Codice a zero
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KEN FOLLETT CODICE A ZERO (Code To Zero, 2000)

Nota storica

Il lancio del primo satellite spaziale americano, l'Explorer I, era previsto in origine per la notte di mercoledì 29 gennaio 1958. Nella tarda serata venne rinviato al giorno seguente, con la motivazione del cattivo tempo. Gli osservatori presenti a Cape Canaveral rimasero perplessi perché era una magnifica giornata di sole. Ma l'esercito affermò che una particolare cor-rente d'alta quota chiamata "jetstream" era sfavorevole. La notte successiva ci fu un altro rinvio, sempre per la stessa ragione. Il lancio venne finalmente effettuato venerdì 31 gennaio.

Fin dalla sua nascita, nel 1947, la Central Intelligence Agency ... ha investito milioni di dollari in un importante progetto di ricerca per scoprire droghe e altri metodi alternativi in grado di portare al con-trollo assoluto di una persona normale, consenziente o meno, per costringerla ad agire, parlare, rivelare i segreti più preziosi, persino a dimenticare su comando.

John Marks, The Search for the "Manchurian Candidate": The Cia and Mind Control, 1979

PARTE PRIMA

5.00

Il jupiter C è posizionato sulla rampa di lancio al Complesso 26 di Cape Canaveral. Per proteggerlo da sguardi indiscreti è coperto da grandi teloni che ne nascondono ogni parte tranne la coda, che è quella dell'ormai noto Redstone, il missile dell'esercito. Ma tutto il resto, mascherato dalla copertura, è davvero unico...

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Si svegliò spaventato. Anzi, peggio: era terrorizzato. Il cuore gli batteva all'impazzata, aveva il fiato corto, il corpo teso. Come dopo un incubo, solo che il risveglio non portò alcun sollievo. Capiva che era accaduto qualco-sa di terribile, ma non sapeva cosa. Aprì gli occhi. Una luce fioca proveniente da un altro locale il-luminava debolmente l'angolo in cui si trovava: riuscì a distingue-re sagome vaghe, familiari ma minacciose. Da qualche parte, lì vi-cino, un rumore di acqua corrente. Cercò di calmarsi. Deglutì, fece dei respiri regolari, tentò di pensare in maniera lucida. Era sdraiato su un pavimento. Aveva freddo, male ovunque e tutti i sintomi dei postumi di una sbron-za: mal di testa, bocca asciutta e una gran nausea. Si alzò a sedere, tremante di paura. Il pavimento era ancora umido e avvertì l'odore forte e sgradevole di disinfettante. Rico-nobbe le sagome di una fila di lavandini. Si trovava in un gabinetto pubblico. Fu assalito da un'ondata di disgusto. Aveva dormito per terra in un gabinetto. Cosa diavolo gli era successo? Si concentrò. Era com-pletamente vestito: indossava una specie di giaccone e scarpe pe-santi, ma aveva la sensazione che quelli non fossero i suoi abiti. Il pa-nico si stava placando, sostituito da una paura più profonda, meno isterica, più razionale. Gli era accaduto qualcosa di molto brutto. Aveva bisogno di luce. Si alzò in piedi. Si guardò attorno scrutando nella semioscu-rità, cercando di indovinare dove si trovasse la porta. Avanzò con le braccia tese davanti a sé per parare eventuali ostacoli e rag-giunse una parete. Da lì procedette di lato, le mani che esplora-vano lo spazio circostante. Toccò una superficie liscia e fredda che immaginò fosse uno specchio, poi trovò un rotolo di tessuto per asciugarsi le mani, quindi una scatola di metallo che poteva essere un distributore automatico. Finalmente le sue dita sfiora-rono un interruttore. Una luce violenta inondò le pareti di piastrelle bianche, il pavi-mento di cemento e una fila di box con le porte aperte. In un ango-lo c'era qualcosa che assomigliava a un fagotto di vestiti smessi. Com'era finito lì? Si sforzò di pensare. Cos'era accaduto la sera prima? Non riusciva a ricordare. Il terrore cieco ritornò non appena si rese conto che non ricor-dava assolutamente nulla. Strinse i denti per impedirsi di urlare. Il giorno preceden-te... quello prima ancora... niente. Come si chiamava? Non lo sapeva. Si voltò verso la fila di lavandini. Sopra correva un lungo spec-chio: vide un lurido vagabondo vestito di stracci, i capelli arruffa-ti, la faccia sporca e lo sguardo folle, allucinato. Osservò quell'im-magine per un secondo, poi fu colpito da una terribile rivelazione. Fece per allontanarsi, scioccato, e l'uomo nello specchio fece lo stesso. Quel barbone era lui. Non poté più trattenere l'accesso di panico. Aprì la bocca e, con voce tremante per la paura, urlò: «Chi sono?».

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Il fagotto di stracci nell'angolo si mosse, rotolando su se stes-so; apparve un volto e una voce borbottò: «Sei un barbone, Luke. Piantala di fare casino». Si chiamava Luke. Che sollievo! Un nome non era molto, ma lo aiutava a pensa-re. Fissò il suo compagno. Indossava una giacca di tweed strap-pata, con un pezzo di corda legato in vita a mo' di cintura. Il volto, giovane e sporco, aveva un'espressione scaltra. L'uomo si sfregò gli occhi e borbottò: «Mi fa male la testa». «Tu chi sei?» chiese Luke. «Sono Pete, scemo. Non ci vedi?» «Io non...» Luke deglutì, trattenendo il panico. «Io ho perso la memoria!» «Non mi sorprende. Ieri ti sei scolato quasi un'intera bottiglia. È un miracolo se non hai perso tutta la testa.» Si leccò le labbra. «A me non ne hai quasi lasciato un goccio, di quel maledetto bourbon.» Questo spiegava i postumi della sbronza, pensò Luke. «E per-ché ne ho bevuto un'intera bottiglia?» Pete scoppiò in una risata sarcastica. «È la domanda più stu-pida che abbia mai sentito. Per ubriacarti, no?» Luke era sgomento. Era un barbone, un alcolizzato che dor-miva nei gabinetti pubblici. Aveva una sete terribile. Si chinò sopra un lavandino, lasciò scorrere l'acqua fredda e bevve dal rubinetto. Questo lo fece sen-tire meglio. Si asciugò la bocca costringendosi a guardare di nuovo nello specchio. Ora era più calmo. Lo sguardo allucinato era sparito, sostitui-to da un'espressione confusa e sbigottita. L'immagine riflessa nello specchio era quella di un uomo vicino alla quarantina, con capelli scuri e occhi azzurri. Non aveva né barba né baffi, solo l'ombra scura di chi non si rade da qualche giorno. Tornò a voltarsi verso il suo compagno. «Luke e poi?» domandò. «Qual è il mio cognome?» «E che ne so? Come diavolo posso saperlo, io?» «Come ho fatto a ridurmi così? Da quanto tempo va avanti? Com'è successo?» Pete si alzò in piedi. «Ho bisogno di mettere qualcosa sotto i denti.» Luke si rese conto di aver fame. Si chiese se avesse del denaro. Frugò nelle tasche di giaccone e pantaloni: tutte vuote. Non aveva soldi né portafoglio, neppure un fazzoletto. Niente, nessun indi-zio. «Credo di essere al verde» disse. «Ma guarda» fece Pete con sarcasmo. «Su, vieni» e si avviò barcollando verso una porta. Luke lo seguì. Quando uscì alla luce, subì un altro choc. Si trovava in un enorme tempio, deserto, dove regnava un cupo silenzio. Panche di mogano erano allineate sul pavimento di marmo, come banchi di una chiesa in

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attesa di una congregazione di spiriti. Tutto intorno alla grande sala, su un'architrave di pietra che sovrastava file di colonne, surreali guerrieri di pietra con elmi e scudi face-vano la guardia al luogo sacro. In alto, sopra le loro teste, c'era un soffitto a volta decorato a cassettoni ottagonali dorati. La mente di Luke fu attraversata dal folle pensiero di essere stato la vittima sacrificale in uno strano rito che lo aveva lasciato senza memoria. «Cos'è questo posto?» chiese, atterrito. «La Union Station di Washington.» Un relè scattò nella mente di Luke e tutto assunse un significa-to. Con sollievo vide lo sporco sui muri, la gomma da masticare spiaccicata sul pavimento di marmo, le cartine di caramelle e i pacchetti di sigarette vuoti gettati negli angoli, e si sentì uno stupi-do. Si trovava in un'enorme stazione ferroviaria di mattina presto,?rima che si riempisse di viaggiatori. Si era comportato come un bambino che crede di vedere dei mostri in una camera da letto buia. Pete si diresse verso un arco trionfale con il cartello USCITA e Luke si affrettò a seguirlo. «Oh-oh» fece Pete, accelerando il passo. Un uomo corpulento stretto in un'uniforme delle ferrovie puntò dritto verso di loro, gonfio di arrogante indignazione. «Da dove spuntate voi due?» «Ce ne andiamo, ce ne andiamo» disse Pete con voce lamentosa. All'uomo non bastava sbarazzarsi di loro. «Avete dormito qui, non è vero?» li apostrofò, seguendoli da vicino. «Lo sapete che non si può.» A Luke non piaceva essere sgridato come uno scolaretto, ma forse se l'era meritato. In effetti, aveva dormito in quella dannata latrina. Ricacciò indietro una rispostaccia e accelerò l'andatura. «Questo non è un ostello» proseguì l'uomo. «Levatevi dai piedi, brutti vagabondi!» gridò, assestando uno spintone a Luke. Luke si voltò di scatto e lo affrontò di petto. «Non mi tocca-re» disse, sorpreso lui stesso dal tono calmo e insieme minaccio-so della propria voce. L'uomo si arrestò di colpo. «Ce ne stiamo andando, quindi non c'è bisogno che tu dica altro, chiaro?» Il tizio fece un passo indietro, intimorito. Pete prese Luke per il braccio. «Usciamo di qui.» Luke provò un senso di vergogna. Il tipo in uniforme era uno stupido presuntuoso, ma lui e Pete erano dei vagabondi e qualun-que dipendente delle ferrovie aveva il dovere di cacciarli, mentre lui non aveva alcun diritto di minacciarlo. Passarono sotto l'arco. Fuori era buio. C'erano delle auto par-cheggiate attorno all'isola spartitraffico davanti alla stazione, ma la strada era tranquilla. L'aria era fredda e pungente e Luke si strinse negli abiti logori. Era inverno, una tipica mattina gelida di Wa-shington, forse gennaio o febbraio. Si domandò che anno fosse.

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Pete svoltò a sinistra: evidentemente sapeva dove andare. Luke lo seguì. «Dove vai?» gli chiese. «Conosco una cappella metodista in H Street dove danno da mangiare gratis, se ti adatti a cantare qualche inno.» «Con la fame che ho sono disposto a cantare un intero libro di salmi.» Pete si avviò deciso seguendo un percorso che attraversava a zigzag un quartiere popolare. La città non si era ancora svegliata. Le case erano buie, le serrande dei negozi abbassate, caffetterie e edicole ancora chiuse. Luke vide la finestra di una camera da letto, schermata da misere tendine, e immaginò un uomo profon-damente addormentato sotto una montagna di coperte, con la moglie a fianco, e provò una fitta di invidia. Aveva l'impressione di non appartenere a quella vita, ma di far parte di quella comu-nità di uomini e donne che prima dell'alba si avventurano per le strade gelide quando la gente comune ancora dorme: l'uomo in abiti da lavoro che si avviava stancamente verso le fatiche quoti-diane, il giovane imbacuccato in bicicletta con guanti e sciarpa, la donna con la sigaretta, unica passeggera di un autobus tutto illu-minato. La sua mente era un ribollire di angoscianti interrogativi. Da quanto tempo si ubriacava? Aveva mai cercato di smettere? Aveva una famiglia che potesse aiutarlo? Dove aveva conosciuto Pete? Dove si procuravano da bere? Ma Pete sembrava un tipo taciturno e Luke soffocò la propria impazienza, nella speranza che l'uomo diventasse più cordiale dopo aver mangiato qualcosa. Arrivarono a una chiesetta che si ergeva spavalda tra un cinema e una tabaccheria. Entrarono da una porta laterale e scesero una rampa di scale che portava nel seminterrato. Luke si ritrovò in una lunga stanza dal soffitto basso, forse la cripta. A un'estremità vide un pianoforte verticale e un piccolo pulpito, all'altra una cucina economica. Nel mezzo c'erano tre file di tavole poggiate su caval-ietti, con panche ai due lati. Tre barboni, seduti ognuno a un tavo-lo diverso, fissavano attoniti il nulla. Ai fornelli, una donna bassa e grassa mescolava il contenuto di un pentolone. Al suo fianco, un uomo con la barba grigia e il collare da prete alzò lo sguardo da una caffettiera e sorrise. «Entrate, entrate!» disse con fare giovia-le. «Venite a riscaldarvi.» Luke lo guardò con cautela, chiedendo-si se non fosse un'allucinazione. Faceva davvero caldo, anche troppo, dopo l'aria gelida del mattino. Luke si sbottonò il giaccone sudicio. «Buongiorno, padre Lonegan» disse Pete. «Sei già stato qui altre volte? Ho dimenticato il tuo nome» ammise il pastore. «Io sono Pete e lui è Luke.» «Due apostoli!» La sua cordialità sembrava sincera. «È un po' presto per la colazione, ma il caffè è pronto.» Luke si chiese come facesse padre Lonegan a mantenersi così gioviale pur dovendosi alzare prima dell'alba per preparare la co-lazione a un gruppo di ubriaconi catatonici. Il pastore versò il caffè in due grosse tazze. «Latte e zucchero?» Luke non sapeva cosa rispondere. «Sì, grazie» rispose, rischiando. Prese la tazza e bevve un sorso: il caffè era disgusto-samente dolce e denso. Evidentemente, di solito lo beveva senza niente. Ma servì a placargli la fame e, in pochi sorsi, lo finì.

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«Tra qualche minuto diremo una preghiera» disse il pastore. «E quando avremo finito, il famoso porridge di Mrs Lonegan dovrebbe essere cotto a puntino.» Luke decise che i suoi sospetti erano ingiusti. Padre Lonegan era esattamente ciò che sembrava, un uomo cordiale che amava aiutare il prossimo. Si sedette con Pete al tavolo di legno grezzo e osservò il com-pagno. Fino a quel momento aveva notato solo la sporcizia e gli abiti laceri. Ora vide che non aveva nessuna delle caratteristiche di un alcolizzato: niente capillari rotti né pelle squamata sul viso, niente tagli né lividi. Forse era troppo giovane. Luke calcolò che avesse sui venticinque anni. Aveva una voglia rosso scuro che cor-reva dall'orecchio destro fino alla mandibola.Identi erano irre-golari e macchiati; probabilmente si era fatto crescere i baffi per nasconderli tanto tempo addietro, quando ancora si curava del proprio aspetto. Luke avvertiva in lui una rabbia repressa. Pensò che Pete ce l'avesse con il mondo, forse perché l'aveva ridotto così, oppure per qualche altro motivo. Magari era convinto che il paese fosse sull'orlo della rovina per colpa di qualche gruppo etnico che odiava - immigrati cinesi, negri cocciuti - o a causa di un clan segreto di milionari che controllava nell'ombra il merca-to azionario. «Cosa stai guardando?» chiese Pete. Luke si strinse nelle spalle senza rispondere. Sul tavolo c'era-no un giornale aperto alla pagina del cruciverba e un mozzicone di matita. Guardò distrattamente lo schema, prese la matita e cominciò a riempirlo. A poco a poco, arrivarono altri vagabondi. Mrs Lonegan tirò fuori una pila di ciotole di terraglia e cucchiai. Luke rispose a tutti i quesiti tranne uno: "Storico principe della Danimarca", sei lettere. Padre Lonegan si fermò alle sue spalle a guardare lo sche-ma, inarcò le sopracciglia sorpreso nel vederlo tutto compilato e disse piano alla moglie: «Oh, il nobile spirito che va in rovina!». Immediatamente Luke trovò anche l'ultima risposta - Amleto - e la scrisse. "Come faccio a saperlo?" si chiese un attimo dopo. Aprì il giornale e cercò la data sulla prima pagina. Mercoledì, 29 gennaio 1958. Un titolo catturò la sua attenzione: Per gli Usa la luna resta a terra. Andò avanti a leggere:

Cape Canaveral, martedì -A causa di numerosi problemi tecnici, la marina degli Stati Uniti ha abbandonato oggi il secondo tentativo di lanciare il razzo spaziale Vanguard. La decisione giunge due mesi dopo che il lancio del primo Vanguard si è concluso con un umiliante fiasco e il missile è esploso due secondi dopo l'accensione. Le speranze americane di lanciare un satellite spaziale in grado di riva-leggiare con lo Sputnik sovietico ora sono tutte riposte nel vettore dell'e-sercito, il Jupiter.

Il pianoforte lanciò un accordo stridente e Luke alzò lo sguar-do. Mrs Lonegan stava suonando le prime note di un inno che gli era familiare. La donna e il marito cominciarono a cantare What a Friend We Have in Jesus e Luke si unì a loro, lieto di ricordar-ne le parole.

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Il bourbon aveva uno strano effetto su di lui, rifletté. Era in grado di fare le parole crociate e di cantare un inno a memoria, ma non ricordava il nome della propria madre. Forse erano anni che beveva e l'alcol gli aveva irrimediabilmente danneggiato il cervel-lo. Si chiese come avesse potuto permettere una cosa simile. Dopo l'inno, padre Lonegan lesse alcuni versetti della Bibbia e annunciò ai presenti che potevano salvarsi. Quel gruppo di pove-racci aveva davvero bisogno di salvezza, pensò Luke. Ma lui non era ancora disposto a riporre in Dio ogni sua speranza. Prima do-veva scoprire chi era. Il pastore improvvisò una preghiera, tutti insieme resero grazie al Signore, poi si misero in fila mentre Mrs Lonegan serviva il porridge bollente con lo sciroppo. Luke ne mangiò tre ciotole. Dopo si sentì molto meglio.Ipostumi della sbronza stavano passando in fretta. Impaziente di trovare una risposta ai suoi interrogativi, si avvi-cinò al pastore. «Padre, lei mi ha già visto qui prima d'ora? Ho perso la memoria.» Padre Lonegan lo guardò intensamente. «Mi pare di no. Ma vedo centinaia di persone ogni settimana e potrei sbagliarmi. Quanti anni hai?» «Non lo so» rispose Luke, sentendosi uno stupido. «Sei vicino ai quaranta, direi, e non è molto che conduci questa vita. Lascia il segno, sai. Tu, invece, hai ancora una camminata sciolta e la mente abbastanza pronta da fare un cruciverba. Se smetti di bere, tornerai a una vita normale.» Luke si domandò quante volte il pastore avesse pronunciato quelle parole. «Ci proverò» promise. «Se hai bisogno di aiuto, io sono qui.» Un giovane che sem-brava avere un qualche handicap mentale batteva con insistenza sul braccio di padre Lonegan e questi si voltò verso di lui con un sorriso paziente. Luke si rivolse a Pete. «Da quanto tempo mi conosci?» «Non lo so. È da un po' che ti vedo in giro.» «Dove abbiamo passato la notte precedente a questa?» «Rilassati, prima o poi la memoria ti tornerà.» «Devo scoprire da dove vengo.» Pete ebbe un attimo di esitazione. «Quello che ci serve è una bella birra. Ci aiuterà a pensare meglio» disse, e fece per avviarsi alla porta. Luke lo afferrò per un braccio. «Io non voglio una birra» affermò con decisione. Evidentemente Pete non desiderava che lui scavasse nel proprio passato. Forse temeva di perdere un compagno. Be', pazienza. Lui aveva cose più importanti da fare che tenergli compagnia. «Anzi» aggiunse «preferirei restare solo per un po'.» «E chi sei, Greta Garbo?» «Dico sul serio.»

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«Tu hai bisogno di me. Non ce la fai da solo. Diamine, non ricordi neppure quanti anni hai.» Pete aveva un'espressione disperata negli occhi, ma Luke non si lasciò convincere. «Apprezzo il tuo interessamento, ma tu non puoi aiutarmi a scoprire chi sono.» Dopo qualche secondo, Pete si strinse nelle spalle. «Come vuoi tu» disse, e si girò ancora verso la porta. «Magari ci vediamo.» «Magari.» Pete uscì. Luke strinse la mano a padre Lonegan. «Grazie di tutto.» «Spero che tu possa trovare quello che stai cercando» gli au-gurò il pastore. Luke salì le scale e uscì in strada. Pete era fermo un isolato più avanti e stava parlando con un uomo in impermeabile di gabar-dine verde e berretto della stessa stoffa. Gli starà chiedendo i soldi per una birra, pensò Luke; poi si avviò nella direzione opposta e svoltò l'angolo. Sentiva freddo ai piedi e si accorse di essere senza calze. Mentre procedeva a passo svelto, cominciò a cadere un leggero nevischio. Dopo qualche minuto rallentò l'andatura. Non c'era motivo di correre, che lui camminasse in fretta o lentamente non faceva al-cuna differenza. Si fermò e trovò riparo in un androne. Non aveva dove andare.

6.00

Il razzo è circondato su tre lati da una torre di servizio che lo sor-regge in una stretta di acciaio. L'incastellatura, in realtà una torre di trivellazione modificata, poggia su rotaie. L'intera struttura, più alta di una casa a tre piani, verrà allontanata di un centinaio di metri prima del lancio.

Elspeth si svegliò preoccupata per Luke. Rimase sdraiata a letto per qualche momento, il cuore gonfio di pena per l'uomo che amava. Poi accese la luce sul comodino e si alzò a sedere. La stanza del motel era decorata con motivi di ispirazione spa-ziale. La lampada a stelo aveva la forma di un razzo, i quadri alle pareti ritraevano pianeti, quarti di luna e orbite spaziali sullo sfondo di un cielo notturno del tutto irreale. Lo Starlite era uno dei tanti motel sorti tra le dune di sabbia nella zona di Cocoa Beach, in Florida, una quindicina di chilometri a sud di Cape Canaveral, per accogliere il crescente flusso di turisti. L'arredato-re aveva evidentemente pensato che lo spazio cosmico fosse un tema appropriato, ma Elspeth aveva l'impressione di trovarsi nella camera di un ragazzino di dieci anni. Sollevò la cornetta e chiamò l'ufficio di Anthony Carroll a Washington: non rispose nessuno. Provò il

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numero di casa con lo stesso risultato. Che qualcosa fosse andato storto? Decise di richiamare di lì a mezz'ora. Anthony non poteva metterci di più per andare da casa all'ufficio. Sotto la doccia ripensò a quando aveva conosciuto Luke e Anthony. Loro erano a Harvard mentre lei studiava alla Radcliffe, prima della guerra.Iragazzi erano membri dell'Harvard Glee Club: Luke aveva una bella voce da baritono, Anthony era un magnifico tenore. Elspeth dirigeva l'orchestra della Radcliffe Choral Society e aveva organizzato un concerto in collaborazione con il Glee Club. Luke e Anthony, amici inseparabili, formavano una strana cop-pia. Erano entrambi alti e atletici, ma le somiglianze finivano lì. Le ragazze della Radcliffe li chiamavano il Bello e la Bestia. Luke era il Bello, con i suoi capelli scuri e ondulati e i vestiti eleganti. Anthony non era attraente, con quel suo grosso naso e il mento al-lungato, e sembrava sempre che indossasse gli abiti di qualcun al-tro, ma alle ragazze piacevano la sua energia e il suo entusiasmo. Elspeth si lavò velocemente. Avvolta nell'accappatoio si sedet-te alla toletta per truccarsi. Posò l'orologio accanto all'eyeliner per controllare l'ora. Era seduta davanti a una toletta e indossava un accappatoio an-che la prima volta che aveva parlato con Luke. Era stato durante un panty raid, un'incursione degli studenti maschi nei dormitori delle ragazze per razziare indumenti intimi. Una sera tardi un gruppo di ragazzi di Harvard, alcuni dei quali ubriachi, si era in-trodotto nel dormitorio attraverso una finestra del piano terra. Ora, quasi vent'anni dopo, le sembrava incredibile che lei e le altre compagne si fossero preoccupate solo che venisse loro rubata del-la biancheria. Forse allora il mondo era più innocente. Luke era entrato nella sua stanza per caso. Seguiva il corso di matematica come lei e, nonostante indossasse una maschera, Elspeth lo aveva riconosciuto subito dagli abiti, una giacca di tweed grigio chiaro con un fazzoletto di cotone a pois rossi nel taschino. Una volta rimasti soli, Luke era parso imbarazzato, come se in quel momento si fosse reso conto che stava facendo una cosa stupida. Lei, con un sorriso, gli aveva indicato un arma-dio. "Nel primo cassetto." Lui aveva preso un paio di graziose mutandine bianche con il pizzo, ed Elspeth aveva provato una fitta di rimpianto: erano costose. Ma il giorno seguente lui le aveva chiesto un appuntamento. Cercò di concentrarsi sull'operazione trucco. Quella mattina il compito era più arduo del solito, perché aveva dormito male. Il fondotinta uniformò le guance e il rossetto color salmone diede luce alle labbra. Era laureata in matematica alla Radcliffe, ma anco-ra si aspettavano che andasse al lavoro curata come una modella. Si passò la spazzola tra i capelli ramati, tagliati alla moda: un caschetto corto che le arrivava all'altezza del mento. Si vestì in fretta. Indossò un vestito di cotone a righe verdi e beige stretto in vita da una cintura di vernice marrone scuro. Erano passati ventinove minuti da quando aveva cercato di chiamare Anthony. Per ingannare il tempo pensò al numero 29. Era un numero primo - non poteva essere diviso per nessun altro numero tran-ne l'uno - ma a parte questo non era molto interessante. L'unica cosa insolita era che 29 sommato a 2 per x al quadrato dava come risultato un numero primo per valori di x da zero a 28. Calcolò mentalmente la sequenza: 29, 31, 37, 47, 61, 79, 101, 127... Prese il telefono e chiamò di nuovo l'ufficio di Anthony. Ancora nessuna risposta.

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1941

Elspeth Twomey si innamorò di Luke subito dopo il primo bacio. La maggior parte dei ragazzi di Harvard non sapeva baciare. O ti maltrattavano le labbra con rozzi sfregamenti, o spalancavano così tanto la bocca che ti sembrava di essere un dentista. Quan-do Luke la baciò, a mezzanotte meno cinque all'ombra del dor-mitorio della Radcliffe, fu tenero e appassionato nello stesso tempo. Le sue labbra continuarono a muoversi, non solo sulla sua bocca, ma sulle guance, sulle palpebre, sulla gola. Con la punta della lingua le schiuse gentilmente le labbra, chiedendo educatamente il permesso di entrare, e lei non finse neppure di esitare. In seguito, seduta davanti allo specchio della sua stanza, aveva sussurrato alla propria immagine riflessa: "Credo proprio di amarlo". Erano passati sei mesi da allora e quel sentimento si era fatto sempre più forte. Ora vedeva Luke quasi ogni giorno. Frequen-tavano entrambi l'ultimo anno. Ogni giorno si incontravano per pranzo, oppure studiavano insieme un paio d'ore.Ifine settima-na li passavano quasi sempre insieme. Non era insolito per le ragazze della Radcliffe, nel corso del-l'ultimo anno, fidanzarsi con uno studente di Harvard o con un giovane professore. Si sposavano in estate, facevano una lunga una di miele e, al ritorno, si sistemavano in un appartamento. Cominciavano a lavorare e un annetto dopo nasceva il primo bambino. Ma Luke non le aveva mai parlato di matrimonio. Lo osservò mentre sedevano in un séparé in fondo al bar di Flanagan a discutere con Bern Rothsten, uno spilungone con i baffi neri a cespuglio e un'espressione caparbia, e la sua fidanza-ta, Peg. Un ciuffo di capelli scuri continuava a cadere sulla fronte di Luke e lui lo ricacciava indietro con la mano sinistra, in un gesto familiare. Quando fosse stato più vecchio e avesse occupa-to un posto di responsabilità, li avrebbe tenuti a posto con la bril-lantina e non sarebbe stato più così sexy. Bern era comunista, come molti studenti e professori di Har-vard. «Tuo padre è un banchiere» disse a Luke con disprezzo «e anche tu lo diventerai. È ovvio che per te il capitalismo sia fanta-stico.» Elspeth vide Luke avvampare. Di recente "Time" aveva pubbli-cato un articolo su suo padre, che figurava tra i dieci uomini di-ventati miliardari dopo la Depressione. Elspeth intuì che era ar-rossito perché molto affezionato alla sua famiglia e l'implicita critica nei confronti del padre lo offendeva. «Noi non giudichia-mo le persone in base ai loro genitori, Bern!» disse, indignata. «E, comunque, l'attività bancaria è un'occupazione onorevole» ribatté Luke.«Ibanchieri aiutano le persone ad avviare attività e a creare posti di lavoro.» «Sì, come nel '29.» «Fanno degli errori come tutti. A volte aiutano le persone sba-gliate. Anche i soldati commettono errori sparano alle persone sbagliate - ma non per questo ti accuso di essere un assassino.» Questa volta fu Bern a offendersi. Aveva combattuto nella guer-ra civile spagnola - era di tre o quattro

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anni più vecchio di loro - ed Elspeth immaginò che ricordasse qualche tragico errore. «In ogni caso, io non ho intenzione di diventare banchiere» aggiunse Luke. La ragazza di Bern, Peg, si sporse in avanti incuriosita. Era un tipo trasandato, dalle convinzioni forti, ma non aveva la lingua ta-gliente di Bern. «E cosa vuoi fare, allora?» «Lo scienziato.» «Che genere di scienziato?» Luke puntò il dito verso l'alto. «Voglio esplorare ciò che si trova oltre il nostro pianeta.» Bern scoppiò in una risata sarcastica. «Razzi spaziali! Fantasie da adolescenti.» Elspeth scattò nuovamente in difesa di Luke. «Piantala, Bern. Non sai neanche di cosa stai parlando.» Bern studiava letteratu-ra francese. Ma Luke non sembrava essersi offeso. Forse era abituato al fatto che la gente ridesse dei suoi sogni. «Io credo che accadrà» affermò. «E ti dico anche un'altra cosa. Sono convinto che nel corso della nostra vita la scienza farà per la gente comune ben più del comuni-smo.» Elspeth trasalì. Amava Luke, ma sapeva che riguardo alla politica era un ingenuo. «Troppo semplice» osservò.«Ivantaggi della scienza sono appannaggio di una cerchia ristretta di privi-legiati.» «Non è affatto vero» ribatté Luke. «Le navi a vapore rendono la vita migliore sia ai marinai che ai passeggeri.» «Sei mai stato nella sala macchine di un transatlantico?» gli chiese Bern. «Sì, e nessuno stava morendo di scorbuto.» Una figura alta si avvicinò al tavolo. «Ehi, ragazzi, siete abba-stanza grandi per bere alcolici in un locale pubblico?» Era Anthony Carroll. Indossava un completo di serge blu stazzonato a tal punto che pareva ci avesse dormito. Era accompagnato da una ragazza così singolare che Elspeth si lasciò sfuggire un invo-lontario mormorio di sorpresa. Era piccola e minuta, vestita alla moda con una gonna nera dalla linea morbida, un giacchino corto rosso e un cappellino dello stesso colore con visiera dal quale uscivano folti riccioli neri. «Vi presento Billie Josephson» disse Anthony. «Sei ebrea?» chiese Bern Rothsten. «Sì» rispose la ragazza, intimidita da una domanda così diretta. «Allora puoi sposare Anthony, ma non diventare membro del suo country club.» «Io non sono membro di alcun country club» protestò Anthony. «Lo sarai, Anthony, lo sarai» disse Bern. Alzandosi per stringere la mano alla ragazza, Luke urtò il tavo-lo con le cosce e rovesciò un bicchiere. Non era da lui essere così maldestro, ed Elspeth comprese subito con una punta di fastidio che Miss

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Josephson aveva conquistato la sua attenzione. «Sono sorpreso» disse, rivolgendo alla ragazza il più fascinoso dei sorri-si. «Quando Anthony ha detto che si sarebbe visto con Billie, ho pensato a qualcuno alto un metro e ottanta con il fisico del lotta-tore.» Billie scoppiò a ridere e scivolò sulla panchetta accanto a lui. «Mi chiamo Bilha» disse. «È un nome biblico. Era la concubina di Giacobbe e madre di Dan. Ma sono cresciuta a Dallas, dove tutti mi chiamavano Billie-Jo.» «Non è graziosa?» sussurrò Anthony sedendosi accanto a Elspeth. Billie si poteva definire tutto fuorché graziosa, pensò Elspeth. Aveva un volto sottile con un naso affilato e grandi occhi intensi marrone scuro, ma era l'insieme a risultare sbalorditivo: il rossetto rosso fuoco, l'inclinazione del cappello, l'accento texano e, più di ogni altra cosa, la sua energia. Mentre parlava con Luke e gli rac-contava una storia sui texani sorrideva, aggrottava la fronte, mimava ogni genere di emozione. «È veramente affascinante» disse Elspeth a Anthony. «Non capisco come ho fatto a non notarla pri-ma.» «Lavora sempre, non la vedi spesso alle feste.» «Allora come l'hai conosciuta?» «L'ho incontrata al Fogg Museum. Indossava un cappotto verde con bottoni d'ottone e un berretto. Mi è parsa come un sol-datino uscito fresco fresco da una scatola di giocattoli.» Billie non era affatto un giocattolo, rifletté Elspeth. Era peri-colosa. Billie rise per qualcosa che Luke aveva detto e gli diede un colpetto sul braccio in un finto cenno di rimprovero. Il gesto era civettuolo, pensò Elspeth. Irritata, li interruppe chiedendo a Billie: «Hai intenzione di non rispettare il coprifuoco, questa sera?». Le ragazze della Radcliffe dovevano far rientro nei dormitori entro le dieci. Potevano chiedere il permesso di tornare più tardi, ma, in quel caso, dovevano annotare il proprio nome su un regi-stro, indicare dove avevano intenzione di andare e a che ora sareb-bero rientrate. Le regole complesse, però, servivano solo a ispirare ingegnosi stratagemmi. «Ho detto che avrei passato la notte con una zia che ha preso una suite al Ritz. E la tua storia qual è?» «Nessuna, solo una finestra del piano terra che resterà aperta tutta la notte.» «In realtà dormirò presso alcuni amici di Anthony, a Fenway» precisò Billie, abbassando la voce. Anthony assunse un'espressione imbarazzata. «Amici di mia madre. Hanno un grande appartamento» disse a Elspeth. «Non mi guardare con quell'aria di disapprovazione! Sono persone più che rispettabili.» «Lo spero proprio» rispose Elspeth compunta; aveva avuto la soddisfazione di veder arrossire Billie. «Tesoro, a che ora inizia il film?» chiese, rivolgendosi a Luke. Lui guardò l'orologio. «Dobbiamo andare.» Luke si era fatto prestare una macchina per il fine settimana. Era una decappottabile a due posti, una Ford modello A vecchia di dieci anni, il cui cofano tozzo e i parafanghi sporgenti risulta-vano antiquati accanto alle linee aerodinamiche delle auto dei primi anni Quaranta.

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Luke guidava la spider con abilità e piacere. Andarono a Boston. Elspeth si chiese se non fosse stata leggermente acida con Billie. Forse un pochino, concluse, ma non ne era affatto dispia-ciuta. Andarono al Loew's State Theatre a vedere l'ultimo film di Alfred Hitchcock, Il sospetto. Nell'oscurità, Luke la circondò con un braccio e lei gli posò la testa sulla spalla. Le parve un vero pec-cato aver scelto una pellicola che trattava di un matrimonio disa-stroso. Verso mezzanotte tornarono a Cambridge e si fermarono in Memorial Drive, accanto alla rimessa per le barche, con il muso dell'auto rivolto verso Charles River. Non c'era riscaldamento ed Elspeth tirò su il collo di pelliccia del cappotto e si strinse contro Luke per trovare calore. Parlarono del film. Elspeth pensava che nella vita reale il per-sonaggio di Joan Fontaine, una ragazza repressa proveniente da una famiglia all'antica, non si sarebbe mai sentita attratta da un buono a nulla come quello interpretato da Cary Grant. «Ma è proprio per questo che si innamora di lui» disse Luke «perché è un tipo pericoloso.» «Secondo te, le persone pericolose sono affascinanti?» «Certamente.» Elspeth si scostò da lui e osservò la luna che si rifletteva sulla superficie dell'acqua in movimento. Billie Josephson era perico-losa, rifletté. Luke avvertì il suo fastidio e cambiò argomento. «Questo pomeriggio il professor Davies mi ha detto che se volessi potrei fare il master qui a Harvard.» «Come mai ti ha detto questo?» «Gli ho accennato che speravo di andare alla Columbia. E lui mi ha chiesto: "Per quale motivo? Resta qui!". Gli ho spiegato che la mia famiglia vive a New York e lui ha esclamato: "Ah, la famiglia!". Come se non potessi diventare un matematico serio perché provo il desiderio di vedere la mia sorellina.» Luke era il maggiore di quattro figli. Sua madre era francese. Il padre l'aveva conosciuta a Parigi alla fine della prima guerra mondiale. Elspeth sapeva che Luke era affezionato ai suoi due fratelli e letteralmente adorava la sorella di dieci anni. «Il profes-sor Davies è uno scapolone» disse. «Vive solo per il suo lavoro.» «Hai mai pensato di prendere un master?» Il cuore di Elspeth mancò un colpo. «Pensi che dovrei?» Le stava chiedendo di andare alla Columbia con lui? «Come matematica sei più brava della maggior parte degli stu-denti maschi di Harvard.» «Ho sempre desiderato lavorare al Dipartimento di Stato.» «Significa vivere a Washington.» Elspeth era certa che Luke non avesse programmato questa conversazione. Stava solo pensando ad alta voce. Era tipico degli uomini parlare senza aver affatto riflettuto di argomenti che avrebbero

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profondamente influito sulla loro vita. Ma Luke sembrava costernato all'idea che avrebbero potuto trasferirsi in città diverse. La soluzione a questo dilemma doveva essere ovvia per lui quanto lo era per lei, pensò. «Sei mai stata innamorata?» le chiese a bruciapelo. Poi, ren-dendosi conto di quanto fosse stato repentino, aggiunse: «È una domanda personale, non ho alcun diritto di fartela». «Non c'è problema.» Se lui voleva parlare d'amore, a lei anda-va benissimo. «A essere sincera, sì.» Osservò il viso di lui alla luce della luna e fu felice di scorgervi un'ombra fugace di turbamen-to. «Quando avevo diciassette anni, a Chicago ci fu una vertenza dei lavoratori delle acciaierie. A quel tempo partecipavo molto alla vita politica. Andai a dare una mano come volontaria; facevo il caffè, portavo i volantini. Lavoravo per un giovane sindacalista che si chiamava Jack Largo, e mi innamorai di lui.» «E lui di te?» «Santo Dio, no. Lui aveva venticinque anni, mi considerava una bambina. Era gentile con me, e affascinante. Ma lo era con chiun-que» disse. «Una volta mi diede un bacio» proseguì, dopo un atti-mo di esitazione. Si chiese se fosse il caso di parlare con Luke di questo, ma provava il bisogno di confidarsi. «Eravamo soli, nel re-tro, stavamo mettendo i volantini nelle scatole e io gli raccontai qualcosa che lo fece ridere. Non ricordo neppure cosa. "Sei dav-vero una perla, Ellie" mi disse... Era uno di quelli che abbreviano i nomi a tutti, tu saresti stato sicuramente Lou. Poi mi diede un ba-cio, sulle labbra. Io quasi svenni per la gioia, ma lui continuò a im-ballare volantini come niente fosse.» «Io credo che lui fosse innamorato di te.» «Forse.» «Vi vedete ancora?» Lei scosse la testa. «È morto.» «Così giovane!» «È stato ucciso.» Elspeth ricacciò indietro le lacrime improv-vise. L'ultima cosa che voleva era che Luke pensasse che lei era ancora innamorata del ricordo di Jack. «Due poliziotti fuori ser-vizio, ingaggiati dai proprietari delle acciaierie, lo sorpresero in un vicolo e lo pestarono a morte con delle sbarre di ferro.» «Cristo santo!» esclamò Luke, guardandola. «Tutti sapevano chi era stato, ma non venne arrestato nessuno.» Lui le prese la mano. «Ho letto di queste cose sui giornali, ma non pensavo fossero vere.» «E invece lo sono. Gli impianti non si possono fermare. Chiunque si metta in mezzo deve essere eliminato.» «A sentire te, gli industriali sono allo stesso livello del crimine organizzato.» «Io non ci vedo una grande differenza. Adesso, però, non mi occupo più di questi argomenti. E bastato allora.» Luke aveva co-minciato a parlare d'amore e lei, stupidamente, aveva portato la conversazione sulla politica. Tornò al discorso iniziale. «E tu? Ti sei mai innamorato?»

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«Non ne sono sicuro» rispose, con una certa esitazione. «Non credo di sapere cosa sia l'amore.» Era una tipica risposta da ragazzo. Ma poi le diede un bacio e lei si rilassò. Quando si baciavano le piaceva accarezzarlo, sfiorargli le orec-chie e la linea della mascella, toccargli i capelli e la nuca. Ogni tanto lui si interrompeva per guardarla e la osservava con un accenno di sorriso; questo la faceva pensare alle parole di Ofelia, nell' Amleto, "Cominciò a scrutarmi il viso come se avesse voluto disegnarlo". Poi riprendeva a baciarla. Elspeth era felice al pensiero di piacergli così tanto. Dopo un po', lui si ritrasse con un gran sospiro. «Mi chiedo come facciano le persone sposate ad annoiarsi» disse. «Loro non devono mai smettere di baciarsi.» A Elspeth questi discorsi sul matrimonio piacevano. «Suppon-go siano i bambini a interromperli» osservò con una risata. «Tu vorresti avere dei bambini, un giorno?» Elspeth sentì il respiro accelerare. Cosa le stava chiedendo? «Certo.» «Io ne vorrei quattro.» Come era stato per i suoi genitori. «Maschi o femmine?» «Due e due.» Ci fu una pausa. Elspeth aveva paura di parlare. Il silenzio si protrasse. Infine, lui si voltò verso di lei con un'espressione seria. «Cosa ne pensi? Ti piacerebbe avere quattro figli?» Era l'imbeccata che lei aspettava. Gli sorrise. «Se fossero i tuoi, mi piacerebbe molto» rispose. Lui la baciò ancora. Presto si fece troppo freddo per restare là e, seppur con rilut-tanza, dovettero tornare ai dormitori della Radcliffe. Mentre attraversavano Harvard Square videro una figura che si sbracciava dal ciglio della strada. «È Anthony, quello?» chiese Luke, incredulo. Era proprio Anthony. E con lui c'era Billie. Luke accostò e Anthony si avvicinò al finestrino. «Sono pro-prio contento di avervi visto» disse. «Ho bisogno di un favore.» Billie era in piedi dietro di lui, tremante per il freddo e visibil-mente arrabbiata. «Cosa ci fate qui?» chiese Elspeth. «C'è stato un malinteso.Imiei amici di Fenway sono andati via per il fine settimana... devono aver fatto confusione con le date. Billie non ha un posto dove andare.» Elspeth ricordò che Billie aveva mentito a proposito di dove avrebbe passato la notte. Ora non poteva

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più tornare al dormito-rio senza ammettere l'inganno. «L'ho portata da noi» proseguì Anthony. Intendeva dire a Cambridge House, a Harvard, dove lui e Luke alloggiavano. «Ho pensato che poteva dormire nella nostra stanza, mentre Luke e io avremmo passato la notte nella biblioteca.» «Tu sei pazzo» disse Elspeth. «Qualcuno l'ha già fatto» si intromise Luke. «Cosa è succes-so?» «Ci hanno visti.» «Oh, no!» esclamò Elspeth. Quando una ragazza veniva sco-perta nella stanza di un uomo, specialmente di notte, era una fac-cenda seria. Entrambi potevano venire espulsi dall'università. «Chi vi ha visti?» chiese Luke. «Geoff Pidgeon e un gruppetto di altri.» «Be', Geoff non è un problema, ma chi c'era con lui?» «Non lo so con certezza. Era piuttosto buio ed erano tutti ubriachi. Parlerò con loro domattina.» Luke annuì. «Cosa intendi fare, ora?» «Billie ha un cugino che vive a Newport, nel Rhode Island» rispose Anthony. «L'accompagneresti fin là?» «Cosa?» fece Elspeth. «Ma sono almeno ottanta chilometri!» «E con questo? Ci vorrà un'ora o due» ribatté Anthony, come se niente fosse. «Cosa ne dici, Luke?» «Certo» rispose lui. Elspeth sapeva che avrebbe accettato. Per lui aiutare un amico era una questione d'onore, a prescindere dai possibili disagi. Cio-nonostante, lei si arrabbiò lo stesso. «Ti ringrazio» disse Anthony. «Figurati» rispose Luke. «Però c'è un problema: quest'auto ha solo due posti.» Elspeth aprì la portiera e scese. «Accomodati pure» disse, im-musonita. Si vergognava a essere così scortese - Luke faceva bene ad aiutare un amico nei guai - ma odiava l'idea che lui passasse un paio d'ore a bordo di quella macchina in compagnia della sensua-le Billie Josephson. Luke avvertì il suo malumore e disse: «Elspeth, salta su. Prima porto a casa te». Lei cercò di rispondere con gentilezza. «Non ce n'è bisogno, Anthony può accompagnarmi a piedi fino al dormitorio. E poi Billie mi sembra morta di freddo.» «Okay, se lo dici tu.»

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Elspeth avrebbe preferito che Luke non avesse accettato così in fretta. Billie le diede un bacio sulla guancia. «Non so proprio come ringraziarti» le disse. Salì in auto e chiuse la portiera senza nep-pure salutare Anthony. Luke fece un cenno con la mano e partì. Anthony ed Elspeth rimasero a osservare l'auto che scompari-va nell'oscurità. «Accidenti!» fece Elspeth.

6.30

Sulla fusoliera del razzo bianco c'è la scritta UE a grosse lettere nere. Si tratta di un semplice codice cifrato:

H

U

N

T

S

V

I

L

E

X

1

2

3

4

5

6

7

8

9

0

quindi UE è il missile numero 29. Il codice serve per non far capi-re quanti missili sono stati costruiti.

La luce del giorno si impossessò lenta e furtiva della città infreddolita. Uomini e donne uscivano dalle case stringendo occhi e labbra per difendersi dal vento gelido e si allontanavano veloci lungo le strade grigie, diretti verso il calore e la luce bril-lante dei loro luoghi di lavoro. Luke non aveva una destinazione precisa: una strada vale un'altra se nessuna di esse significa qualcosa. Forse, pensava, svoltato un angolo avrebbe capito, in un lampo avrebbe ricono-sciuto un luogo familiare... la strada dove era cresciuto o l'edifi-cio in cui aveva lavorato. Ma a ogni angolo era una delusione. A mano a mano che la luce del giorno si faceva più forte, prese a studiare le persone che incrociava. Una di queste avrebbe potuto essere suo padre, sua sorella, persino suo figlio. Continuava a spe-rare che qualcuno gli facesse un cenno, si fermasse e, abbraccian-dolo, gli dicesse: "Luke, cosa ti è capitato? Vieni con me, lascia che ti aiuti!". Forse, però, un parente lo avrebbe guardato con di-sprezzo, tirando diritto. Magari si era comportato male con la sua famiglia, oppure i suoi vivevano in un'altra città. Cominciò a pensare che non avrebbe avuto fortuna. Nessuno gli sarebbe andato incontro gettandogli le braccia al collo, urlando di gioia, e lui non avrebbe mai riconosciuto la strada in cui viveva. Va-gare senza

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meta fantasticando su un colpo di fortuna non era una buona strategia. Doveva pur esserci un modo per scoprire la pro-pria identità. Si domandò se non potesse essere per caso una delle tante per-sone scomparse. Era sicuro che ci fosse un elenco, con la descri-zione di ognuna. Chi poteva avere questo elenco? Forse la poli-zia. Gli pareva di ricordare di essere passato davanti a un distretto di polizia qualche minuto prima. Si voltò di scatto per tornare sui propri passi e, così facendo, andò a sbattere contro un giovane in impermeabile e berretto di gabardine color verde oliva. Aveva la sensazione di averlo già visto.Iloro sguardi si incrociarono e, per un istante, Luke si aggrappò alla speranza di poter essere ricono-sciuto. L'uomo, però, distolse lo sguardo, imbarazzato, e proseguì. Ricacciando indietro la delusione, Luke cercò di ripetere il percorso fatto in precedenza, ma era difficile perché aveva conti-nuato a cambiare direzione a caso. Comunque, prima o poi, si sarebbe pur imbattuto in una stazione di polizia. Mentre procedeva cercò di ricavare qualche informazione su se stesso. Vide un tizio alto con un cappello floscio che si accen-deva una sigaretta e tirava una lunga boccata, ma non provò alcun desiderio. Ne dedusse che non fumava. Guardando le automobili si rendeva conto che i modelli scattanti e affusolati che attiravano la sua attenzione erano di recente produzione. Decise che gli piacevano le auto veloci, ed era certo di saper gui-dare. Riconosceva anche la marca e il modello della maggior parte delle macchine. Erano informazioni che non aveva dimen-ticato, così come la capacità di parlare inglese. Guardando la propria immagine riflessa in una vetrina, vide un barbone di età indefinibile. Ma, osservando i passanti, riusciva a capire se avevano venti, trenta, quarant'anni o più. Scoprì anche che gli veniva automatico classificare le persone come più giovani o più vecchie di lui. Riflettendoci bene, si rese conto che quelli di vent'anni gli sembravano più giovani e quelli di quaranta più vec-chi. Dunque, doveva avere un'età intermedia. Queste piccolissime vittorie sulla sua amnesia gli procuravano un'esagerata sensazione di trionfo. Però si era completamente perso. Si rese conto con disappunto di trovarsi in una via affollata di misere botteghe che vendevano ar-ticoli da quattro soldi - vestiti dozzinali, mobili usati -, agenzie di pegni, negozi di alimentari che accettavano buoni viveri. Si fermò di colpo e si guardò indietro, riflettendo sul da farsi. Una trentina di metri più in là, vide l'uomo con l'impermeabile di gabardine ver-de. Era fermo davanti a una vetrina e guardava un televisore. "Che mi stia seguendo?" si chiese Luke, perplesso. Un pedinatore è sempre solo, di rado porta una valigetta o una borsa della spesa, e sembra sempre bighellonare piuttosto che procedere in una direzione precisa. L'uomo rispondeva perfetta-mente a queste caratteristiche. Sarebbe stato facile appurarlo. Luke giunse in fondo all'isolato, attraversò la strada e la riper-corse in senso contrario. Arrivato all'altro capo dell'isolato si fermò sul bordo del marciapiede, poi guardò a destra e a sinistra. L'impermeabile verde si trovava a una trentina di metri dietro di lui. Luke attraversò un'altra volta la strada. Per non suscitare so-spetti finse di studiare i portoni davanti ai quali passava, come se stesse cercando un numero civico. Arrivò fino in fondo, al punto da cui era partito.

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L'impermeabile lo seguì. Luke era perplesso, ma il suo cuore palpitava per la speranza. L'uomo che lo seguiva doveva sicuramente sapere qualcosa di lui... magari conosceva persino la sua identità. Per essere del tutto certo di essere seguito doveva salire a bordo di un mezzo di trasporto e costringere così il pedinatore a fare altrettanto. Nonostante l'emozione, una voce fredda e razionale nel fondo della sua mente chiedeva: "Come mai sai esattamente cosa fare per capire se qualcuno ti segue o no?". La tecnica gli era venuta in mente senza alcuna difficoltà. Aveva partecipato a qualche atti-vità clandestina prima di diventare un barbone? Ci avrebbe pensato più tardi. Ora doveva procurarsi i soldi per il biglietto dell'autobus. Nelle tasche degli abiti laceri che indos-sava non c'era nulla: doveva aver speso fino all'ultimo centesimo per comperarsi da bere. Ma questo non era un problema. Il con-tante si trovava ovunque: nelle tasche della gente, nei negozi, sui taxi, nelle case. Cominciò a guardarsi intorno con occhi diversi. C'erano edi-cole da rapinare, borsette da scippare, tasche pronte a essere svuotate. Sbirciò dentro una caffetteria: vide un uomo dietro il bancone e una cameriera che serviva ai tavoli. Andava bene come qualunque altro posto. Entrò. Isuoi occhi perlustrarono i tavoli alla ricerca di monete lascia-te di mancia, ma non ebbe fortuna. Si avvicinò al bancone. Una radio trasmetteva il notiziario. "Esperti di missilistica affermano che l'America ha solo quest'ultima occasione per mettersi a pari con i russi nella corsa per il controllo dello spazio cosmico." L'uomo al banco stava preparando un espresso a una macchina luccicante dalla quale si levavano nuvole di vapore; alle narici di Luke giunse una fragranza deliziosa. Cosa avrebbe detto un barbone? «Hai qualche ciambella avan-zata?» chiese. «Fuori dai piedi» disse l'uomo, brusco. «E non farti più vede-re.» Luke contemplò l'idea di saltare il bancone e aprire la cassa, ma gli parve una misura estrema, considerato che gli servivano solo i soldi per l'autobus. Poi vide ciò che gli serviva. Accanto al registratore di cassa, a portata di mano, c'era una scatola di metallo con una fessura sul coperchio e un'etichetta con la foto di un bambino e le parole "Ricordati di chi non ha il dono della vista". Luke si spostò in modo da coprire con il corpo la scatola alla visuale di clienti e cameriera. Ora doveva solo distrarre l'uo-mo dietro il banco. «Ce l'hai dieci centesimi da darmi?» disse. «Okay, ora ti do io quello che meriti» ribatté l'uomo. Posò una tazza con violenza e si pulì le mani sul grembiule. Per uscire doveva chinarsi e passare sotto il banco e per un attimo lo avreb-be perso di vista. In quell'attimo Luke afferrò la scatola e se l'infilò sotto il giac-cone. Purtroppo era leggera, ma un lieve tintinnio gli fece capire che non era vuota. L'uomo abbrancò Luke per il colletto e lo spinse fuori dal loca-le. Luke non oppose resistenza finché, giunti sulla porta, l'uomo non gli assestò un calcione nel sedere. Dimenticando ogni caute-la, Luke si voltò di scatto, pronto a reagire. Spaventato, l'uomo rientrò di corsa. Luke si chiese perché mai se la fosse presa in quel modo. Era entrato in un posto a chiedere l'elemosina

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e non se n'era andato come gli era stato intimato. Certo, quel calcio era del tutto gra-tuito, ma se l'era meritato... aveva rubato dei soldi destinati ai bambini! Ciononostante, dovette fare uno sforzo per mettere a tacere il proprio orgoglio, voltarsi e sgattaiolare via come un cane con la coda tra le gambe. Si infilò in un vicolo, trovò una pietra appuntita e sfogò tutta la sua rabbia sulla scatola di metallo, che cedette in un attimo. Cal-colò che le monete al suo interno ammontassero a due o tre dollari. Se le mise nella tasca del giaccone e tornò sulla strada. Ringraziò il cielo che c'era gente caritatevole e promise di donare tre dollari ai ciechi se mai si fosse rimesso in carreggiata. "E va bene" pensò. "Proviamo." L'uomo con l'impermeabile verde leggeva un giornale, fermo davanti a un'edicola. Un autobus si fermò a pochi metri di distanza da Luke. Non aveva idea di dove portasse, ma salì ugualmente. L'autista gli lan-ciò un'occhiata ostile, però non lo cacciò fuori. «Tre fermate» disse Luke. «Non ha importanza dove vuoi andare, la tariffa è comunque diciassette centesimi, a meno che tu non abbia già un biglietto.» Pagò con parte degli spiccioli che aveva rubato. Forse si era sbagliato. Andando verso il fondo dell'autobus, guardò nervosamente fuori dal finestrino. L'uomo con l'imper-meabile si stava allontanando con il giornale piegato sotto il brac-cio. Luke era perplesso. L'uomo avrebbe dovuto tentare di ferma-re un taxi. Forse, dopotutto, non lo stava pedinando. Si sentì deluso. L'autobus ripartì e Luke si sedette. Di nuovo si chiese come mai sapesse quel genere di cose. Forse lo avevano addestrato per un'attività segreta. Ma perché? Che fosse un poliziotto? Forse c'entrava la guerra. Sapeva che c'era stata una guerra. L'America aveva combattuto contro i tedeschi in Europa e contro i giapponesi nel Pacifico. Ma non riusciva a ricordare di avervi preso parte. Alla terza fermata scese dall'autobus insieme a un gruppetto di altri passeggeri. Nessun taxi in vista, nessuna traccia dell'uomo con l'impermeabile. Mentre si guardava intorno vide che uno dei passeggeri scesi con lui si attardava davanti all'ingresso di un negozio, frugandosi nelle tasche. Mentre Luke lo osservava, l'uo-mo si accese una sigaretta e tirò una lunga boccata. Era un uomo alto con un cappello floscio. Luke si rese conto di averlo già visto.

7.00

La rampa di lancio è una semplice lastra d'acciaio con quattro zampe e un buco al centro attraverso il

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quale si convogliano i gas di scarico del missile. Un deflettore conico posto al di sotto della lastra disperde lateralmente il getto dei gas.

Anthony Carroll percorreva Constitution Avenue a bordo di una Cadillac Eldorado. L'auto, che aveva ormai cinque anni, apparteneva a sua madre; lui l'aveva presa in prestito un anno prima per tornare a Washington da casa dei suoi in Virginia, e non aveva mai trovato il tempo per restituirla. Probabilmente, a quel punto, sua madre se n'era già comperata un'altra. Si infilò nel parcheggio del Q Building in Alphabet Row, una fila di edifici che assomigliavano a caserme, costruite in tutta fret-ta durante la guerra in un parco vicino al Lincoln Memorial. Erano un pugno nell'occhio, su questo non esistevano dubbi, ma a lui quel posto piaceva perché vi aveva passato la maggior parte della guerra al servizio dell'Oss (Office of Strategic Service), l'or-ganismo che aveva poi dato origine alla Cia. Quelli sì che erano bei tempi: un'agenzia clandestina poteva fare praticamente tutto ciò che voleva senza dover rendere conto a nessuno, a parte il presidente. La Cia era l'agenzia in più rapido sviluppo dell'intera Washing-ton, e ora si stava costruendo una nuova sede, un progetto da milioni di dollari, dall'altra parte del Potomac, a Langley, in Vir-ginia. Una volta completata questa sede, Alphabet Row sarebbe stata demolita. Anthony si era opposto in ogni modo al progetto di Langley, e non solo per i bei ricordi che il Q Building custodiva per lui. Al momento gli uffici della Cia erano ospitati in trentuno edifici sparsi nel quartiere noto con il nome di Foggy Bottom, occupato in prevalenza da strutture del governo. Ed era lì che dovevano restare, aveva sostenuto Anthony con convinzione. Era molto dif-ficile per gli agenti stranieri capire il potere e le dimensioni della Cia se i suoi uffici erano sparpagliati qua e là in mezzo ad altri edifici governativi. Quando fosse entrata in funzione la sede di Langley, chiunque, anche solo passandoci davanti in macchina, sarebbe stato in grado di quantificarne le risorse, il potenziale umano, persino il budget. Ma era stato sconfitto.Ipezzi grossi erano decisi a reggere la Cia con mano forte. Anthony era persuaso che l'attività clande-stina fosse per gente temeraria e senza scrupoli, o almeno così era stato durante la guerra. Ora, però, il potere era nelle mani di passacarte e contabili. Nel parcheggio c'era un posto riservato a lui, contrassegnato dalla scritta DIRETTORE SERVIZI TECNICI, ma andò a fermarsi proprio davanti all'ingresso principale. Alzando lo sguardo verso quel rutto edificio si chiese se la sua imminente demolizione rappre-sentasse anche la fine di un'era. Ultimamente erano sempre più frequenti le battaglie burocratiche in cui veniva sconfitto. Certo, continuava a essere una figura molto potente all'interno dell'A-genzia. "Servizi tecnici" era un eufemismo che stava a indicare la sezione responsabile di furti con scasso, intercettazioni telefoni-che, esperimenti con sostanze stupefacenti e altre attività illegali. Le avevano affibbiato il soprannome di "Giochi sporchi". La po-sizione di prestigio ricoperta da Anthony derivava dal suo passato di eroe di guerra e da una serie di buoni colpi messi a segno duran-te la guerra fredda. Molti, però, volevano trasformare la Cia se-condo l'immagine che ne aveva l'opinione pubblica, un'agenzia per la sola raccolta di informazioni strategiche. "Dovranno prima passare sul mio cadavere" pensava Anthony. Non gli mancavano i nemici - superiori che aveva offeso con i suoi modi strafottenti, agenti incapaci cui aveva negato un avan-zamento, passacarte cui non piaceva l'idea che il governo fosse coinvolto in operazioni clandestine -, ognuno pronto a distrug-gerlo al primo errore.

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E quel giorno si stava giocando davvero tutto. Entrando a passo deciso nell'edificio, mise da parte queste preoccupazioni generiche per concentrarsi su un problema con-tingente: il dottor Claude Lucas, noto come Luke, l'uomo più peri-coloso d'America, colui che minacciava di distruggere ciò per cui Anthony aveva lottato. Aveva passato in ufficio quasi l'intera notte ed era andato a casa solo per radersi e cambiarsi la camicia. L'agente di guardia nell'atrio lo guardò sorpreso. «Buongiorno, Mr Carroll... già di ritorno?» «Un angelo mi è apparso in sogno e mi ha detto: "Torna a lavo-rare, brutto lavativo figlio di puttana".» La guardia scoppiò a ridere. «C'è Mr Maxell nel suo ufficio, signore.» Anthony rimase sorpreso. Pete Maxell avrebbe dovuto essere con Luke. Che qualcosa fosse andato storto? Salì le scale di corsa. Pete sedeva sulla sedia di fronte alla scrivania; era ancora vesti-to come un barbone e la voglia rossa sul viso era in parte coper-ta da un dito di sporcizia. Quando Anthony entrò, lui schizzò in piedi, timoroso. «Cos'è successo?» chiese Anthony. «Luke ha deciso che voleva restare solo.» Anthony lo aveva previsto. «Chi ti ha sostituito?» «Simons, e poi c'è Betts come rimpiazzo.» Anthony annuì con espressione pensosa. Luke si era sbarazza-to di un agente, poteva sbarazzarsi anche di un altro. «E la memoria di Luke?» «Completamente andata.» Anthony si tolse il cappotto e si sedette dietro la scrivania. Luke stava causando problemi, ma lui l'aveva previsto ed era pronto ad affrontarli. Guardò l'uomo che aveva di fronte. Pete era un buon agente, attento e preparato, ma con poca esperienza. Però gli era fedele fi-no al fanatismo. Tutti gli agenti più giovani sapevano che Anthony aveva personalmente organizzato un omicidio - l'uccisione del co-mandante delle forze armate della repubblica di Vichy, ammira-glio Darlan, ad Algeri, la vigilia di Natale del 1942 - e provavano per lui un timore reverenziale. Pete, comunque, aveva nei suoi confronti uno speciale debito di riconoscenza. Sulla domanda di assunzione aveva mentito affermando di non aver mai avuto guai con la giustizia; in seguito Anthony aveva scoperto che era stato multato per aver richiesto i favori di una prostituta quando era an-cora studente a San Francisco. Per questo avrebbe dovuto essere licenziato, ma Anthony aveva tenuto segreta la cosa e Pete gliene sarebbe stato grato per l'eternità. Ora, però, era abbattuto e umiliato per essere venuto meno alle aspettative del suo capo. «Rilassati» gli disse Anthony con fare paterno. «Raccontami esattamente cosa è successo.»

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Con espressione riconoscente Pete tornò a sedersi. «Si è sveglia-to che sembrava pazzo» cominciò. «Continuava a urlare "Chi sono?" e frasi del genere. Sono riuscito a calmarlo... ma ho commes-so un errore: l'ho chiamato Luke.» Anthony aveva detto a Pete di tener d'occhio Luke, ma di non dargli alcuna informazione. «Non ha importanza, non è il suo vero nome.» «Poi mi ha chiesto chi fossi, e io ho risposto Pete. Ero così preoccupato di farlo smettere di urlare, che mi è sfuggito senza volere.» Pete si sentiva mortificato per questi errori grossolani, ma in realtà non erano così gravi e Anthony liquidò le sue scuse con un gesto della mano. «E poi?» «L'ho portato in una cappella metodista, come avevamo pro-grammato. Ma lui ha continuato a fare domande. Voleva sapere se il pastore l'avesse già visto altre volte.» Anthony annuì. «La cosa non dovrebbe sorprenderci. Duran-te la guerra era il nostro miglior agente. Ha perso la memoria, ma non l'istinto.» Si passò una mano sul viso: la stanchezza comin-ciava a farsi sentire. «Ho cercato di impedirgli di continuare a porre domande ma credo che lui se ne sia reso conto. E allora mi ha detto che vole-va restare solo.» «Ha scoperto qualche indizio? È accaduto qualcosa che potreb-be condurlo alla verità?» «No. Ha letto un articolo sul giornale che parlava del pro-gramma spaziale, ma non mi sembra che sia rimasto colpito in maniera particolare.» «Qualcuno lo ha notato?» «Il pastore era sorpreso che Luke riuscisse a fare le parole cro-ciate. La maggior parte dei barboni non sa neppure leggere.» Come Anthony aveva previsto, la questione si stava complican-do, ma era ancora risolvibile. «Dov'è ora Luke?» «Non lo so, signore. Steve chiamerà non appena gli sarà possi-bile.» «Quando lo senti va' subito da lui. Qualunque cosa accada, Luke non deve sfuggirci.» «D'accordo.» Il telefono bianco sulla scrivania di Anthony si mise a squilla-re. Lui lo fissò per qualche secondo. Era la linea diretta: non erano in molti ad avere quel numero. Poi rispose. «Sono io» disse la voce di Elspeth. «Cos'è successo?» «Rilassati» fece lui. «È tutto sotto controllo.»

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7.30

Il missile è alto 20 metri, più di una casa a tre piani. Montato sulla rampa di lancio pesa 29 tonnellate, di cui la maggior parte è com-bustibile. Il satellite vero e proprio misura circa 85 centimetri e pesa poco più di 8 chili.

L'"ombra" seguì Luke per quasi mezzo chilometro in direzio-ne sud lungo Eighth Street. Ormai era giorno fatto e, nonostante la strada fosse piena di gente, Luke non ebbe difficoltà a tener d'occhio il cappello flo-scio color grigio che ondeggiava tra le teste dei passanti raccolti agli angoli delle strade e alle fermate dell'autobus. Ma dopo aver attraversato Pennsylvania Avenue lo perse di vista. Per l'ennesi-ma volta si chiese se non fosse solo uno scherzo della sua imma-ginazione. Si era svegliato in un mondo sconcertante in cui tutto era possibile. Forse l'idea di essere seguito era solo frutto della sua fantasia. Non convinto, un momento dopo riconobbe l'im-permeabile verde che usciva da una panetteria. « Toi, encore» mormorò, sottovoce. Di nuovo tu. Per un attimo si chiese come mai avesse parlato in francese, ma poi abbandonò il pensiero. Al momento aveva cose ben più importanti di cui preoccuparsi. Non c'erano più dubbi: due persone lo stavano pedinando secondo una regia preparata con cura. Doveva trat-tarsi di professionisti. Cercò di immaginare cosa significasse tutto questo. Cappello Floscio e Impermeabile potevano essere poliziotti: forse lui aveva commesso un crimine, ucciso qualcuno mentre si trovava in stato di ubriachezza. Potevano essere spie - del Kgb o della Cia -, anche se sembrava davvero improbabile che un poveraccio come lui potesse essere coinvolto in attività di spionaggio. Più verosimilmente, era sposato con una donna che aveva lasciato anni prima e che ora, volendo il divorzio, aveva assunto degli investi-gatori privati per ottenere le prove del modo in cui lui viveva. E magari la donna era francese. Nessuna di queste era una bella prospettiva, eppure si sentiva euforico. Probabilmente quei due sapevano chi era. Qualunque fosse il motivo per cui lo stavano seguendo, dovevano conoscere qualcosa sul suo conto. Nella peggiore delle ipotesi, ne sapevano sempre più di lui. Decise che li avrebbe costretti a separarsi, dopo di che avreb-be affrontato il più giovane. Entrò in una tabaccheria e acquistò un pacchetto di Pall Mall, pagandolo con parte degli spiccioli rubati. Quando uscì, Imper-meabile era sparito, sostituito da Cappello Floscio. Arrivò in fondo all'isolato e girò l'angolo. C'era un camion della Coca-Cola parcheggiato lungo il marcia-piede; l'autista stava scaricando delle casse per consegnarle a un ri-storante. Luke scese sulla strada e girò intorno al camion, andando a fermarsi in un punto da cui poteva osservare la strada senza esse-re visto da chi girava l'angolo. Dopo un minuto apparve Cappello Floscio. Camminava a passo svelto, controllando gli androni e le vetrine dei negozi alla sua ricerca. Luke si gettò a terra e rotolò sotto il camion. Perlustrando il marciapiede a livello della strada, individuò i

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pantaloni blu e le scarpe marroni del suo pedinatore. L'uomo allungò il passo, presumibilmente preoccupato della scomparsa di Luke. Poi si fermò e fece marcia indietro. Entrò nel ristorante per uscirne subito dopo. Girò intorno al camion, tornò sul marciapiede e proseguì. Dopo qualche secondo si mise a cor-rere. Luke era soddisfatto. Non sapeva dove aveva imparato quei giochetti, ma sembrava cavarsela molto bene. Strisciò fin davan-ti al camion e si rimise in piedi. Si sporse a guardare oltre il paraurti sinistro: Cappello Floscio si stava allontanando di corsa. Luke attraversò la strada e svoltò l'angolo. Si fermò nell'an-drone di un negozio di elettrodomestici. Fingendo di osservare un giradischi in vendita a ottanta dollari, aprì il pacchetto di siga-rette, ne estrasse una e attese, tenendo d'occhio la strada. Comparve Impermeabile. Era alto, quasi come lui, e aveva una corporatura atletica, ma era più giovane di almeno dieci anni e sembrava nervoso. L'istin-to gli diceva che quell'uomo non doveva avere molta esperienza. Come vide Luke, trasalì. Luke guardò verso di lui. L'uomo distolse gli occhi e continuò a camminare, portandosi verso il bordo del marciapiede per scartarlo, come avrebbe fatto chiunque per evitare il contatto con un barbone. Luke gli sbarrò la strada. Si mise la sigaretta tra le labbra e disse: «Hai da accendere, amico?». Impermeabile non sapeva cosa fare. Esitò, incerto. Per un atti-mo Luke pensò che avrebbe tirato diritto senza rispondere, ma poi prese una rapida decisione e si fermò. «Certo» disse, cercando di apparire naturale. Infilò una mano nella tasca dell'impermeabile, tirò fuori una scatola di fiammiferi e ne accese uno. Luke si tolse la sigaretta dalle labbra e chiese: «Tu sai chi sono, vero?». Il giovane aveva un'espressione spaventata. Al corso di adde-stramento non lo avevano preparato ad affrontare un soggetto che si mette a fare domande al proprio pedinatore. Fissò Luke, ester-refatto, finché il cerino non si consumò del tutto. Allora lo lasciò cadere e disse: «Non so proprio di cosa parli, amico». «Tu mi stai seguendo» insistette Luke. «Devi pur sapere chi sono.» Impermeabile continuò a fingersi innocente. «Stai cercando di vendere qualcosa?» «Ti sembro vestito come un commesso viaggiatore? Su, dimmi la verità.» «Io non sto seguendo proprio nessuno.» «Mi stai alle calcagna da un'ora, e io mi sono perso!» Il giovane sembrò scuotersi. «Tu sei matto» sibilò, e fece per allontanarsi. Luke si spostò di lato, bloccandogli il passo.

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«Fammi passare» disse Impermeabile. Luke non era affatto disposto a lasciarlo andare. Lo afferrò per il bavero dell'impermeabile e lo sbatté contro la vetrina del nego-zio, facendola vibrare. La rabbia e l'amarezza ebbero il soprav-vento.« Putain de merde!» urlò. Impermeabile era più giovane e più in forma di lui, ma non oppose alcuna resistenza. «Toglimi le mani di dosso» disse con tono fermo. «Io non ti sto seguendo.» «Chi sono?» gli urlò Luke. «Dimmelo! Chi sono?» «E come faccio a saperlo, io?» Afferrò Luke per i polsi cer-cando di fargli mollare la presa sul bavero. Luke agguantò l'uomo per la gola. «Non me le bevo le tue stronzate» disse con voce aspra. «Ora mi spieghi cosa sta succe-dendo.» Impermeabile perse la sua freddezza e spalancò gli occhi per la paura. Si divincolò per liberarsi dalla stretta alla gola. Quando vide che non ci riusciva, cominciò a colpirlo allo stomaco. Il primo pu-gno gli fece molto male, ma Luke mantenne la presa e attirò a sé l'avversario, cosicché i colpi seguenti risultarono meno forti. Men-tre gli affondava i pollici nella gola, vide gli occhi del giovane riem-pirsi di terrore. «Ehi, cosa sta succedendo?» chiese la voce spaventata di un passante alle spalle di Luke. All'improvviso Luke trasalì. Lo stava ammazzando! Allentò la presa, permettendo al suo avversario di liberarsi. Cosa diavolo gli succedeva? Era un assassino? Rimase sgomento di fronte alla propria violenza, e lasciò cade-re le braccia lungo i fianchi. Impermeabile fece un passo indietro. «Pazzo bastardo!» esclamò, con gli occhi ancora pieni di paura. «Volevi ammazzar-mi!» «Io voglio solo la verità, e so che tu puoi dirmela.» Il giovane si massaggiò la gola. «Stronzo» disse. «Tu sei fuori di testa.» La rabbia di Luke si riaccese. «Tu menti!» urlò. Allungò le mani per afferrarlo nuovamente. Impermeabile si voltò e corse via. Luke avrebbe potuto rincorrerlo, ma esitò. Che scopo c'era? Cosa avrebbe fatto se anche l'avesse raggiunto? L'avrebbe tortu-rato? E poi era troppo tardi. Tre passanti si erano fermati a distanza di sicurezza per capire i motivi di quella lite e lo stavano fissan-do. Dopo un attimo Luke si allontanò nella direzione opposta rispetto a quella in cui erano andati i due pedinatori. Si sentiva peggio che mai, scosso per la sua reazione violenta e scoraggiato per il risultato. Aveva incontrato due persone che probabilmente sapevano chi era e non era riuscito a raccogliere alcuna informazione.

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"Bel lavoro, Luke" si disse. "Non hai concluso un accidente di niente." Era di nuovo solo.

8.00

Il Jupiter C ha quattro stadi. Il più grande è una versione potenzia-ta del missile balistico Redstone. È il cosiddettobooster,il primo stadio, un motore di enorme potenza che ha l'immane compito di liberare il missile dal potente abbraccio della gravità terrestre.

La dottoressa Billie Josephson era in ritardo. Dopo aver fatto alzare la madre e averla aiutata a infilarsi una vestaglia trapuntata e a mettere l'apparecchio acustico, l'aveva fatta accomodare in cucina davanti a un caffè. Dopo era stato il turno di Larry, il figlio di sette anni. Lo aveva svegliato e lodato per non aver bagnato il letto, intimandogli di fare comunque la doccia. Poi era tornata in cucina. Sua madre, una donna piccola e grassottella di settant'anni che tutti chiamavano Becky-Ma, teneva la radio a tutto volume. Perry Como stava cantando Catch a Falling Star. Billie infilò delle fette di pane nel tostapane, poi mise in tavola il burro e la gelatina d'uva per Becky-Ma. Versò dei fiocchi di cereali in una tazza per Larry, vi affettò sopra una banana e riempì una caraffa di latte. Preparò un sandwich con burro di arachidi e gelatina e lo mise nella cartella di Larry insieme a una mela, una barretta di ciocco-lato e un succo d'arancia. Vi aggiunse il libro di lettura e il guan-to da baseball, regalo del padre. Alla radio, un giornalista stava intervistando i curiosi raduna-tisi sulla spiaggia vicino a Cape Canaveral nella speranza di assi-stere al lancio di un missile. Larry entrò in cucina con le scarpe slacciate e la camicia abbot-tonata tutta storta. Billie lo rimise in ordine, gli servì i cereali e cominciò a preparare le uova strapazzate. Erano le otto e un quarto e aveva quasi recuperato il ritardo. Voleva molto bene al figlio e alla madre, ma una parte di lei segre-tamente mal tollerava il compito ingrato di doversi prendere cura di loro. Ora il giornalista stava intervistando un portavoce dell'esercito. "Ci sono rischi per i curiosi? E se il missile uscisse di rotta e venisse a schiantarsi proprio qui sulla spiaggia?" "Non esiste questo pericolo" fu la risposta. "Ogni razzo è dotato di un sistema di autodistruzione. Se uscisse di rotta ver-rebbe fatto esplodere in aria." "Ma come potete farlo saltare dopo che è già decollato?" "Il sistema è attivato da un segnale radio inviato dal responsa-bile della sicurezza del poligono."

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"Mi sembra una soluzione pericolosa. Qualche radioamatore potrebbe attivarlo accidentalmente giocherellando con il suo apparecchio." "Il sistema risponde solo a un tipo di segnale complesso con-tenente un codice. Questi missili sono molto costosi, e non vogliamo correre rischi." «Oggi devo costruire un razzo spaziale» disse Larry. «Posso portare a scuola il vasetto dello yogurt?» «No, non puoi, è ancora mezzo pieno» rispose lei. «Ma devo portare qualche contenitore! Miss Page si arrabbierà se non lo faccio.» Era già vicino alle lacrime, con il repenti-no sbalzo d'umore tipico dei bambini. «A cosa ti servono?» «Per costruire un razzo spaziale! Ce l'ha detto la scorsa setti-mana.» Billie sospirò. «Larry, se tu me l'avessi detto la scorsa settima-na, ti avrei messo da parte un sacco di roba. Quante volte ti ho detto di non aspettare l'ultimo minuto?» «Cosa devo fare?» «Troverò qualcosa. Metterò lo yogurt in una ciotola e... che genere di contenitori ti servono?» «A forma di razzo.» Billie si chiese se gli insegnanti riflettessero mai sulla mole di lavoro che procurano alle madri quando ordinano allegramente ai bambini di portare delle cose a scuola. Mise i toast imburrati su tre piatti e servì le uova strapazzate, ma non si sedette. Fece il giro della casa e raccolse un contenitore cilindrico per il detersi-vo, una bottiglia di plastica per il sapone liquido, un barattolo del gelato e una scatola di cioccolatini fatta a cuore. Sulla maggior parte delle confezioni erano raffigurate famiglie che usavano quel prodotto, solitamente composte da una moglie graziosa, due bimbi felici e, sullo sfondo, un padre che fumava la pipa. Si chiese se le altre donne si sentissero offese quanto lei da tale stereotipo. Non aveva mai vissuto in una famiglia così. Suo pa-dre, un povero sarto di Dallas, era morto quando lei era ancora in fasce lasciando sua madre ad allevare cinque figli nella povertà più nera. Billie era divorziata da quando Larry aveva due anni. C'era-no un sacco di famiglie senza un uomo, famiglie in cui la madre era vedova, separata oppure quella che un tempo veniva definita una peccatrice. Ma questo tipo di famiglie sulle scatole di cereali non ce le mettevano mai. Infilò tutti i contenitori in un sacchetto della spesa. «Accidenti! Scommetto che ne ho più di tutti gli altri!» esclamò Larry. «Grazie, mamma.» La colazione era ormai fredda, ma lei aveva fatto felice Larry. Fuori, si sentì il clacson di un'auto e Billie si affrettò a con-trollare il proprio aspetto nella vetrinetta di un mobile di cucina. Si era data una pettinata veloce ai capelli ricci e neri e non si era truccata, a parte la sottile riga di eyeliner che aveva dimenticato di togliere la sera prima. Indossava un maglione rosa troppo largo... ma l'effetto complessivo era piuttosto sexy.

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La porta sul retro si aprì ed entrò Roy Brodsky. Roy era il mi-glior amico di Larry e i due si salutarono con calore, come se non si vedessero da un mese, anziché da poche ore. Billie aveva notato che ora Larry aveva tutti amici maschi. All'asilo era stato diverso, i bambini e le bambine giocavano insieme, senza distinzioni. Si chiese quali cambiamenti psicologici avvenissero nei bimbi intor-no ai cinque anni, da far preferire loro i compagni dello stesso sesso. Roy era con suo padre, Harold, un bell'uomo con dolci occhi ca-stani. Harold Brodsky era vedovo - la madre di Roy era morta in un incidente d'auto - e insegnava chimica alla George Washington University. Billie e Harold uscivano insieme. Lui la guardò con oc-chi adoranti e le disse: «Mio Dio, sei bellissima». Lei sorrise e lo ba-ciò sulla guancia. Come Larry, anche Roy aveva un sacchetto pieno di scatole. «Anche tu hai dovuto vuotare tutti i contenitori di cartone della cucina?» «Sì. Ho delle coppette piene di sapone per il bucato, cioccola-tini e formaggini. E sei rotoli di carta igienica senza l'anima di cartone nel mezzo.» «Accidenti, ai rotoli di carta igienica non ci avevo proprio pen-sato!» Lui scoppiò a ridere. «Ti andrebbe di venire a cena da me, sta-sera?» Billie rimase sorpresa. «Hai intenzione di cucinare?» «Non proprio. Pensavo di chiedere a Mrs Riley di prepararci qualcosa.» «Certo» rispose Billie. Non aveva mai cenato a casa sua. Di solito andavano al cinema, ai concerti di musica classica o a cock-tail party a casa di altri professori universitari. Si chiese cosa l'a-vesse spinto a invitarla da lui. «Stasera Roy va alla festa di compleanno di un suo cugino e si ferma a dormire là. Potremo chiacchierare senza essere interrot-ti di continuo.» «Va bene» disse Billie pensierosa. Ovviamente potevano par-lare senza essere interrotti anche in un ristorante. Il motivo per cui Harold la stava invitando a casa sua quando il figlio passava la notte fuori era un altro. Lo guardò. Aveva un'espressione aperta e sincera... capiva cosa stava pensando. «Fantastico» aggiunse. «Passerò a prenderti verso le otto. Andiamo, ragazzi!» Scortò i bambini fuori dalla porta sul retro. Larry uscì senza salutare, cosa che Billie aveva imparato a interpretare come segno che tutto andava per il meglio. Quando era preoccupato o stava covando qualche malattia si attaccava a lei e non la mollava più. «Harold è un brav'uomo» osservò Becky-Ma. «Dovresti spo-sarlo al più presto, prima che cambi idea.» «Non cambierà idea.» «Tu bada solo a non farlo partecipare alla partita prima che abbia messo la posta sul tavolo.» Billie sorrise. «Non ti sfugge niente, eh, Ma?» «Sono vecchia, ma non stupida.»

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Billie sparecchiò e gettò la sua colazione nella spazzatura. Corse a disfare il suo letto e quelli di Larry e di sua madre, poi infilò le lenzuola in un sacco per la biancheria sporca. Lo mostrò a Becky-Ma e si raccomandò: «Ricordati, devi solo consegnare questo all'uomo del bucato quando suona. D'accordo?». «Non ho più pillole per il cuore» disse sua madre. «Oh, Cristo!» Non imprecava quasi mai in presenza della madre, ma quel giorno era arrivata al limite della sopportazione. «Oggi ho una giornata infernale, non ho tempo di andare dal farmacista!» «Be', io non posso farci niente se sono finite.» La cosa di Becky-Ma che più la faceva andare in bestia era la sua capacità di trasformarsi da genitore perspicace in bambino lagnoso. «Avresti potuto dirmelo ieri che le stavi finendo, quan-do sono andata a fare la spesa! Non posso andarci tutti i giorni, ho anche un lavoro.» Poi Billie si placò. «Scusami.» Becky-Ma era facile al pianto, come Larry. Cinque anni prima, quando loro tre erano andati ad abitare insieme, Ma l'aveva molto aiutata, prendendosi cura di Larry. Ora, però, riusciva a malapena a tenerlo buono due ore quando tornava da scuola. Billie sperava che le cose sarebbero migliorate, una volta che lei e Harold si fossero sposati. Squillò il telefono. Diede un colpetto sulla spalla a Ma e andò a rispondere. Era Bern Rothsten, il suo ex marito. Billie andava d'accordo con lui, nonostante il divorzio. Veniva due o tre volte la settimana a trovare Larry e contribuiva senza pro-blemi al suo mantenimento. Billie era stata molto in collera con lui, ma era successo tanto tempo prima. «Ciao, Bern... ti sei alzato presto.» «Sì. Hai notizie di Luke?» Billie fu colta alla sprovvista. «Luke Lucas? Recenti... no. C'è qualcosa che non va?» «Non lo so, forse.» Bern e Luke erano uniti dalla loro rivalità. Da giovani non face-vano altro che litigare. Nonostante le accese discussioni, però, era-no rimasti molto amici per tutto il periodo del college e della guer-ra. «Cos'è successo?» domandò Billie. «Mi ha chiamato lunedì. Sono rimasto sorpreso, perché non lo sento spesso.» «Neppure io.» Billie si sforzò di ricordare. «L'ultima volta che l'ho visto è stato un paio d'anni fa, credo.» Rendendosi conto di quanto tempo era passato, si chiese come mai avesse lasciato che la loro amicizia si perdesse. Forse tutto dipendeva dal fatto che era sempre così indaffarata, ma comunque le dispiaceva. «Mi ha scritto l'estate scorsa» proseguì Bern. «Aveva letto uno dei miei libri alla nipote.» Bern era l'autore dei "Gemelli Terri-bili", una famosa serie per bambini. «Mi disse che lo aveva tro-vato molto divertente. Era una bella lettera.» «E perché ti ha chiamato, lunedì?» «Mi ha avvertito che sarebbe venuto a Washington e che vole-va vedermi perché era successo qualcosa.»

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«Ti ha detto di che si trattava?» «No, si è limitato a farmi sapere che si trattava delle stesse cose che facevamo durante la guerra.» Billie aggrottò la fronte, perplessa. Durante la guerra Luke e Bern avevano fatto parte entrambi dell'Oss, operando dietro le linee nemiche in collaborazione con la Resistenza francese. Ma dopo il 1946 si erano lasciati quel mondo alle spalle... o no? «Secondo te che intendeva?» «Non lo so. Ha detto che mi avrebbe chiamato una volta arri-vato a Washington. Ha preso alloggio al Carlton Hotel lunedì sera. Oggi è mercoledì e non ha ancora telefonato. E la scorsa notte non è rientrato in camera.» «Come hai fatto a scoprirlo?» Bern fece un'esclamazione impaziente. «Billie, eri nell'Oss anche tu. Cosa avresti fatto?» «Suppongo che avrei dato un paio di dollari a una cameriera.» «Brava. E così è stato fuori tutta la notte e non è ancora tor-nato.» «Forse è andato in giro a divertirsi.» «Io non lo credo. E tu?» Bern aveva ragione. Luke aveva una forte carica sessuale, ma lui cercava l'intensità, non la varietà, Billie lo sapeva bene. «No, non lo credo neanch'io» convenne. «Chiamami se lo senti, intesi?» «Certo, sicuro.» «Ci vediamo.» «Ciao» disse Billie, e riattaccò. Poi sedette al tavolo di cucina, dimenticando i lavori di casa, e si mise a pensare a Luke.

1941

La Route 138 puntava a sud verso il Rhode Island serpeggiando attraverso il Massachusetts. Non c'era una nuvola in cielo e la luce della luna inondava la campagna. La vecchia Ford era senza riscal-damento. Avvolta in cappotto, sciarpa e guanti, Billie non sentiva più i piedi per il freddo, ma non le importava. Non era un gran sa-crificio passare un paio d'ore in macchina da sola con Luke Lucas, anche se era il ragazzo di un'altra. Nella sua esperienza gli uomini belli erano immancabilmente vuoti e noiosi, ma lui sembrava un'eccezione. Il viaggio verso Newport stava andando per le lunghe, ma pareva che Luke se la stesse godendo. Alcuni

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studenti di Harvard si sentivano a disagio con le belle ragazze e fumavano una siga-retta dietro l'altra, continuavano a bere alcolici, a mettersi a posto i capelli e a raddrizzarsi la cravatta. Luke invece era rilassato, gui-dava senza alcuno sforzo e chiacchierava. C'era poco traffico e lui si voltava spesso a guardare verso di lei. Parlarono della guerra in Europa. Quella mattina, nel cortile della Radcliffe, studenti di opposti schieramenti avevano siste-mato alcuni banchetti dai quali distribuivano volantini. Gli inter-ventisti chiedevano a gran voce che l'America entrasse in guerra, gli isolazionisti del comitato America First sostenevano il contra-rio con uguale fervore. Si era radunata una piccola folla di stu-denti e professori e la consapevolezza che i ragazzi di Harvard sarebbero stati tra i primi a morire aveva reso la discussione ancor più accesa. «Io ho dei cugini a Parigi» disse Luke. «Vorrei che gli ameri-cani andassero a liberarli. Capisco, però, che è una motivazione personale.» «Anch'io ho una motivazione personale, sono ebrea» affermò Billie. «Ma piuttosto che mandare degli americani a morire in Europa, aprirei le porte ai rifugiati. Preferisco salvare delle vite anziché sacrificarne.» «Anche Anthony la pensa così.» Billie era ancora furibonda per la serata disastrosa. «Non puoi immaginare quanto sia arrabbiata con lui. Avrebbe dovuto assi-curarsi che potevamo davvero stare a casa dei suoi amici.» Sperava di trovare comprensione in Luke, ma rimase delusa. «Forse avete peccato entrambi di leggerezza.» Lo disse con un sorriso cordiale che, tuttavia, non nascondeva una punta di disapprovazione. Billie si sentì offesa ma, poiché era in debito con lui per il pas-saggio in macchina, ricacciò indietro la rispostaccia che le era affiorata alle labbra. «Tu difendi il tuo amico, ed è giusto» ribatté pacata «ma io credo che avesse il dovere di difendere la mia repu-tazione.» «Certo, però anche tu ce l'avevi.» La sua critica la sorprese: fino a quel momento era stato genti-lissimo. «Sembri quasi convinto che sia colpa mia!» «È stata soprattutto sfortuna» rispose lui «ma Anthony ti ha messo in una situazione in cui un minimo contrattempo poteva causarti grossi guai.» «È vero.» «E tu glielo hai permesso.» Billie si scoprì costernata per la disapprovazione di Luke. Vole-va che avesse una buona opinione di lei, anche se proprio non riu-sciva a capire perché mai gliene importasse così tanto. «Comunque non lo farò mai più, con nessuno» concluse con veemenza. «Anthony è un tipo fantastico, intelligente e un po' stravagante.» «A noi ragazze fa venir voglia di prendersi cura di lui, petti-nargli i capelli, stirargli i vestiti e preparargli il

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brodo di pollo.» Luke scoppiò in una risata. «Posso farti una domanda perso-nale?» «Puoi provarci.» La guardò negli occhi per un attimo. «Sei innamorata di lui?» Era una domanda inaspettata, ma le piacevano gli uomini che riuscivano a sorprenderla, e così rispose con sincerità. «No. Gli voglio bene, mi piace la sua compagnia, però non lo amo.» Pensò alla ragazza di Luke. Elspeth era la più bella del campus, una gio-vane alta con lunghi capelli color rame e il volto pallido e risolu-to di una regina nordica. «E tu? Sei innamorato di Elspeth?» Luke tornò a guardare la strada. «Non credo di sapere cosa sia l'amore.» «Risposta evasiva.» «Hai ragione.» Le lanciò un'occhiata esitante, poi decise che poteva fidarsi di lei. «Be', a essere sinceri, questa è la cosa più vicina all'amore che abbia mai provato, ma non so ancora se si tratta di amore vero.» Billie provò un senso di colpa. «Chissà cosa direbbero Anthony ed Elspeth della nostra conversazione» osservò. Luke diede un colpetto di tosse, imbarazzato, e cambiò argo-mento. «È una vera disdetta che abbiate incontrato quei tizi al dormitorio.» «Spero che Anthony non venga scoperto. Potrebbe essere espulso.» «Non solo lui, anche tu potresti trovarti nei guai.» Billie aveva cercato di non pensarci. «Non credo che nessuno di loro mi conosca. Ho sentito che uno diceva "sgualdrina".» Lui le lanciò un'occhiata sorpresa. Billie capì che Elspeth non avrebbe usato mai quella parola e si pentì di averla pronunciata. «Suppongo di essermelo meritato» aggiunse. «Ero in un dormitorio maschile a mezzanotte.» «Per me non esistono scusanti alla maleducazione.» Era un rimprovero rivolto tanto a lei quanto allo studente che l'aveva insultata, pensò Billie con disappunto. Luke aveva la lingua tagliente. Le stava dando sui nervi, ma questo lo rendeva ancor più interessante. Decise di reagire. «E tu? Tu che sei così critico nei confronti di Anthony e me, non hai messo Elspeth in una situazio-ne di vulnerabilità questa sera, portandola in giro in macchina fino alle ore piccole?» Con sua grande sorpresa, Luke scoppiò a ridere. «Hai ragione. Sono un idiota e un presuntuoso» convenne. «Tutti corriamo dei rischi.» «Gran verità.» Billie rabbrividì. «Non so proprio cosa farei se mi cacciassero.»

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«Ti trasferiresti in un'altra scuola, suppongo.» Lei scosse il capo. «Sono qui con una borsa di studio. Mio padre è morto, mia madre è sola e senza un soldo. E se venissi espulsa per condotta immorale, avrei pochissime possibilità di ottenere un'altra borsa di studio. Perché hai quell'espressione sorpresa?» «A essere sinceri, devo dire che non ti vesti come una che vive con una borsa di studio.» Billie era lusingata che lui avesse notato i suoi vestiti. «È la Leavenworth Award» spiegò. «Accidenti.» La Leavenworth era una borsa di studio notoria-mente generosa, e migliaia di studenti meritevoli facevano domanda per ottenerla. «Devi essere un genio.» «Questo non lo so» rispose lei, gratificata dal tono rispettoso che aveva colto nella sua voce. «Non sono neppure abbastanza furba da assicurarmi di avere un posto dove passare la notte.» «D'altro canto» osservò Luke «essere cacciati dall'università non è la cosa peggiore che possa capitare nella vita. Ci sono per-sone intelligentissime che lasciano la scuola e poi diventano milionarie.» «Per me sarebbe la fine. Io non voglio diventare milionaria, ma aiutare le persone malate a stare meglio.» «Vuoi diventare medico?» «Psicologo. Voglio capire come funziona la mente.» «Perché?» «È così misteriosa e complicata. La logica, il modo in cui pensia-mo, la possibilità di immaginare cose che non abbiamo davanti agli occhi... gli animali non ce l'hanno. La capacità di ricordare... i pe-sci non hanno memoria, lo sapevi?» Luke annuì. «E come mai quasi chiunque è in grado di rico-noscere un'ottava?» disse. «Due note, di cui una ha frequenza doppia rispetto all'altra: come mai il tuo cervello lo capisce?» «Anche tu lo trovi interessante?» Era felice che lui condivi-desse la sua curiosità. «Di cosa è morto tuo padre?» Billie deglutì a fatica, sopraffatta da un dolore improvviso, lot-tando contro le lacrime. Era sempre così: bastava una parola detta a caso, e dal nulla si risvegliava un dolore così acuto che quasi le impediva di parlare. «Mi dispiace» si scusò Luke. «Non avevo intenzione di tur-barti.» «Non è colpa tua» sussurrò lei, con un respiro profondo. «Perse la ragione. Una domenica mattina andò a fare il bagno nel Trinity River. Il fatto è che lui odiava l'acqua e non sapeva nuo-tare. Io sono convinta che abbia cercato la morte. Ne era convin-to anche il coroner, ma la giuria ebbe pietà di noi e decretò che si era trattato di un incidente, così fummo in grado di riscuotere il premio dell'assicurazione sulla vita. Cento dollari... ci abbiamo vissuto per un anno.» Fece un altro respiro profondo. «Cambia-mo argomento. Raccontami della tua matematica.»

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«Dunque...» Luke rifletté un momento «la matematica è biz-zarra quanto la psicologia. Prendi il p. Perché il rapporto tra la cir-conferenza e il diametro deve essere proprio 3,14? Perché non 6, o 2,5? Chi lo ha deciso? E perché?» «Tu vuoi esplorare lo spazio.» «Credo che sia l'avventura più eccitante che si sia mai presen-tata per l'umanità.» «E io voglio esplorare la mente» aggiunse lei, sorridendo. Il dolore si stava sopendo. «Sai, noi due abbiamo qualcosa in comune... abbiamo entrambi grandi idee.» Lui rise e frenò di colpo. «Ehi, siamo vicini a un incrocio.» Billie accese la torcia elettrica e guardò la cartina che teneva posata sulle ginocchia. «Gira a destra.» Si stavano avvicinando a Newport. Il tempo era passato in fret-ta. A Billie dispiaceva che il viaggio stesse per finire. «Non ho idea di cosa dirò a mio cugino.» «Che tipo è?» «È un po' strano.» «Strano? In che senso?» «Nel senso che è omosessuale.» Lui le lanciò un'occhiata sorpresa. «Capisco.» Billie non sopportava gli uomini convinti che le donne dovesse-ro girare intorno all'argomento sesso. «Ti ho scioccato un'altra volta, vero?» Lui sorrise. «Come diresti tu... gran verità.» Billie rise. Era un'espressione tipicamente texana. Le faceva piacere che lui avesse notato tutte queste cose di lei. «C'è un bivio» disse Luke. Billie consultò di nuovo la cartina. «Devi fermarti perché non riesco a trovarlo.» Luke fermò l'auto e si sporse verso Billie per studiare la carti-na alla luce della torcia. Allungò una mano per girarla verso di sé e le loro dita si sfiorarono. «Forse siamo qui» azzardò indicando un punto. Invece di guardare la cartina, lei si scoprì a fissare il volto di Luke. Era avvolto nell'ombra, illuminato solo dalla luna e dalla luce indiretta della torcia. Un ciuffo di capelli gli ricadeva sul-l'occhio sinistro. Dopo un attimo lui si accorse che lei lo guarda-va e alzò gli occhi. Senza riflettere, Billie sollevò la mano e gli accarezzò la guancia con la parte esterna del mignolo. Lui ricam-biò lo sguardo e nei suoi occhi lei lesse smarrimento e desiderio. «Da che parte andiamo?» mormorò lei.

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Lui si ritrasse bruscamente e innestò la marcia. «Prendiamo...» si schiarì la voce «prendiamo la strada a sinistra.» Billie si chiese cosa diavolo stesse facendo. Luke aveva passato la serata a pomiciare con la ragazza più bella del campus e lei era uscita con il suo compagno di stanza. Che accidenti aveva nella testa? Isuoi sentimenti per Anthony non erano mai stati forti, nep-pure prima di quella disastrosa serata. Però usciva con lui e quin-di non avrebbe dovuto flirtare con il suo migliore amico. «Perché lo hai fatto?» chiese Luke, arrabbiato. «Non lo so» rispose lei. «Non l'ho fatto apposta, è successo. Rallenta.» Lui imboccò una curva troppo veloce. «Non voglio provare questo per te!» urlò lui. Billie rimase senza fiato. «Questo cosa?» «Lascia perdere.» All'improvviso si sentì l'odore del mare e Billie capì che erano vicini alla casa di suo cugino. Riconobbe la strada. «La prossima traversa a sinistra. Se non rallenti, la perderai.» Luke pestò sul freno e imboccò la stradina sterrata. Una parte di Billie desiderava solo arrivare a destinazione, scendere dall'auto e lasciarsi alle spalle quell'insopportabile ten-sione. L'altra avrebbe voluto viaggiare all'infinito insieme a Luke. «Siamo arrivati» disse. Si fermarono davanti a una semplice ma gradevole costruzione di legno con grosse gronde e un lampione accanto alla porta d'in-gresso.Ifari della Ford illuminarono un gatto seduto immobile sul davanzale di una finestra, che li guardava impassibile e sprez-zante del tumulto delle emozioni umane. «Vieni dentro» lo invitò Billie. «Denny ti farà un po' di caffè per tenerti sveglio durante il viaggio di ritorno.» «No, grazie» rispose lui. «Aspetterò qui finché non sei entra-ta.» «Sei stato molto gentile con me. Non credo di meritarlo» disse, e gli porse la mano. «Amici?» chiese lui, stringendola. Billie si portò la mano di lui alle labbra, la baciò e la premette contro la guancia, chiudendo gli occhi. Dopo un attimo udì un gemito sommesso. Aprì gli occhi e vide che lui la fissava. La mano di lui la prese dietro la nuca e l'attirò a sé. Si baciarono. Fu un bacio delicato, uno sfiorarsi di labbra, le dita di lui leggere sui capelli. Se l'avesse afferrata, lei non gli avrebbe resistito, lo sape-va. Il pensiero la fece ardere di desiderio. Udì la voce di Denny. «Chi c'è là fuori?» Si staccò da Luke e si voltò. Vide le luci accese e Denny sulla so-glia, avvolto in una vestaglia di seta

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color porpora. Tornò a voltarsi verso Luke. «Potrei innamorarmi di te nel giro di venti minuti» gli disse «ma non credo che riusciremmo mai a essere amici.» Rimase a fissarlo ancora un momento e nei suoi occhi vide lo stesso conflitto di sentimenti che provava lei in fondo al cuore. Di-stolse lo sguardo, fece un sospiro profondo e scese dall'auto. «Billie?» fece Denny. «Cosa diavolo ci fai qui?» Lei attraversò il giardino, salì i pochi gradini del portico e gli si gettò tra le braccia. «Oh, Denny!» mormorò. «Amo quell'uo-mo e lui appartiene a un'altra!» Denny le diede un colpetto affettuoso sulla schiena. «Sapessi come ti capisco, tesoro!» Billie sentì l'auto muoversi e si voltò per salutare. Mentre la macchina le passava davanti, le parve di veder luccicare qualcosa sulle guance di Luke. Poi l'auto scomparve nell'oscurità.

8.30

Sulla punta del missile Redstone è attaccata una struttura che asso-miglia a una grossa voliera con un ripido tetto a punta e un palo infisso sulla sommità. Questa sezione, lunga circa 4 metri, contie-ne il secondo, il terzo e il quarto stadio del missile, nonché il satel-lite vero e proprio.

In America gli agenti segreti non erano mai stati tanto potenti come nel gennaio del 1958. Il direttore della Cia, Alien Dulles, era fratello di John Foster Dulles, il segretario di Stato di Eisenhower, quindi l'Agenzia godeva di un filo diretto con l'amministrazione. Ma questo era solo uno dei motivi. Dulles aveva alle sue dipendenze quattro vicedirettori, di cui solo uno era importante, il vicedirettore per la pianificazione. La Direzione pianificazione, nota anche con la sigla CS (Clandestine Services), era la sezione che aveva organizzato i colpi di Stato contro i governi di sinistra in Iran e in Guatemala. L'amministrazione Eisenhower era rimasta sorpresa e al tempo stesso molto soddisfatta di queste imprese incruente e poco one-rose, specialmente se confrontate con i costi di una vera guerra, tipo quella in Corea. Di conseguenza i membri del CS godevano di enorme prestigio nei circoli governativi, ma non tra l'opinione pubblica, cui la stampa aveva fatto credere che le rivolte fossero opera di forze anticomuniste locali. Alla Direzione pianificazione appartenevano i Servizi tecnici, con a capo Anthony Carroll. Era stato assunto alla Cia nel 1947, anno dell a sua fondazione. Aveva sempre avuto intenzione di lavorare a Washington - si era laureato in scienze politiche - e durante la guerra era stato un uomo di punta dell'Oss. A Berlino, dove era di stanza negli anni Cinquanta, aveva diretto la realizza-zione di un tunnel che andava

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dal settore americano fino a una conduttura telefonica nella zona sovietica e che aveva reso possi-bile l'intercettazione delle comunicazioni del Kgb. Il tunnel era stato scoperto sei mesi dopo, ma in quell'arco di tempo la Cia aveva raccolto una montagna di informazioni preziose. Questa era stata l'azione di spionaggio più importante di tutta la guerra fredda e Anthony si era così guadagnato una posizione al vertice dell'Agenzia. Il fatto che alla Cia fosse proibito, per legge, operare all'interno degli Stati Uniti era solo un trascurabile dettaglio. In teoria, i Servizi tecnici erano una divisione incaricata del-l'addestramento. C'era una grossa tenuta in Virginia dove le reclute imparavano a introdursi nelle abitazioni e piazzare microfoni nascosti, a usare codici segreti e inchiostro invisibile, a ricattare diplomatici e a tenere in pugno gli informatori. Ma l'"addestramento" serviva anche da copertura per azioni segrete all'interno degli Stati Uniti. Praticamente tutto quello che Anthony decideva di fare, dal mettere sotto controllo i telefoni dei dirigenti sindacali allo sperimentare l'effetto di alcuni farma-ci sui detenuti, poteva passare per attività di addestramento. Proprio come la sorveglianza di Luke. Nell'ufficio di Anthony si trovavano radunati sei agenti. Era una stanza grande e spoglia, arredata con pochi mobili essenziali risalenti al periodo della guerra: una piccola scrivania, uno sche-dario di metallo, un tavolo su cavalietti e un certo numero di sedie pieghevoli. Sicuramente i nuovi uffici di Langley sarebbero stati pieni di divani imbottiti e pannellature di mogano, ma Anthony preferiva di gran lunga la sobrietà. Mentre Anthony aggiornava gli agenti sugli sviluppi, Pete Maxell distribuì una foto d'archivio di Luke e un foglio con la descrizione degli abiti che indossava. «Oggi il nostro obiettivo è un funzionario di medio rango del Dipartimento di Stato che però ha accesso a informazioni molto riservate» disse. «Recentemente ha avuto una specie di esaurimento nervoso. Lunedì è arrivato da Parigi, ha pas-sato la notte al Carlton e martedì si è dato ai bagordi. È stato fuori tutta la notte, e questa mattina si è presentato in un centro di aiuto per i senzatetto. Il rischio per la sicurezza del paese è evidente.» Uno degli agenti, "Red" Rifenberg, alzò una mano. «Doman-da.» «Di' pure.» «Perché non lo fermiamo e gli chiediamo cosa diavolo sta facendo?» «Be', prima o poi lo faremo.» La porta dell'ufficio si aprì ed entrò un uomo calvo e grassoc-cio. Era Carl Hobart, capo della divisione Servizi speciali che, oltre ai Servizi tecnici, comprendeva le sezioni Archivi e Critto-grafia. In teoria, era l'immediato superiore di Anthony. Anthony imprecò dentro di sé e pregò che Hobart non inter-ferisse con la sua attività, quel giorno più che mai. Poi proseguì con l'aggiornamento. «Prima di scoprirci, dobbiamo vedere cosa fa il soggetto, dove va, se contatta qualcuno e chi. Potrebbe semplicemente avere delle difficoltà coniugali, ma potrebbe anche essere che stia pas-sando informazioni al nemico, per motivi ideologici o perché vit-tima di un ricatto, e magari la tensione è diventata per lui insop-portabile. Se è coinvolto in un tradimento, prima di prelevarlo dobbiamo raccogliere tutte le informazioni possibili.»

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«Cosa state facendo?» chiese Hobart, interrompendolo. Anthony si voltò lentamente verso di lui. «Una piccola eserci-tazione. Stiamo conducendo un'attività di sorveglianza su un diplomatico sospetto.» «Passala all'Fbi» disse Hobart secco. Durante la guerra Hobart aveva lavorato nei servizi segreti della marina. Per lui lo spionaggio consisteva semplicemente nello sco-prire dove si trovava il nemico e cosa stava facendo. Non gli piace-vano i veterani dell'Oss, né i loro giochetti sporchi. Avevano impa-rato il mestiere durante la guerra e nutrivano poco rispetto per budget e protocollo. La loro disinvoltura faceva infuriare i buro-crati, e Anthony era l'archetipo dell'avventuriero: un arrogante senza scrupoli che poteva permettersi anche di uccidere solo per-ché sapeva farlo. «Perché?» chiese Anthony rivolgendogli uno sguardo gelido. «È compito dell'Fbi, e non nostro, catturare le spie comuniste in America, e tu lo sai perfettamente.» «Dobbiamo seguire le tracce fino al vertice. Un caso come que-sto potrebbe fornirci un'enorme quantità di informazioni, se lo gestiamo bene.Ifederali, invece, cercano solo di farsi pubblicità sbattendo i rossi sulla sedia elettrica.» «È la legge!» «Ma tu e io sappiamo benissimo che è una stronzata!» «Non fa differenza.» L'unica cosa che univa i gruppi di potere rivali all'interno della Cia era l'odio per l'Fbi e per il suo megalomane direttore, J. Edgar Hoover, e così Anthony aggiunse: «Quand'è stata l'ultima volta che l'Fbi ci ha passato qualcosa?». «Mai» rispose Hobart. «E, comunque, ho un altro incarico per te, oggi.» Anthony cominciava ad arrabbiarsi. Perché quello stronzo non la smetteva? E poi non era compito suo assegnare gli incarichi. «Di cosa stai parlando?» «La Casa Bianca ha richiesto un rapporto inerente a un grup-po di ribelli a Cuba. Ci sarà un incontro al vertice questa matti-na sul tardi, e ho bisogno di te e di tutti i tuoi uomini migliori per un ragguaglio.» «Mi stai chiedendo informazioni su Fidel Castro?» «Certo che no. So tutto su Castro. Quello che mi serve sono suggerimenti pratici per arginare l'insurrezione.» Anthony provava un forte disprezzo per gli ipocriti. «Perché non dici apertamente quello che hai in mente? Vuoi sapere come fare a eliminarli.» «Può essere.»

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Anthony scoppiò in una risata sarcastica. «Be', cos'altro potrem-mo fare... organizzargli dei corsi di catechismo?» «Sta alla Casa Bianca decidere. Il nostro compito è illustrare tutte le opzioni, e tu puoi darmi dei suggerimenti.» Anthony continuò a fingersi indifferente, ma dentro di sé era preoccupato. Quel giorno non aveva tempo per le distrazioni e gli servivano tutti gli agenti migliori per tenere d'occhio Luke. «Vedrò cosa posso fare» disse, sperando che Hobart si accontentasse di una promessa vaga. Non fu così. «Nella mia sala riunioni, con tutti i tuoi agenti più esperti, alle dieci. E non voglio scuse.» Detto questo, si voltò. Anthony prese una decisione. «No» disse. Hobart si voltò sulla soglia. «Non è un suggerimento. È un ordine.» «Stammi bene a sentire» fece Anthony. Seppur con riluttanza, Hobart fu costretto ad ascoltare. «Vaffanculo» scandì lentamente Anthony. Uno degli agenti ridacchiò. La zucca pelata di Hobart si fece tutta rossa. «Ne riparleremo» disse. «A lungo.» Poi uscì, sbattendo la porta. Gli uomini scoppiarono a ridere. «Rimettiamoci al lavoro» riprese Anthony. «In questo momen-to Simons e Betts si trovano sulle piste del soggetto, ma tra poco bisognerà dar loro il cambio. Voglio che siano Red Rifenberg e Ackie Horwitz a sostituirli nella sorveglianza. Faremo quattro tur-ni di sei ore ciascuno, con una squadra di rimpiazzo sempre pron-ta. Per ora è tutto.» Tutti gli agenti uscirono, tranne Pete Maxell. Si era rasato e in-dossava il solito completo con cravatta stretta stile Madison Avenue. Ora i denti guasti e la voglia rossa sulla guancia erano più evidenti, come una finestra rotta su una facciata dipinta di fresco. Era timido e poco socievole, forse per via del suo aspetto fisico, ma molto leale verso gli amici. «Non ha corso un grosso rischio con Hobart?» chiese a Anthony con espressione preoccupata. «È uno stronzo.» «Sì, ma è anche il suo capo.» «Non posso permettergli di mandare a monte un'operazione di sorveglianza importante come questa.» «Ma gli ha mentito. Non ci metterà molto a scoprire che Luke non è un diplomatico.» Anthony si strinse nelle spalle. «Allora gli racconterò un'altra storia.»

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Pete era perplesso, ma assentì e andò verso la porta. «Però hai ragione» convenne Anthony. «Mi sono esposto trop-po. Se qualcosa va storto, Hobart non si lascerà sfuggire l'occa-sione per farmi fuori.» «È quello che pensavo.» «Allora sarà meglio fare in modo che niente vada storto.» Pete uscì. Anthony rimase a fissare il telefono, cercando di cal-marsi. Le politiche interne lo mandavano in bestia, ma l'Agenzia era piena di gente come Hobart. Cinque minuti dopo il telefono squillò e lui rispose. «Carroll.» «Hai di nuovo fatto arrabbiare Carl Hobart.» Era la voce asmatica di un uomo che aveva passato la maggior parte della vita a bere e a fumare senza moderazione. «Buongiorno, George» disse Anthony. George Cooperman, suo vecchio commilitone dei tempi della guerra, era il vicediret-tore delle Operazioni e diretto superiore di Hobart. «Hobart deve lasciarmi in pace.» «Vieni qui, arrogante testa di cazzo» ordinò George con tono affabile. «Arrivo subito.» Anthony riattaccò. Aprì il cassetto della scriva-nia e prese una busta che conteneva un fascicolo di cianografie. Poi indossò il cappotto e si avviò verso l'ufficio di Cooperman che si trovava lì accanto, nel P Building. Cooperman era un uomo alto e magro sui cinquant'anni, con il volto prematuramente coperto di rughe. Aveva davanti una gigantesca tazza di caffè e una sigaretta tra le labbra. Stava leg-gendo la "Pravda", il quotidiano di Mosca. Era laureato in lette-ratura russa a Princeton. Gettò il giornale sulla scrivania. «Perché non riesci a essere gentile con quel grasso coglione?» ringhiò. Parlava senza togliere la sigaretta dalla bocca. «So che è difficile, ma potresti farlo per me.» Anthony si sedette. «È colpa sua. A quest'ora avrebbe dovuto capire che lo insulto solo se è lui a rivolgermi la parola per primo.» «Qual è la tua giustificazione, stavolta?» Anthony gettò la busta sulla scrivania. Cooperman la prese e guardò le cianografie. «Piani di costruzione» disse. «Di un missi-le, parrebbe. E allora?» «Sono materiale top secret. Li ho presi a un soggetto che stia-mo pedinando. È una spia, George.» «E hai preferito non dirlo a Hobart.» «Voglio pedinare questo tizio finché non tradisce l'intera rete... e poi approfittarne per un'azione di disinformazione. Hobart non farebbe altro che passare il caso all'Fbi, che sbatterebbe dentro il tizio, e la sua rete svanirebbe nel nulla.» «Accidenti, hai ragione. Però ho bisogno che partecipi a que-sta riunione. La presiederò io. Puoi lasciare comunque che la tua squadra continui il pedinamento. Se succede qualcosa possono chiamarti.»

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«Grazie, George.» «Ah, senti: questa mattina hai mandato a fare in culo Hobart davanti a tutti i tuoi agenti, giusto?» «Suppongo di sì.» «La prossima volta vedi di farlo con maggior discrezione, d'ac-cordo?» Cooperman riprese in mano la "Pravda". Anthony si alzò per uscire e prese i disegni. «E accertati di condurre bene questa sorveglianza» aggiunse. «Se combini qualche altro casino, oltre a insultare il tuo capo, potrei non essere più in grado di pro-teggerti.» Anthony uscì. Ma non tornò subito nel suo ufficio. La fila di edi-fici condannati alla demolizione che ospitava questa parte della Cia occupava una striscia di terreno compresa tra Constitution Avenue e il viale con la Reflecting Pool. Gli ingressi per i veicoli erano sul lato verso la strada, ma Anthony uscì da un cancelletto sul retro che dava sul parco. Passeggiò lungo il viale fiancheggiato da olmi, respirando l'aria fredda e pulita. Gli alberi secolari e l'acqua immobile riuscirono a calmarlo un po'. Quella mattina c'erano stati momenti di diffi-coltà, ma lui aveva tenuto duro, ricorrendo a una serie di bugie, ognuna diversa per ogni parte in causa. Arrivò in fondo al viale e si fermò a metà strada tra il Lincoln Memorial e il Washington Monument. "È tutta colpa vostra" pensò, rivolto ai due presidenti. "Avete fatto credere agli uomini che potevano essere liberi. Io mi sto battendo per i vostri ideali. Non sono neppure più sicuro di credere negli ideali, ma suppongo di essere troppo cocciuto per smettere. Vi siete mai sentiti così anche voi?" Ipresidenti non risposero e, dopo un po', lui fece ritorno al Q Building. In ufficio trovò Pete e la squadra che stava seguendo Luke: Simons, con un cappotto blu scuro, e Betts che portava un imper-meabile verde. Con loro c'era anche la squadra che avrebbe dovu-to rilevarli: Rifenberg e Horwitz. «Cosa diavolo succede?» chiese Anthony, improvvisamente allarmato. «Chi c'è con Luke?» Simons stringeva un cappello floscio tra le mani tremanti. «Nessuno» rispose. «Cos'è successo?» urlò Anthony. «Cosa cazzo è successo, brut-ti stronzi?» Fu Pete a rispondere, dopo un attimo. «Lo abbiamo...» deglutì a fatica «lo abbiamo perso.»

PARTE SECONDA

9.00

Il Jupiter C è stato costruito dalla Chrysler Corporation per l'eserci-to. Il grosso motore a razzo che spinge il primo stadio è prodotto dal-la North American Aviation, Inc. Il secondo, terzo e quarto stadio

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sono stati progettati e collaudati dal Jet Propulsion Laboratory a Pa-sadena.

Luke era furibondo con se stesso. Aveva gestito male la fac-cenda: trovate due persone che probabilmente conoscevano la sua identità, se l'era fatte scappare. Era tornato nel quartiere popolare dalle parti della cappella metodista in H Street. La luce del freddo mattino invernale si era fatta più forte e le strade sembravano ancor più sudicie, le case più vecchie, la gente più trasandata. Vide due barboni che si pas-savano una bottiglia di birra nell'androne di un negozio sfitto. Con un brivido, allungò il passo. Ma poi si rese conto che questo era molto strano. Un alcolizzato aveva sempre voglia di bere. Lui no. La vista della birra a quell'ora del mattino lo nauseava. Quindi, concluse con enorme sollievo, non poteva essere un alcolizzato. Ma se non era un ubriacone, allora cos'era? Ricapitolò quanto sapeva sul proprio conto. Aveva un'età com-presa tra i trenta e i quaranta, non fumava, nonostante le appa-renze non era un alcolizzato, a un certo punto della sua vita era stato coinvolto in attività clandestine, e conosceva le parole di What a Friend We Have in Jesus. Era davvero troppo poco. Aveva continuato nella ricerca di una stazione di polizia, ma senza fortuna. Decise di chiedere a qualcuno. Un attimo dopo, passando davanti a un terreno recintato da pannelli di lamiera ondulata, vide un poliziotto uscire sul marciapiede da un varco nella recinzione. Deciso a sfruttare l'occasione, Luke gli chiese: «Come faccio ad arrivare alla stazione di polizia più vicina?». Il poliziotto era un uomo corpulento con baffi biondo rossic-cio. Osservò Luke con disprezzo e gli disse: «Nel baule della mia auto, se non ti togli subito dai coglioni». Luke trasalì per la brutalità del linguaggio, ma era stanco di vagare senza meta e aveva bisogno di indicazioni, così insistette. «Vorrei solo sapere dov'è la stazione di polizia più vicina.» «Guarda che non te lo ripeto, sacco di merda.» Luke si adombrò. Chi diavolo credeva di essere quel tipo? «Io le ho rivolto educatamente una domanda, signore» disse, brusco. Il poliziotto si mosse con velocità inattesa per un uomo della sua stazza. Afferrò Luke per il bavero del giaccone logoro e lo spinse all'interno della recinzione. Luke incespicò e cadde, facen-dosi male a un braccio. Con sorpresa, vide che non era solo. Poco più in là c'era una ra-gazza con i capelli tinti di biondo e il trucco pesante. Indossava un lungo cappotto aperto sopra un abito morbido, scarpe da sera con il tacco alto e calze smagliate. Si stava tirando su le mutandine. Luke capì che era una prostituta che aveva appena offerto una prestazione al poliziotto. L'agente si infilò nel varco e gli sferrò un calcio nello stomaco. Luke sentì la giovane che diceva: «Per l'amor del cielo, Sid, cos'ha fatto questo poveraccio, ha sputato

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per terra? Lascialo in pace!». «Questo stronzo deve imparare a portare rispetto» ribatté il poliziotto, biascicando le parole. Con la coda dell'occhio Luke lo vide estrarre il manganello e sollevarlo. Quando il colpo scese, Luke si girò su un fianco. Ma non fu abbastanza veloce e l'estremità del bastone lo prese di stri-scio sulla spalla sinistra, facendogli perdere per un momento la sensibilità. Il poliziotto alzò di nuovo il braccio pronto a colpire. Qualcosa scattò nel cervello di Luke. Invece di allontanarsi rotolò tra i piedi dell'uomo che, sbilan-ciato in avanti, cadde a terra lasciando andare il manganello. Luke balzò in piedi con agilità. Mentre anche il poliziotto si rial-zava, Luke chiuse la distanza, saltellandogli davanti in modo che l'altro non riuscisse a inquadrarlo. Poi lo afferrò per i risvolti della giacca e lo attirò a sé con movimento brusco, colpendolo con la fronte in pieno volto. Si sentì il rumore secco del naso che si rompeva, e l'uomo urlò per il dolore. Luke mollò la presa, piroettò su un piede e centrò ancora l'uomo con un calcio nella parte laterale del ginocchio. Le scarpe sfondate non erano abbastanza rigide per rompere l'articolazione, ma il ginocchio non ha molta resistenza ai colpi di lato e il poliziotto stramazzò a terra. Una parte del cervello di Luke si chiese dove avesse imparato a combattere in quel modo. Il poliziotto sanguinava dal naso e dalla bocca, ma si sollevò puntellandosi sul gomito sinistro e fece per estrarre la pistola con la destra. Prima ancora che questa uscisse dalla fondina, Luke gli fu ad-dosso. Lo afferrò per l'avambraccio destro e gli sbatté violente-mente la mano sul cemento facendo cadere l'arma. Poi tirò con forza il braccio verso l'alto, torcendolo in modo che l'uomo per-desse l'appoggio e crollasse a terra. Con un unico movimento gli piegò il braccio dietro la schiena e si lasciò cadere su di lui pian-tandogli tutte e due le ginocchia nelle reni e togliendogli il fiato. Infine, gli afferrò l'indice spingendolo all'indietro. Il poliziotto urlò. Luke piegò ancora di più il dito. Si sentì un rumore secco e l'uomo svenne. «Per un po' non picchierai altri barboni, stronzo» disse Luke. Si rialzò, raccolse la pistola, estrasse tutti i proiettili e li scagliò lontano. La prostituta lo osservava con occhi sgranati. «Chi cazzo sei, Elliott Ness?» Luke la guardò. Era magra, e sotto il trucco si intuiva un incar-nato malaticcio. «Non lo so chi sono.» «Be', di sicuro non sei un barbone» commentò lei. «Non ne ho mai conosciuto uno in grado di prendere a pugni un grosso stronzo come Sidney.» «È quello che pensavo anch'io.» «Sarà meglio che andiamo via di qui» suggerì lei. «Quando rin-viene sarà una belva.» Luke annuì. Non aveva paura di Sidney, ma presto sul posto sarebbero arrivati altri poliziotti e lui aveva da fare. Uscì dal varco della recinzione e si allontanò a passo svelto.

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La donna lo seguì facendo ticchettare i tacchi alti sul marcia-piede. Luke rallentò per aspettarla. Provava una certa solidarietà per lei: entrambi erano stati vittime della prepotenza dell'agente Sidney. «Mi ha fatto piacere vedere Sidney alle prese con qualcuno più forte di lui» disse. «Credo proprio di essere in debito con te.» «Figurati.» «Be', la prossima volta che ne hai voglia, per te è gratis.» Luke cercò di nascondere la propria repulsione. «Come ti chiami?» «Dee-Dee.» La guardò con espressione curiosa. «Veramente il nome sarebbe Doris Dobbs» ammise lei «ma che nome è per una ragazza che fa il mio mestiere?» «Io sono Luke. Il cognome non lo so, ho perso la memoria.» «Accidenti! Devi sentirti un po'... strano.» «Disorientato.» «Ecco» disse lei «ce l'avevo proprio sulla punta della lingua.» Le lanciò un'occhiata. La giovane aveva un sorriso ironico sulle labbra e Luke si rese conto che si stava prendendo gioco di lui. Gli piacque per questo. «Non è che mi sia dimenticato il mio cognome e il mio indirizzo» spiegò. «Non so neppure che tipo di persona sono.» «Cosa intendi dire?» «Per esempio, sono una persona onesta?» Forse era sciocco confidarsi con una prostituta, ma non aveva nessun altro. «Sono un marito fedele, un padre affettuoso e un buon collega di lavo-ro? Oppure sono un gangster? Non saperlo mi fa impazzire.» «Tesoro, se è questo che ti preoccupa, io ho già capito che tipo di persona sei. Un gangster avrebbe pensato: "Chissà se sono ricco, chissà se ammazzo le puttane, chissà se la gente ha paura di me?".» Non aveva tutti i torti. Luke annuì, ma non era ancora soddi-sfatto. «Un conto è desiderare di essere una brava persona... altro conto è esserlo veramente.» «Benvenuto tra i comuni mortali, dolcezza» disse lei. «Ci sen-tiamo tutti così, sai.» Si fermò davanti a un portone. «È stata una nottata lunga. Io mi fermo qui.» «Arrivederci.» Lei esitò un attimo. «Lo accetti un consiglio?»

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«Certo.» «Se vuoi che la gente la smetta di trattarti come un pezzo di merda, sarà meglio che ti metti un po' in ordine. Fatti la barba, pettinati e trova un cappotto che non sembri uno straccio ruba-to dalla cuccia del cane.» Luke si rese conto che la ragazza aveva colto nel segno. Nes-suno gli avrebbe dato ascolto, e tanto meno lo avrebbe aiutato a scoprire la sua identità, se aveva l'aspetto di un pazzo. «Credo proprio che tu abbia ragione» disse. «Grazie.» E fece per allon-tanarsi. «E trovati un cappello!» gli gridò lei. Luke si toccò la testa e poi si guardò attorno. Era l'unica perso-na sulla strada, uomo o donna che fosse, a non portare un cappel-lo. Ma come faceva un barbone a procurarsi degli abiti nuovi? La manciata di spiccioli che aveva in tasca sarebbe servita a ben poco. La soluzione prese forma nella sua mente. O era un problema molto facile, oppure si era già trovato in una situazione simile. Sarebbe andato in una stazione ferroviaria. Di solito le stazioni sono piene di gente che ha con sé vestiti e il necessario per l'igie-ne personale, il tutto ordinatamente riposto in valigia. Andò all'angolo più vicino per localizzare la sua posizione. Era all'incrocio tra A Street e la Seventh. Uscendo dalla Union Sta-tion, quella mattina, aveva notato che si trovava vicina all'angolo tra la F e la Second. Si avviò in quella direzione.

10.00

Il primo stadio del missile è attaccato al secondo con bulloni esplo-sivi circondati da molle elicoidali. Quando ilbooster avrà finito di bruciare, i bulloni esploderanno separando i due stadi e liberando le molle che forniranno un'ulteriore spinta per allontanare il primo stadio, ormai inutile.

Il Georgetown Mind Hospital era un bell'edificio vittoriano di mattoni rossi unito sul retro a un'ala moderna con il tetto piatto. Billie Josephson parcheggiò la Ford Thunderbird rossa ed entrò di corsa. Non sopportava di arrivare in ritardo. Le sembrava irrispetto-so nei confronti del suo lavoro e dei colleghi. Il loro compito era molto importante. A poco a poco, con grande fatica, stavano imparando a comprendere i meccanismi della mente umana. Era come costruire la mappa di un pianeta lontano, la cui superficie poteva essere intravista solo attraverso squarci tra le nuvole, la cui fugacità era comunque promettente. Aveva fatto tardi per colpa di sua madre. Dopo che Larry era uscito per andare a scuola, Billie era corsa a prendere le pillole per il cuore e, tornata a casa, aveva trovato Becky-Ma sdraiata sul letto, ansimante. Il medico era arrivato subito, e non aveva detto niente di nuovo: Becky-Ma aveva il cuore debole. Quando si sen-tiva mancare il fiato, doveva sdraiarsi. Doveva pure ricordarsi di prendere sempre

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le sue pillole. E di evitare lo stress. "E io?" avrebbe voluto dire Billie. "A me lo stress non fa male? " Invece, si era ripromessa per l'ennesima volta di trattare la madre con più gentilezza. Si fermò all'accettazione e diede un'occhiata al registro della notte. La sera prima, sul tardi, dopo che lei se n'era andata, era stato ricoverato un nuovo paziente, Joseph Bellow, uno schizofreni-co. Il nome non le era nuovo, ma non riusciva a ricordare dove lo avesse già sentito. Stranamente, il paziente era stato poi dimesso nel corso della notte. Attraversò la saletta di ritrovo, diretta al suo ufficio. Il televi-sore era acceso: un giornalista, inquadrato su una spiaggia polve-rosa, stava dicendo: "Qui a Cape Canaveral la domanda che tutti si pongono è: 'Quando avverrà il tentativo di lancio dell'eserci-to?'. E dovrà per forza avvenire entro i prossimi giorni". Ipazienti oggetto delle ricerche di Billie si trovavano nella salet-ta: alcuni guardavano la televisione, altri facevano giochi di società o leggevano, altri ancora fissavano attoniti il nulla. Salutò Tom con un cenno della mano. Era un giovane che non comprendeva il si-gnificato delle parole. «Come stai, Tommy?» disse. Lui le sorrise e ricambiò il saluto. Riusciva a interpretare senza difficoltà il lin-guaggio del corpo e spesso reagiva come se sapesse ciò che la gen-te gli stava dicendo: Billie ci aveva messo mesi prima di rendersi conto che il ragazzo non capiva una sola parola. In un angolo, Marlene, un'alcolizzata, stava flirtando con un giovane infermiere. Aveva cinquant'anni, ma non ricordava nulla di quanto le era accaduto dopo i diciannove. Credeva di essere ancora una ragazza e si rifiutava di credere che "il vecchio" che l'amava e si prendeva cura di lei fosse suo marito. Attraverso la vetrata di una saletta per i colloqui, vide Ronald, un brillante architetto che aveva subito un grave trauma cranico in un incidente d'auto. Stava rispondendo ai test di un questio-nario. Il suo problema era la perdita della capacità di lavorare con i numeri, che lo costringeva a contare con esasperante len-tezza aiutandosi con le dita. Molti pazienti soffrivano di varie forme di schizofrenia, un'in-capacità a mettersi in relazione con il mondo reale. Alcuni potevano essere curati, con farmaci o con l'elettroshock, o con i due trattamenti combinati, ma il compito di Billie era di ve-rificare gli esatti confini dei loro disturbi. Grazie allo studio degli handicap mentali meno gravi stava tracciando a grandi linee le fun-zioni di una mente normale. Davanti a un gruppo di oggetti posati su un vassoio, Ronald era in grado di dire che erano tre o quattro, ma se erano dodici e lui doveva contarli, impiegava moltissimo tempo e spesso sbagliava. Questo faceva ritenere che l'abilità di ca-pire a colpo d'occhio quanti oggetti facevano parte di un piccolo gruppo fosse separata dalla capacità di contare. In questo modo Billie stava lentamente esplorando le profon-dità della mente, individuando il centro della memoria qui, quel-lo del linguaggio là, quello della matematica in un'altra zona ancora. Se il deficit era legato a un danno cerebrale lieve, Billie poteva avanzare l'ipotesi che la funzione normale fosse situata in quella parte del cervello che era stata irrimediabilmente danneg-giata. Alla fine, l'immagine astratta delle funzioni mentali sareb-be stata riportata su una mappa fisica del cervello umano. Vista la lentezza con cui procedeva, sarebbero occorsi duecen-to anni circa. Ma era sola a lavorare su quel progetto. Con l'aiu-to di un team di psicologi avrebbe potuto progredire molto più in fretta e vedere la mappa completata prima della sua morte. Questa era la sua ambizione.

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La depressione che aveva portato suo padre al suicidio era molto lontana. Non esistevano cure rapide per la malattia menta-le e la mente umana continuava a essere un mistero per gli scien-ziati. Si sarebbero capite molte più cose se Billie avesse potuto procedere più spedita con le sue ricerche e allora, forse, sarebbe stato possibile aiutare le persone come suo padre. Salì le scale che portavano al piano superiore, pensando al nuovo paziente. Joseph Bellow suonava un po' come Joe Blow, il tipico nome di fantasia. E perché era stato dimesso nel cuore della notte? Arrivata nel suo ufficio, andò alla finestra e guardò il cantiere lì vicino. Stavano costruendo una nuova ala dell'ospedale, e con essa sarebbe stata creata anche una nuova carica: direttore della ricer-ca. Billie aveva fatto domanda per quel posto, come pure un suo collega, il dottor Leonard Ross. Len aveva più anzianità, ma lei aveva più esperienza e più pubblicazioni al suo attivo: parecchi ar-ticoli e un libro di testo, Introduzione alla psicologia della memo-ria. Era sicura di poter battere Len, ma non sapeva chi altri avesse fatto domanda. E lei voleva quel posto con tutte le sue forze. Co-me direttore avrebbe potuto contare su molti collaboratori. Nell'area del cantiere notò, oltre agli operai, un gruppetto di uomini vestiti con abiti formali, cappotti e cappelli anziché tute da lavoro ed elmetti di protezione. Sembrava stessero facendo un gi-ro d'ispezione. Guardando meglio vide che tra loro c'era Len Ross. «Chi sono quei tizi che girano per il cantiere accompagnati da Len Ross?» chiese alla sua segretaria. «Sono della Fondazione Sowerby.» Billie si accigliò. La fondazione avrebbe finanziato il nuovo reparto. Avrebbero avuto molta voce in capitolo sulla nomina del direttore. E Len se li stava lavorando. «Ci avevano avvertiti che sarebbero venuti oggi?» «Len ha detto che le aveva mandato un biglietto. È passato di qui questa mattina a chiamarla, ma lei non c'era.» Non c'era mai stato nessun biglietto, Billie ne era sicura. Len aveva deliberatamente evitato di avvertirla. E lei era pure arriva-ta in ritardo. «Maledizione!» esclamò e corse fuori per raggiungere il grup-petto sul cantiere. Non ripensò più a Joseph Bellow per parecchie ore.

11.00

Poiché il missile è stato assemblato in tutta fretta, invece di uno nuovo gli stadi superiori utilizzano un motore a razzo che è già in produzione da alcuni anni. Gli scienziati hanno optato per una ver-sione ridotta del collaudatissimo razzo Sergeant. Gli stadi superio-ri del missile sono spinti da gruppi di questi piccoli razzi, noti con il nome di Baby Sergeant.

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Districandosi nel dedalo di strade che portavano alla Union Station, Luke si scoprì a controllare più volte se qualcuno lo seguiva. Aveva seminato le sue due "ombre" da più di un'ora e, proba-bilmente, adesso lo stavano cercando. Era spaventato e perples-so. Chi erano? E perché lo stavano seguendo? L'istinto gli diceva che non stavano dalla sua parte. In caso contrario, perché avreb-bero dovuto sorvegliarlo di nascosto? Scosse la testa come per schiarirsi le idee. Tutte queste ipotesi campate in aria erano frustranti. Non aveva senso continuare a fare congetture. Doveva scoprire come stavano realmente le cose. Prima di tutto bisognava darsi una ripulita. L'intenzione era quella di rubare il bagaglio a un viaggiatore sceso dal treno. Era certo di averlo già fatto prima, in un qualche momento della sua vita precedente. Quando cercò di ricordare, gli venne in mente una frase in francese: "La valise d'un type qui descend du train". Non sarebbe stato facile.Isuoi abiti sporchi e logori avrebbe-ro attirato l'attenzione tra una folla di rispettabili viaggiatori. Dee-Dee, la prostituta, aveva ragione. Nessuno avrebbe dato retta a un barbone. Se l'avessero arrestato, la polizia non avrebbe mai creduto che lui non era un vagabondo e sarebbe finito in galera. Il pensiero lo fece rabbrividire. Non era tanto l'idea della prigione in sé a spa-ventarlo, quanto la prospettiva di passare settimane, se non addi-rittura mesi, nell'ignoranza e nella confusione, senza sapere chi fosse realmente e senza poter fare nulla per scoprirlo. Giunto in Massachusetts Avenue vide davanti a sé il colonna-to di granito bianco della Union Station, simile a una cattedrale romanica trasportata lì dalla Normandia. Pensando alle mosse successive, rifletté che dopo aver messo a segno il furto della vali-gia avrebbe avuto bisogno di un'auto per allontanarsi in fretta. Nessun problema: sapeva esattamente come fare. Nelle vicinanze della stazione la strada era tutta una fila di macchine parcheggiate. Certamente la maggior parte appartene-va a persone che avevano preso il treno. Rallentò il passo quando vide un'auto infilarsi in un posto davanti a lui. Era una Ford Fairlane blu e bianca, nuova ma non troppo vistosa. Perfetta. Il moto-rino d'avviamento veniva fatto partire con una chiave, non da un bottone, ma si poteva facilmente aggirare il problema estraendo un paio di cavi da dietro il cruscotto. Si chiese come facesse a saperlo. Dalla Ford scese un uomo in cappotto scuro che, presa una piccola valigia dal portabagagli, chiuse a chiave la portiera e si diresse verso la stazione. Quanto tempo sarebbe stato via? Era possibile che dovesse fare qualcosa in stazione per tornare dopo pochi minuti. A quel punto avrebbe subito denunciato il furto della macchina. Luke correva il rischio di venir arrestato nel giro di poco, una prospet-tiva nient'affatto buona. Doveva assolutamente scoprire dov'era diretto quell'uomo. Lo seguì all'interno della stazione. Il maestoso interno, che quella mattina gli era apparso come un tempio sconsacrato, adesso era pieno di vita. Luke si sentiva in imbarazzo: sembravano tutti così puliti e ben vestiti! Molti distoglievano lo sguardo, altri lo guardavano con disgusto o disprezzo. Gli venne in mente che avrebbe potuto imbattersi nel funzionario che lo aveva cacciato fuori solo qualche ora prima. Il tizio si sarebbe sicuramente ricordato di lui e ci sarebbe stato un po' di trambusto.

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Il proprietario della Ford andò a mettersi in coda alla bigliet-teria. Luke fece altrettanto. Teneva gli occhi bassi, attento a non incrociare lo sguardo di nessuno e nella speranza che nessuno lo notasse. La coda si spostò in avanti e la sua vittima arrivò allo sportel-lo. «Philadelphia, andata e ritorno» disse. Per Luke era più che sufficiente. Philadelphia era a qualche ora di viaggio. L'uomo sarebbe rimasto fuori città tutto il giorno. Nessuno avrebbe denunciato il furto dell'auto prima del suo ritorno. Luke sarebbe stato al sicuro fino a sera. Si staccò dalla coda allontanandosi in fretta. Uscire fu un sollievo. Anche i barboni avevano diritto di stare in strada. Tornò in Massachusetts Avenue, verso la Ford par-cheggiata. Per risparmiare tempo dopo, avrebbe forzato la por-tiera adesso. Guardò su e giù per la strada: era un continuo pas-saggio di macchine e pedoni. Il problema era che lui aveva l'aria del criminale. Ma se avesse aspettato finché non c'era nessuno in giro, sarebbe stato lì tutto il giorno. La soluzione era agire in fretta. Fece alcuni passi, girò intorno alla macchina e si fermò davan-ti alla portiera del guidatore. Premette i palmi delle mani contro il vetro del finestrino e spinse verso il basso. Non accadde nulla. Diede una rapida occhiata intorno: nessuno gli prestava atten-zione. Si sollevò in punta di piedi per far pressione sul meccani-smo del finestrino anche con il peso del corpo. Infine, il vetro cedette e scivolò piano verso il basso. Quando fu completamente aperto, Luke infilò una mano all'interno e sbloccò la sicura. Aprì la portiera, tirò su il finestri-no e richiuse di nuovo la portiera. Tutto era pronto per una fuga veloce. Considerò l'ipotesi di avviare il motore adesso e lasciarla in moto, ma questo avrebbe potuto attirare l'attenzione di qualche poliziotto di passaggio o anche solo di un passante curioso. Tornò all'interno della stazione. Temeva che qualcuno delle ferrovie lo notasse. Poteva anche non essere necessariamente l'uomo che lo aveva gettato fuori quella mattina... qualsiasi dipendente coscienzioso avrebbe potuto considerare un suo pre-ciso dovere quello di cacciarlo via, come raccogliere una carta di caramella lasciata cadere sul pavimento. Faceva del suo meglio per passare inosservato. Camminava né lento né veloce, cercava di tenersi rasente ai muri, stava attento a non tagliare la strada a nessuno e a non incrociare lo sguardo degli altri. Il momento migliore per rubare una valigia era subito dopo l'arrivo di un treno affollato, quando l'atrio si riempiva di gente. Studiò il tabellone degli orari. Nel giro di dodici minuti sarebbe arrivato un espresso da New York. Perfetto. Mentre osservava il tabellone, cercando il binario sul quale sarebbe arrivato il treno, sentì rizzarsi i peli sulla nuca. Si voltò. Doveva aver visto qualcosa con la coda dell'occhio, qualcosa che lo aveva istintivamente messo in allarme. Cosa? Il cuore prese a battergli più veloce. Cosa lo aveva spaventato? Cercando di non farsi notare, si allontanò dal punto in cui si trovava e si fermò davanti all'edicola, allo scaffale dove erano esposti i quotidiani. Lesse i titoli:

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Presto al via il missile dell'esercito Arrestato l'uomo che ha ucciso dieci persone Dulles rassicura Baghdad Ultima chance per Cape Canaveral

Un attimo dopo si guardò alle spalle. Una ventina di persone attraversavano l'atrio in ogni direzione, appena arrivate o dirette ai marciapiedi. Molte altre erano sedute sulle panche di mogano o aspettavano pazientemente in piedi, parenti e autisti in attesa di passeggeri in arrivo da New York. Un gestore era fermo sulla porta del ristorante, confidando sull'arrivo di qualche cliente. C'erano cinque facchini, che fumavano e chiacchieravano... E due agenti. Era certissimo che si trattasse di agenti: entrambi giovani, ben vestiti, con cappotto e cappello, le scarpe lucidate con cura. Ma non li tradiva tanto l'aspetto quanto il loro atteggiamento. Stava-no sul chi vive, tenevano d'occhio l'atrio studiando i volti delle persone, guardavano ovunque... tranne che verso il tabellone degli arrivi e delle partenze. L'unica cosa a non interessarli erano i treni. Fu tentato di andare a parlare con loro. Pensandoci bene, sen-tiva prepotente il bisogno di un semplice contatto umano con gente che lo conoscesse. Desiderava tanto che qualcuno gli dices-se: "Ciao, Luke, come stai? Che piacere rivederti!". Invece, probabilmente, quei due gli avrebbero comunicato: "Siamo agenti dell'Fbi e lei è in arresto". Luke pensò che sareb-be stato quasi un sollievo. Ma il suo istinto lo mise in guardia. Ogni volta che provava la tentazione di fidarsi di loro, si chiede-va perché mai lo seguissero di nascosto, se avevano buone inten-zioni. Voltò loro la schiena e si allontanò, cercando di tenersi al ripa-ro dietro l'edicola. Giunto vicino a un grande arco, si arrischiò a guardare indietro.Idue uomini stavano attraversando l'atrio. Chi diavolo erano? Uscì dalla stazione, proseguì per alcuni metri lungo il grandio-so portico che ne ornava la facciata, e rientrò nell'atrio principa-le giusto in tempo per vedere i due agenti dirigersi verso l'uscita ovest. Guardò l'orologio. Erano passati dieci minuti: ne mancavano solo due all'arrivo dell'espresso da New York. Si affrettò verso il cancello del marciapiede di arrivo e si mise ad aspettare, cercan-do di confondersi con l'ambiente. Come il primo passeggero uscì, una calma gelida si impossessò di lui. Osservò attentamente le persone che arrivavano. Era merco-ledì, un giorno feriale, quindi c'erano molti uomini d'affari e mili-tari in uniforme, ma pochi turisti e poche donne e bambini. Cercò un uomo che avesse la sua stessa altezza e corporatura. A mano a mano che i passeggeri si riversavano dal cancello, le persone in attesa si spostavano in avanti

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dando origine a un ingorgo. La folla attorno all'uscita si fece più fitta per poi dira-darsi nuovamente, con le persone che si aprivano un varco a spin-toni, irritate. Luke notò un giovane della sua taglia, ma indossa-va un montgomery e un berretto da marinaio: probabilmente nella sua sacca non c'era un completo. Allo stesso modo scartò un anziano viaggiatore che era dell'altezza giusta, ma troppo magro. Individuò un uomo che era perfetto, però aveva con sé solo una valigetta portadocumenti. Ormai erano già usciti almeno un centinaio di passeggeri, ma sembrava ce ne fossero altri. L'atrio si riempì di persone impa-zienti. E poi Luke vide l'uomo giusto. Era della sua stessa altez-za, corporatura ed età. Il soprabito grigio sbottonato lasciava intravedere una giacca sportiva di tweed e pantaloni di flanella... ciò stava a significare che, quasi certamente, aveva un abito for-male nella valigia di pelle marrone chiaro che portava nella mano destra. Aveva un'espressione assorta e camminava a passo svelto, come se fosse in ritardo per un appuntamento. Luke si intrufolò tra la gente e si fece largo fino a trovarsi subi-to dietro di lui. La folla era fitta e si muoveva lenta; l'obiettivo di Luke proce-deva nervosamente, a scatti. Poi l'assembramento si diradò un poco e l'uomo si infilò veloce in un varco. Fu allora che Luke gli fece lo sgambetto, agganciandogli sal-damente la caviglia con il piede e scalciando verso l'alto. L'uomo lanciò un urlo mentre si proiettava in avanti, mollan-do la valigia per mettere le mani davanti a sé. Andò a sbattere contro la schiena di una donna impellicciata che, a sua volta, inciampò e rovinò a terra con uno strillo, lasciando cadere la bor-setta e un'elegante valigia di pelle bianca. L'uomo crollò sul pavi-mento di marmo con un tonfo chiaramente percettibile e perse anche il cappello, che rotolò via. Presto si formò un capannello di persone che cercavano di aiu-tare i due poveretti. Senza dare nell'occhio, Luke raccolse la valigia marrone e si allontanò a passo svelto, dirigendosi verso l'uscita più vicina. Non si voltò indietro, ma rimase con le orecchie dritte per capta-re qualche urlo o il rumore di passi che lo inseguivano. Era pron-to a scappare: non aveva intenzione di rinunciare al suo bottino e si sentiva in grado di correre più veloce di chiunque altro, anche con la valigia in mano. Ma, mentre procedeva verso le porte, gli sembrava di avere un bersaglio da tiro a segno disegna-to sulla schiena. Arrivato all'uscita si girò a guardare. La folla era sempre radu-nata nello stesso punto. Non riusciva a scorgere il viaggiatore che aveva fatto cadere, né la donna con la pelliccia. Vide però un uomo alto, dall'aspetto autoritario, che perlustrava attentamente con lo sguardo l'atrio, come in cerca di qualcosa. La sua testa ruotò all'improvviso in direzione di Luke. Luke uscì in fretta. Una volta fuori, imboccò Massachusetts Avenue. Un minuto dopo arrivò alla Ford Fairlane. Automaticamente andò verso il bagagliaio per nascondervi la valigia rubata, ma non riuscì ad aprirlo. Rammentò di aver visto il proprietario chiuderlo a chia-ve. Si voltò a guardare verso la stazione. L'uomo alto stava attra-versando di corsa l'isola spartitraffico davanti alla stazione, scar-tando le auto. Veniva verso di lui. Chi era? Un poliziotto fuori servizio? Un detective? Un ficcanaso? Luke girò svelto intorno alla macchina, aprì la portiera del gui-datore e gettò la valigia sul sedile posteriore. Poi salì a bordo.

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Si chinò sotto il cruscotto per trovare i cavi sui due lati del blocchetto d'accensione. Li estrasse e li collegò. Non accadde nulla. Nonostante il freddo aveva la fronte imperlata di sudore. Perché non funzionava? La risposta si presentò nella sua mente: era il filo sbagliato. Infilò di nuovo le mani sotto il cruscotto. C'era un altro cavo sulla destra. Lo tirò fuori e lo avvicinò agli altri. Il motore partì. Pestò sul pedale dell'acceleratore e il motore andò su di giri. Innestò la marcia, mollò il freno a mano, mise la freccia e si mosse. L'auto era parcheggiata con il muso verso la stazione e quindi fu costretto a fare inversione di marcia per allontanarsi. Un sorriso gli passò sul volto. A meno che non fosse stato dav-vero sfortunato, si era procurato un cambio completo di vestiti. Gli pareva di aver cominciato a riprendere il controllo della pro-pria vita. Ora gli serviva un posto dove lavarsi e cambiarsi.

12.00

Il secondo stadio è costituito da undici razzi Baby Sergeant disposti ad anello intorno a una struttura cilindrica centrale. Il terzo stadio ha tre Baby Sergeant tenuti insieme da tre diaframmi di supporto trasversali. Sopra al terzo stadio c'è il quarto, composto da un sin-golo razzo, che porta il satellite sulla punta.

Il conto alla rovescia procedeva: mancavano 630 minuti all'o-raX,e a Cape Canaveral ferveva l'attività. Gli esperti in missilistica erano tutti uguali: potevano anche progettare armi, se il governo glielo chiedeva, ma sognavano lo spazio cosmico. La squadra dell'Explorer aveva costruito e lan-ciato molti missili, ma questo sarebbe stato il primo a vincere l'at-trazione terrestre e a volare libero oltre l'atmosfera. Per la mag-gior parte di loro, il lancio di quella sera avrebbe significato il realizzarsi delle speranze di tutta una vita. Lo stesso per Elspeth. Erano di base all'hangar D e all'hangar R, che si trovavano l'uno accanto all'altro. La struttura degli hangar per aerei si pre-stava anche per i missili: c'era un ampio spazio centrale per il controllo dei motori a razzo, circondato sui due lati da un corpo su due piani dove trovavano posto uffici e piccoli laboratori. Elspeth era nell'hangar R. Aveva una scrivania e una macchina per scrivere nell'ufficio del suo capo, Willy Fredrickson, il diret-tore di lancio, che passava quasi tutto il suo tempo altrove. Il compito di Elspeth era quello di preparare e distribuire il pro-gramma. Il problema era che il programma variava di continuo. Negli Stati Uniti nessuno aveva mai spedito un razzo nello spazio prima di allora. Sorgevano sempre nuovi problemi, e gli ingegneri im-provvisavano soluzioni di fortuna per sostituire questo o quel componente, o per bypassare un sistema. Qui il nastro adesivo ve-niva chiamato nastro da missili.

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E così Elspeth continuava a preparare nuovi aggiornamenti del programma. Doveva tenersi in contatto con ogni gruppo della squadra, prendere nota dei cambiamenti sul suo taccuino da ste-nografa, quindi batterli a macchina, farne delle copie e distribuir-li. Questo compito richiedeva che lei andasse ovunque e fosse al corrente di ogni aspetto dell'impresa. Se c'era un intoppo, ne ve-niva informata quasi subito; ed era anche tra i primi a conoscere la soluzione. Aveva la qualifica di segretaria, e come tale veniva paga-ta, ma nessuno avrebbe potuto fare quel lavoro senza una laurea di tipo scientifico. Lei non si lamentava per lo stipendio basso: era contenta di avere un lavoro stimolante. Alcune delle sue compa-gne della Radcliffe scrivevano ancora lettere sotto dettatura alle dipendenze di uomini in abito di flanella grigia. L'aggiornamento di mezzogiorno era pronto. Afferrò la pila di fogli e si preparò a distribuirli. Non aveva neppure il tempo per respirare, ma quel giorno era un bene: le impediva di preoccu-parsi costantemente di Luke. Se avesse ceduto al suo istinto, avrebbe telefonato a Anthony ogni cinque minuti per chiedergli se ci fossero novità. Ma sarebbe stata una cosa stupida. Se qual-cosa fosse andato storto, lui l'avrebbe avvertita subito, pensò. Nel frattempo doveva concentrarsi sul lavoro. Andò nella sala stampa, dove gli ufficiali addetti alle relazioni pubbliche erano tutti al telefono per informare i reporter di fidu-cia che quella sera ci sarebbe stato un lancio. L'esercito voleva dei giornalisti sul posto perché fossero testimoni del suo trionfo. Ma l'informazione non sarebbe stata divulgata fin dopo l'avvenimen-to.Ilanci in programma venivano spesso ritardati, e talvolta annullati se si presentavano ostacoli imprevisti. Gli uomini del programma missilistico avevano imparato, a loro spese, che un normale rinvio, necessario a risolvere un problema tecnico, in mano alla stampa poteva passare per un totale fallimento. Così, avevano un accordo con tutte le principali agenzie di stampa: le informavano in anticipo dei lanci a condizione che non trapelas-se nulla finché non ci fosse stato "fuoco nella coda", quando cioè il motore del razzo fosse stato acceso. Era un ufficio tutto al maschile e parecchi occhi la seguirono mentre attraversava la stanza e porgeva il programma al capo del-l'ufficio stampa. Elspeth sapeva di essere attraente, con la sua fi-gura statuaria e il pallido incarnato vichingo, ma c'era qualcosa in lei che incuteva timore - la piega determinata della bocca, forse, o la luce minacciosa degli occhi verdi - per cui gli uomini abituati a fischiare o a fare commenti con lei si trattenevano. Nel laboratorio di propulsione trovò cinque scienziati in mani-che di camicia radunati intorno a un bancone. Fissavano preoc-cupati un pezzo di metallo piatto tutto bruciacchiato. «Buon-giorno, Elspeth» disse il capo del gruppo, il dottor Keller. Parla-va con un forte accento straniero. Come molti degli scienziati era tedesco, catturato alla fine della guerra e poi portato in America per collaborare al programma spaziale. Gli porse una copia dell'aggiornamento e lui lo prese senza neppure guardarlo. «Cos'è quello?» chiese Elspeth accennando con il capo all'oggetto posato sul bancone. «L'aletta di un ugello di scarico.» Elspeth sapeva che il primo stadio era guidato per mezzo di ugelli posti nella coda. «Cosa gli è successo?» «Il combustibile, bruciando, corrode il metallo» spiegò lui. L'accento tedesco si fece più marcato, mentre si accalorava nel-l'esposizione. «Fino a un certo punto è un fenomeno normale. Con il comune propellente a base di alcol gli ugelli durano il tempo necessario a fare il loro lavoro. Oggi invece stiamo usan-do un nuovo combustibile, l'Hydyne, che assicura un periodo di combustione più lungo e una maggiore velocità dei gas di scari-co, ma questo può deteriorare gli ugelli al punto da renderli inef-ficaci

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per governare la rotta.» Allargò le mani in un gesto di sconforto. «Non abbiamo avuto il tempo di condurre un nume-ro sufficiente di prove.» «Be', io devo sapere se questo ritarderà il lancio.» Le sembra-va di non poter più sopportare un altro rinvio. La tensione la stava logorando. «È quello che stiamo cercando di decidere.» Keller guardò i col-leghi. «E credo che la nostra risposta sia: rischiamo.» Gli altri an-nuirono con espressione grave. Elspeth si sentì sollevata. «Terrò le dita incrociate» disse, e si avviò verso la porta. «Anche noi non possiamo fare di meglio» osservò Keller, e gli altri sorrisero mesti. Elspeth uscì sotto il sole cocente della Florida. Gli hangar si trovavano su una radura sabbiosa ricavata tra la vegetazione bassa che ricopriva il capo, piante di palmetto, querce nane e lap-pola, un'erba molto tagliente che ti feriva se camminavi a piedi nudi. Attraversò uno spiazzo polveroso ed entrò nell'hangar D. L'ombra gradevole al suo interno le sfiorò il viso come il tocco di una brezza fresca. Nella sala telemetria vide Hans Mueller, noto a tutti come Hank. Le puntò un dito contro e disse: «Centotrentacinque». Era un gioco che facevano tra loro. Lei doveva dire cosa c'era di insolito in quel numero. «Troppo facile» rispose. «Prendi la prima cifra, aggiungi il quadrato della seconda più il cubo della terza e ottieni il numero che mi hai appena detto.» Poi gli enun-ciò l'equazione:

11+ 32+ 53= 135

«Va bene» disse lui. «Qual è il numero maggiore e più prossi-mo che segue lo stesso schema?» Elspeth si concentrò e poi disse: «Centosettantacinque».

11+ 72+ 53= 175

«Esatto! Hai vinto il primo premio.» Infilò una mano in tasca e tirò fuori una monetina da dieci centesimi. Lei la prese. «Ti do la possibilità di riprendertela» disse. «Centotrentasei.» «Ah» fece lui, aggrottando la fronte. «Aspetta... somma il cubo delle cifre che lo compongono.»

11+ 33+ 63= 244

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«Ora ripeti il procedimento e ottieni il numero che hai detto!»

23+ 43+ 43= 136

Gli restituì la monetina e gli consegnò una copia del program-ma aggiornato. Mentre usciva, le cadde lo sguardo su un telegramma fissato alla parete con una puntina da disegno: "Il mio piccolo satellite l'ho avuto, ora pensa al tuo". «È della moglie di Stuhlinger» le spiegò Mueller, accortosi del suo interesse. Stuhlinger era il responsabile della ricerca. «Ha avuto un bambino.» Elspeth sor-rise. Trovò Willy Fredrickson nella sala telecomunicazioni in com-pagnia di due tecnici dell'esercito; stavano provando il collega-mento telex con il Pentagono. Il suo capo era un uomo alto e magro, la testa calva tranne che per una corona di riccioli che lo faceva assomigliare a un monaco medievale. La telescrivente non funzionava e Willy era avvilito. Prendendo l'aggiornamento dalle mani di Elspeth, però, sorrise e le disse: «Elspeth, sei un vero gioiello». Un attimo dopo due persone si avvicinarono a Willy: un gio-vane ufficiale dell'esercito che portava una cartina e Stimmens, uno degli scienziati. «Abbiamo un problema» esordì l'ufficiale, porgendo la cartina a Willy. «Il jetstream si è spostato verso sud e soffia a 146 nodi.» Elspeth si sentì mancare il cuore. Sapeva cosa significava. Il jetstream era una corrente d'alta quota che si muoveva nella strato-sfera tra i 10.000 e i 14.000 metri. Di solito non arrivava sopra Cape Canaveral, ma poteva spostarsi, e se fosse stata troppo forte avreb-be potuto spingere il missile fuori traiettoria. «Quanto a sud?» chiese Willy. «Su tutta la Florida» rispose l'ufficiale. Willy si rivolse a Stimmens. «Ne abbiamo tenuto conto, vero?» «Non esattamente» disse Stimmens. «Sono tutte ipotesi, è ovvio, ma abbiamo calcolato che il missile possa sopportare venti fino a 120 nodi, non di più.» «Quali sono le previsioni per stasera?» chiese Willy all'uffi-ciale. «Velocità sino a 177 nodi e nessuna indicazione che il jetstream torni a spostarsi verso nord.» «Maledizione.» Willy si passò una mano sulla pelata. Elspeth sapeva che stava riflettendo. Forse sarebbe stato necessario rin-viare il lancio all'indomani. «Mandate su un pallone sonda, per favore» ordinò. «Verificheremo le previsioni del tempo alle cin-que.» Elspeth prese un appunto per ricordarsi di aggiungere al pro-gramma la riunione per aggiornare le previsioni del tempo, e poi se ne andò, avvilita. Erano in grado di risolvere i problemi tecni-ci, ma contro i capricci del tempo erano impotenti.

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Salì sulla jeep e andò al Complesso di lancio 26. La strada era un sentiero sterrato e polveroso che si snodava tra i cespugli, e il veico-lo sobbalzava sulle buche. Il suo passaggio spaventò un cervo che si stava abbeverando a un fosso; l'animale fuggì nella boscaglia. La zona era popolata da una grande varietà di animali selvatici che vi-vevano nella vegetazione bassa. La gente diceva che c'erano anche alligatori e puma, ma lei non ne aveva mai visti. Si fermò fuori dalla casamatta e osservò la rampa di lancio 26B, circa trecento metri più in là. L'incastellatura di servizio era una torre di trivellazione per pozzi petroliferi, opportunamente modificata e verniciata con antiruggine arancione per protegger-la dagli effetti corrosivi dell'aria umida e salmastra della Florida. Su un lato c'era un ascensore che portava alle piattaforme. L'in-tera costruzione era sgraziata, dettata da meri criteri pratici, rifletté Elspeth: una struttura funzionale messa insieme senza alcuna preoccupazione per il risultato estetico. La lunga matita bianca del razzo Jupiter C sembrava tenuta prigioniera da un groviglio di travi arancioni, come una libellula impigliata in una ragnatela. Quando parlavano dell' Explorer, gli uomini usavano sempre il femminile, nonostante la sua forma fal-lica, e così faceva anche Elspeth. Un velo formato da grandi teloni aveva tenuto nascosti gli stadi superiori del missile da occhi indiscreti fin dal giorno del suo arrivo là, ma ora la mascheratura era stata rimossa e il missile era nudo, con la vernice immacolata che scintillava sotto i raggi del sole. Gli scienziati non si preoccupavano di politica, ma sapevano di avere gli occhi del mondo intero puntati addosso. Quattro mesi prima, l'Unione Sovietica aveva stupito tutti mandando in orbita il primo satellite spaziale, lo Sputnik. In tutti i paesi in cui era ancora in atto il braccio di ferro tra capitalismo e comunismo, dall'Italia all'India, all'America Latina, così come in Africa e in Indocina, il messaggio era stato chiaro: gli scienziati comunisti sono i migliori. Un mese dopo, i sovietici avevano lanciato un secondo satellite, lo Sputnik2 , con una cagnetta a bordo. Gli americani erano rimasti sconvolti. Oggi un cane, domani un uomo. Il presidente Eisenhower aveva promesso che prima della fine dell'anno sarebbe stato lanciato un satellite americano. Il primo venerdì di dicembre, alle undici e quarantacinque, la marina degli Stati Uniti aveva lanciato il missile Vanguard davanti a giornalisti di tutto il mondo. Il missile si era sollevato in aria di qualche metro, poi aveva preso fuoco e si era inclinato di lato andando a schiantar-si sulla base in cemento. È un Flopnik! aveva titolato un giornale. Il Jupiter C era l'ultima speranza dell'America. Non c'era un terzo razzo disponibile. Se quel giorno avessero fatto fiasco, gli Stati Uniti sarebbero rimasti fuori dalla corsa allo spazio. Ma il fallimento a livello di propaganda era solo l'ultimo dei problemi: il programma spaziale sarebbe stato totalmente sconvolto e per l'immediato futuro i russi avrebbero avuto il controllo dello spa-zio. E tutto dipendeva da quel razzo, rifletté Elspeth. Nella zona circostante la rampa non era permesso l'accesso ai veicoli, tranne quelli indispensabili alle operazioni di lancio, come i camion del combustibile; Elspeth parcheggiò la jeep e attraversò a piedi la spianata compresa tra la casamatta e l'inca-stellatura di lancio, seguendo il tracciato di un condotto metalli-co in cui correvano tutti i cavi di collegamento. Attaccata sul retro della torre a livello del terreno c'era una lunga cabina di metallo, pitturata dello stesso color arancione, che ospitava uffi-ci e macchinari. Elspeth entrò da una porta metallica sul retro. Il responsabile, Harry Lane, con casco di protezione e scarpe da lavoro, era seduto su una seggiolina pieghevole e stava stu-diando un disegno. «Ciao, Harry» disse lei, cordiale.

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Lui borbottò un saluto. Non tollerava che ci fossero donne in giro nei pressi della rampa di lancio, e nessun senso di cortesia lo avrebbe spinto a nasconderlo. Elspeth lasciò cadere l'aggiornamento su un tavolo di metallo e uscì. Tornò alla casamatta, una costruzione bassa e bianca con finestre strette di vetro verde. Le porte erano spalancate e lei entrò. L'interno era diviso in tre comparti: una sala strumenta-zione che prendeva tutta la lunghezza dell'edificio, e due sale di lancio, la sala A sulla sinistra e la sala B sulla destra, rivolte rispet-tivamente verso le due rampe di lancio che venivano gestite dalla casamatta. Elspeth entrò nella sala di lancio B. La forte luce del sole che filtrava dai vetri verdi gettava un riflesso irreale all'interno, facendolo assomigliare a un acquario. Davanti alle finestre c'era un gruppo di tecnici seduti a una fila di pannelli di controllo. Elspeth notò che indossavano tutti cami-cie a maniche corte, come se fosse un'uniforme, e portavano delle cuffie per comunicare con gli uomini sulla rampa di lancio. Pote-vano tenere d'occhio il missile attraverso le finestre poste sopra i pannelli di comando, oppure per mezzo degli schermi a colori. Tutta la parete alle loro spalle era occupata da registratori grafici che seguivano l'andamento di temperatura e pressione del siste-ma di alimentazione e l'attività dei circuiti elettrici. In un angolo c'era un pannello che indicava il peso del missile sulla rampa di lancio. Si avvertiva un'atmosfera di calma innaturale mentre gli uomini parlavano a voce bassa nelle cuffie e operavano sui pan-nelli, agendo su manopole e interruttori, tenendo costantemente sotto controllo tutta la strumentazione. Sopra le loro teste l'indi-catore per il conto alla rovescia segnava i minuti che mancavano all'accensione. Quando Elspeth alzò lo sguardo, la lancetta si mosse da 600 a 599. Consegnò il programma aggiornato e uscì dall'edificio. Mentre rientrava verso l'hangar pensò a Luke e si rese conto di avere una scusa più che plausibile per chiamare Anthony. Lo avrebbe infor-mato del jetstream e poi gli avrebbe chiesto di Luke. Questo la tirò un po' su di morale. Entrò nell'hangar e salì di corsa le scale che portavano al suo ufficio. Compose il numero della linea diretta di Anthony, che rispose immediatamente. «È probabile che il lancio venga rinviato a domani» gli disse. «Ci sono forti correnti in quota a livello della stratosfera.» «Non sapevo che ci fossero venti, a quell'altezza.» «Sì, sono le correnti a getto. Il rinvio non è ancora definitivo e alle cinque ci sarà una riunione per esaminare le condizioni meteorologiche. Come sta Luke?» «Fammi sapere che cosa decidono a quella riunione, d'accor-do?» «Certo. Come sta Luke?» «Be'... abbiamo un problema.» Il cuore di Elspeth mancò un colpo. «Che tipo di problema?» «Lo abbiamo perso.» Elspeth si sentì gelare. «Cosa?» «Ha seminato i miei uomini.» «Che il Signore ci aiuti» disse lei. «Ora sì che siamo nei guai.»

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1941

Quando Luke fece ritorno a Boston era ormai l'alba. Dopo aver parcheggiato la vecchia Ford, sgattaiolò attraverso la porta sul retro di Cambridge House. Salì in camera per le scale di servizio e trovò Anthony che dormiva della grossa. Si lavò la faccia e si gettò sul letto in mutande e canottiera. Si svegliò con Anthony che lo scrollava. «Luke! Svegliati!» Aprì gli occhi. Sapeva che era accaduto qualcosa di grave, ma non ricordava cosa. «Che ore sono?» borbottò. «È l'una, ed Elspeth ti sta aspettando di sotto.» Il nome di lei gli rinfrescò la memoria. Ecco cos'era successo: lui non l'amava più. «Oh, Dio!» esclamò. «Faresti meglio a scendere da lei.» Si era innamorato di Billie Josephson. Era questa la sciagura che avrebbe sconvolto le vite di tutti e quattro: quella di Elspeth, Billie, Anthony, e la sua. «Accidenti» mormorò, alzandosi. Si fece una doccia fredda. Quando chiudeva gli occhi vedeva Billie, i suoi occhi scuri ed espressivi, le labbra rosse che rideva-no. Indossò calzoni di flanella, maglione, scarpe da tennis e scese barcollando al piano di sotto. Elspeth lo aspettava nell'atrio, un salone spazioso con un cami-netto e comode poltrone, l'unico ambiente dell'edificio in cui, a parte alcune particolari occasioni chiamate Ladies' Afternoon, erano ammesse le ragazze. Era stupenda come sempre, con un abi-to di lana color delle campanule e un grande cappello. Il giorno prima la vista di lei gli avrebbe aperto il cuore; oggi, sapere che si era fatta bella per lui lo faceva sentire ancora più disonesto. Quando lo vide, Elspeth scoppiò a ridere. «Mi sembri un bam-bino che non riesce a svegliarsi!» Luke la baciò sulla guancia e si lasciò cadere su una pol-trona. «Ci sono volute ore per arrivare a Newport» si giusti-ficò. «Evidentemente ti sei dimenticato che oggi dovevi portarmi fuori a pranzo!» disse lei con tono leggero. La guardò: era stupenda, e tuttavia lui non l'amava. Non sapeva se era mai stato innamorato di lei, prima, ma era certo di non esser-lo ora. Si sentiva un mascalzone della peggior specie. Quel giorno Elspeth era così allegra e lui avrebbe distrutto la sua felicità! Non sapeva come confessarglielo. Il senso di vergogna gli causava quasi un dolore al cuore. Doveva dire qualcosa. «Possiamo rinunciare al pranzo? Non mi sono neppure fatto la barba.»

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Un'ombra passò sul volto pallido e superbo di lei: aveva capi-to che qualcosa non andava, ma la sua reazione fu comunque spensierata. «Certo» rispose.«Iprincipi azzurri hanno bisogno di riposo per essere belli.» Luke si ripromise che nel pomeriggio le avrebbe parlato seria-mente, e con la massima sincerità. «Mi dispiace che tu ti sia fatta bella per niente» commentò avvilito. «Non per niente: dovevo vedere te. Inoltre, pare che ai tuoi col-leghi la mia mise sia piaciuta.» Si alzò. «E, comunque, il professor Durkham e signora oggi danno un party.» Luke si alzò e l'aiutò a indossare il cappotto. «Potremmo vederci più tardi.» Doveva dirglielo al più presto, sarebbe stato disonesto lasciar passare anche un solo giorno senza confessarle la verità. «Bene» rispose Elspeth tutta allegra «passa a prendermi alle sei.» Gli lanciò un bacio e uscì come una star del cinema. Luke sa-peva che stava fingendo, ma era una brava attrice. Afflitto, tornò nella sua stanza. Anthony stava leggendo il gior-nale della domenica. «Ho fatto il caffè» gli disse. «Grazie» fece Luke e se ne versò una tazza. «Non so proprio come ringraziarti» proseguì Anthony. «Ieri sera hai salvato la vita a Billie.» «Tu avresti fatto lo stesso per me.» Luke bevve un sorso di caffè e cominciò a sentirsi meglio. «Pare proprio che l'abbiamo scam-pata. Ti hanno detto qualcosa, stamattina?» «Assolutamente no.» «Billie è una ragazza unica» proseguì Luke. Sapeva che era pericoloso parlare di lei, ma non poteva farne a meno. «È fantastica, vero?» convenne Anthony. Luke osservò sgo-mento l'espressione orgogliosa del compagno di camera. «Conti-nuavo a domandarmi: "Per quale ragione non dovrebbe uscire con me?", ma non credevo che l'avrebbe fatto. Non so come mai, forse perché è così carina e piena di vita. Quando mi ha detto di sì non riuscivo a credere alle mie orecchie. Volevo chiederle di mettermelo per iscritto.» Le esagerazioni erano il modo di Anthony per essere spiritoso e Luke si sforzò di sorridere, ma dentro di sé era costernato. Rubare la ragazza di un altro era comunque un comportamento spregevole, ma il fatto che Anthony fosse così pazzo di Billie ren-deva le cose ancora peggiori. Luke si lasciò sfuggire un gemito. «Cosa c'è?» chiese Anthony. Luke decise di dirgli una mezza verità. «Non sono più inna-morato di Elspeth. Penso che dovrei lasciarla.» Anthony parve scioccato. «Peccato, voi due siete una bella coppia.» «Mi sento un verme.» «Non ti colpevolizzare, succede. Non siete sposati... e neppu-re fidanzati.»

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«Non ufficialmente.» «Le hai chiesto di sposarti?» chiese Anthony inarcando le sopracciglia. «No.» «E allora non siete fidanzati, né ufficialmente né ufficiosamen-te.» «Abbiamo parlato di quanti bambini ci piacerebbe avere.» «Non è un fidanzamento.» «Immagino che tu abbia ragione, ma mi sento comunque un mostro.» Bussarono alla porta: era un uomo che Luke non aveva mai visto. «Mr Lucas e Mr Carroll, suppongo.» Era trasandato nel vestire ma aveva modi altezzosi, e Luke immaginò che fosse un sorvegliante del college. Anthony balzò in piedi. «Sì» rispose. «E lei deve essere il dot-tor Uterus, il famoso ginecologo. Grazie per essere venuto!» Luke non rise: l'uomo teneva in mano due buste bianche e lui temeva di sapere cosa fossero. «Sono il segretario del preside. Mi ha chiesto di consegnarvi queste personalmente.» L'uomo porse una busta a ciascuno e se ne andò. «Accidenti!» esclamò Anthony non appena la porta si fu richiusa, e aprì la busta. «Maledizione!» Luke aprì la propria e lesse la breve comunicazione in essa contenuta.

Gentile Mr Lucas, la prego di presentarsi nel mio studio alle tre di questo pomeriggio. Distinti saluti, Il Preside Peter Ryder

Queste lettere significavano sempre guai. Qualcuno aveva rife-rito che la notte prima c'era una ragazza nel dormitorio. Probabil-mente Anthony sarebbe stato espulso. Luke non aveva mai visto il compagno di stanza spaventato - la sua disinvoltura sembrava incrollabile ora, però, era impal-lidito per lo choc. «Non posso tornare a casa» sussurrò. Non parlava quasi mai dei suoi genitori, ma Luke si era fatto l'idea che avesse un padre prepotente e una madre succube. Ora capì

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che la realtà poteva essere persino peggiore. Per un attimo il volto di Anthony fu come una finestra spalancata sul suo infer-no privato. Si sentì di nuovo bussare alla porta e questa volta entrò Geoff Pidgeon, l'affabile compagnone che occupava la stanza accanto. «Era il segretario del preside quello che ho visto uscire?» «Proprio così» rispose Luke sbandierando la lettera. «Guarda che io non ho fatto parola con nessuno che ti ho visto con quella ragazza.» «Allora chi è stato?» chiese Anthony. «L'unica spia qui dentro è Jenkins.» Paul Jenkins era un fanatico bacchettone che si era mes-so in testa di riformare i costumi degli studenti di Harvard. «Ma lui è andato via per questo weekend.» «No, ha cambiato programma» disse Pidgeon. «E allora dev'essere stato lui, che gli venga un colpo» osservò Anthony. «Voglio strangolarlo con le mie mani quel figlio di put-tana.» Luke si rese conto all'improvviso che se Anthony fosse stato espulso Billie sarebbe stata libera, ma subito si vergognò per il proprio egoismo in un momento come quello, in cui la vita del suo migliore amico stava per essere rovinata. E poi capì che anche Bil-lie avrebbe potuto trovarsi nei guai. «Chissà se anche Elspeth e Billie sono state convocate?» «E perché dovrebbero?» ribatté Anthony. «Probabilmente Jenkins conosce il nome delle nostre ragazze, lui ha un interesse morboso per queste cose.» «Se sa i loro nomi, possiamo stare sicuri che le ha denunciate» fece Pidgeon. «Lui è fatto così.» «Elspeth non corre alcun pericolo. Lei non era qui e nessuno può dimostrare il contrario, ma Billie potrebbe essere espulsa e perderebbe la borsa di studio. Me l'ha spiegato ieri sera. Non potrà più studiare in nessun'altra università.» «Non posso preoccuparmi anche di Billie io» affermò Anthony. «Ho già il mio bel daffare a pensare come cavarmela io.» Luke era scioccato. Era stato Anthony a cacciare Billie nei guai e avrebbe dovuto essere più preoccupato per lei che per se stes-so. Luke intravide un pretesto per parlare con Billie e non resi-stette alla tentazione. «Quasi quasi vado al dormitorio delle ragazze a vedere se Billie è già tornata da Newport» annunciò, ignorando il senso di colpa. «Davvero lo faresti?» chiese Anthony. «Grazie.» Pidgeon uscì e Anthony si sedette sul letto a fumare, scuro in volto. Luke si fece la barba velocemente e si cambiò d'abito, ma nonostante la fretta si vestì con cura, scegliendo una camicia azzurra, pantaloni nuovi di flanella e la sua giacca preferita di tweed grigio. Quando arrivò al dormitorio della Radcliffe erano le due. L'e-dificio quadrangolare di mattoni rossi si sviluppava attorno a un piccolo parco dove passeggiavano coppie di studenti. Era lì che aveva baciato

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Elspeth per la prima volta, rifletté mogio, la mez-zanotte di un sabato, alla conclusione del loro primo appunta-mento. Odiava gli uomini che cambiavano ragazza con la stessa facilità con cui cambiavano camicia, eppure ora si stava compor-tando proprio così, e non poteva farci nulla. Una cameriera in uniforme lo fece entrare nell'atrio del dor-mitorio. Chiese di vedere Billie. La cameriera sedette a una scri-vania, sollevò un portavoce come quelli usati sulle navi, soffiò nel microfono e annunciò: «Una visita per Miss Josephson». Billie scese subito. Indossava un golfino di cashmere grigio tortora e una gonna a scacchi; benché turbata, era incantevole. Luke avrebbe voluto prenderla tra le braccia e consolarla. Anche lei era stata convocata nell'ufficio di Peter Ryder, e l'uo-mo che le aveva consegnato la lettera ne aveva lasciata una anche per Elspeth. Lo fece accomodare nella sala per fumatori, unico posto dove si potevano ricevere i visitatori maschi. «E ora cosa faccio?» Aveva il volto teso per l'angoscia, sembrava una vedova in gra-maglie. Gli parve ancor più affascinante del giorno prima. Avreb-be voluto rassicurarla, ma non riusciva a trovare una via d'uscita. «Anthony potrebbe sostenere che c'era un'altra ragazza nella stanza, ma dovrebbe dichiararne l'identità.» «Non so proprio cosa dirò a mia madre.» «E se Anthony pagasse qualcuno... sai, una ragazza di strada, per farle dire che si trattava di lei?» Billie scosse la testa. «Non ci crederanno.» «E Jenkins affermerà di non riconoscerla. È lui la spia che vi ha denunciato.» «La mia carriera è finita» dichiarò, poi aggiunse con un sorriso amaro: «Sarò costretta a tornare a Dallas e fare da segretaria a un petroliere in cappellaccio e stivali da cowboy». Appena ventiquattr'ore prima, Luke era stato un uomo feli-ce... quasi non sembrava possibile. Due ragazze in cappotto e cappello entrarono di corsa nel salotto, tutte eccitate. «Avete sentito la notizia?» chiese una. Luke scosse la testa. A lui non interessavano le notizie. «Cos'è successo?» chiese Billie distrattamente. «Siamo in guerra!» «Cosa?!» esclamò Luke. «È vero» disse la seconda ragazza.«Igiapponesi hanno bom-bardato le Hawaii!» Luke faceva fatica a capire. «Le Hawaii? E perché mai? Cosa c'è alle Hawaii?» «Ma è vero?» chiese Billie, incredula. «In strada non si parla d'altro. C'è pieno di gente.» Billie guardò Luke. «Ho paura» disse.

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Lui le afferrò la mano. Avrebbe voluto dirle che si sarebbe preso cura di lei qualunque cosa fosse accaduta. Entrarono altre due ragazze che discutevano animatamente. Qualcuno portò giù una radio e attaccò la spina. Ci fu un silen-zio carico di tensione mentre aspettavano che l'apparecchio si scaldasse. Poi udirono la voce dello speaker. "La corazzata Ari-zona è stata distrutta e l' Oklahomaè affondata. Le prime notizie da Pearl Harbor parlano di cento aerei americani distrutti al suolo nelle basi di Ford Island, Wheeler Field e Hickam Field. Si calcola che le vittime americane ammontino ad almeno duemila morti e mille feriti." Luke provò un impeto di rabbia. «Duemila morti!» ripeté. Altre ragazze fecero il loro ingresso nella sala parlando conci-tate e vennero bruscamente zittite. "Non c'è stato alcun preavvi-so all'attacco giapponese che è cominciato alle sette e cinquantacinque, ora locale, poco prima dell'una del pomeriggio sulla costa est" proseguì l'annunciatore. «Questo significa guerra, non è vero?» chiese Billie. «Ci puoi giurare» rispose Luke furioso. Sapeva che era stu-pido e irrazionale odiare un intero popolo, ma era proprio quello che provava. «Vorrei poter radere al suolo l'intero Giappone.» Lei gli strinse la mano. «Non voglio che tu vada in guerra» sussurrò, con gli occhi velati di lacrime. «Non voglio che ti succeda qualcosa.» Luke si sentì scoppiare il cuore. «Sono felice che tu pensi que-sto» disse con un sorriso mesto. «Il mondo sta andando in malo-ra e io sono felice.» Guardò l'orologio. «Suppongo che ci tocchi comunque andare dal preside, anche se siamo in guerra.» In quel momento gli venne un'idea e si bloccò. «Cosa c'è?» chiese Billie. «Forse c'è un modo perché tu e Anthony possiate restare a Harvard.» «Quale?» «Fammici pensare.»

Elspeth era nervosa, ma cercava di convincersi che non aveva nulla da temere. Certo, la notte prima non aveva rispettato il co-prifuoco, ma non era stata scoperta. Era quasi sicura che la faccen-da non riguardasse né lei né Luke. Erano Anthony e Billie a tro-varsi nei guai. Elspeth conosceva appena Billie, ma voleva bene a Anthony e aveva il terribile presentimento che sarebbe stato cac-ciato dall'università. Si ritrovarono tutti e quattro davanti allo studio del preside. «Ho un piano» disse Luke, ma prima che potesse proseguire, la porta dello studio si aprì e vennero fatti accomodare. Luke ebbe solo il tempo di dire: «Lasciate parlare me». Peter Ryder era un uomo puntiglioso e all'antica. Indossava gilet e giacca nera sopra calzoni grigi gessati. Il farfallino era anno-dato alla perfezione, le scarpe brillavano e i capelli impomatati ricordavano pennellate di pittura nera su un uovo sodo. Insieme a lui c'era una zitella con i capelli grigi, Iris Rayford, responsabile della condotta morale delle studentesse della Radcliffe.

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Sedettero in cerchio. Il preside si accese una sigaretta. «Dunque. Voi ragazzi fareste meglio a dire la verità, come si addice a ei veri gentiluomini» esordì. «Cos'è successo nella vostra stan-za, ieri sera?» Anthony ignorò la domanda e reagì come se avesse la situazio-ne in pugno. «Dov'è Jenkins?» chiese brusco. «È lui che ha fatto la spia, non è vero?» «A questo incontro non sarà presente nessun altro» rispose Mr Ryder. «Ma un uomo ha diritto al confronto con il proprio accusato-re» continuò Anthony. «Qui non siamo in tribunale, Mr Carroll. Miss Rayford e io siamo stati incaricati di stabilire i fatti. Le misure disciplinari, se necessarie, verranno decise a tempo debito.» «Non sono convinto che questo sia accettabile» insistette Anthony, altezzoso. «Jenkins dovrebbe essere qui.» Elspeth capì a cosa mirava. Sperava che Jenkins fosse troppo spaventato per ripetere le sue accuse davanti a lui. Se le cose fos-sero andate così, la presidenza del college avrebbe potuto lasciar cadere la questione. Non pensava che avrebbe funzionato, ma valeva la pena di tentare. Ma Luke troncò la discussione sul nascere. «Adesso basta» disse con un gesto d'impazienza, poi si rivolse al preside. «Signo-re, la notte scorsa ho portato una donna nel dormitorio.» Elspeth si lasciò sfuggire un'esclamazione di sorpresa. Cosa stava dicendo? Mr Ryder aggrottò la fronte. «A me risulta che sia stato Mr Carroll a invitare una donna.» «Temo che lei sia stato male informato, signore.» «Ma non è vero!» sbottò Elspeth. Luke le lanciò un'occhiata che la raggelò. «A mezzanotte Miss Twomey si trovava nel suo dormitorio, come dimostrerà il regi-stro della direttrice.» Elspeth lo guardò allibita. Ovvio che il registro lo avrebbe con-fermato, visto che un'amica aveva contraffatto la sua firma. Capì che avrebbe fatto meglio a stare zitta, prima di cacciarsi nei guai. Ma cosa aveva intenzione di fare Luke? Anthony si chiedeva la stessa cosa. «Luke, io non so cosa tu stia facendo, ma...» obiettò, guardandolo con espressione confusa. «Lasciami spiegare» disse Luke, e poiché Anthony sembrava ancora perplesso, aggiunse: «Ti prego». Anthony si strinse nelle spalle, rassegnato. «Proceda pure, Mr Lucas. Non vedo l'ora di ascoltare» lo invitò il preside, sarcastico. «Ho incontrato la ragazza al Dew Drop Inn» attaccò Luke. Miss Rayford aprì bocca per la prima volta. «Il Dew Drop Inn?» disse, incredula. «È uno scherzo?»

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«No.» «Continui, Mr Lucas.» «Lavora lì come cameriera. Si chiama Angela Carlotti.» Era chiaro che il preside non credeva a una sola parola. «Mi è stato riferito che la persona vista a Cambridge House ieri sera era Miss Bilha Josephson.» «No, signore» ribatté Luke con lo stesso tono perentorio. «Miss Josephson è una nostra amica, ma ieri sera era fuori città. Ha pas-sato la notte a casa di un parente, a Newport, nel Rhode Island.» «E questo parente può confermarlo?» domandò Miss Rayford, rivolta a Billie. Billie lanciò un'occhiata perplessa a Luke e poi rispose: «Sì, Miss Rayford». Elspeth osservava Luke. Aveva davvero intenzione di sacrifica-re la propria carriera per salvare Anthony? Era pazzesco! Luke era una persona leale, ma stava esagerando con l'amicizia e la lealtà! «Può dimostrare l'esistenza di questa... cameriera?» chiese il preside, pronunciando la parola "cameriera" con disgusto, quasi stesse dicendo "prostituta". «Sì, signore.» «Molto bene.» Elspeth era allibita. Luke aveva offerto dei soldi a una ragazza perché fingesse di essere lei la colpevole? Non avrebbe mai fun-zionato. Jenkins avrebbe giurato che si trattava della ragazza sba-gliata. «Ma non ho intenzione di tirarla dentro a questa faccenda» aggiunse Luke. «Ah» fece Mr Ryder «in questo caso, mi risulta difficile accet-tare la sua versione.» A questo punto Elspeth era davvero perplessa: Luke aveva rac-contato una storia poco plausibile e non aveva modo di confer-marla. Dove voleva arrivare? «Non credo che la testimonianza di Miss Carlotti sarà neces-saria.» «Non sono affatto d'accordo, Mr Lucas.» E allora Luke lasciò cadere la bomba: «Ho intenzione di lasciare il college questa sera stessa, signore». «Luke!» esclamò Anthony. «Non le servirà a nulla andarsene prima di essere cacciato» disse Mr Ryder. «Ci sarà comunque un'inchiesta.» «Il nostro paese è in guerra.» «Lo so, giovanotto.»

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«Intendo arruolarmi nell'esercito domattina, signore.» «No!» gridò Elspeth. Per la prima volta il preside non sapeva cosa dire. Rimase a fis-sare Luke a bocca aperta. Elspeth si rese conto che Luke era stato molto furbo. Il colle-ge non poteva promuovere un'azione disciplinare nei confronti di un giovane che rischiava la propria vita per il paese. E se non ci fosse stata alcuna inchiesta, Billie era salva. Un velo di disperazione le oscurò la vista. Luke aveva sacrifi-cato tutto per lei. Era possibile che Miss Rayford pretendesse comunque una testimonianza dal cugino di Billie, e lui avrebbe sicuramente mentito. Il punto era che la Radcliffe non poteva certo chiedere che Billie dimostrasse l'esistenza di questa Angela Carlotti. Al momento, però, a Elspeth non interessava niente di tutto questo. Riusciva solo a pensare che aveva perso Luke. Ryder borbottò qualcosa a proposito di un rapporto e che avrebbe lasciato decidere ad altri. Miss Rayford si diede un gran daffare per prendere nota dell'indirizzo del cugino di Billie. Ma era tutta una farsa. Erano stati giocati, e lo sapevano. Alla fine, gli studenti vennero congedati. Non appena fuori della porta, Billie scoppiò in lacrime. «Non partire, Luke!» «Mi hai salvato la vita» disse Anthony, abbracciandolo «non lo dimenticherò mai. Mai.» Si staccò da lui e prese Billie per una mano. «Non ti preoccupare» la tranquillizzò «Luke è troppo furbo per farsi uccidere.» Luke si voltò verso Elspeth e, incontrando il suo sguardo, tra-salì. Lei capì che la propria collera doveva essere evidente, ma non le importava. Lo fissò per lunghi attimi, poi sollevò la mano e gli diede uno schiaffo violentissimo. Luke si lasciò sfuggire un'esclamazione di dolore e sorpresa. «Maledetto bastardo» disse Elspeth. Quindi gli voltò le spalle e se ne andò.

13.00

Ogni Baby Sergeant misura 1 metro e 20 di lunghezza e 15 centi-metri di diametro, per un peso di 26 chili. Il suo motore funziona solo per 6 secondi e mezzo.

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Luke era in cerca di una zona residenziale tranquilla. Washing-ton gli risultava del tutto estranea, come se non vi fosse mai stato prima. Allontanandosi dalla Union Station aveva scelto una dire-zione a caso, puntando verso ovest. La strada lo aveva portato verso il centro cittadino, un'area fitta di imponenti edifici gover-nativi che offriva scorci straordinari. Forse era una bella città, ma tutto quello sfoggio di potenza e ricchezza lo intimidiva. Sapeva che se avesse proseguito in linea retta, prima o poi sarebbe arri-vato in un'area occupata da case e famiglie più normali. Attraversò un fiume e si trovò in un quartiere tranquillo e ordinato con stradine strette bordate di alberi. Passò davanti a un edificio la cui insegna diceva GEORGETOWN MIND HOSPITAL e immaginò che quella zona si chiamasse Georgetown. Svoltò in una strada alberata occupata da abitazioni modeste. Prometten-te. Le persone che vivevano lì non potevano permettersi della ser-vitù fissa e quindi c'erano buone possibilità di trovare una casa vuota. Dietro una curva la strada finiva bruscamente contro il muro di un cimitero. Luke parcheggiò la Ford con il muso rivolto verso la direzione da cui era arrivato, così da poter ripartire in tutta fretta se fosse stato necessario. Gli occorreva qualche attrezzo, uno scalpello o un cacciavite e un martello. Era probabile che ci fosse una cassetta dei ferri nel ba-gagliaio, ma era chiuso a chiave. Se avesse trovato un pezzo di fil di ferro avrebbe potuto forzarlo. Altrimenti sarebbe stato costretto a cercare un negozio di ferramenta dove procurarsi in qualche modo ciò che gli serviva. Allungò un braccio verso il sedile posteriore e prese la valigia. Frugando tra gli abiti trovò un fascicolo contenente dei docu-menti. Prese una graffetta metallica che teneva insieme alcuni fogli e richiuse la valigia. Gli bastarono trenta secondi per aprire il bagagliaio. Come sperava trovò degli attrezzi in una scatola di metallo vicino al cric. Scelse il cacciavite più grande. Non c'erano martelli, ma prese una pesante chiave inglese che faceva perfettamente al caso suo. Si infilò tutto nella tasca del giaccone logoro e richiuse il baule. Prese la valigia, chiuse la portiera e si avviò oltre la curva. Era consapevole di dare nell'occhio, un barbone vestito di stracci che se ne andava a spasso in un quartiere rispettabile con una valigia costosa. Se l'inevitabile ficcanaso avesse chiamato i poliziotti, e quella mattina loro non avessero avuto molto da fare, si sarebbe trovato nei guai nel giro di pochi minuti. D'altro canto, se tutto andava liscio, in mezz'ora lui si sarebbe lavato, sbarbato e vestito come un cittadino perbene. Puntò verso la prima casa della strada. Attraversò il giardinet-to sul davanti e bussò alla porta.

Rosemary Sims vide una bella auto bianca e blu passare lenta davanti a casa e si chiese di chi fosse.I Browning potevano aver comperato una macchina nuova. Avevano un sacco di soldi, quel-li. Oppure apparteneva a Mr Cyrus, che essendo scapolo non era costretto a fare economie. In caso contrario, rifletté, doveva trat-tarsi di un forestiero. Aveva ancora gli occhi buoni, e dalla comoda poltrona siste-mata davanti alla finestra del primo piano riusciva a vedere quasi tutta la strada, specialmente in inverno, quando gli alberi erano spogli. Così lo notò subito, appena uscì dalla curva del cimitero. Era un tipo strano: senza cappello, giaccone strappato, scarpe tenute insieme con lo spago. Però aveva una bella valigia nuova.

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L'uomo si diresse verso la porta di Mrs Britsky e bussò. Era vedova e viveva sola, ma non era una sprovveduta... si sarebbe subito sbarazzata di un estraneo, Mrs Sims lo sapeva. Infatti, Mrs Britsky comparve dietro il vetro della finestra e con gesto peren-torio gli intimò di andarsene. Allora l'uomo si fermò alla casa accanto e bussò da Mrs Loew. Lei aprì. Era una donna alta, con i capelli scuri, un po' troppo arrogante per i gusti di Mrs Sims. Scambiò qualche parola con l'intruso ma poi gli sbatté la porta in faccia. L'uomo passò alla casa dopo, sembrava intenzionato a farsi tutta la strada. Jeannie Evans venne ad aprire con la piccola Rita in braccio. Frugò nella tasca del grembiule e gli diede qualcosa, probabilmente qualche spicciolo. Allora era un mendicante. L'anziano Mr Clark venne alla porta in accappatoio e pantofo-le di stoffa. Da lui l'estraneo non ottenne nulla. Il proprietario della casa seguente, Mr Bonetti, era al lavoro e sua moglie Angelina, incinta di sette mesi, era uscita pochi minuti prima con la borsa a rete, evidentemente per fare la spesa. Lì, il fo-restiero non avrebbe trovato nessuno.

A quel punto Luke aveva avuto il tempo necessario per osser-vare le porte d'ingresso, tutte uguali, dotate di serrature Yale del tipo con un chiavistello sul lato della porta e una piastra di bloc-caggio in metallo fissata nello stipite. La serratura si apriva da fuori con una chiave e da dentro con un pomello. Ogni porta aveva una finestrella di vetro scuro ad altezza d'oc-chi. Per entrare sarebbe stato sufficiente rompere il vetro, infila-re un braccio all'interno e girare il pomello. Ma una finestrella rotta sarebbe stata perfettamente visibile dalla strada. Decise di usare il cacciavite. Lanciò un'occhiata in entrambi i lati della strada. Era stato sfortunato: aveva dovuto bussare a cinque porte prima di trova-re una casa vuota, e poteva aver già attirato l'attenzione di qual-cuno, anche se non aveva visto nessuno in giro. Comunque, non aveva altra scelta: era un rischio che doveva correre.

Mrs Sims si scostò dalla finestra e sollevò la cornetta del telefo-no che si trovava accanto alla poltrona. Lentamente, con atten-zione, compose il numero della locale stazione di polizia, che conosceva a memoria.

Luke doveva agire in fretta. Inserì la punta del cacciavite tra la porta e lo stipite, all'altezza della serratura. Poi, con la testa della chiave inglese, assestò un colpo al manico del cacciavite, cercando di infilare lo stelo nella placca metallica dello stipite. Il primo colpo non riuscì a smuovere il cacciavite, che era inca-strato contro l'acciaio. Luke lo spostò leggermente, cercando di trovare un punto migliore. Diede un altro colpo con la chiave inglese, questa volta più forte, ma il cacciavite non voleva saper-ne di entrare nella sede. Nonostante il freddo, Luke aveva la fronte imperlata di sudore.

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Si impose di restare calmo. Aveva già fatto altre volte cose del genere. Quando? Non ne aveva idea, ma adesso non era impor-tante. La tecnica funzionava, ne era certo. Inserì meglio il cacciavite. Questa volta gli parve di far presa contro qualcosa. Lo colpì di nuovo, con quanta forza aveva. La punta affondò di qualche centimetro. Luke fece leva sul manico, spostando il chiavistello fuori dalla placca. Con suo grande sollievo la porta si aprì verso l'interno. Il danno allo stipite era minimo, troppo piccolo per poter esse-re visto dalla strada. Entrò velocemente e si richiuse la porta alle spalle. Quando Rosemary Sims ebbe finito di comporre il numero, guardò di nuovo fuori dalla finestra, ma il forestiero era scom-parso. Aveva fatto in fretta. L'operatore della polizia rispose. Confusa, Mrs Sims riattaccò senza dire una parola. Perché aveva smesso di bussare alle porte? Dov'era sparito? Chi era? Mrs Sims sorrise. Aveva qualcosa a cui pensare per occupare la giornata.

Era la casa di una giovane coppia, arredata con un miscuglio di regali di nozze e cianfrusaglie. In soggiorno c'erano un divano nuovo e un grosso televisore, ma in cucina usavano ancora casset-te da frutta sovrapposte per riporre le stoviglie. Sul termosifone dell'ingresso c'era una busta ancora chiusa indirizzata a Mr G. Bo-netti. Nessuna traccia di bambini. Probabilmente sia il marito sia la moglie lavoravano e sarebbero rimasti fuori tutto il giorno, ma non poteva contarci. Salì al piano superiore. C'erano tre camere, ma una sola era ar-redata. Gettò la valigia sul letto e l'aprì. All'interno trovò un gessa-to blu piegato con cura, alcune camicie e una cravatta dal disegno classico a righe oblique. C'erano anche delle calze scure, bianche-ria pulita e un paio di scarpe nere perfettamente lucidate che gli parvero solo di mezzo numero più grandi. Si tolse gli abiti sudici e con un calcio li gettò in un angolo. Gli faceva una strana impressione trovarsi nudo in casa di estranei. Pensò di lasciar perdere la doccia, ma puzzava troppo. Attraversò il piccolo pianerottolo, diretto verso il bagno. Fu una sensazione fantastica starsene sotto l'acqua calda e insapo-narsi tutto il corpo. Quando uscì rimase immobile per un attimo, in ascolto. La casa era silenziosa. Si asciugò con uno dei teli da bagno di Mrs Bonetti - un altro regalo di nozze, pensò -, poi indossò mutande, pantaloni, calze e scarpe. Se qualcosa fosse andato storto mentre si faceva la barba, essere mezzo vestito avrebbe accelerato la sua fuga.

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Mr Bonetti usava il rasoio elettrico, ma Luke preferiva quelli a lametta. Nella valigia trovò un rasoio di sicurezza e un pennello. Si insaponò il viso e si rase in fretta. Mr Bonetti non aveva acqua di colonia, ma forse ce n'era una boccettina in valigia. Dopo aver puzzato come un caprone per tutta la mattina, a Luke piaceva l'idea di profumare di buono. Trovò un nécessaire di pelle e lo aprì. Niente acqua di colonia, ma cento dollari in biglietti da venti accuratamente piegati: dena-ro per le emergenze. Se li mise in tasca, ripromettendosi di rim-borsare il proprietario, un giorno o l'altro. Dopotutto, quel tale non era un collaborazionista. Cosa diavolo voleva dire? Un altro mistero. Indossò una camicia bianca, cravatta e giacca. Gli andavano quasi a pennello: era stato ben attento a scegliere una vittima che avesse la sua stessa corporatura. Gli abiti erano di buona qualità. Sulla targhetta della valigia c'era un indirizzo di Central Park South, New York. Luke immaginò che il proprietario fosse un pez-zo grosso di qualche grande industria venuto a Washington per un incontro di lavoro. Dietro la porta della camera da letto c'era uno specchio a figu-ra intera. Non si era più guardato allo specchio dall'alba, nel gabinetto della Union Station, quando era rimasto scioccato nel vedere quel sudicio barbone che lo fissava stralunato. Luke si preparò al peggio. Invece vide un uomo alto e prestante sui trentacinque anni, con capelli neri e occhi azzurri: una persona normale, forse con l'espressione un po' turbata. Provò un senso di sollievo. Che lavoro fa una persona come questa? si chiese. Aveva le mani morbide e, ora che erano pulite, non sembrava-no più quelle di un manovale. Il viso era di una persona che non lavora all'aria aperta, che non passa molto tempo esposto alle intemperie, e poi aveva un buon taglio di capelli. L'uomo nello specchio sembrava perfettamente a proprio agio negli abiti di un dirigente d'azienda. Di sicuro non era un poliziotto. Nella valigia non c'erano né cappello né cappotto. Luke sapeva che senza avrebbe dato nell'occhio, in quella fredda giornata di gennaio. Pensò che forse poteva trovare qualcosa lì in casa. Valeva la pena perdere qualche minuto. Aprì l'armadio. Dentro non c'era molto. Mrs Bonetti aveva tre vestiti. Il marito possedeva una giacca sportiva per il weekend e un abito nero che, probabilmente, metteva per andare a messa la domenica. Niente cappotto - Mr Bonetti non poteva permetter-sene due, e sicuramente uno doveva averlo addosso quel giorno -, ma c'era un impermeabile leggero. Luke lo staccò dalla gruc-cia e lo indossò. Era una taglia in meno della sua, ma meglio di niente. Nell'armadio non vide neppure cappelli, ma un berretto di tweed, forse da indossare con la giacca sportiva. Luke lo provò. Era troppo piccolo. Avrebbe dovuto comperarne uno con i soldi trovati nel nécessaire, ma per ora poteva andare. Sentì un rumore al pianterreno. Si immobilizzò e rimase in ascolto. «Cos'è successo alla porta d'ingresso?» disse una voce giovane di donna.

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«Sembra che qualcuno abbia cercato di forzarla!» rispose un'altra voce, simile alla prima. Luke imprecò tra sé. Era rimasto nella casa troppo a lungo. «Accidenti, credo proprio che tu abbia ragione!» «Forse dovresti chiamare la polizia.» Evidentemente Mrs Bonetti non era uscita per andare al lavo-ro ma per fare la spesa. Al negozio aveva incontrato un'amica e l'aveva invitata a casa a prendere un caffè. «Non saprei... sembra che i ladri non siano riusciti a entrare.» «Come fai a dirlo? Sarà meglio che controlli se hanno rubato qualcosa.» Luke capì che doveva andarsene da lì in fretta. «Cosa c'è da rubare?Igioielli di famiglia?» «Il televisore?» Luke aprì la finestra della camera da letto e guardò giù nel giardino sul davanti della casa: né alberi né pluviali dai quali calarsi fino a terra. «Non hanno toccato nulla» sentì che diceva Mrs Bonetti. «Non credo proprio che siano entrati.» «E il piano di sopra?» Senza fare rumore, Luke attraversò il ballatoio ed entrò in bagno. Assolutamente niente sul retro della casa, solo un perico-loso salto verso il patio in pietra. «Vado a dare un'occhiata.» «Non hai paura?» Si udì una risatina nervosa. «Sì, ma cos'altro posso fare? Sai che figura da stupide se chiamassimo la polizia e non ci fosse nes-suno...» Luke udì rumore di passi sulle scale. Si nascose dietro la porta del bagno. Ipassi salirono fino in cima, attraversarono il ballatoio ed entrarono in camera da letto. Mrs Bonetti lanciò un piccolo urlo. «Di chi è quella valigia?» chiese la voce dell'amica. «Non l'ho mai vista prima d'ora!» Luke scivolò silenzioso fuori dal bagno. Da lì vedeva la porta della camera aperta, ma non le due donne. Scese le scale in punta di piedi, ringraziando il cielo per il rivestimento di moquette.

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«Che genere di ladro si porta dietro il bagaglio?» «Io chiamo la polizia. Ho paura.» Luke aprì la porta d'ingresso e uscì. Sorrise. Ce l'aveva fatta. Richiuse piano e si allontanò a passo svelto.

Mrs Sims era perplessa. L'uomo che stava uscendo dalla casa dei Bonetti indossava l'impermeabile nero di Mr Bonetti e il ber-retto che usava quando andava a vedere le partite dei Redskins, ma questo era più robusto di lui e gli abiti non gli andavano del tutto giusti. Lo osservò venire lungo la strada e svoltare l'angolo. Avrebbe dovuto tornare indietro: la strada finiva. Un attimo dopo, da die-tro l'angolo sbucò a gran velocità la stessa auto bianca e blu che aveva notato prima. Si rese conto che l'uomo uscito dalla casa era il mendicante che prima aveva visto passare di porta in porta. Doveva essersi introdotto in casa dei Bonetti e aver rubato degli abiti! Mentre l'auto sfrecciava davanti alla sua finestra, Mrs Sims lesse il numero di targa e lo memorizzò.

13.30

Irazzi Sergeant hanno superato 300 prove statiche, 50 test di volo e 290 prove di accensione senza un solo insuccesso.

Anthony sedeva nella sala riunioni, nervoso e impaziente. Luke era ancora in giro per Washington, libero, e nessuno sape-va cosa avrebbe potuto combinare. Lui invece era bloccato lì, ad ascoltare un burocrate del Dipartimento di Stato sproloquiare sulla necessità di contrastare i ribelli che si stavano ammassando sulle montagne di Cuba. Anthony sapeva tutto su Fidel Castro e Che Guevara. Avevano meno di mille uomini al loro comando. Certo, si poteva spazzarli via, ma non ce n'era motivo: se Castro fosse stato ucciso, qualcun altro avrebbe subito preso il suo posto. Anthony voleva solo uscire di lì e mettersi a cercare Luke. Lui e i suoi uomini avevano contattato quasi tutte le stazioni di polizia dell'area metropolitana di Washington, chiedendo di esse-re informati nel dettaglio su qualsiasi incidente che vedesse coin-volti alcolizzati o barboni, o su reati di qualunque genere com-messi da un uomo che si esprimeva con il linguaggio di un pro-fessore universitario, e, comunque, su ogni evento fuori dell'or-dinario.Ipoliziotti erano felicissimi di collaborare con la Cia: l'i-dea di essere coinvolti in un'operazione di spionaggio internazio-nale era troppo eccitante.

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L'uomo del Dipartimento di Stato finì il suo sproloquio e ini-ziò la discussione. Anthony sapeva che l'unico modo per evitare che un personaggio come Castro si impadronisse del potere era che gli Stati Uniti appoggiassero un governo moderato e riformi-sta. Fortunatamente per i comunisti, questo pericolo non sussi-steva. La porta si aprì e Pete Maxell sgattaiolò dentro. Fece un cenno di scuse in direzione di George Cooperman, che presiedeva la riunione, e andò a sedersi accanto a Anthony. Gli consegnò un fascicolo contenente alcuni rapporti di polizia. Erano accadute cose insolite praticamente in ogni distretto. Una bella donna arrestata per borseggio al Jefferson Memorial era poi risultata essere un uomo; allo zoo alcuni beatnik avevano tentato di aprire una gabbia per liberare un'aquila; un uomo di Wesley Heights aveva cercato di soffocare la moglie con una pizza al formag-gio; un camion appartenente a una casa editrice di testi religiosi aveva perso il suo carico a Petworth e il traffico lungo Georgia Avenue era rimasto bloccato da una valanga di bibbie. Era possibile che Luke avesse lasciato Washington, ma Anthony lo riteneva improbabile. Luke non aveva denaro per acquistare un biglietto del treno o dell'autobus. Poteva rubarlo, certo, ma perché avrebbe dovuto farlo? Non aveva dove andare. Sua madre viveva a New York, la sorella a Baltimora, ma ora lui non lo ricordava. Non aveva alcun motivo di spostarsi. Mentre Anthony scorreva velocemente i rapporti, ascoltava con orecchio distratto il suo capo, Carl Hobart, parlare dell'am-basciatore americano a Cuba, Earl Smith, il quale aveva lavorato senza tregua per screditare capi religiosi e leader politici che vole-vano riformare Cuba con metodi pacifici. A volte Anthony si chiedeva se Smith non fosse in realtà un agente del Cremlino. Forse era semplicemente uno stupido. Uno dei rapporti di polizia attirò la sua attenzione. Lo mostrò a Pete. «È vero?» sussurrò, incredulo. Pete annuì. «Un barbone ha aggredito un agente di pattuglia tra A Street e la Seventh.» «Un barbone ha picchiato un poliziotto?» «E non è molto lontano dal punto in cui abbiamo perso Luke.» «Potrebbe trattarsi di lui!» esclamò Anthony eccitato. Carl Hobart, che stava ancora parlando, gli lanciò un'occhiataccia. Anthony ridusse la voce a un bisbiglio. «Ma perché avrebbe dovuto aggredire un agente? Gli ha rubato qualcosa, magari la pistola?» «No, ma lo ha conciato per le feste. L'agente è stato portato all'ospedale per una frattura all'indice della mano destra.» Anthony avvertì come una scossa. «È lui!» esclamò a voce alta. «Insomma!» sbottò Carl Hobart. «Anthony» si intromise George Cooperman «chiudi quella cazzo di bocca o vai fuori a parlare, d'accordo?» Anthony si alzò. «Scusa, George. Torno subito.» Uscì dalla sala, seguito da Pete. «È lui» ripeté non appena la porta si fu richiusa.

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«Era la sua firma, durante la guerra lo faceva sempre con gli agenti della Gestapo: gli spezzava il dito del grilletto.» «Come fa a saperlo?» chiese Pete sorpreso. Anthony si rese conto di aver commesso un errore madornale. Pete credeva che Luke fosse un diplomatico vittima di un esauri-mento nervoso e lui non gli aveva mai confessato di conoscerlo personalmente. Si maledisse per la propria sbadataggine. «Non ti o raccontato tutto» ammise, costringendosi a adottare un tono indifferente. «Ho lavorato con lui nell'Oss.» Pete aggrottò la fronte. «E dopo la guerra è diventato un diplo-matico» concluse, guardando Anthony con espressione scaltra. «Non si tratta solo di problemi coniugali, giusto?» «No, sono sicuro che c'è sotto qualcosa di più serio.» Pete accettò la spiegazione. «Sembrerebbe un tipo spietato, per rompere il dito a una persona, così a sangue freddo.» «Spietato?» Anthony non aveva mai pensato a Luke in quei ter-mini; certo, aveva un carattere molto risoluto. «Sì, suppongo che lo fosse, in fondo.» Aveva rimediato all'errore, pensò con sollievo. Ma doveva ancora trovare Luke. «Quando è avvenuta la rissa?» «Alle nove e mezzo.» «Diamine, più di quattro ore fa. Al momento potrebbe trovar-si ovunque.» «Cosa facciamo?» «Manda un paio di uomini giù in A Street a mostrare in giro la foto di Luke e vedi se riescono a trovare qualche indicazione su dove può essere andato. E va' a parlare con quel poliziotto.» «D'accordo.» «Se scopri qualcosa non farti problemi a interrompere questa stupida riunione.» «Capito.» Anthony rientrò. George Cooperman, il suo commilitone del tempo di guerra, stava dicendo spazientito: «Dovremmo manda-re laggiù un gruppetto di duri delle Forze speciali. Spazzerebbe-ro via Castro e il suo esercito di straccioni in meno di due gior-ni». «Ma riusciremmo a tener segreta l'operazione?» chiese l'uomo del Dipartimento di Stato, chiaramente preoccupato. «No» rispose George «però potremmo farlo passare per un conflitto locale, come è successo con l'Iran e il Guatemala.» «Perdonate se la mia è una domanda ingenua» li interruppe Carl Hobart. «Perché teniamo segreto quello che abbiamo fatto in Iran e Guatemala?» «Perché non vogliamo pubblicizzare i nostri metodi, è ovvio» rispose l'uomo del Dipartimento di Stato.

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«Scusatemi, ma è una cosa molto stupida» ribatté Hobart.«Irussi sanno che siamo stati noi. In Iran e Guatemala sanno che siamo stati noi. In Europa persino i giornali hanno scritto a chia-re lettere che siamo stati noi! Non c'è cascato nessuno, tranne gli americani. Perché dovremmo mentire a loro?» George rispose con crescente irritazione. «Se si venissero a sapere tutti i retroscena, ci sarebbe un'interrogazione al Con-gresso. Quei fottuti di politici comincerebbero a chiedere se ne avevamo il diritto, se era legale e cosa ne è stato dei poveri con-tadini iraniani e di quei mangiabanane di sudamericani.» «Forse non sono poi domande così sbagliate» insistette Hobart, ostinato. «Abbiamo davvero fatto la cosa giusta in Gua-temala? Non c'era molta differenza tra il regime di Armas e un gruppo di gangster.» George perse la pazienza. «Ora basta!» urlò. «Non siamo qui per dar da mangiare agli iraniani che muoiono di fame né per garantire le libertà civili agli zappaterra del Sudamerica, perdio! Il nostro compito è quello di tutelare gli interessi americani... E 'fanculo la democrazia!» Ci fu un attimo di silenzio, poi Carl Hobart disse: «Grazie, George, sono felice che tu abbia infine chiarito questo punto».

14.00

Il sistema di accensione dei Sergeant è costituito da due terminali elettrici e da un rotolo di gelatina esplosiva contenuto in un involu-cro di plastica. È così sensibile che se una tempesta elettrica si avvici-na a meno di venti chilometri da Cape Canaveral è necessario isolar-lo per evitare un'accensione accidentale.

In un negozio di abbigliamento per uomo di Georgetown Luke comperò un cappello grigio e un cappotto blu scuro. Li indossò e uscì, sentendo finalmente di poter guardare il mondo negli occhi. Ora era pronto ad affrontare i suoi problemi. Prima di tutto doveva farsi un'idea sui meccanismi della memoria. Voleva cono-scere le cause dell'amnesia, se ne esistevano tipi diversi e quanto poteva durare. E, cosa ancora più importante, voleva informa-zioni sulle possibili cure. Dove si potevano reperire queste informazioni? In una biblio-teca. Come si faceva a trovare una biblioteca? Si consultava una cartina. Se ne procurò una a un'edicola vicina al negozio di abbi-gliamento. Segnata in bella evidenza c'era la Central Public Library, all'intersezione tra New York Avenue e Massachusetts, dall'altra parte della città. Prese la macchina e vi si diresse. Era un grandioso edificio in stile neoclassico che si ergeva sopra il livello della strada come un tempio greco. Sul frontone, sopra l'ingresso ornato da colonne, erano incise le parole: SCIEN-ZA POESIA STORIA. Giunto in cima alla scalinata, Luke provò una leggera esitazio-ne, poi si disse che ora era un normale cittadino ed entrò.

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Gli effetti del suo nuovo aspetto furono subito evidenti. Una bibliotecaria dai capelli grigi seduta dietro il bancone si alzò in piedi tutta premurosa e gli chiese: «In cosa posso esserle utile, signore?». Luke provò un enorme sollievo nel vedersi trattare con genti-lezza. «Vorrei consultare dei libri sulla memoria.» «Sono nella sezione psicologia» disse la donna. «Se vuole se-guirmi, le mostro dov'è.» Gli fece strada su per una larga scala che saliva al piano superiore e indicò un angolo. Luke guardò i volumi sullo scaffale. C'era un'infinità di testi sulla psicoanalisi, sullo sviluppo infantile e sulla percezione, nes-suno dei quali gli poteva essere di qualche utilità. Tirò fuori un grosso tomo intitolato Il cervello umano e lo sfogliò, ma non dice-va molto sulla memoria, e quel poco sembrava troppo tecnico per lui. C'erano delle equazioni e una certa quantità di dati statistici che non ebbe difficoltà a comprendere, ma il resto presuppone-va una conoscenza della biologia umana che lui non possedeva. Gli cadde l'occhio su un libro dal titolo Introduzione alla psi-cologia della memoria di Bilha Josephson. Questo sembrava più promettente. Lo tirò fuori e trovò un capitolo sui disturbi della memoria. Lesse:

La comune condizione nella quale il paziente "perde la memoria" è nota come "amnesia globale".

Luke si sentì euforico: allora non era l'unico!

Questo paziente non ricorda la propria identità e non è in grado di rico-noscere i propri genitori o i figli, ma rammenta molte altre cose. È capace di guidare un'auto, di parlare lingue straniere, di smontare un motore, di citare il nome del primo ministro del Canada. Questa condizione potrebbe essere definita con maggior precisione "amnesia autobiografica".

Esattamente ciò che era accaduto a lui. Era in grado di capire se qualcuno lo seguiva e di far partire un'auto senza la chiave. La dottoressa Josephson passava poi a illustrare la teoria secon-do la quale il cervello conteneva parecchi serbatoi di memoria, come archivi separati per i vari tipi di informazioni.

La memoria autobiografica registra avvenimenti che abbiamo vissuto di persona. Questi vengono catalogati con indicazioni spazio-temporali: nor-malmente noi ricordiamo non solo cosa è accaduto, ma dove e quando. La memoria semantica a lungo termine di solito custodisce informazio-ni tipo il nome della capitale della Romania e la capacità di risolvere equa-zioni di secondo grado.

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La memoria a breve termine è quella che entra in funzione quando, dopo aver visto un numero di telefono sulla guida, lo teniamo a mente per il tempo necessario a comporlo.

Il testo riportava l'esempio di un paziente che aveva perso un tipo di memoria pur mantenendone altre, un po' come lui. Provò un profondo senso di sollievo - e anche di gratitudine - nei con-fronti dell'autrice del libro quando si rese conto che quanto gli era capitato era in realtà un fenomeno psicologico ben studiato. Poi gli venne un'ispirazione. Era sui trentacinque anni, quindi da circa dieci doveva avere un lavoro. Le sue conoscenze profes-sionali dovevano trovarsi ancora nella sua testa, stivate nella memoria semantica a lungo termine. Poteva utilizzarle per capire in che campo aveva lavorato. Da qui sarebbe partito per scopri-re la propria identità. Alzando gli occhi dal libro, cercò di pensare quali conoscenze particolari possedeva. Tralasciò le capacità da agente segreto per-ché ormai aveva concluso che, a giudicare dall'aspetto della sua pelle, non poteva essere un poliziotto di alcun genere. Quali altre particolari conoscenze possedeva? Era terribilmente difficile da stabilire. Accedere alla memoria non era come aprire un frigorifero il cui contenuto è visibile a colpo d'occhio. Somigliava più alla consultazione di un catalogo di biblioteca: dovevi sapere cosa cercare. Era frustrante, ma si impose di essere paziente e continuare a riflettere. Se fosse stato avvocato, non avrebbe ricordato migliaia di leggi? Se fosse stato medico, non avrebbe dovuto essere in grado di visitare una persona e dire: "Questo ha l'appendicite"?. No, così non funzionava. Ripensando agli ultimi minuti, l'uni-co elemento di un qualche interesse era che aveva compreso senza difficoltà le equazioni e le teorie statistiche riportate nel libro sul cervello umano, anche se gli altri aspetti della psicologia non gli erano del tutto chiari. Forse la sua professione riguarda-va i numeri: poteva essere un contabile o magari un assicuratore. Oppure un insegnante di matematica. Trovò la sezione dedicata alla matematica e passò in rassegna gli scaffali. Un libro intitolato La teoria dei numeri attirò la sua attenzione. Lo sfogliò. Era esposto con chiarezza, ma un po' superato. Di colpo alzò lo sguardo. Aveva scoperto qualcosa: capiva le regole matematiche. Era un indizio di estrema importanza. La maggior parte delle pagine conteneva più equazioni che testo. E non era roba per profani, ma un'opera a livello accademico. E lui la comprendeva. Doveva essere uno studioso di materie scientifiche. Mosso da un crescente ottimismo individuò la sezione di chi-mica e il volume Ingegneria dei polimeri. Era comprensibile, ma non facile. Allora passò alla fisica e provò con Il comportamento dei gas a bassa temperatura. Era affascinante, come leggere un buon romanzo. Stava restringendo il campo. Il suo lavoro aveva a che fare con la matematica e la fisica. Quale branca della fisica?Igas a bassa temperatura erano interessanti, ma non gli sembrava di essere allo stesso livello dell'autore del libro. Passò in rassegna gli scaffali e, ricordandosi di quell'articolo di giornale intitolato Per gli Usa la luna resta a terra, si fermò davanti alla sezione di geofisica. Dallo scaffale prese Principi di progettazione dei mis-sili.

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Era un testo elementare e, ciononostante, nella prima pagina trovò subito un errore. Proseguendo nella lettura ne scovò altri due... «Sì!» esultò, facendo trasalire un ragazzo che stava studiando biologia. Se era in grado di riconoscere gli errori su un libro di testo, doveva essere un esperto della materia. Dunque, era uno scienziato spaziale. Si chiese quanti scienziati di quel tipo esistessero negli Stati Uniti: probabilmente qualche centinaio. Corse al banco delle informazioni e chiese aiuto alla bibliotecaria dai capelli grigi. «Avete un elenco degli scienziati?» «Certo» rispose la donna. «Il Dizionario degli scienziati ameri-cani, all'inizio della sezione scientifica.» Lo trovò senza difficoltà; era un grosso volume, ma non poteva certo elencare tutti gli scienziati americani, si doveva limitare ai più importanti. Valeva comunque la pena di tentare. Luke sedette a un tavolo e cominciò dall'indice, cercando tutti quelli con il suo no-me. Si sforzò di tenere a bada la propria impazienza e di scorrere l'elenco con attenzione. Trovò un biologo che si chiamava Luke Parfitt, un archeologo di nome Lucas Dimittry e un Luc Fontainebleau farmacologo, ma nessun fisico. Allora fece un controllo incrociato e passò in rassegna l'elenco dei geofisici e degli astronomi, ma non trovò nessuno che si chia-masse Luke o qualche sua variante. Certo, pensò deluso, non era neppure sicuro che quello fosse effettivamente il suo nome. Pete lo aveva chiamato così, ma per quello che ne sapeva lui, il suo vero nome poteva anche essere Percival. Era avvilito, ma non ancora disposto ad arrendersi. Tentò con un altro approccio. Da qualche parte dovevano es-serci persone che lo conoscevano. Il nome Luke poteva anche non essere il suo, ma la faccia, quella sì. Il Dizionario degli scienziati americani riportava solo le fotografie dei personaggi più impor-tanti, come il dottor Wernher von Braun, ma Luke pensò che do-veva pur avere amici e colleghi in grado di riconoscerlo. Il problema era trovarli, ma ora sapeva dove cercare: tra gli scienziati spa-ziali. Dove si possono trovare degli scienziati? In un'università. Sull'enciclopedia cercò Washington. La voce comprendeva an-che un elenco delle università della città. Scelse la Georgetown University perché era già stato a Georgetown quel giorno e sapeva come ritornarvi. Localizzò l'università sulla cartina e vide che il suo campus, molto esteso, occupava almeno dieci isolati. Proba-bilmente c'era anche un dipartimento di fisica importante, con decine di professori, e chissà, forse uno di loro avrebbe potuto co-noscerlo. Uscì dalla biblioteca pieno di speranza e risalì in auto.

14.30

In origine il sistema di accensione non era stato progettato per fun-zionare nel vuoto. Per il razzo Jupiter sono state apportate le seguenti modifiche: 1) l'intero motore è sigillato in un comparti-mento stagno; 2)

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nel caso in cui questo subisse danni, l'accenditore è chiuso a sua volta in un contenitore sigillato; 3) l'accenditore è comunque in grado di attivarsi nel vuoto. Questo sistema di sicu-rezze multiple si traduce in quel principio di progettazione noto come ridondanza.

Ipartecipanti alla riunione su Cuba fecero una pausa per il caffè e Anthony corse al Q Building con la speranza che i suoi uomini avessero trovato nuovi indizi, qualche traccia sugli spo-stamenti di Luke. Incontrò Pete sulle scale. «Qui ho qualcosa di strano» disse il giovane. Il cuore di Anthony fece un balzo. «Dimmi!» «È un rapporto della polizia di Georgetown. Una casalinga torna a casa dal supermercato e scopre che qualcuno ha forzato la porta di casa, è entrato e si è fatto la doccia. L'intruso è spari-to, ma si è lasciato dietro una valigia e un fagotto di stracci.» Anthony era elettrizzato. «Finalmente uno spiraglio! Dammi subito l'indirizzo.» «Pensa che si tratti del nostro uomo?» «Ne sono certo. È stufo di sembrare un barbone e così si è introdotto in una casa vuota, si è lavato e ha indossato degli abiti decenti. È proprio da lui: non sopporta di essere mal vestito.» «Lei deve conoscerlo piuttosto bene» osservò Pete, perplesso. Anthony si rese conto di aver fatto un altro errore. «No, in effet-ti no» rispose secco. «Ho studiato il suo fascicolo.» «Scusi» disse Pete, e dopo un attimo aggiunse: «Chissà perché ha lasciato lì quella roba». «La mia ipotesi è che la donna sia rientrata a casa prima che lui avesse finito di prepararsi.» «E la riunione su Cuba?» Anthony fermò una segretaria che stava passando nel corri-doio. «Chiami la sala riunioni al P Building, per favore, e dica a Mr Hobart che mi è venuto il mal di stomaco e Mr Maxell ha dovuto accompagnarmi a casa.» «Mal di stomaco» ripeté la donna, impassibile. «Esatto» rispose lui, allontanandosi. E poi aggiunse, senza nep-pure voltarsi: «A meno che non le venga in mente qualcosa di me-glio». Uscì dall'edificio con Pete alle calcagna. Saltarono sulla vecchia Cadillac gialla. «La cosa va gestita con attenzione» disse Anthony, prendendo la direzione di Georgetown. «La buona notizia è che Luke ci ha lasciato degli indizi, quella cattiva è che noi non abbia-mo un centinaio di uomini per seguirli. Quindi la mia idea sarebbe di fare in modo che la polizia di Washington svolga il lavoro di gambe per noi.» «Buona fortuna» commentò Pete, scettico. «Io come devo comportarmi?»

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«Sii gentile con i poliziotti e lascia parlare me.» «Questo credo di poterlo fare.» Anthony guidava veloce e trovò subito l'indirizzo riportato sul rapporto della polizia. Era una casetta unifamiliare in una stradi-na tranquilla. Davanti c'era parcheggiata un'autopattuglia. Prima di entrare Anthony si fermò a osservare le case sull'altro lato della strada. Qualche attimo e trovò ciò che stava cercando: una persona che lo guardava da una finestra al primo piano. Era una donna anziana con i capelli bianchi. Quando i loro occhi si incrociarono lei non si ritrasse, anzi ricambiò lo sguardo con aperta curiosità. Era proprio quello che gli ci voleva, una vicina ficcanaso. Le sorrise e le fece il saluto militare; lei piegò la testa di lato in cenno di risposta. Anthony si voltò avviandosi verso la casa che era stata "visita-ta". Vide alcuni graffi e una leggera intaccatura nello stipite, nel punto in cui la serratura era stata forzata: un lavoro pulito, da professionisti, senza inutili danni. Tipico di Luke. Venne ad aprire una giovane carina che aspettava un bambi-no... e non mancava molto, pensò Anthony. Li fece accomodare in soggiorno, dove già c'erano due uomini seduti sul divano che fumavano e bevevano caffè. Uno era un agente di pattuglia in uniforme, l'altro, un giovane vestito con un abito dozzinale, era probabilmente un detective. Davanti a loro, su un tavolino basso con il ripiano di formica, c'era una valigia aperta. Anthony si presentò, ma mostrò il suo tesserino solo ai poli-ziotti. Non voleva che Mrs Bonetti - e con lei tutte le sue amiche e vicine - venissero a sapere che la Cia era interessata a quel caso e così si limitò a dire: «Siamo colleghi di questi agenti». Il detective si chiamava Lewis Hite. «Sapete qualcosa?» chiese con cautela ai nuovi arrivati. «Crediamo di essere in possesso di qualche informazione che potrebbe esservi utile, ma prima ho bisogno di sapere cosa avete voi.» Hite allargò le braccia in un gesto che esprimeva sconcerto. «Abbiamo una valigia che appartiene a un certo Rowley Anstruther jr di New York. Si è introdotto in casa di Mrs Bonetti, si è fatto una doccia e se n'è andato lasciando qui la valigia. Chi ci capi-sce qualcosa è bravo...» Anthony osservò la valigia di pelle marrone. Era costosa e piena neanche per metà: passò in rassegna il contenuto. C'erano camicie e biancheria pulita, ma niente scarpe, né pantaloni o giacche. «Pare che Mr Anstruther sia arrivato a Washington oggi da New York» disse. Hite annuì, ma Mrs Bonetti osservò, ammirata: «Come fa a saperlo?». Anthony sorrise bonario. «Se lo faccia spiegare dal detective Hite.» Non voleva offenderlo rubandogli la scena. «La valigia contiene cambi di biancheria pulita, ma niente bian-cheria sporca» spiegò il detective. «Il tizio non si è cambiato, quin-di, probabilmente, non ha passato la notte fuori. Questo significa che è partito da casa stamattina.» «Mi risulta che avete anche trovato degli abiti vecchi.»

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«Li ho qui io» disse l'agente di pattuglia, che si chiamava Lonnie. Prese una scatola di cartone posata accanto al divano. «Giac-cone» elencò, facendo l'inventario «camicia, pantaloni, scarpe.» Anthony li riconobbe: erano gli stracci che indossava Luke. «Non credo che sia stato Mr Anstruther a introdursi in questa casa» osservò. «Credo che la valigia gli sia stata rubata questa mattina, probabilmente alla Union Station.» Guardò l'agente di pattuglia. «Lonnie, ti dispiacerebbe chiamare il distretto di polizia più vicino alla stazione e vedere se è stato denunciato un furto di questo tipo? Sempre che Mrs Bonetti ci permetta di usare il telefono.» «Certo» disse lei. «È in corridoio.» «Sulla denuncia dovrebbe essere riportato anche il contenuto della valigia» aggiunse Anthony. «Scommetto che scoprirai che mancano anche un abito e un paio di scarpe.» Tutti lo guardava-no allibiti. «Fatti dare la descrizione dettagliata dell'abito.» «Okay.» L'agente andò in corridoio. Anthony era soddisfatto. Era riuscito ad assumere il controllo delle indagini senza umiliare la polizia; il detective Hite lo guar-dava come se stesse aspettando istruzioni. «Anstruther deve esse-re un uomo dalla corporatura atletica, alto sul metro e ottanta-cinque, intorno ai novanta chili di peso» disse. «Lewis, se con-trolli la misura di quelle camicie, scoprirai che sono sedici di collo e trentacinque di manica.» «Esatto... ho già controllato» confermò Hite. «Avrei dovuto saperlo che mi avevi preceduto.» Anthony lo gra-tificò di un sorriso sarcastico. «Abbiamo una foto dell'uomo che pensiamo sia l'autore del furto della valigia e dell'effrazione in que-sta casa.» Fece un cenno con il capo a Pete, il quale porse un grup-po di foto a Hite. «Non sappiamo come si chiama» mentì Anthony. «È alto un metro e ottantacinque, pesa una novantina di chili, cor-poratura robusta, e potrebbe fingere di aver perso la memoria.» «Com'è la storia?» chiese Hite incuriosito. «Questo tizio voleva gli abiti di Anstruther ed è venuto qui a cambiarsi?» «Qualcosa del genere.» «E perché?» Anthony assunse un'espressione mortificata. «Mi dispiace, ma questo proprio non posso raccontartelo.» «È riservato, eh? Capisco. Nessun problema» disse Hite, com-punto. Lonnie tornò in soggiorno. «Aveva proprio ragione a proposi-to del furto. È avvenuto alla Union Station, alle undici e trenta di questa mattina.» Anthony annuì. Aveva fatto colpo sui due poliziotti. «E il vesti-to?» chiese. «Blu scuro, gessato.» «Allora potete diramare una foto e la descrizione degli abiti che indossa» disse, rivolgendosi al detective.

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«È convinto che si trovi ancora in città?» «Sì.» Anthony non ne era così sicuro, ma non riusciva a pen-sare a un solo motivo per cui Luke dovesse lasciare Washington. «Suppongo abbia un'auto.» «Lo scopriremo subito» assicurò Anthony. Poi si rivolse a Mrs Bonetti: «Come si chiama quella signora con i capelli bianchi che vive un paio di case più in giù, sull'altro lato della strada?». «Rosemary Sims.» «Passa molto tempo alla finestra?» «Noi la chiamiamo Rosa la Curiosa.» «Magnifico.» Anthony si girò verso il detective. «Andiamo a scambiare quattro parole con questa signora?» «Sicuro.» Attraversarono la strada e bussarono alla porta di Mrs Sims. Lei aprì all'istante: li aspettava in corridoio. «L'ho visto!» disse, subi-to. «È entrato che sembrava un barbone ed è uscito tutto in ghin-gheri!» Anthony fece un gesto verso Hite per indicare che spettava a lui fare le domande. «Mrs Sims, quell'uomo aveva una macchi-na?» chiese il detective. «Sì, una bella macchina nuova, blu e bianca. Ho pensato subi-to che non poteva essere di nessuno che abiti qui.» Li guardò con espressione scaltra. «So cosa mi chiederete adesso.» «È riuscita a vedere la targa?» domandò Hite. «Certo» rispose la donna, trionfante. «E ho preso nota del numero.» Anthony sorrise.

15.00

Gli stadi superiori del missile sono racchiusi all'interno di un cilin-dro in alluminio con una base in lega di magnesio. Questo cilindro posa su dei cuscinetti che gli permettono di ruotare liberamente durante il volo. Il regime di rotazione sarà di circa 550 giri al minu-to per migliorare l'accuratezza della traiettoria.

Sulla Thirty-seventh Street i cancelli della Georgetown Uni-versity erano aperti. Gli edifici di pietra grigia bugnata in stile gotico occupavano tre lati di un prato fangoso; studenti e inse-gnanti correvano da un edificio all'altro avvolti nei soprabiti pesanti. Entrando piano con l'automobile, Luke fantasticò che

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qualcuno lo riconoscesse e lo salutasse: "Ehi, Luke! Come va?". E l'incubo sarebbe finito. Notò che molti degli insegnanti portavano un colletto da sacer-dote e capì che doveva trattarsi di un'università cattolica. Sembra-va anche riservata ai soli studenti maschi. Chissà se lui era cattolico? Parcheggiò davanti all'ingresso principale, un portico con tre arcate su cui era scritto HEALY HALL. All'interno trovò un banco informazioni e la prima donna del campus. Apprese che il dipar-timento di fisica si trovava proprio sotto di loro: bastava uscire e imboccare le scale che portavano al piano inferiore. Luke si sentì vicino al cuore del mistero, come un cacciatore di tesori che sta per introdursi nelle camere di una piramide egizia. Seguendo le indicazioni, trovò un grande laboratorio con ban-coni di lavoro al centro e ai lati porte che si aprivano su piccoli uffici. Un gruppo di uomini radunati intorno a un bancone stava lavorando ai componenti di un radiospettrografo. Portavano tutti gli occhiali e, a giudicare dall'età, dovevano essere professori e laureandi. Tra questi potevano esserci dei suoi conoscenti. Si avvicinò pieno di speranza. Uno dei più anziani incrociò il suo sguardo, ma non sembrò riconoscerlo. «Posso esserle utile?» «Lo spero proprio» rispose Luke. «C'è un dipartimento di geofisica, qui?» «Oh, buon Dio, no» rispose l'uomo. «In questa università per-sino la fisica è considerata una materia complementare.» Gli altri scoppiarono a ridere. Luke diede loro la possibilità di guardarlo bene, ma nessuno parve identificarlo. Aveva scelto male, pensò, avvilito. Forse avrebbe dovuto andare alla George Washington University. «E astronomia?» «Oh, certo, sì.Icieli li studiamo. Il nostro osservatorio è famo-so.» Il morale di Luke si risollevò. «Dove si trova?» L'uomo indicò una porta. «Vada in fondo a questo edificio e da lì lo vedrà sul lato opposto del campo da baseball.» Poi tornò a rivolgere la propria attenzione alle apparecchiature sul banco-ne. Luke seguì un lungo corridoio buio e polveroso che correva per tutta la lunghezza dell'edificio. Vide venire verso di sé un uomo curvo vestito di tweed che aveva tutta l'aria di essere un professore e lo guardò negli occhi, pronto a sorridergli caso mai questi avesse dato segno di riconoscerlo. Ma l'uomo tirò diritto con espressione imbarazzata. Luke proseguì imperterrito, rivolgendo la stessa occhiata a chiunque incontrasse e avesse l'aria dello scienziato, ma non ebbe fortuna. Uscendo, vide alcuni campi da tennis, il Potomac e a ovest, oltre i campi sportivi, una cupola bianca. Con crescente speranza si avviò in quella direzione. Sul tetto piatto di una piccola costruzione a due piani c'era la grande cupola rotante di un osservatorio, con la caratteristica porzione di copertura scorrevole. Era una struttura importante che faceva pensare a un dipartimento di astronomia molto ben attrezzato. Luke entrò. Le stanze erano disposte intorno a un grosso pilastro centrale che sosteneva l'enorme peso della cupola. Luke aprì una porta e vide una biblioteca vuota. Provò con un'altra e vi trovò una donna attraente, più o

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meno della sua età, seduta a una macchi-na per scrivere. «Buongiorno» disse Luke. «C'è il professore?» «Intende dire padre Heyden?» «Sì...» «E lei è?...» «Ehm...» Stupidamente, Luke non aveva previsto che gli avrebbero chiesto il nome. La sua esitazione fece sì che la segreta-ria lo guardasse con sospetto. «Lui non mi conosce» spiegò Luke. «Cioè, penso che mi conosca, almeno spero, ma non per nome.» La diffidenza della donna crebbe. «Ma un nome ce l'avrà pure?» «Luke. Professor Luke.» «Presso quale università lavora, professor Luke?» «Hmm... New York.» «Quale, in particolare, fra i tanti atenei di quella città?» Luke si sentì mancare. Nel suo entusiasmo, aveva dimenticato di pianificare questo incontro e ora capiva di aver combinato un gran pasticcio. Quando ci si caccia nei guai conviene stare zitti e fermi per non peggiorare la situazione. «Non sono venuto qui per essere sottoposto a un terzo grado» disse, gelido. «Se non le dispiace, riferisca a padre Heyden che il professor Luke, il fisico spaziale, è passato di qui e vorrebbe scambiare qualche parola con lui.» «Temo che non sarà possibile» rispose la donna, irremovibile. Luke uscì dalla stanza sbattendo la porta. Era in collera più con se stesso che con la segretaria; in fondo, lei stava solo pro-teggendo il suo capo dalle molestie di uno squilibrato. Decise di guardarsi intorno, continuando ad aprire porte finché qualcuno non lo avesse riconosciuto oppure cacciato fuori. Salì le scale che portavano al primo piano. Gli ambienti sembravano deserti. Da lì una scala di legno senza corrimano portava all'osservatorio. Anche questo era vuoto. Mentre ammirava il grande telescopio con il suo complesso sistema di posizionamento, un vero capola-voro di ingegneria, si chiese cosa avrebbe fatto. La segretaria salì le scale. Luke era pronto ad affrontare una discussione, e invece lei gli si rivolse con simpatia. «Lei è nei guai, vero?» gli chiese. Il tono gentile della donna gli fece venire un groppo alla gola. «È molto imbarazzante da spiegare» disse. «Ho perso la memoria. So che lavoro nel campo della missilistica, e speravo di incontrare qualcuno che potesse riconoscermi.» «Al momento non c'è nessuno, qui» riprese lei. «Il professor Larkley sta tenendo una conferenza sul propellente per motori a razzo allo Smithsonian Institute, nell'ambito degli incontri per l'Anno geofisico internazionale, e tutti i docenti dell'istituto si trovano là.» Luke provò un sussulto di speranza. Invece di un solo geofisi-co, poteva incontrarne un'aula intera. «Dov'è lo Smithsonian Institute?»

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«In centro, proprio sul Mall, all'altezza di Tenth Street.» Aveva girato Washington abbastanza da capire che non era molto lontano. «A che ora si tiene la conferenza?» «È iniziata alle tre.» Luke guardò l'orologio: erano le tre e mezzo. Se si fosse affret-tato, avrebbe potuto arrivare là per le quattro. «Allo Smithsonian» ripeté. «Veramente è nell'Aircraft Building, sul retro dello Smithsonian.» «Sa quante persone saranno presenti alla conferenza?» «Circa centoventi.» Di certo, almeno uno di loro doveva conoscerlo! «Grazie!» disse. Si precipitò giù dalle scale e uscì di corsa dal-l'edificio.

15.30

La rotazione del cilindro stabilizza la traiettoria del missile equili-brando gli effetti delle eventuali differenze di spinta tra gli undici piccoli motori a razzo raccolti in cerchio attorno all'asse centrale.

Billie era furibonda con Len Ross perché aveva tentato di ingraziarsi quelli della Sowerby Foundation. Il posto di direttore della ricerca doveva andare al miglior scienziato, non al più ruf-fiano. Era ancora arrabbiata quel pomeriggio, quando la segreta-ria del direttore la chiamò per dirle che lui l'aspettava nel suo ufficio. Charles Silverton si occupava di far quadrare i conti, ma capi-va le ragioni dei ricercatori. L'ospedale era di proprietà di una fondazione che promuoveva lo studio e la cura della malattia mentale. Silverton era convinto che fosse suo compito far sì che il personale medico non venisse distratto da problemi ammini-strativi e finanziari. Billie lo stimava per questo. Il suo ufficio occupava quella che un tempo era stata la sala da pranzo di una dimora vittoriana, e ne conservava ancora il cami-netto e le modanature del soffitto. Fece cenno a Billie di sedersi. «Hai parlato con quelli della Sowerby Foundation, questa matti-na?». «Sì. Len gli stava facendo fare un giro e io li ho raggiunti. Per-ché?» Silverton non rispose alla domanda. «Ritieni di aver detto qualcosa che possa averli offesi?» Billie aggrottò la fronte, perplessa. «Non penso proprio. Abbiamo parlato del nuovo reparto.»

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«Sai, io volevo che avessi tu il posto di direttore della ricerca.» Billie si allarmò. «Non mi piace questo uso del passato!» «Len Ross è un ricercatore competente, ma tu sei eccezionale. Hai fatto molti più progressi di lui e hai dieci anni meno.» «La fondazione appoggia Len per quel posto?» Silverton esitò, imbarazzato. «Temo che insistano perché l'inca-rico vada a lui. È una clausola della loro sovvenzione.» «Che gli venga un accidente!» Billie era allibita. «Conosci qualcuno della fondazione?» «Sì, uno dei consiglieri di amministrazione è un mio vecchio amico. Si chiama Anthony Carroll. È il padrino di mio figlio.» «Come mai è in quella posizione? Che lavoro fa?» «Lavora per il Dipartimento di Stato, ma sua madre è molto ricca e lui collabora con varie istituzioni di beneficenza.» «Ha del rancore verso di te?» Per un attimo, Billie tornò indietro nel tempo. Si era molto arrabbiata con Anthony dopo la catastrofe che aveva portato Luke a lasciare Harvard, e aveva troncato ogni relazione con lui. Ma poi, nel vedere come si era comportato con Elspeth, lo aveva perdonato. Lei si era lasciata andare, trascurava gli studi con il rischio di non riuscire a laurearsi. Se ne andava in giro come stor-dita, uno spettro pallido dai lunghi capelli rossicci, sempre più magra e sempre più assente. Era stato Anthony a salvarla. Erano diventati intimi, ma il loro era più un rapporto d'amicizia che una relazione sentimentale. Cominciarono a studiare insieme e lei si rimise in carreggiata quel tanto da superare l'esame finale. Anthony si riguadagnò il rispetto di Billie e da allora erano rima-sti sempre amici. «Nel 1941 ho avuto forti contrasti con lui» confidò a Charles «ma abbiamo fatto pace da tempo.» «Forse qualcuno che sta nel consiglio di amministrazione ammira l'operato di Len.» Billie rifletté su quella possibilità. «L'approccio di Len è diver-so dal mio. Lui è un freudiano convinto, è sempre alla ricerca di motivazioni psicoanalitiche. Se un paziente perde all'improvviso la capacità di leggere, lui presuppone che la causa stia in un timo-re inconscio della letteratura che è stato represso. Io, invece, penso subito a un danno cerebrale.» «Quindi, nel consiglio d'amministrazione potrebbe esserci un freudiano accanito contro di te.» «È possibile» ammise Billie con un sospiro. «Ma possono fare una cosa simile? Mi sembra così ingiusto.» «Di sicuro è insolito» osservò Charles. «Normalmente le fon-dazioni stanno ben attente a non interferire

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nelle decisioni che richiedono valutazioni sull'esperienza professionale. Ma non esi-ste una regola che lo vieti.» «Be', io non ho alcuna intenzione di subire questa decisione senza lottare. Che motivazione hanno addotto?» «Ho ricevuto una telefonata in via ufficiosa dal presidente del consiglio di amministrazione. Mi ha detto che ritengono Len più qualificato.» Billie scosse la testa. «Dev'esserci un'altra spiegazione.» «Perché non lo chiedi al tuo amico?» «È esattamente quello che intendo fare.»

15.45

Si è fatto ricorso a uno stroboscopio per determinare l'esatta distri-buzione dei pesi e garantire così il perfetto bilanciamento del cilin-dro. In caso contrario, la gabbia interna inizierebbe a vibrare pro-vocando la disintegrazione dell'intera struttura.

Prima di lasciare il campus della Georgetown University, Luke aveva consultato la cartina stradale di Washington. Mentre percor-reva K Street guardò l'orologio. Sarebbe arrivato allo Smithsonian in dieci minuti. Supponendo di mettercene altri cinque per trovare l'aula dove si teneva la conferenza, forse sarebbe potuto arrivare prima della conclusione. E allora avrebbe scoperto la sua identità. Erano passate quasi undici ore da quando si era svegliato immerso in un incubo. Ma, poiché non riusciva a ricordare nulla di quanto era accaduto prima delle cinque di quella mattina, gli pareva che quel tormento durasse da una vita. Svoltò a destra sulla Ninth Street, dirigendosi a sud verso il Mall, pieno di speranza. Qualche attimo dopo udì una sirena e si sentì mancare. Guardò nello specchietto retrovisore. Un'autopattuglia della polizia gli stava alle calcagna, con il lampeggiante acceso. A bordo c'erano due agenti. Uno indicò il marciapiede sulla destra intimandogli di accostare. Luke era sconvolto. Proprio adesso che ce l'aveva quasi fatta! Possibile che avesse commesso qualche infrazione al codice della strada e volessero multarlo? Ma anche così avrebbero voluto vedere la sua patente e lui non aveva documenti. E poi non si trattava di una piccola infrazione: lui era alla guida di un veicolo rubato. Aveva calcolato che il furto non sarebbe stato scoperto fino al rientro del proprietario da Philadelphia, ma evidentemente qualcosa era andato storto. Erano lì per arre-starlo.

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Prima, però, dovevano prenderlo. Qualcosa scattò dentro di lui. Il suo subconscio passò al pro-gramma di fuga. Davanti a lui, nella strada a senso unico, c'era un lungo autoarticolato. Senza pensarci due volte, schiacciò il pedale dell'acceleratore e lo sorpassò. Ipoliziotti partirono subito all'inseguimento. A tutta velocità, Luke finì il sorpasso e andò a mettersi davan-ti al camion. Agendo d'istinto, mise il cambio in folle per evitare che il motore si spegnesse, poi girò bruscamente il volante verso destra e pestò con forza sul freno. La Ford partì in sbandata, girando su se stessa. Il camion sterzò con violenza a sinistra per evitarla, costringendo la macchina della polizia a fare altrettanto. Luke si fermò con il muso della sua auto contromano; inserì di nuovo la marcia e diede gas, andando incontro al traffico che sopraggiungeva. Gli automobilisti si buttavano a destra e a sinistra come impaz-ziti per evitare lo scontro frontale. Luke sterzò a destra per scan-sare un autobus, andò a urtare una station wagon ma proseguì imperterrito inseguito da un coro di clacson inferociti. Una vec-chia Lincoln anteguerra salì sul marciapiede e andò a sbattere contro un lampione. Un motociclista perse il controllo del mezzo e cadde. Luke sperò che non si fosse fatto troppo male. Arrivò all'incrocio e svoltò a destra su un grande viale. Percorse due isolati a tutta velocità, bruciando i semafori, poi guardò nello specchietto: della polizia nessuna traccia. Svoltò di nuovo, questa volta andando a sud. Si era perso, ma sapeva che il Mall era in quella direzione. Ora che non aveva più inseguitori alle calcagna, era consigliabile guidare con più calma. Ma erano già le quattro, e gli ultimi eventi lo aveva fatto allonta-nare ancora di più dallo Smithsonian. Se ci avesse messo troppo, avrebbe trovato l'aula deserta. Pestò sull'acceleratore. La strada che stava percorrendo era senza sbocco verso sud, e fu costretto a girare a destra. Cercò di guardare la cartina mentre procedeva sorpassando i veicoli più lenti. Si trovava in D Street. Un attimo dopo arrivò sulla Seventh e svoltò in direzione sud. Sull'altro lato del Mall, alla sua destra, vide un grosso edificio color rosso scuro, simile a un castello delle fiabe. Il museo si tro-vava esattamente nel punto indicato dalla cartina. Fermò l'auto e guardò l'orologio. Le quattro e cinque. A quell'ora di sicuro il pubblico se n'era già andato. Imprecò e si precipitò fuori. Attraversò il Mall di corsa. La segretaria gli aveva detto che la conferenza si sarebbe tenuta nell'Aircraft Building, sul retro del museo. Quello era il davanti o il retro? Sembrava più il davanti. A lato dell'edificio partiva un sentiero che attraversava un giardi-netto. Lo prese e si ritrovò su un grande viale a due sensi di mar-cia. Sempre correndo, si imbatté in un cancello in ferro battuto che portava all'ingresso posteriore del museo. Alla sua destra, oltre una distesa erbosa, c'era una struttura che ricordava un vec-chio hangar. Entrò. Si guardò attorno. Appesi al soffitto c'erano aerei di ogni gene-re: vecchi biplani, un jet del periodo bellico, persino un pallone aerostatico. A livello del pavimento c'erano delle bacheche di ve-tro contenenti insegne, tenute da pilota, apparecchi per riprese aeree, fotografie. Luke si rivolse a un guardiano in uniforme. «So-no qui per la conferenza sul propellente per motori a razzo.»

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«È in ritardo» rispose l'uomo guardando l'orologio. «Sono le quattro e dieci, la conferenza è già terminata.» «Dove si è tenuta? Forse troverò ancora il relatore.» «Penso che se ne sia già andato.» Luke gli rivolse un'occhiata minacciosa e disse lentamente: «Tu pensa solo a rispondere alla mia domanda: dov'è?». L'uomo, intimorito, si affrettò a rispondere. «In fondo al cor-ridoio.» Luke corse per tutta la lunghezza dell'edificio. Arrivato in fondo, trovò una sala conferenze improvvisata con un leggio, una lavagna e file di sedie. La maggior parte del pubblico era già usci-ta e gli inservienti avevano cominciato a togliere le sedie di metal-lo, impilandole ai lati della sala. Ma un gruppetto di otto o nove persone si era attardato a discutere in un angolo, attorno a un uomo con i capelli bianchi che poteva essere il relatore. Luke era avvilito. Solo pochi minuti prima lì c'erano più di un centinaio di scienziati suoi colleghi, ora ne restava una manciata, e forse nessuno di loro lo conosceva. L'uomo con i capelli bianchi guardò verso di lui, poi tornò a rivolgersi agli altri. Era impossibile capire se lo avesse ricono-sciuto o meno. Stava parlando e proseguì nel discorso senza alcu-na pausa. «Il nitrometano è quasi impossibile da maneggiare. Non si può ignorare l'aspetto della sicurezza.» «Si può arrivare alla sicurezza con le giuste procedure, se il combustibile è sufficientemente buono» ribatté un giovane che indossava un abito di tweed. Luke conosceva bene l'argomento. Erano stati compiuti esperi-menti con una incredibile varietà di combustibili, molti dei quali più potenti della usuale miscela di alcol e ossigeno liquido, ma tutti presentavano degli inconvenienti. «Cosa ne pensate della dimetilidrazina asimmetrica?» chiese un uomo con l'accento del Sud. «Ho sentito dire che stanno facendo degli esperimenti al Jet Propulsion Laboratory di Pasa-dena.» «Funziona, ma è velenosissima» disse Luke di getto. Tutti si voltarono verso di lui. L'uomo con i capelli bianchi aggrottò la fronte, leggermente risentito per l'interruzione da parte di un estraneo. L'uomo in abito di tweed, invece, lo guardò allibito e disse: «Mio Dio, e tu cosa ci fai qui a Washington, Luke?». Luke si sentì così felice che si sarebbe messo a piangere.

PARTE TERZA

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16.15

Un programmatore a nastro nel cilindro fa variare in modo conti-nuo la velocità di rotazione degli stadi superiori tra i 450 e i 750 giri al minuto, così da evitare l'instaurarsi di fenomeni di risonan-za che potrebbero portare il missile a disintegrarsi nello spazio.

Luke non riusciva neppure a parlare. L'emozione e il sollievo erano così forti da serrargli la gola. Per tutto il giorno si era sfor-zato di rimanere calmo e razionale, ma ora si sentiva vicino al crollo. Gli altri scienziati ripresero a conversare, ignari del suo turba-mento, tranne il giovane in abito di tweed che gli chiese, preoc-cupato: «Ehi, ti senti bene?». Luke annuì e dopo un attimo riuscì a dire: «Potremmo parla-re un attimo?». «Certo, certo. C'è un piccolo ufficio dietro la mostra sui fratelli Wright. L'ha utilizzato poco fa il professor Larkley.» Si diressero verso una porta laterale. «A proposito, sono stato io a organizzare questa conferenza» aggiunse, mentre gli faceva strada in un locale piccolo e spartano arredato con una scrivania, un paio di sedie e un telefono. Sedettero. «Cosa succede?» chiese il giovane. «Ho perso la memoria.» «Oh, mio Dio!» «Amnesia autobiografica. Ricordo tutto del mio lavoro, ed è così che vi ho trovato, ma non so niente di me!» «Sai chi sono io?» chiese il giovane con espressione scioccata. Luke scosse la testa. «No. Non sono neppure sicuro di quale sia il mio nome.» «Accidenti!» L'uomo era sconcertato. «Non mi è mai capitato di vedere una cosa simile.» «Ho bisogno che tu mi racconti tutto quello che sai sul mio conto.» «Immagino... Da dove devo cominciare?» «Mi hai chiamato Luke.» «Tutti ti chiamano Luke. Tu sei il dottor Claude Lucas, ma il nome Claude non ti è mai piaciuto molto. Io sono Will McDermot.» Luke chiuse gli occhi, sopraffatto dalla felicità. Finalmente aveva scoperto il proprio nome. «Grazie, Will.» «Della tua famiglia non so nulla. Ti ho incontrato solo un paio di volte, in occasione di conferenze scientifiche.»

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«Sai dove vivo?» «A Huntsville, in Alabama, credo. Lavori per la Ballistic Missile Agency dell'esercito che è di base al Redstone Arsenal, a Huntsvil-le. Ma tu sei un civile. Il tuo capo è Wernher von Braun.» «Non puoi capire il piacere che mi fa sapere queste cose!» «Sono rimasto sorpreso di vederti perché il tuo gruppo sta per lanciare un razzo che porterà il primo satellite americano nello spazio. Sono tutti giù a Cape Canaveral, e si dice che il lancio potrebbe avvenire questa sera.» «L'ho letto sul giornale questa mattina... Mio Dio, e io ho lavorato a quel razzo?» «Certo. L' Explorer.È il lancio più importante nella storia del programma spaziale americano, specialmente dopo il successo dei russi con lo Sputnik e il fallimento della nostra marina con il Vanguard.» Luke era euforico. Solo poche ore prima aveva pensato di esse-re un vagabondo, un ubriacone, e ora saltava fuori che era uno scienziato al culmine della carriera. «Io dovrei essere là per il lan-cio!» «Esatto. Non hai proprio idea del perché ti trovi qui?» Luke scosse la testa. «Questa mattina mi sono svegliato nei gabinetti della Union Station. Non ho idea di come ci sia finito.» Will gli rivolse un sorriso complice. «Sembra proprio che ieri sera tu abbia fatto baldoria!» «Te lo chiedo seriamente: è normale che io mi ubriachi al punto da perdere conoscenza?» «Non ti conosco abbastanza a fondo per risponderti» disse Will, e poi, pensandoci meglio, aggiunse: «Ma la cosa mi sor-prenderebbe. Sai come siamo fatti noi scienziati: la nostra idea di festa è sederci davanti a un caffè e parlare del nostro lavoro». A Luke sembrava logico. «Ubriacarsi non sembra così interes-sante» convenne. Non riusciva proprio a spiegarsi come fosse finito in quel pasticcio. Chi era Pete? Perché quegli uomini lo seguivano? E chi erano quei due che lo cercavano alla Union Sta-tion? Pensò di parlarne a Will, ma poi decise che gli sarebbe parsa una storia troppo strana, e avrebbe potuto pensare che era un po' svitato. «Chiamerò Cape Canaveral» disse, invece. «Ottima idea.» Will sollevò la cornetta del telefono sulla scri-vania e compose lo zero. «Sono Will McDermot. Posso fare una telefonata interurbana da questo apparecchio? Grazie.» Porse la cornetta a Luke. Luke si fece dare il numero dal servizio informazioni e lo com-pose. «Parla il dottor Lucas» esordì, straordinariamente compia-ciuto di poter dire il proprio nome. Non avrebbe mai pensato che la cosa potesse essere così gratificante. «Vorrei parlare con qual-cuno del gruppo dell' Explorer.» «Sono negli hangar D e R» rispose l'operatore. «Rimanga in linea, prego.»

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Un attimo dopo, una voce maschile disse: «Sicurezza, parla il colonnello Hide». «Sono il dottor Lucas...» «Luke, finalmente! Dove diavolo è finito?» «Sono a Washington.» «Accidenti, cosa diavolo ci fa lì? Ci ha fatti impazzire! Abbia-mo sguinzagliato la polizia militare, l'Fbi, persino la Cia!» Questo spiegava i due agenti che lo cercavano alla Union Sta-tion, pensò Luke. «Senta, mi è successa una cosa strana: ho perso la memoria. Ho vagato per la città cercando di capire chi sono. Poi, alla fine, ho trovato alcuni fisici che mi conoscono.» «Ma è incredibile! Com'è successo?» «Speravo potesse dirmelo lei, colonnello.» «Di solito mi chiama Bill.» «Bill.» «Okay, ora le racconto quello che so. Lunedì mattina è partito dicendo che doveva andare a Washington. Ha preso un aereo da Patrick.» «Patrick?» «La base dell'aeronautica di Patrick, vicino a Cape Canaveral. Marigold le ha fatto la prenotazione...» «Chi è Marigold?» «La sua segretaria a Huntsville. Le ha prenotato anche la soli-ta suite al Carlton.» Nella voce del colonnello c'era una vena di invidia e per un attimo Luke si interrogò su quel "solita suite", ma al momento aveva cose più importanti da chiarire. «Ho spiegato a qualcuno lo scopo di questo viaggio?» «Marigold le ha fissato un appuntamento con il generale Sherwood al Pentagono per le dieci del mattino di ieri... ma lei non si è presentato.» «Ho detto perché volevo vedere il generale?» «A quanto pare no.» «Di cosa si occupa?» «Sicurezza, ma è anche un suo amico di famiglia, quindi il motivo dell'incontro avrebbe anche potuto essere personale.» Doveva trattarsi di qualcosa di molto importante, rifletté Luke, per spingerlo ad allontanarsi da Cape

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Canaveral subito prima della partenza del razzo. «Il lancio avverrà stasera?» «No, abbiamo dei problemi meteorologici. È stato rinviato a domani sera alle dieci e mezzo.» Luke si chiese cosa diavolo avesse avuto in mente di fare. «Ho degli amici qui a Washington?» «Certo. Uno di loro mi ha chiamato praticamente ogni ora. Bern Rothsten» rispose Hide e gli diede il numero di telefono. Luke prese nota su un blocco per appunti. «Lo chiamerò subi-to.» «Prima dovrebbe parlare con sua moglie.» Luke si irrigidì. Era rimasto senza fiato. Una moglie. Ho una moglie, pensò. «È ancora lì?» chiese Hide. Luke ritrovò la parola. «Ehm, Bill...» «Sì?» «Come si chiama mia moglie?» «Elspeth» rispose il colonnello. «Si chiama Elspeth. Gliela pas-so subito, resti in linea.» Luke si sentiva lo stomaco chiuso per il nervosismo. Era scioc-co, pensò, in fondo si trattava solamente di sua moglie. «Sono Elspeth. Luke, sei tu?» Aveva una voce bassa, calda, e una dizione precisa, senza alcun accento particolare. Se l'immaginò come una donna alta e sicura di sé. «Sì, sono Luke» rispose. «Ho perso la memoria.» «Ero così preoccupata... Stai bene?» Il fatto che qualcuno si preoccupasse di come si sentiva fu un enorme conforto. «Ora sì... credo di sì» disse. «Cosa è successo?» «Non ne ho idea. Questa mattina mi sono svegliato in un gabi-netto della Union Station, e ho passato tutto il giorno a cercare di capire chi ero.» «Ti hanno cercato ovunque. Dove sei, ora?» «Allo Smithsonian, nell'Aircraft Building.» «C'è qualcuno che si prenda cura di te?» Luke sorrise a Will McDermot. «C'è un collega che mi sta aiu-tando. E ho il numero di telefono di Bern Rothsten. Ma non ho bisogno di qualcuno che si prenda cura di me. Sto bene, ho solo perso la

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memoria.» Will McDermot si alzò, imbarazzato, e gli sussurrò: «Ti aspet-to fuori». Luke annuì, apprezzando la delicatezza. «Quindi non ti ricordi perché sei partito per Washington così all'improvviso?» stava dicendo Elspeth. «No. E a te, ovviamente, non ho raccontato nulla...» «Hai detto che era meglio non lo sapessi. Ma ero preoccupata, così ho chiamato un nostro vecchio amico di Washington, Anthony Carroll. È nella Cia.» «E lui cosa ha fatto?» «Ti ha chiamato al Carlton lunedì sera, e vi siete accordati per vedervi a colazione martedì mattina... ma tu non ci sei andato. È tutto il giorno che ti cerca. Ora lo chiamo e gli dico che è tutto a posto.» «Evidentemente mi è successo qualcosa tra lunedì sera e mar-tedì mattina.» «Dovresti farti visitare da un dottore, fare un controllo.» «Io mi sento bene. Ma ci sono tante cose che vorrei sapere. Abbiamo figli?» «No.» Luke provò una tristezza che sembrava familiare, come il dolo-re sordo di una vecchia ferita. «È da quando ci siamo sposati quattro anni fa che cerchiamo di avere un bambino» proseguì Elspeth «ma non ci siamo anco-ra riusciti.» «Imiei genitori sono ancora vivi?» «Tua mamma. Vive a New York. Tuo padre è morto da cinque anni.» Luke provò una pena improvvisa che sembrava scaturire dal nulla. Oltre ad aver perso il ricordo di suo padre, non lo avreb-be mai più rivisto. Gli parve una cosa di una tristezza insop-portabile. «Hai due fratelli e una sorella» continuò Elspeth «tutti più gio-vani. Emily è la tua preferita, ha dieci anni meno di te e vive a Bal-timora.» «Hai i loro numeri di telefono?» «Certo. Aspetta un attimo che li prendo.» «Ho voglia di parlare con loro, non so perché.» Dall'altro capo della linea udì un singhiozzo soffocato. «Stai piangendo?» Elspeth tirò su con il naso. «È tutto a posto.» Immaginò che stesse prendendo il fazzoletto dalla borsa. «All'improvviso ho provato per te una pena immensa» disse lei con voce rotta dal pianto. «Deve essere stato terribile.»

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«Ho avuto dei brutti momenti.» «Aspetta che ti do quei numeri.» Glieli dettò. «Siamo ricchi?» chiese lui, dopo aver preso nota. «Tuo padre era un banchiere di successo. Ti ha lasciato molto denaro. Perché?» «Bill Hide mi ha detto che alloggio nella "solita suite" al Carlton.» «Prima della guerra, tuo padre era un consulente dell'ammini-strazione Roosevelt e quando andava a Washington gli piaceva portare con sé la famiglia. Avevate sempre una suite d'angolo al Carlton. Immagino che tu stia solo continuando la tradizione.» «Quindi tu e io non viviamo dello stipendio che mi passa l'e-sercito.» «No, ma a Huntsville cerchiamo di mantenere uno stile di vita pari a quello dei nostri colleghi.» «Potrei andare avanti un giorno intero a farti domande, ma ciò che voglio davvero scoprire ora è cosa mi è accaduto. Potresti prendere un aereo e venire qui, stasera?» Dall'altra parte ci fu un attimo di silenzio. «Perché?» «Per cercare di chiarire questo mistero insieme a me. Mi fareb-be piacere avere un po' d'aiuto... e anche un po' di compagnia.» «Dovresti lasciar perdere ogni cosa e tornare qui.» Era impensabile. «Non voglio lasciar perdere. Devo scoprire cosa mi è successo, è tutto troppo strano...» «Luke, non posso lasciare Cape Canaveral proprio adesso. Dia-mine, stiamo per lanciare il primo satellite americano! Non posso abbandonare gli altri in un momento come questo.» «Immagino di no.» Comprendeva le ragioni, ma il rifiuto di lei l'addolorò. «Chi è Bern Rothsten?» «Studiava a Harvard con te e Anthony Carroll. Ora fa lo scrit-tore.» «A quanto pare ha cercato di mettersi in contatto con me. Forse lui sa qualcosa di questa storia.» «Chiamami più tardi, d'accordo? Questa sera sarò allo Starlite Motel.» «Okay.» «E fa' attenzione, Luke, ti prego» si raccomandò lei. «Te lo prometto» disse lui, e riattaccò. Rimase seduto in silenzio per un attimo. Si sentiva emotivamen-te svuotato. Da una parte avrebbe voluto andare in albergo a ripo-sarsi, dall'altra era troppo curioso. Riprese in mano il telefono e compose il

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numero lasciato da Bern Rothsten. «Parla Luke Lucas» disse alla risposta. Bern aveva una voce roca che tradiva un leggero accento newyorkese. «Luke! Grazie al cielo! Cosa diavolo ti è successo?» «È quello che mi chiedono tutti. La risposta è che sincera-mente non ne so nulla, a parte il fatto che ho perso la memoria.» «Hai perso la memoria?» «Esatto.» «Oh, merda! E sai come ti è successo?» «No. Speravo che tu potessi darmi qualche indizio.» «Può darsi.» «Perché hai cercato di contattarmi?» «Ero preoccupato. Mi hai chiamato lunedì da Huntsville.» Questo era un elemento nuovo. «Aspetta un minuto. Hai detto da Huntsville?» «Sì.» «Credevo di aver preso un aereo dalla Florida.» «Infatti è così. Ma ti sei fermato a Huntsville perché avevi qualcosa di importante da fare laggiù.» Né Bill Hide né Elspeth avevano fatto parola di questo. Forse non ne erano a conoscenza. «Prosegui.» «Hai detto che saresti venuto qui, che volevi vedermi e che mi avresti chiamato dal Carlton, ma non ti ho più sentito.» «Deve essermi successo qualcosa lunedì notte.» «Già. Ascolta, c'è una persona che dovresti chiamare: la dot-toressa Billie Josephson è un'esperta di memoria a livello mon-diale.» Il nome non gli era del tutto nuovo. «Credo di aver visto un suo libro in biblioteca.» «È anche la mia ex moglie, e una tua vecchia amica.» Bern gli diede il numero di Billie. «La chiamo subito. Senti, Bern...» «Sì?» «Io perdo la memoria ed esce fuori che una mia vecchia amica è un'esperta mondiale del campo. Non è una coincidenza incre-dibile?»

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«Sì, davvero incredibile» convenne Bern.

16.45

Ilsatellite, che costituisce la sezione anteriore dell'ultimo stadio, misura 2 metri di lunghezza, solo 13 centimetri di diametro e pesa 14 chili. La sua forma ricorda quella di un tubo da stufa.

Billie aveva in programma una seduta di un'ora con un pazien-te, un giocatore di football "suonato", cioè rimasto vittima di una commozione cerebrale in seguito allo scontro violento con un av-versario. Era un soggetto interessante perché ricordava tutto quanto era accaduto fino a un'ora prima della partita, e poi più niente fino al momento in cui si era ritrovato sulla linea laterale, lontano dal gioco, chiedendosi come aveva fatto a finire lì. Ma durante l'intera seduta l'attenzione di Billie era altrove: pensare alla Sowerby Foundation e a Anthony Carroll. Quando ebbe finito e riuscì finalmente a chiamare Anthony era sulle, spine. Fu fortunata e lo trovò nel suo ufficio al primo tentativo. «Anthony» chiese senza preamboli «cosa diavolo sta succe-dendo?» «Moltissime cose» rispose lui. «L'Egitto e la Siria hanno deci-so di unirsi, le gonne si accorciano, Roy Campanella si è rotto l'osso del collo in un incidente stradale e potrebbe non giocare mai più con i Dodgers.» Billie represse l'impulso di urlare. «Sono stata scavalcata per il posto di direttore della ricerca, qui in ospedale» disse, sforzan-dosi di mantenere un tono calmo. «Il posto è andato a Len Ross. Lo sapevi?» «Sì, lo sapevo.» «Io non capisco. Pensavo di poter essere superata da qualcuno più qualificato di me, che so... Sol Weinberg, di Princeton, o altri del suo calibro. Ma lo sanno tutti che io sono più brava di Len.» «Proprio tutti?» «Andiamo, Anthony! Lo sai anche tu. Sei stato tu a incorag-giarmi a fare ricerche in questo campo, anni fa, alla fine della guerra, quando...» «Okay, okay, me lo ricordo benissimo» la interruppe lui. «Quel-la storia è ancora top secret, lo sai.» Billie non credeva proprio che quello che avevano fatto duran-te la guerra potesse essere ancora considerato un segreto di Stato, e comunque non aveva importanza. «Allora perché il posto non è andato a me?» «E secondo te io dovrei saperlo?» Era umiliante, ma il bisogno di capire ebbe il sopravvento sul-l'imbarazzo. «La fondazione appoggia

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Len.» «Suppongo che ne abbiano tutti i diritti.» «Anthony, rispondimi!» «Ti ho risposto.» «Tu fai parte della fondazione. È molto insolito che interferi-scano in questo tipo di decisioni. Normalmente le lasciano agli esperti. Devi per forza sapere perché hanno fatto un passo del genere.» «No, non lo so. E credo che la scelta finale non sia ancora stata fatta. Di certo non c'è stata alcuna riunione in proposito... que-sto lo saprei.» «Charles ne era sicuro.» «Purtroppo per te, non sto mettendo in dubbio che sia vero. Ma non è il genere di decisione che viene presa pubblicamente. È più probabile che il presidente e uno o due membri del consiglio di amministrazione ne abbiano parlato al Cosmos Club davanti a un drink. Poi uno di loro ha chiamato Charles e gli ha comunicato la scelta. Lui non può permettersi di contraddirli e ha accettato. È co-sì che vanno queste cose, sono solo sorpreso che Charles sia stato tanto franco con te.» «Era quasi scioccato. Non riesce a capire perché dovrebbero fare una cosa simile. Credevo che tu potessi conoscere il motivo.» «Probabilmente è un motivo stupido. Ross è un tipo tutto casa e famiglia?» «È sposato e ha quattro figli.» «Al presidente non piacciono le donne che guadagnano sti-pendi alti quando ci sono uomini che hanno una famiglia da mantenere.» «Anch'io ho un bambino e una madre anziana da mantenere, perdio!» «Non ho detto che sia anche logico. Senti, Billie, ora devo pro-prio andare. Ti richiamo più tardi.» «Okay.» Billie riattaccò e rimase a fissare il telefono, cercando di analiz-zare le proprie sensazioni. La conversazione non la convinceva del tutto, e si chiese il perché. Era perfettamente plausibile che Anthony potesse non essere a conoscenza delle macchinazioni tra altri membri della fondazione. E allora perché faceva fatica a cre-dergli? Ripensandoci, si rese conto che era stato evasivo, e questo non era da lui. Alla fine le aveva detto quel poco che sapeva, ma con molta riluttanza. Tutto portava a una chiara conclusione. Anthony mentiva.

17.00

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Il quarto e ultimo stadio del missile è costruito in titanio anziché in acciaio inossidabile. Il risparmio in peso fa sì che il vettore possa trasportare un carico extra: poco meno di un chilo di strumentazio-ne scientifica di vitale importanza.

Appena Anthony ebbe riattaccato, il telefono riprese imme-diatamente a squillare. Era Elspeth, sembrava agitata. «Insomma, è un quarto d'ora che sono in attesa!» «Stavo parlando con Billie e...» «Lascia perdere Billie. Ho appena parlato con Luke.» «Oh, Cristo! Come mai?» «Sta' zitto e ascoltami! Era allo Smithsonian, nell'Aircraft Building, insieme a un gruppo di fisici.» «Vado subito.» Anthony mollò il telefono e si precipitò fuori dalla porta. Pete lo vide e gli corse dietro. Scesero nel parcheggio e saltarono a bordo dell'auto di Anthony. Anthony era sbigottito dal fatto che Luke avesse parlato con El-speth. Significava che tutto stava andando a rotoli. Ma forse, se fos-se riuscito a raggiungere Luke prima degli altri, avrebbe ancora potuto recuperare la situazione. Impiegarono quattro minuti per percorrere Independence Avenue e Tenth Street. Lasciarono la macchina davanti all'ingresso posteriore del museo ed entrarono di corsa nel vecchio hangar denominato Aircraft Building. Vicino all'ingresso c'era un telefono pubblico, ma nessuna traccia di Luke. «Separiamoci» disse Anthony. «Io vado a destra, tu a sinistra.» Passò in mezzo agli oggetti esposti, scrutando i volti degli uomi-ni che guardavano dentro le bacheche di vetro o se ne stavano con il naso rivolto all'insù per osservare gli aerei appesi al soffitto. In fondo all'edificio si ricongiunse con Pete, che allargò le braccia in un gesto sconsolato. Su un lato c'erano i servizi igienici e alcuni uffici. Pete con-trollò il bagno degli uomini mentre Anthony guardava negli uffi-ci. Luke doveva aver chiamato da uno di quegli apparecchi, ma ora se n'era andato. «Niente» disse Pete, uscendo dai gabinetti. «È una catastrofe!» esclamò Anthony. Pete aggrottò la fronte. «Una catastrofe?» ripeté. «Allora que-sto tizio è più importante di quanto mi ha detto?» «Sì» rispose Anthony. «Potrebbe essere l'uomo più pericoloso d'America.» «Oh, Cristo.» Anthony vide un leggio portatile e delle sedie accatastate con-tro la parete in fondo. Un giovane in completo di tweed stava parlando con due uomini in tuta da lavoro. Anthony ricordò che Elspeth aveva

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detto che Luke si trovava con un gruppo di fisici. Forse c'era ancora una speranza di trovarlo. Si avvicinò all'uomo vestito di tweed e gli chiese: «Mi scusi, c'è stata una riunione qui?». «Sì. Il professor Larkley ha parlato dei propellenti per missili» rispose il giovane. «Sono Will McDermot. Ho organizzato io la conferenza nell'ambito delle manifestazioni per l'Anno geofisico internazionale.» «Il dottor Claude Lucas era qui?» «Lei è un suo amico?» «Sì. Lei sa che il dottor Lucas ha perso la memoria?» «So solo che non conosceva neppure il suo nome, finché non gliel'ho detto io.» Anthony represse un'imprecazione. Era quello che temeva, Luke aveva scoperto la propria identità. «Ho bisogno di rintracciare immediatamente il dottor Lucas» disse Anthony. «Che peccato, se n'è appena andato.» «Le ha detto dove andava?» «No. Ho cercato di convincerlo a farsi vedere da un dottore, ma ha insistito che si sentiva bene. A me, però, sembrava scioc-cato...» «Certo, capisco. La ringrazio per il suo aiuto.» Anthony girò sui tacchi e si allontanò in fretta. Era furibondo. Una volta uscito su Independence Avenue, vide un'autopattuglia della polizia. Due agenti stavano controllando una macchina parcheggiata sull'altro lato della strada. Anthony si avvicinò e vide che si trattava di una Ford Fairlane blu e bianca. «Guarda» disse a Pete. Controllò il numero di targa: era proprio l'auto che Mrs Sims aveva visto dalla finestra di casa sua a Georgetown. Mostrò agli agenti il tesserino della Cia. «Controllate quest'au-to perché è parcheggiata irregolarmente?» chiese. «No, abbiamo cercato di fermarla con un uomo a bordo in Ninth Street» rispose il più anziano dei due «ma ci è sfuggita.» «Ve lo siete lasciato scappare?» disse Anthony incredulo. «Ha fatto inversione di marcia ed è schizzato via contromano» spiegò il poliziotto più giovane. «Chiunque fosse al volante, è un asso!» «Pochi minuti dopo abbiamo visto la macchina parcheggiata qui, ma l'uomo era scomparso.» Anthony provò la tentazione di sbattere le teste dei due l'una contro l'altra. Invece, si limitò a dire: «Il fuggiasco potrebbe aver rubato un'altra macchina ed essersi allontanato con quella». Prese un biglietto da visita dal portafoglio e lo porse all'agente più anzia-no. «Se venite a sapere di un'auto rubata nelle vicinanze, potete chiamarmi a questo numero, per favore?»

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Il poliziotto lo guardò: «Può contarci, Mr Carroll». Anthony e Pete tornarono alla Cadillac gialla e ripartirono per tornare in ufficio. «Cosa pensa che farà, adesso?» «Non lo so. Potrebbe andare dritto all'aeroporto e prendere un aereo per la Florida; potrebbe andare al Pentagono, oppure al suo albergo. Potrebbe persino decidere di andare a New York per far visita a sua madre. Anche separandoci non saremmo in grado di coprire tutte le possibilità.» Per l'intero tragitto fino al Q Building, Anthony continuò a riflettere in silenzio. Una volta giunti in ufficio, ordinò a Pete: «Voglio due uomini all'aeropor-to, due alla Union Station e due alla stazione degli autobus. Poi voglio che altri due uomini chiamino dall'ufficio familiari, amici e conoscenti di Luke: dobbiamo scoprire se si aspettano una sua visita o se lui si è fatto vivo con loro. Tu vai con due uomini al Carlton Hotel. Prendete una stanza e tenete sotto controllo la hall. Io vi raggiungerò più tardi». Pete uscì e Anthony chiuse la porta. Per la prima volta, quel giorno, ebbe paura. Ora che Luke conosceva la propria identità, non si poteva sapere cos'altro sarebbe stato capace di scoprire. Quell'operazione avrebbe potu-to essere il suo maggior trionfo, ma si stava trasformando in un disastro in grado di mettere fine alla sua carriera. Anzi, alla sua vita. Se fosse riuscito a trovare Luke era ancora possibile recuperare la situazione. Ma avrebbe dovuto ricorrere a misure drastiche. Non poteva più limitarsi a tenerlo sotto sorveglianza: doveva risol-vere il problema una volta per tutte. Scuro in volto, andò al ritratto del presidente Eisenhower appe-so alla parete. Tirò un lato della cornice e la fotografia ruotò su dei perni, rivelando una cassaforte. Impostò la combinazione, aprì lo sportello ed estrasse una pistola. Era una Walther P38, in uso nell'esercito tedesco durante la se-conda guerra mondiale. Anthony l'aveva ricevuta in dotazione pri-ma di andare in Nord Africa. Possedeva anche un silenziatore espressamente progettato dall'Oss. La prima volta che aveva ucciso un uomo era stato proprio con quell'arma. Albin Moulier era un traditore che aveva consegnato alla poli-zia parecchi membri della Resistenza francese. Meritava di mori-re, su questo i cinque uomini della cellula erano tutti d'accordo. Una notte, in una stalla abbandonata, illuminata da una sola lam-pada che proiettava ombre irrequiete sulle pareti di pietra grez-za, avevano tirato a sorte. Essendo l'unico straniero, Anthony avrebbe potuto essere esonerato, ma in quel modo avrebbe perso la stima degli altri e così insistette per partecipare al sorteggio. Gli toccò la pagliuzza più corta. Albin venne legato alla ruota arrugginita di un aratro fuori uso, non fu neppure bendato; ascoltò la discussione e assistette al sor-teggio. Quando li udì pronunciare la sua condanna a morte se la fece addosso, e vedendo Anthony estrarre la Walther si mise a gri-dare. Le urla resero la cosa più facile a Anthony: voleva solo ucci-derlo alla svelta, per far cessare quel rumore. Gli sparò a bruciape-lo in mezzo agli occhi, un colpo solo. Dopo, gli altri gli dissero che aveva agito bene, senza esitazione né ripensamenti, come un vero uomo.

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Vedeva ancora Albin, in sogno. Prese il silenziatore dalla cassaforte, lo avvitò alla canna della pi-stola e strinse con forza. Indossò il cappotto di cammello. Era lun-go, a un petto solo, con tasche profonde. Infilò la pistola nella de-stra con l'impugnatura rivolta verso il basso e il silenziatore all'insù. Con il cappotto sbottonato, infilò la mano sinistra nella tasca, estrasse la pistola afferrandola per il silenziatore, e la trasferì nella mano destra. Quindi girò la levetta a sinistra sotto il carrello per to-gliere la sicura. L'intera operazione richiese circa un secondo. Il si-lenziatore rendeva l'arma ingombrante e sarebbe stato più comodo portarlo separato, ma poteva non avere il tempo di inserirlo. In que-sto modo era più sicuro. Si abbottonò il cappotto e uscì.

18.00

Ilsatellite ha la forma di un proiettile. In teoria una sfera sarebbe risultata più stabile ma, in pratica, un satellite ha bisogno di anten-ne per le comunicazioni radio e queste, protendendosi verso l'e-sterno, annullano i benefici della forma sferica.

Luke prese un taxi e si fece portare al Georgetown Mind Hospi-tal. All'accettazione diede il proprio nome e disse che aveva un ap-puntamento con la dottoressa Josephson. Al telefono era stata molto affettuosa: si era dimostrata molto preoccupata per lui e contenta di sentirlo. Gli aveva detto di esse-re curiosa di conoscere i fatti e anche ansiosa di incontrarlo al più presto. Parlava con la cadenza del Sud, e sembrava che nella sua voce fosse sempre in agguato una risata. La guardò scendere le scale di corsa, una donna bassa di statura in camice bianco, con grandi occhi marrone e un'espressione ecci-tata sul viso. Luke non poté fare a meno di sorridere. «Che bello vederti!» esclamò lei, abbracciandolo. Luke provò l'impulso di contraccambiare con altrettanta espansività ma, temendo che questo potesse in qualche modo offenderla, si bloccò di colpo e restò con le braccia alzate come la vittima di una rapina. «Non ricordi come sono fatta» disse Billie ridendo di cuore. «Rilassati, sono quasi innocua.» Luke le circondò le spalle: il corpo minuto della donna era morbido e arrotondato sotto il camice. «Vieni, ti mostro il mio ufficio» fece lei, e lo guidò su per le scale. Mentre attraversavano un ampio corridoio incrociarono una donna con i capelli bianchi avvolta in una vestaglia. «Dottoressa! Che bel ragazzo che hai!» Billie rise. «Poi te lo passo, Marlene.»

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L'ufficio era una piccola stanza con una scrivania semplice e un archivio di metallo, ma Billie l'aveva abbellito con dei fiori e un dipinto astratto dai colori sgargianti. Offrì a Luke del caffè e aprì una scatola di biscotti, poi cominciò a fargli domande sulla sua amnesia. Mentre lui rispondeva, lei prendeva appunti. Luke, che non mangiava da dodici ore, divorò tutti i biscotti. «Ne vuoi ancora?» chiese Billie sorridendo. «Ce n'è un altro pacchetto.» Luke rifiutò scuotendo la testa. «Il quadro è abbastanza chiaro» disse lei infine. «Soffri di un'amnesia globale, ma per il resto mi sembri perfettamente sano. Parlo della salute mentale, non di quella fisica, perché quel-la non sono in grado di valutarla e, anzi, ti consiglio di farti visi-tare appena possibile. Ma mi pare che tu sia a posto, sei solo un po' scosso.» «Esiste una cura per questo tipo di amnesia?» «No, e generalmente il processo è irreversibile.» Per Luke fu un duro colpo. Aveva sperato che tutto gli sareb-be tornato alla mente in un lampo. «Maledizione» mormorò. «Non ti scoraggiare» lo confortò Billie con dolcezza. «Chi sof-fre di questo tipo di amnesia conserva tutte le altre facoltà inalte-rate ed è in grado di apprendere nuovamente ciò che ha dimen-ticato; di solito riesce a tornare a una vita normale. Si aggiusterà tutto, vedrai.» Persino mentre gli comunicava quella notizia terribile, Luke si scoprì a guardarla affascinato, concentrato prima sui suoi occhi, poi sulla bocca espressiva, quindi sui riccioli neri illuminati dalla lampada sul tavolo. Avrebbe voluto che lei andasse avanti a par-largli all'infinito. «Cosa può aver causato questa amnesia?» le chiese. «La prima ipotesi da prendere in considerazione è un danno al cervello. Ma non c'è traccia di ferite, e mi hai appena conferma-to che non hai mal di testa.» «Esatto. Cos'altro?» «Ci sono parecchie altre alternative» spiegò lei con tono paziente. «Potrebbe essere stata causata da uno stress prolunga-to, da uno choc improvviso o da farmaci. L'amnesia è anche un effetto collaterale di alcuni trattamenti per la schizofrenia che prevedono una combinazione di elettroshock e terapie farmaco-logiche.» «C'è modo di capire qual è stata la causa nel mio caso?» «Non con sicurezza. Hai detto che questa mattina soffrivi dei postumi di una sbornia? Se non hai bevuto, potrebbe trattarsi degli effetti collaterali di un farmaco. Ma non è parlando con i medi-ci che troverai una risposta certa. Devi scoprire cosa ti è accaduto tra ieri sera e questa mattina.» «Be', se non altro so cosa devo cercare» osservò lui, amaro. «Choc, droghe, trattamenti contro la schizofrenia.» «Tu non sei schizofrenico» disse Billie. «Hai un'ottima perce-zione della realtà. Cosa pensi di fare, ora?» Luke si alzò. Era riluttante a rinunciare alla compagnia di quella donna affascinante, ma ormai lei gli

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aveva detto tutto quello che poteva. «Andrò a parlare con Bern Rothsten. Credo che lui possa fornirmi qualche elemento utile.» «Hai la macchina?» «Ho chiesto al taxi di aspettare.» «Ti accompagno.» Mentre scendevano le scale, Billie lo prese a braccetto con gesto affettuoso. «Da quanto sei divorziata da Bern?» chiese Luke. «Cinque anni. Quel tanto che basta per tornare a essere amici.» «So che è una domanda strana, ma devo proprio fartela. Tu e io siamo mai usciti insieme?» «Se siamo usciti insieme?» fece Billie. «Altroché!»

1943

Il giorno in cui l'Italia si arrese, Billie si imbatté per caso in Luke nell'atrio del Q Building. Sulle prime, non vi fece caso. Vide un uomo molto magro apparentemente sulla trentina, con un abito di almeno due taglie più grande, e tirò dritto. Poi si sentì chiamare: «Billie? Non ti ricordi di me?». Subito riconobbe la voce e il cuore prese a batterle forte. Ma quando tornò a posare lo sguardo sull'uomo emaciato che aveva pronunciato quelle parole, si lasciò sfuggire un piccolo urlo. La sua testa assomigliava a un teschio.Icapelli, un tempo bellissimi, avevano perso ogni lucentezza. Il colletto della camicia era troppo largo e la giacca pareva appesa a un attaccapanni. Gli occhi erano quelli di un vecchio. «Luke!» esclamò «hai un aspetto terribile!» «Ehi, grazie mille» rispose lui con un sorriso stanco. «Scusami» si affrettò ad aggiungere lei. «Non ti scusare. Sono dimagrito, lo so. Dov'ero io non c'era molto da mangiare.» Billie avrebbe voluto abbracciarlo, ma sì trattenne non sapen-do se lui l'avrebbe gradito o meno. «Cosa ci fai qui?» le chiese. Billie fece un respiro profondo. «Un corso di addestramento: cartografia, trasmissioni radio, armi da fuoco, combattimento a mani nude.» «Non è il vestito adatto per il ju-jitsu» osservò lui, sorridendo.

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A Billie piaceva vestirsi alla moda, nonostante la guerra. Quel giorno indossava un tailleur giallo pallido, composto da un giac-chino corto a bolero e una gonna audace che le arrivava alle ginoc-chia, e un grande cappello che ricordava un piatto rovesciato. La paga dell'esercito non le permetteva di comperare abiti all'ultima moda, ovviamente, e quella mise l'aveva confezionata da sé con una macchina per cucire presa a prestito. Suo padre aveva insegna-to a cucire a tutti i suoi figli. «Lo considero un complimento» disse lei con un sorriso, riprendendosi dallo choc. «Dove sei stato?» «Hai un minuto per me?» «Certo.» Doveva andare a una lezione di crittografia, ma al diavolo. «Vieni, usciamo.» Era un caldo pomeriggio di settembre. Mentre passeggiavano accanto al bacino della Reflecting Pool, Luke si tolse la giacca e se la gettò su una spalla. «Come mai sei nell'Oss?» «Ha fatto tutto Anthony Carroll» rispose lei. L'Oss era consi-derato una destinazione d'élite e gli incarichi erano molto ambi-ti. «Anthony ha usato l'influenza della sua famiglia per entrare. Ora è l'assistente personale di Bill Donovan.» Il generale "Wild Bill" Donovan era il capo dell'Oss. «Da un anno portavo un generale in giro per Washington, e mi ha fatto un enorme piace-re essere distaccata qui. Anthony ha sfruttato le sue conoscenze per far entrare tutti i suoi vecchi amici di Harvard. Elspeth è a Londra, Peg al Cairo, e mi pare di capire che tu e Bern siete stati da qualche parte dietro le linee nemiche.» «In Francia» precisò Luke. «Com'è stato?» Luke si accese una sigaretta. Era un'abitudine nuova: ai tempi di Harvard non fumava, ora, invece, inspirava il fumo come se fosse l'alito della vita. «Il primo uomo che ho ucciso era un fran-cese» se ne uscì lui all'improvviso. Era evidente che aveva bisogno di parlarne. «Raccontami cosa è successo» disse Billie. «Era un poliziotto, un gendarme. Si chiamava Claude, come me. Non era un cattivo soggetto... antisemita, sì, ma non peggio di tanti altri francesi, o americani, se è per questo. Capitò per caso nella fattoria in cui ero riunito con il mio gruppo. Non c'e-rano dubbi su cosa stessimo facendo: avevamo delle cartine sul tavolo e dei fucili appoggiati in un angolo, e Bern stava mostran-do ai francesi come collegare una bomba a orologeria.» Luke fece una risata strana, priva di sentimento. «Quello stupido voleva arrestarci tutti. Non che avrebbe fatto qualche differenza. Dove-vamo ucciderlo in ogni caso, qualunque fosse stata la sua reazio-ne.» «E tu cos'hai fatto?» sussurrò Billie. «L'ho portato fuori e gli ho sparato alla nuca.» «Oh, mio Dio.» «Non è morto subito. Ci ha messo più o meno un minuto.» Billie gli prese la mano e gliela strinse. Lui ricambiò la stretta e continuarono a camminare mano nella

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mano tutto intorno allo specchio d'acqua lungo e stretto. Lui le raccontò un'altra storia, di una partigiana caduta nelle mani della Gestapo e torturata, e Billie pianse, con le lacrime che le rigavano le guance e brillava-no sotto il sole settembrino. Il pomeriggio si fece più fresco men-tre Luke proseguiva con i suoi orribili resoconti: auto fatte salta-re in aria, ufficiali tedeschi assassinati, compagni della Resistenza uccisi in combattimento, intere famiglie ebree deportate verso destinazioni ignote. Camminavano ormai da due ore quando lui incespicò e Billie dovette sorreggerlo perché non cadesse. «Gesù, come sono stan-co!» disse lui. «Sono secoli che dormo male.» Billie fermò un taxi e lo accompagnò al suo hotel. Alloggiava al Carlton. Solitamente l'esercito non arrivava a simili lussi, ma Billie rammentò che Luke proveniva da una fami-glia ricca. Aveva una suite d'angolo. C'era un pianoforte a coda in soggiorno e cosa che non aveva mai visto prima - una deri-vazione telefonica in bagno. Billie chiamò il servizio in camera e ordinò brodo di pollo, uova strapazzate, panini e del latte freddo. Luke sedette sul divano e co-minciò a raccontarle un'altra storia, una storia divertente, questa volta, di un sabotaggio a una fabbrica che produceva gavette per l'esercito tedesco. «Feci irruzione nello stabilimento e vi trovai una cinquantina di donne enormi, muscolose, che caricavano la forna-ce e pestavano sugli stampi. "Evacuate l'edificio! Lo facciamo sal-tare in aria!" urlai, ma quelle mi prendevano in giro. Si rifiutavano di andarsene e continuarono a lavorare. Non mi credevano!» Pri-ma che potesse finire il racconto, arrivò il cibo. Billie firmò il conto, diede la mancia al cameriere e posò i piat-ti sul tavolo. Quando si voltò, Luke si era già addormentato. Lo svegliò per accompagnarlo in camera e lo aiutò a infilarsi a letto. «Non te ne andare» mormorò lui, mezzo addormentato, e richiuse gli occhi. Billie gli tolse le scarpe e gli allentò delicatamente la cravatta. Dalla finestra aperta entrava una dolce brezza: non c'era bisogno di coperte. Sedette sul bordo del letto e rimase a osservarlo per un po', ri-pensando al lungo viaggio da Cambridge a Newport, quasi due an-ni prima. Gli sfiorò la guancia con la parte esterna del mignolo, proprio come aveva fatto quella notte. Lui non si mosse. Billie si tolse cappello e scarpe, poi, dopo un attimo di riflessio-ne, si levò anche giacca e gonna; quindi, in calze e sottoveste si sdraiò sul letto, circondandogli con le braccia le spalle ossute. Poi attirò la testa di lui sul suo seno, e lo tenne stretto. «Va tutto bene» gli disse. «Dormi fin che vuoi. Quando ti svegli, io sarò ancora qui.»

Venne la notte. La temperatura scese. Billie chiuse la finestra e tirò su il lenzuolo. Poco dopo mezzanotte si addormentò anche lei, sempre tenendolo tra le braccia. All'alba, dopo dodici ore di sonno, Luke si alzò di scatto per andare in bagno. Un paio di minuti dopo tornò e si rinfilò a letto. Si era tolto il vestito e la camicia e indossava solo gli slip. L'ab-bracciò e la tenne stretta. «C'è una cosa che ho dimenticato di dirti, una cosa molto importante» disse. «Cosa?»

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«In Francia non ho fatto altro che pensare a te. Ogni giorno.» «Davvero?» chiese lei con un sussurro. «Davvero?» Ma Luke non rispose. Si era riaddormentato. Billie rimase a letto, abbracciata a lui. In Francia aveva rischia-to la vita e pensato a lei: era così felice che si sentiva scoppiare il cuore. Alle otto andò nel soggiorno della suite, chiamò il Q Building e avvertì che non si sentiva bene. Era il primo giorno di malattia in più di un anno di lavoro nell'esercito. Fece un bagno, si lavò i capelli e si rivestì. Poi ordinò caffè e fiocchi di cereali. Il came-riere la chiamò Mrs Lucas e Billie fu contenta che non fosse venu-ta una cameriera: una donna avrebbe subito notato che lei non portava la fede al dito. Pensava che il profumo del caffè lo avrebbe svegliato, ma non fu così. Billie lesse il "Washington Post" da cima a fondo, pagine sportive comprese. Stava scrivendo una lettera a sua madre a Dal-las sulla carta intestata dell'albergo, quando Luke uscì barcollando dalla stanza. Era ancora in mutande, con i capelli arruffati e la bar-ba lunga. Billie gli sorrise. «Quanto ho dormito?» Sembrava confuso. Lei guardò l'orologio. Era quasi mezzogiorno. «Circa diciotto ore» rispose. Non avrebbe saputo dire cosa stesse pensando. Era contento di trovarla lì? Imbarazzato? Forse desiderava che se ne andasse? «Dio!» esclamò. «Era un anno che non dormivo così tanto.» Si stropicciò gli occhi. «Sei rimasta qui tutto il tempo? Mi sembri fresca come una rosa.» «Ho fatto un pisolino.» «Sei rimasta qui tutta la notte?» «Me lo hai chiesto tu.» Lui aggrottò la fronte. «Mi sembra di ricordare...» Scosse la testa. «Ragazzi, ho fatto certi sogni...» Andò al telefono. «Servizio in camera? Vorrei una bistecca con tre uova all'occhio di bue. E del succo d'arancia, caffè e pane tostato.» Billie era perplessa. Non aveva mai passato la notte con un uo-mo e non sapeva cosa aspettarsi al risveglio, ma questo la deluse. Il tutto era così poco romantico che si sentì quasi insultata. Le ricor-dava quando i suoi fratelli si svegliavano: anche loro si presentava-no con la barba lunga, di cattivo umore e affamati. Solitamente, però, dopo una buona colazione miglioravano. «Un attimo» disse Luke al telefono. Guardò Billie. «Desideri qualcosa?» «Sì, del tè freddo.» Luke ripeté la richiesta e riattaccò. Si sedette sul divano accanto a lei. «Ho parlato un sacco, ieri.»

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«Gran verità.» «Per quanto?» «Cinque ore di fila, più o meno.» «Scusami.» «Non ti scusare. Fa' quello che vuoi, ma non ti scusare.» Le salirono le lacrime agli occhi. «Non lo dimenticherò finché vivo.» Lui le prese le mani. «Sono così felice che ci siamo di nuovo incontrati...» Il cuore di Billie fece un balzo. «Anch'io.» Questo era un po' più vicino a ciò che avrebbe desiderato. «Vorrei baciarti, ma sono ventiquattr'ore che non mi lavo.» Billie provò un'emozione improvvisa dentro, come una molla che si rompe, poi avvertì una sensazione come di bagnato. Rima-se scioccata: non le era mai successo così, prima di allora. Ma si trattenne. Non aveva ancora deciso fin dove spingersi. Aveva avuto tutta la notte per prendere una decisione, ma non ci aveva neppure pensato. Ora temeva che, se lui l'avesse anche solo sfiorata, avrebbe perso il controllo. E poi? La guerra aveva portato un nuovo clima di libertà sessuale a Washington, ma lei non si sentiva coinvolta. Strinse le mani posa-te in grembo e disse: «Non ti azzardare a baciarmi finché non ti sarai vestito». Lui le rivolse un'occhiata scettica. «Hai paura di compromet-terti?» Billie trasalì per il tono ironico della sua voce. «Cosa intendi dire?» Lui si strinse nelle spalle. «In fondo abbiamo passato la notte insieme.» Billie si sentì offesa e indignata. «Sono rimasta perché tu mi hai pregato di farlo!» protestò. «D'accordo, d'accordo. Non ti arrabbiare.» In pochi secondi il desiderio che aveva provato per lui si era tra-sformato in una rabbia altrettanto dirompente. «Eri così stanco che non riuscivi neppure a stare in piedi e io ti ho messo a letto» continuò lei, furiosa. «Poi mi hai chiesto di non andarmene e così sono restata.» «Ti ringrazio.» «E allora non mi parlare come se mi fossi comportata da... da prostituta!» «Non era questo che intendevo.» «E invece sì!» Luke fece un profondo sospiro. «Non volevo assolutamente di-re quello. Gesù, stai facendo una questione di stato per una sem-plice osservazione spontanea.»

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«Troppo spontanea» ribatté lei. Il problema era che si era effettivamente compromessa. Bussarono alla porta. Si guardarono. «Sarà il servizio in camera» disse Luke. Billie non voleva farsi vedere con un uomo svestito. «Va' in camera da letto.» «Okay.» «Prima dammi il tuo anello.» Luke abbassò lo sguardo sull'anello del college che portava al mignolo della mano sinistra. «Perché?» «Così il cameriere penserà che siamo sposati.» «Ma non me lo tolgo mai!» Questo la fece infuriare ancora di più. «Sparisci!» sibilò. Lui si ritirò nella stanza da letto. Billie andò ad aprire la porta: una cameriera portò dentro il carrello con le ordinazioni. «Ecco qui, signorina» disse. Billie arrossì fino alla radice dei capelli. Quel "signorina" le suo-nava come un insulto. Firmò il conto ma non lasciò alcuna mancia. «Ecco fatto.» E voltò le spalle alla ragazza. La cameriera se ne andò. Billie sentiva scrosciare l'acqua nella doccia. Era esausta. Aveva passato lunghe ore in preda a una profonda illusione romantica e, in pochi minuti, tutto si era concluso nel peggiore dei modi. Luke, solitamente così gentile, si era trasformato in un orso. Come potevano succedere cose simili? Qualunque fosse la ragione, lui l'aveva fatta sentire una sgual-drina. Di lì a poco sarebbe uscito dal bagno, pronto a sedersi per fare colazione come se fossero una coppia sposata. Però non lo erano, e lei si sentiva sempre più a disagio. Be', pensò, se non mi va come mai sono ancora qui? Si mise il cappello. Era meglio andarsene con quel poco di dignità che ancora le restava. Pensò di lasciargli un biglietto, ma in quel momento il rumore dell'acqua cessò. Lui stava per arrivare, profumato di sapone, avvolto nell'accappatoio, i capelli bagnati e i piedi scalzi, così bello da mangiarselo. No, non c'era tempo per un biglietto. Uscì dalla suite, chiudendosi la porta alle spalle senza far rumore.

Nelle quattro settimane seguenti si videro quasi ogni giorno. Luke prima passava al Q Building per i suoi quotidiani rap-porti sull'attività svolta dietro le linee nemiche,

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poi, all'ora di pranzo, veniva a cercarla per andare insieme alla caffetteria, oppure prendevano dei sandwich per mangiarli nel parco.Isuoi modi tornarono a essere quelli rilassati e cortesi di sempre, e lei cominciò a sentirsi di nuovo rispettata e apprezzata. Il ran-core per il suo atteggiamento al Carlton si placò. Probabilmen-te, pensava Billie, neppure lui aveva mai passato la notte con un'amante e non sapeva bene in che modo comportarsi. L'ave-va trattata con spontaneità, come avrebbe potuto trattare sua sorella... e forse sua sorella era l'unica ragazza ad averlo mai visto in mutande. Alla fine della prima settimana Luke le aveva chiesto un appuntamento e il sabato sera erano andati a vedere L'ombra del dubbio. La città era affollata di giovani diretti al fronte o che tor-navano a casa per una licenza, ragazzi per i quali la morte violen-ta era un evento quotidiano. Avevano voglia di bere, ballale e fare l'amore, perché quella poteva essere l'ultima volta.Ibar erano gremiti, e in città non c'era una sola ragazza costretta a passare la serata da sola. Gli Alleati stavano vincendo la guerra, ma l'esul-tanza era quotidianamente incrinata dalle notizie di vicini di casa, parenti e compagni di università uccisi o feriti al fronte. Luke cominciò a mettere su peso e a dormire meglio; sparito lo sguardo tormentato, ritrovò un poco della sua espressione fan-ciullesca. Acquistò abiti della taglia giusta, camicie con le maniche corte e pantaloni bianchi, e un completo blu scuro che indossava per uscire con lei la sera. Parlavano sempre. Lei gli spiegava come lo studio della psico-logia umana avrebbe finito per eliminare le malattie mentali, lui le raccontava come l'uomo avrebbe potuto arrivare sulla luna. Ricordarono quel fatidico weekend a Harvard che aveva cambia-to le loro vite. Discutevano della guerra e di quando sarebbe fini-ta: Billie pensava che i tedeschi non avrebbero potuto resistere ancora per molto, ora che l'Italia era caduta, ma Luke era convinto che ci sarebbero voluti ancora anni per scacciare i giappo-nesi dal Pacifico. A volte uscivano insieme a Anthony e Bern, discutevano di politica nei bar, proprio come avevano fatto quan-do erano tutti insieme all'università, in un altro mondo. Un fine settimana Luke volò a New York per andare a trovare la sua fami-glia, e Billie sentì così tanto la sua mancanza da star male. Non si stancava mai di lui. Era impossibile annoiarsi con un ragazzo così premuroso, simpatico, intelligente. Almeno due volte la settimana facevano grandi litigate, e le modalità erano sempre le stesse di quella loro prima lite nella suite del Carlton. Lui diceva qualcosa di presuntuoso o prendeva una decisione sul programma della serata senza prima consultarla, o magari dava per scontato di saperne più di lei su un determinato argomento: radio, automobili, tennis. Billie si ribellava subito, e Luke l'accusava di reagire in modo eccessivo. Lei allora si arrab-biava ancora di più nel tentativo di fargli capire che il suo atteg-giamento era sbagliato e lui cominciava a sentirsi come un testi-mone ostile in un controinterrogatorio. Nella foga della discussio-ne, Billie finiva sempre per esagerare, facendogli qualche accusa irragionevole. Allora Luke si lamentava che non era sincera, che non aveva senso discutere con lei perché era pronta a dire qual-siasi cosa pur di averla vinta, dopo di che se ne andava, persuaso di essere nel giusto. Nel giro di pochi minuti Billie era disperata: lo andava a cercare, lo implorava di perdonarla e di fare la pace. Sulle prime lui restava indifferente; poi lei diceva qualcosa che lo faceva ridere e allora si scioglieva. In tutto quel periodo, però, Billie non andò più al suo albergo, e quando lo baciava si trattava sempre di un bacio casto e sem-pre in un luogo pubblico. Anche così, comunque, ogni volta che lo toccava, lei sentiva quella sensazione liquida dentro di sé e sapeva che non avrebbe più potuto continuare così, senza anda-re fino in fondo. Il caldo settembre si trasformò in un freddo ottobre, e a Luke venne comunicata la sua nuova destinazione.

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La notizia arrivò un venerdì pomeriggio. Uscendo dal lavoro, Billie trovò Luke che l'aspettava nell'atrio del Q Building. Capì subito dal suo volto che era successo qualcosa di brutto. «Cosa c'è?» gli chiese. «Devo tornare in Francia.» «Quando?» chiese lei, sgomenta. «Partirò lunedì mattina da Washington. Anche Bern.» «Ma non hai già fatto la tua parte?» «Non ho paura del pericolo» disse lui. «È solo che non voglio lasciarti.» Gli occhi di Billie si riempirono di lacrime. «Due giorni...» mormorò lei, cercando di vincere il nodo che le serrava la gola. «Devo fare i bagagli.» «Ti do una mano.» Andarono al suo albergo. Come furono nella stanza lei lo afferrò per il maglione, lo attirò a sé e sollevò il viso perché lui la baciasse. Questa volta non ci fu nulla di casto. Billie fece correre la punta della lingua lungo le sue labbra, e poi aprì la bocca per lasciarlo entrare. Si tolse il soprabito. Indossava un vestito a righe verticali blu e bianche con un colletto bianco. «Toccami il seno» gli ordinò. Lui parve sorpreso. «Ti prego» lo implorò. Le mani di lui si strinsero sui suoi piccoli seni e lei chiuse gli occhi abbandonandosi a quella sensazione. Si separarono e lei lo guardò con intensità, cercando di memo-rizzare il suo volto. Non avrebbe scordato mai l'azzurro dei suoi occhi, il ciuffo di capelli scuri che gli ricadeva sulla fronte, la linea della mascella, le labbra grandi e morbide. «Voglio una tua foto-grafia» gli disse. «Ne hai una da darmi?» «Non vado in giro con le mie foto» fece lui ridendo, e poi aggiunse con accento newyorkese: «Chi credi che sia, Frank Sinatra?». «Devi pur averne una.» «Potrei avere una foto con i miei. Aspetta che guardo» disse, e andò in camera da letto. Lei lo seguì. La vecchia valigia di pelle marrone era posata sul cavalletto dove, immaginò Billie, era rimasta per quattro settimane. Luke prese una cornice d'argento che si apriva come un libriccino. Dentro c'erano due fotografie, una per lato. Ne estrasse una e gliela porse.

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Era stata scattata tre o quattro anni prima e ritraeva un Luke più giovane e in carne con una maglietta polo. Con lui c'erano un uomo e una donna, i suoi genitori presumibilmente, due gemelli sui quindici anni e una bambina, tutti in tenuta da spiaggia. «Non posso prendere questa, è la foto della tua famiglia» disse lei, pur desiderandola moltissimo. «Voglio che tu la prenda. Sono io, e io faccio parte della mia famiglia.» Era per questo che le piaceva. «L'hai portata in Francia con te?» «Sì.» Doveva essere importante, per lui, e Billie quasi non se la sentiva di portargliela via, ma era proprio questo che gliela rendeva an-cora più preziosa. «Fammi vedere l'altra» disse. «Cosa?» «Ci sono due foto nella cornice.» Seppure con una certa riluttanza, Luke l'aprì. La seconda foto era stata ritagliata dall'annuario della Radcliffe. Era una foto di Billie. «Hai portato anche questa in Francia?» gli chiese. Quasi non riusciva a respirare, tanto si sentiva la gola stretta. «Sì.» Billie non riuscì più a controllarsi e scoppiò a piangere. Luke aveva ritagliato la foto dall'annuario e l'aveva portata con sé, insieme a quella della sua famiglia, per tutto il tempo in cui la sua vita era stata in pericolo. Non sapeva di essere così importante per lui. «Perché piangi?» chiese Luke. «Perché tu mi ami» rispose Billie. «È vero» ammise lui. «Avevo paura di dirtelo. Ti amo fin dal weekend di Pearl Harbor.» La sua passione si trasformò in collera. «Come puoi dire una cosa simile, bastardo, se mi hai lasciata?» «Se fossimo diventati amanti allora, Anthony non avrebbe retto al dolore.» «Al diavolo Anthony!» Lo colpì con il pugno sul petto, ma lui non parve neppure accorgersene. «Come hai potuto anteporre la felicità di Anthony alla mia, brutto figlio di puttana?» «Non sarebbe stato onesto.» «Ma non lo capisci? Avremmo potuto avere due anni tutti per noi!» esclamò Billie con le guance rigate di lacrime. «E ora abbia-mo soltanto due giorni... due miserabili giorni!» «Allora smettila di piangere e baciami» disse lui.

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Billie gli circondò il collo con le braccia e attirò il suo viso verso il basso. Le sue lacrime si fecero strada tra le loro labbra. Lui cominciò a slacciarle il vestito. «Strappalo» gli ordinò lei, impaziente. Lui tirò forte, facendo saltare i bottoni fino alla vita. Un altro strattone, e lo aprì del tutto. Billie lo fece scivolare giù dalle spalle e rimase in mutandine e calze. «Sei sicura di volerlo?» le chiese lui con solennità. Per un attimo lei ebbe paura che Luke si facesse inibire da scrupoli morali. «Devo farlo, devo! Non fermarti, te ne prego!» Lui la spinse dolcemente sul letto e si sdraiò su di lei, reggen-dosi sui gomiti. «Non l'ho mai fatto» le confessò, guardandola negli occhi. «Non ti preoccupare» rispose lei. «Neanch'io.» La prima volta finì in fretta, ma dopo un'ora lo fecero di nuovo e durò più a lungo. Lei gli disse che voleva offrirgli tutto, dargli ogni piacere di cui lui avesse mai fantasticato, compiere ogni pos-sibile atto di intimità. Fecero l'amore per tutto il weekend, pazzi di desiderio e di dolore, consapevoli che quella avrebbe potuto essere la loro ultima volta insieme. Quando Luke partì, il lunedì, Billie pianse per due giorni. Otto settimane dopo scoprì di essere incinta.

18.30

Gli scienziati possono solo cercare di prevedere le massime varia-zioni di temperatura cui il satellite sarà sottoposto spostandosi dalla zona d'ombra proiettata dalla terra al bagliore accecante del sole senza la protezione dell'atmosfera. Nel tentativo di mitigare gli effetti di questa esposizione, il satellite è stato parzialmente dipin-to con strisce bianche di ossido di alluminio per riflettere i raggi roventi del sole ed è stato rivestito internamente con uno strato iso-lante di lana di vetro per tenere lontano il gelo assoluto dello spa-zio.

«Sì, siamo usciti insieme» disse Billie mentre scendevano le scale. Luke aveva la bocca asciutta. Immaginò di tenerla per mano, di osservare il suo viso a lume di candela, di baciarla, di guardarla mentre si spogliava. Provava un senso di colpa, sapendo di avere una moglie, ma non riusciva a ricordarla, mentre Billie era lì, ac-canto a lui, con il suo profumo di fresco, che gli parlava tutta ani-mata e gli sorrideva. Giunti alla porta dell'edificio si fermarono. «Eravamo innamo-rati?» chiese Luke, guardandola attentamente, studiandone l'e-spressione. Fino a quel momento il viso di Billie era stato facile da leggere, ma ora, all'improvviso, era come se il libro si fosse chiuso, lasciando in vista solo una copertina incolore.

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«Oh, certo» rispose lei e, nonostante il tono incurante, Luke avvertì una tensione nella sua voce. «Per me eri l'unico uomo sulla terra.» Come poteva essersi lasciato sfuggire una donna come quella? Sembrava una tragedia peggiore della perdita completa della me-moria. «Ma poi hai cambiato idea.» «Sono cresciuta abbastanza da capire che il principe azzurro non esiste; ci sono solo uomini con più o meno difetti. A volte in-dossano un'armatura lucente, che però, inevitabilmente, ha sem-pre qualche macchia di ruggine.» Luke avrebbe voluto sapere tutto, ogni singolo dettaglio, ma erano troppe domande. «Così hai sposato Bern.» «Sì.» «Com'è?» «In gamba. Tutti i miei uomini devono essere molto intelligen-ti, altrimenti mi annoio. E anche forti... abbastanza da tenermi testa.» Gli rivolse un sorriso generoso. «Cosa è andato storto?» chiese Luke. «Abbiamo avuto un conflitto di valori. So che sembra un'a-strazione, ma Bern ha rischiato la vita per la causa della libertà in due conflitti, la guerra civile spagnola e la seconda guerra mon-diale. Per lui la fede politica è più importante di qualsiasi altra cosa.» C'era una domanda che Luke voleva farle più di ogni altra, però non riusciva a trovare un modo delicato e indiretto per porla e così chiese, a bruciapelo: «Hai qualcuno, ora?». «Certo, si chiama Harold Brodsky.» Luke si sentì uno stupido. Ovvio che aveva qualcuno. Era una splendida divorziata sui trentacinque: gli uomini dovevano fare la fila per chiederle di uscire. «È un principe azzurro?» chiese con un sorriso mesto. «No, ma è intelligente, mi fa ridere e mi adora.» Luke provò una fitta di invidia. Fortunato Harold, pensò. «E suppongo che lui condivida i tuoi valori.» «Sì. La cosa più importante della sua vita è il figlio, lui è vedo-vo, e dopo viene il suo lavoro.» «Che sarebbe?» «È docente di chimica. E io ho lo stesso atteggiamento nei con-fronti del mio lavoro.» Sorrise. «Sarò disincantata per quanto riguarda gli uomini, ma sogno ancora di sciogliere i misteri della mente umana.» Questo lo riportò al problema contingente. Fu come un colpo a sorpresa, scioccante e doloroso. «Vorrei tanto che tu riuscissi a svelare il mistero di quello che è successo alla mia memoria.» Billie corrugò la fronte e, nonostante la preoccupazione, Luke non poté fare a meno di pensare quanto fosse carina quando arricciava il naso.

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«È strano» disse lei. «Forse hai subito un trauma cranico che non ha lasciato alcuna traccia visibile, ma se così fosse dovresti avere mal di testa.» «Assolutamente no.» «Non sei un alcolizzato né un drogato, lo vedo dal tuo aspet-to. Se avessi subito un forte choc o sofferto di uno stress prolun-gato probabilmente ne sarei al corrente, o da te o dai nostri comuni amici.» «Cosa resta?» Lei scosse la testa. «Di certo non sei uno schizofrenico, quindi non è possibile che tu sia stato sottoposto al trattamento combi-nato con farmaci ed elettroshock che avrebbe potuto portare...» Si bloccò di colpo con la bocca aperta e gli occhi spalancati, bellissima nonostante l'espressione sgomenta. «Cosa c'è?» «Mi è appena venuto in mente Joe Blow.» «Chi è?» «Joseph Bellow. Il nome mi aveva colpito perché mi sembrava inventato.» «E?...» «È un paziente, lo hanno ricoverato ieri sera tardi, dopo che io ero già andata a casa. E poi è stato dimesso nel corso della notte... una cosa davvero strana.» «Cosa aveva?» «Era schizofrenico.» Billie si fece bianca in volto. «Oh, merda!» Luke cominciò a capire cosa stava pensando. «E così questo paziente...» «Andiamo a vedere la sua cartella» disse Billie. Girò sui tacchi e corse su per le scale. Entrarono in una stanza indicata come ARCHIVIO. Dentro non c'era nessuno. Billie accese la luce. Aprì un cassetto contrassegnato A-D, spulciò i fascicoli e ne tirò fuori uno. «Maschio, razza bianca, trentasette anni, un metro e ottantacinque di altezza, ottantacinque chili di peso» lesse. Le supposizioni di Luke sembravano confermate. «Pensi che questo Joseph Bellow sia io?» Billie annuì. «Il paziente è stato sottoposto a un trattamento che causa amnesia globale.» «Mio Dio!» Luke era sbigottito e incuriosito allo stesso tempo. Se Billie aveva visto giusto, si era trattato di un'azione deliberata. Questo spiegava perché lo stavano seguendo... volevano assicu-rarsi che il trattamento avesse funzionato. «Chi è stato a farlo?»

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«Un mio collega, il dottor Leonard Ross. È uno psichiatra. È stato lui a firmare il ricovero. Vorrei sapere per quale motivo ha autorizzato il trattamento. Di norma un paziente dovrebbe essere tenuto sotto osservazione per qualche giorno prima di subire qualsiasi tipo di cura. E poi non riesco a immaginare nessuna spie-gazione medica che giustifichi una dimissione immediata, neppu-re con il consenso dei parenti. È stata una procedura molto irrego-lare.» «Pare che questo Ross sia nei guai.» Billie fece un sospiro. «Probabilmente no. Se protesto, diran-no che ce l'ho con Len perché ha avuto il posto che volevo io, come direttore della ricerca.» «Quando è successo?» «Oggi.» Luke trasalì. «Questo dottor Ross ha avuto una promozione oggi?» «Sì, e ho il sospetto che non si tratti soltanto di una coinci-denza.» «Certo che no! L'hanno comprato. Gli hanno promesso la pro-mozione in cambio di un comportamento altamente irregolare.» «Non posso crederci... invece sì che posso. È un debole.» «È solo un burattino. Deve essere stato qualcuno sopra di lui a ordinarglielo, qualcuno ben più in alto nella scala gerarchica dell'ospedale.» «No.» Billie scosse la testa. «È stato l'ente che finanzia il nuovo progetto, la Sowerby Foundation. Loro hanno insistito perché il posto andasse a Ross. Me l'ha detto il mio capo. Non riuscivo a capire perché, ma ora lo so.» «Tutto quadra, però è comunque incredibile. Qualcuno nella fondazione voleva che io perdessi la memoria?» «E io credo anche di sapere chi» disse Billie. «Anthony Car-roll. Lui è nel consiglio d'amministrazione.» Il nome non gli era nuovo. Anthony era l'uomo della Cia di cui gli aveva parlato Elspeth. «Ci resta comunque da capire il per-ché.» «Sì, ma ora sappiamo a chi chiedere» ribatté Billie sollevando la cornetta del telefono. Mentre lei componeva il numero, Luke cercò di organizzare i propri pensieri. L'ultima ora gli aveva riservato una serie di vio-lente sorprese. Gli era stato detto che non avrebbe mai più riac-quistato la memoria. Aveva appreso di essere stato innamorato di Billie e di averla persa, e non riusciva a spiegarsi come aveva potuto essere così stupido. Inoltre, adesso era venuto a scoprire che la sua amnesia era stata deliberatamente provocata e che il responsabile era qualcuno della Cia. È lui non aveva la minima idea del perché. «Voglio parlare con Anthony Carroll» disse Billie al telefono. «Sono la dottoressa Josephson.» Il suo tono era perentorio. «Ho capito. Allora gli dica che devo parlargli con la massima urgen-za.» Guardò

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l'orologio. «Mi faccia richiamare esattamente tra un'ora.» La sua espressione si fece improvvisamente minacciosa. «Non mi prenda in giro, giovanotto. So benissimo che potete far-gli arrivare un messaggio in qualsiasi momento del giorno e della notte, ovunque si trovi» disse, e sbatté giù la cornetta. Incrociò lo sguardo di Luke e assunse un'espressione imbaraz-zata. «Scusa, ma quel tizio mi ha detto "Vedrò cosa posso fare", come se mi stesse facendo un favore!» Luke ricordò che Elspeth gli aveva accennato che Anthony ave-va studiato a Harvard con lui e Bern. «Questo Anthony...» disse «credevo che fosse un amico.» «Già» fece Billie annuendo, scura in volto «anch'io lo credevo.»

19.30

La temperatura è l'ostacolo principale al volo umano nello spazio. Per misurare l'efficacia del suo isolamento termico l'Explorer pos-siede quattro termometri: tre nell'involucro, per la temperatura della superficie esterna, e uno dentro il compartimento della stru-mentazione per misurare quella interna. Lo scopo è quello di man-tenere quest'ultima entro valori compresi tra i 4 e i 21 gradi centi-gradi, una temperatura soddisfacente per la sopravvivenza dell'uo-mo.

Bern viveva in Massachusetts Avenue, un quartiere di grossi edifici eleganti e ambasciate che dominava la pittoresca gola di Rock Creek. Il suo appartamento era arredato con gusto spagnoleggiante, con elaborati mobili coloniali in legno scuro e pareti ri-gorosamente bianche che ospitavano dipinti di paesaggi calcinati dal sole. Luke ricordò che Bern aveva combattuto nella guerra ci-vile spagnola. Era facile immaginarlo come combattente.Icapelli neri ades-so erano piuttosto radi, e sembrava un po' sovrappeso, ma con-servava un'espressione determinata e uno sguardo severo. Luke si chiese se una persona così pragmatica avrebbe mai potuto cre-dere alla strana storia che lui aveva da raccontare. Bern gli strinse la mano con vigore e gli offrì un caffè molto for-te servito in una tazzina piccola. Posata sul mobile del grammofo-no c'era una fotografia in una cornice d'argento. Ritraeva un uo-mo di mezza età con una camicia tutta strappata che stringeva in mano un fucile. Luke la prese per guardarla meglio. «Largo Beni-to» spiegò Bern. «È il più grande uomo che abbia mai conosciuto. Ho combattuto con lui in Spagna. Largo è il nome di battesimo di mio figlio, ma Billie lo chiama Larry.» Probabilmente Bern considerava la guerra di Spagna come il più bel periodo della sua vita. Con un po' di invidia, Luke si chie-se quale fosse il più bel periodo della propria. «Penso di aver avuto anch'io dei bei ricordi» osservò, avvilito. Bern gli lanciò un'occhiata penetrante. «Cosa diavolo ti capi-ta, amico mio?» Luke si sedette e gli fece un resoconto di quello che lui e Billie avevano scoperto all'ospedale. «Ora ti spiego ciò che penso mi sia successo» proseguì. «Non so se ci crederai, ma io te lo rac-conto lo stesso, perché spero tanto che tu possa fare un po' di luce su questo mistero.»

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«Farò quello che posso.» «Sono venuto a Washington lunedì, subito prima del lancio del missile. Dovevo incontrarmi con un generale dell'esercito per un qualche misterioso motivo di cui non ho parlato con nes-suno. Mia moglie era preoccupata per me e ha chiamato Anthony per chiedergli di tenermi d'occhio. Lui mi ha dato un appuntamento per martedì a colazione.» «Ha un senso. Anthony è il tuo più vecchio amico. Eravate già compagni di stanza quando vi ho conosciuto io.» «Ora viene la parte basata sulle congetture. Ho incontrato Anthony a colazione, prima di andare al Pentagono. Mi ha messo qualcosa nel caffè per narcotizzarmi, poi mi ha caricato sulla sua auto e mi ha portato al Georgetown Mind Hospital. Deve essersi sbarazzato di Billie in qualche modo, o forse ha aspettato che lei fi-nisse il turno. In ogni caso, ha fatto sì che lei non mi vedesse e mi ha ricoverato sotto falso nome. Poi si è messo in contatto con il dottor Len Ross, che sapeva di poter corrompere. Sfruttando la sua posi-zione in seno al consiglio di amministrazione della Sowerby Foun-dation, lo ha convinto a sottopormi a un trattamento che mi avreb-be distrutto la memoria.» Luke fece una pausa, aspettando che Bern dicesse che tutto questo era ridicolo, impossibile, frutto di un'immaginazione troppo fervida. Ma non fu così. Con sua grande sorpresa, Bern si limitò a dire: «Ma perché?». Luke cominciò a sentirsi meglio. Se Bern gli credeva, avrebbe potuto aiutarlo. «Per il momento concentriamoci sul come, piut-tosto che sul perché» rispose. «D'accordo.» «Poi, per coprire le sue tracce, mi ha fatto dimettere dall'o-spedale, mi ha vestito di stracci presumibilmente mentre ero ancora privo di conoscenza - e mi ha scaricato alla Union Sta-tion, insieme a un suo tirapiedi che aveva il compito di con-vincermi che quella era la mia vita, e allo stesso tempo di tenermi d'occhio per essere sicuri che il trattamento avesse funzio-nato.» Ora Bern aveva un'espressione scettica. «Ma doveva sapere che prima o poi avresti scoperto la verità.» «Non necessariamente, e comunque non tutta. Certo doveva aver messo in conto che dopo qualche giorno, o qualche settima-na, sarei riuscito a capire chi ero. Ma avrà pensato che io credes-si di essermi sbronzato. La gente perde la memoria dopo aver bevuto molto, almeno così dicono. Anche se io avessi trovato dif-ficile crederlo e avessi fatto qualche domanda, la pista sarebbe stata ormai fredda. Probabilmente Billie si sarebbe dimenticata del misterioso paziente, e in ogni caso, se se lo fosse ricordato, Ross avrebbe avuto tutto il tempo per distruggere la sua cartel-la.» Bern annuì pensieroso. «Un piano rischioso, ma con buone probabilità di riuscita. Nelle operazioni clandestine, questo è il massimo in cui si possa sperare.» «Mi sorprende che tu non sia più scettico.» Bern si strinse nelle spalle. «Hai un motivo per credere a questa storia?» «Abbiamo lavorato tutti nei servizi segreti. Sono cose che suc-cedono.»

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Luke era sicuro che Bern gli nascondesse qualcosa. «Se sai qualcos'altro dimmelo, per l'amor del cielo. Ho bisogno d'aiuto» lo supplicò. Bern sembrava angustiato. «C'è qualcosa... ma è segreto, e non voglio mettere nei guai nessuno.» Il cuore di Luke ebbe un sussulto di speranza. «Dimmelo, ti prego. Sono disperato.» Bern lo guardò intensamente. «Sì, lo immagino.» Fece un respi-ro profondo. «Okay, questa è la storia. Verso la fine della guerra, Billie e Anthony hanno lavorato a uno speciale progetto per l'Oss, il gruppo di lavoro sul siero della verità. Tu e io non ne eravamo al corrente, allora, l'ho scoperto in seguito, dopo aver sposato Billie. Erano alla ricerca di sostanze in grado di influire sui prigionieri sotto interrogatorio. Provarono con la mescalina, i barbiturici, la scopolamina e l'hascisc. Conducevano i loro esperimenti su solda-ti sospetti di simpatie comuniste. Billie e Anthony girarono le basi militari di Atlanta, Memphis e New Orleans. Conquistavano la fi-ducia del militare sospetto, gli davano una sigaretta alla marijuana e stavano a vedere se questo raccontava i fatti propri.» Luke scoppiò in una risata. «E così un sacco di marmittoni si sono fatti una fumatina gratis!» Bern annuì. «A quel livello, la cosa aveva un che di comico. Ma, dopo la guerra, Billie tornò al college e preparò la tesi di dot-torato sugli effetti di varie droghe legali, come la nicotina, sullo stato mentale delle persone. Quando, infine, lei divenne docente, continuò a lavorare sull'argomento, concentrandosi sugli effetti delle droghe e di altri fattori esterni sulla memoria.» «Ma non per la Cia.» «Questo è ciò che credevo. Ma mi sbagliavo.» «Qh, Cristo!» «Nel 1950, sotto la direzione di Roscoe Hillenkoetter, l'Agen-zia diede inizio a un progetto il cui nome in codice era Bluebird, e lo stesso Hillenkoetter autorizzò l'uso di fondi neri per occul-tare ogni traccia del loro coinvolgimento. Bluebird era uno stu-dio sul controllo della mente. La Cia finanziò una serie di pro-getti di ricerca assolutamente legittimi in varie università, facen-do arrivare il denaro attraverso una serie di fondazioni per nasconderne la vera provenienza. E finanziò anche il lavoro di Billie.» «Cosa ne pensava lei?» «Litigammo. Io dicevo che era sbagliato, che il vero scopo della Cia era quello di fare il lavaggio del cervello alle persone. Lei invece sosteneva che qualunque conoscenza scientifica può essere strumentalizzata: stava portando avanti una ricerca prezio-sa e non le interessava chi pagasse il conto.» «È per questo che avete divorziato?» «In parte sì. Io ero l'autore di un programma radiofonico inti-tolato Detective Story, ma volevo entrare nel mondo del cinema. Nel 1952 scrissi una sceneggiatura basata su un'agenzia segreta governativa che praticava il lavaggio del cervello su cittadini inconsapevoli. Venne acquistata da Jack Warner, ma io non lo dissi a Billie.» «Perché no?»

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«Sapevo che la Cia avrebbe bloccato il film.» «Possono fare una cosa del genere?» «Ci puoi giurare.» «E cosa è successo?» «Il film uscì nel 1953. Frank Sinatra faceva la parte del can-tante di nightclub che assiste a un omicidio politico e poi subisce un trattamento top secret in seguito al quale perde la memoria. Joan Crawford faceva la parte della sua manager. Fu un grosso successo. La mia carriera era pronta a decollare, fui inondato di offerte miliardarie da parte delle case di produzione.» «E Billie?» «La portai alla prima.» «Immagino che si arrabbiò.» Bern fece un sorriso mesto. «Andò su tutte le furie. Disse che avevo usato informazioni confidenziali avute da lei. Era sicura che la Cia le avrebbe tolto i fondi e rovinato le sue ricerche. Fu la fine del nostro matrimonio.» «Ecco cosa intendeva quando mi ha detto che avevate avuto un conflitto di interessi.» «Ha ragione. Avrebbe dovuto sposare te... Non ho mai capito perché non lo fece.» Il cuore di Luke ebbe un sussulto. Moriva dalla voglia di sape-re perché mai Bern avesse detto così, ma rimandò a dopo la domanda. «E comunque, tornando al 1953, immagino che fa Cia non le tagliò i fondi.» «No» rispose Bern, amareggiato «ma distrusse la mia carriera.» «In che modo?» «Venni messo sotto inchiesta. Ovviamente, essendo stato comunista fino alla fine della guerra, ero un bersaglio facile. Finii sulla lista nera di Hollywood e non mi riuscì più neppure di ria-vere il mio vecchio lavoro alla radio.» «Qual è stato il ruolo di Anthony in tutto questo?» «Secondo Billie fece del suo meglio per proteggermi, ma venne sopraffatto da poteri più forti.» Bern aggrottò la fronte. «Dopo quello che mi hai appena raccontato, mi chiedo se questa sia la verità.» «E tu cosa hai fatto?» «Ho avuto un paio di anni difficili, ma poi mi venne l'ispira-zione dei "Gemelli terribili".» Luke inarcò un sopracciglio. «È una serie di libri per bambini» spiegò Bern, indicando la li-breria, dove alcune copertine vivaci creavano un'allegra macchia di colore. «Si dà il caso che tu li conosca, li hai letti... alla figlia di tua

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sorella.» Luke si rallegrò di avere una nipote... chissà, forse più di una. Gli piaceva l'idea di leggere a voce alta per loro. C'erano così tante cose che doveva imparare di se stesso. Fece un gesto a indicare l'appartamento.«Ituoi libri devono essere stati un trionfo» osservò. Bern annuì. «Il primo l'ho scritto sotto pseudonimo, e mi sono rivolto a un agente che simpatizzava per le vittime del maccarti-smo. Fu un grosso successo, e da allora ne ho scritti due all'an-no.» Luke si alzò e prese un libro dallo scaffale. Lesse a voce alta: «"Cos'era più appiccicoso, il miele o la cioccolata fusa?Igemel-li dovevano assolutamente scoprirlo. Per questo si inventarono quell'esperimento che tanto fece arrabbiare la mamma"». Luke sorrise. Naturale che ai bambini piacessero tanto. Poi venne assalito da un'ondata di tristezza. «Elspeth e io non abbia-mo figli.» «Non so come mai» disse Bern. «Tu hai sempre desiderato averne.» «Ci abbiamo provato, ma non sono venuti» spiegò Luke, chiu-dendo il libro. «Il mio è un matrimonio felice?» Bern sospirò. «Visto che me lo chiedi, no.» «Perché?» «C'era qualcosa che non andava, ma tu non hai mai capito di che si trattasse. Una volta mi hai chiamato per chiedermi un consiglio, però non sono stato in grado di aiutarti.» «Qualche minuto fa hai detto che Billie avrebbe dovuto spo-sare me.» «Voi due eravate pazzi l'uno dell'altra.» «E allora cosa è successo?» «Sinceramente, non lo so. Dopo la guerra avete avuto una grossa lite. Ma nessuno di noi ne ha mai scoperto il motivo.» «Dovrò chiederlo a Billie.» «Suppongo di sì.» Luke rimise il libro al suo posto sullo scaffale. «Comunque, ora capisco perché hai creduto subito alla mia storia.» «Già» fece Bern. «Non stento a credere che Anthony abbia fatto una cosa simile.» «Ma riesci a immaginarne il motivo?»

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«Non ne ho la minima idea.»

20.00

Variazioni di temperatura maggiori del previsto potrebbero provoca-re il surriscaldarsi dei transistor al germanio e il congelamento delle batterie al mercurio. Entrambi gli inconvenienti impedirebbero al satellite di trasmettere a terra le informazioni raccolte.

Billie era seduta al tavolino della toletta intenta a rinfrescarsi il maquillage. Pensava che gli occhi fossero il suo punto di forza e li truccava sempre con cura: eyeliner nero, ombretto grigio, un toc-co di mascara. Dalla porta aperta della camera sentiva rumore di spari provenire dalla televisione al piano di sotto: Larry e Becky-Ma stavano guardando Wagon Train. Non aveva voglia di uscire. Gli eventi della giornata avevano suscitato in lei emozioni forti. Era arrabbiata per non essere riu-scita a ottenere il posto che tanto desiderava, sconcertata dal comportamento di Anthony, confusa e spaventata nello scoprire che la vecchia attrazione tra lei e Luke era potente e pericolosa come sempre. Si trovò a ripensare alle sue relazioni con Anthony, Luke, Bern e Harold, e si chiese se nella vita avesse preso le deci-sioni giuste. Dopo tutto quello che era accaduto, la prospettiva di passare la serata davanti alla televisione insieme a Harold le sem-brava insulsa. Squillò il telefono. Si alzò di scatto e andò a rispondere dall'apparecchio sul como-dino, ma Larry aveva già preso la comunicazione dal corridoio. Sentì la voce di Anthony che diceva: «Qui è la Cia. Washington sta per essere invasa da un esercito di cavoli salterini». Larry rise. «Zio Anthony, sei tu?» «Se venite avvicinati da un cavolo, non tentate, ripeto, non ten-tate di farlo ragionare.» «Ma i cavoli non parlano!» «L'unico modo per affrontarli è colpirli a morte con delle fette di pane.» «Te lo stai inventando!» esclamò Larry ridendo. «Anthony, sono all'altro apparecchio» disse Billie. «Va' a metterti il pigiama, Larry, d'accordo?» «D'accordo» rispose il bambino, e riattaccò. «Billie?» Il tono di voce era cambiato. «Sono qui.»

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«Hai lasciato detto che dovevo chiamarti urgentemente. Mi pare di capire che hai maltrattato l'agente di turno.» «Già. Anthony, cosa diavolo stai combinando?» «Vuoi essere più precisa?» «Non mi prendere in giro, accidenti! L'ultima volta che ci siamo parlati avevo capito che mi stavi mentendo, ma ancora non conoscevo la verità. Ora invece sì. So cosa hai fatto a Luke nel mio ospedale, la scorsa notte.» Dall'altra parte ci fu silenzio. «Esigo una spiegazione» proseguì Billie. «Non intendo parlare di questo al telefono. Se potessimo incontrarci nei prossimi giorni...» «Al diavolo!» Non gli avrebbe permesso di prendere tempo. «Voglio sentire la tua versione. Adesso.» «Sai bene che non posso...» «So che tu puoi fare tutto ciò che vuoi, quindi non raccontar-mi balle.» «Dovresti fidarti di me» protestò Anthony. «Siamo amici da quasi vent'anni.» «Già, e mi hai messo nei pasticci fin dal primo appunta-mento.» «Sei ancora arrabbiata per quella volta?» chiese Anthony con una nota divertita nella voce. Billie si ammorbidì. «Certo che no. Io voglio avere fiducia in te, accidenti... sei il padrino di mio figlio!» «Se ci vediamo domani ti spiegherò ogni cosa.» Billie stava quasi per cedere, poi ricordò ciò che lui aveva fatto. «Non potevi fidarti di me ieri notte, vero? Hai agito alle mie spal-le, nel mio ospedale!» «Te l'ho già detto, posso spiegarti tutto...» «Avresti dovuto spiegarmelo prima di ingannarmi. Dimmi la ve-rità oppure mi rivolgo all'Fbi. Scegli tu.» Era pericoloso minacciare gli uomini - spesso le minacce li ren-devano ancora più ostinati - ma Billie sapeva quanto la Cia odiasse e temesse l'interferenza dell'Fbi, specie quando stava agendo ai confini della legalità, e cioè quasi sempre.Ifederali, che difendeva-no gelosamente il diritto esclusivo di dare la caccia alle spie all'in-terno degli Stati Uniti, avrebbero molto apprezzato un'occasione per indagare su attività illecite della Cia sul suolo americano. Se ciò che Anthony stava facendo fosse stato del tutto legittimo, la minac-cia di Billie sarebbe caduta nel vuoto, ma se invece oltrepassava i confini della legge, questo lo avrebbe spaventato. Anthony fece un sospiro. «E va bene. Sto chiamando da un telefono pubblico, ed è improbabile che il tuo apparecchio sia sotto controllo...» Fece una pausa e poi proseguì: «Potresti tro-vare la cosa difficile

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da credere». «Tu provaci.» «D'accordo. Luke è una spia.» Per un attimo Billie rimase senza parole, quindi disse: «Non essere assurdo». «È un comunista. Un agente di Mosca.» «Ma finiscila! Se pensi davvero che io creda a...» «Ciò che credi tu non mi interessa.» Il tono di Anthony si fece improvvisamente tagliente. «Sono anni che passa ai russi infor-mazioni segrete sui nostri missili. Come pensi che siano riusciti a mandare in orbita lo Sputnik mentre il nostro satellite era ancora in lavorazione? Non sono più avanti di noi! Hanno goduto dei benefici della nostra ricerca, e Luke ne è il responsabile.» «Anthony, tu e io conosciamo Luke da vent'anni. Non si è mai interessato di politica!» «Questa è la miglior copertura.» Billie esitò. Che fosse vero? Senza dubbio una spia degna di que-sto nome avrebbe finto di non interessarsi di politica, o addirittura di essere un conservatore. «Luke non tradirebbe mai il suo paese.» «La gente fa anche questo. Ricordati che quando era con la Resistenza francese lavorava con i comunisti. Certo, allora erano dalla nostra parte ma, a quanto pare, la cosa è andata avanti anche dopo la guerra. Personalmente sono convinto che il moti-vo per cui non ti ha sposata è che questo avrebbe interferito con il suo lavoro per i rossi.» «Ma ha sposato Elspeth.» «Sì, ma non hanno mai avuto figli.» Billie si sedette sul letto, frastornata. «Puoi dimostrare quello che dici?» «Ho le prove: disegni top secret che lui ha consegnato a un agente del Kgb che tenevamo sotto sorveglianza.» Billie era confusa: non sapeva a chi credere. «Ma anche se fosse tutto vero, perché gli hai fatto perdere la memoria?» «Per salvargli la vita.» «Non capisco» disse Billie, sempre più disorientata. «Billie, stavamo per ucciderlo.» «Chi stava per ucciderlo?» «Noi. La Cia. Lo sai che l'esercito sta per lanciare il nostro pri-mo satellite? Se anche questo tentativo fallisce, in un prossimo fu-turo i russi ci domineranno dallo spazio così come gli inglesi hanno dominato

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l'America per duecento anni. Devi capire che Luke co-stituiva la peggior minaccia per il potere e il prestigio americano dai tempi della guerra. Quando l'hanno scoperto, la decisione di eliminarlo è stata presa nel giro di un'ora.» «Perché non processarlo semplicemente come spia?» «E far sapere al mondo intero che il nostro sistema di sicurezza è così sgangherato che i russi sono riusciti a procurarsi tutti i nostri segreti per anni? Pensa che colpo sarebbe stato per la credibilità degli Stati Uniti, specie nei paesi satelliti di Mosca. Una possibilità che non è stata neppure presa in considerazione.» «Allora cosa è successo?» «Li ho convinti a tentare un'altra strada. Nessuno è al corrente della cosa, solo i massimi vertici: il direttore e il presidente. E avrebbe funzionato, se Luke non fosse un maledetto bastardo pie-no di risorse. Avrei potuto salvargli la vita e mantenere segreta la faccenda. Se solo si fosse convinto di aver perso la memoria per una sbronza e di essere diventato un barbone, nessuno, neppure lui, avrebbe saputo delle informazioni segrete che aveva passato al nemico.» Billie si lasciò andare a un pensiero egoistico. «Però non hai esitato a distruggere la mia carriera.» «Pur di salvare la vita a Luke? Non pensavo che ci avresti fatto caso.» «Non essere così maledettamente blasé, è sempre stato il tuo peggior difetto.» «Comunque, Luke ha fatto saltare il mio piano, grazie al tuo aiuto. È con te, ora?» «No.» Billie sentì i capelli rizzarsi. «Devo assolutamente parlargli prima che si cacci in guai anco-ra peggiori. Dov'è?» Agendo d'istinto, Billie mentì. «Non lo so.» «Tu non mi nasconderesti la verità, giusto?» «Certo che lo farei. Hai appena detto che la tua organizzazio-ne voleva uccidere Luke. Sarebbe stupido da parte mia confes-sarti dove si trova, se lo sapessi. Ma il fatto è che non lo so.» «Ascoltami, Billie, io sono la sua unica speranza. Convincilo a chiamarmi, se vuoi salvargli la vita.» «Ci penserò» rispose lei, ma Anthony aveva già riattaccato.

20.30

Il compartimento che ospita gli strumenti non è dotato di alcun tipo di portello. Per accedere alle apparecchiature i tecnici di Cape Canaveral devono sollevare il rivestimento esterno. È una soluzione sco-moda che però fa risparmiare peso, un fattore di importanza vitale per riuscire a vincere la forza di

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gravità.

Luke posò la cornetta del telefono con mano tremante. «Cosa ti ha detto, accidenti? Sei bianco come un cencio lava-to!» esclamò Bern. «Anthony sostiene che sono una spia sovietica» rispose Luke. «E?...» fece Bern, stringendo gli occhi. «Quando la Cia lo ha scoperto ha deciso di eliminarmi, ma Anthony li ha convinti che sarebbe stato altrettanto efficace farmi perdere la memoria.» «Una storia vagamente plausibile» osservò Bern con fred-dezza. Luke era sconvolto. «Credi che possa essere vero?» chiese a Bern. «Assolutamente no.» «Ma non puoi esserne sicuro!» «Sì che posso.» Luke non osava neppure sperare. «E perché?» «Perché io ero un agente sovietico.» Luke lo fissò con occhi spalancati. Quali altre sorprese lo aspettavano? «Potremmo esserlo stati entrambi, senza sapere l'uno dell'altro.» Bern scosse la testa. «Tu hai messo fine alla mia carriera.» «Cosa?!» «Vuoi ancora un po' di caffè?» «No grazie, mi fa girare la testa.» «Hai un aspetto orribile. Quand'è l'ultima volta che hai man-giato?» «Billie mi ha dato dei biscotti. Lascia perdere il cibo e raccon-tami quello che sai.» Bern si alzò. «Ti preparo un panino, prima che tu svenga.» Luke si rese conto di essere affamato. «Va bene.» Si trasferirono in cucina, Bern aprì il frigorifero e tirò fuori pane di segale, burro, carne di manzo salata e una cipolla dolce. A Luke venne l'acquolina in bocca.

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«È stato durante la guerra» disse Bern, mentre imburrava quattro fette di pane. «La Resistenza francese era divisa tra golli-sti e comunisti: entrambi manovravano per assicurarsi una posi-zione di prestigio alla conclusione del conflitto. Roosevelt e Churchill volevano la certezza che i comunisti non avrebbero vinto le elezioni, e così i gollisti si beccavano tutti i rifornimenti di armi e munizioni.» «Io come la pensavo?» Bern mise carne e fette di cipolla sul pane e aggiunse della mo-starda. «Non avevi opinioni particolari sulla politica francese, a te bastava sconfiggere i nazisti e tornartene a casa. Ma io avevo altre priorità: volevo pareggiare i conti.» «In che modo?» «Informai i comunisti di un lancio di materiale che stavamo aspettando, in modo che potessero farci un'imboscata e rubarce-lo» disse Bern scuotendo la testa. «Fu un disastro. Avrebbero dovuto sorprenderci mentre tornavamo alla base, apparentemen-te per caso, e pretendere una spartizione amichevole dei riforni-menti. Invece ci attaccarono al punto convenuto per il lancio, non appena il materiale toccò terra. Tu ti rendesti conto che era-vamo stati traditi e i sospetti caddero ovviamente su di me.» «Cosa feci?» «Mi offristi un accordo. Io dovevo smettere di lavorare per Mosca, subito, e tu non avresti mai accennato con nessuno a ciò che avevo fatto.» «E?...» Bern si strinse nelle spalle. «Entrambi abbiamo mantenuto le promesse, ma credo che tu non mi abbia mai perdonato. In ogni caso, da allora la nostra amicizia non è stata più la stessa.» Un gatto birmano grigio comparve dal nulla, con un miagolio. Bern gettò una fettina di carne sul pavimento. Il gatto la mangiò con delicatezza e poi si leccò le zampe. «Se fossi stato comunista ti avrei coperto» osservò Luke. «Naturale.» Luke cominciava a credere nella propria innocenza. «Ma potrei essere diventato comunista dopo la guerra.» «Impossibile. O ti succede quando sei giovane o non ti succe-de più.» Aveva un senso. «Potrei averlo fatto per i soldi.» «Non hai bisogno di soldi, i tuoi sono ricchi sfondati.» Certo, questo glielo aveva detto anche Elspeth. «Quindi Anthony si sbaglia.» «Oppure mente.» Bern tagliò i sandwich a metà e li posò su due piatti scompagnati. «Qualcosa da bere?»

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«Certo.» Bern prese due bottiglie di Coca-Cola dal frigo e le aprì. Porse a Luke un piatto e una bottiglia, prese in mano i suoi e si avviò verso il soggiorno. Luke aveva una fame da lupo. Trangugiò il sandwich in quat-tro bocconi. Bern lo osservava con espressione divertita. «Tieni, prendi anche il mio» gli disse. «No, grazie» rispose Luke scuotendo la testa. «Su, avanti, mangia. Tanto io dovrei mettermi a dieta.» Luke prese il sandwich di Bern e cominciò a divorarlo. «Se Anthony mente» rifletté Bern a voce alta «qual è il vero motivo per cui ha fatto in modo che tu perdessi la memoria?» Luke mandò giù il boccone. «Deve essere collegato con la mia improvvisa partenza da Cape Canaveral, lunedì.» Bern annuì. «In caso contrario sarebbe una coincidenza trop-po strana.» «Devo aver scoperto qualcosa di importante, tanto da correre al Pentagono per riferirla a qualcuno.» «E perché non ne avresti parlato con i tuoi colleghi di Cape Canaveral?» chiese Bern aggrottando la fronte. Luke rifletté un attimo e poi disse: «Dev'essere perché là non mi fido di nessuno». «Okay. E così, prima che tu andassi al Pentagono, Anthony ti ha intercettato.» «Esatto. Probabilmente mi sono fidato di lui e gli ho riferito quello che ero venuto a sapere.» «E poi?» «Avrà pensato che la cosa fosse così rilevante da farmi perdere la memoria per essere sicuro che il segreto non trapelasse.» «Chissà cosa diavolo era...» «Quando lo avrò scoperto, capirò anche cosa mi è successo.» «Da dove intendi cominciare?» «Immagino che il primo passo sia quello di andare in albergo e di frugare tra le mie cose. Forse troverò qualche indizio.» «Se è stato Anthony a procurarti un'amnesia, deve aver già passato in rassegna anche la tua roba.» «Avrà distrutto le prove più evidenti, ma potrebbe essere rima-sto qualcosa che non ha ritenuto importante. In ogni caso, devo controllare.»

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«E poi?» «L'unico altro posto dove cercare è Cape Canaveral. Tornerò là questa notte...» Guardò l'orologio: le nove passate. «O domat-tina.» «Dormi qui, stanotte» disse Bern. «Perché?» «Non so, l'idea che tu passi la notte da solo non mi piace. Va' al Carlton, prendi la tua roba e torna qui. Domattina ti accom-pagnerò io all'aeroporto.» Luke annuì. «Sei stato un vero amico» disse, imbarazzato. «Ci conosciamo da tanto tempo» rispose Bern, stringendosi nelle spalle. A Luke questa spiegazione non bastava. «Ma mi hai appena confidato che dopo quanto accaduto in Francia la nostra amici-zia non è stata più la stessa.» «È vero» ammise Bern con aria sincera. «Tu hai sempre pen-sato che un uomo che ti ha tradito una volta potrebbe farlo una seconda.» «Non posso crederci» disse Luke, serio. «Mi sbagliavo, vero?» «Sì, ti sbagliavi.»

21.30

Ilcompartimento che ospita la strumentazione tende a surriscal-darsi prima del lancio. La soluzione a questo problema è un tipico esempio della rozza ma efficace tecnologia che contraddistingue l'affrettato progetto Explorer. Un contenitore di ghiaccio secco è attaccato all'esterno del missile con un'elettrocalamita. Ogni volta che la temperatura del compartimento sale, un termostato fa parti-re una ventola. Subito prima del lancio, l'alimentazione della cala-mita viene interrotta e il sistema di raffreddamento cade al suolo.

La Cadillac Eldorado gialla di Anthony era parcheggiata in K Street tra la Fifteenth e la Sixteenth, nascosta dietro una fila di taxi che aspettavano di essere chiamati dal portiere del Carlton Hotel. Da lì, Anthony godeva della vista indisturbata del vialetto d'accesso e del portico ben illuminato. Pete era in albergo, nella stanza che avevano preso, in attesa di una telefonata da parte di uno degli agenti che stavano cercando Luke per tutta la città. Una parte di Anthony sperava che nessuno di loro chiamasse e che Luke riuscisse in qualche modo a fuggire. In quel modo gli sarebbe stata risparmiata la decisione più dolorosa di tutta la sua vita. L'altra parte non aspettava altro che scoprire dove si fosse cacciato e affrontarlo.

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Luke era un vecchio amico, un brav'uomo, un marito fedele e un magnifico scienziato. Ma, in fondo, non faceva alcuna diffe-renza. Durante la guerra era capitato a tutti di uccidere delle brave persone solo perché si erano trovate dalla parte sbagliata. E durante la guerra fredda Luke si era trovato dalla parte sba-gliata. Era il fatto di conoscerlo personalmente che rendeva le cose tanto difficili. Pete uscì di corsa dall'albergo. Anthony tirò giù il finestrino. «Ha appena chiamato Ackie» disse Pete. «Luke è a casa di Ber-nard Rothsten, in Massachusetts Avenue.» «Finalmente!» esclamò Anthony. Aveva messo degli agenti di guardia davanti a casa di Bern e di Billie, prevedendo che Luke avrebbe chiesto aiuto ai vecchi amici. Se non altro, c'era la misera soddisfazione di aver visto giusto. «Quando esce, Ackie lo seguirà in moto» aggiunse Pete. «Bene.» «Crede che verrà qui?» «Potrebbe essere. Aspetterò.» Nell'atrio c'erano altri due agen-ti che avrebbero avvertito Anthony se Luke fosse passato da un al-tro ingresso. «L'altra possibilità è l'aeroporto.» «Là abbiamo quattro uomini.» «Okay. Penso che abbiamo tenuto conto di tutto.» Pete annuì. «Io torno al telefono.» Anthony rimuginò su quanto l'aspettava. Luke sarebbe stato confuso e titubante, guardingo ma ansioso di avere delle risposte. Lo avrebbe portato lontano da occhi indiscreti. Una volta che si fossero ritrovati da soli, sarebbero bastati pochi secondi per estrarre la pistola con il silenziatore dalla tasca del cappotto. Non era nella natura di Luke accettare la sconfitta. Avrebbe fatto un ultimo tentativo per salvarsi la vita, lottando o cercando la fuga. Ma lui sarebbe rimasto calmo, non era la prima volta che uccideva. Avrebbe impugnato saldamente la pistola e premuto il grilletto puntando al petto di Luke, sparando più volte per esse-re sicuro di fermarlo. Luke si sarebbe accasciato a terra e lui si sarebbe avvicinato per controllargli il battito e, se necessario, dargli il colpo di grazia. Questa era la fine che aspettava il suo più vecchio amico. Non prevedeva altri problemi: aveva le prove materiali del tra-dimento di Luke, e i disegni portavano annotazioni di suo pugno. Non poteva dimostrare che fossero stati presi a un agente sovieti-co, ma alla Cia bastava la sua parola. Pensava di scaricare il corpo da qualche parte. Ovviamente lo avrebbero trovato e sarebbe stata aperta un'inchiesta. Prima o poi la polizia avrebbe scoperto che la Cia aveva un interesse per la vittima e avrebbe cominciato a fare domande, ma l'Agenzia aveva molta esperienza nell'eludere le indagini. La polizia si sarebbe sentita rispondere che i rapporti della Cia con la vittima erano una faccenda di sicurezza nazionale e quindi top secret, e che, in ogni caso, i suoi agenti non avevano niente a che fare con l'omicidio. Chiunque avesse avanzato dubbi su questa spiegazione - poli-ziotto, giornalista o politico che fosse - era

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destinato a finire sotto inchiesta.Isuoi amici, parenti e vicini di casa sarebbero stati interrogati da agenti pronti a fare oscuri riferimenti a "simpatie comuniste". L'inchiesta non sarebbe mai giunta ad alcuna con-clusione, se non quella di distruggere comunque la reputazione del soggetto. Un'agenzia segreta poteva fare qualunque cosa, rifletté Anthony con cupa soddisfazione. Un taxi andò a fermarsi davanti all'ingresso dell'albergo. Dal veicolo scese Luke. Indossava un cappotto blu scuro e un cap-pello grigio. Sull'altro lato della strada, Anthony vide arrivare Ackie Horwitz a bordo della sua motocicletta. Anthony uscì dalla macchina e si avvicinò. Luke sembrava esausto, ma aveva un'espressione determinata. Mentre pagava il taxi, guardò nella direzione di Anthony senza dar segno di riconoscerlo. Disse all'autista di tenere il resto ed entrò nella hall, seguito da Anthony. Avevano la stessa età: trentasette anni. Si erano conosciuti a Har-vard quando ne avevano diciotto, mezza vita prima. Peccato che dovesse finire in quel modo, pensò Anthony amara-mente, un vero peccato.

Luke si era accorto che un uomo in motocicletta lo seguiva fin da quando era uscito dall'appartamento di Bern, e ora era tesis-simo, con tutti i sensi all'erta. L'atrio del Carlton sembrava un grandioso salotto, pieno di mobili in stile francese. Davanti alle porte d'ingresso, il banco della reception e quello del concierge erano sistemati all'interno di nicchie, in modo da non rovinare la perfetta simmetria del locale. Due donne impellicciate chiacchieravano con un gruppo di uomini in smoking vicino all'ingresso del bar. Fattorini in livrea e personale in giacca nera svolgevano i loro compiti con silenziosa efficienza. Era un ambiente sfarzoso, pensato per cal-mare i nervi tesi dei viaggiatori, ma con Luke non funzionò. Perlustrò il salone con uno sguardo e subito individuò due uomini che avevano l'aria di essere degli agenti. Uno era seduto su un sofà e leggeva il giornale, l'altro era in piedi accanto all'a-scensore e fumava una sigaretta. Nessuno dei due sembrava a proprio agio. Indossavano abiti da giorno: tutto nel loro abbi-gliamento - impermeabili, vestiti, cravatte - era decisamente fuori luogo per una serata in un locale di lusso. Pensò di uscire, ma cosa ci avrebbe guadagnato? Si avvicinò alla reception, disse il proprio nome e chiese la chiave della stan-za. Fece per allontanarsi, ma un estraneo gli rivolse la parola. «Ehi, Luke!» Era l'uomo che lo aveva seguito dentro l'albergo. Non sem-brava un agente, ma, per qualche motivo, Luke aveva notato il suo aspetto: era alto, più o meno quanto lui, e avrebbe avuto un'aria distinta se non fosse stato per la trascuratezza nel vestire. Il costoso cappotto di cammello era vecchio e consumato, le scar-pe sembravano non essere mai state lucidate, i capelli avevano bisogno di un buon taglio. L'uomo parlava con tono autoritario. «Temo di non conoscerla. Sa, ho perso la memoria» disse Luke. «Anthony Carroll. Sono così felice di averti trovato, finalmen-te!» proseguì il tizio, porgendogli la mano. Luke si irrigidì. Non sapeva ancora se Anthony fosse un nemi-co o un amico. Gli strinse la mano e disse:

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«Ho un sacco di domande da porti». «E io sono pronto a rispondere.» Luke fece una pausa e lo osservò, chiedendosi da che parte cominciare. Anthony non sembrava il tipo di persona che tradi-sce un vecchio amico. Aveva un viso aperto, intelligente, non bello ma affascinante. «Come diavolo hai potuto farmi una cosa simile?» disse infine. «Ho dovuto... per il tuo bene. Ho cercato di salvarti la vita.» «Io non sono una spia.» «Le cose non sono così semplici.» Luke studiò Anthony, cercando di indovinarne i pensieri. Non riusciva a capire se gli stesse dicendo la verità. Non c'era nulla di ambiguo nel suo sguardo, ma Luke era sicuro che gli nascondes-se qualcosa. «Nessuno crede alla tua storia sul fatto che io lavori per Mosca.» «Nessuno chi?» «Né Bern né Billie.» «Loro non conoscono tutti i fatti.» «Ma conoscono me.» «Anch'io.» «E cosa sai tu che loro non sanno?» «Te lo spiegherò, ma non possiamo parlare qui. Quello che ho da dirti è segreto. Perché non vieni nel mio ufficio? È a cinque minuti di distanza.» Luke non aveva alcuna intenzione di andare nell'ufficio di Anthony, non prima che lui avesse risposto in maniera soddisfa-cente a tutte le sue domande, ma capiva che la hall di un albergo non era il luogo migliore per discutere di argomenti riservati. «An-diamo nella mia suite» propose. Ciò gli avrebbe permesso di al-lontanarlo dagli altri agenti e di mantenere il controllo della situa-zione: Anthony da solo non sarebbe stato in grado di sopraffarlo. Dopo un attimo di incertezza, Anthony parve prendere una decisione. «Certo.» Attraversarono l'atrio ed entrarono in ascensore. Luke guardò il numero della stanza sulla chiave: 530. «Quinto piano» disse all'ad-detto. L'uomo chiuse la porta e azionò la leva. Durante la salita non parlarono. Luke osservò gli abiti di Anthony: il cappotto vecchio, l'abito stazzonato, la cravatta ano-nima. Era sorprendente come riuscisse a indossarli con tanta disinvoltura e sicurezza. All'improvviso Luke si accorse che il tessuto morbido del cap-potto cedeva leggermente nella parte destra, come se nella tasca ci fosse un oggetto pesante. Si sentì gelare il sangue. Era incorso in un terribile errore: non aveva previsto che Anthony potesse

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essere armato. Cercando di mantenere un'espressione neutra, Luke si mise a pensare febbrilmente. Anthony poteva sparargli lì, in albergo? Se avesse aspettato finché fossero nella suite, non l'avrebbe visto nessuno. E il rumore? Forse la pistola era munita di silenziatore. Appena l'ascensore si fermò al quinto piano, Anthony si sbot-tonò il cappotto. Per poterla estrarre più velocemente, pensò Luke. Uscirono. Luke non sapeva in quale direzione andare, ma Anthony svoltò deciso a destra. Doveva essere già stato nella stanza. Luke sudava in abbondanza. Gli pareva che questo genere di cose gli fosse già capitato più di una volta, ma molto tempo prima. Rimpianse di non aver tenuto la pistola del poliziotto a cui aveva spezzato il dito. Ma allora, alle nove di quella mattina, non aveva ancora idea del pasticcio in cui era coinvolto... pensava semplicemente di aver perso la memoria. Si impose di restare calmo. Erano comunque uno contro uno. Anthony era armato, ma lui aveva intuito le sue intenzioni. Erano quasi pari. Mentre percorrevano il corridoio, il cuore di Luke batteva all'impazzata. Cercò qualcosa con cui colpire Anthony - un vaso pesante, un posacenere di vetro, un quadro dalla cornice massic-cia - ma non c'era nulla. Doveva assolutamente escogitare qualcosa prima di entrare nella stanza. Poteva tentare di sottrargli la pistola, però era rischioso. Durante la colluttazione sarebbe potuto partire un colpo ed era impossibile prevederne la traiettoria. Arrivarono alla porta e Luke prese la chiave dalla tasca. Una goc-cia di sudore gli scese lungo il viso. Se entrava era un uomo morto. Aprì la porta e la spalancò con una spinta. «Entra» disse, facendosi da parte per lasciar passare per primo il suo ospite. Anthony esitò, poi varcò la soglia. Luke gli fece lo sgambetto spingendolo contemporaneamente con entrambe le mani sulle spalle. Anthony cadde in avanti andan-do a sbattere contro un tavolino in stile Reggenza e rovesciando un grosso vaso di giunco. Disperato, tentò di aggrapparsi a una lampada a stelo in ottone con paralume di seta rosa, ma anche questa cadde con lui. Luke richiuse la porta e scappò lungo il corridoio. L'ascensore era ripartito. Corse verso l'uscita di sicurezza e si precipitò giù per le scale. Al piano di sotto andò a sbattere contro una came-riera che portava una pila di asciugamani. «Scusi!» le urlò, men-tre la ragazza si metteva a gridare e gli asciugamani volavano dap-pertutto. Pochi secondi dopo arrivò in fondo alla scala. Si ritrovò in un corridoio stretto. Di lato, un poco più in alto, attraverso un pic-colo arco vide l'atrio.

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Ancor prima di muoversi, Anthony aveva capito che era un errore entrare nella stanza, ma Luke non gli aveva lasciato altra scelta. Per fortuna non si era fatto molto male. Dopo un attimo di stordimento, si tirò su e aprì la porta. Guardò fuori e vide Luke scappare di corsa per il corridoio. Partì all'inseguimento, ma d'un tratto Luke svoltò di lato e scomparve, presumibilmen-te giù per le scale. Anthony gli andò dietro correndo più veloce che poteva, anche se temeva di non riuscire a raggiungerlo. Luke sembrava molto in forma. Curtis e Malone, giù nell'atrio, avrebbero avuto il buon senso di bloccarlo? Al piano inferiore Anthony si trovò la strada sbarrata da una cameriera che raccoglieva asciugamani sparsi per tutto il pavi-mento. Immaginò che fosse stato Luke a travolgerla. Imprecan-do, rallentò per girarle attorno. In quel momento sentì arrivare l'ascensore. Il suo cuore ebbe un balzo: forse era fortunato. Ne uscì una coppia tutta in ghingheri, con chiari segni di eufo-ria dopo qualche festeggiamento. Anthony sfrecciò loro davanti, si infilò in ascensore e ordinò: «Svelto, al piano terra». Il lift chiuse di colpo le porte e azionò la leva. Anthony restò a fissare impotente i numeri dei piani che si accendevano in lenta successione. Come l'ascensore giunse al piano terra, lui corse fuori. Luke sbucò nell'atrio accanto all'ascensore, e si sentì mancare il cuore: i due agenti che aveva notato in precedenza ora erano fermi davanti all'ingresso principale, bloccandogli l'uscita. Un attimo dopo la porta dell'ascensore si aprì lasciando uscire Anthony. Doveva decidere in fretta: battersi o fuggire. Non voleva affrontare tre agenti contemporaneamente: lo avrebbero di sicuro sopraffatto, magari anche con l'aiuto della sicurezza dell'albergo. Anthony avrebbe mostrato il tesserino della Cia e tutti gli avrebbero obbedito. E lui sarebbe stato preso. Girò sui tacchi e corse lungo il corridoio, inoltrandosi nelle viscere dell'albergo, inseguito dai passi martellanti di Anthony. Doveva esserci un'entrata posteriore, non era possibile che le consegne venissero effettuate all'ingresso principale. Scostò una tenda e si ritrovò in un cortiletto in stile caffè medi-terraneo. Sulla piccola pista da ballo qualche coppia ondeggiava lentamente al ritmo della musica. Si gettò tra i tavoli e arrivò a una porta. Alla sua sinistra partiva uno stretto corridoio. Lo imboccò. Doveva trovarsi sul retro dell'albergo, anche se non si vedeva alcu-na uscita. Spuntò nella stanza in cui veniva dato il tocco finale alle vivande destinate alla sala da pranzo. Cinque o sei camerieri erano occupa-ti a sistemare le pietanze su scaldavivande e a mettere i piatti sui vassoi. In mezzo alla stanza c'era una scala che scendeva. Luke si fece largo tra i camerieri e la imboccò, ignorando una voce che gli urlava: «Scusi, signore! Lei non può andare da quella parte!». Quando arrivò anche Anthony la stessa voce esclamò indignata: «E dove siamo, alla Union Station?». Al piano interrato c'era la cucina vera e propria, un purgatorio soffocante dove una decina di chef preparavano il cibo per centi-naia di persone: i fuochi a gas accesi al massimo, nubi di vapore, pentole e casseruole che ribollivano.Icamerieri urlavano ai cuo-chi, i cuochi urlavano agli aiutanti, tutti troppo

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occupati per pre-stare attenzione a Luke che sfrecciò attraverso il locale tra frigori-feri e fornelli, schivando pile di piatti e casse di verdura. In fondo alla cucina trovò una scala. Immaginò che salisse verso l'entrata di servizio, in caso contrario era in trappola. Decise di cor-rere il rischio e si lanciò di corsa. Arrivato in cima, spalancò una porta a vento e uscì nell'aria fresca della notte. Si trovava in un cortile buio. Una debole lampada sopra la porta illuminava giganteschi contenitori per la spazzatura e pile di cas-sette di legno per la frutta. Una cinquantina di metri più in là, alla sua destra, c'era un'alta recinzione di rete metallica con un cancello chiuso e, oltre quella, una strada che, a occhio e croce, doveva es-sere la Fifteenth. Mentre correva verso il cancello udì la porta alle sue spalle spa-lancarsi con fracasso, e immaginò che Anthony fosse uscito in cortile. Erano soli. Arrivò al cancello: era chiuso con un grosso lucchetto d'acciaio. Se solo fosse passato qualcuno Anthony avrebbe avuto paura di sparare, ma non c'era in giro neppure un'anima. Con il cuore che batteva all'impazzata, Luke cominciò a scalare la rete di recinzione. Arrivato in cima udì lo sparo attutito di una pistola con il silenziatore. Il proiettile non arrivò a segno. Era un ti-ro difficile - un bersaglio in movimento nell'oscurità a una cin-quantina di metri di distanza - ma non impossibile. Si lasciò cadere dall'altra parte. La pistola tossì nuovamente. Luke toccò terra, bar-collò e cadde. Ancora uno sbuffo. Si rimise in piedi e si precipitò di corsa verso est. Ora la pistola taceva. Arrivato all'angolo, si voltò a guardare. Di Anthony nessuna traccia. Ce l'aveva fatta.

Anthony si sentiva cedere le gambe. Si appoggiò con una mano alla parete fredda. Il cortile puzzava di verdura marcia. Gli pareva di respirare l'essenza stessa della corruzione. Era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto. In confron-to, uccidere Albin Moulier era stato uno scherzo. Mentre punta-va la pistola contro la sagoma di Luke che si arrampicava sulla recinzione, gli era stato quasi impossibile premere il grilletto. Era il peggiore scenario immaginabile: non solo Luke era ancora vivo ma, dopo essersi visto sparare addosso, era sicura-mente all'erta e deciso a scoprire la verità. La porta della cucina si aprì e comparvero Malone e Curtis. Anthony fece scivolare prudentemente la pistola nella tasca inter-na del cappotto. «Presto, inseguitelo! Oltre la rete!» ordinò, an-sante, sapendo che non l'avrebbero preso. Come i due si furono allontanati, cominciò a cercare i bossoli.

22.30

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Il progetto del missile trae origine da quello delle V2 utilizzate per i bombardamenti su Londra durante la guerra. Il motore sembra addirittura lo stesso. Accelerometri, relè e giroscopi derivano tutti da quelli delle V2. La turbopompa per l'alimentazione del combu-stibile è mossa dal vapore generato dalla decomposizione di una corrente di perossido di idrogeno al 90 per cento che transita su un letto di catalisi a base di cadmio. Anche questo sistema deriva dalle V2.

Harold Brodsky aveva preparato un ottimo martini secco e il pasticcio di tonno di Mrs Riley era buono come promesso. Per dessert, torta di ciliegie con gelato. Billie si sentiva in colpa: Harold cercava di compiacerla in ogni modo, ma lei non poteva fare a meno di pensare a Luke e Anthony, alle vicende del passa-to e al recente, sconcertante intrigo. Mentre Harold preparava il caffè, Billie telefonò a casa per accertarsi che tutto fosse a posto. Poi lui propose di trasferirsi in soggiorno a guardare la televisione. Tirò fuori una bottiglia di cognac francese e ne versò due dosi generose in grandi napoleo-ni. Billie si chiese se stesse cercando di prendere coraggio o di fiaccare la sua resistenza. Inspirò il profumo del cognac ma non ne bevve. Anche Harold era pensieroso. Di solito era un conversatore divertente e arguto, la faceva sempre ridere molto quando erano insieme. Quella sera, però, sembrava preoccupato. Guardarono un thriller intitolato Run, Joe, Run!. Jan Sterling faceva la parte di una cameriera legata a un ex gangster imperso-nato da Alex Nichol. Billie non riusciva a provare interesse per i pericoli immaginari rappresentati sullo schermo. La sua mente continuava a tornare al mistero intorno a ciò che Anthony aveva inflitto a Luke. Durante la permanenza nell'Oss tutti loro aveva-no infranto sistematicamente ogni tipo di regola, ma Billie era scioccata all'idea che Anthony si fosse spinto così lontano. In tempo di pace non vigevano regole diverse? Cosa lo aveva indotto a fare una cosa simile? Bern l'aveva chia-mata per informarla della sua conversazione con Luke e questo non aveva confermato ciò che le diceva il suo istinto, e cioè che Luke non poteva essere una spia. Come poteva Anthony pensare una cosa simile? E se non ne era convinto, qual era la vera ragio-ne del suo comportamento? Harold spense la televisione e si versò dell'altro cognac. «È un po' di tempo che penso al nostro futuro» disse. Billie si sentì mancare il cuore. Stava per chiederle di sposarlo. Se l'avesse fatto anche solo il giorno prima lei avrebbe accettato, ma ora non riusciva neppure a pensarci. Lui le prese la mano. «Io ti amo» le disse. «Andiamo d'accordo, condividiamo gli stessi interessi e tutti e due abbiamo un figlio. Ma non è questo il motivo. Credo che ti sposerei anche se fossi una ca-meriera che mastica chewing-gum e adora Elvis Presley.» Billie rise. «Io ti adoro perché sei tu. So che è vero amore perché mi è già successo una volta, solo una, con Lesley. L'ho amata con tutto il cuore, finché l'ho avuta con me, auindi ora non ho dubbi: ti amo e voglio restare insieme a te per sempre.» La guardò e poi chie-se: «E tu, cosa pensi?». Lei sospirò. «Io ti voglio bene. Mi piacerebbe venire a letto con te, credo che sarebbe fantastico.» Lui

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inarcò le sopracciglia ma non la interruppe. «E non posso fare a meno di pensare quan-to sarebbe più facile la mia vita se avessi qualcuno con cui con-dividere i problemi.» «Fantastico.» «Fino a ieri questo sarebbe stato più che sufficiente. Avrei detto sì, ti amo, sposiamoci. Ma oggi ho incontrato una persona che ap-partiene al mio passato e mi sono ricordata cosa significhi essere innamorati a vent'anni.» Gli rivolse uno sguardo sincero. «E io non provo questo per te, Harold.» Lui non si lasciò scoraggiare. «E chi può, alla nostra età?» «Forse hai ragione.» Desiderava tanto tornare a essere pazza e incosciente, ma era un desiderio assurdo per una donna divor-ziata con un figlio di sette anni. Per prendere tempo si portò il bicchiere alle labbra. Suonò il campanello. Billie ebbe un sussulto. «E ora chi diavolo è?» esclamò Harold irritato. «Spero solo che non sia Sidney Bowman che vuole in prestito il cric a que-st'ora della sera.» Si alzò e andò in corridoio. Billie sapeva chi era alla porta. Posò il cognac, che non aveva neppure assaggiato, e si alzò. Sentì la voce di Luke all'ingresso. «Ho bisogno di parlare con Billie.» Lei si domandò come mai si sentisse così felice. «Non credo che desideri essere disturbata, ora» disse Harold. «È importante.» «Come ha fatto a scoprire che è qui?» «Me l'ha detto sua madre. Mi scusi, Harold, ma non ho proprio tempo da perdere.» Billie sentì un tonfo, seguito da un'esclamazio-ne di protesta di Harold e immaginò che Luke si fosse introdotto in casa con la forza. Andò alla porta del soggiorno e guardò in corri-doio. «Calma, Luke» disse. «Questa è casa di Harold.» Luke aveva il cappotto strappato, era senza cappello e sembrava molto scosso. «Cos'è successo ancora?» «Anthony mi ha sparato addosso.» Billie era scioccata. «Anthony?» ripeté. «Oh, mio Dio! Cosa gli è preso? Ti ha sparato?» Harold era spaventato. «Cos'è questa storia?» Luke lo ignorò. «È ora di parlare con qualcuno più in alto» dis-se a Billie. «Io vado al Pentagono, ma ho paura che non mi creda-no. Vuoi venire con me per confermare la mia storia?» «Certo» rispose Billie prendendo il cappotto dall'attaccapanni nell'ingresso. «Billie!» esclamò Harold. «Noi stavamo parlando di una cosa importante!»

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«Ho davvero bisogno di te» insisté Luke. Billie esitò. Era dura per Harold - evidentemente aveva piani-ficato quella serata da tempo - ma la vita di Luke era in perico-lo. «Mi dispiace» gli disse «ma devo andare.» Sollevò il viso per-ché la baciasse, ma lui si tirò indietro. «Non fare così. Ci vediamo domani.» «Fuori da casa mia. Tutti e due» urlò lui, furibondo. Billie uscì, seguita da Luke, e Harold sbatté la porta.

23.00

Il programma Jupiter è costato 40 milioni di dollari nel 1956 e 140 milioni nel 1957. La cifra prevista per il 1958 supera i 300 milioni.

Anthony trovò della carta intestata del Carlton nella scrivania nella camera di Pete. Prese una busta. Tirò fuori dalla tasca tre bos-soli e tre proiettili deformati, quelli sparati contro Luke. Li chiuse nella busta, la sigillò e se la mise in tasca. Se ne sarebbe sbarazzato alla prima occasione. Stava cercando di limitare i danni. Aveva poco tempo, ma doveva cancellare con cura ogni traccia dell'accaduto. Questo lo aiutava a non pensare all'intollerabile sensazione di disgusto che provava verso di sé. Il vicedirettore dell'albergo entrò nella stanza, indignato. Era un ometto calvo e azzimato. «Si sieda, la prego, Mr Suchard» disse Anthony e gli mostrò il distintivo. «La Cia!» esclamò Suchard, e la sua indignazione cominciò a svanire. Anthony prese un biglietto da visita dal portafoglio. «Sul biglietto c'è scritto Dipartimento di Stato, ma se ha bisogno di me può sempre cercarmi a questo numero.» Suchard prese in mano il biglietto come se dovesse scoppiargli tra le dita. «Cosa posso fare per lei, Mr Carroll?» Aveva un leggero accento straniero, forse svizzero, pensò Anthony. «Innanzitutto, desidero scusarmi con lei per il trambusto di poc'anzi.» Suchard annuì compunto. Non avrebbe mai minimizzato l'ac-caduto. «Fortunatamente, pochi ospiti si sono accorti di qualco-sa. Solo il personale di cucina e qualche cameriere l'hanno vista inseguire quel signore.» «Sono felice di non aver creato troppo scompiglio, anche se si tratta di una questione di sicurezza nazionale.»

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«Sicurezza nazionale?» ripeté Suchard inarcando le sopracci-glia per la sorpresa. «Ovviamente non posso dilungarmi nei dettagli...» «Ovviamente.» «Ma spero di poter contare sulla sua discrezione.» Iprofessionisti dell'attività alberghiera andavano orgogliosi della loro riservatezza, e Suchard annuì con vigore. «Nel modo più assoluto.» «Forse non sarà necessario informare il direttore di quanto è accaduto.» «È possibile...» Anthony tirò fuori un rotolo di banconote. «Il Dipartimento di Stato ha un piccolo fondo per questi casi» disse, prendendo una banconota da venti dollari che Suchard accettò senza battere ciglio. «E se qualcuno del personale le sembrasse poco convinto, magari...» Anthony contò altre quattro banconote e le porse all'uomo. Era una somma enorme per un vicedirettore. «Grazie, signore. Sono certo che riusciremo ad accontentarla.» «Se le facessero delle domande, sarebbe meglio rispondere che lei non ha visto nulla.» «Certamente.» Suchard si alzò. «Se c'è altro...» «Nel qual caso glielo farò sapere» disse Anthony, congedan-dolo con un cenno del capo. Poco dopo entrò Pete. «Il capo della sicurezza di Cape Canaveral è il colonnello Bill Hide. Alloggia allo Starlite Motel.» Porse a Anthony un foglietto con sopra annotato un numero di telefo-no e uscì di nuovo. Anthony compose il numero di telefono e si fece passare la stanza di Hide. «Parla Anthony Carroll della Cia, Servizi tecnici» disse. «Bene, cosa posso fare per lei, Mr Carroll?» rispose il colon-nello. Parlava con voce bassa e strascicata, per nulla marziale, come se avesse bevuto un paio di drink. «La chiamo a proposito del dottor Lucas.» «Sì?» Il suo tono pareva vagamente ostile e Anthony decise di rab-bonirlo. «Gradirei molto un suo consiglio, colonnello, se potesse dedicarmi qualche minuto nonostante l'ora tarda.» Hide si ammorbidì. «Certo, tutto quello che posso.» Così andava meglio. «Immagino che lei sia al corrente del recente strano comportamento del dottor Lucas, cosa preoccupante per uno scienziato che ha accesso a informazioni molto riservate.» «Naturalmente.»

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Anthony voleva che Hide pensasse di avere il controllo della conversazione. «Cosa pensa del suo stato mentale?» «L'ultima volta che l'ho visto mi è parso normale, ma qualche ora fa gli ho parlato e mi ha detto di aver perso la memoria.» «C'è dell'altro. Ha rubato una macchina, si è introdotto ille-galmente in una casa, ha aggredito un poliziotto, e altre imprese del genere.» «Mio Dio, è peggio di quanto pensassi.» Hide se la stava bevendo, pensò Anthony con sollievo, e rin-carò la dose. «Crediamo che abbia perso la ragione, ma lei lo conosce meglio di noi. A suo parere, cosa gli sta succedendo?» Anthony trattenne il fiato, sperando di ricevere la risposta giusta. «Be', direi che potrebbe trattarsi di un esaurimento nervoso.» Era proprio ciò che Anthony voleva fargli credere, ma ora Hide era convinto di esserci arrivato da solo e di essere lui a cercare di persuadere Anthony. «Senta, Mr Carroll, l'esercito non assegne-rebbe mai un pazzo a un progetto top secret. Di nórma, Luke è sano di mente quanto lei e me. Evidentemente è accaduto qual-cosa che gli ha fatto perdere il controllo.» «Sembra sicuro di essere vittima di una qualche macchinazio-ne... ma lei mi sta dicendo che forse non è il caso di dargli cre-dito.» «Assolutamente no.» «Allora dovremmo agire con prudenza. Voglio dire, è il caso di allertare il Pentagono?» «Buon Dio, certo che no» rispose Hide, preoccupato. «Anzi, sarà meglio che li chiami per avvertirli che Luke si comporta in maniera bizzarra.» «Come vuole.» Pete entrò nella stanza e Anthony con un dito gli fece segno di aspettare. «A proposito» proseguì, ammorbidendo il tono di voce «io sono un vecchio amico dei Lucas. Cercherò di convincere Luke a parlare con uno psichiatra.» «Mi sembra un'ottima idea.» «La ringrazio molto, colonnello, lei mi ha tranquillizzato. Pro-cederemo sulla linea da lei suggerita.» «Si figuri. Se c'è altro che desidera chiedermi o di cui vuole discutere con me, mi chiami pure in qualsiasi momento.» «Lo farò» rispose Anthony, e riattaccò. «Uno psichiatra?» chiese Pete. «Era solo per dire.» Anthony esaminò la situazione. Lì in albergo non c'era alcuna traccia dell'accaduto. Era riuscito a influenzare il Pentagono contro qualsiasi denuncia Luke potesse fare. Restava solo

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l'ospedale. Si alzò. «Sarò di ritorno tra un'ora» disse a Pete. «Voglio che tu resti qui, ma non nell'atrio. Prendi Malone e Curtis e paga una cameriera perché ti lasci entrare nella suite di Luke. Ho il pre-sentimento che tornerà.» «E se torna?» «Non lasciatevelo scappare. A nessun costo.»

24.00

Il missile Jupiter C utilizza Hydyne, un combustibile segreto che è del 12 per cento più potente del normale propellente a base di alcol usato per i missili Redstone. Si tratta di una sostanza tossica e cor-rosiva, una miscela di UDMH - dimetilidrazina asimmetrica - e di dietilene triamminico.

Billie entrò con la Thunderbird rossa nel parcheggio del Georgetown Mind Hospital e spense il motore. Il colonnello Lopez del Pentagono andò a fermarsi nello spazio accanto a bordo di una Ford Fairlane color verde oliva. «Non crede a una sola parola del mio racconto» osservò Luke irritato. «E come si può dargli torto?» rifletté Billie. «Il vicedirettore del Carlton afferma che non c'è stato alcun inseguimento nelle cucine, e davanti all'entrata di servizio non è stato ritrovato alcun bossolo.» «Anthony ha cancellato ogni prova.» «Certo, ma il colonnello Lopez non può saperlo.» «Grazie al cielo ci sei tu a confermare quello che dico.» Scesero dall'auto ed entrarono nell'ospedale insieme al colon-nello, un uomo di origine ispanica dal temperamento flemmatico e l'espressione intelligente. Billie salutò con un lieve cenno del capo l'addetto all'accettazione e fece strada su per le scale e lungo il corridoio che portava all'archivio. «Ora le mostrerò la cartella clinica di un uomo che si chiama Joseph Bellow e le cui caratteristiche fisiche corrispondono in tutto e per tutto a quelle di Luke» spiegò. Il colonnello annuì. «Vedrà che è stato ricoverato martedì, ha subito un trattamento particolare ed è stato dimesso alle quattro del mattino di merco-ledì» proseguì Billie. «Deve sapere che è una cosa molto insolita che un paziente schizofrenico venga sottoposto a un qualsiasi trat-tamento senza prima rimanere in osservazione per un certo perio-do. E non è necessario le dica che non si è mai visto dimettere un paziente da un ospedale psichiatrico alle quattro del mattino.»

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«Capisco» disse Lopez senza prendere posizione. Billie aprì il cassetto, tirò fuori il fascicolo di Bellow, lo posò sulla scrivania e lo aprì. Era vuoto. «Oh, mio Dio!» esclamò. Luke fissava la cartellina, attonito. «Ho visto io stesso quei documenti meno di sei ore fa!» Lopez si alzò in piedi con aria infastidita. «Be', immagino sia tutto.» Luke aveva l'orribile sensazione di vivere in un mondo surrea-le in cui la gente poteva fargli tutto ciò che voleva, sparargli, far-gli perdere la memoria, senza che lui potesse dimostrarlo. «Forse sono davvero schizofrenico» rifletté cupo. «Be', io non lo sono» ribatté Billie. «E ho visto quel fascicolo con i miei occhi.» «Ma ora non c'è» osservò Lopez. «Aspettate» disse Billie. «Il ricovero dovrebbe essere stato segnato sul registro. Lo tengono giù al banco dell'accettazione.» Così dicendo chiuse con forza il cassetto dello schedario. Scesero nell'atrio. Billie andò dall'addetto all'accettazione: «Charlie, fammi vedere il registro, per favore». «Subito, dottoressa.» Il giovane di colore lo cercò dappertutto senza trovarlo. «Accidenti, dove diavolo è finito?» «Oh, Cristo» mormorò Luke. Il giovane non nascondeva il proprio imbarazzo. «Era qui un paio d'ore fa.» Billie era furente. «Dimmi una cosa, Charlie. Stasera il dottor Ross è passato di qui?» «Sissignora. Se n'è andato pochi minuti fa.» Billie annuì. «La prossima volta che lo vedi, chiedigli dov'è finito il registro. Lui lo sa.» «Certo.» Billie voltò le spalle al bancone. «Lasci che le chieda una cosa, colonnello.» Luke era furibon-do. «Prima che venissimo da lei, questa sera, qualcuno le aveva già parlato di me?» «Sì» ammise Lopez dopo una leggera esitazione. «Chi?»

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L'uomo esitò di nuovo, ma poi si arrese. «Suppongo che lei abbia il diritto di saperlo. Abbiamo ricevuto una telefonata da un certo colonnello Hide da Cape Canaveral. Ci ha detto che la Cia la teneva sotto controllo e che lo avevano avvertito che lei si stava comportando in modo un po' strano». «Ancora Anthony» osservò Luke, annuendo con aria truce. «Be', a me non viene in mente altro per convincerla» disse Billie rivolta a Lopez. «Non la biasimo se lei non ci crede, visto che non abbiamo prove.» «Io non ho detto che non vi credo» ribatté Lopez. Luke guardò il colonnello, sorpreso e animato da nuova spe-ranza. «Potevo pensare che lei si fosse immaginato di essere stato inseguito da un uomo della Cia per il Carlton Hotel e che que-st'uomo le avesse sparato addosso in un vicolo. Potevo anche accettare l'idea che lei e la dottoressa aveste mentito dicendo che c'era un fascicolo che poi è scomparso. Ma non posso credere che anche il personale dell'accettazione sia coinvolto. Deve esser-ci un registro, e questo registro è sparito. Non credo che lo abbia-te preso voi, perché avreste dovuto farlo? E allora chi è stato? Qualcuno sta mescolando le carte.» «Allora ci crede?» chiese Luke. «Cosa c'è da credere? Lei non sa cosa ci sia sotto a tutto que-sto. Io neppure. Ma di certo qualcosa c'è, e sono convinto che abbia un aggancio con quel razzo che sta per essere lanciato.» «Cosa intende fare?» «Darò l'ordine di massima allerta a Cape Canaveral. Ci sono stato, laggiù, e so che i servizi di sicurezza sono molto approssi-mativi.» «E Anthony?» «Ho un amico alla Cia. Gli riferirò la sua storia, dicendo che non so se sia vera o meno, ma che sono preoccupato.» «Questo non ci aiuterà!» protestò Luke. «Noi dobbiamo sco-prire cosa sta succedendo, perché mi ha fatto perdere la memo-ria!» «Sono d'accordo» convenne Lopez «però io non posso fare al-tro. Il resto tocca a lei.» «Oh, Cristo!» esclamò Luke. «Allora sono solo.» «No» disse Billie «non sei solo.»

PARTE QUARTA

1.00

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Il nuovo combustibile deriva da un gas nervino ed è molto perico-loso.Èstato trasportato a Cape Canaveral su uno speciale convo-glio ferroviario dotato di un sistema di sicurezza che utilizza azoto per inertizzare ogni eventuale perdita. Una sola goccia di combu-stibile sulla pelle verrebbe assorbita all'istante dal sangue con esiti fatali.

Billie guidava veloce, maneggiando con sicurezza il cambio manuale a tre marce. Luke la osservava ammirato. Sfrecciarono per le strade silenziose di Georgetown, andando verso il centro della città. Attraversarono il Rock Creek e si diressero al Carlton. Luke si sentiva pieno di energia. Conosceva finalmente il nemico, aveva un'alleata al suo fianco e sapeva cosa doveva fare. Seppure disorientato dalla sua disavventura, era determinato a sciogliere il mistero e impaziente di mettere fine a quella vicenda. Billie parcheggiò dietro l'angolo rispetto all'ingresso principale. «Vado prima io. Se c'è qualcuno dall'aria sospetta nell'atrio, esco subito. Se vedi che mi tolgo il cappotto vuol dire che la via è libe-ra.» Luke non era convinto di questo piano. «E se ci fosse Anthony?» «A me non sparerà» disse Billie scendendo dall'auto. Luke fece per contraddirla, ma poi si trattenne. Probabilmen-te aveva ragione. Anthony di sicuro aveva perquisito da cima a fondo la sua camera e distrutto tutto quanto potesse costituire una traccia per arrivare a quel segreto che cercava di difendere con ogni forza. Doveva però conservare alla situazione una par-venza di normalità, per dare credito alla montatura secondo la quale lui aveva perso la memoria in seguito a una colossale sbornia. Luke si aspettava di ritrovare la maggior parte delle sue cose. Questo lo avrebbe aiutato a orientarsi e, forse, avrebbe potuto imbattersi in qualche indizio sfuggito a Anthony. Si avvicinarono all'albergo separatamente. Luke si tenne sul lato opposto della strada. Osservò Billie entrare, ammirandone la camminata disinvolta che faceva ondeggiare il cappotto. Riusciva a vedere l'interno dell'atrio, oltre le vetrate. Un portiere si era subito avvicinato a Billie, insospettito nel vedere una donna affa-scinante arrivare in albergo tutta sola a notte fonda. La vide par-lare e immaginò che stesse dicendo: "Sono Mrs Lucas, mio mari-to arriverà tra un minuto". Poi si tolse il cappotto. Luke attraversò la strada ed entrò. «Tesoro, prima di salire in camera vorrei fare una telefonata» la informò, a beneficio del portiere. Sul bancone della reception c'era un telefono interno, ma Luke non voleva che il portiere ascoltasse la conversazione. Accanto c'era una piccola nicchia con un telefono pubblico sistemato in una cabina chiusa. Luke entrò. Billie lo seguì e chiuse la porta. Erano a stretto contatto. Luke infilò una moneta nella fessura e chiamò l'albergo. Teneva il ricevitore staccato dall'orecchio in modo che anche Billie potesse sentire. Nonostante la tensione, trovava deliziosamente eccitante la vicinanza di lei. «Carlton, buongiorno.» Luke si rese conto di colpo che era martedì mattina. Era in piedi da quasi venti ore, ma non aveva sonno: era troppo teso. «Stanza cinquecentotrenta, per favore.»

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L'operatore esitò. «Signore, è l'una del mattino passata... Si tratta di un'emergenza?» «Il dottor Lucas mi ha chiesto di chiamarlo, a qualsiasi ora.» «Molto bene.» Ci fu una pausa, poi si udì lo squillo del telefono. Luke era for-temente consapevole del corpo caldo di Billie fasciato dall'abito di seta rossa. Dovette lottare con il desiderio di circondare quel-le spalle armoniose e stringerla a sé. Dopo quattro squilli stava per riattaccare, convinto che la stan-za fosse vuota, quando qualcuno rispose. Dunque Anthony, o uno dei suoi uomini, lo stava aspettando. Era una seccatura, eppure Luke si sentiva più tranquillo, ora che sapeva dove si era appostato il nemico. «Pronto?» disse una voce dal tono incerto. Non era Anthony, ma avrebbe potuto essere Pete. Luke fece una voce da ubriaco. «Ehi, Ronnie, sono Tim. Ti stiamo aspettando!» L'uomo ebbe un'esclamazione irritata. «Un ubriacone» disse, come se stesse parlando con qualcun altro. «Hai sbagliato came-ra, amico.» «Oh, mi scusi tanto! Spero di non aver svegliato...» Luke si interruppe quando all'altro capo riattaccarono. «C'è qualcuno» osservò Billie. «Più di uno, probabilmente.» «Io so come farli uscire» lo informò lei con un ghigno. «L'ho già fatto a Lisbona, durante la guerra. Su, vieni.» Uscirono dalla cabina telefonica. Luke vide Billie rubacchiare una cartina di fiammiferi da un posacenere accanto all'ascensore. Il portiere li portò al quinto piano. Trovarono la stanza 530 e passarono oltre senza far rumore. Bil-lie aprì una porta non contrassegnata da numero che nascondeva un ripostiglio per la biancheria. «Perfetto» disse a voce bassa. «C'è un allarme antincendio, qui vicino?» Luke si guardò attorno e vide un allarme del tipo che si attiva-va rompendo un pannello di vetro con un martelletto. «Là» indicò. «Bene.» Nel ripostiglio c'erano lenzuola e coperte ordinate su ripiani di legno. Billie spiegò una coperta e la lasciò cadere a terra. La prima coperta fu seguita da molte altre, fino a formare una pila sul pavimento. Luke capì cosa aveva intenzione di fare; i suoi sospetti vennero confermati quando lei prese un cartoncino per ordinare la colazione appeso alla maniglia di una porta e gli diede fuoco con un fiammifero. Mentre questo si incendiava, avvicinò la fiamma alla pila di coperte. «Ecco il motivo per cui non si dovreb-be mai fumare a letto» disse. Quando le fiamme cominciarono a prendere, Billie aggiunse al-cune lenzuola. Aveva il viso arrossato per l'eccitazione e il calore, e sembrava più attraente che mai. In un attimo si sviluppò un bel falò. Il fumo

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cominciò a uscire dal ripostiglio e a invadere il corri-doio. «È ora di far suonare l'allarme» suggerì. «Non vogliamo che si faccia male qualcuno.» «Hai ragione» rispose Luke e gli tornò di nuovo in mente quel-la frase: non sono collaborazionisti. Adesso, però, ne capiva il significato. Nella Resistenza, quando faceva saltare in aria fabbri-che e depositi, doveva aver sempre avuto la preoccupazione di evitare danni a persone innocenti. Afferrò il martelletto attaccato con una catenella vicino all'al-larme. Con un colpo ruppe il vetro e premette il grosso pulsante rosso all'interno. L'attimo successivo un forte scampanellio infranse il silenzio della notte. Luke e Billie arretrarono lungo il corridoio, allontanandosi dall'ascensore di quel tanto che permetteva loro di tenere d'oc-chio la porta della camera di Luke. La porta vicino a loro si aprì e uscì una donna in camicia da notte. Vedendo il fumo, lanciò un urlo e si precipitò verso le scale. Da un'altra porta emerse un uomo in maniche di camicia con una matita in mano: evidentemente stava lavorando nonostante l'ora tarda; poi fu la volta di una giovane coppia, entrambi avvolti in lenzuola. Sembrava proprio che fossero stati interrotti mentre facevano l'amore. Quindi arrivò un uomo con un pigiama rosa tutto stazzonato e gli occhi annebbiati dal sonno. Pochi secondi dopo, il corridoio era pieno di gente che tossiva e brancolava nel fumo in direzione delle scale. La porta della stanza 530 si aprì lentamente. Luke vide un uomo alto uscire in corridoio. Nonostante il fumo gli parve di scorgere una grossa chiazza rossa sulla guancia: era Pete. Si ritrasse per evitare di essere riconosciuto. Pete esitò, poi parve decidersi e si unì al fiume di persone che andava verso le scale. Altri due uomini uscirono dalla stanza e lo seguirono. «Via libera» disse Luke. Luke e Billie entrarono nella suite e Luke chiuse la porta per non far entrare il fumo. Poi si tolse il cappotto. «Oh, mio Dio!» esclamò Billie. «È la stessa stanza.»

Billie si guardò attorno con gli occhi spalancati. «Non posso crederci» continuò, con voce così bassa che Luke fece fatica a sentirla. «È la stessa suite.» Lui la osservava immobile. Sembrava in preda a una forte emo-zione. «Cos'è successo, qui?» le chiese infine, impaziente. Lei scosse la testa. «È difficile immaginare che tu non lo ricor-di.» Fece un giro per la stanza. «C'era un pianoforte a coda, in quell'angolo. Pensa, un pianoforte in una camera d'albergo!» Guardò in bagno. «E qui c'era un telefono. Non avevo mai visto un telefono nel bagno.» Luke attese. Il volto di Billie esprimeva tristezza e una qualche altra emozione che lui non riusciva a decifrare. «Tu stavi qui durante la guerra.» E poi aggiunse, d'un fiato: «Abbiamo fatto l'amore, in questa suite».

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Lui guardo nella stanza. «Su quel letto, suppongo.» «Non solo sul letto» disse lei ridendo, poi ridiventò seria. «Com'eravamo giovani!» Il pensiero di fare l'amore con quella donna incantevole era così eccitante da risultare quasi intollerabile. «Oh, Dio, come vorrei poter ricordare» sospirò lui, con voce carica di desiderio. Con sua sorpresa, lei arrossì. Luke si voltò, sollevò il ricevitore e compose il numero del cen-tralino. Voleva accertarsi che l'incendio non avesse modo di pro-pagarsi. Dopo una lunga attesa qualcuno rispose. «Sono Mr Davies. Ho ratto scattare io l'allarme» disse Luke in fretta. «L'incendio è nel ripostiglio della biancheria vicino alla stanza 540.» Riattaccò senza aspettare la risposta. Billie si guardava attorno; apparentemente aveva superato l'e-mozione. «Qui ci sono i tuoi vestiti.» Luke andò in camera. Posati sul letto c'erano una giacca spor-tiva di tweed grigio chiaro e un paio di calzoni di flanella grigio scuro. Sembrava fossero appena tornati dalla lavanderia. Luke immaginò di averli indossati per il viaggio in aereo e di averli mandati a stirare. Per terra c'era un paio di scarpe marrone scuro. Dentro a una scarpa era infilata una cintura di coccodrillo ordinatamente arrotolata. Aprì il cassetto del comodino e trovò un portafoglio, un libretto degli assegni e una penna stilografica. Ancora più interessante fu la scoperta di un'agendina per gli appuntamenti con in fondo una picco a rubrica telefonica. La sfogliò velocemente e trovò la pagi-na della settimana in corso.

DOMENICA 26 Compleanno Emily

LUNEDÌ 27 Comprare costume da bagno 8.30 Riunione Apice, Vanguard Motel

MARTEDÌ 28 8.00 Colazione con A.C., caffetteria Hay Adams

Billie gli era accanto per vedere ciò che stava leggendo. Gli posò una mano sulla spalla. Era un gesto casuale, ma il suo tocco gli procurò un brivido di piacere. «Hai qualche idea di chi possa essere questa Emily?» le chiese.

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«Tua sorella.» «Quanti anni ha?» «Dieci meno di te, cioè ventisette.» «Dunque è nata nel '31. Le avrò telefonato per farle gli auguri. Potrei richiamarla ora e chiederle se ho detto qualcosa di insolito.» «Ottima idea.» Luke era soddisfatto. Stava ricostruendo la propria vita. «Devo essere andato in Florida senza il costume da bagno.» «E chi pensa ai costumi da bagno a gennaio?» «Così ho preso nota di comperarne uno lunedì. Quella mattina sono andato al Vanguard Motel alle otto e mezzo.» «Cos'è una riunione Apice?» «Credo abbia a che fare con lo studio della traiettoria seguita dal missile in volo. Non ricordo di avervi lavorato, naturalmente, ma so che sono necessari calcoli molto complessi. Perché il secondo stadio possa mettere il satellite in un'orbita permanente deve essere acceso proprio all'apice della traiettoria.» «Potresti scoprire chi altri era presente alla riunione e parlare con loro.» «Certo.» «Poi, martedì, hai fatto colazione con Anthony alla caffetteria dell'Hay Adams Hotel.» «Dopo di che non ci sono altri appuntamenti.» Aprì l'agendina alle pagine finali: c'erano i numeri di telefono di Anthony, Billie e Bern, di sua madre, Alice e venti o trenta altre persone i cui nomi non gli dicevano nulla. «C'è qualcosa che ti col-pisce?» chiese a Billie. Lei scosse la testa. C'erano alcune piste che valeva la pena di seguire, ma nessun indizio evidente. Era quello che si aspettava, ciononostante si sentì un po' deluso. Si mise in tasca l'agendina e si guardò attor-no. Una valigia di pelle nera dall'aria vissuta era posata aperta su un trespolo. Luke vi frugò dentro, trovò delle camicie e della biancheria pulita, un bloc-notes pieno per metà di calcoli, l'edi-zione economica di Il vecchio e il mare con l'angolo della pagina 143 piegato. Billie guardò in bagno. «L'occorrente per farsi la barba, una piccola borsa per gli articoli da toletta, uno spazzolino... fine della storia.» Luke aprì tutti gli armadi e i cassetti della camera da letto, mentre Billie faceva lo stesso in soggiorno. In un armadio Luke trovò un cappotto di lana e un cappello neri, ma niente di più. «Zero assoluto» annunciò. «E tu?»

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«Sulla scrivania ci sono dei messaggi telefonici: da parte di Bern, del colonnello Hide e di una certa Marigold.» Luke pensò che Anthony doveva averli visti e giudicati inno-cui, decidendo quindi di non farli sparire per non suscitare sospetti. «Sai chi sia questa Marigold?» Luke rifletté. A un certo punto della giornata aveva sentito quel nome... Poi, all'improvviso, gli venne in mente. «È la mia segretaria a Huntsville. Hide mi ha detto che è stata lei a farmi le prenotazioni per l'aereo.» «Chissà se le hai parlato dello scopo del viaggio?» «Ne dubito. A Cape Canaveral non l'ho detto a nessuno.» «Lei non è a Cape Canaveral, ed è possibile che tu abbia più fiducia nella tua segretaria che in chiunque altro.» Luke annuì. «Tutto è possibile. Controlliamo, finora sembra la pista più promettente.» Tirò fuori l'agendina e ripassò i numeri di telefono nelle ultime pagine. «Tombola!» esclamò. «Marigold -casa.» Sedette alla scrivania e compose il numero. Si chiese quanto tempo avrebbero avuto a disposizione prima che Pete e gli altri agenti tornassero. Sembrava che Billie gli avesse letto nella mente, perché comin-ciò a mettere la sua roba nella valigia. Rispose una voce femminile assonnata con l'accento strascica-to dell'Alabama. Luke immaginò che fosse una donna di colore. «Scusi se disturbo a quest'ora. Parlo con Marigold?» «Dottor Lucas! Grazie al cielo ha chiamato! Come sta?» «Direi bene, grazie.» «Cosa diavolo le è accaduto? Nessuno sapeva cosa stesse facendo... e ora vengo a sapere che ha perso la memoria. È vero?» «Sì.» «Oh, Dio! E come è successo?» «Non lo so. Speravo che lei fosse in grado di aiutarmi a capir-lo.» «Se posso...» «Vorrei sapere come mai, all'improvviso, ho deciso di andare a Washington lunedì. Ne ho parlato con lei?» «Assolutamente no. E io ero molto curiosa.» Era la risposta che Luke si aspettava, ma ci rimase male lo stes-so. «Ho detto qualcosa che potesse

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lasciar intuire il motivo del mio viaggio?» «No.» «Cosa ho detto?» «Che doveva andare a Washington, ma passando per Hunt-sville, e mi ha chiesto di farle le prenotazioni sui voli della Mats.» La Mats era la compagnia aerea militare, e Luke immaginò di avere la possibilità di utilizzarla per lavoro. Ma c'era una cosa che non riusciva a capire. «Sono passato da Huntsville?» Nessun altro aveva fatto menzione di questo particolare. «Ha detto che doveva fermarsi qui un paio d'ore.» «Chissà perché...» «Poi ha aggiunto una cosa un po' strana. Mi ha chiesto di non dire a nessuno che stava venendo a Huntsville.» «Ah.» A Luke parve un elemento importante. «Dunque, era una visita segreta?» «Sì. E io l'ho mantenuta tale. Sono stata interrogata dal servizio di sicurezza dell'esercito e dall'Fbi, ma non l'ho rivelato a nes-suno perché lei mi aveva detto di non farlo. Quando mi hanno spiegato che era scomparso, mi è venuto il dubbio di aver sba-gliato, ma poi ho deciso che era meglio rispettare i suoi ordini. Ho agito bene?» «Vorrei tanto saperlo anch'io, Marigold. Ma apprezzo la sua lealtà.» L'allarme antincendio smise di suonare. Luke si rese conto di non avere più tempo. «Ora devo andare. Grazie per l'aiuto.» «Si figuri. Ah... stia attento!» si raccomandò la donna, e riat-taccò. «Ho messo insieme la tua roba» disse Billie. «Grazie.» Luke prese cappotto e cappello dall'armadio e li in-dossò. «E ora andiamocene prima che tornino i cattivi.»

Si fermarono in una tavola calda aperta tutta la notte vicino alla sede dell'Fbi, all'angolo con Chinatown, e ordinarono un caffè. «Chissà a che ora parte il primo volo del mattino per Huntsville?» si chiese Luke. «Ci serve un orario delle linee aeree.» Luke si guardò attorno. Vide un paio di poliziotti che mangia-vano ciambelle, quattro studenti ubriachi che ordinavano ham-burger e due donne poco vestite che avevano tutta l'aria di esse-re prostitute. «Non credo proprio che qui ce l'abbiano.» «Scommetto che Bern ne ha uno. È il genere di cose che inte-ressa agli scrittori: sono sempre lì a controllare questo e quello.»

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«Ma adesso starà dormendo.» «E noi lo svegliamo» disse Billie alzandosi. «Hai dieci centesi-mi?» «Certo.» Luke aveva ancora in tasca gli spiccioli rubati il gior-no prima. Billie andò al telefono pubblico accanto alla toilette. Luke con-tinuò a sorseggiare il caffè, osservandola. Mentre parlava al telefono sorrideva e piegava la testa di lato, cercando di essere carina con quel poverino che aveva appena svegliato. Era assolu-tamente adorabile. Luke si sentiva ardere di desiderio per lei. Billie tornò al tavolo. «Verrà lui a portarcelo.» Luke guardò l'orologio: le due del mattino. «Probabilmente andrò diretto all'aeroporto. Spero che ci sia un volo sul presto.» Billie aggrottò la fronte. «C'è un limite di tempo?» «Potrebbe. Continuo a chiedermi cosa mi ha spinto a mollare tutto e correre a Washington. Deve trattarsi per forza di qualcosa che ha a che fare con il razzo, qualcosa che costituisce una minaccia per il lancio.» «Un sabotaggio?» «Penso di sì. E se ho ragione devo trovare le prove prima delle dieci e mezzo di questa sera.» «Vuoi che venga a Huntsville con te?» «Devi occuparti di Larry.» «Posso lasciarlo con Bern.» Luke scosse la testa. «No, è meglio di no... grazie.» «Sei sempre stato un tipo indipendente, tu.» «Non è per questo» ribatté lui. Voleva che lei capisse. «Mi farebbe piacere che tu venissi con me. È che mi piacerebbe trop-po.» «Non c'è problema» disse lei, prendendogli la mano. «Sai, è sconcertante essere sposato con una persona e non sapere cosa si prova per lei. Che tipo è?» Billie scosse la testa. «Non posso parlarti di Elspeth. Devi riscoprirla da solo.» «Immagino di sì.» Billie si avvicinò la mano di lui alle labbra e la baciò con deli-catezza. «Ho sempre provato questa attrazione per te o è un fatto nuovo?» chiese lui, deglutendo a fatica.

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«Non è un fatto nuovo.» «Sembra che andiamo d'accordo.» «No, litighiamo come cane e gatto, ma ci adoriamo.» «Hai detto che una volta abbiamo fatto l'amore... in quella suite dell'albergo.» «Smettila.» «È stato bello?» Lei lo guardò con le lacrime agli occhi. «Bellissimo.» «Allora come mai non siamo sposati?» Lei cominciò a piangere, con piccoli, violenti singhiozzi che scuotevano la sua figura esile. «Perché...» Billie si asciugò il volto, fece un respiro profondo, ma poi riprese a piangere. Infi-ne disse, tutto d'un fiato: «Tu ti sei così arrabbiato con me che non mi hai più parlato per anni».

1945

Igenitori di Anthony avevano un allevamento di cavalli vicino a Charlottesville, in Virginia, a un paio d'ore di macchina da Washington. Era una grande casa bianca in legno con ali aggiun-te alla struttura principale senza uno schema preciso. C'erano stalle e campi da tennis, un laghetto, un ruscello, recinti e boschi tutto intorno. La madre di Anthony l'aveva ereditata da suo padre, insieme a cinque milioni di dollari. Luke arrivò il venerdì seguente la resa del Giappone. Mrs Car-roll venne ad accoglierlo alla porta. Era una donna bionda e ner-vosa che, ai suoi tempi, doveva essere stata molto bella. Lo accom-pagnò in una stanza piccola ma immacolata, con l'assito di legno e un letto vecchio e alto. Luke si tolse l'uniforme - ora aveva il grado di maggiore - e indossò una giacca sportiva di cashmere nero con calzoni di flanel-la grigia. Mentre si annodava la cravatta, Anthony fece capolino. «Quando sei pronto ti aspettiamo in salotto per l'aperitivo» disse. «Arrivo subito» rispose Luke. «In che stanza è Billie?» Sul volto di Anthony passò un'espressione preoccupata. «Pur-troppo le ragazze sono nell'altra ala. L'ammiraglio è un po' all'an-tica in queste cose.» Il padre di Anthony era stato tutta la vita nella marina. «Non c'è problema» disse Luke, stringendosi nelle spalle. Negli ultimi tre anni non aveva fatto altro che spostarsi di notte per l'Europa occupata: trovare la stanza della sua ragazza, anche al buio, sarebbe stato uno scherzo. Quando scese trovò i suoi vecchi amici che lo aspettavano. Oltre a Anthony e Billie c'erano Elspeth, Bern e Peg, la sua ragazza. Luke aveva passato gran parte della guerra con Bern e Anthony, e ogni li-cenza con Billie, ma non vedeva Elspeth e Peg dal 1941.

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L'ammiraglio gli porse un martini e lui ne bevve subito un bel sorso. Non c'era mai stato momento migliore per festeggiare. La conversazione era animata e allegra. La madre di Anthony li osservava con espressione vagamente divertita e suo padre man-dava giù aperitivi più velocemente di chiunque altro. Durante la cena Luke osservò i compagni, confrontandoli con i giovani di buona famiglia che solo quattro anni prima erano stati così preoccupati di essere espulsi da Harvard. Elspeth era magrissima dopo i tre anni a razioni d'emergenza trascorsi a Lon-dra: persino i suoi magnifici occhi sembravano più piccoli. Peg, che era stata una ragazza sciatta e con un cuore d'oro, ora vesti-va con eleganza, ma il trucco sapiente le conferiva un'espressio-ne dura e cinica. Bern, a ventisette anni, ne dimostrava dieci di più. Quella era la sua seconda guerra. Era stato ferito tre volte e aveva il viso scavato di chi ha conosciuto troppe sofferenze, pro-prie e altrui. Anthony se l'era cavata meglio di tutti. Pur avendo partecipato a numerose azioni, aveva passato la maggior parte della guerra a Wa-shington. La sua sicurezza, l'ottimismo e il senso dell'humour era-no rimasti intatti. Anche Billie sembrava poco cambiata. Aveva avuto un'infanzia difficile e travagliata e forse per questo non era rimasta troppo provata dalla guerra. Aveva trascorso due anni a Lisbona sotto copertura, e Luke era l'unico a sapere che là aveva ucciso un uomo tagliandogli la gola con silenziosa efficienza nel cortile die-tro un caffè, dove stava per vendere segreti al nemico. Ma era ancora un concentrato di radiosa energia, un attimo scherzosa, l'attimo seguente fiera, e Luke non si stancava mai di osservare il suo volto in costante mutamento. Era un miracolo che fossero ancora tutti vivi. Molti gruppi di amici non avevano goduto di altrettanta fortuna. «Dovremmo fare un brindisi» disse, alzando il bicchiere di vino. «A coloro che sono sopravvissuti e a quelli che non ci sono più.» Dopo che ebbero bevuto, Bern annunciò: «Ne ho uno anch'io. Agli uomini che hanno distrutto la macchina da guerra nazista... all'Armata rossa». La fede comunista di Bern era ancora forte, ma Luke era certo che non lavorasse più per Mosca. Avevano fatto un patto e lui era convinto che Bern l'avesse rispettato. Ciononostante, il loro rap-porto non era mai più tornato quello di prima. Fidarsi di qualcuno era un po' come tenere dell'acqua tra le mani chiuse a coppa: era facile perderla irrimediabilmente. Ogni volta che ricordava il ca-meratismo che li aveva uniti, Luke provava un grande dispiacere, ma si sentiva comunque incapace di recuperare quel sentimento. Il caffè venne servito in salotto. Luke distribuì le tazze. Mentre offriva zucchero e latte a Billie, lei gli disse a voce bassa: «Ala est, secondo piano, ultima porta sulla sinistra». Alle dieci e mezzo l'ammiraglio insistette perché gli uomini si spostassero nella sala del biliardo. Su una credenza erano dispo-sti liquori e sigari cubani per gli ospiti. Luke declinò l'offerta di altro alcol: non vedeva l'ora di infilarsi sotto le lenzuola accanto al corpo caldo e accogliente di Billie, e l'ultima cosa che voleva era addormentarsi. L'ammiraglio si versò una dose generosa di bourbon e portò Luke in fondo alla sala per mostrargli i suoi fucili da caccia esposti in una rastrelliera chiusa a chiave. Luke non veniva da una famiglia di cacciatori, inoltre per lui i fucili servivano a uccidere le persone, quindi non provava attrazione per essi. Era anche convinto che armi e liquori fossero una pessima combi-nazione. Ma finse comunque un minimo di interesse per educa-zione.

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«Conosco e rispetto la tua famiglia, Luke» disse l'ammiraglio mentre esaminavano un fucile Enfield. «Tuo padre è una gran persona.» «Grazie» rispose Luke. Sembrava il preambolo a un discorso preparato. Durante la guerra suo padre aveva collaborato alla gestione dell'ufficio per il controllo dei prezzi, ma probabilmen-te l'ammiraglio lo considerava ancora un banchiere. «Dovrai pensare alla tua famiglia quando ti sceglierai una moglie, ragazzo mio» proseguì l'ammiraglio. «Sì, signore, lo farò.» Luke si chiese cosa avesse in mente il vecchio. «La donna che diventerà Mrs Lucas avrà un posto assicurato nelle alte sfere della società americana. Devi scegliere una ragaz-za che sia all'altezza del compito.» Luke cominciò a capire dove voleva andare a parare. Seccato, ripose il fucile nella rastrelliera. «Lo terrò presente, ammiraglio» disse, e fece per voltarsi. L'ammiraglio gli posò una mano sul braccio: «Qualunque cosa tu faccia, non ti buttare via». Luke lo fulminò con lo sguardo. Era deciso a non chiedergli cosa intendesse. Credeva di conoscere già la risposta e sarebbe stato meglio se non fosse stata pronunciata. L'ammiraglio, però, non aveva intenzione di cedere. «Non lasciarti incastrare da quella piccola ebrea... non ti merita.» Luke strinse i denti. «Se mi permette, è una cosa della quale preferirei discutere con mio padre.» «Ma tuo padre non sa di lei, giusto?» Luke arrossì. L'ammiraglio aveva colpito nel segno. Luke e Billie non avevano ancora incontrato i rispettivi genitori. Non ce n'era stato il tempo. Avevano costruito la loro rela-zione nei momenti rubati, durante la guerra. Quello, però, non era l'unico motivo. In fondo al cuore una vocina vigliacca gli diceva che, per i suoi genitori, una ragazza proveniente da una povera famiglia ebrea non poteva corrispondere all'ideale di moglie. L'avrebbero accettata - di questo era certo - anzi, sareb-bero arrivati a volerle bene, per gli stessi motivi per cui le vole-va bene lui, ma all'inizio sarebbero rimasti delusi. Di conse-guenza desiderava che si incontrassero al momento giusto, in una circostanza rilassata, quando ci fosse stato il tempo per co-noscersi a fondo. Il fatto che nelle parole dell'ammiraglio ci fosse un briciolo di verità lo fece arrabbiare ancora di più. Controllando appena l'ag-gressività, ribatté a voce alta: «Mi perdoni, ma l'avverto che con-sidero queste osservazioni un'offesa personale». Sulla sala scese il silenzio, anche se la velata minaccia di Luke non sfiorò neppure il vecchio un po' brillo. «Ti capisco, figliolo, però ho più esperienza di te e so di cosa parlo.» «Mi scusi, lei non conosce la persona in questione.» «Oh, io credo di saperne molto più di te su questa persona.»

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Qualcosa nella voce dell'ammiraglio avrebbe dovuto metterlo in guardia, ma Luke era troppo arrabbiato per fermarsi. «Al dia-volo» disse, con tono deliberatamente offensivo. Bern cercò di intervenire. «Ehi, ragazzi, calma. Perché non facciamo qualche tiro a biliardo?» Ma niente poteva più fermare l'ammiraglio. Mise un braccio intorno alle spalle di Luke. «Ascolta, figliolo, sono un uomo e certe cose le so» proseguì, con una confidenza che infastidì Luke. «Purché tu non faccia sul serio, non c'è alcun male nel divertirsi con una puttanella, lo abbiamo fatto...» Non riuscì a finire la frase. Luke si voltò verso di lui, gli posò entrambe le mani sul petto e gli diede uno spintone. L'ammira-glio barcollò all'indietro, annaspando con le braccia e facendo volare per aria il bicchiere di bourbon. Cercò di recuperare l'e-quilibrio, non ci riuscì e cadde seduto sul tappeto. «E ora la smet-ta, prima che le chiuda quella sporca boccaccia con un pugno!» gli urlò Luke. Anthony, pallido in volto, afferrò l'amico per il braccio. «Luke, per l'amor del cielo, cosa credi di fare?» Bern si mise tra loro e l'ammiraglio. «Calmatevi. Tutti e due» ordinò. «Al diavolo la calma» ribatté Luke. «Prima mi invita a casa sua e poi insulta la mia ragazza! È ora che qualcuno dia una lezione a questo vecchio stupido!» «È una puttana!» gridò l'ammiraglio, sempre seduto sul tap-peto, e la sua voce divenne un ruggito. «Se non lo so io che ho pagato per l'aborto!» Luke era allibito. «Aborto?» «Certo!» L'ammiraglio si rialzò. «Anthony l'ha messa incinta e io ho pagato mille dollari perché si sbarazzasse del piccolo bastar-do.» La sua bocca si contorse in un ghigno di trionfo. «E ora non venire a dirmi che non so di cosa sto parlando.» «Lei mente.» «Chiedilo a Anthony.» Luke guardò Anthony. Anthony scosse la testa. «Non era figlio mio. Ho detto a mio padre che lo era perché mi desse i mille dollari. Ma il bambino era tuo, Luke.» Luke avvampò fino alla radice dei capelli. Quel vecchio ubria-cone dell'ammiraglio gli aveva fatto fare la figura del perfetto imbecille. Era lui che non sapeva cosa stava dicendo. Credeva di conoscere Billie, e invece lei gli aveva tenuto nascosto un segreto come quello. Avevano concepito un figlio e lei aveva abortito. Lo sapevano tutti tranne lui. Si sentì umiliato a morte. Uscì dalla stanza come una furia. Attraversò l'ingresso ed entrò nel salotto. C'era solo la madre di Anthony: le ragazze dovevano essere andate già a letto. Mrs Carroll vide la sua espressione e chiese: «Luke, caro, c'è qualcosa che non va?». Lui la ignorò e uscì sbattendo la porta. Corse su per le scale e percorse tutta l'ala est. Trovò la camera di Billie ed entrò senza bussare.

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Era sdraiata nuda sul letto e stava leggendo, la testa appog-giata sulla mano, i riccioli neri che ricadevano in avanti come un'onda che si frange. Per un attimo la vista di lei gli tolse il respiro. La lampada sul comodino gettava una luce dorata sul contorno del suo corpo, dalla spalla piccola e perfetta, giù lungo il fianco, e ancora lungo la gamba snella fino all'unghia dell'al-luce laccata di rosso. La sua bellezza lo fece infuriare ancora di più. Lei alzò lo sguardo con un sorriso felice, ma quando vide la sua espressione il sorriso svanì. «Mi hai mai ingannato?» urlò lui. «No... mai» rispose lei, mettendosi a sedere. «Quel fottuto ammiraglio sostiene di averti pagato un aborto.» «Oh, no!» esclamò lei, impallidendo. «È vero?» gridò ancora Luke. «Rispondimi!» Lei annuì e cominciò a piangere con il viso nascosto tra le mani. «Allora, mi hai ingannato o no?» «Mi dispiace» disse lei tra i singhiozzi. «Avrei voluto il tuo bambino, l'avrei voluto con tutto il cuore, ma non potevo avver-tirti. Tu eri in Francia e io non sapevo se saresti mai tornato. Dovevo decidere da sola.» Billie alzò la voce. «È stato il periodo peggiore della mia vita!» Luke era stordito. «Un figlio mio...» sussurrò. L'umore di lei cambiò in un attimo. «Non metterti a fare il sen-timentale» lo interruppe con disprezzo. «Non lo eri quando mi scopavi, perciò non cominciare a farlo adesso... è un po' tardi.» Quelle parole lo ferirono. «Avresti dovuto dirmelo. Anche se non eri riuscita a rintracciarmi allora, avresti dovuto dirmelo alla prima occasione, appena tornato a casa in licenza.» Lei sospirò. «Sì, hai ragione. Ma Anthony era convinto che non dovessi dirlo a nessuno e non è difficile persuadere una ragazza a mantenere un segreto del genere. Nessuno sarebbe venuto a saperlo, se non fosse stato per quel maledetto dell'am-miraglio Carroll.» Luke era furibondo per la calma con cui lei parlava del suo tra-dimento, come se la sua vera colpa fosse stata di venire scoperta. «Non posso vivere con questo peso.» «Cosa intendi dire?» chiese lei a voce bassa. «Come potrò ancora fidarmi di te, dopo che mi hai ingannato su una cosa così importante?» Billie era angosciata. «Mi stai dicendo che è finita?» Lui non rispose. «Lo capisco da sola, ti conosco troppo bene» proseguì lei. «È così, non è vero?» «Sì.» Billie ricominciò a piangere. «Idiota!» singhiozzò. «A parte la guerra, tu non capisci niente!»

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«La guerra mi ha insegnato che niente è importante quanto la lealtà.» «Stronzate. Tu non hai ancora imparato che sotto pressione tutti sono portati a mentire.» «Anche alle persone che amano?» «Soprattutto, perché sono quelle che contano di più. Perché credi che raccontiamo la verità ai preti, agli strizzacervelli e agli estranei che incontriamo in treno? E perché non li amiamo, e non ci interessa il loro giudizio.» Era assolutamente plausibile, ma Luke disprezzava le facili scuse. «Questa non è la mia filosofia di vita.» «Tu sei fortunato» disse lei amara. «Vieni da una famiglia felice, non hai mai conosciuto le privazioni o il rifiuto, hai legioni di amici. Hai combattuto in una guerra dura, ma non sei stato né ferito né torturato, e non hai abbastanza immaginazione per aver paura. Non ti è mai capitato niente di brutto. Certo, tu non rac-conti bugie... per lo stesso motivo per cui Mrs Carroll non ruba lattine di minestra al supermercato.» Era incredibile, si era convinta che fosse lui a essere nel torto! Era impossibile ragionare con qualcuno che riusciva a ingannare se stesso con tanta facilità. Disgustato, si voltò per andarsene. «Se è questo che pensi di me, devi essere felice che la nostra storia sia finita.» «No, non sono affatto felice» reagì lei, con le lacrime che le rigavano le guance. «Io ti amo, non ho mai amato nessun altro. Mi dispiace averti ingannato, ma non ho intenzione di implorare il tuo perdono solo perché ho commesso un errore in un momen-to di difficoltà.» Luke non voleva che Billie implorasse il suo perdono. Non voleva che facesse assolutamente nulla. Voleva solo allontanarsi da lei, dai loro amici, dall'ammiraglio Carroll e da quell'orribile casa. Nel fondo della mente una voce gli diceva che stava gettando via la cosa più preziosa della sua vita e che si sarebbe pentito amaramente di tale decisione. Ma lui era troppo arrabbiato, trop-po umiliato e ferito per ascoltarla. Andò alla porta. «Non te ne andare» lo supplicò lei. «Va' al diavolo» disse lui, e uscì.

2.30

Ilnuovo combustibile e i serbatoi di dimensioni maggiori hanno migliorato le prestazioni del Jupiter: la spinta raggiunge ora i 38.000 kgf e il periodo di funzionamento è passato da 121 a 155 secondi.

«Anthony si comportò da vero amico» proseguì Billie. «Ero disperata. Mille dollari! Non avrei potuto

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trovarli in alcun modo. Lui se li fece dare da suo padre, addossandosi la colpa di tutto. È stato ammirevole. Ed è per questo che ora mi è così difficile capi-re il suo comportamento.» «Non riesco a credere di aver rinunciato a te» disse Luke. «Co-me ho fatto a non capire il dramma che avevi vissuto?» «Non fu tutta colpa tua» rispose Billie, stancamente. «Allora pensavo che lo fosse, ma ora capisco che anch'io ho avuto la mia parte.» Sembrava che ricordare quella vicenda l'avesse svuotata di ogni energia. Rimasero in silenzio per un po', oppressi dai rimpianti. Luke si chiese quanto ci avrebbe impiegato Bern ad arrivare da Georgetown, poi la sua mente tornò a ciò che Billie gli aveva raccontato. «Non mi piace molto quello che sto scoprendo di me stesso» disse dopo un po'. «Ma davvero ho perso i miei due migliori amici, tu e Bern, a causa della mia intransigenza?» Dopo un attimo di esitazione, Billie scoppiò a ridere. «Se devo proprio essere sincera: sì, è esattamente così.» «E allora tu hai sposato Bern.» Lei rise di nuovo. «Sei incredibile! Riesci a essere talmente egocentrico...» osservò con tono affabile. «Non ho sposato Bern perché tu mi hai lasciato. L'ho sposato perché è uno degli uomi-ni migliori che esistano sulla faccia della terra, intelligente, gentile, ed è bravo a letto. Mi ci sono voluti anni per dimenticarti, e quando ci sono riuscita mi sono innamorata di Bern.» «E siamo tornati a essere amici?» «Con il tempo. Ti abbiamo sempre voluto bene, tutti, anche se a volte riuscivi a essere presuntuoso in modo insopportabile. Quan-do è nato Larry ti ho scritto e tu sei venuto a trovarmi. Poi, l'anno seguente, Anthony ha dato una grande festa per il suo trentesimo compleanno e sei venuto anche tu. Eri tornato a Harvard per il dottorato, mentre noi eravamo a Washington: Anthony, Elspeth e Peg lavoravano per la Cia, io ero ricercatrice alla George Wa-shington University e Bern scriveva testi per la National Public Radio. Un paio di volte all'anno tu venivi in città e ci ritrovavamo tutti insieme.» «Quando ho sposato Elspeth?» «Nel 1954, l'anno in cui io ho divorziato da Bern.» «Sai perché l'ho sposata?» Billie esitò. La risposta era ovvia, pensò Luke. "Perché l'ama-vi" avrebbe dovuto dire lei, ma non fu così. «Non sono la perso-na giusta per rispondere a questa domanda» gli disse infine. «Allora lo chiederò a Elspeth.» «Vorrei tanto che lo facessi.» Luke la guardò. C'era una punta di irritazione in quest'ultima osservazione e Luke stava cercando di coglierne il vero significa-to quando una Lincoln Continental bianca venne a fermarsi davanti alla tavola calda. Bern saltò giù ed entrò. «Mi dispiace averti fatto alzare» si scusò Luke. «Non pensarlo neanche» rispose Bern. «Billie non è una di quel-le persone che reputano di dover

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lasciare in pace chi dorme: se lei è sveglia, dovrebbero esserlo anche gli altri. Se non avessi perso la memoria lo sapresti anche tu. Ecco, tieni» disse, gettando un libriccino spesso sul tavolo: Official Airline Guide - Edizione men-sile, diceva la copertina. Luke lo prese. «Cerca le Capital Airlines» suggerì Billie. «Hanno dei voli per il Sud.» Luke trovò le pagine corrispondenti. «C'è un aereo che parte al-le sei e cinquantacinque: tra quattro ore.» Guardò meglio. «Mer-da... ferma praticamente in ogni città e arriva a Huntsville alle due e ventitré del pomeriggio, ora locale.» Bern inforcò un paio di occhiali e si mise a guardare da sopra la spalla di Luke. «L'aereo seguente parte alle nove, ma fa meno scali ed è un Viscount, quindi arriva a Huntsville prima dell'altro, intorno a mezzogiorno.» «Prenderei questo, ma non mi piace l'idea di starmene in giro per Washington più del necessario» osservò Luke. «Ci sono altri due problemi» disse Bern. «Primo: penso che Anthony avrà messo degli uomini all'aeroporto.» Luke aggrottò la fronte. «Potrei lasciare Washington in auto e prendere l'aereo più a sud.» Guardò l'orario. «Il primo scalo è in un posto che si chiama Newport News. Dove diavolo si trova?» «Vicino a Norfolk, in Virginia» rispose Billie. «Atterra alle otto e due minuti. Posso farcela?» «Sono circa trecento chilometri» osservò Billie. «Diciamo quat-tro ore... Potresti arrivare con un'ora d'anticipo.» «Di più, se prendi la mia macchina» fece notare Bern. «Fa i centottanta.» «Mi presteresti la tua macchina?» Bern sorrise. «Ci siamo salvati la vita a vicenda tante di quelle volte, cosa vuoi che sia una macchina?» Luke annuì. «Ti ringrazio.» «Ma c'è un secondo problema» disse Bern. «Quale?» «Mi hanno seguito.»

3.00

I serbatoi del combustibile sono dotati di diaframmi per evitare lo sciabordio. Senza questi diaframmi, i

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movimenti del liquido sono co-sì violenti da aver causato la distruzione in volo di un missile di pro-va, il Jupiter 1B, dopo appena novantatré secondi dal lancio.

Anthony sedeva al volante della sua auto parcheggiata a un iso-lato di distanza dalla tavola calda. Si era ben accostato contro la coda di un camion in modo che l'inconfondibile Cadillac gialla restasse nascosta, pur consentendogli di tenere d'occhio il locale e il tratto di marciapiede illuminato dalle vetrate. Sembrava il classico locale frequentato da poliziotti: c'erano due autopattu-glie parcheggiate fuori, oltre alla Thunderbird rossa di Billie e alla Continental bianca di Bern. Ackie Horwitz era stato spedito davanti all'appartamento di Bern Rothsten con l'ordine di restare là a meno che non fosse arrivato Luke. Ma quando Bern era uscito nel cuore della notte, Ackie aveva avuto il buon senso di contravvenire agli ordini e di seguirlo a bordo della sua motocicletta. Non appena Bern era arrivato al ristorante, Ackie aveva chiamato il Q Building e avver-tito Anthony. In quel momento Ackie uscì dal locale con la sua giacca di pelle da motociclista, un bicchiere di caffè in una mano e una barretta di cioccolata nell'altra. Si avvicinò al finestrino dell'auto di Anthony. «Lucas è là dentro.» «Lo sapevo» disse Anthony con maligna soddisfazione. «Si è cambiato. Adesso porta un cappotto e un cappello neri.» «L'altro cappello l'ha perso al Carlton.» «Rothsten è con lui, e anche la donna.» «Chi altri c'è là dentro, adesso?» «Quattro poliziotti che si raccontano barzellette sporche, un tizio che soffre di insonnia e che si sta leggendo l'edizione mat-tutina del "Washington Post" e il cuoco.» Anthony annuì. Non poteva fare nulla a Luke con quei poli-ziotti tra i piedi. «Aspettiamo qui finché Luke non esce, poi lo seguiamo tutti e due. Questa volta non lo perderemo.» «Ricevuto.» Ackie andò alla moto, ferma dietro la macchina di Anthony, e salì in sella a bersi il caffè. Anthony rifletté sul da farsi. Avrebbero avvicinato Luke in una strada isolata, lo avrebbero immobilizzato e portato in un apparta-mento sicuro della Cia a Chinatown. A quel punto si sarebbe sba-razzato di Ackie. E poi avrebbe ucciso Luke. Era risoluto. Prima, al Carlton, aveva sofferto di un momento di debolezza, ma poi si era imposto di non pensare più all'amici-zia e al tradimento finché tutto non fosse stato risolto. Sapeva di fare la cosa giusta. Avrebbe affrontato i rimorsi una volta assolto il proprio dovere. La porta del ristorante si aprì. Billie uscì per prima. La luce violenta del locale la illuminava da dietro, quindi Anthony non riusciva a vederla in volto, ma riconobbe la figura minuta e la caratteristica camminata ancheggiante. Poi veniva un uomo in cappello e cappotto neri: Luke. Si diressero verso la Thunderbird rossa. Chiudeva la fila una

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terza persona, un uomo in impermeabile, che salì sulla Lin-coln bianca. Anthony avviò il motore. La Thunderbird partì, tallonata dalla Lincoln. Anthony attese qualche secondo e poi si mosse, seguito da Ackie sulla moto. Billie si diresse a ovest, con alle spalle la piccola carovana. Anthony si teneva a parecchia distanza, ma le strade erano deser-te e di certo si sarebbero accorti di essere seguiti. Anthony era fatalista: non aveva più scopo nascondersi, ormai erano alla resa dei conti. All'incrocio con la Fourteenth Street si arrestarono al semaforo rosso. Anthony andò a piazzarsi dietro la Lincoln di Bern. Quando si accese il verde, la Thunderbird schizzò via all'improvviso, men-tre la Lincoln restò immobile. Con un'imprecazione Anthony arretrò di qualche metro, poi rimise in drive e, pestando sull'acceleratore, con la grossa auto girò attorno alla Lincoln ferma e partì all'inseguimento. Billie zigzagò per il quartiere che si estendeva alle spalle della Casa Bianca, bruciando i semafori rossi, ignorando i cartelli di di-vieto di svolta, imboccando contromano strade a senso unico. Anthony fece lo stesso, nel disperato tentativo di starle dietro, ma la Cadillac non poteva competere con l'agilità della Thunderbird e lei riuscì a sfuggirgli. Ackie sorpassò Anthony e si lanciò all'inseguimento. A mano a mano che cresceva il loro vantaggio sulla Cadillac, però, Ackie in-tuì che il piano della donna era quello di seminarla zigzagando per il centro per poi imboccare un'autostrada, dove la moto non avrebbe potuto mantenere la velocità della Thunderbird. Poi, d'un tratto, la fortuna girò. Dopo aver svoltato un angolo, l'auto incontrò un tratto di strada allagato. Un fiotto d'acqua usciva da un tubo all'altezza del marciapiede e tutta la carreggia-ta era sommersa per almeno dieci centimetri. Billie perse il con-trollo. La coda della Thunderbird descrisse un ampio arco men-tre la vettura faceva mezzo giro su se stessa. Ackie sterzò per evitarla, ma la moto slittò e lui cadde, rotolando nell'acqua. Si rialzò immediatamente. Anthony schiacciò il freno inchiodando la Cadillac all'incrocio con una sbandata. La Thunderbird, inve-ce, andò a fermarsi di traverso in mezzo alla strada con il cofano a pochi centimetri da un'auto parcheggiata. Anthony andò a mettersi davanti al muso, bloccandola. Billie non poteva più fug-gire. Un attimo dopo, Ackie era già davanti alla portiera del guida-tore della Thunderbird. Anthony corse al lato opposto. «Scende-te dalla macchina!» urlò, estraendo la pistola. La portiera si aprì e l'uomo con il cappotto nero scese dal-l'auto. Anthony vide immediatamente che non si trattava di Luke, ma di Bern. Si voltò a guardare verso la direzione dalla quale erano venuti. Della Lincoln bianca nessuna traccia. Sentì la rabbia montargli dentro. Si erano scambiati i cappotti e Luke era scappato con l'altra auto. «Maledetto idiota!» urlò a Bern. Avrebbe avuto voglia di sparargli lì, su due piedi. «Tu non sai cosa hai fatto!» «Dimmelo tu, Anthony. Cosa ho fatto?» chiese Bern, con una calma che lo fece infuriare ancora di più.

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Anthony si voltò e infilò la pistola in tasca. «Un momento» insisté Bern. «Io esigo delle spiegazioni. Quel-lo che hai fatto a Luke è illegale.» «Io non ti devo spiegare un accidente!» ribatté Anthony, secco. «Luke non è una spia.» «E tu come fai a saperlo?» «Lo so.» «Non ti credo.» Bern gli rivolse un'occhiata feroce. «E invece sì. Sai benissimo che Luke non è un agente sovietico. Perché fingi che lo sia?» «Va' al diavolo» disse Anthony e si allontanò.

Billie viveva ad Arlington, in Virginia, una zona ricca di verde sull'altro lato del Potomac. Passando davanti alla casa con l'auto, Anthony vide una Chevrolet berlina scura della Cia ferma sul lato opposto della strada. Girò l'angolo e parcheggiò. Billie sarebbe tornata a casa entro un paio d'ore. Lei sapeva dov'era andato Luke, ma non gliel'avrebbe detto perché aveva perso ogni fiducia in lui. Sarebbe rimasta fedele a Luke, ora, a meno che lui non avesse trovato il modo di convincerla a collaborare. Cosa che avrebbe fatto. Era forse diventato pazzo? Una voce nella sua testa continuava a chiedere se il gioco valesse la candela. Esisteva una giustificazione a ciò che stava per fare? Accantonò ogni dubbio: aveva scelto il proprio destino tanto tempo prima e non si sarebbe lasciato fuor-viare, neppure da Luke. Aprì il cofano dell'auto e tirò fuori un astuccio di pelle nera, grande quanto un grosso libro, e una torcia tascabile. Poi si avvi-cinò alla Chevrolet. Scivolò sul sedile del passeggero accanto a Pete e rimase lì a fissare le finestre buie della casetta di Billie. "Que-sta è la cosa peggiore che abbia mai fatto" pensava. Guardò verso Pete. «Ti fidi di me?» gli chiese. Il volto di Pete si contorse in un sorriso imbarazzato. «Che gene-re di domanda... sì, certo che mi fido.» La maggioranza degli agenti più giovani adorava Anthony, ma Pete aveva un motivo in più per essergli fedele. Anthony l'aveva già coperto una volta; ora, per rammentarglielo, Anthony chiese: «Se mi comportassi in un modo che ti sembra sbagliato, tu mi appoggeresti comunque?». Pete ebbe un'esitazione. Quando parlò, aveva la voce rotta per l'emozione. «Lasci che le dica una cosa.» Guardò avanti, oltre il parabrezza, lo sguardo fisso sulla strada illuminata dai lampioni. «Lei per me è come un padre.»

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«Sto per fare una cosa che non ti piacerà. Devi essere convin-to che sia la cosa giusta.» «Glielo ripeto: può contare su di me.» «Ora io vado dentro» disse Anthony. «Se arriva qualcuno, suona il clacson.» Si avviò senza far rumore su per il vialetto, girò attorno al gara-ge e andò alla porta sul retro. Puntò la torcia contro la finestra della cucina. Il tavolo e le sedie che ben conosceva erano avvolti dall'oscurità. La sua vita era stata tutta un susseguirsi di inganni e tradimenti, ma non era mai caduto così in basso come adesso, pensò, assalito da un'ondata di disgusto. Conosceva bene la casa. Guardò prima in soggiorno, poi nella camera da letto di Billie, quindi in quella di Becky-Ma. La vecchia dormiva profondamente, e l'apparecchio acustico era posato sul comodino. Da ultimo, andò nella camera di Larry. Puntò la torcia sul bimbo che dormiva. Il senso di colpa era quasi insopportabile. Sedette sul bordo del letto e accese la luce. «Ehi, Larry, svegliati» disse. «Su, Larry.» Il ragazzo aprì gli occhi e, dopo un attimo di disorientamento, gli fece un gran sorriso. «Zio Anthony!» esclamò. «È ora di alzarsi» disse Anthony. «Che ore sono?» «È presto.» «Cosa facciamo?» «È una sorpresa.»

4.30

Il combustibile viene convogliato dentro la camera di combustione del motore a razzo con una velocità di circa 30 metri al secondo. La reazione inizia nel momento in cui combustibile e comburente si incontrano. Il calore della fiamma fa velocemente evaporare i due fluidi. La pressione sale a parecchie decine di atmosfere e la tempe-ratura schizza a quasi 3000 gradi centigradi.

«Sei innamorata di Luke, vero?» chiese Bern a Billie. Erano seduti in macchina davanti a casa di lui. Billie non vole-va salire: era impaziente di tornare da Larry e Becky-Ma. «Innamorata?» ripeté lei, evasiva. «Dici?» Non sapeva quanto volesse confidarsi con il suo ex marito.

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Erano amici, ma non così intimi. «Non importa» disse lui. «Ho capito tanto tempo fa che avre-sti dovuto sposare lui e non me. Non credo che tu abbia mai smesso di amarlo. Amavi anche me, ma in modo diverso.» Era vero. L'amore che aveva nutrito per Bern era un sentimen-to pacato, gentile. Con lui non aveva mai provato l'uragano di passione che la travolgeva quando era con Luke. E quando si chiedeva cosa sentisse per Harold - l'affetto sereno o il turbine di eccitazione - la risposta era ovvia e sconsolante. Aveva poca espe-rienza in fatto di uomini - gli unici due con cui era andata a letto erano Luke e Bern ma l'istinto le diceva che con Harold non avrebbe mai provato quella passione che ogni volta la lasciava stremata. «Luke è sposato» disse lei. «E con una bellissima donna.» Rifletté sulle proprie parole e poi aggiunse: «Secondo te, Elspeth è sexy?». Bern aggrottò la fronte. «Risposta difficile. Potrebbe esserlo, con l'uomo giusto. A me è sempre sembrata un po' freddina, ma lei non ha mai avuto occhi per nessun altro a parte Luke.» «Non che questo abbia importanza. Luke è un tipo fedele. Resterebbe con lei anche se fosse un iceberg, solo per il suo senso del dovere.» Fece una pausa. «C'è una cosa che voglio dirti.» «Coraggio.» «Grazie. Grazie per aver evitato il solito "Io te l'avevo detto". Lo apprezzo molto.» Bern rise. «Ti riferisci alla nostra ultima lite.» Lei annuì. «Dicevi che le mie ricerche sarebbero servite per fare il lavaggio del cervello alla gente. E ora la tua previsione si è avverata.» «In ogni caso, mi sbagliavo. Il tuo lavoro andava portato avanti. Abbiamo bisogno di capire come funziona il cervello umano. An-che se alcune scoperte possono essere usate per scopi scellerati, non si può fermare il progresso scientifico. Hai un'idea di cosa stia macchinando Anthony?» «L'ipotesi più sensata che mi è venuta in mente è questa: che Luke abbia scoperto una spia giù a Cape Canaveral e sia venuto a Washington per avvisare il Pentagono. Ma la spia è in realtà un agente che fa il doppio gioco e lavora anche per noi, e così Anthony sta facendo di tutto per proteggerla.» Bern scosse la testa. «Non è sufficiente. Anthony avrebbe potuto cavarsela dicendo a Luke che quel tizio faceva il doppio gioco. Non era necessario causargli un'amnesia permanente.» «Sì, forse hai ragione. E poi Anthony ha addirittura sparato a Luke, qualche ora fa. So che l'attività di agente segreto tende a prenderti la mano, ma non riesco a credere che la Cia avrebbe ucciso un cittadino americano per proteggere una spia che fa il doppio gioco.» «Oh, fosse solo per questo non ho dubbi che l'avrebbero fatto» osservò Bern. «Ma non era necessario. Anthony poteva fidarsi di Luke.» «Hai una teoria migliore?» «No.»

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Billie si strinse nelle spalle. «Non sono sicura che abbia più importanza. Anthony ha ingannato e tradito i suoi amici, il per-ché non conta. Qualunque sia il motivo che l'ha spinto a farlo, noi lo abbiamo perso. Ed era un buon amico.» «È la vita» osservò Bern. Le diede un bacio sulla guancia e scese dall'auto. «Se hai notizie di Luke, domani, chiamami.» «D'accordo.» Bern entrò nell'edificio e Billie partì. Attraversò il Memorial Bridge, costeggiò il National Cemetery e zigzagò per le strade della periferia che portavano verso casa sua. Entrò nel vialetto a marcia indietro, un'abitudine che aveva acqui-sito perché usciva quasi sempre di fretta. Entrò, appese il cappotto all'attaccapanni in corridoio e andò subito di sopra sbottonandosi il vestito e sfilandoselo dalla testa lungo la strada. Lo gettò su una sedia, si tolse le scarpe scalciandole via e andò in camera di Larry. Quando vide il letto vuoto si lasciò sfuggire un urlo. Guardò in bagno, poi in camera di Becky-Ma. «Larry!» gridò con quanta voce aveva in corpo. «Dove sei?» Corse di sotto e andò in ogni stanza. Uscì di casa e guardò in garage e in giardi-no. Poi rientrò e cercò ancora dappertutto, aprendo gli armadi, controllando sotto i letti e in ogni spazio abbastanza grande da contenere un bambino di sette anni. Era sparito. Becky-Ma uscì dalla sua camera con la paura dipinta sul volto. «Cosa succede?» «Dov'è Larry?» gridò Billie. «Nel suo letto, credo» rispose, con la voce che diventava un gemito disperato, a mano a mano che si rendeva conto dell'acca-duto. Billie rimase immobile per un momento, ansante, cercando di vincere il panico. Quindi tornò in camera di Larry e cominciò a esaminarla con attenzione. La stanza sembrava in ordine: non c'era alcun segno di lotta. Guardando nell'armadio, vide su uno scaffale il pigiammo azzur-ro con gli orsetti che il bimbo aveva indossato la sera prima. Gli abiti che aveva preparato per la scuola erano spariti. Qualunque cosa fosse successa, si era vestito prima di uscire. Tutto faceva pensare che si fosse allontanato con una persona di fiducia. Anthony. All'inizio provò sollievo. Lui non avrebbe mai fatto del male a Larry. Ma poi ci rifletté meglio. Era davvero così? Sarebbe stata pronta a giurare che Anthony non avrebbe mai fatto del male a Luke, eppure gli aveva sparato. Non c'era modo di prevedere cos'altro avrebbe potuto fare. Nella migliore delle ipotesi, Larry doveva essersi spaventato a venir svegliato nel cuore della notte, costretto a vestirsi e a uscire senza vedere sua madre. Doveva riportarlo a casa al più presto.

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Corse al piano di sotto per telefonare a Anthony. Prima di arri-vare all'apparecchio, questo si mise a squillare. Billie afferrò il ricevitore. «Sì?» «Sono Anthony.» «Come hai potuto farlo?» urlò lei. «Come hai potuto essere così crudele?» «Devo sapere dove si trova Luke» rispose lui con freddezza. «È estremamente importante.» «È andato...» Billie si interruppe. Se gli avesse dato quell'infor-mazione, non avrebbe avuto più niente in mano. «Andato dove?» Billie fece un respiro profondo. «Dov'è Larry?» «È con me. Sta bene, non ti preoccupare.» Questo la fece infuriare. «Come faccio a non preoccuparmi, maledetto stronzo?» «Tu dimmi quello che voglio sapere e tutto andrà liscio.» Avrebbe voluto credergli, dargli le risposte che desiderava e aspettare che riportasse Larry a casa, ma resistette con tutte le forze alla tentazione di cedere. «Ascoltami bene: quando vedrò mio figlio, ti dirò dove si trova Luke.» «Non ti fidi di me?» «È una battuta?» Lui sospirò. «Okay. Ci vediamo al Jefferson Memorial.» Billie provò una sensazione di trionfo. «Quando?» «Alle sette.» Billie guardò l'orologio. Erano le sei passate. «Ci sarò.» «Billie...» «Cosa?» «Vieni sola.» «Sì» disse lei, e riattaccò. Becky-Ma era in piedi lì accanto. Sembrava vecchia e fragile. «Cosa c'è?» chiese. «Cosa sta succedendo?» Billie cercò di mostrarsi calma. «Larry è con Anthony. Deve essere venuto mentre dormivi. Lo vado a

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riprendere. Non c'è niente di cui preoccuparsi.» Salì in camera da letto. Prese lo sgabello della toletta e lo mise davanti all'armadio. Poi vi salì sopra e afferrò una piccola valigia posata in cima al mobile. La mise sul letto e l'aprì. Dentro, avvolta in un panno, c'era una Colt .45. Era l'arma che tutti avevano ricevuto in dotazione durante la guerra. Lei l'aveva tenuta come ricordo, e una qualche forma di premonizione l'aveva spinta a pulirla e oliarla regolarmente. Bil-lie era convinta che, una volta che ti hanno sparato addosso, non ti senti più a tuo agio a meno di non avere un'arma nascosta da qualche parte. Premette il pulsante di sgancio sul lato sinistro del calcio, ed estrasse il caricatore. Nella valigetta c'era una scatola di cartucce. Ne infilò sette, a una a una, vincendo la resistenza della molla, quindi spinse nuovamente il caricatore nell'impugnatura finché non sentì uno scatto. Tirò indietro il carrello per mettere il colpo in canna. Si voltò e vide Becky-Ma ferma sulla soglia, che fissava l'arma. La guardò per un attimo, in silenzio. Dopo essersi buttata qualcosa addosso, uscì di casa correndo e saltò in macchina.

6.30

Il primo stadio contiene approssimativamente 23 tonnellate di combustibile, che verranno consumate in 2 minuti e 33 secondi.

La Lincoln Continental di Bern era una meraviglia. Elegante e veloce, teneva i centosessanta senza sforzo e volava liscia come l'olio sulle strade deserte della Virginia. Uscendo da Washington, Luke aveva la sensazione di lasciarsi alle spalle un incubo: quel viaggio nel cuore della notte aveva il sapore eccitante di una fuga. Era ancora buio quando arrivò a Newport News e si infilò nel piccolo parcheggio adiacente all'edificio aeroportuale ancora chiuso. L'unica luce veniva dalla debole lampadina di una cabina telefonica vicino all'entrata. Spense il motore e rimase ad ascol-tare il silenzio. La notte era serena e le stelle illuminavano la pista. Visti così a terra, immobili, gli aerei avevano un che di bizzarro, come tanti cavalli che dormivano in piedi. Era sveglio da più di ventiquattr'ore e provava una stanchezza mortale, ma la sua mente continuava a correre. Era innamorato di Billie. Ora che trecento chilometri lo separavano da lei, poteva ammetterlo. Ma cosa significava? L'aveva sempre amata oppure era l'infatuazione di un giorno, la ripetizione della cotta che aveva preso per lei nel 1941? Ed Elspeth? Perché l'aveva sposata? Lo aveva chiesto a Billie, ma lei si era rifiutata di rispondere. "Allora lo chiederò a Elspeth" aveva concluso lui.

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Guardò l'orologio. Mancava più di un'ora al decollo. Aveva un sacco di tempo a disposizione. Scese dall'auto ed entrò nella cabina telefonica. Lei rispose subito, come se fosse stata già sveglia. Il centralini-sta del motel la informò che la chiamata era a carico del destina-tario e lei l'accettò subito. «Certo, me lo passi pure.» Di colpo, Luke si sentì imbarazzato. «Ehm, buongiorno, Elspeth.» «Come sono contenta che tu abbia chiamato!» disse lei. «Ero così preoccupata. Cosa sta succedendo?» «Non so da dove cominciare.» «Stai bene?» «Sì, sto bene. Per fartela breve, Anthony mi ha fatto perdere la memoria sottoponendomi a un trattamento combinato di elettro-shock e farmaci.» «Buon Dio, perché mai avrebbe fatto una cosa del genere?» «Sostiene che sono una spia russa.» «Ma è assurdo!» «Lo ha detto a Billie.» «Hai visto Billie?» Luke colse una nota di ostilità nella voce di lei. «È stata molto gentile con me» ribatté, sulla difensiva. Quando aveva chiesto a Elspeth di raggiungerlo a Washington per aiutarlo, si era rifiutata. Lei cambiò argomento. «Da dove chiami?» Luke esitò.Isuoi nemici potevano aver messo sotto controllo il telefono di Elspeth. «È meglio che non te lo dica, caso mai qualcu-no ci stesse ascoltando.» «Certo, capisco. Cosa intendi fare?» «Devo scoprire cos'è che Anthony voleva farmi dimenticare.» «E come farai?» «Preferisco non dirtelo al telefono.» «A quanto pare non puoi dirmi nulla.» La voce di lei tradì impazienza. «Veramente, ti ho chiamata per chiederti alcune cose.» «Okay, spara.» «Perché non possiamo avere bambini?»

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«Non lo sappiamo. L'anno scorso sei stato da uno specialista in problemi della fertilità, ma non ha trovato niente di anormale. Al-cune settimane fa io sono stata da una dottoressa ad Atlanta che mi ha sottoposto ad alcuni test. Stiamo aspettando i risultati.» «Potresti dirmi come mai ci siamo sposati?» «Ti ho sedotto.» «In che modo?» «Ho finto di avere del sapone negli occhi perché tu mi bacias-si. È il trucco più vecchio del mondo, ma tu ci sei cascato.» Non avrebbe saputo dire se stava cercando di essere diverten-te, cinica, o entrambe le cose. «Raccontami di quando ti ho chie-sto di sposarmi.» «Be', è stato quando ci siamo ritrovati a Washington, nel 1954. Non ci vedevamo da alcuni anni. Io lavoravo ancora per la Cia, tu al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, ma eri venuto a Wa-shington per il matrimonio di Peg. Al ricevimento stavamo seduti l'uno accanto all'altra.» Elspeth fece una pausa, ripensando ai par-ticolari, e Luke attese pazientemente. Quando lei riprese a raccon-tare, la sua voce si era fatta più morbida. «Abbiamo parlato e parla-to... era come se tutti quegli anni non fossero passati e noi fossimo stati ancora al college con tutta la vita davanti. Io dovevo andare via prima, dirigevo la Sixteenth Street Youth Orchestra, e avevamo una prova. Tu decidesti di accompagnarmi...»

1954

Ibambini che suonavano nell'orchestra venivano tutti da famiglie povere ed erano per la maggior parte di colore. Le prove si tene-vano in una chiesa dei quartieri popolari. Gli strumenti erano frutto di donazioni e prestiti, oppure acquistati al monte dei pegni. Stavano provando l'ouverture di un'opera di Mozart, Le nozze di Figaro, e contrariamente a ogni previsione se la cavaro-no bene. Il merito andava a Elspeth. Era un'insegnante esigente cui non sfuggiva né una stecca né un errore di battuta, ma correggeva gli alunni con infinita pazienza. Alta e slanciata nel suo abito giallo, diresse con grande energia, i capelli che svolazzavano, le mani lun-ghe ed eleganti che parevano trarre la musica dagli strumenti con gesti appassionati. Le prove durarono due ore e Luke non se ne perse un solo momento: era come incantato. Capì che tutti i maschi erano inna-morati di lei, mentre per le bambine rappresentava un modello da imitare. «Questi ragazzi hanno le medesime capacità di qualsiasi bam-bino ricco con uno Steinway in salotto» gli disse più tardi Elspeth in macchina «ma io incontro enormi difficoltà.» «Perché?» «Dicono che stravedo per i neri. E questo ha praticamente stroncato la mia carriera alla Cia.» «Non capisco.»

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«Chiunque tratti i neri come essere umani è sospettato di esse-re comunista. Quindi non sarò mai niente di più di una segreta-ria. Non che sia questa gran perdita, le donne non arrivano mai oltre il grado di coordinatore di progetto, comunque.» Andarono a casa di Elspeth, un appartamento piccolo e ordinato, arredato con pochi mobili moderni ed essenziali. Mentre lei cuoceva gli spaghetti nella minuscola cucina, Luke preparò i mar-tini e le raccontò del suo lavoro. «Sono davvero felice per te» osservò lei con sincero entusia-smo. «Hai sempre desiderato esplorare lo spazio. Me ne parlavi già quando uscivamo insieme, a Harvard.» Lui sorrise. A quei tempi la gran parte delle persone era con-vinta che fossero stupidaggini, vaneggiamenti da scrittori di fan-tascienza.» «Ma non possiamo essere certi che accadrà.» «Sì che possiamo» ribatté lui, serio.«Iproblemi maggiori sono stati tutti risolti dagli scienziati tedeschi durante la guerra. Loro hanno costruito razzi che potevano essere lanciati dall'Olanda e cadere su Londra.» «Io c'ero. Ricordo che le chiamavamo "bombe volanti"» disse lei con un brivido. «Una per poco non mi ha ucciso. Durante un raid aereo stavo andando a piedi in ufficio perché dovevo istrui-re un agente che sarebbe stato paracadutato sul Belgio di lì a poche ore. Ho sentito una bomba esplodere dietro di me. Fa un rumore orribile, uno scoppio fortissimo, subito seguito dal rove-scio di vetri in frantumi e di muri che crollano. Subito dopo arri-va una specie di vento pieno di polvere e di detriti. Sapevo che se mi fossi voltata indietro a guardare sarei stata presa dal panico e mi sarei rannicchiata a terra con gli occhi chiusi. Così ho conti-nuato a camminare guardando fisso davanti a me.» Luke si sentì profondamente commosso dall'immagine della giovane Elspeth che avanzava per le strade buie tra le bombe che cadevano tutto attorno. «Che donna coraggiosa» mormorò. Lei si strinse nelle spalle. «In quel momento non mi sentivo affatto coraggiosa, ero solo spaventata.» «A cosa pensavi?» «Indovina.» Luke ricordò che ogni qualvolta lei aveva un momento libero si concentrava sempre su problemi matematici. «Ai numeri primi?» azzardò. Elspeth scoppiò a ridere. «Ai numeri di Fibonacci.» Luke annuì. Il matematico Fibonacci aveva immaginato una coppia di conigli che dava alla luce due discendenti ogni mese.Inuovi nati cominciavano a riprodursi con lo stesso ritmo dei genitori a un mese dalla nascita. Fibonacci si era chiesto quante coppie di conigli ci sarebbero state dopo un anno. La risposta era 144, ma l'andamento della crescita mensile delle coppie di conigli era la sequenza di numeri più famosa della matematica: 1, 1, 2, 3,5, 8, 13, 21, 34,55, 89, 144... Si poteva sempre calcolare il numero seguente facendo la somma dei due precedenti. «Quando raggiunsi il mio ufficio, ero arrivata a calcolare il quarantesimo numero di Fibonacci.»

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«Ricordi qual era?» «Certo. 102.334.105. Allora i nostri missili derivano dalle bombe naziste?» «Sì. Dai razzi V2, per essere esatti.» Luke non avrebbe dovuto parlare del suo lavoro, ma si trattava di Elspeth che, probabilmen-te, aveva accesso a un livello di informazioni più alto del suo. «Stia-mo lavorando a un missile in grado di essere lanciato dall'Arizona ed esplodere a Mosca. E se possiamo fare questo, possiamo anche andare sulla luna.» «Quindi, praticamente è la stessa cosa ma in scala maggiore?» Elspeth dimostrava più interesse verso i razzi di qualsiasi altra ragazza che avesse mai conosciuto. «Sì, occorrono motori più grandi, carburante più potente e un sistema di guida migliore, ma nessuno di questi è un problema insormontabile. E gli scienziati tedeschi, adesso, lavorano per noi.» «Mi pare di averlo sentito dire» osservò Elspeth, poi cambiò argomento. «E cosa mi racconti di te? Esci con qualcuna?» «Al momento no.» Aveva avuto parecchie ragazze dopo la rot-tura con Billie, nove anni prima, e con alcune c'era anche andato a letto, ma la verità - che non aveva intenzione di rivelare a Elspeth - era che nessuna aveva significato molto per lui. Di una avrebbe anche potuto innamorarsi, una ragazza alta dagli occhi castani e la capigliatura selvaggia. Possedeva la stessa energia e joie de vivre che aveva amato in Billie. L'aveva cono-sciuta a Harvard, mentre preparava il suo dottorato. Una sera tardi, mentre passeggiavano attraverso il campus, lei gli aveva preso le mani e aveva detto: «Sono sposata». Poi lo aveva bacia-to e si era allontanata. Quella era stata la volta in cui era giunto più vicino a innamorarsi. «E tu?» chiese a Elspeth. «Peg è sposata, Billie sta già divor-ziando... Guarda che devi metterti in pari.» «Oh, sai come siamo fatte noi "ragazze del governo".» Era un cliché coniato dai giornali. Le giovani donne che lavoravano a Washington per il governo erano così numerose che il rapporto con gli scapoli era di cinque a uno. Di conseguenza, l'opinione comune le voleva sessualmente frustrate e alla ricerca disperata di qualcuno con cui uscire. Luke non credeva che per Elspeth fosse così, ma se lei preferiva eludere la domanda ne aveva tutti i diritti. Gli chiese di dare un'occhiata ai fornelli mentre lei andava a dar-si una rinfrescata. C'era una grossa pentola d'acqua con gli spaghetti e una più piccola di salsa di pomodoro che sobbolliva. Luke si tolse giacca e cravatta, poi mescolò la salsa con un cucchiaio di le-gno. Il martini lo aveva rilassato, il cibo mandava un buon profu-mo, era in compagnia di una donna che gli piaceva. Si sentì felice. Udì Elspeth che lo chiamava con un insolito tono indifeso. «Luke, puoi venire qui?» Luke spense i fornelli ed entrò in bagno. Il vestito era appeso dietro la porta: Elspeth indossava un reggiseno senza spalline color pesca con una sottoveste a vita coordinata, calze e scarpe. Benché fosse più vestita che su una spiaggia, Luke la trovò incre-dibilmente sexy. Si teneva una mano sul viso. «Mi è andato del sapone in un occhio, accidenti. Potresti provare a togliermelo?» Luke fece scorrere dell'acqua fredda nel lavandino. «Piegati in avanti e avvicina il viso» le suggerì, posandole la mano sinistra tra le scapole per guidarla. La pelle candida della schiena era calda al tat-to.

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Luke raccolse dell'acqua con la mano destra chiusa a coppa e gliel'avvicinò all'occhio. «Così va meglio» disse lei. Continuò a sciacquarle l'occhio finché il bruciore non si fu cal-mato. Quindi l'aiutò a rialzarsi e le tamponò il viso con un asciu-gamano pulito. «È un po' irritato, ma penso che sia a posto.» «Devo essere orrenda.» «No» disse lui, guardandola intensamente. Aveva un occhio tutto rosso e i capelli bagnati, ma era bella come il primo giorno in cui l'aveva vista, più di dieci anni fa. «Sei meravigliosa.» Benché Luke avesse finito di asciugarla, Elspeth continuava a tenere il viso rivolto verso l'alto, le labbra schiuse in un sorriso. Baciarla fu la cosa più naturale del mondo. Lei ricambiò, dap-prima esitante poi con passione, mettendogli le mani dietro la nuca e attirando a sé il volto di lui. Il suo seno premeva contro il torace di Luke - una situazione molto sexy - ma il ferretto del reggiseno era così rigido che gli grattava la pelle attraverso la stoffa sottile della camicia. Dopo un attimo Luke si ritrasse. «Cosa c'è?» chiese Elspeth. Lui sfiorò appena il reggiseno e disse con un sorriso: «Fa male». «Poverino!» ribatté lei con aria di finto compatimento. Mise le mani dietro la schiena e, con movimento veloce, si slac-ciò l'indumento, che cadde a terra. Anni addietro gli era capitato di toccarle il seno, qualche volta, ma non l'aveva mai visto. Era bianco e rotondo, i capezzoli palli-di eretti per l'eccitazione. Lei gli mise le braccia attorno al collo e premette il corpo contro il suo.Isuoi seni erano morbidi e caldi. «Ecco» disse «è così che dovrebbe essere.» Dopo qualche attimo lui la prese in braccio e la portò sul letto, in camera. Lei si liberò delle scarpe scalciandole via. Luke sfiorò l'elastico della sottoveste e chiese: «Posso?». «Oh, Luke, come sei educato!» rispose lei ridendo. Lui sorrise. Forse poteva sembrare una cosa sciocca, ma era fatto così. Elspeth sollevò il bacino e Luke tirò giù la sottoveste. Le mutandine erano coordinate con il resto della biancheria. «Non me lo chiedere» lo incoraggiò lei. «Toglile e basta.» Fecero l'amore lentamente e con intensità. Elspeth continuava ad attirare la testa di lui verso la sua e a baciarlo mentre si muoveva dentro di lei. «Ho desiderato questo momento per tanto tempo» gli sussurrò, e poi urlò di piacere, più volte, prima di reclinare il ca-po all'indietro, esausta. Presto cadde in un sonno profondo, ma Luke restò sveglio, a riflettere. Aveva sempre desiderato una famiglia: per lui la felicità era una casa grande e rumorosa piena di bambini, cani e amici. E invece eccolo lì, ancora scapolo a trentatré anni, e il tempo volava. Certo, si disse, dalla fine della guerra la sua carriera aveva avuto la prece-denza su tutto. Era tornato all'università per recuperare gli anni persi. Ma non era questa la vera ragione per cui non si era ancora sposato. La verità era che solo due donne avevano conquistato il suo cuore: Billie ed Elspeth. Billie lo aveva

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ingannato, ma Elspeth era lì, accanto a lui. Ne osservò il corpo voluttuoso illuminato dalla luce morbida dei lampioni di Dupont Circle. Cosa c'era di meglio che passare ogni notte così, con una ragazza intelligente, coraggio-sa, che ci sapeva fare con i bambini e - come se non bastasse - incredibilmente bella? All'alba si alzò per preparare il caffè. Quando lo portò in camera su un vassoio trovò Elspeth seduta sul letto, assonnata. Deliziosa. Gli rivolse un sorriso felice. «Devo chiederti una cosa» disse lui, sedendosi sul bordo del letto e prendendole la mano. «Vuoi sposarmi?» Il sorriso di Elspeth svanì, sostituito da un'espressione preoc-cupata. «Oh, mio Dio» fece lei. «Posso pensarci?»

7.00

Quando i gas di combustione passano attraverso l'ugello di scarico del razzo è come se si versasse una tazza di caffè bollente giù per la gola di un pupazzo di neve.

Anthony arrivò al Jefferson Memorial con Larry seduto sul sedile anteriore tra lui e Pete. Era ancora buio, e la zona era deserta. Fece inversione di marcia e parcheggiò l'auto in modo che i fari illuminassero qualunque macchina fosse venuta verso di loro. Il monumento era formato da un doppio cerchio di colonne sormontato da un tetto a cupola. Il tutto si ergeva su un'alta piat-taforma cui si accedeva da una scalinata sulla parte opposta. «La statua è alta sei metri e pesa più di quattro tonnellate» spiegò a Larry. «È fatta di bronzo.» «Dov'è?» «Da qui non si vede, ma è all'interno di quelle colonne.» «Avremmo dovuto venirci di giorno» piagnucolò Larry. Non era la prima volta che Anthony portava fuori Larry. Erano andati alla Casa Bianca, allo zoo e allo Smithsonian. Di solito man-giavano hot dog per pranzo, gelato nel pomeriggio e, prima di ri-portarlo a casa, Anthony gli comperava un giocattolo. Si divertiva-no sempre, insieme. Anthony era affezionato al suo figlioccio, ma stavolta Larry aveva capito che c'era qualcosa di strano. Era buio, lui voleva la mamma e, probabilmente, avvertiva la tensione a bor-do dell'auto. Anthony aprì la portiera. «Stai bravo un secondo, Larry, men-tre io dico una cosa a Pete.»Idue scesero. Il loro alito formava nuvolette bianche nell'aria fredda del mattino. «Io aspetto qui» disse Anthony. «Tu porta il bambino a dare un'occhiata al monumento. Tieniti su questo lato in modo che lei possa vederlo, quando arriva.»

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«Va bene.» Il tono di Pete era brusco e freddo. «Non sopporto l'idea di doverlo fare» aggiunse Anthony, ma in verità non gliene importava più nulla. Larry era triste e Billie spaventata a morte, ma gli sarebbe passata, a tutti e due. No, i sentimentalismi non lo avrebbero fermato. «Non faremo alcun male né al bambino né alla madre» disse, nel tentativo di rassi-curare Pete. «Ma lei ci dirà dov'è andato Luke.» «E noi le restituiamo il bambino.» «No.» «No?» La voce di Pete tradiva lo sgomento. «Perché no?» «In caso avessimo bisogno di altre informazioni.» Pete non era convinto ma avrebbe obbedito agli ordini, alme-no per ora, rifletté Anthony. Aprì la portiera. «Su, Larry, scendi. Lo zio Pete ti porta a vedere la statua.» Larry scese. «Dopo che l'abbiamo vista, però, vorrei tornare a casa» disse, con studiata gentilezza. Anthony si sentì mancare il fiato. Il coraggio di Larry era quasi insopportabile. «Vedremo cosa dice la mamma» rispose dopo un attimo, con voce calma. «Ora va'.» Il bambino diede la mano a Pete e insieme girarono intorno al monumento diretti verso la gradinata. Un attimo dopo riappar-vero davanti alle colonne, illuminati dai fari dell'auto. Anthony guardò l'orologio. Da lì a sedici ore il razzo sarebbe stato lanciato e tutto sarebbe finito, in un modo o nell'altro. Sedici ore erano molte, più che sufficienti perché Luke causasse danni ir-reparabili. Doveva prenderlo, e in fretta. Billie avrebbe già dovuto essere lì. Fu assalito dal dubbio. No, sarebbe venuta di sicuro. Era troppo spaventata per chiamare la polizia o tentare qualche colpo di mano, ne era certo. E aveva ragione. Dopo pochi attimi arrivò una macchina. Anthony non riusciva a distinguerne il colore, ma era una Ford Thunderbird. L'auto si fermò con il motore acceso a una ventina di metri dalla Cadillac e ne scese una figura piccola e minuta. «Ciao, Billie» disse Anthony. Billie guardò prima lui, poi diresse lo sguardo verso il monu-mento e vide Pete e Larry sulla piattaforma. Rimase a fissarli, immobile. Anthony andò verso di lei. «Non tentare alcun gesto dramma-tico, servirebbe solo a turbare Larry.» «Non parlarmi di turbare il bambino, brutto figlio di puttana.» La voce di Billie era strozzata per la tensione. Stava per piangere. «Ho dovuto farlo.» «Nessuno deve fare una cosa del genere.»

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La sua ostilità era prevedibile, ma nonostante tutto la nota di disprezzo che colse nella sua voce lo ferì. «Conosci le parole di Thomas Jefferson che sono scritte lì dentro con lettere alte mezzo metro?» chiese lui. «"Ho giurato davanti all'altare di Dio eterna ostilità a ogni forma di tirannia sulla mente dell'uomo." È quello che sto facendo io.» «Le tue motivazioni non mi interessano. Non riesco più a vedere gli ideali che potevi avere un tempo: niente di buono può sopravvivere a un tradimento simile.» Discutere con lei era tempo sprecato. «Dov'è Luke?» chiese Anthony, di punto in bianco. Ci fu una lunga pausa, ma infine lei si decise. «Ha preso un aereo per Huntsville.» Anthony fece un sospiro soddisfatto. Aveva saputo quello che gli interessava. Ma la risposta lo aveva sorpreso. «Perché Hunt-sville?» «È lì che l'esercito progetta i missili.» «Questo lo so. Ma perché andare lì proprio oggi? Il lancio è in Florida.» «Non ne ho idea» rispose Billie. Anthony cercò di decifrare la sua espressione, ma era troppo buio. «Io credo che tu mi nasconda qualcosa.» «Non mi interessa quello che credi o non credi. Io ora prendo mio figlio e me ne vado.» «E invece no» disse Anthony. «Lo teniamo noi ancora per un po'.» La voce di Billie fu un urlo angosciato. «Perché? Io ti ho rive-lato dov'è diretto Luke!» «Potresti esserci utile in altri modi.» «Non è giusto!» «Sopravviverai» disse Anthony, e si voltò per andarsene. Fu un errore. Billie se l'aspettava. Mentre lui andava verso l'auto, lei lo spinse violentemente, col-pendolo in mezzo alle scapole con la spalla destra. Pesava solo sessanta chili, cinquanta meno di lui, ma aveva dalla sua la rabbia e la sorpresa. Anthony incespicò e cadde in avanti, atterrando a quattro zampe con un'esclamazione di dolore e di sorpresa. Billie estrasse la Colt .45 dalla tasca del cappotto. Anthony cercò di rimettersi in piedi ma lei lo caricò un'altra volta, di lato, facendolo rotolare di nuovo a terra. Si fermò a fac-cia in su. Allora Billie si inginocchiò vicino alla sua testa e gli infilò la canna della pistola in bocca. Sentì il rumore di un dente che si rompeva.

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Anthony si immobilizzò. Con deliberata lentezza, la donna tolse la sicura e lo guardò ne-gli occhi. Vi lesse la paura. Anthony non si aspettava che lei avesse una pistola. Un rivolo di sangue gli scendeva giù per il mento. Billie alzò lo sguardo. Larry e l'uomo che lo accompagnava sta-vano ancora guardando il monumento e non si erano accorti della colluttazione. Tornò a rivolgere la sua attenzione verso Anthony. «Ora ti tolgo la pistola dalla bocca» gli disse, ansiman-do. «Se ti muovi, ti uccido. Se vuoi restare vivo, chiami il tuo col-lega e gli dici quello che ti ordino.» Billie estrasse la pistola dalla bocca di Anthony e gliela puntò all'occhio sinistro. «Ora chia-malo.» Anthony parve esitare. Billie gli sfiorò la palpebra con la bocca della canna. «Pete!» Pete si voltò e dopo un attimo chiese, con tono perplesso: «Dove si trova?». Anthony e Billie si trovavano fuori dal fascio di luce dei fari. «Digli di restare dov'è» intimò Billie. Anthony non aprì bocca. Billie premette la pistola contro l'oc-chio. «Resta dove sei!» Pete si portò una mano sopra gli occhi, scrutando l'oscurità, cercando il punto da cui proveniva la voce. «Cosa sta succeden-do?» domandò. «Non riesco a vederla.» «Larry, sono la mamma» gridò Billie. «Sali sulla nostra mac-china!» Pete afferrò il bambino per il braccio. «Non mi vuole mollare!» urlò Larry. «Stai calmo» gridò Billie di rimando. «Lo zio Anthony gli dirà di lasciarti andare.» Spinse ancora di più la canna della pistola contro l'occhio di Anthony. «Va bene!» gridò questi. Billie allentò la pressione. «Lascia andare il bambino!» «Ne è sicuro?» disse Pete. «Fa' come ti dico, perdio... mi sta puntando contro una pisto-la!» «Okay!» Pete lasciò il braccio di Larry. Larry si precipitò verso il retro del monumento e riapparve qualche secondo dopo a livello della strada, correndo verso Bil-lie. «Non da questa parte» urlò lei, cercando di mantenere un tono di voce calmo. «Sali in macchina, svelto!» Larry andò alla Thunderbird e saltò su, chiudendo la portiera. Con un movimento ampio e veloce, Billie colpì Anthony sul vi-so con tutta la sua forza. Lui urlò per il

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dolore ma, prima che po-tesse muoversi, lei gli infilò di nuovo la pistola in bocca. Anthony rimase immobile, gemendo. «Ricordatelo, se ti tornasse in mente di rapire un bambino» disse lei. Poi si alzò in piedi, estraendogli la pistola dalla bocca. «Resta fermo» gli ordinò. Sempre tenendo Anthony sotto tiro, retroces-se verso l'auto. Alzò lo sguardo verso il monumento. Pete non si era mosso. Salì in auto. «Hai una pistola, mamma?» chiese Larry. Billie infilò la Colt nella tasca del cappotto. «Stai bene?» gli chiese. Lui si mise a piangere. Billie innestò la prima e partì a razzo.

8.00

I razzi più piccoli che spingono il secondo, il terzo e l'ultimo stadio sono alimentati con un combustibile solido noto come T17-E2, un polisolfuro che utilizza il perclorato di ammonio come agente ossi-dante. Nello spazio, ogni razzo svilupperà una spinta di circa 800 kgf.

Bern versò del latte caldo sui fiocchi di cereali mentre Billie sbatteva un uovo per i french toast. Stavano dando al loro bam-bino conforto sotto forma di cibo, ma Billie pensava che anche gli adulti ne avessero bisogno. Larry mangiava di gusto e ascolta-va la radio. «Io l'ammazzo, quel figlio di puttana» borbottò Bern, parlan-do a voce bassa in modo che Larry non sentisse. «Giuro su Dio che l'ammazzo.» La rabbia di Billie era svanita, cancellata dai colpi che aveva assestato a Anthony con la pistola. Ora provava solamente preoc-cupazione e paura, in parte per Larry - che si era preso un brut-to spavento -, in parte per Luke. «Temo che Anthony possa cer-care di uccidere Luke» disse. «Qualche ora fa non lo credevo possibile, ma ora ho cambiato idea.» Bern lasciò cadere una noce di burro in una padella calda, intinse una fetta di pane bianco nell'uovo che Billie aveva sbattu-to insieme a un po' di latte. «Luke non si lascerà uccidere tanto facilmente» osservò. «Ma lui è convinto di essere riuscito a fuggire, non sa che io ho detto a Anthony dove sta andando.» Mentre Bern friggeva il pane, Billie continuava a camminare su e giù per la cucina, mor-sicandosi il labbro. «Probabilmente Anthony è già partito per Huntsville. L'aereo di Luke è lento, mentre Anthony potrebbe prendere un volo della Mats e arrivare a destinazione prima di lui. Devo trovare il modo di avvisare Luke.» «Potresti lasciargli un messaggio all'aeroporto.»

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«Non mi fido. È meglio che vada là di persona. Se non sbaglio c'è un Viscount che parte alle nove. Dov'è l'orario degli aerei?» «Sul tavolo.» Billie lo prese. Il volo 271 partiva da Washington esattamente al-le nove. A differenza del volo di Luke, questo faceva solo due soste prima di atterrare a Huntsville alle dodici meno quattro minuti. Il volo di Luke arrivava alle due e ventitré. Poteva aspettarlo all'aero-porto. «Posso farcela» disse. «E allora corri.» Billie esitò. Guardò Larry, lacerata da desideri contrastanti. Bern le lesse nel pensiero. «Se la caverà.» «Lo so, ma non voglio lasciarlo proprio adesso.» «Mi prenderò cura io di lui.» «Lo terresti a casa da scuola?» «Sì, penso che sarebbe una buona idea, almeno per oggi.» «Ho finito i cereali» disse Larry. «E allora sei pronto per i french toast» disse Bern, servendo-gliene una fetta. «Vuoi un po' di sciroppo d'acero?» «Sì!» «Sì, e poi?» «Sì, grazie.» Bern versò lo sciroppo sulla fetta di pane fritto. Billie sedette di fronte al bambino e gli disse: «Voglio che oggi tu resti a casa». «Ma c'è lezione di nuoto!» protestò lui. «Potresti andare a nuotare con papà.» «Ma non sono malato!» «Lo so, tesoro, ma hai avuto una mattinata un po' stancante e hai bisogno di riposare.» Le proteste di Larry la rassicurarono: sembrava si stesse riprendendo in fretta. In ogni caso, non si sen-tiva tranquilla a farlo andare a scuola, almeno finché non si fosse conclusa quella faccenda. Ma poteva lasciarlo con suo padre: in fondo Bern era un ex agente dell'Oss e sarebbe stato in grado di proteggerlo da qualsiasi pericolo. Alla fine prese una decisione: sarebbe andata a Huntsvil-le. «Passa una bella giornata con papà, e magari domani potrai an-dare a scuola, d'accordo?»

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«D'accordo.» «Ora la mamma deve andare.» Non voleva che i saluti diven-tassero un dramma dell'addio; sarebbero serviti solo a spaventa-re il bambino. «Ci vediamo più tardi» disse con naturalezza. Uscendo, sentì Bern che diceva: «Scommetto che mangeresti un'altra fetta di french toast» . «Sììì!!» Billie chiuse la porta.

PARTE QUINTA

10.45

Il missile decollerà verticalmente, poi piegherà lungo una traietto-ria inclinata di 40 gradi sull'orizzonte. Durante il periodo di spin-ta, il primo stadio sarà guidato dagli impennaggi di coda e da alet-te mobili negli ugelli di scarico.

Appena allacciata la cintura di sicurezza, Luke cadde in un son-no profondo e non si accorse neppure del decollo da Newport News. Dormì durante tutto il volo, salvo svegliarsi ogni volta che l'aereo toccava terra per l'ennesimo scalo lungo la sua rotta verso ovest, attraverso la Virginia e la Carolina del Nord. Quando apriva gli occhi veniva assalito dall'ansia e subito guardava l'orologio per vedere quanto mancava al lancio, agitandosi sul sedile mentre il piccolo apparecchio rullava sulla pista. Qualche passeggero scen-deva, qualche altro saliva, poi ripartivano. Era come essere su un autobus. L'aereo fece rifornimento a Winston-Salem e i viaggiatori ven-nero fatti scendere per qualche minuto. Da un telefono del ter-minal Luke chiamò il Redstone Arsenal e si fece passare la sua segretaria, Marigold Clark. «Dottor Lucas! Tutto bene?» «Sì, sì, sto bene, ma ho pochissimi minuti. Il lancio è in pro-gramma per stasera?» «Sì, alle dieci e mezzo.» «Sto arrivando a Huntsville, l'aereo dovrebbe atterrare alle due e ventitré. Voglio capire perché sono venuto lì lunedì.» «Non ha ancora recuperato la memoria?» «No. Marigold, lei non sa il motivo di quel viaggio?»

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«No, non me l'ha detto.» «Cosa ho fatto esattamente?» «Dunque, vediamo. Sono venuta a prenderla all'aeroporto con un'auto dell'esercito e l'ho accompagnata qui alla base. Lei è andato subito al centro di calcolo, poi ha preso la macchina e si è diretto verso sud.» «Cosa c'è nella zona sud?» «Le piattaforme per i test statici. Suppongo sia andato al repar-to progettazione - a volte lavora là - ma non lo so di sicuro perché non ero con lei.» «E poi?» «Mi ha chiesto di accompagnarla a casa.» Luke avvertì una nota piccata nella voce della donna. «L'ho aspettata in macchina mentre lei è entrato, per un minuto o due. Poi l'ho riportata all'aeroporto.» «Nient'altro?» «Che io sappia, no.» Luke si lasciò sfuggire un'esclamazione di disappunto. Era cer-to che Marigold potesse dargli delle indicazioni utili. Disperato, provò con un altro filone di domande. «Che aspet-to avevo?» «Normale, ma la sua mente era da qualche altra parte. Sem-brava... preoccupato. Ecco, è la parola giusta. Ho capito che era preoccupato per qualcosa. Succede spesso a voi scienziati e così non ci ho fatto molto caso.» «Ero vestito come mio solito?» «Sì, con una di quelle belle giacche di tweed.» «Avevo qualcosa con me?» «Solo la valigetta. Ah, e anche una cartellina.» Luke si sentì mancare il fiato. «Una cartellina?» chiese, deglu-tendo a fatica. Gli si avvicinò una hostess. «Mi scusi, signore, ma l'avverto che è ora di imbarcarsi.» Lui coprì il ricevitore con la mano e le disse: «Un minuto solo». Quindi tornò a Marigold. «Questa cartellina, aveva qual-cosa di speciale?» «No, era una normale cartellina dell'esercito, di colore beige, abbastanza grande da contenere un piccolo fascicolo.» «Ha idea di cosa ci fosse dentro?»

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«Dei fogli, direi.» Luke si sforzò di respirare in maniera normale. «Quanti fogli? Uno, dieci, cento?» «Una ventina, più o meno.» «Per caso ha visto cosa c'era su quei fogli?» «No, lei non li ha tirati fuori.» «E avevo ancora quella cartellina quando mi ha accompagnato all'aeroporto?» Dall'altra parte ci fu un attimo di silenzio. La hostess riapparve. «Signore, se non sale a bordo saremo costretti a partire senza di lei.» «Arrivo, arrivo.» Fece per ripetere la domanda a Marigold. «Avevo ancora quella cartellina...» «Ho sentito» lo interruppe lei. «Sto cercando di ricordare.» «Pensi con calma» disse lui, mordendosi il labbro per l'impa-zienza. «Non saprei dire se l'ha portata in casa o meno.» «E all'aeroporto?» «Mah, credo di no. Sto cercando di ricordarla mentre va verso l'aereo e mi pare avesse la valigetta in una mano, ma nell'altra... no, niente.» «Ne è sicura?» «Sì, ora sì. Deve averla lasciata da qualche parte, o alla base o a casa.» La mente di Luke correva all'impazzata. La cartellina era il motivo per cui era andato a Huntsville, ne era certo. Conteneva il segreto che lui aveva scoperto, quello che Anthony voleva a tutti i costi fargli dimenticare. Forse erano copie di documenti che lui aveva nascosto da qualche parte per sicurezza. Ecco per-ché aveva chiesto a Marigold di non parlare con nessuno della sua visita. Se avesse trovato quelle carte, avrebbe sciolto il mistero. La hostess se n'era andata. La vide correre sulla pista. Le eli-che dell'aereo stavano già girando. «Credo che quella cartellina sia la chiave di tutto» disse a Marigold. «Potrebbe dare un'occhiata in giro e vedere se riesce a trovarla?» «Mio Dio, dottor Lucas, siamo nell'esercito! Qui ci saranno almeno un milione di cartelline beige come quella! Come faccio a sapere qual era quella che aveva con sé?» «Dia un'occhiata in giro e guardi se ne trova qualcuna fuori posto. Appena atterro a Huntsville vado a casa e la cerco là. Se non la trovo, verrò alla base.» Luke riattaccò senza salutare e corse verso l'aereo.

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11.00

La rotta è stata programmata in anticipo. Durante il volo, segnali trasmessi al computer di bordo attivano il sistema di guida e man-tengono il missile sulla giusta traiettoria.

Il volo Mats per Huntsville era pieno di generali. Al Redstone Arsenal non si limitavano a progettare veicoli spaziali, la base era anche sede del comando missilistico dell'esercito. Anthony, che si teneva sempre ben informato su queste cose, sapeva che là si stu-diava e collaudava un'intera gamma di armi missilistiche, dal pic-colo Redeye, un terra-aria grande quanto una mazza da baseball, destinato alle truppe di terra per la difesa antiaerea, fino al ben più grande missile terra-terra Honest John. La base era dunque molto frequentata da pezzi grossi dell'esercito. Anthony indossava un paio di occhiali da sole per nascondere i due occhi neri risultato della colluttazione con Billie. Il labbro non sanguinava più e il dente rotto era visibile solo quando parla-va. Ma, nonostante le ferite, si sentiva pieno di energia: stava per mettere le mani su Luke. Doveva ucciderlo alla prima occasione buona? La tentazione era forte, ma lo preoccupava il fatto di non sapere bene cosa lui avesse in mente. Doveva assolutamente prendere una decisione. Ma era sveglio da quarantott'ore e, come si imbarcò sull'aereo, si addormentò. Sognò di avere di nuovo vent'anni. Gli alti alberi di Harvard erano coperti di foglie nuove e una vita piena di splen-dide opportunità si apriva davanti a lui come una grande strada sgombra. Si risvegliò bruscamente per gli scossoni di Pete, men-tre un caporale apriva il portellone e il caldo fiato dell'Alabama invadeva l'aereo. Huntsville aveva un aeroporto civile, ma i voli Mats atterravano su un'altra pista, adiacente al Redstone Arsenal. Una piccola costruzione di legno fungeva da terminal mentre la torre di con-trollo era costituita da una semplice struttura in ferro con in cima un unico locale per i controllori di volo. Camminando sull'erba strinata dal sole, Anthony scosse la testa come per schiarirsi le idee. Aveva con sé la valigetta con dentro la pistola, un passaporto falso e cinquemila dollari in contanti, il kit d'emergenza senza il quale non si imbarcava mai su un aereo. L'adrenalina lo rimise in moto. Nelle prossime ore avrebbe ucci-so un uomo, il primo dopo la guerra. Si sentì stringere lo stomaco all'idea. Dove poteva agire? Una possibilità era quella di aspettare Luke all'aeroporto di Huntsville, seguirlo e sparargli da qualche parte lungo la strada. Ma era molto rischioso: Luke avrebbe potuto accorgersi di essere seguito e tentare di scappare. Non era un ber-saglio facile, purtroppo. Se lui non fosse stato molto attento avreb-be potuto sfuggirgli un'altra volta. Forse la cosa migliore era cercare di capire le sue intenzioni, anticiparlo e tendergli un'imboscata. «Io farò qualche indagine alla base» disse a Pete. «Voglio che tu vada al terminal dell'aero-porto e lo tenga sotto controllo. Se arriva Luke, o se succede qualcosa, avvertimi qui.» Ai bordi della pista, un giovane in uniforme con i gradi di tenen-te aspettava esibendo un cartello con su scritto: "Mr Carroll, Di-partimento di Stato". Anthony si presentò e gli strinse la mano. «Le porgo i saluti del colonnello Hickam, signore» disse il giovane, in modo molto formale. «Come richiesto dal Dipartimento di Sta-to, le abbiamo messo a disposizione un'auto.» Indicò una Ford verde oliva.

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«Andrà benissimo.» Anthony aveva chiamato la base prima di imbarcarsi, fingendo spudoratamente di agire su diretta autoriz-zazione del direttore della Cia, Alien Dulles, e aveva chiesto la col-laborazione dell'esercito per una missione top secret di vitale im-portanza per la sicurezza nazionale. Aveva funzionato: il tenente sembrava pronto a farsi in quattro per lui. «Il colonnello Hickam le sarebbe grato se volesse passare al quartier generale, quando è in comodo.» Il tenente gli porse una mappa della base. Anthony si rese conto che era enorme: si esten-deva per parecchi chilometri in direzione sud, fino al Tennessee River. «Il quartier generale è segnato qui sulla cartina, signore» proseguì. «Inoltre, c'è un messaggio per lei. Dice di chiamare Mr Carl Hobart a Washington.» «Grazie, tenente. Dove si trova l'ufficio del dottor Claude Lucas?» «Al centro di calcolo.» Il giovane estrasse una penna e fece un segno sulla mappa. «Ma questa settimana sono tutti giù a Cape Canaveral.» «Il dottor Lucas ha una segretaria?» «Sì, Mrs Marigold Clark.» La donna poteva essere a conoscenza dei movimenti di Luke. «Bene. Tenente, questo è il mio collega, Pete Maxell. Deve recar-si all'aeroporto civile.» «Sarò lieto di accompagnarlo io stesso.» «La ringrazio molto. Se avesse bisogno di rintracciarmi alla base, qual è il modo migliore?» Il tenente si rivolse a Pete. «Potrebbe lasciare un messaggio all'ufficio del colonnello Hickam, e io cercherò di farlo avere a Mr Carroll.» «Perfetto» disse Anthony, con decisione. «Andiamo.» Salì sulla Ford, controllò il tragitto sulla cartina e partì. Era una tipica base dell'esercito, con strade dritte che tagliavano i boschi interrotti solo da precisi rettangoli di prato con l'erba rasata come i capelli di una recluta. Gli edifici erano tutti strutture di mattoni rossi con il tetto piatto. Le strade erano ben segnalate e trovò senza difficoltà il centro di calcolo, una costruzione a due piani a forma di T. Anthony si chiese perché mai avessero bisogno di tanto spazio solo per fare due conti, ma poi capì che lì dentro doveva esserci un potente cervello elettronico. Parcheggiò fuori e rimase a riflettere per qualche attimo. Gli serviva solo la risposta a una semplice domanda: cosa ci faceva Luke, lì a Huntsville? Probabilmente Marigold lo sapeva, ma sarebbe stata diffidente di fronte a un estraneo, tanto più un estraneo con due occhi lividi. D'altro canto, era rimasta lì da sola mentre tutti i suoi colleghi erano andati a Cape Canaveral per il grande evento, e forse si sentiva annoiata. Anthony entrò nell'edificio. Nell'ufficio antistante c'erano tre piccole scrivanie, ognuna con sopra una macchina per scrivere. Due erano vuote, la terza era occupata da una donna di colore sulla cinquantina che indossava un abito di cotone a fiori e lenti con la montatura coperta di brillantini. «Buongiorno» disse Anthony, togliendosi gli occhiali da sole.

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La donna alzò lo sguardo e fece un'espressione sorpresa. «Salve! In cosa posso esserle utile?» «Sono alla ricerca di una moglie che non me le suoni» rispose con scherzosa solennità. Marigold scoppiò in una risata. Anthony avvicinò una sedia e si accomodò accanto alla scriva-nia. «Lavoro per l'ufficio del colonnello Hickam. Cerco Mari-gold Clark. Dove posso trovarla?» «Sono io.» «Oh, no. La Mrs Clark che cerco io è una persona matura, lei è una ragazzina.» «La smetta di scherzare» disse lei, ma sorrideva. «Il dottor Lucas sta venendo qua, immagino che lei ne sia al corrente.» «Mi ha chiamata questa mattina.» «Per che ora dovrebbe arrivare?» «Il suo aereo atterra alle due e ventitré.» Informazione utile. «Dunque sarà qui verso le tre.» «Non necessariamente.» Ah. «Perché?» La donna gli disse quello che voleva sapere. «Il dottor Lucas mi ha informata che prima avrebbe fatto un salto a casa e poi sarebbe passato di qui.» Perfetto. Anthony non riusciva a credere alla sua buona stella. Luke si sarebbe recato direttamente dall'aeroporto a casa sua. Lui poteva andare là ad aspettarlo e sparargli non appena fosse entrato. Niente testimoni. Se avesse usato il silenziatore, nessuno avrebbe udito lo sparo. Poi se ne sarebbe andato, abbandonando il corpo nel punto esatto in cui fosse caduto: con Elspeth in Flo-rida, non lo avrebbero scoperto per giorni. Alzandosi, ringraziò Marigold. «È stato un vero piacere cono-scerla.» Uscì dall'ufficio prima che la donna avesse il tempo di chiedergli il suo nome. Tornò all'auto e andò al quartier generale, un lungo monolito di tre piani che ricordava una prigione. Trovò l'ufficio del colonnello Hickam. Il colonnello non c'era, ma un sergente gli indicò una stanza vuota con un telefono. Chiamò il Q Building, ma non chiese del suo capo, Carl Hobart. Si fece passare, invece, il superiore di Carl, George Cooperman. «Cosa c'è, George?» chiese. «Hai sparato a qualcuno, la notte scorsa?» disse Cooperman, e la sua voce da fumatore suonò ancora più roca del solito.

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Con uno sforzo, Anthony assunse l'atteggiamento da spaccone che tanto piaceva al suo amico. «Ah, bene, chi te l'ha detto?» «Un colonnello del Pentagono ha chiamato Tom Ealy dell'uf-ficio del direttore, e Ealy l'ha riferito a Carl Hobart che ha avuto un orgasmo.» «Non ci sono prove, ho raccolto bossoli e proiettili.» «Questo colonnello ha trovato un buco di circa nove millime-tri nel muro e ha indovinato cosa poteva averlo causato. Hai col-pito qualcuno?» «Sfortunatamente, no.» «Ora sei a Huntsville, giusto?» «Sì.» «Dovresti tornare qui subito.» «Allora è un bene che non ti abbia parlato.» «Senti, Anthony, io ti ho sempre lasciato fare perché ottieni dei risultati. Ma questa volta non posso coprirti. Da adesso in poi sei solo, amico.» «È così che mi piace.» «Buona fortuna.» Anthony riattaccò e rimase a fissare il telefono. Non aveva più molto tempo. Questa azione da cavaliere solitario cominciava a logorarlo. Non poteva disobbedire agli ordini troppo a lungo. Doveva chiudere la faccenda al più presto. Chiamò Cape Canaveral e si fece passare Elspeth. «Hai parla-to con Luke?» le chiese. «Mi ha chiamata questa mattina alle sei e mezzo» rispose lei. Sembrava turbata. «Da dove?» «Non mi ha voluto rivelare né dove si trovava né cosa aveva intenzione di fare perché temeva che il mio telefono fosse sotto controllo. Ma mi ha detto che sei tu il responsabile della sua amnesia.» «Sta venendo a Huntsville. Io ora mi trovo al Redstone Arsenal. Andrò ad aspettarlo a casa vostra. C'è un modo per entra-re?» Lei gli rispose con un'altra domanda. «Stai sempre cercando di proteggerlo?» «Certo.» «Andrà tutto bene?» «Posso solo assicurarti che farò del mio meglio.»

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Dopo un attimo di pausa, lei disse: «C'è una chiave sotto il vaso di buganvillea nel giardino sul retro». «Grazie.» «Abbi cura di Luke, mi raccomando.» «Ti ho detto che farò del mio meglio!» «Non mi trattare in questo modo» ribatté lei ritrovando la sua solita verve. «Mi prenderò cura di lui» la rassicurò Anthony, e riattaccò. Mentre si alzava, il telefono prese a squillare. Si chiese se fosse il caso di rispondere. Poteva essere Hobart. Ma Hobart non sapeva che lui era nell'ufficio del colonnello Hickam. Solo Pete ne era a conoscenza... Sollevò il ricevitore. Era Pete. «La dottoressa Josephson è qui!» «Oh, merda!» Anthony era convito di essersela tolta dai piedi. «È arrivata in aereo?» «Sì. Doveva essere su un volo più veloce di quello su cui viag-gia Lucas. È seduta nel terminal, come fosse in attesa di qualcu-no.» «Lo sta aspettando» disse Anthony, deciso. «Accidenti! È venu-ta ad avvertirlo che siamo qui. Devi farla allontanare.» «E come?» «Non mi interessa. Fa' come vuoi, ma liberati di lei.»

12.00

L'orbita dell'Explorer sarà inclinata di 34 gradi sull'Equatore. Rispetto alla superficie terrestre, il satellite si dirigerà a sudest attraverso l'oceano Atlantico fino all'estremità meridionale dell'A-frica, poi risalirà in direzione nordest sorvolando l'oceano Indiano e l'Indonesia verso il Pacifico.

L'aeroporto di Huntsville era piccolo ma molto trafficato. Nel-l'unico terminal c'erano un bancone della Hertz, alcuni distribu-tori automatici e una fila di cabine telefoniche. Appena arrivata, Billie chiese informazioni sul volo di Luke e scoprì che aveva quasi un'ora di ritardo e sarebbe quindi atterrato a Huntsville verso le tre e un quarto. Doveva aspettare tre ore.

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Prese uno snack e una bibita dal distributore automatico. Posò la valigetta che conteneva la Colt .45 e si appoggiò a una parete, riflettendo sul da farsi. Avrebbe subito avvertito Luke della pre-senza di Anthony. A quel punto, lui avrebbe preso le sue precau-zioni. Ma non era possibile nascondersi: doveva scoprire il moti-vo del suo viaggio di lunedì, e per farlo doveva spostarsi, correre dei rischi. Cosa poteva fare lei per proteggerlo? Mentre si lambiccava il cervello, le si avvicinò una ragazza con l'uniforme della Capital Airlines. «Lei è la dottoressa Josephson?» «Sì.» «C'è un messaggio telefonico per lei» disse, e le porse una busta. Billie restò perplessa. Chi mai poteva sapere che si trovava lì? «Grazie» mormorò, aprendo la busta. «Si figuri. Ci faccia sapere se possiamo esserle d'aiuto.» Billie alzò lo sguardo e sorrise. Aveva dimenticato quanto fosse cortese la gente nel Sud. «Certo» rispose. «Grazie.» La ragazza si allontanò e Billie lesse il messaggio: "Per favore chiamare il dottor Lucas al JE 6-4231 di Huntsville". Era sconcertata. Come faceva Luke a essere già arrivato? E come faceva a sapere che lei si trovava lì? C'era un solo modo per scoprirlo. Gettò la bibita in un portarifiuti e andò a un telefono pubblico. Il numero rispose immediatamente e una voce d'uomo disse: «Laboratorio collaudi». Sembrava proprio che Luke fosse già arrivato al Redstone Arsenal. Come aveva fatto? «Il dottor Claude Lucas, per favore.» «Un momento.» Dopo un attimo l'uomo tornò in linea. «Il dottor Lucas è uscito un attimo. Chi parla?» «Sono la dottoressa Bilha Josephson. Ho ricevuto un messag-gio di chiamarlo a questo numero.» Il tono dell'uomo cambiò all'istante. «Ah, dottoressa Joseph-son, sono felice di averla trovata! Il dottor Lucas era molto preoccupato di rintracciarla.» «Cosa ci fa qui? Credevo fosse ancora in volo.» «Il servizio sicurezza dell'esercito lo ha fatto scendere dall'aereo a Norfolk, in Virginia, e lo ha messo su un volo speciale. È arrivato da più di un'ora.» Era un sollievo sapere che Luke era al sicuro, ma Billie conti-nuava a essere perplessa. «Cosa sta facendo lì?» «Credevo che lei fosse informata.» «Sì, credo di saperlo. Come sta andando?»

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«Bene, ma non posso darle alcun particolare, specialmente per telefono. Ce la fa a venire qui?» «Dove siete?» «Il laboratorio è a circa un'ora di macchina dalla città, sulla strada per Chattanooga. Potrei mandare un'auto a prenderla, ma sarebbe più veloce se lei prendesse un taxi da lì, o affittasse una macchina.» Billie prese un taccuino dalla borsa. «Okay, mi spieghi come arrivarci.» Poi, ricordandosi delle buone maniere del Sud, aggiunse: «Per favore».

13.00

Il motore del primo stadio deve essere spento di colpo e separato im-mediatamente, perché una perdita di potenza graduale potrebbe far sì che il primo stadio raggiunga e urti il secondo mandandolo fuori rotta. Non appena la pressione nei condotti del combustibile dimi-nuisce, le valvole di alimentazione si chiudono e, cinque secondi do-po, il primo stadio si separa per la detonazione dei bulloni esplosivi che liberano le molle di sgancio. Queste ultime aumentano la velo-cità iniziale del secondo stadio di quasi un metro al secondo, garan-tendo una separazione netta dei due stadi.

Anthony sapeva come arrivare a casa di Luke. Vi aveva passa-to un weekend, un paio d'anni prima, subito dopo che Luke ed Elspeth si erano trasferiti da Pasadena. La raggiunse in quindici minuti. Era su Echols Hill, una strada fiancheggiata da costru-zioni vecchie e grandi, a un paio di isolati dal centro. Anthony parcheggiò dietro un angolo, in modo che Luke non si accorges-se di avere visite, e si diresse a piedi verso la casa. Avrebbe dovuto sentirsi sicuro - aveva in mano tutte le carte vincenti: fattore sorpresa, tempo, una pistola - e invece era così nervoso da provare quasi un senso di nausea. Già due volte gli era parso di tenere Luke in pugno, e per due volte gli era sfug-gito. Ancora non sapeva perché mai Luke avesse scelto di venire a Huntsville anziché volare a Cape Canaveral. Questa decisione fa-ceva temere qualcosa di imprevedibile, una sorpresa sgradevole con la quale avrebbe potuto dover fare i conti da un momento al-l'altro. La casa era un edificio coloniale bianco di fine Ottocento con un portico a colonne: una dimora troppo ambiziosa per uno scienziato dell'esercito, ma Luke non aveva mai fatto finta di vive-re con il solo stipendio di matematico. Anthony aprì un cancelletto nel muro basso ed entrò in cortile. Sarebbe stato facile vio-lare quella casa, ma non ce n'era bisogno. Andò sul retro: accan-to alla porta della cucina c'era una fioriera di terracotta con una buganvillea e, sotto il vaso, una grossa chiave di ferro. Anthony la prese ed entrò. L'esterno aveva un gradevole aspetto rétro; l'interno, invece, era modernissimo. In cucina, Elspeth si era concessa ogni genere di diavolerie. C'era un ampio ingresso decorato a colori pastello, un soggiorno con un mobile per la Tv e un giradischi, una sala da pranzo con seggiole e credenze di stile moderno. Anthony prefe-riva un arredamento più tradizionale, ma dovette ammettere che l'insieme era molto elegante.

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In soggiorno, guardando il divano ad angolo tappezzato di finta pelle rosa, ripensò al weekend che aveva passato in quella casa. Gli era bastata un'ora per capire che il loro matrimonio era in crisi. El-speth aveva un fare civettuolo, che in lei era sempre sintomo di tensione, mentre Luke ostentava un'atteggiamento forzatamente amichevole e ospitale, cosa del tutto inusuale per lui. Il sabato sera avevano organizzato un cocktail party al quale erano stati invitati i colleglli più giovani del Redstone Arsenal. Il soggiorno era pieno di scienziati vestiti in maniera trasandata che disquisivano di razzi accanto a ufficiali che discutevano sulle spe-ranze di promozione e belle donne che spettegolavano sugli intri-ghi amorosi alla base militare. Il grammofono era stato caricato con una pila di dischi di jazz, ma quella sera la musica gli era parsa più malinconica che gioiosa. Luke ed Elspeth si erano ubriacati - fatto insolito per entrambi - e mentre lei si era fatta ancor più civettuola, lui era diventato sempre più taciturno. Per Anthony era stato un grande dolore vedere una tale infelicità in due persone che ammirava così tanto, e quel weekend aveva fini-to per deprimerlo. Ora quel lungo dramma costituito dall'intreccio delle loro vite stava per giungere all'inevitabile conclusione. Anthony decise di perquisire la casa. Non sapeva cosa cercare, ma avrebbe potuto imbattersi in qualcosa in grado di fargli capire il perché della presenza di Luke a Huntsville, e metterlo in guardia da pericoli imprevisti. Indossò un paio di guanti di gomma trovati in cucina. Prima o poi ci sarebbe stata un'indagine per omicidio e non voleva lasciare in giro le sue impronte. Cominciò dallo studio, un ambiente piccolo pieno di testi scientifici. Sedette alla scrivania, che guardava verso il giardino, e aprì i cassetti. Nelle due ore seguenti perlustrò la casa da cima a fondo senza trovare nulla. Frugò in ogni tasca di ogni indumento del fornitissimo guar-daroba di Luke. Sfogliò uno per uno tutti i libri dello studio alla ricerca di qualche documento nascosto tra le pagine. Guardò sotto il coperchio di ciascun contenitore dell'enorme frigorifero a due ante. Andò in garage e passò al setaccio la magnifica Chry-sler 300C nera - la berlina più veloce del mondo, a sentire i gior-nali -, a partire dai fari dalla forma aerodinamica fino alle pinne da nave spaziale dei parafanghi posteriori. Nel corso della perquisizione apprese anche qualche segreto personale. Elspeth si tingeva i capelli, prendeva pillole per dor-mire e soffriva di stitichezza. Luke, da parte sua, usava uno sham-poo antiforfora ed era abbonato a "Playboy". Sul tavolo nell'ingresso c'era una piccola pila di posta, presu-mibilmente messa lì dalla cameriera. Anthony la scorse senza tro-varvi nulla di interessante: la pubblicità di un supermercato, una copia di "Newsweek", una cartolina di Ron e Monica dalle Hawaii, parecchia corrispondenza commerciale. La ricerca era stata infruttuosa. Ancora non sapeva cosa aves-se in mente Luke. Andò in soggiorno. Scelse una posizione dalla quale poteva te-nere d'occhio sia il giardino sul davanti della casa sia l'ingresso. Si accomodò sul divano di finta pelle rosa. Estrasse la pistola, controllò che il caricatore fosse pieno e inserì il silenziatore. Nel tentativo di tranquillizzarsi, si immaginò la scena. Arriva Luke, a bordo di un taxi, attraversa il giardino, tira fuori la chia-ve e apre la porta. Entra nell'ingresso e si dirige verso la cucina. Passando

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davanti al soggiorno lancia un'occhiata attraverso la porta aperta e lo vede lì, seduto sul divano. Si ferma, sorpreso, e fa per dire qualcosa. Nella sua mente prende forma una frase del tipo: "Anthony? Cosa diavolo?...", ma le sue labbra non hanno il tempo di pronunciarla. Gli cade lo sguardo sulla pistola punta-ta contro di lui e capisce immediatamente che è la fine. Allora Anthony gli spara, uccidendolo.

15.00

Nello spazio, l'inclinazione dell'ultimo stadio sarà controllata da un sistema di ugelli ad aria compressa montato nella coda del com-partimento che alloggia la strumentazione.

Billie era sicura di essersi persa. Lo aveva capito ormai da mezz'ora. Uscita dall'aeroporto a bordo della Ford presa a noleggio pochi minuti prima dell'una, si era diretta verso il centro di Huntsville e da lì aveva preso la Highway 59 in direzione di Chattanooga. Subito si era chiesta come mai il laboratorio collaudi si trovasse a un'ora di macchina dalla base e aveva immaginato che doveva essere per motivi di sicurez-za: forse c'era il pericolo che i componenti esplodessero durante i test. L'uomo al telefono le aveva detto di prendere una stradina sulla destra a cinquanta chilometri esatti da Huntsville. Billie aveva az-zerato il contachilometri in Main Street, ma quando l'indicatore era arrivato a cinquanta, non aveva visto né la stradina né altre in-dicazioni. Perplessa, era andata avanti e aveva imboccato la prima intersezione, tre chilometri più avanti. Le spiegazioni, che le erano parse così puntuali mentre pren-deva nota, in realtà non corrispondevano per nulla alla realtà, e così, nonostante la crescente preoccupazione, aveva proseguito, interpretandole meglio che poteva. Di sicuro l'uomo con cui aveva parlato non era attendibile come le era parso. Avrebbe voluto poter parlare direttamente con Luke. La vegetazione diventava a mano a mano più selvaggia, le fat-torie erano baracche di lamiera e le strade piene di buche. La disparità tra le indicazioni e ciò che vedeva attorno a sé si fece sempre più marcata finché, a un certo punto, si arrese e dovette ammettere di essersi persa. Era furiosa con se stessa e con quello stupido al telefono. Fece inversione di marcia decisa a tornare indietro per la stessa strada, ma presto si trovò a transitare in posti del tutto nuovi. Che stesse girando in tondo? Rallentò davanti a un campo dove un nero in salopette e cappello di paglia stava lavorando la terra con un aratro tirato da un ronzino. Si fermò e si rivolse all'uomo. «Sto cercando il laboratorio collaudi del Redstone Arsenal» disse. L'uomo parve sorpreso. «La base dei militari? È dall'altra parte di Huntsville!» «Sì, ma hanno qualche laboratorio anche qui intorno.» «Mai visti.»

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L'unica soluzione era chiamare il laboratorio e chiedere indi-cazioni più precise. «Potrei usare il suo telefono?» «Qui non ce ne sono.» Stava per chiedergli dove si trovasse il telefono pubblico più vi-cino, quando si accorse che l'uomo aveva un'espressione spaven-tata. Capì di averlo messo in una situazione che lo rendeva nervo-so: solo in un campo con una donna bianca che diceva cose senza senso. Lo ringraziò in fretta e ripartì. Dopo qualche chilometro si imbatté in un fatiscente negozio di generi alimentari con un telefono pubblico accanto all'ingresso. Si fermò. Aveva ancora il foglio con il numero di Luke. Infilò dieci centesimi nella fessura e lo compose. Risposero subito. «Pronto?» disse una giovane voce maschile. «Posso parlare con il dottor Claude Lucas?» «Ha sbagliato numero, dolcezza.» Riuscirò a farne una giusta? si chiese Billie, disperata. «Non è il JE 6-4231 di Huntsville?» Dall'altra parte ci fu una pausa. «Sì... sull'apparecchio c'è scritto proprio così.» Billie controllò di nuovo il messaggio. Non aveva sbagliato numero. «Io sto cercando di mettermi in contatto con il labora-torio collaudi.» «Be', lei ha chiamato un telefono pubblico dell'aeroporto di Huntsville.» «Un telefono pubblico?» «Sissignora.» Billie cominciò a rendersi conto di essere stata giocata. «Stavo per chiamare mia madre e dirle di venirmi a prendere» proseguì la voce all'altro capo «e quando tiro su il ricevitore sento lei che cerca questo Claude.» «Oh, merda!» esclamò Billie, e sbatté giù il telefono, furibon-da con se stessa per essere stata così credulona. Luke non era stato prelevato dal suo aereo a Norfolk e carica-to su un volo dell'esercito. E non era al laboratorio collaudi, ovunque si trovasse. Tutta la storia era una menzogna bella e buona inventata per sbarazzarsi di lei. E aveva funzionato. Guardò l'orologio. A quell'ora Luke doveva essere già atterrato. Anthony lo aspettava... e lei avrebbe anche potuto restare a Washington, per quello che era servita la sua presenza. Disperata, si chiese se Luke fosse ancora vivo. Forse faceva ancora in tempo ad avvertirlo. Era troppo tardi per lasciargli un messaggio all'aeroporto, ma doveva pur esserci qualcuno con cui parlare... Si sforzò di concentrarsi. Si ricordò che Luke aveva

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una segretaria alla base, e il suo nome era quello di un fiore... Marigold, tagete. Chiamò il Redstone Arsenal e chiese di parlare con la segreta-ria del dottor Lucas. Rispose una donna con la parlata lenta dell'Alabama. «Centro di calcolo, desidera?» «Parlo con Marigold?» «Sì.» «Sono la dottoressa Josephson, un'amica del dottor Lucas.» «Sì?...» La donna sembrava sospettosa. Billie, invece, voleva che si fidasse di lei. «Ci siamo già parlate, credo. Mi chiamo Billie.» «Oh, certo, ora ricordo. Come sta?» «Bene, ma sono molto preoccupata. Devo far avere un mes-saggio urgente a Luke. È lì con lei?» «No, dottoressa. È andato a casa sua.» «A fare cosa?» «A cercare una cartellina.» «Una cartellina?» Billie intuì subito il significato della cosa. «Una cartellina che ha lasciato lì lunedì, per caso?» «Questo non glielo so dire» rispose Marigold. Di certo Luke doveva essersi raccomandato con la segretaria di non fare cenno alla sua visita di lunedì. Ma ora non aveva alcuna importanza. «Se vede Luke, o lo sente, vorrebbe comunicargli un messaggio da parte mia?» «Certo.» «Gli dica che Anthony è in città.» «Tutto qui?» «Lui capirà. Ah, Marigold... ho qualche esitazione a parlar-gliene, non vorrei passare per pazza, ma penso sia meglio che lei lo sappia: credo che Luke sia in pericolo.» «Per via di questo Anthony?» «Esatto. Allora mi crede?» «Stanno succedendo delle cose così strane... Ha a che fare con la perdita della memoria?»

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«Sì, e se riesce a fargli avere questo messaggio potrebbe sal-vargli la vita. Non sto scherzando.» «Farò quello che posso, dottoressa.» «Grazie» disse Billie e riattaccò. C'era qualcun altro con cui Luke poteva cercare di mettersi in contatto? Elspeth, forse. Chiamò l'operatore e si fece passare Cape Canaveral.

15.45

Dopo essersi liberato del primo stadio, il missile seguirà una traiet-toria controllata dagli strumenti che lo porterà perfettamente oriz-zontale rispetto alla superficie terrestre.

A Cape Canaveral regnava un pessimo umore. Il Pentagono aveva decretato lo stato di massima allerta. Arrivando alla base, quella mattina, impazienti di mettersi al lavoro per gli ultimi con-trolli prima del lancio, avevano dovuto aspettare tutti in fila ai cancelli. Alcuni erano stati costretti a restare per tre ore sotto il sole della Florida. Risultato: auto rimaste a secco, radiatori in ebollizione, motori in panne che si rifiutavano di ripartire. Ogni veicolo era stato esaminato da cima a fondo: bagagliai passati al setaccio, sacche da golf perquisite, ruote di scorta sollevate dagli alloggiamenti, tutte le valigette aperte, i sacchetti del pranzo con-trollati uno per uno, le borse delle signore svuotate su un tavolo, cosicché gli uomini del colonnello Hide si ritrovarono a frugare tra rossetti, lettere d'amore, deodoranti e assorbenti. Gli animi erano surriscaldati. Ma non era finita lì: quando finalmente fu possibile raggiun-gere i laboratori, gli uffici e le officine, squadre di uomini addet-ti alla sicurezza interna interruppero il lavoro per ispezionare cas-setti e schedari, guardare anche dentro gli strumenti più sofisti-cati, arrivando persino a rimuovere gli sportellini di controllo dai macchinari. «Qui si sta cercando di lanciare un missile» prote-stavano tutti, ma le perquisizioni continuavano. Nonostante le interruzioni, però, il lancio restava programmato per le dieci e trenta di quella sera. Elspeth era contenta di tutto questo scompiglio: significava che nessuno si sarebbe accorto che era sconvolta al punto da non riuscire più a svolgere bene il proprio lavoro. Aveva fatto degli errori e consegnato gli aggiornamenti in ritardo, ma Willy Fredrickson era troppo distratto per rimproverarglielo. Non sapeva dove si trovasse Luke e non era più sicura di poter-si fidare di Anthony. Quando il telefono sulla sua scrivania si mise a squillare, poco prima delle quattro, le sembrò che il cuore si fermasse. Afferrò il ricevitore. «Sì?» «Sono Billie.»

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«Billie?» fece Elspeth sorpresa. «Dove sei?» «A Huntsville. Sto cercando di mettermi in contatto con Luke.» «Cosa ci fa lì?» «È venuto a cercare una cartellina che ha lasciato qui lunedì.» Elspeth rimase a bocca aperta. «Non sapevo che lunedì fosse stato a Huntsville.» «Non lo sapeva nessuno, a parte Marigold. Elspeth, hai idea di cosa stia succedendo?» «Credevo di saperlo» rispose lei con una risata amara, «ma ora non ne sono più tanto sicura.» «Sono convinta che la vita di Luke sia in pericolo.» «Cosa te lo fa pensare?» «Ieri sera, a Washington, Anthony gli ha sparato.» Elspeth si sentì gelare. «Oh, mio Dio!» «Ora è troppo complicato da spiegare. Se Luke ti chiama, puoi dirgli che Anthony è a Huntsville?» Elspeth stava ancora cercando di riprendersi dallo choc. «Certo... certo, glielo dirò.» «Potresti salvargli la vita.» «Capisco. Ah, Billie... ancora una cosa.» «Sì?» «Abbi cura di Luke, ti prego.» Dall'altra parte ci fu una pausa. «Cosa intendi dire?» chiese Billie. «Non sei mica in punto di morte.» Elspeth non rispose. Dopo qualche secondo, interruppe la comunicazione. Le sfuggì un singhiozzo, ma cercò con tutte le sue forze di con-trollarsi. Piangere non sarebbe servito a nulla, pensò. Si costrin-se a calmarsi. Quindi compose il numero di casa a Huntsville.

16.00

L'orbita ellittica dell'Explorer lo porterà a una distanza massima dalla terra di oltre 3000 chilometri e a

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una minima di circa 350. La velocità orbitale del satellite sarà di oltre 33.000 chilometri all'ora.

Anthony udì il motore di un'auto. Guardò dalla finestra e vide un taxi fermarsi davanti al marciapiede. Tolse la sicura alla pisto-la. Aveva la gola secca. Squillò il telefono. L'apparecchio si trovava su uno dei tavolini da caffè triangolari posti all'estremità del divano. Anthony lo fissò inorridito. Il telefo-no fece un altro squillo. Paralizzato per l'indecisione, guardò di nuovo fuori dalla finestra e vide Luke scendere dal taxi. La telefo-nata poteva essere una cosa da nulla, una sciocchezza, una chia-mata per sbaglio. Oppure poteva essere una comunicazione di vitale importanza. Il terrore montò dentro di lui. Non poteva rispondere e spara-re allo stesso tempo. Il telefono squillò una terza volta. In preda al panico, Anthony afferrò il ricevitore. «Sì?» «Sono Elspeth.» «Cosa c'è?» La voce di lei era bassa e tesa. «Sta cercando una cartellina che ha nascosto a Huntsville lunedì.» Anthony capì in un lampo. Luke aveva fatto delle copie dei do-cumenti che aveva portato a Washington e si era fermato a Hunt-sville per nasconderle. «Chi altri sa di questo?» «Marigold, la sua segretaria. E Billie Josephson... è stata lei a dirmelo. Ma potrebbero esserci altri.» Luke stava pagando il tassista. Anthony non aveva più tempo. «Devo mettere le mani su quella cartellina.» «È quello che pensavo anch'io.» «Qui non c'è, ho appena finito di perquisire la casa da cima a fondo.» «Allora dev'essere alla base.» Luke si stava avvicinando alla porta d'ingresso. «Non ho più tempo» disse Anthony e sbatté giù il ricevitore. Mentre attraversava l'ingresso di corsa e si infilava in cucina, sentì la chiave girare nella serratura. Uscì dalla porta sul retro e la richiuse senza far rumore. La chiave era ancora infilata nella toppa, all'esterno. La girò piano, si chinò, e la fece scivolare sotto il vaso di fiori. Si gettò a terra e strisciò lungo il portico, rasentando la casa sot-to il livello delle finestre. Sempre in quella posizione girò l'angolo e si trovò sul davanti. Da lì alla strada non c'era alcun riparo. Do-veva rischiare. La cosa migliore era fare una corsa mentre Luke posava la vali-gia e appendeva il cappotto. In quel

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momento era meno proba-bile che guardasse fuori dalla finestra. Anthony strinse i denti e fece un passo in avanti. Andò velocemente al cancello, resistendo alla tentazione di vol-tarsi indietro, aspettandosi da un momento all'altro di udire la vo-ce di Luke: "Ehi! Fermo! Fermati o sparo! ". Non accadde nulla. Raggiunse la strada e si allontanò indisturbato.

16.30

Il satellite contiene due minuscoli trasmettitori radio alimentati da batterie al mercurio non più grandi di quelle di una torcia elettrica. Ciascuno trasmette simultaneamente su otto canali di telemetria.

In soggiorno, sopra il mobile per la televisione, accanto a una lampada di vimini, c'era una cornice, anch'essa in vimini, con den-tro una foto a colori. Ritraeva una splendida donna dai capelli ra-mati in abito da sposa color avorio. Accanto a lei, in giacca a coda di rondine grigia e gilet giallo, c'era Luke. Osservò l'immagine di Elspeth. Avrebbe potuto essere una stella del cinema. Era alta, elegante, con un fisico voluttuoso. Che uomo fortunato a essere sposato con lei, pensò. La casa, però, non gli piaceva. Quando l'aveva vista dall'ester-no, con il glicine che saliva lungo le colonne del portico, gli si era rallegrato il cuore. L'interno, invece, era tutto spigoli, superfici lucide e colori violenti. E così in ordine... Di colpo capì che a lui sarebbe piaciuto vivere in una casa in cui i libri straripavano dagli scaffali, il cane dormiva sul tappeto in mezzo all'ingresso e dove non si poteva entrare in garage con l'auto perché il vialetto d'accesso era bloccato da un triciclo abbandonato con le ruote all'insù. Ma lì non c'erano bambini, né animali domestici. Era tutto perfettamente in ordine. Pareva una di quelle case che si vedono sulle riviste femminili, o il set di una commedia televisiva. Luke aveva la sensazione che le persone che abitavano quelle stanze fossero in realtà degli attori. Cominciò a cercare. Una cartellina beige avrebbe dovuto essere facile da trovare, a meno che lui non l'avesse buttata via dopo aver tolto il contenuto. Sedette alla scrivania dello studio - il suo studio - e guardò nei cassetti. Non trovò nulla di signi-ficativo. Salì al piano superiore. Rimase qualche secondo a osservare il grande letto matrimo-niale con il copriletto giallo e blu. Era difficile pensare che ogni sera lui lo divideva con la splendida creatura ritratta nella foto. Aprì l'armadio e, con enorme piacere, vide appesi degli abiti blu scuro e grigio, giacche sportive di tweed, camicie a righe e a quadretti, maglioni riposti in pile ordinate, scarpe lucide posate in ordine

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perfetto sui loro ripiani. Erano più di ventiquattr'ore che aveva indosso quell'abito rubato e fu tentato di concedersi cinque minuti per fare una doccia e cambiarsi, ma si trattenne: non c'era tempo da perdere. Perquisì la casa da cima a fondo, compreso il garage. Ovunque guardasse, scopriva qualcosa di sé e di sua moglie. Amavano ascoltare Glen Miller e Frank Sinatra, leggevano Hemingway e Scott Fitzgerald, bevevano whisky scozzese Dewar, mangiavano cereali All-Bran e si lavavano i denti con il Colgate. Guardando nell'armadio, scoprì che Elspeth aveva un debole per la bianche-ria costosa. Lui, invece, doveva essere un amante del gelato, per-ché il freezer ne era pieno ed Elspeth era così snella che non sem-brava possibile fosse lei a mangiarlo. Alla fine si arrese. In un cassetto della cucina trovò le chiavi della Chrysler par-cheggiata in garage. Sarebbe andato alla base e avrebbe conti-nuato a cercare là. Prima di uscire prese la corrispondenza posata nell'ingresso e la scorse. Sembravano tutte comunicazioni commerciali, fatture da pagare e cose simili. Alla ricerca disperata di un qualsiasi indi-zio, aprì le buste ed esaminò ogni lettera. Una era di un medico di Atlanta. Cominciava così:

Gentile Mrs Lucas, in riferimento al suo check-up annuale, la informo che abbiamo ricevu-to dal laboratorio i risultati dei suoi esami. Tutti i valori sono nella norma. Ma...

Luke si interruppe. Qualcosa gli diceva che non era sua abitu-dine leggere la corrispondenza di altri. D'altro canto, in questo caso si trattava di sua moglie e quel "ma" era inquietante. Forse aveva qualche problema di salute di cui avrebbe dovuto essere informato. Continuò la lettura.

... lei risulta sotto peso, soffre di insonnia e quando l'ho visitata era chiaro che aveva appena pianto, nonostante lei insistesse nel dire che anda-va tutto bene. Questi sono tutti sintomi di uno stato depressivo.

Luke aggrottò la fronte. La cosa era preoccupante. Perché si sentiva depressa? Che genere di marito era, lui?

La depressione può essere causata da mutamenti nella chimica del corpo, da problemi mentali irrisolti

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tipo le difficoltà coniugali, o da trau-mi subiti in età giovanile, quali la perdita di un genitore. La cura può basarsi su farmaci antidepressivi, accompagnati o meno da una terapia psichiatrica.

Di male in peggio. Elspeth aveva problemi psicologici?

Nel suo caso, sono certo che il problema sia strettamente correlato alla legatura delle tube cui si è sottoposta nel 1954.

Cos'era una legatura delle tube? Luke andò nello studio, accese la lampada da tavolo, prese dallo scaffale l' Enciclopedia medica per la famigliae si mise a cercare. Quello che lesse lo lasciò di sasso: era il metodo più comune di sterilizzazione per le donne che non desideravano avere figli. Si lasciò cadere sulla poltroncina e posò l'enciclopedia sulla scrivania. Rammentò la conversazione avuta con Elspeth quella mattina. Le aveva chiesto perché non potevano avere figli e lei aveva risposto: "Non lo sappiamo. L'anno scorso sei stato da uno spe-cialista in problemi della fertilità, ma non ha trovato niente di anormale. Alcune settimane fa ho visto una dottoressa ad Atlan-ta che mi ha sottoposta ad alcuni test. Stiamo aspettando i risul-tati". Tutte bugie. Lei sapeva perfettamente perché non potevano avere figli: si era fatta sterilizzare. Era effettivamente andata da un medico ad Atlanta, ma non per sottoporsi a un test della fertilità: era solo per un controllo di routine. Luke si sentiva distrutto. Era un tradimento insopportabile. Perché gli aveva mentito? Lesse il paragrafo seguente.

Questa procedura può essere causa di depressione a qualsiasi età ma, nel suo caso, essendosi sottoposta all'operazione sei settimane prima del matrimonio...

Luke era allibito. Allora il problema era davvero grosso. Elspeth aveva cominciato a mentirgli fin da prima di sposarlo. Come aveva fatto? Di certo non poteva ricordarlo, ma non aveva difficoltà a immaginarselo. Probabilmente gli aveva detto che si doveva sottoporre a una piccola operazione, forse aveva addirittura alluso al fatto che si trattava di "una questione da donne". Riprese a leggere.

... una reazione del genere era quasi inevitabile, e lei avrebbe dovuto rivolgersi al suo medico con regolarità.

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La rabbia di Luke svanì quando si rese conto di quanto avesse sofferto Elspeth. Rilesse la parte che diceva "lei risulta sotto peso, soffre di insonnia e quando l'ho visitata era chiaro che aveva appena pianto, nonostante lei insistesse nel dire che andava tutto bene". Si era condannata a una specie di inferno personale. Nonostante provasse pietà per lei, restava il fatto che il loro matrimonio era stato tutto una menzogna. Ripensando alla casa che aveva appena passato al setaccio, si rese conto che non la sen-tiva per niente sua. Stava bene lì nello studio, e aveva provato una sensazione familiare nell'aprire l'armadio, ma tutto il resto pre-sentava un'immagine di vita matrimoniale che gli era del tutto estranea. Non gli interessavano gli elettrodomestici per la cucina, né l'elegante arredo moderno. Avrebbe preferito vecchi tappeti e mobili di famiglia. Ma, più di ogni altra cosa, desiderava dei bam-bini... bambini che lei gli aveva deliberatamente negato. E gli aveva mentito su questo per quattro anni. Lo choc lo paralizzò. Rimase seduto alla scrivania a guardare fuori dalla finestra, mentre la sera calava sugli alberi del giardino. Come aveva potuto permettere che la propria vita prendesse una piega così disastrosa? Pensò a quanto aveva appreso su se stesso nelle ultime trentasei ore, da Elspeth, Billie, Anthony e Bern. Era successo un poco alla volta, come un bambino che si allontana sempre più e smarrisce la via di casa? Oppure c'era stata una svolta repentina, un momento preciso in cui aveva imboccato la strada sbagliata? Era un debole, andato alla deriva per la mancanza di un ideale, o era tutta colpa del suo carattere? Di sicuro doveva essere una frana nel giudicare le persone. Era rimasto vicino a Anthony, che aveva cercato di ucciderlo, ma aveva rotto con Bern che invece si era dimostrato un amico fida-to e leale. Aveva litigato con Billie e sposato Elspeth, ma mentre Billie si era fatta in quattro per aiutarlo, Elspeth lo aveva ingan-nato. Una grossa falena andò a sbattere contro il vetro della finestra e il rumore distolse Luke dalle sue riflessioni. Guardò l'orologio e vide con sorpresa che erano le sette passate. Se sperava di sciogliere l'enigma della propria vita, doveva cominciare da quella misteriosa cartellina. Lì non c'era, dunque doveva per forza trovarsi al Redstone Arsenal. Era ora di spe-gnere le luci, chiudere la casa, tirare fuori l'auto nera dal garage e andare alla base. Il tempo stringeva. Il lancio del satellite era previsto per le dieci e mezzo. Aveva poco più di tre ore per scoprire se esisteva un piano di sabotaggio. Ma continuava a restare seduto lì dietro la scrivania, a guardare il giardino avvolto dall'oscurità, senza vedere nulla.

19.30

Il primo radiotrasmettitore è potente ma ha una vita breve: cesserà di funzionare dopo due settimane. Il segnale più debole generato dal secondo durerà invece due mesi.

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Quando Billie passò in auto davanti alla casa di Luke vide che non c'erano luci accese. Cosa significava? Esistevano tre possibi-lità. Primo: la casa era vuota. Secondo: Anthony era lì dentro, al buio, che aspettava Luke per sparargli. Terzo: Luke giaceva cada-vere in una pozza di sangue. Il non sapere la terrorizzava. Aveva fallito, forse con esiti drammatici. Qualche ora prima aveva avuto buone probabilità di avvisare Luke e salvargli la vita, ma si era fatta fregare da un banalissimo stratagemma. Aveva impiegato ore per tornare a Huntsville e trovare la casa di Luke, e ignorava se lui avesse ricevuto i suoi messaggi. Era furiosa con se stessa per la propria dabbenaggine e terrorizzata al pensiero che potesse essere morto per colpa sua. Svoltò al primo incrocio dopo la casa e si fermò. Respirò a fondo e si impose di riflettere con calma. Doveva scoprire cosa c'era lì dentro. E se ci fosse stato Anthony? Pensò di introdursi nell'abitazione di soppiatto nella speranza di prenderlo alla sprovvista, ma era troppo pericoloso. Non era mai una buona idea sorprendere un uomo armato. Poteva presentarsi alla porta d'ingresso e suonare il campanello. Anthony avrebbe avuto il coraggio di spararle a sangue freddo? Era possibile, e lei non aveva il diritto di rischiare la propria vita avventatamente... suo figlio aveva bisogno di lei. La valigetta che aveva portato con sé era posata sul sedile del passeggero. L'aprì ed estrasse la Colt .45. Non le piaceva il con-tatto del metallo freddo contro il palmo della mano. Gli uomini con cui aveva lavorato durante la guerra amavano maneggiare le armi, traevano un piacere quasi sessuale nell'impugnare una pisto-la, far girare il tamburo di un revolver, poggiare il calcio di un fuci-le nell'incavo della spalla. Lei no. Per lei le armi erano brutali, cru-deli, fatte per dilaniare la carne e le ossa delle persone. Le faceva-no accapponare la pelle. Si posò l'automatica in grembo, fece inversione di marcia e tornò davanti alla casa di Luke. Si fermò con uno stridio di freni, spalancò la portiera con la pistola in pugno e salto giù. Prima che chiunque all'interno della casa potesse avere il tempo di reagire, aveva già scavalcato con un balzo il muretto basso e attraversato il prato di corsa, portandosi sul lato della casa. Dall'interno non proveniva alcun rumore. Andò verso il retro, chinandosi per passare davanti alla porta e arrivò a una finestra. Guardò dentro. La debole luce di un lampio-ne lontano le permise di vedere che si trattava di una semplice fi-nestra a battenti con un solo chiavistello. La stanza pareva vuota. Ruppe il vetro con il calcio della pistola, aspettandosi da un mo-mento all'altro lo sparo che avrebbe messo fine alla sua vita. Ma non accadde nulla. Infilò la mano nel buco, liberò il chiavistello e aprì la finestra. La scavalcò, tenendo la pistola con la destra, e si appiattì contro la parete. Riusciva a distinguere le sagome vaghe dei mobili, una scrivania e degli scaffali. Si trovava in un piccolo studio. L'istinto le diceva che era sola, ma la terrorizzava l'idea di inciampare nel cadavere di Luke. Lentamente attraversò il locale e localizzò la porta. Una volta abituatasi all'oscurità vide un ingresso, deserto. Uscì con cautela dalla stanza, pronta a sparare. Fece il giro di tutta la casa, nel buio più completo. Tutte le stanze erano vuote. Alla fine delle ricerche si fermò nella camera dove campeggiava il grande letto matrimoniale in cui Luke dormiva con Elspeth. Pensò al da farsi. Si sarebbe messa a piangere dalla gioia per non aver trovato Luke morto. Ma dov'era? Aveva cambiato idea, deci-dendo di non passare da casa? Oppure il suo corpo era stato fatto sparire? Forse Anthony non era riuscito a ucciderlo, o magari Luke aveva ricevuto uno dei suoi messaggi.

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Marigold era la sola persona che poteva darle qualche risposta. Billie tornò nello studio e accese la luce. Sulla scrivania c'era un dizionario medico, aperto alla pagina che parlava di steriliz-zazione femminile. Trovò strana la cosa, ma non vi diede troppo peso. Chiamò il servizio informazioni e chiese il numero di Mari-gold Clark. Temeva che la donna non avesse il telefono, ma dopo qualche secondo l'operatore le diede un numero di Huntsville. Rispose un uomo. «È andata alle prove del coro» le disse. Billie pensò che si trattasse del marito. «Mrs Lucas è giù in Florida e Ma-rigold dirige lei il coro finché non torna.» Billie si ricordò che Elspeth aveva diretto l'orchestra della Radcliffe Choral Society e, in seguito, un gruppo formato da bambini di colore a Washington. Sembrava che continuasse quel-l'attività anche lì a Huntsville, e Marigold era il suo vice. «Ho bisogno di parlare urgentemente con Marigold» disse Billie. «Pensa che sia un problema se interrompo le prove per un minu-to?» «Credo proprio di no. Sono alla Calvary Gospel Church in Mill Street.» «Grazie, è stato davvero gentile.» Billie andò alla macchina. Trovò Mill Street sulla cartina forni-tale dalla Hertz e partì. La chiesa era un bell'edificio di mattoni, ma si trovava in un quartiere degradato. Appena aperta la por-tiera dell'auto li sentì e, quando entrò, la musica la sommerse come un'onda di marea.Icoristi stavano in piedi sul lato oppo-sto della chiesa. Erano solo una trentina, tra uomini e donne, ma sembrava fossero cento.« Everybody's gonna have a wonderful time up there... Oh! Glory, hallelujah!» diceva l'inno. Mentre cantavano, battevano le mani e ondeggiavano. Un pianista li accompagnava al ritmo di una musica da bar di infimo ordine, mentre una donna corpulenta dirigeva con energia, dando la schiena all'ingresso. Iposti a sedere erano costituiti da file ordinate di sedie pie-ghevoli di legno. Billie sedette verso il fondo, un po' imbarazzata per il fatto di essere l'unica bianca. Nonostante la tensione, la musica le toccò il cuore. Era nata in Texas, e quegli accordi rit-mati e vivaci rappresentavano l'anima del Sud. Era impaziente di parlare con Marigold, ma era sicura che la donna sarebbe stata più disponibile se lei avesse avuto la delica-tezza di attendere la fine del pezzo. Terminarono su una nota alta, e immediatamente la donna si voltò a guardare dietro di sé. «Mi stavo chiedendo cosa fosse suc-cesso per farvi perdere la concentrazione» disse, rivolta ai coristi. «Facciamo una pausa.» Billie si avvicinò lungo la navata. «Mi dispiace interromperla» esordì. «Lei è Marigold Clark?» «Sì» rispose la donna, guardinga. Era sulla cinquantina e por-tava occhiali vistosi. «Ci conosciamo?» «Ci siamo parlate al telefono qualche ora fa. Sono Billie Josephson.» «Oh, salve, dottoressa Josephson.» Si allontanarono di qualche passo dagli altri. «Sa qualcosa di Luke?» chiese Billie.

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«Non l'ho più sentito da questa mattina. Mi aspettavo che ve-nisse alla base questo pomeriggio, ma non l'ho visto. Pensa che sia tutto a posto?» «Non lo so. Sono andata a casa sua, ma non c'era nessuno. Temo che possa essere stato ucciso.» Marigold scosse la testa, sconcertata. «Sono vent'anni che lavoro nell'esercito, ma non ho mai sentito niente di simile.» «Comunque, se è ancora vivo sta correndo un grave pericolo» proseguì Billie. «Mi crede?» Marigold esitò a lungo prima di rispondere. «Sì, signora, le credo» disse infine. «Allora deve aiutarmi.»

21.30

Il segnale radio emesso dal trasmettitore più potente può essere rice-vuto da radioamatori di tutto il mondo, il più debole, invece, soltan-to da stazioni dotate di una particolare strumentazione.

Anthony si trovava al Redstone Arsenal. Era appostato al buio, a bordo della Ford dell'esercito parcheggiata davanti al quartier generale, e scrutava ansioso la porta del centro di calcolo a un centinaio di metri di distanza. Luke era là dentro e stava cercando quella maledetta cartellina. Anthony era certo che non l'avrebbe trovata, così come sapeva che non l'avrebbe trovata a casa, perché l'aveva già cercata lui, inutilmente. Ora però non era più in grado di prevedere i suoi mo-vimenti: poteva solo aspettare che decidesse di andare da qualche parte e seguirlo. Il fattore tempo era dalla sua. Al passare di ogni minuto, Luke diventava sempre meno pericoloso. Il lancio era previsto da lì a un'ora. Luke sarebbe stato in grado di rovinare tutto nel giro di un'ora? Anthony sapeva solo che negli ultimi due giorni il suo vecchio amico aveva dimostrato di essere un avversario da non sottovalutare. Mentre meditava su questo fatto, la porta del laboratorio si aprì inondando di luce gialla il buio della notte. Ne emerse una figura che si diresse verso la Chrysler nera parcheggiata accanto al marciapiede. Come prevedeva, Luke era a mani vuote. Salì in auto e partì. Il cuore di Anthony si mise a battere più veloce. Avviò il moto-re, accese i fari e gli andò dietro. La strada puntava dritta verso sud. Dopo circa un chilometro e mezzo, Luke rallentò davanti a un lungo edificio basso e si infilò in un parcheggio. Anthony proseguì, accelerando nella notte. Circa mezzo chilometro più avanti fece inversione di mar-cia e tornò indietro. Quando arrivò, la macchina di Luke era ancora lì, ma lui era sparito. Anthony si infilò nel parcheggio e spense il motore.

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Luke era praticamente certo di trovare la cartellina nel suo ufficio al centro di calcolo. Per questo aveva passato così tanto tempo là dentro. Aveva controllato ogni fascicolo nel suo ufficio personale e poi in quello delle segretarie, ma senza trovare nulla. Restava un'ultima possibilità. Marigold gli aveva detto che lu-nedì era andato anche al reparto progettazione. Doveva esserci un motivo. E, comunque, era la sua ultima speranza. Se la cartellina non si trovava là, non sapeva proprio dove altro cercare. In ogni ca-so, a quel punto non avrebbe avuto più tempo: tra poco il satellite sarebbe stato lanciato... oppure avrebbe subito un sabotaggio. Nel reparto progettazione regnava un'atmosfera molto diversa da quella del centro di calcolo. Là l'ambiente era asettico per garantire il buon funzionamento dei grandi calcolatori che ela-boravano i dati di spinta, velocità e traiettoria. Il reparto proget-tazione al confronto era sporco come un'officina meccanica. Si avviò a passo svelto per il corridoio. Le pareti erano dipin-te di verde scuro fino all'altezza della cintura e di verde chiaro al di sopra. La maggior parte delle targhette sulle porte avevano la dicitura "Dr", quindi quelli dovevano essere gli uffici degli scienziati. Purtroppo nessuna diceva "Dr Claude Lucas". Era probabile che lì non avesse un secondo ufficio, ma forse una scrivania sì. Alla fine del corridoio si apriva un ampio locale con alcuni tavoli di metallo. In fondo, una porta aperta dava su un labora-torio attrezzato con banconi dal piano in granito e cassettiere di metallo dipinto di verde. Oltre i banconi c'era una grossa porta a due battenti che sembrava portare a una piattaforma di carico esterna. La parete alla sua sinistra era occupata da una fila di arma-dietti, ognuno contrassegnato da una targhetta con il nome. Uno era suo. Forse la cartellina era lì. Tirò fuori il mazzo di chiavi e ne trovò una che poteva essere quella giusta. Lo sportello si aprì. Luke guardò dentro: c'era un el-metto da cantiere, una tuta da lavoro blu e, posati sul ripiano più basso, un paio di stivali di gomma nera che sembravano della sua misura. Da sotto gli stivali spuntava una cartellina beige. Doveva essere proprio quella che stava cercando. La cartellina conteneva una grossa busta gialla lacerata su un lato. Dentro c'erano dei documenti. Quando li tirò fuori dalla busta capì subito che si trattava di disegni riguardanti i compo-nenti di un razzo. Con il cuore che gli batteva all'impazzata, si avvicinò a uno dei tavoli di metallo e spiegò i fogli sotto una lampada. Li studiò rapidamente e capì, senza il minimo dubbio, che i disegni illu-stravano il sistema di autodistruzione del razzo Jupiter C. Rimase sconvolto. Ogni razzo era dotato di un sistema di autodistruzione così che, nel caso fosse finito fuori rotta e avesse costituito una minaccia per la popolazione, poteva essere fatto esplodere in aria. Per tutta la lunghezza del primo stadio correva una treccia di Primacord che, all'estremità superiore, era collegata a un detonatore da cui fuoriu-scivano due terminali elettrici. Dai disegni Luke si rese conto che se a questi terminali fosse stata applicata una differenza di poten-ziale il detonatore avrebbe innescato il Primacord, la cui esplosio-ne avrebbe sventrato i serbatoi facendo fuoriuscire il combustibi-le, che si sarebbe incendiato distruggendo il satellite.

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L'esplosione era comandata da un segnale radio codificato. Sui disegni erano indicati due scrambler, uno per il trasmettitore al suolo, l'altro per il ricevitore sul missile. Il primo trasformava il messaggio radio in un segnale codificato, il secondo analizzava il segnale e, se questo era corretto, dava il via libera per l'alimenta-zione ai due terminali del detonatore. Un altro foglio, non un disegno tecnico ma uno schizzo fatto a mano, riproduceva nel dettaglio il circuito elettronico degli scrambler, cosicché chiun-que fosse in possesso del disegno era in grado di riprodurre il codice di trasmissione. Era geniale.Isabotatori non avevano bisogno di esplosivi né di dispositivi a orologeria: potevano utilizzare il sistema di cui il razzo era già dotato. Non dovevano neppure avvicinarsi al missi-le, né introdursi a Cape Canaveral. Una volta in possesso del codice, il segnale radio poteva essere inviato da qualsiasi trasmit-tente a chilometri e chilometri di distanza. Osservò la busta. Era indirizzata a Theo Packman, presso il Vanguard Motel. Probabilmente, in quello stesso momento, Packman se ne stava in qualche punto di Cocoa Beach con un trasmettitore radio, pronto a far saltare in aria il razzo qualche secondo dopo il lancio. Lui, però, poteva impedirlo. Lanciò un'occhiata all'orologio elettrico appeso alla parete. Erano le dieci e un quarto. Faceva ancora in tempo a chiamare Cape Canaveral e far rimandare il lancio. Afferrò il telefono sul bancone. «Mettilo giù, Luke» disse una voce. Luke si voltò lentamente, con il ricevitore in mano. Fermo sulla soglia c'era Anthony, con il suo cappotto di cammello, gli occhi pesti, il labbro gonfio e una pistola con il silenziatore stret-ta nella mano e puntata verso di lui. Seppure con riluttanza, Luke posò il ricevitore. «Mi hai segui-to.» «Pensavo che avresti avuto troppa fretta per accorgertene.» Luke osservò l'uomo che aveva così clamorosamente sbagliato nel giudicare. C'era in lui qualche segno distintivo che avrebbe do-vuto notare? Un particolare tratto del viso che poteva fargli capire che era un traditore? Anthony aveva un viso non bello, ma che fa-ceva pensare a una considerevole forza di carattere, non alla capa-cità di tradire. «Da quanto lavori per Mosca?» gli chiese. «Dai tem-pi della guerra?» «Prima. Da quando eravamo a Harvard.» «Perché?» Le labbra di Anthony si contorsero in uno strano sorriso. «Per un mondo migliore.» Luke sapeva che negli anni addietro molti avevano creduto nel sistema sovietico, ma poi la loro fede si era incrinata di fronte alla realtà del regime di Stalin. «E ci credi ancora?» disse, incredulo. «In un certo senso sì. Resta ancora la prospettiva preferibile, nonostante tutto quello che è accaduto.» Poteva anche essere così - Luke non aveva modo di giudica-re -, ma non era quello il punto. Ciò che gli risultava così diffi-cile da comprendere era il tradimento personale di Anthony. «Siamo amici da vent'anni» osservò «e nonostante questo ieri sera mi hai sparato.»

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«Già.» «Tu uccideresti il tuo più vecchio amico in nome di una causa in cui credi "in un certo senso"?» «Sì, ma lo faresti anche tu. Durante la guerra abbiamo entram-bi rischiato la nostra vita e quella di altri perché ci sembrava giu-sto.» «Ma non ci siamo mai ingannati, credo, e tanto meno sparati a vicenda.» «Lo avremmo fatto, se fosse stato necessario.» «No... non credo.» «Ascolta: se non ti uccido, adesso, tu tenteresti di impedirmi di fuggire. Giusto?» Luke era spaventato, ma rispose con rabbiosa sincerità. «Certo.» «Anche se sai benissimo che, se venissi catturato, finirei sulla sedia elettrica.» «Credo di sì... sì.» «Quindi anche tu sei disposto a uccidere un amico.» Luke fu colto alla sprovvista. Poteva essere considerato alla stregua di Anthony? «Ti consegnerei alla giustizia. Non è omici-dio.» «Ma io morirei comunque.» Luke annuì lentamente. «Suppongo di sì.» Anthony sollevò la pistola con mano ferma, puntandogliela al cuore. Luke si gettò a terra dietro il tavolo d'acciaio. La pistola fece uno sbuffo. Il proiettile colpì il ripiano con un rumore metallico. Erano mobili scadenti, la lamiera era sottile ma fu sufficiente a far deviare la traiettoria. Luke rotolò sotto il tavolo. Immaginò che Anthony stesse cer-cando di prendere la mira per sparargli un'altra volta. Si sollevò in modo da trovarsi con la schiena incastrata sotto il ripiano del tavolo, lo afferrò per due gambe e si alzò in piedi, tirandolo su. Traballando sotto il peso, Luke si lanciò alla cieca nella speranza di andare a sbattere contro Anthony. Il tavolo rovinò a terra, ma senza travolgere nessuno. Luke inciampò crollando sopra il tavolo rovesciato. Cadde a quattro zampe e picchiò la testa contro una gamba di metallo. Ro-tolò di lato e si ritrovò seduto, stordito e dolorante. Alzò lo sguar-do, aspettandosi di vedere Anthony nella luce della porta del labo-ratorio, gambe divaricate e pistola stretta con entrambe le mani, pronto a far fuoco. Ma Anthony aveva schivato il suo assalto mal-destro e si era portato a tiro. Ora Luke era davvero un bersaglio fa-cile: un attimo e sarebbe finita.

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«Anthony! Fermo!» gridò una voce. Era la voce di Billie. Anthony rimase immobile, senza abbassare l'arma. Luke si voltò lentamente a guardare dietro di sé. Billie era in piedi accanto alla porta: il suo maglione rosso formava una chiazza vivace contro la parete verde. Stringeva in mano una grossa automatica e la punta-va contro Anthony. Alle sue spalle c'era una donna di colore sulla cinquantina, dall'aria confusa e spaventata. «Getta la pistola!» urlò Billie. Luke si aspettava che Anthony gli sparasse comunque. Se dav-vero era un comunista convinto, avrebbe potuto decidere di sacrificarsi. Ma non avrebbe risolto nulla, perché i disegni avreb-bero svelato l'intera faccenda. Con gesto lento, Anthony abbassò le braccia, senza però lasciar cadere l'arma. «Gettala o sparo!» Anthony le rivolse il suo sorriso beffardo. «No, non lo farai. Non a sangue freddo.» Sempre con la pistola in mano, cominciò ad arretrare verso la porta aperta che conduceva nel laboratorio. Luke si ricordò di aver visto una porta che sembrava dare sull'e-sterno. «Fermo!» ripeté Billie. «Per te un razzo non vale più di una vita umana, anche se si tratta della vita di un traditore» ribatté Anthony, continuando a camminare all'indietro. Ormai si trovava a soli due passi dalla porta. «Non mettermi alla prova!» esclamò lei. Luke la fissava, chiedendosi se avrebbe sparato o meno. Anthony si voltò e si lanciò oltre la porta. Billie non sparò. Nel laboratorio, Anthony scavalcò un bancone con un balzo e, dopo aver spalancato con una spallata la grossa porta a due bat-tenti, scomparve nella notte. Alzandosi in piedi, Luke vide Billie che stava correndo verso di lui con le braccia aperte. Guardò l'orologio: erano le dieci e ventinove. Gli restava solo un minuto per avvertire Cape Canaveral. Voltò le spalle a Billie e sollevò il ricevitore.

22.29

La strumentazione scientifica a bordo del satellite è stata progetta-ta per sopportare un'accelerazione al

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lancio superiore di cento volte a quella di gravità.

«Sono Luke, passami il responsabile del lancio» disse, quando qualcuno rispose dalla casamatta. «In questo momento sta...» «Lo so cosa sta facendo! Passamelo subito!» Ci fu una pausa. Luke sentiva in sottofondo il conto alla rove-scia. «Venti, diciannove, diciotto...» «Sono Willy, cosa diavolo c'è?» protestò un'altra voce, tesa e impaziente. «Qualcuno è in possesso del codice di autodistruzione.» «Oh, merda! Chi?» «Sono quasi certo che si tratti di una spia. Vogliono far saltare in aria il razzo. Devi fermare il lancio.» «Undici, dieci...» continuava la voce in sottofondo. «Come fai a saperlo?» chiese Willy. «Ho trovato uno schema del circuito degli scrambler in una busta indirizzata a un certo Theo Packman.» «Questa non è una prova. Non posso cancellare il lancio senza un motivo valido.» Preso da un'improvvisa rassegnazione, Luke si lasciò sfuggire un sospiro. «Senti, io non so cosa fare. Ti ho detto quello che so. La decisione spetta a te.» «Cinque, quattro...» «Maledizione!» imprecò Willy, poi, alzando la voce, ordinò: «Ferma tutto!». Luke si lasciò cadere su una sedia. Ce l'aveva fatta. Guardò i volti ansiosi di Billie e Marigold. «Hanno fermato il lancio» annunciò. Billie sollevò il bordo del maglione e si infilò la pistola nella cintura dei pantaloni elasticizzati. «Be', questa, poi!» esclamò Marigold, a corto di parole. Dall'altro capo del telefono si udì un brusio concitato. Poi, un'altra persona ancora venne al telefono. «Luke? Sono il colon-nello Hide. Cosa diavolo sta succedendo?» «Ho scoperto il motivo del mio viaggio a Washington lunedì. Conosce un certo Theo Packman?» «Sì, credo sia un giornalista freelance che si occupa di missili. Scrive per un paio di giornali europei.» «Ho trovato una busta indirizzata a lui contenente i disegni del sistema di autodistruzionedell' Explorer, compreso uno schizzo del circuito elettronico degli scrambler.»

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«Oh, Cristo! Chiunque ne sia in possesso potrebbe far saltare in aria il razzo!» «È per questo che ho convinto Willy a fermare il lancio.» «Grazie al cielo.» «Senta, dovete trovare subito questo Packman. La busta por-tava l'indirizzo del Vanguard Motel. Forse è ancora là.» «Ricevuto.» «Packman agisce in combutta con Anthony Carroll, un uomo della Cia che fa il doppio gioco. È lui che mi ha intercettato a Washington prima che potessi avvertire il Pentagono.» «Un traditore all'interno della Cia?» Hide sembrava incre-dulo. «Ne sono sicuro.» «Li chiamerò per avvertirli.» «Bene.» Luke riattaccò. Ormai aveva fatto tutto ciò che era in suo potere. «E ora?» chiese Billie. «Andrò a Cape Canaveral. Il lancio verrà programmato per domani alla stessa ora. Vorrei essere presente.» «Anch'io.» Luke sorrise. «Te lo sei meritato, hai salvato il missile.» Si alzò in piedi e l'abbracciò. «La tua vita, stupido. Chi se ne frega del missile, io ti ho sal-vato la vita» disse Billie, e lo baciò. Marigold diede un colpetto di tosse. «Avete perso l'ultimo aereo che parte da Huntsville» annunciò con tono pratico. Luke e Billie si staccarono, riluttanti. «Il prossimo è un volo Mats che parte dalla base alle cinque e mezzo del mattino» proseguì Marigold. «Oppure ci sarebbe un treno della Southern Railway System. Fa Cincinnati-Jacksonville e ferma a Chattanooga intorno all'una. Con la sua bella auto potrebbe arrivarci in un paio d'ore.» «L'idea del treno non mi dispiace» osservò Billie. Luke annuì. «Va bene.» Guardò il tavolo rovesciato. «Qualcu-no dovrà spiegare alla sicurezza la provenienza di quella scalfit-tura di proiettile.» «Ci penserò io domattina» disse Marigold. «Non vorrà restare qui solo per rispondere a qualche domanda.»

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Uscirono. Le loro macchine erano nel parcheggio, quella di Anthony era sparita. Billie abbracciò Marigold. «Grazie» le disse. «È stata meravi-gliosa.» Imbarazzata, Marigold tornò alle questioni pratiche. «Vuole che riporti io l'auto alla Hertz?» «Oh, grazie.» «Su, ora andate e lasciate fare a me.» Billie e Luke salirono sulla Chrysler e partirono. Lungo la stra-da, lei disse: «C'è una questione di cui non abbiamo parlato». «Lo so» ribatté Luke. «Chi ha inviato quei disegni a Theo Packman?» «Deve trattarsi di qualcuno che lavora a Cape Canaveral, qual-cuno all'interno del programma spaziale.» «Esattamente.» «Hai idea di chi possa essere?» «Sì» rispose Luke, a disagio. «Perché non ne hai parlato con Hide?» «Perché non ho prove, e tanto meno un movente che giustifi-chi i miei sospetti. È solo un'intuizione, ma non ho dubbi.» «Di chi si tratta?» «Credo sia stata Elspeth» rispose Luke, affranto.

23.00

Utilizzando le proprietà di isteresi dei materiali che lo compongo-no, il codificatore del sistema di telemetria determina la serie dei parametri da trasmettere.

Elspeth non riusciva a crederci. Una manciata di secondi prima dell'accensione il lancio era stato rinviato. Era stata vici-nissima al successo. Stava per afferrarlo... e le era sfuggito dalle dita. Non si trovava nella casamatta - lì l'accesso era riservato solo al personale che ricopriva posizioni chiave - ma sul tetto a ter-razza dell'edificio che ospitava l'amministrazione, insieme a una piccola folla di impiegati e segretarie che osservavano con i bino-coli la rampa di lancio illuminata dai riflettori. La notte della Florida era tiepida e umida per l'aria di mare.Iloro timori erano cresciuti a mano a mano che i minuti passavano e il razzo resta-va a terra; un'esclamazione dispiaciuta si levò dai presenti quan-do videro i

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tecnici in tuta uscire dai bunker e iniziare le com-plesse procedure di disattivazione di tutti i sistemi di lancio. La conferma definitiva arrivò quando la torre di servizio venne len-tamente avvicinata al missile bianco per richiuderlo nel suo ab-braccio d'acciaio. Elspeth era terribilmente frustrata. Cosa non aveva funziona-to? Si allontanò senza dire una parola e tornò a passo deciso verso l'hangar R. Quando arrivò nel suo ufficio, sentì squillare il telefo-no e si affrettò a rispondere. «Sì?» «Cosa sta succedendo?» Era la voce di Anthony. «Hanno fermato il lancio. Non so il motivo, e tu?» «Luke ha trovato i documenti e deve averli avvisati.» «Non sei riuscito a fermarlo?» «Lo avevo letteralmente nel mirino, ma poi è entrata Billie... armata.» All'idea di Anthony che puntava una pistola contro Luke, Elspeth provò una fitta alla bocca dello stomaco. Il fatto poi che fosse stata Billie a intervenire rendeva le cose ancora peggiori. «Luke sta bene?» «Sì, e io pure. Su quei documenti c'è il nome di Theo, ri-cordi?» «Accidenti!» «Staranno già andando ad arrestarlo. Devi trovarlo prima di loro.» «Fammi pensare. È sulla spiaggia. Potrei essere là in una deci-na di minuti. Conosco la sua macchina, è una Hudson Hornet.» «E allora vai, corri!» «Vado subito.» Elspeth buttò giù il ricevitore e si precipitò fuori. Attraversò di corsa il parcheggio e saltò in macchina. La sua Corvette bianca era decappottabile, ma tenne il tettuccio alzato e i finestrini sigillati per via delle zanzare che infestavano la zona. In un attimo arrivò ai cancelli, dove la fecero uscire senza problemi: la vigilanza era molto stretta in entrata, ma non altrettanto in usci-ta. Si diresse verso sud. Non c'era un percorso particolare per arrivare alla spiaggia, ma una serie di sentieri che partivano dalla strada principale e si inoltravano serpeggiando tra le dune di sabbia fino al mare. Pensò di imboccare il primo e da lì continuare verso sud paralle-la alla riva: in quel modo l'auto di Theo non poteva sfuggirle. Lungo il tragitto, guardava attentamente i cespugli folti che fian-cheggiavano la carreggiata per individuare l'accesso. Nonostante la fretta era costretta ad andare piano, per timore di perdere la deviazione. A un certo punto vide un'auto emergere sulla strada principale, subito seguita da un'altra, e un'altra ancora. Elspeth mise la freccia e rallentò. Un fiume ininterrotto di vei-coli stava lasciando la spiaggia. Gli spettatori avevano capito che il lancio era stato annullato - senza dubbio avevano visto anche loro la torre di servizio tornare in posizione - e se ne stavano tor-nando a casa.

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Aspettò a lungo per poter svoltare a sinistra: il sentiero era troppo stretto per permettere il passaggio di due macchine affiancate. Dietro di lei un automobilista impaziente cominciò a suonare il clacson. Elspeth capì che non sarebbe riuscita ad acce-dere alla spiaggia in quel punto. Esasperata, tolse la freccia e ripartì di scatto. Presto arrivò a un altro incrocio, ma la situazione era identica: anche qui una fila ininterrotta di auto usciva da una stradina troppo stretta. Elspeth imprecò a voce alta. Sudava copiosamen-te nonostante l'aria condizionata. Non c'era modo di arrivare alla spiaggia: doveva pensare a un'altra soluzione. Forse poteva aspet-tare sulla strada principale nella speranza di individuare l'auto di Theo. No, troppo rischioso. Cosa avrebbe fatto Theo dopo esser-si allontanato dalla spiaggia? La cosa migliore era andare al suo motel e aspettarlo là. Elspeth proseguì velocemente nella notte. Si chiese se il colon-nello Hide e i suoi uomini fossero già arrivati al Vanguard Motel. Forse avevano prima avvertito la polizia, o l'Fbi. Per arrestare Theo serviva un mandato, ma di solito le forze dell'ordine sapeva-no come aggirare questi inconvenienti. In ogni caso, avrebbero do-vuto organizzarsi. Se avesse fatto in fretta, forse poteva ancora bat-terli sul tempo. Il Vanguard si trovava sulla strada principale, tra un distributo-re e un negozio di articoli per la pesca. Aveva un grande parcheg-gio sul davanti. Non c'era traccia né di polizia né di uomini del-l'esercito: era arrivata in tempo. Ma non c'era neppure la macchi-na di Theo. Parcheggiò vicino all'ufficio del motel, da dove pote-va vedere ogni veicolo che entrava e usciva, e spense il motore. Non dovette attendere a lungo. La Hudson Hornet gialla e marrone arrivò un paio di minuti più tardi. Theo si infilò in uno spazio in fondo al parcheggio, vicino alla strada, e scese. Era un uomo dalla corporatura esile, quasi calvo; indossava calzoni di tela e una camicia sportiva. Elspeth scese dalla Corvette. Stava per chiamarlo, ma in quel momento arrivarono due auto-pattuglie della polizia. Elspeth si immobilizzò. Erano dello sceriffo della Cocoa County. Arrivarono a tutta ve-locità, senza lampeggianti né sirena, seguite da altre due auto civet-ta. Si fermarono di traverso davanti all'accesso del parcheggio, bloccando ogni possibilità di uscita. Theo non li vide subito, e fece per attraversare lo spiazzo, in direzione di Elspeth e dell'ufficio del motel. Lei intuì subito cosa fare, ma aveva bisogno di mantenere i nervi saldi. "Sta' calma" si raccomandò. Fece un bel respiro profondo e si avviò. Mentre si avvicinava, lui la riconobbe e disse a voce alta: «Cosa diavolo è successo? Hanno annullato il lancio?». «Dammi le chiavi della macchina» sussurrò Elspeth, tendendo la mano. «Perché?» «Guarda dietro di te.»

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Lui si voltò e vide la polizia. «Oh, cazzo! Cosa vogliono?» «Vogliono te. Resta calmo e dammi le chiavi.» Lui obbedì e gliele lasciò cadere nel palmo della mano. «Continua a camminare» gli ordinò lei. «Il bagagliaio della mia macchina è aperto. Infilati dentro.» «Nel bagagliaio?» «Sì!» Elspeth proseguì. Riconobbe il colonnello Hide e un altro militare di stanza a Cape Canaveral. Con loro c'erano quattro agenti della polizia locale e due giovani alti e ben vestiti, probabilmente agenti dell'Fbi. Nessuno di loro guardava verso di lei: erano tutti raccolti intorno a Hide. Da lontano, Elspeth lo sentì dire: «Due uomini controllino tutte le targhe delle auto parcheggiate qua fuori, gli altri dentro con me». Arrivò alla macchina di Theo e aprì il baule. Dentro c'era la valigia di pelle che conteneva il radiotrasmettitore: era potente e, purtroppo, anche pesante. Non era certa di riuscire a traspor-tarlo. Lo trascinò verso l'apertura del bagagliaio e lo tirò oltre il bordo, facendolo cadere a terra con un tonfo. Poi richiuse in fretta. Si guardò attorno. Hide stava ancora impartendo ordini ai suoi uomini. All'altra estremità del parcheggio, vide il cofano della Cor-vette chiudersi lentamente, quasi di volontà propria. Theo era den-tro. Metà del problema era risolto. Strinse i denti, afferrò la maniglia della valigia e la sollevò. Pareva di piombo. Percorse qualche metro, reggendo più a lungo possibile. Quando non sentì più le dita per lo sforzo, posò la vali-gia e la sollevò con l'altra mano. Riuscì a compiere un'altra deci-na di metri ma poi, stremata, fu costretta a posarla nuovamente. Alle sue spalle, il colonnello Hide e i suoi uomini stavano andan-do verso l'ufficio del motel. Elspeth pregò che Hide non guardasse verso di lei, anche se l'oscurità rendeva meno probabile che la rico-noscesse. Se lui le avesse chiesto spiegazioni della sua presenza lì, avrebbe potuto inventarsi una qualsiasi scusa, ma se le ordinava di aprire la valigia? Cambiò un'altra volta mano e afferrò la valigia con la destra. Questa volta non riuscì neppure a sollevarla. Si rassegnò a trasci-narla sul cemento del parcheggio, sperando che il rumore non at-tirasse l'attenzione dei poliziotti. Finalmente, arrivò alla macchina. Mentre apriva il cofano, uno degli agenti in uniforme le si avvicinò con un sorriso cordiale. «Posso aiutarla, signora?» le chiese con fare cortese. La faccia di Theo la fissava da dentro il bagagliaio, atterrita. «Grazie, ce la faccio» disse, a denti stretti. Sollevò la valigia con entrambe le mani e la fece scivolare all'interno. Si sentì un debole gemito di dolore quando un angolo colpì in pieno Theo. Con movimento veloce, Elspeth chiuse il cofano e vi si appoggiò. Le pareva che le braccia stessero per staccarsi da un momento all'altro. Guardò il poliziotto. Che si fosse accorto di Theo? L'uomo le rivolse un sorriso perplesso. «"Non

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preparare mai una valigia che non riesci a portare da sola" si raccomandava sempre mio padre» disse Elspeth. «Lei è una ragazza forte» osservò il poliziotto con tono vaga-mente deluso. «Grazie comunque.» Gli altri uomini le sfilarono davanti, diretti verso l'ufficio del motel. Elspeth fece attenzione a non incrociare lo sguardo di Hide. «Se ne va?» chiese il poliziotto. «Già.» «Tutta sola?» «Proprio così.» L'uomo si chinò all'altezza del finestrino e guardò dentro, sui sedili posteriori e anteriori, poi si tirò su. «Guidi con prudenza» disse e si allontanò. Elspeth salì e avviò il motore. Due poliziotti in uniforme erano rimasti nel parcheggio per controllare tutte le targhe. Elspeth si fermò accanto a uno di loro. «Mi lasciate uscire oppure devo restare qui tutta la notte?» chie-se, ostentando un sorriso cordiale. L'agente controllò il suo numero di targa. «È sola?» «Sì.» L'uomo guardò verso il sedile posteriore. Elspeth trattenne il respiro. «Okay» disse infine il poliziotto «può andare.» Poi salì su una delle auto dello sceriffo e la spostò per lasciarla passare. Elspeth si infilò nel varco, si immise sulla strada principale e schiacciò l'acceleratore. Di colpo si sentì come svuotata. Le tremavano le braccia e fu costretta a rallentare. «Buon Dio!» esclamò sotto voce. «C'è mancato poco.»

24.00

Quattro antenne che spuntano dalla superficie del satellite tra-smettono segnali radio alle stazioni d'ascolto di tutto il mondo.L'Explorer trasmette su una frequenza di 108 MHz.

Anthony doveva assolutamente lasciare l'Alabama. Ora l'azio-ne era in Florida. L'esito di vent'anni di lavoro sarebbe stato deci-so a Cape Canaveral e lui doveva andare laggiù.

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L'aeroporto di Huntsville era ancora aperto, la pista illuminata dai riflettori. Questo significava che c'era almeno ancora un volo in partenza quella sera. Parcheggiò l'auto dell'esercito davanti al ter-minal, dietro a una limousine e un paio di taxi. Il posto sembrava deserto. Non si preoccupò di chiudere a chiave la portiera e corse dentro. L'aeroporto era tranquillo ma non deserto. C'era una ragazza, seduta dietro il bancone di una compagnia, intenta a leggere un li-bro, e due donne di colore in grembiule che pulivano il pavimento. C'erano anche tre uomini in attesa, uno in uniforme da autista, gli altri con indosso gli abiti stazzonati e i berretti tipici dei tassisti. Se-duto su una panca, c'era Pete. Anthony doveva sbarazzarsi di lui, per il suo bene. Allo scontro con Luke al Redstone Arsenal avevano assistito anche Billie e Marigold: presto una delle due avrebbe denunciato l'accaduto. L'esercito si sarebbe rivolto alla Cia, per protesta-re. George Cooperman l'aveva già avvertito che non sarebbe stato in grado di coprirlo. Non poteva più fingere di portare avanti una missione legittimata dai vertici della Cia. Il piano era fallito ed era meglio che Pete tornasse a casa, prima di tro-varsi nei pasticci. Anthony pensava che fosse annoiato, dopo dodici ore di attesa all'aeroporto. Invece, quando Pete lo vide, saltò in piedi, teso ed eccitato. «Finalmente!» esclamò. «Che volo c'è in partenza da qui, stanotte?» gli chiese Anthony a bruciapelo. «Nessuno. C'è ancora un volo in arrivo, da Washington, ma prima delle sette di domattina non parte niente.» «Accidenti! Io devo andare in Florida.» «C'è un volo Mats che parte alle cinque e mezzo dal Redstone e atterra alla base aerea di Patrick, vicino a Cape Canaveral.» «Meglio che niente.» Pete assunse un'espressione imbarazzata. «Lei non può anda-re in Florida» disse, quasi sforzandosi di pronunciare le parole. Ecco il motivo della sua tensione. «Perché?» chiese Anthony gelido. «Ho parlato con Washington, con Carl Hobart in persona. Dobbiamo rientrare "senza discussioni". Testuali parole.» Anthony venne assalito da una rabbia improvvisa, ma finse di essere semplicemente seccato. «Che stronzi!» esclamò. «Come possono pretendere di dirigere un'operazione dal quartier genera-le?» Pete non ci cascò. «Mr Hobart ha detto che dobbiamo accet-tare il fatto che non esiste più alcuna operazione. D'ora in avan-ti se ne occuperà l'esercito.» «Non possiamo permetterlo. Sono degli incompetenti.» «Lo so, ma non credo che abbiamo altra scelta, signore.» Anthony si sforzò di mantenere la calma. Prima o poi doveva succedere. Alla Cia non sapevano ancora che lui faceva il doppio gioco, ma avevano capito che era una mela marcia e volevano to-glierlo di mezzo

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senza troppo rumore. Nel corso degli anni Anthony aveva coltivato con sapienza la lealtà dei suoi uomini e aveva ancora dei crediti da riscuotere. «Senti cosa faremo» disse a Pete. «Torni a Washington e riferisci che mi sono rifiutato di obbedire agli ordini. Tu ne sei fuori, la re-sponsabilità ora è mia.» Fece per voltargli le spalle, come dando per scontato l'assenso di Pete. «D'accordo» gli rispose lui. «Immaginavo che avrebbe detto così. E non possono aspettarsi che io la sequestri.» «Esatto.» Anthony non lasciò trasparire il proprio sollievo per l'acquiescenza di Pete. «C'è un'altra cosa, però» aggiunse Pete. Anthony si voltò mostrando la propria irritazione. «Che c'è, an-cora?» Pete arrossì e la macchia sul volto si fece rosso porpora. «Mi hanno detto di toglierle la pistola.» Anthony cominciò a temere che uscire da quella situazione non sarebbe stato poi così facile. Non aveva alcuna intenzione di separarsi dalla sua arma. Si costrinse a sorridere. «E tu digli che mi sono rifiutato». «Mi dispiace, signore, non sa quanto. Ma Mr Hobart è stato molto preciso. Se lei non me la consegna, dovrò chiamare la poli-zia.» In quel momento Anthony capì che avrebbe dovuto ucciderlo. Per un attimo si sentì sopraffatto dall'amarezza pensando a quali tradimenti era stato costretto. Non sembrava possibile che quella fosse la logica conclusione dell'impegno assunto vent'anni prima di dedicare la propria vita a una nobile causa. Ma poi una calma mortale discese su di lui. La guerra gli aveva insegnato a compiere scelte dolorose. Questa era una guerra diversa, ma gli imperativi erano gli stessi: una volta che c'eri dentro dovevi vince-re, a qualunque costo. «In questo caso, suppongo sia finita» con-cluse, con un sospiro sincero. «La trovo una decisione stupida, ma penso di aver fatto tutto il possibile.» Pete non tentò neppure di nascondere il proprio sollievo. «Gra-zie. Sono felice che lei la stia prendendo bene.» «Non ti preoccupare. Non ce l'ho con te. So che obbedisci a un ordine diretto di Hobart.» Il volto di Pete assunse un'espressione determinata. «Allora, vuole consegnarmi la pistola, adesso?» «Certo.» Anthony la teneva in tasca, ma disse: «È fuori, nel ba-gagliaio». Voleva che Pete andasse con lui alla macchina, ma finse il contrario. «Tu resta qui, io vado a prenderla.» Come previsto, Pete ebbe paura che lui cercasse di fuggire. «Verrò con lei» si affrettò a dire. Anthony finse un attimo di esitazione e poi cedette. «Come vuoi.» Uscì, seguito da Pete. La macchina era parcheggiata accanto al marciapiede, a una trentina di metri dall'ingresso del terminal. Non c'era in giro nessuno. Anthony premette un pulsante e il cofano si spalancò. «Ecco fatto.»

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Pete si chinò per guardare dentro. Anthony estrasse da sotto la giacca la pistola con il silenziato-re inserito. Per un istante ebbe la folle tentazione di mettersela in bocca, premere il grilletto e porre fine a quell'incubo. L'attimo di esitazione si rivelò un errore fatale. «Qui non c'è niente» disse Pete, voltandosi. Reagì in fretta. Prima che Anthony riuscisse a puntargli contro la pistola, resa poco maneggevole dal silenziatore, Pete scartò di la-to e fece partire un pugno colpendolo con forza alla tempia. Anthony barcollò. Pete gli assestò un altro pugno, questa volta alla mascella, e lui cadde all'indietro. Ma, toccando terra, sollevò la pi-stola. Pete capì cosa stava per accadere. Il suo volto si contorse in una maschera di paura e alzò le mani, come a proteggersi dai colpi. Anthony premette il grilletto tre volte in rapida successione. Tutti e tre i proiettili colpirono Pete al petto. Il sangue zampil-lò copioso dai fori nell'abito grigio e lui cadde con un tonfo. Anthony si rimise in piedi e infilò la pistola in tasca. Si guardò at-torno. Nessuno si stava avvicinando all'aeroporto, nessuno era uscito dal terminal. Si chinò sul corpo di Pete. Pete lo guardò. Non era ancora morto. Lottando contro la nausea, Anthony issò da terra il corpo san-guinante e lo gettò nel bagagliaio. Poi estrasse ancora la pistola. Pe-te giaceva nel bagagliaio, raggomitolato per il dolore, e lo guardava con occhi terrorizzati. Le ferite al petto non erano sempre mortali: se fosse stato soccorso subito e portato in ospedale, sarebbe anche potuto sopravvivere. Anthony gli puntò la pistola alla testa. Pete cercò di parlare, ma dalla sua bocca uscì un fiotto di sangue. Anthony premette il grilletto. Il corpo di Pete si afflosciò senza vita. Anthony chiuse il bagagliaio con un colpo secco e vi si appog-giò stremato. Per la seconda volta quel giorno era stato colpito con violenza e gli girava la testa; ma ancora peggiore del danno fisico era la consapevolezza di ciò che aveva fatto. «Si sente bene, amico?» disse una voce. Anthony si tirò su, infilando la pistola nella giacca, e si voltò. Un taxi si era fermato alle sue spalle e l'autista si stava avvicinan-do, preoccupato. Era un uomo di colore con i capelli grigi. Cosa aveva visto? Anthony non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di uccidere anche lui. «Doveva essere ben pesante quello che stava caricando nel portabagagli» osservò il tassista. «Un tappeto» rispose Anthony, senza fiato. L'uomo lo guardò con l'aperta curiosità tipica dei provinciali. «Qualcuno le ha fatto un occhio nero? O due?»

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«Ho avuto un piccolo incidente.» «Venga dentro a prendere una tazza di caffè, o qualcos'altro.» «No, grazie. Sto bene.» «Come preferisce.» Il tassista si incamminò verso il terminal. Anthony salì in auto e si allontanò.

1.30

Ilprimo compito dei radiotrasmettitori è quello di emettere segna-li che permettano alle stazioni di ascolto di seguire la traiettoria del satellite e di verificare che sia in orbita.

Il treno uscì lentamente da Chattanooga. Nell'angusta cabina letto Luke si tolse la giacca e l'appese, poi si appollaiò sul bordo della cuccetta inferiore e si slacciò le scarpe. Billie era seduta a gambe incrociate e lo osservava. Le luci della città tremolarono per poi sparire a mano a mano che la locomotiva acquistava velo-cità, diretta a Jacksonville, in Florida, nella tiepida notte del Sud. Luke si allentò la cravatta. «Se questo vuol essere uno striptease, non è molto sexy» osservò Billie. Lui fece un sorriso mesto. Non sapeva come comportarsi. Erano stati costretti a condividere la cabina letto perché era l'u-nica disponibile. Desiderava tanto prendere Billie tra le braccia. Tutto ciò che aveva appreso su di sé e sulla propria vita gli dice-va che lei era la donna con cui avrebbe dovuto vivere. Eppure esitava. «Cosa stai pensando?» chiese Billie. «Che stiamo correndo troppo.» «Diciassette anni non sono sufficienti?» «Per me sono solo un paio di giorni... non ricordo altro.» «A me sembra un'eternità.» «Sono ancora sposato con Elspeth.» Billie annuì con aria solenne. «E lei ti mente da anni.» «Per questo dovrei gettarmi a pesce nel tuo letto?» Lei assunse un'espressione offesa. «Dovresti fare quello che senti.»

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Luke cercò di spiegarsi. «Non mi piace questa sensazione di dover cercare delle giustificazioni.» Poi, visto che lei non diceva nulla, aggiunse: «Tu non sei d'accordo, vero?». «Certo che no» rispose lei con fervore. «Io voglio fare l'amore con te, stasera. Ricordo com'è stato, e voglio farlo di nuovo, ora.» Lanciò un'occhiata fuori dal finestrino mentre il treno attraver-sava a tutta velocità una piccola cittadina: dieci secondi di luci saettanti come comete e poi di nuovo l'oscurità. «Ma ti conosco» proseguì. «Tu non hai mai agito d'istinto, neppure quando era-vamo giovani. Hai bisogno di riflettere e convincerti che stai facendo la cosa giusta.» «È una cosa così negativa?» Lei sorrise. «No. Sono contenta che tu sia così. Ti rende total-mente affidabile. Se fossi diverso, forse non avrei...» Billie lasciò la frase in sospeso. «Non avresti... cosa?» Lei lo guardò negli occhi. «Non ti avrei amato così tanto, per tutto questo tempo.» Era imbarazzata e cercò di nasconderlo dicendo qualcosa di impertinente. «E comunque hai bisogno di una doccia.» Era assolutamente vero. Indossava gli stessi abiti da trentasei ore, da quando li aveva rubati. «Ogni volta che ho pensato di cambiarmi, c'era qualcosa di più urgente da fare» disse lui. «Ho dei vestiti puliti nella valigia.» «Non importa. Perché non sali sulla cuccetta superiore e mi lasci un po' di posto per togliermi le scarpe?» Luke si arrampicò su per la scaletta e si sdraiò. Si mise su un fianco, un gomito sul cuscino, la testa appoggiata sulla mano. «Perdere la memoria è come ricominciare una vita nuova» disse. «È come rinascere. Ogni decisione che hai preso può essere rimessa in discussione.» Billie scalciò via le scarpe e si alzò. «A me non piacerebbe per niente.» Con un movimento veloce si tolse i pantaloni e rimase in mutandine e maglione. Cogliendo lo sguardo di lui, sorrise e disse: «Non c'è problema, puoi guardare». Mise le mani dietro la schie-na, sollevò il maglione e slacciò il reggiseno. Tolse il braccio sini-stro dalla manica, con la destra tirò giù la spallina del reggiseno, rinfilò il braccio nella manica e con gesto da prestigiatore estrasse il reggiseno dalla manica destra. «Brava!» esclamò lui. Lei lo guardò con aria pensierosa. «Allora, cosa facciamo? Dormiamo?» «Immagino di sì.» «Okay.» Salì in piedi sul bordo della cuccetta inferiore e gli offrì il viso per il bacio della buonanotte. Lui si sporse in avanti e le sfiorò le labbra. Billie chiuse gli occhi. Luke sentì la punta della lingua di lei posarsi leggera sulle sue labbra, e un attimo dopo il suo volto era scomparso. Luke rimase lì, sdraiato sulla schiena, a pensare a lei, pochi centimetri più sotto, con le sue belle gambe nude, i seni tondi sotto il morbido maglione d'angora. Qualche secondo dopo si era già addormentato. Fece un sogno terribilmente erotico. Era Bottom in Sogno di una notte di mezza estate, aveva le orecchie d'asino, e le fate di Titania, ragazze nude con gambe snelle e seni tondi, gli copriva-no di baci la

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faccia pelosa. Titania, la regina delle fate, gli stava sbottonando i pantaloni, mentre le ruote del treno battevano il loro ritmo incessante... Si svegliò lentamente, riluttante a lasciare quel mondo di fiaba e tornare a un mondo di missili e treni. Aveva la camicia aperta e i pantaloni sbottonati. Billie era sdraiata accanto a lui e lo stava ba-ciando. «Sei sveglio?» gli mormorò all'orecchio, un orecchio nor-male, non d'asino. E poi aggiunse, ridacchiando: «È un peccato farlo con uno che dorme». Lui la toccò, facendo correre la mano lungo il suo fianco. Indossava ancora il maglione, ma le mutandine erano sparite. «Sono sveglio» disse, con voce roca di desiderio. Billie si sollevò, puntellandosi su mani e ginocchia in modo da trovarsi sopra di lui, nello spazio angusto tra la cuccetta e il sof-fitto. Guardandolo negli occhi, abbassò il suo corpo su quello di lui. Luke scivolò dentro di lei con un sospiro di intenso piacere. Il treno dondolava da una parte all'altra, mentre le ruote ritma-vano un sottofondo erotico. Luke infilò una mano sotto il maglione per toccarle il seno. La pelle di lei era morbida e calda. «Gli sei mancato» gli sussurrò lei all'orecchio. A Luke pareva di stare ancora sognando, mentre il treno ondeg-giava, Billie gli baciava il viso e l'America correva fuori dal finestri-no chilometro dopo chilometro. Le circondò la schiena con le braccia e la tenne stretta, per convincersi che era fatta di carne e ossa e non del sottile filo di cui sono intessuti i sogni. Proprio men-tre pensava che avrebbe desiderato continuare così per sempre, il suo corpo prese il sopravvento e lui la strinse forte a sé, mentre una marea di piacere lo travolgeva. Non appena finì, lei gli disse: «Resta fermo. Tienimi stretta». Luke non si mosse. Lei gli affondò il viso nel collo, il suo alito era bollente contro la pelle. Mentre lui giaceva immobile, ancora den-tro di lei, Billie parve contrarsi per uno spasmo interno, più volte, finché emise un sospiro profondo e tutto il suo corpo si rilassò. Rimasero così, immobili, ancora per qualche minuto, ma Luke non aveva sonno. Evidentemente neppure Billie, perché disse: «Ho un'idea. Laviamoci». «Be', io di sicuro ne ho bisogno» ammise Luke ridendo. Billie rotolò di lato e scese dalla cuccetta. Lui la seguì. Nell'an-golo dello scompartimento c'era un lavandino con sopra un arma-dietto. Billie trovò all'interno un piccolo asciugamano e una sapo-netta. Riempì il lavandino di acqua calda. «Prima io lavo te, poi tu lavi me» propose. Inzuppò la salvietta e, dopo averla insaponata, cominciò. Era terribilmente intimo e sexy. Luke chiuse gli occhi. Lei gli frizionò il ventre, e poi si inginocchiò per strofinargli le gambe. «Ti sei dimenticata un pezzo» disse lui. «Non ti preoccupare. Mi lascio la parte migliore per ultima.» Quando ebbe finito, lui fece lo stesso con lei, e la cosa risultò ancora più eccitante. Poi si sdraiarono di nuovo, questa volta sulla cuccetta inferiore. «Allora» disse Billie «te lo ricordi il sesso orale?» «No» rispose lui «ma credo di sapere come si fa.»

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PARTE SESTA

8.30

Per rendere possibile un accurato rilevamento della posizione del satellite, il Jet Propulsion Laboratory ha messo a punto una nuova tecnica di ricezione chiamata Microlock. Le stazioni di ascolto dotate di questa tecnologia utilizzano un sistema di rilevamento con PLL in grado di agganciare un segnale della potenza di appena un millesimo di watt addirittura da una distanza di 36.000 chilo-metri.

Anthony volò in Florida a bordo di un piccolo aereo che sob-balzava a ogni colpo di vento sulla rotta tra l'Alabama e la Geor-gia. Era in compagnia di un generale e due colonnelli che gli avrebbero sicuramente sparato a vista se avessero mai immagina-to lo scopo del suo viaggio. Atterrò alla base aerea di Patrick, qualche chilometro a sud di Cape Canaveral. Il terminal era costituito da alcuni piccoli locali ricavati sul retro di un hangar. Nella sua immaginazione vide un distaccamento di agenti dell'Fbi, con i loro vestiti eleganti e le scarpe tirate a lucido, venuti per arrestarlo, ma ad aspettarlo c'era solo Elspeth. Appariva stremata. Per la prima volta Anthony notò su di lei i segni della mezza età ormai prossima. La pelle candida del suo viso mostrava qualche accenno di rughe e il portamento aveva assunto una postura leggermente curva. Elspeth lo accompagnò fuori alla Corvette bianca parcheggiata sotto il sole caldo. «Come sta Theo?» chiese Anthony, non appena furono in macchina. «Un po' scosso, ma sta bene.» «La polizia di qui ha una sua descrizione?» «Sì, l'ha diramata il colonnello Hide.» «Dov'è nascosto?» «Nella mia stanza al motel. Resterà lì finché non fa buio.» Elspeth uscì dalla base, imboccò l'arteria principale e si diresse verso nord. «E tu? La Cia passerà la tua descrizione alla polizia?» «Non penso.» «Allora puoi muoverti abbastanza liberamente. È un bene, perché dovrai comperare una macchina.» «La Cia preferisce lavare i panni sporchi in casa. Al momento sono convinti che io sia sfuggito al controllo e la loro unica preoc-cupazione è quella di togliermi dalla circolazione prima che li met-ta in imbarazzo. Quando cominceranno a dar retta a Luke, allora capiranno di aver avuto al loro interno un

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agente che per anni ha fatto il doppio gioco, ma è possibile che questo li spinga ancora di più a tenere la cosa segreta. Non posso dirlo con sicurezza, ma cre-do che non ci saranno inchieste pubbliche.» «E su di me non c'è neppure l'ombra di un sospetto, quindi siamo ancora tutti e tre in gioco. Il che ci dà buone probabilità di riuscita.» «Luke non sospetta di te?» «Non ne ha motivo.» «Dov'è, ora?» «Da quanto mi ha detto Marigold è su un treno e sta venendo qui.» E poi aggiunse, con una nota di amarezza: «Con Billie». «A che ora arriverà?» «Non ne sono sicura. Il suo treno ferma a Jacksonville; da lì dovrà prenderne un altro più lento che scende lungo la costa. Immagino che arriverà nel pomeriggio.» Viaggiarono in silenzio per un po'. Anthony cercò di calmarsi. Da lì a ventiquattr'ore sarebbe stato tutto finito. Avrebbero com-piuto un'impresa epica in nome della causa a cui avevano dedi-cato la propria vita, e per questo sarebbero passati alla storia; oppure avrebbero fallito, e la corsa allo spazio sarebbe stata di nuovo una gara a due. Elspeth gli lanciò un'occhiata. «Cosa farai dopo questa notte?» «Lascerò il paese.» Diede un colpetto alla valigetta che teneva posata in grembo. «Ho tutto quello che mi serve: passaporti, con-tanti, qualcosa per travestirmi.» «E poi?» «Mosca.» Ci aveva pensato per l'intera durata del volo. «La sezione Washington al Kgb, suppongo.» Anthony era un mag-giore del Kgb. Elspeth era diventata un agente sovietico prima di lui - anzi, era stata proprio lei a reclutarlo, ai tempi di Harvard - e aveva i gradi di colonnello. «Mi assegneranno una carica di consigliere ad alto livello» proseguì. «In fondo, io conosco la Cia meglio di chiunque altro nel blocco sovietico.» «Come sarà la tua vita in Russia?» «Nel paradiso dei lavoratori, vuoi dire?» Le rivolse un sorriso amaro. «Hai letto Orwell: alcuni animali sono più uguali degli altri. Suppongo che molto dipenda da quanto accadrà stasera. Se ci riusciamo, saremo degli eroi. In caso contrario...» «Non sei preoccupato?» «Certo che lo sono. All'inizio sarò del tutto solo, senza amici, senza famiglia. E poi io non parlo russo. Chissà, forse mi sposerò e metterò al mondo una nidiata di piccoli compagni.» Le sue risposte dissacranti nascondevano un'angoscia profonda. «Tanto tempo fa ho deciso di sacrificare la mia vita per qualcosa di più importante.»

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«Anch'io ho preso quella decisione, ma sarei spaventata all'i-dea di trasferirmi a Mosca.» «A te non succederà.» «No. Vogliono che resti qui, a ogni costo.» Evidentemente aveva parlato con il suo contatto, chiunque fosse. Anthony non era sorpreso dalla decisione di lasciare Elspeth sul posto. Negli ultimi quattro anni gli scienziati russi erano stati informati su ogni particolare del programma spaziale america-no. Visionavano i rapporti, i risultati dei test, ogni singolo dise-gno emesso dalla Army Ballistic Missile Agency, tutto grazie a Elspeth. Era come avere una squadra di scienziati americani che lavorava per il loro programma. Se l'Unione Sovietica aveva battuto gli Stati Uniti nella corsa allo spazio, lo doveva a Elspeth. Quasi sicuramente era lei la spia più importante della guerra fredda. Anthony sapeva che questo risultato era stato ottenuto a costo di enormi sofferenze personali. Elspeth aveva sposato Luke per poter avere accesso al programma spaziale, ma il suo amore per lui era sincero. Tradirlo le aveva spezzato il cuore. Il suo trionfo era la vittoria sovietica nella corsa allo spazio, trionfo che sarebbe stato decretato quella sera e che avrebbe dato un senso ai tanti sacrifici affrontati. Le vittorie di Anthony erano seconde solo a quelle di Elspeth. Come agente sovietico si era introdotto ai massimi livelli della Cia. Il tunnel che aveva fatto costruire a Berlino, e che aveva per-messo l'intercettazione delle comunicazioni sovietiche, era stato in realtà un'opera di disinformazione. Il Kgb lo aveva utilizzato per fuorviare la Cia e spingerla a sprecare milioni di dollari per sorvegliare uomini che non erano spie, a penetrare organizzazio-ni che non erano filocomuniste, a screditare uomini politici del Terzo mondo che, in realtà, stavano dalla parte degli americani. Se mai si fosse sentito solo nel suo appartamento di Mosca, si sarebbe consolato al pensiero dei suoi successi. Tra le palme lungo la strada davanti a sé vide la replica di un raz-zo spaziale sopra un'insegna che diceva STARLITE MOTEL. Elspeth rallentò per infilarsi nel parcheggio. L'ufficio si trovava in una co-struzione bassa con elementi spigolosi che le conferivano un aspetto avveniristico. Posteggiò il più lontano possibile dalla stra-da. Le stanze si trovavano in un edificio a due piani che si svilup-pava attorno a una grande piscina dove alcuni ospiti mattinieri stavano già facendo il bagno. Oltre la piscina si vedeva la spiaggia. Nonostante le rassicurazioni fornite a Elspeth, Anthony vole-va farsi vedere dal minor numero possibile di persone; si calò il cappello sugli occhi e attraversò il parcheggio a passo svelto diretto verso la stanza al primo piano. Il motel sfruttava al massimo il tema spaziale. Le lampade erano a forma di razzo e alle pareti erano appese immagini stiliz-zate di pianeti. Theo era in piedi davanti alla finestra e guardava l'oceano. Elspeth fece le presentazioni e ordinò caffè e ciambelle al servizio in camera. «Come è riuscito Luke a scoprirmi?» chie-se Theo a Anthony. «Te l'ha spiegato?» Anthony annuì. «Stava usando la macchina per fare le copie nell'hangar R. Lì accanto c'è un registro di controllo sul quale bisogna annotare la data, l'ora e il numero di copie che si fanno. Poi bisogna firmare. Luke si accorse che erano state fatte dodici copie firmate con la sigla "WvB", che sta per Wernher von Braun.» «Ho sempre usato il nome di von Braun perché nessuno avrebbe mai osato chiedere spiegazioni al capo sulle copie che faceva» spiegò Elspeth. «Ma Luke sapeva una cosa che Elspeth e tutti gli altri ignorava-no» proseguì Anthony. «Sapeva che quel

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giorno von Braun era a Washington. L'istinto lo ha messo in guardia. È andato all'ufficio posta e ha trovato le copie in una busta indirizzata a te. Ma non aveva idea di chi fosse stato a mandare il plico. Così ha deciso di non fidarsi di nessuno e di andare subito a Washington. Per fortu-na Elspeth mi ha avvertito e io sono riuscito a intercettarlo prima che potesse parlarne con qualcuno.» «Però ora siamo di nuovo al punto in cui eravamo lunedì» os-servò Elspeth. «Luke è tornato a scoprire quello che gli avevamo fatto dimenticare.» «Secondo te, cosa farà adesso l'esercito?» chiese Anthony a El-speth. «Potrebbero lanciare il razzo dopo aver disattivato il meccanismo di autodistruzione. Ma se si dovesse venire a sapere, scoppierebbe uno scandalo tale da offuscare il loro trionfo. La mia ipotesi è che cambieranno il codice in modo che sia necessario un segnale differente per attivare l'esplosione.» «E come possono farlo?» «Questo non lo so.» Si sentì bussare. Anthony si irrigidì, ma Elspeth lo tranquillizzò: «È il caffè che ho ordinato». Theo si nascose in bagno. Anthony voltò le spalle alla porta. Per sembrare più naturale, aprì l'armadio e finse di guardare gli abiti all'interno. C'era appeso un abito di Luke grigio chiaro a spina di pesce e una fila di camicie azzurre. Elspeth non fece entrare il cameriere e lo tenne sulla soglia della camera: firmò il conto, gli diede la mancia e portò dentro il vassoio lei stessa, richiudendo subito la porta. Theo uscì dal bagno e Anthony tornò a sedersi. «Cosa facciamo?» si interrogò Anthony. «Se cambiano il codi-ce non possiamo più far esplodere il razzo.» Elspeth posò il vassoio. «Dovrò scoprire qual è il loro piano e trovare una soluzione.» Afferrò la borsa e si gettò la giacca sulle spalle. «Tu compera un'auto. Appena fa buio vai alla spiaggia e parcheggia più vicino che puoi alla recinzione di Cape Canaveral. Ti troverò. Ora goditi il caffè.» Detto questo, uscì. «Bisogna darle atto che ha i nervi saldi» osservò Theo, dopo un attimo. «Guai se non li avesse» ribatté Anthony.

16.00

Una serie di stazioni di ascolto si estende da nord a sud, approssi-mativamente sul meridiano a 65 gradi longitudine ovest. La rete di stazioni capterà i segnali emessi dal satellite a ogni suo passaggio.

Il conto alla rovescia era arrivato aXmeno 390 minuti. Fino a quel momento procedeva regolarmente, ma Elspeth sapeva che le cose potevano cambiare. Se si

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fosse verificato un imprevisto, il conto alla rovescia si sarebbe fermato. Una volta risolto il problema sarebbe ripreso da dove si era interrotto, anche se, in realtà, era passato del tempo. A mano a mano che si avvicinava il momento dell'accensione, il divario tra tempo reale e durata del conto alla rovescia poteva finire per essere rilevante. Quel giorno il conto era iniziato mezz'ora prima di mezzogior-no, all'oraXmeno 660 minuti. Elspeth aveva continuato a girare per la base, aggiornando il programma, attenta a ogni mutamento nelle procedure. Ancora non era riuscita a raccogliere alcun indi-zio su come gli scienziati pensavano di salvaguardarsi da un possi-bile sabotaggio, e stava cominciando a essere disperata. Ormai tutti sapevano che Theo Packman era una spia. L'im-piegato del Vanguard Motel aveva raccontato a tutti che gli uomi-ni del colonnello Hide erano piombati lì insieme a quattro poli-ziotti e due agenti dell'Fbi, chiedendo il numero di camera di Theo. La comunità scientifica non ci aveva messo molto a colle-gare la notizia con l'annullamento all'ultimo minuto del lancio. Nessuno, all'interno del perimetro di Cape Canaveral, credeva alla spiegazione ufficiale fornita, e cioè che il bollettino meteoro-logico aveva previsto un peggioramento del jetstream. La mattina seguente non si parlava che del sabotaggio. Ma pareva che nes-suno sapesse cosa si stava facendo per risolvere il problema; o, quantomeno, se qualcuno lo sapeva, non diceva nulla. Mentre il mezzogiorno scivolava nel pomeriggio, la tensione di Elspeth aumentava. Fino ad allora non aveva osato fare domande dirette per paura di destare sospetti, ma presto avrebbe dovuto abban-donare ogni cautela. Se non avesse scoperto subito quali contro-misure erano state adottate, sarebbe stato troppo tardi per agire. Luke non si era ancora fatto vivo. Desiderava tanto vederlo e, al tempo stesso, temeva quel momento. Sentiva la sua mancanza di notte, quando non era accanto a lei. Ma, quando erano insieme, pensava costantemente a ciò che stava facendo per distruggere il suo sogno. Era consapevole che il suo inganno aveva avvelenato il loro matrimonio, ciononostante desiderava vedere il suo volto, sentire la sua voce seria e cortese, sfiorare la sua mano, farlo sorri-dere. Nella casamatta gli scienziati stavano facendo una pausa. Man-giavano qualche sandwich e bevevano caffè al loro posto davanti ai pannelli. Di solito quando una bella donna entrava nella sala non mancavano le battute, ma quel giorno regnava un'atmosfera tesa. Aspettavano che qualcosa andasse storto, una spia lumino-sa che indicasse il sovraccarico di un circuito, la rottura di un componente, il malfunzionamento di un sistema. Non appena si verificava un intoppo, le cose cambiavano: l'ambiente si animava via via che tutti si immergevano nel problema, ricercandone l'o-rigine e valutando l'intervento risolutivo. Era quel genere di per-sone che si diverte a riparare le cose. Elspeth sedette accanto a Will Fredrickson, il suo capo, che stava mangiando un sandwich al formaggio con le cuffie abbas-sate intorno al collo. «Lo sa che tutti parlano di un tentativo di sabotaggio del razzo, vero?» gettò lì Elspeth, casualmente. Willy aveva un'aria preoccupata e lei lo interpretò come il segno che lui fosse esattamente al corrente di tutto. Prima che potesse risponderle, però, un tecnico in fondo alla stanza lo chiamò, indicando le cuffie. Willy posò il sandwich, mise le cuffie e disse: «Qui Fredrick-son». Rimase in ascolto per un minuto. «Okay» proseguì. «Al più presto.» Quindi alzò lo sguardo e ordinò: «Fermate il conto alla rovescia». Elspeth si irrigidì. Era questo l'indizio che stava aspettando? Sollevò matita e taccuino, pronta a prendere nota. Willy si tolse le cuffie. «Ci sarà un ritardo di dieci minuti» annunciò. Il suo tono tradiva solo l'irritazione dovuta a un nor-male intoppo. Diede un altro morso al sandwich.

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«Devo indicare il motivo?» chiese Elspeth, nella speranza di ottenere informazioni. «Dobbiamo sostituire un condensatore che scarica.» Era possibile, rifletté Elspeth.Icondensatori erano di vitale importanza per il sistema di rilevamento e il fatto che scaricasse - piccole scariche elettriche casuali - poteva essere un segno che il dispositivo stava per cedere. Ma non era convinta. Decise di controllare, se ne avesse avuto la possibilità. Prese un appunto, si alzò e uscì salutando con un allegro cenno della mano. Fuori dalla casamatta le ombre del pomeriggio si sta-vano allungando. La fusoliera biancadell' Explorer Iera puntata come una freccia segnaletica verso il cielo. Elspeth se lo immaginò mentre decollava, staccandosi con penosa lentezza dalla rampa di lancio, con la sua coda di fiamme che si allontanava nella notte. Poi vide un lampo più abbagliante del sole mentre il razzo esplodeva, scagliando tutto attorno frammenti di metallo simili a schegge di vetro, una rossa palla di fuoco che squarciava il cielo nero con un ruggito potente come l'urlo di trionfo dei poveri e dei diseredati di tutta la terra. Si avviò a passo svelto attraverso il prato, diretta alla spianata di cemento della piattaforma di lancio, girò attorno alla torre di servizio ed entrò nella cabina di lamiera sul retro che ospitava uffici e attrezzature. Il responsabile della torre di servizio, Harry Lane, stava parlando al telefono e prendeva appunti con una grossa matita. «Dieci minuti di ritardo?» chiese Elspeth quando lui riattaccò. «Potrebbero essere anche di più» rispose l'uomo senza degnarla di uno sguardo, ma questo non significava nulla. Lui era sempre scortese: non gli piaceva vedere donne vicino alla rampa di lancio. «Il motivo?» insisté lei, prendendo nota sul taccuino. «Sostituzione di un componente difettoso.» «Ti spiacerebbe dirmi quale componente?» «Sì.» Era esasperante. Non riusciva a capire se lo stesse facendo per motivi di sicurezza o per semplice misoginia. Si voltò per uscire ma, proprio in quel momento, entrò un tecnico con una tuta sporca di grasso. «Qui c'è quello vecchio, Harry» annunciò. Nella mano tutta sporca teneva uno scatolotto. Elspeth sapeva esattamente cos'era: lo scrambler per il sistema di autodistruzione. Uscì in fretta prima che Harry potesse vedere l'espressione di trionfo sul suo viso. Con il cuore che batteva forte per l'eccita-zione, corse alla jeep. Sedette al volante e cercò velocemente di fare il punto. Stava-no sostituendo lo scrambler per prevenire il sabotaggio. Quello nuovo avrebbe avuto un circuito elettronico diverso, così da poter ricevere un altro codice, mentre uno scrambler corrispon-dente sarebbe stato collegato al trasmettitore per generare il segnale richiesto. Probabilmente i componenti di ricambio erano stati spediti per via aerea da Huntsville quella stessa mattina. Era un'ipotesi attendibile, pensò con soddisfazione. Finalmen-te sapeva cosa stava facendo l'esercito.

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Ma come poteva superar-li in astuzia? Gli scrambler venivano sempre prodotti a gruppi di quattro, di cui un paio tenuti di riserva in caso di malfunzionamento. Era appunto la coppia di riserva quella che lei aveva esaminato, la domenica precedente, quando aveva fatto il disegno dello sche-ma perché Theo potesse riprodurre il codice del segnale di auto-distruzione. Ora, rifletté preoccupata, doveva ricominciare da capo: trovare la coppia di riserva, smontare lo scrambler destina-to al trasmettitore e copiare lo schema del circuito. Mise in moto la jeep e tornò in fretta agli hangar ma, invece di entrare nell'hangar R, dove si trovava il suo ufficio, andò al D e si diresse nella sala telemetria. Era lì che la volta precedente aveva trovato la coppia di riserva. Hank Mueller era appoggiato a un bancone con altri due scienziati, intenti a controllare un congegno elettrico. Quando la vide si illuminò in viso e le disse: «Ottomila». Isuoi colleghi mugugnarono esasperati, allontanandosi. Elspeth si sforzò di nascondere l'impazienza. Avrebbe dovuto stare al gioco dei numeri prima di ottenere qualcosa. «È il cubo di venti» rispose. «Non basta.» Lei ci pensò un attimo. «Okay. È la somma di quattro cubi consecutivi: 113+ 123+ 143= 8000.» «Molto bene.» Le consegnò la monetina e aspettò la sua domanda. Elspeth si concentrò alla ricerca di un numero. «Il cubo di 16.830». Lui aggrottò la fronte assumendo un'espressione offesa. «Non ce la faccio a calcolarlo! Mi ci vuole un cervello elettronico!» esclamò, indignato. «Non lo sai? È la somma di tutti i cubi consecutivi da 1134 a 2133.» «Non lo sapevo!» «Quando ero al liceo, il numero civico di casa dei miei era 16.830, ecco perché lo so.» «È la prima volta che non mi restituisci la monetina» dichiarò Hank con aria così afflitta da risultare comica. Elspeth non poteva perquisire il laboratorio: doveva chiedere a lui. Per fortuna gli altri uomini erano troppo lontani per poter sentire. «Hai la coppia di riserva dei nuovi scrambler arrivati da Huntsville?» «No» rispose Hank, con espressione ancor più abbattuta. «Dicono che qui la sicurezza non è sufficiente. Li hanno chiusi in una cassaforte.» Elspeth era contenta che non le avesse chiesto perché voleva saperlo. «Quale?» «Non me l'hanno detto.» «Non ha importanza.» Finse di prendere appunti sul suo tac-cuino e uscì.

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Corse all'hangar R, impacciata dai tacchi alti nella sabbia. Aveva ritrovato un po' di ottimismo, ma c'era ancora molto da fare. Si accorse che stava già calando la sera. Che lei sapesse, c'era una sola cassaforte, quella nell'ufficio del colonnello Hide. Sedette alla scrivania e infilò una busta nella macchina per scri-vere: "Dr W. Fredrickson - Personale". Poi piegò due fogli di carta a metà, li infilò nella busta e la chiuse. Andò all'ufficio di Hide, bussò, ed entrò. Hide era solo. Stava fumando la pipa, seduto alla scrivania. Alzò lo sguardo e le sorrise. Come la stragrande maggioranza degli uomini, solitamente era contento di vedere una bella ragazza. «Elspeth» disse, con il suo accento strascicato «cosa posso fare per lei?» «Potrebbe tenere questa nella sua cassaforte per Willy?» Gli porse la busta. «Certo. Che cos'è?» «Non me l'ha detto.» «Naturale.» Ruotò con la sedia e aprì un mobiletto dietro di lui. Guardando oltre le sue spalle, Elspeth vide uno sportello di acciaio con un disco combinatore. Si avvicinò. Il disco era gra-duato da 0 a 99, ma solo i multipli di dieci erano contrassegnati da una cifra, i numeri intermedi erano indicati solo da tacche. Sbirciò i movimenti del disco. Aveva la vista buona, ma era diffi-cile vedere esattamente dove Hide lo fermava. Si allungò in avan-ti, sporgendosi sopra la scrivania per andare ancora più vicino. Il primo numero era facile: 10. Poi lui compose un numero subito sotto il 30: il 29 o il 28. Infine spostò il disco tra il 10 e il 15. La combinazione doveva essere del tipo 10-29-13. Poteva essere la sua data di nascita, il 28 o il 29 di ottobre del 1911, 1912, 1913 o 1914. Vale a dire un totale di otto possibilità. Se fosse riuscita a entrare lì dentro da sola, avrebbe potuto tentarle tutte nel giro di pochi minuti. Hide aprì lo sportello. Dentro c'erano i due scrambler. «Evvi-va!» mormorò Elspeth. «Come?» fece Hide. «Niente.» Hide borbottò qualcosa, gettò la busta nella cassaforte, chiuse lo sportello e fece ruotare il disco. Elspeth era già sulla soglia. «Grazie, colonnello.» «Si figuri.» Ora doveva solo attendere che lui lasciasse l'ufficio. Dalla sua scrivania non poteva vedere la porta. Però la stanza si trovava in fondo al corridoio e quindi doveva passarle davanti per uscire. Elspeth lasciò la porta spalancata. Squillò il telefono. Era Anthony. «Tra pochi minuti noi andia-mo» le annunciò. «Hai quello che ci serve?» «Non ancora, ma l'avrò presto.» Avrebbe voluto sentirsi dav-vero sicura come sembrava. «Che macchina hai comperato?» «Una Mercury Monterey verde chiaro del '54, il modello vec-chio stile, non quello con le pinne.»

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«La conosco. Come sta Theo?» «Vuole sapere cosa deve fare dopo stanotte.» «Pensavo tornasse in Europa e continuasse a lavorare per "Le Monde".» «Ha paura che possano rintracciarlo fin là.» «È possibile. In questo caso, forse, sarebbe meglio che venisse con te.» «Non vuole.» «Promettigli qualunque cosa» tagliò corto lei con impazienza «purché stasera sia pronto.» «Okay.» Il colonnello Hide passò davanti alla porta aperta dell'ufficio. «Ora devo andare» disse Elspeth, e riattaccò. Uscì. Il colonnello non si era allontanato: era fermo sulla soglia dell'ufficio accanto e stava parlando con le dattilografe. Da lì si ve-deva la porta della sua stanza: Elspeth non poteva entrare. Rimase nei paraggi per un minuto, sperando che lui si muovesse. Quando lo fece, però, fu per tornare nel suo ufficio. Vi rimase per altre due ore. Elspeth credeva di impazzire. Aveva la combinazione, le basta-va solo entrare lì dentro e aprire la cassaforte. Ma Hide non se ne andava. Mandò la segretaria a prendergli del caffè dal camionci-no delle bibite che chiamavano "Scarafaggio Ambulante". Non andò neppure in bagno. Cominciò a fantasticare sui possibili modi per toglierlo di mezzo. Nell'Oss le avevano insegnato a strangolare una persona con una calza di nylon, ma non si era mai trovata costretta a farlo. E, comunque, Hide era un pezzo d'uo-mo: sopraffarlo non sarebbe stato facile. Elspeth rimase in ufficio, dimenticando l'aggiornamento del programma. Willy Fredrickson sarebbe andato su tutte le furie, ma che importanza aveva, ormai? Guardava l'orologio in continuazione. Finalmente, alle otto e venticinque, Hide ripassò in corridoio. Elspeth schizzò in piedi, andò alla porta e lo vide scendere le scale. Mancavano un paio d'ore al lancio: era probabile che fosse diretto alla casamatta. Vide un uomo venire verso di lei lungo il corridoio. «Elspeth?» chiese con una voce incerta che lei riconobbe subito. Ebbe l'im-pressione che il suo cuore si fermasse. Lo guardò negli occhi. Era Luke.

20.30

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Le informazioni raccolte dagli strumenti di registrazione del satel-lite vengono radiotrasmesse attraverso segnali in banda audio. I vari strumenti utilizzano frequenze diverse, il che consente di sepa-rare automaticamente i toni alla ricezione.

Luke temeva questo momento. Aveva lasciato Billie allo Starlite. Presa una stanza, si sarebbe rinfrescata e poi avrebbe raggiunto la base in taxi, in tempo per assistere al lancio. Luke era andato direttamente alla casamatta, dove aveva appreso che l'accensione dei motori era in program-ma per le 22.45. Willy Fredrickson gli aveva illustrato le precau-zioni che erano state adottate per prevenire il sabotaggio del razzo, ma Luke non si sentiva del tutto tranquillo. Avrebbe preferito che Theo Packman fosse stato arrestato e avere un'idea dei movi-menti di Anthony. In ogni caso, né l'uno né l'altro potevano fare nulla con il codice di trasmissione sbagliato. Willy gli aveva anche detto che i nuovi scrambler di riserva erano chiusi in cas-saforte. Si sarebbe sentito un po' meglio dopo aver visto Elspeth. Non aveva parlato con nessuno dei suoi sospetti, in parte perché non sopportava l'idea di accusarla, in parte perché non aveva prove. Ma quando le avesse chiesto la verità, guardandola negli occhi, avrebbe saputo. Salì le scale dell'hangar R con il cuore pesante. Doveva scopri-re perché lei lo aveva ingannato e confessarle di averla a sua volta tradita. Non avrebbe potuto dire cosa fosse peggio. Arrivato in cima alle scale, incrociò un uomo in uniforme da colonnello che lo salutò senza fermarsi. «Ehi, Luke, ho piacere che sia tornato. Ci vediamo alla casamatta.» Poi vide una donna alta con i capelli rossicci uscire da un ufficio lungo il corridoio. Sembrava nervosa. Il suo corpo snello pareva vibrare per una tensione interna mentre, ferma sulla soglia, guardava in direzio-ne del colonnello che si allontanava giù per le scale. Era ancora più bella che nella foto del matrimonio. Il volto pallido aveva una lieve luminescenza, come la superficie di un lago alle prime luci dell'alba. Luke avvertì una scossa, un misto di eccitazione e tene-rezza. La chiamò, e lei si accorse della sua presenza. «Luke!» esclamò, andandogli incontro. Il sorriso con cui l'accolse era sin-cero, ma Luke lesse la paura nei suoi occhi. Gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Luke si disse che questo non avrebbe dovuto sorprenderlo: era sua moglie, e non lo vedeva da giorni. Un abbraccio era la cosa più naturale del mondo. Lei non aveva idea dei suoi sospetti e si comportava come si comporta normalmen-te una moglie. Luke si sciolse dall'abbraccio. Elspeth lo guardò, perplessa, cercando di decifrare la sua espressione. «Cosa c'è?» gli chiese. Poi lo annusò, e una rabbia improvvisa le colorò il volto. «Brutto figlio di puttana! Tu puzzi di sesso!» Lo allontanò da sé con una spinta. «Ti sei scopato Billie Josephson, maledetto bastardo!» Un tecnico che stava transitando in corridoio alle sue parole tra-salì visibilmente, ma lei non se ne curò. «Te la sei scopata in tre-no.» Luke non sapeva come reagire. Il tradimento di Elspeth era molto più grave del suo, ma nonostante tutto lui si vergognava di ciò che aveva fatto. Qualsiasi cosa avesse detto sarebbe suonata come una scusa, e lui odiava le scuse, perché scadevano nel pate-tico. Così, tacque. L'umore di Elspeth mutò di nuovo, in modo repentino. «Non ho tempo per queste cose» dichiarò. Continuava a guardare su e giù per il corridoio, impaziente e distratta. Luke si insospettì. «Cos'hai da fare che sia più importante di parlare con me?»

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«Il mio lavoro!» «Non ti preoccupare di quello.» «Cosa diavolo stai dicendo? Io devo andare. Parleremo più tardi.» «Credo proprio di no» ribatté lui con fermezza. Di fronte al suo tono deciso, Elspeth reagì. «Cosa vuoi dire?» «Quando sono passato da casa ho trovato una lettera indiriz-zata a te e l'ho aperta.» La tirò fuori dalla tasca della giacca e glie-la porse. «È di un medico di Atlanta.» Elspeth impallidì. Estrasse il foglio dalla busta e cominciò a leggere. «Oh, mio Dio!» «Ti sei fatta sterilizzare sei settimane prima del matrimonio.» Luke non riusciva ancora a crederci. «Io non volevo» rispose lei con le lacrime agli occhi. «Sono stata costretta a farlo.» Luke si ricordò delle parole del medico sullo stato di salute di Elspeth - insonnia, perdita di peso, pianto improvviso, depres-sione - e provò un improvviso moto di compassione. «Mi dispia-ce che tu abbia sofferto» le sussurrò. «Adesso non fare il carino con me, non lo sopporto.» «Andiamo in quell'ufficio» disse lui. La prese per un braccio e la condusse nella stanza, poi chiuse la porta. Automaticamente lei si diresse alla scrivania e si sedette, frugando nella borsa in cerca del fazzoletto. Luke prese una poltroncina e l'avvicinò in modo da se-dersi accanto a lei. Elspeth si soffiò il naso. «All'ultimo momento avevo quasi deciso di non farmi operare. È stata una prova terribile.» Lui la guardava, cercando di restare freddo e distaccato. «Immagino che ti avranno obbligato» osservò, poi fece una pausa. Gli occhi di Elspeth si spalancarono. «Il Kgb» proseguì Luke. «Ti hanno ordinato di sposarmi in modo da poter racco-gliere tutte le informazioni sul programma spaziale, e ti hanno costretta alla sterilizzazione per non avere figli che avrebbero potuto mettere in pericolo la tua lealtà.» Negli occhi di lei lesse una pena infinita e capì di aver ragione. «Non mentire, perché tanto non ti credo» si affrettò ad aggiungere. «Va bene.» Aveva ammesso. Luke si appoggiò allo schienale della poltron-cina. Si sentiva senza fiato e dolorante, come se fosse caduto da un albero. «Continuavo a cambiare idea» disse lei, piangendo. «La mat-tina ero decisa a farlo. Poi, a mezzogiorno, ti chiamavo al telefo-no, tu mi dicevi qualcosa a proposito della casa, che so... che ti sarebbe piaciuto un giardino grande in cui i bambini potessero correre, e io decidevo di ribellarmi. La sera, a letto, pensavo che avevano un assoluto bisogno delle informazioni che avrei potu-to ottenere sposandoti, e mi convincevo ancora una volta a ubbi-dire.»

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«Non potevi fare entrambe le cose?» Lei scosse la testa. «Già così mi era quasi impossibile spiarti e amarti allo stesso tempo. Se avessimo avuto dei bambini non avrei mai potuto continuare.» «Cosa ti ha fatto decidere, alla fine?» Elspeth tirò su con il naso e si asciugò il viso. «Non ci crede-rai mai. È stato il Guatemala.» Le sue labbra si piegarono in un sorriso amaro. «Quei poveracci chiedevano solo delle scuole per i loro figli, un sindacato che proteggesse i loro diritti e la possi-bilità di guadagnarsi da vivere. Ma questo avrebbe fatto salire di qualche centesimo il prezzo delle banane, e la United Fruit non lo voleva. E allora cosa abbiamo fatto noi americani? Abbiamo rovesciato il loro governo per mettere al suo posto un burattino fascista. Allora lavoravo per la Cia, quindi sapevo come stavano le cose in realtà. Ero furibonda all'idea che quegli uomini avidi di Washington potessero fottere un paese intero e farla franca per poi mentire al proposito, costringendo la stampa a raccon-tare al popolo americano che si era trattato di una rivolta dei gruppi anticomunisti locali. Tu dirai che è un motivo strano per cui accalorarsi, ma non hai idea di quanto questa storia mi fece arrabbiare.» «Tanto da farti mutilare?» «E tradirti, fino a rovinare il mio matrimonio.» Elspeth sollevò il capo. Ora sul suo viso c'era un'espressione d'orgoglio. «Che speranza c'è per il mondo se dei poveri contadini non riescono a sollevarsi dalla miseria senza che lo stivale dello Zio Sam li schiac-ci? L'unico rimpianto che ho è di averti negato dei figli. È stata una malvagità. Per il resto, sono orgogliosa di quello che ho fatto.» Luke annuì. «Credo di capire.» «È già qualcosa» osservò lei con un sospiro. «Che intendi fare? Chiamare l'Fbi?» «Dovrei?» «Se lo fai finirò sulla sedia elettrica, come i Rosenberg.» Luke trasalì, come se lo avessero pugnalato. «Cristo!» «Un'alternativa c'è.» «Quale?» «Lasciarmi andare. Salirò sul primo aereo. Andrò a Parigi, Francoforte, Madrid... qualsiasi posto purché in Europa. Da lì prenderò un volo per Mosca.» «È questo che vuoi? Finire i tuoi giorni là?» «Sì» rispose lei con un sorriso ironico. «Sono colonnello, sai. Negli Stati Uniti non lo sarei mai diventata.» «Devi andartene ora. Immediatamente.» «Va bene.»

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«Ti accompagnerò al cancello e tu mi consegnerai il tuo lascia-passare in modo da non poter più rientrare.» «D'accordo.» Luke la guardò, cercando di imprimersi negli occhi il volto di lei. «Immagino sia venuto il momento di dirci addio.» «Posso andare un momento in bagno, prima?» chiese Elspeth prendendo la borsa. «Certo.»

21.30

Scopo principale del satellite è quello di misurare i raggi cosmici per mezzo di un esperimento ideato dal dottor James Van Allen della Iowa State University. Tra tutti gli strumenti di bordo, il più impor-tante è un contatore Geiger.

Elspeth uscì dall'ufficio, girò a sinistra, oltrepassò la toilette del-le signore ed entrò nella stanza del colonnello Hide. Era deserta. Chiuse a chiave la porta e vi si appoggiò, tremante. Aveva gli occhi pieni di lacrime e le girava la testa. Il successo era lì, a por-tata di mano, ma aveva appena messo la parola fine al matrimo-nio con l'uomo migliore che avesse conosciuto, e si era impegna-ta a lasciare il paese in cui era nata per vivere il resto dei suoi gior-ni in una terra che non aveva mai visto. Strinse gli occhi e si sforzò di respirare lentamente e a fondo: uno, espira; due, espira; tre, espira. Un attimo dopo si sentiva già meglio. Andò al mobiletto dietro la scrivania, lo aprì e si inginocchiò davanti alla cassaforte. Le tremavano le mani. Per qualche moti-vo le tornò in mente un proverbio latino imparato a scuola: Festi-na lente, affrettati con calma. Ripeté i gesti che aveva visto compiere a Hide. Prima ruotò quattro volte il disco in senso antiorario, fermandosi sul 10, poi lo girò tre volte nella direzione opposta, fermandosi sul 29. Quin-di gli fece compiere altri due giri in senso antiorario, fermandosi sul 14. Provò a girare la maniglia. La cassaforte non si aprì. Udì un calpestio all'esterno e una voce di donna.Irumori prove-nienti dal corridoio parevano stranamente forti, come in un incu-bo. Poi i passi e la voce si allontanarono. Sapeva per certo che il primo numero era 10. Il secondo pote-va essere 29 o 28. Questa volta provò 28 e 14.

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Niente. Era solo la seconda possibilità su otto. Aveva le mani umide di sudore e se le asciugò sulla gonna. Tentò con 10, 29, 13 e succes-sivamente con 10, 28, 13. Aveva esaurito quasi metà delle combinazioni. Sentì una sirena in lontananza: due urli brevi e uno lungo, ripe-tuti per tre volte. Significava che tutto il personale doveva eva-cuare la zona della rampa. Mancava un'ora al lancio. Senza vole-re, si voltò a guardare la porta, poi tornò a concentrarsi sul disco. Neppure la combinazione 10, 29, 12 funzionò. Ma 10, 28, 12 sì. Esultante, ruotò la maniglia e aprì il pesante sportello. Idue scrambler erano ancora là dentro. Elspeth si concesse un sorriso di trionfo. Non c'era tempo per smontarli e copiare il circuito. Doveva prenderli e portarli alla spiaggia. Theo avrebbe riprodotto il cir-cuito oppure usato direttamente lo scrambler sul suo trasmetti-tore. Le venne un dubbio improvviso. Era possibile che qualcuno si accorgesse della loro sparizione nell'ora che mancava all'accen-sione dei motori? Il colonnello era andato alla casamatta e, pro-babilmente, non sarebbe tornato prima del lancio. Era un rischio che doveva correre. Si sentirono dei passi fuori dall'ufficio e qualcuno tentò di aprire la porta. Elspeth smise di respirare. «Ehi, Bill, sei lì dentro?» chiese una voce maschile. Sembrava Harry Lane. Cosa diavolo voleva? Elspeth rimase immobile, senza far rumore. «Di solito Bill non tiene chiuso a chiave, no?» disse Harry. «Non lo so» rispose un'altra voce. «Credo che il capo della sicurezza possa farlo, se lo ritiene opportuno.» Elspeth sentì i passi che si allontanavano e la voce di Harry che diceva: «Sicurezza un corno! Non vuole che gli rubino lo scot-ch!». Prese gli scrambler dalla cassaforte e se li infilò in borsa, quindi chiuse lo sportello della cassaforte e il mobiletto. Poi andò alla porta, girò la chiave e aprì. Harry Lane era lì, fermo in corridoio. «Oh!» esclamò Elspeth, sorpresa. «Cosa ci facevi, là dentro?» chiese lui, con aria d'accusa.

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«Niente» rispose lei, intimidita, accingendosi ad allontanarsi. Harry l'afferrò per un braccio. «Se è così, perché hai chiuso a chiave la porta?» La strinse fino a farle male. Questo la mandò su tutte le furie. Mise da parte ogni precau-zione. «Mollami subito il braccio, stupido, o ti cavo gli occhi!» Lui lasciò la presa e indietreggiò, intimorito, ma insistette: «Voglio sapere cosa facevi là dentro». Elspeth ebbe un'ispirazione. «Dovevo aggiustarmi il reggical-ze e il bagno delle signore era occupato, così ho usato l'ufficio di Bill, visto che lui era via. Sono certa che non gli dispiacerà.» «Oh» fece Harry con espressione sorpresa «credo di no.» «So che dobbiamo stare attenti alla sicurezza» aggiunse Elspeth con un tono più morbido «ma non c'era bisogno di farmi un livido sul braccio.» «Be', scusami.» Elspeth si allontanò, trattenendo il fiato. Tornò nell'ufficio dove Luke la stava aspettando: non si era mos-so. Aveva un'espressione cupa. «Sono pronta» annunciò. Lui si alzò. «Uscita dalla base vai dritta al motel» le ordinò. Isuoi modi erano bruschi e pratici, ma lei capì che stava cer-cando di soffocare l'emozione. «Sì» rispose lei, semplicemente. «Domattina andrai a Miami e da lì prenderai un aereo per l'Europa.» «D'accordo.» Luke annuì, soddisfatto. Scesero le scale insieme e uscirono nella notte calda. Lui l'accompagnò alla macchina. Mentre Elspeth apriva la portiera, le disse: «Dammi il tuo lasciapassare». Lei aprì la borsa e fu colta da un momento di panico: gli scrambler erano lì, in bella vista, sopra un astuccio portatrucco di seta gialla. Luke, fortunatamente per lei, non li vide. Stava guardando altrove, troppo riservato per curiosare nella borsetta di una signo-ra. Tirò fuori il lasciapassare che le dava accesso a Cape Canaveral, glielo porse e richiuse la borsa. Lui se lo mise in tasca. «Ti seguirò fino ai cancelli con la jeep». Elspeth capì che quello era l'addio. Incapace di parlare, salì in auto e chiuse la portiera, ricacciando indietro le lacrime. Partì.Ifari della jeep di Luke si accesero e la seguirono. Pas-sando davanti alla rampa di lancio, vide l'incastellatura di servi-zio che arretrava sulle rotaie, lasciando libero il grande razzo bianco sotto la luce dei riflettori. Aveva un che di precario, come se la spintarella distratta di un passante avesse potuto farlo cade-re. Guardò l'orologio. Erano le nove e cinquantanove. Mancava-no quarantasei minuti al lancio.

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Uscì dalla base senza fermarsi.Ifari della jeep si fecero sempre più piccoli nello specchietto retrovisore fino a scomparire completamente quando lei svoltò a una curva. «Addio, amore mio» disse a voce alta, e subito cominciò a piangere. Questa volta non riuscì a trattenersi. Procedendo lungo la stra-da costiera pianse senza ritegno, con le lacrime che le colavano lungo le guance, il petto scosso da singhiozzi.Ifari delle altre auto le venivano incontro come comete annebbiate. Per poco non oltrepassò la deviazione che portava alla spiaggia. Quando la vide, inchiodò. L'auto fece un testacoda andando a finire nella corsia opposta davanti a un taxi. L'autista frenò bruscamente, pestando sul clacson e sterzando, e per poco non andò a sbatte-re contro la coda della Corvette, che proseguì sobbalzando sulla superficie sabbiosa e irregolare del sentiero e rallentò fino a fer-marsi. Elspeth sentiva il cuore batterle all'impazzata: per poco non aveva rovinato tutto. Si asciugò il viso con la manica e ripartì, più lentamente, diret-ta verso la spiaggia.

Dopo che Elspeth si fu allontanata, Luke rimase ai cancelli a bordo della jeep, in attesa di Billie. Si sentiva stordito, senza fiato. Elspeth aveva ammesso ogni cosa. Nelle ultime ventiquattr'ore era giunto alla conclusione che lei lavorasse per i russi, ma aver-ne la conferma era stato comunque uno choc. Le spie esistevano, questo lo sapevano tutti. Ethel e Julius Rosenberg erano stati condannati alla sedia elettrica per spionaggio; ma leggere di que-ste cose sui giornali era un conto, ben altro conto l'essere stato sposato per quattro anni con una spia. Non riusciva a crederci. Billie arrivò con un taxi alle dieci e un quarto. Luke firmò per il suo ingresso il registro del controllo di sicurezza, poi risalirono a bordo della jeep e partirono alla volta della casamatta. «Elspeth se n'è andata» disse Luke. «Credo d'averla incrociata» rispose Billie. «Ha una Corvette bianca?» «Sì. Era lei.» «Per poco il mio taxi non l'ha investita. Ci ha tagliato la strada ed è venuta a fermarsi proprio davanti a noi, così ho visto la sua faccia alla luce dei fari. L'abbiamo mancata per un pelo.» Luke era perplesso. «Come mai vi ha tagliato la strada?» «Per imboccare un sentiero laterale.» «Mi ha detto che sarebbe andata dritta allo Starlite.» Billie scosse la testa. «No, stava dirigendosi verso la spiaggia.» «Alla spiaggia?» «Sì, ha preso una di quelle stradine sterrate tra le dune.» «Oh, merda!» esclamò Luke, facendo subito inversione di marcia.

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Elspeth avanzava piano lungo la spiaggia, osservando i gruppi di persone venuti ad assistere ai lancio. Se erano donne o bambini, passava oltre velocemente. Molti capannelli erano composti di so-li uomini, patiti dei missili, armati di binocoli e macchine fotogra-fiche, che fumavano e bevevano caffè o birra raccolti intorno alle loro auto. Elspeth scrutava con attenzione alla ricerca della Mercury Monterey. Anthony le aveva detto che era verde, ma non c'e-ra abbastanza luce per distinguere bene i colori. Cominciò dall'estremità della spiaggia più affollata, quella vici-na alla base, ma di Anthony e Theo nessuna traccia. Pensò che avessero scelto un punto più isolato. Temendo di perderli, prose-guì verso sud. Finalmente notò un uomo alto con un paio di bretelle appog-giato a un'auto chiara che osservava con il binocolo il cielo sopra Cape Canaveral. Fermò la macchina e saltò giù. «Anthony!» L'uomo abbassò il binocolo ed Elspeth vide che non si tratta-va di lui. «Mi scusi» disse, e ripartì. Guardò l'orologio. Le dieci e mezzo. Mancava pochissimo al lancio. Aveva gli scrambler, tutto era pronto... doveva solo trova-re due uomini su una spiaggia. Iveicoli parcheggiati si fecero sempre più radi. Elspeth aumentò l'andatura. Si avvicinò a una macchina: poteva essere quella giusta, ma era vuota. Accelerò, quando fu raggiunta da un colpo di clacson. Guardò nello specchietto retrovisore. Un uomo era sceso dal-l'auto e stava agitando le braccia: Anthony. «Grazie al cielo!» esclamò lei a voce alta. Ingranò la retromarcia e lo raggiunse «Ho gli scrambler di riserva» disse, saltando giù dall'auto. Theo scese anche lui dalla macchina e aprì il bagagliaio. «Dammeli! Svelta!»

22.48

Ilconto alla rovescia è arrivato allo zero. Nella casamatta il responsabile del lancio dice: «Accensione!». Un addetto tira a sé un anello di metallo e lo ruota. È il gesto che accende il motore del missile. Le prevalvole si aprono e il combustibile inizia a defluire. La val-vola di sfogo dell'ossigeno liquido si chiude e l'alone di fumo bian-co attorno al missile improvvisamente scompare. Il responsabile del lancio dice: «Serbatoi combustibile in pres-sione». Negli undici secondi che seguono non accade nulla.

La jeep procedeva lungo la spiaggia a velocità folle, schivando gruppetti di spettatori. Luke fissava lo sguardo sulle macchine, ignorando le urla di protesta quando qualcuno veniva inondato dalla sabbia sollevata dai pneumatici. «Vedi una Corvette bianca?» gridò, per farsi udire da Billie al di sopra del

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ruggito del vento. Lei scosse la testa. «Dovrebbe essere facile da individuare!» «Già. E allora dove sono?»

Gli ultimi condotti di collegamento vengono sganciati. Un se-condo più tardi il combustibile si innesca e il motore del primo stadio prende vita con un rombo. Un'enorme lingua di fuoco arancione erutta dalla base del missile mentre la spinta del moto-re cresce.

«Sbrigati, Theo, per l'amor del cielo!» gridò Anthony. «Sta' zitto» gli ordinò Elspeth. Erano chini sul bagagliaio aperto della Mercury guardando Theo che armeggiava con il trasmettitore radio. Stava collegando i fili ai terminali di uno degli scrambler che Elspeth gli aveva conse-gnato. Si udì un rombo, come un tuono lontano, e tutti alzarono lo sguardo.

Con esasperante lentezza, l'ExplorerI si solleva dalla rampa di lancio. Nella casamatta qualcuno grida: «Vai, baby!».

Billie notò una Corvette bianca parcheggiata vicino a una ber-lina più scura. «Eccola!» gridò. «Li vedo» urlò Luke di rimando. Tre persone erano raggruppate intorno al bagagliaio aperto della berlina. Billie riconobbe Elspeth e Anthony, l'altro uomo doveva essere Theo Packman. Ma non stavano guardando den-tro. Avevano la testa voltata e guardavano oltre le dune di sabbia, verso Cape Canaveral. Billie afferrò la situazione al volo: il trasmettitore era nel bagagliaio e loro lo stavano tarando perché fosse in grado di inviare il segnale di autodistruzione. Ma perché guardavano in alto? Si voltò verso Cape Canaveral e non vide nulla. Udì, però, un rombo profondo e minaccioso, come il rumore di un al-toforno. Il razzo stava decollando. «Non abbiamo più tempo!» urlò. «Tieniti stretta!» Billie si aggrappò al parabrezza mentre Luke faceva compiere alla jeep un'ampia curva.

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Il missile acquista velocità di colpo. Un attimo prima sembrava esitare sopra la rampa di lancio, un attimo dopo parte come un proiet-tile sparato nel cielo della notte, spinto da una coda di fuoco.

Al di sopra del rombo del razzo, Elspeth udì un altro rumore, il ruggito di un motore imballato. Subito dopo furono investiti dal fascio di luce dei fari. Elspeth vide una jeep lanciata contro di loro a tutta velocità. Capì che li avrebbe travolti. «Presto!» gridò. Theo collegò l'ultimo filo. Il trasmettitore era dotato di due interruttori, uno contrasse-gnato con "armamento" e l'altro con "distruzione". La jeep puntava dritta contro di loro. Theo fece scattare il primo interruttore.

Sulla spiaggia un migliaio di volti si piegano all'indietro, seguendo il missile che si solleva dritto e perfettamente in linea. Scoppia un enorme applauso.

Luke puntò contro il bagagliaio della Mercury. Effettuando la curva, la jeep aveva perso velocità, ma stava comunque procedendo a quasi quaranta chilometri orari. Billie saltò giù, toccò terra correndo, cadde e rotolò. All'ultimo momento, Elspeth si gettò di lato. Poi si udì un cozzo assordante e uno scroscio di vetri infranti. La coda della Mercury si accartocciò, l'auto fece un balzo in avanti e il bagagliaio si chiuse con un tonfo. Luke pensava che Theo o Anthony fosse rimasto schiacciato tra le due vetture, ma non poteva esserne certo. Venne scagliato in avanti con violenza andando a sbattere con il torace sulla parte inferiore del volante. Sentì il dolore lancinante delle costole rotte. Un attimo dopo batté la fronte contro la sommità del volante e un rivolo caldo di sangue gli colò lungo il viso. Si tirò su a fatica e guardò Billie. Pareva essersela cavata meglio di lui. Era seduta a terra e si massaggiava le braccia, ma non sem-brava sanguinasse. Poi guardò oltre il muso della jeep. Theo giaceva supino, immo-bile, braccia e gambe divaricate. Anthony, invece, era piegato a quattro zampe, ma non pareva ferito. Elspeth, illesa, si stava ri-mettendo in piedi; la vide correre verso la Mercury e tentare di ria-prire il bagagliaio. Luke saltò giù dalla jeep e si lanciò verso di lei. Mentre il cofa-no si sollevava, la spinse di lato, facendola cadere sulla sabbia.

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«Fermo!» urlò una voce. Luke si voltò. Anthony era in piedi vicino a Billie e le teneva una pistola puntata alla nuca. Luke guardò in alto. La rossa coda di fuocodell' Explorer era un'abbagliante cometa contro il cielo nero della notte. Finché si vedeva a occhio nudo, era ancora possibile distruggere il missile.Imotori del primo stadio si sarebbero spenti a una quota di circa centodieci chilometri. Quindi, il Jupiter C sarebbe scomparso - i ridotti getti di scarico del secondo stadio non erano abbastanza lu-minosi da risultare visibili da terra - e questo sarebbe stato il segna-le che il sistema di autodistruzione era diventato inutile. Il primo stadio, quello che conteneva il sistema, si sarebbe separato per poi cadere nell'oceano Atlantico. A quel punto, la sua esplosione non avrebbe più potuto danneggiare gli altri stadi. Il distacco sarebbe avvenuto esattamente due minuti e venti-cinque secondi dopo l'accensione. Luke calcolò che dovevano essere trascorsi più o meno due minuti: restavano circa venticin-que secondi. Più che sufficienti per far scattare un interruttore. Elspeth si rimise in piedi. Luke guardò Billie. Stava con un ginocchio posato a terra, come un velocista sui blocchi di partenza, immobile, il silenzia-tore della pistola che premeva contro i riccioli neri. La mano di Anthony era fermissima. Luke si chiese se era pronto a sacrificare la vita di Billie per il missile. La risposta era no. Cosa sarebbe successo se non avesse obbedito? Anthony avreb-be sparato a Billie? Era possibile. Elspeth si chinò nuovamente sopra il bagagliaio. In quel momento Billie si mosse. Spostò la testa di lato e si gettò all'indietro, fece leva con le spal-le contro le gambe di Anthony e lo trascinò a terra. Luke si tuffò verso Elspeth e la spinse lontano dalla macchina. Mentre Anthony e Billie cadevano aggrovigliati, si sentì lo sparo attutito della pistola. Luke osservò la scena atterrito. Anthony aveva fatto fuoco. E Billie? Era rotolata via, apparentemente illesa. Tirò un sospiro di sollievo, ma poi Anthony sollevò l'arma puntandola contro di lui. Luke vide la morte in faccia, e una strana calma si impossessò di lui. Aveva fatto tutto il possibile. Anthony sembrò esitare, poi tossì e dalla bocca gli uscì un fiot-to di sangue. Luke capì che si era colpito durante la caduta. La pistola gli sfuggì di mano e lui crollò sulla sabbia, gli occhi che fissavano il cielo senza più vedere. Elspeth schizzò in piedi e si chinò sul trasmettitore per la terza volta.

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Luke guardò in alto. La coda di fuoco del missile era ormai come il chiarore di una lucciola persa nello spazio. Mentre la osservava, scomparve di colpo. Elspeth fece scattare l'interruttore e alzò lo sguardo, ma era troppo tardi. Esaurito il suo compito, il primo stadio si era sepa-rato. Probabilmente la treccia di Primacord era esplosa, ma non c'era più combustibile da incendiare e, comunque, il resto del missile era ormai lontano. Luke si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Era finita. Aveva salvato il satellite. Billie posò una mano sul petto di Anthony, poi controllò il pol-so. «Niente da fare. È morto.» Quindi, Luke e Billie si voltarono entrambi verso Elspeth. «Mi hai mentito di nuovo» le disse Luke. Elspeth lo fissava con una luce folle negli occhi. «Noi eravamo nel giusto!» urlò. «Eravamo nel giusto!» Alle sue spalle, gruppetti di turisti stavano cominciando a rac-cogliere le loro cose. Nessuno si era trovato abbastanza vicino per accorgersi del dramma: tutti gli occhi erano rivolti verso il cielo. Elspeth guardò Luke e Billie come se volesse aggiungere del-l'altro, ma, dopo qualche secondo, si precipitò verso la macchina e avviò il motore. Invece di dirigersi alla strada, però, puntò dritta sull'oceano. Luke e Billie videro inorriditi la sua auto infilarsi nella risacca. Poi la Corvette si arrestò, con le onde che lambivano i paraur-ti. Elspeth scese, si tuffò e si allontanò a nuoto verso il mare aper-to, illuminata dai fari dell'auto. Luke fece per lanciarsi, ma Billie lo trattenne per un braccio. «Si ucciderà!» gridò lui, angosciato. «Non puoi più raggiungerla, ora. Moriresti anche tu!» Luke voleva andare. Quando però Elspeth uscì dal cono di luce dei fari, capì che non sarebbe mai riuscito a trovarla nell'o-scurità. Chinò la testa, sconfitto. Billie lo abbracciò. Dopo un attimo di esitazione, lui ricambiò l'abbraccio. Di colpo la fatica degli ultimi tre giorni gli crollò addosso come un macigno. Barcollò, rischiando di cadere, ma Billie lo sorresse. Poi si sentì meglio e, in piedi sulla spiaggia, abbracciati, alza-rono lo sguardo verso l'alto. Il cielo era pieno di stelle.

EPILOGO

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1968

Il contatore Geiger dell'ExplorerI registrò radiazioni cosmiche mille volte superiori al previsto. Queste informazioni permisero agli scienziati di tracciare una mappa delle diverse intensità di radiazione attorno alla terra chiamate "fasce di Van Allen", dal nome dello scienziato della Iowa State University che aveva ideato l'esperimento. Lo studio sulle micrometeoriti stabilì che ogni anno precipitano sulla terra quasi duemila tonnellate di pulviscolo cosmico. Si scoprì che la forma della terra era l'un per cento circa più piat-ta di quanto si fosse pensato fino a quel momento. Ma, cosa più importante di tutte per i pionieri dello spazio, i dati raccolti dall'Explorer dimostrarono che era possibile controllare la temperatura all'interno di un missile in modo da permettere la sopravvivenza dell'uomo nello spazio.

Luke faceva parte del gruppo di scienziati della Nasa che mandò l' Apollo 11sulla luna. Viveva a Houston, in una vecchia casa grande e comoda, insie-me a Billie, ora a capo del dipartimento di psicologia cognitiva a Baylor. Avevano tre figli: Catherine, Louis e Jane. Anche Larry vi-veva con loro, ma in quel periodo era andato a far visita a suo pa-dre, Bern. La sera di quel 20 luglio Luke non era in servizio, e qualche mi-nuto prima delle nove, ora locale, stava guardando la televisione con la sua famiglia, come del resto metà della popolazione del pia-neta. Era seduto sul grande divano con al suo fianco Billie e in grembo la figlia più piccola, Jane. Louis e Catherine erano sul tap-peto insieme al loro cane, un labrador color cioccolato di nome Sidney. Quando Neil Armstrong posò il piede sulla superficie lunare, una lacrima scese lungo la guancia di Luke. Billie gli prese la mano e gliela strinse. Catherine, che aveva nove anni e assomigliava tutta alla madre, lo guardò con occhi solenni. «Mamma, perché papà piange?» chiese con un sussurro. «È una storia lunga, tesoro» rispose Billie. «Un giorno te la racconterò.»

L'ExplorerI avrebbe dovuto rimanere nello spazio per due o tre anni. In realtà, restò in orbita per dodici. Il 31 marzo 1970 rientrò definitivamente in atmosfera sopra l'oceano Pacifico, vicino all'Iso-la di Pasqua, disintegrandosi alle 5.47 del mattino dopo aver orbi-tato 58.376 volte.

RINGRAZIAMENTI

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Sono molte le persone che mi hanno generosamente aiutato a raccogliere le informazioni necessarie all'ambientazione di questa vicenda. Sono arrivato a loro attraverso Dan Starer, del Research for Writers di New York City, che ha collaborato a ogni mio libro sin da L'uomo di Pietroburgo, nel lontano 1981. Uno speciale ringraziamento va alle seguenti persone: - a Cambridge, Massachusetts: Ruth Herman, Isabelle Yardley, Fran Mesher, Peg Dyer, Sharon Holt e gli studenti della Pforzheimer House, e Kay Stratton; - all'hotel St Regis, ex Carlton, di Washington, DC: Louis Alexander del servizio portineria, il fattorino Jose Muzo, il direttore Peter Walterspiel e la sua assistente Pat Gibson; - alla Georgetown University: l'archivista Jon Reynolds, Edward J. Finn, docente di fisica in pensione, e Val Klump, membro dell'Astronomy Club; - in Florida: Henry Magill, Ray Clark, Henry Paul e Ike Rigell, che hanno tutti collaborato ai primi programmi spaziali americani; e Henri Landwirth, ex direttore dello Starlite Motel; - a Huntsville, Alabama: Tom Carney, Cathey Carney e Jackie Gray, della rivista "Old Huntsville"; Roger Schwerman del Redstone Arsenal; Michael Baker, storiografo dell'US Army Aviation & Missile Command; David Alberg, curatore dell'US Space & Rocket Center; il dottor Ernst Stuhlinger. Molti dei miei familiari hanno letto le bozze di questo libro, aiutandomi con consigli e critiche, compresi mia moglie Barbara, le mie figliastre Jann e Kim Turner, e mio cugino John Evans. Sono molto grato agli editor Phyllis Grann, Neil Nyren e Suzanne Baboneau; agli agenti Amy Berkower, Simon Lipskar e, soprattutto, ad Al Zuckerman.

FINE

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