come pseudonimo proprio il nome del personaggio protagonista, costruisce l'autobiografia di Lukc Rhinehart,

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stimato psicoanalista di New York che inizia a coltivare seri dubbi sul senso della propria vita e del proprio lavoro. 6 Cfr. anche Bowlby [1979; 1988], 7 II neologismo di lifetraps (trappole per la vita), intende rimarcare che la vitalità di uomini e donne apparentemente normali può essere bloccata all'interno di modi di pensare, di sentire, di agire e di relazionarsi con se stessi e gli altri che si sono formati in momenti cruciali dello sviluppo, si sono rinforzati durante il corso del tempo fino a consolidarsi tanto da divenire delle vere e proprie trappole. 8 Cfr. ad esempio gli scritti di Mark Epstein [1998]. 9 Ad esempio, instaurando dei comportamenti di dipendenza da «oggetti culturali», come programmi televisivi. 10 Per questo Arieti [1959] e Foucault [1961], 11 Una prima versione di questo paragrafo è comparsa sul numero 3 del marzo 1993 della rivista «Psichiatria e Medicina». 12 I laboratori di' ricerca in cui si costruiscono, ad esempio, la Strange Situation [Ainsworth et al. 1978], per studi sull'attaccamento o gli esperimenti sui comportamenti interattivi osservati secondo lo Stili Face Paradigm [Tronick 1998] diventano gli «studi cinematografici» dove si girano film attendibili su «come si ammala la mente».

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CAPITOLO SECONDO

LE DETERMINANTI PSICOLOGICHE

Uscendo dal cinema, per inoltrarsi concretamente nella comprensione della genesi della psicopatologia da un punto di vista psicodinamico, bisogna orientare il cammino secondo alcune precise indicazioni. Si potrebbe anzitutto osservare che esistono due tipi di negazioni rispetto al fatto che l'espressione «malattia della mente» abbia qualche corrispettivo nella realtà. Nella prima, la prospettiva comportamentista, la malattia di cui un individuo risulta affetto non sarebbe comprensibile ricorrendo necessariamente a un supposto «livello mentale», ma riguarderebbe invece la sua parziale incapacità di adattamento, o un pieno disadattamento, rispetto alle esigenze dell'ambiente: «Suppongo che finché prevarrà la falsa opinione secondo cui esiste qualcosa che si può chiamare "mentale", si crederà che vi siano malattie mentali, sintomi mentali e cure mentali [...]. Cerco invece di dimostrare che si può, attraverso il condizionamento, non solo costruire le basi complesse del comportamento, le strutture ed i conflitti di una personalità malata, ma anche con lo stesso procedimento gettare le basi di un inizio di modificazioni organiche che possano in seguito giungere ad infezioni e lesioni - e tutto ciò senza far intervenire il concetto del rapporto spirito-corpo e dell'influenza dello spirito sul corpo» [Watson, citato in Deleule 1971; trad. it. 1983, 3]. La seconda, è invece quella prospettiva che parla in termini di «pretese malattie mentali», di relatività e pluralismo delle culture: essa «si fonda sull'idea di una alienazione di colui che noi chiamiamo sano di mente; la "malattia" sarebbe allora una trascrizione dello stato del gruppo e manifesterebbe tale o talaltra sua costante; il "malato" farebbe parte integrante del sistema totale [...]. La pseudo-malattia mentale, trasgressione della norma, assume al 35

contrario la funzione di una indicazione della norma» [ibidem,, 9]. Contro tali opposti punti di vista, si tratta invece di ribadire, sia pur rappresentandola in un nuovo modo1, la consistenza concreta dei disturbi, dei disagi, delle sofferenze mentali o comunque si voglia definirli come malattie della mente, fenomeni e non artefatti, sia contro ogni riduzionismo behaviorista sia contro ogni tentazione del «politicamente corretto», che pensa di cambiare le cose solo cambiando il nome delle cose stesse2, residuo, francamente non più proponibile, dell'ideologia antipsichiatrica che tendeva a negare la concreta consistenza dei disturbi della mente, interpretandoli come manifestazioni conseguenti a oppressione ed emarginazione sociale. Come già detto (e come sarà anche ripreso nella conclusione) la qualità mentale del disagio è comunque valutata da un punto di vista olistico, secondo il quale «la mente non domina il corpo ma diventa corpo». Infatti, ormai «sappiamo che il sistema immunitario, così come il sistema nervoso centrale, è dotato di memoria e capacità di apprendimento. Quindi si può dire che l'intelligenza è situata non soltanto nel cervello, ma anche in cellule che sono distribuite in tutto il corpo, e la tradizionale separazione dei processi mentali, emozioni comprese, dal corpo non è più valida. Se la mente è definita dalla comunicazione cervellocellula, come nella scienza contemporanea, questo modello della mente si può naturalmente considerare esteso al corpo intero» e pertanto si può affermare che «la mente è nel corpo, nello stesso senso in cui la mente è nel cervello» [Pert 1997; trad. it. 2000, 224]. Questo comporta quindi l'obbligo di considerare che il corpo non è uno spettatore muto di fronte allo svolgersi delle vicende, talora drammatiche, che si palesano nella continuità circolare tra disagi delle relazione e disagi delle menti. Se il corpo sembra non parlare è solo perché non siamo abituati ad ascoltarlo fino a quando le espressioni della sua «voce» non prendono la forma di sintomi... Da quanto detto deriva che il modo migliore per attraversare il territorio della psicopatologia è quello di ben «attrezzarsi» mediante il ricorso a una comprensione integrata, la quale rifiuta i limiti tanto di un orientamento 36

esclusivamente medico (che si propone di privilegiare la ricerca dei substrati biologici, a cui si dovrebbe ricondurre, in modo prevalente, la manifestazione patologica) quanto di una prospettiva che tende a ricondurre il disagio unicamente ai fattori del contesto socioculturale (quali, ad esempio, i modelli ideali proposti, i tipi di intrattenimento, la perdita dei valori tradizionali ecc., oppure a una sorta di «intossicazioni ambientali» causate dalla prolungata esposizione a oggetti culturali potenzialmente «tossici», ad esempio, shopping center', programmi televisivi, campagne pubblicitarie, moda, arte ecc.). Parimenti anche un'impostazione solamente psicologica (qualunque sia la cornice esplicativa di riferimento), che voglia cioè far a meno di considerare la matrice biologica di una persona e la società in cui vive, non può che essere in affanno rispetto al fornire spiegazioni attendibili e non metafisiche del perché la mente delle persone si ammala. Bisogna invece tendere a connettere quanto più coerentemente i diversi domini della conoscenza sui fenomeni mentali, includendo quindi tutte le possibili determinanti di tipo bio-psico-sociale [Engel 1977]: verranno qui di seguito introdotti i diversi tipi (cfr. par. 1) di determinanti psicologiche mettendo anche in evidenza i limiti (cfr. par. 2) che una comprensione basata su tali modelli esplicativi può avere, infine accennando anche alle modalità (cfr. par. 3) mediante le quali tali determinanti agiscono. L'influenza esercitata dalle altre determinanti biologiche e sociali esula dalle dimensioni che questo testo si è proposto di considerare: si può solo dire che per qualsiasi oggetto culturale (a parte ovviamente i casi limite in cui la totale «tossicità» non può che consentire un uso negativo) la questione non è tanto quella della qualità intrinseca dell'oggetto quanto quella del modo con cui il soggetto lo usa. È l'individuo che, seguendo il proprio temperamento e la propria storia, si assume la responsabilità di un uso tossico oppure vitale delle cose: infatti, i nuovi luoghi (di insediamento o di attraversamento, di lavoro o di svago) della civiltà di massa o i nuovi «oggetti culturali» (cantanti di MTV, romanzi di Dan Brown, attori e attrici in copertina su «Vanity Fair», protagonisti di reality-show o di videogames...) si prestano tutti, in misura più o meno raffi 37

nata, a essere utilizzati per operazioni psichiche, quasi delle autocure, poiché con tali «oggetti», reali o di fantasia, si possono instaurare modalità relazionali che possono costituire potenti esperienze di riconoscimento che, successive a quelle originarie, inadeguate, costituiscono fattori protettivi o fattori di rischio per il successivo sviluppo normale o patologico delle relazioni. 1. La prospettiva psicodinamica

classica: traumi e conflitti

Quel che si vuole ora introdurre, da una prospettiva psicodinamica, sono le tipologie attraverso cui la componente psicologica della triade di possibili cause bio-psicosociali determina l'insorgenza dei disagi e poi delle malattie della mente. Secondo il modello psicoanalitico classico di Sigmund Freud, si può dire che la malattia mentale è essenzialmente «l'espressione di un conflitto, di cui essa segnala il senso: c'è malattia mentale perché c'è disagio» e tale disagio è sintomo del conflitto sottostante [cfr. Deleule 1971; trad.it. 1983, I l Peraltro nella prima teoria di Freud, quella della seduzione precoce, l'impatto tossico dell'altro, del seduttore, era la forza causale nella formazione della psicopatologia: quando questa teoria viene abbandonata a favore della seconda teoria psicopatogenetica freudiana, quella del conflitto, accade che «gli altri significativi sono in gran parte diventati altri fantasticati, estrapolazioni derivate dalle pulsioni innate del soggetto», per il quale, secondo questa impostazione teorica, «sono cruciali le fantasie relative agli altri più che le azioni degli altri» e pertanto quando la teoria delle pulsioni ha rimpiazzato quella della seduzione nel ruolo di cornice concettuale [...] l'impatto degli eventi con gli altri reali, sebbene non sia mai del tutto sparito, si è affievolito recedendo sullo sfondo. Si è iniziato a pensare che il contenuto della mente del paziente derivasse da fantasie primarie basate sul corpo e connesse alla costituzione personale, come quelle relative a trionfi edipici, fratricidi e «scene primarie» di rapporti sessuali tra genitori. La psicoanalisi è diventata cosi decisamente intrapsichica, e si è iniziato a pensare che la vita mentale sorgesse in una mente indi38

viduale e monadica, essendo solo secondariamente coinvolta nelle relazioni con gli altri [Mitchell 2000; trad. it. 2002, 9-10], Quindi se nella primigenia impostazione freudiana la patologia psichica era interpretata come conseguenza di eventi traumatici (cfr. cap. 5), che nella prima formulazione freudiana consistevano in una seduzione sessuale, ben presto Freud modificò la sua teoria sulla genesi delle nevrosi ipotizzando un Io impegnato a ridurre i perenni conflitti (cfr. cap. 6) tra le pulsioni e le varie strutture psichiche. Una classica sequenza psicopatogenetica potrebbe essere quella che passa attraverso conflitti, difficoltà a fronteggiarli, frustrazione dei bisogni, repressioni, regressioni, fissazioni, incompatibilità interne, segnali di ansietà, il ritorno del rimosso, soluzioni di compromesso e formazione di sintomi. Mondo intrapsichico, ruolo preponderante delle fantasie primarie interne, conflitti legati al contrasto tra pulsioni e principio di realtà che si oppone alla loro spinta a ricercare delle soddisfazioni immediate, conflitti derivati dallo scontro tra Eros e Thanatos, è questo lo scenario psicoanalitico classico, prevalente nella prima metà del XX secolo, dominato prima dalla personalità di Freud e successivamente anche da quella di Melanie Klein, che pur se tradizionalmente considerata come l'autrice che ha introdotto le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, ha dato origine a una scuola che, dai lavori dei capostipiti come Joan Riviere [1936] in poi ha tradizionalmente prodotto considerazioni e osservazioni in una prospettiva rigorosamente intrapsichica e monopersonale, dominata paranoicamente (mi sia permesso di usare tale termine un po' scherzosamente e un po' no...) dall'interpretare l'altro fuori dalle relazionalità con me, nonché caratterizzata da un modello esplicativo della psicopatologia di tipo conflittuale.

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2. Carenze e sviluppo del

bambino

Avendo come capostipiti negli anni '404 Fairbairn, Balint e Sullivan, nei decenni successivi Winnicott, Anna Freud, Kohut, Bowlby e altri autori, formulano (lavorando per lo più in modo indipendente e con concetti differenti gli uni dagli altri) delle modalità alternative di comprensione della genesi della psicopatologia, comunque riconducibili a fattori di carenzialità dell'ambiente quanto a capacità di rallentare, inibire o distorcere lo sviluppo del bambino. In uno scritto della fine degli anni '30, Michael Balint aveva riconosciuto la presenza di tre «scuole psicoanalitiche»: oltre a quella di Vienna, quella di Londra, orientata, anche se non in modo maggioritario, dalla teorie di Melanie Klein, e infine quella di Budapest, che, dopo la scomparsa di Ferenczi, aveva nello stesso Balint l'esponente di maggior spicco. Egli era ricorso volutamente al termine «opinioni» a proposito delle idee che mettevano in contrasto le differenze delle tre «scuole» per sottolineare che il problema con cui la psicoanalisi doveva (e deve anche ora...) confrontarsi era quello di come ottenere «dati attendibili» [Balint 1952; trad. it. 1991, 84] a riguardo dello sviluppo del bambino. Veniva da lui considerato considerato necessario affiancare alla «ricostruzione del comportamento infantile mediante i dati della vita dell'adulto» anche «l'osservazione diretta del bambino» [ibidem], E questo uno dei punti ancora scottanti delle divergenze all'interno degli psicoanalisti, poiché secondo l'ala più tradizionalista tutte le informazioni che si ottengono fuori dalla stanza di analisi non sono analiticamente significative. Diversamente, altri psicoanalisti ritengono che questo modo di pensare conduce in una strada senza uscita, un cul-de-sac, dentro cui la psicoanalisi è destinata a una progressiva asfissia. Per evitare questo rischio occorre abbracciare proprio quel che prefigurava quello scritto di Balint, cioè la necessità di «consolidare con altro materiale le nostre osservazioni» [ibidem, 85] e dunque di aprirsi a un dialogo con le altre scienze che nella sua più aggiornata versione è quello da condurre in particolare con la biologia e le neuroscienze cognitive. Inoltre Balint, a proposito 40

delle reazioni emotive dei bambini, si trovava a considerare che: «a Londra [...] è successo che la forma è stata scambiata per la sostanza. Si è sopravvalutato tutto ciò che dava l'idea di rumore, forza, violenza, mentre è passato in secondo piano tutto quello che accadeva in silenzio» [ibidem, 90], Egli voleva invece attirare l'attenzione su quella che è molto probabilmente la più precoce fase della vita mentale extrauterina per sostenere che «non è narcisistica; essa è diretta verso gli oggetti ed è altresì una relazione oggettuale passiva. In breve la sua meta è questa: sarò amato e soddisfatto senza alcun obbligo di ricambiare nessuno» [,ibidem, 87]. La soddisfazione di questa esigenza di base avviene in modo tranquillo tanto che il sentimento di piacere che ne deriva può essere un «riposante senso di benessere». La mancata soddisfazione di questo bisogno determina invece quello che, in scritti successivi, Balint definirà il difetto fondamentale, le cui caratteristiche sono: a) tutto quanto avviene all'interno di questo livello appartiene ad un rapporto esclusivo tra due persone; non esiste una terza persona; b) questo rapporto duale ha una natura sua particolare, completamente diversa da quella delle modalità di rapporto del livello edipico; e) la natura della forza dinamica che agisce a questo livello non è di tipo conflittuale; d) per descrivere i fatti che avvengono a questo livello il linguaggio dell'adulto spesso risulta inutile e fuorviante [Balint 1968; trad. it. 1983, 136], Balint tiene molto a sottolineare che «la forza che si sviluppa dal difetto fondamentale, per quanto sia estremamente dinamica, non ha l'aspetto di una pulsione e neppure quello di un conflitto. È un difetto, è qualcosa di storto nella psiche, una specie di deficit che va colmato» [ibidem, 143]. Intendendo rimarcare la differenza rispetto all'ipotesi psicopatogenetica conflittuale, Balint osserva che «nell'ambito delle scienze esatte si è utilizzato il termine difetto per denotare delle condizioni che ricordano quanto stiamo descrivendo. Così, per esempio, in geologia e cristallografia il termine difetto è impiegato per descrivere una improvvisa irregolarità nella struttura generale, irregolarità che in 41

circostanze normali può rimanere nascosta, ma che, se si esercitano delle tensioni e delle pressioni, può provocare una rottura che capovolge da capo a fondo la struttura generale» [ibidem, 142]. L'uso dell'aggettivo «fondamentale» è invece determinato dal voler ricordare che lo sconvolgimento strutturale, di cui sta parlando, riguarda la totalità bio-psicologica dell'individuo «implicando a diversi livelli sia la psiche che il corpo» [ibidem, 143]. Se Balint, già verso la fine degli anni '30, sposta dunque l'attenzione dai conflitti intrapsichici alle carenze dell'ambiente quanto a capacità di assicurare cure materiali e psicologiche, attenzione e affetto [ibidem, 142], «in una serie di densi e fecondi scritti che risalgono ai primi anni '40, William Ronald D. Fairbairn elaborò una prospettiva teorica che, insieme alla "psichiatria interpersonale" di Sullivan, offre l'espressione più pura e chiara dello spostamento dal modello strutturale delle pulsioni al modello strutturale delle relazioni» [Greenberg e Mitchell 1983; trad. it. 1986, 157] e quindi a una comprensione della psicopatologia per cui «il bambino modella, struttura e distorce la sua esperienza, il suo comportamento, la sua percezione di sé, per conservare le migliori relazioni possibili con il genitore» [ibidem, 182], In uno dei suoi contributi più importanti Fairbairn [1952] individua nella dolorosa esperienza di non essere amato e conosciuto intimamente un fondamento generale della psicopatologia [Fonagy e Target 2003; trad. it. 2005, 147 e 217]. La madre sarebbe non solo incapace di amare, ma anche di riconoscere l'amore del figlio per lei: la genesi del disagio sarebbe quindi riconducibile a un legame con un «oggetto» non disponibile a soddisfare dei bisogni (di attaccamento, di intimità ecc.) di qualità radicalmente diversa da quella delle pulsioni individuate da Freud. Pur notando le indiscusse differenze5, si può concordare con Greenberg e Mitchell a proposito della vicinanza del modello di Fairbairn con quello di Sullivan: si può dire che per entrambi «il conflitto che costituisce il nucleo di ogni psicopatologia è quello tra la spinta evolutiva verso una dipendenza matura e relazioni più ricche e la riluttanza regressiva ad abbandonare dipendenza infantile e 42

legami con oggetti indifferenziati (sia esterni che interni) per paura di perdere ogni genere di contatti» [Greenberg e Mitchell 1983; trad. it. 1986, 167]. Poiché questo conflitto è generato da una carenza, quella della disponibilità del genitore a soddisfare i bisogni di base del bambino, potremmo dire che sia Fairbairn sia Sullivan hanno stabilito una sequenza psicopatogena sicuramente diversa da quella del modello classico, certo non conflittuale nel senso tradizionale e però neppure pienamente carenziale, come è quella di Balint, e come saranno quelle di Winnicott, di Kohut e di Bowlby. Infatti, anche Harry Stack Sullivan, nella sua comprensione della genesi della psicopatologia, mette in evidenza una complessa dinamica interpersonale, che, se non può dirsi pienamente interattiva nel senso diadicosistemico (che sarà successivamente precisato), di fatto anticipa molto i più recenti modelli intersoggettivi per la cruciale importanza accordata all'ansia. Per Sullivan è decisivo, ai fini dello sviluppo normale o patologico, il modo in cui i bisogni del bambino vengono percepiti; secondo il suo modello6 alla base dei comportamenti umani vi è una incessante tensione per il raggiungimento di due obiettivi, la condizione di soddisfazione e la condizione di sicurezza: la ineludibile necessità a perseguire il raggiungimento di tali condizioni fa assumere a queste stesse il valore di sistemi motivazionali. Se la ricerca delle soddisfazioni è una risposta a bisogni prevalentemente biologici, d'altro lato la ricerca della sicurezza riguarda più strettamente la componente culturale dell'uomo, il suo essere un animale sociale, per il quale su tali bisogni di soddisfazione sono esercitate certe influenze condizionanti, determinate dai fenomeni interpersonali miranti alla ricerca di sicurezza. E quindi attraverso il conflitto tra bisogni di soddisfazione e bisogni di sicurezza, fra quel che l'uomo è naturalmente e quel che socialmente deve essere, che la personalità si sviluppa: un limite dell'impostazione sullivaniana è dato, su questo punto, dal pensare ai bisogni di soddisfazione come eccessivamente legati alla corporeità, mentre, grazie alle successive elaborazioni teoriche di svariati autori (tra cui Winnicott, Kohut e altri) è possibile collocare in 43

tale ricerca di soddisfazione anche quella del riconoscimento della propria identità. Peraltro va detto che, sul piano clinico, Sullivan è particolarmente attento alla questione di riconoscere l'identità del paziente durante il colloquio e si può ben dire che è proprio grazie a uno dei suoi scritti più noti, Il colloquio psichiatrico [Sullivan 1954], che il termine «riconoscimento» assume la connotazione di specifico intervento di tecnica psicoanalitica. I bisogni di soddisfazione «operano nella direzione di suscitare negli altri tendenze complementari: essi, infatti, comportano un aumento della tensione nel bambino e provocano una serie di attività, le quali inducono nel caregiver una tensione sperimentata come tenerezza, che conduce ad altrettante attività, volte al soddisfacimento del bisogno. Tale soddisfacimento porterà a una diminuzione della tensione e a uno stato di benessere, di "euforia", nel bambino. Questa interazione interpersonale, guidata dal cosiddetto "teorema della tenerezza", è dunque caratterizzata dal proficuo instaurasi di un "circolo virtuoso": il bambino che raggiunge uno stato di benessere grazie all'intervento della madre rinforzerà, con espressioni di soddisfazione, il sentimento di tenerezza e di compiacimento da lei provato, il che accrescerà di conseguenza le attenzioni e le premure per il bambino stesso. Questo tipo di circolarità relazionale conduce non solo a uno stato di benessere ma anche all'acquisizione da parte del bambino di una sicurezza circa la propria competenza interpersonale nella capacità di raggiungere i propri scopi. Al contrario, se i segnali di bisogno conducono a uno stato di angoscia (o fastidio o rabbia o sensazione di impotenza o disapprovazione ecc.) del caregiver, tale da addirittura impedire, al limite, la soddisfazione del bisogno, al bambino ne conseguirà l'esperienza di una insicurezza, di diversa intensità, sulla propria competenza interpersonale circa la capacità di avere relazioni soddisfacenti. La reazione circolare di prima si ripete, ma questa volta determina un circolo vizioso, in quanto ad accrescersi non è la sensazione di benessere e di euforia, ma quella di disagio e, successivamente, di angoscia. II bisogno conduce all'interazione e la qualità di questa determina la strutturazione di un sistema del Sé prevalen44

temente sicuro, cioè libero dall'angoscia, confidente in sé e nella propria "competenza interpersonale", o all'opposto insicuro e psichicamente fragile» [Amadei 2001, 48-49]. Vedremo in seguito come sia il grado di competenza emotiva e percettiva quello che sottende, e quindi determina, la competenza, o l'incompetenza, interpersonale. Se per Sullivan quindi «la sicurezza è libertà dall'angoscia e l'insicurezza è legata alla reazione dell'altro rispetto alle manifestazioni dei propri bisogni da parte del soggetto, il bisogno di sicurezza diverrà prioritario nel guidare le strategie comportamentali del soggetto: il bambino si troverà quindi a cimentarsi con l'angoscia (o altri sentimenti negativi) proveniente dalle reazioni della madre al suo comportamento e si sforzerà di modulare il suo stesso comportamento in modo tale da evitare l'insorgenza di tali sentimenti negativi, al fine di sostenere invece un flusso di "positività" nei suoi confronti, una corrente cioè di approvazione. Il bambino dunque "diventa attento a tutte le azioni che determinano un'emozione spiacevole nei genitori e quindi in lui: egli si accorda, per così dire, alla loro lunghezza d'onda emotiva" [Witenberg et al. 195966, 1525] arrivando a "trascurare selettivamente" quegli aspetti di sé che non sembrano importanti, o addirittura non appaiono graditi, per i suoi genitori, fino a sacrificare altri fattori in nome del mantenimento della costanza relazionale, privilegiando innanzitutto il bisogno di sicurezza, con l'attenzione costante a quanto nell'altro, e quindi in lui, può o no determinare l'angoscia» [ibidem, 50], La ricerca dell'approvazione scaturisce quindi dal tentativo di liberarsi dall'angoscia e di soddisfare il bisogno di sicurezza: questo spiega il potere del condizionamento culturale, in quanto l'uomo ha necessità di stare in stretta relazione con l'altro, ma è importante che ciò avvenga in un clima di sicurezza. Dato che il bisogno di sicurezza è gerarchicamente superiore a quello di soddisfazione, la ricerca di soddisfazione è sottoposta, entro certi limiti, a modifiche, per soddisfare il bisogno primario di sicurezza. E importante notare che queste complesse esperienze, così evidenziate da Sullivan, sottendono al processo di adattamento del bambino verso la ricerca di approvazione e di accettazione e dunque anche di sicurezza. Tali vicende in45

terpersonali hanno come conseguenza quella di determinare, a livello psicologico individuale, l'insorgenza di quello che nella terminologia di Winnicott corrisponde a un certo grado di falso Sé, tanto più elevato quanto più il soggetto ritiene conveniente deformare il proprio Sé al fine di rendersi accettabile per l'altro. Dall'altro il bambino, infatti, dipende per la soddisfazione dei propri bisogni, e dunque in tal modo viene garantita quella «prossimità psichica» che consente che la soddisfazione avvenga «in sicurezza», piuttosto che nell'angoscia, o che, addirittura, non avvenga per nulla. Viene in tal punto prefigurato da Sullivan quello che sarà compiutamente trattato dalla teoria dell'attaccamento, formulata decenni dopo da Bowlby, il quale individuerà proprio nella ricerca dell'attaccamento sicuro l'obiettivo primario dell'agire dell'uomo, obiettivo al quale vengono sottoposte le diverse istanze di soddisfazione e di autenticità. L'importanza di queste dinamiche è accresciuta dal fatto che non terminano con l'infanzia, ma avranno una forte determinante sui comportamenti che perdurerà per tutta la vita. Queste prime esperienze che il bambino fa della tenerezza e dell'approvazione materna, così come dell'angoscia e della disapprovazione, si stabiliscono grazie a una forma di comunicazione, che Sullivan definisce «empatia», o «legame empatico». Grazie a questo intenso rapporto affettivo, biunivoco e reciproco, la soddisfazione di un membro del binomio viene avvertita immediatamente, empaticamente, dall'altro così come l'angoscia e l'insoddisfazione. La comunicazione avviene a livello non verbale, mediante differenti canali comunicativi quali la tensione muscolare dei partecipanti all'interazione, l'odore dei corpi, o il timbro della voce [ibidem, 51]. La valutazione del grado di angoscia presente nella madre, e più in generale nelle figure di riferimento, consente una sorta di «manuale d'istruzione» per l'attività del bambino, così si potrà intendere il «me buono» riferendoci a quelle aree di esperienza che hanno incontrato l'approvazione della madre. Il «me cattivo» si riferirà invece a tutte le interazioni che hanno prodotto ansia e disapprovazione, ma la situazione più 46

drammatica la si trova nel «non me», dove un'angoscia molto intensa presente nella reazione della madre, o della figura di riferimento, genera un'esperienza angosciosa nel bambino, che non riesce a integrarla: le entità di queste esperienze del «non me» saranno quelle che sosterranno future manifestazioni psicopatologiche come gli stati schizoidi. Sullivan sostiene che la personalità tende sempre al miglior adattamento possibile, e questo avviene ricorrendo a quelle che chiama «operazioni di sicurezza», che consentono di evitare l'angoscia collegata a una data situazione, mantenendone dissociato il contenuto: a questo proposito introduce il termine di «disattenzione selettiva», da intendere come un processo che l'individuo utilizza per non soffermarsi su una serie di esperienze, che veicolano stati di angoscia. Una persona può mettere in atto la disattenzione selettiva ad esempio trascurando da adulto degli aspetti di sé che ha verificato non aver avuto importanza per i propri genitori, e così facendo rinuncia a far vivere aspetti della propria personalità [ibidem, 55], Il bisogno dell'adulto di status [De Botton 2004], di potere, di fama è un modo di riappropriarsi in altre forme delle mancate originarie soddisfazioni del bisogno di riconoscimento sacrificato al ricercare la sicurezza, essenzialmente sotto forma di sicurezza di attaccamento. Se la ricerca per soddisfazione del bisogno di sicurezza prevale sulla soddisfazione di altri bisogni, in primo luogo quello di riconoscimento, la persona tenderà a instaurare relazioni disfunzionali in quanto miranti ad avere appunto sicurezza e non la soddisfazione dei diversi altri bisogni emozionali. Quando negli anni '90 Stephen Mitchell lavorerà, con altri autori, alla ulteriore definizione di un originale modello di psicopatologia differenziato sia da quello del conflitto sia da quello della carenzialità, e proporrà di individuare nel «conflitto tra configurazioni relazionali» un meccanismo psicopatogenetico di base, si può dire che si muova in una prospettiva fairbaniana-sullivaniana. Tra i capostipiti della svolta verso la comprensione della psicopatologia per carenza, ritengo vada annoverata a buon diritto Helene Deutsch, che nel 1942 pubblica su «The Psychoanalitic Quarterly» un articolo che è ormai entrato nella storia della psicoanalisi per aver introdotto il concetto di «personalità "come se"». Qui interessa mette47

re in risalto l'intuizione dell'autrice di differenziare un'originale forma di disturbo della personalità che caratterizza individui capaci di «simulare un'esperienza affettiva» come se la provassero veramente. Non si tratta di simulatori, ben inteso, ma di persone incapaci di avere una autentica, propria vita emotiva e affettiva e quindi obbligate a recitarla, come personaggi sulla scena di una vita alla quale sentono di non appartenere. Non si tratta dunque di un semplice blocco dell'affettività ma di uno svuotamento dei propri sentimenti a favore di quelli dell'altro: il risultato è una passività come espressione della «sottomissione al volere altrui» [Deutsch 1942; trad. it. 1992, 62], Rilevante è anche vedere come l'origine della patologia della paziente «come se» descritta nell'articolo venga spiegata ricorrendo a espressioni quali carenze di «calore» [ibidem, 57], «atmosfera priva di sentimenti» [ibidem, 58], assenza di qualcuno «che l'amasse» [ibidem, 58], «carenza affettiva» [ibidem, 69] e altre simili. Conseguentemente Deutsch individua come fattore terapeutico essenziale «una forte identificazione con l'analista, come attivo e costruttivo strumento di influenza», allontanandosi in questo ancora di più dalla figura classica dell'analista come puro interprete, che si astiene da qualsiasi intervento attivo e da qualsivoglia influenzamento nei confronti del paziente. L'attualità dell'insieme di tali fini descrizioni cliniche è anzitutto nell'individuare un autonomo disturbo né nevrotico né psicotico ma appunto «della personalità» e di rintracciare poi le principali origini eziopatogenetiche di tale disturbo in fattori carenziali. E con gli scritti di Winnicott, in particolare quelli degli anni '60, che l'origine del disagio psicologico non solo a) viene ricondotto alla carenza di cure genitoriali sufficientemente adeguate per soddisfare i bisogni del bambino, ma anche b) la qualità della dinamica relazionale che viene messa in evidenza apre la strada alle successive formulazioni degli anni '80, in termini di «sintonizzazioni» e di «intersoggettività». Greenberg e Mitchell [1983; trad. it. 1986, 200] segnalano infatti che, «con un'enfasi che ricorda molto Sullivan», Winnicott considerava del tutto impossibile comprendere la psicopatologia se si prendeva in considerazione l'individuo come una persona «iso48

lata»: è noto che per Winnicott non ha senso parlare di «un bambino» ma soltanto di «una coppia madre-bambino», legati da una specifica relazionalità nella quale nessun comportamento di uno dei due membri è intelleggibile senza comprendere anche il comportamento dell'altro (costituendosi in tal modo quello che ora si definisce un «sistema vivente», cioè un sistema aperto, formato da due sottosistemi, ognuno dei quali rappresenta, a sua volta, un sistema vivente). «L'approccio elaborato da Winnicott si dilatò in una teoria generale dello sviluppo e della psicopatologia, che si differenziava nettamente dalle formulazioni di Freud e della Klein» [ibidem, 193]. Con lo scritto Normality and pathology in childhood, Anna Freud [1965] stessa arriva a sostenere apertamente la possibilità di disturbi psichici di origine non conflittuale: Fonagy e Target [2003; trad. it. 2005 , 77] definiscono questa presa di posizione decisamente rivoluzionaria per quegli anni, in cui Yestablishment psicoanalitico (pur differenziato tra la psicologia dell'Io e la corrente kleinianobioniana) era comunque concorde nel sostenere l'ubiquità del modello conflittuale. In un successivo lavoro degli anni '70 Anna Freud [1974] si mostra ancora più determinata nel proporre di riconoscere due tipi di psicopatologia infantile, una di tipo conflittuale e una basata su arresti dello sviluppo in conseguenza di carente sostegno ambientale [ibidem, 139], che avranno differenti esiti quanto a sequele di manifestazioni patologiche dell'adulto, ove le due componenti si trovano spesso intrecciate e questo spiegherebbe, a suo dire, il ritardo con cui si è prestato attenzione a questa origine non conflittuale del disagio psicologico. Quel che è ancora più rilevante è che anche Anna Freud collega questo tipo di carenza dell'ambiente non tanto all'insorgenza di disturbi nevrotici, ma a quella di disturbi di personalità (in particolare di tipo borderline), ammettendo che questo tipo di correlazione (carenza —> disturbo relazionale) era stato trascurato dalla cultura psicoanalitica classica, a parte, aggiunge in nota, pochissime eccezioni, tra cui in primis il lavoro di Balint sul difetto primario. L'autrice torna sull'argomento in un successivo scritto [Balint 1968] dove approfondisce ulteriormente che l'emer49

genza di una data psicopatologia non va collegata in modo rigido, «da questo, quello», ma deve essere compresa come emergente dalla interazione tra l'ambiente potenzialmente psicopatogeno e le «innate ed aquisite risorse del bambino» [ibidem, 152]: sembra qui delinearsi quello che poi si consoliderà come il passaggio da un modello monodirezionale a un modello bidirezionale. Un autore che provoca una vero balzo nell'evoluzione delle teorie psicoanalitiche è certamente Heinz Kohut, che nel suo libro La guarigione del Sé [Kohut 1977], esplicita una dicotomia di grande efficacia emotiva ed euristica e che ancora oggi rimane, a mio modo di vedere, capace di tracciare efficacemente dei confini fra teorie: «Mi sembra che, considerandolo in una prospettiva ampia, il funzionamento dell'uomo miri in due direzioni. Per identificarle potremmo parlare dell'Uomo colpevole se le mete sono dirette verso l'attività delle pulsioni e dell' Uomo tragico se le mete sono verso la realizzazione del Sé». La psicologia del primo tipo di Uomo è quella caratterizzata dalla logica del conflitto e della colpa, mentre quella del secondo tipo è quella che ruota attorno alla fedeltà o al tradimento di quello che era il progetto più profondo del Sé [Kohut 1977; trad. it. 1980, 214]. Perché questa originaria intenzionalità possa realizzarsi occorre l'incontro con un oggetto-Sé che sappia sostenere il progetto del Sé fornendogli condivisione empatica, la cui carenza conduce a differenti livelli di scissione del Sé medesimo. Dunque prosegue Kohut «il mondo di ieri trattava dei problemi dell'Uomo colpevole - l'uomo del complesso edipico, l'uomo del conflitto strutturale - che, profondamente coinvolto nel suo ambiente umano sin dall'infanzia, è dolorosamente messo alla prova dai suoi desideri e passioni. Ma i problemi emotivi dell'uomo moderno stanno cambiando» [ibidem, 249]. Questi nuovi problemi sarebbero costituiti dall'indebolimento del Sé delle persone che sembra farsi via via sempre più fragile, frammentato, sgretolato o addirittura decomposto. Solo due anni dopo Christopher Lasch produrrà una delle opere più importanti per la comprensione dell'età moderna, La cultura del narcisismo [Lasch 1979], che sem50

bra lo speculare nell'ambito della sociologia del lavoro di Kohut in ambito psicologico. Con la trilogia bowlbiana degli anni '70 siamo di fronte al più completo e sistematico delinearsi di una teoria dello sviluppo nettamente opposta a quella freudiana [Fonagy e Target 2003; trad. it. 2005, 242] l'attaccamento viene a essere considerato il sistema motivazionale gerarchicamente primario su tutti gli altri e la realtà degli incontri originariamente stabili tra bambino e genitore definisce la qualità dei legami in termini di sicurezza di attaccamento, i cui deficit costituiscono invece dei fattori di rischio per lo sviluppo di differenti tipologie psicopatologiche. Questo sintetico excursus attraverso cento anni di cultura psicodinamica mirava a dare un'idea dell'esistenza di differenti modelli di comprensione della psicopatologia (per traumi, conflitti o carenze) che saranno poi approfonditi nella parte seconda del testo. 3. Differenze fra i modelli In modi differenti per obiettivi e tematiche, diversi autori si sono proposti di rintracciare gli spartiacque fondamentali presenti all'interno della cultura psicoanalitica: pulsioni vs. relazioni, conflitti vs. carenze, intrapsichico vs. interpersonale ecc. Dopo il magistrale lavoro di Greenberg e Mitchell [1983] sulla bipartizione tra modello classico e relazionale (opera tanto analitica quanto creativa), vanno ricordati il suggestivo contributo di Strenger [1989], l'accurato libro di Bacai e Newman [1990], i famosi scritti di Morris Eagle [1984; 1991], fino al recente compendio di Fonagy e Target [2003]. Da ricordare anche il lavoro di Akthar [1992] che, nel solco di Strenger, ripropone la bipartizione tra una visione classica, kantiana (l'impegno dell'uomo è quello di farsi guidare dalla ragione nello sforzo di controllare la conflittualità generata dalla spinta delle pulsioni) e una visione romantica, rousseauiana (l'uomo, se non venisse limitato dall'ambiente, svilupperebbe spontaneamente la propria autentica natura). Anche da questo ultimo punto di vista si può considerare una bipolarità di 51

posizioni rispetto a un argomento cruciale nel pensiero freudiano, cioè quello di come si considera l'«esperienza della frustrazione»: sempre necessaria (secondo la psicoanalisi classica) per permettere lo sviluppo delle funzioni mentali, parzialmente necessaria, ma a condizione che sia bilanciata da esperienze di segno opposto, oppure francamente lesiva della possibilità di sviluppo...? Se si considera il bisogno di attaccamento e quello di riconoscimento come bisogni di base, parlare di «frustrazione necessaria» rispetto a essi è francamente senza senso. Per il modello che postula la patologia come derivata da carenze, l'acquisizione del principio di realtà non passa attraverso la perdita dell'onnipotenza originaria in seguito a sue successive frustrazioni, ma avviene naturalmente se il Sé ha ricevuto gli adeguati supporti allo sviluppo. In più secondo questo modello è il concetto stesso di onnipotenza primaria che è errato e fuorviante, in quanto attribuisce al bambino fantasie dell'adulto: non si tratta di passare dalla onnipotenza alla realtà ma di acquisire una realistica conoscenza di se stessi attraverso le differenti dinamiche relazionali, nelle quali si determinano riconoscimenti e quindi acquisizioni della conoscenza di sé. Va detto che diversi autori, ad esempio Balint, Kouht e Anna Freud, in una prima fase delle loro elaborazioni operano mantenendo una distinzione tra le patologie spiegabili in termini di dinamiche conflittuali e quelle riconducibili a carenze dell'ambiente durante lo sviluppo. Altri, ad esempio Winnicott, costruiscono un modello implicitamente relazionale senza mai pienamente dichiararlo. Altri ancora sostengono la possibilità di far coesistere i due modelli proponendo un modello misto. Greenberg e Mitchell avanzano una possibile interpretazione di queste cautele nell'allontanarsi dall'ortodossia come derivanti da una «paura di infrangere dei vincoli di lealtà» [Greenberg e Mitchell 1983; trad. it. 1986, 377]. Al di là di tali dinamiche inconsce, è peraltro sostenibile la posizione di chi ha cercato di vedere la genesi dei conflitti a partire da situazioni di carenzialità: come è di fatto la posizione di Kohut anche sul tema del «complesso edipico», che diventerebbe appunto «complesso» (caratterizzato da forte conflittualità) e non «fase», addirittura 52

gioiosa, dello sviluppo, come conseguenza patologica di carenze della strutturazione del Sé di un bambino esposto a «fallimenti empatici da parte dell'ambiente-oggetto-Sé nella fase edipica» [Kohut 1977; trad. it. 1980, 218], Un autore che si è cimentato per dimostrare l'interdipendenza tra situazioni di deficit di sviluppo e conflitti dinamici quanto a capacità di determinare l'insorgenza della patologia dell'adulto7 è stato Morris Eagle: avvalendosi di numerose esemplificazioni tratte dalla sua esperienza clinica, quel che egli ha voluto sostenere «è che i difetti e i conflitti non rappresentano alternative dicotomiche o opposte, ma differenti prospettive complementari sulla patologia» [Eagle 1991, 36] e che «traumi precoci, blocchi precoci dello sviluppo e carenze strutturali precoci sono sempre accompagnati da emozioni e desideri intensi e conflittuali» [Eagle 1984; trad. it. 1988, 143]. In una nota successiva [Eagle 1998a] egli aggiunge: «Mi sembra tuttora che vi sia una falsa dicotomia tra conflitti intrapsichici da una parte e arresti dello sviluppo, carenze e deficit dall'altra. In parte il motivo è che molto spesso i foci di maggior conflitto sono, nello stesso tempo, le aree dei deficit dello sviluppo». La sua convinzione è quindi che le considerazioni formulate dai sostenitori dell'uno e dell'altro schieramento «non sono incompatibili, ma sono semplicemente modi diversi di guardare allo stesso fenomeno generale» [Eagle 1984; trad. it. 1988, 155]. In particolare Eagle teme che individuare la forza causale della psicopatologia in eventi di reale carenza (cfr. supra), non mediata dalle fantasie del mondo interno, significhi ritornare alle posizioni pre-psicoanalitiche di Charcot e Janet. D'altronde su questo punto ha buone argomentazioni John Bowlby nello scrivere: «un terapeuta che considera le errate percezioni e interpretazioni del paziente come il prodotto non razionale di ciò che il paziente ha veramente sperimentato nel passato [...] differisce nettamente da un terapeuta che considera quelle stesse errate percezioni e costruzioni come il prodotto irrazionale di fantasie autonome ed inconsce» [Bowlby 1988; trad. it. 1989, 137]. I corsivi della precedente citazione sono stati da me apportati al testo originale per rimarcare la differente e a mio avviso più adeguata sensibilità terapeutica, 53

approccio terapeutico di chi ritiene che la persona che siede di fronte abbia veramente, o no, patito, esperienze originarie di cui parla con dolore. Pur ritenendo dunque che la posizione di Eagle [1984] tenda a sottovalutare i contributi innovativi dei modelli che attribuiscono maggiore importanza a dinamiche carenziali, rispetto a quelle conflittuali, nella genesi delle sequenze psicopatogenetiche, non si può che concordare con lui su determinati punti critici sollevati, che mi sembrano particolarmente calzanti nei confronti dei modelli psicoanalitici di matrice pulsionale. Il primo punto è infatti rivolto verso quelle teorizzazioni che affermano che le patologie degli adulti derivino da modalità di funzionamento adeguato in precedenti età dello sviluppo, come sostiene ad esempio Otto Kernberg, secondo il quale: «la scissione primitiva cui ricorre il paziente borderline è un mezzo difensivo normale per affrontare conflitti potenziali in una fase precoce dello sviluppo, prima che si sia formata una struttura dell'Io stabile» [Eagle 1984; trad. it. 1988, 140]. Il che fa giustamente dire a Eagle: «Questo è forse il problema fondamentale e più grave che una concezione della patologia adulta in termini di blocchi dello sviluppo solleva. Essa perpetua l'errata convinzione che alcune patologie adulte siano sostanzialmente un "blocco", una regressione ad una particolare fase normale dello sviluppo. Si basa inoltre su vaghe analogie tra supposti stati infantili e patologie adulte, senza far luce né sull'uno né sull'altro» [Eagle 1984; trad. it. 1988, 153]. Il secondo punto critico riguarda l'eccessiva importanza accordata da svariati autori ai fattori costituzionali: «Kernberg, per esempio, si domanda se le persone caratterizzate da una organizzazione borderline della personalità non siano intralciate da pulsioni aggressive troppo intense, costituzionalmente date» [Eagle 1984; trad. it. 1988, 146]. Il terzo punto critico è nei confronti di quei modelli che di fatto propongono una inaccettabile «adultomorfizzazione» dell'infanzia e una meno proponibile «infantilizzazione» del paziente durante il trattamento. Si può in conclusione ben accettare l'invito di Eagle a «smettere di proporre teorie eziologiche della patologia basate principalmente o esclusivamente sul trattamento di 54

pazienti adulti» [Eagle 1991, 44]; il che è proprio quanto fa il modello che verrà ora introdotto: esso infatti si basa sui dati emersi nell'ambito di ormai pluridecennali studi condotti secondo la prospettiva della cosiddetta infant research. 4. Una nuova ipotesi: le

dissintonie

Rispetto alla tripartizione tra ipotesi traumatiche, conflittuali o carenziali alla quale si era soliti riferirsi, è lentamente emersa una quarta ipotesi, quella cosiddetta delle dissintonie, nata non solo in ambiente clinico, ma originariamente in ambiente di ricerca, solo negli anni '90 è diventata palese e ora di fatto raccoglie i consensi della corrente psicoanalitica più avanzata, che deriva dalla matrice relazionale, intesa qui nel senso allargato proposto da Greenberg e Mitchell [1983]: cioè il modello interpersonale propriamente detto (definito dai fondatori, Harry Stack Sullivan [1947], Clara Thompson [1950], Eric Fromm [1964], attraverso Frieda Fromm-Reichmann [1950] fino ai recenti lavori di Philip Bromberg [1998]), la teoria dell'attaccamento [Bowlby 1969], la psicologia del Sé [Kohut 1977] e la sua «corrente» intersoggettiva [Stolorow, Atwood e Branchaft 1994; Orange 2003], la teoria dei sistemi motivazionali [Lichtenberg, Lachmann e Fossage 1996], il modello relazionale inteso questa volta in senso stretto [cioè secondo quanto teorizzato da Mitchell 2000, e da altri, tra cui Aron 1996; Ghent 1995] e quello sistemico-diadico [Beebe e Lachmann 2002], derivato in particolare dagli studi dell 'infant research [Sander 1977; Emde 1988; Stern 1985], La maggior parte di questi modelli sembra attualmente convergere verso un unico, coerente centro di attrazione, che, all'interno della cornice dell'attaccamento, incrocia i dati provenienti dalla clinica, di stampo intersoggettivo diadico, con i dati derivati dalla cosiddetta infant research. I nomi con cui vari autori si riferiscono a questa «area quasi comune» sono diversi, tra i quali: prospettiva diadico-sistemica [Beebe e Lachmann 2002], intersoggettivismo [Stolorow, Atwood e Branchaft 1994], costruttivismo sociale 55

[Hofmann 1991], modello relazionale nel quale Mitchell [2000; trad. it. 2002, 73-82] ha proposto di far rientrare quattro aree che rappresenterebbero i modi di base attraverso i quali opera la relazionalità. 1. Il comportamento presimbolico non conscio, che riguarda gli adattamenti interpersonali dovuti a reciproche influenze e mutue regolazioni. I contributi per la comprensione di tali scambi relazionali provengono dalla teoria dell'attaccamento, dall'interpersonalità e dall'infant research. 2. La permeabilità affettiva, cioè l'esperienza condivisa di intensi affetti. Come autori di riferimento per questa modalità relazionale Mitchell cita, tra altri, Sullivan [1947], Loewald [1980], Ogden [1994] e Bromberg [1998], 3. V, organizzazione dell'esperienza nella configurazione sé/'altro, ricordando qui i contributi di Fairbairn [1952], Kohut [1977] e Aron [1996], 4. L'intersoggettività, particolarmente studiata da Jessica Benjamin [1988]. I contributi, tra altri, di Sullivan [1940], Loewald [1980], Odgen [1994], Bromberg [1998] e anche Fairbairn [1952], Kohut [1977] e Aron [1996], Uno dei maggiori contributi dell'infant research è consistito nella scoperta che durante tutto il corso della vita le relazioni interpersonali sono regolate da processi fondamentali, originariamente non verbali: storicamente era stata data maggiore importanza alla regolazione interattiva, sottostimando il contributo dell'individuo alla propria autogestita organizzazione dell'esperienza interna e del comportamento. E Louis Sander [1977] che, fin dalle sue prime ricerche su come alcuni neonati giungano prima di altri ad acquisire un adeguato ritmo sonno/veglia, coglie l'importanza di non guardare al bambino isolato dalla relazione con la madre, ma anzi di assumere per questo tipo di osservazioni una prospettiva sistemica: secondo la teoria generale dei sistemi, formulata da von Bertalanffy, un sistema è formato da una serie di componenti interdipendenti, che si regolano reciprocamente attraverso meccanismi di feedback, che consentono al sistema di autoorganizzarsi. I feedback possono essere di due tipi, quelli che tendono a correggere le deviazioni dall'omeostasi e quelli invece che le amplificano, conducendo a introdurre cambiamenti nel 56

sistema stesso. Da questo punto di vista, il bambino e il genitore sono considerati reciprocamente interagenti nel loro costituire un unico «sistema vivente», mentre fino agli anni '60 sia le teorie psicodinamiche sia quelle comportamentali guardavano tale relazione come caratterizzata da un processo a una sola via, in cui il comportamento del genitore influenzava quello del bambino. A Sander va anche il merito di aver ben evidenziato come all'interno di tali «sistemi viventi» ognuna delle persone che li costituisce (ad esempio un bambino e sua madre) oltre che svolgere funzione di agente regolatore dell'altra, dalla quale al contempo viene anche regolata, è altresì capace di autoregolarsi, così come pure l'altra persona svolge funzioni autoregolatorie, che sono indipendenti dalla regolazione interattiva in atto. Entrambi i tipi di regolazione, quella rivolta verso l'altro e quella rivolta verso il Sé, sono sempre in atto, parallele e interagenti, e sono rivolte a monitorare e modulare gli stati interni come la relazione esterna. Come di recente ha sostenuto anche Fogel [2001, 52], una grande mole di lavori scientifici ha da allora confermato le intuizioni di Sander circa la presenza di una modalità di autoregolazione individuale che si sviluppa parallelamente e si integra con quella interattiva, ribadendo così che secondo questa impostazione le autoregolazioni non sono il derivato di precedenti regolazioni interattive, dando così piena importanza agli autonomi contributi dell'individuo stesso nei meccanismi di regolazione di sé e dell'altro partner del sistema. Per affrontare poi il problema di come «il sistema permetta lo sviluppo nell'individuo del senso di identità e di controllo degli eventi» [Beebe e Lachmann 2002; trad. it. 2003 , 29], Sander ricorre al principio di «corrispondenza delle specificità» di Weiss che stabilisce «una specie di risonanza tra due sistemi sintonizzati tra loro, in base alle loro proprietà corrispondenti» [Weiss 1970; trad. it. 1971, 162], Come osservano Beebe e Lachmann 2002, il principio di corrispondenza delle specificità sta alla base del concetto di Sander di «momento di incontro»8: «la corrispondenza delle specificità tra due sistemi sintonizzati rende ciascun partner consapevole dello stato dell'altro. Nel momento di incontro, due stati di consapevolezza sono 57

posti a confronto, nel senso che si crea una corrispondenza tra il modo in cui ciascun partner conosce se stesso e il modo in cui è conosciuto dall'altro. Questo tipo di corrispondenza favorisce lo sviluppo di un senso di identità e di Sé agente. Nel momento di incontro avviene un riconoscimento reciproco, che influenza la capacità di agire in prima persona sulla propria autoregolazione» [ibidem, 29]. Se tale riconoscimento non avviene il «momento di incontro» non si determina, la persona non sente rafforzati, ma, anzi, indeboliti il proprio senso di identità e la propria capacità di azione, entrambi i componenti del sistema non ampliano il proprio sviluppo e si apre la strada per deviazioni psicopatologiche. Questo modello, attualmente definito sistemico-diadico, si differenzia dunque radicalmente da ogni altro modello psicoanalitico poiché infatti «non postula particolari contenuti psicologici (il complesso di Edipo, le posizioni paranoidi e depressive, i conflitti di separazione-individuazione, i desideri di idealizzazione e rispecchiamento ecc.) ritenuti universalmente importanti nello sviluppo della personalità e della patogenesi. Questa teoria è, invece, una teoria di processo [...] per indagare e comprendere i contesti intersoggettivi» JStolorow, Atwood e Branchaft 1994; trad. it. 1996, 32], E dunque il maggior o minor equilibrio dinamico delle auto ed eteroregolazioni, mediante scambi verbali o non verbali, che giunge comunque a determinare tematiche di estrema rilevanza come la definizione del Sé, in particolare per quanto concerne lo svilupparsi di un adeguato seme of agency, l'autostima, la possibilità di entrare in intimità con, o di rimanere separato da, l'altro, la capacità di superamento e di mantenimento della solitudine, nonché quella dell'espansione diadica della consapevolezza [Beebe e Lachmann 2002; trad. it. 2003, 32; Tronick 1998], Secondo tale modello di equilibrio/disequilibrio tra i processi di autoregolazione e regolazione interattiva si ritiene che il sistema sia in equilibrio quando non vi è prevalenza di una delle due modalità di regolazioni sull'altra, mentre invece «un eccessivo monitoraggio del partner, a spese dell'autoregolazione, orienta il sistema verso una "vigilanza interattiva". La preoccupazione verso l'autoregola58

zione, a spese della sensibilità interattiva, orienta il sistema verso l'altro polo dello squilibrio: ritiro e inibizione [...]» [Beebe e Lachmann 2002; trad. it. 2003, 206-207]. Adeguata autonomia e adeguata relazionalità vengono in tal senso contemporaneamente e costantemente co-costruite o de-costruite, con una dipendenza quasi istantanea dalle rispettive risposte diadiche [ibidem, 211], Bowlby, Sander, Stern e il Boston Group, e più di recente Tronick, Beebe e Lachmann, costituiscono una pattuglia di esploratori che ha saputo farsi strada attraverso le molte difficoltà insite nel progetto di istituire una teoria dello sviluppo normale e patologico finalmente affrancata dalle varie metapsicologie psicoanalitiche, come auspicava George Klein ormai più di trent'anni fa. Con la pubblicazione a metà degli anni '80 de II mondo interpersonale del bambino [Stern 1985], uno dei libri da cui non si può prescindere per l'evoluzione del modello psicodinamico, Daniel Stern introduce il concetto di «sintonizzazione degli affetti» (empathic attunement) e con questo un nuovo modello di comprensione dello sviluppo normale e patologico tra sintonie e dissintonia è ora disponibile in alternativa a quelli precedenti di traumi, conflitti e carenze. Se la sintonia conduce allo sviluppo normale di un bambino, la costanza di esperienze di dissintonia apre la strada ai processi di psicopatologia. Balint [1968; trad. it. 1983, 140] aveva aperto la strada ponendo il problema di quando «l'analista non riesce ad entrare in sintonia», cioè non risponde come il paziente si aspetta, prefigurando in ciò la necessità sia di tecniche differenti per problemi di carenza sia di una dimensione empatica, che sarà poi enfatizzata da Kohut. Ma è Daniel Stern che dà particolare risalto al concetto di sintonizzazione, usato per definire una specifica categoria comportamentale, fornendo degli esempi che favoriscono la comprensione del concetto stesso meglio di qualsiasi definizione: «una bambina di nove mesi è molto eccitata dalla vista di un giocattolo e cerca di impadronirsene. Quando ci riesce esclama con forza aaah!, e guarda la madre. La madre ricambia lo sguardo ed effettua un vigoroso movimento con la parte superiore del corpo, della durata esatta àeWaaah! della bambina e con lo stesso 59

carattere di eccitazione, gioia ed intensità» [Stern 1985; trad. it. 1987, 149]. Da ciò si evince che «la sintonizzazione degli affetti, dunque, consiste nell'esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tuttavia imitarne l'esatta espressione comportamentale [...]. I comportamenti di sintonizzazione riplasmano l'evento e spostano l'attenzione su ciò che sta dietro il comportamento, sulla qualità dello stato affettivo». Pertanto se «l'imitazione costituisce il miglior modo per indurre nel bambino l'apprendimento di aspetti esteriori, formali» la sintonizzazione rappresenta invece «il modo migliore per comunicare stati interni o indicare la propria partecipazione. L'imitazione comunica la forma, la sintonizzazione i sentimenti. In pratica, tuttavia, non sembra esistere una vera e propria dicotomia fra sintonizzazione e imitazione; i due processi sembrano situarsi ai due estremi di uno spettro» [ibidem, 151]. Sintonia non solo con gli a f f e t t i comunemente intesi e organizzati dalle categorie tradizionali (felicità, paura, rabbia, tristezza ecc.), ma in particolare con quelli che Stern definisce gli a f f e t t i vitali. Egli ritiene che sia necessario introdurre tale distinzione in quanto «molte qualità dei sentimenti non trovano posto nella terminologia esistente 0 nella nostra classificazione degli affetti. Queste qualità sfuggenti si esprimono meglio in termini dinamici, cinetici, quali "fluttuare", "svanire", "trascorrere", "esplodere", "crescendo", "decrescendo", "gonfio", "esaurito", ecc. 1 bambini sono certamente in grado di percepire queste qualità dell'esperienza che rivestono grande importanza ogni giorno e addirittura in ogni momento della loro vita». Queste particolari forme del sentire, che «hanno un impatto quasi continuo sull'organismo», possono essere suscitate sia dall'interno, da vari processi vitali (respirare, aver fame, addormentarsi, provare emozioni ecc.) sia dall'esterno, da una molteplicità di gesti parentali (il modo in cui la madre prende in braccio il bambino, gli porge la pappa, lo pettina ecc.) che non si qualificano come gesti dettati da affetti «regolari»: il bambino è costantemente immerso in questi affetti o sentimenti vitali, poiché da parte delle figure genitoriali «vi sono mille sorrisi possibili, mille modi di alzarsi dalla sedia, mille variazioni possibili di qualsiasi comporta60

mento, e ciascuno si accompagna a un diverso affetto vitale» [ibidem, 69-72], Poiché secondo Stern la danza e la musica sono due potenti modi di esprimere degli affetti vitali, egli propone di pensare che il bambino di fronte a un comportamento genitoriale che non esprima un affetto «regolare» (e reciprocamente un genitore di fronte a un bambino) può essere paragonato allo spettatore che assiste a un balletto o a chi ascolta musica: in particolare «il mondo sociale esperito dal bambino, prima di essere un mondo di atti formali, è soprattutto un mondo di affetti vitali». Poiché «nella media delle interazioni madre-bambino si manifestano solo occasionalmente espressioni di affetti appartenenti alle categorie tradizionali [...] se il processo di sintonizzazione degli affetti fosse limitato a questi affetti verrebbe a mancare di continuità». Invece, la sintonizzazione appare come un processo che può essere potenzialmente ininterrotto, in quanto si può rivolgere verso l'affetto vitale che ogni singolo comportamento sempre veicola: «Scoprire gli affetti vitali e sintonizzarsi con essi permette ad un essere umano di essere con un altro» [ibidem, 164]. Il processo che conduce a tale condivisione di esperienze interiori è dunque bifásico e se la seconda fase è quella della sintonizzazione, fin qua introdotta, è però necessario che sia preceduta da una prima fase, quella dello «scoprire gli affetti vitali» presenti momento dopo momento: è questa la fase del «riconoscimento», processo quindi che (come si vedrà anche nel cap. 3 parr. 2 e 3) precede e rende possibile una eventuale sintonizzazione. Per tale priorità temporale i (molteplici) riconoscimenti o gli eventuali (molteplici) disconoscimenti sono dunque i micro eventi di base che possono condurre attraverso una successiva sequenza di tappe, la prima delle quali è quella della sintonizzazione o della dissintonia, allo sviluppo normale o a quello patologico. Detto tutto ciò, e a parte la specificità di determinate situazioni (quali ad esempio molti dei disturbi di personalità borderline e antisociale e del disturbo postraumatico da stress, PTSD) in cui sono rintracciabili traumi (fisici, sessuali o emozionali), nell'impostazione che questo testo 61

sostiene, gli eventi psicopatogeni, cioè i disconoscimenti e le dissintonie, vanno quindi considerati come eventi: 1. reali, secondo quanto postula la teoria dell'attaccamento formulata da John Bowlby, e non come eventi fantasmatici, superando così una volta per tutte le ambiguità prodotte da una certa impostazione psicoanalitica; 2. relazionali, conseguenti a una situazione tra due persone; 3. non subiti passivamente, ma caratterizzati da un certo grado di bidirezionalità (cfr. par. 6); 4. di dimensioni micro, e non macro. Su questo scrive Kohut [1977; trad. it. 1980, 43] che «l'attenzione della psicoanalisi si è spostata dalla ricerca sulle macrostrutture (le istanze della mente) e le macrorelazioni con gli oggetti (il complesso edipico) alla ricerca su unità molecolari della struttura psichica» quali di fatto sono, nei termini della psicologia del Sé, le microrelazioni tra una persona e i suoi «oggetti-Sé»9; 5. non deterministici, ma probabilistici; 6. ultimo, ma non ultimo: l'ambiente all'interno del quale occorrono quegli eventi è un «sistema vivente» formato da due persone in interazione. E comunque imprescindibile inquadrare la psicopatologia nella cornice dello «sviluppo di una persona» da intendere come «capacità di sviluppo delle relazioni», sottolineando, con Tronick, che, nelle fasi originarie dello sviluppo10, non c'è espansione della coscienza che si determini fuori dall'espansione della relazionalità. Intrinseco a ciò è superare una visione dello sviluppo come ristretto a fasi cronologicamente definite, quella infantile e adolescenziale, ma intenderlo in una prospettiva life-span, secondo la quale tutto il corso della vita è comprensibile come sviluppo. Esperienze di continuità e di discontinuità seguitano ad accadere e una persona può trovare in ogni fase una difficoltà per lei apparentemente insormontabile dove invece un'altra persona può cogliere uno stimolo vitale e accrescitivo. Da questo punto di vista, le conseguenze di traumi, conflitti, carenze o disconoscimenti-dissintonie possono essere considerate in termini di disarmonie, più o meno gravi, dello sviluppo o di vere e proprie interruzioni dello sviluppo, che vanno darwinianamente comprese come manovre 62

di adattamento dell'individuo a un ambiente sfavorevole. In questo senso vanno interpretate quelle comuni strategie di sopravvivenza che inducono alla riduzione della percezione e dell'espressione di sé e delle proprie emozioni, conducendo a quella condizione di «incompetenza emotiva» che sottende i disturbi delle relazioni. Traumi, conflitti, carenze e disconoscimenti-dissintonie (cioè quelle che nella parte seconda saranno ulteriormente presentate come le principali11 modalità coinvolte nei processi di genesi della patologia psichica) sono comunque sostenuti in modo sempre embricato da elementi naturali e/o elementi culturali, senza tralasciare il coinvolgimento di ulteriori e non meglio definibili elementi «personali», che potremmo però dire, con Hillman, non appartengono né alla genetica né all'ambiente (psicologico e sociale) ma a un'altra dimensione. 5. «Daimon» e «genius» «Quando tutte le anime si erano scelte la vita, si presentavano a Lachesi. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto» (Platone, Repubblica, X, 620 d-e). Poiché nascendo gli uomini non conservano la memoria della scelta fatta in precedenza, sarà compito del daimon ricordare all'uomo il destino che si era prefissato. Nell'oblio c'è dispersione delle potenzialità e sgomento di fronte al vuoto di senso della vita, mentre nel vivere quel che si era prestabilito un uomo può sentire che esistono cose alle quali si deve dedicare al di là del quotidiano e che «al quotidiano conferiscono la sua ragione d'essere» [Hillman 1996; trad. it. 1997, 18]. Una cosa va chiarita subito - scrive James Hillman - il paradigma oggi dominante per interpretare le vite individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica ed ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro noi chiamiamo «me». Se accetto l'idea di essere l'effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato.

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Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall'eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali [ i b i d e m , 20].

Quello a cui egli vuole opporsi è il diffondersi della mentalità della vittima di cui nessuno di noi può liberarsi, finché non riusciremo a vedere in trasparenza i paradigmi teorici che a quella mentalità danno origine e ad accantonarli. Noi siamo vittime delle teorie ancor prima che vengano messe in pratica. [...] Noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientista, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente, che è come dire ignorano, il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana.

Egli prosegue introducendo la sua «teoria della ghianda», che rappresenta una sorta di ri-attualizzazione delle idee di Plotino, secondo le quali «la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta direttamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile è perché ho dimenticato». Piuttosto che prendermela con la mammà e con il papà per quello che hanno fatto o non fatto, Hillman sostiene che dovrei riconoscere l'esistenza di «un nucleo centrale della mia personalità» che è il depositario del mio destino individuale e allinearmi a esso, poiché costituisce appunto quel germe, quella ghianda da cui poi sorta la «quercia» che è la mia vita, qualunque essa sia, lottare contro le origini, contro il seme, non è possibile e anzi genera sofferenza. I nomi a cui egli ricorre per designare la «ghianda», originaria ed enigmatica «forza della vita umana», sono molti, e cioè daimon, genius, anima, destino, vocazione, carattere, e tutti dicono qualcosa sulla sua sfuggente natura, senza che nessuno riesca a essere però esaustivo della 64

sua qualità specifica, «che rimane nebulosa e si rivela più che altro per allusioni, per sprazzi di intuizione, in sussurri e nelle improvvise passioni e bizzarie che interferiscono nella nostra vita e che ci ostiniamo a chiamare sintomi» {ibidem, 26], E che talora possono essere «cattive azioni»: «può la ghianda albergare un cattivo seme?» [ibidem, 267], si chiede Hillman e coerente con il suo perseguire l'idea di qualcosa di non attribuibile né alla natura né alla cultura si cimenta con la questione del male, cercandolo in un cammino guidato dal fato ma non in modo «fatalistico». Dunque per comprendere l'insorgenza di quel particolare tipo di psicopatologia che prende le forme dei comportamenti che vengono genericamente definiti antisociali, egli fa ricorso a otto modelli interpretativi: condizionamenti dovuti a traumi infantili, tare ereditarie, particolare ethos di gruppo, rinforzi positivi di comportamenti negativi, il karma, la prevalenza della parte «ombra» presente in ciascun uomo, la carenza di qualche fondamentale caratteristica umana (ad esempio, la capacità di immedesimazione), la chiamata del male (poiché «la ghianda» può manifestarsi non soltanto come angelo che guida e sostiene ma anche come demone che chiama a una implacabile violenza). E immediato osservare che i meccanismi eziopatogenetici individuati da Hillman possono essere ricondotti (a parte due) alle tre macro aree del paradigma bio-psicosociale, in quanto quelle che lui definisce tare ereditarie rientrano nell'area dei fattori biologici, i traumi infantili, i rinforzi positivi di comportamenti negativi, la prevalenza della parte ombra12, la carenza di qualche fondamentale caratteristica umana sono riconducibili all'area delle determinanti psicologiche mentre Vethos di gruppo è ascrivibile alla determinante sociale. Focalizzando poi l'attenzione sulle determinanti specifiche dell'area psicologica nella genesi della psicopatologia, i meccanismi definiti da quest'autore come «traumi» e «carenze» sono riconducibili direttamente a due delle voci che la classificazione di questo libro propone, mentre la «prevalenza della parte ombra» è a mio avviso una modalità di esprimere nella terminologia junghiana il conflitto intrapsichico, e a tale categoria va quindi riportata. I «rinforzi positivi» che sembrerebbero meccanismi non 65

di pertinenza della psicologia psicodinamica ma di quella behaviorista sono invece interpretabili dal modello sintonia/dissintonia, che è quello sostenuto da questo testo. Ma al di là tanto delle determinanti psicologiche (trauma, carenza, conflitto, dissintonia) quanto di quelle biologiche e sociali, Hillman fa anche riferimento al «karma» e alla «chiamata del male»13: questi due meccanismi sembrano degli oltrepassamenti metafici con cui egli vuole sottrarre del tutto la persona dall'essere ingabbiata in un determinismo bio-psico-sociale ed evidenziare i limiti della comprensione psicologica. Senza voler diminuire il valore delle più recenti acquisizioni in tema di sviluppo, da quelle pionieristiche di Sander fino a quelle più recenti (Shore, Sroufe, Emde), su questo punto, non si può non concordare, ancora una volta, con il pensiero di Hillman, che, utilizzando una sua propria terminologia di stampo «romantico», è in perfetta sintonia con le più aggiornate opinioni [Cicchetti e Cohen 1995] che con un linguaggio scientifico mirano a evidenziare i limiti della comprensione della genesi della psicopatologia. Come infatti faccio presente: Cosa conduce alla patologia in un contesto di condizioni generali favorevoli e allo sviluppo normale in presenza di evidenti fattori di rischio è attualmente lungi dall'essere chiarito in modo soddisfacente. In tale situazione di indeterminatezza, diversi ricercatori sono ricorsi all'escamotage di ipotizzare la presenza in determinate persone di particolari, ma non meglio individuabili, caratteristiche di vulnerabilità (che renderebbe tali individui particolarmente proni a manifestare alterazioni dello sviluppo) o di resilience (cioè di resistenza di fronte ad eventi negativi, a fattori di rischio) [Amadei e Bianchi 2004, 8].

Inoltre, sempre su questo tema, vanno ricordati i principi di equifinalità e di multifinalità, entrambi derivati dalla teoria generale dei sistemi: «Secondo il primo, percorsi anche molto differenti tra di loro possono condurre al medesimo esito patologico: questo principio dà cioè conto del fatto che non esistono eventi o fattori di rischio che conducono linearmente ad un'unica, specifica manifestazione patologica. Di converso, per il secondo principio, medesimi eventi possono determinare differenti esiti psicopatolo66

gici o addirittura non determinare alcuna manifestazione patologica. [...] Se da tutto quanto detto una prospettiva deterministica è francamente poco sostenibile, per quanto riguarda lo studio delle vie di sviluppo è necessario fare i conti anche con la presenza di eventi casuali o eventi che si determinano seguendo la teoria del caos» [cfr. Cicchetti e Cohen 1995, 8]. Infine «da storiche ricerche nel campo della embriologia [Waddington 1966] sono derivate attendibili informazioni che, ancora una volta, sono da ritenere rilevanti per differenti livelli di comprensione dello sviluppo. Primo fra tutti quello di reputare (pur in presenza di fattori di rischio e protezione, di caratteristiche di vulnerabilità e di resilience, di eventi voluti dal caso e dal caos) che l'organismo possieda comunque una propria specifica ed originaria vitalità, sottesa da una tendenza all'aumento della complessità e della differenziazione (strutturale e funzionale) guidata da una sistematizzazione gerarchicamente organizzata» [Amadei e Bianchi 2004, 9]. Che si faccia menzione di una «originaria attività dinamica dell'organismo», che si usino espressioni in lingua inglese come resilience, bisogna ammettere che quel che si sta trattando è l'evidenza per cui «nonostante le offese precoci e tutti i "sassi e i dardi dell'oltraggiosa sorte" noi rechiamo impressa fin dall'inizio l'immagine di un preciso carattere individuale dotato di taluni tratti indelebili» [Hillman 1996; trad. it. 1997, 18]. Per tale ghianda, per tale daimon, Hillman non intende utilizzare il termine «Sé»14 per almeno due motivi, il primo dei quali è che tale espressione è ormai troppo carica di cultura psicologica rispetto al fine che egli intende perseguire, cioè quello di restituire il mistero nel territorio della scienza psicologica che da quello vuole invece allontanarsi quasi con orrore, riconducendo la psicologia verso il mito ma soprattutto allontanandola da quella egli chiama «la superstizione parentale», secondo la quale tutto deriverebbe da mamma e papà... Gli studi di etologia di David Rowe, ad esempio, attaccano la tradizionale modalità di pensiero che considera solo la linea verticale di trasmissione del sapere: secondo Rowe infatti non solo la verticalità può avvenire nei due sensi, con esiti di influenzamento reciproco, ma 67

idee e innovazioni si possono trasmettere anche orizzontalmente. Per quanto concerne lo sviluppo dei bambini una delle più importanti voci fuori dal coro è quella di Diane Eyer che già dal titolo di un suo libro, Motherinfant bonding. A scientific fiction [1992], manifesta l'obiettivo della polemica dell'autrice, cioè quell'ideologia che riconduce alle madri ogni responsabilità in merito allo sviluppo dei figli considerati plasmabili come creta dalle mani dei genitori. In effetti si può fortemente concordare con le osservazioni di questi due originali ricercatori, come con la tesi di fondo sostenuta da Hillman, se si assume come framework di riferimento quello diadico-sistemico: infatti tutte le argomentazioni di Hillman, certamente seducenti, e importanti nell'attaccare una serie di stereotipi culturali si scagliano soprattutto contro una psicologia, anche psicoanalitica, che ragiona per macro teorie e macro eventi e per di più in una logica deterministica. Quello che questo libro propone è: • considerare la realtà dei micro eventi della sintonia/ dissintonia, • assumere una logica di determinismo probabilistico, • inserire gli eventi in un modello sistemico e non lineare [cfr. Hillman 1996; trad. it. 1997, 180; Fogel 2001, 49], • tener conto della possibilità di variazioni casuali e caotiche. Un secondo, non secondario, motivo che induce Hillman a non usare il termine «Sé» consiste nella riduttività con cui si è soliti connotarlo: «benché sia la mia ghianda non è me e neppure è mia» [Hillman 1996; trad. it. 1997, 319], questa «essenza» [ibidem, 339], termine da cui Hillman si dice tentato, non è riducibile al mio Sé (psicologico), che può morire, ma al mio Sé (spirituale), che non finisce con la morte del Sé fenomenico poiché, come dice una sapienza antica, «non c'è un tempo in cui non sono stato e non ci sarà un tempo in cui non sarò...». Allora quello a cui una persona dovrebbe tendere è travalicare questo mondo per «risvegliarsi al seme originario della propria anima e udirne la voce». 68

E questa voce, questa chiamata del mio Sé autentico, potrebbe esigere di capovolgere questo mondo per avvicinarlo almeno un po' dR altro mondo, «per ripristinare la vicinanza alla luna; lunaticità, amore, poesia. I figli dei fiori, Woodstock, le rivolte universitarie, gli studenti del maggio francese: "ìmagination au pouvoir!". Nessuna gradualità, nessun compromesso, perché l'eternità non scende a patti con il tempo. Ispirazione e visione sono in se stesse il fine ed il risultato, e dopo... e dopo, che cosa succede? Gli ideali immortali soccombono alla mortalità: la repressione poliziesca; la generazione del Sessantotto e gli affari. "Le ragazze e i ragazzi d'oro finiranno tutti, / come spazzacamini, coperti di polvere"» [ibidem, 348-349], Oppure la voce dell'anima potrebbe condurre a un altro modo di travalicare questo mondo, cioè quello di collegarsi a una dimensione spirituale: «La vita non è soltanto un processo naturale; è anche, forse più ancora, un mistero. [...] Gli esseri umani cercano instancabilmente di decifrare il codice dell'anima, di penetrare i segreti della sua natura. Ma se la natura dell'anima fosse non naturale e non umana?» [ibidem, 352], Qui si apre la possibilità di affrontare il tema di una dimensione spirituale a cui non bisogna credere ma della quale si può fare esperienza... e di questo si accennerà nella conclusione. Per ora si può solo notare, con Giorgio Agamben, che «la spiritualità, è stato detto, è innanzitutto questa coscienza del fatto che l'essere individuato non è interamente individuato, ma contiene ancora una certa carica di realtà non individuata, che occorre non soltanto conservare, ma anche rispettare e, in qualche modo, onorare, come si onorano i propri debiti. Ma genius non è solo spiritualità, non riguarda soltanto le cose che siamo abituati a considerare più nobili e alte. Tutto l'impersonale in noi è geniale, geniale è innanzi tutto la forza che spinge il sangue nelle nostre vene o ci fa sprofondare nel sonno [...] genius è la nostra vita in quanto non ci appartiene» [Agamben 2004, 10-11, corsivo mio]. La trattazione di Agamben è piacevolmente speculare a quella di Hillman: a parte il privilegiare l'uno il termine greco e l'altro quello latino, entrambi ci parlano di questa nostra intima essenza che pur non ci appartiene. Evocando 69

un mito uguale e pur diverso da quello ricordato da Hillman, Agamben racconta che i latini chiamavano Genius il dio a cui ciascun uomo viene affidato in tutela al momento della nascita. L'etimologia è trasparente ed è ancora visibile nella nostra lingua nella prossimità fra genio e generare [...]. Com'è evidente nel termine ingenium, che designa la somma delle qualità fisiche e morali innate in colui che viene ad essere, Genius era in qualche modo la divinizzazione della persona, il principio che regge ed esprime la sua intera esistenza [...]. Vi è un'espressione latina che esprime meravigliosamente il segreto rapporto che ciascuno deve saper intrattenere con il proprio Genius', indulgere Genio. A Genius bisogna accondiscendere ed abbandonarsi, a Genius dobbiamo concedere tutto quello che ci chiede, perché la sua esigenza è la nostra esigenza, la sua felicità è la nostra felicità. Anche se le sue - le nostre! - pretese sembrano sragionevoli e capricciose, è bene accettarle senza discutere [...]. Genium suum defraudare, frodare il proprio genio, significa in latino: rendersi triste la vita, imbrogliare se

stessi [ibidem, 5-8].

Per Agamben il genius è la nostra, personale, parte impersonale, che esita di fronte a qualsiasi individuazione: il modo unico, specifico, con cui ognuno di noi viene a patti con il suo genius definisce il proprio carattere. Si potrebbe dunque dire che la specificità di una persona non sta nel suo daimon, nel suo genius, nel modo in cui quella tal persona negozia con lui le scelte della vita. Ancora una volta quel che decide non è un'essenza, ma una «relazione», che se prende le forme di un «momento di incontro», e non di frode, può condurre a vivere la vita a modo proprio. Qualcuno ora, forse insofferente di questi magical mistery tours, forse assettato di tranquillizzante positivismo, potrebbe chiedersi se i corrispettivi nomi scientifici di daimon e genius non siano i concetti di resilienza e di autoregolazione. Il concetto di resilienza {resilience), cioè di «particolare e imprevista» resistenza dimostrata da alcune persone di fronte a eventi negativi e a fattori di rischio, va di pari passo con quello di vulnerabilità, che renderebbe altre persone «particolarmente e imprevedibilmente» prone a manifestare svariate forme di disagio. Bisogna nuovamente am70

mettere che quello che conduce al benessere o al malessere psichico non è determinabile in modo univoco poiché ciò che si attiva in circostanze particolari forse ha a che fare con le capacità intrinsecamente e imprevedibilmente autoregolatrici di una persona, che (secondo le osservazioni di Sander) sono idiosincratiche per ogni specifica persona e non dipendono completamente da regolazioni determinate da altri, ad esempio i genitori. Per ora si può solo concludere che, anche in forza della creatività delle argomentazioni di Hillman, «la formazione dei nostri bambini è qualcosa che possiede molte e molte dimensioni» [Hillman 1996; trad. it. 1997, 104] e che non tutte possono essere note, come ci dicono la presenza dei daimon e dei genius. Molte forse restano del tutto ignote. 6. Monodirezionalità

vs.

bidirezionalità

E opportuno ora considerare i modi secondo cui agiscono le determinanti psicopatogene chiamate fino a ora in causa. Di fatto la volontà di effettuare considerazioni sulla possibilità di isolare una determinata sequenza di eventi come «causa necessaria e sufficiente ad indurre stati patologici della mente» [Ballerini 2003, 122] obbliga in primo luogo a circoscrivere una particolare categoria di eventi, quelli cosiddetti traumatici, come «quelli in grado di indurre gravi esperienze interne, gravi Erlebnisse emotivi nella generalità delle persone e quindi caratterizzati proprio dall'essere relativamente sopra-individuali» \_ibidem, 122]. A parte dunque questa determinata qualità di eventi, solitamente connessi al verificarsi di rischi di morte per una persona o al suo patire sofferenze (fisiche o psichiche) estreme, nell'attuale impostazione del problema delle sequenze psicopatogenetiche appare diffusa la sensibilità a distinguere tra «evento» e «situazione»: il primo ha caratteristiche puntiformi, ben individuate nel tempo e nello spazio, mentre la seconda «indica il mutevole complesso dei rapporti nei quali l'uomo viene a trovarsi, ad essere sili

tuato, in relazione agli altri, alle condizioni ambientali e a se stesso» [ibidem, 119]. Questi due concetti segnano le tappe dell'evoluzione della moderna psichiatria, dall'impostazione di Pinel (che riconduceva la genesi della psicopatologia alla «sensibilità estrema» di una persona di fronte a un evento) a quelle di Charcot e di fenomenologi quali Biswanger e Schneider, i quali, pur in modi differenti, hanno introdotto la necessità di una comprensione degli eventi dal punto di vista del soggetto, riconoscendo che il problema, salvo, come detto, per eventi estremi, non sta nell'accadere di un evento, ma nella situazione di relazione che si stabilisce tra quel soggetto e quel che è accaduto. In tal senso si ritiene che sia sempre l'individualità a decidere il senso ultimo dell'accadimento. Pertanto, «ai poli estremi si pongono da un lato l'immagine dell'evento concepito come un impersonale proiettile che colpisce dall'esterno il soggetto, dall'altro lato l'evento come momento rivelatorio dei modi di essere del soggetto, per cui - per così dire - gli eventi ci aspettavano dietro l'angolo della nostra struttura psichica, ed è essa che dissemina la nostra vita di fatti selezionati per diventare eventi significativi» [ibidem, 120], Ma considerando queste come polarità estreme e poco generalizzabili, due modelli si confrontano realisticamente per la comprensione delle modalità di insorgenza della psicopatologia. Modalità monodirezionale. «Genotipo-ambiente», o altrimenti detto «fattori interni/diatesi individuale/vulnerabilità costituzionale - fattori esterni/ambiente (stressante, traumatico, inadeguato)». Nella sua accezione più medica e meno psicologica tale modello potrebbe comprendere anche quello della pallottola, intesa come evento totalmente esterno, cioè dell'evento biologico che modifica il comportamento dal funzionamento fisiologico verso una variante patologica. Declinato in modo meno rigidamente deterministico, per questo modello la mente si ammala come conseguenza di 72

una specifica predisposizione individuale alla malattia (elemento costituzionale o diatesi) che si palesa solo in presenza di fattori ambientali esterni (stress ambientali, quali traumi o carenze) o intrapsichici (quali conflitti) sfavorevoli, siano essi generici o specifici. Il termine «diatesi» si riferisce nella maggior parte dei casi a una generica predisposizione costituzionale o biologica, ma in un'accezione più ampia e recente esso include qualunque caratteristica individuale capace di incrementare la probabilità che un individuo manifesti un disturbo psicopatologico nel corso della sua vita. In presenza di una certa quantità di stress (condizioni e/o stimoli ambientali nocivi o sfavorevoli) il soggetto, che a causa della sua diatesi non è in grado di fronteggiare adeguatamente la nuova situazione, svilupperà il disturbo psicopatologico correlato al suo specifico fattore costituzionale [Linehan 1993; trad. it. 2001, 17].

Secondo tale modello i fattori appartengono o all'uno 0 all'altro dei due campi (individuo/ambiente) in gioco: tale modello sottostima l'opera di incessante, reciproco, influenzamento tra elementi appartenenti ai due diversi campi che non restano rigidi ma si modificano nel corso del tempo. E pur vero che, come già detto, questo modello è adeguato a spiegare talune forme di disagio, come ad esempio 1 PTSD (Post-Traumatic Stress Disorders). Modalità bidirezionale di tipo sistemico. Secondo il modello sistemico i fenomeni non possono essere compresi se vengono studiati in modo isolato e seguendo una logica deterministica e lineare: anteporre lo studio delle relazioni a quello delle identità degli esseri è stata una delle direttive del programma scientifico di von Bertalanffy [1959] il quale, delineando una teoria generale dei sistemi, considera che i fenomeni da studiare non possono essere compresi finché non li si incornicia in una globalità, in un insieme, in un sistema definito «vivente» per differenziarli da quelli «chiusi» di competenza della fisica. Le ricerche compiute con questa impostazione, durante gli anni '60, da Louis Sander sul ritmo sonno/veglia dei neonati, hanno permesso di mettere in luce che nel contesto di una relazione tra «individui reciprocamente significativi» ognuno dei partner si autoregola, oltre che svolgere 73

funzione di agente regolatore dell'altro partner, dal quale al contempo viene anche regolato. Grazie agli studi pionieristici di Sander ha quindi preso forma un compiuto modello sistemico-diadico della intersoggettività, nel quale si può riconoscere pienamente anche il contributo dell'individuo nei meccanismi con cui regola i propri stati interni e le relazioni: Sander ha infatti colto che le modalità di autoregolazione individuale degli stati interiori e dei comportamenti si sviluppano in parallelo e si integrano con quelle interattive, volendo con questo rimarcare che le autoregolazioni non sono il derivato di precedenti regolazioni interattive, ma che le due modalità esistono originariamente separate, sia pur interagendo. Va ribadito che uno dei maggiori contributi áúVinfant research alla comprensione della genesi della psicopatologia consiste nell'aver individuato che i principi regolatori delle interazioni rimangono costantemente presenti, a livello implicito non verbale, nel corso della vita in tutte le esperienze interattive, che sono quindi sottoposte a una «teoria generale dell'interazione». Secondo questo modello, che Linehan ha definito come «dialettico», l'individuo e il suo ambiente si trovano in un rapporto di «mutua e continua interazione, reciprocità ed interdipendenza [...], l'ambiente e l'individuo si adattano l'uno all'altro e si influenzano reciprocamente [...]. L'insieme individuo-ambiente rappresenta un sistema che concorre a definire e a determinare le proprie parti, essendo da esse a sua volta definito e determinato» [Linehan 1993, 18], Tale modello di psicopatogenesi, definito dall'autrice anche «transazionale», «non assume in maniera aprioristica che nel sistema individuo-ambiente i due termini abbiano esattamente la stessa importanza, né che il peso delle loro reciproche influenze si equivalga» [ibidem, 19]. Si tratta comunque di accettare di mantenere, senza risolverla, una prospettiva contraddittoria (o paradossale) in cui riconoscere l'esistenza di componenti di essenzialità/ peculiarità appartenenti all'uno e all'altro dei due campi, ma al contempo ribadire che tali componenti di essenzialità/peculiarità si determinino all'interno di quello specifico sistema. 74

NOTE AL CAPITOLO SECONDO 1 Quello appunto di «schemi mentali (riguardanti relazioni interpersonali)» più o meno rigidi e pervasivi, nonché, come si vedrà in seguito, di riduzione di alcune funzioni mentali, come la capacità di gestire lo stress, di orientare l'attenzione e di metacognizione. 2 Per questo cfr. Hughes [1993]. 3 Questo tema è sviluppato in Disneyland, Waste Land, Nowbere land [Amadei 2002], 4 Assumendo cioè come riferimento il periodo di pubblicazione di alcuni dei principali lavori di Fairbairn e di Sullivan. 5 «L'opera di Sullivan è tipicamente americana: pragmatica, con un orientamento operativo, incentrata su quello che le persone fanno-, rifuggiva di speculazioni sui processi all'interno della mente, non osservabili. Le radici intellettuali di Fairbairn affondano nella filosofia greca ed europea, con il loro amore per l'astratto» [Greenberg e Mitchell 1983; trad. it. 1986, 181]. 6 Per una presentazione più estesa del modello sullivaniano cfr. Amadei [2001] di cui sono state riportate alcune parti ampiamente rimodellate dei parr. 2 e 3, cap. 2, e Conci, Dazzi e Mantovani [1997], 7 II problema della psicopatologia dell'età infantile esula dalla trattazione di questo testo, anche se i meccanismi eziopatogenetici coinvolti sono evidentemente i medesimi, come risulta anche in Ammaniti [1999], 8 Che è stato successivamente ripreso dal cosiddetto Gruppo di Boston, formato da Stern e altri colleghi, che studia con il modello di Sander i processi di cambiamento all'interno del processo terapeutico. 9 Con questo termine si intende che per sviluppare un senso di coesione il Sé del bambino ha bisogno degli altri (i genitori ad esempio) che dal punto di vista del bambino non sono ancora però oggetti differenziati dal Sé [vedi Kohut 1977]. 10 La precisazione «fasi originarie dello sviluppo» va posta in quanto in età adulta, secondo autorevoli autori [cfr. tra gli altri KabatZinn 2005] un particolare ampliamento della consapevolezza può avvenire in conseguenza di esperienze non relazionali di mindfulness meditation, che tendono a promuovere la presenza mentale. 11 Ovviamente sempre restando all'interno del dichiarato orientamento di riferimento e scegliendo quindi di tralasciare, in questa sede, l'approfondimento di alcune questioni pur rileventi, quali, ad esempio quelle concernenti le caratteristiche della qualità della comunicazione (comunicazioni paradossali, doppi legami ecc.), interpretandole tutte toutcourt come comunicazioni dissintoniche. 12 Cioè la parte «inferiore» della personalità, data dalla «somma di tutte le disposizioni psichiche personali e collettive che, per la loro incompatibilità con la forma di vita scelta coscientemente, non vengono vissute e si uniscono a formare nell'inconscio una personalità parziale relativamente autonoma con tendenze contrarie» [Jung 1962],

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13 Hillman su questo punto tiene a sottolineare che «la chiamata non giustifica il gesto criminoso né libera il criminale dalle sue responsabilità. Io sostengo semplicemente che la teoria della ghianda consente una comprensione del Cattivo Seme» [Hillman 1996; trad. it. 1997, 304]. 14 «La ghianda non si mescola con il Sé inflazionato della soggettività moderna, così separata, personalistica e sola» [ibidem, 319],

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CAPITOLO TERZO

IL PROBLEMA DELL'AUTENTICITÀ

Lo Zen dice: «Trova il tuo volto, il volto che avevi prima di nascere. Scopri il volto che tornerai ad avere quando sarai morto». Per gli psicoanalisti di orientamento interpersonale/relazionale1 una questione cruciale, come osservano anche Fonagy e Target [2003; trad. it. 2005, 221], è quella dell'autenticità. In particolare per il modello di psicopatologia che si intende proporre (quello del misconoscimento), il riconoscimento dell'autenticità, che è riconoscimento di unicità («tu sei tu, non c'è nessuno come te»), è evidentemente il problema essenziale2. 1. Essere in sé o fuori di sé «Tutti i vari enti (còse, animali, vegetali, uomo ecc.) hanno un essere. Ma si è visto che nell'uomo il rapporto tra ente ed essere (l'esistenza) è assolutamente singolare, perché in tutti gli altri enti l'essere proprio di ciascheduno esprime l'impossibilità da parte di questi enti di esse diversi da ciò che sono (l'albero non può essere che albero, l'animale animale ecc.) mentre nell'uomo l'essere, il sein del Da-sein, l'essere dell'Esser-ci, esprime la possibilità da parte di questo ente di essere tale e quale esso progetta di essere [...]. Quindi solo dell'uomo si può dire che ha Inesistenza", che, ex-siste, che, autoprogettandosi, è esposto alla possibilità di realizzarsi (nell'autenticità) o di perdersi (nell'inautenticità)» [Chiodi 1976, IX], Il mondo è un orizzonte all'interno del quale si muove un ente, l'uomo, che ha pertanto sempre davanti a sé due possibilità: «di immedesimarsi col mondo, (perdendosi 77

nella banalità e nell'equivoco) oppure di conquistarsi nella propria autenticità. Nel primo caso perde ciò che ha di più proprio e cade nell'anonimia del "si dice, si fa, ecc. "» [ibidem, X]. Attraverso le modalità fondamentali della «situazione emotiva» e della «comprensione» l'uomo prova a «esserci» nel mondo. Con il termine di «situazione emotiva» Heidegger intende componente emotiva dell'esistenza che apre all'uomo quella caratteristica costitutiva del suo esserci che è Vaffettività, declinata nelle situazioni emotive essenziali della paura e dell'angoscia. La paura è quell'emozione che è propria dell'esserci che vive nell'inautenticità e nella quotidianità banale dell'uomo, cioè di chi si sente definito a partire dal mondo, in cui si sente in gioco. L'angoscia è all'opposto l'emozione di chi non si sente estraneo al mondo e non si sente definito da esso: questo distanziamento apre quindi la strada al «poter esserci autenticamente», in quanto amplia la visione dell'uomo all'ultraterreno. Non si vuole qui mettere sotto banale vaglio critico il tendenziale scetticismo della filosofia heideggeriana a proposito della possibilità di vita autentica, ma semplicemente utilizzarla come riflessione su quella parte speculare della in-autenticità, che sembra possedere una grande forza esplicativa del nostro vivere sociale. La seconda modalità fondamentale dell'esserci è la comprensione, su cui si fonda l'interpretazione e poi l'asserzione e poi ancora l'apertura alla comunicazione, cioè al discorso, che nella esistenza /«-autentica assume le forme di chiacchiere, curiosità ed equivoci. Ciò che conta è che si discorra. L'essere stato detto, l'enunciato, la parola, si fanno garanti dell'esattezza e della conformità alle cose del discorso e della sua comprensione. E poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto originario con l'ente di cui si discorre, ciò che esso partecipa non è l'appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò-che-è-stato detto si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché cosi si dice. La chiacchiera si costituisce in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso, nelle quali la incertezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infon78

datezza [...]. La totale infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica ma fattore determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in quanto appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto [...]. Con la sua presunzione di possedere sin dall'inizio la comprensione di ciò di cui si parla, impedisce ogni riesame e ogni nuova discussione, svalutandoli o ritardandoli in modo caratteristico.

Si può dire che «ogni comprensione genuina, ogni interpretazione, ogni riscoperta e ogni nuova appropriazione» hanno luogo contro tale quotidiana e diffusa modalità di pseudo-comprensione, che mira a prescrivere sia il «cosa» sia il «come» si vede. L'esserci che si mantiene nella chiacchiera [...] è del tutto tagliato fuori dal rapporto primario, originario e genuino del proprio essere col mondo [...]. Si mantiene in una instabilità permanente nella quale, però, si rapporta pur sempre al «mondo», agli altri e a se stesso [...]. L'ovvietà e la sicurezza di sé proprie dello stato interpretativo medio fanno sì che, sotto il loro tacito predominio, resti nascosta all'Esserci l'inquietudine dell'infondatezza in cui egli è votato a una crescente inconsistenza [Heidegger 1927; trad. it. 1976, 211-215].

A quale tipo di cultura e a quale tipo di disturbo della personalità fanno pensare queste suggestive parole di Heidegger? Forse basta premere il tasto del telecomando televisivo all'ora di qualsivoglia talk-show o dibattito politico per avere una risposta... Diversamente dalla curiosità vitale, la curiosità ormai dominante non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, per «essere-per» esso, ma si prende cura solamente di vedere. Essa cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente le possibilità derivanti dall'abbandono al mondo. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica in-

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capacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa rifugge dalla

contemplazione serena, dominata c o m e dalla irrequietezza e dall'eccitazione che la spingono verso la novità e il cambiamento. In questa agitazione permanente la curiosità cerca di continuo la propria distrazione. La curiosità non ha nulla a che fare con la considerazione dell'ente piena di meraviglia; non le interessa lo stupore davanti a ciò che non si comprende [...]. I due momenti costituvi della curiosità, l'incapacità di soffermarsi nel mondo ambientale e la distrazione in possibilità sempre nuove, fondano quel terzo carattere essenziale di questo fenomeno cui diamo il nome di irrequietezza. La curiosità è ovunque ed in nessun luogo [...]. La chiacchiera fa da guida alla curiosità e dice ciò che si deve aver letto e visto. L'essere-ovunque-e-in-nessun-luogo della curiosità è affidato alla chiacchiera. Questi due modi di essere [...], caratterizzati dallo sradicamento, non sono semplicemente presenti l'uno vicino all'altro; un'unica maniera di essere li tiene costantemente uniti [ibidem, 215-218].

Così, la curiosità «per cui niente è segreto» e la chiacchiera «per cui niente è incompreso» garantiscono a se stessi la presunzione di una vita «veramente vissuta»... Oltre a una fauna di personaggi dello spettacolo, della moda e della politica che ingombrano gli studi di qualsiasi canale televisivo, arredandolo di vacuità e di volgarità, ancora una volta non sembra difficile associare a queste descrizioni dei tratti ben riconoscibili di vari disturbi della personalità, tra cui i difetti narcisistici e i comportamenti perversi (in particolare voyeuristici ed esibizionisti). In tale situazione in cui «tutto sembra genuinamente compreso, afferrato e espresso, ma in realtà non lo è» Xequivoco si è saldamente instaurato tra le comunicazioni: «Non soltanto ognuno sa e discute di qualsiasi cosa gli sia capitata o gli venga incontro, ma ognuno sa già parlare con competenza di ciò che deve ancora accadere, di ciò che manca ancora, ma dovrebbe "ovviamente" essere fatto. Ognuno ha già sempre presentito e fiutato ciò che gli altri hanno presentito e fiutato» [ibidem, 219-220], Chiacchiere, curiosità ed equivoci caratterizzano l'inautenticità degli individui di una società in cui tutti hanno gli occhi su tutti, ma pochi vedono qualcuno all'infuori di sé: «sotto la maschera dell'esser-l'uno-per-l'altro domina l'esser-uno-contro-l'altro» {ibidem, 220], 80

Osserva ancora Heidegger [ibidem, 223] che se l'essere in modo inautentico nel mondo è tranquillizzante per le (pseudo o come se o false) identità, poiché recitare il copione è più facile che improvvisare, tuttavia questo stato in-autentico di essere non conduce alla quiete, ma alla più sfrenata attività, a un brulicante «starsi a sorvegliare» vicendevole, per vedere come si comporta l'altro e soprattutto cosa se ne dirà. Vengono in mente svariati contesti sociali dominati dal presenzialismo, la trasformazione dei «buttafuori» alle porte dei locali in selettivi «buttadentro», la caccia all'invito esclusivo per l'inaugurazione di una mostra, la ricerca di feticci sotto forma di capi g r i f f a t i . Se queste descrizioni di Heidegger a proposito delle modalità inautentiche di essere appaiono di una attualità sconcertante e di una capacità descrittiva insuperata, Donald Winnicott è senza dubbio l'autore che permette di passare da un livello descrittivo filosofico a uno interpretativo psicologico della medesima questione di una vita «vissuta autenticamente». 2. Esistere anziché

reagire

Per Winnicott le cure del genitore possono essere ricondotte alle funzioni di holding, che ha anche la qualità dell'handling', e di «presentazione degli oggetti» [1987; trad. it. 1987, 37]. Tradotto per lo più come «sostenere», il termine «holding» veicola nell'intenzione winnicottiana sia il significato di «tenere in braccio» e di «maneggiare», sia quello, più di senso psicologico, di supporto dei processi vitali e di sostegno, in cui viene compreso anche un senso di «contenimento» mentale. Rispetto ai vari significati possibili, in diverse occasioni Winnicott afferma l'importanza primaria e decisiva della dimensione corporea del sostegno: è «il contenimento fisico della fisicità del bambino che dà origine alla psicologia». Infatti scrive: «Per la maggior parte i bambini hanno la fortuna di essere quasi sempre tenuti bene. Sulla base di questa esperienza essi costruiscono la loro fiducia in un mondo amico e [...] sono in grado di 81

raggiungere l'apice della loro rapidissima crescita emozionale. La base della personalità viene posta in modo soddisfacente se il bambino è tenuto sufficientemente bene» {ibidem, 75]. Nello stesso senso aveva già scritto [1965a; trad. it. 1968, 57]: «Il sostenere comprende soprattutto il tenere in braccio fisicamente, l'infante [...]. Ci sono madri capaci di tenere in braccio un infante e madri che non ne sono capaci; queste ultime producono rapidamente in lui un senso di insicurezza». Che il prototipo di tutto il prendersi cura del bambino sia il tenerlo in braccio [Winnicott 1987; trad. it. 1987, 34] non è in contraddizione con il dire che «l'origine dei bambini ha luogo quando sono pensati» [ibidem, 13], poiché sostegno fisico e psicologico sono da considerare come indissolubilmente connessi nel promuovere lo sviluppo. A proposito dunque delle cure del genitore, Winnicott [1965a; trad. it. 1968, 50] individua tre tipi, o stadi, il primo è quello dell'iholding, nella sua ampia accezione, che indica tutta la complessa qualità delle cure genitoriali antecedenti al secondo e al terzo stadio, quelli del «vivere con» (rispettivamente prima esclusivamente con la madre e poi anche con il padre), che implicano invece «la presentazione degli oggetti», cioè la presenza di «relazioni oggettuali e l'emergere del lattante dallo stadio di simbiosi con la madre [...], Va però ricordato che la divisione di una fase dall'altra è artificiosa e viene adottata solo per comodità e per chiarezza» [ibidem, 50], Se Winnicott ipotizza che fra queste fasi di cure, che lui stesso riporta poi essenzialmente a due categorie (cioè quella del «sostenere» e quella del «vivere con») non ci sia necessariamente una sequenza temporale prestabilita, e se i più recenti studi (Sander, Stern) anticipano a fasi molto precoci lo sviluppo della relazionalità, consentendoci di escludere l'esistenza di una fase totalmente simbiotica, è allora necessario comprendere meglio le peculiarità del modello relazionale «vivere con», anticipando che l'ipotesi di lettura che si intende proporre è che gli stadi delle cure genitoriali siano correlati ai due bisogni di base, quello di sicurezza e quello di riconoscimento. A proposito della finalità del «sostenere», le descrizioni fornite da Winnicott sembrano evidenziare che essa sia 82

quella di garantire una sicurezza di base al bambino, in accordo con tutti i riscontri che a questo proposito ha fornito la teoria dell'attaccamento, individuando nella costituzione di una base sicura l'obiettivo primario da costituire nel corso dello sviluppo. Fuori da tale esperienza di sicurezza, differenti esperienze di insicurezza, in particolare quella caratterizzante stati della mente classificabili di tipo D in relazione ai legami di attaccamento, sono correlate a vari tipi di patologia psichica. Per quel che concerne invece la finalità del «vivere con», esse sembrano aver a che fare con l'altro bisogno di base del bambino, quello di riconoscimento. Il capitolo sesto di Gioco e realtà [Winnicott 1971], «L'uso di un oggetto e l'entrare in rapporto attraverso identificazioni» (uno dei più importanti non solo degli scritti di Donald Winnicott ma di tutta la letteratura psicoanalitica), tratta esplicitamente della differenza tra due opposte modalità di avere a che fare con gli oggetti: L'entrare in rapporto con l'oggetto è un'esperienza del soggetto che si può descrivere, in termini del soggetto, come un essere isolato. Quando parlo dell'uso di un oggetto tuttavia, io do per scontato l'entrare in rapporto con l'oggetto, e aggiungo nuove caratteristiche, che implicano la natura e il comportamento dell'oggetto. Per esempio se l'oggetto si deve usare, esso deve necessariamente essere reale [...]. E questo, io credo, che crea l'enorme differenza esistente tra il mettersi in relazione e l'usare [ibidem, 154]. Dunque se esaminare la questione dell'«entrare in rapporto» è un esercizio che Winnicott definisce «facile» per gli psicoanalisti, poiché tratta di un fenomeno del soggetto che può essere interpretato riferendosi a meccanismi proiettivi, invece, nell'esaminare la questione dell'«uso» non c'è via d'uscita: «l'analista deve prendere in considerazione la natura dell'oggetto, non come proiezione, ma come una cosa in sé» [ibidem, 155]. Pertanto se l'«entrare in rapporto» può riguardare esclusivamente il soggetto, inteso come soggetto individuale, l'«uso» necessita inevitabilmente la presenza dell'oggetto come realtà indipendente dal soggetto. 83

Compito dei caregivers come dei terapeuti è quindi per Winnicott quello di riuscire a svolgere (rispettivamente nei confronti del bambino e del paziente) la funzione di «ambiente facilitante» il passaggio evolutivo da modalità relazionali del tipo «entrare in rapporto con l'oggetto» a modalità del tipo «usare l'oggetto». Tale capacità di «usare un oggetto», intesa come essenza del principio di realtà, non è innata - precisa Winnicott [ibidem, 156] - ma dipende dal progredire dei processi maturativi innescati e sostenuti da una ambiente «sufficientemente buono». «Nella sequenza si può dire che il mettersi in rapporto con l'oggetto viene per primo, mentre l'uso dell'oggetto viene per ultimo: nel mezzo tuttavia vi è la cosa forse più d i f f i c i l e dello sviluppo umano, o almeno il più arduo di tutti gli insuccessi che debbono essere sanati. Questa cosa che esiste tra l'entrare in rapporto e l'usare, è il collocamento che il soggetto fa dell'oggetto fuori dell'area del controllo onnipotente del soggetto stesso, vale a dire la percezione dell'oggetto come un fenomeno esterno, non come una entità proiettiva; di fatto, un riconoscimento di esso come una entità per se stessa» [ibidem, 157, corsivo mio]. A questo punto viene immediato porsi la domanda: in che modo un ambiente sufficientemente buono può facilitare tale passaggio evolutivo del bambino dall'uno all'altro dei modi di avere a che fare con gli oggetti? Il che equivale a chiedersi: quali sono le caratteristiche ambientali «facilitanti» e «sufficientemente buone» idonee per innescare la sequenza? Per rispondere a queste domande bisogna ritornare alla bipartizione winnicottiana tra «cure del sostenere» e «cure del vivere con», osservando che, mentre le prime mirano a garantire la sicurezza del bambino, le seconde sono rivolte a riconoscere la sua specificità. Pur essendo per lo più contemporanee, la quota di cure del secondo tipo dipende da quanto il genitore stia dunque considerando il bambino come un oggetto separato o come un'entità proiettiva, cioè da quanto il genitore stesso sia in grado di effettuare un riconoscimento del figlio come essere indipendente, mentre il sostegno è rivolto al figlio in quanto dipendente da sé per esistere. 84

Il riconoscimento del figlio verso il genitore che lo individua come una «entità per se stessa» è quindi funzione di quanto il genitore stesso sia in grado di riconoscere il figlio come separato da sé, il che avviene appunto nella qualità di cura genitoriale del tipo «vivere con» l'altro, che non mira a sostenere e dare sicurezza, ma a riconoscere la specificità del bambino. Ritengo che a questo determinante spartiacque, concettuale e pratico, si riferisca Winnicott anche quando scrive a proposito di un passaggio tra una «comprensione, da parte della madre, dei bisogni del figlio basata sull'empatia» a «una comprensione basata su qualche segnale che indica i bisogni dell'infante» [Winnicott 1987; trad. it. 1987, 60], Che le modalità di cura genitoriale (sostenere vs. vivere con) e di comprensione dei bisogni dei figli (empatia vs. percezione di segnali) possano essere ben distinte quanto a qualità relazionale («entrare in relazione con un'entità proiettiva» vs. «usare un oggetto separato») e quindi anche quanto agli obiettivi da conseguire (soddisfare il bisogno di sicurezza vs. soddisfare il bisogno di riconoscimento) non deve però fare dimenticare quel che è stato enunciato come una serie di polarità contrapposte ha al contempo a che fare con attitudini profondamente intrecciate l'una all'altra, anche se in percentuali imprevedibili e mutevoli nel tempo. Ritornando al brano in cui Winnicott affronta la descrizione del passaggio evolutivo più d i f f i c i l e di tutto lo sviluppo umano, mi sembra interessante osservare che, sia l'inizio, sia la fine del brano stesso sono marcati da note. Nella prima, a proposito del suo libro The maturational processes and the facilitating environment, Winnicott [1965b] scrive di aver dimenticato «di mettere nel volume un riconoscimento» (acknowledgement nel testo inglese) di quanto egli sia stato influenzato da uno scritto del 1960 di Phyllis Greenacre nello sviluppo della tematica. Anche la seconda nota è un riconoscimento di una ulteriore specifica influenza, quella di Clifford Scott, sull'elaborazione di questi concetti. Mi pare davvero di rilievo che nel momento in cui Winnicott mette in evidenza che la sequenza evolutiva più difficile dello sviluppo umano è quella che segna il passaggio dall'«entrare in rapporto» all'«usare» e 85

connotando proprio il riconoscimento compiuto dal soggetto della realtà dell'oggetto come la differenza cardine tra queste due qualità di relazione, Winnicott stesso, attraverso queste note che aprono e chiudono il brano in questione, compia di fatto un duplice riconoscimento, utilizzando nella prima nota uno dei due termini inglesi, acknowledgement che oltre a quello di recognition veicola una delle polarità dello spettro semantico della parola italiana «riconoscimento». A mio modo di vedere, è estremamente suggestivo immaginare che Winnicott abbia inteso inconsciamente sottolineare l'importanza del concetto che il riconoscimento è l'atto fondante della possibilità di un vero, e non proiettivo, incontro tra due persone proprio collocando tale brano (che è al centro di uno dei capitoli più importanti, di uno dei libri più importanti, di uno degli autori più importanti di tutta la storia della psicoanalisi) tra due riconoscimenti, volendo attuare concretamente quel che stava sostenendo teoricamente. Io credo si possa vedere questa coerenza tra pensiero e azione, questo postulare l'importanza del riconoscimento e attuarlo contestualmente, come un'ennesima prova di una tensione intellettuale straordinaria, vissuta profondamente dentro di sé. Si può dire che Winnicott è compiutamente nella pienezza della realtà della sua formulazione teorica proprio nel momento in cui riconosce quel che ha usato per formularla. Attraverso questa lettura del dire e anche del fare di Winnicott in questo passaggio del testo si è dunque voluto sottolineare l'importanza fondamentale della funzione di riconoscimento: sì, ora si può proseguire in questa direzione e leggere tutto il testo sostituendo alla parola «distruzione» la parola «disconoscimento»; di fatto la parola distruzione sembra provenire da una deriva di cultura kleiniana che, sullo sviluppo del bambino come in generale sulle relazioni, ha sopravvalutato, come scrive Balint «tutto ciò che dava l'idea di rumore, forza, violenza, mentre è passato in secondo piano tutto quel che accadeva in silenzio» [1952; trad. it. 1991, 90]. Per riconoscere o disconoscere un altro non ci vuole rumore, forza o violenza, tutto può avvenire nel silenzio degli sguardi, ma l'impat86

to di un disconoscimento può essere di una devastazione totale sulla mente dell'altro. Se rileggiamo dunque il testo di Winnicott alleggerendolo dal ricorso alla distruttività, retaggio di altre ere psicoanalitiche, possiamo cogliere questo scritto (come appunto fa Jessica Benjamin) come portatore di uno spartiacque decisivo per stabilire o meno l'appartenenza al campo intersoggettivo, senza nulla togliere alla questione che nelle relazionalità possono compiersi raffinate distruzioni senza spargimento di sangue ma con spargimento di «senso di sé», cioè della sua in-autenticità. Quanto detto ci consente di affermare che: • livelli differenti (per qualità e quantità) di «sostegno» conducono a differenti livelli di coesione e di sicurezza nel bambino; • differenti (per qualità e quantità) livelli di «vivere con» conducono a riconoscimenti differentemente accurati, il che ulteriormente conduce il bambino a differenti livelli di autenticità. Per livelli di «vivere con» si intende quanto io considero l'altro come un soggetto compiutamente separato e dotato di vita propria, e quanto dunque ho la capacità di soddisfare il suo bisogno di riconoscimento. Il fatto che riesco meno a riconoscere l'altro nella sua autenticità dipende da un livello basso del mio «vivere con» lui autenticamente. Questo secondo punto ci riporta all'argomento di questo paragrafo: se il senso di sicurezza del bambino, che comprende anche il sentirsi coeso, dipende dal fatto che la madre lo tenga in braccio, nel ricercare l'eziologia del falso Sé bisogna privilegiare le osservazioni a riguardo di quei momenti interattivi durante i quali «periodicamente il gesto dell'infante dà espressione ad un impulso spontaneo; la fonte del gesto è il vero Sé ed il gesto indica l'esistenza del vero Sé potenziale». La madre sufficientemente buona va incontro più e più volte ai diversi «gesti spontanei» del figlio e, in una certa misura, dà loro un senso. Il vero Sé sorge grazie alla forza data all'io debole dell'infante dal supplemento offerto dalla madre alle sue espressioni [...]. La madre non sufficientemente buona fallisce più e più volte nel rispondere adeguatamente ai gesti e alle espressioni del figlio: «ella vi sostituisce invece il proprio gesto chiedendo

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al figlio di dare ad esso un senso tramite la propria condiscendenza. Questa condiscendenza è lo stadio primario precoce del falso Sé [...]. Un assunto essenziale della mia teoria è che il vero Sé non diventa una realtà vivente se non come conseguenza del ripetuto successo della madre nell'andare incontro al gesto spontaneo [...] dell'infante [Winnicott 1965b; trad. it. 1997, 183-1841.

Andare incontro, dare un senso, rispondere, percepire, nominare sono tutte dimensioni della capacità del genitore di riconoscere il gesto o l'espressione del bambino, che viene reso reale dall'adeguatezza dei ripetuti riconoscimenti che riceve. Diversamente, un genitore potrebbe più e più volte disconoscere quel gesto o quell'espressione imponendovi un senso inadeguato: è importante ricordare che non è un solo evento ma il prevalere di ripetute esperienze di riconoscimento rispetto a quelle di disconoscimento che conduce il bambino a sentire soddisfatto il proprio bisogno di vedere riconosciuti e validati i propri gesti, le proprie espressioni e quindi l'interezza del Sé. Di fronte a esperienze di misconoscimento il bambino inizia a vivere in modo inautentico: l'infante viene indotto ad essere compiacente e un falso Sé condiscendente reagisce alle richieste ambientali e l'infante sembra accettarle. Tramite questo falso Sé, l'infante si costruisce un sistema di rapporti falsi e, mediante introiezioni, giunge perfino a sembrare reale, così che, crescendo e diventando bambino, diventa proprio come la madre, la balia, la zia, il fratello o qualsiasi persona che in quel momento domini la scena. Il falso Sé ha una funzione positiva e molto importante: quella di nascondere il vero Sé, cosa che attua mostrandosi compiacente verso le richieste ambientali. Nei casi di estremo sviluppo del falso Sé, il vero Sé è così ben nascosto che la spontaneità non è un aspetto delle esperienze vitali dell'infante [...] e l'imitazione diventa una specialità [ i b i d e m , 185-186, corsivo mio].

Se «solo il vero Sé può essere creativo e può sentirsi reale» [ibidem, 187], questo mio vero Sé non può diventare una realtà senza essere stato sostenuto e riconosciuto: pertanto ne deriva che la quantità di falsità del Sé dà la misura di quanto il gesto spontaneo, che è l'originario 88

«vero Sé in azione» del bambino, sia stato sostenuto e riconosciuto nella sua specificità e quindi abbia avuto la possibilità di essere, cioè di vivere autenticamente, piuttosto che di reagire, cioè di vivere nascosto sotto il manto della compiacenza del falso Sé. E dunque questo «esistere anziché reagire» il tratto distintivo essenziale [ibidem, 187] che caratterizza la differenza tra il vero e il falso Sé: «soltanto quando è solo (cioè: solo in presenza di qualcuno) l'infante può scoprire la propria vita personale. L'alternativa patologica è una vita falsa, costruita su reazioni agli stimoli esterni» [ibidem, 36], All'interno dunque di una relazione in cui a un bambino è dato di essere in presenza di un genitore «presente senza avanzare richieste» quel bambino può esistere senza essere «qualcosa che reagisce ad un urto dall'esterno» ed in tale contesto «una sensazione o un impulso, quando arriveranno, [...] costituiranno una esperienza personale autentica» [ibidem, 36], Questa netta opposizione si può ritrovare chiaramente espressa in diversi altri punti degli scritti di Winnicott, come, ad esempio, quando nota che «Grazie alle "cure che riceve dalla madre" ogni infante è in grado di avere un'esperienza personale, e comincia così a costruirsi quella che si può chiamare una continuità dell'essere [...]. Se le cure materne non sono abbastanza buone, l'infante non comincia ad esistere realmente, giacché non v'è una continuità dell'essere; la sua personalità si struttura invece sulla base delle reazioni agli urti dell'ambiente» [ibidem, 64]. Se nello stato di salute il falso Sé si presenta ai livelli più bassi sotto forma di un «atteggiamento sociale educato» [ibidem, 181], da tale impostazione si può ricavare una sorta di classificazione del disagio mentale definito in termini di un progressivo aumento della quota di falsità del Sé a scapito dell'autenticità, che ai livelli più elevati può essere del tutto prosciugata e sostituita da compiacenti reazioni alle esigenze della socialità; a questi livelli di disagio gli scherni che organizzano la vita mentale sono di una rigidità e inflessibilità quasi ossessiva, come viene evocato in una lirica di uno dei maggiori poeti italiani, Andrea Zanzotto: 89

L'anancasma che si chiama vita: macchie, macchine, muscoli, ceneri, spasmi, fu il corso della partita in cui perdesti te stesso e il tuo stesso perderti.

L'inautenticità è una condizione nella quale la mente guarda il mondo attraverso schemi che intrappolano la vitalità e in cui non solo ci si perde ma si dimentica anche di essersi persi. In conclusione, quel che si può ulteriormente sviluppare a partire dagli scritti di Winnicott è una attenzione, e quindi un approfondimento, della reciprocità di tale riconoscimento, sempre presente anche se, nelle fasi originarie dello sviluppo, in modo marcatamente sbilanciato. «Come adulti e genitori, non possiamo pensare che i figli soddisfino i nostri bisogni emotivi senza tradirli. Dobbiamo cercare questa soddisfazione in noi stessi e in altri adulti. Però è vero che godiamo delle infinite benedizioni che i nostri figli ci danno spontaneamente, semplicemente con il loro essere» [Kabat-Zinn 2005, 53]. E una delle forme di queste everyday blessing è senz'altro quella del riconoscimento che i nostri figli ci danno anche solo semplicemente chiamandoci «papà» o «mamma»... e rafforzando così la nostra identità nella sua componente genitoriale. Anche se non ancora pienamente intersoggettiva, la riflessione winnicottiana sul «riconoscimento dell'altro come oggetto reale» può essere considerata, a buon diritto, come l'architrave che, pur con accentuazioni differenti, sorregge, unisce e denota le diverse teorie interpersonali delle relazioni oggettuali, intersoggettive, diadico sistemiche: infatti, come scrive Jessica Benjamin [1988, trad. it 1991, 251], «il punto centrale della prospettiva intersoggettiva» è riconoscere l'altro come un outside subject, cioè come un oggetto reale, fuori dal controllo onnipotente del soggetto e dunque, finalmente, come un altro soggetto. Questo è dunque il common point di teorie non certamente sovrapponibili ma di fatto unite da un specifica condivisione sull'importanza centrale del riconoscimento dell'altro, il che pone ad esempio la psicologia del Sé fuori da tale campo, poiché l'oggetto-sé non è riconosciuto in altra funzione se non 90

appunto quella di fornire sostegno ai transfert speculari, idealizzanti e gemellari. Acquisire una prospettiva intersoggettiva significa dunque porre un'attenzione privilegiata alle vicissitudini delle relazioni e quindi al passaggio tra l'essere un «oggetto di amore» al divenire un «soggetto d'amore». NOTE AL CAPITOLO TERZO 1 In cui si ritrovano, in ordine sparso e in modi diversi, le correnti oggi genericamente definibili come relazionali o diadico-sistemiche, cioè quelle interpersonaliste (Sullivan), delle relazioni oggettuali (Balint, Fairbairn, Winnicott), relazionali (Mitchell), gli psicologi del Sé (Kohut) e i teorici dell'attaccamento (Bowlby) nonché ovviamente i grandi ricercatori sullo sviluppo infantile (Sander e Stern). 2 Su questo tema, e su altri introdotti in questo testo, vi è totale sintonia con quanto scrive Alice Miller, che con II dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé [1994] ha aperto nuove prospettive alla comprensione delle sofferenze psichiche. 3 II termine inglese di handling è stato anche tradotto come «manipolare», che però rischia di avere una connotazione negativa, evidentemente assente nel senso che intendeva Winnicott, e riduttiva poiché per Winnicott [1987; trad. it. 1987, 34] «Il prototipo di tutto il prendersi cura del bambino è il tenere in braccio».

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PARTE SECONDA

LO SVILUPPO DELLA MALATTIA MENTALE

CAPITOLO QUARTO

DISCONOSCIMENTI E DISSINTONIE

See me, feel me, touch me, heal me. Pete Townshend

Una sera, verso la fine della cena, zia Lory racconta: «Mio padre è stato per me come un perfetto sconosciuto per tutta la vita... il nostro incontrarci è sempre stato superficiale... senza scambio di affetti, ma neppure di segnali reciproci... io non sapevo chi fosse e lui non sapeva chi io fossi... poi un giorno io avevo ormai quasi vent'anni, stavo dicendo qualcosa che neanche ricordo bene a proposito di una mia difficoltà che avevo avuto a dormire in una certa camera d'albergo particolarmente piccola e lui, inaspettatamente, mi guarda negli occhi e mi dice con una assolutamente particolare e intensa tonalità della voce, come non gli avevo mai sentito e che ancora ricordo con commozione: "Tu sei claustrofobica, come me..."». Zia Lory conclude con la voce un po' rotta: «Quella è stata la prima volta che mi sono sentita sua figlia...». 1. Un modo nuovo di guardare le cose Sull'«International Journal of Psychoanalysis» Enid Balint pubblica nel 1963 una magistrale descrizione del trattamento analitico di Sara, una giovane e, sotto molti aspetti, brillante ragazza, che riferiva di soffrire per un drammatico senso di vuoto interiore. Secondo i criteri delle classificazioni attualmente più usate, forse Sara risulterebbe difficilmente valutabile rispetto alle differenti categorie psicopatologiche previste. Ella lamentava uno stato di profondo disagio psichico, si sentiva costantemente 95

confusa e angosciata, aveva abbandonato gli studi universitari appena' iniziati, non era stata in grado di lavorare, e di fatto l'unica cosa che le riusciva di fare era «trascinarsi in qualche modo» alle sedute: «Indossava sempre gli stessi abiti, sia d'estate che d'inverno, e per la maggior parte dell'analisi non abbandonò mai uno spesso maglione» [Balint 1963; trad. it. 1993, 20]. I suoi unici rapporti erano quelli con una coppia di anziani parenti, che l'avevano accolta in casa quando era stato necessario trovarle una sistemazione che le consentisse di iniziare il trattamento, abitando la sua famiglia molto lontano da Londra, ove risiedeva l'analista. Parlando delle influenze genitoriali sulla ragazza, Enid Balint scrive che la madre di Sara, affetta da depressione, «non si era mai accorta di sua figlia, o l'aveva ignorata, o non era stata capace di risponderle. Dunque non era riuscita a fornirle il feedback adeguato o l'eco di cui aveva bisogno. Questa relazione carente era continuata durante l'infanzia di Sara [...]. A causa di questa mancanza di feedback, Sara aveva la sensazione di non essere riconosciuta, di essere vuota di sé» [ibidem, 32, corsivo mio]. Del padre, descritto come un uomo dal temperamento violento, viene detto che era rimasto deluso dal fatto di aver avuto una femmina, poiché si aspettava un terzo maschio: anche questo fatto aveva costituito un disconoscimento dell'identità di Sara. Se dunque era vuota di sé, poiché nessuno l'aveva riconosciuta per quello che lei era, allora ulteriormente «nessuno avrebbe potuto riconoscerla» poiché un vuoto non può essere riconosciuto e la vera Sara sarebbe dovuta rimanere «ignorata da tutti». Per evitare questa drammatica conseguenza, Sara aveva provato a essere una bambina perfetta, ad aver successo a scuola, a essere all'altezza dei suoi fratelli maschi nei giochi e negli sport, insomma a non dare problemi: «per soddisfare i suoi genitori, Sara si era comportata bene fino ai diciassette anni, pur avendo costantemente sofferto di tensioni e di una sensazione di catastrofe imminente, che restarono inosservate» [ibidem, 32], Così il «mancato riconoscimento» da parte dei genitori dei problemi che angosciavano la figlia all'epoca dell'adolescenza costituì per Sara un'ulteriore esperienza di disconoscimento, che andava ad aggravare le conseguenze di quelle che aveva attraversato in precedenza: ormai «Sara 96

si considerava, nel migliore dei casi, una persona disprezzata dagli altri, ma di solito una persona non riconosciuta e non vista» [ibidem, 19]. Durante il trattamento emerse che ella non riusciva a capacitarsi di come la sua analista fosse in grado di rendersi conto che era proprio lei, Sara, la persona alla quale andava incontro in sala d'attesa: «non si aspettava che gli altri la vedessero, la riconoscessero» [ibidem, 29]. La sequenza che genera disagio inizia con un mancato riconoscimento a cui segue il senso di vuoto: si stabilisce a questo punto un circolo vizioso, poiché se io sono vuoto, l'altro avrà sempre più difficoltà a riconoscermi perché non si può vedere quel che non c'è... «Ho cercato di descrivere - scrive Enid Balint - un meccanismo di interazione che ho chiamato "riecheggiamento" o feedback. Il bambino, con il suo comportamento, stimola l'ambiente, e soprattutto la madre, a rispondergli con certe reazioni. Il riecheggiamento e il feedback possono essere descritti come ,il contributo che la madre offre agli stimoli e alle reazioni che partono da lei. Il bambino arriva così a conoscere com'è sulla base dell'esperienza di un'altra figura [...]. Non c'è alcuna possibilità di sviluppare un Sé sano quando non si verifica un feedback adeguato a intervalli accettabili» [ibidem, 33-34], Questa descrizione coglie alcuni elementi cruciali: • la circolarità dell'interazione (il bambino interagisce con l'ambiente che interagisce con lui); • la possibilità che da tale interazione, sempre presente, si determinino circoli virtuosi (e quindi lo sviluppo sano) oppure circoli viziosi (e quindi il disagio della mente); • gli eventi potenzialmente di sviluppo o psicopatogenetici sono micro eventi; • tali eventi devono comunque ripetersi più e più volte «ad intervalli accettabili» per determinare l'innesco dei feedback positivi o negativi che siano; • il riconoscimento è il fattore determinante per lo sviluppo sano; • l'esperienza del riconoscimento, o del disconoscimento, avviene sempre in una situazione di contemporanea reciprocità, cioè io sono riconosciuto, o disconosciuto, solo 97

da chi io riconosco come colui che mi può riconoscere: se chi io riconosco e mi può riconoscere non svolge questa funzione allora io non mi conosco, non so chi sono e cosa provo, non acquisto competenza delle mie emozioni e delle mie sensazioni corporee. Vivo ignoto a me stesso, vuoto di me\ come alternativa potrei essere tentato dall'assumere una maschera di inautenticità, confidando che almeno a tale maschera sia data l'esperienza di essere riconosciuta. Al di là del campo dell'infant research, con i seminali lavori di Louis Sander [1962], questa è una delle pochissime descrizioni che troviamo nella letteratura psicoanalitica a proposito di un paradigma interpretativo dello sviluppo normale e patologico1 che negli anni '60 era decisamente innovativo: oltre che nell'articolo di Enid Balint (e ovviamente nei lavori del marito Michael, cfr. cap. 2, par. 1) enunciazioni di analoghi radicali mutamenti teorici e clinici possono essere ritrovate, esemplarmente elaborate, solo negli scritti di Erik Erikson, ad esempio in Introspezione e responsabilità [1964; trad. it. 1968] e in quelli di Donald Winnicott (cfr. cap. 3, par. 2)2. E in occasione di una sessione plenaria dei lavori della World Federation of Mental Health svoltasi nel 1959 presso l'Università di Vienna che Erikson aveva tenuto una conferenza, pubblicata poi in Insight and responsibility [1964], sulla possibilità di applicare la tecnica psicoanalitica a una specifica categoria di persone strappate «alle loro case, al loro lavoro, al loro paese» e costrette a subire una emigrazione forzata. La condizione di sradicamento che tali individui patiscono, e che viene loro imposta dal destino della storia, ha, tra le altre conseguenze, quella di produrre svariate vicissitudini e travagli nel mantenimento di un saldo senso di sé: l'autore si ripromette di comprendere tali problemi inserendoli all'interno di una più generale trattazione della genesi dell'identità personale e avvicinando la psicopatologia imposta dallo sradicamento esteriore a quella della persona affetta da disagio psicologico. Infatti, secondo Erikson, «ad ogni passo del suo sviluppo individuale», ogni uomo è esposto al rischio di sentirsi sradicato prima di tutto interiormente. Tale sradicamento originario sarebbe dovuto alla non stabilità dell'incontro con un volto familiare, «asi98

lo originario della sua fiducia di base», che può invece farsi volto «non responsivo, distolto, rabbuiato, corrucciato», «anche altre specie, oltre all'uomo, vivono momenti di intenso riconoscimento [...] tuttavia nell'uomo tutto si esprime in un incontro altamente individualizzato di occhi, di volti, di menti. Ciò non solo segna l'inizio di ogni individualità, ma resta anche lo scopo ultimo a cui tendono i desideri dell'uomo: "Anch'io conoscerò nella stessa misura in cui sono riconosciuto". Ma lungo la strada accidentata che tende a questa mèta è inevitabile imbattersi, a più riprese, in occasioni nelle quali l'uomo sente né di conoscere né di essere conosciuto, né di avere un volto né di riconoscerne alcuno: ecco il primo sradicamento...» [ibidem, 109]. Tale modo di concepire la formazione dell'identità personale «oltrepassa quel processo di identificazione a senso unico di sé con gli altri che è stato descritto nella prima psicoanalisi. Si tratta invece di un processo basato su un'elevata capacità cognitiva ed emozionale di lasciarsi identificare come individuo circoscritto in rapporto ad un universo prevedibile» [ibidem, 97]: anche gli studi etologici, adeguatamente trasferiti sul piano della condizione umana, «possono gettare nuova luce sul potere identificante degli occhi e del volto che per primi ci hanno riconosciuti (ci hanno dato cioè il nostro primo Anshen})» [ibidem, 101], In seguito, durante gli anni della crescita e quelli ancora successivi, la società inserirà l'individuo in ambiti e funzioni «assegnandogli ruoli e compiti in cui egli può riconoscersi e sentirsi riconosciuto» [ibidem, 97]. In uno scritto di un anno successivo Erikson caratterizza la persona che si prende cura del bambino nei termini tradizionali di «oggetto d'amore originario»,* aggiungendo però ulteriormente come il tratto saliente e centrale per promuovere i processi di sviluppo sia che il volto di tale persona sia capace di riconoscere e di essere riconosciuto [ibidem, 120]. Lo stesso autore, in una conferenza del 1963 (pubblicata poi, come lo scritto precedente, nel 1964), nel ricostruire le tappe dello sviluppo dell'individuo scrive che le prime «risposte» di un bambino al proprio genitore possono essere meglio comprese se considerate parte di una complessa interazione «composta da molti elementi parti99

colari di reciproca stimolazione e risposta. Come il bambino sorride inizialmente alla vista di una qualunque configurazione che ricordi il volto umano, così l'adulto non può fare a meno di restituire questo sorriso, pieno com'è di speranze di un «riconoscimento» che ha bisogno di ricevere dal neonato così come quest'ultimo ha bisogno del riconoscimento dell'adulto. Il fatto è che la mutualità fra adulto e fanciullo costituisce la sorgente originaria della speranza e l'ingrediente fondamentale di tutte le azioni umane, sia pratiche che etiche» [ibidem, 228], I solchi differentemente tracciati da Ferenczi, Fairbairn, Enid e Michael Balint, Sullivan, Erikson, Winnicott e Kohut in campo teorico e clinico e da Louis Sander e John Bowlby in quello della ricerca sullo sviluppo convergono sull'importanza da accordare all'interpersonalità rispetto alla pulsionalità; inoltre condividono il merito di aver messo in luce non solo l'originaria e fondamentale tendenza a stabilire relazioni, ma anche di far risaltare, in modi tra loro del tutto sovrapponibili o integrabili coerentemente, la fine dinamica della interattività, consentendo una comprensione del mondo interpersonale del bambino, dell'adolescente e dell'adulto profondamente innovativa, che ha poi trovato (pur con terminologie talvolta lievemente differenti) successive conferme ed elaborazioni nei creativi studi di Daniel Stern [1985], di Stolorow e Atwood [1992], di Jessica Benjamin [1995], di Stephen Mitchell [2000] e di Beebe e Lachmann [2002], All'interno dell'orientamento psicodinamico che postula la centralità delle relazioni, questo modello, attualmente definito diadico-sistemico, non solo stabilisce che esse si dispiegano fin dai primi momenti di vita del bambino, ma anche la reciproca bidirezionalità delle relazioni (cfr. cap. 2, par. 1) e conseguentemente la coerente individuazione di specifici fattori eziopatogenetici (cfr. par. 2), cioè quelli della dissintonia. Gli scritti clinici di Winnicott, Enid Balint ed Erikson e quelli di ricerca di Sander hanno poi in particolare un elemento che li accumuna, quello di sostenere che «l'ingrediente fondamentale di tutte le azioni umane» è il reciproco riconoscimento (cfr. par. 3). 100

Diversamente da altri modelli esplicativi condivisibili esclusivamente da un unico orientamento teorico, gli eventi e le circostanze invocati da questo nuovo paradigma interpretativo sono comprensibili solo ricorrendo a una integrazione della cultura psicologica di matrice psicodinamica con quella cognitiva e comportamentale; inoltre, i dati su cui si basano le osservazioni provengono tanto dall'area clinica quanto da ricerche sperimentali. Questo duplice movimento integrativo è uno dei punti di forza del dispositivo euristico rappresentato da questo paradigma, secondo il quale il riconoscimento reciproco consente la sintonia della relazione, mentre il disconoscimento conduce alla dissintonia diadica. 2. Eventi e circostanze psicopatogenetiche dei sistemi viventi

nella

prospettiva

Secondo tale modello va infatti considerata la presenza di un flusso continuo di reciproche influenze interattive tra elementi del sottosistema individuo e del sottosistema ambiente ed è dunque in questi scambi dinamici che vanno rintracciati gli eventuali fattori eziopatogenesi, poiché il determinarsi e il mantenersi nel tempo di particolari caratteristiche negative (in uno, nell'altro o in entrambi i sottosistemi) conduce al dispiegarsi di una situazione dinamica psicopatogenetica, alla quale va dunque imputato l'emergere della compromissione della regolazione di diverse funzioni, in primis della funzione di regolazione delle emozioni. Fattori eziologici in una prospettiva diadico-sistemica sono dunque circostanze (relazionali) caratterizzate da disregolazione di funzioni (il che condurrà successivamente a disregolazione delle relazioni). «Dissintonie diadiche», «rispecchiamenti traumatici», «ambienti invalidanti» sono alcuni dei termini maggiormente in uso per nominare, forse un po' oscuramente, eventi e circostanze evolutive negativi, che conducono a innescare le sequenze dinamiche psicopatogene.

101

2.1. Dissintonia

diadica

A un certo momento della relazione madre-bambino si determinano comportamenti che in modo superficiale potrebbero essere interpretati come imitativi4: in realtà quelle modalità relazionali della madre trascendono la semplice imitazione «per espandersi in una nuova categoria comportamentale che definiamo sintonizzazione degli a f f e t t i » [Stern 1985; trad. it. 1987, 148], «La sintonizzazione degli affetti, dunque, consiste nell'esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tuttavia imitarne l'esatta espressione comportamentale» [ibidem, 151]. Stern differenzia il fenomeno che intende indicare ricorrendo al termine di «sintonizzazione» da quelli che più gli si avvicinano, come «rispecchiamento» (che, a suo dire, avrebbe lo svantaggio di alludere a una pressoché perfetta sincronia temporale), «riecheggiamento» (che pur rispettando la sequenzialità temporale rimane però troppo vicino all'imitazione) ed «empatia» (da cui la sintonizzazione, che pur comincia come empatia, si differenzia poi poiché procede verso un riplasmare creativamente l'affetto colto [ibidem, 168]). Se quanto detto ha a che fare con l'uso in senso strettaménte sterniano del termine «sintonizzazione», è invalsa successivamente una modalità d'uso più ampia, in forza della capacità descrittiva di questo termine nei confronti della fine dinamica delle relazioni, sia che le si osservi con sensibilità professionale sia ricorrendo al senso comune, che è quello di «mettersi sulla lunghezza d'onda emotiva». Un uso più allargato del termine è quello di Allan Shore [2002, 5] che individua nel dyadic misattunement l'evento di vita che, se significativo per qualità e se ripetuto nel tempo, può fare deviare verso la patologia lo sviluppo normale: i suoi studi sono da considerare un approfondimento dello scoperte di John Bowlby, che dagli anni '70 sostengono l'idea di correlare differenti esperienze familiari con sanità mentale o disordini psichiatrici, individuando negli Internai Working Models (IWM) i mediatori tra i reali eventi di vita e il conseguente sviluppo normale o patologico. Durante tutto il corso degli anni '80 e '90 e ancora a tutt'oggi una straordinaria mole di studi, impressionante 102

per qualità e quantità [Cassidy e Shaver 1999], ha fornito, e seguita a fornire, a quelle prime ricerche sull'attaccamento una sicura base di sostegno, contribuendo con riflessioni teoriche e dati empirici a consolidare e ampliare il solco tracciato da Bowlby, come appunto fanno, oltre ai lavori di Shore, anche quelli Alan Sroufe [1996], Per entrambi questi autori, i modelli di psicopatologia per essere attendibili devono saper integrare in modo complesso i dati provenienti dagli studi sull'attaccamento con quelli delle neuroscienze, della psichiatria infantile, della psicologia dello sviluppo, della psicoanalisi e della biologia. Inoltre, entrambi considerano che l'armoniosità o meno della regolazione diadica delle emozioni, basata sulla sintonizzazione, non è solo da considerare l'obiettivo centrale a cui tende lo sviluppo durante il primo anno, ma rappresenta anche una forte traccia per tutto il successivo sviluppo della persona. Per Sroufe «nella prima metà del primo anno, la regolazione emozionale è portata a termine attraverso capacità regolative innate del bambino e un ambiente responsivo di accadimento. Il caregiver legge i segnali di disagio del bambino e le altre comunicazioni emozionali, vi attribuisce significato e vi risponde» [1996; trad. it. 2000, 274]. Talora indicata con termini diversi, questa capacità di «lettura» e di «risposta», che può essere sintona o dissintona, è comunque il leitmotiv, il motivo conduttore, del modello che questo testo intende presentare in modo privilegiato. Il lavoro di Shore [2002] si è particolarmente orientato nel ritenere come essenziale per lo sviluppo normale dell'individuo la sua capacità di «cope with the stress» e di regolare le emozioni, correlandola alla maturazione di un sistema di controllo dello stress (situato nell'emisfero destro) che Shore indica appunto come brain stress coping system, il cui sviluppo è esperienza dipendente, e in particolare dipendente dalla qualità di attaccamento. Le relazioni di attaccamento si differenziano dall'essere caratterizzate da differenti gradi di sintonia affettiva: il genitore, psicobiologicamente più o meno sintonizzato, «regola interattivamente gli stati positivi e negativi del bambino» costruendo assieme a lui le condizioni ambientali facilitanti o impedenti la maturazione di tale brain stress coping system, BMCS, la cui funzionalità, tanto attiva quanto 103

reattiva» [ibidem, 7], è cruciale per consentire al bambino di «espandere la capacità di regolare in modo flessibile gli stati emotivi stressanti» [ibidem, 2] sia in modo interattivo attraverso relazioni con altre persone sia in modo autoregolatorio. «La capacità di passare in modo adattativo, a seconda dei contesti, dall'una all'altra di queste due modalità di regolazione è un indicatore di un normale sviluppo social emotional». La dissintonia diadica conduce dunque a uno stato emotivo stressante prototipico, capace di alterare la crescita emozionale di un bambino in modi diversi, ad esempio, riducendo la sua flessibilità nel passare reversibilmente da modalità di regolazione esterna a interna. Lo sviluppo può infatti essere studiato anche dalla flessibilità delle modificazioni del bilancio tra modalità di regolazione esterna e interna, essendo inizialmente la prima ben maggiore rispetto alla seconda, quella interna: si può dire che le situazioni patologiche sono caratterizzate, ai loro estremi, da una dipendenza dall'altro o dal suo opposto, cioè la ricerca di assoluta indipendenza, mentre è appunto la flessibilità tra le due che caratterizza lo sviluppo normale. Ma perché tale passaggio flessibile dall'etero all'autoregolazione, e viceversa, avvenga è necessario in primo luogo che il bambino abbia fatto l'esperienza di potersi fidare delle sue proprie capacità di autoregolazione, cioè in primis sulla attendibilità delle proprie capacità di sentire che si sono formate nella relazione con il caregiver, considerato a sua volta affidabile nelle capacita di sintonia. «La fiducia nel caregiver diviene la fiducia di Sé con il caregiver e, infine, la fiducia in se stessi» [Sroufe 1996; trad. it. 2000, 295]: questa fiducia in sé è quindi evidentemente funzione della fiducia riposta nell'altro di «riconoscere e di accogliere con sintonia» gli stati interni (come appunto sono le emozioni, gli affetti vitali, le sensazioni corporee) che vengono in tal modo supportati nella loro consistenza, «legittimati ad essere», dal genitore. Quando questo non sia avvenuto in modo adeguato per qualità e quantità, si determinerà una ricaduta negativa sull'autostima e sul sense of agency (il senso di essere l'agente promotore di una azione): il bambino prima e l'adulto poi riterrà allora di dipendere inesorabilmente dall'altro per la 104

regolazione del proprio interno sentire e pensare, perdendo la speranza che vi sia la possibilità di sottrarsi agli altri e quindi di promuovere i propri autentici modelli di vita, assumendo la dipendenza come una sorta di «destino» inevitabile. Una opposta modalità comportamentale di tipo compensativo può essere quella che conduce una persona ad attuare condotte radicalmente opposte, attraverso delle modalità prevalentemente autoregolatorie, di fatto una mimesi di esteriore radicale indipendenza, rimanendo peraltro interiormente dominata dal timore della dipendenza, anche se, in apparenza, quella persona può avere strutturato tutta la sua vita proprio sul non dipendere da nessuno. Sintonia diadica e asintonia costituiscono allora le due polarità di un continuum all'interno del quale si dispongono i differenti gradi di dissintonia, di misattunement: al cuore di tutti questi esempi di non sintonia sta comunque sempre un inadeguato (per qualità, quantità o timing) riconoscimento della specificità della persona, dei suoi a f f e t t i vitali, delle sue emozioni e sensazioni corporee. Tali inadeguatezze possono arrivare a costituire un disconoscimento, responsabile di determinare non solo esperienze negative, ma veri e propri traumi. Seguendo dunque questo modello, che reputa la dissintonia come lo stato emotivo stressante (e quindi psicopatogeno) prototipico, possono dunque essere in specifico individuate come esperienze stressanti di diversa e pur egualmente estrema gravità gli stati di: 1. abnorme allerta (caratterizzata dall'eccesso di stimolazione di un genitore che, lungi- dal tranquillizzare il figlio, gli determina o gli aumenta l'ansietà); 2. trascuratezza (caratterizzata da carenze di stimolazione); 3. traumatizzazione (caratterizzata da stimolazioni traumatiche). Sono tutte condizioni che determinano momenti interpersonali caratterizzati da gravi dissintonie o vere e proprie asintonie, che, pur con modalità di tipo diverso, sono comunque sostenute da abnormi, carenti o assenti percezioni, attribuzioni di significati, valutazioni e aspettative del genitore nei confronti del bambino. 105

Ad esempio, per quanto riguarda situazioni di trascuratezza, si può dire che un genitore trascurante non vede e non sente il figlio, non è in grado di riconoscere i suoi affetti vitali, le sue emozioni, i suoi stati corporei e pertanto non può sintonizzarsi con essi. Anche Sroufe concorda nell'attribuire alla disponibilità e alla responsività6 di un caregiver un valore determinante nello stabilirsi di differenze individuali: «nella misura in cui si dimostra costante, affidabile e coerente il caregiver diviene "conoscibile" e pertanto costituisce una fonte di sicurezza» [ibidem, 231]. All'opposto, il genitore [Shore 2002, 4] emozionalmente abusante è una fonte di acuta angoscia e quindi di insicurezza. Al centro dell'esperienza sta ancora un dyadic misattunemet (dissintonia diadica) [ibidem, 5] con il figlio, ma in questo caso di gravità traumatica. Il genitore è infatti non solo inaccessibile alle richieste di intimità ma reagisce in modo non appropriato, mostra una ridotta o imprevedibile partecipazione nei processi di regolazione dell'arousal (lo stato di attivazione neurovegetativa), che invece di essere modulato può venir stimolato verso livelli massimamente elevati (da modalità traumatiche) o all'opposto verso livelli estremamente bassi (da modalità di abbandono); in più senza fornire poi alcun tipo di riparazione degli eventi stressanti un genitore che, lungi dal tranquillizzare il figlio, aumenta i suoi stati di allerta, agisce di fatto determinando una condizione di dissintonia. Inoltre, se si ricorda che «il volto della madre è il più potente stimolo visivo presente nel mondo del bambino» [ibidem, 15] si può osservare come, durante certi momenti altamente emotivi, su tale naturale display possono passare segnali di intensa aggressività materna come pure di suoi intensi terrori mentre durante differenti momenti emotivi il bambino può leggere segnali di disinteresse o di ansietà. Rispetto a questa condizione di non regolazione, il bambino potrebbe sintonizzarsi sulla dissintonia ed effettuare una sorta di «download di programmi di psicopatologia» [ibidem, 15], assumendo queste come fossero delle proprie modalità di essere e di comportarsi. Coerentemente con un modello bidirezionale si deve comunque sempre ricordare che esistono bambini con minori capacità interattive che sollecitano meno le attenzioni 106

interattive del genitore con conseguenti effetti di circolarità negativa sull'interazione della diade e quindi sulla «cocreazione del senso interiore di sicurezza emotiva» [ibidem, 6, corsivo mio]. Ancora a proposito di quei comportamenti del genitore che costituiscono un abuso emozionale, che si stanno dimostrando tra i più gravi come conseguenze patologiche a lungo termine, Shore utilizza la definizione di «trauma relazionale» anche per evidenziare le negative, drammatiche conseguenze sulle relazioni successive che si determinano «quando una relazione di attaccamento non solo non emana sicurezza ma addirittura pericolo» \_ibidem\. Traumi (abusi) e trascuratezze, come pure tutte quelle croniche esperienze stressanti a cui il bambino non può sottrarsi, hanno una forte influenza inibente sull'instaurarsi e sul mantenersi delle relazioni interpersonali in quanto riducono in modo marcato, talora fino all'azzeramento, la capacità di cope with the stress e di regolare le emozioni e ciò essenzialmente in quanto, assumendo come riferimento il continuum sintonia/asintonia per queste negative, drammatiche e talora tragiche esperienze, esse si possono considerare come gravi dissintonie, nei casi di stress cronico e di trascuratezza, o come asintonie, nei casi di severa trascuratezza, di abusi, di traumi. «Riconoscimento e sintonizzazione» non fanno evidentemente parte dello scenario dell'azione dell'abusante, dominato dalla incontrollabilità pulsionale. Si può dire che una persona che abusa di un'altra, che la traumatizza, non può infatti essere davvero consapevole dell'altro e questo verosimilmente poiché prima ancora quella persona non è consapevole di sé, è immemore di se stessa: «è impossibile fare del male a qualcuno quando ti ricordi di te, poiché scorgi la stessa luce, la stessa fiamma che arde in te, in ogni altro essere. Più conosci la tua natura profonda, più riesci a penetrare in quella dell'altro» [Osho 2000; trad. it. 2004, 39], Dunque traumi e trascuratezze e altre esperienze stressanti particolarmente severe sono responsabili di determinare non solo modificazioni biochimiche ma anche della citoarchitettura fino alla morte di cellule cerebrali: infatti, gli eventi stressanti in funzione della loro gravità provocano nel sangue l'innalzamento dei livelli di sostanze che 107

possono risultare neurotossiche se presenti a elevate concentrazioni, quali ad esempio i glucocorticoidi, che sono capaci di causare la morte delle cellule cerebrali situate nelle aree dei circuiti limbici7, coinvolti, in particolare a livello dell'emisfero destro, nel processare informazioni socioemozionali e gli stati del corpo [Shore 2002, 8], La gravità delle alterazioni neuroanatomiche si manifesta in diversi modi (il numero e la struttura dei neuroni, la crescita dei dendriti, la proliferazione degli astrociti ecc.) che conducono ad alterazioni del metabolismo cerebrale e quindi anche del numero e della funzionalità delle connessioni sinaptiche. Precoci esperienze negative, come i traumi relazionali, sono quindi responsabili di consistenti alterazioni cerebrali. Numerosi studi sulle conseguenze di tale situazione, in particolare quella sulle alterazioni morfologiche del sistema limbico, considerato come la «zona di confine» dove la psichiatria incontra la neurologia [Mega e Cunnings, in Shore 2002, 25], hanno riscontrato che essa non soltanto conduce alla impossibilità di instaurare un attaccamento sicuro ma fa emergere una correlazione con il pattern D (disorganizzato/non risolto), precursore dei disturbi di personalità borderline e antisociale [ibidem, 29], Più in generale sono state dimostrate correlazioni tra questo tipo di alterazioni della «zona di confine» e una disorganizzazione del BMCS, in quantità tanto maggiore quanto più grave e più precoce è l'esperienza stressante. Si crea così una sorta di circolo vizioso per cui quante più sono le esperienze stressanti, nelle diverse forme in cui queste possono occorrere (ma in particolare in quelle di trauma o di trascuratezza), tanto meno sarà sviluppato il BMCS e dunque ulteriormente saranno basse le difese del bambino prima, e dell'adulto poi, di coping con lo stress e di regolare le emozioni senza soffocarle o senza esserne soffocato. Se anche Sroufe [1996; trad. it. 2000, 231] utilizza per indicare un genitore che promuove lo sviluppo gli aggettivi di «vigile», «responsivo» e, in particolare, «sintonizzato», si può quindi sostenere una teoria della genesi della psicopatologia sia per quanto riguarda le forme più gravi, cioè quelle di severi disturbi di personalità, sia per una generale difficoltà nella gestione dello stress, che occorre in 108

altri tipi di disturbi quali quelli delle relazioni8 e le nevrosi, basata sulla dissintonia diadica. La sequenza psicopatogena [Shore 2002, 29] inizia con • dissintonia diadica in termini di contenuti e/o carente quantitativamente (talora per un timing sbagliato, nel senso di interventi adeguati ma troppo precoci o troppo tardivi con il caregiver) (questa esperienza, cruciale per l'inibizione della crescita di un individuo, è sostenuta da un misconoscimento); • carenza di esperienze relazionali emotivamente adeguate (per qualità, quantità o timing) o esperienze francamente negative o addirittura traumatiche; • alterazioni nella regolazione del contesto interpersonale interattivo (nel senso che il bambino tenderà a una generale riduzione delle espressioni di sé, tra cui l'espressione del bisogno di attaccamento, che non hanno avuto adeguate sintonizzazioni o marcate dissintonie o assenza di riscontri o attacchi traumatici), con prevalenza autoregolatoria o eteroregolatoria rigida (secondo una strategia guidata dal principio di sopravvivenza) rispetto all'affidare flessibilmente la regolazione a negoziazioni da stabilire volta per volta in base al contesto interattivo (il che risulterebbe evidentemente più rischioso in termini evolutivi); • interessamento della «zona dove la psichiatria incontra la neurologia» con alterazioni citochimiche e neuroanatomiche; • progressiva riduzione del funzionalità del BMCS; • incapacità a gestire lo stress per «incompetenza emotiva.»; • riduzione dell' apertura al «nuovo» («a causa della incapacità a rispondere fino a cervello destro» [ibidem, 43]); • tendenza a una generale rigidità di funzionamento, che tra le altre conseguenze ha quella di favorire lo sviluppo di schemi mentali se non di vere e proprie lifetraps. A proposito in particolare delle esperienze di esposizione a eventi traumatici e di abuso, se è vero che tutte conducono infine a un medesimo aumento dello stress per incapacità a cope with it, vanno precisate le vie opposte attraverso cui vi arrivano. Infatti, i traumi possono determinare nel bambino inizialmente delle risposte di iperattivazione (sostenute da livelli elevati di adrenalina e noradre109

nalia) successivamente a queste seguono risposte di ritiro dissociativo (caratterizzate a livello ematico soprattutto da alti livelli di oppiacei endogeni, quali le encefaline, adatte a instaurare condizioni di inibizione percettiva e motoria): diventare «non visti»9, «non uditi» [ibidem, 10 e 17] sembra l'obiettivo finale, coerentemente con il cercare di sfuggire al ripetersi delle precedenti drammatiche vicende a cui si è stati esposti. Così, per ben altra via, si ritrova una condizione esistenziale, cioè quella del «non essere visto e non essere udito», che (si era detto in precedenza) caratterizza anche il bambino trascurato: questa condizione sembra pertanto uno snodo comune a diversi percorsi di insorgenza della psicopatologia, riconducibile a una non soddisfazione, ad una limitazione, fino all'annichilimento del bisogno del bambino di essere visto, udito, percepito e dunque riconosciuto «essere chi è». D'altronde tale bisogno in termini di sopravvivenza è gerarchicamente sottoposto al bisogno di attaccamento, e determinandosi per tutte queste vicissitudini esperienziali dei pattern di attaccamento non solo di tipo «insicuro» ma anche di tipo D, cioè «disorganizzato/ disorientato/non risolto», le difficoltà relazionali sono tali che non danno spazio all'estrinsecazione di sé, in quanto potrebbe indurre ulteriori rischi rispetto alla già degradata qualità di attaccamento. In ogni caso un bambino con difficoltà a regolare stress ed emozioni, dovrà maggiormente impegnarsi in tali compiti, sottraendo per questo energie all'apprendimento sociale che sarà depauperato quanto a opportunità di fornire nuove possibilità di crescita esperienziale. Comunque si siano determinate tale condizioni, in cui convergono in misura sempre diversa vulnerabilità individuale e ambiente particolarmente sfavorevole (o francamente nocivo), il bambino prima e l'adulto poi tenderanno a privilegiare le esperienze delle continuità (a cui si possono ricondurre quelle organizzate dal principio di «regolazione attesa»: sono quelle che promuovono lo sviluppo di un senso di coerenza, prevedibilità, sintonia e adattamento) rispetto a quelle potenzialmente discontinue (a cui si possono ricondurre quelle organizzate dal principio di «rottura e riparazione» e da quello dei «momenti affettivi 110

intensi»: conducono a sviluppare capacità di competenza, coping, riparazione e speranza) [Beebe e Lachman 2002], E grazie al determinarsi del primo tipo di esperienze, quelle della continuità, che un bambino prima, e una persona adulta poi, possono «tollerare» e trarre particolare beneficio, in senso evolutivo ed eventualmente terapeutico: sono il cibo indispensabile per vivere mentre le esperienze della discontinuità sono il «sale della vita». Ridurre l'incontro con l'emergere del «nuovo» dal flusso delle esperienze porta a un progressivo impoverimento della totalità della persona10, che tenderà a dimostrare sempre minori capacità di adattamento. I risultati delle ricerche di Shore sulla inibizione dello sviluppo possono essere considerati come uno spettro che, da una parte, riguarda le più severe patologie psichiatriche mentre, dall'altra, si sfrangia verso una polarità opposta ove si collocano i disturbi nevrotici e relazionali. In tal senso se i suoi studi consentono di affermare che le conseguenze di precoci situazioni di inibizione alla crescita hanno come punto di arrivo comune la ridotta capacità di gestire lo stress, tale punto di arrivo può presentarsi in forme differenti per intensità. Ad esempio, l'esito in termini di una progressiva desomatizzazione [Kristal 1997], che per Winnicott potrebbe corrispondere alla incapacità di abitare il proprio sé per carenza di handling, può presentarsi nelle forme estreme di stati dissociativi o in quelle di una ridotta capacità di adattamento, di compiere scelte, di prendersi cura di sé, di codificare i propri stati interni e quindi i propri bisogni. Come detto, le forme di disagio a cui potrebbe condurre tale ridotta capacità di «sentirsi» possono essere le più disparate, ad esempio, potrebbero essere responsabili di quella particolare condizione di contemporanea eccitazione e inibizione, in cui alcune persone tendono a vivere, come a dire, secondo la suggestiva descrizione di Shore [2002, 30], «accelerando e frenando» nello stesso momento. Oppure potrebbe darsi quella condizione in cui una persona vive «secondo il desiderio degli altri» perché questo ha dominato la scena delle interazioni primarie. Oppure ancora si può determinare una tendenza a una più o meno marcata inibizione dell'espressione del proprio sé, mentale e corporeo, a causa di una profonda 111

paura di conseguenze negative, come avveniva nelle esperienze più originarie. Talora può costituirsi una ben definita configurazione psicopatologica, l'alessitimia, da considerare come uno [Rotenberg 1995, 42] dei possibili esiti di questa «incompetenza emotiva» che è lo snodo di forme psicopatologiche quanto mai diverse ma accomunate da questa difficoltà o impossibilità o appunto «incompetenza» quanto al riconoscere la specificità delle emozioni. Non essendo stata né vista né udita adeguatamente, non essendo stata riconosciuta, una persona non è in grado di riconoscere la totalità del proprio sé, delle proprie emozioni e dei propri bisogni e, come scrive Shore, anche di «riconoscere le emozioni sul volto delle persone»: questo potrebbe condurla a sviluppare una attitudine di ipervigilanza verso quel volto misterioso, rimanendo così spasmodicamente attenta a coglierne i più lievi mutamenti da cui poter inferire delle «regole per l'agire» altrimenti inaccessibili. All'opposto proprio l'imperscrutabilità del volto dell'altro potrebbe tendere a distogliere una volta per tutte l'attenzione dall'altro, conducendo in tal caso a privilegiare condotte autoregolatorie. Se le cure materne non sono sufficientemente buone, scriveva Winnicott, «un bambino non riesce ad esistere, poiché non può dare continuità alla suo essere» [Shore 2002, 36]. Dunque secondo questo modello, l'espressione di Winnicott «cure sufficientemente buone» quanto a holding, handling e object presenting (cioè la triade winnicottiana della funzione materna) va intesa come sostenuta da «sintonizzazioni sufficientemente adeguate per qualità, sufficientemente prolungate nel tempo ed effettuate al momento adeguato». Senza questi attunements una persona non arriva a conoscersi, quindi piuttosto che agire, modulandosi sul sé in interazione, si comporta reagendo, modulandosi sull'altro. Entrambe le situazioni possono essere descritte come derivanti da «schemi di tipo cognitivo-affettivo prototipici di una alterata regolazione del Sé-in-interazione» con un altro non in sintonia [ibidem, 40]. Nei termini di Janet, tutto ciò costituisce una «retrazione del campo della consapevolezza» [ibidem, 42] e un restringimento dello sviluppo della personalità proprio perché manca quella possibilità diadica di espansione della 112

consapevolezza, come ben mette in luce Edward Tronick [1998], Quest'autore ha contribuito a individuare ulteriori forme di manifestazioni non sintoniche date dalla prevalente espressione di stati affettivi negativi, caratterizzata tra l'altro da «una carenza di contatto visivo, espressione facciale piatta o arrabbiata, tono della voce mascherato ma ostile, ritardata disponibilità nel prestare conforto» [Tronick 1998; trad. it. 2004, 86]: dopo aver ripetuto per svariate volte questo incontro è possibile che il bambino insaturi strategie di coping [ibidem, 89] come distogliere lo sguardo dalla madre o succhiarsi il pollice. È anche probabile che si modifichi la sua soglia di sensibilità agli eventi negativi come a quelli positivi. Altre volte gli eventi non sintonici non sono necessariamente negativi in sé, poiché anche il nutrire può non essere un'attitudine di sintonizzazione ma di intrusione, quando avviene nel momento in cui il bambino non ha fame ed è irritato [ibidem, 92], Tronick ricorda anche che essendo i bambini dei provetti mood detector essi sono in grado di assumere come proprio lo stato d'animo del caregiver, e anche in tal modo avviene una perdita da parte del bambino del proprio affetto originario. Se tali mancate sintonie divengono un pattern relazionale persistente allora potrebbero essere seguite da una mancata reciproca sintonia da parte del bambino di eventuali cambiamenti in positivo nella capacità di riconoscimento del suo caregiver, venendosi in tal modo a instaurare una circolarità negativa che alimenterà ulteriori dissintonie, che possono trovare forma verbale in espressioni quali: «... non è più lui, non lo riconosco più...». Anche Tronick (come Shore, come Sander, come tutti gli intersoggetivisti, siano essi ricercatori o clinici) sostiene pertanto una comprensione dello sviluppo patologico basandosi sul considerare la relazione madre-bambino come un sistema diadico [Shore 2002, 43], in cui il genitore è più o meno capace di sintonizzarsi sulle «peculiari/uniche/ specifiche strategie di elaborazione degli stimoli riguardanti le informazioni emozionali di tipo sociale (cioè quelle emozioni connesse alle esperienze relazioni) e di espressione di risposte a quegli stimoli nonché di proprie autonome espressioni che diventano out per l'altro. Tale modello 113

non prevede evidentemente una causalità diretta secondo cui a specifico trauma relazionale corrisponderebbe necessariamente la comparsa di un disagio: così altrettanto non determinante potrebbe essere una vulnerabilità originaria, in quanto anche in questo caso la dinamica relazionale interattiva che si costituisce rappresenta una situazione del tutto «unica» e quindi non prevedibile nei suoi sviluppi [ibidem]. Questo punto di vista, come aveva già sostenuto mezzo secolo fa Sullivan, considera Vincapacità di aver a che fare e di fronteggiare adeguatamente l'ansia e lo stress come l'elemento chiave, lo snodo, attraverso cui passa lo sviluppo della psicopatologia. Quello che una persona valuta essere stressante per sé, come peculiarmente risponde agli eventi stressanti, quanto efficacemente tiene testa agli eventi stressanti, è legato dalle sue esperienze interattive primarie che determinano in che modo una persona può confidare su un'altra o esclusivamente su di sé per gestire lo stress: va ricordato che il totale «affidarsi all'altro» non è il «confidare sull'altro». Infatti, questo prevede una dialettica, mentre l'affidarsi totalmente, come è già stato detto, è comunque espressione (anche se in forme opposte al non affidarsi mai, al credere di poter contare solo su di sé) di una rigidità nella regolazione interattiva degli affetti. Il recupero della fiducia nella possibilità di una flessibile regolazione interattiva degli affetti (che eviti sia la rigidità di autoregolazione senza l'altro sia della pseudo eteroregolazione, che di fatto esclude il sé) è attualmente reputato un passaggio/obiettivo comune per tutte le forme di psicoterapia psicodinamica [Bradley 2000], Riprendendo infine il tema iniziale della sintonizzazione affettiva (empathic attunement), voglio far notare che Stern [1985; trad. it. 1987, 164] osserva che quel che rende possibile «essere con» un'altra persona «condividendo esperienze interiori probabilmente simili in un'atmosfera di continuità» si basa sullo «scoprire gli affetti vitali e sintonizzarsi con essi»: se della seconda parte (cioè il «sintonizzarsi») di questo movimento bifasico che consente di essere con un altro vi è diffusa trattazione, la prima fase (quella dello «scoprire») rimane in ombra. Le osservazioni 114

sul riconoscimento fin qui fatte (e quelle che saranno presentate nel par. 3) si ripromettono proprio di mettere un po' in luce queste zone d'ombra. 2.2. Rispecchiamento

traumatico

Un modello di comprensione della genesi della psicopatologia recentemente proposto da Fonagy e colleghi [2002] postula che il meccanismo sotteso all'importanza tradizionalmente attribuita alle relazioni originarie non sarebbe più da rintracciare nel determinare la forma delle relazioni successive, quanto piuttosto nello sviluppare un efficace information processing control system [Fonagy e Target 2001, 313], cioè di un sistema regolatorio, che rappresenterebbe la più importante ricaduta evolutiva svolta dalle relazioni con i caregivers. Tale sistema regolatorio viene definito Interpersonal Interpretative Mechanism (IIM). Secondo questo modello la sicurezza o l'insicurezza o la disorganizzazione dell'attaccamento non veicolerebbero tanto IWM sicuri, insicuri o disorganizzati ma IlM efficaci, poco efficaci o per niente efficaci: l'IlM quindi [ibidem, 124] non conterrebbe rappresentazioni di esperienze né sarebbe depositario della forma delle relazioni con il caregivers, ma rappresenterebbe invece un meccanismo, più o meno funzionante, di elaborazione delle nuove esperienze. Le tre componenti dell'IlM riguardano le funzioni di regolazione dello stress, dell'attenzione focalizzata e del funzionamento riflessivo. Se rimane quindi vero che le esperienze delle primitive relazioni agiscono modificando selettivamente le successive percezioni, cognizioni e motivazioni di una persona, tale influenza avverrebbe non tanto attraverso il forgiare sugli stampi originari le successive relazioni quanto piuttosto nello sviluppo di un efficace sistema di regolazione della interpersonalità. Secondo tale impostazione, le specifiche capacità di regolazione della reazione allo stress, di attenzione focalizzata e di funzionamento riflessivo concorrono a determinare la generale capacità dell'individuo di autoregolarsi e di interagire in modo collaborativo con gli altri [ibidem, 307], 115

come più in generale osservano anche Beebe e Lachmann [2002],

All'interno di questa cornice di riferimento, possono trovare delle spiegazioni alternative anche la genesi del PTSD (per quelle più consolidate, cfr. cap. 5) o del disagio adolescenziale (rispetto, ad esempio, a quelle derivate da modelli pulsionali, come quello dei Laufer [ibidem, 318]. Molte formulazioni psicodinamiche, oltre a quelle già ricordate, di Sander [1962; 1977], di Winnicott [1965b], di Enid Balint [1963], di Erikson [1959], di Stern [1985], anche la psicologia del Sé, con Kohut [1977], concordano a proposito della decisiva correlazione tra la capacità genitoriale di rispecchiamento degli a f f e t t i del bambino e il successivo sviluppo delle capacità psicologiche, cognitive e affettive. In modo innovativo Fonagy e colleghi si propongono di comprendere i fenomeni di rispecchiamento ricorrendo all'ipotesi che esso sarebbe sostenuto dal determinarsi di un social bio-feedback training [Fonagy et al. 2002; trad. it. 2005, 162] che costituirebbe per il bambino un'esperienza di apprendimento cruciale per lo sviluppo, in quanto l'adeguata maturazione delle capacità psicologiche dipenderebbe proprio dalla particolare qualità di tale mirroring genitoriale. Infatti in condizioni «sufficientemente buone» la madre, o chi si trova a svolgere questa funzione di rispecchiamento è istintivamente portato «a marcare in modo saliente le proprie manifestazioni di rispecchiamento affettivo per renderle percettivamente differenziabili dalle espressioni emozionali autentiche» [ibidem, 129]. Mediante l'instaurarsi di un meccanismo di social bio-feedback training rispetto a tale «rispecchiamento marcato» il bambino impara quindi a conoscere se stesso, distinguendo gli sguardi che lo riguardano dalle espressioni del genitore che non sono dirette a lui. Diversamente, in particolare di fronte a espressioni del bambino riguardanti sentimenti negativi, si può invece determinare la mancanza di tale differenziazione così che il mirroring genitoriale avviene in modo esclusivamente realistico. Quel che in tali casi allora accade non è il contenimento della negatività espressa dal bambino e rielaborata dal genitore, ma al contrario un'espansione degli affetti 116

negativi che giungono così a possedere uri elevata potenzialità traumatizzante del bambino stesso. Infatti egli si trova a dover fronteggiare, nel senso letterale di avere di fronte a sé, l'espressione addolorata, impaurita o irata del genitore, che incapace di comprendere, modulare e restituire il sentimento negativo di dolore, paura o rabbia proveniente dal figlio semplicemente se ne appropria e, incapace di rappresentarlo, lo presenta a sua volta al figlio, generando in lui uno stato di allarme che, se si ripresenta periodicamente, produce conseguenze fortemente traumatiche [ibidem, 128, 145,215]. Le manifestazioni psicopatologiche di alcune vicende cliniche delle quali si farà menzione sembrano poter essere compiutamente analizzate ipotizzando una eziologia traumatica per carenza di adeguato mirroring, nel senso qui esposto. Peraltro bisogna considerare che sia il termine inglese sia la traduzione italiana di «rispecchiamento», pur ampiamente usati, sono imprecisi rispetto al reale accadere degli eventi: «Di fatto, quando guardiamo alla relazione strutturale tra le caratteristiche del rispecchiamento genitoriale e quelle dell'espressione dello stato da parte del bambino, diviene chiaro che il termine "rispecchiamento" è fortemente fuorviante» [ibidem, 129, corsivo mio]. Dopo aver notato che la dimensione della reciprocità sembra essere sottostimata dal modello di Fonagy e colleghi, voglio però metter qui in evidenza che, dopo aver ammesso il rischio di fraintendimento nell'utilizzo del termine «rispecchiamento», gli autori curiosamente non precisano quale sarebbe il termine più idoneo da utilizzare. Quel che intendo proporre è che il termine più idoneo sia quello di «riconoscimento», che anche in questo caso ritorna essere il primum movens di successive complesse sequele psicodinamiche, che possono esitare in manifestazioni psicopatologiche quando non si siano dispiegati tutti i vari momenti del processo di reciproco riconoscimento interpersonale (cfr. par. 3).

117

2.3. Ambiente

invalidante

Con il termine «invalidante» Marsha Linehan indica un insieme di particolarità ambientali negative, responsabili di «generare ed esasperare la vulnerabilità emozionale nonché le difficoltà nella regolazione delle emozioni. Una caratteristica che definisce l'ambiente invalidante è la tendenza della famiglia a rispondere in modo vago e inappropriato alle esperienze soggettive, e in particolare, a essere insensibile (ad esempio non responsiva) ad avvenimenti soggettivi che non hanno riscontro pubblico» [Linehan e Koerner 1993, 117]. Se un ambiente facilitante lo sviluppo è quello in cui le relazioni tra i bambini e i loro genitori sono armoniche e quindi i bambini imparano a conoscere e analizzare le proprie emozioni e quelle degli altri, «la problematicità degli ambienti invalidanti porta le persone inserite in tali ambienti a rispondere alla comunicazione di emozioni in modo anormale, in particolare con non responsività [...]. Questo porta a un aumento delle differenze tra l'esperienza privata dell'individuo e l'esperienza che l'ambiente sociale solitamente incoraggia e a cui offre risposta» {ibidem, 117]. . L'ampiezza e la frequenza di discrepanze tra l'esperienza privata di un bambino e la ricezione del genitore, nonché le conseguenze affettive e comportamentali sulla diade di queste discrepanze, sono il terreno di cultura per la formazione nella mente del bambino di schemi che verranno poi esportati in altri contesti relazionali. Oltre ai fallimenti delle risposte agli stimoli relazionali presentati dal bambino, «le famiglie che costituiscono ambienti invalidanti tendono ad enfatizzare il controllo dell'espressività emozionale e disapprovano in particolar modo l'espressione di affetti negativi [...]. Altre caratteristiche dell'ambiente invalidante includono la restrizione delle domande che un bambino può porre a proposito dell'ambiente [...]». Quindi più in generale «Gli ambienti invalidanti contribuiscono alla mancata regolazione delle emozioni non insegnando al bambino: 1) a distinguere e modulare l'attivazione emotiva, 2) a tollerare il disagio, 3) a confidare nella propria risposta emozionale come valida 118

interpretazione degli eventi, e 4) insegnando viceversa attivamente ad invalidare la propria esperienza rendendo necessaria una continua ricerca a livello ambientale di indizi su come comportarsi e cosa provare» [ibidem, 118]. Io credo che a proposito di questo non vi è psicoterapeuta che non possa addurre svariati riscontri clinici di tale disagio, comune a molte persone: io ricordo un paziente che più volte, in occasione di significative esperienze di vita, mi diceva, in modo accorato e struggente «per favore mi dica cosa devo provare...». L'evoluzione della specie (quasi una sorta di genitore archetipico) ha selettivamente equipaggiato gli umani con le emozioni, come indicatori in grado di guidare efficacemente il comportamento, assumendo «gran parte del ruolo svolto dagli istinti» [Sroufe 1996; trad. it. 2000, 27]. Compito del singolo genitore è quello di far acquisire al suo bambino la competenza emotiva, cioè di sviluppare la competenza delle proprie emozioni, intese come gli indicatori di cui è naturalmente stato dotato. In assenza della capacità di riconoscere le indicazioni interne, provenienti appunto dalle emozioni, un bambino prima e un adulto poi cercheranno all'esterno delle indicazioni su come comportarsi. Un genitore può allora costituire l'insostituibile fornitore di tali linee guida e un figlio potrebbe sentire di non riuscire a stacccarsi mai da lui... oppure, in altri casi, una persona potrebbe ricercare degli indicatori nella ricompensa che ricava dalle proprie prestazioni, diventando, ad esempio, un manager di successo, perché capisce cosa rende economicamente anche senza emozioni, ma restando al contempo insoddisfatto in campo sentimentale, perché lì non sa più come orientare i suoi comportamenti... oppure un'altra persona potrebbe chiedere alla Gestalt quella guida che le emozioni ignorate non gli possono fornire, e, ad esempio, mantenere in piedi una «forma famiglia» anche in assenza di veri sentimenti, perché da quelle che Simone De Bouvoir avrebbe chiamato delle «belle immagini», da quelle forme «vuote di affetti ma consuete», una persona che non ha competenza delle proprie emozioni può trarre un senso di Sé altrimenti assente... 119

Dunque senza l'indicatore naturale come guida del vero Sé, una persona cerca alternative: le personalità cosiddette «dipendenti», i pazzi-per-il-lavoro, quelli vestiti solo dalle g r i f f e s alla moda, quelli che confondono le forme per i contenuti... sono soltanto alcune delle tipologie di coloro che non sono stati sostenuti nel processo di acquisizione della competenza delle proprie emozioni, che è il processo di diventare quel che si è... Si può quindi pienamente concordare con Sroufe che «lo sviluppo emozionale è il fondamento per lo studio dell'adattamento individuale e della psicopatologia» [ibidem, XIII]. Secondo Marsha Linehan, quel che sottende all'invalidazione dell'esperienza soggettiva da parte di un ambiente è una poorness of f i t , un «cattivo adattamento», tra bambino e genitore, nozione formulata da Chess e Thomas in diversi scritti e da loro considerata come il «principale fattore eziologico dell'insorgenza dei disturbi psicopatologici» [Chess e Thomas 1987, 18], non soltanto dei disturbi borderline di personalità, che pure ne sono una delle conseguenze più clamorose. Per questi autori «il goodness of fit [buon adattamento] si produce quando le caratteristiche, le aspettative e le richieste dell'ambiente in cui il bambino vive sono conformi e corrispondenti alle sue qualità, alle sue capacità e al suo stile comportamentale. In queste circostanze il bambino può realizzare tutte le sue potenzialità di sviluppo verso una funzionalità comportamentale ottimale». Il che ricorda una realizzazione del proprio vero Sé. Viceversa, «il poorness of fit si produce quando esistono discrepanze e dissonanze tra le condizioni e le richieste ambientali, da una parte, e le capacità e le caratteristiche del bambino, dall'altra; in queste condizioni egli svilupperà pattern comportamentali disadattativi» [ibidem, 31]. Già nel 1968 Michael Balint aveva parlato di «discrepanze tra cure e bisogni» e di «mancanza di adattamento» [Balint 1959; trad. it. 1993, 143] ma aveva inteso questo in una prospettiva unidirezionale: quello che qui si aggiunge è la reciprocità dell'adattamento. Quel che va ricordato è che anche il genitore ha bisogno di essere riconosciuto dal bambino, e che senza questa reciproca funzione del figlio potrà espletare con minore efficacia la sua funzione nei confronti del bisogno del figlio! 120

Tornando però a focalizzarsi sulle conseguenze nei confronti del bambino, questa sottesa mancanza di adattamento reciproco rende ragione del fatto che invalidante è dunque ogni ambiente nel quale «alla comunicazione delle proprie esperienze interne, seguono risposte estreme, inappropriate e imprevedibilmente variabili» e «l'espressione dei propri stati interni non solo non è validata né riconosciuta, ma è spesso punita o banalizzata [...]. Il modo in cui l'individuo interpreta il proprio comportamento, compresi gli intenti e le motivazioni soggettive che ne sono all'origine, non viene considerato». In questo tipo di ambiente il modo con cui una persona sente viene marcato come inattendibile e il modo con cui comunica viene respinto come inaccettabile. «L'ambiente può attribuire all'individuo sentimenti e sensazioni che egli afferma di non provare ("Sei arrabbiato, ma certamente non vuoi ammetterlo"), connotarlo con desideri e preferenze che egli sente di non avere (come il proverbiale "quando dice di no, vuol dire sì") o attribuirgli la responsabilità di atti che egli sa di non aver compiuto» [Linehan 1993; trad. it. 2001, 32], Il risultato finale di essere in relazione con un simile ambiente «incapace di riconoscere e validare le sue espressioni infantili» è che «il bambino non può imparare a riconoscere i propri stati interni, comprese le emozioni, né a verbalizzarli» [ibidem, 33]. Lichtemberg, Lachmann e Fossage, lavorando sul piano clinico, sembrano attribuire la medesima decisiva importanza accordata sul piano evolutivo proprio al recupero della piena validità percettiva, e quindi al raggiungimento della competenza emotiva: essi infatti segnalano che una esplorazione del materiale analitico portato dal paziente che si allontani dalla esperienza che si sta svolgendo, proprio in quel momento, in quello stesso contesto rischia di essere vissuta come «invalidante delle percezioni attuali del paziente» e quindi sperimentata come una ulteriore «perdita della validità della propria esperienza» [Lichtemberg, Lachmann e Fossage 1996; trad. it. 2000, 168, corsivo mio]. Questa preoccupazione clinica è sentita anche da Stolorow e Atwood, quando osservano che se «la validità della propria realtà percettiva è sottoposta ad un attacco incessante, questa esperienza di usurpazione psicologica può assumere 121

forme sempre più vivide e concrete, fino a dar luogo ad esperienze deliranti» [Stolorow e Atwood 1992; trad. it. 1995, 87]: in polemica nei confronti della posizione psicoanalitica classica, «è nostro convincimento - scrivono questi autori - che il senso del reale del bambino si sviluppi non tanto in conseguenza della frustrazione e della delusione, quanto piuttosto in forza della sintonizzazione convalidante che proviene dall'ambiente di accadimento, una sintonizzazione fornita attraverso tutta una gamma di esperienze, positive e negative, dotate di intensa carica affettiva. In questo modo la realtà si definisce nell'incontro tra soggettività interagenti e affettivamente sintonizzate» [ibidem, 38], Per questi autori l'assenza di sintonizzazione convalidante costituisce pertanto il fattore psicopatogenetico essenziale [ibidem, 63]. Di fatto si può sostenere che le descrizioni dei fattori coinvolti negli eventi e nelle circostanze evolutive cruciali fin qui descritti, si differenziano più per il ricorso a termini differenti, di fatto sinonimi, che per dei contenuti discordanti quanto all'individuazione degli eventi interpersonali psicopatogeni messi in evidenza, che appaiono strettamente interconnessi o addirittura i medesimi. In modo più generale, quel che mi preme sottolineare è che gli eventi e le circostanze evolutive coinvolti in uno sviluppo patologico sono sottesi da una carente sintonizzazione, a sua volta riconducibile a un inadeguato (sul piano qualitativo, quantitativo, per timing o reciprocità) riconoscimento11 reciproco. Inesperienza del disconoscimento sembra dunque poter essere individuata come Vantecedente comune a diverse circostanze psicopatogene. 3.

Riconoscimento

3.1. «Esse est

percipi»

«Essere è essere percepito» è l'espressione classica del cosiddetto «idealismo soggettivo» postulato da George Berkeley (1685-1753) secondo cui solo quel che viene percepito dalla mente esiste, proprio in quanto viene percepi122

to: non esisterebbero cioè qualità specifiche dell'oggetto e qualità secondarie al suo essere percepito da una persona piuttosto che da un'altra. Per Berkeley non esistono le cose ma solo menti e idee: l'esistenza delle cose è subordinata al loro essere percepite. Se ben pochi, io credo, sono coloro che potrebbero dirsi berkeleyani radicali, non si può però negare che probabilmente esiste un'età della vita, quella della prima infanzia, in cui non possiamo non dirci seguaci di questa dottrina immaterialista che ci induce da bambini a ritenere, per necessità e sia pur inconsciamente, che possiamo esistere solo in quanto c'è una persona che noi riconosciamo essere quella che può riconoscere la nostra identità, il nostro vero Sé. Pertanto, quel che si intende qui di seguito mettere in evidenza è la coincidenza di differenti prospettive psicologiche a proposito della affermazione che la bipartizione esperienziale originaria è quella tra «essere ignorati o essere riconosciuti» [ibidem, 61]. 3.2. Riconoscimento

vs.

ri-conoscimento

Sia nella lingua italiana sia in quella inglese, il termine «riconoscimento» si riferisce tanto all'«ri-identificare» qualcosa o qualcuno, quanto all' «accordare/concedere un determinato status» a qualcosa o qualcuno (non necessariamente con delle caratteristiche di positività). Se è evidente la differenza tra le due accezioni, bisogna pur ammettere che non può esistere il secondo tipo di riconoscimento se non avviene al contempo il primo, e viceversa il negare il secondo tipo di riconoscimento potrebbe sostenersi sulla negazione del primo tipo di riconoscimento: «non ti concedo nessun particolare stato perché non so chi sei...». Peraltro, l'uso che si fa di «riconoscimento» in questo scritto segue quanto indicato da John Dewey, nel suo saggio Logica, teoria dell'indagine-, «riconoscimento non è un ri-conoscimento nel senso di un conoscere di nuovo. È piuttosto un prender atto di un certo oggetto o evento come occupante un posto determinato in una situazione» [Dewey 1939; trad. it. 1974, 216]. È quindi assimilabile, 123

a mio parere, al «riconoscere una specifica identità»: è in questo senso che si propone di considerare lo svolgimento del processo di riconoscimento come il fattore chiave sia dello sviluppo normale sia delle trasformazioni in corso di cure psicoanalitiche e il fallimento di tale svolgimento, che conduce a esperienze di disconoscimento, come prodromo di derive psicopatologiche. 3.3. La percezione Anche se si può dire che, a seconda dei contesti, può prevalere l'una o l'altra delle differenti sfumature di senso, che non si autoescludono, ma coesistono, in modo più o meno latente, in ogni caso, il livello di partenza del processo conoscitivo di riconoscimento va assegnato alla percezione. «Quando si vede il viso di un attore noto, si ode la voce di un amico, oppure si percepisce il profumo di un cibo appetitoso, il riconoscimento è istantaneo. Una frazione di secondo dopo che gli occhi, gli orecchi, il naso, la lingua o la cute vengono stimolati, si sa di avere a che fare con un oggetto noto e se esso è pericoloso o no. Come fa questo riconoscimento, che gli psicologi chiamano "percezione preattentiva", a svolgersi in modo così rapido e accurato anche quando gli stimoli sono complessi ed il contesto in cui emergono varia?» [Freeman 1991, 32, corsivo mio]. Gli studi di fisiologia della percezione sono orientati a comprendere come il cervello, grazie alla partecipazione collettiva e istantanea di milioni di neuroni, riesca a combinare «le percezioni sensoriali con l'esperienza passata e con le aspettative per identificare sia lo stimolo sia il particolare significato che esso ha per l'individuo» [ibidem]. Studiando il sistema olfattivo, questo autore ha evidenziato che, quando un uomo o un animale annusa una sostanza odorosa, «le molecole di quest'ultima vengono captate da alcuni neuroni specifici mescolati ai numerosissimi recettori presenti nelle vie nasali. [...] I neuroni che vengono eccitati scatenano potenziali d'azione, ossia impulsi, che si propagano lungo i loro prolungamenti, gli assoni, fino ad 124

una particolare area del della corteccia, il bulbo olfattivo», che «analizza ogni configurazione di segnali e sintetizza poi il proprio messaggio, che trasmette, attraverso propri assoni, a un'altra parte del sistema olfattivo, la corteccia olfattiva», da cui nuovi complessi segnali vengono inviati a diverse altre parti del cervello, per combinarsi con quelli derivati da altri sistemi sensoriali. Il risultato finale è una specifica percezione «carica di significato, unica per ogni individuo. Per un cane riconoscere l'odore di una volpe può richiamare alla memoria il cibo e l'attesa di un pasto. In un coniglio lo stesso odore può destare ricordi di fuga e la paura di essere aggredito». Una dinamica generale delle percezioni configura dunque un cervello che cerca l'informazione orientando un individuo a guardare e gustare, ad ascoltare e annusare, a «sentire» con tutti i suoi sensi: tale ricerca è quindi il prodotto di una attività cerebrale autonoma, che si svolge eminentemente nel sistema limbico, cioè in quella parte del cervello che si ritiene interessata agli stati emotivi e alla memoria. Quando l'ordine di ricerca delle informazioni viene trasmesso dal centro alla periferia, il sistema limbico emette altresì un cosiddetto «messaggio di riafferenza», che «mette in stato di allerta tutti i sistemi sensoriali, affinché si preparino a rispondere alla nuova informazione». In tal senso «l'atto della percezione non è semplicemente la riproduzione di uno stimolo in arrivo, ma un passo nel cammino che il cervello percorre per accrescersi, organizzarsi e prendere contatto con l'ambiente, che poi modifica a proprio vantaggio». Al di là dei meccanismi comuni a ogni fenomeno percettivo, bisogna inoltre sottolineare che la peculiarità della percezione in un contesto normale di relazionalità è quella di essere contraddistinta dal riconoscere "qualcuno" che ci riconosce. 3.4. Iprocessi

di

riconoscimento

Quello straordinario scienziato della psiche che è Louis Sander, appoggiandosi ai riscontri di ormai più di tre decenni di ricerche empiriche da lui condotte sullo studio dello sviluppo dei bambini, sostiene che i proces125

si di riconoscimento, ponte tra i processi biologici e quelli evolutivi, consistono essenzialmente in una sequenza di negoziazioni sulla qualità delle connessioni delle interazioni e costituiscono l'elemento che promuove la progressione sia dei processi di sviluppo naturali sia dei processi di sviluppo terapeutici. Sander [2002, 13] ritiene che l'individualità emerga e si mantenga, all'interno di un sistema evolutivo nel quale vi è una complementarietà specifica e sincronizzata tra gli stati interni del bambino e la capacità di riconoscerli da parte di chi si prende cura di lui. E su questo punto che gli studi sull'intenzionalità e sull'interpersonalità si incrociano con quelli sul riconoscimento. E abbastanza immediato riscontrare che le asserzioni, sostenute da robusti dati empirici, di Sander sulla centralità dei processi di riconoscimento per promuovere l'identità dell'individuo siano del tutto sovrapponibili a quelle di diversi autori di matrice psicoanalitica; oltre a quelli già citati vengono in mente taluni scritti di Jaques Lacan, di Thomas Ogden e di Tommaso Senise, come pure di filosofi quali Alexandre Kojève, Jurgen Habermas, Axel Honnett e Charles Taylor che, in modi diversi, si sono cimentati con il pensiero di Hegel e la sua Fenomenologia dello spirito. E certamente fuori dal tema centrale di questo testo presentare una mappatura12 di quali siano, oltre al campo psicologico e a quello filosofico, altri settori del sapere (l'antropologia, la politica, la biologia, la sociologia ecc.) ove la questione del riconoscimento gioca una partita decisiva13. Se per talune delle aree rintracciabili si potrebbe forse parlare di «corrispondenze» metaforiche o analogiche sul tema del riconoscimento, io credo che, nella maggior parte dei casi, si sia davvero in presenza delle indefinite, e forse infinite..., forme che il processo di riconoscimento può assumere nel campo degli eventi sociali e culturali come in quello dei fenomeni naturali. La sfida di compiere lo studio su come avvengono i processi di riconoscimento in campi differenti potrebbe contribuire a far ulteriore luce sui meccanismi comuni alle diverse estrinsecazioni del medesimo processo, che qui viene trattato unicamente come 126

determinante dello sviluppo normale o patologico di una persona. Presente originariamente e in tutte le fasi della vita, il bisogno di riconoscimento è un «bisogno umano vitale» [Taylor 1992; trad. it. 1998, 10; Benjamin 1988, trad. it. 1991, 21]: esso rappresenta un elemento costituente di quel complesso processo, insediato centralmente nel cuore dell'esperienza umana, definibile come processo di riconoscimento. Con tale termine si può definire l'insieme di una complessa integrazione di «momenti cognitivi» con «elementi affettivi» [Honneth 1993, 30] che costruisce il decisivo passaggio per la formazione dell'identità, per il prosperare del Sé e per il dispiegarsi della sicurezza emotiva «nell'esprimere bisogni e sentimenti propri» [ibidem, 26]. A conferma della centrale importanza da accordare alla soddisfazione del bisogno di riconoscimento per lo sviluppo dell'identità, sta anche l'evidenza che su questo punto convergono sia le teorie psicodinamiche tradizionali sia quella eterodossa di James Hillman. Infatti quest'autore, pur rifiutando i consueti termini di comprensione della causalità psicologica a favore dell'invocare la suggestiva presenza del daimon come originale «spiegazione» dei caratteri di un individuo, arriva comunque a scrivere che anche il daimon «vuole essere visto, ricevere testimonianza, riconoscimento» [Hillman 1996; trad. it. 1997, 61]: «noi cerchiamo amanti e mentori e amici, affinché possiamo essere visti», perché la domanda dell'uomo è sempre la medesima «Eccomi, sono qui, proprio davanti ai tuoi occhi, riesci a vedermi?» e solamente «l'occhio del cuore vede dei ciascuni ed è toccato dalla ciascunità, per prendere a prestito l'espressione di William James» [ibidem, 159-161]. Quindi «il riconoscimento viene da coloro che sono in grado di vedere il daimon e gli rendono omaggio» [ibidem, 302], Anche all'esterno dell'orientamento psicodinamico si possono trovare ulteriori conferme della fondamentale importanza di questo tipo di interazione: mi riferisco alla Social Learning Theory messa a punto da Bandura [1977] e da lui successivamente [1989] rivisitata e conseguentemente rinominata Social Cognitive Theory. Superando le ristrettezze dei modelli comportamentali (sia di quello 127

«classico» pavloviano che di quello «operante» proposto da Skinner), questo modello guarda all'ambiente non come a un mero fornitore di rinforzi ma piuttosto come fornitore di «responsività agli obiettivi ed ai bisogni del bambino [...]» [in Fogel 2001, 43]. L'abilità di regolare le emozioni si sviluppa progressivamente in un processo di apprendimento, mediante il quale «i bambini arrivano ad identificare specifici feelings con specifiche espressioni e definizioni verbali. Secondo questo orientamento, i bambini hanno feelings che non sanno capire o che non sanno riconoscere. Attraverso un processo di paventai labeling (di definizione da parte dei genitori) di quei feelings (ad esempio, dicendo cose del tipo "tu devi essere arrabbiato" o "perché sei così triste oggi?"), i bambini imparano a costruire il significato sociale delle loro emozioni» [ibidem, 43]. Pertanto, si può definire processo di riconoscimento quella complessa interazione tra due persone, sostenuta da reciprocità di stimoli e di risposte, della quale si può dare una schematica descrizione come di una successione temporale di differenti, singoli «elementi», ognuno dei quali caratterizzante, come componente, la globalità del processo stesso: • l'insorgenza del bisogno di riconoscimento, da parte di un soggetto; • il comportamento da parte dell'«altro riconosciuto come significativo» rispetto al fine di espletare, o no, la funzione di riconoscimento di tale bisogno; • l'esperienza di riconoscimento, la cui qualità può variare in dipendenza da quanto sia stata adeguatamente, o meno, espletata la funzione di riconoscimento; • le successive modalità di relazionarsi del soggetto con se stesso e con gli altri, da intendersi come conseguenze delle modalità con cui la funzione di riconoscimento è stata messa in atto da parte dell'«altro riconosciuto come significativo». Il processo interpersonale di riconoscimento tra due persone si basa sull'esplicazione di tale funzione, da parte di una persona, che conduce l'altra all'esperienza di essere stata riconosciuta: come già detto questo processo non può avvenire se non in una circolarità senza inizio, in cui 128

la funzione di soddisfare il bisogno di riconoscimento non può che essere soddisfatta da chi è stato a sua volta riconosciuto in grado di espletare tale funzione. Secondo Freeman ogni organismo vivente tende a instaurare con l'ambiente che è di supporto ai suoi processi vitali delle modalità di adattamento caratterizzate in senso di fitting together con le mutevoli caratteristiche spaziali, temporali e di movimento dell'ambiente stesso: la «concurrence» tra organismo e ambiente nella direzione delle fluttuazioni dell'ambiente è il parametro fondamentale per il buon esito dei processi adattativi. A livello umano, questa coincidenza della direzione di flussi, da ricercare ai fini della sopravvivenza, si colloca a livello di scopi, intenzioni e significati. E per assolvere con sempre maggior precisione a questo compito che il cervello umano, nel corso della sua evoluzione, si è specializzato a diventare una meaningmaking machine altamente sofisticata, incessantemente dedita a fornire un significato a ogni percezione al fine di aumentare i livelli di adattamento della persona all'ambiente, con l'obiettivo finale di migliorare le sue possibilità di sopravvivenza. Il processo di riconoscimento potrebbe dunque essere considerato una differenziazione della capacità di «dare significato» altamente specializzata. Tutto quanto detto credo aggiunga ulteriore consistenza alla tesi che si intende sostenere, che è quella di attribuire alla funzione di riconoscimento un ruolo centrale nei processi evolutivi, psicopatologici e terapeutici arrivando in tal modo ad affrontare adeguatamente attrezzati da un punto di vista psicodinamico lo studio dello sviluppo, normale e patologico, nonché della tecnica della terapia psicoanalitica. Va già qui ricordato il carattere intrinsecamente «attivo» della funzione di riconoscimento, nonché il basarsi su una imprescindibile reciprocità: senza «attività» e «reciprocità» le capacità della funzione sarebbero annullate.

129

3.5. Lo studio dei processi di riconoscimento come elemento chiave per la comprensione dello sviluppo naturale e di quello terapeutico Tramontate le «favole nere» di una certa tradizione psicoanalitica che parlava di fasi schizoparanoidee, o addirittura autistiche, all'origine della vita del bambino, e cessato ormai anche il bias osservativo e teorico di guardare al bambino come a un recettore passivo di stimoli, sono ormai numerosissimi gli studi [tra cui Trevarthen 1997] che testimoniano come tra un bambino e chi si prende cura di lui in modo significativo si instauri, fin dai primi momenti, un tipo di interazione interpersonale quasi dialogica, in cui il bambino rivela una grande sensibilità alle espressioni, verbali e non, e alle intenzioni a lui rivolte. L'emergenza della rappresentazione di sé, come parte distinta all'interno dell'organizzazione della persona, e al contempo come guida della medesima organizzazione, è resa possibile da interazioni interpersonali ove le esperienze di riconoscimento, che sono sempre presenti in ogni interazione, siano di qualità tale da costituire quelle «potenti impressioni» [Freud 1906] in grado di strutturare l'identità delle persone coinvolte. Perché questo accada, l'esperienza di riconoscimento deve avvenire con un altro significativo e all'interno di un legame di attaccamento, intendendo con ciò che la significatività dell'altro è data proprio dal costituirsi come oggetto ricercato per un legame di attaccamento. Va qui ribadita la reciprocità insita nella struttura dei processi di riconoscimento: «soltanto chi riconosco potrà riconoscermi...», instaurandosi in tal modo una circolarità che non conosce inizio. L'interazione tra bambino e caregiver rappresenta il prototipo delle relazioni di riconoscimento: il bambino esprime nel mondo esterno delle intenzionalità che lo caratterizzano come persona ma, al contempo, cerca nell'ambiente delle informazioni rispetto alla possibilità di instaurare un legame di attaccamento quanto più sicuro, in quanto indispensabile prerequisito per la sopravvivenza. Al gesto del bambino fa eco e specchio il commento dell'altro significativo, che, a quel gesto, dà nome e connotazione: il genitore, si può dire, riconosce quel gesto. Se un 130

bambino allunga le mani nella direzione del volto del proprio genitore che porta degli occhiali, il genitore potrebbe dire: «Non toccare i miei occhiali, perché me li farai cadere...». Il bambino si trova dunque a poter e dover confrontare la propria attribuzione di senso, l'interna definizione (o, per così dire, il nome) della propria intenzionalità, con la percezione rivolta all'esterno, verso il riconoscimento attribuito alla medesima intenzionalità. Questo processo di riconoscimento delle intenzioni del bambino avviene sulla base di inferenze compiute dal genitore: tali interpretazioni possono essere accurate, conducendo in tal modo il bambino a un realistico riconoscimento della propria intenzionalità, oppure, per svariati motivi, potrebbero essere errate, introducendo della confusione nella sua modalità di percepire se stesso. Chi non vuole rinunciare a dipendere, sia pure parzialmente, da un modello pulsionale, potrebbe qui sostenere che, ai fini della qualità della strutturazione del Sé, le reazioni più importanti sono quelle che un genitore mette in atto nei confronti delle manifestazioni «aggressive» del bambino (siano esse determinate, o no, dall'impatto con discipline atte alla socializzazione). E invece ormai pressoché condiviso il reputare come determinanti le reazioni dell'adulto di fronte alle primitive attività cosiddette «a ridotta intenzionalità» del bambino, cioè quelle determinate dalla attività «caotica autocontrollata» [Freeman 1991, 39] della corteccia, tesa a generare i processi percettivi, e quindi a un sempre miglior padroneggiamento dell'ambiente. Di fatto la più attuale psicologia dello sviluppo individua proprio nelle attività determinate dalla spontanea tendenza a iniziare delle azioni, quelle che sono maggiormente responsabili nell'innestare circoli viziosi o virtuosi tra espressione del bambino, riconoscimento da parte del genitore, nuove espressioni del bambino. Pertanto a ogni nuovo inizio di attività del bambino corrisponderà una reazione dell'ambiente reciprocamente interagente (guidata da adeguati processi di riconoscimento) che favorirà ulteriori espressioni di successive nuove attività, o, al contrario, l'ambiente risponderà in modo dissonante (a causa di riconoscimenti impropri o disconoscimenti), così da 131

causare il rallentamento fino all'arresto di nuove iniziative di attività. In tale modello a feedback, i processi di riconoscimento da parte dell'adulto si rivolgono così non solo verso le espressioni dell'intenzionalità dal bambino, ma anche verso le sue emozioni e le espressioni delle percezione del processo di riconoscimento stesso: di nuovo, da parte dell'adulto, si può determinare o meno un adeguato processo di riconoscimento. Se questa complessa e reiterata serie di negoziati tra bambino e ambiente va per il meglio, tra i due e i tre anni di età egli imparerà a riconoscere come appartenenti a sé le intenzioni, le emozioni e le percezioni che sono state riconosciute come appartenenti a lui, e da ciò conseguirà un senso di identità. In caso contrario egli vedrà sfumare una netta definizione del senso di sé verso varie sfumature di indeterminatezza fino a una vera e propria incertezza sulla propria identità: al contempo si potrebbero stabilire delle strategie di adattamento nella forma di compiacenti falsificazioni del Sé. La relazione interpersonale con un altro significativo è dunque il luogo dove avvengono quelle specifiche «interazioni di riconoscimento» che sostengono i processi di costituzione dell'identità, sostenuta originariamente sull'adeguatezza del riconoscimento delle intenzioni e delle emozioni, intese come prime manifestazioni dell'identità del Sé. » Tale senso di identità è fin dall'inizio marcatamente interpersonale, in quanto contiene non tanto la consapevolezza della propria persona come entità separata, ma come «persona-in-relazione-a-un'altra-persona». I processi di riconoscimento, che avvengono all'interno delle relazioni di attaccamento, conducono infatti a definire delle linee guida di comportamento nelle relazioni interpersonali, che, per dirla in modo semplificato, potranno essere considerate come un luogo sicuro, dove fare autentica esperienza di sé o, all'opposto, come un luogo insicuro, dove il Sé si smarrisce, in quanto l'esperienza che si trova è quella, inquietante, di uno scollamento tra la propria interna esperienza di sé, in termini di intenzioni, emozioni e percezioni, e quanto invece riconosciuto esternamente dall'altro. 132

Il tentativo di studiare l'esperienza del riconoscimento, da considerare come un bisogno umano fondamentale, si incrocia qui con la necessità di attaccamento, gerarchicamente primaria, come insegna John Bowlby. Si può allora ritenere che le relazioni considerate sicure sono quelle in cui il bisogno di riconoscimento, necessario per sviluppare un senso di identità, è stato soddisfatto dalla funzione di riconoscimento, espletata dall'altro significativo. Si può invece pensare che la non soddisfazione di tale bisogno introduca nella relazione una atmosfera di insicurezza, la cui intensità è direttamente proporzionale alla quantità dello scollamento tra qualità dell'esperienza interna e riconoscimento esterno: l'ampiezza di tale scollamento può essere assunta come indicatore della misura dell'insicurezza della relazione instaurata. Di fronte a tale esperienza di mancato riconoscimento, che genera una situazione di insicurezza per la discrepanza tra interiorità ed esteriorità, quel che viene conseguentemente intaccato è il senso di sé come centro di iniziative autonome, che si può conseguire pienamente solo dopo che sia stato stabilito un legame di attaccamento sicuro. Al contrario della diversificazione, le iniziative si orientano unicamente verso un solo obiettivo, quello di ridurre la discrepanza, derivata dall'esperienza del non riconoscimento, che genera l'ansiosa insicurezza. Per raggiungere tale scopo di far finalmente sintonizzare l'ambiente esterno con l'esperienza interna, il bambino, che non vuole inizialmente rinunciare né al riconoscimento né all'attaccamento, può manifestare il proprio dissenso, rispetto all'erroneo o mancato riconoscimento, con differenti strategie comportamentali di «negoziazione», i cui margini discrezionali costituiranno il prototipo della rappresentazione che il bambino avrà di sé in termini di capacità di interferire con gli eventi del mondo nonché della correlata disponibilità dell'ambiente a essere modificato dal bambino stesso. Va sottolineato, in particolare rispetto alle ricadute sulla conduzione clinica dei colloqui psicoterapici, che il concetto di negoziazione ha solo parzialmente a che fare con la cosiddetta «costruzione comune del significato»: al contrario va ribadito che esiste una specificità del sog133

getto che ha bisogno di essere riconosciuta. Questo non è in contrasto con le affermazioni di Sullivan, «non esiste una personalità fuori dall'interpersonalità», e neppure con quelle di Winnicott, «non esiste un bambino se non in relazione con la propria madre», poiché è solo all'interno di un sistema di riconoscimento che la specificità può assumere esistenza, in quanto ogni specificità ha bisogno di essere riconosciuta per esistere. Non sono dunque possibili infiniti ed equivalenti riconoscimenti: possono invece determinarsi differenti gradi di distanziamento dall'adeguatezza nell'espletamento di tale funzione e quindi dalla conseguente soddisfazione del bisogno. Se il grado di distanza, rispetto a un riconoscimento good enough, è, e si mantiene, elevato, tali negoziati risultano fallimentari, per la scarsa disponibilità recettiva verso essi da parte dell'ambiente esterno, i comportamenti del bambino possono assumere la tonalità della protesta, fino a giungere a espressioni di manifesta aggressività. Peraltro tali modalità di indurre l'altro a modificare, o ad attuare, il riconoscimento possono essere rischiose rispetto al mantenimento del legame, così che una delle strategie più diffuse è quella dell'adattare il proprio giudizio rispetto all'esperienza non riconosciuta, di «modificarne il nome» per farlo quanto più coincidente con quello attribuito dall'altro. Si è qui tornati nei territori delineati dal concetto di «falso Sé»: la psicologia dello sviluppo basata sulle pratiche della infant research, si salda quindi scientificamente, e permette di comprendere pienamente, le intuizioni teoriche e le osservazioni cliniche di Erikson, di Winnicott e di Michael e Enid Balint, interfacciandole con la teoria dell'attaccamento e con il più vasto paradigma interpersonale [Amadei 2001], Louis Sander [1995] ritiene che i processi di riconoscimento, centrali per lo sviluppo di quella complessità psicologica che chiamiamo «persona», lo siano anche per i livelli più semplici di ogni sistema vivente, e in tal senso lo studio della funzione di riconoscimento sembra prestarsi ad aprire porte tra stanze non ancora sufficientemente 134

comunicanti, come quelle dei sistemi biologici, della psicologia dello sviluppo e dei processi psicoterapeutici. 3.6. Ipotesi neurofisiologiche

sulle capacità di

riconoscimento

Se più di tre decenni di ricerche sullo sviluppo normale e patologico consentono a Louis Sander [1977; 1995; 2002] di assegnare alla funzione di riconoscimento, attiva e bidirezionale, un ruolo centrale nei processi evolutivi, psicopatologici e terapeutici in quanto costituisce il ponte tra i processi biologici e quelli relazionali, restano da approfondire le basi neuronali che sottendono all'esplicarsi della capacità di svolgere tale funzione. Rispetto a tale questione, gli studi di Vittorio Gallese [2004] hanno portato a individuare una popolazione di neuroni, definiti «neuroni a specchio» (neuroni mirror), che (costituendo un ipotetico «sistema multiplo di condivisione» delle esperienze) consentirebbero quella particolare esperienza, definita dall'autore «simulazione incarnata», mediante la quale l'attribuzione di intenzioni, l'empatia e l'imitazione avverrebbero grazie all'attivazione «automatica, preriflessiva e inconscia» [ibidem, 141] di tale sistema «non solo quando la scimmia dell'esperimento eseguiva azioni finalizzate con la mano, ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo» [ibidem, 136]. Pertanto la spiegazione dell'imitare (come di provar empatia o di attribuire intenzioni) non richiederebbe necessariamente di implicare l'uso di alcuna «teoria della mente» o rappresentazione simbolica ma potrebbe essere compresa ricorrendo esclusivamente all'ipotesi di attivazione automatica di questi neuroni di fronte all'osservazione di azioni. I dati delle ricerche di quest'autore sembrano indicare che «il nostro sistema cognitivo è in grado di costruire una mappa multi-modale astratta che utilizza disparate sorgenti sensoriali, ben prima dello sviluppo del linguaggio (lo strumento d'astrazione per eccellenza) e di altre forme sofisticate di interazione sociale» [ibidem, 131]. Quella individuata da Gallese e dai suoi collaboratori sembra dunque essere la base neuronale comune sottesa a 135

vari tipi di interazione sociale, da quelle connesse alle capacità più elementari fino a quelle maggiormente sofisticate, che rendono possibile i diversi gradi di «riconoscimento degli altri umani come nostri simili» [ibidem, 140] e che, se tutti i livelli di interazione probabilmente si basano su tale meccanismo, quelli più complessi certamente lo trascendono. Colpisce inoltre una precisazione: «Perché i neuroni minor siano attivati durante l'osservazione di una azione, questa deve consistere nell'interazione tra la mano di un agente e un oggetto: [...] inefficace è l'osservazione d'azioni eseguite mediante l'impiego d'utensili, ad esempio afferrare un oggetto con una pinza» \_ibidem, 136], Questa osservazione sulla non attivazione dei neuroni del «sistema di condivisione» in caso dell'utilizzo di utensili e non della mano sembra correlabile a un classico esperimento più volte riferito da Meltzoff [2002]: un bambino in età preverbale osserva uno sperimentatore mentre cerca di staccare delle palle colorate dagli estremi di un tubo senza riuscirci. Quando lo stesso oggetto viene poi dato al bambino egli cerca immediatamente di imitare i gesti dello sperimentatore e di staccare le palle colorate dagli estremi del suo tubo. Ma se la parte dello sperimentatore viene affidata a un robot, per quanto umanoide, quando l'oggetto veniva dato al bambino questo non ripeteva il tentativo. Meltzoff concludeva che i bambini sembrano ritenere che soltanto gli essere umani e non i robot compiono azioni che sono meritevoli di essere imitate e questo sulla base della capacità di distinzione tra «lui è come me» e «lui non è come me». I riscontri di queste due ricerche inducono a pensare che i livelli di base delle interazioni imitative si basino su tale meccanismo ma anche che i livelli più sofisticati di una capacità così importante per lo sviluppo come l'imitazione possano essere attivati solo all'interno di una condizione intersoggettiva, che a sua volta può essere attivata solo da una qualità di riconoscimento (quella che un soggetto opera nei confronti dell'altro: «Io riconosco che lui è come me») molto più complessa e non riconducibile in toto alla sola «simulazione incarnata» prodotta dai neuroni a specchio, che pur ci consentono di gettare luce sui 136

meccanismi di base di tale funzione. Quel che manca alla situazione in cui interviene un elemento meccanico (l'utensile ed esemplarmente il robot) per essere una situazione intersoggettiva (e quindi per essere poi in grado di sviluppare le capacità del soggetto) non sta soltanto nel «lui non è come me», ad esempio nel bambino verso il robot, ma anche nell'impossibilità che l'altro, il robot, riconosca il bambino: quel che non innesca nel bambino una condotta imitativa non risiede solo nell'impossibilità che il bambino riconosca il robot come lui, ma anche nell'impossibilità del robot di fornire al bambino un'esperienza di essere stato riconosciuto. Dunque quel che manca nella situazione con quel robot (e sottolineo il «quel» per aprire in altra sede un dibattito anche con gli amanti di science fiction...) è la più volte ribadita bidirezionalita del riconoscimento, condizione irrinunciabile per il tipo di «esperienza di riconoscimento» di cui si sta trattando. 4. Conseguenze

del

disconoscimento

Secondo il punto di vista che si intende proporre, la psicopatologia dello sviluppo non viene più a essere intesa né secondo il modello del trauma, come nell'originaria impostazione freudiana, né secondo il modello del conflitto, come nelle successive e classiche formulazioni freudiane e postfreudiane, e neppure secondo il modello della carenza, come nelle formulazioni derivate sia dai modelli proposti dai teorici (Fairbairn, Balint, Winnicott) delle relazioni oggettuali e sia dalla psicologia del Sé: di fatto non si tratta di escludere tutti questi modelli, taluni dei quali possono anzi essere invocati come prevalentemente esplicativi di determinate situazioni di psicopatologia (quali, ad esempio, i disturbi postraumatici da stress). E comunque conveniente poter disporre di un ulteriore modello, quello appunto della dissintonia, basata sul mancato riconoscimento da parte del caregiver nei confronti di una particolare condizione, fisica e/o psicologica, cognitiva e/o affettiva, riguardante il bambino stesso; va ricordato ancora una volta che riconoscimento non è in alcun modo sinonimo di 137

rispecchiamento-, nessuno specchio ha mai rivelato il cuore delle cose, l'autenticità del loro essere. Una sistematizzazione di tutto quanto detto conduce dunque a formulare, in modo volutamente essenziale, una precisa sequenza psicopatogena di come si ammala la mente e quindi di come si determinano i disturbi delle relazioni: • alterazioni (per qualità, per quantità, per timing) dei processi di riconoscimento interpersonale14, i • alterazioni di sintonia diadica, di validazioni ambienti, di «fitting» relazionali, fino a veri e propri «traumi relazionali», intendendo differenziare con tale termine i traumi cumulativi di origine interpersonale, quali abusi emozionali15, abusi sessuali, maltrattamenti fisici, trascuratezza ecc. da quelli occasionali e non interpersonali (quali, ad esempio, incidenti), i • riduzione (fino alla scomparsa) della capacità di conoscere le proprie emozioni. (Questo è forse il punto cruciale della svolta verso la psicopatologia delle relazioni in quanto determina la perdita di vista della propria essenza. Non si può, quindi, che concordare con l'osservazione di Safran e Muran [2000; trad. it. 2003, 53-56] secondo i quali vi sarebbe in atto una convergenza di differenti tradizioni di ricerca sul ruolo centrale delle emozioni rispetto ai sistemi motivazionali), • disarmonie della coordinazione relazione, cioè carenza del meeting-in-time che determinano sia alterazioni della sicurezza dell'attaccamento, sia sviluppo di uno schema. Le alterazioni della sicurezza dell'attaccamento conducono ad. • alterazioni di funzioni (il cui substrato organico è un'alterazione dello sviluppo dell'emisfero cerebrale destro): a) secondo Shore [2002, 2] dei «sistemi di controllo cerebrale», in particolare del brain stress coping system, che determina alterazione/riduzione delle capacità di controllo dello stress, sia in presenza (eteroregolazione) che in assenza (autoregolazione) di altre persone alterazioni relazionali-, b) secondo Fonagy e Target [2001] dell' Interpersonal Interpertretative Mechanism, che è costituito dalla capacità di regolare l'attenzione, di maneggiare lo stress (cfr. supra) e di funzionamento riflessivo —> alterazioni relazionali. 138

Mentre lo sviluppo di uno sche?na, definibile come «una epistemologia del mondo interpersonale» conduce a una • riduzione della pienezza esperienziale e, di conseguenza, causa —> alterazioni relazionali. Va rimarcato che le alterazioni della sicurezza (all'interno del sistema motivazionale dell'attaccamento) e lo sviluppo di uno schema (all'interno del sistema motivazionale dell'interpersonalità16) costituiscono due sentieri embricati, che si sviluppano cronologicamente in parallelo. Il final common pathway di vari fattori eziopatogenetici sistemico-diadici è duplice: la sregolazione di funzioni e le alterazioni relazionali, come precursori/mediatori, non indipendenti ma correlati, di conclamata sregolazione delle relazioni, con conseguenti manifestazioni psicopatologiche relazionali (cioè sviluppo di schemi/lifetraps). NOTE AL CAPITOLO QUARTO 1 Una riflessione sulle conseguenze che, a partire da questo modello, si determinano a livello di conduzione clinica esula dal tema di questo libro, e sarà l'oggetto di un prossimo lavoro. 2 Rispetto alle ricerche di Sander, le osservazioni cliniche degli autori ora citati introducono dunque alla decisiva importanza della piena reciprocità dell'interazione, che, nel solco tracciato da Sander, sarà poi al centro delle riflessioni, di molto successive, di Beebe e Lachmann [2002], 3 Cioè, il nostro primo «poter guardare». 4 Tale momento viene individuato da Stern [1985] attorno al nono mese, ma altri Io datano alle prime settimane. 5 Inadeguatezza per qualità = attribuzione errata; inadeguatezza per quantità = attribuzione corretta per qualità, ma non sufficientemente ripetuta; inadeguatezza per timing = attribuzione corretta per qualità, ma non data al momento opportuno. 6 Mary Ainsworth [Ainsworth, Bell e Stayton 1971] ha individuato nella «sensibilità materna» ai segnali che il bambino invia al mondo l'elemento fondamentale per la formazione di una relazione di attaccamento sicuro. La Meins [1998] ha ampliato tale termine includendovi la propensione materna ad attribuire un significato psicologico al linguaggio del figlio. 7 Ma anche orbitofrontali e temporali: per una descrizione particolareggiata delle alterazioni della biochimica e della struttura anatomica cerebrale cfr. Shore [2002, 19 s.].

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8 Cioè un disturbo che senza arrivare alla gravità e alla stabilità di un disturbo della personalità è peraltro pervasivo della vita relazionale di una persona: vedi il concetto di trappole per la vita. 9 Come nel caso di Sara, riferito all'inizio del capitolo. 10 Sotteso da «immaturità delle strutture cerebrali destre» [Shore 2002, 9]. 11 Termine espressamente utilizzato anche da Modell [1990] quando intende descrivere il prototipo del fallimento di sintonizzazione del genitore con l'esperienza affettiva primaria del bambino. 12 Su questo vedi Riconoscimento: bisogno, funzione ed esperienza, ricerca in atto (con Anna Di Stefano e Ilaria Bianchi) presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. 13 Si pensi, tra i molteplici esempi, alla questione, in molti paesi spesso drammatica, della convivenza tra maggioranze autoctone e minoranze etniche. 14 Qui inteso non come fase specifica che si determina all'età di un anno e mezzo, secondo Sander, ma nel senso indicato nel paragrafo 3, cioè come modo di individuare una identità. 15 Con tale termine ci si riferisce a un «uso» del bambino da parte del genitore ad esempio per «ristoro narcistico». 16 Cfr. Stern [2004] su questo doppio binario parallelo.

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CAPITOLO QUINTO

TRAUMI

... io ho davvero visto ciò di cui voi sentite solo parlare. G. Zani, reduce di guerra

1. Dopo un trauma La parola «trauma» origina dal greco e significa ferita, lacerazione, danno. Il termine è impiegato in medicina somatica, dove indica le lesioni provocate da agenti meccanici, la cui forza è superiore alla resistenza dei tessuti cutanei o degli organi che essi incontrano; in neuropsichiatria, dove indica o una lesione del sistema nervoso o, per trasposizione metaforica, una lesione dell'organismo psichico per effetto di eventi che irrompono bruscamente in modo distruttivo [Galimberti 1999, 10521. Secondo Ammaniti [1999] il trauma è una rottura dell'esperienza quotidiana e della memoria, un evento non rappresentabile dalla nostra mente, la quale per natura ha bisogno di «incasellare» i fatti nell'universo dei significati umani. Questa ferita psicologica si presenta come stordimento e amputazione delle emozioni e la sua concretezza perdura nel tempo, provocando sofferenze mentali destabilizzanti. Accese discussioni negli anni passati impegnarono i teorici e i clinici su due questioni fondanti. In primo luogo ci si chiese se fosse possibile che il trauma fosse di per sé

Questo capitolo

è di Silvia

Galvani.

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patogeno e quindi potesse dar luogo a sintomi anche in un soggetto sino a quel momento «equilibrato». In secondo luogo ci si interrogò sulla natura di questi sintomi: potevano essere ricondotti alla classificazione diagnostica già nota oppure necessitavano di una categoria a se stante? Il problema non era capire se il trauma potesse dare origine a sintomi, poiché fin dai tempi di Freud questo era chiaro. Bensì come trattare (e quindi come classificare) questi sintomi: se da un punto di vista psichiatrico, vedendoli quindi come l'emergere di una personalità premorbosa1, oppure da un punto di vista non psichiatrico, come un processo di adattamento. Ad esempio, la teoria secondo cui lo stress potesse generare sintomi psichiatrici era ormai nota ma si basava sul fatto che i sintomi avessero alla base una vulnerabilità premorbosa che lo stress faceva emergere. Lo stress era quindi considerato un fattore aspecifico che poteva esacerbare i disagi [Green 1995]. In realtà come detto l'idea che eventi traumatici potessero portare a malattia individui normali è ben più vecchia della formulazione del disturbo postraumatico da stress (DPTS). Già Freud, prima di enunciare la teoria della fissazione della libido come causa delle nevrosi, aveva parlato delle origini traumatiche dell'isteria. Anche se in seguito abbandonò l'idea per abbracciare un modello associato allo sviluppo libidico del soggetto, continuò a sostenere che la tipologia delle risposte sintomatiche alle nevrosi traumatiche o attuali era sostanzialmente differente da quelle prodotte dalla fissazione libidica [Freud 1937]. L'inversione teorica definitiva nel concetto di disturbo postraumatico si ebbe nel 1980 quando, in seguito ai risultati delle osservazioni condotte sui veterani del Vietnam e alle ricerche delle neuroscienze, venne inserita nel D S M - I I I la nuova categoria diagnostica. Da questa data il D P T S viene non solo considerato una entità diagnostica a se stante (sostanzialmente diversa dallo stress) ma viene riconosciuto come un processo di adattamento ad avverse condizioni e chiarisce che il pattern dei sintomi non dipende esclusivamente dalla vulnerabilità costituzionale del soggetto [Horowitz 1986], ma anche dalle caratteristiche dell'evento. 142

Tra i numerosi campi del sapere che portarono ricerche e dati a conferma di questa ipotesi troviamo in primo luogo le scoperte di Selye sulle risposte biologiche dell'organismo a eventi forti [Selye 1956], Inoltre la letteratura sugli «eventi di vita»2 [Rabkin 1976] ha dimostrato che ci sarebbe una relazione tra eventi di vita avversi e sviluppo di sintomi fisici e non. Infine, la letteratura sulla psicologia di intervento in situazione di crisi testimonia come soggetti che sono stati colpiti da eventi traumatici possano produrre transitoriamente sintomi bisognosi di intervento. Questa considerazione ha fornito le basi concettuali per teorizzare il ÜPTS come prolungamento di una normale risposta al trauma [Austin 1992], Da un punto di vista squisitamente nosografico perché si possa parlare di DPTS il DSM-IV elenca una serie di criteri. In particolare la persona deve essere stata esposta a un evento nel quale sono state presenti entrambe le caratteristiche seguenti: 1. il soggetto ha vissuto, assistito o si è confrontato con un evento o con eventi che hanno implicato morte, minaccia di morte, gravi lesioni o minaccia all'integrità fisica propria e/o altrui. A questo punto si presenta sulla scena una nuova controversia: la natura e la portata dell'evento che viene definito traumatico. L'idea primaria secondo la quale per essere traumatico un evento deve essere fuori dall'ambito dell'esperienza umana abituale si rivelò restrittiva alla luce dell'esperienza clinica. 2. La risposta della persona in quella situazione comprende paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore (nei bambini questo può essere espresso con un comportamento disorganizzato o agitato). Da un punto di vista descrittivo e facendo riferimento a quanto riportato dal DSM-IV il DPTS collega tra loro una serie di sintomi di varia natura. Ad esempio, a livello fisico vi è un netto aumento dell'arousaP, una ipereccitabilità protratta segnalata dai disturbi del sonno, scoppi di collera, difficoltà di concentrazione, ipervigilanza e risposte di allerta esagerate, parametri ematici [Gabbard 1990] alterati (aumento della concentrazione di cortisolo), alterazione del bilancio simpato-vagale. 143

Scorrendo i criteri del manuale americano a dominare il quadro sono i sintomi a carico dell'apparato cognitivo e psichico, che vedono implicate soprattutto funzioni quali la memoria e l'integrazione delle informazioni. Gli aspetti più significativi sono dunque: 1. presenza di ricordi carichi emotivamente di cui è impossibile parlare anche ad anni di distanza, oppure ricordi che risultano essenzialmente inaccessibili a ogni tentativo di elaborazione verbale [Giannantonio 2000], 2. Ricordi intrusivi, ripetitivi, che non sembrano risentire di un approccio verbale. Spesso in questo caso si affacciano alla mente sensazioni viscerali o frammenti sensoriali dell'evento piuttosto che ricordi veri e propri [Levin, Lazrove e van der Kolk 1999]. Appartengono a questo gruppo i pensieri ripetitivi a carattere angoscioso, sogni, episodi dissociativi di flashback, sensazioni di rivivere l'evento accompagnate da ansia. 3. Messa in atto di meccanismi dissociativi: la mente relega in parti nascoste gli episodi traumatici e i ricordi a essi collegati e il soggetto vive inconsapevole di queste parti dissociate. Esse prendono forma, solitamente, tramite il corpo dando origine a disturbi somatici. In realtà è possibile che i ricordi vengano espressi verbalmente ma solo se sono stati liberati dalla carica affettiva troppo intensa [Giannantonio 2000]. Fanno parte dei meccanismi di dissociazione anche i sentimenti di derealizzazione e di depersonalizzazione che caratterizzano numerose esperienze traumatiche. Molti traumatizzati raccontano che, nel momento in cui si è verificato il fatto traumatico e in quelli immediatamente successivi, hanno avuto la sensazione di non riconoscere più il mondo come reale e familiare (derealizzazione), precisando inoltre che questa impressione non avrebbe riguardato tanto l'ambiente circostante, né le persone presenti e i loro atteggiamenti, quanto loro stessi e la percezione di sé (depersonalizzazione). 4. Amnesie più o meno ampie, fino alla completa dimenticanza di un evento. I ricordi tenderebbero a persistere nella memoria implicita fatta di schemi comportamentali, emozioni, sensazioni, e a condizionare in modo inconsapevole il comportamento del soggetto. 144

5. forme varie di evitamento di situazioni e di distacco emotivo nella vita quotidiana. Tali sintomi vengono provocati e/o accentuati dall'esposizione a situazioni simili al trauma o che in qualche modo lo evocano a livello simbolico. 6. Incubi e disturbi del sonno. I soggetti presentano frequentemente difficoltà di addormentamento in quanto il sonno viene esperito come un momento nel quale la mente, finalmente libera, torna sul luogo del trauma, allucinando la situazione già vissuta sottoforma di incubi notturni [Goodwin 1987], 7. Rabbia. I soggetti con DPTS esplodono spesso in scatti di rabbia e tensione per ragioni futili con le persone che stanno loro più vicine. Questo ha due origini: da un lato l'aumento dell'arousal e dall'altro una incapacità di mentalizzare le proprie emozioni che quindi vengono letteralmente «agite» senza saperle gestire. A questo proposito Fonagy e colleghi [2002] parla di ridotto o inesistente sviluppo della funzione riflessiva4 connesso al trauma. Secondo l'autore inglese la capacità di sentire i propri stati d'animo e quelli degli altri sarebbe minata all'origine da traumi che non permetterebbero di sviluppare la funzione riflessiva. Questa incapacità porterebbe il soggetto, che non è in grado di mentalizzare, ad agire le sue emozioni, ad esempio attraverso la rabbia e la violenza [Fonagy e Target 2001], Nei casi più complessi il soggetto ha una modalità di coping5 non adeguata all'entità degli eventi stressanti [Wilson e Lindy 1994] e l'impatto con eventi traumatici potrebbe destabilizzare l'individuo portando in superficie o aggravando i fattori di vulnerabilità [Yehuda 2002]. In questi casi è opportuno prendere in considerazione esiti postraumatici che non contemplino solamente i sintomi previsti per il D P T S ma anche due ulteriori clusters di sintomi, ovvero l'impatto del trauma sulle relazioni interpersonali e sulla struttura del Sé [Giannantonio 2003]. Sintomi psicologici associati a DPTS • Alienazione sociale, emozionale, culturale, spirituale • Sfiducia e sospettosità • Distacco, isolamento, ritiro 145

• Anedonia • Deficit nelle relazioni oggettuali • Relazioni interpersonali ripetutamente autodistruttive • Impulsività • Incapacità di rilassarsi e insoddisfazione per le attività svolte • Relazioni interpersonali instabili e intense • Problemi nella definizione dei confini relazionali • Ansia per l'abbandono DPTS e struttura del Sé • Caratteristiche di personalità narcisistiche • Demoralizzazione e disforia • Perdita di coerenza e di integrazione • Perdità del senso di identità e di continuità del Sé • Vergogna, perdita d'autostima, senso di rabbia • Stati dell'Io fluttuanti, predisposizione alla dissociazione • Sentimenti cronici di incertezza e instabilità In situazioni non strettamente postraumatiche, cioè che non rispondono ai criteri DSM, gli eventi stressanti saranno comunque configurabili come una condizione critica, la quale però non fa che slatentizzare un equilibrio precario, ponendo in essere una patologia che non potrà essere linearmente ricondotta a tali eventi. A questo punto è utile introdurre il concetto di «trauma storico», come modello di teoria sul trauma che ritiene l'approccio DSM riduttivo per la comprensione dello stesso. Il concetto di «trauma storico» è stato proposto principalmente in seguito agli eventi che hanno caratterizzato la vita delle popolazioni indigene americane, e come reazione alla poca elasticità della idea di trauma rappresentata dal DPTS che, secondo Maviglia [2002], propone una visione meccanica-biologica. A questo proposito l'esperienza acquisita attraverso fenomeni come l'Olocausto, genocidi etnici, regimi dittatoriali, persecuzioni politiche ecc., avrebbe dimostrato che le conseguenze del trauma non vengono esperite solo nell'Aie et nunc, ma vengono spesso trasmesse da una generazione all'altra. Quindi le manifestazioni cliniche possono essere uguali a quelle del DPTS, ma il fenomeno acquista una dimensione intergenerazionale che non 146

può essere trascurata e da cui nasce la creazione del concetto di «trauma storico». Partendo da queste premesse si può tentare una formulazione del trauma storico come caratterizzato non solo da un aspetto più concreto e simile al DPTS, ma anche e soprattutto da una dimensione «esistenziale», che si esprime in un senso di non appartenenza, di esclusione dal ciclo di vita. Una definizione del fenomeno del trauma storico, dedotta dalla letteratura potrebbe essere riassunta nel seguente schema: 1. spiccato senso di distruzione del tessuto famigliare e sociale; 2. elementi depressivi visibili nell'annullamento del senso di comunità e nell'insorgenza di una visione anomica della vita; 3. risentimento di natura esistenziale, manifestantesi in episodi distruttivi contro se stessi e contro altri; 4. non risoluzione dell'aspetto esistenziale e umano del trauma, che si cronicizzà così a livello intergenerazionale e collettivo. Da quanto detto appare evidente che, secondo questa letteratura del trauma, gli approcci terapeutici decontestualizzati e basati su paradigmi individualistici non costituiscono un modello efficace di intervento terapeutico 2. Il trauma è

inevitabile?

Prima di continuare nelle valutazioni sul trauma è necessario sottolineare ciò che la clinica ci insegna: non tutte le persone esposte a un evento cosiddetto traumatico, fossero anche rispettati tutti i criteri del DPTS, arrivano a sviluppare una reazione severa e duratura. In realtà la percentuale di queste si aggira attorno al 10-20%. Il modo migliore per comprendere teoricamente questi dati consiste nel fare riferimento al concetto di «resilienza», ossia alla interazione tra fattori di rischio e fattori di protezione, siano essi interni al soggetto e alla sua storia siano essi esterni, propri del contesto e della situazione. Recentemente Giannantonio [2003] ha proposto un modello [Bryant 2000] che vede la reazione dell'individuo 147

nei confronti di eventi traumatici come il prodotto di due fattori: R =M X S La risposta soggettiva R, che potrebbe coincidere con lo sviluppo di un disturbo, ma potrebbe anche appartenere allo spettro della normalità, è il risultato della combinazione di M (magnitudo dell'evento) e S, insieme di variabili squisitamente soggettive, interpersonali e sociali. E intuitiva l'importanza del fattore M nello sviluppo di una sintomatologia DPTS: tanto più è grave l'esperienza (per frequenza e intensità) tanto maggiore è la difficoltà con la quale l'individuo affronta esperienze prolungate. Ma non sempre lo stesso evento produce uguali conseguenze su soggetti diversi: quindi è necessario considerare variabili che in questo modello sono riunite sotto la sigla S. • Caratteristiche genetiche e biologiche del soggetto. Tra i fattori biologici è necessario tenere presenti sia la diversa vulnerabilità delle persone al trauma sia i cambiamenti biologici avvenuti in seguito a una prima esposizione allo stesso. Come vedremo trattando le basi neurofisiologiche a causa di quest'ultimo si determinerebbe nel corpo una modificazione di alcuni sistemi in direzione di una maggiore sensibilità e produttività dei sintomi [Bremmer 1993]. • Età e stadio evolutivo. Anche lo stadio evolutivo in cui si trova il soggetto (bambino o adolescente) al momento del trauma costituisce un fattore in grado di incidere sull'impatto dello stesso. Quanto minore è la sua età tanto più importanti potrebbero essere le compromissioni una volta diventato adulto. • Storia di vita ed esperienze pregresse. L'aver vissuto un trauma infantile rende il soggetto più vulnerabile. Secondo Boney-McCoy e Finkelhor [1995] essere stati vittime di un evento traumatico aumenta la vulnerabilità a vittimizzazioni successive e provoca un incremento dell'intensità dei sintomi. Si può dire che la fragilità che deriva dall'essere stati vittime non solo abbassa la capacità di difendersi e sottrarsi a ulteriori traumi, ma amplifica le risposte postraumatiche indipendentemente dalle caratteristiche dello stimolo. Anche in questo caso sarebbe basilare l'alterazione della componente neurofisiologica che porta 148

l'organismo a permanere in uno stato continuo di «attivazione» sia psichica che fisica. • Stile di attaccamento. Gli ultimi studi pongono in particolare rilievo lo «stile di attaccamento» presentato dal soggetto. Questo darebbe indicazioni circa le modalità di coping e adattamento dell'individuo, come esse si sono strutturate durante la prima relazione significativa con il caregiver. Soggetti con un attaccamento insicuro se sottoposti a un trauma ne sviluppano più frequentemente i sintomi tipici [Haviland, Sonne e Woods 1995]. In particolare un soggetto con stile di attaccamento insicuro di tipo disorganizzato non sarà in grado di riadattarsi all'ambiente mutato dal trauma in quanto nella relazione primaria, essendo i comportamenti del caregiver del tutto imprevedibili e arbitrari, non ha acquisito la capacità di modificare le proprie reazioni in modo adattativo al contesto. Anche la capacità di contenere ed elaborare l'aggressività per consentire un corretto sviluppo della funzione riflessiva è venuta meno, poiché in questo tipo di relazione il caregiver non è stato in grado di essere contenitore «sufficientemente buono» delle angosce del bambino. Tutto questo incide sulla capacità del soggetto di elaborare l'evento traumatico e ristrutturare la propria psiche. • Abilità di «coping» delle emozioni. In questa variabile possiamo annoverare non solo la capacità di gestire le emozioni, ma anche di dare un nome a quanto si esperisce affettivamente. Colui che non riesce a verbalizzare ed entrare in contatto con i propri vissuti emotivi avrà maggiori possibilità di sviluppare un DPTS. • Psicopatologia pregressa e presente. • Contingenze di vita. L'essere in un periodo di vita definibile come critico, che ha messo alla prova la base di sicurezza e la capacità di adattamento, depone a favore dell'insorgenza di un trauma. • Supporto sociale e contesto. L'avere una rete sociale che sostiene e aiuta nell'elaborazione dell'evento protegge dai rischi di sviluppare una situazione di disequilibrio psicologico. Il contesto cui facciamo riferimento comprende sia il tipo di relazioni familiari sia l'ambiente socioeconomico e il supporto fornito dalla società. A questo proposito si deve ribadire la rilevanza che, ai fini della salu149

te mentale, riveste la possibilità di «condivisione sociale» delle esperienze negative. Sappiamo che la persistenza di pensieri, emozioni e sentimenti negativi legati a esperienze spiacevoli nel processo di elaborazione mentale che accompagna un'esperienza traumatica potrebbe dar luogo all'esperienza della «ruminazione mentale» [Di Biasio 2000], che nasce come difesa dalla minaccia del concetto di sé e dalla improvvisa falsificazione delle convinzioni esistenziali precedenti. Essa ha infatti come unico scopo la riorganizzazione cognitiva prima, ed emotiva poi, dell'esperienza traumatica, al fine di gestirla meglio e trovare le risorse per farvi fronte. Quando non vi è condivisione sociale, il fenomeno della ruminazione mentale prende il posto dell'elaborazione: il pensare all'evento si trasforma in una reiterazione mentale senza fine che impedisce la riorganizzazione emotiva. La condivisione sociale, come suggerisce la parola stessa, deve trovare interlocutori nello stesso contesto del soggetto perché solo in questo modo sarà possibile costruire una versione accettabile di quanto è accaduto. Da queste considerazioni si evince che eventi eccezionalmente forti (con alta magnitudo) possano produrre quasi inevitabilmente disturbi psicopatologici indipendentemente da variabili soggettive, mentre eventi apparentemente banali possono produrre disturbi in presenza di variabili soggettive fortemente svantaggiose. 3. Neurofisiologia

del trauma

Esiste ormai una vasta e sufficientemente consolidata letteratura che conferma come in presenza di alcune situazioni traumatiche, specie se estreme e ripetute nel tempo (come lo stato di guerra e l'abuso sessuale intrafamiliare), si possano rilevare alterazioni neurofisiologiche e biochimiche, la cui reale implicazione non è ancora pienamente compresa [Giannantonio 2000]. Quando si parla di basi neurobiologiche dei sintomi del DPTS si individua il coinvolgimento di tre sistemi: l'asse catecolaminergico, l'asse corticotropo e il sistema immunitario. 150

1. L'asse catecolaminergico. L'attivazione di questo sistema, che ha la sua base nel locus coeruleus, termina con la liberazione immediata di noradrenalina e la secrezione di adrenalina nella circolazione sanguigna (picco di concentrazione ottenuto in due minuti). Questa liberazione provoca una accelerazione della frequenza cardiaca, un aumento della pressione arteriosa e una vasocostrizione periferica, tale per cui il sangue raggiunge rapidamente i muscoli e gli organi. Nello stesso tempo, questa attivazione libera zucchero nel sangue e favorisce così la messa a disposizione di energia per l'azione. Van der Kolk, Burbridge e Suzuki [1997] in uno studio hanno riscontrato un aumento significativo di noradrenalina nel flusso ematico dei veterani colpiti da sindrome postraumatica. 2. L'asse corticotropo. Questo asse coinvolge ipotalamo, ipofisi e ghiandole surrenali, la cui stimolazione in momenti di stress produce la liberazione massiccia di ormoni detti glucocorticoidi (fra cui il cortisolo). Questa risposta ha la funzione di modulare le reazioni di difesa dell'organismo ed è più lenta della risposta adrenergica. I glucocorticoidi eserciterebbero inoltre un effetto di inibizione dell'ansia. 3. Il sistema immunitario. E stato dimostrato che il cortisolo, distruggendo il tessuto linfoide, indebolisce le difese immunitarie. I glucocorticoidi avrebbero dunque una funzione ambivalente: essi assicurano da un lato un'attivazione delle funzioni dell'organismo in situazioni di urgenza, ma, d'altro canto, affievolirebbero la capacità difensiva dell'organismo a lungo termine. 4. L'approccio

cognitivo

Nella sua versione più recente l'approccio cognitivo si concentra sullo sviluppo da parte del soggetto delle capacità mentalizzanti, cioè la capacità di dare significato al passato, di comprendere il presente e pianificare il futuro. A questo si aggiunge lo sviluppo della funzione riflessiva, cioè la competenza di comprendere gli stati d'animo e i desideri propri e altrui [Fonagy e Target 2001]. Secondo questo approccio il trauma bloccherebbe l'accesso alla mente delle informazioni in arrivo in quan151

to minerebbe lo sviluppo e l'uso delle capacità cognitive [Siegel 1999]. In particolare risulta compromesso il sistema memoria che presenterebbe una dissociazione tra memoria implicita e memoria esplicita. Per memoria implicita si intende una forma primitiva di memorizzazione priva di consapevolezza, tipica dei primi anni di vita, nei quali il senso di sé e di continuità non è ancora formato come pure sono incomplete le strutture cerebrali deputate alla memoria (ippocampo e corteccia prefrontale). La memoria esplicita è invece costituita dalla capacità di memorizzare ed esserne consapevoli, di riflettere sui propri ricordi. Appartengono a questo tipo di memoria quella semantica (conoscenze sul mondo) e quella episodica (ricordi della propria vita). Il trauma, come detto, provocherebbe una scollatura tra questi due tipi di memoria che di solito, da un certo stadio di sviluppo in poi (tre anni) sono integrati, non permettendo quindi ai ricordi di raggiungere la consapevolezza della memoria esplicita. Essi rimangono così relegati a livello implicito, preverbale, facendo sentire il loro effetto tramite sensazioni di angoscia e flashback. Anche gli incubi che si manifestano durante il sonno potrebbero rappresentare inutili tentativi da parte del cervello di elaborare le memorie bloccate [Siegel 1999]. Dal punto di vista neurofisiologico questa dissociazione sarebbe legata a danni all'ippocampo e all'asse ipotalamo-ipofisario-adrenocorticale: infatti nei soggetti traumatizzati si riscontra una riduzione del volume di queste aree [Bremner et al. 1995]. La possibilità di riflettere consciamente sull'esperienza traumatica è collegata a una attivazione della memoria esplicita, che permette di integrare il ricordo all'interno della rete dei significati personali. Il trauma non permetterebbe di portare a verbalizzazione ciò che è accaduto: il fatto rimarrebbe così sotto forma di traccia a livello preverbale, non razionalizzabile, con tutto il suo carico affettivo [Siegel 1999]. Si formerebbero in questo caso ricordi frammentati, difficilmente accessibili, connotati da emozioni intense e poco gestibili. Tali ricordi sarebbero intrinsecamente non verbali, probabilmente a causa di una diminuzione funzionale dell'emisfero cerebrale sinistro durante 152

la rievocazione di gravi traumi [Levin, Lazrove e van der Kolk 1999; van der Kolk Burbridge e Suzuki 1997]. La teoria cognitiva del trauma indaga anche un altro aspetto della sintomatologia: l'evitamento. I traumi possono infatti ripercuotersi negativamente [Siegel 1999] sulle aspettative del soggetto nei confronti del futuro: in seguito all'aver sperimentato eventi improvvisi e incontrollabili che lui vive in modo traumatico, il soggetto può sviluppare una aspettativa generica di pericolo e di incontrollabilità e la percezione soggettiva di ogni stimolo come pericoloso porta a far si che non solo il soggetto eviti alcune situazioni, ma anche che la sintomatologia post traumatica duri nel tempo. 5. Modelli

psicodinamici

La teoria psicoanalitica ha, sin dagli esordi, puntato l'attenzione sul concetto di trauma quale fattore eziologico delle «neuropatie», in particolare quelle di ordine nevrotico. In questa sede considereremo le impostazioni teoriche di due esponenti quali Freud e Ferenczi, come esemplificazione delle alterne vicende del concetto di trauma. Il 4 settembre 1932 Ferenczi concludeva il XII Congresso Internazionale di Psicoanalisi con un lavoro estremamente polemico: Confusione delle lingue tra adulti e bambini, in cui cercava di dare una riformulazione psicologica della teoria freudiana della seduzione e della sua relazione con il trauma. Ma a una lettura attenta dei contributi ritroviamo un fil rouge che unisce parte della formulazione freudiana con la proposta di Ferenczi e che più facilmente permette di spiegare i sintomi che la clinica osserva. 5.1. Il trauma secondo Sigmund Freud Freud, con la nozione di trauma, si riferisce all'intensità di un evento a cui il soggetto non è in grado di rispondere in modo adeguato, 153

un'esperienza vissuta che, nei limiti di un breve lasso di tempo provoca alla vita psichica un incremento di stimoli talmente forte che la sua liquidazione o elaborazione in modo usuale non riesce, donde è giocoforza che ne discendano disturbi permanenti dell'economia energetica della psiche» [Freud 1915-17; trad. it. 1976].

Il trauma per Freud si configura quindi come un incremento dell'intensità pulsionale che obbliga l'Io a una distorsione difensiva. In una prima concettualizzazione delle nevrosi (189097), Freud ritiene che il trauma alla base di queste abbia un carattere essenzialmente sessuale e che sia riferito soprattutto agli anni dell'infanzia. Egli rileva nell'azione del trauma due elementi principali: una prima scena, detta di seduzione, in cui il bambino subisce un approccio sessuale da parte di un adulto, senza che ciò provochi una particolare eccitazione. Una seconda scena, in età puberale, che, rievocando la prima, origina un afflusso di eccitazione che travolge le difese dell'Io. Successivamente, Freud sembra abbandonare la teoria del trauma come spiegazione delle nevrosi. Nella lettera a Fliess del (22/9/1897) rivela che nell'analisi clinica è emerso che l'esperienza traumatica di seduzione, ritenuta dapprima realmente vissuta, in realtà appartiene al mondo della fantasia del soggetto e risponde alla soddisfazione di bisogni pulsionali. Quindi l'esperienza traumatica infantile perde la sua centralità e si accentua l'importanza dell'evento scatenante che succede in un secondo momento e agisce sulla predisposizione nevrotica del paziente. Come dimostrano lavori successivi Freud non rinunciò mai a cercare il fondamento del trauma nelle situazioni della vita reale cercando di dimostrare che la fantasia riprendeva sempre almeno un briciolo di realtà storica, trasformandola in funzione dei bisogni difensivi del soggetto. Analizzando le «nevrosi di guerra» riscontrate in molti soldati sopravvissuti alla Prima guerra mondiale, egli ebbe modo di riscontrare effettivamente la rilevanza di eventi realmente vissuti (bombardamenti, conflitti armati, cannonate ecc.), tali da provocare disturbi del comportamento e 154

della personalità, definiti nel complesso «nevrosi di guerra». Nel saggio Al di là del principio di piacere [1921], scritto all'indomani della conclusione del primo conflitto mondiale, Freud riprende in esame la questione del trauma, dopo aver differenziato X angoscia (stato di attesa di un pericolo conosciuto o sconosciuto) dalla paura (manifestata in presenza di un pericolo) e dallo spavento (paura provocata dal sopravvenire di un pericolo al quale non si è preparati, e dunque caratterizzata dalla sorpresa). Freud riteneva che gli stimoli traumatizzanti sorprendessero le difese psichiche dell'organismo penetrando fino all'interno della psiche. Di fronte alla situazione traumatizzante, poiché non è più possibile impedire l'invasione di una così grande quantità di eccitazione, all'organismo non resta che sforzarsi di dominare queste eccitazioni, ottenendo dapprima la loro immobilizzazione psichica e in seguito il loro progressivo scaricamento. Un Io «in buono stato» può efficacemente respingere o quantomeno affievolire e filtrare l'evento aggressivo, che al contrario può divenire traumatizzante (vale a dire operare un'effrazione) se l'Io non dispone in quel momento di sufficienti risorse. Di qui la concezione «economica» e relativista del trauma secondo Freud: Credo che non sia possibile definire altrimenti il traumatismo che tramite i suoi rapporti con un mezzo di difesa, un tempo efficace, contro le eccitazioni [Freud 1921; trad. it. 1986],

5.2. Il trauma secondo Sàndor Ferenczi In Confusione delle lingue tra adulti e bambini Ferenczi attribuisce un ruolo determinante agli oggetti esterni e alla realtà nella strutturazione della psiche del bambino. Ampliando il concetto di seduzione così come teorizzato da Freud, Ferenczi compie un passo ulteriore proponendo l'eziologia traumatica come una violazione della psiche del bambino da parte dell'adulto. Recuperare la teoria del trauma quale fattore determinante nella genesi della nevrosi implicava per Ferenczi partire dall'assunto che la 155

vita psichica del bambino si sviluppa in modo intersoggettivo e di conseguenza che ogni evento relazionale affettivamente importante lascia sulla psiche una traccia. Dopo le esperienze cliniche con i soldati durante la Prima guerra mondiale l'autore introduce nella teoria del trauma una nuova prospettiva. I sintomi delle nevrosi di guerra (tremori, disturbi del sonno) per quanto simili ai sintomi isterici non consentivano di individuare una eziologia sessuale della nevrosi e quindi tornava in scena il trauma nel senso letterario del termine. Ferenczi sembra dibattersi tra due posizioni: da una parte il pensiero freudiano che vede l'angoscia tipica delle nevrosi di guerra come conseguenza di un eccesso di eccitazione che non riusciva a trovare uno sfogo adeguato e dall'altra una posizione che permettesse piuttosto di analizzare l'angoscia privilegiando il ruolo del narcisismo: «in questi traumi è presente una ferita dell'Io» [Ferenczi 1932; trad. it. 1974, 233]. Che cosa è il trauma? Shock, sofferenza, reazione a uno stimolo intemo o esterno insopportabile in modo autoplastico (modificando il proprio Sé e il proprio corpo) o alloplastico, modificando lo stimolo o il mondo esterno [Ferenczi 1932; trad. it. 1974],

E ancora: Se la quantità e la natura della sofferenza superano le capacità intellettive della persona, allora ci si arrende, si smette di sopportare, ci si scinde.

In questi passi ci sono alcune idee fondamentali: 1. l'idea di scissione dell'Io che diventa la difesa attraverso la quale la psiche si adatta e sopravvive. Insieme all'attività distruttiva di questa difesa vi è quindi uno spiraglio costruttivo nel momento in cui con il contributo della personalità del soggetto e del suo ambiente le parti psichiche si ricompongono in un modo nuovo dando luogo a un nuovo assetto dei contenuti della mente di quel soggetto. 2. Quanto sopra ci dice che Ferenczi nell'affrontare il trauma sposta l'attenzione dal contenuto del trauma alla mente che lo subisce/accoglie (contenitore) e ritiene che è 156

solo guardando questa e la sua «forza» 6 che si comprende la patogenesi del trauma. Tanto più solida è questa base, tanto maggiormente il contenitore «mente» potrà far fronte alla sofferenza e al trauma, rimodellandosi e adattandosi. Se torniamo al punto da cui siamo partiti e cioè la domanda se il trauma fosse patogeno in sé o lo fosse in relazione a una struttura di personalità sottostante già potenzialmente patologica, Ferenczi sembra avviarci verso una prospettiva relazionale del trauma, come risultato dell'interazione tra fattori di rischio e fattori di protezione dove questi sono costituiti essenzialmente dalla «forza» della mente che a sua volta affonda le radici nelle prime relazioni infantili significative. 6. Comprendere

i traumi di guerra

Gli effetti del trauma di guerra, soprattutto nella popolazione civile, sono stati indagati in profondità solo recentemente. Durante una guerra assumono la priorità bisogni fondamentali quali la sopravvivenza, l'assistenza medica, il cibo e la sicurezza. In questo contesto la ricerca diventa difficoltosa e i pochi studi sulla popolazione civile sono limitati a specifiche situazioni ad alto rischio. Dall'operato di équipe impegnate durante la guerra dei Balcani sono emerse alcune importanti osservazioni: 1. nelle zone colpite dalla guerra una alta percentuale della popolazione potrebbe per parecchi anni soffrire di «trauma collettivo». I sopravissuti probabilmente soffriranno di una significativa riduzione della qualità di vita a causa dei problemi psicologici. Le conseguenze più diffuse riguardano l'incremento dell'abuso di alcol e droghe come automedicazione, l'aumento di suicidi e di omicidi, l'aumento della frequenza di violenza e delle manifestazioni psicotiche indotte da trauma. In generale è possibile che, in circostanze avverse, i problemi transitori si cristallizzino in disturbo. 2. Non è possibile risolvere i problemi dell'emergenza psichica in situazioni belliche facendo riferimento alle tradizionali procedure di trattamento terapeutico che pre157

vedono un cammino verso l'autosviluppo e la capacità di autocostruirsi. Da uno studio condotto nello Sri Lanka [Somasundaram 1996] è risultato che la maggior parte degli eventi a rischio è stata sperimentata durante il periodo di maggior combattimento. Le esperienze traumatiche dirette includono: rischio di vita (38%), detenzione (10%), assalti (10%), ferimenti fisici (10%), torture (1%). Il 59% ha sperimentato la morte di un parente a causa della guerra, il 38% il suo ferimento. Il 26% ha assistito a una violenza. Per quanto riguarda gli eventi traumatici indiretti dovuti alla guerra, il 69% ha subito lo sfollamento dalle proprie abitazioni soprattutto durante le operazioni di guerra, il 55% ha sofferto la deprivazione di cibo e 76,5% ha dovuto affrontare problemi economici. Sempre questo studio riporta tra i sintomi somatici più comuni le cefalee (40%) e le palpitazioni (34%). Solo il 5% della popolazione non risulta avere riportato alcun disturbo. La distribuzione non mostra una variazione con l'età ma si ha una predominanza nel sesso femminile. Una analisi dal punto di vista socioeconomico mostra un più elevato tasso di incidenza di disturbi quali l'ansia e la depressione nelle classi sociali inferiori, particolarmente nel gruppo più giovane. Nelle classi economiche agiate circa il 50% dei soggetti non presenta disturbi. Le problematiche di cui ci stiamo occupando non sono «riservate» solo a coloro che sono esposti a traumi di guerra, ma interessano anche soggetti esposti a violenza crescente, omicidi, atti di terrorismo, disastri naturali (terremoti, incendi, uragani). Proprio rispetto a questi ultimi esiste una differenza fondamentale: l'intenzionalità con la quale i traumi di guerra sono stati perpetrati [Sironi 2000], Per quanto sia intuitivo che essere vittime di un disastro naturale è essenzialmente diverso dall'essere vittime di una guerra, i due traumi sono stati classificati, dal punto di vista nosografico, nello stesso modo e, quindi, trattati come tali in terapia. Sironi [ibidem], partendo dal suo lavoro clinico a Parigi condotto su rifugiati politici, propone il concetto di trauma intenzionale, che lei estende anche alla situazione delle torture, per teorizzare il quid che ren158

Tab. 5.1. Disturbi psicosomatici e sociali nella popolazione dello Sri Lanka nella fase postbellica Disturbo PTSD

Somatizzazione Ansia Depressione Aggressività Problemi relazionali Abuso di alcol e sostanze Disabilità funzionale Reazioni acute da stress Nessun disturbo

Uomini (%) 28,6 28,6 22,9 22,9 20 11,4 28,6 22,9

8,6

42,9

Donne 27 47,6 28,6 27 19 14,3 7,9 15,9 3,2 30,2

(%)

Totale (%) 27,5 40,8 26,5 25,5 19,4 13,3 15.3 18.4 5,1 34,2

de il trauma di guerra devastante in quanto tale, indipendentemente dalla personalità del soggetto. Secondo l'autrice per capire è necessario tenere in considerazione il fatto che nelle situazioni di guerra sono messi in atto processi di modificazione e a volte distruzione deliberata della identità altrui, processi volutamente indotti e pianificati dall'uomo. Al centro del processo psicopatologico vi è quindi l'intenzionalità di chi colpisce, di chi uccide, devasta, tortura. Il «disordine» nella psiche e nel corpo del soggetto non sono secondo lei attribuibili alla natura del soggetto stesso, ma sono la conseguenza di atti deliberati con i quali si vuole annullarne la umanità. Questa azione condurrebbe a un effetto palese, i sintomi, che non devono quindi essere interpretati come un mero conflitto individuale e intrapsichico, ma visti nella loro dimensione «relazionale», se possiamo usare questo termine. Quando si ha a che fare con una intenzionalità di questo tipo non si può trattare con il solo soggetto, ma è necessario considerare gli effetti dell'influenza «dell'altro» e individuare la «teoria del nemico». Per questo motivo dal punto di vista terapeutico possono essere efficaci i gruppi di auto-aiuto in cui ognuno, aggiungendo pezzi di esperienza di guerra, aiuta a far emergere l'intenzione ultima del nemico: la deumanizzazione delle persone, primo gradino verso l'annientamento fisico. 159

7. La guerra vista dal basso È stato stimato che nei conflitti armati degli ultimi 10 anni circa 12 milioni di bambini siano rimasti senza casa e più di 1 milione di essi sia rimasto orfano [Southall 1998], In uno studio condotto su bambini libanesi [Maksoud 1996] gli eventi traumatici della guerra, cioè l'essere stati vittime o testimoni di atti violenti, esposti ai combattimenti e separati dai propri cari, sono correlati, in modo diversificato, al DPTS, ad altri sintomi di disagio psicologico e a fenomeni di disadattamento sociale. Le esperienze traumatiche cui un bambino può andare incontro in questa «situazione limite» sono numerose: 1. perdita di familiari e persone affettivamente importanti; 2. perdita dell'integrità fisica. In molti casi i bambini rimangono feriti dall'artiglieria, dalle bombe, dalle mine; 3. perdita della protezione e del supporto parentale. Questa circostanza è particolarmente problematica per i bimbi piccoli che, come sostiene Garbarino [1996] riescono a fare fronte allo stress della guerra se hanno sviluppato un attaccamento positivo ai loro familiari e se i familiari continuano a far percepire un senso di stabilità e protezione ai loro piccoli; 4. perdita della casa. L'essere rifugiati o sfollati in un campo profughi non è una circostanza da sottovalutare. La casa non solo fornisce rifugio, sicurezza, significato, ma contribuisce anche a costruire il senso di identità e appartenenza. Per la maggior parte delle persone la casa è sacra e la violazione della stessa è vissuta come invasione, intrusione profonda nella propria intimità. Questo è ancor più vero per i bambini. La casa gioca un ruolo importante nella formazione dell'identità e nello sviluppo affettivo. Non solo questi bambini sono scappati dalle loro case con pochi oggetti personali (alcune fotografie sparse, il diario, raramente i vestiti), ma spesso, al termine della guerra non hanno trovato una casa in cui tornare; 5. vivere con «distressed adults». Gli stessi genitori o membri appartenenti ai nuclei familiari dei bambini sono esposti a fattori di «stress» e di cambiamento. Spesso pre160

sentano ansia, depressione, rabbia, somatizzazioni, spesso abusano di alcol; 6. separazioni familiari. La separazione non solo è fonte di profondo dolore per i bambini ma cambia la struttura di gestione familiare. Le donne, ad esempio, spesso sono troppo provate dalla situazione per potere soddisfare i bisogni emotivi dei membri della famiglia. In alcune famiglie si assiste addirittura al capovolgimento dei ruoli: i ragazzi di 12-14 anni si assumono la responsabilità della famiglia intera, prendendo il posto del padre che spesso è impegnato al fronte; 7. perdita delle opportunità di scolarizzazione. In periodo di guerra le infrastrutture non funzionano e la ripresa al termine di questa è molto lenta. Al contrario di ciò che si può pensare non è solo un problema politico-organizzativo: spesso ci si scontra con le paure dei genitori, restii a mandare i figli a una scuola frequentata da alunni di etnia diversa. Non è odio razziale ma paura. Oppure sono gli stessi adolescenti a rifiutare la scuola avendo perso la speranza nel futuro e essendo demotivati dalle condizioni globali. Quasi tutti i bambini in queste condizioni mostrano sintomi di disagio quali l'apatia, l'aggressività e la presenza costante di incubi durante il sonno. Nei loro sogni la paura più grande è collegata alle granate, al suono terrorizzante degli ordigni che esplodono e alle schegge che si conficcano nella carne. Da un analogo studio condotto su un campione di bambini kuwaitiani [Papageorgiou et al. 2000] è emerso che circa il 70% ha riportato da moderate a severe reazioni postraumatiche. Tra i bambini bosniaci rifugiati negli Stati Uniti il 25% soffriva di DPTS e il 17% di depressione. In un campione, ancor più significativo e a rischio perché rimasto in Bosnia, il 94% dei soggetti rispondeva a tutti i criteri del DPTS [Goldstein, Wampler e Wise 1997]. Bambini coinvolti nella realtà sono costretti ad affrontare contemporaneamente i compiti della crescita e le numerose perdite e lutti dovuti alla situazione [Ajdukovic 1993]. Come se non bastasse i bambini sono coscienti di ciò che avviene attorno a loro, ma non dispongono di un vocabolario che consenta loro di esprimere questa espe161

rienza e di un apparato cognitivo che li aiuti a dare significato a quanto vivono. Esperienze traumatiche e stressanti durante questa fase di vita possono avere conseguenze a lungo termine. I sintomi più caratteristici [Di Biasio 2000] di quasi tutti i traumi infantili, indipendentemente dall'età del bambino e dal tipo di trauma subito, consistono in memorie intrusive e paure legate all'evento, cambiamenti di atteggiamento nei confronti delle persone, di alcuni aspetti della vita e del futuro, comportamenti ricorrenti attraverso i quali viene rivissuta la situazione. Possono presentarsi anche sogni ripetitivi, in bambini con età superiore ai 5 anni. Le osservazioni di alcuni autori [Horowitz 1986] ci dicono che, anche una volta cessata la situazione di emergenza bellica, l'ansia collegata al ricordo del trauma viene esperita in egual modo in situazioni «lontane» rispetto al trauma stesso e i sintomi non perdono la loro importanza. NOTE AL CAPITOLO QUINTO 1 Personalità premorbosa: insieme di tratti psicologici potenzialmente patologici di un soggetto che, per svariati motivi, non hanno avuto modo di esprimersi nella sua personalità e nel suo comportamento. E possibile che l'evento traumatico rompa l'equilibrio e porti all'emergere di questi tratti. 2 Secondo una recente teoria psicologica la concomitanza tra accadimenti forti e momenti significativi e topici della vita di ciascuno produrrebbe una maggiore vulnerabilità del soggetto e quindi una maggiore probabilità di sviluppare disagi. 3 Lo stato di attivazione neurovegetativa del soggetto. 4 Secondo la teorizzazione di Fonagy e Target [2001] è la capacità di sentire e comprendere gli stati d'animo propri e altrui e di avere su di essi una metacognizione. 5 Coping. termine con il quale ci si riferisce alle modalità con le quali ciascun individuo fa fronte e gestisce le situazioni, gli eventi e le emozioni. 6 Forza dell'Io: in termini psicodinamici si definisce la capacità dell'Io di far fronte e di adattarsi all'ambiente in modo produttivo ed equilibrato.

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CAPITOLO SESTO

CONFLITTI

La nozione di conflitto psichico assume rilievo psicopatologico grazie al lavoro di Sigmund Freud, che, sviluppando la sua teoria metapsicologica, sostiene che la vita psichica è in se stessa conflittuale; per molto tempo, il conflitto pulsionale inconscio è stato pertanto considerato «la scoperta centrale della psicoanalisi» [Abend 1981], anche se le continue revisioni del modello iniziale [Semi 1988] hanno condotto a una concezione della salute e della malattia ben diversa da quella tracciata dalla «psicoanalisi delle origini» [Balestriere 2003]. Così, se all'interno del milieu psicoanalitico si continua a parlare di «conflitto tra desiderio e difesa, conflitto tra i diversi sistemi o istanze, conflitto tra le pulsioni, infine conflitto edipico» [Laplanche e Pontalis 1967; trad. it. 1981, 92], l'impiego di tale nozione sembra aver perso la propria specificità euristica, a cui hanno in parte sopperito alcune concezioni moderne e postmoderne, non ultima, la prospettiva relazionale. Sembra dunque che al conflitto, come rappresentante della vita psichica, sia accaduto qualcosa di simile a quanto avvenne per le dive del muto che, dopo un periodo di vasta popolarità, si ridussero a pallide icone del passato, soppiantate da nuove attrici, forse meno espressive, ma certo più «loquaci». Ciò nonostante, proprio quelle condizioni cliniche che appaiono oggi di più difficile comprensione - quali i casi limite o le «nuove dipendenze» - sono le stesse che evocano e provocano, in particolare nella relazione terapeutica, una massiccia conflittualità che, nei casi più felici, conduce all'auspicato riconoscimento dell'inconscio [Green 2002], Questo capitolo

è di Davide

Cavagna.

163

mentre, più di frequente, depone per una silenziosa e fatale assenza di vita psichica, connessa a costellazioni psichiche mortifere [Grotstein 1990-91]. Nelle prossime pagine, partendo dall'originaria concezione freudiana, cercheremo pertanto di interrogarci sul conflitto psichico per comprendere l'ambito di applicazione e i limiti di tale concetto. A tale scopo, proveremo a descrivere i principali modelli teorici di conflitto, per sviluppare quindi alcune considerazioni dinamiche e strutturali sul ruolo del conflitto nella salute e nella malattia. 1. Il conflitto

intrapsichico

Per comprendere il ruolo del conflitto in psicopatologia occorre prestare attenzione alle sue varie formulazioni a partire dall'iniziale definizione freudiana. In senso generale, il conflitto va collocato all'interno del rapporto dell'individuo con la natura e la cultura, come indice del rapporto tra le richieste interne (corporee) e quelle esterne (ambientali). Come ricorda Friedman [1977], il conflitto psichico, tuttavia, «non può essere trattato come equivalente a un conflitto con l'ambiente», ma riguarda semmai la dinamica intra- e interpsichica, in cui assume rilievo la dialettica «tra l'aspetto dell'uomo per cui egli è un solo essere con tutti gli altri esseri e l'altro aspetto, per cui egli è separato e indipendente dagli altri» [Matte Bianco 1975; trad. it. 2000, 353]. A fianco dell'opzione freudiana, che esamineremo qui in dettaglio, vanno comunque tenute in considerazione almeno altre due concezioni psicodinamiche alternative. La prima è quella di Cari Gustav Jung, che riconduce la conflittualità alla natura dissociativa della mente; secondo il padre della psicologia analitica, nella psiche opera una continua «scomposizione delle coppie di contrari» [Jung 1928; trad. it. 1976, 42], che si estende al di là di «una pura e semplice collisione tra pulsionalità e morale», in favore di «una lotta per il diritto all'esistenza di una pulsione o per il riconoscimento di una forza che in questa pulsione si manifesta» [ibidem, 66] '. La seconda alternativa, di stampo socioculturale, si ispira invece al lavoro di Alfred Adler e si ritrova nelle tesi 164

di quegli autori che vedono nel contrasto tra individuo e società la causa della nevrosi: è il caso di Karen Horney [1945], che, forse più di altri, ha tradotto il conflitto in una serie di atteggiamenti antropologici incompatibili (andare verso la gente, andare contro la gente, allontanarsi...) da cui prende forma la sofferenza psicologica propria dell'uomo moderno. Venendo alla concezione freudiana, il conflitto intrapsichico si trova compiutamente descritto né!'Introduzione alla psicoanalisi, in cui il «contrasto tra diversi impulsi di desiderio» fa sì che «una parte della personalità si fa interprete di certi desideri, un'altra vi si oppone e li respinge» [Freud 1915-17; trad. it. 1976, 505]. Notiamo che Freud propone qui una duplice definizione di conflitto: a livello latente esso consiste nell'opposizione tra impulsi differenti, mentre a livello manifesto si mostra nell'opposizione tra i vari aspetti della personalità. Freud ipotizza così che il conflitto psichico sia la condizione necessaria della nevrosi, ma non sia sufficiente a generare la stessa; non basta infatti l'assenza dell'oggetto di soddisfacimento per portare alla malattia: il conflitto diviene patogeno quando «la libido, privata del suo soddisfacimento», trova forme alternative di scarica che suscitano «l'opposizione di una parte della personalità», in altri termini, quando alla frustrazione esterna si aggiunge la frustrazione interna [ibidem, 506], Il sintomo nevrotico viene così inteso da Freud come effetto di un conflitto psicologico tra diversi aspetti della personalità - non soltanto come esito di un contrasto metapsicologico tra pulsioni -, in quanto nell'Io vi è «qualcosa» che si oppone e a cui ripugna il soddisfacimento sostitutivo prescelto, ovverosia ciò che più tardi verrà chiamato Super-io. Per meglio comprendere la natura del conflitto, Freud propone inoltre di distinguere due classi pulsionali, le pulsioni dell'Io (o di autoconservazione) e quelle sessuali, facendo cenno anche al conflitto tra l'Io e le fantasie libidiche rimosse. In sintesi, per la metapsicologia, lo stato di salute o malattia non dipende tanto dalla disposizione pulsionale dell'individuo, quanto piuttosto dall'attitudine dell'Io verso la sessualità, in rapporto a stili comportamentali e atteggiamenti morali contrastanti e connessi a derivati pulsionali che sono stati preliminarmente rimossi. 165

Con la svolta degli anni venti, Freud perfeziona la sua concezione del conflitto psichico grazie all'introduzione di nuove ipotesi metapsicologiche. Come d'abitudine, egli non riprende in modo sistematico la teoria precedente, privilegiando un'analisi più completa del complesso edipico [Freud 1922] ed evidenziando il ruolo motivazionale dell'angoscia-segnale nell'economia psichica [1925]. Egli ribadisce comunque che il conflitto è sempre di natura pulsionale, per via dell'opposizione tra Eros e la pulsione di morte [1921; 1937], ma diviene patologico quando si realizza tra le istanze psichiche [1923; 1924]2: si può così parlare di nevrosi di transfert (conflitto Io/Es), di psicosi (conflitto Io/realtà esterna) e di nevrosi narcisistiche (conflitto Io/Super-io). 2. Tipologie di

conflitto

È la psicologia dell'Io a elaborare in dettaglio le ipotesi metapsicologiche sul conflitto psichico, assumendo che esso «ha luogo tra impulsi, cioè, tra l'Es e l'Io» [Fenichel 1945]. In particolare, Heinz Hartmann indaga il conflitto psichico a partire dall'idea di un «confronto dell'Io da un lato con il mondo circostante, dall'altro con gli stati profondi della psiche» [Hartmann 1927; trad. it. 1981, 225]. La sua concezione, che privilegia i «rapporti quantitativi in seno all'economia libidica» [ibidem, 227], benché abbia perso progressivamente credito per la riluttanza da parte degli psicoanalisti nell'impiegare nozioni di natura energetica, non è mai del tutto tramontata, come mostra un autore quale Sandler [1974] parlando di aspetti perentori (Es) e dilazionabili (Io) della psiche. Partendo dalla distinzione strutturale tra l'Es come «parte biologica» e l'Io come «parte non biologica» del processo di adattamento, Hartmann [1939; trad. it. 1978, 13] afferma che «sebbene l'Io si formi senz'altro attraverso i conflitti, essi non sono l'unica fonte del suo sviluppo». Ne deriva la necessità di una teoria genetica della cosiddetta sfera dell'Io libera da conflitti, con la distinzione tra strutture conflittuali ( c o n f l i c t - f u l l ) e non-conflittuali (conflict-free) della mente. 166

Il conflitto, per gli autori di scuola hartmanniana, rimanda quindi ali 'economia psichica intema, come nota Rapaport [1960; trad. it. 1977, 90] rilevando che «se tutto fosse reale [esterno], non vi sarebbe alcun conflitto». Esso si colloca quindi in una struttura psichica, ossia l'Io, in quanto «la funzione di essere in conflitto [è] cosi vicina alla funzione del sentire il conflitto che è eminentemente logico che entrambe risiedano nella stessa istanza» [Rangell 1963b, 125]. La qualità conflittuale dell'Io viene spiegata poi con il fatto che in questa istanza sussiste sempre un'area problematica, la sessualità appunto3, che interferisce con la «normale amministrazione» psichica; di qui l'opposizione permanente dell'Io al mondo interno, a proposito della quale Anna Freud ha ipotizzato addirittura l'esistenza di uri inimicizia primaria tra l'Io e le pulsioni. Sempre ad Anna Freud si deve la distinzione tra conflitti esterni, conflitti interiorizzati e conflitti «veramente interni»-, nel primo caso (Io + Es/realtà), «bambino e ambiente [sono] in contrasto fra loro», nel secondo (Io/Super-io) il conflitto «s'instaura in seguito all'identificazione con le forze esterne e all'introiezione della loro autorità nel Super-io», mentre nel terzo (Es/lo) i contrasti «derivano esclusivamente dalle relazioni tra Es e Io e dalle differenze intrinseche nelle loro organizzazioni» [Freud 1965; trad. it. 1979, 857-858], Mentre le prime due tipologie di conflitto sono clinicamente osservabili nella relazione tra il paziente e le sue figure significative (conflitto interpersonale), ovvero tra i desideri e il bisogno di controllo o regolazione morale (conflitto intrapersonale), per quanto riguarda il conflitto interno o intrapsichico, esso non corrisponde quasi mai a specifiche condizioni cliniche, ma rimanda piuttosto alla nevrosi nucleare infantile su cui si costruisce lo psichismo umano; si tratta quindi di una condizione latente, che ha origine e si consolida nella prima infanzia e che rimane il riferimento metapsicologico obbligato nei processi intra- e intersoggettivi di sviluppo4. Trascurando il conflitto esterno, possiamo poi distinguere diverse modalità di conflitto, ad esempio tra desideri infantili e rappresentazioni interne dell'ambiente, tra pulsioni in senso lato, i conflitti interni all'Io e al Super-io, e i 167

conflitti tra pulsioni e inibizioni innate [Nemiah 1963]. In ogni caso, non è del tutto chiaro in che modo dalla conflittualità intra- e interpsichica si possa risalire al conflitto nucleare, perché il conflitto, per il suo polimorfismo, «è piuttosto facile da descrivere nelle sue modalità cliniche, ma è piuttosto difficile da inquadrare in una teoria metapsicologica» [Dorpat 1976, 869]. Comunque, benché si possano distinguere numerose forme di conflitto [Petrella 1989], esistono anche conflitti meno chiaramente definiti: solo nelle nevrosi propriamente dette troviamo infatti un conflitto sostenuto da una chiara differenziazione tra istanze psichiche [Arlow 1963], mentre nel caso della perversione il conflitto appare di più difficile descrizione [Coen 1985], e per le psicosi, a parte qualche importante eccezione, esso sembra secondario alle vicissitudini delle rappresentazioni del Sé e dell'oggetto. Esistono infine situazioni in cui il conflitto in senso stretto risulta evanescente, sorretto da identificazioni contraddittorie e di difficile articolazione: è a partire da questa osservazione che Gedo [1979; Gedo e Goldberg 1973] proporrà più tardi infine il suo modello epigenetico-gerarchico delle condizioni strutturali della mente. 3. La base

caratteriale

Oltre a Freud, e parallelamente all'elaborazione effettuata dal mainstream psicoanalitico, la nozione di conflitto è stata ripresa in modo originale da alcuni autori, quali Reich, la Klein e Brenner, che, pur mantenendosi fedeli all'idea di un conflitto psichico come causa di patologia, hanno sviluppato alcune varianti teoriche di particolare interesse5. Reich introduce nel 1925 l'ipotesi di un conflitto infantile di ambivalenza nella formazione del Super-io. In adesione all'originaria teoria psicosessuale freudiana, egli oppone la pulsionalità (Io-pulsione o Io-piacere) alla civiltà (Super-io o Io-realtà), riformulando il conflitto come lotta tra il desiderio incestuoso e l'identificazione genitale alle figure genitoriali (ideali). Ciò comporta una discontinuità nella psiche dall'infanzia all'età adulta, per cui, dal punto 168

di vista evolutivo, se all'inizio l'Io-realtà rifiuta pienamente la sessualità (complesso edipico), con la pubertà (e con lo sviluppo genitale che «ammorbidisce» i conflitti infantili) la pulsionalità entra a far parte dell'immagine ideale della persona. Dal punto di vista dinamico, quindi, il conflitto infantile si risolverebbe nel momento in cui all'ideale genitale si integra la maturità libidica, mentre ove permangano desideri incestuosi o si producano identificazioni inconsce errate (ad esempio, nell'omosessualità), subentrerebbe invece una condizione di malattia. Reich ritiene inoltre che Vambivalenza infantile sia una «necessità naturale dello sviluppo psichico», e che possa subire differenti destini: il bambino può accettare la frustrazione per amore se vi è un parziale soddisfacimento pulsionale e la frustrazione viene operata con una graduale rimozione; l'inibizione pulsionale può produrre odio se la frustrazione pulsionale compare fin dall'inizio in forma piena; può portare anche all'agito adolescenziale (delinquenza, prostituzione...) quando la frustrazione manca totalmente; infine, può produrre un carattere pulsionale (odio e amore intensi), quando la frustrazione, traumatica e tardiva, si contrappone a un soddisfacimento pulsionale largamente esente da inibizioni [Reich 1925; trad. it. 1975, 164-165], L'autore parla anche di un fattore predisponente al conflitto, ossia la «disponibilità sessuale anormalmente precoce» [ibidem, 168], per soffermarsi quindi sul carattere pulsionale, ritenuto peculiare dei casi limite, caratterizzati da rimozione del senso di colpa e dall'isolamento del Super-io. Si tratta di una situazione in cui «la genitalità di questi malati arriva al suo pieno sviluppo anormalmente presto», il che provocherebbe una situazione conflittuale in cui l'Io (immaturo) si trova «in una posizione di ambivalenza bilaterale tra Io-piacere e Super-io» [ibidem, 207, corsivo mio]. In queste situazioni, frutto di prematurazione sessuale, si ritrova l'assenza del senso di colpa conscio: «Il Super-io è rimosso "dinamicamente" e "senza successo", la rimozione sistematica è carente. [...] In questa doppia lotta (doppio controinvestimento) sta la vistosa lacerazione dell'individuo pulsionale» [ibidem, 204, corsivo mio]. Il carattere pulsionale - che interessa condizioni cliniche come gli stati borderline e i disturbi narcisistici del 169

comportamento - sembra dipendere, per l'autore, dalla portata dell'ambivalenza infantile: da un lato, vi può essere la trasformazione dell'ambivalenza manifesta in ambivalenza latente, per via dell'accentuazione reattiva dell'amore o dell'odio; dall'altro, si può verificare un superamento dell'ambivalenza nei confronti dell'oggetto e dell'ideale, esito, questo, più salutare. In sintesi, Reich descrive una linea evolutiva che va da un Io-piacere primitivo (nessuna limitazione), passando per un investimento oggettuale manifestamente ambivalente (carattere pulsionale) e una trasformazione reattiva dell'ambivalenza (identificazioni anali o genitali), fino a una strutturazione dell'Io-realtà abbastanza esente da ambivalenza [ibidem, 208-209]. Dopo aver spiegato il conflitto nei termini àéXambivalenza infantile, Reich dedica alcune pagine del suo scritto Genitalità [1927] alla contrapposizione tra Io-pulsione e Io-morale (tra Es e Super-io), parlando esplicitamente del ruolo del moto pulsionale nel conflitto psichico. Egli si rifa all'idea che «i sintomi nevrotici hanno origine da un conflitto tra richieste pulsionali primitive ed esigenze morali che vietano il soddisfacimento pulsionale» [ibidem, 45], intendendo quindi la malattia come espressione osservabile di un disturbo orgasmico e ipotizzando la dissociazione funzionale di sintomo (conflitto infantile passato) e carattere (base reattiva nevrotica attuale). Rilevando quindi che «il disturbo della funzione genitale ha di regola il ruolo dinamico più importante nel creare la base reattiva nevrotica su cui si fonda il conflitto nevrotico» [ibidem, 49], Reich definisce la sua tecnica di trattamento come «analisi psicologica del carattere», il che lo porterà a sostenere che il carattere (e non il sintomo) è il precipitato del conflitto edipico, in quanto «alterazione cronica dell'Io» [Reich 1933; trad. it. 1989, 186], La base reattiva patologica caratteriale-nevrotica, contrariamente a quanto ipotizzato da Freud, viene dunque a dipendere per Reich dalla sola frustrazione esterna, secondo il momento, la quantità e l'intensità delle frustrazioni, le pulsioni frustrate, il rapporto tra concessioni e frustrazioni, il sesso della persona frustrante ecc. Questo porta a rifiutare la natura intrapsichica del conflitto: «Alla base di tutte le reazioni non sta l'antitesi fra amore e odio, e nem170

meno quella fra Eros e pulsione di morte, ma l'antitesi fra Io {"Persona", Es = Io piacere) e mondo esterno» [ibidem, 349]. Il conflitto si verifica così quando a un moto pulsionale si contrappone l'ambiente; esso si traduce poi in un contrasto interiore per l'ambivalenza provocata dalla paura del genitore. Il conflitto ambivalente infantile e la base caratteriale nevrotica nascono così dalla repressione sessuale che, per l'autore, innesca una violenza reattiva nell'individuo senza che vi sia alcuna disposizione interna connessa al piacere dell'esercizio di tale violenza. Da qui Reich delinea varie forme di malattia (isteria, nevrosi coatta, masochismo e sadismo, suicidosi), con cui «l'individuo [...] distrugge se stesso non perché è spinto biologicamente a farlo, non perché lo "vuole", ma perché la realtà ha prodotto tensioni interne che diventano insopportabili e che possono essere risolte solo con l'autodistruzione» [ibidem, 357, corsivo mio]. Se ne conclude che «il male viene dalla società [...] la frustrazione proviene dal mondo esterno [...] l'energia sessuale inibita si trasforma in distruttività» [ibidem, 359], Così, pur rifacendosi all'originaria concezione freudiana, Reich svuota la nozione di conflitto della sua complessità strutturale, riducendo quest'ultimo a una forma di contrasto sedimentato nel tempo tra l'individuo e l'ambiente. Ne deriva che la patologia non dipende tanto dalle pulsioni, quanto piuttosto dalla base caratteriale entro cui si manifesta la repressione ambientale. 4. Il conflitto ambivalente

innato

La nozione di conflitto psichico viene impiegata anche da Melanie Klein all'interno della sua teoria delle relazioni oggettuali a partire da una rilettura dell'ipotesi freudiana del dualismo pulsionale. In Stadi precoci del conflitto edipico (ripreso successivamente in Ea psicoanalisi dei bambini), la Klein ipotizza che il sadismo orale abbia origine dalla «polarità fra istinti di vita e istinti di morte» sperimentata dal bambino durante la suzione orale [Klein 1932; trad. it. 1988, 160]. La tensione fisica dell'organismo, frutto dell'«impotenza psicologica di fronte al pericolo proveniente 171

dagli istinti» [ibidem, 163], provocherebbe uri aggressività autodiretta da cui promana l'angoscia. Il neonato reagirebbe poi con la proiezione di parte del sadismo all'esterno del corpo, con la scissione dell'Es (rimozione primaria) e la formazione del Super-io a partire dallo stesso Es; è questa, per l'autrice, l'origine del conflitto tra l'Es sadico e il Super-io precoce, che il bambino tenta di depositare nel corpo materno per proteggere l'oggetto buono interno. E la frustrazione esterna, subita nella fase orale, a dare il via, per la Klein, alla conflittualità sperimentata tra i sei mesi e i tre anni di vita; tuttavia, in questo periodo «le frustrazioni orali favoriscono l'insorgere degli impulsi edipici» [ibidem, 159], mentre le successive forme di sadismo (uretrale, anale, muscolare...) provocano uri intensificazione della forza pulsionale. Questo sviluppo genera così fantasie e impulsi distruttivi che, grazie alla scena primaria, vengono modulati in rapporto agli impulsi genitali (le tendenze incestuose legate alle fantasie masturbatorie) che si oppongono agli impulsi pregenitali (le fantasie sadiche). In sintesi, la qualità pulsionale del conflitto deriverebbe dall'opposizione tra i differenti impulsi sulla scena edipica: «Sono prevalentemente gli impulsi di odio quelli che danno vita al conflitto edipico e al Super-io e che regolano le fasi più precoci e decisive della loro formazione» [ibidem, 172], La Klein propone così l'idea di un conflitto ambivalente innato tra odio (pregenitale) e amore (genitale). La differenza tra nevrosi e psicosi viene intesa dalla Klein in termini quantitativi: se l'angoscia è troppo intensa per l'Io infantile, questi cercherà di distruggere l'oggetto anziché preservarlo, viceversa potrà tollerare l'angoscia e procedere alla riparazione. L'intensità dell'angoscia risulta perciò connessa a fattori costituzionali (e non strutturali), in primo luogo alla forza innata dell'Io. In tale situazione domina così la quantità pulsionale, che può essere gestita solo dai «rapporti libidici del bambino con i propri oggetti e [dal]l'influenza esercitata dalla realtà» [ibidem, 187], in particolare dalla capacità di trasformare l'angoscia in piacere grazie al gioco e all'azione degli istinti epistemofilici rivolti al corpo materno. La risoluzione dei conflitti pulsionali avviene infine grazie alle dinamiche di proiezione/ 172

introiezione che aiutano la formazione del Super-io e conducono a una relazione oggettuale totale. La Klein torna varie volte negli anni su questi temi, mantenendo sostanzialmente inalterate le sue ipotesi; in Tendenze criminali nei bambini normali [1927], evidenzia l'esistenza di un conflitto tra Es e Super-io, rilevando che la normalità rimanda alle differenze energetiche tra le istanze, mentre in Alcune conclusioni teoriche sulla vita emotiva del bambino nella prima infanzia ribadisce che i primi tre mesi di vita sono il «periodo di massimo sadismo» [Klein 1952; trad. it. 1978, 490] da cui deriva la conflittualità. In Sulla teoria dell'angoscia e del senso di colpa [1948], infine, l'autrice sintetizza la sua teoria del conflitto ambivalente innato tra Eros e distruttività. Le speculazioni kleiniane permettono di tracciare una linea evolutiva a partire dalla pulsione di morte freudiana fino al senso di colpa maturo, passando per il timore dell'aggressività che provoca nel bambino la paura della morte. Su questo punto, la Klein si differenzia dagli assunti freudiani, ritenendo che «nell'inconscio la paura dell'annientamento della vita esiste» [ibidem, 439, corsivo mio] e la stessa angoscia di castrazione vada ricondotta all'angoscia di morte intesa come paura di non potersi riprodurre. Permane nell'autrice, infine, l'idea che «perché si abbia un'interazione ottimale tra libido e aggressività occorre che l'angoscia originata dalla costante attività della pulsione di morte, sebbene non possa essere mai eliminata, sia contrastata e arginata dalla forza della pulsione di vita» [ibidem, 453]. In sintesi, in questo modello, il conflitto rimanda all'opposizione tra pulsione di vita/relazione oggettuale/seno interiorizzato-pene interiorizzato e pulsione di morte/scissione/Super-io precoce che si esprime nell'integrazione dell'Io, da una parte, e nella paura dell'annientamento del Sé, dall'altra. Come nota Laplanche [1974; trad. it. 1999, 164], nella teoria kleiniana, quindi, il conflitto va collegato «alla sopravvivenza dell'individuo piuttosto che al suo desiderio».

173

5. Conflitto e compromesso

psichico

Consapevole delle complesse relazioni tra aspetti consci e inconsci della mente, Charles Brenner si è interrogato a lungo sulla natura del conflitto, e, fedele a una strategia analitica del sospetto, ha ipotizzato che ogni comunicazione del paziente vada intesa come il risultato di un compromesso adattativo tra funzioni mentali in contrasto tra di loro. Così, «il fatto che il paziente lamenti un senso di vuoto, che dica di fondersi con un'altra persona, o di dissolversi nel nulla, non dev'essere preso come attendibile resoconto della sua psicopatologia. [...] Quello che il paziente dice e lamenta è un sintomo. E una formazione di compromesso» [Brenner 1982; trad. it. 1985, 75-76], Riesaminando le due topiche freudiane, Brenner rileva che, se originariamente il conflitto «soltanto se inconscio può essere patogeno» [Arlow e Brenner 1964; trad. it. 1978, 23], in seguito può essere percepito a livello cosciente, e ciò nonostante risultare ugualmente patogeno. Questo perché, mentre «secondo la teoria topica, l'aspetto pulsionale del conflitto è inaccessibile alla coscienza, al contrario dell'aspetto antipulsionale», nella teoria strutturale «la relazione tra conflitto e accessibilità alla coscienza è più complessa e più variabile [...]. Ciò che è pulsionale talvolta arriva alla coscienza, mentre ciò che è antipulsionale molto spesso non la raggiunge senza il lavoro analitico» [ibidem, 50-51]. Brenner intende dunque il conflitto a partire dall'idea che ogni prodotto mentale sia una formazione di compromesso tra diverse funzioni dell'Io. Egli modifica il modello strutturale freudiano, proponendo una visione del conflitto che oltrepassa le distinzioni nosografiche tradizionali; la sua concezione, espressa in quasi mezzo secolo di contributi, si contraddistingue innanzitutto per l'impronta utilitaristica, secondo cui «i conflitti psichici danno luogo a formazioni di compromesso non solo patologiche, ma anche normali. È utile quindi mantenere un'impostazione olistica, che tenga conto delle une e delle altre, cercando di chiarire per quanto possibile i rapporti che le collegano tra loro» [Brenner 1976; trad. it. 1978, 168-169]. 174

Brenner osserva che non sempre pulsione e difesa sono chiaramente differenziabili come accade nelle nevrosi: ad esempio, nel caso di una perversione o di un disturbo del carattere, a essere impiegata come difesa da una pulsione è spesso... un'altra pulsione. Questo porta all'idea di un compromesso ubiquitario (normale o patologico) tra le diverse funzioni psichiche, con il rifiuto dell'ipotesi metapsicologica freudiana [Brenner 1982] in favore di una concezione in cui strutture psichiche muovono contro altre strutture psichiche. Secondo questa ipotesi, «la mente è composta da strutture funzionalmente definibili e separabili (= sistemi, agenzie) che possono, per la loro natura, essere opposte l'una all'altra» [Brenner 2002, 399]; la psicopatologia deriva quindi dall'uso inappropriato di tali agenzie psichiche nelle formazioni di compromesso. Brenner avanza anche una concezione edonistica di malattia: patologica è una situazione in cui una formazione di compromesso consente troppo poca gratificazione piacevole, implica troppo dispiacere nella forma di un affetto ansioso o depressivo, con troppa inibizione della funzione psichica o tendenze autodistruttive e/o autolesive [Brenner 1982]. La salute non consiste, pertanto, nell'assenza di conflitti, quanto nella possibilità di realizzare compromessi sempre più adattivi tra richieste interne ed esterne; tale concezione ha una netta ricaduta sulla cura, che viene a consistere nel «massimo della modificazione favorevole dei conflitti psichici» [Brenner 1976; trad. it. 1978, 167]. Nell'ambito della sua teoria del conflitto, Brenner esplicita anche alcune ulteriori ipotesi psicodinamiche. Da un lato, egli classifica le componenti del conflitto in: desideri (derivati pulsionali), dispiacere (ansia o depressione), difese, paura (della punizione). Il conflitto può essere cosi compreso «se si assume che una parte della mente funzioni in modo infantile, mentre un'altra parte funzioni in modo più maturo» [Brenner 1982; trad. it. 1985, 400], Dall'altro, distingue varie calamità infantili, corrispondenti alle fasi di sviluppo psicosessuale: la perdita dell'oggetto (fase orale), la perdita dell'amore (fase anale), la castrazione (fase fallica), a cui aggiunge l'autopunizione (complesso edipico), in quanto nella prima infanzia, nonostante l'immaturità della 175

mente, i conflitti sessuali e aggressivi risultano per l'autore più rilevanti di quelli preedipici6. Infine, poiché il dispiacere è «il responsabile della difesa e del conflitto» [ibidem, 11], Brenner differenzia la risposta affettiva dell'angoscia (relativa all'anticipazione di una calamità imminente) e della depressione (in relazione all'idea di una calamità avvenuta), ipotizzando anche una mescolanza tra le due. Egli segnala tuttavia che tale distinzione è legata a differenze di genere, in quanto «l'angoscia di castrazione prevale generalmente nei conflitti edipici maschili, mentre nella femmina domina di solito il sentimento depressivo» [ibidem, 116]. La formazione di compromesso costituisce così per Brenner il materiale psicodinamico proprio dell'analisi, che interviene «sui conflitti psichici del paziente in modo da eliminare o attenuare i loro effetti negativi» [Brenner 1976; trad. it. 1978, 143], Con difesa, pertanto, non si deve più intendere un aspetto antipulsionale, ma solo il modo in cui una funzione psichica è impiegata nel contrastare il dispiacere infantile. Viene meno, dunque, la complessità strutturale del modello freudiano a vantaggio di una visione di stampo utilitaristico, in cui salute e malattia dipendono dall'efficacia del compromesso, ossia dalla sola dimensione psicodinamica della mente. 6. Alcune considerazioni

attuali

Se è vero che il conflitto è stato considerato «un fattore fondamentale anche per l'insorgenza di alcune psicosi particolari come la paranoia, la confusione allucinatoria e le psicosi isteriche» [Oneroso 1993] e che alcuni teorici postfreudiani hanno mantenuto l'idea di un conflitto fondamentale [Bion 1955], con il passare del tempo nello studio del conflitto si è assistito a un progressivo slittamento «dall'intrapsichico all'interpsichico, dallo specifico psicoanalitico al generico psicoterapeutico (interpersonale)» [Nemiah 1963, 627], che ha provocato un allontanamento dalla nozione metapsicologica originaria e, di contro, il timore di «un ritorno all'accentuazione relativamente statica ed esclusivamente strutturale della psichiatria europea pre176

psicoanalitica, e un abbandono delle intuizioni derivate dalla accentuazione psicoanalitica del conflitto intrapsichico» [Eagle 1984; trad. it. 1988, 145]. Nei più recenti tentativi di lettura relazionale del conflitto - quali l'ipotesi dissociativa di Bromberg e quella «paradossale» di Pizer -, permane tuttavia l'idea che se «la dissociazione può aiutare il paziente a impedirsi di sperimentare il conflitto conscio», essa non va considerata separata da, ma ritenuta piuttosto «una parte integrante di una più ampia organizzazione conflittuale inconscia, ossia una difesa da un affetto intollerabile» [Smith 2003, 86]. Ne deriva che rinunciare alla nozione di conflitto può in realtà ridurre, anziché aumentare, la possibilità di comprendere lo sviluppo e l'organizzazione della personalità del paziente e, a tale proposito, va notato che «lo studio delle associazioni del paziente può rivelare che quello che sembrava essere un conflitto relazionale è una manifestazione di un conflitto strutturale rimosso (o viceversa)» [Dorpat 1976, 873]. Di una certa attualità è ancora la distinzione, introdotta dalla psicologia dell'Io, tra conflitti intersistemici (tra l'Io e le altre istanze psichiche) e intrasistemici (nell'Io o nel Super-io). Difatti, se è usuale considerare i primi come condizioni opposizionali altamente strutturate e angoscianti [Rangell 1963b], riconducibili alla dinamica rimovente/rimosso, è nei secondi che l'individuo si ritrova «diviso in se stesso tra elementi che rappresentano l'Es e altri che rappresentano il Super-io (o la realtà esterna)» [ibidem, 112]. Per comprendere meglio tale condizione, può essere utile la distinzione, proposta dallo stesso Rangell, tra approccio macroscopico e microscopico al conflitto, circa un doppio registro conflittuale relativo al rapporto «internoesterno» (Es/realtà) per il soddisfacimento delle richieste pulsionali (conflitto di difesa), e al rapporto «polo ideale/ polo morale» della personalità (ideale dell'Io/Super-io) per la relazione oggettuale (conflitto di ambivalenza). La lettura micro- e macroscopica permette così di comprendere i conflitti intrasistemici a partire dal contrasto interno tra gli interessi dell'Io e tra i valori del Super-io. A livello fenomenologico, sembra altresì utile la distinzione tra conflitto-decisione e conflitto-dilemma [ibidem], 36

che riecheggia quella più tradizionale tra conflitti convergenti (o di difesa) e conflitti divergenti (o di ambivalenza). Queste due forme conflittuali riguardano differenti assetti difensivi dell'Io (fondati sulla scissione ovvero sulla rimozione), in cui la conflittualità dell'Io rimanda a contraddizioni interne del Super-io tra elementi psichici intollerabili, ovvero all'opposizione tra Super-io e ideale dell'Io7. Così, per comprendere in che modo le «tensioni intrasistemiche creano effetti intersistemici che a loro volta influenzano nuove condizioni intrasistemiche» [1963b, 131], si giunge a pensare che il Super-io abbia «qualche funzione di scelta e organizzazione ma meno centralmente e in modo dominante rispetto all'Io» [ibidem, 136] nella costruzione del conflitto intrapsichico. Un'ultima considerazione riguarda infine la natura affettiva del conflitto psichico: alla forma intersistemica sembra infatti corrispondere il più specifico senso di colpa, mentre i conflitti intrasistemici rimandano piuttosto all'ambito della ferita narcisistica, ossia a un «difetto di strutturazione del Super-io con persistenza di vergogna e attacchi al Sé» [Gori et al. 2000, 246], Si tratta di condizioni cliniche che intaccano la coesione del Sé, in cui la dialettica tra dimensione intra- e interpsichica consente di leggere gli antagonismi interni come esito di un'organizzazione incoerente del Sé prodottasi nel corso dello sviluppo. Ne deriva che, coniugando i due versanti, inter- e intrasistemico, del conflitto, la mente non può essere indagata solo tramite l'introspezione (vicariante8), ma richiede anche un'integrazione funzionale per mezzo dello sviluppo di un'area intermedia del pensiero, atta a fornire una più completa conoscenza affettiva della vita inconscia grazie a funzioni psichiche più evolute [Green 1995]. NOTE AL CAPITOLO SESTO 1 Si tratta della cosiddetta enantiodromia (letteralmente «corsa nell'opposto»), che indica, per la psicologia analitica, uno dei momenti del processo di distinzione psichica tra l'Io e il non-Io. Per Jung, a una prima fase di scomposizione dell'unità psichica originaria (inconscia) in coppie di opposti, segue una fase di stagnazione della libido, in cui ha luogo il conflitto psichico; la tensione generata da tale opposizione psi-

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chica volge quindi alla liberazione degli opposti fino al loro convergere in una nuova unità creativa [Pieri 1998, 495-503]. 2 Per Freud «quando un conflitto pulsionale non è attuale, quando esso non si esprime, non c'è analisi che possa influenzarlo» [1937; trad. it. 1979, p. 513]; in altre parole, «solo un conflitto che sia causa di sofferenza può originare bastante energia da rendere efficace una cura perché quando questa sofferenza non esiste il terapeuta non può fare niente» [Grotjahn, in Weiss 1970; trad. it. 1971, 17]. 3 Invero, come recita il Compendio di psicoanalisi, «il punto debole dell'Io risiede nel suo rapporto con la funzione sessuale» [Freud 1938; trad. it. 1979, 613]. 4 Fenichel [1945] ricorda tuttavia che in età adulta esistono alcuni sintomi clinici diretti del conflitto intrapsichico, come le inibizioni delle attività mentali (ad esempio, la mancanza di curiosità sessuale), degli istinti parziali (ad esempio, l'anoressia) e dell'aggressività, nonché i disturbi di pertinenza della sfera sessuologica. 5 Benché meno nota, anche la concezione di Jean Laplanche [1987] di un conflitto intrapsichico tra pulsioni sessuali di vita e pulsioni sessuali di morte costituisce una ulteriore variante al modello freudiano degna di interesse. 6 Arlow [1963] ritiene invece che i fattori pregenitali siano di primaria importanza nella comprensione del conflitto psichico, e che pertanto occorra studiare anche le condizioni pre edipiche che influenzano e distorcono la natura dell'Es con proiezioni e introiezioni che esitano nelle successive identificazioni stabili dell'adulto. 7 Si potrebbe dire che, mentre nel conflitto-decisione sono attivi conflitti locali tra singoli desideri o derivati pulsionali di natura perentoria, nel conflitto-dilemma sono in gioco conflitti globali, ad esempio tra attività e passività, tra amore e distruzione, o tra ideali psichici divergenti [Jones, cit. in Sandler 1974]. 8 Ci riferiamo alla concezione di Kohut dell'empatia come strumento di ricerca scientifica; se l'empatia, come «introspezione vicariante», ha permesso di individuare i «conflitti interpersonali arcaici» di stampo narcisistico [Kohut 1959; trad. it. 2003, 65), sconosciuti alla psicoanalisi freudiana, essa non sembra ancora spiegare la natura profonda del complesso edipico inteso come «conflitto intergenerazionale» fondante la storia umana [Kohut 1981],

179

CAPITOLO SETTIMO

CARENZE

Il concetto di «carenza», per come inteso in ambito psicoanalitico, prende corpo attorno a una opposizione semantica, probabilmente fondamentale e non ulteriormente riducibile. Esso si riferisce, infatti, a due ambiti distinti, anche se fortemente interconnessi, come vedremo nelle pagine che seguono. Parlando di deficit ci riferiamo prima di tutto, e questo è owio, alle carenze e ai disturbi che possono colpire - con diversa gravità, profondità e persistenza - la mente individuale, comunque la si concepisca, o sue distinte funzioni e capacità 1 . Con questo termine ci riferiamo però anche, e questo è meno owio, alle manchevolezze, ai limiti e ai difetti dell'ambiente in rapporto al quale la mente si forma, intendendo per limiti e difetti soprattutto le assenze e gli ipercoinvolgimenti del caregiver (come voleva Bowlby), le sue indebite interferenze nel normale percorso evolutivo (sottolineate fra gli altri da Winnicott), i fallimenti di empatia nel rispondere ai bisogni del bambino (richiamati con insistenza soprattutto da Kohut). Ovviamente, quando ci riferiamo all'ambiente in senso psicoanalitico, abbiamo in mente innanzitutto le funzioni materne primarie, ma anche, perlomeno, l'ambiente familiare (le funzioni paterne e l'importanza della fratria). Ora non vi è dubbio che i disturbi (i deficit) della mente traggano sempre origine, almeno in parte, da precisi deficit ambientali, anche se questo riconoscimento, che potremmo ritenere erroneamente owio ai giorni nostri, si è fatto spazio nel comune sentire

Quésto capitolo è di Giovanni

Stella.

181

solo lentamente e non senza richiamare resistenze epistemologiche ed emotive, talora aspre. Detto in altri termini, il concetto di deficit si riferisce pari passu alle conseguenze per la formazione, per la strutturazione e per l'individuazione di disturbi nello sviluppo di varia natura 2 , oppure alle loro premesse, a quel poco o tanto che è mancato (non è mai stato, non è stato abbastanza, non è stato sufficientemente a lungo, ha cessato prematuramente di essere) e che ha finito per produrre lacune che tormentano la mente. Potremmo anche dire che il deficit può essere descritto nelle sue risultanze e nei suoi effetti, oppure ricostruito presuntivamente nei fattori che lo hanno determinato. Ora fra questi fattori rientrano innegabilmente, al di là delle differenze costituzionali e temperamentali di base, le variabili ambientali, prime fra tutte la qualità delle cure ricevute, la personalità talvolta disturbata del caregiver, la qualità della relazione, non sempre armonica, all'interno della coppia genitoriale. 1. Il concetto

di deficit nella teoria

psicoanalitica

Mentre la psicoanalisi si è, fin dagli inizi, occupata della fenomenologia del deficit, è solo con difficoltà e fra grandi incertezze che ha portato la propria attenzione alla questione cruciale delle sue premesse e delle sue cause. Questo spostamento di accento ha dovuto vincere importanti resistenze epistemologiche, come se il riconoscimento dell'importanza dell'oggetto, dell'ambiente e della relazione cruciale che li lega alla persona implicasse necessariamente una rinuncia alla purezza della psicoanalisi, a lungo identificata nel riferimento al mondo interno pulsionale/ affettivo individuale e alla sua conflittualità, radicata nella biologia 3 . Il significato specifico di volta in volta assunto dal termine deficit all'interno di questa duplice e finora assai generale accezione è piuttosto vario e articolato. In grande sintesi si potrebbe sostenere che la psicopatologia psicoanalitica, nel descrivere i deficit che colpiscono la mente, abbia soprattutto considerato i seguenti aspetti: 182

1. i disturbi che colpiscono le strutture e le «istanze» psichiche considerate isolatamente, dunque l'Io, il Superio e l'Es, nonché il rapporto fra queste istanze. In questo senso, deficit importanti nel funzionamento psichico, pensiamo ad esempio all'incapacità di amare o a una difficoltà ad amare pienamente, sono stati ricondotti a radicati e profondi conflitti nell'ambito di singoli sistemi della mente (ad esempio fra rappresentazioni opposte interne all'Io, o fra modelli di identificazione opposti, «materno e paterno», operanti in modo non integrato nel Super-io, come ricordano Laplanche e Pontalis [1967; trad. it. 1990, 94]. Tali deficit sono stati altrettanto legittimamente fatti derivare anche da conflitti fra le diverse istanze (ad esempio fra il mondo pulsionale e gli sforzi integrativi dell'Io, rappresentante psichico della realtà e dei suoi principi) o da conflitti con la realtà esterna (interpersonale, microsociale, sociale allargata) che con le sue esigenze e i suoi limiti, talvolta angusti, mette duramente alla prova le capacità di coping dell'apparato psichico (oltre a sollecitarne positivamente la crescita). Questi concetti, indubbiamente straordinari, illuminanti e irrinunciabili, sono stati ripresi da autorevoli commentatori contemporanei del pensiero psicoanalitico [fra gli altri cfr. Elliott 1994]. Benché nell'ambito della psicoanalisi classica il conflitto tenda a essere pensato come dimensione strutturale e ubiquitaria della vita psichica, come dato costitutivo primario e incontrovertibile della nostra antropologia 4 , questo pensiero non resta di solito disgiunto dal riconoscimento che esso possa divenire fonte, quando troppo intenso o profondo o diffuso, di difficoltà e psicopatologia (anche grave, nell'ambito cioè dello spettro psicotico, come sostengono ad esempio Arlow e Brenner [1964]. Il conflitto, con le sue diverse modalità di espressione, spiega il deficit. O meglio, la mancata risoluzione dei conflitti genera deficit, mentre la possibilità di risolverli (sia pure transitoriamente e mai definitivamente) genera struttura e ha un effetto «corroborante» sull'organizzazione psichica [come ci ricorda ancora Eagle 1984; 1991]. 2. Le vicissitudini pulsionali. Una seconda possibile fonte «intrapsichica» di deficit è costituita infatti dalle vicissitudini delle pulsioni, ovvero dai «destini» cui queste 183

ultime andrebbero necessariamente incontro a parere di Freud (rivolgimento nel contrario, rivolgimento contro di sé, rimozione o sublimazione) [Freud 1915]. Le pulsioni, intese come «spinte all'azione, innate e biologicamente determinate» [Rycroft 1968; trad. it. 1970, 89] mirerebbero alla soddisfazione e alla scarica. Se la «meta» della scarica è fuori portata - per l'indisponibilità o la difficoltà a reperire un oggetto adeguato - si determinerebbe frustrazione e aumento di tensione (ossia di angoscia) [ i b i d e m ] al quale l'Io reagirebbe in modo alloplastico (rinnovando la ricerca di un bersaglio dell'istinto) o autoplastico, attraverso la mobilitazione di difese. La psicoanalisi classica si è soprattutto concentrata sulle vicissitudini di due istinti, la sessualità e l'aggressività, mentre la psicoanalisi contemporanea 5 , anche grazie a una crescente attenzione ai contributi dell'etologia e della psicologia dello sviluppo, ha sottolineato la molteplicità degli istinti e dei «sistemi motivazionali» operanti tanto nella normalità quanto nella patologia della mente [Lichtenberg 1988; Lichtenberg, Lachmann e Fossage 1996], Il rapporto fra patologia degli istinti (o conflitto patologico fra istinti) e deficit è stato illustrato da molti autori, ad esempio da Kernberg, in riferimento ai disturbi gravi della personalità [Kernberg 1984] con particolare riferimento alla patologia borderline, ricondotta fra l'altro a una marcata ed «eccessiva» presenza di aggressività. 3. Lassetto difensivo. La letteratura psicoanalitica 6 ha da sempre sottolineato l'importanza delle difese. Le difese sono importanti in quanto costituiscono il fondamento delle capacità di adattamento dell'Io alla realtà esterna e interna; contribuiscono a regolare la tensione istintuale; si attivano automaticamente di fronte all'angoscia e alle minacce provenienti (all'Io) dal Super-io. Le difese sono decisive nel lavoro terapeutico, indipendentemente dal fatto che esso si orienti in direzione di un loro smantellamento o al contrario in loro soccorso, a sostenerle e puntellarle di fronte al rischio di un crollo psichico. Non da ultimo le difese e il loro assetto sono determinanti per la vita di relazione dell'individuo. Difese rigide, poco duttili, possono forse proteggere l'individuo da certe forme di angoscia, dal possibile ripetersi di esperienze traumatiche ecc., ma ne limitano senza 184

dubbio le capacità di rapporto con l'altro (incrementando enormemente la forma di angoscia forse più fondamentale, almeno per la psicoanalisi interpersonale, che è costituita dalla paura di perdere il legame vivificante con l'altro). 4. I disturbi del carattere. Gli squilibri del carattere sono da lungo tempo oggetto di attenzione della psicoanalisi clinica [ad esempio, Fenichel 1945, cap. XX], Ben prima del DSM, la psicoanalisi ha lungamente indagato nel carattere e nei suoi disturbi da Reich [1933] fino a Kernberg [1984] e a Kohut [1971; 1977], passando per Fairbairn (e la sua indagine del carattere schizoide [ad esempio Fairbairn 1940, in Fairbairn 1952], Una buona sintesi dei principali contributi psicoanalitici alla scienza del carattere e allo studio della personalità e dei suoi disturbi può essere trovata nel volume di Nancy McWilliams sulla diagnosi psicoanalitica [1994]. Qui, l'autrice si sforza di dare un senso dinamico all'utilizzo delle categorie diagnostiche psichiatriche di disturbo della personalità. Ciascuno di noi appartiene, in qualche modo, a una personalità tipo sufficientemente differenziata (caratterizzata cioè da un preciso assetto difensivo, da determinati modelli di relazioni d'oggetto, da specifici modelli di identificazione ecc.). Questo orientamento caratteriale (relativamente immodificabile) ci dice poco rispetto al reale livello di funzionamento psichico della persona, alla sua sanità o patologia mentale. In altri termini, sostiene McWilliams, ciascuna tendenza caratteriale è compatibile con un livello alto (nevrotico/sano) di funzionamento, con un livello borderline (maggiormente compromesso) e con un livello psicotico (fortemente compromesso). Ogni tipo caratteriale presenterebbe cioè varianti «sane» e «patologiche». Altri autori hanno posto in luce ulteriori dimensioni di deficit che possono investire, al di là della sintomatologia nella quale si esprimono, abilità cruciali come la capacità di adattamento o il cosiddetto «sviluppo oggettuale», ad esempio della capacità di intimità. Da questo punto di vista, tutta la psicoanalisi clinica è una disamina dei deficit che colpiscono l'apparato psichico (determinando quanto sopra e cioè sintomi, difficoltà relazionali, assetti difensivi peculiari, squilibri pulsionali). 185

Con infinite variazioni sul tema, queste immagini del deficit sono state riprese, cesellate, precisate, perfezionate da numerosi autori, che non cito qui non soltanto per ragioni di spazio e di opportunità ma anche perché desidero soffermarmi, da qui in poi, esclusivamente sulla seconda accezione del deficit come delineata all'inizio di questo capitolo e quindi sulle premesse ambientali della psicopatologia. 2. Deficit, ambiente

e

psicopatologia

Utilizzare il concetto di deficit in questa seconda accezione, significa porsi questioni assai diverse da quelle finora ricordate, concentrandosi principalmente sull'analisi della relazione fra il Sé in formazione e l'ambiente all'interno del quale esso si sviluppa e assume per gradi forza e coesione (o viceversa rimane «vuoto», un involucro difensivo come ebbe a dire Kohut a proposito delle psicosi). Su un piano generale, non si tratta più soltanto di capire come si esprime il deficit (evidenziandone le conseguenze e le sequele [Fonagy et al. 1995] ma di coglierne l'origine (l'antefatto, il «prologo» 7 come sostiene Gabbard [1990]) che essa consista in un evento puntuale, quale ad esempio la perdita dell'oggetto o la separazione precoce, o in qualche caratteristica «trasversale» dell'ambiente (tratti di personalità delle figure di cura; qualità delle cure ricevute ecc.). Ne dò qualche esempio. Può una separazione precoce dalla madre determinare conseguenze patologiche di lungo periodo, talvolta irreversibili, nella mente del bambino piccolo? E questa la tesi di Spitz in ricerche miliari8 sulla depressione cosiddetta «anaclitica» di bambini separati dalla madre e ricoverati in brefotrofi. Entro che limiti la separazione dall'oggetto esercita un potenziale patogeno particolare e quando diventa occasione di un lutto normale, per quanto prolungato? E ancora. È vero che la psicopatologia dei genitori produce o facilita enormemente quella dei figli? Cosa vuol dire avere una madre depressa (ansiosa, borderline, psicotica)? Cosa vuol dire avere una madre depressa all'età di un anno? La separazione della coppia genitoriale esercita, sempre e necessariamente, un 186

impatto patogeno sul funzionamento psicologico dei figli, o è piuttosto la «qualità» del processo separativo a determinare effetti diversi (nel senso di un incremento della capacità di tollerare la frustrazione o piuttosto in quello di un aumento a dismisura delle tendenze manipolative nei figli, come sembra accadere il più delle volte, ma non sempre ecc.)? In psicopatologia è sufficiente ragionare in termini di transazioni genitori-figli oppure occorre invocare una prospettiva transgenerazionale, che comprenda perlomeno la terza generazione dei nonni? Si decide tutto, salute o malattia, nel primo anno di vita o esistono anche altri periodi di particolare a massima vulnerabilità evolutiva? Le vicende relazionali possono impattare in modo decisivo sulle persone anche quando hanno abbondantemente superato la cosiddetta età evolutiva o invece perdono il loro potenziale patogeno, deficitante, al termine di questa età? Esiste una sequenza evolutiva prevedibile, se non rigidamente fissa, articolata in fasi o vi sono invece più sequenze evolutive possibili? Deficit specifici sono riportabili a costellazioni evolutive specifiche o bisogna invece limitarsi a parlare di un impatto aspecifico di una vasta gamma di fattori su una altrettanto ampia gamma di deficit (sintomatologici, funzionali ecc.)? Alcune di queste domande, se non forse tutte, in definitiva, possono trovare una risposta chiara, convincente e articolata soltanto in ricerche empiriche, in parte compiute 9 e in parte da compiere. In questo capitolo ci soffermeremo soprattutto sui contributi concettuali di quegli studiosi, clinici e ricercatori, che nell'ambito della psicoanalisi hanno iniziato a porre la questione del deficit nella seconda accezione sopra individuata (ponendo con ciò le premesse culturali e di esperienza di successive e future ricerche). Fra essi spiccano, a mio avviso, i due nomi di John Bowlby e di Heinz Kohut10. 3. Gli e f f e t t i della separazione del bambino

e della perdita sullo

sviluppo

La posizione di spicco di Bowlby, per quanto riguarda il nostro tema, si deve ai lavori pionieristici da lui condotti 187

a partire dagli anni '40 del Novecento sugli effetti della separazione e della perdita sullo sviluppo psichico11. La radicalità e l'originalità della ricerca di Kohut risiedono invece nella forza particolare con cui questo autore, in una serie di lavori pubblicati negli anni- '7012, sottolineò per primo il ruolo decisivo della psicopatologia dei genitori sullo sviluppo psichico, mediata da un «fallimento empatico» grave e ripetuto nella relazione di cura e nell'esercizio delle funzioni genitoriali, materna e paterna, che interferisce con lo sviluppo e in particolare limita il processo naturale di costruzione e di consolidamento del Sé. Non essendo il nostro intento quello di presentare nei dettagli l'opera di questi o di altri eminenti psicoanalisti, oggetto di numerose e validissime presentazioni 13 , semmai quello di ragionare sul tema di come la mente si ammala, utilizzeremo il loro pensiero liberamente, per chiarire al lettore alcuni concetti che ci stanno a cuore. Due ultime precisazioni. La prima è che, sebbene il termine deficit rimandi prevalentemente a qualcosa che manca o che è mancato (come del resto altri termini spesso utilizzati in letteratura con analoghe accezioni, pensiamo a carenza o a lacuna), può anche riferirsi a qualcosa che è presente in eccesso o che è stato ricevuto in eccesso, «fuori misura» (cure troppo sollecite, un'eccessiva preoccupazione materna per la salute, l'alimentazione, le funzioni fisiologiche ecc. del bambino, una presenza ubiquitaria che non lascia scampo al bambino e non gli consente di costruire uno spazio mentale o transizionale, degli stati di tranquilla quiete e non organizzazione (Winnicott). La seconda precisazione riguarda la possibile connotazione valoriale assunta dal termine deficit. Nello spessore semantico assunto nel tempo da questo termine potrebbero esser presenti sfumature negative. Deficit come finis terme, terreno oltre il quale non è possibile avventurarsi e dove la cura deve fermarsi o «parametrarsi». La domanda prognostica, il tema cioè della (piena) ricuperabilità del deficit, ha richiamato l'attenzione di molti analisti (da Freud di Analisi terminabile e interminabile in giù), sia in chiave di riflessione teorica sia in chiave di indagini empiriche più o meno sistematiche. 188

Ci possiamo chiedere cosa renda particolarmente rilevante il contributo dei due autori ricordati alla psicopatologia psicoanalitica e in particolare al chiarimento della questione del deficit, base della «malattia» della mente. Nel primo caso, quello di Bowlby, l'aver dimostrato gli effetti «impressionanti» che le carenze nelle cure materne [Bowlby 1951] esercitano sullo sviluppo e in particolare sulle capacità successive di attaccamento - e quindi di relazione - dell'individuo. Innanzitutto, sostiene Bowlby, l'attaccamento è un bisogno, una necessità fisiologica nella «costruzione del legame» [Bowlby 1979]. Proprio come le papere di Lorenz, così anche i piccoli umani hanno bisogno di poter «seguire» una figura di attaccamento attendibile. Se questa figura, per varie ragioni, non è disponibile a tempo debito (nell'ambito cioè delle cosiddette «finestre» biologiche in cui l'attaccamento/imprinting può svilupparsi), si determinano conseguenze evolutive di grande portata: nell'animale, difficoltà o incapacità di riprodursi, «disagio» sociale ecc. Questa tesi, semplice ma stringente, richiamò panico e disapprovazione anche in analisti colleghi eminentemente aperti come Winnicott e nella stessa Anna Freud 14 . Ma vediamo più direttamente, attraverso alcune citazioni e qualche commento, come si esprime questo eminente ricercatore in merito al tema di cui ci stiamo occupando (da qui in avanti le sottolineature del testo sono mie). Scrive Bowlby: i più significativi sviluppi della psichiatria degli ultimi venticinque anni hanno visto emergere, con grande evidenza, la consapevolezza di quanto determinante sia per il futuro equilibrio psichico del bambino, il tipo di attenzioni che i genitori gli prestano nei suoi primissimi anni di vita [...] è necessario che esso esperimenti con la madre (o con un sostituto stabile...) fin dalla nascita e nella prima infanzia, un rapporto intimo, ininterrotto e pieno di calore in cui entrambi trovino soddisfazione e appagamento [Bowlby 1953; trad. it. 1973, 13]. Quando questo rapporto, per le ragioni più diverse, viene a mancare si parla di «privazione della figura materna» [ i b i d e m , 14]. Tale privazione può essere «parziale», se si esprime attraverso la disponibilità limitata della madre 189

o della figura sostitutiva o attraverso la disponibilità di una figura sostitutiva estranea al bambino, oppure «totale», laddove comporta l'istituzionalizzazione del minore o l'indisponibilità di una figura individuata di cura «che si occupi personalmente del bambino e da cui egli si senta protetto» [ibidem]. Mentre la privazione parziale produce «tensione, bisogno eccessivo di affetto e un forte desiderio di rivalsa, che a loro volta inducono a sentimenti di colpa e a depressione (emozioni che il bambino di questa età non riesce a fronteggiare e che possono nel lungo periodo causare disturbi mentali e del carattere)», la privazione totale «può paralizzare completamente la capacità di aver rapporti con gli altri [...] le insicurezze che derivano da un rapporto insoddisfacente nella prima infanzia, predispongono a rispondere a ulteriori pressioni in modo antisociale» [ibidem, 15]. Il tema dell'antisocialità come conseguenza essenziale (ed esiziale!) del deficit di cure materne è al centro della riflessione bowlbiana (ma anche, con diversi accenti, di quella di Winnicott 15 . Acutamente, Bowlby sottolinea altre configurazioni di «rapporto negativo» madre/bambino: «un atteggiamento affettuoso che in realtà nasconde rifiuto inconscio [...]; un'eccessiva richiesta di amore e di rassicurazione da parte della madre [...]; un'inconscia ricerca di soddisfazione attraverso il comportamento del bambino che la madre persegue pur pensando di disapprovarla» [ibidem]. Nulla di nuovo se vogliamo, se non la chiarezza, la stringenza e la tonalità emotiva del messaggio. Privato delle cure materne «un bambino presenta quasi sempre un certo ritardo nello sviluppo fisico, intellettuale e sociale, oltre a sintomi di malattie fisiche e psichiche» [ibidem, 24] che possono perdurare e spesso perdurano nel tempo. Gli effetti della separazione variano in funzione di tre variabili, «l'età in cui vengono a mancare le cure materne, la durata di questa mancanza e il suo grado maggiore o minore» [ibidem, 24]. Più precoce la separazione, più gravi gli effetti sullo sviluppo. Ad esempio, l'istituzionalizzazione produrrebbe rallentamento o regressione evolutiva («fino alla deficienza mentale» [ibidem, 26]). Più lungo è il periodo di privazione «tanto più ritardato è lo sviluppo» a 190

meno che non si provveda a intervenire fornendo, soprattutto in caso di istituzionalizzazione, una più intensa assistenza materna da parte di una figura sostitutiva. Come possiamo vedere non si parla di chimere, come sottoporre ad analisi intensiva tutti i bambini privati della madre, ma, pragmáticamente, di riduzione del danno. Bowlby accenna anche alle resistenze emotive che possono accogliere queste indicazioni di ricerca nel pubblico ma forse anche fra gli operatori della salute mentale e fra gli stessi psicoanalisti: «così dolorosa infatti è la sofferenza che la separazione infligge a questi bambini che è probabile che coloro che li seguono si rifiutino di vederla per proteggersi» [ibidem, 29]. Quanto spesso le resistenze epistemologiche si fondino su resistenze emotive, su specifiche difficoltà a integrare certi affetti (in particolare quelli depressivi) è noto da tempo agli psicoanalisti. Lo è meno invece la consapevolezza di quanto questi stessi fenomeni investano il campo psicoanalitico (dibattiti teorici, movimenti, dissidi) non meno di qualsiasi altro campo della scienza. Bowlby sottolinea la depressione del bambino, conseguente alla perdita delle cure materne, ma anche il suo valore di risposta «normale» e in qualche modo «adeguata»: «questo stato si sviluppa nei neonati che hanno avuto un rapporto soddisfacente con la madre fino ai sei o ai nove mesi e poi ne sono stati improvvisamente separati [...] senza una sostituzione adeguata...» [ i b i d e m , 30], La depressione, in questi casi, è una reazione del tutto normale, mentre la mancanza di una risposta depressiva significa soltanto che il danno era già avvenuto. Se la privazione e lo stato depressivo che ne consegue durano più di tre mesi, gli effetti patogeni sono definitivi. Separazioni meno precoci, nel secondo o terzo anno di vita, comportano in genere uno stato prolungato di «abbattimento» agitato, o di regressione seguito da una fase di apatia. La reazione depressiva è più marcata nei bambini che abbiano avuto con la madre «un rapporto più intimo e soddisfacente» [ i b i d e m , 31]. Prima di concentrarsi sugli effetti a lungo termine della separazione precoce, Bowlby ne elenca le ricadute immediate: «una reazione ostile alla madre» al ricongiungimen191

to; «una richiesta eccessiva di affetto verso la madre reale o sostitutiva», accompagnata dalla pretesa di fare ciò che vuole e da «irascibilità»; un attaccamento «superficiale» nei confronti di tutti gli adulti; il «rifiuto passivo di ogni tipo di impegno emotivo». Queste affermazioni contengono in nuce tutto il senso di migliaia di future ricerche nel campo dell'attaccamento disturbato o disorganizzato [cfr., ad esempio, Solomon e George 1999]. In riferimento al carattere non transeunte dei disturbi psichici prodotti dalla separazione, Bowlby sottolinea come sia meglio «non dimenticare la possibilità di cicatrici psichiche non visibili al momento che possono però riaprirsi più tardi e dar luogo a disturbi emotivi». Il ritiro e lo sviluppo di attaccamenti indiscriminati nei confronti degli adulti è un indicatore prognostico grave. Queste reazioni sono conseguenza probabile di «separazioni frequenti o prolungate avvenute prima dei due anni e mezzo di vita» [Bowlby 1953; trad. it. 1973, 36] e anticipano lo sviluppo di «gravi disturbi della personalità». Il mancato accoglimento delle proteste del bambino da parte della madre o della figura di cura al momento del ricongiungimento tende, invece, a cementare risposte nevrotiche e prelude a difficoltà successive di relazione (personalità infantili). I rischi per lo sviluppo della separazione dalla madre diminuiscono al crescere dell'età del bambino e si riducono dopo i cinque anni e in particolare dopo gli otto anni di vita. Reazioni anche gravi alla separazione tendono però a prodursi per tutto lo sviluppo. Intuendo il carattere transgenerazionale dei disturbi dell'attaccamento, Bowlby sottolinea come «la difficoltà dei bambini carenti d'affetto a diventare poi dei genitori soddisfacenti è forse l'effetto più dannoso della privazione». La mancata elaborazione di esperienze di perdita (e di esperienze traumatiche) produce difficoltà nel caregiving e disorganizzazione dell'attaccamento nella generazione successiva 16 . Al crescere dell'età, dopo il terzo anno di vita, un rapporto sufficientemente buono con la madre accresce la resistenza alla separazione: «un bambino felice, forte dell'amore materno non diventa ansioso in modo intollerabile; un bambino infelice, che dubita dei senti192

menti della madre verso di lui, può facilmente equivocare su un distacco la convinzione di essere stato mandato via per la propria cattiveria porta all'ansia e all'odio 17 e questi a loro volta attivano un circolo vizioso nei rapporti con i genitori». La separazione precoce (o una serie ripetuta di separazioni nei primi anni di vita) tendono a generare conseguenze che Bowlby così riassume: superficialità dei rapporti; nessun vero sentimento; nessuna capacità di voler bene a qualcuno o di farsi veri amici; una impenetrabilità esasperante per quelli che cercano di intervenire in qualche modo; assenza di risposta emotiva a certe situazioni; una strana assenza di interesse; inganni e sotterfugi, spesso senza scopo; furti; mancanza di concentrazione a scuola. Il disturbo centrale è comunque «l'incapacità del bambino di stabilire relazioni» [ i b i d e m , 41], un'assenza di reazioni emotive su cui è difficile intervenire, una «incapacità a dare e ricevere affetto» [ i b i d e m , 42]. Anticipando Winnicott sul tema della delinquenza come «segnale di speranza» [Winnicott 1965a], Bowlby sottolinea come «maggiore è la carenza di affetto nei primi anni di vita e più il bambino cresce indifferente alla società ed isolato, laddove più la privazione è interrotta da momenti soddisfacenti e più il bambino si ribella alla società e s o f f r e di conflitti amore/odio per le stesse persone». Cioè, la presenza di conflitti affettivi è rivelatrice di un deficit meno grave della sua assenza. Gli effetti negativi della separazione e della privazione sullo sviluppo riguardano quindi «il periodo della separazione [...] il periodo immediatamente successivo alla restituzione all'affetto materno [...], tutta la vita successiva» [Bowlby 1953; trad. it. 1973, 60], Gli effetti della separazione sono permanenti soprattutto quando: è mancata «ogni occasione perché si sviluppasse l'attaccamento ad una figura materna durante i primi tre anni»; si è verificato un periodo di separazione prolungata entro i tre-quattro anni d'età; vi sono stati ripetuti passaggi da un caregiver al successivo (che compor193

tano una ritraumatizzazione e una ripetizione del trauma separativo). Bowlby sottolinea anche la mancanza di indagini sufficientemente dettagliate sulle «esperienze psicologiche» concretamente e singolarmente attraversate dal bambino nella relazione con l'ambiente. L'osservazione è pertinente. Esiste infatti il rischio che le esigenze pur legittime di rigore metodologico nella ricerca in ambito evolutivo oscurino l'impatto di variabili qualitative meno operazionalizzabili delle esperienze reali di separazione. Con precisione e tenacia anglosassone Bowlby proseguirà per tutta la vita a ricercare e a riflettere su questi pochi ma significativi temi, accompagnato e seguito da una schiera di validissimi studiosi e ricercatori non necessariamente di formazione psicoanalitica (tra cui possiamo ricordare in ordine sparso e senza nessuna pretesa di completezza Mary Ainsworth, Mary Main, Patricia Crittenden, Judith Solomon). Non esiste forse altro settore delle scienze psicologiche in cui l'opera di uno psicoanalista postfreudiano abbia esercitato tanta influenza quanto lo studio dell'attaccamento, normale e patologico, sicuro e insicuro, organizzato e disorganizzato. Questi e altri termini, e il loro corredo metodologico, sono oggi patrimonio comune di schiere di studiosi dello sviluppo umano, indipendentemente dal loro orientamento. 4. La formazione

del Sé

Nonostante i suoi straordinari meriti, l'opera di Bowlby non si addentra (per ragioni di metodo, ma forse anche di sensibilità) in un'esplorazione più approfondita delle «qualità» della relazione madre/bambino (né di quella, secondo molti quasi altrettanto importante, che lega il bambino al padre e viceversa) e dell'impatto che l'assetto mentale - materno e paterno - esercita sulla formazione dell'Io e sul progressivo consolidarsi del Sé. È questo il merito, a mio avviso, di un'altra grande figura della psicoanalisi contemporanea, Heinz Kohut e del folto gruppo di ricercatori e di analisti che si è richiamato, nel senso di un approfon194

dimento e di una libera interpretazione, all'uno o all'altro aspetto delle sue teorie psicopatologiche 18 . L'approccio kohutiano alle questione psicopatologiche non è empirico, come quello bowlbyano sopra descritto, ma analitico-ricostruttivo. Kohut non è un analista infantile, ma si occupa di pazienti adulti visti e trattati dentro e fuori da contesti istituzionali e psichiatrici. Il suo maggiore interesse è diretto alla comprensione e all'intervento nell'ambito della grave patologia del carattere e in particolare del narcisismo (come è per Kernberg, al quale è accomunato da una solida e vasta cultura extraclinica e da un forte interesse per le applicazioni della psicoanalisi ma dal quale è diviso da una certa avversione per i metodi empirici). Analista di robusta formazione classica, Kohut finisce per diventare interpersonalista suo malgrado, nell'incontro con il narcisismo patologico. Autore prolifico e non sempre chiarissimo, agli antipodi rispetto a Bowlby, in questo senso almeno, Kohut si addentra in territori quasi vergini per la ricerca psicoanalitica in una disamina appassionata dell'impatto che il «fallimento empatico», cioè la difficoltà di diversa origine, del caregiver a rispondere adeguatamente ai legittimi bisogni (non alle richieste pulsionali) del bambino esercita sullo sviluppo (deficitario) del Sé e dell'apparato mentale. Da un lato Kohut si sforza di restare aderente alla tradizione psicoanalitica freudiana pulsionale, sottolineando il valore delle esperienze frustranti (di «frustrazione ottimale») per lo sviluppo (il differimento della soddisfazione del bisogno crea struttura) o aderendo complessivamente aña tesi secondo cui più precoce è il disturbo evolutivo più gravi sono le sue conseguenze, confermando fino a un certo punto la tesi della centralità dell'Edipo per lo sviluppo; dall'altra se ne distanzia progressivamente. E l'eterno sforzo di mantenere una continuità con il passato che impegna e tormenta da decenni coloro che fra gli psicoanalisti non rinunciano a una ricerca personale e creativa in nome della fedeltà a Freud 19 . Che cosa c'è di nuovo nel pensiero kohutiano in tema di psicopatologia? Non è facile rispondere a questa domanda. Mi pare però che la novità fondamentale sia l'accento posto sulla «psicopatologia dei genitori» [Kohut 1971, 85] come «trauma genetico fondamentale» alla base 195

della psicopatologia dei figli, narcisismo in primis. Differenziandosi dai teorici dell'attaccamento, Kohut sottolinea il potenziale traumatico non tanto di singole vicende separative precoci quanto di un particolare clima, o ambiente, di «non rispondenza» nel quale il bambino si ritrova. Egli sottolinea il ruolo che l'inattendibilità o la carenza delle risposte materne (e paterne) giocano nello sviluppo psicologico del Sé del bambino, impedendo o limitando il processo di costruzione di strutture psicologiche. Talvolta, è la depressione della madre a impedirle di rispondere adeguatamente al suo bambino; altre volte il suo eccessivo coinvolgimento su di sé; altre ancora la sua psicosi. In altri casi, l'autostima deficitaria o l'eccessivo coinvolgimento narcisistico del padre (che fa da sfondo a relazioni deteriorate nella coppia genitoriale). Una seconda importante sottolineatura di Kohut è che «i disturbi del Sé di rilevanza patologica derivino sempre da un duplice fallimento, grave e continuativo, materno e paterno» [Stella e Zavattini 1999]. Precisa Kohut in un brano che desidero citare per intero: un'ampia gamma di costellazioni genetiche può interferire con lo sviluppo nel bambino di un Sé saldamente coesivo e vigoroso. Il padre può essere gravemente disturbato e l'influenza della madre debole; o la grave psicopatologia della madre può combinarsi con il crollo traumatico dell'imago idealizzata del padre [...] oppure un grave disturbo nella personalità della madre si combina con la separazione traumatica da entrambi i genitori [...] queste circostanze nocive sembrano avere tutte in comune il fatto che il bambino è stato deprivato di entrambe le opportunità nella sequenza evolutiva degli eventi: o l'oggetto-Sé idealizzato ha fallito dopo che quello speculare aveva a sua volta fallito, o l'oggetto-Sé speculare ha fallito quando il bambino ha tentato di ritornare ad esso per trovare sostegno riparatore dopo la distruzione del proprio Sé definito in maniera incerta provocata dal fallimento traumatico dell'oggetto-Sé idealizzato. Una breve notazione prima di chiudere. Al di là del linguaggio un po' oscuro o perlomeno molto personale (intessuto di riferimenti a concetti quali oggetti-Sé speculare e idealizzante ecc.), Kohut formula, senza - è vero - poterla documentare, una tesi importante e a mio avviso centrale 196

che provo a ritradurre. Non c'è bambino senza una madre (e un padre). Mentre la (adeguata, ricettiva, proporzionata) rispondenza ambientale ai bisogni di fondo del bambino (che li si denomini con termini quali rispecchiamento e gemellarità piuttosto che con altri, facenti capo ad altri autori e tradizioni, come contenimento, holding...) permette una crescita relativamente sana, la rispondenza mancata (carente, inadeguata, fuori misura) genera deficit, incapacità (se non morte psichica) e non semplicemente conflitto. L'opposizione semantica da cui sono partito e che ho cercato di chiarire in queste pagine, quella fra le manifestazioni del deficit e le sue premesse, non corrisponde quindi a un'opzione teorica all'interno della quale sia possibile oggi scegliere ma, a mio avviso, a un'evoluzione incontrovertibile del pensiero psicoanalitico sempre più attento, nella teoria e nella pratica, alle radici ambientali dei disturbi mentali. NOTE AL CAPITOLO SETTIMO 1 La possibilità di utilizzare proficuamente in ambito psicoanalitico un concetto apparentemente proprio ad altre modalità di pensiero psicologico come quello di «abilità» o di «competenze» psichiche è stata sostenuta fra gli altri da Robert Wallerstein che ne ha fatto il fulcro di un progetto di ricerca promosso dalla Fondazione Menninger. Secondo Wallerstein ragionare in termini di capacità psicologiche attuali del paziente (ad esempio, di controllo degli impulsi, di capacità di esprimere gli affetti in modo modulato ecc.) è più utile che non riferirsi a concetti eccessivamente ampli e comprensivi come quello di struttura psichica. Analogamente, altri ricercatori psicoanalisti di area scandinava (Weinrib e Rossell), si sono sforzati di costruire un profilo psicodinamico in grado di rappresentare le capacità attuali del paziente al momento della consultazione psicodiagnostica (un colloquio strutturale condotto secondò le indicazioni formulate da Otto Kernberg). 2 Oggetto d'indagine di una disciplina di recente costituzione, la psicopatologia dello sviluppo [ad esempio Cicchetti e Cohen 1995, in particolare capp. 16-20], 3 Questa dicotomia fra deficit e conflitto è divenuta un tema importante del dibattito teorico psicoanalitico. Il lettore può farsene un'idea leggendo, ad esempio, i contributi di Eagle [1984; 1991] che sottolinea i rischi insiti in un riferimento eccessivo a questa, come ad altre dicotomie, evidenziando come esista un rapporto di reciproca influenza e un reciproco radicamento fra conflitto e deficit.

197

4 È a questa dimensione antropologica del conflitto che Kohut si richiama forgiando l'immagine evocativa dell'«uomo colpevole», impegnato a fondo nella dialettica fra desiderio e colpa, e opponendola a quella altrettanto suggestiva dell'«uomo tragico» in lotta per costruire e mantenere un'identità stabile in un contesto, relazionale e sociale, che non sembra granché facilitare questa ricerca e questa lotta. 5 Cfr. ad esempio Bateman e Holmes [1995; trad. it. 1998]; e Eagle [1984], 6 Cfr. ad esempio McWilliams [1994; trad. it. 1999, capp. V e VI; 1999; trad. it. 2002, cap. V], per un riferimento aggiornato. 7 La metafora narrativa del «prologo», richiamata da Gabbard in riferimento all'«importanza del passato» per un pieno intendimento delle vicende umane, mi sembra assolutamente condivisibile. Il prologo, nel teatro, contiene informazioni importanti sulla storia che sta per incominciare, ma non coincide con la storia. 8 Sulla tesi dell'autore: Spitz [1945; 1946a e 1946b; soprattutto 1965; trad. it. 1973, capp. 12-16], 9 Mi riferisco soprattutto agli studi di derivazione bowlbiana sulla patologia dell'attaccamento. 10 Questa personale scelta non vuole negare l'importanza del pensiero evolutivo e psicopatologico di numerosi altri autori. Una panoramica politicamente corretta e discretamente sintetica di questi altri contributi (M. Mahler, O. Kernberg, i teorici strutturalisti, M. Klein, W. Bion, D. Winnicott, J. Sandler, A. Modell, D. Stern) e una interessante discussione sullo statuto scientifico e sulle questioni controverse nell'ambito della psicopatologia (evolutiva) psicoanalitica possono essere trovate, ad esempio, nel già citato lavoro di Fonagy e colleghi. 11 Cfr. in particolare Bowlby [1951; 1953; 1969; 1979; 1988], 12 Cfr. in particolare Kohut [1971; 1977; 1978; 1984], 13 Cfr. ad esempio Holmes [1993 per quanto riguarda la tradizione bowlbiana]; cfr. Wolf [1988], per quanto riguarda il modello kohutiano e anche Bacai e Newman [1990], Cfr. invece Mitchell e Black [1995]; Lis, Stella e Zavattini [1999] e Mangini [2002] per lavori storici più comprensivi. 14 Per una ricostruzione dei rapporti di Bowlby con i colleghi della Società britannica, freudiani, kleiniani e «indipendenti», vedi ad esempio Holmes [1993]. Sull'appartenenza di Bowlby agli indipendenti, vedi ad esempio Rayner [1991], 15 Ad esempio Winnicott [1965; 1984]. 16 Cfr. ad esempio Lyons-Ruth et al. [in Solomon e George 1999]. 17 Un odio reattivo, quindi, e non primario. 18 Da Goldberg e Wolf a Basch, da Bacai e Newman fino agli «intersoggettivisti» Stolorow e Atwood, da Gedo a Lichtenberg. 19 Cfr. ad esempio Greenberg e Mitchell [1983]; Mitchell [1988; 1993].

198

CONCLUSIONE

RITORNARE SÉ

We're playing those mind games together Pushing the barriers, planting seeds Playing the mind guerrilla Chanting the mantra peace on earth John Lennon, Mind

1. La competenza

Games

emotiva

Molte strade conducono all'ammalarsi della mente, ai disturbi delle relazioni, alla sofferenza della psicopatologia. A parte le determinanti biologiche e sociali, tra le determinanti psicologiche quella attualmente più accreditata sostiene che il disagio psichico emerga in contesti relazionali caratterizzati da un «persistente e cronico fallimento interattivo» [Tronick 1989, 117], da una assenza di sintonizzazioni convalidanti che è determinata da reiterati disconoscimenti del genitore nei confronti dei messaggi provenienti dal bambino, riguardanti emozioni, percezioni, bisogni e intenzioni. Questa incapacità di riconoscere stati interni e motivazioni comportamentali conduce all'instaurarsi di una dissintonia fra i due membri del sistema diadico: in tale condizione il bambino sperimenta stati emotivi/ affettivi negativi poiché gli viene a mancare, in modi differenti (più o meno drammatici), il supporto allo sviluppo della propria competenza emotiva e alla propria progettualità. Una caratteristica comune ai diversi tipi di fallimento interattivo è quella che i partecipanti siano come bloccati in condizioni (esperienziali e relazionali) negative che non riescono a modificare. Se un'interazione normale [ i b i d e m , 116] può dirsi caratterizzata da successi interattivi alterna199

ti a fallimenti che vengono però riparati, nelle condizioni di «persistente e cronico fallimento interattivo» non solo sono prevalenti gli insuccessi ma anche la incapacità di riparazione è carente [ i b i d e m , 116]. La scarsità di emozioni positive e la difficoltà, se non l'impossibilità, di trasformare quelle negative in positive, conduce allora il bambino a distaccarsi dagli scambi interattivi in quanto egli deve devolvere molte delle sue capacità regolatone al controllo dell'eccesso di affetti negativi di cui sta facendo esperienza [Main 1981] e quanto più egli riesce in queste operazioni di autoregolazione tanto più comincerà a usarle «automaticamente, inflessibilmente e indiscriminatamente». Così, quelli che originariamente erano i normali comportamenti autoregolatori, diventano patologici in quanto vengono usati per proteggersi dai rischi di ulteriori esperienze di affetti negativi, anche in situazioni nelle quali non si determinerebbero. Il bambino rinuncia così a valutare l'effettiva natura delle nuove situazioni che gli si presentano, poiché tende ad avvicinarsi alle diverse esperienze con un'attesa pregiudizialmente negativa che lo condurrà a provare emozioni (e ad agire) in modo non appropriato alla realtà dei fatti: «questo limiterà notevolmente il suo aprirsi al mondo, le sue scelte future, ed anche la sua autonomia fino a determinare difetti dello sviluppo, tendenze depressive ed altre forme di psicopatologia» [ i b i d e m , 117]. La competenza emotiva1 (che costituisce l'essenza dello stato di consapevolezza di sé) risulta così gravemente intaccata, poiché originariamente il suo consolidamento non dipende da processi endogeni ma è perseguibile solo in presenza di esperienze di riconoscimento con altri significativi: «Il caregiver fornisce al bambino input di regolazione, lo scaffolding secondo la definizione di Bruner [1975] ma, diversamente dal senso che gli attribuiva Bruner, lo scaffolding nel nostro caso è di tipo emozionale e non cognitivo, e può espandere la complessità e la coesione dello stato di organizzazione cerebrale del neonato. Perciò, l'espansione dello stato di consapevolezza del neonato emerge dal processo di mutua regolazione delle emozioni» [Tronick 1998, 30], Per converso, quindi, Xincompetenza emotiva sembra essere il filo conduttore delle successive manifestazioni 200

psicopatogiche, poiché quando ai bambini viene negata la possibilità di fare esperienze di riconoscimento, di sintonizzazione e quindi di «successo interattivo», essi si trovano in una condizione in cui devono rinunciare a sviluppare una propria «competenza emotiva» in favore della «competenza emotiva dell'altro» al fine di adattarsi ai falsi riconoscimenti e restare in tal modo in connessione con l'altro significativo. E come se guardando con volto sorridente lo specchio che ho di fronte vi trovassi un'immagine corrucciata di me: allora per non dispiacere allo specchio, dal quale so di dipendere per la mia sopravvivenza, io cominciassi a corrucciarmi... e in questo modo non arrivassi più a capire se provo quel che provo o provo quel mi dice lo specchio... smarrendo in tali sguardi fuorviami la competenza delle mie emozioni... L'incompetenza emotiva (che può conseguire anche a eventi traumatici di tipo fisico o abusi sessuali) ha frequentemente come successivo esito quello di creare una «tendenza devitalizzante a legarsi ad esperienze relazionali negative» [ i b i d e m , 34], così che (come è già stato messo in evidenza) un disagio relazionale conduce a un disagio mentale che a sua volta conduce a successivi disagi relazionali. Riprendere contatto con le proprie emozioni sembra il compito primario per curare una mente ammalata e recuperare cosi la vitalità smarrita2. 2.

Corpo/Mente

«Le emozioni nascono nel punto di congiunzione fra materia e mente, passando dall'una all'altra in tutte e due i sensi e influenzandole entrambe», scrive Candace Pert [1997, 226], biologa di fama mondiale, che da anni lavora a raffinare le sue scoperte che, fin dai primi anni '70, l'hanno portata a sostenere che le emozioni connettono inscindibilmente mente e corpo in un unico insieme, all'interno del quale ogni elemento (i vari grandi sistemi e apparati) influenza ed è influenzato dagli altri. Da questo punto di vista, tutte le malattie si possono considerare «psicosomatiche», sia quelle del corpo sia 201

quelle della mente, e poiché i più recenti progressi della tecnologia hanno consentito di individuare le basi molecolari delle emozioni in particolari sostanze biochimiche, i peptidi, si va ora consolidando un nuovo paradigma esplicativo di salute e malattia che considera «le molecole delle emozioni» connesse in modo intrinseco tanto alla fisiologia quanto alla patologia, della mente come del corpo. All'inizio degli anni '80, dati inattesi, quanto incontrovertibili, hanno mostrato che in effetti solo il 2% delle comunicazioni all'interno del sistema nervoso avviene attraverso le sinapsi neuronali: questo pertanto ha condotto a ridimensionare la portata comunicativa, fino a quel momento ritenuta prevalente, delle connessioni sinaptiche. Di fronte all'emergere di tali riscontri, un neuroscienziato, Francis Schmitt, ha avanzato l'ipotesi, poi ampiamente confermata, della presenza di un sistema parallelo extra-sinaptico, in cui «sostanze chimiche incaricate di trasmettere informazioni viaggiano nei fluidi extracellulari che circolano nel corpo per raggiungere i recettori specifici che costituiscono il loro obiettivo» [ ì b i d e m , 165]. Accanto quindi al ruolo tradizionalmente assegnato ai neurotrasmettitori sinaptici, altre sostanze chimiche, che Schmitt battezzò con il suggestivo termine di «sostanze informazionali», assurgevano al ruolo di maggiori responsabili delle comunicazioni tra mente e corpo, cioè gli ormoni steroidei e, in particolare, i peptidi. Una elevata concentrazione di recettori di questi peptidi è stata innanzitutto localizzata in diverse aree del cervello emozionale (amigdala, ippocampo e ipotalamo), ma successivi studi sono arrivati a dimostrare che la distribuzione dei ricettori dei peptidi è sorprendentemente elevata anche «in quasi tutte le sedi in cui entrano nel sistema nervoso centrale informazioni provenienti da uno dei cinque sensi» [ i b i d e m , 168]. Ulteriori ricerche hanno portato a individuare che recettori di peptidi sono diffusamente presenti in tutto l'organismo a livello delle cellule del sistema endocrino ma soprattutto delle cellule mobili del sistema immunitario: pertanto si può ritenere che «i neuropeptidi ed i loro recettori si uniscono così al cervello, alle ghiandole e al sistema immunitario in una rete di comunicazio202

ne tra cervello e corpo, che probabilmente rappresenta il substrato biochimico delle emozioni» [ i b i d e m , 214]. I grandi sistemi dell'organismo sono quindi collegati fra di loro in una sola rete psicosomatica, di cui le emozioni costituiscono l'essenza del contenuto informativo, che viene veicolato dal movimento delle loro basi biochimiche, cioè appunto i peptidi, nell'intera unità corpo/mente. «Le ricerche svolte - afferma Candace Pert - mi hanno dimostrato che quando le emozioni vengono espresse, vale a dire quando le sostanze biochimiche alla base delle emozioni fluiscono liberamente, tutti i sistemi sono integri e solidali. Quando invece le emozioni sono represse, e si trovano nell'impossibilità di realizzare il loro potenziale, le vie della rete psicosomatica si ostruiscono, bloccando il flusso delle sostanze chimiche unificanti e vitali per il benessere vitale, che regolano tanto la nostra biologia quanto il nostro comportamento. Questo secondo me è lo stato di emotività malata» [ibidem, 328, corsivo mio]. Da tempo critica nei riguardi della medicina ufficiale quanto a capacità di prestare sufficiente attenzione al ruolo delle emozioni nel benessere di una persona, Candace Pert si dice convinta che quando una persona è in grado di percepire le proprie emozioni i peptidi circolano liberamente nella intera rete psicosomatica «integrando e coordinando sistemi, organi e cellule in movimento continuo e ritmico» e i loro recettori sono aperti ad accoglierli. La fisiologia va dunque di pari passo con la competenza verso le proprie emozioni: tutte le emozioni però, non solo quelle positive, poiché quando capita, come inevitabilmente capita, di provare emozioni cosiddette negative, come rabbia o paura, il malessere non sta nel provarle ma nel tentare di reprimerle: «non lasciarle libere di fluire significa creare una dis-integrazione nell'organismo, facendo sì che agisca in modo contraddittorio, anziché in un tutto unico. Lo stress creato da questa situazione, che assume la forma di blocchi o insufficienze nel flusso dei segnali trasmessi dai peptidi per mantenere la funzionalità a livello cellulare, è la causa dell'indebolimento che può condurre alla malattia. Tutte le emozioni sincere ed autentiche sono emozioni positive» [ i b i d e m , 230], 203

Corpo e mente non sono separati né separabili: ogni cura rivolta all'uno deve tenere conto anche dell'altra, e viceversa, così che è possibile curare il corpo anche partendo dalla mente e questa intervenendo sul corpo. Da una punto di vista psicoanalitico, Winnicott aveva chiaramente espresso lo stesso concetto ribadendo che il vero sé, in origine semplice sommazione di dati senso-motori, «deriva dalla vita dei tessuti corporei e dal lavoro delle funzioni corporee, comprese l'attività del cuore e la respirazione» e raccoglie insieme tutti gli elementi, corporei e mentali, che danno l'esperienza di vivere [Winnicott 1965, 188], Le emozioni, appartenendo all'unità corpo/mente, sono quindi direttamente coinvolte con i processi di salute e malattia a espressione sia corporea sia mentale: riconnetterci con esse, e consentirci la loro espressione, conduce a «liberarci da schemi del passato che attentano alla nostra gioia» [Pert 1997; trad. it. 2000, 155] 3.

Un punto

ritrovato

Dopo numerose pagine, come percorrendo una circonferenza, ci si ritrova su un punto cruciale già incontrato all'inizio del percorso, come quello degli schemi mentali: frutto di processi di «ricapitolazioni delle esperienze» essi operano al fine di ottenere delle rappresentazioni generali che aiutano «a interpretare il presente ed a prevedere le future esperienze» [Siegel 1999; trad. it. 2001, 30], velocizzando così l'orientarsi di una persona nel succedersi di svariati contesti esperienziali e relazionali. Se è evidente il ruolo positivo, in termini di adattamento, che tali schemi svolgono quando si mantengono flessibili e modificabili, si è più volte fatto menzione delle vie che conducono da persistenti e cronici fallimenti interattivi, determinati da reiterate imprecisioni o assenze della funzione di riconoscimento, allo sviluppo di schemi mentali rigidi, o di vere e proprie lifetraps, che rappresentano i modi in cui una mente si ammala. Generalizzando alcune osservazioni cliniche di Marsha Linehan si può sostenere che il problema principale di molte persone con disturbi delle relazioni sia quello di non 204

)

avere fiducia «nelle proprie percezioni, nei propri giudizi e nelle proprie decisioni» [Linehan 1993; trad. it. 2001, 126], e sicuramente, si può aggiungere, di non aver fiducia nelle proprie emozioni e sensazioni. Il Sé comincia dalle emozioni, dalle sensazioni e dalle percezioni: «sento questo»... «percepisco quello»... e l'ambiente può riconoscere o non riconoscere il «questo» e il «quello» e può «attribuire all'individuo sentimenti e sensazioni che egli afferma di non provare ("sei arrabbiato, ma certamente non vuoi ammetterlo"), connotarlo con desideri e preferenze che egli sente di non avere (come il proverbiale "quando dice di no, vuol dire sì") o attribuirgli la responsabilità di atti che egli sa di non aver compiuto. [...] Le esperienze interne e l'espressione delle emozioni dell'individuo non vengono considerate come valide ed appropriate risposte alle situazioni e agli eventi» [ i b i d e m , 32]. Per restaurare l'autentico sé, in tal modo intaccato, bisogna quindi recuperare fiducia nella propria competenza emotiva e nella propria adeguatezza percettiva. 4. Dagli schemi

mentali

ai giochi della

mente

Daniel Goleman [1995] riporta numerosi studi che mostrano come esista un magico quarto di secondo in cui le nostre emozioni si presentano legate all'esperienza del momento mentre dopo questo micro-lasso di tempo esse vengono nuovamente intrappolate dalle consuete abitudini emotive e percettive che sottendono schemi comportamentali maladattativi: arrivare alla immediatezza dell'esperienza consente di trovare nuovamente il proprio centro, essere nuovamente quella persona che, nell'essenza, non si è mai veramente cessato di essere. Tra le diverse modalità esperienziali con cui si può provare a raggiungere l'obbiettivo di ritrovarsi, vi sono senza dubbio quelle cliniche delle psicoterapie, ma affinché queste siano veramente esperienze trasformatrici e rivitalizzanti (e non semplici rituali di apprendimento di un linguaggio psicologico) vanno pensate così come propone Winnicott: «Io voglio togliere l'attenzione dalla sequenza: psicoanalisi, psicoterapia, materiale di gioco, gioco e ri205

mettere su questa sequenza rovesciata. In altre parole, è il gioco che è l'universale e che appartiene alla sanità; il gioco porta alle relazioni di gruppo; il gioco può essere una forma di comunicazione in psicoterapia; il gioco facilita la crescita e la sanità e infine, la psicoanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco, al servizio della comunicazione con se stessi e con gli altri» e pertanto lo psicoanalista dovrebbe «ricordarsi costantemente non solo di ciò che è dovuto a Freud ma anche di ciò che dobbiamo a quella cosa naturale ed universale chiamata gioco» [Winnicott 1971; trad. it. 1974, 84]. Per Winnicott giocare è di per sé «una psicoterapia che ha un'applicazione immediata ed universale» in quanto «è sempre un'esperienza creativa» [ i b i d e m , 97]; non limitando quindi l'idea di creazione alla realizzazione di una concreta opera d'arte, per Winnicott il recupero del proprio vero sé e il gioco sono sempre gesti intrinsecamente creativi: «E vero che una creazione può essere un quadro o una casa o un giardino o un costume o un modo di pettinarsi o una sinfonia o una scultura; qualunque cosa a cominciare da un pranzo cucinato in casa. Sarebbe forse meglio dire che queste cose potrebbero essere creazioni. La creatività di cui mi occupo io qui, è universale. Appartiene al fatto di essere vivi. E da presumere che appartenga alla vitalità di alcuni animali non meno che a quella degli essere umani» [ i b i d e m , 123], La creatività di cui Winnicott sta parlando ha dunque a che fare con la personale, totalmente unica, maniera con cui una persona incontra la realtà esterna: creativo è il modo in cui io naturalmente sono e da cui io agisco naturalmente, quindi solo se resto quel che sono io sono creativo. La creatività è pertanto qualcosa che è presente «quando chicchessia - poppante, bambino, adolescente, adulto, vecchio - guarda in maniera sana una qualunque cosa o fa una qualunque cosa deliberatamente» [ i b i d e m , 125]. «In contrasto con ciò, vi è un tipo di rapporto con la realtà esterna che è di compiacenza, per cui il mondo viene riconosciuto solo come qualcosa in cui ci si deve inserire o che richiede adattamento. La compiacenza porta con sé un senso di futilità per l'individuo e si associa al206

l'idea che niente sia importante e che la vita non valga la pena di essere vissuta» [ i b i d e m , 171]. La creatività così intesa appartiene dunque al fatto di essere semplicemente e autenticamente vivi e forse, come osserva Renata Gaddini, «non è solo percepire ma mettersi deliberatamente in rapporto con il nostro percepire» [Gaddini 1974, 13], come avviene, ad esempio, in certe pratiche di meditazione che consentono di coltivare la presenza mentale, la mindfulness. Quest'ultimo riferimento ci condurrebbe a trattare temi che in questo testo si possono solo enunciare, come quello di una psicopatologia che non sia ignara della dimensione spirituale, e del superamento di opposizioni che non hanno più fondamento, come quelle Corpo/Mente, Psichiatria/Psicologia/Neurologia e Oriente/Occidente. Se le malattie della mente sono quelle che impediscono di giocare con la realtà, si può pensare allora al benessere come a uno stato della mente né integrato né disintegrato ma felice mente non integrato: «E soltanto qui, in questo stato non integrato della personalità, che ciò che noi descriviamo come creativo può comparire. Questo, se rispecchiato ma soltanto se rispecchiato, diventa parte di una personalità individuale organizzata, e come risultato questo alla fine fa sì che l'individuo sia, che sia ritrovato; finalmente lo rende capace di postulare l'esistenza del Sé» [Winnicott 1971; trad. it. 1974, 117]. Nello spirito di questo libro al termine «rispecchiato» va preferito quello di «riconosciuto», poiché quest'ultimo comprende anche il primo, ampliandone però il senso. E dunque uno stato del Sé ritrovato, «né integrato né disintegrato ma felicemente non integrato», quello in cui è possibile giocare ai mind games, ai giochi della mente, e magari divertirsi a cantare in coro con Lennon il mantra «peace on the earth». NOTE ALLA CONCLUSIONE 1 Per questo vedi in particolare Greenspan [1997, 106, 252]. Tutto il libro di Greenspan è comunque una straordinaria fonte di approfondimento per questi temi. 2 Cfr. Miller [1994; trad. it. 1996, 36 e 115-120],

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